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Philippe Pignarre

L’INDUSTRIA
DELLA DEPRESSIONE

Bollati Boringhieri
Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità la depressione si
candida a diventare il primo problema sanitario, sopravanzando anche
le malattie cardiovascolari. Il fenomeno appare dunque dilagante,
epidemico. Che cosa è successo? Una tale dirompenza non si spiega
con le interpretazioni tradizionali, da quella sociologica, che accusa
i modi di vita attuali di generare sempre più infelicità e sofferenza,
a quella organica, che chiama in causa la predisposizione genetica, a
quella clinica, che si focalizza sulla cattiva strutturazione intrapsichica del
soggetto. Quale ruolo hanno invece gli psicofarmaci? Secondo Philippe
Pignarre, per comprendere davvero i motivi di questa epidemia senza
agente infettivo occorre partire dai metodi di cura, più che dalle cause.
Nella sua funzione di direttore della comunicazione di un'industria
farmaceutica poi acquisita da un gigante del settore, per molti anni
ha potuto osservare da vicino i dispositivi finalizzati a creare il mercato
della depressione, a cui sono destinati enormi investimenti. Primo fra
tutti, il protocollo che governa i test sui farmaci, esempio perfetto di
circolarità tra diagnosi e terapia: definiamo «depressione» quella vasta
area di disagio psichico che guarisce grazie agli antidepressivi. Area
suscettibile, di per sé, di estendere permanentemente i propri confini.

Philippe Pignarre, dopo aver lavorato a lungo presso l'industria farmaceutica


(Delagrange, Synthelabo), nel 1990 ha fondato le edizioni parigine Les Empêcheurs de
penser en rond.
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Temi
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Philippe Pignarre

L'industria
della depressione

Bollati Boringhieri
Prima edizione maggio 2010

© 2001 Éditions La Découverte & Syros, Paris

Titolo originale Comment la dépression est devenue une épidémie


Traduzione di Mario Pezzella

© 2010 Bollati Boringhieri editore


Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
ISBN 978-88-339-2136-5

Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri

www.bollatiboringhieri.it

Stampato in Italia dalla Litografia EST di Settimo Torinese (To)


Indice

9 Introduzione

L’industria della depressione

17 I. Il numero di persone depresse in Francia


è aumentato di sette volte tra il 1970 e il 1996
Il caso americano dei disturbi della personalità multipla, 18
L’insufficienza delle spiegazioni più correnti, 22
Le scelte fatte dalla psichiatria occidentale, 27

32 2, La depressione diviene un disturbo universale


Loro somatizzano, noi «psicologizziamo», 33 Mandare
ovunque nel mondo clinici esperti, 36 Più è artificiale,
più può essere preso in considerazione, 38 Non separare
più le malattie dal mòdo di curarle, 43 La cultura non
spiega niente, 45

47 3. La cosa più difficile è convincere i pazienti


I traumatismi intenzionali, 49 Si corre sempre il rischio
di proseguire l’opera dell’aggressore, 53
$8 4· Gli studi clinici producono la depressione
Raggruppare e comparare, 59 Le quattro fasi di uno
studio clinico, 62 La potenza dell’effetto-placebo, 65
Le lezioni degli studi clinici contro placebo, 69

75 5. I ricercatori controllano gli antidepressivi?


I test preclinici, 75 Imparare a «trasportare» la patologia, 77
L’assenza di testimone affidabile e di caratteristiche, 79
L’invenzione di un modello di ricerca originale, 81
La piccola biologia, 85

88 6. Psichismo o «corpo mentale»?


Una nuova psichiatria, 88 «Corpo mentale» contro
psichismo, 91 Acquisire delle abitudini mentali, 92
Gli psicotropi sono la grande sorgente dell’invenzione
psichiatrica, 95

98 7. La diagnosi di depressione: un tema di successo


La singolarità della diagnosi psichiatrica, 98 L’ambito
dell’opinione ha le sue leggi, 100 La depressione riguarda
il pubblico, 102 In che modo la depressione si è imposta
come un’evidenza, 104 Abitudini mentali e sillogismi, 106

109 8. L’industria farmaceutica ha un ruolo attivo


Un complotto dei laboratori?, 109 Come creare un
mercato, 113 La battaglia dei concetti, 114

119 9. La piccola biologia non spiega nulla


L’impossibile stabilizzazione della psichiatria biologica, 119
Quale contributo la biologia può dare alla psichiatria?, 123
Un modello aperto, 126 La scommessa biologica, 128

131 io. Gli antidepressivi sono psicoterapia concentrata


e industrializzata
Lo psicotropo sostituisce l’azione umana, 131
Gli psicotropi hanno sostituito dapprima l’internamento
e poi le psicoterapie, 134 Le proteste dei due partiti, 138
La figura del buon prescrittore di farmaci, 140
143 h. Che cosa fare della dep ressione?
Ritrovare tutte le cause, 144 La minaccia
del sociologismo, 148

UI Bibliografia
4
Introduzione

La depressione è la malattia mentale più nota. Tutti


conosciamo qualcuno intorno a noi, che ne è stato colpito
o ne soffre cronicamente: la depressione ritorna a inter­
valli regolari col suo terribile seguito di amarezza. Tutti
abbiamo letto articoli e visto trasmissioni televisive in
cui si spiega perché la depressione deve essere presa sul
serio, non dev’essere trascurata. Tutti abbiamo sentito
dire che bisogna distinguere la depressione vera e propria
dalla semplice tristezza passeggera, che bisogna curare la
prima senza esitazioni e evitare di prendere medicine in
modo indiscriminato nel secondo caso.
Sappiamo anche di essere tutti minacciati dalla depres­
sione nella nostra vita individuale. Una separazione, un
lutto, delle difficoltà sul posto di lavoro, il fatto di per­
derlo, ed ecco che la depressione è in agguato. Essa può
aggiungersi alla schiera di dolori che occorre affrontare,
divenire una sorta di malattia, che necessita di un tratta­
mento medico e talvolta anche di un ricovero ospedalie­
ro. La depressione è una malattia grave, che include la
possibilità del suicidio.
Ma essa ha anche una sua nobiltà: non è una malattia
mentale come le altre. Per lungo tempo la depressione è
stata chiamata «depressione nervosa», per meglio distin­
guerla dalle malattie mentali gravi. Colui che ne soffre
IO INTRODUZIONE

non è completamente pazzo. Forse si trova più nella si­


tuazione del poeta malinconico, che in quella del malato
mentale. Non temiamo di dire pubblicamente che abbia­
mo sofferto di depressione o che è accaduto a qualcuno
della nostra famiglia. Non è una malattia di cui vergognar­
si. Niente a che vedere con l’innominabile e sempre mi­
steriosa schizofrenia, la cui diagnosi continua a seminare
spavento sia nell’ambiente del paziente, sia tra i terapeuti.
La depressione è davvero una malattia mentale, che
richiede una visita medica, o si tratta molto più semplice-
mente di un peccato? Fino a non molto tempo fa, si
diceva che i monaci che si annoiavano all’ascolto delle
Sacre Scritture peccavano di «accidia», uno dei sette pec­
cati capitali, da cui deriverà più tardi - secondo i casi - la
pigrizia o la depressione. Le malattie dell’anima sono
state elaborate da molti sistemi di pensiero, prima di
essere riprese, frammentate e ridefinite dalla medicina
moderna. D’altra parte, questa continua ad essere assil­
lata da un dubbio: le malattie dell’anima, comunque le si
chiami, sono davvero di sua competenza? Così, la medi­
cina più moderna, quella venuta dagli Stati Uniti, esita
sempre a parlare di «malattie» in psichiatria e ci ha ormai
abituato alla nozione vaga di «disturbi» mentali.
La depressione non pregiudica le capacità individuali
delle persone che ne sono colpite, anche se abbiamo tal­
volta l’impressione che esse abbiano idee fisse al limite
del delirio. Esse restano capaci di ragionare e pensare. A
contatto con un depresso, non proviamo il sentimento di
estraneità, che caratterizza la follia vera e propria. L’e­
sperienza del depresso, a vederla dall’esterno, somiglia al
vissuto di chiunque di noi. Se la depressione significa di­
sperazione, senso di colpa, perdita di ogni motivazione,
essa non implica la perdita della capacità di valutare,
comparare, pensare, anche se in modo più lento. Si tratta
solo di un disturbo dell’umore, anche se è difficile defi­
nire questa nozione, che ha a che fare con l’atteggiamen-
INTRODUZIONE 11
to, la mimica, il comportamento, assai più che con la lo­
gica del discorso.
Si può anche scegliere di fare regolarmente delle se­
dute presso uno psicologo clinico, che, non essendo un
medico, non proporrà farmaci ma una psicoterapia. La
depressione sembrerebbe dunque meno grave di una
malattia vera. Si può uscire senza danni da una depres­
sione. E forse una prova passeggera. Ma va aggiunto che
essa non colpisce mai senza conseguenze o per caso coloro
che ne soffrono. Sembra sia necessaria una «predisposi­
zione», quasi un tratto del carattere, una sorta di man­
canza di coraggio, che forse rinvia a una debolezza biolo­
gica ipoteticamente ereditaria o ad una struttura della
personalità. Insidiosamente, la piccola aggiunta dell’idea
di «predisposizione» cambia tutto: non era grave ed ecco
che il piccolo disturbo ha a che fare nientemeno che con
la biologia! La depressione ha molte facce.
Credevamo anche di poter dire senza esitazione: la
depressione non dipende dalla volontà. E tuttavia alcuni
terapeuti propongono di curarla facendo appello alla vo­
lontà... Se il paziente non ha a che fare con un medico
che prescrive psicofarmaci ma con uno psicologo o uno
psichiatra che propone una terapia cosiddetta «cogni­
tiva», la depressione cambia brutalmente di definizione e
si riavvicina al senso comune. Le terapie cognitive predili­
gono un atteggiamento razionale e anche all’occorrenza
un po’ aggressivo: «Le cose non vanno poi così male», con­
stata inizialmente il terapeuta. Le tesi cognitive sono coe­
renti con l’idea che la depressione è un pensiero inesatto
e non uno stato d’animo incontrollabile. Il terapeuta si
interessa più al contenuto depressivo dei pensieri che agli
eventuali fattori emotivi. In seguito il paziente è incorag­
giato a adottare un atteggiamento razionale e ad auto osser­
varsi, per imparare a riconoscere la falsità dei suoi pensieri
e smetterla di prenderli sul serio. Il terapeuta cognitivista
insegna ai pazienti a non prestare più attenzione ai loro
12 INTRODUZIONE

pensieri negativi e a sostituirli con pensieri positivi, più


realisti, se vogliono guarire. Consiglia dunque al paziente
di «non ascoltarsi troppo», come dice il senso comune.
Evidentemente non bisogna accettare subito le idee di
coloro che pretendono di parlare in nome della scienza e
della medicina ufficiali. Per quanto mi riguarda, le ho
conosciute fin troppo bene lavorando all’interno di molte
grandi industrie farmaceutiche, specializzate nella produ­
zione e commercializzazione di psicotropi; conosco le
incertezze, le semplificazioni e le contraddizioni che si
nascondono dietro la loro impeccabile facciata. Ho ten­
tato di dar voce con semplici domande alle incertezze
della psichiatria, assai poco discusse pubblicamente: come
mai la depressione è divenuto il disturbo mentale più dif­
fuso? Perché essa costituisce oggi il modo più adeguato di
formulare le difficoltà avvertite da molti individui, men­
tre solo pochi anni fa non era così? Si può pensare che far
rientrare la depressione in ambito medico sia stata una
scelta e che altre scelte erano possibili?
Questo vuol forse dire che non prendo la depressione
sul serio, che la penso come coloro per cui la depressione
non è una vera malattia, ma solo un modo di rifiutare il
lavoro e la fatica? No di certo. La depressione è un’espe­
rienza terribile. Ma va anche detto ch’essa non è una
fatalità, che il suo carattere terribile non implica ch’essa
sia inscritta nei geni, in una interiorità psichica o nelle
condizioni sociali - se non vi viene inscritta con un colpo
di mano ben organizzato, di cui cercheremo di districare i
fili. Non ci si può avvicinare a un tema simile senza ti­
more: la lettura di questo libro aiuterà coloro che stanno
male e sono disposti a farsi curare per una depressione o
li porterà su piste completamente nuove? Io pongo in
dubbio le certezze di cui vive la psichiatria, ma so anche
che gli psichiatri hanno sviluppato tesori di ingegno per
aiutare le persone che si rivolgono a loro. Per quanto dif­
fidi delle loro teorie, non posso che ammirare la loro per­
INTRODUZIONE 13

severanza nell'aiutare tutti coloro che si trovano in fondo


all’abisso.
Questo libro non segue le strade consuete della divul­
gazione scientifica. Il suo obiettivo non è di ripetere quel
che già si può leggere dappertutto sulla depressione, e
darne ulteriore conferma. Vorrei però che agisse quasi
come un rimedio terapeutico, come una specie di consi­
glio a non entrare in depressione e che permettesse di fare
altre scelte - il che non esclude la possibilità di prendere
degli antidepressivi. Non si troveranno in questo libro
consigli per un’igiene di vita, né esercizi psicologici che
permettano, se ben eseguiti, di sfuggire alla depressione.
Tuttavia, mostrando in qual modo favoriamo la depres­
sione, esso vorrebbe aiutarci a non precipitare in essa alle
prime difficoltà esistenziali... e dunque evitare talvolta il
medico e lo psicologo. Sono convinto d’essere personal­
mente sfuggito alla depressione scrivendo questo libro!
Sono stato testimone, per diciassette anni, del modo in
cui i ricercatori giungono a produrre gli antidepressivi e
dei rapporti che essi hanno con i medici e, attraverso di
loro, con i malati. Non sono un sociologo, ma, da testi­
mone, cercherò di far udire la voce di attori che non sono
ascoltati o sono confinati in una situazione di grande pas­
sività: ricercatori dei laboratori, pazienti. Cercherò dun­
que di porre nuove domande alla psichiatria contempora­
nea e di mettere in discussione alcune delle sue certezze.
La psichiatria procede troppo in fretta, da quando è
stata definita scientifica. Bisogna cercare di rallentare il
suo movimento, applicando ad essa lo stesso metodo che
essa applica ad altri. Prendiamo l’esempio della predizione
del futuro: ogni volta che la psichiatria si interessa ad
essa, giunge alla conclusione che è possibile spiegare esau-
stivamente la sua efficacia apparente con la sua capacità
di induzione, il suo carattere performativo. Le predizioni
riguardanti la persona che si rivolge a un veggente si rea­
lizzerebbero per effetto di suggestione, senza che ella se
Μ INTRODUZIONE

ne renda conto. Questa è una critica terribile, difficile da


controbattere. Bisogna accumulare un numero considerevo­
le di dati detti «parapsicologici», per cercare di incrinare
questa troppo rapida svalutazione. Un simile lavoro as­
sorbirà tutte le energie dei protagonisti, che si dedicheran­
no interamente ad esso e non avranno più la possibilità di
riflettere in altro modo sui problemi posti dalla predizione.
Dobbiamo allora interrogarci sulla reciprocità di una
simile critica: cosa protegge la psichiatria dal pericolo di
induzione? Non è forse caduta anch’essa, su scala assai
più grande della predizione, in questa trappola, così facile
da denunciare negli altri? Le diagnosi psichiatriche sono
innocenti? Per riassumere, la psichiatria non contribuisce
anch’essa al modo in cui le malattie dell’anima si stabilizzano
nella nostra cultura, mentre invece pretende d’aver final­
mente trovato il metodo giusto per studiarle obiettivamen­
te, senza influenzarle? Non sarebbe essa stessa, in parte,
responsabile dell’«epidemia» di depressione? Oggi ben
pochi dei ricercatori che lavorano in questo campo si preoc­
cupano di questi problemi, perché credono con troppa fa­
cilità di trovare conferme nelle scoperte biologiche; queste
metterebbero in evidenza come i disturbi mentali siano
radicati in un terreno assai più solido degli effetti infiniti
e dei rispecchiamenti della suggestione. Questo libro tenta
di complicare il loro lavoro, ponendo in questione la natura
della psichiatria biologica. La biologia ha davvero trasfor­
mato la psichiatria? Ha trionfato o ha totalmente fallito?
Ho scritto preoccupandomi della leggibilità del libro.
Ciò che segue non è una tesi universitaria, che ricostrui­
sca la storia dei dibattiti sulla depressione, ma un libro di
intervento politico, con tutti i rischi che ciò comporta. Il
mio obiettivo è di ricreare una molteplicità di prospet­
tive, laddove tutto sembra risolversi nella figura della de­
pressione e della cura con gli antidepressivi. Soprattutto
non voglio che la sua lettura sia riservata agli specialisti
della clinica e della sociologia medica.
L’industria della depressione
f
I.

Il numero di persone depresse in Francia è aumentato


di sette volte tra il 1970 e il 1996

Nel 1970, c’erano cento milioni di depressi nel mondo.


Trent’anni più tardi, sono forse un miliardo! Secondo
molti rapporti di organismi ufficiali, la depressione è oggi
la quarta causa mondiale di handicap e dovrebbe passare
al secondo posto nei prossimi venticinque anni. Essa do­
vrebbe occupare addirittura il primo posto nei paesi in
via di sviluppo, dove oggi è ancora poco diagnosticata. In
Francia, il numero dei pazienti depressi e curati è aumen­
tato di un milione in dieci anni (1980-1991); le donne
sono sempre tre volte più numerose degli uomini. Si tratta
di un aumento del 60 per cento. Su un periodo più lungo,
tra il 1970 e il 1996, il numero di persone che possono
essere considerate depresse, curate o meno, si è moltipli­
cato per sette in Francia. Tra il 1980 e il 1989, il numero
di visite con prescrizione di un antidepressivo negli Stati
Uniti è passato da 2,5 a 4,7 milioni.
Le statistiche, in qualunque modo le si consideri, rive­
lano tutte lo stesso fenomeno: un aumento considerevole
del numero di persone, che possono, sotto una qualunque
forma, essere definite depresse. Secondo Forganizzazione
mondiale della sanità (oms), la depressione sarà nei pros­
simi anni uno dei due maggiori problemi di salute pub­
blica e forse addirittura il maggiore, prima ancora delle
malattie cardiovascolari. L’aumento del numero dei de-
20 CAPITOLO PRIMO

meno senza avere alcuno strumento di riflessione e di


spiegazione della sua natura epidemica. Non vi partecipa
forse allo stesso titolo dei romanzieri, degli sceneggiatori,
dei giornalisti, degli psicoterapeuti ipnotizzatori, delle
femministe, dei difensori dei diritti dei bambini, dei neu­
rofilosofi ecc.?
Credo che non si possa comprendere la natura epide­
mica di questa malattia senza studiare il modo in cui
«salta» da un ambito all’altro, il modo in cui coinvolge
una moltitudine di protagonisti diversi, che possono sem­
pre riutilizzare a loro profitto ciò che gli altri hanno fatto
prima di loro. Più la malattia circola fra scrittori, giorna­
listi, medici, femministe, filosofi e più si impone a tutti
come un fatto incontestabile.
Ho fatto Pesempio delle personalità multiple, perché
questo libro non parla della depressione, ma deli’epidemia
di depressione. Ma ciò che osserviamo nel caso della de-
„pressione è molto diverso da quanto abbiamo visto acca­
dere col disturbo della personalità multipla. La depressio­
ne si sviluppa rapidamente, ma non in modo altrettanto
fulmineo. Le cose avanzano più lentamente, ma forse più
costantemente. Nel caso della depressione, la medicina è
in primo piano, mentre per le personalità multiple sono
stati coinvolti soprattutto gli psicologi psicoterapeuti. La
depressione mobilita altri attori, che erano rimasti indif­
ferenti di fronte al disturbo della personalità multipla; i
ricercatori di neuroscienza, i farmacologi che inventano
gli psicotropi. Tutti coloro che si occupano di antidepres­
sivi sono interessati alla depressione, mentre le persone
coinvolte dal disturbo della personalità multipla non si
interessavano agli psicofarmaci. E una differenza essenzia­
le. Infine, la depressione è un fenomeno mondiale, men­
tre il disturbo delle personalità multiple ha colpito solo gli
americani. La posta in gioco, nel caso dell·epidemia di
depressione, è molto più alta, e non risolveremo nulla ri­
dacchiando dell’ingenuità dei nostri cugini americani.
IL NUMERO DI PERSONE DEPRESSE IN FRANCIA 21

Come analizzare il fenomeno? La maggior parte dei


libri sulla depressione sono stati scritti da medici o psico­
logi. Anche i sociologi, che si sono interessati ad essa,
hanno ammesso che per loro la psicoanalisi era uno stru­
mento privilegiato di analisi. Non sono un medico e dun­
que non mi sono dovuto confrontare con la necessità di
alleviare le sofferenze e di guarire. Il mio punto di par­
tenza e i miei strumenti di analisi saranno differenti.
In questo libro, darò molto spazio ai dispositivi che ho
visto operanti nell’industria farmaceutica, senza i quali
l’epidemia di depressione mi pare incomprensibile. Ho
visto molto da vicino come viene gestito il «mercato» in
espansione (così bisogna chiamarlo) della depressione,
fino al modo in cui si sviluppa (o si desidera che si svi­
luppi) la relazione tra medico e paziente. Un tema ritorna
molto spesso in tutti gli articoli e i libri destinati ai profes­
sionisti della medicina: bisogna insegnare ai medici come
riconoscere i loro pazienti colpiti da depressione. Essa
non può essere scoperta a prima vista da medici non sensi­
bilizzati e educati a riconoscerla. Il marketing dei labora­
tori dedica molti sforzi e danaro per insegnare ai medici
come identificare i pazienti depressi. In una fase precedente,
ho potuto osservare il modo in cui i ricercatori preparano
nuovi farmaci e come li sperimentano nel corso degli studi
clinici. Molte cose si decidono in questa fase. Bisogna stu­
diare in maniera precisa il modo in cui agisce l’industria
farmaceutica per comprendere la particolarità dell’epide-
mia di depressione. In questo caso, la denuncia non basta.
E possibile pensare che un disturbo mentale possa es­
sere allo stesso tempo una malattia reale, seria, e una ma­
lattia epidemica senza agente infettivo? Ciò che sembra
naturale per le malattie organiche, diventa inquietante
quando si tratta di turbe mentali, in cui non viene avan­
zata l’ipotesi infettiva. Le condizioni che determinano
un’epidemia nel caso di un disturbo mentale sono eviden­
temente diverse da quelle che agiscono per una malattia
22 CAPITOLO PRIMO

infettiva. Per le epidemie classiche, la medicina ci ha in­


segnato che bisogna cominciare a definire il germe attivo.
Ma prima che i ricercatori e i medici sapessero identifi­
care un germe, si è pur dovuto riconoscere e descrivere
un’epidemia senza questa giustificazione. Sono stati an­
che utilizzati mezzi amministrativi, come le quarantene,
per venirne a capo. E stato necessario un lungo e com­
plesso lavoro per arrivare al punto in cui oggi siamo nella
nostra comprensione delle epidemie e nella classificazio­
ne dei germi. E noto del resto che un germe non basta per
spiegare un’epidemia: ci vogliono altre condizioni, oltre
alla sua mera esistenza e alle sue qualità intrinseche, per­
ché esso si propaghi come un fulmine in una popolazione.
Propongo di applicare lo stesso metodo alla depressione,
non per trovare un germe, ma per determinare le condi­
zioni di possibilità dell’epidemia.

L’insufficienza delle spiegazioni più correnti

Esistono tre grandi tesi riguardo alla depressione. Ci


permettono di comprendere l’epidemia di depressione?
La prima tesi (di «sinistra»?) afferma che la società è sem­
pre più «depressogena» e fa derivare la depressione dall’in­
felicità e dalla sofferenza sociale. E facile accorgersi che
coloro i quali propongono questa spiegazione globale non si
preoccupano tanto di spiegare la depressione in se stessa
e di trovare il modo di contenerla e farla regredire. L’au­
mento del numero dei depressi è solo un argomento supple­
mentare per dimostrare che la società è sempre più crudele.
A loro interessa la denuncia sociale e non la spiegazione
della depressione. Perché la denuncia sociale sia efficace, è
meglio considerare la depressione come una realtà stabile,
che dia una base solida al resto dell’argomentazione.
Per molti anni si è utilizzato lo stesso tipo di argomento
per i tossicomani: i giovani si drogano, perché la società è
IL NUMERO DI PERSONE DEPRESSE IN FRANCIA 23

sempre più disumana. Abbiamo dovuto sbarazzarci di


questa spiegazione paralizzante per iniziare un vero
lavoro coi tossicomani, per imparare da loro e non com­
portarsi nei loro confronti come ideologhi che imparti­
scono lezioni. La politica di riduzione dei rischi, che ha
molto stentato a imporsi in Francia (messa a disposizione
di siringhe, programmi di sostituzione e fornitura gra­
tuita di oppiacei per i drogati), ha reso più complesso il
discorso, che si contentava di denunciare l’insieme della
società. Non ho certo voglia di trovare scuse per la società,
ma non sono disposto ad appoggiare una denuncia glo?
baie, se il prezzo da pagare è la rinuncia a tutte le piccole
azioni politiche che hanno molte conseguenze pratiche
per i cittadini.
La tesi globalizzante corre troppo rapidamente. Essa
pone un enorme problema di metodo: l’oggetto da spie­
gare - una società in cui si diffondono le depressioni -
diviene il principio esplicativo. Non basta dire che la
società contemporanea è divenuta folle, bisogna anche
comprendere come mai dei meccanismi individuali si ge­
neralizzino, si estendano e possano alla fine, ma solo alla
fine, divenire un fenomeno sociale. Non credo che una
sociologia della complementarità (che si può sintetizzare
così: il fenomeno della depressione è complementare ad
una società sempre più disumana) ci possa permettere di
comprendere quel che accade e ci dia delle armi valide.
Non è pertinente spiegare un «piccolo» fenomeno come
una depressione individuale con una causa gigantesca: la
società. Al contrario, cerchiamo una spiegazione che ci
permetta di seguire il cammino della depressione, la sua
progressiva diffusione, l’aumento sempre più cospicuo di
nuovi pazienti.
Nella sociologia della complementarità, la nozione di
stress diviene centrale, benché sia vaga come quella di
società. Essa non indica alcun contesto particolare, nes­
suna violenza, nessun nemico preciso. Essa rinvia a una
24 CAPITOLO PRIMO

sorta di ambiente generico, nebuloso, che comprende per


lo più gruppi di individui. Poiché non tutti diventano
depressi, bisogna poi aggiungere la nozione di «predispo­
sizione», che permette di tenere in piedi il discorso, ma
in realtà maschera solo la nostra ignoranza. La nozione di
stress evita la fatica di fare riferimenti precisi. E una no­
zione depoliticizzata e perciò non intendo utilizzarla.
Questa tesi crede di mostrare le virtù della sinistra, ma in
realtà coltiva solo l’impotenza.
Neppure direi che la depressione è «socialmente costrui­
ta», perché non c’è nessuna ragione di limitare gli elemen­
ti della sua costruzione a quelli di tipo sociale. Dicendo
che la depressione è «socialmente costruita», la svaloriz­
ziamo: essa non è più veramente reale, si dà l’impressione
ch’essa abbia meno realtà delle patologie dovute a una
causa organica. Il termine «socialmente costruita» ci ri­
conduce nella trappola, per cui crediamo nell’esistenza di
una società già tutta data, entità misteriosa, referente
permanente, capace di spiegare tutto. Una realtà simile è
contestabile, ma non la realtà della depressione; rispetto
a questa non possiamo escludere a priori ch’essa sia co­
struita con elementi molteplici, compresi quelli biologici.
La seconda tesi (di «destra») porta anch’essa all’impo­
tenza. Secondo questa tesi, le percentuali dei pazienti
depressi non sono cambiate di molto, poiché si tratta di
una risposta organica inadeguata a problemi esistenziali,
i quali - di per sé - possono essere estremamente benigni
o invisibili. Essi non inducono nessuna malattia in un
individuo «normale». Una simile risposta inadeguata si
può solo spiegare con cause biologiche o genetiche, che
predispongono alcuni soggetti a cadere in depressione,
mentre altri ne restano immuni. La parola «predisposi­
zione» ha un’importanza decisiva, perché permette di
rispondere al problema degli eventi traumatici subiti da
un individuo senza rinunciare alla biologia come punto di
riferimento essenziale. L’epidemia di depressione sareb-
IL NUMERO DI PERSONE DEPRESSE IN FRANCIA 25

be dunque una falsa apparenza: una volta non si sapeva


diagnosticare la depressione ed essa restava nascosta den­
tro la famiglia. La psichiatria è divenuta scientifica e ci ha
aperto gli occhi: l’aumento dei casi sarebbe solo il riflesso
del miglioramento degli strumenti diagnostici.
Una terza tesi esplicativa privilegia l’interiorità psichi­
ca: la depressione sarebbe una «piccola questione priva­
ta». Essa deriverebbe, ad esempio, da un’infanzia distur­
bata e da una cattiva strutturazione del soggetto. Questa
soluzione è preferita dagli psicoterapeuti spesso formatisi
con la psicoanalisi. Ma questa tesi della predisposizione
psichica - oggi sostituita dalla predisposizione biologica -
non basta a spiegare l’epidemia: essa suppone in effetti
che il numero di bambini vittime di disturbi familiari
nella società contemporanea sia considerevolmente aumen­
tato, ma di questo non vi è alcuna prova.
Tutte queste tesi sono più o meno contraddittorie, ma
spesso vengono mescolate negli articoli che divulgano il
problema della depressione. Generalmente, un articolo di
giornale comincia con il primo argomento e conclude col
secondo, senza trascurare il terzo. C’è anche un punto di
vista eclettico, che permette di conciliare le due prime
tesi: esso propone le nozioni di depressione «reattiva» e
di depressione «endogena». La prima sarebbe dovuta a
un evento vitale destabilizzante, traumatico, mentre la
seconda potrebbe essere spiegata solo da cause interne,
biologiche. Ma questa distinzione è stata presto abban­
donata e oggi nessuno sa come distinguere i due tipi di
depressione. Non c’è forse il rischio di chiamare «en­
dogene» tutte le depressioni che non possono essere fa­
cilmente riferite a un evento vitale traumatico, perché
questo è ben nascosto? Anche in questo caso, l’appello
sempre più frequente alla nozione di predisposizione dà
l’illusione di aver risolto il problema.
A tutte queste spiegazioni che non hanno saputo darci
nessun’arma per combattere l’epidemia, se ne aggiunge
2Ó CAPITOLO PRIMO

spesso un’altra: l’industria farmaceutica, che trae enormi


profitti da questa epidemia, con le sue campagne pubbli­
citarie provoca un enorme sovraconsumo di antidepres­
sivi, in casi che non lo giustificherebbero. Gli antidepres­
sivi farebbero parte di un vasto tentativo per soffocare la
protesta sociale. L’ingiustizia sociale sarebbe dissimulata
e dimenticata grazie agli antidepressivi, che costituireb­
bero una minaccia diffusa contro i movimenti sociali e la
possibilità stessa delle rivolte. Gli psicofarmaci permette­
rebbero di anestetizzare la società e bisognerebbe far
rinascere la naturale alleanza tra la sinistra, la Repubblica
e la psicoanalisi, madre di tutte le psicoterapie degne di que­
sto nome, vera alternativa all’eccessivo consumo di psico­
farmaci, che permetterà di ritornare alla verità del soggetto.
La nostra spiegazione differisce da tutte le imposta­
zioni che tentano di distinguere tra gli stati che meritano
davvero il nome di depressione e quelli che sarebbero
indebitamente assimilati ad essa. Seguendo questi schemi
esplicativi, la depressione viene curata come una malat­
tia, simile alle altre. Nessuno dubita della sua realtà, che
sarebbe della stessa natura di una malattia infettiva. Essa
sarebbe obiettiva e naturale: un fatto immediatamente
percettibile, dal momento in cui è stata creata la psichia­
tria scientifica, capace di fare diagnosi riproducibili. Qui
si presenta il pericolo principale: la naturalizzazione trop­
po affrettata di un fenomeno che forse deriva soltanto
dalla nostra esperienza limitata di occidentali. Ciò equi­
vale a considerare l’esperienza di tutti coloro che, in altre
parti del mondo, non conoscono la depressione e danno
altre definizioni delle loro difficoltà, come una manife­
stazione deformata culturalmente di un fenomeno che
noi vivremmo e sperimenteremmo nella sua verità.
IL NUMERO DI PERSONE DEPRESSE IN FRANCIA 27

Le sceltefatte dalla psichiatria occidentale

La psichiatria ha voluto evitare la soggettività creando


strumenti diagnostici affidabili: chiunque sia il medico,
che esamina e interroga un paziente, egli dovrebbe giun­
gere alle stesse conclusioni se dispone di un buono stru­
mento diagnostico. Questo però non prova che il male, di
cui soffrono i pazienti, sia obiettivo allo stesso modo in cui
lo è una malattia infettiva. Gli strumenti diagnostici per­
mettono solo di sfuggire alla soggettività del terapeuta,
sintonizzando il suo giudizio e la sua conoscenza dei sin­
tomi su quelli dei suoi colleghi: nella stessa situazione,
essi direbbero la stessa cosa. Gli strumenti diagnostici co­
nosciuti come DSM Manuale diagnostico e statistico dei
disturbi mentali edito dall’Associazione americana di psi­
chiatria),1 più che dare la possibilità di giungere in modo
ineccepibile alla diagnosi di depressione, hanno formato
una schiera di medici capaci di porre le stesse domande,
di stabilire una relazione simile coi pazienti e di giungere
alle stesse conclusioni.
Il DSM è soprattutto uno strumento per creare con­
senso: dimentichiamo tutti gli argomenti che danno fasti­
dio (le cause dei disturbi mentali) e concentriamoci sui
punti d’accordo (le manifestazioni visibili delle diverse
malattie). Il modo in cui è stato redatto ne è la prova:
gruppi di psichiatri americani si riuniscono per anni, sta­
bilendo di comune accordo i criteri, che permettono di
classificare i pazienti. Il dsm ha uniformato il modo di fare
una diagnosi, perché ha prima uniformato gli psichiatri
nel loro modo di osservare i pazienti. Di ciò è testimone
l’ansia tipica degli psichiatri: di fronte a un qualunque
paziente, faranno tutti la stessa diagnosi? La medicina di
solito non condivide quest’ansia·, per un medico il pro­

