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a cura di

Mariacristina Bonti,
Vincenzo Cavaliere,
Enrico Cori

Lineamenti
di organizzazione
aziendale
a cura di
Mariacristina Bonti,
Vincenzo Cavaliere,
Enrico Cori

Lineamenti
di organizzazione
aziendale
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Prima edizione: aprile 2020

ISBN 978-88-238-4646-3
ISBN ebook 978-88-238-8 33-
Indice

1 La progettazione organizzativa, di Mariacristina Bonti 9


1.1. L’organizzazione aziendale e la progettazione organizzativa:
le origini del problema 10
1.2. Scelte organizzative a supporto della creazione del valore 26
1.3. Logiche di progettazione organizzativa a confronto 33
1.4. Il processo di progettazione organizzativa: “attori” coinvolti,
livelli e ambiti della progettazione 39

2 Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza, di Sara Lombardi 43


Introduzione 44
2.1. L’organizzazione come sistema aperto 45
2.2. I principali approcci teorici che regolano il rapporto
tra organizzazione e ambiente 48
2.3. Le tipologie di ambiente 52
2.4. Le sfide connesse all’analisi dell’ambiente esterno 57
2.5. L’incertezza ambientale 61
2.6. L’azione strategico-organizzativa nei confronti dell’ambiente:
le decisioni relative alla strategia 72
2.7. L’azione strategico-organizzativa nei confronti dell’ambiente:
le decisioni relative alla struttura 78

3 La tecnologia, di Vincenzo Cavaliere 87


3.1. Prime riflessioni sul concetto di tecnologia 88
3.2. La progettazione organizzativa tra tecnologia e sistema tecnico 88
3.3. Alcune questioni rilevanti in merito alla relazione
tecnologia-struttura organizzativa 91
3.4. La complessità tecnologica e l’imperativo tecnologico: gli studi
di Joan Woodward 97
3.5. Le varietà tecnologiche nella dinamica delle relazioni organizzative.
Il contributo di James D. Thompson 104

5
Indice

3.6. Le attività di routine e le attività complesse. Il contributo


di Charles Perrow 112

Premessa alla progettazione della microstruttura organizzativa,


di Enrico Cori e Vincenzo Cavaliere 121

4 La progettazione delle mansioni e dei ruoli, di Vincenzo Cavaliere


e Daria Sarti 125
4.1. La centralità dell’analisi e progettazione della microstruttura
per il disegno organizzativo e il comportamento degli attori
organizzativi 126
4.2. I concetti primi della progettazione della microstruttura 130
4.3. Progettare le posizioni nella logica delle “combinazioni”
e bilanciamento fra dimensioni diverse 136
4.4. Le dimensioni della progettazione della microstruttura
organizzativa 143
4.5. Le fasi operative del job design 158

5 La progettazione dei gruppi di lavoro, di Enrico Cori 169


5.1. I gruppi informali nei contesti di lavoro 170
5.2. Il gruppo di lavoro come unità di progettazione organizzativa 172
5.3. Scelte di progettazione a livello di gruppo 180
5.4. Principali tipologie di gruppo 189
5.5. Frontiere della progettazione: team interaziendali e team virtuali 191
5.6. Impatti delle scelte di progettazione sui comportamenti
organizzativi 199

6 La gestione delle intedipendenze e il coordinamento,


di Vincenzo Cavaliere e Lucia Varra 203
6.1. Le interdipendenze: contenuti e forme 204
6.2. La gestione delle interdipendenze 211
6.3. La gestione delle interdipendenze attraverso il raggruppamento
in unità 212
6.4. Una panoramica su interdipendenze e criteri classici
di raggruppamento 215
6.5. Il coordinamento 217
6.6. I Meccanismi “gerarchici” di coordinamento 219
6.7. Stabilità e temporaneità dei meccanismi di coordinamento
orizzontale 229
6.8. Una panoramica riassuntiva attraverso alcuni modelli
della letteratura 231

6
Indice

Premessa alla progettazione della macrostruttura organizzativa,


di Mariacristina Bonti ed Enrico Cori 237

7 Le forme a criterio unico, di Lucia Varra e Sara Sassetti 241


Introduzione 242
7.1. La struttura funzionale 243
7.2. La struttura funzionale e i caratteri della specializzazione 246
7.3. Le forme della struttura funzionale 250
7.4. La struttura divisionale 259
7.5. Le variabili e le forme della struttura divisionale 264
Conclusioni 270

8 Le forme a criterio multiplo, di Mariacristina Bonti 273


8.1. Orientamento organizzativo per progetti 274
8.2. Tipologie di progetto e complessità della loro gestione 277
8.3. La struttura a matrice 288

9 L’organizzazione process-driven e il lean thinking, di Fabio Fraticelli


e Maria Zifaro 301
9.1. Lean Thinking 302
9.2. Lean Production 306
9.3. Lean office 309
9.4. Lean Thinking: implicazioni sulla progettazione 312
9.5. Dalla logica per funzioni all’orientamento ai processi 315
9.6. I processi organizzativi: definizioni, caratteri e tipologie 317
9.7. Due approcci verso un’organizzazione per processi 323
9.8. Orientamento ai processi: implicazioni sulla progettazione 330

10 La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa,


di Sara Sassetti e Mariacristina Bonti 333
10.1. La dimensione: una variabile poliedrica 334
10.2. Le caratteristiche della struttura elementare 343
10.3. Le configurazioni della struttura elementare 347

11 La gestione delle relazioni inteorganizzative, di Fabio Fraticelli


e Sara Lombardi 355
11.1. Le relazioni interorganizzative 356
11.2. Il coordinamento delle interdipendenze 364
11.3. Alcune opzioni di progettazione dei confini organizzativi 367
11.4. Il ruolo della fiducia quale fattore determinante l’efficacia
delle relazioni interorganizzative 383

Bibliografia 389
7
1 La progettazione organizzativa
di Mariacristina Bonti

1.1. L’organizzazione aziendale e la progettazione organizzativa: le origini del pro-


blema – 1.1.1. Organizzazione: un unico termine con significati diversi – 1.1.2.
L’origine ed essenza del problema organizzativo – 1.1.3. Implicazioni della divisione
del lavoro: la specializzazione – 1.1.4. Implicazioni della divisione del lavoro: le in-
terdipendenze - 1.2. Scelte organizzative a supporto della creazione del valore – 1.3.
Logiche di progettazione organizzativa a confronto – 1.4. Il processo di progetta-
zione organizzativa: “attori” coinvolti, livelli e ambiti della progettazione

9
Lineamenti di organizzazione aziendale

1.1. L’organizzazione aziendale e la progettazione organizzativa: le origini del


problema

Quadro 1.1 Il caso Artigianalmente Industriali

All’inizio degli anni ’70, il signor Ribalta aveva trasformato la sua passione e la sua perizia manuale
nel lavorare il legno in un’attività di mobiliere come imprenditore artigiano. Inizialmente aveva svolto i
primi lavori da solo, in un piccolo locale adiacente la sua abitazione, realizzando mobili di arredamen-
to per camere da letto, comodini e cassettoni, che avevano incontrato il favore dei primi clienti, ali-
mentando un passaparola positivo per il rapporto prezzo-design-tempi-qualità. Con l’aumento dei
clienti e della tipologia di mobili richiesti (scrivanie, librerie, cassepanche, tavoli), il sig. Ribalta aveva
dovuto trovare un laboratorio più ampio e aveva deciso di assumere un collaboratore, che aveva in-
dividuato in Alberto, un giovane volenteroso, che doveva tuttavia essere avviato al mestiere. Il sig.
Ribalta investì tempo ed energie nel trasferirgli le conoscenze e competenze che aveva acquisito, ma
anche la passione per la lavorazione del legno, insegnandogli a riconoscere i tipi di legname e le loro
caratteristiche, come utilizzarli in relazione alle diverse tipologie di prodotto, quali accortezze seguire
in modo da far esaltare al massimo ciascun tipo di legno. L’obiettivo del sig. Ribalta era consentire al
nuovo collaboratore di entrare via via in contatto con le diverse fasi del processo produttivo, com-
prendere le attività da svolgere, ricevere consigli e conoscere i segreti del mestiere, pur mantenendo
sotto il suo diretto controllo le attività più critiche.
In breve tempo, l’apprendista aveva evidenziato una particolare abilità nell’attività di rifinitura, che
richiedeva una particolare pazienza, precisione e cura dei dettagli, cosicché il sig. Ribalta pensò di
organizzare la produzione nel modo seguente: l’apprendista preparava le materie prime, il titolare
eseguiva le operazioni di taglio e carteggio, l’apprendista preparava il semilavorato, il titolare assem-
blava i pezzi, l’apprendista eseguiva le rifiniture, infine il sig. Ribalta pitturava e laccava. I ritmi di la-
voro erano piuttosto serrati, ma la vicinanza fisica dei due lavoratori e la costante interazione assicu-
ravano la fluidità e la continuità dei processi di lavoro, senza particolari intoppi. Coordinare le attività
non rappresentava un problema per il sig. Ribalta, che riusciva a “controllare a vista” il lavoro svolto
da Alberto, comunicando con lui in modo informale e diretto e “adattando” i tempi di lavorazione.
Nel giro di qualche anno l’impresa si era così sviluppata da imporre un cambiamento del modo di
produrre; il sig. Ribalta si convinse che era giunta l’ora di passare da una produzione tipicamente ar-
tigianale ad un’organizzazione più strutturata, che avesse una qualche sembianza di processo indu-
striale. Il titolare, sempre più impegnato in attività di relazione con i clienti e in altre attività commer-
ciali, non riusciva più a seguire l’attività di produzione in prima persona, rischiando con la sua pre-
senza non continua di ostacolare il processo produttivo. Il giovane collaboratore, dal canto suo, di-
ventato ormai esperto nell’arte della lavorazione dei mobili, aveva manifestato l’intenzione di mettersi
in proprio. Grazie all’esperienza accumulata, si sentiva in grado di gestire piccole commesse, pronto
a progettare e realizzare, dalla A alla Z, alcuni modelli nuovi da proporre e inserire nel campionario e,
soprattutto, aveva voglia di farlo. Alberto si trovava molto bene nell’azienda del sig. Ribalta, di cui
condivideva i valori, i metodi di gestione, lo stile di elevata condivisione, gli obiettivi, ma avvertiva
l’esigenza di “crescere” professionalmente.
Mettere mano all’organizzazione dell’azienda poteva offrire l’opportunità al titolare di prendere defini-
tivamente le distanze dall’attività meramente produttiva, mantenendo una generale supervisione sui
risultati, di offrire al giovane Alberto nuove prospettive, riconoscendogli margini di autonomia e re-

10
La progettazione organizzativa

sponsabilità nella gestione completa delle commesse e delle esigenze dei clienti insieme alla possibi-
lità di formare nuovi giovani.
Il sig. Ribalta decise pertanto di trasformare il suo laboratorio in un vero sito produttivo, costituendo
l’Artigianalmente Industriali srl, e di assumere sei dipendenti, tre generici e tre specializzati, affidando
a ciascuno di loro una fase dell’intero processo di realizzazione dei mobili, sempre su commessa,
sotto la supervisione e la guida esperta di Alberto, che intravide nella nuova organizzazione della pro-
duzione quelle opportunità di crescita che stava cercando. Il processo produttivo risultava ora così
articolato, con le attività una volta svolte dal proprietario assegnate alle figure specializzate e quelle
inizialmente svolte da Alberto assegnate ai profili generici: un primo addetto preparava le materie
prime, il secondo tagliava e carteggiava, il terzo preparava il semilavorato, il quarto assemblava i pez-
zi, il quinto eseguiva le rifiniture, il sesto e ultimo pitturava e laccava.
Per favorire il mantenimento di quelle condizioni che avevano decretato il successo dell’azienda, la
combinazione prezzo-design-tempi-qualità, Alberto si era impegnato in prima persona a trasferire le
sue conoscenze, alcune “tecniche” specifiche di lavoro, le altre routine operative e buone pratiche
che aveva sviluppato con il titolare. Aveva al contempo, tuttavia, pianificato il flusso di produzione,
dettando modalità e tempi di svolgimento delle varie operazioni, al fine di assicurare la continuità e
regolarità del flusso stesso.
Il modello organizzativo consentì all’azienda un’ulteriore fase di rafforzamento e sviluppo, favorita da
un costante rinnovamento dei propri prodotti: stando a diretto contatto con i clienti e avendo
l’autonomia per comprendere e risolvere le loro esigenze, Alberto era riuscito a inventare soluzioni
particolari per poi implementarle.
Nel tempo, i nuovi collaboratori erano a loro volta cresciuti professionalmente, tanto che Alberto ave-
va deciso una nuova riorganizzazione interna dell’attività produttiva: i dipendenti avrebbero realizzato
autonomamente differenti tipologie di mobili, in relazione alle specifiche professionalità.
Il sig. Ribalta ebbe così la possibilità di destinare le proprie attenzioni ed energie alle attività che as-
sumevano crescente rilevanza strategica: i rapporti con gli istituti di credito per il necessario suppor-
to finanziario e le relazioni esterne, per promuovere l’azienda.
La continua espansione dell’azienda aveva evidenziato la necessità di dare una sistematizzazione ai
diversi processi, individuando alcune precise aree di attività. Per questo motivo, il sig. Ribalta aveva
assunto un altro valido collaboratore, il ragionier Valerio, per la gestione delle sempre più complesse
attività amministrative. La scelta tra altri possibili candidati era ricaduta su di lui perché in possesso
di un’ampia esperienza proprio nel settore del mobile e arredamento. Per la gestione delle attività di
acquisizione delle materie prime era stato, invece, selezionato i signor Luca, mostratosi abile nelle
attività negoziali e soprattutto poliglotta.
Dopo qualche anno ancora, l’imprenditore si trovò a dover fronteggiare i primi sintomi di crisi della
sua attività, all’interno di un settore che stava cambiando velocemente, nel quale si stavano affac-
ciando nuove imprese con nuove concezioni del mobile e nel quale i prodotti interamente industria-
lizzati stavano sempre più affermandosi.
I costi più elevati di una produzione di qualità e personalizzata, per quanto giustificati, non riuscivano
più a trovare piena copertura nei ricavi: un aumento dei prezzo di vendita avrebbe comportato in bre-
ve tempo l’uscita dal mercato. Inoltre tra gli operai aveva iniziato a verificarsi un elevato turnover:
molti, dopo un po’ di esperienza come dipendenti dell’Artigianalmente Industriali, trovavano impiego
presso aziende più grandi e, in alcuni casi, si mettevano in proprio.

11
Lineamenti di organizzazione aziendale

Il sig. Ribalta decise così di compiere il passo più difficile: l’esternalizzazione della produzione. Indivi-
duò quattro artigiani mobilieri, tutti suoi ex-dipendenti, e propose a ciascuno di loro di produrre per
la sua azienda un modello-base, con possibilità di personalizzare certi elementi su richiesta del clien-
te. Egli avrebbe mantenuto in capo all’azienda la gestione degli acquisti di materie prime, migliorando
così le condizioni di efficienza produttiva dei quattro artigiani. Ogni artigiano avrebbe avuto la re-
sponsabilità di effettuare il ciclo completo di produzione e di consegnare il prodotto finito ad Artigia-
nalmente Industriali. Ad Alberto, suo braccio destro e fedele collaboratore, decise di affidare l’attività
di commercializzazione, convinto del nuovo impulso che avrebbe potuto dare a quest’ultima.
L’organizzazione della produzione uscì dunque dai confini fisici del mobilificio del sig. Ribalta, per
riconfigurarsi come processo interaziendale.
(Fonte: Nostra elaborazione da più casi)

“Organizzazione” è un concetto dal contenuto fortemente polisemico, assu-


mendo nel linguaggio comune una pluralità di significati diversi, seppure in re-
lazione tra di loro.
Il caso di apertura di questo paragrafo offre molteplici spunti per com-
prendere la pluralità di tali significati, vale a dire:

• a) cos’è in generale un’organizzazione,


• b) quali attività vengono poste in essere per organizzare l’intero com-
plesso di fattori che realizzano la trasformazione di input in output,
• c) quando nasce e come nasce, più in particolare, l’esigenza di affronta-
re e mettere mano alla problematica organizzativa, quindi quali posso-
no essere alcune scelte di organizzazione aziendale che possono favori-
re il rafforzamento e consolidamento di un’azienda, prima ancora di
pensare alla sua crescita dimensionale (rinvio al capitolo sulla PMI).

A prescindere dal significato prescelto del termine, l’organizzazione è chiamata


a legittimarsi motivando la propria esistenza (il perché) nella sua capacità di
generare valore, sostenibilità, benessere, uguaglianza.

1.1.1. Organizzazione: un unico termine con significati diversi

L’Artigianalmente Industriali è anzitutto un’organizzazione (dal greco


orγανoν) che si configura come un gruppo di persone, formalmente costituite
in un sistema azienda, che contribuiscono, in vario modo, al raggiungimento
di obiettivi che difficilmente riuscirebbero a perseguire individualmente.
Ispirandoci, in particolare, al pensiero di Barnard (1938),
l’organizzazione può essere interpretata come un sistema cooperativo, vale a
dire un sistema umano e una realtà sociale, che sviluppa al proprio interno

12
La progettazione organizzativa

processi di comunicazione e attiva meccanismi di collaborazione allo scopo di


assicurare (Bonazzi, 1989) il conseguimento di uno scopo comune.
I processi di comunicazione consentono agli attori di comprendere il
funzionamento del sistema organizzativo e le finalità che esso si pone, portano
a conoscenza i compiti da svolgere e delle prassi da seguire (il trasferimento di
conoscenze e competenze effettuato dall’imprenditore), determinano le moda-
lità del coordinamento e del controllo (l’interazione nello svolgimento dei pro-
cessi di lavoro, lo scambio di informazioni in modo informale e diretto, il con-
trollo a vista del lavoro). I meccanismi di cooperazione sostengono e alimen-
tano la disponibilità a collaborare, incentivando gli individui a perseguire i fini
impersonali dell’organizzazione (la realizzazione di mobili nel rispetto del bi-
nomio design-qualità e prezzo-tempi) congiuntamente alle loro personali mo-
tivazioni (nel caso del volenteroso sig. Alberto, la formazione e lo sviluppo del-
le capacità, l’acquisizione di una professionalità spendibile sul mercato del la-
voro nel caso dei dipendenti che poi lasciano l’azienda, la possibilità di gestire
in autonomia singole commesse con riferimento all’intenzione di mettersi in
proprio da parte del sig. Alberto).
I processi di comunicazione creano, rafforzano e consolidano una rete di
relazioni informali che, seppure sempre presente in quanto pervasiva trama
connettiva tra gli attori, si presenta più evidente nelle prime fasi di vita
dell’azienda, tendenzialmente caratterizzate da un minor livello di struttura-
zione delle attività. I meccanismi di cooperazione attribuiscono alla rete di re-
lazioni un carattere di formalità, dal momento che inducono gli attori a dare
uno specifico contributo per realizzare scopi, moventi, obiettivi che risultano
comuni. In questo senso, l’organizzazione che si viene a costituire è un sistema
cooperativo che non consiste nella semplice somma degli apporti dei singoli
individui, ma comprende un qualcosa di più che scaturisce dalla collaborazio-
ne che si viene ad instaurare tra gli attori.
Si può altresì osservare a questo proposito come l’organizzazione che si
viene così a costituire in maniera “formale” si basa su una serie di comporta-
menti preesistenti (quelli messi in atto dal sig. Ribalta), indirizzando in questo
modo le scelte di progettazione e di funzionamento dell’azienda.
Il termine organizzazione qui utilizzato richiama il significato di sistema
organizzativo, ad identificare in generale un’azienda, un ente, un’associazione,
una cooperativa a prescindere dalla natura privata, pubblica, nonprofit e dal
carattere nazionale o sovranazionale. Sono in questo senso esempi di organiz-
zazioni: i Ministeri, le Università, i Comuni, le aziende municipalizzate, i tea-
tri, come il Teatro delle Muse di Ancona, gli ospedali come il Meyer a Firenze,
le aziende, come Ikea, Google, L’Oreal, le associazioni nonprofit come la Lega

13
Lineamenti di organizzazione aziendale

del Filo d’Oro, la Fondazione per l’Unicef, gli enti museali come il Museo del-
le Sinopie di Pisa e così via.
È questo il primo significato che normalmente assume il termine organi-
sation nei manuali di derivazione americana, ma anche il significato più diffu-
samente attribuito al termine nel linguaggio comune. Le organizzazioni così
intese sono largamente presenti nella società. Si può riflettere sul fatto che
quotidianamente gli individui “attraversano” molteplici organizzazioni: quan-
do saliamo su un autobus o su un treno, in realtà sperimentiamo
un’organizzazione di trasporto pubblico o ferroviario; quando mangiamo in
un fast-food valutiamo un’organizzazione del settore della ristorazione, lo
stesso dicasi quando entriamo in un supermercato a fare la spesa, esempio di
organizzazione della grande distribuzione organizzata. Possiamo dire che gli
individui sono “immersi” nelle organizzazioni, che popolano il più ampio si-
stema economico, politico, sociale e culturale, e trascorrono fisicamente la
maggior parte della loro vita all’interno di queste.
L’appartenenza ad un sistema organizzato è peraltro estremamente im-
portante per qualsiasi individuo: l’identità, lo status sociale, la legittimazione,
la stessa reputazione individuale sono strettamente influenzate oltre che dal la-
voro svolto e dalla posizione occupata, dall’organizzazione di appartenenza.
Il termine organizzazione assume tuttavia anche altri significati: indivi-
dua infatti una delle attività in cui si articola il processo di management, nel
suo complesso volto a definire gli obiettivi, orientare e guidare diverse attività
verso il loro conseguimento, assumere una pluralità di decisioni (il progressivo
disimpegno dall’attività di natura esecutiva del sig. Ribalta evidenzia il suo de-
dicarsi maggiormente governo complessivo dell’azienda). Questa accezione è
quella che possiamo cogliere nel pensiero di Fayol (1931): nella teoria della Di-
rezione amministrativa, l’autore individua, accanto alle più tradizionali fun-
zioni aventi natura “tecnica” e più specifiche, in quanto legate alle peculiarità
di ogni contesto aziendale, come la funzione produzione, commerciale, finan-
ziaria, di sicurezza, contabile e così via, una funzione universale e a contenuto
più ampio, generale e trasversale, quella direzionale, i cui elementi costitutivi
sono: prevedere, organizzare, comandare, coordinare e controllare. Nella sua
dinamica, l’organizzazione così intesa è venuta a delinearsi come un insieme di
funzioni (Airoldi, Decastri, 1983) inerenti la progettazione organizzativa, la
gestione del personale, i sistemi informativi, le relazioni industriali.
L’evoluzione della funzione Organizzazione ha portato, nel tempo, ad asso-
ciarla più strettamente ora alla Gestione del personale, ora ai Sistemi Informa-
tivi, per poi vederla funzionalmente concepita come parte integrante e indisso-
lubilmente interrelata alla Gestione delle Risorse Umane.
La terza accezione, alla quale intende più diffusamente riferirsi il presen-
te volume, individua nel termine organizzazione, più tipicamente affiancato

14
La progettazione organizzativa

dalla specificazione “aziendale”, le modalità di funzionamento di qualsiasi si-


stema organizzato, quale risultato di un complesso di decisioni e azioni ricon-
ducibili, nella loro essenza, alla divisione del lavoro e ai conseguenti, necessa-
rio processi di coordinamento e controllo. In questo senso, l’organizzazione
aziendale si configura (Isotta, 2011) come un insieme di scelte in grado di con-
ferire al complesso delle attività che un sistema organizzato è chiamato a svol-
gere, in vista del perseguimento di un determinato fine, un carattere di «ordine,
sistematicità, controllabilità», da cui può farsi derivare una valutazione in me-
rito alla qualità del funzionamento del sistema stesso, in termini di maggiore o
minore efficienza, efficacia, equità, benessere.
Si può riflettere, a questo riguardo, quanto molteplici siano le discipline
di studi sull’organizzazione (Costa, 1983; Perrone, 1990; Martinez, Mercurio,
2004) si pensi, a titolo di esempio, alla Sociologia dell’organizzazione, alla Psi-
cologia del lavoro e dell’organizzazione, all’Ingegneria, all’Economia.
L’Organizzazione Aziendale costituisce, tra queste, una specifica “disci-
plina” tesa a individuare e proporre criteri in grado di influire sulle modalità di
funzionamento, quindi sulla qualità del funzionamento dei sistemi organizza-
tivi e sociali, attraverso l’individuazione di modalità di divisione e coordina-
mento del lavoro. Due sono le anime che alimentano questa disciplina: la pri-
ma è da ricondursi ai temi propri della progettazione organizzativa (il c.d. Or-
ganization Design), la seconda a quelli inerenti il comportamento organizzativo
(il c.d. Organizational Behavior). Come si può forse intuire, diverse sono le
prospettive di osservazione, analisi e valutazione dei temi organizzativi. Nel
primo caso, prevale una prospettiva “macro”, posizionabile al livello
dell’unitario sistema organizzativo, che focalizza l’attenzione sulle differenti
modalità di strutturazione degli attori organizzativi e delle loro azioni,
nell’intento di evidenziarne le peculiarità, le ragioni, le potenzialità ed i vincoli
(oppure vantaggi/svantaggi o punti di forza/debolezza a seconda del linguag-
gio prevalente nel manuale).
La progettazione organizzativa ha per oggetto la definizione delle carat-
teristiche delle variabili organizzative, rappresentate dalla struttura organizza-
tiva e dai sistemi operativi (sistemi di comunicazione, di pianificazione e con-
trollo, di gestione e sviluppo del personale) 1, il cui combinato disposto origina
una pluralità di forme o configurazioni diverse, la cui scelta è da porsi in rela-

1
I sistemi o meccanismi operativi sono processi che contribuiscono ad allineare i comportamenti individuali
e collettivi verso gli obiettivi dell’organizzazione. La loro funzione è strumentale e integrativa rispetto alla
struttura. Come osserva Brusa (2004:169), mentre la struttura organizzativa prescrive sostanzialmente “chi
deve fare che cosa e come”, i sistemi operativi aiutano a tradurre queste prescrizioni in comportamenti rea-
li, rendendo in generale chiaro quali sono gli obiettivi attesi, in modo da motivare e orientare le decisioni
degli attori organizzativi.

15
Lineamenti di organizzazione aziendale

zione a un set di variabili contingenti, rappresentate dall’ambiente, dalla di-


mensione aziendale, dalla tecnologia, dalla strategia, dalla cultura aziendale.
Nel secondo a prevalere è invece una prospettiva “micro”, posizionabile
al livello dell’attore organizzativo, e interessata a cogliere le determinanti del
suo comportamento in termini di un articolato e intrecciato complesso di esi-
genze, aspettative, motivazioni. Parlare di due anime significa, implicitamente,
richiamare l’esistenza di due componenti che sono tra di loro strettamente in-
terrelate e che si influenzano vicendevolmente: la prima costruisce il modello e
lo schema generale e formale all’interno del quale e il copione in base al quale
prendono vita i comportamenti degli attori; la seconda esprime i comporta-
menti agiti degli attori che, pur prendendo le mosse da quei modelli, schemi e
copioni, li interpretano alla luce delle determinanti individuali confermandoli
o innovandoli, potenziandoli o depotenziandoli nelle loro caratteristiche.

1.1.2. Origine ed essenza del problema organizzativo

Come evidenziato dal caso Artigianalmente Industriali, la problematica orga-


nizzativa si palesa come tale, vale a dire diventa oggetto di attenzione, valuta-
zione e scelta, solo al crescere della dimensione/volume e della complessità del-
le attività da svolgere e gestire.
Finché la domanda di mobili poteva essere soddisfatta dal sig. Ribalta
attingendo alle sue “capacità produttive”, il problema di organizzare il proces-
so produttivo non si manifesta: il sig. Ribalta esegue, coordina e controlla tut-
te le attività, definendo le modalità “migliori” di svolgimento delle singole ope-
razioni, i ritmi di produzione, le priorità, i tempi di consegna e così via. Nel
momento in cui la domanda di prodotti e la complessità delle attività aumen-
tano (più numerosi e diversi sono i clienti da soddisfare, ma anche le tipologie
di mobili da realizzare), il sig. Ribalta avverte la necessità di ridefinire l’intera
organizzazione del lavoro, ponendosi implicitamente alcune domande cruciali:
come dividere il lavoro, vale a dire in base a quali criteri scegliere tra le attività
da continuare a svolgere in prima persona e quelle sulle quali coinvolgere altre
persone? Come individuare e poi scegliere un possibile collaboratore? In che
modo assicurare che le caratteristiche complessive della produzione rimessero
inalterate?
L’emergere della problematica organizzativa si traduce nella necessità
per le organizzazioni di affrontare il tema della divisione del lavoro e del coor-
dinamento-controllo, di individuare e poi scegliere tra i possibili e alternativi
criteri di divisione del lavoro e tra i possibili e alternativi strumenti di coordi-
namento, avendo da subito consapevolezza delle implicazioni che da tali scelte
in generale, dalla selezione di specifici criteri in particolare, possono derivare.
Le organizzazioni infatti, come spiegato dalla prospettiva evolutiva, sono fe-

16
La progettazione organizzativa

nomeni che si sviluppano e, appunto, evolvono nel tempo, lungo traiettorie


che mostrano un carattere path dependent (vale a dire, auto-generativo, nel
senso che le condizioni e scelte iniziali sono importanti per spiegare e com-
prendere le stesse traiettorie future), ricevendo una sorta di imprinting al mo-
mento della loro nascita. In questo momento, verrebbero impresse sulle nuove
iniziative imprenditoriali alcune fondamentali e originarie “caratteristiche” de-
stinate a persistere nel tempo (Levinthal, 2003), generalmente riconducibili alla
struttura organizzativa iniziale, alla cultura, all’identità, alle reti e alle routine
(Bryant, 2004) 2.
La complessità e criticità della dinamica organizzativi tendono a pale-
sarsi con ritardo nella vita aziendale: è noto infatti come l’imprenditore o i
manager siano maggiormente attenti e sensibili e altresì percepiscano in manie-
ra più immediata e chiara i problemi di natura finanziaria ed economica, pri-
ma di quelli organizzativi. Ciò deriva essenzialmente da due ragioni: la prima è
la minore immediatezza degli aspetti organizzativi, la seconda è la minore dif-
fusione delle competenze squisitamente organizzative rispetto alle altre di na-
tura gestionale.
Le scelte organizzative concorrono a definire le modalità di funziona-
mento delle aziende, pertanto influenzano i comportamenti richiesti agli attori,
chiarendo o meno i compiti e gli obiettivi da perseguire, gli ambiti di autono-
mia, le linee di responsabilità, le modalità dell’interazione reciproca finalizzata
al coordinamento degli apporti individuali; strutturano i processi di decisione,
in relazione all’articolazione dei canali di comunicazione e al fluire delle in-
formazioni, in modo più o meno capillare e coerente rispetto ai diversi ambiti
di scelta; definiscono sistemi di regole e procedure per ridurre gli spazi di am-
biguità organizzativa e orientare le modalità da seguire nel raggiungimento
degli obiettivi e così via.
L’adeguatezza delle scelte operate non si esaurisce in una verifica della
coerenza interna delle soluzioni individuate, ma è sottoposta al vaglio contem-
poraneo di una pluralità di fattori: le caratteristiche del contesto ambientale, le
strategie aziendali, la dimensione dell’azienda, la tecnologia impiegata, la cul-
tura aziendale, le motivazioni ed aspettative degli attori organizzativi.
Possibili sintomi di un’inadeguatezza delle soluzioni organizzative (Jo-
nes, 2007; Tosi, Pilati, 2008; Daft, 2010; Isotta, 2011), che necessitano tuttavia
di essere colti manifestandosi con segnali deboli, possono essere uno scarso

2
Questo processo ha avuto una sua prima formulazione da parte di Stinchcombe (1965) ed è stato definito
come imprinting organizzativo (Boeker, 1989). Quest’ipotesi è stata in seguito sviluppata da studi che hanno
sostenuto che le condizioni presenti al momento della nascita di un’organizzazione definiscono in modo signifi-
cativo la traiettoria del percorso di sviluppo futuro e la sua successiva capacità di cambiamento e adattamento
(Hannan, Baron, Hsu e Kocak, 2006; Tripsas & Gavetti, 2000). Ciò significa che un’impresa può diventare “pri-
gioniera” della sua storia “impressa” e trovare sempre più difficile cambiare e adattarsi.

17
Lineamenti di organizzazione aziendale

impegno, inerzia, passività e demotivazione sul lavoro; fenomeni ripetuti di as-


senteismo, ritardi nell’esecuzione del lavoro, turnover volontario; un aumento
del livello di conflittualità, aggressività, scortesia; lentezza del processo deci-
sionale e/o mancata accuratezza e qualità delle decisioni prese; carente coordi-
namento interno tra unità organizzative orientate al raggiungimento di obiet-
tivi parziali. Gli effetti tangibili di questi fenomeni vanno rinvenuti in errori
nell’esecuzione delle attività, possibili guasti alle apparecchiature, aumenti nei
costi di produzione, riduzione dei livelli di qualità dei prodotti, ritardi delle de-
cisioni, scollamento rispetto alle richieste ed esigenze del mercato, insoddisfa-
zione dei clienti.
Questi effetti, tuttavia, tendono a palesarsi in maniera graduale nel tem-
po: i rispettivi sintomi si nascondono e confondono tra loro (il ridotto impe-
gno di un lavoratore può dipendere da una mancata chiarezza degli obiettivi
da perseguire, dal contenuto monotono dell’attività svolta, dalla carenza di in-
formazioni, da carenze nel coordinamento tra attività e così via) come pure le
possibili cause (da individuarsi in primis nella progettazione organizzativa,
senza tuttavia trascurarne altre, come le politiche di gestione del personale o
gli stili di gestione dei manager). Ne consegue che tutt’altro che agevole diviene
la loro corretta individuazione, mentre evidenti tendono ad essere le conse-
guenze: una riduzione della produttività individuale e delle performance com-
plessive insoddisfacenti, pertanto un peggioramento degli equilibri economico-
finanziari dell’azienda.
La non immediatezza degli aspetti organizzativi e il loro produrre effetti
nel tempo, passando attraverso una progressiva modifica di comportamenti e
atteggiamenti che richiedono poi di essere nuovamente “corretti”, danno evi-
denza, come rilevato, della criticità della problematica organizzativa.
La necessità per l’azienda di monitorare costantemente lo “stato di salu-
te della propria organizzazione”, diagnosticando tempestivamente i sintomi
per risalire prontamente alle possibili cause esplicita l’importanza dello svilup-
po di adeguate competenze organizzative, concepite quale insieme di conoscen-
ze, capacità, sensibilità e consapevolezza relative all’intervento sulle variabili
organizzative (Bonti, Cori, 2006) in grado di “fare la differenza” 3 (Comacchio,
Pontiggia, 2008) nel promuovere e sostenere il successo e lo sviluppo aziendale.
Di per sé, la padronanza del linguaggio organizzativo e degli strumenti pecu-

3
Selznick (1948) riconosce nell’organizzazione (da intendersi come scelte organizzative) uno strumento indi-
spensabile per raggiungere un obiettivo, pur consapevole del suo essere strumento imperfetto, che in qualche
modo deforma l’obiettivo stesso. Ciò deriva dal fatto che, una volta creata sulla carta, l’organizzazione comin-
cia ad operare, la sua azione incontra problemi, vincoli, patteggiamenti che sono posti e derivano dalla neces-
sità di dovere fare i conti con una realtà che non può essere pienamente prevista (Bonazzi, 2000: 261). Tra le
competenze organizzative, la capacità di progettazione porta a sviluppare quella sensibilità e consapevolezza
che consente di “differenziare l’uso di alcune regole di progettazione, creando le premesse per una performan-
ce distintiva” (Turati, 1998).

18
La progettazione organizzativa

liari di analisi, valutazione, progettazione e implementazione organizzativa


non offre all’azienda un vantaggio competitivo; tuttavia, la non padronanza si
presenta quale possibile fattore di ostacolo alla creazione del vantaggio com-
petitivo e può rappresentare un differenziale negativo rispetto ai competitors
che tali competenze sanno gestire (Turati, 1998). La possibilità di cogliere
l’inadeguatezza dell’organizzazione, attivando un processo di progettazione o
riprogettazione organizzativa, si lega alla capacità di “qualcuno” all’interno
dell’azienda di percepire un gap tra performance desiderata e attuale, quindi
anzitutto di distinguere tra sintomi, effetti e cause di una data situazione pro-
blematica, per poi raccogliere con grande cura e attenzione le informazioni uti-
li per la formulazione di una diagnosi (Jones, 2007). L’interpretazione delle si-
tuazioni problematiche richiede una “decodifica” delle caratteristiche del con-
testo esterno (politico, economico, sociale, culturale, demografico, tecnologi-
co, di mercato) in cui opera l’azienda, come pure delle condizioni operative in-
terne, non viziata da “mode manageriali” o da “eurismi” che la stessa organiz-
zazione ha prodotto nel tempo, al fine di chiarire le azioni e direzioni del cam-
biamento da intraprendere, per poi progettarle e implementarle.
La padronanza delle competenze organizzative gioca a questo punto un
ruolo centrale: essa sostiene la piena cognizione delle molteplici resistenze al
cambiamento che possono sorgere durante l’implementazione di nuove solu-
zioni organizzative, favorendo il riconoscimento della natura politica dei si-
stemi organizzativi, della complessità dei processi cognitivi e decisionali, della
propensione alla ripetizione e conservazione dei comportamenti da parte degli
attori, della loro avversione al rischio. La necessità di valutare le scelte operate
e gli effetti da queste sortiti costituisce un’altra declinazione delle competenze
organizzative, rivolta a prontamente individuare e correggere possibili effetti
indesiderati e non voluti connessi con le azioni intraprese, all’interno di un
processo che si presenta circolare e continuo.

1.1.3. Implicazioni della divisione del lavoro: la specializzazione

La divisione del lavoro consiste nella scomposizione di un determinato task in


un insieme di operazioni che vengono svolte in maniera separata, al fine, come
evidenziato dal celebre brano di Smith (1976), di conseguire vantaggi in termi-
ni di efficienza ed efficacia.
Essa produce due tipi di conseguenze: una di natura organizzativo-
sociale-culturale, sintetizzabile nel concetto di specializzazione delle attività,
l’altra di natura tecnica, riconducibile all’emerge di interdipendenze tra attività
specializzate.

19
Lineamenti di organizzazione aziendale

Da un punto di vista organizzativo, la divisione del lavoro porta ad una


specializzazione delle attività, la quale può essere più o meno spinta a seconda
di alcune circostanze, quali ad esempio la natura delle attività, di trasforma-
zione o interazione (Costa, Gubitta, Pittino, 2016) oppure di esplorazione e
sfruttamento (March, 1991), e le loro caratteristiche (complessità, varianza,
variabilità), il livello di competenze richieste agli attori, la stabilità del contesto
nel quale opera l’azienda, il grado di incertezza degli ambienti con i quali inte-
ragiscono le singole unità organizzative e così via. La divisione del lavoro e la
specializzazione contribuiscono alla creazione di una “gerarchia” tra le diverse
aree di attività, da cui derivano inevitabilmente posizioni diverse di potere che
necessitano anch’esse di essere conosciute e gestite.
Ad ogni livello, la specializzazione non si esaurisce in una mera focaliz-
zazione su ambiti comunque delimitati di attività, ma comporta una più ampia
differenziazione (Lawrence, Lorsch, 1967) (vedi capitolo 2), intesa come acqui-
sizione di alcuni caratteri distintivi riferiti allo sviluppo di specifiche abilità
(tecniche o mentali), capacità, competenze, ma anche di linguaggi, modalità e
procedure di lavoro, processi, atteggiamenti, modi di pensare, vedere e inter-
pretare le situazioni. Tale differenziazione si palesa del tutto funzionale al con-
seguimento degli obiettivi aziendali, potendo dotare l’azienda di più elevate
capacità di sopravvivenza e sviluppo e rafforzandone la capacità di fronteggia-
re due contrapposte, ma inevitabili, esigenze: essere in grado di rispondere alle
istanze di cambiamento e innovazione poste dall’ambiente in modo rapido, ef-
ficiente ed efficace; mantenere le condizioni di efficienza nello svolgimento dei
processi organizzativi interni. Si pensi, ad esempio, quanto diverse siano, nel
loro complesso, le attività rivolte a sfruttare, raffinare, perfezionare, seleziona-
re, utilizzare un insieme di conoscenze consolidate (c.d. attività di exploitation)
rispetto a quelle orientate all’esplorazione, alla ricerca, all’assunzione di rischi,
alla sperimentazione, alla scoperta, all’innovazione (c.d. attività di explora-
tion). Nelle aziende, troviamo entrambe queste attività, opportunamente orga-
nizzate, presidiate e gestite tenendo conto delle specificità: le prime possono
essere ricondotte al complesso delle unità organizzative impegnate
nell’allineare i processi organizzativi direttamente legati al core business con i
prodotti e mercati esistenti; le seconde invece alle unità organizzative chiamate
a interpretare le tendenze e i cambiamenti in atto e/o potenziali nel mercato
competitivo, a individuare nuovi mercati e sperimentare nuove tecnologie.
Appare del tutto intuitivo comprendere come la distinzione di tali attività in
ambiti differenti costituisca una scelta di divisione del lavoro che tende ad evi-
tare interferenze.

20
La progettazione organizzativa

Box 1.1 Exploitation e exploration: attività diverse, ma non separate

Un esempio di come le attività rivolte allo sfruttamento delle conoscenze possano essere opportu-
namente distinte da quelle rivolte all’esplorazione è dato dalla riorganizzazione a livello corporate di
Google, con la creazione della nuova parent company Alphabet.
La nuova configurazione separa i business “consolidati” come Google Search e YouTube dalle inizia-
tive imprese più rischiose o non-core come GoogleX e Google Capital. La struttura “a ombrello” con
diversi business sotto Alphabet permette di combinare obiettivi di sperimentazione con la necessità
di proteggere l’integrità dei brands. Una configurazione a business units modulari permette anche di
ottenere una maggiore flessibilità strategica per far fronte a ambienti competitivi eterogenei. Inoltre,
questa soluzione rende più facile la sperimentazione e l’innovazione attraverso fusioni e acquisizioni,
in quanto riduce notevolmente i problemi di integrazione post fusioni e acquisizioni.
Google è nota per una cultura aziendale attenta e aperta al cambiamento, fatta propria dal manage-
ment e dagli stessi dipendenti. Lo stesso processo di reclutamento e selezione è concepito con
l’obiettivo esplicito di identificare persone in grado di affrontare e gestire il cambiamento, accettando
significativi livelli di autonomia e responsabilità.
La comunicazione interna punta dichiaratamente sulla trasparenza e l’apertura, con l’obiettivo di au-
mentare la fiducia nei dipendenti. Il management inoltre cerca di limitare la dimensione burocratica e
procedurale delle mansioni per agevolare la comunicazione e la collaborazione tra i colleghi.
Dal punto di vista dei task individuali, il 70 per cento del tempo del dipendente dovrebbe essere im-
piegato nelle attività relative al core business, il 20 per cento su progetti di miglioramento incremen-
tale relativi al core business e il 10 per cento per progetti di innovazione non legati al core business.
Gli Ingegneri hanno così la possibilità di usare una frazione importante dell’orario di lavoro per per-
seguire lo sviluppo di propri progetti di innovazione. Allo stesso modo, i dipendenti che in diverse
unità abbiano idee che desiderano sviluppare in autonomia hanno la possibilità di perseguire queste
iniziative ancora secondo la regola 70-20-10, anche interagendo con personale di altre unità.
(Fonte: Pittino, 2016, con adattamenti)

Si può più in generale cogliere come ad implicazioni più squisitamente orga-


nizzative se ne affianchino altre di natura sociale e culturale. Le prime scaturi-
scono dal fatto che la divisione del lavoro “influenza e talora condiziona” la
natura delle relazioni e le modalità di interazione che si vengono ad instaurare
tra gli attori organizzativi, dando adito a potenziali situazioni di conflitto, ma
sviluppando altresì motivazioni, sentimenti, stati d’animo che attengono alla
dimensione più psicologica e intima dell’attore organizzativo. Le seconde inve-
ce esprimono il naturale costituirsi tra attori coinvolti in specifici ambiti di at-
tività di una comunanza di visioni, approcci, chiavi di lettura e modalità di
analisi dei fenomeni, criteri di valutazione degli stessi, priorità da seguire, pro-
pensioni allo sviluppo dei rapporti, alla formulazione di valori che danno vita
a identità culturali differenti, ma non per questo in contrapposizione e contra-
sto tra di loro (Tosi, Pilati, 2008).

21
Lineamenti di organizzazione aziendale

La divisione del lavoro genera quindi una differenziazione di orienta-


menti sociali, cognitivi, emotivi e culturali da cui derivano, seppure in modo e
con intensità diversa, identificazione (a livello di azienda), identità sociale e
appartenenza (a livello di unità organizzativa e/o di gruppo), status (a livello di
mansione).
La divisione del lavoro può basarsi su criteri qualitativi o quantitativi
(Mercurio, Testa, 2000), che orientano verso una specializzazione spinta i pri-
mi, più attenuata i secondi. Il signor Ribalda, nel primo momento in cui mette
mano all’organizzazione del lavoro, opta per un criterio qualitativo di divisione
del lavoro, che viene mantenuto e accentuato anche successivamente, quando
vengono assunti nuovi collaboratori. La scelta è quella di assegnare attività di-
verse ad attori diversi, i quali hanno così la possibilità di imparare a svolgere
una o poche attività al meglio, acquisendo cioè nel tempo una crescente pa-
dronanza, destrezza (intesa come abilità nel compiere movimenti o svolgere
operazioni che implicano un’agilità fisica o mentale), velocità.
La divisione qualitativa del lavoro rende possibile il conseguimento di
elevate economie di specializzazione e di apprendimento (Perrone, 1990), lega-
te le prime alla ripetitività nell’esecuzione di un insieme di operazioni omoge-
nee, alla possibilità di utilizzare in modo mirato le attitudini e le capacità pos-
sedute dai collaboratori, alla conseguente efficienza in termini di incremento
della produttività individuale (si pensi alle attività assegnate ad Alberto); le se-
conde alla possibilità di sviluppare e poi utilizzare al meglio anche le abilità e
conoscenze acquisite, ma anche di sviluppare atteggiamenti e orientamenti più
coerenti e funzionali allo svolgimento di determinate attività (si pensi
all’orientamento alla precisione, alla cura dei dettagli e alla pazienza richiesto
dalle attività di rifinitura assegnate sempre ad Alberto), così risultando i pro-
cessi di apprendimento nel loro complesso più efficaci ed efficienti in virtù
dell’essere concentrati su un numero limitato di compiti. Tra le implicazioni
della scelta di questo criterio di divisione del lavoro vi è il rischio a livello or-
ganizzativo di incorrere in situazioni riconducibili alla c.d. “incapacità adde-
strata”4 (Merton, 1949), a livello del singolo attore di percepire una ripetitività
e monotonia crescente. La prima situazione si manifesta quando
l’apprendimento specifico, focalizzato su un insieme di tecniche e procedure
che hanno condotto nel passato ad esiti positivi e per questo motivo sono state
tramandate, lo sviluppo di altrettanto specifiche abitudini e orientamenti, de-
stinati a ripetersi in maniera “automatica” nel tempo, si traducono a lungo
andare in una mancanza di duttilità nell’applicazione delle competenze e abili-
tà acquisite, quindi in una difficoltà ad adattarsi a nuove condizioni e situa-
4
Così Merton (1949: 320) definisce l’incapacità addestrata: “le azioni basate sull’addestramento e l’abilità
tecnica, che in passato avevano dato un risultato positivo, possono risultare inappropriate sotto mutate
condizioni”.

22
La progettazione organizzativa

zioni, a comprendere quando si rendono necessari cambiamenti nei compor-


tamenti da tenere (Bonazzi, 1989). La seconda, strettamente collegata alla
prima, esprime la possibile demotivazione dell’attore, che può vedere valoriz-
zata solo una parte circoscritta delle proprie capacità e potenzialità: ricolle-
gandoci al caso, il sig. Alberto avverte ad un certo punto “l’esigenza di crescere
professionalmente” pur avendo nel tempo sviluppato un forte senso di appar-
tenenza all’azienda, di cui condivide i valori e lo stile di gestione. L’una e
l’altra situazione, congiuntamente, possono quindi creare le premesse per una
rigidità del sistema organizzativo a fronte dei cambiamenti del contesto am-
bientale, ma anche per la “perdita” di collaboratori. Il conseguimento di tali
economie, che costituiscono possibili vantaggi connessi alla scelta di criteri
qualitativi, è associato in maniera più tipica allo svolgimento di attività pro-
duttive, pur connotando anche alcune attività gestionali (come, ad esempio,
nel caso di un supervisore di prima linea).
La scelta di questo criterio connota anche il primo “assetto organizzati-
vo” dell’Artigianalmente Industriali, nel momento in cui si vengono ad indivi-
duare le prime “aree di specializzazione” delle attività: accanto all’area produt-
tiva, quella amministrativa, di acquisizione delle materie prime, finanziaria, di
relazioni esterne.
Quando il sig. Alberto riorganizza l’attività produttiva, assegnando a
ciascun collaboratore la realizzazione di un differente tipologie di mobile, te-
nendo conto delle differenti professionalità, il criterio di divisione del lavoro
cambia da qualitativo a quantitativo: il lavoro assegnato ai dipendenti tende a
de-specializzarsi, potendo ogni singolo attore svolgere il complesso intero delle
attività che si rendono necessarie per la realizzazione di un mobile. In questo
nuovo modello di divisione del lavoro, ciascun dipendente ha la piena e totale
padronanza del risultato finale, percepisce l’integrità del flusso di processo, ha
il controllo diretto sui risultati, può applicare in maniera flessibile l’intero ran-
ge di competenze acquisite e sviluppate nel tempo. La divisione quantitativa
del lavoro favorisce una maggiore polivalenza, in questo senso una più elevata
ampiezza nelle competenze utilizzate e una flessibilità “culturale”, legata alla
necessità di applicare relativamente a differenti ambiti di attività modalità di
ragionamento, logiche, criteri di valutazione e decisione differenti, con ricadu-
te positive in termini di adattabilità del sistema organizzativo, seppure a fronte
di una parziale (e sottolineiamo parziale) rinuncia di quelle economie che sono
più tipiche della divisione qualitativa del lavoro. Il criterio quantitativo orienta
anche l’ultima scelta operata dal sig. Ribalta, nel momento in cui decide di
coinvolge alcuni artigiani mobilieri nella produzione completa di alcuni model-
li di mobili.

23
Lineamenti di organizzazione aziendale

1.1.4. Implicazioni della divisione del lavoro: le interdipendenze

Le implicazioni di natura tecnica della divisione del lavoro sono da ricondursi


alle interdipendenze che si vengono a generare tra ambiti di attività divisi (non
è rilevante a quale livello: individuale, di gruppo, di azienda, tra aziende).
Come si evince dal caso di apertura di questo capitolo, nel momento in
cui il sig. Ribalta inizia a dividere il lavoro col giovane Alberto, emergono tra
di loro tutta una serie di condizionamenti - legati non solo alle modalità di
svolgimento delle singole attività, che implicano un set comune di conoscenze,
ma anche ai tempi con cui vengono svolte - che richiedono di essere individuati
e gestiti, il tutto al fine di completare la realizzazione dei singoli prodotti. La
relativa semplicità della divisione del lavoro, che si realizza tra due soli attori,
facilita la gestione di queste interdipendenze reciproche, potendo essi essere af-
frontati in prima persona dall’imprenditore tramite intensi processi di comuni-
cazione.
Condizionamenti diversi si palesano tra le attività e gli attori anche
quando Alberto riorganizza il processo produttivo assegnando compiti diffe-
renziati ai singoli collaboratori, che si vedono in questo caso più vincolati vi-
cendevolmente dal ritmo complessivo del flusso di lavoro: la scelta di Alberto
di pianificare la successione delle fasi del processo produttivo, dettando moda-
lità e tempi di svolgimento delle varie operazioni costituisce un esempio di ge-
stione di interdipendenze di tipo sequenziali. Infine, quando il sig. Ribalda op-
ta per l’esternalizzazione della produzione, mantenendo centralizzato
l’approvvigionamento delle materie prime e decidendo la loro assegnazione ai
diversi artigiani, si presentano nuovi condizionamenti da fronteggiare, che
coinvolgono attori esterni all’azienda e dotati di autonomia decisionale.
L’assegnazione di risorse e di obiettivi (le tipologie di mobili da realizza-
re) e la condivisione delle conoscenze (molti degli artigiani erano ex-dipendenti
del sig. Ribalta, di cui conoscevano pertanto le modalità di lavoro) creano le
condizioni per interdipendenze generiche, per le quali ciascun artigiano contri-
buisce al raggiungimento del fine comune dell’azienda senza che si presenti
l’esigenza di una interazione diretta e che sussistano relazioni di dipendenza
dirette. La divisione del lavoro crea quindi relazioni più o meno intense di di-
pendenza tra attori, unità organizzative, aziende che rendono necessario uno
scambio di risorse, che possono essere informazioni, conoscenze, materiali,
documenti.
Rinviando al successivo capitolo 6 l’analisi sistematica delle diverse tipo-
logie di interdipendenza, si può in questa sede evidenziare, coerentemente con
l’analisi sopra svolta, come queste possano avere origine prettamente tecnica
oppure socio-culturale (Mercurio, Testa, 2000). Qualsiasi flusso di lavoro, va-
riamente scomposto e frammentato, necessita infatti di essere funzionalmente

24
La progettazione organizzativa

ricomposto ad unità, di essere regolato con riferimento alle risorse assorbite,


alla coerenza quali-quantitativa dei “semilavorati” prodotti, ai tempi richiesti
per lo svolgimento delle singole attività, prevedendo e anticipando in questa
regolazione, per quanto possibile, possibili imprevisti (guasti, interruzioni, er-
rori, ritardi, urgenze) e opportuni interventi correttivi. L’obiettivo di fondo è
salvaguardare il più possibile la continuità del flusso di lavoro, da cui derivano
produttività, efficienza, efficacia, qualità, rispetto dei tempi.
In maniera non dissimile, le diversità di orientamenti, prospettive, ap-
procci, valori, propensioni, attitudini, modelli logici e razionali, modalità di
interazione necessitano di essere armonizzate in vista del conseguimento di un
risultato comune e superiore, espressione degli obiettivi aziendali.
La specializzazione da un lato, le interdipendenze dall’altro, entrambe
conseguenze dalla divisione del lavoro, generano in definitiva un fabbisogno di
coordinamento, inteso come azione organizzativa orientata a dare un “ordine”
alle attività e ai comportamenti degli attori, al fine ricondurli ad un obiettivo
comune, regolando efficacemente il complesso delle interdipendenze. Il coor-
dinamento così inteso coinvolge almeno tre dimensioni diverse (Grandori,
1999; Isotta, 2011).
Le prime due sono state richiamate nell’analisi svolta e sono una dimen-
sione prettamente tecnica (la ricerca di un allineamento delle attività) ed una
organizzativa (la necessità di integrare, armonizzandole, le molteplici differen-
ziazioni generate dalla divisione del lavoro). Per fronteggiare questo fabbiso-
gno, generato dalle due dimensioni richiamate, si rende necessaria
l’individuazione, la scelta e la progettazione di opportuni meccanismi e stru-
menti.
La terza dimensione è invece individuale e richiama la concezione di or-
ganizzazione come sistema cooperativo di Barnard, al quale l’attore organizza-
tivo “sceglie” e/o “è incentivato” a partecipare. La cooperazione, intesa come
disponibilità e volontà a perseguire un risultato comune costituisce una sorta
di premessa alla realizzazione del coordinamento, influenzandone in termini
positivi (se presente) o negativi (se assente) l’efficacia. Questa disponibilità e
ancor più la volontà a collaborare va ricercata e non può essere data per scon-
tata, dal momento che il coordinamento di attività ed azioni implica in qualche
misura una modifica dei comportamenti individuali.
In questo senso, il coordinamento si presenta come il risultato di
un’azione di influenza che può fare leva su fattori diversi: su elementi materiali
(ad esempio, un sistema di incentivi) in una logica utilitaristica e di scambio,
che evidenziano la “convenienza” per l’attore a mostrarsi collaborativo;
sull’autorità in una logica di potere accettato e riconosciuto dagli attori in
quanto legittimato (Weber, 1922), tale per cui la cooperazione viene vista come

25
Lineamenti di organizzazione aziendale

“un dovere” e una “responsabilità”; sulla condivisione di valori e obiettivi, in


una logica di adesione all’azienda che si sviluppa all’interno di un rapporto ad
alta intensità emotiva (O’Malley, O’Malley, 2000), da cui derivano un forte
senso di identificazione e lealtà con l’organizzazione.
L’analisi congiunta di queste tre dimensioni, pone all’attenzione il fatto
che il coordinamento non può essere semplicemente ricondotto ad una “mera”
questione di “scelta” tra un set più o meno ampi di strumenti e meccanismi da
utilizzare. Sussistono indubbiamente alcuni fattori che potremmo definire og-
gettivi e che possono orientare “a tavolino” nell’individuazione dello strumen-
to/degli strumenti più opportuni: si pensi al tipo di compiti e attività, più o
meno specializzate, o alla natura delle interdipendenza.
È altrettanto vero, tuttavia, che la loro efficacia, riscontrabile nel fun-
zionamento concreto dell’organizzazione, risulta essere influenzata da fattori
“soggettivi”, quali le competenze degli attori nell’utilizzo dei singoli strumenti,
la disponibilità e volontà a cooperare, l’accettazione del sistema di autorità.
Ciò implicitamente testimonia, come in precedenza richiamato, la contiguità
tra i temi propri della progettazione organizzativa e quelli inerenti la gestione
delle risorse umane, nel cui alveo possono essere ricondotte le modalità di co-
struzione e gestione delle relazioni azienda-lavoratore, in modo da favorire il
coinvolgimento emotivo dei lavoratori (in termini di commitment, identifica-
zione, engagement) (Costa, Gianecchini, 2019).

1.2. Le scelte organizzative a supporto della creazione del valore

Abbiamo più volte accennato in questo capitolo all’influenza delle scelte orga-
nizzative sulle condizioni complessive di economicità aziendale e competitività
duratura sui mercati, vale a dire sulla creazione del valore per l’azienda 5.
La capacità delle aziende di creare valore passa sempre più attraverso la
dotazione di risorse disponibili, utilizzabili e realmente utilizzate (prospettiva
della resources-based view, Barney, 1991), con particolare riferimento a quel set
di risorse costituite dal complesso delle abilità, capacità e competenze degli at-
tori organizzativi. Prese singolarmente, esse costituiscono la dimensione “stati-
ca” del c.d. capitale intellettuale dell’impresa, uno stock di conoscenze incasto-
nato anzitutto negli attori e ricco di potenzialità inespresse di generazione del
valore. Il modo in cui tali conoscenze sono organizzate all’interno delle strut-
ture (con la divisione del lavoro), sono messe in relazione reciproca (con il
coordinamento), trasferite, alimentate, sviluppate e alimentate (grazie ai siste-
5
Per creazione del valore si intende l’adozione di scelte di governo, pratiche di gestione e soluzioni organizza-
tive che consentono il conseguimento di risultati positivi grazie alla possibilità di realizzare, in maniera durevole
nel tempo, un valore superiore a quello consumato con l’impiego di beni e servizi.

26
La progettazione organizzativa

mi operativi) e rese operative (come frutto della combinazione di tutti gli


aspetti richiamati) esprime il capitale intellettuale nella sua dimensione dina-
mica, cioè come flusso e costituisce appunto una componente importante della
generazione e rigenerazione di valore per l’azienda.
Economicità e competitività durevole, in sintesi creazione del valore so-
no obiettivi che sempre più accomunano indistintamente tutte le organizzazio-
ni. A differenza di quanto accadeva in passato, ad esempio, anche le organiz-
zazioni pubbliche stanno prendendo sempre più dimestichezza con questo con-
cetto di competitività basata sulle competenze distintive. Ce ne possiamo ac-
corgere osservando la competizione che si è venuta a sviluppare tra istituti sco-
lastici secondari di secondo grado, in base all’offerta formativa, ai servizi pre-
stati, alla qualificazione (reputazione) del proprio corpo docenti, alle “miglio-
ri” prestazioni raggiunte dai propri allievi negli stadi successivi della loro for-
mazione. Il progetto Eduscopio della Fondazione Giovanni Agnelli
(www.eduscopio.it) si propone di valutare gli esiti successivi della formazione
secondaria - i risultati universitari e lavorativi dei diplomati - per trarne indi-
cazioni sul livello di qualità sull’offerta formativa delle scuole di provenienza,
così alimentando tra i diversi istituti scolastici un continuo miglioramento del-
le proprie capacità di organizzazione e produzione dell’offerta formativa. Lo
stesso può dirsi per quanto riguarda le Università, che stanno cercando di am-
pliare il bacino di provenienza dei propri studenti puntando anch’esse non solo
sulla qualità del percorso formativo ma anche e soprattutto su un insieme cor-
relato di servizi, primi fra tutti le opportunità di soggiorno all’estero grazie ai
rapporti di collaborazione con Università straniere, le proposte di stage presso
aziende, un valido servizio di job placement.
Questi sono obiettivi rilevanti anche per altre organizzazioni pubbliche,
come le regioni, i comuni, le aziende sanitarie: per queste ultime, in particolare,
la ricerca di maggiore economicità e la capacità di creare valore giocano un
ruolo importante in una competitività che si gioca sull’intero territorio nazio-
nale tra singole aziende sanitarie appartenenti a regioni diverse, tra aziende sa-
nitarie private e pubbliche, tra sistemi sanitari regionali.
Il contributo delle scelte organizzative a sostegno dei richiamati obiettivi
di economicità e competitività durevole è da mettere in relazione con la capaci-
tà delle soluzioni organizzative di sostenere le condizioni di efficienza ed effi-
cacia aziendale, insieme al benessere complessivo dei lavoratori.
I concetti di efficienza ed efficacia sono ben noti; ciò nonostante, molte-
plici sono le riflessioni che possono scaturire in una prospettiva di analisi pret-
tamente organizzativa: livelli simili di efficienza ed efficacia possono infatti es-
sere raggiunti optando per soluzioni organizzative differenti. Ciò evidenzia
che, a fronte di un determinato problema, possono esistere una pluralità di so-

27
Lineamenti di organizzazione aziendale

luzioni alternative, equiparabili sotto il profilo dei risultati attesi (efficienza ed


efficacia), la cui scelta è da ricondurre a valutazioni che riflettono più parame-
tri e criteri di chi opera la scelta, che non una presunta superiorità di una solu-
zione rispetto all’altra.
L’efficacia si collega alla capacità di un sistema organizzativo di rag-
giungere gli obiettivi desiderati, di conseguenza i risultati prefissati e attesi. Ta-
li obiettivi possono essere distinti in relazione a differenti ambiti di attività a
cui si riferiscono (obiettivi generali e operativi) e possono essere quantificati in
modo preciso e puntuale (è questo, ad esempio, il caso degli indicatori di reddi-
tività, dei volumi di vendite, della quota di mercato, ma anche del tasso di tur-
nover e di assenteismo, del costo del personale), potendo essere quindi misurati
nel breve periodo, oppure essere definiti in maniera qualitativa (ad esempio
con riferimento al grado di soddisfazione del cliente o al livello di integrazione
raggiunto tra unità organizzative), con la conseguenza che la loro misurazione
può avvenire più nel lungo andare.
Si è soliti affermare che la definizione degli obiettivi dovrebbe essere
chiara, specifica e misurabile, anche se occorre riconoscere che questo non è
sempre possibile: le principali difficoltà derivano dal fatto che le organizzazio-
ni perseguono contemporaneamente molteplici obiettivi, non sempre intenzio-
nale e tali da risultare in possibile contrasto tra di loro.
L’efficacia è peraltro un concetto multidimensionale, che si presta ad es-
sere declinato in modi diversi. Quella più tradizionale distingue tre dimensioni
dell’efficacia (Daft, 2010): rispetto agli input, rispetto ai processi, rispetto agli
output.
L’efficacia rispetto agli input rivolge la propria attenzione alla capacità
di un’organizzazione di acquisire risorse scarse e di valore, per poi integrarle e
gestirle in modo tale da ottenere i risultati desiderati. Questa capacità può de-
rivare dalla posizione negoziale, quando ad esempio la concentrazione di ele-
vati volumi di acquisto incrementa il potere contrattuale dell’organizzazione
verso i fornitori; dalla possibilità dei soggetti decisori di cogliere e interpretare
correttamente e in anticipo le dinamiche evolutive del contesto ambientale, co-
sì da agire da first mover; dall’immagine e reputazione che l’organizzazione è
riuscita a costruirsi nel tempo tramite il proprio brand, che le consente di pre-
sentarsi ai potenziali lavoratori come un “great place to work”, così riuscendo
a scremare il mercato del lavoro, attirando (employee attraction) e/o fideliz-
zando (employee retention) i profili migliori in relazione alle finalità aziendali.
L’efficacia rispetto ai processi interni tende invece a misurare lo stato di
salute dell’organizzazione, espresso in generale da un “buon funzionamento”
del sistema organizzativo. Appare efficace da questo punto di vista un’azienda
nella quale esiste un elevato grado di armonia interna e si sviluppano relazioni
interne positive (clima organizzativo positivo), si conseguono sinergie tra le di-

28
La progettazione organizzativa

verse parti e le decisioni sono prese in maniera rapida e tempestiva (comunica-


zione diffusa e non distorta), sussistono occasioni molteplici di partecipazione
e confronto, come anche opportunità di sperimentazione di soluzioni innova-
tive e di valorizzazione individuale (crescita e sviluppo dei dipendenti), si crea-
no le condizioni per ottenere identificazione, appartenenza, valorizzazione ed
engagement del personale (cultura organizzativa forte e commitment).
Infine, l’efficacia rispetto agli output esprime in termini più generali la
capacità dell’azienda di conseguire i livelli desiderati nei volumi di vendita, nel-
la soddisfazione dei clienti, nei profitti aziendali.
Seppure diverse, queste tre dimensioni sono tra di loro strettamente col-
legate e destinate a influenzarsi reciprocamente, potenziando o depotenziando
i risultati conseguiti lungo una sola delle dimensioni richiamate. Processi di
comunicazione efficaci rendono possibile la qualità dei processi decisionali (ef-
ficacia rispetto ai processi interni), che possono aumentare il livello di soddi-
sfazione dei clienti e la qualità percepita delle prestazioni aziendali (efficacia
rispetto agli output). Processi di reclutamento e selezione accurati, in grado di
scremare il mercato del lavoro, evitare errori nella selezione, favorire
l’assunzione dei migliori profili per una determinata posizione, prestando at-
tenzione non solo alle capacità, abilità ed esperienze pregresse, ma anche alle
attitudini, competenze comportamentali, capacità di comunicazione e di lea-
dership (efficacia rispetto agli input) possono ripercuotersi positivamente sulla
capacità dell’azienda di innovare e rispondere ai cambiamenti, sulla qualità
dell’ambiente di lavoro, sulla riduzione di situazioni di contrasto e conflitto
(efficacia rispetto ai processi interni), portando come effetto finale a prestazio-
ni aziendali migliori e alla percezione di condizioni di benessere organizzativo
(efficacia rispetto agli output).
I legami che sussistono tra le tre dimensioni dell’efficacia mettono in
evidenza quanto sia fondamentale per il management aziendale tenerle tutte e
contemporaneamente sotto costante controllo, senza privilegiarne una a di-
scapito delle altre.
L’efficienza si collega al complesso delle risorse scarse che vengono uti-
lizzate e rivolge l’attenzione alle modalità del loro impiego ai fini della realiz-
zazione di un dato risultato: si è soliti esprimere questo valore tramite il rap-
porto tra output (risultato) e input (risorse).
Diversi sono i tipi di efficienza (tecnica, allocativa, economica) che pos-
sono essere ottenuti e la loro misurazione può essere puntuale o globale.
L’efficienza puntuale può essere considerata come l’efficienza di una singola
“parte” dell’organizzazione, analizzata in maniera isolata e separata dall’intero
contesto aziendale; quella globale riguarda invece l’intera azienda e presenta
un carattere sistemico. L’utilità di distinguere tra questi due livelli deve porre

29
Lineamenti di organizzazione aziendale

in guardia rispetto al rischio potenziale di “depistaggio” che condizioni di ele-


vata efficienza puntuale possono generare. Se è ad esempio del tutto logico va-
lutare positivamente livelli elevati di efficienza di una unità organizzativa o di
un processo, bisogna essere altrettanto consapevoli che tale valutazione positi-
va può trasformarsi in un disvalore e in una disfunzione quando genera situa-
zioni subottimali a discapito di altre unità organizzative. È ciò che può accade-
re qualora due unità organizzative contigue si trovano ad utilizzare impianti
automatizzati la prima, più tradizionali la seconda: i livelli di maggiore effi-
cienza che gli impianti automatizzati possono raggiungere possono soffocare
l’attività della seconda unità organizzativa, la quale si trova impossibilitata a
sostenere gli stessi ritmi produttivi, così generando una pluralità di effetti col-
laterali: scorte di semilavorati, pressioni sui lavoratori, demotivazione, rischio
di un incremento dei difetti di produzione. La ricerca di efficienza deve pertan-
to essere in grado di coniugare le potenzialità puntuali con le esigenze globali
del sistema aziendale.
La ricerca di efficienza e di continui miglioramenti dei livelli di efficienza
costituisce una sorta di imperativo per tutte le aziende e alimenta elevate aspet-
tative con riferimento alle scelte organizzative, chiamate a dare un rilevante
contributo in tale direzione.
L’efficienza esprime, in generale, il rapporto tra risultati attesi (output) e
risorse impiegate per ottenerli (input), nell’assunto che essa può essere conse-
guita a parità di risultati attesi, col minor dispendio di risorse impiegate; a pa-
rità di risorse utilizzate, con l’ottenimento del miglior risultato possibile.
L’efficienza può essere valutata a diversi livelli: a livello complessivo di azienda
(efficienza globale), ma anche a livello di singolo sottosistema, rappresentato
da una funzione, una divisione, un ufficio, uno stabilimento, un reparto, e così
via (efficienza puntuale). È importante prestare l’attenzione sul fatto che la
prima non consegue per semplice sommatoria delle seconde: una delle implica-
zioni della divisione del lavoro è la necessità di ricercare, mediante il coordi-
namento, anche la migliore utilizzazione complessiva (e non puntuale) delle ri-
sorse, prestando attenzione proprio alla creazione di sinergie che si può ottene-
re “mettendo” insieme unità organizzative che, come abbiamo più volte ricor-
date, presentano caratteristiche differenziate. Ciò può significare per l’azienda
che il raggiungimento dell’efficienza globale può passare attraverso livelli di
minore efficienza relativa di alcune unità organizzative: in altre parole,
l’efficienza di una unità organizzativa, se analizzata in maniera del tutto “iso-
lata” e “avulsa” dal contesto organizzativo può trasformarsi da valore in di-
svalore, qualora si ponga all’origine di una “chiusura mentale”, di fenomeni di

30
La progettazione organizzativa

autoreferenzialità e trasposizione dei fini6, di comportamenti che si ripercuo-


tono in una sub-ottimizzazione degli obiettivi organizzativi.
Il concetto di efficienza si presta sovente a possibili interpretazioni par-
ziali e distorsive. L’idea più diffusa e accreditata vede l’efficienza, in particola-
re il suo miglioramento, strettamente legata ad interventi rivolti a ridurre le ri-
sorse utilizzate. È indubbio, tuttavia, che se, come anticipato, l’efficienza è un
rapporto tra risultati (output) e risorse (input), cambiamenti nel valore di que-
sto indicatore possono conseguire a modifiche che coinvolgono indistintamen-
te il denominatore o il numeratore. Ciò significa che si possono operare scelte
diverse, che hanno e possono avere implicazioni diverse e comportare “costi”
altrettanto diversi. Facciamo alcuni esempi.
Anzitutto, partendo dalla situazione più tipica, l’efficienza può migliora-
re quando, a parità di risorse conseguite (quindi a parità di efficacia) si riduco-
no effettivamente le risorse utilizzate. Questa scelta è piuttosto frequente, in
generale, nei momenti di “crisi” aziendale; ha rappresentato, invece, il filo
conduttore degli interventi di “riorganizzazione” che hanno interessato quanto
meno negli ultimi vent’anni la pubblica amministrazione. La risorsa maggior-
mente interessata da queste scelte è la risorsa umana, notoriamente considera-
ta come la risorsa più costosa. Gli strumenti utilizzati dalle organizzazioni so-
no stati molteplici: pensionamenti anticipati, licenziamenti collettivi, outpla-
cement, blocco delle assunzioni, percorsi di mobilità interna, riorganizzazioni
interne (outsourcing, ampio ricorso a contratti di lavoro temporanei, etc.). La
scelta è indubbiamente legittima e valida, soprattutto quanto sussiste veramen-
te un impiego eccessivo di risorse, a cui non corrisponde un impiego tale da
“saturare” (per così dire) la capacità produttiva della risorsa, vale a dire una
prestazione congrua. In questi casi, la riduzione delle risorse, accompagnata da
una riorganizzazione complessiva del lavoro, può essere effettivamente una
scelta valida, nella misura in cui promuove una maggiore produttività delle al-
tre risorse. In sostanza, entro certi limiti (che non sono dati a priori, ma pos-
sono essere individuati con un’analisi puntuale delle risorse impiegate), la ri-
duzione delle risorse può coesistere con una stabilità dei risultati conseguiti,
insieme da un punto di vista qualitativo e quantitativo.
Tuttavia, la riduzione delle risorse può avere anche effetti controprodu-
centi sul livello dei risultati, quindi sull’efficacia. È quello che può accadere, ad
esempio, se politiche di incentivazione al pensionamento o al turnover perse-

6
La trasposizione dei fini, fenomeno organizzativo individuato quale distorsione del funzionamento del modello
burocratico (Merton, 1949; Selznick, 1948), si verifica quanto un mezzo, uno strumento per raggiungere una
determinata performance (nel nostro caso, l’essere efficienti come unità organizzativa singola al fine di portare
un contributo all’efficienza aziendale complessiva) diventa esso stesso il fine dell’attività: “In questo modo, pro-
prio le condizioni che normalmente portano all’efficienza, in situazioni particolari e specifiche producono ineffi-
cienza” (Merton, 1949: 324, citato in Bonazzi, 2000: 230).

31
Lineamenti di organizzazione aziendale

guite da un’azienda portano a “perdere” collaboratori in possesso di compe-


tenze e conoscenze tacite, vale a dire da loro detenute in maniera esclusiva,
quindi non ancora trasformate in conoscenza organizzativa e non facilmente
sostituibili. In questo caso, l’uscita del collaboratore può avere contempora-
neamente impatto sui costi, ma anche sui risultati; anzi, in maniera quasi pa-
radossale, può causare nel medio andare un aumento anche superiore dei costi,
determinata dalla necessità di “rifondare e ricostruire” il set di competenze e
conoscenze perdute. Lo stesso può verificarsi qualora le politiche di gestione
delle risorse umane siano ispirate da un orientamento al costo, laddove produ-
cono come effetti demotivazione e fuga di validi collaboratori.
In altri casi, l’aumento dell’efficienza può conseguire sempre ad inter-
venti sulle risorse, ma che scaturiscono da una valutazione delle opportunità
insite in una “migliore organizzazione” delle risorse disponibili. È quello che si
verifica quando, ad esempio, le aziende decidono di intervenire
sull’organizzazione del lavoro, con politiche di allargamento/arricchimento
delle mansioni, oppure svolgono analisi dei processi, al fine di migliorare la ge-
stione delle interfacce tra unità organizzative o attività lungo i processi, oppure
più semplicemente decidono l’accentramento di alcune attività in un’unica uni-
tà organizzative, riuscendo al contempo a conseguire economie di varia natu-
ra: di scala, specializzazione e raggio di azione/scopo7. L’effetto di questi in-
terventi è normalmente tale da produrre un contestuale miglioramento dei ri-
sultati, pertanto dei volumi dei prodotti o servizi realizzati. In questo caso, a
differenza delle situazioni precedenti, il miglioramento dell’efficienza produce
ulteriori effetti, dal momento che risulta accompagnato anche da un incremen-
to dei livelli di efficacia.
L’ultima azione che può essere intrapresa al fine di migliorare
l’efficienza passa attraverso scelte che vedono, potremmo dire, un nuovo inve-
stimento sulle risorse, dal quale ci si attende un incremento più che proporzio-
nale dei risultati ottenuti. Ciò può verificarsi, ad esempio, con la creazione di
una nuova unità organizzativa alla quale viene assegnato il compito di gestire
in maniera centralizzata la distribuzione di una pluralità di prodotti diversi
lungo una stessa rete di vendita. Al costo sostenuto, possono affiancarsi im-
portanti economie di raggio d’azione/scopo, tali da rendere “indolore”
l’investimento effettuato. Anche in questo caso, si può ulteriormente riflettere,

7
Pur essendo concetti noti, si ricorda che: le economie di scala fanno riferimenti a riduzioni dei costi medi uni-
tari che sono da attribuire ad incrementi nella quantità prodotta; le economie di specializzazione riguardano i
vantaggi che derivano dalla ripetizione nel tempo di una stessa attività da parte di una stessa risorsa (individuo
o macchina); le economie di raggio d’azione o scopo, invece, riguardano i vantaggi di costo che scaturiscono
dall’impiego di una stessa risorsa in molteplici attività che vengono svolte congiuntamente anziché in maniera
indipendente (Perrone, 1990; Isotta, 2011).

32
La progettazione organizzativa

il risultato netto dell’azione intrapresa può un miglioramento congiunto delle


condizioni di efficienza e di efficacia.
Ciò che si può ricavare dalle riflessioni svolte, al di là del monito genera-
le a non lasciarsi condizionare da miti e luoghi comuni (l’efficienza passa at-
traverso la riduzione delle risorse), è che le scelte organizzative producono
sempre e inevitabilmente ripercussioni sulle condizioni di efficienza e di effica-
cia, ma anche che sussistono scelte alternative tutte suscettibili di pervenire ad
uno stesso risultato sempre in termini di efficienza e di efficacia. Gli impatti
delle scelte possono essere positivi o negativi, ma soprattutto essi richiedono di
essere valutati lungo orizzonti temporali che non possono essere di breve pe-
riodo. Le implicazioni in termini di efficienza hanno la proprietà di manife-
starsi subito (una riduzione dei costi); a differenza, le conseguenze in termini di
efficacia, sovente tutt’altro che positive, tendono a manifestarsi, con segnali
più o meno palesi, nel medio/lungo andare. Ne consegue che nel tempo esse
riescono a produrre disfunzioni più ampie e gravi, rendendo di conseguenza
molto più costosi gli interventi tesi a rimuoverle.

1.3. Logiche di progettazione organizzativa a confronto

Abbiamo detto che l’organizzazione aziendale si occupa delle scelte di divisio-


ne del lavoro e della conseguente individuazione delle più opportune modalità
di coordinamento delle attività, in vista degli obiettivi aziendali. Tramite que-
ste scelte l’idea imprenditoriale o business idea acquista concretezza e viene
perseguita. Abbiamo anche visto che tali scelte sono fatte (o dovrebbero esser-
lo) in base ad una valutazione di natura economica, riferita al livello di effi-
cienza ed efficacia desiderato e che, a parità di altre condizioni, identici livelli
di efficienza ed efficacia possono essere conseguiti operando scelte diverse.
Cos’è allora che orienta nella scelta della soluzione organizzativa intra-
presa da un’azienda e come si può capire il reale funzionamento di
un’organizzazione? Non è possibile dare una risposta puntuale e univoca a
questo interrogativo, anche in considerazione del fatto che sono realmente
molteplici i fattori e gli elementi che possono giocare a questo proposito un
ruolo rilevante. Tuttavia, è indubbio che qualsiasi scelta e quindi qualsiasi so-
luzione organizzativa si presta ad essere analizzata – ex-ante se vi è consapevo-
lezza, ex-post se questa non è ancora maturata – sulla base di quella che po-
tremmo definire come la logica prevalente che si pone alla base delle singole
scelte.
Questa logica di progettazione, quindi, esprime e dà concretezza al “mo-
do di pensare e vedere le cose” dei decisori (i progettisti), concorrendo a deli-

33
Lineamenti di organizzazione aziendale

neare una particolare “idea” di cosa l’organizzazione sia e come debba funzio-
nare, di quali convincimenti sono alla base del ruolo assegnato agli attori or-
ganizzativi e quale apporto può essere loro richiesto. Ogni logica esprime
quindi, nella sostanza, una “filosofia” cui può ispirarsi l’organizzazione e alla
quale è riconducibile il suo funzionamento, in tutto o in parte, offrendo una
specifica e diversa interpretazione di quali siano le scelte organizzative “giuste”
e di quale sia il “modo migliore” di organizzare le attività aziendali.
La logica più “antica” di progettazione organizzativa, non per questo
meno praticata dai decisori, è quella meccanicistica, che trova la sua formula-
zione agli inizi del ‘900 da parte di un gruppo di studiosi che sono normalmen-
te ricondotti all’interno della c.d. Scuola Classica dell’organizzazione (vedi
BOX 1.2).
Nella logica meccanicistica la progettazione organizzativa si pone quale
obiettivo quello di predefinire e preordinare i comportamenti degli attori, po-
nendosi quale unico obiettivo la massimizzazione delle condizioni di efficienza
ed efficacia. L’organizzazione viene concepita quale sistema chiuso e autorefe-
renziale, quindi di fatto protetto dall’ambiente esterno col quale non interagi-
sce e non ha necessità di interagire, perché prevedibile nelle sue evoluzioni.
L’attore organizzativo viene visto come dotato di una razionalità 8 assoluta,
che non lascia spazio a dubbi o errori, e offre una conoscenza completa, uni-
voca, certa, pragmatica, risolutiva.

Box 1.2 La scuola classica dell’organizzazione

Le Teorie Organizzative ricomprese all’interno di questa scuola richiamano in particolare i contributi


di Taylor, Fayol e Weber, rispettivamente con la teoria dell’organizzazione scientifica del lavoro, la
teoria della direzione amministrativa, la teoria della burocrazia.
Alcuni tratti accomunano queste teorie, che tuttavia differiscono in relazione all’oggetto specifico di
indagine (lo stabilimento produttivo per Taylor, la funzione amministrativa per Fayol, l’organizzazione
burocratica per Weber).
Il primo tratto è costituito dalla concezione prevalente di organizzazione come entità progettabile sul-
la base di una razionalità che è oggettiva, assoluta, universale e quindi tale da condurre a risultati ef-
ficienti ed efficaci. Alla base delle scelte organizzative si pone la scienza, vale a dire un metodo rigo-
roso e non arbitrario di analisi e valutazione basato su osservazioni e misurazioni empiriche che con-
sentono di verificare, rendere note e individuare come univoche (salvo falsificazioni) le relazioni tra le
caratteristiche di un sistema e la sua efficienza ed efficacia. Il ricorso al metodo conduce ad una co-
noscenza scientifica che diventa paradigmatica (costituisce cioè il fondamento per scelte future, en-
tro un dato periodo di tempo). Questo metodo rende possibile predefinire soluzioni che sono intrin-
secamente ottime nei risultati che consentono di conseguire, pertanto a priori generalmente e am-
piamente valide, non soggette all’influenza di fenomeni esterni (l’ambiente o gli obiettivi specifici da

8
Per razionalità, si intende “la coerenza del comportamento di un attore rispetto ai propri valori o ai propri fini”
(Costa, Gubitta, Pittino, 2014: 35).

34
La progettazione organizzativa

perseguire) e che sono solo da implementare, in qualche misura rendendo nullo il momento della
scelta (intesa come preferenza tra possibili alternative) da parte dei decisori.
Il secondo tratto è rappresentato dalla concezione prevalente di attore organizzativo, fattore produtti-
vo tra gli altri da programmare e guidare nelle attività da svolgere, da coordinare e controllare
nell’intento di evitare comportamenti devianti. Ciò si traduce nella centralità assegnata agli aspetti
formali, che predefiniscono e preordinano i comportamenti degli attori, con esclusivo riferimento alle
esigenze tecniche del flusso di lavoro, escludendo così dalla problematica organizzativa gli elementi
soggettivi e personali.
(Fonte: Costa, Nacamulli, 1996; Fabbri, 2010; Isotta, 2011)

Questa logica ha alimentato una concezione di organizzazione riconducibile


a una macchina, che favorisce approcci di tipo ingegneristico alla progetta-
zione organizzativa: il sistema organizzativo viene così scomposto in maniera
analitica, ritenendo possibile intervenire su di esso parte per parte, separata-
mente, ricomponendolo poi in modo da ottimizzare l’efficienza e l’efficacia.
Progettare significa applicare un complesso di conoscenze scientifiche per la
soluzione di problemi “tecnici”, vale a dire produttivi, e per la successiva ot-
timizzazione delle soluzioni adottate. Il progettista-soggetto economico “de-
finisce e scrive a tavolino” le soluzioni organizzative, articolandole ex-ante in
maniera puntuale e assolutamente funzionale al risultato desiderato. Esse
non prendono in considerazione possibili “interferenze”, siano essere costi-
tuite da eventi esterni all’organizzazione, conoscibili e conosciuti a priori, o
da “reazioni comportamentali” da parte degli attori, chiamati ad adeguarsi e
attenersi all’insieme delle modalità che definiscono come l’organizzazione
deve funzionare. Le soluzioni organizzative, cioè, contengono al proprio in-
terno le regole necessarie e sufficienti per il proprio funzionamento: la strut-
tura organizzativa definisce per gli attori il complesso dei compiti e delle
mansioni da svolgere, specificando come svolgerli, ed è al tempo stesso uno
strumento di coordinamento e controllo, attraverso il quale verificare la ri-
spondenza e correttezza formale dei comportamenti. Per questo motivo, nel-
la progettazione viene assegnata grande rilevanza agli aspetti formali (norme,
regole, procedure), repertori di comportamenti giudicati validi e idonei a
scandire la sequenza di azioni giuste da tenere.
La logica organicistica di progettazione si sviluppa anch’essa all’interno
di un’idea di razionalità, che assume tuttavia connotazioni diverse, ponendosi
alla base di un’idea di organizzazione quale organismo. I principali riferimenti
richiamano la scuola decisionale di Simon (1947) e Cyert-March (1963) e le
teorie contingentiste o situazionali di Lawrence e Lorsch (1967).
L’organizzazione viene concepita come un sistema aperto all’ambiente,
sottoposta quindi ad un complesso di condizionamenti legati ai cambiamenti
ambientali (intesi in senso lato: economici, politici, normativi, culturali, tecno-

35
Lineamenti di organizzazione aziendale

logici, di mercato e così via) e alle pressioni che da questo possono scaturire,
cambiamenti che non si possono conoscere in modo puntuale, ma risultano
prevedibili e, in questo senso, controllabili (Delmestri, 1996, in Costa, Naca-
mulli, 1996). Ciò rende necessaria la continua ricerca di condizioni di equili-
brio, quindi di un adattamento omeostatico 9 degli assetti organizzativi.
L’attore organizzativo, a sua volta, è concepito come un attore dotato di una
razionalità che è, questa volta, limitata e intenzionale: limitata da fattori com-
putazionali, cognitivi, espressivi, professionali, di atteggiamenti, percezioni,
giudizi, valori; intenzionale perché i suoi comportamenti perseguono sempre
anche fini e obiettivi individuali.
In questo diverso contesto, l’esigenza di assicurare condizioni costanti di
equilibrio interno verso l’esterno finisce col limitare, inevitabilmente la possibi-
lità di predefinire i comportamenti: all’attore organizzativo, sono riconosciuti
ambiti di discrezionalità, vale a dire la possibilità di allontanarsi delle norme,
regole e procedure stabilite dalla progettazione, risultando queste non più da
attuare in maniera pedissequa, ma da interpretare e adattare alle specifiche
condizioni. L’organizzazione non è l’automatica concretizzazione di un pro-
getto: esiste un’area di indeterminatezza che si viene a creare tra il sistema delle
regole e dei principi e gli individui, al fine di assicurare l’adattamento organiz-
zativo. I comportamenti non sono automatici, abitudinari, rispondenti obbli-
gatoriamente a quelli attesi, ma possono essere il frutto di valutazioni e scelte.
Per far questo, le indicazioni contenute nella struttura organizzativa non sono
più sufficienti, acquisendo importanza le caratteristiche dei sistemi operativi.
La logica socio-costruttivista trova il suo fondamento nelle teorie cogni-
tiviste (March, 1993; Gioia, Sims, 1986; Weick, 1993) e dell’azione organizza-
tiva (Thompson, 1967; 1990). Essa si discosta dalle precedenti per il fatto di
enfatizzare il ruolo di tutti gli attori organizzativi nella progettazione e consi-
derare la razionalità scaturire non tanto da criteri e regole in qualche misura
precostituiti, quanto dai processi di decisioni e di azioni dei singoli attori orga-
nizzativi. L’attenzione si sposta dalla progettazione come risultato (design), al-
la progettazione come azione (designing): il compito della struttura è influenza-
re il comportamento di attori dotati di ampi margini di discrezionalità che, de-
cidendo e agendo per risolvere problemi dettati dall’evoluzione e
dall’incertezza del contesto ambientale, affrontando situazioni non previste e
non prevedibili, utilizzando una data tecnologia interagiscono tra loro. Queste
interazioni creano soluzioni, producono routine, modificano compiti, posizio-
ni, responsabilità all’interno delle stesse relazioni di lavoro, definendo e ridefi-
nendo nel concreto in maniera collettiva e condivisa cosa la struttura è e come
9
L’omeostasi rappresenta “l’attitudine degli organismi viventi, siano essi cellule, individui singoli o comunità, a
mantenere in stato di equilibrio le proprie caratteristiche al variare delle condizioni interne” (Vocabolario Trec-
cani). Ciò esprime la capacità degli organismi di autoregolarsi, adattandosi alle circostanze ambientali esterne.

36
La progettazione organizzativa

opera. Ogni attore è mosso da un proprio sistema di valori e obiettivi, motiva-


zioni ed aspettative, che non necessariamente coincide con quelli aziendali: le
organizzazioni sono sistemi connotati da una razionalità “multipla” (Crozier,
Friedberg, 1977) che si pone all’origine delle molteplici strategie di azione met-
te in atto dai singoli attori. Tramite la progettazione, diviene importante deli-
neare alcuni principi in base ai quali i comportamenti saranno regolati, pur
nella consapevolezza che i comportamenti stessi li metteranno alla prova e
contribuiranno a ridefinirli. La progettazione prevede sempre un momento di
definizione di modalità di funzionamento del sistema organizzativo, che risul-
tano tuttavia duttili ed in continua evoluzione. Nel momento in cui, per fron-
teggiare e rispondere all’incertezza e alle pressioni ambientale, i comportamen-
ti si devono discostare dalle regole generali e si sviluppano nuove relazione e
interazioni tra attori, nasce un’organizzazione “informale” che è leva di flessi-
bilità ma che viene altresì a porre nuovi principi alla base di nuovi comporta-
menti. In definitiva, la struttura influenza ed è al contempo influenzata dalle
dinamiche di comportamento messe in atto dagli attori e di conseguenza si
presenta come un fenomeno “emergente” nelle sue caratteristiche.
A differenza delle logiche precedentemente esaminate, la relazione tra le
scelte di progettazione organizzativa ed i risultati (efficienza ed efficacia) cessa
di essere deterministica, dal momento che si rende necessario prendere in con-
siderazione quelle che sono un complesso di variabili soggettive (le aspettative,
i valori, le percezioni dei singoli attori) e soft (le ideologie, l’etica, le mappe co-
gnitive, i riti) che non si prestano ad essere controllate: queste variabili condi-
zionano le scelte e le azioni, quindi quei comportamenti che possono condurre
ai risultati desiderati. Su queste variabili diventa pertanto importante riuscire a
fare leva (promuovendo un senso di appartenenza all’azienda, ricercando
l’identificazione, costruendo relazioni basate sul coinvolgimento emotivo,
l’engagement, il commitment) per indurre i comportamenti desiderati.
L’insieme delle logiche esaminate, pur nelle molteplici differenze, risulta
essere accomunato dal fatto di analizzare le scelte organizzative da una pro-
spettiva interna: tali scelte sono infatti intenzionali e soggettive (Camuffo,
Cappellari, 1996, in Costa, Nacamulli, 1996) e sono comunque operate da at-
tori che sono parte dell’organizzazione, sia esso il soggetto economico, oppure
il complesso dei collaboratori.
La progettazione organizzativa può essere determinata altresì da attori
che sono esterni all’organizzazione, i c.d. stakeholder, che popolano l’ambiente
nel quale opera l’organizzazione (ambiente istituzionale), ma che sono non di
meno portatori di principi, regole, convincimenti, credenze, riti, cerimonie in
base alle quali valutano la desiderabilità, l’opportunità, l’appropriatezza delle
organizzazioni. Si parla a questo riguardo di logiche istituzionali di progetta-

37
Lineamenti di organizzazione aziendale

zione organizzativa, le quali fanno specifico riferimento alle c.d. teorie neoisti-
tuzionali (Powell, DiMaggio, 1991).
All’interno dell’ambiente istituzionale, i diversi stakeholder si fanno por-
tatori di aspettative differenti rispetto alle organizzazioni, dalla cui soddisfa-
zione deriva un giudizio di legittimità del loro operare, che esprime in qualche
misura la disponibilità degli stakeholder a sostenere e supportare la sopravvi-
venza delle organizzazioni ritenute appunto legittime. Secondo questa logica,
le scelte organizzative risentono di questa influenza esterna al punto da preve-
dere e definire unità organizzative, posizioni, responsabilità, attività al solo
scopo di ottenere consenso e supporto continuo, a prescindere da una valuta-
zione in merito alla loro utilità ai fini del concreto funzionamento operativo e
quindi anche a discapito degli obiettivi di efficienza ed efficacia.
Il consenso e la legittimazione possono derivare da circostanze diverse
(Daft, 2010): dal fatto che l’organizzazione ottempera a specifiche previsioni di
legge o regole che esprimono forze coercitive che inducono l’organizzazione ad
uniformarsi ai loro contenuti (si pensi al rispetto di norme sulla sicurezza sui
luoghi di lavoro, sull’inquinamento, sulla privacy, sulle pari opportunità, alle
certificazioni ISO e così via); si allinea, segue e fa proprie best practices, inno-
vazioni, tecniche manageriali di “moda” (si pensi alla reingegnerizzazione dei
processi, ai modelli di gestione delle risorse umane basate sulle competenze),
utilizzate da altre organizzazioni e considerate come generalmente efficaci, che
esprimono forze mimetiche che inducono copiare, imitare conformarsi al com-
portamento di altre aziende; recepisce particolari tecniche, strumenti e norme
(si pensi ad alcune tecniche di selezione e valutazione del personale, ad alcuni
contenuti della formazione consulenziale) definite da specifiche comunità pro-
fessionali che esprimono forze normative che portano a ritenere doveroso uni-
formarsi a determinati strumenti per raggiungere elevati standard di prestazio-
ne. L’implicazione di queste forze è rappresentato dalla tendenza delle orga-
nizzazioni soggette ad una medesima pressione a divenire simili le une alle al-
tre, facendo emergere un modello organizzativo comune tra le organizzazioni
(somiglianza istituzionale o isomorfismo istituzionale).
Le logiche di progettazione che abbiamo esaminato, per quanto non
esaustive, aiutano a comprendere quanto diverse tra loro possono essere le
idee, visioni, concezioni dalle quali partire per definire la struttura organizzati-
va, col risultato di giungere a soluzioni diverse, per quanto tutte potenzialmen-
te efficienti ed efficaci.
Al contempo, si può riflettere sul fatto che ciascuna di queste logiche
può risultare più appropriata per affrontare alcune problematiche organizzati-
ve e dare utili indicazioni per alcune soluzioni organizzative. Esse pertanto non
possono essere viste come mutualmente escludentisi, ma al contrario costitui-
scono logiche che contribuiscono a definire come l’organizzazione è e come

38
La progettazione organizzativa

funziona e contribuiscono altresì a comprendere come, non di rado, quella


coerenza tra elementi non presente o difficile da pensare e ottenere nella pro-
gettazione “a tavolino”, riesca poi successivamente a manifestarsi ed essere
raggiunta. La progettazione si pone pertanto come ricerca di una sintesi tra lo-
giche diverse, nella consapevolezza che, nei diversi momenti della vita e
dell’evoluzione aziendale, non solo possono coesistere differenti logiche, ma
possono risultare altrettanto diverse le logiche che risultano prevalenti.

1.4. Il processo di progettazione organizzativa

Possiamo a questo punto ben comprendere come la progettazione organizzati-


va mal si presti ad essere considerata come decisione singola, dovendosi al con-
trario sviluppare lungo una sequenza di fasi che implicano analisi, valutazioni,
verifiche.
Volendo individuare i principali macro-momenti della progettazione
(Isotta, 2011), suscettibili di essere maggiormente e variamente dettagliati al
proprio interno, possiamo riconoscere che la progettazione inizia quando un
problema organizzativo si presenta in modo tangibile o viene percepito in ma-
niera potenziale. L’approccio iniziale non può che essere “razionale, scientifico
e deliberato”, nel senso di muoversi con la ricerca delle possibili cause del pro-
blema e della situazione nel quale si è manifestato, la individuazione e valuta-
zione di possibili alternative, la scelta dell’alternativa, la sua implementazione
e la successiva valutazione. È tuttavia opportuno sottolineare come queste fasi
non debbano essere considerate come una sequenza chiusa, che presenta un
inizio ben definito e un altrettanto chiaro momento conclusivo. Se si adotta
una prospettiva di organizzazione come sistema aperto nei confronti
dell’ambiente, chiamato pertanto a fronteggiare situazioni crescenti di incer-
tezza, complessità, imprevedibilità dei cambiamenti, unita alla consapevolezza
della pluralità di razionalità, tutte intenzionalmente limitate, che orientano i
comportamenti individuali, anche in questo caso in maniera imprevedibile e
incerta e con una non inferiore complessità, sono sufficienti a far capire che la
progettazione non può essere vista se non come processo circolare, iterativo e
continuo. Il “disegno a tavolino” è certamente necessario, ma assolutamente
non sufficiente: la validità di questo disegno si gioca sul campo, vale a dire nel-
la implementazione dello stesso, momento nel quale emergono inevitabili ag-
giustamenti e si rendono necessarie riformulazioni, sorgono anomalie non pre-
viste e si ricompongono in maniera inaspettata elementi considerati critici.
Ciò mette altresì in evidenza come, nei fatti, la progettazione non possa
essere considerata come il frutto della scelta di un solo decisore, il soggetto

39
Lineamenti di organizzazione aziendale

economico o il progettista: la struttura organizzativa finisce con l’essere, sem-


pre, il risultato dell’apporto e del contributo di una pluralità di attori: attori
interni che, come già anticipato più volte, agendo, interpretando, individual-
mente o come parte di un gruppo, compiti e mansioni, fronteggiando le pro-
blematiche e incertezze ambientali, prendendo decisioni, sperimentando per-
corsi non previsti, modificano l’organizzazione formale dando vita ad una in-
formale che richiederà di essere analizzata e valutata (è quello che accade, ad
esempio, con gli interventi di auto-progettazione messi in atto nell’ambito del
c.d. job crafting 10; attori esterni che esercitano pressioni molteplici rispetto a
scelte che valutano come meritevoli di ottenere il loro consenso, la loro appro-
vazione, il loro sostegno. Vi sono poi situazioni nelle quali la progettazione o
ri-progettazione di alcuni ambiti di attività viene intenzionalmente demandata
a gruppi di attori, come accade all’interno di gruppi di miglioramento della
qualità, gruppi di reengineering, gruppi di progetto.
La progettazione si muove pertanto alla ricerca di una coerenza che
deve essere interna (tra le scelte organizzative di funzionamento) ma anche
esterna (con le diverse situazioni o contingenze che influenzano l’azienda:
ambientali, strategiche, tecnologiche, dimensionali, culturali), che può essere
(sia all’interno che con l’esterno) proposta ex ante, ma che si concretizza (sia
all’interno che con l’esterno) solo ex post, confermando le soluzioni proget-
tuale proposte, facendone emergere di nuove, armonizzando eventuali “anti-
nomie”.
La progettazione organizzativa può essere poi affrontata a differenti li-
velli (Costa, Nacamulli, 1989; Isotta, 2011; Mercurio, Testa,2000). Riprenden-
do il caso introduttivo e ripercorrendo lo sviluppo dell’Artigianalmente Indu-
striali, è possibile cogliere come le scelte organizzative facciano, inizialmente,
riferimento ai singoli “individui”, riguardando sostanzialmente il livello delle
mansioni individuali. Successivamente, esse coinvolgono il livello delle “unità
organizzative”, quando iniziano a formarsi le prime aree funzionali (l’area
produttiva, finanziaria, amministrativa, acquisti) per la necessità emersa di
scomporre il task dell’azienda in “presidi” di attività ritenuti importanti e per-
tanto da gestire in maniera distinta, così da seguirne le peculiari esigenze. Nella
fase finale, le scelte hanno per oggetto la divisione e il coordinamento del lavo-
ro tra imprese, tra le quali vengono infatti ripartite, a seconda dei casi,
l’insieme o solo alcune aree di azione, da gestire, organizzare e controllare con

10
Il job crafting è un esempio tipico di auto-definizione e auto-regolazione dei compiti e può essere definito
come un comportamento creativo e proattivo, una strategia individuale che induce un attore ad apportare cam-
biamenti (miglioramenti, aggiustamenti) ai propri compiti, nell’intendo di uniformarli alle proprie caratteristiche
personali, ai propri bisogni o interessi, al fine di rendere il proprio lavoro maggiormente rispondente alle sue
aspettative, inclinazioni, abilità. (Wrzesniewski, Dutton, 2001; Slemp, Vella-Brodrick, 2014; de Gennaro, Buo-
nocore, Ferrara, 2017).

40
La progettazione organizzativa

elevati e differenziati ambiti di autonomia e responsabilità. Si può osservare


come questa divisione del lavoro si verifichi “normalmente” tra le aziende, dal
momento che nessuna ha la possibilità di realizzare interamente tutte le risorse
necessarie al proprio funzionamento, e possa manifestare un’estensione molto
variabile, potendo le aziende coinvolte operare all’interno di uno stesso o più
sistemi economico-politici, locali, nazionali e sovranazionali. Una visione sin-
tetica dei diversi livelli della divisione del lavoro è proposta in Tabella 1.1.

Tabella 1.1. I livelli della divisione del lavoro

Ambito Livello Oggetto Unità di analisi


Intra-organizzativo Micro Mansione Compito
Meso Unità Mansioni o insiemi
Organizzative di mansioni (sistema
primario di lavoro)
Macro Forma Insiemi di unità or-
Organizzativa ganizzative e attività
Inter-organizzativo Rete esterna Azienda
Fonte: Nostro adattamento da Isotta, 2011: 27

Gli oggetti della progettazione, come già anticipato in precedenza, sono per-
tanto diversi. A livello micro e individuale, il focus è rappresentato dal compi-
to, definito come un insieme di operazioni elementari che risultano tra loro ne-
cessariamente collegate per motivi di natura tecnologica (l’impossibilità o non
convenienza di dividere ulteriormente un compito perché coinvolge un set mi-
nimo di conoscenze necessarie per svolgerlo) o psicologica (la possibilità per
l’attore di percepire il significato delle operazioni svolte). Come vedremo me-
glio nel capitolo 4, il job design valuta le possibili alternative di aggregazione
dei compiti in mansioni e le implicazioni (organizzative, tecniche e motivazio-
nali) che da tali scelte possono derivare. A livello meso, l’oggetto della proget-
tazione sono insieme di mansioni, analizzate in relazione alla loro natura
(mansioni operative, o di supporto, in termini di manutenzione, regolazione e
controllo) e alle loro relazioni verticali e orizzontali, vale a dire in relazione al-
le interdipendenze che si generano tra gruppi di mansioni complessivamente
finalizzate al conseguimento di risultato identificabile: tale insieme di mansioni
configura il c.d. sistema primario di lavoro (Grandori, 1999; De Vita, Mercu-
rio, Testa, 2000; Costa, Gubitta, Pittino, 2014). Infine, a livello macro,
l’oggetto della progettazione sono le forme organizzative (c.d. organization de-
sign), quindi le modalità di aggregazione di insiemi di mansioni in unità orga-
nizzative che possono coprire ambiti più o meno ampi ed omogenei/eterogenei
di attività (per esempio le unità organizzative funzionali, come ad esempio le

41
Lineamenti di organizzazione aziendale

funzioni produzione, vendita, acquisti, amministrazione, finanza, aggregano


mansioni e attività omogenee da un punto di vista tecnico ed economico, men-
tre le unità organizzative divisionali, come una divisione per prodotto, per
cliente, per area geografica presidiata, aggregano mansioni e attività tra di loro
eterogenee).
A livello inter-organizzativo, oggetto della progettazione diviene la divi-
sione e il coordinamento del lavoro tra entità aziendali autonome, che possono
fare parte di una medesima supply chain e, quindi, connotarsi per rapporti di
integrazione reciproca e di complementarità in vista di un comune risultato fi-
nale da conseguire, oppure appartenere da ambiti competitivi diversi, quindi
connotarsi per relazioni di natura competitiva.
Appare evidente, alla luce di quanto complessivamente detto in questo
capitolo, che i diversi livelli di progettazione non costituiscono ambiti separati,
ma richiedono di essere tra loro armonizzati e allineati. Risulta altrettanto evi-
dente che a seconda del livello di analisi considerato diverse potranno essere le
logiche di progettazione cui fare specifico riferimento, ma anche gli approcci
disciplinari ai quali attingere. Ciò vuole costituire semplicemente una confer-
ma della estrema complessità della problematica organizzativa e, quindi, della
necessità di affrontare queste tematiche con una particolare apertura mentale,
evitando di risultare prigionieri di una sola visione. La conoscenza richiesta
per padroneggiare le competenze organizzative si presenta quindi “enciclope-
dica” e capace di superare il particolare per richiamare sempre la visione
d’insieme, situazione questa che appare essere in forte contrasto con la pro-
gressiva frammentazione attuale del sapere e la sua crescente evoluzione.

42
2 Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
di Sara Lombardi

Introduzione – 2.1. L’organizzazione come sistema aperto – 2.2. I principali approcci


teorici che regolano il rapporto tra organizzazione e ambiente – 2.2.1. Il concetto di
fit tra organizzazione e ambiente: la teoria della contingenza – 2.2.2. ll paradigma
struttura-condotta-performance – 2.2.3. La visione d’impresa fondata sulle risorse
interne – 2.3. Le tipologie di ambiente – 2.3.1. L’ambiente generale – 2.3.2. L’am-
biente operativo – 2.4. Le sfide connesse all’analisi dell’ambiente esterno – 2.4.1. L’in-
dividuazione dei confini organizzativi – 2.4.2. I limiti cognitivi nell’utilizzo delle in-
formazioni – 2.5. L’incertezza ambientale – 2.5.1. L’ambiente come “fonte di infor-
mazioni” – 2.5.1.1. Una classificazione dell’ambiente in base al suo grado di comples-
sità/semplicità – 2.5.2. L’ambiente come “fonte di risorse” – 2.5.7. Implicazioni
dell’incertezza ambientale per la progettazione organizzativa – 2.6. L’azione strate-
gico-organizzativa nei confronti dell’ambiente: Le decisioni relative alla strategia –
2.6.1. Le strategie competitive – 2.6.2. La ricerca del prestigio – 2.6.3. L’adozione di
figure e ruoli organizzativi strategici – 2.6.4. Le strategie cooperative – 2.7. L’azione
strategico-organizzativa nei confronti dell’ambiente: Le decisioni relative alla strut-
tura – 2.7.1. Il modello di Burns e Stalker – 2.7.2. Il modello di Lawrence e Lorsch

43
Lineamenti di organizzazione aziendale

Introduzione

Lo studio delle organizzazioni richiede che le stesse siano concettualizzate come


entità inserite all’interno di un contesto più ampio, ossia di un ambiente in cui
queste operano e con il quale interagiscono. Tale concettualizzazione implica
l’esistenza di una relazione di influenza tra l’ambiente e l’organizzazione. La ve-
locità con cui avvengono i mutamenti ambientali, unitamente ai naturali limiti
della percezione e cognizione umana rendono infatti la connessione tra am-
biente ed organizzazione problematica tanto nella sua identificazione quanto
nella sua gestione, generalmente realizzabile attraverso gli strumenti della pro-
gettazione organizzativa.
Mancare di monitorare e adeguatamente gestire il rapporto con l’am-
biente può mettere seriamente a repentaglio la sopravvivenza delle organizza-
zioni, anche qualora si tratti di imprese leader in un determinato settore.
Come si è tentato di spiegare nelle pagine seguenti, ogni qual volta si cerchi
di comprendere il rapporto tra l’organizzazione ed il suo ambiente, il problema
dell’incertezza diventa centrale. Tuttavia, spesso l’incertezza è più di natura per-
cettiva che oggettiva (Downey e Slocum, 1975). Ovvero, a definire il grado di in-
certezza ambientale intervengono i manager che, con le loro capacità e modelli
cognitivi, assegneranno al proprio ambiente una determinata connotazione in ter-
mini di maggiore o minore incertezza. Un’immediata conseguenza di ciò è che le
strategie e le linee di progettazione organizzativa saranno inevitabilmente influen-
zate da ciò che i manager, in qualità di individui, pensano sia reale (incertezza per-
cettiva) rispetto a ciò che effettivamente è reale (incertezza di fatto).
Essendo entrambe le tipologie di incertezza ugualmente rilevanti ai fini delle
azioni organizzative – in quanto entrambe hanno una forte influenza su di esse –
diventa essenziale, per ogni organizzazione, avere presente una serie di step che
possono rendere l’analisi dell’incertezza quanto più equilibrata possibile.

• Le organizzazioni devono rendersi consapevoli dell’esistenza di entrambe


le tipologie di incertezza.
• E’ importante comprendere che non esiste un modo di organizzare e gestire
l’incertezza che sia il migliore in assoluto.
• Coerentemente con ciò, è utile analizzare la situazione specifica di ogni or-
ganizzazione prima che i manager definiscano concretamente piani e stra-
tegie. Tale analisi è chiamata ‘situazionale’.
• Un’analisi situazionale efficace si compone di alcuni semplici fasi (Mockler,
1971). In primo luogo, è necessario realizzare (i) un’attenta diagnosi dei
problemi che l’organizzazione sta riscontrando o ha riscontrato. A seguire,
è opportuno attivarsi per tentare di (ii) identificare i fattori critici capaci di

44
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

influenzare le decisioni dei manager e, coerentemente con ciò, (iii) formu-


lare alcune alternative di azione/reazione. In relazione ad ogni singola al-
ternativa individuata, l’organizzazione dovrebbe essere in grado di (iv) va-
lutarne l’adeguatezza relativamente alla situazione da fronteggiare e, infine,
(v) servirsi di tale valutazione a supporto e come guida delle azioni che do-
vranno essere intraprese.

Attraverso un’attenta analisi situazionale, il manager può determinare in ma-


niera sistematica i fattori chiave più rilevanti, stimando allo stesso tempo l’even-
tuale necessità di acquisire ulteriori informazioni o conoscenza necessarie ad
analizzare la situazione.

2.1. L’organizzazione come sistema

Nella teoria organizzativa la relazione organizzazione-ambiente è spesso stata


spiegata attraverso la dicotomia sistema aperto-sistema chiuso. Tutte le orga-
nizzazioni sono entità che esistono in quanto interagiscono costantemente con
l’ambiente (Figura 2.1). Qualunque sia la prospettiva interpretativa adottata,
nessuna organizzazione, di per sé, può essere considerata autosufficiente, dipen-
dendo sempre la sua sopravvivenza dal tipo, dall’intensità e dall’importanza che
il decisore aziendale attribuisce alle relazioni di scambio con gli attori che ope-
rano nei sistemi più ampi nei quali è inserita.
Tuttavia dobbiamo evidenziare come i primi studiosi di organizzazione
tendevano a sottostimare e trascurare l’importanza della relazione con l’am-
biente (Scott, 1984), in particolare ai fini delle decisioni strategiche e di pro-
gettazione organizzativa. Si è sviluppata così l’idea di organizzazione come
“sistema chiuso” non già per significare l’assenza di scambi con l’ambiente
quanto semmai per sottolineare e rimarcare l’idea di sistema “determinato
internamente”, cioè configurato e sviluppato sulla base di scelte che conside-
rano prioritarie le dimensioni interne (ad esempio la tecnologia adottata, la
definizione dei fini posti in modo predeterminato e autonomo rispetto all’am-
biente, ecc.). Questa idea di organizzazione come “sistema chiuso” trova nella
c.d. prospettiva di “sistema razionale” il suo naturale alveo. Il pensiero di
studiosi “classici” come Taylor, Fayol e Weber è rappresentativo di questa
prospettiva, essa implica un’idea di organizzazione meccanica, sottoposta a
modificazioni sempre possibili e programmabili da parte dei manager che
hanno come preoccupazione principale quella di ottimizzare le operazioni in-
terne al sistema.

45
Lineamenti di organizzazione aziendale

Sicuramente più fertile per la relazione impresa-ambiente è la prospettiva


dell’organizzazione come “sistema aperto” che, partendo dalla teoria generale
dei sistemi, aiuta a spiegare l’importanza dell’ambiente per la competitività
aziendale. La considerazione dei manager verso le dinamiche ambientali e verso
le azioni degli interlocutori “esterni”, valutata tanto in input quanto in output,
in questa visione è considerata prioritaria nel processo di scelta e determinante
per la sopravvivenza e la competitività del sistema. I processi, le funzioni interne
e le strategie sono condizionate dai rapporti col più ampio ambiente generale.
In quanto “sistema aperto”, l’organizzazione dovrà necessariamente trovare la
modalità attraverso cui adattarsi all’ambiente (ed eventualmente cambiarlo a
suo favore). I decisori di Blackberry, ad esempio, avrebbero dovuto rendersi
consapevoli di quanto stava accadendo nel mercato di riferimento e includere
nelle loro scelte l’evoluzione della traiettoria tecnologica dei cellulari, traiettoria
esterna e diversa dalla core technology in uso.
A rafforzare la rilevanza di questa concezione sono intervenuti, negli ul-
timi decenni, radicali cambiamenti nell’ambiente esterno che hanno ulterior-
mente imposto alle organizzazioni di accogliere e inglobare, all’interno delle
proprie decisioni, le implicazioni connesse all’essere “sistemi aperti”. Basti pen-
sare alla globalizzazione, all’avvento e la successiva esplosione di Internet e
dell’e-commerce, ai flussi migratori di popolazioni che abbandonano il loro
Paese, così come alla feroce competizione nei mercati dovuta alla nascita di
nuovi business e nuove modalità di fare impresa.
L’ambiente è fonte di risorse, quali materie prime, persone, risorse finan-
ziarie e risorse informative, da cui l’organizzazione attinge in base alle proprie
necessità. Gli input acquisiti e generati dall’organizzazione vengono immessi nel
processo di produzione, sottoposti a trasformazione e convertiti in output. Que-
sti ultimi, che possono assumere la forma di prodotti o servizi, saranno nuova-
mente offerti al mercato, ossia nell’ambiente esterno, a clienti, a fornitori o ad
altre organizzazioni per acquisire nuove risorse.
Considerare un sistema “aperto” o “chiuso” dipende da come si defini-
scono i confini dell’organizzazione, in sostanza da quali e quanti elementi
dell’ambiente il decisore aziendale considera rilevanti nelle scelte di progetta-
zione organizzativa. Per comprendere meglio la differenza tra sistema “chiuso”
e “aperto” gli studiosi di teoria generale dei sistemi utilizzano il concetto di en-
tropia (perdita di energia o energia che non può essere trasformata in lavoro).
Tutti i sistemi chiusi, focalizzando le proprie decisioni e il proprio sviluppo sulle
risorse interne sono destinati ad evolversi verso uno stato di entropia, i sistemi
aperti, di contro, dal momento che sono capaci di prendere energia dall’am-
biente possono fruire di entropia negativa ripristinando così i livelli di energia e
riparando i danni alla loro organizzazione (Scott, 1984).

46
Figura 2.1. L’organizzazione come sistema

47
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

Fonte: Da Daft, R. L. 2007, Organizzazione Aziendale, 3rd Ed., Apogeo.


Lineamenti di organizzazione aziendale

Sebbene rendere le organizzazioni dei sistemi efficienti sia tuttora una delle
preoccupazioni di ogni manager, l’elemento di novità dei sistemi aperti consiste
nel tentare di creare il giusto equilibrio tra un sistema interno ben congegnato
ed un’attenzione costante ai mutamenti che prendono forma nell’ambiente
esterno includendoli in misura rilevante nella funzione decisionale. Pertanto,
non è più possibile ipotizzare una buona progettazione e gestione delle organiz-
zazioni limitandosi a prediligere una prospettiva di “sistema chiuso”.

2.2. I principali approcci teorici che regolano il rapporto tra organizzazione e


ambiente

2.2.1. Il concetto di fit tra organizzazione e ambiente: la teoria della


contingenza

L’esistenza di una relazione tra organizzazione ed ambiente è un tema che ha


alimentato decine di anni di ricerche da parte di studiosi tanto di teorie organiz-
zative quanto di gestione strategica delle imprese.
Comune alla maggioranza dei lavori scientifici prodotti ad oggi è la con-
sapevolezza che, al fine di gestire in modo efficace il rapporto col proprio am-
biente, le organizzazioni dovrebbero sviluppare con esso un certo grado di alli-
neamento, ossia ciò che viene definito il fit (Burton e Obel, 2004, Burton et al.,
2008). Il concetto di fit si pone alla base della teoria della contingenza, secondo
cui le organizzazioni che registrano performance migliori sono quelle capaci di
garantire un maggiore allineamento tra i propri caratteri interni e le contingenze
(da qui il nome della teoria) ambientali (Donaldson, 2001; Venkatraman, 1989).
La ratio che sottende la teoria è quella secondo cui le caratteristiche interne or-
ganizzative, quali i processi, la struttura, le tecnologie, risultano maggiormente
adatte in determinati ambienti anziché in altri, contraddistinti, ad esempio, da
un certo grado di dinamismo, di incertezza o di complessità. Se questo è vero, le
organizzazioni dovrebbero comprendere come poter beneficiare di questo alli-
neamento, in quanto ciò assicurerebbe loro vantaggi competitivi rispetto ai pro-
pri concorrenti (Parker e Witteloostuijn, 2010).
Sviluppata intorno agli anni ‘60 dello scorso secolo, tale teoria nasce in
risposta ai limiti posti dalle precedenti teorie di management, le quali tendevano
ad enfatizzare il principio “one best way” per la progettazione interna delle or-
ganizzazioni. Così facendo, i sostenitori delle teorie contingenti reclamavano
che non fosse possibile individuare un solo ed universale modo per organizzare
un’impresa, per assumere una decisione, per assicurarne una gestione efficace.

48
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

Al contrario, l’approccio alla progettazione delle organizzazioni deve essere in-


dividuato in base all’ambiente con cui queste interagiscono.

