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Lezione n°2 del: 18/10/2021

Sbobinatori: Giovanni Lafratta, Bianca Pagliacci


Revisionatore: Camilla Mazzoni
Docente: Prof. Marco Menchetti
Argomenti: Elementi di psichiatria nelle cure primarie, disturbo fittizio, simulazione, ipocondria,
disturbi da sintomi somatici e disturbi correlati, comportamenti del MMG con pazienti psichiatrici
Il Prof inizia la lezione ricordando quanto detto nella lezione precedente.
La volta scorsa abbiamo parlato dell’importanza dei disturbi mentali per quanto riguarda il medico
di medicina generale e il medico di medicina interna, delle comorbidità e dei sintomi fisici
inspiegabili. Abbiamo proposto un modello per valutare quanto questi sintomi siano espressione di
qualcosa che abbiamo chiamato “somatizzazione”: espressione di sintomi somatici che invece sono
causati da un disagio di tipo mentale, psichico.
Qui (a lato)
abbiamo uno
specchietto
dedicato al medico
non specialista su
come valutare
questo tipo di
sintomi.
La volta scorsa
abbiamo parlato di
sintomi che non
hanno una chiara
origine organica.
Come evince da
questa slide il medico dovrebbe fare attenzione a evitare principalmente due comportamenti:
- Prima di tutto dovrebbe cercare di evitare di effettuare numerosi esami fisici e strumentali per
paura di aver “perso” una diagnosi importante;
- Dall’altro lato è importante non fare l’errore opposto: nel caso, ad esempio, arrivi un paziente
che ci sembra un po’ ansioso, in condizioni di disagio, magari anche con qualche problema
sociale e/o socioeconomico; si dovrebbe evitare di “etichettare” immediatamente eventuali
sintomi fisici dei quali non si riesce a dare una spiegazione (con esami di routine nella norma),
come manifestazioni di ansia senza approfondire adeguatamente il caso.
Se una persona invece ha la cosiddetta somatizzazione, va valutata attentamente (in quanto può
essere utile per la gestione a lungo termine). È importante non ripetere troppi esami alla ricerca di
qualcosa perché per il paziente un atteggiamento di questo tipo potrebbe generare la consapevolezza
di avere un problema reale. Il paziente potrebbe pensare che il medico sospetti qualcosa e questo
condiziona anche i suoi pensieri: “ho fatto una lastra e non si vede nulla, magari se la rifacciamo tra
tre mesi si vede qualcosa”. Questo potrebbe far arrivare al punto in cui, pur non avendo un reale
problema fisico, il paziente ha la cognizione che al prossimo esame potrebbe emergere qualcosa che
potrebbe confermare la presenza di una malattia.
Oltre al pz, anche il medico non deve aver paura di aver perso una malattia grave. Purtroppo, nella
nostra epoca spesso anche i medici hanno paura di perdere un tumore in fase iniziale, quindi hanno
paura di poter avere delle conseguenze legali.
In un processo diagnostico adeguato, si dovrebbero escludere bene alcune diagnosi: si possono
prendere in considerazione sia malattie rarissime che conosciamo appena, sia quelle più comuni (è
importante sicuramente prima di tutto escludere le diagnosi alternative più probabili, senza invece
andare a pensare immediatamente a delle malattie rare e poco note). Dopo aver escluso la presenza
di cause organiche, possiamo usare degli strumenti che ci possono supportare per valutare il disagio
ansioso, depressivo e la somatizzazione [N.d.R. Questi strumenti sono presenti sul sito consigliato
dal professore: https://www.phqscreeners.com/. Ad esempio, per la depressione si usa il PHQ-9 e
per la somatizzazione il PHQ-15].
Ci sono delle malattie rarissime come la porfiria, si tratta di una malattia che viene esacerbata
dall’esposizione alla luce
per cui una persona
accumula delle sostanze e
in seguito, se si espone alla
luce c’è una reazione
chimica che dà origine ai
sintomi. È una malattia
rarissima (il prof non ha
mai visto questi casi) ed è
conosciuta come una rarissima malattia complessa con rappresentazioni bizzarre.
[N.d.R. Da Internet https://www.osservatoriomalattierare.it/malattie-rare/porfiria: “Il
termine porfiria definisce un eterogeneo gruppo di malattie metaboliche rare dovute ad un deficit di
uno degli enzimi della biosintesi dell'eme (o gruppo eme), un complesso chimico membro di una
famiglia di composti chiamati porfirine. Tali deficit provocano un accumulo dannoso di porfirine, e
di loro precursori, nel fegato e nel midollo osseo. Le porfirie vengono essenzialmente classificate
in epatiche o eritropoietiche, a seconda della locazione principale dell'anomalia metabolica
sottostante. Si tratta di condizioni che sono caratterizzate da sintomi neurologici (attacchi
neuroviscerali), da lesioni cutanee dovute a fotosensibilità o dalla combinazione di questi due tipi di
manifestazioni.”]
La scrittrice Isabel Allende scrisse un libro su sua figlia che era affetta da questa forma (porfiria) e
per tanti anni andò in giro per ospedali dove la sua malattia non veniva diagnosticata, così veniva
considerata una malata immaginaria, ma in realtà la diagnosi non venne fatta. Questi sono dei casi
rarissimi. Ci sono malattie che possono avere presentazioni strane e atipiche che rendono molto
difficile le diagnosi ragionevoli, ma una volta escluse, possiamo avere di fronte un paziente con
somatizzazione.
DISTURBO FITTIZIO E SIMULAZIONE
La simulazione e il disturbo fittizio sono entrambi intenzionali. La differenza fondamentale riguarda
la motivazione.

