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*
Riproduco la conferenza da me tenuta presso Thiasos, Società ebraica per lo
studio dell’antichità classica, a Gerusalemme, il 1 giugno 1943. Preparando la rela-
zione per la stampa, ho aggiunto qua e là alcuni particolari e le note a piè di pagina.
[Pubblicato in ebraico con il titolo Ha-tirgum ha-yehudi shel ha-Miqrà le-latinit we-
chashivutò le-cheqer ha-tirgumim ha-yewaniyim we-ha-aramiyim, in Moshe Schwa-
be, Joshua Gutman (a cura di), Commentationes Iudaico-Hellenisticae in memoriam
Iohannis Lewy, Hierosolymis, Magnes 1949, pp. 161-172].
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516 la traduzione giudaica della bibbia in latino
quel maestro allievo di un altro maestro ancora, e così via a ritroso di ge-
nerazione in generazione. Se valutiamo le testimonianze e quel che resta di
questa tradizione nel corso dei secoli, possiamo ripercorrerne lo sviluppo
e scoprire che le sue più antiche radici sono profondamente radicate nella
vita dell’ebraismo italiano. Questo studio ci condurrà, infine, alla sorpren-
dente conclusione che, a fianco delle traduzioni latine cristiane, esistette
nell’antichità anche una traduzione giudaica della Bibbia in latino.
Innanzitutto, è opportuno spendere alcune parole per chiarire una que-
stione preliminare: qual era la lingua degli ebrei italiani e, soprattutto, qual
era la lingua degli ebrei di Roma, la comunità più importante nel periodo
più antico dell’insediamento ebraico in Italia?
Molti studiosi sono inclini a pensare che, nei primi secoli della loro
presenza nella capitale, gli ebrei parlassero tutti il greco, e che solo dal IV
secolo il latino iniziasse a imporsi su quello.1 Essi si basano principalmente
sul fatto che la stragrande maggioranza delle iscrizioni scoperte nei cimi-
teri ebraici furono scritte in greco: fra le iscrizioni degli ebrei di Roma e
del circondario, registrate nella raccolta di Frey, 413 sono in greco, contro
137 in latino, una in aramaico, e una per metà in aramaico e per metà in
greco.2 Questi studiosi fissano il sorpasso del latino sul greco nel IV secolo
basandosi su un’iscrizione del 330, interamente in latino, eccetto tre parole
in greco alla fine.3 Tuttavia, così ragionando, essi seguono un metodo sba-
gliato, le cui fondamenta sono del tutto fragili.
È noto che generalmente le epigrafi non vengono incise nella lingua
d’uso quotidiano e che, al contrario, è usanza diffusa consegnare alla pietra
ciò che si vuole tramandare alle generazioni future in una lingua legata alla
1
Si veda, per esempio, Ludwig Blau, Early Christian Epigraphy, Considered
from the Jewish Point of View, «Hebrew Union College Annual» I (1924), p. 224;
David Simon Blondheim, Les parlers judéo-romans et la vetus latina. Études sur les
rapports entre les traductions bibliques de langue romane des juifs au moyen âge et les
anciennes versions, Paris, E. Champion 1925, pp. xxii-xxx; Jean-Baptiste Frey, Cor-
pus Inscriptionum Iudaicarum, recueil des inscriptions juives qui vont du IIIe siècle
avant Jesus-Christ au VIIe siècle de notre ère, Città del Vaticano, Pontificio Istituto di
Archeologia Cristiana, Paris, Paul Geuthner 1936, pp. lxv-lxvi.
2
J. B. Frey, Corpus, cit.
3
Nikolaus Müller, Die jüdische Katakombe am Monteverde zu Rom, Leipzig, Otto
Harrassowitz Verlag 1912, p. 93; Id., Il cimitero degli antichi ebrei posto sulla Via
Portuense, Svolgimento di una lettura tenuta alla Pontificia Accademia Romana di
Archeologia nell’adunanza del 24 aprile 1909, «Rendiconti della Pontificia Accade-
mia Romana di Archeologia» II, 12 (1915), p. 75; D. S. Blondheim, Les parlers judéo-
romans, cit., p. xxvii; J. B. Frey, Corpus, cit., p. lxvi.
