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PSYCHÈ

| Proposte

Allan V. Horwitz, Jerome C. Wakefield

La perdita della tristezza

Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione

a cura di Paolo Fiori Nastro, Elena Pappagallo e Daniela Polese

Premessa di Mario Maj

Traduzione di Michele Sampaolo

In coper na:
disegno di Massimo Fagioli (1998)

Titolo originale:

The Loss of Sadness. How Psychiatry Transformed

Normal Sorrow into Depressive Disorder

Oxford University Press, Oxford-New York 2007

© 2007 Allan V. Horwitz and Jerome C. Wakefield

Per la Pos azione all’edizione italiana

© 2014 Allan V. Horwitz and Jerome C. Wakefield

This transla on is published by arrangement

with Oxford University Press

Prima edizione italiana con la Premessa di Mario Maj

e una Pos azione degli autori

L’Asino d’oro edizioni 2015

© 2015 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.

Via Ludovico di Savoia 2b, 00185 Roma

www.lasinodoroedizioni.it

e-mail: info@lasinodoroedizioni.it

ISBN 978-88-6443-279-3

ISBN ePub 978-88-6443-280-9

ISBN pdf 978-88-6443-281-6


A David Mechanic

– AVH

Ai miei genitori, Helen e Ted Sherman

– JCW
| Premessa
di Mario Maj

Il dolore morale a seguito di eventi esistenziali sfavorevoli (lutti, perdite,


separazioni e insuccessi) è una risposta che si è consolidata nel corso
dell’evoluzione della specie umana, in quanto vantaggiosa per la sopravvivenza
dell’individuo e per la conservazione della specie. L’esperienza e la previsione
del dolore morale – così come del dolore fisico – ci portano a evitare
situazioni potenzialmente problematiche e a riconsiderare, quando opportuno,
le nostre priorità e le nostre strategie.
Ci sono però casi in cui il dolore morale, per la sua intensità e la sua durata,
diventa fortemente svantaggioso per l’individuo, causandogli una sofferenza
intollerabile, compromettendone il funzionamento sociale e mettendo a rischio
la sua stessa sopravvivenza. È in questi casi che si parla di depressione.
Fissare il confine tra il dolore morale ‘fisiologico’ e quello ‘patologico’ (o
depressione), però, non è affatto facile. Jerome Wakefield e Allan Horwitz, in
questo fortunato volume, propongono un criterio differenziale fondamentale,
quello della «comprensibilità» del vissuto e della sua «proporzionalità»
all’evento scatenante. Se il dolore morale appare comprensibile e
proporzionato all’evento che l’ha provocato, la diagnosi di depressione non
deve essere posta.
Questa posizione, che riecheggia quella espressa oltre trent’anni fa da un
illustre psichiatra italiano emigrato negli Stati Uniti, Silvano Arieti1, appare del
tutto ragionevole e viene in realtà adottata da diversi clinici nella loro pratica
quotidiana. Essa, però, si presta a diverse obiezioni2.
In primo luogo, quale sia la risposta ‘proporzionata’ a un determinato evento
è assai difficile da stabilire. Anche di fronte a eventi esistenziali sfavorevoli
estremi, la maggior parte degli esseri umani non reagisce con un dolore morale
intollerabile o inabilitante, mentre alcune persone possono avere una tale
reazione a seguito di eventi esistenziali di assai minore portata. È in gioco,
dunque, anche la vulnerabilità dell’individuo, la quale è legata a sua volta a
diversi fattori sia biologici che psicosociali. Nessun caso di depressione è in
realtà ‘causato’ da un evento. Ogni depressione è sempre il risultato
dell’intreccio di fattori predisponenti e precipitanti, spesso solo parzialmente
identificabili. Fino a che punto un determinato evento abbia avuto un ruolo
decisivo nel precipitare la condizione di dolore morale è in molti casi non
chiaramente ricostruibile.
Inoltre, il fatto che vi sia una relazione temporale tra un evento esistenziale
sfavorevole e una condizione di dolore morale non significa necessariamente
che l’evento ha scatenato la condizione. A volte è la stessa condizione
depressiva a esporre l’individuo a un evento spiacevole, come la rottura di una
relazione sentimentale o la perdita del posto di lavoro. Ma nel racconto della
persona l’evento viene presentato come ‘la causa’ della depressione.
Ancora, accade non raramente che la ricerca di una causa, il tentativo di dare
un ‘senso’ alla propria condizione porti la persona ad attribuire un ruolo
‘causale’ o ‘precipitante’ a eventi che di per sé sono stati del tutto neutri.
Infine, lasciare completamente all’osservatore la valutazione se una
condizione di dolore morale sia o meno ‘comprensibile’ o ‘proporzionata’ può
essere rischioso. La pratica clinica ci presenta continuamente casi di vera
depressione che sono stati sottovalutati e a lungo non affrontati, fino ad avere
conseguenze serie, compreso a volte il suicidio.
Da tutte queste considerazioni nasce il tentativo da parte di manuali
diagnostici come l’ International Classification of Diseases (ICD) e il Diagnostic and
Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) di fornire alcuni criteri ‘obiettivi’,
riguardanti la natura, il numero, l’intensità e la durata dei sintomi, nonché il
grado di sofferenza e di compromissione del funzionamento sociale, che
possano guidare il clinico nella diagnosi differenziale tra la vera depressione e
la «tristezza normale».
Lo stesso Jerome Wakefield si è infine convinto della necessità di
quest’approccio. Nella versione più recente della sua posizione3, infatti, egli
propone che la diagnosi di depressione venga posta in ogni caso in cui sono
presenti ideazione suicidaria, marcato rallentamento psicomotorio, sintomi
psicotici, una grave compromissione del funzionamento sociale, o una durata
dei sintomi di oltre due mesi, anche se il quadro appare comprensibile in
rapporto a un grave evento esistenziale.
Il dibattito sui suddetti criteri ‘obiettivi’ (quelli dell’ICD e del DSM, ma
anche quelli proposti da Wakefield) è però aperto. La ricerca dovrà soprattutto
verificare se tali criteri hanno una validità predittiva, rispetto sia agli esiti (in
particolare, al rischio che il quadro si ripresenti a distanza di tempo) che alla
risposta ai trattamenti oggi disponibili (che comprendono una gamma di
farmaci e una serie di interventi psicoterapeutici di efficacia documentata).
È possibile, inoltre, che anche nel caso della depressione, come in quelli di
malattie fisiche quali il diabete e l’ipertensione, che pure si trovano in un
continuum con la normalità, sia necessario fissare diverse ‘soglie’. Ad esempio,
una soglia per determinare se la condizione rappresenta o meno un ‘caso’ (il
quale richiede un’attenzione clinica, che può anche limitarsi al solo
monitoraggio), una soglia per un intervento psicoterapeutico di supporto, e
una per un trattamento farmacologico o una psicoterapia strutturata.
Il tema è dunque complesso, con rilevanti implicazioni non soltanto cliniche
e scientifiche, ma anche sociali ed etiche. Il volume di Wakefield e Horwitz lo
affronta in modo articolato, anche in una prospettiva storica, aiutando il lettore
a riflettere e stimolandolo a ulteriori approfondimenti.

Note
1 | S. Arieti, J. Bemporad, La depressione grave e lieve (1978), Feltrinelli, Milano 1981.↵
2 | M. Maj, When does depression become a mental disorder? , in “British Journal of Psychiatry”, 199, 2011,
pp. 85-86.↵
3 | J.C. Wakefield, M.F. Schmitz, When does depression become a disorder? Using recurrence rates to evaluate the
validity of proposed changes in major depression diagnostic thresholds, in “World Psychiatry”, 12, 2013, pp. 44-
52.↵
| Introduzione
di Paolo Fiori Nastro, Elena Pappagallo e
Daniela Polese

Il tema della tristezza e dei suoi nessi con la patologia depressiva è


decisamente attuale perché si inserisce nella riflessione contemporanea
sull’appropriatezza della diagnosi. Lo spunto che dà origine a questo libro e
che ha importanti implicazioni per la terapia delle malattie mentali è
rappresentato dalla tendenza, oggi sempre più frequente, a sfumare i confini
tra salute e malattia. Il volume centra l’attenzione sui possibili rischi che questa
tendenza nasconde, ma per comprenderne l’attualità e l’importanza dobbiamo
dare uno sguardo a cosa è accaduto di recente nella psichiatria.
Negli ultimi anni si sono verificati alcuni fatti che sono la testimonianza di
significativi cambiamenti nel modo di concepire la salute mentale e per questo
sono destinati a condizionare il futuro più o meno prossimo della psichiatria.
Per quanto riguarda il primo di questi avvenimenti, l’8 giugno 2013,
l’autorevole rivista scientifica “The Lancet”1 ha pubblicato un articolo in cui
veniva dato grande risalto a quanto deliberato, in materia di salute mentale,
dall’Assemblea mondiale della sanità che, in data 27 maggio 2013, aveva
adottato il “Piano d’azione globale per la salute mentale 2013-2020”
(Comprehensive Mental Health Action Plan 2013-2020)2, con l’intento di dare
una nuova direzione alle politiche sanitarie nell’ambito della salute mentale, in
tutto il mondo, per i prossimi otto anni. In esso la salute mentale viene
concettualizzata come uno stato di benessere in cui l’individuo può realizzare
le proprie capacità ed è in grado di affrontare le difficoltà della vita e di
lavorare in modo produttivo, dando un contributo alla propria comunità. Nel
documento, per la prima volta nella storia della World Health Organization
(WHO), viene sancito un riconoscimento formale dell’importanza della salute
mentale su scala mondiale. Al contempo, l’Action Plan rappresenta un
impegno, da parte di tutti i 194 stati membri, ad adottare provvedimenti
specifici per migliorare le politiche di salute mentale e raggiungere una serie di
obiettivi concordati. Il documento ha l’ambizione di cambiare il modo di
concepire la salute mentale, affinché essa possa essere promossa e preservata, i
disturbi mentali siano prevenuti, l’assistenza risulti tempestiva e le persone
affette da disturbi psichiatrici siano in grado di esercitare i loro diritti. Tutto
ciò, al fine di raggiungere il più alto livello possibile di salute mentale e di
liberare i pazienti dalla discriminazione e dalla stigmatizzazione.
Il documento propone un aumento del 20% dei servizi per disturbi mentali
gravi e una riduzione del 10% del tasso di suicidi, in tutti i paesi, entro il 2020.
Quest’ultima percentuale è assolutamente rilevante, soprattutto in
considerazione del fatto che il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani
in tutto il mondo.
L’Action Plan propone anche alcuni concetti innovativi: introduce la nozione
di recovery («miglioramento», «recupero»), allontanandosi da una concezione che
poneva l’accento su un’assistenza per malati cronici; denuncia la
stigmatizzazione che ancora coinvolge il malato psichiatrico; mette in luce
l’importanza del contesto socio-ambientale nello sviluppo delle patologie
mentali incentivando tutte le misure necessarie a un intervento precoce.
Il secondo evento, altrettanto importante, è rappresentato dalla
pubblicazione, sempre nel 2013, dello studio denominato Global Burden of
Mental and Substance Use Disorders3 i cui risultati si ritiene dovrebbero orientare
le politiche sanitarie dei paesi in ogni angolo del nostro pianeta. Dallo studio
emerge che le malattie mentali sono una delle principali cause di ‘disabilità’
intesa come incapacità a vivere una vita sociale soddisfacente e/o ad assolvere
le incombenze che il proprio ruolo comporterebbe. Inoltre lo studio evidenzia
come l’età in cui la sofferenza prodotta dalle malattie psichiatriche è maggiore
è quella compresa tra i 10 e i 30 anni. A questo proposito dobbiamo tenere
presente che i giovani costituiscono una fetta enorme della popolazione (i
giovani tra 0 e 24 anni sono il 47% dell’intera popolazione mondiale) e che
mentre nei paesi in via di sviluppo (a basso reddito) le principali cause di
disabilità sono ancora le malattie infettive e le carenze nutrizionali, nei paesi
sviluppati (ad alto reddito) le malattie mentali rappresentano la principale e più
grave causa di sofferenza nei giovani.
Il terzo evento, anch’esso ritenuto molto importante soprattutto nell’ambito
della comunità psichiatrica, è rappresentato dalla pubblicazione del DSM-5,
avvenuta tra polemiche, discussioni e critiche che l’hanno preceduta e
accompagnata.
Sono ormai molti anni che anche gli ideatori del manuale sono ben
consapevoli dei gravi limiti che la sua impostazione, falsamente definita
ateoretica, nasconde4. Questa consapevolezza, aggravata dall’assoluta
mancanza di una valida e condivisa alternativa, ha fatto sì che l’ultima edizione
del DSM vedesse la luce circondata da un alone di diffidenza come mai era
accaduto prima.
In realtà nell’ultimo ventennio, a partire dalla metà degli anni Novanta,
abbiamo assistito a grossi cambiamenti sostenuti dall’idea che la malattia
mentale abbia una sua storia naturale nella quale possiamo rintracciare fasi via
via ingravescenti che prendono le mosse in epoche molto precoci della vita
degli esseri umani. Questa idea, che la malattia abbia un andamento
ingravescente, è di enorme importanza perché si accompagna alla convinzione
che la terapia, impostata molto presto, possa avere maggiori margini di
successo opponendosi a un danno che ancora non ha incrinato
irreversibilmente la realtà mentale individuale. Purtroppo, però, questi
cambiamenti non hanno scalfito in profondità la convinzione che sia solo
l’oggettività la garanzia nella pratica clinica. La qualità del rapporto
interumano, essendo un vissuto assolutamente soggettivo, non viene presa in
considerazione: il mondo degli affetti, delle immagini e dei sogni rimane fuori
dalle grandi ricerche perché privo di possibilità di oggettivazione.
Le nuove conquiste della ricerca, in particolare nel campo della diagnosi
precoce e della prevenzione delle malattie mentali gravi, non sono riuscite a
travolgere e demolire convinzioni e credenze che resistono da duecento e forse
da duemila anni e che ancora inducono una fetta di psichiatri, soprattutto
americani, a conservare o addirittura accrescere gli investimenti in progetti che
aderiscono alla corrente di pensiero sostenuta dal National Institute of Mental
Health (NIMH) e, segnatamente, dal suo direttore Thomas Insel, che si
propone di redigere una nuova classificazione delle malattie mentali non più
basata su ‘categorie’ bensì su dimensioni e sul legame stretto fra esse e i circuiti
neuronali corrispondenti. È chiaro come questa impostazione che ha preso il
nome di Research Domain Criteria (RDoC)5, pur essendo il prodotto dello
stesso mondo che ha dato vita al DSM, ne sancisce il tramonto dal momento
che, di fronte alle difficoltà diagnostiche e terapeutiche prodotte dal metodo
che si ferma alla superficie della realtà umana, sceglie con ostinata
determinazione6 di accrescere la deriva organicista che già impregna in modo
massiccio la ‘filosofia’ dei vari manuali statistici a partire dalla terza edizione
del 1980. E siccome l’NIMH è il principale ente governativo che negli Stati
Uniti controlla i finanziamenti alla ricerca, è evidente come questa
impostazione possa condizionare la direzione del flusso di denaro verso le
ricerche che maggiormente vi si avvicinano: una critica non può essere
immaginata, o ancor più espressa, pena il vedersi rifiutata la propria richiesta di
finanziamento7.
Ma, accanto a questo ‘zoccolo duro’ rappresentato prevalentemente dalla
psichiatria americana, si muove un gruppo di psichiatri, soprattutto europei ma
non solo, che invece privilegia la psicopatologia8 e la ricerca condotta
mantenendo ferma la specificità della psichiatria che si rivolge a persone
sofferenti per turbe della coscienza, del pensiero, delle percezioni e degli
affetti.
Gli autori del presente volume possono essere considerati appartenenti a
questo gruppo: essi denunciano, in modo fermo, la confusione che esiste oggi
tra tristezza e depressione, e in particolare si soffermano sui rischi che la
mancanza di una corretta diagnosi differenziale può produrre. Nel libro
vengono considerati gli ostacoli sociali, culturali e personali che potrebbero
essere motivo di tristezza ma che nulla hanno a che vedere con le possibili
cause di depressione. Questi ostacoli potrebbero anche apparire banali ma, a
causa di una cultura radicata nella società e nella psichiatria internazionale,
finiscono per determinare una facile prescrizione farmacologica, con
conseguenze gravi non solo perché si considerano patologiche realtà umane
che non lo sono, ma anche perché giustificano un abuso di farmaci che
possono avere un impatto negativo sia sul piano neurobiologico che
comportamentale, soprattutto là dove la popolazione maggiormente a rischio è
rappresentata dai giovani e dalle donne.
Un libro tradotto e pubblicato di recente sempre dall’Asino d’oro edizioni,
Le pillole della felicità9, mette in luce come, sin dagli anni Sessanta, negli Stati
Uniti sia comparsa la cultura della naturale incapacità a essere sé stessi; questo
stereotipo culturale avrebbe come unica soluzione per raggiungere gli obiettivi
personali, altrimenti non realizzabili, l’assunzione di ‘pillole’, un favoloso
strumento per essere felici.
Allan V. Horwitz e Jerome C. Wakefield in questo lavoro operano una critica
alla diagnosi di depressione del DSM che si basa, secondo loro, su criteri
inaccettabili dal momento che nel manuale non vengono considerati né una
delusione affettiva, né un fallimento lavorativo, né una qualsiasi situazione
personale difficile quale congruo motivo di tristezza profonda, non ascrivibile
a un quadro depressivo.
Inoltre, con un’accurata analisi della letteratura internazionale, essi
sottolineano come vi sia una mentalità ‘a priori’ che vorrebbe ritenere la
Depressione Maggiore una patologia su base neurobiologica, mentre risultati
obiettivi di studi di neuroimaging mostrano che il cervello di un paziente con
depressione non è differente da quello di un soggetto che versa in uno stato di
tristezza profonda. La differenza che li caratterizza è l’assenza di una causa
evidente nel primo caso. Vi sarebbero tutti i presupposti per una riflessione su
come nella depressione possa esserci un’altra causa, apparentemente non
visibile, che potrebbe essere cercata oltre il piano della coscienza.
Secondo gli autori, merita una riflessione a sé l’importanza attribuita al lutto
per distinguere le reazioni ‘fisiologiche’ dalla depressione vera e propria: se nel
DSM-IV si concepisce ancora il lutto come elemento distintivo tra tristezza
fisiologica e depressione, nel DSM-5 invece il parametro temporale è
considerato insufficiente per una diagnosi corretta. In effetti il tempo non è
che un limite arbitrario, che sembra non contemplare una ‘normale’ reazione
umana di tristezza la cui durata, tra l’altro, è soggettiva, soprattutto in relazione
al tipo di lutto. La perdita di un amico ha una valenza diversa da quella di un
coniuge; inoltre con quest’ultimo la reazione può essere opposta in base
all’intensità della relazione o alla conflittualità che caratterizzava il rapporto10.
A questo proposito gli autori passano al vaglio diversi accadimenti della vita
umana quotidiana, anche quelli più comuni e frequenti, e notano come essi
non vengano oggi per nulla considerati dagli psichiatri. Ma allora come
possono essi comprendere la mente se la loro cultura risulta così superficiale
sugli aspetti più comuni della vita umana?
Questo libro sembra mettere a nudo alcuni degli errori più gravi dell’attuale
psichiatria, costringendo inevitabilmente a una riflessione, ma anche al
cambiamento di una pratica clinica troppo intossicata da uno scarso interesse
verso il paziente.
Nel Capitolo 8 del libro leggiamo:
Abbiamo sostenuto che se i ricercatori del cervello non prendono in considerazione il
contesto in cui la tristezza si sviluppa, rischiano di dare diagnosi sbagliate a persone
normalmente tristi affibbiando loro disturbi depressivi, e di fare confusione formando i
loro campioni con un miscuglio eterogeneo di soggetti malati e normali. La tristezza
normale, non meno del disturbo depressivo, è in correlazione con gli stati cerebrali e può
includere sintomi di intensa tristezza: i soggetti che provano tristezza possono avere
alcuni dei marcatori biologici in comune con i soggetti affetti da veri disturbi depressivi.
Riscontrare perciò la presenza di un substrato biologico in una condizione con sintomi di
tristezza intensa che soddisfano i criteri del DSM non basta per dire se quel particolare
substrato o la condizione stessa siano fisiologici o patologici. Conoscere il contesto in cui
l’attività cerebrale si verifica è precondizione essenziale per capire se i cervelli funzionano
in maniera normale o anomala.
Gli autori di La perdita della tristezza passano al vaglio tutto il sistema di
screening effettuato abitualmente dai medici di base nello Stato di New York e
lo criticano sottolineando come la diagnosi differenziale tra depressione e
tristezza sia essenziale per evitare il trattamento di soggetti ‘normalmente
tristi’.
Ancora, essi denunciano come con gli attuali criteri diagnostici vengano a
mancare la diagnosi e il conseguente trattamento in soggetti in cui la
depressione è all’esordio: in quest’ultimo caso, infatti, può essere difficile
formulare una diagnosi in quanto le misure diagnostiche sono state concepite
per cogliere un disturbo manifesto e non una forma iniziale che presenta un
quadro più sfumato e complesso.
Nel Capitolo 9 leggiamo:
La nostra analisi suggerisce la necessità di una maggiore chiarezza concettuale da parte
del professionista della diagnosi e di un consenso più informato da parte del paziente. Un
aspetto fondamentale del consenso informato è che il paziente riceva una diagnosi il più
accurata possibile, e non c’è distinzione diagnostica più fondamentale di quella fra
patologia e stato emotivo fisiologico in risposta a circostanze della vita, che con tutta
probabilità si risanerà con il tempo senza intervento. La prognosi e le decisioni sulla
adeguatezza di possibili trattamenti dipendono da questa distinzione, ed è importante che
il professionista condivida questa informazione con il paziente per decidere insieme un
percorso terapeutico.
Possiamo dire che è indispensabile fare proprio il metodo medico, da cui la
psichiatria non può prescindere e sul quale si basa tutta la scienza medica e la
deontologia: esame clinico, diagnosi, prognosi e terapia.
Avvalersi del metodo medico non vuol dire identificare la psichiatria con la
neurologia: l’oggetto dello studio e del fare psichiatrico non può limitarsi
all’encefalo e alle sue alterazioni macro e microscopiche, né allo studio delle
alterazioni genetiche o dell’espressione di esse, ma deve tenere fermo il
proprio campo d’azione nella realtà umana, con tutta la complessità che
inevitabilmente ne deriva, e portare quel metodo medico allo studio di essa.
Dalla clinica e dalla psicopatologia dovrebbe scaturire un pensiero diagnostico
preciso, al quale si dovrebbe legare immediatamente una strategia terapeutica a
seconda della diagnosi e della prognosi che il medico ha fatto.
È per questo che troviamo fondamentale proporre le voci autorevoli dei
nostri autori che centrano il loro scritto sulla perdita dei confini tra fisiologia e
patologia e quindi tra sanità e malattia: reagire con tristezza a un evento di vita
più o meno infausto non solo possiamo definirlo normale, ma addirittura sano.
Se i primi confini a essere sfumati sono quelli tra tristezza e Depressione
Maggiore, con tutti i danni di cui sopra, non possiamo dimenticare che la
diagnosi di depressione ha perso i suoi confini anche sull’altro versante: mai
come oggi essa rappresenta un contenitore nel quale, spesso, finiscono
patologie che prevedono una prognosi grave e spesso più sfavorevole.
Numerosi autori – e la pratica clinica di tutti i giorni mostra come e quanto sia
frequente – evitano la diagnosi di schizofrenia, in nome della stigmatizzazione
che ne deriverebbe. Così facendo non considerano, a nostro avviso, l’altro e
forse ben più grave danno che in questo modo si produce, ovvero quello di
confondere i confini diagnostici tra una patologia e l’altra, sovrapponendo le
diverse prognosi e di conseguenza uniformando i trattamenti.
Perché in psichiatria fare questo è possibile? Nessun cardiologo si
sognerebbe mai di sfumare i confini tra una aritmia e una banale tachicardia,
né un chirurgo di confondere una colite con un addome acuto.
La nostra impostazione teorica e la pratica clinica quotidiana ci impongono
una riflessione ulteriore: se ci liberiamo dell’idea della eziologia organica delle
patologie psichiatriche, celata malamente, come dicono anche i nostri autori,
dalla dichiarata ateoreticità del DSM, possiamo inserire la malattia mentale in
un percorso più o meno graduale di rapporti interumani fallimentari e
individuare in questo contesto la causa della patologia?
È chiaro che così il comportamento, che regna indisturbato nelle
classificazioni diagnostiche attuali, non è altro che l’epifenomeno di un mondo
fatto di affetti e sentimenti che saranno anche scarsamente operazionalizzabili,
ma dai quali non si può prescindere per una reale proposizione di cura.
Quest’ottica appare fondamentale soprattutto nel contesto della
individuazione precoce di segni e sintomi che spesso non appaiono solo di
intensità minore, ma anche specificatamente diversi sul piano psicopatologico.
Per centrare l’attenzione sul rapporto interumano come causa di malattia e
quindi anche come possibile strumento di cura all’interno di una relazione
psicoterapeutica è necessario comprendere nell’oggetto di conoscenza e di
cura la «mente non cosciente»11, che è diversa dalla mente razionale della
veglia, della coscienza, del pensiero verbale e del linguaggio articolato. Tutto
questo richiede il sostegno di una impostazione teorica che renda conoscibili le
dinamiche non coscienti che governano i rapporti interumani.
Lo psichiatra italiano Massimo Fagioli riconosce a questa realtà mentale una
sua validità sin dalla nascita, e una sua fisiologia, alla stessa stregua degli oggetti
di studio delle altre branche della medicina, differenziandosi dall’impostazione
psicodinamica tradizionale, che tuttora rimane fedele alla concezione freudiana
di inconscio inconoscibile (das Unbewusste)12. L’inconscio, infatti, viene
descritto o implicitamente ritenuto dalla psicoanalisi o dalla psicoterapia
psicodinamica come sede naturale di aggressività, di perversione e psicosi,
origine di ogni quadro psicopatologico che ne costituirebbe l’emergenza ed
espressione13.
Al contrario, la teoria della nascita di Fagioli mette in risalto la fisiologia
dell’attività mentale non cosciente, caratterizzata dall’emergenza del pensiero
alla nascita come capacità di immaginare. È a partire dalla reazione biologica
della sostanza cerebrale alla luce, «stimolo assolutamente nuovo», che alla
nascita compare la pulsione, la quale ha in sé la vitalità psichica ed è matrice
della formazione del pensiero non cosciente della nascita e del primo anno di
vita14.
Questa conoscenza ci permette di considerare che la realtà umana non
comprende soltanto la coscienza, il comportamento, le percezioni e le
emozioni ma altresì si compone di una mente non cosciente che è un elemento
cardine e originario specie specifico. È questa realtà che dopo la nascita può
andare incontro a un processo psicopatologico, il quale soltanto
successivamente si manifesterà sul piano dell’espressione comportamentale e
cosciente. Ciò ci obbliga a guardare in modo critico la tendenza della
psichiatria attuale, da un lato concordando con Wakefield e Horwitz nel
riconoscere una distinzione necessaria tra fisiologia della mente e patologia,
dall’altro evidenziando che un approfondimento della osservazione
psicopatologica per giungere alla diagnosi, che è indispensabile per la
realizzazione dell’intervento terapeutico, non può e non deve fermarsi al livello
della coscienza, ma deve arricchirsi con gli aspetti psicodinamici propri ai
rapporti interumani.
Questo libro ci offre quindi lo spunto per sostenere la ricerca di quella parte
della psichiatria che non si esaurisce nello studio di eventi e comportamenti
operazionalizzabili; nel contempo ci offre un valido appoggio per ribadire
l’importanza della diagnosi e, nello specifico, della diagnosi differenziale tra
Depressione Maggiore e tristezza, restituendo al quadro clinico i confini
psicopatologici che negli ultimi decenni si sono assottigliati sempre più.
Per far ciò non si può prescindere da un lavoro sul pensiero «diverso»15 da
quello della veglia e della coscienza, né dai sogni e dalla loro interpretazione
basata su un’impostazione psicodinamica che non veda la malattia come
espressione di una carenza interna connaturata alla realtà umana, ma come
fenomeno patologico16.
Occorre dunque proseguire su questo filone di ricerca che parte
dall’appropriatezza della diagnosi per arrivare poi all’appropriatezza del
trattamento: se la causa della depressione risiede infatti in un rapporto
interumano, la strategia terapeutica da realizzare deve consistere in un rapporto
interumano che lavori sulla mente non cosciente del paziente e che riesca così
a trasformare la situazione patologica in una condizione fisiologica analoga a
quella della nascita.
La diagnosi psichiatrica in generale, e la diagnosi psicodinamica in
particolare, secondo un’idea di fisiologia della mente umana alla nascita, non è
quindi una velleità conoscitiva ma un’esigenza indispensabile per identificare il
disturbo e curarlo secondo un principio metodologico basilare in medicina.
I nostri autori mettono in risalto la necessità di questo percorso: raccogliamo
a piene mani lo stimolo, sperando in un lavoro continuo di approfondimento
verso la ricerca di nuclei psicopatologici sempre più specifici e quindi sempre
più precoci nella storia dei pazienti che ci permettano una precoce
individuazione e un precoce trattamento con migliori prospettive di cura e
guarigione dei quadri clinici.

Note
1 | S. Saxena, M. Funk, D. Chisholm, World Health Assembly adopts Comprehensive Mental Health Action
Plan 2013-2020, in “The Lancet”, 381, 2013, pp. 1970-1971.↵
2 | WHO, Draft comprehensive mental health action plan 2013-2020 (16 maggio 2013), in
http://apps.who.int/gb/ebwha/pdf_files/WHA66/A66_10Rev1-en. (accesso del 3 giugno 2013).↵
3 | H.A. Whiteford, L. Degenhardt, J. Rehm, A.J. Baxter, A.J. Ferrari, H.E. Erskine, F.J. Charlson, R.E.
Norman, A.D. Flaxman, N. Johns, R. Burstein, C.J. Murray, T. Vos, Global burden of disease attributable to
mental and substance use disorders: findings from the Global Burden of Disease Study 2010, in “The Lancet”, 382,
2013, pp. 1575-1586.↵
4 | N.C. Andreasen, DSM and the Death of Phenomenology in America: An Example of Unintended
Consequences, in “Schizophrenia Bulletin”, 33, 2007, pp. 108-112.↵
5 | B.N. Cuthbert, The RDoC framework: facilitating transition from ICD/DSM to dimensional approaches that
integrate neuroscience and psychopathology, in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp. 28-35.↵
6 | M. Maj, Keeping an open attitude towards the RDoC project, in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp. 1-3.↵
7 | G.A . Fava, Road to nowhere, in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp. 49-50.↵
8 | J. Parnas, The RDoC program: psychiatry without psyche? , in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp. 46-47.↵
9 | D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014.↵
10 | Ricordiamo che nell’attuale versione del DSM-5 il lutto non si trova più tra i criteri di esclusione
per la diagnosi di Depressione Maggiore.↵
11 | M. Fagioli, Il pensiero nuovo. Lezioni 2004, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2011, pp. 176 sgg.↵
12 | S. Freud , Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. VI, pp.
575-581; S. Freud , Metapsicologia (1915), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. VIII, pp. 49-58.↵
13 | S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. IV, pp. 499-
500; S. Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (1909), in Id., Opere, 12 voll., Bollati Boringhieri,
Torino 2000-03, vol. VI; S. Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Id., Opere, Boringhieri, Torino
1989, vol. XI, pp. 571-634.↵
14 | M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza (1972), L’Asino d’oro edizioni, Roma 2010; M. Fagioli,
Materia energia e pensiero, in “Left”, 25, 25 giugno 2011; M.G. Gatti, E. Becucci, F. Fargnoli, M. Fagioli,
U. Ådén, G. Buonocore, Functional maturation of neocortex: a base of viability, in “The Journal of Maternal-
Fetal and Neonatal Medicine”, 25, suppl. 1, 2012, pp. 101-103; M.G. Gatti, Leggere la biologia e la vita
umana, in “Il sogno della farfalla”, 25, 2, 2008.↵
15 | M. Fagioli, Sogno è un linguaggio diverso, in “Left”, 52, 29 dicembre 2012.↵
16 | M. Fagioli, Una depressione (1993), in “Il sogno della farfalla”, 2, 2002, pp. 5-27.↵
La perdita della tristezza
Come la psichiatria ha trasformato la
tristezza in depressione
| Prefazione

Questo libro è il risultato di una collaborazione molto speciale. L’ordine degli


autori è alfabetico: siamo tutti e due pienamente e ugualmente responsabili del
contenuto intellettuale dell’intero volume, che è il frutto di un processo di
instancabile e stimolante feedback reciproco, di miglioramenti progressivi e di
discussioni in ogni fase del lavoro. Ma il fatto di esserci trovati a scrivere
insieme è dovuto a pura casualità. Ciascuno di noi, indipendentemente l’uno
dall’altro, stava progettando un libro sulla depressione, avendo in mente un
messaggio generale sostanzialmente identico. Quando a un certo punto
scoprimmo la cosa parlandone fra noi, decidemmo di unire le forze. Tuttavia i
percorsi per i quali ognuno era arrivato alla propria intenzione di scrivere un
simile libro erano completamente diversi.
Jerome Wakefield, che aveva scritto molto sul concetto di disturbo mentale,
si apprestava a pubblicare un articolo che gli era stato chiesto da una rivista, in
cui criticava l’attacco behaviorista dello psicologo Neil Jacobson al modello
medico della depressione. La tesi dell’articolo era che né quelli che credono
nell’approccio alla depressione come «malattia»*, proprio del Diagnostic and
Statistical Manual of Mental Disorders* (DSM), né quelli che, come Jacobson,
negano che la depressione sia una patologia medica, hanno ragione. In realtà
ciascuno di loro parla di casi clinici differenti. Nel suo scritto Wakefield
sosteneva che piuttosto che scegliere fra queste due opinioni contrapposte, la
psichiatria dovrebbe tracciare una distinzione fra le persone effettivamente
malate e quelle che presentano risposte normali a momenti di disgrazia che il
DSM ha classificato in maniera impropria.
A seguito della morte prematura di Jacobson, la rivista decise di non
pubblicare l’articolo, in quanto egli non avrebbe potuto più replicare.
Wakefield, intanto, si rese conto che la questione era molto più ampia di
quanto avesse immaginato all’inizio, e che una considerazione equilibrata delle
forme patologiche e non patologiche della depressione e della tristezza
avrebbe richiesto una trattazione più estesa, un libro intero. Il tema di per sé
sembrava urgente, perché, se i professionisti della salute mentale continuavano
a parlarne al loro interno piuttosto che riconoscere la complessità della
questione, alla fine si sarebbero trovati comunque inevitabilmente a doverne
parlare con alcuni dei loro pazienti. Noi speriamo che questo libro incoraggi
appunto le diverse fazioni a colloquiare e a capire che si deve fare distinzione
fra quelli che sono depressi e quelli che sono tristi in maniera normale.
Allan Horwitz aveva da poco completato un libro sul nuovo paradigma della
«psichiatria diagnostica» introdotto nel DSM-III del 1980. All’epoca, il DSM
era cresciuto fino a comprendere varie centinaia di diagnosi, e fra esse quella
della depressione era diventata la diagnosi paradigmatica della psichiatria
contemporanea. Uno studio accurato, soprattutto di questo stato, prometteva
quindi di illuminare più ampie tematiche connesse. Il lavoro nella sociologia
dello stress aveva convinto Horwitz che molti degli stati studiati dai sociologi
erano simili a quelli che la psichiatria classificava come Depressione Maggiore,
ma non erano risposte patologiche, bensì risposte umane normali a circostanze
sociali causa di stress. Come Wakefield, anche lui era convinto che esistono
veri stati depressivi patologici. Un libro sulla depressione gli sembrava dunque
un modo per esaminare i pregi e i limiti del nuovo paradigma della psichiatria e
per definire alcuni problemi concettuali della sociologia della medicina, il tutto
attraverso le lenti di una dettagliata analisi di quest’unica categoria diagnostica.
Gli pareva anche che unire le forze con Wakefield potesse aiutare a districarsi
nella navigazione fra la Scilla del costruzionismo sociale e la Cariddi
dell’essenzialismo biologico e a produrre un’analisi che fondi la distinzione fra
normalità e malattia su fattori biologici, pur conservando un ruolo importante,
nel fare questa distinzione, per i fattori sociali. Noi speriamo che il risultato
della nostra collaborazione sia stato un libro capace di percorrere davvero un
sentiero equilibrato fra il biologico e il sociale e fra la sofferenza normale e il
disturbo mentale.
Tutti i libri sono i prodotti non solo degli autori ma anche degli ambienti in
cui sono scritti. Per noi è stata una fortuna aver potuto scrivere questo libro in
condizioni eccezionalmente favorevoli. Per Horwitz, l’Institute for Health,
Health Care Policy and Aging Research e il Dipartimento di Sociologia della
Rutgers University hanno fornito stimoli intellettuali, colleghi straordinari e un
ambiente di lavoro ideale. In particolare, David Mechanic, direttore dello
Health Institute, è stato una fonte costante di ispirazione, sapienza e
incoraggiamento. Deborah Carr, Gerald Grob, Ellen Idler, Sarah Rosenfield e
Eviatar Zeruhavel sono stati attenti lettori ma anche amici speciali. Per
Wakefield, le idee esposte nel libro germogliarono all’Health Institute della
Rutgers ma furono elaborate per la pubblicazione nella sede attuale della New
York University School of Social Work. La scuola e il suo decano, Suzanne
England, e vivaci nuovi colleghi, nonché la meravigliosa energia intellettuale
della NYU, sotto la guida di John Sexton e David McLaughlin, hanno offerto
sostegno, opportunità e ispirazione eccezionali. Siamo grati anche a Peter
Conrad, Randolph Nesse, Sharon Schwartz e Robert Spitzer per le loro
osservazioni su singoli capitoli del manoscritto.
In un mondo ideale, tutti gli autori dovrebbero avere editor con lo
straordinario talento e le capacità critiche di Marion Osmun della Oxford
University Press. Noi siamo stati estremamente fortunati ad averla avuta come
editor di questo libro: noi e il libro abbiamo tratto enormi benefici dalla sua
collaborazione e dalla sua competenza.
Infine, il nostro debito personale riguarda la maggior parte dei componenti
delle nostre famiglie. La moglie di Wakefield, Lisa, è stata non solo un solido
sostegno ma anche un buon ascoltatore attento e stimolante; i suoi figli, Joshua
e Zachary, hanno concesso gioiose pause al nostro lavoro. I suoi genitori,
Helen e Ted Sherman, hanno offerto uno sfondo di costante amore e
incoraggiamento. Il padre di Horwitz, che morì a manoscritto appena
completato, è stato il modello di tutta una vita di creatività e conquista
scientifica. Le sue figlie, Rebecca, Jessica e Stephanie, hanno dato accoglienza e
piacevoli distrazioni durante la scrittura di questo libro.

Note
* La parola inglese «disorder» viene resa in italiano sia con «malattia», sia con «disturbo». In questo
libro si preferirà prevalentemente la parola «malattia». [NdT]↵
* Trad. it. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. [NdT]↵
Capitolo 1 | Il conce o di depressione

Com’è noto, il poeta W.H. Auden giudicò il periodo successivo alla Seconda
guerra mondiale come l’«età dell’ansia»1. Per Auden, l’intensa ansia di
quell’epoca era una normale risposta umana a circostanze straordinarie, come
la devastazione della guerra moderna, gli orrori dei campi di concentramento,
lo sviluppo delle armi nucleari e le tensioni della guerra fredda fra gli Stati
Uniti e l’Unione Sovietica. Se Auden fosse ancora vivo, potrebbe dire che il
periodo a cavallo del nostro nuovo secolo è l’«età della depressione»2. Ma ci
sarebbe una differenza cruciale fra le due definizioni: mentre l’età dell’ansia era
vista come una risposta naturale a circostanze sociali che richiedevano
soluzioni collettive e politiche, la nostra è vista come un’età di tristezza che è
anormale – un’età di disturbo psichiatrico depressivo che richiede un
trattamento da parte di professionisti.
Prendiamo Willy Loman, il protagonista del classico dramma di Arthur
Miller Morte di un commesso viaggiatore e probabilmente il personaggio di fantasia
più rappresentativo della vita americana nei decenni dopo la Seconda guerra
mondiale3. Alla soglia dei 60 anni, nonostante la sua fervida fede nel sogno
americano che il duro impegno nel lavoro porti al successo, Willy Loman non
ha mai realizzato granché. Ha debiti pesanti, la sua salute è debole, non ha altra
prospettiva che continuare con il suo lavoro di commesso viaggiatore, e i figli
lo disprezzano. Quando infine viene licenziato, è costretto ad ammettere a sé
stesso che ha fallito. Si uccide con un incidente d’auto nella speranza di
ottenere per la sua famiglia un po’ di denaro dall’assicurazione. L’enorme
popolarità che Morte di un commesso viaggiatore conquistò quando il dramma fu
rappresentato a Broadway nel 1949 fu dovuta al fatto che Willy Loman
incarnava il tipo dell’americano medio che si era prefisso l’obiettivo di
raggiungere la grande ricchezza e se ne ritrovava alla fine schiacciato.
Completamente diversa fu la risposta del pubblico a Morte di un commesso
viaggiatore in occasione del suo revival cinquant’anni più tardi4. Stando a un
articolo del “New York Times” intitolato Dategli un po’ di Prozac, il regista della
nuova versione aveva mandato il copione a due psichiatri, che avevano
diagnosticato in Loman un disturbo depressivo5. Al che, Arthur Miller, il
drammaturgo, obiettò protestando: «Willy Loman non è un depresso [...] È
semplicemente oppresso dalla vita. Ci sono ragioni sociali perché si trovi nel
punto in cui è». La risposta degli psichiatri è tipica del nostro tempo quanto
Loman lo era del suo. Ciò che la nostra cultura vedeva una volta come una
reazione al fallimento di speranze e aspirazioni, ora lo considera come una
malattia psichiatrica. La trasformazione di Willy Loman da vittima sociale a
vittima psichiatrica rappresenta un cambiamento fondamentale nel modo in
cui noi vediamo la natura della tristezza.

1.1 | L’onnipresenza della depressione

La predominanza del disturbo depressivo è una tendenza sociale importante


che si manifesta in vari modi.
– L’incidenza della depressione nella comunità. Molti ricercatori affermano che
parti consistenti e crescenti della popolazione soffrono di disturbo depressivo.
Le stime tratte dagli studi epidemiologici indicano che la Depressione
Maggiore colpisce negli Stati Uniti circa il 10% degli adulti ogni anno e quasi
un quinto della popolazione di tutte le fasce d’età6. Fra le donne le percentuali
sono anche più alte, circa il doppio che negli uomini7. A seconda della
definizione che si adotta, la depressione può colpire fino alla metà dei membri
di alcuni gruppi, come le adolescenti e le anziane8. E questi numeri sembrano
essere in crescita costante. Negli ultimi decenni, per ogni nuova generazione si
sono registrati più casi di disturbi depressivi che nelle generazioni precedenti9.
Benché questi tassi crescenti siano con tutta probabilità un prodotto del
modo in cui le indagini sulla comunità misurano il fenomeno più che riflettere
un vero aumento10, c’è la sensazione diffusa che il disturbo depressivo stia
crescendo a un ritmo allarmante.
– Il numero dei pazienti trattati per depressione. Il numero delle persone trattate
per depressione negli Stati Uniti è cresciuto di colpo negli anni recenti. La
maggior parte delle persone che soffrono di depressione è trattata a livello
ambulatoriale, dove si è avuto un aumento del 300% dei casi trattati fra il 1987
e il 199711. Nel 1997, non meno del 40% dei pazienti in psicoterapia – il
doppio di un decennio prima – aveva una diagnosi di disturbo dell’umore, la
categoria più vasta, che comprende soprattutto la depressione12. La
percentuale complessiva della popolazione trattata per depressione in un anno
salì dal 2,1% all’inizio degli anni Ottanta al 3,7% all’inizio degli anni 2000, un
incremento del 76% in appena vent’anni13. Alcuni gruppi della popolazione
hanno conosciuto un aumento molto più rilevante; nel solo arco di anni 1992-
1998, per esempio, gli ambulatori medici registrarono il 107% in più di persone
anziane con diagnosi di depressione14.
– Le prescrizioni di farmaci antidepressivi. Benché la cura farmacologica fosse già
un trattamento comune per affrontare i problemi della vita a partire dagli anni
Cinquanta, il suo uso ha conosciuto un’ascesa vertiginosa in anni recenti. Gli
antidepressivi, come il Prozac, il Paxil, lo Zoloft e l’Efexor, sono attualmente
fra i farmaci da prescrizione più venduti in assoluto15. Il loro impiego fra gli
adulti è quasi triplicato fra il 1988 e il 200016. Nell’arco di un mese il 10% delle
donne e il 4% degli uomini utilizzano attualmente questi farmaci17. Nel corso
degli anni Novanta, la spesa per antidepressivi aumentò del 600% negli Stati
Uniti, superando i 7 miliardi di dollari annui nel 200018.
– Le stime del costo sociale della depressione. La depressione ha un costo sociale
enorme. Secondo le proiezioni dell’Organizzazione mondiale della sanità
(OMS), il più importante organismo internazionale che si occupa di salute, nel
2020 la depressione diverrà la seconda principale causa di disabilità a livello
mondiale, dopo le malattie cardiovascolari. L’OMS stima che la depressione è
già la causa principale di disabilità per i soggetti fra i 15 e i 40 anni19. Negli
Stati Uniti gli economisti valutano che la depressione provoca una spesa di 43
miliardi di dollari l’anno20.
– Le pubblicazioni scientifiche sulla depressione. La ricerca sulla depressione è
diventata un’industria importante21. Nel 1966 furono pubblicati su riviste
mediche 703 articoli contenenti nel titolo la parola ‘depressione’. Nel 1980,
l’anno in cui l’American Psychiatric Association (APA) pubblicò la sua
autorevolissima terza edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders (DSM-III) con nuove definizioni del disturbo depressivo, uscirono
2.754 articoli sulla depressione. Questo numero aumentò costantemente nei
successivi quindici anni, fino a esplodere nella metà degli anni Novanta. Nel
2005 furono pubblicati 8.677 articoli sulla depressione, più di dodici volte il
numero del 1966. Gli articoli che oggi si occupano di depressione sono molto
più numerosi che per qualsiasi altra diagnosi psichiatrica e sono aumentati
molto più rapidamente della pubblicazione complessiva di tutte le ricerche
psichiatriche.
– L’attenzione dei media alla depressione. La depressione è diventata oggetto di
grande interesse nel mondo della cultura in generale. Popolari show televisivi,
libri in cima alle classifiche e importanti articoli in riviste nazionali
ripropongono spesso questo disturbo. Molti racconti di esperienze personali di
depressione – si pensi a Darkness Visible di William Styron, An Unquiet Mind di
Kay Jamison, Prozac Nation di Elizabeth Wurtzel e The Noonday Demon di
Andrew Solomon* – hanno raggiunto le vette dei best seller. Un’occhiata agli
scaffali delle novità del settore psicologia nelle librerie dà l’immagine
immediata dell’inondazione di libri su come evitare o affrontare la depressione
di ogni tipo. L’acclamata serie televisiva I Soprano ruota intorno a un boss della
mafia colpito – fra altri disturbi psichiatrici – da depressione, e il cui uso di
antidepressivi costituisce un tema importante della storia. Un buon numero di
eminenti personalità pubbliche, fra cui Tipper Gore, Mike Wallace e Brooke
Shields, hanno ricevuto grande pubblicità dopo aver rivelato di soffrire di
depressione.

1.2 | Tristezza normale contro tristezza patologica

Benché l’idea della depressione come fenomeno diffuso sia nuova, i sintomi
che associamo a essa, fra cui un’intensa tristezza e tante altre esperienze
emotive e sintomi fisici che spesso si accompagnano alla tristezza, sono stati
rilevati fin dall’inizio della storia medica documentata22. Ma nello sforzo di
capire il recente incremento delle diagnosi di disturbo depressivo è importante
riconoscere che fino a poco tempo fa erano nettamente distinte tra loro due
ampie tipologie di condizioni che presentano questi stessi sintomi. Una, la
tristezza normale, o tristezza «con causa», era associata a esperienze di perdita
o ad altre circostanze penose che apparivano essere cause evidenti di afflizione.
La risposta a queste reazioni normali era di offrire sostegno per aiutare
l’individuo ad affrontare il dolore della perdita e ad andare avanti, evitando di
confondere la tristezza del momento con una malattia.
L’altro tipo di condizione, tradizionalmente noto come «melancolia», o
depressione «senza causa», era un disturbo medico distinto dalla tristezza
normale per il fatto che la comparsa dei sintomi nel paziente si verificava in
assenza di una ragione appropriata nelle sue situazioni di vita. Stati del genere
erano relativamente rari, ma tendevano a essere di lunga durata e ricorrenti.
Poiché non erano reazioni proporzionate a eventi effettivi, si riteneva che
questi stati derivassero da un qualche difetto o disfunzione interna che
richiedeva l’attenzione di professionisti. E tuttavia queste condizioni
patologiche presentano la stessa tipologia di sintomi – come tristezza,
insonnia, ritiro sociale, perdita di appetito, mancanza di interesse per le attività
consuete e così via – associati a una intensa tristezza normale.
Questa divisione fra tristezza normale e disturbo depressivo è una divisione
sensata e legittima, anzi cruciale. È coerente non solo con la distinzione
generale fra la normalità e la malattia vigente nella medicina e nella psichiatria
tradizionale ma anche con il senso comune, e ha al contempo importanza
clinica e scientifica.
Noi siamo convinti che la recente esplosione di un presunto disturbo
depressivo non dipenda in primo luogo da un reale aumento della casistica del
disturbo. Ma che sia in gran parte il frutto di una fusione delle due categorie
concettualmente distinte della tristezza normale e del disturbo depressivo e
della classificazione di molti casi di tristezza normale come disturbi mentali.
L’‘epidemia’ in corso, benché dovuta a molti fattori sociali, è stata resa
possibile da una mutata definizione psichiatrica del disturbo depressivo che
spesso permette di classificare la tristezza come malattia, anche quando non lo
è.

1.3 | L’«età della depressione» deriva da un’erronea definizione


del disturbo depressivo

A differenza dell’«età dell’ansia» di Auden, che era causata da situazioni


sociali ben identificabili, non ci sono circostanze evidenti che spieghino la
recente diffusione del disturbo depressivo. Le cause più comunemente tirate in
ballo – come il fatto che la vita moderna ha meno ancoraggi sociali e comporta
una maggiore alienazione o che i media ci mostrano continuamente eccessi di
ricchezza e bellezza che provocano in noi un senso di inadeguatezza –
possono spiegare al massimo reazioni di tristezza normale (analoghe alle
normali risposte d’ansia a cui faceva riferimento Auden), non la massiccia
crescita del disturbo mentale. Non è stato individuato, e neanche teorizzato,
alcun agente patogeno ambientale che possa aver dato luogo a un reale
aumento di disfunzioni indotte da fattori biologici, psicologici, o sociali.
Sicuramente i successi conseguiti nel trattamento della depressione con
farmaci psicotropi hanno incoraggiato il ricorso a questo tipo di trattamento
nei casi in cui il medico riteneva che potesse portare qualche concreto
beneficio, e forse hanno spinto a diagnosticare come depressione casi in
precedenza ambigui nella speranza di offrire una cura efficace. Ma questo di
per sé non spiega la grande crescita del numero di persone che sono state e
sono curate per questo disturbo: di solito il miglioramento delle cure non porta
a un sostanziale aumento della diffusione della malattia. Né il miglioramento
delle cure spiega i risultati di studi epidemiologici che lasciano da parte i
pazienti e intervistano direttamente i membri della comunità non in cura. Così,
l’evidente esplosione dei casi di disturbo depressivo rimane un enigma. Che
cosa può aver creato questa apparente epidemia?
Quello che è accaduto – a nostro avviso – è soprattutto un’inflazione delle
diagnosi dovuta a una definizione relativamente nuova del disturbo depressivo
che non funziona e che, combinata con altri sviluppi della società, ha
accresciuto drasticamente la presenza del presunto disturbo. Per capire come si
sia verificato questo fenomeno è utile inquadrare le attuali pratiche
psichiatriche nel contesto storico e verificare quanto siano bizzarre le odierne
definizioni diagnostiche del disturbo depressivo in rapporto agli standard
storici. Ci tocca quindi affrontare gli esoterismi della moderna classificazione
psichiatrica presentata nelle successive edizioni del DSM dell’American
Psychiatric Association. Chiamato spesso «bibbia della psichiatria», il DSM
fornisce le definizioni psichiatriche di tutti i disturbi mentali.
Ma in che modo può una cosa semplice e limitata, quale una definizione,
avere conseguenze concrete in un campo come la psichiatria e poi nei media
che ne divulgano le affermazioni e le scoperte, e nel giudizio della società in
generale ispirato dalle sue conoscenze? Rispondendo alle critiche degli anni
Sessanta e Settanta secondo cui psichiatri diversi farebbero per una stessa
persona con gli stessi sintomi una diagnosi diversa (questo problema era noto
come «inaffidabilità» della diagnosi), nel 1980 il DSM cominciò a usare liste di
sintomi per stabilire chiare definizioni per ogni disturbo23. Quasi tutti i
professionisti delle malattie mentali di ogni ambiente – dalle cliniche
ospedaliere agli studi privati – usano ora per la diagnosi clinica queste
definizioni formali. E queste definizioni, inoltre, sono filtrate al di fuori del
settore clinico della salute mentale e sono usate anche negli studi
epidemiologici sull’incidenza della malattia nella comunità, nelle ricerche sugli
esiti delle cure, nel commercio dei farmaci antidepressivi, nelle attività di
prevenzione nelle scuole, negli screening nella prassi di medicina generale, nei
procedimenti giudiziari e in molte altre situazioni. In effetti le definizioni del
DSM sono diventate i parametri di riferimento in base ai quali si decide di
quello che dev’essere o meno considerato disturbo mentale nella nostra
società. Quelli relativi a queste definizioni possono apparire come temi astratti,
distanti, tecnici, ma in realtà hanno importanti conseguenze per gli individui e
per il modo in cui la loro sofferenza viene compresa e affrontata.
Il fatto che queste definizioni basate sui sintomi siano il fondamento di tutta
la ricerca sulla salute mentale e l’attività di cura rende importante che se ne
verifichi la validità su un piano critico. La ricerca e la cura in psichiatria sono
come una piramide rovesciata, e le definizioni dei disturbi mentali del DSM
che stabiliscono chi debba essere considerato malato sono l’unico piccolo
punto su cui poggia la validità dell’intera piramide. Anche se prendiamo le
migliori storie cliniche, le migliori interviste diagnostiche, la migliore selezione
di campioni di ricerca, o i migliori progetti sperimentali e analisi statistiche di
dati, non avremo risultati significativi se usiamo una definizione non corretta
della malattia che mescola elementi normali ed elementi anormali. Come si sa,
Archimede rivendicava: «Datemi una leva abbastanza lunga, e un fulcro su cui
appoggiarla, e io muoverò la Terra». Nella moderna psichiatria, le definizioni
muovono il firmamento delle cure e della ricerca, e i clinici moderni con una
definizione indebitamente ampia possono muovere diagnosi del disturbo
praticamente a qualsiasi livello desiderino, soprattutto quando hanno a che fare
con la depressione che presenta sintomi quali tristezza, insonnia e
affaticamento, diffusi anche fra persone che non soffrono di alcun disturbo.
L’attenzione portata di recente in psichiatria sull’affidabilità della diagnosi
basata sui sintomi ha comportato qualche costo in termini della sua validità –
se cioè la diagnosi sia una corretta attribuzione del disturbo24. I criteri del
DSM per il Disturbo Depressivo Maggiore sono un esempio in cui
l’accresciuta attenzione all’affidabilità ha avuto l’involontario effetto collaterale
di creare nuovi concreti problemi di validità.

1.4 | La definizione di «Depressione Maggiore» del DSM

La definizione psichiatrica corrente e ufficiale del disturbo depressivo che è


alla base delle diagnosi cliniche e degli studi di ricerca si trova nella quarta
edizione del DSM25. La definizione di «Disturbo Depressivo Maggiore»
(MDD) del DSM, la categoria in cui ricadono la maggior parte dei disturbi
depressivi, è lunga e ha parecchie specificazioni ed eccezioni. Rimandiamo al
Capitolo 5 per l’analisi dettagliata e critica dell’approccio del DSM al disturbo
depressivo. Ai fini di questa discussione iniziale, consideriamo gli aspetti più
importanti della definizione, che comprende la presenza di sintomi e il rispetto
di criteri temporali, nonché l’esclusione del lutto.
La diagnosi dell’MDD del DSM postula che siano presenti cinque dei
seguenti nove sintomi per un periodo di due settimane (fra i cinque deve
esserci l’umore depresso o ridotto livello di interesse o piacere): 1) umore
depresso; 2) ridotto interesse o piacere nelle proprie attività; 3) aumento del
peso corporeo, o la perdita o mutamenti dell’appetito; 4) insonnia o ipersonnia
(sonno eccessivo); 5) agitazione psicomotoria o rallentamento; 6)
affaticamento o perdita di energia; 7) il sentirsi inutili o eccessivi o ingiustificati
sensi di colpa; 8) diminuita capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione;
9) pensieri ricorrenti di morte, ideazione o tentativi di suicidio26.
Questi criteri sintomatologici costituiscono il cuore della definizione
dell’MDD, ma in essa c’è un’altra clausola importante: che «i sintomi non si
spieghino meglio con un lutto, per esempio la perdita di una persona cara, o
persistano per più di due mesi o siano caratterizzati da un marcato
deterioramento del funzionamento, da un morboso senso di inutilità, da
ideazione suicidaria, da sintomi psicotici, o da un rallentamento
psicomotorio»27. In altre parole, ai pazienti non viene diagnosticata malattia se
i loro sintomi sono dovuti a quello che il DSM definisce come un normale
periodo di lutto dopo la morte di una persona cara, che non dura più di due
mesi, e non includono aspetti particolarmente severi, come psicosi o pensieri
suicidari. Questa limitata «esclusione del lutto» è il solo riconoscimento, nella
definizione, che alcuni casi di intensa tristezza normale potrebbero soddisfare i
criteri sintomatici.
La definizione di disturbo depressivo del DSM è, per molti aspetti,
ragionevole. I suoi criteri possono suscitare qualche disaccordo su alcuni
sintomi particolari, ma ciascuno di essi è ritenuto ampiamente e per comune
consenso un indicatore del disturbo depressivo, e la psichiatria pre-DSM li
riconosceva come tali. Si può anche discutere sul numero esatto dei sintomi
necessari per la diagnosi: qualcuno potrà richiedere requisiti più laschi con
meno sintomi, qualcun altro ne richiederà di più stringenti per dichiarare con
sicurezza che il disturbo esista, e altri ancora insisteranno che non si debba
ricercare un interruttore secco ma si debba piuttosto pensare a un continuum
di gravità28. Si può anche discutere se la durata postulata di due settimane sia
sufficiente, ma nel giro di due settimane dall’inizio è a volte possibile capire
con chiarezza se il soggetto ha un disturbo depressivo, e i clinici non
dovrebbero esitare a diagnosticare casi del genere, anche se la durata tipica dei
disturbi depressivi è molto più lunga. Sembra parimenti ragionevole escludere
le persone appena colpite da un lutto. I criteri sono dunque abbastanza chiari
e, nella maggior parte dei casi, non più difficili da valutare dei sintomi
psichiatrici tipici di altri disturbi. La ragionevolezza, la chiarezza e l’efficienza
del suo impiego contribuiscono a spiegare la pressoché universale adozione
della definizione dell’MDD del DSM.
Qual è allora il problema con questa definizione? L’essenza della definizione
sta nel fatto che, a parte poche eccezioni, la presenza di un particolare gruppo
di sintomi è sufficiente per diagnosticare la presenza del disturbo. Ma,
naturalmente, sintomi come umore depresso, perdita di interesse per le attività
consuete, insonnia, calo dell’appetito, incapacità di concentrarsi e così via,
possono aversi per un periodo di due settimane anche in assenza di un
disturbo, ma semplicemente a seguito di uno qualunque di un’ampia serie di
eventi negativi, come l’infedeltà di un partner, il vedersi scavalcati nella corsa a
una promozione, il non superamento di un esame importante avente gravi
implicazioni sulla carriera, la scoperta dentro di sé o in una persona cara di una
malattia che mette a rischio la vita, o il dover affrontare l’umiliazione
conseguente a rivelazioni su un comportamento disonorevole. Reazioni di
questo tipo, anche quando molto intense a causa della durezza dell’esperienza,
fanno sicuramente parte della normalità della natura umana. Così come è
ovvio il motivo per cui il DSM esclude dalla diagnosi il lutto, sembra ovvio per
analogia di ragionamento che si escludano anche queste reazioni a circostanze
negative. La diagnosi, invece, non esclude queste risposte che non sono di
lutto. Essendo i criteri basati sui sintomi, ogni risposta di tristezza che
comporti un numero sufficiente dei sintomi sopra specificati per almeno due
settimane sarà erroneamente classificata come malattia, alla stregua dei reali
disturbi psichiatrici. Nello sforzo di caratterizzare i tipi di sintomi sofferti nei
disturbi depressivi indipendentemente dal contesto in cui detti sintomi
compaiono, la psichiatria contemporanea ha finito inavvertitamente per
qualificare come malattia anche la normale intensa sofferenza. Prendiamo, per
esempio, i casi seguenti.

Caso 1. Fine di un’appassionata relazione sentimentale


Una professoressa single di 35 anni ha chiesto un consulto psichiatrico per
avere una medicina per l’insonnia. Ha da presentare un elaborato come parte
di un colloquio di lavoro e teme di non riuscire ad affrontare la situazione in
maniera adeguata. Riferisce di aver passato le ultime tre settimane in un umore
depresso e di aver avvertito un fortissimo senso di tristezza e di vuoto, come
pure una mancanza d’interesse per le attività consuete (in effetti, ha passato
gran parte del tempo a letto o a guardare la televisione). Il suo appetito è
calato, e rimane sveglia a lungo fino a notte inoltrata, incapace di
addormentarsi per il peso della sua tristezza. Nel corso della giornata è
affaticata e priva di energia e non riesce a concentrarsi sul lavoro. Poiché la sua
sofferenza la distrae durante il lavoro, riesce a far fronte solo a una minima
parte dei suoi doveri (per esempio, si presenta poco preparata alle lezioni,
diserta gli incontri di facoltà e ha difficoltà a focalizzare l’attenzione sulla
ricerca). Si è anche sottratta agli impegni sociali.
Interrogata su che cosa potrebbe aver provocato questi sentimenti afflittivi,
racconta che un mesetto prima un uomo sposato con cui aveva intrecciato
un’appassionata storia d’amore durata cinque anni aveva deciso che non se la
sentiva di lasciare la moglie e aveva messo fine al rapporto. La donna aveva
vissuto la relazione come l’unica grande esperienza sentimentale della sua vita,
con una straordinaria combinazione di intimità emotiva e intellettuale.
La donna concorda con lo psichiatra di vedersi periodicamente per una
verifica. In seguito, con il passare delle settimane il suo senso di perdita a poco
a poco si calma ed è sostituito da un sentimento di solitudine e dal bisogno di
andare avanti con la sua vita e trovare un partner. Alla fine, comincia ad
accettare nuovi appuntamenti, e dopo parecchi mesi ancora incontra un nuovo
amore, e ogni sintomo residuo scompare.

Caso 2. Perdita di un posto di prestigio


Un uomo sposato di 64 anni ha sviluppato un senso di tristezza e di vuoto,
mancanza di piacere nelle attività, insonnia, affaticamento e carenza di energia,
e un senso di inutilità. Non è interessato a vedere amici e sembra incapace di
concentrarsi su alcunché. Sgrida la moglie quando lei tenta di consolarlo e ne
rifiuta gli sforzi di confortarlo.
Questi sentimenti erano scattati due settimane prima, quando l’azienda per
cui lavorava inaspettatamente lo aveva licenziato nel quadro di un
ridimensionamento collettivo del personale. Il licenziamento era arrivato
appena sei mesi prima che avesse raggiunto i requisiti del piano di
pensionamento dell’azienda. Una delle ragioni principali per cui l’uomo aveva
scelto di lavorare per quell’azienda e di passarvi due decenni al servizio era
stata la prospettiva di generosi vantaggi al momento della pensione. La perdita
di questi benefici significa che lui e sua moglie avranno uno scarsissimo
reddito di pensione, in aggiunta a quello della previdenza sociale per affrontare
il futuro.
In seguito la coppia è costretta a vendere la casa e a trasferirsi in un piccolo
appartamento. L’uomo trova un lavoro part time che, con il reddito della
previdenza sociale, basta appena a lui e la moglie per tirare avanti. L’uomo
continua a essere amareggiato per come è stato trattato, ma con il tempo i suoi
sintomi, a poco a poco, si attenuano.

Caso 3. Reazione a una diagnosi medica di malattia grave di una persona cara
Una donna divorziata di 60 anni che si è recata in un centro sanitario lontano
da casa chiede a un medico del centro un farmaco che l’aiuti a dormire. Alla
figlia, avvocato e figlia unica, a cui la donna è molto legata e di cui è orgogliosa
per la buona riuscita della sua vita, appena tre settimane prima era stata
diagnosticata una malattia del sangue rara e potenzialmente letale. Dopo aver
ricevuto la notizia della diagnosi della figlia, la madre era stata invasa da
sentimenti di tristezza e disperazione e non riusciva a funzionare bene nel
lavoro e nella vita sociale. Benché si mostrasse coraggiosa con la figlia e
riuscisse ad aiutarla con gli appuntamenti per le visite mediche, dal momento
della diagnosi la madre era caduta in uno stato di profonda prostrazione: di
tanto in tanto esplode in urla, non dorme, non è capace di concentrarsi e si
sente affaticata e disinteressata alle sue attività consuete quando pensa alle
notizie sulla salute della figlia.
Questi sintomi gradualmente si affievoliscono nel corso di alcuni mesi di
trattamento e della lotta della figlia contro la malattia, che alla fine si stabilizza
ma rimane minacciosa. La donna continua a sentirsi di tanto in tanto triste per
la condizione della figlia, ma gli altri suoi sintomi diminuiscono a mano a mano
che lei si adatta alle nuove circostanze e alle limitazioni della sua vita. Ognuna
di queste persone soddisfa facilmente i requisiti sintomatici per l’MDD e il
DSM le classificherebbe quindi come psichiatricamente disturbate. I loro
sintomi durano ben al di là delle due settimane previste dai criteri, sono state
colpite da un significativo indebolimento del loro ruolo o da eventi angosciosi,
e a loro non si può applicare l’esclusione della perdita (lutto). E tuttavia queste
reazioni sembrano ricadere in un quadro normale per persone che hanno
sofferto la fine improvvisa di un’appassionata relazione sentimentale, la perdita
di un’occupazione di prestigio, o la diagnosi di una malattia grave per la figlia
amata. I sintomi riferiti da queste persone non sono né anormali né
inappropriati alla luce delle loro particolari situazioni.
Quali caratteristiche inducono a pensare che in questi casi non si tratta di
disturbi? In ciascuno dei tre casi, i sintomi si presentano solo dopo il verificarsi
di un preciso evento della vita che comporta una grande perdita. La gravità
delle risposte alla perdita, inoltre, benché molto intensa, è ragionevolmente
commisurata alla natura delle perdite subite. Infine, i sintomi o spariscono nel
momento in cui le circostanze migliorano, e cioè durano finché persiste la
situazione di stress, o si dissolvono con il passare del tempo. Noi crediamo che
la maggior parte dei clinici riflessivi, se giudicano in maniera indipendente,
liberi dall’influenza del DSM, non classificherebbe questi malesseri in maniera
molto diversa da come facevano i loro predecessori.
Affermare che la definizione di disturbo depressivo del DSM sbaglia
nell’includere alcune reazioni emotive normali non significa affatto che non ci
siano autentici disturbi depressivi. Disturbi di questo tipo esistono e possono
essere devastanti, e la definizione del DSM li comprende. Ma appaiono molto
diversi dalle reazioni normali qui descritte. Le rappresentazioni popolari della
depressione raccontano uniformemente un quadro di profonda, immensa e
paralizzante sofferenza che è vistosamente sganciata dalle circostanze della vita
concreta: questo tipo di esperienza implica un vero disturbo.
Prendiamo, per esempio, il caso di Deanna Cole-Benjamin, presentato in un
articolo del “New York Times Magazine” sulla nuova cura della depressione:
La sua adolescenza non ha avuto traumi: la sua vita adulta, come lei la descrive, era
benedetta. A 22 anni si è sposata con Gary Benjamin, ufficiale finanziario di carriera
nell’Esercito canadese, in un matrimonio che le ha portato felicità e, negli anni Novanta,
tre figli. Vivevano in una casa confortevole a Kingston, gradevole città universitaria sulla
sponda settentrionale del lago Ontario, e Deanna, infermiera nel servizio sanitario
pubblico, amava il suo lavoro. Ma negli ultimi mesi del 2000 è scivolata senza motivo –
nessun cambiamento nella vita, nessuna perdita – in una depressione di straordinaria
profondità e durata.
«Cominciò con la sensazione di non sentirmi più davvero collegata alle cose come prima»,
mi disse una sera mentre sedevamo a tavola nella sala da pranzo della famiglia. «Poi fu
come se questo muro intorno a me crollasse. Mi sentivo via via più triste, e poi
semplicemente intontita». Il medico le prescrisse antidepressivi sempre più forti, ma con
scarsi risultati. Un paio di settimane prima di Natale, smise di andare al lavoro. Anche le
azioni più semplici – come decidere che cosa indossare, che cosa mangiare a colazione –
richiedevano una volontà immensa. Poi un giorno, mentre era sola in casa dopo che Gary
aveva portato i figli a scuola ed era andato al lavoro, si sentì così incapace di sfuggire alla
sofferenza che si precipitò in auto allo studio del suo medico e gli disse che pensava di
non poter più andare avanti.
«Mi diede un’occhiata», mi raccontò più tardi, «e disse che voleva che io rimanessi ferma lì
nello studio. Poi chiamò Gary, e Gary mi raggiunse allo studio, e ci disse che voleva che
Gary mi portasse subito in ospedale»29.
A parte la straordinaria gravità e durata dei sintomi, bisogna osservare che la
pesantezza di questa condizione depressiva non aveva relazione con alcun
evento da cui ci si poteva aspettare normalmente che innescasse simili reazioni.
O prendiamo la vivida descrizione della propria malattia depressiva di
Andrew Solomon:
[La mia depressione] aveva una vita a sé, che a poco a poco soffocava tutta la mia vita
fuori di me. Nello stadio peggiore della depressione maggiore, avevo umori che sapevo
non essere i miei umori: appartenevano alla depressione... Mi sentivo andare alla deriva
sotto il peso di qualcosa che era molto più forte di me; dapprima non fui più in grado di
usare le mie caviglie, poi non potei più controllare le mie ginocchia, e poi cominciai a
sentirmi cedere il busto sotto lo sforzo, e poi le mie spalle si incurvarono, e alla fine mi
ritrovai tutto raccolto in me stesso in posizione fetale, svuotato da questa cosa che mi
schiacciava senza che riuscissi a resistere. I suoi viticci minacciavano di sbriciolarmi la
mente e il coraggio e lo stomaco, e di frantumarmi le ossa e prosciugarmi il corpo. Si
saziò di me fin quando sembrò non essere rimasto nulla in me per nutrirla30.
Anche qui, la profonda depressione di Solomon ha ‘vita a sé’, nel senso che
la sua gravità non è in relazione con perdite specifiche o altri eventi negativi
che potrebbero di norma portare a simili sentimenti.
In quella che è forse la più elegante descrizione della depressione, Darkness
Visible, William Styron descrive la sua reazione nell’apprendere che aveva vinto
un prestigioso premio letterario:
La sofferenza continuò persistente durante il giro al museo e si sviluppò in crescendo
nelle ore immediatamente successive, quando, tornato all’albergo, mi lasciai cadere sul
letto e rimasi a fissare il soffitto, pressoché paralizzato e nella trance di un supremo
sconforto. Parlo di trance perché il pensiero razionale, in momenti del genere, era solito
abbandonare la mia mente. Non riesco a pensare ad alcuna definizione più appropriata
per questa condizione, uno stato di indifesa ebetudine nella quale ogni percezione era
soppiantata da quel ‘tormento vivo e concreto’.
La condizione di Styron rimane indipendentemente da qualsiasi contesto
sociale: «Nella depressione [...] la sofferenza è incessante, e tanto più
intollerabile in quanto prevediamo che mai nessun rimedio ci sarà dato, che
passi un giorno, un’ora, un mese o un minuto. Se un lieve sollievo ci soccorre,
sappiamo che sarà solo temporaneo e altro tormento presto sopravverrà»31. I
sintomi debilitanti di Styron non si manifestarono dopo un’esperienza di stress
ma anzi dopo un evento che normalmente sarebbe causa di soddisfazione.
Speaking of Sadness del sociologo David Karp offre un’altra descrizione tipica:
Secondo criteri oggettivi dovevo sentirmi abbastanza bene. Avevo un solido posto
accademico al Boston College, avevo appena firmato il mio primo contratto editoriale, e
avevo a casa una moglie eccezionale, un bel figlio e una nuova frugoletta [...] Tutte le notti
insonni la testa era piena di inquietanti ruminazioni e durante la giornata avvertivo un
senso di dolore insopportabile, come se qualcuno a me vicino fosse morto. Ero agitato e
sentivo una malinconia che era qualitativamente diversa da qualunque cosa avessi provato
nel passato [...] Ero sicuro che la mia depressione avesse le sue radici nelle esigenze legate
alla situazione in cui mi trovavo in quel momento e che una volta che avessi ottenuto
l’incarico sarebbe scomparsa. Fui promosso nel 1977 e la depressione in realtà si
approfondì32.
Esattamente come la depressione di Styron si manifestò dopo un’esperienza
positiva, lo stato pericolosamente grave di Karp era sganciato dalle circostanze
fattuali della sua vita.
Come questi esempi illustrano, i casi che tanto i media popolari quanto i testi
psichiatrici dipingono di solito sono chiaramente vere malattie. Ma queste
descrizioni illustrano anche che in sé stessi i sintomi non distinguono i disturbi
depressivi dalla tristezza normale: i sintomi non sono qualitativamente diversi
da quelli che un individuo può naturalmente presentare dopo una perdita
devastante, come nei casi che abbiamo sopra riportato di reazioni normali a
importanti sconvolgimenti della vita. E invece, è l’assenza di un appropriato
‘contesto’ dei sintomi che indica un disturbo. Nei casi appena illustrati i
sintomi si manifestano in assenza di qualsiasi perdita o compaiono dopo un
evento positivo, come la vincita di un premio prestigioso o il conseguimento di
una promozione. La loro gravità è di intensità vistosamente sproporzionata
rispetto alle circostanze effettive del soggetto sofferente. Infine, i sintomi
risultano persistere indipendentemente da qualsivoglia contesto di stress,
assumono una vita a sé e sono immuni ai cambiamenti delle situazioni esterne.
Il fatto che la letteratura enfatizzi questi esempi può portarci fuori strada e non
farci vedere il fatto che i criteri diagnostici del DSM non si limitano a queste
condizioni e ingiustamente comprendono una grande quantità di reazioni
normali intense.
Il difetto di fondo della definizione di MDD del DSM, e di tutti i lavori che
poggiano su di essa, è dunque semplicemente questo: che essa non prende in
considerazione il contesto dei sintomi, e quindi non esclude dalla categoria
della malattia quella tristezza intensa – a parte quella provocata dalla perdita di
una persona cara – che nasce dal modo in cui gli esseri umani rispondono
naturalmente a perdite importanti. La conseguente sovrapposizione dei
sintomi di depressione non derivanti da malattia con i sintomi causati da
disfunzioni, e la classificazione di entrambi come ‘disturbi’, è un problema
fondamentale per la ricerca, il trattamento e la politica attuale relativa alla
depressione. Inoltre, come avremo modo di mostrare, il problema è andato
peggiorando di molto negli ultimi anni, con la spinta crescente a usare un più
basso numero di sintomi, a volte due soltanto, come criteri sufficienti per
diagnosticare una malattia. Il potenziale di diagnosi falso-positive – cioè di
persone che corrispondono ai criteri diagnostici del DSM ma in realtà non
hanno alcun disturbo mentale – aumenta esponenzialmente al decrescere del
numero dei sintomi richiesti per la diagnosi.
I criteri eccessivamente inclusivi del DSM per il disturbo depressivo
compromettono in ultima analisi gli obiettivi e i concetti propri della
psichiatria. L’obiettivo del DSM è di identificare le condizioni psicologiche che
possono essere considerate autentici disturbi medici e distinguerli da
condizioni problematiche ma che non configurano una malattia33. L’errore cui
stiamo facendo qui riferimento nella catalogazione di un disturbo come
l’MDD è dunque un errore che tocca proprio quelle che sono le aspirazioni
dichiarate del DSM.

1.5 | La dis nzione fra normalità e disturbo

La nostra obiezione centrale alla definizione del disturbo depressivo del


DSM dipende dall’assunto che la tristezza normale può essere intensa; che può
essere accompagnata da insonnia, mancanza di concentrazione, cambiamenti
dell’appetito e così via; che può provocare danni e angoscia; e può durare per
due settimane, come previsto dai criteri. Ma qual è il concetto implicito di
normalità e disturbo in base al quale si può distinguere la tristezza dolorosa
normale da quella patologica?
Il funzionamento normale non è pura frequenza statistica. Alcune malattie
possono essere statisticamente ‘normali’ in una popolazione, come sono la
gengivite e l’aterosclerosi nella nostra, ma restano tuttavia malattie; e alcune
varianti normali possono essere molto rare. Dobbiamo anche distinguere la
malattia dalla adeguatezza e conformità ai valori sociali. Lo stesso DSM
riconosce che un individuo socialmente deviante o la cui natura è in conflitto
con i valori della società non necessariamente è malato34. Una trattazione
adeguata deve non soltanto distinguere la malattia dai valori sociali ma deve
anche spiegare in che modo le malattie sono reali sofferenze di carattere
medico che rappresentano, almeno in parte, un problema oggettivo del
funzionamento individuale.
La più plausibile linea di demarcazione fra la normalità umana e la malattia in
senso medico è, crediamo, quella che passa fra il funzionamento
biologicamente ‘mirato’ (cioè il risultato della selezione naturale) e il fallimento
di tale funzionamento, cioè la ‘disfunzione’35. Questa visione si accorda bene
con le intuizioni del senso comune ed è probabilmente la visione più
ampiamente accettata e difendibile da parte di quanti sono interessati ai
fondamenti concettuali della psichiatria e della medicina in generale36. Per
esempio, il criterio in base al quale si valuta il funzionamento normale di un
organo del corpo è se fa quello che è biologicamente destinato a fare e lo fa
nella maniera in cui è designato a farlo. Così il cuore serve a pompare sangue, i
reni a eliminare le scorie e i polmoni a consentirci di respirare, e se queste
funzioni sono compiute dalle strutture destinate a compierle, il funzionamento
è normale. La malattia si ha quando l’organo non riesce a compiere la funzione
a cui è biologicamente destinato.
Similmente, i processi psicologici selezionati come parte della natura umana
hanno funzioni naturali, ossia perseguono gli effetti per cui furono selezionati
dalla natura. Una attenta indagine neurobiologica e psicologica suggerisce che
la mente è costituita da molti moduli o meccanismi specifici, destinati a
rispondere a specifiche sfide ambientali37. La ‘contestualità’, dunque, è un
aspetto intrinseco di molti meccanismi psicologici: essi sono destinati ad
attivarsi in particolari contesti e a non attivarsi in altri. Le risposte di paura, per
esempio, sono biologicamente destinate a insorgere in situazioni di pericolo
ma non in situazioni di sicurezza. Analogamente, i meccanismi innati che
regolano le reazioni di tristezza, di disperazione e di ritiro entrano in gioco
secondo natura dopo che l’uomo ha subito un particolare tipo di perdita38.
Invece, le disfunzioni in cui i meccanismi della tristezza non operano come
dovrebbero per natura costituiscono malattia. Ne consegue che solo alla luce
di una descrizione, anche solo provvisoria e sommaria, di come i meccanismi
di risposta alle perdite sono destinati a funzionare e quindi del loro
funzionamento normale abbiamo buone basi per definire alcune risposte alla
perdita ‘patologiche’.
Come per tutte le caratteristiche umane, ci sono grandi variazioni fra gli
individui nella sensibilità con cui rispondono a una perdita con la tristezza.
Anche la cultura influenza i meccanismi di cui sopra in vari modi, sicché a
volte non è facile valutare se una risposta sia appropriata nello spettro
selezionato dalla natura. Tuttavia, nelle condizioni giuste, praticamente tutti gli
umani hanno la capacità di sviluppare una tristezza non malata come
adattamento biologicamente selezionato per gestire la perdita. In linea di
principio, questa capacità biologica fornisce una linea di base per giudicare
alcuni casi come chiari esempi di normalità e di malattia.
Un’avvertenza importante: dato lo stato primitivo della nostra conoscenza
sul funzionamento della mente, la nostra comprensione di come le emozioni
normali, compresa la tristezza, sono mirate a funzionare rimane ipotetica e
aperta a revisioni. Ma alcuni princìpi fondamentali, almeno in forma
ampiamente provvisoria, sembrano abbastanza plausibili e offrono una base
sufficiente per esaminare criticamente la validità dei criteri del disturbo
depressivo. Questi princìpi ci permettono di fare alcune distinzioni generali fra
casi che indicano chiaramente una tristezza normale e casi di disturbi
depressivi, pur riconoscendo che esiste un’ampia fascia di casi borderline,
ambigui e indistinti. Nel Capitolo 2 metteremo in evidenza tre caratteristiche
essenziali della risposta non malata a una perdita: emerge a causa di specifici
eventi scatenanti ambientali, soprattutto la perdita; è grosso modo
proporzionata per intensità alla perdita scatenante; e termina più o meno
quando la situazione di perdita finisce o cessa gradualmente quando i
meccanismi naturali di difesa permettono all’individuo un adattamento alle
nuove circostanze e il ritorno all’equilibrio psicologico e sociale.
Interrogativi importanti sorgono perché non sappiamo ancora con
precisione quali meccanismi interni producono le risposte alla perdita o che
cosa questi meccanismi siano effettivamente. Se la loro esistenza è inferita ma
la loro natura specifica è sconosciuta, come possiamo dire che le risposte
normali alla perdita sono effettivamente parte della nostra eredità biologica? E
se non conosciamo i meccanismi, come possiamo dire che cosa è normale e
che cosa è malato?
Fatto sta che, nonostante la distinzione non possa ancora essere stabilita con
precisione, nella storia della medicina e della biologia gli scienziati hanno
solitamente tratto deduzioni sul funzionamento normale e malato da prove
circostanziali senza conoscere i meccanismi sottostanti. Così, per esempio,
Ippocrate sapeva che la cecità e la paralisi sono malattie e che esistono
meccanismi designati a permettere agli esseri umani di vedere con i loro occhi
e di muoversi grazie allo sforzo muscolare, ma sapeva poco dei meccanismi, e
quindi poco delle cause specifiche, della maggior parte dei casi di cecità e di
paralisi (a parte quelli con evidente lesione). Ci vollero migliaia di anni per
riuscire a capire quei meccanismi, ma nel frattempo divenne universalmente
noto, grazie a prove circostanziali, che la vista e il movimento sono parti del
disegno biologico dell’uomo. Non è diverso, in linea di principio, per le
capacità mentali dell’uomo, le quali pure sono parte della nostra natura
biologica, in quanto emozioni di base.
Un’altra preoccupazione può nascere dal fatto che, poiché non
comprendiamo i meccanismi di risposta alla perdita, non possiamo stabilire
con una qualche sicurezza la funzione della risposta alla perdita e non
possiamo quindi sapere che cosa è normale e che cosa è anormale. In effetti, a
differenza delle funzioni degli occhi e dei muscoli, le funzioni delle risposte alla
perdita non sono evidenti e sono soggette a dispute39. Fortunatamente, è
spesso possibile dalle prove disponibili dedurre grosso modo quali risposte di
un meccanismo sono normali, anche se non conosciamo la ragione delle
risposte. Per esempio, tutti concordano che dormire è una sofisticata risposta
mirata e che alcune condizioni di sonno sono normali mentre altre sono
disturbi del sonno, ma c’è scarso consenso fra gli scienziati sulle funzioni che
spiegano perché dormiamo. Pur non avendo un’adeguata comprensione della
funzione delle risposte alla perdita, dobbiamo tuttavia impegnarci in simili
inferenze accettabilmente presuntive ma, crediamo, plausibili.
Per disturbi depressivi, dunque, noi intendiamo la tristezza causata da una
dannosa disfunzione ( harmful dysfunction, HD) dei meccanismi di risposta alla
perdita40. Secondo la definizione di HD, un insieme di sintomi indica un
disturbo mentale solo quando soddisfa entrambi i criteri seguenti. Il primo è la
disfunzione: qualcosa è andato storto nella capacità di qualche meccanismo
interno di realizzare una delle sue funzioni biologicamente designate. Il
secondo: la disfunzione dev’essere dannosa. I valori culturali giocano
inevitabilmente il ruolo primario nel definire quali tipi di disfunzioni siano
considerate dannose. Sintetizzando, un disturbo mentale si ha quando il fatto
che i meccanismi interni di una persona non riescano a realizzare le funzioni
per cui sono designati dalla natura si abbatte dannosamente sul benessere della
persona stessa quale è definito dai valori e dai significati sociali.
L’analisi del disturbo in chiave di HD non cerca di produrre una precisa
delimitazione concettuale, perché i concetti di normalità e malattia, come la
maggior parte dei concetti, non hanno contorni precisi e sono soggetti a
indeterminatezza, ambiguità, indefinitezza e vaghezza, e quindi producono
molti casi non chiari. Nonostante questi confini indistinti, il concetto di
disturbo in chiave di HD è utile e coerente perché ci consente di distinguere
adeguatamente uno spettro di chiari casi normali da uno spettro di chiari casi
patologici. Analogamente, ci sono distinzioni reali fra rosso e blu, bambino e
adulto, vita e morte, anche se non ci sono confini netti fra queste coppie. Al
contrario, i criteri diagnostici vigenti per il disturbo depressivo non riescono
sostanzialmente a distinguere, a nostro avviso, neanche molti casi chiari di
tristezza normale da quelli patologici.
I meccanismi biologicamente designati a generare risposte alla perdita
possono non riuscire a realizzare le loro funzioni nei giusti contesti in una
varietà di modi41. Le risposte alla perdita possono emergere in situazioni per le
quali non sono designate, possono essere di intensità e durata sproporzionata
alle situazioni che le evocano, e in casi estremi possono verificarsi
spontaneamente, senza che ci sia nulla che le faccia scattare. Per esempio, le
depressioni come quella di William Styron, sorta dopo che aveva ricevuto un
premio prestigioso, o quella di David Karp, manifestatasi dopo il successo
della promozione, indicano che i meccanismi di risposta alla perdita hanno
funzionato in maniera errata.
Le disfunzioni delle risposte alla perdita possono comportare anche distorte
percezioni cognitive del sé, del mondo e del futuro che fanno scattare una
tristezza inappropriata42. Queste distorsioni possono produrre meccanismi
inopportunamente sensibili che esasperano il significato di perdite minori al di
là dello spettro normale degli stimoli culturalmente appropriati. Uno che cade
in profonda depressione dopo la morte di un pesciolino rosso o un piccolo
affronto percepito, per esempio, mostra simili meccanismi di risposta alla
perdita ipersensibili, sproporzionati, a meno che speciali circostanze rendano la
perdita di importanza molto maggiore del solito.
Ma non è solo il manifestarsi della depressione in assenza di cause
appropriate a definire una disfunzione. Il disturbo può nascere dopo una
risposta inizialmente normale a perdite effettive, che potrebbe però poi
sganciarsi dalle circostanze della perdita e persistere con sproporzionata
intensità molto dopo la fine delle iniziali condizioni scatenanti. Oppure, fra
individui suscettibili, l’esperienza di eventi di perdita può a volte produrre
vulnerabilità biochimiche e anatomiche che rendono più probabile il
ripresentarsi di episodi depressivi con sempre minori stimoli scatenanti43.
Anche se iniziano come risposte normali, le reazioni emotive che si distaccano
da una specifica durata, luogo e circostanza indicano meccanismi non
funzionanti di risposta alla perdita.
Infine, i difetti di funzionamento nelle risposte alle perdite possono a volte
causare sintomi così estremi da indicare una disfunzione in sé stessi. Le
reazioni depressive che presentano una prolungata totale immobilizzazione o
perdita del rapporto con la realtà, come allucinazioni, deliri e simili, potrebbero
non avere origine in meccanismi di perdita appropriatamente funzionanti e
sono state sempre riconosciute come malattie. Simili risposte inappropriate ed
eccessive sono analoghe a febbri pericolosamente alte o al vomito
incontrollato, che corrispondono a difetti di programmazione o sono risposte
altrimenti adattive.
Si noti che la nostra distinzione fra la tristezza dovuta a una disfunzione
interna e la tristezza come risposta biologicamente designata a eventi esterni
differisce per importanti aspetti dalla distinzione tradizionale in psichiatria fra
le depressioni endogene (cioè causate spontaneamente da processi interni,
senza alcun fattore scatenante esterno) e le depressioni reattive (cioè fatte
scattare da qualche evento esterno)44. Le depressioni endogene sorgono per
definizione in assenza di una perdita reale, e quindi sono quasi sempre dovute
a disfunzioni interne. Viceversa, molte depressioni reattive sono proporzionate
a eventi ambientali e quindi sono risposte normali.
Non tutte le depressioni reattive, tuttavia, sono normali. Gli eventi esterni
possono toccare così profondamente gli individui da far scattare disfunzioni
interne. Per esempio, traumi ambientali come quello dell’improvvisa morte di
una persona cara, il trasferimento forzato dalla propria casa, o l’essere vittima
di un crimine violento, possono far crollare i meccanismi di risposta alla
perdita e produrre un disturbo duraturo45. Come osservato, le reazioni emotive
possono essere così sproporzionate agli eventi scatenanti da far pensare a una
disfunzione, oppure i sintomi possono assumere una vita a sé stante e non
esaurirsi quando il fattore di stress sia finito. Così, fra le depressioni reattive di
risposta a perdite, alcune sono patologiche, altre no. È la ‘presenza’ di una
disfunzione interna, non la ‘causa’ di questa disfunzione (che può essere
endogena o reattiva), a definire i disturbi depressivi. Pertanto, non c’è una
semplice relazione di uno a uno fra la tradizionale distinzione delle depressioni
endogene-reattive e la nostra distinzione fra disfunzione interna e risposta
biologicamente designata.
Per toccare un ultimo punto di possibile confusione: l’approccio di stampo
evoluzionistico per distinguere le condizioni normali da quelle patologiche non
implica che tutti i disturbi depressivi abbiano cause fisiologiche (organiche) o
che ci sia sempre un problema cerebrale quando c’è un disturbo depressivo.
Benché le cause fisiologiche producano spesso dei disturbi, anche i fattori
psicologici o sociali possono portare a disfunzioni. Il disegno biologico include
il disegno di vari meccanismi mentali (per esempio il credere, il desiderio,
l’emozione, la percezione) che funzionano attraverso i significati che gli umani
assegnano per rappresentare la realtà, e le descrizioni fisiologiche non colgono
il modo in cui questi significati operano. Ci sono disturbi mentali che non
possono essere descritti come cattivo funzionamento dell’apparato biologico
sottostante ma come cattivo funzionamento a livello mentale dei significati.
Ciò non è poi così misterioso come potrebbe suonare: pensiamo al software di
un computer, che può non funzionare in un hardware che invece funziona
correttamente. L’elaborazione dei significati che la recente scienza cognitiva
considera come analoga a un ‘software’ della mente può forse allo stesso modo
non funzionare senza che ci sia alcuna sottostante disfunzione fisiologica. La
nostra discussione è neutrale riguardo a simili questioni di eziologia, anche se
in generale riteniamo che possano esserci una gran quantità di cause
biologiche, psicologiche e sociali sia per la tristezza normale sia per il disturbo
depressivo; la ricerca tesa a risolvere lo scontro delle teorie sulle cause della
depressione deve decidere questa questione.
Un grande vantaggio della nostra critica basata sull’approccio HD è che
riconosce che i disturbi depressivi esistono e fornisce plausibili motivi per
migliorare i criteri diagnostici della psichiatria. Ci sono altre critiche più radicali
alla diagnosi psichiatrica che la liquidano in generale e non lasciano spazio per
un impegno costruttivo della psichiatria. Per esempio, la tesi dello psichiatra
Thomas Szasz secondo cui non esistono i disturbi mentali perché i disturbi
richiedono lesioni fisiche; la teoria classificatoria del sociologo Thomas Scheff,
che riduce la diagnosi a controllo sociale; le affermazioni comportamentiste
secondo cui tutto il comportamento è il risultato di processi di apprendimento
e quindi nessun disturbo mentale può esistere; le convinzioni degli antropologi
secondo cui le distinzioni tra funzionamento normale e funzionamento
anormale sono puramente culturali e quindi arbitrarie, negano tutte la
possibilità di operare una distinzione diagnostica concettualmente coerente fra
disturbi depressivi e intense risposte normali di tristezza46. In tal modo esse
sottovalutano i reali e distinti problemi che i veri disturbi depressivi pongono e
allo stesso tempo precludono la possibilità di criticare efficacemente le troppo
estese definizioni psichiatriche di disturbo.

1.6 | I vantaggi di dis nguere la tristezza normale dal disturbo


depressivo

Ammesso che i criteri del DSM hanno il difetto di permettere la


moltiplicazione eccessiva dei casi qualificati come disturbo depressivo, perché
è così importante correggere questo errore? Ci sono alcuni importanti vantaggi
nel farlo.
– La patologizzazione di condizioni normali può causare danni, ed evitare tale
patologizzazione può ridurli. Non soltanto i pazienti possono essere erroneamente
indotti a considerarsi malati e a intraprendere cure non necessarie, ma anche le
risposte sociali alle condizioni non patologiche e ai disturbi patologici sono di
solito differenti. Tipicamente, le reti sociali rispondono con il sostegno sociale
e la partecipazione alla tristezza che si manifesta dopo eventi stressanti della
vita47. Le depressioni disfunzionali, viceversa, suscitano di solito ostilità, uno
stigma e il rigetto sociale, e portano alla perdita del sostegno da parte della
società48. Assoggettare quelli che hanno una tristezza normale al pregiudizio
sociale affrontato da quelli con una malattia mentale non aiuta certo a
combattere quel pregiudizio. Rimane vero peraltro che per quelli che soffrono
di un vero disturbo mentale, lo svantaggio dello stigma diagnostico va
bilanciato con il fatto che l’etichetta ufficiale della diagnosi delle loro
condizioni anormali, offrendo accesso a certi servizi, può essere salutata come
un sostegno ben accetto.
– La distinzione fra tristezza patologica e tristezza normale dovrebbe migliorare la
determinazione della prognosi. Scopo essenziale della diagnosi è la prognosi:
predire il decorso futuro di una malattia49. Le prognosi per i soggetti i cui
sintomi hanno origine da una tristezza non patologica di solito differiscono da
quelle per i soggetti disturbati. I sintomi delle condizioni non patologiche con
molta probabilità regrediscono con il tempo senza intervento, scompaiono
quando le circostanze scatenanti cambiano, e rispondono a un generico
sostegno sociale. Invece, i sintomi che hanno origine da disfunzioni interne
con tutta probabilità sono cronici e ricorrenti, e persistono indipendentemente
dalle circostanze stressanti della vita50. Un’adeguata distinzione fra malattia e
non malattia dovrebbe fornire migliori previsioni prognostiche.
– Le diagnosi accurate permettono di individuare le cure appropriate. Benché farmaci o
terapie possano contribuire ad alleviare la sofferenza prodotta sia dalla
tristezza normale sia dal disturbo depressivo, essi spesso non sono necessari
nei casi di tristezza non patologica, che non comporta disfunzioni interne. In
alcuni casi, come nel lutto, curare le normali risposte alla perdita al pari di una
malattia può persino essere controproducente, in quanto può esacerbare e
protrarre i sintomi51. Al contrario, il trattamento dei disturbi depressivi
comporta spesso terapie farmacologiche, terapie psicologiche cognitive e di
altro tipo, o una combinazione di modalità per superare lo stato di disfunzione.
Un’adeguata distinzione concettuale fra le disfunzioni e le risposte normali può
consentirci di specificare meglio quali tipi di trattamenti possono funzionare
con la massima efficacia in condizioni simili dal punto di vista sintomatologico,
ma di fatto distinte.
– La separazione della tristezza normale dai disturbi depressivi può aiutare a riconoscere
la relazione della tristezza con le condizioni sociali avverse e quindi a individuare gli
appropriati interventi sociali. La psichiatria tende oggi a vedere la depressione
come una causa importante di molti problemi sociali, fra cui la dipendenza
dall’assistenza pubblica, la dipendenza dalla droga e la povertà52. Il primo
intervento operativo dovrebbe essere di curare la malattia e poi aiutare gli
individui depressi a superare le loro altre sfide. La tristezza normale, invece,
con tutta probabilità è l’effetto piuttosto che la causa di problemi sociali. Il
riconoscimento dell’impatto dei problemi sociali sulle emozioni umane
normali dovrebbe suggerire che impegnarsi nella soluzione di questi problemi
sarebbe una prima risposta appropriata.
– La separazione del disturbo depressivo dalla intensa tristezza normale può fornire una
base per più accurate stime epidemiologiche sull’incidenza dei disturbi depressivi e dei costi
per curarli. Se non si distingue la tristezza normale da quella patologica si hanno
stime esagerate del numero di soggetti affetti da disturbi mentali, mettendo
fuori strada i responsabili politici e inducendoli a predisporre una debole
politica pubblica. Le stime d’incidenza considerano come malati tutti i soggetti
che presentano sintomi abbastanza intensi, che siano o no patologici53. Esse
indirizzano l’attenzione dei politici e dei professionisti della salute mentale
verso situazioni che magari non hanno bisogno di tanta attenzione da parte di
esperti dirottandola da problemi che trarrebbero il massimo beneficio da un
aiuto professionale. Se si mescola la tristezza normale con il disturbo
depressivo si hanno anche stime estremamente gonfiate dei costi economici
della depressione54. Queste sopravvalutazioni, a loro volta, hanno implicazioni
potenzialmente negative in ambito politico perché aumentano la riluttanza
degli eletti, delle compagnie di assicurazione, e di altri politici a sviluppare
risposte efficienti, dal punto di vista dei costi, alla depressione. Benché a
nessuno che soffra debba mai essere negato l’acceso ai servizi, la separazione
delle condizioni non patologiche da quelle derivanti da disfunzioni può
concentrare la competenza dei professionisti della salute mentale sui veri
disturbi mentali e portare a un uso più efficace delle risorse per la salute
mentale .
– Distinguere il disturbo dalla tristezza normale permette una migliore valutazione delle
esigenze non soddisfatte dai servizi di salute mentale. Siccome non fanno distinzione
fra la tristezza normale e il disturbo depressivo, e siccome gli individui non
malati sono meno inclini a cercare una cura, le indagini sulla popolazione
lasciano l’impressione che solo una minoranza dei soggetti malati ricevano le
cure necessarie per le loro condizioni. Ciò ha spinto le politiche sociali a
concentrarsi sulla presunta ampia quantità di bisogni di cura non soddisfatti55.
Queste politiche insistono ora su un ampio screening alla ricerca della
depressione fra le persone che non hanno cercato volontariamente la cura. Gli
strumenti dello screening evidenziano probabilmente più la tristezza normale
che non il disturbo depressivo, ma trattano entrambe le condizioni come se
fossero malattie. Il contenimento di queste diagnosi esagerate potrebbe ridurre
l’inutile e potenzialmente dannoso eccesso di prescrizioni di farmaci.
– Tracciare una più attenta distinzione fra la malattia e la tristezza normale permette ai
ricercatori di selezionare campioni che riflettano più accuratamente le vere malattie. Una
ricerca significativa sulle cause del disturbo depressivo e sui modi migliori di
curare sia il disturbo depressivo sia la tristezza normale intensa richiede che i
gruppi studiati siano ragionevolmente omogenei, così che i risultati possano
essere appropriatamente compresi e generalizzati. Le cause dei sintomi
depressivi derivanti da disfunzione sono il più delle volte diverse dalle cause
della tristezza normale, per cui l’intero campo delle ricerche sulla depressione
rimane problematico fino a che non si faccia una distinzione adeguata.
– Distinguere le risposte alla perdita non malate da quelle derivanti da una disfunzione
evita di medicalizzare il nostro pensiero sulla tristezza normale e mantiene così l’integrità
concettuale della psichiatria. A parte tutti gli altri vantaggi, la credibilità della
psichiatria e della diagnosi psichiatrica dipende in ultima analisi dal fatto che la
psichiatria fornisca la giusta distinzione malattia/non malattia etichettando
come malattie solo le condizioni autenticamente psichiatriche. Se non riesce a
separare adeguatamente le risposte della tristezza programmate
biologicamente, dalle risposte dovute a disfunzioni interne commette l’errore
di configurare come disturbo mentale un aspetto basilare e universale della
condizione umana, e così patologizza impropriamente un’ampia sfera del
comportamento umano, minando la credibilità della psichiatria stessa.
Capire in che modo la psichiatria ha offuscato una distinzione cruciale e
tende a classificare erroneamente la tristezza intensa come una malattia è utile
anche alla gente comune. Ogni volta che una persona entra in uno studio
medico o i suoi figli ricevono a scuola gli strumenti di screening di routine, le
confusioni concettuali di cui parliamo in questo libro possono portare a
diagnosi e cure infondate. Per essere consapevoli consumatori di servizi
sanitari, i pazienti preparati dovrebbero capire sia in che modo i medici
arrivano alle diagnosi che formulano sia quali domande porre sui problemi che
tali diagnosi possono comportare.
Infine, bisognerebbe tenere a mente che la verità su se un soggetto sia
malato o triste in maniera normale spesso ha risvolti molto concreti, perché le
diagnosi di disturbi mentali influenzano numerose decisioni conseguenti.
Queste diagnosi, per esempio, possono rendere più complicato stipulare
un’assicurazione sulla vita o sulla salute o aumentarne il costo; possono
rappresentare elementi negativi in procedimenti di divorzio in rapporto
all’affidamento dei figli; e spesso escludono la possibilità di prendere parte a
sperimentazioni cliniche di nuovi farmaci per gravi malattie come il cancro.
Dato il ruolo che la diagnosi ha in così tante aree della nostra vita e data la
convinzione diffusa che una diagnosi rappresenti una vera condizione medica,
la confusione del disturbo depressivo con la tristezza normale non dovrebbe
essere presa alla leggera.

1.7 | Alcune avvertenze: ci sono svantaggi in questa dis nzione?


Qualcuno potrebbe obiettare che tracciare una distinzione fra la tristezza
normale e la tristezza malata, per quanto grandi possano essere i suoi meriti
intellettuali, può nondimeno essere dannoso per varie ragioni. Non possiamo
parlare di tutte le possibili preoccupazioni, ma alcune meritano di essere prese
brevemente in considerazione.
Stiamo forse liquidando in qualche maniera la sofferenza di quelli con
tristezza normale? Qualificando certe risposte come ‘normali’, non intendiamo
in alcun modo minimizzare, e tanto meno sminuire il livello di sofferenza
coinvolto; in effetti, la pena estrema della tristezza normale può spesso essere
pari a quella del disturbo depressivo. Ma proprio come ciascuno di noi vuole
distinguere un’intensa sofferenza normale provocata, poniamo, da un parto o
da un osso rotto (che si vorrebbe gestire e curare), da una altrettanto intensa
sofferenza prodotta da un disturbo interno, e non riconducibile a una lesione
corporea (cosa che ha importanti implicazioni per la cura), queste forme
intense di tristezza hanno bisogno di essere distinte per poter essere comprese,
e gestite e curate in maniera ottimale.
Può la nostra analisi dar luogo a barriere da parte delle assicurazioni che
potrebbero negare la cura a persone che la cercassero pur non essendo
veramente malate? Sì, è possibile, ma improbabile. In realtà i medici hanno
sempre trovato e sempre troveranno il modo di rispondere alle esigenze dei
pazienti e di classificare queste esigenze in sintonia con le definizioni
diagnostiche adatte per ricevere il rimborso delle cure. Inoltre, come per altri
campi della medicina, per sostenere il rimborso delle cure a persone con
intense risposte emotive si può far ricorso al forte argomento degli effetti
inabilitanti che quelle risposte emotive possono avere e della loro prevenzione.
Una condivisa distinzione fra l’intensa tristezza normale e quella malata
potrebbe persino agevolare una discussione sui cambiamenti da apportare al
sistema dei rimborsi.
Siamo forse dei moralisti che pensano che le persone non debbano in
generale contare sulle cure, e specificamente sui farmaci, e debbano invece
essere costrette a cavarsela alla bell’e meglio nelle loro difficoltà? Noi non ci
stiamo qui dichiarando pro o contro l’uso dei medicinali per curare i
sentimenti di tristezza normali. Questa è una questione che riguarda gli
individui e i loro medici. Stiamo piuttosto sostenendo che le diagnosi
concettualmente illegittime, che qualificano come malattie risposte normali a
particolari eventi, possono pregiudicare le decisioni facendo sembrare come se
si tratti di un cattivo funzionamento interno per il quale il farmaco è la cura
ottimale laddove l’evidenza suggerisce che altri interventi possono offrire un
uguale o migliore sollievo ed evitare i possibili effetti collaterali del farmaco.
Stiamo semplicemente dicendo che le decisioni sulle cure dovrebbero essere
basate su una corretta comprensione della condizione del paziente. In effetti,
una volta che sia stata fatta un’adeguata distinzione concettuale, si potrebbe
forse procedere più speditamente sulla strada di una più chiara ricerca della
cura ottimale della tristezza intensa normale.
Una diagnosi medica di malattia riduce certamente il senso di vergogna; non
incoraggiamo noi, quindi, il biasimo per le persone tristi, in quanto soggetti
emotivamente deboli. Se l’intensa tristezza non è diagnosticata come malattia,
non si penserà allora che il fatto di sperimentare simili sentimenti sia indizio di
un difetto di carattere, e le persone non saranno allora spinte a «darsi un
contegno» e a mostrarsi forti anziché indulgere a quei sentimenti? In realtà,
non ci sono prove scientifiche che ci dicano se la diagnosi arrechi un benefico
sollievo alla vergogna personale, mentre ce ne sono molte che ci dicono che
essa porta con sé un dannoso stigma. Ma dobbiamo riconoscere che affibbiare
a dei soggetti una diagnosi di malattia, anche se ingiustificata, può a volte
proteggerli dall’immotivata vergogna da parte dei membri della famiglia e di
altri per la debolezza di carattere. Ma noi sosteniamo che ci sono altri modi di
rispondere a questa immotivata vergogna, senza fare un abuso estremo delle
categorie mediche. In particolare, la nostra analisi sottolinea che la tristezza
intensa è una capacità umana naturale e non una debolezza di carattere: in
realtà, la tristezza normale ha probabilmente funzioni curative e riparative che
ancora non comprendiamo56. Sorprendentemente molte culture in realtà
biasimano gli individui che reagiscono con una tristezza insufficiente,
inadeguata, quando subiscono una perdita (come l’esibire troppo pochi segni
di lutto, o per troppo poco tempo, dopo la morte di un parente), perché
sembrano mancare di devozione o affetto. Il fatto che la tristezza intensa possa
essere correlata caratteriologicamente alla profondità del sentimento e possa
quindi essere più importante nell’affrontare la perdita per alcuni individui che
per altri difficilmente può essere considerato una debolezza. La nostra analisi
suggerisce che il biasimo può facilmente essere contrastato senza etichettare il
soggetto come malato. Bisognerebbe anche riconoscere che la diagnosi di una
malattia non è uno scudo contro il disprezzo e la vergogna personale.
Non c’è un po’ troppa freddezza nel nostro concentrarci su temi concettuali
anziché dedicarci di più a esplorare l’esperienza di pena della stessa
depressione? Ci sono montagne di libri che si soffermano dettagliatamente sul
grande impatto della depressione e ne documentano vividamente l’esperienza.
Il centro della nostra attenzione è diverso perché diverso è il nostro scopo, e
cioè di proporre una interpretazione e una prospettiva critica su come
quell’esperienza viene concettualizzata, come è venuta a essere sfruttata da una
varietà di gruppi e come la sua classificazione è cambiata in modi discutibili nel
corso del tempo.

1.8 | Una nota sulla terminologia

Alcune precisazioni terminologiche inserite a questo punto potrebbero


impedire inutili confusioni più avanti. Primo: benché usiamo il termine
‘tristezza’ per indicare sia la normale emozione umana sia le esperienze
descritte nei disturbi depressivi, le risposte normali da noi considerate vanno al
di là della tristezza e includono certi episodi di vuoto emotivo, di vergogna, di
umiliazione, e le correlate risposte a perdite di vario tipo, come la perdita di
autostima o la perdita di posizione in un gruppo. Per questo a volte usiamo
una terminologia più ampia, più astratta, come ‘risposte alla perdita’ per
riferirci a simili esperienze. Anche quando usiamo la parola ‘tristezza’, essa va
intesa come un’espressione stenografica per un ambito più vasto.
Secondo: quando scriviamo tristezza ‘normale’, non lo intendiamo nel senso
in cui una cosa può essere statisticamente normale, né lo intendiamo in senso
di approvazione e cioè che ‘va bene’. Vogliamo dire piuttosto che la tristezza è
funzionalmente normale o non patologica, cioè è il risultato dei rilevanti
processi mentali che operano come fossero biologicamente designati a
funzionare in risposta alla perdita. Queste risposte ‘normali’ possono essere
‘anormali’ in una varietà di modi: possono essere molto più intense in alcune
persone che in altre a seconda delle varianti umane del temperamento o dei
differenti sistemi di significato culturali; possono essere statisticamente molto
insolite perché sono risposte a una circostanza ambientale molto insolita (per
esempio qualcuno che sperimenta un dolore estremo a causa della morte di
vari membri della famiglia in un breve lasso di tempo); possono essere
anormali nel senso che costituiscono una severa deviazione dal funzionamento
consueto dell’individuo. Nessuna di queste forme di anormalità statistica
implica malattia.
Terzo: molti degli stessi tipi di fenomeni psicologici (per esempio umore
triste) e fisici (per esempio affaticamento) ricorrono nelle risposte di tristezza
sia malate sia non malate. Non esiste un termine neutrale adatto per descrivere
questi fenomeni, per cui noi, accettando la convenzione generale, ne parliamo
come di ‘sintomi’. Ma bisogna tenere a mente che questo potrebbe essere
fuorviante perché i ‘sintomi’ sono solitamente associati a una diagnosi di
malattia. L’uso della parola ‘sintomo’ vuole essere neutrale circa il fatto che il
fenomeno sia manifestazione di una malattia o una risposta normale.
Quarto: come modo adatto per indicare qualunque tipo di strutture della
mente, ancora sconosciute, designate per produrre risposte alle perdite, noi
usiamo l’espressione ‘meccanismi di risposta alla perdita’. Il termine
‘meccanismo’ è comune nelle discussioni sull’evoluzione e non ha nessuna
implicazione di carattere riduzionistico o di letteralmente ‘meccanicistico’
riguardo alla mente. Noi, per esempio, diamo per scontato che complessi
significati individuali e culturali entrano nelle risposte alle perdite. Il termine
‘meccanismo’ indica semplicemente che, poiché le risposte alle perdite sono
parte della nostra eredità biologica, ci sono alcune strutture nella persona che
sono biologicamente designate a produrle al momento giusto.
Infine: poiché facciamo spesso riferimento a fenomeni simili quando
discutiamo di malattie e di risposte normali, useremo numerose convenzioni
nel tentativo di rimanere chiari su ciò che è in discussione in un dato
momento. Quando parliamo di una specifica categoria di disturbo prevista nel
DSM (che può includere, secondo la nostra argomentazione erroneamente,
alcune condizioni normali oltre a quelle patologiche), noi adottiamo la
convenzione del DSM di maiuscolare quella categoria, e scriviamo quindi, per
esempio, Disturbo Depressivo Maggiore o più semplicemente Depressione
Maggiore. Inoltre, poiché il termine ‘depressione’ è ambiguo rispetto alle
condizioni normali o patologiche, noi usiamo specificamente il termine
‘disturbo’ quando parliamo della patologia depressiva – e ci riferiamo a essa di
solito come ‘disturbo depressivo’. Non maiuscoliamo questa espressione
quando non ci stiamo riferendo a una categoria del DSM – che, noi
sosteniamo, confonde disturbo e normalità – ma solo a quelle condizioni che
sono veri disturbi. (Preferiamo evitare l’espressione comune di ‘depressione
clinica’ per indicare specificamente i disturbi perché molti casi di tristezza
normale sono ora esaminati nella clinica.) Quando vogliamo riferirci a tutte le
condizioni di tristezza, normali o patologiche che siano, usiamo frasi generiche
come ‘condizione depressiva’ o semplicemente ‘depressione’.