1 Cfr. American Psychiatric Association 1996.


28 CAPITOLO PRIMO

blema principale è quello di fare una buona diagnosi. Si


può dire che se tutti gli psichiatri fanno la stessa diagnosi,
ciò implica che questa sia quella giusta? Evidentemente no.
I manuali di psichiatria fissano un certo numero di
condizioni minime perché i pazienti possano essere consi­
derati depressi. Bisogna superare questi limiti, per entra­
re nel territorio in cui il termine «depressione» può essere
usato a giusto titolo. Ecco i nove punti, che oggi sono abi­
tualmente considerati pertinenti:
- tristezza eccessiva
- perdita di interesse, incapacità ad agire
- problemi di appetito
- problemi di sonno
- agitazione o lentezza
- fatica, perdita di energia
- senso di colpa eccessivo
- difficoltà a concentrarsi
- pensieri di morte.
Questi sintomi creano uno spazio che articola senti­
menti, emozioni, paure e comportamenti abbastanza di­
sparati, prima di essere messi nello stesso elenco. Sembra
tuttavia che i pazienti o per meglio dire i prepazienti non
si lascino definire mai spontaneamente da questo insieme
di limiti che determinano il territorio della depressione.
Sono paralizzati dalla paura; subiscono delle violenze;
conoscono flussi esterni che passano attraverso il loro
corpo e il loro spirito e li tormentano. Sotto l’effetto di
questi flussi, esistono molte possibilità di trasformazione.
Quando questi flussi sono stati trasformati in limiti di un
territorio, quando sono stati privati del loro carattere di
legame tra due o più individui e trasformati in sentimen­
ti, in emozioni interiorizzate, in comportamenti che ap­
partengono in proprio al soggetto, e cioè in uno stato
emotivo, allora si è realizzata una vera trasformazione-
fabbricazione, e il paziente depresso è nato. Il terapeuta
ha imparato a utilizzare gli strumenti diagnostici per in­
IL NUMERO DI PERSONE DEPRESSE IN FRANCIA 29

terpretare quel che il paziente gli dice sui flussi che lo at­
traversano e a ricondurli a territori fissi e ben delimitati.
Non è facile inscrivere e trasformare i flussi che attraver­
sano i pazienti per immobilizzarli su un territorio. Biso­
gna che il territorio lasci delle aperture, attraverso cui i
flussi potranno continuare a differenziare un individuo
da un altro. Gli psichiatri che hanno per comune accordo
fissato i caratteri sintomatici sono ben consapevoli della
difficoltà. Il territorio non è mai definito da limiti fissi.
Un disturbo mentale non è mai definito in modo assolu­
to: così, bastano «cinque sintomi su nove, presenti per
più di due settimane» per definire il territorio della de­
pressione grave (cioè la depressione dichiarata). Ci sono
dunque porte d’accesso diverse a questo territorio. Il ter­
ritorio acquista così una specie di plasticità, che permette
ad esso di captare i flussi e conservarli come sintomi
riproducibili, quasi sempre gli stessi, nella configurazione
di «cinque su nove».
Essere «territorializzati» dalla depressione, significa
essere rinchiusi in un mondo molto particolare con le sue
proprie usanze. Il mondo a cui è destinato colui che è or­
mai divenuto un paziente è molto ristretto. Tutto quello
che dice e fa un paziente depresso può essere interpretato
nei termini in uso in questo territorio. La povertà del nuo­
vo discorso clinico, che accompagna la nuova era della
depressione, è stato denunciato dagli psicoanalisti, ma
essi non sono capaci di opporsi ad esso in modo efficace,
forse perché molti pazienti vi trovano un vantaggio. Essi
possono preferire che venga lasciato da parte ciò che inte­
ressava tanto gli psicoanalisti e mescolava sempre di più
la loro intimità e la cura dei loro problemi.
Insistiamo fin da ora su una differenza essenziale: quando
un paziente decide di consultare un medico perché gli
prescriva un antidepressivo, o sceglie invece di andare da
uno psicologo per cominciare una psicoterapia di ispi­
razione analitica, fa una scelta decisiva, perché essa lo
3° CAPITOLO PRIMO

iscrive immediatamente in un divenire diverso. Sceglien­


do un trattamento farmacologico, il paziente decide, ancor
prima di assumere il farmaco, che il suo problema non lo
coinvolge nel profondo di sé, che il suo «io» intimo non è
davvero messo in questione dalle fondamenta e potrà star
meglio con un trattamento banale come quello messo in
atto dalle molecole chimiche. Al contrario, la scelta di
una psicoterapia consisterà nell’interrogare questo «io»
profondo. La depressione presenta così un «vantaggio»
rispetto alla nevrosi: la scelta degli psicofarmaci è il mezzo
adatto a non territorializzare i propri problemi nei ter­
mini della nevrosi, proposti dalla psicoanalisi. La scelta
tra queste due terapie pone in questione il modo in cui
ognuno decide di definirsi come essere umano, nel mo­
mento in cui è messo alla prova da difficoltà gravi. Non
c’è nessuna ragione di pensare, come vorrebbero spesso
farci credere, che una delle scelte ci porta verso una mag­
giore umanità e l’altra verso una maggiore barbarie.
Prendiamo un caso clinico di questo tipo di « territoria-
lizzazione». Jean è un prete cattolico. Esercita il suo sa­
cerdozio con grande entusiasmo ed è ammirato sia dai
suoi parrocchiani, che dagli altri preti. Jean perde la fede.
Non crede più a quel che deve dire nei suoi sermoni. Sof­
fre perché deve chiedere ai suoi fedeli di fare e credere in
cose in cui non crede più. Per lui è sempre più difficile
dire la messa ed è convinto che non avrebbe dovuto fare
il prete. Ogni notte si sveglia alle tre. Ha dolori di sto­
maco e perde l’appetito. E convinto di avere un cancro.
Consulta inutilmente uno specialista. Il suo vescovo mo­
dernista gli consiglia di parlare con uno psichiatra. Que­
sti tradurrà tutto ciò che Jean sente nel linguaggio della
depressione: tristezza, perdita d’appetito, perdita di fi­
ducia in se stesso, idee di morte. Jean, che fino ad allora
considerava la sua sofferenza come un problema di ordine
spirituale, si persuade un po’ alla volta (o decide) che è
invece di ordine medico. Tuttavia la perdita della fede
IL NUMERO DI PERSONE DEPRESSE IN FRANCIA 31

poteva essere interpretata altrimenti che come depres­


sione, e proprio la religione disponeva di un considerevo­
le potenziale di risorse per comprendere ciò che accadeva
a Jean. Anche la psicoanalisi avrebbe potuto candidarsi a
curare un caso simile. Ma era ugualmente possibile indi­
rizzarlo verso la medicina psichiatrica. Bastava che Jean
accettasse di lasciarsi alterare dalle sostanze chimiche e
che facesse questa scelta.
Abbiamo così identificato una prima condizione del­
l’epidemia di depressione. Essa è dovuta a una confu­
sione, che dà un potere ingiustificato agli strumenti della
diagnosi psichiatrica. Essi non ci dicono la verità su ciò di
cui i pazienti soffrono, ma solo sul modo in cui sono for­
mati gli psichiatri, e cioè sul modo in cui possono procu­
rarsi dei pazienti e stabilizzare i loro dolori.
2.
La depressione diviene un disturbo universale

Si soffre di depressione in tutte le società o questa è


una malattia caratteristica di alcuni paesi occidentali, allo
stesso modo che il disturbo della personalità multipla si
trova solo negli Stati Uniti? Questo interrogativo ha
mobilitato una corrente di ricerca americana chiamata
«psichiatria transculturale». La posta in gioco è conside­
revole. Da esso dipende tutto il futuro della psichiatria,
mondiale in un caso e locale nell’altro. Gli psichiatri che
lavorano in questa prospettiva hanno formulato altre
domande, che anche noi ci porremo, mentre in Francia
esse sono spesso ignorate. La depressione ha un signifi­
cato solo entro le categorie della medicina occidentale?
Esiste in tutti i paesi, dissimulata sotto altri nomi? Se in
una lingua non esistono parole per designare la depres­
sione, questo significa automaticamente che questa pato­
logia non esiste? Come analizzare, ad esempio, il parados­
so seguente? Negli Stati Uniti ci sarebbe oggi un numero
di depressi sei volte superiore nelle comunità indiane ri­
spetto alla popolazione bianca, mentre il 93 per cento
degli Indiani Hopi dichiara che nella loro lingua non c’è
nessuna parola per designare la depressione.

«
LA DEPRESSIONE DIVIENE UN DISTURBO UNIVERSALE 33

Loro somatizzano, noi «psicologizziamo»

Alla fine del xix secolo, Emil Kraepelin (1856-1926),


uno dei fondatori della psichiatria, si reca in Indonesia
per fare della psichiatria comparata, come egli già la chia­
ma: i pazienti soffrono ovunque nel mondo degli stessi
disturbi mentali degli europei? Kraepelin e i suoi succes­
sori constateranno come i casi di depressione, che essi
osservano, non siano esattamente sovrapponibili ai casi
europei: sono più rari, di intensità più moderata e fugace.
I pazienti non soffrono di sensi di colpa come in Europa
o negli Stati Uniti.
Dagli anni sessanta in poi, ΓOrganizzazione mondiale
della sanità ha realizzato degli studi importanti per com­
parare la depressione e le sue forme nei diversi paesi.
Questi studi hanno mostrato che il 68 per cento dei pa­
zienti svizzeri, contro solo il 32 per cento degli iraniani
considerati depressi, provano un sentimento di colpa. Le
idee di suicidio si riscontrano nel 70 per cento dei depres­
si canadesi, ma solo nel 40 per cento dei giapponesi. Per
contro, il 57 per cento degli iraniani soffrono di disturbi
somatici, come emicranie, lombalgie, mal di stomaco,
contro solo il 27 per cento dei canadesi ecc.
Diversi manuali di psicopatologia fanno Pinventario
dei disturbi e delle loro differenze tra il mondo occiden­
tale e l’Africa (presa nel suo insieme, il che pone un primo
problema metodologico, data la grande diversità delle
culture africane). Su più di trenta sintomi presi in consi­
derazione e che rinviano all’umore, ai contenuti di pensie­
ro, all’inibizione psicomotoria e ai disturbi fisici che ac­
compagnano la depressione, se ne trovano solo sei comuni
agli occidentali e agli africani. Gli autori parlano allora di
«maschere», che deformano l’apparenza della depressio­
ne, ma non cambierebbero la natura profonda della ma­
lattia, ovunque la stessa.
34 CAPITOLO SECONDO

Gli stati deliranti, con temi persecutori («sentimento


che i pensieri e gli atti sono imposti da una forza esterna
occulta, stregoneria, possessione») sono molto presenti
tra gli africani malati di depressione; ma questa serie di
sintomi non ha valore particolare e non costituisce affatto
un modo di entrare in contatto col mondo del paziente.
Tutto ciò non avrebbe rapporto neppure col modo tradi­
zionale in cui vengono curati coloro che si ammalano in
questi paesi. Non ci sarebbe nulla di particolarmente in­
teressante in queste differenze: non bisogna sottoli­
nearle, ma al contrario dimenticarle, perché l’importante
è identificare la depressione oltre queste «distorsioni»
tutto sommato senza grande significato.
La questione della «somatizzazione» ha suscitato nella
psichiatria transculturale dibattiti senza fine, costituendo
un punto di riferimento. Percentuali assai forti di soma­
tizzazione sono state stabilite da numerosi studi, con­
dotti in Arabia Saudita, Iraq, Africa Occidentale, India,
Sudan, nelle Filippine, a Taiwan e Hong Kong. Percen­
tuali egualmente considerevoli sono state riscontrate in
Occidente, ma solo presso popolazioni di basso livello
economico e culturale, in zone rurali o nelle regioni in cui
gli abitanti sono molto legati alla loro religione. Queste
popolazioni possono essere considerate «in ritardo».
Così, di fronte alla depressione, il mondo si dividereb­
be tra quelli che somatizzano e quelli che «mentalizza-
no», quelli che esprimono la sofferenza col proprio corpo
e quelli che sono capaci di dare un senso ad essa e di par­
larne in termini psicologici. Si trova del resto un’èco del
problema relativo alla capacità di «mentalizzare» in molti
lavori di psicoanalisti: per essi i disturbi psicosomatici so­
no conseguenza di un’incapacità del soggetto a mentaliz­
zare, a psicologizzare, e dunque a fantasmare. Essi hanno
chiamato questa disposizione «alessitimia» (negli Stati
Uniti) o «pensiero operativo» (in Francia), per descrivere
pazienti con i quali è molto difficile un lavoro terapeu­
tico: questi pazienti non avrebbero né fantasmi né sogni.
LA DEPRESSIONE DIVIENE UN DISTURBO UNIVERSALE 35

In testi recenti degli anni ottanta, alcuni psichiatri trans­


culturali americani come Julian Lef f danno un senso teo­
rico a questa differenza. Per essi, le emozioni sono feno­
meni biologici e intrapsichici, che si possono analizzare
per introspezione. Bisognerebbe valutare positivamente
la possibilità - per un individuo - di parlare delle sue
emozioni in termini psicologici, piuttosto che in termini
corporei. Parlare dei propri disturbi in termini psicologici
costituirebbe dunque un progresso nell’evoluzione della
specie umana. Perciò bisogna analizzare le diverse lingue
in termini darwiniani. Le lingue parlate nel mondo ven­
gono da essi disposte su una scala evolutiva: le lingue
cinesi, africane, indiane non si sarebbero evolute fino al
punto di permettere la differenziazione tra le esperienze
fisiche e quelle mentali. Invece, le lingue indoeuropee sa­
rebbero le più evolute dal punto di vista della storia della
specie umana, anche se ciò non esclude una differenza di
evoluzione anche tra di esse.
Così, sappiano i francesi che l’inglese e non il francese
si trova al vertice di questa evoluzione. Il francese occupa
solo un posto intermedio, prima delle lingue africane. Gli
psichiatri francesi hanno inventato nozioni considerate
molto stravaganti dai loro colleghi americani, come l’ec­
cesso, la bouffée delirante (scritto con una sola «f » nel ca­
pitolo dedicato alle «sindromi connesse alla cultura» della
terza edizione del dsm!) o anche la «spasmofilia», che de­
signa in termini somatici ciò che i popoli di lingua inglese
sono capaci di esprimere in termini psicologici. Per il dsm,
la spasmofilia è una crisi di angoscia acuta, che i francesi,
per ignoranza, trattano col magnesio e gli americani con
gli ansiolitici...
Questo darwinismo sociale appare abbastanza ridicolo
e fa venir voglia di sorridere. È tuttavia innegabile che
oggi una parte della psichiatria transculturale lo accetta,
perché esso dà una grande coerenza al suo metodo uni­
versalista e globalizzante.
36 CAPITOLO SECONDO

Mandare ovunque nel mondo clinici esperti

Per la psichiatria transculturale bisogna in effetti sepa­


rare il senso soggettivo e quello oggettivo della depressio­
ne. La depressione, come altre emozioni o gruppi di emozio­
ni, è un’esperienza «psicobiologica» universale, trasformata
poi in realtà culturalmente specifica, reprimendo o, al
contrario, valorizzando alcuni suoi aspetti. In quest’ot­
tica, la realtà qualificata come «naturale» è la stessa do­
vunque: la cultura è qualcosa di sovrapposto ed esteriore,
che rimodella, conferisce corpo e apparenza a questa in­
tangibile realtà. Evidentemente, il problema è di fare l’e­
lenco di queste emozioni o gruppi di emozioni universali.
Se le caratteristiche sociali e culturali della depressione
si sovrappongono alla sua natura oggettiva, è giusto trat­
tarle come secondarie, come epifenomeni. Questi tratti
culturali sono solo artifici, che il ricercatore scientifico
elimina per studiare l’essenziale, nascosto allo sguardo
dei profani. Con la globalizzazione, nel prossimo futuro
tutti potranno descrivere i propri disturbi come oggi
fanno gli uomini considerati più «evoluti».
Alcuni ritengono che la psichiatria debba partecipare
alla modernizzazione del mondo, aiutando i popoli «ri­
masti» nella fase di prevalente somatizzazione, perché
passino a una forma più civilizzata, che permetterà loro
di «psicologizzare» le sofferenze. Questo processo ini­
zierà - ci vien detto - negli strati più elevati di questi
popoli: insegnanti, uomini politici, intellighenzia locale
ecc. Questi sono i primi ad accettare di seguire una psi­
coterapia razionale o a prendere gli psicofarmaci. Così -
secondo Arthur Kleinmann - i cinesi, uno dei popoli che
stentano a parlare in termini psicologici moderni, po­
tranno infine smettere di usare la nozione di «nevra­
stenia» (peraltro ripresa dalla psichiatria occidentale di
tempi precedenti) e usare finalmente come tutti il ter-
LA DEPRESSIONE DIVIENE UN DISTURBO UNIVERSALE 37

mine «depressione».1 Impareranno ad avere davvero una


depressione e a trovare le parole giuste per parlarne ai
medici. Anche i medici impareranno a osservare i sin­
tomi adatti e a fare le domande giuste. E una strategia
ingegnosa e ha buone possibilità di riuscita.
La psichiatria transculturale non si stupisce di trovare,
usando metodi adatti allo scopo, percentuali importanti
di pazienti depressi nei popoli che non hanno parole per
parlarne. Basta inviare clinici esperti in un qualunque
paese del mondo ed essi sapranno identificare i pazienti
depressi, che fino a quel momento ignoravano quanto
fosse giusto e corretto essere considerati tali. E questo il
ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità o del­
l’Associazione mondiale di psichiatria.
Evidentemente, bisogna aiutarli, questi clinici esperti.
Accettando l’articolazione tra il naturale (comune a tutti
gli uomini) e il culturale (specifico), gli psichiatri transcul­
turali lavorano oggi per arricchire di un nuovo capitolo il
Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. I di­
sturbi mentali sono presentati nel dsm da punti di vista
considerati «complementari», che permettono di descri­
vere l’insieme dei disturbi presentati dal paziente visitato
(asse 1), ma anche di tener conto di eventuali disturbi
della personalità, di un eventuale ritardo mentale (asse n)
o di altre malattie (cancro, ipertiroidismo, ecc.), da cui il
paziente può essere affetto e che possono incidere sul suo
stato mentale. Lo psichiatra deve anche indicare i pro­
blemi psicosociali legati all’ambiente del paziente, per
esempio al suo ambito familiare (asse iv). A partire da
questi metodi complementari, lo psichiatra può infine
dare una descrizione globale del paziente (asse v).
Gli psichiatri transculturali vogliono aggiungere un se­
sto asse, che presenterà i disturbi mentali «dal punto di
vista dei pazienti e del loro ambiente». Esso permetterà

Cfr. Kleinman 1988.


38 CAPITOLO SECONDO

agli psichiatri di reperire quanto è naturale e universale


sotto le parole impregnate di cultura, che i pazienti im­
piegano. In tal modo, decifreranno facilmente le espres­
sioni della sofferenza che ancora ricorrono a termini
somatici o religiosi. L’obiettivo resta quello di ricondurre
tutti i pazienti alla classificazione comune e universale
dei disturbi mentali, costruita dagli psichiatri americani.
Questa attività della psichiatria occidentale volta a espor­
tare in tutto il mondo i suoi modi di osservare, di diagno­
sticare e di curare, costituisce un nuovo fattore di tra­
sformazione della depressione in epidemia mondiale.
Ma perché tutti i popoli non dovrebbero aver diritto ai
progressi della medicina occidentale? Non lo richiedono
essi stessi con urgenza quando devono far fronte alla
mancanza di medicine e sono spesso privi di un accesso
elementare ai sistemi di salute? Mi sembra giustificato
battersi perché tutti abbiano accesso gratuito ai sistemi
terapeutici realizzati, ad esempio, per le malattie infet­
tive; ma non sono affatto certo che la medicina occiden­
tale sia da accettare in blocco. I pazienti hanno diritto a
scegliere, perché è probabile che le invenzioni della medi­
cina occidentale non abbiano tutte lo stesso valore. Questo
libro vuol contribuire al diritto a scegliere liberamente.

Più è artificiale, più può essere preso in considerazione

Perché la categoria di depressione ci permetterebbe di


«toccare il fondo», di accedere a una manifestazione pri­
mitiva, ancor priva di forma, di un male che toccherebbe
tutta la specie umana? Bisogna imparare a porre diversa-
mente il problema e definire una metodologia differente
da quella degli psichiatri transculturali. La critica della
psichiatria transculturale può trovare sostegno nei lavori
di antropologi americani, che spesso sono rimasti stupiti
dalle pretese teoriche di questa disciplina. Così «etnopsi-
LA DEPRESSIONE DIVIENE UN DISTURBO UNIVERSALE 39

cologi» come Catherine Lutz pensano che questa psichia­


tria transculturale non sia altro che una nuova forma di
etnocentrismo, il cui solo obiettivo è di esportare nel
mondo intero l’etnoteoria psicologica particolare propria
degli occidentali.2 Secondo loro, la psichiatria ufficiale è
una etnoteoria fra le altre. Gli etnopsicologi contestano
l’idea che le categorie occidentali possano servire di base
alla ricerca transculturale.
Quando gli psichiatri si chiedono come tradurre la pa­
rola «depressione» nelle altre lingue per cercare degli equi­
valenti accettabili, gli etnopsicologi domandano molto se­
riamente perché non cercano piuttosto di fare il cammino
inverso e di trattare allo stesso modo le nozioni inventate
altrove. Perché privilegiare l’esercizio del tema su quello
della versione? Come tradurre in inglese la spasmofilia e
1’«accesso» delirante dei francesi o ilnunuwan degli ifa-
luks? La psichiatria transculturale avrebbe fatto una scel­
ta etnocentrica, seguendo un metodo squilibrato e asim­
metrico. Questa critica irrita gli psichiatri transculturali.
Essi reagiscono come se fossero minacciati da pericolosi
«relativisti», mentre loro rappresentano la scienza e l’Il­
luminismo, incarnano l’universale e il progresso.
Per gli etnopsicologi, il modo in cui si risponde al ma­
lessere determina la sua natura e non solamente la sua
forma. Non è sorprendente che un «clinico esperto»,
occidentale o occidentalizzato, possa trovare pazienti de­
pressi in ogni paese del mondo. Di fronte al clinico esper­
to, il paziente viene a trovarsi in un sistema costrittivo,
che autorizza e legittima alcuni comportamenti e il modo
in cui se ne parla, svalorizzandone altri. Così si costrui­
scono individui fatti in un certo modo. L’identità iniziale
di una persona, come viene affermata di fronte a un tera­
peuta tradizionale, viene smembrata e ricomposta dal
«clinico esperto», secondo le sue prospettive.

2 Cfr. Lutz 1985.


40 CAPITOLO SECONDO

Attraverso l’espressione del dolore, un paziente dà


forma alla sua sofferenza e al suo desiderio di essere cu­
rato. In tradizioni diverse dalla nostra, l’espressione del
dolore appare inquadrata, inserita in rituali precisi, come
se fosse necessario impedirle di manifestarsi in modo sel­
vaggio e disordinato, o addirittura viene delegata ad altri,
perché non provochi troppi danni. In alcune società me­
diterranee, ci sono lamentatrici pagate per esprimere con
alte grida la disperazione provocata da un lutto. Esse
seguono il corteo funebre fino alla tomba e pare che esse
sostituiscano con i loro pianti teatralizzati l’espressione
diretta dell’emozione, che potrebbe - legittimamente e
autenticamente - afferrare gli amici e i parenti del morto.
Come se si trattasse di «organizzare» le emozioni. Ma si
tratta solo di una «forma»?
E lecito pensare che siamo di fronte a un dispositivo
inventato per evitare il rischio di manifestazioni troppo
violente e destabilizzanti per il gruppo sociale, quando
esse mantengono le loro forme «naturali». Come Occi­
dentali moderni, non avremmo bisogno di una simile cau­
tela, perché avremmo il privilegio di confrontarci con un
mondo certo disincantato, ma più reale. Il nostro metodo
scientifico ci darebbe accesso alla naturalità delle cose,
dei sentimenti, delle emozioni, mentre gli altri potreb­
bero viverli solo attraverso dei mascheramenti. Tuttavia,
questa è l’ipotesi meno probabile. E molto più saggio
pensare che il modo in cui esprimiamo il nostro com­
pianto di fronte a un evento come la morte di un essere
caro, sia pieno di cautela, costruito e artificiale come nel
caso precedente. Perché la nostra condizione sarebbe più
«naturale» e meno «civilizzata» di quella degli altri?
Nessun modo di esprimere il dolore è naturale e ha il
privilegio di una relazione diretta alla verità. Un com­
pianto non è mai naturale e spontaneo, è sempre formu­
lato in un contesto, che - in un modo o nell’altro - è
acquisito. La nostra tradizione ha teso a mascherare Par-
LA DEPRESSIONE DIVIENE UN DISTURBO UNIVERSALE 41

tificialità del compianto, perché abbiamo creduto che


ammetterla significasse considerarla come meno reale,
svalorizzarla, renderla non degna di rispetto. Dobbiamo
imparare il contrario: per essere preso in considerazione,
trattato in modo soddisfacente dal gruppo di apparte­
nenza e dai terapeuti, il compianto deve prendere forma
secondo i canoni stabiliti. L’artificialità non deve più
essere disprezzata a vantaggio di una pretesa naturalità.
Paradossalmente, è la naturalità che ha il carattere dell’il­
lusione e della ricerca impossibile. L’autenticità non è il
segno infallibile che abbiamo a che fare con qualcosa di
naturale; essa è solo il segno che qualcosa è sufficiente-
mente ben costruito, così da sembrarci naturale, sponta­
neo, simile a un riflesso spontaneo.
Il compianto è strutturato, ma ciò vuol dire anche che
esso è strutturante, se è formulato secondo un codice acqui­
sito. La cosa difficile non è dunque riconoscere quanto
anche noi costruiamo i nostri modi di sentire e di espri­
mere i nostri sentimenti e le nostre emozioni. Il compito
più importante è cercare di comprendere come all’inverso
noi siamo costruiti da essi. Come essi partecipano della
nostra identità trasmessa nel corso delle generazioni?
Non si tratta solo di un semplice problema di forma, ma
dell’idea che la scelta di una certa forma piuttosto che di
un’altra definisce la persona in ciò che ha di più intimo e
profondo, attraverso le sue appartenenze, che la rendono
un essere sociale.
Si può già dire: noi abbiamo costruito la depressione e,
simultaneamente, la depressione ci costruisce. La depres­
sione è un rischio che corriamo in quanto occidentali e ci
differenzia dagli altri. Per ragioni che non conosciamo,
questa malattia ha la caratteristica di poter dilagare in
modo incontrollato e prendere la forma di un’epidemia.
Possiamo ora utilizzare questa tesi, per meglio com­
prendere la psichiatria. La psicopatologia non può avvici­
narsi a un fenomeno patologico purificato da tutte le sin-
42 CAPITOLO SECONDO

golarità, che appartengono alla sua messa in forma. Un


malessere non può mai essere compreso, senza essere allo
stesso tempo trasformato. Ad esso occorre sempre un
contesto definito per potersi esprimere.
Alcuni psichiatri, come l’australiano Robert Barrett3 o il
francese Henri Grivois,4 hanno fatto questa inquietante
constatazione a proposito della schizofrenia, opponendo­
si per ciò stesso a coloro che vogliono promuovere la sua
«diagnosi precoce», influenzati dall’industria farmaceu­
tica. La diagnosi precoce consiste nell’individuare i giovani
pazienti, che presentano quelli che si suppongono essere i
primi segni e i primi comportamenti, che «fanno preve­
dere» una evoluzione verso la schizofrenia. Ma il modo
migliore di iscrivere qualcuno in un divenire schizofrenico
potrebbe essere proprio quello di formulare la diagnosi,
usare la parola e iscrivere la persona nell’insieme dei dispo­
sitivi connessi (dalla prescrizione di neurolettici, anche a
deboli dosi, fino a trattamenti psicoterapeutici specifici).
Bisogna capire il motivo per cui uno psichiatra su tre
non comunica a un paziente o alla sua famiglia che sta
pensando a una diagnosi di schizofrenia: si ha infatti la
sensazione che diagnosi e prognosi siano strettamente
legati in psicopatologia. Questi psichiatri utilizzano il
principio di precauzione in psichiatria. La loro prudenza
mi sembra molto più saggia della precipitazione mostrata
dai partigiani della diagnosi precoce.
Questo esempio è ancor più significativo, se conside­
riamo la distanza che separa schizofrenia e depressione:
ci sono mille ragioni di pensare che la schizofrenia non ha
la plasticità della depressione. E tuttavia, anche in questo
caso, gli psichiatri clinici hanno imparato ad essere pru­
denti.

3 Cfr. Barrett T998.


4 Cfr. Grivois 2000.
LA DEPRESSIONE DIVIENE UN DISTURBO UNIVERSALE 43

Non separare più le malattie dal modo di curarle

Agli psichiatri transculturali non è venuto in mente di


chiedersi cosa succederebbe se, invece di «clinici esper­
ti», si mandassero ovunque nel mondo dei terapeuti, che
chiameremo - per brevità - terapeuti tradizionali. E assai
probabile che anch’essi sarebbero capaci di scomporre gli
insiemi di sintomi con cui i pazienti si presentano (e
acquistano identità) di fronte al medico o allo psicologo
moderno. Potrebbero far apparire figure totalmente
diverse di pazienti, non più depressi o schizofrenici, ma
vittime - ad esempio - del malocchio o posseduti da uno
spirito. Probabilmente questo già accade, all’insaputa della
comunità scientifica, nei quartieri meticci delle grandi
città occidentali, dove i terapeuti tradizionali - sempre
più numerosi - offrono le loro cure.
Perciò non è affatto sorprendente che nel mondo intero
si riscontrino disturbi simili ai nostri. Ma bisogna subito
aggiungere: a condizione di scomporli e fissarli secondo il
nostro modo di vedere e di curare.
La psichiatria transculturale ammette senza difficoltà
che le malattie dell’anima possano prendere forme diffe­
renti, secondo le differenti culture. Essa può andare molto
lontano in tal senso e essere assai tollerante. Tuttavia,
essa non riesce a comprendere come i terapeuti tradizio­
nali si comportino con i malati che si rivolgono a loro per
un trattamento specifico. Per poter capire, bisognerebbe
abbandonare definitivamente la ricerca di un fondamen­
to comune della depressione, perché niente potrà evitare
la tendenza a definirlo in funzione delle caratteristiche
della malattia in Occidente. Leggendo la maggior parte
dei testi e delle ricerche sul campo consacrate alle «sin­
dromi culturali», si resta colpiti dallo spazio straordina­
riamente ridotto che viene concesso alle tecniche tradi­
zionali di terapia e di cura. Così, Byron Good, Mary-Jo
44 CAPITOLO SECONDO

Del Vecchio Good e Robert Moradi hanno studiato il


caso di Yani, una giovane indonesiana affetta da disturbi
mentali3 (Byron Good è una delle figure più importanti
della psichiatria transculturale; è antropologo e insegna
nel Dipartimento di antropologia e medicina sociale del­
l’Università di Harvard negli Stati Uniti). Essi la incon­
trano più volte, insieme a sua madre, durante molti viag­
gi. Quando Yani parla loro dell’uomo che ella sospetta
essere all’origine del suo star male, gli autori commen­
tano immediatamente: «E difficile dire se questa storia
non riveli una paranoia». Essi intendono allo stesso modo
un elemento di storia familiare, che la madre di Yani rife­
risce loro: «Alla fine, abbiamo saputo che suo marito, il
padre di Yani, aveva avuto un episodio paranoico».
Il rapporto che essi costruiscono tra le esperienze indo­
nesiane e la psichiatria occidentale appare in modo assai
chiaro in una frase come questa: «Nei casi di depressione
osservati a Giava, il sentimento di una impurità del corpo
gioca un ruolo importante, connesso al sentimento di
essere un peccatore, di essere colpevole, di aver deluso
Dio, di aver perso la sua benevolenza. Ritroviamo così
dei tratti ben conosciuti da coloro che curano pazienti
cristiani ed ebrei in America del Nord». Essi scrivono
ancora: «I temi della magia nera appaiono nel suo di­
scorso e nella sua esperienza; forze spirituali e stregoneria
sono spesso presenti nell’esperienza psicotica». Gli autori
non ammettono alcuna spiegazione locale: la psichiatria
occidentale va subito all’attacco per riposizionare l’espe­
rienza di Yani e, al di là di essa, quella degli indonesiani.
Gli autori descrivono poi il trattamento ricevuto da
Yani: «La soluzione prescelta è quasi sempre la prescri­
zione di neurolettici, spesso combinata con elettroshock.
Non è affatto sorprendente che Yani abbia ricevuto un
trattamento di questo tipo». Gli autori incontreranno i

5 Cfr. Good, Del Vecchio Good e Moradi 1985.


LA DEPRESSIONE DIVIENE UN DISTURBO UNIVERSALE 45

loro colleghi, gli psichiatri indonesiani di formazione


occidentale, ma non si interesseranno mai al modo in cui i
terapeuti tradizionali possono intervenire con una paziente
come questa. Essi parlano solo di una mezza giornata pas­
sata con un maestro islamico che Yani aveva consultato.
Naturalmente, questi è rimasto nel vago («La conosceva,
ma senza sapere gran che della sua storia; evidentemente
non era coinvolto in una relazione terapeutica con lei, nel
senso usuale del termine»). Non sapremo nulla di più,
perché la cosa non interessa gli autori dello studio.
Siamo allora del tutto incapaci di capire cosa caratte­
rizza le malattie deH’anima, fuori da un contesto preciso?
Siamo condannati a moltiplicare le analisi locali, senza la
possibilità di un pensiero più globale? Sarebbe abba­
stanza disperante e non lo credo. Perché non fare lo
sforzo di comprendere la sofferenza espressa dal paziente
e il modo in cui essa è curata, senza voler separare a ogni
costo le due cose? Ma la psichiatria transculturale non am­
mette che le malattie possano essere comprese solo contem­
poraneamente agli strumenti e ai concetti usati per curarle.
Se lo ammettesse, sarebbe costretta a prendere davvero
sul serio i saperi e le competenze dei terapeuti tradizio­
nali, senza squalificarli. Per gli psichiatri non è possibile
fare questo passo, se non accettando di considerare il gua­
ritore tradizionale come un collega; mentre invece l’at­
teggiamento corrente è quello di screditarlo o ignorarlo.

