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Mariacristina Bonti,
Vincenzo Cavaliere,
Enrico Cori
Lineamenti
di organizzazione
aziendale
a cura di
Mariacristina Bonti,
Vincenzo Cavaliere,
Enrico Cori
Lineamenti
di organizzazione
aziendale
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ISBN 978-88-238-4646-3
ISBN ebook 978-88-238-8 33-
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Bibliografia 389
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1 La progettazione organizzativa
di Mariacristina Bonti
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All’inizio degli anni ’70, il signor Ribalta aveva trasformato la sua passione e la sua perizia manuale
nel lavorare il legno in un’attività di mobiliere come imprenditore artigiano. Inizialmente aveva svolto i
primi lavori da solo, in un piccolo locale adiacente la sua abitazione, realizzando mobili di arredamen-
to per camere da letto, comodini e cassettoni, che avevano incontrato il favore dei primi clienti, ali-
mentando un passaparola positivo per il rapporto prezzo-design-tempi-qualità. Con l’aumento dei
clienti e della tipologia di mobili richiesti (scrivanie, librerie, cassepanche, tavoli), il sig. Ribalta aveva
dovuto trovare un laboratorio più ampio e aveva deciso di assumere un collaboratore, che aveva in-
dividuato in Alberto, un giovane volenteroso, che doveva tuttavia essere avviato al mestiere. Il sig.
Ribalta investì tempo ed energie nel trasferirgli le conoscenze e competenze che aveva acquisito, ma
anche la passione per la lavorazione del legno, insegnandogli a riconoscere i tipi di legname e le loro
caratteristiche, come utilizzarli in relazione alle diverse tipologie di prodotto, quali accortezze seguire
in modo da far esaltare al massimo ciascun tipo di legno. L’obiettivo del sig. Ribalta era consentire al
nuovo collaboratore di entrare via via in contatto con le diverse fasi del processo produttivo, com-
prendere le attività da svolgere, ricevere consigli e conoscere i segreti del mestiere, pur mantenendo
sotto il suo diretto controllo le attività più critiche.
In breve tempo, l’apprendista aveva evidenziato una particolare abilità nell’attività di rifinitura, che
richiedeva una particolare pazienza, precisione e cura dei dettagli, cosicché il sig. Ribalta pensò di
organizzare la produzione nel modo seguente: l’apprendista preparava le materie prime, il titolare
eseguiva le operazioni di taglio e carteggio, l’apprendista preparava il semilavorato, il titolare assem-
blava i pezzi, l’apprendista eseguiva le rifiniture, infine il sig. Ribalta pitturava e laccava. I ritmi di la-
voro erano piuttosto serrati, ma la vicinanza fisica dei due lavoratori e la costante interazione assicu-
ravano la fluidità e la continuità dei processi di lavoro, senza particolari intoppi. Coordinare le attività
non rappresentava un problema per il sig. Ribalta, che riusciva a “controllare a vista” il lavoro svolto
da Alberto, comunicando con lui in modo informale e diretto e “adattando” i tempi di lavorazione.
Nel giro di qualche anno l’impresa si era così sviluppata da imporre un cambiamento del modo di
produrre; il sig. Ribalta si convinse che era giunta l’ora di passare da una produzione tipicamente ar-
tigianale ad un’organizzazione più strutturata, che avesse una qualche sembianza di processo indu-
striale. Il titolare, sempre più impegnato in attività di relazione con i clienti e in altre attività commer-
ciali, non riusciva più a seguire l’attività di produzione in prima persona, rischiando con la sua pre-
senza non continua di ostacolare il processo produttivo. Il giovane collaboratore, dal canto suo, di-
ventato ormai esperto nell’arte della lavorazione dei mobili, aveva manifestato l’intenzione di mettersi
in proprio. Grazie all’esperienza accumulata, si sentiva in grado di gestire piccole commesse, pronto
a progettare e realizzare, dalla A alla Z, alcuni modelli nuovi da proporre e inserire nel campionario e,
soprattutto, aveva voglia di farlo. Alberto si trovava molto bene nell’azienda del sig. Ribalta, di cui
condivideva i valori, i metodi di gestione, lo stile di elevata condivisione, gli obiettivi, ma avvertiva
l’esigenza di “crescere” professionalmente.
Mettere mano all’organizzazione dell’azienda poteva offrire l’opportunità al titolare di prendere defini-
tivamente le distanze dall’attività meramente produttiva, mantenendo una generale supervisione sui
risultati, di offrire al giovane Alberto nuove prospettive, riconoscendogli margini di autonomia e re-
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sponsabilità nella gestione completa delle commesse e delle esigenze dei clienti insieme alla possibi-
lità di formare nuovi giovani.
Il sig. Ribalta decise pertanto di trasformare il suo laboratorio in un vero sito produttivo, costituendo
l’Artigianalmente Industriali srl, e di assumere sei dipendenti, tre generici e tre specializzati, affidando
a ciascuno di loro una fase dell’intero processo di realizzazione dei mobili, sempre su commessa,
sotto la supervisione e la guida esperta di Alberto, che intravide nella nuova organizzazione della pro-
duzione quelle opportunità di crescita che stava cercando. Il processo produttivo risultava ora così
articolato, con le attività una volta svolte dal proprietario assegnate alle figure specializzate e quelle
inizialmente svolte da Alberto assegnate ai profili generici: un primo addetto preparava le materie
prime, il secondo tagliava e carteggiava, il terzo preparava il semilavorato, il quarto assemblava i pez-
zi, il quinto eseguiva le rifiniture, il sesto e ultimo pitturava e laccava.
Per favorire il mantenimento di quelle condizioni che avevano decretato il successo dell’azienda, la
combinazione prezzo-design-tempi-qualità, Alberto si era impegnato in prima persona a trasferire le
sue conoscenze, alcune “tecniche” specifiche di lavoro, le altre routine operative e buone pratiche
che aveva sviluppato con il titolare. Aveva al contempo, tuttavia, pianificato il flusso di produzione,
dettando modalità e tempi di svolgimento delle varie operazioni, al fine di assicurare la continuità e
regolarità del flusso stesso.
Il modello organizzativo consentì all’azienda un’ulteriore fase di rafforzamento e sviluppo, favorita da
un costante rinnovamento dei propri prodotti: stando a diretto contatto con i clienti e avendo
l’autonomia per comprendere e risolvere le loro esigenze, Alberto era riuscito a inventare soluzioni
particolari per poi implementarle.
Nel tempo, i nuovi collaboratori erano a loro volta cresciuti professionalmente, tanto che Alberto ave-
va deciso una nuova riorganizzazione interna dell’attività produttiva: i dipendenti avrebbero realizzato
autonomamente differenti tipologie di mobili, in relazione alle specifiche professionalità.
Il sig. Ribalta ebbe così la possibilità di destinare le proprie attenzioni ed energie alle attività che as-
sumevano crescente rilevanza strategica: i rapporti con gli istituti di credito per il necessario suppor-
to finanziario e le relazioni esterne, per promuovere l’azienda.
La continua espansione dell’azienda aveva evidenziato la necessità di dare una sistematizzazione ai
diversi processi, individuando alcune precise aree di attività. Per questo motivo, il sig. Ribalta aveva
assunto un altro valido collaboratore, il ragionier Valerio, per la gestione delle sempre più complesse
attività amministrative. La scelta tra altri possibili candidati era ricaduta su di lui perché in possesso
di un’ampia esperienza proprio nel settore del mobile e arredamento. Per la gestione delle attività di
acquisizione delle materie prime era stato, invece, selezionato i signor Luca, mostratosi abile nelle
attività negoziali e soprattutto poliglotta.
Dopo qualche anno ancora, l’imprenditore si trovò a dover fronteggiare i primi sintomi di crisi della
sua attività, all’interno di un settore che stava cambiando velocemente, nel quale si stavano affac-
ciando nuove imprese con nuove concezioni del mobile e nel quale i prodotti interamente industria-
lizzati stavano sempre più affermandosi.
I costi più elevati di una produzione di qualità e personalizzata, per quanto giustificati, non riuscivano
più a trovare piena copertura nei ricavi: un aumento dei prezzo di vendita avrebbe comportato in bre-
ve tempo l’uscita dal mercato. Inoltre tra gli operai aveva iniziato a verificarsi un elevato turnover:
molti, dopo un po’ di esperienza come dipendenti dell’Artigianalmente Industriali, trovavano impiego
presso aziende più grandi e, in alcuni casi, si mettevano in proprio.
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Il sig. Ribalta decise così di compiere il passo più difficile: l’esternalizzazione della produzione. Indivi-
duò quattro artigiani mobilieri, tutti suoi ex-dipendenti, e propose a ciascuno di loro di produrre per
la sua azienda un modello-base, con possibilità di personalizzare certi elementi su richiesta del clien-
te. Egli avrebbe mantenuto in capo all’azienda la gestione degli acquisti di materie prime, migliorando
così le condizioni di efficienza produttiva dei quattro artigiani. Ogni artigiano avrebbe avuto la re-
sponsabilità di effettuare il ciclo completo di produzione e di consegnare il prodotto finito ad Artigia-
nalmente Industriali. Ad Alberto, suo braccio destro e fedele collaboratore, decise di affidare l’attività
di commercializzazione, convinto del nuovo impulso che avrebbe potuto dare a quest’ultima.
L’organizzazione della produzione uscì dunque dai confini fisici del mobilificio del sig. Ribalta, per
riconfigurarsi come processo interaziendale.
(Fonte: Nostra elaborazione da più casi)
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del Filo d’Oro, la Fondazione per l’Unicef, gli enti museali come il Museo del-
le Sinopie di Pisa e così via.
È questo il primo significato che normalmente assume il termine organi-
sation nei manuali di derivazione americana, ma anche il significato più diffu-
samente attribuito al termine nel linguaggio comune. Le organizzazioni così
intese sono largamente presenti nella società. Si può riflettere sul fatto che
quotidianamente gli individui “attraversano” molteplici organizzazioni: quan-
do saliamo su un autobus o su un treno, in realtà sperimentiamo
un’organizzazione di trasporto pubblico o ferroviario; quando mangiamo in
un fast-food valutiamo un’organizzazione del settore della ristorazione, lo
stesso dicasi quando entriamo in un supermercato a fare la spesa, esempio di
organizzazione della grande distribuzione organizzata. Possiamo dire che gli
individui sono “immersi” nelle organizzazioni, che popolano il più ampio si-
stema economico, politico, sociale e culturale, e trascorrono fisicamente la
maggior parte della loro vita all’interno di queste.
L’appartenenza ad un sistema organizzato è peraltro estremamente im-
portante per qualsiasi individuo: l’identità, lo status sociale, la legittimazione,
la stessa reputazione individuale sono strettamente influenzate oltre che dal la-
voro svolto e dalla posizione occupata, dall’organizzazione di appartenenza.
Il termine organizzazione assume tuttavia anche altri significati: indivi-
dua infatti una delle attività in cui si articola il processo di management, nel
suo complesso volto a definire gli obiettivi, orientare e guidare diverse attività
verso il loro conseguimento, assumere una pluralità di decisioni (il progressivo
disimpegno dall’attività di natura esecutiva del sig. Ribalta evidenzia il suo de-
dicarsi maggiormente governo complessivo dell’azienda). Questa accezione è
quella che possiamo cogliere nel pensiero di Fayol (1931): nella teoria della Di-
rezione amministrativa, l’autore individua, accanto alle più tradizionali fun-
zioni aventi natura “tecnica” e più specifiche, in quanto legate alle peculiarità
di ogni contesto aziendale, come la funzione produzione, commerciale, finan-
ziaria, di sicurezza, contabile e così via, una funzione universale e a contenuto
più ampio, generale e trasversale, quella direzionale, i cui elementi costitutivi
sono: prevedere, organizzare, comandare, coordinare e controllare. Nella sua
dinamica, l’organizzazione così intesa è venuta a delinearsi come un insieme di
funzioni (Airoldi, Decastri, 1983) inerenti la progettazione organizzativa, la
gestione del personale, i sistemi informativi, le relazioni industriali.
