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LA TRADUZIONE GIUDAICA DELLA BIBBIA IN LATINO E LA SUA IMPORTANZA PER LO

STUDIO DELLE TRADUZIONI IN GRECO E IN ARAMAICO


Author(s): Matteo Pradella
Source: La Rassegna Mensile di Israel , Vol. 82, No. 2-3, Umberto Cassuto: Scritti scelti:
Tomo II (MAGGIO-DICEMBRE 2016), pp. 515-528
Published by: Unione delle Comunitá Ebraiche Italiane

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1
LA traduzione giudaica della bibbia in latino
e la sua importanza per lo studio
delle traduzioni in greco e in aramaico*

Ogni ebreo educato in Italia che ha studiato Bibbia da un maestro di


scuola di vecchio stampo si ricorderà certamente dello strano modo in cui
il maestro traduceva oralmente le parole dei passi biblici in italiano. Ab-
bondavano nella traduzione parole insolite, estranee al lessico di uso quo-
tidiano sia del maestro che dell’allievo, costrutti ancor più eccentrici e una
sintassi diversa da quella dell’italiano contemporaneo, parlato e scritto. In
realtà, tale metodo è diffuso anche in altri ambienti e in altri paesi, e il
modo in cui i maestri elementari traducono la Bibbia in giudeo-tedesco,
per esempio, o in giudeo-arabo, non è diverso da quello dei loro colleghi
italiani. Ma, ovviamente, il giovane allievo ignorava tutto ciò, e indubbia-
mente la traduzione del maestro gli appariva alquanto strana, lasciando
nella sua memoria un’impressione che non si sarebbe cancellata col pas-
sare del tempo. Molti dei miei coetanei si ricorderanno ancora, senza dub-
bio, la voce del vecchio maestro che, insegnando loro, ragazzi, la lettura
dello Shema‘, traduceva ‫ אם שמוע תשמעו‬con l’espressione italiana, se così
si può dire, «se ascoltando ascolterete», vale a dire rendendo l’infinito as-
soluto dell’ebraico con il gerundio, costruzione sintattica inconcepibile per
chiunque parli correttamente l’italiano.
È superfluo dire che la traduzione non era invenzione del maestro. Il
suo modo di tradurre non era frutto della sua creatività, ma di una tradi-
zione di cui era erede. Quel maestro era stato allievo di un altro maestro, e

*
Riproduco la conferenza da me tenuta presso Thiasos, Società ebraica per lo
studio dell’antichità classica, a Gerusalemme, il 1 giugno 1943. Preparando la rela-
zione per la stampa, ho aggiunto qua e là alcuni particolari e le note a piè di pagina.
[Pubblicato in ebraico con il titolo Ha-tirgum ha-yehudi shel ha-Miqrà le-latinit we-
chashivutò le-cheqer ha-tirgumim ha-yewaniyim we-ha-aramiyim, in Moshe Schwa-
be, Joshua Gutman (a cura di), Commentationes Iudaico-Hellenisticae in memoriam
Iohannis Lewy, Hierosolymis, Magnes 1949, pp. 161-172].


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quel maestro allievo di un altro maestro ancora, e così via a ritroso di ge-
nerazione in generazione. Se valutiamo le testimonianze e quel che resta di
questa tradizione nel corso dei secoli, possiamo ripercorrerne lo sviluppo
e scoprire che le sue più antiche radici sono profondamente radicate nella
vita dell’ebraismo italiano. Questo studio ci condurrà, infine, alla sorpren-
dente conclusione che, a fianco delle traduzioni latine cristiane, esistette
nell’antichità anche una traduzione giudaica della Bibbia in latino.
Innanzitutto, è opportuno spendere alcune parole per chiarire una que-
stione preliminare: qual era la lingua degli ebrei italiani e, soprattutto, qual
era la lingua degli ebrei di Roma, la comunità più importante nel periodo
più antico dell’insediamento ebraico in Italia?
Molti studiosi sono inclini a pensare che, nei primi secoli della loro
presenza nella capitale, gli ebrei parlassero tutti il greco, e che solo dal IV
secolo il latino iniziasse a imporsi su quello.1 Essi si basano principalmente
sul fatto che la stragrande maggioranza delle iscrizioni scoperte nei cimi-
teri ebraici furono scritte in greco: fra le iscrizioni degli ebrei di Roma e
del circondario, registrate nella raccolta di Frey, 413 sono in greco, contro
137 in latino, una in aramaico, e una per metà in aramaico e per metà in
greco.2 Questi studiosi fissano il sorpasso del latino sul greco nel IV secolo
basandosi su un’iscrizione del 330, interamente in latino, eccetto tre parole
in greco alla fine.3 Tuttavia, così ragionando, essi seguono un metodo sba-
gliato, le cui fondamenta sono del tutto fragili.
È noto che generalmente le epigrafi non vengono incise nella lingua
d’uso quotidiano e che, al contrario, è usanza diffusa consegnare alla pietra
ciò che si vuole tramandare alle generazioni future in una lingua legata alla