La cultura non spiega niente

Le cose si complicano e divengono interessanti. Ma po­


tremmo probabilmente imparare molte cose osservando
ciò che fanno i pazienti. In una stessa società, non c’è mai
un solo modo di costituire i blocchi malattie/metodi di
cura, e questo rende caduca l’utilizzazione della parola
«cultura», per discriminare tra i differenti modi di cu-
46 CAPITOLO SECONDO

rarsi. Questo è vero d’altronde per tutte le malattie e non


abbiamo bisogno di creare una categoria a parte per i
disturbi mentali. Così, in Francia, un paziente delle An-
tille malato di aids andrà al mattino a ricevere l’assisten­
za ospedaliera e il pomeriggio parteciperà a un gruppo di
preghiera. In Marocco, un paziente andrà da un medico
di formazione occidentale, poi da un guaritore, poi presso
una confraternita capace di intercedere presso i mondi
invisibili ecc.
Ogni volta cambia la natura della malattia e non la cul­
tura del paziente. Bisogna ormai parlare di «mondo» e
non di «cultura» per render conto dei blocchi sempre
mutevoli formati dalla malattia e dal metodo di cura.
Questa considerazione ci fornisce strumenti metodo-
logici nuovi e molto diversi da quelli proposti dalla psi­
chiatria transculturale. Non è produttivo credere a una
superiorità definitiva della psichiatria occidentale per
comprendere cosa accade specificamente nel caso dell’e­
pidemia di depressione. Dovremmo cercare altre strade,
invece di continuare il noioso lavoro di traduzione delle
categorie della psichiatria occidentale in tutte le lingue
del mondo, o di ricondurre sempre, in modo ossessivo, i
racconti dei pazienti alle grandi categorie cliniche del
DSM. E giunto il momento di analizzare il modo in cui
abbiamo definito queste categorie.
Cosa accade se analizziamo i blocchi formati dal distur­
bo e dai metodi di guarigione nella psichiatria occiden­
tale? Scommettiamo che non potremo capire nulla della
depressione e della sua epidemia, se non comprendiamo
anche come si arriva agli antidepressivi? Da dove proven­
gono? Come li abbiamo inventati? Che cos’hanno di par­
ticolare?

La cosa più difficile è convincere i pazienti

Le teorie psichiatriche servono per fare delle diagnosi


e curare e non per comprendere come funziona lo spirito
o la coscienza. Queste teorie devono essere date per scon­
tate da tutti i medici. Se non lo fossero, essi si trovereb­
bero neU’incapacità ad agire, mentre in effetti devono
confrontarsi continuamente con situazioni drammatiche,
come tentativi di suicidio o comportamenti violenti, ai
quali bisogna dare prontamente una risposta. Di fronte a
un disturbo mentale, il medico si trova sempre in stato
d’emergenza. Tutto ciò che consolida le teorie e le rende
più chiare è benvenuto, perché dà maggiore sicurezza.
Al contrario, le teorie psichiatriche raramente sono
date per scontate dai pazienti. Essi devono imparare a
pensare al loro stato nei termini predisposti dalla disci­
plina psichiatrica, ma possono avere anche altre teorie
esplicative. Tutto ciò provoca discussioni e crisi. Le teo­
rie psichiatriche generalmente accettate non escono sem­
pre vittoriose da questi conflitti. Il metodo di cura di una
malattia mentale può ricevere un consenso unanime, fino
a che un potente movimento non costringe a porlo in
discussione e a rinunciarvi con rammarico. Alcuni pazien­
ti possono essere all’origine della crisi. Così in pochi anni
abbiamo assistito al crollo di tutte le certezze che riguar­
davano i tossicomani. In breve tempo, si è sgretolato
48 CAPITOLO TERZO

tutto ciò che costituiva un insieme teorico coerente e


costituiva una base di accordo tra i medici curanti. Que­
sta crisi riguarda nello stesso tempo la comprensione dei
motivi per cui alcune persone usano sostanze illegali, il
modo di accoglierli nei centri di cura, le proposte tera­
peutiche da fare ecc.
Quali sono oggi le grandi certezze della psichiatria?
Com’è strutturata la teoria psichiatrica contemporanea e
in cosa si distingue dalle altre psichiatrie? Di cosa deve
convincere i pazienti?
In primo luogo, la psichiatria moderna vive dell’oppo-
sizione tra pensieri ed emozioni. Le emozioni rinviano
alla soggettività, alla parte nascosta degli individui. Esse
non sono mai del tutto comunicabili. Per contro, i pen­
sieri possono essere confrontati, valutati e circolare abba­
stanza facilmente da un individuo all’altro. Le emozioni
rinviano alla natura e i pensieri alla cultura.
La seconda caratteristica della psichiatria, che s’incar­
na nel progetto medico o nel progetto psicologico, è di an­
dare sempre al di là delle parole, verso un mondo interio­
re: mondo dell’esperienza inconscia inarticolata o mondo
del cervello e dei suoi circuiti neuronali. La psichiatria
presuppone l’esistenza di un referente nascosto allo sguar­
do. La depressione è sempre legata a una causa interiore,
di cui dapprima si vedono solo le manifestazioni. Che la
psichiatria sia d’ispirazione psicoanalitica o biologica,
essa dà per scontata l’esistenza di un’interiorità, che sa­
rebbe all’origine delle difficoltà del paziente. Le proposte
di cura sono sistematicamente connesse a questa interio­
rità psichica o biologica.
Disponiamo tuttavia di una serie di indizi, secondo i
quali questo discorso non è più inattaccabile. Un numero
crescente di pazienti rifiuta di lasciar interpretare i propri
problemi in termini di interiorità psichica. Spesso, il ter­
mine «depressione» non è quello che descrive nel modo
migliore l’esperienza di cui vogliono parlare. Finiranno
LA COSA PIÙ DIFFICILE È CONVINCERE I PAZIENTI 49

forse per ricevere questa etichetta e penseranno poi che


essa va bene per loro, ma non cominciano così il loro per­
corso. Mostreremo alcuni esempi, che a nostro avviso
illustrano la fragilità dei fondamenti della psichiatria.

I traumatismi intenzionali

La parola harcèlement1 è apparsa di recente nel discorso


psicologico e ha avuto molto successo, come se indicasse
finalmente un fenomeno che molte persone conoscono
perché ne sono vittime, ma che finora non era stato de­
scritto nei giusti termini. La parola è sconosciuta in psi­
cologia e psichiatria. Non si trova nelle diverse edizioni
del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali
(dsm), e nemmeno nei dizionari di psicoanalisi.
La tradizione psichiatrica e psicoanalitica, che studia le
cause delle malattie mentali e le considera come una ma­
nifestazione deH’interiorità del paziente - per questo viene
chiamato «soggetto» - mostra grande prudenza quando
si evoca l’harcèlement. I professionisti della psichiatria
non si interessano gran che al contenuto del racconto del
paziente. Essi si chiedono piuttosto qual è il profilo psi­
cologico di una persona, che si lamenta di un harcèlement,
così come si sono interrogati invano per anni sul profilo
psicologico dei tossicomani. Manifestano forse dei tratti
paranoici? Il loro sentimento di persecuzione rinvia a una
omosessualità inconscia? Formulare la propria sofferenza
in questo modo non rivela forse una mancanza di lucidità
del paziente su se stesso, la sua incapacità a vedere come
egli sia, in fin dei conti, responsabile delle sue difficoltà
psichiche? La sua guarigione non deve forse passare attraver­
so l’acquisizione di uno sguardo più lucido su se stesso?

1 Harcèlement indica un’aggressione continua, ripetuta, assillante, una sorta


di mobbing particolarmente intenso [N.J.T.].
5° CAPITOLO TERZO

Psicoanalisti come Marie-France Hirigoyen hanno su­


scitato il plauso di centinaia di migliaia di persone, quan­
do hanno osato parlare di harcèlement2 e hanno affermato
che gli psicologi e gli psichiatri sono colpevoli di mancata
assistenza verso la persona in pericolo, perché si rifiutano
di ascoltare i loro pazienti, rinviandoli alla loro interiori­
tà. Da molto tempo, libri di psicologia come Le Harcèle­
ment moral non riscuotevano un successo simile. Tuttavia,
non sono sicuro che le istituzioni ufficiali siano sensibili a
ciò che potrebbe divenire un vero fermento critico all’in­
terno della psichiatria. Esse sono riluttanti a rinunciare
all’interiorità psichica e alla strutturazione della persona­
lità attraverso eventi che risalgono all’infanzia («Mi parli
di sé»), o alla predisposizione biologico/genetica.
Se consideriamo il depresso che ha subito un’aggressio­
ne con occhio nuovo, il modo in cui l’aggressore distrugge
le sue vittime può essere descritto in modo preciso e con­
creto. Questo tuttavia ci obbliga ad abbandonare l’idea di
una causalità legata all’interiorità del soggetto, che per­
metterebbe - risalendo per esempio alla sua prima infan­
zia - di comprendere le ragioni di una depressione. La
depressione rinvia invece a un altro personaggio: lo stra­
tega aggressore. Scopriamo che esistono diversi modi per
rendere l’altro folle.
Ci sono stati riferiti molti casi, in particolare nelle rela­
zioni di lavoro. Un esempio classico è quello della fusione
di due imprese di dimensioni differenti: una è due volte
più importante dell’altra, ma certo meno moderna, più
radicata nel suo passato di impresa nazionalizzata. Molti
posti direttivi sono presenti nell’una e nell’altra impresa.
I dipendenti dell’impresa più grande vedono malvolen­
tieri l’arrivo nei loro uffici dei concorrenti del gruppo più
piccolo, con un’esperienza in molti casi più ricca della
loro, migliori salari, ecc. Essi ottenevano spesso risultati

2 Cfr. Hirigoyen 1998 e 2001.


LA COSA PIÙ DIFFICILE È CONVINCERE I PAZIENTI 51

migliori di quelli dell’impresa più grande e con meno mezzi.


Utilizzavano le tecnologie più moderne, mentre i respon­
sabili dell’impresa più grande erano in ritardo in molti
campi, poiché erano meno stimolati dalla concorrenza.
Molti dirigenti dell’impresa più piccola sono nominati
come vice, mentre il ruolo di direttore è per lo più riser­
vato ai vecchi dirigenti dell’impresa più grande. Si crea
concorrenza a tutti i livelli, alimentando risentimenti e odi.
In numerosi settori, i vicedirettori cercano di profittare
delle vantaggiose condizioni di buonuscita e lasciano l’im­
presa. Può allora cominciare l’aggressione contro i loro vec­
chi collaboratori. Le misure prese contro di essi vengono
giustificate con la necessità di salvaguardare i segreti azien­
dali, per non farli conoscere ai colleghi che sono andati via,
e però hanno mantenuto rapporti fin troppo buoni con i
vecchi vicedirettori. Si giustifica così la sorveglianza sulle
linee telefoniche. La comunicazione si riduce ai post-it
lasciati sulla scrivania. Quando i vicedirettori provenienti
dall’altra impresa si recano nello spazio mensa, tutti i mem­
bri dello staff uscito dall’impresa maggiore vanno via.
Non sono più informati neppure degli eventi più banali:
nomine, vantaggi sociali. Le loro fatture restano misterio­
samente bloccate o sistematicamente vengono perse nei cir­
cuiti amministrativi, il che li obbliga a complicate discus­
sioni con i fornitori esasperati. Il responsabile del servizio
saluta tutti la mattina, meno loro. Essi hanno l’impressione
che si voglia spiare il loro minimo errore per motivare il
loro licenziamento, alle condizioni peggiori.
Le persone torturate in questo modo cominciano a dor­
mire male. Chiedono aiuto agli altri membri della loro
vecchia impresa: questi hanno gli stessi problemi oppure
dedicano tutti i loro sforzi alla riuscita della fusione e non
possono perdere tempo con un problema, che costituisce
una minaccia per il loro stesso progetto. I dirigenti dei li­
velli più elevati non sfuggono alla competizione che op­
pone i due gruppi.
52 CAPITOLO TERZO

I nuovi dispositivi rendono le persone incapaci di agi­


re. Esse hanno la sensazione di non avere più via d’uscita:
qualunque cosa facciano è sbagliata. Non resta loro che
ritirarsi, non tentare più nulla, non agire, come se questa
fosse l’unica soluzione per sopravvivere il più a lungo pos­
sibile in un ambiente ostile.
La cosa più difficile da sopportare è la rottura del senso
di appartenenza, richiesto a tutti i salariati: si proibisce
loro di definirsi in funzione della loro vecchia impresa. La
direzione invita a fare tabula rasa del passato, a dimenti­
care le esperienze precedenti, nel momento in cui queste
costituiscono l’ultima ancora di salvataggio. Le persone
in crisi sono abbandonate. Esse devono definirsi solo in
rapporto a un futuro immaginario: devono imparare a par­
larne meccanicamente, utilizzando termini che sono to­
talmente in contraddizione con ciò che stanno vivendo.
Tutta la nuova politica di comunicazione interna è fon­
data sulla massima: «Tra due anni nessuno deve più sa­
pere chi viene dall’impresa A e chi viene dall’impresa B».
La richiesta di rompere i legami, il divieto di parlare del
passato per ricordare le proprie competenze, costituisco­
no l’esperienza più difficile, più angosciante e paraliz­
zante vissuta dai salariati, alcuni dei quali hanno più di
vent’anni di anzianità. Le organizzazioni sindacali po­
trebbero opporsi a questa politica di «comunicazione» e
riunire in gruppi le persone messe in difficoltà da questa
politica. Ognuno avrebbe potuto ripensare alle proprie
appartenenze, attraverso esperienze di memoria vissute
collettivamente. Ciò accade di rado, perché i rappresen­
tanti sindacali spesso disprezzano le culture specifiche
d’impresa, a vantaggio di appartenenze più grandi, di
professione o di classe sociale.
Andare al lavoro diviene ben presto un tormento. La
visita medica per ottenere un congedo di malattia si rivela
come il modo più semplice di uscire dalla situazione,
almeno a breve termine. E cosa c’è di più semplice che
LA COSA PIU DIFFICILE E CONVINCERE I PAZIENTI 53

chiedere un congedo per depressione? Si crea un circolo


vizioso e per la vittima diviene sempre più difficile ripren­
dere il lavoro. Progressivamente, essa presenta sempre più
tratti che permettono di formulare la diagnosi di depressione.
L’aggressore ricorre sempre alle stesse tecniche di harcè­
lement: isolamento, svalutazione, dequalificazione, disprez­
zo, creazione di un clima di incertezza sul futuro nell’im­
presa, riunione discreta o anche segreta di clan e gruppi.
Egli mobilita i suoi alleati perché si comportino allo
stesso modo, in cambio di promesse di promozione, ma
soprattutto in nome della concezione dell’impresa messa
in pericolo dalla fusione e dai nuovi arrivati. Tutto è or­
ganizzato e pianificato: l’obiettivo degli aggressori è di
non essere identificati, di creare grazie ai loro alleati dei
dispositivi in grado di provocare comportamenti chiara­
mente insopportabili per le vittime designate. Niente si
può imitare meglio delle aggressioni, soprattutto quando
sono valorizzate dai meccanismi del potere. Le vittime
sono rese fragili, commettono errori che giustificano a
posteriori l’atteggiamento degli aggressori. Esse vengono
ritenute responsabili di quanto accade per la loro incom­
petenza psicologica, battezzata in questo contesto come
«mancanza di adattamento». Gli aggressori agiscono
effettivamente come stregoni malevoli.

Si corre sempre il rischio di proseguire l’opera dell’aggressore

Le caratteristiche delle vittime possono certo essere de­


scritte in termini psicologici, ma la psicologizzazione del
problema è per loro disastrosa: essa prosegue l’opera dell’ag­
gressore e aiuta ancor più a dissimulare il suo misfatto.
Parlando di interiorità psichica, di conflitto intrapsichico,
di predisposizione, lo psichiatra contribuisce - senza ren­
dersene conto - in modo decisivo a questo lavoro di dissi­
mulazione. Un aggressore abile sparisce completamente
54 CAPITOLO TERZO

dietro il suo crimine e convince la vittima stessa che è


tutta colpa sua e che il suo problema è un’ennesima mani­
festazione della sua debolezza.
Psicologi come Jean-Claude Valette hanno messo in
evidenza come «contrariamente a ciò che gli aggressori
cercano di far credere, le vittime non sono in partenza
persone con una patologia preesistente o particolarmente
deboli. Al contrario, molto spesso l’harcèlement comin­
cia quando una persona reagisce all’autoritarismo di un
capo e rifiuta di lasciarsi trattare come uno schiavo. Pro­
prio perché ha la forza di resistere all’autorità malgra­
do ogni pressione, essa diviene un bersaglio da colpire».3 4
Parlare di predisposizione significa allora contribuire al­
l’opera dell’aggressore!
In quest’ambito, le analisi più recenti e interessanti
sono dovute a psicologi clinici come Françoise Sironi, che
nel suo splendido libro Bourreaux et victimes,' rivela quanto
ella ha appreso curando persone rifugiate in Francia e tor­
turate nei loro paesi d’origine. Le sue analisi smentiscono
l’idea di un’interiorità data in anticipo, o di una sorta di
predisposizione alla malattia, che si ritroverebbe in ogni
paziente depresso, disposto a un lavoro di introspezione
psicologica.
Nel caso della tortura, come in quello dell’harcèle-
ment, il paziente deve essere considerato come la vittima
di un traumatismo intenzionale, di un vero e proprio
«attacco». E allora l’intero dispositivo di comprensione e
la tecnica terapeutica devono partire dalla nozione di un
paziente aggredito da qualcuno, che può essere identifi­
cato e nominato, anche se non è facile. La sola posizione
efficace del terapeuta è a fianco del paziente, contro il
suo nemico esterno, contro il terzo; questi ha avuto tanto
successo nella sua opera, che continua a distruggere atti­

3 Valette 2000.
4 Cfr. Sironi 1999.
LA COSA PIU DIFFICILE E CONVINCERE I PAZIENTI 55

vamente la sua vittima, pur essendo assente. La vittoria


più grande per un carnefice è di riuscire a creare un’inte­
riorità distruttiva per la sua vittima, di mettergli un
mostro nel ventre, che per lungo tempo continua a divo­
rarlo (letteralmente) dall’interno (in Africa non si dice
forse che gli stregoni «mangiano» le loro vittime?).
Credere o far credere a una «predisposizione» psi­
chica o biologica alla depressione in questo tipo di pa­
zienti significa proseguire il lavoro del torturatore:
invece le vittime dell’aggressione sono persone con rea­
zioni normali e giustificate di fronte a ciò che l’aggres­
sore fa loro subire. L’aggressore ritorce questa protesta
contro la vittima, così che tutti possano pensare che è lei
la sola responsabile di ciò che le accade. La nozione di
«predisposizione» è in tal senso particolarmente utile
per gli aggressori.
Queste nuove descrizioni delle cause delle malattie
mentali hanno conseguenze su tutto il vacabolario utiliz­
zato. Le parole usate dagli psicologi, che hanno curato pa­
zienti vittime di aggressori, hanno un suono insolito nel
mondo moderno della psicopatologia, perché essi rove­
sciano il suo atteggiamento abituale. Essi collocano all’e­
sterno ciò che questa pretende sempre di ricondurre all’in­
terno del soggetto. Ci parlano subito di nemici, attacchi,
paura, vendetta, male, lotta, indignazione, rivolta, di pazien­
ti anestetizzati, paralizzati. Tutto ciò non ha più niente a
che vedere con la psichiatria del dsm, né con la psicoana­
lisi, né con le teorie che giustificano le psicoterapie.
La «paura», di cui sempre si parla nei racconti di trau­
matismi intenzionali, è spesso stata derubricata in «ansia»
o «angoscia» negli scritti degli psicopatologi classici. Ab­
biamo ora il diritto di domandarci: con quale diritto? A
quale scopo? La parola «ansia» ci chiude in un dispositivo,
in cui solo l’interiorità o la predisposizione biologica hanno
senso. Invece, la parola «paura» ha il vantaggio di descri­
vere in modo banale quanto succede ai pazienti, senza
56 CAPITOLO TERZO

iscriverli immediatamente in un dispositivo, che li rende


responsabili degli eventi. La parola «paura», di cui certo
bisogna studiare anche la dimensione biologica, ci permet­
te una metodologia molteplice e complessa. Ma non ha senso
dire che la paura «ha una causa biologica». In compenso, è
evidente che la paura «mobilita» dispositivi biologici.
Ritorneremo più oltre su questa distinzione che presup­
pone un uso del tutto diverso del lavoro dei biologi.
E singolare vedere come gli psicologi che si occupano
di harcèlement o di aggressioni in generale adoperino di
nuovo il termine «resistenza» in un senso positivo, dopo
anni di utilizzazione in senso negativo da parte degli psi­
coanalisti o degli psichiatri prescrittori (perché indica
l’opposizione inconscia del paziente a riconoscere l’ori­
gine dei suoi disturbi nel corso della cura). Quegli stessi
psichiatri non si accontentano di descrivere sintomi,
comportamenti, sentimenti, emozioni, o di rinviare i
pazienti al modo in cui si struttura la loro personalità. I
termini del dsm e quelli della psicoanalisi appaiono ridi­
coli in casi come questi. Sono divenuti totalmente incon­
grui, fuori posto e perfino insultanti per i pazienti.
Quando questi si sentono offesi dalle proposte dei
terapeuti, la situazione di crisi è matura; è allora il caso di
interrogarsi collettivamente sui nostri metodi di cura e
terapia. Ciò sembra assai chiaro quando si espone il caso
di un salariato aggredito sul suo luogo di lavoro. E più
difficile avere lo stesso atteggiamento verso un paziente
immigrato vittima di un attacco di stregoneria. L’uso di
parole offensive spinge ancor più questi pazienti nella
patologia, confermandoli nell’idea che il male è in loro e
viene da loro. Ciò vuol dire schierarsi dalla parte degli
aggressori. Per essere davvero un terapeuta in queste si­
tuazioni, occorre passare dalla descrizione del paziente
alla definizione del terzo e delle sue intenzioni. Questo
modo di procedere fa entrare una ventata d’aria fresca
nel contesto descrittivo della psicopatologia classica.
LA COSA PIU DIFFICILE E CONVINCERE I PAZIENTI 57

Vediamo dunque che il termine «depressione» è il ri­


sultato di una storia limitata. E pensabile che un’altra storia
sarebbe stata possibile, se avessimo appreso a dare un nome
alle aggressioni e agli aggressori, se avessimo imparato a
resistere ad essi e, soprattutto, a non riferire immediata­
mente la malattia delle vittime a una interiorità psichica o
biologica. In questa altra storia avremmo potuto priorita­
riamente sviluppare i mezzi per imparare a resistere col­
lettivamente alla forma più estrema di aggressione: quella
in cui la qualità principale dell’aggressore è di saper dissi­
mulare il suo misfatto e sembrare innocente. Avremmo
dunque sviluppato la capacità di trovare una causa esterna
a un disturbo mentale (e forse creato specialisti adatti a
questo fine). Sarebbe stata la regola. Nei casi difficili, in
cui l’aggressore è particolarmente difficile da individuare,
i casi risolti sarebbero stati considerati degni di un reso­
conto nei congressi e nelle riviste. Forse in questa storia
differente, avremmo usato termini diversi da quello di
«malattia mentale» per parlare di ciò che accade alle vit­
time. Avremmo accolto con un sorriso scettico i tentativi
di utilizzare nuovi termini come «ansia» o «predisposizio­
ne». Tutt’al più essi sarebbero stati usati in casi limite assai
rari: quelli, ad esempio, in cui la persona che compie il male
è allo stesso tempo colei che lo subisce, pur ignorandolo!
Non è stata questa la nostra storia. Bisogna dunque ana­
lizzare il modo in cui inventiamo continuamente disposi­
tivi efficaci per la creazione deU’interiorità. Questi dispo­
sitivi ci costruiscono come esseri umani, che possono
divenire vittime di una malattia mentale per motivi pre­
valentemente biologici o psicologici: ma questo non è af­
fatto ovvio. Dovremo anche analizzare se questi disposi­
tivi contribuiscono alla possibilità di epidemie.

Gli studi clinici producono la depressione

Abbiamo finora stabilito due cose essenziali: innanzi­


tutto, che la psichiatria «mondializza» la depressione; e
poi, servendoci dell’esempio dell’harcèlement, abbiamo
visto come la psichiatria «trasformi» alcune forme di
malessere in depressione, attraverso un processo di interio­
rizzazione. Questo, per molte vittime, non avviene senza
resistenza, ma la psichiatria possiede una grande forza di
convincimento. Dobbiamo ora chiederci da dove la psi­
chiatria occidentale tragga questa forza e dobbiamo dun­
que occuparci dei suoi mezzi terapeutici, gli psicotropi.
Gli antidepressivi sono la seconda grande famiglia di
psicotropi proposta dall’industria farmaceutica, sulla scia
della produzione dei neurolettici (nel 1952) utilizzati per
curare i pazienti schizofrenici. I primi antidepressivi
hanno una struttura chimica molto vicina a quella dei
neurolettici. Con l’intenzione di copiare il primo neuro-
lettico della Rhone-Poulenc, alcuni ricercatori del labora­
torio farmaceutico concorrente Geigy creano il primo
antidepressivo, l’imipramina. Comparando le strutture
chimiche del primo neurolettico e del primo antidepres­
sivo, si resta sorpresi dalla loro somiglianza: sono quasi
identici, tranne che per un paio di atomi. In quel momento
(siamo nel 1955) il laboratorio farmaceutico rifiuta di fi­
nanziare la sua realizzazione: pensa che il mercato della
GLI STUDI CLINICI PRODUCONO LA DEPRESSIONE 59

depressione sia insignificante. È interessato solo alla schi­


zofrenia, che tocca Γι per cento della popolazione. Oggi
siamo nella situazione opposta: ogni laboratorio farma­
ceutico sogna di avere un antidepressivo nel suo portafo­
glio di prodotti.
Gli antidepressivi sono medicine moderne. Come in­
tendere il termine «moderno»? Una medicina «moderna»
è la conseguenza diretta dei progressi della scienza biolo­
gica? Gli psichiatri che prescrivono psicotropi forse lo
pensano, perché hanno preso l’abitudine di parlare di
«psichiatria biologica» in opposizione alle psicoterapie.
Nel capitolo 9 cercherò di comprendere il rapporto tra gli
psicotropi e la biologia, ma prima occorre indagare cosa
succede quando i ricercatori testano un farmaco speri­
mentale negli studi clinici. In effetti, gli studi clinici sono
sempre indispensabili per ottenere una omologazione
amministrativa. Ma il loro ruolo non è solo questo.

Raggruppare e comparare

Gli antidepressivi sono realizzati seguendo alcune


regole, che valgono per tutte le medicine. Come sono
state fissate? Poco prima della seconda guerra mondiale,
alcuni medici americani cominciano a dubitare dell’effi­
cacia e dell’innocuità delle medicine proposte da un’in­
dustria farmaceutica sempre più potente, e che dispone
di mezzi pubblicitari inversamente proporzionali ai suoi
scrupoli. Secondo loro, il buon senso dei colleghi medici
non basta più per valutare, ciascuno separatamente dal­
l’altro, proposte terapeutiche sempre più numerose.
A questo piccolo gruppo di medici viene dato il nome
di «riformatori terapeutici». Esso entra in contatto con
gli statistici e gli uomini politici, per cercare di definire
una procedura capace di decidere in modo rigoroso se una
medicina è efficace, o se è dannosa e nociva rispetto alla
6o CAPITOLO QUARTO

patologia che è destinata a curare. Essi inventano i primi


studi clinici. Una lunga battaglia politica li oppone alla
maggioranza dei medici, che - per causa loro - vede mes­
sa in dubbio la propria capacità individuale di giudizio.
Ma la loro proposta trionfa oltre ogni aspettativa e di­
viene l’esperienza ineludibile a cui bisognerà sottoporre
tutti i nuovi farmaci. I riformatori terapeutici hanno in­
ventato in anticipo il «principio di precauzione». Gli
studi clinici nascono come un modo per controllare l’in­
dustria farmaceutica.
I poteri pubblici avrebbero potuto prendere l’inizia­
tiva e stanziare finanziamenti per realizzare gli studi cli­
nici. La storia dell’industria farmaceutica e dell’offerta di
farmaci sarebbe stata molto diversa. Non è andata così.
AU’inizio, gli industriali sono divisi dinanzi alle nuove
esigenze. Gli studi clinici sono un mezzo per limitare le
loro pretese e restringere la loro libertà di commercio.
Questo non fa loro piacere. Paradossalmente, quel che
doveva essere un modo nuovo per controllare il mercato
dei farmaci finisce per operare una selezione tra di loro:
quelli che non vogliono adattarsi spariscono, mentre gli
altri realizzano successi sempre maggiori. I grandi labora­
tori farmaceutici non resistono per molto tempo: non solo
accettano che i loro farmaci siano sottoposti alla prova
degli studi clinici, ma li promuovono essi stessi. A partire
dagli anni cinquanta, gli studi clinici divengono la specia­
lità dei grandi industriali del farmaco. Essi ne promuovo­
no lo sviluppo e il perfezionamento. Gli industriali hanno
trasformato la situazione: gli studi clinici non sono più un
mezzo di controllo, ma il motore stesso dell’innovazione.
Essi riorganizzano le loro imprese e le loro priorità d’in­
vestimento, dando agli studi clinici un ruolo centrale.
Un grande laboratorio farmaceutico sa oramai padro­
neggiare perfettamente questa fase della sua attività. La
parte più importante della pubblicità si fonda sui risultati
ottenuti dagli studi clinici. La professione del medico
GLI STUDI CLINICI PRODUCONO LA DEPRESSIONE 61

viene ridefinita, perché i farmaci ricevono la loro autorità


da una procedura, che li precede e ignora le loro pratiche
e i loro giudizi individuali. E iniziato un cambiamento,
che toglierà progressivamente ai medici il loro diritto di
iniziativa: per loro diviene sempre più impossibile pre­
scrivere un farmaco al di fuori delle rigorose indicazioni
codificate al momento della sua omologazione.
Così sono nati gli studi clinici controllati. Vengono
costituiti due gruppi di pazienti. Essi devono essere com­
parabili, soprattutto dal punto di vista patologico: devo­
no essere colpiti, in modo simile, dalla stessa malattia.
Uno dei gruppi riceve un «placebo» (che non contiene
nessun principio attivo) e l’altro il farmaco sotto esame
(che contiene la nuova molecola da testare). Né i medici
né i pazienti sanno chi prende il placebo e chi prende il
farmaco sotto esame, di cui bisogna testare l’efficacia.
Placebo e farmaco esaminato si presentano con lo stesso
aspetto: stessa forma, stesso colore. Alla fine di un perio­
do di tempo determinato, i risultati sono analizzati e uno
studio statistico permette di sapere se il farmaco esami­
nato ha mostrato un’efficacia terapeutica statisticamente
superiore a quella del prodotto placebo (perché la sommi­
nistrazione di quest’ultimo può avere, come è noto, degli
effetti terapeutici, pur essendo inattivo: è l’«effetto pia-
cebo», su cui poi torneremo). Malgrado tutti i perfezio­
namenti che hanno subito, gli studi clinici restano una
procedura a posteriori·, essi verificano se il farmaco esami­
nato mantiene le sue promesse. Non dicono nulla su quel
che succede prima, quando viene scelta la molecola.
La procedura pare talmente banale, che viene da do­
mandarsi perché solo negli ultimi cinquant’anni i farmaci
sotto esame siano stati sottoposti a questo tipo di verifi­
ca. Perché non ci si è pensato prima? Ma le cose non sono
così semplici come sembrano. Bisogna unire due condizio­
ni per rendere possibile questo tipo di studio. La prima
riguarda gli stessi farmaci da esaminare: essi devono es-
Ó2 CAPITOLO QUARTO

sere tutti identici durante il medesimo studio clinico e ciò


è possibile solo con la chimica e l’industria moderna. Fin­
ché le medicine sono preparate in modo approssimativo
nel retrobottega di un farmacista, nessuna comparazione
è possibile.
Gli studi clinici non sono dunque legati a un progresso
della biologia. Gli strumenti statistici utilizzati dai ricer­
catori non sono molto nuovi. E lo sviluppo del capitali­
smo industriale a rendere possibile questo tipo di studi,
perché ridefinisce le condizioni della produzione e del
controllo farmaceutico. Non sono possibili studi clinici,
finché la fabbrica non ha trionfato sul retrobottega del
farmacista.
La seconda condizione riguarda i pazienti: essi devono
essere colpiti dalla stessa patologia per costituire gruppi
effettivamente comparabili. Qui le scoperte biologiche
hanno un ruolo essenziale: la diagnosi di molte malattie
dipende meno dal buon senso clinico e rinvia a una proce­
dura di test di laboratorio.