L’evoluzione della funzione Organizzazione ha portato, nel tempo, ad asso-
ciarla più strettamente ora alla Gestione del personale, ora ai Sistemi Informa-
tivi, per poi vederla funzionalmente concepita come parte integrante e indisso-
lubilmente interrelata alla Gestione delle Risorse Umane.
La terza accezione, alla quale intende più diffusamente riferirsi il presen-
te volume, individua nel termine organizzazione, più tipicamente affiancato
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I sistemi o meccanismi operativi sono processi che contribuiscono ad allineare i comportamenti individuali
e collettivi verso gli obiettivi dell’organizzazione. La loro funzione è strumentale e integrativa rispetto alla
struttura. Come osserva Brusa (2004:169), mentre la struttura organizzativa prescrive sostanzialmente “chi
deve fare che cosa e come”, i sistemi operativi aiutano a tradurre queste prescrizioni in comportamenti rea-
li, rendendo in generale chiaro quali sono gli obiettivi attesi, in modo da motivare e orientare le decisioni
degli attori organizzativi.
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Questo processo ha avuto una sua prima formulazione da parte di Stinchcombe (1965) ed è stato definito
come imprinting organizzativo (Boeker, 1989). Quest’ipotesi è stata in seguito sviluppata da studi che hanno
sostenuto che le condizioni presenti al momento della nascita di un’organizzazione definiscono in modo signifi-
cativo la traiettoria del percorso di sviluppo futuro e la sua successiva capacità di cambiamento e adattamento
(Hannan, Baron, Hsu e Kocak, 2006; Tripsas & Gavetti, 2000). Ciò significa che un’impresa può diventare “pri-
gioniera” della sua storia “impressa” e trovare sempre più difficile cambiare e adattarsi.
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Selznick (1948) riconosce nell’organizzazione (da intendersi come scelte organizzative) uno strumento indi-
spensabile per raggiungere un obiettivo, pur consapevole del suo essere strumento imperfetto, che in qualche
modo deforma l’obiettivo stesso. Ciò deriva dal fatto che, una volta creata sulla carta, l’organizzazione comin-
cia ad operare, la sua azione incontra problemi, vincoli, patteggiamenti che sono posti e derivano dalla neces-
sità di dovere fare i conti con una realtà che non può essere pienamente prevista (Bonazzi, 2000: 261). Tra le
competenze organizzative, la capacità di progettazione porta a sviluppare quella sensibilità e consapevolezza
che consente di “differenziare l’uso di alcune regole di progettazione, creando le premesse per una performan-
ce distintiva” (Turati, 1998).
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Un esempio di come le attività rivolte allo sfruttamento delle conoscenze possano essere opportu-
namente distinte da quelle rivolte all’esplorazione è dato dalla riorganizzazione a livello corporate di
Google, con la creazione della nuova parent company Alphabet.
La nuova configurazione separa i business “consolidati” come Google Search e YouTube dalle inizia-
tive imprese più rischiose o non-core come GoogleX e Google Capital. La struttura “a ombrello” con
diversi business sotto Alphabet permette di combinare obiettivi di sperimentazione con la necessità
di proteggere l’integrità dei brands. Una configurazione a business units modulari permette anche di
ottenere una maggiore flessibilità strategica per far fronte a ambienti competitivi eterogenei. Inoltre,
questa soluzione rende più facile la sperimentazione e l’innovazione attraverso fusioni e acquisizioni,
in quanto riduce notevolmente i problemi di integrazione post fusioni e acquisizioni.
Google è nota per una cultura aziendale attenta e aperta al cambiamento, fatta propria dal manage-
ment e dagli stessi dipendenti. Lo stesso processo di reclutamento e selezione è concepito con
l’obiettivo esplicito di identificare persone in grado di affrontare e gestire il cambiamento, accettando
significativi livelli di autonomia e responsabilità.
La comunicazione interna punta dichiaratamente sulla trasparenza e l’apertura, con l’obiettivo di au-
mentare la fiducia nei dipendenti. Il management inoltre cerca di limitare la dimensione burocratica e
procedurale delle mansioni per agevolare la comunicazione e la collaborazione tra i colleghi.
Dal punto di vista dei task individuali, il 70 per cento del tempo del dipendente dovrebbe essere im-
piegato nelle attività relative al core business, il 20 per cento su progetti di miglioramento incremen-
tale relativi al core business e il 10 per cento per progetti di innovazione non legati al core business.
Gli Ingegneri hanno così la possibilità di usare una frazione importante dell’orario di lavoro per per-
seguire lo sviluppo di propri progetti di innovazione. Allo stesso modo, i dipendenti che in diverse
unità abbiano idee che desiderano sviluppare in autonomia hanno la possibilità di perseguire queste
iniziative ancora secondo la regola 70-20-10, anche interagendo con personale di altre unità.
(Fonte: Pittino, 2016, con adattamenti)
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Abbiamo più volte accennato in questo capitolo all’influenza delle scelte orga-
nizzative sulle condizioni complessive di economicità aziendale e competitività
duratura sui mercati, vale a dire sulla creazione del valore per l’azienda 5.
La capacità delle aziende di creare valore passa sempre più attraverso la
dotazione di risorse disponibili, utilizzabili e realmente utilizzate (prospettiva
della resources-based view, Barney, 1991), con particolare riferimento a quel set
di risorse costituite dal complesso delle abilità, capacità e competenze degli at-
tori organizzativi. Prese singolarmente, esse costituiscono la dimensione “stati-
ca” del c.d. capitale intellettuale dell’impresa, uno stock di conoscenze incasto-
nato anzitutto negli attori e ricco di potenzialità inespresse di generazione del
valore. Il modo in cui tali conoscenze sono organizzate all’interno delle strut-
ture (con la divisione del lavoro), sono messe in relazione reciproca (con il
coordinamento), trasferite, alimentate, sviluppate e alimentate (grazie ai siste-
5
Per creazione del valore si intende l’adozione di scelte di governo, pratiche di gestione e soluzioni organizza-
tive che consentono il conseguimento di risultati positivi grazie alla possibilità di realizzare, in maniera durevole
nel tempo, un valore superiore a quello consumato con l’impiego di beni e servizi.
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La trasposizione dei fini, fenomeno organizzativo individuato quale distorsione del funzionamento del modello
burocratico (Merton, 1949; Selznick, 1948), si verifica quanto un mezzo, uno strumento per raggiungere una
determinata performance (nel nostro caso, l’essere efficienti come unità organizzativa singola al fine di portare
un contributo all’efficienza aziendale complessiva) diventa esso stesso il fine dell’attività: “In questo modo, pro-
prio le condizioni che normalmente portano all’efficienza, in situazioni particolari e specifiche producono ineffi-
cienza” (Merton, 1949: 324, citato in Bonazzi, 2000: 230).
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Pur essendo concetti noti, si ricorda che: le economie di scala fanno riferimenti a riduzioni dei costi medi uni-
tari che sono da attribuire ad incrementi nella quantità prodotta; le economie di specializzazione riguardano i
vantaggi che derivano dalla ripetizione nel tempo di una stessa attività da parte di una stessa risorsa (individuo
o macchina); le economie di raggio d’azione o scopo, invece, riguardano i vantaggi di costo che scaturiscono
dall’impiego di una stessa risorsa in molteplici attività che vengono svolte congiuntamente anziché in maniera
indipendente (Perrone, 1990; Isotta, 2011).
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neare una particolare “idea” di cosa l’organizzazione sia e come debba funzio-
nare, di quali convincimenti sono alla base del ruolo assegnato agli attori or-
ganizzativi e quale apporto può essere loro richiesto. Ogni logica esprime
quindi, nella sostanza, una “filosofia” cui può ispirarsi l’organizzazione e alla
quale è riconducibile il suo funzionamento, in tutto o in parte, offrendo una
specifica e diversa interpretazione di quali siano le scelte organizzative “giuste”
e di quale sia il “modo migliore” di organizzare le attività aziendali.
La logica più “antica” di progettazione organizzativa, non per questo
meno praticata dai decisori, è quella meccanicistica, che trova la sua formula-
zione agli inizi del ‘900 da parte di un gruppo di studiosi che sono normalmen-
te ricondotti all’interno della c.d. Scuola Classica dell’organizzazione (vedi
BOX 1.2).
Nella logica meccanicistica la progettazione organizzativa si pone quale
obiettivo quello di predefinire e preordinare i comportamenti degli attori, po-
nendosi quale unico obiettivo la massimizzazione delle condizioni di efficienza
ed efficacia. L’organizzazione viene concepita quale sistema chiuso e autorefe-
renziale, quindi di fatto protetto dall’ambiente esterno col quale non interagi-
sce e non ha necessità di interagire, perché prevedibile nelle sue evoluzioni.
L’attore organizzativo viene visto come dotato di una razionalità 8 assoluta,
che non lascia spazio a dubbi o errori, e offre una conoscenza completa, uni-
voca, certa, pragmatica, risolutiva.
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Per razionalità, si intende “la coerenza del comportamento di un attore rispetto ai propri valori o ai propri fini”
(Costa, Gubitta, Pittino, 2014: 35).
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perseguire) e che sono solo da implementare, in qualche misura rendendo nullo il momento della
scelta (intesa come preferenza tra possibili alternative) da parte dei decisori.
Il secondo tratto è rappresentato dalla concezione prevalente di attore organizzativo, fattore produtti-
vo tra gli altri da programmare e guidare nelle attività da svolgere, da coordinare e controllare
nell’intento di evitare comportamenti devianti. Ciò si traduce nella centralità assegnata agli aspetti
formali, che predefiniscono e preordinano i comportamenti degli attori, con esclusivo riferimento alle
esigenze tecniche del flusso di lavoro, escludendo così dalla problematica organizzativa gli elementi
soggettivi e personali.
(Fonte: Costa, Nacamulli, 1996; Fabbri, 2010; Isotta, 2011)
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logici, di mercato e così via) e alle pressioni che da questo possono scaturire,
cambiamenti che non si possono conoscere in modo puntuale, ma risultano
prevedibili e, in questo senso, controllabili (Delmestri, 1996, in Costa, Naca-
mulli, 1996). Ciò rende necessaria la continua ricerca di condizioni di equili-
brio, quindi di un adattamento omeostatico 9 degli assetti organizzativi.
L’attore organizzativo, a sua volta, è concepito come un attore dotato di una
razionalità che è, questa volta, limitata e intenzionale: limitata da fattori com-
putazionali, cognitivi, espressivi, professionali, di atteggiamenti, percezioni,
giudizi, valori; intenzionale perché i suoi comportamenti perseguono sempre
anche fini e obiettivi individuali.
In questo diverso contesto, l’esigenza di assicurare condizioni costanti di
equilibrio interno verso l’esterno finisce col limitare, inevitabilmente la possibi-
lità di predefinire i comportamenti: all’attore organizzativo, sono riconosciuti
ambiti di discrezionalità, vale a dire la possibilità di allontanarsi delle norme,
regole e procedure stabilite dalla progettazione, risultando queste non più da
attuare in maniera pedissequa, ma da interpretare e adattare alle specifiche
condizioni. L’organizzazione non è l’automatica concretizzazione di un pro-
getto: esiste un’area di indeterminatezza che si viene a creare tra il sistema delle
regole e dei principi e gli individui, al fine di assicurare l’adattamento organiz-
zativo. I comportamenti non sono automatici, abitudinari, rispondenti obbli-
gatoriamente a quelli attesi, ma possono essere il frutto di valutazioni e scelte.