1.9 | Quello che speriamo di fare

La depressione è diventata una specie di icona sia nelle professioni della


salute mentale dei nostri giorni sia nella cultura in generale. Molti
esperti affermano che è un atroce problema di salute pubblica che affligge
grandi fasce di popolazione. L’apparente carattere di massa del problema allo
stesso tempo invoca risposte urgenti in piani d’azione e paralizza la volontà di
rispondere.
Pur riconoscendo la realtà del disturbo depressivo e l’enorme sofferenza che
provoca, questo libro si sforza di introdurre una nuova prospettiva nelle
discussioni sulla depressione. Esso illustra come una inadeguata distinzione
concettuale fra il disturbo e il non disturbo è una debolezza cruciale dell’intera
industria della clinica e della ricerca dedicata a questa condizione e dimostra
che i problemi si ingigantiscono quando l’erronea definizione riecheggia
attraverso le varie istituzioni sociali. In particolare, praticamente tutte le
discussioni su questa condizione ignorano la questione critica di quando i
sintomi depressivi indicano un disturbo mentale e quando sono risposte non
disturbate alla perdita. Le risposte alla presente questione toccano la nostra
comprensione di come molte persone abbiano disturbi mentali, in che misura
possiamo evitare la depressione, chi dobbiamo curare per questa condizione e
che tipo di politiche dobbiamo sviluppare. Indagare sulla cattiva definizione
corrente della depressione è un modo di mostrare come temi tecnici
apparentemente esoterici possono, senza che ce ne rendiamo conto,
influenzare più ampi movimenti sociali e come vari ambienti siano motivati a
sfruttare e perpetuare errori concettuali una volta che siano stati commessi.

Note
1 | Auden, 1947/1994.↵
2 | Klerman, 1988; Blazer, 2005.↵
3 | Miller, 1949/1996.↵
4 | Dohrenwend, 2000.↵
5 | McKinley, 1999.↵
6 | Blazer, Kessler, McGonagle, e Swartz, 1994; Kessler, Berglund, Demler, Jin, Koretz, Merikangas, et
al. , 2003.↵
7 | Kessler, Berglund, et al., 2003.↵
8 | Roberts, Andrews, Lewinsohn, e Hops, 1990; Lavretsky e Kumar, 2002; Lewinsohn, Shankman,
Gau, e Klein, 2004.↵
9 | Klerman, 1988; Klerman e Weissman, 1989; Hagnell, Lanke, Rorsman, e Ojesjo, 1982.↵
10 | Murphy, Laird, Monson, Sobol, e Leighton, 2000; Kessler et al. , 2005; Blazer, 2005, pp. 114-115.↵
11 | Olfson, Marcus, Druss, Elinson, Tanielian, e Pincus, 2002.↵
12 | Olfson, Marcus, Druss, e Pincus, 2002.↵
13 | Kessler, Berglund, et al., 2003.↵
14 | Crystal, Sambamoorthi, Walkup, e Akincigil, 2003.↵
15 | Horwitz, 2002, p. 4.↵
16 | Pear, 2004.↵
17 | Ibidem.↵
18 | Croghan, 2001.↵
19 | Murray e Lopez, 1996.↵
20 | Greenberg, Stiglin, Finkelstein, e Berndt, 1993.↵
21 | Cfr. anche Blazer, 2005, pp. 28-29; McPherson e Armstrong, 2006. Le cifre citate provengono da
dati Medline.↵
22 | Jackson, 1986.↵
23 | Kirk e Kutchins, 1992; Horwitz, 2002.↵
24 | Regier et al. , 1998; Narrow, Rae, Robins, e Regier, 2002.↵
25 | American Psychiatric Association (APA), 2000.↵
26 | Ivi, p. 356.↵
27 | Ivi, p. 356.↵
28 | Watson, 2006.↵
29 | Dobbs, 2006, pp. 51-52.↵
30 | Solomon, 2001, p. 18.↵
31 | Styron, 1990, pp. 17-18; p. 62 [trad. it. pp. 30-31; p. 97].↵
32 | Karp, 1996, pp. 3-6.↵
33 | APA, 2000, p. XXXI.↵
34 | Ivi, p. XXXI.↵
35 | Wakefield, 1992.↵
36 | Per es. Klein, 1978; Spitzer, 1999.↵
37 | Per es. Fodor, 1983; Buss, 1999; Pinker, 1997.↵
38 | Keller e Nesse, 2005.↵
39 | Young, 2003.↵
40 | Wakefield, 1992.↵
41 | Buss, 1999.↵
42 | Beck, 1967.↵
43 | Post, 1992.↵
44 | Per es. Jackson, 1986, cap. 9; Mendels e Cochrane, 1968; Kendell, 1968.↵
45 | Dohrenwend, 2000; Kirkpatrick et al. , 2003; Marshall, Schell, Elliott, Berthold, e Chun, 2005.↵
46 | Szasz, 1961; Scheff, 1966; Kirmayer e Young, 1999.↵
47 | Archer, 1999.↵
48 | Klerman, 1974; Coyne, 1976; Gilbert, 1992.↵
49 | Goodwin e Guze, 1996.↵
50 | Post, 1992.↵
51 | Coyne et al. , 2000; Nesse, 2005.↵
52 | Kramer, 2005.↵
53 | Horwitz e Wakefield, 2006.↵
54 | Murray e Lopez, 1996.↵
55 | U.S. Department of Health and Human Services (USDHHS), 2001; World Health Organization
(WHO), 2004.↵
56 | Nesse, 2000.↵
* Tutti questi testi sono apparsi in italiano rispettivamente con i titoli: Un’oscurità trasparente (Leonardo,
Milano 1990); Una mente inquieta (Longanesi, Milano 1996); La felicità difficile (Rizzoli, Milano 1996); Il
demone di mezzogiorno (Mondadori, Milano 2002). [NdT]↵
Capitolo 2 | L’anatomia della tristezza
normale

La tristezza è stata vista tradizionalmente come una risposta naturale


dell’uomo alla morte di persone care, alla perdita del proprio amore, ai rovesci
di fortuna e a eventi simili. Essa nasce, come dice Shelley, perché «il mondo è
sbagliato!»1. E, quando la perdita e gli eventi stressanti che provocano la
tristezza sono acuti, le emozioni che ne risultano possono anche essere gravi,
tanto da sembrar sfidare le possibilità espressive. Per dirla con le parole di
Samuel Coleridge:
Un dolore senza una fitta, vuoto, oscuro e tetro,
un soffocato, assopito, distaccato dolore,
che non trova sbocco naturale, non sollievo,
in parola, o sospiro, o lacrima2.
La potenziale intensità di quella che sembra essere una tristezza normale
pone alcuni difficili interrogativi per la diagnosi psichiatrica. Come è possibile
separare le esperienze di tristezza normale dai disturbi depressivi? Come
sappiamo, in definitiva, che la tristezza intensa è dentro i confini della natura
umana e quindi può essere psichiatricamente normale, come suggerisce
l’esperienza comune, e anche la letteratura? In che modo le variazioni note
dell’espressione della tristezza nelle culture possono essere coerenti con una
capacità umana biologicamente specifica e universale di tristezza? E se la
tristezza è davvero parte normale della natura umana, qual è il suo fine, ovvero,
per quale funzione questa penosa e spesso debilitante emozione potrebbe
essere stata selezionata dalla natura? Per dare fondamento alla tesi che la
moderna psichiatria confonde la tristezza con il disturbo depressivo, questo
capitolo considera le caratteristiche e l’enigma evoluzionistico della tristezza
normale e dimostra che essa è un elemento specifico della natura umana.
2.1 | Componen della tristezza normale

La tristezza normale, o risposta non patologica alla perdita, ha tre


componenti essenziali che sono importanti per il nostro argomento: si
rapporta a un contesto specifico; è di intensità grosso modo proporzionata alla
perdita scatenante; tende a finire più o meno quando la situazione di perdita
finisce, oppure si affievolisce gradatamente quando i meccanismi di difesa
adattano l’individuo alle nuove circostanze e lo riportano all’equilibrio
psicologico e sociale.
Primo, la risposta alla perdita è intrinsecamente specifica del contesto, nel
senso che si attiva in relazione a uno spettro specifico di stimoli ‘giusti’ e non
si attiva al di fuori di quello spettro in relazione a stimoli ‘sbagliati’3. Ma, i tipi
di perdite che ricadono dentro lo spettro che può far scattare la tristezza
normale variano notevolmente. A volte si tratta della perdita di preziosi legami
intimi comprendenti parentela, amore e amicizia. Altre volte si tratta di perdite
riferite agli aspetti gerarchici delle relazioni sociali, come la perdita di potere, di
status, di risorse, di rispetto o prestigio. Un terzo tipo di perdite si riferisce al
mancato raggiungimento di obiettivi e ideali preziosi che danno senso e
coerenza alla vita4. Tutte queste tipologie di perdite che sono inattese,
umilianti, minacciose per il benessere a lungo termine e apparentemente senza
rimedio, e in cui l’oggetto perduto non può essere facilmente sostituito, sono
quelle che con maggiore probabilità causano risposte di intensa tristezza5.
Benché molte risposte di tristezza si manifestino dopo evidenti eventi di
perdita, ce ne sono altre che hanno origine da situazioni sociali persistenti e
cronicamente cariche di tensione, conflitti duraturi all’interno di relazioni
interpersonali, o perdurante incapacità di raggiungere importanti obiettivi6.
Quando le speranze di cambiamento diminuiscono, queste permanenti
tensioni possono produrre stati durevoli di tristezza, destinati a scomparire
solo quando le fonti croniche di stress siano sparite o quando le persone
riescano a cambiare i loro criteri valutativi.
Il fatto che la tristezza sia conseguente a fasi acute di perdita o sia simultanea
a tensioni croniche, tuttavia, non significa di per sé che i suoi sintomi siano
normali. Gli stress ambientali possono far scattare disturbi depressivi in
persone predisposte alla depressione, o gli stress possono essere di tale
inusuale severità da produrre un crollo dei normali meccanismi di risposta alla
perdita anche in soggetti non predisposti. Per esempio, molti piloti di aerei da
combattimento sviluppano sintomi che fanno pensare a un disturbo se
vengono impegnati in un numero abbastanza elevato di missioni di guerra7. In
altri casi, il disturbo preesiste ed è proprio esso a provocare l’evento stressante
al quale poi si attribuisce erroneamente la responsabilità di esserne la causa,
come quando depressioni preesistenti portano delle persone a essere licenziate
dal posto di lavoro o respinte dai propri partner sentimentali8. La comparsa in
circostanze appropriate è una condizione necessaria ma non sufficiente per
poter parlare di tristezza normale.
La seconda componente della tristezza non patologica è che essa è di
intensità grosso modo proporzionata all’entità e stabilità della perdita stessa, il
che comporta due fattori. Il primo è cognitivo: le risposte non patologiche alla
perdita comportano percezioni ragionevolmente ‘adeguate’ delle circostanze
negative, piuttosto che colossali distorsioni9. Se, per esempio, uno crede che la
propria moglie gli sia stata infedele può cadere in una tristezza intensa
proporzionale alla perdita percepita, ma se quello che lui crede è una
convinzione priva di fondamento, allora la tristezza non è normale. La
normalità di queste percezioni dell’entità della perdita dev’essere giudicata nel
contesto della vita, dei valori e del sistema di significati dell’individuo.
L’altro fattore della proporzionalità è affettivo: la gravità emotiva e
sintomatica della risposta dovrebbe essere di intensità grosso modo
proporzionata alla gravità della perdita sperimentata. Le avversità minori non
dovrebbero in generale dare troppi fastidi, producendo solo reazioni
relativamente leggere in cui il soggetto risulta deluso, scoraggiato, abbattuto o
avvilito. Eventi di perdita moderati dovrebbero in generale far scattare reazioni
di sgomento, di rassegnazione e di cupezza di media intensità. Le situazioni
serie e altamente minacciose dovrebbero generalmente provocare reazioni di
maggiore gravità, fra cui stati intensi di profondo dispiacere, sconforto,
angoscia, pena, intorpidimento e abbattimento10. Sulla linea di questa
progressione sotto il requisito della proporzionalità è chiaro che le risposte
previste per perdite gravi possono essere molto gravi – in pratica gravi come
alcuni disturbi depressivi – e possono quindi, di per sé, soddisfare i criteri
diagnostici del DSM per il Disturbo Depressivo Maggiore, benché il soggetto
non sia malato. Incidono anche le differenze individuali di temperamento e le
differenze culturali di espressività nel determinare l’intensità delle risposte.
Tuttavia, i processi evolutivi dovrebbero aver posto un limite alla reazione di
tristezza successiva a una perdita, perché le risposte di intensità troppo alta e di
lunga durata non permetterebbero alle persone di sciogliersi da stati di
inibizione e di ritornare ad attività più produttive. Se l’individuo è capace di
adattarsi alle nuove circostanze, le risposte non patologiche a una perdita non
possono includere un collasso dei sistemi psicologici di base, con comparsa di
sintomi psicotici e allucinatori.
La terza e ultima componente delle risposte non patologiche alle perdite è
che esse non solo compaiono ma persistono conformemente all’evento
esterno scatenante e ai processi interni di difesa. La tristezza normale
diminuisce quando il contesto ambientale cambia in meglio o quando i soggetti
si adattano alle loro perdite. Alcuni eventi di perdita, come la morte di una
persona cara, sono irreversibili, e la durata della tristezza normale dopo queste
perdite è altamente variabile ma comunque va scemando nel tempo. Altri
eventi di perdita, come la fine di un’importante relazione sentimentale o la
perdita di un posto di lavoro di rilievo, provocano naturalmente tristezza, che
però è limitata nel tempo e rapidamente migliora non appena affiorino
cambiamenti positivi, come l’avvio di una nuova relazione dopo il fallimento di
un matrimonio o un nuovo posto di lavoro dopo un periodo di
disoccupazione11.
La sensibilità delle risposte di tristezza fisiologiche ai contesti esterni non
significa necessariamente che esse debbano essere passeggere. Se le condizioni
ambientali stressanti durano a lungo, anche i sintomi possono essere di lunga
durata. In contesti come matrimoni burrascosi, posti di lavoro oppressivi,
persistente povertà, o malattia cronica, la tristezza dura perché le circostanze
stressanti che l’hanno prodotta rimangono immutate. La tristezza ordinaria,
perciò, non è necessariamente di più breve durata della depressione patologica.

2.2. | Esempi di tristezza normale

2.2.1 | Il lu o come proto po della tristezza normale


Per quel che ci risulta dalle descrizioni di emozioni raccontate nella storia, le
esperienze del lutto sono state centrali per ritrarre la natura umana
fondamentale. Poche descrizioni raggiungono l’intensità della reazione di
Achille quando ha notizia della morte dell’amico Patroclo:
[...] una nube di strazio, nera, avvolse Achille:
con tutte e due le mani prendendo la cenere arsa
se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello;
la cenere nera sporcò la tunica nettarea;
e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso,
giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli12.
Descrizioni del genere sono comuni attraverso le culture e le epoche
storiche. La più antica descrizione letteraria del lutto si ha nell’epopea di
Gilgamesh, originariamente composta in Babilonia nel III millennio a.C., quasi
1500 anni prima dell’ Iliade di Omero e in una cultura del tutto diversa. Eppure
il grave lutto del re Gilgamesh per la morte del suo dilettissimo amico Enkidu
è rappresentato con accenti che assomigliano in maniera impressionante a
quelli di Achille per l’amico Patroclo:
Ascoltatemi, o anziani di Uruk, ascoltatemi!
Io piangerò per Enkidu, l’amico mio,
emetterò amari lamenti come una lamentatrice [...]
E dopo che tu (sei morto) mi son fatto crescere
una lurida treccia di capelli sul corpo,
e ho indossato una pelle di leone
e mi sono dato ad aggirarmi nella selva [...]
Come una leonessa, i cui cuccioli sono stati presi in trappola,
egli va avanti e indietro;
si scompiglia e fa ondeggiare la chioma fluente;
si strappa e getta via i gioielli come fossero abominio.
Gilgamesh è in preda a un’enorme tristezza, grida veemente, è preso da
inquietudine senza pace e soffre di un senso di inutilità che lo spinge a gettar
via gli abiti raffinati e a coprirsi di panni lerci. Incapace di portare avanti le sue
ordinarie attività sociali, vaga solitario nel deserto. Nei suoi viaggi in lacrime
per Enkidu e alla ricerca dell’immortalità (i pensieri sulla propria morte sono
un altro sintomo comune di lutto), Gilgamesh arriva a una taverna in cui
desidera entrare. Si vanta delle sue conquiste per dimostrare la sua identità, ma
il taverniere si accorge benissimo dei drammatici sintomi del lutto, e sfida
Gilgamesh. In una toccante descrizione dei prevedibili effetti del lutto,
Gilgamesh risponde:
Taverniere, non dovrebbero le mie guance essere così emaciate
e la mia faccia stanca?
Non dovrebbe il mio cuore essere così confuso
e il mio sguardo assente?
Non dovrebbe regnare tristezza nel profondo del mio essere?
Non dovrebbe la mia faccia essere simile a quella di uno
che ha viaggiato per lunghe distanze?
Non dovrebbe la mia faccia portare i segni del caldo e del freddo,
e indossando soltanto una pelle di leone, non dovrei io vagare nella steppa? [...]
Enkidu, l’amico mio, il mulo imbizzarrito, l’asino selvatico delle montagne,
il leopardo della steppa,
noi, dopo esserci incontrati abbiamo scalato assieme la montagna,
abbiamo catturato il Toro celeste e lo abbiamo ucciso,
abbiamo abbattuto Khababa, che viveva nella Foresta dei Cedri,
abbiamo ucciso nei passi di montagna i leoni,
l’amico mio che io amo sopra ogni cosa, che ha condiviso con me ogni sorta di avventure,
ha seguito il destino dell’umanità.
Per sei giorni e sette notti io ho pianto su di lui,
né ho permesso che fosse seppellito,
fino a che un verme non è uscito fuori dalle sue narici13.
Un simile lutto dopo la morte di una persona cara fornisce il modello di
come le risposte di tristezza dovrebbero funzionare secondo natura. La
tristezza emerge in circostanze di perdita, la sua intensità è proporzionata
all’importanza e alla centralità della persona scomparsa nella vita di chi subisce
il lutto, e dura per qualche tempo e poi a poco a poco cala quando il soggetto
si adatta al cambiamento.
La definizione di Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) del DSM esclude le
condizioni conseguenti al lutto perché queste, che sono risposte normali,
spesso soddisfano i suoi criteri sintomatologici e potrebbero quindi essere
scorrettamente diagnosticate come disturbi. Le persone colpite da lutto
sviluppano comunemente sintomi – fra cui umore depresso, incapacità di
sentire piacere, perdita di appetito, incapacità di concentrarsi, insonnia ecc. –
che possono essere identici a quelli dei disturbi depressivi14. Benché raramente
gli individui normali colpiti da lutto nella nostra cultura mostrino alcuni dei
sintomi comuni del disturbo depressivo, come l’abbassamento dell’autostima,
essi nondimeno presentano spesso sintomi depressivi sufficienti a soddisfare i
criteri del DSM per il DDM. Quasi tutti presentano almeno alcuni dei sintomi.
Oltre tre quarti denunciano l’impulso a gridare, disturbi del sonno e umore
depresso, e oltre la metà riportano anche mancanza di appetito nel mese
successivo alla perdita15. Se non ci fosse l’esclusione dei casi di lutto, fra un
terzo e una metà delle persone colpite da lutto potrebbe essere classificata
come affetta da disturbo depressivo durante il primo mese dopo l’evento della
morte16. Fra i soggetti che hanno perso le mogli, la maggior parte degli studi
riscontra che fra il 20 e il 40% – e per alcuni anche più della metà – avverte
sintomi paragonabili per gravità ai criteri del DDM ancora dopo alcuni mesi17.
I tassi di sintomi depressivi nelle reazioni di genitori alla morte dei loro figli18
o nelle reazioni di adolescenti alla morte dei loro genitori19 sono anche più alti,
e i sintomi stessi sono più intensi e di maggiore durata di quelli che seguono
alla morte delle mogli20.
In generale l’intensità del lutto varia in maniera grosso modo proporzionata
al contesto e alle circostanze che determinano l’entità della perdita, e varia
anche molto da individuo a individuo secondo il temperamento. Nonostante
l’alta percentuale di persone colpite da lutto che sviluppano sintomi
paragonabili a quelli del disturbo depressivo, la maggior parte non sviluppa tali
sintomi, e un numero consistente non avverte alcuna angoscia dopo la perdita
subita21. Benché le differenze individuali di sensibilità alla perdita certamente
abbiano un ruolo, sono la natura e il contesto della perdita che contribuiscono
molto a determinare l’intensità della risposta. Per esempio, una morte
prevedibile, che avviene dopo una malattia cronica, produce meno sintomi
simili alla depressione che una morte improvvisa e traumatica, o comunque
inaspettata22. Poiché è più facile che a trovarsi in circostanze di questo tipo
siano le persone più giovani, fra queste si riscontrano più sintomi che fra le
persone anziane23.
Anche la qualità della relazione con la persona cara perduta incide
fortemente sull’intensità del lutto che ne consegue. La perdita di relazioni di
lunga durata, intime e intense, produce maggiore sofferenza della perdita di
legami più alla lontana24. Questa è la ragione per cui i coniugi che riferiscono
una relazione soddisfacente precedente alla morte del marito o della moglie
mostrano poi più sintomi depressivi25. Viceversa, i coniugi che nutrivano
sentimenti negativi o ambivalenti verso i loro partner prima della morte
presentano meno sintomi depressivi dopo di essa26. Analogamente, le persone
anziane colpite da lutto che hanno dovuto sopportare pesanti carichi di
assistenza prima della morte del partner dichiarano minori livelli di sofferenza
dopo di essa27. Anzi, la morte può arrecare sollievo e liberazione da situazioni
stressanti a chi si era sentito intrappolato in matrimoni malriusciti con
compagni gravemente malati28.
La durata, come l’intensità, della risposta alla perdita dipende anche dal
perdurare delle circostanze che la seguono. Se il dolore permane o no dipende
dal grado di sconvolgimento sociale ed economico che la perdita produce e
dalle risorse disponibili per affrontare tale sconvolgimento29. Sul lungo
termine, l’indebolimento economico conseguente alla morte di un marito ha a
che fare con l’intensità della tristezza più che la vedovanza in sé30. Anche la
presenza o l’assenza del sostegno sociale che fornisce risorse per affrontare la
perdita permette di fare previsioni circa la durata della tristezza31. Una più
lunga durata della risposta alla perdita, perciò, non indica necessariamente la
presenza di un disturbo, ma può essere riconducibile al persistere della
situazione di stress che accompagna la perdita e quindi al corrispondentemente
maggiore impatto negativo di essa.
Il lutto normale, dunque, appare naturalmente destinato a scemare con il
passare del tempo. Relativamente pochi soggetti colpiti da lutto presentano
sintomi seri per periodi lunghi, mentre la maggior parte a poco a poco si adatta
alla perdita e recupera i propri livelli di funzionamento ante perdita32. In un
importante studio, il 42% delle persone in lutto corrispondeva ai criteri del
disturbo depressivo dopo un mese, ma solo il 16% rimaneva in questo stato
dopo un anno33. Altri studi confermano che circa il 10-20% delle persone in
lutto soddisfa i criteri diagnostici del DSM per il disturbo depressivo un anno
dopo la morte, e in molti di questi casi, il funzionamento psicologico ritorna a
livelli ante perdita in due anni34. I dati dunque supportano la conclusione che,
anche se un numero cospicuo di reazioni al lutto soddisfano i criteri
diagnostici del disturbo depressivo per sintomatologia e durata, nella grande
maggioranza esse sono risposte normali passeggere alla perdita, con solo una
piccola parte che divengono condizioni croniche qualificabili come disturbi.
Il lutto, tuttavia, può far scattare a volte una disfunzione mentale di natura
più severa o persistente di quanto sia compatibile con una risposta normale.
Quando il lutto comporta una inibizione motoria, un’ideazione psicotica
intensa, o gravi sintomi che durano nonostante il passare del tempo e il mutare
delle circostanze, si può presumere che la reazione dell’individuo alla morte
della persona cara abbia provocato un crollo del funzionamento della sua
psiche. In generale, circa il 10% delle persone in lutto arriva a soffrire di forme
depressive croniche che possono configurarsi come disturbi35. Per alcuni di
questo gruppo, la morte di una persona cara intensifica a livello patologico
sintomi depressivi già esistenti prima di essa36. Per altri, è la stessa reazione alla
morte a far scattare un crollo delle normali funzioni di difesa. Questi stati
patologici costituiscono il Complicated Grief, che correttamente il DSM
riconosce come una forma di disturbo depressivo; e queste trasformazioni del
lutto in un perdurante disturbo depressivo sono state riconosciute fin
dall’antichità37.
Per la maggior parte delle persone, comunque, il lutto è un elemento
normale dell’esperienza umana che si dissolve con il passare del tempo e non
un disturbo mentale, come il DSM riconosce. Se si etichettano erroneamente
queste risposte normali come disturbi depressivi si possono avere varie
conseguenze negative. Gli interventi come la consulenza per il lutto e gli sforzi
che inducono le persone a prendere coscienza dell’evento luttuoso non si sono
rivelati molto efficaci e possono essere dannosi38. In effetti, è allarmante il
numero delle persone in lutto che peggiorano dopo aver ricevuto il
trattamento39.
Il problema è che il DSM non contiene un paragonabile riconoscimento
delle tante altre circostanze, diverse dal lutto, che possono portare a un’intensa
ma normale tristezza. Rispetto a queste altre circostanze di perdita, tuttavia,
esistono le stesse prove scientifiche che le risposte di tristezza possono essere
normali quanto nella maggior parte dei casi di lutto.

2.2.2 | Le reazioni alla perdita nel caso di profonde minacce alle relazioni
Benché l’ineluttabilità della perdita associata con il lutto la distingua dalla
maggior parte delle altre perdite, quella del lutto non necessariamente
dev’essere diversa in linea di principio dall’intensa tristezza che nasce, per
esempio, dopo la fine non voluta di una storia d’amore, la notizia dell’infedeltà
della propria moglie, un divorzio, il mancato raggiungimento degli obiettivi di
vita a lungo accarezzati, la perdita di risorse finanziarie, la perdita di sostegni e
relazioni sociali, o la diagnosi di una grave malattia per sé stessi o una persona
cara40. Persino la morte di animali domestici amati o di persone celebri che
uno non conosce personalmente può produrre periodi di umore basso, di calo
di iniziativa e di pessimismo come normali reazioni alla perdita41. La
definizione generale di disturbo mentale propria del DSM, fornita
nell’introduzione, esclude tutte «le risposte accettabili e culturalmente
condivisibili a un particolare evento, per esempio, la morte di una persona cara»,
usando il lutto come prototipo della categoria di eventi esclusa dalla diagnosi
di depressione42. E appunto, risposte di sofferenza emotiva ad altri particolari
eventi di perdita come rovesci matrimoniali, sentimentali, sanitari o finanziari
chiaramente possono essere altrettanto «accettabili e culturalmente
condivisibili» come quelle al lutto e dovrebbero quindi ricadere ugualmente
sotto l’esclusione stabilita dalla definizione. E invece, i criteri del DDM non
sono coerenti con questa logica, e non prevedono esclusioni per altre reazioni
alla perdita paragonabili a quella per il lutto.
Lo scioglimento del matrimonio è forse il più comune evento scatenante
un’intensa tristezza normale, la quale può essere grave abbastanza da
soddisfare i criteri sintomatologici fissati dal DSM per il disturbo depressivo43.
L’intensa tristezza che segue alla perdita di legami sentimentali è stata a lungo
un tema letterario di primo piano. Il doppio suicidio di Romeo e Giulietta, per
esempio, non deriva da un disturbo mentale ma da un tragico equivoco che fa
pensare a ciascuno di aver perduto il proprio amore. Altri suicidi letterari,
come quello di Emma Bovary o di Anna Karenina, traggono origine dal
rendersi conto che le conseguenze degli intrecci sentimentali riprovati sono
ineludibili.
La ricerca attuale conforta l’intuizione che gravi perdite di legami molto cari
portano naturalmente a risposte di tristezza: in molti studi lo scioglimento di
un matrimonio è associato alla depressione più frequentemente e con maggior
impatto emotivo di ogni altra variabile44. In effetti, le percentuali di episodi
depressivi che realizzano i criteri del DSM sono simili fra le persone che
escono da un divorzio e quelle che vivono un lutto45. Le persone reduci da un
divorzio hanno probabilità molto maggiori di sviluppare l’insorgenza del
DDM nel giro di un anno rispetto alle persone che non fanno tale
esperienza46. «Ordinando i dati per età, sesso e anamnesi psichiatrica», scrive la
sociologa Martha Bruce, «l’effetto della dissoluzione del vincolo matrimoniale
e del divorzio sull’insorgenza della depressione maggiore è molto grande (
Odds ratio) = 18,1»47. Gli studi indicano che fra il 30 e il 50% delle persone che
affrontano un processo di scioglimento del matrimonio sperimentano sintomi
paragonabili per intensità a quelli del disturbo depressivo48. Poiché fino al 60%
dei matrimoni va a finire in divorzio o separazione, una enorme proporzione
della popolazione dovrebbe fare esperienza di tristezza non patologica con
sintomi paragonabili a quelli del DDM in un qualche momento della vita già
solo per questa causa.
Come per il lutto, la possibilità che le persone sviluppino o no sintomi di
intensa tristezza in caso di scioglimento del matrimonio varia largamente in
funzione del contesto sociale di prima e dopo il divorzio. A un estremo, i
sintomi possono essere ridotti quando lo stress all’interno del matrimonio era
molto alto prima del divorzio49. In alcuni casi, il divorzio può persino portare a
un miglioramento delle condizioni psicologiche quando esso comporta
l’abbandono di un matrimonio indesiderato e l’ingresso in nuovi rapporti.
All’altro estremo, il divorzio non voluto, o che comporta elementi degradanti,
vergognosi, minacciosi per il futuro benessere, intrappolanti, o svalutanti la
persona che sta sperimentando la perdita è condizione che favorisce
particolarmente l’insorgere di intensi sintomi depressivi50. Per esempio, mogli
che hanno subito l’umiliazione dell’insospettata infedeltà dei mariti hanno tre
volte più sintomi depressivi di quelle che hanno sofferto perdite senza però
questa umiliazione51. Come l’intensità della tristezza normale dopo il divorzio
varia in funzione delle circostanze sociali, così pure la sua durata dipende da
quanto il contesto sia stressante. A differenza dello stressantissimo periodo
della separazione dei coniugi, il divorzio stesso rappresenta spesso la
risoluzione di una situazione di stress52. A due anni dal divorzio, le persone
divorziate hanno tassi di depressione analoghi alle persone sposate53. Gli
enormi tassi di tristezza non patologica che si manifestano durante le fasi dello
scioglimento del matrimonio sono associati a gravi sintomi che raramente
durano molto dopo il divorzio54.
Oltre alla perdita di un compagno, il divorzio spesso incide negativamente su
molti aspetti della vita, fra cui lo status sociale, l’identità personale, le risorse
finanziarie, le reti di amicizie, il tenore di vita e i rapporti con i figli, in modi
che possono intensificare l’associata risposta alla perdita. Le persone implicate
in un divorzio, costrette ad affrontare fattori stressanti collaterali come calo del
tenore di vita, indebolimento delle reti di sostegno, trasferimento in abitazioni
più modeste e problemi nei rapporti con i figli, denunciano tutte più sintomi di
tristezza di quelle che non affrontano questi fattori stressanti aggiuntivi55.
Viceversa, la tristezza conseguente a un divorzio è particolarmente probabile
che regredisca in risposta a cambiamenti ambientali positivi o eventi di ‘nuovo
inizio’ come un altro matrimonio o la creazione di nuove relazioni56.
In una minoranza di casi, il disturbo depressivo potrebbe aver preceduto ed
essere stato causa dello scioglimento del matrimonio57. In un altro piccolo
gruppo di persone, l’esperienza del divorzio è abbastanza pesante da portare a
un crollo dei meccanismi di risposta alla perdita che è patologicamente
paralizzante o che dura molto a lungo dopo il periodo di sbandamento.
Quanto detto in precedenza, tuttavia, induce a pensare che la maggior parte
delle persone che sviluppano sintomi analoghi a quelli del disturbo depressivo
nelle fasi dello scioglimento del matrimonio non ha disturbi mentali. Risponde
a situazioni che naturalmente portano gli individui a essere intensamente tristi.

2.2.3 | Altri esempi: perdita del lavoro o dello status, stress cronico, disastri
Oltre alla perdita di legami affettivi, anche la perdita dello status e delle
risorse suscita spesso una tristezza normale. La perdita di un posto di lavoro di
prestigio è una situazione comune che produce alti tassi di intensa tristezza.
Una simile perdita, come pure difficoltà finanziarie, sottoccupazione,
retrocessioni e mancate promozioni sono tutte associate a un calo di status, di
ruolo e di risorse e a una conseguente tristezza che non può essere spiegata
con stati depressivi preesistenti all’avversità economica58. Perdere il lavoro ha
una relazione particolarmente forte con elevati livelli di sintomi simili alla
depressione: circa un quarto delle persone che diventano disoccupate sviluppa
sintomi abbastanza gravi da avvicinarsi ai criteri clinici del DSM59. Ma
qualunque pesante perdita finanziaria o continuativo stato di difficoltà
economica può produrre esperienze simili60. Per esempio, circa un terzo delle
persone che subirono una grave perdita dei propri risparmi pensionistici per
effetto di una frode bancaria sviluppò sintomi analoghi a quelli dell’MDD61.
Il contesto in cui si verifica la perdita del lavoro, e quindi il suo significato
per l’individuo, fa presagire quali persone disoccupate svilupperanno
probabilmente sintomi equivalenti a quelli del disturbo depressivo del DSM.
Le persone che perdono posti di lavoro di prestigio e appaganti hanno molte
più probabilità di incorrere in quei sintomi, mentre quelle che in precedenza
hanno occupato posti di lavoro molto stressanti hanno minori probabilità di
divenire tristi62. Inoltre, la tristezza insorge con maggiore probabilità quando si
perde il posto di lavoro inaspettatamente che non quando la perdita era
prevedibile63. La perdita del posto di lavoro è probabile porti a una normale
tristezza quando è associata a molti fattori stressanti secondari come difficoltà
economiche e interpersonali64.
Proprio come l’angoscia per la perdita di legami affettivi finisce allorché si
formano nuovi legami, gli studi indicano che i livelli di angoscia si alzano
immediatamente prima o dopo la perdita del lavoro ma calano nettamente
dopo che sia stato trovato un nuovo impiego: segno di una risposta alla perdita
che funziona in maniera normale65. Questa è la ragione per cui i lavoratori che
perdono il posto di lavoro in periodi di prosperità, quando le opportunità di
nuovo impiego sono abbondanti, più difficilmente cadono nella tristezza66.
Le perdite di status particolarmente umilianti possono essere a volte tanto
intense da produrre esiti estremi come il suicidio fra individui in tutto e per
tutto normali prima della perdita*. La casistica include dirigenti, responsabili di
gravi fallimenti aziendali, o persone accusate di scandali di corruzione67.
Prendiamo il caso di Hajimu Asada e sua moglie Chisako: «Il presidente
dell’azienda avicola giapponese accusato di non aver dato tempestivo allarme
alle autorità sullo scoppio dell’influenza aviaria si suicidò con la moglie,
quando ci furono avvisaglie del diffondersi in Giappone della malattia»68.
L’incapacità di reggere alle norme sociali, soprattutto in società molto
compatte, può indurre una vergogna tale da spingere al suicidio69. Per
esempio, i tassi di suicidio durante la rivoluzione culturale cinese furono
straordinariamente elevati, soprattutto fra quelli accusati di essere proprietari
terrieri, ricchi contadini, intellettuali e dissidenti70.
Altre perdite che portano a tristezza non patologica si hanno quando ci sono
grandi discrepanze fra gli obiettivi cui le persone aspirano e le loro effettive
realizzazioni71. Gli studenti universitari cui è negata l’ammissione a corsi di
studio a lungo desiderati o i laureati che non riescono a trovare occupazioni
corrispondenti alla loro preparazione mostrano spesso, comprensibilmente,
segni di tristezza72. In effetti, il mancato raggiungimento di alti obiettivi può
essere assunto con quasi certezza come un preannuncio di basso umore fra gli
studenti universitari73. Analogamente, gli adulti che non raggiungono gli
obiettivi che si erano prefissati in precedenza nella vita provano più angoscia di
quelli le cui realizzazioni si avvicinano di più alle loro precedenti aspirazioni74.
Così pure, le donne che desiderano fortemente avere figli ma sono sterili,
spesso avvertono un’angoscia intensa75. Questi sintomi scompaiono allorché la
discrepanza fra le aspirazioni e le realizzazioni si restringe: per esempio, i
sintomi depressivi delle donne che hanno subito aborti spontanei non
persistono se in seguito restano incinte e danno alla luce un bambino76.
Fasce enormi di popolazione che subiscono disastri in cui si registrano
perdite massicce sviluppano sentimenti depressivi. Per esempio, fra il 40 e il
70% dei rifugiati deportati dalle loro case dalla violenza di massa presentano
sintomi di Depressione Maggiore77. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i
sintomi non persistono. Per esempio, a cinque settimane dall’attacco
terroristico dell’11 settembre 2001, uno su cinque fra i residenti di New York
City manifestavano sintomi sufficienti a giustificare una diagnosi di MDD. In
questo arco di tempo, circa tre quarti dei residenti di New York City piangeva,
oltre il 60% era molto nervoso o teso, circa il 60% riferiva disturbi del sonno e
quasi la metà si sentiva più stanco del solito e non aveva piacere a mangiare.
Ma pochissime delle persone che avevano manifestato quei comprensibili
sintomi depressivi subito dopo l’attacco erano ancora depresse sei mesi più
tardi, benché non fossero stati molti quelli curati per le loro condizioni78.
Similmente, subito dopo disastri naturali come terremoti, tempeste tropicali, o
alluvioni, quasi tutti i soggetti colpiti presentano qualche sintomo di angoscia,
che scompare rapidamente quando le condizioni di vita si normalizzano79.
Alcune delle associazioni più costanti fra contesto sociale e tristezza non
derivano da simili eventi acuti di perdita bensì da situazioni sociali di stress
cronici come una disoccupazione di lungo termine, una condizione debitoria
protratta, vivere in un quartiere pericoloso e minaccioso, malattie fisiche
croniche, convivenze matrimoniali tormentate, o condizioni di lavoro
oppressive. A differenza di un episodio tipico di tristezza fisiologica che
regredisce quando le condizioni che gli hanno dato origine finiscono, i fattori
stressanti duraturi possono portare a persistenti stati di tristezza, i quali tuttavia
sono reazioni normali a circostanze problematiche croniche. Queste tensioni
croniche o durature possono essere correlate a sintomi depressivi anche più
fortemente dei tanti eventi stressanti della vita limitati nel tempo80. La
relazione fra disagio finanziario e sociale di lungo termine ed esperienze di
tristezza è tanto forte che le persone del quintile socioeconomico più basso
hanno fino a sette volte più probabilità di ricadere nei criteri sintomatologici
per l’MDD che non quelle del quintile più alto81. Alcuni hanno sostenuto che
simili soggetti sono affetti da disturbi depressivi che sono causa del loro
sprofondare nelle condizioni in cui si trovano, ma molti studi accurati hanno
stabilito che è molto più probabile che siano le condizioni sociali svantaggiate
a precedere lo sviluppo di sintomi di depressione piuttosto che il contrario82.
A sostegno dell’idea che gran parte di questa sofferenza sia normale
tristezza, c’è il fatto che quando le persone passano da condizioni di povertà
cronica a condizioni relativamente più prospere il loro livello di afflizione cala.
Durante un vasto studio su bambini di ambiente rurale, fu aperto un casinò,
che fornì un quarto del campione costituito da indiani d’America con cospicue
integrazioni di reddito. I sintomi di tipo depressivo dei bambini le cui famiglie
uscirono dalla povertà diminuirono di circa il 30% nei quattro anni fra prima e
dopo l’apertura del casinò, mentre per quelli rimasti poveri i livelli restarono
stabili83. Nel gruppo che vide migliorare le proprie condizioni finanziarie il
tasso dei sintomi non era alla fine diverso da quello registrato fra i soggetti del
campione che non erano mai stati poveri. Altri studi trovano che redditi in
crescita portano a una diminuzione del numero dei soggetti affetti da
condizioni depressive fra le persone povere84. Questi dati inducono a pensare
che una grande parte dei disturbi depressivi che si manifestano fra le persone
indigenti non sono dovuti a disfunzioni interne e non permangono quando le
condizioni di deprivazione migliorano.
Ci viene qui alla mente un aneddoto raccontatoci da un collega. Un eminente
ricercatore presentò un saggio su alcune donne che a suo dire soffrivano di
disturbo depressivo cronico. Una donna con figli era stata abbandonata dal
marito e si trovava ad affrontare un’enorme e persistente sfida nella situazione
di povertà che era venuta a crearsi. I sintomi di tristezza, preoccupazione,
insonnia e così via erano in lei effettivamente gravi. Poi la donna vinse alla
lotteria, e la vincita le fruttò una notevole quantità di denaro. Meraviglia: i suoi
sintomi cronici scomparvero e questo portò il nostro collega a dubitare che
avesse mai avuto un vero disturbo ma che fosse stata invece
comprensibilmente abbattuta dalle sfide opprimenti con cui faceva i conti.
Concludendo, possiamo dire che le reazioni al lutto sono in effetti un
modello di risposta a numerosi tipi di situazioni di perdita. Una quota
abbastanza elevata di persone sviluppa sintomi in risposta a varie perdite,
inclusi sintomi che per tipo, numero, gravità e durata sarebbero tali da
soddisfare i criteri del DSM per l’MDD; la gravità di questi sintomi è
proporzionata all’importanza della situazione che li ha provocati; e la loro
persistenza è legata a quella del fattore stressante originale o di altri fattori
stressanti aggiuntivi che seguono alla perdita iniziale. A parte i casi di morte di
una persona cara, gli episodi di perdite acute e croniche che portano a intensa
tristezza in alcune persone non disturbate – fine di storie d’amore, perdite di
posti di lavoro o mancate promozioni attese, disastri, malattie e così via – sono
comuni. Quando queste perdite sono pesanti, le persone che le subiscono
riferiscono – e non sorprende – di avvertire sintomi depressivi legati a
tristezza. Né la psichiatria tradizionale (come mostriamo nei Capitoli 3 e 4), né
il senso comune consideravano queste reazioni come disturbi psichiatrici, e
sembrano qualificarle come normali esattamente per le stesse ragioni per cui
l’intensa tristezza è ritenuta normale. Dato il numero delle persone che fanno
esperienza dei tipi di perdite descritti, è facile aspettarsi che numeri cospicui di
persone con tristezza normale risultino soddisfare i criteri del DSM per il
disturbo depressivo in qualche momento della loro vita, producendo così un
numero potenzialmente significativo di diagnosi falso-positive.

2.3 | Prove del fa o che la tristezza è una normale risposta


fisiologica

Come sappiamo che il tipo di tristezza descritto in questo capitolo è


effettivamente normale, cioè il risultato del disegno biologico umano specie-
specifico? Benché possa sembrare ovvio che emozioni negative come tristezza,
collera e paura in risposta a certe situazioni siano frutto della selezione
naturale, alcuni sociologi ritengono invece che queste risposte emotive
riflettano copioni appresi, socialmente costruiti85. Esamineremo tre linee di
prova rilevanti per la questione se l’emozione della tristezza e i sintomi che
l’accompagnano risultino sostanzialmente da meccanismi innati o da modelli
culturali: le risposte alla perdita fra i primati umani e non umani; le risposte del
bambino alla perdita, che si verificano evolutivamente prima che con la
socializzazione egli entri nei copioni emotivi di una cultura; e l’universalità
interculturale delle risposte alla perdita.

2.3.1 | Con nuità a raverso la specie


I primati non umani mostrano una chiara somiglianza con gli umani nel
modo in cui rispondono alla perdita – cioè nei tratti visibili della loro
espressione, nei comportamenti e nel funzionamento cerebrale*. Come
osservò Darwin, le grandi scimmie e gli umani presentano espressioni facciali
simili nelle situazioni connesse alla tristezza, fra cui le sopracciglia alzate, le
palpebre abbassate, il corrugamento orizzontale della fronte e l’allungamento
verso l’esterno e l’abbassamento delle labbra86. Fra le manifestazioni di
tristezza nelle scimmie, inoltre, come negli uomini, ci sono una riduzione
dell’attività locomotoria, agitazione, posizione fetale, cessazione del
comportamento ludico e ritrosia sociale87. E, ciò che è più importante, le
situazioni di perdita che di solito portano a risposte depressive sono simili nei
primati e negli umani. I primati non umani reagiscono alla separazione da loro
intimi – per esempio, un cucciolo scimmia che viene separato dalla madre –
con risposte fisiologiche simili a quelle che si osservano nella tristezza degli
umani, fra cui elevati livelli di cortisolo e ormoni ACTH e danneggiamenti
dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA)88. I primati adulti non umani che
vengono separati dai loro partner sessuali o dai loro compagni mostrano
reazioni simili89.
Anche gli studi sui primati rivelano che i sintomi di depressione* che si
sviluppano dopo le separazioni scompaiono rapidamente quando la situazione
di perdita è risolta, come quando un cucciolo scimmia è riunito alla madre90.
Così, in ambienti che propongono immediati sostituti alla madre raramente i
primati* presentano gravi o durature reazioni in risposta alla separazione da
essa91. Queste risposte di tristezza passeggera alla separazione fanno parte di
meccanismi di reazione innati fra molte specie92. Ma le separazioni prolungate
e quelle segnate da un profondo isolamento possono produrre cambiamenti
neuroanatomici che colpiscono in maniera permanente il funzionamento
cerebrale dei primati non umani, analoghi allo scattare di un vero disturbo
depressivo negli umani93.
I primati non umani condividono con gli umani anche le gerarchie sociali,
con status alti e bassi e situazioni di subordinazione sociale cronica che
portano a reazioni comportamentali e cerebrali simili alle normali risposte
depressive nelle loro controparti umane. I primati non umani subordinati
hanno livelli più elevati, rispetto ai dominanti, di ormoni dello stress e livelli
più bassi di serotonina nel sangue, il composto neurochimico che negli uomini
è legato alla depressione94. La perdita di rango nelle gerarchie sociali dei
primati non umani fa così scattare la produzione dei correlati neurochimici
della depressione95.
Gli studi sperimentali sui primati non umani mostrano come normali
sintomi depressivi possono essere funzione di situazioni sociali. Lo psichiatra
Michael McGuire e i suoi colleghi studiarono i cercopitechi verdi, che
possiedono forti e stabili relazioni di status gerarchico, con un maschio
dominante in ogni gruppo96. I maschi di rango più alto hanno livelli di
serotonina che sono il doppio di quelli degli altri maschi del gruppo. Quando
gli sperimentatori allontanavano i maschi dominanti dal gruppo, i loro livelli di
serotonina calavano, ed essi rifiutavano il cibo, esibivano una diminuita attività,
e agli osservatori umani apparivano depressi. Viceversa, i livelli di serotonina
delle scimmie precedentemente dipendenti, che conseguivano un innalzamento
di status dopo la rimozione del maschio prima dominante, salivano ai valori
che caratterizzavano i maschi dominanti. Risultati analoghi sono stati ottenuti
con scimmie femmine97.
Gli studi sui primati non umani in condizioni di natura confermano le
scoperte della ricerca di laboratorio98. Gli studi del neuroendocrinologo
Robert Sapolsky sui babbuini selvatici viventi in libertà nell’Africa orientale
mostrano che la subordinazione sociale cronica è associata con alti ormoni
dello stress, coerenti con i sintomi depressivi negli umani, e che quando
cambia il rango nelle gerarchie di status, anche i profili fisiologici cambiano99.
Questi, inoltre, dipendono dal contesto sociale: i vantaggi comportamentali e
neurochimici dell’alto rango si riscontrano solo in gerarchie di dominio stabili,
mentre in gerarchie instabili in cui la posizione del dominante è precaria, l’alto
rango non è associato a più bassi ormoni di stress100. Gli umani, dunque,
sembrano avere ereditato dai loro antenati primati una naturale tendenza a
diventare tristi in particolari contesti di perdita di status e di relazione.

2.3.2 | Risposte alla perdita del bambino prima della socializzazione


La tendenza umana a diventare tristi in certi contesti si manifesta presto –
nell’infanzia. In realtà, appare prima ancora che il bambino abbia appreso i
modi culturalmente appropriati per esprimere la tristezza. Lo psichiatra
infantile britannico John Bowlby ha condotto gli studi più autorevoli che
dimostrano come la perdita dell’affetto porti a reazioni depressive tra i
bambini piccoli101. Bowlby sosteneva in maniera convincente che i bambini
sono predisposti ad avere bisogno di forti legami affettivi e che sviluppano
certi tipi di risposte di tristezza come un meccanismo di adattamento quando
vengono separati dalle loro figure di riferimento. Egli osservò che bambini sani
che venivano separati dalle madri dapprima reagivano piangendo e mostrando
altre espressioni di disperazione. Protestavano contro la separazione e
cercavano le loro madri. Queste reazioni di solito suscitavano simpatia nelle
madri, che rispondevano attendendo ai bisogni dei loro bambini. Ma quando le
separazioni venivano protratte, i bambini recedevano e diventavano inattivi e
apatici, ricalcando i sintomi della intensa risposta adulta alla perdita. Le
separazioni protratte davano luogo a uno stato di distacco in cui i piccoli
cessavano di rispondere alle figure parentali anche dopo che venivano
ricongiunti a loro.
Il lavoro di Bowlby indica che la tristezza insorge naturalmente nei neonati
non ancora socializzati* quando subiscono la perdita di affetti stretti.
L’inclinazione a provare ansia di separazione e lutto deriva dal coinvolgimento
in intense relazioni d’amore. La tristezza che si sviluppa dopo la perdita di
queste relazioni sembra essere un aspetto fisiologico della natura umana
normale, già nella fase di presocializzazione. Ma quando la perdita è protratta e
senza rimedi compensatori, può portare a risposte che vanno al di là della
normale tristezza per diventare disturbi depressivi102.

2.3.3 | Uniformità interculturale


La capacità di intensa tristezza in risposta alla perdita sembra essere un tratto
universale che si riscontra in tutti i gruppi umani. Le risposte alla perdita con le
caratteristiche che abbiamo descritto si ritrovano non solo in tutta la storia
occidentale (cfr. Capitolo 3), ma anche nelle società non occidentali. Charles
Darwin fu forse il primo a parlare della universalità delle risposte di tristezza:
«L’espressione dell’afflizione, così come risulta dalla contrazione dei muscoli
del dolore, non è affatto un carattere limitato agli europei, ma si ritrova in tutte
le razze umane»103. Darwin fornì una descrizione del lutto fra gli aborigeni
australiani che può essere paragonata all’espressione della stessa emozione fra
gli europei:
Dopo una sofferenza prolungata, gli occhi appaiono velati e senza espressione e spesso
sono inumiditi di lacrime. Le sopracciglia prendono in molti casi una posizione obliqua
conseguente al fatto che le loro estremità interne vengono sollevate. Ciò produce sulla
fronte la formazione di rughe caratteristiche, del tutto diverse da quelle di un semplice
corrugamento della fronte; quest’ultimo tuttavia, in altri casi, può essere presente da solo.
Gli angoli della bocca si piegano in basso, e questo è un segno di depressione
riconosciuto da tutti, tanto che è diventato quasi proverbiale104.
Le notevoli ricerche successive hanno confermato le osservazioni di Darwin
sulla mimica facciale, soprattutto la contrazione dei muscoli agli angoli della
bocca, che è riconosciuta nelle varie culture come espressione di lutto. Gli
studi più importanti provengono dalle ricerche dello psicologo Paul Ekman
sulle emozioni umane di base, fra cui la tristezza. In particolare, per testare
l’universalità delle emozioni, Ekman studia le espressioni facciali, che sono
meno suscettibili alle influenze culturali delle formulazioni verbali delle
emozioni.
In una delle sue ricerche, Ekman chiese a delle persone di mostrare come si
atteggerebbero le loro facce se si sentissero tristi «perché tuo figlio è
morto»105. Le espressioni facciali assunte furono fotografate. Quelle di
tristezza, in queste fotografie, sono marcate dagli occhi abbassati con le labbra
superiori pendenti o tirate, entrambe le sopracciglia abbassate, le mascelle
chiuse o leggermente aperte, e le labbra inferiori anch’esse abbassate. Le
fotografie furono poi mostrate a persone di differenti culture, alle quali fu
chiesto di scegliere fra varie ipotesi proposte la situazione che aveva fatto
scattare l’emozione raffigurata (la perdita di un figlio era usata per la tristezza).
I risultati di Ekman indicano una prevalente concordanza fra le persone di
diversi paesi circa l’emozione che ogni fotografia esprime. Tassi altissimi di
coincidenza, che andavano dal 73 al 90%, furono registrati in cinque culture
differenti (Giappone, Brasile, Cile, Argentina e Stati Uniti); e una coincidenza
ancora più alta fu riscontrata all’interno di ogni singola cultura nel classificare
le fotografie della tristezza106.
Un altro studio di 10 culture (Estonia, Germania, Grecia, Hong Kong, Italia,
Giappone, Scozia, Sumatra, Turchia e Stati Uniti)* indicò fra il 76 e il 92% di
concordanza sulle espressioni facciali di tristezza107.
Per rispondere alle obiezioni che i risultati delle sue ricerche dimostravano in
realtà soltanto l’impatto di esperienze comuni di apprendimento dovute
all’influenza dei media a diffusione mondiale, Ekman studiò la cultura Fore
(Papua Nuova Guinea), che non era stata mai esposta ad alcun tipo di mezzi di
comunicazione e non aveva avuto contatti con culture esterne108. Mostrò ad
alcuni soggetti della popolazione Fore fotografie di tre volti che esprimevano
tre diverse emozioni: tristezza, collera e sorpresa. Raccontò quindi una storia
in cui era coinvolta una sola di queste emozioni e domandò quale delle
fotografie corrispondeva meglio alla storia. Per esempio, domandò ai
partecipanti all’esperimento quale immagine rappresentasse meglio di tutte un
uomo il cui figlio era morto. Trovò che il 79% degli interrogati di Fore –
popolazione preletterata, isolata – concordava con gli appartenenti a culture
letterate sulla faccia che meglio corrispondeva alla tristezza della storia letta a
loro. Non poggiando sull’uso di parole occidentali, questa ricerca di Ekman è
immune dalle critiche che possano essersi infiltrati nei risultati preconcetti
occidentali.
Ekman e il suo collega Wallace Friesen chiesero anche ai Fore di mostrare le
espressioni facciali che avrebbero assunto se fossero state le persone descritte
nelle storie raccontate (per esempio, se i loro figli fossero morti). Gli studenti
americani poterono valutare accuratamente quali emozioni rappresentavano le
risposte filmate dei neoguineani. Inoltre, i voluminosi filmati di Ekman su
questa cultura, e di altre della Papua Nuova Guinea, mostravano le stesse
espressioni di tristezza che si riscontravano altrove nel mondo. Le scoperte di
Ekman indicano che alcuni tratti innati dell’espressione della tristezza sono
presenti in tutte le culture, presumibilmente perché derivano dall’evoluzione
dell’uomo come specie.

2.4 | Variazione culturale e tristezza normale

Le scoperte venute fuori dagli studi sui primati, sui bambini molto piccoli e
sulle varie culture indicano tutte che le espressioni della tristezza hanno una
base biologica e non sono dovute solo a copioni sociali. In particolare, gli
umani appaiono biologicamente programmati per diventare tristi in certi tipi di
situazioni, soprattutto in quelle che comportano perdite di affetti stretti, di
status sociale o di sistemi di significato. Tuttavia, le radici biologiche della
tristezza normale non escludono affatto importanti influenze sociali sul
quando o il come la tristezza viene espressa. Poiché i significati mediano le
risposte di tristezza e le culture danno forma ai significati, la tristezza normale
è intrinsecamente un prodotto unitario della biologia e della cultura (nonché di
variazioni e apprendimento individuale).

2.4.1 | Significa culturali e meccanismi biologici come complementari fra loro


Cultura e disegno biologico non sempre sono antitetici l’una con l’altro;
quando si tratta di emozioni, sono complementari. La cultura stessa è una
capacità umana evoluta: gli esseri umani sono costruiti in modo da essere
capaci di un certo grado di socializzazione e interiorizzazione di valori,
significati e regole sociali. Come sottolineato dal sociologo Jonathan Turner, le
persone sono strutturate per prestare attenzione ai simboli culturali, ai ruoli
sociali e ai bisogni dell’interazione109. Alcuni meccanismi evoluti, come le
emozioni, comportano risposte a questi significati. Così il significato culturale
gioca un ruolo essenziale e forse anche mirato nel dare forma all’espressione
finale dell’emozione.
In realtà, molte funzioni mentali sono biologicamente selezionate per essere
suscettibili di variazione culturale. Per esempio, la capacità di linguaggio
sembra essere un tratto umano mirato*, ma i dettagli della grammatica e
naturalmente i suoni specifici delle parole di una lingua, nonché il modo in cui
questi suoni sono associati ai concetti, variano da cultura a cultura. Similmente,
la gelosia è un’emozione universale biologicamente selezionata che si riscontra
in tutte le società umane, ma i suoi obiettivi specifici variano ampiamente. In
alcune culture monogame, chiunque tenti di fare sesso con la sposa di un altro
è obiettivo di simile sentimento; in alcune culture, certi stranieri cui si vuole
mostrare rispetto ne sono esenti; e in altre culture, una parte cospicua della
comunità non è soggetta a gelosia. La lingua e la gelosia, tuttavia, sono capacità
selezionate dalla natura110. Come i linguisti suggeriscono, i meccanismi
soggiacenti a simili funzioni possono essere mirati a consentire l’«impostazione
dei parametri» in cui la cultura stabilisce la specifica forma che assumerà
l’espressione della struttura generale, evoluta.

2.4.2 | Cultura e definizioni di perdita


Le categorie che fanno scattare la tristezza – le perdite di affetti, di status e di
significato – sono comuni in tutte le società111. Il «mal di fegato», metafora
della tristezza fra i malesi, è illuminante: «Un malese perde qualcosa a cui tiene;
ha una brutta nottata in una casa da gioco; una delle sue proprietà è
danneggiata in malo modo; ha una bega con uno a cui vuole bene; il padre
muore; o la sua amante gli è infedele; una qualsiasi di queste cose gli provoca
‘mal di fegato’»112.
Nonostante tutto, le influenze della cultura hanno modellato nel corso
dell’evoluzione le risposte alle perdite in vari modi. In primo luogo, i significati
culturali influenzano quali eventi ‘particolari’ valgano come perdite. E
influenzano anche i fattori contestuali, come l’umiliazione e il coinvolgimento,
che determinano la gravità della perdita. Nella maggior parte dei gruppi sociali
degli Stati Uniti, per esempio, il fatto che una donna non riesca a mettere al
mondo un figlio maschio non sarebbe ragione di intensa tristezza. In
Zimbabwe, invece, il significato di una simile mancanza comporta un serio
peggioramento dello status sociale, l’indesiderabilità di quella donna come
partner matrimoniale e un possibile divorzio. Di conseguenza, il fatto di non
riuscire ad avere un figlio maschio è, per le donne dello Zimbabwe, fonte di
gravi reazioni depressive113. In India, fra le cause principali di suicidio nel 1990
c’erano le liti con i suoceri e le dispute per la dote, che lì rappresentano perdite
importanti ma che in altre società non necessariamente provocherebbero
risposte estreme come il suicidio114. Il fatto che questi significati culturali
determinino in quale misura un evento ricada in una categoria data
naturalmente non è affatto in contraddizione con il fatto che le stesse categorie
basilari siano date dalla biologia. La natura fornisce l’impianto degli elementi
che fanno scattare le risposte alla perdita, ma è la cultura che riempie di
contenuto quell’impianto.
2.4.3 | Configurazione culturale delle risposte alla perdita
I valori culturali stabiliscono anche i parametri delle risposte che possono
essere considerate proporzionate alla perdita. Fissano la scala dell’intensità e
durata delle risposte appropriate, determinano in che misura le persone siano
emotivamente espressive e quali aspetti della risposta le manifestazioni
pubbliche dell’emozione debbano enfatizzare. Le stesse esperienze emotive
sono in qualche grado malleabili: alcune culture spingono i loro membri a
esternare nelle loro società le emozioni, altre incoraggiano a reprimere e
minimizzare le emozioni.
Tutte le culture forniscono norme o ‘copioni’ che guidano l’espressione
dell’emozione all’esterno. Molte culture non occidentali incoraggiano
l’espressione della tristezza in cerimonie pubbliche e rituali organizzati che
danno forma alla natura dell’esibizione. Fra i Kaluli della Nuova Guinea, per
esempio, le perdite non danno luogo a sentimenti di vergogna personale o di
colpa, ma a collera rivolta verso l’esterno, quasi che il soggetto rivendichi un
risarcimento per la perdita115. Le cerimonie pubbliche permettono di
esprimere questi sentimenti nel pianto, con canti e il pagamento di un
risarcimento. Altre culture, come i Navaho, scoraggiano fortemente
l’esibizione di una tristezza estrema116.
Le norme culturali toccano anche quella che è vista come la durata giusta
delle risposte alla perdita. Fra i Navaho, le espressioni esterne del dolore sono
limitate a quattro giorni117. Dalla persona sopravvissuta ci si aspetta che non
mostri dolore o faccia riferimento al defunto oltre questo breve periodo.
Viceversa, le società mediterranee tradizionalmente imponevano alle vedove
sopravvissute lunghi periodi di lutto che potevano durare molti anni118.
È tuttavia importante distinguere le norme culturali per l’espressione delle
emozioni dalle emozioni in quanto tali. Per esempio, fra gli iraniani: «Se uno
della tua famiglia muore, devi agire effettivamente da persona afflitta, gemere e
protestare, altrimenti sarai accusato di avere sentimenti fiacchi nei confronti del
defunto, quali che siano i tuoi sentimenti interni, soprattutto se erediti
qualcosa»119. In casi estremi, le norme culturali possono anche trasformare le
espressioni di dolore in allegria. I balinesi, per esempio, rispondono al lutto
ridendo120. La veglia funebre irlandese è un altro esempio molto noto. Ma
anche quando le norme culturali impongono risposte espressive incompatibili
con la tristezza, esse la riconoscono come il sentimento caratteristico
soggiacente; così i balinesi credono che la tristezza sia la risposta naturale alla
perdita, ma che la sua espressione debba essere combattuta perché è di
detrimento alla salute e porta gli altri a essere tristi121.
Gli antropologi di solito contrappongono l’espressione psicologica della
depressione nell’Occidente alla sua manifestazione somatica nelle culture non
occidentali122. Per esempio, le popolazioni cinesi tendono a concentrarsi, dopo
la perdita, su espressioni corporee di sofferenza che spesso si accompagnano
all’intensa tristezza, come il mal di schiena, il mal di stomaco, il mal di testa e
simili123. Ma nonostante le diverse manifestazioni esterne, le soggiacenti
emozioni comuni sembrano essere universali. I pazienti cinesi sono
consapevoli degli aspetti psicologici dei loro sentimenti, ma le norme sociali
impongono loro di esprimere i problemi in termini somatici quando cercano
aiuto dai medici124. Gli appartenenti a queste culture comunicano l’intensa
tristezza con espressioni facciali e comportamentali al pari degli occidentali e,
specificamente interrogati, dichiarano le stesse esperienze psicologiche ed
emotive. I loro sintomi, inoltre, sono sensibili agli stessi farmaci che vengono
prescritti per la depressione nelle società occidentali125.
Le tanto variabili espressioni culturali di tristezza sono coerenti con
l’esistenza di un soggiacente stato emotivo comune. In effetti, lo studio delle
variazioni culturali della depressione non sarebbe nemmeno possibile senza
una qualche sottostante idea di qualcosa di universale, poiché non avrebbe
senso affermare che alcune culture esprimono la depressione attraverso
sintomi somatici e altre attraverso sintomi psicologici se non si ha una previa
concezione della depressione che trascenda la sua espressione sintomatica
culturale.

2.4.4 | Cultura e tassi di depressione


Alcuni autori obiettano che se i sintomi depressivi sono il risultato di un
disegno biologico, non dovrebbero esserci variazioni sociali così cospicue nel
tasso di sintomi della depressione126. Questa obiezione vede erroneamente la
tristezza come un fenomeno che si verifica indipendentemente dai concreti
eventi scatenanti e le loro interpretazioni. Ma i contesti culturali influenzano la
frequenza con cui le persone sono esposte a perdite che possono far scattare la
tristezza, la disponibilità del sostegno sociale e l’interpretazione di quelle
perdite; di conseguenza, le culture differiscono anche nel tasso di tristezza
normale127.
Gli studi interculturali del sociologo britannico George Brown, in cui si
riportano differenze del tasso di risposte depressive anche di dieci volte da una
società all’altra, mostrano come queste variazioni sono dovute in gran parte
alla diversa esposizione a quegli eventi di perdita che causano depressione
come reazione naturale, quali la perdita di legami stretti per morte o
separazione, la presenza di fattori stressanti cronici e l’incapacità di raggiungere
obiettivi centrali nel sistema di significati della specifica cultura. C’è una
corrispondenza quasi perfetta fra il numero di gravi eventi di perdita che
colpiscono i membri delle diverse società e i tassi di sintomi depressivi
risultanti128. Il tasso più basso è rappresentato da quel solo 3% di donne di
un’area rurale di lingua basca della Spagna che si sente depressa; queste donne
non sono colpite da quasi nessun evento grave nel corso di un anno129. Il tasso
più alto è rappresentato da quell’oltre 30% di donne di un agglomerato urbano
dello Zimbabwe che denunciano sentimenti di depressione: in quest’area le
donne soffrono frequentemente di gravi eventi di perdita130.
Ancora: pure le reazioni sociali verso coloro che subiscono una perdita
incidono sui tassi di tristezza. Forti legami interpersonali e reti di sostegno
sociale, nonché potenti rituali religiosi collettivi e sistemi di credenze, aiutano a
rendere le persone meno vulnerabili alla perdita131. I Kaluli, per esempio,
celebrano cerimonie di gruppo ritualizzate dopo determinati eventi di perdita,
che probabilmente spiegano l’apparente sporadicità della tristezza cronica in
questa società132. Alcune società impongono la sostituzione delle mogli
decedute con una nuova partner, spesso una parente – la Bibbia, per esempio,
parla della pratica ebraica delle vedove che sposavano i fratelli dei loro mariti
morti (levirato) –, e in queste società il lutto sembra essere di durata
relativamente breve133.

2.4.5 | Rela vità culturale della soglia fra normalità e disturbo


Alcuni sostengono che, poiché determina la proporzionalità di una risposta
di tristezza, la cultura determina anche la soglia fra la tristezza normale e la
tristezza patologica, e che quindi non esiste una distinzione biologica obiettiva
transculturale fra normalità e disfunzione134. E affermano che una stessa
risposta può essere normale in una cultura e patologica in un’altra, implicando
la relatività culturale della normalità.
È vero che queste soglie possono variare, ma la ragione non è che le culture
direttamente o arbitrariamente definiscono la normalità e la patologia.
Piuttosto, attraverso la socializzazione le culture modellano la forma in cui le
risposte di tristezza normale si presenteranno nei loro membri, stabilendo i
parametri della risposta alla perdita. Cioè, in culture diverse esistono diverse
soglie per la diagnosi di disturbo perché ogni cultura determina differenti
intensità e durate della risposta agli specifici fattori che scatenano la tristezza.
Nel giudicare se un individuo risponde in maniera normale o no, bisogna tener
conto di questi significati variabili.
Per esempio, la perdita sofferta da una moderna donna americana che diventi
depressa perché ha perso i contatti con un uomo da poco conosciuto e con cui
ha intrattenuto un rapporto non è sufficiente a spiegare i sintomi depressivi. I
valori culturali non definiscono una situazione del genere come umiliante né
portano ad altre stigmatizzazioni sociali, e quindi la risposta depressiva della
donna, in assenza di speciali significati personali, può essere considerata come
patologica. In molte culture islamiche, al contrario, una ragazza che abbia
avuto un contatto fisico con un uomo che poi non sposa si trova esposta a una
stigmatizzazione e degradazione sociale; qualsiasi toccamento, per quanto
innocuo secondo gli standard occidentali, può portare a serie conseguenze
sociali135. In questo caso la risposta di tristezza della donna può essere vista
come normale.
La questione, dunque, non si riduce al fatto che ciò che può rappresentare
una patologia nel caso della donna occidentale può indicare il funzionamento
normale dei meccanismi di risposta alla perdita nella donna musulmana. La
diversità nei giudizi culturali sulla normalità è asata piuttosto sulla
proporzionalità della risposta alla gravità della perdita: la differenza nella
diagnosi nasce proprio dal fatto che i significati locali implicano che una certa
risposta può essere il risultato di meccanismi fisiologici normali in un caso e di
patologia in un altro. Le norme culturali sono parte delle basi da cui dedurre se
la definizione migliore di una risposta è in termini di disegno naturale o di
disfunzione. La cultura e la biologia non sono due spiegazioni contrapposte
ma parti complementari di un’unica spiegazione: ciascuna ha bisogno dell’altra
per ottenere spiegazioni esaurienti e coerenti delle risposte depressive.

2.5 | Funzioni ada a ve delle risposte non patologiche alla


perdita

I dati fin qui esposti inducono a pensare che la tristezza dopo una perdita sia
un meccanismo approntato dalla natura umana e rispondono alle più comuni
obiezioni alla tesi opposta. Ma non abbiamo ancora toccato il più profondo e
inquietante interrogativo sulla tristezza: perché la tristezza esiste? Quale valore
per la sopravvivenza offriva questa penosa e debilitante emozione da far sì che
fosse selezionata dalla natura?
Questo argomento rimane controverso, e non c’è al momento una risposta
abbastanza condivisa alla domanda sulla funzione biologica della tristezza. In
alcuni casi, la funzione biologica dei meccanismi selezionati dalla natura è
evidente: per esempio, non può essere accidentale che gli occhi vedano, le mani
abbiano capacità di presa, i piedi camminino o i denti mastichino, ed è chiaro
come questi benefici effetti spieghino a sufficienza l’esistenza dei rispettivi
meccanismi grazie alla selezione naturale. Ma in altri casi, benché sia evidente
che un certo elemento è biologicamente mirato, abbiamo scarsa conoscenza
effettiva della sua funzione. Per esempio, prima che i famosi esperimenti del
medico William Harvey negli anni Venti del Seicento dimostrassero la
circolazione del sangue, nessuno capiva appieno la funzione del cuore, anche
se tutti davano per scontato che dovesse servire a qualcosa. Ancora oggi
abbiamo scarsa comprensione della funzione del dormire, anche se il dormire
è chiaramente un elemento mirato del funzionamento umano. Sotto questo
aspetto, la tristezza è un po’ come il sonno: la sua funzione non è evidente, ma
la sua natura finalizzata a qualcosa lo è. Esistono tuttavia alcune plausibili
ipotesi sulle funzioni della tristezza, e suggeriscono che, nonostante il suo
carattere penoso, la tristezza possa avere uno specifico ruolo biologico.
Il problema è che le esperienze depressive sembrano all’apparenza dannose
per il benessere riproduttivo. Le persone intensamente tristi sentono un
indebolito spirito d’iniziativa, trovano un minor piacere nella vita che le motivi
e tendono ad arretrare davanti alle attività quotidiane. L’umore positivo, al
contrario, favorisce le attività richieste per avere partner sessuali, cibo, riparo e
altre risorse che accrescono la sopravvivenza e la riproduzione. In condizioni
ordinarie, dunque, livelli continuativi di umore negativo dovrebbero essere
selettivamente svantaggiosi. Se le risposte di tristezza sono state selezionate
naturalmente, devono esserci state delle circostanze speciali in cui i benefici
dell’avvertire temporaneamente questi sintomi superavano gli evidenti costi*.
In quei particolari contesti, e solo in quelli, gli stati di umore basso devono
aver aumentato il benessere proprio ‘perché’ rendevano le persone meno
attive, meno motivate ecc.136. L’analogia migliore che possiamo richiamare è
con l’acuta sofferenza seguente a un incidente, che ferma l’attività ma è
adattativa, perché aiuta a evitare ulteriori danni ai tessuti. La sofferenza
cronica, invece, non correlata ad alcun sottostante danno fisiologico sarebbe
dannosa, allo stesso modo in cui il disturbo depressivo è certamente
dannoso137.
Nel considerare la funzione della tristezza, è importante ricordare che la
funzione di un meccanismo biologico non necessariamente dev’essere
benefico nell’ambiente attuale, anche se spesso lo è. Esso dev’essere stato
benefico nel passato, spiegando così perché il meccanismo sottostante fu
selezionato e ora esiste. Quello che gli psicologi evolutivi John Tooby e Leda
Cosmides chiamano l’«ambiente dell’adattamento evolutivo» ( Environment of
Evolutionary Adaptation, EEA), esistente probabilmente all’epoca in cui gli
umani vivevano in società di cacciatori-raccoglitori nelle pianure africane,
prima o durante il Pleistocene fra i 2 milioni e i 10.000 anni fa, fu responsabile
della conformazione di molti dei tratti genetici che gli umani conservano
tuttora138. La tristezza è mirata ad affrontare contesti sorti in quelle condizioni
ancestrali, che negli ambienti attuali potrebbero essere meno evidenti.
Analogamente, la voglia umana di dolciumi, di sale e di grassi può apparire
strana ora che ci sono abbondanti fonti di calorie e quella voglia porta a
obesità e malattie, ma fu biologicamente costruita quando gli ambienti umani
erano marcati da scarsità di calorie. Di conseguenza, fa oggi parte della
normale natura umana godere di questi gusti, quali che possano essere i
precetti di una sana nutrizione.
Tenendo a mente queste cautele, possiamo chiederci: messi a confronto con
risposte alternative alla perdita, quali benefici possono aver conferito i sintomi
depressivi che condussero alla loro selezione naturale nel corso dell’evoluzione
umana?

2.5.1 | L’a razione del sostegno sociale


Una spiegazione della funzione adattativa dei sentimenti depressivi si
concentra sul fatto che il comportamento emotivo comunica agli altri fuori di
sé i propri stati interiori, così le persone depresse attirano il sostegno sociale
dopo la perdita di affetti Lo psichiatra australiano Aubrey Lewis fu il primo a
proporre che le reazioni depressive potessero funzionare come un «grido di
aiuto» che invoca attenzione allo stato di bisogno e fa scattare il sostegno
sociale139. Il ritiro, l’inibizione e i sintomi neurovegetativi della depressione
esprimono la malattia e segnalano agli altri di riportare nel gruppo l’individuo
sofferente140. L’isolamento sociale doveva essere particolarmente minaccioso
nei gruppi umani ermeticamente chiusi, con individui del tutto interdipendenti,
che esistevano durante l’EEA, e rendere quindi plausibilmente positiva una
risposta sociale. Ci sono casi recenti che indicano, ad esempio, che la
depressione post partum insorge in circostanze – come la salute fragile del
neonato o la carenza di sostegno sociale – in cui può funzionare come segnale
che le madri ridurranno il loro impegno di cura del bambino fino a che non
ricevano maggiore sostegno dagli altri141.
Alcuni respingono l’idea che la depressione fosse mirata ad attirare il
sostegno sociale, in considerazione del fatto – confermato dall’esperienza
empirica – che di solito la gente evita e allontana, anziché sostenere, le persone
depresse142. Forse, invece, è solo la tristezza non patologica che si manifesta
nelle situazioni appropriate ad attirare il sostegno sociale. In realtà, la forte
mobilitazione delle espressioni rituali di partecipazione si ha universalmente
dopo lutti e altre importanti perdite143. Viceversa, le depressioni patologiche
che comportano gravi e duraturi stati di avvilimento senza sufficiente
motivazione nella situazione concreta tendono a tener lontane o infastidire la
gente intorno e a ridurre il sostegno sociale, portando all’isolamento e al rifiuto
delle persone afflitte e a svantaggi in termini di benessere.
Oltre all’ipotesi dell’attrazione del sostegno, che si presta molto bene a
spiegare la tristezza dopo la perdita di legami intimi, sono state avanzate altre
teorie sulle funzioni della tristezza. Una è che i sintomi depressivi della
disperazione potevano servire a proteggere i bambini piccoli subito dopo la
perdita dei genitori. La disperazione dei piccoli che segue alla protesta per la
dipartita della madre attiva uno stato inibitorio, calmo, che nella fase
precedente alla civilizzazione potrebbe aver impedito alla prole abbandonata di
attirare su di sé l’attenzione dei predatori144. Un’altra teoria sottolinea invece il
momento iniziale della protesta chiassosa, che portava a una conclusione
molto diversa: Darwin, per esempio, spiegava le reazioni del bambino alla
separazione – cioè i suoi strilli – come la richiesta impellente di attenzione145.
Probabilmente tutt’e due le strategie hanno un proprio obiettivo in momenti
diversi dopo la separazione.
John Bowlby proponeva un’altra autorevole ipotesi della natura adattativa
della depressione dopo la perdita di affetti146. Per Bowlby, la prospettiva della
sofferenza dei sentimenti depressivi conseguenti alla perdita di affetti stimola
le persone a cercare con forza il ricongiungimento con la persona cara perduta
e a non rinunciare al legame perso. L’angoscia dei pensieri di perdita
permetteva ai vincoli sociali di persistere durante le frequenti assenze
temporanee di una persona durante l’EEA e promuoveva così il mantenimento
delle relazioni sociali. Da questo punto di vista, l’afflizione dopo la morte di
una persona cara era un sottoprodotto delle risposte adattative alla perdita
dell’affetto che non era permanente: una spiegazione che è stata largamente
adottata147.

2.5.2 | Protezione dall’aggressione dopo le perdite di status


Gli studi etologici mostrano che la capacità di diventare depressi, come
indicato dal calo del testosterone, dall’aumento del cortisolo e dal
rallentamento dei comportamenti, è profondamente radicata nel cervello
rettiliano ed è presente nella maggior parte dei vertebrati e in tutti i
mammiferi148. Queste risposte depressive potrebbero essersi sviluppate in gran
parte come segnali di accettazione di sconfitta nei conflitti di status, che sono
onnipresenti nel mondo animale. Lo psichiatra britannico John Price e i suoi
colleghi hanno sviluppato la più elaborata spiegazione di questo tipo di
funzione adattativa. Essi teorizzano che i comportamenti, l’umore e i pensieri
negativi sono nati come risposte adattative a situazioni di sconfitta e
subordinazione149. In effetti, Price vede la depressione come parte di
un’«involontaria strategia subordinata» (Involuntary Subordinate Strategy, ISS), che
si riferisce a uno stato di azione inibita caratterizzata da ritiro, mancanza di
autoaffermazione, nervosismo e ansia (in altre parole, Price chiama la ISS
«comportamento agonistico rituale»)150. Price collega le risposte di ISS ad
algoritmi cerebrali primordiali che valutano le forze, le debolezze, il potere e il
rango relativi degli organismi e adattano di conseguenza le azioni in modo da
produrre risposte di fuga, di lotta o di sottomissione negli scontri con altri
animali. Il sentimento depressivo è un modo in cui il comportamento è
regolato a seguito di queste valutazioni. Gli animali sviluppano risposte di ISS
quando giudicano sé stessi più deboli dei loro concorrenti. Essi smettono di
competere con l’animale dominante, accettano il loro status di sconfitti e
segnalano la loro sottomissione alla parte vincente. Gli aspetti di inibizione
delle reazioni depressive sono risposte adattative a posizioni subordinate da cui
non c’è possibilità di sfuggire151.
La parte sconfitta, che non è riuscita a difendere il territorio o ha perso nel
conflitto di status, potrebbe anche rispondere con nuova collera e aggressività
anziché riconoscere il vincitore. Ma l’espressione aperta di emozioni e
comportamenti aggressivi può portare a gravi ferite o alla morte. Molti dei
sintomi dell’ISS includono comportamenti che comunicano che il perdente
non sfiderà il vincitore, non tenterà di conquistare il dominio e rinuncerà a
combattere. Le risposte di sottomissione proteggono il perdente da ulteriori
aggressioni assicurando all’animale dominante che può sentirsi al riparo da
altre sfide e non ha quindi motivo di sentirsi minacciato dalla continua
presenza del perdente. I subordinati che danno risposte di sottomissione
hanno migliori possibilità di sopravvivere e riprodursi di quelli che rispondono
con maggiore aggressività.
La teoria dell’ISS spiega parecchi aspetti delle risposte depressive. Prima di
tutto, spiega la specificità della situazione delle risposte depressive: esse sono
adattative solo quando affrontano una potenziale sconfitta da avversari più
forti. L’inibizione dell’autoaffermazione che è nel cuore dell’ISS sarebbe,
dunque, selezionata dalla natura perché scatti in quei contesti. In secondo
luogo, è compatibile con la ben documentata scoperta che la depressione è più
comune fra le persone e altri animali che sono al fondo delle gerarchie di status
e spiega la persistenza dei sentimenti depressivi fra quelli che si trovano in
perduranti stati di subordinazione. Come si sa, in quasi tutte le società le donne
più degli uomini occupano posizioni subordinate, il che può spiegare in parte il
più alto tasso di depressione riscontrato fra le donne152. Infine, la teoria è
coerente con gli studi citati in precedenza secondo cui la tristezza è una
risposta al calo di status.

2.5.3 | Promozione del disimpegno da a vità improdu ve


Un’altra situazione comune che produce tristezza si ha quando non si riesce
a ottenere una risorsa considerata cruciale153. Le esperienze depressive
possono essere adattative anche quando distolgono una persona dal suo
investimento in sforzi improduttivi, in mete irraggiungibili, o in obiettivi con
scarsa possibilità di successo. In questo modo esse contribuiscono a rendere
possibile l’eventuale nuovo impegno in altre attività più produttive154. La
sospensione dell’attività corrente, accompagnata da una intensa attività di
ruminazione tipica della depressione, può agevolare il difficile dirottamento
dell’energia su nuovi progetti o affetti155.
Le risposte di tristezza si presentano soprattutto in fasi critiche della vita in
cui le persone sono costrette a ripensare al loro futuro, e in questo contesto
possono essere adattative aiutando i soggetti a evitare decisioni precipitose, a
esaminare tutti i possibili pericoli e a non sovrastimare le possibilità di
successo nelle nuove attività. «In questa situazione», secondo lo psichiatra
Randolph Nesse, «il pessimismo, la mancanza di energia e il timore possono
impedire la calamità, anche se perpetuano miseria»156. La natura
prevalentemente transitoria della tristezza normale permette all’individuo di
riemergere adeguatamente motivato da nuovi obiettivi. Viceversa, i disturbi
depressivi comportano una perdita di motivazione talmente grave che non c’è
possibilità di incanalare gli sforzi verso nuove attività.
Le risposte depressive che si manifestano dopo la perdita di una persona
cara, la sconfitta in una competizione di status, il crollo di sistemi di significato
o il fallimento di lotte per degli obiettivi possono quindi avere una varietà di
funzioni che spiegano perché queste risposte furono selezionate dalla natura.
Una scarsa manifestazione degli affetti dopo la perdita di legame affettivo può
attirare sostegno e simpatia da parte degli altri, e la sua previsione può
sostenere le relazioni. La sottomissione delle persone depresse in posizioni
subordinate può impedire la punizione da parte dei dominanti e promuovere la
sopravvivenza. Una motivazione indebolita e una lentezza fisiologica possono
disimpegnare da forme improduttive di attività e permettere un nuovo
impegno in iniziative più produttive. Studi recenti indicano che situazioni
diverse producono tipi particolari di sintomi: perdite a livello sociale sono
seguite da grida e sofferenza emotiva, mentre il mancato raggiungimento di
obiettivi è associato a pessimismo, affaticamento e anedonia157. Le spiegazioni
qui considerate, pertanto, non si escludono fra loro: situazioni diverse possono
produrre distinte reazioni che corrispondono a specifiche sfide adattative.
Benché nessuna di queste spiegazioni sia provata, l’esistenza di ragioni
plausibili per le funzioni adattative della tristezza dà forza alla tesi che le
risposte di tristezza proporzionate al contesto sono uno strumento mirato
della natura umana.

2.6 | Conclusione

In contrasto con il riconoscimento altrimenti universale che è naturale per le


persone diventare tristi dopo perdite di varia natura, il DSM diagnostica tutte
quelle risposte alla perdita che soddisfano i suoi criteri sintomatologici come
disturbi, escludendo solo il lutto come caso riconosciuto di intensa tristezza
normale. Tuttavia una gran numero di prove conferma il sensato giudizio
comune secondo cui molte persone che presentano sintomi di depressione
dopo una perdita, anche se corrispondono ai criteri di disturbo del DSM, non
sono affatto disturbate ma danno semplicemente una risposta programmata
dalla biologia. La tristezza dopo una perdita si riscontra in tutte le società, fra i
bambini piccoli e anche fra i nostri più vicini cugini primati: con tutta evidenza
è biologicamente radicata e non soltanto creazione di copioni sociali.
Le differenze fra i possibili vantaggi delle risposte depressive nell’EEA e le
esperienze dell’uomo attuale meritano di essere particolarmente sottolineate. I
meccanismi di risposta alla perdita sarebbero stati formati in ambienti che
comportavano interazioni dentro piccoli gruppi estremamente chiusi, forti
rituali di sostegno sociale dopo la perdita, chiare gerarchie sociali e obiettivi
ben definiti. Viceversa, gli esseri umani di oggi si trovano davanti ad ambienti
di nuovo tipo, che pongono sfide a cui le risposte alla perdita ereditate non
erano state attrezzate a far fronte158. Le società moderne comportano molte
interazioni scivolose e mutevoli che vengono spesso perdute, gerarchie di
status multiple che mettono continuamente sotto esame il merito di ciascuno,
una mobilità che allontana dalla parentela stretta, che è quindi meno in grado
di fornire sostegno sociale dopo le perdite, e pochi rituali comuni di solidarietà
per affrontare la perdita. Inoltre, le ideologie che insistono sulla responsabilità
personale più che sul destino, su una divinità, o sulla responsabilità collettiva,
aumentano le possibilità che le persone biasimino sé stesse per i loro
fallimenti. L’esposizione ai mass media permette confronti di status non solo
entro gruppi locali ben definiti ma anche con innumerevoli altri, molti dei quali
appariranno sempre in una posizione più alta rispetto a sé stessi159. Questa
esposizione può anche spingere al perseguimento di obiettivi irraggiungibili,
perché poche persone hanno i mezzi per conseguire gli ideali di bellezza,
ricchezza, fama e successo proposti quotidianamente al pubblico160. In questi
casi, i meccanismi di risposta alla perdita si trovano a operare propriamente in
ambienti non previsti dalla selezione naturale. Benché la terapia possa essere di
aiuto nell’affrontare queste situazioni, non c’è nulla di sbagliato dal punto di
vista medico in individui che, transitoriamente, divengono tristi in questi
frangenti.
Contrariamente alla tristezza normale, la depressione veramente patologica
non fu selezionata dalla natura: essa indica invece che qualcosa non ha
funzionato a dovere nei meccanismi apprestati per rispondere alla perdita.
Queste condizioni causate da una disfunzione tendono a essere ricorrenti,
croniche e non proporzionate a perdite reali, anziché essere specifiche di un
contesto e limitate nel tempo. Queste condizioni non furono mai adattative nel
passato e certamente non sono utili nel presente.
La distinzione fra tristezza normale e disturbo depressivo è stata parte della
letteratura e della scienza occidentale fin dai primi documenti registrati. Solo in
tempi recenti essa è stata largamente erosa, fino a rischiare di essere
sostanzialmente perduta. I capitoli che seguono ripercorrono questa
trasformazione ed esplorano i passi con cui le grandi aree della intensa
tristezza normale sono finite per essere assorbite nel disturbo depressivo della
diagnosi psichiatrica contemporanea.

Note
1 | Shelley, 1824/1986.↵
2 | Coleridge, 1805/1986.↵
3 | Keller e Nesse, 2006.↵
4 | Nesse, 2006.↵
5 | Brown, 2002; Dohrenwend, 2000.↵
6 | Per es. Turner, Wheaton, e Lloyd, 1995; Wheaton, 1999.↵
7 | Grinker e Spiegel, 1945.↵
8 | Kendler, Karkowski, e Prscott, 1999.↵
9 | Per es. Coyne, 1992; Oatley e Bolton, 1985; Gilbert, 1992.↵
10 | Turner, 2000.↵
11 | Brown, 1993.↵
12 | Iliade, 18, 22-28 (trad. di Rosa Calzecchi Onesti).↵
13 | L’epopea di Gilgamesh.↵
14 | Clayton, 1982.↵
15 | Clayton, 1998.↵
16 | Clayton e Darvish, 1979; Zisook e Shuchter, 1991.↵
17 | Bruce, Kim, Leaf, e Jacobs, 1990; Zisook, Paulus, Shuchter, e Judd, 1997; Zisook e Shuchter,
1991.↵
18 | Leahy, 1992-1993; Sanders, 1979-1980.↵
19 | Harris, 1991.↵
20 | DeVries, Davis, Wortman e Lehaman, 1997.↵
21 | Bonanno et al. , 2002; Carr, House, Wortman, Nesse, e Kessler, 2001.↵
22 | Wortman e Silver, 1989; Parkes, e Weiss, 1983; Zisook e Shuchter, 1991.↵
23 | Clayton e Darvish, 1979; Hays, Kasl, e Jacobs, 1994.↵
24 | Archer, 1989; Carr et al. , 2000; Nesse, 2005.↵
25 | Wortman, Silver, e Kessler, 1993.↵
26 | Bonanno et al. , 2002; Carr, House, Wortman, Nesse, e Kessler, 2001.↵
27 | Schulz et al. , 2001.↵
28 | Mancini, Pressman, e Bonanno, 2005.↵
29 | Wortman e Silver, 1989; Lopata, 1973; Mancini et al. , 2005.↵
30 | Umberson, Wortman, e Kessler, 1992; Wortman et al. , 1993.↵
31 | Carr, 2004.↵
32 | Zisook e Shuchter, 1991; Gallagher, Breckenridge, Thompson, e Peterson, 1983; Archer, 1999,
pp. 98-100; Bonanno et al. , 2002.↵
33 | Clayton, 1982.↵
34 | Zisook e Shuchter, 1991; Bonanno e Kaltman, 2001; Bonanno et al. , 2002.↵
35 | Clayton, 1982.↵
36 | Bonanno et al. , 2002.↵
37 | Jackson, 1986.↵
38 | Nesse, 2005.↵
39 | Neimeyer, 2000; Schut, Stroebe, Van den Bout, e Terheggen, 2001.↵
40 | Sloman, Gilbert, e Hasey, 2003.↵
41 | Nesse, 2005.↵
42 | APA, 2000, p. XXXI (corsivo nostro).↵
43 | Kitson, Babri, e Roach, 1985; Ross, Mirowsky, e Goldstein, 1990; Waite, 1995.↵
44 | Kessler et al. , 1994; Simon, 2002.↵
45 | Bruce et al. , 1990.↵
46 | Bruce, 1998.↵
47 | Ivi, p. 228.↵
48 | Radloff, 1977; Sweeney e Horwitz, 2001.↵
49 | Wheaton, 1990.↵
50 | Brown, 2002.↵
51 | Brown, Harris, e Hepworth, 1995.↵
52 | Myers, Lindenthal, e Pepper, 1971; Bloom, Asher, e White, 1978.↵
53 | Booth e Amato, 1991.↵
54 | Ibidem.↵
55 | Per es. Gerstel, Reissman, e Rosenfield, 1985; Menaghan e Lieberman, 1986; Ross, 1995.↵
56 | Brown, 1993; Simon, 2002.↵
57 | Wade e Pevalin, 2004.↵
58 | Dew, Bromet, e Schulberg, 1987; Kessler, House, e Turner, 1987; Tausig e Fenwick, 1999; Dooley,
Prause, e Ham-Rowbottom, 2000; Grzywacz e Dooley, 2003.↵
59 | Fenwick e Tausig, 1994; Kessler et. al. , 1987; Turner, 1995; Dew, Bromet, e Penkower, 1992;
Dooley, Catalano, e Wilson, 1994.↵
60 | Angel, Frisco, Angel, e Chiriboga, 2003.↵
61 | Ganzini, McFarland, e Cutler, 1990.↵
62 | Wheaton, 1990; Reynolds, 1997.↵
63 | Kasl e Cobb, 1979; Dew et al. , 1992.↵
64 | Horwitz, 1984; Turner, 1995.↵
65 | Kessler, Turner, e House, 1989; Price, Choi, e Vinokur, 2002; Dooley et al. , 2000.↵
66 | Cobb e Kasl, 1977; Kasl e Cobb, 1979.↵
67 | Brooke, 2003.↵
68 | Zaun, 2004.↵
69 | Durkheim, 1897/1951.↵
70 | Lee, 1999.↵
71 | Merton, 1938/1968; Heckhausen e Schultz, 1995; Sloman et al. , 2003.↵
72 | Nesse, 2000.↵
73 | Keller e Nesse, 2005.↵
74 | Carr, 1997.↵
75 | McEwan, Costello, e Taylor, 1987.↵
76 | Cuisinier, Janssen, deGraauw, Bakker, e Hoogduin, 1996; Heckhausen, Wrosch, e Fleeson, 2001.↵
77 | Mollica, Poole, e Tor, 1998; Mollica et al. , 1999; Marshall, Schell, Elliott, Berthold, e Chun, 2005.↵
78 | Clymer, 2002.↵
79 | Dohrenwend, 1973.↵
80 | Turner et al. , 1995; McLeod e Nonnemaker, 1999.↵
81 | Turner e Lloyd, 1999.↵
82 | Ritsher, Warner, Johnson, e Dohrenwend, 2001; Johnson, Cohen, Dohrenwend, Link, e Brook,
1999; Lorant et al. , 2003; Dohrenwend et al. , 1992.↵
83 | Costello, Compton, Keeler, e Angold, 2003, tavola 3.↵
84 | Dearing, Taylor, e McCartney, 2005; cfr. anche Epstein, 2003.↵
85 | Per es. Kirmayer, 1994.↵
86 | Darwin, 1872/1998.↵
87 | Willner, 1991.↵
88 | Harlow e Suomi, 1974; McKinney, 1986; Gilmer e McKinney, 2003.↵
89 | Mineka e Suomi, 1978.↵
90 | Harlow, Harlow, e Suomi, 1971; Harlow e Suomi, 1974; Suomi, 1991.↵
91 | Kaufman e Rosenblum, 1966.↵
92 | Sloman et al. , 2003.↵
93 | Harlow e Suomi, 1974; Gilmer e McKinney, 2003.↵
94 | Sapolsky, 1989.↵
95 | Sapolsky, 1992; Price, Sloman, Gardner, Gilbert, e Rohde, 1994.↵
96 | McGuire, Raleigh, e Johnson, 1983; Raleigh, McGuire, Brammer, e Yuwiler, 1984.↵
97 | Shively, Laber-Laird, e Anton, 1997.↵
98 | Berman, Rasmussen, e Suomi, 1994.↵
99 | Sapolsky, 1989.↵
100 | Sapolsky, 2005.↵
101 | Bowlby, 1969/1982, 1973, 1980.↵
102 | Harlow e Suomi, 1974.↵
103 | Darwin, 1872/1998, p. 185 [trad. it. p. 218].↵
104 | Ivi, p. 177 [trad. it. p. 211].↵
105 | Ekman e Friesen, 1971.↵
106 | Ekman, 1973.↵
107 | Ekman, Friesen, O’Sullivan, Chan, Diacoyanni-Tarlatzis, Heider, et. al. , 1987.↵
108 | Ekman e Friesen, 1971.↵
109 | Turner, 2000.↵
110 | Pinker, 1997.↵
111 | Brown, 2002.↵
112 | Carr e Vitaliano, 1985, p. 255.↵
113 | Broadhead eAbas, 1998.↵
114 | Desjarlais, Eisenberg, Good, e Kleinman, 1995.↵
115 | Schieffelin, 1985.↵
116 | Manson, 1995.↵
117 | Miller e Schoenfeld, 1973.↵
118 | Archer, 1999.↵
119 | Good, Good, e Moradi, 1985, p. 386.↵
120 | Wikan, 1988, 1990.↵
121 | Ibidem.↵
122 | Per es. Lutz, 1985; Schieffelin, 1985; Kleinman, 1986.↵
123 | Kleinman, 1986.↵
124 | Cheung, 1982.↵
125 | Kleinman, 1986.↵
126 | Per es. Kirmayer e Young, 1999; Kleinman e Good, 1985; Murphy e Woolfolk, 2001.↵
127 | Per es. Brown e Harris, 1978; Pearlin, 1989; Aneshensel, 1992; Turner e Loyd, 1999.↵
128 | Brown, 2002.↵
129 | Gaminde, Uria, Padro, Querejeta, e Ozamiz, 1993.↵
130 | Broadhead e Abas, 1998.↵
131 | Per es. House, Landis, e Umberson, 1988; Turner, 1999.↵
132 | Schieffelin, 1985.↵
133 | Deut. 25,5; Stroebe e Stroebe, 1987.↵
134 | Per es. Kirmayer, 1994.↵
135 | Per es. Mernissi, 1987; Jones, 2006.↵
136 | Nesse e Williams, 1994.↵
137 | Ibidem.↵
138 | Tooby e Cosmides, 1990.↵
139 | Lewis, 1934.↵
140 | Turner, 2000.↵
141 | Hagen, 1999, 2002.↵
142 | Klerman, 1974; Coyne, 1976; Gilbert, 1992.↵
143 | Archer, 1999.↵
144 | Bowlby, 1973; Price, Sloman, Gardner, Gilbert, e Rohde, 1994; Turner, 2000.↵
145 | Darwin, 1872/1998, p. 347.↵
146 | Bowlby, 1980.↵
147 | Archer, 1999.↵
148 | Price et al. , 1994.↵
149 | Ibidem; Stevens e Price, 2000; Sloman, Gilbert, e Hasey, 2004.↵
150 | Price e Sloman, 1987; Stevens e Price, 2000.↵
151 | Gilbert e Allan, 1998; Sloman et al. , 2003.↵
152 | Wenegrat, 1995.↵
153 | Nesse, 2006.↵
154 | Klinger, 1975; Gut, 1989; Nesse, 2000; Wrosch, Scheier, Carver, e Schulz, 2003.↵
155 | Watson e Andrews, 2002.↵
156 | Nesse, 2000, p. 17.↵
157 | Keller e Nesse, 2005; Keller e Nesse, 2006.↵
158 | Murphy e Stich, 2000.↵
159 | Nesse, 2000.↵
160 | Merton, 1938/1968.↵
* Si precisa che è ipotizzabile un disturbo, magari sottosoglia, preesistente all’evento.↵
* Da un punto di vista teorico e metodologico dobbiamo esprimere un dissenso sul confrontare
l’uomo agli animali nello studio dei disturbi mentali, a meno che non si tratti esclusivamente di una
sperimentazione farmacologica ai fini psicofarmacoterapeutici. [NdC]↵
* Osserviamo che il riduzionismo come metodo di ricerca non può essere mutato in una diagnosi dei
disturbi mentali agli animali, poiché questi ultimi non sono dotati della realtà psichica umana. Cfr. M.G.
Gatti, E. Becucci, F. Fargnoli, M. Fagioli, U. Ådén, G. Buonocore, Functional maturation of neocortex: a base
of viability, in “The Journal of Maternal-Fetal and Neonatal Medicine”, 25, suppl. 1, 2012, pp. 101-103;
M.G. Gatti, M. Fagioli, Maturazione funzionale della neocorteccia, in “Il sogno della farfalla”, 1, 2013, pp. 9-
21. [NdC]↵
* Si sottolinea come invece nell’essere umano una sostituzione non risolva la perdita. [NdC]↵
* Il neonato, in quanto nato, è già dotato della caratteristica della socialità. Questo aspetto viene
conosciuto dai tempi di Socrate, il quale definiva l’essere umano uno «zoòn politikòn», un animale di
per sé sociale. Oggi sappiamo, in particolare dalla teoria della nascita, che la prima immagine del
neonato alla nascita è la memoria-fantasia dell’esperienza avuta, un’immagine di esistenza di un essere
umano simile a sé stesso, grazie alla traccia sensoria del liquido amniotico sulla pelle che il neonato
avverte, successivamente all’attivazione cerebrale. Cfr. M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza (1972),
L’Asino d’oro edizioni, Roma 2010; M.G. Gatti, M. Fagioli, Maturazione funzionale della neocorteccia cit.
[NdC]↵
* Va sottolineato che gli esseri umani nascono uguali, in base alla dinamica della nascita, uguale per
tutti, indipendentemente da razza o sesso. Cfr. M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza cit. [NdC]↵
* In base alle conoscenze degli ultimi anni il linguaggio dell’essere umano è ritenuto essere il frutto di
un’esigenza mentale e non una maturazione biologica fisica, indipendentemente dal suo significato.
L’essere umano ha come caratteristica l’attitudine al rapporto con i suoi simili e la ricerca di questo
rapporto, poiché è in esso che si realizza. Il linguaggio è rapporto tra esseri umani. Cfr. M. Fagioli,
Bambino, donna e trasformazione dell’uomo, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2013. [NdC]↵
* Questa visione animalistica dell’uomo ci sembra estrema; essa nega la realtà psichica umana, con i
suoi aspetti irrazionali di tipo creativo e relazionale. Porsi domande sull’utilità della tristezza implica un
disconoscimento della natura umana, che per la sua realizzazione fa anche cose assolutamente inutili.
Un esempio è rappresentato dall’arte, ma pure dalla sessualità, se realizzata indipendentemente dalla
riproduzione. Questi sono aspetti tipicamente umani, mentre negli animali l’istinto condiziona sempre
il comportamento. Cfr. M. Fagioli, Religione ragione e libertà, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014. [NdC]↵
Capitolo 3 | Tristezza con e senza causa: la
depressione dai tempi an chi al XIX secolo

La depressione è un fenomeno onnipresente da millenni nella storia umana.


Praticamente in tutto questo tempo, dai primi scritti dei medici della Grecia
antica alla fine del XX secolo, i diagnosti occidentali hanno di solito distinto i
disturbi depressivi, visti come una forma di pazzia, dalle risposte della tristezza
normale – simili dal punto vista sintomatico ma non patologiche – a un ampio
spettro di situazioni di sofferenza. Poi, nel 1980, nello sforzo di dare una base
più scientifica alla diagnosi utilizzando criteri decontestualizzati basati sui
sintomi, il DSM-III abbandonò inavvertitamente questa tradizionale
distinzione critica, che ora è sostanzialmente perduta nella teoria attuale sulla
depressione. Il presente capitolo e il prossimo tracciano il cammino storico
attraverso il quale si è arrivati a questo importante e a nostro avviso dannoso
slittamento concettuale.
Perché è importante ripercorrere questa storia? Le attuali pratiche
diagnostiche possono sembrare ovviamente giuste e ragionevoli proprio
perché sono accettate, e sono tutto ciò che molti di noi hanno sempre saputo.
Per capire i problemi che abbiamo con l’attuale approccio diagnostico al
disturbo depressivo e per cogliere le scelte da esso rappresentate, è utile
collocarlo nel contesto storico. Questa ricostruzione storica rivela che il nostro
modo di concepire il disturbo depressivo oggi è del tutto nuovo – e diverge in
maniera radicale da quello tradizionalmente considerato appropriato.
Ma l’importanza della storia non si limita al fatto che fornisce il contesto e
mette in luce il contrasto. È facile dare per scontato che se le pratiche attuali
sono diverse dev’essere perché sono venute fuori da un processo in cui le
alternative tradizionali si sono scoperte difettose e sono state quindi sostituite
da un approccio superiore. Ma, all’interno del pensiero sulla depressione, la
storia del tema specifico del ruolo del contesto nella diagnosi del disturbo
dissolve queste credenze e rivela invece il carattere contingente e anche
arbitrario di alcuni aspetti delle pratiche diagnostiche attuali. Essa mostra che
le ragioni del recente allontanamento dall’approccio tradizionale, benché
animato dalle migliori intenzioni e ispirato ad ammirevoli aspirazioni
scientifiche, non sono ancorate né ai dati concreti né alla logica, che invece
sostengono la tradizione precedente. Nonostante le sue molte virtù, il nuovo
approccio è sotto aspetti importanti più debole di quello che ha sostituito.
Il disturbo depressivo, a differenza di molti altri disturbi, ha una storia
individuabile e lunga. In effetti, la depressione è forse il disturbo psichiatrico
più facilmente riconoscibile nel corso della storia: le descrizioni dei suoi
sintomi attraversano un arco temporale di 2500 anni, in un percorso di
«notevole coerenza»1, come lo definisce lo storico Stanley Jackson. Dai più
antichi testi medici della Grecia antica all’attuale DSM, la profonda tristezza e
le sue varianti – disperazione, dispiacere, avvilimento, sconforto, senso di
vuoto, angoscia, scoraggiamento – ricorrono spesso come tratti essenziali del
disturbo depressivo, insieme con sintomi correlati quali avversione al cibo,
insonnia, irritabilità, inquietudine, sentimenti di disperazione o indegnità,
ideazione suicidaria e tentativi di suicidio, paura della morte, concentrazione
ossessiva su eventi negativi, mancanza di piacere o interesse nelle attività
consuete, affaticamento e distacco sociale.
Ma anche i trattati diagnostici tradizionali concordano nel distinguere la
depressione come disturbo da un certo tipo di profonda tristezza o paura non
patologico che poteva condividere molti sintomi con la depressione ma era
una reazione normale, proporzionata, a gravi perdite. Fra queste perdite
c’erano la morte di persone care, rovesci di fortuna, insuccessi nel
raggiungimento di agognati obiettivi di vita, delusioni sentimentali ecc. Inoltre
si riconosceva tradizionalmente che variabili del temperamento
predisponevano alcune persone ad avvertire prima o più intensamente la
tristezza o la paura, ma che queste variabili potevano muoversi entro un
ventaglio normale di risposte ragionevolmente proporzionate che non
costituivano disturbo medico.
I disturbi depressivi differivano da queste reazioni normali, secondo la
tradizione, o perché insorgevano in assenza di situazioni capaci di produrre
normalmente tristezza o perché erano di portata o durata sproporzionate alle
cause scatenanti. Queste condizioni indicavano che qualcosa era sbagliato
nell’individuo, non nell’ambiente. In sostanza, dunque, la psichiatria
tradizionale adottava un approccio ‘contestuale’ alla diagnosi del disturbo
depressivo: se una condizione veniva diagnosticata come patologica ciò non
dipendeva solo dai sintomi, che potevano essere simili nella tristezza normale;
e nemmeno solo dalla gravità della condizione, poiché la tristezza normale può
essere grave e la tristezza patologica moderata; bensì dalla misura in cui i
sintomi erano una risposta comprensibile a delle circostanze. In questo e nei
capitoli successivi noi ricostruiamo la storia di questo approccio contestuale
alla depressione e illustriamo come il DSM-III, rovesciando migliaia di anni di
riflessione, lo abbia sostituito con criteri sintomatologici abbastanza precisi e
comunicabili, che ignoravano largamente le complessità del contesto, con
effetti collaterali dannosi per la diagnosi psichiatrica.

3.1 | Avvertenze preliminari

Dagli antichi scritti medici greci fino all’inizio del XX secolo, quello che ora
è chiamato «disturbo depressivo» era indicato generalmente come
«melancolia», che letteralmente significa «disturbo della bile nera». Benché
abbia continuato a essere usato fino ai tempi moderni, il nome rifletteva
originariamente l’antica credenza che la salute e la malattia dipendono
dall’equilibrio o squilibrio fra i fluidi corporei, o ‘umori’, e che responsabile dei
sintomi depressivi era un eccesso di bile nera – un umore che si immaginava
spesso prodotto nella milza. I medici antichi pensavano che la bile nera avesse
la funzione naturale di regolare l’umore e che la melancolia fosse conseguenza
di una carenza in questa funzione naturale. Quando scemò la credenza nel
ruolo della bile nera nella vita mentale, si affermò alla fine la «depressione»
come termine dominante nei secoli XIX e XX.
Nell’esaminare le descrizioni cliniche del disturbo depressivo,
straordinariamente simili attraverso i millenni, sono necessarie varie
avvertenze. Primo: bisogna considerare il contesto di ciascuna discussione per
capire se si parli effettivamente di un disturbo. Come il termine oggi usato
oltremisura di «depressione», anche i termini «melancolia» o «melancholia»
svolgono tendenzialmente un doppio compito, riferendosi sia a un disturbo sia
a emozioni, umori e temperamenti normali.
Secondo: i testi classici furono scritti prima che la maggior parte delle
raffinate distinzioni odierne fra i disturbi mentali fossero riconosciute, e quindi
la categoria della melancolia comprendeva spesso fenomeni che
retrospettivamente possono essere giudicati come disturbi del tutto diversi. Fra
questi vanno annoverati disturbi psicotici che andavano dalla schizofrenia a
stati paranoidi e altri stati di delirio. Per esempio, quella che può apparire
inizialmente come la descrizione di un alternarsi di mania e depressione in
quello che definiremmo oggi «disturbo bipolare» può rivelarsi con maggiore
probabilità, a un esame più attento, come la descrizione di un alternarsi di
agitazione e ritiro sociale di uno schizofrenico erroneamente classificato come
melancolico2. Poiché alcuni soggetti con depressione psicotica hanno a volte
deliri congrui al tono dell’umore che esprimono il contenuto del pensiero
correlato alla tristezza, i primi psichiatri estesero talvolta la categoria della
melancolia ad altri che presentavano circoscritti deliri che causavano emozioni
negative. Così pure, il ritiro sociale associato alle diagnosi attuali di disturbo
evitante della personalità e fobia sociale appare talvolta essere stato confuso
con il ritiro sociale associato alla melancolia. Comunque sia, il quadro
prevalente di quelli classificati come melancolici indica chiaramente il disturbo
depressivo quale lo conosciamo noi.
Terzo: poiché la melancolia era una descrizione eziologica che classificava gli
stati morbosi in base alla loro causa presunta di un eccesso di bile nera, le più
antiche descrizioni spesso mettevano altri stati considerati aventi analoga
eziologia nello squilibrio della bile nera insieme con i disordini depressivi,
classificandoli come «disturbi melancolici» in senso ampio, anche se in effetti
non avevano nulla a che fare con la depressione. Nei tempi antichi, questi
«disturbi melancolici» includevano, per esempio, epilessia e foruncoli. La
melancolia stessa in quanto disturbo era semplicemente un caso specifico di
questa categoria più ampia.
Quarto: le descrizioni classiche in generale, anche se non sempre, si
concentravano su quella che noi chiameremmo oggi «depressione psicotica»,
che include deliri o allucinazioni. In effetti, queste descrizioni spesso
definivano la melancolia come una forma di «delirio senza febbre» per
distinguere i deliri e le allucinazioni melancolici da quelli che si verificavano in
presenza di alte febbri causate da diverse malattie fisiche. La melancolia di
questo tipo comportava in particolare idee fisse su specifici argomenti legati al
disturbo depressivo, che distinguevano la melancolia da una disfunzione
cognitiva generale o psicosi. I disturbi depressivi non psicotici pure erano
riconosciuti, ma non erano enfatizzati come costituenti la gran parte dei casi
fino ai tempi recenti.
Quinto: c’è un’ambiguità a proposito del termine «melancolia», che continua
ancora a essere usato e che può creare confusione. L’estensione esatta del
significato di «melancolia» è cambiata: a volte si riferisce a una malattia
complessiva, a volte alla tristezza come sintomo specifico, a volte a un insieme
sindromico di molti sintomi coesistenti, di cui la tristezza è solo uno3.
Sesto: contrariamente all’uso attuale, i testi antichi e molti successivi univano
insieme di solito la tristezza e la paura come sintomi di melancolia. Si pensava
che l’avvilimento fosse in relazione con la paura, perché i melancolici
apparivano generalmente preoccupati o incupiti non solo per fatti reali ma
anche per eventualità negative del futuro che causavano apprensione. I criteri
contemporanei enfatizzano la tristezza come affezione dominante esclusiva,
ma gli studi recenti confermano che l’ansia e la tristezza tendono ad
accompagnarsi nella depressione e che è difficile distinguere questi stati,
proprio come era nella tradizione4. Ma dalle descrizioni cliniche è anche chiaro
che, allora come adesso, la tristezza da sola bastava per la melancolia.
Infine, un’avvertenza sulla nostra metodologia. È importante che
consideriamo le tante passate differenze e confusioni nella storia della
depressione per scoprire una sottostante concordanza e somiglianza con i
giudizi attuali. In particolare, quelli che sono oggi considerati veri disturbi
depressivi rientravano chiaramente nella melancolia tradizionale ed erano
distinti dalla tristezza normale. Certo, una storia alternativa, postmoderna, della
depressione potrebbe insistere forse sulla costruzione sociale della
depressione, includendo varianti nelle definizioni e negli spettri di
comportamento da classificare come patologici e aspetti del controllo sociale
legati a tali varianti. Sebbene la storia della depressione comprenda di sicuro
variazioni del genere, i testi storici riconoscono una condizione di fondo
comune su cui si è concentrato l’interesse per millenni.
In effetti, fin dai primissimi tempi, questi scritti mostrano quella che
potrebbe essere qualificata come una visione «essenzialista» della
classificazione della melancolia – essa, cioè, si basa sul presupposto, comune
ad autori diversi che magari dissentivano nelle loro specifiche teorie, che la
melancolia era dovuta a qualcosa di sbagliato nel funzionamento interno di
meccanismi solitamente responsabili della tristezza normale, in un modo che
portava a certi sintomi standard. Questa concezione non è il prodotto di
differenti risposte sociali alla pazzia ma il frutto di un giudizio ponderato e
plausibile. Inoltre, è impossibile analizzare responsabilmente in quali modi i
gruppi abbiano sfruttato il concetto di depressione per scopi di potere sociale
fino a che non si capisca la logica del concetto stesso di depressione. È dunque
la storia di questo concetto comune, e soprattutto i tentativi di distinguere la
tristezza patologica dalla tristezza normale, che vogliamo cercare di capire.