Le quattro fasi di uno studio clinico

Dobbiamo ora entrare nei particolari. Gli studi clinici


non avvengono in modo disordinato, ma seguono un cam­
mino complesso, in quattro fasi. Nella fase i, volontari
sani testano la molecola. In questo stadio, lo scopo prin­
cipale degli studi è di valutare la tolleranza clinica del
prodotto. La molecola studiata o il placebo sono sommi­
nistrati ad alcuni soggetti, del tutto sani, di età media tra
i 25 e i 45 anni, prima in dose unica e poi in dosi ripetute
(da una a tre volte al giorno per una o due settimane).
Questi studi sono condotti in rigorose condizioni di
sicurezza, in centri specializzati, che reclutano i soggetti
attingendo a uno schedario di volontari sani. Questa fase
I degli studi clinici è posta sotto la responsabilità del di­
GLI STUDI CLINICI PRODUCONO LA DEPRESSIONE 63

partimento di farmacologia clinica di un laboratorio far­


maceutico. Essa è ormai interamente professionalizzata:
quelli che la realizzano sono degli specialisti. Le fasi
seguenti sono attuate dai medici clinici, nel corso della
loro pratica medica normale. Esse iniziano solo se la tol­
leranza della molecola testata è buona o, in altre parole,
se tutto il piccolo gruppo di pazienti della fase 1 l’ha sop­
portata senza pericoli.
Nella fase 11, la molecola non è più testata su soggetti
sani ma su pazienti sofferenti della malattia o della sin­
drome, che deve essere ben definita in anticipo. In questa
fase, si inseriscono generalmente da 500 a 1000 pazienti
in due anni. Bisogna determinare la dose ottimale, quella
col miglior rapporto beneficio/rischio (efficacia/tolle-
ranza): ciò si chiama dose-ranging. Sono dunque testate
dosi differenti e sono analizzati i risultati ottenuti con la
molecola e il placebo. Se dopo l'analisi statistica i risultati
sono positivi, lo sviluppo clinico entra nella fase in.
I medici iscrivono nel programma pazienti più rappre­
sentativi, meno «selezionati», il più possibile simili ai
pazienti suscettibili di assumere il farmaco quando sarà
sul mercato. Questa condizione spesso resta solo teorica,
soprattutto perché i pazienti che partecipano a uno stu­
dio clinico non dovrebbero consumare altri farmaci; ciò
ha portato a grossi contrasti con le associazioni dei pa­
zienti, quando i ricercatori hanno studiato gli effetti degli
antivirali nel trattamento dell’AIDS: era giusto obbligare i
pazienti a abbandonare i trattamenti preventivi di alcune
affezioni secondarie dovute alla loro deficienza immuni­
taria per meglio studiare una molecola dall’effetto tera­
peutico ancora incerto?
II farmaco sotto esame non viene più comparato solo a
un placebo, ma anche ad altri farmaci specializzati già
commercializzati con la stessa indicazione, se esistono. Si
tanno anche degli studi «a tre»: farmaco da esaminare,
larmaco in campionario, placebo. Bisogna dimostrare i
64 CAPITOLO QUARTO

vantaggi del nuovo farmaco in confronto al suo concor­


rente sia in termini di tolleranza che di efficacia. Questa
fase, che coinvolge generalmente circa 3000 malati, dura
circa tre anni. Essa permette anche di raccogliere dati
sulla tolleranza del farmaco somministrato a lungo ter­
mine (un anno o più).
Alla fine della fase in, tutti i dati raccolti nel corso dei
vari studi clinici sono analizzati. Viene stabilita l’effica­
cia globale della molecola paragonata a quella del placebo
e a quella dei prodotti concorrenti e così pure la tolle­
ranza globale e specifica, organo per organo, di tipo cli­
nico o biologico. Viene allora preparato un dossier per la
registrazione: esso comprende non solo tutti gli studi cli­
nici realizzati durante i sei o sette anni di sviluppo della
ricerca, ma anche le informazioni chimiche, farmaceuti­
che ecc. Il dossier è sottoposto alle autorità sanitarie dei
vari paesi o gruppi di paesi per ottenere l'«autorizzazione
alla vendita».
Seguono poi, sotto il controllo dei servizi di market­
ing, gli studi della fase iv. La loro metodologia è identica
a quella della fase ni, ma riguardano un numero molto più
grande di pazienti: decine di migliaia sono coinvolti nella
ricerca. Questi studi sono condotti seguendo l’indica-
zione e la posologia richieste dall’autorizzazione. Se il
laboratorio farmaceutico vuol mettere in rilievo nuove
qualità e ottenere nuove indicazioni, deve ripercorrere le
procedure della fase in. Ciò è indispensabile per ottenere
- ad esempio - una estensione dell’autorizzazione, che
permetta una vendita più ampia del nuovo farmaco.
Gli studi della fase iv hanno la finalità di dimostrare in
modo più formale i vantaggi del farmaco, per esempio in
termini di farmaco-economia (il nuovo farmaco permette
all’assistenza pubblica di fare economia, diminuendo i gior­
ni di ospitalizzazione o le assenze dal lavoro?); oppure di di­
mostrare i miglioramenti che esso porta alla qualità di vita
dei pazienti. Grazie a questi studi, il nuovo farmaco occupa
GLI STUDI CLINICI PRODUCONO LA DEPRESSIONE 65

uno spazio crescente nell’attività dei medici e nella vita di


decine di migliaia di pazienti. Il farmaco si afferma con le
sue specifiche indicazioni, che lo differenziano dai suoi
predecessori. Queste nuove indicazioni possono mutare
completamente il modo di presentare una malattia.

La potenza dell’effetto-placebo

I medici, i farmacisti, i ricercatori e gli uomini politici


ritengono generalmente che l’insieme di questi studi di­
mostri come la medicina occidentale meriti davvero il
nome di medicina scientifica. La linea che separa medici e
ciarlatani sarebbe così divenuta evidente.
II placebo si oppone al farmaco in esame e permette di
misurare i suoi effetti. Ma non è tutto: 1’«effetto place­
bo» mostra anche come talvolta sia possibile ottenere dei
miglioramenti e perfino la guarigione senza alcun tratta­
mento. Esso fornisce un «grado zero» della terapeutica
medica e forse di ogni terapeutica in generale. Il modello
degli studi fatti contrapponendo il farmaco al placebo
viene proposto per testare qualsiasi mezzo terapeutico.
Per il suo carattere universale, è in grado di assorbire e
assimilare qualsiasi tipo di medicina. Le mette tutte in
una situazione di debolezza. Tutto ciò che pretende di
essere un rimedio deve poter essere analizzato in questo
modo. Se ciò non è possibile, non merita il nome di far­
maco. Coloro che rifiutano di sottoporre le loro proposte
terapeutiche a questa procedura, come la maggioranza
dei medici omeopatici, lo fanno solo per motivi inconfes­
sabili: rivelano così di essere solo dei ciarlatani.
Ma questo ragionamento non è troppo corrivo? In que­
sta procedura, tutto invita alla modestia più che all’arro­
ganza. Gli studi clinici col metodo del placebo rappresen­
tano il trionfo assoluto dell’empirismo e rivelano i limiti
delle nostre conoscenze biologiche. Il risultato dipende in
66 CAPITOLO QUARTO

larga misura dal protocollo negoziato prima di ogni studio


tra i diversi partner (laboratorio, medici, comitato etico):
condizioni di partecipazione dei pazienti, durata dello
studio, tipologia dei test da effettuare, scelta del farmaco
di riferimento, scelta delle dosi, ecc. Se uno solo di questi
criteri è determinato male, lo studio non è più in grado di
dimostrare nulla. Se sapete che il vostro farmaco sotto
esame non è probabilmente più efficace del prodotto di
riferimento, tenterete allora di dimostrare che ha una
migliore tolleranza. Per dimostrarlo, darete forti dosi del
farmaco concorrente e dosi il più possibile deboli del
vostro. Se sapete che il farmaco concorrente probabil­
mente agisce più in fretta del vostro, misurerete gli effetti
ottenuti solo dopo un certo tempo, dopo il quale i due far­
maci mostrano effetti eguali. Farete il contrario nell’ipo­
tesi inversa. Che tutto si giochi nel momento della nego­
ziazione del protocollo, è cosa ben conosciuta dai medici
e dai ricercatori che partecipano agli studi clinici. Tutto
si decide all’inizio.
Gli studi clinici sono una grande lezione di modestia,
perché sono la prova permanente che la biologia non ci
permette mai di sapere immediatamente se una sostanza
ha o no efficacia terapeutica. Quale che sia la sua origine
(una pianta, una serie composta di molecole chimiche, che
i ricercatori hanno imparato a modificare leggermente nel
corso del tempo, una molecola costruita in modo cosid­
detto razionale, per similitudine con una proteina), il
confronto col placebo resta un punto di passaggio obbli­
gatorio. Questo ci obbliga a mettere in discussione lo sta­
tuto di quel che chiamiamo biologia. Una vera rivolu­
zione terapeutica avrà luogo il giorno in cui si potrà fare a
meno della metodologia degli studi clinici, quando le
nostre conoscenze biologiche ci daranno la possibilità di
sapere se un farmaco è efficace senza questo tipo di test.
Nulla lascia presagire una cosa simile nei progressi attuali
della biologia e della medicina.
GLI STUDI CLINICI PRODUCONO LA DEPRESSIONE 67

Ci si può anche chiedere se gli studi clinici effettuati


utilizzando il placebo sono un metodo universale, che per­
mette di discernere il grano buono e il loglio in tutte le
medicine cosiddette parallele. La richiesta «sottoponete i
vostri rimedi agli studi clinici» non è sempre facilmente
realizzabile. Bisogna accettare le due condizioni, che ren­
dono possibili gli studi clinici: farmaci tutti simili e pazien­
ti considerati come casi tutti simili l’uno all’altro. Queste
due condizioni non hanno senso per molte pratiche tera­
peutiche: accettarle provoca la loro autodistruzione. Per
un omeopata, ad esempio, due casi di ipertensione arte­
riosa simili per il medico allopatico richiedono trattamenti
differenti, perché la sua medicina lo induce a introdurre
altri criteri di differenziazione rispetto a quelli conside­
rati validi dalla medicina moderna. Per lui è impossibile
accettare come pertinente la formazione di un gruppo di
pazienti «che soffrono di ipertensione arteriosa».
La richiesta «fate gli studi clinici col metodo del pia-
cebo» ha il vantaggio di consentire alla medicina occiden­
tale di vincere in tutti i casi. Se il rimedio si rivela effi­
cace in uno studio clinico, lo si può allora recuperare
senza preoccuparsi della medicina da cui deriva, perché
gli studi clinici sono indifferenti a ogni teoria biologica o
medica: se un farmaco omeopatico si dimostra efficace, lo
si potrà utilizzare senza bisogno di ricorrere ai medici
omeopati; se un rimedio cinese è efficace in uno studio
clinico, viene accettato come farmaco moderno, ma an­
che in questo caso non c’è alcun bisogno dei medici cinesi
tradizionali e delle conoscenze da loro sviluppate nel
corso dei secoli. Richiedere uno studio clinico, significa
cercare di recuperare un trattamento, eliminando coloro
che lo hanno prodotto. Se invece il farmaco non si dimo­
stra efficace nel corso degli studi clinici, allora la medi­
cina moderna vede confermata la sua differenza dai ciar­
latani, che essa può squalificare. Vince in ogni caso!
68 CAPITOLO QUARTO

Gli studi col metodo del placebo e l’evidenza di un ef­


fetto-placebo hanno dato alla medicina accademica nuove
armi per continuare la guerra contro le medicine non ac­
cademiche. Ormai la medicina è capace di impadronirsi
di tutto ciò che ad essa è utile nelle diverse arti mediche,
senza mai dover ammettere le loro teorie o accettare i
vincoli che le definiscono. La lotta frontale contro l’eser­
cizio illegale della medicina lascia il posto a un atteggia­
mento più tollerante, che è solo un altro modo, più aggior­
nato, di proseguire la guerra.
Ma Γ effetto-placebo è molto più interessante se lo con­
sideriamo come l’indice di quel che ignoriamo, come un
testimone della possibilità di guarire per ragioni che non
siamo in grado di controllare e riprodurre a volontà. L’ef-
fetto-placebo può essere minimizzato o massimizzato in
date circostanze. In ogni caso, non lo si può spiegare con la
metodologia degli studi clinici, perché ne costituisce il
limite: ci è impossibile misurare l’effetto-placebo in man­
canza di un riferimento, che non sia esso stesso un place­
bo. Diviene logicamente impossibile usarlo come uno stru­
mento di conquista o svalorizzazione. Ogni volta che
abbiamo voglia di parlare di effetto-placebo per caratte­
rizzare una medicina diversa dalla medicina accademica,
dobbiamo morderci la lingua e imparare a usare altre
parole, per esempio: «influsso che guarisce». Questo è un
buon modo per restare fedeli allo sforzo di modestia dei
riformatori terapeutici all’origine dell’invenzione degli
studi clinici.
Mantenendo presente questo spirito di modestia, cer­
chiamo di comprendere la particolarità di quel che abbia­
mo inventato col nome di medicina scientifica, grazie alla
procedura degli studi clinici col metodo del placebo.
GLI STUDI CLINICI PRODUCONO LA DEPRESSIONE 69

Le lezioni degli studi clinici contro placebo

Prima lezione: un farmaco moderno è sempre il penultimo

La procedura degli studi clinici crea nuovi legami tra


farmaci diversi. Ormai, essi possono essere comparati fra
loro. Il migliore diventa il farmaco di riferimento, a cui
ogni nuovo farmaco sotto esame dovrà essere comparato.
I farmaci hanno ormai un ciclo vitale e fanno parte di una
storia. Un farmaco moderno ha sempre un successore. E
sempre il penultimo. La messa in vendita della clorpro-
mazina nel 1952 apre questa possibilità in psichiatria, sul
modello di ciò che accade nello stesso tempo negli altri
settori della medicina. Tutto ciò non esisteva prima del­
l’invenzione di questa procedura.

Seconda lezione: si testa sia il gruppo di pazienti che ilfarmaco

Il farmaco sotto esame è sottoposto a una serie di pro­


ve, da cui non è mai certo di uscire vincitore. Ma fermia­
moci un istante sul senso della parola «prova». Una prova
non è mai unilaterale: suppone il confronto organizzato
di due forze. Da un lato c’è naturalmente la molecola, ma,
dall’altro, ci sono i pazienti divisi in due gruppi. Per costi­
tuire i gruppi di pazienti, bisogna realizzare operazioni
altrettanto complesse di quelle che permettono di creare e
di proporre una molecola come farmaco candidato.
Tutti i ricercatori in questo saranno d’accordo con me.
Basta ascoltare le voci che si diffondono in un laboratorio
farmaceutico quando un saggio clinico si rivela infrut­
tuoso e la molecola non si dimostra superiore. Questa
situazione è relativamente frequente, anche se è meglio
che si produca nelle prime fasi. In tal caso, le perdite del
laboratorio sono inferiori, se deve decidere di abban­
donare la ricerca. Ma cosa dicono e fanno i responsabili
degli studi clinici? Contrariamente a ciò che potremmo
ΊΟ CAPITOLO QUARTO

credere, non dubitano in primo luogo dell’efficacia della


molecola. Non mettono in causa la sua azione terapeu­
tica. Si interrogano sul modo in cui sono stati formati i
gruppi di pazienti. Il laboratorio si interessa ai gruppi di
pazienti: a partire dalla diversità spontanea dei pazienti,
è stata ben costituita la tipologia del caso, condizione di
ogni studio efficace, oppure sono stati reclutati pazienti
con criteri non soddisfacenti? Il protocollo dello studio è
stato definito bene?
In tutte le patologie, ci vogliono molti anni perché si
impari a costituire gruppi di pazienti coerenti di fronte ai
farmaci da esaminare. Quando giunge un fallimento, esso
si deve forse alla nostra incapacità di fare una diagnosi
corretta. Succede che il candidato farmaco aiuti a suddi­
videre una categoria diagnostica che fino ad allora era
considerata unitaria: esso è efficace solo in certi casi, che
ormai è meglio classificare a parte, soprattutto quando in
seguito è possibile trovare un fondamento fisiologico coe­
rente, che fonda e stabilizza la nuova differenza.

Terza lezione: la solidità degli strumenti diagnostici determina


quella dei gruppi di pazienti

Per reclutare correttamente i pazienti, bisogna dispor­


re di strumenti diagnostici affidabili. La messa a punto
degli strumenti diagnostici rappresenta, insieme ai far­
maci, il secondo fronte rispetto a cui si può affermare il
progresso della medicina, perché essa rende possibile la
costituzione di gruppi di pazienti omogenei: essi sono
indispensabili perché i pazienti reclutati per lo studio
siano davvero soggetti colpiti dalla medesima malattia.
Questi strumenti diagnostici permettono anche di misu­
rare il grado di gravità della malattia.
Da questo punto di vista, l’ideale è costituito dall’iden­
tificazione e dall’isolamento di un «testimone affidabi­
le», come può essere un germe in una infezione. Un te-
GLI STUDI CLINICI PRODUCONO LA DEPRESSIONE 71

stimone dignostico affidabile dà la possibilità di formulare


una diagnosi senza incontrare ilpaziente, per esempio a par­
tire da esami di laboratorio come avviene nelle patologie
infettive. In altri casi, i medici misurano alcune costanti
biologiche nelle migliori condizioni possibili per confron­
tarle a delle medie, che rappresentano la normalità. Ri­
torneremo più avanti in dettaglio su questa nozione di
testimone affidabile.

Quarta lezione·, i saggi clinici non sono studi di laboratorio;


essi hanno luogo nella vita reale

Rileggiamo ora la descrizione fatta delle quattro fasi


che costituiscono gli studi clinici e notiamo l’aumento
progressivo della grandezza dei gruppi di pazienti. I ricer­
catori cominciano con qualche persona e finiscono con
migliaia o decine di migliaia di pazienti. Essi imparano a
costituire gruppi solidi e a verificare, facendoli crescere,
se essi rimangono validi nelle varie prove, indipendente­
mente dalle impressioni degli uni o degli altri.
Gli studi clinici non possono essere considerati solo
come studi condotti nell’universo chiuso, separato dalla
società, costituito da un laboratorio scientifico definito
in maniera classica. Nello stesso tempo in cui questi studi
ci danno informazioni che sono raccolte e trattate con i
protocolli di un laboratorio, essi inseriscono nella vita
reale la patologia, com’è stata definita dai criteri di reclu­
tamento dei pazienti, in connessione (indissociabile) col
nuovo farmaco. Gli studi clinici sono collegati diretta-
mente con la vita e la società. Essi non permettono di
distinguere tra una fase di sperimentazione, che avver­
rebbe in un ambiente ristretto, artificiale, e una fase di
applicazione, che avrebbe luogo nella vita reale. L’appli­
cazione comincia e si estende con sempre maggiore sicu­
rezza e ampiezza nello stesso tempo in cui ha luogo la spe­
rimentazione. In fin dei conti, il lancio e il marketing del
72 CAPITOLO QUARTO

farmaco si identificano con la fase iv, nella quale sono


mobilitati centinaia di migliaia di pazienti.

Quinta lezione: non esistono testimoni affidabili in psichiatria

Possiamo ora tornare al problema delle malattie men­


tali. I gruppi di pazienti definiti da una malattia mentale,
nel loro confronto con la molecola che si impadronisce di
loro per definirli, non dispongono del sostegno di una
diagnosi incontestabile, che permetta loro di resistere a
una ridefinizione senza limiti.
Bisogna qui porre a confronto la pratica psichiatrica
con le pratiche mediche in generale. In tutte le patologie,
l’ideale della medicina è la scoperta di una causa necessa­
ria e sufficiente e non solo di una correlazione. Una causa,
del tipo di un virus, sarà ritrovata in tutti i casi della ma­
lattia, potrà essere isolata, messa in coltura, iniettata a un
animale, che contrarrà la malattia. L’agente causale potrà
allora essere trovato nell’animale malato. Sono queste
quattro qualità (chiamate postulati di Koch dal nome del
microbiologo tedesco del xix secolo), che conferiscono al­
l’agente causale la sua prima definizione di agente infet­
tivo. Nessun testimone diagnostico affidabile è stato mai
scoperto, né nella schizofrenia, né nelle varie forme di de­
pressione, né nelle fobie sociali, né negli altri disturbi
mentali, che possa attestare la scoperta sicura della causa
biologica di un disturbo mentale. Gli strumenti diagno­
stici esistenti in psichiatria sono tutti fondati sul dialogo e
l’osservazione dei pazienti, e non sull’evidenza di un testi­
mone biologico affidabile. Nella ricerca psichiatrica, i ri­
cercatori possono e devono far variare le caratteristiche
del gruppo dei pazienti, i cosiddetti criteri di inclusione,
finché questo gruppo non risponde in modo soddisfacente
alla molecola sotto esame. Non esiste un testimone affi­
dabile che serva a formulare la diagnosi e a imporre fron­
tiere precise nel modo di costituire i gruppi di pazienti.
GLI STUDI CLINICI PRODUCONO LA DEPRESSIONE 73

Si può giungere a un’affermazione sorprendente: il far­


maco è esso stesso il proprio testimone affidabile. Una vol­
ta dipanato questo filo, tutta la storia diviene comprensi­
bile. Così, passando da una classe chimica di antidepressivi
ad un’altra, i ricercatori e i medici hanno modificato i cri­
teri di reclutamento dei pazienti. I triciclici (chiamati così
per la forma della loro molecola), gli imao (inibitori della
monoamina ossidasi) e gli isrs (inibitori della ricaptazione
della serotonina), che costituiscono le tre grandi famiglie di
antidepressivi, hanno effetti opposti sull’appetito e il son­
no. I ricercatori non possono perciò considerare questi ri­
ferimenti nello stesso modo, secondo l’appartenenza chi­
mica della molecola che vogliono testare. In un caso, il
ritorno dell’appetito e del sonno sono segni di un’evoluzio­
ne positiva verso la guarigione, nell’altro caso no. I ricerca­
tori non possono utilizzare le stesse misure di valutazione
per giudicare l’efficacia di questi differenti prodotti.
I territori definiti dagli antidepressivi si sono evoluti
contemporaneamente ad essi. Ormai la diversa azione
degli antidepressivi permette di distinguere depressi che
hanno piuttosto bisogno di essere stimolati e depressi che
hanno invece bisogno di essere tranquillizzati, depressi
ansiosi e depressi aggressivi o totalmente inibiti ecc.
I nuovi antidepressivi appartenenti alla famiglia degli
inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina,
come il Prozac, hanno recentemente sviluppato questo
settore in modo spettacolare. I pazienti che prendono
isrs non soffrono di una depressione grave. Non sono tor­
mentati dall’idea della morte. Non piangono frequen­
temente. Non hanno senso di colpa. Non si sentono stan­
chi e non hanno particolari difficoltà di concentrazione.
Essi non hanno nemmeno disturbi del sonno o dell’appe­
tito. Per contro, hanno comportamenti compulsivi o
ansiosi e poca stima di se stessi. Si sentono «vuoti», con
un leggero sentimento di tristezza. Hanno l’impressione
che la loro vita non abbia scopo.
74 CAPITOLO QUARTO

In psichiatria, la prova degli studi clinici è solo una


prova di forza, in cui la nozione diagnostica si elabora e si
precisa nello stesso tempo e con la stessa procedura se­
condo cui si elabora e si precisa il farmaco che sarà efficace
per questo disturbo in via di definizione. In psichiatria, il
farmaco gioca dunque in due ruoli contemporaneamente:
quello terapeutico ma anche quello del testimone affidabi­
le assente, e cioè dell’elemento capace di mostrare come il
gruppo di pazienti è coeso per motivi dimostrabili.

Sesta lezione: niente limita ilpotere degli psicotropi

Un paziente può sempre avere una buona ragione per


prendere un antidepressivo. In psichiatria, non c’è l’equi­
librio del terrore esistente tra antibiotici e germi. Gli psi­
cotropi hanno il potere di coinvolgere sempre più pazien­
ti, perché tendenzialmente il disturbo viene definito
come ciò su cui essi agiscono.
La quarta e la quinta lezione insieme portano a una
conclusione inquietante: non esistono strumenti diagno­
stici potenti quanto gli psicotropi stessi e capaci di li­
mitarne la potenza; d’altra parte, non ci si accontenta di
testare in laboratorio, ma la sperimentazione ha luogo
nella carne viva della società, per reclutare esseri umani
sempre più numerosi. La capacità degli psicofarmaci di
riunire insieme un gruppo di pazienti così cospicuo, fin
dagli studi clinici, è considerata come una prova della
loro efficacia.
Abbiamo così una nuova chiave per comprendere qua­
le proposta vien fatta ai membri della società: essa assume la
forma di un «package», che unisce depressione e modo di
curarla, per poi dilagare e prendere la forma di un’epide­
mia. Ma dobbiamo approfondire ancora il problema del
testimone affidabile e cercar di capire come questo siste­
ma - che sembra autoreferenziale e sembra permettere
tutti gli sbandamenti - può interessare gli attori della bio­
logia e forse perfino definire il loro lavoro.

I ricercatori controllano gli antidepressivi?

Prima di poter comprendere ciò che accade sul mer­


cato della depressione, dobbiamo ancora approfondire il
modo in cui noi «formattiamo» queste merci particolari,
che sono gli psicofarmaci.
Da dove vengono i farmaci candidati che sono oggetto
degli studi clinici? L’industria farmaceutica ha riempito i
suoi centri di ricerca di ricercatori di tutte le specialità. La
loro vocazione è di alimentare la pipe-line degli studi clini­
ci in corso con candidati farmaci protetti da un brevetto.

I test preclinici

Prima di iniziare gli studi clinici, le molecole sono sot­


toposte a sperimentazioni sulle cellule, sugli organi in col­
tura e sugli animali interi. Gli organi e le cellule messi in
coltura possono provenire da animali di laboratorio o
essere prelevati da esseri umani deceduti, per esempio in
incidenti stradali. Così, per produrre farmaci contro le
malattie della prostata, i ricercatori hanno bisogno di pro­
state umane fornite loro da associazioni di medici urologi.
Per descrivere questa fase della ricerca, bisogna impiegare
una formula più generale di quella delle analisi sull’ani­
male: i ricercatori parlano di saggi «preclinici». Questa
76 CAPITOLO QUINTO

formulazione ha il pregio di connettere questi esperimen­


ti alla clinica, di insistere sulla loro natura di tappe prepa­
ratorie, mai decisive in se stesse, mentre in realtà sono
sempre più variate e importanti e utilizzano tutti i nuovi
strumenti della biologia molecolare. I ricercatori selezio­
nano in questo modo le molecole più promettenti.
Questi test preclinici sono spesso originali e costitui­
scono il saperfare proprio di gruppi di ricercatori, che
tengono gelosamente riservate le sue caratteristiche.
Molti dirigenti dell’industria farmaceutica, del resto,
mantengono segreti i test predisposti dai loro ricercatori,
soprattutto quando sono efficaci, perché costituiscono
una parte essenziale della ricchezza e della specificità
delle loro imprese. Le direzioni giungono a proibire ai
ricercatori di pubblicare i loro risultati sulle grandi riviste
scientifiche, per non rivelare nulla che possa mettere sul­
l’avviso i concorrenti o divenire un ostacolo al deposito di
un brevetto. Quando pubblicano, essi devono usare mille
precauzioni e mille astuzie per rendere i loro lavori diffi­
cili da riprodurre con la stessa metodologia sperimentale,
raramente esposta in modo completo.
La sola cosa richiesta a queste sperimentazioni di labo­
ratorio è di prevedere ciò che accadrà nel corso degli studi
clinici sull’uomo. La straordinaria molteplicità delle spe­
rimentazioni realizzate deve permettere di raccogliere il
massimo numero di indizi sull’efficacia e la tossicità del
candidato farmaco: il carattere predittivo dei test precli­
nici è determinato empiricamente, a partire da esperi­
menti multipli, dall’accumulazione dei fallimenti e dai
successi passati. I ricercatori delle fasi precliniche hanno
dunque sempre presenti gli studi clinici ulteriori, da rea­
lizzare sull’uomo. Essi non controllano questo settore,
ma sono solo degli invitati esterni, osservatori emozionati
e trepidi: nelle fasi successive, viene spietatamente giudi­
cata la qualità dei loro lavori, durati per lunghi anni, con
l’utilizzo di grandi risorse finanziarie.
I RICERCATORI CONTROLLANO GLI ANTIDEPRESSIVI? 77

Se gli studi clinici vanno a buon fine, non è solo il can­


didato farmaco a essere approvato, ma tutti i protocolli
degli esperimenti preclinici che erano stati inventati o più
modestamente modificati, adattati, affinati. Per contro,
l’insuccesso ripetuto dei candidati farmaci nella tappa
degli studi clinici sull’uomo impone di porre in dubbio la
pertinenza dei test preclinici per selezionare le molecole.
Queste due fasi dell’invenzione del farmaco moderno
incrociano continuamente i loro risultati, ma gli studi cli­
nici dominano e determinano tutto il processo, mentre il
percorso in ordine cronologico potrebbe far pensare l’in­
verso. Gli studi clinici decidono sempre in modo defini­
tivo se è stato inventato un farmaco moderno degno di
questo nome. Per quanto completi e interessanti possano
essere gli esperimenti realizzati nella fase precedente, essi
non provano nulla di definitivo. I poteri pubblici lo sanno
bene, e proibiscono di utilizzarne i risultati nella promo­
zione di un farmaco se essi non sono stati confermati nel
corso di studi clinici veri e propri.

Imparare a « trasportare » la patologia

Ma come i ricercatori inventano e rinnovano gli esperi­


menti della preclinica? A priori, la cosa più semplice è di
idearli trovando il modo di riprodurre il più possibile la
patologia umana che si intende curare. Com’è possibile
questa riproduzione? Bisogna realizzare una trasposizio­
ne della patologia, o almeno di alcuni dei suoi elementi,
dalla foce alla sorgente, e cioè dagli esseri umani malati
verso il mondo degli animali da laboratorio, quello degli
organi e delle cellule in coltura. Bisogna, per un istante,
considerare che l’essere umano vivente è la riproduzione
su grande scala di ciò che accade in una coltura di cellule.
Il caso più evidente, divenuto il modello che i ricerca­
tori cercano sempre di riprodurre, è quello delle malattie
78 CAPITOLO QUINTO

infettive. Un germe può effettivamente essere estratto


dal corpo umano, identificato, misurato, e, infine, por­
tato altrove per sottoporlo a procedure, che poi vengono
standardizzate e automatizzate. L’estrazione dal corpo
umano permette ai ricercatori di creare modelli animali o
di mettere in coltura cellule infette. Essi devono reperire
delle specie animali che siano sensibili agli stessi germi
che bisogna combattere nei pazienti. L’ideale predittivo
trova così la sua strada maestra. Ma questo compito può
rivelarsi estremamente difficile, come avviene in modo
clamoroso nel caso dell’AIDS, poiché la maggior parte delle
specie animali sono indifferenti a molti germi patogeni
presenti negli esseri umani, per la natura del loro sistema
immunitario.
In altri tipi di patologia, come il diabete, il colesterolo,
l’ipertensione arteriosa e perfino il cancro, i ricercatori
devono riuscire a far ammalare gli animali. Nessun espe­
rimento sugli animali pretende di essere un «modello»,
finché gli incroci successivi con gli studi clinici sull’uomo,
con l’uso normale dei candidati farmaci, non dimostrano
la loro pertinenza e cioè il loro carattere predittivo. Gli
studi clinici sull’uomo e le prove precliniche progredi­
scono dunque insieme da cinquant’anni, organizzando la
circolazione di pezzi o di estratti del corpo umano malato.
Ma questa strategia di trasporto del testimone, per rea­
lizzare una specie di ricostituzione clinica, non è utile sol­
tanto per creare modelli sperimentali delle malattie umane:
essa è anche la via regia per inventare strumenti di dia­
gnosi affidabili. Il medico può così formulare una diagno­
si riguardo ai pazienti, a partire da un’analisi del sangue o
dell’urina, perché si sa come isolare e coltivare il testi­
mone della malattia. Questo «testimone affidabile» per­
mette di costituire gruppi di pazienti simili, tappa indi­
spensabile per la realizzazione di studi clinici.
La grandezza della medicina moderna si rivela così dop­
piamente: una prima volta con la costruzione dei modelli
I RICERCATORI CONTROLLANO GLI ANTIDEPRESSIVI? 79

preclinici sugli animali o sugli organi o sulle cellule in col­


tura, una seconda volta con la messa a punto delle proce­
dure di diagnosi. Dei «testimoni affidabili» simili, iden­
tificabili, che possono essere stabilizzati in laboratorio,
sono al punto di intersezione di questi due tipi di prati­
che. Così gli strumenti diagnostici danno alla medicina i
mezzi per controbilanciare le utilizzazioni terapeutiche
dannose. Se alcuni antibiotici sono prescritti in infezioni
rispetto a cui non sono di nessuna utilità, ciò dipende dal
fatto che il medico non ha utilizzato gli strumenti diagno­
stici disponibili per identificare con precisione i germi in
questione. La medicina moderna trova la sua grandezza
nell’equilibrio permanente tra strumenti diagnostici e
strumenti terapeutici, che hanno un aspetto in comune: il
testimone affidabile, che ha permesso la loro rispettiva
definizione.
Un medico non ha bisogno di incontrare un paziente
per prescrivergli un test diagnostico hiv e formulare una
diagnosi di aids; in teoria, può anche decidere la natura
del trattamento alla sola lettura dei risultati (astenersi,
prescrivere una bi- o tri-terapia?). Per svolgere bene il suo
lavoro, deve distogliere il suo sguardo dal paziente.
Ma cosa accade con gli psicofarmaci e i disturbi mentali?