Per far questo, le indicazioni contenute nella struttura organizzativa non sono
più sufficienti, acquisendo importanza le caratteristiche dei sistemi operativi.
La logica socio-costruttivista trova il suo fondamento nelle teorie cogni-
tiviste (March, 1993; Gioia, Sims, 1986; Weick, 1993) e dell’azione organizza-
tiva (Thompson, 1967; 1990). Essa si discosta dalle precedenti per il fatto di
enfatizzare il ruolo di tutti gli attori organizzativi nella progettazione e consi-
derare la razionalità scaturire non tanto da criteri e regole in qualche misura
precostituiti, quanto dai processi di decisioni e di azioni dei singoli attori orga-
nizzativi. L’attenzione si sposta dalla progettazione come risultato (design), al-
la progettazione come azione (designing): il compito della struttura è influenza-
re il comportamento di attori dotati di ampi margini di discrezionalità che, de-
cidendo e agendo per risolvere problemi dettati dall’evoluzione e
dall’incertezza del contesto ambientale, affrontando situazioni non previste e
non prevedibili, utilizzando una data tecnologia interagiscono tra loro. Queste
interazioni creano soluzioni, producono routine, modificano compiti, posizio-
ni, responsabilità all’interno delle stesse relazioni di lavoro, definendo e ridefi-
nendo nel concreto in maniera collettiva e condivisa cosa la struttura è e come
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L’omeostasi rappresenta “l’attitudine degli organismi viventi, siano essi cellule, individui singoli o comunità, a
mantenere in stato di equilibrio le proprie caratteristiche al variare delle condizioni interne” (Vocabolario Trec-
cani). Ciò esprime la capacità degli organismi di autoregolarsi, adattandosi alle circostanze ambientali esterne.
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zione organizzativa, le quali fanno specifico riferimento alle c.d. teorie neoisti-
tuzionali (Powell, DiMaggio, 1991).
All’interno dell’ambiente istituzionale, i diversi stakeholder si fanno por-
tatori di aspettative differenti rispetto alle organizzazioni, dalla cui soddisfa-
zione deriva un giudizio di legittimità del loro operare, che esprime in qualche
misura la disponibilità degli stakeholder a sostenere e supportare la sopravvi-
venza delle organizzazioni ritenute appunto legittime. Secondo questa logica,
le scelte organizzative risentono di questa influenza esterna al punto da preve-
dere e definire unità organizzative, posizioni, responsabilità, attività al solo
scopo di ottenere consenso e supporto continuo, a prescindere da una valuta-
zione in merito alla loro utilità ai fini del concreto funzionamento operativo e
quindi anche a discapito degli obiettivi di efficienza ed efficacia.
Il consenso e la legittimazione possono derivare da circostanze diverse
(Daft, 2010): dal fatto che l’organizzazione ottempera a specifiche previsioni di
legge o regole che esprimono forze coercitive che inducono l’organizzazione ad
uniformarsi ai loro contenuti (si pensi al rispetto di norme sulla sicurezza sui
luoghi di lavoro, sull’inquinamento, sulla privacy, sulle pari opportunità, alle
certificazioni ISO e così via); si allinea, segue e fa proprie best practices, inno-
vazioni, tecniche manageriali di “moda” (si pensi alla reingegnerizzazione dei
processi, ai modelli di gestione delle risorse umane basate sulle competenze),
utilizzate da altre organizzazioni e considerate come generalmente efficaci, che
esprimono forze mimetiche che inducono copiare, imitare conformarsi al com-
portamento di altre aziende; recepisce particolari tecniche, strumenti e norme
(si pensi ad alcune tecniche di selezione e valutazione del personale, ad alcuni
contenuti della formazione consulenziale) definite da specifiche comunità pro-
fessionali che esprimono forze normative che portano a ritenere doveroso uni-
formarsi a determinati strumenti per raggiungere elevati standard di prestazio-
ne. L’implicazione di queste forze è rappresentato dalla tendenza delle orga-
nizzazioni soggette ad una medesima pressione a divenire simili le une alle al-
tre, facendo emergere un modello organizzativo comune tra le organizzazioni
(somiglianza istituzionale o isomorfismo istituzionale).
Le logiche di progettazione che abbiamo esaminato, per quanto non
esaustive, aiutano a comprendere quanto diverse tra loro possono essere le
idee, visioni, concezioni dalle quali partire per definire la struttura organizzati-
va, col risultato di giungere a soluzioni diverse, per quanto tutte potenzialmen-
te efficienti ed efficaci.
Al contempo, si può riflettere sul fatto che ciascuna di queste logiche
può risultare più appropriata per affrontare alcune problematiche organizzati-
ve e dare utili indicazioni per alcune soluzioni organizzative. Esse pertanto non
possono essere viste come mutualmente escludentisi, ma al contrario costitui-
scono logiche che contribuiscono a definire come l’organizzazione è e come
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Il job crafting è un esempio tipico di auto-definizione e auto-regolazione dei compiti e può essere definito
come un comportamento creativo e proattivo, una strategia individuale che induce un attore ad apportare cam-
biamenti (miglioramenti, aggiustamenti) ai propri compiti, nell’intendo di uniformarli alle proprie caratteristiche
personali, ai propri bisogni o interessi, al fine di rendere il proprio lavoro maggiormente rispondente alle sue
aspettative, inclinazioni, abilità. (Wrzesniewski, Dutton, 2001; Slemp, Vella-Brodrick, 2014; de Gennaro, Buo-
nocore, Ferrara, 2017).
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Gli oggetti della progettazione, come già anticipato in precedenza, sono per-
tanto diversi. A livello micro e individuale, il focus è rappresentato dal compi-
to, definito come un insieme di operazioni elementari che risultano tra loro ne-
cessariamente collegate per motivi di natura tecnologica (l’impossibilità o non
convenienza di dividere ulteriormente un compito perché coinvolge un set mi-
nimo di conoscenze necessarie per svolgerlo) o psicologica (la possibilità per
l’attore di percepire il significato delle operazioni svolte). Come vedremo me-
glio nel capitolo 4, il job design valuta le possibili alternative di aggregazione
dei compiti in mansioni e le implicazioni (organizzative, tecniche e motivazio-
nali) che da tali scelte possono derivare. A livello meso, l’oggetto della proget-
tazione sono insieme di mansioni, analizzate in relazione alla loro natura
(mansioni operative, o di supporto, in termini di manutenzione, regolazione e
controllo) e alle loro relazioni verticali e orizzontali, vale a dire in relazione al-
le interdipendenze che si generano tra gruppi di mansioni complessivamente
finalizzate al conseguimento di risultato identificabile: tale insieme di mansioni
configura il c.d. sistema primario di lavoro (Grandori, 1999; De Vita, Mercu-
rio, Testa, 2000; Costa, Gubitta, Pittino, 2014). Infine, a livello macro,
l’oggetto della progettazione sono le forme organizzative (c.d. organization de-
sign), quindi le modalità di aggregazione di insiemi di mansioni in unità orga-
nizzative che possono coprire ambiti più o meno ampi ed omogenei/eterogenei
di attività (per esempio le unità organizzative funzionali, come ad esempio le
41
Lineamenti di organizzazione aziendale
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2 Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
di Sara Lombardi
43
Lineamenti di organizzazione aziendale
Introduzione
44
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
45
Lineamenti di organizzazione aziendale
46
Figura 2.1. L’organizzazione come sistema
47
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
Sebbene rendere le organizzazioni dei sistemi efficienti sia tuttora una delle
preoccupazioni di ogni manager, l’elemento di novità dei sistemi aperti consiste
nel tentare di creare il giusto equilibrio tra un sistema interno ben congegnato
ed un’attenzione costante ai mutamenti che prendono forma nell’ambiente
esterno includendoli in misura rilevante nella funzione decisionale. Pertanto,
non è più possibile ipotizzare una buona progettazione e gestione delle organiz-
zazioni limitandosi a prediligere una prospettiva di “sistema chiuso”.
48
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
Sviluppato durante gli anni ‘30 del secolo scorso dagli economisti industriali
della Scuola di Harvard, il paradigma struttura-condotta-performance (di se-
guito riportato come S-C-P) suggerisce che la performance (P) economica di un
certo settore economico derivi dalla condotta (C) tenuta dagli attori economici
in esso operanti, la quale, a sua volta, si modificherà in funzione della struttura
(S) del settore stesso (Mason, 1939; Bain, 1956). Così facendo, gli elementi ca-
ratterizzanti la struttura di un settore economico finiscono per condizionare di-
rettamente, ed in modo univoco, le imprese che ne fanno parte. Detto ciò, queste
ultime dovranno conoscere e rispettare le regole determinate dal settore, pena la
propria sopravvivenza. Quelle che dimostreranno di sapersi adattare a tali re-
gole in modo migliore e anticipando i concorrenti, registreranno prestazioni su-
periori.
In cosa si concretizzano i tre elementi centrali del teorema? La struttura
del settore (S) fa riferimento ad elementi quali la quantità di organizzazioni in
esso presenti, il grado di integrazione verticale, le barriere all’entrata, la concen-
trazione del settore, il livello di differenziazione del prodotto, etc (McWilliams
e Smart, 1993). La condotta (C) richiama invece gli schemi di comportamenti
seguiti dagli attori economici del settore, dunque le attività da loro poste in es-
sere. Si pensi, ad esempio, alle partnership che possono nascere tra di essi, alle
attività di ricerca e sviluppo che alcuni di loro possono avviare, alle politiche di
prezzo che essi adottano, alle scelte aziendali in tema di processi produttivi, etc.
Infine, la performance economica (P) viene generalmente misurata guardando
al grado di efficienza del settore, ovvero alla sua capacità di massimizzare il ri-
sultato (l’output) ottenuto impiegando una certa quantità di risorse (input),
nonché i profitti del settore derivanti dai profitti registrati dalle organizzazioni
che in esso operano, il loro potere di mercato, il fatturato, etc.
Sebbene abbia fornito una solida base di studio delle strategie aziendali,
il paradigma S-C-P presenta alcuni limiti che ne mettono a repentaglio la vali-
dità quale approccio utile a spiegare la relazione tra organizzazione e ambiente.
Il principale è quello secondo cui esso tende ad adottare un approccio de-
terministico, semplificando eccessivamente la realtà economica. Il focus, infatti,
è su un unico aspetto: la struttura del settore. Tuttavia, concretamente, la per-
formance delle organizzazioni può modificarsi in conseguenza dell’agire di molti
altri fattori, inclusi quelli interni all’organizzazioni, oltre che il processo compe-
titivo che si attiva tra i concorrenti.
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
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Lineamenti di organizzazione aziendale
Di fronte a scenari come quelli ricordati da Perrone e oggi ancor più allarmanti,
le organizzazioni dovranno dedicare risorse economiche ed organizzative al fine
di raccogliere le informazioni ed elaborarle, al fine di assumere le decisioni mi-
gliori ed adottare le soluzioni adeguate per non essere condizionati in modo de-
terminante da quanto accade nell’ambiente generale.
Tuttavia, si ricordi che questa porzione di ambiente è detta “generale” in
ragione del fatto che essa non è in contatto diretto con l’organizzazione; per-
tanto, non è da essa modificabile. Detto ciò, le evoluzioni ambientali che avven-
gono in questa parte di ambiente assumono rilevanza per le organizzazioni solo
mediante l’azione ed il comportamento di istituti, gruppi o individui che, al con-
trario, intrattengono una relazione diretta con essa. Richiamando l’esempio
54
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
1
Per approfondimenti sull’ambiente transazionale, si veda Perrone (1990, pp. 253 ss).