1
Si veda, per esempio, Ludwig Blau, Early Christian Epigraphy, Considered
from the Jewish Point of View, «Hebrew Union College Annual» I (1924), p. 224;
David Simon Blondheim, Les parlers judéo-romans et la vetus latina. Études sur les
rapports entre les traductions bibliques de langue romane des juifs au moyen âge et les
anciennes versions, Paris, E. Champion 1925, pp. xxii-xxx; Jean-Baptiste Frey, Cor-
pus Inscriptionum Iudaicarum, recueil des inscriptions juives qui vont du IIIe siècle
avant Jesus-Christ au VIIe siècle de notre ère, Città del Vaticano, Pontificio Istituto di
Archeologia Cristiana, Paris, Paul Geuthner 1936, pp. lxv-lxvi.
2
J. B. Frey, Corpus, cit.
3
Nikolaus Müller, Die jüdische Katakombe am Monteverde zu Rom, Leipzig, Otto
Harrassowitz Verlag 1912, p. 93; Id., Il cimitero degli antichi ebrei posto sulla Via
Portuense, Svolgimento di una lettura tenuta alla Pontificia Accademia Romana di
Archeologia nell’adunanza del 24 aprile 1909, «Rendiconti della Pontificia Accade-
mia Romana di Archeologia» II, 12 (1915), p. 75; D. S. Blondheim, Les parlers judéo-
romans, cit., p. xxvii; J. B. Frey, Corpus, cit., p. lxvi.

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tradizione dei padri, e non nel vernacolo limitato all’uso quotidiano. Se


dovessimo basarci esclusivamente sulla lingua delle iscrizioni dovremmo
dedurre che la lingua quotidiana degli ebrei d’Europa dal IX secolo in poi
fosse l’ebraico; così facendo, però, sbaglieremmo. Allo stesso modo non è
possibile trarre dal greco delle iscrizioni ebraiche in Italia alcuna conclu-
sione circa la lingua di chi quelle iscrizioni incise nella pietra. Al contrario,
le poche iscrizioni in latino, lingua di un paese che non era legato ad alcuna
tradizione cara al cuore degli ebrei, dimostrano chiaramente che esso si era
già guadagnato una posizione importante nella comunità ebraica. Un’iscri-
zione in latino pesa tanto quanto cento iscrizioni in greco.
Il contesto linguistico che si riflette nelle iscrizioni si chiarisce facil-
mente. Gli ebrei che giungevano in Italia dalle regioni orientali erano
suddivisi in due tipi: il primo, e il più numeroso, proveniva dalle comu-
nità grecizzate in cui si parlava greco; il secondo, null’altro che un’esigua
minoranza, era costituito dagli “ebrei” provenienti dalle comunità in cui
si parlava aramaico.4 Ovviamente i nuovi immigrati, soprattutto i vecchi,
continuavano a parlare la lingua madre anche nel nuovo luogo d’insedia-
mento, ma i figli si familiarizzarono velocemente con la lingua del nuovo
paese. Ciononostante, il greco continuava a essere parlato in larghi circoli
a Roma, e l’aramaico era, a sua volta, la lingua parlata dagli immigrati
dall’Oriente. Tuttavia anche le nuove generazioni si servivano, di tanto in
tanto, della lingua ereditata dai padri nel consegnare alla scrittura qualcosa
d’importante e alla quale attribuivano particolare valore. Perciò non c’è
da sorprendersi che i figli degli ellenisti scrissero la maggior parte delle
loro iscrizioni in greco, mentre gli “ebrei” usarono l’aramaico, o persino
il greco, in conformità con il costume della maggioranza della comunità
ebraica. Ma non fu sempre così, e non raramente si servirono della lingua
latina, da loro correntemente parlata, anche per questa finalità.
Uno studio particolareggiato delle iscrizioni rinforza questa prospet-
tiva. La maggior parte delle iscrizioni in greco non contengono altro che
formule stereotipiche, che rappresentano una sorta di prestampato (cono-
sciuto persino da chi di quelle lingue ha scarsa conoscenza) limitato a for-

4
Su questo significato della parola “ebrei”, si vedano le mie osservazioni in
«Nuovo Bullettino di archeologia cristiana» XXII (1926), pp. 197-198, e poi in
«Giornale della Società Asiatica Italiana» nuova serie 2b (1932), pp. 130-131; e ora si
veda ciò che ha scritto a riguardo il mio amico il professor Torczyner [Tur-Sinai], nel
suo volume Ketav ha-Torà, Tel Aviv, Yavne 1943, pp. 9-10 (anche in «Leshonenu»
XII (1941), pp. 17-18).