L’assenza di testimone affidabile e di caratteristiche

Cosa si può «trasportare» in psichiatria di questi pro­


cedimenti? Non è possibile alcuna diagnosi di malattia
mentale - l’abbiamo visto - senza il contatto diretto col
paziente, contrariamente aU’ideale della medicina scien­
tifica. Medici e ricercatori non «trasportano» niente, nel
significato pratico e reale del termine: tutti i tentativi per
trovare degli indicatori biologici sono falliti, in psichia­
tria. Quando sarà scoperto un indicatore in una patologia
identificata fino ad allora come psichiatrica, essa lascerà
8o CAPITOLO QUINTO

il campo della psichiatria per integrarsi a un’altra specia­


lità medica. Se si scopre un virus all’origine della schizo­
frenia, essa sarà riclassificata come malattia infettiva. Se
si scopre una anomalia nel cervello, essa sarà allora una
malattia neurologica ecc.
L’assenza di indicatore fa parte della definizione della
psichiatria. Certo, ci sono state ricerche sul cervello degli
schizofrenici per trovarvi una specificità in rapporto a
cervelli di persone sane; alcuni ricercatori, per esempio,
utilizzano la fotografia a positroni per reperire concen­
trazioni insolite di recettori cellulari in alcune zone del
cervello, presso le persone che soffrono di questa patolo­
gia mentale. Ma questi esperimenti non sono decisivi:
nessun ricercatore o medico può formulare una diagnosi
di schizofrenia o di depressione alla cieca, su una popola­
zione presa a caso, a partire da questo tipo di analisi. La
diagnosi psichiatrica resta estremamente rozza.
Non esiste neanche una caratteristica semplice, che
permetta ad esempio di formulare una diagnosi di schizo­
frenia o di depressione con la sicurezza di non sbagliarsi.
La diagnosi può essere formulata solo dopo un colloquio
abbastanza lungo col paziente e la raccolta di una serie di
indici (sintomi, comportamenti, idee) considerati signifi­
cativi per qualità, durata e numero. Ma sappiamo che non
c’è mai un ioo per cento di medici in accordo tra loro,
quando si tratta di formulare una diagnosi sullo stesso
paziente. Alcuni disturbi un tempo diagnosticati come
appartenenti all’ambito della schizofrenia, oggi sono
invece classificati tra le depressioni gravi. Nulla separa le
diagnosi in modo incontrovertibile. Bisogna porre in rap­
porto i differenti segni con una griglia predisposta dal
consenso degli esperti e dunque costantemente modificata.
La più conosciuta, l’abbiamo visto, è stata realizzata
dagli psichiatri americani con il nome di dsm. Ci sono
molti dibattiti intorno al dsm e ai diversi strumenti stan­
dardizzati di diagnosi. Qui ci interessa il fatto che il modo
I RICERCATORI CONTROLLANO GLI ANTIDEPRESSIVI? 8x

in cui avviene la diagnosi, a differenza delle malattie in­


fettive, non permette un trasporto di informazioni obiet-
tivate dal mondo della sofferenza umana verso quello degli
animali, delle cellule e degli organi in coltura.
Questa constatazione di buon senso dovrebbe lasciarci
perplessi: com’è possibile l’invenzione degli psicofarmaci
in una situazione simile? Come realizzare psicofarmaci
che siano medicine moderne se non è possibile il traspor­
to dei fenomeni oggettivi? Su questo punto si è esercitata
tutta l’inventiva dei ricercatori ed è arrivata a una solu­
zione di incredibile originalità, anche se essa non è stata
percepita e descritta come merita. Lo si può capire: nes­
suno desidera sottolineare l’originalità del campo psi­
chiatrico, che lo distingue dal resto della medicina, nel
momento stesso in cui si vogliono integrare definitivamen­
te le malattie dell’anima alla medicina.

L'invenzione di un modello di ricerca originale

Pur non essendoci testimoni affidabili dei diversi di­


sturbi mentali, si inventano continuamente nuovi psico­
farmaci. Da qualche anno, i più grandi laboratori farma­
ceutici del mondo hanno moltiplicato le nuove molecole
candidate al titolo di neurolettico o di antidepressivo (in
misura minore di ansiolitico). S’è visto che i medici di­
spongono oggi di tre grandi famiglie di antidepressivi: i
triciclici, gli imao (inibitori della monoamina-ossidasi) e
gli isrs (inibitori selettivi della ricaptazione della seroto­
nina). Come sono stati scoperti e realizzati?
Gli antidepressivi sono nati dalle ricerche che hanno
seguito la scoperta, nel 1952, delle interessanti qualità
della clorpromazina per trattare i pazienti schizofrenici.
Devo tornare su questo episodio, perché si possa com­
prendere cosa caratterizza l’insieme degli psicotropi e in
particolare gli antidepressivi. In effetti, quanto è succès-
82 CAPITOLO QUINTO

so con i neurolettici ha fatto nascere il modello di ricerca


che poi trionfa con gli antidepressivi. Raramente un epi­
sodio della nostra storia ha coinciso così strettamente con
l’inizio di una creatività che non ha smesso di operare per
cinquant’anni.
Il 1952 non è una data simbolica, ma l’inizio di una
nuova fase nella storia della psichiatria. A partire dal
momento in cui la psichiatria dispone del primo neurolet-
tico, essa ha la possibilità di essere, come gli altri settori
della medicina, una disciplina internazionale a vocazione
universale. Viene creata l’Associazione mondiale di psi­
chiatria. Congressi internazionali si susseguono sempre
più rapidamente, cosa impensabile prima dell’era dei far­
maci moderni. I neurolettici, e poi gli psicotropi, for­
mano la base tecnica, ideologica e economica di tali avve­
nimenti. Tutti gli psicotropi si ricollegano, in un modo o
nell’altro, a questo atto di nascita.
Non è sempre facile comprendere quanto è accaduto,
perché è insorta una polemica tra i protagonisti dell’e­
poca per decidere chi ha avuto ragione per primo. Henri
Labor it, chirurgo originale e franco tiratore dallo spirito
contestatario, e i seri e molto accademici Jean Delay e
Pierre Deniker, rappresentanti di tutta l’imperiosa tradi­
zione della psichiatria francese presso l’ospedale Saint-
Anne a Parigi, non hanno mai voluto riconoscere i loro
meriti rispettivi. Questa discussione abbastanza viziosa
ha lasciato nell’ombra altri importanti protagonisti, e in
primo luogo l’équipe di chimici e farmacologi di Rhone-
Poulenc.
Il primo neurolettico, la clorpromazina, appartiene a
una famiglia chimica conosciuta da molto tempo e deri­
vata dai coloranti, le fenotiazine, che sono state commer­
cializzate con le indicazioni più diverse, soprattutto
antiallergiche (sono antistaminici) e antiparassitarie (in
medicina veterinaria). Laborit è stato il primo a utilizzare
un derivato delle fenotiazine nella premedicazione ane­
I RICERCATORI CONTROLLANO GLI ANTIDEPRESSIVI? 83

stetica. Egli ha comunicato ai suoi amici chimici e farmaco­


logi di Rhone-Poulenc le qualità del prodotto: esso met­
teva il paziente in uno stato psicologico di indifferenza,
sopprimeva ogni agitazione e ogni ansietà. I ricercatori di
Rhone-Poulenc hanno allora affidato la molecola a Delay
e Deniker perché essi la testassero su pazienti del loro
reparto all’ospedale psichiatrico Sainte-Anne. La clorpro­
mazina ha agito in modo straordinario sui pazienti consi­
derati schizofrenici: essa li ha calmati e ha soppresso le
loro angosce, fino ad allora incoercibili. I ricercatori di
Rhone-Poulenc non si sono fermati a questo. Hanno pro­
seguito i loro lavori sulla stessa molecola.
I ricercatori si sono posti la domanda seguente: si può
stabilire una corrispondenza tra gli effetti benefici sui
pazienti schizofrenici e gli effetti particolari osservabili
in animali di laboratorio, ai quali si inietta lo stesso com­
posto? Essi hanno cominciato a studiare presso animali di
laboratorio ordinari le modifiche comportamentali e so­
matiche indotte dalla clorpromazina. Dico proprio «ani­
mali di laboratorio ordinari» e non animali malati o ani­
mali resi malati. Sta in questo tutta la differenza col
modello abituale dei test preclinici. Ecco la soluzione ori­
ginale trovata per compensare l’assenza di testimoni affi­
dabili in psichiatria: non tentare mai di rendere gli ani­
mali di laboratorio malati come lo sono gli esseri umani
colpiti da una malattia mentale. Non tentare mai di tra­
sportare la patologia, ma trasportare gli effetti di moleco­
le, di cui si è constatata, per caso, l’efficacia sui pazienti.
Una volta ben identificati questi effetti, i ricercatori
di Rhone-Poulenc ne faranno il modello di azione, che
permetterà di reperire altre molecole benefiche per i
pazienti schizofrenici. Da questo momento in poi, i ricer­
catori di Rhone-Poulenc, seguiti rapidamente dalle équipe
di ricerca di altri laboratori, cercano i successori della clorpro­
mazina. Essi non pensano di aver trovato il trattamento
della schizofrenia, ma si lanciano in una corsa sempre più
84 CAPITOLO QUINTO

sfrenata per selezionare nuove molecole candidate al


titolo di medicine psicotrope. Essi inventano una strana
macchina, che non smetterà più di funzionare.
Questa macchina è strana, perché essa funziona senza
mai interessarsi della natura biologica dei disturbi di cui
soffrono i pazienti. Se lo facesse, non funzionerebbe più.
In questa prospettiva, i test devono essere facilmente
riproducibili con poco apparato tecnico e con animali fa­
cilmente disponibili, come cani e topi. In un primo tempo,
i ricercatori studiano molecole che, come la clorproma-
zina, potenziano l’effetto di altre sostanze (per esempio il
test di antagonismo rispetto alla reserpina o rispetto al
vomito indotto nei cani dall’apomorfina). Ma i test pos­
sono essere anche comportamentali: si cercano molecole
che modifichino il comportamento di topi preliminarmen­
te addestrati a salire attraverso una corda fino a una piat­
taforma sulla quale è stato posto il loro cibo. Si calcola il
tempo durante il quale un topo resta aggrappato a uno
stelo verticale che gira ecc.
Tutte le molecole di cui dispone l’industria farmaceu­
tica del tempo sono testate a partire dagli effetti reperiti
grazie alla clorpromazina. Ripetiamolo: i ricercatori non
hanno mai cercato di ottenere ratti o topi schizofrenici.
Essi hanno solo utilizzato l’idea di «predittività»: se una
qualunque molecola aveva il potere di indurre negli ani­
mali normali lo stesso tipo di effetti comportamentali e
somatici della clorpromazina, questo autorizzava a spera­
re una attività antipsicotica presso pazienti schizofrenici.
I ricercatori sono dunque riusciti a creare un modello
animale senza tuttavia disporre di un testimone affida­
bile che possa essere trasportato dal mondo dei pazienti
fino alle ricerche preliminari sugli animali di laborato­
rio. I farmacologi sono coscienti di questa astuzia che
permette loro di creare modelli animali di un tipo molto
particolare, che prenderà il nome di modello «farmaco­
indotto».
I RICERCATORI CONTROLLANO GLI ANTIDEPRESSIVI? 85

Accumulando esperienza e mettendo a profitto tutte le


risorse delle nuove tecnologie di studio biologico realiz­
zate con altre intenzioni da ricercatori universitari, i far­
macologi moltiplicano e diversificano i test. Si passa dai
test comportamentali a test sull’attività delle cellule in
coltura. In che modo i neurolettici e gli antidepressivi
modificano l’attività delle cellule neuronali? Quali sostan­
ze attivano o frenano nelle differenti parti del cervello? I
test divengono una batteria di test, ma il principio resta
sempre lo stesso: mai cercare di riprodurre la patologia
umana negli animali di laboratorio (obiettivo illusorio),
ma prendere come punto di partenza l’attività delle mole­
cole precedentemente identificate.
Ci si comincia così a interessare alle piccole differenze,
che permettono deviazioni capaci di produrre novità cli­
niche: una molecola riproduce l’8o per cento degli effetti
della clorpromazina nei test, ma è molto diversa nel 20
per cento dei casi; è possibile osservare effetti leggermen­
te diversi nel corso degli studi clinici. Si spera di consta­
tare meno effetti secondari. Poco a poco, diviene possibi­
le una cartografia generale, che mette in rapporto i test
più diversi e l’azione sui pazienti.

La piccola biologia

Niente sembra limitare l’inventiva del modello, che è


indipendente da ogni scoperta di testimoni affidabili. In
effetti, nessun progresso è stato realizzato in questa dire­
zione, mentre siamo sommersi dall’offerta di nuovi psico­
tropi, che superano la prova degli studi clinici su pazienti.
Ed è là che ha luogo un capovolgimento essenziale: i testi­
moni affidabili sono divenuti inutili. I ricercatori sono
riusciti a liberarsi da una metodologia fondata sul traspor­
to di testimoni, pur continuando a imitarla. Cosa resta in
tal caso della pretesa della psichiatria moderna di essere
biologica?
86 CAPITOLO QUINTO

La biologia psichiatrica che accompagna questo pro­


cesso è essenzialmente una biologia dei recettori biochi­
mici nel cervello: essa fornisce spiegazioni sul modo di
agire degli psicotropi, aiuta a selezionarne di nuovi tra le
molecole disponibili nelle banche-dati dell’industria far­
maceutica, ma non può mai pretendere di dare una spie­
gazione causale dei disturbi mentali. Ciò non merita il
nome di biologia. Proponiamo di chiamare questo insieme
di tecniche piccola biologia. Ritorneremo in dettaglio su
tale questione nel capitolo 9.
I ricercatori dell’industria farmaceutica impongono
così a poco a poco la loro piccola biologia. Essa non ha
molta utilità al di fuori dei loro laboratori, la sua sola
ambizione è di perfezionare e affinare gli strumenti di
selezione di nuovi psicotropi, che sono sempre i penul­
timi. Si può arrivare a pensare che la scoperta di testi­
moni affidabili non sia neanche più auspicabile per gli
inventori di farmaci psicotropi. Essa in effetti porrebbe
termine a una pratica e a una sperimentazione che hanno
il vantaggio di potersi muovere dal normale al dichiarata-
mente patologico, di esplorare territori di comportamenti
e di emozioni ancora non medicalizzati, di partecipare
alla ridefinizione permanente delle frontiere dei disturbi
mentali a profitto della medicina e della farmacia. Tutta
la psichiatria funziona ormai a questo ritmo.
Questa procedura fa trionfare il concetto che un far­
maco moderno è sempre il penultimo. Esso ne precede
sempre un altro più efficace, più facilmente utilizzabile,
meno tossico. La «piccola biologia» indossa volentieri le
vesti della biologia pura e semplice, mentre le sue ambi­
zioni sono limitate alla realizzazione dei nuovi, penultimi
farmaci. La piccola biologia crea meccanismi di ripeti­
zione; essa alimenta l’epidemia di depressione. La piccola
biologia rende possibile l’emergere e il consolidamento di
nuovi mercati, incorporando problematiche definite pri­
ma come psicologiche. Dal punto di vista del capitalismo
I RICERCATORI CONTROLLANO GLI ANTIDEPRESSIVI? 87

e del suo imperativo di un rinnovamento continuo dei


mezzi di produzione e delle merci prodotte, gli psicotropi
rappresentano il settore più moderno della medicina, per­
ché esso si rinnova senza fine.
6.
Psichismo o «corpo mentale»?

Una nuova psichiatria

Dopo la seconda guerra mondiale, la psichiatria vive


un grande fermento. Come invertire una tendenza che
porta a ospitalizzare un numero sempre maggiore di pa­
zienti? Come limitare il sistema manicomiale, che costa
sempre più caro, e che non solo non ha alcuna efficacia
terapeutica, ma distrugge i pazienti? Le contestazioni
si fanno pressanti, sotto lo stimolo di poteri pubblici in­
quieti e di grandi istituzioni di ricerca americane come la
Fondazione Rockfeller. La psichiatria tenta una sortita
volontaristica su due fronti: quello della psicochirurgia
con le lobotomie e quello della psicologia con le psicote­
rapie di ispirazione analitica.
Ma, come abbiamo visto, si apre una terza via, quasi a
sorpresa, nel 1952, col primo neurolettico: l’avvenire del­
la psichiatria non passa né per la sua «chirurgicalizzazio-
ne» né per la sua «psicologizzazione». Sarà medico. La
clorpromazina àncora solidamente la psichiatria alla me­
dicina. Ricongiungendosi alla corrente che porta allora la
medicina verso nuovi orizzonti, la psichiatria si subordi­
nerà alla ricerca farmaceutica. Ormai in psichiatria come
nel resto della medicina, i medici e i pazienti attendono i
progressi decisivi dalla realizzazione di nuovi farmaci.
PSICHISMO O «CORPO MENTALE»? 89

Questa scelta consolida la psichiatria a breve termine,


destabilizza tutti i progetti di psicoterapia istituzionale e
porta a rinunciare alle lobotomie. Non è una cosa troppo
grave per la psicoanalisi finché i farmaci del cervello sono
solo dei neurolettici che curano gli schizofrenici, a cui
essa si interessa poco. Ma questo processo diviene minac­
cioso quando gli antidepressivi sono facilmente utilizza­
bili dai medici generici.
Gli anni che seguono la realizzazione del primo psico­
tropo moderno nel 1952 presentano aspetti paradossali:
gli psichiatri degli ospedali dispongono con la clorpro­
mazina di un primo farmaco per migliorare lo stato dei
pazienti schizofrenici e il loro compito viene semplificato
in modo radicale: ma, parallelamente, i disturbi mentali
meno gravi, chiamati nevrosi, sono trattati da psicotera­
pie di ispirazione psicanalitica terribilmente complicate.
Meno il disturbo mentale è grave e più il terapeuta deve
essere formato e specializzato! Non poteva durare.
La psichiatria diviene dunque un settore specializzato
della medicina, e questo l’obbliga a trasformarsi profon­
damente. Essa non può più coltivare la sua specificità, al
punto di intersezione tra psicologia, filosofia e in misura
minore medicina. Ciò la manteneva a una distanza rispet­
tabile e rispettata dal resto della medicina. Ormai essa
non può più vivere nell’isolamento dei suoi dibattiti eso­
terici, ma deve moltiplicare i ponti con la biologia, la fi­
siologia e la medicina: divenendo una specialità medica
vera e propria, essa assume nuove responsabiltà. La mo­
bilitazione dell’insieme dei medici generici per convin­
cerli a trattare disturbi mentali diviene ormai possibile.
La psichiatria resisterà a questa diluizione della sua speci­
ficità, ma la tendenza diviene incontrastata con l’arrivo
delle nuove famiglie di psicofarmaci: le benzodiazepine
per i disturbi dell’ansia e del sonno alla fine degli anni
sessanta e poi gli antidepressivi di facile uso, con il Prozac
come capofila.
9° CAPITOLO SESTO

Una psichiatria medicalizzata poggia su fondamenti


teorici diversi da quelli della vecchia psichiatria. L’effet­
to dell’arrivo degli psicotropi sulla teoria psichiatrica è
sconvolgente: non resta in piedi niente; gli psicotropi hanno
trasformato sia gli psichiatri che i malati!
La clorpromazina crea negli psichiatri e nel loro modo
di affrontare la schizofrenia nuove abitudini mentali, che
in seguito potranno generalizzarsi a tutti i disturbi men­
tali. Queste nuove abitudini mentali sono abbastanza
semplici per divenire, a tempo debito, tecniche generaliz­
zabili e utilizzabili dai medici generici. Per abitudine
mentale, intendo un modo di interrogare il paziente, di
formulare una diagnosi e di curarlo, divenuto talmente
evidente che il medico non può più immaginarne altri.
Le tecniche di prescrizione degli psicotropi, che siano
neurolettici o antidepressivi, obbligano i medici a disto­
gliere il loro sguardo dalle cause psichiche dei disturbi
mentali e dai contenuti dei racconti dei pazienti o del loro
ambiente, per occuparsi piuttosto del reperimento e del
conteggio dei segni. Questi segni hanno la particolarità di
poter essere considerati indipendentemente dall’espe­
rienza individuale e dalla storia del paziente: è questo il
segreto della medicalizzazione dei disturbi mentali. Un
paziente può proporre dei motivi per spiegare la sua de­
pressione o l’origine delle voci che lo perseguitano? Ciò
non ha importanza per il medico che prescrive un neuro-
lettico o un antidepressivo. Ciò non ha influenza sulla
scelta della molecola e sul suo dosaggio. Un paziente ha
provato da poco un lutto doloroso, un altro un’esperienza
traumatizzante nella vita di coppia, un altro ancora un
licenziamento ingiustificato - e i suoi superiori l’hanno
convinto che egli solo ne era responsabile -, un altro
infine ha saputo di essere affetto da una malattia estre­
mamente grave? L’importante è che nel momento in cui il
medico lo visita, egli presenti cinque dei nove segni, che
caratterizzano la depressione e giustificano allora la pre­
scrizione di un antidepressivo.
PSICHISMO O «CORPO MENTALE»? 91

« Corpo mentale» contro psichismo

Gli psicotropi creano una nuova partizione negli ele­


menti costitutivi di una malattia mentale, delimitando la
zona che dev’essere considerata da parte di chi prescrive
un farmaco e una zona di importanza minore, della quale
fa parte tutto ciò che il paziente racconta, ma che non
può avere influenza sulla prescrizione. Gli psicotropi ob­
bligano i medici a creare una gerarchia totalmente nuova
tra ciò che è interessante nell’esperienza dei pazienti e ciò
che lo è di meno o non lo è affatto. La psichiatria si ride­
finisce e si riorganizza intorno a questa nuova struttura di
comprensione del mondo dei pazienti, che avrà d’altronde
il vantaggio di essere condivisibile con i medici generici.
Esiste ormai un nuovo spazio pubblico, che compren­
de tutto ciò che è interessante nell’ascolto e nell’osserva­
zione di un paziente, per potergli prescrivere gli psico­
tropi più adatti - e una sorta di spazio privato, che il
paziente conserva per sé, per i suoi amici e familiari e, se
ne ha voglia, per uno psicoterapeuta ridotto al ruolo di
accompagnatore. Questo nuovo spazio pubblico permet­
te di dimenticare le particolarità di ogni caso individuale,
di realizzare aggregati di pazienti, di cui i ricercatori pos­
sono seguire l’evoluzione come gruppo, grazie a strumenti
statistici. Quel che riguardava gli psicoanalisti è rinviato
allo spazio privato dei pazienti.
I pazienti trovano molti vantaggi in questo nuovo siste­
ma, grazie a cui gli psichiatri non sono più ormai i cattivi
eredi dei confessori e dei preti. La nuova psichiatria non
avrebbe trionfato così rapidamente senza il consenso e l’a­
desione silenziosa dei pazienti. La facilità della conquista
attesta la debolezza di ciò che esisteva prima. E dunque
inutile sognare un ritorno all’indietro. La nuova psichia­
tria ci dà accesso a un «corpo mentale» liberato dallo psi­
chismo, e questo è l’aspetto che è piaciuto di più nel suo
92 CAPITOLO SESTO

discorso e ha fatto accettare tutte le sue pretese. Do il


nome di corpo mentale al nuovo spazio pubblico costituito
da tutte le operazioni di trasformazione, con cui la psi­
chiatria medica lavora: nuove delimitazioni tra normale e
anormale definite per consenso; comportamenti, emozio­
ni e pensieri anomali, che possono essere messi in rap­
porto e mutati, grazie all’assunzione di sostanze chimiche.
Il corpo mentale permette di fare a meno dello psichi-
smo. Ha il vantaggio di fornire un modello dal potenziale
considerevole: può essere adottato dai medici generici e
può estendersi in modo universale. Tutti gli esseri umani
possono essere dotati di un corpo mentale senza dover
rinunciare a nulla. Anche la psicoanalisi voleva fornire
spiegazioni universali, ma non è mai riuscita a fare del­
l’inconscio, del complesso di Edipo e delle sue teorie sui
sogni, un modello che potesse imporsi di fronte agli altri
sistemi esplicativi. Essa oppone le cause, che interverreb­
bero nell’insorgenza di una malattia mentale, ad altre cau­
se possibili, in una lotta senza fine. Gli psicotropi e la
nuova psichiatria mettono fuori gioco ogni altra cura (la
psicoanalisi e gli altri sistemi terapeutici), rinunciando
alle cause e ai contenuti. Essi rendono indifferenti i temi
per cui in passato si battevano i diversi protagonisti.

Acquisire delle abitudini mentali

L’attribuzione di un corpo mentale a un paziente non è


scontata e dev’essere appresa. Prima di divenire evidenti,
le abitudini mentali devono essere acquisite. Accade così
anche per la psichiatria e il medico generico. All’inizio
della sua carriera, per lo più all’interno di un servizio ospe­
daliero, il giovane psichiatra passa ore nell’inquietudine e
nel dubbio, prima di formulare una diagnosi. Egli consulta
frequentemente i manuali universitari a sua disposizione,
come il DSM, per formulare la diagnosi giusta. Anche se è
PSICHISMO O «CORPO MENTALE»? 93

totalmente inesperto, egli ha la responsabilità e il privile­


gio di imporsi con un colpo di forza sugli altri professioni­
sti sanitari più esperti (infermieri, psicologi, lavoratori
sociali), perché è il solo che ha il diritto di fare prescri­
zioni. Le sue prime esperienze sono difficili. Uno psichia­
tra ha terminato la sua formazione quando può fare a
meno di quel tipo di strumenti e diviene capace di formu­
lare una diagnosi al primo sguardo. Egli allora ironizza sul
DSM, di cui non ha più bisogno.
Non c’è più motivo perché gli psichiatri siano i soli a
considerare le depressioni come un fatto naturale. Poiché
esistono trattamenti semplici da prescrivere e poiché è in
gioco il corpo mentale, anche i medici generici devono
acquisire la competenza che permette di individuare i pa­
zienti depressi. Ma, contrariamente a quel che si crede
ingenuamente, la depressione è un disturbo mentale z«w-
sibile a un medico generico che non sia stato formato in
modo specifico per scoprirlo. Siamo lontani da una dia­
gnosi evidente. Gli studi epidemiologici danno risultati
scoraggianti: negli studi ufficiali si dice che la metà dei
pazienti depressi non sono «riconosciuti» come tali in
occasione di una prima visita presso un medico generico.
Come formarli, dato che non conoscono lo shock quasi
traumatico vissuto dagli psichiatri quando incontrano i
loro primi pazienti nei servizi d’urgenza ospedaliera? Lo
psichiatra è «iniziato», il medico generico è «formato»
con i metodi più classici. L’Organizzazione mondiale del­
la sanità ha realizzato a partire dal 1990 una grande in­
chiesta internazionale, finanziata dall’industria farma­
ceutica per mostrare l’importanza dei disturbi psicologici
nelle visite ordinarie e Lincapacità dei medici generici a
scoprirli. Conseguentemente, I’oms ha realizzato dei pro­
grammi rapidi di formazione in molte lingue per rendere i
medici generici capaci di individuare meglio i depressi.
L’obiettivo perseguito è semplice: bisogna che i medici
generici possano formulare la diagnosi in un tempo assai
94 CAPITOLO SESTO

breve (da cinque a quindici minuti). I medici generici si


formano a queste tecniche diagnostiche in una mezza
giornata.
Le guide ai colloqui clinici formalizzati utilizzate per
istruire i medici generici sono ispirate ai colloqui diret­
tivi, il cui metodo è familiare ai sociologi che vogliano
ottenere un’informazione coerente e strutturata nel corso
delle loro inchieste. Essi prevedono una progressione
logica nelle domande da porre ai pazienti e restringono
progressivamente il modo in cui colui che interroga ot­
tiene delle informazioni. Prendiamo ad esempio il ma­
nuale Colloquio clinico formalizzato per il dsm-iii-r, che
serve a stabilire la presenza di un episodio comportamen­
tale di tipo maniacale in un paziente sospettato di soffrire
di psicosi maniaco-depressiva, una delle forme più gra­
vi di depressione.
«Lei si è sentito troppo bene o troppo allegro o sognan­
te - non si trovava davvero nel suo stato normale? In quel
momento, lei si sentiva al centro del mondo o come se
non ci fosse niente che lei non poteva fare?» Il medico
valuta la risposta come «nessuna informazione, per nulla,
leggero, benigno, moderato, grave, estremo». Con queste
indicazioni molto rigorose, il medico impara a fare dia­
gnosi precise. Egli pone le domande utili e non dà peso ai
racconti dei pazienti, che diventano per lui solo delle di­
gressioni. Egli impara a supplire alle carenze delle sue dia­
gnosi immediate.
Il successo dell’estensione di offerta della cura è consi­
derevole: oggi solo il 15 per cento dei pazienti depressi si
rivolge direttamente a uno psichiatra. In grande maggio­
ranza, essi sono diagnosticati e seguiti da un medico gene­
rico. Gli psicotropi hanno reso possibile una psichiatria
del medico generico, e cioè una psichiatria di massa. La
necessità di scambi continui tra gli psichiatri e i medici
generici - sia a proposito di pazienti particolari sia per
organizzare sedute di formazione - non ha permesso la
PSICHISMO O «CORPO MENTALE»? 95

coesistenza di due sistemi teorici psichiatrici: uno per gli


psichiatri e un altro per i generici. Tutto l’universo psi­
chiatrico cambia.