55
Figura 2.2. L’ambiente generale e l’ambiente operativo
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Lineamenti di organizzazione aziendale
2
Questo approccio richiama i dettami della teoria neoclassica d’impresa, concentrata sugli obiettivi di produttività
ed efficienza. Per approfondimenti si vedano, ad esempio, Holmstrom e Tirole (1989).
57
Lineamenti di organizzazione aziendale
E’ il cliente che determina cosa è vantaggioso e cosa non lo è. E’ solo il cliente che, in
base alla sua volontà di pagare per un bene o un servizio, fa sì che le risorse economi-
che divengano ricchezza e le cose diventino beni. Il cliente è alla base del commercio,
e lo alimenta. Soltanto grazie a lui esiste occupazione. Per soddisfare i desideri e i
bisogni del consumatore la società affida le risorse che producono ricchezza
all’azienda produttiva.
Sulla base di quanto appena detto, è evidente che le valutazioni circa i confini
organizzativi sono demandate a soggetti, individui che, secondo un’analisi cri-
tica, si occuperanno di comprendere come può essere definito l’ambiente esterno
e quali componenti ne fanno parte.
Tuttavia, tale processo di valutazione è inevitabilmente condizionato da
numerose informazioni che tali soggetti dovranno essere capaci di raccogliere,
58
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
59
Lineamenti di organizzazione aziendale
a ciò che si è verificato nell’ambiente, bensì al modello mentali che egli avrà
attivato. Questo spiega perché, di fronte ad una stessa variazione ambientale,
soggetti diversi rispondono in modo altrettanto diverso.
Sebbene l’utilizzo di modelli e schemi interpretativi sia alquanto utile so-
prattutto qualora a dover essere esaminata è una significativa mole di informa-
zioni (si pensi, ad esempio, alla capacità del soggetto di mettere ordine tra le
informazioni raccolte, dare loro un ordine di priorità, semplificare il problema,
etc.), di frequente emerge che gli stessi modelli tendano a distorcere il processo
decisionale, inducendo il soggetto a commettere errori, talvolta anche piuttosto
gravi. Le distorsioni sembrano derivare maggiormente da due elementi:
60
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
eliminando gran parte dello sforzo cognitivo che l’essere umano dovrebbe
impiegare in assenza di tali eurismi. Tuttavia, il loro utilizzo può impat-
tare negativamente sulle decisioni organizzative in quanto essi inducono
a privilegiare l’utilizzo delle informazioni che risultano più vivide oppure
più facili da ottenere e da ricordare, esponendo così il processo decisionale
al rischio di scarsa efficacia.
3
Come spiega Duncan (1972), la definizione differisce da quella di situazioni di rischio in cui ogni possibile
evento ha una probabilità nota.
61
Lineamenti di organizzazione aziendale
62
Figura 2.3. Le determinanti dell’incertezza ambientale
63
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
• Aggregazione ed organizzazione.
L’aggregazione dell’ambiente definisce la misura in cui gli attori che ne
fanno parte sono legati non solo da relazioni con l’organizzazione, bensì
anche da rapporti tra di loro. In caso di alta aggregazione (e conseguente
bassa frammentazione), l’ambiente tende a favorire fenomeni di c.d. pola-
rizzazione dei flussi informativi sia da che verso l’organizzazione, riducendo
l’incertezza ambientale e i relativi costi connessi alla ricerca e alla elabora-
zione delle informazioni (Perrone, 1990).
I benefici che un ambiente aggregato assicura all’organizzazione sono am-
plificati qualora le relazioni tra gli attori che operano nell’ambiente siano
governate da forme organizzative stabili. Esempi sono i consorzi, le associa-
zioni. Perrone richiama il caso delle organizzazioni sindacali che facilitano
i rapporti tra organizzazione e mondo del lavoro, oltre che tra organizza-
zione e lavoratori.
• Dinamismo e prevedibilità.
Il dinamismo misura il grado di stabilità/instabilità delle componenti
dell’ambiente. Vi sono alcune di esse che subiscono variazioni più frequenti,
quali le tecnologie applicate all’interno di un certo settore oppure le abitu-
dini di acquisto dei consumatori in determinate industrie. Si pensi, ad esem-
pio, al settore dell’abbigliamento, caratterizzato da rapidi e frequenti cam-
biamenti nelle mode che, a loro volta, incidono sulle preferenze dei clienti.
Il grado di dinamismo assume maggiore importanza se considerato in ra-
gione del livello di prevedibilità dei cambiamenti. Vi sono settori, infatti, in
cui le evoluzioni ambientali sono scarsamente prevedibili ed altri per i quali
anticiparli diventa più facile.
• Ampiezza ed omogeneità (complessità).
L’ampiezza definisce la numerosità degli elementi che fanno parte dell’am-
biente. La quantità di fornitori, di clienti, di enti pubblici e di altri attori che
interagiscono con l’organizzazione può infatti incidere sulla natura e sulla
entità delle informazioni che devono essere raccolte ed interpretate per so-
pravvivere nell’ambiente. Pertanto, se gli elementi da fronteggiare sono
64
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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Tabella 2.1. Le tipologie di ambienti secondo il loro grado di complessità
69
difficilmente prevedibili e gestibili o La strategia dominante è dunque quella di sconfig-
gere il nemico (gioco a somma zero)
Emerge una elevata connessione tra gli attori dell’am- o Le strategie di attacco nei confronti dei concorrenti
biente risultano poco adeguate a vincere le forze competi-
Sono richiesti elevati investimenti in Ricerca e Sviluppo tive
Ambiente turbolento
Tutto ciò induce ad un elevato grado di incertezza o Diventano allora essenziali le strategie cooperative
Le incognite sono molteplici e sconosciute, rendendo dif- con altre organizzazioni mirate alla riduzione
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
• Disponibilità e ricettività.
La disponibilità fornisce indicazioni sulla misura in cui nell’ambiente sono
disponibili le risorse di cui l’organizzazione necessita. La disponibilità di ri-
sorse tende a variare in base ad alcuni fattori:
o la possibilità per l’organizzazione di servirsi di risorse alternative.
Spesso, grazie al progresso tecnologico, nell’ambiente è possibile rintrac-
ciare dei validi sostituti oppure, grazie a evoluzioni nei processi produt-
tivi, è possibile rendere meno rilevante l’utilizzo di una certa risorsa la
quale è già incorporata nel processo (si pensi, ad esempio, ai casi in cui
l’introduzione di sistemi altamente tecnologici rendono le risorse umane
e le loro competenze quasi completamente sostituibili dall’ICT);
o il numero di organizzazioni che, nell’ambiente competono per acca-
parrarsi le medesime risorse. Più è elevata la competizione sulle risorse,
più queste risulteranno scarsamente disponibili;
o la natura delle risorse di cui l’organizzazione ha bisogno. Se si tratta di
risorse la cui quantità è limitata, per natura, potrebbe diventare più
difficile ottenerle.
Diversamente, la ricettività concerne la possibilità di collocare i flussi di
output prodotti dall’organizzazione nell’ambiente4 e la capacità, di
quest’ultimo, di accoglierli. A tal proposito, l’attenzione deve essere posta
non tanto ai problemi di gestione della domanda, ossia all’abilità dell’or-
ganizzazione di collocare i propri prodotti e servizi sul mercato motivando
i consumatori ad acquistarli, bensì alle questioni relative alle c.d. esterna-
lità negative (Sandholm, 2005). In generale, le esternalità sono definite
come l’effetto indesiderato che le attività realizzate da un attore econo-
mico possono produrre sul benessere di un altro agente. Laddove vi siano
4
Si richiama qui la Figura 2.1.
70
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
71
Lineamenti di organizzazione aziendale
Una volta che le organizzazioni diventano consapevoli della rilevanza del ruolo
svolto dall’ambiente, diventa essenziale comprendere come queste modifichino
le loro strategie in ragione delle dipendenze e dei vincoli che l’ambiente impone
loro. Di seguito verranno prese in esame quattro diverse azioni strategiche at-
tuabili dalle organizzazioni: le strategie competitive, la ricerca del prestigio,
l’adozione di figure e ruoli organizzativi strategici e le strategie cooperative.
72
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
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Lineamenti di organizzazione aziendale
Come tutte le strategie, anche quella di prestigio ha i suoi rischi. Il più impor-
tante è indubbiamente quello secondo cui l’organizzazione può fossilizzarsi ec-
cessivamente sui benefici derivanti dalla sua associazione con una immagine o
una persona prestigiosa del passato. E’ il caso tipico di numerose associazioni
di volontariato che, supportate spesso da persone prestigiose, diventano dipen-
denti da esse e, laddove queste abbiano un declino, anche le associazioni ten-
dono a subirlo.
76
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
con particolare interesse per il top management che, sulla base di tali informa-
zioni, dovrà assumere decisioni e definire strategie. Esempi di ruoli di confine
sono le unità di ricerche di marketing che si occupano di monitorare e compren-
dere le tendenze nei gusti dei consumatori o, ancora, le unità di ricerca e sviluppo
che hanno la responsabilità di individuare sviluppi tecnologici da applicare ai
nuovi prodotti e servizi.
Un più recente approccio alla gestione dell’incertezza è quello offerto
dalla business intelligence, la quale si fonda sull’analisi, realizzata con mezzi al-
tamente tecnologici, di grandi quantità di dati interni ed esterni al fine di mettere
in evidenza modelli e relazioni in grado di supportare la gestione del rapporto
tra organizzazione e ambiente.
77
Lineamenti di organizzazione aziendale
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Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
79
Tabella 2.2. Le caratteristiche distintive dei sistemi meccanici e organici
80
Scarsa enfasi sulla specializzazione e sulla standardizzazione
I compiti individuali vengono continuamente ridefiniti attraverso l’interazione con le altre posizioni
Le responsabilità e gli obblighi sono definiti in modo vago; i problemi devono essere affrontati da ciascuno
Gli impegni dell’organizzazione sono definiti in senso ampio e non si basano strettamente sugli obblighi
espressi all’interno di mansionari
Lineamenti di organizzazione aziendale
La conoscenza e la competenza sono ugualmente distribuite lungo la scala gerarchica. L’esatta collocazione
Sistemi organici
dipende dalla natura del problema
Ampia interazione laterale (orizzontale) fra i membri organizzativi; la consultazione prende il posto del
comando
La comunicazione pone l’accento sull’informazione e sui consigli
L’attenzione agli obiettivi è più importante della lealtà e dell’obbedienza
Il prestigio è collegato alla famiglia professionale di appartenenza anche con riferimento al mondo esterno
Fonte: Adattato da Burns e Stalker (1961).
Progettazione organizzativa, ambienti e incertezza
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3 La tecnologia
di Vincenzo Cavaliere
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Ogni attività lavorativa finalizzata richiede che l’essere umano applichi una serie
di capacità fisiche e cognitive e si serva di appropriati mezzi per attuare processi
88
La tecnologia
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Lineamenti di organizzazione aziendale
trasferisce sul proprio supporto i contenuti esposti dal docente utilizzando stru-
menti appropriati come un foglio di carta e una penna o, alternativamente, un
cellulare, un tablet o un pc, che rappresentano appunto un sistema tecnico, sem-
plice nel primo caso, più complesso negli altri. Allo stesso modo, il docente uti-
lizza un sistema tecnico per trasferire le conoscenze di base ai discenti.
Accade quotidianamente, tanto nella vita sociale, quanto nelle attività
produttive che le persone e gli attori organizzativi utilizzano spesso una serie di
strumentazioni tecniche senza avere alcuna “nozione” tecnologica sottostante il
sistema tecnico utilizzato. Così avviene che guidiamo un’automobile senza avere
la minima idea della meccanica e del funzionamento del motore, utilizziamo un
cellulare, un tablet o un pc senza avere conoscenze di elettronica, di sistemi ope-
rativi o dei micro-processori; in generale, utilizziamo sistemi tecnici senza avere
la minima cognizione del sapere scientifico che si è sviluppato e consolidato nel
corso del tempo con riferimento alle specifiche trasformazioni economiche e
produttive 3.