❖ Simulazione
Entrambi i pazienti sono consapevoli rispetto a quello che fanno, ma il simulatore lo fa per un motivo
molto chiaro o per avere un benefit, un esempio classico è il soggetto che fingeva di avere una malattia
mentale (o altre malattie di vario genere anche neuro muscolari) per essere esonerato dal servizio
militare. Quindi gli individui affetti da disturbo da simulazione sono persone che producono
intenzionalmente un sintomo, possono anche causarsi delle lesioni (ci sono esempi anche di persone
che si producono delle ferite per poi cospargerle di terra o di escrementi per far sviluppare
un’infezione e un’infiammazione). In questo caso quindi ci sono dei motivi ben chiari, concreti per
cui si simula una malattia (es. evitare il servizio militare, ricevere dei sussidi economici, in alcuni
casi addirittura evitare una condanna penale).
[N.d.R. Estratto dal libro Professore (“Manuale di Psichiatria” di A. Rossi, M. Amore…) pag. 140:
“[…] è netta la distinzione tra disturbo fittizio e simulazione di malattia, in cui il soggetto produce i
sintomi in modo deliberato, ma sulla spinta di un guadagno esterno concreto (problemi di natura
legale, ottenimento di benefici collegati alla malattia, evitamento del servizio militare ecc…”.]

❖ Disturbo fittizio (Sindrome di Münchausen)


Nel disturbo fittizio questo motivo non è così palese, la persona commette queste cose ma non è a
ricerca di soldi o di esoneri, lo fa per ottenere l’attenzione. Dunque, è una persona che compie gli
atti consapevolmente ma che ha un bisogno (la necessità di ricevere costanti attenzioni) che potrebbe
anche non essere completamente consapevole [N.d.R. il paziente attua certi comportamenti ma non
è totalmente cosciente del motivo per cui lo fa, le motivazioni sono spesso inconsce (vedi anche
sbobina 1 Psicologia clinica quando si parla delle “motivazioni inconsce”)]. Alcune persone si
sentono gratificate dall’attenzione dei medici, altre persone possono essere addirittura stimolate,
eccitate dal subire delle procedure mediche. Quindi nel disturbo fittizio la persona esprime dei bisogni
psicologici ovviamente alterati, ma non vuole cose materiali, pratiche.
[N.d.R. Riporto un estratto dal libro di testo consigliato dal Professore (“Manuale di Psichiatria” di
A. Rossi, M. Amore…), pag. 139, riguardante il disturbo fittizio. “Tale produzione di sintomi, che
appare intenzionale e quindi soggetta a un’attività volontaria, avviene in assenza di incentivi esterni
e appare finalizzata all’assunzione del ruolo di malato. […] È possibile osservare una differente
gravità nei casi presentati: da situazioni più lievi in cui è presente un’amplificazione o la creazione
di alcuni sintomi, finalizzata ad esempio a ricevere accudimento, fino a forme gravi in cui si osserva
un’imponente falsificazione della sintomatologia con vere e proprie peregrinazioni da un ospedale o
da uno specialista all’altro, associate a pseudologia fantastica; normalmente è a quest’ultima
condizione che si riserva la denominazione di Sindrome di Münchausen.” […] “il soggetto è
consapevole della falsificazione che mette in atto, ma è incapace di astenersene.”]
Il disturbo fittizio può essere di due tipi:
o La persona può provocarlo a sé stessa (disturbo fittizio provocato a sé);
o Oppure una persona può provocarlo ad altri (disturbo fittizio provocato ad altri).
Generalmente sono dei genitori provocano sintomi nei figli per ottenere attenzione proprio
tramite la malattia del figlio.
Il Prof. parla di un caso descritto in letteratura in cui una madre, somministrando al figlio di
7-8 anni insulina e zucchero in quantità importanti, lo portava continuamente in ospedale
(PS) o perché delle ipoglicemie (N.d.R. da somministrazione di insulina) o per delle
iperglicemie (da somministrazione di zucchero). I medici per molto tempo hanno pensato che
questo bambino avesse una rarissima sindrome metabolica di discontrollo della glicemia,
dunque il caso era stato pluri-studiato, erano state fatte moltissime indagini. Questo si era
riflettuto poi su un importante riversarsi di attenzioni sia sul bambino che anche sulla madre
aveva ottenuto una attenzione continua dai medici. La donna aveva anche ricevuto attenzioni
dal punto di vista “emotivo”: veniva consolata, supportata, le chiedevano se avesse bisogno
di qualcosa, cercavano in tutti i modi di sostenerla e questo rinforzava la sua determinazione
nel continuare questa condotta.
Il disturbo fittizio, dunque, è una condizione che dovrebbe sempre essere presa in considerazione
e in alcune casi può portare anche ad esiti gravi. C’è infatti un altro caso descritto dagli psichiatri di
Modena di un paziente che a furia di provocarsi dei sintomi e di sottoporsi ad interventi chirurgici,
dopo molteplici di questi interventi chirurgici effettuati in un breve lasso di tempo, ha avuto una morte
improvvisa verosimilmente determinata dagli stress derivanti dagli interventi e dalle molteplici
anestesie. Queste sono situazioni rare, estreme ma da considerare in caso di somatizzazioni
inspiegabili.