2.2.2. ll paradigma struttura-condotta-performance

Sviluppato durante gli anni ‘30 del secolo scorso dagli economisti industriali
della Scuola di Harvard, il paradigma struttura-condotta-performance (di se-
guito riportato come S-C-P) suggerisce che la performance (P) economica di un
certo settore economico derivi dalla condotta (C) tenuta dagli attori economici
in esso operanti, la quale, a sua volta, si modificherà in funzione della struttura
(S) del settore stesso (Mason, 1939; Bain, 1956). Così facendo, gli elementi ca-
ratterizzanti la struttura di un settore economico finiscono per condizionare di-
rettamente, ed in modo univoco, le imprese che ne fanno parte. Detto ciò, queste
ultime dovranno conoscere e rispettare le regole determinate dal settore, pena la
propria sopravvivenza. Quelle che dimostreranno di sapersi adattare a tali re-
gole in modo migliore e anticipando i concorrenti, registreranno prestazioni su-
periori.
In cosa si concretizzano i tre elementi centrali del teorema? La struttura
del settore (S) fa riferimento ad elementi quali la quantità di organizzazioni in
esso presenti, il grado di integrazione verticale, le barriere all’entrata, la concen-
trazione del settore, il livello di differenziazione del prodotto, etc (McWilliams
e Smart, 1993). La condotta (C) richiama invece gli schemi di comportamenti
seguiti dagli attori economici del settore, dunque le attività da loro poste in es-
sere. Si pensi, ad esempio, alle partnership che possono nascere tra di essi, alle
attività di ricerca e sviluppo che alcuni di loro possono avviare, alle politiche di
prezzo che essi adottano, alle scelte aziendali in tema di processi produttivi, etc.
Infine, la performance economica (P) viene generalmente misurata guardando
al grado di efficienza del settore, ovvero alla sua capacità di massimizzare il ri-
sultato (l’output) ottenuto impiegando una certa quantità di risorse (input),
nonché i profitti del settore derivanti dai profitti registrati dalle organizzazioni
che in esso operano, il loro potere di mercato, il fatturato, etc.
Sebbene abbia fornito una solida base di studio delle strategie aziendali,
il paradigma S-C-P presenta alcuni limiti che ne mettono a repentaglio la vali-
dità quale approccio utile a spiegare la relazione tra organizzazione e ambiente.
Il principale è quello secondo cui esso tende ad adottare un approccio de-
terministico, semplificando eccessivamente la realtà economica. Il focus, infatti,
è su un unico aspetto: la struttura del settore. Tuttavia, concretamente, la per-
formance delle organizzazioni può modificarsi in conseguenza dell’agire di molti
altri fattori, inclusi quelli interni all’organizzazioni, oltre che il processo compe-
titivo che si attiva tra i concorrenti.

49
Lineamenti di organizzazione aziendale

In secondo luogo, il paradigma trascura i casi in cui key players, in ragione


delle loro rilevanti dimensioni e del conseguente potere di mercato, sono capaci
di agire sulla struttura del settore, rivedendone le regole del gioco a proprio van-
taggio, danneggiando i loro concorrenti. In questo caso, la relazione tra am-
biente e organizzazione cessa di essere univoca, per diventare biunivoca, enfa-
tizzando così il legame d’interdipendenza reciproca che sussiste tra organizza-
zione e ambiente. Infatti, così come è utopistico immaginare un’organizzazione
completamente libera da condizionamenti dell’ambiente esterno, è altrettanto
difficile pensare che alcune organizzazioni non siano in grado di influenzare –
seppure in minima parte – le condizioni del mercato in cui esse operano. Tale
prospettiva è stata avanzata dalle ricerche riconducibili alla nuova economia
industriale.

2.2.3. La visione d’impresa fondata sulle risorse interne

A studiare il rapporto tra l’organizzazione e il suo ambiente hanno contribuito


anche le ricerche sulla Resource-Based View (RBV) che, anziché mantenere il
focus su ciò che sta al di là dei confini organizzativi, ha enfatizzato il patrimonio
di risorse interne all’organizzazione.
La RBV, databile dai primi anni Ottanta - anche se radicata già negli studi
di Ricardo (1817), Schumpeter (1934) e Penrose (1959), si pone come uno dei
molteplici approcci alla teoria del comportamento d’impresa concepiti quali
tentativi di uscita dall’antirealismo degli schemi neoclassici che hanno dominato
la scena degli studi d’impresa per tutto il IXX secolo, radicati nei contributi di
Smith, Marshall, Walras, Jevons ed altri. I teorici neoclassici concepiscono l’im-
presa come mero luogo ove produrre, ossia dove trasformare beni o servizi (in-
put) in altri beni o servizi (output), con il principale ed esclusivo obiettivo di
massimizzare i profitti. L’impresa è dunque ritenuta una sorta di “scatola nera”,
un’entità non indagabile al di là di ciò che concerne la sua funzione di produ-
zione, rivestita di un ruolo secondario rispetto al mercato in cui agisce, inteso
come dato ed immodificabile, luogo di incontro tra domanda e offerta di beni
omogenei.
La ragion d’essere dell’approccio resource-based va ricercata nell’insoddi-
sfazione generata dai limiti della suddetta teoria neoclassica d’impresa, quale
strumento primo d’indagine di una realtà aziendale artefatta. Il cosiddetto
“First Fundamental Welfare Theorem of Economics” neoclassico lasciava, in-
fatti, abbastanza sconcertati coloro che, guardando al di là dei meccanismi sem-
plicistici di un sistema di prezzi, intendevano conoscere l’impresa e studiarne i
comportamenti.

50
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

In tale contesto, la RBV veniva gradualmente a comporsi, e lentamente


ad affermarsi, per tappe successive, a testimonianza della progressiva matura-
zione delle proprie idee portanti; tanto che essa può essere concepita come un
“melting-pot” di contributi economicistici per tradizione, ma anche aziendali-
stici per la loro affinità e vicinanza con il Management Strategico.
Gli aspetti essenziali grazie ai quali questa visione d’impresa si colloca al
di fuori della dimensione neoclassica sono rintracciabili nei concetti di:

• imprenditorialità, considerata, per definizione, dai neoclassici “the reposi-


tory of nonneoclassical phenomena” (Rumelt, 1984),
• eterogeneità delle risorse, solo appena ipotizzata dal modello neoclassico
come proprietà esogena del mondo fisico piuttosto che creazione endogena
degli operatori economici.

Così facendo, la RBV rivolge la propria attenzione non al settore industriale


come insieme di imprese identiche, ma all’impresa considerata nella sua unicità,
dunque ai suoi elementi interni, ossia alle risorse, alle capacità e alle competenze
aziendali, rappresentanti l’unica reale fonte di vantaggio competitivo che l’im-
presa deve pertanto imparare a gestire e ad ottimizzare. Come si evince, dunque,
l’analisi volge il suo sguardo non più ai fattori esterni come essenziali per il suc-
cesso dell’impresa, bensì a ciò che essa possiede, a ciò che può essere facilmente
scovato e rintracciato osservandola dal suo interno; vale a dire, non più ai biso-
gni che essa cerca di soddisfare, bensì a ciò che è in grado di fare.
Le risorse, dunque, come elemento posto al centro della spirale che con-
duce ad una migliore performance organizzativa. Con il termine “risorse” (re-
sources) si suole indicare lo stock di fattori produttivi, sia materiali che immate-
riali, a disposizione dell’impresa, di sua proprietà o da essa controllati. Se, dun-
que, nella tradizione neoclassica il termine viene impiegato per individuare ge-
nericamente i consueti terra-lavoro-capitale, nel contesto resource-based lo
stesso si riferisce piuttosto ad entità altamente firm-specific, la cui particolarità
è tale da renderle difficilmente imitabili, non negoziabili e quindi non trasferibili
da impresa ad impresa, in ragione sia degli elevati costi a cui sarebbero soggette
in caso di transazione o trasferimento, sia della componente di conoscenza ta-
cita dalle stesse contenuta.
Alla base della presente prospettiva vivono, pertanto, le risorse strategi-
che, ossia quelle che sono in grado di supportare il vantaggio competitivo
dell’organizzazione in quanto portatrici, al contempo, di quattro caratteristiche
salienti, incorporate nel framework c.d. “VRIN” (Barney, 1991):

51
Lineamenti di organizzazione aziendale

• Valuable: sono quelle risorse che consentono all’organizzazione di mettere


in atto strategie che rafforzano la sua efficacia ed efficienza.
• Rare: le risorse di cui i concorrenti non dispongono.
• imperfectly imitable: risorse difficilmente replicabili ed imitabili da parte
della concorrenza.
• non substitutable: risorse che non possono essere facilmente sostituite da al-
tre.

Ne consegue che la ricerca del vantaggio competitivo di un’impresa dipende


dall’implementazione e dalla formulazione di una strategia che riconosca, al fine
di potenziarle, le sue caratteristiche distintive: solo l’analisi dei fattori che hanno
spinto un’impresa all’adozione di un determinato approccio strategico può aiu-
tare a comprendere le ragioni del maggior successo che essa ottiene rispetto ai
concorrenti.
Coerentemente con ciò, la logica strategica qui coinvolta non è quella
della (non più sufficiente) allocazione di risorse come mero adattamento ad op-
portunità che si generano nell’ambiente esterno, per essere piuttosto costituita
dallo sviluppo delle risorse e delle competenze necessarie ad affrontare il conte-
sto ambientale e far maturare le occasioni che possono derivare dalle tendenze
emergenti dei business.

2.3. Le tipologie di ambiente

La letteratura distingue due principali tipologie di ambiente: l’ambiente generale


e l’ambiente operativo (Osborn e Hunt, 1974; Figura 2.2). Di seguito discute-
remo la forte interconnessione tra questi due tipi di ambiente e la modalità con
cui tendono a condizionare l’organizzazione. La relazione tra i due ambienti e
l’organizzazione è tale per cui, laddove si verifichi un cambiamento in uno di
questi elementi, anche gli altri tenderanno a modificarsi.

2.3.1. L’ambiente generale

L’ambiente generale fa riferimento al contesto economico, politico, culturale,


tecnico e tecnologico all’interno del quale le organizzazioni sono inserite. Il ter-
mine “generale” assegnato a questo tipo di ambiente vuole indicare che siamo
in presenza di uno spazio ampio e variamente popolato le cui manifestazione e
modifiche provocano tendenzialmente conseguenze che non incidono diretta-
mente sulle sorti dell’impresa, quand’anche queste si presentassero non in modo
lieve. Non è facile valutare l’impatto dei mutamenti di questo ambiente, molti

52
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

di questi nel medio periodo potrebbero seriamente compromettere l’esistenza


delle organizzazioni che, operando in quell’ambiente, non riescono ad antici-
pare e/o a gestire le variazioni che in esso prendono forma rapidamente nel
tempo.
Katz e Rosenzweig (1979), menzionati anche nei contributi di Gerloff
(1989) e di Perrone (1990), suggeriscono nove distinti fattori dell’ambiente ge-
nerale che vincolano le attività delle organizzazioni:

1. I fattori culturali. Comprendono le ideologie, i valori e le norme sociali; le


convinzioni circa i rapporti gerarchici, i modelli di leadership, le relazioni
interpersonali che definiscono la natura delle istituzioni sociali. Richia-
mando uno dei paradigmi della cultura più noti, quello di Hofstede (2007)
la considera un elemento che viene appreso in base al contesto sociale che
il soggetto vive e nel quale si sviluppa. Dunque, anziché un fattore innato,
la cultura si forma col tempo. Da qui l’importanza del Paese, e della conse-
guente cultura nazionale, in cui le organizzazioni operano.
2. I fattori tecnologici. Si riferiscono al livello di avanzamento scientifico e tec-
nologico della società, incorporato in impianti, attrezzature, infrastrutture,
oltre che alla misura in cui la comunità scientifica e tecnologica è in grado
di sviluppare nuova conoscenza, oltre che, successivamente, di applicarla.
3. I fattori educativi. Richiamano il livello generale di alfabetizzazione della
popolazione, il grado di sofisticazione e specializzazione del sistema scola-
stico di un Paese, la percentuale di persone che possiede un elevato livello
di competenze e di specializzazione e la loro conseguente capacità di ap-
prendere e di risolvere problemi anche complessi.
4. I fattori politici. Riguardano il clima politico generale di una società nonché
il grado di concentrazione del potere politico, la natura dell’organizzazione
politica (es. grado di accentramento, diversità di funzioni, ecc.), il sistema
dei partiti politici, la gestione della cosa pubblica e le interazioni tra aspetti
economici e aspetti politici.
5. I fattori legali. Concernono le considerazioni basilari di tipo costituzionale,
la natura del sistema legale, la giurisdizione delle varie unità governative, le
leggi specifiche in tema di formazione, tassazione e controllo delle organiz-
zazioni. Dunque, sono relativi alle norme che regolano la società e alle mo-
dalità con cui esse vengono applicate e fatte rispettare, con particolare en-
fasi sulle leggi che regolano le questioni economiche, quali il diritto com-
merciale e del lavoro.
6. I fattori naturali. Richiamano l’importanza della natura, della quantità e
della disponibilità di risorse quali il clima e i fenomeni di stagionalità, ossia

53
Lineamenti di organizzazione aziendale

delle caratteristiche fisiche, del territorio, geografiche in cui l’organizza-


zione opera.
7. I fattori demografici. Concernono temi quali la natura delle risorse umane
disponibili alla società, la loro quantità e la loro distribuzione in termini di
età, genere ed altre caratteristiche individuali, oltre che la concentrazione e
l’urbanizzazione della popolazione.
8. I fattori sociologici. Rientrano in questa categoria la struttura di classe e la
mobilità sociale, i criteri che guidano la definizione dei ruoli sociali, il com-
portamento degli individui all’interno dei contesti sociali e, di conseguenza,
i conflitti che ne possono emergere, i cambiamenti negli usi e nei costumi e
i movimenti di opinione.
9. I fattori economici. Riguardano il contesto macroeconomico, relativo, ad
esempio, all’accentramento o al decentramento della pianificazione econo-
mica, al sistema bancario, alle politiche di finanza pubblica, al livello di in-
vestimenti in risorse fisiche e alle caratteristiche del consumo. Questi fattori
comprendono, inoltre, elementi quali il livello di importazioni ed esporta-
zioni, il tipo di organizzazione economica (proprietà privata o pubblica), il
grado di competitività di un settore, etc.

In aggiunta, è importante sottolineare che i suddetti fattori, per quanto concet-


tualmente distinti, molto spesso operano in strettissima connessione reciproca,
influenzandosi a vicenda e aggravando, quindi, la difficoltà delle organizzazioni
di prevederne le evoluzioni e assumere misure coerenti per gestirle. A tal ri-
guardo, riportiamo l’esempio citato da Perrone (1990, p. 252-253):

Si pensi, ad esempio, ad un problema come quello dell’energia nucleare, rispetto al


quale si intrecciano movimenti di opinione, scelte politiche, calcoli economici ed evo-
luzione tecnologica, oppure alla generale questione dell’ecologia, la quale si presenta
con grado di complessità ancora maggiore.

Di fronte a scenari come quelli ricordati da Perrone e oggi ancor più allarmanti,
le organizzazioni dovranno dedicare risorse economiche ed organizzative al fine
di raccogliere le informazioni ed elaborarle, al fine di assumere le decisioni mi-
gliori ed adottare le soluzioni adeguate per non essere condizionati in modo de-
terminante da quanto accade nell’ambiente generale.
Tuttavia, si ricordi che questa porzione di ambiente è detta “generale” in
ragione del fatto che essa non è in contatto diretto con l’organizzazione; per-
tanto, non è da essa modificabile. Detto ciò, le evoluzioni ambientali che avven-
gono in questa parte di ambiente assumono rilevanza per le organizzazioni solo
mediante l’azione ed il comportamento di istituti, gruppi o individui che, al con-
trario, intrattengono una relazione diretta con essa. Richiamando l’esempio

54
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

della questione dell’ecologia, è il caso dei movimenti ecologisti che, attivandosi


per combattere l’inquinamento prodotto dalle attività industriali, pongono alle
organizzazioni la “questione ambientale”, rendendo il problema un fenomeno
concreto, osservabile, tangibile. E’ a questo livello che le organizzazioni possono
cogliere le perturbazioni in corso nell’ambiente e rivedere, di conseguenza, la
loro gestione e la loro organizzazione interna.

2.3.2. L’ambiente operativo

In contrapposizione all’ambiente generale, vi è una ulteriore tipologia di am-


biente, detta ambiente operativo o specifico (nella sua dicitura inglese, task en-
vironment), che merita di essere trattata. Secondo Hall (1982), l’ambiente speci-
fico è composto dalle organizzazioni e dagli individui con i quali l’organizza-
zione interagisce direttamente. Alcuni studiosi tendono a considerare l’ambiente
operativo come quello che include tutti gli individui o le organizzazioni che for-
niscono input diretti all’organizzazione (o ai suoi membri) o ne ricevono output
diretti. Tra essi troviamo, quindi, i fornitori, i clienti, i concorrenti diretti, le
potenziali organizzazioni entranti nel mercato, le organizzazioni interessate al
settore o a-specifiche del settore ma influenti (ad esempio, le amministrazioni
pubbliche), i gruppi di interesse.
Mentre l’ambiente generale è sostanzialmente lo stesso per tutte le organiz-
zazioni facenti parti di un dato settore industriale o di una certa collettività, l’am-
biente specifico è unico per ogni organizzazione, in quanto deriva dalle scelte che
essa compie circa una serie di elementi, quali le tecnologie da utilizzare, il processo
produttivo da mettere in atto, i prodotti e i servizi da offrire e i clienti da servire
(Perrone, 1990). Coerentemente con tali scelte, ogni organizzazione si collocherà
in una sorta di nicchia ambientale, ovvero in una zona di azione o in un dominio
che ricomprenderà tutti gli individui, i gruppi e le organizzazioni con cui essa rea-
lizza gli scambi di risorse necessari alla sua sopravvivenza e al mantenimento delle
condizioni di economicità (Perrone, 1990, p. 253). Data la presenza di una chiara
relazione di scambio tra l’organizzazione ed il suo ambiente operativo, questo ul-
timo di frequente è definito ambiente transazionale 1.
Ciò implica che, se da un lato, l’organizzazione e il suo ambiente opera-
tivo si influenzano a vicenda, dall’altro, entrambi sono condizionati dal più am-
pio ambiente generale. Tale consapevolezza dà luogo ad un sistema di intera-
zione tra organizzazione e ambiente assai complesso, in cui intervengono nume-
rosi attori portatori di un grado di influenza sulle attività dell’organizzazione
più o meno ampio. Questo sistema di relazioni è stato definito da Hall (1982)
“l’insieme dell’organizzazione”.

1
Per approfondimenti sull’ambiente transazionale, si veda Perrone (1990, pp. 253 ss).

55
Figura 2.2. L’ambiente generale e l’ambiente operativo

56
Lineamenti di organizzazione aziendale

Fonte: Elaborazione dell’autore.


Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

2.4. Le sfide connesse all’analisi dell’ambiente esterno

Anche laddove i manager conducano in maniera ragionata e ponderata le analisi


del loro ambiente esterno, possono comunque emergere difficoltà e sfide che
rendono questo compito ancor più arduo.
Tali sfide sono connesse a due principali aspetti: da un lato, l’individua-
zione del confine tra l’organizzazione e l’ambiente che la circonda, legata, a sua
volta, alle risorse di cui l’organizzazione dispone e a quelle che, di conseguenza,
essa dovrebbe reperire nell’ambiente esterno; dall’altro, la difficoltà dei manager
a selezionare le informazioni strettamente necessarie ai fini della loro analisi e
della successiva progettazione delle loro organizzazioni. Di seguito forniamo
una trattazione di questi due aspetti.

2.4.1. L’individuazione dei confini organizzativi

Al fine di poter interpretare e gestire adeguatamente le relazioni con il loro am-


biente, le organizzazioni devono, innanzitutto, comprendere dove e quali siano
i loro confini, ovvero dove finisca il loro ambiente interno e dove inizi quello
esterno. In realtà, stabilire le delimitazioni di tali ambienti è compito tutt’altro
che facile. Le ragioni che sottostanno a tale difficoltà derivano in particolar
modo dai criteri diversi che possono essere applicati per delineare tali confini.
Perrone (1990) ne individua alcuni:

• Un primo criterio può richiamare gli interessi dei membri appartenenti


all’organizzazione e considerare pertanto interni ad essa le operazioni, i
processi e le loro combinazioni la cui gestione ed organizzazione è finaliz-
zata a soddisfare gli interessi di cui sopra.
• Un ulteriore criterio è rappresentato dalle transazioni, secondo cui, quindi,
l’organizzazione è confinata a tutte quelle che essa governa in modo unita-
rio, secondo una relazione di autorità.
• A guidare la definizione dei confini organizzativi possono essere anche i
processi di trasformazione, i quali diventano il fattore primario che contrad-
distingue l’organizzazione2.
• Spostando l’attenzione sugli individui, i confini organizzativi possono es-
sere definiti interrogando il Vertice aziendale su cosa sia da considerarsi in-
terno e cosa esterno all’organizzazione.

2
Questo approccio richiama i dettami della teoria neoclassica d’impresa, concentrata sugli obiettivi di produttività
ed efficienza. Per approfondimenti si vedano, ad esempio, Holmstrom e Tirole (1989).

57
Lineamenti di organizzazione aziendale

Secondo Starbuck (1976), è l’organizzazione stessa a definire il proprio am-


biente. Di conseguenza, non esisterà una valutazione universalmente condivisa
ed assoluta, bensì valutazioni fortemente dipendenti dalla situazione ed il con-
testo in cui le stesse vengono fatte. Ad esempio, se ad essere considerati membri
dell’organizzazione – dunque appartenenti all’ambiente interno e non anche a
quello esterno – sono soltanto i soggetti decisori della stessa, la domanda che
emerge potrebbe essere la seguente: il consumatore deve essere classificato come
soggetto esterno, ossia componente dell’ambiente in cui l’organizzazione è inse-
rita? E ancora, se il criterio di definizione dei confini organizzativo è quello di
chi formula le decisioni strategiche, che ruolo hanno gli investitori? Sono
anch’essi parte dell’ambiente esterno, come i consumatori?
Riportando le parole di Drucker (1973), uno dei più rilevanti ed influenti
economisti del secolo scorso:

E’ il cliente che determina cosa è vantaggioso e cosa non lo è. E’ solo il cliente che, in
base alla sua volontà di pagare per un bene o un servizio, fa sì che le risorse economi-
che divengano ricchezza e le cose diventino beni. Il cliente è alla base del commercio,
e lo alimenta. Soltanto grazie a lui esiste occupazione. Per soddisfare i desideri e i
bisogni del consumatore la società affida le risorse che producono ricchezza
all’azienda produttiva.

Nell’opinione di Drucker, quindi, il cliente è da intendersi come parte dell’orga-


nizzazione, anziché del suo ambiente esterno.
A tal proposito, nel tentare di spiegare l’ambiente e il suo ruolo nel con-
dizionare il comportamento delle organizzazioni, Starbuck (1976) osserva che
gli ambienti delle organizzazioni sono in gran parte inventati dalle organizza-
zioni stesse. Le organizzazioni selezionano i loro ambienti da un certo insieme
di alternative, e quindi percepiscono soggettivamente gli ambienti nei quali sono
inserite. Sia il processo di selezione sia quello di percezione sono pertanto forte-
mente influenzati dalle norme e dalle abitudini sociali. Una conseguenza di ciò
è l’esistenza di un gran numero di modi nei quali le relazioni tra ambiente e or-
ganizzazioni vengono concettualizzate.

2.4.2. I limiti cognitivi nell’utilizzo delle informazioni

Sulla base di quanto appena detto, è evidente che le valutazioni circa i confini
organizzativi sono demandate a soggetti, individui che, secondo un’analisi cri-
tica, si occuperanno di comprendere come può essere definito l’ambiente esterno
e quali componenti ne fanno parte.
Tuttavia, tale processo di valutazione è inevitabilmente condizionato da
numerose informazioni che tali soggetti dovranno essere capaci di raccogliere,

58
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

analizzare e, successivamente, interpretare affinché possano diventare strumenti


critici a supporto della validità dell’outcome che da tale processo prenderà
forma. A tal proposito, la letteratura suggerisce che vi siano alcuni ostacoli ad
impedire all’essere umano di portare a termine questo processo in maniera effi-
ciente.
Ad esempio, i manager possono incontrare difficoltà nel definire i rap-
porti di causa-effetto negli eventi che li circondano. Laddove due eventi distinti
tendano a ripetersi nel tempo in modo simultaneo, è facile pensare che esista
una connessione tra essi. Nello specifico, è comune ipotizzare una relazione tale
per cui l’uno provochi l’altro, ossia l’evento A causi l’evento B. Sebbene l’esi-
stenza di una relazione di questo tipo possa essere verificata attraverso l’analisi
statistica di dati, molto spesso i manager non hanno la possibilità di raccogliere
tempestivamente le informazioni necessarie a tal fine. Per poter testare la plau-
sibilità di una relazione causa-effetto, alcuni autori (Selltiz, 1964) ritengono che
sia possibile adottare un approccio approssimativamente scientifico, rispon-
dendo alle seguenti tre domande:

1. gli eventi osservati variano insieme?


2. l’‘evento causa’ conduce sempre all’‘evento effetto’?
3. esiste una plausibile spiegazione alternativa degli eventi, quale, ad esempio,
l’intervento di un’altra variabile?

Qualora i manager siano in grado di rispondere affermativamente alle prime


due domande, fondandosi sulla personale certezza che non possa essere identi-
ficata alcuna spiegazione alternativa, allora la conclusione potrebbe realmente
essere che A causi B. Laddove, invece, gli eventi non superino il test, allora si-
gnificherà che esistono basi poco solide per poter affermare l’esistenza di una
relazione di causa-effetto tra gli eventi stessi.
L’importanza di porre l’accento sui limiti cognitivi dell’individuo deriva
dalla consapevolezza che nel rapporto individuo-ambiente, come suggerisce
Perrone (1990), quest’ultimo viene decifrato sulla base degli schemi interpreta-
tivi e percettivi del soggetto. Tali schemi rifletteranno la sua esperienza perso-
nale e professionale, il suo background di istruzione, la sua personalità etc.
Perciò, in conseguenza della nota razionalità limitata (bounded rationa-
lity) teorizzata da Simon (1957, 1997) di cui tutti gli esseri umani sono portatori,
nel valutare l’ambiente il soggetto prenderà in esame solo alcune delle poten-
zialmente infinite informazioni analizzabili; presterà attenzione ad un limitato
set di evidenze, trascurandone molte altre; inoltre, tenderà a considerare reali
solo alcuni dei fatti accaduti, assegnando minore rilevanza ad altri. Di conse-
guenza, le azioni e le decisioni che il soggetto attuerà non saranno conseguenti

59
Lineamenti di organizzazione aziendale

a ciò che si è verificato nell’ambiente, bensì al modello mentali che egli avrà
attivato. Questo spiega perché, di fronte ad una stessa variazione ambientale,
soggetti diversi rispondono in modo altrettanto diverso.
Sebbene l’utilizzo di modelli e schemi interpretativi sia alquanto utile so-
prattutto qualora a dover essere esaminata è una significativa mole di informa-
zioni (si pensi, ad esempio, alla capacità del soggetto di mettere ordine tra le
informazioni raccolte, dare loro un ordine di priorità, semplificare il problema,
etc.), di frequente emerge che gli stessi modelli tendano a distorcere il processo
decisionale, inducendo il soggetto a commettere errori, talvolta anche piuttosto
gravi. Le distorsioni sembrano derivare maggiormente da due elementi:

• La modalità con cui il soggetto struttura il problema, ovvero quello che


in letteratura è definito il framing (Hodgkinson et al., 1999). Radicato ne-
gli studi della psicologia cognitiva, il termine richiama l’inevitabile pro-
cesso secondo cui un soggetto attribuisce un significato a parole, frasi, in-
formazioni in derivazione delle sue percezioni, favorendo certe interpreta-
zioni di tali parole, frasi e informazioni e scoraggiandone altre. In altri
termini, gli individui assumono le loro decisioni in base alla modalità con
cui i problemi da risolvere vendono da loro “incorniciati” (dall’inglese,
frame=cornice). Il soggetto può infatti guardare al problema oggetto di
analisi dando enfasi ad un aspetto anziché ad un altro. Applicato alla re-
lazione organizzazione-ambiente, il decision-maker potrebbe prioritaria-
mente concentrarsi sulle transazioni che risultano più rilevanti nell’am-
biente oppure tentare di capire se quelle attualmente esistenti possono es-
sere riorganizzate per incrementarne l’efficienza. O, ancora, particolare
attenzione potrebbe essere posta all’organizzazione interna e alla valuta-
zione di eventuali suoi elementi che possono renderla particolarmente
lenta ad adattarsi all’ambiente. Qualunque sia il processo di framing se-
guito dall’individuo, esso avrà la tendenza a mettere in luce alcuni aspetti
del problema, trascurandone molti altri, rischiando così di produrre una
decisione poco efficace. In risposta a questo rischio, spesso le organizza-
zioni coinvolgono nel processo decisionale più di una singola persona, per
far sì che ad essere impiegato sia più di un singolo frame. Un caso è quello
di richiedere l’opinione di persone esterne con esperienze diverse e pro-
spettive non prettamente legate all’organizzazione in questione.
• L’utilizzo di eurismi, ossia delle scorciatoie decisionali, delle regole o pro-
cedure mentali che i soggetti tendono ad utilizzare in situazioni di incer-
tezza. Di frequente gli eurismi entrano in gioco in modo inconsapevole,
tanto è automatica la loro attivazione durante i processi decisionali. Il loro
fine è quello di risolvere problemi, dare giudizi, assumere dunque decisioni

60
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

eliminando gran parte dello sforzo cognitivo che l’essere umano dovrebbe
impiegare in assenza di tali eurismi. Tuttavia, il loro utilizzo può impat-
tare negativamente sulle decisioni organizzative in quanto essi inducono
a privilegiare l’utilizzo delle informazioni che risultano più vivide oppure
più facili da ottenere e da ricordare, esponendo così il processo decisionale
al rischio di scarsa efficacia.

In risposta a questi rischi, le organizzazioni possono avvalersi, durante la valu-


tazione dei problemi connessi alla relazione col proprio ambiente, delle c.d.
unità di confine. Si tratta di unità organizzative, che per la natura dell’attività
per la quale sono state create, intrattengono rapporti diretti con l’ambiente. Al-
cuni esempi sono l’unità approvvigionamenti, la quale potrebbe rivedere il pro-
prio ruolo, da unità meramente ad unità con maggior rilievo strategico; l’unità
Risorse Umane, che, in modo simile a quella amministrativa, potrebbe rivedere
il proprio modo di operare, ampliando le tradizionali responsabilità ammini-
strative con attività che vedano una proficua collaborazione col mercato del la-
voro; o ancora, l’unità Ricerca&Sviluppo che potrebbe ricercare modalità di in-
tegrarsi maggiormente con altri enti di ricerca operanti nell’ambiente.
A tali unità potrebbe essere concessa maggiore autonomia decisionale, af-
finché esse possano contribuire in misura più estesa al governo delle relazioni
con l’ambiente.

2.5. L’incertezza ambientale

La relazione tra organizzazione e ambiente al centro di questo capitolo merita


attenzione in ragione di un aspetto centrale: le evoluzioni ambientali sono diffi-
cili da prevedere, ossia, l’ambiente è intrinsecamente caratterizzato da una certa
dose di incertezza.
Gli studiosi hanno proposto definizioni variegate del concetto di incer-
tezza. Alcuni (si veda Knight, 1921, ad esempio) la considerano come l’insieme
delle situazioni per le quali la probabilità che si verifichino determinati eventi
non è nota 3. Secondo Butler e Nacamulli (1998), l’incertezza ambientale nasce
da azioni intraprese da attori esterni non previste o difficili da prevedere. E’ il
caso in cui i consumatori inizino a dimostrare preferenze diverse rispetto al pas-
sato, in cui nuovi concorrenti facciano la loro entrata nel mercato, i fornitori si
dimostrino poco affidabili e stabili, oppure in cui siano definite inaspettata-
mente azioni di regolazione da parte del governo o di altri organi istituzionali.

3
Come spiega Duncan (1972), la definizione differisce da quella di situazioni di rischio in cui ogni possibile
evento ha una probabilità nota.

61
Lineamenti di organizzazione aziendale

Ad un livello più ampio, Lawrence e Lorsch (1967) ritengono che l’incertezza


ambientale derivi dalla compresenza di tre elementi: la mancanza di informa-
zioni chiare, la possibilità di ottenere un feedback dall’ambiente – in risposta
alle azioni dell’organizzazione – soltanto nel medio-lungo periodo, e l’incertezza
generale relativamente alle relazioni di causa-effetto che caratterizzano il rap-
porto tra organizzazione e ambiente.
L’incertezza identifica, quindi, uno stato in cui i decision makers non di-
spongono di sufficienti informazioni riguardo ai fattori ambientali, riscon-
trando significative difficoltà a prevedere i cambiamenti esterni. In questo
modo, l’incertezza aumenta il rischio che le risposte dell’organizzazione falli-
scano e rende problematico calcolare costi e probabilità associati alle diverse
alternative decisionali (Koberg e Ungson, 1987; Milliken, 1987).
In particolare, il grado di incertezza ambientale che le organizzazioni de-
vono fronteggiare è determinato da due elementi (Gerloff, 1989):

• la difficoltà della situazione da affrontare, ossia della decisione da assumere,


dipendente dal grado di dinamicità dell’ambiente;
• l’abilità e le risorse a disposizione di chi assume le decisioni per la risoluzione
della contingenza da affrontare.

Fondato su considerazioni analoghe è il contributo di Scott (1981), il quale


guarda all’incertezza ambientale come la risultante di due dimensioni, derivanti
dalla concettualizzazione dell’ambiente come “fonte di informazioni” e come
“fonte di risorse”. L’incertezza ambientale risulterà pertanto dalla loro intera-
zione (Figura 2.3). Nel paragrafo seguente ne diamo spiegazione dettagliata.

62
Figura 2.3. Le determinanti dell’incertezza ambientale

63
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

Fonte: Elaborazione dell’autore.


Lineamenti di organizzazione aziendale

2.5.1. L’ambiente come “fonte di informazioni”

L’ambiente visto come “fonte di informazioni” pone l’organizzazione nella con-


dizione di rintracciare le soluzioni mediante cui ridurre al minimo la dipendenza
rispetto all’ambiente circa le informazioni di cui essa necessita. E’ infatti noto
che la quantità, tempestività ed affidabilità delle informazioni che da esso l’or-
ganizzazione può reperire sono a loro volta condizionate da alcune sue caratte-
ristiche. Tali caratteristiche sono riconducibili ai seguenti elementi:

• Aggregazione ed organizzazione.
L’aggregazione dell’ambiente definisce la misura in cui gli attori che ne
fanno parte sono legati non solo da relazioni con l’organizzazione, bensì
anche da rapporti tra di loro. In caso di alta aggregazione (e conseguente
bassa frammentazione), l’ambiente tende a favorire fenomeni di c.d. pola-
rizzazione dei flussi informativi sia da che verso l’organizzazione, riducendo
l’incertezza ambientale e i relativi costi connessi alla ricerca e alla elabora-
zione delle informazioni (Perrone, 1990).
I benefici che un ambiente aggregato assicura all’organizzazione sono am-
plificati qualora le relazioni tra gli attori che operano nell’ambiente siano
governate da forme organizzative stabili. Esempi sono i consorzi, le associa-
zioni. Perrone richiama il caso delle organizzazioni sindacali che facilitano
i rapporti tra organizzazione e mondo del lavoro, oltre che tra organizza-
zione e lavoratori.
• Dinamismo e prevedibilità.
Il dinamismo misura il grado di stabilità/instabilità delle componenti
dell’ambiente. Vi sono alcune di esse che subiscono variazioni più frequenti,
quali le tecnologie applicate all’interno di un certo settore oppure le abitu-
dini di acquisto dei consumatori in determinate industrie. Si pensi, ad esem-
pio, al settore dell’abbigliamento, caratterizzato da rapidi e frequenti cam-
biamenti nelle mode che, a loro volta, incidono sulle preferenze dei clienti.
Il grado di dinamismo assume maggiore importanza se considerato in ra-
gione del livello di prevedibilità dei cambiamenti. Vi sono settori, infatti, in
cui le evoluzioni ambientali sono scarsamente prevedibili ed altri per i quali
anticiparli diventa più facile.
• Ampiezza ed omogeneità (complessità).
L’ampiezza definisce la numerosità degli elementi che fanno parte dell’am-
biente. La quantità di fornitori, di clienti, di enti pubblici e di altri attori che
interagiscono con l’organizzazione può infatti incidere sulla natura e sulla
entità delle informazioni che devono essere raccolte ed interpretate per so-
pravvivere nell’ambiente. Pertanto, se gli elementi da fronteggiare sono

64
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

molti, è altamente probabile che l’organizzazione dovrà attivare altrettanti


numerosi canali per il reperimento delle informazioni.
L’elemento quantitativo appena citato diventa ancor più interessante se
considerato alla luce del grado di omogeneità che gli elementi dell’ambiente
presentano. A titolo di esempio, vi sono casi in cui l’ambiente è abitato da
clienti che dimostrano sensibilità assai diverse alla qualità e al prezzo dei
prodotti e dei servizi. Di fronte ad un tale scenario, l’organizzazione dovrà
dedicare risorse organizzative affinché tale diversità di preferenze dei clienti
si rifletta, ad esempio, nei processi produttivi se non anche nelle politiche di
pricing in modo che l’organizzazione sia capace di rispondere in modo più
adeguato possibile alle richieste delle diverse porzioni di ambiente. Molti
autori tendono a catalogare le due caratteristiche qui citate (ampiezza e
omogeneità) sotto un’unica etichetta, quella della complessità/semplicità
dell’ambiente. A tal proposito, Emery e Trist (1965) la definiscono come
una dimensione che riflette l’eterogeneità dell’ambiente, ossia il numero e
la diversità degli elementi esterni rilevanti per l’attività dell’organizzazione.
In ragione di ciò, ci si aspetta che:
o Un ambiente complesso sia caratterizzato da numerosi elementi
esterni differenti che influenzano le azioni e le strategie dell’organiz-
zazione. Esso si presenta quindi segmentato in elementi diversi gli
uni dagli altri, risultando molto difficile da comprendere e da ge-
stire. Si tratta cioè di un ambiente, contraddistinto da un tasso di
mutamento molto elevato, risulta poco prevedibile e come tale, im-
pone ai decision makers scelte caratterizzate da maggiore comples-
sità (Lorsch, 1970).
o Al contrario, in un ambiente semplice solo pochi elementi esterni,
simili tra loro, interagiscono con l’organizzazione e, conseguente-
mente, la condizionano. Il grado di dinamicità è ridotto, rendendo
la prevedibilità dell’ambiente più agevole da parte dei manager.
Conseguentemente, le decisioni che questi devono assumere per
adattare le loro organizzazioni al proprio ambiente possono essere
definite con un minor grado di complessità.
Data la rilevanza che la dimensione della complessità/stabilità dell’am-
biente assume nell’analisi dell’incertezza ambientale, nel sotto-paragrafo
che segue si riporta una possibile classificazione come proposta dalla lette-
ratura esistente.

65
Lineamenti di organizzazione aziendale

2.5.1.1. Una classificazione dell’ambiente in base al suo grado


di complessità/semplicità

Al fine di esaminare maggiormente in profondità la complessità ambientale,


Emery e Trist (1965) hanno proposto un approccio sistemico allo studio della
relazione organizzazione-ambiente che enfatizzava il c.d. tessuto causale, ov-
vero il set di relazioni esistenti tra gli elementi che compongono l’ambiente. Tale
“tessuto” circoscrive il terreno all’interno del quale prendono forma le modifi-
cazioni dell’ambiente rilevanti per l’organizzazione focale. Secondo gli autori,
la complessità ambientale può essere definita mettendo a sistema due dimen-
sioni: da un lato, il tasso di cambiamento dell’ambiente, ossia la rapidità con cui
esso si evolve e, dall’altro, la forza delle connessioni (ovvero, del tessuto causale)
che caratterizzano l’ambiente.
L’incrocio di tali dimensioni dà vita a quattro distinte tipologie di am-
biente: l’ambiente calmo ad avvenimenti casuali, l’ambiente calmo ad avveni-
menti raggruppati, l’ambiente disturbato e reattivo e l’ambiente turbolento (Fi-
gura 2.4).

a) Ambiente calmo ad avvenimenti casuali. All’interno di questo ambiente,


sia le opportunità che le minacce sono distribuite in modo casuale e
l’incertezza ambientale si caratterizza per essere relativamente bassa e
prevedibile. I manager tendono ad adottare strategie che, attraverso
prove ed errori, mirano a controllare le incognite presenti nell’am-
biente.
b) Ambiente calmo ad avvenimenti raggruppati. Rappresenta un caso più
complesso in quanto le opportunità e le minacce anziché presentarsi in
modo casuale emergono in gruppo. Ciò significa che il tentativo di co-
gliere determinate opportunità porta con sé il rischio di alcune minacce
connesse a tali opportunità. Di conseguenza, è possibile che la neces-
sità di evitare di fronteggiare le minacce induca parallelamente a rinun-
ciare di cogliere anche le opportunità. Le strategie più appropriate per
i manager sono allora quelle di selezionare attentamente gli obiettivi
da raggiungere, stabilendo tra di essi un ordine di priorità e svilup-
pando, allo stesso tempo, le competenze necessarie al rispetto di tale
ordine. In linea con quanto detto, è possibile che le organizzazioni che
operano in ambienti calmi ad avvenimenti raggruppati si dotino di una
struttura meccanica nella quale viene privilegiato maggiormente il
meccanismo del controllo gerarchico affiancato spesso da processi de-
cisionali accentrati. Una tale configurazione, infatti, come sarà spie-

66
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

gato nel prosieguo, risponde alla necessità di garantire efficienza in-


terna, pianificazione e programmabilità delle strategie nonché preve-
dibilità delle evoluzioni ambientali.
c) Ambiente disturbato e reattivo. All’interno di questo ambiente sono
presenti numerose organizzazioni simili le une con le altre, le quali ren-
dono fondamentale non tanto la tipologia di strategia da adottare da
parte di ogni singola organizzazione, quanto la tempestività con cui la
strategia stessa viene implementata. Operando nello stesso ambiente e
presentandosi con caratteristiche pressoché analoghe, le organizza-
zioni mireranno ad occupare lo stesso spazio competitivo. Conseguen-
temente, anziché rispondere esclusivamente alla necessità di cogliere
opportunità ed evitare minacce come richiesto per le prime due tipolo-
gie di ambiente analizzate, le organizzazioni che si trovano a fronteg-
giare un ambiente disturbato e reattivo dovranno anche tenere costan-
temente in considerazione le tattiche che consentono di anticipare le
azioni dei concorrenti o, dove ciò non sia possibile, di rispondere ad
esse in maniera appropriata. Quello che ne risulta è dunque un gioco a
somma zero in cui ciascuno cercherà di vincere a spesa dei concorrenti.
d) Ambiente turbolento. Identifica una situazione ancor più complessa in
quanto emergono tre elementi centrali a caratterizzare questo tipo di
ambiente:
• si vengono a costituire insiemi collegati di organizzazioni;
• emerge un forte livello di interdipendenza tra le strategie e il sistema
economico, politico e gli interessi socio-culturali;
• al fine di sostenere la propria competitività, le organizzazioni ten-
dono a fare ingenti investimenti in ricerca e sviluppo, rendendo ul-
teriormente elevato il grado di mutamento dell’ambiente.
Ciò che ne consegue è un inevitabile incremento del livello di incertezza
che le organizzazioni si trovano a fronteggiare, in quanto le incognite
presenti nell’ambiente non sono note, rendendo la definizione di piani
e strategie particolarmente ardua. Per poter far fronte a tale dinami-
cità, le organizzazioni prediligono non tanto azioni di attacco nei con-
fronti dei concorrenti, bensì tendono a diventare parte di reti organiz-
zative, ossia di sistemi collaborativi che consentono di reagire ad una
minaccia comune. Attraverso un tentativo collettivo di comprendere il
proprio ambiente turbolento, è possibile che la percezione dello stesso
diventi meno ambigua, quindi più chiara e più semplice da gestire. Un
esempio di reti organizzative emerse a fronte di ambienti turbolenti
sono le organizzazioni professionali.

67
Lineamenti di organizzazione aziendale

La classificazione appena proposta consente di sottolineare che quanto più com-


plesso è l’ambiente con cui l’organizzazione interagisce, tanto più difficili pos-
sono essere le risposte e le decisioni che i manager sono chiamati a fornire. Nella
Tabella 2.1. si offre una rappresentazione schematica delle caratteristiche di
ogni tipo di ambiente ed una descrizione delle possibili risposte che le organiz-
zazioni possono produrre per una loro migliore gestione.

Figura 2.4. L’analisi della complessità ambientale: il modello di Emery e


Trist (1965)

Fonte: Adattato da Emery e Trist (1965).

68
Tabella 2.1. Le tipologie di ambienti secondo il loro grado di complessità

Tipo di ambiente Natura Reazione organizzativa


 Le opportunità e le minacce sono distribuite in modo ca-
o Implementare tattiche di tentativi e correzione de-
suale
Ambiente calmo gli errori
 L’ambiente è tendenzialmente stabile nel tempo
ad avvenimenti casuali o Le organizzazioni possono sopravvivere come pic-
 Le incognite e l’incertezza sono limitate e, se presenti,
cole unità indipendenti
sono facilmente prevedibili e controllabili
 Le opportunità e le minacce si presentano congiunta- o A causa del raggruppamento degli avvenimenti,
Ambiente calmo mente definire una strategia chiara è molto importante
ad avvenimenti  La dinamicità del mercato è ancora relativamente bassa o I manager tentano di raggiungere risultati ottimali
raggruppati  Le incognite e l’incertezza sono ancora limitate e, se pre- o soddisfacenti cogliendo le occasioni favorevoli ed
senti, sono controllabili evitando quelle sfavorevoli
o Anche in questo caso, i manager cercano di adot-
 L’ambiente è popolato da numerosi concorrenti tare strategie in grado di catturare le opportunità
Ambiente disturbato  Il grado di dinamicità è più elevato ed evitare le minacce, ma così fanno anche i con-
e reattivo  L’incertezza è più elevata e le incognite maggiori e più correnti

69
difficilmente prevedibili e gestibili o La strategia dominante è dunque quella di sconfig-
gere il nemico (gioco a somma zero)
 Emerge una elevata connessione tra gli attori dell’am- o Le strategie di attacco nei confronti dei concorrenti
biente risultano poco adeguate a vincere le forze competi-
 Sono richiesti elevati investimenti in Ricerca e Sviluppo tive
Ambiente turbolento
 Tutto ciò induce ad un elevato grado di incertezza o Diventano allora essenziali le strategie cooperative
 Le incognite sono molteplici e sconosciute, rendendo dif- con altre organizzazioni mirate alla riduzione
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

ficile il loro controllo dell’incertezza

Fonte: Adattato da Emery e Trist (1965).


Lineamenti di organizzazione aziendale

2.5.2. L’ambiente come “fonte di risorse”

Oltre alle informazioni, l’incertezza ambientale può riguardare le risorse, consi-


derate sia come input al processo di trasformazione che avviene nell’organizza-
zione, sia come output da collocare nell’ambiente (Perrone, 1990).
Richiamando il concetto di sistema aperto e l’inevitabile necessità per ogni
organizzazione di interagire con l’ambiente esterno, si ricordi che ogni organiz-
zazione scambia risorse con l’ambiente finendo, in alcuni casi, per instaurare un
rapporto di vera e propria dipendenza dai comportamenti di alcuni attori
dell’ambiente che potrebbero avere il pieno controllo sulle risorse.
Guardare all’ambiente come fonte di risorse induce a considerare le se-
guenti sue caratteristiche:

• Disponibilità e ricettività.
La disponibilità fornisce indicazioni sulla misura in cui nell’ambiente sono
disponibili le risorse di cui l’organizzazione necessita. La disponibilità di ri-
sorse tende a variare in base ad alcuni fattori:
o la possibilità per l’organizzazione di servirsi di risorse alternative.
Spesso, grazie al progresso tecnologico, nell’ambiente è possibile rintrac-
ciare dei validi sostituti oppure, grazie a evoluzioni nei processi produt-
tivi, è possibile rendere meno rilevante l’utilizzo di una certa risorsa la
quale è già incorporata nel processo (si pensi, ad esempio, ai casi in cui
l’introduzione di sistemi altamente tecnologici rendono le risorse umane
e le loro competenze quasi completamente sostituibili dall’ICT);
o il numero di organizzazioni che, nell’ambiente competono per acca-
parrarsi le medesime risorse. Più è elevata la competizione sulle risorse,
più queste risulteranno scarsamente disponibili;
o la natura delle risorse di cui l’organizzazione ha bisogno. Se si tratta di
risorse la cui quantità è limitata, per natura, potrebbe diventare più
difficile ottenerle.
Diversamente, la ricettività concerne la possibilità di collocare i flussi di
output prodotti dall’organizzazione nell’ambiente4 e la capacità, di
quest’ultimo, di accoglierli. A tal proposito, l’attenzione deve essere posta
non tanto ai problemi di gestione della domanda, ossia all’abilità dell’or-
ganizzazione di collocare i propri prodotti e servizi sul mercato motivando
i consumatori ad acquistarli, bensì alle questioni relative alle c.d. esterna-
lità negative (Sandholm, 2005). In generale, le esternalità sono definite
come l’effetto indesiderato che le attività realizzate da un attore econo-
mico possono produrre sul benessere di un altro agente. Laddove vi siano

4
Si richiama qui la Figura 2.1.

70
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

esternalità in un certo ambiente (o mercato), questi risulterà inefficiente in


quanto la quantità scambiata sul mercato non è tale da massimizzare il
benessere degli agenti economici che operano in quello stesso mercato. Le
esternalità sono dette negative nei casi in cui la produzione o il consumo
di certi beni determina un peggioramento del benessere sociale.
• Concentrazione.
Attraverso la concentrazione è possibile misurare se, nell’ambiente, vi siano
(e quante siano) fonti alternative delle risorse di cui necessita l’organizzazione
focale. In altri termini, la concentrazione valuta la densità degli attori che
operano in quel determinato ambiente. Pertanto, avremmo alta concentra-
zione quando, dal lato della domanda, ci sono pochi attori che servono una
piccola porzione di mercato o, dal lato dell’offerta, gli stessi attori condivi-
dono una piccola porzione di fornitori. Un ambiente risulterà fortemente
concentrato quando vi sono elevate barriere all’entrata conseguenti alla ne-
cessità di effettuare ingenti investimenti per entrare a far parte dell’ambiente
stesso. Un esempio è fornito dal settore per la costruzione di motori per aerei.
Viceversa, un ambiente a bassa concentrazione, ossia maggiormente di-
sperso, sarà caratterizzato dalla presenza di numerosi attori che operano al
suo interno, grazie alle ridotte barriere all’entrata. Il settore alimentare ne è
un esempio tipico.
La concentrazione fa dunque riferimento sia agli input che agli output
dell’organizzazione, rendendo quindi necessario, per le organizzazioni, lo
sviluppo di strategie che mirino a gestire entrambi i versanti. Va da sé che
la rilevanza che le organizzazioni assegnano a un versante anziché all’altro
dipende fortemente sia dalla loro natura che dalla loro dipendenza dall’am-
biente. Ad esempio, le organizzazioni di volontariato tendono ad essere più
dipendenti da parte dell’input, mentre le aziende che operano in un mercato
competitivo più dal lato dell’output.
Prendere in esame questa dimensione è importante perché consente di va-
lutare il potere relativo dell’organizzazione nella relazione con l’esterno. Si
pensi al caso delle piccole imprese subfornitrici del settore ferrotranviario
della Provincia di Pistoia che un paio di decenni fa compresero di aver in-
staurato un rapporto di totale dipendenza con l’allora key player del set-
tore, AnsaldoBreda. Mentre la loro produzione era interamente assorbita
da questa grande organizzazione, quest’ultima beneficiava di una posizione
tale da poter scegliere, in qualunque momento, di sostituire quei piccoli for-
nitori con altri. In un rapporto di potere così sbilanciato, emerge la forte
asimmetria di potere a favore di chi, come AnsaldoBreda, poteva benefi-
ciare di un’alta concentrazione di fonti alternative sul mercato.

71
Lineamenti di organizzazione aziendale

2.5.7. Implicazioni dell’incertezza ambientale per la progettazione


organizzativa

Nel concludere la trattazione dell’incertezza ambientale e del suo impatto sulle


organizzazioni, possiamo mettere in rilievo alcuni punti salienti (Gerloff, 1989):

a) I cambiamenti a cui le organizzazioni sono soggette sono spesso la conse-


guenza di variazioni esterne, ossia dell’ambiente di cui le stesse fanno parte.
Tali variazioni impongono ai manager di tenere costantemente in conside-
razione il rapporto organizzazione-ambiente e, dunque, la dipendenza della
prima dal secondo, ogni qual volta le strategie debbano essere definite e
implementate.
b) Dato che l’ambiente esterno è in continuo mutamento, anche le organizza-
zioni dovranno dotarsi di una capacità dinamica di adattarsi in maniera
continua a tale mutamento, garantendo flessibilità e tempestività di rea-
zione.
c) Soprattutto nel caso in cui le organizzazioni operino in ambienti più incerti,
quali quello disturbato-reattivo e quello turbolento, i manager dovranno
necessariamente far ricorso a fonti addizionali di informazioni e compe-
tenze, in quanto le decisioni da assumere diventano più difficili.
d) Le capacità, abilità e conseguenti azioni e decisioni dei manager rappresen-
tano il mezzo attraverso cui le organizzazioni possono gestire il loro rap-
porto con l’ambiente.

Nel complesso, dunque, possiamo dire che il successo di un’organizzazione


nell’adattarsi al suo ambiente dipende dalla sua capacità di apprendere come
comportarsi in risposta ai mutamenti che nello stesso avvengono. Il termine ‘ap-
prendere’ implica, per definizione, un processo che richiede tempo e che, per-
tanto, non può essere preteso nel breve termine.

2.6. L’azione strategico-organizzativa nei confronti dell’ambiente: le decisioni


relative alla strategia

Una volta che le organizzazioni diventano consapevoli della rilevanza del ruolo
svolto dall’ambiente, diventa essenziale comprendere come queste modifichino
le loro strategie in ragione delle dipendenze e dei vincoli che l’ambiente impone
loro. Di seguito verranno prese in esame quattro diverse azioni strategiche at-
tuabili dalle organizzazioni: le strategie competitive, la ricerca del prestigio,
l’adozione di figure e ruoli organizzativi strategici e le strategie cooperative.

72
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

2.6.1. Le strategie competitive

Le strategie competitive rappresentano uno strumento critico di cui i manager


possono servirsi per rivedere sistematicamente gli ambienti con cui interagi-
scono al fine di migliorare la propria posizione competitiva (Porter, 1985).
Tra le più note strategie competitive vi sono quelle proposte da Miles e
Snow (1978). Secondo gli studiosi, sono quattro gli orientamenti strategici che
le organizzazioni possono adottare per rispondere alle sfide poste dal loro am-
biente:

a) Il Difensore (Defender). E’ il caso in cui l’organizzazione cerca di proteggere


una piccola area mirando ad un target di mercato ristretto, adottando una
politica di prezzi aggressiva, perseguendo l’efficienza nella produzione e ser-
vendosi di sistemi di controllo interno per assicurare l’aderenza agli obiet-
tivi e alla pianificazione definita ex ante.
L’intento è quello di espandere la base di clienti attraverso l’utilizzo di rou-
tine, quindi di compiti analizzabili e scarsamente variabili. Le funzioni della
finanza e della produzione, generalmente, hanno un’influenza maggiore
sulle decisioni rispetto ad altre aree funzionali.
In linea con il focus sulla massimizzazione dell’efficienza, questa strategia
risulta essere particolarmente idonea ad ambienti stabili in cui operano nu-
merosi compratori e venditori. Il suo limite, tuttavia, consiste nel rischio
che l’eccessiva attenzione su uno schema predeterminato prodotto/cliente
induca l’organizzazione a trascurare la possibilità di cogliere opportunità
importanti presenti nell’ambiente.
b) Lo Sviluppatore (Prospector). Questa strategia dà priorità alla necessità di
competere restando in testa alla sfida tecnologica, dando vita a nuovi pro-
dotti e cercando di stare al passo con i cambiamenti che si fanno strada
nell’ambiente. La ricerca dell’efficienza diventa dunque un obiettivo secon-
dario.
Dato che la logica che guida lo sviluppatore è quella di mantenere le alter-
native cercando di assicurarsi che l’organizzazione abbia un flusso continuo
di nuovi prodotti alla conquista di nuovi clienti, il focus principale è sulla
Ricerca& Sviluppo e il marketing. Sono queste le aree che incidono mag-
giormente sull’assunzione di decisioni. In questo modo, le attività di piani-
ficazione, sebbene utili, supporteranno la scelta di azioni future anziché im-
porre obiettivi difficili e immediati.
Le operazioni e il nucleo tecnico tenderanno ad essere meno routinari, dun-
que di tipo intensivo, al fine di continuare a dar vita a prototipi in grado di
rispondere alle richieste dell’ambiente per mantenersi alla guida della corsa

73
Lineamenti di organizzazione aziendale

competitiva. L’organizzazione così strutturata sarà, dunque, un’organizza-


zione sempre in movimento.
Gli ambienti nei quali questa strategia risulta appropriata saranno quelli in
cui, al di là della presenza di numerosi compratori e venditori, l’obiettivo
da perseguire è quello di guadagnare un monopolio momentaneo dando
vita ad una nicchia di mercato che protegga l’organizzazione dall’arrivo di
concorrenti. Tuttavia, la nicchia avrà comunque la natura della tempora-
neità, rendendo la necessità di dominare la competizione ancor più critica.
I rischi connessi a una tale strategia sono incorporati nella convinzione, da
parte dell’organizzazione, che l’ambiente esterno sia costantemente indefi-
nito e che, come tale, richieda di essere monitorato, analizzato e gestito
senza interruzione. Un’eccessiva concentrazione sul monitoraggio della di-
namicità ambientale potrebbe ridurre i benefici potenzialmente ottenibili
dallo sfruttamento di una posizione di vantaggio.
c) L’Analizzatore (Analyzer). Come è facile aspettarsi, le organizzazioni pos-
sono adottare anche strategie intermedie, che si pongono tra le due appena
descritte. In questo caso, l’analizzatore rappresenta una strategia partico-
larmente adatta laddove l’organizzazione stia sviluppando nuovi prodotti
la cui realizzazione, nel corso del loro ciclo di vita naturale, diventi effi-
ciente. Nel momento in cui un prodotto supera la fase di novità di cui si è
fatto portatore, comincerà ad essere venduto sulla base del prezzo anziché
della sua innovatività. Da questo momento, possono essere introdotti
nuovi prodotti il cui punto di forza è appunto, l’innovatività. Si tratta per-
ciò del caso in cui l’organizzazione gestisce un portafoglio di prodotti
ugualmente rilevanti che si trovano all’interno di fasi diverse del loro ciclo
di vita.
Una struttura organizzativa che risponde a questa necessità è, ad esempio,
quella divisionale per mezzo della quale sono create divisioni per prodotto
intorno a combinazioni relativamente autonome di tecnologia/pro-
dotto/mercato.
d) L’Adattatore Passivo (Reactor). Come indica il termine, questa strategia
(che in realtà non può essere definita esattamente una strategia) delinea le
azioni intraprese dalle organizzazioni che reagiscono agli avvenimenti
dell’ambiente caso per caso, con scarsa premeditazione, guidati dagli eventi
anziché dalla conoscenza dei legami che sussistono tra strategia, ambiente
e struttura. Spesso infatti, nella gestione della relazione con l’ambiente, non
è presente un chiaro approccio organizzativo, lasciando invece spazio alla
tendenza ad adattarsi alla necessità del momento.

74
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

2.6.2. La ricerca del prestigio

Al di là della loro rilevanza, le strategie competitive rischiano spesso di mettere


le organizzazioni in una posizione instabile.
Basti pensare come, nel caso della strategia del Difensore sopra descritta,
da un lato, una piccola deviazione dalla curva di costo ideale farà perdere quote
di mercato e, dall’altro, la dipendenza da un singolo prodotto o da una ristretta
gamma di prodotti espone l’organizzazione a un forte rischio di obsolescenza.
In maniera simile, anche lo Sviluppatore soffre di una instabilità congenita, in
quanto costantemente alla ricerca di innovazioni in grado di garantire il domi-
nio nel mercato. A loro volta, le strategie miste, ossia quella dell’Analizzatore e
dell’Adattatore passivo, rappresentano un modo per bilanciare i rischi in diverse
parti dell’ambiente.
In risposta al rischio di instabilità, Thompson (1967) propone la ricerca
del prestigio quale strada alternativa da percorrere affinché le organizzazioni
possano tentare di garantirsi una stabilità all’interno di un ambiente competi-
tivo. Il prestigio, secondo questa ottica, implica la creazione di un’immagine fa-
vorevole agli occhi dei sostenitori più rilevanti presenti nell’ambiente al fine di
affermare l’unicità dell’organizzazione rispetto alle altre. Laddove il prestigio si
affermi, altri elementi dell’ambiente, fino ad ora scarsamente interessati a quella
specifica organizzazione, tenteranno di costruire con essa una relazione e di
mantenerla nel tempo.
Un esempio è fornito dalle università, alcune delle quali sono considerate
più prestigiose di altre. Gli studenti cercano di accedere alle università più co-
nosciute in quanto sanno che potranno beneficiare del loro prestigio al mo-
mento del passaggio al mercato del lavoro, ottenendo un rafforzamento del pro-
prio status e della propria posizione sociale.
Al fine di creare un’immagine di prestigio, un’organizzazione dovrà ne-
cessariamente sviluppare intorno a sé un’aura di qualità e di eccellenza (Butler
e Nacamulli, 1998), spostando l’attenzione da una competizione basata sul
prezzo ad una fondata sulla qualità del prodotto e del servizio offerti. E’ impor-
tante notare che una strategia di prestigio richiede orizzonti temporali lunghi,
nonché pazienza e fiducia da parte del top management. Uno dei suoi obiettivi
target, infatti, è quello di garantire un’immagine che si mantenga nel tempo,
producendo, nei confronti dell’ambiente, l’impressione di essere i migliori in un
determinato campo.
Peters e Waterman (1982) suggeriscono alcuni step pratici che possono
sostenere le organizzazioni nel garantirsi un’immagine di prestigio:

75
Lineamenti di organizzazione aziendale

a) Stare vicino al cliente. L’attenzione principale deve essere posta ai bisogni e


gli interessi dei clienti e deve permeare l’organizzazione a tutti i livelli.
b) Dare un chiaro focus alla propria attività. Le imprese considerate di eccel-
lenza cercano sempre di mantenere i propri business focalizzati sulle loro
conoscenze e competenze, riconoscendo i limiti delle proprie capacità.
c) Definire una leadership. Le imprese di prestigio tendono ad essere associate
a leader dotati di una visione chiara della direzione di crescita della compa-
gnia.

Come tutte le strategie, anche quella di prestigio ha i suoi rischi. Il più impor-
tante è indubbiamente quello secondo cui l’organizzazione può fossilizzarsi ec-
cessivamente sui benefici derivanti dalla sua associazione con una immagine o
una persona prestigiosa del passato. E’ il caso tipico di numerose associazioni
di volontariato che, supportate spesso da persone prestigiose, diventano dipen-
denti da esse e, laddove queste abbiano un declino, anche le associazioni ten-
dono a subirlo.

2.6.3. L’adozione di figure e ruoli organizzativi strategici

Al fine di fronteggiare l’incertezza ambientale, le organizzazioni possono inoltre


far ricorso a figure e ruoli organizzativi incaricati appositamente di gestire la
relazione organizzazione-ambiente.
A tal proposito si ricorda la rilevanza strategica delle unità cuscinetto, i
ruoli di confine e la business intelligence.
Le unità cuscinetto hanno il compito di assorbire l’incertezza proveniente
dall’ambiente esterno supportando il nucleo operativo – dedicato all’attività
produttiva principale – nello svolgimento del proprio compito in maniera effi-
ciente. Nello specifico, le unità cuscinetto ‘circondano’ il nucleo operativo scam-
biando materiali e risorse finalizzati con l’ambiente esterno. Ad esempio, l’unità
acquisti si occuperà di stoccare forniture e materie prime, mentre l’unità risorse
umane si dedicherà a gestire la ricerca, selezione e assunzione di nuovi addetti
alla produzione.
I ruoli di confine, richiamate brevemente anche nel paragrafo 2.3.2, hanno
il principale scopo di collegare l’organizzazione con gli elementi chiave dell’am-
biente esterno e di coordinarne la relazione. Le attività di questi ruoli hanno per
oggetto principalmente lo scambio di informazioni finalizzato sia a rintracciare
e acquisire dati sui cambiamenti in corso o futuri dell’ambiente, sia a scambiare
dati e informazioni con l’ambiente stesso affinché questo possa essere gestito e,
nello specifico, dominato. In altri termini, il personale che ricopre ruoli di con-
fine avrà la responsabilità di monitorare e perlustrare l’ambiente per identificare
e raccogliere informazioni importanti e trasmetterle a tutta l’organizzazione, ma

76
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

con particolare interesse per il top management che, sulla base di tali informa-
zioni, dovrà assumere decisioni e definire strategie. Esempi di ruoli di confine
sono le unità di ricerche di marketing che si occupano di monitorare e compren-
dere le tendenze nei gusti dei consumatori o, ancora, le unità di ricerca e sviluppo
che hanno la responsabilità di individuare sviluppi tecnologici da applicare ai
nuovi prodotti e servizi.
Un più recente approccio alla gestione dell’incertezza è quello offerto
dalla business intelligence, la quale si fonda sull’analisi, realizzata con mezzi al-
tamente tecnologici, di grandi quantità di dati interni ed esterni al fine di mettere
in evidenza modelli e relazioni in grado di supportare la gestione del rapporto
tra organizzazione e ambiente.

2.6.4. Le strategie cooperative

All’interno di ambienti turbolenti, caratterizzati da elevata competizione e di-


namicità, è possibile che le organizzazioni non siano in grado di sopravvivere
qualora persistano nell’attuare strategie di attacco nei confronti dei concorrenti.
Dato che, in un contesto come questo, tutte le organizzazioni che vi operano
sono soggette alle stesse regole competitive, può essere vantaggioso adottare un
approccio di negoziazione per la ricerca e la creazione di condizioni di reciproco
beneficio.
Le strategie cooperative principali sono la contrattazione, la coalizione e
la cooptazione.
La contrattazione identifica un accordo formale stipulato da due o più or-
ganizzazioni che prevede, ad esempio, che l’organizzazione A debba approvvi-
gionare l’organizzazione B di materie prime o di servizi in certe quantità e du-
rante un determinato periodo di tempo, secondo condizioni prestabilite. Due
elementi rendono questa strategia particolarmente conveniente: quando l’orga-
nizzazione che concede il contratto occupa, relativamente alla controparte, una
posizione di supremazia; e quando i termini del contratto hanno una natura suf-
ficientemente tangibile da poter essere specificata in un contratto scritto.
La coalizione, invece, ha una natura meno formale rispetto al contratto ed
è maggiormente diffusa nei settori ad alta tecnologia, in cui gli impegni da for-
malizzare nell’accordo non sono facilmente definibili. Questo tipo di strategie,
pertanto, tende a fondarsi su aree di ambiguità tecnologica. Un esempio è quello
della joint venture, la quale, per definizione, implica una condivisione di risorse
e conoscenze tra i partner. Dato questo, essa ha maggiore probabilità di andare
a buon fine quando le controparti dispongono approssimativamente dello stesso

77
Lineamenti di organizzazione aziendale

potere, di risorse complementari, e condividono la credenza che per sopravvi-


vere sul mercato sia necessario cooperare. Tra le organizzazioni deve pertanto
esserci una reciprocità ideologica.
La cooptazione, infine, ha luogo quando il management di un’organizza-
zione assorbe, al proprio interno, elementi esterni. E’ ciò che accade quando il
consiglio di una società nomina amministratori esterni (Pfeffer e Salancik,
2003), quando un’organizzazione caritatevole beneficia del patrocinio di perso-
nalità importanti o, ancora, quando un direttore di banca viene nominato nel
consiglio di amministrazione di un’azienda affinché dia consulenze nelle materie
di propria competenza. Uno dei rischi connessi alla cooptazione è quello se-
condo cui gli attori esterni inglobati tendono ad assumere una rilevanza tale da
far sì che il management finisca per perdere l’autonomia di cui prima godeva.

2.7. L’azione strategico-organizzativa nei confronti dell’ambiente: le decisioni


relative alla struttura

La relazione che le organizzazioni costruiscono con il proprio ambiente implica


una necessaria – e sovente significativa - revisione anche delle scelte di proget-
tazione della propria struttura.
La letteratura suggerisce numerosi modelli in grado di spiegare come l’or-
ganizzazione dovrebbe strutturarsi date determinate circostanze ambientali. I
modelli che descriveremo di seguito consentono di fornire una guida al mana-
gement, affinché questi non debba di volta in volta ‘reinventare la ruota’ e possa
condurre un’analisi situazionale dell’ambiente quanto più efficace possibile.
I principali approcci sono quello proposto da Burns e Stalker (1961) dei
sistemi meccanici e organici e quello di Lawrence e Lorsch (1967) sulle logiche
di differenziazione e integrazione.

2.7.1. Il modello di Burns e Stalker

Secondo Burns e Stalker (1961), le organizzazioni possono assumere due diverse


configurazioni al fine di gestire il rapporto con il loro ambiente: quella dei si-
stemi organizzativi meccanici e quella dei sistemi organizzativi organici.
Contraddistinti da una precisa definizione dei rapporti di autorità, delle
attività e delle competenze tecniche previste per ogni posizione, i sistemi mecca-
nici richiamano le strutture burocratiche. Pertanto, chi svolge un determinato
ruolo non potrà occuparsi di compiti che non rientrano nel ruolo stesso. In que-
sto modo, i sistemi meccanici mirano a mantenere un’attività produttiva stabile,
elevata efficienza ed elevata prevedibilità delle richieste dell’ambiente. Così fa-
cendo, risultano particolarmente adatti alla gestione di problemi di routine e ad

78
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

organizzazioni che operano in ambienti scarsamente mutevoli o comunque il cui


cambiamento può essere facilmente previsto.
Il rischio connesso all’adozione di sistemi meccanici è, come si può pen-
sare, quello di dotarsi di un’eccessiva rigidità, dunque di un’incapacità di adat-
tarsi tempestivamente alle evoluzioni dell’ambiente.
A colmare il gap implicito nei sistemi meccanici giungono i sistemi orga-
nici, il cui punto di forza maggiore è catturato dalla flessibilità, ossia dalla ridu-
zione, al minimo, della definizione e della delimitazione dei compiti. I membri
dell’organizzazione sono chiamati a definire i propri compiti in maniera conti-
nua, coerentemente con il bisogno di gestire la relazione con l’ambiente. In linea
con ciò, tali sistemi risulteranno maggiormente appropriati quando l’ambiente
da fronteggiare è altamente dinamico e i problemi da risolvere poco ripetitivi e
difficili da prevedere. Dato il loro carattere non routinario, i problemi non po-
tranno essere assegnati di volta in volta seguendo una rigida distribuzione dei
ruoli organizzativi secondo la logica funzionale tipica di una struttura forte-
mente gerarchica e, quindi, dei sistemi meccanici. Piuttosto, essi richiederanno
di essere gestiti con l’autonomia necessaria per rispondere rapidamente e con
efficacia alle novità che via via emergono nell’ambiente.
A loro volta, anche i sistemi organici presentano dei limiti, rappresentati
dal fatto che può essere difficile garantirne il monitoraggio e il controllo nel
tempo in quanto, data la loro flessibilità, rendono poco prevedibili le azioni che
intraprenderanno ed il modo in cui lo faranno.
Si ricordi che le forme organizzative meccanicistiche e organiche rappre-
sentino gli estremi di un continuum all’interno del quale i manager possono sce-
gliere tra una gamma di forme intermedie.
Una sintesi delle caratteristiche che identificano i due sistemi organizzativi
è offerta dalla Tabella 2.2.
Il modello di Burns e Stalker offre un approccio relativamente a come le
organizzazioni dovrebbero rispondere al proprio ambiente, tuttavia manca di
cogliere come realmente esse, attraverso i loro manager, si comportano, ossia se
di fronte ad un ambiente instabile il management decide di adottare un sistema
organico (o, viceversa, se di fronte ad uno più stabile, opta per un sistema mec-
canico) oppure se le loro scelte sono influenzate anche da altri fattori. Uno dei
limiti degli studi dei due autori è dunque quello di non catturare l’evoluzione
temporale degli avvenimenti.

79
Tabella 2.2. Le caratteristiche distintive dei sistemi meccanici e organici

Tipo di sistema Caratteristiche distintive


 Enfasi sulla divisione dei compiti
 I diritti, gli obblighi e le tecniche proprie di ciascuna posizione funzionale vengono definiti e assegnati in
modo preciso
 L’autorità, il controllo e la comunicazione sono di natura gerarchica
 Si assume che chi è a capo della gerarchia possieda la conoscenza necessaria per la riconciliazione delle
Sistemi meccanici funzioni
 Comunicazione prevalentemente verticale, dall’alto verso il basso
 Il contenuto della comunicazione pone l’accento sulla direzione e sugli ordini
 La lealtà all’organizzazione e l’obbedienza ai superiori sono condizioni fondamentali per il mantenimento
dell’impiego
 Il prestigio è collegato al raggiungimento di una posizione di responsabilità nell’organizzazione

80
 Scarsa enfasi sulla specializzazione e sulla standardizzazione
 I compiti individuali vengono continuamente ridefiniti attraverso l’interazione con le altre posizioni
 Le responsabilità e gli obblighi sono definiti in modo vago; i problemi devono essere affrontati da ciascuno
 Gli impegni dell’organizzazione sono definiti in senso ampio e non si basano strettamente sugli obblighi
espressi all’interno di mansionari
Lineamenti di organizzazione aziendale

 La conoscenza e la competenza sono ugualmente distribuite lungo la scala gerarchica. L’esatta collocazione
Sistemi organici
dipende dalla natura del problema
 Ampia interazione laterale (orizzontale) fra i membri organizzativi; la consultazione prende il posto del
comando
 La comunicazione pone l’accento sull’informazione e sui consigli
 L’attenzione agli obiettivi è più importante della lealtà e dell’obbedienza
 Il prestigio è collegato alla famiglia professionale di appartenenza anche con riferimento al mondo esterno
Fonte: Adattato da Burns e Stalker (1961).
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

2.7.2. Il modello di Lawrence e Lorsch

Attraverso la loro analisi condotta su dieci imprese statunitensi operanti in am-


bienti caratterizzati da differenti gradi di dinamicità e incertezza, Lawrence e
Lorsch (1967) hanno dimostrato che le organizzazioni tendono ad adottare lo-
giche distinte in termini di differenziazione e integrazione, al fine di fronteggiare
le contingenze ambientali.
La differenziazione richiama il grado di segmentazione dell’organizzazione in
sottosistemi, ossia la misura in cui la divisione del lavoro è applicata. Essa, si riferi-
sce, pertanto, al livello di specializzazione presente nell’organizzazione. Dunque,
un’unità organizzativa risulta altamente differenziata qualora sia composta da
molti esperti che, come tali, detengono conoscenza specialistica nel proprio campo
e, conseguentemente, idee potenzialmente divergenti. Il concetto di differenzia-
zione, dunque, intende porre l’attenzione in particolar modo sulle conseguenze di
adottare una marcata divisione del lavoro. Alcune di queste conseguenze richia-
mano, ad esempio, il tipo di conoscenze, competenze, orientamenti, valori e strut-
ture organizzative che derivano dalle specifiche scelte di divisione del lavoro.
Secondo Lawrence e Lorsch (1967), le organizzazioni dovrebbero dotarsi
di un grado di differenziazione coerente con il livello di incertezza ambientale
da affrontare. Bassi livelli di differenziazione saranno dunque maggiormente
appropriati laddove l’ambiente sia omogeneo, certo, e stabile; al contrario, in
risposta ad ambienti prevalentemente eterogenei e mutevoli, le organizzazioni
dovrebbero dotarsi di un livello di differenziazione più elevato. In questo senso,
la letteratura ha dimostrato come le organizzazioni vincenti emergano per la
loro capacità di adeguare il proprio livello di differenziazione all’eterogeneità
dell’ambiente (si veda la Figura 2.5).
Per integrazione, invece, è da intendersi la misura in cui l’organizzazione si
serve di meccanismi appropriati per coordinare, rendere coesi e far collaborare i
ruoli, le funzioni e le unità organizzative, al fine di raggiungere gli obiettivi collettivi.
Richiamando i concetti dell’organizzazione aziendale descritti nel Capitolo primo,
l’integrazione si pone in linea con le problematiche connesse al coordinamento.
Ad assumere rilevanza è la connessione tra differenziazione e integrazione.
Infatti, ad un maggior grado di differenziazione dovrebbe corrispondere un al-
trettanto elevato livello di integrazione interna. In altri termini, gli effetti della
differenziazione tendono a dar vita ad un problema di coordinamento, ovvero
alla necessità di garantire un’adeguata comunicazione tra le unità o sotto-unità
interessate. Basti pensare a come le persone appartenenti ad unità distinte (es.
marketing, amministrazione, produzione, etc.) tendono spesso ad adottare un
proprio linguaggio, a seguire proprie regole, ad adeguarsi a schemi comportamen-
tali propri. In questi casi, ciò che è richiesto è appunto un potenziamento dei flussi

81
Lineamenti di organizzazione aziendale

comunicativi tra le stesse unità, ossia un maggiore coordinamento tra di esse.


Ecco perché le strutture differenziate sono anche quelle che hanno maggiore bi-
sogno di porre attenzione alle esigenze di coordinamento (si veda la Figura 2.6).

Figura 2.5. Il legame tra differenziazione e dinamicità ambientale

Fonte: Adattato da Gerloff (1989).

Tuttavia, è fondamentale evidenziare che le dimensioni della differenziazione e


dell’integrazione spingono spesso verso direzioni opposte, entrando in conflitto
l’una con l’altra (Lorsch, 1970). La differenziazione induce a una separazione
marcata tra soggetti e gruppi che svolgono compiti e attività diverse, facilitando
la creazione di differenti linguaggi, percezioni e orientamenti tecnici che, a loro
volta possono trasformarsi in ostacoli alla comunicazione. Essendo la comuni-
cazione un elemento fondante il coordinamento e il coordinamento un aspetto
centrale nella logica dell’integrazione, la differenziazione può ridurre l’efficacia
dell’integrazione interna (Figura 2.7). In questi casi, gli studiosi suggeriscono
l’implementazione di misure speciali di integrazione, tra cui i gruppi di lavoro,
che per la loro natura, consentono di potenziare i flussi comunicativi tra unità
distinte, bilanciando così la necessità di garantire un certo livello sia di differen-
ziazione che di integrazione.
In termini di implicazioni per la progettazione della struttura organizza-
tiva, il modello offerto da Lawrence e Lorsch consente di mettere in risalto tre
aspetti importanti:

82
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

Figura 2.6. Il legame tra integrazione e grado di differenziazione strutturale

Fonte: Adattato da Gerloff (1989).

Figura 2.7. Il legame tra l’efficacia dell’integrazione e il grado di


differenziazione strutturale

Fonte: Adattato da Gerloff (1989).

83
Lineamenti di organizzazione aziendale

• Quanto più un ambiente è complesso, eterogeneo e soggetto a mutamenti,


tanto più esso richiederà che l’organizzazione sia progettata in modo da
fornire unità altamente differenziate, ossia sufficientemente specializzate
per garantire la gestione efficace di ciascun segmento dell’ambiente.
• Ancorché tutte le organizzazioni richiedano un buon livello di integrazione
interna, quelle che operano in ambienti eterogenei e dinamici sentiranno
maggiormente la necessità di potenziare i collegamenti interni tra le proprie
unità ed il loro reciproco coordinamento.
• E’ possibile identificare un trade-off tra differenziazione e integrazione, tale
per cui unità altamente differenziate rischiano di rappresentare delle bar-
riere naturali alla cooperazione e la comunicazione, risultando in potenziali
conflitti tra le stesse. In risposta a ciò, le organizzazioni possono adottare
strumenti di integrazione più potenti e maggiormente sofisticati, quali i
gruppi di lavoro.

In conclusione, può essere interessante comprendere come i due modelli analiz-


zati, quello di Burns e Stalker e quello di Lawrence e Lorsch, si integrino tra di
loro per dar vita ad uno strumento ancor più sofisticato di cui i manager pos-
sono servirsi per gestire il loro rapporto con l’ambiente esterno (Figura 2.8).

Figura 2.8. La combinazione tra il modello di Burns e Stalker e quello di


Lawrence e Lorsch

Fonte: Adattato da Gerloff (1989).

84
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza

I sistemi meccanici, caratterizzati dall’utilizzo della gerarchia, di programmi e


procedure, non sono particolarmente adatti a soddisfare le esigenze di integra-
zione poste da ambienti in continuo mutamento. Ecco che, in questi casi, di-
venta necessario assegnare alle organizzazioni un carattere più organico. Vice-
versa, per far fronte ad ambienti essenzialmente stabili e poco dinamici, i sistemi
meccanici risultano più efficienti perché consentono di beneficiare della razio-
nalizzazione dei costi connessa ad una elevata divisione del lavoro e specializza-
zione dei compiti.

85
3 La tecnologia
di Vincenzo Cavaliere

3.1. Prime riflessioni sul concetto di tecnologia – 3.2. La progettazione organizzativa


tra tecnologia e sistema tecnico – 3.3. Alcune questioni rilevanti in merito alla rela-
zione tecnologia-struttura organizzativa – 3.4. La complessità tecnologica e l’impera-
tivo tecnologico: gli studi di Joan Woodward – 3.4.1. La produzione unitaria o a pic-
coli lotti – 3.4.2. La produzione a grandi serie o di massa – 3.4.3. Il processo a ciclo
continuo – 3.5. Le varietà tecnologiche nella dinamica delle relazioni organizzative.
Il contributo di James D. Thompson – 3.5.1. La classificazione della tecnologia in
varietà tecnologiche – 3.5.2. La razionalità organizzativa come risposta ai limiti della
razionalità tecnica – 3.6. Le attività di routine e le attività complesse. Il contributo di
Charles Perrow – 3.6.1. Le differenti possibilità tecnologiche a livello di unità

87
Lineamenti di organizzazione aziendale

3.1. Prime riflessioni sul concetto di tecnologia

Gli studi e le teorie organizzative hanno da sempre assegnato un ruolo centrale


alle ricerche sulla tecnologia e alla sua relazione con la struttura organizzativa
d’impresa. L’attenzione che è stata riservata non è solo attribuibile a interessi di
natura prettamente scientifica, ma è conseguenza anche dell’impatto che essa ha
sui processi operativi, sulla progettazione e sul disegno organizzativo. È facile
immaginare come tale importanza, negli ultimi anni, si sia potenziata grazie allo
sviluppo dell’information technology e al progressivo affermarsi dell’economia
della conoscenza.
In questo capitolo concentreremo la nostra attenzione sull’analisi dei con-
tributi che hanno descritto e studiato l’impatto della tecnologia sul disegno or-
ganizzativo al fine di evidenziare in che modo quest’ultimo è condizionato anche
dalla scelta di una particolare tecnologia.
Prima di addentrarci nella disamina di questa importante dimensione
strutturale di progettazione organizzativa, è utile delimitare l’oggetto di studio.
Generalmente la tecnologia viene definita in termini di processi di trasforma-
zione di input in output e racchiude in sé l’idea di “mezzo-strumento” idoneo a
raggiungere un determinato scopo, un obiettivo, tendenzialmente concretizzato
in un prodotto o servizio. Quando cerchiamo di comprendere le relazioni tra la
tecnologia e la progettazione organizzativa, emerge con chiarezza la complessità
del problema in conseguenza di una varietà di contributi e approcci presenti
nella letteratura manageriale che ha generato tante e tali differenze interpreta-
tive, definitorie, di misure operative e di livelli di analisi da rendere ardua qual-
siasi generalizzazione o sintesi (Gerloff, 1985; ed. it. 1989:108). Appare perciò
difficile proporre una visione unitaria e condivisa del concetto di tecnologia e
della relazione tecnologia-struttura e forse questo esercizio non valorizzerebbe
la ricchezza dei diversi angoli visuali e punti di attenzione proposti.
Un modo di procedere potrebbe essere, allora, quello di chiarire in via
preliminare il concetto stesso di tecnologia e ripercorrere, successivamente, gli
studi e le ricerche scientifiche che si sono occupate della relazione tecnologia-
organizzazione al fine di individuarne i caratteri qualificanti e le implicazioni in
termini di impatto sulla struttura organizzativa.

3.2. La progettazione organizzativa tra tecnologia e sistema tecnico

Ogni attività lavorativa finalizzata richiede che l’essere umano applichi una serie
di capacità fisiche e cognitive e si serva di appropriati mezzi per attuare processi

88
La tecnologia

di trasformazione che rendano possibile il raggiungimento di un risultato desi-


derato idoneo a soddisfare particolari bisogni. Capacità e “mezzi” sono frutto
dell’applicazione di conoscenze di base.
Quanto appena affermato non vuole rappresentare l’ennesima declina-
zione di sintesi di un concetto ampiamente esplorato in letteratura. Si vuole sem-
mai richiamare l’attenzione su una rilevante distinzione, quella tra tecnica o si-
stema tecnico e tecnologia, che è importante spiegare ai fini di una chiara identi-
ficazione delle variabili di progettazione organizzativa, cioè di quelle variabili
che influenzano direttamente la configurazione dell’organizzazione. Questa di-
stinzione terminologica genera di frequente confusione, probabilmente anche a
causa del diffuso impiego dei termini tecnica e tecnologia come sinonimi, o come
complementari (Mintzberg, 1983; ed. it. 1996; Perrone, 1990; Rugiadini, 1978;) 1.
Henry Mintzberg (1983; ed. it. 1996, p. 209 e ss.) mette in evidenza come
la tecnologia, definita da lui anche complessità ed esaminata in relazione all’am-
biente, sia un concetto molto ampio, utilizzato spesso per indicare la “base di
conoscenza” sottostante l’attività di un’impresa. In linea con il pensiero di Min-
tzberg, Perrone (1990, p. 282) attribuisce al termine tecnologia il suo significato
etimologico, cioè quello di sviluppo sistematico di conoscenze relative a classi
omogenee di attività di trasformazione. La tecnologia, quindi, è riferibile al sa-
pere scientifico che si è sviluppato e consolidato nel corso del tempo con riferimento
a specifiche trasformazioni economiche e produttive. Viene enfatizzata così la di-
mensione della scienza, del progresso scientifico-tecnologico e delle cosiddette
conoscenze di base.
Con il termine sistema tecnico, invece, ci si riferisce agli “strumenti e mezzi
utilizzati dal nucleo operativo per trasformare input in output” ovvero anche a
quel complesso di “norme, frutto di studio e di esperienza, che regolano le atti-
vità di trasformazione, con riguardo soprattutto all’uso degli strumenti appro-
priati a rendere più certi e meno costosi, in termini di tempo e energie impiegati,
i frutti del lavoro” (Perrone, 1990, p. 281) 2.
In questa prospettiva, l’organizzazione è tecnologia, o meglio è un sistema
tecnico creato dall’uomo per produrre un insieme di oggetti o artefatti, cioè beni
e servizi necessari e desiderati (automobili, device tecnologici, alimentari, abita-
zioni, risorse finanziarie, assistenza medica, ecc.).
Un esempio potrebbe aiutare a chiarire meglio la differenza tra tecnica e
tecnologia. Uno studente universitario che segue una lezione prendendo appunti
o registrando la comunicazione del docente si confronta con una “tecnologia”,
cioè con un corpus di conoscenze più o meno complesso. Egli, normalmente,
1
Su questo punto si veda anche Rugiadini, p. 51 e ss.
2
Si veda a tal proposito i contributi di Rugiadini (1978), Scott (1985), Perrone (1990), inoltre, evidenzia come
tale definizione tenda a sovrapporsi ai contenuti della disciplina organizzativa. Ad una conclusione analoga, sia
pure partendo da una prospettiva diversa, arriva la Jo Mary Hatch (1996).

89
Lineamenti di organizzazione aziendale

trasferisce sul proprio supporto i contenuti esposti dal docente utilizzando stru-
menti appropriati come un foglio di carta e una penna o, alternativamente, un
cellulare, un tablet o un pc, che rappresentano appunto un sistema tecnico, sem-
plice nel primo caso, più complesso negli altri. Allo stesso modo, il docente uti-
lizza un sistema tecnico per trasferire le conoscenze di base ai discenti.
Accade quotidianamente, tanto nella vita sociale, quanto nelle attività
produttive che le persone e gli attori organizzativi utilizzano spesso una serie di
strumentazioni tecniche senza avere alcuna “nozione” tecnologica sottostante il
sistema tecnico utilizzato. Così avviene che guidiamo un’automobile senza avere
la minima idea della meccanica e del funzionamento del motore, utilizziamo un
cellulare, un tablet o un pc senza avere conoscenze di elettronica, di sistemi ope-
rativi o dei micro-processori; in generale, utilizziamo sistemi tecnici senza avere
la minima cognizione del sapere scientifico che si è sviluppato e consolidato nel
corso del tempo con riferimento alle specifiche trasformazioni economiche e
produttive 3.
Nella teoria dell’organizzazione d’impresa, vista nella mera prospettiva
della progettazione, le tecniche hanno assunto un significativo rilievo rispetto
all’insieme delle conoscenze scientifiche di base.
A tal proposito afferma Perrone:

Per lungo tempo, infatti, i due «discorsi», quello organizzativo e quello tecnico, sono
rimasti saldamente intrecciati nella teoria, con la conseguente riduzione dello studio
del lavoro organizzato allo studio delle tecniche volte a massimizzare l’efficienza della
«macchina» organizzativa (Morgan, 1986; t.i. 1989, 23-48). Con l’aumentare della
complessità e delle dimensioni delle imprese, e con il progredire degli studi, i quali
hanno portato a mettere in luce l’importanza delle dinamiche sociali e di quelle eco-
nomiche nei processi organizzativi, il ruolo della tecnica è rimasto comunque cen-
trale, essendo la variabile più diffusamente ritenuta in grado di influenzare il disegno
della struttura organizzativa (Perrone, 1990, p. 281).

In una interpretazione tipica della teoria dei sistemi, la tecnologia e il sistema


tecnico sono comunque in relazione di stretta interdipendenza così come lo sono
l’ambiente e l’organizzazione.
Le organizzazioni di rado inventano i loro sistemi tecnici; semmai li trag-
gono, in prevalenza, dall’ambiente esterno nel quale si sviluppano conoscenze e
competenze scientifiche funzionali allo sviluppo di nuove tecniche di trasforma-
zione, importanti vincoli al disegno organizzativo. Il tipo e la forma dell’orga-
nizzazione riflettono anche il percorso storico (path dependency) delle scelte
“tecniche” che fanno riferimento a specifiche conoscenze scientifico-tecnologi-
che. La natura fortemente locale dei processi di apprendimento definisce le

3 Sull’argomento si veda anche Butler, 1998, Mintzberg, 1996.

90
La tecnologia

traiettorie evolutive delle tecniche utilizzabili condizionandone di fatto le oppor-


tunità di sviluppo dell’organizzazione al set di competenze già disponibili (core
rigidities).

3.3. Alcune questioni rilevanti in merito alla relazione tecnologia-struttura


organizzativa

Delineato e chiarito il significato dei termini tecnica e tecnologia, si pongono


alcune questioni sostanziali che è necessario affrontare quando si cerca di defi-
nire la relazione tra le variabili tecniche e la progettazione organizzativa.
Prima di affrontare tali questioni è utile precisare che da qui in avanti uti-
lizzeremo i termini tecnica, sistema tecnico e tecnologia come sinonimi. Pur con-
sapevoli della difficoltà di individuare una nozione di tecnologia che sia omni-
comprensiva e unanimemente accettata come riferimento principe, scegliamo di
richiamarne una che, a nostro avviso, è più coerente con la finalità che ci siamo
posti, evidenziare la relazione di influenza tecnologia-configurazione organizza-
tiva 4. Definiamo “tecnologia” l’insieme dei principi e norme che guidano le azioni
compiute dall’uomo su oggetti o “materiali grezzi” di vario tipo […], al fine di
apportarvi delle modifiche, rendendoli idonei a prestabiliti scopi 5. Nella defini-
zione, mutuata da Perrow, l’oggetto o “materiale grezzo” non richiama esclusi-
vamente risorse materiali potendosi riferire, di fatto, anche alle persone, alle
loro conoscenze e competenze su cui si attuano processi di modificazione per
specifici scopi. Allo stesso modo le relazioni tra le persone sono materiale grezzo
su cui i manager devono intervenire per rendere il sistema finalizzato e coordi-
nato.
Una prima questione sostanziale che deve essere affrontata quando si
parla di tecnologia è il focus di analisi utilizzato 6. In sostanza, gli approcci alla
tecnologia variano a seconda che gli studiosi pongano l’accento su elementi di
base diversi (Hickson, Pugh e Pheysey, 1969).
In primo luogo, il focus può essere riferito alla natura dei materiali su cui
si svolge il lavoro, quindi gli oggetti fisici, gli artefatti e le risorse sottoposte al
processo di trasformazione. Questo comprende anche gli strumenti e le attrez-
zature che vengono utilizzati per la produzione dei beni e servizi. Assumono

4
In letteratura è possibile rinvenire diverse nozioni di tecnologia, ciascuna delle quali è funzionale e coerente ai
percorsi di ricerca degli autori che le hanno declinate. Tale varietà se da un lato costituisce una ricchezza dall’al-
tro rischia, come già evidenziato, di generare ulteriore complessità.
5
Perrow C.,Uno schema per l’analisi comparativa delle organizzazioni, in “Progettazione e sviluppo delle orga-
nizzazioni”, a cura di A. Fabris e F. Martino, Etaslibri, Milano, 1993, pag. 107.
6
Sull’argomento si veda anche Scott, 1985; Gerloff, 1989; Perrone, 1990; Butler, 1998; Hatch, 1999.

91
Lineamenti di organizzazione aziendale

importanza le caratteristiche fisiche delle risorse, la qualità e quantità delle


stesse, le necessità di strutturazione degli spazi fisici e dei layout, ecc.
In secondo luogo, si può far riferimento alle attività svolte e ai processi di
trasformazione, nei quali rientrano anche i metodi di produzione che richiamano
la dimensione spazio-temporale della tecnica applicata alle risorse di input per
conseguire determinati output.
Ulteriore punto di osservazione è dato dalle conoscenze necessarie appli-
cate per attivare gli impianti, gli strumenti, i metodi e i relativi processi di tra-
sformazione finalizzati al conseguimento di un risultato finale, nonché l’impe-
gno e la motivazione. Questo livello di analisi comprende anche quelle cono-
scenze che vengono (ri)generate grazie all’applicazione delle stesse sul livello
delle attività di trasformazione e che determinano innovazioni e routine orga-
nizzative. Infine, è possibile considerare le relazioni e i processi di interazione
sociali interni ed esterni all’organizzazione finalizzati all’acquisizione, condivi-
sione delle informazioni e delle conoscenze.
La focalizzazione su specifici elementi muta i modelli interpretativi e di
spiegazione dell’impatto della tecnologia sull’organizzazione e allo stesso tempo,
differenzia gli aspetti «oggettivi» (caratteristiche fisiche dei materiali, processi di
trasformazione, qualità e quantità degli output) dalle dimensioni «soggettive»
che si focalizzano appunto sulle conoscenze, le relazioni sociali, le percezioni e
le caratteristiche individuali degli attori organizzativi, ecc.
Nella progettazione organizzativa assumono rilievo entrambi gli aspetti
richiamati, chi progetta l’organizzazione deve considerarli in stretta connessione
per un efficiente ed efficace funzionamento dei sistemi. Lo studio delle tecniche
che trattano informazioni, simboli, persone e relazioni ha, quindi, pari “dignità”
rispetto alle tecniche applicate sui materiali “oggettivi” (Perrone, 1990, p. 283).
I contributi degli studiosi che si muovono nella prospettiva dei sistemi so-
cio-tecnici, ad esempio, definiscono i propri modelli concentrando l’attenzione
sia sugli aspetti ingegneristici (tecnici) che su quelli socio-relazionali della tec-
nica.
Nella Figura 3.1. riportiamo una storica rappresentazione di sintesi che
interpreta l’organizzazione nell’impostazione appena richiamata. Il modello,
proposto dallo studioso Andrea Rugiadini, è stato un importante punto di rife-
rimento per molti ricercatori italiani di organizzazione. Con riferimento al si-
stema organizzativo, il framework mette in evidenza le relazioni tra le variabili
contestuali, tra cui vengono richiamate quelle tecniche e quelle sociali, il com-
portamento organizzativo e le c.d. variabili risultanti (efficacia organizzativa e
soddisfazione individuale).

92
La tecnologia

Figura 3.1. Un modello generale del sistema organizzativo

Fonte: Rugiadini, 1979: 23.

Recenti contributi sulle nuove tecnologie, inoltre, hanno fatto emergere una visione
simbolico-interpretativa, attraverso l’analisi della costruzione sociale della stessa tec-
nica (Hatch, 1996), che da un lato supera il c.d. «imperativo tecnologico»7 e dall’altro
apre la teoria organizzativa verso nuove e inesplorate prospettive di studio.
Un’altra importante questione che deve essere affrontata nella relazione
tra variabili tecniche e organizzative riguarda l’angolo visuale di riferimento. Se
la prospettiva è quella degli economisti, la tecnologia è il mezzo attraverso cui il
sistema sociale fornisce agli esseri umani i beni e servizi di cui hanno bisogno.
Da questo punto di vista, come abbiamo già detto, è l’organizzazione stessa ad
essere considerata tecnologia, cioè un artefatto creato dall’uomo per soddisfare
le proprie necessità. Gli economisti considerano questo strumento di trasforma-
zione delle risorse in prodotti alla stregua di una “scatola nera”; essi mostrano
scarso interesse per il suo funzionamento interno, non cercano di aprire la sca-
tola per esplorarne i contenuti e le relative dinamiche di funzionamento. Tale
angolo visuale, esterno al sistema, si ferma al livello dell’analisi ambientale e
non soddisfa propriamente gli studiosi dell’organizzazione che cercano invece
di aprire il contenitore per osservarne il contenuto e il processo.

7
Fu la studiosa Woodward a introdurre il termine imperativo tecnologico che richiama l’idea di una tecnologia
che può contribuire a far adottare la struttura organizzativa più confacente ai bisogni dell’organizzazione (Hatch,
1996, p. 140).

93
Lineamenti di organizzazione aziendale

Si propone, quindi, un ulteriore punto di osservazione che guarda all’in-


terno per concentrare la propria attenzione sui metodi e sulle conoscenze attra-
verso le quali l’organizzazione svolge effettivamente le sue attività di trasforma-
zione e produzione. All’interno dell’organizzazione la tecnologia può essere ri-
ferita a differenti livelli - micro, meso e macro - come ad esempio le mansioni, le
unità organizzative e il sistema nel suo complesso.
Un lavoratore che svolge una qualche mansione utilizza un sistema di tec-
niche che influenza il suo comportamento, il suo benessere organizzativo e la
sua performance. L’impatto della tecnologia a livello micro-organizzativo può
essere meglio compreso attraverso il c.d. job design o progettazione delle man-
sioni 8. L’introduzione di nuove tecniche sul posto di lavoro tende a modificare
il rapporto tra l’impiego delle macchine e quello del lavoro umano che, soprat-
tutto nelle linee di produzione dei sistemi manifatturieri, viene a essere gradual-
mente sostituito dai robot dei sistemi tecnici digitali. Questi ultimi assorbono le
attività di routine creando un nuovo rapporto tra tecniche e sistema sociale ad
esse collegato. L’introduzione di una nuova tecnica, quindi, non solo modifica
il modo con cui un lavoro può essere svolto, ma anche la natura stessa del la-
voro. Assistiamo a processi di sostituzione delle risorse umane con sistemi tec-
nici e la ricerca mostra come le tecnologie di produzione di massa tendono a
produrre un job simplification: vengono in sostanza ridotti la varietà e la diffi-
coltà dei compiti svolti da una sola persona. Per altri versi, l’introduzione di
sistemi tecnici avanzati consente un maggior livello di responsabilità, autonomia
e opportunità di crescita e sviluppo al lavoratore (job enrichment).
Infine, un ulteriore effetto della tecnica sulla micro-organizzazione si ri-
trova nel c.d. allargamento delle mansioni che consiste in un aumento del numero
dei compiti attribuiti alla mansione ed eseguiti dal dipendente. L’introduzione
di nuove tecnologie porta, quindi, i dipendenti a dover potenziale le proprie ca-
pacità cognitive, ad apprendere in continuazione nuove capacità e conoscenze.
L’analisi dell’impatto delle tecniche sulla progettazione organizzativa
può proseguire a livello di unità organizzativa, cui si può giungere aggregando
le analisi svolte a livello di singole mansioni. Ad esempio, a livello di unità
funzionali esistono tecnologie nel marketing, nella commercializzazione e pro-
mozione dei beni e servizi, nella gestione del personale, nella contabilità, nella
finanza, ecc.
Ciascuna organizzazione utilizza diverse tecniche che interagiscono simul-
taneamente. Quelle che operano a livelli inferiori di analisi possono essere as-
semblate per definire la tecnologia complessiva dell’organizzazione. I teorici
dell’organizzazione tendono a semplificare lo studio delle tecniche concentran-
dosi sulla dimensione organizzativa e trascurando la diversità delle specificità

8
Affronteremo questo tema approfonditamente nella parte relativa alla progettazione delle mansioni.

94
La tecnologia

presenti ai livelli micro. Così facendo, enfatizzano le c.d. tecnologie primarie,


cioè quelle che servono a produrre i principali output dell’organizzazione.
In relazione a questo livello di analisi è stato coniato il termine core tech-
nology che riferisce il nucleo tecnico produttivo che presidia la missione azien-
dale. Se pensiamo, ad esempio, ad una impresa manifatturiera, la sua core tech-
nology è il suo processo di produzione, quello di una banca commerciale è invece
dato dalle attività di intermediazione finanziaria, quello di un’agenzia di assicu-
razione è la mediazione tra l’acquisto e la vendita di prodotti assicurativi, ecc.
A questo punto, al lettore dovrebbe essere sufficientemente chiaro che
quando si parla di tecnologia, in senso lato, ci si confronta con una molteplicità
di tecniche e di livelli di analisi. Accanto alle tecnologie primarie ci sono quelle
secondarie (contabilità, personale, logistica, ecc.), che comprendono le attività
sussidiarie che aiutano indirettamente a preservare i processi produttivi princi-
pali, e quelle di adattamento all’ambiente (analisi della competizione, ricerche
di mercato, pianificazione strategica, ecc.). Le variazioni delle ultime due pos-
sono condizionare l’efficacia e l’efficienza della produzione diretta ma il loro
perfezionamento non comporta generalmente significative modificazioni nelle
tecniche primarie (Davis, 1970).
Si pone, dunque, la questione relativa a come le tecniche che operano ai
differenti livelli di analisi interagiscono tra di loro e con le variabili organizza-
tive, con particolare riferimento al rapporto tra il principale nucleo tecnico-pro-
duttivo che presidia il core business e le tecniche degli altri processi secondari o
di presidio dell’ambiente9.
Altre due questioni debbono essere analizzate con riferimento alla tecno-
logia nell’ambito della progettazione degli assetti organizzativi.
La prima è se questa debba essere considerata una variabile indipendente
o dipendente. Nel primo caso essa è esogena al sistema organizzativo, si svi-
luppa in ambienti esterni, in particolare in quelli tecnico-scientifici come i cen-
tri di ricerca, gli enti, le università o altre imprese che investono in conoscenza
e tecnologia per produrre nuove tecniche, macchinari, metodologie che ver-
ranno acquisite da altre imprese. In questo senso, sebbene si verifichi sempre
un processo di integrazione della tecnica al contesto utilizzatore, la stessa ri-
mane comunque un vincolo per l’impresa che deve progettare e quindi adat-
tare la propria organizzazione alla tecnica scelta per presidiare i livelli di effi-
cienza e efficacia.
Allo studioso del fenomeno organizzativo la tecnica si presenterebbe al-
lora come un vincolo sostanzialmente imposto e “subìto” dall’impresa a seguito
di progressi tecnologici che si sviluppano al di fuori del contesto aziendale.

9
Si veda anche Perrone, 1990, p. 285. Inserire nota sull’attenzione a utilizzare il tema core technology ai diversi
livelli, vedi Hatch, p. 128.

95
Lineamenti di organizzazione aziendale

L’innovazione della tecnologia segue, in questo caso, traiettorie proprie,


svincolate dalle strategie aziendali che, se non sono in grado di cogliere le dire-
zioni e le dinamiche evolutive, rischiano di non presidiare adeguatamente i fat-
tori critici di successo della competizione con la conseguenza che il vantaggio
competitivo viene eroso da imprese che invece riescono a adattarsi più rapida-
mente a tali cambiamenti quando non ad anticipare e produrre i cambiamenti
tecnologici stessi. In quest’ultimo, caso la tecnologia può essere vista come va-
riabile endogena dell’organizzazione riferita alla dimensione cognitiva e delle
competenze distintive che si possono sviluppare all’interno grazie al contributo
delle unità di ricerca e sviluppo, ai processi di knowledge sharing, di integrazione
tra le unità organizzative deputate alla creatività e all’innovazione e quelle chia-
mate a finalizzare in termini di produzione e mercato il risultato dei processi
innovativi. Allo stesso modo, lo sviluppo “interno” si potrebbe realizzare attra-
verso accordi tra imprese, joint-venture, associazioni temporanee d’impresa,
ecc. La tecnologia è posta, così, alla base di quei comportamenti imprenditoriali
innovativi in grado di influenzare il contesto ambientale e competitivo. In tali
situazioni, se da un lato «le caratteristiche della tecnica vengono a dipendere dal
tipo di «domanda» che l’ambiente transazionale pone all’impresa, ad esempio
maggiore rapidità nell’ottenimento dei prodotti» (Perrone, 1990, p. 283), dall’al-
tro possono essere tali da supportare idee innovative che generano una do-
manda latente, inespressa o di assoluta novità. L’innovazione è sempre il riflesso
della c.d. «tecnologia socialmente disponibile» (Stinchombe, 1965), cioè lo stato
dell’arte delle conoscenze disponibili in un determinato periodo, che pone le pre-
messe per la nascita di nuove industrie, ovvero la trasformazione di quelle esi-
stenti. Le organizzazioni progettano, così, traiettorie strategiche alternative che
portano alla generazione delle cosiddette dynamic capabilities (o core capabili-
ties), cioè capacità organizzative che si distaccano dai percorsi storici e che sono
in grado di riconfigurare le core technology e le core competence per proporre
innovazioni radicali, capaci di rompere le routine di cui l’impresa dispone.
Siamo dunque in presenza di «comportamenti attivi» che l’impresa pone in es-
sere attraverso «processi di distruzione creatrice» non solo per rispondere ai
cambiamenti manifestatisi nell’ambiente, bensì anche per anticipare se non ad-
dirittura provocare quelle innovazioni tecniche che forse l’ambiente stesso po-
trebbe più tardi imporre e che le imprese, anticipandole o provocandole, cerche-
rebbero di volgere a proprio vantaggio. In quest’ottica, lo sviluppo della tecno-
logia, e conseguentemente della tecnica, non è più un processo esogeno all’or-
ganizzazione ma endogeno 10.

10
Cfr. anche J.F., Christensen, 1996, “Analyzing the Technology based of the Firm”, in N.J., Foss and C., Kund-
sen, Towards a Competence Perspective of the Firm, Routledge, London.

96
La tecnologia

La progettazione organizzativa, così, deve essere in grado di garantire com-


petenze, specializzazioni e meccanismi operativi utili a favorire lo sviluppo e la con-
divisione delle conoscenze nelle e tra le unità organizzati della ricerca e sviluppo,
della produzione e della commercializzazione che prioritariamente sono chiamate
a rendere effettiva una idea innovativa, qualunque sia il luogo organizzativo in cui
essa viene creata. In questo senso, le tecniche e i sistemi di comunicazione, di inte-
razione e di integrazione organizzativa assumono un ruolo centrale.
Vero è che oggi, in particolari settori dell’economia, la distinzione varia-
bile dipendente-indipendente o endogena-esogena appare sempre più sfumata e
difficile da individuare con certezza. La separazione tra ricerca di base, ricerca
applicata e utilizzo delle relative innovazioni e tecniche operative, diviene sem-
pre meno definita e definibile all’interno di confini organizzativi chiari e cristal-
lizzati, che sembrano invece essere sempre più ambigui, inclusivi e permeabili a
processi di fecondazione tecnologica tra organizzazioni diverse e anche più
orientati a sviluppare e inglobare scienza e tecnica nelle singole imprese.
Così la tecnologia, con riferimento alla natura esogena o endogena, si
qualifica per vivere in una sorta di “limbo”, una indeterminatezza-ambiguità sia
in relazione ai luoghi del suo sviluppo, interno o esterno all’impresa, sia in rela-
zione al suo essere fattore di vincolo per la progettazione organizzativa ovvero
fattore influenzato dalla strutturazione cognitiva e delle competenze distintive
dell’organizzazione e dalle sue dynamic capabilities che determinano anche pro-
cessi di innovazione tecnologica.
L’ultima questione che qui vogliamo solo brevemente richiamare fa rife-
rimento all’aspetto della dinamicità della tecnica. Il fatto di concepire la tecno-
logia come processo di trasformazione di input in output rievoca naturalmente
la dinamica che si focalizza sulla dimensione processiva, sul modo con cui i si-
stemi modificano le risorse grezze in prodotti e servizi. Concepire i sistemi orga-
nizzativi come sistemi aperti consente di analizzare il network di relazioni inter-
organizzative e di apprezzare le connessioni con l’ambiente di riferimento delle
risorse in input, necessarie e inispensabili per far funzionare l’organizzazione, e
degli output che saranno assorbiti dall’ambiente.

3.4. La complessità tecnologica e l’imperativo tecnologico: gli studi di Joan


Woodward

Uno dei primi studi che ha evidenziato il ruolo e la criticità della tecnologia nella
progettazione organizzativa è sicuramente quello condotto da Joan Woodward,
sociologa inglese dell’organizzazione, che studiò il funzionamento di 100 im-

97
Lineamenti di organizzazione aziendale

prese manifatturiere situate nella regione del South Essex, in Inghilterra. La di-
mensione del campione di imprese che furono considerate, variava da 100 a 8000
unità di personale e l’82% di esse aveva meno di 500 dipendenti 11.
L’obiettivo specifico del programma dell’indagine, in realtà, non riguar-
dava specificatamente la tecnologia. La studiosa e il suo gruppo di lavoro erano
particolarmente interessati a produrre un programma di ricerca di tipo organiz-
zativo che avesse una qualche utilità al sistema dell’education nell’area della di-
rezione industriale. Una prima “domanda di ricerca” che il gruppo di studiosi
formulò riguardava «la dicotomia fra responsabilità consultive e operative e i
conseguenti rapporti tra supervisione di linea ai differenti livelli e i diversi spe-
cialisti tecnici e amministrativi introdotti in sempre maggior numero nelle indu-
strie» (Woodward, 1975:11). Si trattava, in sostanza, di studiare i fattori deter-
minanti la qualità delle relazioni tra line e staff. Dopo aver realizzato un pro-
getto pilota, i ricercatori si resero conto della difficoltà di realizzare il pro-
gramma e spostarono la loro attenzione sullo studio delle relazioni line-staff non
in modo isolato, ma considerate come parti di un tutto; le aziende industriali
sarebbe state così studiate come sistemi sociali complessi per comprendere le
condizioni organizzative che potessero produrre i migliori livelli di rendimento
e il successo economico dell’impresa (Woodward, 1975; Hatch, 1996).
Per comprendere in pieno la portata complessiva dell’opera della Wood-
ward è opportuno inquadrarla nel suo contesto storico, gli anni Cinquanta. In
quel periodo, anche in Europa, imperava il mainstreming manageriale delle
grandi scuole nord americane che, con i suoi contenuti e i suoi metodi, influen-
zava significativamente i processi formativi. Il desiderio di trovare il modo mi-
gliore di organizzare, tipico della scuola classica, dominava le ricerche e la teoria
organizzativa di allora.
La diversità di risposte che venivano proposte a questa domanda di ricerca,
lo scetticismo sulla validità e generalizzazione di quei principi e il dubbio sull’ade-
guatezza dei conseguenti insegnamenti che le istituzioni educative trasmettevano
alle future classi dirigenti del paese portò Joan Woodward a preparare lo studio
scientifico per affrontare il cuore della questione (Hatch, 1996; Woodward, 1975).
Per alcuni studiosi di matrice sociologica, la portata della ricerca era però
molto più ampia di quella che, a una prima sommaria analisi, poteva apparire.
Afferma a tal proposito Butera (1975, p. VIII e IX):

Se, come la Woodward ipotizzava, i principi della scuola classica dell’organizzazione


sono efficaci solo in specifici tipi di impresa, la loro diffusione generalizzata, lungi
dall’essere un mero errore, non ha forse una funzione precisa? Per esempio, quella di

11
In realtà la dimensione delle imprese che parteciparono alla ricerca variava tra 11 e 40000 dipendenti, così
come il numero di imprese coinvolte era di 203. Alcune di queste furono omesse nella ricerca core dettagliata.
Si veda in proposito J. Woodward, 1975, pag. 14-15; ed. orig. 1965.

98
La tecnologia

fornire una identità culturale basata sul ruolo sociale anziché su quello professionale,
alla dirigenza industriale, confermarla nella propria legittimazione autocratica, rin-
forzare e diffondere un’immagine oggettiva della stratificazione del potere
nell’azienda e nella società? Mettere in discussione le Management Science nord-ame-
ricane non significava forse mettere in discussione l’importazione di un modello di
classe dirigente e con esso (inconsapevolmente) un modello di società?
Di questa tematica non vi è traccia esplicita nel testo della Woodward, ma è una
chiave di lettura che spiega molte cose…

E sempre in tal senso affermava la stessa Woodward (p. 39)

Per un gruppo di ricerca espresso da un College che impiegava tanto tempo e sforzi
per insegnare temi di management, la (scoperta della) mancanza di qualsiasi interre-
lazione fra successo economico e ciò che generalmente è considerato come solida
struttura organizzativa, fu particolarmente sconcertante.

Ritornando agli specifici risultati della ricerca, la studiosa mise in relazione i ren-
dimenti delle imprese del campione e gli aspetti strutturali dell’organizzazione che
i teorici classici avevano indicato come fattori determinanti la stessa performance.
Alcuni di questi elementi erano costituiti dall’articolazione verticale della strut-
tura organizzativa considerata in termini di livelli gerarchici, di ampiezza della
supervisione, di accentramento delle pratiche decisionali e di peso relativo del per-
sonale non direttamente impiegato nell’attività di produzione. L’analisi eviden-
ziò, in maniera sorprendente e in controtendenza con le aspettative, che non vi era
alcuna corrispondenza tra la struttura organizzativa e il rendimento.
La Woodward cercò di spiegare questo risultato inaspettato ricorrendo
ad un diverso approccio di analisi e interpretazione dei dati. Raggruppò e clas-
sificò le imprese e i sistemi di produzione in base al loro livello di complessità
tecnica controllando che tale metodo non fosse direttamente correlato con le
dimensioni aziendali (in sostanza, per ogni classe individuata potevano essere
comprese imprese di dimensioni diverse). Individuò così alcune tipologie di si-
stemi tecnici con differenti gradi di complessità che sono riportati in Figura 3.2.
Tale modalità di analisi rivelò quelle relazioni tra variabili che la resero
particolarmente famosa nell’ambito della teoria organizzativa. In sostanza, le
correlazioni significative tra il rendimento e la struttura organizzativa si mani-
festavano solo se si prendeva in considerazione il sistema tecnico prevalente uti-
lizzato nell’unità industriale considerata. Esistevano, quindi, evidenti unifor-
mità organizzative tra imprese diverse per dimensioni ma simili per quanto ri-
guarda il sistema tecnico adottato (Perrone, 1990, p. 174). La Tabella 3.1. mo-
stra tali evidenze empiriche.

99
Lineamenti di organizzazione aziendale

Figura 3.2. Classificazione dei sistemi di produzione secondo J. Woodward

Fonte: Woodward, 1975: 44.

Tabella 3.1. Classificazione dei sistemi di produzione secondo J. Woodward

Fonte: Perrone, 1998: 174

100
La tecnologia

La risposta al quesito di ricerca inizialmente posto era allora che la struttura


migliore per un’organizzazione, cioè quella associata al miglior rendimento e
redditività, dipende dal tipo di tecnologia utilizzata.
La Woodward classificò così tre differenti tipologie di sistema tecnico o
tecnologia: a) la produzione di singole unità e di piccola serie, b) la produzione
di grandi quantità o di massa, c) il processo a ciclo continuo.

3.4.1. La produzione unitaria o a piccoli lotti

Le aziende che adottano questo tipo di tecnologia si configurano con attività


che soddisfano richieste di prodotti fatti su misura, pezzi unici, lotti piccoli 12
basati su specifiche richieste del consumatore. Tipici esempi di organizzazioni
che rientrano in questa “categoria tecnologica” sono alcuni mobilifici del “di-
stretto del legno e del mobile” della Toscana che realizzano un numero limitato
di prodotti o anche pezzi unici studiati e disegnati su misura da studi di profes-
sionisti per l’arredamento che cercano di soddisfare una o poche specifiche ri-
chieste. In questa categoria possono essere fatti rientrare anche la produzione di
abiti e camicie sartoriali, produzioni di oggetti artigianali, l’attività di studi me-
dici specializzati o quelle di un team di chirurghi ospedalieri che forniscono ser-
vizi specialistici sulla base delle necessità del paziente. Anche attività che utiliz-
zano sofisticate tecniche computerizzate per produrre semilavorati che devono
essere poi assemblate dall’uomo rientrano in questa tipologia.
Questi sistemi generano prodotti differenziati, eterogenei e con specifiche
non standardizzate che originano spesso da processi produttivi con significative
differenze, il che fa emergere una sostanziale prevalenza del fattore umano sul
grado di automazione del sistema tecnico. Sono le competenze e le professiona-
lità delle persone coinvolte nel processo di trasformazione che guidano il pro-
cesso produttivo caratterizzato da un sistema tecnico a bassa complessità. D’al-
tro canto, considerata l’irregolarità quali-quantitativa e spazio-temporale con
cui si presentano le richieste dei clienti è difficile immaginare l’utilizzo di proce-
dure specializzate e di sofisticati sistemi o apparati di pianificazione e controllo.
Il processo di trasformazione è quindi flessibile, dovendo riadattare continuati-
vamente le tecniche alle specifiche richieste dei singoli clienti.
Semplificando possiamo dire che i tempi e i metodi di produzione ven-
gono stabiliti da abili artigiani o da professionisti altamente specializzati che
decidono in base alle proprie esperienze, conoscenze e competenze come e
quando utilizzare i sistemi tecnici per soddisfare le esigenze dei clienti. Ciò com-
porta, dal punto di vista organizzativo, elevati costi di gestione dovuti proprio

12
La Woodward non specifica la dimensione dei lotti per classificarli come piccoli e/o grandi, Gerloff, 1989, p.
110.

101
Lineamenti di organizzazione aziendale

all’imprevedibilità e irregolarità del processo di trasformazione e alla necessità


di realizzare prodotti su misura che rendono difficile programmare l’attività
produttiva. Per altri versi queste caratteristiche fanno di questa tecnologia il
“luogo ideale” per la realizzazione di prodotti e servizi complessi e innovativi.