Nella teoria dell’organizzazione d’impresa, vista nella mera prospettiva
della progettazione, le tecniche hanno assunto un significativo rilievo rispetto
all’insieme delle conoscenze scientifiche di base.
A tal proposito afferma Perrone:
Per lungo tempo, infatti, i due «discorsi», quello organizzativo e quello tecnico, sono
rimasti saldamente intrecciati nella teoria, con la conseguente riduzione dello studio
del lavoro organizzato allo studio delle tecniche volte a massimizzare l’efficienza della
«macchina» organizzativa (Morgan, 1986; t.i. 1989, 23-48). Con l’aumentare della
complessità e delle dimensioni delle imprese, e con il progredire degli studi, i quali
hanno portato a mettere in luce l’importanza delle dinamiche sociali e di quelle eco-
nomiche nei processi organizzativi, il ruolo della tecnica è rimasto comunque cen-
trale, essendo la variabile più diffusamente ritenuta in grado di influenzare il disegno
della struttura organizzativa (Perrone, 1990, p. 281).
90
La tecnologia
4
In letteratura è possibile rinvenire diverse nozioni di tecnologia, ciascuna delle quali è funzionale e coerente ai
percorsi di ricerca degli autori che le hanno declinate. Tale varietà se da un lato costituisce una ricchezza dall’al-
tro rischia, come già evidenziato, di generare ulteriore complessità.
5
Perrow C.,Uno schema per l’analisi comparativa delle organizzazioni, in “Progettazione e sviluppo delle orga-
nizzazioni”, a cura di A. Fabris e F. Martino, Etaslibri, Milano, 1993, pag. 107.
6
Sull’argomento si veda anche Scott, 1985; Gerloff, 1989; Perrone, 1990; Butler, 1998; Hatch, 1999.
91
Lineamenti di organizzazione aziendale
92
La tecnologia
Recenti contributi sulle nuove tecnologie, inoltre, hanno fatto emergere una visione
simbolico-interpretativa, attraverso l’analisi della costruzione sociale della stessa tec-
nica (Hatch, 1996), che da un lato supera il c.d. «imperativo tecnologico»7 e dall’altro
apre la teoria organizzativa verso nuove e inesplorate prospettive di studio.
Un’altra importante questione che deve essere affrontata nella relazione
tra variabili tecniche e organizzative riguarda l’angolo visuale di riferimento. Se
la prospettiva è quella degli economisti, la tecnologia è il mezzo attraverso cui il
sistema sociale fornisce agli esseri umani i beni e servizi di cui hanno bisogno.
Da questo punto di vista, come abbiamo già detto, è l’organizzazione stessa ad
essere considerata tecnologia, cioè un artefatto creato dall’uomo per soddisfare
le proprie necessità. Gli economisti considerano questo strumento di trasforma-
zione delle risorse in prodotti alla stregua di una “scatola nera”; essi mostrano
scarso interesse per il suo funzionamento interno, non cercano di aprire la sca-
tola per esplorarne i contenuti e le relative dinamiche di funzionamento. Tale
angolo visuale, esterno al sistema, si ferma al livello dell’analisi ambientale e
non soddisfa propriamente gli studiosi dell’organizzazione che cercano invece
di aprire il contenitore per osservarne il contenuto e il processo.
7
Fu la studiosa Woodward a introdurre il termine imperativo tecnologico che richiama l’idea di una tecnologia
che può contribuire a far adottare la struttura organizzativa più confacente ai bisogni dell’organizzazione (Hatch,
1996, p. 140).
93
Lineamenti di organizzazione aziendale
8
Affronteremo questo tema approfonditamente nella parte relativa alla progettazione delle mansioni.
94
La tecnologia
9
Si veda anche Perrone, 1990, p. 285. Inserire nota sull’attenzione a utilizzare il tema core technology ai diversi
livelli, vedi Hatch, p. 128.
95
Lineamenti di organizzazione aziendale
10
Cfr. anche J.F., Christensen, 1996, “Analyzing the Technology based of the Firm”, in N.J., Foss and C., Kund-
sen, Towards a Competence Perspective of the Firm, Routledge, London.
96
La tecnologia
Uno dei primi studi che ha evidenziato il ruolo e la criticità della tecnologia nella
progettazione organizzativa è sicuramente quello condotto da Joan Woodward,
sociologa inglese dell’organizzazione, che studiò il funzionamento di 100 im-
97
Lineamenti di organizzazione aziendale
prese manifatturiere situate nella regione del South Essex, in Inghilterra. La di-
mensione del campione di imprese che furono considerate, variava da 100 a 8000
unità di personale e l’82% di esse aveva meno di 500 dipendenti 11.
L’obiettivo specifico del programma dell’indagine, in realtà, non riguar-
dava specificatamente la tecnologia. La studiosa e il suo gruppo di lavoro erano
particolarmente interessati a produrre un programma di ricerca di tipo organiz-
zativo che avesse una qualche utilità al sistema dell’education nell’area della di-
rezione industriale. Una prima “domanda di ricerca” che il gruppo di studiosi
formulò riguardava «la dicotomia fra responsabilità consultive e operative e i
conseguenti rapporti tra supervisione di linea ai differenti livelli e i diversi spe-
cialisti tecnici e amministrativi introdotti in sempre maggior numero nelle indu-
strie» (Woodward, 1975:11). Si trattava, in sostanza, di studiare i fattori deter-
minanti la qualità delle relazioni tra line e staff. Dopo aver realizzato un pro-
getto pilota, i ricercatori si resero conto della difficoltà di realizzare il pro-
gramma e spostarono la loro attenzione sullo studio delle relazioni line-staff non
in modo isolato, ma considerate come parti di un tutto; le aziende industriali
sarebbe state così studiate come sistemi sociali complessi per comprendere le
condizioni organizzative che potessero produrre i migliori livelli di rendimento
e il successo economico dell’impresa (Woodward, 1975; Hatch, 1996).
Per comprendere in pieno la portata complessiva dell’opera della Wood-
ward è opportuno inquadrarla nel suo contesto storico, gli anni Cinquanta. In
quel periodo, anche in Europa, imperava il mainstreming manageriale delle
grandi scuole nord americane che, con i suoi contenuti e i suoi metodi, influen-
zava significativamente i processi formativi. Il desiderio di trovare il modo mi-
gliore di organizzare, tipico della scuola classica, dominava le ricerche e la teoria
organizzativa di allora.
La diversità di risposte che venivano proposte a questa domanda di ricerca,
lo scetticismo sulla validità e generalizzazione di quei principi e il dubbio sull’ade-
guatezza dei conseguenti insegnamenti che le istituzioni educative trasmettevano
alle future classi dirigenti del paese portò Joan Woodward a preparare lo studio
scientifico per affrontare il cuore della questione (Hatch, 1996; Woodward, 1975).
Per alcuni studiosi di matrice sociologica, la portata della ricerca era però
molto più ampia di quella che, a una prima sommaria analisi, poteva apparire.
Afferma a tal proposito Butera (1975, p. VIII e IX):
11
In realtà la dimensione delle imprese che parteciparono alla ricerca variava tra 11 e 40000 dipendenti, così
come il numero di imprese coinvolte era di 203. Alcune di queste furono omesse nella ricerca core dettagliata.
Si veda in proposito J. Woodward, 1975, pag. 14-15; ed. orig. 1965.
98
La tecnologia
fornire una identità culturale basata sul ruolo sociale anziché su quello professionale,
alla dirigenza industriale, confermarla nella propria legittimazione autocratica, rin-
forzare e diffondere un’immagine oggettiva della stratificazione del potere
nell’azienda e nella società? Mettere in discussione le Management Science nord-ame-
ricane non significava forse mettere in discussione l’importazione di un modello di
classe dirigente e con esso (inconsapevolmente) un modello di società?
Di questa tematica non vi è traccia esplicita nel testo della Woodward, ma è una
chiave di lettura che spiega molte cose…
Per un gruppo di ricerca espresso da un College che impiegava tanto tempo e sforzi
per insegnare temi di management, la (scoperta della) mancanza di qualsiasi interre-
lazione fra successo economico e ciò che generalmente è considerato come solida
struttura organizzativa, fu particolarmente sconcertante.
Ritornando agli specifici risultati della ricerca, la studiosa mise in relazione i ren-
dimenti delle imprese del campione e gli aspetti strutturali dell’organizzazione che
i teorici classici avevano indicato come fattori determinanti la stessa performance.
Alcuni di questi elementi erano costituiti dall’articolazione verticale della strut-
tura organizzativa considerata in termini di livelli gerarchici, di ampiezza della
supervisione, di accentramento delle pratiche decisionali e di peso relativo del per-
sonale non direttamente impiegato nell’attività di produzione. L’analisi eviden-
ziò, in maniera sorprendente e in controtendenza con le aspettative, che non vi era
alcuna corrispondenza tra la struttura organizzativa e il rendimento.
La Woodward cercò di spiegare questo risultato inaspettato ricorrendo
ad un diverso approccio di analisi e interpretazione dei dati. Raggruppò e clas-
sificò le imprese e i sistemi di produzione in base al loro livello di complessità
tecnica controllando che tale metodo non fosse direttamente correlato con le
dimensioni aziendali (in sostanza, per ogni classe individuata potevano essere
comprese imprese di dimensioni diverse). Individuò così alcune tipologie di si-
stemi tecnici con differenti gradi di complessità che sono riportati in Figura 3.2.
Tale modalità di analisi rivelò quelle relazioni tra variabili che la resero
particolarmente famosa nell’ambito della teoria organizzativa. In sostanza, le
correlazioni significative tra il rendimento e la struttura organizzativa si mani-
festavano solo se si prendeva in considerazione il sistema tecnico prevalente uti-
lizzato nell’unità industriale considerata. Esistevano, quindi, evidenti unifor-
mità organizzative tra imprese diverse per dimensioni ma simili per quanto ri-
guarda il sistema tecnico adottato (Perrone, 1990, p. 174). La Tabella 3.1. mo-
stra tali evidenze empiriche.
99
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12
La Woodward non specifica la dimensione dei lotti per classificarli come piccoli e/o grandi, Gerloff, 1989, p.
110.
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Si veda in proposto Thompson, J.D., 1990; Perrone, V. 1990, pag. 198.
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La tecnologia
timi anni, le intense interdipendenze interne e esterne che le imprese sono chia-
mate a fronteggiare, anche per incrementare i processi di innovazione, hanno
imposto intensi e più costosi meccanismi di coordinamento attivati anche attra-
verso soluzioni organizzative inter-funzionali o grazie alla costituzione di team
interdipartimentali.
La tecnologia di mediazione ha la funzione di collegare tra loro clienti o
utenti relativamente autonomi nel contesto di uno scambio o di una transazione.
Essa si caratterizza per una certa indipendenza tra le attività previste nel flusso
input, processo di trasformazione e output. Banche, agenzie di mediazione e di
assicurazione sono tutte organizzazioni che ricorrono a tecnologie di media-
zione. Esse, infatti, costituiscono e generano “luoghi fisici o virtuali” che con-
sentono ai partner di uno scambio potenziale di incontrarsi e condurre una tran-
sazione. Le agenzie di intermediazione immobiliare, ad esempio, mettono in
contatto chi vuole vendere con chi vuole comprare casa offrendo spesso anche
tecnologie ausiliarie a quella core di intermediazione, come mutui o accordi con
istituti finanziari e di credito per ottenere finanziamenti.