3.2 | Gli an chi


Nel V secolo a.C. Ippocrate (460-377 a.C.) fornì la prima definizione a noi
nota della melancolia come disturbo distinto: «Se la paura o la tristezza durano
a lungo, si tratta di melancolia»5. Benché le teorie del disturbo depressivo siano
cambiate, i sintomi che lo indicano non sono cambiati. Oltre alla paura e alla
tristezza, Ippocrate ricordava come possibili sintomi «l’avversione al cibo,
l’avvilimento, l’insonnia, l’irritabilità, l’inquietudine», che sono in gran parte gli
stessi criteri di oggi6. Ma la definizione di Ippocrate sottolinea che non sono
questi sintomi in sé stessi a indicare disturbo, bensì la loro inusitata durata.
L’insistenza di Ippocrate sul fatto che la tristezza o la paura devono essere
protratte nel tempo è un primo tentativo di afferrare l’idea che la sproporzione
rispetto alle circostanze è un aspetto essenziale del disturbo depressivo.
C’è un’antica, probabilmente apocrifa, storia su Ippocrate che illustra la
distinzione fra la tristezza patologica senza causa e la normale tristezza con
causa7. Gli fu chiesto di fare la diagnosi del problema che affliggeva Perdicca
II, re di Macedonia dal 450 al 419 a.C., il quale era caduto in uno stato
morboso e manifestava una totale mancanza d’interesse per le questioni di
Stato. Ippocrate apprese che la condizione del re aveva origine dal suo amore
segreto per una concubina del padre recentemente scomparso. Pertanto
suggerì che il re prendesse atto del suo amore per la concubina e facesse in
modo che ne venisse corrisposto. In sostanza, Ippocrate riconobbe che il re
non soffriva di una melancolia che avesse bisogno di un trattamento medico,
ma di un problema di origine sentimentale.
Un secolo dopo Ippocrate, Aristotele (384-322 a.C.; o uno dei suoi discepoli)
elaborò nei Problemata la distinzione fra vari stati d’umore di tristezza normale
da una parte e stati di affezione patologica dall’altra. Aristotele espresse con
chiarezza l’idea che la tristezza patologica fosse sproporzionata agli eventi.
Osservò che se la bile nera «è fredda oltre la giusta misura, produce
avvilimento infondato»8. Qui con «oltre la giusta misura» si intende quello che
è sproporzionato alle circostanze, cosicché la conseguente tristezza sia «senza
motivo». Un avvilimento del genere, per esempio, è responsabile dei «tanti
suicidi soprattutto fra i giovani, ma capita a volte che si verifichino anche fra i
vecchi»9.
Aristotele, maestro nelle classificazioni, suggeriva varie distinzioni fra i tipi di
melancolia. Una distinzione era fra il temperamento melancolico e il disturbo
melancolico. A questo proposito, Aristotele inaugurò la tradizione giunta sino
a noi che associa il temperamento depressivo a un’eccezionale capacità artistica
e intellettuale: «Perché mai gli uomini che si sono distinti nella filosofia, come
uomini di Stato, nella poesia o nelle arti sono stati tutti, a quanto pare,
melancolici, e alcuni a tal punto da essere affetti dalle malattie dovute alla bile
nera? [...] In breve, si può dire che abbiano tutti questa stessa natura»10.
Aristotele riconobbe non solo il temperamento melancolico come variante
normale, ma anche un grado anormale di melancolia che certi individui dotati
potevano possedere – e da cui potevano essere posseduti. Non considerava
questo grado anormale come patologico, in quanto contribuiva alla loro
creatività, anche se li lasciava vulnerabili al disturbo melancolico. «Spesso»,
annotava Aristotele, «accade che noi proviamo della pena senza che siamo in
grado di dire quale ne sia la causa; [...] questi sentimenti albergano in una
qualche piccola misura in ognuno di noi [...], ma quando si tratta di qualcosa di
profondo, allora abbiamo a che fare con una qualità del carattere dei
soggetti»11. Agli occhi di Aristotele, questi temperamenti melancolici estremi
erano generalmente disturbi, salvo nei pochi casi in cui erano parte integrante
della creatività di un individuo dotato.
Come nel testo di Aristotele, la distinzione chiave nelle definizioni antiche
della melancolia era fra gli stati di tristezza «senza causa» e quelli con sintomi
analoghi che sorgevano da perdite effettive: solo i primi erano disturbi mentali.
Ma «senza causa» non significava non causati da alcunché, perché durante tutta
la storia la depressione è stata attribuita a cause fisiche o psicologiche
postulate, come l’eccesso di bile nera, disfunzioni nella circolazione del sangue
o esaurimento delle energie. «Senza causa» significava piuttosto che i sintomi
della depressione non erano proporzionali a eventi ambientali capaci di portare
‘appropriatamente’ alla tristezza, come un lutto, un rifiuto in amore, un
fallimento economico e simili12. Viceversa, i medici greci e romani non
consideravano segni di disturbo mentale i sintomi della depressione che si
verificavano «con causa», in quanto erano reazioni normali nei loro contesti.
Aristotele colse anche il problema basilare di come definire la tristezza
«proporzionata». L’interrogativo davanti al quale si trovava era: se il livello di
tristezza o di paura varia a seconda delle circostanze e non c’è un «valore di
riferimento» costante in base al quale la salute è valutata, come possiamo
definire la salute? La risposta di Aristotele fu che possono esserci definizioni
relazionali della salute in cui la quantità appropriata di tristezza varia in un dato
momento in rapporto alle circostanze in cui il soggetto si muove. Aristotele,
cioè, capì che la relazione di proporzionalità fra tristezza e circostanze può
rimanere anche quando la quantità effettiva della tristezza e le circostanze
cambiano: «È anche possibile che l’irregolarità [dell’umore] sia ben temperata e
sia in qualche modo in una buona condizione, e anche eventualmente che la
disposizione passi da un grande riscaldamento a un forte raffreddamento, o
viceversa». Con questa idea di una variabilità proporzionata come linea di
fondo, Aristotele arrivò a concettualizzare la sua nozione di temperamento o
personalità melancolica anormale – ma non di per sé patologica – come la
tendenza di questa variabilità a raggiungere livelli estremi sulla terminazione
alta e quindi a superare emotivamente in qualche misura il segno: «Per la
presenza dell’eccesso, tutte le persone melancoliche sono fuori dell’ordinario,
non per malattia ma per natura»13. Un test simile rivelerebbe anche gli stati
patologici non dovuti a temperamento.
Sintetizzando, Aristotele distingueva: 1) una componente melancolica in
tutte le persone che dà origine a reazioni di normale tristezza e variazioni
d’umore normali; 2) un temperamento melancolico rientrante nella normalità
in persone con preponderanza di bile nera e quindi con naturale inclinazione
alla tristezza; 3) una variante estrema di questo temperamento che spesso si
riscontra in persone dotate e che può essere considerata almeno
statisticamente anormale ma non è ancora una malattia, soprattutto quando è
incanalata nella creatività; 4) uno stato patologico, dannoso, disturbato, di
tristezza sproporzionata o tristezza senza una causa adeguata che non ha alcun
risvolto di redenzione in un processo creativo. Alcune di queste distinzioni si
possono individuare, per esempio, nel brano seguente, che – cosa interessante
– anticipa anche la moderna idea che nel disturbo bipolare l’avvilimento
melancolico e l’eccesso maniacale di fiducia possono essere eziologicamente
legati:
Quelli che hanno una piccola dose di questo tipo di temperamento sono normali, mentre
quelli che ne hanno una grande dose sono diversi dai più. Se la loro caratteristica è molto
accentuata, questi ultimi sono eccessivamente melancolici, ma se invece sono in qualche
modo contenuti, sono fuori dell’ordinario. Si tratta però di individui che se non fanno
attenzione sono inclini a contrarre malattie dovute alla bile nera, che li colpiscono in
qualche parte del corpo: in alcuni si manifestano con sintomi di carattere epilettico, in
altri con sintomi di carattere apoplettico, in altri ancora con un profondo avvilimento o
paura, o anche con un eccessivo coraggio14.
I medici della Roma antica seguirono i predecessori greci nel distinguere gli
stati melancolici che nascevano con o senza causa, associando solo questi
ultimi alla malattia. Così, per esempio, il medico romano Celso (ca. 30 d.C.)
riecheggiava Ippocrate quando definiva la melancolia come «un prolungato
avvilimento e una prolungata paura e insonnia»15, «consistente in una
depressione che sembra causata da bile nera»16. Fra i consigli per il trattamento
suggeriva che «la depressione [del paziente] doveva essere dolcemente
rimproverata come priva di causa»17. Sorano di Efeso, scrivendo alla fine del I
secolo o all’inizio del II secolo d.C., descriveva il melancolico come «abbattuto
e incline alla collera e [...] praticamente mai alacre e rilassato», con «i seguenti
segni della melancolia [...]: angoscia mentale e afflizione, avvilimento,
taciturnità, animosità verso i familiari, a volte gran voglia di vivere e altre volte
desiderio di morire, sospetti da parte del paziente di complotti orditi contro di
lui, pianto senza ragione, il borbottare cose senza senso e, di nuovo,
occasionale giovialità», oltre a vari sintomi, perlopiù gastrointestinali18. Il
riferimento al «pianto senza ragione» dichiara esplicitamente che le emozioni di
intensa tristezza sono in qualche modo senza causa.
Areteo di Cappadocia (ca. 250-200 d.C.) rendeva ancora più esplicito il
criterio del «senza causa» osservando che i «pazienti [melancolici] sono incupiti
o duri, accasciati o irragionevolmente apatici, senza alcuna causa manifesta:
questo è l’inizio della melancolia. E diventano anche irascibili, avviliti, insonni,
e si alzano bruscamente da un sonno disturbato. Sono preda inoltre di una
paura irragionevole»19. Per distinguere ancora meglio i disturbati dai normali
che, come lui si esprime, avvertono «semplice collera e lutto, e triste
avvilimento della mente»20, Areteo presentava il caso (ricalcato chiaramente
sulla storia raccontata da Ippocrate) di una tristezza estrema ma normale che
mostrava sintomi identici a quelli della melancolia e che, di conseguenza, fu
confusa per una malattia:
Si racconta la storia di un soggetto, afflitto in maniera incurabile, che si era innamorato di
una ragazza; e quando il medico si rivelò incapace di portargli soccorso, fu l’amore a
guarirlo. Ma io penso ch’egli fosse innamorato fin dall’inizio, e fosse avvilito e accasciato
perché non aveva successo con la ragazza, e alla gente appariva melancolico. Non sapeva,
cioè, che si trattava d’amore; ma quando egli comunicò il suo amore alla ragazza, smise di
essere avvilito, e si dissolse la sua sofferenza e preoccupazione; con gioia si risvegliò dal
suo umore triste, e fu recuperato alla comprensione; l’amore era stato il suo medico21.
Areteo illustrava così come il criterio del «senza causa» differenzi la tristezza
normale dal disturbo melancolico, e indicava la possibilità che uno stato
normale potesse essere diagnosticato in maniera errata se si badava ai sintomi
soltanto.
Come altri autori prima di lui, Areteo insisteva sui pensieri deliranti a
proposito di quella che noi oggi chiameremmo depressione psicotica: «un
umore basso derivante da un’unica fantasia, senza febbre [...] l’intelligenza è
sconvolta [...] nei melancolici diretta solo a preoccupazione e avvilimento [...]
Quelli affetti da melancolia non sono colpiti ognuno da una forma particolare;
ma o sono colti dal sospetto di essere avvelenati, o fuggono nel deserto spinti
dalla misantropia, o diventano superstiziosi, o si riempiono di odio per la
vita»22. Chiaramente, questi pensieri deliranti, sottolineati dalla letteratura fino
al XX secolo, forniscono uno strumento alternativo alla sproporzione per
riconoscere il disturbo dovuto a una evidente disfunzione cognitiva.
Alla fine del II secolo d.C., Claudio Galeno (131-201), come Areteo medico
greco operante a Roma, raccolse e sintetizzò le conoscenze psichiatriche
accumulatesi nei precedenti seicento anni. Galeno non fece che ripetere la
definizione di melancolia data da Ippocrate: «Paura o umore depressivo
(distimia) che dura per lungo tempo»23. La sua descrizione sottolineava ancora
i fenomeni psicotici, ma illustrava bene anche i sintomi principali:
La paura generalmente afferra i pazienti melancolici, ma non sempre si presentano lo
stesso tipo di immagini sensoriali anormali. Come per esempio quando un paziente crede
di essere stato trasformato in una specie di lumaca e quindi scappa via da chiunque
incontri per paura che [il suo guscio] rimanga schiacciato [...] Ancora, un altro paziente è
impaurito dall’idea che Atlante che sostiene il mondo si stanchi e lo getti via e noi tutti ci
ritroviamo ammassati e spinti insieme. E ci sono migliaia di altre idee immaginarie [...]
Benché ogni paziente melancolico agisca in modo diverso dagli altri, tutti mostrano paura
o avvilimento. Si lamentano della vita e odiano la gente; ma non tutti vogliono morire. Per
alcuni la paura della morte è la principale preoccupazione nella melancolia. Altri ancora ti
appariranno bizzarri perché temono la morte e allo stesso tempo vogliono morire24.
Con un riconoscimento esplicito del criterio del «senza causa», Galeno
rappresentava una vivace analogia in cui usava il colore della bile nera per
caratterizzare la paura che il melancolico generava dal suo cervello, una paura
provocata da circostanze esterne:
A causa di questo avvilimento i pazienti odiano tutti quelli che vedono, sono sempre
astiosi e appaiono terrorizzati, come bambini o adulti nel buio più profondo. Come
l’oscurità esterna rende quasi tutte le persone paurose, a eccezione di alcuni audaci per
natura o di quelli specificamente addestrati, così il colore dell’umore nero induce la paura
quando la sua oscurità getta un’ombra sull’area del pensiero [nel cervello]25.
La dottrina emersa nel periodo fra Ippocrate e Galeno, che distingueva gli
stati melancolici nascenti da disfunzioni interne, in cui l’emozione è «senza
causa», da quelli che erano reazioni proporzionate a circostanze esterne, rimase
in vigore per migliaia di anni26. Nel periodo successivo si trovano tuttavia
alcune fonti sparse che parlano esplicitamente della melancolia. Alessandro di
Tralle (525-605) includeva la «tristezza senza ragione» fra i sintomi della
melancolia e raccomandava che, soprattutto in casi non cronici, si ricercassero
le idee soggiacenti alla «tristezza senza ragione»27. All’inizio del X secolo il
medico arabo Ishaq ibn Imran ribadì la nozione del «senza causa» quando
definì la melancolia come «tristezza e avvilimento continuativo irrazionale»; ma
capì anche che perdite reali potevano far scattare un vero disturbo: «La perdita
di un figlio amato o di una biblioteca insostituibile può provocare una simile
tristezza e avvilimento di cui la melancolia è il risultato»28. Così pure,
Costantino Africano (1020?-1087) definiva la melancolia come «paura di cose
che non erano spaventose» e osservava che la perdita di una persona cara o di
oggetti particolarmente amati, come la perdita dei suoi libri per uno studioso,
può far scattare la melancolia29. Avicenna (980-1037) sottolineava la «paura
senza causa», parlando del «presentarsi della paura di cose che esistono o non
esistono; e di una gran quantità di paura per cose di cui di solito non si ha
paura»30. Spesso il requisito del «senza causa» era implicito nella spiegazione
che veniva data del processo interno che causava la tristezza, come nella
descrizione di Ildegarda di Bingen (ca. 1098-1179): «La melancolia come
malattia. La bile è nera, amara, e rilascia ogni male, a volte anche un malessere
del cervello. Causa eccesso di flusso delle vene nel cuore; provoca depressione
e dubbio in ogni consolazione così che la persona non trova gioia nella vita
celeste e consolazione nella sua esistenza terrena»31. Ma fino al Rinascimento
la melancolia non ritornò alla centralità che aveva avuto nella medicina
psichiatrica greca e romana antica.

3.3 | La depressione dal Rinascimento al XIX secolo

Tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVIII, alcuni autori misero ancor più
l’accento sul criterio del «senza causa» come indicativo del disturbo. Il medico
André du Laurens (1558-1609), ampiamente noto come Laurentius, scrisse il
Discours des maladies mélancoliques, che si diffuse in tutta Europa e influenzò
fortemente il pensiero successivo. Du Laurens sintetizzò l’approccio del suo
tempo come approccio del «senza causa»: «Una sorta di rammollimento senza
febbre, avente quali sue compagne ordinarie paura e tristezza, senza nessun
motivo evidente»32.
Sul versante inglese della Manica, Timothie Bright (1550-1615), medico
formato a Cambridge, contemporaneo di Du Laurens, era molto interessato
anche alla colpa religiosa. Nel suo Treatise of Melancholy (1586), Bright sviluppò
in dettaglio la distinzione fra l’afflizione con o senza causa al fine di permettere
una diagnosi differenziale fra il vero disturbo melancolico e stati non patologici
di intensa tristezza e disperazione dovuti alla convinzione di aver peccato e di
essere quindi oggetto della collera divina. La tristezza melancolica, osservava, è
tale «per cui non si trova alcuna causa in qualunque momento prima, né è
probabile che se ne trovi dopo»33 e affermava che «l’afflizione dell’animo per
coscienza di peccato» è «tutt’altra cosa che la melancolia»34. La coscienza di
peccato era «dispiacere e paura per una causa precisa, e per quella che è la
causa più grande che provoca miseria nell’uomo», cioè la paura della collera di
Dio, mentre la melancolia era «pura fantasia e odio senza un vero e giusto
motivo». Bright spiega lucidamente e diffusamente come la «peculiare
differenza fra la melancolia e la coscienza afflitta nella stessa persona», che è
«la vera angoscia dell’anima», poteva essere dedotta cercando di capire dal
contesto se la tristezza aveva adeguate ragioni ambientali:
Qualunque molestia sorge direttamente come oggetto proprio della mente, che da questo
punto di vista non è melancolia, ma ha altra motivazione che la fantasia, e nasce dalla
coscienza, che condanna l’anima colpevole per quelle leggi innate della natura, di cui
nessun uomo è privo, posto che non sia così barbaro [...] Sulla parte opposta, quando ti
inquieta un qualche delirio che non ha sufficiente fondamento di ragione, ma nasce
unicamente dal tuo cervello, che è soggetto (come è stato prima mostrato) all’umore,
quella è esattamente melancolia e così dev’essere raccontato di te. Si tratta di falsi motivi
di ragione con cui ti inganna il cervello melancolico [...] Così concludo questo punto di
differenza, e distinguo fra la melancolia e la più propria angoscia dell’anima [...] La testa di
quelli che sono sotto questa croce sente un’angoscia che va molto oltre ogni afflizione di
passione naturale, accoppiata a quella paura organica e pesantezza di cuore. L’inclinazione
melancolica alla paura, al dubbio, alla sfiducia e alla pesantezza, ma tutto o senza causa, o
dove c’è una causa con una forza ben al di là della passione.
Bright continua descrivendo con vivacità che cosa significhi l’espressione
«senza causa», ancorando saldamente la nozione in una comprensione del
contesto dei sentimenti:
Noi vediamo nella nostra esperienza persone che godono di tutti i conforti della vita che
qualsiasi ricchezza può procurare, e di ogni amicizia offerta con gentilezza e ogni
sicurezza che possa assicurarle: eppure sono sopraffatte da pesantezza, e costernate da
tale paura, quasi non possano ricevere consolazione, né speranza di assicurazione,
nonostante non ci sia motivo di paura, o scontento, e nemmeno di pericolo, ma al
contrario di grande conforto, e felicitazione. Questa passione che non è mossa da alcuna
avversità presente o imminente è attribuita alla melancolia35.
Il presupposto di Bright, che dai tempi antichi ai moderni ha costituito lo
sfondo della letteratura, era che esiste una «passione naturale» o emozione di
tristezza destinata a funzionare in un certo modo ma che nel disturbo va fuori
strada.
Le opere successive seguirono la consuetudine. Per esempio, Felix Platter
(1536-1614) in Praxeos medicae opus (1602) definiva la melancolia come uno
stato in cui «l’immaginazione e il giudizio sono a tal punto pervertiti che senza
alcuna causa le vittime diventano tristissime e impaurite. Esse, infatti, non
possono addurre alcuna causa certa di dolore o di paura salvo qualche banale o
falsa opinione che hanno concepito per effetto di apprensione disturbata»36.
Come altri autori, Platter abbracciava sotto la categoria del «senza causa» sia i
casi di assenza totale di una concreta causa situazionale (casi di delirio o
depressione endogena) sia i casi di mancanza di una causa proporzionata (in
cui la causa c’è ma è troppo banale per giustificare la reazione).
L’opera classica di Robert Burton (1577-1640), The Anatomy of Melancholy,
pubblicata nel 1621, è la più famosa fra tutte le discussioni rinascimentali
sull’argomento. È fondata direttamente sulla tradizione del «senza causa».
Burton descrive tre componenti principali della depressione – l’umore, la sfera
cognitiva e i sintomi fisici –, che sono ancora visti come i tratti distintivi di
questa condizione. Ma insiste che i sintomi melancolici non sono di per sé
stessi prova sufficiente di disturbo: solo i sintomi senza causa forniscono
questa prova, come spiegava nella seguente postilla alla sua definizione:
«Aggiungiamo, infine, senza causa per distinguerla da tutte le altre passioni
ordinarie di paura e dispiacere». E precisava che fra i «segni nella mente» della
melancolia c’erano «dispiacere [...] senza alcuna causa evidente; sempre
addolorati, ma non riescono a dire perché»37.
Burton sottolinea anche che una certa inclinazione alla melancolia è presente
in tutti gli uomini, ed è un aspetto normale e onnipresente della condizione
umana:
La melancolia [...] è o di disposizione o di abitudine. Di disposizione, quando la
melancolia è passeggera, va e viene a ogni minima occasione di dispiacere, bisogno,
malattia, inquietudine, paura, lutto, passione, o turbamento della mente, ogni tipo di
preoccupazione, scontento, o pensiero, che causa angoscia, tristezza, pesantezza e
oppressione dello spirito [...] E da simili disposizioni di melancolia, nessun uomo vivente
è esente, e non c’è stoico, non c’è uomo saggio, non c’è uomo felice, paziente, generoso,
pio, divino, che se ne possa difendere; per quanto ben strutturato, quale più quale meno,
in un momento o in un altro, sentirà il dolore di essa. La melancolia, in questo senso, è il
tratto della mortalità38.
In contrapposizione alla melancolia normale, che si manifesta naturalmente
in persone che hanno sofferto una perdita o una delusione e che fa parte «della
mortalità», Burton ritiene che le sofferenze della melancolia sono «contrarie
alla natura»39. La definizione di quest’ultima condizione, la melancolia come
disturbo, la riprese da Du Laurens: «Una sorta di rammollimento senza febbre,
avente quali sue compagne ordinarie paura e tristezza, senza nessun motivo
evidente»40.
Burton era sensibile all’ampia variabilità individuale nella natura delle
risposte alla perdita e ammetteva un amplissimo ventaglio di reazioni
temperamentali alla perdita da non considerare disturbate fino a che non
diventino croniche e autoperpetuantisi:
Quello, infatti, che non è altro che un piccolo inconveniente per uno, è causa di
insopportabile tormento per un altro, e quello che uno con la sua personale moderazione
e il suo equipaggiamento mentale riesce a superare felicemente, un altro non è in grado
nemmeno di sostenere, ma a ogni minima occasione di fraintesa offesa, ingiuria,
dispiacere, disgrazia, perdita, croce, voce ecc. (per quanto isolata o infondata) si
abbandona così facilmente alla passione che la sua complessione è alterata, la sua
digestione ostacolata, il suo sonno sparisce, i suoi spiriti sono annebbiati e il suo cuore
appesantito, le sue ipocondrie colpite a sproposito [...] ed è sopraffatto dalla melancolia
[...] Ma a tutti questi si attaglia la melancolia [...] sono invece impropriamente così
chiamati quando non continuano; ma viene e va, a seconda che siano mossi da alcuni
fini41.
Solo quando le reazioni normali a specifici eventi diventano stabili come una
persistente condizione indipendente dagli eventi Burton vede il disturbo:
Accade spesso che queste disposizioni diventino abitudini, e allora [...] fanno una malattia.
Proprio come una distillazione, non ancora cresciuta in abitudine, provoca semplicemente
una tosse; ma se continua e si radica, causa la consunzione dei polmoni; così fanno questi
nostri attacchi di melancolia [...] Questa melancolia di cui stiamo parlando [...] malattia
cronica o persistente, umore radicato [...] non passeggera ma stabilizzata [...] cresciuta in
abitudine, sarà difficile da rimuovere42.
Oltre a notare la normale variabilità dei temperamenti, Burton fu acuto
osservatore degli estremi cui le normali reazioni a una perdita possono
spingersi. Egli osservò che la maggior parte delle perdite più penose
comprendevano la separazione da amici e il lutto conseguente alla perdita di
una persona cara («in questo labirinto di cause accidentali [della melancolia] [...]
la perdita e la morte di amici possono aspirare al primo posto»43) e descrisse in
maniera interessante gli estremi che il dispiacere non patologico può
raggiungere:
Se l’allontanamento di amici, la semplice assenza, può provocare simili effetti violenti, che
farà la morte, che li separerà per sempre sicché mai più in questo mondo potranno di
nuovo incontrarsi? È un tormento così doloroso per il tempo, che toglie l’appetito, il
desiderio della vita, estingue tutte le delizie, causa profondi gemiti e lamenti, lacrime,
esclamazioni [...] urli, muggiti, amarissime fitte, e con frequente mediazione si estende a
volte fino al punto che uno pensa di vedere il proprio amico morto continuamente
davanti agli occhi [...] Ancora, e ancora, e ancora, l’amato padre, l’amato figlio, l’amata
moglie, il caro amico corre nella sua mente; un solo pensiero riempie la sua mente per
tutto l’anno [...] Essi, i più contegnosi e pazienti degli uomini, sono travolti così
furiosamente dalla passione del dolore in questo caso che, uomini coraggiosi e prudenti
spesso perlopiù dimentichi di sé, piangono come bambini per mesi insieme44.
Non solo famosi autori come Burton ma anche semplici medici generici
facevano distinzione fra gli stati melancolici che nascevano senza causa e quelli
che erano proporzionati per intensità alle loro cause scatenanti. L’opera di
Richard Napier (1559-1634), un medico di campagna inglese, i cui taccuini
sono stati attentamente analizzati dallo storico Michael MacDonald, illustra
come i medici generici del tempo classificassero gli stati depressivi in tre tipi
generali. Il primo era provocato da esperienze universali di dispiacere e lutto,
rifiuti in amore, rovesci di fortuna, gravi malattie e scontri con mogli, amanti o
parenti. Napier staccava nettamente questi tipi di onnipresenti stati negativi
dalle malattie melancoliche, perché «non ogni persona incupita soffre della
malattia della melancolia»45.
Due tipi di stati melancolici erano considerati disturbi. In primo luogo,
Napier usava la descrizione di «dispiacere senza motivo» per alcuni dei suoi
pazienti disturbati46. Si riferiva a casi che non avevano una causa scatenante o
ne avevano una ingannevole, e quindi non erano pienamente spiegati da
circostanze esterne. Il secondo tipo di condizioni disturbate nascevano da
«giuste occasioni come la morte di persone care e si rivelavano come deliri di
melancolia per la loro insolita intensità e durata»47. Come osserva MacDonald,
«gli uomini del tempo credevano che i sentimenti sperimentati dalle persone
melancoliche e inquiete fossero esagerazioni di stati normali della mente. La
grande intensità dei loro umori era anormale»48. I casi registrati da Napier
mostrano chiaramente che la melancolia nasceva spesso senza essere provocata
da una situazione concreta ma a volte nasceva da una risposta sproporzionata a
perdite effettive. Molte diagnosi di melancolia, per esempio, erano conseguenti
a qualche lutto, di solito dopo la perdita di una moglie o di un figlio49, in cui la
tristezza era di tale intensità e durata da portare a stati di follia. Le valutazioni
di malattia, quindi, richiedevano al medico che prendesse conoscenza della
relazione dei sintomi con il contesto delle situazioni in cui essi si presentavano
e persistevano.
Gli autori che seguivano Burton continuarono a separare le depressioni fra
quelle con e quelle senza causa. Verso la fine del XVII secolo, per esempio,
Timothy Rogers (1658-1728) considerava la differenza fra il lutto come
risposta normale a una perdita e il lutto come causa scatenante di un disturbo
depressivo. Osservava che molti soggetti possono avere un disturbo
melancolico scatenato «dalla perdita di figli, da qualche improvvisa e
inaspettata delusione che rovina tutti i loro precedenti progetti e disegni»50. Ma
Rogers spiegava che queste perdite terribili non portavano di solito al disturbo
melancolico. E contrapponeva specificamente una simile reazione disturbata a
quella di una certa Lady Mary Lane, alla quale il suo libro è dedicato, che
viveva un intenso ma normale lutto e dolore per la perdita del padre, della
madre e di vari figli51.
Nel XVIII secolo l’uso esplicito del criterio del «senza causa» divenne meno
comune, forse perché gli autori del tempo si concentrarono su forme
psicotiche di depressione in cui questa descrizione appariva non necessaria52.
Ciononostante, durante questo periodo, la malattia mentale, secondo lo storico
Stanley Jackson, «comprendeva ancora di solito lo stato di abbattimento e
paura senza una causa evidente, e qualche particolare fissazione circoscritta era
ancora un tratto comune. L’insonnia, l’irritabilità, l’irrequietezza e la stipsi
continuavano a essere elementi consueti»53. Il famoso dizionario di Samuel
Johnson, per esempio, elencava tre significati per «melancolia»: due si
riferiscono a disturbi mentali e uno a emozioni comuni, normali54. Fra l’altro, a
Johnson si deve in parte l’avvio del passaggio graduale dal termine
«melancolia» al termine «depressione».
Le successive definizioni mediche continuarono a usare esplicitamente
l’antica definizione contestuale della melancolia. Friedrich Hoffmann (1660-
1742) definiva la melancolia come «associata alla tristezza e alla paura prive di
qualsiasi causa manifesta»55. William Cullen (1710-1790), autorità esimia sulla
melancolia nell’ultima parte del XVIII secolo, osservava che la melancolia è
«sempre accompagnata da una qualche paura manifestamente infondata, ma
piena di tanta ansia»56. E negli Stati Uniti, il famoso ecclesiastico Cotton
Mather (1663-1728) sottolineava la mancanza di una sufficiente giustificazione
esterna per la tristezza nel disturbo melancolico: «I melancolici affliggono sé stessi
a sufficienza, e sono in buona misura tormentatori di sé stessi. Quasi che questo
cattivo mondo presente non permetta cose davvero tristi abbastanza, essi si creano
un mondo di cose immaginarie, e mediando terrore si rendono miserabili, come
sarebbe se fossero colpiti dalle più reali miserie»57. Anche il filosofo Immanuel
Kant (1724-1804) definiva la melancolia soprattutto come «dispiacere [...]
ingiustificato» e distingueva con cura una varietà di condizioni non
patologiche, come quella di individui che si immegono con eleganza in
sentimenti melancolici o quella dell’immaginario «matematico melancolico»
che in realtà è semplicemente introverso e pensoso, dal vero disturbo
mentale58.

3.4 | Il XIX secolo

All’inizio del XIX secolo, l’eminente psichiatra Philippe Pinel (1745-1826)


continuò a mantenere la fondamentale divisione fra i disturbi melancolici e le
conseguenze di reali disgrazie. Nel suo libro del 1801 sul disturbo mentale,
Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale, Pinel rilevava che la melancolia
colpiva «alcuni uomini per il resto in buona salute, e spesso in condizioni
prospere. Ma non c’è nulla di più abominevole che la figura di un melancolico
che rumina sulle sue disgrazie immaginarie»59. Pinel propose anche
un’applicazione particolarmente importante della tesi della proporzionalità
quando distinse le possibili cause non patologiche da quelle patologiche del
suicidio. Ricordando che il filosofo francese Montesquieu, in una sofisticata
osservazione critica sui vicini d’Oltremanica, distingueva i suicidi romani non
patologici ma segnati culturalmente («effetto dell’educazione: dipendevano dai
loro costumi e dal modo di pensare») dalla patologica autodistruzione inglese
(«gli inglesi spesso distruggono sé stessi senza alcuna causa manifesta che li
determini a un simile atto, e anche in condizioni di piena prosperità»), Pinel
adotta la sua distinzione. E la articola affermando che fra i normali elementi
scatenanti del suicidio figurano la grave umiliazione sociale o il rovescio
finanziario, e non manca di mostrarsi diplomatico sul piano medico quando,
parlando delle cause patologiche del suicidio, dice che non è una malattia solo
inglese: «L’inclinazione a questa terribile scelta fatta indipendentemente dalle
comuni motivazioni forti, come la perdita dell’onore o della fortuna, non è
affatto una malattia tipicamente inglese: non è affatto rara anche in Francia»60.
Un illustre discepolo di Pinel, Jean-Étienne-Dominique Esquirol (1772-
1840), continuò ad abbracciare la tradizione di attenzione al contesto,
osservando che la disparità fra la realtà e l’intensità della tristezza può essere
rilevata anche dal paziente: «Alcuni [...] sono a conoscenza della loro
condizione, hanno consapevolezza della sua falsità e dell’assurdità delle paure
in cui sono avviluppati. Percepiscono chiaramente che sono irrazionali, e
spesso lo dichiarano con dolore e persino disperazione»61. Anche Benjamin
Rush (1745-1813), noto come «padre della psichiatria americana», concedeva
che la melancolia era caratterizzata da false credenze o risposte sproporzionate
a credenze:
Un disturbo parziale consiste nell’errore d’opinione e di comportamento su qualche
argomento soltanto, mentre sussiste un buono stato di mente per tutti, o quasi tutti, gli
altri argomenti. L’errore in questo caso può essere duplice. È direttamente contrario alla
verità, o è sproporzionato nei suoi effetti, o nelle conseguenze attese, rispetto alle cause
che lo producono62.
Anche l’eminente psichiatra britannico Henry Maudsley (1835-1918) rilevava
la direzione errata della risposta melancolica nel fatto che «sensazioni che
dovrebbero essere gradevoli o indifferenti sono penose»63. E presentava alcuni
esempi estremi di sproporzione:
In alcuni casi è impressionante quanto la fissazione sia sproporzionata all’estrema
angoscia mentale, dal momento che il paziente attribuisce la sua cupezza a qualche causa
ridicolmente inadeguata: un uomo che avevo in cura, che soffriva terribilmente, diceva
che era perché aveva bevuto un bicchiere di birra, cosa che non avrebbe dovuto fare, e un
altro si riteneva perso per sempre perché aveva biascicato una maledizione mentre doveva
elevare una preghiera64.
Maudsely insisteva che tutte le idee fisse sono effetto, non causa,
dell’intensificazione emotiva che viene con il disturbo.
Pure l’autorevole psichiatra tedesco Wilhelm Griesinger (1817-1868) usava la
sproporzione dei sintomi melancolici rispetto al loro contesto per distinguere
quando essi indicavano un disturbo:
La melancolia che precede la follia a volte appare all’esterno come la diretta
continuazione di un’emozione dolorosa dipendente da qualche causa oggettiva [...] per
esempio, un lutto, la gelosia; e si distingue dalla sofferenza mentale avvertita da persone
sane per la sua eccessiva intensità, per il suo protrarsi più dell’ordinario, per il suo divenire
sempre più indipendente dalle influenze esterne e per le affezioni accessorie che
l’accompagnano. In altri casi la melancolia nasce senza alcuna causa morale65.
Griesinger chiamava la melancolia «uno stato di profonda perversione
emotiva, di un carattere depresso e addolorato»66; per «perversione» intendeva
il dirottamento di un sentimento dagli oggetti a cui dovrebbe essere indirizzato
naturalmente e in misura proporzionata. La melancolia, per lui, coinvolgeva gli
stessi sentimenti delle risposte non patologiche, come il dolore e la gelosia, ma
si distingueva per l’eccessiva intensità, la durata, e soprattutto l’«oggettiva
infondatezza» rispetto ai reali eventi esterni67. Griesinger tuttavia riconosceva
che «il confine fra lo stato fisiologico dell’emozione e la follia è spesso difficile
da tracciare», perché il disturbo «può apparire come l’immediata continuazione
di uno stato fisiologico dell’emozione stabilizzata». Per lui, «la differenza
essenziale» fra il disturbo della melancolia e una «disposizione depressa»
fisiologica è che «nel primo il paziente non riesce ad abbandonare il suo cattivo
umore»68.
Contemporaneamente all’ulteriore elaborazione e accettazione dell’idea
contestuale del disturbo depressivo, un altro importante sviluppo si stava
compiendo nel pensiero medico. Quando i medici estesero la loro attività al di
fuori degli ospedali e cominciarono a visitare più pazienti negli studi privati,
ebbero davanti un campionario molto più ampio di pazienti che arrivavano da
loro a cercare aiuto gravati da intensa tristezza ma che non avevano deliri o
altri sintomi psicotici. Queste forme di melancolia erano state riconosciute sin
dall’antichità, ma l’enfasi era stata posta sempre sui casi deliranti
(«rammollimento senza febbre»). Ora, invece, la forma senza delirio veniva
qualificata come melancolia «semplice», predecessora della depressione
maggiore unipolare di oggi.
Per esempio, lo psichiatra britannico D. Hack Tuke (1827-1895) rigettò
esplicitamente l’idea che la melancolia dovesse comportare la presenza di deliri
e individuò la forma «semplice», la quale è solo questione di sintomi di
tristezza senza deterioramento cognitivo, che abbraccia una categoria di
«melancolia, senza delirio» insieme con una forma melancolica di «pazzia
delirante»69. Egli insisteva che nella melancolia semplice non c’è «nessun
disturbo dell’intelletto [...] nessun delirio o allucinazione»70. Ma ciononostante
individuò «una malattia cerebrale [...] sostenuta da una passione di carattere
triste, debilitante o oppressivo»71. Queste definizioni si imposero a vasto
raggio e anticiparono l’attuale focalizzazione sul tipo di disturbo depressivo
che è il più facile da confondere con le risposte emotive normali.
La maggiore attenzione alla melancolia semplice comportava una
concentrazione ancora più esclusiva sui criteri di contesto nella definizione
generale della melancolia. Per esempio, lo psichiatra John Charles Bucknill
(1817-1897), autore del capitolo sulla diagnosi della malattia mentale di un ben
noto manuale, distingueva i sintomi normali da quelli patologici usando il
criterio del «senza causa», ma senza alcun riferimento a pensieri deliranti:
I sintomi della melancolia sono il dolore, l’avvilimento, la paura e la disperazione, che si
presentano con una intensità molto superiore a quella in cui queste emozioni toccano di
solito la mente sana, anche nelle circostanze più capaci di produrli; e che in numerosi casi
si presentano senza alcuna causa morale adeguata, e spesso senza alcuna causa morale
affatto72.
Trattandosi di risposte del sistema nervoso, «scompare l’eccitazione
proporzionata della funzione»73. Bucknill riteneva quindi che i sintomi della
«melancolia senza complicazioni [...] si differenzino per grado, ma non per
tipo, da quell’afflizione e dolore normale e sano, di cui tutti gli uomini hanno la
loro quota in questa esistenza con luci e ombre»74. Quanto alle cause
scatenanti, osservava: «È provocata da tutte le cause morali della malattia
mentale; soprattutto da lutti, delusioni, rovesci e ansie di ogni genere. È
causata anche dalla lunga durata di cattiva salute»75. Bucknill tuttavia insisteva
che il disturbo attivato da un dolore normale richiedeva generalmente anche
una predisposizione ereditaria76.
Analogamente, lo psichiatra Charles Mercier (1852-1918), nella sua voce sulla
melancolia per l’autorevole Dictionary of Psychological Medicine di Tuke, puntava
esclusivamente sulla proporzionalità con gli eventi reali esterni definendo la
melancolia come «un disturbo caratterizzato da un sentimento di infelicità che
è eccessivo rispetto a quanto giustificato dalle circostanze in cui l’individuo si
trova»77. E parlava di una possibile graduale insorgenza fino al raggiungimento
di un livello di sintomi eccessivo, sproporzionato, e della probabile interazione
fra lo stress e l’ereditarietà: «In particolare il livello di infelicità e degli altri
sintomi raggiunge un punto tale che è senza dubbio al di là dei limiti del
normale, e diviene evidente che il paziente soffre di una depressione
morbosa»78. Mercier riconosceva che le cause della tristezza intensa normale
potevano essere fattori di rischio per lo sviluppo del disturbo depressivo:
Circostanze avverse, come la perdita di amici, o di fortuna, o di ruolo, ogni circostanza
che possa generare dolore, afflizione, agitazione, ansia in una persona con costituzione
ordinaria, sono in grado – se agiscono su una persona con una capacità di resistenza al di
sotto dell’ordinario – di produrre melancolia [...] Quanto più grave è lo stress, tanto
maggiore è, naturalmente, la possibilità che insorga la melancolia79.
Il medico francese Maurice de Fleury (1860-1931), in Médecine de l’esprit,
qualificava la malattia semplicemente come «melancolia senza causa»80. E
spiegava anche come il dolore normale poteva con il tempo trasformarsi in
disturbo, in modo analogo a quello che oggi è nota come la kindling hypothesis
(ipotesi dell’accensione): «Il dolore è uno speciale, più basso grado di attività
del cervello. La mente, se rimane in questo stato per un certo tempo, formerà
l’abitudine, e da quel momento ogni cosa le apparirà in una luce penosa, di
melancolia, pessimistica»81.
Un altro psichiatra, George H. Savage (1842-1921), sottolineava le cause
interne degli stati melancolici patologici. Egli definiva la melancolia come «uno
stato di depressione mentale, in cui l’infelicità è spropositata sia in rapporto
alla sua causa manifesta, sia nella forma peculiare che assume, poiché la
sofferenza mentale dipende da cambiamenti fisici e corporei, e non
direttamente dall’ ambiente»82. Come la maggior parte degli altri autori,
accettava la categoria della melancolia semplice: «La melancolia semplice, cioè
quella di coloro in cui l’infelicità e la sua espressione sono soltanto leggere
esagerazioni di stati naturali, quei casi in cui non c’è un vero delirio, l’idea di
essere rovinati o dannati [...] spesso l’infelicità dà origine al delirio»83.
Il testo psichiatrico più popolare della fine del XIX secolo, Lehrbuch der
Psychiatrie di Krafft-Ebing (1840-1902), continuava a definire la melancolia in
termini di proporzionalità della risposta: «Il fenomeno fondamentale nella
melancolia consiste nella dolorosa depressione emotiva, che non ha una causa
esterna, o ha una causa esterna insufficiente, e nella generale inibizione delle
attività mentali, che potrebbero essere del tutto arrestate»84.
Per Krafft-Ebing:
Un doloroso stato depresso del sentimento [...] che è nato spontaneamente ed esiste
indipendentemente, è il fenomeno fondamentale negli stati melancolici della follia [...]
Anche oggetti che in altre condizioni darebbero origine a sensazioni piacevoli sembrano
ora, nello specchio del suo mutato anormale senso di sé, essere degni di ribrezzo85.
Krafft-Ebing si rendeva conto della sfida di distinguere gli stati depressivi
normali da quelli anormali, soprattutto nei casi della melancolia semplice:
Il contenuto della coscienza melancolica è sofferenza psichica, dolore e depressione [...]
Nel contenuto, questa penosa depressione non differisce dalla dolorosa depressione
dovuta a chiare cause scatenanti [...] Il contenuto dei deliri melancolici è estremamente
diversificato, poiché essi includono tutte le varietà di inquietudine, preoccupazione e
paura umana [...] Il carattere comune di tutti i deliri melancolici è quello della sofferenza
[...] La melancolia semplice è decisamente la forma più frequente di malattia mentale [...]
che solo eccezionalmente si riscontra negli istituti psichiatrici ma che è estremamente
frequente negli studi privati [con] innumerevoli casi leggeri che non arrivano
all’ospedale86.

3.5 | Conclusione

Quel che impressiona in questa breve rassegna della concettualizzazione del


disturbo depressivo da Ippocrate a Krafft-Ebing è, prima di tutto, la notevole
coerenza dei sintomi che vengono menzionati – in generale gli stessi tipi di
sintomi sottolineati dagli attuali manuali diagnostici. E, in secondo luogo, c’è
una tradizione abbastanza solida e ben elaborata che distingue il disturbo
dall’emozione normale tramite varie versioni del criterio del «con causa»
contro «senza causa», risalente ai tempi antichi. Tutta la documentazione di
2500 anni ruota intorno all’idea che la depressione patologica è una forma
esagerata della risposta emotiva umana normale e che quindi il primo passo
nella logica diagnostica dev’essere di usare la relazione con le cause scatenanti
per distinguere la depressione normale da quella patologica. Un terzo punto è
il recente movimento verso un’attenzione maggiore alla «melancolia semplice»
senza idee deliranti, che punta anche di più sul criterio contestuale del «senza
causa» per definire la distinzione fra la tristezza di stampo normale e quella
patologica, e preannuncia la nostra attuale maggiore attenzione al disturbo
unipolare senza sintomi psicotici. Il potere, la coerenza e la razionalità della
comprensione medica del disturbo depressivo attraverso il criterio del «senza
causa» costituiscono lo sfondo per le partenze radicali del secolo successivo
nell’approccio diagnostico. Il capitolo seguente traccia il destino di questa
tradizione nel XX secolo.
Note
1 | Jackson, 1986, p. IX.↵
2 | Kendell, 1968.↵
3 | Radden, 2000.↵
4 | Merikangas e Angst, 1995; Kessler, Abelson, e Zhao, 1998.↵
5 | Ippocrate, 1923-1931, vol. I, p. 263.↵
6 | Ivi, vol. IV, p. 185.↵
7 | Roccatagliata, 1986, pp. 163-164.↵
8 | Jackson, 1986, p. 32.↵
9 | Aristotele, Problemata XXX, 954b, 35s.↵
10 | Ivi, 953a, 10ss.↵
11 | Ivi, 954b, 15-21.↵
12 | Jackson, 1986.↵
13 | Aristotele, Problemata XXX, 955a, 36s.↵
14 | Ivi, 954b, 25-33.↵
15 | Jackson, 1986, p. 33.↵
16 | Ibidem.↵
17 | Ibidem.↵
18 | Ivi, p. 34.↵
19 | Ivi, p. 39.↵
20 | Ivi, p. 40.↵
21 | Ibidem.↵
22 | Ivi, p. 39.↵
23 | Ivi, p. 41.↵
24 | Ivi, p. 42.↵
25 | Ibidem, p. 42.↵
26 | Lewis, 1934.↵
27 | Jackson, 1986, p. 315.↵
28 | Ivi, p. 57.↵
29 | Ivi, pp. 60, 61.↵
30 | Avicenna, 2000, p. 77.↵
31 | Ildegarda di Bingen, 2000, p. 81.↵
32 | In Jackson, 1986, p. 87.↵
33 | Bright, 1586/2000, p. 81.↵
34 | Jackson, 1986, pp. 85-86.↵
35 | Ivi, p. 84.↵
36 | Ivi, p. 91.↵
37 | Burton, 1621/2001, p. 331.↵
38 | Ivi, pp. 143-144.↵
39 | Ivi, p. 137.↵
40 | Burton, 1621/1948, p. 331.↵
41 | Burton, 1621/2000, p. 132.↵
42 | Burton, 1621/2001, pp. 145-146.↵
43 | Ivi, pp. 357-358.↵
44 | Ivi, pp. 358-359.↵
45 | MacDonald, 1981, p. 159.↵
46 | Ivi, p. 159.↵
47 | Ivi, p. 159.↵
48 | Ivi, p. 149.↵
49 | Ivi, p. 78.↵
50 | Jackson, 1986, p. 136.↵
51 | Ibidem.↵
52 | Ibidem.↵
53 | Ivi, p. 130 (corsivo nostro).↵
54 | Johnson, 1755/1805; Radden, 2000, p. 5.↵
55 | Jackson, 1986, p. 118.↵
56 | Ivi, p. 124.↵
57 | Mather, 1724/2000, p. 163.↵
58 | Kant, 1793/2000, p. 201.↵
59 | Pinel, 1801/2000, p. 205.↵
60 | Ivi, p. 209.↵
61 | Jackson, 1986, p. 153.↵
62 | Rush, 1812/2000, p. 213.↵
63 | Maudsley, 1868/2000, p. 252.↵
64 | Ivi, p. 253.↵
65 | Griesinger, 1867/2000, p. 226.↵
66 | Ibidem.↵
67 | Griesinger, 1867, p. 213; in Jackson, 1986, p. 161.↵
68 | Griesinger, 1867, pp. 168-169; in Jackson, 1986, p. 165.↵
69 | Jackson, 1986, p. 166.↵
70 | Ivi, pp. 166-167.↵
71 | Ivi, p. 166.↵
72 | Ivi, pp. 167-168.↵
73 | Ivi, p. 169.↵
74 | Ivi, p. 167.↵
75 | Ibidem.↵
76 | Ibidem.↵
77 | Ivi, p. 180.↵
78 | Ivi, p. 181.↵
79 | Ivi, p. 182.↵
80 | Ivi, p. 184.↵
81 | Ibidem.↵
82 | Ivi, p. 179.↵
83 | Ivi, p. 180.↵
84 | Ivi, p. 174.↵
85 | Ivi, pp. 174-175.↵
86 | Ivi, pp. 176-177.↵
Capitolo 4 | La depressione nel XX secolo

Sino alla fine del XIX secolo, la psichiatria usava generalmente il nesso tra i
sintomi e le cause scatenanti come parte essenziale delle definizioni della
melancolia patologica. Benché alcune tipologie di casi, come le depressioni
psicotiche, presentassero quasi sempre sintomi che denotavano una malattia, i
medici che formulavano la diagnosi si rendevano conto che era per loro
importante tenere conto del contesto, perché sulla base dei soli sintomi era
spesso impossibile distinguere il disturbo depressivo da uno stato normale di
tristezza profonda. Alla fine dell’Ottocento, il tradizionale approccio
contestuale alla diagnosi del disturbo depressivo cominciò a dividersi in due
scuole distinte. Da un lato, Sigmund Freud e i suoi discepoli insistevano
sull’eziologia psicologica di tutti i disturbi mentali, inclusa la depressione, e
sulla loro continuità con il funzionamento normale. I seguaci di questa scuola
studiavano e interpretavano i pensieri riferiti dai pazienti al fine di poter
congetturare l’esistenza di soggiacenti significati e desideri patogeni inconsci*.
Dall’altro lato, Emil Kraepelin applicava il modello medico classico che
esaminava i sintomi, il decorso e la prognosi della depressione e disturbi diversi
al fine di definire distinte patologie fisiche. L’approccio di Kraepelin suggerì a
un gruppo di ricercatori la sua applicazione in un programma di indagine che
impiegava spesso tecniche statistiche per delimitare, in base ai sintomi
manifesti, patologie distinte.
Molti psichiatri videro nella pubblicazione del DSM-III nel 1980 l’iniziativa
capace di risolvere lo scontro tra scuola freudiana e scuola kraepeliniana per il
dominio della nosologia psichiatrica in larga misura a favore dell’approccio di
Kraepelin1. Ma questo giudizio, come vedremo, è decisamente semplicistico
per vari motivi. Con riferimento specifico al disturbo depressivo, i criteri del
DSM-III costituivano in effetti un rifiuto di assunti chiave sia del sistema di
Freud sia di quello di Kraepelin e l’affermazione di una tradizione di ricerca
del tutto differente che ignorava la precedente insistenza sui criteri relativi al
contesto.

4.1 | Prosecuzione della tradizione dei princìpi di «con causa» e


«senza causa» nel XX secolo

4.1.1 | Approcci psicodinamici alla tristezza patologica e a quella normale


All’inizio del XX secolo, il neurologo – poi psicoanalista – austriaco
Sigmund Freud (1856-1939) e i suoi discepoli svilupparono un approccio
rivoluzionario allo studio dei disturbi mentali*. Al centro del loro approccio
c’era lo sforzo di comprendere i sintomi patologici in termini di processi
mentali inconsci, piuttosto che in termini di predisposizioni biologiche e di
eziologia organica. Pur riconoscendo che l’intensità di specifici desideri
coinvolti nella patogenesi poteva essere dovuta indirettamente al corredo
biologico dell’individuo, Freud spostò completamente l’obiettivo della sua
osservazione postulando cause immediate, spesso puramente psicogene, come
desideri repressi, conflitti psicologici, o la trasformazione in ansia di un’energia
motivazionale repressa: tutti elementi che avevano poco a che fare con cause
ereditarie o altre immediatamente fisiche. Gli psicoanalisti prestavano
relativamente scarsa attenzione ai sintomi in sé e cercavano invece di
identificare le soggiacenti e presumibilmente inconsce dinamiche dei disturbi
mentali, che a loro avviso davano luogo ai sintomi. Inoltre, dato il tipo di
conflitti e altri processi psicologici che postulavano come eziologia, gli
psicoanalisti vedevano la psicodinamica sottostante ai disturbi mentali come
generalmente in continuità con la psicodinamica della normalità, non separata
da quest’ultima, confondendo così i confini fra normalità e patologia*.
Per gli psicoanalisti, la depressione era un importante meccanismo alla base
della formazione dei sintomi presente in qualche misura in quasi ogni nevrosi.
Affermavano una continuità fra gli stati ordinari di tristezza, gli stati nevrotici
di depressione e gli stati psicotici di melancolia. Gli analisti, per esempio,
consideravano la psicosi maniaco-depressiva come un’espressione
estremamente esagerata dei medesimi processi psicologici che sono alla base
dell’esaltazione e dell’abbassamento di autostima di cui tutti facciamo
esperienza2.
I tentativi della psicoanalisi di spiegare la depressione si basavano sul
presupposto tradizionale di una differenza fra gli stati depressivi che traevano
origine da cause ambientali prevedibili e quelli che spuntavano senza di esse.
Karl Abraham (1877-1925), discepolo di Freud, fornì la prima spiegazione
psicoanalitica della depressione, fondando la sua teoria sulla distinzione fra
disagio normale e depressione3. Abraham considerava stati quali il disagio e la
depressione, che all’esterno apparivano simili, come in realtà distinti, perché
avevano alla base dinamiche eziologiche diverse. Il lutto di un congiunto del
defunto, spiegava Abraham, nasce da un legame affettivo conscio con la
persona perduta. Il depresso, invece, è inquieto per un senso di colpa e per la
bassa autostima. Inoltre, i sintomi della depressione derivano dal fatto che il
depresso rivolge inconsciamente verso sé stesso l’ostilità che nutre nei
confronti di un’altra persona: da cui la comune descrizione psicoanalitica della
depressione come «rabbia rivolta verso sé stessi» e la conseguente strategia
terapeutica tesa a far sì che il paziente possa esprimere la sua rabbia repressa*.
Freud si servì della distinzione operata da Abraham fra disagio normale e
depressione nelle sue riflessioni su Lutto e melanconia (1915), il principale
articolo da lui scritto sulla depressione. Freud apriva il suo saggio mettendo in
risalto le differenze fra disagio normale e melancolia e spiegando che
sebbene il lu o compor gravi deviazioni dall’a eggiamento normale verso la vita, non si pensa mai
di considerarlo come uno stato patologico che richiede un tra amento medico. Siamo convin del
fa o che dopo un certo periodo di tempo tale stato viene superato, e consideriamo perciò inu le se
non dannosa qualsiasi forma di interferenza4.

Freud dunque distingue fra la normalità del lutto e la malattia della


melancolia. Afferma che i sintomi associati al lutto sono intensi e manifestano
«gravi deviazioni dall’atteggiamento normale», nel senso che il comportamento
di chi è immerso nel dolore si discosta molto da quello consueto. E tuttavia,
quello del lutto non è uno stato «patologico»; non è, cioè, un disturbo medico
che rappresenti il crollo di una risposta biologicamente normale. Quindi non
richiede trattamento medico; anzi, Freud sottolinea che «consideriamo perciò
inutile» prestare un trattamento medico alla persona in lutto. E ricorda inoltre
che il lutto guarisce naturalmente, per cui con il tempo il soggetto colpito da
lutto ritorna allo stato psicologico normale. L’intervento medico, suggerisce,
può persino recare danno, interferendo con questo processo naturale.
Pur rilevando che le persone in lutto non soffrono dello stesso immotivato
calo dell’autostima che caratterizza i melancolici, Freud sottolinea che per il
resto i sintomi si assomigliano molto. Sia il lutto sia la melancolia comportano
un profondo avvilimento, una perdita d’interesse per il mondo esterno,
un’incapacità di sentire piacere e una inibizione dell’attività. La distinzione fra il
lutto e la melancolia, dunque, non sta tanto nei sintomi, quanto piuttosto nel
fatto che il primo stato è una reazione normale alla perdita, mentre il secondo
è patologico.
La versione della distinzione fra depressione con causa (lutto) e depressione
senza causa (melancolia) proposta da Freud, gli permette di spiegare la
differente dinamica psichica soggiacente alle due condizioni. Per i soggetti in
lutto, il mondo diventa vuoto e privo di significato a causa di perdite consce
subite, per i melancolici invece è l’io che risulta impoverito a causa di perdite
inconsce. I rimproveri che essi muovono contro sé stessi dirottano
patologicamente su di loro, da precedenti oggetti d’amore, un’ostilità
interiorizzata. Lo scopo della terapia doveva essere, pertanto, di insegnare ai
pazienti a indirizzare la loro rabbia interna verso gli oggetti che erano i suoi
obiettivi effettivi. Quelli che sperimentano una tristezza normale, invece,
attraversano un processo naturale e necessario nel quale è «inutile se non
dannoso» interferire con un trattamento medico.
Rigettando la tradizione di 2500 anni che postulava cause organiche per la
depressione patologica, Freud adottava quindi una teoria psicogena della sua
causa. E tuttavia, Freud e altri psicoanalisti accettavano in gran parte come
ovvia la tradizionale distinzione fra la profonda tristezza normale, conseguente
a una perdita, e la depressione patologica – del tutto simile, dal punto di vista
dei sintomi – sproporzionata alla perdita.

4.1.2 | Kraepelin e il disturbo depressivo


Emil Kraepelin (1856-1926), psichiatra tedesco contemporaneo di Freud,
cercò di collocare la psichiatria in una cornice strettamente biomedica che
considerava i disturbi mentali come manifestazioni di patologie cerebrali
organiche. Usò i sintomi e il decorso dei disturbi per creare delle categorie
corrispondenti – diceva – alle distinte condizioni patologiche sottostanti, che
sperava di veder confermate alla fine dall’identificazione di lesioni anatomiche.
Costruì la sua dottrina su lavori precedenti che avevano tentato di separare i
pazienti dei manicomi in quelli che avrebbero potuto in seguito essere restituiti
alla comunità e quelli che con ogni probabilità erano destinati a peggiorare.
Kraepelin è noto per aver distinto nella prognosi la psicosi maniaco-depressiva
(oggi disturbo bipolare), che tendenzialmente esplodeva in episodi e poi
recedeva, e la dementia praecox (oggi schizofrenia), che tendenzialmente aveva un
decorso degenerativo, come due forme fondamentali di disturbo psicotico.
I contributi di Kraepelin alla diagnosi psichiatrica, in particolare i suoi sforzi
di classificazione basati sull’attenta analisi dei sintomi, sono ora considerati da
molti come i precursori della successiva trasformazione della diagnosi
psichiatrica proposta dal DSM-III. Non a caso i DSM recenti vengono oggi
definiti «neokraepeliniani»5. Alcuni eminenti storici della medicina, proprio
osservando l’affinità con l’approccio del DSM-III, vedono in Kraepelin la
figura principale della psichiatria moderna, superiore anche a Freud: «È
Kraepelin», afferma Edward Shorter, «non Freud la figura centrale della storia
della psichiatria»6. Poiché l’approccio diagnostico di Kraepelin è così legato a
quello del DSM, è giusto esaminare in dettaglio le sue opinioni.
Kraepelin iniziò la sua carriera di medico in un manicomio di Monaco e
conservò poi il suo interesse quasi esclusivo per i disturbi psicotici anche da
professore, a Heidelberg, e da direttore della clinica psichiatrica di Monaco7.
Sviluppò il suo sistema di classificazione utilizzando le descrizioni dei casi degli
internati. Gli ospedali psichiatrici erano diventati il contesto comune per la
cura dei malati mentali gravi nel corso del XIX secolo8. Prima di allora, la
maggior parte dei pazienti depressi, come quelli di Richard Napier, doveva
farsi visitare dai medici di base che si occupavano di una grande varietà di
malattie più o meno gravi. Quelli che erano tristi per problemi di vita
quotidiana in genere gestivano le loro sofferenze da soli, o magari chiedendo
aiuto ad amici e parenti, o consultando medici generici e preti9.
L’effetto dell’ospedale psichiatrico fu di concentrare in un unico luogo i
malati più gravi, e loro soltanto. Quelli che andavano in manicomio erano di
solito in condizioni così serie che non c’era da domandarsi se i loro sintomi
fossero o no risposte proporzionate alle circostanze della vita. L’interrogativo
pressante per Kraepelin, perciò, non era se i pazienti del manicomio fossero
malati o soffrissero di una normale infelicità, ma piuttosto quale particolare
tipo di disturbo avessero.
Kraepelin aveva davanti a sé un campo in pieno caos intellettuale, senza
alcun sistema diagnostico condiviso. Fin dai tempi della Grecia antica tutti
avevano usato i sintomi per individuare le malattie. Ma non esistendo un
principio accettato da tutti su come catalogare i diversi quadri sintomatici che
medici e psichiatri osservavano, l’uso dei sintomi consentiva un gran numero
di possibili schemi di classificazione. A un estremo, c’erano quelli che
classificavano praticamente ogni quadro sintomatico come una malattia
distinta, il che portava a una proliferazione delle malattie che raggiungeva le
centinaia di categorie. All’altro estremo, c’erano quelli che, concentrati sulla
psicosi, consideravano tutte le malattie mentali come varianti di un unico
disturbo10. Per esempio, la prima indagine che nel 1840 fece un censimento dei
disturbi mentali negli Stati Uniti rifletteva quest’ultimo approccio e
comprendeva un’unica categoria, la «pazzia»11.
L’attenzione puntigliosa di Kraepelin ai sintomi e al loro decorso per
derivarne distinti stati patologici come causa di quei sintomi, si inseriva nella
linea di una tradizione della medicina fisica aperta dal medico inglese del
Seicento Thomas Sydenham e sviluppata dal patologo tedesco dell’Ottocento
Rudolph Virchow. Questo approccio aveva contribuito enormemente a
distinguere le malattie fisiche, soprattutto dacché la conoscenza degli agenti
infettivi e della patologia fisica cominciò a crescere rapidamente12.
Kraepelin fu sicuramente influenzato molto anche dal fatto di essersi reso
conto progressivamente che uno dei più terribili disturbi mentali del suo
tempo, la paralisi generale (su cui scrisse un libro), dipendeva dall’infezione
sifilitica del sistema nervoso. Questa scoperta sorprendente consegnava due
lezioni. Primo, i disturbi mentali, al pari dei disturbi fisici, potevano essere
dovuti a una sottostante patologia fisica di qualche tipo, e quindi si
inquadravano direttamente nella teoria diagnostica tradizionale. Secondo, i
diagnosti individuarono la paralisi generale come sindrome specifica basandosi
sui sintomi e sul decorso rapido e terrificante della malattia, nonché sulla sua
prognosi infausta: al pari della stessa sifilide, i sintomi cambiavano nel corso
del tempo e potevano differire notevolmente fra loro nei diversi stadi della
malattia, ma il disturbo sottostante era sempre lo stesso e semplicemente si
evolveva. La morale era chiara: per identificare una malattia, non si doveva
badare solo ai sintomi di un particolare momento ma a quelli del suo intero
decorso.
Le descrizioni kraepeliniane dei sintomi depressivi che si manifestano in
presenza di vari disturbi affettivi o dell’umore – sintomi psichici come lentezza
del pensiero, senso di disperazione, tormento interiore, inibizione motoria e
incapacità di provare piacere, e sintomi fisici, come disturbi del sonno e
dell’appetito e spossatezza – sono rimaste alla base delle classificazioni
diagnostiche correnti delle malattie depressive. Pietra angolare del pensiero di
Kraepelin era che una grande varietà di quadri sintomatici di disturbi affettivi
rimandavano in realtà a un’unica patologia sottostante. In linea con questa
presunta unità sottostante a diversi quadri sintomatici, egli classificò anche
soggetti che erano solo depressi e non presentavano sintomi maniacali come
affetti da malattia maniaco-depressiva. «Nel corso degli anni», sottolineava
Kraepelin, «mi sono sempre più convinto che tutti gli stati [melancolici]
costituiscono manifestazioni di un unico processo morboso»13. La convinzione di
Kraepelin che gli stati depressivi unipolari fossero varianti della medesima
condizione morbosa sottostante agli stati maniaco-depressivi era fondata sulla
constatazione della comunanza dei loro sintomi e sul fatto che spesso nelle fasi
più avanzate di disturbi che all’inizio presentavano solo sintomi depressivi si
manifestavano sintomi maniacali. Nel tempo, molti pazienti con disturbi
affettivi presentavano stati depressivi, stati maniacali e stati misti. Kraepelin
includeva nella categoria maniaco-depressiva anche disturbi «leggeri»
dell’umore che «in mancanza di un confine netto [vanno a finire] nel vasto
campo della predisposizione individuale», assumendo che queste forme leggere
fossero abbozzi di disturbi che spesso evolvevano in forme più gravi14.
Kraepelin riteneva inoltre che la maggior parte dei disturbi affettivi avessero
origine da predisposizioni ereditarie; pertanto, «gli attacchi di psicosi maniaco-
depressiva possono essere in misura sorprendente indipendenti da influenze
esterne»15. Anche molti casi che sembravano essere provocati in maniera
normale da eventi esterni come la morte di una persona cara, conflitti, amore
non corrisposto, infedeltà, o difficoltà finanziarie, erano in realtà
manifestazioni di disturbi che avevano origine in disposizioni innate. «La causa
reale della malattia», scriveva Kraepelin, «va ricercata in cambiamenti interni
permanenti, che almeno molto spesso, o forse sempre, sono innati»16. Questi
stati patologici potevano essere distinti dalla normalità grazie a prove evidenti
quali i sintomi maniacali, l’inspiegabilità del loro manifestarsi, l’ideazione
psicotica, o la loro durata ben dopo che il fattore scatenante era scomparso.
La relazione fra l’opera di Kraepelin e la rivoluzione del DSM-III è
complessa e meno chiara di quanto spesso si pensi. Il principale responsabile
dello sviluppo del DSM-III, lo psichiatra Robert Spitzer, nega di essere un
«neo-kraepeliniano», dal momento che egli non parte né dall’idea che debbano
esserci patologie distinte alla base delle differenti sindromi né dall’idea che le
malattie mentali siano dovute in gran parte a danni organici del cervello, due
princìpi fondamentali dell’approccio di Kraepelin17. Soprattutto, Kraepelin
rifiutava l’uso di una rigida cornice sintomatologica come necessaria e
sufficiente per la diagnosi. Egli usava invece tutte le prove disponibili, inclusa
la prognosi dei sintomi, per dedurre quale fosse la malattia presente.
Naturalmente, i diagnosti non possono che utilizzare i sintomi come loro
principale risorsa, ma Kraepelin lo faceva in un modo che voleva trascendere i
sintomi per raggiungere la patologia sottostante, un approccio che non
coincide affatto con l’atteggiamento del DSM-III, che fa pesante affidamento
su definizioni operative incentrate esclusivamente sulle sindromi.
L’approccio di Kraepelin per diagnosticare patologie separate dipendeva
ovviamente dall’aver precedentemente identificato una determinata condizione
come patologia, distinta dagli stati non patologici che non comportano alcuna
sottostante eziologia patologica. Ma in che modo Kraepelin operò la
distinzione fra tristezza normale e patologia?

4.1.3 | Kraepelin e la tristezza normale


In passato, i commentatori non hanno preso in esame il modo in cui
Kraepelin operò la distinzione fra la tristezza normale e la patologia. Nelle sue
opere, per la verità, non c’è molto di esplicito su questo argomento. Come già
rilevato, il contesto del manicomio in cui lavorava tendeva a rendere irrilevante
questa distinzione, dato che tutti i suoi pazienti erano probabilmente affetti da
patologie. Inoltre, come molti psichiatri, Kraepelin era più preoccupato dei
falsi negativi e del danno che il mancato riconoscimento di una vera patologia
poteva arrecare, che non dei falsi positivi e della possibilità che a una persona
normale fosse affibbiata erroneamente l’etichetta di soggetto malato.
E tuttavia Kraepelin si occupò di questa distinzione, abbracciando la dottrina
della tradizione medica precedente, e cioè che la profonda tristezza non
patologica insorge in risposta a vari tipi di perdite e può somigliare, dal punto
di vista dei sintomi, al disturbo depressivo. Kraepelin, dunque, accettava il
tradizionale principio secondo cui il modo per distinguere il disturbo
depressivo patologico dalla tristezza normale era di stabilire se la tristezza era
senza causa (o senza causa proporzionata). Benché non includesse
esplicitamente il principio del «senza causa» fra i suoi criteri diagnostici,
espresse comunque la sua posizione sulla tristezza normale in osservazioni
sparse:
Le emozioni morbose sono distinte dalle emozioni sane soprattutto per la mancanza di
una causa sufficiente, nonché per la loro intensità e persistenza [...] Anche gli umori
normali della vita vanno e vengono in maniera bizzarra, ma noi siamo sempre in grado di
controllarli e dissolverli, mentre gli umori morbosi sfidano tutti i tentativi di controllo.
Ancora una volta, le emozioni morbose si agganciano a volte a certe occasioni esterne,
ma non svaniscono quando la causa sparisce come accade con i sentimenti normali, e
acquistano una certa indipendenza18.
Qui, Kraepelin sottolinea che gli stati morbosi o erano senza «causa
sufficiente» nelle circostanze esterne o, quando inizialmente sembravano avere
una causa, diventavano indipendenti e permanevano anche dopo che le
circostanze erano cambiate. Questi casi includevano sia stati che erano
morbosi fin dall’inizio, sia stati che iniziavano come risposte normali ma poi
divenivano morbosi.
Kraepelin affrontò la questione della differenziazione fra patologia e
tristezza normale in alcune delle sue esposizioni di casi clinici, come la
seguente:
Vi presenterò per primo un contadino, di 59 anni, ricoverato in ospedale un anno fa […]
Interrogato sulla sua malattia, egli esplode in lamenti, dicendo che non aveva detto tutta
la verità al momento della sua ammissione, ma aveva nascosto il fatto che da giovane era
caduto nel peccato praticando impurità con sé stesso: ogni cosa che faceva era sbagliata.
«Sono tanto apprensivo, tanto miserabile; non posso continuare a mentire per l’ansia. O
Dio, se solo non avessi peccato in maniera così terribile!» […] La malattia era iniziata a
poco a poco sette o otto mesi prima del suo arrivo in ospedale, senza alcuna causa
riconoscibile. Per prime si erano manifestate perdita d’appetito e dispepsia, poi le idee di
peccato […] Il tratto più sconcertante di questo quadro clinico è la depressione apprensiva. A
prima vista, assomiglia alle ansie di una persona sana, e il paziente dichiara di essere stato
sempre apprensivo e di essere andato via via peggiorando. Per l’apprensione non c’era
alcuna causa esterna, e tuttavia è durata mesi, aggravandosi vieppiù. Questo è un segno
diagnostico del suo carattere morboso19.
Kraepelin annotava che anche i sintomi emotivi e fisiologici estremi di
questo paziente erano coerenti con una profonda tristezza normale,
soprattutto in una persona con propensione caratteriale al melancolico. Ma,
osservava, i sintomi del paziente erano iniziati «senza alcuna causa
riconoscibile». E poi, oltre al fatto che «per l’apprensione non c’è alcuna causa
esterna», la condizione era durata mesi (quindi lunga e chiaramente eccessiva) e
non aveva mostrato – come accade negli episodi di tristezza normale – un
percorso di sintomi in calo progressivo; anzi, si era «aggravata vieppiù» nel
tempo, anche se nulla era accaduto fuori di lui che giustificasse tale
aggravamento. Questa assenza di connessione della condizione del paziente
con eventi esterni, e soprattutto la mancanza di un percorso che riveli un
modo normale di affrontare e dominare la situazione, «è un segno diagnostico
del suo carattere morboso».
Kraepelin emise per questo paziente una diagnosi di disturbo depressivo, e in
effetti il paziente sarebbe stato un perfetto candidato per una diagnosi di
Disturbo Depressivo Maggiore secondo il DSM, visti la durata e i sintomi
dell’episodio depressivo, fra cui i problemi di sonno, di appetito, di umore
depresso e un forte senso di colpa e rimprovero contro sé stesso ingiustificato.
Ma i commenti di Kraepelin sulla diagnosi differenziale di questo disturbo
depressivo rispetto alla tristezza normale implicano una divergenza dal DSM,
non per il caso di questo paziente, ma per i casi di risposte normali che
potrebbero assomigliare a questo nella sintomatologia esibita dal paziente. Il
punto critico nella posizione di Kraepelin è che, dopo aver passato in rassegna
durata e sintomi, egli notava che «a prima vista, assomiglia alle ansie di una
persona sana», soprattutto di una persona dal temperamento un po’
melancolico (ma all’interno della normalità). (In effetti, i lamenti e il senso di
colpa del paziente ricordano una delle descrizioni di Timothie Bright,
esaminata nel capitolo precedente, di casi di intenso ma normale senso di
colpa dovuto alla convinzione di un soggetto di aver peccato contro la legge di
Dio.) Kraepelin, cioè, riconosceva che sintomi di quella durata e gravità
potevano essere una risposta normale agli eventi. Secondo Kraepelin, non
erano la durata o i sintomi in sé stessi che gli permettevano di concludere per il
carattere patologico di quella condizione, ma la loro mancanza di
proporzionalità con una qualsiasi plausibile causa esterna. Stando ai criteri dei
sintomi e della durata di due settimane, il DSM diagnosticherebbe invece
automaticamente per un simile individuo una patologia depressiva, senza la
valutazione aggiuntiva fatta da Kraepelin. Nell’ottica del DSM, la puntuale
discussione di Kraepelin è inutile, poiché dati i sintomi non esiste possibilità di
risposta normale, e quindi non c’è da fare una diagnosi differenziale.
In un altro brano in cui ribadiva il criterio del «senza causa» come centrale
per la diagnosi, Kraepelin chiariva che, anche ai suoi tempi, quando i casi gravi
erano la regola fra i pazienti psichiatrici, c’era una reale possibilità di sbagliare
nel classificare una persona normale come malata, perché i sintomi potevano
essere identici:
In certe situazioni può essere molto difficile distinguere un accesso di psicosi maniaco-
depressiva da uno stato psicogeno di depressione. Diverse volte mi sono stati portati
pazienti che per il loro profondo avvilimento, l’inespressività e la tensione ansiosa
portavano a concludere che si fosse in presenza di una depressione ciclica, mentre in
seguito veniva fuori che si trattava di casi di umore instabile, causati da gravi
comportamenti delinquenziali e incombenti procedimenti giudiziari. Siccome le forme
più leggere di depressione da psicosi maniaco-depressiva, per quanto ne sappiamo,
possono assomigliare perfettamente a giustificati sbalzi d’umore, con la differenza
essenziale che insorgono senza causa scatenante, a volte non sarà possibile arrivare subito
a una corretta interpretazione se non si ha conoscenza della storia pregressa in casi del
tipo menzionato20.
Benché riconoscesse come patologie vere e proprie alcune depressioni
psicogene (cioè, quelle causate da fattori strettamente psicologici senza una
qualsiasi causa biologica alla base degli stati maniaco-depressivi), Kraepelin
usava il termine «psicogeno» anche con riferimento a stati di tristezza normale
che avessero una sufficiente causa esterna. Il punto cruciale, che Kraepelin
trasse dalla sua esperienza, è che «le forme più leggere di depressione da
psicosi maniaco-depressiva, per quanto ne sappiamo, possono assomigliare
perfettamente a giustificati sbalzi d’umore, con la differenza essenziale che
insorgono senza causa scatenante».
Kraepelin riconobbe di aver considerato inizialmente malati i pazienti in
questione, ricordando che i dati di contesto che rovesciarono il suo giudizio
vennero fuori solo «in seguito». Ciò conferma che Kraepelin si rendeva conto
che l’esposizione dei sintomi di casi normali e patologici poteva essere identica,
e ciò spiega perché insistesse sul fatto che il contesto causale fosse il criterio
essenziale per la diagnosi differenziale. Vale anche la pena notare che nessuno
dei casi normali che egli dice di aver incontrato ruotava intorno al lutto, l’unica
circostanza accettata dal DSM, ma piuttosto erano «causati da gravi
comportamenti delinquenziali e incombenti procedimenti giudiziari». Pertanto,
come vedremo, il DSM classificherebbe probabilmente come patologici questi
casi che Kraepelin diagnosticò come normali, perché ignora la «differenza
essenziale» del contesto.
Consideriamo un altro dei casi di Kraepelin che solleva la questione della
distinzione fra malattia e normalità:
Vi presento adesso una vedova di 54 anni, che ha tentato più volte, molto seriamente, di
togliersi la vita. Questa paziente non ha nessuna storia di malattia. Sposatasi a 30 anni, ha
quattro figli sani. Dice che il marito è morto due anni fa, e da allora continua a dormire
male. Costretta all’epoca a vendere la casa, perché l’eredità doveva essere divisa, era
diventata apprensiva, e pensava di essere arrivata al punto da desiderare la morte, anche
se, ragionando con calma, capiva che le sue paure erano prive di fondamento […] Questa
paziente, inoltre, è del tutto esplicita con quanti la circondano, e fornisce ogni
informazione sul suo stato. Non ha vere fissazioni, a parte la paura di non poter tornare
più nelle buone condizioni di prima. In realtà, ci rendiamo conto che il significato proprio
di tutto il quadro nosologico è solo quello di una prolungata depressione apprensiva, con gli
stessi fenomeni collaterali che osserviamo nell’agitazione mentale dei sani: perdita di
sonno e di appetito, disturbi nell’alimentazione in generale. La somiglianza con l’ansia
della persona sana è tanto maggiore in quanto la depressione ha fatto seguito a una
dolorosa causa esterna. Ma possiamo facilmente notare come la gravità, e soprattutto la
durata, della depressione emotiva sono andate al di là dei limiti del normale. La stessa
paziente si rende conto abbastanza chiaramente che la sua apprensione non è giustificata
dalla situazione reale di vita, e che non c’è nessuna ragione perché debba desiderare di
morire21.
Questa paziente stava attraversando il suo primo e unico episodio di sintomi
depressivi; non aveva «nessuna storia di malattia». Oltre a presentare un umore
depresso, la paziente presentava un’ideazione suicidaria ed era insonne, aveva
perso l’appetito ed era indebolita («disturbi nell’alimentazione in generale»):
tutto l’avrebbe resa quindi suscettibile di una diagnosi di DDM secondo il
DSM. Benché i sintomi si fossero manifestati subito dopo la morte del marito,
l’elemento scatenante sembra fosse stato piuttosto la successiva necessità di
vendere la casa con la conseguente paura di restare in povertà; come abbiamo
visto nel Capitolo 2, le conseguenze finanziarie e sociali di una perdita possono
incidere sulla gravità di una reazione normale. Ancora una volta, i sintomi –
inclusa l’idea del suicidio, che si può presentare in persone non malate in
situazioni di forte costernazione* – sono costituiti dagli «stessi fenomeni
collaterali che osserviamo nell’agitazione mentale dei sani». In effetti, «la
somiglianza con l’ansia della persona sana è tanto maggiore in quanto la
depressione ha fatto seguito a una dolorosa causa esterna».
Come mai, allora, Kraepelin concluse che questa donna era malata? Benché
ci fosse un fattore scatenante, la reazione, durata circa due anni e segnata da
seri tentativi di suicidio, andava oltre qualsiasi possibile proporzionalità con il
fattore scatenante: «La gravità, e soprattutto la durata, della depressione
emotiva sono andate al di là dei limiti del normale». Ciò significava, in effetti,
che quei sentimenti erano senza causa. Cosa che era chiara alla stessa paziente:
«Ragionando con calma, capiva che le sue paure erano prive di fondamento
[…] La stessa paziente si rende conto abbastanza chiaramente che la sua
apprensione non è giustificata dalla situazione reale di vita, e che non c’è
nessuna ragione perché debba desiderare di morire». Anzi, in realtà aveva tutte
le ragioni per vivere, fra cui i quattro figli sani. Il caso illustra come, quando la
gravità e la durata dei sintomi sono sproporzionate al fattore scatenante, questi
vadano considerati in effetti come sintomi «senza causa», poiché il contesto
che interagisce con la natura umana normale non li spiega completamente.
Come Kraepelin sottolinea altrove, «l’avvilimento che nella vita normale
accompagna le esperienze di dolore a poco a poco scema, ma nella malattia
anche un ambiente allegro non riesce a mitigare la tristezza, anzi può
addirittura renderla più intensa»22.
Riassumendo: Kraepelin manteneva la distinzione tradizionale fra gli stati
depressivi «con» e «senza causa». Non i sintomi in sé stessi, ma i sintomi che si
distaccavano dai loro contesti e assumevano una vita a sé stante indicavano la
malattia. Kraepelin presentava i sintomi come prove per arrivare a una diagnosi
ma, contrariamente al DSM, non cercò mai di definire i disturbi unicamente in
termini di sintomi necessari e sufficienti. Riconobbe con chiarezza gli episodi
depressivi normali «con causa», che erano proporzionati ai loro fattori
scatenanti e scemavano all’esaurirsi dell’elemento stressante, e si impegnò
attivamente a cercare il modo di distinguere la tristezza normale dalla
patologia, nonostante l’eventuale somiglianza dei sintomi.

4.1.4 | Adolf Meyer sui pi di reazione normale e patologica


Adolf Meyer (1866-1950), psichiatra di origine svizzera, docente di
psichiatria alla Johns Hopkins University, è generalmente considerato lo
psichiatra americano di punta della prima metà del XX secolo. Entrambe le
tradizioni, quella fisiologica kraepeliniana e quella psicologica freudiana,
influenzarono Meyer, che inizialmente si fece un nome per aver portato le idee
kraepeliniane nella psichiatria americana; ma personalmente non era schierato
del tutto né con l’una né con l’altra scuola. Negli anni Venti sviluppò un
proprio approccio distinto, che si concentrava più sul percorso di vita, la
personalità e la capacità dei pazienti di rispondere alle sfide adattive e meno
sulle particolari malattie che potevano avere. In pratica, ripensò radicalmente le
malattie psichiatriche come menomazioni della capacità di rispondere ai
problemi d’ogni giorno. L’approccio di Meyer influenzò fortemente le
descrizioni delle patologie delle prime due edizioni del DSM che precedettero
la fondamentale terza edizione.
Come gli psicoanalisti, Meyer insisteva su un approccio contestuale alla
depressione. Era convinto che i sintomi, le cause e le prognosi delle malattie
depressive erano troppo eterogenei per poter essere raccolti in un’unica
condizione morbosa. Per questo sviluppò un approccio «biopsicosociale», che
partiva dall’idea che a produrre le condizioni di ciascun individuo erano le sue
specifiche predisposizioni personali, le circostanze ambientali e le esperienze di
vita. Per Meyer, i disturbi psichiatrici, inclusa la depressione, erano reazioni
maladattive che nascevano sulla base di predisposizioni costituzionali e
psicologiche, dell’educazione individuale e delle situazioni sociali, oltre che
dell’interazione fra gli organismi individuali e i loro ambienti. In una
formulazione in sintonia con la tradizione del «senza causa», Meyer definiva la
melancolia semplice come «una depressione eccessiva e del tutto ingiustificata»
e la depressione semplice come «più o meno, eccessi di depressione
normale»23.
Sulla scia, invece, dell’attenzione di Kraepelin a una classificazione che si
richiamava a sottostanti patologie organiche come nella diagnosi delle malattie
fisiche, Meyer includeva nelle reazioni allo stress una componente
costituzionale (biologica). Concependo le malattie mentali come
malfunzionamenti della capacità globale dell’individuo di reagire in maniera
adattiva a situazioni stressanti, egli elaborò una cornice generale in cui
inquadrare tutte le patologie, sintetizzata nello schema «situazione, reazione e
accomodamento finale»24. Meyer affermava che «le condizioni che
incontriamo in psicopatologia sono tipi di reazioni più o meno anormali»25.
Parlando di reazioni e accomodamenti, Meyer non includeva nella sua
concezione della patologia la tristezza normale di risposta a una perdita. Anzi,
concependo gli episodi patologici come malfunzionamenti delle risposte a
eventi, egli in sostanza spingeva gli psichiatri a vedere le persone malate come
soggetti che reagivano in maniera funzionalmente non corretta ai loro contesti
ambientali.
In linea di principio, Meyer e i suoi seguaci si attenevano a una distinzione
chiara, coerente e tradizionale fra le reazioni normali (proporzionate) e le
reazioni patologiche (eccessive e sproporzionate). E vedevano anche con
chiarezza che la distinzione fra depressione normale e depressione patologica
non sta nei sintomi ma nella relazione con gli eventi. Il manuale meyeriano di
Wendell Muncie, Psychology and Psychiatry (1939), con prefazione di Meyer,
definiva il disturbo depressivo come una reazione che si differenzia
dall’esperienza universale di tristezza normale per la sua sproporzione:
La depressione è una reazione irresistibile in cui un umore di tristezza dominante e fisso
o un suo equivalente appare come il tema centrale che determina una sindrome […]
L’umore può essere abbastanza generico come tristezza, infelicità, melancolia, o più
definito nei contorni come preoccupazione o depressione ansiosa. La reazione si
manifesta in un rallentamento e riduzione generale delle attività utilitarie, una perdita di
iniziativa […] un rallentamento del pensiero […] in idee di autosvalutazione e disprezzo
di sé ecc. La depressione patologica va distinta dalla depressione normale per la sua
maggiore fissità, profondità, e per la sproporzione rispetto ai fattori causali. La
depressione è la reazione maggiore e la più facile da cogliere perché la depressione di
proporzioni normali è un’esperienza universale26.
Da notare che Muncie dava implicitamente per assodato che i sintomi della
depressione normale, benché proporzionati alle cause, fossero simili a quelli di
alcune depressioni patologiche. Per questo, solo dopo aver esaurito la
descrizione dei sintomi, aggiunse i criteri per distinguere i due tipi di
depressione con i metri noti, tradizionali: maggiore durata («fissità»), insolita
gravità dei sintomi («profondità») e sproporzione rispetto alla causa.
Sia Meyer che gli psicoanalisti concentravano il loro interesse più sulla
comprensione della personalità e delle circostanze della vita che sulla
differenziazione delle distinte condizioni morbose. La loro massima influenza
classificatoria è riconoscibile nei manuali diagnostici precedenti il DSM-III, e
cioè nel DSM-I e nel DSM-II che, in alcune delle loro definizioni, fra cui
quella del disturbo depressivo, adottarono la terminologia di «reazione» di
Meyer e le idee psicoanalitiche sull’ansia e la difesa.

4.1.5 | Le prime classificazioni psichiatriche


Durante la prima metà del XX secolo negli Stati Uniti la nomenclatura
psichiatrica non mostrò un particolare interesse per la classificazione. Poi,
l’esigenza amministrativa di conservare tracce statistiche delle malattie divise
per gruppi di pazienti internati negli ospedali spinse a sviluppare dei manuali
diagnostici27. Le diagnosi si concentravano sugli stati delle persone che si
trovavano nei contesti istituzionali – che rappresentavano all’epoca l’ambiente
prevalente di cura della malattia mentale –, e riflettevano quindi il fatto che la
maggior parte degli psichiatri svolgeva la sua attività negli ospedali psichiatrici.
Di conseguenza, i sistemi diagnostici tendevano a ignorare le condizioni
nevrotiche meno gravi che gli psicoanalisti osservavano solitamente nei
pazienti ambulatoriali. Il primo sistema di classificazione standardizzato degli
Stati Uniti – lo Statistical Manual for the Use of Hospitals for Mental Diseases,
pubblicato nel 1918 –, per esempio, divideva le malattie mentali in 22 gruppi
principali, dei quali uno soltanto rappresentava tutte le psiconevrosi28.
Lo Statistical Manual comprende due categorie che riguardano gli stati
depressivi. In primo luogo, uno dei due gruppi includeva i disturbi non-
nevrotici di origine psicogena privi di cause ereditarie o costituzionali
chiaramente definite. Le psicosi maniaco-depressive ricadevano in questa
categoria (che si distingueva nettamente rispetto alla visione biologista di
Kraepelin e si avvicinava di più agli approcci psicodinamici). In secondo luogo,
nel gruppo generale della «psiconevrosi» la categoria della depressione era
posta sotto l’etichetta di «depressione reattiva», in uno spirito meyeriano. Così
recitava la definizione di depressione reattiva del manuale:
In questa categoria vanno classificati quei casi in cui la depressione insorge come reazione
a evidenti cause esterne capaci di produrre tristezza naturalmente, come un lutto, una
malattia, preoccupazioni finanziarie ecc. La reazione di più marcata intensità e di più
lunga durata della tristezza normale può essere considerata patologica. Non è presente la
depressione profonda, con rallentamento motorio e mentale, che si manifesta nella
depressione maniaco-depressiva, ma queste reazioni, in realtà, possono essere rapportate
più alle reazioni maniaco-depressive che alle psiconevrosi29.
Questa definizione riconosceva che il disturbo depressivo va distinto dalla
tristezza che nasce «con causa» e in maniera proporzionata da circostanze
esterne ed è prodotta «naturalmente» (cioè in accordo con la natura umana), ed
è quindi normale e non patologica. La definizione seguiva la tradizione anche
nel riconoscere che un’ampia gamma di circostanze negative può provocare la
tristezza normale, di cui offriva una serie di esempi – chiaramente non
esaustiva –, fra cui lutto, malattie fisiche e rovesci finanziari, al contrario di
quanto accade nelle definizioni recenti, che non riconoscono più la gamma di
potenziali fattori scatenanti di una profonda tristezza normale.
La distinzione dello Statistical Manual fra depressione normale e depressione
patologica – non molto diversa dalla distinzione di Ippocrate – non si basava
sui sintomi ma richiedeva, per le depressioni patologiche, che fossero più gravi
e di più lunga durata («di più marcata intensità e di più lunga durata della
tristezza normale»). Esse non erano della profondità e gravità della malattia
maniaco-depressiva, ma rappresentavano tuttavia dei disturbi. Da solo, perciò,
l’esame dei sintomi non poteva stabilire l’esistenza di una patologia, che poteva
essere dichiarata solo quando i sintomi erano di intensità sproporzionata al
contesto. Quasi in una sorta di omaggio a Kraepelin, il Manuale ipotizzava che
le reazioni depressive patologiche potessero avere un elemento eziologico
sottostante come nelle depressioni maniaco-depressive, e spiegava così la loro
ingiustificata intensità e la loro sproporzione. In effetti, questa definizione
rispecchiava gli stessi tre tipi di stati – depressioni con causa, depressioni senza
causa e depressioni di sproporzionata gravità e durata rispetto alla causa
scatenante – che Robert Burton delineava in Anatomy of Melancholy; come la
definizione di Burton, il Manuale riconosceva che solo gli ultimi due stati
configuravano una malattia mentale.
Lo Statistical Manual guidò la classificazione psichiatrica dalla sua prima
edizione nel 1918 fino alla decima edizione nel 1942. All’inizio degli anni
Cinquanta il baricentro della psichiatria americana si era spostato dagli ospedali
statali, che si concentravano sui casi psicotici, alla cura psicodinamica
ambulatoriale di patologie meno gravi. Le classificazioni dei disturbi psicotici
che dominavano lo Statistical Manual persero quindi rilevanza per la grande
maggioranza dei pazienti. Nel 1952, l’American Psychiatric Association
codificò di nuovo le malattie mentali e pubblicò la prima edizione di un nuovo
manuale, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-I)30, che
rifletteva meglio il nuovo tipo di popolazione che ricorreva ai professionisti
della psichiatria.
Una combinazione dell’approccio psicodinamico con quello meyeriano
dominava la definizione della depressione del DSM-I, che nell’insieme
minimizzava gli aspetti biologici delle patologie e si concentrava sui
meccanismi psicologici inconsci31. Esso conteneva una categoria di reazioni
affettive psicotiche, divise a loro volta in reazioni maniaco-depressive e
reazioni psicotico-depressive. Entrambe queste condizioni presentavano gravi
sintomi, fra cui una «manifesta evidenza di interpretazione grossolanamente
errata della realtà, compresi, a volte, deliri e allucinazioni»32. La prima
presentava anche gravi sbalzi di umore con remissioni e ricadute, mentre la
seconda non presentava sbalzi di umore ma evidenziava spesso fattori
ambientali scatenanti.
Il manuale vedeva i disturbi depressivi nevrotici, al pari di tutte le nevrosi,
come causati da tentativi inconsci di far fronte all’ansia, una prospettiva
fondamentalmente psicoanalitica. Ancora una volta in stile meyeriano,
operando una variazione sulle reactive depressions (depressioni reattive) del
precedente Statistical Manual, il DSM-I etichettava queste condizioni come
depressive reactions (reazioni depressive), che definiva nei termini seguenti:
In questa reazione l’ansia è alleviata – e quindi in parte sollevata – dalla depressione e dal
disprezzo di sé. La reazione viene scatenata da una situazione in atto, come può essere
una perdita subita dal paziente, ed è spesso associata con un senso di colpa per fallimenti
o fatti del passato. Il grado della reazione in casi del genere dipende dall’intensità del
sentimento ambivalente del paziente verso la perdita (di amore, di beni) nonché dalle
circostanze reali che la caratterizzano.
Il termine è sinonimo di «depressione reattiva», che va distinta dalla corrispondente
reazione psicotica. In questa distinzione, i punti da considerare sono: 1) la storia di vita
del paziente, con speciale riferimento agli sbalzi di umore (che suggeriscono una reazione
psicotica), alla struttura della personalità (nevrotica o ciclotimica) e ai fattori ambientali
scatenanti; 2) l’assenza di sintomi di carattere maligno (preoccupazione ipocondriaca,
agitazione, fissazioni, soprattutto somatiche, allucinazioni, gravi sensi di colpa, insonnia
incurabile, ruminazioni a carattere suicidario, severo rallentamento psicomotorio, grave
rallentamento del pensiero, stupor)33.
Questa definizione poggiava pesantemente sulle speculazioni psicodinamiche
circa l’eziologia per definire le nevrosi depressive. Il DSM-I non solo
concepiva le condizioni depressive come modi in cui le persone tentano di
difendersi da sottostanti stati d’ansia, ma impregnava la stessa definizione di
assunti dinamici facendo entrare in essa, come sue componenti centrali, il
senso di colpa e sentimenti di ambivalenza. A parte queste considerazioni
eziologiche, gran parte della definizione era costituita dalla distinzione dei
disturbi psiconevrotico-depressivi dai disturbi psicotico-depressivi.
La definizione della reazione depressiva data dal DSM-I potrebbe apparire
un’anomalia storica, poiché non diceva nulla sulla distinzione fra le reazioni
psiconevrotico-depressive patologiche e le reazioni normali a circostanze
particolari. Ma questa assenza era più apparente che reale: la distinzione era
infatti implicita, stanti gli assunti eziologici psicodinamici da cui il DSM-I
partiva. Era superfluo affermare esplicitamente la distinzione fra le risposte
depressive normali e quelle patologiche, dal momento che il DSM-I puntava
proprio su una teoria dell’eziologia per individuare le patologie e distinguerle –
implicitamente – dalle condizioni normali, in cui il discorso dell’eziologia è
assente. La definizione, infatti, specificava le disfunzioni dei meccanismi
psicologici che causavano l’intensità della tristezza, fra cui un ingiustificato
senso di colpa e disprezzo di sé, una forte ambivalenza verso l’oggetto perduto
e l’uso di meccanismi di difesa (inclusi sentimenti depressivi) per evitare le
ansie provocate naturalmente dalle situazioni di perdita. Questi processi si
combinavano nel condurre a una risposta depressiva che non era semplice
tristezza proporzionale a una qualche perdita effettiva in sé (anche se la
«situazione in atto» e le «circostanze reali» influenzavano l’intensità della
risposta) ma era piuttosto un «grado di reazione» esagerato, sproporzionato,
dovuto all’azione di quelle interne disfunzioni psicologiche. Da notare che gli
esempi dei fattori scatenanti le risposte alla perdita, che potevano essere
normali – o patologiche, se c’era ambivalenza verso la perdita –, sono perdite
di amore e beni, non il lutto.
Il DSM-I fu il manuale ufficiale dell’APA fra il 1952 e il 1968. La versione
successiva, il DSM-II, fornisce una definizione molto più succinta della
«nevrosi depressiva»:
Questo disturbo si manifesta in un’eccessiva reazione depressiva, dovuta a un conflitto
interiore o a un evento identificabile come la perdita di un oggetto d’amore o un bene
caro. Va distinto dalla Melancolia Involutiva e dalla Malattia Maniaco-depressiva. Le
depressioni reattive o reazioni depressive vanno classificate qui34.
Il DSM-II riconosceva implicitamente la distinzione fra le depressioni che
erano risposte proporzionate a una perdita e quelle che erano «eccessive», e
quindi sproporzionate. La definizione dava per scontato che gli psichiatri
sapessero quali sintomi costituivano depressione e non cercava né di
specificarli né di suggerire che si potessero usare i sintomi per distinguere la
patologia dalla non patologia. Ancora una volta, la definizione poggiava sulla
eziologia, individuata in una forma di conflitto interiore, per rimandare a una
disfunzione interna, ma riconosceva anche che una perdita può far scattare una
reazione sproporzionata, patologica, anche in assenza di un conflitto interiore.
La definizione menzionava come normali fattori scatenanti, oltre alla perdita di
una persona cara, anche la perdita di un bene caro. In un certo senso, la
definizione del DSM-II rappresentava un ritorno alla tradizione classica di
specificare semplicemente la depressione patologica come una risposta
sproporzionata, «eccessiva».
Riassumendo, 2500 anni di psichiatria avevano ritenuto che la normale
natura umana includeva una inclinazione a una tristezza potenzialmente
intensa dopo certi tipi di perdite. La patologia poteva essere considerata
presente – per valutazione quasi unanime – solo quando le spiegazioni, in
termini di eventi scatenanti, non erano in grado di stabilire una causa normale
per l’intensità o la durata dei sintomi. Le personalità più autorevoli nel campo
della classificazione psichiatrica durante la prima metà del XX secolo – Freud,
Kraepelin e Meyer, e i primi manuali diagnostici come i DSM-I e II da loro
influenzati – erano in disaccordo su molte cose, ma tutte abbracciavano,
esplicitamente o implicitamente, questa concezione del disturbo depressivo.

4.2 | Il crollo della tradizione del «con causa» e «senza causa»


4.2.1 | I post-kraepeliniani
Durante il mezzo secolo fra il 1920 circa e il 1970, il predominio delle
concezioni psicodinamiche di Freud e delle concezioni basate sul contesto di
Meyer assicurò un generale abbandono del sistema classificatorio di Kraepelin,
che supponeva un’eziologia organica soggiacente. Ma l’approccio di Kraepelin
ispirò alcuni ricercatori, soprattutto del Regno Unito, a realizzare un ampio
programma di ricerca nella classificazione dei tipi di depressione.
Numerosi studi empirici esaminarono vari quadri sintomatici nel tentativo di
scoprire se la depressione fosse costituita da uno o da più disturbi distinti.
Particolarmente rilevante fu il lavoro dello psichiatra Aubrey Lewis. Nel 1934
Lewis pubblicò uno studio condotto su 61 pazienti in cura presso il Maudsley
Hospital di Londra35. Egli sosteneva che la distinzione fra la depressione
endogena e quella reattiva fosse insostenibile, perché la maggior parte delle
depressioni ritenute endogene risultava essere stata fatta precipitare da fattori
esterni; e d’altra parte, alle spalle della maggior parte delle depressioni reattive
c’era un intero arco di vita caratterizzato da inclinazioni alla depressione. La
ricerca di Lewis sembrava confermare l’affermazione di Kraepelin secondo cui
quasi ogni depressione è una patologia che si presenta con vari gradi di gravità,
lungo una linea continua che va dalle forme leggere a quelle pesanti ma non
differenti per cause endogene o reattive. Alcuni ricercatori, confermando le
conclusioni di Lewis, trovarono che i sintomi depressivi avevano un
andamento continuo, e non era possibile individuare distinti quadri sintomatici
abbastanza robusti da suggerire diverse eziologie soggiacenti. Questi ricercatori
concludevano, al pari di Kraepelin, che non c’era giustificazione per stabilire
una rigida divisione fra la depressione endogena e quella reattiva o nevrotica e
psicotica36.
Ma la maggior parte dei ricercatori rifiutava l’idea che tutte le forme di
depressione ricadessero in un unico continuum. Ai loro occhi invece la
depressione «endogena» o «psicotica» appariva di tipo distinto. I sintomi delle
depressioni psicotiche, che spesso evidenziavano allucinazioni e deliri, non
avevano a che fare con i sintomi di altri tipi di depressione e mostravano
risposte differenti alle cure37; le depressioni psicotiche sembravano rispondere
sia al trattamento elettroconvulsivo sia al farmaco antidepressivo imipramina e
rispondere meno di altri stati depressivi alle cure placebo38. Ma lo sforzo di
distinguere le depressioni psicotiche per l’assenza in esse di fattori ambientali
che le facessero precipitare di solito non aveva successo39. Al contrario, di
solito, eventi stressanti della vita precedevano l’esordio di tutti i tipi di
depressione. Data la scarsezza delle depressioni non scatenate da qualche
evento e che fossero quindi davvero «senza causa», il termine «endogeno»
venne a riferirsi a poco a poco a un quadro fenomenologico di sintomi, non a
una particolare causa dei sintomi. I termini «psicotico» o «grave» descrivevano
in maniera più accurata la natura di questa condizione.
Nonostante i ricercatori fossero arrivati in questo periodo ad ammettere
generalmente che le depressioni psicotiche (o endogene) costituissero un tipo
distinto di depressione, non erano tuttavia d’accordo sulla natura delle
depressioni non psicotiche. Gradualmente, l’uso di «nevrotico» prevalse su
quello di «reattivo», visto che per la grande maggioranza dei tipi di depressione
gli eventi ambientali erano riconoscibili come causa scatenante. Alcuni ne
concludevano che la depressione era binaria, ossia o di tipo nevrotico o di tipo
psicotico40. Altri pensavano che esistessero tre o più tipi di depressioni
nevrotiche, anche se erano in disaccordo sul numero e la natura degli stati
depressivi da loro riconosciuti41. A differenza che nelle depressioni psicotiche,
in cui si riscontrava una relativa omogeneità dei sintomi, nelle depressioni
nevrotiche i sintomi erano eterogenei e confusi negli studi42. A seconda dello
studio preso in considerazione, la depressione nevrotica evidenziava
combinazioni diverse di sintomi che andavano dal senso di impotenza alla
bassa autostima, alla disforia, alla demoralizzazione, alla rabbia, all’ostilità,
all’irritazione, e a reazioni di delusione non inquadrabili in precisi schemi
diagnostici.
Ai fini della nostra comprensione delle radici della diagnosi corrente, i
contenuti dettagliati e i risultati concreti di questo programma di ricerca post-
kraepeliniana non sono così importanti quanto la sua metodologia. Benché, fra
il 1920 e il 1970, dalla ricerca empirica sui quadri sintomatologici non
emergesse alcun consenso sulla natura della depressione, gli studi di quel
cinquantennio prepararono la strada alla successiva rivoluzione nelle diagnosi
psichiatriche grazie all’approccio generale da essi adottato per identificare il
disturbo depressivo. Questi ricercatori pretendevano di emulare Kraepelin, ma
in realtà il loro approccio divergeva nettamente da quello del maestro. Gli studi
empirici di questo periodo poggiavano sulla misurazione dei sintomi quali si
presentavano in un singolo punto temporale. I ricercatori mettevano
largamente da parte questioni relative al decorso, alla durata e soprattutto al
contesto situazionale dei sintomi. Viceversa, come abbiamo visto, Kraepelin
rifiutava di usare i sintomi in sé stessi per distinguere i vari tipi di depressione e
sottolineava invece l’esigenza di esaminare il decorso e la prognosi degli stati
morbosi, nonché l’importanza di distinguere fra la tristezza normale e quella
patologica sulla base del contesto.
L’insistenza sui sintomi rifletteva il modo in cui i ricercatori avevano
utilizzato i metodi statistici da poco sviluppati, soprattutto l’analisi fattoriale,
per analizzare se la depressione fosse una malattia unica o avesse varie
tipologie43. Le analisi fattoriali cercavano di distinguere diversi gruppi di
sintomi esaminando in quale misura singoli sintomi tendono a presentarsi
insieme con altri. In linea di principio non c’è conflitto fra questi metodi
statistici e la valutazione della proporzionalità dei sintomi o la ragionevolezza
delle reazioni emotive come componente di ciò che viene analizzato
statisticamente. Ma nella pratica concreta, la complessità di giudizi del genere
portò i ricercatori ad allontanarsi dalla tradizione clinica e ad appoggiarsi solo
sui quadri di sintomi, prescindendo dal loro contesto o decorso, per
distinguere i vari tipi di depressione*. Dato che le popolazioni cliniche che
studiavano erano spesso ospedalizzate e comunque in genere chiaramente
malate e già diagnosticate, i ricercatori che contavano sulle tecniche statistiche
per definire i quadri di sintomi davano semplicemente per scontato, molto
ragionevolmente, che tutti i sintomi che essi introducevano nei loro modelli
erano manifestazioni di patologia nelle popolazioni prese a campione. Ma,
come vedremo, i criteri clinici che alla fine vennero fuori da queste analisi
basate sui sintomi furono applicati ben al di là delle popolazioni chiaramente
malate da cui erano stati ricavati, a gruppi sempre più ampi in cui i medesimi
sintomi potevano non avere lo stesso significato.
La scoperta di Lewis che la maggior parte delle depressioni era conseguente
a qualche evento scatenante rese più facile la scelta di concentrarsi sui sintomi,
poiché suggerì che forse il contesto, nella forma di «con causa» contro «senza
causa», non era dopotutto così importante44. Ma la ricerca di Lewis non
esplorò mai la nozione della sproporzione di una risposta alla natura del fattore
scatenante riferito, che era nel cuore della tradizione classica. Inoltre, lo studio
di Lewis era stato condotto su un campione di pazienti ospedalizzati,
chiaramente malati, che non poteva quindi mettere in luce le differenze fra
malati e non malati.
La messa fra parentesi della distinzione fra «con causa» e «senza causa» e la
sua sostituzione con categorie basate sulla tipologia dei sintomi ebbe
conseguenze gravi in quanto favorì spiacevoli errori nelle diagnosi di individui
normali, a seguito di un importante cambiamento nei soggetti curati per
depressione che intervenne in quell’epoca. Mentre il campione di pazienti di
Lewis rifletteva la popolazione ospedaliera standard dei malati di depressione
all’inizio del XX secolo, nel corso del Novecento a poco a poco le cliniche
psichiatriche ambulatoriali divennero il setting più comune del trattamento
della depressione. Ma i pazienti ambulatoriali presentavano uno spettro di
problemi molto più ampio – con molti casi di tristezza normale –, che non i
più omogenei gruppi di pazienti d’ospedale gravemente malati, studiati da
Kraepelin e Lewis45. «Oggi gli psichiatri si trovano davanti a un gran numero
di individui che cerca aiuto per stati di malessere psichico e disforia non ben
definiti, che sembrano sfidare ogni ulteriore caratterizzazione», sintetizzava lo
psichiatra Hagop Akiskal poco prima della pubblicazione del DSM-III nel
1980. «E così, la crescente vaghezza della depressione nevrotica trova un
parallelo nella sua crescente visibilità clinica»46. L’estensione dei metodi
diagnostici basati sui sintomi dall’ambiente degli internati a cliniche
ambulatoriali molto più eterogenee, senza adottare le semplici precisazioni
contestuali usate nel passato per distinguere i normali dai malati, creò il
potenziale per avere un numero senza precedenti di diagnosi falso-positive di
disturbo depressivo.
Negli anni Settanta, la letteratura sulla depressione era una «gran confusione
di sistemi in concorrenza fra loro e che si accavallavano l’un l’altro», i quali
mettevano in contrapposizione depressioni psicotiche e nevrotiche, endogene
e reattive, bipolari e unipolari, e altri tipi ancora47. A parte il consenso sul fatto
che le depressioni psicotiche (o endogene) fossero distinte dagli stati nevrotici,
non c’era in pratica intesa alcuna sulla natura delle depressioni non psicotiche.
I ricercatori non erano d’accordo su se le depressioni non psicotiche fossero in
continuità o in discontinuità con le forme psicotiche da un lato, e con la
normalità dall’altro. Discutevano su quante forme gli stati nevrotici potessero
assumere e persino su se avessero forme distinte in generale. Non era noto se
alcune forme più leggere di depressione fossero i primi indizi di forme
psicotiche finali. Inoltre, c’era scarso consenso su quali sintomi particolari
fossero essenziali per definire le forme non psicotiche di depressione.
Riassumendo la situazione negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dalla metà alla
fine degli anni Settanta, i medici Christopher Callahan e German Berrios
osservavano che «le categorie diagnostiche psichiatriche sono, nel migliore dei
casi, soggettive e probabilmente irrilevanti»48. Nel 1980, in risposta a questo
periodo di confuso dibattito caratterizzato dal turbinio di scoperte empiriche e
dall’assenza di una teoria definitiva sulla natura della depressione non psicotica,
la psichiatria avrebbe adottato tuttavia un insieme definitivo di criteri
sintomatici della depressione che sarebbe rimasto stabile fino a oggi.