Gli psicotropi sono la grande sorgente


dell’invenzione psichiatrica

Ormai gli antidepressivi e l’industria farmaceutica rap­


presentano il polo più attivo della psichiatria. Tutte le
novità, tutte le invenzioni, tutte le attese e, cosa non meno
importante, tutti i budget che finanziano nuove ricerche
e propongono nuove invenzioni, vengono dalla ricerca
farmaceutica.
Ogni nuovo psicotropo proposto dall’industria farma­
ceutica rimodella il modo di considerare i disturbi men­
tali, separando non quel che potrebbe essere vero da quel
che potrebbe essere falso nella loro definizione e nel mo­
do di considerarli, ma l’utile (il corpo mentale, sempre
più sofisticato) e l’inutile (lo psichismo tra le altre cose).
Il modo in cui un medico impara a formulare una diagno­
si, e cioè a riscontrare certi sintomi in un paziente, è
molto legato ai mezzi terapeutici di cui dispone. Quando
viene messo sul mercato un nuovo antidepressivo, con la
caratteristica di essere anche ansiolitico, cosa che non
accadeva con gli antidepressivi precedenti, il medico fa
molta più attenzione all’esistenza di una componente
ansiosa nei pazienti. Prima, egli trascurava questo sinto­
mo. Ora esso gli permette di affinare la sua prescrizione.
Ciò produce degli effetti sulle domande che egli pone al
paziente e, reciprocamente, attira l’attenzione dei pa­
zienti su alcuni elementi della loro esperienza vitale, su
cui prima essi non si interrogavano. L’informazione data
dal medico al paziente per giustificare la scelta del far­
maco rafforza ancora l’attenzione per il nuovo sintomo.
Le piccole evoluzioni delle molecole fanno evolvere i cri-
c,6 CAPITOLO SESTO

ieri di classificazione dei pazienti e dunque la definizione


della depressione.
A un certo momento, i gruppi di pazienti si trasformano
fino al punto di non somigliare più in nulla a ciò che se­
condo il senso comune caratterizza la depressione. Ma la
molecola mantiene coeso il gruppo, così il senso comune si
inchina di fronte alla nuova evidenza e nuovi concetti deri­
vati dalla depressione estendono la loro influenza, come
l’ansio-depressione, la depressione mascherata, la distimia,
le depressioni ricorrenti brevi, le fobie sociali. La nozio­
ne di depressione presenta un’elasticità che l’autorizza a
evolvere nel tempo dando vita a delle sottocategorie: tut­
te le vecchie nevrosi sono state «divorate». Gli antide­
pressivi permettono anche di convalidare concetti venuti
dalla psicoterapia, come le nevrosi post traumatiche.
Ogni nuovo psicotropo cambia la posta in gioco e il suo
successo è tanto più grande, quanto più è di facile utiliz­
zazione per il medico generico. Gli psichiatri possono an­
che lamentarsi per il progressivo ritiro dal mercato della
classe di antidepressivi detti imao, ma le loro forti con­
troindicazioni impediscono decisamente la loro prescri­
zione da parte dei medici generici. La facilità di utiliz­
zazione di uno psicotropo appartenente alla famiglia dello
isrs (poche controindicazioni, la comodità della dose unica
quotidiana, la tolleranza, pochi rischi legati al sovrado-
saggio) rende invece possibile l’apertura massima dell’of­
ferta. Questi psicotropi non spaventano il medico gene­
rico. Essi giustificano il suo interesse per pazienti che egli
può imparare a definire come depressi. Essi hanno reso
facile il trattamento di questi pazienti.
Divenendo tecniche da medico generico, le offerte te­
rapeutiche della nuova psichiatria non sono più realizzate
per i diecimila psichiatri che esercitano oggi in Francia,
ma per più di centomila medici. Questo cambia tutto!
L’offerta è moltiplicata per dieci. L’industria farmaceu­
tica è stata la prima a capirlo. Essa ha finanziato tutti i
PSICHISMO O «CORPO MENTALE»? 97

programmi di formazione dei medici generici. Bisogna


evidentemente che i pazienti accettino di vedersi attri­
buire un corpo mentale come un tempo la psicoanalisi
attribuiva loro uno psichismo. Ma essi non ci rimettono
nel cambio. Questa moltiplicazione dell’offerta resa ine­
vitabile dalla medicalizzazione della psichiatria ci dà una
nuova chiave per comprendere come la depressione sia
potuta divenire un’epidemia. Essa mostra come si è costi­
tuito quel che potremmo ormai chiamare il complesso
medico-industriale.
La diagnosi di depressione: un tema di successo

La singolarità della diagnosi psichiatrica

Abbiamo visto che l’assenza del testimone affidabile in


psichiatria priva la diagnosi della solidità che ha nelle
malattie infettive. Questa diagnosi non può fondarsi su
un testimone capace di circolare, che può uscire dal corpo
umano e muoversi affinché siano realizzati strumenti dia­
gnostici indifferenti all’atteggiamento e alle credenze del
medico, o si passino al vaglio e siano selezionate le mole­
cole che dovranno essere sottoposte alla prova decisiva
dei saggi clinici.
In psichiatria non abbiamo nulla di equivalente a quel
«motore immobile», che è per esempio il virus hiv nel­
l’AIDS. Quest’ultimo è il testimone affidabile dell’AIDS:
passa di mano in mano, ma non cambia. Molti ricercatori,
con diverse motivazioni personali, hanno interesse a
occuparsene, a portarlo nel loro laboratorio, a precipitarlo
sulle cellule e a coltivarlo in fondo alle loro provette, a
aggiungere nuovi elementi alla sua definizione. Esso cir­
cola perché è adottato per sottoporlo a nuove sperimen­
tazioni, ma al tempo stesso resta sempre il medesimo.
Ricercatori con specializzazioni differenti, con obiettivi
talvolta molto distanti, «sposano» il virus hiv. Più è spo­
sato, più viene rafforzato e banalizzato, e si irrobustisce
LA DIAGNOSI DI DEPRESSIONE: UN TEMA DI SUCCESSO 99

così la sua validità. Sempre meno persone contestano ch’es-


so sia la causa necessaria e sufficiente dell’AIDS.
Non bisogna credere tuttavia che la diagnosi psichia­
trica sia condannata a deperire nella solitudine dell’in­
contro tra il medico e il paziente e il disinteresse generale.
Essa circolerà altrettanto e anche di più, ma in altro
modo, in altri ambienti, seguendo altre strade e con altri
ritmi, che permetteranno di spiegare la sua natura epide­
mica. Anche qui si pone il problema di alleanze e matri­
moni, ma gli attori non sono gli stessi. I principali attori
saranno quelli che potranno impadronirsene, lavorare
con essa, proprio perché non si presenta sotto la forma di
un’entità indifferente al loro modo di pensare, al loro stile,
al loro comportamento. Ciò mette fuori gioco i ricercatori
che possono sposare solo esseri forti come i virus. Bisogna
essere biologi, fisiologi o biochimici per attivare, animare
un virus come I’hiv. Se la diagnosi di depressione avesse
un’indifferenza simile, quei ricercatori sarebbero stati
felici di occuparsene e non avrebbero avuto bisogno di
inventare la tecnica delle medicine «farmaco-indotte». I
ricercatori di biologia si ritirano dunque educatamente,
non sapendo che farsene delle diagnosi psichiatriche, ma
lasciano posto ad altri. Le ragioni per cui la diagnosi psi­
chiatrica non interessa i ricercatori sono le stesse per cui
altri attori si interessano ad essa.
Chi sono questi attori capaci di adottare e dar vita alla
diagnosi di depressione? Ci sono i professionisti della
salute, ma anche tutti coloro che hanno a che fare con le
credenze, i desideri, gli stili, i comportamenti, in una pa­
rola coloro che hanno a che fare con l’opinione. Anch’essi
potranno arricchire, mettere in movimento, dare conte­
nuto alla diagnosi di depressione. Esamineremo successi­
vamente il modo in cui la diagnosi circola presso gli psi­
chiatri, presso i medici generici, presso i pazienti e poi in
modo più generale nell’insieme del pubblico, soprattutto
grazie alla stampa. Ma prima dobbiamo prendere le di-
100 CAPITOLO SETTIMO

stanze da coloro che vedono in tutta questa faccenda solo


operazioni di manipolazione dell’opinione.

L’ambito dell’opinione ha le sue leggi

L’opinione non è un campo dove tutto è possibile,


dove tutte le manipolazioni riescono, in cui tutto sarebbe
più facile rispetto agli ambiti dove agiscono gli scienziati.
Anche lì ci sono percorsi da seguire e protocolli da rispet­
tare. Prendiamo un esempio diverso dalla depressione:
quello del tabagismo negli adolescenti. Come circola e si
diffonde il tabagismo?
Tutti constatano il fallimento delle campagne di edu­
cazione e pubblicitarie per cercare di impedire agli adole­
scenti di fumare. Ciò è evidentemente incomprensibile
per chi crede che i giovani fumino solo a causa delle cam­
pagne pubblicitarie dei grandi gruppi di produttori di
sigarette. Secondo loro, la fine del tabagismo dipende
dall’aumento dei finanziamenti per le campagne di pre­
venzione. Questo ragionamento non tiene conto dei mo­
tivi che inducono gli adolescenti al tabagismo: desiderio
di appartenere a nuovi gruppi sociali indipendenti dalla
tutela degli adulti, fede nel potere della sigaretta. Essa è
collegata al passaggio dallo statuto di bambino a quello di
adulto.
Le campagne pubblicitarie che denunciano la pericolo­
sità di questo comportamento non potranno mai vincere
un desiderio che ha incorporato il pericolo come un suo
dato essenziale (pericolo legato al cambio di appartenenza
sociale: fumo perché voglio entrare in un universo, che
non sarà più quello superprotetto dell’infanzia). Le cam­
pagne di prevenzione e educazione purtroppo potranno
solo evocare ciò da cui gli adolescenti vogliono fuggire, il
vecchio sistema di appartenenza (l’infanzia), con cui il
nuovo comportamento entra in conflitto. Esse mettono
LA DIAGNOSI DI DEPRESSIONE: UN TEMA DI SUCCESSO ioi

in moto proprio il meccanismo (l’obbedienza ai buoni


consigli, la protezione) da cui gli adolescenti vogliono
emanciparsi cominciando a fumare. Come potrebbero
avere successo?
Per combattere il tabagismo dei giovani bisognerebbe
dunque creare nuovi desideri e nuove credenze che si op­
pongano alle precedenti sullo stesso terreno. Evidente­
mente è più difficile creare un fenomeno sociale che con­
durre una campagna di educazione. Il mondo sociale non
si costituisce a partire da campagne educative, ma grazie
all’attivazione di credenze e desideri, che si traducono
nell’adesione a nuovi modelli e nuovi gruppi, permet­
tendo a ogni nuovo aderente di rendersi identificabile e
di trasformarsi. Le campagne pubblicitarie in favore del
tabacco hanno successo, perché nutrono una credenza e
un desiderio già presenti. Esse li rinforzano. Esse fanno il
surf sulla cresta dell’onda. Questo rende molto difficile
fare un’azione contraria. I venditori di sigarette benefi­
ciano di una specie di velocità acquisita, che è contagiosa
e contro cui la domanda di astinenza - insieme all’invito
alla prudenza e alla diffidenza - appare assai poco dina­
mica e troppo statica.
Si potrebbe, con prudenza e modestia, suggerire ai
nemici del tabagismo di lanciare nella battaglia le truppe
dei non fumatori, invitandoli a un’intolleranza totale,
mobilitandoli perché perseguitino ovunque i fumatori,
per restringere sempre più gli spazi dove è possibile fu­
mare. La pubblicità deve allora rivolgersi ai non fumatori
e non ai fumatori. I produttori di tabacco lo hanno capito
e hanno paura di questa possibilità: essi orientano oggi la
loro comunicazione sulla necessità di un buon vicinato e
di un buon accordo tra fumatori e non fumatori.
Che fine fa qui il discorso biologico? Esso esiste, ma
occupa uno spazio ristretto: certo, i ricercatori possono
spiegarci il funzionamento di ciò che chiamano i mecca­
nismi di dipendenza, ma sanno che questo non sostituisce
102 CAPITOLO SETTIMO

le altre spiegazioni. I prodotti sostitutivi (patchs, com­


presse di nicotina) intervengono come aiuti utilizzabili
nel percorso del fumatore, in funzione della sua scelta;
essi illustrano bene l’utilità e i limiti di ciò che - anche in
questo caso - merita il nome di «piccola biologia», per
riprendere la formula da me utilizzata nel capitolo 5 per
indicare la biologia elaborata dai ricercatori al fine di rea­
lizzare nuovi psicotropi. In tutto questo non c’è nulla di
male, perché gli strumenti inventati in tal modo possono
aiutare i pazienti a smettere di fumare.
Questo esempio mostra che il mondo sociale non si tra­
sforma grazie a pure manipolazioni. Esso si costruisce in
tal caso in modo imitativo: il desiderio e la credenza si
trasmettono, sono adottati e si intrecciano nell’azione.
Perché e in che forma la diagnosi di depressione circola
nell’ambito che abbiamo chiamato opinione? Capiremo
cosa è la diagnosi in psichiatria analizzando come essa cir­
cola, allo stesso modo in cui capiamo cos’è il tabagismo
osservando come viene adottato da individui che, in tal
modo, si ridefiniscono in nuove appartenenze.

La depressione riguarda il pubblico

Non c’è nessun motivo di limitare al mondo dei medici


l’apprendistato che consiste nell’imparare a classificare
gli elementi costitutivi di una diagnosi di depressione.
Bisogna insegnare anche ai pazienti e al loro ambiente a
individuare le caratteristiche del loro malessere, che essi
potrebbero prendere per altra cosa. Essi possono mostrar­
si talora reticenti ad ammettere che i loro disturbi del
sonno e dell’appetito, i loro sensi di colpa siano segni di
una malattia chiamata depressione. Bisogna che «pren­
dano coscienza» che i loro problemi hanno a che fare con
la medicina e questo non è scontato.
LA DIAGNOSI DI DEPRESSIONE: UN TEMA DI SUCCESSO 103

Assistiamo da qualche anno a vere e proprie campagne


educative dei pazienti, condotte come operazioni classi­
che di pubblicità. Così, in Gran Bretagna, le associazioni
di psichiatri e di medici generici hanno dato vita dal 1991
al 1995 alla Defeat Depression Campaign. Questa compor­
tava due aspetti: uno rivolto ai medici generici, l’altro verso
il grande pubblico. Grazie ad essa, il consumo di antide­
pressivi è aumentato del 33 per cento. Negli Stati Uniti,
ha luogo tutti gli anni una campagna, a partire dal 1991:
il National Depression Screening Day, che propone una dia­
gnosi individuale. Nel 1996 vi hanno partecipato 18 000
professionisti della salute. Essa permette di «reclutare»
in gran numero nuovi depressi.
La stampa - in particolare quella femminile - gioca un
ruolo importante. Almeno una volta all’anno, ogni grande
testata della stampa femminile dedica un dossier alla
depressione. Esso è sempre concepito sullo stesso modello:
testimonianze di pazienti, intervista di uno psichiatra,
insistenza sulla necessità di non confondere un attacco di
malinconia con la depressione, modelli di spiegazione bio­
logici, efficacia degli antidepressivi, utilità delle psicoterapie.
Questo genere di articoli è relativamente recente: si è
sviluppato pienamente dopo la fine degli anni settanta.
Negli anni sessanta, gli articoli che hanno diffuso la cono­
scenza della depressione presso il grande pubblico erano
molto diversi. Ricordiamo i giornali scandalistici, che
mettevano in prima pagina la depressione dei divi della
canzone e del cinema, trasformando i loro tentativi di sui­
cidio (spesso per assunzione di farmaci) in casi famosi.
Dunque l’esempio è venuto dall’alto. Sono stati resi po­
polari i comportamenti degli attori e delle celebrità. Per
irradiazione imitativa, il loro esempio è disceso in tutto il
pubblico e innanzitutto tra i lettori (lettrici) delle riviste
portatrici di questo messaggio.
Poi l’innovazione introdotta in tal modo si è generaliz­
zata, la depressione è divenuta ormai - se così si può dire -
104 CAPITOLO SETTIMO

alla portata di tutti. Essa ha cessato di essere una malattia


rara riservata alle star, sofferenti di uno stress legato alla
loro celebrità e ai loro obblighi. La depressione non parla
quasi più della depressione delle persone famose, ormai
essa si rivolge a tutti. La depressione si è banalizzata in
modo incredibile: tutti hanno diritto ad essa. Si può met­
tere in relazione la frequenza di articoli della stampa fem­
minile sulla depressione e il fatto che il 40 per cento delle
donne, rispetto al 25 per cento degli uomini, soffrono al­
meno di un episodio depressivo nel corso della loro vita.
Le donne hanno imparato a «adottare» una patologia una
volta riservata ai divi della canzone e del cinema.

In che modo la depressione si è imposta come un’evidenza

Il discorso che stabilizza la depressione è riconoscibile


da un elemento sempre presente (e in ciò v’è una certa
ironia): il riferimento alle psicoterapie. In tutti gli articoli
e gli opuscoli sulla depressione, viene segnalato quasi
ritualmente che è utile intraprendere una psicoterapia e
non solo prendere degli antidepressivi. In effetti, l’ab­
biamo detto, solo il 15 per cento dei pazienti depressi se­
guono una psicoterapia, e questa molto spesso si limita a
consigli di buon senso per imparare a controllare le pro­
prie emozioni, a prendere correttamente i farmaci e a
impegnarsi di nuovo nella vita attiva. Si tratta in effetti
di terapie di sostegno, più che di una terapia con l’obiet­
tivo di modificare il paziente: qui è lo psicotropo, che
deve modificare il paziente. Il riferimento alla psicotera­
pia ha lo scopo di mostrare che non tutto ruota intorno
agli antidepressivi e che dunque si tratta di una questione
di salute pubblica, non di commercio. Si crea così un sen­
timento di obiettività intorno al concetto di depressione.
Il discorso sulla depressione non riguarda tanto gli anti­
depressivi in se stessi, mobilita piuttosto tutto il contesto
LA DIAGNOSI DI DEPRESSIONE: UN TEMA DI SUCCESSO 105

entro cui essi si presentano. Esso ha una dimensione etica: è


un discorso che vuole aiutare, soccorrere. Dà consigli sulla
maniera di comportarsi con un depresso, sui rimproveri
che non bisogna fargli e le vie, verso le quali bisogna cer­
care di indirizzarlo. E dunque un discorso disinteressato:
svolge un’opera sociale, è generoso e altruista.
Uno dei punti forti del discorso che stabilizza la de­
pressione è la martellante distinzione tra il semplice at­
tacco di tristezza, che non merita di essere medicalizzato,
e la «vera depressione», che invece dev’essere curata con
urgenza. Ma non è facile passare dalla distinzione teorica
alla distinzione pratica. Questa difficoltà è resa maggiore
dalle parole usate: si parla di attacco di «tristezza» [dé­
prime] quando c’è un disturbo leggero e di «depressione»
[dépression] quando il disturbo presenta una maggiore gra­
vità. Ma utilizzando le forme verbali delle stesse parole,
la distinzione tende a sfumare: è diverso essere «depres­
so» ed essere «depressivo»? Nello stesso momento in cui
cerca di stabilire delle differenze, il discorso urta contro la
difficoltà di definirle solidamente, e questo dipende - come
già sappiamo - dalla mancanza del testimone affidabile.
Si è creato un meccanismo, per cui ogni persona che prova
sentimenti di tristezza comincia a interrogarsi per sapere
se non sta per cadere in una depressione.
Il discorso che stabilizza la depressione insiste sull’idea
che essa non dipende dalla volontà del paziente. E per que­
sto che essa è una malattia e che rientra nell’ambito della
medicina. L’ambiente non deve più invitare un depressivo
«a scuotersi». Per la persona in questione, ciò equivale a
dire «Non potrai mai farcela con le tue forze». Ciò che
viene presentato come un consiglio, per il futuro paziente
somiglia temibilmente a un’induzione. Sei condannato ad
andare dal medico, la tua volontà non conta nulla. Se non
vuoi andare dal medico, questo è un segno ulteriore della
malattia, che si chiama «incapacità di agire».
ιο6 CAPITOLO SETTIMO

La depressione diviene un rischio, che ognuno dev’es-


ser cosciente di correre, in un qualche momento della pro­
pria vita. Essa crea un sistema d’allarme valido per tutti.
Ma i soli fattori di rischio sono i primi segni, e questi cor­
rispondono anche al semplice attacco di tristezza, poco
grave, che non giustificherebbe una medicalizzazione.

Abitudini mentali e sillogismi

È difficile per un medico, a confronto ogni giorno con


pazienti che presentano tutti i segni della depressione,
comprendere come la sua diagnosi renda conto della real­
tà, pur non essendo altro che una costruzione. Nel capi­
tolo precedente, ho chiamato «abitudini mentali» i mec­
canismi acquisiti dai medici, grazie a cui essi possono
proporre una depressione a un paziente che chiede aiuto.
L’atto mentale del medico, che reperisce in un paziente i
segni grazie a cui si può prospettare una depressione, non
crea questi segni, ma è indispensabile perché questi si rea­
lizzino pienamente e assumano una nuova stabilità.
Le abitudini mentali si adottano, dunque circolano, si
estendono e possono imporsi progressivamente nell’opi­
nione, con una forza che non consente né di ricordarsi il
cammino percorso per acquistarle, né di vedere come esse
modifichino le persone che ne sono toccate.
Un’abitudine mentale è strutturata in modo tale da
poter circolare e diffondersi rapidamente in numerosi
ambienti. Ciò che abbiamo appreso con l’esempio del ta­
bagismo potrebbe ora tornarci utile. Abbiamo visto che il
tabagismo si diffondeva articolando desiderio e credenza.
Cosa succede con la depressione? Tutti i documenti che
parlano di depressione - sia quelli realizzati dall’industria
farmaceutica e destinati ai pazienti nelle sale d’attesa, sia
quelli fatti dai giornalisti più onesti e meglio intenzionati -
LA DIAGNOSI DI DEPRESSIONE: UN TEMA DI SUCCESSO 107

svolgono più o meno lo stesso ragionamento. Essi invi­


tano i pazienti ad accettare il seguente sillogismo:
1. Sento quegli stati d’animo. Sono dunque colpito da
una malattia: la depressione.
2. Voglio uscirne e guarire.
3. Vado da un medico, perché mi prescriva degli anti­
depressivi.
Questo sillogismo è l’inverso di quello adottato dai
medici:
1. Il paziente presenta le caratteristiche che permet­
tono di diagnosticare una depressione.
2. E mio dovere alleviare le sue sofferenze.
3. Gli antidepressivi lo cureranno.
Si vede come questi sillogismi mescolino credenza (i),
desiderio (2) e azione (3). Vogliamo essere molto empirici
e non parliamo di desiderio in generale, come possono fare
gli psicoanalisti. Allo stesso modo, non parliamo di creden­
za per opporla al sapere, come spesso si fa oggi pensando
che i saperi rinviano alla scienza, alle conoscenze stabilite
in modo certo, mentre le credenze hanno piuttosto il ca­
rattere di falsi saperi, illusioni e pregiudizi. Almeno prov­
visoriamente, facciamo rientrare i saperi tra le credenze.
Usiamo la parola «credenza» in senso assai largo, senza di­
stinguere tra credenze buone e quelle che non lo sarebbero,
tra quelle che sarebbero «false» e quelle che sarebbero
«vere». In quest’ambito, possiamo parlare,di credenze
scientifiche, e cioè nient’altro che credenze verificate da
procedure codificate, le quali ottengono per questo moti­
vo uno statuto particolare tra tutti gli altri modi di pro­
durre verità o sapere.
Non si tratta dunque di credenza o desiderio in gene­
rale, ma sempre di credenza «in qualche cosa» e del desi­
derio «di qualche cosa». Credenza e desiderio si mesco­
lano e inducono gli individui ad agire. Nel nostro caso: li
condurranno dal medico per ottenere la prescrizione di
un antidepressivo.
ιο8 CAPITOLO SETTIMO

La stessa facilità con cui circola la diagnosi di depres­


sione la rende un fenomeno di opinione; essa infatti non
è connessa a un testimone affidabile, ma deriva soprat­
tutto dal consenso degli psichiatri che scrivono il dsm,
sotto l’impulso dell’energia creata con la messa sul mer­
cato di nuovi psicotropi. La diagnosi circola trasformata,
riformulata, reinterpretata, da tutti coloro la cui specia­
lità è di occuparsi dell’opinione. Questa è un’altra delle
condizioni che hanno permesso alla depressione di dive­
nire un’epidemia.
8

L’industria farmaceutica ha un ruolo attivo

La piccola biologia costituirà un campo privilegiato per


l’industria farmaceutica. Essa non poteva desiderare di
meglio. Il suo solo obiettivo è di realizzare farmaci nuovi, la
piccola biologia è incapace di immaginare trattamenti defi­
nitivi, risolutivi, come alcuni vaccini. In compenso, essa ha
un notevole potenziale di sviluppo. Tutte le nuove tecnolo­
gie possono essere ricalibrate e messe al servizio della pic­
cola biologia. E il caso della genomica, che non porta tanto
all’invenzione di terapie geniche, quanto di nuovi strumen­
ti automatizzabili per vagliare piccole molecole classiche,
a partire da nuovi obiettivi. Con la piccola biologia, tutte
le tecnologie di ricerca possono essere prima o poi adot­
tate dall’industria farmaceutica.

Un complotto dei laboratori?

Mentre il lavoro del medico resta in larga misura un’at­


tività artigianale basata sull’incontro col paziente, quali
che siano gli strumenti tecnici da lui utilizzati, quello del
farmacista (e cioè dell’inventore e realizzatore del farma­
co) a partire dagli anni trenta si è riorganizzato secondo il
modello industriale e mercantile proprio del capitalismo.
Da questo punto di vista, l’industria farmaceutica ha più
no CAPITOLO OTTAVO

diritti del farmacista da laboratorio di presentarsi come


l’erede del farmacista del xix secolo. Il farmacista, sotto i
diversi nomi di erborista, speziale, preparatore, è il terzo
che appare molto presto - già nell’antichità greca - nella
storia della medicina occidentale. Nell’epoca moderna ha
cambiato di nome ancora una volta e si chiama ora «labo­
ratorio farmaceutico».
Questo posto occupato dalla figura moderna del far­
macista lo condanna a essere il bersaglio ideale delle de­
nunce. Bisogna innanzitutto comprendere cosa rappre­
senta l’invenzione del farmaco moderno. Non basta
(anche se è indispensabile) chiamare in causa i potenti
mezzi finanziari utilizzati dai laboratori per convincere i
medici a prescrivere antidepressivi al di là dell’indispen­
sabile. L’industria farmaceutica sarebbe responsabile del­
la ipermedicalizzazione di problemi esistenziali, che non
richiederebbero un simile trattamento. Di fronte a questa
offensiva, i medici avrebbero perduto la loro capacità di
ascolto e prescriverebbero psicotropi per comodità, inve­
ce di consacrare più tempo ai loro pazienti. Questo ragio­
namento ci sembra troppo schematico.
Questa tesi è spesso presentata insieme a una critica
della società moderna, sempre più stressante e dunque
portata a produrre sempre più esclusi e depressi. Sempre
secondo questa critica, la medicalizzazione dei problemi
esistenziali permetterebbe di aggirare la contestazione
sociale: gli psicotropi e più particolarmente gli antide­
pressivi, riuscirebbero e evitare l’espressione aperta della
critica sociale. Portando all’estremo questa logica, gli an­
tidepressivi farebbero parte di un vasto complotto orga­
nizzato dai poteri economici dominanti per proteggersi
dalle minacce sovversive. Servirebbero ad addormentare
il popolo.
Questa tesi è insoddisfacente. Il modello che propo­
niamo rende inutile l’idea di una potenza dominatrice e
sorniona, che manipola i medici e le grandi masse. Quan-
L’INDUSTRIA FARMACEUTICA HA UN RUOLO ATTIVO 111

do i medici si difendono spiegando che i pazienti a cui


essi prescrivono gli antidepressivi sono depressi veri, essi
hanno ragione. Quando credono che la depressione possa
essere naturalizzata e trattata con gli stessi strumenti
concettuali di una malattia infettiva, essi hanno torto. Il
nostro modello cerca di spiegare come si fabbrica la
depressione a livello dei microrapporti umani e come essa
si generalizza per divenire un problema sociale.
Questo non vuol dire che l’industria farmaceutica sia
solo una potenza passiva. Bisogna riconsiderarla nel suo
ruolo attivo. Per l’industria farmaceutica la depressione è
un mercato. E un mercato non esiste mai spontaneamen­
te in attesa dei prodotti che l’occuperanno. Un mercato si
costruisce, si forma, si estende o si restringe nel corso del
tempo contemporaneamente all’invenzione dei prodotti,
che danno ad esso la sua configurazione. I casi in cui il
consumo guida l’evoluzione della produzione e dell’in­
venzione sono molto rari. L’offerta costituisce general­
mente il polo più attivo di un mercato, dunque quello che
determina la sua evoluzione. Da un punto di vista econo­
mico, che è quello dell’industria farmaceutica, i bisogni
possono esistere in modo virtuale e come in stato di son­
no, ma sono interessanti solo quando si destano. E questo
risveglio è dovuto, molto spesso, a nuove offerte.
L’industria farmaceutica esplora e sviluppa il campo
della depressione realizzando connessioni efficaci, capaci
di inserire medici, pazienti e farmaco in un meccanismo
unico. La denuncia ideologica è impotente di fronte a una
simile macchina, capace di fabbricare vita sociale. Certo,
è più facile fare politica in un mondo che si divide tra
amici e nemici della verità. Ma cosa si può fare in un
mondo divenuto molto più mobile, in cui i criteri di veri­
tà sono costruiti contemporaneamente a ciò che dovreb­
bero valutare?
I laboratori farmaceutici possono esagerare, non aver
dimostrato ciò che propongono, fare una pubblicità che
112 CAPITOLO OTTAVO

va al di là di quanto è provato o interpretare in modo ten­


denzioso i risultati ottenuti. Ma non è l’aspetto più im­
portante. Poiché relativizzo i fatti, mi si potrà accusare di
trattare bene l’industria farmaceutica. In realtà, mi limito
a prenderla sul serio. Miro a una critica di più ampio re­
spiro, che non metta in questione solo il modo in cui vie­
ne elaborato il dossier a carico in alcuni suoi particolari,
ma il dossier a carico in se stesso.
In un certo senso, bisogna imparare a criticare l’indu­
stria farmaceutica quando il suo tentativo di catturare
nuovi pazienti riesce per buoni motivi, per solide ragioni,
quando riesce a coinvolgerli grazie a una molecola parti­
colare, a riclassificarli in un nuovo territorio medico: e
non criticarla solo quando non ci riesce o quando cerca di
far credere che ci è riuscita, mentre ha manipolato mise­
ramente dei risultati mediocri. Quando l’industria farma­
ceutica si comporta correttamente verso la materia della
ricerca e gli individui, quando li ridefinisce e costruisce
un nuovo legame sociale, noi dovremmo allora essere
capaci di dire «su questo siamo d’accordo», o «non siamo
d’accordo». «Certo, la vostre molecole possono avere
effetto su di noi, trasformarci e ridefinirci in un modo
che può essere giudicato positivo anche da noi. Ma vo­
gliamo discuterne». Non bisogna attivare la critica pro­
prio allora, quando le cose «funzionano»?
Criticare i laboratori farmaceutici che fanno male il
loro mestiere è abbastanza facile. I poteri pubblici, anche
se abbiamo motivo di diffidare di essi, sono capaci di sor­
vegliarli e di controllare con rigore le loro pretese. A noi
interessano i laboratori che fanno bene il loro mestiere,
che non truccano i loro risultati, che trovano veramente
molecole innovative; d’altra parte, non abbiamo alcuna
ragione di lasciare nelle loro mani il monopolio della
definizione e della stabilizzazione delle malattie mentali.
Poiché essi sono capaci di riorganizzare le nostre vite, di
cambiare le nostre speranze, di modificare il nostro inseri-
L’INDUSTRIA FARMACEUTICA HA UN RUOLO ATTIVO 113

mento sociale. Anche se fanno bene il loro mestiere, dob­


biamo trovare il modo di discutere il nuovo tipo di legami
che essi inventano. Ciò vuol dire preparare la via a una
vera biologia, che non sia una semplice estensione della
piccola biologia e non serva solo a realizzare nuovi antide­
pressivi e a definire poi il profilo del consumatore ideale.

Come creare un mercato

Quando un laboratorio dispone di un nuovo farmaco,


deve fare il calcolo economico delle sue ambizioni. A que­
sto fine, esso realizza degli studi di mercato. Ma gli indu­
striali sanno che il mercato esiste quando uno o più far­
maci sono presenti per farlo vivere, per dargli corpo. Il
mercato non va confuso con il potenziale delle persone
che astrattamente possono essere classificate come affette
dalla patologia considerata. Ci sono molti modi di curarsi
e le ragioni per cui se ne sceglie una sono anch’esse estre­
mamente diversificate.
Così, l’emicrania riguarda un gran numero di persone.
E tuttavia il numero di coloro che l’industria farmaceu­
tica rende fedeli ai suoi metodi terapeutici è estremamente
ridotto. I sofferenti di emicrania tentano uno dopo l’altro
parecchi trattamenti, che non sono tutti di tipo medico:
nessuno di essi, comunque, è pienamente soddisfacente.
Sono rari quelli riconducibili unicamente a una cornice
medica classica. Ogni malato di emicrania trova un equi­
librio instabile intorno a sistemi terapeutici e ricette me­
scolati in modo molto empirico.
Ogni nuovo farmaco presuppone una battaglia per
«reclutare» i pazienti, per convincerli che la loro soffe­
renza riguarda il medico. E una battaglia per l’adesione.
Bisogna prima di tutto insegnare ai medici come sco­
prire la malattia, spiegando loro che questo estenderà la
loro clientela e andrà a loro vantaggio. Abbiamo visto che
114 CAPITOLO OTTAVO

non è una cosa scontata. Il primo strumento di questa


procedura di mobilitazione e arruolamento è costituito
dalle fase iv degli studi clinici. Quando un nuovo farmaco
ha ricevuto la sua autorizzazione di vendita, il laboratorio
farmaceutico propone a un gran numero di medici - nella
forma più ampia possibile - di partecipare a studi clinici,
che completano quelli precedenti. Lo scenario precedente
si ripete, ma senza rischi e su grande scala. Il medico non
è solo invitato a ricevere i rappresentanti delle case far­
maceutiche e a guardare le pubblicità dei farmaci nei gior­
nali a lui riservati, ma assume un ruolo molto attivo: deve
reclutare i pazienti, spiegare loro la posta in gioco nello
studio della fase iv e prescrivere il farmaco già sul mer­
cato. Egli stesso verifica la solidità delle affermazioni del
laboratorio farmaceutico e impara a fare le prescrizioni.
La strategia migliore per far aderire i medici consiste
nel creare e proporre un nuovo meccanismo d’azione, che
si ricollega alla piccola biologia e la eleva al ruolo di spie­
gazione della patologia. Può trattarsi di un nuovo mecca­
nismo biologico (una nuova azione su un nuovo recet­
tore), che promette nuovi effetti. Per i responsabili del
marketing questi già sono «concetti». Uso questo ter­
mine tra virgolette, perché la sua utilizzazione deformata
rispetto al suo significato filosofico ha suscitato una giu­
stificata indignazione.