CLASSIFICAZIONE DEI DISTURBI DA SINTOMI SOMATICI


Nel DSM-V la
classificazione di
questi disturbi è
stata molto
cambiata in quanto
la classificazione
precedente nel
DSM-IV
denominava questi
disturbi come
“disturbi
somatoformi” ed
era considerata
come una
classificazione
particolarmente
inefficiente, tanto
che non la usavano
nemmeno gli psichiatri “figuriamoci se la usavano gli altri medici”.
Nel DMS-V la classificazione è stata un po’ semplificata, nel DSM-IV si puntava molto all’assenza
di una spiegazione organica; quindi, in qualche modo i disturbi somatoformi erano classificati e
definiti in negativo. Erano delle sindromi con dei sintomi ma non c’era causa organica (DSM-IV).
Per fare diagnosi di disturbo di somatizzazione c’erano dei criteri molto complicati: bisognava avere
quattro sintomi dolorosi in quattro distretti diversi (es. cervicalgia, lombalgia, dolori
addominali…) oppure due sintomi gastrointestinali e uno pseudo-neurologico. Era una lista molto
difficile da usare. Se una persona non aveva tutta questa sfilza di sintomi si parlava di un disturbo
somatoforme indifferenziato, quindi questa classificazione era molto inefficiente (poco precisa).
[N.d.R. Dal libro di testo (“Manuale di psichiatria” pag. 135): “L’impostazione del DSM-IV ha
ricevuto numerose critiche: la scarsa validità nel diagnosticare un disturbo basandosi sulla
mancanza di riscontro di una malattia somatica […]. Con il DSM-V si pone l’accento sulla
sintomatologia positiva: vengono definiti diagnostici i sintomi somatici che causano disagio
significativo e associati a comportamenti, pensieri e sentimenti disfunzionali in loro risposta; passa
in secondo piano l’assenza di una plausibile spiegazione medica.”]
Nella nuova classificazione del DMS-V si cerca di passare “al positivo”, quindi al fatto che queste
sindromi causavano una significativa sofferenza nelle persone ed un significativo
disfunzionamento. I pazienti, dunque, non vengono più caratterizzati solamente dal fatto che
presentano sintomi che non hanno una sottostante una causa organica, ma entrano in gioco anche
l’emotività, comportamenti e atteggiamenti.
La vera diagnosi
Per fare diagnosi (secondo quanto descritto nel DSM-V) è sufficiente che ci sia un sintomo
disturbante [N.d.R. Secondo il DSM-V: “Uno o più sintomi somatici che procurano disagio o
portano ad alterazioni significative della vita quotidiana. […] Sebbene possa non essere
continuativamente presente alcuno dei sintomi, la condizione di essere sintomatici è persistente
(tipicamente da più di 6 mesi).”], non serve una lista, basta che la persona abbia un sintomo somatico
disturbante, chiaramente senza una spiegazione (senza una causa organica).
In questo tipo di classificazione rientrano:
- il disturbo da sintomi somatici;
- il disturbo da ansia di malattia;
- il disturbo da conversione.

Disturbo da sintomi somatici


Il disturbo da sintomi somatici è la presenza di almeno un sintomo somatico che procura paure
persistenti, disfunzionali, un forte livello di ansia e preoccupazione. La persona finisce per spendere
molto tempo e molte energie per capire di cosa soffre; quindi, il pz va spesso dal proprio medico di
famiglia, chiede degli esami, svolge gli esami che generalmente risultano negativi, ma questa persona
sente ancora dei fastidi (percepisce ancora i sintomi che lamentava inizialmente) e quindi continua a
essere in stato di apprensione e continua a richiedere ancora esami ed esami. Di solito per fare queste
diagnosi occorrono dei periodi lunghi di almeno un semestre, quindi situazioni che siano consolidate.
Bisogna specificare se il sintomo è un sintomo doloroso (si deve fare dunque una distinzione tra
sintomi somatici generali e sintomi dolorosi).

