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BIOS
PSYCHÈ
| Proposte
In coper na:
disegno di Massimo Fagioli (1998)
Titolo originale:
www.lasinodoroedizioni.it
e-mail: info@lasinodoroedizioni.it
ISBN 978-88-6443-279-3
– AVH
– JCW
| Premessa
di Mario Maj
Note
1 | S. Arieti, J. Bemporad, La depressione grave e lieve (1978), Feltrinelli, Milano 1981.↵
2 | M. Maj, When does depression become a mental disorder? , in “British Journal of Psychiatry”, 199, 2011,
pp. 85-86.↵
3 | J.C. Wakefield, M.F. Schmitz, When does depression become a disorder? Using recurrence rates to evaluate the
validity of proposed changes in major depression diagnostic thresholds, in “World Psychiatry”, 12, 2013, pp. 44-
52.↵
| Introduzione
di Paolo Fiori Nastro, Elena Pappagallo e
Daniela Polese
Note
1 | S. Saxena, M. Funk, D. Chisholm, World Health Assembly adopts Comprehensive Mental Health Action
Plan 2013-2020, in “The Lancet”, 381, 2013, pp. 1970-1971.↵
2 | WHO, Draft comprehensive mental health action plan 2013-2020 (16 maggio 2013), in
http://apps.who.int/gb/ebwha/pdf_files/WHA66/A66_10Rev1-en. (accesso del 3 giugno 2013).↵
3 | H.A. Whiteford, L. Degenhardt, J. Rehm, A.J. Baxter, A.J. Ferrari, H.E. Erskine, F.J. Charlson, R.E.
Norman, A.D. Flaxman, N. Johns, R. Burstein, C.J. Murray, T. Vos, Global burden of disease attributable to
mental and substance use disorders: findings from the Global Burden of Disease Study 2010, in “The Lancet”, 382,
2013, pp. 1575-1586.↵
4 | N.C. Andreasen, DSM and the Death of Phenomenology in America: An Example of Unintended
Consequences, in “Schizophrenia Bulletin”, 33, 2007, pp. 108-112.↵
5 | B.N. Cuthbert, The RDoC framework: facilitating transition from ICD/DSM to dimensional approaches that
integrate neuroscience and psychopathology, in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp. 28-35.↵
6 | M. Maj, Keeping an open attitude towards the RDoC project, in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp. 1-3.↵
7 | G.A . Fava, Road to nowhere, in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp. 49-50.↵
8 | J. Parnas, The RDoC program: psychiatry without psyche? , in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp. 46-47.↵
9 | D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014.↵
10 | Ricordiamo che nell’attuale versione del DSM-5 il lutto non si trova più tra i criteri di esclusione
per la diagnosi di Depressione Maggiore.↵
11 | M. Fagioli, Il pensiero nuovo. Lezioni 2004, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2011, pp. 176 sgg.↵
12 | S. Freud , Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. VI, pp.
575-581; S. Freud , Metapsicologia (1915), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. VIII, pp. 49-58.↵
13 | S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1989, vol. IV, pp. 499-
500; S. Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (1909), in Id., Opere, 12 voll., Bollati Boringhieri,
Torino 2000-03, vol. VI; S. Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Id., Opere, Boringhieri, Torino
1989, vol. XI, pp. 571-634.↵
14 | M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza (1972), L’Asino d’oro edizioni, Roma 2010; M. Fagioli,
Materia energia e pensiero, in “Left”, 25, 25 giugno 2011; M.G. Gatti, E. Becucci, F. Fargnoli, M. Fagioli,
U. Ådén, G. Buonocore, Functional maturation of neocortex: a base of viability, in “The Journal of Maternal-
Fetal and Neonatal Medicine”, 25, suppl. 1, 2012, pp. 101-103; M.G. Gatti, Leggere la biologia e la vita
umana, in “Il sogno della farfalla”, 25, 2, 2008.↵
15 | M. Fagioli, Sogno è un linguaggio diverso, in “Left”, 52, 29 dicembre 2012.↵
16 | M. Fagioli, Una depressione (1993), in “Il sogno della farfalla”, 2, 2002, pp. 5-27.↵
La perdita della tristezza
Come la psichiatria ha trasformato la
tristezza in depressione
| Prefazione
Note
* La parola inglese «disorder» viene resa in italiano sia con «malattia», sia con «disturbo». In questo
libro si preferirà prevalentemente la parola «malattia». [NdT]↵
* Trad. it. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. [NdT]↵
Capitolo 1 | Il conce o di depressione
Com’è noto, il poeta W.H. Auden giudicò il periodo successivo alla Seconda
guerra mondiale come l’«età dell’ansia»1. Per Auden, l’intensa ansia di
quell’epoca era una normale risposta umana a circostanze straordinarie, come
la devastazione della guerra moderna, gli orrori dei campi di concentramento,
lo sviluppo delle armi nucleari e le tensioni della guerra fredda fra gli Stati
Uniti e l’Unione Sovietica. Se Auden fosse ancora vivo, potrebbe dire che il
periodo a cavallo del nostro nuovo secolo è l’«età della depressione»2. Ma ci
sarebbe una differenza cruciale fra le due definizioni: mentre l’età dell’ansia era
vista come una risposta naturale a circostanze sociali che richiedevano
soluzioni collettive e politiche, la nostra è vista come un’età di tristezza che è
anormale – un’età di disturbo psichiatrico depressivo che richiede un
trattamento da parte di professionisti.
Prendiamo Willy Loman, il protagonista del classico dramma di Arthur
Miller Morte di un commesso viaggiatore e probabilmente il personaggio di fantasia
più rappresentativo della vita americana nei decenni dopo la Seconda guerra
mondiale3. Alla soglia dei 60 anni, nonostante la sua fervida fede nel sogno
americano che il duro impegno nel lavoro porti al successo, Willy Loman non
ha mai realizzato granché. Ha debiti pesanti, la sua salute è debole, non ha altra
prospettiva che continuare con il suo lavoro di commesso viaggiatore, e i figli
lo disprezzano. Quando infine viene licenziato, è costretto ad ammettere a sé
stesso che ha fallito. Si uccide con un incidente d’auto nella speranza di
ottenere per la sua famiglia un po’ di denaro dall’assicurazione. L’enorme
popolarità che Morte di un commesso viaggiatore conquistò quando il dramma fu
rappresentato a Broadway nel 1949 fu dovuta al fatto che Willy Loman
incarnava il tipo dell’americano medio che si era prefisso l’obiettivo di
raggiungere la grande ricchezza e se ne ritrovava alla fine schiacciato.
Completamente diversa fu la risposta del pubblico a Morte di un commesso
viaggiatore in occasione del suo revival cinquant’anni più tardi4. Stando a un
articolo del “New York Times” intitolato Dategli un po’ di Prozac, il regista della
nuova versione aveva mandato il copione a due psichiatri, che avevano
diagnosticato in Loman un disturbo depressivo5. Al che, Arthur Miller, il
drammaturgo, obiettò protestando: «Willy Loman non è un depresso [...] È
semplicemente oppresso dalla vita. Ci sono ragioni sociali perché si trovi nel
punto in cui è». La risposta degli psichiatri è tipica del nostro tempo quanto
Loman lo era del suo. Ciò che la nostra cultura vedeva una volta come una
reazione al fallimento di speranze e aspirazioni, ora lo considera come una
malattia psichiatrica. La trasformazione di Willy Loman da vittima sociale a
vittima psichiatrica rappresenta un cambiamento fondamentale nel modo in
cui noi vediamo la natura della tristezza.
Benché l’idea della depressione come fenomeno diffuso sia nuova, i sintomi
che associamo a essa, fra cui un’intensa tristezza e tante altre esperienze
emotive e sintomi fisici che spesso si accompagnano alla tristezza, sono stati
rilevati fin dall’inizio della storia medica documentata22. Ma nello sforzo di
capire il recente incremento delle diagnosi di disturbo depressivo è importante
riconoscere che fino a poco tempo fa erano nettamente distinte tra loro due
ampie tipologie di condizioni che presentano questi stessi sintomi. Una, la
tristezza normale, o tristezza «con causa», era associata a esperienze di perdita
o ad altre circostanze penose che apparivano essere cause evidenti di afflizione.
La risposta a queste reazioni normali era di offrire sostegno per aiutare
l’individuo ad affrontare il dolore della perdita e ad andare avanti, evitando di
confondere la tristezza del momento con una malattia.
L’altro tipo di condizione, tradizionalmente noto come «melancolia», o
depressione «senza causa», era un disturbo medico distinto dalla tristezza
normale per il fatto che la comparsa dei sintomi nel paziente si verificava in
assenza di una ragione appropriata nelle sue situazioni di vita. Stati del genere
erano relativamente rari, ma tendevano a essere di lunga durata e ricorrenti.
Poiché non erano reazioni proporzionate a eventi effettivi, si riteneva che
questi stati derivassero da un qualche difetto o disfunzione interna che
richiedeva l’attenzione di professionisti. E tuttavia queste condizioni
patologiche presentano la stessa tipologia di sintomi – come tristezza,
insonnia, ritiro sociale, perdita di appetito, mancanza di interesse per le attività
consuete e così via – associati a una intensa tristezza normale.
Questa divisione fra tristezza normale e disturbo depressivo è una divisione
sensata e legittima, anzi cruciale. È coerente non solo con la distinzione
generale fra la normalità e la malattia vigente nella medicina e nella psichiatria
tradizionale ma anche con il senso comune, e ha al contempo importanza
clinica e scientifica.
Noi siamo convinti che la recente esplosione di un presunto disturbo
depressivo non dipenda in primo luogo da un reale aumento della casistica del
disturbo. Ma che sia in gran parte il frutto di una fusione delle due categorie
concettualmente distinte della tristezza normale e del disturbo depressivo e
della classificazione di molti casi di tristezza normale come disturbi mentali.
L’‘epidemia’ in corso, benché dovuta a molti fattori sociali, è stata resa
possibile da una mutata definizione psichiatrica del disturbo depressivo che
spesso permette di classificare la tristezza come malattia, anche quando non lo
è.
Caso 3. Reazione a una diagnosi medica di malattia grave di una persona cara
Una donna divorziata di 60 anni che si è recata in un centro sanitario lontano
da casa chiede a un medico del centro un farmaco che l’aiuti a dormire. Alla
figlia, avvocato e figlia unica, a cui la donna è molto legata e di cui è orgogliosa
per la buona riuscita della sua vita, appena tre settimane prima era stata
diagnosticata una malattia del sangue rara e potenzialmente letale. Dopo aver
ricevuto la notizia della diagnosi della figlia, la madre era stata invasa da
sentimenti di tristezza e disperazione e non riusciva a funzionare bene nel
lavoro e nella vita sociale. Benché si mostrasse coraggiosa con la figlia e
riuscisse ad aiutarla con gli appuntamenti per le visite mediche, dal momento
della diagnosi la madre era caduta in uno stato di profonda prostrazione: di
tanto in tanto esplode in urla, non dorme, non è capace di concentrarsi e si
sente affaticata e disinteressata alle sue attività consuete quando pensa alle
notizie sulla salute della figlia.
Questi sintomi gradualmente si affievoliscono nel corso di alcuni mesi di
trattamento e della lotta della figlia contro la malattia, che alla fine si stabilizza
ma rimane minacciosa. La donna continua a sentirsi di tanto in tanto triste per
la condizione della figlia, ma gli altri suoi sintomi diminuiscono a mano a mano
che lei si adatta alle nuove circostanze e alle limitazioni della sua vita. Ognuna
di queste persone soddisfa facilmente i requisiti sintomatici per l’MDD e il
DSM le classificherebbe quindi come psichiatricamente disturbate. I loro
sintomi durano ben al di là delle due settimane previste dai criteri, sono state
colpite da un significativo indebolimento del loro ruolo o da eventi angosciosi,
e a loro non si può applicare l’esclusione della perdita (lutto). E tuttavia queste
reazioni sembrano ricadere in un quadro normale per persone che hanno
sofferto la fine improvvisa di un’appassionata relazione sentimentale, la perdita
di un’occupazione di prestigio, o la diagnosi di una malattia grave per la figlia
amata. I sintomi riferiti da queste persone non sono né anormali né
inappropriati alla luce delle loro particolari situazioni.
Quali caratteristiche inducono a pensare che in questi casi non si tratta di
disturbi? In ciascuno dei tre casi, i sintomi si presentano solo dopo il verificarsi
di un preciso evento della vita che comporta una grande perdita. La gravità
delle risposte alla perdita, inoltre, benché molto intensa, è ragionevolmente
commisurata alla natura delle perdite subite. Infine, i sintomi o spariscono nel
momento in cui le circostanze migliorano, e cioè durano finché persiste la
situazione di stress, o si dissolvono con il passare del tempo. Noi crediamo che
la maggior parte dei clinici riflessivi, se giudicano in maniera indipendente,
liberi dall’influenza del DSM, non classificherebbe questi malesseri in maniera
molto diversa da come facevano i loro predecessori.
Affermare che la definizione di disturbo depressivo del DSM sbaglia
nell’includere alcune reazioni emotive normali non significa affatto che non ci
siano autentici disturbi depressivi. Disturbi di questo tipo esistono e possono
essere devastanti, e la definizione del DSM li comprende. Ma appaiono molto
diversi dalle reazioni normali qui descritte. Le rappresentazioni popolari della
depressione raccontano uniformemente un quadro di profonda, immensa e
paralizzante sofferenza che è vistosamente sganciata dalle circostanze della vita
concreta: questo tipo di esperienza implica un vero disturbo.
Prendiamo, per esempio, il caso di Deanna Cole-Benjamin, presentato in un
articolo del “New York Times Magazine” sulla nuova cura della depressione:
La sua adolescenza non ha avuto traumi: la sua vita adulta, come lei la descrive, era
benedetta. A 22 anni si è sposata con Gary Benjamin, ufficiale finanziario di carriera
nell’Esercito canadese, in un matrimonio che le ha portato felicità e, negli anni Novanta,
tre figli. Vivevano in una casa confortevole a Kingston, gradevole città universitaria sulla
sponda settentrionale del lago Ontario, e Deanna, infermiera nel servizio sanitario
pubblico, amava il suo lavoro. Ma negli ultimi mesi del 2000 è scivolata senza motivo –
nessun cambiamento nella vita, nessuna perdita – in una depressione di straordinaria
profondità e durata.
«Cominciò con la sensazione di non sentirmi più davvero collegata alle cose come prima»,
mi disse una sera mentre sedevamo a tavola nella sala da pranzo della famiglia. «Poi fu
come se questo muro intorno a me crollasse. Mi sentivo via via più triste, e poi
semplicemente intontita». Il medico le prescrisse antidepressivi sempre più forti, ma con
scarsi risultati. Un paio di settimane prima di Natale, smise di andare al lavoro. Anche le
azioni più semplici – come decidere che cosa indossare, che cosa mangiare a colazione –
richiedevano una volontà immensa. Poi un giorno, mentre era sola in casa dopo che Gary
aveva portato i figli a scuola ed era andato al lavoro, si sentì così incapace di sfuggire alla
sofferenza che si precipitò in auto allo studio del suo medico e gli disse che pensava di
non poter più andare avanti.
«Mi diede un’occhiata», mi raccontò più tardi, «e disse che voleva che io rimanessi ferma lì
nello studio. Poi chiamò Gary, e Gary mi raggiunse allo studio, e ci disse che voleva che
Gary mi portasse subito in ospedale»29.
A parte la straordinaria gravità e durata dei sintomi, bisogna osservare che la
pesantezza di questa condizione depressiva non aveva relazione con alcun
evento da cui ci si poteva aspettare normalmente che innescasse simili reazioni.
O prendiamo la vivida descrizione della propria malattia depressiva di
Andrew Solomon:
[La mia depressione] aveva una vita a sé, che a poco a poco soffocava tutta la mia vita
fuori di me. Nello stadio peggiore della depressione maggiore, avevo umori che sapevo
non essere i miei umori: appartenevano alla depressione... Mi sentivo andare alla deriva
sotto il peso di qualcosa che era molto più forte di me; dapprima non fui più in grado di
usare le mie caviglie, poi non potei più controllare le mie ginocchia, e poi cominciai a
sentirmi cedere il busto sotto lo sforzo, e poi le mie spalle si incurvarono, e alla fine mi
ritrovai tutto raccolto in me stesso in posizione fetale, svuotato da questa cosa che mi
schiacciava senza che riuscissi a resistere. I suoi viticci minacciavano di sbriciolarmi la
mente e il coraggio e lo stomaco, e di frantumarmi le ossa e prosciugarmi il corpo. Si
saziò di me fin quando sembrò non essere rimasto nulla in me per nutrirla30.
Anche qui, la profonda depressione di Solomon ha ‘vita a sé’, nel senso che
la sua gravità non è in relazione con perdite specifiche o altri eventi negativi
che potrebbero di norma portare a simili sentimenti.
In quella che è forse la più elegante descrizione della depressione, Darkness
Visible, William Styron descrive la sua reazione nell’apprendere che aveva vinto
un prestigioso premio letterario:
La sofferenza continuò persistente durante il giro al museo e si sviluppò in crescendo
nelle ore immediatamente successive, quando, tornato all’albergo, mi lasciai cadere sul
letto e rimasi a fissare il soffitto, pressoché paralizzato e nella trance di un supremo
sconforto. Parlo di trance perché il pensiero razionale, in momenti del genere, era solito
abbandonare la mia mente. Non riesco a pensare ad alcuna definizione più appropriata
per questa condizione, uno stato di indifesa ebetudine nella quale ogni percezione era
soppiantata da quel ‘tormento vivo e concreto’.
La condizione di Styron rimane indipendentemente da qualsiasi contesto
sociale: «Nella depressione [...] la sofferenza è incessante, e tanto più
intollerabile in quanto prevediamo che mai nessun rimedio ci sarà dato, che
passi un giorno, un’ora, un mese o un minuto. Se un lieve sollievo ci soccorre,
sappiamo che sarà solo temporaneo e altro tormento presto sopravverrà»31. I
sintomi debilitanti di Styron non si manifestarono dopo un’esperienza di stress
ma anzi dopo un evento che normalmente sarebbe causa di soddisfazione.
Speaking of Sadness del sociologo David Karp offre un’altra descrizione tipica:
Secondo criteri oggettivi dovevo sentirmi abbastanza bene. Avevo un solido posto
accademico al Boston College, avevo appena firmato il mio primo contratto editoriale, e
avevo a casa una moglie eccezionale, un bel figlio e una nuova frugoletta [...] Tutte le notti
insonni la testa era piena di inquietanti ruminazioni e durante la giornata avvertivo un
senso di dolore insopportabile, come se qualcuno a me vicino fosse morto. Ero agitato e
sentivo una malinconia che era qualitativamente diversa da qualunque cosa avessi provato
nel passato [...] Ero sicuro che la mia depressione avesse le sue radici nelle esigenze legate
alla situazione in cui mi trovavo in quel momento e che una volta che avessi ottenuto
l’incarico sarebbe scomparsa. Fui promosso nel 1977 e la depressione in realtà si
approfondì32.
Esattamente come la depressione di Styron si manifestò dopo un’esperienza
positiva, lo stato pericolosamente grave di Karp era sganciato dalle circostanze
fattuali della sua vita.
Come questi esempi illustrano, i casi che tanto i media popolari quanto i testi
psichiatrici dipingono di solito sono chiaramente vere malattie. Ma queste
descrizioni illustrano anche che in sé stessi i sintomi non distinguono i disturbi
depressivi dalla tristezza normale: i sintomi non sono qualitativamente diversi
da quelli che un individuo può naturalmente presentare dopo una perdita
devastante, come nei casi che abbiamo sopra riportato di reazioni normali a
importanti sconvolgimenti della vita. E invece, è l’assenza di un appropriato
‘contesto’ dei sintomi che indica un disturbo. Nei casi appena illustrati i
sintomi si manifestano in assenza di qualsiasi perdita o compaiono dopo un
evento positivo, come la vincita di un premio prestigioso o il conseguimento di
una promozione. La loro gravità è di intensità vistosamente sproporzionata
rispetto alle circostanze effettive del soggetto sofferente. Infine, i sintomi
risultano persistere indipendentemente da qualsivoglia contesto di stress,
assumono una vita a sé e sono immuni ai cambiamenti delle situazioni esterne.
Il fatto che la letteratura enfatizzi questi esempi può portarci fuori strada e non
farci vedere il fatto che i criteri diagnostici del DSM non si limitano a queste
condizioni e ingiustamente comprendono una grande quantità di reazioni
normali intense.
Il difetto di fondo della definizione di MDD del DSM, e di tutti i lavori che
poggiano su di essa, è dunque semplicemente questo: che essa non prende in
considerazione il contesto dei sintomi, e quindi non esclude dalla categoria
della malattia quella tristezza intensa – a parte quella provocata dalla perdita di
una persona cara – che nasce dal modo in cui gli esseri umani rispondono
naturalmente a perdite importanti. La conseguente sovrapposizione dei
sintomi di depressione non derivanti da malattia con i sintomi causati da
disfunzioni, e la classificazione di entrambi come ‘disturbi’, è un problema
fondamentale per la ricerca, il trattamento e la politica attuale relativa alla
depressione. Inoltre, come avremo modo di mostrare, il problema è andato
peggiorando di molto negli ultimi anni, con la spinta crescente a usare un più
basso numero di sintomi, a volte due soltanto, come criteri sufficienti per
diagnosticare una malattia. Il potenziale di diagnosi falso-positive – cioè di
persone che corrispondono ai criteri diagnostici del DSM ma in realtà non
hanno alcun disturbo mentale – aumenta esponenzialmente al decrescere del
numero dei sintomi richiesti per la diagnosi.
I criteri eccessivamente inclusivi del DSM per il disturbo depressivo
compromettono in ultima analisi gli obiettivi e i concetti propri della
psichiatria. L’obiettivo del DSM è di identificare le condizioni psicologiche che
possono essere considerate autentici disturbi medici e distinguerli da
condizioni problematiche ma che non configurano una malattia33. L’errore cui
stiamo facendo qui riferimento nella catalogazione di un disturbo come
l’MDD è dunque un errore che tocca proprio quelle che sono le aspirazioni
dichiarate del DSM.
Note
1 | Auden, 1947/1994.↵
2 | Klerman, 1988; Blazer, 2005.↵
3 | Miller, 1949/1996.↵
4 | Dohrenwend, 2000.↵
5 | McKinley, 1999.↵
6 | Blazer, Kessler, McGonagle, e Swartz, 1994; Kessler, Berglund, Demler, Jin, Koretz, Merikangas, et
al. , 2003.↵
7 | Kessler, Berglund, et al., 2003.↵
8 | Roberts, Andrews, Lewinsohn, e Hops, 1990; Lavretsky e Kumar, 2002; Lewinsohn, Shankman,
Gau, e Klein, 2004.↵
9 | Klerman, 1988; Klerman e Weissman, 1989; Hagnell, Lanke, Rorsman, e Ojesjo, 1982.↵
10 | Murphy, Laird, Monson, Sobol, e Leighton, 2000; Kessler et al. , 2005; Blazer, 2005, pp. 114-115.↵
11 | Olfson, Marcus, Druss, Elinson, Tanielian, e Pincus, 2002.↵
12 | Olfson, Marcus, Druss, e Pincus, 2002.↵
13 | Kessler, Berglund, et al., 2003.↵
14 | Crystal, Sambamoorthi, Walkup, e Akincigil, 2003.↵
15 | Horwitz, 2002, p. 4.↵
16 | Pear, 2004.↵
17 | Ibidem.↵
18 | Croghan, 2001.↵
19 | Murray e Lopez, 1996.↵
20 | Greenberg, Stiglin, Finkelstein, e Berndt, 1993.↵
21 | Cfr. anche Blazer, 2005, pp. 28-29; McPherson e Armstrong, 2006. Le cifre citate provengono da
dati Medline.↵
22 | Jackson, 1986.↵
23 | Kirk e Kutchins, 1992; Horwitz, 2002.↵
24 | Regier et al. , 1998; Narrow, Rae, Robins, e Regier, 2002.↵
25 | American Psychiatric Association (APA), 2000.↵
26 | Ivi, p. 356.↵
27 | Ivi, p. 356.↵
28 | Watson, 2006.↵
29 | Dobbs, 2006, pp. 51-52.↵
30 | Solomon, 2001, p. 18.↵
31 | Styron, 1990, pp. 17-18; p. 62 [trad. it. pp. 30-31; p. 97].↵
32 | Karp, 1996, pp. 3-6.↵
33 | APA, 2000, p. XXXI.↵
34 | Ivi, p. XXXI.↵
35 | Wakefield, 1992.↵
36 | Per es. Klein, 1978; Spitzer, 1999.↵
37 | Per es. Fodor, 1983; Buss, 1999; Pinker, 1997.↵
38 | Keller e Nesse, 2005.↵
39 | Young, 2003.↵
40 | Wakefield, 1992.↵
41 | Buss, 1999.↵
42 | Beck, 1967.↵
43 | Post, 1992.↵
44 | Per es. Jackson, 1986, cap. 9; Mendels e Cochrane, 1968; Kendell, 1968.↵
45 | Dohrenwend, 2000; Kirkpatrick et al. , 2003; Marshall, Schell, Elliott, Berthold, e Chun, 2005.↵
46 | Szasz, 1961; Scheff, 1966; Kirmayer e Young, 1999.↵
47 | Archer, 1999.↵
48 | Klerman, 1974; Coyne, 1976; Gilbert, 1992.↵
49 | Goodwin e Guze, 1996.↵
50 | Post, 1992.↵
51 | Coyne et al. , 2000; Nesse, 2005.↵
52 | Kramer, 2005.↵
53 | Horwitz e Wakefield, 2006.↵
54 | Murray e Lopez, 1996.↵
55 | U.S. Department of Health and Human Services (USDHHS), 2001; World Health Organization
(WHO), 2004.↵
56 | Nesse, 2000.↵
* Tutti questi testi sono apparsi in italiano rispettivamente con i titoli: Un’oscurità trasparente (Leonardo,
Milano 1990); Una mente inquieta (Longanesi, Milano 1996); La felicità difficile (Rizzoli, Milano 1996); Il
demone di mezzogiorno (Mondadori, Milano 2002). [NdT]↵
Capitolo 2 | L’anatomia della tristezza
normale
2.2.2 | Le reazioni alla perdita nel caso di profonde minacce alle relazioni
Benché l’ineluttabilità della perdita associata con il lutto la distingua dalla
maggior parte delle altre perdite, quella del lutto non necessariamente
dev’essere diversa in linea di principio dall’intensa tristezza che nasce, per
esempio, dopo la fine non voluta di una storia d’amore, la notizia dell’infedeltà
della propria moglie, un divorzio, il mancato raggiungimento degli obiettivi di
vita a lungo accarezzati, la perdita di risorse finanziarie, la perdita di sostegni e
relazioni sociali, o la diagnosi di una grave malattia per sé stessi o una persona
cara40. Persino la morte di animali domestici amati o di persone celebri che
uno non conosce personalmente può produrre periodi di umore basso, di calo
di iniziativa e di pessimismo come normali reazioni alla perdita41. La
definizione generale di disturbo mentale propria del DSM, fornita
nell’introduzione, esclude tutte «le risposte accettabili e culturalmente
condivisibili a un particolare evento, per esempio, la morte di una persona cara»,
usando il lutto come prototipo della categoria di eventi esclusa dalla diagnosi
di depressione42. E appunto, risposte di sofferenza emotiva ad altri particolari
eventi di perdita come rovesci matrimoniali, sentimentali, sanitari o finanziari
chiaramente possono essere altrettanto «accettabili e culturalmente
condivisibili» come quelle al lutto e dovrebbero quindi ricadere ugualmente
sotto l’esclusione stabilita dalla definizione. E invece, i criteri del DDM non
sono coerenti con questa logica, e non prevedono esclusioni per altre reazioni
alla perdita paragonabili a quella per il lutto.
Lo scioglimento del matrimonio è forse il più comune evento scatenante
un’intensa tristezza normale, la quale può essere grave abbastanza da
soddisfare i criteri sintomatologici fissati dal DSM per il disturbo depressivo43.
L’intensa tristezza che segue alla perdita di legami sentimentali è stata a lungo
un tema letterario di primo piano. Il doppio suicidio di Romeo e Giulietta, per
esempio, non deriva da un disturbo mentale ma da un tragico equivoco che fa
pensare a ciascuno di aver perduto il proprio amore. Altri suicidi letterari,
come quello di Emma Bovary o di Anna Karenina, traggono origine dal
rendersi conto che le conseguenze degli intrecci sentimentali riprovati sono
ineludibili.
La ricerca attuale conforta l’intuizione che gravi perdite di legami molto cari
portano naturalmente a risposte di tristezza: in molti studi lo scioglimento di
un matrimonio è associato alla depressione più frequentemente e con maggior
impatto emotivo di ogni altra variabile44. In effetti, le percentuali di episodi
depressivi che realizzano i criteri del DSM sono simili fra le persone che
escono da un divorzio e quelle che vivono un lutto45. Le persone reduci da un
divorzio hanno probabilità molto maggiori di sviluppare l’insorgenza del
DDM nel giro di un anno rispetto alle persone che non fanno tale
esperienza46. «Ordinando i dati per età, sesso e anamnesi psichiatrica», scrive la
sociologa Martha Bruce, «l’effetto della dissoluzione del vincolo matrimoniale
e del divorzio sull’insorgenza della depressione maggiore è molto grande (
Odds ratio) = 18,1»47. Gli studi indicano che fra il 30 e il 50% delle persone che
affrontano un processo di scioglimento del matrimonio sperimentano sintomi
paragonabili per intensità a quelli del disturbo depressivo48. Poiché fino al 60%
dei matrimoni va a finire in divorzio o separazione, una enorme proporzione
della popolazione dovrebbe fare esperienza di tristezza non patologica con
sintomi paragonabili a quelli del DDM in un qualche momento della vita già
solo per questa causa.
Come per il lutto, la possibilità che le persone sviluppino o no sintomi di
intensa tristezza in caso di scioglimento del matrimonio varia largamente in
funzione del contesto sociale di prima e dopo il divorzio. A un estremo, i
sintomi possono essere ridotti quando lo stress all’interno del matrimonio era
molto alto prima del divorzio49. In alcuni casi, il divorzio può persino portare a
un miglioramento delle condizioni psicologiche quando esso comporta
l’abbandono di un matrimonio indesiderato e l’ingresso in nuovi rapporti.
All’altro estremo, il divorzio non voluto, o che comporta elementi degradanti,
vergognosi, minacciosi per il futuro benessere, intrappolanti, o svalutanti la
persona che sta sperimentando la perdita è condizione che favorisce
particolarmente l’insorgere di intensi sintomi depressivi50. Per esempio, mogli
che hanno subito l’umiliazione dell’insospettata infedeltà dei mariti hanno tre
volte più sintomi depressivi di quelle che hanno sofferto perdite senza però
questa umiliazione51. Come l’intensità della tristezza normale dopo il divorzio
varia in funzione delle circostanze sociali, così pure la sua durata dipende da
quanto il contesto sia stressante. A differenza dello stressantissimo periodo
della separazione dei coniugi, il divorzio stesso rappresenta spesso la
risoluzione di una situazione di stress52. A due anni dal divorzio, le persone
divorziate hanno tassi di depressione analoghi alle persone sposate53. Gli
enormi tassi di tristezza non patologica che si manifestano durante le fasi dello
scioglimento del matrimonio sono associati a gravi sintomi che raramente
durano molto dopo il divorzio54.
Oltre alla perdita di un compagno, il divorzio spesso incide negativamente su
molti aspetti della vita, fra cui lo status sociale, l’identità personale, le risorse
finanziarie, le reti di amicizie, il tenore di vita e i rapporti con i figli, in modi
che possono intensificare l’associata risposta alla perdita. Le persone implicate
in un divorzio, costrette ad affrontare fattori stressanti collaterali come calo del
tenore di vita, indebolimento delle reti di sostegno, trasferimento in abitazioni
più modeste e problemi nei rapporti con i figli, denunciano tutte più sintomi di
tristezza di quelle che non affrontano questi fattori stressanti aggiuntivi55.
Viceversa, la tristezza conseguente a un divorzio è particolarmente probabile
che regredisca in risposta a cambiamenti ambientali positivi o eventi di ‘nuovo
inizio’ come un altro matrimonio o la creazione di nuove relazioni56.
In una minoranza di casi, il disturbo depressivo potrebbe aver preceduto ed
essere stato causa dello scioglimento del matrimonio57. In un altro piccolo
gruppo di persone, l’esperienza del divorzio è abbastanza pesante da portare a
un crollo dei meccanismi di risposta alla perdita che è patologicamente
paralizzante o che dura molto a lungo dopo il periodo di sbandamento.
Quanto detto in precedenza, tuttavia, induce a pensare che la maggior parte
delle persone che sviluppano sintomi analoghi a quelli del disturbo depressivo
nelle fasi dello scioglimento del matrimonio non ha disturbi mentali. Risponde
a situazioni che naturalmente portano gli individui a essere intensamente tristi.
2.2.3 | Altri esempi: perdita del lavoro o dello status, stress cronico, disastri
Oltre alla perdita di legami affettivi, anche la perdita dello status e delle
risorse suscita spesso una tristezza normale. La perdita di un posto di lavoro di
prestigio è una situazione comune che produce alti tassi di intensa tristezza.
Una simile perdita, come pure difficoltà finanziarie, sottoccupazione,
retrocessioni e mancate promozioni sono tutte associate a un calo di status, di
ruolo e di risorse e a una conseguente tristezza che non può essere spiegata
con stati depressivi preesistenti all’avversità economica58. Perdere il lavoro ha
una relazione particolarmente forte con elevati livelli di sintomi simili alla
depressione: circa un quarto delle persone che diventano disoccupate sviluppa
sintomi abbastanza gravi da avvicinarsi ai criteri clinici del DSM59. Ma
qualunque pesante perdita finanziaria o continuativo stato di difficoltà
economica può produrre esperienze simili60. Per esempio, circa un terzo delle
persone che subirono una grave perdita dei propri risparmi pensionistici per
effetto di una frode bancaria sviluppò sintomi analoghi a quelli dell’MDD61.
Il contesto in cui si verifica la perdita del lavoro, e quindi il suo significato
per l’individuo, fa presagire quali persone disoccupate svilupperanno
probabilmente sintomi equivalenti a quelli del disturbo depressivo del DSM.
Le persone che perdono posti di lavoro di prestigio e appaganti hanno molte
più probabilità di incorrere in quei sintomi, mentre quelle che in precedenza
hanno occupato posti di lavoro molto stressanti hanno minori probabilità di
divenire tristi62. Inoltre, la tristezza insorge con maggiore probabilità quando si
perde il posto di lavoro inaspettatamente che non quando la perdita era
prevedibile63. La perdita del posto di lavoro è probabile porti a una normale
tristezza quando è associata a molti fattori stressanti secondari come difficoltà
economiche e interpersonali64.
Proprio come l’angoscia per la perdita di legami affettivi finisce allorché si
formano nuovi legami, gli studi indicano che i livelli di angoscia si alzano
immediatamente prima o dopo la perdita del lavoro ma calano nettamente
dopo che sia stato trovato un nuovo impiego: segno di una risposta alla perdita
che funziona in maniera normale65. Questa è la ragione per cui i lavoratori che
perdono il posto di lavoro in periodi di prosperità, quando le opportunità di
nuovo impiego sono abbondanti, più difficilmente cadono nella tristezza66.
Le perdite di status particolarmente umilianti possono essere a volte tanto
intense da produrre esiti estremi come il suicidio fra individui in tutto e per
tutto normali prima della perdita*. La casistica include dirigenti, responsabili di
gravi fallimenti aziendali, o persone accusate di scandali di corruzione67.
Prendiamo il caso di Hajimu Asada e sua moglie Chisako: «Il presidente
dell’azienda avicola giapponese accusato di non aver dato tempestivo allarme
alle autorità sullo scoppio dell’influenza aviaria si suicidò con la moglie,
quando ci furono avvisaglie del diffondersi in Giappone della malattia»68.
L’incapacità di reggere alle norme sociali, soprattutto in società molto
compatte, può indurre una vergogna tale da spingere al suicidio69. Per
esempio, i tassi di suicidio durante la rivoluzione culturale cinese furono
straordinariamente elevati, soprattutto fra quelli accusati di essere proprietari
terrieri, ricchi contadini, intellettuali e dissidenti70.
