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L’educazione della coscienza al tempo del web

Una realtà che nel nostro tempo non manca di essere mai invocata nelle relazione educativa è
l’educazione della coscienza. Non esistono articolazioni della società civile, ambiti sociali,
politici, culturali, educativi, religiosi, mediatici in cui non si faccia appello alla coscienza.
Educare le coscienze, sensibilizzare le coscienze, formare le coscienze sono gli appelli che
vengono da tutte le parti e che, spesso, hanno come destinatari i giovani.
Il rischio che si corre, con questi appelli, è quello di considerare la coscienza una sorta di
“scatola” dentro la quale depositare norme e divieti, che, nei fatti, nessuno segue o è
disponibile a seguire. Ecco perché oggi, nel tempo del web, appare quanto mai fondamentale
e necessaria una “ri-comprensione” e una riaffermazione del primato della coscienza sia per
evitare di ridurre la coscienza ad una semplice dimensione psicologica della persona che
condiziona nel bene e nel male il suo agire, sia per evitare di trasformarla in un giudizio
morale pratico, vale a dire in una applicazione della norma etica al caso particolare concreto.
Non è superfluo, anzitutto, domandarsi, che cos’è la coscienza, come agisce e come reagisce.
Il termine coscienza, che deriva dal latino “cum-scientia”, cioè con scienza, conoscenza, è
una facoltà spirituale tipica dell’uomo ed è presente in tutti , anche se non sempre come
coscienza vera e retta.
Nella nostra società, nei rapporti umani non manca di sentire espressioni comuni del tipo:
“avere un peso sulla coscienza”, “avere la coscienza a posto”, prendere coscienza di”, “agire
secondo coscienza”, “mettersi una mano sulla coscienza” Si tratta di espressioni che
alludono ad un concetto di coscienza intensa come un “senso” o una “voce” interiore che
rende la persona consapevole delle ragioni e delle conseguenze delle sue scelte. Se i nostri
sensi ci guidano e ci danno la misura della nostra collocazione nel mondo fisico, allo stesso
modo la coscienza ci guida e ci dà la misura della nostra collocazione e del nostro agire nel
mondo morale.
La coscienza dei giovani, al tempo del web, sembra certamente vivere un forte smarrimento
di senso, è oggi continuamente sottoposta ad input, pressioni e stimoli, donde la necessità di
una educazione che ne riscopra il valore come volto interiore dell’uomo, se è vero – come
afferma Siracide 13,25, che “il cuore dell’uomo si riflette nel volto” .
Nella Bibbia, infatti, pur non trovandosi un termine specifico per indicare la coscienza, esiste
un concetto di coscienza legato al valore del “cuore” come sede dei pensieri, dei desideri,
delle emozioni e del giudizio morale, quindi della coscienza.
Per la cultura cristiana Dio ha scritto la sua legge “nel cuore dell’uomo”(Ger 31,29-34; Ez
14,1-3 e 36,26); Dio “scruta il cuore” e la mente, e loda e biasima gli atti che lui compie(Gb
27,6). La ri-comprensione della coscienza cristiana va allora definita non a partire da una
legge ma da un “cuore” che sa discernere il suo operato.
Sulla stessa linea si muovono sia il Nuovo Testamento sia il Concilio Vaticano II;
quest’ultimo al n. 16 della Gaudium et spes afferma: “Nell’intimo della coscienza l’uomo
scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che
lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona
nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da
Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà
giudicato .
La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui
voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella
legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo”.
Stando a questo efficace e splendido insegnamento del Vaticano II, occorre educare i giovani
in particolare a comprendere che la coscienza deve essere percepita e ricompresa come
“luogo del dialogo”, “luogo di bellezza”, proprio perché è dentro questo luogo che ognuno
ritrova se stesso, rilegge la propria storia, la vita, gli errori, le fragilità, le gioie e i dolori, il
proprio rapporto con gli altri e con Dio. La coscienza ci fa percepire la bellezza del rimanere
soli con noi stessi, come davanti ad un altare dove l’interlocutore principale è Dio amore,
misericordia, accoglienza, che ci invita ad ascoltarlo nella libertà, prima di porre in essere
una azione.