4
Su questo significato della parola “ebrei”, si vedano le mie osservazioni in
«Nuovo Bullettino di archeologia cristiana» XXII (1926), pp. 197-198, e poi in
«Giornale della Società Asiatica Italiana» nuova serie 2b (1932), pp. 130-131; e ora si
veda ciò che ha scritto a riguardo il mio amico il professor Torczyner [Tur-Sinai], nel
suo volume Ketav ha-Torà, Tel Aviv, Yavne 1943, pp. 9-10 (anche in «Leshonenu»
XII (1941), pp. 17-18).
mule come שלוםo שלום על ישראל, che talora compaiono alla fine d’iscri-
zioni in lingua diversa dall’ebraico, anche se la conoscenza dell’ebraico
non era, certamente, assai diffusa. E proprio come nel caso delle formule
in ebraico, così le formule in greco compaiono talora come aggiunta alla
fine delle iscrizioni in latino. E non solo. Dalle iscrizioni in greco si ricava
l’impressione che l’autore stesse usando una lingua straniera; infatti, sotto
la patina greca si riflettono parole latine e forme grammaticali latine, come
la terminazione –ους per i nomi maschili al posto della terminazione greca
–ος (per esempio, Μαρίνους, Frey n. 42; Σελεύκους, ibid., n. 52). Ci
sono poi casi in cui forme di latino volgare mettono in luce proprio il ver-
nacolo (per esempio, la terminazione –ώρω, vale a dire –oro al posto di –
orum per il genitivo plurale: Βερνακλώρω, per Vernacloro, al posto della
forma classica Vernaculorum, Frey n. 318). Inoltre, bisogna prestar atten-
zione alle iscrizioni in greco in lettere latine e alle latine in lettere greche e
a quelle in cui latino e greco sono mescolati: come una sorta di compro-
messo fra la tradizione antica e la lingua corrente.
Più debole ancora è la base su cui poggia l’assunto, che passa di libro
in libro senza alcuna verifica, che sia necessario fissare il IV secolo come
il momento in cui il latino sostituì il greco come lingua degli epitaffi degli
ebrei di Roma. Questa affermazione si fonda, come detto, su una delle
poche iscrizioni che riportano una data precisa, il 330, costituita da sedici
righe di testo in latino e, alla fine, da tre parole in greco in lettere latine:
dicea osia filentolia. Questo è il classico esempio di un monte sospeso a un
filo, e il filo è completamente logoro. Non solo è difficile concordare circa
la possibilità che questo dato possa istruirci sulla dinamica complessiva,
ma non ci fornisce neanche alcuna informazione sul dato stesso. In questa
iscrizione non c’è nessuna novità: non attesta altro che il fenomeno diffuso
per cui una sequenza di formule stereotipate e pietrificate compare nel co-
lofone, redatto in una lingua di uso più comune. I tre appellativi, δίκαιος,
ὅσιος, φιλέντολος appartengono al repertorio delle espressioni tradizio-
nali (si veda, per esempio, presso Frey, n. 132, 203, 321 509). Al contra-
rio, non solo in questa iscrizione, ma anche in quelle di molto precedenti,
ogni volta che s’intendeva esprimere un certo concetto particolare in modo
libero (per esempio, n. 72, 210, 220) o inserire una creazione letteraria
originale, come le belle poesie scritte sulle lapidi sepolcrali di Probina (n.
527, I-II secolo) e di Regina (n. 476, inizio del II secolo), si faceva ricorso
proprio al latino.
Anche nell’Italia meridionale, sebbene il greco vi continuasse a essere
in uso più a lungo che a Roma, gli ebrei passarono velocemente ad adottare
il latino come lingua parlata, come risulta chiaro dalle iscrizioni prove-
5
Libro I, Sermo IX, 69-70: Hodie tricesima sabbata: vin tu curtis Iudaeis oppe-
dere?