4.2.2 | Strada spianata per il DSM-III: i criteri di Feighner


Le origini immediate dei criteri del DSM-III vanno ricercate nel lavoro di un
gruppo di ricercatori di psichiatria della Washington University di St. Louis,
convinto che fin tanto che il sistema di classificazione rimaneva privo di
precise definizioni, non si poteva sperare che la psichiatria diventasse una
disciplina scientifica. Guidato da due eminenti psichiatri – Eli Robins e Samuel
Guze –, il gruppo si ispirava alla tradizione di ricerca neo-kraepeliniana che
analizzava i sintomi in chiave statistica, e voleva porre rimedio alle definizioni
dei disturbi confusionarie e divergenti di ricercatori diversi. Il gruppo di St.
Louis sottolineava l’importanza scientifica di avere criteri concordi che
soprattutto usassero l’esposizione dei sintomi come base per le indagini e le
decisioni diagnostiche.
Nel 1972, a seguito di discussioni in facoltà sul modo di migliorare i criteri
diagnostici da usare nelle loro indagini, un ricercatore della Washington
University, John Feighner, codificò e pubblicò i criteri diagnostici per 15
disturbi mentali, fra cui disturbi affettivi primari e secondari, che sarebbero
diventati noti come «criteri di Feighner»49. I criteri di Feighner non erano
pensati propriamente per l’uso clinico quotidiano. Erano piuttosto un tentativo
di liberare i ricercatori dalla molteplicità delle tante imprecise definizioni allora
in uso e rendere quindi possibile una ricerca più cumulativa, comparabile e
riproducibile. Lo scopo prefissato era di ottenere una «base comune per i
diversi gruppi di ricerca […] L’impiego di criteri diagnostici formali da parte di
un certo numero di gruppi […] permetterà di risolvere il problema che i
pazienti descritti dai diversi gruppi siano fra loro comparabili. Questo primo,
cruciale passo tassonomico dovrebbe agevolare l’investigazione psichiatrica»50.
I criteri di Feighner dividevano i disturbi affettivi primari in due categorie: la
depressione e la mania; noi prendiamo in considerazione solo la categoria della
«depressione». Per arrivare alla diagnosi di depressione dovevano essere
soddisfatti tre criteri. Primo, il paziente doveva avere un umore disforico,
segnato da sintomi come l’essere depresso, triste, avvilito o disperato. Secondo,
dovevano essere presenti almeno altri cinque sintomi aggiuntivi di una lista che
includeva la perdita dell’appetito, difficoltà a dormire, la perdita di energia,
l’agitazione, la perdita di interesse per le attività consuete, sensi di colpa,
rallentamento del pensiero e ideazione suicidaria ricorrente (per un totale di sei
sintomi per una diagnosi definitiva; quattro sintomi aggiuntivi – per un totale
di cinque – consentivano una diagnosi probabile). Infine, lo stato disforico
doveva durare almeno un mese e non essere dovuto ad altro preesistente
disturbo mentale.
Fra i soggetti che presentavano questi sintomi, gli unici a essere esclusi dalla
diagnosi di disturbo depressivo primario erano quelli affetti da malattie
mediche gravissime e invalidanti. Questa esclusione fu forse ritenuta
opportuna perché l’essere molto triste è spesso una risposta normale a quel
tipo di malattie. Ma è chiaro che comunque i sintomi in questione
autorizzavano per i pazienti interessati un’altra diagnosi: quella di disturbo
affettivo secondario. Questa categoria abbracciava tutti gli stati con gli stessi
sintomi dei disturbi primari, i quali però si manifestavano in presenza di una
preesistente malattia psichiatrica non affettiva o di una malattia gravissima o
invalidante. Nella pratica, dunque, non c’era alcuna esclusione per quelli che
soddisfacevano i criteri sintomatici.
I criteri di Feighner per i disturbi affettivi differivano in modo significativo
da quelli della ricerca empirica precedente sulla depressione e, per certi versi,
erano in conflitto con quella ricerca. Per prima cosa, tutti gli stati depressivi
privi di tratti maniacali e non preceduti da altre condizioni psichiatriche o
mediche venivano raggruppati in un’unica categoria. Questo sistema era in
linea con la teoria di Kraepelin che la depressione fosse un disturbo unitario,
ma ignorava la grande maggioranza degli studi empirici che suggeriva possibili
distinzioni nei profili sintomatici fra le depressioni psicotiche unipolari (che
cioè non comportano mania) e le depressioni nevrotiche. Ma abbiamo visto
che la ricerca non era conclusiva e che non c’era consenso sulle possibili
distinzioni fra i vari tipi di disturbi depressivi.
Il punto su cui i criteri di Feighner più ingiustificabilmente si discostavano
dalla valutazione psichiatrica ponderata era nel fatto che non lasciavano più di
un mese per le reazioni depressive suscitate da normali risposte a una perdita,
compreso il lutto. Essi non ammettevano la possibilità che alcuni sintomi
depressivi fossero proporzionati alle cause scatenanti anche se duravano più di
trenta giorni, mentre altri erano originati da disfunzioni. Ciò costituì un
precedente cruciale per i successivi elenchi di criteri che si rifacevano al lavoro
di Feighner.
Non è chiaro perché il gruppo di Feighner ignorò nei suoi criteri l’ovvio
problema della tristezza normale. Una possibile spiegazione è che,
preoccupato che i ricercatori usassero ad ampio raggio i criteri, esso cercò con
cura di evitare ogni accenno alle cause nelle sue definizioni: potrebbe aver
concluso che la distinzione fra normalità e malattia comportasse un particolare
approccio eziologico alla classificazione51. Un’altra spiegazione è che esso
sviluppò i suoi criteri sulla base di campioni di ricerca costituiti da soggetti
affetti da qualche disturbo e presumeva che i criteri sarebbero stati usati
generalmente su soggetti simili. O forse semplicemente seguì la tradizione di
ricerca immediatamente precedente, che contava sull’analisi statistica dei
sintomi senza riguardo al contesto.
Un’altra possibilità è che il gruppo di Feighner riconoscesse implicitamente
la distinzione fra tristezza patologica e tristezza non patologica, ma assumesse
che la profonda tristezza di durata superiore al mese è «protratta» nel senso di
Ippocrate e, se si presenta con il numero di sintomi specificato, è in sé stessa
sproporzionata rispetto a qualsiasi possibile fattore di stress ed è quindi quasi
certamente patologica. Se questa è la spiegazione, bisogna dire che i precedenti
osservatori clinici non accettavano questo assunto, che sembra essere in
contrasto con la linea delle risposte normali a gravi perdite di cui abbiamo
parlato nel Capitolo 2; anche il DSM-III doveva consentire due mesi come
durata dei sintomi compatibile con una risposta normale alla perdita di una
persona cara. Ma vedremo che il DSM-III avrebbe poi abbassato questa soglia
a quella, molto meno plausibile, di due settimane. Insomma, a differenza di
Kraepelin, Feighner e colleghi non forniscono alcun criterio di fondo per
distinguere la patologia dalla non patologia, né vedono la necessità di stabilire
se quelli che presentano i sintomi depressivi siano effettivamente malati.
In che modo il gruppo di Feighner elaborò i suoi influenti criteri per la
depressione? La cosa comica per la storia della psichiatria è che la
giustificazione data in seguito per avere usato le categorie diagnostiche basate
sui criteri di Feighner come modello per il DSM-III fu il fatto presunto che
essi fossero fondati sulla ricerca empirica piuttosto che sulla speculazione
teorica52. Ma, a giudicare dalle citazioni addotte dal saggio cui facciamo
riferimento in nota, i criteri per il disturbo depressivo hanno quanto meno
scarso sostegno empirico nella letteratura precedente. Esso fa riferimento solo
a quattro articoli pubblicati come fonti dei criteri di depressione. (Un quinto
riferimento cita un testo inedito di Robins e Guze proveniente da un
workshop presso il National Institute of Mental Health. Il saggio contiene
anche sei citazioni di pubblicazioni sulla mania, che noi qui non consideriamo.)
Uno degli articoli di riferimento afferma che non ci sono prove che lo stato
particolare della sindrome depressiva involutiva (cioè postmenopausa) si possa
distinguere attraverso i sintomi da altri disturbi depressivi (una questione su cui
Kraepelin si era mostrato incerto), e conclude mettendo in dubbio la congruità
generale dei criteri sintomatici: «Il tentativo di raggruppare i pazienti
psichiatrici in entità cliniche per quadri di sintomi è risultato frustrante in
quanto non è mai stato chiaro in quali punti tracciare le linee divisorie. Questo
è un problema serio per la psichiatria»53. Altri due articoli di riferimento,
provenienti da un medesimo progetto di ricerca, indicavano che c’era qualche
evidenza provvisoria di un fattore endogeno che rappresentava il nucleo dei
sintomi depressivi, ma che i sintomi di depressione reattiva erano con ogni
probabilità «manifestazioni fenomenologiche di disturbi psichiatrici diversi
dalla depressione che ‘contaminano’ la sindrome della depressione»54. Le
scoperte suffragate da questi studi, semmai, smentivano in realtà l’accumulo di
stati endogeni e reattivi operato dai criteri di Feighner. L’ultimo articolo di
riferimento rifiutava esplicitamente l’uso di definizioni della depressione basate
unicamente sui sintomi senza tener conto delle loro cause e della loro
distinzione fra normali e patologici:
Nel classificare gli stati depressivi la prima distinzione da fare è fra le reazioni normali e
quelle patologiche. Le reazioni di lutto e di dispiacere, in generale, sono reazioni normali
alla perdita di un oggetto amato – che può essere una persona, o il denaro, o il calato
prestigio dell’individuo, o le speranze accarezzate, o la salute – e non è sempre possibile
distinguere queste reazioni normali di dispiacere dalla depressione patologica solo su basi
fenomenologiche. Una depressione è considerata patologica quando non c’è causa
specifica sufficiente per essa nell’immediato passato del paziente, quando dura troppo a
lungo, o quando i suoi sintomi sono troppo gravi55.
‘Nessuno’ dei testi citati come riferimenti per la depressione dall’articolo su
Feighner sostiene l’idea che criteri basati esclusivamente sui sintomi possano
definire i disturbi depressivi. Le fonti addotte non giustificano e neppure
affrontano nei criteri la validità della definizione specifica dei disturbi affettivi.
Subito dopo la pubblicazione dei criteri di Feighner, Robert Woodruff,
Donald Goodwin e Samuel Guze, psichiatri della Washington University,
ampliarono la discussione dei nuovi criteri diagnostici e l’approccio generale
alla diagnosi nel primo manuale psichiatrico basato sui sintomi, Psychiatric
Diagnosis56. Il capitolo sulla diagnosi dei disturbi affettivi sottolineava
l’importanza di osservare e misurare i sintomi senza trarre conclusioni
eziologiche date le scarse conoscenze del tempo sulle cause della depressione.
Questa posizione forse spiega in parte perché i criteri di Feighner
pretendevano che neanche il lutto fosse escluso da una diagnosi di disturbo
depressivo.
In un paragrafo sulla diagnosi differenziale nei disturbi affettivi, il manuale fa
le seguenti osservazioni sul lutto (gli altri fattori stressanti non sono discussi):
Distinguere fra dolore e disturbo affettivo primario può essere difficile. Ma il dolore di
solito non dura quanto un episodio di disturbo affettivo primario […] La maggior parte
delle persone colpite da lutto presenta meno sintomi dei pazienti con disturbo affettivo
primario. Inoltre, alcuni sintomi comuni nel disturbo affettivo primario sono
relativamente rari fra le persone che soffrono un lutto, in particolare la paura di perdere la
testa e pensieri autolesionistici57.
A sostegno delle loro osservazioni sulle differenze fra il lutto e il disturbo
depressivo, Woodruff e altri citano vari articoli della psichiatra Paula Clayton e
la sua équipe che documentano il tipo e la durata dei sintomi depressivi che si
verificano nel lutto58. In effetti, Clayton aveva trovato che dopo un mese, che
era la soglia di durata stabilita da Feighner per la diagnosi di una patologia,
circa il 40% dei soggetti colpiti da lutto presentava i sintomi completi del
livello DSM. Ma è poco plausibile e non c’è prova scientifica che una
percentuale così alta di persone colpite da lutto diventi malata. Dati il numero
enorme di individui che subiscono un lutto nel corso del tempo, la
constatazione che una «maggioranza» non presenta tutti sintomi richiesti dai
criteri di Feighner per i malati al termine di un mese, e l’idea che il lutto «di
solito» non dura con quel livello di intensità per tutto il mese richiesto da
Feighner, non ci sono prove molto convincenti della validità delle indicazioni
del manuale. In effetti, esse sembrano lasciare la porta aperta a un gran
numero di diagnosi falso-positive dei soggetti colpiti da un normale lutto, un
argomento che rimane non affrontato.
L’evidente assunto degli autori che la durata di un mese e la soglia dei cinque
sintomi per una diagnosi «probabile» di patologia (sei per la diagnosi
«definitiva») fosse sufficiente a discriminare la patologia dal lutto normale
risulta non giustificato proprio in base agli studi da loro stessi citati. In ogni
caso, il manuale non offre nuovi sostanziali appoggi empirici ai criteri proposti
per il disturbo depressivo, lasciando la validità dei nuovi criteri altrettanto
contestabili sul piano empirico come prima. Questo testo, in quel momento
alla sua quinta edizione, ebbe grande influenza nella formazione del successivo
DSM-III59.
È chiaro che i criteri di Feighner rispondevano a un’esigenza della comunità
dei ricercatori: nel 1989, l’articolo in cui erano stati presentati fu l’articolo più
citato della storia della psichiatria60. La loro influentissima definizione del
disturbo depressivo preparò il terreno all’uso in psichiatria di diagnosi basate
unicamente sui sintomi, nonostante, per sua natura, questo approccio non
fosse in grado di distinguere le intense risposte normali da quelle patologiche.

4.2.3 | I criteri diagnos ci


Robert Spitzer fu il responsabile principale della traduzione dei criteri di
ricerca di Feighner in quelli che sarebbero diventati i criteri diagnostici clinici
del DSM-III. I Research Diagnostic Criteria (RDC), che Spitzer creò in
collaborazione con Eli Robins del gruppo della Washington University e che
furono pubblicati nel 1978, costituirono il ponte fra queste due pietre miliari in
campo psichiatrico61. Insieme con gli RDC, Spitzer elaborò anche una delle
prime interviste strutturate per misurare la depressione, la Schedule for
Affective Disorders and Schizophrenia (SADS), un primo passo verso lo
sviluppo dei questionari strutturati che in seguito sarebbero stati usati negli
studi epidemiologici che applicavano il nuovo approccio diagnostico, al di là
della clinica, ai campioni comunitari (cfr. Capitolo 6)62.
Su commissione del National Institute of Mental Health (NIMH), Spitzer e
colleghi svilupparono gli RDC per superare le preoccupazioni circa la scarsa
affidabilità delle diagnosi psichiatriche e per creare una tipologia più sofisticata
di diagnosi di depressione. Come i criteri di Feighner, gli RDC erano mirati
esplicitamente ad agevolare la ricerca, ma non era difficile prevedere che
sarebbero stati subito applicati alle esigenze della clinica. Costruiti
sull’approccio basato sui sintomi di Feighner, essi ampliarono le 15 diagnosi
dei criteri di Feighner a 25 tipi principali di patologie e molti più sottotipi63.
I criteri sintomatici per il Disturbo Depressivo Maggiore richiedevano, negli
RDC, un episodio della durata di almeno due settimane, la presenza di un
umore disforico grave e persistente o la pervasiva perdita di interesse o piacere,
cinque su otto sintomi aggiuntivi (quattro per una diagnosi probabile), la
ricerca di aiuto o alterazioni del funzionamento a causa del disturbo e l’assenza
di caratteristiche che suggerissero una diagnosi di schizofrenia. I principali
cambiamenti degli RDC rispetto ai criteri di Feighner erano rappresentati dalle
seguenti determinazioni: che la pervasiva perdita di interesse o piacere poteva
essere sostituita dall’umore disforico come condizione necessaria (riflettendo la
sempre più diffusa convinzione che la perdita della capacità di provare piacere
è centrale nella depressione); che bastava che i sintomi si manifestassero per
due settimane anziché per un mese (con una consistente riduzione – senza
spiegazioni – della durata richiesta, che apriva la strada a molte più diagnosi
falso-positive per individui normali e che tuttavia sarebbe stata accolta nel
DSM-III); e che il paziente doveva aver cercato aiuto da qualcuno o avere
alterazioni del funzionamento sociale (in sostanza una prima forma del
successivo criterio della rilevanza clinica). Furono anche aggiunti un certo
numero di criteri di esclusione, che eliminavano da una diagnosi di depressione
i soggetti con schizofrenia, e 11 sottotipi di DDM. (I sottotipi di DDM, che
non si escludono reciprocamente – che furono il motivo originario
dell’interesse del NIMH –, erano: primario, secondario, unipolare ricorrente,
psicotico, invalidante, endogeno, agitato, rallentato, situazionale, semplice e
umore predominante.) Nonostante l’abbassamento sia della durata sia delle
soglie dei sintomi rispetto ai criteri di Feighner ai livelli che sarebbero stati poi
incorporati nel DSM-III, i criteri degli RDC per il DDM non contenevano
esclusioni per lutto o per qualsiasi altra reazione normale, anche se
richiedevano ai ricercatori di accertare, nel corso delle loro interviste con i
pazienti, se fosse presente un lutto64.
Per ragioni che esamineremo nel paragrafo seguente, un obiettivo
importante nella elaborazione degli RDC era di raggiungere una maggiore
affidabilità delle diagnosi, di ottenere cioè che i diversi diagnosti arrivassero alla
stessa diagnosi in base alle stesse informazioni. Gli studi che usavano gli RDC
indicavano un grande successo complessivo nel conseguimento
dell’affidabilità. Per la Malattia Depressiva Maggiore, i primi risultati
segnalavano la notevole affidabilità del 97%65. Altri risultati indicavano
affidabilità di circa il 90%66. Molti videro nell’apparente miglioramento
dell’affidabilità un grande progresso, come mostrano le osservazioni
dell’illustre diagnosta Alvin Feinstein:
La produzione di identificazioni operative è stata un avanzamento pionieristico, unico, in
nosologia […] Nel campo della nosologia diagnostica, la fissazione di criteri operativi
rappresenta una conquista che è tanto ovvia, necessaria, fondamentale e importante
quanto la corrispondente conquista in ostetricia e chirurgia quando Semmelweis, Oliver
Wendell Holmes e, più tardi, Lord Lister chiesero che ostetrici e chirurghi si lavassero le
mani prima di operare sul corpo umano67.
Vedremo che l’entusiasmo di Feinstein per le realizzazioni di Spitzer si
appunta su quella che sarebbe diventata la più grande impresa di Spitzer: aver
guidato la creazione di un sistema completamente nuovo di classificazione
diagnostica clinica psichiatrica che usava gli stessi princìpi degli RDC per
assicurare l’affidabilità. Facciamo però subito un’annotazione che anticipa la
discussione del DSM-III: è vero che se sono solo i sintomi a costituire la base
delle diagnosi, tutti possono essere addestrati ad applicare i criteri secondo le
regole e a essere quindi concordanti, con conseguente aumento dell’affidabilità
delle diagnosi. Ma queste valutazioni concordanti sono corrette
nell’identificare le patologie (sono cioè valide)? Questi studi non stabilivano la
validità delle diagnosi nel prevedere il decorso, la risposta alle cure o l’eziologia
degli stati depressivi. Inoltre, gli RDC e i criteri di Feighner non comportavano
alcun tentativo sistematico di distinguere l’intensa tristezza normale dal
disturbo depressivo, il che suscita ulteriori dubbi sulla validità di questi
approcci. Introdurre nei criteri diagnostici il giudizio sul carattere normale o
patologico di reazioni a eventi è impegnativo e con tutta probabilità ridurrebbe
l’affidabilità delle diagnosi, ma allo stesso tempo potrebbe accrescerne
sostanzialmente la validità. A oggi, come vedremo, la psichiatria non ha
affrontato adeguatamente questa sfida.

4.2.4 | Il DSM-III come risposta alle sfide che deve affrontare la psichiatria
La pubblicazione del DSM-III nel 1980 è giustamente vista come un
momento decisivo nella storia della diagnosi psichiatrica68. Ma la revisione del
DSM-II non era stata vista in partenza come particolarmente importante, e
non c’erano state manovre politiche dei sostenitori delle diverse posizioni
teoriche per controllarne la realizzazione. Il lavoro di Spitzer sul comitato
incaricato di rivedere il DSM-II, il suo ruolo preminente nel mediare la
rimozione dell’omosessualità da quel manuale e la sua formulazione dei criteri
RDC portarono alla sua nomina a presidente della task force del DSM-III.
Spitzer utilizzò l’opportunità per creare un nuovo tipo di sistema diagnostico
che rispecchiava i precedenti decenni di riflessione su come rendere più
scientifica la psichiatria69.
La rivoluzione del DSM-III incorporò direttamente molti degli elementi dei
criteri di Feighner e degli RDC nella nosologia psichiatrica ufficiale, e in
particolare abbracciò i criteri diagnostici basati sui sintomi. Lo stesso Spitzer
riconobbe che la traduzione dei criteri di ricerca in un manuale a uso clinico
richiedeva che i criteri diagnostici rispecchiassero una «sapienza clinica» oltre ai
dati forniti dalla ricerca70. Il suo ruolo richiedeva non solo le capacità di un
riconosciuto ricercatore, ma anche quelle di un politico di razza, capace di
ammorbidire e trovare un compromesso fra le varie componenti del mondo
clinico, che si sentivano minacciate dal nuovo sistema basato sui sintomi nelle
loro pratiche diagnostiche tradizionali.
Ma che cosa spinse Spitzer ad attingere così massicciamente all’approccio
definitorio sintomatico di stampo RDC nella sua revisione del DSM? E perché
i medici, che si occupano di curare gli individui e hanno scarso interesse per i
sistemi di classificazione affidabili per la ricerca, accettarono il sistema di
classificazione basato sui sintomi venuto fuori dai criteri di Feighner e dagli
RDC?
È evidente che il nuovo sistema affrontava parecchi importanti problemi
davanti ai quali si trovavano all’epoca gli psichiatri clinici, al pari dei ricercatori.
Negli anni Settanta l’influenza della psicoanalisi era diminuita. La professione
psichiatrica era divisa in numerose scuole teoretiche e clinici diversi
condividevano poche proposizioni sulla natura fondamentale, le cause e le cure
delle malattie mentali. Il nuovo manuale diagnostico doveva quindi tornare
utile a medici di tante differenti scuole di pensiero. Le liste di sintomi espliciti
del DSM-III non solo miglioravano l’affidabilità ma erano anche
«teoreticamente neutrali», nel senso che non presupponevano alcuna
particolare teoria della causa della psicopatologia, che fosse psicoanalitica o di
altra scuola. I nuovi criteri erano «descrittivi», piuttosto che «eziologici», ed
eliminavano ogni riferimento a presunte cause psicodinamiche di un disturbo
(per esempio, il conflitto interiore, la difesa contro l’ansia). Definire le
patologie sulla base dei sintomi, senza tener conto dell’eziologia, si rivelò uno
strumento utile per ottenere accoglienza da parte di medici di varie
appartenenze, che quantomeno potevano sentire che tutte le fazioni erano alla
pari nell’usare quelle definizioni neutrali sul piano teorico.
Inoltre, le diagnosi psichiatriche erano sotto attacco da molte parti. I
comportamentisti sostenevano che ogni comportamento, inclusa la
psicopatologia, è il risultato di normali processi di apprendimento e che quindi
non esiste realmente alcun disturbo mentale in senso medico71. Il movimento
«antipsichiatrico», ispirato da autori come lo psichiatra Thomas Szasz e il
sociologo Thomas Scheff, descriveva la diagnosi psichiatrica come un modo di
usare la terminologia medica per esercitare un controllo sociale sui
comportamenti indesiderabili, ma non veramente patologici in senso medico72.
Oltre a ciò, nel 1980 parti terze, private e pubbliche, finanziavano la maggior
parte delle cure mediche73. Le oscure entità inconsce del DSM-II e l’erosione
della legittimità medica della psichiatria non fornivano una solida base per il
rimborso da parte delle assicurazioni. Benché non ci sia nessuna prova che gli
assicuratori abbiano influenzato lo sviluppo delle patologie basate sui sintomi
presenti nel manuale, le nuove diagnosi si adattavano meglio alla pratica delle
parti terze di rimborsare le cure solo per malattie specifiche. A un’attenta
riflessione, gli psichiatri clinici potevano non essere d’accordo con alcuni
elementi del nuovo manuale, come l’abbandono dei criteri contestuali, ma si
rendevano conto che il nuovo sistema presentava per loro molti vantaggi.
La cosa più preoccupante era lo sgretolamento della credibilità della
psichiatria dovuto agli attacchi alla sensatezza delle diagnosi. Benché di
formazione psicoanalitica, Spitzer, e con lui il gruppo di St. Louis, vedeva nella
teoria non verificata e nella resistenza alle prove empiriche i principali ostacoli
al raggiungimento, da parte della psichiatria, di uno statuto scientifico74. Il
punto centrale nella visione della psichiatria di Spitzer, perseguito nei suoi
prodigiosi sforzi di ricerca negli anni Sessanta e Settanta e culminato nel DSM-
III del 1980, era lo sviluppo di un sistema di classificazione ‘affidabile’ grazie al
quale diagnosti diversi sarebbero arrivati tendenzialmente alla stessa diagnosi
qualora disponessero delle stesse informazioni cliniche75.
Poiché il DSM-II non indicava sintomi specifici che determinassero le
diagnosi psichiatriche, gli psichiatri erano costretti a usare propri metri di
giudizio clinico per stabilire in che misura il singolo paziente corrispondesse a
una particolare diagnosi. Ciò portava a grandi disparità nell’applicazione delle
etichette diagnostiche. Per esempio, il ben noto Diagnostic Project di Stati
Uniti-Regno Unito, i cui risultati furono pubblicati nel 1972, studiò il modo in
cui gli psichiatri di questi due paesi diagnosticavano i disturbi mentali. Lo
studio dimostrava un’allarmante mancanza di accordo fra gli psichiatri
americani e quelli britannici e fra gli psichiatri di ciascun gruppo. Per esempio,
gli psichiatri britannici diagnosticarono disturbi depressivi oltre cinque volte di
più degli americani76.
Ma a parte lo studio statunitense-britannico, molti altri studi rivelavano una
notevole mancanza di accordo diagnostico in casi in cui gli psichiatri
ricevevano le stesse informazioni (per esempio, un’intervista clinica registrata
in video)77. Questi studi misero a dura prova l’affidabilità non solo delle
distinzioni fra categorie diagnostiche strettamente correlate, come fra un
disturbo affettivo e un altro, ma anche delle distinzioni fra grandi categorie,
come fra disturbi affettivi e ansia, e fra tipi generali di patologie, come fra
psicosi e nevrosi, o anche psicosi e normalità.
Forse l’elemento più drammatico e influente di quello studio, ora visto come
un punto di riferimento nella critica della diagnosi psichiatrica, è il fatto che
metteva esplicitamente in discussione la capacità degli psichiatri di distinguere
la normalità dalla psicosi. Nel 1973, lo psicologo David Rosenhan pubblicò
uno studio sulla prestigiosa rivista “Science” in cui otto soggetti normali si
presentavano negli ospedali accusando solo sintomi di allucinazioni uditive
(affermavano di sentire una voce che diceva cose come «tonfo», «cupo»,
«vuoto»), mentre per il resto si comportavano e parlavano normalmente. Tutti
questi pseudopazienti furono accettati negli ospedali e registrati come psicotici
(quasi tutti come schizofrenici), e rimasero così classificati per vari periodi di
tempo, nonostante avessero ben presto dimostrato comportamento normale.
Gli internati degli ospedali, invece, capirono che diversi pseudopazienti erano
probabilmente normali.
Per dare un’idea di quali fossero le concezioni dominanti all’epoca, ecco
qualche frase tratta dall’introduzione dell’articolo di Rosenhan:
Normalità e anormalità, sanità e malattia, e le diagnosi che ne seguono forse sono meno
rilevanti di quanto molti credano [...] In base a considerazioni in parte teoretiche e
antropologiche, ma anche filosofiche, giuridiche e terapeutiche, si è diffusa la convinzione
che la categorizzazione psicologica della malattia mentale è nella migliore delle ipotesi
inutile, nella peggiore del tutto pericolosa, fuorviante e dannosa. Le diagnosi
psichiatriche, secondo questa convinzione, sono nella testa degli osservatori e non sono
valide sintesi delle caratteristiche manifestate dagli osservati78.
Sulla base di questi risultati, Rosenhan concludeva: «È chiaro che non
possiamo distinguere il sano dal pazzo negli ospedali psichiatrici».
Una minaccia di invalidità e quindi di inaffidabilità di tale portata (poiché di
sicuro i soggetti dello studio di Rosenhan in altre circostanze sarebbero stati
giudicati normali) non costituiva solo un forte imbarazzo per la competenza
dei clinici, ma anche una sfida per lo statuto scientifico della psichiatria. Lo
stesso Spitzer scrisse un’aspra critica dei difetti metodologici dello studio di
Rosenhan79. Tuttavia questa critica poteva appuntarsi solo sul fatto che
Rosenhan non aveva dimostrato la sua affermazione che la diagnosi
psichiatrica è per sua natura difettosa; ma non poté provare che la diagnosi
psichiatrica, in effetti, poggiasse su un sistema diagnostico adeguatamente
affidabile. In seguito Spitzer avrebbe dedicato gran parte dei suoi sforzi al
progetto di creare e promuovere un simile sistema.
Pur riconoscendo che un sistema affidabile non necessariamente è valido,
Spitzer sottolineava che la validità richiede l’affidabilità. Un valido sistema
diagnostico, dopo aver catalogato accuratamente le diverse sindromi, dovrebbe
prevedere il decorso e la risposta alla cura80. Ma se diagnosti diversi erano in
disaccordo sulla diagnosi, voleva dire che molte delle loro diagnosi erano
inaccurate e che c’era un basso livello di validità diagnostica in generale.
Inoltre, se non c’era affidabilità delle diagnosi passando da un setting all’altro,
la ricerca cumulativa non poteva procedere in maniera efficace. Obiettivo della
professione psichiatrica doveva essere, quindi, lo sviluppo di un chiaro sistema
di regole diagnostiche che specificassero i criteri di inclusione e di esclusione
per ogni diagnosi e promuovessero un alto grado di accordo fra chi giudicava.
Quand’anche mancasse di validità, un simile sistema affidabile avrebbe fornito
un punto di partenza scientificamente adeguato da cui i ricercatori sarebbero
potuti partire per arrivare a un sistema più valido.
Tuttavia, come molti critici coinvolti sottolineavano, la semplice creazione di
un sistema affidabile con chiare regole che ognuno può seguire non garantisce
anche una maggiore validità; posto che le regole siano accurate, l’affidabilità
potrebbe significare semplicemente che ognuno ottiene la medesima risposta
sbagliata!81 Se per esempio si stabilisce che i sintomi di intensa tristezza
indicano un disturbo depressivo, questi sintomi possono essere identificati in
maniera affidabile, ma la grande maggioranza degli stati così riconosciuti
potrebbero non essere, in realtà, un disturbo depressivo. Le prove sul campo
condotte prima della pubblicazione del DSM-III, in cui centinaia di psichiatri
avevano testato l’adeguatezza empirica delle diagnosi, non mettevano a
confronto l’efficacia dei criteri basati sui sintomi con altri modi alternativi di
concettualizzare la depressione82. Esse verificavano solo se i diversi psichiatri
riuscivano a usare i criteri nello stesso modo, ma non stabilivano se questi
fossero validi indicatori di un disturbo. Come uno dei collaboratori di Spitzer
osservò: «Gli stati patologici [furono] ridefiniti prima che [fosse] effettuata
l’indagine empirica»83. Ed è tutt’altro che sicuro che un simile sistema, qualora
si fosse dimostrato seriamente non valido, si sarebbe evoluto automaticamente
in un sistema valido. La conseguenza è che le considerazioni di validità non
possono essere messe del tutto in secondo piano nel momento in cui vengono
risolte le questioni di affidabilità: i due aspetti devono essere perseguiti
insieme, ed entrambi devono permearsi reciprocamente in modo da
permettere giudizi più affidabili che siano anche validi.
Tra frammentazione teoretica della psichiatria, sua inaffidabilità diagnostica e
critica antipsichiatrica, era messa a rischio non solo la rivendicazione della
psichiatria di uno statuto scientifico ma anche la sua legittimità come specialità
medica. I criteri specifici del DSM-III sembravano far fronte a queste sfide e
collocare il campo psichiatrico su un percorso scientifico più sano. In un colpo
solo l’incorporazione, da parte di Spitzer, delle definizioni operative dei
disturbi – basate sui sintomi – nel DSM riuscì ad affrontare tutte le sfide alla
psichiatria e a dare una virata al suo statuto e al suo destino, grazie anche alla
fortunata coincidenza con l’apparizione di nuovi farmaci, che fra l’altro
favorivano lo statuto della professione psichiatrica.
Ma anche una giustificata rivoluzione produce qualche vittima innocente.
Dopo aver considerato la natura e le ragioni della rivoluzione del DSM-III in
generale, esaminiamo ora i criteri del DSM-III per il disturbo depressivo.

4.2.5 | L’approccio al disturbo depressivo del DSM-III


I criteri del DSM-III per la depressione rispecchiavano quasi completamente
gli approcci dei criteri di Feighner e degli RDC (il Capitolo 5 discuterà in
dettaglio gli analoghi criteri del DSM-IV). Essi usavano i sintomi per
specificare il disturbo depressivo e abbandonavano o sminuivano i concetti
eziologici, nonché le distinzioni tradizionali di nevrotico contro psicotico e di
endogeno contro reattivo come base per distinguere diverse categorie di
diagnosi. Al pari dei criteri di Feighner e degli RDC, e in linea con le
precedenti versioni del DSM, il DSM-III rifiutava l’unificazione di Kraepelin
della follia maniaco-depressiva con la depressione, e invece distingueva il
disturbo depressivo unipolare, o «depressione maggiore», dai disturbi
«bipolari». Benché questo rimanga terreno di vivace dibattito, gli studi delle
famiglie, le osservazioni cliniche e i distinti modelli di risposte ai farmaci erano
serviti a minare completamente la grandiosa unificazione di Kraepelin dei
disturbi affettivi molto prima del DSM-III. Inoltre, nonostante il DDM
includesse la depressione psicotica, era inteso che queste condizioni
comprendevano solo una piccola minoranza di quelli ricadenti sotto i criteri; la
«depressione semplice» era passata a rappresentare la forma predominante di
depressione di cui il manuale si interessava.
Così pure, il DSM-III abbandonava la distinzione presente nel DSM-II fra le
reazioni «eccessive» e quelle proporzionate a un «evento identificabile come la
perdita di un oggetto d’amore o di un bene caro». Ciò è sorprendente, visto
che molte altre categorie di disturbo nel DSM-III, come alcuni disturbi d’ansia,
usano aggettivi qualificativi come «eccessivi» o «irragionevoli» per disturbi
separati dalle risposte normali. Invece il DSM-III distingue i disturbi depressivi
solo sulla base dei sintomi, indipendentemente dalla loro relazione con le
circostanze, fatta eccezione per il lutto, che era escluso dalla diagnosi di
depressione.
La logica che sta dietro l’esclusione del lutto, che costituisce un importante
miglioramento rispetto ai criteri di Feighner e agli RDC, è che gli stati di dolore
che pure soddisfano i criteri sintomatici non sono disturbi, in quanto
rappresentano risposte normali e passeggere alla perdita. L’esclusione sembra
essere stata suggerita dall’opera di Paula Clayton, eminente membro del
gruppo della Washington University e della Task Force on Affective Disorders
del DSM-III. Il suo lavoro aveva mostrato che i sintomi simil-depressivi si
manifestavano di solito durante i periodi di lutto ma recedevano dopo un arco
di tempo abbastanza breve84. Come abbiamo osservato sopra, Woodruff,
Goodwin e Guze menzionarono l’opera di Clayton ma non la incorporarono
nei loro criteri diagnostici per la depressione. Il DSM-III recepì le scoperte di
Clayton nell’esclusione del lutto, ma non applicò l’esclusione anche alle
reazioni agli altri tipi di perdita che potevano avere gli stessi tratti del lutto,
come le reazioni alla dissoluzione di un matrimonio, alla cattiva salute o a un
rovescio finanziario. Per quanto ne sappiamo, le reazioni agli altri eventi
stressanti non furono mai presi in considerazione dal gruppo di lavoro sui
disturbi affettivi del DSM-III come possibile motivo di esclusione85. La
mancanza di queste altre esclusioni sembra essere stato un sottoprodotto del
fatto che i criteri del DSM-III erano stati derivati dai criteri di Feighner e dagli
RDC che non contemplavano alcuna esclusione, e dello spirito diagnostico
orientato ai sintomi del DSM-III.
Varie ragioni sono state addotte per spiegare che il DSM non avesse
permesso esclusioni dalla depressione maggiore per altre situazioni normali, a
parte il lutto. Prima di tutto, simili esclusioni avrebbero messo molto a rischio
l’affidabilità: gli altri fattori di stress spesso non hanno la natura relativamente
chiara del lutto, ed è quindi più difficile misurarne la portata e giudicare la loro
proporzionalità con la risposta conseguente. Ma, come abbiamo osservato, nel
costruire i criteri diagnostici non ha senso giocarsi la validità per l’affidabilità.
In ogni caso, i compilatori del DSM-III, nel creare i criteri per il lutto
«complicato», di cui parleremo nel prossimo capitolo, mostrarono che è
possibile tener conto di distinzioni sottili all’interno di un dato tipo di fattori di
stress. Sforzi analoghi potevano essere fatti per fornire linee guida per quando
le reazioni ad altri importanti fattori di stress sono reazioni normali e non
patologiche.
L’interrogativo se la tristezza sia una risposta proporzionata a una perdita
reale viene visto a volte come un tema eziologico, che non ha spazio in un
manuale neutrale dal punto di vista teoretico86. Ma questa obiezione si basa su
una confusione circa la natura e la neutralità del momento teorico. La
distinzione fra le risposte normali, proporzionate a eventi, e le patologie in cui
la tristezza deriva da una disfunzione interna non è in realtà una distinzione
gravata di teoria in senso forte, contrastante con l’esigenza di neutralità teorica
del DSM-III. Le differenti teorie propongono diversi racconti – biologici,
psicodinamici, comportamentali, cognitivi o sociali – della natura e della
eziologia della disfunzione che sta sotto al disturbo depressivo, e un manuale
teoreticamente neutrale non deve preferire una teoria a un’altra come parte
della definizione della patologia. Ma si deve ammettere che tutte le teorie
eziologiche condividono l’idea di risposte normali, proporzionate, contro
risposte basate su una disfunzione. In fondo, i pensatori di medicina da
Aristotele a Kraepelin hanno assunto questa idea più o meno allo stesso modo,
ed essa identifica l’obiettivo comune che teorie contrapposte cercano di
raggiungere. Questa distinzione non configura un’ipotesi eziologica tale da
dover costringere un manuale teoreticamente neutrale a cancellarla.
Un altro elemento che potrebbe aver spinto a non considerare nel DSM-III
più ampi contesti delle risposte depressive fu dato forse dall’impressione che i
farmaci psicotropi funzionavano su tutte le depressioni unipolari,
indipendentemente dalla relazione con eventi scatenanti, così che la distinzione
fra «con causa» e «senza causa» era irrilevante per le decisioni della cura,
almeno fra i depressi ospedalizzati87. Ma anche se i farmaci a volte funzionano
con le reazioni normali, la distinzione normalità-contro-patologia può avere
importanti implicazioni prognostiche per calcolare con quanta aggressività
curare uno stato e per decidere quali cure o cambiamenti nell’ambiente
circostante potrebbero essere utili. Così, il fatto che, poniamo, il Ritalin
funziona ugualmente su soggetti normali e malati nel renderli più concentrati,
o che l’ormone della crescita rende più alti i bambini sia normali sia malati,
non vuol dire che la diagnosi possa ignorare tranquillamente la distinzione fra
normalità e patologia.
Infine, il fatto che il DSM-III abbia ignorato gli stati normali di intensa
tristezza potrebbe essere stato dovuto alla paura di diagnosticare in maniera
errata le persone davvero malate come normali, soprattutto tenuto conto che i
pazienti depressi sono soggetti al rischio di suicidio. Tuttavia, non fu fatto
alcuno sforzo per tenere in equilibrio i rischi dei falsi negativi e i costi dei falsi
positivi nascenti dall’etichettare persone normali come malate, costi che sono
maggiormente chiari oggi che cresce sempre più l’apprensione per i possibili
effetti collaterali negativi dei farmaci antidepressivi e di altre cure della tristezza
normale, fra cui il potenziale accresciuto rischio di suicidio presso alcune
popolazioni88. Importanti teorici psichiatrici anteriori al DSM-III erano
convinti con buona ragione che fosse importante identificare i casi normali di
tristezza e distinguerli dai disturbi depressivi. Piuttosto che ignorare del tutto e
non necessariamente la distinzione, è più prudente usarla semplicemente
quando utile, facendo bene attenzione a non sbagliare sul versante della
sicurezza nell’applicarla.

4.3 | Conclusione

I criteri largamente decontestualizzati del DSM-III, basati sui sintomi,


ebbero origine dagli sforzi di migliorare l’affidabilità, di sviluppare un
linguaggio comune fra gli psichiatri, pur in presenza di differenti posizioni
teoriche, e di rafforzare le credenziali scientifiche della professione. Ma
nell’urgenza di conseguire l’affidabilità, i criteri hanno rigettato – in gran parte
inavvertitamente – i precedenti 2500 anni di tradizione diagnostica clinica che
esplorava il contesto e il significato dei sintomi per decidere se un soggetto
fosse sofferente di un’intensa tristezza normale o di un disturbo depressivo. Il
risultato inconsapevole di questo sforzo, soprattutto quando la psichiatria si
spostò dai gravi stati degli internati agli stati molto più eterogenei di pazienti
ambulatoriali e membri della comunità, sarebbe stato una massiccia
patologizzazione della tristezza normale che, per ironia della sorte, con molto
probabilità ha reso la diagnosi di depressione scientificamente meno valida
anziché più valida.
Note
1 | Wilson, 1993.↵
2 | Fenichel, 1845/1996.↵
3 | Abraham, 1911/1953.↵
4 | Freud, 1917/1957 [trad. it. p. 129].↵
5 | Per es. Blashfield, 1982; Klerman, 1978.↵
6 | Shorter, 1997, p. 100.↵
7 | Ivi.↵
8 | Per es. Grob, 1973; Scull, MacKenzie, e Hervey, 1997.↵
9 | Shorter, 1992.↵
10 | Grob, 1991b.↵
11 | Dohrenwend e Dohrenwend, 1982.↵
12 | Ghaemi, 2003.↵
13 | Kraepelin, 1921/1976, p. 1.↵
14 | Ibidem.↵
15 | Ivi, p. 181.↵
16 | Ivi, p. 180.↵
17 | Spitzer, 1982.↵
18 | Kraepelin, 1907/1915, p. 68.↵
19 | Kraepelin, 1904/1917, pp. 4-5.↵
20 | Ivi, pp. 199-200.↵
21 | Ivi, p. 7.↵
22 | vi, p. 65.↵
23 | Jackson, 1986, p. 198.↵
24 | Ibidem.↵
25 | Ibidem.↵
26 | Ivi, p. 201.↵
27 | Grob, 1985.↵
28 | Grob, 1991b.↵
29 | APA, 1942, pp. 41-42.↵
30 | APA, 1952.↵
31 | Grob, 1991b.↵
32 | APA, 1952, p. 25.↵
33 | Ivi, pp. 33-34.↵
34 | APA, 1968, p. 40.↵
35 | Lewis, 1934.↵
36 | Curran e Mallison, 1941; Tredgold, 1941; Kendell, 1968.↵
37 | Per es. Kiloh e Garside, 1963; Mendels e Cochrane, 1968; Eysenck, 1970; Paykel,1971; Kiloh,
Andrews, Neilson, e Bianchi, 1972; Klein, 1974; Akiskal, Bitar, Puzantian, Rosenthal, e Walker, 1978.↵
38 | Per es. Kiloh e Garside, 1963; Overall, Hollister, Johnson, e Pennington, 1966; Klein, 1974.↵
39 | Akiskal et al. , 1978.↵
40 | Kiloh e Garside, 1963.↵
41 | Overall et al. , 1966; Hamilton e White, 1959; Paykel, 1971; Raskin e Crook, 1976.↵
42 | Kiloh et al. , 1972; Everitt, Gourlay, e Kendell, 1971.↵
43 | Per es. Kiloh e Garside, 1963; Kendell, 1968.↵
44 | Lewis, 1934.↵
45 | Kadushin, 1969; Grob, 1991a; Lunbeck, 1994.↵
46 | Akiskal et al. , 1978, p. 757.↵
47 | Andreason e Winokur, 1979.↵
48 | Callahan e Berrios, 2005, p. 115.↵
49 | Feighner et al. , 1972.↵
50 | Ivi, p. 57.↵
51 | Woodruff, Goodwin, e Guze, 1974, p. 6.↵
52 | Klerman, 1983; Spitzer, Williams, e Skodol, 1980.↵
53 | Rosenthal, 1968, p. 32.↵
54 | Mendels e Cochrane, 1968, p. 10; cfr. anche Mendels, 1968, p. 1353.↵
55 | Lehmann, 1959, p. S3.↵
56 | Woodruff, Goodwin, e Guze, 1974.↵
57 | Ivi, p. 16.↵
58 | Clayton, Halikas, e Maurice, 1971; 1972.↵
59 | Goodwin e Guze, 1996.↵
60 | Feighner, 1989.↵
61 | Spitzer, Endicott, e Robins, 1978; Endicott e Spitzer, 1978.↵
62 | Endicott e Spitzer, 1979.↵
63 | Spitzer, Endicott, e Robins, 1978.↵
64 | Spitzer et al. , 1978.↵
65 | Ibidem.↵
66 | Ibidem.↵
67 | Ivi, p. 781; Spitzer et al. , 1980, p. 154.↵
68 | Klerman, 1983; Kendell, 1983; Wilson, 1993.↵
69 | Spiegel, 2005.↵
70 | Spitzer et al. , 1975, p. 1190; Skodol e Spitzer, 1982.↵
71 | Eysenck, Wakefield, e Friedman, 1983.↵
72 | Szasz, 1961; Scheff, 1966.↵
73 | Mayes e Horwitz, 2005.↵
74 | pitzer, 1978; Bayer e Spitzer, 1985.↵
75 | Spitzer e Fleiss, 1974; Kirk e Kutchins, 1992, pp. 121-131.↵
76 | Cooper et al. , 1972, p. 100.↵
77 | Per es. Temerlin, 1968.↵
78 | Rosenhan, 1973, p. 250.↵
79 | Spitzer, 1975.↵
80 | Skodol e Spitzer, 1982; Spitzer e Fleiss, 1974.↵
81 | Kirk e Kutchins, 1992.↵
82 | Spitzer e Williams, 1988; Kirk e Kutchins, 1992, pp. 121-131.↵
83 | Zimmerman, 1990, p. 974.↵
84 | Clayton e Darvish, 1979.↵
85 | Robert Spitzer, comunicazione personale, 13 dicembre 2005.↵
86 | Woodruff et al. , 1974.↵
87 | Klein, 1974.↵
88 | Healy, 2004.↵
* Nel modello psicoanalitico la depressione è dovuta a conflitti inconsci, a loro volta legati a una
naturalità aggressiva che non può giungere in quanto tale al soddisfacimento. Questo modello non
contempla una fisiologia mentale inconscia, avendo come presupposto una concezione di ‘inconscio’
come das Unbewusste («inconoscibile»). La concezione etiologica del quadro psicopatologico manifesto
viene viziata da un tale postulato. Cfr. supra, l’Introduzione al volume. [NdC]↵
* L’approccio freudiano, definendo l’‘inconscio’ come «male», resta fedele alla concezione culturale
religiosa che considera l’essere umano soggetto a un ‘male’ interiore, perché segnato dal peccato
originale. Freud definisce, infatti, l’inconscio come «immorale», come «caos», come «calderone di
impulsi ribollenti», denominando il neonato «perverso polimorfo». In realtà la sua concezione,
all’epoca in cui venne esplicitata, fu rivoluzionaria soltanto in apparenza. Cfr. S. Freud, Nota sull’inconscio
in psicoanalisi (1912), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. VI, pp. 575-581; S. Freud, Metapsicologia
(1915), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. VIII, pp. 49-58; S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale
(1905), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. IV, pp. 499-500; S. Freud, Osservazioni su un caso di
nevrosi ossessiva (1909), in Id., Opere, 12 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2000-03, vol. VI; S. Freud,
Compendio di psicoanalisi (1938), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. XI, pp. 571-634. [NdC]↵
* Ciò è naturale conseguenza della concezione freudiana di fondo, per cui la patologia è naturale a
livello inconscio. [NdC]↵
* È di Abraham l’idea originale, di distinguere tra tristezza normale e fisiologica e tristezza patologica.
Infatti, sebbene l’opera di Freud Lutto e melanconia venga considerata l’ opus princeps sul tema, è in
Abraham per primo che la psicoanalisi rintraccia il suo scritto originario sulla depressione: nel 1912,
egli tracciò quella differenza tra lutto e melanconia che per lungo tempo costituì il riferimento
principale in questo ambito. Considerando il dolore per la perdita di una persona amata un fenomeno
essenzialmente fisiologico, Abraham affermò che se da un lato il lutto e la melanconia sono per certi
versi simili in quanto in entrambi i casi i soggetti soffrono, dall’altro, mentre il lutto è causato da una
perdita oggettiva, la melanconia sembra essere un dolore senza causa e apparentemente ingiustificato.
Cfr. K. Abraham, Note per l’indagine ed il trattamento psicoanalitici della follia maniaco-depressiva e di stati affini
(1912), in Id., Opere, 2 voll., Boringhieri, Torino 1975, vol. I; S. Freud, Lutto e melanconia, in Id.,
Metapsicologia (1915), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. VIII. [NdC]↵
* Va sottolineato che l'idea del suicidio non può essere considerata nell'ambito di una condizione
fisiologica, poiché il soggetto sano è caratterizzato da vitalità e autoconservazione e non opssono
essere presenti in lui idee, intenti e propositi suicidari. [NdC]↵
* Si sottolinea che è la maniera di operare statistica a condizionare il metodo clinico alterandolo e
facendogli perdere di scientificità medica. Viene così tralasciata una serie di aspetti fondamentali per la
diagnosi, quali contesto, temporalità, cause scatenanti materiali o affettive, realizzazioni di vita o
fallimenti, e così via. Possiamo osservare come questo diviene presto il grave problema alla base del
sistema diagnostico psichiatrico attuale che sembra risultare fallimentare da molti punti di vista.
[NdC]↵
Capitolo 5 | La depressione nel DSM-IV

Abbiamo detto nel Capitolo 1 che una definizione difettosa può aver forse
favorito la recente ondata di disturbi depressivi denunciati e anzi può esserne
addirittura la causa primaria. A sostegno della nostra affermazione,
procediamo ora a un esame dettagliato dei criteri adottati dal DSM per
individuare i disturbi depressivi e affini. Benché la storia della depressione
esposta nel capitolo precedente ci abbia accompagnato logicamente fino al
DSM-III, per assicurare che la nostra discussione si applichi alle pratiche
diagnostiche attuali, faremo riferimento ai criteri formulati nella quarta
edizione rivista, il DSM-IV (2000). Ciò non comporta alcun salto concettuale,
dato che i criteri correnti sono quasi identici a quelli del DSM-III.

5.1 | I disturbi affe vi nel DSM-IV

Iniziamo inserendo i criteri del DSM per il Disturbo Depressivo Maggiore


(DDM) nel contesto dell’approccio del DSM ai disturbi affettivi, noti anche
come disturbi dell’umore, la più ampia categoria in cui ricadono i disturbi
depressivi. Sono utili da tenere a mente le seguenti distinzioni:

5.1.1 | I disturbi dell’umore unipolari in contrapposizione ai disturbi bipolari


Il DDM è una depressione «unipolare», il che vuol dire che il soggetto ha
solo sintomi depressivi, senza oscillazioni fra sintomi depressivi e sintomi
maniacali, come umore elevato e grandiosità. I disturbi dell’umore che
includono episodi maniacali sono noti come «Disturbi Bipolari» (già «disturbi
maniaco-depressivi»), che sono relativamente rari rispetto alla frequenza
asserita del disturbo depressivo unipolare. Il Disturbo Bipolare I è spesso
molto grave: forme più lievi includono il Disturbo Bipolare II e il Disturbo di
Personalità Ciclotimico. Noi non ci occupiamo direttamente di nessuna di
queste forme di disturbo bipolare.

5.1.2 | Il Disturbo Depressivo Maggiore in contrapposizione alla Dis mia


Il DDM si manifesta generalmente nel corso del tempo in una serie di
episodi quasi discontinui con sintomi intensi, separati da intervalli senza
sintomi o con meno sintomi. Un’altra forma di disturbo depressivo, meno
comune, è la Distimia, che si manifesta con maggiore o minore continuità per
lunghi periodi di tempo a un livello meno intenso, e di cui parleremo più avanti
in questo capitolo.

5.1.3 | Il Disturbo Depressivo Maggiore in contrapposizione all’Episodio Depressivo Maggiore


Il DSM definisce vari sottotipi di DDM (per esempio, episodio singolo
ricorrente) in base al quadro sintomatologico emergente che esso chiama
Episodi Depressivi Maggiori (EDM) più alcuni criteri supplementari. In realtà,
è con i criteri per gli EDM che si compie la maggior parte dell’‘azione’
diagnostica: i criteri diretti per il DDM sono brevi e non forniscono molte
informazioni.

5.2 | Criteri per il Disturbo Depressivo Maggiore

A) Presenza di un Episodio Depressivo Maggiore.


B) L’Episodio Depressivo Maggiore non è meglio individuato come Disturbo
Schizoaffettivo e non si sovrappone alla Schizofrenia, al Disturbo Schizofreniforme, al
Disturbo Delirante, o al Disturbo Psicotico Non Altrimenti Specificato.
C) Non c’è mai stato un Episodio Maniacale, un Episodio Misto, o un Episodio
Ipomaniacale1.
In altre parole, i criteri per il DDM richiedono semplicemente che il paziente
vada soggetto ad almeno un Episodio Depressivo Maggiore, e che tale
episodio non rientri in altro disturbo psicotico (si noti che i sintomi psicotici
possono far parte della depressione quando non possano essere meglio
spiegati come pertinenti ad altro disturbo psicotico) e non si inquadri in un
altro tipo di disturbo dell’umore contenente elementi maniacali. Ma quasi tutti
gli episodi depressivi sono indicativi di DDM e non fanno parte di altro
disturbo. Nella grande maggioranza dei casi, dunque, i criteri per il DDM si
riducono ai criteri per l’EMD. Ci dilungheremo quindi un po’ sulla definizione,
molto più ricca di informazioni, dell’EMD.
5.2.1 | Criteri del DSM-IV per l’Episodio Depressivo Maggiore
A) Cinque (o più) dei seguenti sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante
un periodo di due settimane e rappresentano un cambiamento rispetto al precedente
livello di funzionamento; almeno uno dei sintomi è costituito da: 1) umore depresso o 2)
perdita di interesse o piacere.
1) Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal
soggetto (per esempio, si sente triste o vuoto) o come osservato dagli altri (per esempio,
appare lamentoso). Nota: Nei bambini e negli adolescenti l’umore può essere irritabile.
2) Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la
maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (come riportato dal soggetto o come
osservato dagli altri).
3) Significativa perdita di peso, senza essere a dieta, o aumento di peso (per esempio, un
cambiamento superiore al 5% del peso corporeo in un mese), oppure diminuzione o
aumento dell’appetito quasi ogni giorno. Nota: Nei bambini, considerare l’incapacità di
raggiungere i normali livelli ponderali.
4) Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno.
5) Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (osservabile dagli altri, non
semplicemente sentimenti soggettivi di essere irrequieto o rallentato).
6) Faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno.
7) Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati (che possono essere
deliranti), quasi ogni giorno (non semplicemente autoaccusa o sentimenti di colpa per
essere malato).
8) Ridotta capacità di pensare o concentrarsi, o indecisione, quasi ogni giorno (come
impressione soggettiva o osservata dagli altri).
9) Pensieri ricorrenti di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicidaria
senza un piano specifico, o tentativo di suicidio o ideazione di un piano specifico per
commettere suicidio.
B) I sintomi non soddisfano i criteri per un Episodio Misto.
C) I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del
funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.
D) I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per esempio,
una droga, un farmaco) o di una condizione medica generale (per esempio,
ipotiroidismo).
E) I sintomi non sono meglio giustificati da Lutto, cioè, dopo la perdita di una persona
amata, i sintomi persistono per più di due mesi o sono caratterizzati da una
compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria,
sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio2.
Chiunque denunci almeno cinque dei nove sintomi del criterio A, incluso
almeno uno fra l’umore depresso o la perdita di interesse o piacere, per un
periodo di due settimane è considerato avere presentato un Episodio
Depressivo Maggiore e quindi, generalmente, soffrire di DDM. Si noti che
anche per quelli che soddisfano i criteri dei sintomi, valgono le quattro
esclusioni previste nei criteri da B a E, eliminando dalla diagnosi i casi
seguenti: 1) gli stati che includono anche sintomi maniacali, che sono
classificati sotto i disturbi bipolari; 2) gli stati che non provocano
compromissione del ruolo o sofferenza clinicamente significative; 3) gli stati
che sono risultato diretto di una condizione medica generale o dell’uso di una
sostanza illegale o di un farmaco prescritto: questi sono diagnosticati come
Disturbo dell’Umore Dovuto a una Condizione Medica Generale o Disturbo
dell’Umore Indotto da Sostanze; o 4) gli stati che hanno origine da un lutto, a
meno che il lutto si sia protratto più a lungo di due mesi o comporti certi
sintomi particolarmente gravi; questo è considerato un caso di «lutto
complicato».

5.3 | Come i criteri del DSM per la Depressione Maggiore


affrontano la dis nzione fra patologia e tristezza normale

5.3.1 | Criteri dei sintomi e della durata


Il DSM-IV cerca di escludere dalla diagnosi di patologia gli stati depressivi
normali puntualizzando vari elementi dei suoi criteri sintomatici: 1) la soglia di
cinque sintomi da esso stabilita per la diagnosi si pone a un livello più alto
rispetto a quello che può essere raggiunto da molti periodi normali di tristezza;
2) la natura specifica di alcuni dei sintomi suggerisce già di per sé una
patologia, come il senso di inutilità, il rallentamento psicomotorio, o i
ricorrenti pensieri di morte; 3) la durata richiesta di due settimane, durante le
quali cinque sintomi devono presentarsi cumulativamente insieme, esclude
periodi più brevi o singoli sintomi manifestati sporadicamente in maniera
discontinua nel tempo; 4) anche la richiesta gravità, intensità e frequenza dei
sintomi per la durata di almeno due settimane – per esempio, che debbano
ricorrere «quasi ogni giorno» per due settimane, essere «marcati» o
«significativi», o presentare altri caratteri indicativi, come una certa percentuale
di perdita di peso – esclude molte forme più leggere di tristezza normale.
Non c’è dubbio che queste specificazioni dei criteri sintomatici evitano che
molti episodi di tristezza siano erroneamente classificati come patologie. Ma
queste strategie per distinguere le risposte patologiche da quelle normali hanno
due svantaggi. Primo, l’innalzamento della soglia dei sintomi per la diagnosi
per evitare falsi positivi può spesso, senza che ce ne accorgiamo, far aumentare
i falsi negativi, cioè i casi di vere patologie che non vengono riconosciute. Il
carattere patologico di una condizione non è semplice questione di numero di
sintomi, dal momento che possono esistere patologie leggere con un limitato
numero di sintomi.
Secondo, benché l’occorrenza di un maggior numero di sintomi sia
generalmente più dannosa, non sempre un numero maggiore di sintomi, una
loro maggiore gravità, o una più lunga durata significano disfunzione e
patologia. Come abbiamo visto nel Capitolo 2, fattori ambientali di stress
insolitamente duri spesso producono sintomi molto intensi anche in individui
normali, e i sintomi depressivi che si verificano durante periodi normali di
tristezza sono generalmente simili ai sintomi depressivi elencati nei criteri del
DSM che si verificano in presenza di patologie depressive. Inoltre, alcune
persone sono per temperamento più sensibili e hanno risposte normali allo
stress più severe rispetto ad altre.
Così, porre alte soglie di sintomi in termini di numero, di intensità o di
persistenza su un arco di tempo di due settimane non indirizza in maniera
efficace il problema della disfunzione – cioè il problema di distinguere se i
sintomi sono parte di una reazione di tristezza normale o sono il risultato di
un’alterazione patologica dei meccanismi che genera tristezza. Una intensa
tristezza normale in risposta a una varietà di importanti perdite può facilmente
includere i cinque sintomi richiesti dal DSM, come un umore depresso, la
mancanza di piacere nella attività consuete, la mancanza di sonno, la mancanza
di appetito e difficoltà di concentrazione negli impegni ordinari. Né la gravità
dei sintomi richiesta dal DSM, specificata in alcuni casi con aggettivi come
«ricorrente», «marcato» o «diminuito», è generalmente di un livello così
distintivo da denotare inequivocabilmente risposte di tristezza patologiche
piuttosto che normali. Così pure, la durata di due settimane non distingue
adeguatamente le reazioni intense di rango normale a perdite gravi, come la
fine di un matrimonio o una diagnosi medica di malattia potenzialmente
terminale, da disturbi depressivi. Le reazioni normali a perdite importanti
possono durare facilmente più di due settimane. Certo, la gravità dei sintomi, la
presenza di cinque di essi e il loro ripetersi quasi ogni giorno per un periodo di
due settimane sono in forte contrasto con il funzionamento consueto e
possono dare, quindi, a prima vista l’impressione di validità. Ma quando la
contrapposizione è fra il disturbo depressivo e periodi di intensa tristezza
normale in risposta a perdite importanti, la tristezza normale può facilmente
soddisfare questi requisiti.
Inoltre, molti dei sintomi, come le difficoltà a dormire e l’affaticamento,
hanno altissimi tassi di base nella popolazione comune in risposta a una varietà
di stress e non sono affatto tipici di una depressione, normale o patologica, o
anche di una malattia in generale. Così, individui senza alcun disturbo
depressivo potrebbero accidentalmente raggiungere la soglia prevista dei
sintomi durante un periodo di normale umore depresso.
È vero che alcuni sintomi, come la completa immobilità, la preoccupazione
morbosa e ingiustificata con senso di inutilità, allucinazioni e deliri non hanno
significativi punti in comune con il funzionamento normale. Sintomi del
genere possono indicare in generale un’alterazione patologica piuttosto che
tristezza con causa specifica, soprattutto se persistenti. Tuttavia, la diagnosi del
DDM non richiede la presenza di questi sintomi particolarmente severi.

5.3.2 | Esclusione del Lu o


Un modo in cui il DSM cerca di compensare le debolezze insite nei criteri
sintomatici nel distinguere la patologia dalla non patologia è attraverso le
clausole di esclusione. Questo è lo scopo principale dell’esclusione del lutto.
Ma, come ogni altra funzione mentale e fisica, il lutto può «andare storto» e
diventare patologia. Per questo l’esclusione del lutto ha una sua ‘clausola di
esclusione dell’esclusione’ che permette che a volte i sintomi depressivi
associati con il lutto siano classificati come vere patologie. Ciò si verifica
quando le risposte al lutto durano per più di due mesi, provocano una marcata
compromissione funzionale, o comprendono sintomi particolarmente gravi,
come stato di preoccupazione morbosa con senso di inutilità, ideazione
suicidaria, ritardo psicomotorio o sintomi psicotici3. (Vale la pena notare anche
che durante il lutto non sono rare allucinazioni passeggere della presenza della
persona cara perduta, che in generale non sono considerate patologiche.)
Si può discutere il limite di due mesi per il lutto normale, e si può sostenere
che il lutto normale può a volte includere uno dei sintomi ‘complicati’ che il
DSM ritiene sufficienti per la patologia. Tuttavia, il vizio di gran lunga
peggiore di questo criterio di esclusione è il fatto che non prende in
considerazione le risposte di tristezza normale a tutte le perdite diverse dalla
morte di una persona cara. Sarebbe stato facile generalizzare la clausola di
esclusione del lutto (e i criteri che l’accompagnano di ‘esclusione
dell’esclusione’) per coprire tutte le perdite gravi, ma questa opportunità fu
tralasciata, per ragioni che abbiamo esaminato in precedenza. Così, il tentativo
positivo di distinguere in maniera valida il normalmente triste dal malato è
troppo limitato per porre riparo adeguato alle evidenti debolezze dei criteri
sintomatici.

5.3.3 | Esclusione delle depressioni per condizioni mediche generali e indo e dall’uso di sostanze
L’esclusione dalla diagnosi di DDM degli stati depressivi che derivano
direttamente dagli effetti fisiologici di condizioni mediche o dell’uso di
sostanze fa scivolare semplicemente questi casi nelle categorie alternative del
Disturbo di Umore Dovuto a Condizione Medica Generale o Disturbo di
Umore Indotto da Sostanze. Queste categorie, benché non siano qui al centro
della nostra attenzione, sono soggette a proprie potenziali confusioni. Per
esempio, questi disturbi sono a volte confusi con le risposte di tristezza
normale al soffrire una condizione medica o ai problemi derivanti dall’uso o
dalla dipendenza da sostanze. Questo è un esempio di quanto sia complesso
per i medici il compito di separare i sintomi che indicano depressione da quelli,
simili, che non sono patologici o sono legati ad altre patologie.

5.3.4 | Il requisito del significato clinico


Forse il tentativo più importante, nelle clausole di esclusione del DSM, di
distinguere fra tristezza patologica e tristezza normale è il criterio del
«significato clinico», che richiede che «i sintomi causino disagio clinicamente
significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre
aree importanti». Questa clausola riconosce implicitamente che anche casi non
luttuosi ma che soddisfano durata e criteri sintomatici potrebbero ancora non
significare patologia. Ma la clausola non affronta i problemi fondamentali della
validità dei criteri per il DDM. Era pensata per far sì che si potesse essere
sicuri che le conseguenze negative di una certa condizione superassero una
soglia di significato perché la condizione fosse considerata clinicamente
rilevante e quindi potenzialmente classificabile come patologia, e questo va
bene. Ma non riconosce alcune distinzioni cruciali. Primo, i periodi di tristezza
in generale, che siano normali o patologici, implicano inevitabilmente
emozioni negative che comportano sofferenza. È difficile immaginare che
siano presenti cinque dei sintomi specifici senza che il soggetto provi dolore.
Secondo, le intense risposte normali a una perdita quasi sempre comportano
una qualche compromissione e diminuzione di interesse e capacità in vari
campi d’azione; il prototipo stesso di queste risposte comprende un ritiro
sociale e il voler essere lasciati da soli (per esempio, il soggetto non gradisce di
vedere gli amici o di andare al lavoro). Come sappiamo, probabilmente le
intense risposte normali provocano sofferenza e ritiro sociale per mettere in
grado il soggetto di evitare le minacce e riconsiderare la propria vita e l’insieme
dei propri obiettivi (cfr. Capitolo 2)4. L’esclusione per significato clinico
potrebbe dunque eliminare dalla categoria della patologia alcuni stati i cui
sintomi deboli non provocano danni. Ma è probabile che venga usata molto
raramente, poiché i sintomi elencati già comportano ovvie forme di sofferenza
e compromissione, per cui il requisito esplicito della sofferenza o della
compromissione è praticamente ridondante5.
Il criterio del significato clinico non risolve il problema di distinguere gli stati
normali da quelli patologici che soddisfano i criteri del DSM perché, come i
criteri dei sintomi e della durata, si applica potenzialmente a entrambi i tipi di
stati e non affronta la questione dell’alterazione patologica. Né l’aggiunta
dell’attributo «clinicamente significativo» serve a rendere più chiara la
distinzione, dal momento che l’attributo è lasciato indefinito. Sicché, alla fine la
frase non può significare che «abbastanza significativo da indicare uno stato
clinico – cioè patologico», con un evidente circolo vizioso rispetto alla
necessità di distinguere fra stati normali e stati patologici.

5.3.5 | Implicazioni della definizione di disturbo mentale propria del DSM


È interessante notare che la nostra affermazione che c’è un vizio nella
definizione di Disturbo Depressivo Maggiore del DSM per quanto riguarda la
distinzione fra tristezza patologica e tristezza normale sembra essere implicita
nel testo stesso del DSM. La Prefazione al DSM contiene una breve
definizione generale del disturbo mentale che si suppone debba essere usata
per determinare quali stati entrino in primo luogo nel manuale. La definizione
di disturbo mentale del DSM-IV recita:
Nel DSM-IV, ogni disturbo mentale è concettualizzato come sindrome o modello
comportamentale/psicologico clinicamente significativo, che si presenta in un individuo
ed è associato a tre indicatori: 1) disagio personale (per esempio un sintomo algico), 2)
disabilità (per esempio compromissione in una o più aree del funzionamento), 3) un
aumento significativo del rischio di morte, di dolore, di disabilità, o una importante
limitazione di libertà: in più questa sindrome o quadro non deve rappresentare
semplicemente una risposta attesa o culturalmente sancita a un particolar evento, ad
esempio la morte di una persona amata. Qualunque sia la sua causa esso deve essere al
momento considerato la manifestazione di una disfunzione comportamentale, psicologica, o
biologica dell’individuo. Non rappresentano disturbi mentali i comportamenti devianti (per
esempio politico, religioso, sessuale) né conflitti sorti principalmente tra l’individuo e la
società a meno che la devianza o il conflitto siano il sintomo di una disfunzione
dell’individuo come descritto sopra6.
Questa definizione distingue lodevolmente gli stati patologici da quelli non
patologici facendo riferimento alla presenza di una disfunzione interna, anche
se di sfuggita e senza cercare di spiegare il concetto di disfunzione. Essendo
questa una definizione generale di disturbo che dovrebbe applicarsi a ognuna
delle categorie del manuale, ne segue che i pacchetti di criteri diagnostici per i
singoli disturbi dovrebbero presumibilmente soddisfare la regola generale
secondo cui solo i sintomi causati da disfunzione debbano valere come
disturbi. Ma né il DSM-III né le edizioni successive del manuale fecero mai un
tentativo sistematico di correggere i criteri diagnostici con la definizione
generale di disturbi mentali. Ed è una sfortuna, perché in molti casi la
definizione è più valida di quanto non siano i pacchetti di sintomi diagnostici
specifici.
La definizione di disturbo mentale, che poggia sulla distinzione fra sintomi
che si manifestano a causa di una disfunzione nell’individuo e non a causa di
stati socialmente prevedibili o indesiderabili, è per aspetti importanti molto
simile alla descrizione del disturbo da «disfunzione dannosa»* che costituisce
lo sfondo della nostra discussione7. In particolare, la definizione del DSM
sembra indicare che anche stati che presentano certi sintomi possono non
essere disturbi, in quanto si può parlare di disturbo se i sintomi derivano da
una disfunzione. La definizione quindi afferma utilmente che uno stato non
può essere considerato disturbo solo in base alla sua indesiderabilità personale
o sociale, anche se c’è sofferenza o compromissione o altri sintomi dannosi. È
invece disturbo solo se a causare i sintomi è una ‘disfunzione nella persona’.
Ma, secondo questa definizione, un soggetto che reagisce a eventi esterni
stressanti nel modo in cui noi reagiamo naturalmente, cioè, con certe reazioni
emotive o di altro genere fra quelle descritte nella lista dei sintomi del DSM
per il disturbo depressivo, non ha una disfunzione e quindi non ha un disturbo.
Di conseguenza, la definizione di disturbo propria del DSM, combinata con la
più plausibile descrizione della «disfunzione» come deficienza di funzione
naturale, implica che i criteri per il DDM non sono validi, perché classificano
erroneamente come disturbi le risposte a una perdita intense ma selezionate
dalla natura stessa.

5.4 | Il precedente del Disturbo della Condo a

Può sembrare impossibile che gli esperti diagnosti che formularono i criteri
diagnostici del DSM possano essere arrivati a criteri che non solo non sono
validi ma sono anche incoerenti con la definizione di disturbo dello stesso
DSM. Ma la diagnosi clinica è un compito del tutto diverso dall’analisi
concettuale per definire i criteri che separano la patologia dalla normalità. Le
due cose richiedono abilità differenti (esattamente come, per esempio,
riconoscere una sedia quando la vedi è molto diverso dal formulare una
definizione del concetto di ‘sedia’ che caratterizza tutte e solo le sedie), ed è
quindi possibile che errori del genere siano entrati nel manuale. Consideriamo
un noto precedente: lo stesso testo del DSM-IV afferma che i criteri per un
importante disturbo dell’infanzia e dell’adolescenza, il Disturbo della Condotta
(cioè, un disturbo del comportamento antisociale, diagnosticato in base a tre o
più comportamenti di una lista come il furto, la fuga ecc.), non sono validi e
includono alcuni stati che non dovrebbero essere diagnosticati come disturbi
nonostante soddisfino i criteri diagnostici. Il problema, ci informa il DSM-IV,
è che i comportamenti antisociali usati come sintomi per diagnosticare il
Disturbo della Condotta possono manifestarsi in alcuni stati che non sono
dovuti a una disfunzione psicologica ma solo a una reazione normale a difficili
condizioni ambientali.
Ecco quello che il DSM-IV ha da dire sui propri criteri del Disturbo della
Condotta:
Sono state sollevate preoccupazioni sul fatto che la diagnosi di Disturbo della Condotta
possa talvolta essere malamente applicata a soggetti di ambienti in cui le modalità di
comportamento indesiderabile sono talvolta viste come autoprotettive (per esempio,
ambienti minacciosi, poveri, con alto tasso di criminalità). Conformemente alla
definizione di disturbo mentale del DSM-IV, la diagnosi di Disturbo della Condotta
dovrebbe essere applicata solo quando il comportamento in questione è sintomatico di
un sottostante malfunzionamento all’interno del soggetto, e non semplicemente una
reazione al contesto sociale immediato. Inoltre, la gioventù immigrata da paesi devastati
dalla guerra, con una storia di comportamenti aggressivi che potrebbero essere stati
necessari per la propria sopravvivenza in quel contesto, non merita necessariamente una
diagnosi di Disturbo della Condotta. Può essere utile al clinico considerare il contesto
economico e sociale in cui i comportamenti si sono manifestati8.
Questo brano dice che i criteri per il Disturbo della Condotta del DSM non
sono validi se applicati a sintomi che potrebbero manifestarsi come normale
risposta a circostanze quali, per esempio, quelli di giovani normali dal punto di
vista psichiatrico che per autoprotezione si uniscono a bande in un ambiente
minaccioso e praticano comportamenti antisociali come parte delle attività
richieste dalla banda. Così, i criteri per il Disturbo della Condotta non sempre
identificano malfunzionamenti. Noi facciamo esattamente la stessa cosa a
proposito dei criteri per il DDM. I criteri sintomatici identificano a volte
malfunzionamenti e quindi disturbi, ma identificano anche uno spettro
potenzialmente ampio di risposte normali ad ambienti problematici. Come nel
Disturbo della Condotta, il problema non è particolarmente difficile da vedere
una volta che si considerino alcuni esempi evidenti. Ma è una questione
profonda che insinua il dubbio sul significato della ricerca più recente sulla
depressione, come mostreremo nei capitoli successivi.
Inoltre, i criteri per il Disturbo della Condotta contengono lo stesso tipo di
requisito del «significato clinico» che compare nei criteri per il DDM. Ma il
commento contenuto nel testo appena citato implica che i criteri del Disturbo
della Condotta sono incapaci di distinguere adeguatamente le condizioni
normali da quelle patologiche anche con l’aggiunta della clausola del significato
clinico. Questa clausola certamente affronta il problema se ci sia danno
sufficiente per una diagnosi di disturbo, ma non quello se sia un
malfunzionamento a causare il danno. Nel caso del Disturbo della Condotta,
anche se il criterio del significato clinico esclude stati con sintomi troppo lievi
per costituire un disturbo, il DSM-IV riconosce che il problema se sia o no un
malfunzionamento a causare i sintomi, e quindi se si sia in presenza di un
disturbo o di una reazione normale alle circostanze, rimane una questione
separata. Esattamente lo stesso tema resta in piedi nel caso del DDM,
nonostante l’inclusione del criterio del significato clinico.

5.5 | Come il DSM cerca di affrontare i fa ori scatenan


contestuali della tristezza

Anche se, presi da soli, i criteri per il DDM presentano i problemi di cui
abbiamo parlato, qualcuno potrebbe rispondere alle nostre critiche ricordando
che il DSM va visto come un tutto unico. Direbbe che si può replicare alle
nostre obiezioni ai criteri richiamandosi ad altre categorie complementari o ad
altri elementi del manuale che in qualche modo affrontano il tema delle
risposte normali a una perdita. In questo paragrafo passeremo perciò in
rassegna le varie altre categorie ed elementi che il DSM usa per trattare i
sintomi depressivi. Noi sosteniamo che lungi dal compensare le debolezze dei
criteri per il DDM, queste categorie ed elementi complementari o non
affrontano affatto il problema o piuttosto, in alcuni casi, peggiorano
notevolmente la situazione, allargando ancora di più il raggio delle risposte di
tristezza normale suscettibili di essere etichettate come patologiche.

5.5.1 | Il commento testuale alla tristezza normale


Il commento testuale che accompagna i criteri per il DDM e gli altri Disturbi
dell’Umore in effetti parla di spinta a distinguere la tristezza normale dal
disturbo depressivo. Ma il modo in cui poi affronta l’argomento non fa che
rafforzare i problemi sopra rilevati. Nel paragrafo sulla «diagnosi differenziale»,
dopo una lunga discussione su come distinguere il disturbo depressivo da vari
altri disturbi mentali e dal lutto (su questo punto il testo ripete semplicemente i
requisiti elencati nella clausola di esclusione del lutto dei criteri per il DDM), il
DSM-IV-TR dice quanto segue:
[In fondo,] i periodi di tristezza sono aspetti impliciti dell’esperienza umana e non
dovrebbero essere diagnosticati come Episodi Depressivi Maggiori, a meno che ne
soddisfino i criteri di gravità [cioè, cinque sintomi su nove] e durata [cioè, la maggior
parte del giorno, quasi ogni giorno per almeno due settimane] e presentino disagio e
compromissione clinicamente significativi9.
Questo passo non fa che reiterare i criteri diagnostici per il DDM e
riaffermare che sono sufficienti per il disturbo. La chiara implicazione di esso è
che i normali periodi di tristezza non soddisfano mai i criteri. Ma, come
abbiamo dimostrato in precedenza in questo libro, non è così. Una parte delle
tante varianti normali della tristezza, soprattutto in risposta a gravi perdite e
minacce, può facilmente soddisfare i criteri del DSM. Così, in netto contrasto
con il commento testuale che accompagna i criteri per il Disturbo della
Condotta, il commento sul DDM sembra un tiepido passo verso il
riconoscimento del problema di distinguere il disturbo depressivo dalla
tristezza normale; piuttosto ripete solo l’errore originario dei criteri.

5.5.2 | Sistema mul assiale


Un secondo modo in cui il DSM cerca di affrontare il tema dello sviluppo
dei sintomi in risposta a fattori stressanti è attraverso il suo sistema multiassiale
della diagnosi. Questo sistema classifica i pazienti lungo cinque distinte
dimensioni che vanno al di là dei criteri diagnostici. Le diagnosi del DDM (e di
tutti gli altri disturbi mentali) sono riportate sull’Asse I, i disturbi di personalità
sull’Asse II, le condizioni mediche generali sull’Asse III, i problemi psicosociali
e ambientali sull’Asse IV e la valutazione globale del funzionamento sull’Asse
V. I vari assi intendono dare al clinico un quadro più complessivo del contesto
in cui è inserito il problema del paziente rispetto a quello fornito dai criteri
diagnostici da soli. In particolare, l’Asse IV riporta i problemi psicosociali e
ambientali che toccano la diagnosi, la cura e la prognosi dei disturbi mentali, e
comprende i fattori di disagio che fanno scattare la risposta alla perdita.
Il problema è che il fatto di raggruppare i fattori di disagio psicosociale
nell’Asse IV ha l’effetto di collocarli su una dimensione del tutto separata dalle
diagnosi dei disturbi. I sintomi che soddisfano i criteri per il DDM sono stati
già definiti come patologici prima che entri in gioco l’Asse IV. L’informazione
aggiuntiva fornita dall’Asse IV, per quanto preziosa, non affronta in alcun
modo la relazione normale versus patologico tra i fattori di disagio esistenti e le
risposte sintomatiche, e quindi non affronta il problema di stabilire se la
condizione sia una disfunzione psicologica o una risposta non patologica a un
fattore di disagio. Questo asse fornisce ai clinici uno strumento per prendere in
considerazione i fattori di disagio nelle descrizioni dei casi, non un mezzo per
separare le condizioni patologiche da quelle non patologiche che soddisfano i
criteri sintomatici.

5.5.3 | Codici V per condizioni non patologiche


Terzo, il DSM contiene un breve paragrafo intitolato Altre condizioni che
possono essere oggetto di attenzione clinica, che include condizioni non patologiche
per le quali i pazienti spesso consultano i professionisti. Queste categorie sono
spesso chiamate «codici V», dalla lettera che precede i loro codici diagnostici
numerici nel DSM-III. Fra i codici V c’è il Lutto, per cui viene osservato che
«Come parte della loro reazione alla perdita, alcuni soggetti in lutto presentano
i sintomi caratteristici di un Episodio Depressivo Maggiore [...] Non viene
generalmente posta la diagnosi d Episodio Depressivo Maggiore a meno che i
sintomi siano ancora presenti due mesi dopo la perdita»10. La categoria del
Lutto riconosce dunque esplicitamente che una condizione può soddisfare
tutto il blocco dei criteri sintomatici di un Episodio Depressivo Maggiore
senza tuttavia essere un disturbo mentale. Ma questa categoria è limitata al
dolore dopo la perdita di una persona amata, e di conseguenza, nella misura in
cui vale come riconoscimento di condizione non patologica, non fa che
ripetere appunto quanto già contenuto nella clausola di esclusione del lutto dei
criteri per il DDM.
Fra gli altri codici V ci sono categorie distinte per problemi scolastici,
lavorativi, di identità, spirituali, di acculturazione e fasi di vita. I codici V non
forniscono criteri sintomatici per questi problemi non patologici; in ogni caso,
si limitano ad affermare che una condizione ricade in quella categoria se «non
[è] dovuta a disturbo mentale». Il DSM-IV dunque riconosce che molti
problemi della vita non sono disturbi mentali. Ma non dà criteri per distinguere
i sintomi di disturbi mentali da quelli che corrispondono a problemi non
patologici della vita. In particolare, non fornisce indicazioni che consentano di
ignorare i criteri per il DDM e classificare una condizione che soddisfa quei
criteri come una risposta normale. Quando il DSM afferma che perché una
condizione sia qualificata come codice V bisogna che essa «non [sia] dovuta a
un disturbo mentale», in realtà intende che quella condizione non soddisfa i
criteri del DSM per un disturbo mentale, incluso il DDM. Pertanto, le
condizioni che soddisfano i criteri sintomatici per il DDM devono ricevere una
diagnosi specifica di disturbo e non un codice V. Solo condizioni residuali che
non soddisfano i criteri per il disturbo possono essere posti in codice V. I
codici V, quindi, non affrontano il problema delle risposte normali alla perdita
che soddisfano i criteri del DSM per il DDM. Di fatto, il paragrafo dei codici
V è esattamente quello in cui ricadono probabilmente molte delle potenziali
diagnosi di DDM.

5.5.4 | Disturbo dell’Ada amento


Il modo principale in cui il DSM-IV affronta il tema delle risposte di
tristezza a fattori di stress è attraverso la categoria diagnostica di Disturbo
dell’Adattamento Con Umore Depresso. Questa categoria, in effetti, cerca di
definire ciò che il DSM-I e il DSM-II chiamavano di solito depressioni
«reattive», che si manifestano in risposta a eventi stressanti. La sfida nella
formulazione di una simile definizione è rappresentata dal fatto che la maggior
parte della tristezza normale è anche «reattiva» a eventi stressanti, per cui i
criteri devono in qualche modo distinguere le reazioni patologiche da quelle
normali. Ma i criteri per il Disturbo dell’Adattamento Con Umore Depresso
non riescono a vincere questa sfida e senza volerlo patologizzano (cioè
trattano erroneamente come disturbo) un ampio spettro di altre risposte
normali alla perdita oltre quelle che ricadevano sotto i criteri per il DDM.
Pensata per distinguere le reazioni eccessive patologiche dalle reazioni
normali allo stress, la categoria globale del Disturbo dell’Adattamento
abbraccia una serie di sottocategorie, ciascuna delle quali comporta uno
specifico tipo di reazioni sintomatiche a un fattore di stress, fra cui umore
depresso, ansia, condotta antisociale, sintomi misti e una «non specificata»
categoria onnicomprensiva per sofferenze fisiche, ritiro sociale, inibizioni
lavorative e altre reazioni problematiche allo stress. Il disturbo dell’adattamento
è una categoria residuale «da non usare se il disturbo soddisfa i criteri per un
altro disturbo specifico dell’Asse I», come il DDM11.
Per qualificarla specificamente come Disturbo dell’Adattamento «Con
Umore Depresso», la condizione deve soddisfare i criteri generali per il
Disturbo dell’Adattamento (discusso più avanti) e in più realizzare il seguente
criterio sintomatico: «Questo sottotipo va usato quando le manifestazioni
predominanti sono sintomi come l’umore depresso, la facilità alle lacrime o
sentimenti di disperazione»12. Il requisito che ognuno di questi sintomi sia
presente è così debole che in pratica ogni risposta di tristezza normale lo
soddisferebbe. In realtà, in linea di principio, la vaghezza del criterio
sintomatico depressivo permette la diagnosi con un solo sintomo comune di
risposta di tristezza, come l’umore depresso o il pianto.
La diagnosi, tuttavia, richiede che siano soddisfatti anche i criteri generali per
il Disturbo dell’Adattamento, e la validità del Disturbo dell’Adattamento Con
Umore Depresso quindi dipende da quei criteri generali, che sono i seguenti:
A) Sviluppo di sintomi emozionali e comportamentali in risposta a uno o più fattori
stressanti che si manifestano entro tre mesi dall’inizio del fattore, o dei fattori stressanti.
B) Questi sintomi o comportamenti sono clinicamente significativi come evidenziato da
uno o l’altro dei seguenti:
1) Grave disagio che va al di là di quanto prevedibile in base all’esposizione al fattore
stressante.
2) Compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo (o scolastico).
C) Il disturbo correlato allo stress non soddisfa i criteri per un altro disturbo specifico
dell’Asse I o II.
D)I sintomi non riguardano il Lutto.
E) Una volta che il fattore stressante (o le sue conseguenze) sia superato, i sintomi non
persistono per più di altri sei mesi13.
Il Disturbo dell’Adattamento, a differenza del DDM, è specificamente
limitato a condizioni che sono reazioni a eventi scatenanti. La clausola C
formalizza il carattere «residuale» della diagnosi e implica che il Disturbo
dell’Adattamento Con Umore Depresso può essere diagnosticato solo se
l’individuo non soddisfa i criteri per il DDM. Come nei criteri per il DDM, la
sola esenzione dallo statuto di disturbo è il lutto: le reazioni a tutte le altre
perdite che soddisfano i criteri sono considerate patologiche.
È senz’altro vero che il processo di adattamento ai fattori stressanti, o di
«affrontamento», può andare storto e diventare patologico. Il tema critico è se i
criteri per il Disturbo dell’Adattamento riescono nel loro obiettivo di
distinguere queste reazioni patologiche dalle risposte di tipo normale, benché
intense, a eventi stressanti.
I criteri richiedono che il sintomo o i sintomi si manifestino entro tre mesi
dall’insorgenza del fattore stressante e scompaiano entro sei mesi dalla fine del
fattore stressante. Questi criteri relativi ai tempi sono pensati per assicurare che
i sintomi siano effettivamente una reazione a un fattore stressante e non
indipendenti da esso. Il problema è che la grande maggioranza delle risposte
normali alla perdita è caratterizzata da una stretta relazione temporale con il
fattore stressante che le fa scattare: esse tendono a manifestarsi subito dopo il
verificarsi del fattore stressante e a scemare rapidamente al calare del fattore
stressante. Così, i requisiti temporali abbracciano potenzialmente la grande
maggioranza degli episodi di tristezza normale e non distinguono le reazioni
patologiche alla perdita da quelle non patologiche. Il requisito che la reazione
cessi entro sei mesi dalla fine del fattore stressante (o delle sue conseguenze) è
di particolare interesse, perché uno dei migliori indicatori che una reazione
potrebbe essere patologica è che essa non cala gradualmente dopo che il fattore
stressante cessa, ma assume una vita a sé stante, indipendente dagli eventi.
Requisiti temporali a parte, la distinzione che i criteri del Disturbo
dell’Adattamento del DSM fanno fra la risposta normale e patologica si riduce
praticamente a stabilire se la condizione soddisfa almeno uno dei due criteri di
«significato clinico» specificati sotto il punto B. Per essere classificata come
patologica, la reazione deve includere o «grave disagio che va al di là di quanto
prevedibile in base all’esposizione al fattore stressante» o «compromissione
significativa del funzionamento sociale o lavorativo (o scolastico)».
Quanto al criterio del «disagio eccessivo», anche le reazioni normali a fattori
stressanti sono di per sé inclini a provocare disagio, e quando il fattore
stressante è marcato, le risposte normali tendono a essere (per il principio di
proporzionalità), o almeno possono essere, marcate. Così la capacità di questo
criterio di distinguere le reazioni normali da quelle patologiche si riduce al suo
requisito che il disagio nelle condizioni patologiche è «al di là di quanto
prevedibile» per quel fattore stressante. Il problema è come dar corpo a questo
criterio. Non si può pensare che esso richieda che i sintomi siano «al di là di
quanto prevedibile in una reazione normale», perché questo solleverebbe
l’interrogativo di come questi criteri possano distinguere la normalità dalla
patologia. Un’alternativa ovvia è di intendere «al di là di quanto prevedibile»
come un requisito statistico. L’interpretazione statistica, tuttavia, porterebbe
una buona metà o (diciamo) il terzo della distribuzione dei rispondenti normali
a essere classificata come malata. Ma manifestare un livello di reazione più alto
di quello tipico o prevedibile non implica necessariamente che quella reazione
sia dovuta a un disturbo. Per esempio: 1) il sistema di significati e valori del
soggetto può rendere un fattore stressante molto più problematico o
minaccioso di quanto sia per la maggior parte delle persone; 2) il soggetto può
vivere in un ambiente problematico in cui il fattore stressante è più serio o più
duraturo del solito; 3) il soggetto può provenire da un ambiente culturale o da
una famiglia più espressivi che non altri soggetti; o 4) il soggetto per
temperamento può rispondere agli eventi della vita con maggiore intensità di
quanto non faccia la maggior parte delle persone.
Un’interpretazione più benevola è che per risposta «prevedibile» il DSM
intenda una risposta che sia «proporzionata» tenuto conto di tutti i fattori,
inclusa la natura e il contesto del fattore stressante, nonché i significati
soggettivi e culturali di esso. Abbiamo sostenuto nelle pagine precedenti che
una proporzionalità approssimativa è uno dei contrassegni di una risposta non
patologica alla perdita. Se interpretiamo l’elemento numero 1) del criterio B nel
senso che una reazione «eccessiva» è al di là delle risposte proporzionate,
allora, preso in sé stesso, è potenzialmente un valido indicatore di
malfunzionamento e colloca correttamente alcuni disturbi nella categoria del
Disturbo dell’Adattamento ed evita diagnosi positive evidentemente false.
Ma poi c’è il problema dell’elemento numero 2) del criterio B: la
compromissione del funzionamento sociale e lavorativo. Questo, di per sé,
viene presentato come un’alternativa sufficiente per classificare una condizione
come patologica. Purtroppo, non riesce a escludere un gran numero di
condizioni di risposta normale alla perdita. Ogni volta che si presentano fattori
stressanti di rilievo, è probabile che i soggetti soffrano una qualche
compromissione del loro funzionamento sociale, lavorativo o scolastico.
Proprio il tempo e la concentrazione che ci vogliono per affrontare il fattore
stressante, i sentimenti emozionali che rendono difficile focalizzarsi sui
compiti di routine e i cambiamenti che i soggetti devono introdurre nella vita
reale possono facilmente portarli a resistere ai compiti e ruoli usuali. Inoltre, i
problemi e le sfide che i fattori stressanti di rilievo fanno scattare possono far
apparire temporaneamente l’esercizio di un ruolo come di scarsa importanza al
confronto, provocando una perdita di motivazione e interesse. In pratica ogni
umore depresso può avere conseguenze di questo genere. Così, anche se
interpretiamo il criterio del «grave disagio» in maniera benevola, i difetti
dell’elemento alternativo della compromissione fanno sì che un vasto numero
di risposte normali alla perdita possa essere diagnosticato come Disturbi
dell’Adattamento.
In conclusione, a nostro avviso i criteri per il Disturbo dell’Adattamento e
per il suo sottotipo Disturbo dell’Adattamento Con Umore Depresso si
prestano a far classificare come patologiche un gran numero di risposte
normali che insorgono a causa di fattori stressanti e che scemano dopo che il
fattore stressante finisce, proprio come sono designate a finire le stesse
risposte. E producono tale classificazione su una base esile come un singolo
sintomo: la riduzione dell’esercizio del suo ruolo da parte del soggetto. Infatti,
ogni risposta normale alla perdita con qualche conseguenza che non ricade
sotto i criteri del DSM per il DDM quasi sicuramente ricade sotto i criteri per
il Disturbo dell’Adattamento Con Umore Depresso.
I difetti della categoria del Disturbo dell’Adattamento sono così evidenti che
i ricercatori e gli epidemiologi l’hanno largamente ignorata. E si capisce
chiaramente che considerano di nessun interesse il Disturbo dell’Adattamento
già dal basso numero di studi di ricerca a esso dedicati e dal fatto che quel
numero non sia mai cresciuto, contrariamente a quanto accaduto con la ricerca
su altre categorie del DSM in generale e sul DDM in particolare. Nel 1980, 80
articoli medici contenevano nei titoli «disturbo dell’adattamento», un numero
sceso poi a 55 nel 200514. In quest’ultimo anno, sono apparsi quasi 158 articoli
con «depressione» nel titolo per ogni articolo sul disturbo dell’adattamento. In
poche parole, il DDM, e non il Disturbo dell’Adattamento Con Umore
Depresso, è diventato la categoria operativa sul campo quando si tratta di
studiare gli stati depressivi. Questo disinteresse per il Disturbo
dell’Adattamento da parte dei ricercatori sembra giustificato. La sua diagnosi
presenta problemi così enormi nel distinguere le condizioni normali da quelle
patologiche da essere sprofondata come serio argomento di ricerca sotto il
peso delle sue inefficienze. Tuttavia, in ambito clinico, la diagnosi di Disturbo
dell’Adattamento può a volte essere ancora utile come un modo per fornire
un’etichetta potenzialmente rimborsabile per reazioni a circostanze stressanti
che possono o no essere veri disturbi ma che spesso meritano e hanno bisogno
di attenzione clinica.

5.6 | Altre categorie e cara eris che legate alla depressione del
DSM-IV

5.6.1 | Diagnosi so osoglia I: Depressione Minore


Le condizioni che non soddisfano in pieno i criteri sintomatici o di durata
per il DDM ma che presentano alcuni sintomi inclusi nei criteri sono chiamate
condizioni «sottosoglia». Il DSM-IV ha creato una nuova categoria, il Disturbo
Depressivo Minore, che raccoglie queste condizioni in un’appendice su Criteri e
assi utilizzabili per ulteriori studi. Esso richiede solo due, anziché cinque, sintomi
sui nove criteri per il DDM, purché uno dei sintomi sia l’umore depresso o la
diminuzione dell’interesse o del piacere. Sotto altri aspetti, come il requisito
della durata e varie esclusioni, è essenzialmente lo stesso che il Disturbo
Depressivo Maggiore15.
Come vedremo nel prossimo capitolo, vari dibattiti nella recente letteratura
propongono che le condizioni sottosoglia siano definite come veri disturbi.
Nessuna di queste proposte affronta seriamente il problema che permettere di
considerare disturbi le condizioni sottosoglia significa aprire le porte alla
possibilità di diagnosticare come disturbi pure risposte di tristezza normale
neanche particolarmente intense o durature. In effetti, una categoria del genere
potrebbe abbracciare praticamente tutte le risposte significative alla perdita o
tutti i periodi di tristezza. Ma fino a questo momento il DSM non ha adottato
la depressione minore come una categoria ufficiale.

5.6.2 | Diagnosi so osoglia II: Disturbo dell’Umore Non Altrimen Specificato


Ciononostante, il DSM specifica già che i professionisti della salute mentale
possono a loro discrezione classificare come disturbi depressivi condizioni
sottosoglia che non soddisfano i criteri del DSM per il DDM. Ciò è dovuto al
fatto che, come per molti altri tipi di categorie, il manuale include un’ulteriore
categoria ‘cestino della spazzatura’: il Disturbo dell’Umore Non Altrimenti
Specificato (NAS). Uno degli scopi principali di questa categoria è di
diagnosticare «quei disturbi con sintomi dell’umore che non soddisfano i criteri
per alcun disturbo dell’umore specifico»16.
L’Introduzione del manuale include un paragrafo intitolato Uso di categorie non
altrimenti specificate che identifica le situazioni in cui una diagnosi NAS può
essere appropriata. La prima si applica a condizioni per le quali sono
disponibili abbastanza informazioni per indicare la classe di disturbo che è presente, ma
non è possibile ulteriore specificazione, o perché non ci sono sufficienti informazioni per
fare una diagnosi più specifica o perché le caratteristiche cliniche del disturbo non
soddisfano i criteri per qualche categoria specifica di quella classe17.
L’intenzione qui era senza dubbio quella, legittima, di concedere ai clinici la
flessibilità per diagnosticare all’occorrenza chiari disturbi che non rispettano
del tutto la soglia ufficiale per una condizione più specificamente codificata in
una classe. Ma applicare la categoria NAS al disturbo depressivo, senza
preoccuparsi di distinguerlo dalle reazioni normali, potrebbe lasciare ai clinici
la possibilità di diagnosticare come disturbi molte risposte normali che non
sono intense abbastanza da rispettare la soglia dei cinque sintomi per due
settimane.
La seconda situazione in cui, secondo le specificazioni del manuale, la
categoria NAS può essere usata è quella di quando «la presentazione
corrisponde a un quadro sintomatico non incluso nella classificazione del
DSM ma che causa disagio o compromissione clinicamente significativi»18.
Anche questa è problematica, perché sia la tristezza normale sia quella
patologica possono facilmente comportare significativo disagio e
compromissione di ruolo. Così, quando si tratta di risposte alla perdita, la
categoria del Disturbo dell’Umore NAS dà in effetti ai clinici carta bianca per
classificare le reazioni normali come disturbi.

5.6.3 | Disturbo Dis mico


Una seconda categoria di disturbi depressivi nel DSM-IV è il Disturbo
Distimico. Concepito in parte come una concessione ai clinici psicodinamici,
questo disturbo ha sostituito la tradizionale categoria della depressione
nevrotica (e in effetti appariva con il titolo Disturbo Distimico (o Nevrosi
Depressiva) nel DSM-III)19. Ma i suoi criteri sono del tutto diversi da quelli per
le tradizionali depressioni nevrotiche, che includevano reazioni eccessive ma
spesso limitate nel tempo a fattori stressanti specifici. La diagnosi del Disturbo
Distimico richiede un disturbo dell’umore e solo altri due sintomi, ma richiede
anche che i sintomi siano durati per almeno due anni (un anno per i bambini e
gli adolescenti) e durante quel periodo devono essere stati presenti per la
maggior parte del giorno per la maggior parte dei giorni. Come il DDM, il
Disturbo Distimico è diagnosticato unicamente sulla base di sintomi, senza
riferimento a fattori stressanti cronici (per esempio, il graduale peggioramento
e la morte di un figlio ammalato) che potrebbero distinguere gli stati normali
da quelli patologici di sintomi depressivi cronici. Né i criteri sintomatici
permettono una distinzione fra il disturbo depressivo e la personalità o
temperamento melancolico normale, identificato, quest’ultimo, fin dai tempi di
Aristotele. Questi problemi rappresentano sfide importanti per la validità della
stessa categoria del Disturbo Distimico, e di sicuro la sua inclusione come
categoria di condizioni più lievi ma croniche non fa nulla per risolvere
problemi che nascono dalla mancanza di un’adeguata distinzione fra normalità
e patologia nei criteri per il DDM.

5.6.4 | Disturbo Depressivo Maggiore melancolico


Per alcuni soggetti che soddisfano i criteri per il DDM, il DSM specifica una
sottocategoria «Con caratteri melancolici». Questa sottocategoria classifica un
soggetto che ha perduto il piacere per tutte, o quasi, le attività, o che non
reagisce a stimoli solitamente piacevoli e che presenta tre altri sintomi di una
lista che include una distinta qualità dell’umore depresso differente dalla
tristezza usuale, di maggiore gravità al mattino, al risveglio di prima mattina,
con marcato rallentamento psicomotorio, perdita di peso ed eccessivo senso di
colpa.
La sottocategoria della melancolia doveva corrispondere nelle intenzioni ai
tradizionali casi di «depressione endogena», che erano considerati esempi
particolarmente chiari di disturbo depressivo20. Il DSM, tuttavia, non usa il
termine «endogeno» perché, per tradizione, quel termine connota certi tipi di
sintomi ‘vegetativi’ o apparentemente con base organica e l’assenza totale di
circostanze scatenanti esterne, tutti elementi che in effetti fanno pensare a un
disturbo ma comportano un presupposto eziologico. Il DSM, invece, usa i
sintomi solo per diagnosticare la categoria melancolica. Di conseguenza, molte
condizioni che i criteri sintomatici del DSM classificano come melancoliche
sono associate a stress precipitanti e non sono considerate tradizionalmente
«endogene».
È possibile che, dati i loro speciali requisiti sintomatici, le depressioni
melancoliche del DSM possano essere, in media, effettivi disturbi più che altri
tipi di depressione. Ma le depressioni melancoliche costituiscono solo una
piccola frazione dei Disturbi Depressivi Maggiori del DSM. Così la distinzione
fra le condizioni melancoliche e altre condizioni depressive non può produrre
alcuna soluzione ai problemi di validità dei criteri generali del DDM21.
Sarebbe stato utile a risolvere il problema della distinzione fra tristezza
normale e tristezza patologica se il DSM avesse formulato i criteri per la
depressione melancolica in modo da riflettere l’idea tradizionale delle
depressioni «endogene» contrapposte a quelle «reattive»? Come abbiamo detto
nel Capitolo 1, la distinzione endogeno-reattivo non separa adeguatamente la
patologia dalla non patologia perché, benché le depressioni endogene siano
generalmente disturbi, anche molte depressioni reattive lo sono ugualmente in
forza di una sproporzionata risposta sintomatica all’entità della perdita
scatenante. Il DSM giustamente abbandonò questa distinzione, ma purtroppo
non ne ha trovata un’altra sostitutiva adeguata*.

5.7 | Conclusione

Le diagnosi basate sui sintomi del DSM-III e del DSM-IV hanno migliorato
sotto molti aspetti i precedenti sforzi per classificare la depressione. Esse
hanno superato le frettolose e ambigue definizioni di depressione offerte dai
manuali precedenti. Fasci di criteri espliciti hanno migliorato la comunicazione
fra i ricercatori e i clinici sul significato della depressione. I ricercatori hanno
potuto creare popolazioni più omogenee di partecipanti alle indagini, e le
diagnosi cliniche hanno avuto maggiori possibilità di fare riferimento agli stessi
tipi di condizioni.
Questi indubbi progressi, tuttavia, hanno avuto anche dei costi. Il principale
fu che le diagnosi basate sui sintomi non distinguevano validamente le
depressioni che indicano la presenza di un disturbo dalle prevedibili reazioni a
contesti situazionali. Le tante caratteristiche del DSM che trattano delle
risposte a fattori stressanti non riescono a risolvere questo problema. La
definizione dei disturbi mentali offerta dal manuale, combinata con i dati
empirici citati nel Capitolo 2, fa pensare che i suoi criteri per il disturbo
depressivo non siano validi. Il sistema multiassiale non è d’aiuto, perché usa
l’importante asse dei fattori stressanti psicosociali solo per integrare, non per
modificare, una diagnosi di disturbo. La categoria del Disturbo
dell’Adattamento non fa che aggravare il problema, in quanto patologizza
anche le reazioni normali che presentano meno dei sintomi consueti e che
scompaiono al finire del fattore stressante. Neanche l’introduzione dei codici
V supera il fondamentale problema che tutte le condizioni che soddisfano i
criteri diagnostici debbano essere diagnosticate come disturbi. Sarebbe stato
abbastanza facile per la definizione del DDM includere un più ampio elenco di
criteri di esclusione paragonabili all’esclusione per il lutto, ma non è stato fatto.
Il risultato è una grave non validità che porta alla patologizzazione della
intensa tristezza normale.
Kraepelin aveva colto concettualmente la distinzione tra il «con causa» e il
«senza causa», anche se questa distinzione non ebbe una grande rilevanza
pratica nella classificazione dei suoi pazienti d’ospedale. Al tempo in cui il
DSM-III fu pubblicato nel 1980, la cura ambulatoriale era molto più comune,
e quindi lo spettro di problemi che le persone portavano agli psichiatri era
diventato enormemente più ampio. Proprio quando sarebbe stato
massimamente utile sviluppare ancor più la distinzione tra «con causa» e «senza
causa» in modo da evitare diagnosi falso-positive, il DSM-III ha abbandonato
la distinzione e senza volerlo ha così riclassificato come disturbi mentali molte
condizioni che erano semplicemente difficoltà di vita. I problemi conseguenti
sono rimasti senza rimedio nelle edizioni successive del manuale. Ma il
problema della patologizzazione della tristezza normale non finiva lì. Il passo
successivo della trasformazione dell’infelicità normale in disturbo mentale è
arrivato quando la logica basata sui sintomi che stava dietro il DSM-III e il
DSM-IV ha superato i confini della clinica e ha formato la base per gli studi
della depressione fra i soggetti non in cura della comunità.

Note
1 | APA, 2000, p. 375.↵
2 | Ivi, p. 356.↵
3 | Ibidem.↵
4 | Nesse, 2000.↵
5 | Zimmerman, Chelminski, e Young, 2004.↵
6 | APA, 2000, p. XXXI (corsivo nostro).↵
7 | Wakefield, 1992.↵
8 | APA, 2000, pp. 96-97.↵
9 | Ivi, pp. 355-356.↵
10 | Ivi, pp. 740-741.↵
11 | Ivi, p. 679.↵
12 | Ibidem.↵
13 | Ivi, p. 683.↵
14 | Ricerca nella banca dati di Medline.↵
15 | APA, 1994, pp. 720-721.↵
16 | APA, 2000, p. 381.↵
17 | Ivi, p. 5.↵
18 | Ivi, p. 4.↵
19 | Bayer e Spitzer, 1985.↵
20 | Zimmerman e Spitzer, 1989.↵
21 | Zimmerman, Coryell, e Pfohl, 1986; Zimmerman e Spitzer, 1989.↵
* Ci chiediamo se non sarebbe stato meglio conservare la distinzione precedente tra endogena e
reattiva, considerando che la validità diagnostica è peggiorata. Gli studenti di medicina e psicologia e i
medici in formazione specialistica di oggi, infatti, da un lato non acquisiscono una capacità diagnostica
migliore, dall’altro non conoscono il patrimonio psicopatologico precedente sulla definizione di
depressione endogena e reattiva se basano i loro studi sul DSM-IV-TR o sul DSM-5. [NdC]↵
Capitolo 6 | Trasferimento della patologia
nella comunità

La trasformazione della tristezza normale intensa in disturbo depressivo si


verificò in fasi successive. Lo sviluppo, in funzione della ricerca, di autorevoli
criteri per i disturbi affettivi nei criteri di Feighner e negli RDC fu il passo
iniziale. Criteri di questo genere erano privi della valutazione del contesto che
aveva tradizionalmente evitato che la diagnosi classificasse erroneamente la
tristezza intensa come patologia e aprirono quindi la strada ai falsi positivi. Ma
la ricerca sulla depressione era interessata soprattutto ai pazienti d’ospedale e ai
membri della comunità colpiti in maniera molto grave che erano chiaramente
malati. In questi ambienti, i criteri basati sui sintomi funzionavano abbastanza
bene per distinguere i disturbi affettivi da altre gravi patologie, e non era facile
che si presentassero occasioni di falsi positivi. Il secondo passo fu fatto
quando il DSM-III applicò la logica basata sui sintomi alla pratica clinica
generale, includendo le attività di ambulatorio in forte espansione e cliniche di
comunità in cui i medici avevano modo di osservare tutte le forme di
alterazione psichica. L’applicazione di criteri avulsi dal contesto a questo
gruppo eterogeneo di pazienti ambulatoriali ha aumentato la probabilità che
queste diagnosi fossero applicate a persone sofferenti per una tristezza
fisiologica.
Tuttavia, parecchi fattori riescono a contenere l’applicazione eccessiva dei
criteri del DSM alla tristezza normale nei setting clinici ambulatoriali. I pazienti
tendono ad autoregolarsi, per cui – benché molti si rivolgano ai presìdi medici
per avere aiuto anche per la tristezza normale – il più delle volte chiedono di
essere curati solo quando attribuiscono i loro sintomi a problemi interni e non
a situazioni stressanti1. Inoltre, gli stessi medici, nonostante l’incentivo del
rimborso delle assicurazioni a vedere il disturbo depressivo ovunque possibile,
possono ancora usare il loro buonsenso per correggere i difetti dei criteri del
DSM e capire quando un paziente non è malato, quanto piuttosto bisognoso
solo di rassicurazione e sostegno per alleviare sensazioni di sofferenza che
sono normali e probabilmente passeggere.
Non era dunque nel contesto clinico che ci si poteva aspettare si facesse
confusione fra il normale e l’anormale. La più radicale trasformazione della
tristezza ordinaria in patologia si verificò, invece, quando i criteri del DSM,
sviluppati inizialmente per i casi sottoposti a cura, furono trasferiti fuori dal
contesto clinico, con le sue speciali limitazioni, e applicati allo studio della
depressione nella comunità, fra soggetti che non avevano cercato alcun aiuto
professionale per le loro condizioni.
Il campo dell’epidemiologia psichiatrica vide la logica dei sintomi su cui si
basavano i criteri del DSM come un’opportunità per raggiungere il suo scopo,
a lungo perseguito, di stabilire la diffusione della malattia mentale nell’insieme
della popolazione tramite questionari relativamente semplici, costituiti da liste
di domande che potevano essere riempite anche da profani. Queste liste
cancellavano per i professionisti della salute mentale la necessità di fare
diagnosi per popolazioni sterminate e rendevano molto più sostenibili i costi e
la logistica di simili studi. Usando i criteri del DSM, si pensava che gli
strumenti epidemiologici potessero portare alla luce nella comunità gli stessi
stati patologici riscontrati fra i pazienti curati nelle strutture mediche. Ma,
come vedremo, passando dal contesto della clinica alla comunità, il problema
dei falsi positivi, latente nei criteri del DSM, emerse con tutta evidenza: i nuovi
strumenti epidemiologici, in realtà, rilevavano tra i membri della comunità
tanto la depressione patologica quanto la diffusa intensa tristezza normale, con
una grossolana sopravvalutazione del numero dei disturbi depressivi fra le
persone non sottoposte a cure.