Altre perdite che portano a tristezza non patologica si hanno quando ci sono
grandi discrepanze fra gli obiettivi cui le persone aspirano e le loro effettive
realizzazioni71. Gli studenti universitari cui è negata l’ammissione a corsi di
studio a lungo desiderati o i laureati che non riescono a trovare occupazioni
corrispondenti alla loro preparazione mostrano spesso, comprensibilmente,
segni di tristezza72. In effetti, il mancato raggiungimento di alti obiettivi può
essere assunto con quasi certezza come un preannuncio di basso umore fra gli
studenti universitari73. Analogamente, gli adulti che non raggiungono gli
obiettivi che si erano prefissati in precedenza nella vita provano più angoscia di
quelli le cui realizzazioni si avvicinano di più alle loro precedenti aspirazioni74.
Così pure, le donne che desiderano fortemente avere figli ma sono sterili,
spesso avvertono un’angoscia intensa75. Questi sintomi scompaiono allorché la
discrepanza fra le aspirazioni e le realizzazioni si restringe: per esempio, i
sintomi depressivi delle donne che hanno subito aborti spontanei non
persistono se in seguito restano incinte e danno alla luce un bambino76.
Fasce enormi di popolazione che subiscono disastri in cui si registrano
perdite massicce sviluppano sentimenti depressivi. Per esempio, fra il 40 e il
70% dei rifugiati deportati dalle loro case dalla violenza di massa presentano
sintomi di Depressione Maggiore77. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i
sintomi non persistono. Per esempio, a cinque settimane dall’attacco
terroristico dell’11 settembre 2001, uno su cinque fra i residenti di New York
City manifestavano sintomi sufficienti a giustificare una diagnosi di MDD. In
questo arco di tempo, circa tre quarti dei residenti di New York City piangeva,
oltre il 60% era molto nervoso o teso, circa il 60% riferiva disturbi del sonno e
quasi la metà si sentiva più stanco del solito e non aveva piacere a mangiare.
Ma pochissime delle persone che avevano manifestato quei comprensibili
sintomi depressivi subito dopo l’attacco erano ancora depresse sei mesi più
tardi, benché non fossero stati molti quelli curati per le loro condizioni78.
Similmente, subito dopo disastri naturali come terremoti, tempeste tropicali, o
alluvioni, quasi tutti i soggetti colpiti presentano qualche sintomo di angoscia,
che scompare rapidamente quando le condizioni di vita si normalizzano79.
Alcune delle associazioni più costanti fra contesto sociale e tristezza non
derivano da simili eventi acuti di perdita bensì da situazioni sociali di stress
cronici come una disoccupazione di lungo termine, una condizione debitoria
protratta, vivere in un quartiere pericoloso e minaccioso, malattie fisiche
croniche, convivenze matrimoniali tormentate, o condizioni di lavoro
oppressive. A differenza di un episodio tipico di tristezza fisiologica che
regredisce quando le condizioni che gli hanno dato origine finiscono, i fattori
stressanti duraturi possono portare a persistenti stati di tristezza, i quali tuttavia
sono reazioni normali a circostanze problematiche croniche. Queste tensioni
croniche o durature possono essere correlate a sintomi depressivi anche più
fortemente dei tanti eventi stressanti della vita limitati nel tempo80. La
relazione fra disagio finanziario e sociale di lungo termine ed esperienze di
tristezza è tanto forte che le persone del quintile socioeconomico più basso
hanno fino a sette volte più probabilità di ricadere nei criteri sintomatologici
per l’MDD che non quelle del quintile più alto81. Alcuni hanno sostenuto che
simili soggetti sono affetti da disturbi depressivi che sono causa del loro
sprofondare nelle condizioni in cui si trovano, ma molti studi accurati hanno
stabilito che è molto più probabile che siano le condizioni sociali svantaggiate
a precedere lo sviluppo di sintomi di depressione piuttosto che il contrario82.
A sostegno dell’idea che gran parte di questa sofferenza sia normale
tristezza, c’è il fatto che quando le persone passano da condizioni di povertà
cronica a condizioni relativamente più prospere il loro livello di afflizione cala.
Durante un vasto studio su bambini di ambiente rurale, fu aperto un casinò,
che fornì un quarto del campione costituito da indiani d’America con cospicue
integrazioni di reddito. I sintomi di tipo depressivo dei bambini le cui famiglie
uscirono dalla povertà diminuirono di circa il 30% nei quattro anni fra prima e
dopo l’apertura del casinò, mentre per quelli rimasti poveri i livelli restarono
stabili83. Nel gruppo che vide migliorare le proprie condizioni finanziarie il
tasso dei sintomi non era alla fine diverso da quello registrato fra i soggetti del
campione che non erano mai stati poveri. Altri studi trovano che redditi in
crescita portano a una diminuzione del numero dei soggetti affetti da
condizioni depressive fra le persone povere84. Questi dati inducono a pensare
che una grande parte dei disturbi depressivi che si manifestano fra le persone
indigenti non sono dovuti a disfunzioni interne e non permangono quando le
condizioni di deprivazione migliorano.
Ci viene qui alla mente un aneddoto raccontatoci da un collega. Un eminente
ricercatore presentò un saggio su alcune donne che a suo dire soffrivano di
disturbo depressivo cronico. Una donna con figli era stata abbandonata dal
marito e si trovava ad affrontare un’enorme e persistente sfida nella situazione
di povertà che era venuta a crearsi. I sintomi di tristezza, preoccupazione,
insonnia e così via erano in lei effettivamente gravi. Poi la donna vinse alla
lotteria, e la vincita le fruttò una notevole quantità di denaro. Meraviglia: i suoi
sintomi cronici scomparvero e questo portò il nostro collega a dubitare che
avesse mai avuto un vero disturbo ma che fosse stata invece
comprensibilmente abbattuta dalle sfide opprimenti con cui faceva i conti.
Concludendo, possiamo dire che le reazioni al lutto sono in effetti un
modello di risposta a numerosi tipi di situazioni di perdita. Una quota
abbastanza elevata di persone sviluppa sintomi in risposta a varie perdite,
inclusi sintomi che per tipo, numero, gravità e durata sarebbero tali da
soddisfare i criteri del DSM per l’MDD; la gravità di questi sintomi è
proporzionata all’importanza della situazione che li ha provocati; e la loro
persistenza è legata a quella del fattore stressante originale o di altri fattori
stressanti aggiuntivi che seguono alla perdita iniziale. A parte i casi di morte di
una persona cara, gli episodi di perdite acute e croniche che portano a intensa
tristezza in alcune persone non disturbate – fine di storie d’amore, perdite di
posti di lavoro o mancate promozioni attese, disastri, malattie e così via – sono
comuni. Quando queste perdite sono pesanti, le persone che le subiscono
riferiscono – e non sorprende – di avvertire sintomi depressivi legati a
tristezza. Né la psichiatria tradizionale (come mostriamo nei Capitoli 3 e 4), né
il senso comune consideravano queste reazioni come disturbi psichiatrici, e
sembrano qualificarle come normali esattamente per le stesse ragioni per cui
l’intensa tristezza è ritenuta normale. Dato il numero delle persone che fanno
esperienza dei tipi di perdite descritti, è facile aspettarsi che numeri cospicui di
persone con tristezza normale risultino soddisfare i criteri del DSM per il
disturbo depressivo in qualche momento della loro vita, producendo così un
numero potenzialmente significativo di diagnosi falso-positive.
Le scoperte venute fuori dagli studi sui primati, sui bambini molto piccoli e
sulle varie culture indicano tutte che le espressioni della tristezza hanno una
base biologica e non sono dovute solo a copioni sociali. In particolare, gli
umani appaiono biologicamente programmati per diventare tristi in certi tipi di
situazioni, soprattutto in quelle che comportano perdite di affetti stretti, di
status sociale o di sistemi di significato. Tuttavia, le radici biologiche della
tristezza normale non escludono affatto importanti influenze sociali sul
quando o il come la tristezza viene espressa. Poiché i significati mediano le
risposte di tristezza e le culture danno forma ai significati, la tristezza normale
è intrinsecamente un prodotto unitario della biologia e della cultura (nonché di
variazioni e apprendimento individuale).
I dati fin qui esposti inducono a pensare che la tristezza dopo una perdita sia
un meccanismo approntato dalla natura umana e rispondono alle più comuni
obiezioni alla tesi opposta. Ma non abbiamo ancora toccato il più profondo e
inquietante interrogativo sulla tristezza: perché la tristezza esiste? Quale valore
per la sopravvivenza offriva questa penosa e debilitante emozione da far sì che
fosse selezionata dalla natura?
Questo argomento rimane controverso, e non c’è al momento una risposta
abbastanza condivisa alla domanda sulla funzione biologica della tristezza. In
alcuni casi, la funzione biologica dei meccanismi selezionati dalla natura è
evidente: per esempio, non può essere accidentale che gli occhi vedano, le mani
abbiano capacità di presa, i piedi camminino o i denti mastichino, ed è chiaro
come questi benefici effetti spieghino a sufficienza l’esistenza dei rispettivi
meccanismi grazie alla selezione naturale. Ma in altri casi, benché sia evidente
che un certo elemento è biologicamente mirato, abbiamo scarsa conoscenza
effettiva della sua funzione. Per esempio, prima che i famosi esperimenti del
medico William Harvey negli anni Venti del Seicento dimostrassero la
circolazione del sangue, nessuno capiva appieno la funzione del cuore, anche
se tutti davano per scontato che dovesse servire a qualcosa. Ancora oggi
abbiamo scarsa comprensione della funzione del dormire, anche se il dormire
è chiaramente un elemento mirato del funzionamento umano. Sotto questo
aspetto, la tristezza è un po’ come il sonno: la sua funzione non è evidente, ma
la sua natura finalizzata a qualcosa lo è. Esistono tuttavia alcune plausibili
ipotesi sulle funzioni della tristezza, e suggeriscono che, nonostante il suo
carattere penoso, la tristezza possa avere uno specifico ruolo biologico.
Il problema è che le esperienze depressive sembrano all’apparenza dannose
per il benessere riproduttivo. Le persone intensamente tristi sentono un
indebolito spirito d’iniziativa, trovano un minor piacere nella vita che le motivi
e tendono ad arretrare davanti alle attività quotidiane. L’umore positivo, al
contrario, favorisce le attività richieste per avere partner sessuali, cibo, riparo e
altre risorse che accrescono la sopravvivenza e la riproduzione. In condizioni
ordinarie, dunque, livelli continuativi di umore negativo dovrebbero essere
selettivamente svantaggiosi. Se le risposte di tristezza sono state selezionate
naturalmente, devono esserci state delle circostanze speciali in cui i benefici
dell’avvertire temporaneamente questi sintomi superavano gli evidenti costi*.
In quei particolari contesti, e solo in quelli, gli stati di umore basso devono
aver aumentato il benessere proprio ‘perché’ rendevano le persone meno
attive, meno motivate ecc.136. L’analogia migliore che possiamo richiamare è
con l’acuta sofferenza seguente a un incidente, che ferma l’attività ma è
adattativa, perché aiuta a evitare ulteriori danni ai tessuti. La sofferenza
cronica, invece, non correlata ad alcun sottostante danno fisiologico sarebbe
dannosa, allo stesso modo in cui il disturbo depressivo è certamente
dannoso137.
Nel considerare la funzione della tristezza, è importante ricordare che la
funzione di un meccanismo biologico non necessariamente dev’essere
benefico nell’ambiente attuale, anche se spesso lo è. Esso dev’essere stato
benefico nel passato, spiegando così perché il meccanismo sottostante fu
selezionato e ora esiste. Quello che gli psicologi evolutivi John Tooby e Leda
Cosmides chiamano l’«ambiente dell’adattamento evolutivo» ( Environment of
Evolutionary Adaptation, EEA), esistente probabilmente all’epoca in cui gli
umani vivevano in società di cacciatori-raccoglitori nelle pianure africane,
prima o durante il Pleistocene fra i 2 milioni e i 10.000 anni fa, fu responsabile
della conformazione di molti dei tratti genetici che gli umani conservano
tuttora138. La tristezza è mirata ad affrontare contesti sorti in quelle condizioni
ancestrali, che negli ambienti attuali potrebbero essere meno evidenti.
Analogamente, la voglia umana di dolciumi, di sale e di grassi può apparire
strana ora che ci sono abbondanti fonti di calorie e quella voglia porta a
obesità e malattie, ma fu biologicamente costruita quando gli ambienti umani
erano marcati da scarsità di calorie. Di conseguenza, fa oggi parte della
normale natura umana godere di questi gusti, quali che possano essere i
precetti di una sana nutrizione.
Tenendo a mente queste cautele, possiamo chiederci: messi a confronto con
risposte alternative alla perdita, quali benefici possono aver conferito i sintomi
depressivi che condussero alla loro selezione naturale nel corso dell’evoluzione
umana?
2.6 | Conclusione
Note
1 | Shelley, 1824/1986.↵
2 | Coleridge, 1805/1986.↵
3 | Keller e Nesse, 2006.↵
4 | Nesse, 2006.↵
5 | Brown, 2002; Dohrenwend, 2000.↵
6 | Per es. Turner, Wheaton, e Lloyd, 1995; Wheaton, 1999.↵
7 | Grinker e Spiegel, 1945.↵
8 | Kendler, Karkowski, e Prscott, 1999.↵
9 | Per es. Coyne, 1992; Oatley e Bolton, 1985; Gilbert, 1992.↵
10 | Turner, 2000.↵
11 | Brown, 1993.↵
12 | Iliade, 18, 22-28 (trad. di Rosa Calzecchi Onesti).↵
13 | L’epopea di Gilgamesh.↵
14 | Clayton, 1982.↵
15 | Clayton, 1998.↵
16 | Clayton e Darvish, 1979; Zisook e Shuchter, 1991.↵
17 | Bruce, Kim, Leaf, e Jacobs, 1990; Zisook, Paulus, Shuchter, e Judd, 1997; Zisook e Shuchter,
1991.↵
18 | Leahy, 1992-1993; Sanders, 1979-1980.↵
19 | Harris, 1991.↵
20 | DeVries, Davis, Wortman e Lehaman, 1997.↵
21 | Bonanno et al. , 2002; Carr, House, Wortman, Nesse, e Kessler, 2001.↵
22 | Wortman e Silver, 1989; Parkes, e Weiss, 1983; Zisook e Shuchter, 1991.↵
23 | Clayton e Darvish, 1979; Hays, Kasl, e Jacobs, 1994.↵
24 | Archer, 1989; Carr et al. , 2000; Nesse, 2005.↵
25 | Wortman, Silver, e Kessler, 1993.↵
26 | Bonanno et al. , 2002; Carr, House, Wortman, Nesse, e Kessler, 2001.↵
27 | Schulz et al. , 2001.↵
28 | Mancini, Pressman, e Bonanno, 2005.↵
29 | Wortman e Silver, 1989; Lopata, 1973; Mancini et al. , 2005.↵
30 | Umberson, Wortman, e Kessler, 1992; Wortman et al. , 1993.↵
31 | Carr, 2004.↵
32 | Zisook e Shuchter, 1991; Gallagher, Breckenridge, Thompson, e Peterson, 1983; Archer, 1999,
pp. 98-100; Bonanno et al. , 2002.↵
33 | Clayton, 1982.↵
34 | Zisook e Shuchter, 1991; Bonanno e Kaltman, 2001; Bonanno et al. , 2002.↵
35 | Clayton, 1982.↵
36 | Bonanno et al. , 2002.↵
37 | Jackson, 1986.↵
38 | Nesse, 2005.↵
39 | Neimeyer, 2000; Schut, Stroebe, Van den Bout, e Terheggen, 2001.↵
40 | Sloman, Gilbert, e Hasey, 2003.↵
41 | Nesse, 2005.↵
42 | APA, 2000, p. XXXI (corsivo nostro).↵
43 | Kitson, Babri, e Roach, 1985; Ross, Mirowsky, e Goldstein, 1990; Waite, 1995.↵
44 | Kessler et al. , 1994; Simon, 2002.↵
45 | Bruce et al. , 1990.↵
46 | Bruce, 1998.↵
47 | Ivi, p. 228.↵
48 | Radloff, 1977; Sweeney e Horwitz, 2001.↵
49 | Wheaton, 1990.↵
50 | Brown, 2002.↵
51 | Brown, Harris, e Hepworth, 1995.↵
52 | Myers, Lindenthal, e Pepper, 1971; Bloom, Asher, e White, 1978.↵
53 | Booth e Amato, 1991.↵
54 | Ibidem.↵
55 | Per es. Gerstel, Reissman, e Rosenfield, 1985; Menaghan e Lieberman, 1986; Ross, 1995.↵
56 | Brown, 1993; Simon, 2002.↵
57 | Wade e Pevalin, 2004.↵
58 | Dew, Bromet, e Schulberg, 1987; Kessler, House, e Turner, 1987; Tausig e Fenwick, 1999; Dooley,
Prause, e Ham-Rowbottom, 2000; Grzywacz e Dooley, 2003.↵
59 | Fenwick e Tausig, 1994; Kessler et. al. , 1987; Turner, 1995; Dew, Bromet, e Penkower, 1992;
Dooley, Catalano, e Wilson, 1994.↵
60 | Angel, Frisco, Angel, e Chiriboga, 2003.↵
61 | Ganzini, McFarland, e Cutler, 1990.↵
62 | Wheaton, 1990; Reynolds, 1997.↵
63 | Kasl e Cobb, 1979; Dew et al. , 1992.↵
64 | Horwitz, 1984; Turner, 1995.↵
65 | Kessler, Turner, e House, 1989; Price, Choi, e Vinokur, 2002; Dooley et al. , 2000.↵
66 | Cobb e Kasl, 1977; Kasl e Cobb, 1979.↵
67 | Brooke, 2003.↵
68 | Zaun, 2004.↵
69 | Durkheim, 1897/1951.↵
70 | Lee, 1999.↵
71 | Merton, 1938/1968; Heckhausen e Schultz, 1995; Sloman et al. , 2003.↵
72 | Nesse, 2000.↵
73 | Keller e Nesse, 2005.↵
74 | Carr, 1997.↵
75 | McEwan, Costello, e Taylor, 1987.↵
76 | Cuisinier, Janssen, deGraauw, Bakker, e Hoogduin, 1996; Heckhausen, Wrosch, e Fleeson, 2001.↵
77 | Mollica, Poole, e Tor, 1998; Mollica et al. , 1999; Marshall, Schell, Elliott, Berthold, e Chun, 2005.↵
78 | Clymer, 2002.↵
79 | Dohrenwend, 1973.↵
80 | Turner et al. , 1995; McLeod e Nonnemaker, 1999.↵
81 | Turner e Lloyd, 1999.↵
82 | Ritsher, Warner, Johnson, e Dohrenwend, 2001; Johnson, Cohen, Dohrenwend, Link, e Brook,
1999; Lorant et al. , 2003; Dohrenwend et al. , 1992.↵
83 | Costello, Compton, Keeler, e Angold, 2003, tavola 3.↵
84 | Dearing, Taylor, e McCartney, 2005; cfr. anche Epstein, 2003.↵
85 | Per es. Kirmayer, 1994.↵
86 | Darwin, 1872/1998.↵
87 | Willner, 1991.↵
88 | Harlow e Suomi, 1974; McKinney, 1986; Gilmer e McKinney, 2003.↵
89 | Mineka e Suomi, 1978.↵
90 | Harlow, Harlow, e Suomi, 1971; Harlow e Suomi, 1974; Suomi, 1991.↵
91 | Kaufman e Rosenblum, 1966.↵
92 | Sloman et al. , 2003.↵
93 | Harlow e Suomi, 1974; Gilmer e McKinney, 2003.↵
94 | Sapolsky, 1989.↵
95 | Sapolsky, 1992; Price, Sloman, Gardner, Gilbert, e Rohde, 1994.↵
96 | McGuire, Raleigh, e Johnson, 1983; Raleigh, McGuire, Brammer, e Yuwiler, 1984.↵
97 | Shively, Laber-Laird, e Anton, 1997.↵
98 | Berman, Rasmussen, e Suomi, 1994.↵
99 | Sapolsky, 1989.↵
100 | Sapolsky, 2005.↵
101 | Bowlby, 1969/1982, 1973, 1980.↵
102 | Harlow e Suomi, 1974.↵
103 | Darwin, 1872/1998, p. 185 [trad. it. p. 218].↵
104 | Ivi, p. 177 [trad. it. p. 211].↵
105 | Ekman e Friesen, 1971.↵
106 | Ekman, 1973.↵
107 | Ekman, Friesen, O’Sullivan, Chan, Diacoyanni-Tarlatzis, Heider, et. al. , 1987.↵
108 | Ekman e Friesen, 1971.↵
109 | Turner, 2000.↵
110 | Pinker, 1997.↵
111 | Brown, 2002.↵
112 | Carr e Vitaliano, 1985, p. 255.↵
113 | Broadhead eAbas, 1998.↵
114 | Desjarlais, Eisenberg, Good, e Kleinman, 1995.↵
115 | Schieffelin, 1985.↵
116 | Manson, 1995.↵
117 | Miller e Schoenfeld, 1973.↵
118 | Archer, 1999.↵
119 | Good, Good, e Moradi, 1985, p. 386.↵
120 | Wikan, 1988, 1990.↵
121 | Ibidem.↵
122 | Per es. Lutz, 1985; Schieffelin, 1985; Kleinman, 1986.↵
123 | Kleinman, 1986.↵
124 | Cheung, 1982.↵
125 | Kleinman, 1986.↵
126 | Per es. Kirmayer e Young, 1999; Kleinman e Good, 1985; Murphy e Woolfolk, 2001.↵
127 | Per es. Brown e Harris, 1978; Pearlin, 1989; Aneshensel, 1992; Turner e Loyd, 1999.↵
128 | Brown, 2002.↵
129 | Gaminde, Uria, Padro, Querejeta, e Ozamiz, 1993.↵
130 | Broadhead e Abas, 1998.↵
131 | Per es. House, Landis, e Umberson, 1988; Turner, 1999.↵
132 | Schieffelin, 1985.↵
133 | Deut. 25,5; Stroebe e Stroebe, 1987.↵
134 | Per es. Kirmayer, 1994.↵
135 | Per es. Mernissi, 1987; Jones, 2006.↵
136 | Nesse e Williams, 1994.↵
137 | Ibidem.↵
138 | Tooby e Cosmides, 1990.↵
139 | Lewis, 1934.↵
140 | Turner, 2000.↵
141 | Hagen, 1999, 2002.↵
142 | Klerman, 1974; Coyne, 1976; Gilbert, 1992.↵
143 | Archer, 1999.↵
144 | Bowlby, 1973; Price, Sloman, Gardner, Gilbert, e Rohde, 1994; Turner, 2000.↵
145 | Darwin, 1872/1998, p. 347.↵
146 | Bowlby, 1980.↵
147 | Archer, 1999.↵
148 | Price et al. , 1994.↵
149 | Ibidem; Stevens e Price, 2000; Sloman, Gilbert, e Hasey, 2004.↵
150 | Price e Sloman, 1987; Stevens e Price, 2000.↵
151 | Gilbert e Allan, 1998; Sloman et al. , 2003.↵
152 | Wenegrat, 1995.↵
153 | Nesse, 2006.↵
154 | Klinger, 1975; Gut, 1989; Nesse, 2000; Wrosch, Scheier, Carver, e Schulz, 2003.↵
155 | Watson e Andrews, 2002.↵
156 | Nesse, 2000, p. 17.↵
157 | Keller e Nesse, 2005; Keller e Nesse, 2006.↵
158 | Murphy e Stich, 2000.↵
159 | Nesse, 2000.↵
160 | Merton, 1938/1968.↵
* Si precisa che è ipotizzabile un disturbo, magari sottosoglia, preesistente all’evento.↵
* Da un punto di vista teorico e metodologico dobbiamo esprimere un dissenso sul confrontare
l’uomo agli animali nello studio dei disturbi mentali, a meno che non si tratti esclusivamente di una
sperimentazione farmacologica ai fini psicofarmacoterapeutici. [NdC]↵
* Osserviamo che il riduzionismo come metodo di ricerca non può essere mutato in una diagnosi dei
disturbi mentali agli animali, poiché questi ultimi non sono dotati della realtà psichica umana. Cfr. M.G.
Gatti, E. Becucci, F. Fargnoli, M. Fagioli, U. Ådén, G. Buonocore, Functional maturation of neocortex: a base
of viability, in “The Journal of Maternal-Fetal and Neonatal Medicine”, 25, suppl. 1, 2012, pp. 101-103;
M.G. Gatti, M. Fagioli, Maturazione funzionale della neocorteccia, in “Il sogno della farfalla”, 1, 2013, pp. 9-
21. [NdC]↵
* Si sottolinea come invece nell’essere umano una sostituzione non risolva la perdita. [NdC]↵
* Il neonato, in quanto nato, è già dotato della caratteristica della socialità. Questo aspetto viene
conosciuto dai tempi di Socrate, il quale definiva l’essere umano uno «zoòn politikòn», un animale di
per sé sociale. Oggi sappiamo, in particolare dalla teoria della nascita, che la prima immagine del
neonato alla nascita è la memoria-fantasia dell’esperienza avuta, un’immagine di esistenza di un essere
umano simile a sé stesso, grazie alla traccia sensoria del liquido amniotico sulla pelle che il neonato
avverte, successivamente all’attivazione cerebrale. Cfr. M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza (1972),
L’Asino d’oro edizioni, Roma 2010; M.G. Gatti, M. Fagioli, Maturazione funzionale della neocorteccia cit.
[NdC]↵
* Va sottolineato che gli esseri umani nascono uguali, in base alla dinamica della nascita, uguale per
tutti, indipendentemente da razza o sesso. Cfr. M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza cit. [NdC]↵
* In base alle conoscenze degli ultimi anni il linguaggio dell’essere umano è ritenuto essere il frutto di
un’esigenza mentale e non una maturazione biologica fisica, indipendentemente dal suo significato.
L’essere umano ha come caratteristica l’attitudine al rapporto con i suoi simili e la ricerca di questo
rapporto, poiché è in esso che si realizza. Il linguaggio è rapporto tra esseri umani. Cfr. M. Fagioli,
Bambino, donna e trasformazione dell’uomo, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2013. [NdC]↵
* Questa visione animalistica dell’uomo ci sembra estrema; essa nega la realtà psichica umana, con i
suoi aspetti irrazionali di tipo creativo e relazionale. Porsi domande sull’utilità della tristezza implica un
disconoscimento della natura umana, che per la sua realizzazione fa anche cose assolutamente inutili.
Un esempio è rappresentato dall’arte, ma pure dalla sessualità, se realizzata indipendentemente dalla
riproduzione. Questi sono aspetti tipicamente umani, mentre negli animali l’istinto condiziona sempre
il comportamento. Cfr. M. Fagioli, Religione ragione e libertà, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014. [NdC]↵
Capitolo 3 | Tristezza con e senza causa: la
depressione dai tempi an chi al XIX secolo
Dagli antichi scritti medici greci fino all’inizio del XX secolo, quello che ora
è chiamato «disturbo depressivo» era indicato generalmente come
«melancolia», che letteralmente significa «disturbo della bile nera». Benché
abbia continuato a essere usato fino ai tempi moderni, il nome rifletteva
originariamente l’antica credenza che la salute e la malattia dipendono
dall’equilibrio o squilibrio fra i fluidi corporei, o ‘umori’, e che responsabile dei
sintomi depressivi era un eccesso di bile nera – un umore che si immaginava
spesso prodotto nella milza. I medici antichi pensavano che la bile nera avesse
la funzione naturale di regolare l’umore e che la melancolia fosse conseguenza
di una carenza in questa funzione naturale. Quando scemò la credenza nel
ruolo della bile nera nella vita mentale, si affermò alla fine la «depressione»
come termine dominante nei secoli XIX e XX.
Nell’esaminare le descrizioni cliniche del disturbo depressivo,
straordinariamente simili attraverso i millenni, sono necessarie varie
avvertenze. Primo: bisogna considerare il contesto di ciascuna discussione per
capire se si parli effettivamente di un disturbo. Come il termine oggi usato
oltremisura di «depressione», anche i termini «melancolia» o «melancholia»
svolgono tendenzialmente un doppio compito, riferendosi sia a un disturbo sia
a emozioni, umori e temperamenti normali.
Secondo: i testi classici furono scritti prima che la maggior parte delle
raffinate distinzioni odierne fra i disturbi mentali fossero riconosciute, e quindi
la categoria della melancolia comprendeva spesso fenomeni che
retrospettivamente possono essere giudicati come disturbi del tutto diversi. Fra
questi vanno annoverati disturbi psicotici che andavano dalla schizofrenia a
stati paranoidi e altri stati di delirio. Per esempio, quella che può apparire
inizialmente come la descrizione di un alternarsi di mania e depressione in
quello che definiremmo oggi «disturbo bipolare» può rivelarsi con maggiore
probabilità, a un esame più attento, come la descrizione di un alternarsi di
agitazione e ritiro sociale di uno schizofrenico erroneamente classificato come
melancolico2. Poiché alcuni soggetti con depressione psicotica hanno a volte
deliri congrui al tono dell’umore che esprimono il contenuto del pensiero
correlato alla tristezza, i primi psichiatri estesero talvolta la categoria della
melancolia ad altri che presentavano circoscritti deliri che causavano emozioni
negative. Così pure, il ritiro sociale associato alle diagnosi attuali di disturbo
evitante della personalità e fobia sociale appare talvolta essere stato confuso
con il ritiro sociale associato alla melancolia. Comunque sia, il quadro
prevalente di quelli classificati come melancolici indica chiaramente il disturbo
depressivo quale lo conosciamo noi.
Terzo: poiché la melancolia era una descrizione eziologica che classificava gli
stati morbosi in base alla loro causa presunta di un eccesso di bile nera, le più
antiche descrizioni spesso mettevano altri stati considerati aventi analoga
eziologia nello squilibrio della bile nera insieme con i disordini depressivi,
classificandoli come «disturbi melancolici» in senso ampio, anche se in effetti
non avevano nulla a che fare con la depressione. Nei tempi antichi, questi
«disturbi melancolici» includevano, per esempio, epilessia e foruncoli. La
melancolia stessa in quanto disturbo era semplicemente un caso specifico di
questa categoria più ampia.
Quarto: le descrizioni classiche in generale, anche se non sempre, si
concentravano su quella che noi chiameremmo oggi «depressione psicotica»,
che include deliri o allucinazioni. In effetti, queste descrizioni spesso
definivano la melancolia come una forma di «delirio senza febbre» per
distinguere i deliri e le allucinazioni melancolici da quelli che si verificavano in
presenza di alte febbri causate da diverse malattie fisiche. La melancolia di
questo tipo comportava in particolare idee fisse su specifici argomenti legati al
disturbo depressivo, che distinguevano la melancolia da una disfunzione
cognitiva generale o psicosi. I disturbi depressivi non psicotici pure erano
riconosciuti, ma non erano enfatizzati come costituenti la gran parte dei casi
fino ai tempi recenti.
Quinto: c’è un’ambiguità a proposito del termine «melancolia», che continua
ancora a essere usato e che può creare confusione. L’estensione esatta del
significato di «melancolia» è cambiata: a volte si riferisce a una malattia
complessiva, a volte alla tristezza come sintomo specifico, a volte a un insieme
sindromico di molti sintomi coesistenti, di cui la tristezza è solo uno3.
Sesto: contrariamente all’uso attuale, i testi antichi e molti successivi univano
insieme di solito la tristezza e la paura come sintomi di melancolia. Si pensava
che l’avvilimento fosse in relazione con la paura, perché i melancolici
apparivano generalmente preoccupati o incupiti non solo per fatti reali ma
anche per eventualità negative del futuro che causavano apprensione. I criteri
contemporanei enfatizzano la tristezza come affezione dominante esclusiva,
ma gli studi recenti confermano che l’ansia e la tristezza tendono ad
accompagnarsi nella depressione e che è difficile distinguere questi stati,
proprio come era nella tradizione4. Ma dalle descrizioni cliniche è anche chiaro
che, allora come adesso, la tristezza da sola bastava per la melancolia.
Infine, un’avvertenza sulla nostra metodologia. È importante che
consideriamo le tante passate differenze e confusioni nella storia della
depressione per scoprire una sottostante concordanza e somiglianza con i
giudizi attuali. In particolare, quelli che sono oggi considerati veri disturbi
depressivi rientravano chiaramente nella melancolia tradizionale ed erano
distinti dalla tristezza normale. Certo, una storia alternativa, postmoderna, della
depressione potrebbe insistere forse sulla costruzione sociale della
depressione, includendo varianti nelle definizioni e negli spettri di
comportamento da classificare come patologici e aspetti del controllo sociale
legati a tali varianti. Sebbene la storia della depressione comprenda di sicuro
variazioni del genere, i testi storici riconoscono una condizione di fondo
comune su cui si è concentrato l’interesse per millenni.
In effetti, fin dai primissimi tempi, questi scritti mostrano quella che
potrebbe essere qualificata come una visione «essenzialista» della
classificazione della melancolia – essa, cioè, si basa sul presupposto, comune
ad autori diversi che magari dissentivano nelle loro specifiche teorie, che la
melancolia era dovuta a qualcosa di sbagliato nel funzionamento interno di
meccanismi solitamente responsabili della tristezza normale, in un modo che
portava a certi sintomi standard. Questa concezione non è il prodotto di
differenti risposte sociali alla pazzia ma il frutto di un giudizio ponderato e
plausibile. Inoltre, è impossibile analizzare responsabilmente in quali modi i
gruppi abbiano sfruttato il concetto di depressione per scopi di potere sociale
fino a che non si capisca la logica del concetto stesso di depressione. È dunque
la storia di questo concetto comune, e soprattutto i tentativi di distinguere la
tristezza patologica dalla tristezza normale, che vogliamo cercare di capire.
Tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVIII, alcuni autori misero ancor più
l’accento sul criterio del «senza causa» come indicativo del disturbo. Il medico
André du Laurens (1558-1609), ampiamente noto come Laurentius, scrisse il
Discours des maladies mélancoliques, che si diffuse in tutta Europa e influenzò
fortemente il pensiero successivo. Du Laurens sintetizzò l’approccio del suo
tempo come approccio del «senza causa»: «Una sorta di rammollimento senza
febbre, avente quali sue compagne ordinarie paura e tristezza, senza nessun
motivo evidente»32.
Sul versante inglese della Manica, Timothie Bright (1550-1615), medico
formato a Cambridge, contemporaneo di Du Laurens, era molto interessato
anche alla colpa religiosa. Nel suo Treatise of Melancholy (1586), Bright sviluppò
in dettaglio la distinzione fra l’afflizione con o senza causa al fine di permettere
una diagnosi differenziale fra il vero disturbo melancolico e stati non patologici
di intensa tristezza e disperazione dovuti alla convinzione di aver peccato e di
essere quindi oggetto della collera divina. La tristezza melancolica, osservava, è
tale «per cui non si trova alcuna causa in qualunque momento prima, né è
probabile che se ne trovi dopo»33 e affermava che «l’afflizione dell’animo per
coscienza di peccato» è «tutt’altra cosa che la melancolia»34. La coscienza di
peccato era «dispiacere e paura per una causa precisa, e per quella che è la
causa più grande che provoca miseria nell’uomo», cioè la paura della collera di
Dio, mentre la melancolia era «pura fantasia e odio senza un vero e giusto
motivo». Bright spiega lucidamente e diffusamente come la «peculiare
differenza fra la melancolia e la coscienza afflitta nella stessa persona», che è
«la vera angoscia dell’anima», poteva essere dedotta cercando di capire dal
contesto se la tristezza aveva adeguate ragioni ambientali:
Qualunque molestia sorge direttamente come oggetto proprio della mente, che da questo
punto di vista non è melancolia, ma ha altra motivazione che la fantasia, e nasce dalla
coscienza, che condanna l’anima colpevole per quelle leggi innate della natura, di cui
nessun uomo è privo, posto che non sia così barbaro [...] Sulla parte opposta, quando ti
inquieta un qualche delirio che non ha sufficiente fondamento di ragione, ma nasce
unicamente dal tuo cervello, che è soggetto (come è stato prima mostrato) all’umore,
quella è esattamente melancolia e così dev’essere raccontato di te. Si tratta di falsi motivi
di ragione con cui ti inganna il cervello melancolico [...] Così concludo questo punto di
differenza, e distinguo fra la melancolia e la più propria angoscia dell’anima [...] La testa di
quelli che sono sotto questa croce sente un’angoscia che va molto oltre ogni afflizione di
passione naturale, accoppiata a quella paura organica e pesantezza di cuore. L’inclinazione
melancolica alla paura, al dubbio, alla sfiducia e alla pesantezza, ma tutto o senza causa, o
dove c’è una causa con una forza ben al di là della passione.
