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❖ Simulazione
Entrambi i pazienti sono consapevoli rispetto a quello che fanno, ma il simulatore lo fa per un motivo
molto chiaro o per avere un benefit, un esempio classico è il soggetto che fingeva di avere una malattia
mentale (o altre malattie di vario genere anche neuro muscolari) per essere esonerato dal servizio
militare. Quindi gli individui affetti da disturbo da simulazione sono persone che producono
intenzionalmente un sintomo, possono anche causarsi delle lesioni (ci sono esempi anche di persone
che si producono delle ferite per poi cospargerle di terra o di escrementi per far sviluppare
un’infezione e un’infiammazione). In questo caso quindi ci sono dei motivi ben chiari, concreti per
cui si simula una malattia (es. evitare il servizio militare, ricevere dei sussidi economici, in alcuni
casi addirittura evitare una condanna penale).
[N.d.R. Estratto dal libro Professore (“Manuale di Psichiatria” di A. Rossi, M. Amore…) pag. 140:
“[…] è netta la distinzione tra disturbo fittizio e simulazione di malattia, in cui il soggetto produce i
sintomi in modo deliberato, ma sulla spinta di un guadagno esterno concreto (problemi di natura
legale, ottenimento di benefici collegati alla malattia, evitamento del servizio militare ecc…”.]
IPOCONDRIA
L’ipocondria nel DSM-IV è una diagnosi, mentre nel DMS-V viene divisa tra queste due condizioni:
1) Se sono presenti dei sintomi somatici e delle preoccupazioni, si va nella prima diagnosi
(disturbo da sintomi somatici);
2) Se è presente una componente di forte paura si va nella seconda diagnosi (disturbo da ansia
di malattia).
[N.d.R. Per chiarire un po’ il concetto riporto quanto citato dal libro di testo (pag. 135):
“L’ipocondria viene eliminata come categoria diagnostica nel DSM-V: viene stimato che il 75%
degli individui che soddisfacevano i criteri diagnostici per ipocondria può essere ricollocato
all’interno del disturbo da sintomi somatici, mentre il rimanente 25%, caratterizzato da
preoccupazioni riguardanti la saluta in assenza di sintomatologia fisica, rientra nel disturbo da ansia
di malattia.”]
L’ipocondria (“malato immaginario”), è un disturbo caratterizzato da una serie di situazioni in cui le
persone lamentano in maniera abbastanza continuativa dei sintomi fisici, che generalmente non sono
gravi ma bensì spesso fastidiosi. Spesso possono essere sintomi dolorosi, disturbi gastro-intestinali,
disturbi di tipo pseudo-neurologico come dei formicolii o delle sensazioni di bruciore/di calore alla
testa. Non sono sintomi molto preoccupanti, ma la persona si sente fortemente infastidita da questi
disturbi.
Le persone ipocondriache rappresentano sempre una sfida per il medico di famiglia e per il medico
internista perché occorre cercare di indirizzare il loro problema senza esacerbare i comportamenti di
malattia che caratterizzano questi pazienti (ansia, apprensione per la propria salute…). Di solito
l’ipocondria è un termine che può includere situazioni di diversa gravità: ci sono persone che in
momenti di stress, come ad esempio eventi della vita sfavorevoli (anche legati alla salute di un
familiare o della propria), possono sviluppare un atteggiamento ipocondriaco e avere una maggiore
preoccupazione nei confronti delle malattie (atteggiamento ipocondriaco). Di solito questo è un
fatto transitorio. L’ipocondria può arrivare in casi più gravi a livelli d’intensità così detta delirante,
cioè la persona può essere assolutamente convinta di avere una grave malattia e quindi può andare
incontro a comportamenti molto bizzarri (situazioni di psicosi).