In un tempo come il nostro caratterizzato da urla, frastuono, sospetto, violenza, finzione,
corruzione, lamentazioni che alimentano una sorta di “coscienza collettiva” al negativo ove
bene e male diventano interscambiabili, bisogna aiutare i giovani a saper riscoprire e
rileggere la coscienza – direbbe Platone nel suo dialogo Teeteto – in chiave di “dialogo
interno dell’anima con se stessa” o, direbbe S. Agostino, come luogo di ricerca della
dimensione veritativa: “Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la
verità”(De vera religione, 39).
Bisogna educare i giovani a sapere evitare di ridurre la coscienza ad un sentire arbitrario,
come si trattasse di seguire – direbbe il cardinale beato Newman – la propria «preferenza
personale» a prescindere da ogni autorità esterna; al contrario occorre far capire – sulle orme
del Concilio Vaticano II – che quando l’esistenza dell’uomo si concepisce a partire dalla
coscienza, ossia in una prospettiva di relazione tra Dio e l’anima; quando l’uomo si mette
davanti al “sacrario della coscienza”, dove riscopre una legge che non è stato lui a darsi e
dove Dio parla e lui ascolta, allora risulta palese che il primato della coscienza non
rappresenta un cedimento all’individualismo né un abbandono nelle mani dell’arbitrarietà e
del relativismo. Anzi si tratta proprio del contrario. Nella “ricomprensione” ed educazione
della coscienza non si può sicuramente ignorare la riflessione teologico-morale, che ci dà
alcune coordinate dentro le quali interpretarla: la rettitudine e l’opzione fondamentale.
Ognuno come persona ha il diritto e il dovere di obbedire prioritariamente alla coscienza
personale, ma a condizione che essa sia correttamente informata, nel senso che sia
consapevole della realtà delle cose e delle ragioni e delle conseguenze dell’agire, e che sia
guidata dal solo bisogno di conoscere la verità nella libertà e senza costrizioni.
Certo, è innegabile che tutto questo non è semplice e non accade concretamente, non se ne
vedono gli effetti, tuttavia è compito dell’attività educativa in famiglia, nella scuola, nella
chiesa, far comprendere che la coscienza retta ed onesta, nel suo significato autentico di
dialogo dell’anima con Dio, non disconosce il vero fondamento dell’autorità del Papa e
dell’insegnamento del Magistero.
Una coscienza autonoma non è per nulla in contrasto con una coscienza teonoma il termine
teonomia (dal greco Theos, Dio, e Nomos, Legge, quindi "legge di Dio") è stato usato per
descrivere diverse concezioni che considerano il Dio rivelato nella Bibbia come unica fonte
possibile dell'etica, perché la legge morale che Dio suggerisce alla coscienza della persona
non è qualcosa di esterno ad essa, ma qualcosa che la riguarda intimamente e che è in
continua formazione anche con l’aiuto del cosiddetto “direttore spirituale”, che non è un
dispensatore di ricette e soluzioni prefabbricate, ma una persona con una sapienza spirituale
capace di guidare sulla via della verità e santità.
Per concludere, credo che la “ri-comprensione” della coscienza esiga una chiara attenzione al
concetto del suo “primato”, atteso che se si mettesse al centro della vita morale solo la legge,
si correrebbe il rischio del legalismo, dell’esteriorismo e del fariseismo; se si mettesse solo la
persona, si correrebbe il rischio del soggettivismo e dell’interiorismo e del relativismo.
Ma se al centro dell’agire morale quotidiano si mette il primato della coscienza intesa come
costante, attento, docile ascolto della Voce di Dio che ci parla e che ci invita a vivere la vita
come risposta alla nostra vocazione, allora non si corre alcun rischio e, anche se si sbaglia, è
sempre possibile ritornare a lui e chiedere il dono della sua misericordia.