6
Libro V, Satura XIV, 96: quidam sortiti metuentem sabbata patrem; ibid., 101-
102: iudaicum metuunt ius … tradidit arcano quodcumque volumine Moses; sull’uso
del verbo metuere da parte degli ebrei in questa accezione, si veda D. S. Blondheim,
Les parlers judéo-romans, cit., p. xxiv; J. B. Frey, Inscriptions inedites des catacom-
bes juives de Rome (I), «Rivista di archeologia cristiana» VII (1930), pp. 235-260, p.
252, e in Corpus, cit., n. 5, 285, 524, 529, 642.
7
Ad Nationes, I, 13 (ed. Migne, Paris, 1879, p. 650): sabbata et cena pura. Per ciò
che riguarda questa espressione, si veda D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans,
cit., pp. 67-68.
8
Si veda D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans, cit., pp. 67-68.
9
Libro XI, Epistola 94, Si veda ciò che scrisse recentemente su questa epistola
Henri Seyrig, Sur une Epigramme de Martial, «Annuaire de l’Institut de Philologie et
d’Histoire Orientales et Slaves» VII (1939-1944), pp. 283-288.
10
Forse anche quelli che da Roma tornarono in Eretz Israel, pur essendo le loro
iscrizioni in greco (basti ricordare la famosa iscrizione di Teodoto), parlavano latino:
dagli Atti degli Apostoli 2:10 sembrerebbe che non parlassero greco.
11
D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans, cit., pp. xxxvi-xxxvii, xxxix-xlii,
lxxiv, lxxxiii- lxxxiv, lxxxix-xc, xci.
12
Id., pp. ix-xi, xlv-xlvi, lxxv-lxxxiii, xc, xcviii, cxxxv.
13
Le prove su cui si poggia Blondheim sono da spiegarsi in altro modo, come ho
già dimostrato nel mio articolo, La Vetus Latina e le traduzioni giudaiche medioevali
della Bibbia, in Studi e materiali di storia delle religioni, 2, 1926, pp. 151-161; benché
le formule citate in precedenza fossero traduzioni dal greco, non si tratta di espressioni
bibliche.
14
Filone Alessandrino, Legatio ad Caium, 23 (§157) (edizione Cohn-Wendland
VI, p. 184, riga 23): οὔτε ἐκώλυσε συνάγεσθαι πρὸς τὰς τῶν νόμων ὑφηγήσεις.
Poiché le sinagoghe erano già state menzionate precedentemente, sembra che si voglia
qui intendere, nonostante il verbo συνάγεσθαι, l’insegnamento scolastico e non le
omelie sinagogali.
15
TB Sanhedrin 32b: אחר ר' מתיא לרומי...צדק צדק תרדוף הלך אחר חכמים לישיבה
(“Persegui la giustizia, [il che significa] seguire i saggi nella loro rispettive scuole…
Rabbi Mattia a Roma”).
16
Si veda S. Klein, “Eine Tannaim – Familie in Rom”, «Jeschurun» 3 (1916), pp.
441-445.
17
J. B. Frey, Corpus, cit., n. 508: μαθητὴς σοφῶν; n. 113, 193: νομομαθής; n.
33: διδάσκαλος νομομαθής; in un’iscrizione che al momento non è possibile identi-
ficare (Vogelstein Herman, Paul Rieger, Geschichte der Juden in Rom, Berlin, Mayer
and Müller 1895, vol. 1, p. 46): ῥαββῖνος.
18
Lex non è la traduzione di νόμος, ma la prosecuzione della tradizione che inter-
pretò il termine Torà nell’accezione di ḥoq (“statuto”).
19
J. B. Frey, Corpus, cit., n. 629 (Appendice, p. 596).
20
Il versetto compare nella sua forma esatta nella parte ebraica dell’iscrizione, con
l’aggiunta di una waw che la collega a ciò che la precede ( וזכרe non נזכרcome letto da
Frey). Non è necessario far dipendere il plurale iustorum dalla versione della frase
secondo la traduzione dei LXX, se si considera che nelle iscrizioni greche degli ebrei
d’Italia questa frase si trova, in effetti, al singolare (J. B. Frey, Corpus, cit., n. 86, 201,
370).
21
Graziadio Isaia Ascoli, in Atti del IV Congresso internazionale degli Orientali-
sti, vol. 1, Firenze 1880, p. 245, nota 2.