3.4.2. La produzione a grandi serie o di massa

La necessità di realizzare grandi volumi di prodotti sostanzialmente identici ri-


chiede alle imprese di ridurre gli alti costi di gestione della produzione e aumen-
tare il grado di prevedibilità attraverso il potenziamento della capacità di con-
trollo sul processo di lavoro.
Nella tecnologia di produzione a grandi serie o di massa il prodotto è so-
stanzialmente standardizzato, serve un numero elevato di clienti che non richie-
dono particolari personalizzazioni che, quando presenti, sono anch’esse stan-
dardizzate in una limitata varietà di tipologie. L’industria automobilistica rap-
presenta un buon esempio di produzione a grandi serie o di massa.
I sistemi tecnici utilizzati comportano la suddivisione in fasi distinte del
processo di trasformazione che possono essere assegnate a singoli o gruppi di
lavoratori chiamati a svolgere in modo ripetitivo un sottoinsieme più o meno
ampio dell’intero processo produttivo governato dal sistema tecnico.
Le caratteristiche della produzione a grandi serie o di massa possono es-
sere individuate nello sviluppo e nell’utilizzo di un sistema tecnico produttivo
specializzato e meccanizzato; nella possibilità di routinizzare le procedure, defi-
nire le specifiche attività da svolgere e programmarle ex ante. Ulteriori caratte-
ristiche possono essere rinvenute nella possibilità di sviluppare elaborati metodi
e sistemi di programmazione e controllo e nella estrema programmabilità dei
tempi di produzione.
Da quanto detto si nota come si inverta, rispetto a quanto visto in prece-
denza, l’ordine di prevalenza uomo-macchina. Ciò significa che a livello opera-
tivo, mediamente, nella produzione di massa le risorse umane mostrano un li-
vello di qualificazione più basso rispetto a quanto richiesto dalla tecnologia uni-
taria (Gerloff, 1989, p. 111) e che il ritmo di lavoro è controllato dall’esterno
piuttosto che autodeterminato dal lavoratore.
Le organizzazioni che producono per grandi serie, quindi, cercano di au-
mentare il livello di meccanizzazione attraverso un utilizzo intensivo di tecniche
e attrezzature al fine di accrescere l’efficienza, ottenere un risparmio di costi di
produzione e offrire prezzi di vendita più bassi.

102
La tecnologia

3.4.3. Il processo a ciclo continuo

La produzione a processo continuo prevede una serie di trasformazioni svolte


in sequenza che non presentano in maniera distinta un inizio e una fine. Esse
sono legate in continuità e fluiscono senza interruzioni; in sostanza, non sono
“discrete”. I sistemi a processo continuo, secondo la Woodward, sono quelli che
raggiungono il più alto livello di complessità.
Tipici esempi di processi a ciclo continuo sono quelli delle imprese petro-
lifere, chimiche o dei rifiuti, di produzione di gas naturale e le centrali nucleari.
In questi casi il prodotto è standardizzato e viene ottenuto attraverso un sistema
tecnico altamente meccanizzato e automatizzato.
Il processo a ciclo continuo si caratterizza per la sua fluidità e continuità
di funzionamento; esso si interrompe raramente e le varianze sono generalmente
minime. Una volta che le materie prime sono entrate come input del processo di
trasformazione, scorrono ininterrottamente attraverso e nel sistema fino a rag-
giungere il livello di raffinazione o trasformazione desiderato. Molto spesso le
risorse in trasformazione non sono visibili da parte dei lavoratori che ne con-
trollano il fluire attraverso strumenti computerizzati.
Un lavoratore che opera in una raffineria dell’ENI o in una delle acciaierie
dell’ILVA, ad esempio, a differenza di un suo collega che opera in un sistema di
produzione di massa, non vede e non svolge direttamente alcuni compiti di tra-
sformazione operativa; egli governa le macchine che lo fanno al suo posto.
Nella produzione a ciclo continuo, quindi, il ruolo delle persone è preva-
lentemente quello di controllare e monitorare l’efficiente funzionamento del si-
stema di trasformazione attraverso l’ausilio di apposite strumentazioni tecniche.
L’intervento umano avviene per eccezioni, quando si verificano anomalie o mal-
funzionamenti nel sistema che richiedono di essere prontamente affrontate e ri-
solte per mantenere la continuità del processo.
In questi contesti, gli investimenti in capitale sono particolarmente signi-
ficativi e la presenza di risorse umane qualificate, impiegate prevalentemente
nella gestione e manutenzione degli impianti, è maggiore rispetto ai sistemi di
produzione di massa. Inoltre, fornendo servizi particolarmente qualificati e cri-
tici, esse operano in ruoli che prevedono un grado di autonomia superiore ri-
spetto alle relative posizioni dei loro colleghi che lavorano nelle imprese di pro-
duzione di massa (Walker, 1965; Gerloff, 1989).
Il sistema tecnico a ciclo continuo è quindi un sistema altamente efficiente,
con una maggiore livello di automazione, più facilmente programmabile e pre-
vedibile e facile da controllare. Considerato il rapporto di impiego manodo-
pera/capitale, esso ha costi produttivi più bassi rispetto agli altri sistemi di pro-
duzione.

103
Lineamenti di organizzazione aziendale

3.5. Le varietà tecnologiche nella dinamica delle relazioni organizzative. Il


contributo di James D. Thompson

James D. Thompson, sociologo e docente di Business Administration presso


l’Indiana University (USA), pubblicò il suo Organizations in Action nel 1967. Il
suo contributo sulla razionalità tecnica o tecnologia si fonda sul modello dina-
mico dei sistemi aperti e pone al centro della riflessione teorica le interdipen-
denze tra le attività tecniche di trasformazione e gli effetti che le influenze am-
bientali hanno sul nucleo tecnico.
I sistemi organizzativi, secondo l’Autore, sono sottoposti costantemente
a due tensioni che manifestano effetti contrapposti 13. La prima, interna al si-
stema, richiede che l’organizzazione preservi una propria stabilità. Essa è eser-
citata dal sistema tecnico che, per garantire i livelli di massima efficienza, deve
vedere realizzate le condizioni di razionalità tecnica, intesa come standardizza-
bilità, controllo e certezza tra le relazioni causa-effetto. La seconda tensione è,
invece, una «forza disgregante» (Perrone, 1990, p. 198), esercitata dall’ambiente,
generatore di incertezze e complessità, che mette in discussione costantemente
la stabilità del nucleo tecnico chiamato invece a “reagire” attraverso la realizza-
zione di condizioni di flessibilità e variabilità nel nucleo tecnico.
La tecnologia, secondo Thompson, è rappresentata dall’insieme delle cre-
denze umane circa la capacità di alcune attività di produrre determinati effetti
desiderati. Sono lo stato e il livello di conoscenza possedute dall’uomo in un
dato momento storico e in una determinata situazione a determinare la scelta
delle variabili e la scelta delle modalità di manipolare le stesse per conseguire il
risultato desiderato (Thompson, p. 83). Emerge così, in questa accezione, anche
una dimensione soggettiva implicita della tecnologia data, appunto, dalle cre-
denze e dalle conoscenze dell’uomo che influenzano i suoi processi di scelta.
Ai fini della progettazione, la razionalità tecnica presente in ogni progetto
organizzativo adottato può essere analizzata e valutata sulla base di due distinti
criteri: quello strumentale, che secondo Thompson è prioritario, e quello econo-
mico.
In base al primo criterio, un progetto organizzativo raggiunge il suo livello
di massima razionalità tecnica quando, sulla base delle credenze e conoscenze
disponibili all’organizzazione, sono perfettamente note e certe le relazioni
causa-effetto tra le azioni di trasformazioni poste in essere per raggiungere un
determinato risultato e il suo effettivo conseguimento. L’essenza del criterio
della strumentalità, quindi, è se e quanto, date alcune conoscenze e credenze
umane sulle relazioni di causalità, alcune attività di trasformazioni producono
di fatto gli effetti desiderati. La scelta di un progetto organizzativo, e quindi di

13
Si veda in proposto Thompson, J.D., 1990; Perrone, V. 1990, pag. 198.

104
La tecnologia

una soluzione in luogo di un'altra, deve considerare prioritariamente la dimen-


sione strumentale. È’ facilmente intuibile, infatti, che prima di calcolare i costi
di una qualunque soluzione organizzativa o progetto è necessario conoscere in
via antecedente come procedere per essere in grado di definire stime e valuta-
zioni attendibili. Sulla base di questa argomentazione, Thompson giustifica
l’idea che il criterio economico è secondario, per quanto la letteratura abbia ri-
servato grande attenzione al problema dei costi. Solo una volta che saranno note
le relazioni che legano le attività intraprese con il risultato desiderato sarà pos-
sibile analizzare il costo delle risorse investite per il suo conseguimento e valu-
tarne il livello di economicità.
Emerge l’equifinalità dei sistemi organizzativi potendo essi stessi raggiun-
gere gli stessi risultati attraverso differenti processi di trasformazioni. Con rife-
rimento al criterio economico, quindi, la massima razionalità tecnica si otterrà
quando l’azione organizzativa guidata dallo stato delle credenze e conoscenze
al momento disponibili, avrà raggiunto gli obiettivi prefissati con il minimo in-
vestimento e dispendio di risorse.

3.5.1. La classificazione della tecnologia in varietà tecnologiche

Per Thompson, la comprensione dell’azione organizzativa e della progettazione


ruota attorno alla tecnologia. Egli sostiene che le organizzazioni sono create
proprio per implementare tecnologie che i singoli individui da soli non riusci-
rebbero a mettere in atto. Le organizzazioni, peraltro, spesso si “accontentano”
di utilizzare tecnologie imperfette per raggiungere risultati possibili che soddi-
sfano solo parzialmente il risultato desiderato.
Sebbene la letteratura offra all’autore numerosi contributi e definizioni di
tecnologia egli sente il bisogno di giungere a una classificazione generalizzatrice
e semplificante in grado di “mettere ordine nelle infinite varietà” oltre che inter-
pretare non solo le tipologie di trasformazione industriale e materiale, bensì an-
che quelle dei servizi (Hatch, 1997; Perrone, 1990). Vengono così individuate tre
differenti tipologie di tecnologie:

• tecnologia di concatenamento o a collegamento lineare (long-lin-


ked technology);
• tecnologia di mediazione (mediating technology);
• tecnologia intensiva (intensive technology).

La tecnologia di concatenamento si presenta con una interdipendenza seriale e


corrisponde in sostanza alle tecnologie di produzione di massa e a ciclo continuo
individuate dalla Woodward, come ad esempio quelle dei prodotti chimici o

105
Lineamenti di organizzazione aziendale

delle automobili. L’interdipendenza seriale implica che un’azione Y possa essere


posta in essere solo dopo che sia stata completata un’azione antecedente X dalla
quale Y dipende per reperire gli input del proprio processo di trasformazione.
Questa tecnologia di concatenamento, in linea generale, non consente ad un sin-
golo operatore o dipartimento di operare in maniera indipendente dovendo l’at-
tività ricevere gli input da una unità a monte e successivamente generare, con il
proprio output, l’input dell’unità a valle. Secondo il criterio strumentale, essa si
avvicina alla perfezione tecnica quando si produce un solo tipo di prodotto stan-
dard, in modo ripetitivo e costante.
Le imprese che utilizzano questa tecnologia sono tendenzialmente mono-
business. La focalizzazione su un solo prodotto comporta l’impiego di un solo
sistema tecnico definito che può essere coordinato attraverso la programma-
zione delle attività di trasformazione degli input in output che consentono di
standardizzare le procedure del flusso operativo. L’esperienza accumulata con-
sente di ridurre la variabilità e i difetti della tecnologia attraverso interventi di
manutenzione preventiva programmata e di formazione degli operatori al fine
di ridurne gli errori. È evidente che questa tecnologia richiede stabilità nelle re-
lazioni e prevedibilità delle stesse per soddisfare le necessità di coordinamento.
A volte però, come vedremo meglio in seguito, l’organizzazione tenderà a do-
tarsi di risorse in eccesso o surplus (slack di risorse) in input o in output per
aumentare la sua capacità di affrontare l’incertezza proveniente da eccezioni o
situazioni inaspettate e non programmate.
I vantaggi di questa tecnologia sono associati alla separabilità tecnica del
processo produttivo e alla specializzazione che consentono maggiore efficienza
anche attraverso la riduzione dei tempi morti, l’aumento della velocità operativa
degli operatori e la routinizzazione dei compiti resa possibile proprio dall’azione
semplificatrice svolta dal management sulle mansioni operative.
I lavoratori inseriti in un tale contesto in genere non sono altamente qua-
lificati e professionalizzati e inoltre non riescono a sviluppare un’autonoma ca-
pacità di sviluppo delle proprie competenze proprio perché divengono semplici
esecutori di compiti e procedure operative semplificare pre-definite da manager
o organi della tecnostruttura. Essi tendono a non sviluppare la c.d. task identity,
in quanto, ai fini del loro lavoro, rivolgono la propria attenzione solo su una
porzione limitate dell’intero processo di trasformazione. L’interdipendenza se-
riale, inoltre, crea un’importante dipendenza sulle performance delle singole
unità organizzative e persone e sulla loro autonoma capacità di produrre risul-
tati. Infatti, il risultato di ogni unità dipenderà dall’efficienza e dall’efficacia
dell’unità a monte e inoltre influenzerà quello dell’unità a valle. Una perfor-
mance negativa o un’interruzione del flusso porteranno inevitabilmente effetti
negativi “a cascata” sulle altre unità e sull’organizzazione in generale. Negli ul-

106
La tecnologia

timi anni, le intense interdipendenze interne e esterne che le imprese sono chia-
mate a fronteggiare, anche per incrementare i processi di innovazione, hanno
imposto intensi e più costosi meccanismi di coordinamento attivati anche attra-
verso soluzioni organizzative inter-funzionali o grazie alla costituzione di team
interdipartimentali.
La tecnologia di mediazione ha la funzione di collegare tra loro clienti o
utenti relativamente autonomi nel contesto di uno scambio o di una transazione.
Essa si caratterizza per una certa indipendenza tra le attività previste nel flusso
input, processo di trasformazione e output. Banche, agenzie di mediazione e di
assicurazione sono tutte organizzazioni che ricorrono a tecnologie di media-
zione. Esse, infatti, costituiscono e generano “luoghi fisici o virtuali” che con-
sentono ai partner di uno scambio potenziale di incontrarsi e condurre una tran-
sazione. Le agenzie di intermediazione immobiliare, ad esempio, mettono in
contatto chi vuole vendere con chi vuole comprare casa offrendo spesso anche
tecnologie ausiliarie a quella core di intermediazione, come mutui o accordi con
istituti finanziari e di credito per ottenere finanziamenti.
L’interdipendenza tra le attività è limitata e il singolo operatore o unità
organizzativa, a differenza di quanto accade nella tecnologia di concatena-
mento, può svolgere il proprio task autonomamente senza che sia direttamente
dipendente dalle attività di altri.
Ogni componente organizzativa, persona o unità, opera con una interdi-
pendenza generica, cioè contribuisce in modo autonomo e separato alla perfor-
mance complessiva della propria unità o organizzazione. Il grado di integra-
zione fra unità al fine del raggiungimento del risultato è quindi limitato. Il costo
di coordinamento è quindi limitato potendo, l’organizzazione, controllare le at-
tività di una singola unità attraverso la standardizzazione.
La complessità di questo tipo di tecnologia risiede non tanto nel fatto che
essa deve soddisfare bisogni differenziati di una pluralità di clienti, quanto piut-
tosto che deve raggiungere tale risultato attraverso la standardizzazione. In so-
stanza, essa deve operare con modalità standardizzate ma anche estensiva-
mente.
Ad esempio, la tecnologia bancaria media tra gli investitori e chi richiede
finanziamenti attraverso attività guidate da procedure e standard stabiliti anche
da organismi sovraordinati. Tali procedure dovrebbero consentire l’incontro tra
domanda e offerta di denaro, facilitare la soddisfazione delle reciproche esigenze
espresse dai partner e consentire alla banca di conseguire un profitto dalla atti-
vità di intermediazione.
L’analisi della tecnologia di mediazione può avvenire non solo a livello
macro ma anche di unità organizzativa, dipartimento, reparto, team, ecc.

107
Lineamenti di organizzazione aziendale

Abbiamo osservato come le singole unità svolgono la loro attività senza


il necessario contributo di altri. Esse però contribuiscono ciascuna per la propria
parte alla prestazione globale e al buon esito dell’attività complessiva dell’im-
presa.
La performance di una unità commerciale di un’impresa dipende dalla
singola performance dei venditori e magari anche degli agenti le cui performance
individuali, però, sono sostanzialmente disancorate le une dalle altre, sono cioè
indipendenti. Gli incentivi sui risultati raggiunti (es. pezzi venduti, contratti con-
clusi, ecc.) rappresentano modalità efficaci per presidiare questa tecnologia es-
sendo possibile osservare gli output delle singole unità che possono essere così
monitorate, controllate, valutate e remunerate. Possono inoltre essere definite
regole e procedure burocratiche interne ad ogni singola unità in modo da speci-
ficare le modalità di coordinamento intra e iter unità. Durante gli ultimi anni, le
imprese stanno intensificando l’utilizzo delle tecnologie di mediazione aiutate
anche dalle opportunità offerte dalle nuove frontiere tecnologiche.
La tecnologia intensiva si caratterizza per essere non standardizzabile e per
prevedere una molteplicità di tecniche capaci di determinare la trasformazione
in un determinato oggetto. Le attività di input, trasformazione e output sono
fortemente interconnesse e la selezione, combinazione e sequenza delle stesse
sono determinate dal feedback proveniente dall’oggetto sul quale è applicata
l’azione tecnologica. Tipici esempi di tali tecnologie si trovano, nel pronto soc-
corso ospedaliero, nei centri di ricerca e nelle imprese di costruzioni.
Esse richiedono di impiegare e coordinare simultaneamente specializza-
zioni e competenze diverse nello svolgimento delle attività di trasformazione di
un input unico in un output personalizzato. Esse quindi presuppongono l’uti-
lizzo e l’applicazione di competenze specialistiche a problemi nuovi e a situa-
zioni mutevoli e la capacità di ridisegnare le modalità con cui queste competenze
vengono di volta in volta impiegate e combinate in funzione del feedback rice-
vuto dall’oggetto sul quale la tecnologia è appunto impiegata.
L’interdipendenza tra le parti organizzative coinvolte nel processo di tra-
sformazione è intensa e reciproca. Ciò significa che le attività dei dipendenti e
delle unità organizzative che operano secondo una tecnologia intensiva sono le-
gate le une alle altre nel momento stesso in cui queste vengono poste in essere,
cioè al tempo “t0”. Per questa tipologia, a differenza della tecnologia di conca-
tenamento e di mediazione, non è possibile pianificare a priori una sequenza
attività, definire regole o procedure in grado di risolvere il problema.
Essa quindi, ha costi di coordinamento e di gestione più elevati. L’incer-
tezza che la caratterizza richiede che le persone si integrino e si coordino attra-
verso la capacità reciproca di adattamento (Mintzberg, 1979) che diventa il mec-
canismo principale di integrazione e coordinamento in sostituzione della pro-
grammazione.

108
La tecnologia

Le organizzazioni tenderanno così a utilizzare team e meccanismi formali


di integrazione che facilitino e sostengano il mutuo aggiustamento. Inoltre il
processo decisionale dovrà essere decentrato in prossimità del luogo dove i pro-
blemi si presentano per consentire agli operatori che sono impegnati nel pro-
cesso di trasformazione di avere la possibilità e l’autorità di scegliere le azioni
più idonee da implementare, nel rispetto dei tempi e dei modi richiesti dalla tec-
nologia.

3.5.2. La razionalità organizzativa come risposta ai limiti della razionalità


tecnica

Le organizzazioni che operano secondo razionalità cercano di acquisire il più


possibile il controllo sugli elementi “perturbatori” della tecnologia per avvici-
nare il sistema a situazioni di stabilità, certezza e prevedibilità.
La perfezione tecnologica, intesa nella sua dimensione strumentale, è tale
se l’organizzazione si presenta come sistema di logiche chiuso alle istanze e alle
sollecitazioni provenienti dall’ambiente esterno e se le relazioni causa-effetto
producono realmente il risultato desiderato. I sistemi tecnici “perfetti” sono tali
se comprendono tutte e solo le variabili rilevanti ed escludono le influenze per-
turbatrici delle variabili esogene. In questo modo, il sistema varia in maniera
“prevedibile” con modalità e intensità definite dalla tecnica, dalla strumenta-
zione o dall’azione dell’uomo ed è quindi relativamente indipendente da effetti
perturbatori 14.
Come è facilmente intuibile, una simile situazione rappresenta un’astra-
zione teorica, in quanto la realtà organizzativa difficilmente riesce a “tenere
fuori” dal sistema tecnico le influenze ambientali, umane e di altra natura, che
esistono e divengono generatori di incertezze e complessità. Inoltre il nucleo
delle organizzazioni è formato da tecnologie diverse e multiformi.
Nel momento in cui le tecnologie sono tradotte in azioni organizzative, la
logica del sistema chiuso sottostante alla perfezione tecnica strumentale non è
più in grado di esaurire la componente tecnologica. L’organizzazione di rado
riesce a possedere il controllo di tutti i fattori che entrano in gioco e, a loro volta,
i nuclei tecnologici non sempre riescono a fornire soluzioni ai problemi che sono
chiamati ad affrontare 15.
Il nucleo tecnico è una rappresentazione parziale e incompleta dell’azione
organizzativa finalizzata al raggiungimento dei risultati desiderati e la raziona-
lità tecnica, da sola, è insufficiente a spiegare l’azione organizzativa. Emerge,

14
Come abbiamo già ricordato, le tecnologie a ciclo continuo e quelle della produzione di massa si avvicinano
alla perfezione tecnica dal punto di vista strumentale.
15
Vedi J., D., Thompson, 1990, p. 89 e 90.

109
Lineamenti di organizzazione aziendale

quindi, il concetto di razionalità organizzativa che amplia quello di razionalità


tecnica perché considera costantemente l’azione dei nuclei tecnologici in un si-
stema di logiche aperto alle influenze delle variabili esogene. In relazione alle
condizioni spazio-temporali dell’organizzazione, sulla base delle conoscenze di-
sponibili e dei risultati desiderabili, la razionalità organizzativa fissa la tecnolo-
gia e la “collega” con l’ambiente circostante contemplando così gli elementi di
input, dati per scontati dalla “perfezione tecnica”, e gli elementi di output
anch’essi fuori dal controllo del sistema tecnico.
La razionalità organizzativa implica la considerazione di tre attività fon-
damentali fortemente interdipendenti che devono essere adeguatamente colle-
gate: le attività di input, le attività tecnologiche o di trasformazione e le attività
di output. Con riferimento agli input e agli output, le interdipendenze non si
esauriscono all’interno dell’organizzazione comprendendo, di fatto, gli scambi
e le relazioni con gli interlocutori esterni (clienti, fornitori, concorrenti, ecc.).
L’azione razionale dell’organizzazione richiede di conciliare due forze
contrapposte e di gestire il trade-off tra: 1) la necessità di chiudere il nucleo tec-
nico alle influenze ambientali per garantirne la razionalità tecnica che è una
forza che spinge verso la stabilità il sistema; 2) l’apertura all’ambiente, genera-
trice di complessità e incertezza, che è imposta dalla razionalità organizzativa.
Chiarito che non è possibile immaginare una chiusura ermetica dei nuclei
tecnologici, l’organizzazione può adottare una serie di espedienti e manovre
delle proprie leve operative per riuscire a salvaguardare la razionalità tecnica e
raggiungere una certa capacità di autoregolazione rispetto alle influenze am-
bientali. Tali manovre possono riguardare gli input, gli output e l’attività stessa
di trasformazione e sono così sintetizzabili:

a) buffering;
b) smoothing;
c) anticipazione e adattamaneto;
d) razionamento.

Non potendo isolare i nuclei tecnologici attraverso una loro chiusura ermetica,
le organizzazioni tendono a creare dei meccanismi di protezione degli effetti per-
turbatori di tutte le variabili coinvolte, “circondando” il sistema tecnico con
componenti di input e output (Thompson, p. 96). Il buffering, quindi, consiste
in azioni di protezione del nucleo tecnico attraverso la costituzione di scorte in
input e in output. Tale possibilità, sebbene costosa, può essere ben compresa e
applicata nel caso di tecnologia manifatturiera di concatenamento. Osserva a
tal proposito Thompson (1990, p. 91):

110
La tecnologia

… il nucleo tecnico deve essere in grado di operare come se il mercato assorbisse un


unico tipo di prodotto a un ritmo costante e come se gli input affluissero continua-
mente a un ritmo costante e secondo una qualità invariata. […] …nella realtà ciò non
accade.

Dal lato dell’input l’organizzazione stocca materia prime in approvvigiona-


mento per gestire la variabilità che può derivare da una irregolarità spazio-tem-
porale dei processi di fornitura. Lo stesso effetto può essere ottenuto dalle atti-
vità di manutenzione preventiva che riduce la probabilità di eventi inattesi. In-
fine, anche l’inserimento nel processo di lavoro di risorse umane opportuna-
mente formate, specializzate e indottrinate costituisce ulteriore modalità che av-
vicina il sistema alla razionalità tecnica.
Dal lato degli output è possibile operare con modalità speculari avendo
come riferimento i prodotti finiti. È evidente che ogni soluzione implica dei costi
per l’organizzazione che deve valutare la stessa secondo criteri di economicità.
Può accadere di converso che alcune organizzazioni considerino, più conve-
niente ridurre o eliminare soluzioni di questo tipo adottando dal lato dell’input
soluzioni c.d. just in time.
È chiaro che tali soluzioni sono per lo più praticabili nella misura in cui
gli “oggetti” non hanno carattere di deperibilità, le organizzazioni operano
nell’industria manifatturiera e non già in quella dei servizi dove prevale l’intan-
gibilità e la contestualità degli input e degli output che rendono difficile stoccare
gli stessi.
La difficoltà di operare con meccanismi di sbarramento porta l’organiz-
zazione a operare attraverso lo smoothing, cioè il livellamento delle transazioni
in input e in output. In sostanza, se con lo sbarramento le organizzazioni assor-
bono le fluttuazioni ambientali, con lo smoothing esse cercano invece di ridurla.
Così le imprese turistiche offrono tariffe differenziate in funzione dell’intensità
con cui si presenta la domanda di servizi, le imprese che erogano energia offrono
tariffe agevolate a secondo delle fasce orarie di consumo (es. notturno), gli ospe-
dali conseguono forme di livellamento attraverso i ricoveri programmati per si-
tuazioni non urgenti, ecc.
Sebbene le organizzazioni possano cercare di ridurre le fluttuazioni dal
lato degli input e degli output, il loro completo livellamento è difficilmente rag-
giungibile. Se le fluttuazioni ambientali sono tali da alterare per un periodo si-
gnificativo di tempo le attività del nucleo tecnico, esse possono essere trattate
come vincoli ai quali il sistema può adattarsi. In questo caso, per salvaguardare
i nuclei tecnologici, le organizzazioni cercheranno di anticipare e adattarsi ai
mutamenti ambientali che non possono evitare o attenuare attraverso la piani-
ficazione o la programmazione delle operazioni del proprio nucleo tecnico se la
variabilità ambientale è relativamente prevedibile. Le organizzazioni imparano

111
Lineamenti di organizzazione aziendale

dall’esperienza che le fluttuazioni si presentano ciclicamente, con un alto grado


di regolarità e probabilità e quindi sono in grado di anticiparle e pianificarle
facendo in modo che il nucleo tecnico operi come se rispondesse a un sistema di
logiche chiuso. Se, invece, l’organizzazione non è in rado di programmare e an-
ticipare le fluttuazioni ambientali si verifica una riduzione della prestazione del
sistema in quanto esse interferiscono con il funzionamento del sistema tecnico.
Quando gli espedienti sino ad ora analizzati non riescono a proteggere i
nuclei tecnologici dalle fluttuazioni e incertezze ambientali, le organizzazioni ri-
durranno volontariamente il loro livello di efficienza adottando una qualche
forma di razionamento che orienta la performance del sistema tecnico al soddi-
sfacimento parziale della domanda secondo una qualche forma di priorità e seg-
mentazione. Siamo in presenza di soluzioni estreme che l’organizzazione è co-
stretta ad adottare stante l’inefficacia delle precedenti. Si pensi, ad esempio, al
caso del pronto soccorso e al sistema del Triage (termine francese che significa
“smistamento”) che soddisfa la domanda secondo il criterio della gravità ri-
spetto al rischio di vita attuando così una sorta di razionamento che va a soddi-
sfare prioritariamente il codice rosso, cioè una situazione di emergenza nella
quale il soggetto ha almeno una delle funzioni vitali compromessa, trovandosi
dunque in immediato pericolo di vita. A seguire si dà priorità al codice giallo
che identifica una situazione di urgenza nella quale il paziente presenta una par-
ziale compromissione delle funzioni dell’apparato circolatorio o respiratorio,
senza essere in immediato pericolo di vita, ma necessita urgentemente di un con-
trollo medico; segue il codice verde, o urgenza minore, secondo cui il paziente
riporta problemi o sintomi che non interessano le funzioni vitali; infine si ha il
codice bianco, riferito ai casi in cui non vi è urgenza, il soggetto non ha bisogno
del pronto soccorso e può rivolgersi al proprio medico di fiducia (altra tecnolo-
gia). In alcuni casi l’organizzazione affianca a questa forma di razionamento
processi di incentivazione o disincentivazione imponendo il pagamento di un
contributo per situazioni che hanno aumentato in modo inadeguato l’ineffi-
cienza andando a adottare “espedienti” tipici del livellamento. Così è possibile
imporre il pagamento anche parziale della prestazione in funzione del codice
assegnato qualora la prestazione richiesta poteva essere erogata attraverso un
altro soggetto (professionista o struttura).

3.6. Le attività di routine e le attività complesse. Il contributo di Charles Perrow

Il lavoro di Charles Perrow è un ulteriore importante studio sulle relazioni tra


tecnologia e progettazione organizzativa. Uno dei punti centrali della sua ela-
borazione teorica è cercare di comprendere quali siano gli elementi determinanti
la complessità tecnologica. Il suo contributo, al pari di quello della Woodward,

112
La tecnologia

considera la tecnologia come variabile indipendente e la struttura come variabile


dipendente. Egli inoltre cerca di studiare le organizzazioni nel loro insieme a
partire dal livello di analisi delle varie unità (Perrow, 1967; Hatch, 1996). Questo
aspetto differenzia il contributo dell’autore da quello della Woodward e di
Thompson precedentemente esaminati.
In sostanza, egli non considera le organizzazioni con la prospettiva della
tecnologia dominante, ma pone in risalto le tante tipologie di tecnologie che
compongono le organizzazioni. Così facendo, consente anche di apprezzare le
diversità tecnologiche in generale (Perrow, 1967; Hatch, 1996).
Egli definisce la tecnologia come l’insieme di azioni che un individuo com-
pie su un «oggetto» o un materiale grezzo, con o senza l’aiuto di strumenti o di
congegni meccanici, al fine di apportare, in qualche modo, delle modifiche.
L’«oggetto», o materiale grezzo, può essere un essere vivente, umano o non
umano, un simbolo o un oggetto inanimato (Perrow, 1967). Nel processo di tra-
sformazione l’individuo che opera in una organizzazione interagisce con altri
individui; la forma di tale interazione viene definita struttura, che implica, se-
condo l’autore, una combinazione di rapporti che consentono il coordinamento
e il controllo.
Uno dei compiti chiave del dirigente è quello di cambiare, modificare o
mantenere tale struttura e per far questo egli può utilizzare molte e svariate tec-
nologie. Tecnologia e struttura, per quanto abbiano aree di indeterminatezza,
sono concetti diversi stante il primo avere il significato di azione dell’individuo
sul materiale grezzo (anche umano) al fine di modificarlo e il secondo avere
come riferimento la relazione e interazione con altri individui necessarie per ot-
tenere i mutamenti in un determinato oggetto (processo di trasformazione).
Vi sono molte questioni che Perrow affronta nel suo lavoro. Quella che in
questo capitolo è interessante analizzare fa riferimento agli elementi che cercano
di spiegare le determinanti della complessità della tecnologia e la relazione con
la struttura.
Il primo di tali fattori viene individuato nella variabilità del sistema tec-
nico, cioè nel numero di casi eccezionali che si incontrano nel lavoro di coloro
che effettuano la trasformazione dell’«oggetto» e riferisce la misura con cui gli
stimoli provenienti dall’agire organizzativo sono percepiti come familiari o non
familiari. Ad un estremo possiamo individuare processi di lavoro che sono alta-
mente ripetitivi e standardizzati, che possono essere portati a termine sempre
allo stesso modo e che presentano poche o nulle eccezioni. Se consideriamo ad
esempio una catena di montaggio, così come un fast food, osserviamo che le
attività sono studiate per ridurre al minimo la variabilità e aumentare il grado
di prevedibilità delle scelte in modo da raggiungere un elevato livello di effi-

113
Lineamenti di organizzazione aziendale

cienza e ridurre i costi. All’estremo opposto troviamo situazioni in cui le ecce-


zioni sono molte, è più difficile applicare standard o individuare procedure ri-
petitive per svolgere i compiti. In questi casi la variabilità è alta, gli individui si
confrontano con situazioni inedite e non familiari che richiedono l’individua-
zione di soluzioni e decisioni nuove. Si pensi, ad esempio, al caso di una sala
operatoria di un ospedale o a quello di un pronto soccorso. In entrambe le si-
tuazioni è possibile che i medici si trovino di fronte a situazioni impreviste e
comunque con problemi inaspettati.
La seconda dimensione che viene richiamata è la natura del «processo di
indagine» (search process) che l’individuo intraprende ogni qual volta nel lavoro
si trovi a rispondere a delle situazioni impreviste o eccezioni. Tale dimensione è
detta analizzabilità delle attività di lavoro e viene distinta in due differenti tipo-
logie.
La prima, osserva Perrow, implica un’attività che può essere condotta su
una base logica, analitica o sistematica. Si tenga presente che questa dimensione
non fa riferimento ad attività di routine. Afferma infatti l’autore:

I processi di indagine sono sempre azioni eccezionali intraprese dall’individuo, non


sono azioni di routine. Non esistono programmi predeterminati per questo tipo di
azione e, se essi esistono, si tratta di un’indagine molto banale, che consiste nel pas-
sare da un programma all’altro al variare di stimoli (Perrow, 1967, p. 110)

In sostanza, quando il processo di trasformazione è analizzabile gli individui


non hanno bisogno di sviluppare nuove conoscenze, di fare analisi o ricerche di
dati e informazioni per risolvere un problema che può essere affrontato attra-
verso l’utilizzo di procedure standard, istruzioni o manuali d’uso.
È importante ribadire che non si tratta quindi, come osserva Perrow, di
semplici routine. Se si pensa al montaggio della libreria IKEA, infatti, l’attività
non si presenta routinaria per il cliente che ha effettuato l’acquisto, ma allo
stesso tempo non richiede particolari conoscenze e attività di indagine. Un’ac-
curata lettura delle informazioni presenti sul foglietto illustrativo sarà molto
probabilmente sufficiente per produrre la risposta a quella particolare attività
(eccezione) che il cliente è chiamato a svolgere. L’attività di ricerca dei pro-
grammi di azione e delle informazioni è quindi limitata perché in generale queste
sono già presenti in forma più o meno esplicita in qualche supporto.
Ad un livello differente si collocano, invece, i problemi non analizzabili.
Osserva a tal proposito Perrow: «il problema è così vago e insufficientemente
concettualizzato da renderlo virtualmente non analizzabile. In questo caso non
viene intrapresa alcuna indagine formale; l’individuo si basa sulle esperienze e
intuizioni non analizzate, o si affida al caso o alle congetture» (Perrow, 1967, p.
110).

114
La tecnologia

Con questa dimensione, quindi, lo studioso fa riferimento al grado di dif-


ficoltà relativa che si incontra nell’affrontare i problemi.
Se consideriamo simultaneamente le due dimensioni sopra citate tenendo
conto della presenza/assenza di eccezioni oltre che del grado di analizzabilità dei
problemi, otteniamo una matrice, riportata nella Tabella 3.2., che presenta
quattro diverse possibilità tecnologiche: a) tecnologie artigianali; b) tecnologie
non di routine o non standardizzate; c) tecnologie ingegneristiche; d) tecnologie
di routine.

Tabella 3.2. La tecnologia classificata in base ai problemi e alle eccezioni

Fonte: Perrow con adattamenti (1967, trad. it., 1993)

3.6.1. Le differenti possibilità tecnologiche a livello di unità

Il numero di eccezioni della tecnologia (asse orizzontale della tabella 3.2.) con
riferimento alle unità organizzative può aiutare a rappresentare la dimensione
della variabilità dei compiti, classificata lungo una linea continua che va da po-
che a molte eccezioni. Maggiori sono le eccezioni che si devono risolvere nello
svolgimento del compito, più alta è la variabilità delle attività. Conseguente-
mente sarà minore per gli operatori la possibilità di adottare standard e proce-
dure operative per svolgere il lavoro. Il coordinamento mediante piani e pro-

115
Lineamenti di organizzazione aziendale

grammi, per utilizzare le categorie di Thompson, diventerà più difficile e si cer-


cherà di utilizzare maggiormente il mutuo aggiustamento e le capacità intuitive
dei lavoratori nella soluzione dei problemi.
Chi opera in situazioni di alta variabilità dovrebbe possedere un elevato
livello di professionalizzazione, di capacità e competenze che rappresentano la
base cognitiva necessaria per consentire loro di affrontare e risolvere problemi
sconosciuti. L’attore organizzativo possiede così un profondo controllo sul con-
tenuto del lavoro. Ritroviamo figure di questo tipo in molti campi dell’economia
quali l’insegnamento, la medicina, la ricerca e per certi versi anche il manage-
ment.
All’estremo opposto (poche eccezioni sull’asse delle ascisse della Figura
3.2.) troviamo situazioni in cui la variabilità è bassa in quanto le eccezioni che
gli operatori devono affrontare sono poche. In questi casi le attività vengono
poste in essere in modo quasi automatico, “senza pensarci troppo”, e possono
essere coordinate anche attraverso piani e procedure operative pre-determinate.
Leggendo l’asse verticale della Tabella 3.2., possiamo individuare i tipi di
processi di search che gli individui pongono in essere quando incontrano le ec-
cezioni. Ad un estremo abbiamo situazioni in cui la ricerca delle informazioni e
dei programmi disponibili nel bagaglio di esperienza del lavoratore o nell’am-
biente di riferimento sono tali da produrre una efficace risposta alle eccezioni
che si presentano all’operatore. Si tratterà quindi di recuperare quelle informa-
zioni dalla propria memoria cognitiva o da chi li possiede per poi adattarle alle
proprie situazioni problematiche. All’estremo opposto ritroviamo invece situa-
zioni in cui la ricerca e la valutazione delle informazioni e dei programmi esi-
stenti è insufficiente a fornire indicazioni utili per trattare le eccezioni e i pro-
blemi da affrontare. In questi casi, quindi, il lavoratore deve fare affidamento
sulla propria esperienza, sull’intuizione, sulla creatività, sulla capacità di indivi-
duare e sperimentare nuove soluzioni.
Provando ad analizzare la Tabella 3.2. osserviamo che i quadranti 2 e 4
rappresentano i “casi estremi” di configurazioni tecnologiche. Nel quadrante 4
troviamo quei sistemi tecnici in cui la variabilità dei compiti è molto bassa, le
eccezioni sono poche e vi è grande disponibilità di tecniche analitiche per ana-
lizzare le eccezioni che si presentano. L’uso di procedure e modelli basati di dati
oggettivi, analisi statistiche e calcolo razionale trovano in questa tipologia di
sistema tecnico pieno impiego e efficacia. In termini di progettazione organizza-
tiva ci possiamo aspettare che i ruoli siano molto formalizzati, i flussi di trasfor-
mazione stabili e standardizzabili così come è possibile anche definire procedure
e standard per rispondere agli scostamenti e alle eccezioni che si presentano nel
lavoro operativo. Perrow chiama questi sistemi tecnici, situazioni di routine. La
catena di montaggio di un’impresa automobilistica o quella di imbottigliamento

116
La tecnologia

di un’azienda vitivinicola, così come il processo di erogazione del prodotto-ser-


vizio in McDonald’s rappresentano esempi di tecnologie routinarie. Questi si-
stemi, tipici della categoria della produzione di massa della Woodward o della
«long-linked» di Thompson, tendono alla massima efficienza tecnica. Attra-
verso la “minima scomposizione” del processo produttivo essi cercano di ridurre
la variabilità e di aumentare l’analizzabilità. Gli input vengono standardizzati,
così come le fasi di lavoro e gli output ottenendo vantaggi o economie sui costi
di produzione e di coordinamento.
Situazione opposta si viene a determinare invece nel quadrante 2. In que-
sto caso, osserva Perrow, siamo in presenza di situazioni che presentano molti
casi eccezionali e poche tecniche disponibili per analizzarli. Tale situazione
estrema può essere definita «non di routine». Siamo in presenza di attività com-
plesse che possono evidenziare situazioni inaspettate e sconosciute. In questo
tipo di tecnologia, quindi, gran parte del tempo e dello sforzo dei lavoratori è
dedicato alla ricerca e all’analisi di soluzioni a problemi non noti. I costi del
processo di trasformazioni sono, così, particolarmente alti. L’attore organizza-
tivo costruisce le proprie opzioni di scelta relative a una situazione problematica
partendo da condizioni di contesto di difficile analizzabilità, con ridotti livelli di
relazioni logico-razionali. Egli deve sviluppare continuativamente nuova cono-
scenza attraverso processi di search innovativi che faranno ricorso anche all’in-
tuito e all’esperienza in modo da generare nuovi programmi di azione. Inoltre,
esse presentano conseguenze difficilmente prevedibili negli effetti quali-quanti-
tativi e anche temporali delle opzioni che gli attori stessi sono in grado di defi-
nire. Si pensi ai contesti della ricerca medica e farmacologia. È difficile immagi-
nare che sia possibile individuare procedure e modelli standardizzati per debel-
lare l’ebola o per individuare rapidamente un vaccino del c.d. COVID-19
(nuovo coronavirus), così come sembra difficile immaginare il lavoro di pianifi-
cazione strategica dell’alta direzione aziendale come attività facilmente prevedi-
bile e standardizzabile. Nelle attività di pianificazione strategica, infatti, il ma-
nagement utilizza modelli previsionali, ricerche di mercato, dati e informazioni
disponibili la cui variabilità e analizzabilità rispetto agli scopi è particolarmente
elevata, perché si modificano rapidamente le condizioni di contesto.
Le altre due opzioni che la matrice genera, il quadrante 1 e il 3, sono so-
luzioni “miste” nelle quali però è ipotizzabile la presenza di una significativa
numerosità di organizzazioni (Perrow, 1967).
Nella produzione di stampo artigianale (quadrante 1) il sistema tecnico
utilizzato può presentare una bassa variabilità, potendosi presentare poche ec-
cezioni che però si qualificano per un basso livello di analizzabilità in quanto le
conoscenze e le informazioni a disposizione sono insufficienti a generare pro-

117
Lineamenti di organizzazione aziendale

grammi di azione predefiniti per la risoluzione dei problemi. In sostanza gli at-
tori organizzativi devono essere in grado di sviluppare una nuova ricerca di so-
luzioni e individuare nuove informazioni per ridefinire le procedure di lavoro
atte ad affrontare le poche eccezioni che gli si presentano. In sostanza, siamo in
presenza di organizzazioni che svolgono un’attività che presenta una bassa va-
riabilità le cui eccezioni, però, risultano di difficile analizzabilità e soluzione con
le conoscenze a disposizione. In questi casi, il ricorso a metodi di analisi alter-
nativi, all’esperienza, alla creatività e all’intuizione risultano particolarmente
importanti e prevalenti rispetto alla programmazione. Nonostante i progressi
della tecnologia di produzione, i sistemi tecnici artigianali sono ancora abba-
stanza presenti nell’economia moderna. Si pensi, ad esempio, al lavoro di un
artigiano, sia esso calzolaio, elettricista, sarto, idraulico o falegname, che nello
svolgimento delle proprie attività può essere chiamato a ridefinire le proprie at-
tività e programmi di azione in funzione di particolari specifiche richieste del
cliente.
Il quadrante 3 identifica le c.d. tecnologie ingegneristiche, ovvero le indu-
strie meccaniche (macchine pesanti) che si caratterizzano per un’alta variabilità
e analizzabilità delle attività. In questi casi l’operatore si trova di fronte a pro-
cessi di lavoro che presentano spesso eccezioni che però sono state adeguata-
mente classificate e in modo da poter individuare programmi di azione standar-
dizzati, procedure e tecniche pre-determinate. Gli attori organizzativi possie-
dono le competenze specialistiche adeguate a rispondere con efficacia alla varia-
bilità che si presenta perché essa è sufficientemente analizzabile. Si pensi alle
attività dell’amministrazione e contabilità, a quella fiscale o legale ma anche le
attività di una segretaria di direzione chiamata a gestire molte eccezioni per le
quali però ha maturato tecniche e procedure, anche mentali, in grado di affron-
tare e risolvere i problemi.
Uno schema unidimensionale, inoltre, seguirebbe la linea tratteggiata che
attraversa le caselle 2 e 4 (Perrow, 1967).
Il contributo dello studioso non si esaurisce con le dimensioni dell’analiz-
zabilità e della variabilità delle attività ma include anche la conoscenza disponi-
bile per analizzare le caratteristiche del materiale grezzo sottoposto a trasforma-
zione e il suo grado di stabilità o variabilità, ossia la possibilità che esso sia stan-
dardizzato o richieda aggiustamenti continui. Poiché le tecniche sono applicate
su materiale grezzo sottoposto a trasformazione, è probabile, sostiene Perrow,
che le conoscenze disponibili per analizzare le caratteristiche del materiale de-
terminino le tecniche da utilizzare (Perrow, p.111).
La comprensione della natura del materiale, secondo Perrow, è una con-
dizione necessaria per aumentare il livello di prevedibilità ed efficienza delle tra-
sformazioni. È importante sottolineare che il riferimento è al modo con cui l’or-
ganizzazione percepisce la natura del materiale e non alla sua «essenza».

118
La tecnologia

Con riferimento alla variabilità dei materiali osserviamo che le organizza-


zioni cercano tutte di ridurre questa “caratteristica” in quanto si pongono
l’obiettivo di minimizzare le eccezioni per rendere più stabile e controllato il si-
stema stesso.
Le caratteristiche appena richiamate interagiscono tra di loro generando
quattro differenti situazioni che classificano le materie prime in relazione alla
proprietà della uniformità o stabilità da un lato e al grado di comprensione circa
la natura del materiale stesso. Quanto detto può essere schematizzato nella Ta-
bella 3.3.

Tabella 3.3. Le materie prime (“materiale grezzo”) come variabili

Fonte: Perrow (1967, trad. it., 1993)

L’obiettivo di ogni organizzazione è quello di ridurre l’incertezza e la variabilità


del proprio processo di trasformazione. In sostanza il management tenderà ad
avvicinarsi il più possibile alla situazione rappresentata nella casella 4. La pos-
sibilità di muovere l’organizzazione verso quella situazione trova la sua ragione
nei vantaggi di efficienza e controllo che è possibile ottenere. Le tecnologie che
si trovano in quella categoria sono più facili da gestire perché più standardizzate
e prevedibili. Come vedremo nel paragrafo di sintesi del presente capitolo, que-
sto aspetto ha notevoli implicazioni dal punto di vista della progettazione orga-
nizzativa.
Analizzando nello specifico la Figura 3.4. osserviamo che se muoviamo
l’impresa dalla situazione più complessa, rappresentata appunto dalla casella 2,
è possibile immaginare uno spostamento verso la casella 1 attraverso azioni che

119
Lineamenti di organizzazione aziendale

aumentano la possibilità di accumulare esperienza. Ciò consente all’organizza-


zione di ridurre situazioni percepite come eccezioni.
Se invece vogliamo muovere l’organizzazione verso la casella 3, bisognerà
aumentare la propria conoscenza della tecnica e dei materiali, migliorando l’af-
fidabilità delle procedure di indagine per eccezione.
L’avvicinamento alla casella 4 comporterà ovviamente un’azione su en-
trambe le caratteristiche richiamate.

120
Premessa alla progettazione della microstruttura
organizzativa
di Enrico Cori e Vincenzo Cavaliere

La progettazione della microstruttura riguarda le scelte relative


all’organizzazione del lavoro. Tali scelte possono riguardare tanto
l’aggregazione di più compiti in una mansione individuale (job design) quanto
l’assegnazione di sistemi di compiti a gruppi di lavoro (team design). Le scelte
relative alla microstruttura non si esauriscono nell’identificazione e assegna-
zione di “attività” del flusso di lavoro a mansioni o gruppi, ma riguardano an-
che le modalità di coordinamento e controllo, il peso da attribuire a forme ge-
rarchiche e non gerarchiche, il fronteggiamento delle interdipendenze mediante
la gestione delle interfacce.
Tutte le principali “parole-chiave” dell’organizzazione entrano in gioco
nelle scelte di microstruttura. La divisione del lavoro avviene “in orizzontale”,
allorché un flusso di lavoro di senso compiuto (che cioè conduce alla realizza-
zione di un output ben definito) viene segmentato in insiemi di compiti, che
verranno poi assegnati a singoli addetti o a gruppi di lavoro; ma alla divisione
orizzontale si associa sempre e comunque anche una divisione del lavoro “in
verticale”, che provvede a distribuire lungo la gerarchia la facoltà di prendere
alcuni tipi di decisione e la capacità di controllo sul proprio lavoro. Le scelte
relative alla divisione orizzontale del lavoro hanno come esiti da una parte la
creazione di interdipendenze di flusso, che richiederanno di individuare ade-
guate modalità di coordinamento, dall’altra il fatto che i diversi attori coinvolti
svilupperanno un certo grado di specializzazione, cioè le loro competenze si fo-
calizzeranno sui compiti assegnati. Invece le scelte di divisione verticale del la-
voro hanno come esito la definizione degli ambiti di discrezionalità, conseguen-

121
Lineamenti di organizzazione aziendale

ti alla delimitazione di quelle che Simon chiama “premesse decisionali”


all’azione organizzativa.
L’insieme delle scelte relative alla microstruttura permette di operare
una prima distinzione tra forme individuali (job based) e forme collettive (team
based), a seconda che l’unità di riferimento della progettazione sia la mansione
o il gruppo di lavoro. Una seconda distinzione, basata sul contenuto del lavo-
ro, consente di pervenire a differenti configurazioni, che rispondono a differen-
ti logiche di progettazione organizzativa: queste configurazioni vengono in ge-
nere etichettate con gli aggettivi allargata, arricchita.
Le scelte di progettazione della microstruttura sono orientate da una
molteplicità di elementi: tra questi hanno sicuramente un peso rilevante la na-
tura dell’attività che si vuole organizzare (grado di ripetitività e standardizza-
zione, rilevanza e intensità delle interdipendenze di flusso,…); le caratteristiche
individuali, in termini non solo di competenze, ma anche di bisogni e aspetta-
tive di cui sono portatori gli attori organizzativi; infine i caratteri della cultura
aziendale e della cultura di contesto, cioè l’insieme di valori condivisi rispetti-
vamente in azienda e nel contesto (locale o nazionale) in cui essa opera.
Progettare la microstruttura significa altresì, come anticipato in prece-
denza, definire forme e modalità di coordinamento, in modo da gestire ade-
guatamente il complesso schema di interdipendenze che ha origine nelle scelte
di divisione del lavoro. Significa, infine, mettere a punto un sistema di control-
lo, fatto di regole, procedure, protocolli, attività di supervisione, valori, cioè di
strumenti gerarchici, ma anche culturali e di autocontrollo degli operatori sul
proprio lavoro, in conseguenza della discrezionalità attribuita.
Così come affermato con riferimento alla macrostruttura, anche le scelte
di progettazione “micro” non sono mai definitive. Esse possono subire sempli-
ci “aggiustamenti” o cambiare completamente fisionomia. Il primo caso può
verificarsi semplicemente per una maggiore esperienza degli addetti, che con-
sente di allentare controllo e coordinamento da parte della gerarchia, oppure
quando forme spontanee di organizzazione del lavoro, già realizzate nella pra-
tica (ad esempio la rotazione delle mansioni), vengono recepite
nell’organizzazione formale. Veri e propri cambiamenti nella forma di micro-
struttura possono aversi, verosimilmente, in corrispondenza di innovazioni
tecnologiche nei processi produttivi (automazione, informatizzazione), o allor-
ché un ricambio generazionale degli addetti consenta di far leva su un sistema
di competenze, bisogni e aspettative individuali non più in linea con la “vec-
chia” organizzazione del lavoro.
Di seguito si illustra l’articolazione dei capitoli in cui si articola questa
parte. Nel capitolo 4 si affrontano anzitutto le scelte riguardati il tipo e livello
delle dimensioni strutturali della microprogettazione (le c.d. variabili hard: va-
rianze, specificità delle conoscenze, economie di specializzazione, ecc.) e il tipo

122
Premessa alla progettazione della microstruttura organizzativa

e livello delle dimensioni sociali (le c.d. variabili soft: varietà, autonomia, iden-
tità del compito, autorealizzazione, ecc.). Il capitolo si conclude con
l’individuazione delle fasi operative del job design. Il successivo capitolo 5, do-
po una parte introduttiva dedicata ad analizzare i possibili vantaggi delle for-
me team-based, è dedicato alle scelte inerenti la progettazione dei gruppi di la-
voro. La parte conclusiva del capitolo ospita un focus su team interaziendali e
team virtuali, e una breve riflessione sull’impatto che le scelte di progettazione
della microstruttura hanno sui comportamenti organizzativi. Infine, il capitolo
6 affronta le questioni di progettazione ai confini delle unità organizzative: ci
riferiamo in particolare all’analisi delle interdipendenze e alle scelte di fram-
mentazione e ricomposizione dei processi di lavoro. Si affronta la questione
dell’interfunzionalità e si propongono le possibili soluzioni, strutturali e non
strutturali, per il coordinamento.

123
4 La progettazione delle mansioni e dei ruoli
di Vincenzo Cavaliere e Daria Sarti

4.1. La centralità dell’analisi e progettazione della microstruttura per il disegno orga-


nizzativo e il comportamento degli attori organizzativi – 4.2. I concetti primi della
progettazione della microstruttura – 4.3. Progettare le posizioni nella logica delle
‘combinazioni’ e bilanciamento fra dimensioni diverse – 4.4. Le dimensioni della pro-
gettazione della microstruttura organizzativa – 4.4.1. Le dimensioni ‘hard’ della pro-
gettazione della microstruttura: varianze, interdipendenze e specificità delle cono-
scenze – 4.4.2. Le dimensioni ‘hard’ della progettazione della microstruttura: le eco-
nomie di specializzazione e le economie di scopo – 4.4.3. Le dimensioni ‘hard’ della
progettazione della microstruttura: I conflitti di interesse tra attività diverse e il loro
grado di osservabilità – 4.4.4. La Job Characteristics Theory e le dimensioni ‘soft’
della progettazione della microstruttura – 4.4.5. Le dimensioni soft: l’interazione so-
ciale, lo sviluppo, l’autorealizzazione, la salute e sicurezza e la qualità della vita – 4.5.
Le fasi operative del job design – 4.5.1. L’analisi del job – 4.5.2. La descrizione del job
– 4.5.3. La job evaluation

125
Lineamenti di organizzazione aziendale

4.1. La centralità dell’analisi e progettazione della microstruttura per il disegno


organizzativo e il comportamento degli attori organizzativi

Tutti i giorni i manager sono chiamati ad impiegare gran parte del proprio
tempo lavorativo a gestire i propri collaboratori, definire obiettivi, allocare ri-
sorse, coordinare processi e attività divise, in sostanza a organizzare il lavoro e
il comportamento finalizzato degli attori organizzativi. Per le organizzazioni, la
comprensione delle dinamiche e degli elementi che influenzano il comporta-
mento degli individui nel contesto di lavoro, rappresenta un elemento sostan-
ziale per rispondere quotidianamente all’esigenza di coordinare in modo efficace
le risorse umane e le relative competenze.
Il comportamento umano nelle organizzazioni è in parte dipendente da
fattori biologici, psicologici, cognitivi, quali ad esempio le motivazioni, le carat-
teristiche personali, le preferenze e attitudini dei singoli individui, ed è in parte
condizionato da fattori strutturali e “relazionali”, connessi cioè all’economia di
funzionamento delle unità organizzative e alle interdipendenze presenti nelle at-
tività di lavoro. La comprensione di questi ultimi elementi, strutturali e “rela-
zionali” è fondamentale tanto per orientare il comportamento degli attori orga-
nizzativi quanto per il disegno complessivo dell’organizzazione, in particolare
delle microstrutture, cioè delle unità elementari che consentono alle organizza-
zioni “di fare le cose” operativamente in modo efficace, efficiente e motivante.
L’analisi e la progettazione della microstruttura organizzativa hanno, per-
tanto, la finalità di definire, in maniera dinamica, la configurazione “ottimale”
di quelle unità di base che compongono un’organizzazione di cui concorrono a
realizzare i processi operativi (Butera e Donati, 1997). Attraverso queste atti-
vità, svolte generalmente dagli analisti di organizzazione 1, si contribuisce a chia-
rire il perimetro di riferimento per l’azione individuale e collettiva all’interno e
all’esterno dell’organizzazione.
Nello specifico, la progettazione della microstruttura fa riferimento sia ai
processi finalizzati a configurare le singole mansioni o posizioni organizzative
(job design) sia alla scelta dei meccanismi di coordinamento a presidio delle in-
terdipendenze che, con la divisione del lavoro, si vengono a generare.
La progettazione della posizione individuale rappresenta un’attività cen-
trale, di estrema importanza nell’ambito più ampio della progettazione e del di-
segno organizzativo di cui si tratta nel presente manuale.

1
Gli analisti organizzativi – o di progettazione - sono coloro che presentano elevati livelli di know-how sulle
tipologie di strutture organizzative, sulle tecniche di progettazione organizzativa e sulle tecniche di ricerca e
indagine nonché sui sistemi di controllo dell’efficienza organizzativa. Tali professionalità sono capaci di svolgere
ricerche e indagini ad hoc per poi individuare e definire i modelli – sia a livello di micro che di macro progettazione
- che più si adattano ad una specifica situazione aziendale. Si tratta di figure, sia interne che esterne, il cui ruolo
in funzione delle diverse contingenze quale ad esempio la dimensione d’impresa può essere svolto direttamente
dall’imprenditore oppure da un manager.

126
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

In primis, come abbiamo appena accennato, il “disegno del lavoro” ha


un’influenza fondamentale e diretta sulle azioni e sulle esperienze dei lavoratori
nel contesto operativo, e di conseguenza sulle performance individuali e di si-
stema.
In secondo luogo, l’interesse verso questo specifico ambito della proget-
tazione organizzativa, nasce dall’evidenza quotidiana che essa rappresenta una
“leva organizzativa” più direttamente utilizzabile da parte dei manager o degli
analisti rispetto alle altre dimensioni che condizionano la progettazione, alcune
delle quali qui già introdotte nei capitoli precedenti, quali ad esempio l’ambiente
e la tecnologia, sulle quali l’efficacia dell’azione dell’attore organizzativo sembra
essere più bassa perché meno diretta.
Infine, ma non ultimo, emerge un aspetto di grande interesse che richiama
la stessa natura dell’organizzazione e della teoria organizzativa. Nell’ambito
della progettazione del lavoro e della posizione, forse più che nelle altre aree
della progettazione organizzativa, si riscontra una pluralità di approcci discipli-
nari. I punti di vista con cui l’individuo – e la progettazione dei suoi compiti -
viene studiato all’interno delle organizzazioni possono essere molteplici, tante
quante sono le discipline che se ne sono ad oggi occupate. Si possono a tal fine
includere gli studi di matrice economica, ingegneristica, aziendale, psicologica e
sociologica. Così facendo anche un’attività che può sembrare tecnico-operativa
si giova della grande ricchezza di contributi e idee che caratterizza la teoria
dell’organizzazione, campo di indagine multiforme ed eterogeneo. All’interno
di questo panorama complesso siamo comunque chiamati a una scelta di campo
prevalente e selettiva.
Il punto di vista che prioritariamente seguiremo, e che guiderà le nostre
scelte, sarà quello degli studiosi di Organizzazione Aziendale con particolare ri-
ferimento alla “frontiera non eludibile” del sistema socio-tecnico (Trist, Bam-
forth, 1951; Vaccà, 1985), una prospettiva che coloro che studiano le organizza-
zioni non devono mai perdere di vista. L’elaborazione del concetto di organiz-
zazione come sistema socio-tecnico emerge a seguito di un programma di ricerca
iniziato negli anni Cinquanta del secolo scorso in Inghilterra presso il Tavistock
Institute di Londra ad opera di Eric Trist e Ken Bamfort. Gli aspetti originali
di tale programma, di grande rilevanza per la progettazione organizzativa, pos-
sono essere sintetizzati in tre principi base.
Il primo evidenzia come i sistemi organizzativi siano composti da due dif-
ferenti variabili - tecniche e sociali - ciascuna delle quali concorre con pari di-
gnità e in pari misura a definire un modello organizzativo. La progettazione
organizzativa, quindi, deve contemplarle entrambe senza far prevalere l’impe-
rativo tecnologico su quello umano e sociale. In questo senso il principio appena

127
Lineamenti di organizzazione aziendale

richiamato rappresenta una evidente risposta all’approccio ingegneristico di


stampo taylorista.
Il secondo principio chiarisce che l’organizzazione è un “sistema aperto”
all’ambiente circostante dal quale ricava input fondamentali per la propria so-
pravvivenza e verso il quale cede output di una qualche utilità. La progettazione
organizzativa deve garantire un equilibrio dinamico del sistema attraverso una
adeguata “manovra” delle leve interne ed esterne che arrivi a definire configu-
razioni coerenti e armoniche.
Infine, la teoria dei sistemi socio-tecnici afferma che esiste sempre la pos-
sibilità di scelta tra diverse modalità di organizzazione del lavoro anche con ri-
ferimento alla tecnologia, che non può essere considerata un imperativo asso-
luto capace di condizionare completamente la progettazione tanto macro
quanto micro 2.
Pertanto l’attività di progettazione si presenta come una “scelta” in con-
dizioni di trade‐off, una decisione che richiede sempre una valutazione tra alter-
native proposte e/o ricercate 3. Progettare implica manovrare, in modo integrato
e in funzione dei vincoli di contesto, quelle leve che influenzano la divisione del
lavoro ed i meccanismi di coordinamento contribuendo a modificare le modalità
di funzionamento dell’organizzazione. Si fa qui specifico riferimento alle dimen-
sioni chiave della progettazione organizzativa che più oltre riprenderemo nel
testo. L’approccio che seguiremo cercherà di superare la visione riduttiva e sta-
tica della progettazione della posizione (job) che nella letteratura tradizionale la
considerava come mera scelta di un insieme di compiti e responsabilità assegnati
ad una mansione al fine di garantire un risultato 4. Al contrario, la progettazione
va letta in una prospettiva dinamica, emergente e in continuo cambiamento, fa-
cendo dunque riferimento al concetto di ruolo e comportamento dell’attore or-
ganizzativo chiamato a presidiare un sistema complesso di attività e relazioni.
Non solo, il processo della progettazione della microstruttura rappresenta il
primo livello di “osservazione” dell’azione organizzativa, che, partendo dallo
studio degli oggetti di analisi, esamina non solo la dimensione dell’assetto del
lavoro in sé ma anche i meccanismi di relazione verticali e orizzontali che inte-
ressano l’attore chiamato a svolgerlo.
Il processo di progettazione organizzativa, in senso stretto, viene spesso
immaginato come un flusso “top-down” che partendo dalla definizione della
Missione e degli obiettivi strategici arriva sino al livello operativo delle mansioni
2
Sulla tecnologia si rimanda a quanto già detto nel capitolo 3.
3
Si pensi ad esempio alla scelta dei criteri di raggruppamento che un analista è chiamato a fare in relazione al
modificarsi delle strategie, delle contingenze ambientali, di quelle tecnologiche, di ricerca di benessere organiz-
zativo o di altra natura.
4
L’analisi e la progettazione della microstruttura organizzativa hanno origini nella prospettiva economica della
divisione del lavoro. Secondo economisti quali Adam Smith e Charles Babbage la produttività del lavoro poteva
aumentare se il lavoro fosse stato diviso in compiti elementari.

128
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

definendone compiti e attività. Esso viene presentato da Gerloff (1987) come un


“flusso sequenziale di decisioni” utili a guidare il manager nella scelta del rag-
gruppamento e nel coordinamento dei compiti. 5 In questo processo sequenziale
la progettazione della posizione si colloca ad un livello di analisi definito della
“microstruttura”, successivo alla fase di definizione dei risultati desiderati, e
volto ad identificare ed aggregare compiti e singole attività in capo a singole
mansioni e posizioni organizzative. Questo livello della progettazione si distin-
gue dal livello di analisi successivo, che è quello della “macrostruttura”, con cui
si identifica un processo definito da ulteriori livelli di raggruppamento delle sin-
gole mansioni di lavoro in unità organizzative più ampie (vedi Figura 4.1).

Figura 4.1. Il processo di progettazione organizzativa

Fonte: Gerloff, 1997, p. 163

In questo capitolo focalizzeremo l’attenzione prevalentemente sul c.d. job de-


sign, cioè sulle attività in grado di “racchiudere i processi e gli esiti (outcomes)
di come il lavoro è strutturato, organizzato, sperimentato e messo in atto”
(Grant, Fried, Juillerat, 2010, p. 418). 6
In tale logica, ci muoveremo prima introducendo un vocabolario condi-
viso di termini e concetti “primi” utile a comprendere le parole chiave della pro-
gettazione della microstruttura; successivamente verrà introdotta la logica di

5 Nel suo lavoro Gerloff (1997: 163) suggerisce di raggruppare tutte le attività che conducono a contributi simili
utilizzando quattro diverse strategie di raggruppamento per la progettazione organizzativa. La prima, raggrup-
pare le attività che producono risultati (vendita, produzione, raccolta di informazioni); la seconda, raggruppare
attività di supporto (controllo, addestramento e attività riconducibili agli organi di staff); la terza, raggruppare le
attività di servizio (mensa, etc.); quarto e ultimo criterio di raggruppamento, raggruppare attività del top mana-
gement.
6 Nostra traduzione da: “Encapsultating the porocesses and outcomes of how work is structured, organized,

experienced and enacted” (Grant, Fried, & Juillerat, 2010, p. 418).

129
Lineamenti di organizzazione aziendale

progettazione della posizione vista come attività volta a combinare diverse di-
mensioni, nello specifico ci occuperemo della specializzazione orizzontale e ver-
ticale del lavoro, in ultimo verranno introdotte due tipologie di dimensioni - qui
denominate hard e soft – utili strumenti nella cassetta degli attrezzi di chiunque
si accinga a voler progettare un’organizzazione e, in essa, le relative posizioni
organizzative.

4.2. I concetti primi della progettazione della microstruttura

Prendere in esame la microstruttura nel processo di organization design significa


considerare una prospettiva di progettazione organizzativa “dal basso verso
l’alto”. Tale prospettiva, oltre ad essere parte integrante e di ausilio ad una pro-
gettazione “top-down” consente, secondo alcuni autori, di cogliere più adegua-
tamente i legami critici tra le mansioni e i flussi operativi (Chapples e Sayles,
19737; Gerloff, 1989), contribuendo al miglioramento dell’efficacia e dell’effi-
cienza organizzativa. In un esempio riportato da Chapple e Sayles si descrive il
caso di un conflitto tra due direzioni funzionali, vendite e finanza, a causa della
cancellazione di ordini da parte dei clienti per ritardi e inadempimenti dovuti,
nella fattispecie, ad una inadeguata divisione del lavoro. Il processo di lavoro
coinvolgeva mansioni che operavano in diverse funzioni aziendali e il flusso in-
formativo non era adeguatamente gestito. Il problema fu risolto intervenendo
sulla riprogettazione della microstruttura adeguandola al flusso operativo, rag-
gruppando in modo diverso i compiti e le attività fondamentali, cioè dividendo
in maniera diversa il lavoro (Gerloff, 1989).
Se si vuole concretamente studiare e analizzare la microstruttura per com-
prendere come progettare, riprogettare e organizzare il lavoro è necessario iden-
tificare l’insieme delle attività interdipendenti che portano ad un risultato speci-
fico, occorre cioè considerare il flusso operativo di un’unità di prodotto o servi-
zio con le relative interdipendenze, ad esempio ad esempio quelle con mansioni
le cui attività sono coinvolte. Studiare e analizzare i soli compiti e attività asse-
gnati ad una mansione non solo potrebbe essere incompleto ma causa anche di
soluzioni inadeguate. Si tratta, in sostanza, di prendere in considerazioni e stu-
diare due “concetti” diversi dalla mansione: il compito, con le “operazioni uni-
tarie elementari” da cui è composto, e il “sistema primario di lavoro”, il primo
sotto-ordinato e il secondo sovraordinato rispetto al concetto stesso di man-
sione (Grandori, 1999).

7
Citato in Gerloff, 1989.

130
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

Prima di addentrarci nello studio della definizione dei criteri e delle mo-
dalità che operativamente guidano le scelte di configurazione della microstrut-
tura è fondamentale, quindi, chiarire il significato di alcuni concetti “primi”
quali appunto operazioni elementari, compito, mansione, posizione, ruolo e si-
stema primario di lavoro.
Il compito (o task) rappresenta il punto di partenza dell’analisi e della
progettazione delle posizioni organizzative e identifica un insieme di operazioni
umane elementari, interconnesse tra loro.
Il concetto di compito si distingue, quindi, da quello di operazione ele-
mentare in quanto quest’ultima - anche definita: operazione unitaria o attività
umana elementare - rappresenta la micro-fase che, insieme ad altre, andrà a de-
finire il compito stesso. Le attività di cui si compone il compito presentano le
seguenti tre caratteristiche: (1) sono collegate fra di loro, (2) non sono tecnica-
mente o psicologicamente separabili e (3) sono tali per cui è facilmente identifi-
care lo scopo da raggiungere. Ad esempio, per un addetto di una impresa della
meccanica il compito di manovrare una pressa per la lavorazione di lamiera con-
siste nelle seguenti operazioni elementari: immettere il pezzo grezzo, azionare la
macchina e rimuovere il pezzo lavorato (Albano, Curzi, Fabbri, 2016).
L’aggregazione di operazioni elementari in compiti può derivare da due
fattori diversi, il primo di natura tecnica il secondo di natura psicologica.
I collegamenti tra le operazioni derivanti da fattori di natura tecnica si
hanno nel caso in cui le operazioni svolte non sono tecnicamente sperabili (Ru-
giadini, 1979), cioè due o più attività (insiemi di operazioni) vengono svolte in
modo interconnesso in quanto gli strumenti tecnici impiegati o la conoscenza
utilizzata a tal fine sono tali da rendere la separazione delle attività stesse im-
possibile o scarsamente conveniente.
Dall’altro lato, i collegamenti possono trarre origine da fattori di natura
psicologica. Ciò accade in quanto i lavoratori sviluppano percezioni diverse nei
confronti delle attività da essi svolte in conseguenza delle loro motivazioni, delle
loro aspirazioni e delle competenze in loro possesso. Detto in altri termini, il
collegamento tra le operazioni umane elementari che compongono un compito
può risultare dal significato psicologico minimo che i lavoratori attribuiscono a
quel compito, tale per cui le attività in cui esso è scomposto sono percepite come
inseparabili (Costa, Gubitta, 2004). Ciò, a sua volta, può derivare dalla cultura
organizzativa che vige in una determinata azienda, la quale può suggerire che
quel set di attività sia realmente inscindibile8.

8
Un esempio, come indicato da Isotta (2011), è il seguente: rispondere ad una telefonata, fornire le informazioni
richieste dall’interlocutore, trasferire la chiamata all’ufficio richiesto oppure prendere delle note sul chiamante e
sui messaggi che questi potrebbe voler lasciare a qualcuno in azienda sono attività che vengono generalmente

131
Lineamenti di organizzazione aziendale

L’insieme di compiti fra loro aggregati ed assegnati ad una persona, o se-


condo alcuni autori ad un gruppo di persone, prende il nome di mansione (o
job). Ad esempio, la mansione “segretaria” è chiamata a svolgere compiti quali
rispondere a telefono, tenere l’agenda del capo, preparare i materiali per le riu-
nioni, etc. Vi sono mansioni caratterizzate da maggiore o minore varietà in
quanto i compiti in esse incluse sono molto o poco diversi tra loro. Ancora, le
mansioni possono differire in base al grado di autonomia affidato al lavoratore
o al significato che questi attribuisce ai diversi compiti che è chiamato a portare
a termine (Costa, Gubitta, 2004). Le mansioni, dunque, sono il frutto di un pro-
cesso di scelta in merito al numero ad al tipo di compiti da includere nelle singole
mansioni e rappresenta la scelta dell’analista sul criterio di divisione del lavoro
da adottare (Figura 4.2).

Figura 4.2. Rappresentazione di compito, mansione ed operazione


elementare

Fonte: Costa, Gubitta, 2008, p. 258

Dunque, se l’operazione con cui si definiscono i compiti e la relativa struttura si


basa su un insieme di elementi definiti a priori, ovvero le operazioni elementari
integrate fra loro, una tecnologia o un carattere psicologico ed un obiettivo, che
sono elementi già noti, il disegno delle mansioni è invece il frutto di un inter-
vento progettuale dell’uomo che sceglie la tipologia di forma di organizzazione
del lavoro da adottare, cosiddetta microstruttura organizzativa.

svolte da una singola personale, ma che potrebbero essere separate le une dalle altre. Tuttavia, nella maggio-
ranza dei casi, si tratta di attività che vengono percepite dai lavoratori come un “unico e singolo compito” e, come
tali, sono attribuite ad una sola persona.

132
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

Nel processo di aggregazione di compiti in mansioni dunque si configura


un primo risultato tangibile della progettazione organizzativa che si concretiz-
zerà in un documento aziendale denominato job description. Grazie dunque al
processo di progettazione della posizione si definiscono dei confini fra le attività
e pertanto, si viene a definire una prima linea di confine nella progettazione ossia
il primo livello della progettazione organizzativa.
È questo il concetto di ‘frontiera non eludibile’, tipica dell’approccio so-
cio-tecnico. Essa evidenzia la necessità di considerare le organizzazioni sia at-
traverso i processi di progettazione delle strutture (design), sia attraverso le lo-
giche del comportamento organizzativo (behaviour). Ogni azione organizzativa,
anche quella a livello di individuo, si trova ad operare in un contesto che si
muove nella coesistenza fra componenti intangibili (socio) e tangibili (tecniche).
Se radiografiamo la micro-strutture di queste azioni, comprendiamo questo li-
vello di azione organizzativa ed il nesso con gli altri livelli (gruppo, azienda e
network). Pertanto, come suggerito dalla prospettiva socio-tecnica della proget-
tazione del lavoro la struttura dei compiti è determinata dall’incontro fra le di-
mensioni sociali e tecniche del lavoro che danno vita ad una specifica forma di
microstruttura del lavoro 9. Questo ci aiuta a comprendere come la progetta-
zione della micro struttura, che si concretizza nel disegno di una mansione, non
rappresenta un oggetto statico ma piuttosto un insieme di relazioni che tendono
a cambiare a seconda degli stimoli che vengono dalla realtà e dal contesto. Il
concetto di mansione si distingue poi da quello di posizione organizzativa che
identifica un insieme di compiti (mansioni) riconducibili ad un punto localizzato
all’interno dell’organigramma aziendale, ossia la posizione. Ad una mansione
possono corrispondere più posizioni. A titolo di esempio, la mansione segretaria
può ricondursi a più posizioni: segretaria di direzione, segretaria del direttore
stabilimento Alfa, segretaria del direttore marketing, etc.
Seguendo una prospettiva di natura “comportamentale-relazionale” è
possibile introdurre il concetto di ruolo, inteso come specificazione di tutto ciò
che l’organizzazione richiede all’individuo in termini di qualità personali, e non
solo tecniche, di impegno, responsabilità e relazioni. Il ruolo, pertanto, si quali-
fica come l’insieme di aspettative di comportamento che un determinato gruppo
manifesta in maniera più o meno esplicita nei confronti di una persona che ri-
copre una determinata posizione, in riferimento agli obiettivi dell’organizza-
zione che devono informare il suo agire ed interagire. Il ruolo si differenzia dalla
posizione che consiste invece in ciò che è formalizzato e prescritto, prima che si
attivi un processo di “interpretazione” da parte di una persona. Il ruolo, invece,
fa riferimento a ciò che avviene concretamente. Si pensi che ogni individuo, in

9
Si veda il caso McDonald’s.

133
Lineamenti di organizzazione aziendale

ogni organizzazione, può assumere una molteplicità di ruoli, formali e infor-


mali, all’interno dei diversi contesti sociali, lavorativi e non, nei quali è attivo:
una manager o un manager può essere contemporaneamente supervisore, su-
bordinata/o, presidentessa/presidente del circolo velico, marito e padre, oppure
moglie e madre. Nella progettazione organizzativa il ruolo viene generalmente
definito con due componenti principali, una prescritta e l’altra discrezionale che
mette in gioco le capacità interpretative di chi assume il ruolo. Tuttavia esso è
spersonalizzato, dal punto di vista organizzativo esiste prescindendo dal sog-
getto che lo ricopre, le aspettative che definiscono un ruolo trascurano la perso-
nalità dell’individuo che lo agisce perché si riferiscono alla funzione specifica
che deve svolgere colui che lo ricopre.
Ciascun ruolo deve essere compatibile e complementare con gli altri ruoli
in modo tale da costituire un sistema di ruoli coerenti. L’esigenza di predicibilità
del comportamento unita alla necessità di coordinamento porta a progettare e
descrivere i modelli di comportamento di ruolo in maniera più o meno detta-
gliata, standardizzata e formalizzata (Rugiadini, 1979). Il comportamento indi-
viduale nel ruolo pur essendo influenzato da questi aspetti formali è condizio-
nato dal processo di assunzione dinamica del ruolo definito da tre elementi:
l’emissione delle aspettative di ruolo da parte del gruppo che attraverso processi
di comunicazione cerca di attuare processi di influenza; l’assunzione del ruolo
da parte dell’individuo che avviene sulla base delle percezioni delle aspettative
ricevute, dell’adattamento alla funzione in base alle proprie aspettative e ai ca-
ratteri della situazione; infine l’ultimo elemento è il comportamento di ruolo
risultante (Rugiadini, 1979, p. 183).
In tutto questo processo possono emergere situazioni di tensioni di ruolo
che rappresentano una misura del livello di compatibilità e complementarietà
dei ruoli progettati e disegnati nel sistema stesso dei ruoli. Rugiadini richiama
quattro diverse specifiche circostanze che conducono a tensioni di ruolo: ten-
sioni a livello di aspettative, tensioni a livello di comunicazione, tensioni a livello
di adattamento, tensione a livello di differenti ruoli (Quadro 4.1).

Quadro 4.1 Le tensioni di ruolo

Tensioni di ruolo a livello di aspettative. Le aspettative, attinenti ad un dato ruolo, provenienti da un


dato gruppo possono essere focalizzate in modo inadeguato, indeterminato, internamente contraddit-
torie; inoltre esse possono differire nell’opinione dei diversi membri del gruppo primario e/o dei gruppi
secondari nei quali il ruolo si colloca. Ad esempio il ruolo di un capo reparto di manutenzione può venir
interpretato con aspettative differenti dai suoi subordinati, dalla direzione di stabilimento, dai capi dei
reparti di trasformazione industriale. Queste situazioni portano ad una sorta di ambiguità di ruolo per
la persona che lo occupa, dovuta a scarsa chiarezza o congruità delle aspettative indirizzategli.

134
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

Tensioni di ruolo a livello di comunicazioni. Indipendentemente dalla natura “oggettiva” delle aspet-
tative, possono insorgere difficoltà nel processo di comunicazione, così da produrre una percezione
difforme dalle intenzioni degli emittenti. Si ha in tal caso una distorsione di ruolo dovuta al processo
di comunicazione. In questa tipologia si possono anche far rientrare quelle situazioni in cui il destina-
tario delle comunicazioni si rifiuta in modo consapevole di percepire le aspettative che non siano
espresse con uno specifico mezzo, ad esempio la forma scritta o istituzionale. Si pensi al c.d. “sciopero
bianco”.
Tensioni di ruolo a livello di adattamento. L’adattamento dell’individuo nel ruolo percepito, può ri-
sultare discrepante per la difformità, rispetto alle aspettative indirizzategli, della situazione di fatto e/o
dalla propria personalità. Ciò si ha quando le risorse disponibili (tempo, mezzi, contributi esterni) sono
inadeguate agli obiettivi attesi; o anche per incapacità tecnico-professionale dell’individuo o per un suo
rifiuto etico ad adempire alle aspettative, o all’opposto per un’eccedenza di aspirazioni personali ri-
spetto ai contenuti del ruolo. Queste situazioni sono definibili in termini di incongruenza di ruolo.
Tensioni di ruolo a livello di differenti ruoli. L’adattamento può risultare difficoltoso non soltanto per
condizioni intrinseche al gruppo ma anche per il contrasto che il comportamento di ruolo verrebbe a
generare con il comportamento di un ruolo diverso.
(Fonte: adattato da Rugiadini, 1979)

Occorre infine notare come sia importante, quando si progettano le posizioni e


i ruoli, tener conto altresì del ‘contesto adiacente’ entro cui tali posizioni ope-
rano; in particolare, ci si vuol qui riferire alle interdipendenze che si possono
avere fra una singola mansione e quelle con essa ‘confinanti’. Infatti, come fa
notare Grandori (1999, p. 400), “l’errore di base che si potrebbe compiere in
un’analisi delle mansioni è partire dalle mansioni così come esse già sono, o con-
siderarle in modo isolato da quelle confinanti sia orizzontalmente che vertical-
mente”.
A tale scopo si introduce un ulteriore concetto nel nostro vocabolario di
riferimento che è quello di sistema primario di lavoro (Figura 4.3), richiamato
all’inizio del paragrafo e posizionato ad un livello sovraordinato sia rispetto al
compito che alla mansione.
Con sistema primario di lavoro si intende “un insieme di attività interdi-
pendenti che portano ad un risultato identificabile, tipicamente un’unità di pro-
dotto o servizio” (Grandori, 1999, p. 400). Le attività che compongono un si-
stema primario di lavoro comprendono non solo le attività operative interdi-
pendenti che concorrono alla realizzazione di un output identificabile, ma anche
quelle di supporto, manutenzione, controllo e regolazione del processo opera-
tivo, presidiando così la dimensione verticale e orizzontale della microstruttura
(Grandori, 1999; Mercurio, Testa, 2000; Costa, Gubitta, 2004). Il sistema pri-
mario del lavoro definisce il limite esterno o superiore di integrazione di attività
diverse. Se questo è vero, possiamo allora ritenere che le operazioni umane ele-
mentari stabiliscano il limite inferiore, sotto al quale i compiti non possono es-
sere ulteriormente separati (Grandori, 1999).

135
Lineamenti di organizzazione aziendale

Figura 4.3. Il sistema primario di lavoro

Fonte: Mercurio e Testa, 2000, p. 74

Il concetto di sistema primario di lavoro rappresenta un concetto cardine nella


progettazione delle posizioni poiché richiama l’esigenza, in fase di progettazione
della microstruttura organizzativa, di tenere in considerazione le interdipen-
denze che legano la singola mansione alle altre. Secondo Grandori (1999, p. 401)
“una volta definito un sistema di lavoro e le attività di base che lo compongono
si possono analizzare gli attributi delle attività e delle loro relazioni che hanno
un effetto sistematico sull’efficacia dei confini e dei meccanismi di coordina-
mento fra ruoli di lavoro”. Per fare un esempio di sistema primario di lavoro, si
pensi all’assemblaggio che come output si pone il prodotto assemblato (un mac-
chinario, un’auto, etc.) e, come attività, richiede sia quelle operative di montag-
gio dei vari componenti sia quelle di supporto, quali il controllo dei processi, di
regolazione dei tempi, di manutenzione delle attrezzature, etc.

4.3. Progettare le posizioni nella logica delle ‘combinazioni’ e bilanciamento fra


dimensioni diverse

Possiamo qui affermare che la progettazione organizzativa può essere parago-


nata ad una attività di bricolage in cui il bricoleur, rappresentato dall’analista
organizzativo, è chiamato a combinare fra di loro, con una certa abilità e crea-
tività, le singole attività – già parte di un naturale flusso di lavoro – con lo scopo
di comporre la singola mansione. Le modalità con cui le attività vengono di
volta in volta raggruppate in una singola mansione rispondono ad una serie di
vincoli derivanti da dimensioni, che tratteremo più oltre, e che l’impresa decide

136
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

di attenzionare nell’identificare soluzioni in grado di rispondere in modo effi-


cace e coerente alla variabilità provocata dalle contingenze ambientali e tecno-
logiche, già trattate nei capitoli 2 e 3 del presente testo 10.
Il processo di definizione delle mansioni dovrà pertanto seguire un per-
corso di scelta coerente e condiviso che a partire dall’analisi delle dimensioni
contingenti conduca per tramite del processo di progettazione al risultato orga-
nizzativo (Figura 4.4).

Figura 4.4. La progettazione delle mansioni e i risultati organizzativi

Fonte: Gerloff, 1985, p. 228

Pertanto, in base al tipo – o ai tipi - di contingenza esterna e alle condizioni interne,


che l’organizzazione si trova a fronteggiare, nonché al tipo di risposta che la mede-
sima vorrà fornire anche sulla base della propria identità e dei propri valori, si po-
tranno individuare diverse forme o combinazioni di microstruttura. Occorre infatti
evidenziare che il processo di progettazione delle mansioni dovrà seguire una logica
di coerenza rispetto al sistema di valori e comportamenti che caratterizza l’organiz-
zazione e ne definisce, e al contempo delimita, l’azione organizzativa.
La logica che guiderà questa prima scelta relativa alla definizione delle
posizioni rappresenterà, poi, la premessa essenziale per la definizione delle stesse
macro forme organizzative che tratteremo più oltre a partire dal capitolo 6.
Nell’ambito dell’organizzazione aziendale, la più nota tassonomia di dimensioni
che vengono fra loro combinate con lo scopo di progettare diverse tipologie di
mansioni lavorative è quella che considera le dimensioni della specializzazione
verticale e quella della specializzazione orizzontale.
La specializzazione orizzontale viene definita dal numero di compiti di-
versi che sono attribuiti ad ogni mansione e rappresenta la dimensione più em-
blematica della divisione del lavoro definendo l’ampiezza della medesima. La
specializzazione orizzontale mira dunque a rispondere alla domanda: “Quanti

10
Con riferimento all’influenza delle contingenze sulla struttura organizzativa si ricorda che sulla base del con-
tributo di Lawrence e Lorsch (1967) alla teoria delle contingenze ogni parte dell’organizzazione viene definita e
progettata tenuto conto della variabilità dei sotto-ambienti di riferimento. Secondo gli autori un ambiente dinamico
e, soprattutto, complesso richiede la differenziazione delle singole unità operative che si trovano a dover gestire
l’incertezza dei rispettivi settori ambientali di competenza.

137
Lineamenti di organizzazione aziendale

compiti attribuiamo ad ogni singola mansione?”. Al crescere del numero dei com-
piti svolti dal lavoratore titolare della posizione diminuisce il grado di specializ-
zazione orizzontale. Si può parlare in questo caso di mansione ampia e varia, si
pensi ad esempio alla figura generalista del factotum di una azienda. Al contra-
rio, al diminuire del numero dei compiti svolti da una stessa mansione, l’am-
piezza di riduce e aumenta il livello di specializzazione orizzontale. In questo
caso ci si può riferire a livello esemplificativo alla figura dell’esattore del casello
autostradale.
La specializzazione verticale è invece una dimensione correlata all’autono-
mia o discrezionalità nel lavoro, ossia alla regolazione del proprio lavoro e al
‘controllo’ che il titolare ha nello svolgimento dei compiti a lui assegnati. In altre
parole, la specializzazione verticale delle mansioni riguarda il grado di controllo
che un individuo ha su ciò che fa, ovvero: cosa, quando e come svolgere suddetti
compiti, rispondendo alla domanda: “Quale grado di autonomia/discrezionalità
assegniamo alle persone a cui attribuiamo tale mansione?”. Essa dunque consente
di separare l’esecuzione dalla direzione del lavoro. Ci preme qui anticipare il
legame fra il concetto di specializzazione verticale del lavoro e quello del decen-
tramento decisionale che tratteremo nel proseguo del presente lavoro con riferi-
mento alla progettazione della macrostruttura.
Dunque nella dimensione verticale della specializzazione al crescere del
controllo sulle modalità di esecuzione dei compiti la stessa specializzazione ver-
ticale diminuisce. Si configurerà in questo caso una mansione ricca, caratteriz-
zata cioè da elevati livelli di autonomia e di responsabilità dei titolari. Al con-
trario, al diminuire del controllo degli individui sui propri compiti, la specializ-
zazione verticale aumenta e l’autonomia diminuisce, dando vita alle così dette
mansioni parcellizzate ovvero mansioni poco varie in cui appare netta la sepa-
razione fra compiti esecutivi e compiti di direzione, ovvero fra coloro che ese-
guono il compito e coloro che, invece, decidono, regolano e controllano il la-
voro 11.
Una sintesi degli elementi caratterizzanti le due tipologie di specializza-
zione è riportata nella Figura 4.5.

11
La specializzazione verticale delle mansioni separa l’esecuzione dalla direzione e controllo del lavoro. Con
tale separazione si vengono a creare accanto alle posizioni degli operatori anche altre figure – siano essi mana-
ger intermedi o analisti organizzativi - destinate al coordinamento degli operatori. Con la separazione fra ‘chi fa’
e ‘chi decide’ infatti risulta necessaria una figura che abbia una prospettiva dall’alto e che sia in grado di verificare
l’andamento dei lavori nel suo insieme per poterli coordinare.

138
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

Figura 4.5. Gli elementi di base della specializzazione orizzontale e


verticale

Fonte: nostra elaborazione

Dall’incrocio delle due dimensioni della specializzazione sopra evidenziate –


orizzontale e verticale –si vengono a configurare quattro distinte tipologie di
mansioni organizzative (Mercurio, Testa, 2000; Figura 4.6).
Come si può notare dalla figura, il quadrante in alto a destra denota i casi
di mansioni poco qualificate, in cui si hanno attività semplici, ripetitive, mono-
tone e altamente formalizzate (alta specializzazione orizzontale) per le quali al
lavoratore è concessa ridotta autonomia decisionale ovvero ambiti di discrezio-
nalità limitata (alta specializzazione verticale). Un esempio è quello dell’operaio
di una catena di montaggio o di una cassiera di un supermercato.
All’estremo opposto ritroviamo le mansioni manageriali, caratterizzate da
bassi livelli sia di specializzazione orizzontale che di specializzazione verticale.
Tipico è il caso del lavoro svolto dai dirigenti di alto livello o dai manager che,
necessitando di una visione d’insieme per la valutazione delle problematiche e

139
Lineamenti di organizzazione aziendale

delle strategie che devono essere via via esaminate, devono risultare poco spe-
cializzati e pronti a seguire compiti diversi (bassa specializzazione orizzontale).
Al contempo, come è facile immaginare, si tratta di soggetti dotati di ampia au-
tonomia e potere decisionale (bassa specializzazione verticale).
Tra gli scenari intermedi troviamo il caso di mansioni dotate di alta spe-
cializzazione orizzontale e bassa specializzazione verticale. Sono quelle man-
sioni affidate ai professionals, ossia a coloro collocati ai livelli intermedi della
struttura organizzativa, chiamati a svolgere pochi compiti (alta specializzazione
orizzontale) seppure investiti di una certa autonomia (bassa specializzazione
verticale).
Infine, in corrispondenza di bassa specializzazione orizzontale e alta spe-
cializzazione verticale si collocano le mansioni manageriali di basso livello, svolte,
ad esempio, da figure quali i capireparto ai quali è richiesto lo svolgimento di
una pluralità di compiti (bassa specializzazione orizzontale) pur essendo sog-
getti ad un controllo gerarchico piuttosto rigido (alta specializzazione verticale).

Figura 4.6. La relazione tra specializzazione orizzontale e verticale.

Fonte: Elaborazione degli autori

Occorre evidenziare che, per posizioni lavorative similari operanti in contesti


organizzativi diversi, il grado con cui si vengono a raffigurare i due ambiti di
specializzazione orizzontale e verticale – risulta inevitabilmente condizionato
dal sistema aziendale specifico. Ad esempio, nella catena di hotel di lusso Ritz

140
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

Carton ogni dipendente a diretto contatto con la clientela ha a sua disposizione


2000 dollari da poter spendere per risolvere potenziali problemi dei singoli
clienti e per rendere unica la loro esperienza di soggiorno presso le proprie strut-
ture. Ogni dipendente sa che può agire in maniera autonoma per rispondere alle
esigenze del cliente e che riceverà supporto dall’azienda rispetto alle sue deci-
sioni. In altre aziende in cui al contrario alla logica di progettazione basata
sull’autonomia e la fiducia verso i dipendenti si sostituisce quella del controllo e
dell’efficienza i livelli di autonomia garantiti alle posizioni saranno assai più
bassi per posizioni organizzative similari. Nei casi in cui si prediliga l’efficienza,
i tempi e i modi di lavoro sono formalizzati e, in alcuni casi, possono anche
essere gestiti direttamente dalle macchine come nel noto esempio in McDo-
nald’s. In questi casi il livello di autonomia lasciato agli operatori sarà basso. In
questo tipo di organizzazioni il cui funzionamento operativo è basato su pochi
e semplici compiti standardizzati e sulla formalizzazione dei comportamenti sa-
rebbe incoerente voler attribuire elevati livelli di autonomia agli addetti che ri-
coprono posizioni meramente operative per qual si voglia ragione. Per simili
organizzazioni infatti la variabilità decisionale dei singoli rappresenta una va-
riabile ‘elusa’ dal sistema. In Ritz Carlton al contrario in cui la definizione delle
mansioni avviene attribuendo livelli di autonomia relativamente elevati – ri-
spetto a posizioni operative analoghe operanti in altre aziende – la variabilità
derivante dalla risorsa umana viene gestita attraverso una serie di leve definite
ex ante e che vanno ad alimentare la leva della fiducia nella relazione.
Ciò detto, occorre ricondurre l’attenzione del lettore ad una ulteriore ri-
flessione sul processo di progettazione delle posizioni. Le decisioni prese dai
progettisti in merito al diverso grado di intensità da attribuire a ciascuna delle
specializzazioni sopra evidenziate, per ogni singola mansione, produce inevita-
bili ripercussioni sia a livello organizzativo, in termini di risultati raggiunti, che
a livello individuale, in termini, ad esempio, di motivazioni e comportamenti
degli addetti chiamati a svolgerla. La scuola di pensiero dei Motivazionalisti, ad
esempio, evidenzia che mansioni altamente parcellizzate portino ad elevati livelli
di demotivazione e frustrazione da parte dei lavoratori chiamati a coprire tali
posizioni. Al contempo altri studiosi ci suggeriscono che esistono persone alta-
mente propense ad assumere nuove e sfidanti responsabilità lavorative e altre
che invece preferiscono che si dica loro, in modo puntuale, cosa e come fare per
svolgere la propria mansione.
Con lo scopo dunque di sottolineare che le scelte compiute dagli analisti
in merito alla combinazione con cui le diverse dimensioni, fra cui appunto anche
quelle della specializzazione del lavoro, possono avere conseguenze sia positive

141
Lineamenti di organizzazione aziendale

che negative sull’organizzazione e sugli individui si riportano qui di seguito al-


cuni vantaggi e svantaggi a cui elevati livelli di specializzazione orizzontale e
verticale possono condurre.
Per quanto concerne i vantaggi dei primi, possiamo annoverare i seguenti:

• aumenta la produttività del lavoratore in quanto, svolgendo sempre gli


stessi compiti, questi può accrescere la propria destrezza nel loro svolgi-
mento;
• garantisce la riduzione dei tempi necessari a portare a termine i compiti;
• risparmio di tempo, a sua volta, facilita lo sviluppo di metodi e innova-
zioni idonei a migliorare il lavoro e a rafforzare ulteriormente la produt-
tività;
• rende possibile l’impiego di manodopera meno qualificata e meno co-
stosa;
• facilita la standardizzazione del lavoro e la riduzione della variabilità,
rendendo gli output (i comportamenti) fra loro più uniformi.

Tuttavia, elevati livelli di specializzazione orizzontale producono anche alcuni


svantaggi:

• spesso generano l’alienazione dei lavoratori;


• possono provocare tempi di inattività dovuti alla non perfetta divisibi-
lità del lavoro;
• producono un aumento dei costi di coordinamento e di controllo;
• sono spesso associati a livelli di qualità dei prodotti finali non eccellenti.

Come è facile immaginare, anche la specializzazione verticale presenta vantaggi


e possibili problemi. Infatti, mentre un’alta specializzazione verticale può por-
tare ad aumento della produttività del lavoro derivante dalla maggiore motiva-
zione dei lavoratori, al tempo stesso una elevata distanza fra chi decide e chi
esegue può condurre a problemi demotivazione del lavoratore, nonché di coor-
dinamento e comunicazione, oltre che, a volte, a criticità legate al bilanciamento
dei carichi di lavoro.
Rispetto alle problematiche appena evidenziate, e derivanti dagli elevati livelli
di specializzazione, esistono alcune soluzioni adottabili a livello di organizza-
zione del lavoro e che consentono di ‘ripensare’ le mansioni ed il loro contenuto.
Ci riferiamo in particolare a due tipologie di intervento: la rotazione delle man-
sioni, anche detta job rotation, che implica lo spostamento del personale nello
svolgimento di mansioni diverse, e l’allargamento delle mansioni. Quest’ultimo

142
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

può avvenire a livello orizzontale, favorendo l’aumento nel numero di compiti


(job enlargment) o a livello verticale, attraverso l’incremento del livello di di-
screzionalità (job enrichment).
In linea con quanto fino ad ora richiamato ci pare importante evidenziare
il ruolo dell’analista organizzativo quale bricouler impegnato nel prendere deci-
sioni su come combinare, a diversi gradi di complessità e sulla base delle condi-
zioni interne ed esterne che di volta in volta si vengono ad evidenziare, le attività
che andranno a comporre il disegno del lavoro nell’organizzazione. Nel para-
grafo che segue saranno pertanto trattate le variabili che l’analista dovrà amal-
gamare fra loro in varia misura, al pari di ‘ingredienti’, per definire in ultima
istanza le posizioni all’interno di una organizzazione.

4.4. Le dimensioni della progettazione della microstruttura organizzativa

La definizione di una soluzione organizzativa si realizza dunque attraverso una


serie di decisioni poste in essere da manager, analisti o imprenditori con riferi-
mento ad un insieme di dimensioni organizzative. Un problema di progettazione
organizzativa può riguardare tutte o alcune delle leve a disposizione dell’attore
organizzativo, curandosi che l’intervento su ognuna di esse generi soluzioni che
mantengano una relazione di coerenza e complementarità tra le diverse dimen-
sioni su cui si decide di agire e dunque sull’intero sistema.
È implicito che le dimensioni sono “variabili” potendo assumere valore
diverso in relazione alle diverse caratteristiche delle attività e degli attori che
tuttavia devono, come anzidetto, mantenere un livello di coerenza e complemen-
tarità tale da favorire efficacia, efficienza ed equità della soluzione organizzativa
preposta (Isotta, 2011). Progettare, dunque, significa attribuire un valore alle
dimensioni della progettazione. In senso ampio le domande che ci possiamo
porre sono: quali sono gli elementi che condizionano la scelta del tipo di aggre-
gazione dei compiti e delle mansioni? Quanti livelli gerarchici avrà la nostra or-
ganizzazione? Quali sono i meccanismi di coordinamento idonei? Che dimen-
sione di organico dovrà avere una specifica unità organizzativa? Per rispondere
a queste domande entrano in gioco le dimensioni chiave della progettazione or-
ganizzativa quale strumento in grado di orientare il processo di scelta in riferi-
mento al valore che le dimensioni organizzative dovranno assumere per garan-
tire una soluzione efficace, efficiente ed equa.
Resta da precisare che il valore delle dimensioni chiave dipende sia dalla
strategia che dalla tecnologia e dalle conoscenze rilevanti per i processi
d’azienda. Dunque, si può affermare che esse rappresentano il trait d’union tra

143
Lineamenti di organizzazione aziendale

le scelte strategiche, le tecniche dell’azienda e le dimensioni organizzative che si


vengono a configurare con la soluzione organizzativa proposta (Isotta, 2011).
Nel proseguo della trattazione distingueremo fra due tipologie di dimen-
sioni. Da un lato, le dimensioni che abbiamo qui denominato ‘hard’ e dall’altro
quelle definite “soft”. Per le prima si tratta delle dimensioni maggiormente uti-
lizzate nella letteratura di matrice economica ed organizzativa. Ci soffermeremo
sulla trattazione delle varianze, delle interdipendenze, della specificità delle co-
noscenze, delle economie di specializzazione e dei conflitti di interesse. Dall’al-
tro lato, dedicheremo attenzione alle dimensioni che abbiamo definito ‘soft’, ri-
conducibili a speculazioni negli ambiti di studi della psicologia del lavoro e del
comportamento organizzativo. A tal fine ci soffermeremo sulle dimensioni pro-
poste dalla Job Characteristics Theory (Hackman e Oldham, 1980), ossia la va-
rietà, la significatività, l’identità del compito, l’autonomia assegnata al lavora-
tore e il feedback. Inoltre, sempre con riferimento alla dimensione soft delle di-
mensioni qui analizzate attenzione sarà dedicata anche all’interazione sociale e
allo sviluppo, all’autorealizzazione e alla salute, sicurezza e qualità della vita del
lavoratore.

4.4.1. Le dimensioni ‘hard’ della progettazione della microstruttura: varianze,


interdipendenze e specificità delle conoscenze

Tra le dimensioni ‘hard’ della progettazione della microstruttura troviamo, in-


nanzitutto, tre elementi salienti riconducibili alle varianze, alle interdipendenze
e alla specificità delle conoscenze (Grandori, 1999; Costa, Gubitta, 2004).
Le varianze rappresentano le deviazioni rispetto ad una norma, ovvero
le eccezioni o quegli eventi imprevisti che caratterizzano o possono caratteriz-
zare un processo trasformativo e la cui presenza può avere effetti negativi
sull’output finale. Alcuni studiosi denominano questa dimensione “variabi-
lità” (Martinez, 2000). Dato che il verificarsi di eventi imprevisti è tale da ge-
nerare effetti sull’output assai significativi, è necessario intervenire sulle va-
rianze in sede di organizzazione del lavoro, vale a dire con la definizione di
‘azioni correttive’ in grado di prevenire e gestire le possibili varianze che pos-
sono insorgere. In ogni processo produttivo, infatti, le varianze a monte non
adeguatamente gestite possono ingenerare difetti nell’output prodotto nonché
sprechi di materiali e tempo. Più numerose sono le possibili varianze rintrac-
ciabili nei singoli compiti, più elevata sarà la necessità di attribuire maggiore
autonomia al titolare della posizione. Ciò consentirà di poter intervenire e cor-
reggere i fenomeni imprevisti (Costa, Gubitta, 2004). È importante qui fare
una precisazione: per alcuni compiti, le eccezioni possono essere ridotte (se
non eliminate) ricorrendo all’esperienza. Svolgere un determinato compito in

144
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

modo continuativo nel tempo consente, infatti, di definire alcune risposte stan-
dard da adottare al verificarsi di determinati eventi. Tuttavia, vi sono casi in
cui non è possibile prevedere eccezioni, tantomeno individuare dei modelli di
reazioni o di comportamenti uniformi da applicare qualora tali eccezioni pren-
dano forma. E’ il caso, ad esempio, di quelle attività che, per la loro natura,
coinvolgono la gestione di eventi inattesi. Si pensi alle attività di Ricerca &
Sviluppo così come a quelle consulenziali che spesso costruiscono modelli in-
terpretativi ad hoc dei fenomeni da indagare; o ancora, a quelle attività che
possono essere svolte soltanto una volta, quali gli interventi chirurgici e che
richiedono necessariamente una elevata dose di discrezionalità e di creatività
al soggetto che le svolge (Martinez, 2000).
La dimensione delle varianze, inoltre, può essere esaminata servendosi
della classificazione della tecnologia proposta da Perrow (1967) discussa nel
terzo capitolo, la quale suggerisce che la ricerca delle soluzioni alle eccezioni
dipende da due dimensioni: da un lato, la numerosità delle eccezioni che si pre-
sentano in un compito e, dall’altro, la disponibilità di strumenti in grado di af-
frontarle e risolverle.
La dimensione della varianza risulta fortemente legata alla seconda di-
mensione: quella delle interdipendenze. L’interdipendenza, come illustreremo
nel capitolo sul coordinamento, rappresenta uno dei fondamenti del processo
di analisi e progettazione organizzativa che porta alla necessità di individuare
soluzioni di coordinamento in linea con il suo livello di complessità. Definita
come il legame di dipendenza che sussiste tra due o più attività, l’interdipen-
denza implica un collegamento, diretto o indiretto, tra tali attività. In alcuni
casi, si può configurare una situazione in cui le operazioni unitarie possono
sembrare legate da interdipendenze sequenziali semplici 12, conducendo l’ana-
lista a specifiche decisioni circa la soluzione organizzativa da perseguire rela-
tivamente, ad esempio, all’utilizzo di una modalità di coordinamento basata
sulla programmazione delle attività attraverso la standardizzazione e forma-
lizzazione dei processi. Tuttavia, in alcuni casi la presenza di elevata incer-
tezza o varianza del processo produttivo può portare ad un intensificarsi
dell’interdipendenza fra unità, tale che l’orientamento dell’analista possa pro-
pendere verso soluzioni diverse rispetto a quelle appena individuate. Infatti,
elevati livelli di varianza che si possono originare nelle sequenze di lavoro a
valle di un processo di trasformazione (le cosiddette “varianze chiave”) pos-
sono generare delle ripercussioni sulle fasi a monte. In tali circostanze,
un’analisi delle trasmissioni a valle delle varianze può evidenziare la necessità

12
Le interdipendenze si possono classificare come interdipendenze sequenziali se una specifica unità A usa il
risultato delle attività dell’unità B, a monte; ovvero quando l’output di una attività/unità rappresenta l’input per la
successiva.

145
Lineamenti di organizzazione aziendale

che gli operatori a monte ricevano flussi di informazioni circa le attività a


valle in modo da poter regolare al meglio l’imprevedibilità degli eventi nelle
sequenze di lavoro di loro competenza. Considerando la ‘variabilità’, si sco-
prirebbe che quella che all’apparenza poteva apparire come una semplice in-
terdipendenza sequenziale ‘gestibile’ con un meccanismo di coordinamento
basato su standardizzazione, in realtà si configura come una vera e propria
interdipendenza di natura reciproca 13, con la conseguente necessità di adot-
tare una soluzione che preveda meccanismi di coordinamento basati sul reci-
proco adattamento (mutuo aggiustamento) tra gli operatori. Pertanto, come
affermato da Grandori (1999, p. 402) esiste un legame fra le varianze e le in-
terdipendenze in quanto “in generale, e a parità di altre condizioni, quanto
più elevate sono le varianze e complesse le interdipendenze tra operazioni uni-
tarie, tanto meno è efficiente ed efficace dividerle in mansioni specializzate
assegnate a diversi operatori”.
Un ulteriore fattore che può rendere più elevato il livello di interdipen-
denza tra attività è rappresentato dalla specificità delle conoscenze necessarie
allo svolgimento di un’attività rispetto alle altre. Più specifiche sono le cono-
scenze e le competenze richieste per svolgere due o più compiti, più intense ri-
sulteranno essere le interdipendenze che legano tali compiti. In questo caso, avrà
senso aggregare tali compiti all’interno di una stessa mansione. Un esempio è
quello dell’operaio tecnico altamente specializzato (dunque caratterizzato da
elevata specificità delle conoscenze) a cui è facile che siano assegnate sia le atti-
vità di produzione che quelle di manutenzione e programmazione di un certo
macchinario. Detto ciò, ne consegue una relazione inversa tra il grado di speci-
ficità delle conoscenze e la parcellizzazione del lavoro: più elevato è il primo, più
ridotta sarà la seconda.
Quanto sopra evidenziato consente di individuare un collegamento tra le
dimensioni finora descritte. Infatti, in caso di varianze elevate, interdipendenze
complesse tra i compiti e notevoli specificità delle conoscenze, vi è convenienza
a raggruppare i compiti in mansioni ampie sia nella dimensione orizzontale che
verticale, riducendo la formalizzazione del lavoro, la rigidità della mansione ed
aumentando, parallelamente, l’autonomia assegnata al lavoratore (Costa, Gu-
bitta, 2004; Figura 4.7).

13
Le interdipendenze vengono definite come interdipendenze reciproche quando una specifica unità A produce
output per l’unità B che a sua volta utilizza l’output di B come input per lo svolgimento del proprio lavoro, ovvero
quando tra le attività/unità A e B esiste uno scambio bidirezionale.

146
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

Figura 4.7. La relazione tra varianze, interdipendenze e specificità delle


conoscenze

Fonte: nostra elaborazione

4.4.2. Le dimensioni ‘hard’ della progettazione della microstruttura: le


economie di specializzazione e le economie di scopo

Le economie di specializzazione fanno riferimento ai vantaggi derivanti dalla ri-


petizione nel tempo della stessa attività. Tali vantaggi possono concretizzarsi
nella riduzione dei tempi di esecuzione dei compiti, nell’incremento della qualità
del risultato finale (output), nel miglioramento della destrezza del lavoratore,
nella diminuzione dei tempi e dei costi legati all’apprendimento su lavoro. In
merito, si riporta qui il noto esempio di Adam Smith relativo ai benefici della
divisione del lavoro nella ‘Fabbrica degli Spilli’ (Quadro 4.2).

Quadro 4.2 La Fabbrica degli Spilli (Smith, 1776) 14

Il piú grande miglioramento nelle forze produttive del lavoro, e la piú grande parte dell'abilità, della
destrezza e del giudizio con cui ovunque è diretto o praticato, sembrano essere stati gli effetti della
divisione del lavoro medesimo [...].
Prendiamo dunque un esempio della divisione del lavoro in una manifattura di poco momento e che
spesso è citata, quella, cioè, dello spillettaio. Un operaio non educato in questa manifattura, che a
causa della divisione del lavoro ha fatto uno speciale mestiere, non abituato all'uso delle macchine che
vi s'impiegano, ed all'invenzione delle quali la stessa divisione del lavoro ha probabilmente dato occa-
sione, con gli ultimi sforzi di sua industria forse appena farà uno spillo in un giorno, e certamente non
ne farà mica venti. Ma nel modo, con cui ora si esegue tale manifattura non solo è essa uno speciale
mestiere, ma si divide in molti rami, di cui la più gran parte è similmente un mestiere speciale: un
uomo tira il filo del metallo, un altro dirizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appunta, un quinto l'arrota
all'estremità ove deve farsi la testa; farne la testa richiede due o tre distinte operazioni, collocarla è una

14
Nel 1776, Adam Smith, nella sua opera più importante “Ricerca sopra la natura e le cause delle ricchezze
delle nazioni” ha dato un contributo “rivoluzionario” alla teoria economica. Nella sua opera, l’autore esordisce
descrivendo il lavoro in una fabbrica di spilli che definisce: «una manifattura di poco conto».

147
Lineamenti di organizzazione aziendale

speciale occupazione, pulire gli spilli ne è un'altra, ed un'altra ne è il disporli entro la carta; e in questo
l'importante mestiere di fare uno spillo si divide in circa diciotto distinte operazioni, che in alcune fab-
briche sono tutte eseguite da distinte mani, benché in altre dallo stesso uomo se ne eseguono due o
tre. Ho veduto una piccola fabbrica di questa manifattura, ove dieci uomini solamente erano impiegati,
ed ove però ciascuno di loro eseguiva due o tre operazioni. Essi quantunque fossero assai poveri, e
perciò non usassero molto le macchine necessarie, pure quando a vicenda vi s'impegnavano facevano
dodici libbre di spilli in un giorno. Una libbra contiene piú di mille spilli di grandezza media. Quei dieci
individui dunque potrebbero insieme fare piú di quarantottomila spilli in un giorno. Ciascuno di loro
dunque, facendo una decima parte di quarantottomila spilli, può essere considerato farne quattromi-
laottocento in un giorno. Or se essi avessero lavorato separatamente e indipendentemente l'uno dall'al-
tro, e senza che alcuno di loro fosse stato educato ad una speciale operazione, ciascuno di loro non
avrebbe potuto compiere venti spilli, e forse neanche uno in un giorno, cioè certamente non la due-
centoquarantesima parte, e forse neanche la quattromilaottocentesima parte di quel che sono intanto
capaci di compiere in conseguenza di una bene accomodata divisione e combinazione delle loro diffe-
renti operazioni.

In particolare, nello svolgimento di compiti semplici, le economie di specializza-


zione andranno in prevalenza ad impattare sulla riduzione dei costi medi unitari;
al contrario, per lo svolgimento di attività più complesse, il vantaggio ottenibile
in presenza di economie di specializzazione è riferibile anche alla possibilità che
le attività vengano svolte meglio o addirittura possano essere effettivamente
svolte. Ad esempio, praticando la propria professione continuativamente, un
medico tende a sviluppare la capacità di ottenere un risultato migliore o di fron-
teggiare eventuali complicazioni ed evitare rischi per il paziente. Il vantaggio, in
questo caso, non è riconducibile alla riduzione dei costi medi unitari che il me-
dico sostiene per fare una diagnosi (costi, spesso, riconducibili al tempo speso a
tal fine), quanto invece alla maggiore destrezza nella sua esecuzione (economie
di apprendimento). Si pensi, in proposito, al caso dei reparti maternità degli
ospedali, che come riportato nel Quadro 4.3, possono essere mantenuti in atti-
vità solo qualora sia garantito uno standard numerico di 500-1000 nati per
anno 15.

15
Il documento, “Gli standard per la valutazione dei punti nascita”, definisce appunto alcune norme da seguire
ai fini della promozione ed il miglioramento della qualità, della sicurezza e dell’appropriatezza degli interventi
assistenziali nel percorso nascita, puntando alla razionalizzazione e all’efficienza del servizio.

148
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

Quadro 4.3 Gli standard per la valutazione dei punti nascita 16

Come premessa al manuale di definizione degli standard per la valutazione dei Punti Nascita Paolo
Giliberti, Presidente della Società Italiana di Neonatologia ricostruisce il clima entro cui maturò l'idea
di un simile progetto, quale prima tappa del processo di certificazione
“Negli anni '60 - '70, quando si andavano affermando anche nel nostro Paese i principi della moderna
Neonatologia, si assisteva, in particolare nelle regioni a più alto indice di natalità, al sorgere di improv-
visati Centri Nascita in ogni luogo ed in ogni contrada, sull'onda della elevata domanda e delle richieste
anche ‘politiche’ della Società civile.” Il diffuso incremento del benessere nel nostro Paese aveva con-
dotto l’opinione pubblica a prediligere il ricorso a strutture medicalizzate, dotate di un minimo di assi-
stenza alberghiera, rispetto alla pratica del parto in casa. “Nel tempo” riporta il Giliberti “ci si rese conto
della inefficacia della soluzione adottata che non incideva sulla mortalità né sulla morbilità a breve ed
a lungo termine.” Il dibattito si concentrò dunque sulle dimensioni che avrebbero dovuto avere i Centri
Nascita fino a quando, afferma il Giliberti: “qualcuno inventò un numero: ‘cinquecento nati/anno’ per
marcare il confine tra strutture inevitabilmente inefficienti ed inefficaci e strutture idonee”. “Una scelta
‘fortunata’”, sostiene lo stesso Giliberti “dato che l’equivoco, che crea, perdura anche nei nostri tempi.
Il criterio delle dimensioni si ripresenta anche nell'Accordo Stato-Regioni del dicembre 2010, nel quale
è sancito in almeno 1000 nascite/anno lo standard cui tendere nel triennio, con una novità rappresen-
tata dall'abbinamento per pari complessità di attività delle unità operative ostetrico - ginecologiche con
quelle neonatologiche/ pediatriche. Peccato che lo stesso Accordo preveda eccezioni, mai comunque
al di sotto di 500 parti/anno, sulla base di motivate (!?) valutazioni legate a specifiche condizioni geo-
grafiche. Nonostante la delusione conseguente la insufficiente e parcellare applicazione dell'accordo,
continuiamo a considerarlo un realistico punto di partenza, da associare a progetti compiuti di valuta-
zione e programmazione degli organici sia a livello medico che infermieristico ed alle necessarie veri-
fiche di qualità e sicurezza.”

Alla presenza di economie di apprendimento e specializzazione nei compiti si


deve tener conto, al contempo, della saturazione dei singoli individui nel realiz-
zare dette attività. Ai fini dell’efficacia e dell’efficienza di un sistema, quindi,
risulta opportuno che attività con elevati livelli di specializzazione vengano
svolte da persone diverse con mansioni specialistiche diverse, sia perché ognuna
di esse richiede una formazione e dei percorsi di specializzazione e pratica diversi
gli uni dagli altri; sia anche perché tali attività necessitano di essere svolte, con-
trollate e regolate (a causa del livello della loro varianza) in parallelo (Grandori,
1999). Si pensi alle diverse professionalità presenti in una sala operatoria: i com-
piti di taglio, sutura e anestetizzazione sono svolti da persone diverse, ognuna
delle quali ha una formazione e una competenza specialistica nello svolgimento
di quel compito specifico.
Le economie di scala, come già richiamato nel capitolo 1, diminuiscono il
costo medio unitario all’aumentare della scala (dimensione) di impiego delle ri-
sorse utilizzate. Le economie di scala come noto presuppongono l’uso ripetitivo
16
Documento ripreso da: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pagineAree_4483_listaFile_itemName_2_file.pdf

149
Lineamenti di organizzazione aziendale

della risorsa senza costo aggiuntivo. Con riferimento a risorse umane le econo-
mie di scala si possono generare quando sia possibile garantire un impiego più
intenso e un maggior sfruttamento della loro capacità produttiva. Tali economie
sono favorite dal concentrare nelle stesse unità organizzative dipendenti che
posseggono conoscenze e capacità omogenee e sviluppano processi di lavoro si-
milari. Questo, non solo favorisce l’incremento delle competenze tecnico-specia-
listiche dei soggetti interessati ma consente altresì lo sfruttamento delle econo-
mie di scala derivanti da: il ridotto rischio di moltiplicazione di personale che si
ha nel caso di dispersione su più unità di personale operante in stessi ambiti
funzionali, facile individuazione del personale per svolgere le attività di quella
specifica funzione e maggior efficienza nel ripartire i carichi di lavoro ed affron-
tare imprevisti picchi di attività (Golzio, 2017). In simili contesti persone diverse
potranno anche svolgere attività con elevati livelli di specializzazione, almeno a
livello orizzontale.
Pertanto se i problemi legati a varianze e interdipendenze trattate nel pre-
cedente paragrafo giocano a favore della definizione di mansioni ampie sia ver-
ticalmente che orizzontalmente, criteri di economia come quello delle economie
di specializzazione e di scala “possono tuttavia spesso, anche se non sempre pe-
sare in senso opposto”, ovvero verso un massimo livello di specializzazione delle
posizioni (Grandori, 1999, p. 403).
Diversamente avviene per le economie di scopo, già richiamate nel capitolo
1. Ci si riferisce in specifico a quel tipo di economie che possono essere conse-
guite grazie all’impiego di una risorsa per la “produzione congiunta” di più out-
put. Può essere questo il caso di colui che avendo acquisito competenze specifi-
che nella “stesura di un programma di calcolatore per l’automazione di una pro-
cedura [può rappresentare] il miglior candidato, per l’utilizzo del know-how ac-
quisito, [nello svolgimento di…] altri compiti [quali ad esempio quello di…] pro-
grammazione per altri progetti di automazione” (Grandori, 1999, p. 403). An-
cora, una impresa di servizi bancari-assicurativi può ritenere conveniente la ven-
dita congiunta, mediante il cosiddetto cross-selling, di più servizi riducendo così
il costo di distribuzione ma necessariamente utilizzando la stessa risorsa umana
e le sue competenze per erogare più tipi di servizi (Golzio, 2017). In questo caso
la progettazione si orienterà verso mansioni ampie sia verticalmente che oriz-
zontalmente.