Etica: La “ri-comprensione” della coscienza al tempo del web/1


Una realtà che nel nostro tempo non manca di essere mai invocata nelle relazioni umane è la
coscienza. Non esistono articolazioni della società civile, ambiti sociali, politici, culturali,
educativi, religiosi, mediatici in cui non si faccia appello alla coscienza. Educare le
coscienze, sensibilizzare le coscienze, formare le coscienze sono gli appelli che vengono da
tutte le parti e che, spesso, hanno come destinatari i giovani. Il rischio che si corre, con questi
appelli, è quello di considerare la coscienza una sorta di “scatola” dentro la quale depositare
norme e divieti, che, nei fatti, nessuno segue o è disponibile a seguire. Ecco perché oggi, nel
tempo del web, appare quanto mai fondamentale e necessaria una “ri-comprensione” e una
riaffermazione del primato della coscienza, specie nel quadro della vita morale cristiana, sia
per evitare di ridurre la coscienza ad una semplice dimensione psicologica della persona che
condiziona nel bene e nel male il suo agire, sia per evitare di trasformarla in un giudizio
morale pratico, vale a dire in una applicazione della norma etica al caso particolare concreto.
Effettueremo pertanto un viaggio intorno alla coscienza, per coglierne tutte le dimensioni e
gli aspetti più profondi, con la consapevolezza che in tutti noi c’è proprio uno “spazio di
libertà”: è questo è la nostra coscienza, luogo cosi intimo dentro il quale ogni giorno si
aprono tensioni fra ciò che siamo veramente e ciò che vorremmo essere, fra ciò che vogliamo
e ciò che dobbiamo fare. Non è superfluo, anzitutto, domandarsi, che cos’è la coscienza,
come agisce e come reagisce. Il termine coscienza, che deriva dal latino “cum-scientia”, cioè
con scienza, conoscenza, è una facoltà spirituale tipica dell’uomo ed è presente in tutti, anche
se non sempre come coscienza vera e retta. Nella nostra società, nei rapporti umani, nel
vissuto dei cristiani e delle comunità ecclesiali non manca di sentire espressioni comuni del
tipo: “avere un peso sulla coscienza”, “avere la coscienza a posto”, prendere coscienza di”,
“agire secondo coscienza”, “mettersi una mano sulla coscienza”. Si tratta di espressioni che
alludono ad un concetto di coscienza intensa come un “senso” o una “voce” interiore che
rende la persona consapevole delle ragioni e delle conseguenze delle sue scelte. Se i nostri
sensi ci guidano e ci danno la misura della nostra collocazione nel mondo fisico, allo stesso
modo la coscienza ci guida e ci dà la misura della nostra collocazione e del nostro agire nel
mondo morale. La coscienza, al tempo del web, sembra certamente vivere un forte
smarrimento di senso. Basta fare un viaggio in treno o in aereo o anche solo soffermarsi ad
osservare la realtà, per vedere come il mondo è cambiato e per prendere atto di una vera e
propria “mutazione antropologica”. Ognuno chiuso nel suo guscio, assorbito nel suo mondo;
auricolari e sguardo fisso sullo smartphone, non ci si accorge neanche di chi ci sta accanto.