CASO CLINICO
Nadia è una donna di 38 anni, è originaria dell’Europa dell’est, vive in Italia da 13 anni ed è sposata,
con un figlio. È una persona elegante, nel suo paese di origine si è laureata però non poteva usare il
titolo in Italia, si è “riciclata” lavorando in un negozio di arredamento (quindi il suo lavoro si basa
soprattutto sul ricevere clienti e dare loro consigli su come arredare casa). Ha sempre lavorato con
grande passione. Dopo qualche anno, lei ha dovuto abbandonare il lavoro perché ha avuto un linfoma,
quindi ha avuto una malattia con una diagnosi certa che è stata trattata con successo anche con
radioterapia. La radioterapia ha provocato una cistite da raggi: questi disturbi urinari piuttosto gravi
hanno portato la paziente a sviluppare un certo grado di incontinenza, e difficoltà a condurre la sua
vita come faceva prima. In una paziente del genere potremmo aspettarci come possibile reazione a
questa cistite il ritiro da ogni forma di coinvolgimento sociale, a causa dell’imbarazzo e della
vergogna. Successivamente Nadia sviluppa una sintomatologia dolorosa in sede addominale lombare.
Il dolore si è sviluppato nel corso del tempo, è difficile datarlo. Quando il professore l’ha vista la
prima volta, non aveva più il tumore da 5-6 anni, si sottoponeva a dei controlli periodici, ma non
faceva più radioterapia.
Quindi, col progredire del tempo, invece che migliorare gradualmente, la situazione va peggiorando.
Si sviluppa questo dolore molto forte, mal definito, che non ha una localizzazione chiara, ma è diffuso
in una regione piuttosto ampia. Durante il colloquio la paziente è molto polarizzata sul dolore:
essendo una visita psichiatrica potremmo aspettarci che parli di diversi disturbi; invece, parla quasi
esclusivamente di questo sintomo doloroso e delle sue conseguenze.
Ha molto male all’incirca un giorno su due, e nei giorni in cui accusa il dolore non riesce ad alzarsi
dal letto, in più ha molta ansia; quindi, anche durante i giorni in cui si sente bene, ha molta paura che
possa comparire il dolore, o comunque sa che più o meno entro il giorno dopo tornerà ad essere
costretta a letto. Nelle occasioni in cui riesce a distrarsi (ad esempio quando passa un fine settimana
al mare con un’amica) non riferisce dolore, passa un fine settimana piacevole senza problemi
particolari, e addirittura riesce a nuotare.
Non ha sintomi psicotici: l’umore è abbastanza in asse, non è depressa (infatti se un’amica stretta la
invita ad uscire ci va volentieri), di certo però ha una forte componente ansiosa, ha sempre paura di
stare male. La paziente racconta del periodo successivo alla radioterapia in modo molto angosciato.
Stava male, aveva paura che tornasse il tumore, era incontinente, aveva consultato numerosi
specialisti senza che nessuna delle terapie prescritte riuscisse a darle conforto. Poi probabilmente,
piano piano, la sua salute è migliorata e l’incontinenza è andata migliorando fino a scomparire quasi
del tutto; tuttavia, si è presentata poi questa sintomatologia dolorosa. Negli anni ha sviluppato un
abuso di analgesici e di benzodiazepine (questo poiché svariati medici le hanno prescritto
praticamente tutti gli antidepressivi possibili, ma senza risultati apprezzabili). [Questa paziente è stata
indirizzata dal professore proprio a causa dell’abuso di benzodiazepine e analgesici]
Gli analgesici oppiacei non fermano il dolore, la paziente li assume, anche in dosi superiori rispetto
al consentito, ma in certi giorni il dolore rimane insopportabile, tanto da farla rimanere a letto.
Analizzando questo caso notiamo alcuni elementi di cui abbiamo parlato la lezione scorsa:
o il passaggio graduale da una problematica somatica a una problematica che sembra di tipo
psicologico
o il rischio di abuso, che poi diventa a sua volta un problema collaterale
o il fatto che la somatizzazione nasce da un problema di salute precedente non nasce dal
nulla. Questa paziente è stata male, non è una malata immaginaria, quindi ha avuto una
malattia grave, ha subito un trattamento complesso, dal quale ha ottenuto effetti collaterali
importanti, e successivamente ha sviluppato questa sintomatologia particolare
Questa paziente rientra nel disturbo da sintomi somatici: ha un disturbo grave, è polarizzata sul
dolore, ha un disfunzionamento (circa un giorno su due non riesce a muoversi), il sintomo è comunque
fluttuante e varia anche in base alle circostanze ambientali: ad esempio, se passa una giornata
distraendosi fuori casa si sente meglio.