6.1 | Studi di comunità prima del DSM-III

Per capire l’impatto enorme dei criteri per la depressione del DSM sugli studi
epidemiologici miranti a stabilire quante persone della comunità sono colpite
da disturbi depressivi, è utile fare un passo indietro e fornire qualche cenno di
storia dell’epidemiologia psichiatrica. In un certo momento storico, gli obiettivi
dell’epidemiologia e quelli del DSM si trovarono a essere convergenti, e i criteri
del DSM offrirono agli epidemiologi insieme criteri più raffinati e un’apparente
soluzione ai problemi che il loro settore aveva davanti.
Nei primi tempi dell’epidemiologia psichiatrica, nella prima metà del XX
secolo, le stime dei tassi di disturbo mentale erano basate su dati provenienti
dalle varie strutture psichiatriche e poggiavano sulle diagnosi contenute nelle
cartelle cliniche2. Ma divenne subito chiaro che le indagini sui pazienti in cura
fornivano un indicatore poco affidabile della diffusione della malattia mentale
in una comunità. Non tutti quelli che soffrono di un disturbo cercano di essere
curati – per ragioni che hanno a che fare con lo stigma sociale, i costi, o il
rifiuto di riconoscere che il problema è una patologia –, e molti di quelli che
sarebbero pronti a cercare di essere curati non hanno servizi professionali
agevolmente disponibili. Inoltre, molti di quelli che cercano la cura per vari
problemi non sono malati. Così, per indirizzare la politica della salute mentale
e stimare la necessità di servizi, e anche per comprendere meglio l’eziologia e
la diffusione della malattia mentale, gli studi epidemiologici cercarono di
superare questi problemi conducendo ricerche direttamente sulla comunità nel
suo insieme.
Gli studi di comunità cercano di determinare la diffusione della malattia
mentale fra le persone che non sono in trattamento clinico ma le cui
condizioni si presume possano essere diagnosticate in un modo analogo a
quelle delle persone in cura. Per realizzare questo obiettivo, i ricercatori
devono elaborare strumenti capaci di riconoscere sintomi psichiatrici fra
soggetti che spesso non si considerano mentalmente disturbati e non cercano
cure psichiatriche e quindi non hanno mai ricevuto diagnosi di specialisti del
settore. Poiché alcuni disturbi riguardano un piccolo numero di persone, le
indagini devono coprire numeri enormi di soggetti per ottenere stime accurate
della presenza di specifici tipi di disturbo mentale in una popolazione.
Dall’inizio dell’epidemiologia psichiatrica, la formulazione di validi indicatori
delle patologie da usare in simili indagini ha rappresentato una sfida
importante alla ingegnosità dei ricercatori3.
La spinta principale ai tentativi di misurare l’incidenza della depressione e di
altri diffusi disturbi mentali a livello di comunità venne dalle esperienze degli
psichiatri militari della Seconda guerra mondiale, che avevano curato e studiato
quelle che chiamarono «nevrosi da guerra», una combinazione di sintomi
depressivi, ansiosi e psicofisiologici conseguenti alle vicende del campo di
battaglia. Queste nevrosi da guerra erano note agli psichiatri dai conflitti
precedenti – Freud, per esempio, se ne servì occasionalmente come modello
per le sue riflessioni sul trauma –, ma non assunsero un’importanza teoretica
centrale nella professione psichiatrica fino alla Seconda guerra mondiale.
In quella guerra, proporzioni altissime di soldati, precedentemente normali,
che erano esposti a situazioni di combattimento molto stressanti, furono
colpiti da problemi psicologici. Nell’insieme, quasi un milione di soldati
americani subì crolli neuropsichiatrici: nelle divisioni di combattimento, il
numero di ricoverati negli ospedali per malattie psichiatriche arrivò a 250 su
1000 soldati4. Inoltre, fino al 70% dei soldati esposti a lunghi periodi di
combattimento subirono crolli mentali. Una relazione del 1946 stimava che in
media i soldati manifestavano un crollo psichiatrico dopo 88 giorni di continuo
combattimento. A parte tutte le altre cause di morti e feriti, la relazione
stimava che il 95% dei soldati subiva un crollo dopo 260 giorni di
combattimento. «Praticamente tutti gli uomini dei battaglioni di fucilieri non
resi disabili da altri motivi», aggiungeva la relazione, «furono colpiti alla fine da
disturbi psichiatrici»5.
Va osservato che non c’erano preesistenti caratteristiche psicologiche che
potessero far intuire quali soldati avrebbero avuto crolli e quali no6. Erano
invece l’intensità e la durata delle esperienze di combattimento che portavano a
sviluppare la nevrosi da guerra. Esposti a fattori di stress ambientali sufficienti,
tutti i soggetti andavano incontro a gravi disturbi. «Sembra più sensato»,
asserivano gli psichiatri militari Grinker e Spiegel nel 1945, «domandare perché
il soldato non soccombe all’ansia, piuttosto che perché soccombe»7. Le
esperienze del tempo di guerra spostarono l’attenzione degli psichiatri dalle
qualità degli individui alle qualità degli ambienti stressanti.
La risposta solitamente offerta alle vittime psichiatriche durante la Seconda
guerra mondiale fu la somministrazione a questi soldati di cibo caldo, riposo e
sonno, docce, e rassicurazione. Queste risposte, «che in fondo consistevano nel
far riposare il soldato, e dirgli che presto sarebbe tornato nei suoi reparti», non
richiedevano una grande preparazione psichiatrica8. Il più accurato studio
postbellico mostrò che oltre la metà delle vittime psichiatriche ritornò ai propri
compiti senza praticamente ricevere alcuna cura e che più di due terzi di quelli
cui fu concesso riposo e sedazione ritornarono ai loro reparti nel giro di 48 ore
dopo la cura9.
Di sicuro, molti di questi soggetti colpiti da condizioni di lunga durata
avevano sviluppato disturbi mentali. C’è invece da chiedersi se la maggior parte
di quelli che si rimettevano rapidamente e spontaneamente senza alcuna vera
cura avesse manifestato risposte estreme ma normali allo stress in reazione a
circostanze davvero anomale10. Quello che tuttavia è storicamente importante
per lo sviluppo dell’epidemiologia psichiatrica è il fatto che gli psichiatri
arrivarono a vedere tutte queste conseguenze psicologiche dei combattimenti
come disturbi mentali11.
Dopo la guerra gli psichiatri con sensibilità sociale assunsero i disturbi da
stress di combattimento come un utile modello per interpretare i disturbi
mentali della vita civile, paragonando i fattori stressanti della vita ordinaria del
dopoguerra a quelli straordinari del tempo della guerra12. L’osservazione che
«ognuno ha un suo punto di rottura» fu trasferita dai soldati ai cittadini
ordinari. Le nevrosi da guerra fornirono così un nuovo paradigma per la salute
mentale nei successivi decenni, che rimane tutt’oggi influente13. Mettendo un
po’ fra parentesi il fatto che la maggior parte dei soldati che subirono dei crolli
si riprese con cure minime o del tutto assenti, gli psichiatri del dopoguerra
insistettero sul fatto che qualsiasi esperienza stressante poteva provocare crolli
gravi e duraturi fra le persone normali, se non sottoposte a tempestivi
interventi. Si preoccuparono di creare teorie e strumenti per studiare numerosi
fattori stressanti ambientali della vita quotidiana che ritenevano potessero
provocare disturbi psichiatrici14.
Questa erosione della distinzione fra il disagio normale e la patologia fu
alimentata da un altro tema basilare dei ricercatori dagli anni Quaranta ai
Settanta, proveniente dalle dottrine psicodinamiche di Freud e Meyer: la salute
e la malattia mentale non erano categorie distinte, ma si trovavano su una linea
continua di sintomi, dai più leggeri ai più gravi15. Solo pochissimi individui
completamente liberi da sintomi erano considerati mentalmente del tutto
sani16. Tutti gli altri punti del continuum erano considerati patologici o,
almeno, non integralmente sani. Un aspetto importante dell’idea di continuum
era che, una volta messi sotto l’etichetta della patologia, anche i soggetti che
presentavano sintomi all’estremità più leggera della scala erano considerati a
rischio di sviluppare stati più gravi se non sottoposti a interventi degli
specialisti. Un conseguente dogma fra gli psichiatri dell’epoca orientati alla
comunità era che la cura precoce dei disturbi lievi in strutture della comunità
poteva impedire lo sviluppo di stati più gravi17. Obiettivo importante della
psichiatria divenne elaborare strumenti che potessero identificare i soggetti più
a rischio di cadere in qualche malattia mentale e curarli prima che le loro
condizioni si aggravassero. L’idea del continuum, unita al presupposto che gli
stress socioculturali causavano disturbo mentale nelle persone normali e un
aggravamento nelle persone con sintomi lievi, significava che in pratica l’intera
popolazione poteva essere concepita come in qualche misura mentalmente
malata e a rischio di aggravarsi ancora di più*.
Così, l’evolversi della filosofia della psichiatria di comunità rese imperativo lo
studio dei fattori che determinano il rischio di una presunta patologia fra le
popolazioni non sottoposte a cura. Negli anni Cinquanta e Sessanta, team di
psichiatri di orientamento dinamico e sociologi si dedicarono a studiare in che
modo i fattori socioculturali provocassero molte condizioni stressanti nella
popolazione in generale. Per studiare i sintomi presso le moderne popolazioni
urbane, lo psichiatra Thomas A.C. Rennie e i sociologi Leo Srole e Thomas
Langner svilupparono il progetto Midtown Manhattan, che esaminò più di
1600 residenti di Manhattan18. Un altro importante progetto, lo studio Stirling
County, vide ugualmente la collaborazione di psichiatri e sociologi che misero
in rapporto vari tipi di fattori di stress con la distribuzione dei sintomi
psicologici fra la popolazione di un’area rurale della provincia canadese della
Nova Scotia19.
I due obiettivi principali di questi iniziali studi di comunità del dopoguerra
erano: primo, accertarsi dell’incidenza dei problemi di salute mentale nella
popolazione e, secondo, testare l’ipotesi che a causare i disturbi mentali fossero
fattori socioculturali20. Per poter raggiungere simili obiettivi, questi studi
dovevano prima di tutto affrontare il problema di come individuare un caso
psichiatrico fra soggetti non in cura. Il manuale psichiatrico ufficiale
dell’epoca, il DSM-I, non forniva criteri espliciti per misurare specifici tipi di
malattia mentale. I clinici usavano standard generali e vaghi, pesantemente
dipendenti da giudizi basati sulle loro personali idiosincrasie. Gli studi di
comunità non potevano fare affidamento su questi giudizi, che producevano
risultati troppo variabili da intervistatore a intervistatore, nel momento in cui
venivano usati per stabilire l’incidenza della malattia mentale in popolazioni
non in cura. Gli studi dovevano anche affrontare un importante problema
pratico: affidarsi agli specialisti della salute mentale per condurre interviste a
largo raggio era troppo costoso per essere un’opzione efficiente negli studi di
comunità. Per ragioni sia pratiche sia di sostanza, questi studi dovevano quindi
concepire strumenti di misura standardizzati, utilizzabili da intervistatori
profani.
Decontestualizzate, le misure della malattia mentale basate sui sintomi hanno
un tremendo appeal pratico per le indagini sulla malattia mentale. Esse
forniscono risultati standardizzati che non variano da intervistatore a
intervistatore. Poiché non richiedono (anzi non permettono nemmeno)
l’acquisizione di informazioni sul significato personale delle risposte, gli
intervistatori non hanno bisogno di alcuna preparazione o esperienza clinica.
Questo abbassa notevolmente il costo di gestione delle indagini, un elemento
non di poco conto nelle grandi ricerche epidemiologiche. Gli studi
formularono quindi domande che intervistatori profani potevano porre in
forma standardizzata, e che poi potevano essere usate per qualificare i
rispondenti come affetti da patologie o no. La decisione di questi studi di usare
misure decontestualizzate basate sui sintomi fu determinata dunque da
considerazioni pratiche ed economiche, non da test che dimostrassero che
questi metodi erano accurati21.
La definizione che il DSM-I dava di depressione poneva un ulteriore
ostacolo per gli studi di comunità, che cercavano di misurare l’influenza dei
fattori socioculturali sulla frequenza dei disturbi psichici. Il DSM-I definiva la
depressione nevrotica come «reazione depressiva psiconevrotica», e affermava
che «questa reazione viene fatta precipitare da una situazione in corso, spesso
una perdita subita dal paziente»22. Quando cause situazionali ‘per definizione’
fanno scattare depressioni non psicotiche, è impossibile separare l’influenza
delle cause sociali da altre cause interne all’individuo perché le prime possono
essere coinvolte in tutti i casi23.
Gli studi epidemiologici cercarono di risolvere questo problema nel DSM-I,
rimuovendo per prima cosa l’eziologia dalla definizione della depressione e
assumendo poi che ‘tutti’ i sintomi fossero patologici. I fattori situazionali non
erano presi in considerazione nella definizione di quella che era ritenuta già in
partenza una patologia, erano invece visti come un tipo di causa dei sintomi.
Questa scelta significava che sia i sintomi che si manifestavano in reazione a
perdite e ad altri fattori contestuali, sia quelli da essi indipendenti, erano tutti
considerati come di origine patologica. Simile soluzione permetteva agli
epidemiologi di raggiungere il loro scopo di mettere in luce la relativa influenza
dei fattori sociali e non sociali come cause dei sintomi. Ma allo stesso tempo
creava il problema di rendere indistinguibili i sintomi fra patologici e non
patologici. L’isolamento dei sintomi dal loro contesto e l’idea che essi
indicassero comunque dei disturbi abbandonavano il riconoscimento storico
che solo i sintomi «eccessivi» o «sproporzionati» segnalavano una patologia. Il
risultato fu che la tristezza, per definizione, non poteva essere una risposta
normale a una situazione stressante ma indicava uno stato patologico.
Così, il problema della decontestualizzazione e del conseguente
inquinamento della distinzione fra disturbo depressivo e tristezza normale, che
doveva emergere più tardi nell’arena clinica con l’avvento del DSM-III, si era
rivelato già prima, per ragioni indipendenti, nel campo dell’epidemiologia
psichiatrica. Per la verità, in questi studi di comunità il problema era anche
peggiore, in quanto essi non si curavano della gravità, della durata e degli altri
requisiti, cioè quel più ampio gruppo di criteri che il DSM-III si preoccupò di
individuare. In essi, invece, i sintomi erano presi individualmente come
indicatori sufficienti di patologia, cosa che ben presto portò a quelle stime dei
livelli di patologia largamente riconosciute come assurde.
I primi studi di comunità non misuravano specifici tipi di malattia mentale
(operazione per la quale all’epoca mancavano ancora gli strumenti) ma
facevano uso invece di vaste, continue e aspecifiche misure dello stress
psicologico interpretato come indicativo del livello della patologia24.
Impiegavano scale che comprendevano sintomi generici di depressione, ansia e
problemi psicofisiologici in base ai quali ottenevano misure globali disposte in
un continuum che andava dalle forme più leggere alle più gravi25. Molte delle
voci sulla linea continua, come «problemi ad addormentarsi», «di umore
depresso o molto depresso», «non riesce ad andare avanti», o «si chiede se una
cosa vale la pena», possono spesso essere i segni di un comune malessere.
Poiché questi studi vedevano tutti i sintomi, compresa la tristezza d’ogni
giorno, come indicatori di patologia, trovarono – e non c’è da sorprendersi –
tassi altissimi di patologia. Nello studio Midtown Manhattan, solo il 18,5% dei
rispondenti risultò star «bene», cioè non riferiva alcun sintomo26. Viceversa, il
23,4% dei rispondenti era «compromesso», un altro 21,8% presentava sintomi
«moderati», e il rimanente 36,3% era «leggermente» compromesso. Lo studio
Stirling County riportava tassi anche più alti, affermando che il 57% del
campione poteva essere paragonato probabilmente ai casi psichiatrici27. Tanto
lo studio Midtown Manhattan quanto lo Stirling County trovarono forti
correlazioni fra status socioeconomico modesto e povere condizioni sociali e
alti tassi di presunta malattia mentale.
Questi studi giustificavano i così alti tassi di patologia riscontrati con il fatto
che anche i gruppi di controllo dei pazienti psichiatrici in cura presentavano
numeri altrettanto grandi di sintomi, fornendo probabilmente una validazione
del criterio usato. Ma se questi studi avessero usato come gruppi di controllo i
membri della comunità non in cura, senza alcun disturbo ma soggetti di
recente a eventi come un lutto, rotture sentimentali o disoccupazione,
avrebbero ugualmente riscontrato tassi molto elevati di sintomi. Avrebbero
facilmente concluso che misuravano la tristezza ordinaria e non il disturbo
mentale*.
Gli alti tassi di presunte patologie negli studi di comunità degli anni
Cinquanta e Sessanta furono accolti con notevole scetticismo all’epoca. «Se
tutti quelli che tossiscono», osservava la famosa epidemiologa Rema Lapouse,
«vengono annoverati come casi di tubercolosi, tanto i tassi di incidenza quanto
quelli di diffusione partiranno a razzo. Per fortuna, il laboratorio offre una
protezione contro una simile stravaganza diagnostica. La diagnosi psichiatrica
al momento non ha protezioni del genere»28. Anche Stanley Michael, uno
psichiatra che aveva collaborato allo studio Midtown, mise in discussione i suoi
risultati:
La scoperta di sintomi mentali ed emotivi in quattro quinti del campione che rappresenta
una popolazione urbana induce a pensare o che un certo grado di psicopatologia sia la
norma in senso statistico della media della popolazione o che i meccanismi mentali che
per derivazione psicodinamica sono considerati patologici possano essere una modalità di
adattamento normale29.
L’idea che le persone normali siano esenti da sintomi indipendentemente
dalle circostanze della loro vita indicava una totale confusione riguardo a
normalità e patologia. Il fatale errore degli studi di comunità fu di definire tutti
i sintomi come patologici senza considerare il contesto in cui sorgevano e
persistevano.
Nonostante i problemi che affliggevano le misure decontestualizzate dei
sintomi, gli studi di comunità successivi le adottarono prontamente e
trattarono il disturbo mentale come un continuum dagli stati più leggeri ai più
gravi. Consideravano tutti i punti disposti lungo il continuum come indicanti
patologia. Le critiche di questi studi, anziché cercare di distinguere i sintomi
che indicavano una patologia da quelli che erano risposte appropriate a fattori
stressanti, si concentrarono sulla natura non specifica delle scale dei sintomi.
Esse affermavano che le scale erano così ampie e aspecifiche che non era
chiaro come i sintomi fossero correlati a specifiche condizioni psichiatriche30.
Fu questo difetto particolare – la vaghezza delle misure dei sintomi rispetto
alle diagnosi effettive – che creò lo scenario per uno slittamento ai criteri di
stampo DSM per le patologie specifiche.

6.2 | Le diagnosi entrano negli studi di comunità

L’uso di distribuzioni continue di sintomi molto generici era inadeguato al


paradigma radicalmente nuovo dei fasci di criteri per specifiche categorie di
disturbo mentale introdotto dal DSM-III nel 1980. Ma precedenti studi di
comunità già condividevano l’idea che stava al fondo del nuovo manuale,
secondo la quale i sintomi decontestualizzati dovevano essere la base della
diagnosi. Alla congruenza dell’approccio basato sui sintomi che usavano gli
epidemiologi e delle misure basate sui sintomi si deve forse il fatto che gli
epidemiologi adottarono prontamente i criteri del DSM nella nuova ondata di
studi di comunità condotti negli anni Ottanta31. Il passaggio in qualche modo
senza soluzione di continuità dagli studi di comunità a orientamento dinamico
– basati comunque sui sintomi – degli anni Cinquanta e Sessanta agli studi di
comunità basati sui sintomi degli anni Ottanta fu causato probabilmente dal
fatto che, a differenza dei loro omologhi psicodinamici nella comunità clinica,
gli psichiatri di comunità avevano già adottato un modello che considerava i
sintomi decontestualizzati come prova della presenza di un qualche grado di
patologia. Al contrario, il DSM-III venne fuori solo dopo una lunga battaglia
fra i neokraepeliniani, che eliminarono i presupposti eziologici dal manuale, e
gli psichiatri dinamici, che resistevano ai loro sforzi32.
Poiché il DSM-III richiedeva che le condizioni di un soggetto
soddisfacessero un ampio fascio di criteri prima di essere classificate come
disturbo specifico, gli epidemiologi psichiatrici si aspettavano che le diagnosi
del DSM fornissero non solo diagnosi di una categoria specifica ma anche
stime più realistiche dell’incidenza del disturbo mentale nella comunità. Per
esempio, i cinque sintomi necessari per le diagnosi del Disturbo Depressivo
Maggiore ponevano ovviamente standard molto più rigorosi rispetto all’unico
sintomo che caratterizzava una condizione «leggera» nello studio Midtown
Manhattan. In effetti, poiché i criteri del DSM erano generalmente accettati
come autorevoli e ragionevolmente validi, gli epidemiologi psichiatrici
potevano basare i loro questionari su questi criteri senza dover fare propri
complessi studi di validità e senza dover stabilire autonomamente se i criteri in
realtà producevano risultati validi nel contesto della comunità, così diverso dai
contesti clinici.
Il sistema di categorie del DSM-III costituì così la base di tutti i grandi studi
di comunità americani sui disturbi psichiatrici realizzati dalla fine degli anni
Settanta. In contemporanea con lo sviluppo del DSM-III, l’Istituto nazionale
di salute mentale (National Institute of Mental Health, NIHM) decise di
lanciare il primo studio mirato a misurare l’incidenza di tipi particolari di
disturbo mentale nella comunità33. I ricercatori della Washington University –
la stessa istituzione che aveva prodotto i criteri di Feighner che sono alla base
del DSM-III – elaborarono la Diagnostic Interview Schedule (DIS) usata dai
nuovi studi epidemiologici. Questo strumento misurava le condizioni
diagnostiche specifiche in popolazioni di comunità che si supponeva potessero
corrispondere alle principali categorie cliniche individuate dal DSM-III, fra cui
la Depressione Maggiore e la Distimia.
Poiché le diagnosi del DSM-III erano basate interamente sui sintomi, gli
epidemiologi potevano limitarsi semplicemente a tradurre, con solo piccoli
adattamenti, i criteri sviluppati per le diagnosi delle popolazioni di pazienti
delle strutture cliniche in domande per indagini sulla popolazione in generale,
usando una lista di sintomi simile a quelle di studi precedenti ma con più
complessi algoritmi per approdare a una diagnosi. Il loro assunto centrale era
che un’intervista diagnostica strutturata avrebbe consentito ai ricercatori «di
ottenere diagnosi psichiatriche paragonabili a quelle che otterrebbe uno
psichiatra»34. I risultati avrebbero fornito presumibilmente buone stime di
quanta malattia mentale non curata fosse presente nella popolazione. Queste
stime, a loro volta, avrebbero permesso ai responsabili politici di capire quanto
ampia fosse la domanda non soddisfatta di servizi psichiatrici.
La DIS, fondata sulla stessa logica sintomatica del DSM-III, usa domande di
tipo chiuso (ammettono solo risposte secche) che vengono poste da
intervistatori appositamente addestrati per raccogliere informazioni sui
sintomi. Domande identiche vengono poste esattamente allo stesso modo da
tutti: «L’intervistatore legge domande specifiche e alle risposte positive fa
seguire le ulteriori domande stabilite. Ogni passo della sequenza per
identificare un sintomo psichiatrico è del tutto specifico e non dipende dal
giudizio dell’intervistatore»35. Questa standardizzazione è necessaria, perché
anche minime variazioni nella formulazione delle domande, verifiche
dell’intervistatore o istruzioni possono portare a importanti differenze nei
risultati.
La DIS fu la base del primo studio nazionale sull’incidenza di specifiche
malattie mentali nella comunità, l’Epidemiologic Catchment Area (ECA)
lanciato all’inizio degli anni Ottanta36. L’ECA passò in rassegna più di 18.000
adulti della comunità e 2500 soggetti delle istituzioni cliniche di cinque città
(New Haven, Durham, Baltimora, St. Louis e Los Angeles). Utilizzò le stime
della presenza della malattia mentale in queste cinque città campionate con in
più sofisticate analisi statistiche per generare valutazioni dell’incidenza a livello
nazionale. Il secondo importante studio di comunità sull’incidenza di specifici
disturbi psichiatrici fu il National Comorbidity Survey (NCS), che il NIHM
mise in campo nel 1991 con controlli sull’arco di dieci anni (cominciò nel
2001)37. L’NCS, condotto su un campione di circa 8100 persone che si voleva
rappresentassero la popolazione degli Stati Uniti, usò la Composite
International Diagnostic Interview (CIDI), uno strumento simile alla DIS. Il
suo spettro di età fra i 15 e i 54 anni era un po’ diverso dalla fascia di età fra i
18 e i 65 anni presa in considerazione dall’ECA.
L’NCS illustra in che modo questi studi di comunità basati sul DSM
misurino la depressione. La sua indagine, mirata a ottenere diagnosi di
depressione basate sui criteri del DSM-III-R, si svolge in due fasi38. Nella
prima, gli intervistati devono rispondere di sì ad almeno una delle domande di
partenza: «Hai mai avuto nella tua vita due o più settimane in cui quasi ogni
giorno ti sentivi triste, accasciato o depresso?»; «Hai mai avuto due o più
settimane in cui quasi ogni giorno ti sentivi di cattivo umore, scoraggiato o
malinconico?»; «Ci sono state mai due o più settimane in cui non avevi più
interesse per la maggior parte delle cose come il lavoro, gli hobby o le cose che
di solito ti piaceva fare?»; e «Hai avuto mai due o più settimane durante le quali
ti sei sentito triste, accasciato, depresso o in cui hai perduto ogni interesse e
piacere per le cose di cui di solito ti occupavi o che ti piaceva fare?». Data la
natura abbastanza generica di queste domande e il fatto che esse non
prevedono criteri di esclusione per le circostanze in cui i sintomi si erano
manifestati, non sorprende che il 56% della popolazione rispondesse di sì a
esse39. Successivamente, nella seconda fase dell’intervista, alle persone dello
stesso gruppo vengono poste domande sui sintomi di disturbi di appetito e
sonno, affaticamento e sentimenti di tristezza, autosvalutazione, disperazione e
simili, che sono paragonabili ai sintomi dei criteri del DSM per la Depressione
Maggiore. Un programma informatico stabilisce poi se i rispondenti
soddisfano i criteri per una diagnosi di depressione.
L’NCS stima che circa il 5% dei partecipanti aveva un episodio (di 30 giorni)
di Depressione Maggiore in corso, che circa il 10% aveva sperimentato il
disturbo nell’anno precedente, che circa il 17% aveva avuto un episodio nel
corso della propria vita, e che circa il 24% riferiva sintomi sufficienti per una
diagnosi di Depressione Maggiore o di Distimia nell’arco di tutta la vita40.
Anche uno studio condotto nel New Haven, che aveva preceduto l’ECA,
riscontrò tassi analoghi del 20% per la Depressione Maggiore nell’arco di tutta
la vita41. I tassi dell’ECA erano più bassi, con il 6,5% dei rispondenti che
denunciò una Depressione Maggiore nell’anno precedente e circa l’11% che
denunciò Depressione Maggiore o Distimia nell’arco di tutta la vita42. Le
scoperte dell’ECA e dell’NCS sono alla base delle stime sull’incidenza del
disturbo mentale che il mondo scientifico, la politica e la letteratura popolare
citano ora largamente.

6.3 | Il mito dell’equivalenza delle diagnosi nella comunità e nelle


cliniche

Sono molti i casi di supposta Depressione Maggiore che gli studi di


comunità condotti dopo il DSM-III scoprono equivalenti ai casi clinici
sottoposti a trattamento? Se sì, offrono essi un quadro accurato della quantità
totale delle malattie mentali, come affermano gli epidemiologi? Anche alcuni di
quelli che progettano e realizzano questi studi hanno cominciato a
preoccuparsi che i sintomi riferiti potrebbero essere spesso passeggere risposte
normali a eventi stressanti43. Queste preoccupazioni sono giustificate, perché
gli strumenti epidemiologici correnti ereditano e amplificano enormemente il
problema che affligge i criteri del DSM su cui essi sono basati di distinguere la
malattia dalla non malattia, e inoltre perché le diagnosi cui si arriva in questi
studi non prevedono alcuna delle circostanze mitiganti che sono presenti nelle
diagnosi cliniche per ridurre gli effetti pratici di questa non validità.
Come sopra ricordato, le persone che cercano l’aiuto dei clinici sono per
definizione ‘autoselezionate’, e utilizzano ogni tipo di informazione
contestuale per decidere se le loro condizioni vanno al di là delle risposte
ordinarie e temporanee ai fattori stressanti. Il sociologo David Karp, per
esempio, trovò che le persone depresse cercano l’aiuto degli psichiatri solo nel
momento in cui arrivano ad attribuire i loro sintomi a problemi psicologici
interni e non a situazioni stressanti:
Una volta che diviene innegabile che c’è qualcosa di realmente sbagliato, che le difficoltà
che il soggetto avverte sono troppo pesanti per essere messe da parte come temporanee o
ragionevoli, cominciano gli sforzi seri di risolvere il problema. A questo punto la scelta di
alleggerire la sofferenza è fatta con una consapevole e urgente deliberazione. Il
cambiamento di pensiero si verifica spesso quando la causa presunta della sofferenza
viene eliminata ma la difficoltà persiste. Hai ricevuto una gioia, sei uscito finalmente da
un ambiente di casa oppressivo, una relazione distruttiva si è chiusa e così via, ma la
depressione rimane. Eventi del genere distruggono le teorie sulle immediate cause
situazionali della depressione e impongono la spiacevole interpretazione che il problema
può essere permanente e avere una origine interna. Bisogna prendere in considerazione
l’idea che possa trattarsi di un problema relativo a sé stessi, piuttosto che alla situazione
circostante44.
I pazienti che entrano in cura, quindi, hanno già deciso che i loro problemi
vanno al di là delle reazioni normali a fattori stressanti sociali.
Oltre all’autoselezione da parte del paziente, nella pratica clinica sono
consuete prove contestuali, e tutti i manuali DSM danno per scontato, in
maniera più o meno esplicita, che i medici useranno il buonsenso comune nel
momento in cui applicheranno i criteri diagnostici. I medici, per esempio,
possono confortare i soggetti molto stressati perché il loro matrimonio è finito
o sta finendo ricordando che i loro problemi sono principalmente situazionali
e non interni. In ambienti di cura, non è necessario che la logica basata sui
sintomi sia applicata meccanicamente.
Viceversa, le diagnosi basate sui sintomi negli studi di comunità considerano
tutti i soggetti che riferiscono sintomi sufficienti come affetti dal disturbo
mentale della depressione e non possono quindi distinguere le risposte intense
prevedibili dalle patologie. Il contesto in cui i sintomi sono nati (a parte il
lutto), la loro durata (un periodo di oltre due settimane), o la loro remissione
dopo che il fattore stressante è finito, non vengono presi in considerazione nel
decidere se una patologia esiste o no. Il punteggio assegnato dal computer ai
sintomi di depressione del soggetto che partecipa all’indagine non viene
sottoposto ad alcun controllo discrezionale che stabilisca se i sintomi indichino
effettivamente un disturbo mentale. Gli intervistatori non possono esercitare
un giudizio clinico, né usare verifiche flessibili riguardo alle risposte. Anzi, a
loro è proibito dare giudizi sulla validità delle risposte dei rispondenti. Anche
se si ha l’impressione che il rispondente abbia frainteso la domanda,
l’intervistatore deve limitarsi a ripetere la domanda parola per parola45.
La rigida standardizzazione delle interviste strutturate ha il vantaggio di
migliorare la coerenza della valutazione dei sintomi da parte degli intervistatori
e dei luoghi dell’indagine e della conseguente affidabilità delle definizioni
diagnostiche46. Ma le domande standardizzate e le procedure di punteggio
negli studi di comunità precludono la possibilità di usare il giudizio
discrezionale e trattano quindi tutti i sintomi, indipendentemente dal contesto,
come segni di patologia. I tipi di esperienze che producono risposte di tristezza
normale – rottura di relazioni sentimentali e matrimoni, perdita di un posto di
lavoro, grave malattia fisica, un obiettivo di carriera fallito e simili – sono
frequenti nelle popolazioni di comunità. Molti, forse la maggior parte, dei
membri della comunità hanno sperimentato in qualche momento della loro
vita importanti perdite che producono episodi non patologici di tristezza,
alcuni abbastanza severi da indirizzare verso una diagnosi di Depressione
Maggiore contribuendo così al tasso evidentemente alto di disturbi depressivi
nelle popolazioni di comunità47.
In poche parole, l’inflessibilità dell’accertamento dei sintomi e l’applicazione
dei criteri accrescono di molto le possibilità di diagnosi falso-positive. Non
sorprende che l’accordo fra le diagnosi cliniche e le diagnosi di depressione
derivanti dalle misurazioni standardizzate sia generalmente debole48. La
standardizzazione può produrre una presenza massiccia di sintomi depressivi,
ma molti di essi sono risposte di tristezza normale. Un rispondente alle
domande dell’intervistatore può riferire sintomi come umore depresso,
insonnia, perdita di appetito o diminuzione del piacere per le attività consuete,
durati per più di due settimane, a seguito della rottura di una relazione
sentimentale, della diagnosi di una grave malattia in una persona cara, o
dell’inaspettata perdita di un posto di lavoro. Ma anche se i sintomi si sono
magari dissolti non appena è nato un nuovo rapporto amoroso, la persona cara
è guarita, o un altro posto di lavoro è stato trovato, questo individuo rimane
aggregato ai molti milioni di persone colpite ogni anno dal presunto disturbo
di depressione. Poiché i tipi di sintomi che si ritiene indichino disturbi
depressivi sono spesso prodotti comuni di fattori stressanti ordinari, è facile
immaginare che il numero delle persone che non hanno disturbi mentali ma
che sono diagnosticate come depresse sia molto alto fino a prova contraria, e
superi il numero delle persone che sono accuratamente classificate come
depresse49.
La cosa interessante degli studi di comunità non è tanto che hanno scoperto
alti tassi di disturbi depressivi quanto che hanno dimostrato in maniera
plausibile che i risultati naturali delle esperienze sociali stressanti possono
essere sintomi talmente forti da soddisfare i criteri per una patologia. E
tuttavia, trascurando di considerare la natura delle condizioni riferite, gli alti
tassi delle depressioni non in trattamento sono usati per sostenere che la
depressione è un problema di salute pubblica di proporzioni epidemiche, che
solo relativamente poche delle persone depresse cercano una cura appropriata,
che la depressione non sottoposta a cura crea grandi costi economici, e che
molti soggetti dovrebbero assumere farmaci da prescrizione per superare la
loro depressione50.

6.4 | Ritorno agli anni Sessanta: eliminazione delle soglie di


sintomi del DSM negli studi di comunità

Quali che siano le sue carenze, il DSM fa uno sforzo in buona fede di
costruire criteri diagnostici capaci di stabilire le patologie come distinte dal
dolore passeggero, usando come strumento principale una soglia dei sintomi.
In realtà, i criteri del DSM sono davvero più stringenti del precedente
approccio epidemiologico del sintomo singolo. Ma al momento vengono
gettate le fondamenta per un’erosione anche di questo progresso e per
un’espansione molto più radicale dell’approccio sintomatico alla diagnosi del
disturbo depressivo nella comunità. Il sostegno a questo nuovo approccio –
che non è affatto così nuovo, ma è in realtà un ritorno al sintomo singolo degli
anni Cinquanta – si sta facendo strada per ora nelle riviste scientifiche, in
conferenze psichiatriche e in programmi che vagliano l’incidenza dei disturbi
depressivi. Soprattutto, è fondato su scoperte epidemiologiche che partono da
criteri sintomatici e includono come patologie anche condizioni con meno
sintomi del numero richiesto dai criteri del DSM per il DDM. Questo
approccio trascura largamente i limiti stabiliti dalle soglie di sintomi del DSM e
classifica come patologie le condizioni sottosoglia.
Gli studi di comunità sulle condizioni psichiatriche degli anni Cinquanta e
Sessanta avevano inquadrato la malattia mentale come un continuum, dalle
forme più lievi a quelle più gravi a seconda del numero di sintomi denunciati,
piuttosto che come un insieme di disturbi fra loro separati, distinti come
categoria dal dolore ordinario. Al contrario, i principali studi di comunità, dagli
anni Ottanta in poi, hanno classificato i loro risultati secondo categorie
corrispondenti alle definizioni del DSM. I casi di Depressione Maggiore
richiedevano cinque o più sintomi, il che significa che le persone con meno di
cinque sintomi non erano considerate malate. Gli epidemiologi si aspettavano
che questo cambiamento avrebbe eliminato l’evidente inflazione delle stime
delle patologie che l’approccio del continuum produceva.
Ma la soglia dei sintomi che è alla base dell’approccio del DSM alla diagnosi
della depressione è ora vista essa stessa come un problema. Anche i più
appassionati sostenitori della diagnosi della categoria del DDM del DSM
riconoscono che il peculiare numero di sintomi richiesti per distinguere la
patologia dalla non patologia è un po’ arbitrario e in gran parte questione di
convenzione diagnostica51. Nella pratica clinica, la specificazione di un punto
limite obiettivo oltre il quale scatta la patologia è opportuna al fine di generare
diagnosi, decidere sulle cure e ricevere rimborsi. Ma non c’è un’impellente
ragione scientifica perché quel punto per il DDM sia posto a cinque sintomi
anziché, poniamo, a quattro o a sei. In effetti, anche il DSM riconosce
implicitamente che le condizioni con meno dei cinque sintomi richiesti
possono essere disturbi depressivi e permette che siano diagnosticate sotto la
categoria «Disturbi Affettivi Non Altrimenti Specificati»52.
L’arbitrarietà di un punto limite dei sintomi per la diagnosi del disturbo
depressivo presenta meno problemi negli ambienti clinici che negli studi di
comunità, dal momento che i clinici possono usare il loro giudizio sulla natura
patologica o non patologica di un caso e, almeno prima del recente avvento di
metodi aggressivi di screening e individuazione dei casi, era improbabile che i
pazienti con pochi sintomi entrassero in cura presso gli psichiatri. La maggior
parte dei pazienti depressi in cura (ma non tutti) manifestava in genere sintomi
di lunga durata, decorsi cronici e frequenti ricadute, e quindi era meno
probabile che si trattasse di falsi positivi, cioè di persone che soddisfano i
criteri diagnostici ma non hanno disturbi mentali53.
Fra la popolazione di comunità non in trattamento, invece, i sintomi si
collocano su una linea continua che va da quelli lievi a quelli gravi e da pochi a
molti, e i soggetti con pochi sintomi superano di gran lunga quelli con molti
sintomi54. Per esempio, l’8,7% degli intervistati dell’ECA riferiva un solo
sintomo depressivo durante il mese precedente, mentre soltanto il 2,3% dei
rispondenti soddisfaceva in pieno i criteri per la depressione maggiore55. Così
pure, benché la durata media dei sintomi fra i pazienti ambulatoriali sia fra i sei
e i nove mesi, gli standard diagnostici degli studi di comunità richiedono una
durata di appena due mesi56.
La distribuzione su linea continua dei sintomi nella popolazione generale,
insieme con il fatto che la prevalenza dei casi è sull’estremità dei sintomi lievi,
pone delle difficoltà per la classificazione della depressione per due motivi.
Primo, l’uniformità con cui la curva della distribuzione dei sintomi sale, senza
discontinuità particolari, rende complicato fissare un punto limite di sintomi
per definire una categoria, poiché i sintomi di per sé non suggeriscono una
linea di demarcazione fra categorie. Secondo – ed è elemento centrale per le
analisi recenti –, anche il danno associato con i diversi livelli di sintomi, come il
grado di disabilità sociali, lavorative e sanitarie, sembra aumentare
uniformemente e in proporzione con l’incremento del numero dei sintomi57.
Se non esiste un chiaro punto di frattura nella distribuzione delle funzioni
compromesse a diversi livelli di sintomi, è difficile giustificare una definizione
della categoria basata sul numero dei sintomi. I casi più leggeri, si afferma,
rappresentano semplicemente patologie più lievi, non la normalità58. L’uso del
grado di compromissione come criterio di validazione spinge inevitabilmente a
misurare la depressione come un disturbo continuo anziché come un disturbo
chiuso in una categoria specifica.
Così, a partire dalla metà degli anni Novanta un’ondata di studi ha
appoggiato un allargamento della nozione di disturbo depressivo abbassando
la soglia dei sintomi per la diagnosi. In sostanza, questi nuovi studi hanno
reinventato la nozione proveniente dalle indagini di comunità degli anni
Cinquanta secondo cui la depressione è un continuum di sintomi dai pochi
(ben sotto la soglia attuale dei cinque sintomi) ai molti. L’origine prossima di
questo movimento va ricercata in studi che mostravano che soggetti sottoposti
a cure internistiche e mostranti sintomi depressivi, ma senza diagnosi di
depressione, hanno un alto livello di compromissione funzionale59. Infatti, il
grado di disabilità associata ai sintomi depressivi senza diagnosi di depressione
superava quella associata a otto malattie comuni croniche, come l’ipertensione
o il diabete. Ma i criteri del DSM per la Depressione Maggiore escludevano
questo grande e chiaramente molto compromesso gruppo di persone dalle
classi dei soggetti considerati affetti da disturbi dell’umore. Queste scoperte
fecero nascere il sospetto che i confini arbitrari dei criteri che definivano le
categorie potevano accrescere il numero dei falsi negativi: persone affette da
depressione, ma escluse perché riferivano meno di cinque sintomi60.
Così, la paura che i criteri adottati dagli studi epidemiologici in realtà
sottostimassero il numero dei disturbi depressivi è al fondo della notevole
mole di ricerche sulla depressione che si è ora accumulata. Il primo tema di
questa nuova ondata di ricerche è che i disturbi depressivi variano lungo un
continuum che va dal minore al maggiore. «Accettare la depressione come
malattia», conclude lo psichiatra Peter Kramer, «significa vedere la patologia o
il rischio di essa in scala ridotta»61. La depressione «minore» o «sottosoglia»
include persone che denunciano fra i due e i quattro sintomi di depressione ma
che non soddisfano in pieno i criteri per il DDM o la Distimia62. Altri studi
allargano la categoria della depressione minore anche oltre, catalogando come
compromesse anche persone con uno o più sintomi di depressione, inclusa
un’alterazione dell’umore63. Al limite, basta un unico sintomo depressivo di
qualsiasi tipo per qualificare un soggetto come malato64. Il principale
argomento è che sintomi in numero inferiore rappresentano versioni più
leggere del disturbo depressivo lungo un continuum diagnostico che non
prevede confini netti fra la patologia e la non patologia. Applicando
l’argomento di Kraepelin pensato per i campioni di internati ai campioni di
comunità non in cura, alcuni ricercatori asseriscono che «ai livelli maggiore,
leggero, Distimico e sottosoglia i sintomi depressivi sono tutti parte della
struttura clinica della depressione maggiore di lungo termine»65. Ogni segno di
tristezza è un aspetto di un disturbo depressivo unitario66.
Come secondo tema, le nuove ricerche sottolineano che tutti i punti lungo il
continuum sono ‘patologie’, perché sono associati con sempre più alti tassi di
disabilità. La giustificazione per fissare punti di demarcazione più bassi per il
disturbo depressivo è data dalla progressione della compromissione collegata
al numero crescente dei sintomi67. Gli studi indicano che le condizioni
sottosoglia sono associate con livelli significativamente più alti di tensioni
familiari, di irritabilità sociale e difficoltà finanziarie, e con una riduzione del
funzionamento fisico e lavorativo, con una limitata attività e una debole
condizione di salute68. Così pure, i dati NCS mostrano un gradiente di
crescente compromissione fra le persone con due-quattro sintomi, quelle con
cinque-sei sintomi e quelle con sette-nove sintomi, come indicato
dall’interferenza di questi sintomi con le attività della vita e dal fatto che i
pazienti si siano fatti o no visitare da uno psichiatra o altro specialista della
salute mentale o assumano medicinali69. «Il fatto che i correlati della Dm
(depressione minore) e della DM (Depressione Maggiore) sono simili»,
afferma un gruppo di ricercatori, «significa che la Dm non può essere liquidata
semplicemente come una reazione normale allo stress ambientale mentre la
DM è vista come qualcosa di completamente diverso»70. Compromissioni
come disabilità sociali e lavorative, malattie fisiche e successive
ospedalizzazioni aumentano continuamente al crescere del numero dei
sintomi71. Anche un unico sintomo di depressione, a confronto con il caso di
nessun sintomo, è associato con varie conseguenze avverse sui livelli della
maggior parte delle disabilità72. Bisogna prestare attenzione, perciò, all’intero
spettro degli stati depressivi, non solo alle condizioni che soddisfano i criteri
del DSM per il DDM.
Un terzo aspetto della nuova ondata di studi di comunità è il loro
concentrarsi sulle forme lievi come fattori di rischio per future patologie più
gravi e sull’abbassamento della soglia della patologia a causa di questo rischio.
Per esempio, nell’ECA, i soggetti che denunciavano due o più sintomi nel
corso di tutta la vita avevano molte più probabilità di sviluppare la
Depressione Maggiore nell’arco dell’anno successivo rispetto a quelli che
denunciavano meno sintomi73. In questo studio, più del 50% dei casi di prima
manifestazione della Depressione Maggiore erano associati a precedenti
sintomi depressivi. «Le nostre scoperte», concludono gli autori, «suggeriscono
al momento che se si riuscisse a definire e trattare i sintomi depressivi prima
che la depressione maggiore cominci a svilupparsi, molti casi di depressione
maggiore al primo esordio potrebbero con ogni probabilità essere evitati»74.
Anche i dati NCS indicano che i casi di patologia leggera nel primo periodo
preannunciano casi più seri nel periodo successivo75. Lo «sviluppo di interventi
tempestivi per impedire la progressione lungo un dato continuum di gravità
potrebbe ridurre l’incidenza dei casi seri»76.
Non sorprende che l’abbassamento dei criteri per la depressione accresca di
molto i tassi di incidenza. In un periodo di ‘un mese’, quasi un quarto della
popolazione (22,6%) nello studio ECA denuncia almeno un presunto sintomo
di depressione77. A un certo momento della loro vita, circa una persona su
quattro, nell’ECA, di quelle che non soddisfano i criteri per il DDM o la
Distimia riporta un numero di sintomi sufficiente per una diagnosi di
depressione subclinica78. Similmente, se si parte da una definizione della
«depressione lieve» come il manifestarsi di due-quattro sintomi, l’incidenza
della depressione nel corso della vita aumenta drasticamente dal 15,8% al
25,8%79. In alcune popolazioni, soprattutto fra i più anziani, i tassi di
depressione minore superano il 50%80. L’alta incidenza della depressione di
grado lieve, unita alle conseguenze avverse che l’accompagnano e a un più
forte rischio di disturbi d’umore in tutte le loro forme, induce a pensare che
questa condizione costituisca «davvero un nascosto, non riconosciuto
problema di salute pubblica con una enorme incidenza annuale nella società»
che dovrebbe costituire oggetto di attenzione della ricerca e di sforzi di
prevenzione81.
Questi importanti temi di epidemiologia psichiatrica all’inizio del XXI secolo
ricalcano quasi puntualmente quelli dei primi studi di comunità del dopoguerra
negli anni Cinquanta e Sessanta, salvo il fatto che ciò che allora si tendeva a
interpretare come una patologia causata da stress ambientale, si tende ora a
vedere come una patologia causata da disfunzione biologica. Per riassumere
questi temi comuni: 1) il disturbo mentale è continuo, e tutti i punti lungo
questo continuum dovrebbero essere considerati problematici; 2) le condizioni
leggere in un primo momento hanno ogni probabilità di trasformarsi in
condizioni maggiori in un altro momento; 3) anche un unico sintomo di
depressione deve preoccupare, perché può essere associato con una futura
disabilità e può essere un fattore di rischio per la depressione maggiore; 4)
vista la sua altissima incidenza, è importante che le politiche sociali cerchino in
ogni modo di impedire che la depressione prenda piede nella popolazione
generale. L’epidemiologia psichiatrica ha chiuso il cerchio, ritornando a
preoccuparsi delle più lievi presunte condizioni di depressione.

6.5 | Gli errori che stanno dietro il movimento della


«depressione minore»

Che cosa è giusto e che cosa è sbagliato nel proposto allargamento della
patologia fino a includere la «depressione minore», che presenta meno sintomi
di quelli che richiede il DSM? Quello che è giusto è, in primo luogo, la
necessità che si faccia attenzione alle condizioni sottosoglia in circostanze in
cui possono aiutare a prevenire futuri problemi. Ma il fatto che una condizione
sia un fattore di rischio per problemi futuri non ne fa una patologia. Su questo
torneremo in seguito.
In secondo luogo – ed è la cosa più importante –, il punto limite stabilito dal
DSM è un po’ arbitrario e non rappresenta una magica linea di demarcazione
fra patologia e normalità. Non c’è dubbio che alcune condizioni sottosoglia
meritano di essere diagnosticate come patologie; e inoltre i criteri del DSM per
il disturbo depressivo probabilmente produrranno alcuni falsi negativi, oltre ai
falsi positivi che abbiamo sottolineato. Più in generale, vedere la depressione
come continua piuttosto che come categoria a sé stante ha un certo numero di
vantaggi teorici82. Molte patologie, come la depressione, possono naturalmente
essere basate su soggiacenti processi con continuità dimensionale piuttosto che
su fenomeni ben separati, ed è quindi probabile che il concetto di un
continuum sintomatologico sia più appropriato e capace di produrre ricerche e
teorie fruttuose.
Tuttavia, affermare che, poiché c’è una relazione lineare fra numero di
sintomi e compromissione funzionale, ogni punto del continuum rappresenta
una patologia, è altamente problematico. Se tutti i sintomi sono considerati
come segnali di patologia, la tristezza ordinaria viene totalmente confusa con la
vera disfunzione, e i tassi di incidenza raggiungono livelli anche più
insostenibili di quanto già non siano ora. Nello studio ECA, per esempio, i
sintomi più comuni sono «difficoltà nell’addormentamento, nel risveglio, o
risveglio precoce» (33,7%), essere «perennemente stanchi» (22,8%) e «pensare
continuamente alla morte» (22,6%)83. Gli studenti (soprattutto quelli che
studiano filosofia esistenziale) in periodo di esami, le persone costrette a fare
straordinari, quelle in ansia per un importante evento in arrivo, o quelle che
rispondono alle interviste in un momento segnato dalla morte di una persona
nota presenteranno tutti, in maniera completamente naturale, qualcuno di
questi sintomi. Sintomi che né gli intervistati né i clinici considererebbero mai
motivi per entrare in cura presso centri di salute mentale, negli studi di
comunità possono dar luogo a qualificazioni di patologia. Inoltre, i criteri di
durata richiedono che il sintomo duri per un periodo di appena due settimane,
per cui molti sintomi passeggeri e che scompaiono da soli vengono visti come
segnali di patologia.
Data la natura comune e la brevità di durata di molti presunti sintomi di
depressione, è difficile immaginare che siano tante le persone che non hanno
esperienza di episodi di depressione lieve o sottosoglia in qualche momento
della loro vita, anche se certamente ci sono soggetti con temperamenti tali che
sembrano praticamente escludere la tristezza intensa. In effetti, gli altissimi
tassi di depressione riscontrati quando si abbassa il valore soglia quasi
certamente ‘sottostimano’ il numero delle persone che sperimentano sintomi
attribuibili alla depressione. Un’altra ragione per cui il numero risulta più basso
è che i rispondenti non denunciano tutti i sintomi che si sono verificati in
qualche momento della vita. Un gruppo di ricercatori, per esempio, scoprì che
la maggior parte degli intervistati che avevano riferito episodi di depressione
nell’arco di tutta la vita nell’intervista di base dell’ECA non riferì più nuovi
episodi durante il periodo di controllo di 12 anni84. La maggior parte dei
rispondenti semplicemente dimenticò i precedenti stati depressivi. Se costoro
avessero ricordato accuratamente tutti gli episodi di depressione, i tassi di
incidenza nell’arco della vita del disturbo depressivo supererebbero, nei dati
ECA, il 50%. Una seconda ragione dell’enumerazione incompleta della
presenza di sintomi è che i rispondenti non seguono puntualmente le
istruzioni delle ricerche: applicano propri criteri contestuali ai sintomi e non
riferiscono sintomi che attribuiscono a crisi di vita o a condizioni di carattere
medico85. La critica agli studi di comunità del dopoguerra espressa
dall’epidemiologa Rema Lapouse – «Se tutti quelli che tossiscono vengono
annoverati come casi di tubercolosi, tanto i tassi di incidenza quanto quelli di
diffusione partiranno a razzo» – si schiera a favore del concetto continuo del
disturbo depressivo adottato dalla contemporanea epidemiologia psichiatrica,
in cui non c’è alcuna clausola che distingua la tristezza normale dai disturbi
lievi86.
La principale giustificazione per trattare tutti i sintomi come patologici è che
essi sono associati a disabilità presenti o future. Il presupposto è che ogni
condizione psicologica che sia correlata a un effetto problematico dev’essere
un disturbo mentale. Ma è possibilissimo, per esempio, che un temperamento
incline a qualcosa di più della tristezza, e quindi a sintomi depressivi di tipo
normale in risposta alle vicissitudini della vita, possa essere anche un po’ più
vulnerabile a sviluppare il disturbo depressivo; tuttavia questo non rende la
variante temperamentale una patologia. Inoltre, alla conclusione di non
patologia si può giungere solo se i sintomi di tristezza normale non
comportano disabilità. Eppure, ‘entrambe’ le depressioni, la patologica e la
non patologica, possono variare continuamente per un gran numero di
elementi, fra cui la gravità, la durata e la compromissione funzionale, e
possono sicuramente provocare difficoltà nello svolgimento del ruolo sociale.
Basti considerare come esempio il cordoglio, ma ci sono anche altre forme più
leggere di tristezza normale che inducono le persone a ritirarsi dalla vita
sociale, a diventare meno capaci di concentrarsi sugli impegni ordinari del
ruolo e a imporsi altre limitazioni87. Una simile interferenza con l’esercizio del
ruolo e la produttività non rende la tristezza una patologia.
A parte le disabilità e compromissioni, gli studi epidemiologici giustificano la
loro scelta di trattare i sintomi sottosoglia come patologia argomentando che le
condizioni leggere a un certo punto possono evolvere in condizioni più gravi,
che raggiungono la soglia stabilita dal DSM per la patologia; sostengono quindi
che la condizione più leggera è parte di un più ampio processo di malattia e
che la sua scoperta precoce e l’intervento immediato su condizioni ancora
leggere possono impedire che le patologie si sviluppino88. A volte, forse,
questo è vero. Ma c’è un’obiezione di fondo a questo argomento generale sulla
depressione minore, soprattutto in considerazione della potenziale non validità
delle stesse diagnosi del DDM: anche quando una condizione sottosoglia
precede una condizione a sindrome piena, non è chiaro se l’una e l’altra
condizione siano una vera patologia o no, e ancora meno quale sia la relazione
di una condizione con l’altra. Per esempio, una persona che sta male per una
situazione preoccupante al lavoro, un conflitto coniugale o una malattia fisica
che colpisce una persona cara, può denunciare due o tre sintomi, e poi, nel
momento in cui la preoccupazione si congela in una perdita, avere una risposta
più intensa. Tanto la tristezza iniziale quanto la successiva reazione più intensa
possono essere perfettamente normali, e tuttavia un epidemiologo può
interpretare la sequenza come l’evoluzione di un disturbo depressivo minore in
disturbo depressivo maggiore. Il fatto che alcuni sintomi di tristezza siano poi
seguiti da sintomi di tristezza più intensi ci dice poco di per sé sulla questione
se la condizione più leggera iniziale o quella successiva più grave o entrambe o
nessuna delle due siano patologie. Nell’uno e nell’altro caso criteri che
pretendano di essere validi devono andare al di là dei sintomi.
Inoltre, non necessariamente i sintomi sottosoglia preannunciano una
diagnosi di Depressione Maggiore del DSM in un momento più tardo: in
realtà, le prove per prevedere una successiva depressione maggiore sono molto
deboli. Molti dei sintomi scoperti negli studi di comunità, anzi la maggior
parte, erano passeggeri e limitati alla durata del contesto delle situazioni di
stress che li avevano provocati. Nello studio ECA, metà delle persone con
depressione lieve divenne asintomatica nell’anno seguente89. In questo studio,
solo il 10% delle persone con depressione minore con disturbi dell’umore e
solo il 2% delle persone con depressione minore senza disturbi dell’umore
avevano sviluppato una Depressione Maggiore al controllo dopo un anno e,
dati i criteri sintomatici del DSM adottati dall’ECA, non sappiamo quante di
esse fossero effettivamente malate. Per converso, oltre un terzo del gruppo con
Depressione Maggiore divenne asintomatico, e quasi il 40% si ritrovò nel
gruppo con depressione minore90.
Queste conclusioni indicano che è più probabile che le condizioni più gravi
diventino meno gravi, e non il contrario. La straordinaria instabilità della
‘casistica’, con soggetti che scivolano attraverso i vari stati di gravità, non
consente di individuare in maniera affidabile quali condizioni peggioreranno e
quali no. Sebbene le persone con depressione minore abbiano maggiori
probabilità di sviluppare in futuro casi di Depressione Maggiore che non
quelle senza sintomi, la grande maggioranza delle persone con un piccolo
numero di sintomi depressivi non svilupperà mai la Depressione Maggiore. In
effetti, gli studi indicano che, in assenza di qualsiasi intervento, fino a due terzi
dei sintomi depressivi si rimettono naturalmente91. Per esempio, nello studio
ECA prima menzionato, 97 su 114 partecipanti diagnosticati come depressi
nell’intervista iniziale recuperarono durante il periodo di follow-up92. I sintomi
derivanti da problemi di vita solitamente scompaiono una volta che i problemi
siano superati, anche se inizialmente, magari, soddisfacevano i criteri clinici.
È difficile capire la logica di chi dice che, poiché alcune condizioni
sottosoglia possono essere patologie e non tristezza normale, tutte debbano
essere classificate come patologie. La spiegazione sembra essere che il
movimento della depressione minore rifiuta le soglie di sintomi del DSM ma
aderisce tenacemente all’assunto base del DSM secondo cui i criteri basati sui
sintomi, senza considerazione del contesto, sono adattissimi a diagnosticare il
disturbo depressivo. Di conseguenza, l’estensione del disturbo depressivo alle
condizioni sottosoglia, che può evitare alcuni falsi negativi, viene realizzata al
prezzo di una molto più probabile moltiplicazione di diagnosi falso-positive
che qualificano come patologia la tristezza non patologica. Ma quelli che
difendono le diagnosi di depressione minore hanno trascurato troppo il
problema di apprestare strumenti per evitare di diagnosticare erroneamente la
tristezza normale come patologia. Solo dopo che sarà stato messo a punto un
più valido approccio alla distinzione patologia-non patologia si potrà
giustificare l’inclusione delle condizioni con pochi sintomi nella categoria del
disturbo.
A causa di queste debolezze dell’attuale approccio alla depressione minore, le
implicazioni politiche suscitate dall’uso del concetto continuo di disturbo
depressivo sono discutibili. La priorità principale della buona politica pubblica
dovrebbe essere di fornire servizi di salute mentale alle persone che ne hanno
più bisogno. Quando negli anni Sessanta fu applicato il concetto di un
continuum di problemi di salute mentale, il risultato fu la ‘patologizzazione’ di
gran parte della popolazione, l’estensione dei servizi a molte persone con
problemi esistenziali e la conseguente riduzione dei servizi forniti alle persone
affette da vere malattie mentali gravi93. È possibile che il movimento della
depressione minore stia gettando le fondamenta per ripetere lo stesso errore.
Gli avvocati dei malati mentali, il NIHM e gli psichiatri ricercatori si sono
mostrati sensibili alla scoperta di alti tassi di Depressione Maggiore negli studi
di comunità perché pensano che questa scoperta contribuirà ad alleggerire lo
stigma associato alle etichette di disturbo mentale e a ottenere il sostegno
pubblico e legislativo per finanziare programmi di salute mentale94. Ma
l’abbassamento della soglia per la diagnosi del disturbo depressivo negli studi
di comunità, così che più persone vengono calcolate come malate di
depressione può, come i già alti tassi di prevalenza forniti dagli studi
epidemiologici della Depressione Maggiore basati sul DSM, avere l’effetto
opposto di minare la volontà politica di affrontare il problema per la paura dei
finanziatori pubblici e privati dei costi enormi da sopportare per fornire servizi
a una popolazione così vasta95. Come sottolinea lo psicologo James Coyne,
«migliorare i risultati per i casi noti di depressione deve avere la precedenza
sull’incrementare la scoperta della depressione», e questo è tanto più vero
quando ciò che viene scoperto è probabile che non sia affatto un disturbo
depressivo96. Dovremmo fare attenzione all’ammonimento di Rema Lapouse,
che scriveva nell’era originaria del concetto continuo:
I tassi che includono una grande proporzione di casi equivoci o lievi, o di individui per
nulla malati, possono anche avere l’effetto deleterio di incoraggiare l’utilizzo delle limitate
risorse destinate alla salute mentale per curare quelli che sono meno malati e hanno la
prognosi migliore97.

6.6 | Conclusione

In sé non c’è nulla di sbagliato nell’uso di linee continue di sintomi nella


ricerca e nella teoria sulla depressione. Ma queste linee continue non
sostituiscono di per sé stesse la distinzione fra patologia e non patologia. Il
problema dei falsi positivi ha la sua radice nel non aver voluto collegare i
sintomi e le associate compromissioni funzionali al contesto in cui essi
sorgono, un tema che affiora in tutti i punti del continuum di gravità dei
sintomi. Ma il problema dei falsi positivi si aggrava sempre più quanti meno
sono i sintomi usati per definire le patologie. In effetti, una volta che si
abbandoni la considerazione del contesto, tutte le risposte di tristezza normale
possono essere viste come un segno di patologia: si dissolve la stessa
possibilità della tristezza normale.
Abbiamo fin qui considerato le conseguenze involontarie cui si andò
incontro quando i criteri sintomatici decontestualizzati del DSM furono
applicati a campioni della comunità non in trattamento, con il conseguente
grande ampliamento del gruppo etichettato come affetto da depressione
patologica. Ma le stime gonfiate di prevalenza epidemiologica che ne sono
seguite non sono rimaste semplici astrazioni scientifiche. Sono diventate,
invece, la base per indiscriminate e invadenti nuove politiche sociali per la
depressione, alle quali ora ci dedicheremo.

Note
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2 | Grob, 1985.↵
3 | Plunkett e Gordon, 1960.↵
4 | Grob, 1991a, p. 13.↵
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8 | Jones, 2000, p. 9.↵
9 | Brill e Beebe, 1955; Shephard, 2000.↵
10 | Grob, 1991a.↵
11 | Menninger, 1948.↵
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14 | Per es. Holmes e Rahe, 1967.↵
15 | Grob, 1991a.↵
16 | Menninger, 1948. [Freud infatti riteneva che tutti gli individui avrebbero una dimensione
naturalmente patologica, denotata dalla sua definizione di inconscio quale perverso, caotico e psicotico,
per cui tutti ‘fondamentalmente’ sarebbero soggetti a connaturata patologia che si manifesta nella
misura in cui emerga questa dimensione latente. NdC]↵
17 | Grob, 1991a.↵
18 | Srole et al. , 1962/1978.↵
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27 | Leighton et al. , 1963, p. 121.↵
28 | Lapouse, 1967, p. 952.↵
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88 | Horvath et al. , 1992; Kessler et al. , 1997; Insel e Fenton, 2005.↵
89 | Judd et al. , 1997.↵
90 | Broadhead et al. , 1990.↵
91 | Katon et al. , 1995.↵
92 | Eaton et al. , 1997.↵
93 | Grob, 1991a.↵
94 | Mechanic, 2003.[Anche aumentare i tassi di malattia può rappresentare un’operazione ideologica a
sostegno del postulato che in fondo «nessuno è normale», comune sia all’esistenzialismo che al
freudismo. Inoltre, non può essere trascurato il guadagno economico delle case farmaceutiche
derivante da questa posizione ideologica. Cfr. infra, cap. 9. NdC]↵
95 | Ibidem.↵
96 | Coyne et al. , 2000, p. 107.↵
97 | Lapouse, 1967, p. 953.↵
* Questo è il pensiero della cultura freudiana, ed è anche grazie a esso che si impianterà il DSM con
analoghe caratteristiche, divenendo il difetto di pensiero della cultura psichiatrica. [NdC]↵
* Da sottolineare che non furono utilizzati gruppi di controllo sani, come di norma si opera per
valutare una patologia. Ciò si potrebbe collegare all’assenza di un concetto di «sanità mentale» di base;
di conseguenza, potrebbe diventare criticabile questa modalità di validare la diagnosi di patologia.
[NdC]↵
Capitolo 7 | La vigilanza sulla tristezza

Se sei un residente tipico di New York City, c’è la possibilità che abbia
occasione di andare dal tuo medico curante in un qualche momento del
prossimo anno. Se il tuo medico segue il consiglio del commissario per la
salute mentale di New York City, ti chiederà di riempire un questionario con la
seguente domanda: «Nelle passate due settimane, quante volte sei stato
angustiato da uno dei seguenti problemi?»1. A ognuno dei nove sintomi è
assegnato un punteggio di 0 (mai), 1 (in vari giorni), 2 (in più di metà dei
giorni), o 3 (quasi ogni giorno). Ecco i nove sintomi:
1) Scarso interesse o piacere nel fare le cose.
2) Sentirsi giù, depresso, o disperato
3) Avere difficoltà ad addormentarsi, sonno disturbato o sonno eccessivo.
4) Sentirsi stanco o avere troppo poca energia.
5) Scarso appetito o alimentazione eccessiva.
6) Star male con sé stessi, o sentirsi falliti, o pensare di aver deluso sé stessi o la propria
famiglia.
7) Difficoltà a concentrarsi su cose come leggere il giornale o guardare la tv.
8) Muoversi o parlare così lentamente da essere notato dagli altri; o al contrario, essere
così nervoso o irrequieto da continuare a muoversi in maniera agitata ben più del solito.
9) Pensare che sarebbe meglio morire, o ferire in qualche modo sé stessi.
La valutazione dei punteggi è la seguente: se per cinque o più dei nove
sintomi, incluso uno dei primi due, il punteggio è di 2 o 3 (punteggio totale di
almeno 10), la diagnosi sarà di Disturbo Depressivo Maggiore; la diagnosi sarà
invece di disturbo depressivo minore se almeno per due dei sintomi, incluso
uno dei primi due, il punteggio è di 2 o 3 (punteggio totale di almeno 4). Se
per esempio un soggetto si è sentito giù e stanco per la maggior parte dei
giorni delle passate due settimane (cioè per otto giorni o più), riceverà una
diagnosi di disturbo depressivo minore; se nella maggior parte dei giorni delle
passate due settimane si è sentito giù e stanco ed è stato male con sé stesso e
quindi ha avuto difficoltà ad addormentarsi e a concentrarsi riceverà una
diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore.
L’amministrazione cittadina stabilisce che i soggetti con punteggi abbastanza
alti da indicare un probabile disturbo vengano rinviati a una valutazione clinica.
Ma essendo questi sintomi estremamente comuni è difficile capire come si
faccia ad avere le risorse sufficienti per far fronte al numero potenzialmente
enorme di rinvii. Inoltre, è possibile che la maggior parte delle persone che
denunciano di avere sintomi specifici ne sia colpita a causa di una qualche
perdita appena subita o per qualche problema che li preoccupa e li fa essere
tristi, distratti ecc. Eppure i medici possono essere facilmente tentati di
prescrivere farmaci anche a quelli con una depressione minore, mentre per una
quota sostanziale di essi basterebbe l’intervento del medico di base. Così,
l’etichettatura provvisoria di individui come depressi senza considerare le
circostanze di ciascuno può mettere in moto una risposta clinica basata su
un’informazione sostanziale non adeguata.
Il programma di New York City fa parte di un movimento nazionale per la
realizzazione di uno screening di adulti e bambini per la depressione sostenuto
da una relazione della Commissione presidenziale2. In questo capitolo
vogliamo esaminare il movimento dello screening della depressione e alcuni
dei problemi derivanti dal fatto che esso usa criteri sintomatici
decontestualizzati per individuare i soggetti depressi.

7.1 | Il movimento dello screening della depressione

Negli studi di comunità, come abbiamo visto nel Capitolo 6, gli epidemiologi
non distinguevano in maniera adeguata la tristezza normale dal disturbo
depressivo. La conseguenza è stata che hanno presentato ai responsabili della
politica della salute mentale stime straordinariamente alte del numero di
soggetti affetti da disturbi depressivi non trattati. Temendo che esistesse un
enorme bisogno non soddisfatto di servizi di salute mentale fra soggetti che
non sapevano nemmeno di soffrire di un disturbo, i responsabili politici si
sono concentrati per parte loro soprattutto nel trovare il modo di identificare i
soggetti della comunità disturbati non trattati e provvedere a farli curare. Si è
deciso perciò che se le persone non andavano a farsi diagnosticare, doveva
essere la diagnosi ad andare da loro. Il risultato è stata una serie di programmi
di screening miranti, in linea di principio, ad accertare in chiave diagnostica la
presenza del disturbo depressivo per ogni singola persona d’America.
Vari presupposti sono alla base del tentativo di identificare e curare casi di
depressione in precedenza non riconosciuti. Uno è che, se non curate, le
persone che soddisfano i criteri sintomatici negli studi di comunità potrebbero
sviluppare condizioni croniche, ricorrenti e in progressivo deterioramento3.
Un altro è che i soggetti con disturbo depressivo non riconosciuto soffrono
inutilmente e possono trarre beneficio dai farmaci e dalle terapie disponibili4.
E poi la preoccupazione che i disturbi depressivi non curati possano avere
conseguenze drammatiche, come il suicidio. E ancora, la constatazione che la
depressione non trattata ha notevoli costi economici non evidenti: i pazienti
con depressione non diagnosticata utilizzano in eccesso il sistema sanitario,
usufruiscono di esami medici non necessari e fanno salire i costi dei servizi
medici5.
La domanda principale cui le iniziative che affrontano il bisogno non
soddisfatto di trattamento devono rispondere è come identificare al meglio e
stabilire un contatto con i casi non trattati di depressione. I tentativi che
prendono di mira intere popolazioni, come la promozione di servizi pubblici,
campagne di educazione e pubblicità indirizzate ai consumatori, sono una
strada per raggiungere casi del genere. Le case farmaceutiche e altre
organizzazioni del settore sono state pronte ad allinearsi con questo approccio
e a fissare nella mente della gente l’idea molto ampia, basata su sintomi comuni
del DSM, della possibilità che, anche a sua stessa insaputa, un soggetto poteva
essere affetto da un disturbo depressivo e dover consultare il proprio medico.
Questi appelli incoraggiano le persone a monitorare sé stesse, le loro famiglie e
gli amici per cogliere eventuali segni di tristezza e a interpretare questi segni
comuni secondo i preoccupanti significati suggeriti dalle estese definizioni del
disturbo depressivo. Non c’è dubbio che queste iniziative abbiano l’effetto
positivo di indurre alcuni soggetti affetti da disturbo depressivo a sottoporsi
alle cure necessarie. E probabilmente hanno contribuito a far salire la
percentuale dei casi di depressione curati e delle prescrizioni di antidepressivi
nei passati due decenni6. Ma, nel complesso, questi sforzi sono di efficacia
limitata, in quanto dipendono dal fatto che gli stessi individui riconoscano che
possono essere depressi abbastanza da giustificare il trattamento medico.
Il movimento dello screening, perciò, si è concentrato nell’estendere
l’autorità medica al di là del perimetro consueto di risposta alle richieste
spontanee di aiuto. Questo è un obiettivo critico, poiché i criteri diagnostici
vigenti non corrispondono a ciò che la malattia mentale è per la maggior parte
dei profani7. Così, molte persone che il DSM classificherebbe come malate
non ritengono di avere segni di disturbo mentale, non pongono le relative
domande ai loro medici, non chiedono aiuto e quindi non si presentano come
soggetti da sottoporre a cure. Di conseguenza, l’indagine deve penetrare nella
comunità, dev’essere in qualche modo imposta dall’esterno, e correre in
soccorso dei pazienti.
Volgiamo ora la nostra attenzione al modo in cui questa nuova attività di
sorveglianza attraverso lo screening viene svolta e al modo in cui gli specifici
programmi di rilevazione aiutano a ridefinire l’esperienza della tristezza
normale come disturbo mentale per i profani. Prima di esaminare come
funzioni lo screening, dobbiamo richiamare un’avvertenza importante sui limiti
delle nostre considerazioni. L’analisi che facciamo riguarda specificamente la
ridefinizione dell’esperienza della tristezza normale come disturbo
conseguente all’uso dei vigenti criteri del DSM, compresi quelli sottosoglia, nei
programmi di screening delle comunità. La nostra analisi può essere facilmente
fraintesa come una critica dello screening della depressione in sé. Ma la
questione della bontà dello screening va tenuta distinta dalla questione se esso,
nella sua forma attuale o in qualche forma futura, produca benefici –
impedendo o alleviando la sofferenza – che superano chiaramente i suoi costi.
Al momento, questo non si può dire; semplicemente, non ci sono prove che lo
screening di massa per la depressione sia efficace nel realizzare gli importanti
obiettivi della salute mentale. Questo capitolo, dunque, non riguarda i pro e i
contro dello screening in sé, ma il problema della patologizzazione della
tristezza normale risultante dal condurre la rilevazione unicamente con i criteri
basati sui sintomi.

7.2 | Prescreening e screening diagnos co per il disturbo


depressivo

Lo scopo dello screening della depressione è di portare alla luce le persone


della comunità che o non sanno di avere disturbi depressivi o per altre ragioni
non si sono attivate per chiedere l’aiuto necessario per i loro disturbi.
L’obiettivo di far formulare agli specialisti della salute mentale una diagnosi
clinica per tutte quante le persone della comunità è di gran lunga troppo
costoso e richiede troppo tempo per essere perseguibile. Così, si deve ricorrere
a test o questionari di screening più brevi per stabilire se uno ha maggiori
probabilità del solito di avere una patologia, e solo quelli che risultano positivi
al test vengono poi esaminati per una diagnosi completa.
«Screening» è un termine ambiguo che può riferirsi a due processi distinti
(anche se più avanti vedremo che questi due processi si fondono spesso in
uno). Primo, può significare sottoporre i membri della comunità a un test che è
già in sé sufficiente a fornire una diagnosi probabile di una malattia bersaglio.
Per esempio, ci sono molte aziende che hanno dei giorni di screening della
salute nei quali gli impiegati fanno controlli della pressione sanguigna e
misurano il livello di colesterolo nel sangue, con test che diagnosticano
l’ipertensione e l’ipercolesterolemia con maggiore o minore accuratezza.
Similmente, lo screening della tubercolosi può coinvolgere gruppi di medici
che, attrezzati di macchine mobili per i raggi X e altri strumenti opportuni,
girano per la comunità al fine di sottoporre le popolazioni scarsamente servite
a test medici che mettono in luce l’eventuale presenza di tubercolosi. In questo
caso noi parliamo di screening «diagnostico». Una caratteristica importante
degli screening diagnostici è che un risultato positivo è considerato indizio di
patologia ed è quindi sufficiente a giustificare la cura.
Ma il termine screening è riferito comunemente anche ai test di massa che
danno solo un’indicazione iniziale sulla possibilità che ci sia un problema e che
quindi un soggetto debba essere rinviato a uno specialista per una diagnosi più
precisa. Uno screening del genere non fornisce di per sé una diagnosi
probabile o ipotetica e genera spesso un gran numero di risultati positivi che
alla fine non sono confermati nei successivi test diagnostici. Per esempio, i
risultati positivi di patch test per la tubercolosi forniscono una semplice
indicazione che potrebbe essere presente l’infezione, ma non costituiscono una
diagnosi. Si richiedono altri esami diagnostici per stabilire la presenza della
malattia, e molti di quelli che risultano positivi ai patch test finiscono con il
risultare negativi alla tubercolosi. Così pure le mammografie che rivelano
noduli al seno indicano la necessità di un’ulteriore valutazione, in quanto gran
parte dei noduli scoperti è benigno: la diagnosi quindi deve aspettare un test
ulteriore, come la biopsia. In questo caso di screening non diagnostico
preparatorio della diagnosi effettiva noi parliamo di «prescreening». Solo la
valutazione di seconda istanza, non il prescreening, giustifica il rinvio ai centri
di cura.
I questionari di prescreening possono essere più o meno efficaci nello
scoprire l’eventuale presenza di una malattia. C’è da fare un complesso calcolo
di opportunità delle operazioni di prescreening. Da un lato, è desiderabile
eliminare quante più persone normali possibile dal gruppo di quelli che
richiedono un ulteriore screening diagnostico. I costi e a volte i rischi dei test
diagnostici sono tali che si vorrebbe portare al minimo il numero dei falsi
positivi nel prescreening – cioè, quelli che risultano positivi nel prescreening e
vengono spediti allo screening diagnostico ma alla fine vengono trovati non
malati. Dall’altro lato, si vorrebbe evitare che sfuggano dalle maglie delle
indagini soggetti effettivamente malati: l’auspicio degli operatori è che tutti
questi soggetti vadano avanti verso lo screening diagnostico.
Di questi due scopi, i questionari del prescreening per il disturbo depressivo
miravano a perseguire soprattutto l’obiettivo di non perdere nessuno dei casi di
patologia. Di conseguenza, erano congegnati in modo che si usassero meno
domande possibile per cogliere ogni minima eventualità di disturbo depressivo.
Il risultato involontario è stato, come vedremo, un numero immenso di
soggetti risultati positivi nel prescreening, rinviati all’ulteriore valutazione
diagnostica senza avere alcuna patologia (falsi positivi).
A differenza dei test per la maggior parte delle malattie fisiche, che
forniscono informazioni di cui gli intervistati non sarebbero venuti altrimenti a
conoscenza, le domande tipiche nei questionari del prescreening sulla
depressione sono varianti di un’unica domanda. «Sei depresso?». Per esempio,
nel primo importante studio di screening, i tre punti (su otto) del prescreening
di primo stadio più strettamente collegati a una diagnosi di depressione del
secondo stadio secondo i criteri del DSM erano: «Mi sentivo depresso»;
«Nell’anno passato, hai avuto due settimane o più nelle quali ti sei sentito triste,
accasciato, o depresso […]»; e «Hai avuto due anni o più nella tua vita in cui ti
sei sentito depresso o triste per la maggior parte dei giorni […]»8. Dato che
quasi tutti quelli che hanno un vero disturbo depressivo hanno sintomi di
questo tipo, siffatte domande assicurano che i soggetti veramente depressi
risulteranno positivi.
L’altra faccia di questa inclusività è che la stragrande maggioranza dei
soggetti che ricevono un punteggio positivo nel prescreening, e che quindi
devono essere poi valutati clinicamente, finisce con il non ricevere una
diagnosi di disturbo depressivo dopo lo screening diagnostico. È un risultato
facile da aspettarsi, data l’onnipresenza della tristezza. A differenza dei tanti
programmi di screening per i disturbi fisici, non abbiamo qui un «gold
standard» – ad esempio un test biologico – che possa dirci quando i sintomi di
tristezza indicano un disturbo depressivo e che possa quindi assicurare che le
persone normali non siano sottoposte a prescreening o diagnosticate alla fine
come malate.
Per esempio, un primo studio che aveva impiegato un questionario di
prescreening con otto domande per il disturbo depressivo condotto in centri
sanitari locali trovò che la verifica diagnostica del secondo stadio che usava i
criteri del DSM confermò solo il 29% dei soggetti sospettati di Depressione
Maggiore e solo il 25% dei sospettati di Distimia come effettivamente affetti
da questi disturbi9. In altre parole, più del 70% dei casi che il prescreening
aveva indicato come probabilmente malati non aveva ricevuto alla fine diagnosi
di patologia, nonostante nella verifica del secondo stadio fossero usati i criteri
fin troppo inclusivi del DSM.
Altri screening consolidano queste conclusioni. Una panoramica degli
screening in centri sanitari locali porta alla conclusione che, supposto un tasso
di prevalenza della depressione del 5%, di 31 su 100 soggetti risultati positivi
per la depressione nel prescreening, solo 4 risulteranno affetti da Depressione
Maggiore nelle interviste del secondo stadio10. Com’era prevedibile, il numero
dei falsi positivi al DDM è particolarmente alto quando il questionario del
prescreening comporta un numero molto limitato di domande. Un recente
studio con un questionario di prescreening di sole due domande in cui si
chiedeva al soggetto se aveva avuto nell’anno precedente due o più settimane
di tristezza o di perdita d’interesse per cose che normalmente faceva con
piacere mostra in seguito che fra il 73 e l’82% di quelli risultati positivi nel
prescreening non aveva DDM11. Il fatto che così tanti individui normali
possano essere rinviati al secondo stadio di valutazione clinica è già di per sé
stesso un intervento massiccio che può avere imprevisti effetti collaterali.
Gli studi mostrano un’ampia variabilità nella percentuale di pazienti che
risultano positivi nel prescreening per la depressione, che va dal 15 al 50%. Per
esempio, un vasto studio che confrontò tre diverse rilevazioni trovò che
rispettivamente il 20, il 25 e il 36% di pazienti di centri sanitari locali
risultavano positivi nel prescreening per il disturbo depressivo12. In alcuni
studi con questionari di soltanto due domande, quasi la metà dei pazienti
risulta positiva nel prescreening13. Ciò significa, per la questione più ampia
delle diagnosi errate, che il prescreening, quali che siano i suoi apporti, non
elimina nessuno dei falsi positivi del DSM.
Il prescreening presenta un certo interesse per il nostro argomento più
generale per tre ragioni. Primo, lo stesso prescreening costituisce una mini-
patologizzazione delle normali esperienze emotive che può portare alla
stigmatizzazione, o a dubbi su sé stessi e altri turbamenti. Essendo spesso
basati su un limitato numero di domande relative a sintomi comuni di tristezza,
i prescreening identificano praticamente ogni intensa tristezza come un
potenziale segnale d’allarme. L’effetto è che quantomeno nasce l’interrogativo
su una possibile patologia e quindi ogni individuo con una intensa tristezza
normale diventa un potenziale candidato per la diagnosi. Anche quelli che
risultano positivi e poi non vengono confermati per una diagnosi da DSM
possono rimanere con qualche preoccupazione circa i motivi che hanno
indotto gli specialisti a sospettare della loro salute mentale fino a rinviarli a
un’intervista diagnostica. Il processo di prescreening da solo crea dunque uno
spazio di possibilità patologiche prima inesistente. Non ci sono indagini che ci
permettano di valutare gli eventuali effetti negativi di simili interventi.
Secondo, il prescreening condotto in luoghi di concentrazione di persone,
come centri sanitari locali e scuole, di cui parleremo più avanti, rinvia allo
stadio successivo della diagnosi DSM tutti i membri della comunità che
denuncino risposte di tristezza intensa, si sentano o no essi stessi malati. Di
conseguenza, lo screening diagnostico del secondo stadio applica i criteri
diagnostici del DSM praticamente a tutti i soggetti di queste strutture rinviati.
A questo punto è chiaro che i difetti dei criteri del DSM non possono più
essere liquidati come anomalie puramente teoretiche, sfide alla validità della
ricerca, o espedienti di limitato impatto clinico utili per ricevere i rimborsi
assicurativi previsti per quelli che vengono sottoposti a cura. Piuttosto, l’uso
aggressivo del prescreening con un minimo di sintomi in realtà trasforma
quella che sarebbe potuta rimanere una confusione concettuale relativamente
esoterica in uno strumento di sorveglianza emotiva e di errori diagnostici
potenziali per ciascuno di noi.
Terzo, le pressioni di tempo e denaro hanno portato a far sì che, quello che
era nato come prescreening, fosse usato in realtà – con tattica ingannevole –
come vero e proprio screening diagnostico. Le discussioni che precedono i
possibili programmi di screening da lanciare in una comunità affermano
inizialmente che tutti quelli che risultano positivi al prescreening saranno poi
valutati clinicamente per accertarne la patologia e non sommariamente
diagnosticati. Ma, una volta che questi programmi siano avviati, la tendenza è a
sacrificare o ridurre i costosi screening diagnostici del secondo stadio e a
trasformare lo stesso prescreening minimale in base della diagnosi e delle
scelte di cura. I prossimi paragrafi illustreranno come il prescreening e lo
screening diagnostico sono stati effettuati in due luoghi di concentrazione della
comunità, cioè centri sanitari locali e scuole, e come i questionari del
prescreening sono diventati spesso strumenti diagnostici a pieno titolo in
questi ambienti.

7.3 | Lo screening per la depressione fra pazien di centri medici

7.3.1 | La depressione nei centri sanitari locali


I centri sanitari locali sono stati il luogo principale dei programmi di
screening per identificare e curare la depressione. Questi centri appaiono come
quelli ideali per ricerche del genere. I medici di base sono in una posizione
particolarmente strategica per scoprire e curare il disturbo depressivo in
precedenza non riconosciuto in grandi fasce della popolazione, perché la
maggior parte delle persone si presenta dal medico di base per una visita
sanitaria almeno una volta l’anno14. Inoltre, è particolarmente probabile che i
soggetti con sintomi depressivi si presentino per una visita del genere: gli studi
mostrano che sono fra le due e le tre volte più numerosi degli altri pazienti che
ricorrono ai centri di assistenza primaria15. Così, molti esperti ritengono che ci
siano tanti pazienti di medicina di base non identificati che hanno in effetti
disturbi depressivi: vari studi affermano che dal 10 al 35% di pazienti dei centri
sanitari locali ha questi disturbi, una percentuale che balza fino a circa il 50%
fra quelli che si fanno visitare più spesso dai medici generici16.
I centri sanitari locali sono anche un luogo adatto per il follow-up successivo
alla diagnosi, dal momento che molte persone con presunto disturbo
depressivo ricevono una cura solo in ambito medico generico17. I medici di
base sono gli unici fornitori di cure per un 25-50% dei soggetti che gli studi di
comunità identificano come affetti da disturbo depressivo18.
I centri sanitari locali sono visti come luoghi particolarmente appropriati per
le attività di prevenzione nei confronti delle persone di modesta condizione di
reddito e formazione, per le minoranze etniche e razziali, e per gli anziani, tutti
gruppi che più difficilmente cercano cure presso gli specialisti della salute
mentale e più facilmente si rivolgono ai loro medici generici.
Ma, nonostante la consistente quota di pazienti dei medici di base
presumibilmente depressi e il fatto che lo studio del medico di base sia
apparentemente ideale per l’intervento sulla depressione, la capacità di
riconoscere e curare la depressione nei centri medici generici è considerata
generalmente scarsa19. Gli studi mostrano ripetutamente che i medici generici
individuano solo da un terzo a metà dei loro pazienti depressi20. Una ragione
di questo potrebbe essere la riluttanza del paziente a esibire sintomi emotivi e
la maggiore disponibilità a manifestare fastidi fisici. Un’altra è data dal fatto
che la preparazione dei medici li porta a concentrarsi soprattutto e a dare la
priorità alla cura dei problemi fisici. Anche le limitazioni imposte dagli orari di
studio dei medici non consentono loro l’agio necessario per separare le
malattie psicologiche da quelle fisiologiche, per cui si concentrano
naturalmente sui disturbi fisici. Gli studi sottolineano inoltre l’inadeguatezza
delle cure che i medici di base possono dare ai pazienti da loro riconosciuti e
diagnosticati come depressi. A meno della metà di questi pazienti vengono
somministrati farmaci antidepressivi o altri tipi standard di cure specifiche per
la depressione, e inoltre i medicinali che vengono prescritti sono spesso
sbagliati o somministrati in dosi inadeguate21.
La preoccupazione di far fronte all’esigenza insoddisfatta di servizi, insieme
con le carenze delle risposte dei medici generici alla depressione, ha portato a
prendere molte iniziative per migliorare il riconoscimento e la cura della
depressione nei centri sanitari locali22. Tutti questi sforzi di screening
diagnostico dipendono dallo sviluppo e dall’uso di strumenti che permettano
ai medici di identificare i casi di disturbo depressivo che altrimenti
rimarrebbero ignoti, nei centri sanitari locali. Date le ristrettezze del tempo
nelle tipiche pratiche di studio, i questionari di screening, per essere utili,
devono essere brevi, facili da gestire e non togliere troppo tempo al medico o
al paziente23. Di solito essi si presentano sostanzialmente come una versione
abbreviata della diagnosi DSM che utilizza un blocco ridotto di domande
autosomministrate su sintomi comuni di depressione considerati come grosso
modo equivalenti ai criteri completi del DSM.
I promotori di campagne di screening in centri sanitari locali devono
affrontare due decisioni importanti. Primo, quanto dev’essere ampia la
popolazione obiettivo di quelle iniziative? Devono essere indirizzate al numero
più alto possibile di pazienti di quei centri, o solo ai pazienti ritenuti a speciale
rischio di avere patologie non riconosciute? Secondo, a quale livello dei criteri
dev’essere posta l’asticella oltre la quale i risultati del prescreening e dello
stadio diagnostico vanno considerati positivi? La tendenza è stata di allargare
sempre più la popolazione assoggettata allo screening e di abbassare il livello
dei criteri a cui il soggetto è valutato come positivo.
A partire dalla campagna Depression Awareness, Recognition, and
Treatement (DART) sponsorizzata dall’NIMH nel 1987, molte iniziative hanno
cercato di focalizzare l’attenzione di pazienti e operatori sullo scarso
riconoscimento e l’insufficiente cura della depressione negli ambienti dei centri
sanitari locali24. All’inizio furono fatti sforzi notevoli per mantenere un
atteggiamento prudente verso lo screening, e nessuno si azzardò a
raccomandare un uso diffuso dello screening nei centri sanitari locali25. «La
conclusione da trarre», come segnala il sommario del primo volume dedicato a
questo argomento, «è che i questionari sulla depressione non devono essere
proposti di routine ai pazienti degli ambulatori medici. Ma in circostanze
specifiche e con popolazioni ben definite questo sistema di valutazione può
funzionare»26.
Queste prime campagne si preoccupavano dei problemi che si creavano
quando troppe persone ricevevano diagnosi errate di depressione quanto della
identificazione accurata delle persone effettivamente depresse27. Perciò, questi
programmi raccomandavano di usare punti limite per la diagnosi di
depressione più alti di quelli usati presso le popolazioni di comunità28. Uno
studio concludeva:
Insomma, a giudicare almeno dai dati prodotti da questo studio, non pare che al
momento si possa raggiungere con questi screening un grado sufficiente di equilibrio
vantaggioso di sensibilità e tassi di errate classificazioni positive da poterli raccomandare
con entusiasmo per le rilevazioni dei disturbi affettivi presso le popolazioni dei centri
sanitari locali29.
Le campagne di screening nel corso degli anni Novanta, tuttavia, hanno
ignorato questi avvertimenti e spinto verso l’impiego di routine dello screening
presso gruppi il più ampi possibile30. L’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS), per esempio, esorta a sottoporre ogni paziente dei centri sanitari locali
a screening per la depressione31. Contemporaneamente, i criteri usati in queste
rilevazioni più recenti sono diventati più larghi. Molte campagne per scoprire
casi di patologia in gruppi non in trattamento hanno usato criteri ben al di
sotto degli standard del DSM, che includevano tutti quelli che provavano
un’intensa tristezza per un paio di settimane. Il servizio di prevenzione
dell’esercito americano, per esempio, raccomanda ai medici di porre nei
prescreening due domande sulla depressione: «Nelle passate due settimane ti
sei sentito giù, depresso o disperato?» e «Nelle passate due settimane hai
sentito scarso interesse o piacere nel fare le cose?»32. Così pure, l’OMS
suggerisce che a tutti i pazienti dei centri sanitari locali sia domandato se
hanno avuto nell’anno precedente due settimane o più in cui si sono sentiti
tristi, vuoti o depressi, o hanno perduto interesse per cose per le quali
normalmente provavano piacere e se questi sintomi si sono presentati per una
settimana o più nel corso del mese precedente33.
Si presuppone che questi prescreening minimali, quando positivi, siano
seguiti da uno screening diagnostico completo. Le interviste diagnostiche che
usano i criteri del DSM per convalidare i casi positivi al prescreening trovano
di solito che circa il 10-20% dei pazienti dei medici di base soddisfano in pieno
i criteri per il DDM34. Ma la tendenza ad allargare i prescreening per
abbracciare diagnosi sottosoglia con solo due o più sintomi ha aumentato di
molto il numero delle diagnosi positive al secondo stadio, per cui in circa un
quarto dei pazienti dei centri sanitari locali viene riscontrato qualche tipo di
disturbo depressivo. Per esempio, il Michigan Depression Study, che usò i
criteri del DSM-III, trovò che il 13,5% dei pazienti dei medici di base aveva il
DDM e il 23% presentava qualche tipo di disturbo depressivo35.
Ma sul piano pratico l’istituzione di due stadi di screening non si è
dimostrata percorso realizzabile per scoprire i casi di disturbo depressivo nei
centri sanitari locali. Nei setting medici concreti (come contrapposti agli studi
di ricerca), i costi per sottoporre da un quarto a un terzo di tutti i pazienti
risultati positivi per la depressione nel prescreening a uno screening del
secondo stadio sono veramente proibitivi. I medici generici, che visitano
quattro o cinque pazienti all’ora, non hanno tempo di interpretare i risultati del
prescreening e condurre poi le successive interviste diagnostiche complete,
perché la maggior parte degli studi medici non dispone di personale
specializzato in salute mentale per somministrare queste interviste36. La
tendenza, perciò, è stata verso una drastica riduzione degli screening e la
formulazione delle diagnosi in un unico stadio usando questionari brevissimi.
Il PRIME-MD (Primary Care Evaluation of Mental Disorders) di Robert
Spitzer, uno dei primi questionari per screening destinati specificamente ai
centri sanitari locali e ancora uno dei più diffusi di simili questionari, fu il
primo tentativo di includere in un unico questionario un processo a due stadi
con un prescreening seguito, per quelli risultati positivi, da diagnosi completa
di disturbo mentale grosso modo secondo i criteri del DSM37. Esso chiede ai
pazienti di rispondere a un questionario autosomministrato di una pagina,
contenente 26 domande a risposta «sì» o «no» su sintomi psichiatrici comuni
avvertiti nel mese precedente. Due delle domande mirano a verificare la
presenza della depressione. Esse chiedono ai pazienti se nel mese precedente
sono stati spesso preoccupati per «lo scarso interesse o piacere nel fare cose» e
per «il sentirsi giù, depressi, disperati». La risposta affermativa all’una o l’altra
di queste domande fa scattare un modulo per la depressione gestito da medici
che produce diagnosi di depressione maggiore, distimia, o condizioni
sottosoglia. Dal momento che riflette i criteri del DSM, non c’è spazio per il
contesto in cui i sintomi si sono sviluppati, per cui la loro presenza basta già di
per sé a far scattare il passaggio all’intervista diagnostica. Il questionario clinico
non richiede più di otto minuti, e quindi sembra essere un modo molto
efficace per i medici che si occupano di accertare i possibili disturbi
psichiatrici.
La scala globale del prescreening PRIME-MD individua sintomi così comuni
che l’81% su 1000 pazienti dei centri sanitari locali fu giudicato positivo per
qualche disturbo; solo il 19% non fu rinviato al secondo stadio diagnostico. In
effetti, quasi sempre i medici gestiscono l’intero processo in due stadi. I
risultati del secondo stadio mostrano che circa il 25% dei pazienti dei centri
sanitari locali, con un divario che va dal 19 al 35% nei vari siti, riceve diagnosi
di Depressione Maggiore, Distimia o entrambe38.
Ma anche l’intervista di otto minuti del PRIME-MD era troppo lunga per
l’uso di routine negli ambulatori di medicina di base, in cui un appuntamento
completo dura in media non più di quindici minuti. In seguito Spitzer sviluppò
il Patient Health Questionnaire (PHQ), che contiene un modulo di
depressione a nove voci basate sui criteri del DSM, che non comporta una
procedura a due stadi ma che constata direttamente i sintomi di DDM riferiti
dagli stessi pazienti e le condizioni depressive sottosoglia39. I nove sintomi
sono quelli elencati all’inizio di questo capitolo. Come abbiamo rilevato, il
PHQ fa diagnosi di Depressione Maggiore quando sono presenti almeno
cinque sintomi, incluso l’umore depresso o l’anedonia, e fa diagnosi di «altra
depressione» quando si riscontrano solo due o più sintomi, anche qui purché
uno di essi sia l’umore depresso o l’anedonia. In studi di convalida, il PHQ
fornisce stime un po’ più basse di tutti gli stati depressivi rispetto al PRIME-
MD, con una media del 16% in otto siti con una forbice dell’11-28%.
L’impiego di queste interviste a stadio unico sta diventando ora pratica
comune negli ambulatori di medicina di base. Questa compressione del
processo, che fornisce subito una diagnosi finale basata solo sul PHQ, lascia
anche meno spazio alla possibilità di verificare che un paziente non malato
abbia ricevuto una diagnosi falso-positiva.
Inoltre, la trasformazione dei criteri del DSM in un questionario che
dev’essere il più breve possibile e il più facile da gestire e capace di fornire un
punteggio chiaro può, al di là delle intenzioni, indebolire i criteri. Per esempio,
il DSM richiede che la maggior parte dei sintomi si sia verificato «quasi ogni
giorno» nel corso delle due settimane precedenti, mentre il PHQ ammette a
sostegno della diagnosi sintomi che si siano verificati nella «maggior parte dei
giorni». In alcuni casi il DSM include qualificatori di gravità come «marcato»,
che nel PHQ sono assenti; e, benché il PHQ proponga una domanda sulla
rilevanza clinica simile al criterio della rilevanza clinica del DSM, non utilizza
tuttavia questa domanda nel punteggio.
Ancora: la soglia di due sintomi del PHQ per la diagnosi di «altro disturbo
depressivo» illustra la crescente disponibilità ad accettare la sintomatologia
sottosoglia come sufficiente già da sola per la diagnosi. Questa tendenza a
usare meno criteri per identificare i disturbi depressivi ha notevoli implicazioni
quando si consideri la raccomandazione di condurre lo screening su tutti i
pazienti dei centri sanitari locali. Nel 2001, circa l’84% della popolazione degli
Stati Uniti si è recata almeno una volta da un medico o al pronto soccorso o ha
ricevuto una visita domiciliare da parte di un medico40. Se fossero seguite le
raccomandazioni delle autorità politiche del momento di sottoporre a
screening tutti i pazienti dei centri sanitari locali almeno una volta in un
anno41, all’incirca ‘60 milioni di persone’ risulterebbero positive per il DDM o
un disturbo depressivo sottosoglia nell’arco di un solo anno! Inoltre, quanto
più spesso i pazienti sono sottoposti a screening per depressione, tanto più è
alta la probabilità che ricevano una falsa diagnosi di depressione basata su
sintomi normali passeggeri42. In effetti, sembra probabile che, ripetendo
continuamente lo screening, una grande parte della popolazione venga
considerata erroneamente colpita da disturbi depressivi in un momento o
nell’altro e forse curata per disturbi inesistenti.

7.3.2 | Il problema delle diagnosi falso-posi ve nello screening presso i centri sanitari locali
Ci sono buone ragioni per aspettarsi che molti pazienti dei medici di base
manifestino sintomi che soddisfano i criteri del DSM per il disturbo depressivo
ma che tuttavia non indicano veri disturbi depressivi maggiori o minori. Eventi
di vita stressanti, che possono produrre alti livelli di intensa tristezza normale,
precedono in molti casi l’ingresso nell’ambulatorio del medico di famiglia.
Benché le percentuali di richiesta d’aiuto presso gli specialisti di salute mentale
siano aumentate in misura esponenziale negli ultimi decenni, molte persone
considerano ancora i medici di base come la prima linea di difesa quando si
affacciano problemi nella loro vita43. Eventi gravi come un lutto, la rottura di
un matrimonio e la perdita del lavoro precedono l’insorgenza di sintomi con
molta maggiore probabilità fra i pazienti dei medici di famiglia che fra i
pazienti psichiatrici, suggerendo che è più facile trovare casi di normale
tristezza in setting medici che in setting psichiatrici44. E naturalmente, i
sintomi depressivi nascono spesso come reazioni allo stress di trovarsi in
cattive condizioni mediche. Poiché la tristezza normale presenta spesso gli
stessi sintomi dei disturbi depressivi, inclusi non solo sintomi come sentimento
depresso e perdita di interesse nel fare le cose, ma anche una varietà di fastidi
somatici come affaticamento e problemi di sonno e appetito, è probabile che
molte persone che hanno subìto di recente eventi stressanti consultino il
medico e soddisfino i criteri diagnostici del DSM per la Depressione Maggiore
pur non avendo la patologia. (Si noti che quando i sintomi derivano
direttamente da una condizione medica o da qualche sostanza, non si
dovrebbe diagnosticare né il DDM né la depressione minore; la diagnosi
appropriata sarebbe piuttosto di disturbo depressivo dovuto a condizione
medica generale o indotto da sostanze, una situazione che deve spingere il
medico a seguire procedure del tutto indipendenti dalle valutazioni dello
screening ma che lo screening dei sintomi depressivi potrebbe portare in
evidenza.)
Il problema non sono solo le diagnosi falso-positive che risultano dallo
screening su pazienti dei centri sanitari locali per il disturbo depressivo ma
anche i conseguenti processi decisionali sulla cura di quelli così diagnosticati.
Circa il 40% dei soggetti che passano per i centri sanitari locali vengono ora
valutati per la depressione e altri problemi comportamentali45. Nella pratica
medica quotidiana, meno di un quarto delle persone con diagnosi di disturbi
depressivi viene rimandata a cure specialistiche46. I medici di famiglia, che si
trovano molto più a loro agio con l’uso dei farmaci che con qualsiasi altra
modalità di trattamento della depressione*, curano personalmente la grande
maggioranza dei pazienti con diagnosi di disturbi depressivi47. Il risultato
tipico di una diagnosi di depressione è quindi con ogni probabilità una
prescrizione di farmaci antidepressivi. Di conseguenza, il numero dei soggetti
curati per depressione con farmaci psicotropi fu nel 1997 di 4,5 volte maggiore
che nel 198748. Molti di quelli cui sono prescritti i farmaci potrebbero non
avere disturbi depressivi ma trovarsi in un momento della vita in cui
affrontano sfide impegnative.
Si può naturalmente sostenere che le persone che denunciano una tristezza
normale, al pari di quelle che soffrono di disturbi depressivi, possono trarre
beneficio dalla cura e non esserne danneggiate. L’evidenza indica che i benefici
del trattamento superano quelli del placebo in persone con seri casi di
depressione. Ma in molti pazienti dei centri sanitari locali la tipologia della
diagnosi di depressione ricade nell’area di minore gravità, e in quest’area non è
dimostrato il vantaggio della cura rispetto ai placebo49. Wayne Katon, esperto
di screening della depressione di pazienti dei medici di base, sintetizza:
La ricerca fa pensare che la metà dei pazienti in cura presso ambulatori medici che
iniziano l’assunzione di antidepressivi ha una depressione minore. In questi pazienti, le
cure attive non si sono dimostrate più efficaci del placebo e i programmi di gestione della
malattia non si sono dimostrati più efficaci del trattamento consueto50.
In anni recenti, inoltre, quelli cui sono stati prescritti farmaci da medici
generici tendono ad avere meno contatti personali, con molti che non vedono
mai i loro medici o li vedono solo una o poche volte51. Così, i pazienti che
soffrono di tristezza normale e assumono farmaci vengono a mancare della
consulenza e sostegno che le loro condizioni spesso meriterebbero. In ogni
caso, la decisione di ricorrere ai farmaci dovrebbe essere presa dopo che si
sono comprese al meglio la natura e la prognosi della condizione e facendo le
scelte più ragionevoli per la cura in questione. La diagnosi di un disturbo
depressivo tendenzialmente fa chiudere rapidamente queste discussioni con il
ricorso ai farmaci come la principale risposta appropriata, mentre la tristezza
normale potrebbe richiedere risposte più flessibili per un trattamento
ottimale*.
Anche per i pazienti dei centri sanitari locali i cui sintomi depressivi sono
abbastanza gravi da soddisfare tutti i criteri del DSM, il fatto che non cerchino
attivamente la cura del loro stato depressivo va considerato attentamente. Gli
studi sull’efficacia della terapia usano generalmente soggetti che di propria
volontà cercano la cura, e l’atteggiamento dei pazienti verso di essa può
influenzarne l’efficacia. In particolare, i pazienti con atteggiamento negativo
verso gli antidepressivi hanno di fatto risultati peggiori nei programmi
d’intervento di quelli che non vengono curati affatto, inducendo a pensare che
le terapie farmacologiche efficaci richiedono pazienti motivati52. Nella pratica
concreta, una metà dei pazienti ha un simile atteggiamento negativo53. Se molti
pazienti in ambulatorio si sottopongono alla cura raccomandata dai medici, ma
non sono personalmente motivati a ricevere cura per una depressione che non
riconoscono di avere, la terapia può essere inefficace.
È possibile che curare la tristezza normale come fosse un disturbo
depressivo non solo sia disastroso ma abbia anche costi per i pazienti che
devono essere messi sulla bilancia a fronte degli eventuali benefici. Sottoporre
a screening e identificare casi di depressione altrimenti non riconosciuti può
minare il recupero normale, intensificando nel soggetto i sentimenti di stress e
smembrando i normali processi per farvi fronte e le reti di sostegno
informali54. Sentenziare che i risultati indicano che una persona ha un disturbo
depressivo può allarmarla e imprimerle uno stigma, soprattutto se essa stessa
non avverte i propri sentimenti come disturbi. Non sorprende perciò che
molte persone che risultano positive allo screening resistono alle terapie per
depressione55. Altri cominciano magari con l’assumere i farmaci ma poi
interrompono la cura dopo poco56. Questo ‘rifiuto’, benché certamente da
analizzare in alcuni casi, può essere compreso in altri casi dopo un’accurata
ricognizione delle condizioni derivanti da fattori stressanti della vita ordinaria e
può essere affrontato scegliendo una maniera alternativa.
Il movimento dello screening per la depressione negli ambulatori di medicina
di base rappresenta uno sforzo ben intenzionato di elaborare e diffondere
questionari psicologici che ci mettano in grado di impedire esiti
potenzialmente dannosi del disturbo depressivo non riconosciuto e non curato
nella popolazione generale. Nonostante i limiti e le preoccupazioni che
abbiamo qui segnalato, gli sforzi enormi investiti nell’elaborazione e diffusione
dei questionari di screening possono avere una resa sempre migliore a mano a
mano che gli strumenti d’indagine si affinano. In particolare, lo screening nei
centri sanitari locali potrà diventare più fruttuoso in futuro se nei questionari
saranno introdotti gli indicatori contestuali delle reazioni normali, in modo da
permettere una migliore individuazione dei probabili casi di patologia. A parte
il contesto, si può presumere che se i sintomi sono cronici, ricorrenti, o
insolitamente gravi, sia più probabile che la condizione derivi da un disturbo
depressivo. Concentrare per esempio le risorse sul prevenire la ricomparsa in
casi con molteplici episodi precedenti può essere un obiettivo politico più
efficace che sottoporre a screening per la depressione tutti i pazienti dei centri
sanitari locali57. In attesa che vengano elaborati migliori questionari di
screening e tenuto conto delle scarse risorse, è meglio dare la precedenza alla
cura dei casi di disturbo depressivo che si presentano da soli, piuttosto che
dedicarsi a programmi di screening di massa58. E, cosa molto importante,
quando i medici eseguono lo screening per depressione, contrariamente alla
raccomandazione corrente di prestare attenzione solo ai punteggi dei sintomi,
dovrebbero essere attenti anche al contesto in cui i sintomi riferiti si
manifestano e dovrebbero essere invitati a usare il loro comune senso
diagnostico e una politica di watchful waiting (vigile attesa), piuttosto che
attenersi ciecamente ai risultati basati sui criteri del DSM e prescrivere
automaticamente farmaci*.

7.4 | Screening per depressione in età adolescenziale

Le scuole sono un secondo obiettivo importante dello screening per il


disturbo depressivo. Gli adolescenti forniscono un punto di focalizzazione
particolarmente attraente per lo screening e per gli sforzi di prevenzione, in
quanto sembrano essere vittime in larga percentuale di disturbi depressivi, ed
essere allo tesso tempo raramente curati per le loro condizioni59. Il suicidio fra
gli adolescenti fornisce un altro motivo per lo screening per la depressione.
Circa 4000 bambini e adolescenti americani commettono suicidio ogni anno,
tanto da renderlo la terza principale causa di morte nella fascia di età fra i 15 e i
24 anni e la quarta in quella fra i 10 e 14 anni; oltre mezzo milione di
adolescenti tentano il suicidio con sufficiente serietà da richiedere attenzione
medica60. Inoltre, viene data una enorme pubblicità alle rare ma sconvolgenti
sparatorie messe in atto da adolescenti che in alcuni casi hanno avuto sintomi
di depressione, conferendo un’urgenza aggiuntiva alle campagne di screening
preventivo. E la convinzione che, in aggiunta a questi problemi immediati, il
disturbo depressivo adolescenziale non curato può persistere fin nell’età adulta
e diventare cronico è un’ulteriore spinta a procedere con gli screening61. Una
precoce individuazione e cura, si dice, sono in grado di bloccare la spirale
discendente di problemi che si aggravano sempre di più. Infine, tutti gli
adolescenti devono frequentare la scuola, e ogni uomo è un adolescente in una
certa fase della sua vita, per cui le scuole forniscono un’opportunità
immediatamente disponibile per effettuare uno screening sulla popolazione
che nel tempo coprirà praticamente tutti gli individui. Pertanto, è convinzione
comune che «per soddisfare le esigenze del massimo numero possibile di
adolescenti è di importanza suprema la prevenzione di tutto lo spettro dei
problemi depressivi che toccano gli adolescenti»62.
La preoccupazione per la depressione dei teenager in generale e per il
suicidio in particolare ha portato a importanti iniziative politiche. Il President’s
New Freedom Commission Report del 2003 raccomanda che ogni adolescente
del paese «abbia l’opportunità di uno screening per la salute mentale
appropriato, una valutazione e un eventuale rinvio a un medico specialista».
Già vari Stati hanno adottato misure tese a che «ogni ragazzo sia sottoposto a
screening per la malattia mentale una volta durante la giovinezza al fine di
individuare il disturbo mentale e prevenire il suicidio fra i giovani»63. Nel 2004
il presidente George W. Bush firmò una legge che metteva a disposizione 82
milioni di dollari per finanziare programmi di screening a partire dalla scuola di
sesto grado (prima media in Italia), con lo scopo di prevenire il suicidio fra i
giovani64.
Le nostre riserve su queste iniziative benintenzionate per aiutare gli
adolescenti sono simili a quelle che abbiamo sollevato a proposito degli
screening nei centri sanitari locali. Queste campagne tendono a ignorare la
distinzione fra le patologie e le condizioni che sono normali reazioni a effettive
perdite. Esse concentrano così le risorse cliniche su tanti soggetti che sono in
normali stati passeggeri e fanno scattare interventi che tendono a insistere sui
farmaci piuttosto che considerare i possibili problemi reali della vita di un
adolescente che potrebbero causare uno stress intenso*. Inoltre, i questionari
decontestualizzati che vengono usati per fare il prescreening ai giovani per il
disturbo depressivo o potenziale suicidio gettano una rete talmente ampia da
individuare molta parte della popolazione adolescente come potenzialmente a
rischio e bisognosa di ulteriore valutazione, confondendo le normali emozioni
con un possibile disturbo mentale. Lo screening diagnostico di secondo stadio
potrebbe eliminare molti di questi errori, ma applica i criteri sintomatici del
DSM a labili emozioni adolescenziali producendo anche qui possibili
identificazioni sostanzialmente falso-positive di disturbo depressivo e rischio di
suicidio. E al momento non abbiamo prove scientifiche che dimostrino
l’efficacia dello screening sui ragazzi.

7.4.1 | ‘Patologizzazione’ dello stress adolescenziale


La giustificazione principale per lo screening e le campagne preventive nelle
scuole sta nell’alta incidenza percepita della depressione fra gli adolescenti.
Una rassegna di 52 studi provenienti da oltre 20 Stati indica che circa il 20%
degli adolescenti ha disturbi depressivi secondo i criteri del DSM65. Gli studi
effettuati dopo il 1990 hanno mostrato percentuali di incidenza media anche
più alte, pari al 26% per alcuni disturbi depressivi. Alcuni ricercatori stimano
che fino a un terzo degli adolescenti vivono episodi di DDM intorno ai 20
anni66. Quasi la metà di un grande campione di adolescenti denuncia di avere
una diagnosi di depressione piena o sottosoglia67. Per la maggior parte dei
ricercatori, questi dati portano a un’ovvia conclusione: «È chiaro che la
depressione è un problema importante, pervasivo, e forse crescente fra i
giovani»68.
Tuttavia, come nei centri sanitari locali, data la natura degli screening e i
questionari usati per gli adolescenti, è molto più probabile che si scoprano casi
passeggeri e circoscritti di normale tristezza che non disturbi depressivi. I
questionari non indagano sul contesto in cui i sintomi nascono. Così, non
possono distinguere la patologia dallo stress normale che sorge da comuni
fattori stressanti adolescenziali, come una discussione con i genitori, tradimenti
percepiti da parte di amici, o il non essere scelti per un’attività, un club o una
squadra atletica cui si ambisce. Per esempio, molti adolescenti che hanno da
poco rotto con un ragazzo o una ragazza sicuramente non hanno disturbi
depressivi, eppure nel periodo di tempo successivo possono denunciare
sintomi sufficienti perché lo screening e i questionari diagnostici li contino
come sofferenti di disturbi depressivi69. In effetti, la natura potenzialmente
fuorviante della statistica sul disturbo depressivo adolescenziale è illustrata in
maniera eloquente dal fatto che la recente rottura di legami sentimentali risulta
in un grande campione nazionale il ‘più alto’ fattore predittivo di
depressione70.
A differenza dei casi tipici di patologia, i sintomi della depressione
adolescenziale sono estremamente instabili. Gli studi trovano comunemente
che la maggior parte di quelli che raggiungono alti punteggi in base alle loro
dichiarazioni cambiano punteggio se sottoposti a verifica subito dopo71. Solo
un terzo circa degli adolescenti rimane depresso dopo un mese72. La relativa
labilità emotiva degli adolescenti, che porta naturalmente a più alte percentuali
di emozioni negative passeggere rispetto ad altri gruppi, peggiora il problema
di usare misurazioni che non prendono in considerazione il contesto.
L’instabilità dei sintomi fra gli adolescenti rende più probabile che tali sintomi
siano risposte passeggere a circostanze di vita stressanti anziché il risultato di
disfunzioni psichiche.
La ricerca non conferma neanche l’affermazione secondo cui i sintomi
leggeri di un certo momento si aggraveranno probabilmente in periodi
successivi. La maggior parte degli adolescenti che all’inizio denunciano lievi
sintomi di depressione un anno dopo riferisce che i sintomi sono diventati
minimi o sono ancora lievi – cioè, che i loro sintomi sono diminuiti o rimasti
uguali; viceversa, la maggior parte degli adolescenti che all’inizio denunciano
sintomi gravi un anno dopo riferisce che i sintomi sono diminuiti e non sono
rimasti gravi73. Tuttavia, una minoranza di adolescenti con sintomi lievi dopo
un anno sarà peggiorata, e una minoranza con sintomi gravi sarà rimasta nella
stessa condizione. Possiamo ritenere che questa minoranza di casi includerà
tendenzialmente quelli davvero malati. Il punto focale della ricerca con
screening dovrebbe essere di sviluppare strategie più fruttuose per individuare
e predisporre interventi per questa minoranza.