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mule come ‫ שלום‬o ‫שלום על ישראל‬, che talora compaiono alla fine d’iscri-
zioni in lingua diversa dall’ebraico, anche se la conoscenza dell’ebraico
non era, certamente, assai diffusa. E proprio come nel caso delle formule
in ebraico, così le formule in greco compaiono talora come aggiunta alla
fine delle iscrizioni in latino. E non solo. Dalle iscrizioni in greco si ricava
l’impressione che l’autore stesse usando una lingua straniera; infatti, sotto
la patina greca si riflettono parole latine e forme grammaticali latine, come
la terminazione –ους per i nomi maschili al posto della terminazione greca
–ος (per esempio, Μαρίνους, Frey n. 42; Σελεύκους, ibid., n. 52). Ci
sono poi casi in cui forme di latino volgare mettono in luce proprio il ver-
nacolo (per esempio, la terminazione –ώρω, vale a dire –oro al posto di –
orum per il genitivo plurale: Βερνακλώρω, per Vernacloro, al posto della
forma classica Vernaculorum, Frey n. 318). Inoltre, bisogna prestar atten-
zione alle iscrizioni in greco in lettere latine e alle latine in lettere greche e
a quelle in cui latino e greco sono mescolati: come una sorta di compro-
messo fra la tradizione antica e la lingua corrente.
Più debole ancora è la base su cui poggia l’assunto, che passa di libro
in libro senza alcuna verifica, che sia necessario fissare il IV secolo come
il momento in cui il latino sostituì il greco come lingua degli epitaffi degli
ebrei di Roma. Questa affermazione si fonda, come detto, su una delle
poche iscrizioni che riportano una data precisa, il 330, costituita da sedici
righe di testo in latino e, alla fine, da tre parole in greco in lettere latine:
dicea osia filentolia. Questo è il classico esempio di un monte sospeso a un
filo, e il filo è completamente logoro. Non solo è difficile concordare circa
la possibilità che questo dato possa istruirci sulla dinamica complessiva,
ma non ci fornisce neanche alcuna informazione sul dato stesso. In questa
iscrizione non c’è nessuna novità: non attesta altro che il fenomeno diffuso
per cui una sequenza di formule stereotipate e pietrificate compare nel co-
lofone, redatto in una lingua di uso più comune. I tre appellativi, δίκαιος,
ὅσιος, φιλέντολος appartengono al repertorio delle espressioni tradizio-
nali (si veda, per esempio, presso Frey, n. 132, 203, 321 509). Al contra-
rio, non solo in questa iscrizione, ma anche in quelle di molto precedenti,
ogni volta che s’intendeva esprimere un certo concetto particolare in modo
libero (per esempio, n. 72, 210, 220) o inserire una creazione letteraria
originale, come le belle poesie scritte sulle lapidi sepolcrali di Probina (n.
527, I-II secolo) e di Regina (n. 476, inizio del II secolo), si faceva ricorso
proprio al latino.
Anche nell’Italia meridionale, sebbene il greco vi continuasse a essere
in uso più a lungo che a Roma, gli ebrei passarono velocemente ad adottare
il latino come lingua parlata, come risulta chiaro dalle iscrizioni prove-

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nienti da quella regione, in particolare da quelle di Venosa. Allo stesso


modo le iscrizioni latine degli ebrei (benché scarse) in Francia, in Spagna
e in Africa settentrionale a ovest dell’Egitto, dimostrano che, nel processo
di latinizzazione di quelle regioni, gli ebrei non rimasero indietro rispetto
al resto della popolazione.
Oltre alla testimonianza che ci viene data dalla lingua latina degli epi-
taffi bisogna aggiungere le testimonianze letterarie che provano che il la-
tino era usato dagli ebrei come lingua quotidiana. Forse non bisogna at-
tribuire molta importanza all’espressione tricesima sabbata in Orazio (I
secolo) il cui significato non è chiaro, ed è impossibile sapere se il poeta
l’abbia veramente appresa da ebrei, o se l’abbia creata sulla scorta di una
conoscenza nebulosa delle loro consuetudini religiose.5 Comunque sia, è
un dato di fatto che già nel I e II secolo d.e.v. esistevano espressioni latine
per indicare elementi e concetti propri dell’ebraismo. Così Giovenale nelle
sue Satire (127-138) per indicare l’aderenza alle leggi d’Israele si serve del
verbo metuo;6 e nel 197 Tertulliano testimonia che gli ebrei indicavano il
sesto giorno, la sera del sabato, col nome di cena pura, espressione tratta,
probabilmente, dalla terminologia pagana.7 Una glossa anonima, che pre-
cede probabilmente l’imporsi del cristianesimo, indica che gli ebrei si ser-
vivano del nome lamentus, nome maschile singolare, al posto di lamenta
neutro plurale, usato comunemente in latino;8 e così via per altre parole.
Inoltre, il fatto che fra la popolazione ebraica di Roma vi fossero, nel I
e nel II sec. d.e.v., autori capaci di scrivere buona poesia in latino, come le
elegie per Probina e Regina che ho menzionato poco fa, da cui si sprigiona
il profumo della poesia classica latina, vale come cento testimonianze
(specialmente se poniamo mente al fatto che queste elegie erano destinate
proprio alla comunità ebraica in visita ai cimiteri ebraici) della profonda

5
Libro I, Sermo IX, 69-70: Hodie tricesima sabbata: vin tu curtis Iudaeis oppe-
dere?
6
Libro V, Satura XIV, 96: quidam sortiti metuentem sabbata patrem; ibid., 101-
102: iudaicum metuunt ius … tradidit arcano quodcumque volumine Moses; sull’uso
del verbo metuere da parte degli ebrei in questa accezione, si veda D. S. Blondheim,
Les parlers judéo-romans, cit., p. xxiv; J. B. Frey, Inscriptions inedites des catacom-
bes juives de Rome (I), «Rivista di archeologia cristiana» VII (1930), pp. 235-260, p.
252, e in Corpus, cit., n. 5, 285, 524, 529, 642.
7
Ad Nationes, I, 13 (ed. Migne, Paris, 1879, p. 650): sabbata et cena pura. Per ciò
che riguarda questa espressione, si veda D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans,
cit., pp. 67-68.
8
Si veda D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans, cit., pp. 67-68.