4.4.3. Le dimensioni ‘hard’ della progettazione della microstruttura: I conflitti


di interesse tra attività diverse e il loro grado di osservabilità

Tra i lavoratori addetti ad attività diverse è possibile che sorgano conflitti di


interesse, in particolare nei casi in cui un lavoratore sia dotato di autonomia e

150
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

discrezionalità. Di frequente, in queste circostanze, l’agente è portato ad assu-


mere decisioni che riducono al minimo il suo impegno o che consentono il rag-
giungimento di obiettivi particolari (spesso personali) che giocano a suo favore
(Grandori, 1999). Si tratta dei cosiddetti comportamenti opportunistici. Feno-
meni di questo tipo sono stati ampiamente esaminati dagli studiosi della teoria
dell’agenzia (si veda, ad esempio, Levinthal, 1988) i quali hanno evidenziato un
elemento centrale: le mansioni degli agenti (lavoratori) dovrebbero essere pro-
gettate prendendo in esame il grado di osservabilità dei loro comportamenti,
tale per cui:

• in caso di comportamenti osservabili, è consigliabile adottare la divi-


sione del lavoro, soprattutto di tipo verticale, tra attività esecutive e at-
tività di direzione (Isotta, 2011). In questi casi si avrà pertanto un prin-
cipale che, attraverso il meccanismo della supervisione diretta o altri si-
stemi di monitoraggio, controlli la prestazione dell’agente;
• tuttavia, in caso di attività scarsamente osservabili, riaggregare i diritti
di azioni e decisione in una sola persona può risultare più efficace ed
efficiente per l’organizzazione del lavoro.

A conclusione di quanto detto è opportuno sottolineare un punto importante:


in caso si abbia a che fare con attività caratterizzate da un grado di osservabilità
molto diverso, a parità di altre condizioni, il suggerimento è quello di non riu-
nirle in una unica mansione (Grandori, 1999). La ragione sottostante tale indi-
cazione sta nel fatto che un simile approccio potrebbe indurre il lavoratore a
deviare il proprio comportamento verso i comportamenti maggiormente osser-
vabili a scapito di quelli meno osservabili

4.4.4. La Job Characteristics Theory e le dimensioni ‘soft’ della progettazione


della microstruttura

Un processo di progettazione della microstruttura non può prescindere dal si-


stema di ‘preferenze’ degli individui. Ciò significa che tutti gli investimenti che
un’organizzazione compie nella progettazione delle mansioni potrebbero non
garantire miglioramenti nei risultati individuali e/o complessivi. Questo non im-
plica che la progettazione sia stata realizzata in modo non adeguato. Piuttosto,
si vuole porre l’accento sul fatto che una parte, sovente abbastanza significativa,
di un eventuale problema organizzativo risiede nel modo in cui i lavoratori ri-
spondono psicologicamente ai compiti a loro assegnati (Gerloff, 1989).
In questo ambito, gli studi socio-tecnici hanno fornito un approccio utile
a rappresentare in modo scientifico le utilità delle parti coinvolte. Dunque, il

151
Lineamenti di organizzazione aziendale

processo con cui si sceglie di aggregare i compiti in mansioni condurrà a man-


sioni diverse, la cui diversità può essere letta attraverso la Job Characteristics
Theory suggerita da Hackman e Oldham (1980). Secondo il modello proposto
dagli studiosi, la presenza di alcune caratteristiche della mansione influisce sugli
stati psicologici critici del lavoratore i quali, a loro volta, impattano sui risultati
tanto individuali quanto complessivi (si veda la Figura 4.8). Di ogni tassello
della figura si fornisce di seguito una spiegazione dettagliata.
Le caratteristiche della mansione prese in esame da Hackman e Oldham
(1980) sono le seguenti:

• La varietà dei compiti che compongono la mansione,


• L’identità del compito,
• La significatività del compito,
• Il grado di autonomia assegnato al titolare della mansione,
• Il feedback fornito al titolare dalla mansione sulla sua performance.

Figura 4.8. Le componenti della Job Characteristics Theory di Hackman e


Oldham (1980)

Fonte: nostro adattamento

La varietà dei compiti è riconducibile alla dimensione orizzontale della divisione


del lavoro ed è definita dal numero e dal grado di diversità dei compiti che ven-
gono attribuiti alla mansione. Essa rappresentata dunque la cosiddetta “lar-
ghezza” o “ampiezza” della mansione e gioca un importante ruolo motivazio-
nale nei confronti dei dipendenti. Infatti, una mansione caratterizzata da varietà

152
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

dei compiti, derivante dall’allargamento della posizione (o job enlargement), fa-


vorisce non solo l’uso di un insieme più elevato di abilità e quindi la riduzione
della monotonia derivante dallo svolgere lo stesso compito in modo ripetuto nel
tempo, bensì facilita al contempo le occasioni di sviluppo e di apprendimento
del medesimo lavoratore, contribuendo ad incrementare la significatività perce-
pita da questi (Hackman e Oldham, 1980).
L’identità del compito si riferisce alla possibilità, da parte del titolare della
mansione, di poter identificare con chiarezza il contributo che lo svolgimento
dei singoli compiti svolti nell’ambito della propria mansione apporta al sistema
primario di lavoro di cui fa parte e, di conseguenza, all’output finale. Pertanto,
tanto più chiaro sarà il legame fra le attività svolte ed il contributo che queste
forniscono al processo produttivo e al risultato finale d’impresa, tanto più l’in-
dividuo sarà in grado di discernerne una identità. Ne risulta che questi vedrà
aumentata anche la sua percezione sulla significatività della propria mansione.
Inoltre, a livello di gestione del lavoro, una chiara identificazione dei compiti e
del loro contributo rispetto all’output finale favorisce i processi di controllo dei
risultati.
La significatività (o significato) del compito è collegata alla rilevanza che
i diversi compiti inclusi nella mansione hanno rispetto all’organizzazione, ad al-
tre persone e, più in generale, alla comunità di riferimento. Per comprendere
meglio il significato di questa dimensione, ci si soffermi sulle seguenti domande:
“Il lavoratore ritiene che altre persone beneficeranno in modo significativo del
lavoro da lui svolto?”; oppure “È possibile individuare altre persone a cui può
interessare se il lavoro viene completato o effettuato nel modo migliore?” (Ger-
loff, 1989). In tal senso, un elevato livello di significatività dei compiti svolti
contribuisce ad aumentare il livello di gratificazione individuale e, dunque, le
performance. Al contrario, i problemi emergono qualora il lavoratore resti iso-
lato nel suo compito, senza poter cogliere il modo in cui esso si inserisce all’in-
terno di un processo più ampio producendo un valore. In questi casi, il lavora-
tore tende a perdere di vista il valore del proprio compito soprattutto quando il
lavoro è monotono e altamente parcellizzato. Definendo il livello del contributo
effettivo rispetto al risultato finale, la significatività può rappresentare una di-
mensione rilevante per i processi di gestione del lavoro legati alle politiche retri-
butive.
L’autonomia è riconducibile alla già discussa dimensione verticale della
progettazione della posizione organizzativa e comprende le attività di decisione,
regolazione e controllo che il titolare della mansione ha sullo svolgimento dei
compiti a lui assegnati. In altre parole, l’autonomia definisce il grado di con-
trollo che un individuo ha sui compiti relativamente a quando e come svolgerli.
Pertanto, al crescere del controllo sulle modalità di esecuzione dei compiti si

153
Lineamenti di organizzazione aziendale

avranno le cosiddette mansioni ricche ovvero quelle mansioni caratterizzate da


elevati livelli di autonomia e di responsabilità. Al contrario, al diminuire del
controllo sui compiti si darà origine alle cosiddette mansioni parcellizzate, vale
a dire mansioni poco varie e scarsamente ricche in cui appare netta la separa-
zione fra compiti esecutivi e compiti di direzione, ovvero fra coloro che ese-
guono il compito e coloro che, invece, decidono, regolano e controllano il la-
voro. In questa sede anticipiamo il legame fra la dimensione verticale della pro-
gettazione della posizione e quella del decentramento decisionale che verrà trat-
tato nel proseguo del presente lavoro con riferimento alla progettazione della
macrostruttura.
Infine, il feedback rappresenta la misura in cui la mansione fornisce al la-
voratore informazioni di ritorno sull’efficacia e sui risultati dell’attività lavora-
tiva svolta. Elevati livelli di feedback tendono a facilitare il titolare della man-
sione in quanto, da un lato, questi riesce a sviluppare una maggiore consapevo-
lezza circa i risultati raggiunti e, dall’altro, gli/le consente di porre in essere, qua-
lora necessario, azioni correttive, anche in corso d’opera, che portino al miglio-
ramento della modalità di svolgimento dell’attività e quindi ad agire positiva-
mente sulla prestazione lavorativa. Una mansione caratterizzata da elevati li-
velli di feedback generalmente richiede un minor ricorso alla supervisione gerar-
chica.
Per quanto concerne i processi psicologici più importanti che, più di altri,
risultano influenzati da tali caratteristiche, gli autori suggeriscono che vi siano
(Gerloff, 1989):

• La significatività sperimentata, secondo la quale l’individuo deve perce-


pire che il lavoro da lui svolto è importante, significativo, ossia valido in
base ai suoi valori personali.
• La responsabilità sul lavoro, in ragione della quale il lavoratore deve cre-
dere di essere personalmente responsabile dei risultati derivanti dallo
svolgimento dei propri compiti.
• La conoscenza dei risultati, relativa al fatto che il soggetto deve essere
capace di capire se i risultati ottenuti col suo lavoro sono soddisfacenti
o meno.

Si noti che, a tal proposito, ciò che assume importanza non è tanto la valuta-
zione oggettiva di questi tre processi, vale a dire quella che, ad esempio, può
produrre un manager o il responsabile del personale. Ad essere rilevante qui è
la percezione del singolo lavoratore.

154
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

4.4.5. Le dimensioni soft: l’interazione sociale, lo sviluppo, l’autorealizzazione,


la salute e sicurezza e la qualità della vita

Il concetto di interazione sociale si può ricondurre a quello di ruolo, descritto


precedentemente come l’insieme dei comportamenti attesi dal soggetto, che
permette di descrivere il processo grazie al quale ogni individuo risponde
all’organizzazione ed alle molteplici aspettative a lui indirizzate (Katz e Kahn,
1974). Il concetto di ruolo è quanto mai in linea con la metafora dell’attore
che – a cinema oppure a teatro, come in ogni altra organizzazione – deve in-
terpretare un testo.
Il modo con cui una determinata mansione viene eseguita dipende, quindi,
non solo dalla definizione oggettiva del job (dimensione prescrittiva), bensì an-
che dalla dimensione soggettiva, o discrezionale, di colui che interpreta tale
mansione: l’individuo lavoratore. La misura in cui il suo lavoro gli consente di
attivare relazioni con altri individui (siano essi colleghi, superiori, subordinati o
attori esterni all’organizzazione) è assolutamente importante per soddisfare i bi-
sogni di appartenenza e di affiliazione di ogni individuo. Detto in altri termini,
la completa mancanza di opportunità di costruire relazioni sociali può generare
forte insoddisfazione e scarsa motivazione nei lavoratori (Grandori, 1999). Si
tenga presente, comunque, che la necessità di creare rapporti con altri soggetti
è assai variabile nelle persone e tende a cambiare in conseguenza di alcuni fat-
tori, quali l’età, la personalità, ma anche il grado di complessità della mansione
a cui le persone sono state affidate.
Tra le dimensioni ‘soft’ della progettazione organizzativa ne troviamo una
ancora oggi troppo poco applicata: quella che coinvolge lo sviluppo professio-
nale. La tipologia di sviluppo da prospettare ai lavoratori cambia certamente da
individuo a individuo, in quanto alcune persone preferiscono prospettive più
elevate, mentre altre trovano grande soddisfazione anche con percorsi più limi-
tati (Grandori, 1999). Relativamente alle preferenze che gli individui possono
manifestare in termini di sviluppo professionale è possibile distinguere due tipo-
logie di lavoratori: i locals e i professionals.
I primi sono coloro che si identificano con una precisa organizzazione e
che in essa intendono vivere il proprio percorso di carriera. I secondi, invece,
individuano quelle persone che tendono ad identificarsi non tanto con una par-
ticolare organizzazione, bensì con una professione. Conseguentemente, in ge-
nere esse sono alla ricerca di uno sviluppo che arricchisca le loro competenze e i
contenuti del loro lavoro, risultando disponibili anche a percorsi che prevedano
la mobilità verso altre zone o altri Paesi.

155
Lineamenti di organizzazione aziendale

Coloro che non si identificano né con una organizzazione particolare, tan-


tomeno con una professione specifica; diversamente, sviluppano una forte iden-
tificazione con un sistema. È il caso dei lavoratori appartenenti ai distretti indu-
striali, i quali risultano fortemente legati alla tradizione del distretto, all’impor-
tanza di mantenere ed alimentare le relazioni nel distretto, nonché alla conti-
nuazione di un “mestiere”. In ragione di ciò, molto spesso, la prospettiva di svi-
luppo di questi individui è quella di rafforzare i diritti di controllo sulla propria
attività, ossia di creare una propria realtà aziendale, di “mettersi in proprio”.
Il senso di autorealizzazione che deriva dallo svolgere il proprio lavoro
richiama gli studi sull’importanza delle ricompense intrinseche e sul ruolo che
queste possono svolgere per la soddisfazione lavorativa e il miglioramento delle
performance individuali. I benefici che l’autorealizzazione produce sono nume-
rosi: accresce l’interesse nei confronti del lavoro, si rafforza la sensazione di be-
nessere e di divertimento, aumenta l’auto-efficacia, vale a dire la consapevolezza
della propria competenza e del contributo che il singolo apporta all’intero si-
stema organizzativo. Si noti, tuttavia, che il senso di autorealizzazione è, per
definizione, fortemente soggettivo e, come tale, volatile ed evanescente (Gran-
dori, 1999).
Un’ultima caratteristica di natura ‘soft’ delle mansioni che, a nostro av-
viso, merita una menzione è quella legata alla misura in cui la progettazione
delle mansioni ha effetti sulla sicurezza, sulla salute e sulla qualità di vita del la-
voratore. Si pensi alla necessità di assicurare tutti i presidi ergonomici per evitare
che il personale incorra in problemi di salute (ad esempio, il rischio di cervicale
cronica nei soggetti che passano molte ore seduti alla scrivania senza una sedia
ed un tavolo che possano essere regolati in altezza e in inclinazione). Sono in-
clusi qui anche i casi in cui le mansioni siano fortemente divise e molto mono-
tone: il rischio, qui, è quello di impattare negativamente sulla salute psichica del
lavoratore che potrebbe percepirsi poco valorizzato ed alienato rispetto al re-
stante processo di lavoro. Ampliando questa prospettiva, è possibile pensare
anche all’importanza di garantire un equilibrio tra vita lavorativa e vita privata,
in vista del benessere complessivo della persona, tanto a lavoro quanto a casa.
Nella Figura 4.9 è riportata una sintesi delle dimensioni hard e soft della proget-
tazione della microstruttura trattate.

156
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

Figura 4.9. Le dimensioni ‘hard’ e ‘soft’ della progettazione della


microstruttura

Fonte: nostra elaborazione

In conclusione di questo paragrafo occorre identificare alcuni punti su cui sof-


fermare la nostra attenzione.
Quanto finora trattato ci ha portati ad interpretare il processo con cui si
progettano le mansioni ed i ruoli organizzativi come un processo decisionale in
cui le diverse dimensioni appena descritte vengono analizzate e considerate in
varia misura con lo scopo di definire le posizioni organizzative. L’analista orga-
nizzativo sarà dunque chiamato a scegliere il diverso grado di intensità ed im-
portanza da attribuire alle singole dimensioni nel percorso di disegno della po-
sizione, potendo altresì decidere di includere nell’analisi alcune dimensioni ed
escluderne altre, ritenute più marginali o magari non del tutto rilevanti 17.
In linea con quanto riportato finora, va da sé che la progettazione della
microstruttura non si limita a presidiare i processi finalizzati a configurare le
singole mansioni o posizioni organizzative (job design), ma si occupa anche di
operare le scelte relative ai meccanismi di coordinamento più adatti da imple-
mentare ai fini della gestione delle interdipendenze che si vengono a generare tra
le mansioni (Isotta, 2011).
Infine, progettare implica manovrare in modo integrato e in funzione dei
vincoli di contesto operativi quelle leve che influenzano la divisione del lavoro
ed i meccanismi di coordinamento contribuendo a modificare le modalità di
funzionamento dell’organizzazione.

17
Occorre far notare che un sistema di progettazione delle posizioni che includa tutte le dimensioni poc’anzi
elencate risulta non verosimile in una qualunque realtà d’impresa, anche la più grande e complessa.

157
Lineamenti di organizzazione aziendale

4.5. Le fasi operative del job design

Concludiamo questo capitolo presentando in questo paragrafo le fasi con cui la


progettazione della posizione viene realizzata a livello operativo e presentando
il percorso necessario a redigere il documento della job description. La proget-
tazione della posizione viene definita a livello operativo come quell’attività in
base alla quale ogni posizione di lavoro in un’organizzazione viene analizzata,
descritta e confrontata con le altre posizioni presenti nella medesima. Si tratta
di una attività svolta da specialisti della Funzione del Personale coadiuvati, so-
prattutto nel caso di imprese di più grandi dimensioni, dal supervisore e dallo
stesso dipendente. 18
Occorre specificare che questa attività non mira ad analizzare e valutare
le competenze e le capacità dei singoli individui ma, piuttosto, ad analizzare e
valutare i contenuti e le responsabilità delle singole e diverse posizioni organiz-
zative e di conseguenza il contesto, le attività lavorative, le responsabilità attri-
buite, le conoscenze, le attitudini, le caratteristiche fisiche e i titoli di studi (o
certificazioni) che dovrebbero possedere le persone da assumere per occupare
tali posizioni.
Molte, se non tutte, le decisioni e azioni inerenti la gestione del personale–
ad esempio: selezione, formazione, valutazione - presuppongono la conoscenza
dei requisiti della posizione ovvero ciò che ricoprirla comporta ed i tratti perso-
nali necessari ad occuparla nel modo migliore. Pertanto questa attività rappre-
senta il presupposto essenziale e necessario per qualsiasi azione rivolta alla ge-
stione delle persone.
Tre sono i momenti topici e sequenziali dell’attività di progettazione delle
posizioni. Il primo, riguarda l’analisi delle posizioni. In questa fase si raccol-
gono, analizzano e interpretano tutte le informazioni relative ai compiti svolti
nell’ambito della posizione organizzativa. Da tale prima fase si generano le in-
formazioni necessarie per la successiva fase in cui si procede alla descrizione dei
caratteri e all’identificazione dei requisiti della posizione. Da detta attività si ge-
nerano delle schede contenenti la descrizione ed i requisiti della posizione. In-
fine, nella terza ed ultima fase, quella della valutazione “oggettiva” della posi-
zione 19 viene identificata l’importanza relativa di ciascuna delle posizioni con lo

18
In particolare, come evidenzia Dessler (2019) l’analisi della posizione organizzativa, soprattutto nelle aziende
di grandi dimensioni, dovrebbe esplicitarsi in una azione “congiunta” fra più figure, ovvero: lo specialista della
Gestione del Personale, il lavoratore titolare della posizione e l’immediato supervisore. In una simile situazione
il referente del Personale osserva il titolare della posizione mentre opera, fa compilare i questionari sulla posi-
zione sia al titolare della posizione che al suo immediate supervisore, ed infine stila una lista di attività relative
alla posizione analizzata. Tale lista di attività sarà poi verificata e validata sia dal titolare della posizione e che
dall’immediato supervisore (Dessler, 2019).
19
Si parla pertanto, nel caso di progettazione delle posizioni, di un tipo di valutazione “oggettiva” dal momento
che l’oggetto della valutazione è rappresentato dalla posizione organizzativa e dal valore che la medesima è in
grado di portare all’organizzazione nel suo complesso. La valutazione delle posizioni, che dunque definiamo

158
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

scopo di comprendere l’entità effettiva del contributo apportato, in termini di


valore, da ciascuna posizione alla stessa organizzazione.
La domanda che l’analista organizzativo dovrà porsi ex-ante rispetto
all’attivazione di un simile insieme di attività è: “Questo processo dovrà essere
applicato a tutte le posizioni organizzative oppure solo ad alcune famiglie profes-
sionali 20 o a specifici ruoli chiave?”. Solo dopo aver risposto a questa domanda,
che aiuta a delimitare il campo di azione, si procederà con il vero e proprio pro-
cesso di progettazione della posizione organizzativa.

4.5.1. L’analisi del job

L’analisi delle posizioni lavorative riguarda la raccolta, l’esame e l’identifica-


zione delle informazioni utili ad individuare le caratteristiche, competenze, espe-
rienze tecnico-operative, qualità personali che sono richieste agli operatori ad-
detti all’esecuzione delle singole posizioni organizzative. La fase di analisi si sof-
ferma su ciò che viene realmente fatto dal personale o che dovrà essere fatto a
seguito delle modifiche organizzative programmate.
Tutto ciò si concretizza in un’attività, sovente complessa, in cui si procede
alla rilevazione sistematica di tutti gli elementi oggettivi caratterizzanti lo spe-
cifico lavoro, ossia alla raccolta di informazioni dettagliate sulla posizione esi-
stente ed il cui esito dovrebbe essere una descrizione chiara ed approfondita di
alcuni rilevanti compiti realizzati all’interno dei processi lavorativi, ovvero in-
siemi di attività svolti nell’organizzazione da parte dei titolari delle specifiche
posizioni, con lo scopo di definire le prerogative che dovranno essere presenti in
coloro a cui spetterà l’esecuzione dei compiti medesimi (D’Anna, 2015).
In particolare la domanda che l’analista organizzativo deve porsi dato un
risultato da raggiungere (prodotto o servizio interno o esterno) è: “Quali compiti
e attività è necessario eseguire per produrre il risultato desiderato?”.
L’analisi in oggetto è, in primo luogo, connessa al genere di attività svi-
luppato all’interno dell’organismo aziendale21, ossia al carattere della trasfor-
mazione economica degli input del sistema in output da destinare all’ambiente
esterno. Ciò implica la necessità di partire da un’ottica allargata non semplice-
mente focalizzata sul job in sé ma considerando altresì il cosiddetto sistema pri-
mario di lavoro, comprendente non solo le attività operative interdipendenti che

“oggettiva”, si distingue dalla valutazione cosiddetta “soggettiva” che invece considera la valutazione delle com-
petenze e delle potenzialità di ciascun individuo presente all’interno dell’organizzazione.
20
Per famiglia professionale si intende: l “insieme di ruoli organizzativi caratterizzati da conoscenze, capacità,
atteggiamenti e stili cognitivi similari, tali da evidenziare una relativa omogeneità culturale” (Baravelli, 1982, p.
313).
21
È bene tenere in considerazione che l’analisi delle posizioni non può prescindere da una valutazione di indole
più generale, orientata ad esaminare in modo approfondito la situazione aziendale nella sua globalità, lo stato
del settore e la funzione in cui il ruolo è inserito.

159
Lineamenti di organizzazione aziendale

concorrono alla realizzazione dell’output ma anche quelle attività di natura ‘in-


tegrativa’ e ‘di supporto’ a quelli principali ovvero le attività di supporto, ma-
nutenzione e controllo e regolazione del processo operativo. Pertanto nel mo-
mento in cui si andranno a raccogliere informazioni sulle posizioni si dovrà con-
siderare non solo ciò che riguarda specificamente la posizione ma anche il suo
“intorno”, come già specificato ampliamente nei precedenti paragrafi.
Infine si procederà alla scelta dei metodi di raccolta dei dati, la cui identi-
ficazione dipenderà da alcune condizioni. In tal senso, l’analista potrà porsi i
seguenti quesiti: “Qual è l’utilizzo che deve essere fatto delle informazioni raccolte
e, in funzione di ciò, quali metodi sono i più adatti per la raccolta?”. I metodi di
raccolta più frequentemente utilizzati per l’analisi delle posizioni sono:

• L’indagine documentale, che costituisce un momento preliminare nel


processo di analisi e che sarà successivamente integrata con ulteriori in-
formazioni derivanti dalle modalità di raccolta qui di seguito descritte.
Con questa prima analisi ci si orienta ad acquisire le informazioni con-
tenute in documenti interni all’organizzazione quali, ad esempio: rap-
porti e relazioni scritte, l’organigramma, i diagrammi dei processi, i
“mansionari” esistenti, gli ordini di lavoro e simili, dai quali si possa
risalire, seppure anche in maniera sommaria, alle caratteristiche della
posizione oggetto di studio.
• La somministrazione di questionari ai titolari dei compiti o alle persone
strettamente in contatto con loro (supervisori). Con questa modalità di
raccolta vengono sottoposti una serie predefinita di quesiti a cui si viene
invitati a rispondere. La correttezza e chiarezza degli elementi così rac-
colti, dipendono in buona misura dalla maggiore o minore ambiguità
delle domande nonché dalla modalità con cui viene “somministrata”
l’indagine. In tal senso, coloro che si occupano della rilevazione dei dati
sono tenuti a fornire spiegazioni e chiarimenti circa l’effettivo obiettivo
dell’analisi, dando, al contempo, una adeguata assistenza alla compila-
zione dei questionari. Questo allo scopo di evitare che i dipendenti pos-
sano erroneamente percepire il processo di analisi come riconducibile ad
una “valutazione della performance”. Lo strumento del questionario
rappresenta una modalità di raccolta dei dati rapida, efficiente ed in
grado di coprire un ampio numero di dipendenti. In molti casi viene con-
siderata la modalità “meno onerosa” rispetto ad altre modalità di rac-
colta come ad esempio l’intervista o colloquio. Tuttavia, occorre speci-
ficare che: sviluppare un questionario e testarlo può richiedere molto
tempo e dispendio di risorse. Fra i questionari più diffusi per l’analisi

160
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

delle posizioni abbiamo il PAQ (position analysis questionnaire), svilup-


pato nel 1969 da McCormick, Jeanneret, e Mecham (McCormick, Jean-
neret, Mecham, 1969). Si tratta di un questionario standardizzato com-
posto da 194 domande che consentono di descrivere comportamenti,
condizioni di lavoro e caratteristiche della posizione raggruppate in sei
grandi aree (Input informativo, Processi, Output del lavoro, Rapporti
con le persone, Contesto di lavoro, Altri elementi correlati con il la-
voro). 22
• L’intervista, o colloquio, consiste in una serie di domande strutturate o
semi-strutturate poste al dipendente. Alcuni esempi di domande pos-
sono essere: “In che cosa consiste il lavoro che esegue?”, “Quali sono i
compiti principali della sua posizione?”, “Qual è il titolo di studio richie-
sto?”, “Quali sono le responsabilità e i doveri della sua posizione?”,
“Quali sono gli strumenti e materiali utili per lo svolgimento del la-
voro?”. Le interviste possono essere realizzate, in modo individuale o in
gruppo, a dipendenti che svolgono lo stesso lavoro ed eventualmente ad
un supervisore che ne conosce l’attività. I dati raccolti attraverso l’inter-
vista possono servire a completare ed integrare le informazioni già rac-
colte tramite il questionario.
• L’osservazione diretta, viene realizzata da un analista dotato di ade-
guate conoscenze professionali che gli consentano, sulla base di un pe-
riodo di osservazione del titolare sul luogo di lavoro, di individuare le
caratteristiche necessarie allo svolgimento delle attività richieste. Tale
metodo di raccolta viene per lo più utilizzato per posizioni di natura ese-
cutiva (D’Anna, 2015).

La raccolta di informazioni può anche far riferimento a fonti esterne ulteriori a


ulteriore supporto nel processo di progettazione delle posizioni quali ad esem-
pio: le indagini sugli stipendi medi, cosiddette salary survey 23, i dizionari delle
professioni e i profili di competenza. A tal proposito si richiama l’esempio dei

22
La valutazione tramite PAQ può venir richiesta al responsabile o ad altre persone. Una volta attribuiti i pun-
teggi, le dimensioni evidenziate vengono confrontate con i punteggi medi di un database che raccoglie migliaia
di risposte. Per ciascuna delle sei aree si chiede ai rispondenti di dare una propria valutazione in merito agli
items riportati. Nell’area “input informativi” ad esempio si richiede: “Per ciascuno dei seguenti item fornisci un
punteggio su quanto ciascuna dei seguenti strumenti è utilizzato dal lavoratore come fonte di informazione
nell’adempimento dei propri compiti lavorativi”. Di seguito sono elencate 14 fonti di informazione. Fra queste si
hanno: (1) materiali scritti (es. Libri, rapporti, circolai, articoli, istruzioni di lavoro)”, (2) dati di natura quantitativa
(es. Materiali relativi a quantità e ammontare, grafici, tabelle, numeri), (3) materiali visivi (es. rappresentazioni
come disegni, diagrammi, mappe, fotografie). Per ulteriori delucidazioni sul metodo si veda fra gli altri Noe et.
Al. 2006.
23
Molte imprese nel processo di definizione dei livelli retributivi, soprattutto con riferimento a profili professionali
particolarmente richiesti, si avvalgono dei servizi di società di consulenza specializzate nella fornitura di dati sui
salari medi (distinti sia per settore che per professione) e supportano altresì le aziende nella scelta dello stipendio
medio più idoneo da offrire per ogni ruolo organizzativo.

161
Lineamenti di organizzazione aziendale

Repertori Regionali dei Profili Professionali utilizzati dalle Regioni anche


nell’ambito dello sviluppo di progetti di formazione finanziati o anche banche
dati delle professioni come la banca dati Excelsior. 24
In linea generale, non esiste una metodologia di raccolta dei dati migliore ri-
spetto alle altre ed è sconsigliabile utilizzare una sola metodologia, poiché ciascuna
di esse controbilancia spesso pregi e difetti delle altre. Pertanto è piuttosto comune
nonché conveniente che vengano impiegati più metodi di raccolta che risultino fra
loro integrati, come ad esempio: questionario, intervista e osservazione; ricerca do-
cumentale, osservazione e questionario; oppure altre combinazioni.
La scelta di tale combinazione deve essere fatta però considerando lo
scopo dell’analisi, il tempo a disposizione per lo svolgimento della medesima e
l’ammontare di risorse, sia umane che finanziarie, che l’impresa vuole impiegare
a tale scopo. 25
In seguito alla raccolta e all’individuazione delle informazioni rilevanti è
sempre utile procedere ad una verifica della completezza e correttezza delle
stesse attraverso un confronto, da parte dell’analista, con uno o più titolari della
posizione oppure con l’immediato superiore.

4.5.2. La descrizione del job

Le informazioni provenienti dall’analisi della posizione vengono esplicitate, for-


malizzate e “ordinate” entro un documento comunemente chiamato mansiona-
rio o job description. Questo contiene informazioni importanti relative alla de-
scrizione e ai requisiti individuali della posizione. Pertanto, saranno compresi
elementi descrittivi della posizione quali: il “titolo” della posizione, lo scopo cui
tende, i contenuti in termini di compiti e responsabilità, gli standard di presta-
zione e il contesto di lavoro, l’esperienza e titoli di studio richiesti. Inoltre ver-
ranno indicati requisiti individuali specifici, di carattere cognitivo, che richiesti
al soggetto che ricopre la posizione quali: competenze comportamentali, skills e
conoscenze. 26
Ulteriori informazioni da includere sono quelle relative alla remunera-
zione e al mix di benefit legati alla posizione, le sue eventuali criticità, l’orario

24
La Banca Dati delle Professioni del Sistema Informativo Excelsior è promossa da Unioncamere e dal Ministero
del Lavoro. Il database è integrato nel Sistema Informativo sulle Professioni, realizzata da ISTAT e ISFOL. Per
approfondimenti si veda: https://excelsior.unioncamere.net/.
25
Si afferma in proposito che il colloquio, ad esempio, può essere più indicato per creare un elenco di compiti,
mentre il questionario può essere più idoneo a quantificare il contributo di valore apportato dalla singola posi-
zione ai fini della retribuzione (Dessler, 2019).
26
Molti manuali menzionano in proposito una sezione a sé stante della progettazione della posizione, ossia la
job specification, dove si riportano informazioni sulle competenze, le skills e le conoscenze che i soggetti titolari
della posizione devono possedere allo scopo di interpretare in modo conforme ed efficace il ruolo loro affidato
(vedi ad esempio: Noe et al., 2006). Per semplicità di trattazione il termine job description verrà qui utilizzato per
comprendere entrambe le sezioni, quella di job description e job specification.

162
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

lavorativo nonché una lista dei supporti strumentali e macchinari utilizzati per
lo svolgimento dei compiti assegnati.
Dunque, sebbene la job description possa variare da un’organizzazione
ad un’altra essa deve comunque includere alcuni contenuti fondamentali elen-
cati nella tabella che segue.
Non devono inoltre mancare informazioni utili quali il nominativo
dell’analista che ha redatto il documento, la data di redazione e/o aggiorna-
mento del documento, la periodicità con cui si deve provvedere al ricontrollo
circa la validità corrente dei suoi contenuti.

Tabella 4.1. I principali contenuti della Job Description 27

SEZIONE DESCRIZIONE
Titolo della posizione Richiama accuratamente e in modo inequivocabile il nome della po-
sizione oggetto della descrizione.
Ad esempio: addetto al ricevimento.
Scopo della posizione Si tratta di una descrizione concisa dello scopo della posizione. Ad
esempio lo scopo di un addetto al ricevimento non è “rispondere alle
telefonate dei clienti”. Questo rappresenta piuttosto un suo compito.
Il suo scopo è: “accogliere e assistere i clienti dell’albergo durante
la loro permanenza presso la struttura”
Collocazione gerar- Fornisce una descrizione del contesto interno ed esterno con cui la
chica della posizione posizione si relaziona.
Individua l’unità organizzativa di appartenenza, a chi la posizione
riporta ed i suoi eventuali subordinati.
Eventualmente in questa sezione si può prevedere l’inserimento
della rappresentazione parziale dell’organigramma aziendale che
raffiguri le relazioni esistenti fra la posizione in oggetto e le altre po-
sizioni organizzative.
Nel caso del nostro addetto al ricevimento avremo che: appartiene
all’unità di front desk, risponde al responsabile di ricevimento e può
avere eventuali rapporti con soggetti esterni.
Attività e responsabilità Elenco delle attività che una persona titolare della specifica posi-
zione deve svolgere e delle responsabilità che deve adempiere.
Ad esempio:
ricevere e registrare prenotazioni utilizzando telefono e computer,
identificare i clienti esaminando i loro documenti di identità e regi-
strando su computer i dati,
assegnare le camere ai clienti verificando la prenotazione, etc.

27
Nei contenuti della job description elencati in tabella, quelli relativi alle ultime due sezioni ovvero: cono-
scenze, skills, competenze e qualifiche, fanno parte della cosiddetta job specification. Tuttavia in questa sede,
con lo scopo di semplificare la trattazione, abbiamo deciso di includerle in una accezione più ampia di job de-
scription.

163
Lineamenti di organizzazione aziendale

Obiettivi della posizione Elenco degli obiettivi attesi dal titolare della posizione sia di carattere
qualitativo che quantitativo. Essi possono essere affiancati da relativi
indicatori sulla base dei quali valutare il raggiungimento degli obiet-
tivi assegnati.
Ad esempio, un addetto al ricevimento: deve essere in grado di as-
sistere efficacemente almeno 2.000 clienti all’anno.
Conoscenze, skills e Lista delle conoscenze, skills e comportamenti richiesti alla posi-
competenze comporta- zione di lavoro, suddivise anche per specifiche tipologie.
mentali Ad esempio: predisposizione ai rapporti interpersonali e al contatto
con il pubblico, conoscenze informatiche e dei principali applicativi
informatici, saper comunicare in una o più lingue.
Qualifiche Esperienze lavorative, esperienze di formazione, qualifiche, certifi-
cati o titoli di studio che sono necessari per svolgere la mansione. Si
possono includere anche eventuali caratteristiche fisiche reputate
indispensabili (come la capacità di sollevare pesi).
Ad esempio: diploma di istituto alberghiero.

L’individuazione dei cosiddetti requisiti della posizione rappresenta un mo-


mento importante nella fase di descrizione della posizione. Per fare questo l’ana-
lista dovrà porsi il seguente quesito “Quali sono i tratti personali e l’esperienza
richiesti per eseguire in modo efficace il lavoro”? (Dessler, 2019, p. 63). La rispo-
sta che fornirà dovrà portare ad individuare il tipo di persona da reclutare e le
relative qualità che dovranno essere verificate. Uno strumento utile a tale scopo
è la cosiddetta matrice dei requisiti. Questo strumento infatti fornisce una de-
scrizione completa di ciò che il lavoratore fa, come e perché; chiarisce poi lo
scopo di ciascuna delle attività indicate nonché i requisiti di conoscenza, abilità
e specializzazione necessari.
Una tipica matrice dei requisiti si struttura come segue. In primis, essa
indica i quattro o cinque compiti principali della posizione, successivamente si
individuano le declaratorie delle attività 28 principali associate ad ogni compito
precedentemente individuato e si attribuisce l’importanza relativa di ciascun
compito principale. Infine, si individua il tempo necessario allo svolgimento di
ciascuno dei compiti sopra indicati e si indicano le conoscenze, specializzazioni,
abilità e caratteristiche personali necessarie per lo svolgimento di ciascuno dei
compiti principali ivi individuati (Dessler, 2019).

28
La declaratoria è la “voce scritta che indica che cosa fa il lavoratore in una specifica attività, come lo fa, co-
noscenza, abilità e attitudini richieste per farlo, e scopo dell’attività” (Dessler, 2019, p. 65).

164
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

Quadro 4.3 Dal compito alla competenza: come cambia il concetto di lavoro

Il concetto di lavoro sta cambiando. Esso, in molti casi, non viene più considerato come un mero
insieme di compiti specifici svolti dal lavoratore in cambio di uno stipendio. I cambiamenti organizzativi
e le riprogettazioni delle posizioni, che coinvolgono ed hanno coinvolto molte realtà d’impresa, hanno
condotto ad attribuire maggiori responsabilità e discrezionalità ai lavoratori riducendo quindi l’impor-
tanza attribuita al compito e sfumando al contempo i confini tra una posizione e l’altra tanto che in
molte realtà d’impresa risulta impossibile basarsi su un elenco di compiti specifici per individuare ciò
che un lavoratore deve fare. Sempre più spesso le aziende stanno abbandonando il mero ricorso alla
logica del mansionario e si stanno affidando, invece, ai cosiddetti modelli (o profili) di competenze nei
quali la posizione viene descritta, non più come insieme di attività ma piuttosto in termini di compe-
tenze, misurabili ed osservabili, che un dipendente titolare della posizione deve dimostrare per poter
fare bene il proprio lavoro.
In questi casi il modello o profilo di competenze diviene la “linea guida” per reclutare, selezionare,
formare, valutare e sviluppare i dipendenti che occupano qualsiasi posizione.

4.5.3. La job evaluation

Alle fasi appena individuate se ne aggiunge una terza con cui si mira ad attri-
buire un valore alla posizione, in relazione alle altre, ossia si intende “misurare”
il suo grado di contribuzione rispetto al risultato complessivo dell’organizza-
zione. L’indicazione dell'importanza della singola posizione in azienda, ossia il
contributo che essa produce ai fini del raggiungimento del risultato organizza-
tivo complessivo, è una ulteriore informazione che sarà riportata nel documento
della job description poc’anzi richiamato 29. Inoltre grazie alla valutazione della
posizione sarà possibile definire una “graduatoria” utile, fra l’altro, ad impo-
stare una politica retributiva differenziata sulla base del valore apportato da
ciascuna posizione alla singola organizzazione.
Nell’avvicinarsi alla valutazione della posizione è dunque necessario pro-
cedere definendo uno “strumento di misurazione” idoneo ad esprimere delle
comparazioni di valore e porre a confronto le posizioni investigate.
I metodi utilizzati per valutare le posizioni vengono tradizionalmente sud-
divisi in metodi globali (o qualitativi) e metodi analitici (o quantitativi).
I metodi globali prendono in esame la posizione nel suo complesso non
indicando analiticamente le sue caratteristiche. Si tratta di metodi volti a classi-
ficare le diverse posizioni senza tuttavia fornire una valutazione puntuale dei
suoi contenuti e lasciando ampia discrezionalità al valutatore. Inoltre, seppure

29
Tale valore è spesso rappresentato da un valore numerico, che permette di confrontare la posizione rispetto
alle altre presenti nella stessa organizzazione, ma anche con il mercato, in modo da poter essere garante sia di
un’equità interna che di una equità esterna all’organizzazione.

165
Lineamenti di organizzazione aziendale

si possa pervenire attraverso tali metodi ad una graduatoria delle posizioni ana-
lizzate non è possibile identificare la distanza fra il livello di una posizione e le
altre. Il più comune dei metodi globali è il metodo della graduatoria o del job
ranking. Fra tali metodi il più usato è il Global Grading System (GGS) intro-
dotto dalla società di consulenza Towers Watson. Il GGS consente di classifi-
care i lavori senza tuttavia misurare il volume di lavoro e il contributo delle sin-
gole posizioni ai risultati strategici di un'organizzazione come invece avviene nei
metodi analitici di seguito trattati. 30 Questa metodologia di valutazione si basa
su un sistema automatizzato e semplificato che produce i suoi risultati attra-
verso l'applicazione di software personalizzati. Il metodo del GGS risulta parti-
colarmente adatto per organizzazioni dotate di processi aziendali standardiz-
zati, in cui la struttura organizzativa e i ruoli professionali siano stabili e in cui
non si prevedano cambiamenti indotti da contesti dinamici.
I “metodi analitici” invece prevedono la scomposizione della posizione nei
suoi elementi significativi, cosiddetti “fattori di valutazione”, che a loro volta
saranno valutati singolarmente. Tali metodi dunque consentono di misurare
singolarmente i singoli fattori ed ottenere una misura quantitativa analitica della
posizione, nonché di definire la distanza esistente fra il livello di una posizione
e le altre.
Tra i metodi analitici il più diffuso è quello basato sul punteggio. In base
a questo metodo vengono individuati alcuni fattori presenti in modo trasversale
in tutte le posizioni, ma con un’intensità – ed un peso - differente da posizione a
posizione. Il più noto fra i metodi basato sul punteggio è il Metodo Hay 31 ap-
plicato in più di 5000 organizzazioni private e pubbliche nel mondo per la valu-
tazione di tutti i tipi e livelli di posizione.
Il metodo si concretizza in un processo di definizione del contributo di
una singola posizione al raggiungimento degli obiettivi dell'organizzazione at-
traverso la valutazione del lavoro medesimo. Si tratta di un confronto tra posi-
zioni al fine di definire il valore relativo di una posizione per l'organizzazione. Il

30
Nel Global Grading System (GGS) una posizione viene collocata all’interno di una “mappa dei voti” compo-
sta da 25 classi prestabilite mediante un processo che prevede tre distinti passaggi: 1. la definizione del “grade
aziendale” ovvero della classe più grande che le posizioni potranno raggiungere in relazione alla dimensione,
al livello di diversificazione e alla complessità che l’organizzazione è chiamata a gestire; 2. classificare le posi-
zioni secondo categorie sulla base del contributo al business aziendale; e 3. la valutazione della posizione
sulla base di alcuni fattori come ad esempio: conoscenza professionale, leadership e problem solving. I fattori
secondo cui si valuta la posizione nella terza fase del GGS sono: conoscenza professionale, conoscenza del
business, leadership, problem solving, natura dell’impatto, area dell’impatto, relazioni interpersonali (Gabrielli,
Profili, 2012).
31
Il metodo Hay viene introdotto per la prima volta al pubblico nel 1962 dalla omonima società di consulenza
Edward N. Hay & Associates, attuale Hay Group. La sua creazione risale, invece, alla fine degli anni Quaranta
ad opera del consulente americano Edward Hay che la utilizzò per valutare 450 posizioni alla General Foods
Corporation. Questa metodologia è la più utilizzata nel mondo. Una ricerca del CIPD afferma che il 78% delle
organizzazioni usa l’Hay Method in Gran Bretagna. Una ricerca simile condotta dalla Towers Perrin mostra che
il 75% delle principali organizzazioni in Europa usa come strumento di valutazione della posizione quello intro-
dotto dalla Hay Group.

166
La progettazione delle mansioni e dei ruoli

principale strumento di misurazione nella valutazione del lavoro sono le cosid-


dette “scale dei fattori puntiformi”, cosiddetti grafici Hay Group. Questa meto-
dologia consente il confronto di diverse posizioni, all'interno e/o all'esterno di
un'organizzazione, utilizzando una serie di fattori standard, che sono: 1. Il
know-how: ovvero tutti i tipi di conoscenze, abilità ed esperienza rilevanti ne-
cessarie per una prestazione accettabile in uno specifico ruolo. 2. La risoluzione
dei problemi: che tiene conto della quantità e della natura dello sforzo cognitivo
richiesto in una posizione sotto forma di analisi, ragionamento, valutazione e
individuazione di una soluzione. 3. Responsabilità: questo fattore individua
quanto le azioni poste in essere dal titolare della posizione e le relative conse-
guenze siano ascrivibili alla posizione medesima. A questi fattori di valutazione
vengono assegnati dei valori numerici e l’aggregato di tali valori viene attribuito
a ciascuna posizione permettendo così di definire il peso relativo di un lavoro a
seconda del numero di punti (Hay points) ottenuti.
Dunque, l’analista organizzativo si troverà a dover scegliere il metodo di
valutazione ritenuto più idoneo date le circostanze organizzative. Lo strumento
di misurazione che adotterà potrà esser chiamato a fornire indicazioni su uno o
tutti i seguenti tre importanti quesiti (D’Anna, 2015):

• Esistono differenze tra i ruoli considerati?


• Nel caso della sussistenza di differenze, queste “a che cosa” sono dovute?
• A quanto ammontano le differenze in questione?

Al primo quesito, d’indole generale, può essere fornita una sufficiente risposta
con il ricorso ad uno dei metodi cosiddetti “globali”, caratterizzati da giudizi
complessivi, sovente di tipo soggettivo e qualitativo.
Gli altri due quesiti richiedono invece valutazioni più specifiche, cosicché
le differenze fra le varie posizioni vengano esaminate attraverso il metodo del
punteggio, volto a spiegare analiticamente le differenze medesime ed a cercare
di quantificarle.
In ogni caso i metodi di valutazione fin qui ricordati tendono a esprimere
delle relazioni sufficientemente stabili fra genere di compiti svolti e requisiti degli
individui chiamati a realizzarli. Tuttavia, il rapido evolversi del contesto d’im-
presa, la mutazione della natura stessa del lavoro e la variabilità ambientale con
cui la stessa impresa è chiamata a confrontarsi rendono necessario un costante
presidio e aggiornamento degli strumenti cui abbiamo fatto cenno, al fine di ren-
derlo effettivamente espressivo dei fabbisogni di capacità e competenze del si-
stema.

167
5 La progettazione dei gruppi di lavoro
di Enrico Cori

5.1. I gruppi informali nei contesti di lavoro – 5.2. Il gruppo di lavoro come unità di
progettazione organizzativa – 5.2.1. In base a che cosa ci si orienta verso una forma
team-based? – 5.2.2. Possibili vantaggi di un’organizzazione team-based – 5.3. Scelte
di progettazione a livello di gruppo – 5.3.1. Dimensione – 5.3.2. Composizione –
5.3.3. Collocazione – 5.3.4. Struttura – 5.4. Principali tipologie di gruppo – 5.5. Fron-
tiere della progettazione: team interaziendali e team virtuali – 5.5.1. Team interazien-
dali – 5.5.2. Team virtuali – 5.6. Impatti delle scelte di progettazione sui comporta-
menti organizzativi

169
Lineamenti di organizzazione aziendale

5.1. I gruppi informali nei contesti di lavoro

Ci si potrebbe domandare perché in un libro di progettazione organizzativa si


introduca il capitolo sui gruppi di lavoro con un riferimento ai gruppi informali.
La risposta è molto semplice: se non facciamo tesoro di quanto la teoria orga-
nizzativa ha osservato sui gruppi informali, non riusciamo a comprendere in
modo esaustivo le condizioni e le conseguenze delle scelte di progettazione dei
gruppi di lavoro formali. In altre parole, la conoscenza dei principali fenomeni
legati alla genesi e alla dinamica dei gruppi informali è un punto di partenza
irrinunciabile se si vuole affrontare in modo consapevole e appropriato le que-
stioni di progettazione a livello di gruppo.
Per la loro natura questi gruppi possono formarsi indifferentemente in
qualsiasi ambito sociale. Si tratta infatti di aggregazioni spontanee tra un nu-
mero variabile di individui, che sono accomunati dalla volontà di raggiungere
un particolare obiettivo, da una passione comune, dalla condivisione profonda
di particolari valori. Sono gruppi informali quelli che si costituiscono tra amici
appassionati di escursioni o scalate in montagna, tra colleghi per costituire una
squadra di calcetto, tra abitanti di un paese colpito da una calamità naturale per
organizzare e portare i primi soccorsi alle persone rimaste coinvolte, tra profes-
sionisti che operano in differenti realtà aziendali e che decidono di condividere
le rispettive esperienze di lavoro per arricchire la propria professionalità. In
molti di questi casi il gruppo nasce in modo spontaneo e in seguito acquisisce
alcuni caratteri formali (pensiamo ad esempio ad un gruppo di soccorritori vo-
lontari che viene inquadrato nei ranghi della Protezione Civile o della Croce
Rossa); ma già nella fase in cui il gruppo si configura come entità informale è
possibile osservare alcune sue caratteristiche che ne fanno un gruppo di suc-
cesso, cioè in grado di raggiungere efficacemente gli obiettivi che esso stesso si è
dato.
I primi studi sistematici sui gruppi spontanei in ambito lavorativo risal-
gono agli anni ’20 del secolo scorso, quando i ricercatori di quella che poi venne
definita “Scuola delle relazioni umane” condussero lunghe e ripetute osserva-
zioni presso gli stabilimenti di Hawthorne della Western Electric Company, a
Chicago.

Box 5.1 La scuola delle relazioni umane

Le ricerche di Hawthorne segnano la nascita degli studi di psicologia sociale e di sociologia industriale,
che propongono un’interpretazione delle situazioni di lavoro e dell’impresa come “sistema umano e
sociale”.

170
La progettazione dei gruppi di lavoro

In esse ci si allontana dallo studio della fatica e della monotonia, che già nei primi decenni del 1900
aveva proposto soluzioni di “ricomposizione del lavoro” rispetto alle parcellizzazioni dei compiti e ai
frazionamenti dei tempi e dei movimenti prescritti dal “metodo scientifico” di Taylor.
Gli studi delle Relazioni Umane si focalizzano sulle relazioni interpersonali, le dinamiche di gruppo, la
leadership, la “soddisfazione” e il “morale” dei lavoratori, infine sulle funzioni delle regole informali
(sociali) che modificano o integrano le regole formali (Mayo, 1933; Roethlisberger, Dickson, 1939).
In particolare, le ricerche presso lo stabilimento industriale di Hawthorne, condotte in tre fasi succes-
sive, tra il 1927 e il 1932, sono rivolte a indagare rispettivamente: i fattori che influenzano il rendimento
degli operai, i motivi di insoddisfazione e lamentela degli stessi, il ruolo dei fattori informali. I principali
risultati mettono in evidenza il ruolo dei gruppi spontanei, la rilevanza di aspetti informali dell’organiz-
zazione, i processi di elaborazione di regole sociali come forme di autodifesa dei lavoratori.
Obiettivo degli studiosi delle Relazioni Umane non è tanto quello di introdurre nuovi criteri di proget-
tazione organizzativa, che verranno elaborati e si diffonderanno soprattutto a partire dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale, quanto quello di promuovere una nuova filosofia alla base delle scelte di
organizzazione del lavoro, e una consapevolezza degli aspetti informali che, insieme ai vincoli formali,
orientano i comportamenti individuali e collettivi.
(Fonte: Marchiori, 2009, con adattamenti e integrazioni)

Gli esperimenti condotti presso Hawthorne indicavano l’esistenza e la rilevanza


di un’organizzazione informale che si sovrapponeva a quella definita mediante
le scelte di progettazione. In particolare, le ripetute osservazioni evidenziavano
l’esistenza di aggregazioni spontanee di lavoratori, con dei propri obiettivi -
spesso confliggenti con quelli dell’azienda - e con proprie regole, definite regole
“sociali”, per distinguerle da quelle formalmente stabilite dalla gerarchia azien-
dale. Queste venivano progressivamente condivise all’interno di un gruppo e,
pur senza essere codificate e formalizzate, orientavano il comportamento dei
suoi membri. Un ulteriore aspetto che poteva essere osservato era l’emergere di
leader all’interno dei gruppi, cioè di figure di riferimento che per la loro autore-
volezza erano in grado di influenzare il comportamento degli altri membri del
gruppo.
Gli studi sui gruppi informali lasciano in eredità informazioni preziose per
chi si accinge a progettare gruppi di lavoro come elementi costitutivi dell’orga-
nizzazione formale. Possiamo individuare i seguenti processi sociali, che si inne-
stano sulle decisioni di progettazione organizzativa, e che quindi sono in grado
di condizionare l’efficace operare dei gruppi formalmente costituiti, cioè la loro
capacità di raggiungere gli obiettivi assegnati:

• autoselezione dei membri in base alle affinità interpersonali;


• elaborazione di regole sociali;
• emergere di un leader.

171
Lineamenti di organizzazione aziendale

Riguardo al primo punto, è necessario che i manager siano consapevoli


che le loro scelte di composizione dei gruppi non necessariamente coincidono
con quelle che sarebbero le scelte di aggregazione spontanea. Potrebbero così
essere costituiti gruppi formali all’interno dei quali è difficile creare sintonia,
poiché non vi è sufficiente affinità personale. Oppure all’interno di un gruppo
formale piuttosto numeroso potrebbero crearsi dei sottogruppi che rispecchiano
meglio le affinità e le preferenze personali, e che tendono a costituire dei “mondi
a sé” rispetto all’intero gruppo (faultlines).
Il processo di elaborazione di regole sociali si intreccia con la definizione
di regole formali da parte del management. Quanto più rilevanti e condivise
sono le norme di comportamento condivise dai membri del gruppo, tanto più il
controllo gerarchico-burocratico, espressione del management, sarà affiancato
da una forma di controllo sociale (di clan). Questa situazione, osservabile non
solo nelle organizzazioni team-based ma in qualsiasi contesto organizzato, porrà
il problema del rapporto tra regole sociali e regole formali. Il management dovrà
cercare di evitare che le regole sociali entrino in conflitto con quelle formali.
L’emergere di una figura di riferimento, dunque di un leader tra i membri
del gruppo, è visto spesso come un fenomeno positivo, in grado di favorire la
coesione del gruppo stesso e la convergenza dei comportamenti individuali verso
il perseguimento degli obiettivi per cui il gruppo è costituito. Questo a patto che
il leader agisca come rinforzo della gerarchia, cioè faccia propri gli obiettivi as-
segnati formalmente al gruppo e rinforzi la motivazione degli altri membri a
raggiungere gli obiettivi stessi.
Dopo questa necessaria premessa, che ci ha consentito di richiamare al-
cune dinamiche ricorrenti a livello di gruppo nei contesti organizzati, nei para-
grafi che seguono affronteremo le questioni più rilevanti che il management si
trova ad affrontare nella progettazione dei gruppi di lavoro. Questo, non prima
di aver riflettuto sui criteri che orientano verso la scelta del gruppo come unità
di base dell’organizzazione del lavoro, e sui possibili vantaggi conseguibili me-
diante i gruppi di lavoro.

5.2. Il gruppo di lavoro come unità di progettazione organizzativa

Consideriamo il gruppo di lavoro un’unità organizzativa alla quale è assegnato


un obiettivo comune, formata da due o più persone le cui attività, caratterizzate
in prevalenza da interdipendenza reciproca, sono svolte congiuntamente con
continuità o in maniera ricorrente.
Il gruppo di lavoro può rappresentare una soluzione organizzativa adot-
tata una tantum, in particolari circostanze della vita aziendale, oppure come
unità organizzativa di riferimento per la progettazione organizzativa.

172
La progettazione dei gruppi di lavoro

Nel primo caso singoli gruppi di lavoro sono costituiti ad hoc a fronte di
specifiche esigenze aziendali, in un’organizzazione del lavoro che resta tuttavia
imperniata sulle mansioni individuali (è il caso, ad esempio, dei team di sviluppo
nuovi prodotti, o di task force costituite per risolvere specifici problemi tecnici
o nei rapporti con i clienti).
Nel secondo caso parliamo invece di organizzazione del lavoro team-ba-
sed, o forma collettiva di organizzazione del lavoro: qui il gruppo di lavoro rap-
presenta il livello base della progettazione organizzativa, rispetto al quale si at-
tribuiscono le attività da svolgere, si definiscono gli obiettivi da raggiungere, gli
ambiti di discrezionalità e responsabilità, le competenze minime necessarie per
svolgere quelle attività.
Appare ovvio come principi e criteri di progettazione dei gruppi di lavoro
debbano essere tenuti in attenta considerazione in entrambi i casi, cioè non solo
quando ci si orienta verso una forma di organizzazione team-based, ma anche
quando si costituisce un singolo gruppo, indipendentemente che questo abbia
natura permanente o temporanea. Nella realtà si osservano situazioni interme-
die rispetto a quelle appena descritte. Spesso, infatti, la scelta di organizzare il
lavoro per gruppi viene circoscritta ad alcune aree dell’azienda, le cui attività
meglio si prestano ad essere ripartite tra gruppi di lavoro, mentre in altre si pre-
dilige l’individuazione di mansioni individuali. L’orientamento più o meno mar-
cato verso forme team-based è infatti il risultato della considerazione di una serie
di fattori, che si elencano nel paragrafo successivo.

5.2.1. In base a che cosa ci si orienta verso una forma team-based?

L’orientamento verso una forma di organizzazione del lavoro basata sull’im-


pego diffuso dei gruppi, tanto a livello di singola area quanto a livello di intera
azienda, non può non essere il risultato dell’attenta considerazione di alcuni fat-
tori. In altri termini, l’appropriatezza delle scelte di organizzazione del lavoro
richiede di essere valutata in rapporto alle caratteristiche tecniche dell’attività
svolta e alle caratteristiche individuali e sociali Tra i fattori da considerare, i
seguenti sono ritenuti particolarmente rilevanti:

• tipologia e natura dell’attività;


• natura e intensità delle interdipendenze tra attività;
• natura della conoscenza e dei processi di apprendimento;
• attitudini individuali;
• caratteri della cultura di contesto.

173
Lineamenti di organizzazione aziendale

Quando parliamo di tipologia di attività facciamo riferimento a differenti


insiemi di operazioni che concorrono a realizzare altrettante fasi del processo
produttivo e che, nel loro complesso, contribuiscono alla realizzazione dell’out-
put destinato al mercato. Tali insiemi di operazioni si distinguono gli uni dagli
altri per le basi di conoscenza che richiedono, ma anche per luoghi e tempi di
svolgimento: tipicamente riconosciamo attività di ricerca e sviluppo, progetta-
zione, acquisto, produzione, vendita, amministrazione, etc. Sulla base di questa
distinzione possiamo riconoscere attività che per le loro caratteristiche possono
essere più facilmente assegnate ad un gruppo di lavoro, quali la produzione o la
ricerca e sviluppo, ed altre, quali la vendita e le funzioni amministrative, che
meglio si adattano ad un lavoro svolto individualmente.
Quando parliamo, invece, di natura dell’attività, facciamo riferimento alle
dimensioni individuate da Perrow nella sua “matrice delle attività” (vedi capi-
tolo 3), ossia variabilità e analizzabilità: con il primo termine, ricordiamo, si fa
riferimento al grado di ripetitività nel tempo di una certa attività, ossia al nu-
mero di eccezioni che l’attività stessa presenta nel tempo rispetto ad una confi-
gurazione base; con il secondo termine si fa invece riferimento al fatto che i pro-
blemi che si devono affrontare e risolvere nello svolgimento di un’attività siano
noti e ricorrenti, e pertanto risolvibili attingendo ad un repertorio di soluzioni
costituito in precedenza, o abbiano il carattere si novità, per cui non disponiamo
di soluzioni già utilizzate in precedenza. Rispetto a questa distinzione possiamo
affermare che quanto maggiore è il numero di eccezioni e quanto minore è l’ana-
lizzabilità dei problemi (attività di routine), tanto più utile potrà rivelarsi il ri-
corso a gruppi di lavoro. Questo perché le situazioni anzidette possono essere
meglio fronteggiate con il contributo di più soggetti che, mettendo a sinergia le
rispettive conoscenze ed esperienze, danno vita a processi di apprendimento col-
lettivi finalizzati alla gestione delle eccezioni e alla soluzione di problemi non
noti.
La natura e l’intensità delle interdipendenze fra le attività costituiscono
ulteriori fattori in grado di indirizzare la scelta di progettazione verso forme in-
dividuali o collettive. Richiamando la tassonomia proposta da Thompson (vedi
capitolo 6), nonché le riflessioni di quest’autore sul collegamento tra tipo di in-
terdipendenza e soluzioni strutturali di coordinamento, è possibile sostenere che
quanto più frequenti sono le interazioni reciproche tra addetti coinvolti nella
realizzazione di una certa attività, tanto più utile è il loro raggruppamento, in
modo da favorire un coordinamento gerarchico basato su quello che Thomspon
stesso definisce “mutuo aggiustamento”. L’assegnazione ad un gruppo di lavoro
di più attività (ad es. quelle necessarie per lo sviluppo di un nuovo prodotto), o
di più fasi di una singola attività (ad es. fasi del processo di lavorazione) può
allora beneficiare di processi continui di comunicazione e feedback sulle rispet-
tive fasi/attività.

174
La progettazione dei gruppi di lavoro

La natura della conoscenza e dei processi di apprendimento connessi


all’attività svolta costituisce un ulteriore elemento in grado di orientare la scelta
di progettazione dell’organizzazione del lavoro. Quanto più le conoscenze ri-
chieste per svolgere efficacemente l’attività in questione sono note ex ante e sono
codificabili (ciò che consente di trasmetterle agli addetti attraverso processi di
addestramento e formazione, o sotto forma di procedure), tanto più si potrà
assegnare quell’attività, o sue singole fasi, a mansioni individuali. Al contrario,
quanto più le conoscenze si sviluppano contestualmente allo svolgimento
dell’attività e quanto meno sono codificabili, perché frutto anche di valutazioni
e percezioni (ciò che rende difficili trasmetterle attraverso strumenti formali),
tanto più sarà opportuno affidare quell’attività ad un gruppo di lavoro, nell’am-
bito del quale si attiveranno processi di apprendimento collettivi, frutto della
sintesi di valutazioni e percezioni individuali dei singoli membri (è il caso, ad
esempio, dell’attività di degustazione nelle aziende vitivinicole e olearie, oppure
dei processi di selezione del personale).
Finora abbiamo considerato le caratteristiche riferibili a determinate at-
tività e al loro svolgimento, ma la scelta di organizzare il lavoro per gruppi
non può non tenere conto anche di variabili individuali e di contesto. Con le
prime ci riferiamo alle attitudini individuali, cioè al fatto che non tutti gli in-
dividui sono ugualmente predisposti a lavorare in gruppo. Essi possono speri-
mentare principalmente bisogni di autorealizzazione e successo individuale,
oppure bisogni di appartenenza e di stima. Laddove prevalgono i bisogni del
secondo tipo, è probabile che gli individui desiderino lavorare in gruppo. Il
sentirsi parte di un gruppo e l’essere stimati dai colleghi del gruppo stesso ge-
nereranno soddisfazione e, verosimilmente, si tradurranno in un maggiore im-
pegno e disponibilità.

Box 5.2 Le teorie della motivazione

Gli studi sulla motivazione sono riconducibili a due macro-categorie:


- teorie del contenuto, elaborate allo scopo di identificare i bisogni alla base del comportamento, cioè
per capire che cosa motiva le persone;
- teorie del processo, costruite allo scopo di comprendere come i bisogni percepiti si traducono in
comportamenti organizzativi, attraverso l’analisi dei processi di scelta.
Tra le teorie del contenuto particolare significato assume quella di Maslow (1954), al quale siamo
debitori di un modello (la cosiddetta “piramide” dei bisogni) nel quale le varie categorie di bisogni
vengono ordinate gerarchicamente, nel senso che la ricerca della soddisfazione dei vari tipi di bisogni
avviene per gradi, partendo dal livello più basso: sussistenza, sicurezza, stima, appartenenza, autorea-
lizzazione. Secondo Maslow, quando un bisogno è soddisfatto cessa di essere motivante, così come
un bisogno non diviene motivante finché non sono stati soddisfatti i bisogni di livello inferiore.
L’idea di gerarchia dei bisogni insita nello schema concettuale di Maslow viene superata nei modelli
elaborati successivamente. Alderfer (1972), in particolare, identifica tre macro-categorie di bisogni: di

175
Lineamenti di organizzazione aziendale

esistenza (corrispondenti ai primi due gradini della scala di Maslow), relazione (corrispondenti al terzo
e quarto gradino) e crescita (associabile al quinto gradino). McClelland (1961), dal canto suo, si foca-
lizza sui bisogni collocati da Maslow al vertice della piramide, articolandoli in tre categorie: bisogni di
successo (achievement), potere e affiliazione, affermando che i diversi tipi di bisogni possono essere
sentiti con maggiore o minore intensità, a seconda della cultura di contesto. In altre parole, la perce-
zione dei bisogni secondo McClelland sarebbe condizionata da processi di apprendimento ed espe-
rienze individuali nell’ambito di un particolare contesto familiare e sociale.
Tra le teorie del processo, particolarmente rilevanti ai fini della progettazione organizzativa sono quelle
elaborate da Vroom (1964) e Locke (1968). Secondo il modello aspettativa-valenza proposto da Vroom
l’individuo valuta l’utilità attesa di un certo comportamento sulla base di due fattori: l’aspettativa, che
può riferirsi tanto alla probabilità che un determinato sforzo produca la performance richiesta, quanto
alla probabilità che al conseguimento della performance sia collegata una ricompensa; e la valenza,
cioè l’utilità assegnata dall’individuo alle ricompense ottenute a seguito della performance.
Secondo il modello di Locke, detto del goal setting, sono invece le caratteristiche degli obiettivi che
orientano le scelte e l’azione individuale: in particolare il grado di specificità, il livello di difficoltà (gli
obiettivi dovrebbero essere “sfidanti”, ma non essere percepiti come impossibili da raggiungere),
orientati a risultati da raggiungere anziché a comportamenti da rispettare. Rilevanti sono anche le ca-
ratteristiche del processo di formulazione degli obiettivi, il cui carattere partecipativo è considerato in
grado di favorire la motivazione.
(Fonte: Isotta, 2011, con adattamenti)

La cultura di contesto può essere intesa come insieme di valori condivisi da una
collettività locale, nel territorio di appartenenza, o nazionale. In entrambi i casi,
riprendendo l’impostazione di Hofstede (1980) 1, possiamo individuare due di-
mensioni particolarmente rilevanti nel determinare il grado di accettazione e
l’efficacia di un’organizzazione basata sui gruppi di lavoro: tali dimensioni sono
l’asse individualismo-collettivismo e l’asse mascolinità-femminilità. La preva-
lenza di valori ispirati all’individualismo e alla “mascolinità” in una collettività
locale o nazionale spingerà i manager ad adottare un’organizzazione imperniata
sulle mansioni individuali. Al contrario, la maggiore diffusione e la condivisione
di valori che si ispirano al collettivismo e alla “femminilità” suggeriscono l’esi-
stenza di condizioni particolarmente favorevoli ad un’organizzazione basata sui
gruppi di lavoro.

1
Hofstede (1980) propone quattro principali dimensioni che, configurandosi in vario modo, danno origine a quelle
che egli definisce “culture nazionali”. Tali dimensioni sono la distanza dal potere (il grado in cui una società
accetta il fatto che il potere nelle istituzioni e nelle organizzazioni è distribuito in modo diseguale); l’avversione
all’incertezza (il grado in cui una società si sente minacciata da situazioni incerte e ambigue), l’asse individuali-
smo-collettivismo (il grado in cui una società manifesta una propensione a prendersi cura esclusivamente di se
stessi e delle proprie famiglie) e l’asse mascolinità-femminilità (il grado in cui i valori dominanti nella società sono
orientati all’assertività e alla ricerca di beni materiali).

176
La progettazione dei gruppi di lavoro

5.2.2. Possibili vantaggi di un’organizzazione team-based

La decisione, da parte del management, di puntare su un’organizzazione team-


based deve trovare giustificazione dalla volontà di perseguire alcuni particolari
obiettivi di efficienza e di efficacia, che sembrano maggiormente alla portata di
questo tipo di organizzazione del lavoro rispetto a quella imperniata su un si-
stema di mansioni individuali.
Un primo vantaggio, il cui perseguimento può essere facilitato da un’or-
ganizzazione team-based, è relativo alla possibilità che il coordinamento delle at-
tività sia più efficace nell’ambito di un gruppo che tra le corrispondenti man-
sioni individuali. In proposito, Thompson (vedi capitolo 6) suggerisce che in
presenza di interdipendenze reciproche tra due o più attività, o fasi di lavoro, le
unità coinvolte siano raggruppate in un’unità di livello superiore per ottenere
soddisfacenti livelli di coordinamento. Il gruppo di lavoro costituisce dunque
l’unità di livello superiore rispetto a due o più mansioni individuali che svolgono
attività reciprocamente interdipendenti. La maggiore efficacia del coordina-
mento nell’ambito del gruppo dipende anzitutto, secondo Thompson, dalla pos-
sibilità che tra i suoi membri si attivino forme di mutuo adattamento, cioè mo-
dalità non gerarchiche di coordinamento basate sul rapporto diretto tra addetti
coinvolti nelle attività/fasi interdipendenti. In aggiunta, l’assegnazione di obiet-
tivi e incentivi di gruppo può stimolare e incoraggiare i suoi membri a coordi-
narsi in maniera efficace, poiché saranno valutati sulla base del risultato del
gruppo, e non dei contributi individuali.
Un secondo vantaggio che si è soliti associare ad un’organizzazione ba-
sata sui gruppi di lavoro attiene al perseguimento di condizioni di elevata flessi-
bilità operativa. Questa opportunità è associata al fatto che il piccolo gruppo di
lavoro è considerato il luogo ideale per applicare la job rotation, a condizione
che i membri del gruppo siano polivalenti. In questo caso essi sono in grado di
sostituirsi l’uno con l’altro grazie ad una rotazione delle mansioni spesso frutto
di decisioni spontanee dei membri del gruppo, senza che necessariamente debba
essere autorizzata o programmata dalla gerarchia. Naturalmente questo van-
taggio non è per tutti i gruppi di lavoro, ma solo per quelli i cui membri hanno
competenze omogenee o affini, e nei quali le attività svolte sono tecnicamente
simili e non richiedono “salti” di competenze passando dall’una all’altra. È il
caso, principalmente, dei gruppi coinvolti nei processi di produzione industriale
o in quelli preposti all’erogazione di alcuni servizi (si pensi agli addetti di un
McDonald’s o a quelli della reception di un grande albergo).
Un terzo vantaggio è relativo ai processi di elaborazione e condivisione di
informazioni e conoscenza nell’ambito del gruppo. Questo vantaggio assume
particolare rilevanza in due differenti circostanze:

177
Lineamenti di organizzazione aziendale

• quando il perseguimento degli obiettivi assegnati al gruppo richiede l’in-


tegrazione tra differenti conoscenze differenti, apportate dai vari com-
ponenti del gruppo. Uno tra gli esempi tipici è quello del gruppo di svi-
luppo di nuovi prodotti, in cui è necessario mettere a sinergia compe-
tenze di marketing, progettazione, ingegnerizzazione, approvvigiona-
mento, analisi dei costi, etc.
• quando la natura delle conoscenze da sviluppare è tale per cui i processi
di apprendimento collettivi si dimostrano nettamente più efficaci ri-
spetto a quelli individuali, grazie anche all’ausilio di tecniche di brain-
stroming. In genere questo avviene ogniqualvolta ci si confronta con
problemi non noti in precedenza, oppure quando devono essere prese
decisioni che a livello individuale possono essere soggette a distorsioni e
percezioni soggettive come nel caso, richiamato in precedenza, dei
gruppi di degustazione nell’industria alimentare e vitivinicola.

In relazione ai suddetti vantaggi abbiamo volutamente parlato di possibilità,


ossia di opportunità associate ad uno schema di organizzazione per gruppi di
lavoro. Il loro raggiungimento non può infatti essere dato per scontato, ma ri-
chiede la presenza di alcune condizioni relative al buon funzionamento dei
gruppi. Per far sì che queste condizioni si realizzino è necessario porre partico-
lare attenzione alle scelte di progettazione a livello di gruppo, oggetto del pros-
simo paragrafo.
Sin qui abbiamo fatto riferimento ai vantaggi che l’azienda può conse-
guire in modo più o meno diretto organizzando il lavoro per gruppi. Si tratta di
vantaggi che si traducono nel miglioramento di una o più dimensioni di effica-
cia, cioè nel raggiungimento di migliori performance, in termini di qualità dei
risultati o di tempi di svolgimento delle attività, e che in genere producono un
impatto positivo, anche indiretto, sulla soddisfazione dei clienti. Il lavoro orga-
nizzato per gruppi offre altresì la possibilità di soddisfare bisogni e aspettative
individuali. I piccoli gruppi, infatti, presentano potenziali vantaggi in termini di
soddisfazione di alcune categorie di bisogni espressi dagli individui.
Da un lato, il far parte di un gruppo può soddisfare bisogni di apparte-
nenza e stima, ossia legati alla sfera relazionale. Sentirsi parte di un gruppo, con-
dividere con esso successi e insuccessi, può far sentire gli individui più sicuri, in
qualche modo protetti, può aiutare a superare insicurezze e ansie. La necessaria
condivisione dei meriti è bilanciata da una condivisione di responsabilità, che
tuttavia non significa de-responsabilizzazione. Lavorare costantemente fianco a
fianco di alcuni colleghi offre inoltre più frequenti occasioni di ricevere attestati
di stima, ciò che può agire come rinforzo motivazionale e incoraggiamento.

178
La progettazione dei gruppi di lavoro

Dall’altro, nella misura in cui ai gruppi di lavoro è concesso un ampio


margine di discrezionalità, nel senso che il gruppo stesso può decidere come pro-
grammare e organizzare il lavoro al proprio interno, se e con quale cadenza ap-
plicare pratiche di job rotation, se e come intervenire sul processo di lavoro, quali
soluzioni scegliere per gestire situazioni non programmate o codificate, allora
gli individui che ne fanno parte potranno soddisfare bisogni di autorealizzazione
(crescita).
Infine, il far parte in maniera non occasionale di gruppi di lavoro “ob-
bliga”, in un certo senso, a sviluppare alcune competenze relazionali, quali la
capacità di esporre e argomentare le proprie idee, la capacità di ascolto, la ca-
pacità di prevenire e gestire tensioni e conflitti, così come alcune competenze
tipicamente “organizzative”, quali sapersi coordinare, riuscire a definire metodi
di lavoro condivisi, che permettano sia di gestire la quotidianità che di far fronte
adeguatamente a situazioni impreviste.
Tanto la possibilità di soddisfare alcune categorie di bisogni individuali
quanto l’opportunità di sviluppare competenze relazionali e organizzative non
possono darsi per scontate. Certamente esse dipendono dalle attitudini indivi-
duali, ma anche, e forse soprattutto, dalle scelte di progettazione dei gruppi di
lavoro, cui è dedicato il prossimo paragrafo.
La ricerca di forme di organizzazione del lavoro differenti da quelle ispi-
rate al modello fordista ed ai principi tayloristi ha considerato proprio le oppor-
tunità associate alla soddisfazione di bisogni sociali e di autorealizzazione. In-
fatti, molti interventi di riorganizzazione e ricomposizione del lavoro, soprat-
tutto nell’industria, hanno preso in considerazione forme basate sull’utilizzo si-
stematico dei cosiddetti gruppi semi-autonomi.

Box 5.3 I gruppi semi-autonomi di lavoro

Il gruppo semi-autonomo di lavoro consiste nell’assegnazione ad un insieme di persone di una fase di


lavoro in cui si verifica un cambiamento nelle proprietà dell’input (state change) significativo ed essen-
ziale rispetto al conseguimento dell’output desiderato. Le persone inserite nel gruppo svolgono dunque
più compiti e possiedono competenze multifunzionali. Tale tipologia di gruppo rappresenta una solu-
zione di progettazione organizzativa che ha avuto ampia applicazione negli anni Settanta del secolo
scorso, nei processi di ristrutturazione delle grandi fabbriche europee e nordamericane. In seguito,
essa è stata indicata come l’“unità organizzativa di base” da pressoché tutte le proposte organizzative
che dichiarano di ispirarsi a principi “post-tayloristi” o “post-fordisti”.
Tale soluzione trova la propria origine concettuale negli studi appartenenti al c.d. approccio sociotec-
nico, una delle correnti di neo-relazioni umane sviluppatasi, a partire dal secondo dopoguerra, intorno
al lavoro di Emery e Trist (1960) e di altri ricercatori del Tavistock Institute di Londra.
L’ipotesi sostenuta è che il gruppo di lavoro rappresenta la soluzione più “adatta” anche per soddisfare
i “fabbisogni o requisiti” del sistema sociale che i ricercatori sociotecnici individuano nelle esigenze

179
Lineamenti di organizzazione aziendale

psicologiche dei lavoratori (psychological job requirements) e, in particolare, nel grado di soddisfa-
zione sul lavoro che, per questi studi, coincide con la “qualità della vita nei luoghi lavoro”.
(Fonte: Marchiori, 2009, con adattamenti)

I gruppi semi-autonomi possono assumere differenti configurazioni, dando


luogo ad un’elevata varietà di situazioni, in funzione degli ambiti di discrezio-
nalità attribuiti al gruppo e alla conseguente possibilità di auto-dirigersi o, al
contrario, di essere eterodiretti. Tra le prime e più famose applicazioni di questo
tipo di gruppo si ricordano quelle alla Volvo negli anni ’70, mentre un esempio
recente, sempre nell’industria automobilistica, è quello dello stabilimento FCA
di Pomigliano, a seguito del processo di profonda riorganizzazione delle linee
produttive.

Quadro 5.1 I Team semi-autonomi in FCA

Nel 2010-11, lo stabilimento FCA di Pomigliano, alle porte di Napoli, è stato completamente ristruttu-
rato attraverso una serie di interventi volti in primo luogo all’innalzamento dei livelli di produttività e
competitività: tra questi, una nuova organizzazione del lavoro basata sui team, ognuno dei quali for-
mato da 6 addetti e 1 team leader. Ad ogni team è richiesto non solo di monitorare e risolvere le
anomalie che possono verificarsi lungo il processo di lavoro, ma anche di fornire suggerimenti su
come migliorare l’ergonomia delle postazioni di lavoro e di proporre cambiamenti e innovazioni relativi
all’organizzazione del flusso di lavoro. Il team partecipa attivamente alla pianificazione del lavoro lungo
le linee produttive, per quel che riguarda la definizione delle modalità di svolgimento di compiti, peraltro
in larga misura predefiniti. L’obiettivo è quello di eliminare ogni attività “non a valore aggiunto”, cioè
ogni operazione che tenderebbe a limitare la produttività. Gli stessi addetti sono incaricati di studiare
ogni possibile miglioramento, in quanto si parte dal presupposto che il sistema delle procedure stan-
dard può essere aggiornato in una logica bottom-up. In questo modo, la necessità di un’articolata
gerarchia con compiti di supervisione e controllo diretto sulle azioni degli addetti si riduce in maniera
significativa, in quanto i problemi (quando si manifestano) diventano immediatamente chiari e ricono-
scibili dai membri del team.
(Fonte: Pezzillo Iacono, De Nito, Martinez, Mercurio, 2017, con adattamenti)

5.3. Scelte di progettazione a livello di gruppo

La progettazione organizzativa a livello di gruppo, al pari di quella a livello di


mansione, si occupa di definire i contenuti del lavoro assegnato al gruppo, (in
termini di numero di compiti, fasi di un’attività o attività), i corrispondenti re-
quisiti professionali (conoscenze, capacità e attitudini richieste), gli ambiti di di-
screzionalità e responsabilità, le modalità di coordinamento e controllo, nonché
le relazioni, gerarchiche e funzionali, con il resto della struttura. Ma la proget-

180
La progettazione dei gruppi di lavoro

tazione dei gruppi si occupa anche di alcune questioni specifiche di un’organiz-


zazione team-based, che non ricorrono nel caso di un’organizzazione del lavoro
imperniata su mansioni individuali: tra queste assumono particolare rilievo le
scelte relative alla dimensione del gruppo, alla sua composizione, alla colloca-
zione nella struttura organizzativa.

5.3.1. Dimensione

La questione del numero di persone da inserire in un gruppo di lavoro va af-


frontata senza la pretesa di individuare una dimensione ottima, e soprattutto
tenendo conto che le scelte relative alla dimensione devono comunque essere
contestualizzate, cioè prese tenendo in debito conto i compiti e gli obiettivi as-
segnati al gruppo stesso, nonché la varietà delle competenze necessarie per per-
seguirli.
Se è dunque poco utile andare a ricercare una dimensione ottima, ricerche
ed evidenze empiriche suggeriscono che in nessun caso un gruppo di lavoro ef-
ficace non debba essere composto da più di 12-15 persone (Kinicki, Kreitner,
2004; Slocum, Hellriegel, 2007; Robbins, Judge, Bodega, 2016). Tale numero,
auspicabile nei casi in cui al gruppo siano assegnati obiettivi di ricerca e svi-
luppo, innovazione di prodotto, o la ricerca di soluzioni a problemi di una certa
complessità, può essere ritenuto già troppo elevato se al gruppo sono affidati
compiti operativi di produzione, logistica, o altro.
Nel caso in cui il gruppo di lavoro rappresenti la sintesi di competenze
eterogenee (ne sono un tipico esempio i team di sviluppo di nuovi prodotti), la
dimensione potrà dirsi adeguata quando avremo inserito un numero di addetti
sufficiente ad apportare le competenze richieste. Nel caso, invece, in cui il
gruppo di lavoro sia composto da addetti con competenze omogenee (come in
molti team che operano lungo le linee di produzione industriale) il numero di
addetti dovrà tener conto in primo luogo della “porzione” del flusso di lavoro
assegnata al gruppo, ma anche delle condizioni di efficacia del gruppo stesso.
A questo proposito, è opportuno riflettere sul fatto che un numero limi-
tato di componenti (intorno alle 3-4 persone) può favorire il processo di aggre-
gazione e lo sviluppo di un forte senso di appartenenza, favorendo processi di
apprendimento e condivisione della conoscenza. Al contrario, gruppi più nume-
rosi possono offrire un più ampio spettro di conoscenze ed esperienze, ma sono
soggetti ad alcune possibili disfunzioni: il processo decisionale può essere meno
fluido e trovare ostacoli nella varietà dei punti di vista (Franco, 1991); inoltre
possono essere necessari maggiori sforzi per raggiungere un efficace coordina-
mento; infine, all’aumento della dimensione del gruppo possono verificarsi fe-
nomeni di social loafing (inerzia sociale), cioè dinamiche comportamentali che

181
Lineamenti di organizzazione aziendale

si traducono in minori sforzi da parte delle persone che lavorano in gruppo an-
ziché individualmente (Robbins, Judge, Bodega, 2016).
Il manifestarsi congiunto delle situazioni appena descritte può suggerire
di dividere un gruppo numeroso in sotto-gruppi, decisione che sposterà il focus
dell’attenzione sul coordinamento tra questi. Tale opzione dovrebbe comunque
essere perseguita attraverso un processo formale. La formazione di sottogruppi
può infatti rappresentare un rischio, qualora avvenga sulla base di processi
spontanei e non risponda ad oggettive esigenze legate al raggiungimento degli
obiettivi assegnati al gruppo. In questo caso potrebbero emergere situazioni di
faultlines, cioè di creazione di confini invisibili e non formalizzati, ma non per
questo meno “divisivi”, frutto della percezione di differenze individuali, soprat-
tutto relative ai caratteri socio-demografici dei membri del gruppo (Robbins,
Judge, Bodega, 2016).
Tuttavia non bisogna credere che il verificarsi delle predette situazioni sia
imputabile unicamente o principalmente alla dimensione del gruppo. L’efficacia
dei processi interni al gruppo dipende in primo luogo dalle caratteristiche del
modello organizzativo: in particolare si ritengono condizioni fondamentali l’esi-
stenza di una cultura organizzativa che incorpora tra i propri valori quelli della
cooperazione sul lavoro e l’”essere squadra”, nonché una forte legittimazione
del modello team-based da parte del vertice aziendale.

5.3.2. Composizione

Le scelte relative alla composizione riguardano chi inserire nel gruppo di lavoro
e se mantenere nel tempo la stessa composizione o modificarla periodicamente,
e perché.
Riguardo alla selezione di chi entrerà a far parte di un gruppo, il criterio
base è rappresentato dal possesso o meno delle competenze necessarie per svol-
gere l’attività di cui il gruppo di dovrà occupare (“criterio delle competenze”).
È cioè necessario che in ogni gruppo “entrino” tutte le competenze “tecniche”
che consentono di raggiungere gli obiettivi assegnati al gruppo. Nell’insieme, i
membri del gruppo dovranno possedere quelle competenze, a prescindere di
come queste siano distribuite tra gli stessi. Parliamo di competenze tecniche per
distinguerle da quelle che “organizzative” (di controllo, coordinamento, pro-
grammazione e organizzazione del lavoro, etc.) Queste ultime possono anche
non essere presenti nel team, dipende dalle scelte di struttura e dalle linee di di-
pendenza con il resto della struttura.
Ma c’è un secondo criterio che, una volta soddisfatto il primo, dovrebbe
essere perso in considerazione nella composizione del gruppo di lavoro. Si tratta
del cosiddetto “criterio di affinità”, che suggerisce di inserire in uno stesso

182
La progettazione dei gruppi di lavoro

gruppo le persone sulla base delle loro preferenze a lavorare con altre 2. Un’ele-
vata affinità tra i membri di un gruppo è infatti considerata un carattere facili-
tante l’efficacia del team, in termini di qualità dei risultati, velocità di esecuzione
e decisione, armonia e spirito di gruppo.
Non sempre è possibile rispettare questo secondo criterio. Al di là delle
difficoltà che possono incontrarsi nel “misurare” il grado di affinità delle per-
sone, è necessario che per uno stesso tipo di figura professionale si possa sce-
gliere, tra più persone, quella che sembra integrarsi meglio con le altre, in virtù
della maggiore affinità. Il problema si pone soprattutto nelle imprese di piccole
dimensioni. Ad esempio, sappiamo che nel team di sviluppo di un nuovo pro-
dotto devono essere incluse competenze di progettazione, marketing, analisi dei
costi, ecc. Mettiamo il caso che in una piccola impresa vi sia un solo esperto di
marketing, un solo ingegnere progettista, un solo esperto di costi: ciò significa
che la scelta sarà obbligata, queste persone dovranno per forza di cose entrare
a far parte del team, a prescindere dal loro grado di affinità, da quanto esse
gradiscano lavorare “gomito a gomito”. A prescindere che si verifichi la situa-
zione appena descritta, sarà inoltre necessario considerare se il management
dell’impresa in oggetto dispone di conoscenze e capacità tali da permettere il
ricorso a strumenti di analisi del grado di affinità.
Spostandoci ora a considerare la questione inerente la composizione dei
gruppi di lavoro, cioè la sua variabilità o stabilità nel tempo, va anzitutto preci-
sato che questa scelta riguarda esclusivamente i team permanenti. Sarebbe fuori
luogo, infatti, pensare che con riferimento ad un gruppo temporaneo, con una
durata limitata al raggiungimento di un particolare obiettivo, ci si debba preoc-
cupare di modificare la sua composizione, a meno che non vi siano situazioni di
abbandono da parte di qualcuno dei suoi membri o evidenze di un cattivo fun-
zionamento addebitabili proprio alla sua particolare composizione.
Per quanto riguarda i gruppi destinati ad operare nel tempo, cosa può
indurre il manager a mettere mano periodicamente alla loro composizione? Ci
sono esigenze differenti che possono spingere verso il mantenimento nel tempo
della composizione originaria (c.d. gruppi “fissi”) o, al contrario, verso una mo-
difica della composizione dopo un certo tempo dalla loro costituzione (c.d.
gruppi “variabili”).

2 La social network analysis fornisce strumenti per misurare alcune dimensioni relative alle interazioni nei gruppi
di persone. In particolare, attraverso i sociogrammi è possibile descrivere graficamente la struttura delle relazioni
informali in un determinato gruppo di persone, in termini di amicizia, sintonia, antagonismo, disponibilità ad aiu-
tare gli altri, etc. Il loro utilizzo negli studi di organizzazione risale agli esperimenti di Hawthorne, condotti negli
anni ’20 del secolo scorso dai ricercatori della Scuola delle Relazioni Umane. Per un approfondimento si veda
Yang & Tang (2004).

183
Lineamenti di organizzazione aziendale

Modificare periodicamente la composizione dei gruppi consente di condi-


videre in un contesto più ampio del gruppo stesso conoscenze sviluppate conte-
stualmente, relative ad esempio alla soluzione di particolari problemi o all’in-
troduzione di innovazioni incrementali nei processi di lavoro. La logica dei
gruppi fissi presenta dunque il rischio che i processi di apprendimento siano
molto efficaci entro i confini del gruppo stesso, ma troppo deboli a livello azien-
dale, per via di una certa “chiusura” nei confronti del resto dell’azienda. Una
seconda opportunità connessa alla logica dei gruppi variabili è relativa allo svi-
luppo delle competenze individuali: passando da un gruppo all’altro, gli addetti
possono avere maggiori opportunità di sviluppo delle loro conoscenze e capa-
cità, sperimentare nuove situazioni di lavoro e nuove relazioni interpersonali,
ciò che può soddisfare bisogni di varietà.
Al contrario, mantenere la composizione originaria consente di migliorare
col tempo l’affiatamento nel gruppo, ma anche le capacità di coordinamento, di
programmazione e organizzazione del lavoro, senza dover ricorrere all’intervento
della gerarchia. Il tempo può rivelarsi altresì fondamentale nel favorire l’emergere
di leader spontanei, riconosciuti come tali da tutti i membri del gruppo. In termini
di capacità di soddisfare i bisogni dei suoi membri, il gruppo a configurazione
fissa è una scelta coerente con il prevalere di bisogni di sicurezza e con una bassa
propensione al cambiamento da parte dei singoli individui.

5.3.3. Collocazione

Quando parliamo di collocazione dei gruppi di lavoro ci riferiamo essenzial-


mente alle aree aziendali e ai livelli gerarchici di provenienza dei suoi membri.
Rispetto ad un qualsiasi gruppo possiamo infatti distinguere una dimensione
verticale e una dimensione orizzontale. La dimensione verticale fa riferimento
al numero dei livelli gerarchici da cui provengono i membri del gruppo, mentre
la dimensione orizzontale indica le funzioni o aree di loro provenienza.
Incrociando le due dimensioni, otteniamo una matrice (Figura 5.1) nei cui
quadranti, partendo in basso a sinistra e procedendo in senso orario, troviamo
le seguenti situazioni:

I. gruppi i cui addetti provengono dalla stessa funzione/area e dallo stesso


livello gerarchico (gruppo “orizzontale interfunzionale”);
II. gruppi i cui addetti provengono dalla stessa funzione/area ma da più
livelli gerarchici (gruppo “verticale funzionale”);
III. gruppi i cui addetti provengono da differenti funzioni/aree e da diffe-
renti livelli gerarchici; (gruppo “verticale interfunzionale”)
IV. gruppi i cui addetti provengono da differenti funzioni/aree ma dallo
stesso livello gerarchico (gruppo “orizzontale interfunzionale”).

184
La progettazione dei gruppi di lavoro

Figura 5.1. Tipologia di gruppi in base alla provenienza dei membri

I gruppi che si collocano nel quadrante I sono caratterizzati da elevata omoge-


neità, che riguarda tanto le competenze possedute dagli addetti, quanto la col-
locazione gerarchica. Esempi di questo tipo di gruppo sono facilmente rintrac-
ciabili nell’area tecnico-produttiva, in particolare nei reparti di lavorazione in-
dustriale.
I gruppi collocati nel II quadrante sono eterogenei rispetto alla colloca-
zione sulla piramide gerarchica ma omogenei rispetto alle competenze dei sin-
goli membri. Esempi sono rintracciabili anche in questo caso nell’area tecnico-
produttiva, in produzione o negli uffici di progettazione, ambiti nei quali è fre-
quente che ingegneri, tecnici diplomati e operai specializzati facciano parte di
uno stesso team.
Nel III quadrante troviamo i gruppi caratterizzati dal più alto grado di
eterogeneità, che riguarda tanto le competenze quanto la collocazione gerar-
chica. Esempi di questo tipo non sono molto frequenti, poiché le due dimensioni
dell’eterogeneità in genere tendono a escludersi. Possiamo aver necessità di in-
tegrare conoscenze e capacità di tipo diverso, ma in questo caso verosimilmente
tendiamo a inserire in uno stesso gruppo dei pari-grado, per facilitare lo scambio
informativo e la messa a sinergia delle rispettive conoscenze; oppure possiamo
ritenere utile integrare vari livelli di conoscenza - da quella più “teorica” a quella
più “pratica” - riguardante però uno stesso ambito (produzione, progettazione,
ricerca e sviluppo, etc.). Tuttavia, al di fuori del mondo delle imprese, le aziende
sanitarie ci forniscono numerosi esempi di gruppi con queste caratteristiche
(Quadro 6.1).
Nel IV quadrante, infine, troviamo gruppi eterogenei rispetto alla fun-
zione/area di provenienza, ma omogenei rispetto alla collocazione gerarchica.
Esempi di questo tipo sono le task force interfunzionali, i team di sviluppo di

185
Lineamenti di organizzazione aziendale

nuovi prodotti, i gruppi costituiti per l’assistenza ai key-client nelle aziende che
producono su commessa, i team multidisciplinari nell’ambito dei servizi socio-
sanitari.
Sembra evidente come la differente combinazione delle dimensioni oriz-
zontale e verticale, implicando eterogeneità di vario tipo fra i membri del
gruppo, sia all’origine di differenti gradi di complessità nella gestione di questo.
La soluzione non può essere, ovviamente, quella di ridurre il livello di eteroge-
neità, perché questo può essere adeguato agli obiettivi assegnati al gruppo
stesso. Per ridurre la complessità gestionale e facilitare così l’ottenimento di ri-
sultati soddisfacenti è allora necessario intervenire sia sulla composizione, cer-
cando di rispettare anche il criterio di affinità personale, sia sulla struttura del
gruppo stesso.

Quadro 5.2 I team multi-disciplinari nelle aziende sanitarie

Nelle strutture socio-sanitarie numerose e varie sono le situazioni in cui si rende opportuno, se non
addirittura necessario, ricorrere a forme di lavoro in gruppo. Si pensi ad attività di diagnosi di patologie
complesse, alla decisione di intervenire o non intervenire chirurgicamente, alla valutazione periodica
degli effetti di trattamenti di lungo periodo, etc.
Nella maggior parte dei casi la natura dell’attività svolta richiede il coinvolgimento di specialisti di diverse
branche, determinando così un elevata varietà delle competenze (eterogeneità orizzontale). Inoltre, è fre-
quente che dello stesso gruppo facciano parte dirigenti medici, “semplici” specializzandi, oltre a infermieri
o terapisti (eterogeneità verticale). I gruppi di questo tipo non operano con continuità, ma si riuniscono a
cadenza prestabilita (una o più volte alla settimana) o quando se ne ravvisa la necessità, nell’arco della
giornata lavorativa. Un ulteriore elemento di complessità è dato dal fatto che questi gruppi possono essere
a configurazione variabile, per il fatto che il lavoro medico e infermieristico è organizzato per turni e non
è detto che ogni volta che il gruppo si riunisce le stesse persone siano “di turno”.
L’analisi del funzionamento di questi gruppi e le dinamiche che si osservano indicano l’elevata criticità
delle scelte di composizione degli stessi, la necessità che gli obiettivi ci si perseguono siano totalmente
condivisi, l’opportunità di bilanciare attentamente modalità di coordinamento gerarchiche e non, così
come controllo procedurale e controllo sui risultati. In particolare, la composizione dei gruppi di questo
tipo sembra non poter prescindere da una valutazione del grado di affinità tra le persone che ne fanno
parte, per evitare che le diversità in termini di “status” connesso alla posizione gerarchica e differenti
orientamenti professionali rendano difficile una proficua cooperazione e l’integrazione delle rispettive
competenze.
(Fonte: nostra elaborazione)

5.3.4. Struttura

Le scelte di struttura del gruppo di lavoro riguardano anzitutto la tipologia di


ruoli che si ritiene debbano farne parte e l’individuazione di ruoli di coordina-
mento e controllo.

186
La progettazione dei gruppi di lavoro

Riguardo al primo punto, una classificazione utile ai fini della progetta-


zione è quella che distingue tra ruoli tecnici, o di funzionamento, e ruoli sociali,
o di supporto alla costruzione e al mantenimento del gruppo (Franco, 2007). Lo
svolgimento dei primi presuppone il possesso di competenze tecniche in grado
di consentire lo svolgimento delle attività assegnate e il conseguente raggiungi-
mento di risultati attesi. Lo svolgimento dei secondi, invece, finalizzato a facili-
tare la costruzione, il rafforzamento e la continuità nel tempo del gruppo, pog-
gia su competenze di supporto al funzionamento del gruppo, quali capacità di
mediazione, comunicazione, coaching, gestione del tempo, etc.
Mentre in ogni gruppo troviamo un certo numero di addetti che svolge
ruoli tecnici, non è detto che sia necessario inserire dei ruoli sociali, cioè addetti
che entrano nel gruppo non per particolari conoscenze e capacità relative allo
svolgimento dell’attività assegnata, ma che agiscono come “facilitatori”. Infatti,
il gruppo, per la sua particolare collocazione, o per le caratteristiche dei membri
che svolgono ruoli tecnici, potrebbe non aver bisogno di ruoli ad hoc che ne
facilitino il funzionamento. Possiamo ragionevolmente ritenere che la necessità
di ricorrere a ruoli ad hoc che aiutano il gruppo a “funzionare bene” sia tanto
maggiore:

• quanto più eterogeneo è il gruppo stesso, soprattutto in termini di va-


rietà delle competenze apportate, cioè in termini che prima abbiamo de-
finito “orizzontali”; questo perché l’eterogeneità di competenze spesso
si associa a differenti percorsi formativi e culture professionali anche
molto distanti tra loro;
• quanto meno i membri sono abituati a lavorare in gruppo, cioè il loro
inserimento in un gruppo di lavoro rappresenta una “novità” in termini
di organizzazione del loro lavoro;
• quando, in sede di costituzione del gruppo, non si sia potuto tener conto
delle preferenze individuali, cioè di quello che in precedenza abbiamo
definito “criterio di affinità”; e dunque vi è il rischio che bassi livelli di
affinità possano compromettere il funzionamento del gruppo;
• in generale, nelle prime fasi di vita del gruppo stesso, secondo quanto
raccomandano i fautori dell’esistenza di un ciclo di vita del gruppo (Box
5.4); in questa prospettiva i ruoli sociali sono ritenuti critici in fase di
avviamento del gruppo, quando si tratta di costruire uno schema stabile
di relazioni al suo interno, di abituare al lavoro in team, di sviluppare o
rafforzare lo spirito di gruppo.

187
Lineamenti di organizzazione aziendale

Box 5.4 Gli stadi di sviluppo dei gruppi

Secondo il modello proposto da Tuckman & Jensen (1977), a partire dalla sua costituzione il gruppo,
di qualsiasi tipo esso sia, si sviluppa lungo una traiettoria che può prevedere l’attraversamento di cin-
que stadi: orientamento, ridefinizione, coordinamento, implementazione e conclusione. Non tutti i
gruppi attraversano necessariamente tutti gli stadi, né la durata delle fasi è definibile a priori. Lungo
questa traiettoria si modificano le relazioni interne al gruppo, la struttura delle comunicazioni, il grado
di coesione e condivisione degli obiettivi. Secondo questo modello l’efficacia del gruppo sarebbe cre-
scente fino alla fase di implementazione, per poi decrescere ai primi sintomi che segnano il passaggio
verso la fase conclusiva.
In particolare, obiettivo della fase di orientamento è il raggiungimento di un sufficiente livello di coe-
sione e coinvolgimento dei membri del gruppo. La fase di ridefinizione rappresenta forse lo snodo più
critico, in quanto l’emergere di personali percezioni del proprio ruolo nel gruppo e l’identificazione di
obiettivi individuali legati alla partecipazione al gruppo stesso possono essere all’origine di conflitti;
decisiva può risultare in questa fase l’azione del leader. Nella fase di coordinamento il gruppo giunge
ad una definizione condivisa di ruoli e responsabilità individuali; sono altresì chiariti sia i comporta-
menti attesi che gli specifici compiti operativi di ciascuno. Nella fase di implementazione il gruppo è
impegnato nel perseguimento degli obiettivi e nella risoluzione di eventuali problemi che ne possano
ostacolare il raggiungimento. Il livello di maturità e di coesione raggiunto fa sì che possibili conflitti
siano risolti quasi automaticamente, sulla base di routine ormai consolidate. Infine, la conclusione del
gruppo può rappresentare una condizione fisiologica, se avviene perché è stato raggiunto l’obiettivo
assegnato, o patologica, se è l’esito di una progressiva fuoriuscita dei membri dal gruppo stesso.
(Fonte: Franco, 2007, con adattamenti)

Con riferimento alle modalità di coordinamento e controllo, le scelte di struttura


riguardano essenzialmente la previsione o meno di una gerarchia formale al suo
interno. Nel primo caso, tra i membri del gruppo si procederà ad individuare un
ruolo di supervisore, per cui il controllo e il coordinamento delle attività del
gruppo saranno prevalentemente di tipo gerarchico 3. Nel secondo caso, si pre-
ferirà considerare i membri del gruppo tutti sullo stesso piano (c.d. “gruppo di
pari”), con la conseguenza che il coordinamento del gruppo avverrà prevalente-
mente mediante reciproco adattamento tra i membri del gruppo, cioè in forma
non gerarchica; il controllo sui risultati verrà esercitato dall’esterno e quello su
azioni/comportamenti mediante la predisposizione di regole e procedure tese a
rendere più o meno omogeneo il funzionamento dei vari gruppi.
Richiamando la dimensione verticale del gruppo, possiamo pensare che
la scelta di strutturare gerarchicamente un gruppo di lavoro sia più frequente
nei gruppi “verticali”, che per la loro composizione si prestano ad individuare

3
Nel gergo aziendale, ma anche in certa manualistica, è frequente l’impiego del termine leader per indicare il
supervisore o coordinatore del gruppo. Qui preferiamo ricorrere ai termini “supervisore” o “coordinatore”, in
quanto ruoli definiti in sede di progettazione, utilizzando invece il termine leader solo nei casi in cui si voglia fare
riferimento a individui che in modo spontaneo assumono la guida di un gruppo di lavoro e sono riconosciuti come
tali dagli altri membri del gruppo.

188
La progettazione dei gruppi di lavoro

un “capo” nelle figure professionali di livello più elevato; ma non si può esclu-
dere che anche nei gruppi orizzontali possa essere individuato un referente ge-
rarchico, magari in base all’esperienza maturata, all’anzianità nel ruolo o azien-
dale. Tra i gruppi costituiti nella parte alta della piramide organizzativa, i comi-
tati di direzione sono spesso strutturati gerarchicamente, poiché includono i ma-
nager funzionali (o divisionali) e il direttore generale.
Così come per la scelta di inserire dei ruoli sociali, come facilitatori del
gruppo, anche la scelta di prevedere una gerarchia interna al gruppo deve con-
siderare non solo la collocazione del gruppo stesso, dunque la sua estensione in
verticale o in orizzontale, ma anche le caratteristiche e l’abitudine al lavoro in
gruppo da parte dei suoi membri. Quanto maggiore è l’affinità tra gli stessi e
quanto più rilevante è l’esperienza pregressa nell’ambito di gruppi di lavoro,
tanto più si potrà fare affidamento su modalità non gerarchiche di coordina-
mento e controllo, anche grazie al possibile rinforzo costituito dal controllo di
clan o dall’azione di leader spontanei. Al contrario, nel caso in cui le scelte di
composizione del gruppo non abbiano potuto tenere in debito conto le prefe-
renze individuali e quanto minore è l’esperienza pregressa di lavoro in gruppo,
l’indicazione di un capo gerarchico all’interno del gruppo potrà rivelarsi oppor-
tuna, se non necessaria, per garantire un efficace funzionamento del gruppo
stesso.

5.4. Principali tipologie di gruppo

Tra i gruppi di lavoro formalmente costituiti a seguito di scelte di progettazione,


una prima, distinzione è quella fra gruppi permanenti e gruppi temporanei. I
primi sono quelli che sono costituiti “per durare”, in quanto sono impegnati in
attività che richiedono di essere svolte continuativamente (i membri lavorano in
gruppo per tutto o per gran parte del tempo di lavoro) o periodicamente (il
gruppo lavora come tale in particolari momenti della giornata, o della setti-
mana, in modo predeterminato o quando ne ricorre la necessità). I gruppi tem-
poranei, al contrario, hanno una durata che coincide con il raggiungimento
dello specifico obiettivo assegnato e che può essere misurata in giorni, settimane
o mesi, a seconda della complessità dei risultati che il gruppo deve raggiungere.
Hanno natura permanente i gruppi di produzione, la cui presenza fa sì che
si possa parlare di organizzazione team-based, i gruppi di ricerca e sviluppo, ma
anche particolari tipi di gruppo che non operano con continuità ma non per
questo perdono il loro carattere di permanenza: tra questi, i comitati di dire-
zione, i comitati interfunzionali nelle aziende di produzione e di servizi, i gruppi

189
Lineamenti di organizzazione aziendale

multidisciplinari nelle strutture socio-sanitarie. Hanno invece carattere tempo-


raneo le cosiddette task force e i gruppi di progetto, mentre i gruppi di miglio-
ramento possono assumere tanto carattere temporaneo quanto permanente.

Quadro 5.3 Alcuni esempi di gruppi temporanei

Task force: letteralmente “forza (destinata a un determinato) compito”; questa espressione, di deriva-
zione militare, nel linguaggio aziendale sta a indicare un piccolo gruppo di esperti costituito apposita-
mente per affrontare e risolvere un problema specifico.
Gruppo di progetto: con questa espressione si è soliti individuare una team di lavoro che riunisce
membri generalmente appartenenti a differenti aree/funzioni e al quale è assegnata la responsabilità di
realizzare un certo progetto.
Gruppo di re-engineering: questa espressione è utilizzata per indicare quei gruppi che vengono formati
a fini di analisi ed eventuale ri-organizzazione dei processi di lavoro, a fronte di performance insoddi-
sfacenti, soprattutto in termini di tempi e qualità del coordinamento.

Non sempre un gruppo è a priori definibile temporaneo o permanente: è


il caso, ad esempio, dei gruppi di sviluppo nuovi prodotti (o servizi). Nelle
aziende fortemente orientate all’innovazione, infatti, tali gruppi hanno in genere
natura permanente, in quanto costantemente impegnati nella ricerca di prodotti
completamente nuovi, o di nuove varianti di uno stesso prodotto. Mentre in
altre aziende è possibile che lo sviluppo di nuovi prodotti sia considerata come
attività saltuaria, svolta da gruppi che si configurano come temporanei.
Una seconda distinzione è quella che fa riferimento al tipo di attività
svolta: qui, sintetizzando alcune delle più diffuse classificazioni proposte in let-
teratura, possiamo distinguere: gruppi coinvolti in attività di produzione, inten-
dendo con questo termine sia i processi industriali che quelli di erogazione di un
servizio (rientrano dunque in questa tipologia sia i gruppi di produzione e as-
semblaggio, ma anche le équipe di medici, gli equipaggi di piloti, i team di
pronto intervento nelle calamità, etc.); gruppi di progetto, ricerca e sviluppo;
gruppi di supporto e problem solving, finalizzati ad attività di analisi e diagnosi
di un problema e all’elaborazione di soluzioni (quali task force, gruppi di re-
engineering, gruppi di miglioramento) così come a facilitare la presa di decisioni
e il coordinamento di attività talvolta molto diverse (è il caso di comitati inter-
funzionali, consultivi, le c.d. “cabine di regia”, etc.).
Infine, è possibile distinguere tra gruppi funzionali e gruppi interfunzio-
nali. I primi sono costituiti da persone coinvolte nello stesso tipo di attività o in
attività affini, e che sono caratterizzate da profili formativi e professionali simili;
sono detti funzionali proprio perché nella maggior parte dei casi i loro membri
provengono da un’unica funzione (produzione, progettazione, ricerca e svi-

190
La progettazione dei gruppi di lavoro

luppo, risorse umane, etc.). I secondi, al contrario, sono formati da persone pro-
venienti da differenti aree aziendali, le cui attività sono o complementari o for-
temente interdipendenti, e che si caratterizzano per l’eterogeneità delle compe-
tenze e dei profili professionali.

5.5. Frontiere della progettazione: team interaziendali e team virtuali 4

Due fenomeni, ormai consolidati, hanno ampliato nel tempo l’ambito di inter-
vento della progettazione organizzativa a livello di gruppo. Il primo è quello
relativo alla progressiva apertura dei confini aziendali, conseguente allo “spez-
zettamento” delle catene del valore tra più imprese. L’impulso iniziale in tale
direzione si è avuto negli anni ’70 a seguito delle strategie di de-verticalizzazione
dei processi produttivi, attuate da molte grandi imprese: queste hanno indotto
la formazione di relazioni particolarmente strette tra imprese fornitrici e imprese
clienti lungo le filiere produttive. In anni più recenti la permeabilità dei confini
aziendali si è accentuata con il diffondersi dei processi di outsourcing, cioè con
le scelte di esternalizzare alcuni processi (produttivi, logistici, ma anche di am-
ministrativi) o parte di essi, infine con la formazione di reti interorganizzative,
fenomeno che sta interessando sempre più anche le PMI impegnate a perseguire
economie di scala ed a sviluppare una maggiore capacità innovativa (vedi capi-
tolo 11). Il secondo fenomeno è relativo alla diffusione delle tecnologie internet-
based, che ha favorito, tra l’altro, la possibilità di svincolare le relazioni inter-
personali, anche in ambito lavorativo, dalla contiguità fisica e spaziale.
La diffusione di processi produttivi che attraversano i confini della singola
impresa, coinvolgendo più aziende, è stata all’origine, in non pochi casi, della
formazione di team interaziendali, i cui membri provengono da differenti
aziende coinvolte nella filiera. Mentre la progressiva diffusione e sofisticazione
di modalità telematiche di connessione ha consentito il diffondersi di team vir-
tuali, spesso nell’ambito di uno stesso gruppo professionale. In alcuni casi le due
dinamiche si sovrappongono, dando luogo a team interaziendali virtuali.

5.5.1. Team interaziendali

Come anticipato, i team possono essere definiti interaziendali quando sono


composti da membri che provengono da più organizzazioni. I comportamenti
dei membri di questi team sono regolati in primo luogo da un insieme condiviso
di aspettative riguardo al raggiungimento di determinati obiettivi (Schopler
1986). Al contrario, vi sono difficoltà di ricorrere a modalità gerarchiche di

4
Questo paragrafo è frutto del lavoro congiunto di Enrico Cori e Sara Lombardi

191
Lineamenti di organizzazione aziendale

coordinamento, per la loro collocazione “a cavallo” tra due o più attori orga-
nizzativi.
I team interaziendali presentano svariate caratteristiche tipiche dei gruppi
di lavoro che prendono forma all’interno di un’unica organizzazione. Tuttavia,
vi sono alcuni aspetti che contraddistinguono le due tipologie di team.
Innanzitutto, essendo composti da membri che provengono da differenti
organizzazioni (aziende, gruppi professionali, associazioni, sindacati, etc.), i
team interaziendali risultano alquanto simili ai team inerfunzionali (cross-func-
tional) che, all’interno di una stessa organizzazione, riuniscono individui che
operano in funzioni diverse. Tuttavia, rispetto ad essi, i team interaziendali ri-
sultano di gran lunga più complessi in quanto i loro membri, parallelamente alla
loro identità funzionale e ai doveri ed impegni che ne conseguono, possiedono
anche una loro distinta e sovente conflittuale identità aziendale.
Una seconda differenza richiama il fatto che i team interaziendali tendono
spesso ad assumere carattere temporaneo. Così facendo, essi richiamano forte-
mente il ruolo svolto dalle task forces. Rispetto a queste ultime, i team intera-
ziendali sono tuttavia caratterizzati da una maggiore complessità in quanto i
loro membri sono chiamati a portare avanti molteplici impegni.
Una ulteriore differenza è connessa ad una delle attività-chiave in cui i
team interaziendali, diversamente da altri team, sono impegnati: le c.d. “attività
di confine” (boundary activities), per la cui analisi si rimanda al successivo capi-
tolo 11. Proprio la grande rilevanza delle attività di confine, oltre alle caratteri-
stiche esposte in precedenza, suggerisce di individuare alcuni criteri di progetta-
zione finalizzati alla realizzazione di condizioni di efficienza ed efficacia di que-
sto tipo di gruppi.
In considerazione delle suddette peculiarità, gli studiosi ritengono che a
determinare l’efficacia dei team interaziendali siano tre elementi principali 5:
• il grado di eterogeneità interna;
• la tipologia del legame esistente tra i membri del team;
• la presenza di connessioni esterne al team.

Il grado di eterogeneità interna richiama l’importanza di ricreare, all’interno dei


team interaziendali, un certo grado di eterogeneità nel background di istruzione,
5
Il principio secondo cui questi fattori sono tali da incidere sull’efficacia delle attività di confine può essere rin-
tracciato nella prospettiva dell’identità sociale (Social Identity Perspective, Hogg e Terry 2000; Reynolds et al.
2000). Essa suggerisce che i membri di un determinato team tendono a classificare sé stessi come appartenenti
ad un certo gruppo, sviluppando, nei confronti degli altri membri dello stesso gruppo, un atteggiamento general-
mente positivo ed un orientamento di accondiscendenza; per contro, essi sono inclini a considerare coloro che
fanno parte di altri gruppi come soggetti esterni, non appartenenti allo stesso “clan”, e tendono a sviluppare
pregiudizi nei loro confronti. Così facendo, i membri di un determinato team disegnano idealmente dei confini,
che separano i soggetti c.d. ingroup da quelli c.d. outgroup. I membri interni (ingroup) tenderanno a legarsi tra
loro in modo ancor più stretto; dall’altro lato, la divisione tra il gruppo e l’ambiente esterno renderà più complessa
e talvolta poco proficua la gestione delle attività di confine.

192
La progettazione dei gruppi di lavoro

nel livello di specializzazione, ovvero nel bagaglio di conoscenze, abilità e atti-


tudini che ogni membro apporta all’interno del gruppo. Un livello elevato di
eterogeneità è tale infatti da garantire diversità di prospettive e visioni dei singoli
membri e, conseguentemente, di stimolare i processi creativi, l’assunzione di de-
cisioni migliori, e la produzione di idee innovative in grado di sostenere la per-
formance.
Tuttavia, è importante notare i rischi in cui si incorre in caso di eccessiva
eterogeneità. Infatti, gruppi eccessivamente eterogenei nella loro composizione
interna possono risultare poco coesi, far registrare bassi livelli di commitment
dei loro membri nei confronti delle attività del gruppo e dimostrare difficoltà
nei processi di comunicazione. Linguaggi e schemi mentali differenti non age-
volano lo scambio di conoscenza, rendendo complessa la creazione di una base
di conoscenza comune. Questi elementi tendono a generare, in molti casi, un
senso di frustrazione e di scarsa soddisfazione dei membri del gruppo, mettendo
in discussione il reale contributo che la loro eterogeneità può apportare alla per-
formance, tanto individuale quanto collettiva. È comunque possibile attenuare
un’eterogeneità ritenuta eccessiva, e dunque foriera dei problemi suddetti, cer-
cando di scegliere i membri del team tenendo conto dell’affinità personale.
Ciò nonostante, gli studiosi del tema sono concordi nel ritenere che tale
eterogeneità garantisca vantaggi rilevanti, soprattutto in ragione delle attività,
descritte nel paragrafo precedente, che i team interaziendali sono chiamati a
svolgere. Ad esempio, riguardo al compito di costruire e alimentare le connes-
sione con gli stakeholders che si trovano nel loro ambiente, il team deve svilup-
pare la capacità di raccogliere informazioni importanti sulle preferenze dei
clienti e dei consumatori; di lavorare con le autorità locali per garantirsi il sup-
porto necessario (le c.d. ambassador activities); di coordinarsi con l’ambiente
esterno (es. con attori esperti del settore) oltre che di indurre clienti e consuma-
tori a fornire feedback sui prodotti e servizi offerti. Ognuno degli stakeholder
con cui il team interagisce tenderà ad avere propri interessi, priorità, orienta-
menti ed un proprio linguaggio che utilizzerà nella gestione della relazione col
team (Ancona e Caldwell 1998). Per questo, il team dovrà essere strutturato in
modo tale da poter agevolmente interagire con attori diversi, utilizzando lin-
guaggi ad hoc per ogni interlocutore. Da questo punto di vista, team dotati di
una certa eterogeneità interna dimostrano in genere una più elevata capacità di
gestione di relazioni molteplici, ovvero la flessibilità richiesta dal fine stesso per
cui tali team nascono.
L’analisi della progettazione interna dei team interaziendali induce a
porre l’attenzione su un secondo elemento: i legami esistenti tra i componenti del
gruppo. La letteratura definisce team boundedness questo elemento, che richiama

193
Lineamenti di organizzazione aziendale

le diverse modalità attraverso cui i soggetti possono essere coinvolti nelle attività
del team. Tali modalità possono riguardare tre aspetti:

• l’appartenenza dei membri al ciclo completo o parziale del team. Le per-


sone lavorano nel team per tutta la durata per il quale è stato costituito
oppure per un tempo più limitato?
• l’assegnazione full-time o part-time dei membri al team di riferimento. I
membri lavorano solo ed esclusivamente per il team o condividono il
loro tempo di lavoro con lo svolgimento di attività svolte esternamente
al team?
• l’appartenenza dei membri al “nucleo” o alla “periferia” del team. Se fra
i membri del team è possibile distinguere tra alcuni che ricoprono posi-
zioni centrali e altri che ricoprono posizioni periferiche, i primi più fa-
cilmente riusciranno ad ottenere informazioni, mentre i secondi po-
tranno ricevere informazioni distorte o parziali, oppure non riceverne
affatto.