22
Su queste formule si veda Leopold Zunz, Zur Geschichte und Literatur, Berlin,
Veit 1845, pp. 350-354.
23
Si veda «Monatsschrift» (1932), pp. 303-304.
24
Per l’argomento discusso, si veda D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans,
cit., pp. 34-35, e ibid., cit., nella bibliografia dettagliata e la citazione di altre fonti.
sezione del Midrash Rabbà al libro di Ester dove, seguendo il testo ripor-
tato nelle pubblicazioni più diffuse,25 è scritto: «Un certo borganì disse:
“Hanno eletto la lingua latina al pari della greca” (a.l., “in lingua greca”, o,
come suggerisce Mattenot Kehunnà: “al posto della lingua greca”)». Tut-
tavia, è stato dimostrato correttamente dal mio amico prof. Torczyner che
questa lezione è corrotta e che il senso di ciò che è detto è del tutto diverso.
26
Perciò, non potremo basarci su questa fonte. Abbiamo tuttavia una testi-
monianza affidabile, anche se non direttamente da fonti ebraiche. Essa ci è
offerta dall’imperatore Giustiniano. In una delle sue Novellae, dell’anno
553, è scritto:27 Θεσπίζομεν τοίνυν, ἄδειαν εἴναι τοῖς βουλομένοις
Ἑβραίοις κατὰ τὰς συναγωγὰς τὰς αὐτῶν, καθ’ὅν Ἑβραῖοι ὅλως
τόπον εἰσί, διὰ τῆς Ἑλληνίδος φωνῆς τᾶς ἱερὰς βίβλους ἀναγινώσκειν
τοῖς συνιοῦσιν, ἤ καὶ τῆς πατρίου τυχόν, τῆς ἰταλῆς (Ἰταλίας a.l.)
ταύτης φαμέν, ἤ καὶ τῶν ἄλλων ἁπλῶς κτλ, ovvero: «Decretiamo
pertanto che è concessa libertà ai Giudei, che così vogliano, di leggere
nelle loro sinagoghe, e in ogni luogo in cui ci sono Giudei, le sacre Scrit-
ture alle persone radunate o in greco o nella lingua del paese in cui si tro-
vano, per esempio, l’italiana [d’Italia a.l.], o in qualunque altra lingua».
Questa è una testimonianza chiara e decisiva del fatto che nel VI sec. gli
ebrei d’Italia erano usi tradurre nelle sinagoghe la Parashà (e probabil-
mente anche la Haftarà) nel loro vernacolo. È possibile aggiungere una
prova ancora più rilevante. La versione latina codificata dalla tradizione si
riflette nella resa di versetti o persino di libri e di tutta la Bibbia, e ciò per
due vie diverse. La prima via è data dalla presenza di versetti biblici in libri
scritti in latino, non necessariamente per gli ebrei, ma per un pubblico più
vasto. Nonostante siano andati perduti gli appunti che forse i primi tradut-
tori e maestri ebrei annotarono per se stessi o per i propri allievi, ciò che
era destinato al pubblico generale e che, perciò, fu trasmesso di copia in
copia, poté salvarsi dall’abisso dell’oblio e giungere fino ai nostri giorni. E
quando un ebreo, rimasto nella propria religione o convertito, volgeva in
latino un versetto biblico, la sua forma latina era, intenzionalmente o non,
del tutto o in parte, influenzata dalla versione tradizionale che era sulle sue
25
Sulle altre formule si veda l’opera citata nella prossima nota.
26
Nel suo precedentemente ricordato Ketav ha-Torà, pp. 11-12 (anche in «Lesho-
nenu» XII (1941), pp. 19-20).