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penetrazione della lingua latina in ambiente ebraico. A questo riguardo è


opportuno menzionare anche «il poeta circonciso», il verpus poeta, noto
grazie a una delle Epistole di Marziale (I sec. d.e.v.), anche se i suoi com-
ponimenti poetici non erano destinati al pubblico ebraico e il suo carattere
era proprio quello di un ebreo in tutto e per tutto assimilato all’ambiente
non ebraico circostante.9
Da tutto ciò che abbiamo visto finora ci è possibile concludere che, nei
primi secoli dell’era volgare, gli ebrei che vivevano nei paesi intorno alla
parte occidentale del bacino del Mediterraneo, e soprattutto a Roma, la
capitale, erano in maggioranza parlanti latino.10
E ora dobbiamo fare un altro passo avanti. Quegli ebrei che parlavano
latino nella loro vita di tutti i giorni e che, eccetto casi eccezionali, erano
certamente lontani da una conoscenza soddisfacente dell’ebraico, in che
modo studiavano le Sacre Scritture?
Questo problema non è ancora stato adeguatamente chiarito. Pure il
Blondheim, nonostante la lunga trattazione dedicata al materiale che aveva
a disposizione a riguardo, non giunse a una soluzione soddisfacente. Tutta-
via egli era incline a supporre, pur con una certa esitazione, che si potesse
pensare che già in epoca antica esistesse una tradizione giudaica per le ver-
sioni della Bibbia in latino,11 pur ritenendo, e ciò senza esitazione, che fon-
damentale per gli ebrei del mondo romano fosse la traduzione greca, e che
la tradizione di una versione in latino, se mai esistita, fu il prodotto dell’a-
ver volto gli ebrei in latino le traduzioni in greco già in loro possesso.12 Ma
ciò è inammissibile.13 Nel corso di tutta la lunga e complessa storia delle
traduzioni della Bibbia degli ebrei non troviamo altro che traduzioni fatte
dall’originale ebraico, e il motivo è chiaro: per gli ebrei le traduzioni non

9
Libro XI, Epistola 94, Si veda ciò che scrisse recentemente su questa epistola
Henri Seyrig, Sur une Epigramme de Martial, «Annuaire de l’Institut de Philologie et
d’Histoire Orientales et Slaves» VII (1939-1944), pp. 283-288.
10
Forse anche quelli che da Roma tornarono in Eretz Israel, pur essendo le loro
iscrizioni in greco (basti ricordare la famosa iscrizione di Teodoto), parlavano latino:
dagli Atti degli Apostoli 2:10 sembrerebbe che non parlassero greco.
11
D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans, cit., pp. xxxvi-xxxvii, xxxix-xlii,
lxxiv, lxxxiii- lxxxiv, lxxxix-xc, xci.
12
Id., pp. ix-xi, xlv-xlvi, lxxv-lxxxiii, xc, xcviii, cxxxv.
13
Le prove su cui si poggia Blondheim sono da spiegarsi in altro modo, come ho
già dimostrato nel mio articolo, La Vetus Latina e le traduzioni giudaiche medioevali
della Bibbia, in Studi e materiali di storia delle religioni, 2, 1926, pp. 151-161; benché
le formule citate in precedenza fossero traduzioni dal greco, non si tratta di espressioni
bibliche.

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assursero mai al rango dell’originale, come avvenne invece per i cristiani,


e non furono considerate nient’altro che un sostegno per la comprensione
dell’originale, o, al massimo, come un sostituto provvisorio e insufficiente
per trasmettere un concetto fedele all’originale. Di conseguenza, fu natu-
rale che ogni nuova traduzione fosse compiuta sull’ebraico, e non da una
traduzione. Non vi è nessun motivo per ritenere che la prassi degli ebrei
parlanti latino si discostò da questo principio fondamentale. Nella comu-
nità di Roma, il centro più importante e più antico, non mancavano certo
persone che conoscessero l’originale ebraico. È sufficiente notare che a
Roma, già nel I sec. esisteva una scuola rabbinica14 che raggiunse il suo
apice nel II sec. sotto la guida di Rabbi Mattià ben Cheresh,15 a cui, nel
corso dei secoli, possiamo aggiungere nomi come Todos di Roma, Plation
di Roma, Reuven ben Aristobulus, e altri ancora.16 Anche sulle tombe dei
cimiteri dell’Urbe troviamo menzione di alcuni maestri rabbinici.17 Perciò
non mancò certo a Roma chi potesse tradurre dall’originale ebraico in la-
tino volgare.
I primi arrivati, leggendo in sinagoga la Torà o la Haftarà, senza dub-
bio traducevano nella lingua da loro parlata, in greco se appartenevano al
gruppo degli ellenisti, in aramaico se appartenevano a quello degli “ebrei”.
Ma quando persero la conoscenza sia del greco che dell’aramaico, cui su-
bentrò il latino, si sentì la necessità di rendere la traduzione in latino, af-
finché l’assemblea potesse capirla. E non bisogna dubitare del fatto che
vi fosse premura a soddisfare tale necessità e che i traduttori rendessero il
testo, dopo la lettura nell’originale ebraico, nella lingua che la comunità
avrebbe inteso e parlato. Le traduzioni in greco, che non erano più com-
prese, andarono dimenticate insieme alla lingua in cui erano state scritte.