Tutti connessi; tutti in chat; tutti in contatto, ma forse in realtà siamo tutti un po’ più soli e
indifferenti all’altro. La nostra coscienza è oggi continuamente sottoposta ad input, pressioni
e stimoli; sempre di corsa, sempre a star dietro all’ultima mail, all’ultimo sms. In un mondo
che vuole inesorabilmente la sua indipendenza, mai siamo stati così dipendenti. Tutti sanno
dove siamo e quello che stiamo facendo al di là di ogni possibile privacy; siamo vittime di un
mondo che ci coinvolge, non consentendoci alcuna possibilità di uscita. Le grandi catene di
consumo hanno portato ad un appiattimento dei desideri e delle vocazioni verso individui
uniformati senza identità. Si inseguano stili e modelli di vita livellanti. E così, perfino la
corporeità diventa un vero e proprio dilemma di identità: il corpo ora conteso ora rifiutato,
ora attraversato dal bisogno di costruirsi una identità sessuale diventa “luogo di ricerca di
significato”, spazio identitario insignificante, specie nell’età adolescenziale. Non c’è dubbio
che occorre riscoprire il valore della coscienza come il volto interiore dell’uomo, se è vero –
come afferma Siracide 13,25, che “il cuore dell’uomo si riflette nel volto”. Oggi, sul
palcoscenico delle giornate, sfilano, quasi sempre, volti stanchi, abbuiati, tristi, poiché i
problemi sono tanti, la vita è irta di difficoltà, il lavoro stanca, i rapporti sociali sono
complessi, tesi e conflittuali. Quotidianamente succede di imbattersi nel disoccupato in cerca
di lavoro, nell’anziano che vive nella solitudine, nel bambino privo di affetto che gioca sul
selciato della strada, nel povero senza pane e senza casa, nel barbone e nell’emarginato o
nell’immigrato che smercia fazzoletti, immaginette e oggetti vari. Quanti volti! Ognuno con
la propria storia, problemi, fatiche, ansie e speranze. Sono volti che ci incrociano e
provocano i nostri volti, cioè le nostre coscienze.
E allora due domande.
La prima: la nostra coscienza è una maschera dietro cui, come in windows, apriamo mille
files e non sappiamo quale di questi vada per primo approfondito, affrontato, chiuso,
eliminato o ancora non utilizzato?
Oppure, seconda domanda, la coscienza, è l’incarnazione del nostro sentimento d’identità?
Se dovessimo far tesoro solo della grande lezione di Pirandello, non ci resterebbe che
concludere che la coscienza esiste se non come maschera che, più o meno consapevolmente,
ciascun individuo sceglie di indossare; e quando l’immagine che ciascuno ha di se stesso non
coincide con quella che gli altri hanno di lui, l’inganno cade, e l’esistenza umana si mostra in
tutta la sua miseria, sospesa nell’inconciliabilità tra vita e forma, tra essere e divenire.
Emerge così tutto il malessere dell’uomo moderno condannato alla solitudine e
all’incomprensione con l’altro, e destinato a rassegnarsi ad essere “Uno, nessuno e
centomila”, cercando di trarre beneficio dalla maschera che gli altri gli forgiano addosso
(vedi Rosario Chiàrchiaro, in La patente), oppure rifiutando la propria identità socialmente
connotata e avviandosi in solitudine verso l’inevitabile follia ( vedi l’Enrico IV). Questo è
Pirandello, ma per la coscienza dei credenti il maestro non può essere lui, perché la
Rivelazione biblica ci porta invece su altri piani che sicuramente possano dare alla coscienza
umana una identità di bellezza: “Guardate al Signore e i vostri volti diventeranno raggianti”.
Nella Bibbia pur non trovandosi un termine specifico per indicare la coscienza, esiste un
concetto di coscienza legato al valore del “cuore” come sede dei pensieri, dei desideri, delle
emozioni e del giudizio morale, quindi della coscienza. Il credente cristiano sa che Dio ha
scritto la sua legge “nel cuore dell’uomo”(Ger 31,29-34; Ez 14,1-3 e 36,26); sa che Dio
“scruta il cuore” e la mente, e loda e biasima gli atti che lui compie(Gb 27,6).
La ri-comprensione della nostra coscienza di cristiani va allora definita non a partire da una
legge ma da un “cuore” capace di ascoltare i suggerimenti dello Spirito per convertirsi(Sl
50,12). Da un cuore nuovo nasce una coscienza nuova che sa discernere il suo operato in
rapporto alla sequela di Cristo, il Maestro, e sa fare della sua vita un dono di bene. Nel dono
si incomincia a sentire il respiro della propria identità, della propria coscienza e il respiro
dell’altro. “Come il viandante che, nel dare il suo mantello, esprime il sacrificio nel senso di
farsi sacro per l’altro”.