L’interdipendenza tra le attività è limitata e il singolo operatore o unità
organizzativa, a differenza di quanto accade nella tecnologia di concatena-
mento, può svolgere il proprio task autonomamente senza che sia direttamente
dipendente dalle attività di altri.
Ogni componente organizzativa, persona o unità, opera con una interdi-
pendenza generica, cioè contribuisce in modo autonomo e separato alla perfor-
mance complessiva della propria unità o organizzazione. Il grado di integra-
zione fra unità al fine del raggiungimento del risultato è quindi limitato. Il costo
di coordinamento è quindi limitato potendo, l’organizzazione, controllare le at-
tività di una singola unità attraverso la standardizzazione.
La complessità di questo tipo di tecnologia risiede non tanto nel fatto che
essa deve soddisfare bisogni differenziati di una pluralità di clienti, quanto piut-
tosto che deve raggiungere tale risultato attraverso la standardizzazione. In so-
stanza, essa deve operare con modalità standardizzate ma anche estensiva-
mente.
Ad esempio, la tecnologia bancaria media tra gli investitori e chi richiede
finanziamenti attraverso attività guidate da procedure e standard stabiliti anche
da organismi sovraordinati. Tali procedure dovrebbero consentire l’incontro tra
domanda e offerta di denaro, facilitare la soddisfazione delle reciproche esigenze
espresse dai partner e consentire alla banca di conseguire un profitto dalla atti-
vità di intermediazione.
L’analisi della tecnologia di mediazione può avvenire non solo a livello
macro ma anche di unità organizzativa, dipartimento, reparto, team, ecc.
107
Lineamenti di organizzazione aziendale
108
La tecnologia
14
Come abbiamo già ricordato, le tecnologie a ciclo continuo e quelle della produzione di massa si avvicinano
alla perfezione tecnica dal punto di vista strumentale.
15
Vedi J., D., Thompson, 1990, p. 89 e 90.
109
Lineamenti di organizzazione aziendale
a) buffering;
b) smoothing;
c) anticipazione e adattamaneto;
d) razionamento.
Non potendo isolare i nuclei tecnologici attraverso una loro chiusura ermetica,
le organizzazioni tendono a creare dei meccanismi di protezione degli effetti per-
turbatori di tutte le variabili coinvolte, “circondando” il sistema tecnico con
componenti di input e output (Thompson, p. 96). Il buffering, quindi, consiste
in azioni di protezione del nucleo tecnico attraverso la costituzione di scorte in
input e in output. Tale possibilità, sebbene costosa, può essere ben compresa e
applicata nel caso di tecnologia manifatturiera di concatenamento. Osserva a
tal proposito Thompson (1990, p. 91):
110
La tecnologia
111
Lineamenti di organizzazione aziendale
112
La tecnologia
113
Lineamenti di organizzazione aziendale
114
La tecnologia
Il numero di eccezioni della tecnologia (asse orizzontale della tabella 3.2.) con
riferimento alle unità organizzative può aiutare a rappresentare la dimensione
della variabilità dei compiti, classificata lungo una linea continua che va da po-
che a molte eccezioni. Maggiori sono le eccezioni che si devono risolvere nello
svolgimento del compito, più alta è la variabilità delle attività. Conseguente-
mente sarà minore per gli operatori la possibilità di adottare standard e proce-
dure operative per svolgere il lavoro. Il coordinamento mediante piani e pro-
115
Lineamenti di organizzazione aziendale
116
La tecnologia
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Lineamenti di organizzazione aziendale
grammi di azione predefiniti per la risoluzione dei problemi. In sostanza gli at-
tori organizzativi devono essere in grado di sviluppare una nuova ricerca di so-
luzioni e individuare nuove informazioni per ridefinire le procedure di lavoro
atte ad affrontare le poche eccezioni che gli si presentano. In sostanza, siamo in
presenza di organizzazioni che svolgono un’attività che presenta una bassa va-
riabilità le cui eccezioni, però, risultano di difficile analizzabilità e soluzione con
le conoscenze a disposizione. In questi casi, il ricorso a metodi di analisi alter-
nativi, all’esperienza, alla creatività e all’intuizione risultano particolarmente
importanti e prevalenti rispetto alla programmazione. Nonostante i progressi
della tecnologia di produzione, i sistemi tecnici artigianali sono ancora abba-
stanza presenti nell’economia moderna. Si pensi, ad esempio, al lavoro di un
artigiano, sia esso calzolaio, elettricista, sarto, idraulico o falegname, che nello
svolgimento delle proprie attività può essere chiamato a ridefinire le proprie at-
tività e programmi di azione in funzione di particolari specifiche richieste del
cliente.
Il quadrante 3 identifica le c.d. tecnologie ingegneristiche, ovvero le indu-
strie meccaniche (macchine pesanti) che si caratterizzano per un’alta variabilità
e analizzabilità delle attività. In questi casi l’operatore si trova di fronte a pro-
cessi di lavoro che presentano spesso eccezioni che però sono state adeguata-
mente classificate e in modo da poter individuare programmi di azione standar-
dizzati, procedure e tecniche pre-determinate. Gli attori organizzativi possie-
dono le competenze specialistiche adeguate a rispondere con efficacia alla varia-
bilità che si presenta perché essa è sufficientemente analizzabile. Si pensi alle
attività dell’amministrazione e contabilità, a quella fiscale o legale ma anche le
attività di una segretaria di direzione chiamata a gestire molte eccezioni per le
quali però ha maturato tecniche e procedure, anche mentali, in grado di affron-
tare e risolvere i problemi.
Uno schema unidimensionale, inoltre, seguirebbe la linea tratteggiata che
attraversa le caselle 2 e 4 (Perrow, 1967).
Il contributo dello studioso non si esaurisce con le dimensioni dell’analiz-
zabilità e della variabilità delle attività ma include anche la conoscenza disponi-
bile per analizzare le caratteristiche del materiale grezzo sottoposto a trasforma-
zione e il suo grado di stabilità o variabilità, ossia la possibilità che esso sia stan-
dardizzato o richieda aggiustamenti continui. Poiché le tecniche sono applicate
su materiale grezzo sottoposto a trasformazione, è probabile, sostiene Perrow,
che le conoscenze disponibili per analizzare le caratteristiche del materiale de-
terminino le tecniche da utilizzare (Perrow, p.111).
La comprensione della natura del materiale, secondo Perrow, è una con-
dizione necessaria per aumentare il livello di prevedibilità ed efficienza delle tra-
sformazioni. È importante sottolineare che il riferimento è al modo con cui l’or-
ganizzazione percepisce la natura del materiale e non alla sua «essenza».
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La tecnologia
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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Premessa alla progettazione della microstruttura
organizzativa
di Enrico Cori e Vincenzo Cavaliere
121
Lineamenti di organizzazione aziendale
122
Premessa alla progettazione della microstruttura organizzativa
e livello delle dimensioni sociali (le c.d. variabili soft: varietà, autonomia, iden-
tità del compito, autorealizzazione, ecc.). Il capitolo si conclude con
l’individuazione delle fasi operative del job design. Il successivo capitolo 5, do-
po una parte introduttiva dedicata ad analizzare i possibili vantaggi delle for-
me team-based, è dedicato alle scelte inerenti la progettazione dei gruppi di la-
voro. La parte conclusiva del capitolo ospita un focus su team interaziendali e
team virtuali, e una breve riflessione sull’impatto che le scelte di progettazione
della microstruttura hanno sui comportamenti organizzativi. Infine, il capitolo
6 affronta le questioni di progettazione ai confini delle unità organizzative: ci
riferiamo in particolare all’analisi delle interdipendenze e alle scelte di fram-
mentazione e ricomposizione dei processi di lavoro. Si affronta la questione
dell’interfunzionalità e si propongono le possibili soluzioni, strutturali e non
strutturali, per il coordinamento.
123
4 La progettazione delle mansioni e dei ruoli
di Vincenzo Cavaliere e Daria Sarti
125
Lineamenti di organizzazione aziendale
Tutti i giorni i manager sono chiamati ad impiegare gran parte del proprio
tempo lavorativo a gestire i propri collaboratori, definire obiettivi, allocare ri-
sorse, coordinare processi e attività divise, in sostanza a organizzare il lavoro e
il comportamento finalizzato degli attori organizzativi. Per le organizzazioni, la
comprensione delle dinamiche e degli elementi che influenzano il comporta-
mento degli individui nel contesto di lavoro, rappresenta un elemento sostan-
ziale per rispondere quotidianamente all’esigenza di coordinare in modo efficace
le risorse umane e le relative competenze.
Il comportamento umano nelle organizzazioni è in parte dipendente da
fattori biologici, psicologici, cognitivi, quali ad esempio le motivazioni, le carat-
teristiche personali, le preferenze e attitudini dei singoli individui, ed è in parte
condizionato da fattori strutturali e “relazionali”, connessi cioè all’economia di
funzionamento delle unità organizzative e alle interdipendenze presenti nelle at-
tività di lavoro. La comprensione di questi ultimi elementi, strutturali e “rela-
zionali” è fondamentale tanto per orientare il comportamento degli attori orga-
nizzativi quanto per il disegno complessivo dell’organizzazione, in particolare
delle microstrutture, cioè delle unità elementari che consentono alle organizza-
zioni “di fare le cose” operativamente in modo efficace, efficiente e motivante.
L’analisi e la progettazione della microstruttura organizzativa hanno, per-
tanto, la finalità di definire, in maniera dinamica, la configurazione “ottimale”
di quelle unità di base che compongono un’organizzazione di cui concorrono a
realizzare i processi operativi (Butera e Donati, 1997). Attraverso queste atti-
vità, svolte generalmente dagli analisti di organizzazione 1, si contribuisce a chia-
rire il perimetro di riferimento per l’azione individuale e collettiva all’interno e
all’esterno dell’organizzazione.
Nello specifico, la progettazione della microstruttura fa riferimento sia ai
processi finalizzati a configurare le singole mansioni o posizioni organizzative
(job design) sia alla scelta dei meccanismi di coordinamento a presidio delle in-
terdipendenze che, con la divisione del lavoro, si vengono a generare.
La progettazione della posizione individuale rappresenta un’attività cen-
trale, di estrema importanza nell’ambito più ampio della progettazione e del di-
segno organizzativo di cui si tratta nel presente manuale.
1
Gli analisti organizzativi – o di progettazione - sono coloro che presentano elevati livelli di know-how sulle
tipologie di strutture organizzative, sulle tecniche di progettazione organizzativa e sulle tecniche di ricerca e
indagine nonché sui sistemi di controllo dell’efficienza organizzativa. Tali professionalità sono capaci di svolgere
ricerche e indagini ad hoc per poi individuare e definire i modelli – sia a livello di micro che di macro progettazione
- che più si adattano ad una specifica situazione aziendale. Si tratta di figure, sia interne che esterne, il cui ruolo
in funzione delle diverse contingenze quale ad esempio la dimensione d’impresa può essere svolto direttamente
dall’imprenditore oppure da un manager.
126
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
127
Lineamenti di organizzazione aziendale
128
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
5 Nel suo lavoro Gerloff (1997: 163) suggerisce di raggruppare tutte le attività che conducono a contributi simili
utilizzando quattro diverse strategie di raggruppamento per la progettazione organizzativa. La prima, raggrup-
pare le attività che producono risultati (vendita, produzione, raccolta di informazioni); la seconda, raggruppare
attività di supporto (controllo, addestramento e attività riconducibili agli organi di staff); la terza, raggruppare le
attività di servizio (mensa, etc.); quarto e ultimo criterio di raggruppamento, raggruppare attività del top mana-
gement.