Bright continua descrivendo con vivacità che cosa significhi l’espressione
«senza causa», ancorando saldamente la nozione in una comprensione del
contesto dei sentimenti:
Noi vediamo nella nostra esperienza persone che godono di tutti i conforti della vita che
qualsiasi ricchezza può procurare, e di ogni amicizia offerta con gentilezza e ogni
sicurezza che possa assicurarle: eppure sono sopraffatte da pesantezza, e costernate da
tale paura, quasi non possano ricevere consolazione, né speranza di assicurazione,
nonostante non ci sia motivo di paura, o scontento, e nemmeno di pericolo, ma al
contrario di grande conforto, e felicitazione. Questa passione che non è mossa da alcuna
avversità presente o imminente è attribuita alla melancolia35.
Il presupposto di Bright, che dai tempi antichi ai moderni ha costituito lo
sfondo della letteratura, era che esiste una «passione naturale» o emozione di
tristezza destinata a funzionare in un certo modo ma che nel disturbo va fuori
strada.
Le opere successive seguirono la consuetudine. Per esempio, Felix Platter
(1536-1614) in Praxeos medicae opus (1602) definiva la melancolia come uno
stato in cui «l’immaginazione e il giudizio sono a tal punto pervertiti che senza
alcuna causa le vittime diventano tristissime e impaurite. Esse, infatti, non
possono addurre alcuna causa certa di dolore o di paura salvo qualche banale o
falsa opinione che hanno concepito per effetto di apprensione disturbata»36.
Come altri autori, Platter abbracciava sotto la categoria del «senza causa» sia i
casi di assenza totale di una concreta causa situazionale (casi di delirio o
depressione endogena) sia i casi di mancanza di una causa proporzionata (in
cui la causa c’è ma è troppo banale per giustificare la reazione).
L’opera classica di Robert Burton (1577-1640), The Anatomy of Melancholy,
pubblicata nel 1621, è la più famosa fra tutte le discussioni rinascimentali
sull’argomento. È fondata direttamente sulla tradizione del «senza causa».
Burton descrive tre componenti principali della depressione – l’umore, la sfera
cognitiva e i sintomi fisici –, che sono ancora visti come i tratti distintivi di
questa condizione. Ma insiste che i sintomi melancolici non sono di per sé
stessi prova sufficiente di disturbo: solo i sintomi senza causa forniscono
questa prova, come spiegava nella seguente postilla alla sua definizione:
«Aggiungiamo, infine, senza causa per distinguerla da tutte le altre passioni
ordinarie di paura e dispiacere». E precisava che fra i «segni nella mente» della
melancolia c’erano «dispiacere [...] senza alcuna causa evidente; sempre
addolorati, ma non riescono a dire perché»37.
Burton sottolinea anche che una certa inclinazione alla melancolia è presente
in tutti gli uomini, ed è un aspetto normale e onnipresente della condizione
umana:
La melancolia [...] è o di disposizione o di abitudine. Di disposizione, quando la
melancolia è passeggera, va e viene a ogni minima occasione di dispiacere, bisogno,
malattia, inquietudine, paura, lutto, passione, o turbamento della mente, ogni tipo di
preoccupazione, scontento, o pensiero, che causa angoscia, tristezza, pesantezza e
oppressione dello spirito [...] E da simili disposizioni di melancolia, nessun uomo vivente
è esente, e non c’è stoico, non c’è uomo saggio, non c’è uomo felice, paziente, generoso,
pio, divino, che se ne possa difendere; per quanto ben strutturato, quale più quale meno,
in un momento o in un altro, sentirà il dolore di essa. La melancolia, in questo senso, è il
tratto della mortalità38.
In contrapposizione alla melancolia normale, che si manifesta naturalmente
in persone che hanno sofferto una perdita o una delusione e che fa parte «della
mortalità», Burton ritiene che le sofferenze della melancolia sono «contrarie
alla natura»39. La definizione di quest’ultima condizione, la melancolia come
disturbo, la riprese da Du Laurens: «Una sorta di rammollimento senza febbre,
avente quali sue compagne ordinarie paura e tristezza, senza nessun motivo
evidente»40.
Burton era sensibile all’ampia variabilità individuale nella natura delle
risposte alla perdita e ammetteva un amplissimo ventaglio di reazioni
temperamentali alla perdita da non considerare disturbate fino a che non
diventino croniche e autoperpetuantisi:
Quello, infatti, che non è altro che un piccolo inconveniente per uno, è causa di
insopportabile tormento per un altro, e quello che uno con la sua personale moderazione
e il suo equipaggiamento mentale riesce a superare felicemente, un altro non è in grado
nemmeno di sostenere, ma a ogni minima occasione di fraintesa offesa, ingiuria,
dispiacere, disgrazia, perdita, croce, voce ecc. (per quanto isolata o infondata) si
abbandona così facilmente alla passione che la sua complessione è alterata, la sua
digestione ostacolata, il suo sonno sparisce, i suoi spiriti sono annebbiati e il suo cuore
appesantito, le sue ipocondrie colpite a sproposito [...] ed è sopraffatto dalla melancolia
[...] Ma a tutti questi si attaglia la melancolia [...] sono invece impropriamente così
chiamati quando non continuano; ma viene e va, a seconda che siano mossi da alcuni
fini41.
Solo quando le reazioni normali a specifici eventi diventano stabili come una
persistente condizione indipendente dagli eventi Burton vede il disturbo:
Accade spesso che queste disposizioni diventino abitudini, e allora [...] fanno una malattia.
Proprio come una distillazione, non ancora cresciuta in abitudine, provoca semplicemente
una tosse; ma se continua e si radica, causa la consunzione dei polmoni; così fanno questi
nostri attacchi di melancolia [...] Questa melancolia di cui stiamo parlando [...] malattia
cronica o persistente, umore radicato [...] non passeggera ma stabilizzata [...] cresciuta in
abitudine, sarà difficile da rimuovere42.
Oltre a notare la normale variabilità dei temperamenti, Burton fu acuto
osservatore degli estremi cui le normali reazioni a una perdita possono
spingersi. Egli osservò che la maggior parte delle perdite più penose
comprendevano la separazione da amici e il lutto conseguente alla perdita di
una persona cara («in questo labirinto di cause accidentali [della melancolia] [...]
la perdita e la morte di amici possono aspirare al primo posto»43) e descrisse in
maniera interessante gli estremi che il dispiacere non patologico può
raggiungere:
Se l’allontanamento di amici, la semplice assenza, può provocare simili effetti violenti, che
farà la morte, che li separerà per sempre sicché mai più in questo mondo potranno di
nuovo incontrarsi? È un tormento così doloroso per il tempo, che toglie l’appetito, il
desiderio della vita, estingue tutte le delizie, causa profondi gemiti e lamenti, lacrime,
esclamazioni [...] urli, muggiti, amarissime fitte, e con frequente mediazione si estende a
volte fino al punto che uno pensa di vedere il proprio amico morto continuamente
davanti agli occhi [...] Ancora, e ancora, e ancora, l’amato padre, l’amato figlio, l’amata
moglie, il caro amico corre nella sua mente; un solo pensiero riempie la sua mente per
tutto l’anno [...] Essi, i più contegnosi e pazienti degli uomini, sono travolti così
furiosamente dalla passione del dolore in questo caso che, uomini coraggiosi e prudenti
spesso perlopiù dimentichi di sé, piangono come bambini per mesi insieme44.
Non solo famosi autori come Burton ma anche semplici medici generici
facevano distinzione fra gli stati melancolici che nascevano senza causa e quelli
che erano proporzionati per intensità alle loro cause scatenanti. L’opera di
Richard Napier (1559-1634), un medico di campagna inglese, i cui taccuini
sono stati attentamente analizzati dallo storico Michael MacDonald, illustra
come i medici generici del tempo classificassero gli stati depressivi in tre tipi
generali. Il primo era provocato da esperienze universali di dispiacere e lutto,
rifiuti in amore, rovesci di fortuna, gravi malattie e scontri con mogli, amanti o
parenti. Napier staccava nettamente questi tipi di onnipresenti stati negativi
dalle malattie melancoliche, perché «non ogni persona incupita soffre della
malattia della melancolia»45.
Due tipi di stati melancolici erano considerati disturbi. In primo luogo,
Napier usava la descrizione di «dispiacere senza motivo» per alcuni dei suoi
pazienti disturbati46. Si riferiva a casi che non avevano una causa scatenante o
ne avevano una ingannevole, e quindi non erano pienamente spiegati da
circostanze esterne. Il secondo tipo di condizioni disturbate nascevano da
«giuste occasioni come la morte di persone care e si rivelavano come deliri di
melancolia per la loro insolita intensità e durata»47. Come osserva MacDonald,
«gli uomini del tempo credevano che i sentimenti sperimentati dalle persone
melancoliche e inquiete fossero esagerazioni di stati normali della mente. La
grande intensità dei loro umori era anormale»48. I casi registrati da Napier
mostrano chiaramente che la melancolia nasceva spesso senza essere provocata
da una situazione concreta ma a volte nasceva da una risposta sproporzionata a
perdite effettive. Molte diagnosi di melancolia, per esempio, erano conseguenti
a qualche lutto, di solito dopo la perdita di una moglie o di un figlio49, in cui la
tristezza era di tale intensità e durata da portare a stati di follia. Le valutazioni
di malattia, quindi, richiedevano al medico che prendesse conoscenza della
relazione dei sintomi con il contesto delle situazioni in cui essi si presentavano
e persistevano.
Gli autori che seguivano Burton continuarono a separare le depressioni fra
quelle con e quelle senza causa. Verso la fine del XVII secolo, per esempio,
Timothy Rogers (1658-1728) considerava la differenza fra il lutto come
risposta normale a una perdita e il lutto come causa scatenante di un disturbo
depressivo. Osservava che molti soggetti possono avere un disturbo
melancolico scatenato «dalla perdita di figli, da qualche improvvisa e
inaspettata delusione che rovina tutti i loro precedenti progetti e disegni»50. Ma
Rogers spiegava che queste perdite terribili non portavano di solito al disturbo
melancolico. E contrapponeva specificamente una simile reazione disturbata a
quella di una certa Lady Mary Lane, alla quale il suo libro è dedicato, che
viveva un intenso ma normale lutto e dolore per la perdita del padre, della
madre e di vari figli51.
Nel XVIII secolo l’uso esplicito del criterio del «senza causa» divenne meno
comune, forse perché gli autori del tempo si concentrarono su forme
psicotiche di depressione in cui questa descrizione appariva non necessaria52.
Ciononostante, durante questo periodo, la malattia mentale, secondo lo storico
Stanley Jackson, «comprendeva ancora di solito lo stato di abbattimento e
paura senza una causa evidente, e qualche particolare fissazione circoscritta era
ancora un tratto comune. L’insonnia, l’irritabilità, l’irrequietezza e la stipsi
continuavano a essere elementi consueti»53. Il famoso dizionario di Samuel
Johnson, per esempio, elencava tre significati per «melancolia»: due si
riferiscono a disturbi mentali e uno a emozioni comuni, normali54. Fra l’altro, a
Johnson si deve in parte l’avvio del passaggio graduale dal termine
«melancolia» al termine «depressione».
Le successive definizioni mediche continuarono a usare esplicitamente
l’antica definizione contestuale della melancolia. Friedrich Hoffmann (1660-
1742) definiva la melancolia come «associata alla tristezza e alla paura prive di
qualsiasi causa manifesta»55. William Cullen (1710-1790), autorità esimia sulla
melancolia nell’ultima parte del XVIII secolo, osservava che la melancolia è
«sempre accompagnata da una qualche paura manifestamente infondata, ma
piena di tanta ansia»56. E negli Stati Uniti, il famoso ecclesiastico Cotton
Mather (1663-1728) sottolineava la mancanza di una sufficiente giustificazione
esterna per la tristezza nel disturbo melancolico: «I melancolici affliggono sé stessi
a sufficienza, e sono in buona misura tormentatori di sé stessi. Quasi che questo
cattivo mondo presente non permetta cose davvero tristi abbastanza, essi si creano
un mondo di cose immaginarie, e mediando terrore si rendono miserabili, come
sarebbe se fossero colpiti dalle più reali miserie»57. Anche il filosofo Immanuel
Kant (1724-1804) definiva la melancolia soprattutto come «dispiacere [...]
ingiustificato» e distingueva con cura una varietà di condizioni non
patologiche, come quella di individui che si immegono con eleganza in
sentimenti melancolici o quella dell’immaginario «matematico melancolico»
che in realtà è semplicemente introverso e pensoso, dal vero disturbo
mentale58.
3.5 | Conclusione
Sino alla fine del XIX secolo, la psichiatria usava generalmente il nesso tra i
sintomi e le cause scatenanti come parte essenziale delle definizioni della
melancolia patologica. Benché alcune tipologie di casi, come le depressioni
psicotiche, presentassero quasi sempre sintomi che denotavano una malattia, i
medici che formulavano la diagnosi si rendevano conto che era per loro
importante tenere conto del contesto, perché sulla base dei soli sintomi era
spesso impossibile distinguere il disturbo depressivo da uno stato normale di
tristezza profonda. Alla fine dell’Ottocento, il tradizionale approccio
contestuale alla diagnosi del disturbo depressivo cominciò a dividersi in due
scuole distinte. Da un lato, Sigmund Freud e i suoi discepoli insistevano
sull’eziologia psicologica di tutti i disturbi mentali, inclusa la depressione, e
sulla loro continuità con il funzionamento normale. I seguaci di questa scuola
studiavano e interpretavano i pensieri riferiti dai pazienti al fine di poter
congetturare l’esistenza di soggiacenti significati e desideri patogeni inconsci*.
Dall’altro lato, Emil Kraepelin applicava il modello medico classico che
esaminava i sintomi, il decorso e la prognosi della depressione e disturbi diversi
al fine di definire distinte patologie fisiche. L’approccio di Kraepelin suggerì a
un gruppo di ricercatori la sua applicazione in un programma di indagine che
impiegava spesso tecniche statistiche per delimitare, in base ai sintomi
manifesti, patologie distinte.
Molti psichiatri videro nella pubblicazione del DSM-III nel 1980 l’iniziativa
capace di risolvere lo scontro tra scuola freudiana e scuola kraepeliniana per il
dominio della nosologia psichiatrica in larga misura a favore dell’approccio di
Kraepelin1. Ma questo giudizio, come vedremo, è decisamente semplicistico
per vari motivi. Con riferimento specifico al disturbo depressivo, i criteri del
DSM-III costituivano in effetti un rifiuto di assunti chiave sia del sistema di
Freud sia di quello di Kraepelin e l’affermazione di una tradizione di ricerca
del tutto differente che ignorava la precedente insistenza sui criteri relativi al
contesto.
4.2.4 | Il DSM-III come risposta alle sfide che deve affrontare la psichiatria
La pubblicazione del DSM-III nel 1980 è giustamente vista come un
momento decisivo nella storia della diagnosi psichiatrica68. Ma la revisione del
DSM-II non era stata vista in partenza come particolarmente importante, e
non c’erano state manovre politiche dei sostenitori delle diverse posizioni
teoriche per controllarne la realizzazione. Il lavoro di Spitzer sul comitato
incaricato di rivedere il DSM-II, il suo ruolo preminente nel mediare la
rimozione dell’omosessualità da quel manuale e la sua formulazione dei criteri
RDC portarono alla sua nomina a presidente della task force del DSM-III.
Spitzer utilizzò l’opportunità per creare un nuovo tipo di sistema diagnostico
che rispecchiava i precedenti decenni di riflessione su come rendere più
scientifica la psichiatria69.
La rivoluzione del DSM-III incorporò direttamente molti degli elementi dei
criteri di Feighner e degli RDC nella nosologia psichiatrica ufficiale, e in
particolare abbracciò i criteri diagnostici basati sui sintomi. Lo stesso Spitzer
riconobbe che la traduzione dei criteri di ricerca in un manuale a uso clinico
richiedeva che i criteri diagnostici rispecchiassero una «sapienza clinica» oltre ai
dati forniti dalla ricerca70. Il suo ruolo richiedeva non solo le capacità di un
riconosciuto ricercatore, ma anche quelle di un politico di razza, capace di
ammorbidire e trovare un compromesso fra le varie componenti del mondo
clinico, che si sentivano minacciate dal nuovo sistema basato sui sintomi nelle
loro pratiche diagnostiche tradizionali.
Ma che cosa spinse Spitzer ad attingere così massicciamente all’approccio
definitorio sintomatico di stampo RDC nella sua revisione del DSM? E perché
i medici, che si occupano di curare gli individui e hanno scarso interesse per i
sistemi di classificazione affidabili per la ricerca, accettarono il sistema di
classificazione basato sui sintomi venuto fuori dai criteri di Feighner e dagli
RDC?
È evidente che il nuovo sistema affrontava parecchi importanti problemi
davanti ai quali si trovavano all’epoca gli psichiatri clinici, al pari dei ricercatori.
Negli anni Settanta l’influenza della psicoanalisi era diminuita. La professione
psichiatrica era divisa in numerose scuole teoretiche e clinici diversi
condividevano poche proposizioni sulla natura fondamentale, le cause e le cure
delle malattie mentali. Il nuovo manuale diagnostico doveva quindi tornare
utile a medici di tante differenti scuole di pensiero. Le liste di sintomi espliciti
del DSM-III non solo miglioravano l’affidabilità ma erano anche
«teoreticamente neutrali», nel senso che non presupponevano alcuna
particolare teoria della causa della psicopatologia, che fosse psicoanalitica o di
altra scuola. I nuovi criteri erano «descrittivi», piuttosto che «eziologici», ed
eliminavano ogni riferimento a presunte cause psicodinamiche di un disturbo
(per esempio, il conflitto interiore, la difesa contro l’ansia). Definire le
patologie sulla base dei sintomi, senza tener conto dell’eziologia, si rivelò uno
strumento utile per ottenere accoglienza da parte di medici di varie
appartenenze, che quantomeno potevano sentire che tutte le fazioni erano alla
pari nell’usare quelle definizioni neutrali sul piano teorico.
Inoltre, le diagnosi psichiatriche erano sotto attacco da molte parti. I
comportamentisti sostenevano che ogni comportamento, inclusa la
psicopatologia, è il risultato di normali processi di apprendimento e che quindi
non esiste realmente alcun disturbo mentale in senso medico71. Il movimento
«antipsichiatrico», ispirato da autori come lo psichiatra Thomas Szasz e il
sociologo Thomas Scheff, descriveva la diagnosi psichiatrica come un modo di
usare la terminologia medica per esercitare un controllo sociale sui
comportamenti indesiderabili, ma non veramente patologici in senso medico72.
Oltre a ciò, nel 1980 parti terze, private e pubbliche, finanziavano la maggior
parte delle cure mediche73. Le oscure entità inconsce del DSM-II e l’erosione
della legittimità medica della psichiatria non fornivano una solida base per il
rimborso da parte delle assicurazioni. Benché non ci sia nessuna prova che gli
assicuratori abbiano influenzato lo sviluppo delle patologie basate sui sintomi
presenti nel manuale, le nuove diagnosi si adattavano meglio alla pratica delle
parti terze di rimborsare le cure solo per malattie specifiche. A un’attenta
riflessione, gli psichiatri clinici potevano non essere d’accordo con alcuni
elementi del nuovo manuale, come l’abbandono dei criteri contestuali, ma si
rendevano conto che il nuovo sistema presentava per loro molti vantaggi.
La cosa più preoccupante era lo sgretolamento della credibilità della
psichiatria dovuto agli attacchi alla sensatezza delle diagnosi. Benché di
formazione psicoanalitica, Spitzer, e con lui il gruppo di St. Louis, vedeva nella
teoria non verificata e nella resistenza alle prove empiriche i principali ostacoli
al raggiungimento, da parte della psichiatria, di uno statuto scientifico74. Il
punto centrale nella visione della psichiatria di Spitzer, perseguito nei suoi
prodigiosi sforzi di ricerca negli anni Sessanta e Settanta e culminato nel DSM-
III del 1980, era lo sviluppo di un sistema di classificazione ‘affidabile’ grazie al
quale diagnosti diversi sarebbero arrivati tendenzialmente alla stessa diagnosi
qualora disponessero delle stesse informazioni cliniche75.
Poiché il DSM-II non indicava sintomi specifici che determinassero le
diagnosi psichiatriche, gli psichiatri erano costretti a usare propri metri di
giudizio clinico per stabilire in che misura il singolo paziente corrispondesse a
una particolare diagnosi. Ciò portava a grandi disparità nell’applicazione delle
etichette diagnostiche. Per esempio, il ben noto Diagnostic Project di Stati
Uniti-Regno Unito, i cui risultati furono pubblicati nel 1972, studiò il modo in
cui gli psichiatri di questi due paesi diagnosticavano i disturbi mentali. Lo
studio dimostrava un’allarmante mancanza di accordo fra gli psichiatri
americani e quelli britannici e fra gli psichiatri di ciascun gruppo. Per esempio,
gli psichiatri britannici diagnosticarono disturbi depressivi oltre cinque volte di
più degli americani76.
Ma a parte lo studio statunitense-britannico, molti altri studi rivelavano una
notevole mancanza di accordo diagnostico in casi in cui gli psichiatri
ricevevano le stesse informazioni (per esempio, un’intervista clinica registrata
in video)77. Questi studi misero a dura prova l’affidabilità non solo delle
distinzioni fra categorie diagnostiche strettamente correlate, come fra un
disturbo affettivo e un altro, ma anche delle distinzioni fra grandi categorie,
come fra disturbi affettivi e ansia, e fra tipi generali di patologie, come fra
psicosi e nevrosi, o anche psicosi e normalità.
Forse l’elemento più drammatico e influente di quello studio, ora visto come
un punto di riferimento nella critica della diagnosi psichiatrica, è il fatto che
metteva esplicitamente in discussione la capacità degli psichiatri di distinguere
la normalità dalla psicosi. Nel 1973, lo psicologo David Rosenhan pubblicò
uno studio sulla prestigiosa rivista “Science” in cui otto soggetti normali si
presentavano negli ospedali accusando solo sintomi di allucinazioni uditive
(affermavano di sentire una voce che diceva cose come «tonfo», «cupo»,
«vuoto»), mentre per il resto si comportavano e parlavano normalmente. Tutti
questi pseudopazienti furono accettati negli ospedali e registrati come psicotici
(quasi tutti come schizofrenici), e rimasero così classificati per vari periodi di
tempo, nonostante avessero ben presto dimostrato comportamento normale.
Gli internati degli ospedali, invece, capirono che diversi pseudopazienti erano
probabilmente normali.
Per dare un’idea di quali fossero le concezioni dominanti all’epoca, ecco
qualche frase tratta dall’introduzione dell’articolo di Rosenhan:
Normalità e anormalità, sanità e malattia, e le diagnosi che ne seguono forse sono meno
rilevanti di quanto molti credano [...] In base a considerazioni in parte teoretiche e
antropologiche, ma anche filosofiche, giuridiche e terapeutiche, si è diffusa la convinzione
che la categorizzazione psicologica della malattia mentale è nella migliore delle ipotesi
inutile, nella peggiore del tutto pericolosa, fuorviante e dannosa. Le diagnosi
psichiatriche, secondo questa convinzione, sono nella testa degli osservatori e non sono
valide sintesi delle caratteristiche manifestate dagli osservati78.
Sulla base di questi risultati, Rosenhan concludeva: «È chiaro che non
possiamo distinguere il sano dal pazzo negli ospedali psichiatrici».
Una minaccia di invalidità e quindi di inaffidabilità di tale portata (poiché di
sicuro i soggetti dello studio di Rosenhan in altre circostanze sarebbero stati
giudicati normali) non costituiva solo un forte imbarazzo per la competenza
dei clinici, ma anche una sfida per lo statuto scientifico della psichiatria. Lo
stesso Spitzer scrisse un’aspra critica dei difetti metodologici dello studio di
Rosenhan79. Tuttavia questa critica poteva appuntarsi solo sul fatto che
Rosenhan non aveva dimostrato la sua affermazione che la diagnosi
psichiatrica è per sua natura difettosa; ma non poté provare che la diagnosi
psichiatrica, in effetti, poggiasse su un sistema diagnostico adeguatamente
affidabile. In seguito Spitzer avrebbe dedicato gran parte dei suoi sforzi al
progetto di creare e promuovere un simile sistema.
Pur riconoscendo che un sistema affidabile non necessariamente è valido,
Spitzer sottolineava che la validità richiede l’affidabilità. Un valido sistema
diagnostico, dopo aver catalogato accuratamente le diverse sindromi, dovrebbe
prevedere il decorso e la risposta alla cura80. Ma se diagnosti diversi erano in
disaccordo sulla diagnosi, voleva dire che molte delle loro diagnosi erano
inaccurate e che c’era un basso livello di validità diagnostica in generale.
Inoltre, se non c’era affidabilità delle diagnosi passando da un setting all’altro,
la ricerca cumulativa non poteva procedere in maniera efficace. Obiettivo della
professione psichiatrica doveva essere, quindi, lo sviluppo di un chiaro sistema
di regole diagnostiche che specificassero i criteri di inclusione e di esclusione
per ogni diagnosi e promuovessero un alto grado di accordo fra chi giudicava.
Quand’anche mancasse di validità, un simile sistema affidabile avrebbe fornito
un punto di partenza scientificamente adeguato da cui i ricercatori sarebbero
potuti partire per arrivare a un sistema più valido.
Tuttavia, come molti critici coinvolti sottolineavano, la semplice creazione di
un sistema affidabile con chiare regole che ognuno può seguire non garantisce
anche una maggiore validità; posto che le regole siano accurate, l’affidabilità
potrebbe significare semplicemente che ognuno ottiene la medesima risposta
sbagliata!81 Se per esempio si stabilisce che i sintomi di intensa tristezza
indicano un disturbo depressivo, questi sintomi possono essere identificati in
maniera affidabile, ma la grande maggioranza degli stati così riconosciuti
potrebbero non essere, in realtà, un disturbo depressivo. Le prove sul campo
condotte prima della pubblicazione del DSM-III, in cui centinaia di psichiatri
avevano testato l’adeguatezza empirica delle diagnosi, non mettevano a
confronto l’efficacia dei criteri basati sui sintomi con altri modi alternativi di
concettualizzare la depressione82. Esse verificavano solo se i diversi psichiatri
riuscivano a usare i criteri nello stesso modo, ma non stabilivano se questi
fossero validi indicatori di un disturbo. Come uno dei collaboratori di Spitzer
osservò: «Gli stati patologici [furono] ridefiniti prima che [fosse] effettuata
l’indagine empirica»83. Ed è tutt’altro che sicuro che un simile sistema, qualora
si fosse dimostrato seriamente non valido, si sarebbe evoluto automaticamente
in un sistema valido. La conseguenza è che le considerazioni di validità non
possono essere messe del tutto in secondo piano nel momento in cui vengono
risolte le questioni di affidabilità: i due aspetti devono essere perseguiti
insieme, ed entrambi devono permearsi reciprocamente in modo da
permettere giudizi più affidabili che siano anche validi.
Tra frammentazione teoretica della psichiatria, sua inaffidabilità diagnostica e
critica antipsichiatrica, era messa a rischio non solo la rivendicazione della
psichiatria di uno statuto scientifico ma anche la sua legittimità come specialità
medica. I criteri specifici del DSM-III sembravano far fronte a queste sfide e
collocare il campo psichiatrico su un percorso scientifico più sano. In un colpo
solo l’incorporazione, da parte di Spitzer, delle definizioni operative dei
disturbi – basate sui sintomi – nel DSM riuscì ad affrontare tutte le sfide alla
psichiatria e a dare una virata al suo statuto e al suo destino, grazie anche alla
fortunata coincidenza con l’apparizione di nuovi farmaci, che fra l’altro
favorivano lo statuto della professione psichiatrica.
Ma anche una giustificata rivoluzione produce qualche vittima innocente.
Dopo aver considerato la natura e le ragioni della rivoluzione del DSM-III in
generale, esaminiamo ora i criteri del DSM-III per il disturbo depressivo.
4.3 | Conclusione
Abbiamo detto nel Capitolo 1 che una definizione difettosa può aver forse
favorito la recente ondata di disturbi depressivi denunciati e anzi può esserne
addirittura la causa primaria. A sostegno della nostra affermazione,
procediamo ora a un esame dettagliato dei criteri adottati dal DSM per
individuare i disturbi depressivi e affini. Benché la storia della depressione
esposta nel capitolo precedente ci abbia accompagnato logicamente fino al
DSM-III, per assicurare che la nostra discussione si applichi alle pratiche
diagnostiche attuali, faremo riferimento ai criteri formulati nella quarta
edizione rivista, il DSM-IV (2000). Ciò non comporta alcun salto concettuale,
dato che i criteri correnti sono quasi identici a quelli del DSM-III.
5.3.3 | Esclusione delle depressioni per condizioni mediche generali e indo e dall’uso di sostanze
L’esclusione dalla diagnosi di DDM degli stati depressivi che derivano
direttamente dagli effetti fisiologici di condizioni mediche o dell’uso di
sostanze fa scivolare semplicemente questi casi nelle categorie alternative del
Disturbo di Umore Dovuto a Condizione Medica Generale o Disturbo di
Umore Indotto da Sostanze. Queste categorie, benché non siano qui al centro
della nostra attenzione, sono soggette a proprie potenziali confusioni. Per
esempio, questi disturbi sono a volte confusi con le risposte di tristezza
normale al soffrire una condizione medica o ai problemi derivanti dall’uso o
dalla dipendenza da sostanze. Questo è un esempio di quanto sia complesso
per i medici il compito di separare i sintomi che indicano depressione da quelli,
simili, che non sono patologici o sono legati ad altre patologie.
Può sembrare impossibile che gli esperti diagnosti che formularono i criteri
diagnostici del DSM possano essere arrivati a criteri che non solo non sono
validi ma sono anche incoerenti con la definizione di disturbo dello stesso
DSM. Ma la diagnosi clinica è un compito del tutto diverso dall’analisi
concettuale per definire i criteri che separano la patologia dalla normalità. Le
due cose richiedono abilità differenti (esattamente come, per esempio,
riconoscere una sedia quando la vedi è molto diverso dal formulare una
definizione del concetto di ‘sedia’ che caratterizza tutte e solo le sedie), ed è
quindi possibile che errori del genere siano entrati nel manuale. Consideriamo
un noto precedente: lo stesso testo del DSM-IV afferma che i criteri per un
importante disturbo dell’infanzia e dell’adolescenza, il Disturbo della Condotta
(cioè, un disturbo del comportamento antisociale, diagnosticato in base a tre o
più comportamenti di una lista come il furto, la fuga ecc.), non sono validi e
includono alcuni stati che non dovrebbero essere diagnosticati come disturbi
nonostante soddisfino i criteri diagnostici. Il problema, ci informa il DSM-IV,
è che i comportamenti antisociali usati come sintomi per diagnosticare il
Disturbo della Condotta possono manifestarsi in alcuni stati che non sono
dovuti a una disfunzione psicologica ma solo a una reazione normale a difficili
condizioni ambientali.
Ecco quello che il DSM-IV ha da dire sui propri criteri del Disturbo della
Condotta:
Sono state sollevate preoccupazioni sul fatto che la diagnosi di Disturbo della Condotta
possa talvolta essere malamente applicata a soggetti di ambienti in cui le modalità di
comportamento indesiderabile sono talvolta viste come autoprotettive (per esempio,
ambienti minacciosi, poveri, con alto tasso di criminalità). Conformemente alla
definizione di disturbo mentale del DSM-IV, la diagnosi di Disturbo della Condotta
dovrebbe essere applicata solo quando il comportamento in questione è sintomatico di
un sottostante malfunzionamento all’interno del soggetto, e non semplicemente una
reazione al contesto sociale immediato. Inoltre, la gioventù immigrata da paesi devastati
dalla guerra, con una storia di comportamenti aggressivi che potrebbero essere stati
necessari per la propria sopravvivenza in quel contesto, non merita necessariamente una
diagnosi di Disturbo della Condotta. Può essere utile al clinico considerare il contesto
economico e sociale in cui i comportamenti si sono manifestati8.
Questo brano dice che i criteri per il Disturbo della Condotta del DSM non
sono validi se applicati a sintomi che potrebbero manifestarsi come normale
risposta a circostanze quali, per esempio, quelli di giovani normali dal punto di
vista psichiatrico che per autoprotezione si uniscono a bande in un ambiente
minaccioso e praticano comportamenti antisociali come parte delle attività
richieste dalla banda. Così, i criteri per il Disturbo della Condotta non sempre
identificano malfunzionamenti. Noi facciamo esattamente la stessa cosa a
proposito dei criteri per il DDM. I criteri sintomatici identificano a volte
malfunzionamenti e quindi disturbi, ma identificano anche uno spettro
potenzialmente ampio di risposte normali ad ambienti problematici. Come nel
Disturbo della Condotta, il problema non è particolarmente difficile da vedere
una volta che si considerino alcuni esempi evidenti. Ma è una questione
profonda che insinua il dubbio sul significato della ricerca più recente sulla
depressione, come mostreremo nei capitoli successivi.
Inoltre, i criteri per il Disturbo della Condotta contengono lo stesso tipo di
requisito del «significato clinico» che compare nei criteri per il DDM. Ma il
commento contenuto nel testo appena citato implica che i criteri del Disturbo
della Condotta sono incapaci di distinguere adeguatamente le condizioni
normali da quelle patologiche anche con l’aggiunta della clausola del significato
clinico. Questa clausola certamente affronta il problema se ci sia danno
sufficiente per una diagnosi di disturbo, ma non quello se sia un
malfunzionamento a causare il danno. Nel caso del Disturbo della Condotta,
anche se il criterio del significato clinico esclude stati con sintomi troppo lievi
per costituire un disturbo, il DSM-IV riconosce che il problema se sia o no un
malfunzionamento a causare i sintomi, e quindi se si sia in presenza di un
disturbo o di una reazione normale alle circostanze, rimane una questione
separata. Esattamente lo stesso tema resta in piedi nel caso del DDM,
nonostante l’inclusione del criterio del significato clinico.
Anche se, presi da soli, i criteri per il DDM presentano i problemi di cui
abbiamo parlato, qualcuno potrebbe rispondere alle nostre critiche ricordando
che il DSM va visto come un tutto unico. Direbbe che si può replicare alle
nostre obiezioni ai criteri richiamandosi ad altre categorie complementari o ad
altri elementi del manuale che in qualche modo affrontano il tema delle
risposte normali a una perdita. In questo paragrafo passeremo perciò in
rassegna le varie altre categorie ed elementi che il DSM usa per trattare i
sintomi depressivi. Noi sosteniamo che lungi dal compensare le debolezze dei
criteri per il DDM, queste categorie ed elementi complementari o non
affrontano affatto il problema o piuttosto, in alcuni casi, peggiorano
notevolmente la situazione, allargando ancora di più il raggio delle risposte di
tristezza normale suscettibili di essere etichettate come patologiche.
5.6 | Altre categorie e cara eris che legate alla depressione del
DSM-IV
5.7 | Conclusione
Le diagnosi basate sui sintomi del DSM-III e del DSM-IV hanno migliorato
sotto molti aspetti i precedenti sforzi per classificare la depressione. Esse
hanno superato le frettolose e ambigue definizioni di depressione offerte dai
manuali precedenti. Fasci di criteri espliciti hanno migliorato la comunicazione
fra i ricercatori e i clinici sul significato della depressione. I ricercatori hanno
potuto creare popolazioni più omogenee di partecipanti alle indagini, e le
diagnosi cliniche hanno avuto maggiori possibilità di fare riferimento agli stessi
tipi di condizioni.
Questi indubbi progressi, tuttavia, hanno avuto anche dei costi. Il principale
fu che le diagnosi basate sui sintomi non distinguevano validamente le
depressioni che indicano la presenza di un disturbo dalle prevedibili reazioni a
contesti situazionali. Le tante caratteristiche del DSM che trattano delle
risposte a fattori stressanti non riescono a risolvere questo problema. La
definizione dei disturbi mentali offerta dal manuale, combinata con i dati
empirici citati nel Capitolo 2, fa pensare che i suoi criteri per il disturbo
depressivo non siano validi. Il sistema multiassiale non è d’aiuto, perché usa
l’importante asse dei fattori stressanti psicosociali solo per integrare, non per
modificare, una diagnosi di disturbo. La categoria del Disturbo
dell’Adattamento non fa che aggravare il problema, in quanto patologizza
anche le reazioni normali che presentano meno dei sintomi consueti e che
scompaiono al finire del fattore stressante. Neanche l’introduzione dei codici
V supera il fondamentale problema che tutte le condizioni che soddisfano i
criteri diagnostici debbano essere diagnosticate come disturbi. Sarebbe stato
abbastanza facile per la definizione del DDM includere un più ampio elenco di
criteri di esclusione paragonabili all’esclusione per il lutto, ma non è stato fatto.