7.4.2 | Il Columbia University TeenScreen


Una motivazione importante addotta a favore dello screening diffuso rivolto
agli adolescenti è di prevenire il suicidio, e di recente sono stati elaborati
questionari di screening pensati specificamente per scoprire l’inclinazione al
suicidio e il correlato disturbo mentale nei ragazzi. La President’s New
Freedom Commission cita il programma Columbia University TeenScreen
come modello, e ne incoraggia l’uso in tutte le scuole del paese. È perciò
opportuno che ci soffermiamo a esaminare un po’ più da vicino il TeenScreen
come esempio dell’attuale stato dell’arte nello screening sugli adolescenti.
Il programma TeenScreen ha elaborato due scale da usare nel prescreening
su adolescenti. Entrambe sono tratte dalle domande che compaiono su
un’indagine diagnostica di ragazzi, la DISC (Diagnostic Interview Schedule for
Children), ed entrambe richiedono l’utilizzazione della DISC come screening
diagnostico di secondo stadio per i soggetti risultati positivi nella valutazione
iniziale. Una, la DISC Predictive Scale (DPS), diagnostica otto disturbi mentali.
Rispetto alla diagnosi di depressione, è molto simile ai questionari di
prescreening che abbiamo considerato nel paragrafo precedente sui centri
sanitari locali. All’inizio, pone domande molto generali come «Nei passati sei
mesi, ci sono stati momenti in cui eri molto triste?», o «Nei passati sei mesi, c’è
stato un momento in cui non eri interessato a niente e ti sentivi stufo di tutto o
semplicemente rimanevi seduto per la maggior parte del tempo?»74. La risposta
«sì» a ognuna di queste domande porta a molte altre su sintomi specifici, come
se ad esempio c’era «un momento in cui niente era per te divertente, anche
cose che solitamente ti piacevano», o ti sentivi «tanto giù che era difficile per te
fare i compiti di scuola», o eri «di malumore o irritabile […] così che anche per
sciocchezze diventavi furibondo».
Benché progettata come un questionario di prescreening, la DPS ha finito
per essere vista come un possibile questionario diagnostico a sé stante. Il
direttore esecutivo del TeenScreen, Laurie Flynn, in una testimonianza davanti
a un comitato del Congresso, affermò: «Nel 2003, fummo in grado di fare lo
screening su circa 14.200 ragazzi […]; fra quegli studenti potemmo identificare
circa 3500 ragazzi con problemi di salute mentale e li associammo a una
cura»75. Qui Flynn equipara un risultato positivo al prescreening all’avere
«problemi di salute mentale», dando luogo a una percentuale di circa il 25% di
simili problemi fra una popolazione generale di studenti. Ma gli studi mostrano
che la DPS produce da quattro a cinque diagnosi falso-positive per ogni
diagnosi confermata dalla DISC. Inoltre, la stessa DISC non è altro che
un’applicazione a bambini e adolescenti dei criteri sintomatici di stampo DSM,
e abbiamo già rilevato la dubbia validità di questi criteri ‘confermativi’. Se la
DPS è usata a vasto raggio come questionario di prescreening o diagnostico, il
risultato è probabilmente una massiccia ‘patologizzazione’ della tristezza
normale o dello stress adolescenziale.
L’altro importante questionario del TeenScreen, il Columbia Suicide Screen
(CSS), un questionario di prescreening breve con undici voci (a volte con otto:
il numero varia a seconda della versione) autosomministrato dagli studenti, è
progettato per fare un prescreening per i fattori che specificamente aumentano
il rischio di suicidio, fra cui il disturbo depressivo. Per evitare che appaia
troppo evidente che il questionario riguardi il suicidio, le domande puntuali
sono inserite in un più ampio blocco di domande sulla salute e il questionario è
dissimulato sotto il titolo di Indagine sulla salute. Il CSS domanda se il soggetto
ha mai tentato il suicidio, ha pensato al suicidio nei tre mesi passati, o se sente
l’esigenza di parlare con uno specialista. Ogni studente che risponda «sì» a una
delle domande sul tentativo di suicidio, sull’aver pensato al suicidio, o sul
bisogno di aiuto, oppure a tre delle domande sui sintomi di depressione,
sull’ansia o sull’uso di sostanze è considerato «positivo» e viene rinviato agli
specialisti per ulteriore diagnosi ed eventuale cura.
Come se la cava il CSS nella realizzazione dell’obiettivo di identificare gli
studenti con un significativo rischio di suicidio? Se i numeri dicono qualcosa, la
risposta è «non molto bene». In un importante test del CSS condotto dai suoi
ideatori, il 28% degli studenti dal nono al dodicesimo grado (scuola media
superiore) è risultato positivo al prescreening per il rischio di suicidio, con una
percentuale che in una scuola si avvicinava alla metà degli studenti (44%)76. Il
17% degli studenti riferisce o di aver pensato al suicidio nei precedenti tre mesi
o di aver tentato il suicidio qualche volta in passato. Il fatto che quasi uno su
cinque adolescenti riferisca tentativi o propositi di suicidio e che oltre il 10%
riferisca di aver pensato al suicidio solo nei tre mesi precedenti o è davvero
allarmante o, più probabilmente, indica che le domande non stabiliscono
quello vorrebbero stabilire e toccano invece pensieri e sentimenti di cui molti
adolescenti non veramente a rischio sono preda in qualche occasione.
Un altro problema sia per il CSS sia per il DISC è l’affidabilità
sorprendentemente bassa delle risposte alle domande di rilievo del DISC.
Quando le stesse domande sul rischio di suicidio vengono poste a otto giorni
di distanza, solo la metà circa degli studenti che avevano dato risposte positive
la prima volta dà un punteggio positivo appena una settimana dopo! Con
risposte così straordinariamente instabili sui propositi di suicidio al
questionario TeenScreen, anche gli ideatori del TeenScreen ammettono che:
«La scarsa affidabilità del test ripetuto è forse dovuta alla natura effimera del
proposito di suicidio e dei sentimenti depressivi fra i ragazzi»77. La bassa
affidabilità significa che non possiamo essere sicuri su quanto seriamente
dobbiamo prendere i risultati del CSS o del DISC conseguente. E abbiamo
visto che i criteri decontestualizzati di stampo DSM del DISC, soprattutto
quando applicati a ragazzi emotivamente reattivi e labili, sono di dubbia
validità nello scovare le patologie fra quelli che sono momentaneamente
stressati per varie ragioni normali. Anche se il DISC riduce la percentuale delle
diagnosi positive al 4% della popolazione studentesca, è impossibile avere la
sicurezza che quel 4% di ragazzi sia realmente a rischio o malato. Un modo per
controllare la validità del DISC è di confrontarne i risultati con le diagnosi dei
clinici. Purtroppo, nonostante le stesse diagnosi cliniche siano generalmente
basate sui criteri del DSM, gli studi indicano livelli estremamente bassi di
accordo fra il DISC e le diagnosi cliniche, erodendo ulteriormente la fiducia
nella validità anche della procedura del TeenScreen a due stadi78.
I ricercatori del TeenScreen, consapevoli di molti di questi problemi,
insinuano a un certo punto che forse anche l’enorme numero di falsi positivi
generati dal CSS senza la verifica del DISC non è in fin dei conti un male: «È
importante non perdere di vista il fatto che molti di questi casi cosiddetti falsi
positivi stanno magari vivendo penosi sintomi depressivi con compromissione
sociale e scolastica e forse possono trarre beneficio dalla cura»79. Questo brano
vorrebbe far credere che anche se il CSS fosse usato come screening sul
suicidio a sé stante, senza un secondo stadio DISC, i ragazzi senza patologie
potrebbero tuttavia trarre beneficio dalla cura, e lo stesso argomento potrebbe
essere applicato ai falsi positivi del DISC. Ma la cura dei falsi positivi potrebbe
non essere così innocua.
Ricordiamo che lo scopo dei programmi di screening, ora promulgati dalla
legge, è di valutare «ogni ragazzo d’America» per la depressione e il rischio di
suicidio80. Una volta che il TeenScreen individua i casi di presunta depressione
e di presunte tendenze al suicidio, il più comune passo successivo è di curare
con i farmaci antidepressivi, e questo sembra essere l’obiettivo del TeenScreen:
«Perché i farmaci antidepressivi possano essere usati in maniera efficace, i casi
di depressione devono essere individuati, aumentando l’importanza degli
screening del tipo qui descritto»81. Benché molti giovani normali ma inquieti
possano trarre beneficio da un colloquio con uno psicologo, l’idea di curare
adolescenti non malati in gran numero con antidepressivi per normali reazioni
probabilmente passeggere alle situazioni di vita, che possono essere affrontate
in altro modo, solleva questioni e preoccupazioni particolari. Ci sono dubbi
reali che gli antidepressivi funzionino davvero nei ragazzi82. Quasi tutti gli
studi sull’argomento non mostrano un maggiore beneficio dei farmaci
antidepressivi rispetto al placebo83. Gli studi dai quali risulta che i farmaci
portano beneficio agli adolescenti depressi sono limitati a campioni di
volontari con diagnosi di DDM stabili nel tempo. E anche qui le differenze fra
i gruppi trattati con farmaci e quelli trattati con placebo tendono a essere
minime84. Inoltre, come abbiamo visto a proposito dello screening nei centri
sanitari locali, le popolazioni che risultano positive allo screening possono
essere diverse dalle popolazioni arrivate alle strutture cliniche di propria
iniziativa, e possono reagire in maniera diversa alle cure. In effetti, la U.S.
Preventive Services Task Force non raccomanda lo screening su ragazzi e
adolescenti per la depressione o il suicidio85.
Cominciano anche a emergere prove che il pericolo delle cure
farmacologiche può essere maggiore fra i ragazzi che fra gli adulti86. Benché le
sperimentazioni cliniche dei farmaci non abbiano finora riferito alcun caso
reale di suicidio, esse sembrano tuttavia indicare più alte percentuali di
propositi di suicidio e altri eventi negativi fra i gruppi che assumono
antidepressivi rispetto a quelli trattati con placebo87. In alcuni casi, come nelle
sparatorie a scuola, a volte utilizzate per insistere sulla necessità degli
screening, i loro autori stavano già usando SSRI che, almeno secondo alcuni
esperti, potrebbero persino aver contribuito a suscitare stimoli assassini nella
mente di quei particolari ragazzi88. Se milioni di adolescenti sono stati
diagnosticati come depressi e poi curati con farmaci, l’eventualità che un certo
numero di ragazzi concepisca nuovamente pensieri suicidari non dovrebbe
avere conseguenze, in quanto quei pensieri suicidari dovrebbero essere
efficacemente controllati dai medicinali*. L’allarme generato da queste
scoperte ha portato le agenzie legislative della Gran Bretagna ad ammonire i
medici a non prescrivere la maggior parte dei farmaci antidepressivi a soggetti
con meno di 18 anni. Così, pure negli Stati Uniti la FDA esige ora su ogni
flacone di pillole avvertenze sui possibili effetti negativi degli antidepressivi sui
giovani. Tutta la questione rimane molto controversa, ma la possibilità di un
grosso aumento del numero di ragazzi che assumono simili farmaci a causa di
screening non validi fa crescere queste preoccupazioni a oltranza. Come
minimo, la dubbia o minima efficacia degli antidepressivi per ragazzi e
adolescenti, e insieme i possibili effetti di questi farmaci su avvenimenti
sempre più negativi e gli effetti ancora ignoti dell’imporre cure farmaceutiche
di lungo termine a grandi numeri di ragazzi ancora in fase di sviluppo che
potrebbero non essere malati, sono ragioni per perseguire programmi di
screening prudenti piuttosto che a tappeto fino a che non siano disponibili
maggiori informazioni. Queste considerazioni suggeriscono prudenza anche
nel raccomandare cure giustificate proprio in forza di quei programmi.
Quanto al nostro tema centrale di un eccesso di diagnosi di disturbo
depressivo, chiunque denunci qualche sintomo depressivo sul CSS, anche
senza tenere comportamenti o pensieri suicidari, è rinviato al DISC. In effetti,
il CSS è un modo, motivato dal desiderio impellente di prevenire i suicidi, di
valutare per il disturbo depressivo grandi numeri di ragazzi con i connessi
problemi dei falsi positivi che abbiamo identificato. Ma a differenza che nella
ricerca epidemiologica, un ‘falso positivo’ del TeenScreen non è semplicemente
teoretico o statistico. Il risultato è l’identificazione di una specifica giovane
persona come sofferente di una malattia mentale importante e forse come
versante in pericolo di un ulteriore aggravamento o di suicidio. Questo a sua
volta può indurre a riconcepire la natura di quei giovani da parte di loro stessi,
dei loro genitori e degli operatori scolastici: può mettere in allarme i genitori e
il personale scolastico sul presunto disturbo del soggetto; e forse può portare
(se il trattamento non viene rifiutato) a curare il soggetto con farmaci o
psicoterapia*, che hanno un impatto sconosciuto su un giovane in normale
fase di sviluppo.
Come ci ricordano le sensazionali vicende raccontate dai notiziari, c’è una
piccolissima ma reale possibilità che il disturbo mentale non scoperto in un
figlio o in compagni di classe porti a esiti terribili come un suicidio o
omicidio*. Il desiderio di fare qualcosa per mettere al sicuro i nostri figli da
simili minacce è comprensibile. Il problema è che non esiste ancora la scienza
che ci permetta di prevedere le tragedie e di intervenire in maniera consapevole
per evitarle. Inoltre, i programmi di screening che vengono difesi con
l’assicurazione che i risultati saranno accuratamente vagliati clinicamente per
eliminare i falsi positivi tendono con il tempo a essere reinterpretati come
conclusivi strumenti diagnostici e usati da soli come base per avviare le cure.
Ma nessuno dei questionari al momento disponibili per valutare i giovani
prende in considerazione il contesto dei sentimenti di stress. In questo modo
nessuno può distinguere fra la normale emotività adolescenziale e il disturbo
mentale*. Il risultato è la potenzialità di una profonda intrusione nella vita
emotiva dei nostri figli usando un’etichettatura diagnostica di dubbia validità.

7.5 | Conclusione

Lo screening di routine per la depressione nella popolazione comune in


luoghi come le scuole e gli studi medici è visto ora come un importante
obiettivo politico e quasi un bene assoluto. Poiché queste iniziative possono
influenzare la vita di milioni di persone, è importante considerarne i possibili
costi ed esaminare criticamente i presupposti che sono alla loro base. I
programmi di screening hanno ripetuto l’errore fatto nell’epidemiologia di non
riconsiderare seriamente la loro validità nel momento in cui hanno trasferito i
criteri del DSM al nuovo contesto dello screening di comunità. Essi
monitorano le sfumature delle mutanti reazioni emotive in noi e nei nostri figli
in risposta alle vicissitudini della vita ed etichettano molte delle reazioni come
patologiche senza adeguata considerazione dei contesti. Quando questi
programmi diventano parte della nostra vita, possono influenzare il modo in
cui noi vediamo noi stessi e gli altri e offrono una nuova forma di penetrazione
della società nelle nostre emozioni private. Questa forma d’influenza è difficile
da quantificare ma è reale. L’effetto ultimo potrebbe essere di ricostruire la
nostra visione della normalità dei sentimenti stressanti e di ampliare il potere
della psichiatria di monitorare, classificare e forse controllare le nostre
emozioni, per prevenire una compromissione del ruolo anche in maniera
passeggera.
Le iniziative di screening possono essere utili o possono anche non esserlo:
al momento non lo sappiamo. È interessante notare che per ora non esiste uno
studio scientifico controllato che mostri che questi programmi di screening e
cura di massa hanno migliorato gli esiti complessivi del disturbo depressivo o
del suicidio. Né esistono prove che i benefici portati da questi programmi
superino in peso i costi delle diagnosi inappropriate e delle cure da esse
promosse. Questo, in particolare, dovrebbe far suonare il campanello d’allarme
quando si tratta dello screening sui ragazzi.
Se guardiamo alle analogie storiche, questa nuova sorveglianza sulla tristezza
può essere paragonata per portata, penetrazione nella nostra vita intima e
incoraggiamento alla ipervigilanza specialistica e familiare sulla vita quotidiana,
alla molto discussa sorveglianza e ‘patologizzazione’ medica della
masturbazione dell’infanzia che caratterizzarono la sessuofobia dell’era
vittoriana. Esattamente come quello sbagliato controllo sessuale stravolse lo
sviluppo sessuale naturale dei ragazzi, anche quando pretendeva di prevenire o
curare il disturbo, le attuali campagne per individuare la depressione, benché
servano a volte a scoprire la presenza di una vera patologia, possono
stravolgere le reazioni all’esperienza naturale della tristezza in soggetti normali
e annientare alcuni tratti costruttivi della tristezza fisiologica.
La sfida nei ben mirati sforzi di prevenzione attraverso lo screening è di
creare questionari che siano sufficientemente attenti al contesto da renderli
capaci di distinguere chi è veramente malato da chi manifesta normali reazioni
allo stress, all’interno della popolazione di individui che non si sottopone
spontaneamente alle cure. Gli sforzi della politica dovrebbero promuovere
progetti pilota per mettere a punto scale che siano sensibili al contesto e alla
durata dei sintomi e che distinguano i disturbi depressivi dalla tristezza
normale, identificando così meglio i soggetti che hanno davvero bisogno
dell’aiuto degli specialisti.

Note
1 | Santora e Carey, 2005; Spitzer, Kroenke, e Williams, 1999.↵
2 | New Freedom Commission on Mental Health, 2003.↵
3 | Kessler, Merikangas, et al. , 2003.↵
4 | U.S. Department of Health and Human Services (USDHHS), 1999.↵
5 | Katon e Von Korff, 1990; Katon et al. , 1997.↵
6 | Donohue, Berndt, Rosenthal, Epstein, e Frank, 2004.↵
7 | Pescosolido et al. , 2000.↵
8 | Burnam e Wells, 1990.↵
9 | Ibidem.↵
10 | Mulrow et al. , 1995.↵
11 | Henkel et al. , 2004.↵
12 | Hough, Landsverk, e Jacobson, 1990.↵
13 | Henkel et al. , 2004.↵
14 | Health United States, 2003.↵
15 | Katon et al. , 1997.↵
16 | Wells et al. , 1989; Katon et al. , 1997.↵
17 | Kessler, Merikangas, et al. , 2003.↵
18 | Wells, Schoenbaum, Unutzer, Lagomasino, e Rubenstein, 1999; Katon e Schulberg, 1992; Wang et
al. , 2005.↵
19 | Hirschfeld et al. , 1997.↵
20 | Schulberg et al. , 1985; Katon et al. , 1997; Lowe, Spitzer, Grafe , Kroenke, Quenter, Zipfel, et al. ,
2004; Schwenk, Klinkman, e Coyne, 1998; Wells et al. , 1989.↵
21 | Hirschfeld et al. , 1997; Wells et al. , 1999; Kessler et al. , 2003.↵
22 | Katon et al. , 1997.↵
23 | Cleary, 1990; Spitzer et al. , 1999.↵
24 | Regier et al. , 1988.↵
25 | Attkinson e Zich, 1990.↵
26 | Schulberg, 1990, p. 276.↵
27 | Schulberg et al. , 1985; Hough et al. , 1990; Cleary, 1990.↵
28 | Attkinson e Zich, 1990.↵
29 | Hough et al. , 1990, p. 151.↵
30 | Per es. Tufts Health Plan, 2005; U.S. Preventive Services Task Force, 2002.↵
31 | Sartoriurs, 1997.↵
32 | U.S. Preventive Services Task Force, 2002.↵
33 | World Health Organization (WHO), 1998; Henkel et al. , 2003.↵
34 | Wells et al. , 1989; Whooley, Avins, Miranda, e Browner, 1997; Henkel et al. , 2004.↵
35 | Coyne, Fechner-Bates, e Schwenk, 1994.↵
36 | Rost et al. , 2000.↵
37 | Spitzer et al. , 1994.↵
38 | Ibidem.↵
39 | Spitzer et al. , 1999; Kroenke, Spitzer, e Williams, 2001.↵
40 | Health United States, 2003, p. 235, tavola 70.↵
41 | Spitzer et al. , 1999.↵
42 | Russell, 1994.↵
43 | Callahane Berrios, 2005.↵
44 | Schwenk, Coyne, e Fechner-Bates, 1996.↵
45 | Edlund, Unutzer, e Wells, 2004.↵
46 | Ibidem.↵
47 | Williams et al. , 1999.↵
48 | Olfson, Marcus, Druss, Elinson, et al. , 2002.↵
49 | Coyne et al. , 2000; Moncrieff, Wessely, e Hardy, 2004.↵
50 | Katon, Unutzer, e Simon, 2004, p. 1154.↵
51 | Olfson, Marcus, Druss, Elinson, Tanielian, e Pincus, 2002.↵
52 | Rost et al. , 2001.↵
53 | Pyne et al. , 2004.↵
54 | Coyne et al. , 2000.↵
55 | Katon et al. , 2001; Rost, Nutting, Smith, Werner, e Duan, 2001; Pyne et al. , 2004.↵
56 | Katon et al. , 2004.↵
57 | Katon et al. , 1997; Coyne et al. , 2000.↵
58 | Coyne, Klinkman, Gallo, e Schwenk, 1997.↵
59 | Lewinsohn, Rohde, Seeley, Klein, e Gotlib, 2000.↵
60 | Shugart e Lopez, 2002.↵
61 | New Freedom Commission on Mental Health, 2003.↵
62 | Petersen et al. , 1993, p. 162.↵
63 | New Freedom Commission on Mental Health, 2003.↵
64 | Pringle, 2005.↵
65 | Roberts, Attkinson, e Rosenblatt, 1998.↵
66 | Lewinsohn, Hops, Roberts, Seeley, e Andrews, 1993.↵
67 | Lewinsohn, Shankman, Gau, e Klein, 2004.↵
68 | Petersen et al. , 1933, p. 164.↵
69 | Larson, Clore, e Wood, 1999; Monroe, Rohde, Seeley, e Lewinsohn, 1999.↵
70 | Joyner e Udry, 2000.↵
71 | Coyne, 1994, p. 34.↵
72 | Roberts et al. , 1990.↵
73 | Rushton, Forcier, e Schectman, 2002.↵
74 | Lucas et al. , 2001, p. 448.↵
75 | Pringle, 2005.↵
76 | Shaffer et al. , 2004.↵
77 | Ivi, p. 77.↵
78 | Jensen e Weisz, 2002; Lewczyk et al. , 2003.↵
79 | Shaffer et al. , 2004, p. 77.↵
80 | Columbia University TeenScreen Program, 2003.↵
81 | Shaffer et al. , 2004, p. 78.↵
82 | Fisher e Fisher, 1996; Vitiello e Swedo, 2004.↵
83 | Ambrosini, 2000.↵
84 | Treatment for Adolescents with Depression Study Team, 2004.↵
85 | U.S. Preventive Services Task Force, 2002.↵
86 | Healy, 2004.↵
87 | Keller et al. , 2001; Vitiello e Swedo, 2004; Whittington et al. , 2004; Treatment for Adolescents
with Depression Study Team, 2004.↵
88 | Davey e Harris, 2005.↵
* Si noti come il discorso psicoterapeutico venga messo in secondo piano, poiché si preferisce un
intervento farmacologico, più semplice e immediato, in un certo senso comodo per il curante, a fronte
di un intervento psicologico che richiede un approfondimento e che nell’immaginario dei medici di
famiglia purtroppo viene troppo spesso considerato a priori inutile. Considerando i dati riportati, per
cui solo un quarto dei disturbi viene trattato da specialisti e il resto è appannaggio dei medici di
famiglia, andrebbe pensato e applicato un intervento culturale di tipo formativo con la medicina di
base, oltre che con gli psichiatri. Inoltre, anche alla luce di un’alterazione neurobiologica che, come
vedremo anche nel Capitolo 8, non sembra emergere nel DDM se non in forma analoga a quella di un
soggetto normale triste, l’intervento psicoterapeutico stesso andrebbe studiato e concepito con il fine
della cura e non soltanto del sostegno. In Italia, dagli anni Settanta, esiste un nuovo approccio, che
trova la sua base teorica nella teoria della nascita di Massimo Fagioli, la quale impone, alla stessa
stregua della medicina del corpo, il ripristino della realtà mentale fisiologica. Fagioli parla letteralmente
di ricreazione della mente della nascita, da lui non giudicata patologica, diversamente dalla
impostazione psicoterapeutica psicodinamica classica, ancora oggi attuale. Questo metodo terapeutico
presenta una novità storica nella «cura per la guarigione», teorizzata come realizzabile e stabilita come
target. Cfr. M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza (1972), L’Asino d’oro edizioni, Roma 2010. [NdC]↵
* Notiamo che se da un lato il trattamento psicoterapeutico non viene contemplato nella depressione,
dall’altro non si esclude il ricorso ai farmaci nella tristezza normale. Secondo Herzberg il trattamento
della tristezza normale sarebbe iniziato nella cultura americana sin dagli anni Sessanta, attraverso
l’utilizzo di sostanze psicotrope, con l’idea che per realizzare sé stessi in situazioni affettive o lavorative
è necessario un principio attivo farmacologico, come se vi fosse una carenza originaria che può essere
colmata grazie alle droghe, successivamente sostituite dalle scoperte della neurochimica moderna, che
avrebbe permesso l’utilizzo di sostanze legali. In altre parole, la cultura degli anni Sessanta avrebbe
portato alla cultura del farmaco come soluzione a ogni problema, incluse le normali situazioni
quotidiane. In effetti, ancora oggi sono presenti pubblicità televisive, radiofoniche o via web, che
inducono ad assumere un farmaco di fronte a ‘sintomi’ come tristezza e demoralizzazione. Esse
spingono, persino esplicitamente, anche i giovani, ad assumere farmaci, non soltanto medicalizzando
situazioni normali, ma proponendo inoltre la facile soluzione della pillola di fronte a un problema
personale da risolvere, svalutando e svuotando di senso ogni situazione affettiva problematica. Ciò
comporta delle gravi conseguenze formative ed educative che incidono non poco sulla qualità della
società in cui viviamo e sui giovani che ne fanno parte. Cfr. D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino
d’oro edizioni, Roma 2014. [NdC]↵
* Oltre che sullo screening, per la diagnosi di una patologia in atto va sottolineato che l’attenzione va
posta anche sulla diagnosi all’esordio, poiché, come riportato dagli autori, un intervento precoce
aumenta le probabilità di efficacia. Inoltre, altrettanta importanza andrebbe data all’intervento
terapeutico costituito non soltanto dal farmaco, che spesso potrebbe rappresentare una terapia di
seconda scelta rispetto a una psicoterapia finalizzata alla cura. Cfr. anche supra, nota a p. 225. [NdC]↵
* Da non sottovalutare l’importanza che può avere il lavoro di informazione, di intervento culturale,
oltre che di tipo psicologico, nelle scuole, che prevedono un contatto diretto tra operatori specialisti e
la popolazione giovanile delle scuole medie inferiori e superiori, di tutte le aree socio-economiche.
[NdC]↵
* Questo discorso ha contenuti fondamentali per la critica della prassi psichiatrica attuale, dove i
farmaci vengono usati non solo senza beneficio ma in modo dannoso. Si sottolinea che il colloquio
psicologico viene poco o per nulla considerato nelle misure d’intervento.[NdC]↵
* Pur riconoscendo l’influenza di una psicoterapia sullo sviluppo di un giovane, va sottolineato come
un principio neurochimico presenti un’interferenza inevitabile a livello organico sul neurosviluppo.
L’impatto di una relazione, invece, con caratteristiche quali affettività, comprensione e interesse da
parte di un altro essere umano, a nostro parere, non può essere concepito in modo analogo, né avere lo
stesso genere di effetto neurobiologico che, inoltre, nel caso del farmaco non consente alcuna attività
di elaborazione soggettiva da parte del giovane: la sostanza viene lasciata agire sui propri circuiti
neuronali senza che vi sia alcuna elaborazione o partecipazione emotiva. Mentre la situazione di
rapporto caratteristica della psicoterapia mette il giovane in una situazione naturale, di tipo sociale e
relazionale, il setting farmacologico mette il giovane che presenta un disturbo affettivo in una
posizione passiva e di solitudine, non naturale alla nostra specie e già spesso caratteristica del disturbo
depressivo stesso, con un ulteriore impatto psicologico negativo, aggiuntivo a quello fisiologico del
farmaco, che quindi ci sembra risultare comunque più dannoso rispetto a eventuali conseguenze
negative indotte dalla sola terapia psicologica. [NdC]↵
* Si sottolinea l’importanza di differenziare un omicidio-suicidio da un omicidio, poiché mentre il
primo è tipico di un DDM con psicosi, il secondo non è caratteristico di un DDM, bensì
patognomonico di una patologia psicotica conclamata con percezione delirante, come ad esempio una
grave forma di schizofrenia paranoide. Quest’ultima diagnosi oggi troppo spesso non viene
menzionata nei fatti di cronaca ed è sostituita dalla diagnosi di depressione, errore che implica una
grave mancanza da parte della cultura psichiatrica mediatica, con effetti disastrosi sull’opinione
pubblica e sulla cultura psichiatrica e non psichiatrica. [NdC]↵
* Va sottolineata una differenza tra la crisi adolescenziale naturale e una crisi patologica che non viene
abitualmente individuata. Tenendone conto, un intervento di screening verrebbe impostato in modo
adeguato, così come un intervento terapeutico. Questa distinzione che comporta una riduzione dei falsi
negativi e un trattamento soltanto della crisi patologica, potrebbe essere meglio compresa attraverso lo
studio della teoria della nascita. Quest’ultima vede nell’adolescenza l’emergenza delle realtà mentali non
coscienti della nascita e del primo anno di vita, senza che questo rappresenti un evento patologico;
bensì si tratta di un cambiamento di rapporto con il mondo, non degli oggetti e della natura, ma
umano, in particolare con l’essere umano diverso da sé. Se emergono realtà ma late, vuol dire che il
soggetto dopo la nascita deve aver perduto le sue caratteristiche mentali naturali e può e deve essere
curato. Cfr. F. Fagioli, Lo sviluppo psicologico del bambino e dell’adolescente. Sanità e malattia, in “Il sogno della
farfalla”, 2, 2006, pp. 25-32. [NdC]↵
Capitolo 8 | Il DSM e la ricerca biologica sulla
depressione

La ricerca sulle cause biologiche del disturbo depressivo, cioè sulle sue radici
in fattori neurochimici, recettori, geni, e nella struttura e funzione del cervello,
è per noi ricca di grandi promesse per il contributo che può dare a farci capire
sempre meglio il comportamento, e a portarci a cure nuove e più efficaci. Fra
gli studi portati avanti all’interno di questa ricerca ci sono, per esempio, quelli
che usano la risonanza magnetica (MRI) per esplorare l’attività del cervello nei
pazienti depressi, l’esame dei neurotrasmettitori e del loro ruolo nella
depressione (confortato dal successo dei medicinali nell’influenzare il livello
dei neurotrasmettitori) e l’indagine sulle influenze genetiche sul disturbo
depressivo.
Più o meno nello stesso periodo della pubblicazione del DSM-III nel 1980,
cominciarono a prevalere nella teoria e nella pratica psichiatrica modelli di
depressione fondati sulla biologia, e cominciò a calare l’influenza dei modelli
psicosociali1. Oltretutto, alcune delle figure di punta che avevano collaborato al
DSM erano illustri psichiatri di orientamento biologistico. È difficile quindi
sfuggire alla tentazione di vedere il primo e i secondi come concettualmente
legati. Ma, come abbiamo visto, la definizione del disturbo depressivo data dal
DSM non voleva in realtà implicare alcuna causa particolare della depressione.
Voleva invece essere neutrale sul piano teoretico e compatibile con cause
sociali e psicologiche, e anche biologiche, dei sintomi.
Ciononostante, i criteri del DSM hanno avuto un ruolo importantissimo
negli studi sulla biologia della depressione. La presenza di criteri su cui tutti
sono d’accordo, teoreticamente neutrali, che possono costituire una base per la
comunicazione fra i ricercatori, è stata sicuramente benefica per la ricerca
biologica, come per tutta la ricerca psichiatrica. Ma sull’altra colonna del
registro, dobbiamo rilevare che la fusione della tristezza normale con il
disturbo depressivo nei criteri del DSM ha ostacolato la ricerca biologica e ha
creato una confusione che può indurre i ricercatori a trarre conclusioni
fuorvianti dai loro dati*.
Il problema di fondo è semplicemente che i processi biologici sono alla base
di tratti umani sia non patologici sia patologici. Non c’è dubbio che le reazioni
di tristezza patologica sono spesso dovute a sottostanti disfunzioni biologiche.
Ma gli stessi sintomi di tristezza sono presenti tanto negli stati normali quanto
in quelli patologici. I processi biologici specifici della patologia devono essere
distinti dai processi biologici che sono alla base della tristezza normale. Gli
studi, per esempio, mostrano che molte emozioni e atteggiamenti normali,
come l’introversione, la religiosità, e persino gli orientamenti politici, hanno
una componente genetica2. Le influenze genetiche spiegano anche, in qualche
misura, perché le persone provano dolore per natura quando muore una
persona cara3. Il fatto che ci sia una base genetica del dolore non vuol dire che
il dolore sia una patologia, ma piuttosto che il lutto è biologicamente fondato
in processi genetici normali, non difettosi*. La ricerca che rivela una
correlazione biologica o genetica con una condizione di tristezza non dice
niente dunque, di per sé, sul fatto che quella condizione sia o no una
‘patologia’.
Così pure, le scansioni cerebrali usate negli studi che inducono stati di
tristezza in soggetti di sperimentazione normali evidenziano cambiamenti
biologici paragonabili a quelli che si riscontrano nelle persone con disturbi
depressivi4. Così l’MRI di un soggetto normale che ha subìto una grave perdita
assomiglia all’MRI di un soggetto con disturbo depressivo, molto
probabilmente perché le loro esperienze soggettive sono simili5. Lo schema
dell’attività del cervello associata con i sintomi, di conseguenza, non può essere
usato come base per inferire l’esistenza di una patologia, a meno che non si
consideri il contesto delle immagini cerebrali. La stessa osservazione vale
anche per gli studi sui livelli dei neurotrasmettitori: in periodi di intensa
tristezza possono verificarsi cambiamenti nei livelli dei neurotrasmettitori
come quelli che si riscontrano nel disturbo depressivo, e alcuni processi
sottostanti più complessi, che coinvolgono neurotrasmettitori che non
rispondono in maniera appropriata alle circostanze ambientali, possono essere
presenti nei disturbi*. Se gli scienziati guardano solo alla correlazione fra
marcatori biologici e criteri del DSM senza prendere in considerazione il
contesto in cui quei cambiamenti si verificano, possono erroneamente
concludere che un marcatore indichi una patologia anziché un qualche
fenomeno comune sia a essa che alla tristezza normale*.
Questo capitolo esaminerà alcuni dei modi più comuni in cui la psichiatria
biologica ha cercato di mostrare come la depressione sia fondata in anomalie
del funzionamento del cervello. Fra questi ci sono gli studi sui gemelli e i figli
adottati, sui guasti neurochimici o sui difetti genetici, e sulle lesioni
anatomiche. Noi siamo dell’avviso che una corretta distinzione, basata sul
contesto, fra la tristezza normale e il disturbo depressivo porterebbe vantaggio
a ognuno di questi ambiti di ricerca.

8.1 | Studi sui gemelli e i figli ado a

Per la maggior parte del XX secolo, la ricerca biologica si concentrò


sull’impiego di studi sui gemelli e i figli adottati nel tentativo di dimostrare la
base genetica della depressione. L’obiettivo centrale di questi studi era di
separare l’impatto dei fattori genetici da quelli ambientali nella malattia. Gli
studi sui gemelli sfruttano il fatto che esistono due tipi di gemelli, che hanno
gradi di somiglianza genetica noti, ma diversi fra loro. I gemelli dizigoti (DZ),
come i fratelli germani, condividono il 50% dei loro geni, mentre i gemelli
monozigoti (MZ) sono geneticamente identici. Entrambi i tipi di gemelli
condividono presumibilmente lo stesso ambiente familiare. Se i fattori genetici
influenzano la depressione, i gemelli MZ dovrebbero avere una percentuale di
concordanza doppia rispetto ai gemelli DZ. Viceversa, se a predominare sono i
fattori ambientali, i due tipi di gemelli dovrebbero presentare livelli di
depressione paragonabili.
La logica degli studi sui figli adottati deriva dal fatto che i genitori che
trasmettono i geni ai loro figli non sono i genitori che allevano questi bambini.
Sicché, se si riscontrano alte percentuali di depressione fra bambini nati da
madri depresse ma allevati da genitori adottivi non depressi, si può dedurre
che la depressione ha una componente genetica. Se viceversa le percentuali di
depressione nei figli adottati sono più vicine a quelle dei loro genitori adottivi
che a quelle dei loro genitori naturali, si può dedurre che i fattori ambientali
hanno un’influenza più forte di quelli genetici.
L’ampia letteratura sugli studi sui gemelli e i figli adottati fornisce conclusioni
ambigue in merito all’apporto genetico alla depressione. Alcuni studi sui
gemelli mostrano forti influenze genetiche e deboli influenze ambientali, altri
mostrano il contrario, e molti mostrano solo una concordanza leggermente più
alta fra i gemelli MZ che fra quelli DZ6. Così pure, alcuni studi sui figli adottati
indicano una concordanza più alta nelle percentuali di depressione tra i figli
adottati e i loro genitori naturali che tra quei figli e i loro genitori adottivi7,
mentre altri indicano l’esatto contrario8. Nel complesso, comunque, appare
ragionevole concludere che l’ereditarietà del disturbo depressivo si muove
entro una forbice del 30-40% circa9.
Anche se fosse possibile trarre conclusioni definitive da questi studi, non
sapremmo ancora se ciò che è trasmesso dalla genetica o dall’ambiente sia
disturbo depressivo o tristezza normale. Non c’è prova che il disturbo
depressivo abbia una maggiore probabilità di trasmettersi ereditariamente della
tendenza a rattristarsi. In realtà, sembra che le persone ereditino la
predisposizione a collocarsi sulla fascia alta o bassa della distribuzione delle
risposte di tristezza o ad avere il disturbo depressivo più o meno nella stessa
misura. Gli studi sui gemelli indicano che i tratti della personalità correlati con
la tristezza, come l’introversione, hanno un grado di ereditarietà di circa il 40-
50%, del tutto simile a quello del disturbo depressivo10. Perciò, dimostrare che
un certo tratto ha un’alta probabilità di essere ereditato non ci dice se quel
tratto sia un disturbo o una caratteristica della personalità normalmente
distribuita. Perché i ricercatori possano concludere legittimamente che le loro
scoperte biologiche riflettono la base genetica delle condizioni che sono
‘patologie’, devono ‘prima’ utilizzare una definizione che separi adeguatamente
nei gruppi oggetto della loro ricerca quelli che hanno un disturbo depressivo e
quelli che manifestano una tristezza normale.

8.2 | La depressione deriva da uno squilibrio chimico

La ricerca biologica attuale può forse darci maggiori informazioni sulle cause
specifiche della depressione che non gli studi sui gemelli e i figli adottati,
perché esamina direttamente i geni e i cervelli piuttosto che inferire gli apporti
genetici dal grado di relazione fra individui. Ciononostante, essa pure soffre
degli stessi problemi concettuali di questi studi. Un tipo particolare di studi
riguarda la ricerca sui livelli neurochimici correlati ai disturbi depressivi11. Ma
per raggiungere conclusioni corrette, dobbiamo capire il contesto in cui i vari
livelli di sostanze chimiche si alzano. Dimostrare che c’è un’associazione fra un
certo stato del cervello e sintomi depressivi non basta di per sé a rispondere
alla domanda se i sintomi siano normali risposte ad ambienti stressanti o
indicatori di un disturbo. Le scoperte degli attuali studi sui neurotrasmettitori e
la depressione spesso non possono essere interpretate proprio perché non
operano in maniera adeguata questa distinzione.
Una delle teorie più popolari postula che uno squilibrio chimico nel cervello,
specificamente quantità insufficienti del neurotrasmettitore della serotonina,
causa depressione. Ne consegue che la risposta appropriata ai disturbi
depressivi sono le cure con farmaci che puntano alla serotonina, gli inibitori
selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), che presumibilmente
correggono lo squilibrio chimico. Questa teoria viene promossa
continuamente in molti modi: gli annunci pubblicitari delle case farmaceutiche
insistono sul fatto che squilibri chimici correggibili provocano disturbi
depressivi*, i messaggi del servizio pubblico sottolineano che la depressione
deriva da difetti della chimica cerebrale piuttosto che del carattere, e i gruppi di
difesa della salute mentale avanzano l’idea che la depressione sia una malattia
fisica, con sede nel cervello, esattamente come il diabete o l’asma12. Questi
messaggi onnipresenti hanno portato alla diffusa impressione che la ricerca
abbia in realtà dimostrato che le carenze chimiche sono la causa dei disturbi
depressivi e che i farmaci funzionano perché correggono queste
compromissioni del sistema della neurotrasmissione. Potrebbe quindi sembrare
che il modo per separare i disturbi depressivi dalla tristezza normale sia quello
di esaminare i livelli di serotonina nel cervello.
La teoria della carenza chimica come spiegazione della depressione nacque
dall’ipotesi dello psichiatra Joseph Schildkraut, pubblicata nel 1965, che bassi
livelli di ammine fossero associati con lo sviluppo di disturbi depressivi. Il suo
saggio è ancora uno degli articoli più citati della storia della psichiatria13. È
interessante notare che per Schildkraut era la norepinefrina, e non la
serotonina, la sostanza neurochimica implicata nel disturbo depressivo.
L’«ipotesi catecolaminergica dei disturbi affettivi» ritiene che alcune depressioni, se non
tutte, siano associate a un’assoluta o relativa carenza di catecolamina, in particolare di
norepinefrina, nei siti cerebrali dei ricettori adrenergici, funzionalmente importanti.
L’euforia, viceversa, potrebbe essere associata con un eccesso di simili ammine14.
La principale fonte di prova per l’ipotesi della carenza chimica è costituita dal
successo delle cure farmacologiche, che alzano il livello delle ammine,
nell’alleviare i sintomi depressivi. Lo stesso Schildkraut riconosceva che «anche
se i farmaci sono efficaci nel curare i disturbi, ciò non comporta
necessariamente che la loro modalità d’azione implichi la correzione della
sottostante anomalia»15. Ciononostante, molte successive discussioni sulla
serotonina poggiano sulla premessa che migliorarne la trasmissione allevia la
depressione, e che una carenza nel sistema della serotonina può essere
responsabile della comparsa iniziale del disturbo.
Molti problemi assediano simili teorie. Uno è che gli SSRI causano
cambiamenti immediati nei livelli di serotonina, mentre gli effetti sulla
depressione richiedono di solito varie settimane per manifestarsi. L’impatto dei
farmaci sulla depressione, quindi, potrebbe non provenire dal cambiamento
del livello dei neurotrasmettitori che essi producono, bensì da molti altri
processi associati con il cambiamento dell’azione delle ammine. Un altro è che
anche dei farmaci che non toccano né la serotonina né la norepinefrina, le
principali ammine implicate nell’ipotesi catecolaminergica, possono alleviare la
depressione16. In effetti, alcuni farmaci antidepressivi sviluppavano per
influenza degli SSRI la dopamina e altre ammine, ma non la serotonina. Una
terza difficoltà è che i farmaci usati per curare la depressione funzionano con
almeno altrettanta efficacia su altri malesseri, fra cui ansia, disturbi
dell’appetito, calo dell’attenzione, abuso di sostanze, disturbi della personalità e
tantissime altre condizioni che possono presentarsi o meno con la depressione.
Ciò fa pensare che i farmaci non correggano una specifica anomalia
neurochimica sottostante alla depressione, ma agiscano invece su funzioni
cerebrali molto generali che influenzano svariati sistemi emotivi e
comportamentali*. Nessuna teoria spiega in che modo una singola anomalia
della chimica del cervello possa essere correlata a un così ampio fascio di
problemi conseguenti. Inoltre, le misure in generale mostrano che solo il 25%
circa dei pazienti depressi presenta in realtà bassi livelli di norepinefrina o di
serotonina17. Anche se l’ipotesi della carenza si rivelasse corretta, essa
spiegherebbe solo una parte dei casi di depressione, come lo stesso Schildkraut
riconosceva nel suo articolo originale18.
Un altro problema fondamentale è che le ipotizzate carenze di serotonina o
altri composti chimici del cervello potrebbero essere benissimo conseguenza,
anziché causa, della depressione. Non ci sono prove al momento che gli
squilibri chimici precedano e causino i disturbi depressivi19. Invece, la
depressione stessa, e i farmaci usati per curarla, potrebbero essere responsabili
delle desunte carenze che si riscontrano nei pazienti con depressione. Poiché la
maggior parte dei partecipanti alla ricerca ha lunghe storie di cure
farmacologiche, è impossibile sapere se i loro cervelli apparissero
originariamente come appaiono nel momento in cui iniziano ad assumere i
farmaci antidepressivi*.
Ma il problema concettuale più grave nella ipotesi della carenza
neurochimica è, dal nostro punto di vista, che non esistono standard adeguati
fondati sui contesti che fissino i livelli normali e quelli anormali di serotonina e
altre ammine. Livelli alti o bassi di ogni composto neurochimico non sono
anormali in sé stessi, ma solo in relazione a un particolare insieme di
circostanze e al modo in cui il cervello è biologicamente predisposto per
rispondere a quelle circostanze. È possibile che i meccanismi che governano i
livelli di serotonina (e altri composti neurochimici) siano biologicamente
predisposti per rispondere in maniera appropriata ai loro contesti: il cervello di
una persona normale che subisce gravi perdite avrà, possiamo aspettarci, bassi
livelli di serotonina. La normalità dei livelli delle ammine può essere stabilita
solo in relazione al contesto ambientale in cui si verificano.
Per esempio, come mostrano gli studi considerati nel Capitolo 2, i livelli di
serotonina fra i primati variano notevolmente in funzione delle situazioni
sociali: promozioni e perdite di status sociale sono associate rispettivamente a
più alti o più bassi livelli di serotonina20. È possibile quindi che anche negli
uomini i bassi livelli di serotonina riflettano le emozioni che normalmente
accompagnano un recente cambiamento nello status sociale piuttosto che un
disturbo depressivo. Così pure, i babbuini che vivono in libertà presentano
livelli molto alti di glucocorticoidi (ormoni dello stress) dopo aver avuto un
lutto, una perdita di ango sociale, o altri eventi stressanti21. Questi livelli
ritornano normali una volta che gli animali interessati riprendono
comportamenti di grooming con i membri delle loro reti sociali. In questi casi, i
livelli così alti dei neurochimici non indicano patologie, ma mostrano invece il
modo in cui il cervello normale risponde alle situazioni di stress.
Al contrario, gli stati disturbati sono associati non solo a livelli estremi di
neurotrasmettitori ma anche a livelli estremi di quelle che sono risposte
inappropriate ai contesti ambientali. I tipi di cambiamenti nel cervello derivanti
dai disturbi depressivi sono simili a quelli che si verificano nelle risposte a
situazioni fortemente stressanti22. In effetti, la quantità molto elevata di
serotonina o altre ammine in risposta a un fattore di stress può essere adattiva
nella situazione in cui si verifica23. La differenza fra i livelli normali e quelli
anormali di circuiti neurochimici non sta nel livello del neurotrasmettitore in
sé, ma piuttosto nel fatto che il livello del neurotrasmettitore è uscito dalle
quantità consuete ed è diventato più cronico e lontano a causa di circostanze
ambientali.
Affermare che la depressione sia un «difetto della chimica» o una «malattia
fisica» è prematuro: fattori cognitivi, psicodinamici, sociali e altri, che
disarticolano in maniera duratura le reazioni di tristezza predisposte dalla
biologia ma che sono o non sono correlate con anomalie cerebrali, possono
sicuramente causare almeno alcuni dei disturbi depressivi. «La verità», osserva
lo psicologo Eliot Valenstein, «è che non sappiamo realmente in che modo i
farmaci alleviano i sintomi di disturbo mentale, e non dobbiamo dare per
scontato che lo facciano correggendo una carenza chimica endogena»24. Ma
perché la ricerca futura abbia migliori possibilità di confermare o smentire che
un qualche difetto dei sistemi dei neurotrasmettitori è connesso come causa a
casi di disturbo depressivo, i ricercatori dovranno usare criteri che possano
separare i casi in cui la variazione del livello di neurochimici risulta da cervelli
normali operanti in ambienti stressanti da quelli in cui una qualche anomalia
porta a un non corretto funzionamento del cervello*.

8.3 | La base gene ca della depressione

Gli studi di genetica della depressione sono entrati in una nuova era. Gli
importanti progressi fatti nella ricerca genetica negli anni Novanta hanno
permesso ai ricercatori di mappare direttamente geni specifici ed esaminare la
loro connessione con la comparsa di sintomi25. Ma nonostante questi
progressi, la ricerca attuale sulla genetica della depressione rimane frenata dalla
sua incapacità di distinguere in quali circostanze i fattori genetici portano alle
risposte biologicamente predisposte a una perdita o portano invece a disturbi
mentali. Le definizioni della depressione correnti, basate sui sintomi del DSM,
non distinguono adeguatamente la normale tristezza intensa dalla patologia,
eppure molta parte della ricerca genetica poggia su campioni della popolazione
composti con ogni probabilità di individui prevalentemente normali. C’è
quindi il rischio che i ricercatori considerino erroneamente le scoperte sulle
basi biologiche della tristezza normale come scoperte sulle cause del disturbo
depressivo.
Per illustrare come questo errore possa verificarsi, ci concentriamo su un
unico articolo, Influence of Life Stress on Depression: Moderation by a Polymorphism in
the 5-HTT Gene, dello psicologo Avshalom Caspi e colleghi26. L’influenza
dell’articolo su tutta la comunità scientifica è stata forse maggiore di quella di
qualsiasi studio genetico su qualsivoglia malattia mentale condotto finora. La
rivista “Science” lo designò, insieme con altri due articoli di genetica della
malattia mentale, come il secondo più importante contributo scientifico del
2003 (dopo un articolo sulle più recenti scoperte sulla natura del cosmo). Il
sito web del National Institute of Mental Health cita lo studio come uno dei
grandi frutti del concentrarsi dell’agenzia sulla base biologica della malattia
mentale. Thomas Insel, direttore del NIHM, afferma che «quel che hanno
fatto cambierà il paradigma di come noi vediamo i geni e i disturbi
psichiatrici»27. Un altro psichiatra del NIHM dice dello studio che è «il più
grande pesce mai pescato in psichiatria»28. Le scoperte dello studio furono
largamente diffuse e mostrate nei mezzi di comunicazione sia statunitensi sia
mondiali29.
La ricerca prende le mosse da uno studio longitudinale di un gruppo di 847
caucasici della Nuova Zelanda nati all’inizio degli anni Settanta e seguiti dalla
nascita alla prima età adulta. L’interesse centrale dei ricercatori era di esaminare
l’associazione fra eventi di vita stressanti, depressione e il gene 5-HTT quando
i membri del gruppo avevano 26 anni. Il gene 5-HTT era stato scelto perché
controlla il modo in cui la serotonina, a sua volta oggetto di molte ricerche
genetiche sulla depressione, trasmette i messaggi attraverso le cellule cerebrali.
Le ricerche fatte fino ad allora avevano mostrato che il gene è associato con le
reazioni a stimoli stressanti nei topi, nelle scimmie, e in soggetti umani
sottoposti a brain imaging, benché nessuno studio precedente avesse scoperto
un legame diretto fra il gene e la depressione.
Il gene 5-HTT ha tre genotipi: nel campione della Nuova Zelanda, il 17% dei
rispondenti aveva due copie dell’allele breve; il 31%, due copie dell’allele lungo;
e il 51% un allele breve e uno lungo. Lo studio misurò lo stress con un indice
aggiuntivo di 14 eventi della vita, fra cui stress legati a occupazione, a problemi
finanziari, abitativi, di salute e relazionali, vissuti dai soggetti del gruppo fra i
21 e i 26 anni. Usò la Diagnostic Interview Schedule (DIS), pensata per
realizzare diagnosi DSM, al fine di stabilire se i soggetti avessero o no vissuto
un episodio di Depressione Maggiore nel corso dell’anno precedente. Lo
studio riferì anche sul numero dei sintomi depressivi, sulle ideazioni suicidarie,
e sulle denunce di depressione. La sua ipotesi centrale era che i soggetti che
hanno una o due delle versioni brevi dell’allele 5-HTT sono particolarmente
vulnerabili ad ambienti altamente stressanti, mentre quelli con geni contenenti
la versione lunga sono più resistenti agli avversi fattori ambientali stressanti.
Lo studio trovò che il 17% del campione di ventiseienni riferiva di aver avuto
nel corso dell’anno precedente episodi di depressione abbastanza gravi da
soddisfare i criteri del DDM. Esso non rilevò alcuna associazione fra il gene 5-
HTT e quelli che divenivano depressi. In altri termini non c’era nessun effetto
genetico diretto sulla depressione: i soggetti con due alleli brevi, con due alleli
lunghi, o con uno di ciascun allele, avevano tutti uguali possibilità di diventare
depressi. Lo studio non trovò relazione neanche fra i gruppi di genotipi del 5-
HTT e il numero degli eventi di vita stressanti che i partecipanti
sperimentavano, sicché il genotipo non doveva essere responsabile di
un’esposizione differenziale ai fattori stressanti. Cioè, era improbabile che il
fatto di possedere un certo genotipo avesse a che fare con il numero degli
eventi di vita stressanti riferiti dai rispondenti.
Lo studio trovò una forte relazione positiva fra lo sperimentare più eventi
stressanti e lo sviluppare la depressione. Quando il numero degli eventi
stressanti aumentava da zero a quattro o più, le percentuali di DDM
aumentavano dal 10% al 13, 15, 20 e 33% rispettivamente. In altre parole, i
soggetti che sperimentavano quattro o più eventi stressanti avevano probabilità
di circa tre volte e mezzo superiori di sviluppare la depressione rispetto a quelli
che non vivevano eventi stressanti.
La scoperta principale dello studio, e quella che suscitò maggiore attenzione,
fu una significativa interazione fra gene e ambiente. Fra il 15% dei soggetti del
campione che avevano avuto quattro o più eventi stressanti dopo il
ventunesimo e prima del ventiseiesimo compleanno, quelli con una o due
copie dell’allele breve sul gene 5-HTT avevano una probabilità
significativamente maggiore di avere il DDM, e sintomi depressivi
autodenunciati o riferirti da informatori, di quelli con due copie dell’allele
lungo. Nel gruppo che aveva dovuto affrontare quattro o più eventi stressanti,
il 43% di soggetti con due alleli brevi e il 33% con un allele breve erano
diventati depressi rispetto a un 17% di quelli con due alleli lunghi.
Riassumendo, lo studio non trovò un effetto diretto del gene 5-HTT sulla
depressione. Trovò una relazione abbastanza forte fra eventi stressanti e
depressione, tanto che i soggetti che avevano più eventi stressanti avevano una
maggiore possibilità di diventare depressi. E trovò che il gene 5-HTT,
combinato con il numero degli eventi stressanti, permette di fare qualche
previsione sulla depressione: ad alti livelli di eventi stressanti, il fatto di
possedere l’allele breve del gene porta a maggiore depressione.
Gli autori videro la loro scoperta come una conferma della «teoria della
depressione della diatesi allo stress», la quale predice che le esperienze di più
alti livelli di stress eleveranno la vulnerabilità alla depressione molto più fra le
persone che sono ad alto rischio genetico che fra quelle a basso rischio
genetico30. L’allele breve sul gene 5-HTT rende le persone presumibilmente
più sensibili allo stress, mentre l’allele lungo le protegge dall’impatto dello
stress. Perciò, l’allele breve è il genotipo sensibile allo stress associato con la
depressione*.
Ma questa interpretazione dell’allele breve lascia aperto un interrogativo,
almeno per il più classico caso di disturbo depressivo, la depressione
endogena. Lo studio trovò che circa il 10% delle 263 persone che non avevano
vissuto eventi negativi nei precedenti cinque anni aveva sviluppato la
depressione. Questo 10% era il gruppo che nella maniera più chiara presentava
disturbi depressivi come contrapposti alla intensa tristezza normale, ma non
rivelava alcun impatto del genotipo 5-HTT sulla risposta allo stress da parte
dei suoi componenti. Se esiste una causa genetica della depressione endogena,
non sembra qui venir fuori, in quanto questo particolare tipo di disturbo
depressivo appare senza relazione con il gene 5-HTT o, almeno, con le sue
diffuse varianti che Caspi e colleghi studiarono.
L’interpretazione data alle loro scoperte da Caspi e colleghi solleva un
problema molto più basilare: non è chiaro che il gene identificato abbia molto
a che fare con il disturbo depressivo in generale. Lo studio usò per la
depressione i criteri del DSM, che non contengono una distinzione sistematica
fra la tristezza normale e il disturbo depressivo. La percentuale
straordinariamente alta della depressione fra i giovani in questo stesso studio –
il 17% del campione di ventiseienni dell’intera comunità soddisfaceva i criteri
del DSM per il DDM – fa pensare che molti di questi casi riflettessero di fatto
una intensa tristezza normale, e non disturbi depressivi. Né c’era alcuna
situazione insolita che potesse spiegare alti tassi di disturbo depressivo: la
ricerca era stata condotta in un paese moderno e prospero in un periodo
tranquillo, senza guerre, senza rilevanti recessioni economiche o insurrezioni
culturali31, e aveva tenuto fuori i Maori, una minoranza etnica povera che ci si
poteva aspettare presentasse alti tassi di depressione. La fondamentale
domanda se la misurazione del disturbo sia valida, e quindi la questione se
l’interazione osservata rifletta una variazione normale o un disturbo, rimane
del tutto elusa, non vi si può dare risposta sulla base dei dati esistenti.
Prematuro è soprattutto concludere che l’allele breve sia un genotipo per i
disturbi depressivi, dati i particolari tipi di eventi stressanti che lo studio di
Caspi e colleghi misurò. La maggior parte dei 14 eventi stressanti misurati
dallo studio era associata alle insufficienti risorse finanziarie, come problemi di
debito, il non avere denaro per il cibo e le spese familiari, la mancanza di
denaro per le spese mediche e la difficoltà di pagare le bollette. Molti di questi
eventi, dunque, potevano essere frutti congiunti di un unico fattore stressante,
come la disoccupazione o la povertà persistente. In molti casi, la denuncia di
quattro o più fattori stressanti potrebbe indicare non un aumento degli eventi
stressanti ma varie conseguenze di un particolare tipo di fattore stressante
finanziario misurate dallo studio. L’impatto dell’allele breve, perciò, potrebbe
non essere associato tanto con il far fronte a ‘più’ fattori stressanti, quanto con
il fare esperienza di particolari ‘tipi’ di fattori stressanti legati a problemi
finanziari, che più probabilmente sono correlati con la tristezza normale.
Benché questo studio non faccia riferimento all’associazione della classe
sociale con questi eventi di vita, altri studi di analoghi gruppi d’età trovano
forti relazioni fra il basso status socioeconomico e il numero di importanti
eventi di vita sperimentati da giovani adulti32. Lo studio di Caspi e colleghi
potrebbe in realtà mostrare principalmente come le persone con limitate
risorse economiche siano esposte a tipi di fattori stressanti – debito finanziario,
disuguaglianza sociale e povertà – che portano naturalmente a denunciare
sintomi di tristezza normale. Se questa interpretazione è corretta, ne derivano
importanti conseguenze per gli sforzi di prevenzione o cura, perché più di due
terzi della popolazione ha almeno un allele breve*. L’articolo di Caspi e
colleghi si concentra sulla possibilità del trattamento farmacologico,
osservando che «una migliore conoscenza delle proprietà funzionali del gene
5-HTT potrebbe portare a migliori cure farmacologiche per quelli già
depressi»33. Ma se il gene 5-HTT è largamente responsabile della tristezza
normale che emerge a causa delle disuguaglianze sociali piuttosto che dei
disturbi depressivi, sarebbe quantomeno meglio indirizzare gli sforzi preventivi
alle condizioni sociali anziché concentrarsi esclusivamente sulla cura medica di
un presunto difetto genetico interno.
In ogni caso, il significato delle scoperte di Caspi e colleghi rimane ambiguo.
Se i geni studiati interagiscono con certi tipi di fattori stressanti o con i fattori
stressanti in generale e non sono invece i puntelli genetici del disturbo
depressivo, le scoperte possono essere interpretate altrettanto bene come
normali variazioni genetiche della tendenza delle persone a diventare tristi
quando sono sottoposte a intenso stress. I dati dello studio sono del tutto
coerenti con la possibilità che gli alleli breve e lungo rappresentino due varianti
grosso modo uguali, che influiscono sul modello di sensibilità nelle risposte
normali alla perdita. I tentativi successivi di confermare le scoperte dello
studio rivelano serie discrepanze sia al loro interno sia rispetto allo studio
originale, producendo un quadro di confusione piuttosto che di solidità
scientifica34. Le ambiguità risultanti potrebbero derivare dal fatto che tutta la
ricerca non aveva alla base la distinzione fra le condizioni normali e quelle
patologiche e quindi probabilmente abbracciava un certo mix eterogeneo di
tristezza normale e patologica con determinanti genetiche variabili. L’impiego
di misure che distinguano la tristezza normale dalla depressione patologica
potrebbe aiutare a chiarire questa situazione problematica.

8.4 | Anomalie anatomiche del cervello come base del disturbo


depressivo
Un ultimo tipo di ricerca biologica guarda alle anomalie anatomiche in varie
regioni cerebrali, in particolare la corteccia prefrontale, l’ippocampo e
l’amigdala, per dimostrare la base biologica dei disturbi depressivi. La corteccia
prefrontale aiuta a regolare la valutazione di premi/punizioni ( reward/
punishment), gli stati di paura e i cambiamenti d’umore, inclusi quelli che si
verificano quando le persone vivono normali stati di tristezza35. Perciò, le
anomalie in quest’area dovrebbero toccare processi che sono totalmente
coinvolti nei disturbi depressivi. L’ippocampo ha un ruolo centrale
nell’apprendimento e nella memoria, che potrebbe contribuire a spiegare i
deficit cognitivi che spesso accompagnano la depressione maggiore36. Infine
l’amigdala riveste una posizione particolarmente importante nell’elaborazione
degli affetti negativi, e quindi dovrebbe giocare un ruolo critico nella tristezza e
nella depressione37.
Fin dal XIX secolo, gli studi dell’anatomia cerebrale avevano indicato le aree
principali, associate con le diverse funzioni cerebrali38. Più recentemente, le
immagini del cervello da risonanza magnetica, che sono in grado di definire
con precisione i circuiti cerebrali associati con i sentimenti depressivi,
dominano gli articoli delle riviste psichiatriche. Gli studi che usano la risonanza
magnetica e altre tecniche di produzione di immagini possono usare le analisi
del computer per visualizzare cervelli viventi al livello di molecole subcellulari,
neuroni e materiale genetico. Un esteso campione di ricerca fa pensare che
particolari lesioni potrebbero essere i siti primari di un’anormale regolazione
dell’umore nelle persone colpite da depressione39.
Nel nostro esame della ricerca di Caspi e colleghi abbiamo visto che i
ricercatori di genetica che puntano sui criteri del DSM rischiano di interpretare
gli elementi della tristezza normale come caratteristiche del disturbo
depressivo40. C’è un secondo tipo di errore che pure può derivare dalla fiducia
nei criteri del DSM per il disturbo depressivo nella ricerca biologica: se i
risultati della ricerca sulle lesioni cerebrali, che sono confermati per una
popolazione clinica con chiari disturbi, vengono erroneamente generalizzati a
tutti quelli che soddisfano i criteri del DSM e che sono quindi presunti malati,
la lesione potrebbe essere erroneamente attribuita a molti che invece stanno
vivendo una tristezza normale.
Consideriamo un rinomato studio sui circuiti cerebrali dell’anatomista
Grazyna Rajkowska e la sua équipe, Morphometric Evidence for Neuronal and Glial
Prefrontal Cell Pathology in Major Depression, per illustrare la possibilità di questo
secondo tipo di errore. Lo studio di Rajkowska fu pubblicato nel 1999 come
una speciale «comunicazione di priorità» nella rivista “Biological Psychiatry”.
Nel suo libro Against Depression, Peter Kramer lo cita come la più importante
opera finora sulla depressione perché «ha cambiato il modo in cui i medici
vedevano i loro pazienti»41.
Rajkowska e la sua équipe confrontarono il tessuto cerebrale di 12 pazienti
cronicamente depressi morti all’improvviso con il tessuto cerebrale di 12
pazienti di controllo normali, anch’essi morti all’improvviso. Trovarono che il
gruppo depresso aveva chiare caratteristiche patologiche associate con
anomalie cerebrali. In particolare, questi pazienti avevano livelli anormali di
cellule gliali, che aiutano a mediare fra i neuroni e il loro ambiente, nella
corteccia prefrontale. I deficit possono contribuire a una varietà di
cambiamenti patologici in questa regione cerebrale. Elevati livelli di
glucocoricoidi possono, a loro volta, causare danni all’ippocampo, sicché i
pazienti depressi hanno un volume significativamente più piccolo
dell’ippocampo rispetto ai soggetti di controllo42.
Un’altra ricerca trova che la riduzione della densità delle cellule gliali e della
dimensione dei neuroni è particolarmente acuta nei pazienti con DDM
rispetto ai pazienti con disturbo bipolare e schizofrenia, e rispetto ai soggetti di
controllo normali, il che suggerisce lo specifico tipo di lesione che potrebbe
indicare un disturbo particolare43. Inoltre, modificazioni del cervello associate
con il DDM continuano a essere presenti anche quando i sintomi della malattia
non ci sono più. Gli studi hanno osservato cambiamenti del cervello in
soggetti con il DDM mentre la malattia è in remissione, il che fa pensare che il
disturbo abbia provocato danni permanenti a particolari regioni del cervello44.
Qualche ricerca mostra anche che i soggetti con depressione esaminati dalla
ricerca hanno amigdale allargate, che potrebbero essere messe in relazione con
la perdita di volume dell’ippocampo45. Queste prove suggeriscono dunque che
la Depressione Maggiore corrisponda a una frantumazione di un preciso
circuito in specifiche regioni del cervello46.
Ma l’evidenza che la depressione è correlata a una lesione del cervello ha
implicazioni ambigue per quanto riguarda le cause dei disturbi depressivi. Molti
ricercatori ritengono più probabile che gli accertati cambiamenti morfologici
siano conseguenze, anziché cause, della depressione, benché la questione
rimanga sospesa47. Come Rajkowska sottolinea, non ci sono prove che le
anomalie anatomiche precedano e predispongano le persone alla depressione:
l’unica cosa sicura è che il danno cerebrale è associato con la depressione48.
Inoltre, poiché i pazienti di simili studi vengono generalmente seguiti da clinici,
è possibile che l’anormale riorganizzazione del cervello osservata nelle persone
con depressione sia il risultato dell’esposizione a trattamenti di lungo periodo
con antidepressivi piuttosto che la conseguenza della malattia depressiva49.
Semplicemente, noi non sappiamo come apparivano i cervelli delle persone
depresse prima che iniziassero ampi regimi di trattamento farmacologico.
Ma, a parte questi dubbi, posto che le scoperte secondo cui un substrato
neuroanatomico è associato con il disturbo depressivo, o ne è causa, siano
confermate nella popolazione studiata da Rajkowska, qual è il raggio della loro
applicabilità? La discussione di Kramer del lavoro di Rajkowska dà
semplicemente per scontato che, avendo Rajkowska studiato pazienti
sofferenti di DDM, i risultati possono probabilmente essere applicati a vasto
raggio, praticamente a tutti i pazienti che ricadono nella diagnosi di DDM, e
anche alle condizioni sottosoglia. Questa interpretazione conforta la visione di
Kramer della natura profondamente patologica di tutti gli stati depressivi. In
ogni punto dello spettro, la depressione è, secondo Kramer, «debilitante,
progressiva e incessante nel suo decorso verso il basso» attraverso l’intera serie
delle forme in cui si presenta50. Tutti i criteri, inclusi il numero di sintomi, la
loro gravità e la loro durata, ricadono in un continuum in cui ciascuno dei
punti corrisponde a un qualche grado della patologia51. Inoltre, se molti stati
minori sono pericolosi in sé stessi e altri potranno degenerare in stati maggiori,
ogni punto del continuum rappresenta uno stato di alto rischio di sviluppare i
tipi di lesioni che lo studio di Rajkowska rilevava in casi estremamente gravi.
«Accettare l’idea della depressione come malattia», afferma Kramer, «significa
vedere la patologia o il rischio nelle versioni minori»52*.
Nel valutare queste affermazioni è importante considerare la natura dei
soggetti del campione di Rajkowska i cui cervelli mostravano una patologia.
Erano pazienti in cura di lungo termine per condizioni croniche. Nonostante
le cure, sette dei 12 che erano depressi morirono a seguito di suicidio. Tre dei
cinque soggetti non suicidi assumevano farmaci antipsicotici al momento della
loro morte. Solo due membri del gruppo depresso del campione non si
suicidarono né erano presumibilmente sofferenti di psicosi. Il gruppo era
quindi composto quasi per intero da casi estremamente gravi di persone affette
da quelli che molto probabilmente erano veri disturbi depressivi.
Così, fino a che punto i risultati di questi studi possono essere generalizzati?
Dato l’eterogeneo miscuglio non solo di casi leggeri e gravi, ma anche di
tristezza normale e patologica che attualmente ricade sotto i criteri diagnostici
del DDM, è improbabile che i risultati di Rajkowska si applichino a tutta la
categoria dei casi di DDM, per non parlare delle condizioni sottosoglia. Non ci
sono prove che le dimostrate anomalie cerebrali tocchino più che una piccola
minoranza di quelli che soddisfano i criteri del DSM e che è quella più
chiaramente malata. Nessuno, per esempio, ha mai dimostrato che la maggior
parte delle persone che presentano sintomi di depressione che soddisfano
questi criteri abbia perso cellule gliali; è lecito aspettarsi che questa teoria non
possa essere estesa a quelli che soddisfano i criteri del DSM ma di fatto stanno
vivendo una intensa tristezza normale53. Né, per quanto riguarda
l’osservazione di Kramer sul rischio, esiste alcuno studio che abbia mai
mostrato che i soggetti con normali stati di tristezza abbiano maggiori
probabilità di altri di sviluppare in seguito patologie anatomiche. Le
affermazioni di Kramer vanno molto al di là della prova in un modo che può
portare a precarie supposizioni cliniche su quelli che vivono un’intensa
tristezza.
Benché la ricerca sul cervello non abbia ancora dimostrato che la maggior
parte dei casi di disturbo depressivo ha una base anatomica, essa ha tuttavia
alcune interessanti implicazioni per la base anatomica della tristezza normale.
Un importante studio chiese ai partecipanti volontari senza alcuna storia di
depressione di descrivere per iscritto recenti esperienze personali di tristezza54.
I ricercatori fecero scansioni di tomografia a emissione di positroni (PET) ai
partecipanti mentre usavano gli scritti per provocare uno stato d’umore triste. I
partecipanti che furono presi dai provocati stati di tristezza normale
presentavano un aumento del flusso sanguigno nelle regioni limbiche-
paralimbiche del cervello e un diminuito flusso sanguigno nelle regioni
prefrontali paragonabili a quelli riscontrati negli studi su pazienti con
depressione clinica55. Questo risultato fa pensare che queste regioni siano
correlate sia con umori tristi normali sia con la depressione patologica.
Gli stati di tristezza normale che possono essere provocati in setting di
laboratorio sono probabilmente un pallido riflesso della tristezza che nasce
nelle situazioni naturali di una reale perdita importante. Le precedenti scoperte,
dunque, implicano che partecipanti normali, sottoposti a un test diagnostico
biologico o di screening per la depressione, ‘mentre sono esposti a stimoli di
tristezza’ produrrebbero probabilmente alti punteggi su queste misure, dal
momento che presentano i marcatori biologici che sono alla base dei sintomi
della tristezza normale e anche della depressione patologica.

8.5 | Conclusione
Abbiamo sostenuto che se i ricercatori del cervello non prendono in
considerazione il contesto in cui la tristezza si sviluppa, rischiano di dare
diagnosi sbagliate a persone normalmente tristi affibbiando loro disturbi
depressivi, e di fare confusione formando i loro campioni con un miscuglio
eterogeneo di soggetti malati e normali. La tristezza normale, non meno del
disturbo depressivo, è in correlazione con gli stati cerebrali e può includere
sintomi di intensa tristezza: i soggetti che provano tristezza possono avere
alcuni dei marcatori biologici in comune con i soggetti affetti da veri disturbi
depressivi. Riscontrare perciò la presenza di un substrato biologico in una
condizione con sintomi di tristezza intensa che soddisfano i criteri del DSM
non basta per dire se quel particolare substrato o la condizione stessa siano
normali o patologici. Conoscere il contesto in cui l’attività cerebrale si verifica
è precondizione essenziale per capire se i cervelli funzionano in maniera
normale o anomala. Una migliore comprensione di come i cervelli normali
rispondono a situazioni di perdita fornirebbe un metro essenziale su cui
confrontare le possibili disfunzioni cerebrali connesse con i disturbi depressivi.
Una meglio definita ricerca sul cervello ha quindi potenzialità per distinguere
in modo più efficace e illuminare le risposte a una perdita sia normali sia
anormali.

Note
1 | Luhrmann, 2000; Blazer, 2005.↵
2 | Bouchard, Lykken, McGue, Segal, e Tellegen, 1990; Alford, Funck, e Hibbing, 2005.↵
3 | Archer, 1999.↵
4 | Mayberg et al. , 1999.↵
5 | Ibidem.↵
6 | Kendler, Heath, Martin, e Eaves, 1986; Kendler et al. , 1995; McGuffin, Katz, e Rutherford, 1991;
Sullivan, Neale, e Kendler, 2000.↵
7 | Cadoret, 1978.↵
8 | Cadoret, O’Gorman, Heywood, e Troughton, 1985; von Knorring, Cloninger, Bohman, e
Sigverdsson, 1983.↵
9 | Sullivan et al. , 2000.↵
10 | Bouchard et al. , 1990; DiLalla, Carey, Gottesman, e Boucahrd, 1996; Bouchard e Loehlin, 2001.↵
11 | Schildkraut, 1965.↵
12 | Lacasse e Leo, 2005.↵
13 | Healy, 1997, p. 156.↵
14 | Schildkraut, 1965, p. 509.↵
15 | Ivi, p. 517.↵
16 | Valenstein, 1998, p. 99.↵
17 | Ivi, p. 101.↵
18 | Schildkraut, 1965.↵
19 | Valenstein, 1998; Lacasse e Leo, 2005.↵
20 | McGuire, Religh, e Johnson, 1983; Raleigh, McGuire, Brammer, eYuwiler, 1984.↵
21 | Engh et al. , 2006.↵
22 | Gold, Goodwin, e Chrousos, 1988.↵
23 | Anisman e Zacharko, 1992.↵
24 | Valenstein, 1998, p. 135.↵
25 | Sadock e Sadock, 2003.↵
26 | Caspi et al. , 2003.↵
27 | Vedantam, 2003, p. A1.↵
28 | Holden, 2003, p. 291.↵
29 | Horwitz, 2005.↵
30 | Monroe e Simons, 1991.↵
31 | French, Old, e Healy, 2001.↵
32 | Turner, 2003.↵
33 | Caspi et al. , 2003, p. 389.↵
34 | Kendler et al. , 2005; Eley et al. , 2004; Gillespie et al. , 2004; Surtees et al. , 2006.↵
35 | Mayberg et al. , 1999.↵
36 | Sapolsky, 2001.↵
37 | Davidson, 2003.↵
38 | Everdell, 1997, p. 131.↵
39 | Davidson, 2003.↵
40 | Rajkowska et al. , 1999.↵
41 | Kramer, 2005, p. 61.↵
42 | Videbech e Ravnkilde, 2004.↵
43 | Cotter, Mackay, Landau, Kerwin, e Everall, 2001.↵
44 | Liotti, Mayberg, McGinnis, Brennan, e Jerabek, 2002.↵
45 | Van Elst, Ebert, e Trimble, 2001; Davidson, 2003.↵
46 | Kramer, 2005.↵
47 | Sapolsky, 2001; Schatzberg, 2002; Davidson, 2003.↵
48 | Rajkowska et al. , 1999.↵
49 | Ibidem; Liotti et al. , 2002.↵
50 | Kramer, 2005, p. 7.↵
51 | Kendler e Gardner, 1998.↵
52 | Kramer, 2005, p. 171. [Dobbiamo notare che qualora l’accettazione della malattia equivalesse a
una rassegnazione all’incurabilità là dove il disturbo psichico invece potrebbe guarire, allora questa
impostazione farebbe sì che la condizione psichica non venga curata e si cronicizzi rendendo
impossibile la cura. NdC]↵
53 | Valenstein, 1998.↵
54 | Mayberg et al. , 1999.↵
55 | Ivi, p. 679.↵
* Se la ricerca si basa su un inquadramento diagnostico inesatto è difficile
pensare che essa possa essere applicata in ambito clinico. Seppur si cerca di
essere politically correct, va posta una critica fondamentale: la diagnosi costituisce
una base irrinunciabile in medicina, affinché la scienza di una branca medica si
possa appropriare di una competenza e conquistare un’efficacia nell’intervento
terapeutico. [NdC]↵
* Questi aspetti possono essere più naturalmente intesi come specie-specifici
e quindi certamente correlati ad aspetti genetico-biologici. Il tentativo dei
nostri autori di cercare uno scopo in molte caratteristiche umane suggerisce
l’influenza di uno studio dell’essere umano concepito come quello degli
animali o dei primati. L’essere umano, tuttavia, si caratterizza per l’assenza di
istinto predeterminato, per la possibilità di scelta, l’arte, la sessualità e la
socialità, questi ultimi aspetti estranei all’utile e alla sopravvivenza, e assenti
negli animali. L’essere umano presenta la necessità di soddisfare i propri
bisogni per sopravvivere ma si contraddistingue dalle altre specie, oltre che per
la stazione eretta, l’opponente del pollice e l’angolo della colonna cervicale con
la base cranica, per l’esigenza di realizzare la propria identità, nel lavoro, nelle
relazioni ed in particolare nel rapporto uomo-donna, dove può ricreare la
realtà psichica della nascita e del primo anno di vita. In tutto ciò che costituisce
l’espressione umana non vi è una finalità come invece si osserva
sistematicamente per i comportamenti animali. M. Fagioli, Settimo Anno. Lezioni
2008, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2013. [NdC]↵
* Se si considera che lo stato emotivo è secondario a una circostanza
soggettiva, che tuttavia non è visibile e non necessariamente è cosciente, si può
affermare che i processi neurotrasmettitoriali rispondono in maniera
appropriata, allo stesso modo dei soggetti tristi, a una perdita che potrebbe
essere non visibile, poiché non materiale, non attuale e puramente affettiva e
soggettiva. Si può pertanto avanzare l’ipotesi che il problema patologico
potrebbe non essere biologico ma soggettivo e il movimento biologico non
sarebbe che l’espressione fisica di quanto accade a livello psichico? Cfr. infra,
pp. 248 sgg.[NdC]↵
* In relazione a questi dati brillantemente evidenziati dagli autori, che si
pongono così in un contesto psichiatrico controcorrente rispetto alle tendenze
attuali che vorrebbero ricercare una base neurobiologica primaria del DDM,
cfr. supra, l’Introduzione. [NdC]↵
* Ne deriva un condizionamento culturale allarmante, poiché fuorviante
rispetto alla natura psicologica dell’essere umano e a ogni ricerca su di essa.
Cfr. anche D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino d’oro edizioni, Roma
2014. [NdC]↵
* L’effetto dei farmaci psicotropi viene spesso considerato un effetto
cosiddetto ‘a pioggia’, nel senso che agisce in modo aspecifico in diverse aree
cerebrali caratterizzate dallo stesso sistema neurotrasmettittoriale. Ciò rende i
farmaci psichiatrici molto distanti dai farmaci delle altre branche della
medicina, in cui sono certi e ben noti, invece, i meccanismi farmacodinamici e
il danno biologico su cui il farmaco agisce e gli effetti collaterali sono pertanto
accettabili, oltre che valutabili rispetto ai benefici. [NdC]↵
* Lo stesso problema è stato discusso per altri quadri psichiatrici. Cfr. ad es.,
a proposito della schizofrenia, R.B. Zipursky, T.J. Reilly, R.M. Murray, The myth
of schizophrenia as a progressive brain disease, in “Schizophrenia Bulletin”, 39, 2013,
pp. 1363-1372. [NdC]↵
* Anche in questo caso l’alterazione funzionale potrebbe essere il correlato
neurobiologico di un problema mentale, di relazione, per cui la mente vive una
condizione stressante cronica per motivazioni non manifeste, non attuali,
anche di natura non cosciente. Si potrebbe parlare di secondarietà? In base a
un’etiopatogenesi di matrice relazionale, la terapia farmacologica è
inappropriata e può essere dannosa, come osservato anche dagli autori.
[NdC]↵
* Il concetto di vulnerabilità potrebbe essere messo in discussione da un
concetto alternativo di maggiore resistenza. Questa impostazione, che
apparentemente può sembrare un gioco di parole, in realtà evidenzia un
concetto di uguaglianza di base negli individui, dotati tutti di una resistenza allo
stress. Se in caso di stimoli stressanti particolarmente violenti alcuni
potrebbero essere più forti, l’attenzione si incentra sulla intensità dello stress e
non sulla vulnerabilità del singolo individuo. Ciò potrebbe portare
all’abbandono di un’idea aprioristica di mancanza negli esseri umani e in
particolare in alcuni soggetti, la quale idea spesso comporta una convinzione di
incurabilità e un grave condizionamento dell’intervento. Riflettiamo su come
l’approccio dell’operatore, basato su un concetto di vulnerabilità, possa sia
condizionare la modalità d’intervento, usando farmaci in modo scarsamente
motivato oppure a dosaggi eccessivi, che influenzare la scelta dell’intervento,
prediligendo un approccio farmacologico a quello psicologico o a uno di tipo
integrato. In altre parole, il concetto di vulnerabilità condiziona la natura della
diagnosi, inficiando l’efficacia della terapia. [NdC]↵
* Ciò fa riflettere su come esso possa non essere indicativo di un disturbo. Si
osserva spesso una ricerca incessante di alterazioni organiche nel tentativo di
dimostrare un’eziopatogenesi genetica della depressione. Quali conseguenze vi
sarebbero se invece la depressione non fosse genetica? E se gli eventi stressanti
fossero rappresentati da aspetti patologici di relazioni a livello non cosciente?
Ciò potrebbe essere correlabile con la complessità dei dati risultanti dallo
studio di Caspi. [NdC]↵
Capitolo 9 | L’ascesa delle cure con farmaci
an depressivi

La neutralità del DSM-III nei confronti dell’eziologia dei disturbi mentali


doveva garantire che i sostenitori di qualsiasi orientamento terapeutico
trovassero ugualmente valido il suo sistema di classificazione basato sui
sintomi. Ma nella pratica le case farmaceutiche erano le più adatte per sfruttare
il concentrarsi del DSM sui sintomi, che permetteva loro di diffondere a vasto
raggio l’idea che gli stati di tristezza intensa erano disturbo depressivo e di
allargare così enormemente il potenziale mercato dei farmaci antidepressivi.
Vari altri sviluppi contribuirono a favorire l’esplosivo aumento dell’uso di
questi farmaci, fra cui la comparsa degli inibitori selettivi della ricaptazione
della serotonina (SSRI) alla fine degli anni Ottanta, la diffusione di programmi
sanitari gestiti nel sistema sanitario degli Stati Uniti negli anni Novanta e
l’approvazione della pubblicità diretta al consumatore (DTC) nel 1997. Questo
capitolo esamina la relazione fra la rivoluzione del DSM e la crescita
esponenziale, più o meno contemporanea, dei trattamenti farmacologici della
depressione.

9.1 | Breve storia dei tra amen farmacologici della tristezza e


della depressione

9.1.1 | I primi tranquillan


Per millenni i medici hanno usato farmaci per curare la depressione. A
cominciare dagli antichi Greci e Romani, i medici prescrivevano di solito
purganti e lassativi che procuravano vomito ed evacuazione dei visceri1.
Richard Napier, il medico del Seicento di cui abbiamo parlato nel Capitolo 3,
usava comunemente nella sua pratica sedativi e analgesici, oltre a lassativi e
intrugli purgativi2. Prescrisse oppio a circa il 10% dei suoi pazienti melancolici.
Nel XIX secolo l’oppio, la morfina e altri alcaloidi divennero trattamenti
comuni per la depressione, uniti ai barbiturici all’inizio del XX secolo3.
Durante gli anni Cinquanta comparvero specifici farmaci per curare lo stress
provocato dai problemi della vita, a cominciare dal tranquillante meprobamato
(Miltown). Le qualità sedative e miorilassanti del Miltown lo resero adatto a
curare la tensione e l’ansia quotidiana. Ebbe un successo immediato, e la
domanda di esso e di altri farmaci della stessa famiglia fu, secondo lo storico
Edward Shorter, «la più grande mai registrata per qualsiasi farmaco lanciato sul
mercato degli Stati Uniti»4. Nonostante il timore espresso dall’American
Psychiatric Association che questi farmaci fossero usati in maniera
ampiamente scorretta per alleviare «le tensioni di routine della vita quotidiana»,
nel 1956 un americano su 20 assumeva un qualche tipo di tranquillante5.
All’inizio degli anni Sessanta, furono sviluppate le benzodiazepine Librium e
Valium, che in breve sostituirono il Miltown come i farmaci di maggior
successo della storia della farmacologia. I loro effetti erano qualitativamente
simili a quelli del Miltown, ma più potenti. Nel 1969 il Valium era negli Stati
Uniti la medicina più prescritta. Le indagini del tempo indicavano che fra il 15
e il 25% della popolazione aveva fatto uso di qualcuno dei tranquillanti6. E che
solo circa un terzo delle prescrizioni di questi farmaci erano destinate a
persone con disturbi mentali diagnosticati, mentre la maggior parte era
destinata a persone che soffrivano di uno stress psichico, di crisi esistenziali e
di problemi psicosociali7.
L’uso dei farmaci da prescrizione era allora, come oggi, squilibrato dal punto
di vista del genere, con le donne che erano destinatarie di circa due prescrizioni
su tre8. Anche il termine colloquiale con cui ci si riferiva a questi medicinali,
reso famoso dalla canzone di successo dei Rolling Stones, Mother’s Little Helper,
indica la loro associazione con la normale infelicità delle casalinghe,
suggerendo che «anche se non è realmente malata» le pillole aiutano una madre
a calmarsi, ad affrontare la sua giornata indaffarata, a soddisfare le richieste del
marito e quindi ad «alleggerire la tua penosa situazione»9. Le riviste femminili
popolari soprattutto vedevano in questi farmaci un supporto utile per
affrontare problemi comuni come l’apatia sessuale, l’infedeltà, i bambini
irrequieti, o l’incapacità di attrarre un uomo10.
Dopo la loro crescita esplosiva negli anni Cinquanta e Sessanta, cominciò
una controreazione ai farmaci antiansia. Alcuni critici obiettavano che questi
farmaci intontivano le persone e le rendevano incapaci di reagire ai problemi
sociali e, in particolare, che le donne li usavano per rifuggire dalle situazioni
interpersonali oppressive11. Altri temevano l’uso di questi farmaci per far
fronte alla vita quotidiana: «Solo ora», scriveva uno psichiatra, «abbiamo
davanti la possibilità per una importante fascia della popolazione di utilizzare
farmaci psicoattivi per quelli che possono essere considerati problemi di vita
quotidiana»12. Così pure, Stanley Yolles, direttore del NIHM, esprimeva la
preoccupazione che «i prodotti chimici che attenuano l’ansia» fossero dannosi
e che «la cultura occidentale potesse essere alterata dall’uso a vasto raggio dei
tranquillanti»13. Altri ancora esprimevano gravi timori per la capacità di questi
farmaci di produrre dipendenza, per i loro effetti collaterali e per il loro
potenziale uso in sovradosaggio.
Molte audizioni tenute presso il Congresso all’epoca si concentrarono sui
pericoli e sugli abusi dei farmaci psicotropi, a cominciare dalle ben note
audizioni Kefauver del 1960 e andando avanti durante gli anni Settanta. L’uso
delle benzodiazepine per affrontare i problemi comuni della vita costituiva un
motivo specifico di preoccupazione. Durante un’audizione del 1971, per
esempio, il senatore Gaylord Nelson chiese al commissario della FDA: «Non
c’è una distinzione assolutamente fondamentale fra il prescrivere un farmaco
per aiutare il paziente a gestire un grave problema di depressione e tensione e il
prescrivere un farmaco per aiutare il paziente ad affrontare l’ordinaria […]
frustrazione della vita quotidiana?»14. Il commissario della FDA, Charles
Edwards, rispose esprimendo il «crescente interesse» del suo ente per il fatto
che la «pubblicità ne ha anche promosso l’uso nella cura di sintomi che
nascono dagli stress della vita d’ogni giorno, che non possono propriamente
essere definiti come patologici»15.
Durante gli anni Sessanta e Settanta la FDA intraprese un’azione contro le
pretese delle case farmaceutiche di curare le difficoltà della vita. Nel 1971, per
esempio, chiese che le pubblicità dei farmaci psicotropi si astenessero dal
promuoverne l’uso per far fronte alle tensioni della vita quotidiana. Questa
iniziativa ebbe evidentemente qualche effetto, e gli appelli generalisti
scomparvero dagli annunci pubblicitari per il resto del decennio16. La FDA,
inoltre, nel 1975 inserì sia il meprobamato sia le benzodiazepine nella lista di
farmaci della sua Tabella IV, il che significava restringere le possibilità di
riutilizzare le prescrizioni e iniziare «speciali obblighi di comunicazione» per il
loro uso17. Nel 1980 i regolamenti della FDA notavano specificamente che
«l’ansia o tensione associata con lo stress della vita quotidiana di solito non
richiede il trattamento con ansiolitici»18.
Anche l’atteggiamento della stampa popolare cambiò fortemente, dalla sua
accoglienza inizialmente favorevole di questi farmaci quando furono introdotti
verso una visione decisamente critica. La percentuale degli articoli di periodici
popolari che assunsero posizioni sfavorevoli verso i tranquillanti divenne più
che doppia, da circa un terzo negli anni Cinquanta a oltre due terzi negli anni
Settanta19. Chiaramente, il clima era cambiato a sfavore dell’uso diffuso delle
benzodiazepine, e l’entusiasmo per i farmaci antiansia era ormai affievolito al
tempo in cui fu pubblicato il DSM-III, nel 1980. Il Valium era ancora il
farmaco da prescrizione più venduto in assoluto, ma l’uso dei tranquillanti e
delle benzodiazepine era calato drasticamente, da un picco di oltre 100 milioni
di prescrizioni nel 1975 a poco più di 70 milioni nel 1980, e continuò a
diminuire negli anni Ottanta20.

9.1.2 | L’ascesa degli an depressivi


I primi tranquillanti furono chiamati «ansiolitici» perché puntavano all’ansia
più che alla depressione. Negli anni Cinquanta comparvero anche farmaci
specificamente mirati alla depressione, inclusi gli inibitori delle
monoamminoossidasi(MAOI) e gli antidepressivi triciclici, come l’imipramina
(Tofranil) e l’amitriptilina (Elavil). Nonostante i quasi 30 milioni di prescrizioni
per antidepressivi compilate nel 1980, quel numero era molto inferiore a quello
degli ansiolitici21. All’epoca la depressione non era vista come un problema
diffuso e le condizioni di normale infelicità erano considerate più come
problemi di tensione e ansia22. Inoltre, i triciclici e soprattutto i MAOI avevano
importanti effetti collaterali che ne limitavano l’utilità. I farmaci antidepressivi,
dunque, avevano una nicchia di mercato piuttosto piccola, una situazione che
sarebbe cambiata rapidamente nel decennio successivo.
9.1.3 | Gli SSRI
Non ci sono prove che le case farmaceutiche abbiano avuto un ruolo nello
sviluppo dei criteri diagnostici del DSM-III. Tuttavia, casualmente, il nuovo
modello diagnostico si prestava magnificamente a promuovere il trattamento
farmacologico delle condizioni che esso delineava. Dal 1962 la FDA aveva
chiesto ai produttori di mettere in commercio solo farmaci per la cura di
malattie specifiche e non per obiettivi più generici come l’alleviamento della
tensione o dello stress derivante dalle difficoltà della vita (anche se, come già
osservato, gli annunci pubblicitari a volte violavano queste norme). Ma poiché
tutte le diagnosi nel DSM-III erano formulate come entità patologiche di una
qualche categoria, esse fornivano una gran quantità di patologie diverse da
curare per i prodotti della case farmaceutiche23. La diagnosi della Depressione
Maggiore, che usava sintomi comuni quali la tristezza, la mancanza di energia o
la mancanza di sonno come indicatori, si prestava particolarmente bene per
allargare il mercato dei farmaci psicotropi in quanto inevitabilmente
abbracciava molti pazienti che in precedenza erano considerati magari
sofferenti di problemi esistenziali. Non ci voleva molto perché le case
farmaceutiche approfittassero di questo aspetto vantaggioso del DSM-III.
Benché senza volerlo, il DSM-III forniva alle case farmaceutiche anche il
modo di uscire dal dilemma davanti al quale si trovavano nel commercializzare
i loro farmaci antiansia. Come notato, per molti anni era stata l’ansia, piuttosto
che la depressione, a essere vista come il problema psichico più comune
derivante dagli stress della vita quotidiana. Le case farmaceutiche di solito
mettevano in commercio i loro prodotti come cure per i disturbi d’ansia, e i
loro medicinali erano visti generalmente come agenti antiansia. Ma di fatto, c’è
un accavallamento enorme fra i sintomi dell’ansia e quelli della depressione24.
Come abbiamo visto nel Capitolo 3, in realtà i teorici clinici consideravano
tradizionalmente l’ansia come una parte integrante degli stati depressivi, ma il
DSM-III cercò di individuare una sindrome depressiva pura, indipendente
dall’ansia. L’enfasi sull’una o l’altra dipendeva largamente dalle mode
diagnostiche, dagli interessi dei vari gruppi professionali e di patrocinio, e dai
costi e benefici economici25. Nel 1980 l’equilibrio di questi fattori stava
allontanandosi dall’ansia a causa del clima negativo contro gli ansiolitici. In
questo clima, la diagnosi del DSM di DDM era più adatta di una qualsiasi dei
vari disturbi d’ansia per catturare lo stress delle persone che cercavano aiuto
dai medici generici e dagli psichiatri ambulatoriali. In seguito, il DDM
rimpiazzò a poco a poco l’ansia come la diagnosi preferita in queste sedi26.
Nel corso degli anni Ottanta questa trasformazione accelerò quando la
ricerca sul trattamento con nuovi farmaci cominciò a concentrarsi sul sistema
della serotonina e sullo sviluppo degli SSRI per aumentare la quantità di
serotonina nel cervello27. Questi nuovi farmaci avevano meno effetti collaterali
ed erano più sicuri dei precedenti ansiolitici e antidepressivi, e richiedevano
quindi minori controlli attraverso l’analisi del sangue. Gli SSRI non prendono
di mira una malattia specifica ma agiscono su un sistema neurochimico
generale che influenza molte funzioni cerebrali nei pazienti sani, come nei
malati28. Sono usati per curare una varietà di problemi, fra cui l’ansia, il panico,
disturbi ossessivo-compulsivi, problemi di alimentazione, l’abuso di sostanze e
disturbi di deficit di attenzione, nonché depressione e stress generale nelle
persone senza patologie. Inoltre, benché su questo non ci sia accordo,
sembrano influenzare il temperamento, l’infelicità e la demoralizzazione oltre
ai sintomi depressivi29.
Poiché la FDA richiede che un farmaco debba essere efficace contro una
malattia particolare per poter essere lanciato sul mercato, gli SSRI non
potevano essere chiamati «energizzanti psichici», «sostegni della personalità» o
«inibitori dello stress», per quanto accurati potessero essere questi termini nel
descriverne gli effetti. Potevano facilmente essere lanciati sul mercato come
farmaci «antiansia», ma quando furono approvati alla fine degli anni Ottanta
furono messi in commercio invece come «antidepressivi», a causa delle
associazioni negative che si erano sviluppate intorno agli ansiolitici30. Nel 2001
il numero delle persone che usavano gli SSRI era due volte e mezzo il numero
di quelle che usavano medicine antiansia, e il loro uso andò aumentando con
una rapidità quasi cinque volte maggiore di quella degli ansiolitici31. L’etichetta
di «antidepressivi» fornì una tremenda spinta a fare della depressione, piuttosto
che dell’ansia, l’obiettivo primario delle promozioni farmaceutiche.
Nel 1993, Listening to Prozac: A Psychiatrist Explores Antidepressant Drugs and the
Remaking of the Self di Peter Kramer galvanizzò la formulazione dei problemi
esistenziali come problemi di depressione e la loro cura con medicine
‘antidepressive’. Lo stesso Kramer osservava che gli SSRI funzionano per una
varietà di condizioni. «Le stesse medicine», conclude, «sono efficaci contro
l’ansia da panico, e giustamente sono state chiamate ansiolitici. Il termine
‘antidepressivo’ ci esorta a prestare attenzione arbitrariamente a un solo uso al
quale questi farmaci possono essere destinati»32. Ciononostante, il suo impiego
del termine «antidepressivi» per caratterizzare gli SSRI e il fatto che il suo libro
si concentri sulla depressione contribuirono ad associare i farmaci e la
condizione che essi curano specificamente con la depressione.
Il libro di Kramer contribuì pure a creare una specie di mito del Prozac
(nome generico per gli SSRI) affermando che esso non solo alleviava sintomi
particolari ma influenzava anche i sentimenti sia normali sia patologici e quindi
faceva sentire le persone «più che bene». Per Kramer gli SSRI avevano effetti
nettamente diversi dai precedenti farmaci come il Miltown, il Valium e il
Librium, usati per affrontare i problemi esistenziali. Mentre questi farmaci
rilassavano e tranquillizzavano le persone, i farmaci come il Prozac davano
loro energia e rilanciavano la loro autostima. Essi, più che attutire le risposte
emotive negative al mondo, operavano come agenti di miglioramento della
personalità. Le persone già depresse divenivano più energiche, espansive,
estroverse e flessibili. Per Kramer il Prozac sembrava trasformare l’identità
della persona più che curare una malattia.
Ciò che si verificò dopo il successo editoriale di Kramer fu, per dirla con le
parole dello storico Edward Shorter, «una sorta di psicocirco di suggestione
mediatica, nel quale il Prozac e i suoi concorrenti furono spacciati al pubblico
mondiale come una panacea per affrontare i problemi esistenziali anche in
assenza di malattia psichiatrica»33. Ricalcando l’entusiasmo iniziale per il
Miltown e, poi, per il Librium e il Valium, i nuovi farmaci furono accolti
acriticamente e furono sopravvalutati. L’uso di farmaci antidepressivi,
soprattutto gli SSRI, si impennò mentre quello dei farmaci antiansia calò
bruscamente34. Nel 1994 il Prozac occupava il secondo posto nella lista dei
farmaci più venduti del mondo, seguito da vicino dai suoi fratelli il Paxil e lo
Zoloft. Nonostante Kramer e molti altri affermassero che le persone
assumevano il Prozac e medicinali simili per migliorare la loro vita, solo
appoggi aneddotici possono essere citati per sostenere che questi farmaci
fanno sentire le persone «più che bene»35. In realtà, la grande maggioranza
delle prove indica che essi non sono più efficaci dei precedenti antidepressivi;
semplicemente sono tollerati meglio, i loro effetti collaterali sono meno
marcati, e non creano dipendenza e potenziale rischio per la vita come invece i
medicinali antiansia36. Inoltre, rimangono incerte le prove sulla misura in cui
influenzano la tristezza normale. Quale che fosse la loro reale efficacia, gli
SSRI entrarono nella cultura come il più nuovo «farmaco miracoloso» e furono
lanciati con la promessa non solo di alleviare la depressione e di curare le
malattie, ma anche di migliorare la vita dei loro molti potenziali utilizzatori.

9.1.4 | L’impa o del managed care


I primi farmaci antiansia raramente furono lanciati come curativi, bensì
come coadiuvanti della psicoterapia e del counseling37. Ma gli SSRI furono
messi in commercio in un ambiente organizzativo totalmente diverso. Negli
anni Novanta nacque il managed care, che sarebbe diventata la modalità
prevalente di fornitura del trattamento della salute mentale sia nell’ambito della
medicina generale sia in quello della psichiatria, ed è ora una potente forza
sociale che promuove l’uso dei farmaci per curare la depressione e altre
condizioni mentali. Gli approcci del managed care, anche se diversi, poggiano
generalmente su strategie tendenti a contenere le spese di cura della salute
scegliendo i trattamenti meno costosi possibile38.
Il managed care incoraggia anche il ricorso ai medici generici, che quasi sempre
prescrivono farmaci, piuttosto che agli specialisti della salute mentale, che forse
potrebbero utilizzare cure alternative. Il risultato finale è stato che i medici
generici hanno sempre più soppiantato gli psichiatri come la fonte primaria di
prescrizioni degli antidepressivi39. La cura con i farmaci, infatti, toglie al
medico di base e al paziente molto meno tempo della maggior parte della
psicoterapia, è più soggetta alla logica costo/beneficio degli organismi di
managed care 40. La maggior parte dei piani di managed care, perciò, offre più
generosi aiuti per i trattamenti farmacologici che per quelli psicoterapeutici, e
di solito non pone barriere all’uso degli SSRI41. Viceversa, questi piani di solito
pongono severi limiti al pagamento delle psicoterapie, che essi considerano
meno necessarie e più devastanti delle medicine. L’uso dei farmaci quindi
comporta meno esborsi da parte dei pazienti che non la psicoterapia, il che
spinge anche gli stessi pazienti a preferire il trattamento farmacologico42.
Sotto la pressione del managed care, «le visite psichiatriche negli studi privati
sono divenute più brevi, prevedono meno di frequente la psicoterapia e
includono più spesso la prescrizione di medicinali. La percentuale di visite
della durata di 10 minuti o meno è aumentata»43. In effetti, a differenza dei
farmaci precedenti, gli SSRI sono usati più raramente in congiunzione con
altre forme di terapia più costose, e più facilmente costituiscono l’unica fonte
di cura. Mentre il numero delle persone curate per depressione con i farmaci
cresce in maniera esplosiva, la percentuale di quelli che ricorrono alla
psicoterapia declina gradualmente44. Nel 1998, per esempio, due terzi delle
persone in precedenza curate per depressione hanno ricevuto solo un
antidepressivo, mentre poco più del 10% ha ricevuto solo psicoterapia45. Il
pagamento della psicoterapia di lungo periodo è quasi scomparso46. Insomma,
gli organismi di managed care sono diventati sempre più gli arbitri dei trattamenti
appropriati e non appropriati, favorendo l’ascesa dei farmaci come risposta alle
difficoltà emotive47.
9.1.5 | L’impatto degli annunci pubblicitari diretti al consumatore
Un altro passo nel crescente uso degli SSRI fu fatto nel 1997, quando la
FDA ammise le pubblicità dei farmaci dirette al consumatore ( direct-to-consumer,
DTC) nei mezzi di comunicazione di massa. Le pubblicità DTC cambiarono
radicalmente il modello dei flussi informativi sui farmaci. In precedenza, le
case farmaceutiche pubblicizzavano i loro prodotti presso i medici, attraverso
annunci pubblicitari che apparivano solo sulle riviste mediche e psichiatriche.
Queste pubblicità chiedevano al loro pubblico di medici e psichiatri di
individuare i problemi dei loro pazienti, laddove le pubblicità DTC si
rivolgono direttamente agli stessi consumatori perché identifichino
personalmente i sintomi di una certa condizione e «chiedano ai loro dottori» di
poter assumere antidepressivi e altri medicinali. «Alla fine del XX secolo»,
osserva Edward Shorter, «questi farmaci avevano raggiunto una tale
circolazione che, un po’ come nel XVIII secolo, i pazienti cominciarono a
vedere i medici come semplici mediatori verso i favolosi nuovi prodotti
piuttosto che come consiglieri capaci di usare in funzione terapeutica la stessa
relazione dottore-paziente»48. Nel 2000 l’industria farmaceutica spendeva oltre
due miliardi di dollari l’anno in pubblicità DTC49.
Date le norme che condizionavano la commercializzazione dei farmaci al
fatto che curassero malattie e non problemi di vita quotidiana e data la
conseguente necessità di proporre descrizioni di singole malattie semplici ma
inclusive adatte a un pubblico generico, la definizione del DDM offerta dal
DSM difficilmente poteva essere più appropriata per gli obiettivi delle
pubblicità DTC. Le case farmaceutiche potevano legittimamente affermare di
essere perfettamente in linea con le norme della FDA dal momento che
richiamavano l’attenzione del pubblico sul fatto che la «tristezza»,
l’«affaticamento», la «mancanza di sonno» e simili sono potenziali sintomi di
una malattia.
Le pubblicità DTC, in realtà, sfruttano l’assenza nel DSM di determinazioni
contestuali nel momento in cui disegna il ritratto tipico delle persone che
presentano i sintomi del DSM, ma che tuttavia sembrano soffrire non
necessariamente di disturbi mentali bensì di sintomi comunemente associati
con problemi nel rapportarsi con i propri intimi, con difficoltà sul posto di
lavoro o con ostacoli nel realizzare propri obiettivi importanti. Per esempio, un
annuncio pubblicitario del Paxil raffigura una donna su un lato e il marito e il
figlio sull’altro lato, con una lista di sintomi tratti dalla diagnosi del DDM che
separa i due lati. La pubblicità insinua che i sintomi di depressione sono la
causa, più che il risultato, dei problemi familiari. Altri annunci pubblicitari
raffigurano persone che già assumono antidepressivi e grazie a essi sono
tranquillamente impegnate in interazioni con familiari, amici e colleghi. E
presentano modelli generici di donne attraenti (a volte uomini) pensati per
richiamare l’attenzione di quanta più gente possibile. Le immagini delle
pubblicità DTC mostrano inequivocabilmente, anche se implicitamente, come i
farmaci siano usati per regolare la normalità, oltre che la malattia*.
Le pubblicità DTC, dunque, utilizzano la definizione sintomatica della
depressione per offuscare completamente il confine fra tristezza normale e
disturbo depressivo. Difficilmente le case farmaceutiche possono essere
biasimate perché cercano di vendere i loro prodotti al maggior numero
possibile di persone. La definizione di depressione del DSM fornisce loro il
veicolo perfetto per creare una grande domanda di SSRI. La qualificazione di
sintomi comuni come malattie offre insieme una strada legittima alle persone
per ottenere le prescrizioni e un modo legale all’industria farmaceutica di
pubblicizzare i propri prodotti.
Le pubblicità DTC hanno avuto l’ulteriore conseguenza di aggirare la
professione psichiatrica. Esse suggeriscono ai consumatori di «consultare il
medico», e non esplicitamente uno specialista della salute mentale. Con il
risultato che il principale incremento delle prescrizioni di antidepressivi si è
avuto nel settore medico generico, non nel settore specialistico della cura della
salute mentale50. La percentuale di disturbi emotivi curati nel settore medico
generico aumentò da circa un terzo nel 1990-1992 a circa la metà nel 2001-
2003, un incremento in cifre assolute di oltre il 150%51. «L’accresciuta
percentuale del trattamento», secondo l’epidemiologo Ronald Kessler e la sua
équipe, «potrebbe essere stata dovuta alla pubblicità aggressiva diretta al
consumatore dei nuovi farmaci psicotropi»52. La medicina generale, non i
servizi specialistici della salute mentale, è ora la principale arena del
trattamento dello stress emotivo.
I tre quarti delle visite presso gli ambulatori per la cura di problemi di salute
mentale o di abuso di sostanze sfociano ora in una prescrizione, di solito per
un SSRI, spesso senza altro tipo di trattamento. Ci sono indizi che le pubblicità
DTS siano responsabili di una parte di questo aumento nell’uso degli
antidepressivi: gli incrementi nelle percentuali delle prescrizioni di
antidepressivi fanno seguito a periodi di aumenti di spesa nella pubblicità
DTC53. La ricerca, inoltre, conferma che quando i pazienti menzionano ai loro
medici specifici farmaci che hanno visto pubblicizzati, il medico è incline a
prescrivere quelle medicine54. Non è chiaro se le persone in effetti definiscano
e avvertano le loro emozioni di tristezza come disturbi depressivi o
semplicemente approfittino della circostanza per ottenere legalmente medicine
per regolare le loro emozioni. Non c’è dubbio, comunque, che gli annunci
pubblicitari DTC siano diventati un importante veicolo attraverso il quale le
case farmaceutiche fanno passare la loro utilizzazione dei criteri del DSM per
riformare il modo in cui molte persone inquadrano e interpretano le loro
emozioni di tristezza.

9.1.6 | Il trionfo di Big Pharma


Il risultato della comparsa degli SSRI, del loro uso nel contesto del managed
care, della loro promozione attraverso la pubblicità DTC, della loro maggiore
sicurezza rispetto ai rischi di sovradosaggio e minori effetti collaterali, è la
crescita esponenziale del loro uso dopo la prima messa in commercio alla fine
degli anni Ottanta. Le persone curate per depressione avevano una probabilità
di ricevere una medicina psicotropa quattro volte e mezza maggiore nel 1997
che nel 198755. La tendenza si ampliò in misura sostanziale nella metà degli
anni Novanta. Il numero delle persone che usavano gli SSRI e altri
antidepressivi più recenti quasi raddoppiò, da 7,9 milioni nel 1996 a 15,4
milioni nel 200156. Particolarmente notevole è il loro uso crescente nei
bambini, gli adolescenti e gli anziani, per i quali le percentuali delle prescrizioni
aumentarono del 200-300% nel corso degli anni Novanta57. Fra il 1996 e il
2001, la spesa complessiva per gli antidepressivi salì da 3,4 miliardi di dollari a
7,9 miliardi di dollari58. Nel 2000 il Prozac, lo Zoloft e il Paxil erano tutti fra gli
otto farmaci più prescritti in assoluto, e gli antidepressivi erano la categoria di
farmaci più venduti negli Stati Uniti59. Vale tuttavia la pena di notare che un
notevole segmento del pubblico ancora resisteva all’uso di farmaci per
affrontare i problemi esistenziali: il 64% dei rispondenti in un sondaggio
nazionale del 1998 diceva che difficilmente avrebbe assunto medicine
psichiatriche per far fronte alle inquietudini della vita personale, e anche
quando la domanda era formulata nei termini della cura di sintomi specifici
risultanti dai problemi esistenziali («ti senti depresso, stanco, hai difficoltà a
prendere sonno e a concentrarti, hai sentimenti di svalutazione di te stesso»), il
45% continuava ancora a dire che difficilmente avrebbe assunto medicinali60.
Ciò detto, l’influenza dell’industria farmaceutica è notevole, e ora va ben al di
là della specifica promozione dei farmaci. Essa fa grandi donazioni di denaro a
gruppi di difesa dei pazienti e delle famiglie che promuovono l’idea che la
depressione è una carenza chimica che va riparata con l’uso di farmaci. Le case
farmaceutiche sponsorizzano anche vaste campagne educative, come il
National Depression Awareness Day, in cui viene offerto gratuitamente uno
screening per la depressione presso università e ospedali. Inoltre, forniscono
800 numeri telefonici e siti internet di screening che permettono ai rispondenti
di fare autodiagnosi di depressione e li esortano a recarsi dai loro medici per
farsi prescrivere i propri prodotti. Le case farmaceutiche finanziano anche le
attività di screening nei centri sanitari locali e nelle scuole, di cui abbiamo
parlato nel Capitolo 7. L’industria farmaceutica sponsorizza inoltre una quota
notevole della ricerca clinica sulla depressione: la stessa disciplina della
psichiatria è ora completamente intrecciata con la cultura imprenditoriale di
questa industria61. Le collaborazioni fra industria e accademia stanno
incrementando sempre di più le fonti di finanziamento delle università, dei
centri medici accademici e degli ospedali62. La definizione sintomatica fornita
dal DSM, di facile applicazione, agevola queste iniziative, le quali a loro volta
rafforzano la validità della definizione.
L’uso dei prodotti farmaceutici per affrontare i problemi della vita
quotidiana aveva preceduto il DSM-III. Sotto molti aspetti, la cultura del
farmaco usato come una sorta di droga legalizzata che circonda gli SSRI
prosegue la mania per il Miltown degli anni Cinquanta, e per il Valium e il
Librium negli anni Sessanta e Settanta. Ma mai prima questa cultura è stata così
pesantemente promossa nei mass media, introdotta nelle istituzioni centrali e
abbracciata dai politici. In precedenza gli psichiatri dell’establishment e i
funzionari governativi erano spesso apertamente critici nei confronti
dell’eccesso di prescrizioni di questi medicinali e, in particolare, del loro uso
per far fronte ai problemi esistenziali. Ma ora, la legittimità accordata dal
concetto di depressione del DSM al diffuso trattamento dei sintomi comuni di
un malessere fisiologico è così consolidata che questi gruppi si sono piegati ad
accettare una definizione di disturbo depressivo che abbraccia gran parte della
tristezza normale e a promuovere l’uso degli antidepressivi per trattare simili
condizioni.
Come accaduto con i farmaci antiansia degli anni Settanta, si sta ora
sviluppando un movimento contro il crescente uso degli antidepressivi,
soprattutto nei bambini e negli adolescenti63. Le case farmaceutiche si trovano
ora davanti a requisiti più rigidi che impongono di dichiarare gli effetti
collaterali potenzialmente dannosi e i possibili rischi di suicidio derivanti dai
loro prodotti. Inoltre, come negli anni Settanta, i media sono diventati più
scettici circa le affermazioni di limitati rischi e ampi benefici dei medicinali
antidepressivi. Quale impatto avrà il clima più critico sull’uso effettivo di questi
farmaci è ancora da vedere.