Disturbo da conversione
L’ultimo disturbo che rientra in questa classe è il disturbo da conversione (sintomi neurologici
funzionali).
La conversione è un termine che individua una particolare sintomatologia, non spiegabile, di origine
neurologica. Quindi in questa situazione, non parliamo più di sintomi dolorosi, gastrointestinali, o
altro, ma neurologici.
Sul piano psicologico questo
disturbo è stato a lungo
conosciuto, già dai tempi di
Freud, con il termine di isteria,
oggi in disuso soprattutto a causa
della sua connotazione puramente
femminile, mentre l’isteria non è
una patologia esclusiva del genere
femminile.
Oggi invece si parla di
conversione, con questo termine
si intende una via alternativa alla
somatizzazione: mentre nella somatizzazione il disagio viene incanalato verso organi viscerali, nella
conversine il disagio psicologico viene incanalato secondo il sistema nervoso centrale, nelle sue
componenti sensitive e/o motorie; quindi, rimane nell’ambito nostro SNC senza passare ai visceri.
Il disturbo da conversione si distingue in alcune tipologie, a seconda della sua presentazione clinica:
• alterazioni della funzione motoria: paresi, paralisi (ad esempio improvvisa paralisi di una
mano). Un esempio peculiare è quello del mutismo, in cui i pazienti affetti perdono la capacità
di parlare in assenza di un reale danno all’apparto della fonazione. [Da slide: altri sintomi
possono essere debolezza, movimento anomalo, sintomi riguardanti la deglutizione o
l’eloquio].
• alterazioni della funzione sensoriale: anestesie o ipoestesie. Caratteristica l’anestesia
completa della mano, detta anestesia a guanto. Ovviamente un’anestesia totale della mano è
un sintomo incongruo rispetto alla divisione metamerica dell’innervazione, al massimo
potremmo aspettarci l’anestesia in una sola metà della mano (visto che le due metà della mano
sono innervate da due nervi diversi dal punto di vista sensitivo). Un deficit del genere non
rispetta l’anatomia, e questo ci fa sospettare fortemente che ci sia un problema psicogeno alla
base.
• attacchi epilettiformi o altri episodi come pseudocrisi cataplettiche (In neurologia si era
parlato di “crisi psicogene”):
il professore ha un progetto di consulenza con i medici neurologi che lavorano sul sonno,
proprio per caratterizzare i casi di pseudo-cataplessia, ovvero pazienti che presentano
improvvisamente una perdita del tono muscolare, un afflosciamento, e cadono a terra.
I pazienti con pseudocrisi epilettiche potrebbero anche “buttarsi a terra” con degli aspetti
tonico-clonici, ma se durante la crisi svolgessimo un’analisi elettroencefalografica non
troveremmo nessun dato obiettivabile con cui poter fare diagnosi (di epilessia).
L’ultimo aspetto che caratterizza i pazienti affetti da questo disturbo, che appare abbastanza
incongruo, è l’atteggiamento di indifferenza. Nonostante il paziente riferisca una paralisi, non riesca
a camminare, parlare, o manifesti episodi simili a crisi epilettiche, non appare affatto preoccupato o
ansioso, ma rimane in un atteggiamento detto di “belle indifference” (secondo come i francesi
chiamavano questo atteggiamento), ovvero non appare particolarmente “toccato” dalla sua
condizione [“Belle indifference”: assenza di congrua preoccupazione riguardante il deficit
presentato].
In questi casi può essere molto importante un collegamento con lo specialista. Può risultare utile
inviare questo paziente a fare consulenze e visite specialistiche, eventualmente anche dallo psichiatra,
ma queste visite devono essere sempre correlate a una richiesta molto chiara e precisa (es. se lo si
invia da un gastroenterologo: “escludere gastrite”, oppure, se lo inviamo allo psichiatra: “escludere
stato depressivo”). Più la richiesta del medico di medicina generale è chiara e più il paziente, leggendo
la ricetta, capisce cosa vuole il medico, più la refertazione dello specialista sarà orientata rispetto a
questa richiesta, così da evitare il cosiddetto fenomeno del “doctor-shocking”: una specie di
“pellegrinaggio” tra numerosissimi specialisti senza mai ottenere nuove informazioni utili e senza
mai riuscire a risolvere il problema.