Il risultato è una grave non validità che porta alla patologizzazione della
intensa tristezza normale.
Kraepelin aveva colto concettualmente la distinzione tra il «con causa» e il
«senza causa», anche se questa distinzione non ebbe una grande rilevanza
pratica nella classificazione dei suoi pazienti d’ospedale. Al tempo in cui il
DSM-III fu pubblicato nel 1980, la cura ambulatoriale era molto più comune,
e quindi lo spettro di problemi che le persone portavano agli psichiatri era
diventato enormemente più ampio. Proprio quando sarebbe stato
massimamente utile sviluppare ancor più la distinzione tra «con causa» e «senza
causa» in modo da evitare diagnosi falso-positive, il DSM-III ha abbandonato
la distinzione e senza volerlo ha così riclassificato come disturbi mentali molte
condizioni che erano semplicemente difficoltà di vita. I problemi conseguenti
sono rimasti senza rimedio nelle edizioni successive del manuale. Ma il
problema della patologizzazione della tristezza normale non finiva lì. Il passo
successivo della trasformazione dell’infelicità normale in disturbo mentale è
arrivato quando la logica basata sui sintomi che stava dietro il DSM-III e il
DSM-IV ha superato i confini della clinica e ha formato la base per gli studi
della depressione fra i soggetti non in cura della comunità.
Note
1 | APA, 2000, p. 375.↵
2 | Ivi, p. 356.↵
3 | Ibidem.↵
4 | Nesse, 2000.↵
5 | Zimmerman, Chelminski, e Young, 2004.↵
6 | APA, 2000, p. XXXI (corsivo nostro).↵
7 | Wakefield, 1992.↵
8 | APA, 2000, pp. 96-97.↵
9 | Ivi, pp. 355-356.↵
10 | Ivi, pp. 740-741.↵
11 | Ivi, p. 679.↵
12 | Ibidem.↵
13 | Ivi, p. 683.↵
14 | Ricerca nella banca dati di Medline.↵
15 | APA, 1994, pp. 720-721.↵
16 | APA, 2000, p. 381.↵
17 | Ivi, p. 5.↵
18 | Ivi, p. 4.↵
19 | Bayer e Spitzer, 1985.↵
20 | Zimmerman e Spitzer, 1989.↵
21 | Zimmerman, Coryell, e Pfohl, 1986; Zimmerman e Spitzer, 1989.↵
* Ci chiediamo se non sarebbe stato meglio conservare la distinzione precedente tra endogena e
reattiva, considerando che la validità diagnostica è peggiorata. Gli studenti di medicina e psicologia e i
medici in formazione specialistica di oggi, infatti, da un lato non acquisiscono una capacità diagnostica
migliore, dall’altro non conoscono il patrimonio psicopatologico precedente sulla definizione di
depressione endogena e reattiva se basano i loro studi sul DSM-IV-TR o sul DSM-5. [NdC]↵
Capitolo 6 | Trasferimento della patologia
nella comunità
Per capire l’impatto enorme dei criteri per la depressione del DSM sugli studi
epidemiologici miranti a stabilire quante persone della comunità sono colpite
da disturbi depressivi, è utile fare un passo indietro e fornire qualche cenno di
storia dell’epidemiologia psichiatrica. In un certo momento storico, gli obiettivi
dell’epidemiologia e quelli del DSM si trovarono a essere convergenti, e i criteri
del DSM offrirono agli epidemiologi insieme criteri più raffinati e un’apparente
soluzione ai problemi che il loro settore aveva davanti.
Nei primi tempi dell’epidemiologia psichiatrica, nella prima metà del XX
secolo, le stime dei tassi di disturbo mentale erano basate su dati provenienti
dalle varie strutture psichiatriche e poggiavano sulle diagnosi contenute nelle
cartelle cliniche2. Ma divenne subito chiaro che le indagini sui pazienti in cura
fornivano un indicatore poco affidabile della diffusione della malattia mentale
in una comunità. Non tutti quelli che soffrono di un disturbo cercano di essere
curati – per ragioni che hanno a che fare con lo stigma sociale, i costi, o il
rifiuto di riconoscere che il problema è una patologia –, e molti di quelli che
sarebbero pronti a cercare di essere curati non hanno servizi professionali
agevolmente disponibili. Inoltre, molti di quelli che cercano la cura per vari
problemi non sono malati. Così, per indirizzare la politica della salute mentale
e stimare la necessità di servizi, e anche per comprendere meglio l’eziologia e
la diffusione della malattia mentale, gli studi epidemiologici cercarono di
superare questi problemi conducendo ricerche direttamente sulla comunità nel
suo insieme.
Gli studi di comunità cercano di determinare la diffusione della malattia
mentale fra le persone che non sono in trattamento clinico ma le cui
condizioni si presume possano essere diagnosticate in un modo analogo a
quelle delle persone in cura. Per realizzare questo obiettivo, i ricercatori
devono elaborare strumenti capaci di riconoscere sintomi psichiatrici fra
soggetti che spesso non si considerano mentalmente disturbati e non cercano
cure psichiatriche e quindi non hanno mai ricevuto diagnosi di specialisti del
settore. Poiché alcuni disturbi riguardano un piccolo numero di persone, le
indagini devono coprire numeri enormi di soggetti per ottenere stime accurate
della presenza di specifici tipi di disturbo mentale in una popolazione.
Dall’inizio dell’epidemiologia psichiatrica, la formulazione di validi indicatori
delle patologie da usare in simili indagini ha rappresentato una sfida
importante alla ingegnosità dei ricercatori3.
La spinta principale ai tentativi di misurare l’incidenza della depressione e di
altri diffusi disturbi mentali a livello di comunità venne dalle esperienze degli
psichiatri militari della Seconda guerra mondiale, che avevano curato e studiato
quelle che chiamarono «nevrosi da guerra», una combinazione di sintomi
depressivi, ansiosi e psicofisiologici conseguenti alle vicende del campo di
battaglia. Queste nevrosi da guerra erano note agli psichiatri dai conflitti
precedenti – Freud, per esempio, se ne servì occasionalmente come modello
per le sue riflessioni sul trauma –, ma non assunsero un’importanza teoretica
centrale nella professione psichiatrica fino alla Seconda guerra mondiale.
In quella guerra, proporzioni altissime di soldati, precedentemente normali,
che erano esposti a situazioni di combattimento molto stressanti, furono
colpiti da problemi psicologici. Nell’insieme, quasi un milione di soldati
americani subì crolli neuropsichiatrici: nelle divisioni di combattimento, il
numero di ricoverati negli ospedali per malattie psichiatriche arrivò a 250 su
1000 soldati4. Inoltre, fino al 70% dei soldati esposti a lunghi periodi di
combattimento subirono crolli mentali. Una relazione del 1946 stimava che in
media i soldati manifestavano un crollo psichiatrico dopo 88 giorni di continuo
combattimento. A parte tutte le altre cause di morti e feriti, la relazione
stimava che il 95% dei soldati subiva un crollo dopo 260 giorni di
combattimento. «Praticamente tutti gli uomini dei battaglioni di fucilieri non
resi disabili da altri motivi», aggiungeva la relazione, «furono colpiti alla fine da
disturbi psichiatrici»5.
Va osservato che non c’erano preesistenti caratteristiche psicologiche che
potessero far intuire quali soldati avrebbero avuto crolli e quali no6. Erano
invece l’intensità e la durata delle esperienze di combattimento che portavano a
sviluppare la nevrosi da guerra. Esposti a fattori di stress ambientali sufficienti,
tutti i soggetti andavano incontro a gravi disturbi. «Sembra più sensato»,
asserivano gli psichiatri militari Grinker e Spiegel nel 1945, «domandare perché
il soldato non soccombe all’ansia, piuttosto che perché soccombe»7. Le
esperienze del tempo di guerra spostarono l’attenzione degli psichiatri dalle
qualità degli individui alle qualità degli ambienti stressanti.
La risposta solitamente offerta alle vittime psichiatriche durante la Seconda
guerra mondiale fu la somministrazione a questi soldati di cibo caldo, riposo e
sonno, docce, e rassicurazione. Queste risposte, «che in fondo consistevano nel
far riposare il soldato, e dirgli che presto sarebbe tornato nei suoi reparti», non
richiedevano una grande preparazione psichiatrica8. Il più accurato studio
postbellico mostrò che oltre la metà delle vittime psichiatriche ritornò ai propri
compiti senza praticamente ricevere alcuna cura e che più di due terzi di quelli
cui fu concesso riposo e sedazione ritornarono ai loro reparti nel giro di 48 ore
dopo la cura9.
Di sicuro, molti di questi soggetti colpiti da condizioni di lunga durata
avevano sviluppato disturbi mentali. C’è invece da chiedersi se la maggior parte
di quelli che si rimettevano rapidamente e spontaneamente senza alcuna vera
cura avesse manifestato risposte estreme ma normali allo stress in reazione a
circostanze davvero anomale10. Quello che tuttavia è storicamente importante
per lo sviluppo dell’epidemiologia psichiatrica è il fatto che gli psichiatri
arrivarono a vedere tutte queste conseguenze psicologiche dei combattimenti
come disturbi mentali11.
Dopo la guerra gli psichiatri con sensibilità sociale assunsero i disturbi da
stress di combattimento come un utile modello per interpretare i disturbi
mentali della vita civile, paragonando i fattori stressanti della vita ordinaria del
dopoguerra a quelli straordinari del tempo della guerra12. L’osservazione che
«ognuno ha un suo punto di rottura» fu trasferita dai soldati ai cittadini
ordinari. Le nevrosi da guerra fornirono così un nuovo paradigma per la salute
mentale nei successivi decenni, che rimane tutt’oggi influente13. Mettendo un
po’ fra parentesi il fatto che la maggior parte dei soldati che subirono dei crolli
si riprese con cure minime o del tutto assenti, gli psichiatri del dopoguerra
insistettero sul fatto che qualsiasi esperienza stressante poteva provocare crolli
gravi e duraturi fra le persone normali, se non sottoposte a tempestivi
interventi. Si preoccuparono di creare teorie e strumenti per studiare numerosi
fattori stressanti ambientali della vita quotidiana che ritenevano potessero
provocare disturbi psichiatrici14.
Questa erosione della distinzione fra il disagio normale e la patologia fu
alimentata da un altro tema basilare dei ricercatori dagli anni Quaranta ai
Settanta, proveniente dalle dottrine psicodinamiche di Freud e Meyer: la salute
e la malattia mentale non erano categorie distinte, ma si trovavano su una linea
continua di sintomi, dai più leggeri ai più gravi15. Solo pochissimi individui
completamente liberi da sintomi erano considerati mentalmente del tutto
sani16. Tutti gli altri punti del continuum erano considerati patologici o,
almeno, non integralmente sani. Un aspetto importante dell’idea di continuum
era che, una volta messi sotto l’etichetta della patologia, anche i soggetti che
presentavano sintomi all’estremità più leggera della scala erano considerati a
rischio di sviluppare stati più gravi se non sottoposti a interventi degli
specialisti. Un conseguente dogma fra gli psichiatri dell’epoca orientati alla
comunità era che la cura precoce dei disturbi lievi in strutture della comunità
poteva impedire lo sviluppo di stati più gravi17. Obiettivo importante della
psichiatria divenne elaborare strumenti che potessero identificare i soggetti più
a rischio di cadere in qualche malattia mentale e curarli prima che le loro
condizioni si aggravassero. L’idea del continuum, unita al presupposto che gli
stress socioculturali causavano disturbo mentale nelle persone normali e un
aggravamento nelle persone con sintomi lievi, significava che in pratica l’intera
popolazione poteva essere concepita come in qualche misura mentalmente
malata e a rischio di aggravarsi ancora di più*.
Così, l’evolversi della filosofia della psichiatria di comunità rese imperativo lo
studio dei fattori che determinano il rischio di una presunta patologia fra le
popolazioni non sottoposte a cura. Negli anni Cinquanta e Sessanta, team di
psichiatri di orientamento dinamico e sociologi si dedicarono a studiare in che
modo i fattori socioculturali provocassero molte condizioni stressanti nella
popolazione in generale. Per studiare i sintomi presso le moderne popolazioni
urbane, lo psichiatra Thomas A.C. Rennie e i sociologi Leo Srole e Thomas
Langner svilupparono il progetto Midtown Manhattan, che esaminò più di
1600 residenti di Manhattan18. Un altro importante progetto, lo studio Stirling
County, vide ugualmente la collaborazione di psichiatri e sociologi che misero
in rapporto vari tipi di fattori di stress con la distribuzione dei sintomi
psicologici fra la popolazione di un’area rurale della provincia canadese della
Nova Scotia19.
I due obiettivi principali di questi iniziali studi di comunità del dopoguerra
erano: primo, accertarsi dell’incidenza dei problemi di salute mentale nella
popolazione e, secondo, testare l’ipotesi che a causare i disturbi mentali fossero
fattori socioculturali20. Per poter raggiungere simili obiettivi, questi studi
dovevano prima di tutto affrontare il problema di come individuare un caso
psichiatrico fra soggetti non in cura. Il manuale psichiatrico ufficiale
dell’epoca, il DSM-I, non forniva criteri espliciti per misurare specifici tipi di
malattia mentale. I clinici usavano standard generali e vaghi, pesantemente
dipendenti da giudizi basati sulle loro personali idiosincrasie. Gli studi di
comunità non potevano fare affidamento su questi giudizi, che producevano
risultati troppo variabili da intervistatore a intervistatore, nel momento in cui
venivano usati per stabilire l’incidenza della malattia mentale in popolazioni
non in cura. Gli studi dovevano anche affrontare un importante problema
pratico: affidarsi agli specialisti della salute mentale per condurre interviste a
largo raggio era troppo costoso per essere un’opzione efficiente negli studi di
comunità. Per ragioni sia pratiche sia di sostanza, questi studi dovevano quindi
concepire strumenti di misura standardizzati, utilizzabili da intervistatori
profani.
Decontestualizzate, le misure della malattia mentale basate sui sintomi hanno
un tremendo appeal pratico per le indagini sulla malattia mentale. Esse
forniscono risultati standardizzati che non variano da intervistatore a
intervistatore. Poiché non richiedono (anzi non permettono nemmeno)
l’acquisizione di informazioni sul significato personale delle risposte, gli
intervistatori non hanno bisogno di alcuna preparazione o esperienza clinica.
Questo abbassa notevolmente il costo di gestione delle indagini, un elemento
non di poco conto nelle grandi ricerche epidemiologiche. Gli studi
formularono quindi domande che intervistatori profani potevano porre in
forma standardizzata, e che poi potevano essere usate per qualificare i
rispondenti come affetti da patologie o no. La decisione di questi studi di usare
misure decontestualizzate basate sui sintomi fu determinata dunque da
considerazioni pratiche ed economiche, non da test che dimostrassero che
questi metodi erano accurati21.
La definizione che il DSM-I dava di depressione poneva un ulteriore
ostacolo per gli studi di comunità, che cercavano di misurare l’influenza dei
fattori socioculturali sulla frequenza dei disturbi psichici. Il DSM-I definiva la
depressione nevrotica come «reazione depressiva psiconevrotica», e affermava
che «questa reazione viene fatta precipitare da una situazione in corso, spesso
una perdita subita dal paziente»22. Quando cause situazionali ‘per definizione’
fanno scattare depressioni non psicotiche, è impossibile separare l’influenza
delle cause sociali da altre cause interne all’individuo perché le prime possono
essere coinvolte in tutti i casi23.
Gli studi epidemiologici cercarono di risolvere questo problema nel DSM-I,
rimuovendo per prima cosa l’eziologia dalla definizione della depressione e
assumendo poi che ‘tutti’ i sintomi fossero patologici. I fattori situazionali non
erano presi in considerazione nella definizione di quella che era ritenuta già in
partenza una patologia, erano invece visti come un tipo di causa dei sintomi.
Questa scelta significava che sia i sintomi che si manifestavano in reazione a
perdite e ad altri fattori contestuali, sia quelli da essi indipendenti, erano tutti
considerati come di origine patologica. Simile soluzione permetteva agli
epidemiologi di raggiungere il loro scopo di mettere in luce la relativa influenza
dei fattori sociali e non sociali come cause dei sintomi. Ma allo stesso tempo
creava il problema di rendere indistinguibili i sintomi fra patologici e non
patologici. L’isolamento dei sintomi dal loro contesto e l’idea che essi
indicassero comunque dei disturbi abbandonavano il riconoscimento storico
che solo i sintomi «eccessivi» o «sproporzionati» segnalavano una patologia. Il
risultato fu che la tristezza, per definizione, non poteva essere una risposta
normale a una situazione stressante ma indicava uno stato patologico.
Così, il problema della decontestualizzazione e del conseguente
inquinamento della distinzione fra disturbo depressivo e tristezza normale, che
doveva emergere più tardi nell’arena clinica con l’avvento del DSM-III, si era
rivelato già prima, per ragioni indipendenti, nel campo dell’epidemiologia
psichiatrica. Per la verità, in questi studi di comunità il problema era anche
peggiore, in quanto essi non si curavano della gravità, della durata e degli altri
requisiti, cioè quel più ampio gruppo di criteri che il DSM-III si preoccupò di
individuare. In essi, invece, i sintomi erano presi individualmente come
indicatori sufficienti di patologia, cosa che ben presto portò a quelle stime dei
livelli di patologia largamente riconosciute come assurde.
I primi studi di comunità non misuravano specifici tipi di malattia mentale
(operazione per la quale all’epoca mancavano ancora gli strumenti) ma
facevano uso invece di vaste, continue e aspecifiche misure dello stress
psicologico interpretato come indicativo del livello della patologia24.
Impiegavano scale che comprendevano sintomi generici di depressione, ansia e
problemi psicofisiologici in base ai quali ottenevano misure globali disposte in
un continuum che andava dalle forme più leggere alle più gravi25. Molte delle
voci sulla linea continua, come «problemi ad addormentarsi», «di umore
depresso o molto depresso», «non riesce ad andare avanti», o «si chiede se una
cosa vale la pena», possono spesso essere i segni di un comune malessere.
Poiché questi studi vedevano tutti i sintomi, compresa la tristezza d’ogni
giorno, come indicatori di patologia, trovarono – e non c’è da sorprendersi –
tassi altissimi di patologia. Nello studio Midtown Manhattan, solo il 18,5% dei
rispondenti risultò star «bene», cioè non riferiva alcun sintomo26. Viceversa, il
23,4% dei rispondenti era «compromesso», un altro 21,8% presentava sintomi
«moderati», e il rimanente 36,3% era «leggermente» compromesso. Lo studio
Stirling County riportava tassi anche più alti, affermando che il 57% del
campione poteva essere paragonato probabilmente ai casi psichiatrici27. Tanto
lo studio Midtown Manhattan quanto lo Stirling County trovarono forti
correlazioni fra status socioeconomico modesto e povere condizioni sociali e
alti tassi di presunta malattia mentale.
Questi studi giustificavano i così alti tassi di patologia riscontrati con il fatto
che anche i gruppi di controllo dei pazienti psichiatrici in cura presentavano
numeri altrettanto grandi di sintomi, fornendo probabilmente una validazione
del criterio usato. Ma se questi studi avessero usato come gruppi di controllo i
membri della comunità non in cura, senza alcun disturbo ma soggetti di
recente a eventi come un lutto, rotture sentimentali o disoccupazione,
avrebbero ugualmente riscontrato tassi molto elevati di sintomi. Avrebbero
facilmente concluso che misuravano la tristezza ordinaria e non il disturbo
mentale*.
Gli alti tassi di presunte patologie negli studi di comunità degli anni
Cinquanta e Sessanta furono accolti con notevole scetticismo all’epoca. «Se
tutti quelli che tossiscono», osservava la famosa epidemiologa Rema Lapouse,
«vengono annoverati come casi di tubercolosi, tanto i tassi di incidenza quanto
quelli di diffusione partiranno a razzo. Per fortuna, il laboratorio offre una
protezione contro una simile stravaganza diagnostica. La diagnosi psichiatrica
al momento non ha protezioni del genere»28. Anche Stanley Michael, uno
psichiatra che aveva collaborato allo studio Midtown, mise in discussione i suoi
risultati:
La scoperta di sintomi mentali ed emotivi in quattro quinti del campione che rappresenta
una popolazione urbana induce a pensare o che un certo grado di psicopatologia sia la
norma in senso statistico della media della popolazione o che i meccanismi mentali che
per derivazione psicodinamica sono considerati patologici possano essere una modalità di
adattamento normale29.
L’idea che le persone normali siano esenti da sintomi indipendentemente
dalle circostanze della loro vita indicava una totale confusione riguardo a
normalità e patologia. Il fatale errore degli studi di comunità fu di definire tutti
i sintomi come patologici senza considerare il contesto in cui sorgevano e
persistevano.
Nonostante i problemi che affliggevano le misure decontestualizzate dei
sintomi, gli studi di comunità successivi le adottarono prontamente e
trattarono il disturbo mentale come un continuum dagli stati più leggeri ai più
gravi. Consideravano tutti i punti disposti lungo il continuum come indicanti
patologia. Le critiche di questi studi, anziché cercare di distinguere i sintomi
che indicavano una patologia da quelli che erano risposte appropriate a fattori
stressanti, si concentrarono sulla natura non specifica delle scale dei sintomi.
Esse affermavano che le scale erano così ampie e aspecifiche che non era
chiaro come i sintomi fossero correlati a specifiche condizioni psichiatriche30.
Fu questo difetto particolare – la vaghezza delle misure dei sintomi rispetto
alle diagnosi effettive – che creò lo scenario per uno slittamento ai criteri di
stampo DSM per le patologie specifiche.
Quali che siano le sue carenze, il DSM fa uno sforzo in buona fede di
costruire criteri diagnostici capaci di stabilire le patologie come distinte dal
dolore passeggero, usando come strumento principale una soglia dei sintomi.
In realtà, i criteri del DSM sono davvero più stringenti del precedente
approccio epidemiologico del sintomo singolo. Ma al momento vengono
gettate le fondamenta per un’erosione anche di questo progresso e per
un’espansione molto più radicale dell’approccio sintomatico alla diagnosi del
disturbo depressivo nella comunità. Il sostegno a questo nuovo approccio –
che non è affatto così nuovo, ma è in realtà un ritorno al sintomo singolo degli
anni Cinquanta – si sta facendo strada per ora nelle riviste scientifiche, in
conferenze psichiatriche e in programmi che vagliano l’incidenza dei disturbi
depressivi. Soprattutto, è fondato su scoperte epidemiologiche che partono da
criteri sintomatici e includono come patologie anche condizioni con meno
sintomi del numero richiesto dai criteri del DSM per il DDM. Questo
approccio trascura largamente i limiti stabiliti dalle soglie di sintomi del DSM e
classifica come patologie le condizioni sottosoglia.
Gli studi di comunità sulle condizioni psichiatriche degli anni Cinquanta e
Sessanta avevano inquadrato la malattia mentale come un continuum, dalle
forme più lievi a quelle più gravi a seconda del numero di sintomi denunciati,
piuttosto che come un insieme di disturbi fra loro separati, distinti come
categoria dal dolore ordinario. Al contrario, i principali studi di comunità, dagli
anni Ottanta in poi, hanno classificato i loro risultati secondo categorie
corrispondenti alle definizioni del DSM. I casi di Depressione Maggiore
richiedevano cinque o più sintomi, il che significa che le persone con meno di
cinque sintomi non erano considerate malate. Gli epidemiologi si aspettavano
che questo cambiamento avrebbe eliminato l’evidente inflazione delle stime
delle patologie che l’approccio del continuum produceva.
Ma la soglia dei sintomi che è alla base dell’approccio del DSM alla diagnosi
della depressione è ora vista essa stessa come un problema. Anche i più
appassionati sostenitori della diagnosi della categoria del DDM del DSM
riconoscono che il peculiare numero di sintomi richiesti per distinguere la
patologia dalla non patologia è un po’ arbitrario e in gran parte questione di
convenzione diagnostica51. Nella pratica clinica, la specificazione di un punto
limite obiettivo oltre il quale scatta la patologia è opportuna al fine di generare
diagnosi, decidere sulle cure e ricevere rimborsi. Ma non c’è un’impellente
ragione scientifica perché quel punto per il DDM sia posto a cinque sintomi
anziché, poniamo, a quattro o a sei. In effetti, anche il DSM riconosce
implicitamente che le condizioni con meno dei cinque sintomi richiesti
possono essere disturbi depressivi e permette che siano diagnosticate sotto la
categoria «Disturbi Affettivi Non Altrimenti Specificati»52.
L’arbitrarietà di un punto limite dei sintomi per la diagnosi del disturbo
depressivo presenta meno problemi negli ambienti clinici che negli studi di
comunità, dal momento che i clinici possono usare il loro giudizio sulla natura
patologica o non patologica di un caso e, almeno prima del recente avvento di
metodi aggressivi di screening e individuazione dei casi, era improbabile che i
pazienti con pochi sintomi entrassero in cura presso gli psichiatri. La maggior
parte dei pazienti depressi in cura (ma non tutti) manifestava in genere sintomi
di lunga durata, decorsi cronici e frequenti ricadute, e quindi era meno
probabile che si trattasse di falsi positivi, cioè di persone che soddisfano i
criteri diagnostici ma non hanno disturbi mentali53.
Fra la popolazione di comunità non in trattamento, invece, i sintomi si
collocano su una linea continua che va da quelli lievi a quelli gravi e da pochi a
molti, e i soggetti con pochi sintomi superano di gran lunga quelli con molti
sintomi54. Per esempio, l’8,7% degli intervistati dell’ECA riferiva un solo
sintomo depressivo durante il mese precedente, mentre soltanto il 2,3% dei
rispondenti soddisfaceva in pieno i criteri per la depressione maggiore55. Così
pure, benché la durata media dei sintomi fra i pazienti ambulatoriali sia fra i sei
e i nove mesi, gli standard diagnostici degli studi di comunità richiedono una
durata di appena due mesi56.
La distribuzione su linea continua dei sintomi nella popolazione generale,
insieme con il fatto che la prevalenza dei casi è sull’estremità dei sintomi lievi,
pone delle difficoltà per la classificazione della depressione per due motivi.
Primo, l’uniformità con cui la curva della distribuzione dei sintomi sale, senza
discontinuità particolari, rende complicato fissare un punto limite di sintomi
per definire una categoria, poiché i sintomi di per sé non suggeriscono una
linea di demarcazione fra categorie. Secondo – ed è elemento centrale per le
analisi recenti –, anche il danno associato con i diversi livelli di sintomi, come il
grado di disabilità sociali, lavorative e sanitarie, sembra aumentare
uniformemente e in proporzione con l’incremento del numero dei sintomi57.
Se non esiste un chiaro punto di frattura nella distribuzione delle funzioni
compromesse a diversi livelli di sintomi, è difficile giustificare una definizione
della categoria basata sul numero dei sintomi. I casi più leggeri, si afferma,
rappresentano semplicemente patologie più lievi, non la normalità58. L’uso del
grado di compromissione come criterio di validazione spinge inevitabilmente a
misurare la depressione come un disturbo continuo anziché come un disturbo
chiuso in una categoria specifica.
Così, a partire dalla metà degli anni Novanta un’ondata di studi ha
appoggiato un allargamento della nozione di disturbo depressivo abbassando
la soglia dei sintomi per la diagnosi. In sostanza, questi nuovi studi hanno
reinventato la nozione proveniente dalle indagini di comunità degli anni
Cinquanta secondo cui la depressione è un continuum di sintomi dai pochi
(ben sotto la soglia attuale dei cinque sintomi) ai molti. L’origine prossima di
questo movimento va ricercata in studi che mostravano che soggetti sottoposti
a cure internistiche e mostranti sintomi depressivi, ma senza diagnosi di
depressione, hanno un alto livello di compromissione funzionale59. Infatti, il
grado di disabilità associata ai sintomi depressivi senza diagnosi di depressione
superava quella associata a otto malattie comuni croniche, come l’ipertensione
o il diabete. Ma i criteri del DSM per la Depressione Maggiore escludevano
questo grande e chiaramente molto compromesso gruppo di persone dalle
classi dei soggetti considerati affetti da disturbi dell’umore. Queste scoperte
fecero nascere il sospetto che i confini arbitrari dei criteri che definivano le
categorie potevano accrescere il numero dei falsi negativi: persone affette da
depressione, ma escluse perché riferivano meno di cinque sintomi60.
Così, la paura che i criteri adottati dagli studi epidemiologici in realtà
sottostimassero il numero dei disturbi depressivi è al fondo della notevole
mole di ricerche sulla depressione che si è ora accumulata. Il primo tema di
questa nuova ondata di ricerche è che i disturbi depressivi variano lungo un
continuum che va dal minore al maggiore. «Accettare la depressione come
malattia», conclude lo psichiatra Peter Kramer, «significa vedere la patologia o
il rischio di essa in scala ridotta»61. La depressione «minore» o «sottosoglia»
include persone che denunciano fra i due e i quattro sintomi di depressione ma
che non soddisfano in pieno i criteri per il DDM o la Distimia62. Altri studi
allargano la categoria della depressione minore anche oltre, catalogando come
compromesse anche persone con uno o più sintomi di depressione, inclusa
un’alterazione dell’umore63. Al limite, basta un unico sintomo depressivo di
qualsiasi tipo per qualificare un soggetto come malato64. Il principale
argomento è che sintomi in numero inferiore rappresentano versioni più
leggere del disturbo depressivo lungo un continuum diagnostico che non
prevede confini netti fra la patologia e la non patologia. Applicando
l’argomento di Kraepelin pensato per i campioni di internati ai campioni di
comunità non in cura, alcuni ricercatori asseriscono che «ai livelli maggiore,
leggero, Distimico e sottosoglia i sintomi depressivi sono tutti parte della
struttura clinica della depressione maggiore di lungo termine»65. Ogni segno di
tristezza è un aspetto di un disturbo depressivo unitario66.
Come secondo tema, le nuove ricerche sottolineano che tutti i punti lungo il
continuum sono ‘patologie’, perché sono associati con sempre più alti tassi di
disabilità. La giustificazione per fissare punti di demarcazione più bassi per il
disturbo depressivo è data dalla progressione della compromissione collegata
al numero crescente dei sintomi67. Gli studi indicano che le condizioni
sottosoglia sono associate con livelli significativamente più alti di tensioni
familiari, di irritabilità sociale e difficoltà finanziarie, e con una riduzione del
funzionamento fisico e lavorativo, con una limitata attività e una debole
condizione di salute68. Così pure, i dati NCS mostrano un gradiente di
crescente compromissione fra le persone con due-quattro sintomi, quelle con
cinque-sei sintomi e quelle con sette-nove sintomi, come indicato
dall’interferenza di questi sintomi con le attività della vita e dal fatto che i
pazienti si siano fatti o no visitare da uno psichiatra o altro specialista della
salute mentale o assumano medicinali69. «Il fatto che i correlati della Dm
(depressione minore) e della DM (Depressione Maggiore) sono simili»,
afferma un gruppo di ricercatori, «significa che la Dm non può essere liquidata
semplicemente come una reazione normale allo stress ambientale mentre la
DM è vista come qualcosa di completamente diverso»70. Compromissioni
come disabilità sociali e lavorative, malattie fisiche e successive
ospedalizzazioni aumentano continuamente al crescere del numero dei
sintomi71. Anche un unico sintomo di depressione, a confronto con il caso di
nessun sintomo, è associato con varie conseguenze avverse sui livelli della
maggior parte delle disabilità72. Bisogna prestare attenzione, perciò, all’intero
spettro degli stati depressivi, non solo alle condizioni che soddisfano i criteri
del DSM per il DDM.
Un terzo aspetto della nuova ondata di studi di comunità è il loro
concentrarsi sulle forme lievi come fattori di rischio per future patologie più
gravi e sull’abbassamento della soglia della patologia a causa di questo rischio.
Per esempio, nell’ECA, i soggetti che denunciavano due o più sintomi nel
corso di tutta la vita avevano molte più probabilità di sviluppare la
Depressione Maggiore nell’arco dell’anno successivo rispetto a quelli che
denunciavano meno sintomi73. In questo studio, più del 50% dei casi di prima
manifestazione della Depressione Maggiore erano associati a precedenti
sintomi depressivi. «Le nostre scoperte», concludono gli autori, «suggeriscono
al momento che se si riuscisse a definire e trattare i sintomi depressivi prima
che la depressione maggiore cominci a svilupparsi, molti casi di depressione
maggiore al primo esordio potrebbero con ogni probabilità essere evitati»74.
Anche i dati NCS indicano che i casi di patologia leggera nel primo periodo
preannunciano casi più seri nel periodo successivo75. Lo «sviluppo di interventi
tempestivi per impedire la progressione lungo un dato continuum di gravità
potrebbe ridurre l’incidenza dei casi seri»76.
Non sorprende che l’abbassamento dei criteri per la depressione accresca di
molto i tassi di incidenza. In un periodo di ‘un mese’, quasi un quarto della
popolazione (22,6%) nello studio ECA denuncia almeno un presunto sintomo
di depressione77. A un certo momento della loro vita, circa una persona su
quattro, nell’ECA, di quelle che non soddisfano i criteri per il DDM o la
Distimia riporta un numero di sintomi sufficiente per una diagnosi di
depressione subclinica78. Similmente, se si parte da una definizione della
«depressione lieve» come il manifestarsi di due-quattro sintomi, l’incidenza
della depressione nel corso della vita aumenta drasticamente dal 15,8% al
25,8%79. In alcune popolazioni, soprattutto fra i più anziani, i tassi di
depressione minore superano il 50%80. L’alta incidenza della depressione di
grado lieve, unita alle conseguenze avverse che l’accompagnano e a un più
forte rischio di disturbi d’umore in tutte le loro forme, induce a pensare che
questa condizione costituisca «davvero un nascosto, non riconosciuto
problema di salute pubblica con una enorme incidenza annuale nella società»
che dovrebbe costituire oggetto di attenzione della ricerca e di sforzi di
prevenzione81.
Questi importanti temi di epidemiologia psichiatrica all’inizio del XXI secolo
ricalcano quasi puntualmente quelli dei primi studi di comunità del dopoguerra
negli anni Cinquanta e Sessanta, salvo il fatto che ciò che allora si tendeva a
interpretare come una patologia causata da stress ambientale, si tende ora a
vedere come una patologia causata da disfunzione biologica. Per riassumere
questi temi comuni: 1) il disturbo mentale è continuo, e tutti i punti lungo
questo continuum dovrebbero essere considerati problematici; 2) le condizioni
leggere in un primo momento hanno ogni probabilità di trasformarsi in
condizioni maggiori in un altro momento; 3) anche un unico sintomo di
depressione deve preoccupare, perché può essere associato con una futura
disabilità e può essere un fattore di rischio per la depressione maggiore; 4)
vista la sua altissima incidenza, è importante che le politiche sociali cerchino in
ogni modo di impedire che la depressione prenda piede nella popolazione
generale. L’epidemiologia psichiatrica ha chiuso il cerchio, ritornando a
preoccuparsi delle più lievi presunte condizioni di depressione.
Che cosa è giusto e che cosa è sbagliato nel proposto allargamento della
patologia fino a includere la «depressione minore», che presenta meno sintomi
di quelli che richiede il DSM? Quello che è giusto è, in primo luogo, la
necessità che si faccia attenzione alle condizioni sottosoglia in circostanze in
cui possono aiutare a prevenire futuri problemi. Ma il fatto che una condizione
sia un fattore di rischio per problemi futuri non ne fa una patologia. Su questo
torneremo in seguito.
In secondo luogo – ed è la cosa più importante –, il punto limite stabilito dal
DSM è un po’ arbitrario e non rappresenta una magica linea di demarcazione
fra patologia e normalità. Non c’è dubbio che alcune condizioni sottosoglia
meritano di essere diagnosticate come patologie; e inoltre i criteri del DSM per
il disturbo depressivo probabilmente produrranno alcuni falsi negativi, oltre ai
falsi positivi che abbiamo sottolineato. Più in generale, vedere la depressione
come continua piuttosto che come categoria a sé stante ha un certo numero di
vantaggi teorici82. Molte patologie, come la depressione, possono naturalmente
essere basate su soggiacenti processi con continuità dimensionale piuttosto che
su fenomeni ben separati, ed è quindi probabile che il concetto di un
continuum sintomatologico sia più appropriato e capace di produrre ricerche e
teorie fruttuose.