9.2 | Gli an depressivi e il tra amento della tristezza normale

La relazione fra la diagnosi del DSM e le medicine è complicata dal fatto che
gli antidepressivi, e gli SSRI in particolare, toccano aspetti generali del
funzionamento del cervello e, come notato, possono avere effetti simili sia
sulla tristezza normale sia sul disturbo depressivo. I pochi studi che mettono a
confronto i cambiamenti che gli SSRI producono in persone presumibilmente
sane con i cambiamenti subiti da quelle con diagnosi di disturbo depressivo
trovano che gli SSRI funzionano ugualmente sul malato e sul non malato64. Il
sollievo psichico risultante dai medicinali non necessariamente indica, dunque,
che quella che è stata alleviata sia una condizione di malattia. Per esempio,
persone tristi non malate denunciano meno sintomi dopo il trattamento con
gli antidepressivi65.
Pochi oserebbero sostenere che le medicine non hanno un ruolo nella
risposta ai disturbi depressivi: i medicinali possono alleviare drasticamente la
disperazione che accompagna il DDM, e hanno contribuito ad agevolare il
processo di deistituzionalizzazione del sistema della salute mentale che
permette a molte persone di evitare lunghi periodi di ricovero in ospedale. Una
questione più controversa è quella dell’uso dei farmaci per emozioni di
sofferenza ma normali. Gli SSRI alzano i livelli di serotonina nelle sinapsi ed è
quindi plausibile che anche l’infelicità e il disturbo dell’umore rispondano
spesso a essi. Come afferma Peter Kramer, «stiamo entrando in un’epoca in
cui i medicinali possono essere usati per migliorare il funzionamento della
mente normale»66.
Posto che la scoperta che gli SSRI possono influenzare le emozioni
fisiologiche sia confermata, è giusto che questi farmaci siano prescritti a
persone che stanno attraversando un periodo di normale infelicità, oltre che a
quelle con DDM? A questo proposito, ci sono ragioni legittime per l’uno e
l’altro campo.
Una posizione – incarnata nelle linee guida ufficiali del trattamento, nella
medicina basata su prove di efficacia e in atti governativi – guarda al
trattamento con i farmaci in termini esplicitamente positivi. Il Surgeon
General’s Report on Mental Health, per esempio, afferma che «gli
antidepressivi sono efficaci in tutto lo spettro di gravità, dagli episodi
depressivi maggiori al disturbo depressivo maggiore al disturbo bipolare»67.
Inoltre, una larga maggioranza di psichiatri statunitensi è favorevole all’uso
degli SSRI come trattamento di prima linea per la depressione68. In questa
visione il trattamento con i farmaci si è dimostrato efficace per alleviare i
sintomi depressivi, anche se con piccoli rischi di effetti collaterali e altre
conseguenze indesiderabili. Inoltre, i benefici finanziari di questo trattamento
sono considerati di gran lunga superiori ai costi69. Per di più, i farmaci sono
considerati capaci di impedire che condizioni leggere si aggravino. I disturbi
leggeri dovrebbero quindi essere curati con altrettanto vigore di quelli più gravi
– si afferma – non solo per prevenire una quota consistente di futuri casi gravi,
ma anche per limitare futuri esiti come il ricovero in ospedale, la disabilità sul
lavoro e i tentativi di suicidio70.
I sostenitori dei farmaci si preoccupano di un uso troppo scarso degli
antidepressivi e cercano il modo di motivare le persone a procurarseli e usarli.
Vogliono incoraggiare le persone a riconoscere di avere una malattia curabile, a
cercare una cura medica per la loro condizione e a superare lo stigma sociale
che pesa sull’assunzione di medicinali71. Sono inoltre preoccupati del fatto che
non solo la gente comune ma anche i medici generici tendono a riconoscere
sotto misura la depressione e quindi a prescrivere in quantità insufficiente i
farmaci antidepressivi72. Per loro, la crescente consapevolezza ed educazione
sui benefici dei farmaci psicotropi può ottimizzare il trattamento della
depressione. L’opposizione all’uso dei medicinali riflette, secondo lo psichiatra
Gerald Klerman, un «calvinismo farmacologico» che considera ogni farmaco
che fa star bene le persone come qualcosa di cattivo:
Dal punto di vista psicoterapeutico, il mondo è diviso fra i cittadini di prima classe, i santi
che riescono a raggiungere la loro cura o salvezza con la forza della volontà, l’intuizione,
la psicoanalisi, o modificando il comportamento, e il resto delle persone, che sono di
debole fibra morale e hanno bisogno di sostegno, che sia la Thorazine, il Miltown o il
Compoz73.
Quella che Klerman chiama la visione «calvinista» dei farmaci psicotropi
spinge una porzione notevole delle persone a resistere all’assunzione di
farmaci perché ne associa l’uso a una debolezza morale, nonostante i benefici
che potrebbe ricevere assumendoli.
La maggior parte dei sostenitori di questa posizione, in linea con il DSM,
ritiene semplicemente che le condizioni curate dai farmaci sono disturbi
depressivi e non tristezza normale. La loro opinione sull’uso dei medicinali per
curare la tristezza normale non è, perciò, esplicita. Ma alcuni di essi sono
abbastanza chiari nell’affermare che i farmaci debbano essere usati per curare
qualsiasi forma di sofferenza74. La pena che nasce, per esempio, dalla morte di
una persona cara, dalla rottura di una relazione sentimentale o dalla perdita del
posto di lavoro, è altrettanto reale di quella che ha origine da un disturbo
depressivo. La posizione di costoro è che semplicemente non c’è una buona
ragione perché le persone debbano sopportare la sofferenza psichica causata
dalla tristezza normale quando ci sono strumenti sicuri ed efficaci per
alleviarla. Dopotutto, poche persone vorrebbero che le donne rifiutassero
l’anestesia che consente di alleviare le sofferenze normali legate al parto. Chi
sostiene questa posizione afferma che se una persona è convinta che gli SSRI
possono allietare la sua vita, offrire un maggiore controllo sulle sue emozioni e
accrescere la sua autostima, oltre a dare sollievo alle inevitabili pene
dell’esistenza umana, deve essere in grado di usarli, anche in assenza di una
patologia qualsiasi. In questa ottica il sollievo della sofferenza è un valore che
supera tutti i costi che potrebbero derivare dal curare con farmaci la tristezza
normale.
Le obiezioni a questa posizione favorevole alle medicine vengono
generalmente dal di fuori della professione psichiatrica, della comunità di
ricerca clinica e delle agenzie governative. Per millenni le persone hanno usato
la religione, la spiritualità e la filosofia per comprendere come la loro infelicità
sia radicata in più vasti interrogativi sulla vita75. Questo interrogarsi permette
all’individuo di capire come le sue emozioni siano correlate agli aspetti
fondamentali dell’esistenza umana e di apprezzare i suoi sentimenti in modo
più profondo di quanto possa fare la loro mitigazione tramite le medicine.
«Parte almeno della tormentata preoccupazione a proposito del Prozac e
simili», lamenta il filosofo Carl Elliott, «è che nonostante tutto il bene che
fanno, gli ammalati che essi curano sono una componente di quel posto
solitario, distratto, insostenibile, triste in cui viviamo»76. Usare le pillole
significa una fuga dall’affrontare davvero i problemi della vita. A parte le
questioni filosofiche, possono esserci benefici psicologici della tristezza
normale che il suo trattamento potrebbe annullare. Non sappiamo bene al
momento perché siamo biologicamente predisposti a sperimentare la tristezza
in risposta a una perdita e, finché non lo sapremo, è possibile che ci siano dei
benefici nel ritirarsi in uno stato di tristezza dopo una perdita importante che
non sono immediatamente evidenti ma sono nondimeno reali e rilevanti per il
funzionamento psicologico di lungo termine*.
Un’altra obiezione, che riecheggia le critiche fatte negli anni Cinquanta e
Sessanta, sottolinea che il diffuso uso degli antidepressivi porta le persone ad
accettare le situazioni oppressive, anziché opporvi resistenza. Da questo punto
di vista, l’uso dei farmaci psicotropi promuove una visione del mondo che
trasfigura erroneamente i problemi sociali come problemi personali.
Prescrivere una pillola trasmette alle persone coinvolte l’idea che questioni
pubbliche – matrimoni fallimentari, deplorevoli condizioni di lavoro, finanze
inadeguate ecc. – sono preoccupazioni private dell’individuo che vanno trattate
con i farmaci77. ‘Patologizzare’ la tristezza normale che nasce da queste
preoccupazioni implica che le medicine siano il modo giusto di curarle, con la
conseguenza che vengono ignorati altri possibili rimedi*. Questo processo
distoglie l’attenzione dallo sviluppare politiche in grado di mutare le condizioni
che danno origine alla tristezza78. In effetti nel 1958 il Surgeon General
(chirurgo generale), L.E. Burney, ricordava che «i problemi della vita
quotidiana» non possono essere «risolti con una pillola»79, un ammonimento
lontano dalle posizioni degli attuali chirurghi generali.
Altri sollevano la questione se le emozioni di tristezza normale siano un
legittimo problema di pubblico interesse o siano invece problemi personali. La
promozione degli antidepressivi propone una visione del sé debole e fragile,
che richiede il continuo intervento protettivo di professionisti esperti80. I
privati individui divengono sempre più disponibili a esami e regolazioni
pubbliche attraverso gli screening e le successive cure farmacologiche. La
scoperta delle emozioni e dei sentimenti è inevitabilmente molto più intrusiva
e coercitiva di quanto sia la scoperta di malattie fisiche che di solito richiedono
l’aiuto degli esperti.
Altri critici non mettono in discussione le implicazioni politiche e culturali
dei farmaci antidepressivi quanto la loro efficacia e sicurezza. Contestano la
natura benigna degli antidepressivi e affermano che i loro effetti collaterali,
come perdita del desiderio sessuale, nausea, diarrea e mal di testa, sono più
comuni e maligni di quanto non si dica81. E citano anche il maggiore rischio di
suicidio, soprattutto per i giovani, durante gli stadi iniziali dell’assunzione di
questi farmaci82, anche se le prove a sostegno dell’affermazione non sono
molto solide*. Infine, puntano il dito contro i potenziali effetti negativi dell’uso
di lungo termine di queste medicine. Benché non ci siano dubbi che i più
recenti antidepressivi sono più sicuri dei predecessori, c’è tuttavia ragione di
preoccuparsi del loro uso diffuso.
I critici affermano, inoltre, che i difensori degli antidepressivi hanno
banalmente gonfiato troppo l’efficacia di questi medicinali. Gli attuali criteri
promuovono gli SSRI come i farmaci di prima linea per la depressione da
moderata a grave83. Ma l’evidenza che i farmaci antidepressivi siano più
efficaci dei placebo, a giudicare dalle sperimentazioni random a doppio cieco
con placebo, è tutt’altro che univoca. «Nonostante molti esperimenti»,
sintetizza un gruppo di ricerca, «mostrino che gli antidepressivi sono superiori
ai placebo, molti altri non lo fanno, e fra questi alcuni esperimenti meglio noti
come landmark trials, studi di riferimento come quello del Medical Research
Council e quello iniziale del National Institute for Mental Health»84.
Un’indagine globale del National Institute for Health and Clinical Excellence
(NICE) in Inghilterra fa pensare che gli SSRI non abbiano vantaggi
clinicamente significativi rispetto ai placebo lungo tutta la gradazione di gravità
delle patologie. Un rapporto su questo studio conclude: «Dati i dubbi sui loro
benefici e le preoccupazioni per i loro rischi, le attuali raccomandazioni a
prescrivere gli antidepressivi dovrebbero essere riconsiderate»85. L’evidenza
fornisce scarso appoggio all’entusiasmo di prescrivere farmaci.
Ancora meno sono le evidenze per l’efficacia degli antidepressivi nel curare
le condizioni non psicotiche non particolarmente intense (a volte chiamate
depressione ‘lieve’), molte delle quali sono sicuramente casi di tristezza
normale. Anche nella relazione del Surgeon General il fervore per le medicine
antidepressive è un po’ mitigato per questi casi. «Per episodi depressivi lievi»,
conclude il rapporto, «la percentuale di risposta complessiva è di circa il 70%,
con una percentuale per i placebo di circa il 60%»86. L’efficacia degli
antidepressivi per le condizioni lievi supera cioè quella dei placebo solo del
10%. In effetti, da metà a due terzi dei pazienti con depressione lieve
migliorano con il solo placebo. Ciò può indicare che quella che era stata curata
non era una patologia ma tristezza normale, che si attenua naturalmente con il
tempo o con interventi ordinari come l’interazione con altre persone o il
sostegno emotivo da esse fornito. Anche alcuni dei più convinti sostenitori
dell’uso dei farmaci per trattare casi lievi di depressione concludono: «I test
clinici sul trattamento non hanno fornito evidenza che la terapia farmacologica
migliori significativamente i disturbi lievi»87. Confrontati con gruppi di
controllo cui vengono somministrati placebo attivi che imitano qualcuno degli
effetti collaterali degli antidepressivi, non emergono differenze fra gli
antidepressivi e i placebo88.
L’evidenza relativa all’efficacia dei farmaci antidepressivi, soprattutto per la
depressione lieve, è dunque ambigua. Ancora, vista la loro popolarità, è
difficile credere che l’efficacia degli antidepressivi sia così limitata e i loro
effetti collaterali negativi così grandi quanto i critici affermano. Molte persone
trovano che gli antidepressivi offrono modi legali e generalmente sicuri per
moderare le loro emozioni stressanti. Inoltre, i risultati delle prove cliniche
possono essere fuorvianti. In pratica, i consumatori e i loro medici spesso
provano parecchi farmaci diversi prima di trovare alla fine quello che
funziona89. Le prove cliniche, invece, potrebbero minimizzare la percentuale
complessiva di efficacia perché prendono in esame un particolare tipo di
medicine, che si rivelano inefficaci per particolari soggetti che partecipano alla
sperimentazione, mentre un altro farmaco non testato può essere efficace. In
effetti, recenti sperimentazioni con una varietà di farmaci, pensate proprio per
affrontare questo argomento, sembrano raggiungere percentuali più alte di
miglioramento90. Pertanto, il fatto che le medicine abbiano un’efficacia poco
superiore ai placebo è forse una critica meno decisiva di quanto spesso si
creda. Ma è difficile trovare ragioni cogenti perché la politica pubblica debba
‘incoraggiare’ l’uso di farmaci per curare condizioni lievi, molte delle quali
sono con ogni probabilità casi di tristezza normale.
Non è facile scegliere fra le affermazioni concorrenti sull’uso degli
antidepressivi. Tutte le considerazioni di entrambe le posizioni espresse nel
dibattito sembrano avere qualche valore, e non esiste una risposta generale alla
questione se le medicine psicotrope debbano essere prescritte per emozioni
dolorose fisiologiche. Alla fine, gli stessi consumatori devono assimilare tutte
queste considerazioni e giudicare se debbano usare i farmaci antidepressivi per
moderare i loro umori. Negli ultimi decenni il giudizio del pubblico ha
certamente fatto un salto nella direzione dei farmaci: la tolleranza per le
emozioni fisiologiche ma penose è calata, e molte persone in questo mondo
moderno sono addivenute a considerare le medicine come un modo di
controllare i loro sentimenti91. Se trovano che la loro vita appaia più gioiosa
quando sono curate con le medicine, la fede nell’autonomia e nella libera scelta
impone che alle persone non sia impedito di farsi prescrivere da un medico
responsabile quel sollievo. Inoltre, non si deve dimenticare che le pubblicità
DTC spingono molte persone veramente depresse a cercare aiuto e a ricevere
farmaci utili dai loro medici92. Il punto da tenere a mente, abbiamo sostenuto,
è che la diagnosi non dev’essere costruita su basi non valide ipotizzando
patologie dove non ci sono e influenzando queste decisioni.

9.3 | Conclusione

Poiché tanti punti sul ruolo giusto dei farmaci antidepressivi rimangono
irrisolti, l’atteggiamento più saggio da tenere è quello della prudenza, evitando
affermazioni trancianti a difesa o a condanna del loro uso. In passato i
responsabili di governo erano preoccupati dei possibili pericoli e dell’uso
eccessivo delle medicine psicotrope, e anche delle campagne dell’industria
farmaceutica per incoraggiare segmenti sempre più ampi della popolazione ad
assumerle. Numerose audizioni del Congresso sollevarono la questione della
promozione dei prodotti farmaceutici, soprattutto per i problemi esistenziali.
Con un notevole dietrofront, i criteri diagnostici basati sui sintomi ripensano
facilmente gli ‘stress della vita quotidiana’ come indizi di patologia. Di sicuro
esiste una ragionevole via di mezzo.
Quali, per esempio, sarebbero le conseguenze per le pubblicità DTC se i
criteri per la Depressione Maggiore del DSM venissero cambiati per
distinguere in maniera più adeguata la tristezza normale dal disturbo
depressivo? A titolo di confronto, negli anni Sessanta la casa farmaceutica
Sandoz mise in commercio un nuovo tranquillante, il Serentil, e lo lanciò con
una pubblicità che ne raccomandava esplicitamente l’uso per problemi generali
della vita: «Il nuovo arrivato in città che non riesce a fare amicizie. L’uomo
d’azienda che non riesce ad adattarsi al cambiamento di status dentro la sua
società. La donna che non riesce ad andare d’accordo con la nuova nuora. Il
dirigente che non riesce ad accettare il pensionamento». La FDA impose alla
Sandoz di ritirare l’annuncio pubblicitario e di pubblicare una rettifica in cui si
dichiarava che non si voleva dire che il Serentil fosse indicato per «le situazioni
d’ansia quotidiana che si incontrano nel corso normale della vita», ma solo per
«certi stati di malattia»93. Se il DSM creasse standard più restrittivi per il DDM,
le pubblicità DTC degli antidepressivi dovrebbero adeguarsi a questi criteri. Il
risultato sarebbe un abbassamento almeno marginale dell’appeal dell’uso del
farmaco per i problemi normali della vita, anche se di fatto questo è un
obiettivo desiderabile.
Ma il tipo di dibattiti che si verificarono prima del 1980 sulla saggezza di
curare con i farmaci lo stress fisiologico sono in gran parte scomparsi dalla
psichiatria, anche se continuano nella medicina generale (per esempio, se a
individui normalmente bassi si debbano somministrare ormoni della
crescita)94. Le discussioni si concentrano invece più strettamente sui temi
dell’efficacia e degli effetti collaterali, o se siano preferibili alle medicine terapie
alternative. Questa mancanza di discussione sembra essere dovuta al fatto che,
quando una condizione è già definita in partenza come malattia, la
considerazione di quale trattamento sia il più appropriato è viziata dall’assunto
che c’è qualcosa di sbagliato nell’individuo*. La questione se interferire con i
meccanismi fisiologici debba essere preferito al correggere i meccanismi
malfunzionanti è considerata fuori luogo, e il pensiero medico diviene
corrispondentemente meno sfumato.
La nostra analisi suggerisce la necessità di una maggiore chiarezza
concettuale da parte del professionista della diagnosi e di un consenso più
informato da parte del paziente. Un aspetto fondamentale del consenso
informato è che il paziente riceva una diagnosi il più accurata possibile, e non
c’è distinzione diagnostica più fondamentale di quella fra patologia e stato
emotivo fisiologico in risposta a circostanze della vita, che con tutta probabilità
si risanerà con il tempo senza intervento. La prognosi e le decisioni sulla
adeguatezza di possibili trattamenti dipendono da questa distinzione, ed è
importante che il professionista condivida questa informazione con il paziente
per decidere insieme un percorso terapeutico.

Note
1 | Jackson, 1986.↵
2 | MacDonald, 1981, p. 190.↵
3 | Shorter, 1997.↵
4 | Ivi, p. 316.↵
5 | Grob, 1991a, p. 149; Shorter, 1997, p. 316. [Cfr. anche D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino
d’oro edizioni, Roma 2014. NdC]↵
6 | Parry, Balter, Mellinger, Cisin, e Manheimer, 1973; Smith, 1985, pp. 46-47.↵
7 | Shapiro e Baron, 1961; Raynes, 1979; Cooperstock e Leonard, 1979.↵
8 | Cooperstock, 1978; Smith, 1985; Olfson e Klerman, 1993.↵
9 | Jagger e Richards, 1967.↵
10 | Metzl, 2003.↵
11 | Healy, 1997, p. 226.↵
12 | Gardner, 1971.↵
13 | Smith, 1985, p. 179.↵
14 | Ivi, p. 187.↵
15 | Ivi, p. 189.↵
16 | Ivi, p. 127.↵
17 | Shorter, 1997, p. 319.↵
18 | Smith, 1985, p. 210.↵
19 | Ivi, p. 81.↵
20 | Ivi, pp. 31-32; Olfson e Klerman, 1993.↵
21 | Smith, 1985, p. 32.↵
22 | Healy, 1997.↵
23 | Horwitz, 2002.↵
24 | Merikangas, Prusoff, e Weissman, 1988.↵
25 | Horwitz, 2002.↵
26 | Healy, 1991; Olfson, Marcus, Druss, Elinson, et al. , 2002.↵
27 | Shorter, 1997.↵
28 | Kramer, 1993, p. 64.↵
29 | Ivi.↵
30 | Healy, 1991.↵
31 | Zuvekas, 2005.↵
32 | Kramer, 1993, p. 64.↵
33 | Shorter, 1997, p. 323.↵
34 | Pincus et al. , 1998.↵
35 | Elliott, 2004a; Squier, 2004.↵
36 | Mann, 2005.↵
37 | Metzl, 2003.↵
38 | Mechanic, 1998.↵
39 | Wang et al. , 2005.↵
40 | Luhrmann, 2000.↵
41 | Cutler, 2004.↵
42 | Cutler, 2004.↵
43 | Olfson, Marcus, e Pincus, 1999, p. 451.↵
44 | Olfson, Marcus, Druss, e Pincus, 2002; Zuvekas, 2005.↵
45 | Crystal, Sambamoorthi, Walkup, e Akincigil, 2003.↵
46 | Zuvekas, 2005. [ Quanto ci sia una correlazione tra la scarsa riuscita della psicoterapia e l’aumento
dell’uso dei farmaci è piuttosto visibile. Possiamo osservare che le basi della psicoterapia classica, di
tipo psicodinamico, più diffusa nell’arco di tempo indicato dall’autore, si costruiscono sulle nozioni
psicoanalitiche fondamentali, risultate fallimentari circa la «cura per la guarigione», concetti che la
stessa psicoanalisi non si è mai proposta. NdC]↵
47 | Conrad, 2005.↵
48 | Shorter, 1997, p. 314.↵
49 | Elliott, 2003, p. 102.↵
50 | Olfson, Marcus, Druss, e Pincus, 2002.↵
51 | Kessler et al. , 2005.↵
52 | Ivi, p. 2521.↵
53 | Donohue et al. , 2004.↵
54 | Kravitz et al. , 2005.↵
55 | Olfson, Marcus, Druss, Elinson, et al. , 2002.↵
56 | Zuvekas, 2005.↵
57 | Crystal et al. , 2003; Thomas, Conrad, Casler, e Goodman, 2006.↵
58 | Zuvekas, 2005.↵
59 | Elliott, 2004a, p. 5.↵
60 | Croghan et al. , 2003.↵
61 | Shorter, 1997.↵
62 | Clarke, Shim, Mamo, Fosket, e Fishman, 2003.↵
63 | Healy, 2004.↵
64 | Knutson et al., 1998; Kramer, 1993.↵
65 | Zisook, Schuchter, Pedrelli, Sable, e Deaciuc, 2001.↵
66 | Kramer, 1993, p. 247.↵
67 | U.S. Department of Health and Human Services (USDHHS9, 1999, p. 262.↵
68 | Olfson e Klerman, 1993.↵
69 | Greenberg et al. , 1993; Frank, Busch, e Berndt, 1998.↵
70 | Kessler, Merikangas, et al. , 2003; Kramer, 2005.↵
71 | Hirschfeld et al. , 1997.↵
72 | Ibidem.↵
73 | Klerman come citato in Smith, 1985, p. 89.↵
74 | Kramer, 1993.↵
75 | Dworkin, 2001.↵
76 | Elliott, 2004b, p. 129.↵
77 | Conrad, 1992.↵
78 | Furedi, 2004.↵
79 | Smith, 1985, p. 73.↵
80 | Furedi, 2004.↵
81 | Glenmullen, 2000.↵
82 | Healy, 2004.↵
83 | Mann, 2005, p. 1827.↵
84 | Moncrieff e Kirsch, 2005, p. 156.↵
85 | Ivi, p. 158.↵
86 | USDHHS, 1999, p. 262.↵
87 | Kessler et al. , 2005, p. 2520.↵
88 | Moncrieff et al. , 2004.↵
89 | Hamburg, 2000.↵
90 | Trivedi et al. , 2006.↵
91 | Conrad, 2005.↵
92 | Cutler, 2004.↵
93 | Smith, 1985; Elliott, 2003, pp. XV-XVI.↵
94 | Conrad, 2007.↵
* Cfr. nei dettagli la documentazione della pubblicità DTC su D. Herzberg, Le pillole della felicità cit., pp.
52-55, 211-213. [NdC]↵
* L’elaborazione di una separazione permette la realizzazione di una nuova realtà interiore per
l’individuo. Si tratta di un movimento evolutivo, a dispetto dello stato d’animo negativo a esso
correlato. La separazione, infatti, costituisce la base fondamentale del rapporto interumano per la
realizzazione dell’individuo, sia a livello ontogenetico che nel corso della vita adulta. Se la separazione
non viene realizzata si verifica una condizione patologica. Cfr. M. Fagioli, Teoria della nascita e castrazione
umana, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2012. [NdC]↵
* Questo atteggiamento è stato osservato come analogo all’uso di droghe per colmare dei vuoti
personali o per raggiungere fantomatici livelli personali non altrimenti realizzabili. Un altro scopo
consiste nell’alleviare la sofferenza sociale. Cfr. D. Herzberg, Le pillole della felicità cit. [NdC]↵
* Considerando la gravità del rischio è bene sottolineare che esso non può essere minimizzato. Cfr.
S.E. Hetrick et al., Newer generation antidepressants for depressive disorders in children and adolescents, in
“Cochrane Database of Systematic Reviews”, 11, 2012, p. CD004851. Inoltre questi rischi non
riguardano soltanto i giovani ma anche gli adulti trattati con antidepressivi. Uno studio recente, ad
esempio, ha evidenziato la correlazione tra fluoxetina e un’aumentata ideazione suicidaria. S.J. Garlow
et al. , Fluoxetine increases suicide ideation less than placebo during treatment of adults with minor depressive disorder,
in “Journal of Psychiatric Research”, 47, 2013, pp. 1199-1203. [NdC]↵
* Questa considerazione trova corrispondenza nella tesi che identifica alla base della questione un
problema di natura culturale. Esso trova le sue radici in diffuse ideologie di natura filosofico-religiosa e
psicoanalitica. L’idea di una natura ‘sbagliata’ dell’essere umano è presente, in fondo, dall’idea di
peccato originale, così come la troviamo nella concezione freudiana di inconscio ed è proprio essa a
provocare un ricorso necessario al farmaco in caso di patologia: legata all’essere umano vi è
un’intrinseca concezione di mancanza (conservata anche da psicoanalisti moderni come, ad esempio,
Lacan), che viene condivisa da malato e medico curante. Di fondo entrambi credono in un’incurabilità,
legata a questa natura ‘sbagliata’. Di fronte a ciò il farmaco sembra essere l’unica strada. Anche per
questi condizionamenti ideologici, la società moderna si basa sempre di più su un’efficienza produttiva
e su princìpi razionali senza lasciare spazio alla realtà affettiva ed emotiva. Si preferisce il farmaco alla
terapia integrata e l’aspetto affettivo viene considerato intrinsecamente difettoso. [NdC]↵
Capitolo 10 | L’incapacità delle scienze
sociali di dis nguere la tristezza dal disturbo
depressivo

Il campo della psichiatria non è sospeso nel vuoto: dipende da altre


discipline per molti dei sostegni intellettuali della sua teoria clinica. Potremmo
dunque aspettarci che discipline come l’antropologia e la sociologia siano in
una buona posizione per aiutare a correggere la confusione della nosologia
psichiatrica sulla distinzione fra disturbo depressivo e intensa tristezza
normale. Gli antropologi potrebbero individuare i meccanismi emotivi
universali che fanno parte della natura umana e approfondire le varianti
culturali della loro espressione, e potrebbero stabilire quando queste varianti
culturali portano a un’errata etichettatura di patologia. I sociologi potrebbero
dimostrare come assetti sociali stressanti producano spesso tristezza non
patologica, che può a volte essere abbastanza grave da soddisfare i criteri del
DSM, e potrebbero distinguere fra lo studio delle risposte emotive fisiologiche
allo stress sociale e lo studio del disturbo mentale.
Ma, in realtà, anziché offrire le ragioni di una critica alla fusione operata dalla
psichiatria tra tristezza normale e patologica, queste discipline hanno
funzionato come ‘garanti’ delle definizioni iperinclusive che la psichiatria dà del
disturbo depressivo non essendo esse stesse capaci di tracciare le giuste
distinzioni all’interno dei loro ambiti disciplinari. Gli antropologi si
concentrano sulla presunta relatività culturale delle definizioni di tristezza e
patologia, affermando che non è possibile alcuna definizione di queste
condizioni al di fuori del particolare sistema di valori di ogni cultura. I
sociologi usano i concetti di stress e malattia in modo intercambiabile senza
separarli fra loro. Questo capitolo esamina come l’incapacità di queste
discipline di distinguere adeguatamente la tristezza ordinaria dal disturbo
depressivo non solo ha abbandonato la psichiatria alle sue sfide concettuali ma
ha anche fatto sì che queste discipline cadessero in confusione nella loro
propria ricerca.

10.1 | Antropologia

10.1.1 | Il ruolo dei conce universali


Come abbiamo sostenuto nel Capitolo 2, tanto i valori culturali quanto il
carattere funzionale universale dei meccanismi di risposta alla perdita devono
entrare nelle buone definizioni della tristezza normale e dei disturbi depressivi.
Le esperienze generali di perdita, come un’umiliante caduta dello status sociale,
la perdita di legami importanti e l’incapacità di raggiungere obiettivi sociali,
sono universali. E anche l’emozione della tristezza e parte dei sintomi a essa
associati, pur diversificati nelle loro espressioni, sono universali attraverso le
culture. Ma i meccanismi di risposta alla perdita sono programmati per reagire
secondo idee culturalmente definite dello status dei legami importanti, o degli
obiettivi meritevoli di essere perseguiti e quindi le distinzioni fra le risposte
normali alla perdita e le risposte patologiche devono prendere in
considerazione i sistemi culturali di significato. La cultura influenza il modo in
cui le persone apprendono le modalità giuste per esprimere la tristezza e la
depressione.
Gli antropologi sono in buona posizione per studiare quali aspetti delle
risposte alla perdita siano determinati dalla cultura e quali appartengano
all’area del funzionamento umano tipico della specie. E invece hanno
contribuito a perpetuare la confusione della psichiatria negando che sia persino
possibile operare una distinzione cogente fra risposte alla perdita normali e
disfunzionali radicate nella selezione naturale. Questa negazione è in qualche
misura espressione di una persistente resistenza dell’antropologia all’idea stessa
che esista una ‘natura umana’, perché in passato le idee eurocentriche di
normalità sono state usate a scopi oppressivi per classificare le società non
occidentali come inferiori. Ma è espressione anche di una confusa prospettiva
postmodernista che considera più o meno ogni realtà umana come
determinata completamente dalla cultura*.
Gli antropologi che studiano la depressione affermano generalmente che la
distinzione fra la normalità e la patologia dipende interamente dai sistemi di
valore dei particolari gruppi culturali. Il classico articolo di Ruth Benedict,
Anthropology and the Abnormal, fissò l’agenda della ricerca antropologica sulla
depressione e altri disturbi mentali, sottolineando che tutte le definizioni di
normalità e patologia derivano da concetti locali che non possono essere
generalizzati da una cultura all’altra1. Ciò che alcune culture vedono come
depressione patologica, sosteneva Benedict, altre lo vedono come tristezza
normale. Per esempio, gli Zuni dell’Arizona considerano stati di passività
estrema e di fatalismo, che per gli psichiatri occidentali sarebbero
manifestazioni di Depressione Maggiore, come espressioni normali, e
addirittura ammirevoli, di una personalità culturalmente definita. Per Benedict,
tutti i concetti universali di patologia e normalità traggono origine da norme
etnocentriche occidentali che non riflettono in maniera accurata i
comportamenti indigeni cui vengono applicati. Invece, affermava la grande
antropologa, sono le definizioni culturali locali a determinare ciò che è
normale o patologico in ciascuna società.
Ci sono parecchi punti deboli nel ragionamento di Benedict. Appare chiaro
che le condizioni degli Zuni che lei descrive sono in effetti condizioni
largamente normali, radicate in atteggiamenti filosofici e tendenze della
personalità configurati dal sistema di significati della cultura. Gli psichiatri
occidentali che diagnosticavano queste condizioni come mentalmente
disturbate sbagliavano. Ma Benedict non distinse con cura queste interessanti
condizioni da altre condizioni meno spiegabili con la cultura che gli stessi Zuni
avrebbero giudicato come veri disturbi. È possibilissimo che una condizione in
una cultura sia considerata normale mentre in un’altra cultura una condizione
superficialmente simile sia considerata disturbata. Ciò accade nel primo caso se
la condizione di sofferenza nasce da una normale configurazione culturale dei
sistemi di significato ed espressivi, mentre nel secondo caso è il prodotto di
una disfunzione dei meccanismi di risposta alla perdita. Per esempio, l’aspetto
di estrema e cronica assenza di piacere che è normale fra gli Zuni a causa della
loro socializzazione culturale, può indicare un disturbo depressivo in membri
di gruppi culturali occidentali moderni che hanno conosciuto una diversa
socializzazione che normalmente non conduce a sentimenti del genere. Ma il
fatto che per determinare la distinzione normalità-disturbo debbano essere
tenute presenti le norme culturali non significa che queste norme costituiscano
in pieno tale distinzione: esse sono solo uno dei fattori che conformano la
variante normale.
Le tesi di Benedict sopravvivono come princìpi centrali della «nuova
psichiatria transculturale», che domina gli studi antropologici della malattia
mentale dagli anni Settanta. Incentrata sul lavoro dell’antropologo e psichiatra
di Harvard Arthur Kleinman, questa scuola ha prodotto una grande quantità di
penetranti e dettagliate ricerche sugli aspetti della depressione legati alle
specifiche culture, e ha sviluppato critiche convincenti alla tendenza della
psichiatria a esagerare la natura universale della depressione. In particolare,
l’attento insegnamento transculturale dello stesso Kleinman, con la sua
rappresentazione eloquente e illuminante dei significati sociali e personali che
stanno dietro i comportamenti dei pazienti, ha rimodellato la comprensione e
lo studio della psichiatria transculturale. Tuttavia, in reazione all’etnocentrismo
occidentale, gli antropologi che operano all’interno del paradigma di Kleinman
si sono spinti troppo in là nell’altra direzione, sottolineando la variabilità
culturale fino al punto di escludere totalmente gli elementi comuni, a livello
mondiale, della depressione. Ciò ha quindi sollevato difficili interrogativi
concettuali circa l’intero loro approccio. Molti antropologi rifiutano di usare
qualunque distinzione fondata sul funzionamento della biologia, costante da
una cultura all’altra, per spiegare le enormi differenze di definizioni e
manifestazioni della depressione in società diverse2. Le funzioni psicologiche
come il pensiero, la lingua, la percezione e l’umore – affermano – hanno
origine molto più dalla cultura che dalla biologia. I sistemi psicologici, secondo
l’antropologo Laurence Kirmayer, «sono così malleabili da essere pronti per
qualsiasi cosa [...] A parte poche funzioni fisiologiche relativamente semplici, è
impossibile identificare a che cosa i sistemi o le funzioni psicologiche sono
destinate in senso universale»3.
Gli antropologi della depressione quindi insistono sulla unicità culturale. La
cultura si riferisce a costumi, simboli, credenze, valori e norme che gli individui
di un gruppo condividono ma che sono differenti fra gli individui di gruppi
diversi. Per gli antropologi, queste variabili regole culturali ‘costituiscono’ i
concetti di normalità e patologia, rendendo impossibile una definizione
universale della tristezza normale o del disturbo depressivo che sia ancorata
nella natura umana. Il disturbo, secondo questa concezione, consiste appunto
in qualunque cosa una cultura definisca come comportamento deviante o
negativo. Le dichiarazioni relative a standard umani comuni del funzionamento
psicologico non fanno che imporre di fatto sulle altre culture categorie
etnocentriche occidentali di comportamento appropriato o inappropriato4. Le
affermazioni circa il funzionamento naturale della tristezza come un’emozione
e un meccanismo di risposta alla perdita, per esempio, assumono le categorie
culturali create dagli psichiatri occidentali e dalla cultura occidentale e le
sovrappongono ai prodotti di definizioni, regole ed espressioni di un’altra
cultura nella quale le categorie occidentali non valgono5.
L’antropologo Gananeth Obeyesekere, per esempio, sostiene che i buddisti
dello Sri Lanka vedono i sintomi quali disperazione, sensazione di non contare
nulla e dispiacere come parte di una filosofia di vita culturalmente riconosciuta,
e non come una malattia6. Afferma che i buddisti rispondono alla perdita
generalizzando la loro disperazione da sé stessi al mondo, sicché nella visione
buddista del mondo la tristezza non può avere significato patologico. Una
variabilità culturale così estrema nelle definizioni della depressione indica,
secondo Obeyesekere, che non esiste una categoria universale di malattia. Quel
che è considerato depressione va descritto e analizzato nei termini di ogni
particolare gruppo culturale.
I buddisti dello Sri Lanka che Obeyesekere descrive certamente non hanno
disturbi depressivi, anche se soddisfano i criteri del DSM per la Depressione
Maggiore. Chiaramente, egli parla della tristezza normale, poiché i sintomi da
lui descritti si sviluppano e persistono solo come funzione della situazione di
perdita e di visioni filosofiche della vita. Obeyesekere non discute casi di
profonda tristezza cronica non sorta per ragioni filosofiche o per una perdita
che possa essere classificata propriamente come patologia. Egli non fornisce
alcuna prova che gli stessi abitanti dello Sri Lanka non considererebbero quel
tipo di condizione come manifestazione di patologia. In effetti, la storia dei
resoconti occidentali di disturbo depressivo sono pieni di smentite, come
quella di Obeyesekere, secondo cui ci sono forme di depressione filosofica,
simile a quella cara agli abitanti dello Sri Lanka, che non sono vere patologie. Il
problema che Obeyesekere individua nel tentativo di imporre i criteri del DSM
sulla cultura buddista non sta nel fatto che vengano imposte categorie
occidentali non valide su una cultura in cui esse non si applicano. Egli scopre
piuttosto che la definizione di disturbo depressivo del DSM è non valida
secondo la visione sia occidentale sia buddista e che c’è un accordo generale
sul fatto che reazioni proporzionate alla perdita o a inclinazioni filosofiche non
debbano essere etichettate come disturbi depressivi. La concettualizzazione
occidentale e quella dello Sri Lanka ‘sembrano’ differire solo a causa di errori
nella formulazione della visione occidentale da parte del DSM.
Anziché analizzare i suoi dati attraverso le lenti di una propria distinzione fra
patologia e non patologia, Obeyesekere utilizza l’esempio dello Sri Lanka per
negare la possibilità di fare una ‘qualsiasi’ affermazione universale sulla natura
del disturbo mentale. «La concezione del disease (cioè illness) è il disease*. O, in
altre parole, ci sono solo illnesses e non diseases»7. Con illness Obeyesekere
intende riferirsi qui a definizioni connotate culturalmente di chi viene
inquadrato nel ruolo di malato, mentre il disease è la nozione della patologia
oggettiva e quello che l’autore vuole affermare è che il disease non è altro che
illness. Ma i dati di Obeyesekere non dicono affatto questo; anzi, dimostrano
che culture differenti riconoscono correttamente che le risposte di tristezza
sono normali, nonostante i problemi del DSM.
Il lavoro di Catherine Lutz fra gli Ifaluk della Micronesia è un altro studio
antropologico molto noto della depressione. Lutz considera il concetto di
depressione come una «categoria culturale specificamente occidentale» e
contrappone le risposte degli Ifaluk a una perdita con quelle che si riscontrano
nella medicina occidentale. Trova che gli Ifaluk, quando una persona cara
muore o abbandona l’isola, sviluppano una tristezza che comporta «un
eccessivo pensare/sentire la persona scomparsa, un calo della voglia di
mangiare o di impegnarsi nella conversazione o in altre attività, e sopore»8.
Lutz contrappone i sintomi degli Ifaluk con le condizioni presumibilmente
intrapsichiche rappresentate dalla psichiatria occidentale:
Queste varie interpretazioni delle situazioni di perdita si riferiscono tutte a persone come
oggetto primario cui si può essere legati e da cui si può essere separati. Non si parla mai,
per quanto ne so, di risposte alla perdita non concentrate su una persona o senza oggetto.
Tutte [queste] emozioni sono considerate stati normali9.
E conclude: «L’indagine transculturale della depressione potrebbe essere
sostituita dall’esame delle definizioni indigene delle situazioni di perdita e di
blocco degli obiettivi, e dell’organizzazione sociale delle risposte a esse»10.
Lutz offre una eccellente descrizione della tristezza normale fra gli Ifaluk. La
sua critica dovrebbe appuntarsi sulle definizioni troppo ampie del disturbo
depressivo nella psichiatria occidentale, che può classificare erroneamente
queste risposte come disfunzioni. E invece, al pari di Obeyesekere, utilizza il
suo lavoro per criticare la possibilità di usare definizioni universali e difendere
lo studio di concetti puramente locali. Di fatto, la sua analisi mostra come gli
Ifaluk facciano lo stesso tipo di distinzione fra tristezza normale e disturbo
depressivo che fanno di solito le persone di molti tempi e luoghi. Lei usa
quindi il fatto che il DSM abbia erroneamente abbandonato questi metri di
distinzione nella sua enfasi sui sintomi per sostenere che la medicina
occidentale classifica come patologie condizioni che gli Ifaluk non classificano
affatto come tali. Ma è probabile che se gli stessi metodi etnografici fossero
usati nelle culture occidentali per fare un confronto interculturale tra le
opinioni delle persone comuni, gli occidentali concorderebbero che le
condizioni descritte da Lutz non sono patologie. Il lavoro di Lutz mostra non
che distinzioni applicabili a livello universale sono impossibili ma che la
relazione fra perdita e tristezza normale comprende un elemento universale
che le attuali definizioni psichiatriche occidentali non catturano
adeguatamente.
Lo stesso Arthur Kleinman ha condotto gli studi più noti e rivoluzionari
sulle differenze culturali dell’espressione della depressione. A volte Kleinman
adotta la posizione estrema secondo cui la depressione «è una categoria
culturale costruita dagli psichiatri in Occidente per produrre un gruppo
omogeneo di pazienti»11. In alcuni dei suoi scritti considera le categorie
psichiatriche occidentali come esempi di un errore di categorizzazione che
scambia diagnosi legate alla cultura per tratti universali di malattia. In pratica,
Kleinman asserisce che non ci sono entità esenti da influenze della cultura ma
solo modi di spiegazione culturalmente specifici12.
Più comunemente Kleinman fa una distinzione fra disease e illness13. Per lui,
disease indica anormalità del funzionamento che sono aspetti del mondo
naturale. Illness si riferisce invece alla concreta esperienza vissuta della malattia
e abbraccia le percezioni, interpretazioni, risposte per affrontarla, e alle
rappresentazioni che le persone danno di vari stati morbosi. Le diseases sono
sensazioni somatiche universali; viceversa, a dare forma alla illness sono
fondamentalmente le norme e i significati culturali, e quindi varia largamente
fra i diversi gruppi sociali.
Dopo molte osservazioni e interviste in Cina, Kleinman conclude che i
sintomi fisici che i cinesi usano per esprimere la depressione sono molto
differenti dalle rappresentazioni psicologiche date dagli occidentali. Fra i
pazienti cinesi, il tratto principale della depressione consiste nella sua enfasi
fisica e nella corrispondente mancanza di sintomi psicologici. Essi lamentano
fastidi somatici ma, a differenza degli occidentali, di solito non denunciano
sentimenti di depressione. Inoltre, i pazienti cinesi vedono le loro malattie
come organiche e rifiutano l’idea che abbiano un qualche tipo di disturbo
mentale. Kleinman collega la loro concentrazione sui sintomi fisici e il rifiuto
dei sintomi psicologici ai valori della cultura cinese. Le norme cinesi
scoraggiano l’espressione verbale delle emozioni personali intime ed
enfatizzano l’adempimento dei ruoli sociali e delle relazioni interpersonali.
L’espressione di sentimenti come la solitudine e la tristezza comportano uno
stigma sociale e imbarazzo, e indicano eccessivo egocentrismo. La cultura
cinese incoraggia, al contrario, l’espressione di fastidi fisici. Gli studi di
Kleinman lo portano ad affermare che l’antropologia deve concentrare la sua
attenzione sulla illness piuttosto che sul disease :
La depressione sperimentata completamente come mal di schiena e la depressione
sperimentata completamente come colpevole disperazione esistenziale sono forme di
comportamento di illness così sostanzialmente diverse con diversi sintomi, modelli di
ricerca d’aiuto, decorsi e risposte al trattamento che, sebbene la disease possa essere in
ciascuno dei casi lo stesso, il fattore determinante è la illness piuttosto che la disease14.
In linea di principio, siamo d’accordo con la distinzione di Kleinman fra
disease come sottostante disfunzione universale e illness come espressione
culturalmente connotata di una certa disfunzione. Le discordanze con il suo
ragionamento nascono per l’enfasi quasi esclusiva che egli pone sull’aspetto
‘illness’ del disturbo. La concentrazione dell’attenzione su questo aspetto
solleva parecchi problemi. Primo, se ci sono davvero soggiacenti disfunzioni
comuni, allora la cura dipende presumibilmente in gran parte dal saper
individuare queste disfunzioni e intervenire indipendentemente dalla loro
rappresentazione culturale. Secondo, Kleinman etichetta come «depressione»
in Cina varie condizioni anche quando dice che quelle condizioni hanno poco
in comune con la depressione definita dagli occidentali. E questo fa sorgere la
domanda di che cosa egli veda di comune fra le varie culture che rende tutte
queste condizioni esempi dello stesso disturbo: la depressione. Dovremmo
pensare che o il contesto, come una perdita, o qualche altra caratteristica
condivisa sia in azione per dare corpo a un simile concetto e per portare
Kleinman e altri a inferire una sottostante disfunzione condivisa; ma questo
presupposto già suggerisce che c’è qualcosa che stride nel suo ragionamento
antiuniversalista. In realtà, ogni cultura riconosce la depressione in forme che
gli occidentali riconoscerebbero.
Terzo, nonostante vengano identificati gli stati depressivi in generale,
Kleinman non prende mai sul serio la questione di come le varie culture
distinguano le condizioni depressive normali da quelle patologiche, perché ciò
richiederebbe di esplorare in che modo gli individui inferiscano la disfunzione
soggiacente, il che comporta solo rappresentazioni culturali negative. Egli usa
illness in un senso molto ampio per indicare esperienze spiacevoli, soggettive,
culturalmente riconosciute, e poi definisce disease qualunque condizione
biologica-organica sottostante una malattia. Così, emozioni negative normali e
patologie vengono abbinate, e risultano oscurate le distinzioni che ogni cultura
fa.
Quarto, stranamente per un antropologo, Kleinman non distingue
chiaramente ciò che le persone sono inclini a dire perché è socialmente
desiderabile che dicano da ciò che le persone sentono o credono realmente.
Alcune tendenze culturali a nascondere in pubblico i propri sentimenti
suggeriscono la possibilità che le differenze osservate siano solo superficiali e
nascondano le emozioni che le persone sperimentano effettivamente15. Questa
mancanza di distinzioni sottili fra le espressioni sottostanti e la loro
espressione culturalmente modellata porta al problema finale.
Il punto centrale di Kleinman, la sua vera e propria firma – e cioè che le
persone cinesi sperimentano sintomi psicosomatici di depressione e non
sintomi emotivi di stampo occidentale –, è discutibile. Un attento esame degli
stessi dati da lui esposti mostra che, benché i cinesi del suo campione non
esibissero spontaneamente le loro esperienze depressive concentrandosi su
alcuni sintomi come gli occidentali, essi in realtà denunciavano alti tassi di
sintomi di tipo DSM quando venivano specificamente interrogati su tali
sintomi. Inoltre, il lavoro empirico successivo ha dimostrato che i campioni
cinesi e occidentali sperimentano in genere sintomi molto più simili di quanto
affermato da Kleinman16. Così la sua scoperta classica che le popolazioni
asiatiche esprimano la loro depressione attraverso un «idioma dell’angoscia»
che si concentra su fastidi somatici piuttosto che su sintomi mentali da DSM
sembra essere più una scoperta su come le persone tendono a presentare
socialmente sé stessi che su quello che le persone sperimentano
effettivamente17.
Nella misura in cui rimangono differenze di espressione, la somatizzazione
della depressione può dipendere dal fatto che alcune culture non hanno
vocaboli per descrivere stati interni emotivi o hanno norme sociali che
impediscono di percepire o parlare di sentimenti interiori. Inoltre, che
l’‘espressione’ della depressione differisca o no fra le varie culture, la ricerca di
Kleinman non si pone la domanda fondamentale se le diverse espressioni delle
emozioni siano varianti di una tristezza normale o di disturbi depressivi.

10.1.2 | La necessità di equilibrare i fa ori universali e quelli culturali


Lo studio delle varianti transculturali delle condizioni depressive normali e
patologiche è un campo fertile che produce sorprendenti intuizioni sul potere
dei sistemi di significato culturali di modellare l’esperienza umana. Ma la
concentrazione dell’antropologia medica contemporanea su queste varianti,
escludendo le strutture universali sottostanti che pongono vincoli a queste
esperienze, ha avuto conseguenze problematiche. Gli antropologi che studiano
la depressione hanno in genere abbracciato una visione relativistica secondo
cui non c’è modo di applicare un concetto di patologia o normalità al di là
delle pratiche culturali locali. Perciò prendono spesso la lista stessa dei sintomi
del DSM come rappresentativa della concezione occidentale del disturbo
depressivo; questo consente loro di dimostrare facilmente che la concezione di
normalità di altre culture include condizioni che noi metteremmo nella
categoria della patologia, e ciò costituisce un sostegno a favore di una
posizione di relatività culturale. Dominati intellettualmente da dottrine
relativistiche e dalla paura dell’etnocentrismo culturale, gli antropologi non
possono fare un passo indietro e criticare i presupposti impliciti del DSM sulla
natura umana da una prospettiva che non sia essa stessa culturalmente relativa.
È vero che la realtà può essere divisa in molti modi diversi e che le categorie
di una cultura non devono essere imposte imperialisticamente agli altri. Ma è
anche vero che nessuna comprensione transculturale delle categorie della
patologia che abbia un po’ di sensibilità può ignorare gli universali della natura
umana dovuti alla nostra comune eredità evolutiva e il ruolo che questi
universali giocano nella identificazione delle condizioni normali e patologiche.
Anche se i concetti sono strutture che si manifestano a livello sociale, le realtà
a cui i concetti fanno riferimento nel mondo non necessariamente devono
essere costruite a livello sociale. La rassegna storica che abbiamo esposto nel
Capitolo 2 ha mostrato l’universalità della tristezza come emozione e di alcuni
degli elementi che determinano il modo in cui viene fatta scattare; dove
esistono meccanismi universali che generano emozione, non possiamo non
aspettarci anche che esistano tipi universali di cose che possono andare storte
in questi meccanismi. Benché la cultura plasmi i modi particolari in cui le
persone esprimono l’intensa tristezza e anche quella patologica, ‘quello che’
viene plasmato è uno stato più universale. Una grande variabilità culturale nei
sintomi è compatibile con una base universale intorno alla quale le
rappresentazioni dei sintomi divergono. Inoltre, lo studio delle varianti della
depressione non può procedere in maniera adeguata senza una qualche idea di
ciò che è universale. Per esempio, l’affermazione che alcune culture esprimono
la depressione attraverso sintomi somatici e altre attraverso sintomi psicologici
dipende da una sottostante concezione della depressione che va al di là della
sua espressione sintomatica.
Il rifiuto di esplorare i concetti universali di patologia e normalità, inoltre,
impedisce agli antropologi di formulare critiche stringenti alla psichiatria
occidentale. L’idea che tutte le definizioni di normalità e patologia sono
culturalmente relative significa che gli antropologi non hanno una definizione
della normalità che trascenda ogni particolare sistema diagnostico e dimostri
l’inadeguatezza delle diagnosi psichiatriche all’interno di quel dato sistema.
Fino a che gli antropologi non riconosceranno che le specificazioni più proprie
di quello che è culturalmente relativo dipendono dalla conoscenza di quello
che è universale, non saranno in grado di sviluppare forti concetti di normalità
o patologia, o forti teorie dei fattori che determinano le espressioni culturali
delle condizioni depressive. In questo modo essi limitano drasticamente la loro
capacità di trarre dai loro studi lezioni essenziali per la psichiatria occidentale o
di offrire un correttivo agli eccessi diagnostici occidentali. Un ulteriore
sviluppo dell’idea di «disfunzione» e uno studio più approfondito del modo in
cui la disfunzione interagisce con i significati culturali potrebbero fornire una
benaccetta comprensione delle potenti intuizioni della «nuova antropologia
transculturale» per muovere critiche costruttive alla diagnosi psichiatrica.

10.2 | Sociologia

10.2.1 | La sociologia dello stress


I sociologi dovrebbero trovarsi in una posizione eccellente per criticare la
troppo inclusiva definizione del disturbo mentale del DSM e mostrare il
carattere distinto della tristezza da una parte e del disturbo depressivo
dall’altra. Obiettivo principale del paradigma sociologico della salute mentale
dominante, la sociologia dello stress, è di stabilire le conseguenze psicologiche
degli assetti sociali stressanti18. A questo fine, i sociologi esaminano in che
modo l’esposizione a fattori stressanti, come gravi eventi esistenziali o negative
situazioni sociali croniche e persistenti, si rifletta sulla salute. I fattori stressanti
che i sociologi studiano di solito – matrimoni che falliscono, posti di lavoro
perduti, mobilità sociale bloccata, conflitti fra impegni lavorativi e obblighi
familiari, condizioni di vita inique ecc. – portano appunto al tipo di risposte di
stress che ci possiamo aspettare che persone non malate diano alle circostanze
sociali che le riguardano, benché a volte i fattori stressanti possano far scattare
una patologia. Analogamente, il compito naturale del lavoro sociologico punta
– più che alle patologie individuali – alle condizioni sociali come fonti dei
sintomi, che dovrebbero fornire un correttivo alla pervasiva medicalizzazione
dei problemi sociali da parte degli psichiatri.
Numerosi studi sociologici indicano che le situazioni sociali stressanti
portano tipicamente a uno stress che emerge e fluttua a seconda delle vicende
sociali19. In effetti, i tre principali processi generali che preannunciano alte
percentuali di stress sono collegati a basse posizioni nelle gerarchie di status, a
perdite di legami personali importanti e all’incapacità di conseguire obiettivi di
valore che nel Capitolo 2 abbiamo detto essere le fonti principali della tristezza
normale20. La ricerca sociologica dimostra le conseguenze stressanti sulla
salute mentale non solo della stratificazione socioeconomica ma anche di
posizioni subordinate nelle gerarchie familiari e interpersonali21. Basse
posizioni nelle gerarchie di status espongono i soggetti a quei tipi di
circostanze, come inadeguate risorse finanziarie, oppressive condizioni di
lavoro e familiari, e gravi problemi di salute personali o di parenti e amici cari,
che naturalmente producono stress. La ricerca mostra inoltre che questi status
di inferiorità sono molto più probabilmente la causa che non la conseguenza di
una tristezza normale22.
La seconda importante fonte di stress ha origine dalla perdita di legami
personali intimi. In effetti, i tre eventi esistenziali considerati i più stressanti nei
campioni di americani medi sono la morte della moglie, il divorzio e la
separazione coniugale23. Le perdite di legami importanti sono potenti
abbastanza da produrre uno stress profondo in percentuali enormi – in genere
fra un terzo e una metà – delle persone che le subiscono24. Infine, pure
l’incapacità di conseguire obiettivi di valore nella società è associata ad alti
livelli di stress. Situazioni in cui le persone non possono disimpegnarsi da
obiettivi irraggiungibili o sentono che la loro vita non si è rivelata quale esse
speravano producono comunemente una tristezza non patologica. Esempi ne
sono studenti laureati che non riescono a trovare un posto di lavoro nel campo
per il quale hanno studiato o membri di una facoltà universitaria che falliscono
l’obiettivo di ottenere una cattedra25. Così pure, adulti che non raggiungono gli
obiettivi che si sono proposti in precedenti fasi della vita denunciano maggiore
stress di quelli le cui realizzazioni soddisfano le loro aspirazioni originali26.
Anche le donne che vogliono fortemente avere figli ma sono sterili vivono uno
stress in percentuali molto alte27.
Gli studi dello stress prodotti dalla sociologia non mostrano solo come la
disuguaglianza, la perdita di legami personali e l’incapacità di raggiungere
alcuni obiettivi fanno scattare comunemente lo stress; indicano anche che la
gravità e la durata della risposta alla perdita sono correlate alla profondità dello
stress intervenuto nelle condizioni esistenziali delle persone. La gravità dei
sintomi è funzione diretta del numero e dell’intensità dei fattori stressanti
cronici e degli eventi esistenziali gravi che le persone sperimentano28. Così
pure, lo stress persiste come funzione della durata dei fattori economici e
interpersonali stressanti29. Non si può sfuggire alla conclusione che la grande
maggioranza delle condizioni che provocano stress studiate dai sociologi
sembrano comportare tristezza normale che nasce a causa delle circostanze
sociali e dura più o meno fino a quando persistono quelle circostanze.
Si potrebbe pensare che questa massa di ricerche suoni come un campanello
d’allarme per la potenziale medicalizzazione di quelle che sono in realtà
condizioni di tristezza normale provocate da situazioni sociali. E invece, i
sociologi hanno anche loro accettato un approccio sintomatico simile a quello
del DSM, che classifica come malattia un ampio spettro di reazioni emotive
negative. Hanno così sostenuto e addirittura aumentato le confusioni del DSM
anziché tracciare le necessarie distinzioni che magari potrebbero correggere la
situazione.
La grande maggioranza delle stime degli studi sociologici provengono dalle
misure della depressione del Centro per gli studi epidemiologici (Centre for
Epidemiological Studies, CES-D), una scala sviluppata durante gli anni
Settanta per stabilire la depressione in popolazioni di comunità30. Il CES-D
contiene una serie di 20 domande standardizzate che interrogano su quanto
spesso un sintomo si è presentato nel corso della settimana precedente. Alle
risposte viene assegnato un punteggio da 0 a 3 in base alla loro frequenza in
quell’arco di tempo, e i punteggi delle risposte vengono sommati in una cifra
totale. Gli interrogativi specifici sono:
1) Ero seccato da cose che di solito non mi infastidiscono.
2) Non mi vedevo come uno che mangia; avevo poco appetito.
3) Sentivo di non essere in grado di scrollarmi di dosso la depressione neanche con l’aiuto
della mia famiglia e dei miei amici.
4) Sentivo di essere buono come tante altre persone (punteggio negativo).
5) Avevo difficoltà a tenere concentrata la mia mente su quello che facevo.
6) Mi sentivo depresso.
7) Sentivo che tutto quello che facevo mi costava sforzo.
8) Mi sentivo pieno di speranze per il futuro (punteggio negativo).
9) Pensavo che la mia vita fosse un fallimento.
10) Ero impaurito.
11) Avevo un sonno agitato.
12) Ero felice (punteggio negativo).
13) Parlavo meno del solito.
14) Mi sentivo solo.
15) Le persone non erano amichevoli.
16) Mi godevo la vita (punteggio negativo).
17) Avevo brevi crisi di pianto.
18) Mi sentivo triste.
19) Sentivo che le persone mi tenevano in antipatia.
20) Non riuscivo ad ‘andare avanti’.
I punteggi totali si collocano su un continuum di patologia che va da leggera
a grave. Punteggi particolarmente alti, di solito 16 e più punti, sono considerati
probabilmente paragonabili ai casi curati di depressione.
Il CES-D, come il DSM, non considera il contesto in cui i sintomi si
sviluppano. Sotto altri aspetti è molto più facile fare una diagnosi di
depressione con il CES-D che non con il DSM. Mentre il DSM esige la
presenza di un umore depresso o dell’incapacità di sperimentare piacere, il
CES-D non prevede alcun sintomo necessario di depressione. Ciò significa che
il punteggio 16 può essere raggiunto in molti modi, anche quando le persone
non hanno i marcatori cardinali di uno stato depresso. Cosa più importante, il
CES-D ha requisiti di durata molto meno ristretti del DSM. Il DSM richiede
che tutti i sintomi siano presenti per almeno due settimane. Viceversa, il CES-
D dà un punteggio positivo anche quando un sintomo è presente per un solo
giorno al di là della settimana precedente. Data la sua natura, non sorprende
che il CES-D scopra percentuali enormi di incidenza. Per esempio, più della
metà di quelli colpiti da un lutto, metà di quelli che hanno affrontato
separazioni coniugali e un terzo di quelli rimasti disoccupati riscuotono
punteggi CES-D che sono considerati paragonabili ai casi curati di depressione
clinica31.
Inoltre, fra un terzo e due terzi circa degli adolescenti riportano punteggi che
sono considerati generalmente equiparabili ai casi di depressione clinica del
CES-D32. Quattro studi intrapresi nel quadro dell’Oregon Adolescent
Depression Project alla fine degli anni Ottanta trovarono che il 39-60% dei
ragazzi e il 56-63% delle ragazze soddisfacevano i criteri della casistica del
CES-D per la depressione clinica33. Un altro ampio studio che usò misure
rilevate in due diversi momenti trovò che solo un terzo circa degli adolescenti
risultarono non depressi nell’una e nell’altra rilevazione34. Anche studi che
significativamente alzano i punteggi del CES-D a 24 o più punti trovano che
circa il 10% di tutti gli adolescenti è depresso35.
Il requisito minimo di durata significa che il CES-D è straordinariamente
sensibile a fenomeni passeggeri ma molto comuni come il fallire un test,
perdere una partita cruciale in uno sport, o scoprire che un ragazzo o una
ragazza esce con un altro36. In effetti, il miglior preannunciatore di alti
punteggi nel CES-D fra gli adolescenti è la rottura di una relazione
sentimentale, un fenomeno diffuso in questo gruppo d’età. I soggetti che
dichiarano di essere seccati dalle cose, di avere difficoltà a concentrarsi, di
sentirsi depressi, di avere un sonno inquieto, di non essere felici, di non godere
la vita, di sentirsi tristi, e di non riuscire a liberarsi dal cattivo umore, sono
considerati possibili ‘casi’ di disturbo depressivo anche se i sintomi
scompaiono pochi giorni dopo il verificarsi di simili eventi.
Ma i sociologi continuano a non essere capaci di distinguere se gli alti
punteggi sulle scale dei sintomi sono relativi a persone in condizioni croniche e
ricorrenti che persistono indipendentemente dalle situazioni sociali o a persone
con stress indotti in maniera transitoria da circostanze particolari. Gli articoli
sociologici tipici usano in maniera intercambiabile termini come «depressione»,
«stress», «mancanza di benessere», «malattia mentale» o «disturbo mentale». Le
comuni conseguenze psicologiche delle situazioni sociali stressanti sono a volte
chiamate «stress» e altre volte (spesso nel medesimo capoverso dello stesso
articolo) «depressione» o «disturbo mentale». Invece di distinguere lo stress
non patologico, che compare come funzione di situazioni esterne ed è
proporzionale a quelle situazioni, dai disturbi depressivi che indicano la
presenza di una disfunzione psicologica interna, i sociologi hanno
semplicemente perpetuato la confusione fra le due condizioni.
Di conseguenza, privi come sono di qualsiasi idea anche sommaria di
patologia e stress, i sociologi non si sono resi conto che gli studi attuali di
sociologia dello stress fondono insieme due diversi ambiti di ricerca. Il primo
ambito non ha assolutamente nulla a che fare con il disturbo mentale e
riguarda invece le conseguenze di uno stress normale provocato da vari fattori
stressanti e situazioni del sistema sociale. Il secondo ambito riguarda i fattori
sociologici che determinano un vero disturbo mentale nel senso che gravi
fattori sociali di stress possono causare o far scattare quel disturbo. Condizioni
traumatiche esterne possono portare, per esempio, combattenti di guerra,
vittime di crimini violenti o sopravvissuti dell’Olocausto a sviluppare
disfunzioni psicologiche37. Non soltanto condizioni traumatiche estreme ma
anche fattori sociali di stress duraturi possono produrre lunghe disfunzioni
interne. La povertà cronica senza prospettive di recupero, per esempio, può
portare le persone a sviluppare un senso interiorizzato e pervasivo di
disperazione e mancanza di risorse, che spesso non cambia neanche quando le
circostanze sociali migliorano38.
Tuttavia, gli esiti ‘tipici’ delle specie di situazioni sociali stressanti studiate di
solito dai sociologi non sono le disfunzioni psicologiche interne bensì le
risposte naturali di persone non malate a situazioni stressanti. Sono quel tipo di
«risposta prevedibile e culturalmente sanzionata a un evento particolare, per
esempio la morte di una persona cara», che anche il DSM esclude
specificamente dalla sua definizione di disturbo mentale39. Sorgono proprio
nei tipi di situazioni – posizioni basse e declinanti nelle gerarchie di status,
perdite di legami personali e incapacità di raggiungere obiettivi desiderabili –
per affrontare le quali sono predisposti i meccanismi di risposta alla perdita
normalmente funzionanti40. L’incapacità della sociologia di riconoscere questi
fatti rende potenzialmente disorientante e ambigua gran parte della ricerca
della sociologia dello stress.

10.2.2 | Gli studi sulla depressione di George Brown


George Brown, sociologo britannico, è probabilmente il più importante
ricercatore al mondo sulla depressione. La sua opera ha avuto più influenza
sulla psichiatria, soprattutto in Gran Bretagna, di quella di qualsiasi altro
sociologo. Il sofisticato modello sociale della depressione sviluppato da Brown
giustifica ampiamente la sua influenza. Il suo approccio globale include
un’insolita combinazione di attenzione ai sottili significati soggettivi che
influenzano gli stati emotivi e di strategie metodologicamente raffinate di
misurazioni sia qualitative sia quantitative. L’opera di Brown è un esempio di
quel tipo fin troppo raro di ricerca sociologica che unisce l’esplorazione del
significato umano a un’accurata metodologia e penetrante teoria.
Ciò detto, noi ci concentriamo qui su un aspetto dell’opera di Brown che
consideriamo come un suo limite, cioè la sua ambiguità sulla distinzione fra
patologia e non patologia. In effetti, non è del tutto chiaro quale insieme di
condizioni il suo modello spieghi o voglia spiegare. La maggior parte dei casi
che Brown considera disturbi depressivi sembrano essere in realtà casi di
tristezza normale, anche se altri sono probabilmente vere patologie. Non
distinguendo adeguatamente i casi di tristezza normale dalla depressione
patologica, Brown limita senza motivo l’utilità del suo preziosissimo modello
della depressione e contribuisce inavvertitamente alla confusione che permea
gli approcci attuali alla diagnosi del disturbo depressivo.
La grande impresa di Brown è stata di elaborare una forte metodologia per
misurare le cause sociali delle risposte a una perdita. In generale, la ricerca sulla
relazione fra gli eventi stressanti della vita e i sintomi depressivi poggia sulle
risposte degli intervistati su quali eventi stressanti della vita hanno subìto e su
quanto sono stati stressanti. Questi metodi basati sui rispondenti confondono
già di per sé gli stati mentali soggettivi degli individui con le proprietà degli
eventi stressanti che sperimentano. E non sorprende che simili studi scoprano
delle relazioni fra il carattere stressante di eventi esistenziali (come riferito dai
rispondenti) e l’intensità dei sintomi (sempre come riferito dai rispondenti):
con ogni probabilità il soggetto intervistato parlerà degli eventi che l’hanno
colpito come altamente stressanti se lui o lei li ricorda come causa di sintomi
intensi. Il sistema di Brown, invece, usa valutazioni oggettive indipendenti di
osservatori (fatte eventualmente alla cieca, senza conoscenza dei successivi
sintomi dei rispondenti) su quanto stress ci si può aspettare che un particolare
soggetto soffra, in considerazione della natura e del contesto degli eventi
esistenziali che lui o lei sperimenta, inclusi i vari possibili significati (per
esempio, umiliazione o intrappolamento). Il sistema che ne risulta fornisce
valutazioni del carattere stressante degli eventi esistenziali che non dipendono
dalla condizione psicologica o dalla disposizione dei rispondenti. Brown,
perciò, separa nettamente la misurazione degli eventi stressanti della vita dalle
misure dell’esito risultante e inserisce allo stesso tempo le tante sottili variabili
biografiche e contestuali nel quadro oggettivo degli eventi esistenziali. Questa
premura e attenzione metodologica alle sottigliezze di significato associate con
i vari eventi esistenziali è senza precedenti nella ricerca sulla depressione.
Il sistema di Brown potrebbe essere particolarmente prezioso dal nostro
punto di vista perché può permettere ai ricercatori di verificare la
proporzionalità delle risposte di tristezza risultante con le valutazioni
indipendenti della gravità dei fattori stressanti che hanno fatto scattare le
risposte. Queste misure sono esattamente ciò che serve per cominciare a farsi
un’idea di risposta ‘proporzionale’ e quindi per esaminare la distinzione fra le
condizioni depressive normali e quelle patologiche. Ma non è questa la
direzione in cui l’opera di Brown si sviluppò, ed egli non traccia una simile
distinzione.
Brown presenta piuttosto la sua opera come uno studio del disturbo
depressivo nella comunità. La sua misura della depressione è il Present State
Exam (PSE), un’intervista clinica strutturata, sviluppata all’inizio degli anni
Settanta. Il PSE produce diagnosi della depressione che sono molto simili a
quelle che derivano dai criteri DSM, che richiedono la presenza di umore
depresso per il mese precedente, nonché almeno quattro dei seguenti sintomi:
disperazione, idee o azioni suicidarie, perdita di peso, risveglio precoce,
difficoltà nell’addormentamento, scarsa concentrazione, ruminazione, perdita
di interesse, autosvalutazione e anergia (incapacità dell’organismo a rispondere
a una tossina). Brown usa a volte i criteri più bassi dell’umore depresso e di
almeno un altro sintomo del PSE per misurare quelli che egli chiama casi
«borderline» di depressione che sono analoghi a quelli della depressione
sottosoglia o minore41. La differenza principale fra il PSE e le interviste
strutturate basate sui criteri del DSM sta nel fatto che il PSE non accerta le
storie di depressione di tutta la vita: Brown esamina esclusivamente episodi di
depressione dell’anno precedente.
Gli studi di Brown scoprono percentuali di depressione in campioni di
comunità che sono anche più alti che negli studi statunitensi. Per esempio,
circa il 15% delle donne della classe operaia a Londra ha quella che Brown
chiama «depressione clinica» per un periodo di 12 mesi42. Quando aggiunge le
percentuali di sintomi borderline di depressione e ansia ai casi che soddisfano
in pieno i criteri, egli ritiene che circa la metà delle popolazioni di comunità da
lui studiate ha patologie43. Usando la stessa metodologia tradotta in chiave
transculturale, Brown trova che le percentuali di depressione sull’arco dell’anno
precedente oscillano molto da una società all’altra, andando (come notato nel
Capitolo 2) da un picco del 30% nelle aree urbane dello Zimbabwe a un
minimo di circa il 3% nelle aree rurali spagnole di lingua basca44. Questa
grande forbice nelle percentuali fra le varie società porta Brown a concludere
che i fattori psicologici, più che quelli biologici, sono responsabili della
maggior parte dei casi di depressione clinica.
La ricerca iniziale di Brown si concentrava sul collegamento fra gli eventi di
perdita e il successivo sviluppo della depressione fra le donne della classe
operaia urbana. Egli trovò che gravi eventi esistenziali fra le donne che
avevano perso la madre durante l’infanzia, che avevano tre o più figli che
vivevano in casa, che non avevano relazioni intime e di fiducia con mariti o
amanti, e che non erano impiegate, erano responsabili dell’associazione fra la
classe sociale e la depressione45. Questa ricerca indicava che eventi esistenziali
gravemente minacciosi si erano verificati poco prima degli attacchi depressivi
nel 67-90% dei casi46. La maggior parte di questi eventi comportava difficoltà
interpersonali, come un marito che tacciava la moglie di essere una madre
incapace, un amante che decideva di non volere una relazione esclusiva, o un
figlio che lasciava la casa della madre per andare a vivere con altri parenti47.
L’opera successiva di Brown si concentrò sulla particolare natura delle
perdite. Quelle che coinvolgono ruoli importanti, progetti rilevanti e coerenti,
e idee amate su sé stessi o su una persona cara hanno una maggiore probabilità
di portare alla depressione48. Due qualità, in particolare, sono correlate alla
successiva depressione fra le persone che hanno sofferto quel tipo di perdite49.
Primo, le perdite ‘umilianti’ che svalutano le persone, minano la loro autostima
e producono una subordinazione, portano alla depressione. Secondo, le perdite
‘intrappolanti’, che non permettono ai soggetti di sfuggire dalla situazione di
perdita, sono deprimenti. Brown trovò che quasi il 50% delle donne che
avevano vissuto eventi considerati insieme umilianti e intrappolanti rispondeva
con forme di depressione: queste donne avevano probabilità tre volte maggiori
di sviluppare la depressione di quelle che avevano vissuto unicamente un
evento di perdita50.
Le qualità degli eventi esistenziali sono responsabili non solo di quali donne
sviluppano la depressione ma anche di quali si riprendono da essa. Quelli che
Brown chiama eventi ‘di nuovo inizio’, come il trovare un nuovo fidanzato,
l’ottenere un lavoro migliore o il traslocare in un’abitazione migliore incidono
sulla cronicità degli episodi depressivi51. Ridurre il carattere stressante degli
ambienti o sperimentare eventi positivi aiuta a recuperare o a migliorare. Il
decorso della depressione rispecchia quindi specularmente il suo inizio: certi
tipi di eventi esistenziali preannunciano sia la comparsa sia la durata della
depressione.
L’approccio di Brown alla maggioranza delle reazioni depressive da lui
descritte è apparentemente ben compatibile con la concettualizzazione della
tristezza normale che questo libro propone. Egli vede la depressione come
radicata in una comune natura umana, che riflette il fatto che il cervello umano
si è evoluto in maniera da poter affrontare eventi esistenziali stressanti52.
Perciò, la capacità di sviluppare risposte depressive è universale53. Egli
sottolinea anche il ruolo di particolari tipi di perdite nel provocare la maggior
parte delle condizioni depresse. Così pure, considera le percezioni associate
con stati depressivi, quali l’impotenza e la disperazione, come del tutto
comprensibili nel contesto di condizioni sociali avverse, e non come
inappropriate54. Ricorda inoltre che «noi uomini abbiamo una tendenza
misteriosa ad adattarci alle avversità e alle privazioni» e sottolinea che molte
risposte alla perdita finiscono quando le condizioni ambientali cambiano55.
L’enfasi di Brown sulla scoperta che particolari tipi di perdite precedono
l’inizio della depressione e che particolari tipi di cambiamenti sociali positivi
preannunciano il recupero da essa sembra indicare che quello che egli studia è
la tristezza normale e non il disturbo depressivo.
Ma il modo in cui Brown descrive le condizioni studiate rende chiaro che per
lui si tratta di disturbi depressivi e non di tristezza normale. Egli distingue una
piccola minoranza di casi largamente endogeni dalla maggioranza delle
condizioni depressive che studia: «Le condizioni depressive
melancoliche/psicotiche nel loro insieme probabilmente non costituiscono più
di un decimo della gamma totale delle depressioni clinicamente rilevanti»56. Ma
Brown parla del restante 90% delle condizioni come di «disturbi depressivi»,
«depressione clinicamente rilevante», o «depressione nevrotica», senza badare
alle loro altre proprietà. Coerentemente dice che i suoi campioni di comunità
soffrono di «disturbi psichiatrici» che sono gli stessi di quelli riscontrati in
popolazioni di pazienti e sottolinea che le condizioni dei membri della
comunità da lui studiata sono paragonabili a quelle dei pazienti psichiatrici in
trattamento57. Giustifica questa affermazione con il fatto che i suoi studi, che
mettono a confronto popolazioni di comunità con pazienti trattati, trovano
che in entrambi i setting eventi scatenanti precedono la grande maggioranza
dei casi58. Così pure, egli scopre che, per la massima parte, i membri della
comunità e i pazienti condividono sintomi comuni. Posto che le due
popolazioni siano simili sotto questi aspetti, come abbiamo visto questa
somiglianza non assicura da sola che i due gruppi siano ugualmente malati.
Risposte normali e patologiche allo stress possono manifestare sintomi simili,
e alcune risposte a stress severi possono essere proporzionali e correlate alla
persistente presenza del fattore stressante, mentre altre possono essere
sproporzionate o continuare nonostante il cambiamento delle circostanze.
Inoltre, è ben possibile che un gruppo di pazienti ambulatoriali in cura come
malati psichiatrici contenga un considerevole numero di individui non malati
che reagiscono normalmente a perdite estreme. Il problema è che Brown non
si occupa di approfondire la questione di quali membri dell’uno o dell’altro
gruppo abbiano patologie e quali no.
In un articolo, Brown si pone esplicitamente l’interrogativo se le condizioni
che egli studia siano casi di distress (stress) o disease (malattia), e avremmo
potuto sperare di trovare qui qualche luce sulla distinzione «patologia contro
non patologia»59. A suo dire, i casi della comunità che soddisfano i criteri del
PSE sono paragonabili a quelli riscontrati nel trattamento clinico. Salvo per il
10% dei casi che sono «melancolici/psicotici», particolari tipi di perdite di
solito precedono la depressione nei membri dei due gruppi – comunità e
pazienti ambulatoriali psichiatrici – ed entrambi i gruppi presentano sintomi di
paragonabile gravità e durata. Brown perciò respinge l’idea che i membri della
comunità soffrano di distress, mentre i pazienti ambulatoriali psichiatrici
soffrano di disease, e conclude invece che in entrambi i gruppi, «la depressione
(è) sostanzialmente una risposta di distress»60. Ma queste affermazioni non
toccano lo status patologico delle condizioni perché nessuno dei due gruppi di
Brown corrisponde a patologia o non-patologia. Con disease, Brown intende
condizioni endogene o biologiche che non hanno fattori scatenanti sociali, che
presumibilmente sono patologie. Con distress, intende tutte le reazioni con
fattori scatenanti sociali. Ma, come abbiamo visto, un fattore stressante può far
scattare una reazione patologica o una reazione che è inizialmente fisiologica
ma che alla fine si sviluppa in un malfunzionamento che comporta durata o
intensità sproporzionate nella risposta depressiva, così che quello che Brown
chiama distress abbraccia sia le reazioni patologiche alla perdita sia quelle
normali. La dimostrazione di Brown che la maggior parte dei casi nella
comunità e nei campioni clinici sono distress, non disease, non coglie quindi la
distinzione fra risposta non patologica e disfunzionale. In realtà, lo stesso
Brown ritiene che il confronto da lui stabilito sia fra due tipi di disturbo
depressivo (grosso modo corrispondenti alle tradizionali categorie di
depressione «endogena» e «reattiva»): egli chiama i casi dell’uno e dell’altro tipo
che soddisfano i criteri del PSE «disturbi psichiatrici». Lo studio di Brown
illustra così quanto siano impegnativi gli ostacoli terminologici a interpretare
una letteratura corrente che non parta da una netta distinzione fra patologia e
non-patologia innestata nella stessa metodologia.
Le prove di fatto suggeriscono che gli studi di Brown mescolino insieme
soggetti malati e non malati con sintomi depressivi e che probabilmente la
maggioranza dei suoi casi rifletta una tristezza normale. Nella maggior parte
essi non solo sorgono in risposta a certi tipi di eventi di perdita ma persistono
anche con intensità proporzionata alle circostanze sociali e finiscono quando le
circostanze cambiano. Una minoranza dei casi di Brown, tuttavia, dura al di là
delle circostanze scatenanti e non risponde ai cambiamenti ambientali positivi.
Circa un terzo dei soggetti dei suoi campioni di comunità che vedono
migliorare sensibilmente le loro situazioni esistenziali rimane depresso61.
Benché l’opera di Brown si concentri lodevolmente su condizioni fatte scattare
da situazioni sociali specificate con cura, essa trascura le condizioni depressive
che si sganciano dai contesti ambientali e sembrano mantenute in essere da
qualche disfunzione interna e con ogni probabilità sono quindi patologiche.
Crediamo perciò che il più grande merito di Brown sia di aver misurato
accuratamente e caratterizzato la natura e le cause della intensa tristezza,
perlopiù normale, anche se non la chiama così. Inoltre, ha elaborato la più
raffinata teoria delle particolari qualità delle perdite – gravità, umiliazione,
intrappolamento – che con il massimo di forza producono la tristezza normale
e ha documentato come simili condizioni durino solo fin tanto che persistono i
fattori stressanti ambientali. Benché Brown presenti la sua ricerca come uno
studio del disturbo depressivo, sembra invece essa rappresenti soprattutto una
pietra miliare dello studio della tristezza normale in circostanze sociali
estremamente avverse e spesso ingiuste. La superba opera di Brown illustra
come anche i migliori studi scientifici sociali abbiano tendenzialmente
accettato e sostenuto, anziché contestare, la crescente confusione all’interno
della psichiatria sulla distinzione fra patologia e normale emozione negativa.

10.3 | Conclusione

Gli studi antropologici e sociologici hanno contribuito a perpetuare la


fusione in uno della tristezza normale e del disturbo depressivo. Rigettando la
possibilità di sviluppare tutti i concetti di depressione che trascendano le
comprensioni locali, gli antropologi mancano delle basi per dire che le
definizioni della psichiatria occidentale possano essere migliorate. I sociologi
usano termini come distress e depression in maniera intercambiabile, implicando
che tutte le risposte di tristezza sono varianti del disturbo mentale, e quindi
essi pure non sono in grado di sfidare la definizione ultraestesa del disturbo
depressivo data dalla psichiatria. George Brown ha costruito una sofisticata
teoria delle circostanze in cui la tristezza sorge, ma non distingue le condizioni
depressive che nascono da disfunzioni da quelle che sono reazioni normali. La
ragione per cui ci sfugge un’adeguata distinzione fra normalità e patologia è
data in parte dall’incapacità delle discipline scientifiche sociali che studiano la
depressione di assumere un atteggiamento critico indipendente e di sfidare i
criteri diagnostici del DSM.

Note
1 | Benedict, 1934.↵
2 | Kirmayer e Young, 1999.↵
3 | Kirmayer, 1994, p. 19.↵
4 | Kleinman, 1988.↵
5 | Kirmayer, 1994; Kirmayer e Young, 1999.↵
6 | Obeyesekere, 1985.↵
7 | Ivi, p. 136.↵
8 | Lutz, 1985, p. 85.↵
9 | Ivi, p. 86.↵
10 | Ivi, p. 92.↵
11 | Kleinman, 1977, p. 3.↵
12 | Kleinman, 1988.↵
13 | Kleinman, 1986.↵
14 | Kleinman, 1987, p. 450.↵
15 | Cheung, 1982.↵
16 | Ibidem.↵
17 | Kleinman, 1986.↵
18 | Pearlin, 1989; Aneshensel, 1992.↵
19 | Per es. Aneshensel e Phelan, 1999; Horwitz e Scheid, 1999.↵
20 | Horwitz, 2007.↵
21 | Aneshensel, 1992; McLeod e Nonnemaker, 1999; Mirowsky e Ross, 2003; Turner e Lloyd, 1999;
Turner, Wheaton e Lloyd, 1995.↵
22 | Per es. Dohrenwend et al. , 1992; Ritsher, Warner, Johnson, e Dohrenwend, 2001; Johson, Cohen,
Dohrenwend, Link, e Brook, 1999; Lorant et al., 2003.↵
23 | Holmes e Rahe, 1967.↵
24 | Radloff, 1977.↵
25 | Nesse, 2000.↵
26 | Carr, 1997.↵
27 | McEwan, Costello, e Taylor, 1987.↵
28 | Turner e Lloyd, 1999; Turner, 2003; Turner e Avison, 2003.↵
29 | Pearlin, 1999.↵
30 | Radloff, 1977; Radloff e Locke, 1986.↵
31 | Radloff, 1977.↵
32 | Roberts, Andrews, Lewinsohn, e Hops, 1990; Roberts, Lewinsohn, e Seeley, 1991; Roberts,
Roberts, e Chen, 1997.↵
33 | Roberts et al. , 1990.↵
34 | Ibidem.↵
35 | Rushton et al. , 2002.↵
36 | Coyne, 1994.↵
37 | Per es. Mollica, Poole, e Tor, 1998; Mollica et al. , 1999; Marshall et al. , 2005; Dohrenwend, 2000;
Schwartz, Dohrenwend, e Levav, 1994.↵
38 | Seligman, 1975; Sapolsky, 1998.↵
39 | APA, 1994, p. XXI.↵
40 | Price, Sloman, Gardner, Gilbert, e Rohde, 1994; Bowlby, 1980; Nesse, 2000.↵
41 | Brown, 1993.↵
42 | Brown, 2002.↵
43 | Brown, Craig, e Harris, 1985, p. 616.↵
44 | Brown, 2002.↵
45 | Brown e Harris, 1978; Brown, 1998.↵
46 | Brown, Bifulco, e Harris, 1987; Brown, 1998.↵
47 | Brown, Harris, e Hepworth, 1995.↵
48 | Brown, 2002.↵
49 | Brown et al., 1987, p. 34.↵
50 | Brown et al. , 1995.↵
51 | Brown, Adler, e Bifulco, 1988.↵
52 | Brown, 1998, p. 368.↵
53 | Brown, 2002.↵
54 | Brown, 1998, p. 367.↵
55 | Ivi, p. 366.↵
56 | Ivi, p. 361.↵
57 | Brown, Harris, Hepworth, e Robinson, 1994.↵
58 | Brown et al. , 1995.↵
59 | Ibidem.↵
60 | Ivi, p. 620.↵
61 | Brown et al. , 1988, p. 492.↵
* È qui assente il concetto di identità legato all’origine della realtà umana. La teoria della nascita
puntualizza proprio questo aspetto mutando la visione antropologica moderna dell’essere umano. M.
Fagioli, Bambino donna e trasformazione dell’uomo, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2013. [NdC]↵
* Obeyesekere distingue qui fra i due termini inglesi disease e illness, che corrispondono in italiano
all’unico termine ‘malattia’. Cfr. anche infra. [NdT]↵
Capitolo 11 | Conclusione

In questo capitolo finale, collegheremo vari fili sciolti del nostro


ragionamento. In primo luogo considereremo la questione: se i difetti dei
criteri diagnostici correnti sono chiari in maniera così evidente come noi
affermiamo, perché quei criteri non sono stati cambiati, o perché non si riesce
a cambiarli con una certa facilità? Ponendo questa domanda, scivoleremo dalla
logica della diagnosi alla logica dei potenti ambienti e interessi costituiti che si
formano una volta che la definizione di una patologia si afferma. In secondo
luogo, torneremo alla prospettiva evolutiva sulla patologia mentale di cui
abbiamo parlato nei primi due capitoli e che ha fatto da cornice un po’ a tutta
la nostra argomentazione. La letteratura scientifica ha sollevato molte obiezioni
contro questa visione. Passeremo in rassegna le obiezioni più interessanti e
spiegheremo brevemente perché pensiamo che nessuna di esse metta in
dubbio l’interpretazione evolutiva del funzionamento umano normale. Infine,
questo libro è soprattutto un’analisi e una critica. Ma molti lettori si
chiederanno quale possa essere la soluzione ai problemi da noi rilevati. Perciò,
proporremo qualche idea di partenza sulle strategie con cui l’approccio alla
diagnosi del DDM potrebbe essere cambiato per essere più valido.

11.1 | I sostenitori del disturbo depressivo

Abbiamo affermato che c’è un evidente problema logico nella corrente


definizione che il DSM dà del Disturbo Depressivo Maggiore. Abbiamo
documentato come questo problema abbia permeato interamente il
trattamento della salute mentale e il mondo della ricerca, nonché il regno delle
politiche sociali delle pubbliche autorità, per espandere il dominio del disturbo
depressivo. Ma la definizione è resistente: è sopravvissuta a tre revisioni del
DSM, e non ci sono grandi segnali che facciano pensare che il cambiamento
dei criteri per il DDM costituisca una priorità per la prossima revisione, il
DSM-5. Posto che la nostra tesi abbia pregio, sembra ragionevole domandare:
quale ostacolo impedisce di procedere a una semplice modifica di questa
definizione capace di correggere la deficienza logica?
A parità di tutto il resto, ci sono legittime ragioni per essere conservatori
quando si tratta di cambiare i criteri diagnostici. La principale è forse che gli
studi che utilizzano criteri differenti nella selezione dei campioni non possono
essere facilmente comparati in termini scientifici e non possono produrre
conoscenza cumulativa, minando così quello che è il punto essenziale di avere
standard affidabili, e soprattutto scientificamente rispettabili. È anche vero che
esistono molte proposte per cambiare i criteri nella direzione preferita da
questo o quel gruppo, ma esse non sono quasi mai basate su un’accumulazione
di valide prove della ricerca capaci di dare basi scientifiche al cambiamento.
Cambiare i criteri può diventare dunque una questione politica più che
scientifica.
Ma le cose non stanno allo stesso modo quando si arriva al problema che
abbiamo sollevato: c’è una stringente, chiara e importante violazione di validità
ben individuabile su basi concettuali e teoretiche generali, e questa dovrebbe
essere affermata. Non ha molto senso difendere la continuità diagnostica a fini
di ricerca quando si sa bene che ciò che viene conservato non è valido e quindi
è inadeguato come punto di partenza della ricerca scientifica. Se dunque le
ragioni consuete della resistenza al cambiamento non si applicano in questo
caso, perché i criteri non vengono cambiati?
La questione ci porta dalla sfera dei concetti definitori nell’ambito delle
relazioni di potere, dentro la società e fra le sue istituzioni. Lo sfruttamento di
un concetto a fini di potere può essere giudicato solo se si capisce in che modo
il concetto possa essere messo in campo in maniera legittima. Si richiede
dunque una comprensione della struttura logica del concetto, su cui noi ci
siamo concentrati. Ma sono i fattori sociali, più che gli aspetti puramente
logici, che determinano come un concetto venga sfruttato e messo in campo
nella realtà, a volte anche erroneamente, per servire interessi più ampi1. Per
esempio, il concetto di depressione, quale lo abbiamo analizzato, trasceglie casi
chiari di tristezza normale e di disturbo depressivo. Ma il concetto contiene
anche una cospicua misura di indeterminatezza, di ambiguità e di vaghezza
lungo i suoi confini, che permette a diversi gruppi di sfruttarlo in modi che si
adattano ai loro interessi. In particolare, parecchi gruppi di sostenitori hanno
trovato vantaggioso un concetto di depressione basato sui sintomi che
produce grandi percentuali di casi patologici.
La professione medica in generale, e psichiatrica in particolare, è stata una
importante promotrice e beneficiaria di una definizione che le permette di
etichettare e trattare come patologie problemi che in precedenza non erano
considerati di interesse medico. Tutte le professioni si sforzano di allargare
l’ambito dei fenomeni che ricadono sotto il loro controllo, e ogni volta che
l’etichetta di malattia è attaccata a una condizione, la professione medica
avanza per prima la pretesa alla giurisdizione su di essa2. Le concezioni del
disturbo mentale basate sui sintomi allargano così lo spettro delle condizioni
che possono essere oggetto legittimo del trattamento psichiatrico3. Sulle spalle
di un plausibile esercizio del potere psichiatrico indirizzato al disturbo mentale,
le normali emozioni umane, una volta classificate anch’esse come malattie,
vengono generalmente assoggettate a tecnologie come farmaci psicotropi o
psicoterapie. Queste tecnologie si sono dilatate dall’ospedale per malati mentali
o clinica psichiatrica allo studio del medico, alla classe della scuola e ai siti delle
cure fai da te di internet.
Per i clinici della salute mentale, le misurazioni della depressione basate sui
sintomi sono utili per il rimborso, da parte delle assicurazioni della
responsabilità civile, delle spese per le cure di un ampio spettro di pazienti che
non potrebbero essere inquadrati altrimenti, perché le assicurazioni pagano per
la cura di malattie e non di problemi esistenziali. I medici si trovano ogni
giorno davanti a pazienti che chiedono aiuto per condizioni che sembrano
essere di intensa tristezza normale ma che soddisfano i criteri del DSM per la
malattia. Molti di loro ammetteranno subito che una percentuale abbastanza
elevata dei casi di ‘depressione’ loro sottoposti è costituita da soggetti sani dal
punto di vista psichiatrico ma che stanno attraversando eventi di vita stressanti.
Il risultato è uno strano caso di due ‘torti’ che fanno apparentemente una
‘ragione’. Il DSM fornisce criteri viziati che non distinguono adeguatamente la
patologia dalla non-patologia; il clinico, cui non si può addebitare la colpa di
applicare i criteri diagnostici del DSM ufficialmente consacrati, classifica in
maniera errata – consapevolmente o meno – alcuni soggetti sani come malati;
e questi due errori portano al paziente che ottiene le cure desiderate per le
quali il terapeuta riceve il rimborso. Le diagnosi basate sui sintomi permettono
ai clinici di giustificare questi interventi quando l’alternativa è il rifiuto delle
cure a quelli che soffrono.
Anche i ricercatori hanno molto da guadagnare dalle diagnosi basate sui
sintomi. La fusione del disturbo mentale e della tristezza ordinaria consente
un’interpretazione ampia del dominio sotto mandato dell’NIHM, il principale
finanziatore della ricerca sulla malattia mentale. Una definizione espansa
permette di sostenere con maggiore convinzione la necessità di aumentare i
finanziamenti in base al fatto che la depressione è dominante nella
popolazione. Inoltre, contrariamente agli anni Sessanta, quando l’NIHM era
interessato alle conseguenze psicologiche dei problemi sociali come la povertà,
il razzismo e la discriminazione, nell’attuale clima politico è molto più
probabile che il sostegno economico venga erogato a favore di un’agenzia che
si dedica a prevenire e curare una malattia diffusa piuttosto che di un’agenzia
che cerca di affrontare problemi sociali controversi4.
I ricercatori in campo psichiatrico avrebbero anche molto da perdere se i
criteri per la depressione dovessero cambiare. I criteri basati sui sintomi sono
abbastanza semplici da applicare. Riducono il costo e la complessità degli studi
e permettono nella ricerca un più alto numero di studi effettuati nel tempo.
Una maggiore affidabilità conferisce poi una maggiore rispettabilità scientifica.
I criteri del DSM, inoltre, sono usati praticamente in tutte le migliaia di studi
recenti sulla depressione su cui sono costruite le carriere dei ricercatori, e ogni
importante rielaborazione concettuale dei criteri diagnostici metterebbe in
dubbio il valore di quella ricerca passata. Se si distinguesse adeguatamente la
tristezza normale dal disturbo depressivo, peraltro, si restringerebbero
probabilmente le opportunità di finanziamento della ricerca, soprattutto se
l’NIMH scegliesse di concentrare i suoi sforzi sulla vera patologia. E tuttavia, i
ricercatori certamente apprezzano che il raggiungimento dell’obiettivo di
capire l’eziologia e la cura appropriata del disturbo depressivo dipende in
ultima analisi dall’impiego di una valida definizione della patologia come base
per la selezione dei campioni dei loro studi.
Le definizioni basate sui sintomi sono anche utili per elaborare stime dei
costi sociali ed economici apparentemente enormi della depressione, i quali a
loro volta possono giustificare la destinazione di maggiori risorse alla cura e
prevenzione della depressione. L’OMS è il primo organismo responsabile della
diffusione delle definizioni della depressione del DSM dagli Stati Uniti a una
audience mondiale. La sua preoccupazione principale è stata di pubblicizzare
gli immensi costi della depressione. La maggior parte della letteratura sulla
depressione cita le proiezioni OMS secondo cui nel 2020 la depressione
diventerà la seconda principale causa di disabilità a livello mondiale, dietro solo
alle malattie cardiache, e già oggi è la singola principale causa di disabilità per
soggetti di media età e per le donne di tutte le età5. Questa massiccia quantità
di disabilità dà un senso di urgenza agli sforzi della politica mirati a rispondere
alla malattia depressiva. Recensendo lo studio dell’OMS, Peter Kramer
proclama: «La malattia più disabilitante! La più costosa!». Secondo Kramer, la
«depressione è il principale flagello dell’umanità»6. In realtà, l’asserita enormità
di questo peso e le sue utili qualità retoriche derivano dal fatto di non aver
saputo distinguere i disturbi depressivi dalla tristezza normale.
I calcoli dell’OMS sul peso di una malattia sono molto complessi, ma si
fondano su due componenti base: il numero delle persone che soffrono di una
data condizione e l’entità delle disabilità e delle morti premature che quella
condizione provoca. La prima componente del peso – la frequenza della
condizione – dipende dalle definizioni sintomatiche in base alle quali si stima
che il 9,5% delle donne e il 5,8% degli uomini soffrano di depressione nell’arco
di un anno. La seconda componente – la disabilità – è ordinata in sette classi di
gravità crescente, tenendo conto della quantità di tempo vissuto con una
malattia, misurate sulla gravità della malattia. I punteggi di gravità provengono
da giudizi consensuali dagli operatori sanitari di tutto il mondo che hanno a
che fare con l’intera casistica della malattia. La depressione è inquadrata nella
seconda categoria in ordine di gravità della malattia, dietro solo alle condizioni
estremamente disabilitanti e croniche come la psicosi attiva, la demenza e la
tetraplegia, ed è considerata paragonabile alle condizioni della paraplegia e
della cecità. È ritenuta più grave, per esempio, della sindrome di Down, della
sordità, dell’amputazione al di sotto del ginocchio e dell’angina. Questa
collocazione su un grado estremo di gravità presume che tutti i casi di
depressione abbiano in comune la profondità, la cronicità e la ricorrenza che
sono tipiche delle condizioni che gli operatori sanitari osservano nella loro
pratica. Ma, al contrario della gravità delle condizioni curate che spesso
ricadono in patologie di competenza degli psichiatri, un’alta percentuale di
soggetti che soddisfano i criteri sintomatici all’interno delle popolazioni di
comunità che forniscono le stime di frequenza della depressione ha episodi
acuti con piccole menomazioni che si rimettono dopo un breve periodo7. I
tassi di gravità dell’OMS ignorano così la grande eterogeneità delle
menomazioni dovute a casi di depressione e applicano il tasso più grave a tutti
i casi.
La fusione della tristezza normale e del disturbo depressivo porta a
sovrastimare sia la gravità sia le componenti di prevalenza dei tassi di disabilità,
e spiega le cifre ampiamente citate dell’OMS. Quelli che vogliono vedere nella
depressione un grosso problema di sanità pubblica, a loro volta, utilizzano
questa prova apparentemente scientifica per affermare la necessità di destinare
più risorse per combattere una condizione disabilitante.
Le organizzazioni di difesa della famiglia, come la National Alliance on
Mental Illness (NAMI), che divenne un influente movimento politico negli
anni Ottanta, sono un’altra forza potente che sostiene le definizioni della
depressione basate sui sintomi. Tali organizzazioni hanno in cima alla loro
agenda l’obiettivo di togliere ogni stigma alla malattia mentale e di ottenere la
parità dei rimborsi assicurativi per il disturbo mentale. Le diagnosi basate sui
sintomi allargano la nozione della malattia mentale in misura tale da
abbracciare una grande quota della popolazione. Questo abbassa il confine fra
normalità e anormalità e all’apparenza può aiutare a raggiungere una maggiore
accettabilità della malattia mentale nella società. In aggiunta, i gruppi di difesa
sostengono che i disturbi mentali, inclusa la depressione, sono malattie
biologiche, esattamente come le malattie fisiche, e meritano di essere trattati
allo stesso modo per quanto riguarda il rimborso. Ammettere che gli attuali
criteri del DSM non distinguono i veri disturbi depressivi dalle reazioni di
tristezza normale certamente indebolirebbe questo argomento e sembra
contrastare con l’agenda di questi gruppi.
Le case farmaceutiche guadagnano enormi profitti dalla trasformazione della
tristezza in malattia depressiva e sono forse quelle che più visibilmente
traggono vantaggio delle diagnosi del DSM basate sui sintomi. Perciò sono ora
i principali sponsor delle attività sia degli psichiatri sia dei gruppi di difesa, che
a loro volta esaltano i benefici dell’uso dei farmaci come trattamento di
frontiera della depressione8. Le onnipresenti pubblicità di farmaci
antidepressivi, che si fanno forti dei criteri del DSM, esortano i soggetti che
avvertono sintomi comuni come tristezza, affaticamento, difficoltà di sonno o
appetito ecc. a consultare i loro medici per vedere se sono affetti da un
disturbo depressivo, e queste campagne hanno avuto enorme successo9. Al
pari dei clinici, le case farmaceutiche possono legittimamente dichiarare che
usano semplicemente i criteri ufficialmente riconosciuti dalla professione
psichiatrica, anche quando i loro annunci pubblicitari tendono a confondere
ulteriormente il pubblico sul confine fra normalità e patologia.
Infine, il più importante gruppo di sostegno per le definizioni che
patologizzano l’angoscia è costituito dagli stessi soggetti che ne soffrono, i
quali trovano che il fatto che i loro sintomi siano ricondotti a malattie curabili
gli consenta di ottenere più facilmente l’aiuto dei medici e quindi un qualche
sollievo alle loro penose emozioni. Gli annunci pubblicitari e altri messaggi dei
media rafforzano l’immagine di consumatori che godono di gradevoli stili di
vita perché usano farmaci psicotropi, riducendo la divaricazione fra la
sofferenza effettiva e la desiderata normalità. Soggetti simili possono davvero
trarre beneficio dai farmaci e altre cure, e l’accettazione da parte loro di una
definizione di sé come vittime di una malattia fornisce una rappresentazione
socialmente accettabile dei loro problemi e concede ad alcuni uno sgravio di
responsabilità per essi.
Molte fasce di persone dunque, fra cui associazioni professionali, ricercatori,
difensori della salute mentale e case farmaceutiche, nonché molti soggetti che
vogliono il controllo sulla propria sofferenza emotiva, hanno interesse a
conservare gli attuali standard diagnostici per la depressione, rendendo difficile
cambiare questi criteri. Nel lungo termine, tuttavia, è difficile immaginare che
un’impresa che pretende di essere basata su princìpi scientifici possa
continuare a essere fondata su criteri chiaramente non validi come quelli che
attualmente sono adottati per il DDM. Questi criteri confusi, mescolando
insieme soggetti sani e malati nei campioni di ricerca, impediscono anche il
progresso scientifico nella comprensione dell’eziologia della patologia e nella
scoperta del modo migliore di curarla. Definizioni irragionevolmente ampie
del disturbo psicologico hanno anche il costo potenziale di stigmatizzare gli
svantaggiati e i malati mentali e di sostituire le politiche sociali a loro favore
con cure mediche ingiustificate, creando un discorso pubblico unidimensionale
che può minare la capacità di fare distinzioni morali e politiche.
La stessa entità delle cifre sulla prevalenza del disturbo depressivo,
nonostante la loro utilità retorica, può paralizzare la volontà di rispondere a un
problema di tale apparente enormità. Al giorno d’oggi alcuni critici si
schierano contro la parità dei rimborsi per la cura della salute mentale perché
permettere a ogni caso di normale infelicità di essere qualificato per il
trattamento può far esplodere la banca delle cure sanitarie. Una discussione più
onesta delle condizioni normali contro le anormali e i loro giusti diritti di
rimborso aiuterebbe a rintuzzare alcune di queste obiezioni. Così pure, il
vantaggio di curare le persone normalmente tristi come aventi disturbi
depressivi potrebbe essere controbilanciato dalla responsabilità di insinuare in
quelle persone un senso di vittimismo, un diminuito senso di responsabilità
personale e una visione di sé stesse come vittime passive di difetti biochimici10.
Infine, la trasformazione della tristezza in disturbo depressivo ha il discutibile
effetto di restringere lo spettro delle emozioni normali e di espandere la
patologia ad ambiti sempre più ampi dell’esperienza umana.

11.2 | Obiezioni contro la nostra posizione

Gran parte del nostro ragionamento poggia sulla necessità di distinguere la


patologia dal funzionamento umano normale, il comportamento cioè per il
quale secondo criteri evolutivi gli esseri umani appaiono essere stati
biologicamente programmati*. L’approccio che ne risulta riflette la tradizione
dominante nella storia della psichiatria, come abbiamo documentato nel
Capitolo 3. Ma non è possibile che la nostra distinzione fra disturbo depressivo
e tristezza normale sia tuttavia semplicemente sbagliata? In effetti, sono state
sollevate diverse obiezioni a vari aspetti della nostra posizione. I dibattiti sul
concetto di patologia sono comuni in molte discipline, per cui il nostro esame
di queste obiezioni non pretende di essere completo.
Un blocco di obiezioni asserisce che il ‘disturbo’ è di per sé semplicemente
un termine valutativo che indica condizioni mentali o comportamentali
indesiderabili, senza componenti fattuali che abbiano referenti reali nella
natura umana. È quindi impossibile fare distinzioni obiettive fra disturbo e non
disturbo11. Noi siamo d’accordo che ‘disturbo’ è, in parte, un termine
valutativo; una condizione che non nuoce non può essere considerata un
disturbo, e la nozione di nocumento ha in sé una componente valutativa.
Inoltre, come abbiamo visto, vari gruppi manipolano questo concetto per
piegarlo ai loro interessi. Tuttavia, benché possa essere allettante equiparare il
disturbo con tutto ciò che è negativo, il disturbo è solo un tipo di condizione
negativa. Affermare che il ‘disturbo’ sia unicamente un concetto valutativo,
benché accada di frequente, non ha senso, per il semplice fatto che esistono
molti stati mentali valutati negativamente che nessuno considera disturbi, a
partire dall’ignoranza e la mancanza di talento per arrivare alla caccia a partner
extraconiugali e all’aggressività maschile fino alla voglia eccessiva di cibi grassi
e dolci che possono essere dannosi nel nostro ambiente odierno.
Deve dunque esserci qualcosa al di là del giudizio di valore, in particolare un
qualche criterio fattuale, che distingue i disturbi dalla miriade di altre
condizioni mentali e comportamentali negative che sono valutate
negativamente ma non sono considerate disturbi. Quel criterio sembra potersi
ricondurre al fatto che i meccanismi dell’individuo biologicamente
programmati funzionino o meno nel modo in cui furono selezionati dalla
natura; se la condizione è in questo senso all’interno della natura umana, allora
non è un disturbo, anche se la condizione è al momento dannosa.
Un’obiezione collegata alla precedente è che se noi chiamiamo una certa
condizione «disturbo mentale», questa denotazione non può che essere
capricciosa e in ultima analisi vuota, dal momento che non esiste un netto
confine naturale fra le condizioni malate e quelle sane12. Al contrario,
normalità e anormalità sono allineate su un continuum. Ne segue – questo il
ragionamento – che i tentativi di separare le condizioni che comportano una
disfunzione da quelle che sono normali sono arbitrari e poggiano su valori
sociali13.
È sbagliato pensare che un concetto scientifico del disturbo-malattia debba
fissare siffatti confini precisi. L’essenziale è che il concetto e il suo opposto
possano essere applicati con chiarezza a uno spettro di casi importanti; la
vaghezza dei confini non è un elemento critico e anzi c’è da aspettarsela dato
che gli stessi tratti definitori hanno confini vaghi. Le distribuzioni su un
continuum in natura sono del tutto compatibili con dei concetti oggettivi,
anche se è vero che l’indeterminatezza del concetto comporta che la fissazione
di un confine preciso a fini pratici dipenderà con ogni probabilità più dai valori
e dalle convenzioni sociali che da fatti oggettivi. Per esempio, ci sono
differenze reali, radicate in fatti biologici, fra bambini e adulti, fra l’essere
addormentati e l’essere svegli, fra la pressione sanguigna normale e quella alta,
e fra i colori nero e bianco, e tuttavia in ciascuno di questi casi esistono
situazioni intermedie che creano confusione o stabiliscono un continuum.
Un’altra critica comune è che le definizioni di malattia sono radicate
esclusivamente nelle pratiche sociali effettive di una comunità. Questa
obiezione ritiene che il concetto di disturbo-malattia sia relativo a particolari
tempi e luoghi e non possa avere un valore universale. Per esempio, gli
antropologi Laurence Kirmayer e Alan Young sostengono che:
L’inappropriatezza ha molto più a che fare con norme e circostanze socialmente definite
che non con quelle definite dall’evoluzione. L’inappropriatezza che distingue le risposte
disturbate o disfunzionali da quelle normali è riconosciuta e definita in termini di
contesto sociale; la decisione di che cosa sia inappropriato è un giudizio sociale14.
Come abbiamo visto, c’è una qualche verità nella visione culturale della
depressione. I valori e le pratiche culturali locali contribuiscono a definire il
significato delle situazioni e quindi quali circostanze siano percepite come
ricadenti in una delle categorie che fanno scattare la tristezza. Ma questa
relatività culturale è del tutto coerente con il fatto che al di sotto delle risposte
di tristezza e a conformarne la sensibilità a certi tipi di significati ci siano
processi biologici universali.
Il vizio centrale in questo ragionamento è che il concetto di «circostanze
inappropriate» – critico per la distinzione fra risposte malate e risposte sane –
non è un giudizio improntato solo dalla cultura della società ma è esso stesso
in parte un concetto a base evolutiva. Le risposte alla perdita sono state
selezionate nel corso dell’evoluzione per rispondere a uno specifico spettro di
stimoli e non per rispondere al di fuori di quello spettro: esse sono
programmate per non rispondere agli stimoli sbagliati tanto quanto lo sono per
rispondere agli stimoli giusti. I valori culturali entrano nella definizione di quali
perdite particolari siano considerate come interne o esterne allo spettro
appropriato degli stimoli della perdita, e possono suggerire quale standard di
intensità di una risposta di tristezza sia socialmente accettabile. Ma le
‘categorie’ che fanno scattare risposte di tristezza – perdita di legami molto
stretti, stato sociale basso o peggiorato o fallimento di obiettivi desiderati –
sono universali.
Inoltre, quando il concetto di disturbo-malattia viene applicato
indiscriminatamente a tutte le condizioni qualificate come ‘disturbi’ in un
gruppo particolare, sparisce la possibilità di valutare e criticare scientificamente
questi concetti. E si perde anche la comune interpretazione che una cultura
possa ‘sbagliare’ nei suoi giudizi sulla malattia. Per esempio, in epoca vittoriana
ci si sbagliava nel ritenere che la masturbazione e l’orgasmo femminile fossero
malattie, e alcuni sudisti vissuti prima della guerra civile americana sbagliavano
nel ritenere che gli schiavi fuggiaschi soffrissero di disturbo mentale. Ma se le
malattie sono solo condizioni culturalmente relative, allora non possiamo
spiegare perché questi giudizi siano sbagliati, perché quelle diagnosi
esprimessero in realtà i valori dei loro tempi.
La ragione per cui sono sbagliati è data dal fatto che c’è un’ulteriore
affermazione fattuale insita nell’asserzione che una condizione è una malattia,
ed è l’affermazione che quella condizione comporta un fallimento del
programma biologico umano (per esempio, le donne non sono programmate
per sperimentare il piacere dell’orgasmo o gli schiavi sono programmati per
essere in stato di soggezione), e questa affermazione fattuale si rivela essere
semplicemente una falsità. Le dichiarazioni diagnostiche, cioè, erano basate su
teorie errate circa la natura umana. Mettendo alcuni elementi del giudizio
diagnostico al di fuori della portata della scienza, la visione culturale non lascia
punti d’appoggio per affermare che una definizione della depressione sia
migliore o peggiore di un’altra. Ed è allora non solo sbagliata ma
controproducente, in quanto mina la possibilità di criticare e migliorare
costruttivamente la diagnosi psichiatrica. Il nostro approccio, al contrario, mira
ad aiutare la professione psichiatrica a sviluppare definizioni più utili, che non
qualifichino ogni conseguenza indesiderabile della tristezza come una malattia.
Un altro blocco di obiezioni respinge il particolare modello evolutivo da noi
adottato per accertare lo status di malattia. Una di queste obiezioni accetta un
approccio biologico nell’usare l’appropriatezza di un comportamento per
stabilire se è sano, ma obietta che a determinare lo stato di malattia è
l’appropriatezza attuale, non quella per la quale il meccanismo fu selezionato
nel passato15. Secondo questa visione, a fornire i criteri per valutare come
patologiche certe condizioni dovrebbero essere i malfunzionamenti rispetto
all’ambiente attuale, non i modelli presi dal funzionamento evolutivo. Ma il
passato è importante, perché spiega come siamo arrivati a essere così come
siamo e quindi determina quali delle nostre caratteristiche furono
biologicamente selezionate e fanno pertanto parte della natura umana. La
questione se l’effetto di un meccanismo è adattivo rispetto al presente è
distinta dalla questione se quell’effetto fa parte del progetto del meccanismo.
Problematiche dissonanze fra la natura umana e l’attuale desiderabilità sociale
come le voglie adulterine, l’aggressività maschile o il diventare tristi dopo delle
perdite, non sono in sé malattie. Per esempio, potrebbe essere
un’appropriatezza migliorativa nella nostra cultura non avere gusto per i cibi
grassi e dolci; ma ciò non significa che le persone che hanno questo gusto
siano malate; che è come eravamo programmati dovessimo essere, in vista
delle condizioni esistenti nelle fasi antiche della nostra evoluzione. Il ruolo
esplicativo del concetto di malattia sta nel fatto che le disfunzioni dei
meccanismi psicologici sono definiti in maniera propria in riferimento ai
modelli evolutivi, non a quelli contemporanei.
Ma a volte condizioni ambientali troppo differenti da quanto evolutivamente
atteso possono produrre reali disturbi depressivi, perché le persone non erano
selezionate dalla natura per funzionare in situazioni del genere. La guerra
moderna, per esempio, porta molti soldati a sviluppare disturbi mentali che
persistono molto oltre la situazione di combattimento immediato perché il
cervello umano non era programmato per funzionare in simili condizioni. Ma,
più comunemente, le risposte problematiche alla perdita in un nuovo ambiente
non sono affatto malattie; piuttosto, i meccanismi interessati entrano in azione
nei modi programmati in risposta a nuovi tipi di perdite16.
Un’altra obiezione ancora è che la depressione non ha alcuna funzione
evolutiva ma è invece, nelle parole di Steven Jay Gould, un pennacchio (
sprandel) o esattamento ( exaptation)17. Il termine sprandel indica quegli spazi
triangolari sotto le cupole delle cattedrali, che non erano originariamente
pianificati ma che risultano inevitabilmente dal modo in cui le cupole si
raccordano con le strutture inferiori. Gli sprandel sono accidenti evolutivi che
non sono stati direttamente selezionati ma sono conseguenze
preterintenzionali che non presentano vantaggi evolutivi.
Quando gli sprandel sono utilizzati per un uso successivo, come quando i
decoratori delle cattedrali vi hanno dipinto immagini degli apostoli, diventano
esattamenti che sottopongono la struttura accidentale a un uso intenzionale.
La depressione, secondo questa tesi, è uno sprandel che non ha mai avuto
benefici chiari o nascosti né nel passato né al presente18.
L’obiezione secondo cui la depressione non fu mai selezionata per i suoi
benefici evolutivi soffre di parecchi equivoci. Primo, noi non crediamo che i
«disturbi depressivi» siano mai stati adattivi. Essi sono disfunzioni dei
meccanismi di risposta alla perdita e quindi non furono mai selezionati nel
corso dell’evoluzione come adattamenti o esattamenti. L’affermazione che i
sintomi devono essere stati selezionati per le loro qualità adattive a un certo
punto della storia evolutiva si applica solo alla tristezza normale, non al
disturbo depressivo. Secondo, tutte le funzioni adattive che la tristezza intensa
dopo una perdita potrebbe aver avuto nella storia evolutiva non
necessariamente devono essere rilevanti nel presente. Gli argomenti secondo i
quali i sintomi assomiglianti alla depressione non sono attualmente adattivi
sono irrilevanti rispetto alla questione se furono selezionati per insorgere in
circostanze appropriate in qualche momento del lontano passato.
Come abbiamo argomentato nel Capitolo 2, almeno alcune forme di
tristezza in risposta a certi fattori scatenanti furono selezionati dalla natura,
come appare evidente dalla universalità transculturale e dall’espressione di
simili emozioni da parte di bambini e primati non umani*. Ma – possiamo
ammettere – l’universalità di per sé non dà sostegno all’idea di uno specifico
programma biologico di una particolare risposta, per la semplice ragione che
gli sprandel possono essere universali se sono sottoprodotti invariabili di tratti
universali programmati. Per fare un esempio biologico, la sofferenza nel parto
può essere un tratto universale che è un effetto collaterale della selezione per la
dimensione ottimale del cranio dei bambini e potrebbe non avere funzioni. Il
filosofo Dominick Murphy e lo psicologo Robert Woolfolk, citando il
presunto sprandel universale del mento, sostengono che gli sprandel mentali
potrebbero esistere e causare patologia senza che ci sia un fallimento di
funzione:
Il mento umano è un famoso sprandel. Esso non ha funzioni dirette proprie ma è
semplicemente un sottoprodotto delle esigenze di ingegneria del parlare, del masticare e
del respirare. Se esistono sprandel mentali, vuol dire che ci sono meccanismi mentali che
sono sottoprodotti dell’evoluzione che non hanno mai avuto proprie funzioni adattive
(nel senso evolutivo di Wakefield) e che quindi non potrebbero mal funzionare. Questi
meccanismi, tuttavia, potrebbero produrre comportamenti patologici119.
Forse l’argomento più comune sulla depressione a questo riguardo è che le
risposte di tristezza intensa furono selezionate specificamente per il rapporto
di attaccamento durante l’infanzia, e tutte le altre risposte analoghe sono un
effetto collaterale tipo sprandel che non ha alcuna funzione20.
In realtà, ci sono prove che dimostrano che le risposte di tristezza non sono
tutte uguali e sono adattate allo specifico tipo di perdita, il che fa pensare a una
selezione naturale finalizzata piuttosto che a un sottoprodotto accidentale21.
Per esempio, il pessimismo, l’affaticamento e l’anedonia sono associati al
fallimento nel raggiungimento di obiettivi molto apprezzati, mentre le grida e
la sofferenza emotiva sono rapportate a perdite di persone care. Inoltre, appare
inspiegabile che le tipologie di risposte di tristezza comunemente osservate
negli umani e in altri primati alla perdita di soggetti cui si è legati e alla perdita
di status, rispettivamente, avvengano come sprandel, dal momento che i fattori
scatenanti sono troppo diseguali. Fino a che non sia fornita una formulazione
più convincente del racconto dello sprandel, l’onnipresenza della tristezza dopo
specifici tipi di perdite è prima facie una prova che essa realizza una qualche
funzione selezionata dalla natura, anche se noi possiamo fare solo ipotesi su
quale potrebbe essere stata quella funzione.
Un tipo finale di obiezione alla nostra posizione è che questa ha implicazioni
negative per le cure. Molti temono che l’uso di criteri collegati con il discorso
evolutivo per i disturbi psicologici porterebbe inevitabilmente a restringere di
molto i casi che darebbero titolo alle cure, con la conseguenza che a tante
persone sofferenti verrebbe negato il necessario aiuto professionale. «Un simile
criterio nella definizione della malattia», secondo lo psichiatra John Sadler,
«sarebbe usato burocraticamente per escludere dalla cura persone che
altrimenti potrebbero averne una necessità credibile»22.
Paure del genere traggono origine dalla convinzione che ci sia un rapporto di
uno a uno fra le disfunzioni e le condizioni curabili sicché solo le disfunzioni
sarebbero condizioni rimborsabili23. Ma la questione di chi deve essere curato
non è riducibile a quella di quali condizioni sono malattie. I medici spesso
curano condizioni e forniscono aiuti che non hanno nulla a che fare con le
malattie (per esempio il parto, la contraccezione). Questo è in parte un tema
politico riguardante il rimborso autorizzato per i servizi e in parte un tema
empirico che ha a che fare con ciò che può essere d’aiuto per le persone. È
vero che la nostra analisi incoraggia a riconcentrare le politiche distogliendole
dagli sforzi che cercano di raggiungere e sospingere casi di tristezza non
riconosciuti e non curati verso l’area delle malattie riconosciute e curate. E
porta anche a un certo scetticismo sui benefici dei programmi di screening a
vasto raggio e delle campagne pubblicitarie dirette al consumatore che
incoraggiano persone con sintomi comuni a entrare in cura, perché con tutta
probabilità i loro sintomi segnalano una normale tristezza piuttosto che un
disturbo depressivo.
Ma è anche vero che la tristezza non patologica può causare enorme
sofferenza e che i farmaci o i consigli possono alleviare molti casi di tristezza
penosa, ma normale, benché il carattere generalmente passeggero e la natura
autocorrettiva delle reazioni normali rendano più complicato decidere se
curare o no. Quando una persona desidera l’aiuto di un professionista per una
sofferenza emotiva in fase acuta, merita attenzione clinica per una questione di
giustizia e compassione. Ma proprio come il fatto che si somministrino dei
calmanti durante il parto non rende questo processo una malattia, il fornire
farmaci o dare consigli a persone con una tristezza normale non deve essere
confuso con la cura di una malattia.