Detto ciò, ad un estremo troveremo i casi di elevata team boundedness, in cui i


confini del gruppo vengono estesi fino ad includere tutti gli attori rilevanti che
operano stabilmente durante l’intero ciclo di vita del team, interagendo in ma-
niera continuativa, investendo un eguale ammontare di tempo nelle attività del
team e contribuendo attivamente alla sua riuscita. All’estremo opposto
avremo invece team la cui composizione risulta maggiormente flessibile, con
membri che vengono coinvolti in base alle necessità del gruppo e limitatamente
a determinate fasi. All’interno di uno stesso team sarà così possibile indivi-
duare sia soggetti che forniscono un contributo più o meno rilevante sia sog-
getti impegnati nelle attività del gruppo in modo più o meno continuativo e
con diverse intensità.
Una prima riflessione potrebbe far pensare che un elevato coinvolgimento
dei componenti nel team sia sempre benefico in quanto generatore di coesione,
commitment e sinergie. Tuttavia, data la natura prevalentemente temporale di
questi gruppi di lavoro e la necessità di realizzare attività di boundary spanning,
la presenza di forti legami tra i componenti del gruppo potrebbe rivelarsi un
limite. Infatti, sebbene, da un lato, un elevato coinvolgimento di tutti i membri
assicuri la disponibilità costante di competenze e informazioni, dall’altro lato è
pur vero che il contributo di ogni singolo componente non è essenziale che sia
fornito in ogni momento. Ad esempio, se in corrispondenza delle fasi iniziali
tendono a risultare maggiormente critiche le attività di ricerca delle informa-
zioni (scouting activities), in quelle successive assumeranno importanza mag-
giore quelle di coordinamento. Richiamando i principi della prospettiva

194
La progettazione dei gruppi di lavoro

dell’identità sociale, si ricordi che la presenza di forti legami interni al gruppo


tende a diffondere atteggiamenti favorevoli nei confronti dei membri apparte-
nenti al team e, conseguentemente, pregiudizi nei confronti dei soggetti che ope-
rano all’esterno dei confini del team. Coerentemente con ciò, i membri di gruppi
internamente coesi tenderanno a rafforzare prioritariamente le relazioni con gli
altri appartenenti al team, trascurando quelle con l’esterno. Diversamente,
gruppi interaziendali caratterizzati da un livello di boundedness minore appari-
ranno maggiormente aperti e orientati ad instaurare connessioni con l’ambiente
esterno, mitigando quindi il rischio sia di favoritismi interni al gruppo che di
ostracismo nei confronti dei membri outgroup. Così facendo, tali gruppi agevo-
lano e stimolano i loro membri ad intraprendere le attività di confine per le quali
essi sono chiamati ad operare nel gruppo.
Un terzo fattore da esaminare riguarda i legami che i membri del gruppo
costruiscono nell’ambiente esterno, ossia le connessioni esterne al team. Tali le-
gami (c.d. extrateam links) sono in grado di facilitare le attività di confine del
gruppo, di breve durata, che connettono il team con uno o più stakeholders che
operano al di fuori dei suoi confini. Tali legami offrono al team una serie di
potenziali vantaggi:

• consentono di poter usufruire di informazioni, esperienze, conoscenze e


supporto di soggetti esterni rilevanti, eliminando il rischio di dover in-
terpretare e comprendere in prima persona tali informazioni e cono-
scenze senza averne, spesso, la capacità (ad esempio, per mancanza di
conoscenze comuni che agevolano la comunicazione tra le parti);
• riducono le difficoltà legate all’eventuale coordinamento che si rende ne-
cessario quando lo stakeholder deve essere raggiunto passando attra-
verso una serie di legami intermedi;
• fanno sì che, pur fornendo esperienza e know-how, i soggetti esterni re-
stino al di fuori del gruppo. Ovvero, se per un verso i team interaziendali
offrono loro un incentivo reciproco alla condivisione di conoscenza, per
un altro verso sono strutturati in modo tale da resistere ai comporta-
menti opportunistici potenzialmente rilevabili da parte di questi (Kogut
1988).

Come discusso per il grado di eterogeneità interna e per i legami tra i mem-
bri del team, è facile comprendere che, anche in presenza di connessioni esterne
al gruppo, i confini del team risultano meno definiti, maggiormente permeabili,
rendendo meno rilevanti e tendenzialmente marginali i fenomeni di favoritismi
interni e di chiusura l’esterno. In tali casi, pertanto, il team sarà orientato ad

195
Lineamenti di organizzazione aziendale

interagire significativamente con gli stakeholder, potendo così risultare più effi-
cace nel portare a termine le proprie attività di confine 6.
Nella maggior parte dei casi i team interaziendali hanno rappresentato
l’esito di una scelta di progettazione “ai confini” dell’impresa, allo scopo di ge-
stire processi di lavoro che attraversavano i confini di due o più aziende. È il
caso delle attività di co-progettazione fornitore-cliente di componenti del pro-
dotto finito; dei processi di ricerca congiunta tra più aziende, volta allo sviluppo
di soluzioni innovative; o ancora, dei processi di ideazione di nuovi prodotti e
servizi aperti al contributo di utilizzatori, in una logica che viene definita di “co-
creazione” del prodotto. In quest’ultimo caso parlare di team interaziendale può
risultare inappropriato, ma la logica è la stessa: il team attraversa i confini azien-
dali, coinvolgendo clienti o potenziali tali, per accedere a competenze non rin-
tracciabili all’interno dell’azienda. Se formalmente il gruppo è interno alla sin-
gola azienda, nella sostanza il perseguimento degli obiettivi assegnati è reso pos-
sibile grazie all’apporto di conoscenze da parte di soggetti esterni, che in maniera
più o meno saltuaria vengono coinvolti nel processo di sviluppo di nuovi pro-
dotti e/o ser

Quadro 5.4 Lo sviluppo di un nuovo gioco in Clementoni

Clementoni, tra i maggiori produttori mondiali di giocattoli, da tempo persegue una politica di differen-
ziazione della propria offerta. Ai prodotti che hanno decretato l’iniziale successo dell’azienda di Recanati
(il mitico Sapientino, i puzzle, etc.) si sono aggiunti via via nuovi prodotti, tra cui il primo i Pad per
bambini.
La politica di prodotto è presidiata da un apposito comitato, che riunisce le posizioni di vertice
dell’azienda, il responsabile dell’ufficio marketing e quello dell’ufficio prodotto. È il comitato che dà l’ok
al lancio di un nuovo tipo di giocattolo, dopo aver attentamente considerato i margini che esso può
generare e la probabile risposta del mercato. A valle di questa decisione prende il via il processo vero
e proprio di sviluppo del nuovo prodotto. Ogni linea di giocattoli ha il suo gruppo di lavoro, c’è quindi
il team dei giochi della prima infanzia, quello dei giochi ricreativi, quello dei giochi scientifici e così via.
In altre parole, in azienda si costituiscono n gruppi di ricerca e sviluppo quante sono le linee di prodotto.
Si tratta di team che lavorano con elevato grado di autonomia, anche se pur sempre sotto il coordina-
mento del direttore della ricerca e sviluppo.
Lungo il processo di sviluppo di un nuovo prodotto viene coinvolto un certo numero di utilizzatori,
genitori o bambini in età scolare. Un team di due-tre persone, selezionate tenendo conto della capacità
di interazione con i bambini (in genere si tratta di laureati in psicologia) è incaricato di organizzare

6
Un ulteriore supporto a questa prospettiva può essere rintracciato negli studi condotti sulle reti tra imprese da
Granovetter (1983). Egli teorizza la possibilità, per ogni organizzazione, di costruire legami sia forti (strong ties)
sia deboli (weak ties) con altre organizzazioni o altri attori dell’ambiente esterno. La sua idea (strength-of-weak-
ties hypothesis) suggerisce che, sebbene i soggetti connessi da un legame forte tendano ad avere una motiva-
zione più elevata a mantenere e ad alimentare il legame stesso nonché ad aiutarsi reciprocamente, quelli carat-
terizzati da collegamenti deboli possono accedere a conoscenze, risorse, informazioni ed esperienze conside-
revolmente diverse rispetto a quelle disponibili all’interno del gruppo di lavoro, agendo positivamente sulle attività
di confine.

196
La progettazione dei gruppi di lavoro

incontri presso scuole ed asili, che sono stati preventivamente contattati dall’azienda e che hanno ade-
rito all’iniziativa. Le istituzioni scolastiche coinvolte sono ubicate in varie zone dell’Italia, in modo da
rispecchiare differenti gusti “territoriali”, così come il coinvolgimento dei genitori (questo vale per le
scuole dell’infanzia) tiene conto della differente estrazione culturale. In generale gli utilizzatori coinvolti
esprimono una valutazione qualitativa, anche se nel caso in cui l’azienda voglia testare una linea di
giochi creativi decisamente innovativa, il test può prevede modalità più strutturate, come la sommini-
strazione di questionari.
Normalmente questo processo di cooptazione dei clienti finali avviene per testare un nuovo concept,
un’idea di prodotto, da realizzare nel medio periodo (12-18 mesi). Il test ha lo scopo di verificare se
l’idea può avere un senso, che gradimento potrebbe ricevere. Non si tratta dunque di test di mercato
in senso stretto, ma di richiesta di pareri specifici, su argomenti ben precisi. Talvolta il coinvolgimento
dei potenziali consumatori avviene a processo di sviluppo del gioco quasi ultimato, in un’ottica di
breve/brevissimo periodo. In questo caso il test ha lo scopo di validare modalità funzionamento, pac-
kaging, comprensibilità delle istruzioni, etc.
(Fonte: intervista a Vincenzo Mandolese, R&D Director, Clementoni SpA)

5.5.2. Team virtuali

I team virtuali nascono con l’obiettivo di facilitare l’innovazione mediante pro-


cessi di interazione tra specialisti ed esperti che, lavorando ad un compito co-
mune in differenti siti produttivi sparsi nel mondo, non potevano permettersi di
impegnare tempo e denaro per riunirsi fisicamente. Con il tempo i team virtuali,
i cui membri interagiscono a distanza grazie a un set di tecnologie informatiche
e di telecomunicazioni, sono divenuti una modalità abituale di gestire le neces-
sarie interazioni di lavoro, al di là del perseguimento di specifici obiettivi di in-
novazione (Townsend et al. 1998). La differenza principale rispetto ad un team
di lavoro tradizionale è dunque la modalità delle interazioni che, anziché avve-
nire faccia-a-faccia, sono mediate dalla tecnologia.
La progressiva diffusione di questi team è stata accompagnata dai signifi-
cativi sviluppi delle c.d. “tecnologie collaborative”, che consentono di mettere a
disposizione del gruppo un luogo di lavoro virtuale, di condividere informazioni
e scambiarsi file, di attingere a database collettivi, nonché l’opportunità per tutti
i membri di sapere in tempo reale chi si sta occupando di una certa attività ed
entro quando la concluderà. In sintesi, i team virtuali offrono i seguenti vantaggi:

• permettono ai propri membri di spostarsi da un compito ad un altro con


costi e sforzi minimi, nonché di essere parte, allo stesso momento, di
molteplici team;
• consentono di superare le difficoltà legate alle distanze fisiche, assicu-
rando maggiore flessibilità e rapidità di azione rispetto a quanto sia ot-
tenibile da un gruppo di lavoro tradizionale;

197
Lineamenti di organizzazione aziendale

• qualora necessario, favoriscono il rapido inserimento di membri da altre


organizzazioni capaci di apportare competenze ed esperienza di valore;
• nella prospettiva della singola azienda, riducono i costi degli sposta-
menti fisici dei dipendenti;
• consentono l’attivazione di circuiti di scambio e condivisione di cono-
scenze sia al loro interno, che nell’ambito di network promossi
dall’azienda stessa o attivati spontaneamente da manager e specialisti,
nell’ambito delle comunità professionali di appartenenza.

Tuttavia, come è facile immaginare, i team virtuali pongono anche alcune pro-
blematiche di cui è importante essere consapevoli. In primo luogo, venendo a
mancare l’interazione faccia-a-faccia tra i membri del team, trasmettere infor-
mazioni relative al contesto e alle percezioni può essere molto difficile (si pensi,
ad esempio, al modo in cui persone provenienti da culture diverse interagiscono
nel gruppo attraverso la comunicazione non verbale e alle reazioni che questo
può generare negli altri). Inoltre, il fatto che la comunicazione sia mediata dalla
tecnologia può essere all’origine di una non perfetta comprensione reciproca fra
i componenti del team. Le naturali difficoltà legate alla lingua, unite a problemi
di connessione web, possono ostacolare lo svolgimento di una riunione in vi-
deoconferenza, così come rendere difficile capire quali siano le informazioni più
importanti da cogliere. A volte anche interpretare i silenzi degli altri può risul-
tare assai complicato (ad esempio, il silenzio può derivare dalla scarsa connes-
sione Internet oppure dal fatto che l’interlocutore non vuole rispondere, non sa
cosa rispondere o è stato colpito negativamente da quanto è stato comunicato).
In sintesi, i team virtuali rendono più complesso lo scambio di informazioni, in
particolar modo di quelle a carattere socio-emotivo. Per questo motivo, essi ten-
dono ad essere maggiormente orientati al compito anziché alla creazione e al
mantenimento di legami relazionali.

Box 5.5 I rischi della virtual distance

La separazione geografica rappresenta una sfida per i gruppi di lavoro del 21° secolo. La “distanza
virtuale” tra i membri di un team virtuale può essere misurata prendendo in considerazione tre tipi di
distanza:
- fisica - separazione spaziale o temporale, o appartenenza a differenti unità organizzative o imprese;
- operativa –variazioni della dimensione del gruppo, la rilevanza degli altri impegni dei membri del
gruppo, intensità e frequenza delle interazioni face-to face, abilità e supporto tecnico;
- affinità – differenze culturali, di status, livello di interdipendenza e preesistenza di relazioni tra i
membri.

198
La progettazione dei gruppi di lavoro

Ricerche sul campo hanno evidenziato che i team con alti punteggi di distanza virtuale mostrano com-
plessivamente cali di fiducia, risultati insoddisfacenti in termini di innovazione, basso livello di presta-
zioni e soddisfazione individuale. Anche colleghi ubicati su piani diversi nello stesso edificio potrebbero
essere considerati fisicamente distanti, e la distanza operativa e di affinità può certamente influire in
ogni situazione; ma i problemi sembrano essere più ricorrenti e più significativi nel caso di team vir-
tuali. Questi rischi suggeriscono di attenuare la modalità di interazione virtuale, da una parte preve-
dendo obbligatoriamente alcuni incontri “in presenza”, soprattutto nelle fasi iniziali, dall’altra stabilendo
ex ante regole chiare di interazione e condivisione di informazioni.
(Fonte: traduzione da Ferrazzi, 2014, con adattamenti)

Allorché i team virtuali siano espressione di comunità professionali (le c.d. “co-
munità di pratica”, aggregazioni informali di figure professionali operanti in
particolari settori di attività), si caratterizzano per un’elevata omogeneità cultu-
rale, sia quando rimangono circoscritti alla singola azienda, sia quando assu-
mono una configurazione interaziendale. Questa caratteristica, unita alla parti-
colarità degli obiettivi perseguiti, più orientati al medio-lungo periodo e meno
ad obiettivi commerciali di breve, consente in genere di evitare il ricorso a stru-
menti gerarchici di coordinamento e controllo, anche quando tali gruppi siano
il risultato di scelte di progettazione organizzativa.

5.6. Impatti delle scelte di progettazione sui comportamenti organizzativi

Le scelte relative all’organizzazione del lavoro, che imprenditori e manager as-


sumono nell’esercizio delle loro prerogative decisionali, sono verosimilmente
orientate al perseguimento di obiettivi di efficienza ed efficacia. Tradizional-
mente la valutazione delle scelte riguardanti il lavoro (a prescindere che questo
venga svolto in uno stabilimento industriale, in un ufficio, in un punto vendita,
etc.) si è basata su parametri di costo e di produttività; tuttavia un approccio
che si proponga di valutare l’esito complessivo dei processi di lavoro non può
non considerare la qualità dell’output realizzato; qualità intesa non solo in ter-
mini di rispetto di specifiche tecniche e standard di produzione/erogazione, ma
anche e soprattutto come rispondenza alle attese del cliente, alla varietà e varia-
bilità delle sue aspettative.
A partire dalle ricerche di Hawthorne, gli studiosi delle relazioni umane e
di quelle che, nel secondo dopoguerra, vengono definite “neo-relazioni umane”,
mettono in evidenza i possibili legami tra la soddisfazione sul lavoro di partico-
lari categorie di bisogni delle persone e il loro “rendimento”, espresso sia in ter-
mini quantitativi che qualitativi. Abbiamo in precedenza considerato (vedi ca-
pitolo 5) come le pratiche di arricchimento delle mansioni possano soddisfare

199
Lineamenti di organizzazione aziendale

esigenze di autorealizzazione e di successo, mentre in questo stesso capitolo ab-


biamo osservato come il lavoro in gruppo possa soddisfare i bisogni sociali
dell’individuo. La ricomposizione del flusso di lavoro, cioè la progettazione o
ri-progettazione di mansioni i cui contenuti si “espandono” sia in orizzontale
che in verticale, incide in particolare su alcune dimensioni psicologiche, quali
identità e significatività del lavoro, così come evidenziato da Hackman e Old-
ham nel loro Job characteristics model (vedi capitolo 4).
L’impatto delle scelte di progettazione sui comportamenti non è solo o ne-
cessariamente quello ipotizzato e ricercato dal management nel momento in cui,
consapevolmente e sulla scia di modelli teorici di riferimento, opta per l’uno o l’altro
schema di organizzazione del lavoro. Vi possono essere effetti, a livello di compor-
tamenti individuali o dinamiche di gruppo, che non sono voluti ma non per questo
non devono trovare il manager impreparato a gestirli in maniera adeguata. Di se-
guito proponiamo alcune situazioni ricorrenti, senza la pretesa di completezza o
esaustività, distinguendo tra livello di analisi individuale e di gruppo.
L’arricchimento delle mansioni, se non ben calibrato sulle attitudini indi-
viduali, può generare effetti che rischiano di vanificare i potenziali, benefici ef-
fetti di questa soluzione. L’attribuzione di discrezionalità, infatti, deve trovare
corrispondenza nella volontà degli individui di assumersi la connessa responsa-
bilità. In altre parole, perché l’intervento di arricchimento produca gli effetti
auspicati, in termini di motivazione e maggiore impegno degli addetti, è neces-
sario assicurarsi che essi non percepiscano l’assunzione di responsabilità più
svantaggiosa, sul piano personale, che la concessione di discrezionalità.
Se si dovesse verificare questa seconda ipotesi, sul piano psicologico po-
trebbero generarsi situazioni di stress, conseguenti al sentire il peso delle valuta-
zioni e delle scelte inerenti il proprio lavoro. In termini di risultati, invece, si
potrebbe assistere a situazioni in cui l’individuo rinuncia a mettere a frutto le
proprie capacità e conoscenze, non si azzarda a scegliere alternative rischiose
ma potenzialmente efficaci e suscettibili di migliorare la qualità del prodotto o
del servizio reso.
In quelli che abbiamo in precedenza definito gruppi “verticali”, poiché
formati da persone provenienti da differenti livelli gerarchici, la percezione di
differenze di status può generare comportamenti tali da compromettere l’effi-
cace perseguimento degli obiettivi assegnati al gruppo. Chi proviene da livelli
gerarchici superiori può essere colto dalla cosiddetta “sindrome del capo”, nel
senso che è portato ad affermare il suo status gerarchico anche all’interno di un
gruppo di pari e cerca di far prevalere le proprie posizioni. All’opposto, chi pro-
viene da livelli gerarchici più bassi può sentirsi in soggezione e rinunciare ad
esprimere le proprie opinioni o convinzioni, interpretando in senso gerarchico
le relazioni intragruppo.

200
La progettazione dei gruppi di lavoro

Nessun manager dovrebbe rimanere indifferente davanti a dinamiche di


questo tipo, cercando di prevenirle o di attenuarle, se già manifeste. É oppor-
tuno riaffermare periodicamente la natura non gerarchica del gruppo e il prin-
cipio fondamentale che ognuno apporta gruppo competenze che devono essere
messe al servizio dell’obiettivo comune del gruppo. Il successo di queste azioni
certamente dipende dalla cultura aziendale e di contesto: quanto più queste sono
imperniate sui valori della gerarchia e delle differenze di status, tanto più sarà
difficile far sì che all’interno del gruppo non si riproducano spontaneamente le
differenze di status.
Una possibile implicazione della costituzione di gruppi “orizzontali inter-
funzionali”, i cui componenti provengono da più aree/funzioni aziendali e conti-
nuano a far riferimento a queste anche durante la loro partecipazione al gruppo,
è l’attivazione di relazioni di duplice dipendenza. Infatti, se il gruppo interfunzio-
nale prevede un ruolo di supervisore gerarchico, i membri del gruppo risponde-
ranno a questo, ma continueranno ad afferire alle funzioni di provenienza e
quindi non verrà meno il loro collegamento gerarchico con il manager di funzione
o di area. Una gestione poco accorta di tali situazioni può determinare l’insorgere
di tensioni o conflitti di ruolo (vedi capitolo 4) a livello di aspettative; infatti aspet-
tative contrastanti possono indirizzate nei confronti dello stesso individuo da
parte del responsabile del gruppo e del referente funzionale, riguardo ad esempio
alla distribuzione del tempo di lavoro tra attività del gruppo e attività svolte
nell’ambito della funzione di appartenenza. Situazioni del genere, soprattutto se
ricorrenti, sono all’origine di fenomeni di stress associati al proprio lavoro e pos-
sono sfociare in comportamenti di disimpegno o demotivazione.
A differenza che nell’esempio precedente, in questo caso non si tratta di
prevenire le cause di comportamenti ritenuti inappropriati, ma di saper gestire
le situazioni di duplice dipendenza. Come nell’esempio precedente, invece, è ri-
levante la cultura aziendale e in particolare il “peso” della gerarchia. Quanto più
l’esercizio dell’autorità gerarchica è riconosciuto come principio di base della
gestione aziendale, tanto più sarà difficile gestire efficacemente le situazioni di
duplice dipendenza. Al contrario, laddove si ritiene che il ricorso all’autorità
gerarchica debba costituire l’eccezione, poiché nel vissuto quotidiano la condi-
visione di regole sociali e il mutuo adattamento sono considerate le modalità
“normali” di controllo e coordinamento, sarà verosimilmente più facile conci-
liare le aspettative che si generano da parte rispettivamente del referente funzio-
nale e dal team leader.

201
6 La gestione delle interdipendenze
e il coordinamento
di Vincenzo Cavaliere e Lucia Varra

6.1. Le interdipendenze: contenuti e forme – 6.1.1. Interdipendenze e complessità –


6.2. La gestione delle interdipendenze – 6.3. La gestione delle interdipendenze attra-
verso il raggruppamento in unità – 6.4. Una panoramica su interdipendenze e criteri
classici di raggruppamento – 6.5. Il coordinamento – 6.5.1. Il reciproco adattamento
– 6.6. I Meccanismi “gerarchici” di coordinamento – 6.6.1. Il meccanismo gerarchico
“primo”: la supervisione diretta – 6.6.2. La gestione delle interdipendenze attraverso
i meccanismi di coordinamento “gerarchici” indiretti e impersonali – 6.6.3.I Mecca-
nismi di coordinamento personale di tipo individuale e collettivo – 6.7. Stabilità e
temporaneità dei meccanismi di coordinamento orizzontale – 6.8. Una panoramica
riassuntiva attraverso alcuni modelli della letteratura

203
Lineamenti di organizzazione aziendale

6.1. Le interdipendenze: contenuti e forme

Le attività e le unità di un’organizzazione si caratterizzano per il fatto di essere


strettamente interconnesse ad altre attività, unità; ne deriva che solo una attenta
considerazione delle relative interdipendenze consente un efficace ed efficiente
raggiungimento dei risultati aziendali.
La divisione del lavoro in attività distinte e interdipendenti necessita, per
una adeguata finalizzazione ai risultati aziendali, di forme di collegamento che
tengano adeguatamente conto del tipo e delle modalità delle relazioni di dipen-
denza generate proprio dalla divisione del lavoro che, unitamente al possesso di
informazioni, rappresenta secondo la Grandori (1995, pag. 353) “la causa della
necessità di scambi e cooperazione, cioè la causa dell’interdipendenza tra diverse
attività e attori che le svolgono” 1.
Tali interdipendenze si presentano tanto nella dimensione orizzontale
quanto in quella verticale dell’organizzazione e si creano ad ogni livello: micro,
cioè tra i compiti, le attività e le mansioni, meso, tra unità organizzative; macro,
di intera struttura e sistema allargato, tra organizzazioni. In una logica di pro-
gettazione bottom-up il punto di partenza dell’analisi è dato dall’unità elemen-
tare di progettazione: il compito e successivamente le attività.
L’attività di taglio di una stoffa, ad esempio, è collegata, tra le altre, alla
attività di cucitura; l’attività di acquisizione di un ordine è collegata alla attività
commerciale pre e post realizzazione del prodotto; allo stesso modo la “macro-
attività” della filatura è collegata alla tintura, quindi alla tessitura e infine al
finissaggio, e così via.
Ovviamente, considerare l’organizzazione come sistema composto da
parti interdipendenti non presuppone che ognuna di esse dipenda intensamente
da, e supporti, direttamente ogni altra. Esistono infatti dipendenze o “relazioni”
deboli e/o indirette tra le parti di un sistema che comunque devono essere con-
siderate ai fini della progettazione organizzativa e del coordinamento 2. In alcuni
casi le interdipendenze rappresentano dei legami talmente forti, continui e di-
retti da rendere altamente necessaria la progettazione di apposite soluzioni per
l’armonizzazione delle parti ai fini operativi; in altri casi le dipendenze tra una
parte e un’altra o tra una parte e il tutto sembrano quasi impercettibili, per
quanto esistenti.
Numerosi sono i contributi e le classificazioni presenti in letteratura rela-
tive alle tipologie di interdipendenze; tra le tante nomenclature presenti, è pos-
sibile rinvenire, però, una base teorica comune riconducibile al lavoro di

1
Il corsivo è nostro.
2
È fondamentale osservare che esistono altre dimensioni strutturali che, oltre all’interdipendenza, influenzano
la progettazione della struttura a livello micro e meso come le economie di scala, di specializzazione e di raggio
d’azione. Su questo punto si veda Perrone, V., 1990; Grandori, A. 1995.

204
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

Thompson (1967). In questa sede vogliamo riproporre una classificazione esten-


siva del modello di Thompson fondata sul contributo della Grandori (1995)
molto richiamato nei manuali di organizzazione aziendale.
Una prima distinzione può essere effettuata con riferimento alla tipologia
dell’interdipendenza, che può essere riferita a relazioni di scambio o a relazioni
associative (Fig. 6.1). Le prime generano le c.d. “interdipendenze transazionali”
che hanno come oggetto “il trasferimento di beni e servizi attraverso un’inter-
faccia tecnicamente separabile” (Williamson, 1981). Secondo alcuni, queste
sono classificabili anche come interdipendenze di flusso (Martinez, 2000).
Le seconde, definite “interdipendenze associative”, non implicano trasferi-
menti di beni/servizi tra attori e/o attività quanto semmai la “messa a sistema”
di sforzi, l’allineamento di comportamenti e conseguentemente un’azione fina-
lizzata comune. Le interdipendenze “associative” (Grandori, 1995, pag. 353) o
da comunione si generano dalla condivisione di risorse (strutture, impianti, in-
formazioni, ecc.), di un nome o di identità organizzativa (stessa azienda, stesso
brand, ecc.).

Figura 6.1. Tipi di interdipendenza

Fonte: Grandori, 1995, pag. 354 con adattamenti

Recuperando il contributo di Thompson è possibile classificare le interdipen-


denze transazionali in sequenziali e reciproche (Fig. 6.2).

205
Lineamenti di organizzazione aziendale

Figura 6.2. Tipi di interdipendenza sequenziale e reciproca

Fonte: Camuffo, 1997, pag. 456 con adattamenti

L’interdipendenza è sequenziale quando l’output di una attività o unità costitui-


sce l’input di un’altra. Si tratta di una relazione asimmetrica e diacronica, che
può presentarsi in vari modi, dando luogo ad altrettante relazioni (Camuffo,
1997, pag. 455):

• Sequenziale semplice, del tipo 1:1, ovvero l’output di A è l’input di B.


• Sequenziale convergente, del tipo n:1 ovvero l’output di A e B costituisce
l’input di C.
• Sequenziale divergente, del tipo 1: n, ovvero l’output di A diviene l’input
di B e C.
• Ciclica, del tipo n volte 1:1 sviluppata in modo circolare, ovvero l’output
di A diventa l’input di B che lo trasferisce a C, che lo riporta ad A,

206
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

creando una dipendenza che ha i caratteri sia della sequenzialità che


della reciprocità.

L’interdipendenza reciproca è anch’essa una interdipendenza diacronica, ma di


tipo simmetrico, in cui l’output di una attività o unità costituisce l’input di un’al-
tra, e l’output di quest’ultima ridiventa input della prima. In altre parole, A tra-
sferisce a B un bene tangibile o intangibile, B lo lavora e lo trasferisce nuova-
mente ad A.
Anche le interdipendenze associative (Figura 6.3) a loro volta possono di-
stinguersi in:
1) Interdipendenze generica (pooled o “per accumulazione”)
2) Interdipendenze intensive.

Figura 6.3. Tipi di interdipendenza generica e intensiva

Fonte: Isotta, 2010, pag. 116 con adattamenti

Le interdipendenze generiche nascono in situazioni in cui ogni componente del


sistema “presta un contributo discreto al tutto e ciascuna è supportata dal tutto.
Le parti sono interdipendenti nel senso che, se ognuna di esse non opera ade-
guatamente, a trovarsi in pericolo sarà l’organizzazione nel suo insieme”
(Thompson, 1994, pag. 139). Tutte le organizzazioni sono caratterizzate da una

207
Lineamenti di organizzazione aziendale

interdipendenza per accumulazione che rappresenta il livello base e meno com-


plicato di interdipendenza. In generale tale interdipendenza si manifesta lungo
la dimensione verticale della struttura organizzativa, come ad esempio il caso
dell’allocazione delle risorse da parte della direzione generale alle unità diretta-
mente dipendenti che operano in con processi indipendenti l’una dall’altra.
In particolare, nella visione originaria di Thompson, le interdipendenze,
considerate nella sua classificazione di generiche, sequenziali e reciproche, si
possono ordinare secondo livelli di complessità crescente ai fini del coordina-
mento e presentano la caratteristica di essere inclusivi, tale per cui l’ultima, cioè
l’interdipendenza reciproca, è la più complessa e include le altre due, sequenziale
e generica (meno complessa) 3.
In generale, nel caso in cui due unità usino quote di risorse provenienti da
una medesima fonte, il legame tra le due nasce per il fatto che maggiore è la
quantità di input utilizzata o assegnata a A, minore sarà quella che residua per
B (Martinez, pag. 174). È quello che accade tra due ricercatori di uno stesso
dipartimento che, pur lavorando su ricerche del tutto indipendenti, trovano un
limite alla loro autonomia dalle scelte generali della struttura, per cui l’assegna-
zione al ricercatore 1 di una quota di fondi di ricerca, fa sì che la quota destinata
al ricercatore 2 ne risenta; parimenti, esiste una relazione per il fatto che i risul-
tati di uno dei ricercatori incidono (in termini di immagine, reputazione della
struttura, prestazione complessiva, ecc.) sul lavoro di tutti. Se osserviamo, nella
prospettiva della dimensione orizzontale, la sola relazione di (in)dipendenza tra
due o più unità divisionali di una struttura divisionale pura, notiamo come an-
che queste siano caratterizzate da interdipendenza di tipo generico.
L’interdipendenza intensiva deriva invece da situazioni più complesse
nelle quali le parti co-agiscono, co-progettano, definiscono l’azione collettiva
attraverso processi di mutuo e reciproco aggiustamento dell’azione dell’una ri-
spetto all’altra, valutando di volta in volta il feedback che viene generato/rice-
vuto.
È il caso, ad esempio, del lavoro in team e di tutte quelle situazioni nelle
quali le conoscenze, le informazioni e le attività vengono “scambiate” in paral-
lelo e simultaneamente, e non in serie, attraverso processi collaborativi su input
comuni o per la realizzazione di output comuni (Grandori, 1995; Camuffo,
1997). Thompson riporta a tal proposito l’esempio dell’equipe di specialisti me-
dici mentre svolgono un intervento chirurgico (Thompson, 1990; Mintzberg,
1996). Un team di una squadra di basket o di pallavolo, in cui ciascun giocatore
agendo il proprio ruolo all’interno degli schemi interagisce con gli altri al fine di

3
Pur consapevoli che alcuni testi parlano di interdipendenze intensive, in questa specifica parte intendiamo fare
riferimento alle sole c.d. interdipendenze interne proposte da Thompson distinguendole da quella che, a rigore,
è la “terza variante” della tecnologia, appunto quella intensiva (Thompson, 1988, p. 86 e ss.).

208
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

mettere a disposizione il proprio contributo per il risultato collettivo, la vittoria


della squadra, è un altro esempio di interdipendenza intensiva.
In questi casi siamo in presenza di diverse competenze agite che si sovrap-
pongono e cooperano tra di loro, si completano e si adattano vicendevolmente
per la realizzazione del risultato finale (Martinez, 2000, pag. 190; Camuffo, pag.
457).
A differenza di quella reciproca e sequenziale, l’interdipendenza intensiva
si riferisce a collegamenti che generalmente non avvengono in un “prima” e un
“dopo” (come accade, ad esempio, quando A trasferisce a B e successivamente
B ad A), ma in modo concomitante, per così dire nella stessa unità di tempo t0.
Nella tabella 6.1. sono riportati alcuni esempi di interdipendenze interne
ed esterne.

Tabella 6.1. Esempi di interdipendenza interna ed esterna

Fonte: Isotta, 2010, pag. 117

Da quanto detto appare evidente quanto il concetto di interdipendenza sia fon-


damentale per la progettazione e riprogettazione organizzativa, esso rappre-
senta da sempre una questione chiave in quanto impatta su molti altri aspetti
dell’organizzazione: la dimensione e i caratteri delle unità, la piramidalità della
struttura, il modello organizzativo con la presenza di organi diversi rispetto a
quelli della linea gerarchica, ecc. La sua conoscenza consente di effettuare ade-
guatamente analisi e diagnosi del funzionamento organizzativo, di interpretare
e riconoscere in modo specifico alcune cause di inefficienze e disfunzioni azien-
dali, nonché le complessità interne all’organizzazione.

209
Lineamenti di organizzazione aziendale

6.1.1. Interdipendenze e complessità

La tipologia dell’interdipendenza, transazionale o associativa, è solo una, se pur


molto importante, delle variabili da considerare per una classificazione delle in-
terdipendenze. Esistono altre variabili da valutare che concorrono alla comples-
sità dell’interdipendenza. Esse possono essere individuate nelle seguenti:

- il contenuto, ovvero l’oggetto della relazione. Contenuto della interdi-


pendenza possono essere materie, informazioni, risorse, risultati, com-
petenze, ecc.;
- la dimensione e la dispersione, ovvero il numero di attività/attori coin-
volti e la loro collocazione logistica e le relazioni di dipendenza che si
vengono a istaurare a seguito della divisione del lavoro. Questi elementi
hanno un impatto diretto sulla complessità di coordinamento e sui rela-
tivi costi. È molto diverso, ad esempio, coordinare un team con un nu-
mero di persone limitate e localizzate in contesti prossimi dal coordinare
team con un numero di attori elevato e per di più disperso geografica-
mente, per quanto gli strumenti tecnologici oggi aiutino molto rispetto
al passato.
- la frequenza, ovvero il tempo che intercorre tra una interdipendenza e
l’altra. È opportuno valutare con che ricorrenza avviene una interdipen-
denza, ogni quanto cioè si verifica. Alcune interdipendenze sono spora-
diche, altre sono continue. Tuttavia va considerato che alcune dipen-
denze sporadiche possono essere molto più intense di quelle continue (si
veda l’ultimo punto), generando così una interdipendenza più com-
plessa;
- l’incertezza, ovvero la possibilità o meno di associare una distribuzione
di probabilità al manifestarsi dell’interdipendenza. Il continuum è tra in-
terdipendenze regolari, per le quali si prevede esattamente quando si ve-
rificheranno e interdipendenze del tutto casuali, non prevedibili;
- l’intensità, ovvero l’impatto che ha l’interdipendenza sulle attività. In tal
senso il peso di una interdipendenza può essere marginale rispetto al
contributo che dà l’attività, in altri casi può essere determinante ai fini
dell’attività svolta.

La combinazione di queste variabili (tipologia, contenuto, dimensione e disper-


sione, incertezza, frequenza e intensità) dà luogo al tema della complessità, in-
teso come difficoltà di gestione delle dipendenze che si creano tra le attività e tra
le unità.

210
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

L’analisi della complessità della interdipendenza tra attività è importante


ai fini della creazione delle unità organizzative e dunque della progettazione or-
ganizzativa.

6.2. La gestione delle interdipendenze

La complessità delle interdipendenze e l’impatto che esse hanno sullo svolgi-


mento delle attività richiedono un approccio ampio e articolato sia di analisi che
di progettazione organizzativa. Esiste, come vedremo meglio nel prosieguo del
capitolo, una stretta relazione e un “parallelismo” tra tipologie di interdipen-
denze, criteri di scelta delle basi di raggruppamento delle attività e meccanismi
di coordinamento.
Preliminare alla gestione delle interdipendenze, risulta l’analisi quali-
quantitativa delle variabili delle interdipendenze come avanti individuate (tipo-
logia, contenuto, dimensione e dispersione, frequenza, incertezza, intensità) e
una valutazione complessiva del grado delle interconnessioni esistenti tra le
parti di un’organizzazione, finalizzata alla definizione di gruppi coesi di attività.
I diversi criteri di raggruppamento che l’organizzazione può considerare
a livello di progettazione di unità di base lasciano sospese (o generano a loro
volta) delle interdipendenze che scaturiscono tra le “attività ponte”, cioè quelle
attività particolari che hanno “poli di attrazione” presenti in cluster (unità) di-
versi e separati. Si pone quindi la questione dell’aggregazione non già dei com-
piti e delle attività elementari in unità di primo livello, ma di affrontare e risol-
vere le c.d. “interdipendenze residue” stabilitesi appunto tra le unità di base
(Thompson, 1967; Perrone, 1990).
Il progettista di organizzazione può incidere su questa problematica
agendo su due leve o dimensioni di progettazione:

a. La scala gerarchica, cioè il raggruppamento delle attività in unità organiz-


zative di livello superiore a quelle elementari;
b. Il rafforzamento del coordinamento attraverso opportuni meccanismi di
collegamento orizzontale tra le parti (Galbraith, 1973; Mintzberg, 1996) at-
traverso:
– Collegamenti spontanei tra soggetti attraverso il mutuo adattamento
tra le parti;
– Meccanismi formali di tipo personale, rappresentati da apposite posi-
zioni (individuali o gruppi).
– Meccanismi formali di tipo impersonale, costituiti da sistemi operativi
e livelli di obiettivi, regole e procedure, standard, norme e programmi.

211
Lineamenti di organizzazione aziendale

Il raggruppamento delle attività in unità e di queste in unità di livello superiore


tiene conto, tra le altre cose, delle interdipendenze che esistono tra le varie ope-
razioni e che, attentamente esaminate, portano a privilegiare un criterio di rag-
gruppamento rispetto ad un altro, ad esempio un raggruppamento per output
in presenza di interdipendenze sequenziali tra attività differenti o un criterio
funzionale, nel caso siano prevalenti le interconnessioni intensive tra attività si-
mili. Vari aspetti relativi alle interdipendenze sono considerati in questo pro-
cesso, come vedremo nel paragrafo successivo.
Il coordinamento tra le parti può avvenire attraverso forme di collegamento
spontanee, riconducibili al meccanismo dell’adattamento reciproco di Min-
tzberg (1996, pag. 39) e del mutuo adattamento di Thompson (1994, pag. 142).
Essi consistono in una relazione informale che si crea tra due o più attori, i quali,
sulla base della fiducia reciproca, si rapportano in modo proficuo per l’armo-
nizzazione delle proprie attività.
Il coordinamento attraverso meccanismi formali di tipo personale è affidato
ad attori dell’organizzazione. Si tratta di forme esplicite di coordinamento, ba-
sate sulla individuazione e l’assegnazione a un soggetto o ad un gruppo della
responsabilità di coordinare alcune attività (Martinez, 2000, pag. 201). Tali
meccanismi sono sia di tipo individuale che collettivo.
I meccanismi di collegamento formali di tipo impersonali fanno riferimento
ai sistemi operativi, alle regole, procedure, programmi, in sostanza a tutti quei
meccanismi definiti dal superiore gerarchico o dalla tecnostruttura 4 sotto forma
di standard, che cercano di orientare il comportamento dell’attore organizzativo
per renderlo prevedibile e coordinato.
I paragrafi che seguono sono dedicati alle suddette modalità di gestione
delle interdipendenze.

6.3. La gestione delle interdipendenze attraverso il raggruppamento in unità

L’interdipendenza si intreccia, in prima battuta, con le scelte relative alla defini-


zione della microstruttura in quanto influenza in maniera significativa la pro-
gettazione delle mansioni e dei sistemi primari di lavoro tramite il raggruppa-
mento delle attività; allo stesso tempo influenza la scelta del tipo di raggruppa-
mento in unità ed è, quindi, in definitiva, una delle principali dimensioni che

4
La tecnostruttura è costituita dai così detti analisi che con la loro attività influenzano il lavoro degli altri. Sebbene
non siano coinvolti direttamente nel flusso primario di lavoro essi lo influenzano attraverso la progettazione e
pianificazione, la definizione di regole e procedure standardizzate, la formazione, ecc. La loro attività è svolta
sempre a seguito di un processo di delega da parte della gerarchia, pertanto essi si possono anche interpretare
come meccanismi tipo gerarchico sebbene rispetto alla supervisione diretta funzionino per via mediata. Vero è
che nelle piccole e medie imprese mancando spesso la tecnostruttura si assiste al presidio delle regole standar-
dizzate, delle norme e dei programmi da parte della gerarchia.

212
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

devono essere prese in considerazione e che influenzano il disegno della confi-


gurazione organizzativa.
Ai fini di una migliore comprensione è utile riportare in proposito il pen-
siero di Thompson (1988, pag. 146):

… le unità di base sono formate per trattare l’interdipendenza reciproca (e intensiva),


se questa esiste. Nel caso in cui questa manchi esse vengono conformate all’interdi-
pendenza sequenziale, sempre che vi sia. Qualora i tipi più complicati di interdipen-
denza siano entrambi assenti, le unità di base si uniformano a processi comuni.

Così, in presenza di interdipendenze più complesse (reciproche e sequenziali), le


organizzazioni cercano di disporre le mansioni in modo che risultino tangenti le
una alle altre nell’ambito di un gruppo comune che sia localmente concentrato
e condizionatamente autonomo 5. Laddove invece, l’interdipendenza fosse meno
complessa (generica), le organizzazioni cercheranno di raggruppare le mansioni
in modo omogeneo per facilitare meccanismi di coordinamento basati su regole
e procedure.
In sostanza, (ceteris paribus) è il principio della minimizzazione dei costi
di coordinamento conseguenti alla complessità delle interdipendenze, e lo sfrut-
tamento di possibili economie, diversi per ogni tipo di interdipendenza generata,
a guidare le scelte di progettazione e di raggruppamento
In tal modo si collocano nella stessa unità le attività interdipendenti più
complesse, mentre faranno parte di unità organizzative diverse quelle attività
relativamente indipendenti (Camuffo, 1997, pag. 462). Il termine “condiziona-
tamente autonomo” fa riferimento al fatto che l’autonomia del gruppo, che fa-
cilita il coordinamento per mutuo adattamento, non è completa, ma condizio-
nata, in quanto se lo fosse del tutto non vi sarebbe la necessità di far parte
dell’organizzazione. La completa autonomia è limitata da vincoli stabiliti da
programmi e da meccanismi di standardizzazione (Thompson, 1994, pagg. 144-
145), come più avanti esaminato.
Assolte le esigenze delle interdipendenze complesse, le organizzazioni cer-
cano di ridurre i costi del coordinamento attraverso l’omogeneità delle attività:
l’omogeneità facilita il coordinamento, potendosi applicare regole e relativi
cambiamenti a tutte le operazioni simili tra loro. Allo stesso modo si rispetta
l’altro principio fondamentale nella progettazione, ovvero la ricerca di vantaggi
economici all’interno di una unità, attraverso la gestione delle interdipendenze
legate alla specializzazione e alle economie di scala.

5
Il concetto di condizionatamente autonomo riconosce il fatto che l’autonomia del gruppo, che facilita il coordi-
namento per mutuo adattamento, non è completa perché se così fosse le unità non sarebbero parte dell’orga-
nizzazione (Thompson, 1967).

213
Lineamenti di organizzazione aziendale

È difficile che le numerose interdipendenze presenti nelle organizzazioni


complesse possano risolversi con la creazione di unità che presentano al loro
interno relazioni completamente circoscritte tra le attività.
È molto più probabile che: a) alcune attività che pur hanno all’interno un
numero elevato di interdipendenze con altre, abbiano alcune interdipendenze
esterne al gruppo; b) che l’intera unità, raggruppante attività tra di loro interdi-
pendenti, abbia rapporti di interdipendenza con altre unità che pure al loro in-
terno hanno risolto problemi di interdipendenze reciproche, sequenziali.
In questi casi le organizzazioni nel rispetto dei principi di razionalità, cer-
cano di risolvere le interdipendenze tra attività collegando per gradi le posizioni
interdipendenti, sulla base di una scala di contingenze, ovvero raggruppando
all’interno di ciascun gruppo che ha interdipendenze con altri, quelle attività più
strettamente interdipendenti e raggruppando le restanti attività in gruppi di se-
condo livello. Si tratta di gruppi sovrastanti, inclusivi delle unità sottostanti e
delle relative interdipendenze.
Ad esempio, tutte le attività che riguardano il taglio e la cucitura di un
tessuto sono raggruppate nella unità sartoria, ma le attività della sartoria sono
strettamente interdipendenti da quelle della stiratura e della produzione di mo-
delli, pertanto tutte queste attività risultano aggregate nella macro unità produ-
zione.
Le interdipendenze che ancora residuano tra un gruppo e l’altro o tra at-
tività interne al gruppo e altre esterne sono quindi gestite attraverso il collega-
mento di gruppi simili con “regole trasversali rispetto alla linea di divisione” e
avvalendosi di ruoli e modalità di collegamento orizzontale e trasversale, oltre
che attraverso altri meccanismi organizzativi, quali regole, piani e programmi.
Alcuni autori affrontano il primo problema, suggerendo appunto di af-
fiancare al concetto di interdipendenza quelli di affinità tecniche e di orienta-
mento che possono aiutare la definizione della macrostruttura. Le prime, quelle
tecniche, riferiscono l’insieme delle conoscenze e competenze alle quali gli attori
organizzativi attingono nell’espletamento dei compiti, insieme che può risultare
omogeneo, cioè unico nella dimensione di area tecnica. Così è possibile ritrovare
aree omogenee come la vendita, la produzione, la finanza, il personale che oltre
ad avere ciascuna conoscenze omogenee al suo interno presentano anche,
spesso, omogeneità di strumenti operativi utilizzati. Ai fini dell’efficienza del si-
stema la progettazione organizzativa dovrebbe cercare di costituire unità orga-
nizzative omogenee dal punto di vista della tecnica.
Oltre a considerare questi aspetti “tecnici”, il progettista di organizza-
zione dovrebbe valutare anche le attitudini e gli atteggiamenti che dovrebbero

214
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

possedere gli attori organizzativi chiamati a svolgere quelle attività. Siamo ov-
viamente in presenza di una dimensione non squisitamente tecnica, che richiama
le c.d. dimensioni soft di progettazione (Perrone, 1990; Grandori, 1988) 6.

6.4. Una panoramica su interdipendenze e criteri classici di raggruppamento

Come si è visto nel precedente paragrafo, le interdipendenze giocano un ruolo


chiave nella fase di progettazione organizzativa, quando si tratta di raggruppare
le posizioni che sono emerse a seguito dei principi di divisione del lavoro. Se pur
nella forte attenzione a privilegiare la riduzione dei costi delle interdipendenze e
la realizzazione di economie, il raggruppamento delle posizioni è tutt’altro che
un’attività deterministica.
Nelle organizzazioni si rinvengono diversi criteri di raggruppamento, tra
cui i più comuni sono (Brusa 1986; Gerloff, 1989; Mintzberg, 1996; D’Anna,
2015):

- Criterio delle conoscenze e delle capacità: si mettono assieme in una


stessa unità tutte le posizioni occupate da soggetti con analoghe compe-
tenze e capacità, ritenute qualitativamente necessarie per lo svolgimento
delle attività. Secondo tale criterio confluiscono in una stessa unità, ad
esempio, ricercatori che hanno una stessa specializzazione (economica),
distinta da unità con specializzazioni diverse (matematica, giuridica,
ecc.).
- Criterio numerico: si mettono assieme in una stessa unità un numero di
persone che sono quantitativamente sufficienti per svolgere un’attività
o numericamente congruenti con una supervisione di livello superiore.
Ad esempio, un’organizzazione dedita al trasporto e montaggio di un
pianoforte organizza le unità sulla base del numero dei soggetti che sono
necessari per svolgere tale attività.
- Criterio della funzione: si fanno confluire in una stessa unità tutte le
attività omogenee da un punto di vista tecnico-economico. Si mettono
così assieme tutte le posizioni che si occupano del taglio di una stoffa,
tutte quelle che si occupano di cucitura e, con lo stesso criterio, le
unità derivanti si raggrupperanno in una macrounità chiamata pro-
duzione.

6
Su questo punto si rimanda ai contributi degli autori che propongono diversi tipi di orientamento: generalista vs
specialista; breve vs lungo termine; ottimizzazione vs innovazione; stile di direzione (Perrone, V., 1990, pag. 386
e ss; Grandori, 1988).

215
Lineamenti di organizzazione aziendale

- Criterio del processo: si raggruppano tutte le posizioni che sono inserite


all’interno di uno stesso processo produttivo. (che risultano collegate le
une alle altre nello svolgimento di un lavoro finito)
- Criterio temporale: si raggruppano in unità tutte le posizioni che si col-
locano cronologicamente prima (o dopo) un altro gruppo di attività, se-
condo una tempistica definita dalla tipologia di lavoro e indipendente-
mente dalla omogeneità/disomogeneità delle competenze o delle attività.
Ad esempio, se in un progetto prevale la necessità dell’avvicendamento
dei periodi temporali, come può avvenire nei lavori agricoli, si creeranno
delle unità che possono lavorare nei mesi primaverili, delle unità che la-
voreranno in quelli estivi, ecc., indipendentemente dalle attività di se-
mina, raccolta, e/o manutenzione del terreno o delle piante che si pos-
sono svolgere.
- Criterio del prodotto: si mettono assieme tutte quelle attività dedite alla
realizzazione di uno stesso output. Ad esempio, tutte le posizioni relative
agli acquisti della stoffa per biancheria della casa si mettono assieme alle
attività di disegno della biancheria della casa, assieme ancora a quelle di
produzione e commercializzazione della biancheria, andando così defi-
nire una unità dedicata in modo completo al prodotto biancheria per la
casa.
- Criterio del progetto: come per il prodotto, si raggruppano tutte le posi-
zioni afferenti ad attività diverse ma, in questo caso, finalizzate alla rea-
lizzazione di un output temporaneo, il progetto.
- Criterio dell’area geografica: si fanno confluire in un’unica unità tutte le
attività destinate al presidio di uno stesso mercato geografico: ad esem-
pio, costituiscono una apposita unità di vendita (Centro Italia), tutti i
venditori che vendono nel centro dell’Italia, o anche un’apposita unità
produttiva (stabilimento Piombino) tutte le attività che si svolgono
nell’area di Piombino.
- Criterio della clientela: si raggruppano in una stessa unità tutte le attività
rivolte ad uno specifico segmento della clientela, Ad esempio, costitui-
scono una apposita unità tutti i soggetti che all’interno di una banca si
rivolgono al segmento famiglie, distinto da quello delle imprese.

La scelta di uno dei suddetti criteri rispetto ad un altro risponde alle esigenze o
alla volontà di gestire le interdipendenze tra attività.
Il graduale processo di aggregazione delle attività e queste in unità di li-
vello via via superiore, così come illustrato nel precedente paragrafo, porta ad
una strutturazione dell’organizzazione per livelli e culmina con il raggruppa-
mento direttamente dipendente dalla direzione generale. Le scelte di criterio
adottato a questo livello di raggruppamento, ovvero a quello gerarchicamente

216
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

dipendente dal vertice aziendale, determina la tipologia di modello organizza-


tivo.
Pertanto, se a dipendere dalla direzione generale sono delle unità aggre-
gate secondo il principio della funzione, si tratterà di un modello funzionale. Se
si adotta un criterio numerico siamo nel modello elementare, se il criterio di rag-
gruppamento è degli output siamo in presenza di un modello divisionale, se si
adottano entrambi siamo nella forma delle strutture a matrice o per progetti.

6.5. Il coordinamento

Il coordinamento, come abbiamo avuto modo di vedere, si prefigge quale obiet-


tivo quello di "ricucire" un flusso unitario e finalizzato di attività che la divisione
del lavoro è venuta a scomporre e frammentare. I meccanismi di coordina-
mento, seppure in modo diverso, agiscono tra le interfacce delle attività divise
per assicurarne l'allineamento, a prescindere che le interfacce stesse siano collo-
cate tra singole postazioni di lavoro o al confine tra differenti unità organizza-
tive.
Così, ad esempio, attraverso la supervisione diretta, si dispone come una
attività debba essere raccordata ad un'altra; mediante la definizione di uno stan-
dard di risultato si indica e chiarisce in quale direzione debba indirizzarsi lo
sforzo di chi gestisce un complesso anche diverso di attività, e così via. L'effica-
cia del coordinamento, in relazione alla capacità dell'ordine o dello standard di
risultato di raccordare e allineare un insieme di attività, necessita di essere inte-
grata da paralleli processi di controllo. Questi, riprendendo l'esempio, sono ri-
volti alla verifica della rispondenza delle attività svolte agli ordini impartiti nel
caso del coordinamento mediante supervisione diretta o alla valutazione del li-
vello di raggiungimento degli obiettivi prefissati nel caso del coordinamento per
standardizzazione degli output. In sostanza, si può dire che i meccanismi di
coordinamento costituiscono la risposta tecnico-operativa e "razionale" (in
quanto comunque frutto di una valutazione e scelta, più o meno strutturata e
formalizzata) ad un'esigenza indotta dalla divisione orizzontale del lavoro, men-
tre il processo di controllo, in maniera complementare, rispondendo ad esigenze
dettate dalla divisione verticale del lavoro, contribuisce all’efficacia del processo
di coordinamento, al fine di individuare possibili e ulteriori azioni correttive. In
sintesi è possibile affermare l’esistenza di sostanziale complementarità e di po-
tenziale rinforzo reciproco tra processi di coordinamento e controllo.

217
Lineamenti di organizzazione aziendale

Il raggruppamento delle posizioni risolve una parte delle interdipendenze


lasciando fuori, come abbiamo osservato nel paragrafo precedente, le interdi-
pendenze residue tra le unità che devono essere presidiate da appositi meccani-
smi di coordinamento.
In sostanza, all’interno delle unità venutesi a creare a seguito del processo
di raggruppamento e ancor più tra le diverse unità, si presentano interdipen-
denze che necessitano di ulteriori modalità di gestione, al fine di coordinare le
parti e ricondurle nell’unità del sistema. In alcune situazioni, che si presentano
con il carattere della semplificazione o della estrema complessità, il coordina-
mento può avvenire prevalentemente in maniera spontanea e informale tra gli
attori organizzativi, in altri casi questa “informalità” non è sufficiente a presi-
diare l’integrazione tra unità ed è necessario intervenire con meccanismi formali.
È fondamentale chiarire che i meccanismi di coordinamento che di seguito
presenteremo non sono da considerare con la logica della “sostituibilità” quanto
con quella della complementarietà e “gradualità” in relazione alle contingenze,
stante il fatto che essi possono essere presenti anche tutti insieme e contempora-
neamente, non solo nell’organizzazione ma in una stessa unità di riferimento,
anche se con diversi gradi di profondità. I meccanismi di coordinamento pos-
sono richiedere la presenza di un attore organizzativo per essere attivati, in tal
caso parleremo di meccanismi di tipo personale. In altri casi essi sono di natura
impersonale, nel senso che hanno una loro oggettiva rappresentazione che “pre-
scinde” dalle persone che li rendono operative e il cui comportamento ne è con-
dizionato. Infine, i meccanismi possono essere classificati a seconda della loro
natura formale o informale a seconda che presentino o meno una chiara esplici-
tazione nelle gerarchie e nei processi operativi aziendali.

6.5.1. Il reciproco adattamento

Il coordinamento tra due soggetti può avvenire attraverso il processo della co-
municazione informale. Le parti in causa, attraverso un mutuo aggiustamento
delle proprie attività, opinioni, obiettivi, ricompongono il flusso del lavoro, tro-
vano una soluzione alla condivisione di risorse, definiscono un comune modo
di operare.
I collegamenti informali tra posizioni, frutto dell’iniziativa spontanea di
una delle parti, si avvale di tutte le forme della comunicazione diretta, non solo
vis-à-vis, ma anche telefonica, per email e per ogni altra modalità che la tecno-
logia mette a disposizione. Una sua rappresentazione è quella della Figura 6.4.
nella quale si evidenziano il Manager (M), gli operatori (O) e l’analista di pro-
gettazione (A).

218
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

Figura 6.4. Il coordinamento tramite adattamento reciproco

Fonte: Mintzberg, 1996, pag. 40

Tale forma di adattamento reciproco (Mintzberg, 1996) è una tradizionale mo-


dalità di coordinamento in cui non si demanda ad altri la soluzione del pro-
blema, ma si affronta in modo diretto e scambievole tra le parti. Essendo infor-
male non è predefinito l’iter per addivenire all’aggiustamento, pertanto l’effica-
cia è subordinata all’abilità dei soggetti di adattare reciprocamente esigenze,
aspettative e comportamenti. Il meccanismo risulta efficace sia in situazioni
molto semplici sia in situazione complesse, dove affianca di solito i meccanismi
di tipo formale (Mintzberg, 1996, pag. 39).

6.6. I Meccanismi “gerarchici” di coordinamento

I meccanismi di coordinamento sono gerarchici quando derivano da specifiche


decisioni del management e si manifestano secondo interventi diretti della linea
gerarchica aziendale, ovvero definite anche dagli analisti della tecnostruttura
attraverso un processo di delega da parte della gerarchia, delega che può essere
più o meno ampia. Alcuni autori, per marcare tale differenza parlano di gerar-
chia in senso stretto (Costa, Gubitta, Pittino, 2014), volendo significare che i
meccanismi classificati tradizionalmente come standardizzazione e definiti,
quando presente, dalla tecnostruttura, sono per così dire “indirettamente” ge-
rarchici. Mentre l’adattamento reciproco è un meccanismo personale, questi
meccanismi “gerarchici” sono impersonali e si basano tendenzialmente su piani
e programmi, regole, standard di lavoro, di output e di input.

219
Lineamenti di organizzazione aziendale

6.6.1. Il meccanismo gerarchico “primo”: la supervisione diretta

Il coordinamento di tipo personale individuale come la supervisione diretta (ge-


rarchica) affida ad un soggetto, gerarchicamente sovraordinato, la funzione di
armonizzare il funzionamento delle parti (Figura 6.5).

Figura 6.5. Il coordinamento tramite la supervisione diretta

Fonte: Mintzberg, 1996, pag. 40

A livello individuale il più tradizionale meccanismo di coordinamento è la su-


pervisione diretta o gerarchia in senso stretto (Williamson, 1975). Un gruppo di
attività o di unità sono sovraordinate da un soggetto che le guida e le controlla
affinché si integrino in modo armonico e coerente rispetto ai risultati aziendali.
La creazione di organi di livello superiore, a loro volta (se necessario) guidati e
coordinati da altri organi a loro preposti, crea delle catene di relazioni gerarchi-
che che danno luogo alla piramidalità della struttura.
La lunghezza delle catene di comando e dunque il livello di gerarchizza-
zione dell’organizzazione è strettamente dipendente da una scelta a monte che
si effettua quando si ricorre a questo meccanismo, ovvero da quanti soggetti
sono posti in relazione gerarchica con l’organo di livello superiore. Si deve cioè
definire la c.d. l’ampiezza del controllo (span of control) di ciascun supervisore.
L’ampiezza del controllo determina l’efficacia del coordinamento attraverso il
metodo della gerarchia.
L’ampiezza è funzione di alcuni elementi quali:

- le capacità di guida e di controllo del supervisore: maggiori sono l’espe-


rienza e le capacità, più ampia può essere la base da gestire;
- le caratteristiche dei soggetti da coordinare e della mansione progettata:
maggiore è il livello di autonomia definita dalla posizione, di discrezio-

220
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

nalità del soggetto e di capacità dei collaboratori, minore sarà il coin-


volgimento necessario da parte del capo e dunque più ampia la base del
controllo;
- la varietà delle attività da coordinare: minore varietà consente un mag-
gior numero di soggetti da coordinare.

La supervisione diretta rappresenta un principio ordinatore dei problemi non


routinari, le eccezioni, che si presentano al livello più basso rispetto all’organo
cui è demandato il compito di coordinare. Al livello superiore infatti, il controllo
garantisce che le attività e i relativi problemi siano in linea con le scelte e le po-
litiche che sono state adottate dal vertice strategico e declinate verso il basso;
inoltre, dal livello superiore, la prospettiva più ampia rispetto a quella dell’atti-
vità cui si sono manifestati, consente che la soluzione di un problema non sia a
scapito, ma in coerenza con le soluzioni di problemi delle altre attività sotto-
stanti.
Le azioni di più soggetti e più organi risultano in questo modo coordinate
le une alle altre. La supervisione diretta è un meccanismo personale di tipo ver-
ticale. Oltre a questo ci sono altri meccanismi di coordinamento che abbiamo
denominato di tipo gerarchico indiretto che si presentano in forma impersonale.

6.6.2. La gestione delle interdipendenze attraverso i meccanismi di


coordinamento “gerarchici” indiretti e impersonali

La gestione delle interdipendenze residue oltre a trovare soluzione nella gerar-


chia in senso stretto, si giova anche del contributo di meccanismi “gerarchici”
formalizzati di tipo impersonale definiti spesso, quando presenti, dagli analisti
della tecnostruttura e basati su regole, procedure, standard, modelli di defini-
zione dei comportamenti, ecc.
Si tratta di meccanismi operativi che, definendo ex ante e in itinere alcune
regole, standard o condizioni e controllandone ex post il rispetto, consentono
alle unità e ai soggetti interessati di agire in modo coordinato e armonizzato.
Sono, nella maggior parte dei casi, meccanismi che hanno la funzione di inte-
grazione orizzontale della struttura incidendo su, e rafforzando la logica gerar-
chica. In assenza degli analisti, come accade nelle piccole e medie imprese, tale
funzione viene tendenzialmente svolta dall’imprenditore, dal vertice aziendale
ovvero esternalizzate a società di consulenza che, su indicazioni della gerarchia
ne definiscono i contenuti.
Tra questi ritroviamo i sistemi di comunicazione, i piani di azione, mec-
canismi la definizione di regole e procedure (standardizzazione dei processi di
lavoro), i meccanismi di definizione e controllo dei risultati (standardizzazione

221
Lineamenti di organizzazione aziendale

degli output), i meccanismi definizione degli input intesi anche come conoscenze
e capacità degli attori organizzativi (standardizzazione degli input). Le modalità
di regolazione dei risultati, delle attività e azioni e delle risorse in ingresso ri-
prende la più nota classificazione di Mintzberg, che facendo riferimento al con-
cetto di standardizzazione come principio di coordinamento mediante la ridu-
zione delle variabilità (Grandori, 1995, pag. 462), distingue appunto tra stan-
dardizzazione degli output, standardizzazione dei processi di lavoro e la stan-
dardizzazione degli input (Mintzberg, 1996) 7. La rappresentazione riportata in
Figura 6.6 evidenzia il ruolo degli analisti di progettazione, che operano sempre
su delega e indicazione della gerarchia, nella definizione degli standard.

Figura 6.6. Il coordinamento tramite standardizzazione

Fonte: Mintzberg, 1996, pag. 40

I sistemi di comunicazione definiscono contenuti, strumenti e metodi di gestione


delle informazioni e della conoscenza. La finalità di tali strumenti è quella di
mettere in comune elementi che consentano agli attori organizzativi di integrare
i propri sforzi e all’organizzazione di essere coordinata. La loro funzione non è
solo verso l’interno ma anche nella relazione organizzazione-ambiente (Costa,
Gubitta, Pittino, 1994). È chiaro che la struttura e il funzionamento di questi
sistemi dipendono dalle caratteristiche dell’organizzazione che può determinare
la direzione prevalente del flusso (top-down, bottom-up, orizzontale), i livelli di
accesso, l’ampiezza, l’uniformità e profondità delle informazioni disponibili agli
attori organizzativi. Le caratteristiche dell’organizzazione unitamente a quelle
degli attori organizzativi determinano anche l’intensità, la frequenza e la qualità
d’uso di questi sistemi soprattutto quando sono basati sulle nuove tecnologie
informatiche.

7
Gli altri meccanismi di coordinamento indicati da Mintzberg sono: l’adattamento reciproco e la supervisione
diretta.

222
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

I sistemi di definizione dei piani di azione unitamente a quelli di controllo


hanno la finalità di orientare il comportamento degli attori organizzativi seppur
in forme e modalità differenti. Ebbene precisare, in questa sede, che non consi-
deriamo come prevalente la funzione di gestione delle operazioni aziendali dal
punto di vista economico-contabile quanto semmai quella di impatto e orienta-
mento sui comportamenti degli attori organizzativi ai fini del coordinamento.
I sistemi di programmazione delle attività, così come quelli di controllo
della peformance, intervenendo sui processi di standardizzazione degli output,
seppur in modo diverso, impattano quindi sui meccanismi di coordinamento. Il
ricorso ai sistemi operativi di programmazione come meccanismi di coordina-
mento, e dunque l’intensità con cui si regolano gli obiettivi, le attività e i com-
portamenti, dipendono dal livello di incertezza e complessità che è presente nelle
unità o nelle attività che si vogliono coordinare che sono condizionati anche
dall’interdipendenza.
Il sistema del controllo della performance, facilita e integra i meccanismi
di coordinamento; esso si propone di regolare i risultati complessivi di una unità
organizzativa con altre unità organizzative in quanto permette di confrontare
gli obiettivi programmati con quelli conseguiti, di valutare gli scostamenti, di
attuare eventuali azioni correttive. Se si esclude, per il momento, la sua funzione
di meccanismo operativo nella gestione delle risorse umane, declinato specifica-
tamente sui singoli individui, la premessa necessaria, per massimizzare il suo
efficace funzionamento, è la definizione di obiettivi coerenti tra le unità orga-
nizzative e la sua applicazione a unità organizzative che presentano tra di loro
interdipendenze di tipo generico. Anche la sua applicazione all’unità organizza-
tiva team, per certi versi, può avere una sicura interpretazione in tal senso.
In condizioni di elevata incertezza la pianificazione non può che limitarsi
agli obiettivi da raggiungere e a piani generali che orientano il comportamento
delle unità e attività organizzative. Pertanto prevale il sistema del controllo delle
performance, più che una pianificazione dettagliata delle attività; in tal caso la
pianificazione agisce attraverso la pre-definizione di livelli di obiettivi e indirizzi
strategici di carattere generale che si vogliono raggiungere e un controllo ex post
mediante confronto tra i livelli raggiunti con quelli predefiniti.
È il caso del coordinamento tra le unità divisionali, tra le quali l’interdi-
pendenza è più di carattere generico (Mintzberg, 1996). L’incertezza ambientale
in cui le divisioni operano, associata all’autonomia di cui godono, fa sì che si
possano standardizzare gli output e meno le azioni che esse devono compiere.
Allo stesso modo, a livelli più bassi della struttura, in condizioni di incertezza si
definiscono, ad esempio, degli standard di qualità da garantire (come nel caso
di fissazione di livelli di soddisfazione della clientela in alcuni servizi professio-
nali), ma più difficile è standardizzare le singole attività.

223
Lineamenti di organizzazione aziendale

A livello di comportamenti si agisce solo indirettamente attraverso il si-


stema delle performance e il connesso sistema della motivazione e dei piani di
incentivazione. Anche laddove vi siano delle regole si tratta di una definizione
generale di principi e di norme cui si devono conformare i comportamenti. Si
tratta spesso di principi valoriali, sovente provenienti da comunità professionali
esterne all’organizzazione o dalla cultura aziendale.
In situazione di bassa incertezza la regolazione dei risultati assume invece
caratteri molto puntuali, definendo precisi standard a tutti i livelli, anche ope-
rativi, stabilendo, per esempio, gli standard di un prodotto e i limiti di tolleranza
nella deviazione degli stessi (es. quanto deve misurare un bullone, quanti pro-
dotti devono essere realizzati in un arco temporale specifico, ecc.). In tal caso il
coordinamento si articola in programmi molto dettagliati che associano agli
obiettivi strategici, tattici e operativi, le precise attività da compiere, le regole da
seguire e i comportamenti da tenere.
La regolazione dei comportamenti discende, dunque, in situazioni di
bassa incertezza, da una elevata attività di fissazione di norme, regole e proce-
dure (standardizzazione del lavoro), che forniscono modelli e specifiche com-
portamentali entro cui si circoscrive l’agire dell’individuo. Ne deriva che quanto
più sono routinarie le attività tanto più si possono regolamentare attraverso
standardizzazione sia gli obiettivi che i processi, le singole attività e i comporta-
menti.
Il sistema della pianificazione dell’azione regola le attività e le azioni da
svolgere. La definizione delle attività e azioni va oltre i confini della unità orga-
nizzativa, in quanto stabilisce operazioni da compiere e decisioni da prendere
che possono riguardare più unità o attività trasversali ai raggruppamenti defi-
niti.
Sia il sistema del controllo della performance che della pianificazione delle
azioni impattano dunque sui comportamenti, ma mentre il sistema della piani-
ficazione definisce i comportamenti in modo diretto, individuando le azioni da
svolgere e i mezzi da utilizzare, il sistema della performance si limita ad orien-
tare i comportamenti, agendo sia ex ante, indirizzandoli verso la performance,
sia ex post, rafforzando quelli in linea con le performance e riconducendo ad
essi quelli che dalle performance risultano divergenti. Sia il sistema della perfor-
mance che della pianificazione dell’azione si sviluppano su più livelli, passando
da una dimensione più globale ad una sempre più dettagliata.
Il sistema del controllo della performance vede a livello più generale la
definizione di macro-obiettivi, scomposti poi in sub obiettivi e altri standard, e
così via in obiettivi e standard sempre più di carattere operativo. Allo stesso
modo il piano strategico generale è declinato in piani strategici di divisione (lad-
dove siamo in presenza di una simile articolazione), poi in piani e in programmi
funzionali, via via in programmi più specifici che arrivano ai livelli operativi.

224
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

Alla base ci sono le azioni organizzative che rappresentano l’attuazione dei pro-
grammi e il raggiungimento degli obiettivi.
La terza forma di regolazione riguarda le risorse in ingresso. Il concetto si
riferisce sia alla standardizzazione degli input materiali, sia, più propriamente,
alle conoscenze e le informazioni necessarie per svolgere le attività. È infatti la
regolazione della professionalità dei soggetti che può garantire il coordinamento
tra di essi.
La standardizzazione degli input è efficace sia in situazioni routinarie, in
cui essa è associata solitamente alla standardizzazione dei processi, delle cono-
scenze e delle abilità, sia in situazione di elevata incertezza, in cui, attraverso la
precisa individuazione e standardizzazione del set di conoscenze e competenze
necessarie alle attività da svolgere si cerca di armonizzare i comportamenti di
soggetti e le unità organizzative che agiscono in condizioni di elevata comples-
sità e incertezza, non potendone definire a priori le specifiche azioni e compor-
tamenti da tenere.
Quindi anche la standardizzazione degli input incide solo indirettamente
sui comportamenti, aumentando le possibilità che conoscenze omogenee con-
sentano a soggetti ed attività di armonizzare gli sforzi. Sempre in modo indiretto
si incide sui comportamenti attraverso la standardizzazione degli input mate-
riali: il livello di regolazione è più elevato nel caso di input materiali associati a
tecnologie di concatenamento che impongono determinati comportamenti per
la loro trasformazione fisica.
La regolazione degli input si avvale di alcuni strumenti quali la comuni-
cazione e la formazione. Attraverso la comunicazione si trasmettono le infor-
mazioni circa le risorse materiali e immateriali che devono essere garantite per
lo svolgimento delle attività e si contribuisce, nel caso della professionalità, ad
omogeneizzare le conoscenze attraverso scambi di messaggi e di esperienze.
La formazione è uno strumento molto efficace nella standardizzazione
degli input in quando contribuisce allo sviluppo e al consolidamento delle co-
noscenze e competenze necessarie. Inoltre, i contenuti e le modalità di eroga-
zione della formazione oltre che agire come meccanismo di regolazione di input
cognitivi, possono agire direttamente sui comportamenti, trasmettendo conte-
nuti su come svolgere le attività e su quali sono i comportamenti efficaci o non
efficaci da tenere.

225
Lineamenti di organizzazione aziendale

6.6.3.I Meccanismi di coordinamento personale di tipo individuale e collettivo

I meccanismi di coordinamento personale che presidiano la dimensione oriz-


zontale possono essere classificati secondo la loro dimensione individuale o col-
lettiva.
La prima richiama le posizioni o ruoli di collegamento e i manager “faci-
litatori” dell’integrazione inter-funzionale. Le posizioni o ruoli di collegamento
sono ruoli formalmente inseriti nella struttura, con il compito di facilitare lo
scambio di informazioni e comunicazione tra due unità organizzative interdi-
pendenti. Essi vengono creati per ridurre il ricorso alla gerarchia nella risolu-
zione dei problemi. Si tratta, in sostanza, di ruoli specialistici appartenenti ad
una unità organizzativa, ad esempio la “funzione organizzazione e personale”,
che vengono collocate e posizionati formalmente in un’altra, ad esempio la “fun-
zione commerciale e vendite” per presidiare e curare meglio i problemi dell’unità
nella quale sono collocai, nel nostro caso ad esempio problemi relativi alla rete
distributiva. Il soggetto che svolge tale ruolo di collegamento è “fisicamente”
situato nell’unità “commerciale e vendite” con la funzione di fare da problem
solver e collegamento, liason, tra le due unità. Esempi classici citati in letteratura
sono quelli ripresi da Galbraith (1977) con riferimento alle relazioni tra enginee-
ring e produzione, officina e montaggio.
Il soggetto che ricopre il ruolo assume il compito in aggiunta a quelli già
esistenti: non gode pertanto di autorità formale, è solo un facilitatore di scambi
e relazioni, sebbene il possesso delle informazioni può, in alcune strutture e si-
tuazioni, conferirgli un elevato potere (Martinez, 2000, pag. 207) 8. L’efficacia di
questi “ruoli di confine” è condizionata dal loro posizionamento nelle vicinanze
della fonte del problema, generalmente ai livelli più vicini all’assetto operativo.
I secondi, i manager integratori, sono di organi individuali che fungono da
meccanismi di integrazione tra posizioni situate su uno stesso livello o su livelli
diversi, organi che però non sono gerarchicamente collegati alle unità da coor-
dinare, sebbene in alcuni casi la rilevanza del ruolo determina una sua qualifi-
cazione gerarchica nei confronti del gruppo che deve coordinare. Essendo indi-
viduali, sono composti da una sola persona che, inserita in una posizione “di
tramite” tra più unità, svolge, in aggiunta ai compiti ordinari, un ruolo di riso-
luzione di eventuali problemi di mancanza di integrazione e armonia tra le atti-
vità fra cui sono inseriti. L’esercizio del potere di coordinare più attività e di
risolvere i relativi problemi nasce non da una attribuzione di autorità formale,
ma da un riconoscimento formale di competenze adeguate. La funzione di coor-
dinamento è svolta da un manager integratore (Quadro 6.1.).

8
Tale soluzione organizzativa, come si può intuire, determina generalmente per la posizione in oggetto una
dipendenza multipla: l’una, di tipo funzionale, l’altra, di tipo gerarchico,

226
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

Quadro 6.1 Tipologia di manager integratori

Il Product Manager (PM) svolge un ruolo di coordinamento sulle attività relative ad uno stesso prodotto
alla cui realizzazione contribuiscono più unità funzionali o più divisioni. Pertanto il suo ruolo di coordi-
namento consiste nel gestire le interdipendenze tra attività svolte in più funzioni, oppure di garantire
l’omogeneità di attività che si svolgono in diverse divisioni, dedite a realizzare uno stesso prodotto
destinato a più aree geografiche.
A volte il coordinamento attraverso un organo individuale riguarda tutte le attività collegate ad uno
stesso marchio, allo scopo di armonizzare le politiche relative ad un gruppo di prodotti accomunato da
uno stesso brand (Brand Manager), quando questo non costituisca una divisione.
Quando il coordinamento è finalizzato alla massima soddisfazione di alcuni clienti importanti la figura
di integrazione può essere il Key Account Manager, che ha come compito quello di integrare servizi e
prodotti in funzione delle esigenze del cliente. (Martinez, 2000, pagg 208 e ss).
Altra figura con funzione analoga è quella del process manager o process owner. Si tratta di due sog-
getti che coordinano flussi si attività dall’input all’output, all’interno di organizzazioni che abbiano in-
trapreso procedure di cambiamento organizzativo. A differenza del product manager, la cui funzione
è finalizzata alla gestione integrata del prodotto in un approccio d’insieme delle singole attività, il pro-
cess manager o process owner opera allo scopo di garantire l’efficienza di processi standardizzati,
funzionali al conseguimento del valore per il cliente.
Il project Manager o Program Manager ha la responsabilità del coordinamento di più attività facenti
parte di un progetto, pertanto coordina operazioni che riguardano iniziative uniche, un intervento su
commessa, un progetto ad alta complessità tecnologica (project manager) o del piano delle attività di
programmazione e controllo di un progetto (program manager). A differenze delle altre figura di inte-
grazione orizzontale, il Project Manager svolge un ruolo anche di coordinamento gerarchico, dato dalle
elevate competenze tecniche, assieme alle conoscenze di programmazione e controllo delle attività
lavorative, che gli consentono di indirizzare, supportare e controllare la realizzazione del progetto.

Anche i meccanismi personali di natura collettiva si presentano differenziati. I


principali sono rappresentati dalle riunioni, dalle task force e dai team di pro-
getto, dai task team. È difficile una loro classificazione tra meccanismi personali
di tipo collettivo formalizzati e non, perché riguarda il loro funzionamento che
non solo può variare da organizzazione ad organizzazione, ma anche nella
stessa può essere modificato nel tempo (riunioni spontanee che vengono forma-
lizzate, ad esempio, oppure organi che vengono sciolti e ci si affida a riunioni
spontanee ed estemporanee tra le parti).
Le riunioni consistono in incontri più o meno allargati tra membri dell’or-
ganizzazione individuati in base all’oggetto e la tipologia del ritrovo; hanno una
durata limitata, di solito non superiore alla giornata, se pur raramente definibile
a priori.
Il coordinamento attraverso le riunioni avviene mediante l’interazione tra i par-
tecipanti, i quali, in compresenza fisica o virtuale grazie alle tecnologie di tele-
comunicazione, si rapportano tra di loro, scambiandosi opinioni, informazioni,

227
Lineamenti di organizzazione aziendale

buone pratiche, in modo da addivenire ad una base omogenea di conoscenze e/o


ad una decisione comune, presupposti per armonizzare le azioni di ciascun sog-
getto o della unità che rappresenta.
La riunione offre molti vantaggi, a fronte di alcune criticità. Il principale
vantaggio consiste nella flessibilità (Martinez, 2000, pag. 210), relativa sia alle
modalità organizzative (che anche laddove definite, possono essere facilmente
modificate), sia alla composizione dell’organo (essendo altrettanto agevolmente
inserire o escludere dei membri), sia alle modalità operative di svolgimento (in
compresenza fisica, in via telematica, in orario lavorativo o extra-lavorativo,
nella sede di lavoro o in altro luogo, ecc.); è pertanto un meccanismo di facile
attuazione, se pur con oneri elevati. Il costo è infatti il principale aspetto nega-
tivo: la riunione richiede un elevato investimento in termini temporali, che si
traduce in potenziali ritardi o inefficienze sulle attività quotidiane dei parteci-
panti. Ciò è tanto più importante per l’organizzazione quanto più è elevato il
numero dei soggetti coinvolti e quanto più lungo è il processo di aggiustamento
tra le parti: può infatti accadere che una riunione non sia affatto efficace per
addivenire ad una soluzione o alla sola condivisione di dati e informazioni;
spesso è infatti necessario un processo iterato di incontri che elevano i costi per
il singolo e per la struttura. A questi costi della risorsa partecipante si aggiun-
gono i costi per gli spostamenti nella sede dell’incontro o, talvolta, i costi di so-
stituzione della persona, nel caso in cui gli incontri siano numerosi e in momenti
particolari dell’attività produttiva che richiede di essere presidiata.
Le riunioni, al pari degli altri meccanismi di coordinamento socio-strut-
turali, possono avere un diverso e con un vario grado di formalizzazione, dipen-
dente dai caratteri e dalle scelte della organizzazione in cui sono adottati. Ad
esempio, l’istituzione di una riunione tra la direzione generale e i responsabili di
funzione una volta a settimana è una forma collettiva istituzionalizzata, in
quanto stabilita dal vertice o dagli stessi soggetti partecipanti e soggetta a deter-
minate regole di convocazione. Inoltre, a conferma della difficoltà di effettuare
una classificazione tra meccanismi personali di tipo collettivo formalizzati e
non, il funzionamento di una riunione non solo può variare da organizzazione
ad organizzazione, ma anche nella stessa può essere modificato nel tempo (riu-
nioni spontanee che vengono istituzionalizzate, ad esempio, oppure organi che
vendono sciolti e ci si affida a riunioni spontanee ed estemporanee tra le parti).
Le task forces 9 nascono con una precisa finalità e ciò spiega la loro natura tem-
poranea, essendone previsto lo scioglimento una volta che la soluzione sia stata
trovato o l’attività realizzata. La task force opera come organo di coordina-
mento tra individui che svolgono la propria attività in funzioni diverse, ciascuno
con una visione settoriale di un problema che invece necessita di una visione di

9
Su questi e sul successivo si rimanda a quanto ampiamente discusso nel capitolo cinque.

228
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

flusso. Sono queste le cosiddette task forces di prodotto. In altri casi il coordi-
namento avviene attraverso una task force composta da soggetti che operano in
analoghe funzioni di divisioni diverse e che sono chiamati a risolvere un pro-
blema specifico per il quale è necessaria una visione specialistica, maturata
all’interno di prodotti e ambiti diversi. In questo caso si tratta di task force fun-
zionali, come può essere una task force composta dalle direzioni del personale
di divisioni diverse, i quali sono chiamati a risolvere le distorsioni di un sistema
incentivante utilizzato da tutta l’organizzazione. Altro esempio è costituito da
una task force composta da direttori di stabilimento di sedi diverse che devono
risolvere un problema comune di produzione.
Un team di progetto può nascere ad esempio per partecipare ad un bando
internazionale di ricerca universitaria per il quale sia necessario concepire una
proposta integrata che metta assieme conoscenze ed esperienze provenienti dai
diversi settori disciplinari.
A differenza delle task forces non nascono per una criticità specifica, ma
per tutta una tipologia di problemi che si possono generare da alcune attività.
Questo spiega perché non hanno natura temporanea, bensì stabile, costituendo
dunque un ambito operativo permanente in cui si si monitorano alcune attività
e si individuano problemi e soluzioni. Un esempio è costituito dai comitati per
la qualità: sono organi interfunzionali, che stabilmente affrontano problemi re-
lativi alla qualità tecnica, alla qualità percepita da parte del cliente, alle proce-
dure di qualità, ecc. Pertanto nel caso specifico si occupano di tutti quei pro-
blemi connessi a risorse, processi, valutazione della qualità e con riferimento a
questi cercano di prevenirli e di risolverli via via che si manifestano.
In conclusione di questa disamina dei meccanismi personali vogliamo os-
servare come essi si qualifichino come strumenti che, in modo strutturato anche
se non sempre formalizzato, rafforzano il funzionamento, Mintzberg direbbe
lubrificano le ruote”, del reciproco adattamento. Se né la supervisione diretta e
le atre forme di standardizzazione o sistemi operativi sono sufficienti per rag-
giungere il coordinamento, è necessario l’utilizzo dei c.d. meccanismi di collega-
mento, quelli appunto esaminati in questo paragrafo.

6.7. Stabilità e temporaneità dei meccanismi di coordinamento orizzontale

I meccanismi di coordinamento personali operanti a livello orizzontale o tra-


sversale tra le unità (pertanto, tra quelli esaminati si esclude la gerarchia), pos-

229
Lineamenti di organizzazione aziendale

sono essere classificati in base alla loro stabilità o temporaneità. Sono tenden-
zialmente considerati individuali e temporanei i project manager 10 e i program
manager: il primo espleterà il suo ruolo nella realizzazione di un progetto, il
secondo di un programma di pianificazione e controllo di attività, a conclusione
dei quali il ruolo non ha ragion d’essere. Le figure di product manager, brand
manager, key account manager, process manager sono invece inserite stabil-
mente nella organizzazione per coordinare i flussi o le specificità che ci sono
dietro la realizzazione di un prodotto, di un brand, di un processo o della sod-
disfazione di una tipologia di clienti.
Nella dimensione collettiva sono organi temporanei le riunioni, le task
force e i team di progetto. Le riunioni sono temporanee nella misura in cui la
loro presenza sia estemporanea e non istituzionalizzata, mentre task force e task
team sono destinati a durare fino alla soluzione di un problema o fino alla rea-
lizzazione di un progetto. Le riunioni possono essere stabili se è prevista una
regolarità nella loro manifestazione. Esempio di riunioni stabili sono le assem-
blee annuali di approvazione del bilancio d’esercizio.
La Tabella 6.2 presenta la classificazione degli organi personali di coordi-
namento orizzontale e trasversale.

Tabella 6.2. Classificazione degli organi personali di coordinamento


orizzontale e trasversale

10
Nelle organizzazioni che operano stabilmente per progetto, come ad esempio i general contractor, le organiz-
zazioni di gestione eventi, tale figura si qualifica, invece, per la sua stabilità, caratterizzando, di fatto, l’intero
modello organizzativo.

230
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

6.8 Una panoramica riassuntiva attraverso alcuni modelli della letteratura

I contributi sul coordinamento presenti in letteratura propongono varie classi-


ficazioni dei meccanismi, ora con riferimento alle tipologie di interdipendenze,
ora con riferimento all’incertezza. Nei modelli classici o nelle loro rielaborazioni
è facile rinvenire la relazione tra denominazioni e classificazioni riportate negli
schemi sottostanti e quelle effettuate all’interno della presente trattazione.
Un primo modello classico mette in relazione le interdipendenze con i
meccanismi di coordinamento. Si tratta del modello di Thompson, indicato
nella Tabella 6.3.

Tabella 6.3. La relazione tipologie di interdipendenza meccanismi di


coordinamento in Thompson (1967, edizione italiana 1990)

Il modello considera la gestione delle interdipendenze attraverso tre meccanismi


di coordinamento ad esse associati. Thompson distingue tra interdipendenza ge-
nerica o di accumulazione, sequenziale e reciproca. L’interdipendenza generica
è gestita attraverso il coordinamento per standardizzazione, definita da Thomp-
son come “l’istituzione di routine o regole che vincolano l’azione di ogni unità
o posizione secondo itinerari coerenti con quelli intrapresi dalle altre nella rela-
zione di interdipendenza” (Thompson, 1990, pag. 141). Per coordinare due
unità che hanno tra di loro interdipendenze solo indirette occorre stabilire delle
regole alle quali devono attenersi le unità.
Le interdipendenze sequenziali richiedono, invece, un coordinamento per
programma, ovvero “l’istituzione di schemi operativi per le unità interdipen-
denti in base ai quali le azioni delle unità possano poi essere governate” (Thomp-
son, 1990, pag. 141). Per le interdipendenze reciproche il modello propone il
coordinamento per mutuo adattamento, intendendo con ciò il coordinamento
attraverso “la trasmissione di nuove informazioni durante il processo d’azione.
[…] Il coordinamento per mutuo adattamento può prevedere una comunica-
zione lungo linee gerarchiche, ma ciò non si verifica necessariamente” (Thomp-
son, 1990, pag. 142).

231
Lineamenti di organizzazione aziendale

Il modello di Thompson fa riferimento a due importanti variabili: l’incer-


tezza della situazione da coordinare e i costi del coordinamento. La standardiz-
zazione si adotta in caso di situazione molto prevedibili, con conseguente bassa
necessità di intervenire nelle decisioni e nella comunicazione, dunque con oneri
poco elevato per l’organizzazione. Il coordinamento per programma è efficace
in situazioni più dinamiche, in cui occorre più frequentemente intervenire per
adattare le scelte ai cambiamenti, pertanto si associa a maggiori livelli di costi.
Il coordinamento per mutuo adattamento è tipico di decisioni molto incerte e
imprevedibili, che richiedono elevati costi derivanti dalla necessità di attivare e
gestire continui flussi informativi a supporto di decisioni estremamente dinami-
che.
Anche il modello di Grandori (1995) (Tabella 6.4.) associa le interdipen-
denze ai meccanismi di coordinamento, sottolineando il fatto che tale associa-
zione non è da intendersi come una corrispondenza biunivoca, ma come mecca-
nismi di coordinamento “primari o prevalenti” (Grandori, 1995, pag. 469), ri-
spetto ad una tipologia di interdipendenza, all’interno dell’ampio set di mecca-
nismi possibili.

Tabella 6.4. La relazione tipologie di interdipendenza meccanismi di


coordinamento in Grandori (1995, pag. 469) 11

Le interdipendenze sono classificate secondo un livello di complessità che distin-


gue tra interdipendenze semplici, intermedie e complesse, cui corrispondono so-
luzioni di coordinamento che vedono, con riferimento ad ogni tipologia di in-
terdipendenza, i meccanismi più complessi aggiungersi a quelli più semplici. Il

11
In una successiva versione (1999, pag. 455) Grandori modifica la relazione parlando interdipendenze semplici
(generiche e sequenziali) e complesse (reciproche o intensive).

232
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

modello distingue la gerarchia tra piena e decentrata, indicando con tali termini
un diverso livello di accentramento decisionale nell’organo di supervisione. Tra
i meccanismi sono inoltre riportate delle forme indirette quali l’incentivazione,
ma anche i diritti di proprietà, la partecipazione alle decisioni e il controllo.
Le interdipendenze semplici comprendono quelle generiche (per accumu-
lazione) e quelle sequenziali. Per questa tipologia di interdipendenze i meccani-
smi di coordinamento più appropriati risultano essere le regole, le norme, le pro-
cedure e programmi laddove si tratti di “azioni prevedibili e osservabili” (Gran-
dori, 1995, pag. 468), ovvero i meccanismi di incentivo, se sono prevedibili e
osservabili non le azioni ma “i risultati delle azioni”. Gli incentivi possono ri-
guardare le ricompense legate ai risultati o anche la fissazione di prezzi di tra-
sferimento di beni e servizi da una unità all’altra.
In una situazione di maggiore complessità delle interdipendenze, dovuta
a imprevedibilità e innovatività delle attività e conseguente necessità di maggiori
comunicazioni o ad elevato numero delle unità interconnesse, diventano preva-
lenti altri meccanismi di coordinamento. In caso, infatti, di interdipendenze “mi-
ste”, comprendenti oltre alle generiche e sequenziali anche interdipendenze re-
ciproche o quelle intensive, i meccanismi di coordinamento si trovano in un con-
tinuum tra gerarchia piena e decisioni congiunte: all’aumento della complessità
delle situazioni da coordinare si passa da una gerarchia piena ad una più decen-
trata e all’inserimento di appositi organi che si affiancano alle comunicazioni
laterali o alle decisioni collettive, fino agli organi di integrazione. Le interdipen-
denze complesse (reciproche e intensive) in situazioni di massima complessità
informativa ed elevata potenzialità di conflitti sono affidate a meccanismi indi-
retti o residuali che puntano all’allineamento agli obiettivi tramite meccanismi
culturali o facendo leva su diritti di proprietà (ad esempio una cooperativa di
lavoro che coordina un pool di professionisti interni), su forme di ricompensa
diverse da quelle collegate ai risultati individuali (partecipazione agli utili di im-
presa, diritti di acquisto su azioni aziendali, ecc.), o forme di controllo per ecce-
zioni.
Il modello di Galbraith (1973) distingue in base all’incertezza relativa ai
compiti da coordinare.
Per i compiti classificati di routine e prevedibili è possibile programmare
le attività e procedere per eccezione alla soluzione dei problemi non prevedibili.
Pertanto i meccanismi di coordinamento in questi casi sono la fissazione di re-
gole e procedure, la fissazione di obiettivi o il ricorso alla gerarchia quando se
ne avverta la necessità. In condizioni di elevata incertezza si può agire o per
ridurre il livello di incertezza o per individuare le azioni atte a fronteggiarla. Le
azioni per ridurre l’incertezza consistono nella modifica dei criteri adottati per
definire le basi di raggruppamento o nella creazione di risorse di riserva. Nel

233
Lineamenti di organizzazione aziendale

primo caso si passa solitamente da una base per input (ad esempio, per fun-
zioni), ad una per output (ad esempio, prodotto/mercato), in modo da rendere
autonome le unità nella realizzazione del risultato e limitare così le relazioni
esterne all’ unità stessa.
La creazione di risorse di riserva consiste, invece, nella predisposizione di
risorse o modalità operative che possano ridurre la possibilità che si manifestino
eccezioni (Brusa, 1986, pag. 71). Quando l’organizzazione non può incidere sui
fattori che generano le interdipendenze, interviene sugli effetti delle stesse: in
questo caso accetta le interdipendenze e le gestisce facendo ricorso ai rapporti
laterali tra le unità, sia nella forma di collegamenti spontanei che in quella di
organi veri e propri, fino alla creazione della struttura a matrice con cui, attra-
verso un duplice criterio di divisione del lavoro, si garantisce il coordinamento
sia verticale che orizzontale tra le attività, secondo principi di funzionamento
illustrati nel capitolo sulle forme a criterio multiplo.
Il modello di Mintzberg (1996) mette in relazione i meccanismi di coordi-
namento con la complessità della situazione (Tabella 6.5.).

Tabella 6.5. La relazione tipologie di interdipendenza meccanismi di


coordinamento in Mintzberg (1996)

234
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento

Come si vede la standardizzazione è il meccanismo più coerente con le situazioni


di media complessità; una standardizzazione che a livelli crescenti di complessità
si sposta dai processi agli output agli input. L’adattamento reciproco è un mec-
canismo coerente con situazione estreme, di bassa o elevata complessità. Nel
primo caso però si tratta di un adattamento informale, spontaneo, nell’altro uti-
lizza i meccanismi orizzontali e trasversali di natura formale, oltre a quelli in-
formali. La gerarchia risulta efficace come meccanismo di coordinamento in si-
tuazioni di complessità piuttosto semplici e abbastanza complesse.
I modelli proposti nel presente paragrafo sintetizzano i più noti contributi
della letteratura sui temi delle interdipendenze e del coordinamento, nonché
delle variabili che ne determinano le scelte. Pur trattandosi di aspetti classici
della progettazione organizzativa, i significativi cambiamenti in atto nelle
aziende, anche con riferimento alle nuove tecnologie impiegate e alle nuove mo-
dalità di organizzazione del lavoro, pongono importanti sfide agli studiosi nella
individuazione e nella gestione di nuove forme di relazione tra le attività e tra le
unità organizzative. Pertanto, nonostante l’abbondanza di trattazioni sull’argo-
mento, le interdipendenze e il coordinamento restano temi aperti ed estrema-
mente interessanti, su cui gli studiosi e il management aziendale sono chiamati
a riflettere nella ricerca di migliori performance e di riduzione delle inefficienze
aziendali.

235
Premessa alla progettazione della macrostruttura
organizzativa
di Mariacristina Bonti ed Enrico Cori

La progettazione della macrostruttura fa riferimento all’insieme delle scelte di


divisione del lavoro a livello di azienda. Tali scelte sono relative al raggruppa-
mento delle attività, e delle relative unità organizzative, in unità di livello supe-
riore (articolazione orizzontale), al numero dei livelli gerarchici (articolazione
verticale), al rapporto tra unità di livello superiore e unità di livello inferiore
(ampiezza del controllo), infine al disegno delle linee di dipendenza tra unità
organizzative.
L’insieme delle scelte relative alla macrostruttura consente di individuare
un certo numero di “forme” o “configurazioni” organizzative a livello di
azienda. Queste configurazioni non sono altro che tipi ideali, che vengono de-
clinati in svariati modi dalle singole aziende, dando luogo talvolta anche a forme
ibride.
In particolare è la scelta del criterio di articolazione orizzontale che defi-
nisce il tipo di macrostruttura. Due sono i possibili criteri, quello per input (al-
trimenti detto della “specializzazione funzionale”) e quello per output. Applicare
il criterio per input significa raggruppare in una stessa unità organizzativa, ge-
nericamente detta funzione, attività omogenee, cioè tecnicamente simili e che per
essere svolte richiedono lo stesso tipo di conoscenze/capacità. Questo indipen-
dentemente dal fatto che dette attività confluiscano nella fabbricazione di un
prodotto o di un altro, o che il mercato di riferimento sia quello domestico o un
qualche mercato estero. Al contrario, applicare il criterio per output significa
raggruppare in una stessa unità organizzativa, detta genericamente divisione, at-
tività tra loro eterogenee ma che nell’insieme servono a realizzare un medesimo
output (prodotto/servizio, mercato/area geografica, tipo/fascia di clientela).

237
Lineamenti di organizzazione aziendale

La presenza di unità funzionali o, in alternativa, di unità divisionali al


primo livello al di sotto degli organi di direzione aziendale consente di identifi-
care il criterio applicato, che nel primo caso sarà quello per input e nel secondo
quello per output. Ai livelli gerarchici inferiori le scelte di progettazione possono
essere le più varie, nel senso che il criterio per output potrà essere applicato anche
nell’ambito di funzioni (ad esempio l’articolazione per area geografica della rete
di vendita); così come l’organizzazione interna di una divisione potrà seguire il
criterio per input (articolazione per funzioni) o di nuovo quello per output (ad
esempio divisioni di prodotto se al livello superiore sono state adottate divisioni
per area geografica), oppure adottare una forma ibrida.
Le scelte relative al criterio di articolazione orizzontale consentono di
identificare due categorie di forme di macrostruttura: da una parte le cosiddette
forme “a criterio unico”, cioè quelle in cui si applica un unico criterio di rag-
gruppamento delle attività (o quello per input o quello per output); dall’altra le
cosiddette forme “a criterio multiplo”, dove i suddetti criteri vengono applicati
congiuntamente.
Le scelte di progettazione della microstruttura sono orientate da un ampio
ventaglio di fattori, riconducibili non solo alla natura dell’attività (produzione
per il magazzino o su commessa, priorità alle gestione delle interdipendenze di
flusso o di costo eccetera) e ai tratti della cultura organizzativa aziendale e di
contesto, così come avviene anche per le scelte di organizzazione del lavoro, ma
anche e soprattutto alle strategie aziendali e alla dimensione dell’azienda stessa.
Anzi, non è azzardato affermare che scelte di posizionamento strategico (rela-
tive al mix tecnologia/prodotto/mercato) e dimensioni/volume di attività rap-
presentano talvolta dei veri e propri vincoli alla progettazione della macrostrut-
tura.
Alla luce di quanto appena detto, è logico pensare che la struttura adot-
tata inizialmente dall’impresa difficilmente rimarrà a lungo la stessa. Un suo
ripensamento, che non significa necessariamente abbandono di una certa forma
ma anche, più semplicemente, una sua modifica, si renderà necessario in corri-
spondenza di un ri-orientamento strategico, di una espansione geografica dei
mercati serviti o dell’introduzione di nuove linee di business, di un significativo
aumento delle dimensioni aziendali, di un diverso bilanciamento tra produzioni
standard, produzioni su commessa, attività progettuali. Anche le scelte relative
all’organizzazione del lavoro possono indurre una revisione della struttura or-
ganizzativa aziendale. In particolare, le pratiche generalizzate volte all’arricchi-
mento delle mansioni operative si traducono spesso in una maggiore ampiezza
del controllo e in una riduzione del numero dei livelli gerarchici, per via del mi-
nor fabbisogno di ruoli di coordinamento e controllo.
Tuttavia, la decisione di cambiare o modificare l’attuale forma di macro-
struttura non si configura necessariamente come scelta di adattamento a mutate

238
Premessa alla progettazione della macrostruttura organizzativa

condizioni aziendali e di contesto. Essa può essere presa, in una logica proattiva,
per predisporre l’azienda a fronteggiare possibili cambiamenti nell’arena com-
petitiva, per consolidare o ridisegnare le attribuzioni di autorità formale e gli
ambiti di controllo coerentemente con le dinamiche interne di potere, o anche
per promuovere un’evoluzione della cultura organizzativa.
Idealmente possiamo pensare all’insieme delle scelte relative alla macro-
struttura di un’azienda come ad un processo che ha come primo input l’inizio
dell’attività di impresa e come successivi input scelte imprenditoriali o manage-
riali, tanto in una logica di adattamento quanto di anticipazione, che possono
suggerire o l’abbandono di una forma di macrostruttura in favore di un’altra
(ad esempio il passaggio dalla forma funzionale e quella divisionale) o, più sem-
plicemente, la modifica di uno o più caratteri della stessa forma organizzativa
(possibili esempi possono essere l’appiattimento della struttura, cioè la ridu-
zione del numero dei livelli gerarchici, la costituzione di una nuova funzione, il
potenziamento delle unità in staff alla Direzione, l’inserimento di unità di pro-
getto).
In altre parole, il processo di progettazione si snoda attraverso alcuni mo-
menti di discontinuità, dei “salti” rappresentati dal cambio di forma di macro-
struttura e che si configurano come cambiamenti radicali, intervallati da possi-
bili modifiche interne ad una stessa forma, che si configurano come cambia-
menti incrementali. Esso non può mai dirsi definitivamente concluso, se non con
la cessazione dell’attività di impresa.
L’analisi delle forme di macrostruttura non può prescindere da un’attenta
osservazione dell’organigramma. Questo strumento, ormai diffuso anche al di
fuori dell’ambito aziendale (la vostra Università ne ha molto probabilmente di-
segnato uno e magari lo ha inserito sul proprio sito web) consente di pervenire
ad una rappresentazione formale della struttura organizzativa aziendale, che
consente di visualizzare in modo abbastanza immediato alcuni caratteri della
struttura stessa.
In prima approssimazione possiamo dire che l’organigramma evidenzia
l’insieme delle unità organizzative che svolgono le attività finalizzate alla realiz-
zazione del prodotto/servizio. In particolare esso dà informazioni riguardo ai
criteri utilizzati per il raggruppamento delle attività (osservabile leggendo il
primo livello sotto gli organi di direzione generale), al numero dei livelli gerar-
chici (sempre che l’organigramma evidenzi in modo completo le successive arti-
colazioni, dagli organi di direzione generale alle unità operative alla base della
“piramide organizzativa”), all’ampiezza del controllo, infine ai collegamenti ge-
rarchici fra unità.

239
Lineamenti di organizzazione aziendale

L’organigramma rappresenta un potente strumento di comunicazione


verso l’interno e verso l’interno. Verso l’interno, in quanto consente a chi è in-
serito in una qualsiasi unità di capire “dove si trova”, con quali altre unità è in
rapporto di sovraordinazione o subordinazione. Verso l’esterno, in quanto aiuta
chi per un motivo o per l’altro entra in contatto con l’organizzazione ad indivi-
duare “a chi rivolgersi”, cioè quali unità/ruoli rappresentano l’interfaccia ap-
propriata (questo può capitare a ciascuno di noi quando abbiamo necessità di
rivolgerci ad una qualche amministrazione o ente pubblico).
Al di là della sua funzione di “orientamento”, l’analisi dell’organigramma
di un’azienda è il primo passo per valutare l’adeguatezza della forma di macro-
struttura rappresentata. Esso può essere considerato uno strumento necessario,
ancorché non sufficiente per tale valutazione. Non sufficiente anzitutto perché
la distribuzione del potere decisionale tra le unità, cioè il grado di centralizza-
zione della struttura, è un’informazione di cui non disponiamo, o che dispo-
niamo in maniera incompleta. Infatti, osservando un organigramma possiamo
solo intuire che vi sono alcuni ruoli direttivi, con ambiti di coordinamento e
controllo su altri ruoli/unità. Ma è pur vero che, a parità di disegno dell’organi-
gramma, la discrezionalità decisionale effettivamente attribuita ai vari ruoli può
variare. Non è sufficiente, inoltre, perché il disegno delle linee di dipendenza
gerarchica nella maggior parte dei casi non è accompagnato dal disegno delle
linee di dipendenza funzionale, che pure costituiscono un elemento di analisi
imprescindibile per capire quanto una struttura può sostenere in modo efficiente
ed efficace l’attività aziendale.
In chiusura di questa premessa diamo un veloce sguardo all’articolazione
dei successivi capitoli 9 e 10.
Il capitolo 9 è dedicato alle cosiddette forme “a criterio unico”, cioè a quei
tipi di macrostruttura che impiegano un solo criterio di raggruppamento delle
attività. Vengono illustrati i principali caratteri, le condizioni di applicazione,
nonché quelli che sono ritenuti i principali punti di forza e di debolezza dap-
prima della struttura funzionale e in seguito della struttura divisionale. Di ogni
forma sono altresì analizzate alcune delle varianti più diffuse.
Il capitolo 10 è invece dedicato alle cosiddette forme “a criterio multiplo”,
ossia a quelle strutture che risultano dall’impiego congiunto di due o più criteri
di raggruppamento delle attività. Le strutture illustrate sono quella per pro-
getto, nelle sue molteplici varianti, che la vedono applicata ora all’intera
azienda, ora come “innesto” in un’altra forma di macrostruttura, e quella a ma-
trice. Di entrambe sono discussi, oltre ai principali caratteri, le condizioni di
applicazione e di efficacia ed i principali punti di forza e debolezza.

240
7 Le forme a criterio unico
di Lucia Varra e Sara Sassetti

Introduzione – 7.1. La struttura funzionale – 7.2. La struttura funzionale e i caratteri


della specializzazione – 7.2.1. La specializzazione e gli organi di staff – 7.3. Le forme
della struttura funzionale – 7.3.1. La forma funzionale meccanica – 7.3.2. La forma
funzionale professionale – 7.3.3. La forma funzionale dinamica – 7.3.3.1. La forma
funzionale modificata con manager di integrazione – 7.4. La struttura divisionale –
7.5. Le variabili e le forme della struttura divisionale – 7.5.1 Le variabili della struttura
divisionale – 7.5.2. Le forme della struttura divisionale – 7.5.2.1. La forma divisionale
accentrata – 7.5.2.2. La forma divisionale decentrata – Conclusioni

241
Lineamenti di organizzazione aziendale

Introduzione

L’articolazione delle attività in unità organizzative, frutto delle scelte di divi-


sione del lavoro e di raggruppamento delle posizioni, genera, assieme alla defi-
nizione delle relazioni verticali e orizzontali tra le unità, i modelli di struttura
con cui l’organizzazione realizza le proprie performance 1.
Sebbene le modalità di divisione del lavoro possano essere differenti nelle
diverse parti del sistema (ad esempio, nella produzione può esserci un criterio
per input basato sulle fasi di trasformazione, nell’area commerciale un criterio
per aoutput basato as esempio sull’area geografica, ecc.), il modello organizza-
tivo è determinato dal criterio di divisione del lavoro utilizzato al primo livello
gerarchico, cioè al livello direttamente collegato alla direzione generale. Per-
tanto, se l’aggregazione delle macro attività di primo livello avviene secondo un
criterio di specializzazione funzionale (in base al quale ogni unità costituisce un
nucleo di operazioni omogenee secondo la fase che svolgono nel ciclo input-
trasformazione-output), il modello sarà funzionale; se l’aggregazione delle ma-
cro unità avviene secondo un criterio di conseguimento di un risultato (in base
al quale, ciascuna riunisce nuclei di operazioni tra loro eterogenei, ma in grado
nel loro insieme di presidiare uno specifico output quale prodotto, cliente o area
geografica), siamo in presenza del modello divisionale.
In entrambi i casi, alle dirette dipendenze della direzione generale ci sono
unità organizzative che seguono uno specifico ed unico criterio di divisione del
lavoro, sia esso di natura funzionale o divisionale. Da qui il nome di strutture a
criterio unico. In altri modelli, come vedremo in altre parti del libro, al primo
livello sono presenti organi individuati sulla base di due diversi criteri di divi-
sione del lavoro, applicati contemporaneamente, come ad esempio input e out-
put (struttura a matrice).
Le forme classiche di strutture organizzative sono a criterio unico, nella
loro configurazione idealtipica. L’adozione di tale criterio comporta che il prin-
cipio ordinatore del sistema organizzativo sia di tipo verticale: i sub-sistemi di
attività si compongono infatti attorno a una linea che si articola lungo processi
top down (discendenti) e bottom up (ascendenti). In senso discendente, le macro
unità si scompongono in aggregati più semplici, gerarchicamente collegati
all’unità iniziale; in senso ascendente, avviene l’aggregazione di posizioni in
sotto sistemi più ampi, a loro volta dipendenti da unità di livello superiore, che
li includono. Lo schema che ne deriva è una gerarchia di livelli, dove quello più
elevato è alle dirette dipendenze della direzione generale.

1
Nel presente capitolo i termini “forma”, “modello”, “configurazione”, “assetto”, “archetipo”, “struttura” sono uti-
lizzati come sinonimi, laddove non sia espressamente richiamato un diverso significato.

242
Le forme a criterio unico

Nel presente capitolo sono esaminate le due strutture basate sul criterio
unico: la struttura funzionale e quella divisionale.
Si tratta di due modelli molto noti e diffusi, due ideal tipo di strutture
organizzative, con peculiarità molto diverse tra di loro, ciascuno adatto a con-
testi e scelte strategiche e di gestione molto differenti, tant’è che presentano, nei
punti di forza o nelle criticità, caratteri di specularità dell’uno rispetto all’altro.
Il modello funzionale si basa su un principio di specializzazione delle atti-
vità per input, tale per cui le unità risultano caratterizzate da omogeneità della
tecnica di svolgimento delle operazioni, delle competenze e dei criteri di valuta-
zione economica del complesso delle attività (in termini prevalenti di costo e
ricavo).
Il modello divisionale si base invece sul principio di specializzazione delle
attività per output, quindi su un orientamento al risultato, per cui le attività
sono raggruppate secondo una logica di eterogeneità e complementarità, stru-
mentale allo svolgimento completo di tutte le fasi della realizzazione dell’output.
Se la specializzazione delle attività e la gestione integrata di ogni output
costituiscono, rispettivamente, la peculiarità del modello funzionale e divisio-
nale e pertanto tale peculiarità è sempre presente nella relativa struttura, con
riferimento alle modalità di funzionamento e/o alla relativa articolazione in-
terna si individuano varie forme sia di modello funzionale che divisionale.
Nella trattazione del capitolo, dopo aver illustrato le caratteristiche di
base dei modelli funzionale e divisionale, sono presentate le diverse forme che i
due modelli possono assumere sulla base di specifiche variabili organizzative. Il
modello funzionale è esaminato nelle sue varianti di: funzionale meccanica, pro-
fessionale, funzionale modificata con organi di integrazione ed infine la forma
funzionale dinamica. Il modello divisionale è illustrato nelle sue forme a copia
carbone e a unità di business, nonché nelle forme di divisionale accentrata e de-
centrata.

7.1. La struttura funzionale

La struttura funzionale rappresenta il modello di organizzazione delle attività


fondato sul più classico dei criteri di divisione del lavoro: la specializzazione per
funzione.
Esso si basa sul raggruppamento in una stessa unità (denominata fun-
zione) di attività tecnologicamente simili, per le quali sono richieste conoscenze
e competenze sostanzialmente omogenee. Ad esempio, tutte le operazioni di tra-
sformazione tecnica (e coloro che se ne occupano) saranno concentrati nella
funzione produzione, tutte le attività di promozione e vendita (con i relativi ad-
detti) in quella commerciale, e così via.

243
Lineamenti di organizzazione aziendale

Ne deriva una compartimentalizzazione settoriale che fraziona il naturale


flusso lineare della trasformazione da input in output, conferendo alla dimen-
sione orizzontale i caratteri della articolazione e differenziazione per attività e
competenze. Tale differenziazione si esprime non solo da un punto di vista tec-
nico ma anche culturale, dato lo sviluppo di eterogenei orientamenti, atteggia-
menti, mappe mentali che vanno a connotare ciascun settore gestionale. Tutto
ciò definisce netti confini tra le funzioni; queste, se da una parte creano ambiti
in cui si sviluppa il vantaggio competitivo, in quanto man mano che le organiz-
zazioni si specializzano, si migliorano le abilità e le capacità, nonché le compe-
tenze distintive che conferiscono all’organizzazione un vantaggio competitivo
(Jones, 2007), dall’altra generano circoscrizioni con visioni strettamente setto-
riali rispetto al più generale ciclo della gestione aziendale.
La figura 7.1 fornisce una tipica esemplificazione di raggruppamento per
funzioni.

Figura 7.1 Raggruppamento delle attività per funzioni

Funzione Produzione Funzione Commerciale Funzione Acquisti Funzione Amministrazione

Fonte: Nostra elaborazione

A sovraintendere ad ogni funzione vi è la figura del direttore/manager funzio-


nale, il quale ha la responsabilità di programmare, coordinare e supervisionare
le operazioni dell’unità specializzata; egli pertanto è in possesso di un sistema di
competenze specifiche ed evolute che gli consentono di essere un esperto solu-
tore dei problemi di quel ramo di attività gestionale e di interloquire in modo
appropriato con gli attori esterni, esponenti dei particolari sub-ambienti opera-
tivi di riferimento. Il responsabile commerciale di un’azienda, ad esempio, pos-
siede la specializzazione professionale per cogliere e risolvere i problemi di
clienti, intermediari, responsabili commerciali di altre aziende. Allo stesso
modo, il responsabile acquisti è specializzato nel trattare con fornitori di beni e
servizi e di affrontare le questioni che tali attività comportano.
L’esperienza settoriale si giova così di un continuo apprendimento, che
affina nel tempo le specificità professionali dei manager di funzione. Il respon-
sabile di funzione, livello intermedio tra il vertice e la base operativa, ha un po-
tere decisionale di tipo selettivo, che gli consente di decidere relativamente alle
tematiche del proprio settore e di dirigere così le risorse e le attività di riferi-
mento, nonchè di coordinare le unità specializzate facenti parte del nucleo ope-
rativo (Perrone, 1990).

244
Le forme a criterio unico

La rappresentazione generale di una struttura funzionale mostra pertanto


almeno tre livelli: la direzione generale, le funzioni specializzate e il nucleo ope-
rativo a disposizione di ciascuna funzione. (Fig. 7.2).

Figura 7.2 Rappresentazione generale di un organigramma della struttura


funzionale

Fonte: Nostra elaborazione

Alla direzione generale competono tre specifiche attività (Costa, Gubitta, Pit-
tino, 2014; Isotta, 1989). La prima è quella di elaborare ed esplicitare la strategia
generale dell’impresa, definendo gli indirizzi e la direzione verso la quale l’orga-
nizzazione intende andare: chi siamo, quali sono i nostri obiettivi, chi sono i
nostri clienti e come li vogliamo servire. A tal fine, essa ha il compito di indivi-
duare le risorse (finanziarie, umane, tecnologiche) necessarie al raggiungimento
dei fini organizzativi e le fonti dalle quali procurarle.
Un secondo compito importante in capo alla direzione generale riguarda
la gestione delle relazioni interaziendali e i rapporti con i portatori di interessi
istituzionali; tali relazioni definiscono i confini dell’organizzazione e rappresen-
tano un continuo riferimento per le strategie aziendali.
Infine, una tipica attività della direzione generale riguarda la definizione
delle attività che caratterizzano ciascuna unità funzionale e l’individuazione, in
relazione alle esigenze interne e alle dinamiche ambientali, dei più idonei modelli
di coordinamento attraverso cui armonizzare le attività delle diverse funzioni.
Il direttore/manager di funzione si occupa, invece, di tradurre a livello di
unità funzionale la linea strategica stabilita dalla direzione generale. A tali ma-
nager è delegato, pertanto, il potere gestionale delle funzioni organizzative loro
assegnate, quindi la discrezionalità di individuare e mettere a punto le politiche
e le azioni più consone al raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Un importante compito del direttore di funzione è di assolvere, svolgendo
il ruolo di “filtro tra vertice e nucleo operativo” (Costa, Gubitta, Pittino, 2014),
alla funzione di duplice coordinamento gerarchico, sia verso l’alto che verso il

245
Lineamenti di organizzazione aziendale

basso. Verso il basso, egli espleta un ruolo di coordinamento verticale, garan-


tendo la traduzione delle strategie e degli obiettivi generali in sub-obiettivi e in
linee d’azione specifici, nonchè la realizzazione degli stessi, attraverso un’ade-
guata combinazione delle risorse; verso l’alto, il coordinamento consiste da una
parte nel finalizzare i risultati settoriali alla composizione del risultato globale,
dall’altra nel sistematizzare e far convogliare esigenze e informazioni locali in
input del processo strategico aziendale. Affinché tale ruolo di filtro tra la base e
il vertice sia svolto efficacemente, occorre che sia contenuto il numero e il livello
di eccezioni che il capo si trova a risolvere e a ricomporre verso l’alto. Nel caso
di elevata complessità del suo settore egli si può trovare, infatti, in situazione di
sovraccarico di input o, al contrario, di deficit informativo rispetto al problema.
Ciò accade, ad esempio, quando è troppo ampia la base su cui esercita il suo
potere di responsabile (il noto problema dell’ampiezza del controllo) 2 Tale dif-
ficoltà viene superata con l’aggiunta di un ulteriore livello di delega su raggrup-
pamenti maggiormente omogenei al loro interno, venendosi necessariamente a
creare una formale catena gerarchica.
Infine, il nucleo operativo, nel rispetto delle disposizioni dettate dal diret-
tore funzionale, ha il compito di svolgere concretamente le attività connesse alla
propria funzione di riferimento: chi appartiene alla funzione produzione sarà
addetto al processo di trasformazione tecnica in senso stretto, occupandosi di
alcune sue specifiche fasi interne (produzione in senso stretto, montaggio di
componenti, assemblaggio finale, etc.), chi è membro dell’amministrazione do-
vrà occuparsi di contabilità e movimenti finanziari, chi è nella funzione risorse
umane si occuperà di reclutamento, selezione, formazione, ecc. In relazione a
tali attvità, le unità operative sono tenute a riportare alla direzione di funzione
resoconti, problematiche e input migliorativi relativi al livello di concreta rea-
lizzazione delle scelte aziendali.