Disturbo d’ansia di malattia


Il disturbo d’ansia di malattia è più qualcosa che viene descritto più sullo stato d’animo. La persona
in questo caso non ha dei sintomi somatici importanti, nel caso in cui siano presenti, sono lievi e poco
disturbanti, ma la persona è costantemente preoccupata di avere una malattia fisica. Anche in
questo caso si possono verificare dei comportamenti di eccessiva richiesta ai sanitari o ai familiari
per l’effettuazione di esami clicini-strumentali, visite…. C’è una variante di persone affette da
disturbo d’ansia di malattia che invece di fare più richieste, invece di chiedere aiuto al medico, tende
invece ad avere una paura tale che evita qualsiasi contatto con i medici. Questa variante è minoritaria
ed è composta da persone che hanno forte ansia per la salute, hanno timore di avere una malattia e si
chiudono (hanno un comportamento evitante), non fanno neanche alcuni accertamenti indispensabili
o controlli regolari.
[N.d.R. Dal libro di testo (“Manuale di psichiatria” pag. 137) un estratto riguardante il disturbo
d’ansia di malattia: “[…] Nei criteri diagnostici vengono illustrate due modalità con cui tali
individui rispondono alla preoccupazione: l’evitamento dei controlli medici o delle strutture sanitari
(pazienti evitanti l’assistenza medica) e la presenza di comportamenti eccessivi associati alla
malattia come, ad esempio, ripetuti controlli del proprio corpo al fine di individuare eventuali
anomalie e richiesta di numerose visite (pazienti richiedenti l’assistenza medica). […] Come per il
disturbo da sintomi somatici, le attenzioni mediche ricevute in termini di visite o esami hanno spesso
come risultato l’aumento della sintomatologia ansiosa piuttosto che una sua risoluzione; i pazienti
si mostrano frequentemente insoddisfatti delle risposte ottenute e quindi tendono a rivolgersi a più
specialisti.”]
Queste due tipologie di persone in qualche modo riflettono il concetto di ipocondria.
L’ipocondria è un vecchissimo termine usato per designare i cosiddetti “malati immaginari” (vedi
appena sotto “IPOCONDRIA”).

Disturbo da conversione (trattato più avanti nella sbobina)