Tuttavia, affermare che, poiché c’è una relazione lineare fra numero di
sintomi e compromissione funzionale, ogni punto del continuum rappresenta
una patologia, è altamente problematico. Se tutti i sintomi sono considerati
come segnali di patologia, la tristezza ordinaria viene totalmente confusa con la
vera disfunzione, e i tassi di incidenza raggiungono livelli anche più
insostenibili di quanto già non siano ora. Nello studio ECA, per esempio, i
sintomi più comuni sono «difficoltà nell’addormentamento, nel risveglio, o
risveglio precoce» (33,7%), essere «perennemente stanchi» (22,8%) e «pensare
continuamente alla morte» (22,6%)83. Gli studenti (soprattutto quelli che
studiano filosofia esistenziale) in periodo di esami, le persone costrette a fare
straordinari, quelle in ansia per un importante evento in arrivo, o quelle che
rispondono alle interviste in un momento segnato dalla morte di una persona
nota presenteranno tutti, in maniera completamente naturale, qualcuno di
questi sintomi. Sintomi che né gli intervistati né i clinici considererebbero mai
motivi per entrare in cura presso centri di salute mentale, negli studi di
comunità possono dar luogo a qualificazioni di patologia. Inoltre, i criteri di
durata richiedono che il sintomo duri per un periodo di appena due settimane,
per cui molti sintomi passeggeri e che scompaiono da soli vengono visti come
segnali di patologia.
Data la natura comune e la brevità di durata di molti presunti sintomi di
depressione, è difficile immaginare che siano tante le persone che non hanno
esperienza di episodi di depressione lieve o sottosoglia in qualche momento
della loro vita, anche se certamente ci sono soggetti con temperamenti tali che
sembrano praticamente escludere la tristezza intensa. In effetti, gli altissimi
tassi di depressione riscontrati quando si abbassa il valore soglia quasi
certamente ‘sottostimano’ il numero delle persone che sperimentano sintomi
attribuibili alla depressione. Un’altra ragione per cui il numero risulta più basso
è che i rispondenti non denunciano tutti i sintomi che si sono verificati in
qualche momento della vita. Un gruppo di ricercatori, per esempio, scoprì che
la maggior parte degli intervistati che avevano riferito episodi di depressione
nell’arco di tutta la vita nell’intervista di base dell’ECA non riferì più nuovi
episodi durante il periodo di controllo di 12 anni84. La maggior parte dei
rispondenti semplicemente dimenticò i precedenti stati depressivi. Se costoro
avessero ricordato accuratamente tutti gli episodi di depressione, i tassi di
incidenza nell’arco della vita del disturbo depressivo supererebbero, nei dati
ECA, il 50%. Una seconda ragione dell’enumerazione incompleta della
presenza di sintomi è che i rispondenti non seguono puntualmente le
istruzioni delle ricerche: applicano propri criteri contestuali ai sintomi e non
riferiscono sintomi che attribuiscono a crisi di vita o a condizioni di carattere
medico85. La critica agli studi di comunità del dopoguerra espressa
dall’epidemiologa Rema Lapouse – «Se tutti quelli che tossiscono vengono
annoverati come casi di tubercolosi, tanto i tassi di incidenza quanto quelli di
diffusione partiranno a razzo» – si schiera a favore del concetto continuo del
disturbo depressivo adottato dalla contemporanea epidemiologia psichiatrica,
in cui non c’è alcuna clausola che distingua la tristezza normale dai disturbi
lievi86.
La principale giustificazione per trattare tutti i sintomi come patologici è che
essi sono associati a disabilità presenti o future. Il presupposto è che ogni
condizione psicologica che sia correlata a un effetto problematico dev’essere
un disturbo mentale. Ma è possibilissimo, per esempio, che un temperamento
incline a qualcosa di più della tristezza, e quindi a sintomi depressivi di tipo
normale in risposta alle vicissitudini della vita, possa essere anche un po’ più
vulnerabile a sviluppare il disturbo depressivo; tuttavia questo non rende la
variante temperamentale una patologia. Inoltre, alla conclusione di non
patologia si può giungere solo se i sintomi di tristezza normale non
comportano disabilità. Eppure, ‘entrambe’ le depressioni, la patologica e la
non patologica, possono variare continuamente per un gran numero di
elementi, fra cui la gravità, la durata e la compromissione funzionale, e
possono sicuramente provocare difficoltà nello svolgimento del ruolo sociale.
Basti considerare come esempio il cordoglio, ma ci sono anche altre forme più
leggere di tristezza normale che inducono le persone a ritirarsi dalla vita
sociale, a diventare meno capaci di concentrarsi sugli impegni ordinari del
ruolo e a imporsi altre limitazioni87. Una simile interferenza con l’esercizio del
ruolo e la produttività non rende la tristezza una patologia.
A parte le disabilità e compromissioni, gli studi epidemiologici giustificano la
loro scelta di trattare i sintomi sottosoglia come patologia argomentando che le
condizioni leggere a un certo punto possono evolvere in condizioni più gravi,
che raggiungono la soglia stabilita dal DSM per la patologia; sostengono quindi
che la condizione più leggera è parte di un più ampio processo di malattia e
che la sua scoperta precoce e l’intervento immediato su condizioni ancora
leggere possono impedire che le patologie si sviluppino88. A volte, forse,
questo è vero. Ma c’è un’obiezione di fondo a questo argomento generale sulla
depressione minore, soprattutto in considerazione della potenziale non validità
delle stesse diagnosi del DDM: anche quando una condizione sottosoglia
precede una condizione a sindrome piena, non è chiaro se l’una e l’altra
condizione siano una vera patologia o no, e ancora meno quale sia la relazione
di una condizione con l’altra. Per esempio, una persona che sta male per una
situazione preoccupante al lavoro, un conflitto coniugale o una malattia fisica
che colpisce una persona cara, può denunciare due o tre sintomi, e poi, nel
momento in cui la preoccupazione si congela in una perdita, avere una risposta
più intensa. Tanto la tristezza iniziale quanto la successiva reazione più intensa
possono essere perfettamente normali, e tuttavia un epidemiologo può
interpretare la sequenza come l’evoluzione di un disturbo depressivo minore in
disturbo depressivo maggiore. Il fatto che alcuni sintomi di tristezza siano poi
seguiti da sintomi di tristezza più intensi ci dice poco di per sé sulla questione
se la condizione più leggera iniziale o quella successiva più grave o entrambe o
nessuna delle due siano patologie. Nell’uno e nell’altro caso criteri che
pretendano di essere validi devono andare al di là dei sintomi.
Inoltre, non necessariamente i sintomi sottosoglia preannunciano una
diagnosi di Depressione Maggiore del DSM in un momento più tardo: in
realtà, le prove per prevedere una successiva depressione maggiore sono molto
deboli. Molti dei sintomi scoperti negli studi di comunità, anzi la maggior
parte, erano passeggeri e limitati alla durata del contesto delle situazioni di
stress che li avevano provocati. Nello studio ECA, metà delle persone con
depressione lieve divenne asintomatica nell’anno seguente89. In questo studio,
solo il 10% delle persone con depressione minore con disturbi dell’umore e
solo il 2% delle persone con depressione minore senza disturbi dell’umore
avevano sviluppato una Depressione Maggiore al controllo dopo un anno e,
dati i criteri sintomatici del DSM adottati dall’ECA, non sappiamo quante di
esse fossero effettivamente malate. Per converso, oltre un terzo del gruppo con
Depressione Maggiore divenne asintomatico, e quasi il 40% si ritrovò nel
gruppo con depressione minore90.
Queste conclusioni indicano che è più probabile che le condizioni più gravi
diventino meno gravi, e non il contrario. La straordinaria instabilità della
‘casistica’, con soggetti che scivolano attraverso i vari stati di gravità, non
consente di individuare in maniera affidabile quali condizioni peggioreranno e
quali no. Sebbene le persone con depressione minore abbiano maggiori
probabilità di sviluppare in futuro casi di Depressione Maggiore che non
quelle senza sintomi, la grande maggioranza delle persone con un piccolo
numero di sintomi depressivi non svilupperà mai la Depressione Maggiore. In
effetti, gli studi indicano che, in assenza di qualsiasi intervento, fino a due terzi
dei sintomi depressivi si rimettono naturalmente91. Per esempio, nello studio
ECA prima menzionato, 97 su 114 partecipanti diagnosticati come depressi
nell’intervista iniziale recuperarono durante il periodo di follow-up92. I sintomi
derivanti da problemi di vita solitamente scompaiono una volta che i problemi
siano superati, anche se inizialmente, magari, soddisfacevano i criteri clinici.
È difficile capire la logica di chi dice che, poiché alcune condizioni
sottosoglia possono essere patologie e non tristezza normale, tutte debbano
essere classificate come patologie. La spiegazione sembra essere che il
movimento della depressione minore rifiuta le soglie di sintomi del DSM ma
aderisce tenacemente all’assunto base del DSM secondo cui i criteri basati sui
sintomi, senza considerazione del contesto, sono adattissimi a diagnosticare il
disturbo depressivo. Di conseguenza, l’estensione del disturbo depressivo alle
condizioni sottosoglia, che può evitare alcuni falsi negativi, viene realizzata al
prezzo di una molto più probabile moltiplicazione di diagnosi falso-positive
che qualificano come patologia la tristezza non patologica. Ma quelli che
difendono le diagnosi di depressione minore hanno trascurato troppo il
problema di apprestare strumenti per evitare di diagnosticare erroneamente la
tristezza normale come patologia. Solo dopo che sarà stato messo a punto un
più valido approccio alla distinzione patologia-non patologia si potrà
giustificare l’inclusione delle condizioni con pochi sintomi nella categoria del
disturbo.
A causa di queste debolezze dell’attuale approccio alla depressione minore, le
implicazioni politiche suscitate dall’uso del concetto continuo di disturbo
depressivo sono discutibili. La priorità principale della buona politica pubblica
dovrebbe essere di fornire servizi di salute mentale alle persone che ne hanno
più bisogno. Quando negli anni Sessanta fu applicato il concetto di un
continuum di problemi di salute mentale, il risultato fu la ‘patologizzazione’ di
gran parte della popolazione, l’estensione dei servizi a molte persone con
problemi esistenziali e la conseguente riduzione dei servizi forniti alle persone
affette da vere malattie mentali gravi93. È possibile che il movimento della
depressione minore stia gettando le fondamenta per ripetere lo stesso errore.
Gli avvocati dei malati mentali, il NIHM e gli psichiatri ricercatori si sono
mostrati sensibili alla scoperta di alti tassi di Depressione Maggiore negli studi
di comunità perché pensano che questa scoperta contribuirà ad alleggerire lo
stigma associato alle etichette di disturbo mentale e a ottenere il sostegno
pubblico e legislativo per finanziare programmi di salute mentale94. Ma
l’abbassamento della soglia per la diagnosi del disturbo depressivo negli studi
di comunità, così che più persone vengono calcolate come malate di
depressione può, come i già alti tassi di prevalenza forniti dagli studi
epidemiologici della Depressione Maggiore basati sul DSM, avere l’effetto
opposto di minare la volontà politica di affrontare il problema per la paura dei
finanziatori pubblici e privati dei costi enormi da sopportare per fornire servizi
a una popolazione così vasta95. Come sottolinea lo psicologo James Coyne,
«migliorare i risultati per i casi noti di depressione deve avere la precedenza
sull’incrementare la scoperta della depressione», e questo è tanto più vero
quando ciò che viene scoperto è probabile che non sia affatto un disturbo
depressivo96. Dovremmo fare attenzione all’ammonimento di Rema Lapouse,
che scriveva nell’era originaria del concetto continuo:
I tassi che includono una grande proporzione di casi equivoci o lievi, o di individui per
nulla malati, possono anche avere l’effetto deleterio di incoraggiare l’utilizzo delle limitate
risorse destinate alla salute mentale per curare quelli che sono meno malati e hanno la
prognosi migliore97.
6.6 | Conclusione
Note
1 | Karp, 1996.↵
2 | Grob, 1985.↵
3 | Plunkett e Gordon, 1960.↵
4 | Grob, 1991a, p. 13.↵
5 | Appel e Beebe, 1946, p. 1471.↵
6 | Grob, 1991a.↵
7 | Grinker e Spiegel, 1945, p. 115.↵
8 | Jones, 2000, p. 9.↵
9 | Brill e Beebe, 1955; Shephard, 2000.↵
10 | Grob, 1991a.↵
11 | Menninger, 1948.↵
12 | Herman, 1995.↵
13 | Grinker e Spiegel, 1945.↵
14 | Per es. Holmes e Rahe, 1967.↵
15 | Grob, 1991a.↵
16 | Menninger, 1948. [Freud infatti riteneva che tutti gli individui avrebbero una dimensione
naturalmente patologica, denotata dalla sua definizione di inconscio quale perverso, caotico e psicotico,
per cui tutti ‘fondamentalmente’ sarebbero soggetti a connaturata patologia che si manifesta nella
misura in cui emerga questa dimensione latente. NdC]↵
17 | Grob, 1991a.↵
18 | Srole et al. , 1962/1978.↵
19 | Leighton, Harding, Macklin, Macmillan, e Leighton, 1963.↵
20 | Lapouse, 1967.↵
21 | Dohrenwend e Dohrenwend, 1982.↵
22 | APA, 1952, p. 133.↵
23 | Murphy, 1986.↵
24 | Srole et al. , 1962/1978; Leighton et al. , 1963; Plunkett e Gordon, 1960.↵
25 | Per es. Langner, 1962; Macmillan, 1957.↵
26 | Srole et al. , 1962/1978, p. 197.↵
27 | Leighton et al. , 1963, p. 121.↵
28 | Lapouse, 1967, p. 952.↵
29 | Srole et al. , 1962/1978, p. 478.↵
30 | Dohrenwend e Dohrenwend, 1982.↵
31 | Horwitz, 2002.↵
32 | Bayer e Spitzer, 1985.↵
33 | Robins e Regier, 1991.↵
34 | Robins et al., 1984, p. 952.↵
35 | Leaf, Myers, e McEvoy, 1991, p. 12.↵
36 | Eaton e Kessler, 1985; Robins e Regier, 1991.↵
37 | Kessler et al. , 1994.↵
38 | APA, 1987; Blazer et al. , 1994.↵
39 | Blazer et al. , 1994.↵
40 | Blazer et al. , 1994; Kessler et al. , 1994.↵
41 | Weissman e Myers, 1978.↵
42 | Robins et al. , 1984.↵
43 | Regier et al. , 1998.↵
44 | Karp, 1996, pp. 112-113.↵
45 | Brugha, Bebbington, e Jenkins, 1999.↵
46 | Wittchen, 1994; Wittchen, Ustun, e Kessler, 1999.↵
47 | Wakefield, 1999.↵
48 | Anthony et al. , 1985; Helzer et al. , 1985.↵
49 | Wakefield, 1999.↵
50 | Per es. Greenberg, Stiglin, Finkelstein, e Berndt, 1993; Hirschfeld et al. , 1997; U.S. Department of
Health and Human Services, 1999.↵
51 | Frances, 1998; Kendler e Gardner, 1998; Lavretsky e Kumar, 2002.↵
52 | APA, 1994, p. 350.↵
53 | Coyne, 1994.↵
54 | Kendler e Gardner, 1998.↵
55 | Judd, Akiskal, e Paulus, 1997.↵
56 | Coyne, 1994.↵
57 | Kessler, Merikangas et al. , 2003.↵
58 | Kramer, 2005.↵
59 | Wells et al. , 1989.↵
60 | Kessler, Zhao, Blazer, e Swartz, 1997; Mojtabai, 2001.↵
61 | Kramer, 2005, p. 171.↵
62 | Judd, Rapaport, Paulus, e Brown, 1994; Kessler et al. , 1997.↵
63 | Broadhead, Blazer, George, e Tse, 1990.↵
64 | Judd et al. , 1994.↵
65 | Judd e Akiskal, 2000, p. 5.↵
66 | Kramer, 2005.↵
67 | Kendler e Gardner, 1998.↵
68 | Judd, Paulus, Wells, e Rapaport, 1996.↵
69 | Kessler et al. , 1997; Mojtabai, 2001.↵
70 | Kessler et al. , 1997, p. 28.↵
71 | Kessler, Merikangas, et al. , 2003.↵
72 | Judd et al. , 1997.↵
73 | Horwath et al. , 1992.↵
74 | Ivi, p. 821.↵
75 | Kessler, Merikangas, et al. , 2003.↵
76 | Ivi, p. 1121.↵
77 | Judd et al. , 1997.↵
78 | Judd et al. , 1994.↵
79 | Kessler et al. , 1997.↵
80 | Lavretsky e Kumar, 2002.↵
81 | Judd et al. , 1994, p. 226.↵
82 | Mirowsky e Ross, 1989.↵
83 | Judd et al. , 1994.↵
84 | Eaton et al. , 1997, p. 996.↵
85 | Eaton, Neufeld, Chen, e Cai, 2000.↵
86 | Lapouse, 1967, p. 952.↵
87 | Wakefield e Spitzer, 2002.↵
88 | Horvath et al. , 1992; Kessler et al. , 1997; Insel e Fenton, 2005.↵
89 | Judd et al. , 1997.↵
90 | Broadhead et al. , 1990.↵
91 | Katon et al. , 1995.↵
92 | Eaton et al. , 1997.↵
93 | Grob, 1991a.↵
94 | Mechanic, 2003.[Anche aumentare i tassi di malattia può rappresentare un’operazione ideologica a
sostegno del postulato che in fondo «nessuno è normale», comune sia all’esistenzialismo che al
freudismo. Inoltre, non può essere trascurato il guadagno economico delle case farmaceutiche
derivante da questa posizione ideologica. Cfr. infra, cap. 9. NdC]↵
95 | Ibidem.↵
96 | Coyne et al. , 2000, p. 107.↵
97 | Lapouse, 1967, p. 953.↵
* Questo è il pensiero della cultura freudiana, ed è anche grazie a esso che si impianterà il DSM con
analoghe caratteristiche, divenendo il difetto di pensiero della cultura psichiatrica. [NdC]↵
* Da sottolineare che non furono utilizzati gruppi di controllo sani, come di norma si opera per
valutare una patologia. Ciò si potrebbe collegare all’assenza di un concetto di «sanità mentale» di base;
di conseguenza, potrebbe diventare criticabile questa modalità di validare la diagnosi di patologia.
[NdC]↵
Capitolo 7 | La vigilanza sulla tristezza
Se sei un residente tipico di New York City, c’è la possibilità che abbia
occasione di andare dal tuo medico curante in un qualche momento del
prossimo anno. Se il tuo medico segue il consiglio del commissario per la
salute mentale di New York City, ti chiederà di riempire un questionario con la
seguente domanda: «Nelle passate due settimane, quante volte sei stato
angustiato da uno dei seguenti problemi?»1. A ognuno dei nove sintomi è
assegnato un punteggio di 0 (mai), 1 (in vari giorni), 2 (in più di metà dei
giorni), o 3 (quasi ogni giorno). Ecco i nove sintomi:
1) Scarso interesse o piacere nel fare le cose.
2) Sentirsi giù, depresso, o disperato
3) Avere difficoltà ad addormentarsi, sonno disturbato o sonno eccessivo.
4) Sentirsi stanco o avere troppo poca energia.
5) Scarso appetito o alimentazione eccessiva.
6) Star male con sé stessi, o sentirsi falliti, o pensare di aver deluso sé stessi o la propria
famiglia.
7) Difficoltà a concentrarsi su cose come leggere il giornale o guardare la tv.
8) Muoversi o parlare così lentamente da essere notato dagli altri; o al contrario, essere
così nervoso o irrequieto da continuare a muoversi in maniera agitata ben più del solito.
9) Pensare che sarebbe meglio morire, o ferire in qualche modo sé stessi.
La valutazione dei punteggi è la seguente: se per cinque o più dei nove
sintomi, incluso uno dei primi due, il punteggio è di 2 o 3 (punteggio totale di
almeno 10), la diagnosi sarà di Disturbo Depressivo Maggiore; la diagnosi sarà
invece di disturbo depressivo minore se almeno per due dei sintomi, incluso
uno dei primi due, il punteggio è di 2 o 3 (punteggio totale di almeno 4). Se
per esempio un soggetto si è sentito giù e stanco per la maggior parte dei
giorni delle passate due settimane (cioè per otto giorni o più), riceverà una
diagnosi di disturbo depressivo minore; se nella maggior parte dei giorni delle
passate due settimane si è sentito giù e stanco ed è stato male con sé stesso e
quindi ha avuto difficoltà ad addormentarsi e a concentrarsi riceverà una
diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore.
L’amministrazione cittadina stabilisce che i soggetti con punteggi abbastanza
alti da indicare un probabile disturbo vengano rinviati a una valutazione clinica.
Ma essendo questi sintomi estremamente comuni è difficile capire come si
faccia ad avere le risorse sufficienti per far fronte al numero potenzialmente
enorme di rinvii. Inoltre, è possibile che la maggior parte delle persone che
denunciano di avere sintomi specifici ne sia colpita a causa di una qualche
perdita appena subita o per qualche problema che li preoccupa e li fa essere
tristi, distratti ecc. Eppure i medici possono essere facilmente tentati di
prescrivere farmaci anche a quelli con una depressione minore, mentre per una
quota sostanziale di essi basterebbe l’intervento del medico di base. Così,
l’etichettatura provvisoria di individui come depressi senza considerare le
circostanze di ciascuno può mettere in moto una risposta clinica basata su
un’informazione sostanziale non adeguata.
Il programma di New York City fa parte di un movimento nazionale per la
realizzazione di uno screening di adulti e bambini per la depressione sostenuto
da una relazione della Commissione presidenziale2. In questo capitolo
vogliamo esaminare il movimento dello screening della depressione e alcuni
dei problemi derivanti dal fatto che esso usa criteri sintomatici
decontestualizzati per individuare i soggetti depressi.
Negli studi di comunità, come abbiamo visto nel Capitolo 6, gli epidemiologi
non distinguevano in maniera adeguata la tristezza normale dal disturbo
depressivo. La conseguenza è stata che hanno presentato ai responsabili della
politica della salute mentale stime straordinariamente alte del numero di
soggetti affetti da disturbi depressivi non trattati. Temendo che esistesse un
enorme bisogno non soddisfatto di servizi di salute mentale fra soggetti che
non sapevano nemmeno di soffrire di un disturbo, i responsabili politici si
sono concentrati per parte loro soprattutto nel trovare il modo di identificare i
soggetti della comunità disturbati non trattati e provvedere a farli curare. Si è
deciso perciò che se le persone non andavano a farsi diagnosticare, doveva
essere la diagnosi ad andare da loro. Il risultato è stata una serie di programmi
di screening miranti, in linea di principio, ad accertare in chiave diagnostica la
presenza del disturbo depressivo per ogni singola persona d’America.
Vari presupposti sono alla base del tentativo di identificare e curare casi di
depressione in precedenza non riconosciuti. Uno è che, se non curate, le
persone che soddisfano i criteri sintomatici negli studi di comunità potrebbero
sviluppare condizioni croniche, ricorrenti e in progressivo deterioramento3.
Un altro è che i soggetti con disturbo depressivo non riconosciuto soffrono
inutilmente e possono trarre beneficio dai farmaci e dalle terapie disponibili4.
E poi la preoccupazione che i disturbi depressivi non curati possano avere
conseguenze drammatiche, come il suicidio. E ancora, la constatazione che la
depressione non trattata ha notevoli costi economici non evidenti: i pazienti
con depressione non diagnosticata utilizzano in eccesso il sistema sanitario,
usufruiscono di esami medici non necessari e fanno salire i costi dei servizi
medici5.
La domanda principale cui le iniziative che affrontano il bisogno non
soddisfatto di trattamento devono rispondere è come identificare al meglio e
stabilire un contatto con i casi non trattati di depressione. I tentativi che
prendono di mira intere popolazioni, come la promozione di servizi pubblici,
campagne di educazione e pubblicità indirizzate ai consumatori, sono una
strada per raggiungere casi del genere. Le case farmaceutiche e altre
organizzazioni del settore sono state pronte ad allinearsi con questo approccio
e a fissare nella mente della gente l’idea molto ampia, basata su sintomi comuni
del DSM, della possibilità che, anche a sua stessa insaputa, un soggetto poteva
essere affetto da un disturbo depressivo e dover consultare il proprio medico.
Questi appelli incoraggiano le persone a monitorare sé stesse, le loro famiglie e
gli amici per cogliere eventuali segni di tristezza e a interpretare questi segni
comuni secondo i preoccupanti significati suggeriti dalle estese definizioni del
disturbo depressivo. Non c’è dubbio che queste iniziative abbiano l’effetto
positivo di indurre alcuni soggetti affetti da disturbo depressivo a sottoporsi
alle cure necessarie. E probabilmente hanno contribuito a far salire la
percentuale dei casi di depressione curati e delle prescrizioni di antidepressivi
nei passati due decenni6. Ma, nel complesso, questi sforzi sono di efficacia
limitata, in quanto dipendono dal fatto che gli stessi individui riconoscano che
possono essere depressi abbastanza da giustificare il trattamento medico.
Il movimento dello screening, perciò, si è concentrato nell’estendere
l’autorità medica al di là del perimetro consueto di risposta alle richieste
spontanee di aiuto. Questo è un obiettivo critico, poiché i criteri diagnostici
vigenti non corrispondono a ciò che la malattia mentale è per la maggior parte
dei profani7. Così, molte persone che il DSM classificherebbe come malate
non ritengono di avere segni di disturbo mentale, non pongono le relative
domande ai loro medici, non chiedono aiuto e quindi non si presentano come
soggetti da sottoporre a cure. Di conseguenza, l’indagine deve penetrare nella
comunità, dev’essere in qualche modo imposta dall’esterno, e correre in
soccorso dei pazienti.
Volgiamo ora la nostra attenzione al modo in cui questa nuova attività di
sorveglianza attraverso lo screening viene svolta e al modo in cui gli specifici
programmi di rilevazione aiutano a ridefinire l’esperienza della tristezza
normale come disturbo mentale per i profani. Prima di esaminare come
funzioni lo screening, dobbiamo richiamare un’avvertenza importante sui limiti
delle nostre considerazioni. L’analisi che facciamo riguarda specificamente la
ridefinizione dell’esperienza della tristezza normale come disturbo
conseguente all’uso dei vigenti criteri del DSM, compresi quelli sottosoglia, nei
programmi di screening delle comunità. La nostra analisi può essere facilmente
fraintesa come una critica dello screening della depressione in sé. Ma la
questione della bontà dello screening va tenuta distinta dalla questione se esso,
nella sua forma attuale o in qualche forma futura, produca benefici –
impedendo o alleviando la sofferenza – che superano chiaramente i suoi costi.
Al momento, questo non si può dire; semplicemente, non ci sono prove che lo
screening di massa per la depressione sia efficace nel realizzare gli importanti
obiettivi della salute mentale. Questo capitolo, dunque, non riguarda i pro e i
contro dello screening in sé, ma il problema della patologizzazione della
tristezza normale risultante dal condurre la rilevazione unicamente con i criteri
basati sui sintomi.
7.3.2 | Il problema delle diagnosi falso-posi ve nello screening presso i centri sanitari locali
Ci sono buone ragioni per aspettarsi che molti pazienti dei medici di base
manifestino sintomi che soddisfano i criteri del DSM per il disturbo depressivo
ma che tuttavia non indicano veri disturbi depressivi maggiori o minori. Eventi
di vita stressanti, che possono produrre alti livelli di intensa tristezza normale,
precedono in molti casi l’ingresso nell’ambulatorio del medico di famiglia.
Benché le percentuali di richiesta d’aiuto presso gli specialisti di salute mentale
siano aumentate in misura esponenziale negli ultimi decenni, molte persone
considerano ancora i medici di base come la prima linea di difesa quando si
affacciano problemi nella loro vita43. Eventi gravi come un lutto, la rottura di
un matrimonio e la perdita del lavoro precedono l’insorgenza di sintomi con
molta maggiore probabilità fra i pazienti dei medici di famiglia che fra i
pazienti psichiatrici, suggerendo che è più facile trovare casi di normale
tristezza in setting medici che in setting psichiatrici44. E naturalmente, i
sintomi depressivi nascono spesso come reazioni allo stress di trovarsi in
cattive condizioni mediche. Poiché la tristezza normale presenta spesso gli
stessi sintomi dei disturbi depressivi, inclusi non solo sintomi come sentimento
depresso e perdita di interesse nel fare le cose, ma anche una varietà di fastidi
somatici come affaticamento e problemi di sonno e appetito, è probabile che
molte persone che hanno subìto di recente eventi stressanti consultino il
medico e soddisfino i criteri diagnostici del DSM per la Depressione Maggiore
pur non avendo la patologia. (Si noti che quando i sintomi derivano
direttamente da una condizione medica o da qualche sostanza, non si
dovrebbe diagnosticare né il DDM né la depressione minore; la diagnosi
appropriata sarebbe piuttosto di disturbo depressivo dovuto a condizione
medica generale o indotto da sostanze, una situazione che deve spingere il
medico a seguire procedure del tutto indipendenti dalle valutazioni dello
screening ma che lo screening dei sintomi depressivi potrebbe portare in
evidenza.)
Il problema non sono solo le diagnosi falso-positive che risultano dallo
screening su pazienti dei centri sanitari locali per il disturbo depressivo ma
anche i conseguenti processi decisionali sulla cura di quelli così diagnosticati.
Circa il 40% dei soggetti che passano per i centri sanitari locali vengono ora
valutati per la depressione e altri problemi comportamentali45. Nella pratica
medica quotidiana, meno di un quarto delle persone con diagnosi di disturbi
depressivi viene rimandata a cure specialistiche46. I medici di famiglia, che si
trovano molto più a loro agio con l’uso dei farmaci che con qualsiasi altra
modalità di trattamento della depressione*, curano personalmente la grande
maggioranza dei pazienti con diagnosi di disturbi depressivi47. Il risultato
tipico di una diagnosi di depressione è quindi con ogni probabilità una
prescrizione di farmaci antidepressivi. Di conseguenza, il numero dei soggetti
curati per depressione con farmaci psicotropi fu nel 1997 di 4,5 volte maggiore
che nel 198748. Molti di quelli cui sono prescritti i farmaci potrebbero non
avere disturbi depressivi ma trovarsi in un momento della vita in cui
affrontano sfide impegnative.
Si può naturalmente sostenere che le persone che denunciano una tristezza
normale, al pari di quelle che soffrono di disturbi depressivi, possono trarre
beneficio dalla cura e non esserne danneggiate. L’evidenza indica che i benefici
del trattamento superano quelli del placebo in persone con seri casi di
depressione. Ma in molti pazienti dei centri sanitari locali la tipologia della
diagnosi di depressione ricade nell’area di minore gravità, e in quest’area non è
dimostrato il vantaggio della cura rispetto ai placebo49. Wayne Katon, esperto
di screening della depressione di pazienti dei medici di base, sintetizza:
La ricerca fa pensare che la metà dei pazienti in cura presso ambulatori medici che
iniziano l’assunzione di antidepressivi ha una depressione minore. In questi pazienti, le
cure attive non si sono dimostrate più efficaci del placebo e i programmi di gestione della
malattia non si sono dimostrati più efficaci del trattamento consueto50.
In anni recenti, inoltre, quelli cui sono stati prescritti farmaci da medici
generici tendono ad avere meno contatti personali, con molti che non vedono
mai i loro medici o li vedono solo una o poche volte51. Così, i pazienti che
soffrono di tristezza normale e assumono farmaci vengono a mancare della
consulenza e sostegno che le loro condizioni spesso meriterebbero. In ogni
caso, la decisione di ricorrere ai farmaci dovrebbe essere presa dopo che si
sono comprese al meglio la natura e la prognosi della condizione e facendo le
scelte più ragionevoli per la cura in questione. La diagnosi di un disturbo
depressivo tendenzialmente fa chiudere rapidamente queste discussioni con il
ricorso ai farmaci come la principale risposta appropriata, mentre la tristezza
normale potrebbe richiedere risposte più flessibili per un trattamento
ottimale*.
Anche per i pazienti dei centri sanitari locali i cui sintomi depressivi sono
abbastanza gravi da soddisfare tutti i criteri del DSM, il fatto che non cerchino
attivamente la cura del loro stato depressivo va considerato attentamente. Gli
studi sull’efficacia della terapia usano generalmente soggetti che di propria
volontà cercano la cura, e l’atteggiamento dei pazienti verso di essa può
influenzarne l’efficacia. In particolare, i pazienti con atteggiamento negativo
verso gli antidepressivi hanno di fatto risultati peggiori nei programmi
d’intervento di quelli che non vengono curati affatto, inducendo a pensare che
le terapie farmacologiche efficaci richiedono pazienti motivati52. Nella pratica
concreta, una metà dei pazienti ha un simile atteggiamento negativo53. Se molti
pazienti in ambulatorio si sottopongono alla cura raccomandata dai medici, ma
non sono personalmente motivati a ricevere cura per una depressione che non
riconoscono di avere, la terapia può essere inefficace.
È possibile che curare la tristezza normale come fosse un disturbo
depressivo non solo sia disastroso ma abbia anche costi per i pazienti che
devono essere messi sulla bilancia a fronte degli eventuali benefici. Sottoporre
a screening e identificare casi di depressione altrimenti non riconosciuti può
minare il recupero normale, intensificando nel soggetto i sentimenti di stress e
smembrando i normali processi per farvi fronte e le reti di sostegno
informali54. Sentenziare che i risultati indicano che una persona ha un disturbo
depressivo può allarmarla e imprimerle uno stigma, soprattutto se essa stessa
non avverte i propri sentimenti come disturbi. Non sorprende perciò che
molte persone che risultano positive allo screening resistono alle terapie per
depressione55. Altri cominciano magari con l’assumere i farmaci ma poi
interrompono la cura dopo poco56. Questo ‘rifiuto’, benché certamente da
analizzare in alcuni casi, può essere compreso in altri casi dopo un’accurata
ricognizione delle condizioni derivanti da fattori stressanti della vita ordinaria e
può essere affrontato scegliendo una maniera alternativa.
Il movimento dello screening per la depressione negli ambulatori di medicina
di base rappresenta uno sforzo ben intenzionato di elaborare e diffondere
questionari psicologici che ci mettano in grado di impedire esiti
potenzialmente dannosi del disturbo depressivo non riconosciuto e non curato
nella popolazione generale. Nonostante i limiti e le preoccupazioni che
abbiamo qui segnalato, gli sforzi enormi investiti nell’elaborazione e diffusione
dei questionari di screening possono avere una resa sempre migliore a mano a
mano che gli strumenti d’indagine si affinano. In particolare, lo screening nei
centri sanitari locali potrà diventare più fruttuoso in futuro se nei questionari
saranno introdotti gli indicatori contestuali delle reazioni normali, in modo da
permettere una migliore individuazione dei probabili casi di patologia. A parte
il contesto, si può presumere che se i sintomi sono cronici, ricorrenti, o
insolitamente gravi, sia più probabile che la condizione derivi da un disturbo
depressivo. Concentrare per esempio le risorse sul prevenire la ricomparsa in
casi con molteplici episodi precedenti può essere un obiettivo politico più
efficace che sottoporre a screening per la depressione tutti i pazienti dei centri
sanitari locali57. In attesa che vengano elaborati migliori questionari di
screening e tenuto conto delle scarse risorse, è meglio dare la precedenza alla
cura dei casi di disturbo depressivo che si presentano da soli, piuttosto che
dedicarsi a programmi di screening di massa58. E, cosa molto importante,
quando i medici eseguono lo screening per depressione, contrariamente alla
raccomandazione corrente di prestare attenzione solo ai punteggi dei sintomi,
dovrebbero essere attenti anche al contesto in cui i sintomi riferiti si
manifestano e dovrebbero essere invitati a usare il loro comune senso
diagnostico e una politica di watchful waiting (vigile attesa), piuttosto che
attenersi ciecamente ai risultati basati sui criteri del DSM e prescrivere
automaticamente farmaci*.