7.2. La struttura funzionale e i caratteri della specializzazione

Il raggruppamento delle risorse in base alla specializzazione tecnica comporta


alcuni vantaggi sia in termini di acquisizione che di sviluppo delle stesse (Isotta,
2003): di acquisizione, in quanto le risorse in ingresso vanno selezionate in modo
accurato perché devono essere idonee a quel particolare utilizzo, pertanto sono
specificamente qualificate; di sviluppo, perchè l’impiego di risorse omogenee

2
Come già sottolineato nel cap. 7, l’ampiezza del controllo è un principio della teoria classica dell’organizza-
zione, il quale richiama l’attenzione sulla necessità di contenere il numero di persone che un capo deve coordi-
nare. Il suddetto principio, assieme agli altri della teoria classica dell’organizzazione, sono richiamati in nota 3.

246
Le forme a criterio unico

porta ad un progressivo incremento di efficienza ed efficacia delle stesse, in ter-


mini di economie di varia natura e di apprendimento.
In termini di efficienza, la omogeneità delle risorse garantisce le economia
di scala e di specializzazione.
Le economie di scala, consistenti nella riduzione del costo medio unitario
di produzione all’aumento delle dimensioni, sono dovute alla possibilità di svol-
gere in maniera congiunta (stessi impianti, stesse risorse umane, ecc.) una plu-
ralità di attività simili, pertanto “il vantaggio in termini di riduzione di costo
unitario deriva dalla ripartizione di quei costi su un numero maggiore di output”
(Martinez, 2000, p. 172). Ad esempio, se nell’area dell’amministrazione si svol-
gono tutte le pratiche amministrative relative ai diversi output che l’azienda rea-
lizza, si evitano duplicazioni di procedure, di addetti e di servizi all’interno di
più unità organizzative e si permette lo svolgimento delle operazioni nel pieno
sfruttamento degli strumenti e delle risorse a disposizione. In tal modo si elimi-
nano i tempi morti, la sottoutilizzazioni di personale, nonché i costi di coordi-
mento tra attività simili che hanno tra di loro interdipendenze di flusso. Si pensi,
ad esempio, alle pratiche amministrative di unità diverse che fornirebbero l’out-
put ad uno stesso ufficio e che richiederebbero pertanto un loro coordinamento
affinchè l’ufficio ricevente possa smaltirle con una certa razionalità.
Con riferimento alle economie di specializzazione, il raggruppamento di
attività simili in una stessa unità fa sì che si sviluppi un elevato apprendimento
in coloro che le eseguono; ciò è dovuto al fatto che nello svolgimento dell’attivià
A si incontrano, ad esempio, problemi comuni con l’attività B e questo porta ad
un affinamento delle tecniche per entrambe le attività, con conseguente mag-
giore produttività nello svolgimento routinario e più efficiente ricerca di solu-
zioni migliorative.
La specializzazione comporta un vantaggio anche in termini di efficacia,
dovuto alla propensione al miglioramento e all’innovazione, che possono gene-
rarsi da una ampia base di conoscenze possedute sulla tecnica specifica, nonchè
dallo scambio di conoscenze, grazie all’interazione tra persone operanti nella
stessa specializzazione. Ancora, il fatto che i dipendenti siano raggruppati in
base alle competenze comuni facilita la possibilità che si inneschi un meccani-
smo di adattamento reciproco, che tende a sviluppare una maggiore responsa-
bilizzazione nei comportamenti dei membri di una stessa unità funzionale, con
conseguente maggiore attenzione alla qualità delle operazioni.
La logica della specializzazione funzionale costituisce dunque un requisito
per numerosi vantaggi nell’organizzazione, a condizione che si riescano a tenere
sotto controllo una serie di problemi che si generano all’aumento delle dimen-
sioni aziendali, della differenziazione e del dinamismo ambientale da cui deriva
un incremento della complessità gestionale(Jones, 2007).

247
Lineamenti di organizzazione aziendale

Infatti, nel caso di grandi dimensioni ed elevata differenziazione delle at-


tività può accadere che sia necessario frazionare ulteriormente le unità per ri-
spettare i principi della ampiezza del controllo e dell’ omogeneità delle opera-
zioni. Ogni sub-unità specializzata avrà un capo, che a sua volta riporterà ad un
responsabile di una unità più ampia, “contenitore” di quelle più specifiche. Ciò
determinerà una catena gerarchica che può dar luogo a vari problemi, uno tra
questi, quello della comunicazione orizzontale e verticale, in quanto man mano
che si creano e si sviluppano gerarchie all’interno delle funzioni, si distanziano
sempre più, all’interno di una stessa gerarchia, i livelli dirigenziali da quelli ope-
rativi. Questi problemi sono acuiti nel caso di espansione geografica, per la mag-
giore difficoltà di scambi, di coordinamento e di controllo da parte della strut-
tura funzionale nei confronti delle altre sedi operative.
Ne deriva quindi che nelle scelte di specializzazione l’organizzazione deve
sempre valutare i vantaggi e gli inconvenienti che ne possono derivare. Tali in-
convenienti possono anche ripercuotersi sulle attività strategiche, essendo la di-
rezione generale costretta ad investire troppo tempo per cercare di risolvere i
problemi tra le diverse funzioni (i quali nascono da approcci settoriali che non
tengono in giusta considerazione le esigenze di integrazione e di coordinamento
dei flussi lavorativi interfunzionali) piuttosto che a definire la strategia e gli
obiettivi aziendali. Questo può compromettere la capacità dell’azienda di rea-
gire tempestivamente e in modo globale ai continui e repentini cambiamenti del
mercato, quando non addirittura può generare una sorta di inerzia strategica,
essendo il vertice occupato in attività routinarie.
Analoghe difficoltà si incontrano quando, al crescere dell’impresa e all’
aumento delle funzioni e del numero di prodotti, è difficile riuscire a mantenere
il controllo su tutte le informazioni che misurano l’impatto di una funzione sulla
redditività complessiva dell’impresa. Tale mancanza di informazioni, idonee al
controllo sulle performance di funzione o sulla redditività dei prodotti, può
avere impatti negativi sulla razionalità delle decisioni strategiche e tattiche.

7.2.1. La specializzazione e gli organi di staff

In parte per bilanciare gli effetti della specializzazione e ricondurre ad unità il


sistema organizzazione, in parte per far fronte ad esigenze specifiche che richie-
dono competenze particolari e non possono essere affrontate a livello settoriale,
nel modello funzionale sono spesso presenti organi c.d. di staff, prevalentemente
a livello della direzione centrale.
Si tratta di unità anch’esse specializzate, caratterizzate per una loro collo-
cazione laterale rispetto alla (al di fuori della) linea gerarchica, che esercitano
un’influenza tecnico-suppletiva, in un rapporto ausiliario o sussidiario, sugli or-
gani di management.

248
Le forme a criterio unico

Si distingue tra staff con funzioni tecnico-organizzative e staff con fun-


zioni di servizio. Il primo gruppo (normalmente definito tecnosctruttura) com-
prende organi con conoscenze specialistiche direttamente strumentali ad una
“buona” gestione aziendale e incaricati altresì di adattare e modificare l’orga-
nizzazione per fronteggiare i cambiamenti ambientali. Fanno parte di questo
gruppo gli staff di “pianificazione e controllo”, “programmazione della produ-
zione”, “controllo di gestione”, “controllo qualità”, ecc., i quali creano le con-
dizioni e i meccanismi operativi per l’efficienza e l’efficacia del sistema.
Il secondo gruppo riguarda gli staff di servizio, che presentano dei bacini
di conoscenze specialistiche solo indirettamente funzionali alla “buona” ge-
stione aziendale. Rientrano tra questi le unità specialistiche di “ufficio legale”,
”amministrazione del personale”, “relazioni industriali”, “ricerca e sviluppo”,
ecc. Tali organi di staff “creano le condizioni e le risposte generali che possano
garantire la durata nel tempo delle condizioni di efficacia ed efficienza del si-
stema” (Varra, 2015).
Come per le unità specialistiche poste in gerarchia, l’aumento delle dimen-
sioni e della complessità aziendale, gestite mediante il criterio della specializza-
zione, può portare al rafforzamento degli organi di staff, sia per una migliore
organizzazione delle attività interne, sia per lo svolgimento di servizi specifici.
Ciò può determinare una ulteriore complicazione del sistema, già stressato da
un appesantimento della linea gerarchica.
Nell’organigramma gli staff si rappresentano come indicato in Figura 7.3.

Figura 7.3 Rappresentazione della struttura funzionale con degli organi di


staff

Fonte: Nostra elaborazione

249
Lineamenti di organizzazione aziendale

7.3. Le forme della struttura funzionale

Nel rispetto delle caratteristiche di fondo che abbiamo finora esaminato, il mo-
dello funzionale può presentare forme diverse. La distinzione più nota è ricon-
ducibile a due delle cinque configurazioni di Mintzberg (1983), ovvero alla bu-
rocrazia meccanica e alla burocrazia professionale. Altre forme sono rappresen-
tate dalla forma funzionale modificata con organi di integrazione e dalla forma
dinamica.

7.3.1. La forma funzionale meccanica

La forma funzionale meccanica presenta i caratteri della burocrazia meccanica


proposta da Mintzberg (1983), nonché molti aspetti della burocrazia di Weber
(1974), che enfatizzando i processi di razionalizzazione dei sistemi sociali si ba-
sava su: gerarchia di comando, divisione dei compiti, specializzazione, forma-
lizzazione, ecc. La forma funzionale meccanica si caratterizza per una forte
spinta alla specializzazione orizzontale e verticale delle mansioni, nonché, a li-
vello di macrostruttura, per una elevata differenziazione delle unità organizza-
tive, sia dal punto di vista della gerarchia (dimensione verticale) che in termini
di specializzazione delle funzioni (dimensione orizzontale).
La spinta alla specializzazione porta infatti alla costituzione di unità or-
ganizzative che, nel rispetto del principio dell’ampiezza del controllo, dà luogo
a una articolazione gerarchica molto complessa (Martinez, 2000).
Il nucleo operativo si caratterizza per compiti operativi molto specializzati
e di routine, che richiedono una capacità e una formazione particolarmente fo-
calizzata e circoscritta, prevalentemente di tipo tecnico. Nel nucleo operativo è
presente una elevata standardizzazione nei processi che cerca di eliminare il più
possibile ogni potenziale incertezza al fine di far funzionare il sistema burocra-
tico al meglio e senza intoppi.
La standardizzazione dei processi di lavoro è il meccanismo di coordina-
mento che più caratterizza questa forma: ciò fa sì che nel nucleo operativo sia
ridotto il ruolo della supervisione diretta da parte dei capi di prima linea e che
dunque le unità operative possano essere di ampie dimensioni.
In tutta l’organizzazione si riscontra una proliferazione di regole, norme
e comunicazioni formalizzate (Janićijević, 2017). La formalizzazione della stra-
tegia e della pianificazione dell’agire è un ulteriore meccanismo che consente di
dare prevedibilità e regolarità di funzionamento alla struttura. L’elevata forma-
lizzazione consente a questa organizzazione di funzionare come una efficace e
ben oliata macchina, in cui i comportamenti sono definiti e regolamentati in
anticipo.

250
Le forme a criterio unico

Anche se la standardizzazione risolve la maggior parte delle interdipen-


denze e riduce la varietà delle problematiche da gestire, non è possibile eliminare
ambiguità e conflitti. Il ruolo del livello intermedio in questa forma funzionale
è, infatti, quello di servizio della gerarchia per trasmettere e mettere in pratica
in modo organico, e a cascata, principi, programmi e regole di funzionamento
del sistema, nonché, come si è detto, per risolvere tutte le eccezioni che residuano
dalla standardizzazione. La forma funzionale meccanica presenta un elevato ac-
centramento decisionale che fa del modello meccanico una struttura con “l’os-
sessione del controllo” (Mintzberg, 1996, pag. 262), attraverso cui, ancora una
volta, si regolarizza il funzionamento e si risolve il conflitto. Tutto ciò implica
che i manager di funzione debbano sviluppare costanti contatti personali, sia
con il nucleo operativo che con il vertice. Da qui la necessità che sia limitato il
numero delle persone che il manager può dirigere e dunque la conseguenza che
le unità poste sopra il nucleo operativo tendono ad essere piccole e la struttura
tende ad assumere una forma allungata (Mintzberg, 1996, pag. 260).
Per le sue peculiarità, la forma funzionale meccanica è adatta soprattutto
per organizzazioni che operano in ambienti stabili e semplici, dove una certa
prevedibilità degli eventi, soggetti a un basso tasso di cambiamento, consente il
perseguimento dell’efficienza attraverso l’applicazione della specializzazione,
della standardizzazione e del controllo gerarchico.
Come contraltare della forte standardizzazione, emerge l’importanza di
coloro che attuano tale standardizzazione, ovvero gli analisti della tecnostrut-
tura: si tratta di soggetti che analizzano i processi di lavoro e le mansioni, di
pianificatori, ecc., i quali operano all’interno degli organi di staff tecnocratici,
posizionati non solo a livello centrale ma anche periferico.
Essendo organi di staff, non dispongono di autorità formale, tuttavia, la
rilevanza del loro operato in una struttura basata su standardizzazione, regole,
formalizzazione dei comportamenti lavorativi, fa sì che essi abbiano un elevato
potere informale, che finisce con il delimitare il potere attribuito agli altri sog-
getti dell’organizzazione, cioè i capi di prima linea. Questi infatti, sottoposti a
regole, processi decisionali formalizzati e strettamente collegati alla linea gerar-
chica dell’autorità, vedono di fatto ridursi la discrezionalità del loro operato
anche nell’esercizio della funzione di coordinamento. La separazione tra gli or-
gani di staff e la line è molto netta, come lo è tra gli organi della struttura dire-
zionale e del nucleo operativo: “..nella burocrazia meccanica, raramente i ma-
nager lavorano con gli operatori” (Mintzberg, 1996, pag. 261).
In genarale, è una struttura in cui è molto netta la differenziazione tra le
unità organizzative, sia nella dimensione orizzontale che verticale, tra line e
staff, ecc.. È anche la struttura in cui sono maggiormente rispettati i principi
della teoria classica dell’organizzazione: il principio scalare o gerarchico, quello

251
Lineamenti di organizzazione aziendale

dell’ampiezza del controllo, dell’unità di comando, dell’eccezione, del bilancia-


mento tra autorità e responsabilità. 3

Figura 7.4 Organigramma di forma funzionale meccanica

Fonte: Nostra elaborazione

7.3.2. La forma funzionale professionale

La forma funzionale professionale fa riferimento alla configurazione della bu-


rocrazia professionale di Mintzberg (1983). Si tratta di un modello organizza-
tivo incentrato sul ruolo chiave di professionisti esperti (altrimenti detti profes-
sional) che svolgono attività complesse, utilizzando tecnologie sofisticate. A tali
professionisti viene riconosciuto un considerevole grado di controllo sul proprio
lavoro. Essendo ampia l’autonomia lasciata ai professionisti, caratteristiche del
modello sono un accentramento decisionale piuttosto basso e un altrettanto
basso ricorso alla gerarchia quale meccanismo di coordinamento. Si comprende
pertanto l’elevata importanza della formazione e dell’indottrinamento 4 per la
trasmissione e lo sviluppo delle conoscenze e delle capacità, nonché delle norme

3
Il principio scalare stabilisce che l’autorità e la corrispondente responsabilità) devono fluire secondo una linea
chiara e continua dall’alto verso il basso, ovvero dal dirigente di massimo livello ai ruoli esecutivi, attraverso una
scala formale di posizioni gerarchicamente subordinate. Il principio dell’ampiezza del controllo stabilisce che
occorre limitare il numero di collaboratori sottoposti all’autorità di uno stesso capo, altrimenti diventa difficoltoso
il coordinamento; il principio dell’unità comando stabilisce che nessun soggetto dovrebbe ricevere ordini da più
di un superiore, onde evitare contrapposizioni di indicazioni e altre incoerenze; il principio dell’eccezione attribui-
sce al agli appartenenti ad una unità organizzativa i relativi problemi, rinviando al superiore solo quelli che esu-
lano dalla routine; il principio del bilanciamento tra autorità e responsabilità stabilisce il dovere di chi ha un potere
decisionale deve rispondere dell’uso che ne fa. Una ampia trattazione dei principi è presente, tra gli altri, in Brusa
L.: Strutture organizzative d’impresa, 1986, pp. 27-33.
4
Per indottrinamento si intende un processo di educazione culturale verso l’adesione a determinati valori e i
principi.

252
Le forme a criterio unico

e dei valori dell’organizzazione. Se nella struttura funzionale meccanica il prin-


cipio cardine è la standardizzazione dei processi, in quella professionale è la
standardizzazione degli input, in particolar modo quelli cognitivi. Anche nel
modello meccanico, accanto alla standardizzazione dei processi, si riscontra so-
vente quella degli input. Ma mentre nel modello meccanico, gli standard degli
input (relativi a quelle conoscenze professionali codificabili) sono decisi e fissati
dall’organizzazione stessa, nel modello professionale gli standard sono fissati in
via generale e preliminare dall’esterno, in genere da associazioni indipendenti o
da ordini professionali (medici, avvocati, notai ecc.). Si tratta in questo caso di
valori e norme che attengono all’esercizio dell’attività professionale, di modo
che la lealtà dei professionisti sia garantita prima nei confronti della professione
e poi all’azienda in cui operano (Gouldner, 1957; Isotta, 2003). “Di conseguenza
mentre la burocrazia meccanica si fonda sull’autorità di natura gerarchica -il
potere della posizione- la burocrazia professionale pone l’accento sull’autorità
di natura professionale –il potere della competenza” (Mintzberg, 1996, p. 295).
Il funzionamento di questa forma funzionale si basa su un processo di
classificazione secondo il quale il professionista effettua una diagnosi, cioè, clas-
sifica le esigenze del cliente e le codifica secondo una situazione o contingenza
che indica quale procedura o programma è meglio applicare. A seguito di questa
prima fase egli deve scegliere, applicare ed eseguire la procedura o il piano di
azione più indicato per la situazione che si è presentata sulla base delle indica-
zioni generali dettate dall’organizzazione.
Questo processo di classificazione permette alla forma funzionale profes-
sionale di definire quali siano i compiti operativi da applicare in situazioni spe-
cifiche e di assegnarli ai singoli professionisti, i quali possono agire con un buon
grado di autonomia. Dato che il nucleo operativo ha la possibilità di autogestirsi
ne consegue che la linea intermedia, i manager funzionali, si trovino a svolgere
un ruolo meno direttivo rispetto a quello che hanno nella struttura funzionale
burocratica. Il loro compito principale è quello di gestire le variazioni rispetto a
ciò che è già stato classificato all’interno dell’organizzazione e soprattutto di
essere dei mediatori nel caso in cui nascano conflitti tra i professionisti. Inoltre,
essi sono spesso chiamati a svolgere ruoli importanti ai confini dell’organizza-
zione, fra i professionisti interni e i soggetti esterni (pubblica amministrazione,
associazioni dei clienti, finanziatori pubblici o privati ecc.). Si può quindi affer-
mare che “nella burocrazia professionale il potere passa a quei professionisti che
desiderano impegnarsi nell’attività amministrativa invece che nel lavoro profes-
sionale, in particolare a coloro che la svolgono in maniera efficace. Il professio-
nista manager conserva però il suo potere soltanto nella misura in cui tale potere
è riconosciuto al servizio e difesa degli interessi professionali del gruppo” (Min-
tzberg, 1996, p. 304).

253
Lineamenti di organizzazione aziendale

Questo modello è tipico delle imprese complesse che erogano servizi pro-
fessionali, come ad esempio ospedali, università, scuole, ecc.; è, quindi, una
struttura che si adatta bene in ambienti che sono relativamente stabili e com-
plessi. Per rispondere ai caratteri del contesto risulta fondamentale l’attenzione
al servizio, attraverso la standardizzazione delle conoscenze e delle competenze;
tale processo di standardizzazione interna e allineamento con l’esterno richiede,
come si è accennato, importanti ed articolate azioni di formazione e di informa-
zione.

Figura 7.5 Organigramma di forma funzionale professionale

Fonte: Nostra elaborazione

7.3.3. La forma funzionale dinamica

Per quanto la struttura funzionale sia ancora l’approccio prevalente nella co-
struzione della struttura aziendale (Daft, 2010), nel contesto estremamente di-
namico in cui le organizzazioni oggi operano sono molte le aziende che speri-
mentano i problemi dell’eccessivo “spacchettamento” della struttura per com-
parti omogenei. In tali strutture molto articolate orizzontalmente e vertical-
mente, il coordinamento verticale, con i relativi processi che discendono a ca-
scata e risalgono per step, risulta lento; le eccezioni sono molte ed eterogenee
per essere gestite dal capo in modo efficace e rapido; il coordinamento orizzon-
tale attraverso standardizzazione dei processi è applicato in modo pressochè li-
mitato, essendo poche le situazioni routinarie, mentre sono numerose quelle per
cui va trovata una soluzione all’occorrenza.
Pertanto le organizzazioni, nella ricerca di modalità di funzionamento più
efficaci rispetto a quelle tradizionali, fanno sempre più ricorso a sistemi di coor-
dinamento più innovativi, che comprendono la costituzione di team, task forces,
sistemi informativi, contatto diretto tra manager e collaboratore, comitati, in-
serimento di manager di integrazione (su cui ci soffermeremo nel prossimo pa-
ragrafo), ecc.

254
Le forme a criterio unico

Questi tipi di interventi vanno ad incidere sulle interazioni tra le unità or-
ganizzative, trascurando in larga misura la linea gerarchica (Perrone, 1990) che
risulta pertanto fortemente depotenziata nel suo ruolo di coordinamento verti-
cistico. A livello di singola unità, la necessità di trovare rapidamente le risposte
a problemi complessi fa sì che le persone siano messe nelle condizioni di auto-
determinare gran parte dei propri comportamenti, i quali più che dalla standar-
dizzazione dei processi sono guidati dell’adattamento alle situazioni contin-
genti, dalle premesse decisionali, dalla cultura, dagli obiettivi da conseguire
L’affievolimento dell’intervento del vertice, assieme alla necessità di fles-
sibilità, può portare ad un appiattimento della struttura funzionale, che elimina
molti dei suoi livelli intermedi, trasferendo su ciascun individuo le capacità di
coordinamento, rispetto alla propria attività e alle relazioni con le altre posi-
zioni, interne o esterne alla funzione. Allo stesso modo, mentre nascono e si raf-
forzano gli organi di integrazione, si eliminano o si snelliscono alcuni staff della
tecnostruttura, le cui attività possono essere assorbite all’interno dei ruoli del
manager di linea o del nucleo operativo. Ad, esempio, in una necessaria azione
di riprogettazione delle mansioni, a supporto di interventi di appiattimento della
struttura, si tenderanno ad arricchire le mansioni di contenuti di programma-
zione e controllo, come accade, ad esempio, in una posizione di addetto che au-
todefinisce le modalità di lavoro e individua i parametri di controllo della pro-
pria attività. Al contempo, in simili contesti, risulta quale scelta efficace l’ester-
nalizzazione di alcuni organi di staff di servizio (ad esempio, l’ufficio legale, l’as-
sistenza clienti, ecc.), a condizione che il loro livello di specializzazione e com-
petenza sia sufficientemente garantito dalla qualità dei provider presenti sul
mercato. Tale fenomeno di esternalizzazione (altrimenti detto outsourcing) di
alcuni organi di staff, che coinvolge molte organizzazioni, indipendentemente
dal modello adottato, contribuisce in questo caso a rendere snella una struttura
funzionale eccessivamente specializzata.
L’organizzazione che ne deriva, pur mantenendo il principio dell’aggre-
gazione delle risorse secondo il principio della specializzazione per funzione, è
più facilmente sollecita agli stimoli ambientali, è una struttura funzionale dina-
mica, i cui caratteri sono rappresentati da: presenza di pochi livelli gerarchici
intermedi, che costituirebbero un inutile filtro tra il livello superiore e inferiore,
appesantendo i processi decisionali e di comunicazione; basso peso della tecno-
struttura, le cui attività sono distribuite tra manager di linea e nucleo operativo;

255
Lineamenti di organizzazione aziendale

ricorso all’outsourcing per alcuni staff di servizio, non strategici per l’organiz-
zazione; ampliamento delle modalità di coordinamento orizzontale 5, sia infor-
male che formale, quest’ultimo affidato a appositi organi di integrazione (comi-
tati, task force, manager di integrazione, ecc.) 6; presenza di principi di funzio-
namento che riproducano all’interno della struttura la logica dello scambio
cliente-fornitore e dei relativi parametri di valutazione delle performance, al po-
sto della catena del comando capo-collaboratore e del criterio del controllo at-
traverso la supervisione. Infine, come già accennato, lo snellimento della strut-
tura passa attraverso l’attuazione di politiche di riprogettazione delle mansioni
e di empowerment sulle risorse umane, affinchè il collaboratore, nell’ambito di
una mansione più ampia e meno formalizzata, disponga delle conoscenze, com-
petenze e deleghe decisionali idonee a svolgere con soddisfazione e successo le
attività assegnategli.
I modelli suesposti colgono i presupposti e le specificità del modello fun-
zionale, ma anche le peculiarità del contesto interno e esterno che determinano
la necessità di considerare il funzionamento dell’organizzazione specializzata
per input, in modo più articolato e contingente.
Un tipico esempio di forma funzionale dinamica si riscontra quando l’or-
ganizzazione modifica la struttura con l’inserirmento di un manager di integra-
zione per coordinare e gestire meglio il proprio business di riferimento.

7.3.3.1. La forma funzionale con manager di integrazione

Il dinamismo ambientale, la necessità di affrontare alcuni problemi in un’ottica


interfunzionale e di presidiare in modo più appropriato alcuni output o segmenti
della domanda, possono portare l’organizzazione a decidere di affiancare all’ar-
ticolazione funzionale la presenza di manager di integrazione, responsabili di
output (prodotti, progetti, commessa, tipologia di clienti, ecc.). In tal modo la
struttura funzionale, senza subire sostanziali modifiche nella sua articolazione
di base, potrà risultare più orientata al mercato.
La struttura che ne deriva assume caratteri diversi a seconda che tali or-
gani siano temporanei o permanenti e a seconda che dispongano o meno della
autonomia nel prendere direttamente le decisioni (Paoletti, 2002). Si distin-
guono 3 funzionali modificate: strutture con organi di integrazione commerciale
e permanenti, ma senza la completa autonomia decisionale (data dall’autorità

5
“Per far fronte alle disfunzioni della forma funzionale, per renderla cioè più dinamica attraverso un maggior
coordinamento, si fa generalmente ricorso a meccanismi di relazione e cioè a manager integratori, a riunioni,
task force, task teams, comitati,....” Martinez, 2000, pag. 239.
6
Per una panoramica sugli organi di collegamento orizzontale (laterale) o trasversale si rinvia al relativo para-
grafo del cap.6 del presente volume.

256
Le forme a criterio unico

formale) relativa alle proprie attività; strutture con organi tecnici inseriti ac-
canto alle funzioni con una autorità formale, ma temporanei (strutture per pro-
getti); strutture funzionali affiancate da organi con autorità formale e duraturi
(strutture a matrice). In quest’ultimo caso, si esce dall’ambito tipico delle strut-
ture a criterio unico eviene altresì meno il principio dell’unità di comando.
Nel presente paragrafo ci soffermiamo sulla prima tipologia di strutture
funazionali modificate, rinviando al capitolo successivo la trattazione della
struttura per progetti e a matrice.
Quando l’organizzazione strutturata per funzioni decide di operare con
organi di integrazione, le funzioni continuano a presidiare le funzioni di loro
competenza, nonché le logiche di efficienza e di specializzazione. Nello specifico,
tale situazione si può presentare quando all’interno di una funzione che risulta
critica per il successo aziendale si inserisce un organo che può avere la respon-
sabilità di un prodotto o una linea di prodotti (product manager), un’area di
mercato o di canale distrubutivo o un gruppo di clienti (rispettivamente, market
manager e trade manager, account manager).
La figura più nota e diffusa in organizzazioni di questo tipo è quella del
product manager. Tale figura si colloca in posizioni diverse a seconda del ruolo
che svolge. Quando a tale organo è affidata la responsabilità delle politiche com-
merciali relative ad un prodotto o ad una tipologia di prodotti, esso è inserito
alle dipendenze della direzione commerciale: Al product manager sono pertanto
affidate le decisioni di comunicazione, promozione di prodotto e, molto spesso,
in collaborazione con la funzione commerciale, le decisioni di prezzo, di inno-
vazione relative ad prodotto o ad un gruppo di prodotti, pur non essendo dotato
di un’autorità gerarchica nei confronti dei resposanbili delle unità organizzative
con cui si interfaccia e dei loro collaboratori. Si tratta in tal caso di un organo
di integrazione sulle politiche di marketing operativo e la sua responsabilità de-
cisionale si circoscrive entro tale area di attività per il prodotto o i prodotti as-
segnati (Fig. 7.6).

257
Lineamenti di organizzazione aziendale

Figura 7.6 Organigramma di forma funzionale funzionale modificata con


organo di integrazione (product manager alle dipendeze della
funzione marketing)

Fonte: Nostra elaborazione

Quando invece al product manager sono affidate le decisioni strategiche di pro-


dotto con riferimento alle leve del marketing mix (produzione, prezzo, distribu-
zione, promozione), la figura si colloca alle dipendenze della direzione generale
e svolge in tal modo un fondamentale ruolo di integrazione e coordinamento tra
le diverse funzioni in un’ottica di prodotto (Fig. 7.7). Al product manager è as-
segnata la responsabilità di tutte le attività e dei risultati economici relativi al
prodotto a lui affidato. Non possedendo però un’autorità gerarchica né nei con-
fronti dei responsabili di funzione né dei loro collaboratori, deve condividere le
decisioni relative al prodotto con i responsabili delle altre funzione.
La capacità del product manager di incidere sulle scelte di prodotto deriva
in generale dalla competenza posseduta e riconosciuta all’interno dell’organiz-
zazione: il potere del product manager è frutto infatti delle sue conoscenze spe-
cifiche di prodotto, della sua visione integrata, derivante dalla collocazione tra-
sversale e non settoriale dell’organo che gli permette di avere un’ampia ed ete-
rogenea base di informazioni, della sua esperienza e successo in attività di coor-
dinamento, nonché di alcune attitudini personali, quali la capacità di confronto
e mediazione con altri organi, di leadership, la creatività, l’attitudine al risultato.
L’introduzione di una tale figura all’interno di strutture funzionali è tanto
più difficoltosa quanto più vi sia una cultura tradizionale, con un orientamento
all’efficienza e al potere consolidato piuttosto che al mercato e al cambiamento.
In tali organizzazioni l’introduzione del product manager può essere vissuta
come una potenziale minaccia all’autonomia delle funzioni; pertanto, l’efficacia

258
Le forme a criterio unico

di funzionamento di una tale modifica della struttura, dipende dalla attenzione


della direzione generale a supportare le modifiche organizzative con adeguati
interventi di comunicazione, formazione e sviluppo di una cultura collaborativa
e di servizio.

Figura 7.7 Organigramma di forma funzionale funzionale modificata con


organo di integrazione (product manager come responsabile di
output)

Fonte: Nostra elaborazione

7.4. La struttura divisionale

La struttura divisionale è una configurazione organizzativa con raggruppamenti


per output (le divisioni), all’interno delle quali le attività, tra loro eterogenee ma
complementari, sono orientate al conseguimento di prodotti diversi, al presidio
di mercati diversi o alla gestione di tipologie di clientela diverse. Alla base
dell’adozione di una struttura divisionale vi è la scelta di creare sotto-unità
aziendali che abbiano una propria autonomia decisionale e gestionale, cui è as-
sociata la relativa responsabilità, più direttamente orientate all’output e dunque
maggiormente controllabili nei risultati.
La struttura divisionale è frequentemente adottata quando l’impresa de-
cide di entrare in nuovi business per i quali si rileva inadeguata la ripartizione
delle attività all’interno delle unità esistenti, a causa della diversità di materie e
di tecniche richieste. Ad esempio, una organizzazione che opera con successo
nel settore dell’abbigliamento di maglia decide di entrare in quello calzaturiero

259
Lineamenti di organizzazione aziendale

in pelle, sfruttando la notorietà del marchio. In questo caso i macchinari, le ma-


terie prime, i processi lavorativi sono differenti, pertanto si ritiene opportuno
dedicare un’apposita struttura, risorse e competenze a questo nuovo business,
pur facente parte anch’esso del più ampio comparto della moda. Ancora più
necessaria è la creazione di un’ apposita macrounità se l’azienda in questione
decide di affiancare alle attività di produzione e vendita di prodotti di maglia
una attività di ricettività alberghiera, che ovviamente non potrebbe essere inse-
rita in alcun modo nella gestione e nelle operazioni relative al primo business.
Il modello divisionale risulta un’ appropriata soluzione anche quando si
decida di entrare in nuovi mercati geografici, specie internazionali, che l’azienda
reputi di poter presidiare con apposite risorse e competenze, data la peculiarità
del contesto. Ad esempio, un’organizzazione che distribuisce prodotti dolciari
italiani, al fine di presidiare meglio il mercato nord europeo, quello nord ameri-
cano e quello australiano può scegliere di aprire tre divisioni commerciali: una
ad Amsterdam, una a New York e una a Melbourne; ciascuna avrà l’obiettivo
di commercializzare i prodotti italiani nell’area geografica di competenza che
potrà raggiungere perché maggiormente in grado di intercettare i migliori canali
distributivi e le preferenze della clientela locale.
Il modello divisionale si adotta anche in situazioni in cui l’azienda decida
di valorizzare proprie specifiche e distintive competenze interne in ambiti diversi
da quelli tradizionali o caratteristici, conseguendo in tal modo economie di
scopo o raggio d’azione. Se quindi, a titolo d’esempio, un’azienda ha accumu-
lato nel tempo elevate competenze nel campo della misurazione applicata al fun-
zionamento di impianti elettrici, può valutare la possibilità di applicare queste
competenze nel campo della misurazione in settori diversi, ad esempio degli elet-
trodomestici (per misurare il punto di rottura della centrifuga di una lavatrice).
Come si può comprendere, alla base della scelta di adottare una struttura
divisionale si pongono opportunità che possono essere colte optando per stra-
tegie di diversificazione7, correlata (nel caso citato dell’azienda che affianca
all’abbigliamento il calzaturiero o dell’azienda che amplia il proprio campo
d’azione dal settore degli impianti elettrici a quello degli elettrodomestici), non
correlata (nel caso citato dell’azienda che opera nel settore dell’abbigliamento e
decide di entrare nel settore della ricettività turistica) o anche strategie di inter-
nazionalizzazione (come nel caso dell’azienda di commercializzazione di pro-

7
La strategia di diversificazione è una scelta strategica di ingresso in nuovi mercati con nuovi prodotti (Ansoff,
1957). Per strategia di diversificazione correlata si intende la scelta di diversificare d il proprio business in ambiti
competitivi simili da un punto di vista strategico e tecnico-economico economico. Al contrario, si ha una strategia
di di diversificazione non correlata quando l’organizzazione si estende in settori poco attinenti o privi di collega-
menti industriali o di mercato con quelli originari.

260
Le forme a criterio unico

dotti dolciari italiani). Infatti, l’innalzamento del livello di complessità gestio-


nale che ne deriva in termini di controllo e coordinamento trova nel modello
divisionale una coerente risposta organizzativa (Chandler, 1962).
Le divisioni, unità caratterizzanti il modello, possono essere considerate
delle “quasi-impresa”, presentando ciascuna una struttura organizzativa pro-
pria, che può anche differire internamente da quella delle altre divisioni (Per-
rone, 1990), sebbene nella maggior parte dei casi esse tendono ad adottare all’in-
terno una struttura funzionale, guidata dal responsabile divisionale e con diversi
dipartimenti funzionali diretti dai rispettivi manager di funzione (Fig. 7.8). La
soluzione divisionale, infatti, è stata spesso descritta come un “cappello” che
viene sovrapposto a tante forme funzionali (Mintzberg, 1996; Isotta, 2003), a
volte dotate di propri organi di staff.

Figura 7.8 Rappresentazione generale di un organigramma della struttura


divisionale

Fonte: Nostra elaborazione

Il funzionamento della struttura si basa su due pilastri: la divisionalizzazione e


il decentramento organizzativo
La divisionalizzazione è un processo di frazionamento di una responsabi-
lità di risultato generale in più aree, ciascuna delle quali dotata di discrezionalità
sulle leve manovrabili per il conseguimento della performance di divisione (Co-
sta, Nacamulli, 1997). Ad esempio si può assegnare la responsabilità di risultato
e la relativa autonomia a unità divisionali ciascuna dedita a business diversi,
cioè ad una particolare combinazione prodotto/mercato (divisionalizzazione
per business unit); si può frazionare un risultato generale per più aree geografi-
che o altro ancora. Con riferimento all’ambito di attività designato, la divisio-
nalizzazione definisce anche la sfera e il contenuto di autonomia delle divisioni

261
Lineamenti di organizzazione aziendale

in merito alle decisioni riguardanti il risultato economico divisionale (Costa,


Nacamulli, 1997). In altre parole, il processo di divisionalizzazione riguarda, ol-
tre all’ambito di attività delle divisioni, l’autonomia dell’agire di ciascuna divi-
sione rispetto alle altre, nel raggiungimento del risultato di propria competenza.
Il decentramento organizzativo è, invece, un processo di delega di autorità
e di responsabilità dall’alto verso il basso; esso fa riferimento al più generale
processo di delega decisionale top-down e, nello specifico del modello divisio-
nale, al trasferimento, in tutto o in parte, delle competenze di general manage-
ment dalla direzione genere alle direzioni di divisione, secondo le modalità del
decentramento decisionale parallelo. Ogni responsabile di divisione è infatti un
general manager che gestisce l’unità a lui affidata, effettuando tutte le scelte ne-
cessarie al raggiungimento dei risultati. Tale autonomia decisionale nei con-
fronti della direzione generale può essere di natura strategica, direzionale e ope-
rativa relativamente all’ouput assegnato. Il grado più o meno completo di auto-
nomia decisionale rientra nel più ampio quadro del rapporto tra la direzione
centrale e le diverse divisioni, come più avanti specificato (e dipende dal tipo di
strategia di diversificazione, correlata o non correlata, adottata dall’azienda).
Le scelte di divisionalizzazione e di decentramento organizzativo pon-
gono alcune questioni che l’azienda deve risolvere in fase di progettazione di una
struttura divisionale (Jones, 2007). La prima questione da affrontare è sicura-
mente quella relativa al coordinamento e alla comunicazione tra le divisioni e le
divisioni e la casa madre. Infatti, la creazione di divisioni, ognuna con la propria
gerarchia e struttura, può portare ad un aumento della difficoltà di comunica-
zione e coordinamento tra la divisione e il resto dell’organizzazione. Di conse-
guenza, quando un’azienda decide di creare una divisione dovrà necessaria-
mente stabilire i meccanismi di coordinamento e le modalità di comunicazione
con il vertice e con le altre divisioni, in modo tale da arginare la possibile disper-
sione organizzativa e la derivante inefficienza. L’elevata autonomia gestionale e
operativa di cui godono le divisioni può portare, ad esempio, a difficoltà di rac-
colta omogenea delle informazioni utili al vertice oppure ad una mancanza di
armonizzazione, tra le divisioni, di alcune attività che sono tra di loro interdi-
pendenti (ad esempio il trasferimento dell’output di una divisione ad un’altra
che si occupa di uno stadio successivo della filiera (produzione di pneumatici e
produzione di veicoli).
Altra questione da tenere in considerazione quando viene creata una
struttura divisionale è quella del controllo. Infatti, via via che l’organizzazione
decide di creare nuove divisioni, aumenterà il bisogno di ricevere informazioni
oggettive circa l’impatto di una data divisione sulla redditività generale. Per-
tanto risulterà necessario stabilire criteri per misurare e comprendere il reale va-
lore fornito da ciascuna divisione alla redditività complessiva dell’organizza-
zione. A tale scopo occorrerà dapprima individuare una misura obiettivo che

262
Le forme a criterio unico

tenda ad influenzare ex-ante i processi decisionali dei singoli responsabili di di-


visione; ad essa sarà rapportata la misura economica “risultato”, in un processo
di valutazione ex-post dell’operato dei responsabili delle singole unità divisio-
nali (Costa, Nacamulli, 1997). La misurazione del contributo di ogni divisione
avviene attraverso il ricorso a indicatori quantitativi di performance, come ad
esempio il profitto, la crescita del fatturato, la redditività degli investimenti
(ROI, ROE) e così via. La responsabilità di risultato economico, a livello di di-
visione, funge anche da sistema di coordinamento tra le diverse macro-unità, le
quali si trovano a realizzare un risultato, che è parte di quello globale; di conse-
guenza, il raggiungimento degli obiettivi di performance da parte di ciascuna
divisione garantisce il raggiungimento di performance dell’intero sistema. Di
contro, la responsabilità di risultato e la relativa valutazione in capo al manager
di divisione possono portare a pratiche scorrette, volte al raggiungimento di ele-
vate performance, con associati cospicui livelli di incentivazione; possono altresì
portare a scelte miopi che privilegino i risultati di breve periodo, su cui vi è la
certezza della ricompensa e del fruitore della stessa, piuttosto che di lungo pe-
riodo, dai risultati meno immediati e più rischiosi. La scarsa propensione all’in-
novazione e agli investimenti in conoscenze meno immediatamente riconducibili
alla produttività, ad esempio, possono essere, in alcuni casi, la conseguenza di
tali distorsioni nella responsabilità di risultato.
L’organizzazione può anche decidere di creare divisioni, ad esempio di
prodotto, in diverse zone geografiche, al fine di servire meglio i clienti o di sfrut-
tare al meglio le risorse. Diventa quindi determinante anche la questione
dell’espansione geografica che accentua il problema del controllo, poiché l’eser-
cizio di un governo accentrato riduce la capacità delle divisioni di adattarsi alle
specificità dei mercati. Un’organizzazione che opera in più di una sede deve
quindi sviluppare un sistema di informazione e controllo che permetta di rag-
giungere un equilibrio fra la necessità di garantire la visione strategica globale e
quella di conferire alle unità l’adeguata autonomia decisionale nella gestione del
business locale.
Infine, altra questione da esaminare è quella delle risorse e competenze.
L’entrata in business diversi, la capacità di presidiare adeguatamente mercati,
aree geografiche, matrici tecnologiche con peculiarità differenti, comportano
scelte circa l’ampiezza e la varietà delle risorse e competenze da mettere in gioco
e/o da sviluppare, al fine della realizzazione dei risultati di unità e di quelli ge-
nerali d’impresa. Comporta, di conseguenza, un’adeguata valutazione circa il
rischio di una sovraesposizione, sia in termini economico-finanziari che di
know-hown posseduto.

263
Lineamenti di organizzazione aziendale

In base a come intende affrontare tali aspetti, le scelte organizzative por-


tano a definire il criterio di aggregazione e di autonomia nella divisionalizza-
zione, nonché il livello di decentramento organizzativo. In altre parole, viene
deciso cosa si fa nelle divisioni e se il risultato si raggiunge in modo autonomo
o attraverso scambi o collaborazioni con altre divisioni, nonché il genere di rap-
porti che legano l’attività della divisione al vertice aziendale.

7.5. Le variabili e le forme della struttura divisionale

7.5.1. Le variabili della struttura divisionale

Le riflessioni sinora effettuate consentono di individuare tre variabili da cui di-


pende il modello organizzativo divisionale:

• la focalizzazione divisionale: in base alla modalità in cui si va a com-


porre il risultato aziendale, si utilizza un criterio di focalizzazione
divisionale che può essere il prodotto (o una linea di prodotti), l’area
geografica (o il mercato) e la clientela di riferimento. Si tratta di mo-
dalità diverse di specificazione dell’output di un’azienda dove l’una
non esclude l’altra, nel senso che una stessa azienda può fornire pro-
dotti diversi a clienti diversi operando in aree geografiche diverse
(Isotta, 2003);
• i rapporti interdivisionali: essi sono derivanti dalle scelte di divisio-
nalizzazione, nonché delle strategie di integrazione o di diversifica-
zione del vertice (Costa, Nacamulli, 1997). Il modello “puro” di di-
visionale prevede quasi nulli rapporti interdivisionali e ciò si associa
normalmente a strategie di diversificazione non correlata. Modelli
“spuri”, con significativi rapporti interdivisionali sono invece pre-
senti con riferimento alle strategie di diversificazione correlata. A
seconda delle diverse interdipendenze presenti tra le divisioni, si fa-
voriranno rapporti più orientati alla cooperazione o alla competi-
zione interdivisionale. Le interdipendenze che si craeno a livello
orizzontale tra le divisioni ai fini della realizzazione del risultato
sono diverse (intedipendenze generiche o sequanziali) e comportano
la individuazione di appositi meccanismi di coordinamento orizzon-
tali che possono essere spontanei (nella logica della collaborazione
tra divisioni), oppure formalizzati in ruoli e meccanismi di integra-
zione. Esse richiedono altresì la individuazione di meccanismi di
coordinamento gerarchico, personali e impersonali, che definiscano

264
Le forme a criterio unico

le modalità di svolgimento degli scambi e la risoluzione di eventuali


conflitti;
• i rapporti con la direzione generale: essi esprimono il livello di de-
centramento organizzativo, pertanto saranno intensi nel caso in cui
vi sia un basso decentramento organizzativo, saranno invece relativi
solo alle fasi di indirizzo ex-ante e controllo ex-post, nel caso di alto
decentramento organizzativo. Nel modello “puro” l’autonomia de-
cisionale nei confronti della direzione centrale è molto elevata: spet-
tano alla direzione generale le decisioni sulla formulazione della
strategia globale, l’allocazione delle risorse finanziarie, la scelta
dell’assetto organizzativo e la decisione di chi ricoprirà l’incarico di
responsabile della divisione (Bartlett, Ghoshal, 1995; Chandler,
1992; Mintzberg, 1996; Isotta, 2003); alle divisioni competono, in-
vece, in pressochè totale autonomia le scelte strategiche e operative
riferite all’output che l’unità è chiamata a presidiare. Tale autono-
mia trova un limite solo nel controllo dei risultati, effettuati
dall’alto, periodicamente, attraverso specifiche procedure ed indica-
tori quantitativi, sull’operato delle diverse macro-unità. Il monito-
raggio da parte della direzione centrale sui risultati della divisione
può portare al ridimensionamento o addirittura all’eliminazione
della divisione, o talvolta anche ad un intervento diretto della dire-
zione su alcune scelte divisionali, riducendo di fatto l’autonomia de-
cisionale delle unità. Vari meccanismi possono intaccare l’ampia au-
tonomia decisionale prevista dal modello, dagli interventi diretti
sulla gestione delle risorse finanziarie e materiali, alla supervisione
gerarchica in itinere su politiche e attività, anche attraverso visite in
loco nelle diverse divisioni.

Dalla combinazione di queste variabili, quindi dalle scelte strategico-organizza-


tive prese dal vertice dell’impresa, possono quindi venire a crearsi forme di strut-
ture divisionali diverse, ciascuna con specifiche peculiarità che nei paragrafi che
seguono verranno esaminate.

7.5.2. Le forme della struttura divisionale

Il modello divisionale presente presso organizzazioni complesse che adottano


strategie di diversificazione, internazionalizzazione, globalizzazione, ecc. non
può essere ricondotto ad una sola tipologia di struttura.

265
Lineamenti di organizzazione aziendale

Sono rinvenibili più forme divisionali, derivanti dalle variabili del modello
e dalle relative scelte di divisionalizzazione e decentramento su cui ci siamo sof-
fermati.
Con riferimento all’ambito della divisionalizzazione, cioè le scelte di foca-
lizzazione divisionale, si generano modelli in cui le divisioni possono essere so-
stanzialmente simili tra di loro o possono nettamente differenziarsi in termini di
output da conseguire.
Si hanno a tal proposito due principali forme divisionali. La prima è detta
a copia carbone (Fig. 7.9), una struttura in cui ogni divisione replica le altre. Si
tratta di una riproduzione su mercati diversi di una stessa formula, secondo un
criterio di divisionalizzazione per area geografica (Martinez, 2000) La ripeti-
zione della struttura in aree diverse va di pari passo con la proposta in più con-
testi di uno stesso prodotto o tipologia di prodotti. Siamo di fronte a processi di
espansione territoriale, spesso internazionale, dove l’azienda punta su un pro-
dotto o una gamma di prodotti di successo che si ritiene possa essere apprezzato,
senza sostanziali cambiamenti, nelle diverse aree di presenza. Il fatto che in cia-
scun territorio si ricostruisca “una copia finita” del modello, fa sì che le divisioni
abbiano una bassa interdipendenza tra di loro.

Figura 7.9 Organigramma struttura divisionale a copia carbone

Fonte: Nostra elaborazione

La seconda struttura alla quale si può fare riferimento quando si prende in con-
siderazione la divisionalizzazione è quella per unità di business (Fig. 10). In que-
sta struttura, ogni divisione costituisce una particolare combinazione pro-
dotto/mercato. Si tratta di un’articolazione coerente sia con strategie di diversi-
ficazione non correlata (ad esempio, divisione abbigliamento e divisione calza-
ture) che per strategie di diversificazione correlata (ad esempio, divisione filati e
divisione tessuti). Nel primo caso la struttura divisionale (chiamata anche M-
conglomerata) si caratterizza per una diversità di prodotti, derivanti da diverse
formule imprenditoriali, elevata autonomia delle singole divisioni e rare e gene-
riche interdipendenze tra di esse. In questo caso ogni divisione (Area Strategica

266
Le forme a criterio unico

d’Affari –ASA) persegue i propri risultati economico-finanziari in modo del


tutto indipendente dalle altre (centro di profitto autonomo). Pertanto il modello
funziona nella sua forma più ideal-tipo. Nel caso, invece, di strategie di diversi-
ficazione correlata siamo di fronte a una struttura (chiamata anche M-integrata)
con bassa eterogeneità di prodotto/mercato, relazioni di interdipenze sequen-
ziali e reciproche tra le divisioni, di conseguenza l’autonomia della divisione è
meno completa, essendo i risultati economico-finanziari dell’una influenzati
dalle scelte di altre divisioni o della direzione centrale. Siamo di fronte, in tal
caso, a centri di profitto semi-autonomi. Le relazioni tra le divisioni, per l’im-
patto che hanno sui risultati di unità e generali, devono essere determinate dalla
direzione generale, la quale definirà anche parametri integrativi di performance
che terranno conto della interdipendenza tra divisioni e dunque comprende-
ranno anche il risultato generale e i comportamenti cooperativi. (Pilati, in Costa
e Nacamulli, pag. 524).

Figura 7.10 Organigramma struttura divisionale per unità di business

Fonte: Nostra elaborazione

Se si opta per una divisionalizzazione per unità di business, per meglio compren-
derne il funzionamento, diverrà opportuno analizzare anche i rapporti interdi-
visionali e i rapporti divisione- direzione generale. Prendeno a riferimento que-
ste due variabili è possibile classificare le strutture divisionali secondo quattro

267
Lineamenti di organizzazione aziendale

forme, ampiamente esaminate dalla letteratura (Grandori, 1995): forma divisio-


nale accentrata, forma divisionale decentrata, la forma divisionale integrata, la
forma divisionale reticolare. In questo capitolo ci soffermeremo nell’analisi
della forma divisionale accentrata e di quella decentrata dato che le forme di
divisionale integrata e reticolare hanno caratteristiche associabili a strutture or-
ganizzative che verranno trattate nei capitoli successivi (struttura a matrice e
struttura reticolare).

7.5.2.1. La forma divisionale accentrata

La forma divisionale accentrata è tipica di quelle unità divisionali che non


hanno una elevata autonomia decisionale, essendo il loro operato parzial-
mente dipendente dalle decisioni della direzione generale e dalle scelte di altre
divisioni. Si affidano pertanto a meccanismi di coordinamento di tipo vertici-
stico, quali il ricorso alla gerarchia, la pianificazione e controllo, gli staff cen-
trali. Una tipica forma divisionale accentrata è organizzata in unità di business
appartenenti ad una stessa catena del valore, tra le quali si instaurano interdi-
pendenze di tipo sequenziale (Thompson, 1967); poiché, infatti, ciascuna divi-
sione copre una parte della catena del valore del prodotto finito, l’output di
una divisione o il semi-lavorato è l’input per un’altra. Ciò spiega la necessità,
da parte della direzione generale di definire i prezzi interni di trasferimento 8
dei semi-lavorati fra le divisioni, in modo da indirizzare in modo efficiente gli
scambi tra le divisioni (Grandori, 1995), così come si rendono necessari inter-
venti di pianificazione e controllo per regolare l’impiego delle risorse e la se-
quenzialità delle attività. Molto poco presenti i meccanismi di coordinamento
orizzontale tra le divisioni.
Altra tipica forma di struttura divisionale accentrata è il caso di aziende
internazionalizzate che utilizzano alcune risorse comuni, presenti a livello cen-
trale, cioè presso l’impresa casa madre, che vengono messe a disposizione delle
altre imprese. Anche in questo caso le divisioni si trovano a gestire un potere
decisionale limitato dagli interventi della direzione e dalle indicazioni degli or-
gani di staff (ricerca e sviluppo, marketing, risorse umane ecc.), che gestiscono
con meccanismi di coordinamento di tipo verticale le interdipendenze da comu-
nione di risorse.

8 Quando si adotta una strategia di diversificazione correlata all’interno di una stessa catena del valore accade
spesso che le divisioni sviluppino tra di esse delle interdipendenze di scambio di beni o servizi nell’ambito dei
processi di trasformazione. Questo comporta la necessità che siano stabiliti i prezzi dei prodotti/servizi che si
spostano da una divisione all’altra, in modo che nessuna divisione, nella realizzazione del profitto di cui è re-
sponsabile, risulti avvantaggiata da politiche di prezzo definite singolarmente.

268
Le forme a criterio unico

Figura 7.11 Organigramma struttura divisionale accentrata


(diversificazione correlata)

Fonte: Nostra elaborazione

7.5.2.2. La forma divisionale decentrata

La forma pura della struttura divisionale è rappresentata dalla sua variante de-
centrata, in cui si applica il massimo grado di decentramento decisionale verti-
cale e dove ogni divisione opera in maniera autonoma rispetto alle altre dell’or-
ganizzazione. Le divisioni, in questa forma, raggiungono un alto grado di auto-
nomia e la direzione centrale funge da regia di controllo che vigila principal-
mente sul raggiungimento degli obiettivi economici da parte delle unità divisio-
nali. I meccanismi di coordinamento sono basati su regole di mercato e incentivi
di tipo economico, collegati a parametri economico-finanziari.
Questa forma divisionale si riscontra quando un’azienda, operante in un
ambiente con alto grado di incertezza e variabilità ambientale, deve gestire bu-
siness fra loro diversi e poco o per nulla correlati. Ciò spiega la pressoché totale
mancanza di interdipendenze operative tra le diverse divisioni.
L’autonomia delle divisioni può essere tale da comportare anche un’auto-
nomia giuridica delle unità, che diventano vere e proprie imprese. In tal caso si
hanno due tipologie di organizzazioni: i gruppi di imprese e le holding di im-
prese. Il gruppo di imprese rappresenta un involucro giuridico di una struttura
multidivisionale, volta a gestire in modo decentrato una pluralità di business

269
Lineamenti di organizzazione aziendale

strategicamente indipendenti e dotati di autonomia giuridica (Costa, Gubitta,


Pittino, 2014). Nel gruppo di imprese le divisioni mantengono la propria iden-
tità e la loro storia, come le loro specificità produttive; sono quindi gestite in
maniera autonoma ed indipendente dalla casa madre.
Nel caso in cui una società possieda larga parte di quote di altre aziende e
tramite queste le controlli, si parla di holding. Le holding finanziarie effettuano
dunque un controllo sulle divisioni attraverso il possesso di parte di capitale,
pertanto esercitano il potere decisionale su acquisizioni e vendite di quote, an-
dando ad incidere sulle dimensioni della società, non intervenendo invece in nes-
suna scelta strategica e operativa delle stesse.

Figura 7.12 Organigramma struttura divisionale decentrata


(diversificazione non correlata)

Fonte: Nostra elaborazione

Conclusioni

In questo capitolo sono stati analizzati alcuni criteri, caratteri e problemi orga-
nizzativi relativi a due specifiche strutture organizzative: la struttura funzionale
e la struttura divisionale. La prima configurazione trova la sua ragion d’essere
nel principio della specializzazione per funzioni ovvero sul raggruppamento in
una stessa unità organizzativa (la direzione funzionale) di attività simili da un
punto di vista tecnologico ed economico, per le quali sono richieste conoscenze
e competenze sostanzialmente omogenee. La struttura divisionale trova la sua

270
Le forme a criterio unico

ragion d’essere nel principio della specializzazione per output e si contraddistin-


gue per due principali criteri: il decentramento organizzativo e la divisionalizza-
zione. Il decentramento organizzativo è un processo di delega di autorità e di
responsabilità dall’alto verso il basso (autonomia decisionale), mentre la divi-
sionalizzazione è un processo di frazionamento di una responsabilità di risultato
generale in più aree di output, ciascuna delle quali dotata di discrezionalità su
tutte le leve manovrabili per il conseguimento del risultato di divisione (Costa,
Nacamulli, 1997).
Come illustrato nei paragrafi precendenti, l’applicazione dei criteri che
contraddistinguono ciascun modello, funzionale e divisionale, non conduce
all’adozione di un’unica forma di struttura organizzativa; questo perché i prin-
cipi su cui i modelli si basano possono essere declinati (dunque la struttura di
base adattata nella sua articolazione e nel suo funzionamento) in modo diverso
a seconda delle esigenze che l’organizzazione è chiamata ad affrontare, anche
per evitare o ridurre i problemi che i suoi stessi principi organizzativi possono
causare.
Per quanto riguarda la struttura funzionale, sono state esaminate la forma
funzionale meccanica, la forma funzionale professionale, la forma funzionale
modifica con organi di integrazione e la forma funzionale dinamica. Le ultime
due corrispondono ad esigenze di maggiore adattamento all’ ambiente esterno,
ma anche di superamento di alcuni limiti che la struttura funzionale presenta
nei casi di eccessiva specializzazione.
Allo stesso modo, per quanto riguarda la struttura divisionale, se pren-
diamo a riferimento le tre variabili da cui dipende il modello organizzativo divi-
sionale - la focalizzazione divisionale, i rapporti interdivisionali, i rapporti con
la direzione generale - si avranno altrettante forme organizzative di stampo di-
visionale. Nello specifico, se consideriamo il criterio della focalizzazione divisio-
nale, le strutture divisionali possono presentarsi o a copia carbone o per business
unit. Se invece prendiamo a riferimento il ricorso al decentramento organizza-
tivo, con cui si regolano i rapporti tra la divisione e il vertice, e il ricorso a mec-
canismi di coordinamento orizzontale con cui si regolano, invece, i rapporti in-
terdivisionali, si possono distinguere varie forme di strutture divisionali, tra cui
la forma divisionale accentrata e la forma divisionale decentrata costituiscono
la risposta alle strategie di diversificazione correlata e non correlata. Come per
la struttura funzionale, la scelta di una diversa forma di struttura divisionale
dipenderà da una serie di variabili e da come l’organizzazione intende rispon-
dere alle richieste del contesto in cui si inserisce.

271
8 Le forme a criterio multiplo
di Mariacristina Bonti

8.1. Orientamento organizzativo per progetti – 8.2. Tipologie di progetto e comples-


sità della loro gestione – 8.2.1. Aspetti organizzativi per la gestione per progetti –
8.2.2. Aspetti relazioni per la gestione per progetti: il ruolo del Project Manager –
8.3. La struttura a matrice – 8.3.1. Tipologie di matrici e complessità nella gestione

273
Lineamenti di organizzazione aziendale

8.1. Orientamento organizzativo per progetti 1

Se fino ad ieri il successo aziendale era legato alla capacità di gestione delle at-
tività correnti al fine di conseguire elevati livelli di efficienza nella produzione e
l’ottimizzazione dell’organizzazione, oggi sempre più le aziende sono chiamate
a confrontarsi in un ambiente turbolento e complesso.
Ciò pone loro inevitabilmente di fronte ad un non semplice trade-off:
mantenere le proprie più tradizionali modalità di funzionamento, ma cercare
contemporaneamente di creare le condizioni per avviare modalità assoluta-
mente nuove e diverse. Cogliere la sfida di un contesto ambientale dinamico e
in continua evoluzione significa sviluppare la capacità di gestire due flussi di
attività paralleli. Da un lato, infatti, le aziende sono chiamate a gestire flussi di
attività e situazioni tendenzialmente stabili, note e di routine, in quanto stret-
tamente collegate al tradizionale svolgimento dei processi interni. Dall’altro,
esse sono chiamate a recepire le molteplici istanze di cambiamento e innova-
zione che provengono dal contesto ambientale, ricercando soluzioni e risposte
il più possibile tempestive ed efficaci, dando vita pertanto a flussi di attività
connotati da minore prevedibilità, standardizzazione e formalizzazione, quindi
maggiore complessità (Mercurio, Testa, 2000). In sostanza, mentre una parte
dell’organizzazione opera e continua ad operare in una logica di sostanziale
continuità, strettamente funzionale al conseguimento di obiettivi di efficienza,
un’altra opera in una logica di discontinuità, più o meno rilevante, predispo-
nendo condizioni destinate ad apportare alcuni cambiamenti che dovranno poi
essere introdotti e metabolizzati dalla prima, al fine di tradursi in nuove routi-
ne organizzative e regole di funzionamento. Quest’ultima parte
dell’organizzazione presenta pertanto elevati connotati di flessibilità, ma, si
può intuire, opera altresì quale “cuscinetto” rispetto alla prima (Thompson,
1967), filtrando e attenuando l’impatto dei cambiamenti nei confronti del si-
stema organizzativo (il c.d. nucleo tecnico), il quale può lavorare con continui-
tà e in modo prevedibile.
Questo trade-off tra stabilità e cambiamento, tra exploration ed exploita-
tion (March, 1991) (vedi capitolo I) non è certamente un’esigenza “nuova”: a
partire dalla concezione dell’organizzazione quale sistema aperto, le aziende si
sono sempre trovate ad “esplorare” nuove strade, per non vedere progressiva-
mente corrodere le basi del proprio vantaggio competitivo. Le forme organiz-
zative tradizionali ed ideal-tipiche non si prestano a questa duplice gestione: la
soluzione a questo “problema” organizzativo ha visto pertanto nel tempo lo
sviluppo di soluzioni organizzative alternative, idonee a “recuperare” questa
dimensione dell’innovazione. Tra queste, si può pensare all’introduzione di

1
Il presente paragrafo è frutto del lavoro congiunto di Mariacristina Bonti e Maria Zifaro.

274
Le forme a criterio multiplo

strumenti di integrazione collettivi, come i comitati, i team, le task force, oppu-


re di ruoli manageriali d’integrazione, come nel caso del project manager, per
poi pervenire alla definizione di assetti per loro natura in grado di bilanciare le
spinte alla stabilità e all’efficienza con quelle all’innovazione e al dinamismo.
Le prime soluzioni hanno rappresentato in qualche modo una risposta tempo-
ranea a queste esigenze, andando a creare “ibridi organizzativi”, vale a dire
strutture organizzative che utilizzavano in maniera combinata più criteri di
raggruppamento delle attività; l’ultima, un tentativo per una gestione più si-
stematica e di lungo periodo.
Focalizzando l’attenzione sulle soluzioni che vedono l’inserimento di
meccanismi collettivi e ruoli d’integrazione, l’organizzazione e la gestione per
progetti costituiscono un esempio particolarmente significativo come sia pos-
sibile perseguire contemporaneamente obiettivi di cambiamento ed esplorazio-
ne e obiettivi di efficiente sfruttamento di risorse, conoscenze e competenze,
con un “orientamento ambidestro” inteso come “the ability to both use and
refine existing knowledge (exploitation) while also creating new knowledge to
overcome knowledge deficiencies or absences identified within the execution of
the work (exploration)” (Turner et al., 2012:4; Tushman, O’ Reilly, 1996)
Il concetto di progetto non trova in letteratura una definizione univer-
salmente riconosciuta.
Archibald (2019) descrive il progetto come un’impresa complessa, unica,
con una durata determinata (di regola inferiore a tre anni), rivolta al raggiun-
gimento di un obiettivo chiaro e predefinito, che comporta compiti ed attività
interrelate, soggette ad un processo continuo di pianificazione e controllo di
risorse differenziate e con vincoli interdipendenti in termini di costi, tempi e
qualità. Kerzner (2009) e Kerzner, Harold (2009) lo assimilano ad un insieme
coordinato di attività o compiti, che consumano risorse, umane e non, hanno
uno specifico obiettivo e una definita data di inizio e di fine. Il Project Mana-
gement Institute, ancora, aggiunge ad alcuni tratti già emersi il fatto che il
progetto viene intrapreso allo scopo di “creare un prodotto, un servizio o un
risultato unici” (2013:64).
Confrontando queste ed altre tra le definizioni più accreditate (Fontana,
Rocchi, 2019), emergono alcuni elementi che contraddistinguono un progetto:
la temporaneità, l’unicità dell’obiettivo, la presenza di un team con competen-
ze prevalentemente multidisciplinari, l’elevata interdipendenza interna tra le
attività.
La temporaneità del progetto richiama il fatto che le attività del progetto
si devono svolgere all’interno di un intervallo temporale che risulta ben defini-
to nella sua durata. Il progetto termina fisiologicamente nel momento in cui
l’obiettivo assegnato viene raggiunto, ma può concludersi anche qualora il

275
Lineamenti di organizzazione aziendale

problema che ha portato alla costituzione di un progetto viene meno, oppure


quando emerge l’impossibilità di conseguire il risultato atteso. Il concetto di
temporaneità non sta quindi ad indicare il fatto che il progetto ha una “durate
breve”, ma neppure che temporaneo è il risultato conseguito, quanto piuttosto
che le attività svolte e l’impegno di risorse hanno un naturale e ben definito ci-
clo di svolgimento ed utilizzo, al termine del quale il progetto esaurisce la sua
funzione,
L’unicità dell’obiettivo perseguito esprime una rilevante caratteristiche
del risultato del progetto, spesso associato anche ad una significativa incertez-
za nei risultati conseguibili. L’obiettivo può avere una rilevanza interna oppure
esterna all’azienda, ma in ogni caso necessita che vengano poste in essere atti-
vità non ripetitive (in questo senso, anch’esse “uniche”), che il problema venga
impostato e gestito con specifica attenzione alle peculiarità, con un approccio
strutturato e programmato, con la predeterminazione di criteri di valutazione e
di controllo periodico. Il complesso delle attività in qualche misura “uniche”
messe in atto all’interno del progetto non necessariamente si presta ad essere
replicato in futuro, a differenza delle conoscenze e competenze sviluppate ed
acquisite dagli attori coinvolti, suscettibili di essere trasferite nelle diverse si-
tuazioni lavorative. Volendo fornire un’idea di alcune delle possibili declina-
zioni del termine “unicità”, si possono richiamare i seguenti obiettivi perseguiti
con un progetto: lo sviluppo di un nuovo prodotto o di prodotti ad elevata
complessità tecnologica, la realizzazione di un cambiamento organizzativo,
l’introduzione di nuovi sistemi informatici, il lancio di un nuovo prodotto, lo
studio e sperimentazione di nuovi metodi di produzione, la definizione di un
intervento di formazione, la realizzazione di un prodotto su commessa per un
particolare cliente; l’ingresso in un mercato internazionale; l’automazione del
magazzini; la riorganizzazione delle rete di vendita e così via.
Una terza caratteristica del progetto può essere individuata nelle caratte-
ristiche del team, strettamente dipendenti dalla tipologia del progetto e dei suoi
obiettivi, relative alla natura delle competenze coinvolte e alla sua composizio-
ne. Rinviando alla disamina già svolta nel capitolo n. 5, vogliamo in questo
contesto certamente richiamare il fatto che più tipicamente un progetto richie-
de competenze diverse, che vanno armonizzate, ma anche anticipare, rinvian-
do al prosieguo del presente capitolo, quando importante sia a tal fine un “in-
grediente complesso e delicato” (Pilati, 2018) costituito dalla capacità di gestire
queste diversità, ricorrendo a diverse leve motivazionali.
Infine, un ultimo connotato è costituito delle elevate interdipendenze che
sussistono tra gli attori e le risorse impiegate, ciò che richiede un non meno ri-
levante sforzo di integrazione da parte degli attori, per finalizzare nel tempi
previsti il complesso delle risorse, umane e materiali, verso gli obiettivi attesi,
ma anche una forte condivisione di questi, inevitabile prerequisito per alimen-

276
Le forme a criterio multiplo

tare comportamenti di tipo collaborativo. Il progetto è un complesso di attivi-


tà che vengono progressivamente elaborate, in una logica prevalentemente in-
crementale, e che necessitano di essere attentamente coordinate: è particolar-
mente rilevante sottolineare e comprendere che un progetto mette in atto una
sequenza di attività che coinvolge solitamente competenze tra loro diverse e
attraversa in modo trasversale l’intera organizzazione.

8.2. Tipologie di progetto e complessità nella loro gestione 2

I progetti, seppure accomunati dalle caratteristiche sopra richiamate, possono


avere natura diversa (Biffi, 1999): è possibile distinguere infatti tra progetti in-
terni ed esterni all’azienda, monodisciplinari e pluridisciplinari, monoaziendali
e pluriaziendali.
I progetti interni all’azienda sono generalmente guidati da una logica di
miglioramento delle modalità esistenti di funzionamento e di gestione o di in-
troduzione di nuove, sempre al fine di promuovere livelli di efficienza più ele-
vati. I progetti esterni, invece, sono tesi a rafforzare la presenza dell’azienda sul
mercato, come nel caso di progetti su commessa per particolari clienti o di svi-
luppo di nuovi prodotti e/o servizi, e per questo spesso hanno priorità su altri
progetti.
I progetti monodisciplinari si contraddistinguono per obiettivi che sono
rilevanti per specifiche aree aziendali, quindi prevedono il coinvolgimento di
attori che condividono le stesse competenze e appartengono alle medesime fa-
miglie professionali. Quelli pluridisciplinari sono trasversali e coinvolgono at-
tori provenienti da aree diverse: tale composizione contribuisce certamente ad
una visione del progetto più ampia e sistematica, pur comportando una mag-
giore esigenza di coordinamento interno, dovendosi armonizzare modus ope-
randi, approcci, prospettive, percezioni di priorità che risultano inevitabilmen-
te diversi. Così ad esempio un progetto riguardante l’introduzione di un siste-
ma di controllo di gestione richiede il coinvolgimento di esperti dell’area am-
ministrazione per quanto attiene agli aspetti meramente contabili, degli esperti
sui sistemi informativi per comprendere le diverse esigenze di reporting, degli
esperti informatici per questioni prettamente tecnologiche, degli esperti di or-
ganizzazione aziendale per verificare il rispetto della corrispondenza tra auto-
rità e responsabilità organizzativa ed economica; degli esperti di gestione delle
risorse umane per valutare il collegamento tra il sistema di controllo e i sistemi

2
Il presente paragrafo è frutto del lavoro congiunto di Mariacristina Bonti e Maria Zifaro.

277
Lineamenti di organizzazione aziendale

di valutazione e incentivazione delle prestazioni, in modo da supportare la di-


mensione motivazionale del controllo a latere di quella informativa.
Infine, i progetti possono coinvolgere una pluralità di aziende diverse,
chiamate a collaborare all’interno di partnership o di relazioni contrattuali alla
realizzazione di un obiettivo comune. Può essere, ad esempio, il caso di due o
più aziende che definiscono insieme un progetto di ingresso in un nuovo mer-
cato, mettendo a sistema le reciproche e specifiche competenze e le proprie ri-
sorse, oppure il caso di una commessa che vede un’azienda capofila interfac-
ciarsi e gestire una pluralità di fornitori, come può accadere nel caso di una
commessa nel settore navale.
A prescindere dalla sua natura, il progetto necessita di essere gestito e ta-
le gestione passa attraverso la predisposizione di un complesso di condizioni
che sono non solo “tecniche” ed “informatiche”, come si potrebbe pensare in
prima battuta, ma anche e talora soprattutto organizzative e relazionali. Il
progressivo emergere di questo più ampio complesso di condizioni da gestire
per il successo di un progetto ha portato a spostare l’attenzione dalla mera
“gestione di processi” alla “gestione per processi”, al fine di sottolineare un di-
verso approccio, che richiede la messa in atto di una metodologia, ma prima
ancora una “filosofia di gestione”, ricondotta al c.d. project management.
Il project management può essere definito come una disciplina che si oc-
cupa della gestione delle attività e delle risorse necessarie ai fini del raggiungi-
mento degli obiettivi propri di un progetto (Romano 2017). Sviluppatosi ini-
zialmente in ambito prettamente industriale, si è assistito in tempi più recenti
ad un’ampia e trasversale diffusione in moltissimi contesti e settori (la scuola,
la pubblica amministrazione, i servizi, l’organizzazione di eventi etc.), a fronte
di un esigenza comune: ottimizzare risorse, conoscenze, tecniche e strumenti a
disposizione per realizzare obiettivi di progetti (Corbucci, 2015; Romano,
2017; Goyal e Tripathi 2014).
Affinché un progetto conduca ai risultati attesi è importante applicare
una metodologia fondata su principi rigorosi e regole sistematiche (Kononen-
ko, Lutsenko, 2019), in grado di unire ed integrare due aspetti complementari:
la tecnica e la gestione. Come già ricordato, mentre in passato le questioni di
natura tecnica assumevano un ruolo di primaria importanza, si è acquisita
successivamente consapevolezza del fatto che la strumentazione tecnica deve
essere a servizio e supporto delle problematiche ed esigenze manageriali.
Secondo il Project Management Institute ® la gestione per progetti si ar-
ticola in 5 fasi che danno origine al ciclo di vita del progetto (2013): l’inizio
(initiating), la pianificazione (planning), l’esecuzione (executing), il monitorag-
gio e controllo (monitoring and controlling), la chiusura (closing). La prima fase
è quella che formalmente autorizza l’avvio di un nuovo progetto o di una fase
di un progetto già esistente; la pianificazione subentra a definire lo scopo del

278
Le forme a criterio multiplo

progetto, affinando gli obiettivi e selezionando le migliori opzioni per raggiun-


gerli; l’esecuzione si focalizza sulla realizzazione delle operazioni pianificate,
coordinando le persone e le altre risorse impiegate per realizzare l’obiettivo; la
fase di monitoraggio e controllo assicura che gli obiettivi di progetto vengano
raggiunti, osservando lo stato di avanzamento dei lavori e segnalando tempe-
stivamente le variazioni rispetto al piano; infine la chiusura formalizza la con-
clusione del progetto o di una sua fase e quindi il grado di raggiungimento de-
gli obiettivi/risultati.
Queste fasi forniscono un metodo per la gestione di qualsiasi progetto, a
prescindere dalla sua specificità, delineando insieme la strada da percorrere e
percorsa dal progetto, lasciando una traccia formale di cosa è stato fatto, che
cosa si sta facendo e cosa verrà fatto.
In un sistema di Project Management si ha in sostanza la coesistenza di
tre sottosistemi principali: un sottosistema tecnico, uno informatico ed uno or-
ganizzativo-relazionale,
Non rientra negli obiettivi di questo lavoro addentrarci all’interno degli
aspetti “tecnici” e “informatici” connessi alla gestione per progetti, che ver-
ranno brevemente ricordati, mentre assumono certamente rilevanza le proble-
matiche di natura “organizzativa e relazionale”.
Il sottosistema tecnico è costituito dal complesso delle metodologie im-
piegate nella gestione per progetto 3 in vista dell’output finale da raggiungere.
Il sottosistema informatico, parte del più ampio sistema informativo, è
formato dall’hardware e dal software utili a trattare i dati necessari per gestire
le diverse procedure.
Il sottosistema organizzativo e relazionale deve tener conto di una serie
di modi di operare e di modalità di interazione tra gli attori che si sono radicati
nel tempo e risultano ormai condivisi da tutti i membri dell’azienda. Sul fronte
organizzativo, si fa quindi riferimento al complesso di scelte inerenti la collo-
cazione dell’unità di progetto all’interno dell’organigramma aziendale e, per-
tanto, la definizione di aspetti quali: le responsabilità di gestione, il ruolo asse-
gnato al project manager, la natura dell’autorità che può essere da lui esercita-
ta, i meccanismi interni di gestione delle interdipendenze e di coordinamento,
le caratteristiche dei sistemi operativi a supporto del governo del progetto. Sul
3
Gli aspetti tecnici richiamati fanno riferimento ad un insieme di tecniche e strumenti di project management
tra i quali, a titolo di esempio, si possono richiamare: il Work Breakdown Structure (WBS), una presentazione
gerarchica degli obiettivi di un progetto con le rispettive attività da svolgere per la loro realizzazione; il
groupware, un software applicativo e collaborativo in grado di facilitare e rendere più efficace il lavoro coopera-
tivo all’interno di un team; il piano di progetto, il diagramma di Gantt, una rappresentazione grafica del calenda-
rio di attività di un progetto, che consente di pianificare, coordinare e tracciare le singole attività e illustrare lo
stato d’avanzamento del progetto, il PERT (Program Evaluation and Review Technique), un metodo statistico
di determinazione dei tempi e dei costi delle attività di progetto mediante la stima di valori ottimali, probabili e
pessimistici; il CPM (Critical Path Method), un metodo per determinare la durata minima di un progetto indivi-
duando la sequenza di attività critiche che lo caratterizzano; i sistemi informativi e di controllo e così via.

279
Lineamenti di organizzazione aziendale

fronte relazionale si guarda al complesso di conoscenze e competenze che de-


vono essere appannaggio in primo luogo del project manager, ma più in gene-
rale di coloro che sono coinvolti all’interno di team di progetto, proprio quale
conseguenza di quanto sinora emerso.

8.2.1 Aspetti organizzativi per la gestione per progetti

La gestione dei progetti è venuta affermandosi, come evidenziato, quale “logi-


ca gestionale e direzionale”, decretando così il passaggio da una gestione “dei”
ad una “per” progetti (De Maio, 1993; Randolph, Posner, 1992; Gareis, 1989,
citati in Isotta, 2007:273). La differenza tra i due approcci può essere indivi-
duata nelle modalità con cui l’azienda decide di trattare un progetto. Nulla vie-
ta, infatti, che le attività necessarie per sviluppare un nuovo prodotto vengano
svolte mantenendo inalterata la struttura organizzativa ed i suoi meccanismi di
funzionamento; può invece essere giudicato opportuno costituire un progetto
ad hoc, costituendo in questo modo un’unità organizzativa nuova, chiamata
come abbiamo visto ad operare in modo diverso, inevitabilmente modificando
l’assetto organizzativo esistente.
Appare scontato rilevare come le peculiarità che contraddistinguono le
attività proprie di un progetto suggeriscono la predisposizione di alcune condi-
zioni organizzative che producono inevitabilmente un impatto in termini di ri-
progettazione della struttura organizzativa. Detto in altri termini, è verosimile
pensare che le elevate esigenze di integrazione e coordinamento delle attività e
la loro finalizzazione ad un obiettivo temporalmente definito possano difficil-
mente essere fronteggiate in strutture di stampo “tradizionale”, in particolare
nelle forme funzionali. In presenza di elevato dinamismo ed incertezza, il
coordinamento inter-funzionale delle attività e la loro specifica finalizzazione
ad obiettivi di risultato sono, come ampiamente discusso, alcuni dei principali
punti di debolezza di questa struttura.
Isotta (2011) propone le tre principali forme alternative di progetto prese
in esame dalla letteratura (Meredith, Mandel, 2000; Pinto, 2007), presentate
come “varianti” della forma funzionale:

• la forma per progetto debole


• la forma per progetto forte
• la forma per progetto a matrice

In questo paragrafo, ci focalizzeremo sulle prime due forme, rinviando la terza


al successivo.

280
Le forme a criterio multiplo

Nella forma per progetti debole, la struttura organizzativa mantiene inal-


terato il proprio assetto funzionale, quindi la specializzazione di tipo funziona-
le, ma viene inserita al suo interno una figura specifica, il project manager, per
assicurare un mirato coordinamento di attività incerte, altamente differenziate
e interdipendenti, e di competenze, conoscenze, orientamenti altrettanto diffe-
renziate e interdipendenti, verso un comune obiettivo/risultato. In questa for-
ma debole, la gestione del progetto viene affrontata e risolta investendo sulla
sola figura del project manager, quindi sull’introduzione di un ruolo di integra-
zione chiamato a realizzare il coordinamento tra attività ripartite fra unità or-
ganizzative diverse, rispetto ad una dimensione che risulta differente da quella
più tipica della struttura funzionale. Pertanto, il project manager si presenta
quale ruolo di integrazione con una responsabilità di output, la quale impone
l’adozione di una visione ampia, generale, sistemica, orientata a superare par-
ticolarismi e parzialità frequenti nella forma funzionale. La scelta di questa so-
luzione risulta coerente nel momento in cui il progetto presenta alcune caratte-
ristiche (Perrone, 1990): un maggiore grado di strutturazione, nel senso che gli
output ed i processi necessari per conseguirlo sono definibili a priori e quindi è
possibile pensare di realizzare il coordinamento delle attività ricorrendo a pia-
ni e standard à la Thompson; un grado di novità del progetto contenuto, risul-
tando l’esperienza una risorsa critica e replicabile; dimensioni del progetto
complessivamente contenute.
Nella forma debole, anche definita per influenza (Figura 8.1), il project
manager tuttavia opera senza essere dotato di un’autorità gerarchica: i com-
piti a lui assegnati sono quelli di pianificare, coordinare e controllare il pro-
getto, quindi indirizzare le diverse fasi, far rispettare i tempi verificando gli
stadi di avanzamento, assicurare il corretto impiego delle risorse, monitorare
i costi e la qualità del risultato, in relazione alle caratteristiche previste dal
progetto, intervenire e prendere decisioni in presenza di problemi. Tuttavia,
le risorse, in particolare quelle umane, non sono sottoposte a tempo pieno
alla sua diretta influenza: i diversi specialisti coinvolti a vario titolo nel pro-
getto continuano a dipendere gerarchicamente dai rispettivi direttori funzio-
nali (Perrone, 1990). In maniera non dissimile da quanto accade al product
manager, si è in presenza di una forma di influenza sui comportamenti che
non si basa sull’autorità, ma sull’autorevolezza, non sulla posizione occupata
nella gerarchia, ma sulle competenze possedute, sul networking costruito in-
torno alla sua posizione, sul controllo delle informazioni che circolano
all’interno del progetto.

281
Lineamenti di organizzazione aziendale

Figura 8.1 Forma per progetti debole (nostra elaborazione)

Si possono intuire le implicazioni di questa forma: dall’ambiguità e difficoltà


del ruolo del capo progetto, conseguente allo sbilanciamento tra autorità e re-
sponsabilità, all’accettazione di meccanismi di influenza laterali quale modali-
tà di guida e orientamento dei comportamenti da affiancare al comando, alla
necessità di prestare particolare attenzione alla selezione della figura del capo
progetto, il cui mix di competenza, esperienza e reputazione aziendale risulta-
no rilevanti rispetto allo svolgimento del proprio ruolo e alla possibilità di tro-
vare seguito presso gli specialisti funzionali coinvolti nel progetti. Questi, infat-
ti, si vengono a trovare in una situazione di duplice dipendenza non contem-
poranea: si trovano in posizione di dipendenza gerarchica dai responsabili fun-
zionali per quanto attiene allo svolgimento delle attività “tradizionali e di rou-
tine”, mentre si trovano in una posizione di dipendenza funzionale dal capo
progetto, per quel che riguarda lo svolgimento delle specifiche attività riguar-
danti il risultato/obiettivo da raggiungere.
Il rischio principale da parte del project manager diviene pertanto quello
di non riuscire ad esercitare un reale controllo sul progetto, con per quanto at-
tiene al rispetto dei tempi e dei costi. Pur risultando un ruolo sempre molto
importante quando si parla di progetti, in presenza di questa forma risulta an-
cora più rilevante per il capo progetto poter fare affidamento sul sostegno di
uno sponsor, non solo nella definizione degli obiettivi, nella comunicazione in-
terna all’azienda, nella visibilità da dare al progetto e al suo avanzamento, ma
anche e forse soprattutto nella negoziazione con i responsabili funzionali da
cui dipendono gli specialisti coinvolti nel progetto (Ondoli, Pilati, 2018).

282
Le forme a criterio multiplo

Nella forma per progetto pura o forte, la struttura organizzativa vede in-
vece modificare il proprio assetto funzionale con l’introduzione di una o più
unità organizzative dedicate alla realizzazione del progetto. Le risorse necessa-
rie sono assegnate in maniera stabile, seppure per la durata del progetto, al
project manager, che viene quindi a gestire una specifica unità e ad esercitare
un’autorità gerarchica nei confronti dei componenti di un team di progetto. Si
può certamente intuire come questa scelta comporti una maggiore focalizza-
zione sul risultato/obiettivo e una maggiore concentrazione degli sforzi rispetto
a quanto accade nella forma debole.
Nella figura che segue (figura 8.2), le linee tratteggiate mettono in evi-
denza la provenienza delle risorse messe a disposizione del progetto A.
Nella forma per progetti forte, le risorse necessarie sono assegnate in
maniera stabile, seppure per la durata del progetto, al project manager, che
viene quindi a gestire una specifica unità e ad esercitare un’autorità gerarchica
nei confronti dei componenti di un team di progetto. Si può certamente intuire
come questa scelta comporti una maggiore focalizzazione sul risulta-
to/obiettivo e una maggiore concentrazione degli sforzi rispetto a quanto ac-
cade nella forma debole. Ciò si rende particolarmente importante in presenza
di progetti altamente innovativi, nei quali le relazioni di causa/effetto tra pro-
blemi e soluzioni non sono note, ridotta è l’analizzabilità dei problemi (difficile
quindi pensare di realizzare il coordinamento ricorrendo a piani e standard à
la Thompson) e numerose sono le eccezioni da fronteggiare (Perrow, 1967).
Comparativamente più elevato è pertanto il livello delle competenze coinvolte
(all’esperienza, devono affiancarsi l’intuizione, la scoperta di nuove proposte,
la capacità di sperimentazione), maggiore è la velocità con cui i problemi si
possono presentare e necessitano di essere affrontati. Il complesso di queste
condizioni motiva l’importanza della scelta di costituire gruppi di progetto ad
hoc, all’interno dei quali divengono possibili un’intensa interazione tra i com-
ponenti del team, intensi scambi di comunicazione, un coordinamento per mu-
tuo aggiustamento che se consente ampi margini di flessibilità, crea inevitabil-
mente possibili situazioni di ambiguità.
Gli specialisti funzionali possono essere assegnati al progetto part-time,
alternando momenti in cui lavorano per il progetto a momenti in cui svolgono
le loro attività tradizionali per le funzioni di appartenenza, più spesso a tempo
pieno, ritornando all’interno delle proprie funzioni al termine del progetto. Il
project manager si trova pertanto ad affiancare alla responsabilità di risultato
un’autorità piena, che si traduce in una situazione di dipendenza gerarchica
unica dei componenti del team nel caso in cui questi sono assegnati a tempo
pieno all’unità di progetto; in una situazione di duplice dipendenza gerarchica
non contemporanea qualora i componenti del team si trovino a lavorare in

283
Lineamenti di organizzazione aziendale

parte all’interno delle funzioni (l’unità del comando farà riferimento al respon-
sabile funzionale), in parte all’interno del progetto (il comando sarà del capo
progetto).

Figura 8.2 Forma per progetti forte (nostra elaborazione)

Nel primo caso, il più frequente, il team sviluppa un’elevata identificazione


con il risultato/obiettivo da conseguire e un elevato senso di appartenenza tra i
componenti del team; in aggiunta, il coinvolgimento dei membri nelle diverse
fasi di svolgimento del progetto e il lavorare fianco a fianco, a stretto contatto,
condividendo attività, problemi e soluzioni favorisce lo sviluppo di intensi
processi di apprendimento e di una visione più ampia e integrata degli obiettivi
e dei risultati. Ne conseguono un arricchimento delle competenze, non solo
professionali, ed una consapevolezza dei limiti delle visioni parziali che la
struttura funzionale fisiologicamente promuove.
Il funzionamento del progetto necessita di essere supportato da sistemi
operativi più evoluti e sofisticati: i sistemi informativi, ad esempio, devono es-
sere in grado di fornire informazioni personalizzate sull’andamento del proget-
to, in modo tale da consentire a tutti i soggetti coinvolti (il vertice aziendale, i
referenti funzionali, il capo-progetto, i componenti del team) di conoscere
l’impiego delle risorse e attivare i necessari interventi, ma anche di facilitare le
reciproche relazioni.

284
Le forme a criterio multiplo

A questi punti di forza della forma per progetto debole, fa da contraltare


l’insorgere di possibili problemi, riconducibili alla complessità richiamata dei
progetti da gestire. L’urgenza del progetto può entrare in contrasto con le esi-
genze operative (Costa, Gubitta, Pittino, 2014), causando situazioni di conflit-
tualità tra i responsabili di funzione e il project manager. Tali circostanze pos-
sono essere ulteriormente accentuate dalla “preferenza” che i membri del team
possono mostrare verso le attività del progetto rispetto a quelle tradizionali, in
ragione delle diverse opportunità che le prime offrono in termini di sviluppo
multidimensionale, personale e professionale. La ridotta analizzabilità dei
problemi e l’emergere di numerose eccezioni può generare situazioni di ambi-
guità e tensioni di ruolo, favorendo l’emergere o l’intensificarsi della conflit-
tualità interna al team, con inevitabili ripercussioni sui livelli di efficienza ed
efficacia del progetto. Si può inoltre verificare una sottoutilizzazione del per-
sonale, vuoi per gli spostamenti che si rendono necessari, vuoi per l’andamento
discontinuo dello sviluppo del progetto e quindi per un impiego non costante e
continuo delle diverse competenze specialistiche: è pertanto possibile pertanto
assistere ad una riduzione delle economie di scala e di specializzazione conse-
guibili. Per di più, come rilevato, il funzionamento di questa forma richiede
una sorta di “duplicazione” delle competenze funzionali all’interno dei progetti
e la predisposizione di sistemi operati ad hoc, idonei a supportare le specifiche
esigenze di gestione dei progetti, palesando quanto questa soluzione si presenti
comunque costosa per l’azienda. A fronte di queste perdite di efficienza, emer-
ge l’opportunità di conseguire economie in altri settori (Perrone, 1990): incor-
porando le funzioni all’interno del progetto appare infatti possibile ottenere
una migliore gestione delle risorse, riducendo non solo i tempi, come in prece-
denza rilevato, ma anche possibili scorte, produzioni eccedenti e sperperi, con-
trobilanciando in parte i maggiori costi organizzativi.
Come rileva Isotta (2007), il complesso delle riflessioni svolte deve trova-
re idoneo inquadramento nel contesto più ampio nel quale il progetto viene
sviluppato: l’esistenza di una pluralità di progetti in fase di realizzazione può
infatti palesare interdipendenze tra progetti, in tal modo riducendo il rischio di
sottoutilizzazione delle competenze, l’esistenza di progetti conclusi esprime in-
vece una conoscenza sul funzionamento di queste soluzioni organizzative che
costituisce un importante capitale intangibile ad elevata redditività.
Riprendendo quanto già osservato parlando della forma a matrice debo-
le, anche in questo caso il buon funzionamento dei progetti richiede un esplici-
to e forte coinvolgimento del vertice aziendale, chiamato a promuovere la filo-
sofia sottostante alla gestione del progetti, ma anche ad intervenire a supporto
del progetto nella gestione delle situazioni di conflitto. Appare infatti evidente
che l’inserimento del project manager non costituisca solo un mutamento for-

285
Lineamenti di organizzazione aziendale

male dell’assetto organizzativo, quanto piuttosto un profondo cambiamento


culturale, andando ad incidere sugli orientamenti cognitivi, i modelli decisio-
nali, le mappe concettuali di tutti gli attori organizzativi, in primis quelli diret-
tamente coinvolti nel progetto.

8.2.2. Aspetti relazioni per la gestione per progetti: il ruolo del Project
Manager

Mobilitare conoscenze, energie e professionalità che per tradizione affondano


il proprio status nella specializzazione tecnica, riorientandole verso obiettivi e
risultati richiede tuttavia ben altro che non la “semplice” soluzione organizza-
tiva, come si può facilmente intuire.
I molteplici equilibri che vanno ricercati e mantenuti mettono in eviden-
za la centralità del ruolo del project manager 4 e la criticità delle sue caratteristi-
che a tutto tondo. Non è semplice illustrare di cosa si occupa un project mana-
ger, atteso che i compiti a lui assegnati possono essere declinati in maniera di-
versa in relazione ad aspetti quali il mercato di riferimento, l’organizzazione
aziendale, il modello di business, la tipologia dei singoli progetti e di altri fat-
tori ancora.
In termini generali, come abbiamo visto, il capo progetto è il responsabi-
le della gestione e del coordinamento delle risorse del progetto, al fine di com-
pletare il lavoro in linea con gli obiettivi attesi. Si tratta di una figura caratte-
rizzata da una specifica competenza tecnica, grazie alla quale riesce a controlla-
re e indirizzare le diverse fasi del progetto, assicurare il rispetto dei tempi e dei
costi, verificare la corrispondenza del progetto alle esigenze che lo hanno pro-
mosso (Mercurio, Testa, 2000).
Tuttavia, la capacità di operare sul versante delle relazioni (esterne al
progetto: con i responsabili di funzione, il vertice aziendale, la tecnostruttura
aziendale, ma anche con possibili clienti; interne: con i componenti del team)
porta ad evidenziare come particolarmente critico il possesso di altre compe-
tenze. Il project manager è infatti un gestore di interfacce lungo un determi-
nato flusso di lavoro, vale a dire deve gestire il complesso dei punti di intera-
zione tra attori rilevanti ai fini del progetto, per integrare al meglio i loro
sforzi e coordinarli verso un risultato. Riprendendo la tipologia proposta da
Mintzberg (1973), si può evidenziare come il project manager sia chiamato ad

4
Come rilevano Ondoli e Pilati (2018:27), le molteplici esigenze e situazioni legate alle diverse tipologie di pro-
getti, hanno favorito l’emergere di molteplici denominazioni diverse di questo ruolo. Se il termine project ma-
nager è certamente uno dei più utilizzati, diffusi sono anche altri, quali: program manager o director (respon-
sabile/direttore di programma), task force director (direttore del gruppo di specialisti), project leader (capo-
progetto), ad hoc committee chairman (presidente di comitato ad hoc), project coordinator (coordinatore di
progetti), project engineer (tecnico di progetto), project planner and controller (pianificatore e controllore del
progetto).

286
Le forme a criterio multiplo

interpretare una pluralità di ruoli manageriali diversi: ruoli interpersonali, in-


formativi e decisionali. I ruoli interpersonali concorrono alla definizione di
una leadership socialmente costruita (Costa, Gubitta, Pittino, 2014), che tie-
ne conto non solo delle interazioni, ma anche delle percezioni e dei compor-
tamenti che di sviluppano tra interlocutori diversi. I ruoli informativi si ricol-
legano alla posizione nodale nella rete di informazioni, quindi al collegamen-
to tra flussi informativi provenienti da attori diversi e riguardanti aspetti tec-
nici, organizzativi e relazionali, prestando attenzione ad assicurare a tutti le
informazioni utili e necessarie al proprio operare. Infine, i ruoli decisionali,
seppure meno caratterizzanti la figura, richiamano la capacità del project
manager di essere agente del cambiamento, di cogliere e trovare risposta alle
difficoltà che possono minacciare l’esito del progetto, di saper negoziare con
tutti gli interlocutori.
Nell’assolvere a questi ruoli, abbiamo visto che il capo-progetto non
sempre può far leva su un’autorità piena, ma comunque, più in generale, la sua
autorevolezza, derivante dalle competenze possedute e dal modo (stile) con cui
vengono messe a disposizione, costituisce il punto nodale del suo riconosci-
mento e della sua legittimazione all’interno dell’azienda. L’esercizio di questo
ruolo richiede il possesso di un set di competenze che Goleman (1996) ricon-
duce al concetto di intelligenza emotiva e individua nella capacità di conseguire
e conservare legami personali, nell’abilità di risolvere conflitti e negoziare solu-
zioni, nella capacità di individuare e sostenere interessi, motivazioni ed emo-
zioni altrui, nella capacità di costituire e gestire un gruppo, nella capacità di
riconoscere e gestire la propria sfera emozionale.
Queste competenze relazionali, nel loro insieme, possono aiutare il pro-
ject manager (Ondoli, Pilati, 2018) nelle diverse situazioni e nei diversi momen-
ti. Appaiono utili ad esempio nella gestire del team, laddove contribuiscono a
creare un clima di collaborazione e condivisione che può tradursi in una spinta
positiva per l’andamento e i risultati del lavoro; oppure ancora nella gestione
delle interazioni con i responsabili funzionali, dal momento che contribuiscono
a ricercare e comprendere le loro prospettive ed esigenze ed aprono ad un con-
fronto costruttivo, in grado di stemperare tensioni e contrasti. In generale, le
competenze adeguati a ruoli costruiti sull’autorevolezza dovrebbero essere as-
sociate ad una “buona dose di equilibrio nelle relazioni con gli altri”, per far sì
che chi occupa tali posizioni possa sentirsi un attore significativo e influente
nella gestione del progetto, senza tuttavia “montarsi la testa”, riconoscendo
pertanto e valorizzando i ruoli e contributi offerti da tutti coloro che collabo-
rano ad un progetto.

287
Lineamenti di organizzazione aziendale

8.3. La struttura a matrice

Le scelte di progettazione organizzativa sinora esaminate, sfociate nella defini-


zione di specifici assetti strutturali, sono risultate avere una duplice caratteriz-
zazione.
In primo luogo, esse hanno implicato una “scelta di campo forte”, indi-
viduando un criterio principale al quale ispirare e intorno al quale costruire la
“logica” del funzionamento organizzativo, quindi gli equilibri tra i diversi ele-
menti costitutivi, con le possibili implicazioni in termini di opportunità create e
inevitabili potenziali difficoltà da anticipare. E’ questo quel che di fatto accade
quando il soggetto economico si orienta verso la struttura funzionale oppure
verso la struttura divisionale, nella loro c.d. configurazione “pura” o “ideal-
tipica”, vale a dire rigorosamente fedele al criterio che l’ha generata.
Così la struttura funzionale fa proprio un criterio di specializzazione del-
le attività, con particolare riferimento agli organi direttivi di primo livello,
orientato agli input e una logica organizzativa complessiva che evidenzia una
sensibilità specifica agli aspetti di efficienza interna del funzionamento azien-
dale. La struttura divisionale, invece, opta per un criterio di specializzazione
delle attività, sempre con particolare riferimento agli organi direttivi di primo
livello, orientato agli output e una logica organizzativa complessiva che evi-
denzia una sensibilità specifica all’interazione e allo scambio con l’ambiente
transazionale, quindi agli aspetti di efficacia del funzionamento aziendale.
In secondo luogo, tali scelte di progettazione organizzativa hanno cerca-
to di inglobare criteri diversi e complementari rispetto a quello ispiratore della
struttura organizzativa, con lo specifico intento di “compensare” una visione
inevitabilmente “parziale” del funzionamento aziendale. In questo senso, la
struttura funzionale, per meglio fronteggiare il dinamismo del contesto eco-
nomico-sociale e mantenere con quest’ultimo una coerenza dinamica, può ve-
dere l’introduzione di “correttivi” che, senza stravolgere il criterio di specializ-
zazione che rimane per input, ne apportano “modifiche” tali da promuovere
un’attenzione anche a dimensioni tipicamente di risultato, come nel caso della
struttura funzionale con product manager o con project manager. In maniera
non dissimile, nella struttura divisionale può emerge la necessità di ottimizzare
la gestione di alcune risorse comuni a più divisioni, enucleandole non solo
all’interno di unità di staff ma costituendo altresì vere e proprie unità funzio-
nali per conseguire i vantaggi connessi alle economie di specializzazione e di
scala.
Sussistono tuttavia situazioni nelle quali soluzioni organizzative che po-
tremmo chiamare di “compromesso” – in quanto mediano tra una forte spinta
alla specializzazione per input o per output e l’esigenza di contemperare anche
focalizzazioni sull’output o sull’input – non sono adeguate, risultando difficile

288
Le forme a criterio multiplo

impostare la progettazione organizzativa intorno ad un trade-off che inevita-


bilmente conduce alla rinuncia di una certa categoria di possibili vantaggi.
La struttura a matrice si presenta quale assetto che, nella sua formula-
zione ideal-tipica, costituisce una risposta a questa specifica esigenza di assicu-
rare il presidio congiunto, vale a dire equilibrato, della specializzazione per in-
put e per output.
Nata nel settore aereospaziale negli anni ’60 (Galbraith, 1971) come
“evoluzione” della struttura per progetti, la struttura a matrice ha attirato
l’attenzione degli studiosi e dei manager soprattutto negli anni ‘70 e nei primi
anni ‘80, trovando applicazione in una pluralità di altri settori: automobilisti-
co, bancario, finanziario, chimico, della comunicazione, dell’informatico, della
difesa, dell’elettronica, del petrolio e gas, dei servizi tecnologici (Davis, Law-
rence, 1977; Galbraith, 2000). Negli anni più recenti, il suo impiego si è diffuso
nell’ambito del c.d. terziario avanzato, che ricomprende, ad esempio, società di
consulenza, di engineering, di formazione manageriale, si servizi alle imprese,
oppure nelle aziende che operano su commessa, come nel caso delle società in-
gegneristiche e nelle aziende impiantistiche (Bodega, 1997; Mercurio, Testa,
2000; Jones, 2007; Isotta, 2011). Ciò che accomuna, nei suddetti settori, la scel-
ta di questa struttura è il suo presentarsi quale soluzione organizzativa in gra-
do di fronteggiare situazioni di complessità, anche tecnologica, e dinamismo
crescente (Davis, Lawrence, 1977; Kuprenas, 2003), rendendo possibile la con-
temporanea focalizzazione e quindi il contemporaneo conseguimento degli
obiettivi propri della specializzazione per input e per output: in questa struttu-
ra, sono infatti adottati simultaneamente i criteri di raggruppamento delle uni-
tà di primo livello tipici della specializzazione input (tipicamente funzionale) e
output (tipicamente progetto o divisione).
Nella figura 1.3 che segue si propone una forma per progetto a matrice
che, come anticipato, costituisce un’evoluzione della forma per progetto.
Tale forma si viene a sviluppare nel momento in cui le esigenze di gestio-
ne delle funzione e dei progetti si affermano in modo equivalente e nei casi di
produzione per commessa.
Nell’organigramma presentato, la contemporaneità richiamata della fo-
calizzazione e del conseguimento degli obiettivi e la simultaneità dei criteri di
specializzazione utilizzati si possono cogliere osservando la linea nera più scu-
ra e continua, seppure ripiegata, che collega senza soluzione di continuità le
unità organizzative funzionali e quelle per progetto, di fatto posizionate allo
stesso livello in quanto tutte ugualmente dipendenti gerarchicamente dallo
stesso centro decisionale e propulsivo, la Direzione Generale. Oltre all’incrocio
funzione e progetto, una forma a matrice può nascere come incrocio di funzio-
ne e prodotto, funzione e mercato, mercato e prodotto e, nelle aziende multi-

289
Lineamenti di organizzazione aziendale

divisionali e multinazionali, l’incrocio può essere anche tridimensionale, coin-


volgendo aree funzionali, aree geografiche e linee di prodotto (vedi infra).

Figura 8.3 Forma a matrice per progetto (nostra elaborazione)

Pensandola come una “tabella doppia entrata” (Perrone, 1990), la struttura a


matrice consente, in generale, di “leggere” lungo la dimensione verticale
l’assegnazione delle risorse tra le diverse unità di progetto/prodotto/mercato,
oltre al mantenimento e sviluppo delle conoscenze degli attori coinvolti
all’interno delle unità funzionali, guidata dalla ricerca congiunta
dell’efficienza nell’impiego complessivo delle risorse e dell’efficacia nella loro
destinazione; lungo, invece, la dimensione orizzontale il coordinamento
nell’impiego di risorse eterogenee e complementari, guidato dalla ricerca
congiunta dell’efficacia nel perseguimento degli obiettivi di progetto e
dell’efficienza nell’utilizzo delle singole risorse assegnate. Nell’uno come
nell’altro caso, come si può forse intuire, ai responsabili di funzione e di divi-
sione, chiamati matrix manager o matrix boss, viene richiesto di interpretare
il proprio ruolo in modo diverso da quello che essi potrebbero avere
all’interno delle strutture tipicamente funzionali e divisionali. I compiti loro
richiesti rimangono inalterati, mentre cambiano le aspettative di comporta-
mento vicendevolmente scambiate relativamente alle modalità di svolgimen-
to degli stessi, in particolare l’aspettativa legata ad una condivisione di orien-
tamenti cognitivi ed emotivi, e ad un esercizio dell’autorità non solitario ed
autoreferenziale, ma bilanciato.

290
Le forme a criterio multiplo

Entrambi i matrix boss sperimentano in questa struttura una perdita di


centralità nella rete interna di relazioni, quella centralità che scaturisce
dall’essere gli “unici” attori dotati dell’esercizio di autorità e responsabilità re-
lativamente ad un set di risorse (tecnologiche, materiale, finanziarie, umane e
così via) che sono nella loro piena disponibilità. I responsabili di funzione de-
vono così rinunciare, ad esempio, a gestire in autonomia leve quali la selezione
del personale, i sistemi di valutazione e di ricompensa; i responsabili di divisio-
ne, invece, devono rinunciare alla possibilità di gestire in autonomia la dispo-
nibilità del personale, la cui programmazione lungo i diversi merca-
ti/prodotti/progetti/ rientra nelle prerogative del responsabile di funzione. Ine-
vitabile è la percezione di una “perdita di status” da parte di entrambi i matrix
boss. La struttura a matrice richiede, in sostanza, che tali ruoli siano agiti in
maniera molto diverse, con una spiccata sensibilità (la c.d. intelligenza emotiva
à la Goleman in precedenza richiamata) per la ricerca di un duplice coordina-
mento quale obiettivo superiore. Competenze quali la gestione di gruppi di la-
voro e riunioni, la capacità di persuasione e negoziazione, la capacità comuni-
cativa e argomentativa, la capacità di costruzione del consenso, il confronto
costruttivo e la gestione dei conflitti diventano rilevanti ai fini dell’efficiente ed
efficace funzionamento di questa struttura.
La contemporaneità di focalizzazione e conseguimento degli obiettivi, la
simultaneità dei criteri di specializzazione, la presenza di una duplice fonte da
cui hanno origine le prerogative decisionali e le responsabilità aiutano a com-
prendere come in questa struttura non trovi applicazione uno dei più classici
principi alla base di una efficace attività direzionale. Si tratta del principio
dell’unità di comando (Fayol, 1916), in base al quale per qualsiasi azione un
attore organizzativo deve ricevere ordini da un solo superiore.
Questa duplicità di comando, come si può intuire dallo stesso organigram-
ma, non sussiste nei confronti di tutte gli attori che lavorano all’interno di questa
struttura, ma è rivolta soltanto ai c.d. two boss manager, vale a dire quelle posizio-
ni manageriali che si trovano all’incrocio tra le linee di autorità/responsabilità ver-
ticali e orizzontali. Ne consegue che queste posizioni manageriali corrispondono,
nella gerarchia aziendale, ad organi di secondo livello e individuano il punto di ri-
ferimento della successiva articolazione strutturale, all’interno della quale troverà
nuovamente applicazione il principio dell’unità di comando.
A tal fine, può essere utile offrire la seguente diversa e “stilizzata” rap-
presentazione dell’organigramma della forma a matrice (Figura 8.4), nella
quale la trama delle linee nere evidenzia le relazioni di duplice dipendenza ge-
rarchica che confluiscono in capo al two boss manager, mentre le relazioni ros-
se indicano le più tradizionali linee di dipendenza gerarchica, secondo il prin-
cipio dell’unità di comando, che si diramano dal two boss manager.

291
Lineamenti di organizzazione aziendale

Figura 8.4 Forma a matrice (nostra elaborazione)

I two boss manager si presentano quali posizione chiamate a ricercare un co-


stante e non scontato equilibrio tra le due linee di autorità, facendo leva sulle
proprie capacità personali, sulla specifica conoscenza del contesto operativo
all’interno del quale operano, e su un set di competenze legate alla negoziazio-
ne, alla ricerca di soluzioni di compromesso, alla persuasione, alla comunica-
zione interpersonale, alla gestione delle relazioni, alla gestione dello stress. È
infatti facile intuire come molteplici possano essere i conflitti di ruolo speri-
mentati da questi attori, legati alle aspettative di comportamento provenienti
dai responsabili di funzione e di divisione, ma anche dai subordinati, senza
dimenticare i possibili conflitti intrapersonali che possono scaturire dal perce-
pire la difficoltà e talora inadeguatezza a svolgere un ruolo per definizione
complesso.
Centrale rispetto alla gestione di queste situazioni di conflittualità è cer-
tamente la Direzione Generale, il cui compito principale consiste proprio nel
creare e mantenere un complesso di condizioni favorevoli ad un equilibrio dei
poteri, optando il più possibile per uno stile di gestione “aperto” e per un mix
tra un controllo formale ed uno di tipo culturale. Lo stile aperto può trovare
espressione nel momento in cui la Direzione Generale opera in modo da porta-
re alla luce le situazioni di conflitto, ricercandone le ragioni e promuovendo un
confronto diretto tra gli attori in conflitto, richiamando altresì i matrix boss a
quelli che sono gli obiettivi comuni e gli impegni riconducibili alle differenti

292
Le forme a criterio multiplo

posizioni. Il mix tra un controllo formale ed uno culturale richiama la possibi-


lità di far leva da un lato su strumenti quali i sistemi di valutazione (ancorati a
specifici standard di prestazione) e di retribuzione e su processi di delega tesi a
ben chiarire gli ambiti di azione e intervento, dall’altro su occasioni di incon-
tro, di formazione e sullo sviluppo di una “cultura a matrice”, cioè flessibile,
propensa a cogliere il cambiamento, disposta ad un continuo e franco scambio
di idee, incline alla ricerca di soluzioni, sensibile alla gestione delle interdipen-
denza, in grado di alimentare, in sostanza, “comportamenti a matrice” (Bode-
ga, 1997). La rilevanza del fattore cultura organizzativa porta a riflettere sul
fatto che questa struttura più che progettata sulla carta e successivamente im-
plementata, necessiti di essere progressivamente sviluppata, mettendo congiun-
tamente in atto una pluralità di strumenti a supporto e sostegno del suo stesso
sviluppo, in modo tale da creare le condizioni per “creare una matrice nella
mente dei manager” (Barlett, Ghoshal, 1990:145)
Se posta a confronto con le altre, la struttura a matrice evidenzia un li-
vello di complessità di funzionamento e di gestione certamente superiore, tale
da richiedere il supporto di una pluralità di sistemi operativi, articolati lungo le
due dimensioni che la caratterizzano.
Il sistema informativo deve essere in grado di fornire informazioni rela-
tivi ai costi e ai ricavi, ma anche ai margini operativi, alle quote di mercato, al-
lo stato di avanzamento dei progetti: la disponibilità di entrambe queste tipo-
logie di informazioni consente il controllo delle risorse e delle attività lungo
ciascuna linea gerarchica, ma agevola altresì il confronto e la negoziazione, ri-
duce il rischio di comportamenti opportunistici, ostacola possibili manipola-
zioni di informazioni, favorendo il coordinamento verso il conseguimento di
obiettivi comuni. Lo sviluppo di un sistema informativo bidimensionale costi-
tuisce il presupposto per l’adozione di sistemi di budget anch’essi focalizzati
sulle diverse dimensioni.
Il sistema di gestione del personale (i sistemi di valutazione e ricompensa
e di sviluppo e carriera), dal canto suo, deve essere in grado di alimentare la
motivazione e promuovere i livelli di prestazioni attesi, ma deve altresì favorire
comportamenti individuali di tipo cooperativo, orientati alla collaborazione e
al lavoro di gruppo. Così ad esempio i sistemi di ricompensa sono chiamati a
privilegiare una valorizzazione delle prestazioni e dei risultati a livello com-
plessivo di azienda, piuttosto che di singola area (funzionale o divisionale). I
percorsi di carriera vanno invece pensati in una logica di job rotation, consen-
tendo agli attori di maturare esperienze professionali presso entrambe le di-
mensioni della struttura matrice, per comprendere direttamente le specificità
delle problematiche affrontate e sperimentare in prima persona la diversità del-
le aspettative formulate e quindi delle situazioni conflittuali.

293
Lineamenti di organizzazione aziendale

Meccanismi molteplici di coordinamento, come già evidenziato, si ren-


dono infine indispensabili quale supporto alla gestione dei conflitti: accanto a
meccanismi basati sulla standardizzazione di output integrati, alla presenza di
team inter-funzionali, la struttura a matrice può fare leva sull’azione di una
pluralità di ruoli che svolgono funzione di integrazione (Perrone, 1990): la Di-
rezione Generale che promuove una integrazione dall’altro, i two boss manager
la realizzano dal basso, i responsabili funzionali la favoriscono in chiave tecni-
ca, i responsabili divisionali la promuovono convogliando risorse ed energie
verso determinati obiettivi. Ancora, il ricorso a task force e comitati offre
un’ulteriore opportunità per promuovere una palestra a supporto dello svilup-
po di capacità di team building e di gestione di gruppi multi-focalizzati.
Possono a questo punto risultare evidenti i motivi che hanno indotto e
possono indurre le aziende a scegliere questa struttura organizzativa. Davis e
Lawrence (1977) ne evidenziano in particolare tre. In primo luogo, la presenza
di due o più aree che risultano critiche per il successo aziendale, che richiedono
di essere presidiate con uguale attenzione e integrate per il buon funzionamen-
to aziendale. È quanto accade, ad esempio, quando l’azienda si trova sotto la
congiunta pressione delle esigenze di diverse tipologie di clienti o mercati e del-
lo sviluppo di nuove conoscenze, con riferimento ad ambiti di attività che han-
no costituito e possono costituire le basi del successo aziendale. Come afferma
Galbraith (1971), infatti, se si adotta la struttura funzionale, le tecnologie ven-
gono sviluppate, ma il problema diviene riuscire ad eseguire contemporanea-
mente tutte le attività relative a diversi progetti, di completarle con la qualità
richiesta, alle scadenze stabilite, utilizzando il più possibile le risorse speciali-
stiche. Se si adotta una struttura per progetto, si facilita il coordinamento delle
diverse specializzazioni in relazione ad un obiettivo, rispettando i tempi di la-
voro, facilitando la reazione (risposta) in caso di problemi, ma si deve rinun-
ciare in parte alle economie di scala e di specializzazione.
Un secondo motivo è da ricondursi all’esigenza di gestire condizioni di
elevata complessità e incertezza, quindi continui cambiamenti e una forte in-
terdipendenza tra attività, obiettivi e contesti (mercati): in presenza di queste
circostanze, le aziende si trovano a fronteggiare fabbisogni informativi cre-
scenti, ma anche intense esigenze di coordinamento tra attività. In una struttu-
ra di stampo tipicamente gerarchico, la circolazione delle informazioni si pre-
senta prevalentemente verticale, filtrata da precisi snodi comunicativi che di-
stribuiscono le informazioni rilevanti ai destinatari appropriati. Questo pro-
cesso risulta efficace in un ambiente poco complesso, ma rischia di paralizzare
i soggetti decisori nelle condizioni ambientali richiamate, complesse, incerte e
dinamiche, causando un sovraccarico informativo e decisionale. La struttura
matrice “libera” una circolazione capillare delle informazioni, in senso vertica-

294
Le forme a criterio multiplo

le ed orizzontale, aumenta il numero diretto dei contatti e velocizza gli scambi


grazie alla creazione di più canali di comunicazione.
Il terzo motivo, infine, è costituito dalla presenza di risorse scarse, da
impiegare congiuntamente su più ambiti di attività (prodotti, progetti, merca-
ti), cercando di conseguire sia economie, sia flessibilità nel loro utilizzo condi-
viso. Sotto questo profilo, la forma a matrice assegnando le risorse ai respon-
sabili funzionali - chiamati, come sopra evidenziato, ad assicurare congiunta-
mente l’efficienza nell’impiego complessivo delle risorse e l’efficacia nella loro
destinazione – consente di variare nel tempo e in funzione delle diverse esigen-
ze la distribuzione delle risorse tra le unità divisionali o di progetto, quindi di
adeguarle in funzione delle mutevoli necessità, garantendo condizioni di flessi-
bilità e adattamento superiore rispetto alle altre forme organizzative.
Le caratteristiche di questa struttura organizzativa, non disgiunte dalla
complessità di funzionamento e di gestione che la contraddistinguono, si pon-
gono comprensibilmente all’origine di quelli che possono risultare quali punti
di forza e di debolezza, vantaggi e limiti, opportunità e minacce (Bodega, 1997;
Mercurio, Testa, 2000; Jones, 2007; Isotta, 2011; Costa, Gubitta, Pittino, 2014;
Rebora, 2017).
Un primo vantaggio scaturisce dalle stesse peculiarità della struttura,
che consente di beneficiare dei punti di forza tipici della specializzazione per
input e output, l’efficienza nell’uso delle risorse e il coordinamento delle risorse
rispetto a determinati risultati. Relativamente a quest’ultimo aspetto, essa ri-
duce il rischio di comportamenti opportunistici e di orientamenti verso sub-
obiettivi specifici. Questa struttura offre, ancora, molteplici opportunità
all’azienda per essere flessibile e adattarsi a cambiamenti: la struttura è di per
sé snella, con pochi livelli gerarchici; è fortemente decentrata sotto il profilo
decisionale, avvicinando in questo modo l’abbinamento emergenza di un pro-
blema/individuazione della soluzione; riduce sensibilmente il problema delle
“barriere” inter-funzionali, rendendo comparativamente più agevole, come
evidenziato, la circolazione delle informazioni. Tutto ciò facilita, a titolo
d’esempio, la possibilità di redistribuire le risorse ai diversi prodot-
ti/mercati/progetti in relazione al mutare delle esigenze e condizioni del conte-
sto ambientale; rende anche possibile, a costi inferiori rispetto a quanto po-
trebbe verificarsi con una struttura divisionale, l’inserimento o l’eliminazione
di una nuova focalizzazione per output. Più in generale, la presenza di team
inter-funzionali sostiene e promuove, in maniera del tutto naturale, occasioni
di scambio e condivisione delle conoscenze, alimentando pertanto processi di
apprendimento organizzativo, di fertilizzazione incrociata di esperienze multi-
ple e varie, di innovazione incrementale e continua. Si creano, in questo modo,
dinamiche organizzative particolarmente favorevoli alla crescita professionale

295
Lineamenti di organizzazione aziendale

del personale, che può trovare nella struttura a matrice un contesto favorevole
allo sviluppo di competenze non solo tecniche, grazie soprattutto alla rotazio-
ne degli esperti funzionali, ma anche relazionali e gestionali: la ricerca del con-
senso nella presa delle decisioni, il confronto tra orientamenti diversi,
l’ampliamento degli orizzonti di valutazione in presenza di problemi,
un’elevata partecipazione alla soluzione di problemi spesso molto complessi, la
gestione delle diversità di orientamenti e di conflitti, la capacità di riconoscere
l’obiettivo comune come superiore al possibile interesse personale.
Anche il primo svantaggio scaturisce dalle stesse peculiarità della strut-
tura: la presenza di una duplice linea di autorità esprime un’esigenza di bilan-
ciamento che non può essere dato per scontato, ma deve essere quasi quotidia-
namente conquistato e confermato. Quando questo bilanciamento viene meno,
possono scatenarsi molteplici situazioni di conflitto istituzionalizzato. Alcuni
conflitti ripropongono contrasti tipici delle strutture funzionali e divisionale:
quelli interni tra i responsabili di funzione e tra i responsabili di divisione, per
lo più in occasione della allocazione delle risorse a loro destinate. Altri si pre-
sentano peculiari, come nel caso di conflitti reciproci tra i matrix boss: il ri-
schio è assistere ad un rallentamento del processo decisionale, alla “perdita di
tempo ed energie” per la ricerca di soluzioni di compromesso, al rinvio di pro-
blemi al vertice aziendale. In questi casi, il compito principale dei matrix boss
diviene accaparrarsi il sostegno da parte della direzione generale, chiamata ad
intervenire per dirimere tali situazioni di contrasto.
Possono infine scatenarsi conflitti di ruolo 5 (Padroni, 1979) in capo ai
two boss manager, quando le aspettative che convergono verso le proprie posi-
zioni si fanno poco chiare (ambiguità di ruolo) o risultano contraddittorie (oc-
cupazione simultanea di più ruoli), oppure quando vengono percepite richieste

5
I conflitti di ruolo si presentano come situazioni nelle quali un attore organizzativo, a prescindere dalla funzio-
ne svolta e dalla posizione formalmente ricoperta all’interno della gerarchia aziendale, sperimenta dentro di sé
condizioni di difficoltà, incertezza, persino disagio nell’interpretare il proprio ruolo, concepito non semplicemen-
te come una sommatoria di compiti ma anche come un insieme di aspettative che provengono da e vanno ver-
so l’intera organizzazione (Padroni, 1979). Queste situazioni di conflitto appaiono pertanto diverse da quelle,
forse più note, che si palesano all’interno di gruppo e tra gruppi: non siamo infatti in presenza di un contrasto
tra “fazioni” diverse, quanto piuttosto di uno stato psicologico, di un disagio emotivo che costituisce un freno
per l’attore nel riuscire a svolgere le proprie attività, ottenere le prestazioni attese, intese in senso lato. In linea
generale, tali situazioni di conflitto tendono ad emergere via via che le mansioni, i confini delle mansioni diven-
gono meno precisi, risultando difficile una univoca definizione (solitamente oggettiva, ex-ante e totalmente
esterna all’attore) di ciò che deve essere fatto e come deve essere fatto, mentre assumono comparativamente
maggiore rilevanza le dimensioni soggettive connesse appunto con la capacità di interpretare determinate si-
tuazioni e individuare i comportamenti più opportuni, per consentire risposte adeguate alle diverse circostanze.
Lasciando margini di manovra, valutazione e scelta agli attori, si riducono comparativamente le condizioni di
chiarezza e certezza (in termini di autorità, responsabilità, aspettative di comportamento da parte dell’azienda)
dei confini del contributo individuale ed, inevitabilmente, si vengono a creare aree di ambiguità. Per questo
motivo, non di rado i conflitti di ruolo vengono indicati come “il prezzo” che un’organizzazione si trova a dover
pagare in cambio della flessibilità. Sono tra le più frequenti cause dell’insorgere di situazioni di conflitto di ruolo
aspettative poco chiare o tra loro contrastanti, l’occupazione simultanea di più ruoli, l’inserimento di nuovi ruoli,
i cambiamenti di ruolo.