In ultimo, il medico di medicina generale dovrebbe fornire delle informazioni di base, chiare, al
paziente. Ad esempio, si potrebbe spiegare al paziente che a volte accade che un disagio psicologico
sia espresso sul piano somatico, infatti, anche se questo sembra un concetto banale per un medico,
non lo è affatto per molti pazienti, secondo loro un sintomo fisico è solo ed esclusivamente
un’espressione di malattia fisica. Potrebbe apparire poco utile, ma in realtà, esplicitare al paziente il
fatto che i sintomi di natura fisica possono essere prodotti da un disagio psicologico sottostante,
è un’operazione fondamentale.
Il meccanismo della somatizzazione in effetti è estremamente comune in svariate situazioni,
soprattutto nei bambini; quindi, non significa etichettare il paziente come “pazzo”. Se un paziente ha
qualche risorsa in più (cioè se ci troviamo di fronte a un paziente che ci sembra che possa
comprendere anche dei concetti un po’ più complessi ed elaborati) possiamo anche spingerci oltre,
per esempio spiegandogli che distinguiamo il corpo in tanti apparati per una comodità pratica, ma in
realtà siamo un tutt’uno, dunque una sofferenza o uno stress non potrà che avere una correlazione
fisica. Siamo esseri fisici, “fatti di carne”, e la risposta allo stress è unica, già ai tempi dell’uomo
primitivo, di fronte a ferite o nel caso di un’infezione da contrastare, l’organismo sviluppava una
reazione che serviva a coagulare il sangue, eliminare i patogeni ecc. Questo è il nostro modo di
rispondere allo stress, e avremo le stesse reazioni sia di fronte a stress di natura fisica, sia
psicologica. Per rispondere a trauma, un evento psicologico stressante, o uno stato depressivo
cronico, il nostro organismo ha sempre un aumento delle citochine pro-infiammatorie. Quindi non
c’è una via diversa a seconda del tipo di stress (fisico o psicologico), ma il nostro corpo funziona
sempre alla stessa maniera: siamo un unico corpo, anche se nella pratica clinica distinguiamo
patologie fisiche, internistiche, mentali e via dicendo.
Ci sono diversi suggerimenti e provvedimenti igienici (simili ai comportamenti attuati da ogni
individuo, per rilassarsi, quando si trova sotto stress) che possiamo consigliare ai pazienti che hanno
una somatizzazione marcata:
o Attività sportiva leggera, svolta con regolarità, può bastare anche una semplice passeggiata
(l’entità dell’attività sportiva dipende in base alle capacità dell’individuo).
o Tecniche di rilassamento come la respirazione profonda, meditazione (oggi esistono
tantissimi tutorial a riguardo e spesso sono delle metodiche che possono essere svolte da
qualsiasi persona in quanto molto semplici).
o Dormire regolarmente: una persona stressata può avere tendenza a rimanere sveglia di notte,
creando così ulteriori ripercussioni sul piano fisico. Oltre a una buona igiene del sonno, se
necessario si può sfruttare qualche trattamento psicofarmacologico, vista l’importanza di
avere un sonno regolare.
Nel lungo periodo gestire queste persone può essere molto faticoso e stancante, anche se sono pazienti
che possono non avere patologie gravissime.
Ci sono casi in cui risulta utile, anzi necessario, l’invio del paziente allo psichiatra, ma si deve
sempre ricordare che è necessario avere una richiesta chiara e specifica, mai vaga, di modo che il
paziente non rischi di sentirsi “scaricato”, che capisca che si tratta solo di una parte della sua
assistenza e che non stiamo cercando di “liberarci” di lui. L’invio allo psichiatra può essere utile
anche al medico, per avere un confronto e ragionare sul caso con il punto di vista di uno specialista.
La consultazione riguardo ai casi clinici è estremamente utile, anche se purtroppo concretamente si
pratica veramente poco. Il Prof informa che a Bologna la divisione psichiatrica mette a disposizione
la possibilità di fare consultazioni di questo tipo attraverso una linea telefonica o via mail, anche
senza vedere il paziente, ma (ripete) è un sistema ancora poco sviluppato.