7.5 | Conclusione
Note
1 | Santora e Carey, 2005; Spitzer, Kroenke, e Williams, 1999.↵
2 | New Freedom Commission on Mental Health, 2003.↵
3 | Kessler, Merikangas, et al. , 2003.↵
4 | U.S. Department of Health and Human Services (USDHHS), 1999.↵
5 | Katon e Von Korff, 1990; Katon et al. , 1997.↵
6 | Donohue, Berndt, Rosenthal, Epstein, e Frank, 2004.↵
7 | Pescosolido et al. , 2000.↵
8 | Burnam e Wells, 1990.↵
9 | Ibidem.↵
10 | Mulrow et al. , 1995.↵
11 | Henkel et al. , 2004.↵
12 | Hough, Landsverk, e Jacobson, 1990.↵
13 | Henkel et al. , 2004.↵
14 | Health United States, 2003.↵
15 | Katon et al. , 1997.↵
16 | Wells et al. , 1989; Katon et al. , 1997.↵
17 | Kessler, Merikangas, et al. , 2003.↵
18 | Wells, Schoenbaum, Unutzer, Lagomasino, e Rubenstein, 1999; Katon e Schulberg, 1992; Wang et
al. , 2005.↵
19 | Hirschfeld et al. , 1997.↵
20 | Schulberg et al. , 1985; Katon et al. , 1997; Lowe, Spitzer, Grafe , Kroenke, Quenter, Zipfel, et al. ,
2004; Schwenk, Klinkman, e Coyne, 1998; Wells et al. , 1989.↵
21 | Hirschfeld et al. , 1997; Wells et al. , 1999; Kessler et al. , 2003.↵
22 | Katon et al. , 1997.↵
23 | Cleary, 1990; Spitzer et al. , 1999.↵
24 | Regier et al. , 1988.↵
25 | Attkinson e Zich, 1990.↵
26 | Schulberg, 1990, p. 276.↵
27 | Schulberg et al. , 1985; Hough et al. , 1990; Cleary, 1990.↵
28 | Attkinson e Zich, 1990.↵
29 | Hough et al. , 1990, p. 151.↵
30 | Per es. Tufts Health Plan, 2005; U.S. Preventive Services Task Force, 2002.↵
31 | Sartoriurs, 1997.↵
32 | U.S. Preventive Services Task Force, 2002.↵
33 | World Health Organization (WHO), 1998; Henkel et al. , 2003.↵
34 | Wells et al. , 1989; Whooley, Avins, Miranda, e Browner, 1997; Henkel et al. , 2004.↵
35 | Coyne, Fechner-Bates, e Schwenk, 1994.↵
36 | Rost et al. , 2000.↵
37 | Spitzer et al. , 1994.↵
38 | Ibidem.↵
39 | Spitzer et al. , 1999; Kroenke, Spitzer, e Williams, 2001.↵
40 | Health United States, 2003, p. 235, tavola 70.↵
41 | Spitzer et al. , 1999.↵
42 | Russell, 1994.↵
43 | Callahane Berrios, 2005.↵
44 | Schwenk, Coyne, e Fechner-Bates, 1996.↵
45 | Edlund, Unutzer, e Wells, 2004.↵
46 | Ibidem.↵
47 | Williams et al. , 1999.↵
48 | Olfson, Marcus, Druss, Elinson, et al. , 2002.↵
49 | Coyne et al. , 2000; Moncrieff, Wessely, e Hardy, 2004.↵
50 | Katon, Unutzer, e Simon, 2004, p. 1154.↵
51 | Olfson, Marcus, Druss, Elinson, Tanielian, e Pincus, 2002.↵
52 | Rost et al. , 2001.↵
53 | Pyne et al. , 2004.↵
54 | Coyne et al. , 2000.↵
55 | Katon et al. , 2001; Rost, Nutting, Smith, Werner, e Duan, 2001; Pyne et al. , 2004.↵
56 | Katon et al. , 2004.↵
57 | Katon et al. , 1997; Coyne et al. , 2000.↵
58 | Coyne, Klinkman, Gallo, e Schwenk, 1997.↵
59 | Lewinsohn, Rohde, Seeley, Klein, e Gotlib, 2000.↵
60 | Shugart e Lopez, 2002.↵
61 | New Freedom Commission on Mental Health, 2003.↵
62 | Petersen et al. , 1993, p. 162.↵
63 | New Freedom Commission on Mental Health, 2003.↵
64 | Pringle, 2005.↵
65 | Roberts, Attkinson, e Rosenblatt, 1998.↵
66 | Lewinsohn, Hops, Roberts, Seeley, e Andrews, 1993.↵
67 | Lewinsohn, Shankman, Gau, e Klein, 2004.↵
68 | Petersen et al. , 1933, p. 164.↵
69 | Larson, Clore, e Wood, 1999; Monroe, Rohde, Seeley, e Lewinsohn, 1999.↵
70 | Joyner e Udry, 2000.↵
71 | Coyne, 1994, p. 34.↵
72 | Roberts et al. , 1990.↵
73 | Rushton, Forcier, e Schectman, 2002.↵
74 | Lucas et al. , 2001, p. 448.↵
75 | Pringle, 2005.↵
76 | Shaffer et al. , 2004.↵
77 | Ivi, p. 77.↵
78 | Jensen e Weisz, 2002; Lewczyk et al. , 2003.↵
79 | Shaffer et al. , 2004, p. 77.↵
80 | Columbia University TeenScreen Program, 2003.↵
81 | Shaffer et al. , 2004, p. 78.↵
82 | Fisher e Fisher, 1996; Vitiello e Swedo, 2004.↵
83 | Ambrosini, 2000.↵
84 | Treatment for Adolescents with Depression Study Team, 2004.↵
85 | U.S. Preventive Services Task Force, 2002.↵
86 | Healy, 2004.↵
87 | Keller et al. , 2001; Vitiello e Swedo, 2004; Whittington et al. , 2004; Treatment for Adolescents
with Depression Study Team, 2004.↵
88 | Davey e Harris, 2005.↵
* Si noti come il discorso psicoterapeutico venga messo in secondo piano, poiché si preferisce un
intervento farmacologico, più semplice e immediato, in un certo senso comodo per il curante, a fronte
di un intervento psicologico che richiede un approfondimento e che nell’immaginario dei medici di
famiglia purtroppo viene troppo spesso considerato a priori inutile. Considerando i dati riportati, per
cui solo un quarto dei disturbi viene trattato da specialisti e il resto è appannaggio dei medici di
famiglia, andrebbe pensato e applicato un intervento culturale di tipo formativo con la medicina di
base, oltre che con gli psichiatri. Inoltre, anche alla luce di un’alterazione neurobiologica che, come
vedremo anche nel Capitolo 8, non sembra emergere nel DDM se non in forma analoga a quella di un
soggetto normale triste, l’intervento psicoterapeutico stesso andrebbe studiato e concepito con il fine
della cura e non soltanto del sostegno. In Italia, dagli anni Settanta, esiste un nuovo approccio, che
trova la sua base teorica nella teoria della nascita di Massimo Fagioli, la quale impone, alla stessa
stregua della medicina del corpo, il ripristino della realtà mentale fisiologica. Fagioli parla letteralmente
di ricreazione della mente della nascita, da lui non giudicata patologica, diversamente dalla
impostazione psicoterapeutica psicodinamica classica, ancora oggi attuale. Questo metodo terapeutico
presenta una novità storica nella «cura per la guarigione», teorizzata come realizzabile e stabilita come
target. Cfr. M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza (1972), L’Asino d’oro edizioni, Roma 2010. [NdC]↵
* Notiamo che se da un lato il trattamento psicoterapeutico non viene contemplato nella depressione,
dall’altro non si esclude il ricorso ai farmaci nella tristezza normale. Secondo Herzberg il trattamento
della tristezza normale sarebbe iniziato nella cultura americana sin dagli anni Sessanta, attraverso
l’utilizzo di sostanze psicotrope, con l’idea che per realizzare sé stessi in situazioni affettive o lavorative
è necessario un principio attivo farmacologico, come se vi fosse una carenza originaria che può essere
colmata grazie alle droghe, successivamente sostituite dalle scoperte della neurochimica moderna, che
avrebbe permesso l’utilizzo di sostanze legali. In altre parole, la cultura degli anni Sessanta avrebbe
portato alla cultura del farmaco come soluzione a ogni problema, incluse le normali situazioni
quotidiane. In effetti, ancora oggi sono presenti pubblicità televisive, radiofoniche o via web, che
inducono ad assumere un farmaco di fronte a ‘sintomi’ come tristezza e demoralizzazione. Esse
spingono, persino esplicitamente, anche i giovani, ad assumere farmaci, non soltanto medicalizzando
situazioni normali, ma proponendo inoltre la facile soluzione della pillola di fronte a un problema
personale da risolvere, svalutando e svuotando di senso ogni situazione affettiva problematica. Ciò
comporta delle gravi conseguenze formative ed educative che incidono non poco sulla qualità della
società in cui viviamo e sui giovani che ne fanno parte. Cfr. D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino
d’oro edizioni, Roma 2014. [NdC]↵
* Oltre che sullo screening, per la diagnosi di una patologia in atto va sottolineato che l’attenzione va
posta anche sulla diagnosi all’esordio, poiché, come riportato dagli autori, un intervento precoce
aumenta le probabilità di efficacia. Inoltre, altrettanta importanza andrebbe data all’intervento
terapeutico costituito non soltanto dal farmaco, che spesso potrebbe rappresentare una terapia di
seconda scelta rispetto a una psicoterapia finalizzata alla cura. Cfr. anche supra, nota a p. 225. [NdC]↵
* Da non sottovalutare l’importanza che può avere il lavoro di informazione, di intervento culturale,
oltre che di tipo psicologico, nelle scuole, che prevedono un contatto diretto tra operatori specialisti e
la popolazione giovanile delle scuole medie inferiori e superiori, di tutte le aree socio-economiche.
[NdC]↵
* Questo discorso ha contenuti fondamentali per la critica della prassi psichiatrica attuale, dove i
farmaci vengono usati non solo senza beneficio ma in modo dannoso. Si sottolinea che il colloquio
psicologico viene poco o per nulla considerato nelle misure d’intervento.[NdC]↵
* Pur riconoscendo l’influenza di una psicoterapia sullo sviluppo di un giovane, va sottolineato come
un principio neurochimico presenti un’interferenza inevitabile a livello organico sul neurosviluppo.
L’impatto di una relazione, invece, con caratteristiche quali affettività, comprensione e interesse da
parte di un altro essere umano, a nostro parere, non può essere concepito in modo analogo, né avere lo
stesso genere di effetto neurobiologico che, inoltre, nel caso del farmaco non consente alcuna attività
di elaborazione soggettiva da parte del giovane: la sostanza viene lasciata agire sui propri circuiti
neuronali senza che vi sia alcuna elaborazione o partecipazione emotiva. Mentre la situazione di
rapporto caratteristica della psicoterapia mette il giovane in una situazione naturale, di tipo sociale e
relazionale, il setting farmacologico mette il giovane che presenta un disturbo affettivo in una
posizione passiva e di solitudine, non naturale alla nostra specie e già spesso caratteristica del disturbo
depressivo stesso, con un ulteriore impatto psicologico negativo, aggiuntivo a quello fisiologico del
farmaco, che quindi ci sembra risultare comunque più dannoso rispetto a eventuali conseguenze
negative indotte dalla sola terapia psicologica. [NdC]↵
* Si sottolinea l’importanza di differenziare un omicidio-suicidio da un omicidio, poiché mentre il
primo è tipico di un DDM con psicosi, il secondo non è caratteristico di un DDM, bensì
patognomonico di una patologia psicotica conclamata con percezione delirante, come ad esempio una
grave forma di schizofrenia paranoide. Quest’ultima diagnosi oggi troppo spesso non viene
menzionata nei fatti di cronaca ed è sostituita dalla diagnosi di depressione, errore che implica una
grave mancanza da parte della cultura psichiatrica mediatica, con effetti disastrosi sull’opinione
pubblica e sulla cultura psichiatrica e non psichiatrica. [NdC]↵
* Va sottolineata una differenza tra la crisi adolescenziale naturale e una crisi patologica che non viene
abitualmente individuata. Tenendone conto, un intervento di screening verrebbe impostato in modo
adeguato, così come un intervento terapeutico. Questa distinzione che comporta una riduzione dei falsi
negativi e un trattamento soltanto della crisi patologica, potrebbe essere meglio compresa attraverso lo
studio della teoria della nascita. Quest’ultima vede nell’adolescenza l’emergenza delle realtà mentali non
coscienti della nascita e del primo anno di vita, senza che questo rappresenti un evento patologico;
bensì si tratta di un cambiamento di rapporto con il mondo, non degli oggetti e della natura, ma
umano, in particolare con l’essere umano diverso da sé. Se emergono realtà ma late, vuol dire che il
soggetto dopo la nascita deve aver perduto le sue caratteristiche mentali naturali e può e deve essere
curato. Cfr. F. Fagioli, Lo sviluppo psicologico del bambino e dell’adolescente. Sanità e malattia, in “Il sogno della
farfalla”, 2, 2006, pp. 25-32. [NdC]↵
Capitolo 8 | Il DSM e la ricerca biologica sulla
depressione
La ricerca sulle cause biologiche del disturbo depressivo, cioè sulle sue radici
in fattori neurochimici, recettori, geni, e nella struttura e funzione del cervello,
è per noi ricca di grandi promesse per il contributo che può dare a farci capire
sempre meglio il comportamento, e a portarci a cure nuove e più efficaci. Fra
gli studi portati avanti all’interno di questa ricerca ci sono, per esempio, quelli
che usano la risonanza magnetica (MRI) per esplorare l’attività del cervello nei
pazienti depressi, l’esame dei neurotrasmettitori e del loro ruolo nella
depressione (confortato dal successo dei medicinali nell’influenzare il livello
dei neurotrasmettitori) e l’indagine sulle influenze genetiche sul disturbo
depressivo.
Più o meno nello stesso periodo della pubblicazione del DSM-III nel 1980,
cominciarono a prevalere nella teoria e nella pratica psichiatrica modelli di
depressione fondati sulla biologia, e cominciò a calare l’influenza dei modelli
psicosociali1. Oltretutto, alcune delle figure di punta che avevano collaborato al
DSM erano illustri psichiatri di orientamento biologistico. È difficile quindi
sfuggire alla tentazione di vedere il primo e i secondi come concettualmente
legati. Ma, come abbiamo visto, la definizione del disturbo depressivo data dal
DSM non voleva in realtà implicare alcuna causa particolare della depressione.
Voleva invece essere neutrale sul piano teoretico e compatibile con cause
sociali e psicologiche, e anche biologiche, dei sintomi.
Ciononostante, i criteri del DSM hanno avuto un ruolo importantissimo
negli studi sulla biologia della depressione. La presenza di criteri su cui tutti
sono d’accordo, teoreticamente neutrali, che possono costituire una base per la
comunicazione fra i ricercatori, è stata sicuramente benefica per la ricerca
biologica, come per tutta la ricerca psichiatrica. Ma sull’altra colonna del
registro, dobbiamo rilevare che la fusione della tristezza normale con il
disturbo depressivo nei criteri del DSM ha ostacolato la ricerca biologica e ha
creato una confusione che può indurre i ricercatori a trarre conclusioni
fuorvianti dai loro dati*.
Il problema di fondo è semplicemente che i processi biologici sono alla base
di tratti umani sia non patologici sia patologici. Non c’è dubbio che le reazioni
di tristezza patologica sono spesso dovute a sottostanti disfunzioni biologiche.
Ma gli stessi sintomi di tristezza sono presenti tanto negli stati normali quanto
in quelli patologici. I processi biologici specifici della patologia devono essere
distinti dai processi biologici che sono alla base della tristezza normale. Gli
studi, per esempio, mostrano che molte emozioni e atteggiamenti normali,
come l’introversione, la religiosità, e persino gli orientamenti politici, hanno
una componente genetica2. Le influenze genetiche spiegano anche, in qualche
misura, perché le persone provano dolore per natura quando muore una
persona cara3. Il fatto che ci sia una base genetica del dolore non vuol dire che
il dolore sia una patologia, ma piuttosto che il lutto è biologicamente fondato
in processi genetici normali, non difettosi*. La ricerca che rivela una
correlazione biologica o genetica con una condizione di tristezza non dice
niente dunque, di per sé, sul fatto che quella condizione sia o no una
‘patologia’.
Così pure, le scansioni cerebrali usate negli studi che inducono stati di
tristezza in soggetti di sperimentazione normali evidenziano cambiamenti
biologici paragonabili a quelli che si riscontrano nelle persone con disturbi
depressivi4. Così l’MRI di un soggetto normale che ha subìto una grave perdita
assomiglia all’MRI di un soggetto con disturbo depressivo, molto
probabilmente perché le loro esperienze soggettive sono simili5. Lo schema
dell’attività del cervello associata con i sintomi, di conseguenza, non può essere
usato come base per inferire l’esistenza di una patologia, a meno che non si
consideri il contesto delle immagini cerebrali. La stessa osservazione vale
anche per gli studi sui livelli dei neurotrasmettitori: in periodi di intensa
tristezza possono verificarsi cambiamenti nei livelli dei neurotrasmettitori
come quelli che si riscontrano nel disturbo depressivo, e alcuni processi
sottostanti più complessi, che coinvolgono neurotrasmettitori che non
rispondono in maniera appropriata alle circostanze ambientali, possono essere
presenti nei disturbi*. Se gli scienziati guardano solo alla correlazione fra
marcatori biologici e criteri del DSM senza prendere in considerazione il
contesto in cui quei cambiamenti si verificano, possono erroneamente
concludere che un marcatore indichi una patologia anziché un qualche
fenomeno comune sia a essa che alla tristezza normale*.
Questo capitolo esaminerà alcuni dei modi più comuni in cui la psichiatria
biologica ha cercato di mostrare come la depressione sia fondata in anomalie
del funzionamento del cervello. Fra questi ci sono gli studi sui gemelli e i figli
adottati, sui guasti neurochimici o sui difetti genetici, e sulle lesioni
anatomiche. Noi siamo dell’avviso che una corretta distinzione, basata sul
contesto, fra la tristezza normale e il disturbo depressivo porterebbe vantaggio
a ognuno di questi ambiti di ricerca.
La ricerca biologica attuale può forse darci maggiori informazioni sulle cause
specifiche della depressione che non gli studi sui gemelli e i figli adottati,
perché esamina direttamente i geni e i cervelli piuttosto che inferire gli apporti
genetici dal grado di relazione fra individui. Ciononostante, essa pure soffre
degli stessi problemi concettuali di questi studi. Un tipo particolare di studi
riguarda la ricerca sui livelli neurochimici correlati ai disturbi depressivi11. Ma
per raggiungere conclusioni corrette, dobbiamo capire il contesto in cui i vari
livelli di sostanze chimiche si alzano. Dimostrare che c’è un’associazione fra un
certo stato del cervello e sintomi depressivi non basta di per sé a rispondere
alla domanda se i sintomi siano normali risposte ad ambienti stressanti o
indicatori di un disturbo. Le scoperte degli attuali studi sui neurotrasmettitori e
la depressione spesso non possono essere interpretate proprio perché non
operano in maniera adeguata questa distinzione.
Una delle teorie più popolari postula che uno squilibrio chimico nel cervello,
specificamente quantità insufficienti del neurotrasmettitore della serotonina,
causa depressione. Ne consegue che la risposta appropriata ai disturbi
depressivi sono le cure con farmaci che puntano alla serotonina, gli inibitori
selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), che presumibilmente
correggono lo squilibrio chimico. Questa teoria viene promossa
continuamente in molti modi: gli annunci pubblicitari delle case farmaceutiche
insistono sul fatto che squilibri chimici correggibili provocano disturbi
depressivi*, i messaggi del servizio pubblico sottolineano che la depressione
deriva da difetti della chimica cerebrale piuttosto che del carattere, e i gruppi di
difesa della salute mentale avanzano l’idea che la depressione sia una malattia
fisica, con sede nel cervello, esattamente come il diabete o l’asma12. Questi
messaggi onnipresenti hanno portato alla diffusa impressione che la ricerca
abbia in realtà dimostrato che le carenze chimiche sono la causa dei disturbi
depressivi e che i farmaci funzionano perché correggono queste
compromissioni del sistema della neurotrasmissione. Potrebbe quindi sembrare
che il modo per separare i disturbi depressivi dalla tristezza normale sia quello
di esaminare i livelli di serotonina nel cervello.
La teoria della carenza chimica come spiegazione della depressione nacque
dall’ipotesi dello psichiatra Joseph Schildkraut, pubblicata nel 1965, che bassi
livelli di ammine fossero associati con lo sviluppo di disturbi depressivi. Il suo
saggio è ancora uno degli articoli più citati della storia della psichiatria13. È
interessante notare che per Schildkraut era la norepinefrina, e non la
serotonina, la sostanza neurochimica implicata nel disturbo depressivo.
L’«ipotesi catecolaminergica dei disturbi affettivi» ritiene che alcune depressioni, se non
tutte, siano associate a un’assoluta o relativa carenza di catecolamina, in particolare di
norepinefrina, nei siti cerebrali dei ricettori adrenergici, funzionalmente importanti.
L’euforia, viceversa, potrebbe essere associata con un eccesso di simili ammine14.
La principale fonte di prova per l’ipotesi della carenza chimica è costituita dal
successo delle cure farmacologiche, che alzano il livello delle ammine,
nell’alleviare i sintomi depressivi. Lo stesso Schildkraut riconosceva che «anche
se i farmaci sono efficaci nel curare i disturbi, ciò non comporta
necessariamente che la loro modalità d’azione implichi la correzione della
sottostante anomalia»15. Ciononostante, molte successive discussioni sulla
serotonina poggiano sulla premessa che migliorarne la trasmissione allevia la
depressione, e che una carenza nel sistema della serotonina può essere
responsabile della comparsa iniziale del disturbo.
Molti problemi assediano simili teorie. Uno è che gli SSRI causano
cambiamenti immediati nei livelli di serotonina, mentre gli effetti sulla
depressione richiedono di solito varie settimane per manifestarsi. L’impatto dei
farmaci sulla depressione, quindi, potrebbe non provenire dal cambiamento
del livello dei neurotrasmettitori che essi producono, bensì da molti altri
processi associati con il cambiamento dell’azione delle ammine. Un altro è che
anche dei farmaci che non toccano né la serotonina né la norepinefrina, le
principali ammine implicate nell’ipotesi catecolaminergica, possono alleviare la
depressione16. In effetti, alcuni farmaci antidepressivi sviluppavano per
influenza degli SSRI la dopamina e altre ammine, ma non la serotonina. Una
terza difficoltà è che i farmaci usati per curare la depressione funzionano con
almeno altrettanta efficacia su altri malesseri, fra cui ansia, disturbi
dell’appetito, calo dell’attenzione, abuso di sostanze, disturbi della personalità e
tantissime altre condizioni che possono presentarsi o meno con la depressione.
Ciò fa pensare che i farmaci non correggano una specifica anomalia
neurochimica sottostante alla depressione, ma agiscano invece su funzioni
cerebrali molto generali che influenzano svariati sistemi emotivi e
comportamentali*. Nessuna teoria spiega in che modo una singola anomalia
della chimica del cervello possa essere correlata a un così ampio fascio di
problemi conseguenti. Inoltre, le misure in generale mostrano che solo il 25%
circa dei pazienti depressi presenta in realtà bassi livelli di norepinefrina o di
serotonina17. Anche se l’ipotesi della carenza si rivelasse corretta, essa
spiegherebbe solo una parte dei casi di depressione, come lo stesso Schildkraut
riconosceva nel suo articolo originale18.
Un altro problema fondamentale è che le ipotizzate carenze di serotonina o
altri composti chimici del cervello potrebbero essere benissimo conseguenza,
anziché causa, della depressione. Non ci sono prove al momento che gli
squilibri chimici precedano e causino i disturbi depressivi19. Invece, la
depressione stessa, e i farmaci usati per curarla, potrebbero essere responsabili
delle desunte carenze che si riscontrano nei pazienti con depressione. Poiché la
maggior parte dei partecipanti alla ricerca ha lunghe storie di cure
farmacologiche, è impossibile sapere se i loro cervelli apparissero
originariamente come appaiono nel momento in cui iniziano ad assumere i
farmaci antidepressivi*.
Ma il problema concettuale più grave nella ipotesi della carenza
neurochimica è, dal nostro punto di vista, che non esistono standard adeguati
fondati sui contesti che fissino i livelli normali e quelli anormali di serotonina e
altre ammine. Livelli alti o bassi di ogni composto neurochimico non sono
anormali in sé stessi, ma solo in relazione a un particolare insieme di
circostanze e al modo in cui il cervello è biologicamente predisposto per
rispondere a quelle circostanze. È possibile che i meccanismi che governano i
livelli di serotonina (e altri composti neurochimici) siano biologicamente
predisposti per rispondere in maniera appropriata ai loro contesti: il cervello di
una persona normale che subisce gravi perdite avrà, possiamo aspettarci, bassi
livelli di serotonina. La normalità dei livelli delle ammine può essere stabilita
solo in relazione al contesto ambientale in cui si verificano.
Per esempio, come mostrano gli studi considerati nel Capitolo 2, i livelli di
serotonina fra i primati variano notevolmente in funzione delle situazioni
sociali: promozioni e perdite di status sociale sono associate rispettivamente a
più alti o più bassi livelli di serotonina20. È possibile quindi che anche negli
uomini i bassi livelli di serotonina riflettano le emozioni che normalmente
accompagnano un recente cambiamento nello status sociale piuttosto che un
disturbo depressivo. Così pure, i babbuini che vivono in libertà presentano
livelli molto alti di glucocorticoidi (ormoni dello stress) dopo aver avuto un
lutto, una perdita di ango sociale, o altri eventi stressanti21. Questi livelli
ritornano normali una volta che gli animali interessati riprendono
comportamenti di grooming con i membri delle loro reti sociali. In questi casi, i
livelli così alti dei neurochimici non indicano patologie, ma mostrano invece il
modo in cui il cervello normale risponde alle situazioni di stress.
Al contrario, gli stati disturbati sono associati non solo a livelli estremi di
neurotrasmettitori ma anche a livelli estremi di quelle che sono risposte
inappropriate ai contesti ambientali. I tipi di cambiamenti nel cervello derivanti
dai disturbi depressivi sono simili a quelli che si verificano nelle risposte a
situazioni fortemente stressanti22. In effetti, la quantità molto elevata di
serotonina o altre ammine in risposta a un fattore di stress può essere adattiva
nella situazione in cui si verifica23. La differenza fra i livelli normali e quelli
anormali di circuiti neurochimici non sta nel livello del neurotrasmettitore in
sé, ma piuttosto nel fatto che il livello del neurotrasmettitore è uscito dalle
quantità consuete ed è diventato più cronico e lontano a causa di circostanze
ambientali.
Affermare che la depressione sia un «difetto della chimica» o una «malattia
fisica» è prematuro: fattori cognitivi, psicodinamici, sociali e altri, che
disarticolano in maniera duratura le reazioni di tristezza predisposte dalla
biologia ma che sono o non sono correlate con anomalie cerebrali, possono
sicuramente causare almeno alcuni dei disturbi depressivi. «La verità», osserva
lo psicologo Eliot Valenstein, «è che non sappiamo realmente in che modo i
farmaci alleviano i sintomi di disturbo mentale, e non dobbiamo dare per
scontato che lo facciano correggendo una carenza chimica endogena»24. Ma
perché la ricerca futura abbia migliori possibilità di confermare o smentire che
un qualche difetto dei sistemi dei neurotrasmettitori è connesso come causa a
casi di disturbo depressivo, i ricercatori dovranno usare criteri che possano
separare i casi in cui la variazione del livello di neurochimici risulta da cervelli
normali operanti in ambienti stressanti da quelli in cui una qualche anomalia
porta a un non corretto funzionamento del cervello*.
Gli studi di genetica della depressione sono entrati in una nuova era. Gli
importanti progressi fatti nella ricerca genetica negli anni Novanta hanno
permesso ai ricercatori di mappare direttamente geni specifici ed esaminare la
loro connessione con la comparsa di sintomi25. Ma nonostante questi
progressi, la ricerca attuale sulla genetica della depressione rimane frenata dalla
sua incapacità di distinguere in quali circostanze i fattori genetici portano alle
risposte biologicamente predisposte a una perdita o portano invece a disturbi
mentali. Le definizioni della depressione correnti, basate sui sintomi del DSM,
non distinguono adeguatamente la normale tristezza intensa dalla patologia,
eppure molta parte della ricerca genetica poggia su campioni della popolazione
composti con ogni probabilità di individui prevalentemente normali. C’è
quindi il rischio che i ricercatori considerino erroneamente le scoperte sulle
basi biologiche della tristezza normale come scoperte sulle cause del disturbo
depressivo.
Per illustrare come questo errore possa verificarsi, ci concentriamo su un
unico articolo, Influence of Life Stress on Depression: Moderation by a Polymorphism in
the 5-HTT Gene, dello psicologo Avshalom Caspi e colleghi26. L’influenza
dell’articolo su tutta la comunità scientifica è stata forse maggiore di quella di
qualsiasi studio genetico su qualsivoglia malattia mentale condotto finora. La
rivista “Science” lo designò, insieme con altri due articoli di genetica della
malattia mentale, come il secondo più importante contributo scientifico del
2003 (dopo un articolo sulle più recenti scoperte sulla natura del cosmo). Il
sito web del National Institute of Mental Health cita lo studio come uno dei
grandi frutti del concentrarsi dell’agenzia sulla base biologica della malattia
mentale. Thomas Insel, direttore del NIHM, afferma che «quel che hanno
fatto cambierà il paradigma di come noi vediamo i geni e i disturbi
psichiatrici»27. Un altro psichiatra del NIHM dice dello studio che è «il più
grande pesce mai pescato in psichiatria»28. Le scoperte dello studio furono
largamente diffuse e mostrate nei mezzi di comunicazione sia statunitensi sia
mondiali29.
La ricerca prende le mosse da uno studio longitudinale di un gruppo di 847
caucasici della Nuova Zelanda nati all’inizio degli anni Settanta e seguiti dalla
nascita alla prima età adulta. L’interesse centrale dei ricercatori era di esaminare
l’associazione fra eventi di vita stressanti, depressione e il gene 5-HTT quando
i membri del gruppo avevano 26 anni. Il gene 5-HTT era stato scelto perché
controlla il modo in cui la serotonina, a sua volta oggetto di molte ricerche
genetiche sulla depressione, trasmette i messaggi attraverso le cellule cerebrali.
Le ricerche fatte fino ad allora avevano mostrato che il gene è associato con le
reazioni a stimoli stressanti nei topi, nelle scimmie, e in soggetti umani
sottoposti a brain imaging, benché nessuno studio precedente avesse scoperto
un legame diretto fra il gene e la depressione.
Il gene 5-HTT ha tre genotipi: nel campione della Nuova Zelanda, il 17% dei
rispondenti aveva due copie dell’allele breve; il 31%, due copie dell’allele lungo;
e il 51% un allele breve e uno lungo. Lo studio misurò lo stress con un indice
aggiuntivo di 14 eventi della vita, fra cui stress legati a occupazione, a problemi
finanziari, abitativi, di salute e relazionali, vissuti dai soggetti del gruppo fra i
21 e i 26 anni. Usò la Diagnostic Interview Schedule (DIS), pensata per
realizzare diagnosi DSM, al fine di stabilire se i soggetti avessero o no vissuto
un episodio di Depressione Maggiore nel corso dell’anno precedente. Lo
studio riferì anche sul numero dei sintomi depressivi, sulle ideazioni suicidarie,
e sulle denunce di depressione. La sua ipotesi centrale era che i soggetti che
hanno una o due delle versioni brevi dell’allele 5-HTT sono particolarmente
vulnerabili ad ambienti altamente stressanti, mentre quelli con geni contenenti
la versione lunga sono più resistenti agli avversi fattori ambientali stressanti.
Lo studio trovò che il 17% del campione di ventiseienni riferiva di aver avuto
nel corso dell’anno precedente episodi di depressione abbastanza gravi da
soddisfare i criteri del DDM. Esso non rilevò alcuna associazione fra il gene 5-
HTT e quelli che divenivano depressi. In altri termini non c’era nessun effetto
genetico diretto sulla depressione: i soggetti con due alleli brevi, con due alleli
lunghi, o con uno di ciascun allele, avevano tutti uguali possibilità di diventare
depressi. Lo studio non trovò relazione neanche fra i gruppi di genotipi del 5-
HTT e il numero degli eventi di vita stressanti che i partecipanti
sperimentavano, sicché il genotipo non doveva essere responsabile di
un’esposizione differenziale ai fattori stressanti. Cioè, era improbabile che il
fatto di possedere un certo genotipo avesse a che fare con il numero degli
eventi di vita stressanti riferiti dai rispondenti.
Lo studio trovò una forte relazione positiva fra lo sperimentare più eventi
stressanti e lo sviluppare la depressione. Quando il numero degli eventi
stressanti aumentava da zero a quattro o più, le percentuali di DDM
aumentavano dal 10% al 13, 15, 20 e 33% rispettivamente. In altre parole, i
soggetti che sperimentavano quattro o più eventi stressanti avevano probabilità
di circa tre volte e mezzo superiori di sviluppare la depressione rispetto a quelli
che non vivevano eventi stressanti.
La scoperta principale dello studio, e quella che suscitò maggiore attenzione,
fu una significativa interazione fra gene e ambiente. Fra il 15% dei soggetti del
campione che avevano avuto quattro o più eventi stressanti dopo il
ventunesimo e prima del ventiseiesimo compleanno, quelli con una o due
copie dell’allele breve sul gene 5-HTT avevano una probabilità
significativamente maggiore di avere il DDM, e sintomi depressivi
autodenunciati o riferirti da informatori, di quelli con due copie dell’allele
lungo. Nel gruppo che aveva dovuto affrontare quattro o più eventi stressanti,
il 43% di soggetti con due alleli brevi e il 33% con un allele breve erano
diventati depressi rispetto a un 17% di quelli con due alleli lunghi.
Riassumendo, lo studio non trovò un effetto diretto del gene 5-HTT sulla
depressione. Trovò una relazione abbastanza forte fra eventi stressanti e
depressione, tanto che i soggetti che avevano più eventi stressanti avevano una
maggiore possibilità di diventare depressi. E trovò che il gene 5-HTT,
combinato con il numero degli eventi stressanti, permette di fare qualche
previsione sulla depressione: ad alti livelli di eventi stressanti, il fatto di
possedere l’allele breve del gene porta a maggiore depressione.
Gli autori videro la loro scoperta come una conferma della «teoria della
depressione della diatesi allo stress», la quale predice che le esperienze di più
alti livelli di stress eleveranno la vulnerabilità alla depressione molto più fra le
persone che sono ad alto rischio genetico che fra quelle a basso rischio
genetico30. L’allele breve sul gene 5-HTT rende le persone presumibilmente
più sensibili allo stress, mentre l’allele lungo le protegge dall’impatto dello
stress. Perciò, l’allele breve è il genotipo sensibile allo stress associato con la
depressione*.
Ma questa interpretazione dell’allele breve lascia aperto un interrogativo,
almeno per il più classico caso di disturbo depressivo, la depressione
endogena. Lo studio trovò che circa il 10% delle 263 persone che non avevano
vissuto eventi negativi nei precedenti cinque anni aveva sviluppato la
depressione. Questo 10% era il gruppo che nella maniera più chiara presentava
disturbi depressivi come contrapposti alla intensa tristezza normale, ma non
rivelava alcun impatto del genotipo 5-HTT sulla risposta allo stress da parte
dei suoi componenti. Se esiste una causa genetica della depressione endogena,
non sembra qui venir fuori, in quanto questo particolare tipo di disturbo
depressivo appare senza relazione con il gene 5-HTT o, almeno, con le sue
diffuse varianti che Caspi e colleghi studiarono.
L’interpretazione data alle loro scoperte da Caspi e colleghi solleva un
problema molto più basilare: non è chiaro che il gene identificato abbia molto
a che fare con il disturbo depressivo in generale. Lo studio usò per la
depressione i criteri del DSM, che non contengono una distinzione sistematica
fra la tristezza normale e il disturbo depressivo. La percentuale
straordinariamente alta della depressione fra i giovani in questo stesso studio –
il 17% del campione di ventiseienni dell’intera comunità soddisfaceva i criteri
del DSM per il DDM – fa pensare che molti di questi casi riflettessero di fatto
una intensa tristezza normale, e non disturbi depressivi. Né c’era alcuna
situazione insolita che potesse spiegare alti tassi di disturbo depressivo: la
ricerca era stata condotta in un paese moderno e prospero in un periodo
tranquillo, senza guerre, senza rilevanti recessioni economiche o insurrezioni
culturali31, e aveva tenuto fuori i Maori, una minoranza etnica povera che ci si
poteva aspettare presentasse alti tassi di depressione. La fondamentale
domanda se la misurazione del disturbo sia valida, e quindi la questione se
l’interazione osservata rifletta una variazione normale o un disturbo, rimane
del tutto elusa, non vi si può dare risposta sulla base dei dati esistenti.