6 Nostra traduzione da: “Encapsultating the porocesses and outcomes of how work is structured, organized,
129
Lineamenti di organizzazione aziendale
progettazione della posizione vista come attività volta a combinare diverse di-
mensioni, nello specifico ci occuperemo della specializzazione orizzontale e ver-
ticale del lavoro, in ultimo verranno introdotte due tipologie di dimensioni - qui
denominate hard e soft – utili strumenti nella cassetta degli attrezzi di chiunque
si accinga a voler progettare un’organizzazione e, in essa, le relative posizioni
organizzative.
7
Citato in Gerloff, 1989.
130
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
Prima di addentrarci nello studio della definizione dei criteri e delle mo-
dalità che operativamente guidano le scelte di configurazione della microstrut-
tura è fondamentale, quindi, chiarire il significato di alcuni concetti “primi”
quali appunto operazioni elementari, compito, mansione, posizione, ruolo e si-
stema primario di lavoro.
Il compito (o task) rappresenta il punto di partenza dell’analisi e della
progettazione delle posizioni organizzative e identifica un insieme di operazioni
umane elementari, interconnesse tra loro.
Il concetto di compito si distingue, quindi, da quello di operazione ele-
mentare in quanto quest’ultima - anche definita: operazione unitaria o attività
umana elementare - rappresenta la micro-fase che, insieme ad altre, andrà a de-
finire il compito stesso. Le attività di cui si compone il compito presentano le
seguenti tre caratteristiche: (1) sono collegate fra di loro, (2) non sono tecnica-
mente o psicologicamente separabili e (3) sono tali per cui è facilmente identifi-
care lo scopo da raggiungere. Ad esempio, per un addetto di una impresa della
meccanica il compito di manovrare una pressa per la lavorazione di lamiera con-
siste nelle seguenti operazioni elementari: immettere il pezzo grezzo, azionare la
macchina e rimuovere il pezzo lavorato (Albano, Curzi, Fabbri, 2016).
L’aggregazione di operazioni elementari in compiti può derivare da due
fattori diversi, il primo di natura tecnica il secondo di natura psicologica.
I collegamenti tra le operazioni derivanti da fattori di natura tecnica si
hanno nel caso in cui le operazioni svolte non sono tecnicamente sperabili (Ru-
giadini, 1979), cioè due o più attività (insiemi di operazioni) vengono svolte in
modo interconnesso in quanto gli strumenti tecnici impiegati o la conoscenza
utilizzata a tal fine sono tali da rendere la separazione delle attività stesse im-
possibile o scarsamente conveniente.
Dall’altro lato, i collegamenti possono trarre origine da fattori di natura
psicologica. Ciò accade in quanto i lavoratori sviluppano percezioni diverse nei
confronti delle attività da essi svolte in conseguenza delle loro motivazioni, delle
loro aspirazioni e delle competenze in loro possesso. Detto in altri termini, il
collegamento tra le operazioni umane elementari che compongono un compito
può risultare dal significato psicologico minimo che i lavoratori attribuiscono a
quel compito, tale per cui le attività in cui esso è scomposto sono percepite come
inseparabili (Costa, Gubitta, 2004). Ciò, a sua volta, può derivare dalla cultura
organizzativa che vige in una determinata azienda, la quale può suggerire che
quel set di attività sia realmente inscindibile8.
8
Un esempio, come indicato da Isotta (2011), è il seguente: rispondere ad una telefonata, fornire le informazioni
richieste dall’interlocutore, trasferire la chiamata all’ufficio richiesto oppure prendere delle note sul chiamante e
sui messaggi che questi potrebbe voler lasciare a qualcuno in azienda sono attività che vengono generalmente
131
Lineamenti di organizzazione aziendale
svolte da una singola personale, ma che potrebbero essere separate le une dalle altre. Tuttavia, nella maggio-
ranza dei casi, si tratta di attività che vengono percepite dai lavoratori come un “unico e singolo compito” e, come
tali, sono attribuite ad una sola persona.
132
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
9
Si veda il caso McDonald’s.
133
Lineamenti di organizzazione aziendale
134
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
Tensioni di ruolo a livello di comunicazioni. Indipendentemente dalla natura “oggettiva” delle aspet-
tative, possono insorgere difficoltà nel processo di comunicazione, così da produrre una percezione
difforme dalle intenzioni degli emittenti. Si ha in tal caso una distorsione di ruolo dovuta al processo
di comunicazione. In questa tipologia si possono anche far rientrare quelle situazioni in cui il destina-
tario delle comunicazioni si rifiuta in modo consapevole di percepire le aspettative che non siano
espresse con uno specifico mezzo, ad esempio la forma scritta o istituzionale. Si pensi al c.d. “sciopero
bianco”.
Tensioni di ruolo a livello di adattamento. L’adattamento dell’individuo nel ruolo percepito, può ri-
sultare discrepante per la difformità, rispetto alle aspettative indirizzategli, della situazione di fatto e/o
dalla propria personalità. Ciò si ha quando le risorse disponibili (tempo, mezzi, contributi esterni) sono
inadeguate agli obiettivi attesi; o anche per incapacità tecnico-professionale dell’individuo o per un suo
rifiuto etico ad adempire alle aspettative, o all’opposto per un’eccedenza di aspirazioni personali ri-
spetto ai contenuti del ruolo. Queste situazioni sono definibili in termini di incongruenza di ruolo.
Tensioni di ruolo a livello di differenti ruoli. L’adattamento può risultare difficoltoso non soltanto per
condizioni intrinseche al gruppo ma anche per il contrasto che il comportamento di ruolo verrebbe a
generare con il comportamento di un ruolo diverso.
(Fonte: adattato da Rugiadini, 1979)
135
Lineamenti di organizzazione aziendale
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La progettazione delle mansioni e dei ruoli
10
Con riferimento all’influenza delle contingenze sulla struttura organizzativa si ricorda che sulla base del con-
tributo di Lawrence e Lorsch (1967) alla teoria delle contingenze ogni parte dell’organizzazione viene definita e
progettata tenuto conto della variabilità dei sotto-ambienti di riferimento. Secondo gli autori un ambiente dinamico
e, soprattutto, complesso richiede la differenziazione delle singole unità operative che si trovano a dover gestire
l’incertezza dei rispettivi settori ambientali di competenza.
137
Lineamenti di organizzazione aziendale
compiti attribuiamo ad ogni singola mansione?”. Al crescere del numero dei com-
piti svolti dal lavoratore titolare della posizione diminuisce il grado di specializ-
zazione orizzontale. Si può parlare in questo caso di mansione ampia e varia, si
pensi ad esempio alla figura generalista del factotum di una azienda. Al contra-
rio, al diminuire del numero dei compiti svolti da una stessa mansione, l’am-
piezza di riduce e aumenta il livello di specializzazione orizzontale. In questo
caso ci si può riferire a livello esemplificativo alla figura dell’esattore del casello
autostradale.
La specializzazione verticale è invece una dimensione correlata all’autono-
mia o discrezionalità nel lavoro, ossia alla regolazione del proprio lavoro e al
‘controllo’ che il titolare ha nello svolgimento dei compiti a lui assegnati. In altre
parole, la specializzazione verticale delle mansioni riguarda il grado di controllo
che un individuo ha su ciò che fa, ovvero: cosa, quando e come svolgere suddetti
compiti, rispondendo alla domanda: “Quale grado di autonomia/discrezionalità
assegniamo alle persone a cui attribuiamo tale mansione?”. Essa dunque consente
di separare l’esecuzione dalla direzione del lavoro. Ci preme qui anticipare il
legame fra il concetto di specializzazione verticale del lavoro e quello del decen-
tramento decisionale che tratteremo nel proseguo del presente lavoro con riferi-
mento alla progettazione della macrostruttura.
Dunque nella dimensione verticale della specializzazione al crescere del
controllo sulle modalità di esecuzione dei compiti la stessa specializzazione ver-
ticale diminuisce. Si configurerà in questo caso una mansione ricca, caratteriz-
zata cioè da elevati livelli di autonomia e di responsabilità dei titolari. Al con-
trario, al diminuire del controllo degli individui sui propri compiti, la specializ-
zazione verticale aumenta e l’autonomia diminuisce, dando vita alle così dette
mansioni parcellizzate ovvero mansioni poco varie in cui appare netta la sepa-
razione fra compiti esecutivi e compiti di direzione, ovvero fra coloro che ese-
guono il compito e coloro che, invece, decidono, regolano e controllano il la-
voro 11.
Una sintesi degli elementi caratterizzanti le due tipologie di specializza-
zione è riportata nella Figura 4.5.
11
La specializzazione verticale delle mansioni separa l’esecuzione dalla direzione e controllo del lavoro. Con
tale separazione si vengono a creare accanto alle posizioni degli operatori anche altre figure – siano essi mana-
ger intermedi o analisti organizzativi - destinate al coordinamento degli operatori. Con la separazione fra ‘chi fa’
e ‘chi decide’ infatti risulta necessaria una figura che abbia una prospettiva dall’alto e che sia in grado di verificare
l’andamento dei lavori nel suo insieme per poterli coordinare.
138
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
139
Lineamenti di organizzazione aziendale
delle strategie che devono essere via via esaminate, devono risultare poco spe-
cializzati e pronti a seguire compiti diversi (bassa specializzazione orizzontale).
Al contempo, come è facile immaginare, si tratta di soggetti dotati di ampia au-
tonomia e potere decisionale (bassa specializzazione verticale).
Tra gli scenari intermedi troviamo il caso di mansioni dotate di alta spe-
cializzazione orizzontale e bassa specializzazione verticale. Sono quelle man-
sioni affidate ai professionals, ossia a coloro collocati ai livelli intermedi della
struttura organizzativa, chiamati a svolgere pochi compiti (alta specializzazione
orizzontale) seppure investiti di una certa autonomia (bassa specializzazione
verticale).
Infine, in corrispondenza di bassa specializzazione orizzontale e alta spe-
cializzazione verticale si collocano le mansioni manageriali di basso livello, svolte,
ad esempio, da figure quali i capireparto ai quali è richiesto lo svolgimento di
una pluralità di compiti (bassa specializzazione orizzontale) pur essendo sog-
getti ad un controllo gerarchico piuttosto rigido (alta specializzazione verticale).
140
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modo continuativo nel tempo consente, infatti, di definire alcune risposte stan-
dard da adottare al verificarsi di determinati eventi. Tuttavia, vi sono casi in
cui non è possibile prevedere eccezioni, tantomeno individuare dei modelli di
reazioni o di comportamenti uniformi da applicare qualora tali eccezioni pren-
dano forma. E’ il caso, ad esempio, di quelle attività che, per la loro natura,
coinvolgono la gestione di eventi inattesi. Si pensi alle attività di Ricerca &
Sviluppo così come a quelle consulenziali che spesso costruiscono modelli in-
terpretativi ad hoc dei fenomeni da indagare; o ancora, a quelle attività che
possono essere svolte soltanto una volta, quali gli interventi chirurgici e che
richiedono necessariamente una elevata dose di discrezionalità e di creatività
al soggetto che le svolge (Martinez, 2000).
La dimensione delle varianze, inoltre, può essere esaminata servendosi
della classificazione della tecnologia proposta da Perrow (1967) discussa nel
terzo capitolo, la quale suggerisce che la ricerca delle soluzioni alle eccezioni
dipende da due dimensioni: da un lato, la numerosità delle eccezioni che si pre-
sentano in un compito e, dall’altro, la disponibilità di strumenti in grado di af-
frontarle e risolverle.