IPOCONDRIA
L’ipocondria nel DSM-IV è una diagnosi, mentre nel DMS-V viene divisa tra queste due condizioni:
1) Se sono presenti dei sintomi somatici e delle preoccupazioni, si va nella prima diagnosi
(disturbo da sintomi somatici);
2) Se è presente una componente di forte paura si va nella seconda diagnosi (disturbo da ansia
di malattia).
[N.d.R. Per chiarire un po’ il concetto riporto quanto citato dal libro di testo (pag. 135):
“L’ipocondria viene eliminata come categoria diagnostica nel DSM-V: viene stimato che il 75%
degli individui che soddisfacevano i criteri diagnostici per ipocondria può essere ricollocato
all’interno del disturbo da sintomi somatici, mentre il rimanente 25%, caratterizzato da
preoccupazioni riguardanti la saluta in assenza di sintomatologia fisica, rientra nel disturbo da ansia
di malattia.”]
L’ipocondria (“malato immaginario”), è un disturbo caratterizzato da una serie di situazioni in cui le
persone lamentano in maniera abbastanza continuativa dei sintomi fisici, che generalmente non sono
gravi ma bensì spesso fastidiosi. Spesso possono essere sintomi dolorosi, disturbi gastro-intestinali,
disturbi di tipo pseudo-neurologico come dei formicolii o delle sensazioni di bruciore/di calore alla
testa. Non sono sintomi molto preoccupanti, ma la persona si sente fortemente infastidita da questi
disturbi.
Le persone ipocondriache rappresentano sempre una sfida per il medico di famiglia e per il medico
internista perché occorre cercare di indirizzare il loro problema senza esacerbare i comportamenti di
malattia che caratterizzano questi pazienti (ansia, apprensione per la propria salute…). Di solito
l’ipocondria è un termine che può includere situazioni di diversa gravità: ci sono persone che in
momenti di stress, come ad esempio eventi della vita sfavorevoli (anche legati alla salute di un
familiare o della propria), possono sviluppare un atteggiamento ipocondriaco e avere una maggiore
preoccupazione nei confronti delle malattie (atteggiamento ipocondriaco). Di solito questo è un
fatto transitorio. L’ipocondria può arrivare in casi più gravi a livelli d’intensità così detta delirante,
cioè la persona può essere assolutamente convinta di avere una grave malattia e quindi può andare
incontro a comportamenti molto bizzarri (situazioni di psicosi).
CASO CLINICO
Nadia è una donna di 38 anni, è originaria dell’Europa dell’est, vive in Italia da 13 anni ed è sposata,
con un figlio. È una persona elegante, nel suo paese di origine si è laureata però non poteva usare il
titolo in Italia, si è “riciclata” lavorando in un negozio di arredamento (quindi il suo lavoro si basa
soprattutto sul ricevere clienti e dare loro consigli su come arredare casa). Ha sempre lavorato con
grande passione. Dopo qualche anno, lei ha dovuto abbandonare il lavoro perché ha avuto un linfoma,
quindi ha avuto una malattia con una diagnosi certa che è stata trattata con successo anche con
radioterapia. La radioterapia ha provocato una cistite da raggi: questi disturbi urinari piuttosto gravi
hanno portato la paziente a sviluppare un certo grado di incontinenza, e difficoltà a condurre la sua
vita come faceva prima. In una paziente del genere potremmo aspettarci come possibile reazione a
questa cistite il ritiro da ogni forma di coinvolgimento sociale, a causa dell’imbarazzo e della
vergogna. Successivamente Nadia sviluppa una sintomatologia dolorosa in sede addominale lombare.
Il dolore si è sviluppato nel corso del tempo, è difficile datarlo. Quando il professore l’ha vista la
prima volta, non aveva più il tumore da 5-6 anni, si sottoponeva a dei controlli periodici, ma non
faceva più radioterapia.
Quindi, col progredire del tempo, invece che migliorare gradualmente, la situazione va peggiorando.
Si sviluppa questo dolore molto forte, mal definito, che non ha una localizzazione chiara, ma è diffuso
in una regione piuttosto ampia. Durante il colloquio la paziente è molto polarizzata sul dolore:
essendo una visita psichiatrica potremmo aspettarci che parli di diversi disturbi; invece, parla quasi
esclusivamente di questo sintomo doloroso e delle sue conseguenze.
Ha molto male all’incirca un giorno su due, e nei giorni in cui accusa il dolore non riesce ad alzarsi
dal letto, in più ha molta ansia; quindi, anche durante i giorni in cui si sente bene, ha molta paura che
possa comparire il dolore, o comunque sa che più o meno entro il giorno dopo tornerà ad essere
costretta a letto. Nelle occasioni in cui riesce a distrarsi (ad esempio quando passa un fine settimana
al mare con un’amica) non riferisce dolore, passa un fine settimana piacevole senza problemi
particolari, e addirittura riesce a nuotare.
Non ha sintomi psicotici: l’umore è abbastanza in asse, non è depressa (infatti se un’amica stretta la
invita ad uscire ci va volentieri), di certo però ha una forte componente ansiosa, ha sempre paura di
stare male. La paziente racconta del periodo successivo alla radioterapia in modo molto angosciato.
Stava male, aveva paura che tornasse il tumore, era incontinente, aveva consultato numerosi
specialisti senza che nessuna delle terapie prescritte riuscisse a darle conforto. Poi probabilmente,
piano piano, la sua salute è migliorata e l’incontinenza è andata migliorando fino a scomparire quasi
del tutto; tuttavia, si è presentata poi questa sintomatologia dolorosa. Negli anni ha sviluppato un
abuso di analgesici e di benzodiazepine (questo poiché svariati medici le hanno prescritto
praticamente tutti gli antidepressivi possibili, ma senza risultati apprezzabili). [Questa paziente è stata
indirizzata dal professore proprio a causa dell’abuso di benzodiazepine e analgesici]
Gli analgesici oppiacei non fermano il dolore, la paziente li assume, anche in dosi superiori rispetto
al consentito, ma in certi giorni il dolore rimane insopportabile, tanto da farla rimanere a letto.
Analizzando questo caso notiamo alcuni elementi di cui abbiamo parlato la lezione scorsa:
o il passaggio graduale da una problematica somatica a una problematica che sembra di tipo
psicologico
o il rischio di abuso, che poi diventa a sua volta un problema collaterale
o il fatto che la somatizzazione nasce da un problema di salute precedente non nasce dal
nulla. Questa paziente è stata male, non è una malata immaginaria, quindi ha avuto una
malattia grave, ha subito un trattamento complesso, dal quale ha ottenuto effetti collaterali
importanti, e successivamente ha sviluppato questa sintomatologia particolare
Questa paziente rientra nel disturbo da sintomi somatici: ha un disturbo grave, è polarizzata sul
dolore, ha un disfunzionamento (circa un giorno su due non riesce a muoversi), il sintomo è comunque
fluttuante e varia anche in base alle circostanze ambientali: ad esempio, se passa una giornata
distraendosi fuori casa si sente meglio.