Prematuro è soprattutto concludere che l’allele breve sia un genotipo per i
disturbi depressivi, dati i particolari tipi di eventi stressanti che lo studio di
Caspi e colleghi misurò. La maggior parte dei 14 eventi stressanti misurati
dallo studio era associata alle insufficienti risorse finanziarie, come problemi di
debito, il non avere denaro per il cibo e le spese familiari, la mancanza di
denaro per le spese mediche e la difficoltà di pagare le bollette. Molti di questi
eventi, dunque, potevano essere frutti congiunti di un unico fattore stressante,
come la disoccupazione o la povertà persistente. In molti casi, la denuncia di
quattro o più fattori stressanti potrebbe indicare non un aumento degli eventi
stressanti ma varie conseguenze di un particolare tipo di fattore stressante
finanziario misurate dallo studio. L’impatto dell’allele breve, perciò, potrebbe
non essere associato tanto con il far fronte a ‘più’ fattori stressanti, quanto con
il fare esperienza di particolari ‘tipi’ di fattori stressanti legati a problemi
finanziari, che più probabilmente sono correlati con la tristezza normale.
Benché questo studio non faccia riferimento all’associazione della classe
sociale con questi eventi di vita, altri studi di analoghi gruppi d’età trovano
forti relazioni fra il basso status socioeconomico e il numero di importanti
eventi di vita sperimentati da giovani adulti32. Lo studio di Caspi e colleghi
potrebbe in realtà mostrare principalmente come le persone con limitate
risorse economiche siano esposte a tipi di fattori stressanti – debito finanziario,
disuguaglianza sociale e povertà – che portano naturalmente a denunciare
sintomi di tristezza normale. Se questa interpretazione è corretta, ne derivano
importanti conseguenze per gli sforzi di prevenzione o cura, perché più di due
terzi della popolazione ha almeno un allele breve*. L’articolo di Caspi e
colleghi si concentra sulla possibilità del trattamento farmacologico,
osservando che «una migliore conoscenza delle proprietà funzionali del gene
5-HTT potrebbe portare a migliori cure farmacologiche per quelli già
depressi»33. Ma se il gene 5-HTT è largamente responsabile della tristezza
normale che emerge a causa delle disuguaglianze sociali piuttosto che dei
disturbi depressivi, sarebbe quantomeno meglio indirizzare gli sforzi preventivi
alle condizioni sociali anziché concentrarsi esclusivamente sulla cura medica di
un presunto difetto genetico interno.
In ogni caso, il significato delle scoperte di Caspi e colleghi rimane ambiguo.
Se i geni studiati interagiscono con certi tipi di fattori stressanti o con i fattori
stressanti in generale e non sono invece i puntelli genetici del disturbo
depressivo, le scoperte possono essere interpretate altrettanto bene come
normali variazioni genetiche della tendenza delle persone a diventare tristi
quando sono sottoposte a intenso stress. I dati dello studio sono del tutto
coerenti con la possibilità che gli alleli breve e lungo rappresentino due varianti
grosso modo uguali, che influiscono sul modello di sensibilità nelle risposte
normali alla perdita. I tentativi successivi di confermare le scoperte dello
studio rivelano serie discrepanze sia al loro interno sia rispetto allo studio
originale, producendo un quadro di confusione piuttosto che di solidità
scientifica34. Le ambiguità risultanti potrebbero derivare dal fatto che tutta la
ricerca non aveva alla base la distinzione fra le condizioni normali e quelle
patologiche e quindi probabilmente abbracciava un certo mix eterogeneo di
tristezza normale e patologica con determinanti genetiche variabili. L’impiego
di misure che distinguano la tristezza normale dalla depressione patologica
potrebbe aiutare a chiarire questa situazione problematica.
8.5 | Conclusione
Abbiamo sostenuto che se i ricercatori del cervello non prendono in
considerazione il contesto in cui la tristezza si sviluppa, rischiano di dare
diagnosi sbagliate a persone normalmente tristi affibbiando loro disturbi
depressivi, e di fare confusione formando i loro campioni con un miscuglio
eterogeneo di soggetti malati e normali. La tristezza normale, non meno del
disturbo depressivo, è in correlazione con gli stati cerebrali e può includere
sintomi di intensa tristezza: i soggetti che provano tristezza possono avere
alcuni dei marcatori biologici in comune con i soggetti affetti da veri disturbi
depressivi. Riscontrare perciò la presenza di un substrato biologico in una
condizione con sintomi di tristezza intensa che soddisfano i criteri del DSM
non basta per dire se quel particolare substrato o la condizione stessa siano
normali o patologici. Conoscere il contesto in cui l’attività cerebrale si verifica
è precondizione essenziale per capire se i cervelli funzionano in maniera
normale o anomala. Una migliore comprensione di come i cervelli normali
rispondono a situazioni di perdita fornirebbe un metro essenziale su cui
confrontare le possibili disfunzioni cerebrali connesse con i disturbi depressivi.
Una meglio definita ricerca sul cervello ha quindi potenzialità per distinguere
in modo più efficace e illuminare le risposte a una perdita sia normali sia
anormali.
Note
1 | Luhrmann, 2000; Blazer, 2005.↵
2 | Bouchard, Lykken, McGue, Segal, e Tellegen, 1990; Alford, Funck, e Hibbing, 2005.↵
3 | Archer, 1999.↵
4 | Mayberg et al. , 1999.↵
5 | Ibidem.↵
6 | Kendler, Heath, Martin, e Eaves, 1986; Kendler et al. , 1995; McGuffin, Katz, e Rutherford, 1991;
Sullivan, Neale, e Kendler, 2000.↵
7 | Cadoret, 1978.↵
8 | Cadoret, O’Gorman, Heywood, e Troughton, 1985; von Knorring, Cloninger, Bohman, e
Sigverdsson, 1983.↵
9 | Sullivan et al. , 2000.↵
10 | Bouchard et al. , 1990; DiLalla, Carey, Gottesman, e Boucahrd, 1996; Bouchard e Loehlin, 2001.↵
11 | Schildkraut, 1965.↵
12 | Lacasse e Leo, 2005.↵
13 | Healy, 1997, p. 156.↵
14 | Schildkraut, 1965, p. 509.↵
15 | Ivi, p. 517.↵
16 | Valenstein, 1998, p. 99.↵
17 | Ivi, p. 101.↵
18 | Schildkraut, 1965.↵
19 | Valenstein, 1998; Lacasse e Leo, 2005.↵
20 | McGuire, Religh, e Johnson, 1983; Raleigh, McGuire, Brammer, eYuwiler, 1984.↵
21 | Engh et al. , 2006.↵
22 | Gold, Goodwin, e Chrousos, 1988.↵
23 | Anisman e Zacharko, 1992.↵
24 | Valenstein, 1998, p. 135.↵
25 | Sadock e Sadock, 2003.↵
26 | Caspi et al. , 2003.↵
27 | Vedantam, 2003, p. A1.↵
28 | Holden, 2003, p. 291.↵
29 | Horwitz, 2005.↵
30 | Monroe e Simons, 1991.↵
31 | French, Old, e Healy, 2001.↵
32 | Turner, 2003.↵
33 | Caspi et al. , 2003, p. 389.↵
34 | Kendler et al. , 2005; Eley et al. , 2004; Gillespie et al. , 2004; Surtees et al. , 2006.↵
35 | Mayberg et al. , 1999.↵
36 | Sapolsky, 2001.↵
37 | Davidson, 2003.↵
38 | Everdell, 1997, p. 131.↵
39 | Davidson, 2003.↵
40 | Rajkowska et al. , 1999.↵
41 | Kramer, 2005, p. 61.↵
42 | Videbech e Ravnkilde, 2004.↵
43 | Cotter, Mackay, Landau, Kerwin, e Everall, 2001.↵
44 | Liotti, Mayberg, McGinnis, Brennan, e Jerabek, 2002.↵
45 | Van Elst, Ebert, e Trimble, 2001; Davidson, 2003.↵
46 | Kramer, 2005.↵
47 | Sapolsky, 2001; Schatzberg, 2002; Davidson, 2003.↵
48 | Rajkowska et al. , 1999.↵
49 | Ibidem; Liotti et al. , 2002.↵
50 | Kramer, 2005, p. 7.↵
51 | Kendler e Gardner, 1998.↵
52 | Kramer, 2005, p. 171. [Dobbiamo notare che qualora l’accettazione della malattia equivalesse a
una rassegnazione all’incurabilità là dove il disturbo psichico invece potrebbe guarire, allora questa
impostazione farebbe sì che la condizione psichica non venga curata e si cronicizzi rendendo
impossibile la cura. NdC]↵
53 | Valenstein, 1998.↵
54 | Mayberg et al. , 1999.↵
55 | Ivi, p. 679.↵
* Se la ricerca si basa su un inquadramento diagnostico inesatto è difficile
pensare che essa possa essere applicata in ambito clinico. Seppur si cerca di
essere politically correct, va posta una critica fondamentale: la diagnosi costituisce
una base irrinunciabile in medicina, affinché la scienza di una branca medica si
possa appropriare di una competenza e conquistare un’efficacia nell’intervento
terapeutico. [NdC]↵
* Questi aspetti possono essere più naturalmente intesi come specie-specifici
e quindi certamente correlati ad aspetti genetico-biologici. Il tentativo dei
nostri autori di cercare uno scopo in molte caratteristiche umane suggerisce
l’influenza di uno studio dell’essere umano concepito come quello degli
animali o dei primati. L’essere umano, tuttavia, si caratterizza per l’assenza di
istinto predeterminato, per la possibilità di scelta, l’arte, la sessualità e la
socialità, questi ultimi aspetti estranei all’utile e alla sopravvivenza, e assenti
negli animali. L’essere umano presenta la necessità di soddisfare i propri
bisogni per sopravvivere ma si contraddistingue dalle altre specie, oltre che per
la stazione eretta, l’opponente del pollice e l’angolo della colonna cervicale con
la base cranica, per l’esigenza di realizzare la propria identità, nel lavoro, nelle
relazioni ed in particolare nel rapporto uomo-donna, dove può ricreare la
realtà psichica della nascita e del primo anno di vita. In tutto ciò che costituisce
l’espressione umana non vi è una finalità come invece si osserva
sistematicamente per i comportamenti animali. M. Fagioli, Settimo Anno. Lezioni
2008, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2013. [NdC]↵
* Se si considera che lo stato emotivo è secondario a una circostanza
soggettiva, che tuttavia non è visibile e non necessariamente è cosciente, si può
affermare che i processi neurotrasmettitoriali rispondono in maniera
appropriata, allo stesso modo dei soggetti tristi, a una perdita che potrebbe
essere non visibile, poiché non materiale, non attuale e puramente affettiva e
soggettiva. Si può pertanto avanzare l’ipotesi che il problema patologico
potrebbe non essere biologico ma soggettivo e il movimento biologico non
sarebbe che l’espressione fisica di quanto accade a livello psichico? Cfr. infra,
pp. 248 sgg.[NdC]↵
* In relazione a questi dati brillantemente evidenziati dagli autori, che si
pongono così in un contesto psichiatrico controcorrente rispetto alle tendenze
attuali che vorrebbero ricercare una base neurobiologica primaria del DDM,
cfr. supra, l’Introduzione. [NdC]↵
* Ne deriva un condizionamento culturale allarmante, poiché fuorviante
rispetto alla natura psicologica dell’essere umano e a ogni ricerca su di essa.
Cfr. anche D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino d’oro edizioni, Roma
2014. [NdC]↵
* L’effetto dei farmaci psicotropi viene spesso considerato un effetto
cosiddetto ‘a pioggia’, nel senso che agisce in modo aspecifico in diverse aree
cerebrali caratterizzate dallo stesso sistema neurotrasmettittoriale. Ciò rende i
farmaci psichiatrici molto distanti dai farmaci delle altre branche della
medicina, in cui sono certi e ben noti, invece, i meccanismi farmacodinamici e
il danno biologico su cui il farmaco agisce e gli effetti collaterali sono pertanto
accettabili, oltre che valutabili rispetto ai benefici. [NdC]↵
* Lo stesso problema è stato discusso per altri quadri psichiatrici. Cfr. ad es.,
a proposito della schizofrenia, R.B. Zipursky, T.J. Reilly, R.M. Murray, The myth
of schizophrenia as a progressive brain disease, in “Schizophrenia Bulletin”, 39, 2013,
pp. 1363-1372. [NdC]↵
* Anche in questo caso l’alterazione funzionale potrebbe essere il correlato
neurobiologico di un problema mentale, di relazione, per cui la mente vive una
condizione stressante cronica per motivazioni non manifeste, non attuali,
anche di natura non cosciente. Si potrebbe parlare di secondarietà? In base a
un’etiopatogenesi di matrice relazionale, la terapia farmacologica è
inappropriata e può essere dannosa, come osservato anche dagli autori.
[NdC]↵
* Il concetto di vulnerabilità potrebbe essere messo in discussione da un
concetto alternativo di maggiore resistenza. Questa impostazione, che
apparentemente può sembrare un gioco di parole, in realtà evidenzia un
concetto di uguaglianza di base negli individui, dotati tutti di una resistenza allo
stress. Se in caso di stimoli stressanti particolarmente violenti alcuni
potrebbero essere più forti, l’attenzione si incentra sulla intensità dello stress e
non sulla vulnerabilità del singolo individuo. Ciò potrebbe portare
all’abbandono di un’idea aprioristica di mancanza negli esseri umani e in
particolare in alcuni soggetti, la quale idea spesso comporta una convinzione di
incurabilità e un grave condizionamento dell’intervento. Riflettiamo su come
l’approccio dell’operatore, basato su un concetto di vulnerabilità, possa sia
condizionare la modalità d’intervento, usando farmaci in modo scarsamente
motivato oppure a dosaggi eccessivi, che influenzare la scelta dell’intervento,
prediligendo un approccio farmacologico a quello psicologico o a uno di tipo
integrato. In altre parole, il concetto di vulnerabilità condiziona la natura della
diagnosi, inficiando l’efficacia della terapia. [NdC]↵
* Ciò fa riflettere su come esso possa non essere indicativo di un disturbo. Si
osserva spesso una ricerca incessante di alterazioni organiche nel tentativo di
dimostrare un’eziopatogenesi genetica della depressione. Quali conseguenze vi
sarebbero se invece la depressione non fosse genetica? E se gli eventi stressanti
fossero rappresentati da aspetti patologici di relazioni a livello non cosciente?
Ciò potrebbe essere correlabile con la complessità dei dati risultanti dallo
studio di Caspi. [NdC]↵
Capitolo 9 | L’ascesa delle cure con farmaci
an depressivi
La relazione fra la diagnosi del DSM e le medicine è complicata dal fatto che
gli antidepressivi, e gli SSRI in particolare, toccano aspetti generali del
funzionamento del cervello e, come notato, possono avere effetti simili sia
sulla tristezza normale sia sul disturbo depressivo. I pochi studi che mettono a
confronto i cambiamenti che gli SSRI producono in persone presumibilmente
sane con i cambiamenti subiti da quelle con diagnosi di disturbo depressivo
trovano che gli SSRI funzionano ugualmente sul malato e sul non malato64. Il
sollievo psichico risultante dai medicinali non necessariamente indica, dunque,
che quella che è stata alleviata sia una condizione di malattia. Per esempio,
persone tristi non malate denunciano meno sintomi dopo il trattamento con
gli antidepressivi65.
Pochi oserebbero sostenere che le medicine non hanno un ruolo nella
risposta ai disturbi depressivi: i medicinali possono alleviare drasticamente la
disperazione che accompagna il DDM, e hanno contribuito ad agevolare il
processo di deistituzionalizzazione del sistema della salute mentale che
permette a molte persone di evitare lunghi periodi di ricovero in ospedale. Una
questione più controversa è quella dell’uso dei farmaci per emozioni di
sofferenza ma normali. Gli SSRI alzano i livelli di serotonina nelle sinapsi ed è
quindi plausibile che anche l’infelicità e il disturbo dell’umore rispondano
spesso a essi. Come afferma Peter Kramer, «stiamo entrando in un’epoca in
cui i medicinali possono essere usati per migliorare il funzionamento della
mente normale»66.
Posto che la scoperta che gli SSRI possono influenzare le emozioni
fisiologiche sia confermata, è giusto che questi farmaci siano prescritti a
persone che stanno attraversando un periodo di normale infelicità, oltre che a
quelle con DDM? A questo proposito, ci sono ragioni legittime per l’uno e
l’altro campo.
Una posizione – incarnata nelle linee guida ufficiali del trattamento, nella
medicina basata su prove di efficacia e in atti governativi – guarda al
trattamento con i farmaci in termini esplicitamente positivi. Il Surgeon
General’s Report on Mental Health, per esempio, afferma che «gli
antidepressivi sono efficaci in tutto lo spettro di gravità, dagli episodi
depressivi maggiori al disturbo depressivo maggiore al disturbo bipolare»67.
Inoltre, una larga maggioranza di psichiatri statunitensi è favorevole all’uso
degli SSRI come trattamento di prima linea per la depressione68. In questa
visione il trattamento con i farmaci si è dimostrato efficace per alleviare i
sintomi depressivi, anche se con piccoli rischi di effetti collaterali e altre
conseguenze indesiderabili. Inoltre, i benefici finanziari di questo trattamento
sono considerati di gran lunga superiori ai costi69. Per di più, i farmaci sono
considerati capaci di impedire che condizioni leggere si aggravino. I disturbi
leggeri dovrebbero quindi essere curati con altrettanto vigore di quelli più gravi
– si afferma – non solo per prevenire una quota consistente di futuri casi gravi,
ma anche per limitare futuri esiti come il ricovero in ospedale, la disabilità sul
lavoro e i tentativi di suicidio70.
I sostenitori dei farmaci si preoccupano di un uso troppo scarso degli
antidepressivi e cercano il modo di motivare le persone a procurarseli e usarli.
Vogliono incoraggiare le persone a riconoscere di avere una malattia curabile, a
cercare una cura medica per la loro condizione e a superare lo stigma sociale
che pesa sull’assunzione di medicinali71. Sono inoltre preoccupati del fatto che
non solo la gente comune ma anche i medici generici tendono a riconoscere
sotto misura la depressione e quindi a prescrivere in quantità insufficiente i
farmaci antidepressivi72. Per loro, la crescente consapevolezza ed educazione
sui benefici dei farmaci psicotropi può ottimizzare il trattamento della
depressione. L’opposizione all’uso dei medicinali riflette, secondo lo psichiatra
Gerald Klerman, un «calvinismo farmacologico» che considera ogni farmaco
che fa star bene le persone come qualcosa di cattivo:
Dal punto di vista psicoterapeutico, il mondo è diviso fra i cittadini di prima classe, i santi
che riescono a raggiungere la loro cura o salvezza con la forza della volontà, l’intuizione,
la psicoanalisi, o modificando il comportamento, e il resto delle persone, che sono di
debole fibra morale e hanno bisogno di sostegno, che sia la Thorazine, il Miltown o il
Compoz73.
Quella che Klerman chiama la visione «calvinista» dei farmaci psicotropi
spinge una porzione notevole delle persone a resistere all’assunzione di
farmaci perché ne associa l’uso a una debolezza morale, nonostante i benefici
che potrebbe ricevere assumendoli.
La maggior parte dei sostenitori di questa posizione, in linea con il DSM,
ritiene semplicemente che le condizioni curate dai farmaci sono disturbi
depressivi e non tristezza normale. La loro opinione sull’uso dei medicinali per
curare la tristezza normale non è, perciò, esplicita. Ma alcuni di essi sono
abbastanza chiari nell’affermare che i farmaci debbano essere usati per curare
qualsiasi forma di sofferenza74. La pena che nasce, per esempio, dalla morte di
una persona cara, dalla rottura di una relazione sentimentale o dalla perdita del
posto di lavoro, è altrettanto reale di quella che ha origine da un disturbo
depressivo. La posizione di costoro è che semplicemente non c’è una buona
ragione perché le persone debbano sopportare la sofferenza psichica causata
dalla tristezza normale quando ci sono strumenti sicuri ed efficaci per
alleviarla. Dopotutto, poche persone vorrebbero che le donne rifiutassero
l’anestesia che consente di alleviare le sofferenze normali legate al parto. Chi
sostiene questa posizione afferma che se una persona è convinta che gli SSRI
possono allietare la sua vita, offrire un maggiore controllo sulle sue emozioni e
accrescere la sua autostima, oltre a dare sollievo alle inevitabili pene
dell’esistenza umana, deve essere in grado di usarli, anche in assenza di una
patologia qualsiasi. In questa ottica il sollievo della sofferenza è un valore che
supera tutti i costi che potrebbero derivare dal curare con farmaci la tristezza
normale.
Le obiezioni a questa posizione favorevole alle medicine vengono
generalmente dal di fuori della professione psichiatrica, della comunità di
ricerca clinica e delle agenzie governative. Per millenni le persone hanno usato
la religione, la spiritualità e la filosofia per comprendere come la loro infelicità
sia radicata in più vasti interrogativi sulla vita75. Questo interrogarsi permette
all’individuo di capire come le sue emozioni siano correlate agli aspetti
fondamentali dell’esistenza umana e di apprezzare i suoi sentimenti in modo
più profondo di quanto possa fare la loro mitigazione tramite le medicine.
«Parte almeno della tormentata preoccupazione a proposito del Prozac e
simili», lamenta il filosofo Carl Elliott, «è che nonostante tutto il bene che
fanno, gli ammalati che essi curano sono una componente di quel posto
solitario, distratto, insostenibile, triste in cui viviamo»76. Usare le pillole
significa una fuga dall’affrontare davvero i problemi della vita. A parte le
questioni filosofiche, possono esserci benefici psicologici della tristezza
normale che il suo trattamento potrebbe annullare. Non sappiamo bene al
momento perché siamo biologicamente predisposti a sperimentare la tristezza
in risposta a una perdita e, finché non lo sapremo, è possibile che ci siano dei
benefici nel ritirarsi in uno stato di tristezza dopo una perdita importante che
non sono immediatamente evidenti ma sono nondimeno reali e rilevanti per il
funzionamento psicologico di lungo termine*.
Un’altra obiezione, che riecheggia le critiche fatte negli anni Cinquanta e
Sessanta, sottolinea che il diffuso uso degli antidepressivi porta le persone ad
accettare le situazioni oppressive, anziché opporvi resistenza. Da questo punto
di vista, l’uso dei farmaci psicotropi promuove una visione del mondo che
trasfigura erroneamente i problemi sociali come problemi personali.
Prescrivere una pillola trasmette alle persone coinvolte l’idea che questioni
pubbliche – matrimoni fallimentari, deplorevoli condizioni di lavoro, finanze
inadeguate ecc. – sono preoccupazioni private dell’individuo che vanno trattate
con i farmaci77. ‘Patologizzare’ la tristezza normale che nasce da queste
preoccupazioni implica che le medicine siano il modo giusto di curarle, con la
conseguenza che vengono ignorati altri possibili rimedi*. Questo processo
distoglie l’attenzione dallo sviluppare politiche in grado di mutare le condizioni
che danno origine alla tristezza78. In effetti nel 1958 il Surgeon General
(chirurgo generale), L.E. Burney, ricordava che «i problemi della vita
quotidiana» non possono essere «risolti con una pillola»79, un ammonimento
lontano dalle posizioni degli attuali chirurghi generali.
Altri sollevano la questione se le emozioni di tristezza normale siano un
legittimo problema di pubblico interesse o siano invece problemi personali. La
promozione degli antidepressivi propone una visione del sé debole e fragile,
che richiede il continuo intervento protettivo di professionisti esperti80. I
privati individui divengono sempre più disponibili a esami e regolazioni
pubbliche attraverso gli screening e le successive cure farmacologiche. La
scoperta delle emozioni e dei sentimenti è inevitabilmente molto più intrusiva
e coercitiva di quanto sia la scoperta di malattie fisiche che di solito richiedono
l’aiuto degli esperti.
Altri critici non mettono in discussione le implicazioni politiche e culturali
dei farmaci antidepressivi quanto la loro efficacia e sicurezza. Contestano la
natura benigna degli antidepressivi e affermano che i loro effetti collaterali,
come perdita del desiderio sessuale, nausea, diarrea e mal di testa, sono più
comuni e maligni di quanto non si dica81. E citano anche il maggiore rischio di
suicidio, soprattutto per i giovani, durante gli stadi iniziali dell’assunzione di
questi farmaci82, anche se le prove a sostegno dell’affermazione non sono
molto solide*. Infine, puntano il dito contro i potenziali effetti negativi dell’uso
di lungo termine di queste medicine. Benché non ci siano dubbi che i più
recenti antidepressivi sono più sicuri dei predecessori, c’è tuttavia ragione di
preoccuparsi del loro uso diffuso.
I critici affermano, inoltre, che i difensori degli antidepressivi hanno
banalmente gonfiato troppo l’efficacia di questi medicinali. Gli attuali criteri
promuovono gli SSRI come i farmaci di prima linea per la depressione da
moderata a grave83. Ma l’evidenza che i farmaci antidepressivi siano più
efficaci dei placebo, a giudicare dalle sperimentazioni random a doppio cieco
con placebo, è tutt’altro che univoca. «Nonostante molti esperimenti»,
sintetizza un gruppo di ricerca, «mostrino che gli antidepressivi sono superiori
ai placebo, molti altri non lo fanno, e fra questi alcuni esperimenti meglio noti
come landmark trials, studi di riferimento come quello del Medical Research
Council e quello iniziale del National Institute for Mental Health»84.
Un’indagine globale del National Institute for Health and Clinical Excellence
(NICE) in Inghilterra fa pensare che gli SSRI non abbiano vantaggi
clinicamente significativi rispetto ai placebo lungo tutta la gradazione di gravità
delle patologie. Un rapporto su questo studio conclude: «Dati i dubbi sui loro
benefici e le preoccupazioni per i loro rischi, le attuali raccomandazioni a
prescrivere gli antidepressivi dovrebbero essere riconsiderate»85. L’evidenza
fornisce scarso appoggio all’entusiasmo di prescrivere farmaci.
Ancora meno sono le evidenze per l’efficacia degli antidepressivi nel curare
le condizioni non psicotiche non particolarmente intense (a volte chiamate
depressione ‘lieve’), molte delle quali sono sicuramente casi di tristezza
normale. Anche nella relazione del Surgeon General il fervore per le medicine
antidepressive è un po’ mitigato per questi casi. «Per episodi depressivi lievi»,
conclude il rapporto, «la percentuale di risposta complessiva è di circa il 70%,
con una percentuale per i placebo di circa il 60%»86. L’efficacia degli
antidepressivi per le condizioni lievi supera cioè quella dei placebo solo del
10%. In effetti, da metà a due terzi dei pazienti con depressione lieve
migliorano con il solo placebo. Ciò può indicare che quella che era stata curata
non era una patologia ma tristezza normale, che si attenua naturalmente con il
tempo o con interventi ordinari come l’interazione con altre persone o il
sostegno emotivo da esse fornito. Anche alcuni dei più convinti sostenitori
dell’uso dei farmaci per trattare casi lievi di depressione concludono: «I test
clinici sul trattamento non hanno fornito evidenza che la terapia farmacologica
migliori significativamente i disturbi lievi»87. Confrontati con gruppi di
controllo cui vengono somministrati placebo attivi che imitano qualcuno degli
effetti collaterali degli antidepressivi, non emergono differenze fra gli
antidepressivi e i placebo88.
L’evidenza relativa all’efficacia dei farmaci antidepressivi, soprattutto per la
depressione lieve, è dunque ambigua. Ancora, vista la loro popolarità, è
difficile credere che l’efficacia degli antidepressivi sia così limitata e i loro
effetti collaterali negativi così grandi quanto i critici affermano. Molte persone
trovano che gli antidepressivi offrono modi legali e generalmente sicuri per
moderare le loro emozioni stressanti. Inoltre, i risultati delle prove cliniche
possono essere fuorvianti. In pratica, i consumatori e i loro medici spesso
provano parecchi farmaci diversi prima di trovare alla fine quello che
funziona89. Le prove cliniche, invece, potrebbero minimizzare la percentuale
complessiva di efficacia perché prendono in esame un particolare tipo di
medicine, che si rivelano inefficaci per particolari soggetti che partecipano alla
sperimentazione, mentre un altro farmaco non testato può essere efficace. In
effetti, recenti sperimentazioni con una varietà di farmaci, pensate proprio per
affrontare questo argomento, sembrano raggiungere percentuali più alte di
miglioramento90. Pertanto, il fatto che le medicine abbiano un’efficacia poco
superiore ai placebo è forse una critica meno decisiva di quanto spesso si
creda. Ma è difficile trovare ragioni cogenti perché la politica pubblica debba
‘incoraggiare’ l’uso di farmaci per curare condizioni lievi, molte delle quali
sono con ogni probabilità casi di tristezza normale.
Non è facile scegliere fra le affermazioni concorrenti sull’uso degli
antidepressivi. Tutte le considerazioni di entrambe le posizioni espresse nel
dibattito sembrano avere qualche valore, e non esiste una risposta generale alla
questione se le medicine psicotrope debbano essere prescritte per emozioni
dolorose fisiologiche. Alla fine, gli stessi consumatori devono assimilare tutte
queste considerazioni e giudicare se debbano usare i farmaci antidepressivi per
moderare i loro umori. Negli ultimi decenni il giudizio del pubblico ha
certamente fatto un salto nella direzione dei farmaci: la tolleranza per le
emozioni fisiologiche ma penose è calata, e molte persone in questo mondo
moderno sono addivenute a considerare le medicine come un modo di
controllare i loro sentimenti91. Se trovano che la loro vita appaia più gioiosa
quando sono curate con le medicine, la fede nell’autonomia e nella libera scelta
impone che alle persone non sia impedito di farsi prescrivere da un medico
responsabile quel sollievo. Inoltre, non si deve dimenticare che le pubblicità
DTC spingono molte persone veramente depresse a cercare aiuto e a ricevere
farmaci utili dai loro medici92. Il punto da tenere a mente, abbiamo sostenuto,
è che la diagnosi non dev’essere costruita su basi non valide ipotizzando
patologie dove non ci sono e influenzando queste decisioni.
9.3 | Conclusione
Poiché tanti punti sul ruolo giusto dei farmaci antidepressivi rimangono
irrisolti, l’atteggiamento più saggio da tenere è quello della prudenza, evitando
affermazioni trancianti a difesa o a condanna del loro uso. In passato i
responsabili di governo erano preoccupati dei possibili pericoli e dell’uso
eccessivo delle medicine psicotrope, e anche delle campagne dell’industria
farmaceutica per incoraggiare segmenti sempre più ampi della popolazione ad
assumerle. Numerose audizioni del Congresso sollevarono la questione della
promozione dei prodotti farmaceutici, soprattutto per i problemi esistenziali.
Con un notevole dietrofront, i criteri diagnostici basati sui sintomi ripensano
facilmente gli ‘stress della vita quotidiana’ come indizi di patologia. Di sicuro
esiste una ragionevole via di mezzo.
Quali, per esempio, sarebbero le conseguenze per le pubblicità DTC se i
criteri per la Depressione Maggiore del DSM venissero cambiati per
distinguere in maniera più adeguata la tristezza normale dal disturbo
depressivo? A titolo di confronto, negli anni Sessanta la casa farmaceutica
Sandoz mise in commercio un nuovo tranquillante, il Serentil, e lo lanciò con
una pubblicità che ne raccomandava esplicitamente l’uso per problemi generali
della vita: «Il nuovo arrivato in città che non riesce a fare amicizie. L’uomo
d’azienda che non riesce ad adattarsi al cambiamento di status dentro la sua
società. La donna che non riesce ad andare d’accordo con la nuova nuora. Il
dirigente che non riesce ad accettare il pensionamento». La FDA impose alla
Sandoz di ritirare l’annuncio pubblicitario e di pubblicare una rettifica in cui si
dichiarava che non si voleva dire che il Serentil fosse indicato per «le situazioni
d’ansia quotidiana che si incontrano nel corso normale della vita», ma solo per
«certi stati di malattia»93. Se il DSM creasse standard più restrittivi per il DDM,
le pubblicità DTC degli antidepressivi dovrebbero adeguarsi a questi criteri. Il
risultato sarebbe un abbassamento almeno marginale dell’appeal dell’uso del
farmaco per i problemi normali della vita, anche se di fatto questo è un
obiettivo desiderabile.
Ma il tipo di dibattiti che si verificarono prima del 1980 sulla saggezza di
curare con i farmaci lo stress fisiologico sono in gran parte scomparsi dalla
psichiatria, anche se continuano nella medicina generale (per esempio, se a
individui normalmente bassi si debbano somministrare ormoni della
crescita)94. Le discussioni si concentrano invece più strettamente sui temi
dell’efficacia e degli effetti collaterali, o se siano preferibili alle medicine terapie
alternative. Questa mancanza di discussione sembra essere dovuta al fatto che,
quando una condizione è già definita in partenza come malattia, la
considerazione di quale trattamento sia il più appropriato è viziata dall’assunto
che c’è qualcosa di sbagliato nell’individuo*. La questione se interferire con i
meccanismi fisiologici debba essere preferito al correggere i meccanismi
malfunzionanti è considerata fuori luogo, e il pensiero medico diviene
corrispondentemente meno sfumato.
La nostra analisi suggerisce la necessità di una maggiore chiarezza
concettuale da parte del professionista della diagnosi e di un consenso più
informato da parte del paziente. Un aspetto fondamentale del consenso
informato è che il paziente riceva una diagnosi il più accurata possibile, e non
c’è distinzione diagnostica più fondamentale di quella fra patologia e stato
emotivo fisiologico in risposta a circostanze della vita, che con tutta probabilità
si risanerà con il tempo senza intervento. La prognosi e le decisioni sulla
adeguatezza di possibili trattamenti dipendono da questa distinzione, ed è
importante che il professionista condivida questa informazione con il paziente
per decidere insieme un percorso terapeutico.
Note
1 | Jackson, 1986.↵
2 | MacDonald, 1981, p. 190.↵
3 | Shorter, 1997.↵
4 | Ivi, p. 316.↵
5 | Grob, 1991a, p. 149; Shorter, 1997, p. 316. [Cfr. anche D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino
d’oro edizioni, Roma 2014. NdC]↵
6 | Parry, Balter, Mellinger, Cisin, e Manheimer, 1973; Smith, 1985, pp. 46-47.↵
7 | Shapiro e Baron, 1961; Raynes, 1979; Cooperstock e Leonard, 1979.↵
8 | Cooperstock, 1978; Smith, 1985; Olfson e Klerman, 1993.↵
9 | Jagger e Richards, 1967.↵
10 | Metzl, 2003.↵
11 | Healy, 1997, p. 226.↵
12 | Gardner, 1971.↵
13 | Smith, 1985, p. 179.↵
14 | Ivi, p. 187.↵
15 | Ivi, p. 189.↵
16 | Ivi, p. 127.↵
17 | Shorter, 1997, p. 319.↵
18 | Smith, 1985, p. 210.↵
19 | Ivi, p. 81.↵
20 | Ivi, pp. 31-32; Olfson e Klerman, 1993.↵
21 | Smith, 1985, p. 32.↵
22 | Healy, 1997.↵
23 | Horwitz, 2002.↵
24 | Merikangas, Prusoff, e Weissman, 1988.↵
25 | Horwitz, 2002.↵
26 | Healy, 1991; Olfson, Marcus, Druss, Elinson, et al. , 2002.↵
27 | Shorter, 1997.↵
28 | Kramer, 1993, p. 64.↵
29 | Ivi.↵
30 | Healy, 1991.↵
31 | Zuvekas, 2005.↵
32 | Kramer, 1993, p. 64.↵
33 | Shorter, 1997, p. 323.↵
34 | Pincus et al. , 1998.↵
35 | Elliott, 2004a; Squier, 2004.↵
36 | Mann, 2005.↵
37 | Metzl, 2003.↵
38 | Mechanic, 1998.↵
39 | Wang et al. , 2005.↵
40 | Luhrmann, 2000.↵
41 | Cutler, 2004.↵
42 | Cutler, 2004.↵
43 | Olfson, Marcus, e Pincus, 1999, p. 451.↵
44 | Olfson, Marcus, Druss, e Pincus, 2002; Zuvekas, 2005.↵
45 | Crystal, Sambamoorthi, Walkup, e Akincigil, 2003.↵
46 | Zuvekas, 2005. [ Quanto ci sia una correlazione tra la scarsa riuscita della psicoterapia e l’aumento
dell’uso dei farmaci è piuttosto visibile. Possiamo osservare che le basi della psicoterapia classica, di
tipo psicodinamico, più diffusa nell’arco di tempo indicato dall’autore, si costruiscono sulle nozioni
psicoanalitiche fondamentali, risultate fallimentari circa la «cura per la guarigione», concetti che la
stessa psicoanalisi non si è mai proposta. NdC]↵
47 | Conrad, 2005.↵
48 | Shorter, 1997, p. 314.↵
49 | Elliott, 2003, p. 102.↵
50 | Olfson, Marcus, Druss, e Pincus, 2002.↵
51 | Kessler et al. , 2005.↵
52 | Ivi, p. 2521.↵
53 | Donohue et al. , 2004.↵
54 | Kravitz et al. , 2005.↵
55 | Olfson, Marcus, Druss, Elinson, et al. , 2002.↵
56 | Zuvekas, 2005.↵
57 | Crystal et al. , 2003; Thomas, Conrad, Casler, e Goodman, 2006.↵
58 | Zuvekas, 2005.↵
59 | Elliott, 2004a, p. 5.↵
60 | Croghan et al. , 2003.↵
61 | Shorter, 1997.↵
62 | Clarke, Shim, Mamo, Fosket, e Fishman, 2003.↵
63 | Healy, 2004.↵
64 | Knutson et al., 1998; Kramer, 1993.↵
65 | Zisook, Schuchter, Pedrelli, Sable, e Deaciuc, 2001.↵
66 | Kramer, 1993, p. 247.↵
67 | U.S. Department of Health and Human Services (USDHHS9, 1999, p. 262.↵
68 | Olfson e Klerman, 1993.↵
69 | Greenberg et al. , 1993; Frank, Busch, e Berndt, 1998.↵
70 | Kessler, Merikangas, et al. , 2003; Kramer, 2005.↵
71 | Hirschfeld et al. , 1997.↵
72 | Ibidem.↵
73 | Klerman come citato in Smith, 1985, p. 89.↵
74 | Kramer, 1993.↵
75 | Dworkin, 2001.↵
76 | Elliott, 2004b, p. 129.↵
77 | Conrad, 1992.↵
78 | Furedi, 2004.↵
79 | Smith, 1985, p. 73.↵
80 | Furedi, 2004.↵
81 | Glenmullen, 2000.↵
82 | Healy, 2004.↵
83 | Mann, 2005, p. 1827.↵
84 | Moncrieff e Kirsch, 2005, p. 156.↵
85 | Ivi, p. 158.↵
86 | USDHHS, 1999, p. 262.↵
87 | Kessler et al. , 2005, p. 2520.↵
88 | Moncrieff et al. , 2004.↵
89 | Hamburg, 2000.↵
90 | Trivedi et al. , 2006.↵
91 | Conrad, 2005.↵
92 | Cutler, 2004.↵
93 | Smith, 1985; Elliott, 2003, pp. XV-XVI.↵
94 | Conrad, 2007.↵
* Cfr. nei dettagli la documentazione della pubblicità DTC su D. Herzberg, Le pillole della felicità cit., pp.