14
Filone Alessandrino, Legatio ad Caium, 23 (§157) (edizione Cohn-Wendland
VI, p. 184, riga 23): οὔτε ἐκώλυσε συνάγεσθαι πρὸς τὰς τῶν νόμων ὑφηγήσεις.
Poiché le sinagoghe erano già state menzionate precedentemente, sembra che si voglia
qui intendere, nonostante il verbo συνάγεσθαι, l’insegnamento scolastico e non le
omelie sinagogali.
15
TB Sanhedrin 32b: ‫ אחר ר' מתיא לרומי‬...‫צדק צדק תרדוף הלך אחר חכמים לישיבה‬
(“Persegui la giustizia, [il che significa] seguire i saggi nella loro rispettive scuole…
Rabbi Mattia a Roma”).
16
Si veda S. Klein, “Eine Tannaim – Familie in Rom”, «Jeschurun» 3 (1916), pp.
441-445.
17
J. B. Frey, Corpus, cit., n. 508: μαθητὴς σοφῶν; n. 113, 193: νομομαθής; n.
33: διδάσκαλος νομομαθής; in un’iscrizione che al momento non è possibile identi-
ficare (Vogelstein Herman, Paul Rieger, Geschichte der Juden in Rom, Berlin, Mayer
and Müller 1895, vol. 1, p. 46): ῥαββῖνος.

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522 la traduzione giudaica della bibbia in latino

Oltre alla lettura sinagogale, vi era un’altra occasione per la traduzione


della Bibbia in latino: l’insegnamento scolastico. I genitori desiderosi che
i figli studiassero Torà certamente non li avrebbero mandati da un mae-
stro che avrebbe insegnato loro a leggere e tradurre dalla versione greca,
visto che erano abituati a parlare latino. Inoltre, poiché questa lingua non
era altrettanto sacra come l’ebraico, li avrebbero piuttosto mandati da chi
avrebbe insegnato ai loro figli a leggere e tradurre in latino dall’originale
ebraico.
Ed è pure scontato il fatto che anche i traduttori nelle sinagoghe e i
maestri nelle scuole traducessero seguendo la tradizione esegetica comune
all’ebraismo. E, allo stesso modo, è scontato che l’allievo, divenuto mae-
stro, avrebbe ripetuto oralmente ai suoi allievi ciò che aveva appreso dal
suo maestro e, per quanto possibile, con le stesse parole che aveva ricevuto
dal suo maestro. Di conseguenza, la traduzione latina assunse subito una
forma tradizionale che rimase immutata nel corso dei secoli.
La traduzione latina, ovviamente, venne trasmessa solo oralmente.
Forse alcuni dei traduttori misero per iscritto qualche brano, a beneficio
proprio o dei loro allievi, ma non ci è giunto nessun manoscritto. Non
c’è da stupirsene se consideriamo che non ci è giunto nessun manoscritto
ebraico proveniente da quel periodo e di quell’ambiente. Comunque non
abbiamo motivo di dubitare dell’esistenza di una versione latina tradizio-
nale. Non è questa una congettura incerta come quella del Blondheim, ma
una conclusione sicura, dedotta dalle esigenze dettate dalle condizioni
nelle quali gli ebrei vivevano.
Tale conclusione è inoltre legittimata da testimonianze esplicite. La più
antica è data dalle vestigia di una traduzione proveniente dal I sec. d.e.v.
Resti di tal genere si trovano già nelle iscrizioni latine precedentemente
menzionate. In esse compaiono, in veste latina, espressioni bibliche o deri-
vate da versetti biblici, ed è chiaro che in tali formule si riflette la tradu-
zione codificata dalla tradizione. Per esempio, nell’elegia per Regina pre-
cedentemente ricordata, è scritto: observantia legis, che corrisponde
all’ebraico ‫שמירת התורה‬, e in queste due parole si riflette già la tradizione,
conservatasi per secoli, di tradurre il verbo biblico ‫לשמור‬, con questa acce-
zione, con il verbo latino observare, e ‫ תורה‬con il latino lex.18 In un’iscri-
zione ebraica proveniente da Taranto19 si trova una frase latina costruita

18
Lex non è la traduzione di νόμος, ma la prosecuzione della tradizione che inter-
pretò il termine Torà nell’accezione di ḥoq (“statuto”).
19
J. B. Frey, Corpus, cit., n. 629 (Appendice, p. 596).

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la traduzione giudaica della bibbia in latino 523

prendendo a modello il versetto biblico di Proverbi 10:7, ‫זכר צדיק לברכה‬:


memoria iustor[u]m ad be[nedictionem].20 In iscrizioni frammentarie dalla
Spagna21 sono conservate le lettere –tus in ligatorium, che, certamente, non
sono altro che parte della traduzione di una frase derivata dall’espressione
del versetto biblico di I Samuele 25:29 (‫)והיתה נפש אדוני צרורה בצרור החיים‬
[«la tua anima, o mio Signore, sia conservata nello scrigno della vita»], che
compare con frequenza sugli epitaffi: … li[gatus in ligatorium [vitae].22 E,
allo stesso modo, l’espressione in saeculum, che compare in una delle
iscrizioni (Frey, n. 526) nel senso di «per l’eternità», è la traduzione della
espressione biblica ‫לעולם‬, rimasta immutata per secoli;23 e similmente do-
mus aeterna (n. 523, domi heternae) è traduzione dell’espressione biblica
‫( בית עולם‬Qohelet 12:5), e così via. Anche nelle fonti letterarie incontriamo
tali vestigia. Così, per esempio, nel libro Quaestiones Veteris et Novi Te-
stamenti, attribuito ad Agostino (scritto, probabilmente, a Roma intorno al
380), si parla della mitzwà della capanna osservata dagli ebrei dell’epoca,
ove la capanna è chiamata col nome latino casa, come testimoniato dallo
stesso Agostino (forse sulla base di ciò che sentì direttamente dagli ebrei
dell’Africa settentrionale). La parola casa è rimasta per secoli fra gli ebrei
d’Italia, nella forma del diminutivo casella, come traduzione della parola
biblica ‫ ֻסכָּ ה‬.24 Sarebbe facile aggiunge altri esempi ma non c’è bisogno di
dilungarsi.
Importanza ben maggiore dei resti di parole o espressioni isolate è
da attribuire alle testimonianze riguardo alla traduzione nel suo insieme.
Prendiamole ora in considerazione.
In passato ritenni che sarebbe stato forse possibile rintracciare un indi-
zio della traduzione latina, che sostituì quella greca, nella chiusura della IV