Disturbo da conversione
L’ultimo disturbo che rientra in questa classe è il disturbo da conversione (sintomi neurologici
funzionali).
La conversione è un termine che individua una particolare sintomatologia, non spiegabile, di origine
neurologica. Quindi in questa situazione, non parliamo più di sintomi dolorosi, gastrointestinali, o
altro, ma neurologici.
Sul piano psicologico questo
disturbo è stato a lungo
conosciuto, già dai tempi di
Freud, con il termine di isteria,
oggi in disuso soprattutto a causa
della sua connotazione puramente
femminile, mentre l’isteria non è
una patologia esclusiva del genere
femminile.
Oggi invece si parla di
conversione, con questo termine
si intende una via alternativa alla
somatizzazione: mentre nella somatizzazione il disagio viene incanalato verso organi viscerali, nella
conversine il disagio psicologico viene incanalato secondo il sistema nervoso centrale, nelle sue
componenti sensitive e/o motorie; quindi, rimane nell’ambito nostro SNC senza passare ai visceri.
Il disturbo da conversione si distingue in alcune tipologie, a seconda della sua presentazione clinica:
• alterazioni della funzione motoria: paresi, paralisi (ad esempio improvvisa paralisi di una
mano). Un esempio peculiare è quello del mutismo, in cui i pazienti affetti perdono la capacità
di parlare in assenza di un reale danno all’apparto della fonazione. [Da slide: altri sintomi
possono essere debolezza, movimento anomalo, sintomi riguardanti la deglutizione o
l’eloquio].
• alterazioni della funzione sensoriale: anestesie o ipoestesie. Caratteristica l’anestesia
completa della mano, detta anestesia a guanto. Ovviamente un’anestesia totale della mano è
un sintomo incongruo rispetto alla divisione metamerica dell’innervazione, al massimo
potremmo aspettarci l’anestesia in una sola metà della mano (visto che le due metà della mano
sono innervate da due nervi diversi dal punto di vista sensitivo). Un deficit del genere non
rispetta l’anatomia, e questo ci fa sospettare fortemente che ci sia un problema psicogeno alla
base.
• attacchi epilettiformi o altri episodi come pseudocrisi cataplettiche (In neurologia si era
parlato di “crisi psicogene”):
il professore ha un progetto di consulenza con i medici neurologi che lavorano sul sonno,
proprio per caratterizzare i casi di pseudo-cataplessia, ovvero pazienti che presentano
improvvisamente una perdita del tono muscolare, un afflosciamento, e cadono a terra.
I pazienti con pseudocrisi epilettiche potrebbero anche “buttarsi a terra” con degli aspetti
tonico-clonici, ma se durante la crisi svolgessimo un’analisi elettroencefalografica non
troveremmo nessun dato obiettivabile con cui poter fare diagnosi (di epilessia).
L’ultimo aspetto che caratterizza i pazienti affetti da questo disturbo, che appare abbastanza
incongruo, è l’atteggiamento di indifferenza. Nonostante il paziente riferisca una paralisi, non riesca
a camminare, parlare, o manifesti episodi simili a crisi epilettiche, non appare affatto preoccupato o
ansioso, ma rimane in un atteggiamento detto di “belle indifference” (secondo come i francesi
chiamavano questo atteggiamento), ovvero non appare particolarmente “toccato” dalla sua
condizione [“Belle indifference”: assenza di congrua preoccupazione riguardante il deficit
presentato].

COMPORTAMENTI DEL MMG


Come deve comportarsi il medico di medicina generale di fronte a questo tipo di pazienti?
Il medico generalista (MMG) che riceve questo tipo di pazienti (con atteggiamento ipocondriaco
molto pronunciato, o con un disturbo da sintomi somatici) potrebbe provare sentimenti come il
fastidio: non riesce a trovare una soluzione ai problemi del paziente, continua a proporgli terapie e
indagini da svolgere ma nulla sembra servire, nulla sembra poter fare luce su cosa abbia il paziente.
Oppure potrebbe provare rassegnazione, impotenza, in alcuni casi il medico può arrivare a dubitare
di sé stesso e delle sue capacità, o addirittura provare rabbia verso il paziente.
A questo proposito il professore racconta di una signora che si è recata da lui raccontandogli che il
medico di famiglia, dopo l’ennesima richiesta su come comportarsi per risolvere un problema fisico,
ha alzato la voce con lei gridando “lei non ha niente, deve andare da uno psichiatra!”. La paziente,
nel ricevere una risposta del genere da parte del medico di famiglia (quel medico su cui i pazienti
generalmente fanno forte affidamento), probabilmente si sarà sentita umiliata, imbarazzata,
impaurita e incompresa.
Il grande rischio con questi pazienti è proprio quello di compromettere la relazione terapeutica, in
quanto c’è la possibilità che il medico arrivi a reazioni del genere. Si tratta di reazioni “umanamente
comprensibili”, ma che dobbiamo imparare a gestire e dominare.
La cosa fondamentale che dovrebbe fare il medico di medicina generale è instaurare una buona
relazione medico-paziente, questo è uno degli elementi cruciali. Anche se da parte del medico può
esserci l’impressione di non poter fare molto per il paziente, bisognerebbe sempre evitare che
quest’ultimo si senta incompreso o addirittura “espulso” (mandato via), come se venisse inviato dallo
psichiatra perché il medico di famiglia non sa più cosa fare. I pazienti generalmente mal tollerano
l’invio dallo psichiatra. È importante gestire queste situazioni come se fossero situazioni
“standard”, come se fosse una visita uguale alle altre: questo significa né sminuire il malessere del
paziente, né dedicargli più tempo rispetto agli altri, ma dedicargli lo stesso tempo che dedicheremmo
a una persona che non è già venuta così tante volte (tutti giorni, tutte le settimane…), anche se spesso
ci risulta difficile.
Un altro punto fondamentale è non lasciare al paziente l’iniziativa di quando venire, ma
programmare le visite. Si potrebbe spiegare al paziente che il suo problema richiede, ad esempio,
una visita alla settimana, e che quindi non deve presentarsi ogni volta che ne sente la necessità, se
sente il sintomo leggermente più intenso, o se ha un momento di scoraggiamento. In questo modo il
paziente saprà che si potrà presentare allo studio del medico un determinato giorno della settimana
(ovviamente ci saranno diverse cadenze delle visite in base alla situazione, alla condizione del
paziente). Programmando delle visite cadenzate è più probabile che il paziente si senta rassicurato,
compreso, e che non si presenti dal medico tutti i giorni. Altrettanto rilevante è cercare di mantenere
un ascolto attivo verso il paziente. Quindi, riassumendo, il medico di fronte a questi pazienti
dovrebbe eseguire lo standard che applicherebbe di fronte ad un paziente nuovo, anche se lo deve
fare ogni volta (non bisogna mandare via subito il paziente solo perché l’abbiamo già visto la
settimana precedente, ma nemmeno dedicargli più tempo degli altri).
Può essere utile anche eseguire ogni volta un breve esame fisico (si palpa l’addome e si eseguono un
paio di manovre semeiologi), anche se questo ha poco significato sul piano semeiotico, avrà un forte
impatto sul piano relazionale. Il paziente si sentirà seguito anche sul piano fisico, ascoltato,
controllato, anche se in maniera breve e circoscritta. Si tratta di pazienti molto ripetitivi, ogni volta
tenderanno a ripetere le stesse cose al medico, serve avere tolleranza massima, e, come già
accennato, un atteggiamento neutro, né eccessivamente accogliente né espellente (dunque una
giusta via di mezzo). Così facendo il paziente registra che il medico ha un’attenzione e un interesse
per la sua condizione, riconosce che il medico vuole monitorarlo, con i tempi e i termini ritenuti più
opportuni.