296
Le forme a criterio multiplo

eccessive rispetto alle possibilità di soddisfazione e alle risorse disponibili (in-


coerenze di ruolo), con implicazioni in termini di impasse operativa. Tali situa-
zione non di rado creano un disorientamento che impatta sulla prestazione la-
vorativa, causando un minore impegno, una defocalizzazione delle energie
spese, minori livelli di rendimento.
Se è vero che i two boss manager sono gli attori che in maniera più fisio-
logica possono sperimentare queste situazioni conflittuali, è verosimile pensare
che anche in capo ai matrix boss si possa assistere a condizioni simili. Quando
la scelta di questa forma organizzativa costituisce un’evoluzione di una qual-
siasi altra forma organizzativa precedente, anche i matrix boss vedranno sfu-
mare le “certezze” connesse alla loro posizione formale, in particolare quelle
derivanti dall’essere “gli unici attori al comando” di un determinato insieme di
risorse, pertanto gli “unici” formalmente autorizzati ad esercitare il potere de-
cisionale conferito dalla direzione generale. La forma a matrice richiede al con-
trario una condivisione nell’esercizio del comando: i conflitti di ruolo legati al-
la capacità dei matrix boss di riconfigurare l’apporto loro richiesto e assecon-
dare le nuove aspettative si pongono verosimilmente all’origine di un possibile
squilibrio tra autorità e responsabilità che può alterare quel bilanciamento dei
poteri che si pone alla base della forma a matrice bilanciata.
Un altro limite della struttura a matrice è rappresentato dagli alti costi di
funzionamento, che scaturiscono in parte dall’elevata conflittualità in prece-
denza richiamata, in parte dalle sue stesse caratteristiche, con particolare rife-
rimento alla pluralità e multidimensionalità dei sistemi operativi di comunica-
zione, pianificazione, controllo, coordinamento e gestione del personale.

8.3.1. Tipologie di forme a matrici

Le comprensibili difficoltà connesse al bilanciamento tra le due linee di autori-


tà e responsabilità hanno favorito il proliferarsi di una pluralità di soluzioni a
matrice, tra loro diverse (Knight, 1977; Bodega, 1997; Mercurio, Testa, 2000;
Isotta, 2011).
Le principali tipologie portano a distinguere tra la struttura a matrice bi-
lanciata, alla quale abbiamo sinora fatto prevalente riferimento, sottolineando
le condizioni che possono favorirne lo sviluppo, e la struttura a matrice sbilan-
ciata, o debole, nella quale si riscontra un peso preponderante assegnato ora
alla dimensione funzionale, ora alla dimensione divisionale/progetto.
Nel primo caso, si parla di struttura a matrice orientata funzionalmente,
nella quale ai responsabili funzionali sono riconosciuti ambiti di autorità e re-
sponsabilità piena (Knight, 1977; Bodega, 1997): ai responsabili divisionali o
di progetto viene assegnato il compito di coordinare le risorse per la cui dispo-

297
Lineamenti di organizzazione aziendale

nibilità essi devono negoziare e chiedere il supporto ai responsabili funzionali,


ai quali riportano. Ai coordinatori, è quindi assegnata la responsabilità di con-
seguire il risultato/obiettivo nel rispetto di specifici parametri di tempo, costi e
qualità, definendo i sistemi di controllo, convocando incontri e riunioni opera-
tive, negoziando le risorse, modificando i programmi, ricercando sempre un
confronto col responsabile di funzione qualora necessario. I responsabili fun-
zionali sono garanti delle risorse, selezionano e assegnano il personale ai diver-
si obiettivi/risultati, effettuano il controllo budgetario, sono destinatari del re-
porting aziendale, si occupano della valutazione delle presentazioni degli attori
e della loro carriera.
Nel secondo caso, si parla invece di struttura a matrice orientata divisio-
nalmente, nella quale l’autorità gerarchica sulle risorse, umane, tecniche, finan-
ziarie e materiali, è propria dei responsabili di divisione o di progetto per l’intera
durata del progetto I responsabili di funzione si limitano ad erogare servizi e co-
noscenze e sono altresì chiamati a valutare il livello delle competenze tecniche
degli specialisti funzionali, al fine di assicurare il loro continuo aggiornamento,
definendo percorsi di formazione e carriera. Sotto questo punto di vista, le fun-
zioni mantengono la loro specifica qualificazione di “scuole”, chiamate a garan-
tire il continuo sviluppo e accrescimento delle competenze specialistiche.
In termini generali, queste situazioni di sbilanciamento si presentano
come frequenti e in parte fisiologiche nei casi in cui l’azienda perviene alla
forma a matrice a seguito di cambiamenti di una precedente struttura organiz-
zativa, funzionale o divisionale. Per il complesso delle peculiarità della forma a
matrice in precedenza richiamate ed analizzate e alle quali rinviamo, lo svilup-
po di quelle condizioni fondamentali, la piena assimilazione di una cultura a
matrice e la creazione di una “matrice” nella mente dei manager, si presenta
come più difficile da realizzarsi, a causa del portato delle competenze matura-
te, delle esperienze accumulate, dei comportamenti e relazioni instaurati dai
responsabili di funzione e divisione; della difficoltà a rinunciare a prerogative
(in primis, decisionali e di autorità) dalle quali sono derivate lo status percepi-
to e la legittimazione sociale; dell’incertezza associata ai cambiamenti
nell’interpretazione dei propri ruoli all’interno della nuova forma organizzati-
va, che sostituisce la certezza delle mansioni da svolgere con l’ambiguità di
ruoli che presentano confini evanescenti e inevitabili aree di sovrapposizione.
Si generano di conseguenza molteplici resistenze che rendono indispensabile
una scelta di campo per quanto attiene alla dimensione cui assegnare la domi-
nanza all’interno delle relazioni matriciali.
Le forme a matrice prese sinora in esame, pur nella loro diversità, pre-
sentano quale tratto comune quello di prevedere quali criteri di specializzazio-
ne delle unità di primo livello la specializzazione per input e la specializzazione
per output.

298
Le forme a criterio multiplo

Si deve tuttavia completare la gamma delle possibili tipologie, conside-


rando anche il caso in cui venga utilizzato un unico criterio di specializzazione,
in particolare per output, declinato lungo le dimensioni della matrice in termi-
ni prevalenti di prodotto e area geografica. Si parla in questi casi di struttura a
matrice globale o matrice divisionale (Barlett, Ghoshal, 1995, Grandori, 1995),
una soluzione organizzativa propria di aziende che intraprendono percorsi di
internazionalizzazione, scegliendo di realizzare una pluralità di prodotti distri-
buiti in molteplici paesi in tutto il mondo (figura 8.5). Per quanto i singoli pro-
dotti mantengano inalterate le proprie caratteristiche, configurandosi in tal
senso come prodotti globali, le specificità culturali dei diversi contesti naziona-
li rendono necessaria la definizione di approcci differenziati e specifici per
quanto attiene, in particolare, le strategie di marketing, con particolare riferi-
mento alle politiche di comunicazione, pubblicità e prezzo, che devono essere
personalizzate (Mercurio, Testa, 2000).
I matrix boss divisionali sono chiamati pertanto ad assicurare
l’integrazione a livello internazionale delle politiche di marketing definite rela-
tivamente a ciascun prodotto all’interno dei diversi contesti nazionali, ma an-
che a coordinare il complesso delle attività produttive ed operative riguardanti
l’insieme dei prodotti venduti all’interno di ogni singolo paese. I primi si occu-
pano di coordinare il flusso di competenze, skills e risorse relative ai prodotti,
mentre i secondi (chiamati country manager) si fanno carico dell’adattamento
dei prodotti alle varie esigenze locali e del trasferimento verso la casa madre
delle competenze sviluppate localmente (Giustiniano in Caroli, 2008). Essi so-
no pertanto contemporaneamente responsabili delle divisioni (aziende o sussi-
diarie) che risultano dalla combinazione prodotto/singolo mercato ed i respon-
sabili di queste divisioni si trovano soggetti ad una duplice autorità formale.
Si può ancora una volta comprendere quanto sia anche in questo caso cri-
tica la disponibilità e capacità dei matrix boss di prodotto e di area geografica di
collaborare per rispondere alle esigenze del mercato: l’interdipendenza reciproca
dei risultati emerge riflettendo sul fatto che i risultati (economici e quantitativi)
conseguibili dai responsabili divisionali per area geografica sono strettamente
dipendenti dalle politiche delle unità divisionali di prodotto, e viceversa. Da que-
sto scaturisce la ancora maggiore complessità di questa forma organizzativa, per
la cui gestione si rende necessario il ricorso a meccanismi di coordinamento tra-
sversali su base internazionale. Frequente, ad esempio, è il ricorso a team, com-
posti da soggetti provenienti dalle divisioni prodotto e area geografica, even-
tualmente integrati con personale degli organi di staff. Le aggregazioni di com-
petenze provenienti dalle due dimensioni della matrice, in funzione delle esigenze
del mercato, favoriscono il costituirsi di una struttura flessibile, una rete con vari
nodi che si attivano e si adattano a specifici bisogni di mercato.

299
Lineamenti di organizzazione aziendale

Figura 8.5 Forma a matrice globale (nostra elaborazione)

I vantaggi e limiti di questa forma non sono molto dissimili da quelli già esa-
minati. Si può in particolare sottolineare (Jones, 2007) come questa struttura
favorisca il trasferimento delle conoscenze, competenze ed esperienze tra le di-
verse aree geografiche e tra i diversi gruppi di prodotti, promuovendo oppor-
tunità di sviluppare e condividere miglioramenti nei prodotti stessi. L’esistenza
di molteplici punti di contatto tra i manager, a tutti i livelli, locali e internazio-
nali, rende possibile la diffusione dei valori, delle norme e dei principi propri
dell’azienda, che vengono adattati all’interno dei contesti nazionali, pur risul-
tando sempre riconducibili ad una matrice unitaria, quella corporate globale.

300
9 L’organizzazione process-driven e il lean thinking
di Fabio Fraticelli e Maria Zifaro

9.1. Lean Thinking – 9.2. Lean Production – 9.3. Lean office – 9.4. Lean Thinking:
implicazioni sulla progettazione – 9.5. Dalla logica per funzioni all’orientamento ai
processi – 9.6. I processi organizzativi: definizioni, caratteri e tipologie – 9.7. Due
approcci verso un’organizzazione per processi – 9.7.1. L’approccio radicale - 9.7.2.
L’approccio moderato – 9.7.3. Una scelta ponderata – 9.8. Orientamento ai proces-
si: implicazioni sulla progettazione

301
Lineamenti di organizzazione aziendale

9.1. Lean Thinking

L’opera Lean thinking: banish waste and create wealth in your corporation
(Womack & Jones, 1996) è la prima in cui compare l’espressione “Lean Thin-
king”, unitamente ad una estesa descrizione dei principi che lo costituiscono.
Questa pubblicazione rappresenta la modellizzazione dei principi ispiratori del
Toyota Production System (d’ora in poi, TPS), messo in atto a partire dal se-
condo dopoguerra dall’azienda automobilistica giapponese Toyota, sotto la
guida del suo ingegnere capo Taiichi Ohno.
Il Lean Thinking può essere considerato anzitutto un “atteggiamento”
con il quale si osserva, si comprende e si progetta l’organizzazione. Non a caso
esso si sostanzia in cinque principi applicativi che consentono di individuare i
più diffusi sprechi presenti nelle organizzazioni e, conseguentemente, di ridurli
progressivamente fino ad eliminarli del tutto. Per un’organizzazione, “diventa-
re lean” significa dunque intraprendere un percorso di eliminazione degli spre-
chi con la finalità ultima di creare valore.
I cinque princìpi applicativi del Lean Thinking sono: value, value stream,
flow, pull, perfection. Di seguito forniremo una breve descrizione di ciascuno di
questi princìpi.
Il punto di partenza nella riduzione di qualsiasi spreco (in giapponese
muda) consiste nell’identificazione di cosa vada veramente prodotto. In altri
termini occorre stabilire cosa crei valore e cosa, invece, sia un inutile orpello.
La diretta conseguenza di questo approccio alla definizione del valore è capire
“per chi” sia da intendere questo valore. Dire che l’organizzazione genera va-
lore per il cliente finale e che è costantemente orientata a comprenderne e sod-
disfarne le esigenze è cosa piuttosto semplice. Riuscire invece a ripensare
l’organizzazione per fare in modo che questo accada è un’impresa completa-
mente differente. Non di rado, infatti, i desiderata del cliente finale vengono
piegati alle esigenze produttive e tecnologiche che, in un dato momento,
l’organizzazione si trova ad affrontare. In altri termini, esiste una serie di vin-
coli (spesso dettati dalle eredità di decisioni precedenti), che distorcono la defi-
nizione di valore e portano i manager a convenire sul fatto che i desideri del
cliente finale vadano soddisfatti in relazione a ciò che è possibile fare date le
conoscenze detenute e le possibilità offerte dagli impianti disponibili.
Le imprese snelle, invece, affrontano la questione del valore da una pro-
spettiva completamente diversa. Esse si chiedono quanti costi di produzione si
potrebbero evitare se si eliminassero tutti gli sprechi, ovvero fissano un target
cost in condizioni di produzione senza muda (l’assenza di spreco è un concetto
da valutare in senso assoluto ma anche, e soprattutto, in relazione al livello di
muda presente nei competitors). Val la pena far presente che le condizioni in
cui Ohno concettualizza la rilevanza del target cost sono quelle di un mercato

302
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

automobilistico giapponese del secondo dopo guerra caratterizzato da piccoli


produttori indipendenti, ed una domanda interna molto debole. In queste
condizioni, il prezzo al cliente è un vincolo sulla base del quale si determina il
profitto d’impresa. Negli stessi anni, invece, sul mercato americano, di natura
oligopolistica, le aziende automobilistiche avevano la possibilità di fissare il
prezzo ai rivenditori a partire da profitti desiderati e costi di produzione. Se
profitto e prezzo sono variabili esogene, allora nella visione di Ohno solo il
target cost è un fattore controllabile.
In un simile contesto, il Lean Thinking si afferma come strategia che, at-
traverso la riduzione del muda, consente di liberare risorse che potranno essere
impiegate per migliorare la capacità dell’azienda di creare valore per il cliente
finale, in un percorso potenzialmente infinito verso il miglioramento.
Come si eliminano gli sprechi e si raggiunge il target cost? Attraverso
un’analisi minuziosa di tutte le attività lungo il flusso di valore finalizzata a di-
stinguere fra attività che creano valore per il cliente ed attività che, invece, non
lo fanno. Questa azione costituisce il secondo principio applicativo del Lean
Thinking, ovvero il “value stream”.
Il punto di partenza per la definizione (ed il miglioramento) del flusso di
valore consiste nella suddivisione delle attività che lo compongono in tre cate-
gorie (Womack & Jones, 1996):

• attività che creano un valore percepito dal cliente;


• attività che non creano valore ma che sono indispensabili (perché
sussistono dei vincoli tecnologici ad oggi non superabili) e che quindi
non posso essere eliminate nel breve periodo, costituendo uno spreco
“accettabile” (muda del primo tipo).
• attività che non creano valore percepito dal cliente e che possono es-
sere eliminate fin da subito (muda del secondo tipo).

Il processo di identificazione del muda dei due tipi va fatto nell’intero sistema
di produzione del valore. Sotto questo profilo, è bene considerare che molte
persone, attraverso numerose fasi possono aggiungere (o sottrarre) valore al
cliente finale, sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione.

Quadro 9.1 Value stream e riduzione degli sprechi

Un celebre esempio di value stream è offerto proprio da Womack e Jones nella descrizione del flusso
di valore di un cartone di Cola. Analizzando tutte le attività implicate nel processo, dall’estrazione del-
la bauxite fino all’imbottigliamento, alla conservazione sugli scaffali del supermercato ed al consumo
a casa, i ricercatori realizzano che a fronte di una durata totale di 319 giorni, si registra un tempo di

303
Lineamenti di organizzazione aziendale

lavorazione di sole 3 ore. Tutto il resto è muda, e solo una partnership tra tutti gli attori coinvolti nel
value stream può portare alla riduzione di questo spreco.

Il flusso (stream) è il terzo principio applicativo del Lean Thinking e consiste


nella rimozione di tutte le barriere ed interruzioni che ostacolano il fluire del
valore verso il cliente finale. Una volta identificato chiaramente cos’è il valore
ed eliminate le attività inutili, bisogna garantire che le attività rimaste (quelle
che creano valore) fluiscano. Taiichi Ohno sostiene che il fluire del valore sia
continuamente ostacolato da una logica “batch and queue” (lotti e code), ov-
vero una modalità organizzativa basata sulla produzione di lotti sequenziati ad
accumuli intermedi, ai quali corrisponde un’area della produzione articolata
per reparti che producono una certa quantità di semilavorati da accumulare in
un magazzino intermedio in attesa di venire prelevati dal reparto successivo.

Quadro 9.2 La logica “batch & queue”

Un esempio evidente dell’impatto di una logica batch and queue nel rallentamento del flusso è facil-
mente individuabile se si ragiona sul modo ottimale di gestire il processo di imbustamento, indiriz-
zamento, chiusura, affrancamento e spedizione di una certa quantità di inviti ad un matrimonio. Se vi
trovaste a identificare il modo migliore di gestire questo flusso, probabilmente rispondereste che si
dovrebbero dapprima imbustare tutti gli inviti, per poi procedere con l’indirizzamento, la chiusura e
l’affrancatura degli stessi. In realtà, se ci si mette “nei panni dell’invito che vorrebbe essere spedito
nel modo più veloce e con il minimo sforzo”, la logica corretta sarebbe quella di imbustarlo, sigillarlo,
apporre l’indirizzo e quindi affrancarlo (nostra elaborazione da Womack & Jones, 1996).

Questo esempio, per quanto banale, descrive il modo con cui i reparti e le fun-
zioni operano quotidianamente nelle imprese “non lean”. Non si ragiona
sull’intero flusso delle attività che creano valore per un dato prodotto (o servi-
zio), ma si tende a parcellizzare il flusso in batch che restano in attesa della la-
vorazione successiva.
Sotto questo punto di vista, il grande passo in avanti di Taiichi Ohno e
del suo collega Shigeo Shingo è nel considerare che tutte le produzioni, anche
quelle in piccoli o piccolissimi lotti, possono seguire un flusso continuo (Shin-
go, 1981) e, dunque, non solo le grandi produzioni di massa à la Ford. In que-
sto caso, la sfida diventa - ad esempio - quella di miniaturizzare i macchinari
impiegati e minimizzare il loro riattrezzaggio, in modo tale che si possa rapi-
damente passare da un prodotto all’altro, mantenendo in un flusso continuo
l’oggetto della produzione nelle diverse fasi di lavorazione.
In questa ottica, la riduzione delle scorte è un passaggio essenziale per
“costringere” le organizzazioni a mantenere il flusso. Le scorte agiscono infatti
come l’acqua in un torrente, che - presente in grandi quantità - nasconde i

304
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

massi presenti sul fondo, e dà l’illusione che, al disotto della superficie, non ci
siano asperità e le barche possano viaggiare tranquille (Figura 9.1).

Figura 9.1 L’effetto delle scorte e della sovrapproduzione: l’illusione della


fluidità

Fonte: nostra elaborazione da Womack e Jones, 1996)

In realtà, non appena il livello dell’acqua scende, vengono a galla diversi massi
che rischiano di bloccare le imbarcazioni che si trovano a percorrere il fiume.
Nel fluire delle operazioni aziendali, questi massi sono ritardi nelle forniture
dei semilavorati, tempi di attrezzaggio dei macchinari, rilavorazioni e non con-
formità nei prodotti realizzati e tutti gli altri fattori che impediscono un veloce
scorrimento del flusso di lavoro. La riduzione delle scorte porta a galla questi
fattori, e ne consente una progressiva rimozione.
Nella visione di Womack e Jones, l’introduzione dei concetti di value
stream e flow non si limita esclusivamente a facilitare la riduzione di costosi
stock di prodotti o semilavorati, ma consente soprattutto alle organizzazioni
di dare ai propri clienti il potere di “tirare” il prodotto dall’azienda attraverso
il flusso. Pull è infatti il quarto principio applicativo del Lean Thinking e consi-
ste nel progettare, programmare e realizzare esattamente quello che il cliente
vuole, nel momento in cui lo vuole (facendo ciò di cui il cliente ha realmente
bisogno).
In una gestione rigorosamente pull, l'ingresso dei prodotti in produzione
non è anticipato rispetto agli ordini, perché la produzione è regolata “da val-

305
Lineamenti di organizzazione aziendale

le”. In una logica push, invece, al fine di garantire il tempo di consegna richie-
sto dal cliente (fattore esogeno a cui l’organizzazione deve sottostare, pena la
fuoriuscita dal mercato), l’organizzazione anticipa l’ingresso dei materiali in
fabbrica rispetto all’ordine stesso, in un processo di stima che - se scorretto -
genererà scorte (nelle diverse fasi di produzione) il cui effetto è quello di allun-
gare il cosiddetto lead time, cioè il tempo di attraversamento del processo pro-
duttivo, dall’ordine alla consegna al cliente.
Una volta che il valore è stato definito, il flusso di valore accuratamente
identificato (eliminando le attività inutili), il flusso garantito e una volta che ai
clienti è stata data la possibilità di “tirare” il flusso, le imprese si rendono conto
che potenzialmente non c’è fine al miglioramento. La perfezione è proprio il
quinto principio applicativo del Lean Thinking ed è la diretta conseguenza della
presa d’atto che i primi quattro principi applicativi interagiscono fra loro in un
circolo virtuoso. Man mano che il flusso di valore viene fatto scorrere più velo-
cemente, le aziende sono più confidenti nel dare ai propri clienti il potere di “ti-
rare” il prodotto. A questo punto, il contatto sempre più assiduo con il cliente
crea anche i presupposti per definire sempre più accuratamente il valore.

9.2. Lean Production

Come specificato nel precedente paragrafo, il Lean Thinking è la concettualiz-


zazione teorica dei 5 principi che hanno caratterizzato l’organizzazione del la-
voro nei reparti produttivi delle aziende automobilistiche giapponesi degli anni
’50, ed in particolare presso la Toyota Motor Corporation (Monden, 1983;
Ohno, 1988; Shingo, 1981, 1988).
Come conseguenza dell’esito della seconda guerra mondiale, l’industria
automobilistica nipponica si trovava in una situazione di crisi profonda: il pae-
se registrava bassi tassi di crescita economica, la forza lavoro era diminuita e
gran parte degli stabilimenti erano andati distrutti. Al contrario, gli USA era-
no caratterizzati da una crescita economica sostenuta ed alti livelli di produtti-
vità, che avevano rafforzato un modello di produzione di massa che era stato
pienamente adottato dai principali produttori di auto (Ford e General Motors
in testa).
Lungi dal ritenere di poter competere sul mercato automobilistico globa-
le con lo stesso approccio statunitense, Toyota Motor Company cercava mo-
dalità per ridurre il costo totale di produzione e poter competere con i produt-
tori americani nel breve, ma soprattutto nel lungo periodo.
In quegli anni, infatti, Toyota sosteneva che il modello di produzione di
massa in uso presso i produttori americani si sarebbe dimostrato inadeguato a
fronteggiare l’imminente riduzione del tasso di crescita economica che sarebbe

306
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

dovuto inevitabilmente succedere al boom del dopoguerra. Il modello di pro-


duzione standard, caratterizzato da alti volumi di produzione realizzata in
grandi lotti, non sarebbe infatti stato più economicamente sostenibile, vista
l’accresciuta frammentazione e variabilità dei bisogni dei clienti.
La diretta conseguenza di una corretta interpretazione delle differenze
strutturali fra la struttura produttiva americana e giapponese, e della consape-
volezza che la domanda non potesse continuare a sostenere livelli di produzio-
ne come quelli dell’immediato dopoguerra, dette origine ad una serie di micro-
innovazioni rispetto alla tradizionale produzione à la Ford, che nel loro insie-
me prenderanno poi il nome di “Toyota Production System”.
Queste innovazioni muovono dalla ricerca quasi ossessiva di riduzione
degli sprechi (fonte di alti costi di produzione) ed erano la diretta conseguenza
di una scarsità oggettiva di risorse (unita anche ad una elevata competizione
interna nel mercato automobilistico giapponese).
La maggior parte delle componenti del TPS (inclusa la sua origine), va
ricondotta al lavoro di Taiichi Ohno, ingegnere capo della Toyota.
L’approccio promosso da Ohno consisteva essenzialmente nel creare un siste-
ma di produzione pensato per minimizzare le scorte aziendali ed eliminare
qualsiasi forma di spreco (muda), riducendo così il costo di produzione totale.
L’obiettivo era quello di dar vita ad un sistema reattivo che funzionasse senza
ritardi evitando operazioni e fasi di lavoro inutili, e per questo era necessario
eliminare qualsiasi attività non a valore aggiunto dal processo di produzione.

Quadro 9.3 I sette tipi di spreco (muda)

Nella cultura giapponese il termine “spreco” (muda) si carica di significati sociali ed etici molto forti,
paragonabili a quelli di “peccato” nella tradizione cattolica. È importante ricordare, infatti, che in una
società relativamente povera come quella giapponese di qualche decennio fa, lo spreco rappresenta
molto più di fattore trascurabile e connaturato al sistema economico-produttivo, come invece si ten-
deva a considerare in sistemi produttivi più opulenti, come quello americano nel post-guerra.
I sette tipi di spreco previsti nel TPS sono associati alle attività di: trasporto, immagazzinamento,
spostamento, attesa, nonché alle attività inutili, alla sovrapproduzione e ai difetti. Nel tempo, poi, ver-
rà introdotto un ottavo tipo di muda, individuato nel sottoutilizzo delle capacità personali.

Lungi dal poter trattare in maniera estesa il TPS in questo manuale, basti sa-
pere che si tratta di una vasta serie di principi di organizzazione e di strumenti
per la gestione della produzione (fra cui il just-in-time, JIT, e la metodologia
Kanban) ma anche - e soprattutto - una cultura organizzativa fortemente per-
meata di valori quali il rispetto per gli addetti ed un loro elevato coinvolgimen-
to nella risoluzione delle criticità riscontrate in fase di produzione.

307
Lineamenti di organizzazione aziendale

Il lavoro di Taiichi Ohno inizia negli anni ’50 con l’introduzione della
logica “a zero sprechi” nell’ambito della produzione di motori, per poi esten-
dersi negli anni ’60 all’assemblaggio delle auto e, negli anni ’70, all’intera sup-
ply chain. Solo in quest’ultimo stadio dello sviluppo Toyota produce i primi
manuali per i propri fornitori, rendendo pubbliche le componenti base del suo
approccio. Tuttavia, questi manuali sono scritti in giapponese, ed occorre al-
meno un’altra decade prima che vengano tradotti in inglese e diffusi al grande
pubblico internazionale (Hall, 1983; Monden, 1983; Ohno, 1988; Sandras,
1989; Schonberger, 1982; Shingo, 1981).
All’inizio degli anni ’80 si rende evidente che i principi del TPS spiegano
gran parte del gap “a parti rovesciate” che - nel frattempo - si origina
nell’industria automobilistica mondiale: i produttori giapponesi (Toyota in te-
sta) guadagnano enormi quote di mercato, e la loro offerta conquista il merca-
to americano a discapito dei produttori nazionali. Proprio questa tendenza
spinge lo sviluppo di un intenso programma di ricerca guidato da tre studiosi
del MIT di Boston (James Womack e Daniel Jones, con il contributo di Daniel
Roos) che culminerà nel 1990 con la pubblicazione del volume intitolato “The
Machine that Changed the World” (Womack, Jones, & Roos, 1990) nel quale
la rassegna delle caratteristiche del TPS culmina in una sintesi concettuale che
prende il nome di “Lean Production” (o “lean manufacturing”).
Lean Production è pertanto una descrizione sistematica del funziona-
mento del sistema di produzione automobilistica giapponese (a livello fabbrica
e filiera) e diventa una pietra miliare nella diffusione di pratiche di produzione
incentrate sulla riduzione degli sprechi, perché per la prima volta gli autori so-
stengono che il modello organizzativo e le pratiche che supportano la Lean
Production possano essere trasferite in sistemi economici diversi da quello
giapponese.
L’intero corpus concettuale che oggi viene sintetizzato con l’espressione
Lean Production è pertanto da intendersi come modellizzazione teorica di
quanto osservato empiricamente nella filiera produttiva automobilistica giap-
ponese: Lean Production è il modo con cui in Occidente si descrive (e si trasfe-
risce) l’approccio vincente sperimentato in Giappone.
Nonostante la semplicità dell’intuizione fondamentale su cui è stata svi-
luppata, la Lean Production è considerata un modello rivoluzionario. Tramite
il suo modello, infatti, Toyota ha introdotto nel mondo un nuovo modo di
pensare all’organizzazione della produzione. Come è stato osservato di recente
, “Toyota è efficace nell’integrare persone, processi e tecnologie con progetti di
sviluppo dei prodotti altamente specializzati, a supporto di piani strategici a
lungo termine” (Attolico, 2012: IX).
La Lean Production si basa su un approccio orientato al lungo periodo e
di investimento nel futuro; tali fondamenti hanno permesso l’organizzazione di

308
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

processi efficaci e orientati alla qualità fino dalla fase di progettazione, lungo
tutto il ciclo produttivo, nonché per lo sviluppo delle abilità e delle conoscenze
di collaboratori interni e partner esterni Questui dovevano essere in grado di
risolvere problemi in modo rigoroso e di trasformare quanto appreso in una
base di conoscenza utile ad essere utilizzata in futuro. Pertanto, “Lean” può
essere interpretato come un orientamento strategico, non come semplice rispo-
sta ad uno specifico problema legato all’organizzazione della produzione
(Hayes & Pisano, 1994).

9.3. Lean Office

Il Lean Thinking ha conosciuto una progressiva diffusione in termini sia di re-


plicazioni nell’industria automobilistica che di tentativi di applicazione in set-
tori diversi. Dopo l’iniziale presa di consapevolezza delle pratiche produttive
implementate in Toyota, avvenuta tra il 1980 ed il 1990, fino al 2000 si regi-
strano numerosi tentativi di replicazione sia in altre aziende automobilistiche,
che di settori diversi (anche se prevalentemente in ambito manifatturiero), ten-
tando di “esportare” i principi Lean Thinking dalla produzione all’intera
azienda. A partire dal 2000, invece, la maggior parte degli sforzi di ricercatori e
manager viene profusa nel tentativo di comprendere come portare la logica
snella a livello di value system, ovvero di filiera, e di valutarne l’impatto in
aziende non manifatturiere oppure negli “uffici”.
Con il termine Lean Office si indicano le applicazioni del Lean Thinking
ai processi di front-end, ovvero a tutti quei processi che supportano la produ-
zione in senso stretto. Anche nel Lean Office trovano spazio i cinque principi
del Lean Thinking, ovvero value, value stream, flow, pull e perfection ma, come
è facile attendersi, sussistono alcune peculiarità dettate dalla natura delle atti-
vità impiegatizie. La definizione di valore è tutt’altro che semplice ed univoca,
perché un ufficio risponde contemporaneamente a diversi interlocutori, fra cui
“clienti” interni e, spesso, enti certificatori esterni. Qui i processi hanno natura
prevalentemente intangibile, ed è difficile monitorare il processo “a vista” e
trovare indicatori per la sua misurazione (come è facile comprendere, misurare
il numero di fatture registrate da un ufficio amministrativo o di preventivi
prodotti in un’ora da un ufficio commerciale non è un buon criterio per
l’analisi dei muda). Questa caratteristica ha l’importante implicazione di rende-
re più difficile il mantenimento del flusso, perché eventuali sprechi sono meno
visibili e quasi sempre imputati a fattori esterni non controllabili (ovvero muda
del primo tipo).

309
Lineamenti di organizzazione aziendale

Stanti le sopracitate complessità applicative, anche nel Lean Office, pro-


prio come nella Lean Production, la creazione di valore per il cliente finale si
ottiene mediante la riduzione degli sprechi. Nonostante non vi sia una defini-
zione univoca su quanti e quali siano i tipi di spreco tipicamente riscontrabili
in un ufficio, di solito si fa riferimento a otto tipi di muda (Tonchia & Napoli,
209).
Il primo tipo di muda è rappresentato dalla difettosità degli output, co-
me ad esempio ovvero un lavoro (ad esempio un documento o un file) conse-
gnato in ritardo, contenente informazioni insufficienti, inesatte o contrastanti
oppure istruzioni che devono essere chiarite, file nominati in maniera inconsi-
stente o fuorviante, oppure privi delle informazioni che ci si aspetta contenga-
no e che, per questo, richiedono una rilavorazione. Proprio l’elevato fabbiso-
gno di rilavorazioni costituisce il segnale che c’è una alta difettosità negli out-
put prodotti.
Il secondo tipo di muda è rintracciabile nei trasferimenti documentali,
ovvero nella movimentazione degli output prodotti negli uffici. Oltre ai casi
nei quali un documento (o un file) raggiunge la persona sbagliata o non riesce
a raggiungere il destinatario per cui era stato prodotto (ad esempio per un er-
rore nella digitazione del suo indirizzo e-mail), un tipico esempio è quello del
trasferimento di un documento cartaceo da una persona all’altra.

Quadro 9.4 File versioning e muda

Uno di tipi di spreco più diffusi in ufficio riguarda i file digitali e nel loro trasferimento. Quando si par-
la di muda rintracciabile nei trasferimenti documentali, infatti, non si fa solo riferimento ai trasferi-
menti fisici. Ogni volta che un file viene riprodotto in diverse versioni o copie, multiple e diverse del
lavoro, che devono essere riconciliate, potenzialmente si sta generando dello spreco: spesso non si
conosce l’ultima versione del file, oppure versioni diverse contengono differenze (seppur piccole) che
richiedono un lavoro di comparazione fra le versioni. Questo tipo di muda genera tipicamente altri tipi
di sprechi, come la sovrapproduzione e rilavorazione.

Il terzo tipo di muda è il lavoro in attesa di elaborazione. Questo tipo di spreco


è tendenzialmente un effetto del multi-tasking, perché ogni volta che un lavora-
tore ha una “lista di cose da fare” oppure di “email a cui rispondere” superiore
ad una unità, automaticamente sta tenendo in attesa tutto ciò che non sta ela-
borando in quel momento.
Il quarto tipo di muda è dato dal movimento improduttivo. Le riunioni,
ad esempio, sono tipiche situazioni nelle quali c’è movimento (le persone si
spostano verso la meeting room o al suo interno) senza produzione (a meno
che non si prendano decisioni o non si producano informazioni durante la riu-
nione). In realtà, negli uffici esistono movimenti improduttivi ben più insidiosi

310
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

delle riunioni. Si tratta di tutti quegli spostamenti che avvengono, ad esempio,


quando un soggetto spreca il proprio tempo cercando file che non riesce a tro-
vare, o effettuando call per desumere le informazioni di cui ha bisogno. In-
somma, molto spesso gli sprechi da movimento improduttivo avvengono
quando un lavoratore è fermo su una scrivania, magari utilizzando il proprio
computer, oppure partecipando ad una riunione.
Il quinto tipo di muda è rappresentato dalle attese. Anche questo tipo di
spreco è solitamente connesso al multi-tasking: quando un lavoratore ha biso-
gno di input per procedere nello svolgimento di un’attività tende ad iniziare
nuovi compiti. Quando finalmente il suo input è pronto, difficilmente lascerà
ciò che ha iniziato a fare nel frattempo per completare la lavorazione prece-
dente. La somma di queste attese si traduce in un incremento del tempo totale
necessario per completare un’attività.
Il sesto tipo di muda è la sovrapproduzione, ovvero l’insieme di tutti
quegli output che vengono prodotti senza essere utilizzati. Tipici esempi di so-
vrapproduzione sono copie multiple degli stessi documenti, oppure report che
non vengono consultati, così come la tanto inutile quanto diffusa pratica di
mettere in copia nelle email soggetti a cui non interessa il contenuto stesso
dell’email.
Il settimo tipo di muda è la sovra-elaborazione, ovvero l’impiego di una
quantità di risorse non necessaria per completare il lavoro. Tipici esempi di
questo tipo di spreco sono tutti i processi di approvazione che implicano firme
molteplici, così come l’inserimento ridondante delle stesse informazioni su
molteplici formulari (come avviene, molto spesso, quando si invia una candi-
datura per un concorso pubblico, oppure quando si invia una raccomandata
all’ufficio postale).
L’ottavo ed ultimo tipo di muda consiste nel sottoutilizzo delle compe-
tenze disponibili nell’organizzazione; tipicamente si manifesta perché non vi è
piena consapevolezza delle conoscenze e capacità di ciascuno (soprattutto nelle
organizzazioni più grandi) oppure perché lavoratori con mansioni manageriali
(e dunque, con retribuzioni più alte della media) si occupano di attività opera-
tive a basso valore aggiunto.
Come si può notare, nel corso degli anni il potenziale migliorativo TPS,
che nasce come sistema di produzione per una precisa realtà automobilistica,
ha permesso di generalizzare il modello (Lean Production) e renderlo una filo-
sofia di organizzazione della produzione (Lean Thinking) che oggi trova appli-
cazione anche negli uffici. Costruire un’organizzazione snella, però, è un pro-
cesso ben più profondo ed articolato che non applicare i principi lean nei re-
parti produttivi e negli uffici. Questo processo richiede una trasformazione ra-
dicale delle logiche di progettazione organizzativa macro e micro e dell’insieme

311
Lineamenti di organizzazione aziendale

dei valori che danno origine alla sua cultura. Utilizzando la lente del Lean
Thinking, nel prossimo paragrafo capiremo più nel dettaglio cosa significa co-
struire una “Lean Company”.

9.4. Lean Thinking: implicazioni sulla progettazione

I principi del Lean Thinking prevedono che solo la completa cancellazione de-
gli sprechi può generare un sistema produttivo in grado di rispondere veloce-
mente al cambiamento (Holweg, 2007).
Una delle prime implicazioni a livello operativo è che in un’impresa snel-
la si cerca il più possibile di concentrare il maggior numero di addetti
nell’esecuzione di attività direttamente creatrici di valore. La diretta conse-
guenza di questa tendenza è che le attività ritenute “non a valore aggiunto”
non dovrebbero trovare spazio nella progettazione dei flussi di lavoro e nella
corrispondente organizzazione del lavoro. Ciò evidentemente pone problemi di
riqualificazione e riallocazione, quando possibile, della forza lavoro preceden-
temente impiegata in quelle attività.
In una visione tradizionale d’impresa, infatti, gli addetti delle diverse
funzioni tendono ad immaginare dei percorsi di carriera che si articolano den-
tro la funzione a cui fanno capo. In altre parole, l’autonomia di un addetto “in
carriera” tende ad aumentare con l’anzianità di servizio, così come la propria
retribuzione e l’ampiezza del controllo sui suoi collaboratori, ma in un’ottica
“interna” alla funzione, sia essa la progettazione, le vendite, la programmazio-
ne, la contabilità, etc.
Quando un individuo viene assegnato per la maggior parte del suo tem-
po ad un team di prodotto, ha l’opportunità di capire con maggiore chiarezza
qual è l’impatto delle proprie attività nel flusso di valore, ma tende a percepire
in maniera più confusa le proprie possibilità di carriera.
Inoltre, nel medio periodo, le imprese snelle rischiano di incorrere in
quello che è conosciuto come problema “dell’ingegnere generalista”, ovvero di
una complessiva riduzione delle competenze specialistiche che, invece, vengono
fortemente sviluppate in un’impresa organizzata per funzioni.
Per attenuare questo rischio, le imprese che adottano il Lean Thinking
devono introdurre meccanismi che tengano l’individuo “a stretto contatto con
il flusso di lavoro”, dandogli al contempo la possibilità di sviluppare le proprie
competenze specialistiche.
Sotto questo profilo, l’adozione di un paradigma lean ha una prima im-
plicazione in termini di progettazione organizzativa, in particolare sulla co-
struzione di percorsi di sviluppo professionale basati sulle cosiddette “carriere
alternative”, ovvero su percorsi nei quali l’individuo alterna fasi di presenza

312
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

nel team di prodotto (o servizio) a fasi “in funzione” nelle quali può arricchire
la propria dotazione di competenze specialistiche.
Un’impresa snella tende progressivamente ad attenuare l’idea tradizio-
nale di carriera come avvicinamento progressivo alle posizioni di vertice (e
contestuale aumento del numero di soggetti coordinati), perché si ritiene che
questa impostazione non aggiunga alcun beneficio al flusso di valore. Al con-
trario, resta valida l’idea di un percorso di carriera basato sull’acquisizione di
nuove competenze, applicate a problemi, spesso caratterizzati da bassa analiz-
zabilità, per i quali non si dispone a priori di un repertorio di soluzioni già spe-
rimentate. L’approccio di un’impresa snella allo sviluppo delle carriere può es-
sere letto prevalentemente come un progressivo arricchimento della mansione,
che ha come esito l’attenuazione del potere delle gerarchie funzionali in favore
dei team adibiti alla gestione del processo.
Come noto, l’arricchimento delle mansioni consiste nel conferire gradi di
discrezionalità crescenti a soggetti incaricati di svolgere una determinata attivi-
tà da svolgere, in virtù di un percorso di formazione ed esperienza che aumen-
ta la consapevolezza e la visione d’insieme con la quale un soggetto affronta il
proprio lavoro. L’arricchimento della mansione si affianca al suo allargamen-
to, ovvero all’incremento nel tempo del numero o dell’ampiezza di compiti
svolti da un unico soggetto.
Mentre in una organizzazione tradizionale l’arricchimento e
l’allargamento della mansione rappresentano due tecniche di job design tese a
mitigare gli effetti negativi di una progettazione “taylorista” delle mansioni
impostata ripartendo scientificamente i carichi di lavoro fra i diversi individui
al fine di ridurre i tempi di apprendimento dei lavoratori, aumentare la loro
capacità nella esecuzione degli stessi e ridurre i costi di produzione, in una pro-
spettiva lean l’arricchimento e l’allargamento delle mansioni rappresentano
spesso l’esito naturale di un’alternanza degli individui fra team di prodotto e
funzioni.
La nuova concezione di carriere professionali, figlia del contributo di
ciascuno allo sviluppo di un’impresa lean, ha importanti implicazioni nel ruolo
assegnato alle funzioni. Infatti, se un’impresa snella canalizza il flusso di valo-
re, le funzioni perdono molti dei loro attuali compiti. Attività come gli acqui-
sti, la produzione ed il controllo qualità vengono di frequente spostati dalle
funzioni ai team di prodotto, ed agli specialisti funzionali viene richiesto di
pensare al futuro, ovvero di agire come centri di ricerca e sviluppo focalizzati
sul proprio ambito di attività.
Nell'impresa snella, dunque, le funzioni fungono innanzitutto da “scuo-
le” che riassumono sistematicamente le conoscenze generate collettivamente
dall’organizzazione, mentre esplorano nuove pratiche e insegnano tutto questo

313
Lineamenti di organizzazione aziendale

agli addetti che verranno coinvolti nei vari team di prodotto, il cui scopo pri-
mario è la creazione di valore. Inoltre, le funzioni hanno il compito di svilup-
pare linee-guida e best practice che consentiranno lo sviluppo dell’impresa nel
medio periodo (ad esempio, in un’impresa snella il ruolo della funzione acqui-
sti è quello di trovare modalità efficaci per individuare fornitori in grado di
aiutare l’organizzazione a generare valore nel medio periodo).
L’attenzione ai percorsi di carriera alternativi e la concezione di funzioni
come scuole portano inevitabilmente a domandarsi cosa diventino le imprese
che adottano il Lean Thinking per impostare le proprie attività, o – in altri
termini – quale sia l’essenza di una Lean Company.
Gli obiettivi di un’impresa snella sono fondamentalmente quattro. In-
nanzitutto, essa deve specificare correttamente il valore per il cliente, evitando
che ci siano definizioni diverse fra le diverse aziende situate lungo il flusso (ti-
picamente il produttore ritiene che il prodotto rappresenti l’interesse primario
del cliente, mentre l’organizzazione che si occupa di commercializzazione si fo-
calizza sulle relazioni intrattenute con lui). In secondo luogo, deve favorire
l’identificazione di tutte le attività che compongono il flusso di attività a valore
aggiunto. Quindi, deve facilitare la rimozione di tutte le attività che non gene-
rano valore nell’intero flusso. Infine, l’impresa snella ha il compito di reiterare
questo ciclo di azioni in una ottica di miglioramento continuo.
È il flusso di valore che definisce una impresa snella, non l’insieme di as-
set che - mediante contratti - vengono ricondotti ad una medesima “proprietà”
(Womack & Jones, 1994). In altre parole, l’impresa snella può attraversare i
tradizionali confini delle aziende che sono situate lungo il flusso di valore e
che, mediante le proprie funzioni, hanno proprio il compito di facilitare lo
scorrimento dello stesso.
All’interno di questa rinnovata concezione di impresa (e, più in generale,
del compito del management), si ipotizza anche la creazione di una funzione di
promozione del pensiero snello (Womack & Jones, 1994). Questa funzione ha
lo scopo precipuo di formare i soggetti impegnati nella transizione dell’impresa
da un modello tradizionale ad un approccio lean, iniziando dalla diffusione di
una terminologia omogenea all’interno dell’organizzazione e dalla promozione
di momenti nei quali i responsabili delle attività operative possano verificare
periodicamente i progressi realizzati.
Al netto di queste considerazioni, è importante tenere presente che una
lean company deve abbracciare in modo convinto un nuovo codice di compor-
tamento, finalizzato ad attenuare alla base i pregiudizi che minano lo sviluppo
di un’impresa snella. Il pensiero snello costringe ad un sostanziale ripensamen-
to di quale sia il ruolo dei soggetti afferenti alle diverse funzioni aziendali:
l’eliminazione integrale dei muda porterebbe infatti alla soppressione di tutte le
figure impegnate nell’esecuzione di attività che non creano valore (a partire da

314
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

quelle indirette). Questa conseguenza, inevitabile nella logica lean, potrebbe


indurre individui e manager funzionali che si sentono minacciati a “sabotare”
lo snellimento dei processi, in una dinamica per la quale lo spirito di autocon-
servazione individuale prevale sul miglioramento generale dell’impresa.
Per ridurre al minimo il “rischio di rigetto”, nel passaggio ad un para-
digma lean, le imprese devono perseguire qualsiasi strada possibile nella con-
servazione di posti di lavoro, ad esempio compensando l’eliminazione di attivi-
tà “non a valore” con strategie di differenziazione produttiva, di ampliamento
dei mercati di riferimento, di maggiore penetrazione nei mercati già serviti, co-
sì come mediante il potenziamento di attività a valle del processo produttivo,
quale quelle di assistenza clienti.

9.5. Dalla logica per funzioni all’orientamento ai processi

È pacifico affermare che oggi le aziende operano in contesti complessi e forte-


mente dinamici, in quanto la crescita dei mercati globali, in entità, complessità
e varietà, l’accelerazione dei tempi di sviluppo e la riduzione del ciclo di vita
dei prodotti, l’espansione della tecnologia, sottopongono le aziende ad una in-
tensa pressione competitiva. La sopravvivenza dipende dal mantenimento di
un delicato equilibrio tra qualità ed unicità del prodotto offerto tale da diffe-
renziarlo dalla concorrenza e venire incontro a bisogni e aspettative del cliente.
Davenport e Short (1990), analizzando i cambiamenti dello scenario produtti-
vo e commerciale, si pongono alla ricerca di un modello organizzativo in grado
di far fronte a questi cambiamenti.
Essi partono dalla constatazione che il valore per il cliente finale, ma an-
che per l’azienda stessa, è generato dalle modalità di svolgimento dei processi
produttivi e distributivi e solo indirettamente dalle attività svolte nelle singole
funzioni. In altre parole, la customer satisfaction dipende dal grado di efficien-
za ed efficacia nella conduzione dei processi e dalla qualità del coordinamento
lungo e tra gli stessi. Ciò si traduce nella capacità dell’impresa di rispondere al
momento giusto e nel modo giusto alle esigenze del cliente, e di adattarsi ad un
mercato in continuo cambiamento in modo economicamente sostenibile.
Si può affermare che la lettura delle attività aziendali secondo la chiave
dei processi è originata dalla volontà di avvicinare sempre di più l’azienda al
mercato quando mutano le caratteristiche della competizione.

315
Lineamenti di organizzazione aziendale

La logica funzionale 1, nella quale le attività sono raggruppate in relazio-


ne all’omogeneità delle competenze tecnico-specialistiche e all’affinità tecnica
delle attività svolte, e dove le interdipendenze residuali tra le funzioni richie-
dono una esigua collaborazione tra le diverse unità, ha nel tempo dimostrato
una buona capacità di raggiungere elevati livelli di efficienza interna, grazie al-
lo sfruttamento di economie di scala e di apprendimento (Paoletti, 1997). Tut-
tavia, all’aumentare delle dimensioni aziendali, la struttura articolata per fun-
zioni diventa progressivamente più complessa e costosa, il processo decisionale
può risultare rallentato, la flessibilità operativa, intesa come capacità di adat-
tarsi alle mutate esigenze di mercato, limitata (Perrone 1990).
In molte aziende di grandi dimensioni il grado di differenziazione delle
funzioni e la loro articolazione interna hanno raggiunto livelli difficilmente
compatibili con esigenze di coordinamento e di monitoraggio della qualità re-
lative all’insieme delle attività necessarie alla realizzazione di un determinato
output.
Il sistema gestionale che caratterizza questo tipo di struttura è impernia-
to in genere su un sistema scalare di obiettivi, che a partire dalla Direzione
Generale vengono assegnati ai responsabili di funzione e da questi alle singole
unità operative. In un ambiente caratterizzato da complessità ed instabilità,
tale articolazione di obiettivi e responsabilità nell’ambito delle singole funzioni
non sembra poter rispondere tempestivamente alle sollecitazioni che proven-
gono dal mercato.
I limiti del modello funzionale possono tuttavia emergere anche in pre-
senza di dimensioni aziendali contenute e in un contesto non particolarmente
turbolento. Tale modello si presenta infatti come sede naturale di conflitti e
difficoltà di integrazione, dovuti sia a fattori estrinseci, quali la diversità di
obiettivi, di orientamento e di linguaggi utilizzati, sia a fattori intrinseci, quali
sistemi di appartenenza diversi (Bernardi e Piazzo, 1995). Questi fattori enfa-
tizzano la suddivisione funzionale e sono spesso all’origine della creazione di
barriere organizzative e possono generare un insufficiente livello di coopera-
zione non solo tra le funzioni coinvolte in attività operative, ma anche tra que-
ste e le unità di staff. Nei casi in cui i suddetti problemi si manifestano in for-
ma più acuta, gli sforzi finalizzati a migliorare le prestazioni delle singole fun-
zioni possono non essere sufficienti e risolutivi. Davenport e Short (1990) sot-
tolineano infatti come la ricerca di soluzioni organizzative ritenute ottimali per
le singole funzioni non porti per definizione ad una ottimizzazione
dell’organizzazione nel suo complesso.

1
Come già detto nei capitoli sulla progettazione della macrostruttura, una funzione rappresenta l’insieme di
risorse, materiali e immateriali, aggregate per realizzare attività che presentano una stessa natura.

316
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

L’evidenza di insufficienti performance delle strutture organizzative im-


perniate sulle funzioni ha dato luogo, a partire dai primi anni ’90 del secolo
scorso, alla diffusione di modelli concettuali e pratiche manageriali che sugge-
rivano di ridisegnare l’organizzazione delle aziende partendo dai processi, cioè
dai flussi di attività che trasformano input in output. Tali modelli si basano sul
perseguimento di elevati livelli di soddisfazione dei clienti attraverso interventi
volti alla riduzione dei costi e alla creazione del valore.
L’adozione di una logica per processi implica un intervento orientato in
primo luogo a rafforzare l’integrazione tra funzioni o, in alternativa, a ridurre
il fabbisogno di coordinamento (Costa, Gubitta, 2014). Anziché puntare
sull’incremento dei livelli di performance delle singole funzioni, le aziende cer-
cano di migliorare le performance complessive dei processi che conducono alla
realizzazione dei singoli output, destinando risorse in primo luogo ad attività
che producono valore per il cliente.
Organizzare secondo la logica dei processi significa dunque concentrarsi
sugli output (prodotti o servizi, o un mix di questi) da realizzare e identificare
le attività che generano valore aggiunto, identificando obiettivi e responsabili-
tà relativi all’intero processo e non più solo alle funzioni (Sinibaldi, 2009), dif-
ficilmente in grado di comprendere fino in fondo cosa significhi “orientarsi al
cliente”. Secondo tale approccio, la chiave del successo sta proprio nell’analisi
e nella riprogettazione organizzativa lungo la catena di attività che genera va-
lore per il cliente finale, in modo da:

• migliorare il coordinamento funzioni lungo il flusso di lavoro;


• rafforzare la comunicazione orizzontale;
• favorire la diffusione di atteggiamenti cooperativi.

La logica per processi favorisce lo sviluppo di un orientamento verso un obiet-


tivo comune da parte di tutti coloro che svolgono attività eterogenee ma fina-
lizzate alla realizzazione di un certo output.

9.6. I processi organizzativi: definizioni, caratteri e tipologie

A partire dagli anni ’80 del secolo scorso nella letteratura manageriale e orga-
nizzativa si susseguono numerose definizioni di processo che, pur caratterizza-
te da differenti sfumature, condividono alcuni elementi fondamentali 2.

2
Pall (1987: 73) considera il processo come “l’organizzazione logica di persone, materiali, energia, attrezzatu-
re e procedure in attività di lavoro al fine di produrre un ben definito risultato finale”, mentre Melan (1992: 67) lo

317
Lineamenti di organizzazione aziendale

Una loro sintesi ci porta a definire il processo come sequenza di attività


logicamente collegate, che impiegano e gestiscono risorse di varia natura (ma-
teriali, immateriali) al fine di realizzare un determinato output. Gli input di un
processo sono gli output dei processi a monte (fornitori interni o esterni), così
come gli output del processo possono rappresentare input di eventuali processi
a valle: per questo si parla di catene fornitori-clienti. L’azienda può essere rap-
presentata come una catena di processi, lungo la quale il prodotto/servizio rea-
lizzato lungo il processo può essere destinato ad un cliente interno (il processo
a valle) o esterno (il cliente finale) (Toscano, 1993).
Le attività che compongono un processo sono tra loro interdipendenti e
finalizzate al perseguimento di un obiettivo comune che nel singolo processo si
manifesta nella creazione di valore per il destinatario dell’output (Davenport,
1995). Secondo Davenport (1995) ogni processo si compone essenzialmente di
quattro elementi (Figura 9.2):

• input, ossia informazioni e materiali immessi nel processo per la suc-


cessiva trasformazione;
• vincoli, rappresentati da regole, istruzioni, informazioni che condi-
zionano lo svolgimento delle attività che compongono il processo;
essi possono essere relativi al processo e o al suo output e possono
essere condizionati a priori da elementi interni ed esterni al processo;
• risorse, ossia persone e mezzi utilizzati per svolgere le singole attività
di trasformazione;
• output, ossia i risultati del processo, che possono essere di natura fi-
sica o informativa.

definisce come “work-flow ossia un gruppo circoscritto di attività interrelate che forniscono un output di maggior
valore degli input utilizzati nell’attività di trasformazione”. Secondo un’accezione più ampia “un processo di bu-
siness è una serie di passi per realizzare un prodotto o fornire un servizio” (Brache e Rummler, 1990: 50), o,
similmente “una serie di attività che hanno un input, aggiungono valore ad esso e realizzano un output” (Har-
rington, 1990: 32). Una terza prospettiva enfatizza il ruolo dell’orientamento ai processi nella produzione di
valore per il cliente. In questa ottica Hammer (1995: 82) sostiene che “il processo è un insieme di attività che
utilizzano uno o più tipi di input e crea un output che ha valore per il cliente”, Scheer (1993: 26) afferma “il pro-
cesso è costituito da una serie di relazioni cliente-fornitore che produce un ben definito risultato in un determi-
nato processo”; Johansson, Mchugh, Pendlebury e Wheeler (1994: 59) affermano che “la trasformazione che
avviene (…) dovrebbe aggiungere valore all’input e generare un output che sia maggiormente utile ed efficace
per il destinatario, sia esso a monte o a valle”; infine, Armistead e Rowland (1996: 39) sostengono che: “i pro-
cessi formano delle reti in cui le attività di un certo processo servono ad aggiungere valore agli input derivati
dal processo precedente”.

318
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

Figura 9.2 Elementi base di un processo

RISORSE

INPUT PROCESSO OUTPUT

VINCOLI

Fonte: nostra elaborazione da Davenport, 1995

È importante che gli obiettivi del singolo processo siano misurabili attraverso
indicatori di performance quantitativi e qualitativi che valutino le condizioni
di efficienza ed efficacia in cui esso è svolto.
Come anticipato, un processo è composto da più attività che sono colle-
gate tra loro. Ogni attività è caratterizzata da un costo, un tempo di svolgi-
mento, un certo livello di qualità dell’output. Se questi tre elementi sono valu-
tati per tutte le attività che compongono un processo otteniamo una misura
dell’efficacia e dell’efficienza con cui si svolge il processo stesso.
In un’ottica di processo è importante riuscire a distinguere tra attività
che agli occhi dei clienti creano valore per il prodotto/servizio (attività “a valo-
re aggiunto”), e attività che, sempre agli occhi del cliente, non concorrono alla
produzione del valore dell’output attività “a valore aggiunto” o “a non valore
aggiunto”. Questo in modo tale da cercare di comprimere tempi e costi delle
attività che non sono decisive nel processo di creazione del valore.
I principali caratteri di un’organizzazione process driven possono essere
così individuati:

• la progettazione dell’organizzazione del lavoro ha come riferimento i


processi;
• l’individuazione, per ogni processo, di un responsabile (process ow-
ner), con compiti di coordinamento e controllo delle attività afferenti
alle varie funzioni coinvolte;

319
Lineamenti di organizzazione aziendale

• il lavoro è organizzato prevalentemente in team, nell’ambito dei qua-


li è chiaramente individuato un responsabile del raggiungimento di
obiettivi parziali di processo;
• le scelte di organizzazione del lavoro si orientano ad un empower-
ment a livello individuale e di gruppo;
• i livelli gerarchici sono ridotti al minimo e vi è un ridotto peso della
gerarchia, nel senso che trovano ampio spazio modalità non gerar-
chiche di coordinamento e controllo.

La letteratura manageriale e organizzativa offre molteplici criteri di classifica-


zione dei processi organizzativi. Una prima classificazione è quella proposta
da (Earl e Khan, 1994), dove il criterio prevalente è la categoria di cliente
(esterno o interno) destinatario dell’output. Sulla base di questo criterio si pos-
sono distinguere processi:

• core, che impattano direttamente sulla soddisfazione del cliente


esterno;
• di network, che si estendono oltre i confini dell’azienda la catena for-
nitori-clienti;
• di supporto, che hanno come clienti interni i processi core;
• di management, con i quali vengono pianificate, gestite e controllate
le risorse.

Un’elaborazione di tale classificazione porta ad individuare due macro-


categorie di processi: processi primari, che producono un risultato per il cliente
esterno e quindi hanno un impatto sul risultato di business per l’azienda (es.
progettazione, produzione, vendita); e processi secondari i quali, pur non pro-
ducendo direttamente un risultato per l’esterno sono essenziali per il funzio-
namento dell’organizzazione (es. amministrazione, gestione del personale, ma-
nutenzione impianti).
Una seconda classificazione è quella proposta da Davenport e Short
(1990), che utilizzano tre differenti criteri:

• unità (o sotto-unità) organizzative coinvolte. Si distinguono processi


inter-organizzativi che interessano più aziende (è il caso dei c.s. “cicli
dell’ordine”, al fornitore o dal cliente), interfunzionali che coinvol-
gono diverse funzioni della stessa azienda (un tipico esempio è il
processo di sviluppo dei nuovi prodotti, che però in alcuni casi può
anche assumere una configurazione inter-organizzativa), interperso-

320
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

nali che coinvolgono più persone all’interno di funzioni o unità or-


ganizzative;
• oggetto sottoposto a trasformazione. La natura del processo è in-
fluenzata a seconda che siano sottoposti a trasformazione beni fisici
o informazioni;
• tipologia di attività svolta, che può essere di tipo operativo (ad es.:
evasione dell’ordine) o manageriale (ad es.: revisione del budget).

È pacifico affermare che i processi aziendali “tagliano trasversalmente” le


strutture organizzative in quanto necessitano del contributo di diverse unità
funzionali. Nella maggior parte dei casi un processo attraversa più funzioni o
analogamente più funzioni concorrono alla realizzazione di un unico processo.
La trasversalità del processo può riguardare non solo più funzioni, essi
possono assumere addirittura un carattere interorganizzativo, non devono ne-
cessariamente “fermarsi” ai confini istituzionali dell’azienda. É opportuno che
i fornitori “entrino” direttamente nei processi nei quali sono coinvolti, defi-
nendo e condividendo i livelli attesi di qualità delle forniture ed i tempi di con-
segna. L’applicazione sistematica di questo principio consente dunque un af-
fievolimento dei confini organizzativi che separano l’azienda dai principali in-
terlocutori esterni.
La responsabilità del raggiungimento degli obiettivi di processo è affida-
ta al process owner, che ha il compito di assicurare il perseguimento di adeguati
livelli di efficienza ed efficacia. Egli tiene sotto costante monitoraggio tutte le
fasi del processo al fine di identificare i possibili colli di bottiglia; propone
azioni correttive e migliorative, ne verifica l’applicazione e il buon esito. Il
principio di miglioramento è infatti centrale nella logica di processo.
L’idea di natura sistemica del processo trova concreta applicazione
quando ogni interazione è gestita in modo tale da raggiungere la conformità
dell’output alle specifiche richieste del destinatario. Ogni addetto, o team di
addetti, deve essere consapevole del fatto che l’unità a valle è il suo cliente e
che modi e tempi del suo operato possono avere importanti ripercussioni sulle
performance delle attività successive. Questo permette anche a coloro che for-
malmente si trovano ad operare lontano dal “confine” tra azienda e mercato
ad agire seguendo la logica cliente-fornitore, favorendo così l’identificazione
dei responsabili delle attività che si trovano a valle del loro “cliente interno”
(Kaplan e Murdock, 1991).
Per quanto detto finora, risulta con tutta evidenza come la concreta
realizzazione degli interventi di miglioramento necessiti di un reale coinvol-
gimento e di una effettiva partecipazione delle risorse umane. Presupposto
fondamentale è che tutti i componenti dell’azienda, dal top management ai

321
Lineamenti di organizzazione aziendale

livelli operativi, forniscano un contributo rilevante al raggiungimento degli


obiettivi di processo, indipendentemente dalla loro collocazione gerarchica e
funzionale.
La formalizzazione (e anche la visualizzazione grafica) del processo rap-
presentano un passaggio fondamentale affinché le persone afferenti ad aree ge-
stionali diverse siano indotte a coordinarsi, nella misura in cui si riconoscono
appartenenti al medesimo processo. Per la rappresentazione grafica di un pro-
cesso è possibile ricorrere a numerosi metodi. A titolo esemplificativo ne ripor-
tiamo due: il diagramma a catena e il diagramma di flusso.
Il diagramma a catena (Figura 9.3) è una rappresentazione del processo
suddiviso nelle sue fasi o sotto-processi come una successione di frecce orienta-
te. Sotto ciascuna fase (freccia) è riportata una lista delle attività che la costi-
tuiscono. Il suo utilizzo è particolarmente appropriato per quei processi che
possono essere scomposti in macro-blocchi sequenziali.

Figura 9.3 Diagramma a catena

Fonte: nostra elaborazione

Il diagramma di flusso (Figura 9.4), chiamato anche flow chart, è un grafo in cui
i nodi rappresentano le attività e archi orientati secondo la sequenza cronologi-
ca. Le diverse forme geometriche dei blocchi rappresentano le diverse attività.

322
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

Figura 9.4 Diagramma di flusso

Fonte: nostra elaborazione

9.7. Due approcci verso un’organizzazione per processi

Per identificare correttamente le criticità e i gap esistenti per attuare il miglio-


ramento dei processi critici e prioritari sui quali intervenire è importante fare
riferimento al concetto di valore generato dal processo. Tale concetto, come
già richiamato, è legato al risultato del processo e quindi al valore inteso come
capacità di soddisfare il cliente.
L’analisi del valore può essere eseguita analizzando singolarmente le at-
tività che costituiscono il processo e classificandole in attività a valore aggiun-
to e attività a non valore aggiunto. Con le prime si fa riferimento a quelle atti-
vità che agli occhi del cliente (interno ed esterno) sono ritenute maggiormente
in grado di sviluppare valore per il prodotto/servizio. Con le seconde si fa rife-
rimento a quelle attività che, sempre agli occhi del cliente, non è necessario
svolgere in quanto non concorrono alla creazione di valore e non modificano
la capacità dell’output di soddisfare le esigenze del cliente.
È possibile distinguere due tipologie di intervento di gestione e miglio-
ramento: incrementale e radicale. Il primo è volto al continuo e graduale mi-

323
Lineamenti di organizzazione aziendale

glioramento dei processi (Business Process Improvement, d’ora in avanti BPI),


mentre il secondo è volto al ridisegno dei processi (Business Process Reenginee-
ring, d’ora in avanti BPR).
Questi due approcci sono differenti nei presupposti teorici e negli aspetti
pratici, da scegliere in relazione alla specifica situazione. Rappresentano due
metodologie di intervento ugualmente valide e potenzialmente efficaci, nel sen-
so che conducono in modo diverso a raggiungere significativi miglioramenti
nelle performance, di costo, qualità, e tempi del servizio offerto (Auteri, 2004).
La rilevanza dei risultati attesi è chiaramente diversa a seconda
dell’approccio utilizzato. Ci si aspetta infatti un miglioramento incrementale
delle performance nel caso di azioni di miglioramento dei processi e un miglio-
ramento radicale a seguito di iniziative di reingegnerizzazione.
Il punto di partenza di entrambe le tipologie di miglioramento è costitui-
to dalla mappatura e dalla successiva analisi dei processi aziendali, al fine di
giungere ad una valutazione dell’adeguatezza dei processi in atto. (Davenport,
Short, 1990). L’analisi di ogni singola attività ha come si propone di rimuovere
i vincoli e le criticità che possono ostacolare la piena soddisfazione del cliente,
nonché l’individuazione delle attività a scarso valore, potenzialmente da elimi-
nare.
Esistono due principali motivi che giustificano l’analisi e la misurazione
dei processi: il primo è che i problemi esistenti devono essere compresi per evi-
tare che si ripresentino in futuro; il secondo è che la misurazione dei processi
così come attualmente configurati consente di definire l’entità dei migliora-
menti attesi e dunque la configurazione futura.
Mappatura e analisi dei processi si concludono con l’indicazione di pro-
cessi critici e prioritari e l’identificazione delle necessità di un intervento. Criti-
ci sono definiti quei processi, primari e di supporto, che devono essere gestiti
con particolare attenzione in base a criteri definiti dall’azienda. Prioritari quel-
li sui quali è importante intervenire temporalmente prima degli altri. È inoltre
necessario identificare quali processi generano maggiori inefficienze e si rivela-
no scarsamente efficaci.
È importante tener conto che in questa configurazione organizzativa si
punta a rendere chiare e ben definite le responsabilità di chi gestisce il processo
di trasformazione, finalizzato alla realizzazione di un prodotto/servizio in gra-
do di soddisfare pienamente il cliente finale, ma anche le responsabilità di chi
correda il processo stesso di risorse, know-how, metodi, programmi. Si punta
altresì a valorizzare l’apporto di abilità e conoscenze individuali lungo il ciclo
di generazione del valore.

324
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

9.7.1. L’approccio radicale

Hammer e Champy (1993) propongono il BPR come totale superamento dei


tradizionali principi di divisione del lavoro tra funzioni, allo scopo di realizza-
re un miglioramento dei parametri critici delle prestazioni.
Tra i principali motivi che possono indurre le aziende ad intraprendere
un processo di reingegnerizzazione possono essere individuati:

• pressione competitiva sui mercati di riferimento;


• insoddisfacenti livelli di efficienza, riferiti in primo luogo al grado di
soddisfazione dei clienti;
• burocratizzazione dei processi aziendali;
• scarsa integrazione tra le diverse funzioni.

Il BPR può essere applicato ad una singola funzione (processo intra-


funzionale), a più funzioni o all’intero sistema aziendale (processo interfunzio-
nale). Esso è ritenuto l’approccio migliore allorché nella situazione attuale si
ritiene che apportare modifiche all’attuale configurazione non sia sufficiente
per ottenere significativi miglioramenti. In questi casi la reingegnerizzazione
dei processi è considerata il punto-chiave per il miglioramento
dell’organizzazione e si estrinseca in un insieme di interventi tra loro correlati.
Gli obiettivi perseguiti per il tramite di un intervento di BPR spaziano
dalla volontà di ridurre i costi, che può riguardare anche solo alcuni processi
di supporto, al miglioramento della competitività, attraverso un aumento della
qualità percepita e della soddisfazione dei clienti, al miglioramento della reddi-
tività, alla riduzione della complessità organizzativa e alla semplificazione dei
processi decisionali.
Si può sintetizzare che il BPR implica il totale ripensamento e la radicale
riprogettazione dei processi di business, mediante interventi atti a raggiungere
radicali miglioramenti nelle performance aziendali. Questo avviene senza con-
siderare le procedure esistenti e orientandosi verso modalità di lavoro del tutto
nuove (Hammer e Champy, 1993).
Tale approccio comporta spesso la profonda revisione di metodi, tecni-
che, procedure, modelli organizzativi in vigore da tempo. Vengono messe in
discussione le stesse ragioni che hanno originato un determinato processo.
Molti compiti che in precedenza sono distinti possono adesso essere integrati e
combinati in uno solo attraverso una compressione orizzontale e verticale dei
processi, laddove con il primo termine si fa riferimento alla minore frammen-
tazione e alla ricomposizione del flusso di lavoro, mentre con il secondo ci si
riferisce al fatto che momento dell’esecuzione e momento della decisione ven-

325
Lineamenti di organizzazione aziendale

gono spesso riuniti in capo a singoli addetti o team di lavoro, in maniera non
dissimile dalle pratiche di arricchimento.
L’attuazione del BPR ha in genere come conseguenze un appiattimento
della struttura gerarchica e l’intensificazione del ricorso a gruppi di lavoro in-
terfunzionali dove a compiti di esecuzione si sommano compiti di valutazione
e controllo, con l’attribuzione al team della responsabilità diretta dei risultati
conseguiti.
Ripensare da zero l’azienda significa scomporla nei suoi processi-chiave
che vengono disegnati con un costante riferimento al cliente e attraverso il
confronto con le esperienze realizzate da altre aziende, nella logica di bench-
marking. La struttura organizzativa non è assunta come vincolo, in quanto
tutto è messo in discussione ed il cambiamento può avere contestualmente ad
oggetto struttura, meccanismi operativi e cultura aziendale, determinando un
fabbisogno anche rilevante di nuovi ruoli e nuove competenze. Ogni attività e
operazione deve essere rivista partendo da un “foglio bianco”.
Il cambiamento può avere altresì ad oggetto le modalità di interazione e
relazione con fornitori e clienti, soprattutto se essi sono coinvolti nella realiz-
zazione di un determinato progetto o nell’ideazione di un nuovo prodotto
(Racheli e Perrone, 1995). Per questi motivi il BPR difficilmente può attuarsi
con successo in tempi brevi e non è possibile individuare una one best way.
Le logiche di riprogettazione aziendale alla base delle tecniche di BPR
conducono dunque ad una nuova struttura organizzativa in cui emergono tre
elementi (Ceppatelli, 2000):

• la sequenza principale di attività che trasformano input in output


(processo primario);
• la gamma dei processi che svolgono attività di supporto al processo
principale (processi secondari);
• la gamma di funzioni orientate alla gestione dei processi di supporto.

Nella struttura per processi non è prevista la doppia dipendenza gerarchica,


infatti, ogni operatore dipende gerarchicamente soltanto dal responsabile del
processo e viene valutato per il contributo agli obiettivi di processo.
La logica che sta alla base del cambiamento nel BPR è di tipo top-
down, in quanto la direzione aziendale è coinvolta non solo nella scelta delle
soluzioni organizzative, ma anche nella fase di “incubazione” delle iniziative
e nella verifica di coerenza tra obiettivi dichiarati nel processo di reingegne-
rizzazione, obiettivi fissati, risorse disponibili e investimenti necessari. So-
prattutto è importante che la direzione aziendale rappresenti il motore del
cambiamento. Questo significa mettersi in gioco in prima persona nella defi-

326
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

nizione e degli obiettivi strategici, nel sostenere le iniziative, nel controllare


l’avanzamento delle attività e nel comunicare, orientare e gestire corretta-
mente il cambiamento.
Nel corso degli anni il reengineering ha raggiunto una rilevante popolarità
nel mondo aziendale. I significativi miglioramenti prospettati a seguito di questo
tipo di intervento, uniti all’evidenza di numerosi casi di successo, debitamente
enfatizzati dalla letteratura manageriale e organizzativa, hanno stimolato il ma-
nagement ad applicare tale metodologia, specialmente in momenti di profonda
sofferenza dei risultati aziendali. Non vanno tuttavia taciuti alcuni aspetti con-
nessi ad interventi di questo genere in quanto quando in un’azienda viene ripen-
sata in modo da disegnare i processi. Viene ripensato radicalmente il modo di
operare come attività che consente il miglioramento delle prestazioni.

Quadro 9.5 Risultati del BPR

I progetti BPR realizzati dai consulenti di Berenschot hanno riportato i seguenti risultati:
98% affidabilità nella consegna
70% riduzione dei tempi di consegna degli ordini
60% di riduzione del livello di rimanenze
50% di riduzione di manodopera indiretta
25% di aumento dei ricavi
Fonte: nostra rielaborazione da Berenschot (2018)

Tra le maggiori critiche mosse nei confronti dell’approccio radicale vi è la ten-


denza ad azzerare vecchie strutture e processi; rinnegare quanto appreso e fat-
to in passato è tra l’altro difficilmente giustificabile agli occhi dei dipendenti.
Vi è inoltre da considerare come in più di una circostanza le pratiche di reinge-
gnerizzazione, anziché favorire motivazione ed impegno crescenti da parte dei
dipendenti, hanno incontrato resistenze dovute alle incertezze sul nuovo modo
di lavorare e alla ridefinizione del contenuto di alcuni ruoli, soprattutto quelli
collocati lungo la catena gerarchica tradizionale.

9.7.2. L’approccio moderato

L’approccio moderato (BPI) è una metodologia volta ad ottenere maggiore ef-


ficienza e flessibilità del processo attraverso la semplificazione delle attività e
l’eliminazione degli sprechi e delle fasi di lavoro che non apportano valore ag-
giunto (Danvenport, 1992).
Tale approccio si esplica nella razionalizzazione dei processi esistenti
mediante l’analisi delle attività e l’individuazione degli sprechi. Il cambiamento
si realizza in modo graduale, per piccoli passi, con un approccio che in genere

327
Lineamenti di organizzazione aziendale

è contemporaneamente dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto.


L’intervento si configura come miglioramento incrementale nei modi di lavo-
rare, interagire, coordinarsi, ma non apporta, in genere, significative modifiche
all’assetto organizzativo in essere.
Gli obiettivi perseguiti attraverso un intervento di BPI possono riguar-
dare l’eliminazione degli sprechi presenti nell’organizzazione, la riduzione i
tempi di attraversamento dei singoli processi, lo sviluppo della conoscenza svi-
luppata e detenuta dal processo e in generale dall’azienda, con la finalità ulti-
ma di ampliare il parco clienti e rafforzarne la fedeltà all’azienda.
Questa tipologia di approccio è appropriata nelle organizzazioni dove
sono assenti le condizioni di emergenza (imputabili a crisi economica, crisi fi-
nanziaria) nelle quali la gestione dei processi presenta margini di recupero di
efficienza, senza poter essere considerata del tutto inadeguata. L’approccio in-
crementale non presuppone alcun riorientamento strategico da parte
dell’azienda. L’ampiezza ed il numero di processi coinvolti sono variabili. Non
necessariamente tutti i processi sono oggetto di interventi di miglioramento.
In maniera non dissimile da quello radicale, l’approccio incrementale
prevede una minuziosa analisi della situazione attuale, che può essere condotta
tanto dal management, in una logica top-down, quanto dai ruoli operativi
coinvolti nel processo, in una logica bottom-up. L’analisi dei processi ha lo
scopo di valutare attentamente il grado di adeguatezza degli elementi del pro-
cesso in relazione alle aspettative dei clienti e alle performance dei concorrenti.
In particolare, i passaggi da effettuare sono volti a (Danvenport, 1992):

• definire i confini (inizio e fine del processo) e identificazione di ruoli


e responsabilità del progetto di miglioramento, la cui responsabilità
è in genere affidata ai process owner dei singoli processi;
• descrivere e rappresentare il processo: il flusso di lavoro è documen-
tato con supporti descrittivi e grafici per fornire informazioni a colo-
ro che vi partecipano;
• progettare un efficace sistema di controllo, che consenta di misurare
le prestazioni raggiunte in termini di qualità, costo, livello di servi-
zio, fornendo un feedback appropriato per guidare le azioni corretti-
ve;
• individuare le operazioni che non producono valore aggiunto e, con-
seguente, valutare in merito alla loro semplificazione o eliminazione;
• individuare le aree di possibile miglioramento e valutare azioni e in-
terventi specifici.

328
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

I punti di forza di questo approccio si possono riassumere essenzialmente nella


gradualità degli interventi e nel capillare coinvolgimento dei livelli operativi.

9.7.3. Una scelta ponderata

Dopo aver esaminato le caratteristiche comuni e quelle distintive


dell’approccio incrementale e di quello radicale è importante domandarsi cosa
orienta la scelta. Non è corretto affermare che una modalità sia in assoluto più
efficace dell’altra. In Tabella 9.1 si riporta una comparazione esemplificativa
tra i due approcci.

Tabella 9.1 BPI e BPR a confronto (nostra elaborazione)

BPI BPR
Grado di cambiamento Incrementale Radicale
Punto di partenza Attuale processo Foglio bianco
Frequenza Continuo One time
Tempo di realizzazione Breve periodo Medio periodo
Coinvolgimento Bottom-up Top-down
Dimensione intervento Funzionale Interfunzionale
Rischio Moderato Alto
Abilitatore principale Misure, strumenti Tecnologia informatica
Tipologia di cambiamento Procedurale Culturale

La scelta si effettua valutando le specificità della situazione concreta, in rela-


zione a che cosa ha originato il fabbisogno di cambiamento e al grado di ade-
guatezza dell’attuale configurazione dei processi organizzativi rispetto agli
obiettivi prefissati.
Talvolta un’azienda preferisce percorrere la strada dell’intervento incre-
mentale poiché ritiene di non trovarsi in una situazione di urgenza, nella quale
siano già presenti sintomi di crisi economica o sollecitazioni provenienti dal
mercato e dai concorrenti che impongono risposte radicali ed immediate. La
scelta dell’approccio radicale è spesso imposta dalle situazioni di crisi in atto o
percepite come imminenti; in questo caso la reingegnerizzazione è ritenuta ne-
cessaria per poter supportare meglio la strategia aziendale.
Spesso la scelta tra i due approcci tiene conto delle possibili forme di re-
sistenza a cui potrebbe dare origine; vanno dunque stimati i costi di gestione
del cambiamento nella realtà specifica, cercando di compararli con i benefici
attesi. Non bisogna infatti dimenticare che l’adozione di un approccio per pro-
cessi è un momento delicato per l’azienda in quanto non impatta solo sul mo-
do di lavorare ma anche sulla cultura organizzativa.

329
Lineamenti di organizzazione aziendale

È possibile che in una stessa azienda coesistano progetti di reengineering


e progetti di miglioramento dei processi. In questo caso, tra i diversi progetti
può instaurarsi una relazione di complementarietà o di sequenzialità. Nel pri-
mo caso gli interventi perseguono il miglioramento della performance facendo
leva su azioni che hanno differenti tipi di impatto e che si rinforzano vicende-
volmente. Il secondo caso si verifica o perché si esaurisce l’entusiasmo iniziale,
o perché si manifestano vincoli e resistenze al cambiamento che suggeriscono
di procedere con un approccio più “morbido”, infine perché dopo un cambia-
mento radicale si manifesta il bisogno di successivi aggiustamenti incrementali,
al fine di assicurare un mantenimento costante delle performance dei processi.
In questo modo può avere origine la possibilità che si crei un circolo vir-
tuoso tra i diversi momenti e modalità di intervento sui processi, osservabile
nel medio-lungo periodo come complessivo processo di trasformazione orga-
nizzativa dell’azienda.

9.8. Orientamento ai processi: implicazioni sulla progettazione

Il passaggio ad un’organizzazione per processi implica anzitutto un cambia-


mento delle regole di legittimazione delle unità organizzative e delle regole ne-
goziali all’interno e all’esterno dell’azienda (Auteri, 2004). In particolare, nel
modello per processi viene meno il principio che un’unità funzionale esiste in
quanto legittimata a concorrere al prodotto finale. Adottare una logica per
processi implica infatti il superamento della separazione delle attività fondata
sul principio delle affinità tecniche (Jones, 2004).
Se nella logica tradizionale gli interventi sull’organizzazione erano prin-
cipalmente focalizzati sulle attività svolte all’interno delle singole funzioni e
l’enfasi era sul raggiungimento di obiettivi funzionali, oggi essi si rivolgono
sempre più spesso a migliorare l’organizzazione dei processi.
Un’azienda che considera i processi l’unità organizzativa di riferimento
non esclude tuttavia il mantenimento delle unità funzionali, quali depositarie
di saperi specialistici e luogo di processi di apprendimento (Mintzberg, 1999).
Questo significa sia che le aziende le cui strutture sono disegnate attorno ai
processi possono prevedere il mantenimento delle funzioni, sia che le strutture
aziendali articolate per funzioni possono operare nella logica dei processi.
Nel primo caso l’azienda assume una struttura orizzontale simile ad una
catena, in cui ogni attività è collegata a quella a monte e a quella a valle in
un’ottica di cliente/fornitore interno. La struttura in genere assume questa
forma a seguito di un intervento radicale di reingegnerizzazione dei processi.
Ai process owner è assegnata piena autorità sui rispettivi processi, l’enfasi è sul
fronteggiamento delle interdipendenze di flusso, mentre ai manager funzionali

330
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking

è lasciata ampia autonomia nella gestione delle rispettive risorse in una logica
di supporto e collaborazione con i responsabili di processo.
Nel secondo caso, che prevede il mantenimento di una forma funzionale
di macrostruttura, la tradizionale articolazione per funzioni, e delle funzioni,
coesiste con l’organizzazione per processi. Per questo motivo al process owner
non può essere assegnata un’autorità “piena” sul processo; in questo caso egli
rappresenta soprattutto una figura di coordinamento tra le varie funzioni
coinvolte con l’obiettivo di favorire la creazione di valore lungo il processo. Vi
è un’attenzione bilanciata al fronteggiamento delle interdipendenze di flusso e
a quelle di costo. Questa forma strutturale di norma è il risultato di un approc-
cio moderato all’organizzazione per processi, che punta sulla modifica e
l’integrazione delle strutture esistenti.
Alla luce di quanto appena detto, le implicazioni in termini di progetta-
zione organizzativa dell’adozione della logica per processi variano a seconda
dell’effettivo orientamento e del contenuto del cambiamento, cioè della distan-
za tra l’attuale configurazione dei processi (as is) e di quella che si intende rea-
lizzare (to be).
In generale, l’adozione di un orientamento ai processi può determinare
la necessità di “mettere mano” all’articolazione della macrostruttura, alla con-
figurazione dell’organizzazione del lavoro, così come l’opportunità di perse-
guire un diverso bilanciamento tra modalità gerarchiche e non gerarchiche di
coordinamento e controllo.
Per quanto riguarda l’articolazione verticale della struttura organizzati-
va aziendale, la riduzione del numero dei livelli gerarchici, pur non essendo ne-
cessariamente collegata ad una riorganizzazione nell’ottica di processo, è in
grado di favorirla e sostenerla, soprattutto se originata da processi di arric-
chimento delle mansioni e quindi di ampliamento dei margini di discrezionalità
degli addetti.
La modifica dell’articolazione orizzontale può consistere
nell’accorpamento di alcune unità funzionali, in modo da ridurre il fabbisogno
di coordinamento a monte. Storicamente, un esempio ricorrente è dato dalla
costituzione della funzione logistica, come risultato dell’aggregazione di unità
dedicate alla gestione dei magazzini (materiali, componenti, semilavorati e
prodotti finiti), ai trasporti interni, alla progettazione del layout degli stabili-
menti, e via dicendo.
Per ciò che concerne l’organizzazione del lavoro, per poter valutare
l’entità dei cambiamenti necessari a supporto dell’organizzazione per processi
è necessario considerare:

331
Lineamenti di organizzazione aziendale

• il tipo di approccio (tipo top-down o bottom-up) utilizzato nel pas-


saggio alla logica per processi; nel caso di approccio bottom-up, in-
fatti, è fondamentale l’apporto di tutti gli addetti che sono a vario ti-
tolo coinvolti nelle attività lungo il processo, in termini di capacità di
analisi dell’esistente, rilevazione degli ambiti di miglioramento, pro-
posta di modifiche dei processi di lavoro;
• le caratteristiche di partenza della microstruttura del lavoro; quanto
più l’organizzazione del lavoro esistente è ancorata ad un uso esclu-
sivo o prevalente del controllo e del coordinamento gerarchici, tanto
più sarà necessario procedere ad un arricchimento delle mansioni,
ampliando i margini di discrezionalità e sviluppando adeguate capa-
cità e attitudini a supporto di forme non gerarchiche di coordina-
mento e controllo, ritenute più adatte ad una struttura che si orienta
alla gestione dei processi.

Tra gli interventi più frequenti, in tema di organizzazione del lavoro, vi è il po-
tenziamento del ruolo dei team di lavoro (si veda il capitolo 5). In particolare,
la costituzione di team interfunzionali può giocare un ruolo fondamentale ri-
guardo alla possibilità di gestire l’interdipendenza reciproca attraverso forme
di coordinamento non gerarchiche focalizzate sul mutuo adattamento e facili-
tate dall’identificazione con il team di appartenenza e da relazioni ispirate alla
fiducia reciproca. La logica del teamwork consente altresì di sviluppare com-
petenze condivise e di rendere più efficaci i flussi di informazione.
A livello individuale, l’adozione di un approccio per processi può rende-
re opportuno, se non necessario, adeguare capacità e attitudini delle persone
coinvolte, al fine di rafforzare l’efficacia del coordinamento lungo il processo e
stimolare iniziative di miglioramento dal basso. Questo è vero in particolare
allorché, coesistendo funzioni e processi, tanto ai manager funzionali quanto
ai manager di processo è richiesto di rafforzare capacità di coordinamento re-
ciproco, di negoziazione, ma soprattutto di sviluppare la necessaria attitudine
a condividere l’autorità ed a gestire congiuntamente le attività operative azien-
dali.

332
10 La progettazione organizzativa nella piccola
e media impresa
di Sara Sassetti e Mariacristina Bonti

10.1. La dimensione: una variabile poliedrica – 10.1.1. La dimensione nella teoria or-
ganizzativa – 10.1.2. La progettazione nell’azienda “minore” – 10.2. Le caratteristi-
che della struttura elementare – 10.2.1. La dimensione interna della struttura elemen-
tare: il grado di accentramento decisionale – 10.2.2. La dimensione esterna della strut-
tura elementare: la scelta del network organizzativo – 10.3. Le configurazioni della
struttura elementare – 10.3.1. La struttura elementare gerarchico-imprenditoriale –
10.3.2. La forma artigiana – 10.3.3. Il gruppo di pari – 10.3.4. Il distretto

333
Lineamenti di organizzazione aziendale

10.1. La dimensione: una variabile poliedrica 1

L’analisi sinora svolta ha messo in evidenza quelli che sono due tra i principali
fattori che influenzano le scelte di progettazione organizzativa: le strategie e la
dimensione. Tali fattori possono operare separatamente, spesso tuttavia agi-
scono in maniera combinata, incrementando la complessità organizzativa da ge-
stire.
Focalizzando l’attenzione sul secondo, abbiamo visto in generale come la
problematica organizzativa tenda a palesarsi solo quando l’azienda raggiunge
di una “certa” dimensione, non quantificabile con precisione a priori: accanto a
quella finanziaria ed economica, si rende necessario mettere mano anche alla
questione organizzativa, individuando un possibile “ordine” per lo svolgimento
delle diverse attività, insieme ad adeguate condizioni di funzionamento per il
sistema aziendale.
Ma cosa si intende per dimensione? E a quale dimensione intendiamo fare
riferimento? Sono queste domande alle quali non è possibile dare una risposta
univoca: la questione dimensionale costituisce ancora uno dei temi caldi all’in-
terno del dibattito scientifico.
Di norma, la dimensione aziendale viene individuata facendo riferimento
ad un set di parametri, che possono essere di natura economica (volume di fat-
turato, valore aggiunto); patrimoniale (capitale investito, capitale fisso, capitale
circolante, capitale proprio); tecnica (potenzialità impianti, numerosità unità
produttive, quantità prodotti); organizzativa (numero addetti, numero livelli di-
rettivi, esecutivi).
Questi parametri vengono utilizzati per distinguere “classi” diverse di
aziende, in particolare per identificare l’universo delle piccole o delle medie im-
prese: è con riferimento a queste aziende, che costituiscono come noto la spina
dorsale del nostro sistema economico, che la questione dimensionale sembra as-
sumere maggiore rilevanza.
Non di rado, il fatto che siano “piccole”, con un organico formato da un
numero ridotto di dipendenti, induce a pensare che la problematica insieme ge-
stionale ed organizzativa sia nel complesso semplice e possa essere considerata
una “variazione di scala” di quella riscontrabile nelle aziende di grande dimen-
sione. In realtà, più che al numero degli elementi, fattori, variabili da pren-
dere/non prendere in considerazione, occorre prestare attenzione soprattutto
alle capacità di assicurare una loro efficiente ed efficace gestione. Non è detto
quindi che la problematica gestionale ed organizzativa delle piccole e medie im-
prese sia “per definizione” caratterizzata da un livello di complessità inferiore
rispetto alla grande impresa (Padroni, 2008): la mancanza di più solide basi di

1
Di Mariacristina Bonti.

334
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

conoscenza manageriale, quindi di adeguati metodologie per valutare le proprie


esigenze e prendere decisioni non estemporanee (Miolo Vitali, 1993), il limitato
sviluppo di competenze organizzative e di strumenti, cognitivi e tecnici, atti a
sostenere e rafforzare la propria competitività accentuano le difficoltà incon-
trate nella gestione di queste imprese.
A tal fine, ciascun indicatore proposto mostra limiti di significatività, che
non sono superati neppure a seguito di un loro utilizzo combinato: essi forni-
scono, infatti, una descrizione “statica” e “quantitativa” del sistema aziendale.
Per comprendere la specifica natura e la complessità di queste realtà (ma più in
generale, del sistema azienda), le loro concrete modalità operative, le problema-
tiche ed esigenze di funzionamento, il riferimento a parametri oggettivi appare
del tutto insufficiente: risultano al contrario necessari l’individuazione, l’osser-
vazione e la comprensione di fenomeni più squisitamente qualitativi, che atten-
gono alla manifestazione delle dinamiche gestionali e organizzative.
Il termine dimensione può avere quindi il significato di “misura” (parame-
tro, proporzione, volume, entità), ma anche di “estensione” (grandezza, lun-
ghezza, larghezza, altezza, superficie), presentando pertanto una connotazione
spaziale. Da questo punto di vista (Costa, Gubitta, Pittino, 2014), si può osser-
vare come le variazioni della dimensione possono comportare una crescita delle
unità organizzative esistenti o del loro numero, ma anche un aumento delle re-
lazioni tra organizzazioni, creando un spazio “sociale” di interazione tra
aziende.
Ciò induce ad interrogarci su quali possono essere i criteri di misurazione
della dimensione aziendale. Sempre di meno, infatti, la dimensione aziendale
“rilevante” ai fini delle scelte organizzative può essere identificata dal solo
campo di esercizio del controllo gerarchico, quindi ricondotta e rinchiusa all’in-
terno di un perimetro formale. Ciò che assume crescente importanza è al contra-
rio il raggio di azione esercitabile dall’autorità, dal controllo e dall’applicabilità
di certe conoscenze: la trama delle relazioni informali, la capacità di accedere
(Rifkin, 2000; Bonti, Cori, 2006) a conoscenze, competenze, informazioni, in
sostanza persone, l’esistenza di un articolato intreccio di legami di interdipen-
denza meno evidenti e più facilmente sfuggenti. Tanto più il sistema aziendale è
improntato all’idea dell’accesso alle conoscenze, tanto più complessi risulte-
ranno i processi decisionali e di controllo e maggiore l’attenzione da prestare
alle politiche di organizzazione del lavoro per orientare i comportamenti verso
gli obiettivi organizzativi.
La dimensione assume ancora il significato di “caratteristica”, quindi ri-
sultato di una qualità che è delle risorse (tutte), delle competenze, dei comporta-
menti, degli orientamenti, delle scelte organizzative e della loro combinazione,

335
Lineamenti di organizzazione aziendale

traducendosi in maggiore o minore solidità del fenomeno aziendale. La dimen-


sione, sotto questo profilo, presenta allora una connotazione temporale: è in-
dubbio che le variazioni di dimensione si sviluppano nel tempo, apportando alle
caratteristiche del sistema organizzativo modifiche e cambiamenti che non ne-
cessariamente si presentano come allineate, potendo alcune parti adeguarsi più
rapidamente, altre più lentamente.
Le variazioni di dimensione si presentano in definitiva come fenomeni che
alterano qualitativamente gli equilibri interni al sistema sociale. Nessun indica-
tore è in grado di sintetizzare il complesso delle situazioni qui tratteggiate e le
implicazioni sotto il profilo della loro gestione, con specifico riferimento alla
capacità dell’azienda di fronteggiarle prontamente ed efficacemente. Una stessa
dimensione può, pertanto, essere raggiunta da un’azienda lungo percorsi del
tutto fluidi e lineari, da un’altra a seguito di traiettorie contorte e tentativi per
prova ed errore. La prima può mostrare un’elevata capacità gestionale ed orga-
nizzativa di sostenere la nuova dimensione, essere fortemente orientata all’inno-
vazione su scala mondiale, capace di tessere importanti relazioni con centri di
ricerca ed università, occupando una posizione strategica all’interno di com-
plessi network inter-aziendali. La seconda al contrario si può trovare costante-
mente “con l’acqua alla gola” sul piano delle valide scelte manageriali, essere
un’azienda matura, che sopravvive all’interno del proprio settore, occupando
posizioni marginali.
Qualunque sia il parametro individuato per “misurare” la dimensione di
queste aziende, si può intuire la parzialità delle informazioni che esso da solo
può fornire e si comprendere come, nei due casi, diversa possa essere la proble-
matica organizzativa da affrontare, indistintamente a livello macro e micro.
Tali riflessioni mettono in evidenza complessità e multidimensionalità del
fattore dimensione e inducono a sposare la posizione di chi ha definito la dimen-
sione “una sensazione” (Ricci, 1967), vale a dire un fenomeno che va percepito
mediando il dato reale e la sua rappresentazione, al fine di arrivare ad una forma
più completa della conoscenza. È ciò che di fatto possiamo ricavare dalla stessa
distinzione che si è venuta affermando in letteratura tra i concetti di “crescita”
quantitativa e di “sviluppo” qualitativo della piccola e media impresa, concetti
che nella dinamica evolutiva di queste aziende qualificano condizioni ben di-
verse, seppure complementari.
Ma allora, ha senso cercare di delimitare in qualche modo il concetto di
dimensione? La risposta non può che essere positiva.
Convenzionalmente, sono considerate piccole e medie le imprese che
hanno più di 20 ma meno di 250 dipendenti. Più in particolare, in base alla Rac-
comandazione 2003/361/CE del 6 maggio 2003 e al decreto del Ministro dello
Sviluppo Economico del 18 aprile 2005, si possono distinguere quattro classi di
imprese: le micro, le piccole, le medie e le grandi.

336
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

Le micro imprese hanno meno di 10 occupati e realizzano un fatturato


annuo o un totale di bilancio annuo inferiore a 2 milioni di euro; le piccole im-
prese hanno meno di 50 occupati e un fatturato annuo non superiore a 7 milioni
di euro o un totale di bilancio annuo non superiore a 10 milioni di euro; le medie
imprese hanno meno di 250 occupati e realizzano un fatturato annuo non supe-
riore a 50 milioni di euro oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 43
milioni di euro; le grandi imprese sono quelle che superano tali limiti.
L’utilità dell’individuazione di questi valori di riferimento va individuata
nell’indicare soglie dimensionali al di sopra e al di sotto delle quali i tratti carat-
teristici della gestione e dell’organizzazione aziendale rischiano di perdere pro-
gressivamente la loro significatività. Al di sotto del limite inferiore “per l’incon-
sistenza dei problemi organizzativi all’interno di realtà che, si presume, vengono
ad assumere carattere artigianale”; al di sopra del limite superiore, “per l’insor-
gere di questioni e criticità che sono più tipica espressione della grande dimen-
sione”. (Bonti, 2012: 13).
Permane tuttavia la perplessità di questa logica per classi, non in grado di
dare evidenza alla grande varietà delle situazioni che si possono riscontrare
all’interno di ciascuna classe e alla correlata complessità delle singole realtà.

10.1.1. La dimensione nella teoria organizzativa

La questione dimensionale si affaccia tardivamente negli studi organizzativi, che


nascono e si sviluppano, da Taylor in poi, avendo quale oggetto di studio la
grande impresa industriale, nata con la seconda rivoluzione industriale.
Il contesto teorico all’interno del quale matura una riflessione puntuale e
sistematica nei confronti anche della variabile dimensione è quello del filone
delle contingenze organizzative (si rinvia al riguardo al capitolo II), che studia
una serie di condizionamenti che specifiche situazioni – relative ad ambiente,
tecnologia, strategia, dimensione, e infine cultura - esercitano sulle modalità se-
condo le quali un’azienda organizza al proprio interno il complesso delle attività
da svolgere.
Gli studi di Chandler (1963) sul rapporto strategia-struttura costituiscono
un primo riferimento obbligato (vedi Box 1.1.). Adottando una prospettiva di
analisi storica e ricorrendo ad un’interpretazione evoluzionistica della dinamica
della grande impresa americana, l’autore mostra come le strutture organizzative
siano una funzione storica delle loro strategie di sviluppo (Bonazzi, 2000): le
strategie aziendali, via via elaborate come risposta a stimoli ed opportunità am-
bientali e tecnologiche, comportano un mutamento delle forme organizzative,
strutturalmente e funzionalmente molto più complesse e differenziate tra loro,
congiuntamente ad un progressivo aumento delle dimensioni aziendali. Lungo

337
Lineamenti di organizzazione aziendale

questo percorso evolutivo, le aziende da piccole approdano alla grande dimen-


sione.

Box 1.1 Il modello strategia-struttura di Chandler

Il modello analitico di Chandler trova la sua originaria elaborazione in relazione all’analisi storica delle
grandi imprese statunitensi (come Dupont e General Motors), anche se riscontri e conferme sono
derivate da analoghe ricerche condotte successivamente in vari paesi europei. Il percorso strategico-
organizzativo (Coda, 1973) seguito delle imprese si articola in quattro tappe: una strategia mono-pro-
dotto, caratterizzata da un’espansione del volume di produzione in un solo ramo di attività ed in una
limitata area geografica, e una struttura organizzativa elementare, imperniata su un solo centro deci-
sore; una strategia incentrata su una linea articolata di prodotti, con allargamento dell’area geografica
di azione, e una struttura organizzativa funzionale, articolata in unità centrali e periferiche, con caratte-
ristiche sostanzialmente meccaniche; una strategia di integrazione verticale ed una struttura organiz-
zativa burocratico-funzionale a line e staff; infine, una strategia di diversificazione, con linee di prodotto
anche non correlati tra loro per aspetti tecnologici e di mercato ed una espansione territoriale nazionale
ed internazionale, e una struttura organizzativa multi divisionale, per prodotto o area geografica.
L’evolversi degli indirizzi strategici e delle condizioni di sviluppo è seguito pertanto da adeguamenti
della forma organizzativa, come conseguenza di un’accresciuta complessità insieme gestionale e ope-
rativa che impatta sulle dimensioni complessive dell’impresa. Tuttavia, questa evoluzione non ha ri-
svolti solo di ordine organizzativo e tecnico: la crescita, comporta infatti anche la necessità di elaborare
nuovi metodi e logiche gestionali e di definire diversi assetti relazionali e di potere.

La conclusione cui pervengono questo ed altri studi successivi (Scott, 1971),


compresi quelli riconducibili al c.d. filone delle teorie del ciclo di vita o degli
stadi evolutivi delle imprese (Steinmetz, 1969; Greiner, 1972; Kroeger, 1974;
Churchill, Lewis, 1983; Scott, Bruce, 1988), è che la minore dimensione costitui-
sca una “tappa”, quindi un momento temporaneo e un fenomeno transitorio,
all’interno di un inevitabile, necessario, obbligatorio ed universale (perché valido
per qualsiasi tipo di azienda a prescindere da qualsiasi fattore) percorso di cre-
scita dimensionale (Torres, 1997; Marchiori, 2006). All’interno di questo cam-
mino, la piccola impresa non si configura quale realtà autonoma e stabile, do-
vendo assumere comunque, prima o poi, le caratteristiche reputate “normali”
della grande dimensione, pena la sua dissoluzione.
Sono però gli studi della c.d. Scuola di Aston (Pugh et. al., 1963, 1968,
1969), inquadrabili sempre nell’alveo delle teorie contingenti, ad isolare l’effetto
dimensione, dando così origine al filone di ricerche sul rapporto dimensione -
struttura organizzativa. L’indagine condotta da questo gruppo di ricercatori si
pone l’obiettivo di verificare se esistono principi universali di organizzazione, in
quanto tali validi per tutte le aziende, oppure se è il contesto a determinare la
struttura più appropriata (Perrone, 1990). Nel condurre questo importante e

338
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

vasto programma di ricerca, gli studiosi vengono anche a verificare le conclu-


sioni cui era pervenuta Joan Woodward in merito all’esistenza di un “impera-
tivo tecnologico” nella progettazione organizzativa (si rinvia al riguardo al ca-
pitolo III).
Gli studiosi trovano una correlazione forte tra tecnologia e grado di stan-
dardizzazione delle attività, ma una correlazione ancora più elevata della dimen-
sione con la standardizzazione. I risultati raggiunti mettono parzialmente in di-
scussione l’ipotesi dell’imperativo tecnologico, evidenziando l’esistenza di un
“effetto dimensione” che non può essere trascurato. Più in particolare, ciò che
viene messo in risalto è il diverso ruolo giocato dalla variabile tecnologica a se-
conda della dimensione aziendale: la dimensione può infatti stemperare o enfa-
tizzare l’impatto della tecnologia sull’organizzazione.
Così, nelle organizzazioni più piccole, la struttura interna è maggiormente
esposta ai condizionamenti del processo produttivo, col risultato che la tecno-
logia condiziona l’intero assetto organizzativo; l’aumento delle dimensioni cir-
coscrive invece l’influenza della tecnologia alle parti dell’organizzazione che la
utilizzano direttamente (in primis il nucleo operativo).Gli studiosi giungono
dunque alla conclusione che la dimensione è il più importante fattore predittivo
della configurazione organizzativa di un’impresa.

Box 1.2 Gli studi del gruppo di Aston

Verso la fine degli anni ’60, un gruppo di studiosi inglesi guidati da Pugh e Hickson dell’Università di
Aston, Birmingham, proseguendo e perfezionando una ricerca condotta presso l’Università di Chicago,
portò in evidenza una forte varianza delle caratteristiche strutturali spiegabile soprattutto con la dimen-
sione. Il programma di ricerca, articolato in più ricerche successive, si propone, in base ad un approc-
cio di tipo induttivo e all’utilizzo di tecniche di indagine ed elaborazioni di tipo statistico, di verificare se
esistono principi generali di organizzazione dotati di validità per tutte le realtà aziendali, come suggerito
dalla visione classica della one best way, oppure se è il contesto a determinare la struttura organizzativa
più appropriata per ogni singola azienda. Il primo studio prende in esame un campione di 52 imprese,
successivamente estese a quasi 200, appartenenti a settori diversi, con un numero di dipendenti su-
periore alle 150 unità di personale. Il contesto viene operazionalizzato ricorrendo ad una serie di varia-
bili indipendenti quali: l’origine e la storia aziendale, la proprietà e il controllo, le dimensioni aziendali,
l’oggetto (scopi statutari), la tecnologia produttiva, la localizzazione geografica, le interdipendenze. La
struttura organizzativa, a sua volta, viene misurata in un primo momento in relazione a sei variabili
strutturali – specializzazione, standardizzazione, standardizzazione delle pratiche di impiego, formaliz-
zazione, centralizzazione, configurazione –, successivamente ricondotte a quattro fattori di base in
grado di descrivere e qualificare qualsiasi struttura organizzativa: strutturazione delle attività, accen-
tramento dell’autorità nell’assunzione delle decisioni, controllo gerarchico sul flusso di lavoro contrap-
posto al controllo quantitativo basato su procedure impersonali, dimensione relativa della componente
di staff. I risultati conseguiti, mediante analisi fattoriale, evidenziano che alcuni caratteri della struttura
organizzativa – in particolare i primi tre, ritenuti più significativi – sono correlati positivamente con le

339
Lineamenti di organizzazione aziendale

variabili di contesto e che in particolare la dimensione aziendale costituisce la variabile di contesto in


grado di spiegare e determinare quasi completamente il grado di strutturazione delle attività. Ciò signi-
fica che all’aumentare delle dimensioni aziendali è lecito attendersi un aumento delle difficoltà di con-
trollo delle attività e della necessità di assicurare un’omogeneità nelle stesse modalità di svolgimento
del lavoro, con conseguente ricorso ad una accurata prescrizione e strutturazione delle attività. La
variabile dimensione risulta quindi giocare un ruolo maggiore rispetto alla tecnologia, nel definire la
strutturazione delle attività, diversamente da quanto emerso nello studio della Woodward (Perrone,
1990).
L’individuazione della dimensione quale variabile esplicativa delle caratteristiche organizzative produce,
quale conseguenza, quella di individuare nella dimensione un nuovo “imperativo” destinato ad avere
un effetto “universale” per tutte le imprese, a prescindere dal contesto in cui esse operano o da altri
fattori contingenti. Le piccole imprese risultano in questo modo essere un “comparto omogeneo”,
connotato da strutture organizzative di tipo “semplice o elementare”, adeguate in relazione alla “sem-
plicità” dei problemi da affrontare e al peculiare ruolo svolto dall’imprenditore-proprietario (Marchiori,
2006). Studi successivi, tenderanno a relativizzare il ruolo della dimensione, identificandola come una
delle variabili (e non la variabile per eccellenza) da porre alla base delle scelte strutturali, riuscendo in
questo modo a dare evidenza di una elevata varietà delle strutture organizzative che si possono trovare
anche all’interno delle imprese di minore dimensione, a fronte di livelli di complessità gestionale e
organizzativa diversi.

Le indagini del gruppo di Aston, lungo tutto il programma di ricerca, non rie-
scono tuttavia a pervenire a risultati univoci, circostanza che apre il fianco a
molteplici critiche in merito all’esistenza di una relazione causale fra dimensione
(espressa in termini di addetti) e caratteristiche strutturali. Tra gli stessi ricerca-
tori, emergono divergenze nell’interpretazione dello schema di analisi adottato,
dal momento che vengono rilevate possibilità di relazioni inverse tra “centraliz-
zazione” e “specializzazione, standardizzazione, formalizzazione” (Maggi,
2001), che contraddicono la relazione dimensione – struttura, ma anche la ca-
pacità esplicativa della prima (Pugh, Hickson, Hinings et alii, 1963, 1968; Child,
1972).
Nonostante i limiti di queste ricerche e le critiche loro rivolte, non si può
negare come esse abbiano contribuito a mettere sotto le lenti di analisi le aziende
di minore dimensione, al fine di meglio comprendere le loro peculiarità, aprendo
altresì la strada ad un filone innovativo di studi e di ricerche.

10.1.2. La progettazione organizzativa nell’azienda “minore”

Parlare di progettazione organizzativa nell’impresa di minore dimensione può


sembrare un ossimoro. Quando pensiamo ad una piccola impresa ci si prospetta
di solito l’idea di una sorta di famiglia allargata (spesso anche nei fatti), guidata
dalla figura dell’imprenditore, che riassume normalmente in sé tre differenti

340
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

ruoli: proprietario, in quanto apporta i capitali, vertice aziendale, colui che de-
tiene le prerogative decisionali e opera le scelte, prestatore d’opera, dal mo-
mento che è direttamente coinvolto (sovente perché lo vuole) nei processi ope-
rativo-esecutivi (Preti, 1996b, 2011).
Questa sovrapposizione di ruoli, occorre riconoscerlo, è certamente posi-
tiva al momento della nascita dell’azienda e nel periodo del suo primo sviluppo.
L’essere proprietario e al contempo manager introduce un interesse proprio e
personale che produce energie positive, impegno, dedizione, coinvolgimento di-
retto indubbiamente utili a sostenere il successo aziendale. L’essere prestatore
di lavoro favorisce l’instaurarsi di intense relazioni interpersonali, l’ampia dif-
fusione delle informazioni, la puntuale trasmissione di idee e indicazioni di com-
portamento. Si possono tuttavia generare possibili ambiguità, nel momento in
cui il coinvolgimento operativo tende ad attenuare la percezione della linea ge-
rarchica e diventa quasi intromissione nel lavoro altrui o parziale disconosci-
mento dell’esistenza di specifici ambiti lavorativi di pertinenza altrui; la visione
d’insieme e la concentrazione delle scelte si traducono in un freno al riconosci-
mento di capacità decisionali e gestionali dei collaboratori, la familiarità delle
relazioni, il rapporto di fiducia, la prossimità fisica sono all’origine di un basso
grado di formalizzazione di ruoli e strutture.
Verrebbe da dire che l’organizzazione è non organizzazione, laddove in-
tendiamo per organizzazione il risultato di un percorso strutturato e razionale
di valutazioni e scelte. Le aziende di minore dimensione sono, sotto questo
punto di vista, il regno della spontaneità delle soluzioni organizzative. Possiamo
osservare come questa spontaneità trova un limite nelle esigenze di standardiz-
zazione originate dalla tecnologia utilizzata, la quale detta in qualche misura
alcune regole fondamentali di funzionamento, sulle quali viene costruita l’orga-
nizzazione del lavoro. La tecnologia a cui facciamo riferimento è da intendersi
come processo tecnico nel caso di aziende manifatturiere, rivisto e interpretato,
vale a dire personalizzato, in relazione alle possibili precedenti esperienze
dell’imprenditore che, in veste di fondatore dell’azienda, di fatto forma i primi
collaboratori su quelle che sono per lui le best practices da seguire.
La problematica organizzativa che emerge è quindi legata all’organizza-
zione del lavoro, proviene dal basso (vale a dire non scaturisce da un’esigenza
strategica), ha una forte valenza operativa, è guidata dalle peculiarità della tec-
nologia, seppure mediata dall’esperienza dell’imprenditore, è affrontata senza
fare riferimento a particolari regole, norme o principi formalmente costituiti:
ciò non significa che si osservi un approccio irrazionale, ma che molto carenti
possono risultare l’analisi e la valutazione delle situazioni, non supportate da
una raccolta strutturata e organica di informazioni, verosimilmente più appro-
fondite, efficienti ed efficaci.

341
Lineamenti di organizzazione aziendale

Al crescere della complessità gestionale, la pressione delle attività opera-


tive sovente conduce al raggruppamento delle attività e dei lavoratori in aree,
spesso legate a fasi diverse del processo produttivo, affidate alla responsabilità
di collaboratori fidati ed esperti, pur rimanendo le prerogative decisionali nelle
mani dell’imprenditore. Si può dire che l’imprenditore costruisce intorno a sé
una piccola rete di relazioni che ha come perni collaboratori di fiducia che co-
stituiscono la sua longa manus nelle singole aree di attività (Preti, 1996a).
Questo “modello” di organizzazione del lavoro “regge” e può “reggere”
nel tempo, anche per periodi relativamente lunghi, ostacolando tuttavia lo svi-
luppo di strutture autonome, non dipendenti cioè da singole persone, la cui
mancanza potrebbe in breve tempo far abbattere drasticamente i livelli di pre-
stazione, fino a paralizzare, in casi estremi, l’attività aziendale.
Come forse si può intuire, la problematica organizzativa nelle imprese mi-
nori risulta fortemente influenzata dall’azione di due fattori: il primo è rappre-
sentato dalla tecnologia, il secondo dalla cultura aziendale che, in questa tipo-
logia aziendale, risente della cultura e della mentalità del singolo imprenditore,
ma anche del contesto territoriale nel quale l’azienda è localizzata.
Proprio perché, come in precedenza rilevato, piccola dimensione non si-
gnifica “piccoli problemi di gestione”, l’avvio di un “razionale” processo di pro-
gettazione organizzativa passa pertanto attraverso la consapevolezza dell’inop-
portunità di replicare interventi ispirati a logiche parziali. Anche quando viene
percepita una vaga necessità di mettere mano al disegno organizzativo, la diffi-
coltà incontrata consiste nel percepire con sufficiente chiarezza in che cosa con-
sistano “l’analisi e progettazione organizzativa”, a cosa servano, a quale risul-
tato possono condurre. L’assenza di una competenza organizzativa rende diffi-
cile la definizione dei contorni del problema da affrontare e la comprensione
della necessita di intervenire non tanto sui processi lavorativi e/o sulle singole
posizioni o aree, quanto sull’intera organizzazione, andando a toccare alcune
questioni nodali. In particolare, il fabbisogno di cambiamento che si tende a
palesare riguarda il binomio autorità-responsabilità (in altre parole, la delega)
(Preti, 1996a, Preti, Puricelli, 2001), la necessità di rivedere le modalità di coor-
dinamento e le logiche di esercizio del controllo da parte dell’imprenditore, l’im-
portanza di aumentare il livello di formalizzazione delle modalità di funziona-
mento organizzativo.
L’analisi delle forme organizzative che segue si pone l’obiettivo di chiarire
meglio come e perché la problematica organizzativa emerge all’interno di di-
verse tipologie di aziende di minore dimensione, quali problemi determina e
come questi possono essere affrontati, intervenendo con l’obiettivo non certa-
mente di trasformare la piccola azienda in una grande, ma di salvaguardarne le
specificità ed i punti di forza, colmando quei gap che possono compromettere
la sua presenza sul mercato.

342
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

10.2. Le caratteristiche della struttura elementare2

Definire la struttura elementare è meno immediato di quanto si possa pensare,


per questo motivo riteniamo che ricorrere alla definizione di Mintzberg possa
essere un valido aiuto: “in un certo senso la struttura semplice non è un’orga-
nizzazione: essa infatti evita il ricorso a tutte le soluzioni formali che sono pro-
prie di un’organizzazione e minimizza la dipendenza dagli specialisti di staff; a
tali specialisti, quando necessario, si ricorre attraverso contratti di consulenza
piuttosto che attraverso un loro permanente inserimento nell’organizzazione”.
“La struttura elementare è caratterizzabile soprattutto per quello che non è: essa
infatti non è elaborata” (Mintzberg, 1996, pag. 249). La mancanza di elabora-
zione della struttura organizzativa si concretizza in un appiattimento della pira-
mide organizzativa, il ricorso alla gerarchia è minimo o assente, infatti i livelli
gerarchici che si possono visualizzare in questo tipo di configurazione sono due:
il vertice strategico e il nucleo operativo (Figura 10.1).