Si tratta di espressioni che alludono ad un concetto di coscienza intensa come un “senso” o
una “voce” interiore che rende la persona consapevole delle ragioni e delle conseguenze
delle sue scelte. Se i sensi guidano l’uomo e gli danno la misura della sua collocazione nel
mondo fisico, allo stesso modo la coscienza lo guida e gli dà la misura della sua collocazione
e del suo agire nel mondo morale.
L’IRC deve aiutare gli studenti a riscoprire il valore della coscienza come il volto interiore
dell’uomo, se è vero – come afferma Siracide 13,25, che “il cuore dell’uomo si riflette nel
volto”. La Rivelazione biblica ci porta su piani che sicuramente possano dare alla coscienza
umana un’ identità di bellezza: “Guardate al Signore e i vostri volti diventeranno raggianti”.
Nella Bibbia pur non trovandosi un termine specifico per indicare la coscienza, esiste un
concetto di coscienza legato al valore del “cuore” come sede dei pensieri, dei desideri, delle
emozioni e del giudizio morale. La Bibbia insegna che Dio ha scritto la sua legge “nel cuore
dell’uomo”(Ger 31,29-34; Ez 14,1-3 e 36,26); che Dio “scruta il cuore” e la mente, e loda e
biasima gli atti che lui compie(Gb 27,6). La ri-comprensione della coscienza morale cristiana
va allora presentata non a partire da una legge ma da un “cuore” capace di ascoltare i
suggerimenti dello Spirito per convertirsi (Sl 50,12). Da un cuore nuovo nasce una coscienza
nuova che sa discernere il suo operato in rapporto alla sequela di Cristo, il Maestro, e sa fare
della sua vita un dono di bene.
Orizzonti biblici della coscienza morale
Una “ri-comprensione” della coscienza che voglia dirsi cristiana non può sicuramente
trascurare quanto la Bibbia e i vangeli insegnano. Anche se i Vangeli non posseggono un
termine specifico che indichi la coscienza, utilizzano tuttavia due sinonimi: “cuore” e
“spirito”. San Paolo, poi, offre una visione sistematica del concetto di coscienza utilizzando
il termine “syneidesis”, termine mutuato dalla filosofia stoica, ove stava ad indicare la
coscienza del male, il senso del rimorso causato da un’ azione cattiva. Ma l’apostolo Paolo
va oltre il dato filosofico. Egli fa spesso ricorso alla coscienza per sottolineare l’importanza
di un principio interiore come fondamento dell’agire umano, in opposizione alla norma solo
esterna della Legge. Se per i farisei la coscienza si riduceva ad un’ ipocrita “purificazione
dell’esterno del bicchiere”, mentre il loro essere era pieno di rapina ed intemperanza, Gesù,
al contrario, nella sua predicazione insiste sul fatto che non è quello che entra nell’uomo a
contaminarlo ma quello che esce dal profondo del suo essere (Cf Mt 15,11). Gesù , insomma,
invita l’uomo a guardarsi dentro per discernere nel cuore il bene dal male, ecco perché
diceva alle folle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia,
e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete
giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E
perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto fare?”(Lc 12,54-57).
Sulla linea del Nuovo Testamento si muove anche il Concilio Vaticano II, che al n. 16 della
Gaudium et spes afferma: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è
lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare,
a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa
questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore;
obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato . La coscienza è
il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona
nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il
suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo”.
Stando a questo insegnamento del Vaticano II, la coscienza deve essere spiegata, percepita e
ricompresa come “luogo del dialogo”, “luogo di bellezza”, proprio perché è dentro questo
luogo che ogni persona ritrova se stesso, rilegge la propria storia, la vita, gli errori, le
fragilità, le gioie e i dolori, il proprio rapporto con gli altri e con Dio.