52-55, 211-213. [NdC]↵
* L’elaborazione di una separazione permette la realizzazione di una nuova realtà interiore per
l’individuo. Si tratta di un movimento evolutivo, a dispetto dello stato d’animo negativo a esso
correlato. La separazione, infatti, costituisce la base fondamentale del rapporto interumano per la
realizzazione dell’individuo, sia a livello ontogenetico che nel corso della vita adulta. Se la separazione
non viene realizzata si verifica una condizione patologica. Cfr. M. Fagioli, Teoria della nascita e castrazione
umana, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2012. [NdC]↵
* Questo atteggiamento è stato osservato come analogo all’uso di droghe per colmare dei vuoti
personali o per raggiungere fantomatici livelli personali non altrimenti realizzabili. Un altro scopo
consiste nell’alleviare la sofferenza sociale. Cfr. D. Herzberg, Le pillole della felicità cit. [NdC]↵
* Considerando la gravità del rischio è bene sottolineare che esso non può essere minimizzato. Cfr.
S.E. Hetrick et al., Newer generation antidepressants for depressive disorders in children and adolescents, in
“Cochrane Database of Systematic Reviews”, 11, 2012, p. CD004851. Inoltre questi rischi non
riguardano soltanto i giovani ma anche gli adulti trattati con antidepressivi. Uno studio recente, ad
esempio, ha evidenziato la correlazione tra fluoxetina e un’aumentata ideazione suicidaria. S.J. Garlow
et al. , Fluoxetine increases suicide ideation less than placebo during treatment of adults with minor depressive disorder,
in “Journal of Psychiatric Research”, 47, 2013, pp. 1199-1203. [NdC]↵
* Questa considerazione trova corrispondenza nella tesi che identifica alla base della questione un
problema di natura culturale. Esso trova le sue radici in diffuse ideologie di natura filosofico-religiosa e
psicoanalitica. L’idea di una natura ‘sbagliata’ dell’essere umano è presente, in fondo, dall’idea di
peccato originale, così come la troviamo nella concezione freudiana di inconscio ed è proprio essa a
provocare un ricorso necessario al farmaco in caso di patologia: legata all’essere umano vi è
un’intrinseca concezione di mancanza (conservata anche da psicoanalisti moderni come, ad esempio,
Lacan), che viene condivisa da malato e medico curante. Di fondo entrambi credono in un’incurabilità,
legata a questa natura ‘sbagliata’. Di fronte a ciò il farmaco sembra essere l’unica strada. Anche per
questi condizionamenti ideologici, la società moderna si basa sempre di più su un’efficienza produttiva
e su princìpi razionali senza lasciare spazio alla realtà affettiva ed emotiva. Si preferisce il farmaco alla
terapia integrata e l’aspetto affettivo viene considerato intrinsecamente difettoso. [NdC]↵
Capitolo 10 | L’incapacità delle scienze
sociali di dis nguere la tristezza dal disturbo
depressivo
10.1 | Antropologia
10.2 | Sociologia
10.3 | Conclusione
Note
1 | Benedict, 1934.↵
2 | Kirmayer e Young, 1999.↵
3 | Kirmayer, 1994, p. 19.↵
4 | Kleinman, 1988.↵
5 | Kirmayer, 1994; Kirmayer e Young, 1999.↵
6 | Obeyesekere, 1985.↵
7 | Ivi, p. 136.↵
8 | Lutz, 1985, p. 85.↵
9 | Ivi, p. 86.↵
10 | Ivi, p. 92.↵
11 | Kleinman, 1977, p. 3.↵
12 | Kleinman, 1988.↵
13 | Kleinman, 1986.↵
14 | Kleinman, 1987, p. 450.↵
15 | Cheung, 1982.↵
16 | Ibidem.↵
17 | Kleinman, 1986.↵
18 | Pearlin, 1989; Aneshensel, 1992.↵
19 | Per es. Aneshensel e Phelan, 1999; Horwitz e Scheid, 1999.↵
20 | Horwitz, 2007.↵
21 | Aneshensel, 1992; McLeod e Nonnemaker, 1999; Mirowsky e Ross, 2003; Turner e Lloyd, 1999;
Turner, Wheaton e Lloyd, 1995.↵
22 | Per es. Dohrenwend et al. , 1992; Ritsher, Warner, Johnson, e Dohrenwend, 2001; Johson, Cohen,
Dohrenwend, Link, e Brook, 1999; Lorant et al., 2003.↵
23 | Holmes e Rahe, 1967.↵
24 | Radloff, 1977.↵
25 | Nesse, 2000.↵
26 | Carr, 1997.↵
27 | McEwan, Costello, e Taylor, 1987.↵
28 | Turner e Lloyd, 1999; Turner, 2003; Turner e Avison, 2003.↵
29 | Pearlin, 1999.↵
30 | Radloff, 1977; Radloff e Locke, 1986.↵
31 | Radloff, 1977.↵
32 | Roberts, Andrews, Lewinsohn, e Hops, 1990; Roberts, Lewinsohn, e Seeley, 1991; Roberts,
Roberts, e Chen, 1997.↵
33 | Roberts et al. , 1990.↵
34 | Ibidem.↵
35 | Rushton et al. , 2002.↵
36 | Coyne, 1994.↵
37 | Per es. Mollica, Poole, e Tor, 1998; Mollica et al. , 1999; Marshall et al. , 2005; Dohrenwend, 2000;
Schwartz, Dohrenwend, e Levav, 1994.↵
38 | Seligman, 1975; Sapolsky, 1998.↵
39 | APA, 1994, p. XXI.↵
40 | Price, Sloman, Gardner, Gilbert, e Rohde, 1994; Bowlby, 1980; Nesse, 2000.↵
41 | Brown, 1993.↵
42 | Brown, 2002.↵
43 | Brown, Craig, e Harris, 1985, p. 616.↵
44 | Brown, 2002.↵
45 | Brown e Harris, 1978; Brown, 1998.↵
46 | Brown, Bifulco, e Harris, 1987; Brown, 1998.↵
47 | Brown, Harris, e Hepworth, 1995.↵
48 | Brown, 2002.↵
49 | Brown et al., 1987, p. 34.↵
50 | Brown et al. , 1995.↵
51 | Brown, Adler, e Bifulco, 1988.↵
52 | Brown, 1998, p. 368.↵
53 | Brown, 2002.↵
54 | Brown, 1998, p. 367.↵
55 | Ivi, p. 366.↵
56 | Ivi, p. 361.↵
57 | Brown, Harris, Hepworth, e Robinson, 1994.↵
58 | Brown et al. , 1995.↵
59 | Ibidem.↵
60 | Ivi, p. 620.↵
61 | Brown et al. , 1988, p. 492.↵
* È qui assente il concetto di identità legato all’origine della realtà umana. La teoria della nascita
puntualizza proprio questo aspetto mutando la visione antropologica moderna dell’essere umano. M.
Fagioli, Bambino donna e trasformazione dell’uomo, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2013. [NdC]↵
* Obeyesekere distingue qui fra i due termini inglesi disease e illness, che corrispondono in italiano
all’unico termine ‘malattia’. Cfr. anche infra. [NdT]↵
Capitolo 11 | Conclusione
11.4 | Conclusione
Note
1 | Foucault, 1965, 1979.↵
2 | Freidson, 1970; Abbott, 1988; Conrad, 2005. [Analogamente a quanto sostenuto da alcuni autori,
come Foucault, Szasz e Basaglia, questa prassi si caratterizza per un’ideologia su base esistenzialista che
‘nega’ la diagnosi psichiatrica, partendo dal presupposto che il malato psichiatrico ha una condizione
esistenziale diversa ( Erlebnis) e non modificabile. È doveroso evidenziare che la cura di una condizione
patologica è un dovere per il medico e un diritto per il malato, e non un potere. Nel caso in cui ciò si
determinasse non si tratterebbe di una prassi medica deontologica. Come sappiamo, ciò accade ad
esempio proprio quando l’interesse per la diagnosi è dettato da un guadagno economico, come va
sottolineato nel caso in cui l’intervento terapeutico collude con l’interesse delle case farmaceutiche.
NdC]↵
3 | Horwitz, 2002.↵
4 | Kirk, 1999.↵
5 | Murray e Lopez, 1996.↵
6 | Kramer, 2005, pp. 155, 153.↵
7 | Blazer, 2005, p. 31; Spijker, de Graaf, Bijl, Beekman, Ormel, e Nolen, 2003.↵
8 | Valenstein, 1998.↵
9 | Donohue et al. , 2004. [Cfr. D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014.
NdC]↵
10 | Karp, 1996.↵
11 | Per es. Campbell-Sills e Stein, 2005; Richters e Hinshaw, 1999.↵
12 | Lilienfeld e Marino, 1999, p. 401.↵
13 | Kirmayer eYoung, 1999.↵
14 | Ivi, p. 450.↵
15 | Lilienfeld e Marino, 1995; Richters e Hinshaw, 1999.↵
16 | Cosmides e Tooby, 1999.↵
17 | Gould e Lewontin, 1979.↵
18 | Kramer, 2005.↵
19 | Murphy e Woolfolk, 2001.↵
20 | Archer, 1999.↵
21 | Keller e Nesse, 2005.↵
22 | Sadler, 1999, p. 436.↵
23 | Cosmides e Tooby, 1999.↵
24 | APA, 2000, p. 356.↵
25 | Langner, 1962.↵
26 | Brown, 2002.↵
27 | Almeida, Wethington, e Kessler, 2002; Coyne, Thompson, e Pepper, 2004; Wethinghton e Serido,
2004.↵
28 | Cfr., tuttavia, Wakefield, Schmitz, First, e Horwitz, 2007.↵
* Questo concetto è utilizzato per gli animali, dotati dell’istinto che non consente possibilità di scelta di
fronte al programma biologico. Va sottolineato che l’essere umano, invece, è dotato di libero arbitrio e
di una possibilità di scelta, in base a motivi complessi, anche di natura irrazionale, come ad esempio di
tipo affettivo o di tipo creativo. L’essere umano, infatti, si evolve superando la condizione di vita
finalizzata alla sopravvivenza della specie verso una capacità di realizzare sé stesso come individuo
nella relazione con gli altri all’interno della società. L’animale non ha l’esigenza di realizzare sé stesso,
non dipinge, non scrive poesie, non si innamora e non ha rapporti sessuali indipendentemente dal
periodo fertile. [NdC]↵
* Si sottolinea che il concetto di bambino non è comparabile a quello di animale. La motivazione di
questa associazione è legata a una mentalità culturale storica che disconosce o non vede la nascita
umana e considera la coscienza e la razionalità come caratteristica di base, negando la realtà mentale
del primo anno di vita, non cosciente e non razionale. Il neonato non è un essere umano? Non occorre
essere uno scienziato per rispondere a questa domanda, è sufficiente essere un essere umano che ha
vissuto e ha guardato con i propri occhi, senza aderire a un’ideologia. Esiste una certa cultura, a causa
di posizioni ideologiche degradanti e colpevolizzanti nei confronti dell’essere umano, che non vede la
specificità della nascita umana, uguale in tutte le persone, preferendo invece credere che una scimmia è
come un bambino. [NdC]↵
* Si sottolinea la tendenza estremamente diffusa a prescrivere immediatamente un farmaco psicotropo,
sia in ambito specialistico che generico. Non si considera affatto la capacità di reagire dei pazienti nel
tempo, né tanto meno il rapporto con l’ambiente che può essere la causa dello stato d’animo e che
inoltre può essere modificato. [NdC]↵
| Bibliografia
| Terminologia
LoS aveva messo in campo un ampio spettro di prove per mostrare come il
punto debole fondamentale della diagnosi del DDM era costituito dal suo uso
dei sintomi senza tener conto del contesto in cui quei sintomi si
manifestavano. Aveva passato in rassegna migliaia di anni di storia psichiatrica,
che di solito separava la tristezza normale che nasce e persiste nel contesto di
qualche perdita dai disturbi depressivi che non hanno relazione con il loro
contesto. Noi abbiamo definito la tristezza normale come caratterizzata da tre
qualità fondamentali. Primo, è strettamente legata al contesto, nel senso che è
biologicamente programmata per emergere in risposta a uno specifico spettro
di stimoli ‘giusti’ costituiti da perdite e stress e non si presenta in risposta a
eventi che sono al di fuori di quello spettro. Secondo, l’intensità emotiva e
sintomatica della risposta è grosso modo proporzionata all’entità della perdita
che l’ha generata, tenendo conto che ci sono ampi margini di variabilità
individuale e di configurazione culturale nell’intensità della risposta. Terza e
ultima caratteristica della tristezza non patologica è che i sintomi non soltanto
sorgono, ma persistono in connessione con i contesti esterni, anche se poi
regrediscono naturalmente quando il contesto cambia in meglio o quando i
soggetti ricostruiscono la propria vita e i propri sistemi di significato per
adattarsi alla perdita subita. Il disturbo depressivo, a nostro avviso, manca di
almeno una di queste caratteristiche delle reazioni non patologiche.
Un aspetto particolare della diagnosi del DDM presentava un interesse
speciale. La definizione del DDM basata sui sintomi conteneva un’eccezione:
le diagnosi non venivano pronunciate per persone in lutto, a meno che i loro
sintomi fossero ancora presenti dopo mesi o fossero particolarmente gravi.
Questa eccezione era conosciuta come la «esclusione del lutto» ( bereavement
exclusion, BE), ed era espressa, in maniera un po’ confusa, come segue:
I sintomi non sono meglio giustificati da Lutto, cioè, dopo la perdita di una persona
amata, i sintomi persistono per più di due mesi, o sono caratterizzati da una
compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria,
sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio59.
In altre parole, i pazienti sono esenti da una diagnosi di depressione se i loro
sintomi si possono spiegare meglio come parte di un normale lutto a seguito
della perdita di una persona cara. Si sa bene che il lutto può in alcune occasioni
far scattare un vero disturbo mentale60, e quindi la BE non può semplicemente
escludere dalla diagnosi tutti i sentimenti depressivi dopo la perdita. E invece,
basandosi su studi classici del lutto normale61, la BE distingueva i sentimenti
depressivi che sono comuni nelle reazioni normali di stress generale (come
tristezza, pianti, difficoltà di sonno, diminuzione dell’appetito, perdita
d’interesse per le attività consuete o mancanza di piacere nel farle, difficoltà di
concentrazione, affaticamento) da quei sintomi più gravi (come fantasie
psicotiche, ideazioni suicidarie, rallentamento psicomotorio, autosvalutazione,
compromissione funzionale marcata, durata piuttosto lunga) che
probabilmente indicavano che la reazione era diventata patologica. Così, per
essere esclusi da una diagnosi di DDM, i sentimenti depressivi dopo una
perdita dovevano superare sei test: dovevano essere di durata normale (il
DSM-IV definiva come un periodo normale di sentimenti depressivi durante il
lutto conseguente alla morte di una persona cara se non durano più di due
mesi); e non dovevano includere nessuno degli altri cinque sintomi
particolarmente gravi. Un episodio con sintomi sufficienti per essere
qualificato come DDM ma verificatosi dopo una perdita e con solo sintomi
generali di sofferenza e nessuno dei sei segni di patologia era considerato come
depressione «non complicata» collegata al lutto ed era quindi escluso dalla
diagnosi di DDM.
I ricercatori collegati allo sviluppo del DSM-5 reagirono con allarme a queste
scoperte. Un eminente membro della task force per la depressione del DSM-5,
lo psichiatra Kenneth Kendler, usò suoi propri dati per testare le nostre
affermazioni. Ma le sue scoperte non fecero che confermare le nostre: la
depressione che si sviluppava dopo il lutto era identica a quella conseguente ad
altri eventi stressanti della vita, e ricadeva in una delle stesse due classi di
reazioni – le non complicate e le complicate – con tratti complessivi simili66.
Tutte le parti concordavano su questo punto. C’era invece grande differenza su
come esse ne interpretavano le implicazioni. Per Wakefield e la sua équipe, dal
momento che i casi ricadenti nella BE non sono malattia, non sono malattia
nemmeno le analoghe reazioni ad altri fattori stressanti, vista l’accertata
somiglianza. Noi perciò sostenevamo che i criteri del DSM dovevano essere
rivisti per espandere la BE in modo da essere applicata alle reazioni non
complicate a tutti i principali fattori stressanti. Ma per Kendler e altri che
lavoravano al DSM-5, la somiglianza dimostrava invece che era sbagliato
selezionare il lutto per l’esclusione, e che quindi qualcosa in effetti doveva
cambiare. «La posizione del DSM-IV non è logicamente difendibile», scrisse
Kendler in un intervento successivo67. A cui fece seguito un’analisi che lasciava
trasparire che erano molte delle affermazioni di Kendler a essere
indifendibili68.
Anziché ammettere che la BE doveva essere estesa, Kendler e altri
ragionavano in direzione opposta. Concedevano che data la somiglianza il lutto
non poteva essere preso da solo, ma sostenevano che questa somiglianza
comportava semplicemente che «anche il criterio di esclusione del lutto va
eliminato o escluso»69. Tutt’e due le opzioni risolvevano l’incoerenza. Quelli
che volevano eliminare completamente l’esclusione sostenevano che, giacché le
risposte non complicate ad altri stressanti erano ora considerate patologiche
dal DSM, la somiglianza non poteva significare altro che in passato avevamo
sbagliato sui casi di lutto. Il fatto è però che il carattere patologico in
contrapposizione a quello normale delle reazioni depressive a stressanti diversi
dal lutto non era stato empiricamente studiato al tempo del DSM-III così
come era stato studiato il lutto, e non ci si era mai posto l’interrogativo se altre
reazioni dovessero essere escluse. La questione di come debbano essere intese
queste reazioni non è mai stata considerata seriamente o valutata
empiricamente da alcun gruppo di lavoro del DSM in qualunque revisione del
manuale, e rimane un tema irrisolto. In ogni caso, quelli che proponevano
l’eliminazione della BE resistevano con forza all’estensione della BE ad altri
stressanti, che avrebbe abbassato il numero delle condizioni diagnosticabili
come DDM con il rischio, naturalmente, di lasciarsi sfuggire alcuni casi
autentici.
Nel 2011-2012 il presidente dell’American Psychiatric Association, John
Oldham, reagì allo stesso modo alla nostra ricerca, insistendo che non c’era
motivo di prevedere la sola esclusione del lutto e abbracciando l’implicazione
che quindi la BE dovesse essere eliminata e non già estesa, poiché tutte le
reazioni simili dovevano essere considerate patologiche:
[L’esclusione del lutto è] molto limitata: si applica solo alla morte di un consorte o di una
persona amata. Perché è diversa da una reazione molto forte dopo che hai avuto tutta la
casa e le proprietà spazzate via da uno tsunami, o da un terremoto, o da un tornado; o se
ti trovi in difficoltà finanziarie o licenziato all’improvviso dal lavoro? In ognuna di queste
situazioni, l’esclusione non si applica. Quello che sappiamo è che uno stress importante
può attivare una significativa depressione in persone a rischio. Non ha senso differenziare
la perdita di una persona cara come lutto comprensibile dagli stress e tristezze altrettanto
gravi dopo altri tipi di perdite70.
Oldham, Kendler e molti altri sostenevano che poiché le reazioni depressive
non complicate durante il lutto appaiono simili alle reazioni non complicate ad
altri fattori di stress, e poiché il DSM considera patologiche le reazioni agli altri
fattori di stress, nel DSM-5 andava eliminata l’esclusione del lutto. Ma poiché il
DSM-IV considerava normali le reazioni depressive non complicate legate al
lutto, una volta scoperto che le reazioni depressive non complicate ad altri
fattori stressanti erano equivalenti, si poteva argomentare nell’una o nell’altra
direzione appellandosi con uguale diritto all’autorità del DSM. A questo punto,
richiamarsi al DSM come autorità dirimente diventava irrilevante. Una volta
accettato che i sentimenti depressivi legati al lutto e i sentimenti depressivi
legati ad altri fattori stressanti e perdite erano gli stessi, si pose per il DSM-5
un reale dilemma che non poteva essere risolto facendo appello alle indicazioni
del DSM-IV, in quanto il DSM-IV era, sul punto, incoerente. La questione
divenne allora se tutte le reazioni depressive non complicate a perdite o stress
– cioè tutte le reazioni al lutto e ad altri fattori di stress che non presentavano
alcuno dei sei tratti che suggeriscono patologia, e quindi potenzialmente
meglio spiegabili come componenti di una reazione normale – dovessero
essere escluse dalla diagnosi di DDM, o tutte dovessero esservi incluse.
Nessuno di quelli che sostenevano l’eliminazione della BE affrontò mai
direttamente questo problema su basi empiriche.
Altri fra quelli che proponevano di far cadere la BE affermavano che la
presenza stessa dei sintomi depressivi del DSM, indipendentemente dal
contesto o dalla tipologia, costituiva malattia: «Quando uno ha un infarto
miocardico (IM), i medici lo considerano come la manifestazione in
quell’istante della malattia cardiaca, indipendentemente dal suo ‘contesto’»,
affermava lo psichiatra Ronald Pies. «L’IM può essersi verificato nel contesto
di una dieta povera del paziente, dell’abitudine di fumare o di alti livelli di
stress psichico: ma è comunque espressione di malattia»71. Per Pies, la
depressione è depressione, appunto come un attacco cardiaco è un attacco
cardiaco. Per questi psichiatri, la somiglianza sintomatica clinica della
depressione non complicata durante il lutto con la depressione non complicata
a seguito di altri fattori stressanti imponeva l’abbandono della BE, non la sua
estensione.
Pies e gli altri che proponevano l’eliminazione della BE affermavano che
capita spesso ai medici di diagnosticare gravi malattie – come attacchi cardiaci,
cancro o tubercolosi – che hanno nell’ambiente fattori che le fanno precipitare.
Analogamente, sostenevano, tutte le condizioni depressive dovrebbero essere
diagnosticate indipendentemente dalla loro causa. Eppure, a differenza
dell’attacco cardiaco, il lutto è una risposta programmata dalla natura e
autolimitata, non un difetto nel funzionamento naturale, come un attacco
cardiaco. Inoltre, i medici prendono in considerazione il contesto quando
devono stabilire se, per esempio, un aumento delle pulsazioni o della pressione
sanguigna significano una malattia o una reazione a circostanze esistenziali
dell’individuo. Tuttavia, una differenza c’è a questo proposito fra la diagnosi
psichiatrica e altre diagnosi mediche per il semplice fatto che le funzioni
psicologiche sono biologicamente programmate a essere altamente sensibili al
contesto ambientale, e in effetti è proprio questa dipendenza dal contesto che
le rende adattive e utili. La paura, per esempio, non sarebbe granché utile se si
manifestasse in continuità o a casaccio: è utile perché viene innescata
selettivamente dalla percezione del pericolo. Così pure la tristezza è altamente
sensibile al contesto; non si può quindi fare a meno di tener conto del contesto
quando c’è da valutare se siamo in presenza di una malattia. In ogni caso, la BE
nel DSM-IV già classificava la maggior parte delle depressioni durante il lutto
come DDM per la presenza anche di uno solo dei sei sintomi che vietavano
l’applicazione della esclusione. L’idea che la depressione è depressione
esattamente come un attacco di cuore è un attacco di cuore è falsa e non può
giustificare il cambiamento dei precedenti criteri che consideravano un lutto
particolarmente grave come una malattia.
Un’importante forma di verifica della validità di una diagnosi è data dalla
validità predittiva, se cioè nel tempo gli sviluppi successivi di una condizione
fanno capire se era una malattia oppure no. Il dibattito sulla BE ebbe una
sterzata quando cominciarono a venir fuori gli studi sulla validità predittiva
della BE. Diversi studi mostrarono che per periodi di controllo sia di un anno
sia di tre anni dopo un episodio di depressione non complicata legata a un
lutto, i soggetti non avevano maggiori probabilità dei non depressi di avere
successivi episodi depressivi o forme d’ansia72.
Questi risultati furono ben presto generalizzati a tutti i fattori di stress: le
reazioni depressive non complicate ai fattori di stress in generale si rivelavano
essere molto meno indizi di malattia che altre forme di depressione. Per
controbattere la critica che il lutto non era unico e che quindi non c’era
giustificazione per la BE, Wakefield e collaboratori condussero altri studi che
portarono a una scoperta anche più impressionante: i soggetti che
sviluppavano depressioni non complicate dopo qualsiasi tipo di perdite
assomigliavano più a quelli che non erano stati ‘mai depressi’ che a quelli che
soffrivano condizioni depressive complicate. Usando i dati raccolti in due
momenti distinti, trovarono che i soggetti con casi non complicati avevano
tassi di ricorrenza (3,4%) simili a persone senza alcuna storia di depressione
(1,7%) alla prima misurazione; entrambi i gruppi avevano tassi di gran lunga
più bassi di quelli con casi complicati (14,6%)73. L’analisi fu applicata anche ad
altri possibili sviluppi della depressione, come disturbi d’ansia e tentativi di
suicidio74. Non solo quelli con condizioni depressive non complicate non
legate a stress erano simili fra di loro, ma erano molto più paragonabili a
persone che non erano mai state depresse che non a persone con sintomi gravi
o duraturi.
Queste scoperte hanno messo il gruppo di lavoro sui disturbi dell’umore del
DSM-5 davanti a una scelta difficile. Da un lato, poteva allargare l’esclusione
del lutto per coprire tutte le risposte non complicate a fattori di stress legati a
una perdita. Dall’altro lato, poteva abolire la BE in modo che tutti i sintomi
che soddisfacevano i criteri delle due settimane per il DDM fossero considerati
disturbi mentali. Era una decisione gravida di conseguenze, perché il DDM era
stato la diagnosi centrale della psichiatria nei trent’anni passati. L’estensione
dell’esclusione del lutto minacciava sia i princìpi basati sui sintomi che erano
fondamentali per la diagnosi psichiatrica fin dal 1980 sia una quota molto
cospicua della potenziale clientela dei professionisti della salute mentale.
Data l’influenza internazionale del DSM, la preoccupazione per la proposta
eliminazione della BE non fu espressa solo negli Stati Uniti. Considerata la
limitata capacità della maggior parte dei sistemi sanitari nazionali di far fronte
alle esigenze di trattamento del numero enorme di soggetti davvero malati in
termini psichiatrici, alcuni clinici europei reagirono alla proposta eliminazione
della BE chiedendosi se avesse senso abbracciare un gran numero di false
diagnosi positive per evitare la remota possibilità che potesse sfuggire un caso
reale. Per esempio, un articolo del giornale tedesco a diffusione nazionale
“Süddeutsche Zeitung” illustrava un rapporto della Società tedesca di
psichiatria e psicoterapia, psicosomatica e neurologia (DGPPN) sui
cambiamenti introdotti nel DSM-5, con un’intervista a Wolfgang Maier,
presidente della società e direttore della clinica psichiatrica dell’Università di
Bonn75. Qui di seguito la traduzione di parte di quell’articolo:
L’organizzazione specialistica DGPPN mette in guardia contro gli eccessi diagnostici del
DSM-5. C’è il «rischio di patologizzare stati ordinari di sofferenza e processi naturali di
adattamento e di invecchiamento», dice il presidente della DGPPN e direttore della
clinica psichiatrica dell’Università di Bonn, Wolfgang Maier, in una dichiarazione di
lunedì.
Nella sua dichiarazione cita vari esempi di punti in cui il nuovo catalogo sposta i confini
fra salute e malattia in modo inammissibile secondo la DGPPN. Così, nel DSM-5 una
tristezza che duri più di due settimane dopo la morte sarà diagnosticata come depressione
se presenta i suoi sintomi consueti: tetraggine, mancanza di spinta/energia, indifferenza,
problemi di sonno, mancanza di appetito.
«Un simile eccesso diagnostico costituisce una minaccia, che è tollerata dagli autori
dell’APA a occhi aperti», dice il presidente Maier del DGPPN. «Il loro presupposto è:
preferiamo avere false diagnosi positive piuttosto che farci sfuggire una persona
realmente malata». Ma questo, secondo Maier, è un calcolo che non funziona, anche solo
per ragioni economiche, almeno in Germania. Bisognerebbe sempre tenere a mente che
una diagnosi dà titolo alla persona colpita a prestazioni mediche da parte del sistema, le
cui risorse sono limitate. La conseguenza potrebbe essere che per i veri malati psichiatrici
ci siano minori possibilità di cura76.
Un ulteriore argomento, generalmente non dichiarato, della risposta europea
al DSM-5 è che in molti paesi europei che prevedono generose indennità di
disabilità, ci sono molti soggetti classificati come disabili in base a diagnosi di
depressione che non in tutti i casi corrispondono a una vera malattia. Allargare
ancora di più l’area della depressione includendo quelle che sembrano essere
reazioni normali può significare spalancare le porte a un aumento vertiginoso
della spesa pubblica per prestazioni psichiatriche che forse non possono essere
assicurate. Ma questo tema ebbe un ruolo marginale nel dibattito, che verteva
invece intorno alla questione se il cambiamento fosse in effetti valido dal
punto di vista diagnostico.
| Conclusione
Note
1 | APA, 1980.↵
2 | APA, 2013.↵
3 | OMS, 2004.↵
4 | Olfson et al., 2002.↵
5 | Kessler et al., 2003.↵
6 | Ustun et al., 2004.↵
7 | Mathers e Loncar, 2006.↵
8 | Horwitz e Wakefield, 2007 [In questa Postfazione manteniamo la sigla LoS ( Loss of Sadness) del
titolo originale inglese; NdT].↵
9 | First e Wakefield, 2013; Horwitz e Wakefield, 2007; Wakefield, 1992; 2006.↵
10 | Klein e Thase, 1997.↵
11 | Parker, 2007.↵
12 | LoS, 2007.↵
13 | Robins e Regier, 1991.↵
14 | Kessler et al., 1994.↵
15 | Kessler et al., 1996.↵
16 | Kessler et al., 2003.↵
17 | Hasin et al., 2005.↵
18 | Kessler et al., 2005.↵
19 | Hasin et al., 2005.↵
20 | Narrow et al., 2002; Regier et al., 1998.↵
21 | Wakefield e Spitzer, 2002.↵
22 | Spitzer e Wakefield, 1999; Wakefield, 2009; First e Wakefield, 2013; Wakefield et al., 2010.↵
23 | Kruijshaar et al., 2005.↵
24 | Wells e Horwood, 2004.↵
25 | Parker, 1979, p. 128.↵
26 | Parker, 1979; 2007.↵
27 | Wilhelm et al., 1996.↵
28 | Wilhelm et al., 2006.↵
29 | Moffitt et al., 2007; 2010.↵
30 | Rohde et al., 2013.↵
31 | Kessler et al., 2005.↵
32 | Eaton et al., 1995, p. 969.↵
33 | Goldberg, 2011; Maj, 2011a; 2011b; Parker, 2011; Tyrer, 2009.↵
34 | Mojtabai, 2008; Pratt et al., 2011.↵
35 | Mojtabai, 2008.↵
36 | Pratt et al., 2011↵
37 | OECD, 2013.↵
38 | Ibidem.↵
39 | Mercier et al., 2011.↵
40 | Hollingworth et al., 2010; Mercier et al., 2011; Mitchell et al., 2009; Mojtabai, 2013.↵
41 | Moore et al., 2009.↵
42 | Hollingworth et al., 2010; Mercier et al., 2011.↵
43 | Gili et al., 2013.↵
44 | Blanchflower e Oswald, 2011.↵
45 | Watters, 2010.↵
46 | Kirsch et al., 2002; 2008; Moncrieff et al., 2004; Pigott et al., 2010.↵
47 | Gueorguieva et al., 2011; Kirsch et al., 2008; Thase et al., 2011.↵
48 | Read et al., 2014.↵
49 | Andrews e Thompson, 2009.↵
50 | Lane, 2011.↵
51 | Haddad, 2001; Haddad e Anderson, 2007; Schatzberg et al., 2006; Warner et al., 2006; Zajecka et
al., 1997.↵
52 | Mercier et al., 2011.↵
53 | Angell, 2011a; 2011b; Horgan, 2011; Kirsch, 2010; Kramer, 2011; Melander et al., 2008; Oldham
et al., 2011; Stewart et al., 2012; Sunday Dialogue, 2011.↵
54 | Marcus e Olfson, 2010.↵
55 | Ibidem.↵
56 | Olfson et al., 2002.↵
57 | Mojtabai e Olfson, 2011.↵
58 | Olfson et al., 2002.↵
59 | APA, 2000, p. 356.↵
60 | Parkes, 1964.↵
61 | Clayton et al., 1968.↵
62 | Wakefield et al., 2007.↵
63 | Wakefield e Schmitz, 2013a; 2013b.↵
64 | Wakefield et al., 2007; Wakefield e Schmitz, 2013a; 2013b.↵
65 | Wakefield e Schmitz, 2013a.↵
66 | Kendler et al., 2008.↵
67 | Kendler, 2010.↵
68 | Wakefield, 2011.↵
69 | Kendler, 2010.↵
70 | Cit. in Brooks, 2012.↵
71 | Pies, 2008.↵
72 | Gilman et al., 2012; Mojtabai, 2011; Wakefield e Schmitz, 2012a.↵
73 | Wakefield e Schmitz, 2013c.↵
74 | Wakefield e Schmitz, 2014a.↵
75 | Weber, 2013.↵
76 | Frances, 2013a; 2013b.↵
77 | APA, 2000.↵
78 | Kendler et al., 2008.↵
79 | Lamb et al., 2010; Zisook e Kendler, 2007; Zisook et al., 2007.↵
80 | Wakefield e First, 2012a.↵
81 | Wakefield e Schmitz, 2012b; Wakefield, 2013a.↵
82 | APA, 2013, p. 161.↵
83 | Wakefield e Schmitz, 2012a; 2013a; 2013b; Wakefield et al., 2011a; 2011b.↵
84 | Michael First, comunicazione personale.↵
85 | Maj, 2013.↵
86 | Kleinman, 2012.↵
87 | APA, 2013, p. 20.↵
88 | Greenberg, 2013, p. 240.↵
89 | Fawcett, 2010.↵
90 | Zisook e Kendler, 2007; Zisook et al., 2007.↵
91 | Zisook et al., 2001.↵
92 | Clayton et al., 1968.↵
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