Figura 10.1 Organigramma struttura elementare

Vertice
Strategico

Nucleo Nucleo Nucleo


Operativo Operativo Operativo

Fonte: Nostra elaborazione

In generale, in questo tipo di struttura il vertice strategico è rappresentato da


una figura carismatica con elevate doti di leadership, capace di dirigere e moti-
vare i suoi collaboratori al meglio per il raggiungimento della mission aziendale.
In questi casi, quindi, le sorti dell’azienda vanno a dipendere unicamente dalle
caratteristiche e peculiarità di un’unica persona, la quale, di solito, tende ad ac-
centrare il potere decisionale a valenza “strategica” (Mintzberg, 1996) ed eco-
nomica unicamente nelle sue mani.

2
Di Sara Sassetti.

343
Lineamenti di organizzazione aziendale

Questa forma si caratterizza anche per una ridotta specializzazione oriz-


zontale delle unità organizzative, una bassa formalizzazione delle proprie mo-
dalità di funzionamento (vale a dire per un contenuto ricorso a norme, regole o
procedure operative) e per il ricorso a meccanismi di coordinamento poco arti-
colati e avanzati.
Più articolate invece sono le alternative che si possono cogliere per quanto
riguarda il grado di strutturazione delle mansioni, ma anche lo sviluppo di al-
cuni sistemi operativi, con particolare riferimento all’articolazione del sistema
informativo, decisionale e di controllo.
Spesso, chi ricopre la posizione del vertice strategico è coinvolto in prima
linea nelle attività operative e allo stesso modo chi fa parte del nucleo operativo
non ha sempre una descrizione specifica dei compiti che compongono la sua
mansione, trovandosi a dover far fronte a diverse attività. È frequente riscon-
trare una interscambiabilità e varietà delle mansioni e chi fa parte di questo tipo
di organizzazione tenderà a saper fare e ad occuparsi un po’ di tutto. Non man-
cano tuttavia situazioni nelle quali ai componenti del nucleo operativo sono as-
segnati ambiti di attività più specifici in virtù delle più elevate competenze pos-
sedute (come discuteremo nei paragrafi successivi riguardo alle diverse configu-
razioni che la struttura elementare può assumere).
Date queste sue caratteristiche la struttura elementare è adatta soprat-
tutto in ambienti molto dinamici, in quanto la scarsa formalizzazione e la ten-
denziale polivalenza dei lavoratori permettono di rispondere in maniera più ve-
loce ed efficace ai cambianti del contesto; inoltre essa è adatta per imprese che
adottano strategie non complesse cioè che prevedono attività poco differenziate
e specializzate.
La dimensione che meglio si adatta a questo tipo di configurazione è
quella della micro e piccola impresa, spesso a conduzione familiare, nelle quali
il vertice strategico, di solito coincidente con la figura dell’imprenditore, ha una
panoramica complessiva sul funzionamento dell’azienda e questo gli permette
di prendere decisioni più immediate, cosa che risulta più difficile man mano che
aumentano le dimensioni dell’azienda. È bene però tenere presente che la strut-
tura elementare non è una struttura “transitoria” adatta solo ai primi anni di
vita dell’organizzazione (Costa, Gubitta, Pittino, 2014; Bonti 2012) ma una
scelta organizzativa deliberata: invece di puntare alla crescita in termini dimen-
sionali mira ad una maggiore affermazione in termini di raggio di azione e ac-
cesso a diversificati circuiti informativi e cognitivi; puntando alla creazione e/o
all’accesso ad altre forme organizzative come ad esempio il distretto e la rete
(Bonti, 2012), modalità organizzative alternative che possono garantire la so-
pravvivenza delle piccole imprese nel tempo come vedremo nel paragrafo dedi-
cato alle diverse configurazioni di struttura elementare.

344
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

Da questa trattazione, infatti, possiamo concludere che questa struttura


organizzativa, per quanto semplice, può presentare delle differenziazioni sulla
base di due dimensioni peculiari: una di natura interna all’organizzazione - l’ac-
centramento decisionale – e l’altra che invece tieni in considerazione le relazioni
con l’ambiente esterno. In questa ottica, la piccola impresa può protendere per
una soluzione maggiormente indipendente rispetto ad altre organizzazioni che
operano in uno stesso ambiente o decidere di essere fortemente interconnessa
con esse, instaurando una dinamica di network.

10.2.1. La dimensione interna della struttura elementare: il grado di


’accentramento decisionale

L’accentramento delle decisioni implica che l’autorità decisionale, quindi l’au-


torità formale, è focalizzata nel vertice dell’organizzazione (Isotta, 2011), nel
caso specifico della struttura elementare possiamo affermare che le decisioni di
stampo strategico ed operativo sono accentrate nel vertice strategico, ruolo
spesso ricoperto dall’imprenditore.
L’accentramento decisionale nella figura dell’imprenditore rende il pro-
cesso decisionale, in termini sia strategici che operativi, molto più rapido e di-
retto tra il vertice e il nucleo. Allo stesso tempo, però, legare il destino di un’or-
ganizzazione alle decisioni di un singolo rende questa struttura molto rischiosa
per due motivi: uno di natura accidentale, si pensi ad un possibile degenerare
della salute dell’imprenditore, e l’altro di natura cognitiva in quanto lo sviluppo
dell’organizzazione dipende dalle conoscenze, competenze e capacità di un sin-
golo. Alla luce di questa considerazione, la questione dei processi di transizione
nelle piccole e medie imprese è cruciale è sarebbe utile che l’imprenditore fosse
in grado di delegare alcune attività, non solo di tipo operativo, incrementando
nei suoi collaboratori la discrezionalità decisionale sulle attività che sono chia-
mati a svolgere (Costa, Gubitta, Pittino, 2014).
Inoltre, l’accentramento del potere decisionale se da un lato può garantire
una più alta velocità di risposta e adattamento all’ambiente competitivo di rife-
rimento, in quanto l’imprenditore conosce perfettamente le potenzialità del suo
business e del suo nucleo operativo, dall’altro lato può provocare in capo all’im-
prenditore un sovraccaricato nella gestione delle attività operative, facendogli
perdere di vista quelle strategiche. Al contrario, può anche accadere che l’im-
prenditore si focalizzi esclusivamente sulle scelte strategiche tralasciando troppo
la quotidianità delle attività svolte dal nucleo operativo, compromettendo effi-
cacia ed efficienza dell’intera organizzazione (Mintzberg, 1996).

345
Lineamenti di organizzazione aziendale

L’essere così dipendente dalla figura dell’imprenditore, dalle sue idee, dal
suo modo di pensare e di agire, rende questa tipologia di struttura particolar-
mente legata alla sua mission, cioè a quella della persona che ne è la guida (Min-
tzberg, 1996). Da un pinto di vista di gestione delle risorse umane, il fatto di
avere un imprenditore-leader organizzativo che ricopre il ruolo quotidiano di
guida e ispirazione sul modo di lavorare, la direzione da seguire e l’obiettivo da
raggiungere, sicuramente fa accrescere nei collaboratori un senso di apparte-
nenza, di commitment e motivazione nei confronti dell’organizzazione. Alcune
persone, però, possono vedere questa caratteristica della struttura elementare
come un vincolo alla loro crescita professionale sia in senso verticale che oriz-
zontale. Dato l’appiattimento gerarchico che caratterizza questa struttura, sono
rare le opportunità di avanzamenti di carriera; anche la crescita professionale
orizzontale, nel senso soprattutto di diversificazione e approfondimento di de-
terminate conoscenze e competenze specifiche, è di più difficile realizzazione.

10.2.2. La dimensione esterna della struttura elementare: la scelta del network


organizzativo

Una maggiore competizione a livello mondiale, la forte differenziazione del co-


sto del lavoro, l’emergere di preferenze di consumo, l’introduzione di nuove tec-
nologie che cambiano rapidamente, un consumatore sempre più informato ed
interconnesso, l’instabilità dell’ambiente politico e sociale a livello nazionale e
internazionale portano a delineare un contesto sempre più complesso, che cam-
bia molto velocemente e con esiti non ipotizzabili a priori.
In tale contesto l’imperativo diventa ridurre i costi (soprattutto il costo
diretto e indiretto del lavoro), contenere i rischi, aumentare l’adattabilità del
sistema produttivo all’evoluzione tecnologica e di mercato, cercare di “control-
lare” l’incertezza (Bonti, 2012).
A fronte di questa situazione, le imprese di grandi dimensioni spesso si
affidano a processi di decentramento produttivo e di disintegrazione, passando
così da organizzazioni verticalmente integrate a strutture che puntano al decen-
tramento verso unità produttive più piccole, affidando così all’esterno parte del
processo produttivo, per concentrarsi su segmenti e attività in cui possono van-
tare vantaggi specifici (Bonti, 2012).
Le piccole imprese, come già discusso, mostrano di avere una maggiore
capacità di mantenersi in armonia con dinamiche ambientali particolarmente
complesse e imprevedibili, presentano caratteristiche organizzative di elasticità
e flessibilità produttiva che si traducono nel fornire risposte coerenti con la cre-
scente richiesta di varietà (prodotti di nicchia) e variabilità (prodotti personaliz-
zati in relazione alle esigenze dei clienti e del mercato).

346
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

In quest’ottica, le piccole imprese che adottato strutture elementari, per


quanto semplici, non possono più essere descritte come realtà destinate ad oc-
cupare soltanto spazi interstiziali del mercato, svolgendo funzioni subalterne e
complementari alla grande impresa (lavori in subappalto, produzione di mac-
chinari specializzati per la produzione di massa, e così via). Al contrario, la pic-
cola impresa appare in grado di svolgere un ruolo egemonico e peculiare in molti
e variegati settori produttivi (Bonazzi, 2000, pag.131 e ss.; Bagnasco, 1981; Be-
cattini, 1979, 1989, 2000), di competere su mercati vastissimi grazie ad una su-
periore capacità di adattamento rispetto alla grande impresa, soprattutto grazie
a diverse opportunità di network con altre realtà organizzative che hanno di-
mensioni simili.
Date queste nuove opportunità competitive derivanti dall’ambiente
esterno, la piccola organizzazione che adotta una struttura elementare può sce-
gliere se affrontare questo contesto in maniera indipendente perché in possesso
di una competenza distintiva (Barney, 2001) o di essere parte di un network che
permetterà loro di sviluppare nuove capacità, di guida e coordinamento ma an-
che di costruzione, consolidamento, rinnovamento di un sistema di collabora-
zioni e relazioni con altre imprese, anche oltre i confini territoriali tradizionali
(Bonti, 2012).

10.3. Le configurazioni della struttura elementare3

Per quanto quella elementare sia una struttura semplice è bene tenere presente
che dalla combinazione delle due variabili sopra esposte, accentramento deci-
sionale e le relazioni con l’ambiente esterno, si possono rintracciare alcune im-
portanti differenziazioni.
La Tabella 1 riassume le diverse declinazioni che la struttura elementare
può assumere. Come si può notare, se l’organizzazione decide di agire prevalen-
temente in maniera indipendente all’interno del suo ambiente di riferimento po-
trà assumere un assetto gerarchico-imprenditoriale qualora il potere decisionale
sia incentrato esclusivamente nelle mani di un’unica persona, in genere l’impren-
ditore; se invece il potere decisionale è maggiormente diffuso e condiviso all’in-
terno dell’organizzazione si può dar vita ad una struttura elementare che segue
le peculiarità delle forme così dette artigiane o gruppo di pari (Grandori, 1995).
In alternativa, qualora l’organizzazione scelga di operare nel suo am-
biente di riferimento prevalentemente secondo una logica di network si po-
tranno costruire due altrettanti assetti organizzativi: il distretto, network più in-
formale all’interno del quale la singola organizzazione decide come agire e per

3
Di Sara Sassetti.

347
Lineamenti di organizzazione aziendale

questo motivo si può parlare di un alto accentramento decisionale; e la rete che


come approfondiremo soprattutto all’interno del capitolo XI può assumere una
struttura più formale e può essere previsto un orientamento decisionale meno
accentrato perché condiviso tra le organizzazioni aderenti a questa tipologia di
configurazione.
Di seguito verranno approfonditi i caratteri peculiari della forma gerar-
chico-imprenditoriale, del gruppo dei pari, del distretto, rinviano al capitolo
sulle relazioni interorganizzative la quarta configurazione proposta.

Tabella 10.1 Le configurazioni della struttura elementare

Accentramento decisionale
Alto Basso
Relazione con l’esterno

Forma artigiana
Indipendente Gerarchico
Gruppo di pari
imprenditoriale

Network Distretto Rete

10.3.1. La struttura elementare gerarchico-imprenditoriale

Questo assetto rappresenta sicuramente la configurazione classica della strut-


tura elementare e corrisponde al caso in cui esista una figura imprenditoriale che
agisce da agente centrale, in quanto organizza e coordina i diversi fattori pro-
duttivi. Il tratto caratteristico di questa forma è l’elevato grado di centralizza-
zione che corrisponde alla concentrazione in un unico attore di tutte le decisioni,
nonché dei diritti all’informazione, al controllo e alla valutazione delle singole
prestazioni (Grandori, 1995). L’attore principale di questa organizzazione è
l’imprenditore il quale “tende ad essere autocratico e talvolta anche carismatico:
tipicamente ha fondato l’impresa perché non sopportava i controlli cui era sog-
getto nelle burocrazie dove aveva lavorato. All’interno dell’impresa tutto ruota
intorno a lui: gli obiettivi dell’impresa sono i suoi obiettivi, la strategia dell’im-
presa riflettono la visione che egli ha della posizione dell’impresa nell’ambiente”
(Mintzberg, 1996).
La struttura organizzativa, come abbiamo già sottolineato, si articola in
maniera minima lungo la dimensione verticale e allo stesso tempo spesso è as-
sente la specializzazione delle attività, quindi la dimensione orizzontale. La su-

348
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

pervisione diretta rappresenta il principale meccanismo di coordinamento, at-


traverso il quale l’imprenditore ha il pieno controllo sulla gestione del personale
con il quale instaura un tipo di comunicazione continua ed informale riuscendo
così ad avere le informazioni necessarie per la gestione complessiva dell’impresa.
I flussi di comunicazione sono quindi sostanzialmente top-down e di tipo diret-
tivo: le decisioni prese sono trasmesse nella forma di ordini e direttive.
Se le dimensioni dell’impresa crescono e, spesso, in coincidenza con l’in-
gresso della seconda generazione imprenditoriale (quando l’impresa ha natura
familiare), si assiste ad un allargamento della funzione direttiva, che tuttavia
non comporta necessariamente una precisa suddivisione di ruoli e competenze
(Paoletti, 1997). Questa situazione è sostenibile solo se i volumi di attività non
crescono in misura eccessiva e il contesto competitivo e tecnologico presenta
tratti di relativa stabilità: in questo caso i fabbisogni di coordinamento sono
soddisfatti attraverso il mutuo adattamento e la continua interazione tra i mem-
bri del gruppo direttivo (Costa, Nacamulli, 1997, Preti, 1991; Mintzberg, 1983;).

10.3.2. La forma artigiana

La forma artigiana è una variante della configurazione gerarchico-imprendito-


riale, adatta al governo di attività che prevedono l’esercizio di una media discre-
zionalità da parte degli organi esecutivi nello svolgimento dei compiti loro affi-
dati (Grandori, 1995). Nella forma artigiana il nucleo operativo è il centro focale
di tutta l’attività di impresa; come l’aggettivo “artigiana” lascia intendere. I
membri del nucleo operativo sono in possesso di un insieme specifico di cono-
scenze, abilità, esperienze, competenze che non si prestano ad essere codificate
e standardizzate, ma che vanno invece applicate a contesti, situazioni, prodotti
o servizi diversi, comportando sovente anche una diretta interazione con il
cliente. In questo caso, si è soliti affermare che il nucleo operativo è composto
da attori in possesso di un “mestiere”, vale a dire un set di conoscenze e un in-
sieme di esperienze che aiutano nella individuazione delle migliori modalità di
esecuzione di un lavoro, lavorazione di determinati materiali, approccio alla ge-
stione dei clienti e così via. Non ci sono procedure standard da seguire ma di
volta in volta, in autonomia seppure in maniera coordinata, in linea con quelle
che sono le finalità aziendali, i membri di questa tipologia di organizzazione
sono chiamati a selezionare i comportamenti “migliori” da tenere.
L’imprenditore mantiene le prerogative decisionali a livello complessivo
di azienda, insieme alla responsabilità di coordinamento e di indirizzo nello svi-
luppo dell’azienda, ma lascia molta autonomia decisionale al nucleo operativo
sul come condurre le attività. Risultando le conoscenze e le competenze del nu-

349
Lineamenti di organizzazione aziendale

cleo operativo strumentali al successo dell’azienda, non è necessario che l’im-


prenditore detti ordini specifici sul come agire, mentre risulta importante che
fornisca direttive generali sugli obiettivi da perseguire.
In contesti come questi, il coordinamento tramite la sola supervisione di-
retta non è efficace in quanto l’imprenditore, sia per la complessità delle attività
operative che per la specificità delle conoscenze necessarie, non riesce a control-
lare direttamente i suoi collaboratori, dovendo invece affidarsi e fidarsi delle
loro competenze. Il controllo delle attività è lasciato agli operatori del nucleo
operativo e si basa, appunto, sulle qualità professionali, sulle abilità, sui modelli
di comportamento e sulle prassi di lavoro delle persone che sono coinvolte nei
processi di produzione e di erogazione del servizio.
Il principale meccanismo di coordinamento adottato è quello della stan-
dardizzazione della conoscenza, sia essa esplicita o implicita, che può avvenire
in due modi (Costa, Gubitta, Pittino, 2014). L’imprenditore può scegliere di re-
clutare e selezionare solo persone che hanno compiuto un determinato percorso
formativo o hanno acquisito particolari esperienze, in virtù dei quali hanno for-
mato specifiche conoscenze. Diversamente, l’imprenditore può inserire i colla-
boratori in percorsi formativi interni all’organizzazione, finalizzati a trasmettere
le conoscenze necessarie allo svolgimento delle attività operative dell’azienda (si
tratta in questi casi di un apprendimento “specifico” e idiosincratico) e preve-
dere periodi di affiancamento ai lavoratori più anziani ed esperti (il c.d. on the
job training).
In entrambi i casi, oltre allo sviluppo di un know-how comune e condiviso,
si creano le premesse per lo sviluppo di meccanismi di controllo sociale e cultu-
rale: le persone condividono gli stessi linguaggi, si identificano con gli stessi
obiettivi, aderiscono ai medesimi valori o norme e quindi aumenta la loro auto-
nomia e la loro capacità di controllare il proprio operato e quello dei colleghi
(Costa, Gubitta, Pittino 2014).

10.3.3. Il gruppo di pari

La struttura elementare che si caratterizza per un basso accentramento e non


segue le logiche di network è definita gruppo di pari (Grandori, 1995) ed è altresì
riconducibile alla configurazione burocrazia professionale (Mintzber, 1996).
Questa configurazione si qualifica per le proprietà di incentivazione e motiva-
zione, che consentono di attrarre prestatori di lavoro con professionalità com-
plesse (per questo sovente definiti professionals) e strutture di personalità carat-
terizzate da bisogni di autorealizzazione e autonomia. Questa tipologia di orga-
nizzazione è infatti, tendenzialmente, popolata da professionisti che hanno com-
petenze e conoscenze specifiche ed approfondite rispetto ad una specifica atti-

350
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

vità: è questo il caso, ad esempio, di medici, commercialisti, insegnanti, avvo-


cati, revisori contabili ecc. In organizzazioni che adottato questa configurazione
si trova spesso un assetto a “imprenditorialità diffusa” (Preti, 1991; Isotta,
2003), o cooperativo, dove i diritti di proprietà e di partecipazione alle scelte
strategiche e ai risultati aziendali risultano essere condivisi fra un gruppo di per-
sone. In concreto, si tratta di professionisti che gestiscono autonomamente le
proprie attività lavorative utilizzando alcune strutture comuni, come ad esem-
pio: segreterie, supporti informatici, amministrazione, metodologie proprietarie
e immagine commerciale (Costa, Nacamulli, 1997).
Come per la forma artigiana, anche per la il gruppo di pari il meccanismo
di coordinamento principale è la standardizzazione delle conoscenze e delle
competenze, seppure sussista un’importante differenza che contraddistingue il
ricorso a questa tipologia di coordinamento. All’interno di organizzazioni la cui
struttura si configura come forma artigiana, gli standard di conoscenze e com-
petenze sono definiti dall’organo direttivo, solitamente dall’imprenditore. Ad
esempio, il fondatore di un’impresa di scarpe di pelle su misura, esporta in tutto
il mondo perché gli viene riconosciuta l’alta qualità del suo prodotto, ha dieci
artigiani che lavorano nella sua organizzazione: alcuni sono stati assunti da lui
nel primissimo periodo di apertura dell’azienda ma non avevano alcuna quali-
fica, se non la profonda passione e dimestichezza nella lavorazione della pelle,
altri, invece, hanno seguito un corso sulla lavorazione delle pelli e hanno rice-
vuto un’attestazione. Il lavoro di entrambi, però, è prevalentemente guidato da-
gli standard di qualità del prodotto e del servizio imposti e trasmessi dal fonda-
tore a tutto il personale. In strutture elementari che invece adottato il gruppo di
pari gli standard sono di natura universale e dettati da associazioni ed enti che
sono “esterni” all’organizzazione. Si pensi ad esempio al periodo di specializza-
zione per i medici, al praticantato per gli avvocati e all’esame di stato che devono
sostenere coloro che aspirano a diventare commercialisti o magistrati. Ne con-
segue che se nella forma artigiana l’autorità è prevalentemente di natura gerar-
chica, all’interno di organizzazioni che seguono una configurazione del tipo
gruppo di pari, l’autorità deriva primariamente dalla competenza ed è di natura
professionale.
Date queste considerazioni, ne consegue che il gruppo di pari è una tipo-
logia di configurazione che poggia su un forte decentramento del processo deci-
sionale sia dal punto di vista orizzontale che verticale. Infatti, i professionisti
spesso trattano con i propri clienti in maniera totalmente autonoma, interfac-
ciandosi poco con gli altri professionisti membri dell’organizzazione (decentra-
mento orizzontale). Inoltre, spesso i professionisti non solo controllano il pro-
prio lavoro, ma ricercano e chiedono anche il controllo collettivo delle decisioni
amministrative e direzionali che li riguardano (decentramento verticale). Ad

351
Lineamenti di organizzazione aziendale

esempio, in uno studio di avvocati, tutti i membri associati parteciperanno a


riunioni periodiche per garantirsi un certo controllo sulle decisioni che possono
influenzare il loro lavoro. Ne deriva, quindi, una struttura direzionale piuttosto
democratica (Mintzberg, 1996).
Data la forte discrezionalità che caratterizza i professionals, viene da chie-
dersi se ci sia effettivamente bisogno di una organizzazione e perché i professio-
nisti non agiscano in maniera autonoma. Le ragioni sono molteplici (Mintzberg,
1996), infatti, coloro che sono parte di un’organizzazione che si configura come
gruppo di pari possono condividere costi di risorse fondamentali per lo svolgi-
mento della loro attività, risorse che potrebbero essere difficilmente accessibili
dato spesso il loro elevato costo. Si pensi ad esempio ad uno studio di dentisti,
ciascuno degli associati condivide con gli altri dentisti i costi delle diverse sale
operatorie e condividono il costo di una segretaria addetta all’amministrazione
e alla gestione degli appuntamenti di tutti i dentisti dello studio.
Alcuni professionisti, inoltre, hanno bisogno di entrare in questa tipologia
di organizzazioni per avere accesso alla clientela in maniera più facile. Si pensi
ad un giovane avvocato, benché sia animato da un forte spirito imprenditoriale
e sia molto competente nello svolgere il suo lavoro, all’inizio della sua carriera
sarà difficile che possa essere conosciuto dalla sua potenziale clientela e per ini-
ziare la sua carriera preferirà entrare a far parte di uno studio di avvocati.
Infine, un altro motivo per cui i professionisti si riuniscono per dar vita
ad un’organizzazione che segue la configurazione del gruppo di pari è derivante
dal fatto che spesso uno stesso cliente ha bisogno contemporaneamente di essere
seguito da più specialisti professionisti e averli a disposizione all’interno di una
stessa organizzazione denota sicuramente un vantaggio competitivo. In questo
caso si prenda a riferimento un centro di medicina sportiva, probabilmente i
clienti di questa organizzazione non necessiteranno solo del medico sportivo ma
potrebbero avere bisogno anche, ad esempio, di un fisioterapista, di un nutri-
zionista o di un personal trainer.

10.3.4. Il distretto

Prima di procedere nella trattazione di questa configurazione organizzativa è


dovere di chi scrive fare una precisazione riguardo la trattazione del Distretto
industriale. Sull’argomento c’è una vastissima letteratura di natura economico
e sociologica e spesso il distretto, la sua evoluzione, la sua analisi, le sue pecu-
liarità sono discusse all’interno di corsi universitari specifici. In questa sede vo-
gliamo solamente trattare questo fenomeno da un punto di vista prettamente
organizzativo, nello specifico come possibile configurazione che le piccole e me-
die imprese contraddistinte da una struttura elementare potrebbero adottare

352
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa

Dobbiamo inoltre precisare che il distretto non può essere considerato


come una struttura o una configurazione organizzativa ma è definito come un
modello produttivo connotato dalla frammentazione tecnica del ciclo manifat-
turiero e da una originale forma di coordinamento, di natura sociale, come al-
ternativa alla grande impresa fordista, con le sue logiche di integrazione verti-
cale e un governo di stampo manageriale (Piore e Sabel, 1984).
Come emerge da questa definizione il distretto è un sistema produttivo
composto da tante e diverse organizzazioni, prevalentemente di media o piccola
dimensione, che appartengono ad uno stesso territorio. Queste organizzazioni
si trovano a collaborare e a coordinarsi tra di loro in quanto ciascuna organiz-
zazione è spesso dedita e specializzata su una fase del ciclo produttivo di un
bene.
Impossibilitate a far leva sulle elevate economie di scala della grande im-
presa, le piccole localizzate nei distretti possono contare sulla partecipazione ad
un esteso sistema di divisione del lavoro, grazia al quale condividere alcune eco-
nomie esterne specifiche (nel mercato del lavoro, negli input intermedi, nei ser-
vizi, e così via) e mantenere un continuo scambio di conoscenze (Bonti, 2012).
I tratti salienti di questo modello sono da rinvenirsi (Bonti, 2012):

• nella produzione flessibile e articolata in piccoli lotti, che implica una


capacità di rispondere ad andamenti alterni della domanda di mercato;
• nella divisione del lavoro tra imprese spazialmente autocontenuta (Be-
cattini, 1999), che conduce ad una elevata specializzazione di ogni sin-
gola unità con conseguenti economie derivanti dal learning by doing o
dal learning by specializing e lo sviluppo di processi di learning by inerac-
ting, favoriti dalla natura delle relazioni instaurate dalle singole organiz-
zazioni;
• nelle modalità di organizzazione di un lavoro che si presenta più variato
e ricco di opportunità, facendo così emergere figure lavorative dotate di
saperi tecnici e abilità manuali, quindi una forza lavoro mediamente più
qualificata rispetto alla produzione di massa, detentrice di una profes-
sionalità che si è sedimentata e arricchita nel tempo attraverso il trasfe-
rimento del cosiddetto “sapere tacito”;
• in un reticolo di frequenti e numerose relazioni informali e sociali tra
imprese, fortemente basate su rapporti di tipo fiduciario, pur in presenza
di una fitta regolazione di tipo contrattuale relativa ai rapporti di con-
correnza e di tutela degli interessi collettivi, relazioni che cui fa riscontro
uno scambio di esperienze e problematiche operative che si traduce in
una cross fertilization con la generazione di nuove conoscenze;

353
Lineamenti di organizzazione aziendale

• nell’operare di forme di controllo di clan a supporto della gerarchia at-


traverso una densa rete di rapporti interpersonali.

All’interno dei distretti industriali, le organizzazioni in esso localizzate possono


godere di vantaggi competitivi dinamici in quanto il territorio distrettuale è
luogo di interazione delle relazioni sociali, di riproduzione di conoscenze, di pro-
duzione di specifiche competenze e risorse altrove non utilizza-bili; ne consegue
il possibile utilizzo di economie che sono “esterne” all’impresa isolatamente con-
siderata, ma comunque “interne” all’area, che rappresentano una sorta di “bene
pubblico” con accesso indifferenziato ai vari operatori e spesso a “costo zero”
(Bonti, 2012).

354
11 La gestione delle relazioni interorganizzative
di Fabio Fraticelli e Sara Lombardi

11.1. Le relazioni interorganizzative – 11.1.1. Interdipendenze e relazioni interor-


ganizzative – 11.1.2. Gestire le interdipendenze attraverso il disegno dei confini
aziendali: scelte di esternalizzazione ed internalizzazione delle attività – 11.2. Il
coordinamento delle interdipendenze – 11.2.1. I meccanismi di controllo: gerar-
chia, mercato e network – 11.3. Alcune opzioni di progettazione dei confini or-
ganizzativi – 11.3.1. Le partnership strategiche tra committente e fornitore nella
gestione della qualità – 11.3.1.1. Le diverse tipologie di relazione tra committente
e fornitore – 11.3.2. I team interaziendali – 11.3.3. Le joint venture e le alleanze
strategiche – 11.3.4. I contratti di licenza – 11.3.5. I contratti di franchising –
11.3.6. I consorzi tra imprese – 11.4. Il ruolo della fiducia quale fattore determi-
nante l’efficacia delle relazioni interorganizzative – 11.4.1. Le classificazioni della
fiducia tra le organizzazioni

355
Lineamenti di organizzazione aziendale

11.1. Le relazioni interorganizzative

11.1.1. Interdipendenze e relazioni interorganizzative

Proprio come avviene all’interno della singola organizzazione, dove il risultato


della scomposizione degli obiettivi in gruppi di attività che vengono a loro volta
riassegnati ad agenti individuali (Smith, 1776) si traduce in una serie di relazioni
fra attori, anche la suddivisione di attività fra organizzazioni diverse dà origine
a differenti connessioni inter-organizzative.
La suddivisione del lavoro fra diverse organizzazioni non è però l’unica
ragione per la quale più entità si interconnettono. Nello svolgimento delle pro-
prie attività, qualsiasi organizzazione entra in contatto con una pletora di altri
attori organizzativi con i quali interagisce su differenti piani e per differenti mo-
tivi. Che si tratti di fornitori oppure istituzioni pubbliche, associazioni di cate-
goria o enti di formazione, ciascun attore organizzativo è influenzato (ed in-
fluenza) da altri attori operanti nel suo stesso ambiente di riferimento. L’esi-
stenza di questa mutua influenza fra organizzazioni è detta “interdipendenza”
ed è spiegata dalla presenza di relazioni interorganizzative di vario tipo.
A prescindere dalle caratteristiche, dalla genesi e dalle implicazioni che le
relazioni interorganizzative hanno sulle singole aziende, si può immaginare che
fra di esse possa intervenire un “mutuo condizionamento” solo se ci poniamo in
un’ottica di “sistema aperto” 1.
Mentre è semplice immaginare le interdipendenze che esistono fra due at-
tori legati da un rapporto di tipo “fornitore-cliente”, meno intuitivo è pensare
alla natura ed alle caratteristiche delle relazioni fra attori che condividono atti-
vità che non giacciono necessariamente su un unico flusso di lavoro. A pensarci
bene, però, nella realtà ogni organizzazione sviluppa relazioni con il contesto
socio-economico in cui opera, ad esempio con il legislatore o con le organizza-
zioni di categoria cui fa riferimento. Per citarne altri, anche i competitors rap-
presentano attori con i quali l’organizzazione entra in relazione, sia nel tentativo
di conquistare segmenti di mercato ai quali entrambi aspirano, sia nella ricerca
di soluzioni sempre più evolute ai bisogni dei propri clienti.
La grande eterogeneità delle ragioni e delle configurazioni che una rela-
zione interorganizzativa può presentare rende molto difficile proporre uno

1
Come trattato nel Capitolo 2, la visione di organizzazione come “sistema chiuso”, nel quale le scelte manageriali
non sono condizionate da alcuna sorta di “perturbazione” esterna, consentendo la ricerca della massima effi-
cienza operativa, risulta sempre meno adeguata a rappresentare le dinamiche organizzative. Essa viene pro-
gressivamente superata dalla logica di “sistema aperto”, nel quale forze e pressioni ambientali condizionano le
scelte imprenditoriali e manageriali, consentendo il perseguimento di condizioni di livelli di efficienza ed efficacia
soddisfacenti, ma che non rappresentano un ottimo.

356
La gestione delle relazioni interorganizzative

schema di analisi del tema che risulti sintetico ed omnicomprensivo. Nell’osser-


vare una relazione fra due o più organizzazioni, tuttavia, ci si può servire di due
distinte dimensioni: da un lato, la natura (collaborativa o competitiva) della re-
lazione e, dall’altro, la similarità (o dissimilarità) delle organizzazioni coinvolte
dalla stessa.
La prima dimensione di analisi, quella relativa alla natura delle relazioni,
si riferisce alle ragioni per le quali due organizzazioni diventano interdipendenti.
Nel caso della collaborazione, un attore si rende consapevole (o sceglie delibe-
ratamente) di dover collaborare con altri attori per raggiungere i propri scopi.
Questa collaborazione può avvenire sui fronti più disparati, che vanno dalla ri-
cerca e sviluppo all’ampliamento della forza commerciale. Ad esempio, l’indu-
stria dell’automobile sta sperimentando l’importanza di collaborare: gli ingenti
investimenti richiesti per il lancio di veicoli elettrici ed a guida autonoma spinge
aziende normalmente in competizione a collaborare co-investendo in progetti di
ricerca e sviluppo finalizzati a sviluppare “piattaforme” congiunte. Anche le or-
ganizzazioni che intendono espandersi in nuovi mercati possono optare per la
strada della collaborazione. Le partnership commerciali rappresentano una
delle forme più comuni di relazione organizzativa di tipo collaborativo. In que-
sto caso, due o più organizzazioni co-investono per facilitare la diffusione di un
prodotto/servizio in nuovi mercati. Ancora, nei distretti produttivi che hanno
caratterizzato l’economia italiana nella seconda metà del secolo scorso, si osser-
vavano relazioni organizzative di tipo cooperativo fra organizzazioni che gesti-
vano porzioni distinte del complesso flusso di lavoro legato alla produzione di
calzature, macchine industriali, mobili o altri manufatti del made-in-Italy.
I casi presentati raccontano di organizzazioni che collaborano fra di loro
completandosi a vicenda per raggiungere un obiettivo comune. La natura colla-
borativa di queste relazioni è spiegata dalla condivisione di un orizzonte che può
aggregare organizzazioni potenzialmente anche molto diverse fra loro. L’in-
sieme delle organizzazioni che collaborano per il raggiungimento di un obiettivo
comune (anche quando sono dissimili) può essere considerato l’essenza dei net-
work collaborativi. A prescindere dal livello di analisi che viene adottato, e senza
dimenticare la (più o meno) residuale compresenza di dinamiche collaborative e
competitive, quando si parla di network ci si sta infatti riferendo ad un insieme
di organizzazioni (net = rete) che lavorano insieme (work = lavoro) 2. Per questo
motivo, un network è una forma di organizzazione delle attività economiche,

2
Chiarita l’etimologia della parola, pur consapevoli di introdurre una semplificazione, nel proseguo del capitolo
si utilizzerà la parola rete come sinonimo di network.

357
Lineamenti di organizzazione aziendale

che si serve del coordinamento e della cooperazione interorganizzativa (Gran-


dori e Soda; 1995, pp. 183-214) 3. Già nel 2001, Greenhalgh individuava nella
partnership un’importante leva competitiva, definendo le aziende di successo
come “quelle che agiscono veramente insieme, quelle che possono integrare con
successo strategia, processi, accordi di business, risorse, sistemi e forza lavoro
responsabilizzata” (Greenhalgh, 2001).
In effetti, come accennato attraverso gli esempi sopra riportati, tra i prin-
cipali vantaggi connessi allo sviluppo di network collaborativi vi sono la possi-
bilità di sviluppare innovazioni di prodotto e di processo durature e significa-
tive, nonché la capacità di competere su scala globale grazie a sistemi “a geome-
tria variabile” che possono rapidamente risolvere le variegate sfide esibite dal
contesto in cui si opera: in altre parole, è il network sistemico che offre il mag-
gior vantaggio competitivo nell’economia globale (Alter e Hage, 1993).

Box 11.1 Network collaborativi e coopetizione

L’accresciuta complessità ambientale e l’emergere di nuove variabili competitive hanno progressiva-


mente spinto le organizzazioni a ricercare strutture più flessibili e capaci di dare risposte più rapide alle
mutevoli istanze provenienti dall’ecosistema in cui si opera, in termini di aspettative dei clienti, cam-
biamenti tecnologici ed evoluzione degli scenari internazionali (Ricciardini, 2013, p. 14).
Sulla scia di questa necessità, si è affermato nel tempo un paradigma complementare a quello stretta-
mente competitivo, in cui le imprese puntavano prevalentemente alla massimizzazione dei profitti in-
dividuali e ad una gestione delle relazioni basata su meccanismi contrattuali. Questo nuovo paradigma,
decisamente più collaborativo, implica che le organizzazioni cerchino di impegnarsi in legami di medio
periodo volti ad una equa ripartizione dei profitti e ad una maggiore condivisione di strategie e mecca-
nismi operativi.
La tendenza verso questo nuovo paradigma fa sì che tra le imprese nasca un tipo di relazione “ibrida”
che da molti viene definita coopetizione (Dagnino, 2009). La coopetizione (neologismo nato dalla fu-
sione fra collaborazione e competizione) esprime proprio la tendenza delle organizzazioni a non eccel-
lere a discapito le une delle altre, ma lavorando insieme affinché tutte possano godere quanto più
possibile dei profitti derivanti da un lavoro congiunto.
Fatte salve le dovute eccezioni, e nella evidente possibilità di perseguire diverse strategie competitive
(ad esempio, scegliendo di occupare nicchie di piccole dimensioni), coopetere significa per molte or-
ganizzazioni rispondere al fatto che nel XXI secolo la soglia di investimento minimo richiesto per rag-
giungere adeguati livelli di qualità nei prodotti, nei sistemi logistico distributivi, nei sistemi di assistenza
ai clienti e di tutti gli altri sottosistemi di cui si compone un modello organizzativo, è decisamente più
alto rispetto a qualche decennio fa. Molte organizzazioni non possono o non vogliono correre il rischio
associato a questi tipi di investimenti e piuttosto cercano di specializzarsi in specifiche competenze

3
È importante notare che, quando si utilizza il concetto di network collaborativo, si può far riferimento sia ad un
“insieme di relazioni con una forma ed un contenuto” (Lomi, 1991, p. 62) che - in una prospettiva di tipo “macro”
- ad aggregazioni sociali analizzabili come veri e propri attori organizzativi (Tosi, 1998, p. 16), al pari dell’indivi-
duo, del gruppo e dell’organizzazione.

358
La gestione delle relazioni interorganizzative

(modificabili all’occorrenza) che possono modificarsi nel tempo e trovare nuova integrazione all’interno
di network collaborativi in continua evoluzione.
La coopetizione, ed il conseguente sviluppo di network collaborativi, è pertanto una lente per descrivere
le ragioni e le modalità attraverso le quali si sviluppano relazioni di tipo collaborativo tra organizzazioni
anche molto eterogenee.

Le relazioni interorganizzative però non sono sempre ed esclusivamente di na-


tura collaborativa. In alcuni casi, ad esempio, due organizzazioni si trovano a
competere per ottenere le risorse di cui hanno bisogno per svilupparsi. In questa
fattispecie, anche se il tipo di relazione che si instaura è di tipo “indiretto” (per-
ché le organizzazioni che competono possono essere molto diverse tra di loro e
non essere legate da un rapporto di fornitura), è comunque possibile parlare di
interdipendenza. Se un’organizzazione entra in possesso di una risorsa critica
(risorse umane, finanze, impianti, concessioni governative), può minacciare la
sopravvivenza di un’altra entità. Dunque, in una sorta di “proprietà transitiva”,
due organizzazioni che dipendono dalle stesse risorse sono anche interdipen-
denti fra loro, perché dal successo dell’una può derivare il declino dell’altra.
Parlare di interdipendenze organizzative in relazione alla dipendenza da
comuni risorse, richiede di concepire le organizzazioni come attori che tentano
continuamente di controllare e garantirsi l’accesso a tutte le risorse (tangibili o
intangibili, intese anche in termini di competenze, strumenti e funzioni organiz-
zative) necessarie per svolgere le attività incluse nel flusso di lavoro complessivo.
Quando si concepiscono le interdipendenze fra organizzazioni come il
frutto di una multipla dipendenza da comuni risorse, l’ambiente viene visto
come l’insieme delle risorse che lo compongono e degli scambi che - a partire
dalla disponibilità relativa di quelle risorse - possono essere messi in atto dalle
organizzazioni per sopravvivere (Levine e White, 1961).
In questa prospettiva, la scarsità delle risorse è un concetto chiave. Tale
scarsità può essere assoluta (nessuna organizzazione ne ha abbastanza) oppure
relativa (alcune organizzazioni hanno maggiore disponibilità di altre). Dalla
scarsità delle risorse deriva, appunto, la dipendenza fra organizzazioni ed il ten-
tativo - mediante strategie transattive o di controllo – di attenuare questa inter-
dipendenza. In altri termini, la dipendenza dalle risorse spinge le organizzazioni
ad entrare in relazione fra di loro al fine di effettuare tutti gli scambi necessari a
sanare questa mancanza (Aldrich e Pfeffer, 1976: 79-84).
In ultima istanza, la scarsità delle risorse e le strategie di appropriazione
o accesso alle stesse andrà ad influire sulla configurazione dei confini organiz-
zativi e sulla configurazione della struttura organizzativa stessa (Aldrich e
Mindlin, 1976).
Quando si estende l’analisi degli effetti della competizione da poche or-
ganizzazioni in un momento specifico a intere “specie” di organizzazioni che

359
Lineamenti di organizzazione aziendale

si susseguono nel tempo sotto la pressione di un cambiamento delle risorse


disponibili e delle aspettative sociali nel medio-lungo periodo, allora si può
osservare una evoluzione nella ecologia delle popolazioni organizzative (Han-
nan e Freeman, 1977, 1989; Lomi, 1996; Solari, 1996; Carroll e Hannan, 2000)
che si muovono all’interno un determinato ambiente. La dinamica competi-
tiva genera interdipendenze che vanno oltre la relazione fra poche organizza-
zioni in un periodo limitato, ma può essere estesa nello spazio e nel tempo
analizzando l’evoluzione di intere forme organizzative in archi temporali me-
dio-lunghi. Nel tempo, infatti, intere tipologie di organizzazioni si susseguono
sotto la pressione di forze di natura competitiva (accesso alle risorse econo-
miche necessarie alla sopravvivenza) ed istituzionale (accesso a risorse di le-
gittimazione sociale che consentono lo sviluppo di una determinata forma or-
ganizzativa). Ispirandosi ad una logica darwiniana, si può pensare alle orga-
nizzazioni come alle altre specie viventi: le forme organizzative che sopravvi-
vono sono quelle che si adattano meglio all’ambiente perché sperimentano
nel tempo delle mutazioni che si rivelano efficaci nel rispondere ai cambia-
menti imposti nella disponibilità ed utilizzo delle risorse, nonché della legitti-
mazione sociale richiesta ad un’organizzazione per prosperare.
Si pensi, ad esempio, alle organizzazioni che si occupano di commercio
al dettaglio di libri. Mentre anche solo 15 anni fa questi tipi di attività pote-
vano crescere e prosperare aprendo un negozio fisico, magari di moderate di-
mensioni, oggi è difficile immaginare che questo modello organizzativo possa
risultare attrattivo alla clientela e resistere alla concorrenza di aziende che si
sono date forme differenti per organizzare lo stesso servizio. Oltre ad Amazon,
infatti, tutti i principali editori si sono dotati di canali di vendita online ed i
consumatori si aspettano di poter scaricare il loro libro preferito direttamente
sul loro e-reader, oppure di vederselo recapitare a casa nel giro di 24 ore. Vista
nel medio periodo, la grande popolazione di imprese che si occupano di distri-
buzione di libri al dettaglio ha visto nascere una nuova specie (commercio on-
line) che ha preso il sopravvento sulle altre. Allo stesso tempo, le rinnovate
aspettative dei consumatori hanno aperto la strada all’affermarsi di una nuova
categoria di organizzazioni, focalizzate nel proporre un catalogo di libri rari
ed una shopping experience più vicina a quella della “consulenza libraria” che
non della vendita.

Box 11.2 Ecologia delle popolazioni organizzative

L’interesse per le dinamiche che accompagnano la nascita, lo sviluppo e la scomparsa di nuove (e


vecchie) forme organizzative ha dato vita ad un ampio filone di studi che rientrano sotto il nome di
“ecologia delle popolazioni organizzative”, conosciuta anche come modello della selezione naturale
(Hannan e Freeman, 1974; Aldrich, 1971). Questo insieme di studi mira a descrivere le ragioni per le

360
La gestione delle relazioni interorganizzative

quali alcune tipologie di organizzazioni tendono a scomparire nel tempo mentre altre sopravvivono. Gli
esponenti di questo filone teorico concepiscono l’ambiente come un insieme di pressioni e vincoli che
vengono variamente intercettati dalle organizzazioni per dare vita a diverse forme. Solo le organizza-
zioni che riescono ad adeguarsi al meglio all’evoluzione ambientale (ed al suo perenne dinamismo)
sopravviveranno. In questa prospettiva, le organizzazioni non vengono prese in considerazione come
singole entità, ma come parte di gruppi (ovvero specie) più ampi in lotta per la sopravvivenza. Le
relazioni fra organizzazioni sono pertanto prese in considerazione in relazione al loro ambiente di rife-
rimento ed alla loro capacità di adattarsi allo stesso, evolvendo.

11.1.2. Gestire le interdipendenze attraverso il disegno dei confini aziendali:


scelte di esternalizzazione ed internalizzazione delle attività

Chiarite le modalità con le quali le interdipendenze fra organizzazioni possono


essere descritte ed analizzate, diventa importante comprendere come esse pos-
sano essere gestite e quale impatto esse hanno sulla configurazione delle rela-
zioni fra organizzazioni.
Le modalità con cui queste interdipendenze vengono gestite sono tali da
influenzare in modo determinante la definizione dei confini organizzativi. Le
scelte di ripartizione del lavoro fra organizzazioni avvengono proprio là dove il
dominio di una organizzazione finisce ed inizia quello di un’altra. In altri ter-
mini, interdipendenze e relazioni interorganizzative convivono in un rapporto
che varia in funzione delle scelte relative all’estensione dei confini delle organiz-
zazioni, indipendentemente dalla natura delle relazioni e dalla similarità degli
attori coinvolti.
Si pensi, a titolo esemplificativo, ad un’azienda la cui sopravvivenza di-
pende fortemente dalla disponibilità di un semilavorato messo a disposizione da
un suo fornitore. Accogliendo il modello presentato nel paragrafo precedente,
la relazione fra questi due soggetti può essere efficacemente interpretata attra-
verso il paradigma della dipendenza dalle risorse. Fra le altre opzioni disponi-
bili, l’azienda cliente potrà cercare di ridurre la propria dipendenza da questo
semilavorato cercando di acquisire il proprio fornitore. Questa strategia, detta
di integrazione verticale “a monte”, implicherà un ampliamento dei confini or-
ganizzativi.
Come si evince da questo breve esempio, parlare di relazioni interorganiz-
zative significa necessariamente far riferimento al modo in cui i confini aziendali
vengono disegnati da ciascuna organizzazione. Questo paragrafo si focalizza
pertanto sul rapporto che esiste fra relazioni interorganizzative, gestione delle
interdipendenze e configurazione dei confini aziendali.
Innanzitutto, è fondamentale chiarire cosa si intenda per confini organiz-
zativi. Nonostante apparentemente semplice, definire univocamente cosa sia un

361
Lineamenti di organizzazione aziendale

confine organizzativo è una sfida quanto mai ardua. I confini organizzativi rap-
presentano infatti uno degli aspetti portanti delle scienze organizzative, che nel
tempo sono stati studiati sotto lenti teorico-interpretative totalmente differenti
(Thompson, 1967; Pfeffer e Salancik, 1978).
Come illustrato da Santos e Eisenhardt (2005), i confini possono essere
considerati “come la demarcazione delle strutture sociali che costituiscono una
organizzazione” (Dutton et al., 1994; Kogut, 2000) oppure come “la sfera di
influenza organizzativa, incluso il grado di controllo sul settore di riferimento e
sulle altre forze esterne (D’Aveni, 2001).
La difficoltà di pervenire ad una unica definizione dipende dalla necessità
di disporre di un adeguato criterio di demarcazione. A tal proposito, esistono
quattro criteri fondamentali per definire un confine organizzativo (Santos e Ei-
senhardt, 2005). Un’organizzazione, dunque, può (o deve) cedere il coordina-
mento e la responsabilità dello svolgimento di porzioni di lavoro quando:

● ritiene che sia più conveniente (criterio di efficienza);


● ritiene di non avere abbastanza potere per influenzare lo svolgimento
dell’attività (criterio di potere);
● ritiene di non aver abbastanza competenze per gestire le attività (criterio
di competenza);
● ritiene che le attività da svolgere e non siano coerenti con la propria
identità (missione, visione, valori, cultura organizzativa).

A prescindere dal criterio scelto, la definizione dei confini determina una (più o
meno) ben definita separazione fra le attività svolte all’interno e quelle svolte
all’esterno. Mentre in alcuni casi questa scelta è dettata da norme, principi o
pratiche consolidate (si pensi, ad esempio, ad un’azienda che lascia al Comune
il compito di asfaltare le strade che portano all’area industriale in cui ha sede),
molto spesso la scelta di esternalizzare (outsourcing) o internalizzare (insourcing)
specifiche porzioni del flusso di lavoro deriva da una specifica strategia azien-
dale. Assai di frequente, tale strategia prende forma dalla necessità di garantire
un’elevata efficienza nello svolgimento delle attività organizzative. In ragione
del primo criterio poco sopra descritto, infatti, le organizzazioni tendono a va-
lutare i vantaggi di mantenere al proprio interno determinate attività oppure, al
contrario, esternalizzarle ad altri attori. A tal proposito, la delimitazione dei
confini organizzativi che ne risulta può essere meglio compresa se esaminata se-
condo l’ottica proposta dagli studi sui costi di transazione di Ronald Coase e,
più tardi, di Oliver Williamson. Come sarà discusso nelle pagine successive, la
prospettiva suggerita dagli studiosi è quella secondo cui l’organizzazione deve
essere intesa non tanto come un’entità produttiva, quanto una struttura di go-
verno (governance). Il focus, dunque, si sposta dalla necessità di garantire un

362
La gestione delle relazioni interorganizzative

utilizzo ottimale delle tecnologie a quella di stipulare transazioni con altre orga-
nizzazioni, ossia contratti che, per l’organizzazione stessa, risultino tanto con-
venienti quanto affidabili. In altri termini, secondo gli studiosi, la questione cen-
trale che le organizzazioni si trovano a fronteggiare è quella di comprendere se
e in che misura variare i propri confini producendo internamente un bene o un
servizio o acquistarlo all’esterno da altre organizzazioni dedicate a tale produ-
zione. Si richiama cioè il noto dilemma del “make or buy”. Osservata attraverso
questa lente teorica, la definizione dei confini organizzativi diventa dunque con-
seguenza della scelta che l’organizzazione compie relativamente al grado di con-
trollo che decide di avere sulle transazioni che intrattiene con altre organizza-
zioni. Tale scelta si collocherà all’interno di un continuum i cui estremi sono rap-
presentati, da un lato, dal totale controllo sulle attività organizzative che ri-
chiede una completa internalizzazione delle stesse (make) e, dall’altro, dalla
esternalizzazione di tutte (o pressoché tutte) le attività ad altre organizzazioni
(buy). Va da sé che gli scenari estremi sono alquanto irrealistici e rari da rintrac-
ciare nella vita reale. Molto più plausibili sono i casi intermedi, vale a dire quelli
in cui l’organizzazione si lega ad altre entità per mezzo di intese informali, ac-
cordi su base azionaria o rapporti di collaborazione. Una trattazione dettagliata
di alcuni esempi viene proposta più avanti in questo capitolo.
Detto ciò, sono prioritariamente due gli elementi che guidano la scelta di
insourcing (ossia il “make”) ed outsourcing (ovvero l’opzione “buy”).
Da un lato, si valuta quanto una specifica attività (o un set di attività) è
funzionale a garantire le performance operative dell’organizzazione, ad esempio
in termini di garantire livelli di fornitura in modalità, tempi e standard qualita-
tivi giudicati adeguati dai diversi stakeholders. Dall’altro, si valuta quanto lo
svolgimento di una specifica attività è strategico (ovvero determinante) per l’esi-
stenza stessa dell’organizzazione. Sotto quest’ultimo profilo, le attività più stra-
tegiche sono quelle che caratterizzano l’organizzazione e la distinguono rispetto
ai propri competitors. Dati questi criteri, si tende ad internalizzare le attività ad
alta rilevanza strategica ed alto impatto sulle performance operative, mentre si
potranno esternalizzare quelle che - pur impattando significativamente sulle
performance operative dell’impresa, non rivestono un ruolo fondamentale per
la sua sopravvivenza (Schniederjans et al., 2005).

Box 11.3 Attori chiave dell’outsourcing

A prescindere dalla natura giuridica e dalle forme organizzative scelte per governare le scelte di ester-
nalizzazione, in un processo di outsourcing coesistono tre attori chiave: l’outsourcee, o committente,
o cliente, ovvero l’azienda che prende la decisione di servirsi dell’outsourcer senza produrre interna-

363
Lineamenti di organizzazione aziendale

mente un certo prodotto/servizio; l’outsourcer, detto anche provider, vendor, partner, o fornitore, ov-
vero l’azienda che svolge le attività che il committente sceglie di distrarre dalla propria sfera di con-
trollo; il cliente finale che riceverà l’output generato dal processo lavorativo esternalizzato.

Oltre alle valutazioni sulla priorità strategica delle attività oggetto di esternaliz-
zazioni e del rischio connesso ad eventuali non conformità nello svolgimento
delle stesse, la configurazione dei confini organizzativi deve tener conto di altri
fattori, tra cui la disponibilità di molteplici fornitori ai quali rivolgersi e la di-
sponibilità delle abilità interne richieste per gestire la relazione con il fornitore
(in termini di misurazione delle performance e gestione dei rischi) nonché l’im-
patto economico complessivo che una scelta di esternalizzazione ha in termini
di costi fissi, variabili e di coordinamento (Hamilton, 2002).
Chiariti i criteri con i quali un confine organizzativo può essere definito e
configurato in funzione di specifiche strategie di outsourcing ed insourcing, resta
da capire come si possano coordinare le interdipendenze fra organizzazioni.

11.2 Il coordinamento delle interdipendenze

I primi paragrafi di questo capitolo hanno messo in evidenza alcuni concetti


fondamentali.
Innanzitutto, esiste una certa variabilità nella genesi, nelle modalità e nelle
ragioni per le quali le organizzazioni sono in relazione fra loro. Due organizza-
zioni possono essere in relazione perché una possiede le risorse che servono
all’altra, perché lottano per occupare una medesima nicchia nell’ambiente in cui
convivono, perché subiscono le stesse pressioni istituzionali oppure perché
hanno deciso di collaborare in un network.
In secondo luogo, se c’è relazione allora c’è una interdipendenza. A pre-
scindere dalla genesi e dalle caratteristiche di una relazione interorganizzativa,
due imprese in relazione sviluppano una mutua (inter) dipendenza. L’intensità
e le caratteristiche di questa interdipendenza dipendono dall’estensione dei con-
fini organizzativi, ovvero dal grado di controllo sulle attività e sulle risorse,
dall’estensione su nicchie condivise, dall’ingresso (o meno) in network collabo-
rativi e dal riconoscimento (o meno) di specifiche istituzioni. In altri termini, il
“quanto”, “come”, “quando”, “cosa” e “perché” di una organizzazione si ri-
flette sull’estensione dei propri confini.
Come governare, dunque, le interdipendenze che si generano come esito
di un insieme di relazioni attivate per effetto di una definizione dei propri confini
organizzativi? Il paragrafo che segue affronta esattamente questa questione.

364
La gestione delle relazioni interorganizzative

11.2.1 I meccanismi di controllo: gerarchia, mercato e network

È possibile immaginare una situazione nella quale nessuna interdipendenza deve


essere gestita? Se si fa riferimento alla dinamica dei confini aziendali, sopra pre-
sentata, si arriva facilmente a concludere che tale caso si verifica quando tutte
le organizzazioni (intese come aggregazioni di funzioni produttive) definiscono
un confine talmente piccolo da decretarne la dissoluzione. In questo scenario,
tutte le organizzazioni hanno un dominio nullo e tutte le transazioni necessarie
per lo svolgimento delle attività (es. acquisizione delle risorse) realizzate dalle
funzioni produttive avvengono con fluidità attraverso un meccanismo di coor-
dinamento detto “di mercato”. Le funzioni produttive non hanno bisogno di
nessun altro meccanismo di governo delle transazioni diverso da quello offerto
dal mercato.
Come noto, però, questo scenario è quanto mai raro. Affidarsi esclusiva-
mente al mercato è complicato e costoso, perché le funzioni produttive devono
individuare una possibile controparte, controllare gli approvvigionamenti ed
una serie di asimmetrie informative. Per queste ragioni, le funzioni produttive
vengono aggregate per dare origine alle imprese (Coase, 1937, 1960), in modo
tale che un’adeguata quantità di transazioni avvenga all’interno di un meccani-
smo di governo meno incerto (quello della gerarchia). Tanto più cresce specifi-
cità, incertezza e frequenza delle transazioni, tanto più conveniente sarà optare
per la gerarchia come meccanismo di coordinamento delle transazioni necessa-
rie per garantire le attività svolte dalle funzioni produttive (Williamson, 1975).
L’impresa, intesa come forma di organizzazione del lavoro prevalentemente ba-
sata sulla gerarchia, si contrappone quindi al mercato, situazione governata da
scambi e competizione tra unità giuridicamente autonome (Grandori, 1995).
In questo schema concettuale, tutte le forme organizzative (e dunque i re-
lativi meccanismi di coordinamento delle interdipendenze) che non possono es-
sere associate né al mercato né alle imprese vengono considerate come “net-
work”. Secondo Achrol e Kotler (1999), i network si sono progressivamente svi-
luppati come forma di coordinamento delle interdipendenze per effetto del pro-
gressivo aumento del dinamismo ambientale e dall’importanza della conoscenza
registrato dalle economie mondiali dal secondo dopoguerra ad oggi. La neces-
sità di limitare i costi di transazione (movendo dal mercato alla gerarchia) viene
messa da parte per il più importante obiettivo di incrementare le capacità di
generare conoscenza e di adattarsi sempre più velocemente all’ambiente esterno.
In questo scenario, i network esibiscono una flessibilità ideale, perché le rela-
zioni che si instaurano al loro interno sono non solo più adattabili di quelle ge-
rarchiche, bensì anche più affidabili e prevedibili (in un certo senso “controlla-

365
Lineamenti di organizzazione aziendale

bili”) di quelle puramente di mercato. All’interno dei network vi è inoltre tipi-


camente una maggiore apertura verso la condivisione di informazioni (Weik,
1976), condizione altamente compatibile con l’assoluta primarietà di riuscire a
generare conoscenza utile per garantire lo sviluppo.
Definire i network in maniera univoca ed universale è praticamente im-
possibile. Il fenomeno si presenta con una tale quantità di sfaccettature e viene
analizzato a livelli e con sensibilità così differenti da generare una eterogeneità
non riconciliabile. Per questo motivo, in questo paragrafo si sceglie di presentare
soltanto una fra le differenti definizioni possibili, ovvero quella di Aschrol e
Kotler (1999), secondo i quali un network è una coalizione interdipendente di
entità che opera senza controllo gerarchico, ma che è impregnato di dense con-
nessioni orizzontali, di mutualità e di reciprocità, in un sistema di valori condi-
visi che definisce i ruoli e le responsabilità dei membri.
Un network può essere pertanto considerato come un meccanismo di
coordinamento e controllo delle interdipendenze che si presenta sotto varie
forme, di seguito riportate.
Secondo Grandori (1995), tre sono le possibili alternative di coordina-
mento, che danno forma ad altrettanti tipi di rete: proprietarie, burocratiche e
sociali.

● Le reti proprietarie rappresentano la forma di coordinamento più simile


a quella gerarchica, perché ne utilizzano i meccanismi tipici, come l’in-
centivo, mediante l’assegnazione di un diritto di partecipazione agli utili
della rete e a detenere parte delle attività. Gli esempi più comuni sono le
joint-venture (più avanti trattate con maggiore dettaglio; accordi se-
condo cui due o più imprese uniscono capitale e conoscenza, al fine di
perseguire uno scopo comune) e le capital-venture (in questo caso un’im-
presa fornisce del capitale di rischio a società in espansione, accollando-
sene anche i rischi di fallimento).
● Le reti burocratiche coordinano le interdipendenze mediante la forma-
lizzazione contrattuale delle obbligazioni da contrarre in termini di com-
portamenti, condivisione patrimoniale ed informativa e di tutti gli altri
comportamenti che si ritiene siano rilevanti per lo sviluppo della rete.
Come evidenziato da Williamson (1979), questi meccanismi possono es-
sere classificati in due tipi: associativi (legano secondo schemi “orizzon-
tali” i contraenti) oppure obbligativi (contemplano clausole che sanci-
scono obblighi reciproci di comportamento).
● Le reti sociali, infine, basano il coordinamento delle interdipendenze
prevalentemente mediante comunicazione diretta, e le decisioni vengono
prese in virtù di una elevata disponibilità fiduciaria fra i membri. Pro-

366
La gestione delle relazioni interorganizzative

prio perché sostanzialmente informale e basato su fiducia, questo mec-


canismo di coordinamento richiede periodi medio-lunghi per potersi raf-
forzare al punto da riuscire efficacemente a coordinare anche processi
decisionali complicati ed a scongiurare il verificarsi di comportamenti
scorretti da parte di alcuni membri della rete.

11.3 Alcune opzioni di progettazione dei confini organizzativi

Le relazioni interorganizzative possono dunque essere considerate una forma di


governance organizzativa c.d. intermedia, ovvero alternativa alle più tradizionali
strutture di governance fondate sulla proprietà finanziaria di tipo verticale.
Tali relazioni possono presentarsi sotto varie forme, alcune già citate nelle
pagine precedenti. Alcuni esempi sono le joint ventures, le partnership strategi-
che tra committenti e fornitori, i contratti di licenza, le alleanze tra imprese, ma
anche in consorzi, i contratti di franchising, le associazioni temporanee di im-
prese (ATI), etc. Data la pervasività con cui tali forme organizzative emergono
in particolar modo nel contesto economico europeo, nei paragrafi che seguono
sarà dedicata maggiore attenzione solo ad alcune di esse. Ulteriori tipologie di
relazioni interorganizzative saranno illustrate all’interno dei box riportati più
avanti nel capitolo.

11.3.1. Le partnership strategiche tra committente e fornitore nella gestione


della qualità

La crescente tendenza, a partire dagli anni ‘80 dello scorso secolo, a costruire
relazioni produttive tra committenti (o clienti) e fornitori trae origine dal com-
provato successo registrato dalle pratiche giapponesi applicate alle realtà mani-
fatturiere del tempo. Grazie alla loro capacità di gestire efficientemente la loro
rete di fornitori secondo i principi della lean production già discussa all’interno
del capitolo 9, durante gli anni 1970-1990 numerose imprese nipponiche regi-
strarono uno straordinario vantaggio competitivo rispetto alle loro concorrenti
occidentali. A determinare questo successo contribuì la comprensione, da parte
dei grandi player del momento quali Toyota e NEC (Nippon Electronic Com-
pany), che la loro competitività non poteva prescindere dalla presa in esame di
due elementi basilari: da un lato, il valore richiesto dal consumatore finale e,
dall’altro, la riduzione al minimo (e, ove possibile, la completa eliminazione) di
qualunque spreco lungo la catena di produzione. A tal fine, queste imprese strut-
turarono la suddetta catena in livelli diversi di fornitura per potenziarne non
solo l’efficienza, bensì anche i flussi comunicativi. Inoltre, ogni loro sviluppo e

367
Lineamenti di organizzazione aziendale

miglioramento interessò non un singolo attore o un singolo livello di fornitura,


ma l’intera catena, ossia l’intera rete di fornitori.
Tra i settori che maggiormente hanno beneficiato delle relazioni tra com-
mittente e fornitore troviamo quello automobilistico, il settore industriale più
ampio di tutta l’economia mondiale che ha via via introdotto modelli organiz-
zativi poi implementati all’interno di altri settori. Questo settore è sempre stato
caratterizzato da intensa competizione oltre che da un eccesso di capacità pro-
duttiva 4 di circa il 20%, registrata in particolar modo nel contesto europeo. Inol-
tre, per svariati anni, i produttori europei di automobili hanno dimostrato di
operare con un netto ritardo rispetto ai concorrenti nipponici, sia per quanto
concerne i livelli di produttività che quelli di qualità. Numerose ricerche sul tema
hanno dimostrato che nel periodo 1970-1990 gli stabilimenti produttivi del
Giappone potevano produrre una determinata automobile impiegando la metà
delle ore lavorative di quelle richieste ad un corrispondente produttore europeo
localizzato in Europa. L’evidente necessità di potenziare la propria competiti-
vità rispetto alla concorrenza indusse pertanto le imprese manifatturiere euro-
pee ad apportare importanti cambiamenti organizzativi nel tentativo di ridurre
le differenze di performance con i competitors asiatici.
A tal fine, molti di essi agirono per il miglioramento sia degli assemblatori
di automobili sia delle relazioni tra questi e i fornitori, coerentemente con la
consapevolezza che la competitività di ogni attore economico è il risultato tanto
della sua efficienza interna quanto di un’adeguata gestione delle relazioni
esterne con i propri stakeholder (Turnbull et al., 1992). Relativamente a queste
ultime, le imprese manifatturiere compresero che una loro efficace organizza-
zione avrebbe garantito una significativa riduzione dei costi di produzione.
A partire da ciò, le aziende del settore (prima le giapponesi e, di conse-
guenza, i produttori europei e statunitensi) svilupparono un innovativo modello
di relazioni, la c.d. “lean supply”, caratterizzata da un minor focus sull’integra-
zione verticale degli attori, dalla riduzione del numero di fornitori diretti e, pa-
rallelamente, dalla tendenza a creare partnership. Ciò indusse alla creazione di
più strette relazioni tra gli attori coinvolti, sempre più fondate sulla trasparenza
dei processi di trasferimento e di scambio delle informazioni e delle conoscenze
e, parallelamente, ad una maggiore delega dei compiti relativi al design e alla
ingegnerizzazione dei processi verso i livelli inferiori della catena di fornitura
(Bensaou, 1999).

4
L’eccesso di capacità produttiva (excess capacity, nella sua dicitura inglese) denota una situazione in cui l’ef-
fettiva produzione di un’impresa risulta inferiore rispetto alla produttività realmente ottenibile, ovvero al livello
ottimale di produttività che la stessa potrebbe raggiungere in ragione della struttura di cui si è dotata. Tale ec-
cesso fa sì che il costo marginale di produzione risulti inferiore rispetto al costo medio di produzione, lasciando
dunque spazio alla possibilità di ridurre ulteriormente il costo medio per unità realizzate attraverso la produzione
di una quantità maggiore di prodotti e/o servizi. Si parla, dunque, di eccesso di capacità per indicare un certo
ammontare di capacità produttiva che l’impresa al momento non sta utilizzando.

368
La gestione delle relazioni interorganizzative

Tale ristrutturazione organizzativa trova fondamento nella consapevo-


lezza che alcuni settori, incluso quello automobilistico appunto, fondano gran
parte delle loro competitività su decisioni connesse al “make-or-buy” relativa-
mente alle singole parti di cui i loro prodotti finali si compongono. Per queste
imprese l’acquisto di componenti da partner esterni rappresenta una voce di co-
sto particolarmente significativa (se non la più significativa), tale da raggiungere
il 50-60% dei costi totali. In questi casi, pertanto, lo sviluppo di relazioni efficaci
tra committenti (buyers) e fornitori (suppliers) può avere un impatto di grande
rilievo sulla loro efficienza interna.
Tale approccio ha generato importanti implicazioni sia dal lato dei com-
mittenti che da quello dei fornitori. Ai primi ha consentito di concentrarsi pre-
valentemente sull’ottenimento del necessario livello di qualità al giusto prezzo,
mentre ai secondi di focalizzarsi sulla fornitura di tale livello di qualità ad un
prezzo profittevole. Quale sia tale livello di qualità e a cosa faccia realmente
riferimento sono interrogativi che hanno attirato l’attenzione di molti studiosi
nonché di molteplici professionisti di settori interessati a migliorare la relazione
tra buyer e supplier.
A tal proposito, Reeves e Bednar (1994) hanno proposto una definizione
di “qualità” che ne incorpora quattro aspetti principali:

● Eccellenza. Mirare alla qualità significa essere pronti ad investire le mi-


gliori abilità e competenze di cui si dispone e a realizzare il massimo
sforzo possibile al fine di produrre risultati di elevatissimo standard.
L’eccellenza non ammette l’accettazione di compromessi o di soluzioni
soltanto parzialmente soddisfacenti.
● Valore. Prodotti e servizi di qualità devono garantire al consumatore fi-
nale un valore che questi è in grado di riconoscere. Dato ciò, la qualità
potrebbe non indicare necessariamente ciò che è migliore in termini as-
soluti. Piuttosto, è importante che essa rappresenti qualcosa che, date
determinate condizioni di un cliente, è considerata la soluzione migliore
possibile. Tali condizioni si riferiscono, generalmente, all’utilizzo che il
cliente farà del prodotto/servizio e al prezzo di vendita dello stesso. Per-
tanto, il valore per il cliente è determinato a fianco del fattore prezzo,
storicamente concepito come il principale elemento in grado di influen-
zare le scelte dei consumatori, emerge il fattore qualità. Attualmente
possiamo affermare che soltanto nei casi in cui due o più prodotti/servizi
siano considerati possedere il medesimo livello di qualità, il prezzo può
realmente essere una discriminante nella scelta di acquisto da parte del
consumatore.

369
Lineamenti di organizzazione aziendale

● Conformità alle specifiche richieste. La qualità è tale quando, oltre ad


una prospettiva soggettiva e personale, essa si riflette nel raggiungi-
mento di determinati standard di produzione e livelli di performance.
Così facendo, la qualità può servirsi di indicatori oggettivi ed essere mo-
nitorata con strumenti di controllo e analisi statistiche.
● Soddisfazione e/o superamento delle aspettative del cliente. Per quanto sia
importante disporre di indicatori oggettivi di qualità, non possiamo
ignorare che essa può essere valutata in modo diverso da clienti/consu-
matori finali diversi. Ovvero, le metodologie di misurazione della qua-
lità non possono limitarsi ad esaminare la tipologia dei materiali utiliz-
zati per produrre determinati prodotti, il grado di perfezione dei loro
disegni tecnici o il rispetto degli standard produttivi. Ciò è ancor più
vero laddove ad essere valutato non sia un prodotto, bensì un servizio,
ossia un bene intangibile, che per definizione rende difficoltosa la valu-
tazione oggettiva delle sue caratteristiche chiave. È allora importante
che la qualità sia pianificata e realizzata tenendo conto delle reali prefe-
renze dei consumatori, le quali potrebbero divergere rispetto ai suddetti
indicatori oggettivi. Come ricordano gli studiosi del tema, “chi giudica
la qualità è il consumatore. Le valutazioni provenienti da altre fonti
sono pressoché irrilevanti” (Zeithaml et al. 1990). Dunque, ciò che ve-
ramente conta è la qualità così come essa è percepita dal cliente (Grön-
roos 1990).

Parallelamente, gli studiosi hanno tentato di comprendere più approfondita-


mente la natura di una performance che possa essere riconosciuta “di qualità”,
nonché le sue diverse dimensioni. A tal proposito, il contributo di Flynn e col-
leghi (1997) ha proposto una distinzione tra:

● Performance di qualità interna all’organizzazione che la produce, la


quale fa riferimento alla suddetta conformità rispetto a determinate spe-
cifiche che sono state definite ex ante. Così facendo, tale qualità è forte-
mente connessa, ad esempio, alla qualità del design di un determinato
prodotto.
● Performance di qualità esterna, la quale richiama la qualità percepita dal
mercato, ossia, da un lato, la qualità percepita dal consumatore attra-
verso l’utilizzo del prodotto o del servizio a cui la stessa fa riferimento

370
La gestione delle relazioni interorganizzative

(c.d. quality-in-use5) e, dall’altro, la soddisfazione del cliente nei con-


fronti di tale qualità.

Si noti, tuttavia, che una componente fondamentale della qualità universal-


mente riconosciuta è quella incorporata nel design, dunque quella legata alla
performance di qualità interna. Il design, infatti, non rappresenta solamente una
tra le più significative voci di costo 6, bensì un fattore determinante la qualità in
quanto «la qualità è concepita, è ideata all’interno del prodotto […] tanto che
un buon design è in grado di accrescere l’abilità di un’impresa di sviluppare e
realizzare nuovi prodotti con maggiore rapidità attraverso la riduzione al mi-
nimo delle loro modifiche tecniche che, diversamente, tendono a ritardare signi-
ficativamente la produzione. Così facendo, il design contribuisce a migliorare
tre aspetti essenziali di ogni organizzazione: i costi di produzione, la qualità della
propria offerta e la tempestività di risposta alle richieste del mercato» (Fleischer
e Liker 1992, p. 254).

11.3.1.1 Le diverse tipologie di relazione tra committente e fornitore

La letteratura (Bensaou, 1999) suggerisce che sia possibile individuare e classi-


ficare le relazioni che si instaurano tra committente e fornitore prendendo in
esame due diverse dimensioni: gli investimenti specifici, concernenti la relazione,
realizzati dal committente e quelli compiuti dal fornitore (Figura 11.1). Il grado
di specificità dell’investimento, infatti, rende difficile trasferire lo stesso su altre
relazioni che potrebbero richiedere tecnologie e conoscenze diverse.
Come si nota dalla Figura 1, sull’asse verticale è posto il grado di specifi-
cità degli investimenti compiuti dal committente. Si tratta, in genere, di investi-
menti tangibili, quali quelli realizzati in edifici, strumenti, macchinari ed attrez-
zatura dedicati al fornitore così come quelli compiuti per l’acquisto e lo sviluppo
di prodotti o processi organizzativi adattati e pensati esattamente per i compo-
nenti forniti dal partner. Gli investimenti del committente possono tuttavia ri-
guardare anche elementi caratterizzati da minore tangibilità, come nel caso di
investimenti nel reclutamento di nuove risorse umane, nella formazione di per-
sonale già disponibile oppure investimenti realizzati nel tempo dedicato ad ap-
prendere le pratiche e le routine seguite dal fornitore, così come a scambiare
informazioni, best practices e conoscenza per rafforzare la relazione. Si tratta,

5
Ad esempio, applicata al contesto dei software, la qualità dell’utilizzo indica i risultati che un soggetto che
usufruisce di un determinato software raggiunge, date le proprietà del software stesso. Ciò significa che, pur
utilizzando lo stesso software, due soggetti diversi potrebbero registrare performance altrettanto diverse.
6
Si stima che circa l’85% del costo totale dei nuovi prodotti dipenda dalle spese necessarie al loro design (si
veda Fynes e Voss, 2002).

371
Lineamenti di organizzazione aziendale

dunque, di investimenti mirati non a creare nuove opportunità di business, bensì


ad alimentare ed irrobustire la relazione con quel particolare fornitore.
L’asse orizzontale considera, invece, gli investimenti specifici realizzati dal
fornitore. Quelli di carattere tangibile richiamano, in genere, gli investimenti in
stabilimenti, magazzini e attrezzature specializzate, mentre quelli intangibili in-
cludono le visite che il personale afferente al fornitore compie presso il commit-
tente per valutare le potenzialità della relazione, ma anche per lo sviluppo, ad
esempio, di sistemi informativi che siano compatibili con i protocolli e i database
di proprietà del committente.

Figura 11.1 Le tipologie di relazioni tra committente e fornitore in base al


livello di specificità degli investimenti compiuti

Dalla combinazione di queste due dimensioni e la valutazione del loro livello


più o meno elevato di specificità è possibile ottenere quattro diverse tipologie di
relazione.
Nel quadrante in alto a destra troviamo le “partnership strategiche”, in
cui entrambi i partner compiono investimenti idiosincratici in risorse altamente
specifiche per la relazione. È questo il caso in cui i partner si vincolano a vicenda
diventando, secondo le parole di alcuni studiosi, ostaggi l’uno dell’altro. Scena-

372
La gestione delle relazioni interorganizzative

rio opposto rispetto alle partnership strategiche è quello dello “scambio di mer-
cato” in cui né committente né fornitore sviluppano assets specifici ai fini del
mantenimento della loro relazione. Quest’ultima può infatti essere alimentata
attraverso risorse di carattere generale che non richiedono investimenti partico-
lari. In questo caso ognuna delle parti, qualora lo ritenga necessario, può esa-
minare nuovamente il mercato e rintracciare un nuovo partner a costi molto
bassi e senza incorrere in conseguenze dannose ingenti. Vi sono, infine, due si-
tuazioni intermedie. La prima è quella che vede il solo “committente vincolato”
alla relazione, in ragione del fatto che questi, e non anche il fornitore, compie
investimenti specifici alla relazione. Qualora questa non dovesse garantire i be-
nefici sperati, mentre il fornitore potrebbe ricercare un nuovo cliente sul mer-
cato, il committente originale risulterebbe ben più limitato, in quanto guidato
dalle risorse specializzate sviluppate esattamente per dar vita alla relazione con
quel fornitore. Caso simile emerge dal quadrante in basso a destra, “fornitore
vincolato”, in cui, come appena descritto, a risultare intrappolato negli investi-
menti realizzati è il fornitore e non anche l’acquirente.
Detto ciò, la domanda da porsi è la seguente: vi è un quadrante che più
degli altri garantisce che la relazione produca performance migliori? La ricerca
sul tema sembra non aver rintracciata differenze sostanziali, indicando dunque
che ognuna delle quattro tipologie di relazione può risultare vincente, se gestita
in modo efficace. In particolare, affinché la gestione della filiera (supply chain)
sia redditizia, gli esperti (Bensaou, 1999) suggeriscono di prestare attenzione a
due aspetti: in primo luogo, le organizzazioni devono garantire allineamento tra
il tipo ideale di relazione da stabilire e le condizioni sotto cui si presentano i
prodotti, il mercato e i partner; inoltre, esse devono adottare un approccio ma-
nageriale che sia adeguato ad ogni tipologia di relazione.
Molto spesso, infatti, i fallimenti registrati nella gestione della supply
chain di frequente sono riconducibili all’incapacità delle imprese sia di proget-
tare che di gestire adeguatamente la relazione col partner.

11.3.2. I team interaziendali

I team di lavoro interaziendali (o interorganizzativi) rappresentano uno stru-


mento particolarmente efficace qualora le imprese coinvolte nella relazione ab-
biano le necessità di affrontare un mercato turbolento, gestire più attentamente
la reciproca interdipendenza e rafforzare la propria flessibilità e capacità di ri-
sposta a complesse richieste provenienti dal lato della domanda. Tali team di-
ventano dunque dei meccanismi di coordinamento di cui le parti coinvolte pos-
sono servirsi per raggiungere obiettivi di particolare valore strategico i quali in-
teressino un significativo scambio di conoscenze o di capitali o lo sviluppo di

373
Lineamenti di organizzazione aziendale

prodotti, servizi o tecnologie in partnership, dando vita così ad una forma du-
ratura di commitment tra i partner (Gulati e Gargiulo, 1999).
Se per un approfondimento concettuale dell’espressione “team interazien-
dale” si rimanda al capitolo 5, qui si intende piuttosto porre l’attenzione sulle
attività che tali team sono chiamati a svolgere, coerentemente con la necessità
di mantenere una relazione costante col mercato esterno. Tali attività, dette
boundary activities, ossia attività di confine, sono state oggetto di numerose clas-
sificazioni (si vedano, a tal fine, Ancona e Caldwell, 1998; Yan e Louis, 1999).
Una tra quelle che consideriamo essere maggiormente omnicomprensiva è
quella secondo cui esse ricomprendano tre compiti principali (Drach-Zahavy,
2011):

● Ricercare informazioni di rilevanza strategica all’interno dell’ambiente


di riferimento. Sono le attività cosiddette di scouting le quali coinvol-
gono la raccolta e l’attenta analisi di informazioni relative ai concor-
renti, al mercato, ai clienti o alle nuove tecnologie. Tale attività consente
ai team interaziendali di accedere a conoscenze critiche per il proprio
successo, incrementando il valore delle competenze già altamente diver-
sificate dei membri del team e, parallelamente, rafforzando la loro capa-
cità di comprendere ed interpretare i segnali provenienti dall’esterno, in
particolar modo dal lato della domanda (i consumatori).
● Individuare fonti di supporto che sostengano i progetti innovativi. Tale
attività (generalmente definita ambassador activity) induce il team a svi-
luppare la capacità di persuadere gli altri nel supportare il suo operato
e a far pressione per accaparrarsi risorse strategiche. Così facendo, que-
sto genere di attività consente ai team di acquisire potere ed influenza
sul mercato in quanto i loro membri si attivano per proteggere le loro
risorse, salvaguardandole da eventuali interferenze esterne. Ciò può ri-
sultare particolarmente utile quando, all’interno di un determinato con-
testo competitivo, il potere tra gli attori economici risulta non equa-
mente distribuito (ad esempio, quando è concentrato nelle mani di uno
o di pochi concorrenti). Tale scenario può indurre a servirsi di team in-
teraziendali per fini diversi quali creare rapporti cooperativi con le parti
più influenti del mercato o controllare gli attori più critici per gli equili-
bri di tale mercato.
● Gestire il coordinamento con l’ambiente esterno ed ottenere feedback
circa le attività svolte dal team. Tali attività, dette appunto coordination
activities, hanno il fine di negoziare con gli attori esterni al team e, con-
seguentemente, di generare strette relazioni con altri gruppi, clienti e au-
torità colmando così molte delle lacune provocate dalle più formali mo-
dalità di integrazione tra organizzazioni diverse.

374
La gestione delle relazioni interorganizzative

Come si evince da quanto riportato sopra, tali attività richiedono ai membri del
team di gestire la complessa rete di relazioni esterne al fine di cogliere i trend dei
diversi stakeholders che operano nel proprio mercato di riferimento. Coerente-
mente con ciò, essi sono chiamati a gestire il coordinamento, il trasferimento
delle conoscenze e le strategie politiche necessarie a dar vita a prodotti e servizi
nuovi e personalizzati per i propri clienti. Ciò non significa che i gruppi di lavoro
tradizionali non siano impegnati in tali attività, bensì che per i team interazien-
dali questo ruolo è maggiormente rilevante e caratterizzante la loro ragion d’es-
sere. Il contesto che essi rappresentano coinvolge infatti molteplici attori, tanto
interni quanto esterni ai team stessi, generando ulteriore complessità nelle atti-
vità di confine. Queste tendono pertanto ad interessare relazioni a più livelli: tra
gli attori interni al team, tra il team e le organizzazioni di origine dei suoi mem-
bri, così come tra il team ed altre organizzazioni che operano all’interno del
mercato. Va da sé che tali attività finiscono per coinvolgere una vasta diversità
di obiettivi, valori, risorse e strategie di cui ogni singolo attore partecipante alla
relazione si fa portatore. Ecco che, molto più di quanto accada nei gruppi di
lavoro tradizionali, le attività di confine risultano maggiormente peculiari nei
team interaziendali.
Il vantaggio che i team interaziendali possono ottenere dal portare a ter-
mine con successo le loro attività di confine deriva sia dal fatto che essi sono
progettati in modo tale da sovrapporsi alle unità funzionali già esistenti, sia
dalla consapevolezza che essi operano sulla linea di confine tra la loro organiz-
zazione di origine e l’ambiente esterno. Tale posizione consente loro di accumu-
lare risorse e costruire legami strategici con organizzazioni operanti in tale am-
biente, siano essi fornitori, clienti, concorrenti o altri attori economici. L’accesso
agevolato a risorse e conoscenze strategiche consente ai team di sviluppare
un’elevata competenza nella risoluzione di problemi complessi non risolvibili
con approcci organizzativi maggiormente tradizionali e fondati, ad esempio, su
un approccio organizzativo funzionale o comunque focalizzato sulla separa-
zione tra reparti.
Il grande apporto che le attività di confine garantiscono all’efficacia dei
team interaziendali trova la sua giustificazione teorica all’interno della lettera-
tura sui c.d. sistemi aperti, in particolar modo nel modello della dipendenza
dalle risorse presentato all’inizio del presente capitolo (Pfeffer e Salancik, 1978).
Secondo tale modello, i team interaziendali sviluppano una forte dipendenza dal
loro ambiente per quanto concerne le risorse di cui necessitano per funzionare
efficacemente. Ovvero, dato che la loro sopravvivenza ed il loro successo non
possono essere garantiti attraverso la completa autosufficienza nella produzione
di tali risorse, tali team devono necessariamente dedicarsi alle attività di confine

375
Lineamenti di organizzazione aziendale

per poter acquisire le ciò di cui hanno bisogno. Tuttavia, dato che le risorse
nell’ambiente sono per definizione scarse e che, oltre ai team interaziendali, nello
stesso ambiente vi saranno altre organizzazioni che competono per accaparrarsi
le stesse risorse, le attività di confine di questi gruppi dovranno concentrarsi
sulla conquista del potere e del controllo di quelle risorse essenziali di cui essi
necessitano.

11.3.3. Le joint venture e le alleanze strategiche

Le joint ventures (JV) sono forme di collaborazione tra organizzazioni che im-
plicano la creazione di una terza organizzazione separata, autonoma, con pro-
pria validità legale. Le parti coinvolte in una joint venture contribuiscono alla
sua creazione attraverso l’apporto di capitale (è il caso delle c.d. equity joint ven-
ture), dando così vita a unità di business la cui proprietà risulta condivisa tra
due o più partner. Ad esempio, CFMI è la joint venture nata dalla collaborazione
tra General Electric e Snecma; Telespazio è sorta dalla collaborazione tra Leo-
nardo e Thales; Sony Ericsson, nata nel 2001 dall’accordo tra il gruppo giappo-
nese Sony e la telco svedese Ericsson.
Un’alleanza è invece definita come un accordo volontario di scambio di
risorse tra imprese che si impegnano nello sviluppo congiunto o nella fornitura
di servizi, prodotti o tecnologie (Gulati, 1998). Diversamente dalle joint venture,
le alleanze strategiche non prevedono la creazione di una nuova impresa e, pa-
rallelamente, non richiedono alle imprese partecipanti l’apporto di capitale.
Tuttavia, data la similarità dei fini per i quali esse vengono create, alcuni studiosi
tendono a denominare le alleanze non-equity joint ventures. Inoltre, per tutta la
durata dell’alleanza, l’organizzazione partecipante mantiene la propria autono-
mia, distinguendosi perciò da altre forme di collaborazione quali le fusioni e le
acquisizioni di impresa.
Attraverso la partecipazione ad un’alleanza, le imprese collaborano com-
binando le proprie risorse e capacità al fine di raggiungere obiettivi sia collettivi
(ossia, riconducibili al fine per cui l’alleanza ha preso vita) che individuali (at-
tribuibili, cioè, alla singola organizzazione partner dell’alleanza). Un aspetto in-
teressante è quello per cui le alleanze possono prevedere la collaborazione di
imprese concorrenti.
Alcuni studiosi del tema ritengono che, mentre le joint venture sono mag-
giormente utilizzate in settori maturi, le alleanze strategiche tendono a compa-
rire in quelli più dinamici quali quelli high-tech.
Le ragioni che inducono le organizzazioni ad optare per una joint venture
o un’alleanza sono numerose.

376
La gestione delle relazioni interorganizzative

In primo luogo, esse consentono alle organizzazioni di entrare in mercati


esteri. Inoltre, hanno il vantaggio di generare tre importanti benefici (Doz e Ha-
mel, 1998): la co-specializzazione, la co-opzione e il co-apprendimento. La
prima suggerisce la necessità, per le organizzazioni, di attivare una serie di tran-
sazioni e relazioni che consentano loro di svilupparsi all’interno di mercati di-
versi, riducendo il rischio legato alla eccessiva focalizzazione su un unico mer-
cato. La co-opzione consente alle organizzazioni di promuovere azioni coordi-
nate relativamente ad interessi comuni alle partecipanti alle partnership. Infine,
il co-apprendimento offre la possibilità di confrontarsi con altre organizzazioni
e rintracciare opportunità di miglioramento e di crescita. Un processo di ap-
prendimento collettivo consente infatti di aprire possibilità di dialogo e con-
fronto con altre organizzazioni. Si tenga presente che vi sono alcuni casi in cui
le organizzazioni partner riescono ad ottenere solo uno di questi vantaggi.
Un ulteriore motivo alla base della decisione delle organizzazioni di dar
vita ad alleanze o joint venture è la loro capacità di agevolare i partner nelle fasi
iniziali di liberalizzazione dei mercati (Dacin et al., 1997), garantendo loro l’age-
vole entrata in tali mercati. Vi sono poi casi in cui la creazione di tali accordi
può essere richiesta o addirittura imposta dai Paesi in cui gli stessi si realizze-
ranno (perché, ad esempio, vi sono leggi che regolano le attività economiche di
organizzazioni straniere). Illustri studi hanno inoltre dimostrato che le alleanze
tendono a formarsi quando le imprese partner si trovano in una situazione di
vulnerabilità perché, ad esempio, operanti in settori ancora poco sviluppati o,
al contrario, caratterizzati da un elevato tasso di competizione. Alleanze e joint
venture sembrano essere una risposta adeguata anche qualora le organizzazioni
partner si trovino a gestire tecnologie particolarmente innovative o seguano una
strategia di first-mover.
Queste tipologie di collaborazioni possono dunque essere impiegate per
fini tanto offensivi quanto difensivi. Ad esempio, attraverso le alleanze strategi-
che, le organizzazioni possono tentare di occupare quote di mercato gestite dai
loro concorrenti oppure inviare loro un segnale che i confini della loro fetta di
mercato non devono essere oltrepassati. Il primo è un tipico caso di strategia
offensiva, il secondo di strategia difensiva (Lei, 1993).
A spiegare la nascita di queste particolari relazioni interorganizzative, ol-
tre alle motivazioni puramente economiche, emergono anche fattori di natura
sociale. Di frequente, infatti, le organizzazioni danno vita ad alleanze e joint
venture in quanto il vertice aziendale che le guida dispone di una rete di connes-
sioni particolarmente stabili e produttive che possono essere facilmente utiliz-
zate per raggiungere obiettivi di performance e di competitività.
In sostanza, la globalizzazione dell’economia, la deregolamentazione e la
privatizzazione sembrano essere le principali ragioni per cui le imprese facenti

377
Lineamenti di organizzazione aziendale

parte di alcuni settori (quali quello dei servizi finanziari, delle automobili, dei
servizi di trasporto aereo, del biotech, etc.) registrano una partecipazione mag-
giore ad alleanze e joint venture rispetto a quanto emerga per imprese operanti
in altri settori. In alcuni casi, è possibile perfino affermare che vi siano settori la
cui nascita e sopravvivenza si fondano considerevolmente sull’esistenza di col-
laborazioni strategiche tra imprese. Un esempio proviene dal settore delle bio-
tecnologie, il quale continua a prosperare e ad ampliarsi in gran misura grazie
agli accordi di collaborazione che legano imprese di ricerca e sviluppo di piccole
dimensioni a quelle più grandi, fino alle multinazionali farmaceutiche (Zollo et
al., 2002). In maniera simile, il settore dei semiconduttori fonda il suo successo
sul contributo strategico fornito dalle alleanze esistenti tra i produttori dei vari
componenti e i relativi assemblatori (Browning et al., 1995). In questi settori, la
presenza di collaborazioni formali tra organizzazioni consente di condividere il
rischio e gli elevati costi connessi alle attività di ricerca e sviluppo che il settore
richiede di portare avanti costantemente. Attraverso la collaborazione con altre
organizzazioni, i partner partecipanti possono accedere a competenze chiave
complementari alle loro, potendo così restare focalizzati sul consolidamento e
sull’implementazione delle proprie competenze distintive ed evitando, così, di
disperdere investimenti nello sviluppo di ulteriori capacità. Tuttavia, oltre ai set-
tori manifatturieri, si ricordi che le relazioni interorganizzative formali, quali le
joint venture e le alleanze, sono ampiamente utilizzate anche nei settori dei ser-
vizi, quali gli studi legali, le agenzie pubblicitarie, le società di consulenza e di
revisione contabile. Attraverso la partecipazione a queste collaborazioni, tali
imprese possono entrare in nuovi mercati e/o ampliare la gamma di servizi of-
ferti. Dinamiche simili si evidenziano anche nel settore della sanità e in quello
pubblico (si veda, ad esempio, Sandfort e Milward, 2009). Quanto detto sugge-
risce la diffusa applicazione delle alleanze strategiche e delle joint venture a pres-
soché ogni settore economico.
Tuttavia, è importante ricordare che spesso le joint venture sono forte-
mente preferite ad altre forme di relazioni tra imprese, quali i contratti di licenza
e le alleanze strategiche (Beamish e Lupton, 2009). Infatti, in ragione dell’ap-
porto di capitale che richiedono di versare, le joint venture risultano essere so-
luzioni maggiormente “vincolanti”, tali da indurre le imprese partecipanti a con-
tribuire al successo del business creato. Avendo tutti i partner un importante
incentivo a far sì che tale business risulti profittevole, risulterà vantaggioso as-
sicurare una collaborazione reciproca continuativa, anche qualora tali partner
siano imprese concorrenti di uno stesso settore 7.

7
Per una lettura approfondita degli aspetti salienti di una joint venture si veda Beamish e Lupton (2009).

378
La gestione delle relazioni interorganizzative

Box 11.4 La joint venture tra BYD e Toyota a supporto dei veicoli elettrici

A seguito di una partnership costituita nel mese di luglio 2019, a novembre dello stesso anno è stata
annunciata la costituzione della joint venture tra BYD (Build Your Dream, il principale produttore cinese
di veicoli a nuova energia) e Toyota. La nuova società, risultante dalla partecipazione del 50% di
ognuno dei due partner, avrà sede in Cina e sarà interamente dedicata alle attività di ricerca e sviluppo
di veicoli elettrici a batteria (BEV), ricambi auto e piattaforme di produzione. BYD e Toyota trasferiranno
parte del loro attuale personale già attivo su analoghi progetti alla nuova impresa, mirando ad assumere
presto nuovo personale. Sulla creazione della nuova JV, il Vice Presidente di BYD, Lian Yu-bo ha ricor-
dato i benefici che essa assicurerà. Combinando, da un lato, le competenze consolidate di BYD nello
sviluppo di batterie per veicoli elettrici e, dall’altro, la riconosciuta qualità e sicurezza della tecnologia
sviluppata da Toyota, la JV consentirà di rispondere alle richieste del mercato di tali veicoli con i pro-
dotti migliori mai realizzati. Il Vice Presidente di Toyota, Shigeki Terashi, ha aggiunto che il fine dei
partner è quello di promuovere ulteriormente l’utilizzo di veicoli elettrici, mettendo da parte la rivalità
delle due imprese e facendo vincere la collaborazione.

11.3.4. I contratti di licenza

Un contratto di licenza fa sì che una determinata impresa (licenziante) conceda


ad un’altra impresa o più imprese (licenziatario) l’utilizzo o lo sfruttamento di
una sua tecnologia, ovvero della sua proprietà intellettuale, dietro pagamento
di un corrispettivo, spesso ancorato ad una percentuale sul fatturato del licen-
ziatario con le c.d. royalties. Si tratta di uno dei principali strumenti contrattuali
adottabili per acquisire o cedere know-how e tecnologia tra organizzazioni,
siano esse imprese, università, enti di ricerca o inventori.
I vantaggi che i contratti di licenza possono garantire sono numerosi. Per
quanto riguarda il licenziante, concedendo in licenza una propria tecnologia (li-
censing-out), questi può facilmente ottenere profitti dalle proprie innovazioni
(Fosfuri, 2006), rafforzando il proprio business e incrementando, al contempo,
la propria reputazione nel settore di riferimento quale leader di una certa tecno-
logia. Conseguentemente, ciò aumentando le possibilità di creare nuove e van-
taggiose relazioni con altre imprese, rafforzando la capacità del licenziante di
dar vita a brevetti di successo in futuro. Relativamente al licenziatario, l’utilizzo
della tecnologia del licenziante (licensing-in) offre la possibilità di mantenere la
propria capacità innovativa sulla frontiera tecnologica, ostacolando così la con-
correnza. In aggiunta, essendo esposto ad una tecnologia vincente, il licenziata-
rio può vedere i propri processi innovativi agevolati, accelerando le proprie at-
tività interne di Ricerca&Sviluppo ed aumentando così la probabilità di dar vita
a proprie invenzioni.
La prospettiva teorica attraverso cui i contratti di licenza sono solitamente
studiati è quella dei costi di transazione, proposta da Williamson (1991). Secondo

379
Lineamenti di organizzazione aziendale

questa teoria, data l’assenza di rischi contrattuali, un contratto maggiormente di-


staccato e superficiale (arm’s-length) rappresenta l’opzione più diretta ed efficiente
perché un’impresa possa trarre rendite dalle proprie conoscenze, ossia dal proprio
capitale intellettuale, sia esso incorporato in un processo o in un’idea. Tuttavia, si
ricordi che redigere e rendere esecutivo un contratto predisposto per l’utilizzo di
una tecnologia richiede che siano dettagliatamente specificati i diritti di proprietà,
i meccanismi di monitoraggio, i termini di adempimento forzato del contratto,
etc. Essendo i contratti incompleti per definizione, va da sè che tale livello di det-
taglio può risultare assai problematico da raggiungere. A tal proposito, Teece
(1988) ha individuato tre principali fonti di costi di transazione che possono emer-
gere nei contratti di licenza:

● l’incompletezza dei contratti che tende a lasciare alle parti la possibilità


di adottare comportamenti opportunistici;
● gli investimenti realizzati specificatamente per la tecnologia oggetto
della licenza, che possono dar vita ai c.d. switching costs, ossia ai costi in
cui il licenziatario incorrerebbe qualora volesse interrompere il con-
tratto di licenza e sostituire la tecnologia con una diversa, posseduta da
un’altra impresa. Si pensi ai costi derivanti dalla necessità di documen-
tarsi per accertarsi che la nuova tecnologia risponda meglio della prece-
dente alle esigenze del licenziatario; oppure a quelli legati alle clausole
contrattuali (es. penali) o, ancora, a quelli connessi all’acquisto di beni
complementari, quali nuovi sistemi operativi, nuove piattaforme web.
In ragione di ciò, in caso di switching costs molto elevati, gli ostacoli al
cambiamento saranno maggiori, portando, in casi estremi, ad un blocco
(lock-in) nei processi di cambiamento delle imprese;
● il rischio di fuga di informazioni preziose ai potenziali concorrenti.

Box 11.5 Prada e L’Oréal legate da un contratto di licenza per la


distribuzione di cosmetici di lusso

A conferma del fatto che i contratti di licenza restano uno tra gli strumenti per il trasferimento tecno-
logico più utilizzati, a Dicembre 2019 è stato firmato un accordo di licenza tra Prada e L’Oréal finalizzato
alla creazione, allo sviluppo e alla distribuzione di prodotti cosmetici di lusso a marchio Prada.
L’accordo, che avrà decorrenza a partire da gennaio 2021, offrirà alle imprese partner la possibilità di
combinare le rispettive competenze nei settori di loro appartenenza: da un lato, Prada, uno dei key
player nell'industria mondiale del lusso. Simbolo di eccellenza e avanguardia; dall’altro, L’Oréal, leader
indiscusso nel mondo della cosmesi e del beauty, contraddistinto da grande esperienza e prestigio e
già distributore in licenza di cosmetici per altri importanti marchi della moda, quali Armani, Valentino,
Polo Ralph Laurent e Yves Saint Laurent.

380
La gestione delle relazioni interorganizzative

11.3.5. I contratti di franchising

Il franchising, o affiliazione commerciale, si fonda su un contratto fra due sog-


getti giuridici, l’affiliante o franchisor (o casa madre) e l’affiliato o franchisee,
economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale il primo con-
cede al secondo la possibilità vendere i propri prodotti e/o di utilizzare marchi o
know-how, in cambio del pagamento di un corrispettivo (Hoy et al., 2017; Ma-
danoglu e Castrogiovanni, 2018). Il contratto di franchising può avere una du-
rata predefinita o restare valido senza alcuna scadenza.
Partecipando a tale contratto il franchisee può immediatamente entrare a
far parte di una rete di attori affiliati su un determinato territorio, beneficiare di
un marchio noto, avendo così accesso agevolato ad una clientela che già ap-
prezza tale marchio, beneficiare di esperienza, know-how e capacità gestionali
consolidate, ridurre il rischio imprenditoriale tipico di coloro che lanciano sul
mercato un nuovo prodotto o servizio per la prima volta, ricevere facilmente
assistenza tecnica, formazione, aggiornamento dalla casa madre nonché la for-
nitura di software gestionali ed altri supporti necessari allo svolgimento regolare
dell’attività.
Dall’altro lato, il franchisor può incrementare la propria competitività,
beneficiare delle economie di scala, costruire rapidamente una vasta rete com-
merciale, evitare la realizzazione di ingenti investimenti diretti tipicamente ne-
cessari per acquistare o affittare i locali utilizzati dal franchisee.
Come sottolineato dagli studiosi del tema, l’aspetto saliente del franchi-
sing è quello che concerne i divergenti interessi che i partecipanti al contratto
tentano di perseguire nel tempo. Infatti, mentre il franchisor cerca di mantenere
il controllo sul franchisee circa il rispetto degli standard, il franchisee mira a ga-
rantirsi un certo grado di autonomia e di improvvisazione nella gestione di casi
o problematiche non contemplati dai suddetti standard (Winter et al., 2012).
I sistemi di franchising sono particolarmente diffusi nel settore del fast
food. Si pensi a McDonald’s o a Burger King o, ancora, a Hard Rock Cafè.
Negli ultimi anni, tuttavia, il termine “fast food” ha subito una rivisitazione,
assumendo un’accezione maggiormente salutare e legata ai prodotti tipici locali.
Ecco che sono nati nuovi franchising nella ristorazione veloce. Un esempio è
quello di Raviolo, specializzato nella produzione artigianale e vendita di pasta
fresca ripiena. Ancora, la massiva diffusione di smartphone e di dispositivi tec-
nologici ha accompagnato l’emergere di reti di franchising dedicate alla ripara-
zione di telefoni cellulari e tablet, quale i-ReStore. Altri esempi provengono dal
settore degli affitti e delle vendite di immobili (ad esempio, Leelium Real Estate

381
Lineamenti di organizzazione aziendale

o Solo Affitti) così come dal noleggio di automobili (si vedano, ad esempio, Eu-
ropcar o B-Rent), dall’abbigliamento (si pensi a Benetton, Camomilla, e a molti
altri) e dall’hotellerie (Holiday Inn, Accor, etc.).
A conferma delle potenzialità e del successo di questa tipologia di rela-
zione interorganizzativa giunge il rapporto Assofranchising 20198, il quale evi-
denzia come nel 2018 le reti attive (definite come quelle comprendenti almeno
tre punti vendita tra diretti e in franchising) siano aumentate del 2% rispetto
all’anno precedente, contando un totale di 961 reti capaci di generare un giro di
affari di oltre 25 miliardi di Euro.

11.3.6. I consorzi tra imprese

Il consorzio nasce col fine di agevolare la cooperazione tra imprese per la rea-
lizzazione di uno o più processi organizzativi. L’ampiezza di tale fine può limi-
tarsi all’ambito della produzione o della distribuzione fino a coinvolgere la col-
laborazione su più aspetti quali la progettazione, la produzione e la commercia-
lizzazione di prodotti o servizi. Gli imprenditori partner (non meno di cinque)
sottoscrivono un contratto con cui danno vita ad una società consortile – gene-
ralmente una società di capitali – alla quale vengono affidati gli scopi del con-
sorzio.
Una distinzione che merita attenzione è quella tra consorzio con sola at-
tività interna e consorzio destinato a svolgere anche attività esterna:

● Il consorzio interno si limita a regolare i rapporti tra i consorziati e, at-


traverso un organo direttivo, a risolvere eventuali conflitti interni, ad
assicurare i servizi comuni a favore dei partner e a vigilare sugli obblighi
assunti, garantendo così il rispetto di quanto concordato nel contratto.
Le imprese partecipanti mantengono la propria individualità e conti-
nuano ad agire nel proprio interesse ed il consorzio, pertanto, non entra
in contatto con terzi (ad esempio, clienti, fornitori, consumatori) e non
opera con o per essi.
● Il consorzio esterno, invece, in aggiunta a quanto riportato per il con-
sorzio interno, prevede l’istituzione di un ente comune che si occupa di
seguire le attività con i terzi nell’interesse delle imprese consorziate.

Spesso il consorzio viene costituito per disciplinare le attività di imprenditori


concorrenti che operano in uno stesso mercato. È il caso, questo, di numerose

8
Per maggiori informazioni si consiglia di visitare il seguente link: https://www.assofranchising.it/news/news/le-
nostre-news/rapporto-sul-franchising-2019-una-piacevole-confer.html

382
La gestione delle relazioni interorganizzative

imprese di piccole e medie dimensioni che, in ragione del frequente ridotto po-
tere contrattuale in loro possesso, traggono grandi benefici dall’entrare a far
parte di un consorzio. Numerosi esempi provengono dal settore agroalimentare,
in particolar modo, dal comparto lattiero caseario. Consorzi di tutela quali
Asiago, Grana Padano e Parmigiano Reggiano riuniscono produttori, stagio-
natori e commercianti del relativo formaggio mirando a garantire il rispetto
della ricetta tradizionale e la sua alta qualità affinché sia riconoscibile e ritrova-
bile in ogni singola forma prodotta.
Sono estremamente diffusi ed efficaci anche i c.d. consorzi di tutela delle
denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini i quali, compo-
sti da viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori della denominazione, hanno il
fine di tutelare, promuovere, valorizzare e vigilare sulle attività di accredita-
mento dei prodotti vitivinicoli in quanto prodotti da tutelare quali patrimonio
collettivo frutto della cultura e della tradizione di un determinato Paese. Alcuni
esempi del territorio italiano sono il Consorzio del Vino Brunello di Montal-
cino, il Consorzio del Vino Chianti Classico, il Consorzio Prosecco DOC, il
Consorzio di tutela Primitivo di Manduria, etc. Insieme alle cooperative, il con-
sorzio è una delle più antiche forme aggregative tra operatori economici presenti
in Italia.

11.4 Il ruolo della fiducia quale fattore determinante l’efficacia delle relazioni in-
terorganizzative

Il rapido incremento dell’emergere di relazioni interorganizzative, la significa-


tiva varietà di forme con cui esse possono presentarsi, nonché la crescente incer-
tezza e complessità caratterizzanti gli ambienti competitivi possono essere diffi-
cilmente gestiti se non supportati da una certa dose di fiducia tra gli attori par-
tecipanti. Inoltre, il ruolo strategico ricoperto dalle risorse di conoscenza (ri-
spetto ai più tradizionali fattori materiali di produzione) nei processi di crescita
delle imprese richiede che esse siano sempre più orientate a condividere recipro-
camente informazioni sensibili, rendendo così la fiducia un fattore cruciale nel
successo delle relazioni tra organizzazioni diverse.
Non solo la fiducia è considerata da molti un efficace meccanismo di coor-
dinamento, bensì essa è percepita essere ormai una precondizione fondamentale
per poter aver successo nei mercati attuali. Per quanto sia un fattore sociologico,
dunque non economico, la fiducia incide sulla performance delle relazioni tra
imprese alla stregua di fattori di natura puramente economica.
Gli studiosi del tema tendono a definirla come il grado con cui le negozia-
zioni tra le parti interessate da una relazione si realizzano mediante i valori

383
Lineamenti di organizzazione aziendale

dell’onestà e della trasparenza, generando in ognuna di esse la credenza che le


proprie richieste saranno rispettate dalle azioni future intraprese dalla contro-
parte (Zaheer e Venkatraman, 1995). In particolare, la presenza di fiducia im-
plica che gli attori nutrano sempre una certa sicurezza nei confronti dei compor-
tamenti dell’altro. Se applicata alle relazioni tra organizzazioni, la fiducia de-
nota la certezza di una determinata organizzazione relativamente all’affidabilità
di un’altra organizzazione, per quanto concerne uno specifico insieme di risultati
o eventi. Ovvero, generalmente la fiducia (sia tra persone che tra organizzazioni)
non è globale e assoluta, piuttosto tende ad interessare soltanto un limitato set
di comportamenti
Vista secondo questa prospettiva, la modalità di gestione e di amministra-
zione delle relazioni interorganizzative acquisisce pertanto il carattere di “gover-
nance relazionale”. La governance relazionale descrive una relazione tra imprese
che coinvolge risorse altamente specifiche a tale relazione combinate ad un ele-
vato livello di fiducia reciproca tra gli attori. La ragion d’essere di tale forma di
governance deriva, in prima battuta, dalla consapevolezza che qualunque mo-
dello di scambio tra imprese tende sempre ad includere qualche elemento di na-
tura relazionale. Illustri studiosi del tema hanno sottolineato quanto la natura
relazionale di un contratto renda lo stesso un mezzo che riflette i legami che si
instaurano tra le parti concernenti il processo di scambio che si realizzerà tra
esse nel futuro (Macneil, 1980). Secondo questa visione, lo scambio relazionale
ha alla propria base un’importante componente sociale, in gran parte incorpo-
rata nella fiducia che si genera tra le parti. In particolar modo, dal loro coinvol-
gimento nella relazione di scambio, le parti ottengono benefici tanto economici
quanto non economici, in quanto le relazioni moderne, esattamente come quelle
primitive, per avere successo richiedono solidarietà e dunque un certo grado di
fiducia negli altri. Pertanto, certe relazioni di scambio, pur prendendo forma da
motivazioni di natura economica, tendono via via ad acquisire un carattere so-
ciale il quale genera, tra gli attori, la tendenza a produrre aspettative nei con-
fronti della controparte e, parallelamente, la riduzione di comportamenti op-
portunistici. Oltre a ciò, numerosi studi hanno dimostrato che le relazioni inte-
rorganizzative di maggiore durata sono quelle che operano guidate dalla coope-
razione e dalla fiducia tra le parti, in quanto ciò le rende maggiormente efficienti
rispetto a quelle i cui attori adottano comportamenti individualistici e competi-
tivi. E come è noto, le pressioni competitive dei mercati tendono ad eliminare le
relazioni e le imprese scarsamente efficienti.
Sono numerosi i vantaggi apportati dalla fiducia alle relazioni tra le orga-
nizzazioni.
Innanzitutto, la fiducia può fornire un meccanismo di controllo delle re-
lazioni interorganizzative particolarmente efficace e sostituirsi o risultare com-
plementare ai meccanismi di mercato o all’autorità gerarchica (Sydow, 1998).

384
La gestione delle relazioni interorganizzative

Inoltre, una volta che è stata stabilita, la fiducia aiuta a rendere stabili le rela-
zioni, rafforzando il carattere fiduciario tra le parti coinvolte. Ulteriormente, gli
attori che godono di fiducia da parte dei loro partner riescono, col tempo, a
sviluppare il c.d. capitale reputazionale (Fombrun, 1996), il quale è considerato
essere una preziosa fonte di vantaggio competitivo.
Nel complesso, dunque, la presenza di una relazione fiduciaria tra attori
supporta lo sviluppo di strategie collettive di crescita che molto spesso tendono
a prevalere su quelle definite dai singoli attori, i quali definiscono e monitorano
il loro futuro attraverso un processo che coinvolge i partner con cui condividono
determinate relazioni (Astley e Fombrun, 1983). Così facendo, i costi di transa-
zione risulteranno significativamente più bassi, lo scambio di informazioni e
l’apprendimento organizzativo saranno facilitati, agevolando così la stabilità
dei sistemi economici.
Estendendo il focus dalle singole imprese alla società, è stato evidenziato
che società fortemente fondate sulla fiducia tendano a prosperare economica-
mente in quanto la fiducia funge da lubrificante, agevolando la risoluzione di
attriti nei rapporti economici. La c.d. fiducia istituzionale (institutionally embed-
ded trust), tipica dei Paesi altamente regolamentati come la Germania, crea in-
fatti un elemento tacito che gli attori danno per scontato ogni qual volta parte-
cipino ad una relazione sociale. Essa, infatti, consente loro di inserirsi più facil-
mente all’interno di relazioni di business senza dover investire tempo e denaro
per assicurarsi che in futuro non vi siano inadempienze della controparte (Ba-
chmann e Zaheer, 2008).
Tuttavia, non si dimentichi che l’inasprirsi della competizione e la carat-
terizzazione globale del business hanno reso la creazione di relazioni di fiducia
assai complessa: investire nello sviluppo di rapporti fiduciari con altre organiz-
zazioni può infatti trasformarsi in un processo molto rischioso, soprattutto qua-
lora gli attori coinvolti presentino significative differenze culturali con inevita-
bili implicazioni relativamente alla condivisione di linguaggi, routine e pratiche
comuni.
L’emergere di questi elementi ha dunque reso la creazione di fiducia un
fattore tanto necessario quanto problematico nelle relazioni interorganizzative.

Box 11.6 La fiducia legata all’embeddedness tra le organizzazioni

Fortemente connesso al concetto di fiducia nelle relazioni interorganizzative è quello di embeddedness.


Proposto originariamente da Powell (1990) e Granovetter (1985), il concetto si contrappone all’ap-
proccio tipico degli economisti comportamentali i quali tendono a trascurare il fatto che le persone
possano voler costruire legami sociali per motivazioni che esulano dal mero interesse ad accumulare
risorse materiali. Sulla scia degli studi di Hirschman (1982), Granovetter notò che tale prospettiva
traeva origine da un modello ideale di concorrenza perfetta originariamente proposto da Adam Smith,

385
Lineamenti di organizzazione aziendale

secondo il quale qualunque contatto di natura sociale tra acquirenti e fornitori diventava sostanzial-
mente anti-competitivo, creando un freno alla competizione. Così facendo, ancor più degli economisti
di stampo classico, quelli di estrazione neoclassica guardano all’alienazione sociale come un elemento
caratterizzante la concorrenza perfetta. Contrariamente a questa visione del comportamento umano,
Granovetter propose la nozione di embeddedness, la quale prende forma qualora, pur originando da
ragioni puramente economiche, relazioni economiche continuative assumano un carattere sociale, ge-
nerando aspettative circa rapporti fiduciari e assenza di comportamenti opportunistici da parte degli
attori coinvolti nelle relazioni. Inoltre, secondo lo studioso, nè accordi istituzionali nè una diffusa mo-
ralità come tali possono essere considerate le vere origini dei rapporti fiduciari nella società; piuttosto,
sono le reali connessioni sociali tra gli attori a dare vita alla fiducia.

11.4.1. Le classificazioni della fiducia tra le organizzazioni

La fiducia può acquisire forme diverse, in base agli elementi ai quali si riferisce
e da cui deriva. Zucker (1986) ne ha identificato tre forme:

● Una fiducia fondata sul processo (process-based trust). Deriva da prece-


denti esperienze di scambio sociale o economico realizzato con un’altra
organizzazione, che generano aspettative nei confronti degli scambi fu-
turi. Questa tipologia di fiducia assume un ruolo particolare soprattutto
qualora la qualità dei beni o dei servizi oggetto dello scambio sia incerta,
come nel caso di servizi finanziari, e nel tempo tende a condizionare la
reputazione degli attori coinvolti. Infatti, studi confermano che le orga-
nizzazioni che godono di una buona reputazione hanno maggiore pro-
babilità di essere considerate potenziali validi partner di alleanze strate-
giche o di altre tipologie di partnership tra organizzazioni.
● Una fiducia fondata su determinate caratteristiche (characteristics-based
trust), la quale risulta indipendente dall’esistenza di reali esperienze
avute in passato con altri attori. Questa tipologia di fiducia, infatti,
prende forma da caratteristiche comuni agli attori interessati quali l’ap-
partenenza ad uno stesso gruppo sociale o etnico oppure l’età o il genere.
In questi casi, pertanto, il semplice possesso di determinate caratteristi-
che può far innescare la creazione di un rapporto di fiducia.
● Una fiducia istituzionale (institutional-based trust), la quale va oltre sia
l’eventuale esperienza che le controparti possano aver condiviso in pas-
sato relativamente a relazioni di scambio sia le caratteristiche della con-
troparte. La fiducia istituzionale, infatti, prende forma all’interno di una
rete più ampia di relazioni da elementi quali le tradizioni, le professioni,
l’appartenenza ad associazioni, le certificazioni, etc. che dettano, in
modo più o meno formale, pratiche sociali o regole di comportamento
che guidano la relazione tra gli attori generando fiducia reciproca.

386
La gestione delle relazioni interorganizzative

A tal proposito, Williamson (1993) ha fornito una propria classificazione


in fiducia calcolativa, personale ed istituzionale:

● La fiducia calcolativa richiama una forma razionale di fiducia che genera


dagli effetti reputazionali che una relazione interorganizzativa inevita-
bilmente produce sulle parti in essa coinvolte. Questa tipologia di fiducia
può essere collegata al rischio connesso alla partecipazione a determi-
nate relazioni tra imprese.
● La fiducia personale si fonda, invece, sul comportamento altruistico de-
gli attori. Ossia, anziché derivare da un metodico calcolo dei vantaggi
che da essa potrebbero scaturire, la fiducia è considerata un fattore in-
trinseco alle parti, tanto che tende a caratterizzare prevalentemente le
relazioni molto strette tra attori.
● La fiducia istituzionale, infine, deriva dal radicamento della relazione
all’interno di un determinato contesto organizzativo e sociale. Come
sottolinea Williamson (1993), anche questa tipologia di fiducia prende
forma da un’attenta valutazione calcolativa.

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Lineamenti di organizzazione aziendale

Quotidianamente il nostro agire è chiamato a confrontarsi con una mol-


teplicità di organizzazioni che consentono la soddisfazione di vari e nu-
merosi bisogni. Non sempre conosciamo le modalità di funzionamento di
questi sistemi che influenzano la nostra vita.
Per uno studente universitario che si avvicina al mondo del lavoro è es-
senziale comprendere come questi sistemi si configurano, si strutturano
e si modificano, influenzando e condizionando i comportamenti organiz-
zativi.
Questo manuale si pone la finalità di fornire allo studente un quadro con-
cettuale di riferimento e le nozioni di base dell’organizzazione aziendale
nella prospettiva della progettazione organizzativa (organization desi-
gn), vista come processo di scelta tra alternative disponibili.
Il libro è uno strumento didattico che affronta, con linguaggio chiaro e
diretto, l’articolato percorso del decisore aziendale nel manovrare le leve
della progettazione organizzativa a supporto delle condizioni di economi-
cità e competitività dell’azienda.

Mariacristna Bonti è professore ordinario di Organizzazione aziendale


presso l’Università degli Studi di Pisa.

Vincenzo Cavaliere è professore associato di Organizzazione aziendale


presso l’Università degli Studi di Firenze.

Enrico Cori è professore ordinario di Organizzazione aziendale presso


l’Università Politecnica delle Marche.

www.egeaeditore.it

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