11.3 | Qualche indicazione per risolvere il problema

Questo libro si è concentrato sulla critica delle definizioni correnti


eccessivamente espansive della depressione. Abbiamo cercato di chiarire la
situazione di confusione concettuale in cui la psichiatria e le scienze sociali
versano nello studio della depressione. Una volta che questa situazione sia
riconosciuta, questi settori potranno procedere a sviluppare i metodi necessari
per fare distinzione fra le condizioni normali e anormali. Benché esuli dai
compiti di questo libro sviluppare simili metodi dettagliati, vale la pena di
accennare ad alcune strade promettenti per andare avanti. In questo paragrafo
forniamo qualche suggerimento preliminare riguardante il modo in cui i criteri
potrebbero essere migliorati in maniera tale che distinguano i disturbi
depressivi dalla tristezza normale. Ogni suggerimento dipende dall’uso di
criteri contestuali, nonché dalla presenza di sintomi, per prendere decisioni
diagnostiche. Il modo particolare in cui di volta in volta questi criteri saranno
incorporati dipenderà dal setting in cui le diagnosi sono fatte: nella pratica
clinica, nei programmi di screening o negli studi di comunità.
La definizione di Disturbo Depressivo Maggiore del DSM è pensata
principalmente per essere usata nella pratica clinica. L’esclusione del lutto che
troviamo nel manuale attuale, secondo cui «i sintomi non sono meglio spiegati
dal lutto», fornisce un modello di criteri validi nel setting clinico24. Non si vede
perché non possa essere aggiunta a questa esclusione una clausola che o la
allarghi in una formula più generale come ad esempio «lutto o qualche altro
importante fattore di stress esistenziale», o fornisca altri esempi specifici come
«lutto, fine di un matrimonio, perdita di un posto di lavoro prestigioso ecc.».
Una clausola di esclusione allargata in questo modo lascerebbe al medico il
compito ultimo di giudicare se un paziente presenti una tristezza normale o un
disturbo depressivo. Poiché le diagnosi cliniche attuali sono fatte per pazienti
che si sono già autogiudicati come bisognosi di cure della salute mentale, gli
allargamenti della clausola di esclusione non avranno probabilmente un effetto
di rilievo sulle decisioni diagnostiche. Ciononostante, il cambiamento farebbe
avanzare la validità e integrità delle diagnosi del DSM. Inoltre, i «codici V»,
discussi nel Capitolo 5, potrebbero essere ampliati per includere condizioni
escluse dalle diagnosi di DDM, che sono condizioni «non patologiche ma
curabili».
I questionari di screening per la depressione nella pratica medica generica
vengono applicati in setting assediati da forti pressioni di tempo, e devono
essere molti concisi. Introdurre quindi criteri contestuali in questionari del
genere comporta una sfida. Da un lato, molti pazienti che circolano in setting
di medicina generale si trovano con tutta probabilità in condizioni di tristezza
normale provocata da eventi stressanti come la malattia fisica. Dall’altro, i
questionari degli screening che usano criteri contestuali richiederanno più
tempo, e potrebbero essere meno affidabili dei questionari attuali e quindi
poco pratici.
I criteri contestuali possono essere introdotti nei questionari a due livelli:
nelle domande usate nei questionari autosomministrati e nelle istruzioni per i
medici che interpretano i risultati dei questionari. L’aggiunta di una semplice
istruzione su un questionario per la depressione autosomministrato – per
esempio: «Se questi sintomi si manifestano dopo eventi particolarmente
stressanti come...» – potrebbe offrire le imbeccate giuste ai rispondenti che i
sintomi di tristezza normale non indicano necessariamente un disturbo
depressivo. In effetti, i primi studi di comunità usavano domande del tipo se le
palpitazioni di cuore si verificano «mentre non ti stai allenando o non stai
lavorando duramente», che contestualizzavano le risposte per sintomi
particolari25.
Inoltre, le istruzioni ai medici su come interpretare i risultati dei questionari
compilati potrebbero ricordare esplicitamente la necessità di porre attenzione
al contesto dei sintomi riferiti e di valutare se i sintomi non riflettano una
condizione fisica o l’impatto dell’assunzione di farmaci o di eventi esistenziali
stressanti piuttosto che un disturbo depressivo. I medici dovrebbero anche
essere invitati esplicitamente a usare il loro buonsenso diagnostico anziché
seguire pedissequamente le scale di sintomi proposte dal DSM. Il medico
potrebbe anche essere incoraggiato in certi casi a rispondere a risultati positivi
nello screening che richiamano fattori contestuali scatenanti con una «vigile
attesa» piuttosto che con l’immediato ricorso ai farmaci*. Un uso dei criteri
contestuali di questo tipo potrebbe abbassare il numero dei falsi positivi negli
screening senza impegnare molto tempo in più nella visita medica.
Dati gli specifici pericoli di una eccessiva somministrazione di farmaci ad
adolescenti, i questionari di screening nelle scuole devono essere
particolarmente sensibili al contesto di molti sintomi degli adolescenti. Gli
screening condotti in questi ambienti non sono soggetti alle forti pressioni
della ristrettezza di tempo di uno studio medico. L’uso di rappresentazioni
offerte dai media di casi con normali problemi di adattamento, come pure di
disturbi depressivi, prima di passare all’applicazione di scale, può aiutare a
fornire un contesto per gli adolescenti da utilizzare per inquadrare le loro
risposte. Queste tecniche sono utili a minimizzare il numero dei falsi positivi
negli ambienti della scuola, dove le conseguenze possono essere
particolarmente pericolose.
Inserire i criteri contestuali negli studi di comunità comporta un diverso
insieme di questioni rispetto alla pratica clinica, alle cure primarie o alle scuole.
A differenza dei clinici, che possono utilizzare il loro giudizio per distinguere i
sintomi che ci si possono aspettare per ragioni culturali dalle disfunzioni
interne, gli epidemiologi e i sociologi devono usare nella loro ricerca scale
standardizzate. L’utilizzo di giudizi medici per distinguere le risposte
prevedibili e proporzionate da quelle patologiche sproporzionate non è pratico
e danneggerebbe l’affidabilità degli stessi giudizi attraverso gli intervistatori che
è necessario impiegare per ottenere valide stime del tasso di presenza di
malattie in popolazioni di comunità. Ma dovrebbe essere possibile sviluppare
scale standardizzate, e tuttavia contestuali, che mettano in relazione il livello di
stress nella vita delle persone con il conseguente numero di sintomi che esse
denunciano.
La chiave per distinguere adeguatamente se i sintomi indicano un dolore o
una malattia nelle indagini ad ampio raggio è di esaminare la loro
‘proporzionalità’ alla gravità e durata dello stress nella vita concreta delle
persone. Come sopra ricordato, George Brown ha elaborato misure oggettive
dello stress che usano il contesto e il significato degli eventi per determinare
quanto dolore è probabile che una persona tipica sperimenti in determinate
circostanze26. Di recente alcuni ricercatori hanno lavorato sull’approccio di
Brown per stabilire scale standardizzate da usare nelle indagini ad ampio raggio
che assegnano punteggi quantitativi al contenuto, alla gravità e al grado di
minaccia di eventi stressanti che le persone sperimentano27. Questi punteggi
possono essere impiegati per predire la probabile quantità di dolore che un
rispondente medio avvertirà in una data situazione. Le persone che presentano
livelli di sintomi sproporzionatamente alti rispetto a quelli attesi in base al
grado di stress delle loro situazioni sono quelle che con maggiore probabilità
ricadono nel gruppo degli afflitti da disturbi mentali. Benché i criteri
contestuali vengano così a essere usati in maniera diversa nelle indagini di
ampio raggio e per fini diagnostici, essi dovrebbero comunque consentire di
avere un numero molto più contenuto di diagnosi falso-positive e stime più
affidabili dell’incidenza del disturbo depressivo.
Nonostante le difficoltà, un serio processo di elaborazione, basato su
tentativi ripetuti, di criteri contestuali per le diagnosi cliniche e per la ricerca sul
DDM dovrebbe alla fine produrre molto probabilmente criteri di
soddisfacente affidabilità e validità. In ogni caso, affrontare questa sfida è
fondamentale per il futuro della ricerca sulla depressione. Sulla base dei dati
esposti nel Capitolo 2 e di altri argomenti circostanziali, è chiaro che il
problema dei ‘falsi positivi’ nella diagnosi del DDM è abbastanza grosso. Ma
nessuno può dire quanto lo sia esattamente, per il semplice fatto che nessuno
dei questionari diagnostici che i clinici e i ricercatori usano attualmente
distingue adeguatamente la tristezza patologica da quella non patologica, e
quindi nessuno studio di ricerca affronta l’argomento28. Solo quando saranno
escogitati validi criteri diagnostici e saranno elaborati corrispondenti
questionari di ricerca potremo renderci conto della portata e delle implicazioni
dell’attuale problema dei falsi positivi. La ricerca sulla depressione, e con essa
la ricerca sulle cure, entrerà allora in una nuova era in cui le domande tanto sul
disturbo depressivo quanto sulla tristezza normale potranno essere poste in
modo più raffinato di quanto sia stato fino a oggi e ricevere risposte più capaci
di darci un quadro adeguato della situazione.

11.4 | Conclusione

La psichiatria ha fatto passi enormi negli ultimi decenni e ora dispone di


molte tecniche potenti per scoprire le cause dei disturbi depressivi. Inoltre, le
cure a disposizione per trattare la depressione sono di gran lunga migliori che
in qualsiasi altro tempo della storia umana. E tuttavia gli sforzi per individuare
le malattie, per specificarne le cause e per fornire per esse le cure più efficaci,
sono tutti parzialmente frustrati dall’assenza di una valida definizione del
disturbo depressivo. Quando il DSM-III fu scritto, la sfida era di legittimare il
posto della psichiatria nella medicina liberandola dal ruolo di semplice
strumento di controllo sociale di cui era gravata. Ma i tempi sono cambiati.
Ora è generalmente accettato che esistono vere malattie mediche della mente:
il problema è di comprendere i limiti del concetto di malattia, in modo che non
fagociti tutti i problemi che la vita pone. Sviluppare criteri adeguati che
distinguano le malattie dalla tristezza normale dev’essere una delle principali
priorità per gli studiosi della depressione.
La tristezza è parte inerente della condizione umana, non un disturbo
mentale. Così, mettere in discussione una definizione non valida del disturbo
depressivo da parte della psichiatria significa anche puntare l’attenzione su una
parte dolorosa ma importante della nostra umanità, che abbiamo in qualche
modo cercato di estromettere dalla nostra vita con la moderna
medicalizzazione dei problemi umani. Poiché la scienza ci permette di avere un
maggiore controllo sui nostri stati emotivi, dobbiamo inevitabilmente
affrontare l’interrogativo se la tristezza normale intensa abbia qualche carattere
salvifico o debba essere bandita dalla nostra vita. Un così rilevante tema
scientifico e morale non può essere risolto in maniera spuria, attraverso la
confusione semantica del DSM che erroneamente colloca gli stati di profonda
tristezza nella categoria medica della malattia. Potremo affrontare
adeguatamente i complessi e importanti interessi coinvolti solo se distinguiamo
con chiarezza la tristezza normale dal disturbo mentale. La nostra speranza è
che, dopo aver analizzato le conseguenze dell’attuale incapacità di definire nella
maniera giusta tale distinzione, questo libro incoraggi i professionisti della
salute mentale ad accoglierla ed essi comincino finalmente a parlare fra di loro
e con i loro pazienti in un modo più cauto che produca una migliore
comprensione e cura.

Note
1 | Foucault, 1965, 1979.↵
2 | Freidson, 1970; Abbott, 1988; Conrad, 2005. [Analogamente a quanto sostenuto da alcuni autori,
come Foucault, Szasz e Basaglia, questa prassi si caratterizza per un’ideologia su base esistenzialista che
‘nega’ la diagnosi psichiatrica, partendo dal presupposto che il malato psichiatrico ha una condizione
esistenziale diversa ( Erlebnis) e non modificabile. È doveroso evidenziare che la cura di una condizione
patologica è un dovere per il medico e un diritto per il malato, e non un potere. Nel caso in cui ciò si
determinasse non si tratterebbe di una prassi medica deontologica. Come sappiamo, ciò accade ad
esempio proprio quando l’interesse per la diagnosi è dettato da un guadagno economico, come va
sottolineato nel caso in cui l’intervento terapeutico collude con l’interesse delle case farmaceutiche.
NdC]↵
3 | Horwitz, 2002.↵
4 | Kirk, 1999.↵
5 | Murray e Lopez, 1996.↵
6 | Kramer, 2005, pp. 155, 153.↵
7 | Blazer, 2005, p. 31; Spijker, de Graaf, Bijl, Beekman, Ormel, e Nolen, 2003.↵
8 | Valenstein, 1998.↵
9 | Donohue et al. , 2004. [Cfr. D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014.
NdC]↵
10 | Karp, 1996.↵
11 | Per es. Campbell-Sills e Stein, 2005; Richters e Hinshaw, 1999.↵
12 | Lilienfeld e Marino, 1999, p. 401.↵
13 | Kirmayer eYoung, 1999.↵
14 | Ivi, p. 450.↵
15 | Lilienfeld e Marino, 1995; Richters e Hinshaw, 1999.↵
16 | Cosmides e Tooby, 1999.↵
17 | Gould e Lewontin, 1979.↵
18 | Kramer, 2005.↵
19 | Murphy e Woolfolk, 2001.↵
20 | Archer, 1999.↵
21 | Keller e Nesse, 2005.↵
22 | Sadler, 1999, p. 436.↵
23 | Cosmides e Tooby, 1999.↵
24 | APA, 2000, p. 356.↵
25 | Langner, 1962.↵
26 | Brown, 2002.↵
27 | Almeida, Wethington, e Kessler, 2002; Coyne, Thompson, e Pepper, 2004; Wethinghton e Serido,
2004.↵
28 | Cfr., tuttavia, Wakefield, Schmitz, First, e Horwitz, 2007.↵
* Questo concetto è utilizzato per gli animali, dotati dell’istinto che non consente possibilità di scelta di
fronte al programma biologico. Va sottolineato che l’essere umano, invece, è dotato di libero arbitrio e
di una possibilità di scelta, in base a motivi complessi, anche di natura irrazionale, come ad esempio di
tipo affettivo o di tipo creativo. L’essere umano, infatti, si evolve superando la condizione di vita
finalizzata alla sopravvivenza della specie verso una capacità di realizzare sé stesso come individuo
nella relazione con gli altri all’interno della società. L’animale non ha l’esigenza di realizzare sé stesso,
non dipinge, non scrive poesie, non si innamora e non ha rapporti sessuali indipendentemente dal
periodo fertile. [NdC]↵
* Si sottolinea che il concetto di bambino non è comparabile a quello di animale. La motivazione di
questa associazione è legata a una mentalità culturale storica che disconosce o non vede la nascita
umana e considera la coscienza e la razionalità come caratteristica di base, negando la realtà mentale
del primo anno di vita, non cosciente e non razionale. Il neonato non è un essere umano? Non occorre
essere uno scienziato per rispondere a questa domanda, è sufficiente essere un essere umano che ha
vissuto e ha guardato con i propri occhi, senza aderire a un’ideologia. Esiste una certa cultura, a causa
di posizioni ideologiche degradanti e colpevolizzanti nei confronti dell’essere umano, che non vede la
specificità della nascita umana, uguale in tutte le persone, preferendo invece credere che una scimmia è
come un bambino. [NdC]↵
* Si sottolinea la tendenza estremamente diffusa a prescrivere immediatamente un farmaco psicotropo,
sia in ambito specialistico che generico. Non si considera affatto la capacità di reagire dei pazienti nel
tempo, né tanto meno il rapporto con l’ambiente che può essere la causa dello stato d’animo e che
inoltre può essere modificato. [NdC]↵
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| Pos azione all’edizione italiana

Con nua a espandersi l’area del disturbo depressivo in


psichiatria: gli sviluppi recen

Nel 1980, l’American Psychiatric Association pubblicò la terza edizione del


suo manuale diagnostico ufficiale, The Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders (DSM-III)1, proprio mentre la psichiatria veniva fatta segno a severe
critiche per l’inaffidabilità delle sue diagnosi. Per far fronte a questi rimproveri,
anziché aggiungere alle etichette diagnostiche tradizionali una o due frasi di
vaga descrizione, il DSM-III fornì per la prima volta delle liste di sintomi con
cui diagnosticare ogni malattia psichiatrica, accrescendo l’affidabilità e la
precisione della diagnosi e permettendo una ricerca più produttiva. Questo si
rivelò un momento spartiacque, poiché fornì alla psichiatria americana una
legittimità scientifica precedentemente assente. Le edizioni successive del DSM
fino all’attuale quinta edizione, il DSM-52, hanno affinato i criteri ma senza
modificare l’approccio di base del DSM-III. Inoltre, grazie all’adozione diffusa
del sistema DSM da parte di altri paesi e attraverso la forte influenza del DSM
sullo sviluppo successivo dell’International Classification of Disease (ICD-10)
dell’OMS3, il DSM-III riconfigurò la diagnosi psichiatrica a livello mondiale.
L’ICD seguì l’indirizzo del DSM-III con sue linee guida basate sui sintomi per
la diagnosi psichiatrica, anche se non provò mai a usare i precisi algoritmi
necessarie-sufficienti inclusi nel DSM.
Fra le malattie che il DSM-III ha definito in questa maniera precisa
La perdita della tristezza c’era il disturbo depressivo maggiore (DDM). Il
DDM era definito in termini di sintomi come tristezza, perdita di interesse o
piacere nelle attività consuete, insonnia, diminuito appetito o perdita di peso,
difficoltà a concentrarsi, senso di indegnità o colpa, ideazioni suicidarie e altri
sintomi del genere. Per ricevere una diagnosi di DDM, un soggetto doveva
presentare sintomi inclusi in almeno 5 dei 9 gruppi di sintomi stilati nel DSM-
III, per la durata di almeno due settimane.
Una volta che questa definizione basata sui sintomi fu fissata e ampiamente
applicata, Il DDM diventò la più importante delle varie centinaia di categorie
diagnostiche del manuale. Divenne di gran lunga la più comune condizione
diagnosticata nelle pratiche ambulatoriali4. Le indagini sulle comunità
indicavano che il DDM era la malattia mentale prevalente nella popolazione5.
L’OMS, calcolando il peso attuale e in prospettiva della malattia rappresentato
dal DDM, trovò che esso era nel 2002 la quarta causa principale di disabilità
dovuta a malattia nel mondo6, e avvertiva che nel 2030 sarebbe diventato la più
disabilitante di tutte le condizione mediche al mondo, a parte l’HIV/AIDS7.
Sembrava fosse arrivata un’«età della depressione» che sostituiva l’«età
dell’ansia» che aveva dominato il mondo occidentale nel secondo dopoguerra.
Ma noi non vediamo questa nuova età della depressione come il risultato di
una vera epidemia della malattia mentale depressiva. Nel nostro libro The Loss
of Sadness: How Psychiatry Transformed Normal Sorrow into Depressive Disorder (LoS)
[ La perdita della tristezza]8, osservavamo che la tristezza intensa normale e il
disturbo depressivo sono condizioni distinte che si possono manifestare con
sintomi molto simili e quindi possono essere facilmente confuse, un fatto che
era riconosciuto già nell’antichità. Noi quindi argomentavamo che l’apparente
epidemia di depressione derivava dai criteri diagnostici basati sui sintomi del
DSM che fondevano insieme la tristezza normale e il disturbo depressivo e
qualificavano erroneamente entrambe queste condizioni come disturbi
psichiatrici.
Contrariamente ai critici provenienti dall’area dell’antipsichiatria, che vedono
la psichiatria semplicemente come un controllo sociale che si maschera come
un campo medico, in LoS noi riconosciamo l’evidente esistenza di autentici e
gravi disturbi mentali che devono essere obiettivo degli sforzi di cura medica,
inclusi i disturbi depressivi. Come ogni processo corporeo programmato dalla
biologia può non funzionare in maniera appropriata e può quindi provocare
una malattia fisica, così ogni processo psicologico configurato dalla biologia,
come la tristezza o il lutto, può non funzionare in maniera appropriata e può
quindi provocare un disturbo mentale9. Il problema non era che il disturbo
depressivo non esistesse, ma che il suo dominio era gonfiato dai criteri basati
sui sintomi del DSM fino ad abbracciare molte emozioni umane normali.
LoS ricevette al suo apparire un’ampia pubblicità e recensioni positive, e fu
dichiarato migliore libro di psicologia dell’anno dalla Association of American
Publishers. Rimaneva la questione di quale impatto avrebbe avuto sulla
diagnosi psichiatrica.
Era maturo il tempo per riconsiderare l’approccio della psichiatria alla
depressione. LoS fu pubblicato esattamente quando gli psichiatri americani,
dopo quasi un decennio di tranquilla preparazione, stavano avviando più
attivamente e in maniera pubblica la preparazione del DSM-5. LoS propone
una critica, che riteniamo stringente, dei criteri del DSM-IV per il DDM e
un’analisi critica su come la psichiatria sia addivenuta a considerare
erroneamente afflitte dalla malattia psichiatrica del DDM così tante persone
che sperimentano una tristezza intensa normale. Noi speravamo che LoS
stimolasse cambiamenti nel modo in cui il DSM-5 in arrivo avrebbe definito
questa diagnosi, magari emendando i criteri in maniera da stringere la forbice
delle condizioni classificate come disturbi depressivi. La nostra critica, come
spiegheremo più avanti, ha influenzato in effetti la classificazione del DDM del
DSM-5, anche se non nella direzione da noi auspicata.
Le proposte di cambiamenti da introdurre nei criteri diagnostici usati per
identificare i disturbi mentali nel DSM-5 furono rese pubbliche dalla task force
del DSM-5 e dai tanti gruppi di lavoro che si occupavano di specifici gruppi di
malattie nel 2010. Il dibattito su queste proposte andò intensificandosi con il
passare del tempo e assorbì la psichiatria americana fino alla pubblicazione del
DSM-5 nel maggio 2013. L’edizione italiana di LoS a poco più di due anni
dalla pubblicazione del DSM-5. Il presente capitolo cerca di aggiornare la
storia del destino della depressione nel DSM e della società più in generale,
illustrando i principali sviluppi dal tempo della pubblicazione di LoS alla
pubblicazione del DSM-5. Molti dei cambiamenti del DSM-5 che noi
descriviamo si ritroveranno con ogni probabilità anche nell’imminente
undicesima edizione dell’ICD, attualmente in preparazione.

| Terminologia

La terminologia diventa problematica quando si tratta di stabilire se certe


condizioni classificate dal DSM-5 come disturbi depressivi non siano in realtà
tristezza normale. I due ambiti della malattia psichiatrica e della sofferenza
normale comportano di solito terminologie del tutto differenti. Le condizioni
mediche sono descritte con termini medici quali «diagnosi», «sintomi» e
«depressione», mentre la tristezza normale è generalmente descritta con
termini quali «sentimenti», «lutto», «sofferenza» ecc. Ma quando ci chiediamo
se certe condizioni siano disturbi o tristezza normale, la discussione può
diventare molto tortuosa e costringerci a rimbalzare da un vocabolario all’altro.
Cosa più importante, la scelta del vocabolario nei casi contestati può
condizionare la stessa questione in esame dando per presupposta o almeno
suggerendo la natura della condizione che si vuole descrivere.
Di conseguenza, come in LoS, noi adotteremo qui per convenienza la
convenzione terminologica standard corrente nella gran parte della letteratura
sull’argomento, il che vuol dire che useremo sempre il vocabolario medico di
«sintomo», «diagnosi» e «depressione», indipendentemente che si tratti di
malattie o non malattie, incluse le condizioni la cui natura è in discussione.
Questi termini medici devono essere intesi semplicemente come descrittivi e
neutri rispetto al tema di malattia contro normalità, per cui non comportano
da sé soli la presenza di un disturbo medico. Nell’uso che ne facciamo qui,
dunque, la tristezza normale ha «sintomi» come l’insonnia e il diminuito
interesse per le attività consuete, la «depressione» è a volte un’emozione
normale (com’è nell’uso comune), e un medico può «diagnosticare» una
condizione come tristezza normale. Useremo anche l’espressione «episodio
depressivo» del DSM, nonché l’espressione «depressione del DSM», per
indicare qualsiasi condizione che soddisfi i sintomi previsti dal DSM e i criteri
di durata per il DDM (cioè almeno 5 sintomi per almeno due settimane), ma
anche qui in maniera neutra rispetto alla questione se tali episodi siano malattie
o, contrariamente a quanto stabilito dal DSM, siano a volte periodi di tristezza
intensa normale. Non vogliamo che, a causa di questa convenienza
terminologica, si abbia l’impressione che noi sviliamo o semplifichiamo
l’esperienza umanissima di addolorarsi per la perdita di un oggetto d’amore.

| L’onnipresenza della depressione

Uno degli sviluppi scientifici recenti più illuminanti per la comprensione


della natura del DDM secondo la definizione del DSM è la più raffinata
misurazione della prevalenza degli episodi depressivi secondo la definizione
del DSM nella popolazione generale. In LoS documentavamo un drastico
aumento nella stima della prevalenza nel corso della vita (cioè quante persone
sperimentano la condizione, a un certo punto della loro vita) del disturbo
depressivo maggiore negli Stati Uniti. Fino a pochi decenni fa gli psichiatri
erano abituati a credere che forse il 23% della popolazione avrebbe sofferto di
disturbo depressivo, che era considerato un disturbo relativamente raro ma
grave10. Altri ritenevano che la vera prevalenza si aggirasse intorno all’1-2%, in
quanto pensavano che solo la depressione «endogena», una forma più grave,
fosse la forma legittimamente diagnosticata come malattia medica11. Queste
opinioni corrispondevano all’approccio più rigoroso alla diagnosi di
depressione adottato durante gran parte della storia medica12.
Gli studi metodologicamente più avanzati della prevalenza del DDM nella
popolazione nazionale secondo la definizione del DSM disponibili all’epoca
della pubblicazione di LoS erano studi trasversali in cui a un campione di
soggetti veniva chiesto tramite interviste condotte in un certo arco di tempo di
recuperare dalla memoria se avessero mai sperimentato nel passato ciascuno
dei sintomi depressivi, e in caso affermativo, se li avessero sofferti tutti insieme
all’interno di un unico episodio. Queste reminiscenze erano state poi
trasformate in diagnosi e usate per calcolare quante persone avevano disturbi
depressivi in un qualche momento della vita.
Importanti studi trasversali basati sul DSM di campioni rappresentativi a
livello nazionale, alcuni dei quali avevamo presentato in LoS, rivelavano numeri
sempre più elevati di soggetti che in un qualche momento della vita
soddisfacevano i criteri diagnostici del DSM per il DDM. Il primo studio
basato sul DSM condotto dall’Epidemiological Catchement Area Study (ECA)
trovò a livello nazionale un tasso di prevalenza del DDM nel corso della vita
del 5,2%13. I risultati di altri studi con metodologia più raffinata tendevano
verso valori molto più alti, fra cui la percentuale del 17% del National
Comorbidity Survey (NCS) per episodi depressivi di ogni tipo14, e del 15% per
il DDM strettamente definito15, la percentuale del 16% del National
Comorbidity Survey Replication (NCS-R)16, e la percentuale del 13% del
National Epidemiologic Survey of Alcohol and Related Conditions
(NESARC)17. Benché la percentuale del 17% dell’NCS tenda a essere la più
citata, forse la stima più autorevole è quella di una proiezione del rischio
nell’arco della vita calcolato in base ai dati NCS-R, che dà un rischio generale
di DDM in una vita fino a 75 anni del 23%, quasi un quarto di tutta la
popolazione18. Percentuali simili per l’arco della vita furono raggiunte in
indagini condotte più o meno nello stesso periodo usando un’analoga
metodologia trasversale in molti altri paesi, fra cui Germania, Olanda,
Norvegia, Italia e Ungheria, con percentuali che andavano dal 15% al 18%19.
L’entità di questi tassi di prevalenza imbarazzò anche alcuni eminenti
epidemiologi, i quali riconobbero che forse erano state mal classificate come
disturbo depressivo delle reazioni normali allo stress20. I tentativi di risolvere il
problema limitando la diagnosi alle condizioni in cui fossero presenti dolore
clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale non
ebbero molto successo nel ridurre la prevalenza21, forse perché le emozioni
negative normali come la tristezza possono essere intense e sono per sé stesse
dolorose e spesso compromettono il funzionamento sociale del soggetto. Di
conseguenza, questi criteri di ‘rilevanza clinica’ non distinguevano in realtà la
malattia dalla normalità22. Inoltre, una domanda inquietante affiorava ma non
fu mai espressa all’epoca: se i criteri del DSM confondono di fatto la tristezza
normale con il disturbo psichiatrico, non è forse possibile che anche queste
percentuali così elevate siano troppo basse e che con una informazione più
completa potremmo scoprire ancora più persone della popolazione generale
che soddisfano la definizione che il DSM dà del DDM?
In termini di piena informazione, la domanda che aleggia su tutti questi studi
trasversali riguarda l’accuratezza e la completezza della memoria: i rispondenti
ricordavano tutti i sintomi che avevano sperimentato anni prima dell’intervista?
Sappiamo benissimo che la memoria è inaffidabile su questi sentimenti quando
vengono ricordati molti anni dopo23. Il solo modo per stabilire la vera
diffusione nella popolazione generale del DDM secondo la definizione del
DSM sarebbe di seguire i soggetti longitudinalmente e ‘fotografarli’
periodicamente quando i sintomi sono ancora freschi nella mente.
Mentre il manoscritto di LoS era in preparazione, furono pubblicati due
studi longitudinali pionieristici, metodologicamente limitati ma tuttavia ricchi
d’informazioni, che non abbiamo esaminato nel libro. Nel primo, Wells e
Horwood riferivano su un campione rappresentativo costituito da un gruppo
di giovani nati nel 1977 nella città di Christchurch in Nuova Zelanda, che
furono sottoposti a questionari sulla salute mentale a partire dall’età di 15 anni
(nel 1992) che includevano domande sui sintomi depressivi da loro avvertiti
nell’anno precedente24. I giovani furono re-intervistati a 16, 18 e 21 anni. Nel
periodo di studio di appena 7 anni fra le età di 14 e 21 anni, il 37% del
campione di Wells e Horwood soddisfaceva i criteri del DSM per il DDM in
uno o più punti, dando sostegno all’idea di tassi di prevalenza nettamente più
alti di quelli riportati negli studi trasversali. Inoltre, il 54% riferiva sintomi
depressivi chiave di umore depresso o perdita di interesse, per cui anche quelli
che non erano qualificati per il DDM sarebbero stati qualificati per la
depressione minore o sottosoglia o per un disturbo dell’adattamento con tratti
depressivi.
Nel secondo, a partire dal 1978 Wilhelm e Parker seguirono un gruppo di
studenti che frequentavano un corso annuale post-laurea in formazione degli
insegnanti al Sydney College, e ne misurarono un certo numero di variabili
legate alla depressione ogni cinque anni. All’inizio dello studio, domandarono
ai partecipanti se avessero sperimentato la depressione in senso ampio, che
include la variabilità di umore, con una definizione della depressione come
qualsiasi «abbassamento significativo dell’umore, con o senza sensi di colpa,
disperazione e impotenza, o calo dell’autostima o autoconsiderazione»25. Un
tondo 95% del campione riferiva di avere avuto esperienze del genere, con il
91% che riferiva di averli avuti nell’anno precedente, e con un numero medio
di episodi verificantisi nell’anno precedente di 6,326. Questo illustra
esattamente l’onnipresenza degli scivolamenti nell’umore depressivo normale.
Quanto alla prevalenza nel corso della vita del DDM, dopo 15 anni, valutata
in base all’intervista iniziale e altre tre successive, il campione di Wilhelm e
Parker mostrava una percentuale del 35%27. Includendo nel disturbo
depressivo sia la depressione maggiore sia la depressione minore (quest’ultima
richiede 3-4 sintomi per due settimane) del DSM, si arrivava a un 57% del
campione che aveva avuto un disturbo depressivo. Quando il campione fu
esaminato dopo 25 anni, con l’età media del campione passata da 23 a 48 anni,
il tasso cumulativo di prevalenza del DDM nell’arco della vita raggiungeva il
42%28.
Due studi più recenti con metodologia più raffinata hanno risolto in maniera
soddisfacente la questione della prevalenza nel corso della vita del DDM
secondo la definizione del DSM almeno per una sostanziale fascia di età, anche
se non ancora per l’intero arco di vita. Dopo l’uscita di LoS, Moffitt e la sua
équipe29 pubblicarono i risultati di uno studio longitudinale che seguì un
gruppo rappresentativo di soggetti di Dunedin, Nuova Zelanda, dall’infanzia
fino all’età adulta. I rispondenti venivano intervistati periodicamente solo sui
sintomi che avevano avvertito durante l’anno precedente all’intervista,
badando alla massima accuratezza dei ricordi. Il risultato fu che, in contrasto
con la stima standard del 17% di prevalenza nel corso della vita del DDM, lo
studio di Dunedin diede un tasso di prevalenza del DDM di circa il 17% «in
ogni dato anno». Il tasso cumulativo nel corso della vita del DDM registrato a
Dunedin con le misurazioni su quattro anni alle età di 18, 21, 26 e 32 anni
(cioè la percentuale dei soggetti che soddisfacevano i criteri del DSM per il
DDM in uno o più dei quattro punti annui di valutazione) era del 41%. Questo
tasso del corso della vita non include i soggetti che avevano avuto episodi
depressivi solo prima dei 18 anni o dopo i 32 anni, o li avevano avuti solo negli
intervalli (dieci anni) fra i 18 e i 32 anni non campionati nelle quattro
valutazioni annue; se fossero stati calcolati anche questi episodi, la prevalenza
completa del corso della vita sarebbe stata notevolmente più alta.
Un secondo studio longitudinale di Rohde e altri30 replicò in sostanza i
principali risultati dello studio di Moffitt e la sua équipe. Lo studio trovò una
prevalenza cumulativa del 51% di DDM in un gruppo statunitense di soggetti
dell’Oregon, seguiti longitudinalmente dall’infanzia fino all’età di 30 anni, con
interviste tenute a intervalli di circa 6 anni che coprivano l’intero periodo
dall’intervista precedente e non solo l’anno immediatamente prima. Le
prevalenze del DDM durante i periodi della «prima età adulta» (età 18-23 anni)
e della «piena età adulta» (età 24-30 anni) risultarono del 28% e del 26%,
rispettivamente. Ricalcolando in base alle tavole di Rohde e altri e contando
solo il DDM manifestatosi all’inizio dell’età adulta e i casi emersi in età adulta,
le scoperte indicano un’incidenza del DDM secondo il DSM fra i 18 e i 30
anni di almeno il 44% (una stima al di sotto della realtà, perché non rientrano
in questo conteggio i casi manifestatisi in età adulta con episodi verificatisi
precedentemente alla prima età adulta). Questo risultato è assimilabile al 41%
scoperto da Moffitt e la sua équipe per le stesse età.
Tuttavia, né lo studio di Moffitt e la sua équipe né quello di Rohde e altri
prendevano in considerazione le prime insorgenze del DDM verificatesi dopo
i primi trent’anni. Non abbiamo ancora studi longitudinali per il corso della
vita di campioni di comunità, e quindi non sappiamo quale sarebbe la
prevalenza del DDM secondo la definizione del DSM durante l’intero arco
della vita. Il meglio che possiamo fare al momento è estrapolare per via
ipotetica la prevalenza totale, usando gli studi trasversali per capire grosso
modo quante prime insorgenze si verificano nei soggetti più anziani.
Per esempio, nell’intersettoriale NCS-R, che usò un’accurata metodologia di
rassegna delle storie di vita, si scoprì che nel 50% dei casi la prima insorgenza
si era avuta dopo i 32 anni31. L’ECA fece una scoperta analoga, secondo cui di
quelli che soddisfacevano i criteri del DSM per il DDM «il 50% realizzò i
criteri prima dei 35 anni»32. Poiché il NCS-R e l’ECA sono studi trasversali, le
prime insorgenze in età più avanzata sono sovrastimate perché trascuravano di
richiamare gli episodi precedenti. Ma anche se ammettiamo che il tasso
effettivo delle prime insorgenze è metà di quello riportato, ciò significherebbe
che circa il 25% di tutti i casi di DDM definiti secondo il DSM aveva avuto
l’insorgenza dopo i primi 30 anni. Lavorando sui dati di Moffitt e la sua équipe
e di Rohde e altri, la vera prevalenza nel corso della vita del DDM definito
secondo il DSM sale a circa i due terzi dell’intera popolazione (cioè 4/3 x 51%
= 68%).
Insomma, gli studi recenti confermano che anche le stime inverosimilmente
alte della prevalenza disponibili al tempo in cui LoS fu pubblicato erano
troppo basse. Il disturbo depressivo, che solo qualche decennio fa era
considerato una condizione relativamente rara, definito con i criteri basati sui
sintomi del DSM, si riscontra nella maggioranza dei soggetti. È esattamente
quello che c’è da aspettarsi se, con l’uso di criteri basati sui sintomi, si
confondono la malattia e la tristezza normale. Queste percentuali
straordinariamente alte hanno portato a recenti richiami da parte di illustri
studiosi a ripensare la soglia diagnostica fra la tristezza normale e il disturbo
depressivo33, proprio il compito che abbiamo avviato con LoS.
| La marea montante degli antidepressivi
Dopo la chiusura del nostro volume LoS, i tassi dell’uso degli antidepressivi
hanno continuato a salire a razzo negli Stati Uniti, dove molti studi hanno
constatato un incremento di circa il 400% in appena un decennio, dall’inizio o
metà degli anni Novanta all’inizio o metà degli anni 200034. Inoltre,
l’incremento prende piede più rapidamente fra le depressioni meno gravi, per
le quali la dimostrazione dei benefici è più debole35. Rapporti recenti indicano
che negli Stati Uniti circa uno su nove adulti e, sorprendentemente, circa un
quarto di tutte le donne adulte in età di 30-40 anni assumono in un qualche
momento questi farmaci36.
I dati internazionali indicano una tendenza mondiale verso un uso in
espansione dei farmaci antidepressivi al di là di ogni plausibile applicazione a
veri disturbi depressivi o disturbi correlati. Secondo l’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE, OECD in inglese), paesi
come l’Irlanda, l’Australia, il Canada, la Danimarca e la Svezia raggiungono
percentuali di uso di antidepressivi che si avvicinano a quelli degli Stati Uniti –
cioè l’8-10% o più di adulti che in un certo momento assumono farmaci
antidepressivi – con percentuali che sono andate generalmente raddoppiando
negli ultimi anni37. Per esempio, durante il periodo dal 2000 al 2011, i tassi di
uso di antidepressivi sono cresciuti del 150% in Germania e di oltre il 100% in
molti altri paesi dell’OCSE, fra cui l’Italia, l’Australia, la Spagna, il Portogallo,
la Danimarca e il Regno Unito38. La Francia, già una delle maggiori
consumatrici di antidepressivi dell’OCSE nel 2000, ha visto nondimeno il suo
tasso di uso crescere di un altro 20% circa fra il 2000 e il 2011, con quasi il
10% della popolazione del paese rimborsato per almeno un antidepressivo in
un qualche momento, perlopiù prescritto da medici di famiglia39.
Di particolare interesse è l’espansione a livello internazionale e negli Stati
Uniti dell’utilizzo degli antidepressivi per forme più lievi di tristezza prive
addirittura di una diagnosi psichiatrica40. Fra gli altri fattori ipotizzati come
responsabili dell’accresciuto uso ci sono le linee guida che raccomandavano
una maggiore durata delle cure per prevenire le ricaduta41, l’estensione degli
antidepressivi alle condizioni d’ansia correlatecome la fobia sociale e il disturbo
d’ansia generalizzata42, e persino le reazioni depressive alla negativa
congiuntura economica43, nonostante i dati facciano pensare che l’impennata
nell’uso degli antidepressivi sia antecedente alla congiuntura. Uno studio
recente ha rivelato che nell’insieme dell’Europa l’8% di tutti i soggetti e il 10%
degli adulti di mezza età hanno assunto antidepressivi nel 2010, e di questi
ultimi circa tre quarti li hanno assunti per oltre un mese44. Inoltre, sotto
l’influenza di campagne commerciali culturalmente sofisticate, il boom delle
diagnosi di depressione e delle prescrizioni di antidepressivi negli Stati Uniti e
in Europa negli ultimi decenni si sta ripetendo in altri paesi che in precedenza
avevano relativamente pochi casi di depressione, come il Giappone45.
L’aumento dell’uso degli antidepressivi si è verificato nonostante il crescente
scetticismo circa l’efficacia di questi medicinali. L’evidenza suggerisce sempre
più che il miglioramento che si ottiene durante il trattamento con
antidepressivi va attribuito in larga misura a effetti placebo46. Un’altra evidenza
fa pensare che la maggior parte dei pazienti non trae beneficio, ma che c’è
probabilmente un effetto benefico per un piccolo sottogruppo, costituito forse
da depressioni più gravi47.
Questa tendenza all’incremento dell’uso degli antidepressivi si è verificata
anche nonostante ci si sia resi conto sempre più che gli effetti collaterali degli
antidepressivi sono notevolmente maggiori di quanto generalmente si
pensasse48. In effetti, alcuni ricercatori stanno finalmente cercando di indagare
sulla questione del perché gli esseri umani siano biologicamente programmati
per sperimentare in generale la tristezza, e quali possano essere i costi di
interferire con questa risposta49. C’è anche crescente interesse a vincere la sfida
di uscire da questi farmaci dopo un prolungato trattamento, dovuta alle serie
reazioni negative, spesso etichettate come «sindrome di discontinuità», per
evitare ogni connotazione di dipendenza o assuefazione. Queste difficoltà
sono denunciate da una percentuale molto consistente di pazienti, che va dal
20% al 75% nei vari studi50. Purtroppo, le difficoltà derivanti dagli
antidepressivi, che pure appaiono correlate alla durata del tempo di assunzione,
sembrano riguardare pazienti che assumono antidepressivi per tempi
abbastanza brevi, come sei settimane51. Ciononostante, forse influenzati dalla
pubblicità delle case farmaceutiche e da una percezione degli effetti benefici
sui pazienti, i medici curanti tendono a vedere gli antidepressivi come un
trattamento sicuro ed efficace per l’umore depresso52. La questione rimane
vivacemente dibattuta nelle pubblicazioni sia scientifiche sia popolari53.
| Medicalizzazione del trattamento
Le tendenze nel trattamento, e specificamente gli slittamenti in chi cura la
depressione e nel modo in cui questa è curata, riflettono una crescente visione
della tristezza come malattia medica che è ‘malattia mentale’, che può essere
curata al meglio dai medici e con medicine. Una combinazione di fattori – fra
cui l’aumento di nuovi farmaci antidepressivi, la percezione che esiste
un’epidemia di disturbo depressivo non curato basata su rassegne
epidemiologiche che applicano i criteri diagnostici del DSM a campioni di
comunità, e la corrente popolarità di un modello della depressione come
malattia mentale – ha provocato un cambiamento nei modelli di trattamento.
Negli Stati Uniti si è avuto un documentato scivolamento verso il passaggio
della cura della depressione nelle mani dei medici generici e verso l’uso dei
farmaci al posto della psicoterapia.
La fonte più autorevole di dati sulle recenti cure della depressione di pazienti
ambulatoriali negli Stati Uniti è rappresentata dall’analisi di Marcus e Olfson54
che mette a confronto le Medical Expenditure Panel Surveys del 1998 e 2007,
indagini sponsorizzate dalla Agency for Healthcare Research and Quality per
ottenere stime sull’uso dei servizi di cura della salute in un campione nazionale
rappresentativo della popolazione statunitense civile non inquadrata in
istituzioni. Ciascuna indagine è costituita da tre cicli di interviste a ricoverati
durante l’anno dello studio, e da un diario degli eventi medici tenuto dal
rispondente. Confrontando le due successive indagini, Marcus e Olfson hanno
potuto individuare delle tendenze in un decennio di crescita e cambiamento
nella cura della depressione.
Una delle scoperte principali di Marcus e Olfson è stata che l’uso della
psicoterapia nel trattamento ambulatoriale della depressione è in calo, con la
percentuale di quelli che fruiscono della psicoterapia scesa dal 54% nel 1998 al
43% nel 200755. Questo andamento è in continuità con una tendenza già
documentata in uno studio precedente con un crollo dei fruitori di
psicoterapia dal 71% al 60% fra il 1987 e il 1997, che sono gli anni nei quali
divennero disponibili gli antidepressivi SSRI56. Marcus e Olfson rilevano altresì
che circa il 35% dei pazienti ambulatoriali curati per depressione ha ricevuto
nel 2007 sia la psicoterapia sia i farmaci, il che significa che la percentuale di
quelli che hanno ricevuto la sola psicoterapia è stata modesta, forse l’8% dei
pazienti ambulatoriali curati per depressione.
Quanto ai fornitori delle prestazioni, come ci si poteva aspettare, la grande
maggioranza dei pazienti con depressione ambulatoriali del 2007 si era fatta
visitare da medici, di cui la metà circa era costituita da psichiatri. La cifra dei
pazienti ambulatoriali che si erano fatti visitare da medici corrisponde
strettamente a quella dell’uso dei farmaci, con l’85% per i pazienti che
incontravano un medico (inclusi psichiatri e altri specialisti) e l’82% per l’uso di
farmaci nel 2007. Delle prescrizioni di antidepressivi effettuate in anni recenti,
l’80% sono compilate da medici generici, e di queste, circa tre quarti non sono
accompagnante da una diagnosi psichiatrica formale57. Andare dal medico è
ovviamente una condizione necessaria per ricevere una prescrizione di farmaci,
ma questi dati ci dicono anche che andare dal medico con un minimo accenno
di depressione è praticamente una condizione sufficiente per ricevere i farmaci.
Una scoperta impressionante è la ridotta presenza di professionisti della salute
mentale, non medici, nell’offerta complessiva di cure ambulatoriali per la
depressione. Il decennio precedente aveva visto un cospicuo aumento della
quota dei medici nella cura ambulatoriale di tutti i pazienti con depressione dal
69% all’87%, e un calo della quota degli psicologi dal 30% al 19%58. Nel 2007
gli psicologi (21%) e gli operatori sociali (7%) servivano percentuali abbastanza
piccole del gruppo dei pazienti ambulatoriali curati per depressione. La
bassissima percentuale degli operatori sociali, attestatasi intorno a quei valori
fin dal 1998, è particolarmente impressionante poiché essi costituiscono di
gran lunga il segmento più grande dei professionisti della salute mentale negli
Stati Uniti. Si direbbe che la medicalizzazione della depressione abbia avuto
l’effetto generale di dirottare questi casi verso i medici.

| LoS e l’esclusione del lu o nel DSM-5

LoS aveva messo in campo un ampio spettro di prove per mostrare come il
punto debole fondamentale della diagnosi del DDM era costituito dal suo uso
dei sintomi senza tener conto del contesto in cui quei sintomi si
manifestavano. Aveva passato in rassegna migliaia di anni di storia psichiatrica,
che di solito separava la tristezza normale che nasce e persiste nel contesto di
qualche perdita dai disturbi depressivi che non hanno relazione con il loro
contesto. Noi abbiamo definito la tristezza normale come caratterizzata da tre
qualità fondamentali. Primo, è strettamente legata al contesto, nel senso che è
biologicamente programmata per emergere in risposta a uno specifico spettro
di stimoli ‘giusti’ costituiti da perdite e stress e non si presenta in risposta a
eventi che sono al di fuori di quello spettro. Secondo, l’intensità emotiva e
sintomatica della risposta è grosso modo proporzionata all’entità della perdita
che l’ha generata, tenendo conto che ci sono ampi margini di variabilità
individuale e di configurazione culturale nell’intensità della risposta. Terza e
ultima caratteristica della tristezza non patologica è che i sintomi non soltanto
sorgono, ma persistono in connessione con i contesti esterni, anche se poi
regrediscono naturalmente quando il contesto cambia in meglio o quando i
soggetti ricostruiscono la propria vita e i propri sistemi di significato per
adattarsi alla perdita subita. Il disturbo depressivo, a nostro avviso, manca di
almeno una di queste caratteristiche delle reazioni non patologiche.
Un aspetto particolare della diagnosi del DDM presentava un interesse
speciale. La definizione del DDM basata sui sintomi conteneva un’eccezione:
le diagnosi non venivano pronunciate per persone in lutto, a meno che i loro
sintomi fossero ancora presenti dopo mesi o fossero particolarmente gravi.
Questa eccezione era conosciuta come la «esclusione del lutto» ( bereavement
exclusion, BE), ed era espressa, in maniera un po’ confusa, come segue:
I sintomi non sono meglio giustificati da Lutto, cioè, dopo la perdita di una persona
amata, i sintomi persistono per più di due mesi, o sono caratterizzati da una
compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria,
sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio59.
In altre parole, i pazienti sono esenti da una diagnosi di depressione se i loro
sintomi si possono spiegare meglio come parte di un normale lutto a seguito
della perdita di una persona cara. Si sa bene che il lutto può in alcune occasioni
far scattare un vero disturbo mentale60, e quindi la BE non può semplicemente
escludere dalla diagnosi tutti i sentimenti depressivi dopo la perdita. E invece,
basandosi su studi classici del lutto normale61, la BE distingueva i sentimenti
depressivi che sono comuni nelle reazioni normali di stress generale (come
tristezza, pianti, difficoltà di sonno, diminuzione dell’appetito, perdita
d’interesse per le attività consuete o mancanza di piacere nel farle, difficoltà di
concentrazione, affaticamento) da quei sintomi più gravi (come fantasie
psicotiche, ideazioni suicidarie, rallentamento psicomotorio, autosvalutazione,
compromissione funzionale marcata, durata piuttosto lunga) che
probabilmente indicavano che la reazione era diventata patologica. Così, per
essere esclusi da una diagnosi di DDM, i sentimenti depressivi dopo una
perdita dovevano superare sei test: dovevano essere di durata normale (il
DSM-IV definiva come un periodo normale di sentimenti depressivi durante il
lutto conseguente alla morte di una persona cara se non durano più di due
mesi); e non dovevano includere nessuno degli altri cinque sintomi
particolarmente gravi. Un episodio con sintomi sufficienti per essere
qualificato come DDM ma verificatosi dopo una perdita e con solo sintomi
generali di sofferenza e nessuno dei sei segni di patologia era considerato come
depressione «non complicata» collegata al lutto ed era quindi escluso dalla
diagnosi di DDM.

| Lo studio di Wakefield e la sua équipe che mostra come la BE


debba essere estesa ad altri fa ori di stress

La BE era particolarmente importante perché era l’unica eccezione alla


natura sintomatica della diagnosi di DDM. Contrariamente al DSM, noi
crediamo che il lutto non debba essere l’unica eccezione ai criteri della
depressione ma un modello per tutti i tipi di situazioni di perdita. È strano che
la distinzione fra gli episodi depressivi senza o con complicazioni applicata dal
DSM alla depressione legata al lutto per separare le risposte depressive alla
perdita normali da quelle anormali non fosse mai stata applicata alle reazioni
depressive dovute ad altri fattori stressanti per vedere se anche in quei casi
funzionava allo stesso modo, nonostante una serie di prove suggerisse che le
risposte depressive normali passeggere ad altri fattori di stress fossero comuni.
Con i colleghi Michael First e Mark Schmitz, abbiamo condotto uno studio
per esaminare se le reazioni depressive ad altri fattori di stress, come la perdita
di un posto di lavoro prestigioso, il fallimento di un matrimonio, il tracollo
finanziario, la perdita di proprietà in una catastrofe naturale, o una diagnosi
medica negativa per sé stessi o per una persona amata ricadevano nello stesso
modello di risposte non complicate più lievi e risposte complicate più gravi ed
eventualmente patologiche. Lo studio62, pubblicato subito dopo LoS, mirava a
capire se i sentimenti para-depressivi dopo altri tipi di perdite e conseguente
stress che non presentavano sintomi particolarmente gravi o una durata
particolarmente lunga – e quindi «non complicati» secondo la definizione del
DSM per la BE – fossero simili alle depressioni non complicate collegate al
lutto per gli altri aspetti, e fossero magari risposte di tipo normale che
dovevano essere escluse dalla diagnosi. Gli studi successivi misero in luce
alcune debolezze dello studio iniziale ma confermarono i risultati63.
Scoprimmo che tutti i tipi di episodi di depressione scatenati da una perdita
che non erano particolarmente gravi o prolungati e avevano i requisiti per
essere «non complicati» (cioè comprendevano solo sentimenti depressivi di
sofferenza generale senza alcuno dei sei tratti che suggeriscono la patologia)
presentavano sintomi, durata, storie di trattamento e gradi di menomazione
simili a quelli del lutto64. Inoltre, tutte le condizioni di DDM non complicate
collegate a una perdita differivano enormemente da altre condizioni di DDM
per molti aspetti che segnalavano più bassi livelli di indicatori di patologia, e
suggerivano quindi normali condizioni emotive65.
La nostra ricerca empirica mostrò dunque in maniera convincente che i
criteri per la depressione selezionavano erroneamente il lutto come unica
tipologia di evento che escludesse dalla diagnosi di DDM. Le conseguenze del
lutto sulla salute mentale erano simili alle depressioni provocate da ogni tipo di
perdita che fosse la morte di una persona cara, un divorzio, la disoccupazione e
simili, ed erano distinte dalle condizioni depressive complicate. La distinzione
critica era non fra lutto e altre perdite ma fra condizioni non complicate
conseguenti a una perdita e condizioni con sintomi particolarmente gravi –
capaci di far pensare a una patologia – come ideazioni suicidarie,
compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, o sintomi
psicotici, o durata prolungata. Queste scoperte sembravano indicare che
l’esclusione del lutto doveva essere estesa a coprire tutti i tipi di perdite che
non erano particolarmente intense o lunghe. Noi proponevamo il
restringimento del dominio del DDM come un obiettivo della revisione del
manuale in vista del DSM-5, e come un primo passo nella direzione di mettere
ordine nelle eccessive diagnosi di DDM in casi di tristezza intensa normale. A
nostro giudizio, sarebbe bastata la correzione di quest’unico problema – con
l’esclusione dalla diagnosi di DDM delle reazioni depressive non complicate a
perdite recenti – per ridurre di circa il 25% la prevalenza dei casi di comunità
di malattia depressiva diagnosticabile con il DSM.

| Reazione del DSM-5: eliminazione dell’esclusione del lu o

I ricercatori collegati allo sviluppo del DSM-5 reagirono con allarme a queste
scoperte. Un eminente membro della task force per la depressione del DSM-5,
lo psichiatra Kenneth Kendler, usò suoi propri dati per testare le nostre
affermazioni. Ma le sue scoperte non fecero che confermare le nostre: la
depressione che si sviluppava dopo il lutto era identica a quella conseguente ad
altri eventi stressanti della vita, e ricadeva in una delle stesse due classi di
reazioni – le non complicate e le complicate – con tratti complessivi simili66.
Tutte le parti concordavano su questo punto. C’era invece grande differenza su
come esse ne interpretavano le implicazioni. Per Wakefield e la sua équipe, dal
momento che i casi ricadenti nella BE non sono malattia, non sono malattia
nemmeno le analoghe reazioni ad altri fattori stressanti, vista l’accertata
somiglianza. Noi perciò sostenevamo che i criteri del DSM dovevano essere
rivisti per espandere la BE in modo da essere applicata alle reazioni non
complicate a tutti i principali fattori stressanti. Ma per Kendler e altri che
lavoravano al DSM-5, la somiglianza dimostrava invece che era sbagliato
selezionare il lutto per l’esclusione, e che quindi qualcosa in effetti doveva
cambiare. «La posizione del DSM-IV non è logicamente difendibile», scrisse
Kendler in un intervento successivo67. A cui fece seguito un’analisi che lasciava
trasparire che erano molte delle affermazioni di Kendler a essere
indifendibili68.
Anziché ammettere che la BE doveva essere estesa, Kendler e altri
ragionavano in direzione opposta. Concedevano che data la somiglianza il lutto
non poteva essere preso da solo, ma sostenevano che questa somiglianza
comportava semplicemente che «anche il criterio di esclusione del lutto va
eliminato o escluso»69. Tutt’e due le opzioni risolvevano l’incoerenza. Quelli
che volevano eliminare completamente l’esclusione sostenevano che, giacché le
risposte non complicate ad altri stressanti erano ora considerate patologiche
dal DSM, la somiglianza non poteva significare altro che in passato avevamo
sbagliato sui casi di lutto. Il fatto è però che il carattere patologico in
contrapposizione a quello normale delle reazioni depressive a stressanti diversi
dal lutto non era stato empiricamente studiato al tempo del DSM-III così
come era stato studiato il lutto, e non ci si era mai posto l’interrogativo se altre
reazioni dovessero essere escluse. La questione di come debbano essere intese
queste reazioni non è mai stata considerata seriamente o valutata
empiricamente da alcun gruppo di lavoro del DSM in qualunque revisione del
manuale, e rimane un tema irrisolto. In ogni caso, quelli che proponevano
l’eliminazione della BE resistevano con forza all’estensione della BE ad altri
stressanti, che avrebbe abbassato il numero delle condizioni diagnosticabili
come DDM con il rischio, naturalmente, di lasciarsi sfuggire alcuni casi
autentici.
Nel 2011-2012 il presidente dell’American Psychiatric Association, John
Oldham, reagì allo stesso modo alla nostra ricerca, insistendo che non c’era
motivo di prevedere la sola esclusione del lutto e abbracciando l’implicazione
che quindi la BE dovesse essere eliminata e non già estesa, poiché tutte le
reazioni simili dovevano essere considerate patologiche:
[L’esclusione del lutto è] molto limitata: si applica solo alla morte di un consorte o di una
persona amata. Perché è diversa da una reazione molto forte dopo che hai avuto tutta la
casa e le proprietà spazzate via da uno tsunami, o da un terremoto, o da un tornado; o se
ti trovi in difficoltà finanziarie o licenziato all’improvviso dal lavoro? In ognuna di queste
situazioni, l’esclusione non si applica. Quello che sappiamo è che uno stress importante
può attivare una significativa depressione in persone a rischio. Non ha senso differenziare
la perdita di una persona cara come lutto comprensibile dagli stress e tristezze altrettanto
gravi dopo altri tipi di perdite70.
Oldham, Kendler e molti altri sostenevano che poiché le reazioni depressive
non complicate durante il lutto appaiono simili alle reazioni non complicate ad
altri fattori di stress, e poiché il DSM considera patologiche le reazioni agli altri
fattori di stress, nel DSM-5 andava eliminata l’esclusione del lutto. Ma poiché il
DSM-IV considerava normali le reazioni depressive non complicate legate al
lutto, una volta scoperto che le reazioni depressive non complicate ad altri
fattori stressanti erano equivalenti, si poteva argomentare nell’una o nell’altra
direzione appellandosi con uguale diritto all’autorità del DSM. A questo punto,
richiamarsi al DSM come autorità dirimente diventava irrilevante. Una volta
accettato che i sentimenti depressivi legati al lutto e i sentimenti depressivi
legati ad altri fattori stressanti e perdite erano gli stessi, si pose per il DSM-5
un reale dilemma che non poteva essere risolto facendo appello alle indicazioni
del DSM-IV, in quanto il DSM-IV era, sul punto, incoerente. La questione
divenne allora se tutte le reazioni depressive non complicate a perdite o stress
– cioè tutte le reazioni al lutto e ad altri fattori di stress che non presentavano
alcuno dei sei tratti che suggeriscono patologia, e quindi potenzialmente
meglio spiegabili come componenti di una reazione normale – dovessero
essere escluse dalla diagnosi di DDM, o tutte dovessero esservi incluse.
Nessuno di quelli che sostenevano l’eliminazione della BE affrontò mai
direttamente questo problema su basi empiriche.
Altri fra quelli che proponevano di far cadere la BE affermavano che la
presenza stessa dei sintomi depressivi del DSM, indipendentemente dal
contesto o dalla tipologia, costituiva malattia: «Quando uno ha un infarto
miocardico (IM), i medici lo considerano come la manifestazione in
quell’istante della malattia cardiaca, indipendentemente dal suo ‘contesto’»,
affermava lo psichiatra Ronald Pies. «L’IM può essersi verificato nel contesto
di una dieta povera del paziente, dell’abitudine di fumare o di alti livelli di
stress psichico: ma è comunque espressione di malattia»71. Per Pies, la
depressione è depressione, appunto come un attacco cardiaco è un attacco
cardiaco. Per questi psichiatri, la somiglianza sintomatica clinica della
depressione non complicata durante il lutto con la depressione non complicata
a seguito di altri fattori stressanti imponeva l’abbandono della BE, non la sua
estensione.
Pies e gli altri che proponevano l’eliminazione della BE affermavano che
capita spesso ai medici di diagnosticare gravi malattie – come attacchi cardiaci,
cancro o tubercolosi – che hanno nell’ambiente fattori che le fanno precipitare.
Analogamente, sostenevano, tutte le condizioni depressive dovrebbero essere
diagnosticate indipendentemente dalla loro causa. Eppure, a differenza
dell’attacco cardiaco, il lutto è una risposta programmata dalla natura e
autolimitata, non un difetto nel funzionamento naturale, come un attacco
cardiaco. Inoltre, i medici prendono in considerazione il contesto quando
devono stabilire se, per esempio, un aumento delle pulsazioni o della pressione
sanguigna significano una malattia o una reazione a circostanze esistenziali
dell’individuo. Tuttavia, una differenza c’è a questo proposito fra la diagnosi
psichiatrica e altre diagnosi mediche per il semplice fatto che le funzioni
psicologiche sono biologicamente programmate a essere altamente sensibili al
contesto ambientale, e in effetti è proprio questa dipendenza dal contesto che
le rende adattive e utili. La paura, per esempio, non sarebbe granché utile se si
manifestasse in continuità o a casaccio: è utile perché viene innescata
selettivamente dalla percezione del pericolo. Così pure la tristezza è altamente
sensibile al contesto; non si può quindi fare a meno di tener conto del contesto
quando c’è da valutare se siamo in presenza di una malattia. In ogni caso, la BE
nel DSM-IV già classificava la maggior parte delle depressioni durante il lutto
come DDM per la presenza anche di uno solo dei sei sintomi che vietavano
l’applicazione della esclusione. L’idea che la depressione è depressione
esattamente come un attacco di cuore è un attacco di cuore è falsa e non può
giustificare il cambiamento dei precedenti criteri che consideravano un lutto
particolarmente grave come una malattia.
Un’importante forma di verifica della validità di una diagnosi è data dalla
validità predittiva, se cioè nel tempo gli sviluppi successivi di una condizione
fanno capire se era una malattia oppure no. Il dibattito sulla BE ebbe una
sterzata quando cominciarono a venir fuori gli studi sulla validità predittiva
della BE. Diversi studi mostrarono che per periodi di controllo sia di un anno
sia di tre anni dopo un episodio di depressione non complicata legata a un
lutto, i soggetti non avevano maggiori probabilità dei non depressi di avere
successivi episodi depressivi o forme d’ansia72.
Questi risultati furono ben presto generalizzati a tutti i fattori di stress: le
reazioni depressive non complicate ai fattori di stress in generale si rivelavano
essere molto meno indizi di malattia che altre forme di depressione. Per
controbattere la critica che il lutto non era unico e che quindi non c’era
giustificazione per la BE, Wakefield e collaboratori condussero altri studi che
portarono a una scoperta anche più impressionante: i soggetti che
sviluppavano depressioni non complicate dopo qualsiasi tipo di perdite
assomigliavano più a quelli che non erano stati ‘mai depressi’ che a quelli che
soffrivano condizioni depressive complicate. Usando i dati raccolti in due
momenti distinti, trovarono che i soggetti con casi non complicati avevano
tassi di ricorrenza (3,4%) simili a persone senza alcuna storia di depressione
(1,7%) alla prima misurazione; entrambi i gruppi avevano tassi di gran lunga
più bassi di quelli con casi complicati (14,6%)73. L’analisi fu applicata anche ad
altri possibili sviluppi della depressione, come disturbi d’ansia e tentativi di
suicidio74. Non solo quelli con condizioni depressive non complicate non
legate a stress erano simili fra di loro, ma erano molto più paragonabili a
persone che non erano mai state depresse che non a persone con sintomi gravi
o duraturi.
Queste scoperte hanno messo il gruppo di lavoro sui disturbi dell’umore del
DSM-5 davanti a una scelta difficile. Da un lato, poteva allargare l’esclusione
del lutto per coprire tutte le risposte non complicate a fattori di stress legati a
una perdita. Dall’altro lato, poteva abolire la BE in modo che tutti i sintomi
che soddisfacevano i criteri delle due settimane per il DDM fossero considerati
disturbi mentali. Era una decisione gravida di conseguenze, perché il DDM era
stato la diagnosi centrale della psichiatria nei trent’anni passati. L’estensione
dell’esclusione del lutto minacciava sia i princìpi basati sui sintomi che erano
fondamentali per la diagnosi psichiatrica fin dal 1980 sia una quota molto
cospicua della potenziale clientela dei professionisti della salute mentale.
Data l’influenza internazionale del DSM, la preoccupazione per la proposta
eliminazione della BE non fu espressa solo negli Stati Uniti. Considerata la
limitata capacità della maggior parte dei sistemi sanitari nazionali di far fronte
alle esigenze di trattamento del numero enorme di soggetti davvero malati in
termini psichiatrici, alcuni clinici europei reagirono alla proposta eliminazione
della BE chiedendosi se avesse senso abbracciare un gran numero di false
diagnosi positive per evitare la remota possibilità che potesse sfuggire un caso
reale. Per esempio, un articolo del giornale tedesco a diffusione nazionale
“Süddeutsche Zeitung” illustrava un rapporto della Società tedesca di
psichiatria e psicoterapia, psicosomatica e neurologia (DGPPN) sui
cambiamenti introdotti nel DSM-5, con un’intervista a Wolfgang Maier,
presidente della società e direttore della clinica psichiatrica dell’Università di
Bonn75. Qui di seguito la traduzione di parte di quell’articolo:
L’organizzazione specialistica DGPPN mette in guardia contro gli eccessi diagnostici del
DSM-5. C’è il «rischio di patologizzare stati ordinari di sofferenza e processi naturali di
adattamento e di invecchiamento», dice il presidente della DGPPN e direttore della
clinica psichiatrica dell’Università di Bonn, Wolfgang Maier, in una dichiarazione di
lunedì.
Nella sua dichiarazione cita vari esempi di punti in cui il nuovo catalogo sposta i confini
fra salute e malattia in modo inammissibile secondo la DGPPN. Così, nel DSM-5 una
tristezza che duri più di due settimane dopo la morte sarà diagnosticata come depressione
se presenta i suoi sintomi consueti: tetraggine, mancanza di spinta/energia, indifferenza,
problemi di sonno, mancanza di appetito.
«Un simile eccesso diagnostico costituisce una minaccia, che è tollerata dagli autori
dell’APA a occhi aperti», dice il presidente Maier del DGPPN. «Il loro presupposto è:
preferiamo avere false diagnosi positive piuttosto che farci sfuggire una persona
realmente malata». Ma questo, secondo Maier, è un calcolo che non funziona, anche solo
per ragioni economiche, almeno in Germania. Bisognerebbe sempre tenere a mente che
una diagnosi dà titolo alla persona colpita a prestazioni mediche da parte del sistema, le
cui risorse sono limitate. La conseguenza potrebbe essere che per i veri malati psichiatrici
ci siano minori possibilità di cura76.
Un ulteriore argomento, generalmente non dichiarato, della risposta europea
al DSM-5 è che in molti paesi europei che prevedono generose indennità di
disabilità, ci sono molti soggetti classificati come disabili in base a diagnosi di
depressione che non in tutti i casi corrispondono a una vera malattia. Allargare
ancora di più l’area della depressione includendo quelle che sembrano essere
reazioni normali può significare spalancare le porte a un aumento vertiginoso
della spesa pubblica per prestazioni psichiatriche che forse non possono essere
assicurate. Ma questo tema ebbe un ruolo marginale nel dibattito, che verteva
invece intorno alla questione se il cambiamento fosse in effetti valido dal
punto di vista diagnostico.

| La morte dell’esclusione del lu o

I criteri dei sintomi e delle due settimane per il Disturbo Depressivo


Maggiore (DDM) che compaiono nel DSM-5 replicano i criteri del precedente
DSM-IV-TR77. Il principale cambiamento apportato ai criteri del DDM nella
nuova edizione del manuale è stato l’eliminazione dell’esclusione del lutto dai
criteri diagnostici della categoria. Il gruppo di lavoro sui disturbi dell’umore del
DSM-5 insisteva che tutte le condizioni che soddisfacevano i criteri di sintomi
e durata per il DDM dovevano essere suscettibili di una diagnosi di
depressione. William Coryell, un membro del gruppo di lavoro, spiegò questa
decisione in un post sul sito del DSM-5 che difendeva la decisione dopo che
alcuni rilievi negativi erano apparsi nel “New York Times”, spiegando che la
depressione legata al lutto è simile a ogni altra depressione. Citava al riguardo
un precedente post del gruppo di lavoro e una recensione di Kendler e
colleghi: «Il gruppo di lavoro sui Disturbi dell’Umore del DSM-5 ha
raccomandato l’eliminazione dei criteri di esclusione del lutto dagli episodi
depressivi maggiori alla luce dell’evidenza che ‘le somiglianze fra la
depressione legata al lutto e la depressione legata ad altri eventi stressanti
dell’esistenza sono nettamente prevalenti rispetto alle loro differenze’»78.
Questa giustificazione logica sollevava la questione cruciale di capire se le
reazioni depressive non complicate allo stress (che fossero causate da lutto o
da altre perdite e fattori stressanti) si differenziassero da altro DDM in un
modo che suggerisse che fossero normali risposte emotive. L’assunto
implicito, che le depressioni escluse fossero simili alle altre, era basato su tre
articoli che passavano in rassegna gli scritti – tutti dello stesso tenore – di
autori secondo i quali le depressioni escluse erano in realtà del tutto simili a
ogni altro DDM79. Successivamente, una ‘rassegna delle rassegne’ dimostrò
che le fonti dei tre articoli erano spurie, perché non citavano nessuno studio
che fosse direttamente rilevante per la questione di cui si parlava80. La
documentazione sul tema cominciava appena a essere prodotta. Due rassegne
più recenti si concentrano sulle prove empiriche generate dal dibattito e la sua
interpretazione, e forniscono un forte sostegno alla posizione che vuole
l’estensione della BE a tutti i maggiori fattori di stress piuttosto che la sua
eliminazione81.
Nonostante procedesse all’eliminazione della BE, il DSM-5 aggiunse ai
criteri diagnostici del DDM una nota che recita:
Le risposte a una perdita significativa (per esempio lutto, rovina finanziaria, perdite da
disastro naturale, seria malattia medica o disabilità) possono includere sentimenti di
intensa tristezza, ruminazioni sulla perdita, insonnia, scarso appetito e perdita di peso lì
[nei criteri sintomatici] ricordati, che possono assomigliare a un episodio depressivo.
Benché questi sintomi possano essere comprensibili o essere considerati appropriati alla
perdita, dev’essere anche considerata attentamente la presenza di un importante episodio
depressivo in aggiunta alla risposta normale a una perdita significativa. La decisione
richiede inevitabilmente l’esercizio di un giudizio clinico basato sulla storia dell’individuo
e sulle norme culturali di espressione del dolore nel contesto della perdita82.
È interessante che la nota, facendo riferimento a parecchi fattori stressanti e
trascurando di menzionare un qualsiasi limite di durata, riconosce in effetti due
dei punti da noi sollevati in LoS e nelle nostre successive pubblicazioni. Primo,
le reazioni depressive normali non complicate possono verificarsi in risposta a
qualche fattore stressante e non soltanto lutto. Secondo, il limite di durata di
due mesi per la depressione non complicata legata al lutto nel DSM-IV è
irrealisticamente breve e senza alcun fondamento scientifico – una conclusione
suffragata dalla ricerca recente che suggerisce che sei mesi o un anno
sarebbero termini di tempo più plausibili83.
Ma questa nota non fa parte della diagnosi formale, e non contiene criteri
diagnostici. I criteri del DDM abbracciano, invece, tutte le reazioni di tristezza
normale non complicate nonché il disturbo depressivo, mentre la nota
suggerisce poi che è competenza del clinico esprimere un ulteriore giudizio
sulla adeguatezza della diagnosi. L’interpretazione della stessa nota è oggetto di
discussione. La maggior parte dei membri del gruppo di lavoro del DSM-5
considera questa nota largamente superflua, forse perché si applica a casi rari o
a condizioni sottosoglia, ma non cambia in realtà il fatto che praticamente tutte
le condizioni che soddisfano i criteri di sintomi e durata del DDM sono ora
considerati DDM, che siano o no collegate alla perdita di una persona amata o
a qualche altro fattore di stress; la maggior parte dei membri del gruppo di
lavoro ritiene che il gruppo di lavoro abbia eliminato completamente la BE, ed
è questa l’interpretazione che è passata nelle revisioni di importanti questionari
usati per la diagnosi e la ricerca84. D’altro canto, un eminente membro del
gruppo di lavoro, Mario Maj, afferma che la nota lascia la diagnosi di DDM
dopo un fattore stressante affidata interamente al giudizio del medico che può
passare sopra ai criteri formali, e apre così la porta al tipo di giudizio clinico
soggettivo sulla diagnosi di DDM che aveva suscitato problemi prima del
DSM-III ed era stato la ragione principale per cui erano stati creati i criteri
descrittivi85. In ogni caso, l’esperienza suggerisce che una nota simile non sarà
tenuta in conto dai ricercatori e quindi avrà poco o nessun impatto sul
pensiero psichiatrico. Note di questo genere, senza criteri, vengono
inevitabilmente ignorate dai ricercatori e anche dalla maggior parte dei clinici, e
pertanto non cambiano il fatto che il DSM-5 ha eliminato la BE e, così
facendo, ha prodotto la probabilità di milioni di ulteriori diagnosi errate
all’interno della popolazione vulnerabile.
I criteri del DSM-5 senza la BE, in effetti, modificano la precedente
definizione in due modi importanti. Primo, ogni persona in lutto con
sentimenti depressivi è esposta a una diagnosi di depressione dopo un periodo
di due settimane, anziché dopo un periodo di due mesi, che molti esperti
consideravano già troppo breve86. Secondo, i criteri non richiedono più la
presenza di sintomi depressivi particolarmente gravi durante il lutto per essere
considerati come affetti da DDM. Chiunque abbia sofferto la perdita di una
persona amata e manifesti sintomi normali di lutto quali tristezza, perdita di
piacere, problemi di sonno e alimentazione, e affaticamento che durano per
oltre due settimane dopo la morte soddisferebbe i nuovi criteri. Non solo il
DSM-5 ha di recente patologizzato milioni di persone che non sono al
momento diagnosticate, ma ha anche perso l’occasione di correggere i criteri e
di depatologizzare un numero anche maggiore di persone con sentimenti
depressivi normali che sono attualmente esposte alla diagnosi.
Ognuno degli argomenti del comitato favorevole alla eliminazione della BE
era gravemente carente. Consideriamo la definizione di disturbo mentale del
DSM-5:
Un disturbo [ disorder] mentale è una sindrome caratterizzata da disturbi [ disturbance]
clinicamente significativi nella cognizione, nella regolazione emotiva e nel
comportamento dell’individuo, disturbi che riflettono una disfunzione nei processi
psicologici, biologici o di sviluppo sottostanti al funzionamento mentale. I disturbi
mentali sono di solito associati con un’afflizione significativa o disabilità in attività sociali,
lavorative o in altre importanti attività. Una risposta prevedibile, o approvata
culturalmente, a un comune fattore di stress o a una perdita, come la morte di una
persona amata, non è un disturbo mentale87.
Questa definizione del disturbo mentale usa «la morte di una persona amata»
per illustrare la ‘differenza’ fra una emozione dolorosa ma normale e un
disturbo mentale. Sicuramente dopo la perdita di una persona cara non solo
rientra nell’ambito del prevedibile ma anche di una «risposta approvata
culturalmente» sperimentare sintomi di afflizione generale come tristezza,
mancanza di sonno, diminuzione dell’appetito, perdita di interesse per le
attività consuete, e difficoltà nel concentrarsi su quello che si sta facendo. La
definizione del DDM come esplicitamente affermata appare così in contrasto
con il requisito specifico del DSM-5 secondo cui «una risposta prevedibile [...]
a un comune fattore di stress o a una perdita, come la morte di una persona
amata, non è un disturbo mentale».
La rimozione della BE mina anche la logica centrale che sta dietro la stessa
diagnosi psichiatrica. Il senso di distinguere una diagnosi da un’altra è che le
distinzioni aiutano a specificare le cause, i decorsi, gli esiti e le cure della
condizione. Ora, mischiando insieme i sintomi depressivi non complicati
provocati da lutto, disoccupazione, divorzio e simili, con quelli che sono
sproporzionati ai loro contesti facciamo esattamente l’opposto: confondiamo
le condizioni dovute a cause ambientali con quelle che hanno origine da
qualche disfunzione interna all’individuo; quelle passeggere e che difficilmente
si ripresenteranno con quelle più durature; quelle che hanno probabilità di
migliorare durevolmente da sole con quelle che forse richiedono l’intervento di
specialisti. La decisione di eliminare la BE dai criteri del DDM sfida anche la
previsione – ancora non realizzata – secondo cui si scoprirà che i disturbi
mentali derivano in ultima analisi da un funzionamento anormale del
cervello88. Come i diagnosti hanno riconosciuto da tempo, i cervelli (o menti)
‘normali’ rispondono naturalmente alle perdite con periodi di tristezza. La
ricerca neuroscientifica che poggia sui criteri del DSM-5 confonderanno senza
speranza i cervelli che funzionano normalmente con quelli che non
funzionano in maniera normale.
Il gruppo di lavoro del DSM-5 affermava anche che l’esclusione del lutto
poteva impedire alle persone in stato di lutto di ricevere le cure in grado di
aiutarle. Il presidente del gruppo di lavoro, Jan Fawcett, richiamava l’efficacia
dei medicinali nel dare sollievo nei casi esclusi per effetto della BE come
ragione prima per eliminare l’esclusione89. Le recensioni al DSM-5che
appoggiavano l’eliminazione della BE90 citavano come unica prova o prova
principale del beneficio dei farmaci uno studio dello psichiatra Sidney Zisook e
altri su 22 persone in lutto recente, secondo il quale oltre la metà di quelli
curati con l’antidepressivo buproprione migliorò dopo due mesi91. Ma questo
studio non aveva un gruppo placebo e il suo asserito tasso di successo di poco
più della metà (13 su 22) non superava i tassi di recupero con il placebo in altri
studi. La prima fase di un lutto è, dopotutto, un periodo in cui i sintomi, come
è ben documentato, crollano verticalmente senza medicine92. Le affermazioni
sui benefici del farmaco fatte sulla base di questo studio incontrollato non
sarebbero prese sul serio in alcuna branca scientifica della medicina.
Quelli che proponevano l’abolizione dell’esclusione BE citavano anche la
possibilità che il lutto non curato portasse al suicidio, in assenza di trattamento.
Sollecitavano diagnosi sulle persone in lutto con l’argomentazione che i
vantaggi del curare le persone con «ideazioni suicidarie, grave compromissione
di ruolo o un sostanziale peggioramento clinico» superavano di gran lunga i
costi di eliminare l’esclusione93. «Avevo forse fatto l’errore di qualificare come
depresso qualcuno che magari non lo era», affermava Zisook, ma è meglio
«che non fare una diagnosi di depressione, e non curarla, con il rischio che la
gente si uccida»94. Questo è un argomento disonesto: i preesistenti criteri del
lutto del DSM-IV prendevano già in considerazione le persone in lutto con
sintomi particolarmente gravi o disabilitanti come il rischio di suicidio e le
escludevano dalla BE. Recenti studi hanno confermato che il riferimento a
possibili tentativi di suicidio era semplice allarmismo, mentre le prove reali
mostrano che le reazioni depressive non complicate a fattori di stress, senza
ideazioni suicidarie, non comportano elevate percentuali di tentativi di suicidio,
come ci si sarebbe aspettato in base allo screening delle ideazioni suicidarie95.
Infine, l’abbandono dell’esclusione del lutto nel DSM-5 rischia di produrre
un’enorme patologizzazione, che si può facilmente prevedere dal momento
che i criteri del DDM considerano malate le persone colpite da lutto. Dato che
circa il 40% delle persone in lutto soddisfa questi criteri anche un mese dopo la
perdita, è probabile che la maggioranza delle persone in lutto sia diagnosticata
con DDM dopo le due settimane specificate dalla diagnosi96. Nei soli Stati
Uniti, qualcosa come 8-10 milioni di persone soffrono la perdita di una
persona amata ogni anno e circa metà di esse soddisfano i nuovi criteri per il
lutto. Poiché quasi tutti subiscono la perdita di una persona cara, l’abbandono
dell’esclusione del lutto rende la maggioranza della popolazione esposta alla
diagnosi di disturbo depressivo in qualche momento della sua vita.
L’eliminazione dell’esclusione del lutto nel DSM-5, dunque, non ha buoni
motivi concettuali, empirici o connessi alle cure. «Non c’è base scientifica»,
concludevano Wakefield e First dopo aver passato in rassegna la
documentazione, «per rimuovere l’esclusione del lutto dal DSM5»97. Inoltre,
come notava un critico, la BE «era necessaria: senza di essa il DSM perde di
credibilità»98. Un altro critico di punta, Allen Frances, affermava: «Questa è
stata una decisione portata avanti testardamente nonostante l’opposizione
universale di clinici, associazioni e riviste professionali, della stampa, e di
centinaia di migliaia di persone in lutto di tutto il mondo»99. Cosa interessante,
anche i colleghi di medicina generale degli psichiatri hanno messo in
discussione l’eliminazione della BE del DSM-5, con editoriali apparsi in riviste
mediche di punta che parteggiavano ampiamente per i critici100.
Nel corso del dibattito, due punti legittimi con buone basi empiriche sono
stati avanzati dai favorevoli all’eliminazione della BE. Il primo è che la BE nel
DSM-IV era affermata in un modo ambiguo, sicché, senza un privo di una più
specifica formazione di tipo avanzato poteva facilmente andare in confusione
su come applicare l’esclusione101. Il modo giusto di affrontare questo
problema sarebbe stato di riformulare l’esclusione, non di eliminarla. Se
eliminassimo tutti i criteri diagnostici spesso mal applicati ma scientificamente
validi del DSM, dovremmo eliminare lo stesso DDM, perché com’è noto i
medici generici, che costituiscono la maggioranza di quelli che trattano il
DDM, effettuano più diagnosi sbagliate che corrette.
Il secondo punto legittimo con buone basi empiriche è che la validità
dell’esclusione si riduce drasticamente quando un soggetto ha già alle spalle
una storia di disturbo depressivo prima del verificarsi della perdita102. In casi
del genere, c’è un’alta probabilità non solo di una reazione depressiva alla
perdita, ma di successive ricadute o di un episodio cronico che sul lungo
termine cancella l’esclusione (che richiede una durata limitata). Se guardiamo a
quelli che hanno reazioni depressive clinicamente problematiche a una perdita,
una grande percentuale è costituita da coloro che hanno sperimentato un
disturbo depressivo prima della perdita. In realtà, questa avvertenza era già
implicitamente contenuta nell’iniziale istruzione sulla BE del DSM-IV, secondo
cui un episodio va diagnosticato come DDM solo se non si spiega meglio con
un lutto normale. Una reazione depressiva alla perdita in un individuo che ha
avuto depressione ricorrente nel passato, la quale a sua volta non poteva essere
spiegata come una normale reazione alla perdita, non può essere meglio
spiegata come normale, ma con tutta probabilità è invece la ricorrenza (o
presenta un altissimo rischio di diventare ricorrenza) di una vulnerabilità
depressiva di lungo termine. In questi casi, la forza della spiegazione come
‘normale risposta alla perdita’ è parecchio indebolita, e una diagnosi di DDM
diviene appropriata. Questo ragionamento, tuttavia, non è reso esplicito e
quindi c’è un pericolo reale che la BE venga applicata automaticamente a casi
ricorrenti. Benché simili casi ricorrenti siano solo una piccolissima frazione dei
casi candidati alla BE, essi costituiscono una grande percentuale delle
successive ricorrenze e dovrebbero essere estromessi in maniera più chiara ed
esplicita dall’esclusione.
Per affrontare sia la chiarezza dell’esclusione sia la necessità di evitare
l’applicazione dell’esclusione a casi ricorrenti, Wakefield e First103 proposero
una versione rivista dell’esclusione. Ma la loro stesura si applicava solo al caso
di lutto e non ad altri fattori di stress, e non prendeva in considerazione la
sempre più forte prova empirica che debba valere una più lunga soglia di
durata dei due mesi previsti dal DSM. Fatte queste due correzioni, una
versione alternativa di una «esclusione di stressante maggiore» potrebbe
suonare come segue:
Se l’episodio si verifica nel contesto di una perdita o di un fattore di stress importante,
non va diagnosticato come depressione maggiore se può essere meglio spiegato come
una normale reazione di afflizione. Se l’episodio comprende uno o più dei seguenti tratti
che suggeriscono una depressione maggiore, allora non lo si può considerare afflizione
normale e va diagnosticato come depressione maggiore: durata superiore ai sei mesi;
ideazioni suicidarie; preoccupazione patologica di essere indegno; marcato rallentamento
psicomotorio; prolungata e marcata compromissione del funzionamento generale;
sintomi psicotici; o una storia di disturbo depressivo maggiore nel passato. A episodi
depressivi legati a fattori di stress che non hanno nessuno di questi tratti dovrebbe essere
data una diagnosi di «normale depressione legata al lutto, passeggera».
Che cosa ha portato il DSM-5 a modificare la diagnosi di DDM di fronte a
una così forte opposizione? Il modo benevolo di vedere gli argomenti dei
difensori dei nuovi criteri del DSM-5 è che essi siano davvero interessati ad
alleviare la sofferenza che accompagna il lutto. Ma i farmaci e la psicoterapia
non sono noti per essere più efficaci, in caso di lutto non complicato, che
permettere semplicemente alla condizione di risolversi con il suo corso
naturale. Una spiegazione più cinica è che l’eliminazione della BE può allargare
la clientela dei professionisti della salute mentale. Siccome i farmaci sono di
gran lunga l’offerta più comune per le persone in lutto che chiedono cure, i
cambiamenti del DSM-5 possono anche produrre una marea di nuovi clienti
per le case farmaceutiche. Otto degli undici membri del comitato APA che
raccomandavano i nuovi criteri avevano legami finanziari con l’industria
farmaceutica104, e il consulente del gruppo di lavoro Sidney Zisook, che ha
fornito la maggior parte della difesa pubblica alla eliminazione della BE, era
stato l’autore principale dell’unico studio favorevole all’uso di farmaci durante
la prima fase di depressione legata al lutto citato dal gruppo di lavoro per
giustificare l’eliminazione della BE. Il presidente del gruppo di lavoro, Jan
Fawcett, propone con entusiasmo cure farmaceutiche per la depressione:
«Continuo a lavorare a 78 anni perché amo assistere pazienti che sono stati
depressi per anni a ritornare alla vita. Hai bisogno di quei medicinali per
farlo»105. Mentre è vero che i farmaci possono aiutare alcuni soggetti a
superare il lutto, i nuovi criteri per il DDM abbracceranno perlopiù soggetti la
cui sofferenza naturale guarisce senza l’interferenza di farmaci potenti. In ogni
caso, i criteri che sono andati a sostituire fornivano ampia garanzia che le
persone in lutto con condizioni particolarmente gravi o prolungate avrebbero
ricevuto una diagnosi depressiva.
Forse la spiegazione migliore per la decisione del DSM-5 va ricercata nella
sua natura legittimante della professione. La psichiatria è solo una fonte
legittima di cura per le condizioni patologiche. La BE riconosceva che la
reazione normale a una perdita comune non era patologica, ma l’estensione di
questa logica avrebbe escluso anche molti altri dalla diagnosi e dalle cure.
Allargare la BE avrebbe potuto portare a una notevole contrazione del numero
delle persone che soddisfano i criteri diagnostici della depressione. Le evidenze
avevano costretto il comitato del DSM-5 ad ammettere che il lutto era
equivalente ad altre perdite, ma a quel punto non aveva altra scelta che
abbandonare l’esclusione per conservare il campo di autorità della psichiatria.
| Espansione delle categorie di disturbi depressivi e lu o nel
DSM-5

Abbiamo concentrato così tanto l’attenzione sull’eliminazione da parte del


DSM-5 dell’esclusione del lutto perché questo è il cambiamento del DSM-5
più rilevante per l’argomento di LoS, che rifletteva sul DDM come luogo
primario in cui si manifesta la confusione della psichiatria fra tristezza normale
e disturbo mentale. Ma i cambiamenti complessivi alla categoria dei disturbi
depressivi sono andati ben al di là di questo. In effetti, il DSM-5 ha alterato
drammaticamente – e in molti modi ha allargato grandemente – il dominio
della malattia depressiva diagnosticabile, combinando insieme il problema del
potenziale eccesso di diagnosi e l’uso della psichiatria per controllare la
normale variazione umana.
Tre di questi altri cambiamenti sono particolarmente notevoli, perché
introducono nuove categorie di disturbi. Due delle nuove categorie sono
disturbi depressivi introdotti nella lista principale dei disturbi depressivi, e
l’altra è un nuovo disturbo da lutto che è indicato come obiettivo di uno studio
ulteriore.
Primo, i disturbi depressivi del DSM-5 includono una controversa nuova
categoria di disturbo depressivo infantile, il Disruptive Mood Dysregulation
Disorder (DMDD, Disturbo Esplosivo di Disregolazione dell’Umore). I criteri
diagnostici del DMDD includono scoppi d’ira in media di almeno tre volte la
settimana con un umore generalmente irritabile o disforico fra un episodio e il
successivo, che durano per un anno. La diagnosi di DMDD esclude la diagnosi
di disturbo oppositivo provocatorio ( oppositional defiant disorder, ODD), anche
se la maggior parte dei casi di DMDD si presta a una diagnosi di ODD.
Questa diagnosi, in gran parte ancora non studiata, è stata introdotta per far
fronte a un problema imbarazzante per la psichiatria: le eccessive diagnosi di
disturbo bipolare infantile, e il conseguente eccessivo trattamento dei bambini
con robuste medicine come stabilizzatori dell’umore e antipsicotici. Il DMDD
punta a fornire una categoria alternativa per la diagnosi di questi bambini.
I bambini difficili spesso si presentano con irritabilità cronica e disforia
punteggiata da frequenti capricci, e questo viene spesso interpretato come
indice di disturbo bipolare. Ma la ricerca suggerisce che bambini simili in realtà
non stanno in genere soffrendo di una iniziale forma di disturbo bipolare, né
di uno stabile disturbo dell’umore. Molti bambini con questi sintomi vengono
portati dal medico da genitori disperati in cerca di cure, ma i bambini
sembrano poi superare questi comportamenti e quasi tutti possono essere
classificati in alternativa come affetti da un disturbo oppositivo
provocatorio106. La conseguenza dell’introduzione della nuova diagnosi di
DMDD è che i bambini le cui sfide e capricci preoccupano i genitori possono
ora essere illegittimamente diagnosticati come affetti da un disturbo dell’umore
e ricevere farmaci antidepressivi. Molti bambini con problemi diversi
presentano questi sintomi, e così la possibilità che si ecceda nelle diagnosi è
forte.
Certo, se pure si va verso eccessi nelle diagnosi, i disturbi depressivi hanno
implicazioni farmacologiche un po’ più benigne dei disturbi bipolari, ma non
sappiamo se questa nuova categoria sarà usata per far dirottare le diagnosi
bipolari in diagnosi depressive o invece aprirà semplicemente una nuova strada
per diagnosticare molti bambini normali come affetti da depressione.
Una seconda nuova categoria di disturbo, il Premenstrual Dysphoric Disorder
(PMDD, Disturbo Disforico Premestruale), è stata aggiunta nel DSM-5.
Questa categoria fu fortemente contestata quando fu suggerita per la prima
volta per le precedenti edizioni del DSM, e fu inserita nell’Appendice del
DSM-IV come una categoria che richiedeva ulteriore studio. Ora è stata
‘promossa’ come disturbo depressivo a pieno titolo, regolarmente incluso fra
gli altri. Il PMDD è stato a lungo combattuto per la preoccupazione che la
categoria inevitabilmente patologizza una comune e naturale risposta
femminile, che varia per intensità ma non è un disturbo mentale salvo in
rarissime circostanze. I criteri diagnostici richiedono che durante la settimana
prima dell’inizio delle mestruazioni e in misura decrescente durante la
settimana successiva alle mestruazioni la paziente manifesti almeno cinque
sintomi di marcata gravità, fra cui sintomi depressivi (per esempio, sbalzi
d’umore, accresciuta sensibilità, facilità alle lacrime, irritabilità o accresciuto
conflitto, umore depresso, ansia, diminuito interesse per le attività consuete,
difficoltà a concentrarsi, affaticamento). Si afferma che solo una modesta
percentuale di donne, forse l’8%, sarebbe suscettibile della diagnosi107, ma ci
sono le potenzialità per un’estensione di questa diagnosi definita in modo vago
a molte più donne, visto che fino al 90% delle donne denunciano significativi
sintomi premestruali108. Dal momento che la Food and Drug Administration
aveva già approvato gli antidepressivi per la cura del PMDD, l’inclusione di
questa categoria nel DSM-5 era una conclusione scontata.
Infine, c’è un nuovo disturbo da lutto, Persistent Complex Bereavement-Related
Disorder (PCBD, Disturbo da Lutto Persistente e Complesso), indicato come
bisognoso di studio ulteriore. Benché riferito al lutto, questa categoria non ha a
che fare con l’eliminazione dell’esclusione del lutto. La BE riguardava
specificamente i sintomi depressivi durante il lutto, e precisava quando tali
sintomi depressivi dovevano essere diagnosticati come patologici o considerati
come parte del lutto normale. Il PCBD si occupa dei sintomi non depressivi
del lutto, che prima del DSM-5 non sono mai stati sottoposti a diagnosi di
disturbo nel DSM. I sentimenti di lutto non depressivi includono, per esempio,
lo struggimento per la persona perduta, il dolore suscitato dal ricordo della
persona perduta o l’evitare il suo ricordo, il senso di incredulità che la persona
se ne sia andata, la preoccupazione per il deceduto o per le circostanze della
sua morte, l’amarezza o rabbia per la perdita, il biasimarsi o sentirsi colpevole
di non aver fatto abbastanza per salvare la persona cara, il volersi unire alla
persona defunta, il senso di solitudine o distacco, la sensazione che tutto abbia
perso significato e un senso di vuoto. I criteri diagnostici proposti specificano
che se parecchi di questi sintomi persistono per oltre un anno dopo la perdita
in maniera intensa, allora la reazione al lutto dev’essere considerata patologica.
Gli stessi ricercatori che si occupano del lutto continuano a difendere la soglia
di sei mesi per il disturbo anziché un anno109, affermando che un lutto che
duri così a lungo è diventato interminabile ed è uscito fuori binario. Ma queste
proposte hanno scarsa relazione con quanto le ricerche attuali mostrano, e cioè
che molti soggetti, soprattutto quelli che hanno perso una persona cui erano
legati da uno stretto rapporto di dipendenza, continuano a progredire nella
elaborazione del lutto e ad adattarsi sempre più alla perdita molto dopo i sei
mesi o anche l’anno110. Pure qui abbiamo un altro potenziale per patologizzare
massicciamente il lutto normale intenso, anche quando non sono presenti
sintomi depressivi.
Si noti che benché il PCBD sia indicato come una categoria che richiede
ulteriore studio, priva di un codice diagnostico ufficiale, esso viene
esplicitamente menzionato come un’opzione diagnostica sotto la categoria
principale codificata degli «altri disturbi associati a traumi e stress specifici» (il
titolo sotto cui il DSM-5 raccoglie i disordini «non altrimenti specificati» del
DSM-IV). Così questo disturbo può di fatto rientrare direttamente nelle
diagnosi del sistema DSM-5.
Insomma, il DSM-5 ha introdotto drastici cambiamenti nelle diagnosi delle
condizioni depressive e da lutto anche prescindendo dalla eliminazione
dell’esclusione del lutto e dalla conseguente espansione del DDM. Il DSM-5
ha aggiunto inoltre tre nuove categorie di disturbo riguardanti rispettivamente
le esperienze di bambini, donne e colpiti da lutto. Ognuna di queste categorie
può certo comprendere alcuni casi di disturbi autentici, ma sono tutte delineate
in termini ampi e definite in termini di sintomi comuni fra gli individui
normali. Ognuna, quindi, può aggravare il problema delle false diagnosi
positive e fornire la base per una possibile nuova epidemia di diagnosi in
eccesso. Esse mettono in luce con chiarezza il sempre più forte rifiuto della
psichiatria di prendere sul serio il problema di distinguere una intensa
emozione normale da un disturbo psichiatrico.

| Conclusione

Quando finalmente il DSM-5 è stato pubblicato, si è visto che andava nella


direzione opposta a quella da noi immaginata in LoS e nei successivi articoli di
ricerca. Anziché tracciare più accuratamente la distinzione fra la tristezza
intensa normale e il DDM per assicurare maggiore validità alle diagnosi e alla
ricerca, il DSM-5 ha allargato la diagnosi del DDM e la diagnosi di disturbo
depressivo in generale in aree sempre più vaste, accelerando la tendenza che
avevamo individuato in LoS. La patologizzazione della tristezza procede così
con maggiore velocità e audacia, e con più vistosa disattenzione per le prove
scientifiche, di quanto noi avremmo mai potuto immaginare. In questo
capitolo aggiuntivo, abbiamo presentato una rassegna di questi sviluppi,
fornendo uno sguardo d’insieme di come la psichiatria, oggi più che mai, stia
confondendo il normale con il patologico e includendo la tristezza normale
nella categoria di un importante disturbo depressivo.
Come The Loss of Sadness mostrava, la distinzione fra la tristezza normale e il
disturbo depressivo è stata parte della scienza, della filosofia e della letteratura
occidentale fin dai primi testi scritti. Solo a partire dal 1980 questa distinzione
ha subìto una forte erosione e ha rischiato di andare sostanzialmente perduta.
Il cambiamento apportato ai decontestualizzati criteri basati sui sintomi per la
malattia depressiva era funzionale a far scattare l’«età della depressione» in cui
noi oggi ci troviamo, perché le funzioni psicologiche sono per loro natura
sensibili al contesto, per cui i sintomi che sono risposte normali in
contrapposizione alle patologie non possono in generale essere discriminati
senza contesto111. Il nostro libro poneva i diagnosti psichiatri davanti a una
scelta: riconoscere la distinzione fra le emozioni normali, per quanto penose, e
i disturbi mentali o rischiare di patologizzare tutte le forme di afflizione. Il
DSM-5 ha scelto la strada verso questa seconda opzione. Ma abbandonando
l’esclusione del lutto ed espandendo di molto le categorie del disturbo
depressivo, il DSM-5 potrebbe aver esagerato. Il tempo dirà se questo affronto
al senso comune, alla prova empirica e alla coerenza intellettuale distruggerà la
credibilità della professione come arbitra sociale ufficiale della normalità e della
anormalità.

Note
1 | APA, 1980.↵
2 | APA, 2013.↵
3 | OMS, 2004.↵
4 | Olfson et al., 2002.↵
5 | Kessler et al., 2003.↵
6 | Ustun et al., 2004.↵
7 | Mathers e Loncar, 2006.↵
8 | Horwitz e Wakefield, 2007 [In questa Postfazione manteniamo la sigla LoS ( Loss of Sadness) del
titolo originale inglese; NdT].↵
9 | First e Wakefield, 2013; Horwitz e Wakefield, 2007; Wakefield, 1992; 2006.↵
10 | Klein e Thase, 1997.↵
11 | Parker, 2007.↵
12 | LoS, 2007.↵
13 | Robins e Regier, 1991.↵
14 | Kessler et al., 1994.↵
15 | Kessler et al., 1996.↵
16 | Kessler et al., 2003.↵
17 | Hasin et al., 2005.↵
18 | Kessler et al., 2005.↵
19 | Hasin et al., 2005.↵
20 | Narrow et al., 2002; Regier et al., 1998.↵
21 | Wakefield e Spitzer, 2002.↵
22 | Spitzer e Wakefield, 1999; Wakefield, 2009; First e Wakefield, 2013; Wakefield et al., 2010.↵
23 | Kruijshaar et al., 2005.↵
24 | Wells e Horwood, 2004.↵
25 | Parker, 1979, p. 128.↵
26 | Parker, 1979; 2007.↵
27 | Wilhelm et al., 1996.↵
28 | Wilhelm et al., 2006.↵
29 | Moffitt et al., 2007; 2010.↵
30 | Rohde et al., 2013.↵
31 | Kessler et al., 2005.↵
32 | Eaton et al., 1995, p. 969.↵
33 | Goldberg, 2011; Maj, 2011a; 2011b; Parker, 2011; Tyrer, 2009.↵
34 | Mojtabai, 2008; Pratt et al., 2011.↵
35 | Mojtabai, 2008.↵
36 | Pratt et al., 2011↵
37 | OECD, 2013.↵
38 | Ibidem.↵
39 | Mercier et al., 2011.↵
40 | Hollingworth et al., 2010; Mercier et al., 2011; Mitchell et al., 2009; Mojtabai, 2013.↵
41 | Moore et al., 2009.↵
42 | Hollingworth et al., 2010; Mercier et al., 2011.↵
43 | Gili et al., 2013.↵
44 | Blanchflower e Oswald, 2011.↵
45 | Watters, 2010.↵
46 | Kirsch et al., 2002; 2008; Moncrieff et al., 2004; Pigott et al., 2010.↵
47 | Gueorguieva et al., 2011; Kirsch et al., 2008; Thase et al., 2011.↵
48 | Read et al., 2014.↵
49 | Andrews e Thompson, 2009.↵
50 | Lane, 2011.↵
51 | Haddad, 2001; Haddad e Anderson, 2007; Schatzberg et al., 2006; Warner et al., 2006; Zajecka et
al., 1997.↵
52 | Mercier et al., 2011.↵
53 | Angell, 2011a; 2011b; Horgan, 2011; Kirsch, 2010; Kramer, 2011; Melander et al., 2008; Oldham
et al., 2011; Stewart et al., 2012; Sunday Dialogue, 2011.↵
54 | Marcus e Olfson, 2010.↵
55 | Ibidem.↵
56 | Olfson et al., 2002.↵
57 | Mojtabai e Olfson, 2011.↵
58 | Olfson et al., 2002.↵
59 | APA, 2000, p. 356.↵
60 | Parkes, 1964.↵
61 | Clayton et al., 1968.↵
62 | Wakefield et al., 2007.↵
63 | Wakefield e Schmitz, 2013a; 2013b.↵
64 | Wakefield et al., 2007; Wakefield e Schmitz, 2013a; 2013b.↵
65 | Wakefield e Schmitz, 2013a.↵
66 | Kendler et al., 2008.↵
67 | Kendler, 2010.↵
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70 | Cit. in Brooks, 2012.↵
71 | Pies, 2008.↵
72 | Gilman et al., 2012; Mojtabai, 2011; Wakefield e Schmitz, 2012a.↵
73 | Wakefield e Schmitz, 2013c.↵
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75 | Weber, 2013.↵
76 | Frances, 2013a; 2013b.↵
77 | APA, 2000.↵
78 | Kendler et al., 2008.↵
79 | Lamb et al., 2010; Zisook e Kendler, 2007; Zisook et al., 2007.↵
80 | Wakefield e First, 2012a.↵
81 | Wakefield e Schmitz, 2012b; Wakefield, 2013a.↵
82 | APA, 2013, p. 161.↵
83 | Wakefield e Schmitz, 2012a; 2013a; 2013b; Wakefield et al., 2011a; 2011b.↵
84 | Michael First, comunicazione personale.↵
85 | Maj, 2013.↵
86 | Kleinman, 2012.↵
87 | APA, 2013, p. 20.↵
88 | Greenberg, 2013, p. 240.↵
89 | Fawcett, 2010.↵
90 | Zisook e Kendler, 2007; Zisook et al., 2007.↵
91 | Zisook et al., 2001.↵
92 | Clayton et al., 1968.↵
93 | Kendler, 2010, p. 2.↵
94 | Zisook, 2010.↵
95 | Wakefield e Schmitz, 2014a.↵
96 | Clayton et al., 1972; Clayton, 1982.↵
97 | Wakefield e First, 2012a, p. 9.↵
98 | Greenberg, 2013, p. 114.↵
99 | Frances, 2013a, p. 186.↵
100 | Editoriale, 2012; Friedman, 2012.↵
101 | Corruble et al., 2009.↵
102 | Wakefield e First, 2012a.↵
103 | Wakefield e First, 2012a.↵
104 | Whoriskey, 2012.↵
105 | Ibidem.↵
106 | Axelson et al., 2012.↵
107 | European Medicines Agency, 2011.↵
108 | Halbreich, 2004; Halbreich et al., 2003.↵
109 | Prigerson et al., 2009; Shear et al., 2011.↵
110 | Wakefield, 2012; 2013b.↵
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