La coscienza fa percepire la bellezza del rimanere soli con se stessi, come davanti ad un
altare dove l’interlocutore principale è Dio amore, misericordia, accoglienza, che invita ogni
uomo ad ascoltarlo nella libertà, prima di porre in essere una azione. Ed ecco perché San
Bonaventura poteva scrivere: “La coscienza è come l’araldo di Dio e il messaggero, e ciò che
dice non lo comanda da se stessa, ma lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di
un araldo quando proclama l’editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza ha la forza
di obbligare”.
L’insegnamento della religione cattolica deve aiutare gli studenti a rileggere la coscienza –
direbbe Platone nel suo dialogo Teeteto – in chiave di “dialogo interno dell’anima con se
stessa” o,- direbbe S. Agostino- , come luogo di ricerca della dimensione veritativa: “Non
uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità”(De vera religione,
39). Occorre far comprendere che la coscienza va interpretata in termini di “ dialogica
morale interiore”, e non esclusivamente conoscitiva e applicativa.
Il “primato della coscienza” tra individualismo e relativismo etico/3
ETICA
Nel concludere il nostro viaggio intorno alla coscienza, ci soffermiamo sul “primato della
coscienza”, che richiama intrinsecamente due aspetti collaterali ed interconnessi, vale a dire
la libertà di coscienza e l’obiezione di coscienza. La coscienza morale del cristiano si trova
spesso di fronte a situazioni in cui a “leggi scritte”, che andrebbero osservate, si
contrappongono leggi “non scritte” ed eterne che risiedono nella coscienza stessa e che
nessun potere può obbligare ad ignorare.
Paradigmatica, a riguardo, risulta già nel mondo greco la tragedia di Sofocle, l’ “Antigone”,
che prende il nome della figlia di Edipo e di Giocasta e che fu rappresentata ad Atene intorno
al 442 a.C..
Secondo la tragedia sofoclea, Antigone vive una situazione in cui fa prevalere il primato
della coscienza rispetto alle “leggi scritte”. Ella, dopo aver cercato di riappacificare i fratelli
Eteocle e Polinice, e dopo aver assistito al loro duello che vide la morte di Polinice, si
adoperò per rendere gli onori funebri a Polinice, contro gli ordini del re Creonte.
Non tenendo conto dell’ordinanza del re e nemmeno dei consigli di prudenza della sorella
Ismene che la invitava a rispettare la legge, Antigone, obbedendo alla suprema voce del suo
cuore e facendo prevalere il primato della sua coscienza, rende gli onori funebri al fratello.
Arrestata e condotta alla presenza del re Creonte, si vantò della sua scelta e della sua
condotta, opponendo le “leggi non scritte e inviolabili” della sua coscienza alla ragion di
Stato e alla legge politica. Il tiranno, nonostante le ferme obiezioni di suo figlio Emone,
fidanzato di Antigone, e le minacce dell’indovino Tiresia, condannò la fanciulla a essere
sepolta viva. Quando però Creante si ricredette e prese atto del suo errore, era troppo tardi:
Antigone si era impiccata.
Questa tragedia rispecchia quanto spesso accade nel nostro tempo, dove tante leggi scritte ed
emanate dal legislatore sono in contrasto con il sentire cristiano della fede del popolo di Dio.
Ecco perché una “ri-comprensione” della coscienza esige che si dia spazio e voce a quella
che comunemente chiamiamo “primato di coscienza”, il quale è il rifiuto di adeguarsi ad un
ordine particolare imposto da una autorità o a una prescrizione di legge perché ritenuti
contrari alle idealità e alle convinzioni morali della propria coscienza.
E a questo punto vogliamo richiamare la famosa intervista di Eugenio Scalfari, fondatore di
Repubblica, a papa Francesco. L’intervista ha avuto, tra le altre cose, proprio al centro del
dialogo il tema del primato della coscienza: “Ciascuno – ha affermato il Pontefice – ha la sua
idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e di combattere il Male, come lui
li concepisce”.