In questi casi può essere molto importante un collegamento con lo specialista. Può risultare utile
inviare questo paziente a fare consulenze e visite specialistiche, eventualmente anche dallo psichiatra,
ma queste visite devono essere sempre correlate a una richiesta molto chiara e precisa (es. se lo si
invia da un gastroenterologo: “escludere gastrite”, oppure, se lo inviamo allo psichiatra: “escludere
stato depressivo”). Più la richiesta del medico di medicina generale è chiara e più il paziente, leggendo
la ricetta, capisce cosa vuole il medico, più la refertazione dello specialista sarà orientata rispetto a
questa richiesta, così da evitare il cosiddetto fenomeno del “doctor-shocking”: una specie di
“pellegrinaggio” tra numerosissimi specialisti senza mai ottenere nuove informazioni utili e senza
mai riuscire a risolvere il problema.
In ultimo, il medico di medicina generale dovrebbe fornire delle informazioni di base, chiare, al
paziente. Ad esempio, si potrebbe spiegare al paziente che a volte accade che un disagio psicologico
sia espresso sul piano somatico, infatti, anche se questo sembra un concetto banale per un medico,
non lo è affatto per molti pazienti, secondo loro un sintomo fisico è solo ed esclusivamente
un’espressione di malattia fisica. Potrebbe apparire poco utile, ma in realtà, esplicitare al paziente il
fatto che i sintomi di natura fisica possono essere prodotti da un disagio psicologico sottostante,
è un’operazione fondamentale.
Il meccanismo della somatizzazione in effetti è estremamente comune in svariate situazioni,
soprattutto nei bambini; quindi, non significa etichettare il paziente come “pazzo”. Se un paziente ha
qualche risorsa in più (cioè se ci troviamo di fronte a un paziente che ci sembra che possa
comprendere anche dei concetti un po’ più complessi ed elaborati) possiamo anche spingerci oltre,
per esempio spiegandogli che distinguiamo il corpo in tanti apparati per una comodità pratica, ma in
realtà siamo un tutt’uno, dunque una sofferenza o uno stress non potrà che avere una correlazione
fisica. Siamo esseri fisici, “fatti di carne”, e la risposta allo stress è unica, già ai tempi dell’uomo
primitivo, di fronte a ferite o nel caso di un’infezione da contrastare, l’organismo sviluppava una
reazione che serviva a coagulare il sangue, eliminare i patogeni ecc. Questo è il nostro modo di
rispondere allo stress, e avremo le stesse reazioni sia di fronte a stress di natura fisica, sia
psicologica. Per rispondere a trauma, un evento psicologico stressante, o uno stato depressivo
cronico, il nostro organismo ha sempre un aumento delle citochine pro-infiammatorie. Quindi non
c’è una via diversa a seconda del tipo di stress (fisico o psicologico), ma il nostro corpo funziona
sempre alla stessa maniera: siamo un unico corpo, anche se nella pratica clinica distinguiamo
patologie fisiche, internistiche, mentali e via dicendo.
Ci sono diversi suggerimenti e provvedimenti igienici (simili ai comportamenti attuati da ogni
individuo, per rilassarsi, quando si trova sotto stress) che possiamo consigliare ai pazienti che hanno
una somatizzazione marcata:
o Attività sportiva leggera, svolta con regolarità, può bastare anche una semplice passeggiata
(l’entità dell’attività sportiva dipende in base alle capacità dell’individuo).
o Tecniche di rilassamento come la respirazione profonda, meditazione (oggi esistono
tantissimi tutorial a riguardo e spesso sono delle metodiche che possono essere svolte da
qualsiasi persona in quanto molto semplici).
o Dormire regolarmente: una persona stressata può avere tendenza a rimanere sveglia di notte,
creando così ulteriori ripercussioni sul piano fisico. Oltre a una buona igiene del sonno, se
necessario si può sfruttare qualche trattamento psicofarmacologico, vista l’importanza di
avere un sonno regolare.
Nel lungo periodo gestire queste persone può essere molto faticoso e stancante, anche se sono pazienti
che possono non avere patologie gravissime.