20
Il versetto compare nella sua forma esatta nella parte ebraica dell’iscrizione, con
l’aggiunta di una waw che la collega a ciò che la precede (‫ וזכר‬e non ‫ נזכר‬come letto da
Frey). Non è necessario far dipendere il plurale iustorum dalla versione della frase
secondo la traduzione dei LXX, se si considera che nelle iscrizioni greche degli ebrei
d’Italia questa frase si trova, in effetti, al singolare (J. B. Frey, Corpus, cit., n. 86, 201,
370).
21
Graziadio Isaia Ascoli, in Atti del IV Congresso internazionale degli Orientali-
sti, vol. 1, Firenze 1880, p. 245, nota 2.
22
Su queste formule si veda Leopold Zunz, Zur Geschichte und Literatur, Berlin,
Veit 1845, pp. 350-354.
23
Si veda «Monatsschrift» (1932), pp. 303-304.
24
Per l’argomento discusso, si veda D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans,
cit., pp. 34-35, e ibid., cit., nella bibliografia dettagliata e la citazione di altre fonti.

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524 la traduzione giudaica della bibbia in latino

sezione del Midrash Rabbà al libro di Ester dove, seguendo il testo ripor-
tato nelle pubblicazioni più diffuse,25 è scritto: «Un certo borganì disse:
“Hanno eletto la lingua latina al pari della greca” (a.l., “in lingua greca”, o,
come suggerisce Mattenot Kehunnà: “al posto della lingua greca”)». Tut-
tavia, è stato dimostrato correttamente dal mio amico prof. Torczyner che
questa lezione è corrotta e che il senso di ciò che è detto è del tutto diverso.
26
Perciò, non potremo basarci su questa fonte. Abbiamo tuttavia una testi-
monianza affidabile, anche se non direttamente da fonti ebraiche. Essa ci è
offerta dall’imperatore Giustiniano. In una delle sue Novellae, dell’anno
553, è scritto:27 Θεσπίζομεν τοίνυν, ἄδειαν εἴναι τοῖς βουλομένοις
Ἑβραίοις κατὰ τὰς συναγωγὰς τὰς αὐτῶν, καθ’ὅν Ἑβραῖοι ὅλως
τόπον εἰσί, διὰ τῆς Ἑλληνίδος φωνῆς τᾶς ἱερὰς βίβλους ἀναγινώσκειν
τοῖς συνιοῦσιν, ἤ καὶ τῆς πατρίου τυχόν, τῆς ἰταλῆς (Ἰταλίας a.l.)
ταύτης φαμέν, ἤ καὶ τῶν ἄλλων ἁπλῶς κτλ, ovvero: «Decretiamo
pertanto che è concessa libertà ai Giudei, che così vogliano, di leggere
nelle loro sinagoghe, e in ogni luogo in cui ci sono Giudei, le sacre Scrit-
ture alle persone radunate o in greco o nella lingua del paese in cui si tro-
vano, per esempio, l’italiana [d’Italia a.l.], o in qualunque altra lingua».
Questa è una testimonianza chiara e decisiva del fatto che nel VI sec. gli
ebrei d’Italia erano usi tradurre nelle sinagoghe la Parashà (e probabil-
mente anche la Haftarà) nel loro vernacolo. È possibile aggiungere una
prova ancora più rilevante. La versione latina codificata dalla tradizione si
riflette nella resa di versetti o persino di libri e di tutta la Bibbia, e ciò per
due vie diverse. La prima via è data dalla presenza di versetti biblici in libri
scritti in latino, non necessariamente per gli ebrei, ma per un pubblico più
vasto. Nonostante siano andati perduti gli appunti che forse i primi tradut-
tori e maestri ebrei annotarono per se stessi o per i propri allievi, ciò che
era destinato al pubblico generale e che, perciò, fu trasmesso di copia in
copia, poté salvarsi dall’abisso dell’oblio e giungere fino ai nostri giorni. E
quando un ebreo, rimasto nella propria religione o convertito, volgeva in
latino un versetto biblico, la sua forma latina era, intenzionalmente o non,
del tutto o in parte, influenzata dalla versione tradizionale che era sulle sue

25
Sulle altre formule si veda l’opera citata nella prossima nota.
26
Nel suo precedentemente ricordato Ketav ha-Torà, pp. 11-12 (anche in «Lesho-
nenu» XII (1941), pp. 19-20).
27
Karl Eduard Zachariae von Lingenthal (ed.), Imp. Iustiniani PP. A. Novellae
quae vocantur sive constitutiones quae extra codicem supersunt ordine chronologico
digestae, vol. II, Leipzig, Teubner 1881, pp. 346 seg.