La battaglia dei concetti

Il campo della depressione è in movimento. È vivo, in


permanente ridefinizione - questo costituisce il suo inte­
resse e la sua forza - mentre quello della schizofrenia
sembra più statico. La depressione comprende patologie
considerate assai gravi (la psicosi maniaco-depressiva) e
tutta una serie di disturbi più o meno invalidanti, la cui
definizione cambia rapidamente. Un nuovo «concetto»
L’INDUSTRIA FARMACEUTICA HA UN RUOLO ATTIVO 115

articola nuovi studi clinici, un nuovo farmaco (o un far­


maco vecchio, che ottiene un’estensione della sua auto­
rizzazione di vendita per una nuova indicazione verifi­
cata dagli studi clinici), nuove popolazioni da curare, un
nuovo nome per designare il gruppo. In questo mercato, i
più attivi sono coloro che fanno evolvere la definizione
della patologia o la sua segmentazione interna. In que­
st’ultimo caso, i responsabili del marketing parlano di
«nicchia». La mia partecipazione recente a molti con­
gressi internazionali di psichiatria mi permetterà di illu­
strare il mio discorso con qualche esempio preciso.
Da qualche anno i laboratori danesi Lundbeck cercano
di imporsi su un nuovo promettente mercato: quello della
depressione maschile, distinta dalla depressione femmi­
nile, più conosciuta e meglio trattata. Lundbeck organizza
riunioni durante i congressi internazionali su questo tema.
Pubblica degli opuscoli, che riprendono le comunicazioni
degli psichiatri specialisti. Alcune forme di depressione
sono considerate «atipiche» o «depressione ansiosa». I
nuovi antidepressivi della famiglia degli isrs hanno ri­
portato un successo notevole con l’indicazione «depres­
sione con componente ansiosa». Lundbeck ha l’esigenza di
precisare questa nozione vaga, cercando di contrapporre
una forma di depressione maschile, poco diagnosticata,
alla depressione femminile. Il primo sintomo, che porte­
rebbe alla diagnosi, non sarebbero i sentimenti di tristezza
e di impotenza, ma l’irritabilità, l’ansietà, l’impazienza, la
tensione nervosa, l’irascibilità, l’ostilità, gli attacchi di
collera. Sarebbero caratteristici i comportamenti violen­
ti, nella forma dell’autoaggressione con tentativo di suici­
dio o di violenza sugli altri. Fino ad ora, tutto ciò avrebbe
mascherato il fenomeno patologico. Ci troveremmo di­
nanzi a una popolazione maschile poco curata e spesso
destinata a divenire alcolista. La posta in gioco è dunque
presentata come un problema di salute pubblica.
I ιό CAPITOLO OTTAVO

Sarebbe falso pensare che si tratti di una costruzione


pura e semplice, effettuata da Lundbeck nel segreto dei
suoi uffici. Probabilmente Lundbeck cerca una nicchia
per un antidepressivo con un forte potenziale sedativo e
calmante (la fenfluramina). Consultando tutta la lettera­
tura psichiatrica, i suoi responsabili di marketing hanno
sicuramente trovato dei lavori specialistici su forme di
depressione accompagnate da comportamenti violenti.
Fino ad allora, questi lavori venivano condotti nella gene­
rale indifferenza. Lundbeck ha probabilmente preso con­
tatto con questi ricercatori. Ha proposto loro di fornire
finanziamenti, di organizzare per loro dei simposi satel­
lite, in occasione dei grandi congressi psichiatrici.
Gruppi di ricercatori fino ad allora piuttosto marginali
si trovano spinti in primo piano. Si vedono proporre i
mezzi per realizzare degli studi, che fino a quel momento
non avevano la possibilità di finanziare. Ora «interes­
sano». Perché i ricercatori dovrebbero rifiutare? Dovreb­
bero essere dei santi! Anche in questo caso, il laboratorio
non ha affatto bisogno di manipolare i ricercatori in que­
stione, di far dire loro cose che non pensano. Basta con­
cedere i mezzi perché essi possano continuare la propria
strada. Tra il laboratorio e i ricercatori esiste una vera
alleanza, ciascuno trova il suo tornaconto nell’approfon­
dimento e la giustificazione della nozione di «depressione
maschile». Più la definizione diviene forte, meglio è per i
ricercatori e per il laboratorio.
L’accusa di manipolazione provoca dunque in entram­
be le parti una enorme incomprensione: i ricercatori pen­
sano veramente ciò che dicono e scrivono. Non c’è biso­
gno di nascondere nulla. I dirigenti del marketing e i
responsabili degli studi clinici del laboratorio sono asso­
lutamente convinti di lavorare per il bene della loro im­
presa, ma anche per quello della psichiatria e della salute
pubblica in generale. Il laboratorio può anche vantarsi di
distribuire fondi sotto forma di premi scientifici e borse
L’INDUSTRIA FARMACEUTICA HA UN RUOLO ATTIVO 117

di ricerca per tutti i lavori che trattano della depressione


maschile.
Niente garantisce in anticipo il successo della nuova
connessione proposta: dipende da numerosi fattori, di
cui molti sfuggono al laboratorio. Il nuovo «concetto»
dev’essere capace di estendersi, di reclutare e sottomet­
tere definizioni più antiche. Deve estendere progressi­
vamente la sua influenza apparendo come la soluzione
migliore e più razionale per grandi gruppi di pazienti.
Deve appassionare altri gruppi di ricercatori, indipen­
dentemente dagli obiettivi dei primi gruppi di ricerca e
del laboratorio farmaceutico.
Si può parlare di successo quando le vendite aumen­
tano e quando altri laboratori cercano di promuovere un
prodotto nella stessa nicchia. Evidentemente non è faci­
le, perché devono anch’essi effettuare studi clinici per
provare che il loro antidepressivo è particolarmente indi­
cato per questo sottogruppo di pazienti depressi. Poiché
occorre molto tempo per realizzare questo tipo di studi
(uno, due o anche tre anni), il primo laboratorio ha la pos­
sibilità di consolidare la nuova nicchia, prima che i con­
correnti cerchino di prendere il suo posto. C’è sempre un
premio per il primo che sfrutta la sorpresa.
Prendiamo un secondo esempio. I laboratori britannici
Smith Kline Beecham (skb) devono affrontare un proble­
ma simile a quello di Lundbeck: trovare una nicchia per il
loro antidepressivo, per conferirgli originalità e ingrandirsi
sul mercato espandendo e rendendo più forte questa nic­
chia. Essi decidono di promuovere il disturbo dell’« ansia
sociale». Si tratta di una nuova formulazione per le fobie
sociali. Ma la parola «fobia» è un ostacolo per l’espansione
della nicchia. Chi può aver voglia di farsi curare per un
disturbo che si chiami in questo modo? Così, skb conduce
una doppia battaglia: per cambiare il nome del disturbo e
per far riconoscere l’efficacia del suo antidepressivo (la
paroxetina) in questa sottocategoria, skb si appoggia ad
118 CAPITOLO OTTAVO

associazioni di pazienti per ottenere il cambiamento di un


nome considerato come dequalificante.
Essi hanno quasi vinto la loro causa, perché l’ultima
edizione del dsm - il dsm iv - ha tenuto conto anche del
nome «disturbo dell’ansia sociale», mettendolo fra
parentesi nel capitolo sulle fobie sociali. Probabilmente
c’è voluto un gran lavoro di lobbying per arrivare a questo
risultato. Come per la categoria precedente, questo di­
sturbo è sottodiagnosticato, mentre riguarda una parte
importante di popolazione. Vengono organizzate riunio­
ni, vengono pubblicati opuscoli, numeri speciali di grandi
riviste psichiatriche e perfino un libro. Tutti questi lavori
sono di buona qualità. Spesso sono stati conosciuti al di là
dei comitati di lettura delle riviste e hanno convinto gli
organizzatori dei congressi scientifici. Anche qui, è inu­
tile denunciare una semplice manipolazione. Molti di que­
sti lavori non fanno nessuna allusione alla molecola, che il
laboratorio farmaceutico possiede e vuole promuovere.
Essi creano un consenso su una nuova maniera di nomi­
nare e ricercare il disturbo. Permettono anche di associa­
re molti specialisti diversi per realizzare delle «scale» come
la Leibowitz Social Anxiety Scale nel caso di cui stiamo
parlando, indispensabili per organizzare gli studi clinici.
Vediamo così all’opera un nuovo meccanismo, che
spiega come la depressione avesse la potenzialità di tra­
sformarsi in un’epidemia, attraverso una estensione per­
manente dei confini dei disturbi, che le molecole possono
trattare e aiutare a definire. Non si tratta solo di pubbli­
cità, ma di veri meccanismi, che trasformano gli individui
e modificano la società.
La piccola biologia non spiega nulla

La psichiatria biologica prometteva d’essere una sco­


perta appassionante. A patto d’essere veramente biolo­
gica. Abbiamo visto che non lo è, anche se fa parlare in
vece sua la piccola biologia su quel che è incapace di spie­
gare: la causa dei disturbi mentali. Pretendendo di essere
una psichiatria biologica, col pretesto che essa utilizza dei
farmaci, la psichiatria si ritaglia uno spazio di competen­
za assai ristretto e si subordina all’industria farmaceutica,
che è la grande fornitrice di informazioni per ciò che
riguarda la piccola biologia. Realizzando il modello «far­
maco-indotto» (da cui deriva la piccola biologia) per in­
ventare sempre nuovi psicotropi, i ricercatori dell’indu­
stria farmaceutica sono stati geniali. Ma la psichiatria non
ha il diritto di rifare la stessa operazione in senso inverso,
spiegando col modello «farmaco-indotto» i disturbi men­
tali. Da questo punto di vista, la psichiatria biologica è
stato un insuccesso totale.

L’impossibile stabilizzazione della psichiatria biologica

Il rapporto della psichiatria con la biologia è general­


mente concepito in tre forme possibili. Il primo modello
è quello del determinismo assoluto: conosceremo presto
120 CAPITOLO NONO

la causa biologica necessaria e sufficiente, che spiega la


comparsa di un qualunque disturbo mentale; è un diritto
della ragione. Il secondo modello è quello della «predi­
sposizione». Questo modello privilegia la ricerca genetica
allo scopo di mettere a punto dei test di indagine preditti­
va. In questa concezione, la biologia costituisce una sorta
di infrastruttura sulla quale possono elevarsi le sovra­
strutture psicologiche. Si tratta fondamentalmente di un
modello simile al precedente, ma con una sfumatura di
prudenza: la parola «predisposizione» ha il vantaggio di po­
ter essere difficilmente smentita. Il terzo modello rifiuta
radicalmente di tener conto del lavoro dei biologi, come
fanno alcuni psicoanalisti, difendendo l’indipendenza
strutturale della nozione di psichismo di fronte a qualsiasi
nozione fisiologica e biologica. I lavori biologici sareb­
bero, per natura, estranei al dibattito sullo psichismo e i
suoi disturbi: esiste già una scienza che se ne occupa ed è
la psicoanalisi. Bisogna allora mettere in guardia i pazien­
ti contro l’uso di psicotropi, perché questi non fanno che
mascherare il disturbo reale e rendono impossibile la vera
cura, che riguarda lo psichismo.
Il ruolo della biologia nella cura dei disturbi mentali
non può restare chiuso in questa opposizione. Tutto ciò
che riguarda le specie viventi è provvisto di una dimen­
sione biologica. Non uso la formula di «piccola biologia»
per svalorizzare il lavoro dei ricercatori. Al contrario, le
tecniche di ricerca da essi realizzate sono le benvenute;
essi sono riusciti ad aggirare il grande ostacolo costituito
dall’assenza di testimoni affidabili, che contraddistingue
tutti i disturbi mentali. Tuttavia i loro lavori vengono
utilizzati solo per realizzare nuovi psicotropi, anche se
ci ricordano che c’è sempre qualcosa di biologico nelle
depressioni.
Potremmo eventualmente riservare il nome di «grande
biologia» a tutti i lavori che mettono in luce le cause neces­
sarie e sufficienti per l’insediarsi di una malattia. Ma que-
LA PICCOLA BIOLOGIA NON SPIEGA NULLA I2I

sta non è una soluzione sicura, perché le cose si rivelano


ben presto più complicate e superano da ogni lato questa
opposizione troppo semplice. La mia ambizione è più mo­
desta: voglio soprattutto contestare un uso particolare
dei risultati ottenuti dalla piccola biologia, la tendenza a
far credere che ci stiamo avvicinando sempre di più all’i­
dentificazione di cause che avrebbero in psichiatria lo
stesso potere esplicativo dei germi nelle malattie infetti­
ve. Il termine «ipotesi dopaminergica della schizofrenia»
è l’esempio chiaro di questo slittamento di significato e
della sua ambiguità. Essa associa alla schizofrenia il defi­
cit di un neurotrasmettitore cerebrale, la dopamina, con
la motivazione che i neurolettici agiscono su di esso.
Questo contrasto si può intendere in un altro modo:
perché si cerca ad ogni costo di far corrispondere gli psi­
cotropi inventati con categorie diagnostiche fisse, pur non
avendo alcun mezzo per stabilizzare la loro relazione?
Quando un farmaco è solo sintomatico, è probabile che sia
utile in malattie diverse. Nessuno oserebbe definire l’aspi-
rina, riduttivamente, come un farmaco «antinfluenzale».
Perché in psichiatria avviene il contrario, se non perché
occorre stabilizzare ad ogni costo la fragile psichiatria bio­
logica?
Questo ci porta a un’altra revisione. Si ritiene come
una verità indiscutibile che ci siano tre grandi categorie di
psicotropi esistenti Luna accanto all’altra, che si dividono
il campo immutabile dei disturbi mentali: i neurolettici,
gli antidepressivi e gli ansiolitici. I neurolettici sono legati
alla schizofrenia e gli antidepressivi alla depressione. Solo
gli ansiolitici sono considerati «transnosologici».
Lo studio storico induce peraltro a dubitare di questa
classificazione. Così, i triciclici (antidepressivi) sono una
sottoclasse dei neurolettici (antipsicotici): le loro strut
ture chimiche sono quasi sovrapponibili. Oggi alcuni neu-
rolettici sono «riqualificati» secondo le dosi a cui vcn
gono prescritti dai medici: il sulpiride, per esempio, e
122 CAPITOLO NONO

utilizzato a forti dosi come neurolettico nella schizofrenia


e, a dosi deboli, nelle malattie psicomatiche in Francia, o
anche nella depressione, in Germania. In Italia, l’amisul-
pride è registrato come un neurolettico a forti dosi e
come un antidepressivo a deboli dosi. Il 60 per cento dei
neurolettici sono prescritti dai medici generici al di fuori
dei disturbi psicotici gravi. I vecchi neurolettici conti­
nuano a essere usati come una sopravvivenza del passato,
per popolazioni di pazienti schizofrenici abituati ad essi
e, nel frattempo, gli antidepressivi prendono il soprav­
vento e dissodano nuovi settori. Poi i neurolettici tor­
nano in prima linea nel campo di battaglia: considerati
come puri antipsicotici al momento della loro invenzione,
essi prendono di sorpresa gli antidepressivi e avanzano
ormai su nuove terre. Essi divengono «disinibitori», «an­
tideficitari», stimolanti. Essi devono contribuire al rein­
serimento sociale dei pazienti schizofrenici e non più con­
sentirgli solo di lasciare l’ospedale psichiatrico. Poco alla
volta, le differenze su cui si fondavano queste due classi
di farmaci si attenuano.
Contemporaneamente, gli antidepressivi fanno arre­
trare in modo spettacolare le benzodiazepine: l’ansia non
è più un disturbo a parte, che meriti un farmaco speci­
fico, ma un disturbo che sempre ne accompagna un altro,
la depressione o l’episodio psicotico. Le benzodiazepine
sono spinte progressivamente al di fuori del campo della
medicina, verso quello delle droghe illegali, vasto cimi­
tero, in cui già si trovano vecchi farmaci superati e squali­
ficati (come l’eroina). Tutto ciò è incomprensibile se non
si comprende il movimento generale abbastanza caotico
in cui sono immersi gli psicotropi, e che è il prezzo da
pagare per l’assenza di testimoni affidabili paragonabili a
quelli che esistono nelle malattie infettive: è del resto del
tutto illogico comportarsi come se esistessero. Ciò impe­
disce la possibilità di inventare testimoni affidabili di
natura diversa.
LA PICCOLA BIOLOGIA NON SPIEGA NULLA 123

Gli psicotropi non costituiscono dunque - in con­


fronto alle psicoterapie - un mondo più sicuro, sostenuto
dalla biologia. Ma la psichiatria biologica è definita allo
stesso tempo dall’assenza di testimoni affidabili e da un
funzionamento pratico, che lascia credere che questi te­
stimoni affidabili esistono. Non si tratta solo di una
scommessa della ragione («un giorno si riuscirà a dimo­
strare che caratteristiche genetiche predispongono alla
schizofrenia o alla depressione...»), ma di una articola­
zione tra una pratica molto concreta e un campo di ipo­
tesi molto vaghe, assunte come se si trattasse di cono­
scenze accertate. Questa illusione è certo molto dannosa
per i pazienti.

Quale contributo la biologia può dare alla psichiatria?

Vorrei uscire dal dibattito psichiatrico abituale ponen­


do la domanda seguente: le scoperte della biologia aprono
il campo dei possibili o, al contrario, ci impongono nuovi
vincoli, che lo restringono? Stranamente, in psichiatria, il
riferimento alla biologia ha sempre lo scopo di restringere
il campo dei possibili. La biologia è sempre utilizzata come
un’arma contro gli altri modi di considerare i disturbi
mentali. Questa situazione è del tutto eccezionale. In tutti
gli altri campi, i lavori dei biologi non sono vissuti come
fonte di nuove costrizioni, ma al contrario come una pos­
sibilità di liberarci da esse, al di là di ogni limite. Ne ab­
biamo paura e la gente comune come anche i poteri pub­
blici si interrogano sempre più sugli strumenti e i lavori
che si possono autorizzare e quelli che bisogna proibire. Le
istanze etiche, filosofiche, religiose specializzate nel campo
della biologia si moltiplicano per dare pareri e definire
politicamente i limiti che non devono essere superati.
La situazione in psichiatria è dunque molto partico­
lare. La biologia si presenta come se potesse automatiz-
"W·

124 CAPITOLO NONO

zare la relazione tra l’esperienza di un paziente e il suo


ambiente, la diagnosi e i dati biologici. La biologia abbre­
vierebbe il cammino tra il vissuto di un disturbo mentale
e il suo trattamento. La dissimulazione dello statuto poco
qualificato della biologia ha come conseguenza un atteg­
giamento riduzionista, mentre ci si potrebbe aspettare
una proliferazione di nuove proposte e nuovi dispositivi
di trattamento. La piccola biologia non riduce la strada
che porta da un comportamento anormale a una causa
biologica. Essa traccia un nuovo sentiero obliquo fra tutte
le cause ipotetiche di un disturbo mentale e le sue mani­
festazioni. La piccola biologia si aggiunge a tutto ciò che
già sappiamo sui disturbi mentali senza esser capace di
nessuna selezione.
La nostra storia è piena di esempi in cui le nuove sco­
perte biologiche non riducono il campo dei possibili, ma,
al contrario, moltiplicano i possibili. Facciamo un esempio.
Nel XVIII secolo, l’Europa ha conosciuto la moda dei
castrati. Oggi non ascoltiamo più voci di castrati, se non
attraverso dei dischi confusi, registrati tardivamente. Un
castrato non è un eunuco. Non è il semplice risultato di
una specifica operazione chirurgica. Egli è letteralmente
costruito da una quantità di fattori, come l’arte di sce­
gliere chi ne diveniva la vittima, l’arte di educarli a tecni­
che di canto rimaste senza successori che potessero tra­
mandarle fino a noi e che non è possibile ricostituire.
Basta sopprimere uno solo degli elementi costitutivi della
costruzione dei castrati nel xvm secolo, perché le nostre
conoscenze moderne si oscurino. La biologia, per quanto
interessante, non può in alcun modo pretendere di sosti­
tuirsi ad altri modi di conoscenza, né avere - in questo
caso particolare - uno statuto privilegiato rispetto ai rac­
conti dei contemporanei, che spiegano la bellezza e il
carattere incomparabile del canto dei castrati. Se la sola
operazione chirurgica e le sue conseguenze biologiche
potessero spiegare cos’è un castrato, non potremmo com-
LA PICCOLA BIOLOGIA NON SPIEGA NULLA 125

prendere perché la castrazione dei ragazzi - praticata in


altre culture, in India per esempio - produce esseri molto
diversi dai sublimi cantanti del xvm secolo.
L’esempio dei castrati mi interessa, perché mette in
scena una costruzione complessa a più livelli: scelta dei
bambini sottoposti a questa operazione in base a criteri
artistici, intervento chirurgico per castrare e trasformare
un essere di sesso maschile, privandolo della sua capacità
riproduttiva (questo era un effetto secondario per chi
operava), poi formazione di un cantante con tecniche
molto particolari di lavoro sulla voce. Il processo che va
dall’intervento chirurgico con i suoi effetti biologici (la
castrazione) fino all’esistenza di un cantante castrato e
capace di incantare le folle, è dunque molto tortuoso.
Non procede in linea retta, ma implica ad ogni momento
una molteplicità di attori differenti, definiti nella logica
del sistema sociale dell’epoca e capaci di intervenire con
arte in ogni momento decisivo. In un certo senso, si
potrebbe dire che l’intervento chirurgico faceva già parte
di una «piccola biologia».
L’esempio dei castrati è interessante per una seconda
ragione. Oggi i biologi sanno cosa sia un castrato infinita­
mente meglio dei sapienti dell’epoca. Possono spiegare le
modifiche ormonali e fisiologiche indotte dalla castra­
zione di un ragazzo e le ragioni per cui la sua voce evolve
in modo particolare. Forse che i biologi sono capaci di
spiegarci cos’è un castrato, cos’è la voce di un castrato o,
in altre termini, l’effetto che essa può produrre su coloro
che l’ascoltano? Nessuno lo crede seriamente. Per saper­
ne di più, bisogna tornare a quel che la gente comune dice
dei castrati. Come? Per esempio rileggendo le testimo­
nianze dei contemporanei, che li ammiravano con passio­
ne, e ci descrivono l’emozione da essi provata, fino allo
svenimento.
In tal caso, il sapere biologico può esser detto «asigni­
ficante»: non è autosufficiente e non costituisce il fonda­
I2Ó CAPITOLO NONO

mento di altri saperi. Non ci dice niente di definitivo.


Non sa rispondere alle domande più importanti, che
abbiamo il diritto di porre. Il senso comune conserva
tutto il suo ruolo e la sua pertinenza di fronte al discorso
scientifico, che crea nuove svolte e diramazioni ma non
risolve il problema posto.

Un modello aperto

Abbiamo bisogno di un modello capace di utilizzare i


lavori dei biologi, pur rifiutando il determinismo e anche
il troppo facile ricorso all’idea passe-partout di «predi­
sposizione». Ispirandosi al modo in cui alcuni paleonto­
logi eredi di Darwin pongono il problema dell’evolu­
zione, parleremo di «potenzialità» biologica.
Trovare aspetti biologici tra le componenti di un distur­
bo mentale non è difficile, ma non ci dà alcuna soluzione
sul rapporto tra questo disturbo e gli elementi biologici.
Bisogna saggiare altre possibilità, oltre alla subordinazio­
ne: quelle, ad esempio, che utilizzano il termine «mobili­
tare». Potremmo dire che la depressione «mobilita» ele­
menti biologici, in particolare genetici, ma anche conflitti
sociali o individuali, talvolta di origine infantile, e così
acquista il suo significato. Non si tratta più di pensare la
possibilità di un disturbo come nel modello della predispo­
sizione, ma di mostrare come una patologia, allo stesso
titolo di un’emozione o di un comportamento, mobilita
elementi di natura molto diversa e dà loro una nuova coe­
renza, che fa epoca nella storia dell’uomo.
La teoria darwiniana ci ha abituato a questi fenomeni
di mobilitazione nell’evoluzione del vivente. Si capirà
meglio, se prendiamo ad esempio i dibattiti sul modo in
cui si può raccontare la storia delle modifiche, che hanno
spinto alcune specie a differenziarsi a partire da nuovi
organi, banali come le piume. Alcuni ricercatori hanno
LA PICCOLA BIOLOGIA NON SPIEGA NULLA 127

fatto l’ipotesi della loro comparsa presso dinosauri nati


casualmente con delle scaglie lacerate. Esse sarebbero
state inizialmente «mobilitate» come isolante termico,
che dava una certa superiorità a quelli che ne erano prov­
visti. Solo la loro utilità immediata ha potuto assicurare il
loro avvenire. Poi esse si sono trasformate in ali e hanno
dato luogo ad altre mobilitazioni, come saltare, afferrare
più facilmente le prede, fuggire, prima di permettere la
nuova esperienza: volare. Si tratta dunque di caratteristi­
che biologiche, che si sono sviluppate per ragioni diverse
dall’utilità immediata. Casualmente, esse sono state di­
sponibili e mobilitabili per altri usi.
Questo è il modello più prudente per pensare il rap­
porto tra biologia e disturbi mentali, allo stato attuale dei
lavori scientifici: la depressione è suscettibile di «mobi­
litare» elementi come la serotonina. Ma possono essere
mobilitati anche per altri usi, per individui presi in altre
storie. Così, la stessa persona che per la psichiatria mo­
derna sarà solo un paziente depresso, privo d’iniziativa e
di speranza, nella tradizione buddhista sarà un esempio
da seguire, come colui che si è incamminato sulla via della
salvezza. Evidentemente in questo caso la situazione non
è vissuta come insuperabile, ma richiede la partecipa­
zione attiva della persona coinvolta in uno sforzo diretto
verso un esito auspicabile. Tuttavia, a un certo punto dei
loro percorsi - che alla fine risultano agli antipodi -, un
paziente depresso e un buddista possono mostrare una
strana rassomiglianza, che una biologia ristretta può solo
confermare.
Possiamo ora porre diversamente la domanda: gli anti­
depressivi aumentano le nostre possibilità di scelta o le
restringono? La prima possibilità spiega il loro successo.
Ma questo non vuol dire che i nostri disturbi mentali
siano spiegati a sufficienza dalla biologia, né che il tratta­
mento con gli antidepressivi agisca in un qualunque modo
sulle cause dei disturbi mentali. Al contrario, la scelta di
128 CAPITOLO NONO

prendere un antidepressivo tende a mobilitare movimenti


molecolari nel cervello. La piccola biologia è una chance
supplementare per i pazienti, nella misura in cui essa è solo
un mezzo per realizzare nuovi psicotropi partendo dall’e­
redità dei precedenti; ma ciò suppone che essa abbandoni
le sue pretese esorbitanti. Essa è destinata a essere una pic­
cola nicchia in quella che potrà divenire una vasta biologia.
Gli psichiatri e i ricercatori, che attribuiscono alla pic­
cola biologia il ruolo di una biologia esplicativa, seguono
un cammino inverso a quello dei ricercatori che hanno
inventato la modesta tecnica di scoperta chiamata «far­
maco-indotta», all’origine della piccola biologia. Quei
ricercatori hanno adottato questa tecnica perché dava
buoni risultati e non perché avessero trovato le cause dei
disturbi mentali. Speriamo che i medici siano inventivi e
modesti come quei ricercatori.

La scommessa biologica

L’opzione biologica, secondo la quale si crede che si


riusciranno a definire dei testimoni affidabili in psichia­
tria, ampliando e consolidando la piccola biologia, è una
scommessa molto incerta. I ricercatori più seri hanno
moltiplicato le dichiarazioni in cui spiegano che questa
scommessa, che domina il campo da almeno trent’anni,
non è affatto legata a nuove scoperte scientifiche, ma è
fondata soltanto su un nuovo modo di mettere in scena e
in prospettiva quel che conosciamo della biologia del cer­
vello grazie all’azione dei farmaci. Si tratta in effetti di
una scommessa sulle scoperte future, del sentimento ecci­
tante che i meccanismi biologici ci sveleranno le cause dei
disturbi mentali. Si considerano le scoperte future come
un diritto della ragione.
Fra tutti i disturbi mentali, la depressione avrebbe tut­
tavia dovuto suscitare un dubbio profondo su questa
LA PICCOLA BIOLOGIA NON SPIEGA NULLA 129

scommessa biologica. Per molto tempo s’è cercato di con­


servarne la validità distinguendo una depressione endo­
gena (biologica) da una depressione esogena (con causa
esterna). In effetti era innegabile che alcune depressioni
fossero dovute a quelli che con pudore venivano chiamati
«eventi della vita», esperienze traumatiche, intenzionali
e non. Tuttavia, in tutti i casi in cui era difficile identifi­
care l’aggressore, si poteva fare ricorso alla nozione di de­
pressione endogena o biologica.
Gli antidepressivi, mostrando eguale efficacia nei due
tipi di depressione, hanno posto fine all’utilità di questa
distinzione. D’altronde essa aveva avuto poco successo
nel resto della psichiatria; nessuno aveva sentito la neces­
sità di dividere secondo un simile criterio la schizofrenia:
non ci sono una schizofrenia endogena e una schizofrenia
esogena! Per i sostenitori della psichiatria biologica, tutti
i casi di schizofrenia sono endogeni. Per le tendenze col­
legate all’antipsichiatria o alla terapia familiare dei primi
anni, tutti i casi sono esogeni. Stranamente la scommessa
biologica ha continuato a svilupparsi, indipendentemente
dalle realtà portate alla luce e confondendo le scoperte
relative ai meccanismi d’azione dei farmaci con quelle di
testimoni (biologici) affidabili.
Una scommessa può sempre essere definita dai rischi
che fa correre a quelli che la fanno. La scommessa biolo­
gica trionfa moralizzando la psichiatria. Essa elimina le
figure dell’uomo antico in preda ai demoni o a nemici dif­
ficili da identificare o con intenzioni difficili da decifrare.
Tuttavia, riduce i pazienti al silenzio. Le loro storie, i loro
racconti, le loro esperienze immediate non sono molto
utili per coloro che accettano la scommessa. La scommessa
della piccola biologia esclude le testimonianze del paziente
e ogni responsabilità del suo ambiente, e ciò non è compa­
tibile con una grande biologia nella tradizione darwiniana.
La scommessa biologica costituisce anzitutto un polo
d’attrazione: intorno ad essa si riorganizzano le profes-
130 CAPITOLO NONO

sioni, alcuni gruppi acquistano importanza, reclutano


nuovi sostenitori, dispongono di molti mezzi materiali e
finanziari. Tutte queste attività legano in modo nuovo le
persone tra di loro, le rendono compartecipi della scom­
messa fatta. Tutto ciò che pone in discussione la scom­
messa, pone in discussione la loro stessa situazione, e isti­
tuzioni divenute sempre più potenti nel corso del tempo:
coloro che non si identificano con esse corrono il rischio
di essere esclusi, di non pubblicare e di non poter finan­
ziare le proprie ricerche. In una tale situazione, tutti si
influenzano reciprocamente e quel che all’inizio era solo
una scommessa considerata come tale, prende sempre più
l’apparenza di una realtà incontestabile, che sarebbe cri­
minale minacciare. Più cresce il numero delle persone
impegnate nella scommessa, più le convinzioni divengono
forti. La minima scoperta esalta i sentimenti degli uni e
degli altri. Ben presto, non c’è più posto per il dubbio.
Una scommessa crea desiderio e credenza e trascina le
azioni in una certa direzione. Essa obbliga a pensare in
un certo modo e ci costringe a dimenticare che la piccola
biologia è un sottoprodotto di quel che si può definire
come il fallimento della biologia in psichiatria.
IO.

Gli antidepressivi sono psicoterapia concentrata


e industrializzata

Se non c’è un fondamento biologico stabile per resi­


stenza e la definizione degli psicotropi, che si tratti di
neurolettici o antidepressivi, come potremo esporre la
differenza fra un trattamento con psicotropi e un tratta­
mento con la psicoterapia? Evidentemente non possiamo
sostenere che se un disturbo mentale è curato meglio da­
gli psicotropi che dalla psicoterapia, divenga allora lecito
considerarlo come una malattia organica. L’idea che gli
psicotropi siano destinati ai disturbi mentali organici e le
psicoterapie ai disturbi mentali psicologici meno gravi,
non è fondata su nessuna dimostrazione ed è molto lon­
tana dalla pratica reale degli psicotropi. Bisogna trovare
un’altra soluzione per articolare le differenti pratiche
terapeutiche.

Lo psicotropo sostituisce l’azione umana

Gli psicotropi in fondo non sono diversi da una atti­


vità psicoterapeutica, dato che la loro prescrizione non si
fonda su fondamenti biologici, che li renderebbero oppo­
sti alle psicoterapie. La possibilità di usare una sostanza
come psicotropo non ha come fondamento ultimo un’a­
zione identificata su un meccanismo biologico del cervel-
132 CAPITOLO DECIMO

lo. Il meccanismo biologico è solo un intermediario nella


concatenazione dei processi che hanno portato a creare lo
psicotropo. Il meccanismo biologico rinvia esso stesso a
un’azione sui sentimenti, le emozioni e i comportamenti,
che è sempre stata identificata in maniera embrionale ed
empirica nel corso della pratica clinica, come per le psico-
terapie. Le due tecniche si riferiscono allo stesso modello
d’azione, anche se utilizzano operatori differenti. Gli
operatori che permettono di dare ad alcune sostanze chi­
miche lo statuto di antidepressivi hanno evidentemente il
vantaggio di potersi diffondere universalmente, mentre
questo non avviene per gli operatori della psicoterapia, in
particolare per quelli di ispirazione psicoanalitica.
Per mantenere una distinzione forte tra psicotropi e
psicoterapie, bisognerebbe poter rinviare i primi a testi­
moni organici affidabili e i secondi a una teoria psichica
solida. Bisogna riconoscere che in entrambi i casi non è
certo così: non si sa perché le cose funzionino! Allo stes­
so modo non si sa perché le lobotomie, praticate fino agli
anni cinquanta, hanno migliorato lo stato di un certo nu­
mero di pazienti; e perciò si preferisce in genere dimen­
ticarlo. Ma almeno ora siamo sicuri che ciò non è acca­
duto per le ragioni sostenute all’epoca e che ci appaiono
oggi stupide e barbare.
Come stanno le cose con gli psicotropi? Si possono sta­
bilire correlazioni tra le quantità di molecole assorbite da
un individuo e modificazioni biologiche nel suo cervello
(e altrove). Tuttavia, queste modifiche biologiche non
possono essere direttamente messe in relazione con la sof­
ferenza morale, che viene alleviata. Resta dunque possi­
bile che l’efficacia degli psicotropi sia dovuta a ragioni
molto diverse da quelle che consideriamo abitualmente
sufficienti.
Così torna continuamente una domanda senza risposta:
gli antidepressivi sono più efficaci di un placebo, ma sareb­
bero più efficaci di un placebo «impuro», e cioè di una
GLI ANTIDEPRESSIVI SONO PSICOTERAPIA CONCENTRATA 133

sostanza senza effetti sul cervello ma capace di provocare


effetti secondari di tipo anticolinergico (di indurre aridità
della bocca)? Nessuno potrebbe giurarlo. Tutti se lo chiedo­
no, ma nessuno è pronto a finanziare questo tipo di studi.
Abbiamo visto che le motivazioni accettate, all’origine
della piccola biologia, sono quelle che permettono di rea­
lizzare nuovi psicotropi leggermente diversi dai prece­
denti e dunque capaci di agire e perfino di definire nuovi
disturbi mentali. Tutto è qui indirizzato verso l’inven­
zione e ciò che permette l’invenzione detta al resto il suo
ritmo e i suoi imperativi.
Non sappiamo neppure perché una psicoterapia qual­
che volta è efficace, qualche volta no. La difficoltà è rad­
doppiata dall’impossibilità di misurare questa efficacia
come si misura quella degli antidepressivi in confronto ad
un placebo.
Non bisogna dunque pensare in termini di opposizio­
ne, ma di continuità. Siamo passati dalle psicoterapie agli
psicotropi, le une si sono raccordate agli altri. Le nostre
terapie si sono coagulate sotto forma di psicotropi, conte­
nenti le stesse risorse e le stesse incertezze, e questa è la
base della loro reciproca concorrenza.
Questo non vuol dire che psicoterapie e antidepressivi
non possano essere prescritti contemporaneamente allo
stesso paziente. Questa coprescrizione ha semplicemente
lo stesso statuto della prescrizione di due psicotropi alla
stessa persona, altrettanto comune. Essa si realizza sulla
stessa base empirica. L’invenzione degli antidepressivi ha
portato a una relativizzazione delle psicoterapie. Queste
ultime mostrano una grande flessibilità. Esse sono adat­
tabili ai farmaci prescritti ed evolvono fino a trasformarsi
in semplici consigli di buon senso per il paziente. Questi
consigli riguardano per lo più il buon uso degli psicotropi:
prenderli al momento giusto e in dosi opportune, impa­
rare a controllarne e sostenerne gli effetti secondari, par­
lare con chi ha prescritto il farmaco dell’evoluzione possi-
134 CAPITOLO DECIMO

bile del trattamento e dei suoi dosaggi. Gli antidepres­


sivi, che tanto somigliano alle psicoterapie (ma con un
leggero vantaggio) possono prendere il loro posto su larga
scala e distruggerle.