Ci sono casi in cui risulta utile, anzi necessario, l’invio del paziente allo psichiatra, ma si deve
sempre ricordare che è necessario avere una richiesta chiara e specifica, mai vaga, di modo che il
paziente non rischi di sentirsi “scaricato”, che capisca che si tratta solo di una parte della sua
assistenza e che non stiamo cercando di “liberarci” di lui. L’invio allo psichiatra può essere utile
anche al medico, per avere un confronto e ragionare sul caso con il punto di vista di uno specialista.
La consultazione riguardo ai casi clinici è estremamente utile, anche se purtroppo concretamente si
pratica veramente poco. Il Prof informa che a Bologna la divisione psichiatrica mette a disposizione
la possibilità di fare consultazioni di questo tipo attraverso una linea telefonica o via mail, anche
senza vedere il paziente, ma (ripete) è un sistema ancora poco sviluppato.
Se comunque il paziente arriva allo specialista psichiatrico, lo psichiatra, oltre a usare gli strumenti e
i provvedimenti che abbiamo già nominato, potrà usare:
❖ un approccio psicofarmacologico: se il paziente ha alti livelli di ansia e depressione, e quindi
somatizzazione, può essere indicata una terapia antidepressiva. Alcuni antidepressivi hanno
anche effetti sul dolore, specialmente gli antidepressivi triciclici (l’amitriptilina viene usata
spesso per l’emicrania). In questo caso non parliamo di analgesici in senso classico, ma si
tratta di farmaci che modulano le afferenze sensitive (nocicettive) dalla periferia al SNC, e
quindi possono ridurre in qualche modo la sensazione di dolore. I migliori sono i triciclici o
anche i cosiddetti antidepressivi a doppia azione, cioè che hanno azione sia sul sistema
serotoninergico che noradrenergico. Vari studi hanno dimostrato che alcuni antidepressivi
hanno effetto positivo sul colon irritabile, o in generale sulle somatizzazioni gastrointestinali,
per cui questi farmaci hanno un effetto sia su alti livelli di ansia e depressione, sia su alcuni
aspetti della somatizzazione.
Anche alcuni antiepilettici sono stati usati contro il dolore, tra cui il gabapentin, e anche
alcuni farmaci antipsicotici, come l’olanzapina e le benzamidi, sono molto usati nelle
somatizzazioni. Alcuni farmaci antipsicotici vengono usati anche per il singhiozzo
incoercibile e per il vomito; quindi, hanno anche un’azione (mio)rilassante sull’apparato
gastrointestinale. Anche i procinetici possono avere struttura simile agli antipsicotici. Bisogna
quindi considerare che tutti questi medicinali possono avere degli effetti rilevanti.
Viene invece sconsigliato l’utilizzo di sedativi ipnotici, soprattutto per lunghi periodi, se
necessario si può fare un ciclo di ipnotico purché sia di breve durata. Infatti, le persone che
soffrono di somatizzazione, spesso hanno alti livelli di ansia e sono a rischio altissimo di
sviluppare un inadeguato utilizzo o addirittura abuso di benzodiazepine.
Ci sono casi in cui i sedativi ipnotici non solo sono utili, ma addirittura necessari: di fatto se
una persona non ristora il corretto ritmo sonno-veglia faticherà a migliorare sia dal punto di
vista della depressione e dell’ansia, sia della somatizzazione, tuttavia è fondamentale ricordare
che quando si prescrive un farmaco ipnotico bisogna sempre determinare la durata del
trattamento (non si deve MAI dimenticare questo aspetto), altrimenti si rischia che il paziente
rinnovi la ricetta, e vada poi incontro ad abuso.
Molto spesso questi pazienti sono molto sensibili agli effetti collaterali dei farmaci, anche i farmaci
normalmente ben tollerati potrebbero dare dei problemi, solitamente comunque la regola generale è
quella di titolare i farmaci molto gradualmente, e, se possibile, utilizzare le terapie in gocce, così da
poterle graduare in maniera molto stretta.
❖ un approccio psicoterapeutico: storicamente i somatizzatori sono sempre stati un po'
trascurati. In realtà sia la psicoterapia psicanalitica sia quella psicodinamica sono nate per i
casi di nevrosi e isteria, quindi casi di forte somatizzazione ansiosa; tuttavia, nel tempo si è
diffusa la teoria secondo cui questi pazienti sono resistenti ai trattamenti psicologici. Il prof
però non è d’accordo con questa credenza (infatti la psicoanalisi nel suo sviluppo si è basata
proprio su questi casi). [Cfr. sbobina n°1 di Psicologia Clinica]
❖ approcci cognitivo-comportamentali.
Il prof preferisce soffermarsi sugli aspetti eziopatogenetici del disturbo e non si addentra in
questo argomento, poiché ritiene che sarà ben approfondito dal professore di Psicologia
Clinica.

Nella prossima lezione inizieremo a parlare dei disturbi dell’umore e della patologia depressiva.

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