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la traduzione giudaica della bibbia in latino 525

labbra sin dall’infanzia. Menzionerò qui due opere di questo tipo. La prima
è conosciuta come Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum, scritta
probabilmente da un autore ebreo nel IV o V sec.28 Al fine di istituire un
confronto fra la legislazione della Torà e quella romana l’autore riporta in
traduzione latina alcuni versetti biblici. Si ha l’impressione che la sua tra-
duzione dipenda in buona parte dalla versione fissata nella sua forma tradi-
zionale. Il secondo libro è scritto per promuovere la conversione degli
ebrei o forse, più precisamente, s’intendeva come manuale per chi si dedi-
cava al proselitismo fra gli ebrei.29 Non è possibile identificarne con cer-
tezza l’autore, che visse probabilmente nel XII sec.: si chiamava Odo ed è
possibile supporre che fosse un ebreo convertito, o che perlomeno avesse
studiato Torà presso maestri ebrei. Nel suo libro riporta alcuni versetti bi-
blici, prima nell’originale in lettere ebraiche, poi nell’originale in lettere
latine (probabilmente in modo tale da permettere alle persone che cerca-
vano di fare proselitismo fra gli ebrei di servirsene mentre discutevano con
loro, pur avendo una conoscenza molto scarsa dell’ebraico) e infine in tra-
duzione latina. Questa è talora vicina alle traduzioni diffuse in ambiente
cristiano, in particolare per ciò che riguarda i versetti tratti dal libro dei
Salmi, ben conosciuti all’autore per via del loro uso comune nella liturgia;
talora però si tratta di traduzioni autonome, secondo il metodo letterale
seguito dagli ebrei, e vi si riconosce l’influenza del modo tradizionale
ebraico di traduzione delle Scritture. Per esempio, la parola ‫( הוצאתיך‬Esodo
20:3) è tradotta con traxi te, in accordo con la tradizione comune fino ai
nostri giorni fra gli ebrei italiani di rendere per consuetudine la forma hif‘il
del verbo ‫“( יצא‬uscire”) con il verbo italiano trarre (trahere in latino); la
parola ‫( ֶפ ֶסל‬Esodo 20:4) è tradotta dolamentum, in accordo con la prassi di
tutti gli ebrei dei paesi latini, i quali traducono solitamente la parola ‫ֶפ ֶסל‬
con termini derivati dal verbo dolare;30 vi sono molti altri esempi. Sarebbe

28
Si veda specialmente il volume di E. Volterra su questo libro in «Collatio le-
gum Mosaicarum et Romanarum», Memorie della R. Accademia dei Lincei, Classe di
Scienze morali, storiche e filologiche, serie VI, vol. III, fascicolo I, Roma 1930.
29
Su questo libro e il suo autore, si veda Johann Fischer, Die hebräischen Bibel-
zitate des Scholastikers Odo, «Biblica» XV (1934), pp. 50-93; Arthur M. Landgraf,
Ecrits Theologiques de l’Ecole d’Abelard (Textes Inedits), «Spicilegium sacrum Lova-
niense» XIV, Louvain, 1934, e ancora J. Fischer, Ist das Rätsel “Odo” schon gelöst?,
«Biblica» XXV (1944), 167-195.
30
Per le parole comunemente usate nelle traduzioni in lingue neolatine per la pa-
rola ‫פסל‬, si veda D. S. Blondheim, Les parlers judéo-romans, cit., p. 145.

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526 la traduzione giudaica della bibbia in latino

possibile prendere in considerazione anche altre opere di questo genere,31


ma anche su questo argomento non è necessario dilungarsi.
La seconda via abbraccia materiale molto più abbondante e sarà in
grado di condurre a risultati molto più cospicui. È la via che mostra come
la traduzione, così come codificata dalla tradizione, si sia evoluta fra gli
ebrei stessi. Questa evoluzione avvenne sia in Italia, che in Francia e nella
Penisola Iberica (nell’Africa settentrionale la cultura romana si estinse con
la conquista islamica), ma il luogo in cui è possibile seguirla passo per
passo nelle sue varie fasi è solo l’Italia, poiché solo in Italia la presenza
ebraica è continuata ininterrottamente fino ai nostri giorni, senza che ne
determinassero la scomparsa, espulsioni di massa o migrazioni. Per questi
motivi è utile concentrarsi in particolar modo sullo sviluppo di questa tra-
dizione fra gli ebrei d’Italia.
Come detto, la traduzione diffusa nelle scuole e nelle sinagoghe in Ita-
lia, a partire dal I sec., era trasmessa oralmente. E, dal momento che non
era stata messa per iscritto (ad eccezione, forse, di qualche nota ad uso
personale), poteva lentamente modificarsi, col passare dei secoli, assecon-
dando i cambiamenti del volgare. Tuttavia si continuò, nel corso dei se-
coli, a tradurre la Bibbia usando lo stesso metodo e più o meno le stesse
parole, conservando ciascuno ciò che aveva sentito a scuola dal maestro.
La pronuncia dei vocaboli e la loro morfologia andavano però modifican-
dosi, così come la lingua parlata, il latino volgare, che andò via via trasfor-
mandosi in una lingua nuova, il volgare italiano. Nessuno percepiva tali
cambiamenti, che avvenivano progressivamente, poiché nessuno poteva
confrontare le traduzioni del suo tempo con quelle del passato. In con-
comitanza con l’evoluzione del volgare si sviluppò, nel corso dei secoli,
la forma della traduzione ebraica; e mentre andava formandosi la lingua
italiana, fu creata accanto ad essa anche la traduzione italiana della Bib-
bia ebraica. Sull’esistenza e sull’uso di questa traduzione testimoniano le
autorità religiose romane del XIII sec. mentre discutono se, secondo la
Halakhà, la lettura della traduzione italiana possa essere considerata equi-
valente a quella della traduzione aramaica e se, così facendo, si adempia
l’obbligo di leggere il Targum.32 E, poiché nel frattempo era stato fissato
l’ordine delle preghiere secondo il rito degli ebrei romani, alla traduzione