Sul piano teologico-morale questa affermazione ha aperto un ampio dibattito dentro e fuori
la Chiesa. Non c’è dubbio, infatti, che le parole del Papa hanno sollevato una discussione che
ha fatto emergere in modo chiaro e trasparente due visioni diverse: quella di retaggio
conciliare tridentino, che basa tutto sul principio di autorità del papato che custodisce e
interpreta la scrittura in modo non discutibile da altri e che da queste interpretazioni deduce
una montagna di dogmi che regolano tutto, ed una seconda visione radicata, invece, nel
Vaticano II, che mette al centro il principio del primato, della priorità e dell’autonomia della
coscienza personale nell’agire morale, anche rispetto alle indicazioni del Magistero.
Le parole del Papa non hanno, certamente, voluto significare l’accettazione
dell’individualismo che si manifesta nel mondo moderno, e meno ancora accettare un
relativismo morale puro e semplice. Hanno voluto proclamare il primato della coscienza
individuale, che non disconosce affatto l’esistenza per tutti noi di un patrimonio morale
largamente comune, cioè un messaggio etico universale, immanente alla natura delle cose,
che gli uomini sono in grado di decifrare.
Al di là, comunque, delle interpretazioni delle parole di papa Francesco, è indubbio che la
post-modernità è davvero caratterizzata da una relativismo etico che riduce spesso la
coscienza ad un sentire arbitrario, come se si trattasse di seguire – direbbe il cardinale beato
Newman – la propria «preferenza personale» a prescindere da ogni autorità esterna.
Certamente il senso delle parole di papa Francesco, lette nel contesto di tutto il suo
insegnamento, non va nella direzione dell’arbitrarietà, ma vuole lasciar intendere che quando
l’esistenza dell’uomo si concepisce a partire dalla coscienza, ossia in una prospettiva di
relazione tra Dio e l’anima; quando l’uomo si mette davanti al “sacrario della coscienza”,
dove riscopre una legge che non è stato lui a darsi e dove Dio parla e lui ascolta, allora
risulta palese che il primato della coscienza non rappresenta un cedimento all’individualismo
né un abbandono nelle mani dell’arbitrarietà e del relativismo. Anzi si tratta proprio del
contrario.
Certo, è innegabile che tutto questo non è semplice e non accade concretamente, non se ne
vedono gli effetti, tuttavia è compito dell’educazione cristiana far comprendere che il
primato e la libertà di coscienza – così ci insegnava Newman – non si identificano affatto col
diritto di “dispensarsi dalla coscienza, di ignorare il Legislatore e il Giudice, e di essere
indipendenti da doveri invisibili”.
La coscienza retta ed onesta, nel suo significato autentico di dialogo dell’anima con Dio, non
disconosce il vero fondamento dell’autorità del Papa e dell’insegnamento del Magistero. Una
coscienza autonoma non è per nulla in contrasto con una coscienza teonoma, perché la legge
morale che Dio suggerisce alla coscienza della persona non è qualcosa di esterno ad essa, ma
qualcosa che la riguarda intimamente e che è in continua formazione anche con l’aiuto del
cosiddetto “direttore spirituale”, che non è un dispensatore di ricette e soluzioni
prefabbricate, ma una persona con una sapienza spirituale capace di guidare sulla via della
verità e santità.
Per concludere, la “ri-comprensione” della coscienza esige una chiara attenzione al concetto
del suo “primato”, atteso che se si mettesse al centro della vita morale solo la legge, si
correrebbe il rischio del legalismo, dell’esteriorismo e del fariseismo; se si mettesse solo la
persona, si correrebbe il rischio del soggettivismo e dell’interiorismo e del relativismo. Ma
se al centro dell’agire morale quotidiano si mette il primato della coscienza intesa come
costante, attento, docile ascolto della Voce di Dio che parla all’uomo invitandolo a vivere la
vita come risposta alla nostra vocazione, allora non si corre alcun rischio e, anche se si
sbaglia, è sempre possibile ritornare a lui e chiedere il dono della sua misericordia.

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