27
Karl Eduard Zachariae von Lingenthal (ed.), Imp. Iustiniani PP. A. Novellae
quae vocantur sive constitutiones quae extra codicem supersunt ordine chronologico
digestae, vol. II, Leipzig, Teubner 1881, pp. 346 seg.
labbra sin dall’infanzia. Menzionerò qui due opere di questo tipo. La prima
è conosciuta come Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum, scritta
probabilmente da un autore ebreo nel IV o V sec.28 Al fine di istituire un
confronto fra la legislazione della Torà e quella romana l’autore riporta in
traduzione latina alcuni versetti biblici. Si ha l’impressione che la sua tra-
duzione dipenda in buona parte dalla versione fissata nella sua forma tradi-
zionale. Il secondo libro è scritto per promuovere la conversione degli
ebrei o forse, più precisamente, s’intendeva come manuale per chi si dedi-
cava al proselitismo fra gli ebrei.29 Non è possibile identificarne con cer-
tezza l’autore, che visse probabilmente nel XII sec.: si chiamava Odo ed è
possibile supporre che fosse un ebreo convertito, o che perlomeno avesse
studiato Torà presso maestri ebrei. Nel suo libro riporta alcuni versetti bi-
blici, prima nell’originale in lettere ebraiche, poi nell’originale in lettere
latine (probabilmente in modo tale da permettere alle persone che cerca-
vano di fare proselitismo fra gli ebrei di servirsene mentre discutevano con
loro, pur avendo una conoscenza molto scarsa dell’ebraico) e infine in tra-
duzione latina. Questa è talora vicina alle traduzioni diffuse in ambiente
cristiano, in particolare per ciò che riguarda i versetti tratti dal libro dei
Salmi, ben conosciuti all’autore per via del loro uso comune nella liturgia;
talora però si tratta di traduzioni autonome, secondo il metodo letterale
seguito dagli ebrei, e vi si riconosce l’influenza del modo tradizionale
ebraico di traduzione delle Scritture. Per esempio, la parola ( הוצאתיךEsodo
20:3) è tradotta con traxi te, in accordo con la tradizione comune fino ai
nostri giorni fra gli ebrei italiani di rendere per consuetudine la forma hif‘il
del verbo “( יצאuscire”) con il verbo italiano trarre (trahere in latino); la
parola ( ֶפ ֶסלEsodo 20:4) è tradotta dolamentum, in accordo con la prassi di
tutti gli ebrei dei paesi latini, i quali traducono solitamente la parola ֶפ ֶסל
con termini derivati dal verbo dolare;30 vi sono molti altri esempi. Sarebbe
28
Si veda specialmente il volume di E. Volterra su questo libro in «Collatio le-
gum Mosaicarum et Romanarum», Memorie della R. Accademia dei Lincei, Classe di
Scienze morali, storiche e filologiche, serie VI, vol. III, fascicolo I, Roma 1930.
29
Su questo libro e il suo autore, si veda Johann Fischer, Die hebräischen Bibel-
zitate des Scholastikers Odo, «Biblica» XV (1934), pp. 50-93; Arthur M. Landgraf,
Ecrits Theologiques de l’Ecole d’Abelard (Textes Inedits), «Spicilegium sacrum Lova-
niense» XIV, Louvain, 1934, e ancora J. Fischer, Ist das Rätsel “Odo” schon gelöst?,
«Biblica» XXV (1944), 167-195.
30
Per le parole comunemente usate nelle traduzioni in lingue neolatine per la pa-
rola פסל, si veda D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans, cit., p. 145.
31
Per esempio, le edizioni del Libro dei Salmi in latino discusse dal Blondheim,
cit., pp. li-lii, lxxxviii, cxiii-cx.
32
Shibbolè ha-Leqeṭ ha-shalem, ed. Buber, Wilna 1887, p. 57; Tanya, Mantova
1514, “Lettura del Libro della Legge”, par. 16.
33
Ho offerto una bibliografia dettaglia delle traduzioni e dei glossari nel A. Ka-
minka-Festschrift (Vienna, 1937), pp. 129-141, dove, alla nota 1, p. 129, ho anche
elencato la bibliografia dei testi di questo genere che ho pubblicato in varie occasioni
e delle pubblicazioni in cui li ho discussi.
34
Volume XXXIII, pp. 270-271, alla voce Targum.
35
Agostino, Sacrae Scripturae locutiones, libro I, 50 (Corpus scriptorum eccle-
siasticorum latinorum, vol. XXVIII, 1, p. 516), sull’espressione ( ידוע תדעGenesi
15:13): sciendo scies: locutio quidem Scripturarum est usitatissima.