31
Per esempio, le edizioni del Libro dei Salmi in latino discusse dal Blondheim,
cit., pp. li-lii, lxxxviii, cxiii-cx.
32
Shibbolè ha-Leqeṭ ha-shalem, ed. Buber, Wilna 1887, p. 57; Tanya, Mantova
1514, “Lettura del Libro della Legge”, par. 16.

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la traduzione giudaica della bibbia in latino 527

della Bibbia si aggiunse anche quella dell’ordine delle preghiere (Siddur)


con le porzioni della Scrittura in esso contenute.
Dal quel periodo in poi è possibile conoscere bene la versione tradizio-
nale nei suoi particolari, poiché da allora in poi ci sono giunti, contenuti in
manoscritti, alcuni elenchi che traduttori e maestri annotarono, o in forma
di glossari o di traduzioni continue, addirittura della Bibbia intera. Alcuni
glossari hanno avuto la buona sorte di essere pubblicati a stampa, e come
loro anche alcune edizioni della traduzione dell’ordine delle preghiere.33
Tutte le traduzioni e tutti i glossari erano comunque ad esclusivo uso per-
sonale, senza nessun carattere ufficiale e senza nessuna intenzione di stabi-
lire un’edizione definitiva, e perciò discordano l’uno dall’altro nei partico-
lari. Tuttavia essi rappresentavano tutti, nella sostanza, un’unica tradizione
che non è altro che il proseguimento di quella antica in latino. Da questi
potremo ricavare un’idea chiara delle fasi antiche della tradizione, e giun-
gere, o ad avvicinarci, a una ricostruzione della traduzione nella sua forma
latina originaria.
La storia di questa tradizione, che possiamo seguire dall’inizio del suo
sviluppo fino ai nostri giorni, potrà gettar luce sulla storia delle antiche tra-
duzioni greche e aramaiche. Le modalità del loro sviluppo, il loro modo di
rapportarsi all’originale ebraico, il loro uso nella vita quotidiana, il modo
in cui sono state raccolte in un libro per conservarne la memoria, le va-
rianti fra i manoscritti e altro ancora, tutto sarà possibile chiarire in accordo
con ciò che vediamo in duemila anni di storia della traduzione giudaica in
latino-italiano. Ho già scritto estesamente a riguardo, alcuni anni fa, in un
articolo sulle traduzioni aramaiche pubblicato nell’Enciclopedia Italiana,34
e perciò potrò ora limitarmi a poche parole. Tuttavia, non sarà superfluo
sottolineare anche qui l’importanza dello studio della tradizione delle ver-
sioni latine-italiane per la ricerca sulle versioni greche e aramaiche. In que-
sto modo ci si chiarirà, fra l’altro, per quale motivo sono falliti tutti gli
sforzi fatti per giungere a una ricostruzione di un Urseptuaginta: questi
sforzi si proponevano l’obiettivo di cercare qualcosa che probabilmente
«mai esistette né mai fu creata».
Vorrei fare un’altra osservazione con cui concludere il mio discorso, ed

33
Ho offerto una bibliografia dettaglia delle traduzioni e dei glossari nel A. Ka-
minka-Festschrift (Vienna, 1937), pp. 129-141, dove, alla nota 1, p. 129, ho anche
elencato la bibliografia dei testi di questo genere che ho pubblicato in varie occasioni
e delle pubblicazioni in cui li ho discussi.
34
Volume XXXIII, pp. 270-271, alla voce Targum.

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528 la traduzione giudaica della bibbia in latino

è che, come le traduzioni italiane degli ebrei ci permettono di conoscere in


modo dettagliato come, nell’antichità, venne realizzata la traduzione giu-
daica in latino, così ciò che conosciamo delle antiche traduzioni latine ci
chiarisce alcuni strani fenomeni nelle tarde traduzioni italiane. Per esem-
pio, l’espressione se ascoltando ascolterete, che ho ricordato all’inizio del
mio intervento, ancora d’uso comune fra i maestri di scuola elementare
alcuni decenni fa in Italia, non è altro che la continuazione dell’antica
espressione, come si audiendo audietis o simile a questa, di cui si ser-
vivano i διδάσκαλοι che insegnavano Torà ai giovani ebrei nell’antica
Roma di duemila anni fa.35

Traduzione di Matteo Pradella

35
Agostino, Sacrae Scripturae locutiones, libro I, 50 (Corpus scriptorum eccle-
siasticorum latinorum, vol. XXVIII, 1, p. 516), sull’espressione ‫( ידוע תדע‬Genesi
15:13): sciendo scies: locutio quidem Scripturarum est usitatissima.

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