Gli psicotropi hanno sostituito dapprima Γinternamento


e poi le psicoterapie

I neurolettici antipsicotici realizzati nel 1952 non hanno


messo in crisi brutalmente le psicoterapie. Essi si indiriz­
zavano a una parte della popolazione colpita da disturbi
mentali, che i medici non curavano con le psicoterapie,
ma con il ricovero nei manicomi. Questa tecnica di cura,
aU’origine àc\Y alienismo, ne ha pagato il prezzo ed è pro­
gressivamente scomparsa. La somiglianza tra il ricovero
manicomiale e l’azione dei neurolettici è stata colta dagli
antipsichiatri, che hanno assimilato i neurolettici a «ca­
micie di forza chimiche». I neurolettici sostituivano il
ricovero nei manicomi, dunque ne accettavano evidente­
mente alcuni effetti, ma ne modificavano altri, permet­
tendo così la comparsa di nuove configurazioni e di nuovi
spazi per nuove pratiche. L’espressione «camicia di forza
chimica» è dunque troppo sommaria, salvo che per
denunciare giustamente le pratiche più ignobili.
Con gli antidepressivi, tocca alle psicoterapie di subire
la concorrenza, come già era accaduto alla reclusione ma­
nicomiale rispetto ai neurolettici. La forza degli antide­
pressivi non è affatto legata alla loro azione su una causa
biologica, infine identificata. Gli antidepressivi non hanno
bisogno di teoria. Per essi, va bene tutto: sono nella per­
manente condizione di inghiottire tutto il campo dei
disturbi psichici e questo li distingue dai primi psicotropi,
i neurolettici, la cui azione sul corpo era brutale e poten­
te. «Grazie alla piccola biologia, avete una fonte inesau­
ribile di nuove molecole. Grazie agli studi clinici, avete
GLI ANTIDEPRESSIVI SONO PSICOTERAPIA CONCENTRATA 135

uno strumento permanente per far evolvere la coppia psi-


cotropi/disturbo mentale. Modificate le molecole e pro­
vate!»: questo è il grido di guerra degli antidepressivi.
Ogni nuova invenzione ne precede un’altra futura. Gli
antidepressivi non sanno che farsene di tutti i ragiona­
menti sullo psichismo.
Gli psicoanalisti si trovano armati di una teoria che più
nessuno ha bisogno di confutare. Il peggio per loro è già
successo: la loro teoria è diventata inutile. Dagli anni set­
tanta in poi, gli psicotropi obbligano a porre in questione
la divisione tra psicosi e nevrosi. Ben presto gli antide­
pressivi sono destinati a curare disturbi che non somi­
gliano per nulla a disturbi depressivi, come l’insieme delle
somatizzazioni (malattie psicosomatiche), poi i disturbi
ossessivi, la depressione ansiosa, le fobie sociali e infine
lo stress post-traumatico. Le nevrosi sono sparite. Parole
nuove intervengono a definire disturbi, che nessuno, fino
ad allora, chiamava in questo modo, insiemi di sintomi
che i medici imparano a ricercare e a valorizzare.
Gli antidepressivi sono l’avanguardia permanente della
ridefinizione dell’insieme delle malattie mentali: la proli­
ferazione degli antidepressivi si accompagna a una prolife­
razione di nuove definizioni di queste ultime. Lo psichiatra
Louis Roure può perfino scrivere, senza suscitare stupore,
in un libro divulgativo dedicato alla depressione: «L’au­
tenticità di un disturbo depressivo a partire dal momento
in cui diviene resistente a questi nuovi prodotti, sarà pro­
gressivamente rimessa in questione. Perciò si può dire
che a partire da quel momento l’idea dominante ammet­
terà una nuova definizione della depressione: è ciò che
guarisce per l’azione dell’antidepressivo».1
Con i neurolettici, la psichiatria poteva ancora avere
pretese teoriche. I neurolettici sono stati sempre conce­
piti come una specie di ripiego, in attesa che i ricercatori

1 Roure 1999, p. 16.


136 CAPITOLO DECIMO

trovassero finalmente veri trattamenti definitivamente


efficaci, eziologici. La riflessione sulla patologia poteva e
doveva continuare, indipendentemente dai farmaci. Non
è più così con gli antidepressivi. Essi procedono più rapi­
damente di tutti gli altri movimenti. Si appropriano del
campo dei disturbi mentali, lo sconvolgono, lo ridefini­
scono molto velocemente. I medici sono condannati a
seguire la macchina che dà l’impressione di non funzio­
nare. Nessuno sa in nome di quali argomenti potrebbero
tentare di frenarla. La psichiatria può ormai continuare a
inventare (o a beneficiare di invenzioni fatte dai farma­
cologi) senza più dover pensare. La psichiatria progredi­
sce senza più aver bisogno di riflettere. Essa ha trovato
altrove un motore che supplisce alla debolezza storica del
suo, che oggi non funziona più.
Ciò deve indurci ad affinare la nostra proposta. Diremo
che gli antidepressivi sono «un prolungamento» o «nella
linea» delle psicoterapie ed è proprio per questo che essi
«sostituiscono» le psicoterapie e la definizione dei di­
sturbi mentali. Essi producono effetti, che modificano in
modo spettacolare il campo dei disturbi mentali, a con­
fronto con l’epoca in cui dominavano da un lato la reclu­
sione manicomiale e dall’altro le psicoterapie.
Creando una psichiatria che non è più interessata al
dibattito sulle cause e sui contenuti, gli psicotropi hanno
un sicuro vantaggio sulle psicoterapie di ispirazione psico­
analitica. Sono capaci di partire alla conquista del mondo:
grazie ad essi, gli esseri umani possono finalmente dive­
nire universali. Gli psicotropi possono pretendere di riu­
scire laddove la psicoanalisi e l’inconscio hanno fallito
nella conquista del mondo. Questa universalizzazione è
resa possibile da una doppia operazione: gli psicotropi
creano un sistema d’arruolamento senza urti e senza dif­
ficoltà; creano una situazione, in cui le singolarità presen­
tate dai «soggetti» vengono messe in un colpo solo «fuori
campo» e non contribuiscono più alla definizione del
GLI ANTIDEPRESSIVI SONO PSICOTERAPIA CONCENTRATA 137

paziente, costituendo così il corpo mentale come «serba­


toio di universalità». Non c’è alcun bisogno di convin­
cere un paziente prima di dargli uno psicotropo. Il conte­
nuto del suo racconto non interessa mai lo psichiatra che
10 cura e si chiede quale psicotropo deve prescrivergli. Né
11 contenuto dei deliri, né le ragioni per cui è depresso,
devono turbare un interrogatorio, il cui solo scopo è tro­
vare dei segni, che la psichiatria riconosce, svuotandoli di
ogni contenuto.
Gli psicotropi sottolineano con piacere come il pen­
siero che accompagna le psicoterapie non sia affatto riu­
scito a identificare le vere «entità» all’origine del male, di
cui soffre un paziente depresso; d’altra parte non si può
fare come se non ci fossero e curare dimenticando la loro
esistenza. La psicoanalisi aveva l’ambizione di far trion­
fare il suo sistema esplicativo: le cause dei disturbi men­
tali da essa scoperti si ritroverebbero come invarianti, a
tutte le latitudini. Essa poteva confinare nel passato pre­
scientifico le cause identificate dai terapeuti tradizionali,
ma non poteva sfuggire ad obiezioni. I farmaci antide­
pressivi, invece, sono sempre vincenti, poiché eliminano
alla radice la discussione sulle cause. Un medico di forma­
zione occidentale può prescrivere uno psicotropo a un
paziente, pur lasciandolo libero di consultare tutti gli altri
terapeuti a sua disposizione e trovare tutte le cause possi­
bili della sua malattia (comunque irrilevanti).
Abbiamo detto che psicoterapie e psicotropi hanno un
punto in comune: essi interiorizzano le difficoltà psichi­
che, rinviandole o all’apparato psichico o a una disfun­
zione neurobiologica. Ma queste due interiorizzazioni
non sono equivalenti. L’interiorizzazione neurobiologica
è molto più superficiale dell’interiorizzazione psichica.
Perciò non c’è niente di peggio di un cattivo psicotera­
peuta, perché egli indirizza il paziente verso ciò che - a
suo parere - è la sua intimità e la sua realtà più profonda.
138 CAPITOLO DECIMO

Le ricostruzioni proposte dalle psicoterapie mettono in


gioco elementi che secondo il terapeuta sono costitutivi
dell’essenza del soggetto, la sua verità profonda, la sua
intimità. Al confronto, l’interiorizzazione biologica non
colpevolizza per nulla. Preserva l’anima dalle difficoltà
del corpo. E sempre superficiale.

Le proteste dei due partiti

Gli psicotropi, dai primi agli ultimi che sono stati sco­
perti, dai neurolettici dell’inizio degli anni cinquanta fino
agli antidepressivi che appartengono alla famiglia degli
inibitori della ricaptazione della serotonina, sono tutti
indifferenti alla domanda sull’origine, organica o psico­
logica, dei disturbi mentali. Ad essi va bene tutto. Sono
tutti sintomatici e dunque ateorici. Non sono diversi
dagli ipnotici, che permettono di dormire, quale che sia la
ragione che impedisce il sonno. Si può prescriverli a un
paziente che è stato diagnosticato come un depresso o
aggiungerli a una premedicazione anestetica prima di una
operazione chirurgica! Molti psichiatri si comportano
come se gli psicotropi, per la loro semplice evoluzione e il
loro lento perfezionamento, senza vera rottura, potessero
divenire un giorno dei trattamenti eziologici, interve­
nendo allo stesso livello delle cause eziologiche ultime.
Come se i ricercatori avessero trovato gli antibiotici svi­
luppando e migliorando l’aspirina!
Gli psicotropi e in particolare gli antidepressivi pos­
sono essere analizzati e compresi solo come una psicotera­
pia concentrata, uniformizzata, industrializzata. Lo scopo
delle psicoterapie è di «modificare» una persona che sof­
fre di disturbi mentali. Quando il risultato è raggiunto, il
cambiamento può essere osservato in molti modi diversi,
tra l’altro grazie alle modifiche biologiche che esso pro-
GLI ANTIDEPRESSIVI SONO PSICOTERAPIA CONCENTRATA 139

voca come effetti secondari. Da questo punto di vista,


non c’è differenza tra gli psicotropi e le psicoterapie.
Questa affermazione è scandalosa, perché essa mette
in questione quel che sembrava ammesso da tutti: la dif­
ferenza fondamentale e irriducibile tra questi tipi di cura.
Dal punto di vista degli psicoterapeuti, questa afferma­
zione rende inutile la loro ultima carta: la specificità del
loro lavoro. Essi perdono la loro originalità, divenendo
«sostituibili» a buon mercato. Essi sanno evidentemente
che le psicoterapie subiscono la concorrenza degli psico­
tropi e, in particolare, degli antidepressivi. In compenso,
possono ammettere difficilmente che gli psicotropi non
abbiano natura differente dalle psicoterapie, che essi pra­
ticano e giustificano nel quadro di un pensiero teorico tal­
volta estremamente sofisticato. Essi hanno imperativa­
mente bisogno di mantenere l’idea di una superiorità
della psicoterapia sui farmaci, soprattutto quando essa è
d’ispirazione analitica. La psicoterapia permetterebbe di
trattare a fondo i problemi, non superficialmente. Si con­
tinua a sostenere con ostinazione che un sintomo scom­
parso grazie a uno psicotropo, o nel corso di una terapia
non analitica, riappare altrove modificato, si ripresenta in
ogni caso.
Dal punto di vista della psichiatria biologica, l’effetto
della mia affermazione non è migliore. Se i farmaci psico­
tropi sono solo psicoterapia concentrata, i ricercatori e gli
psichiatri non partecipano più a un vero progresso scienti­
fico, che li renderebbe medici come gli altri e permette­
rebbe loro di avere con la biologia lo stesso rapporto che
hanno i settori più prestigiosi della medicina. La grande
rivoluzione della biologia o dei farmaci rischia di apparire
in psichiatria molto meno grandiosa di quanto volesse
sembrare. Essi si limiterebbero a rendere operativa una
piccola biologia. La mia affermazione riconduce la loro
attività allo stesso tipo di lavoro degli psicoterapeuti: essi
non si distinguono da questi ultimi se non per i mezzi
140 CAPITOLO DECIMO

industrializzati e dunque controllabili che usano. Il con­


trasto tra coloro che praticano la psicoterapia come arti­
giani, e i ricercatori che lavorano su grande scala, non si
fonda più su niente di essenziale. Manca totalmente di
qualità. Non è di natura «epistemologica». Non c’è nessun
nuovo «paradigma». La biologia ha fallito in psichiatria.
Questa affermazione crea una prossimità tra le due
professioni, non desiderata da entrambe. Essa porta a
dire che gli psichiatri di ispirazione biologica farebbero
meglio a frequentare e fare congressi insieme agli psicote­
rapeuti di diverse tendenze, invece che con altri medici; i
loro legami privilegiati con i neurobiologi, essenzialmente
attraverso riviste scientifiche e congressi, costituiscono
solo una eccentrica corporazione, una strana alleanza, in
cui alla fin fine essi hanno ben poco da imparare.
Tutti i professionisti della psiche hanno qualcosa da
perdere a causa della mia tesi provocatrice, mentre tutti
hanno interesse a continuare la guerra che li vede in con­
flitto, ma che - in certo senso - garantisce delle zone di
tregua (oggi minacciate dalla diffusione degli psicotropi),
poiché permette di continuare a dividersi i pazienti. O
meglio ancora, a vederli ognuno per proprio conto, in
maniera «complementare».

La figura del buon prescrittore di farmaci

La piccola biologia non ha nessun ruolo importante


nella comprensione dei disturbi mentali. In effetti essa
non interferisce quando si tratta di decidere di quale
psicotropo prescrivere: serotonina, dopamina e noradre-
nalina non influiscono quando bisogna scegliere un anti­
depressivo per un particolare paziente. Ma la piccola bio­
logia ha temibili effetti perversi. Essa dà un fondamento
alla psichiatria biologica, che è invece illusoria. Essa se­
para lo psichiatra che usa psicotropi dagli altri psicotera-
GLI ANTIDEPRESSIVI SONO PSICOTERAPIA CONCENTRATA 141

peuti, lasciandogli credere di occupare un luogo privilegia­


to. Essa impedisce che altri utilizzino gli antidepressivi
senza doversi perciò definire come psichiatri biologici. Il
discorso sulla piccola biologia impedisce di formare prescrit­
tori intelligenti, capaci di inserirsi in tutti i dispositivi.
Forse bisognerà arrivare a non riservare la prescrizione
di psicofarmaci ai soli medici psichiatri o generici per
moltiplicare le fonti di invenzione, a recuperare la molte­
plicità e spezzare il legame perverso che lega la medicina
psichiatrica all’industria farmaceutica. Non sono gli psi­
cotropi a rendere misero il campo della psichiatria, ma il
discorso sulla piccola biologia, che li accompagna. L’illu­
sione per cui esisterebbe uno zoccolo duro di conoscenze
biologiche ha impedito la discussione di questioni im­
portanti. Così, la domanda: «Quali sono le qualità di un
buon prescrittore?» non è presa in considerazione oppure
si risponde come se si avesse a che fare con le patologie
per cui esistono testimoni affidabili. Invece il problema
deve essere posto diversamente nell’ambito psichiatrico,
dove i testimoni affidabili mancano e dove altre ragioni
devono motivare la decisione di prescrivere un antide­
pressivo piuttosto che un altro.
Essere un buon conoscitore della neurobiologia non
aiuta a prescrivere in modo giusto. La riflessione collet­
tiva sui motivi che inducono a prescrivere un certo tipo di
antidepressivi piuttosto che un altro è molto debole. La
prescrizione dello psichiatra (quasi sempre tre farmaci
almeno) richiede un'arte dei dosaggi, delle mescolanze e
la capacità di variarli talvolta assai rapidamente. Si tratta
di saperi specifici, che meriterebbero la creazione di am­
biti adatti, dove potrebbero essere discussi e trasmessi.
Alcuni saper-fare devono necessariamente essere colti­
vati, se vogliamo che migliorino. Lo statuto dato agli an­
tidepressivi dalla piccola biologia impedisce questo lavoro.
In certo senso, la versione universalizzante della biologia
e del corpo mentale, inscrivendo questo corpo in una
142 CAPITOLO DECIMO

natura universale, impedisce la realizzazione di proce­


dure o di dispositivi, che permetterebbero di «coltivare»
i saperi e i saper-fare che lo riguardano. Sarebbe molto
più fruttuoso considerare il corpo mentale come una
«costruzione», che ci definisce ma che non ha nulla di
universale a priori.
Attualmente, niente permette di valorizzare il sapere
tecnico sulla prescrizione sempre combinata di psico­
tropi, e si riconosce volentieri che i grandi psichiatri
sanno utilizzare in modo originale e mutevole le mesco­
lanze di psicotropi. Ma questo sapere tecnico provoca
disagio, perché evidenzia la mancata adeguazione tra la
cura con gli psicotropi e il sapere sottostante, che dà l’au­
torità per praticarla. Esso non può che restare margina-
lizzato e non pensato in tutte le sue dimensioni, perché
scalza la legittimità del discorso biologico.
II.

Che cosa fare della depressione?

Abbiamo visto, nel corso di tutto il libro, che ricerca­


tori e medici chiamavano biologia un insieme di proce­
dure, che in effetti servono solo a selezionare nuovi anti­
depressivi. La piccola biologia non ha potuto rivelare
nessuna causa della depressione. Cosa ancor più significa­
tiva, essa non è riuscita a stabilire la minima correlazione
tra un meccanismo biologico e la depressione. Non c’è al­
cuna possibilità ch’essa ci riesca, perché non è fatta per
questo, ma solo per rendere possibile l’invenzione di nuovi
psicotropi, in assenza di conoscenze biologiche. Con lo
shock dell’arrivo di psicotropi trovati a caso, l’orgogliosa
piccola biologia in compenso ha fatto emergere dall’in-
sieme chiamato disturbi mentali il mostro multiforme
della depressione. Se la psichiatria fosse davvero biologica,
non ci sarebbe spazio per un’epidemia di depressione.
Tutti gli attori della psichiatria biologica riconoscono
volentieri che non è stato trovato nulla che possa spiegare
un disturbo mentale e che gli antidepressivi sono usciti
tutti da un bricolage con gli strumenti perfezionati della
piccola biologia. Ma gli stessi attori, invece di trarne
tutte le conseguenze, si proiettano allora nel futuro per
spiegare che le scoperte verranno, nella via aperta dalla
piccola biologia. Non siamo d’accordo. Proprio l’articola­
zione tra le procedure d’invenzione empirica di nuovi
144 CAPITOLO UNDICESIMO

antidepressivi (la cui specificità appare solo nel corso


degli studi clinici) e questo discorso pseudoscientifico,
rende possibile l’epidemia di un nuovo disturbo mentale.
Tutte le patologie che si sviluppano in questa nicchia così
creata saranno chiamate «depressione», finché questa
diverrà un raggruppamento di comportamenti sempre più
eterogenei. L’epidemia di depressione è il frutto amaro di
una falsa psichiatria biologica che gioca agli apprendisti
stregoni. Abbiamo inventato un meccanismo che costruisce
l’epidemia di disturbi mentali come, a scala più ridotta,
avevano fatto Charcot e la sua scuola con l’isteria.
Le nostre proposte hanno lo scopo di vedere cosa suc­
cede quando non si crede più che la piccola biologia
abbia il diritto esclusivo di accompagnare la prescrizione
degli psicotropi, quando si ridà vita a tutte le spiegazioni
che la piccola biologia ha creduto di poter eliminare
facendosi passare per altro da quel che è, quando si con­
sidera che l’uomo «nuovo» definito dal suo «corpo men­
tale» non ha un diritto di esistere maggiore di tutti i
«vecchi uomini», che definivano in modo diverso il loro
male di vivere. Perché il problema è questo: se c’è stata
una rivoluzione, essa non somiglia al modo in cui viene
generalmente descritta.

Ritrovare tutte le cause

Nel corso del tempo, coloro che si sono occupati dei


disturbi mentali hanno sempre più nascosto le loro cause
nel paziente stesso. Due secoli fa gli inventori della psi­
chiatria hanno cominciato facendo sparire i «demoni»,
che perseguitavano le anime. Gli psicoanalisti hanno
definito uno spazio, che hanno chiamato psichismo. Ma
la parte più importante di questo cambiamento ha un
carattere molto pratico: la terapeutica doveva ormai inte­
ressarsi all’interiorità del paziente e distogliersi dalle cose
CHE COSA FARE DELLA DEPRESSIONE? 145

e dalle entità a lui esteriori. Questo cambiamento fonda-


mentale nella definizione stessa di ciò che è un essere
umano, delle maniere di trasformarlo, dei modi di gua­
rirlo, è stato vissuto come un progresso talmente grande
che tutti i tentativi di riscoprire le cause esteriori di un
disturbo mentale (come ha tentato di fare per esempio la
terapia familiare) non hanno avuto futuro.
La psichiatria detta biologica non ha rimesso in discus­
sione queste nuove definizioni. Gli psichiatri di orienta­
mento biologico affermano che i disturbi mentali sono
situati nei meccanismi neuronali, nei misteri della chi­
mica neuronaie, nei geni. La psichiatria biologica rifiuta
tendenzialmente ogni responsabilità di un terzo nella
nascita di un disturbo mentale. Le ricerche sulle cause
genetiche di un disturbo mentale rappresentano una con­
clusione ideale: la causa del male diviene più astratta del
punto di vista del paziente. Non c’è più un responsabile.
La psichiatria biologica ha liberato il paziente dalla pesan­
te catena di colpe proposta dalla psicoanalisi mantenendo
il privilegio deU’interiorità. È sicuramente una delle ra­
gioni del successo degli antidepressivi. Ma questo signi­
fica fare della biologia?
E lecito pensare che gli psicotropi conserverebbero il
loro interesse, se si smettesse di confondere la piccola
biologia che permette di inventarli con una causa final­
mente scoperta dei disturbi mentali. Gli psicotropi sareb­
bero allora scoperti in universi multipli e non più in
quello, mutilato e mutilante, della piccola biologia e del
corpo mentale.
C’è forse una chance da cogliere oggi, per non lasciarsi
più chiudere nella falsa alternativa psicoterapia/antide-
pressivi (che vivono ciascuno da parte propria sulla no­
zione di interiorità) e non restare ostaggi di una piccola
biologia che si fa passare per ciò che non è. Una parte
della psicologia riscopre con interesse l’importanza degli
aggressori e dei carnefici nei luoghi di lavoro e nella vita
146 CAPITOLO UNDICESIMO

di coppia. I terapeuti imparano a scoprire qual è la natura


degli attacchi di cui una persona è vittima e che la ren­
dono incapace di agire, dunque candidata alla depres­
sione, senza rinviarla al suo «conflitto intrapsichico».
In una serie di casi il paziente stesso può identificare
una o due persone che hanno l’intenzione di renderlo
malato. Questa persona o gruppo di persone devono esse­
re identificati per essere combattuti. Il caso del carnefice
torturatore è evidentemente l’esempio migliore: egli con­
tinua a divorare la sua vittima per molto tempo, anche se
non ha più contatti con lei. Ma non è sempre facile sco­
prire i responsabili di aggressioni. Alcuni dispositivi sono
costruiti in maniera tale che le vittime sono nell’impossi-
bilità di agire ed anche di indicare i responsabili. Questi
dispositivi sono costruiti in modo tale da poter funziona­
re a lungo in forma impersonale. In questo caso, la persona
aggredita sarà tanto più disposta a modellarsi secondo la
definizione della sua sofferenza proposta dalla depressio­
ne e a ritenersi l’unica responsabile di quel che le accade.
Un esempio molto concreto si può trovare nel funzio­
namento delle imprese. Una grande società di automobili
può creare un dispositivo di concorrenza interna tra le sue
diverse fabbriche in Europa o anche a livello mondiale:
quelle che non saranno produttive chiuderanno e licenzie­
ranno i propri operai. Ognuno, nella sua fabbrica, diviene
responsabile della sorte dell’insieme dei colleghi di lavoro
più vicini. Gli arresti del lavoro, le défaillances individuali
mettono a rischio la situazione complessiva di un gruppo
di salariati. In questo tipo di situazione, i collettivi sinda­
cali sono stati annientati; i salariati presi in una morsa
entrano in depressione in misura superiore al normale.
Alcuni salariati, non vedendo via d’uscita, possono suici­
darsi. I responsabili si nascondono dietro una logica che
pare imporsi da sé e rinvia solo alla natura anonima delle
decisioni. Non si vede che si tratta di un meccanismo, che
è stato pensato, organizzato, «formattato» per poter poi
CHE COSA FARE DELLA DEPRESSIONE? 147

funzionare quasi senza intervento attivo. È questo che


caratterizza il management moderno: bisogna riuscire a
convincere il dipendente che egli è il solo responsabile
della sua riuscita o del suo fallimento. Il management non
sogna altro che sistemi autoreferenziali. È quel che uno
specialista come Camille Desmarais chiama la «magia dei
metodi sistemici», in cui le nozioni di accerchiamento e
di retroazione dominano come nei sistemi magici.
Questa nuova fonte di sofferenze suscita interesse nei
pazienti e in un numero crescente di terapeuti. Essa
potrebbe creare legami inattesi tra gli psicoanalisti inte­
ressati dalla vita nelle fabbriche e nelle imprese e alla sof­
ferenza sul lavoro, e coloro che praticano l’etnopsichia-
tria, abituati a curare pazienti vittime di stregoneria. In
questi casi, gli etnopsichiatri hanno preso sul serio le spie­
gazioni tradizionali. Essi hanno deciso che la conoscenza
stava dalla parte dei pazienti e delle loro famiglie definiti
dai loro legami molteplici e che i terapeuti dovevano ap­
prendere le risorse molteplici inventate dalle culture di­
verse dalla nostra. Un tale incontro potrebbe segnare la
fine dell’interesse per la depressione, così come l’ha defi­
nita la piccola biologia, a vantaggio di nozioni nuove
come quella di harcèlement morale o, più in genere, di
aggressione. Si tratta evidentemente di un compito ri­
schioso. Ma per la prima volta dopo tanto tempo, sta
nascendo un modo nuovo di parlare dei disturbi mentali,
che non è la conseguenza della scoperta di un nuovo anti­
depressivo. Una volta tanto, l’industria farmaceutica non
è al posto di comando, all’origine dell’innovazione!
Ci si potrà ribattere che un discorso simile è un incorag­
giamento al delirio paranoico, che - secondo le testimo­
nianze di alcuni medici - già tocca alcune frange di pa­
zienti depressi, in particolare quelli di origine africana. Ma
dobbiamo anche pensare che l’accusa di paranoia è essa
stessa un prodotto deU’interiorizzazione, dell’ingiunzione
di attribuire all’intimità ogni problema. Perché la nostra
148 CAPITOLO UNDICESIMO

cultura ha designato come «paranoiche» le procedure men­


tali che rinviano all’esteriorità? La norma culturale occi­
dentale impone al soggetto di attribuire la causalità di tutti
gli eventi psichici all’intimità. Il paranoico, stigmatizzato
come malato, mostra per contrasto l’ideale del soggetto
psicanalitico: un soggetto intimo, separato dal mondo e
dalle relazioni, che si riferisce il meno possibile all’esterio­
rità (o in termini di causa o di responsabilità).

La minaccia del sociologismo

Un pericolo minaccia il metodo che privilegia i legami


grazie a cui il paziente si definisce e può resistere. La
nozione di stress potrebbe danneggiare tutto il lavoro di
rinnovamento realizzabile con una nozione come quella
di harcèlement morale.
Dire che la società con le sue ingiustizie e il suo freddo
funzionamento provoca depressioni sempre più nume­
rose, equivale a porre in questione la società e non le
ragioni per cui, in situazioni particolari, gli individui
adottano un certo atteggiamento e il motivo per cui que­
sto può diffondersi e generalizzarsi. Si evita così di inter­
rogarsi sul modo in cui i pazienti depressi sono concreta­
mente costruiti. Il salto che i sociologi ci propongono di
fare, dalla società presa come un tutto alla depressione
individuale, è troppo grande per essere credibile. Non
possiamo prendere come punto di partenza «la società»,
perché non sappiamo affatto come l’entità gigantesca che
chiamiamo in tal modo possa agire su individui determi­
nati. Parole come «surdeterminazione» o «contropar­
tita» sono troppo astratte e imprecise. «La società» non
può servire da spiegazione, perché è essa che bisogna
spiegare.
In compenso, la teoria di una società onnipotente co­
stituisce una catastrofe per l’anima degli individui. La
CHE COSA FARE DELLA DEPRESSIONE? 49

depressione non è la risposta alla moderna società depres­


siva. Essa è invece in simbiosi con l’idea di una società
che priva gli individui di ogni mezzo d’azione. Questa
credenza costituisce un fondo di pensiero efficace, che
prepara ogni individuo a reagire nel modo peggiore di
fronte a eventi vitali difficili. Essa insegna, per esempio,
ad associare «naturalmente» disoccupazione e depres­
sione, difficoltà familiari o sentimentali e depressione.
La credenza in una società che esiste al di fuori degli
individui e dei gruppi che la costituiscono fa parte della
definizione stessa di depressione! Essa è il fondamento
dell’impotenza, deU’incapacità ad agire che è al centro di
questa definizione di depressione: la fatica insuperabile, il
rallentamento, la perdita dell’autostima, la noia per ogni
attività, l’assenza di motivazioni, la valutazione pessimi­
sta del futuro, la perdita d’interesse, l’inibizione psicomo­
toria, la perdita dello slancio vitale, l’abolizione dell’ini-
ziativa, la scomparsa dell’attenzione per il mondo esterno,
la rassegnazione. Cosa c’è di più logico del pensiero di una
società come totalità, di fronte a cui ognuno è impotente?
S’è visto che il naturalismo, che accompagna la piccola
biologia, è la più grande catastrofe che abbia colpito la
psichiatria. Esso implica che i pazienti colpiti da un
disturbo mentale sono malati allo stesso titolo dei
pazienti che soffrono di una malattia infettiva. Questo
punto di vista «fabbrica» letteralmente i pazienti, perché
rafforza la loro convinzione di dover fronteggiare una
situazione sulla quale non hanno alcun potere, che non
dipende più da loro, né dal loro ambiente. Il sociologismo
ripete in modo più raffinato la catastrofe naturalista.
Sono due nemici che occorre combattere per scoprire le
premesse di una vera biologia.
Cercando di analizzare tutte le condizioni, che hanno
reso possibile l’epidemia di depressione, questo libro vuol
incoraggiare la ricerca di nuovi mezzi per combatterla, di
nuovi mezzi per riunire insieme tutti i terapeuti, senza
150 CAPITOLO UNDICESIMO

esclusioni, perché apprendano nuovi modi di lavorare


insieme. Poiché la depressione è ora un’epidemia, spetta
a tutti discutere sui modi migliori di proteggersi da essa.
I disturbi mentali e la loro definizione, la loro cura, gli
psicotropi e gli antidepressivi non sono questioni al di
fuori della politica.
Una vera biologia richiede di tener conto del modo di
«essere al mondo», allo stesso modo in cui la biologia de­
gli animali è priva di interesse se non riprende per suo
conto le ricerche degli etologi. Allora la piccola biologia
continuerà a esistere, ma come un piccolo dipartimento
del grande continente biologico; essa non avrà più la pre­
tesa di definirne le ambizioni e i limiti.
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