Se comunque il paziente arriva allo specialista psichiatrico, lo psichiatra, oltre a usare gli strumenti e
i provvedimenti che abbiamo già nominato, potrà usare:
❖ un approccio psicofarmacologico: se il paziente ha alti livelli di ansia e depressione, e quindi
somatizzazione, può essere indicata una terapia antidepressiva. Alcuni antidepressivi hanno
anche effetti sul dolore, specialmente gli antidepressivi triciclici (l’amitriptilina viene usata
spesso per l’emicrania). In questo caso non parliamo di analgesici in senso classico, ma si
tratta di farmaci che modulano le afferenze sensitive (nocicettive) dalla periferia al SNC, e
quindi possono ridurre in qualche modo la sensazione di dolore. I migliori sono i triciclici o
anche i cosiddetti antidepressivi a doppia azione, cioè che hanno azione sia sul sistema
serotoninergico che noradrenergico. Vari studi hanno dimostrato che alcuni antidepressivi
hanno effetto positivo sul colon irritabile, o in generale sulle somatizzazioni gastrointestinali,
per cui questi farmaci hanno un effetto sia su alti livelli di ansia e depressione, sia su alcuni
aspetti della somatizzazione.
Anche alcuni antiepilettici sono stati usati contro il dolore, tra cui il gabapentin, e anche
alcuni farmaci antipsicotici, come l’olanzapina e le benzamidi, sono molto usati nelle
somatizzazioni. Alcuni farmaci antipsicotici vengono usati anche per il singhiozzo
incoercibile e per il vomito; quindi, hanno anche un’azione (mio)rilassante sull’apparato
gastrointestinale. Anche i procinetici possono avere struttura simile agli antipsicotici. Bisogna
quindi considerare che tutti questi medicinali possono avere degli effetti rilevanti.
Viene invece sconsigliato l’utilizzo di sedativi ipnotici, soprattutto per lunghi periodi, se
necessario si può fare un ciclo di ipnotico purché sia di breve durata. Infatti, le persone che
soffrono di somatizzazione, spesso hanno alti livelli di ansia e sono a rischio altissimo di
sviluppare un inadeguato utilizzo o addirittura abuso di benzodiazepine.
Ci sono casi in cui i sedativi ipnotici non solo sono utili, ma addirittura necessari: di fatto se
una persona non ristora il corretto ritmo sonno-veglia faticherà a migliorare sia dal punto di
vista della depressione e dell’ansia, sia della somatizzazione, tuttavia è fondamentale ricordare
che quando si prescrive un farmaco ipnotico bisogna sempre determinare la durata del
trattamento (non si deve MAI dimenticare questo aspetto), altrimenti si rischia che il paziente
rinnovi la ricetta, e vada poi incontro ad abuso.
Molto spesso questi pazienti sono molto sensibili agli effetti collaterali dei farmaci, anche i farmaci
normalmente ben tollerati potrebbero dare dei problemi, solitamente comunque la regola generale è
quella di titolare i farmaci molto gradualmente, e, se possibile, utilizzare le terapie in gocce, così da
poterle graduare in maniera molto stretta.
❖ un approccio psicoterapeutico: storicamente i somatizzatori sono sempre stati un po'
trascurati. In realtà sia la psicoterapia psicanalitica sia quella psicodinamica sono nate per i
casi di nevrosi e isteria, quindi casi di forte somatizzazione ansiosa; tuttavia, nel tempo si è
diffusa la teoria secondo cui questi pazienti sono resistenti ai trattamenti psicologici. Il prof
però non è d’accordo con questa credenza (infatti la psicoanalisi nel suo sviluppo si è basata
proprio su questi casi). [Cfr. sbobina n°1 di Psicologia Clinica]
❖ approcci cognitivo-comportamentali.
Il prof preferisce soffermarsi sugli aspetti eziopatogenetici del disturbo e non si addentra in
questo argomento, poiché ritiene che sarà ben approfondito dal professore di Psicologia
Clinica.
Nella prossima lezione inizieremo a parlare dei disturbi dell’umore e della patologia depressiva.