La dimensione della varianza risulta fortemente legata alla seconda di-
mensione: quella delle interdipendenze. L’interdipendenza, come illustreremo
nel capitolo sul coordinamento, rappresenta uno dei fondamenti del processo
di analisi e progettazione organizzativa che porta alla necessità di individuare
soluzioni di coordinamento in linea con il suo livello di complessità. Definita
come il legame di dipendenza che sussiste tra due o più attività, l’interdipen-
denza implica un collegamento, diretto o indiretto, tra tali attività. In alcuni
casi, si può configurare una situazione in cui le operazioni unitarie possono
sembrare legate da interdipendenze sequenziali semplici 12, conducendo l’ana-
lista a specifiche decisioni circa la soluzione organizzativa da perseguire rela-
tivamente, ad esempio, all’utilizzo di una modalità di coordinamento basata
sulla programmazione delle attività attraverso la standardizzazione e forma-
lizzazione dei processi. Tuttavia, in alcuni casi la presenza di elevata incer-
tezza o varianza del processo produttivo può portare ad un intensificarsi
dell’interdipendenza fra unità, tale che l’orientamento dell’analista possa pro-
pendere verso soluzioni diverse rispetto a quelle appena individuate. Infatti,
elevati livelli di varianza che si possono originare nelle sequenze di lavoro a
valle di un processo di trasformazione (le cosiddette “varianze chiave”) pos-
sono generare delle ripercussioni sulle fasi a monte. In tali circostanze,
un’analisi delle trasmissioni a valle delle varianze può evidenziare la necessità
12
Le interdipendenze si possono classificare come interdipendenze sequenziali se una specifica unità A usa il
risultato delle attività dell’unità B, a monte; ovvero quando l’output di una attività/unità rappresenta l’input per la
successiva.
145
Lineamenti di organizzazione aziendale
13
Le interdipendenze vengono definite come interdipendenze reciproche quando una specifica unità A produce
output per l’unità B che a sua volta utilizza l’output di B come input per lo svolgimento del proprio lavoro, ovvero
quando tra le attività/unità A e B esiste uno scambio bidirezionale.
146
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
Il piú grande miglioramento nelle forze produttive del lavoro, e la piú grande parte dell'abilità, della
destrezza e del giudizio con cui ovunque è diretto o praticato, sembrano essere stati gli effetti della
divisione del lavoro medesimo [...].
Prendiamo dunque un esempio della divisione del lavoro in una manifattura di poco momento e che
spesso è citata, quella, cioè, dello spillettaio. Un operaio non educato in questa manifattura, che a
causa della divisione del lavoro ha fatto uno speciale mestiere, non abituato all'uso delle macchine che
vi s'impiegano, ed all'invenzione delle quali la stessa divisione del lavoro ha probabilmente dato occa-
sione, con gli ultimi sforzi di sua industria forse appena farà uno spillo in un giorno, e certamente non
ne farà mica venti. Ma nel modo, con cui ora si esegue tale manifattura non solo è essa uno speciale
mestiere, ma si divide in molti rami, di cui la più gran parte è similmente un mestiere speciale: un
uomo tira il filo del metallo, un altro dirizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appunta, un quinto l'arrota
all'estremità ove deve farsi la testa; farne la testa richiede due o tre distinte operazioni, collocarla è una
14
Nel 1776, Adam Smith, nella sua opera più importante “Ricerca sopra la natura e le cause delle ricchezze
delle nazioni” ha dato un contributo “rivoluzionario” alla teoria economica. Nella sua opera, l’autore esordisce
descrivendo il lavoro in una fabbrica di spilli che definisce: «una manifattura di poco conto».
147
Lineamenti di organizzazione aziendale
speciale occupazione, pulire gli spilli ne è un'altra, ed un'altra ne è il disporli entro la carta; e in questo
l'importante mestiere di fare uno spillo si divide in circa diciotto distinte operazioni, che in alcune fab-
briche sono tutte eseguite da distinte mani, benché in altre dallo stesso uomo se ne eseguono due o
tre. Ho veduto una piccola fabbrica di questa manifattura, ove dieci uomini solamente erano impiegati,
ed ove però ciascuno di loro eseguiva due o tre operazioni. Essi quantunque fossero assai poveri, e
perciò non usassero molto le macchine necessarie, pure quando a vicenda vi s'impegnavano facevano
dodici libbre di spilli in un giorno. Una libbra contiene piú di mille spilli di grandezza media. Quei dieci
individui dunque potrebbero insieme fare piú di quarantottomila spilli in un giorno. Ciascuno di loro
dunque, facendo una decima parte di quarantottomila spilli, può essere considerato farne quattromi-
laottocento in un giorno. Or se essi avessero lavorato separatamente e indipendentemente l'uno dall'al-
tro, e senza che alcuno di loro fosse stato educato ad una speciale operazione, ciascuno di loro non
avrebbe potuto compiere venti spilli, e forse neanche uno in un giorno, cioè certamente non la due-
centoquarantesima parte, e forse neanche la quattromilaottocentesima parte di quel che sono intanto
capaci di compiere in conseguenza di una bene accomodata divisione e combinazione delle loro diffe-
renti operazioni.
15
Il documento, “Gli standard per la valutazione dei punti nascita”, definisce appunto alcune norme da seguire
ai fini della promozione ed il miglioramento della qualità, della sicurezza e dell’appropriatezza degli interventi
assistenziali nel percorso nascita, puntando alla razionalizzazione e all’efficienza del servizio.
148
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
Come premessa al manuale di definizione degli standard per la valutazione dei Punti Nascita Paolo
Giliberti, Presidente della Società Italiana di Neonatologia ricostruisce il clima entro cui maturò l'idea
di un simile progetto, quale prima tappa del processo di certificazione
“Negli anni '60 - '70, quando si andavano affermando anche nel nostro Paese i principi della moderna
Neonatologia, si assisteva, in particolare nelle regioni a più alto indice di natalità, al sorgere di improv-
visati Centri Nascita in ogni luogo ed in ogni contrada, sull'onda della elevata domanda e delle richieste
anche ‘politiche’ della Società civile.” Il diffuso incremento del benessere nel nostro Paese aveva con-
dotto l’opinione pubblica a prediligere il ricorso a strutture medicalizzate, dotate di un minimo di assi-
stenza alberghiera, rispetto alla pratica del parto in casa. “Nel tempo” riporta il Giliberti “ci si rese conto
della inefficacia della soluzione adottata che non incideva sulla mortalità né sulla morbilità a breve ed
a lungo termine.” Il dibattito si concentrò dunque sulle dimensioni che avrebbero dovuto avere i Centri
Nascita fino a quando, afferma il Giliberti: “qualcuno inventò un numero: ‘cinquecento nati/anno’ per
marcare il confine tra strutture inevitabilmente inefficienti ed inefficaci e strutture idonee”. “Una scelta
‘fortunata’”, sostiene lo stesso Giliberti “dato che l’equivoco, che crea, perdura anche nei nostri tempi.
Il criterio delle dimensioni si ripresenta anche nell'Accordo Stato-Regioni del dicembre 2010, nel quale
è sancito in almeno 1000 nascite/anno lo standard cui tendere nel triennio, con una novità rappresen-
tata dall'abbinamento per pari complessità di attività delle unità operative ostetrico - ginecologiche con
quelle neonatologiche/ pediatriche. Peccato che lo stesso Accordo preveda eccezioni, mai comunque
al di sotto di 500 parti/anno, sulla base di motivate (!?) valutazioni legate a specifiche condizioni geo-
grafiche. Nonostante la delusione conseguente la insufficiente e parcellare applicazione dell'accordo,
continuiamo a considerarlo un realistico punto di partenza, da associare a progetti compiuti di valuta-
zione e programmazione degli organici sia a livello medico che infermieristico ed alle necessarie veri-
fiche di qualità e sicurezza.”
149
Lineamenti di organizzazione aziendale
della risorsa senza costo aggiuntivo. Con riferimento a risorse umane le econo-
mie di scala si possono generare quando sia possibile garantire un impiego più
intenso e un maggior sfruttamento della loro capacità produttiva. Tali economie
sono favorite dal concentrare nelle stesse unità organizzative dipendenti che
posseggono conoscenze e capacità omogenee e sviluppano processi di lavoro si-
milari. Questo, non solo favorisce l’incremento delle competenze tecnico-specia-
listiche dei soggetti interessati ma consente altresì lo sfruttamento delle econo-
mie di scala derivanti da: il ridotto rischio di moltiplicazione di personale che si
ha nel caso di dispersione su più unità di personale operante in stessi ambiti
funzionali, facile individuazione del personale per svolgere le attività di quella
specifica funzione e maggior efficienza nel ripartire i carichi di lavoro ed affron-
tare imprevisti picchi di attività (Golzio, 2017). In simili contesti persone diverse
potranno anche svolgere attività con elevati livelli di specializzazione, almeno a
livello orizzontale.
Pertanto se i problemi legati a varianze e interdipendenze trattate nel pre-
cedente paragrafo giocano a favore della definizione di mansioni ampie sia ver-
ticalmente che orizzontalmente, criteri di economia come quello delle economie
di specializzazione e di scala “possono tuttavia spesso, anche se non sempre pe-
sare in senso opposto”, ovvero verso un massimo livello di specializzazione delle
posizioni (Grandori, 1999, p. 403).
Diversamente avviene per le economie di scopo, già richiamate nel capitolo
1. Ci si riferisce in specifico a quel tipo di economie che possono essere conse-
guite grazie all’impiego di una risorsa per la “produzione congiunta” di più out-
put. Può essere questo il caso di colui che avendo acquisito competenze specifi-
che nella “stesura di un programma di calcolatore per l’automazione di una pro-
cedura [può rappresentare] il miglior candidato, per l’utilizzo del know-how ac-
quisito, [nello svolgimento di…] altri compiti [quali ad esempio quello di…] pro-
grammazione per altri progetti di automazione” (Grandori, 1999, p. 403). An-
cora, una impresa di servizi bancari-assicurativi può ritenere conveniente la ven-
dita congiunta, mediante il cosiddetto cross-selling, di più servizi riducendo così
il costo di distribuzione ma necessariamente utilizzando la stessa risorsa umana
e le sue competenze per erogare più tipi di servizi (Golzio, 2017). In questo caso
la progettazione si orienterà verso mansioni ampie sia verticalmente che oriz-
zontalmente.
150
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
151
Lineamenti di organizzazione aziendale
152
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
153
Lineamenti di organizzazione aziendale
Si noti che, a tal proposito, ciò che assume importanza non è tanto la valuta-
zione oggettiva di questi tre processi, vale a dire quella che, ad esempio, può
produrre un manager o il responsabile del personale. Ad essere rilevante qui è
la percezione del singolo lavoratore.
154
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
155
Lineamenti di organizzazione aziendale
156
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
17
Occorre far notare che un sistema di progettazione delle posizioni che includa tutte le dimensioni poc’anzi
elencate risulta non verosimile in una qualunque realtà d’impresa, anche la più grande e complessa.
157
Lineamenti di organizzazione aziendale
18
In particolare, come evidenzia Dessler (2019) l’analisi della posizione organizzativa, soprattutto nelle aziende
di grandi dimensioni, dovrebbe esplicitarsi in una azione “congiunta” fra più figure, ovvero: lo specialista della
Gestione del Personale, il lavoratore titolare della posizione e l’immediato supervisore. In una simile situazione
il referente del Personale osserva il titolare della posizione mentre opera, fa compilare i questionari sulla posi-
zione sia al titolare della posizione che al suo immediate supervisore, ed infine stila una lista di attività relative
alla posizione analizzata. Tale lista di attività sarà poi verificata e validata sia dal titolare della posizione e che
dall’immediato supervisore (Dessler, 2019).
19
Si parla pertanto, nel caso di progettazione delle posizioni, di un tipo di valutazione “oggettiva” dal momento
che l’oggetto della valutazione è rappresentato dalla posizione organizzativa e dal valore che la medesima è in
grado di portare all’organizzazione nel suo complesso. La valutazione delle posizioni, che dunque definiamo
158
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
“oggettiva”, si distingue dalla valutazione cosiddetta “soggettiva” che invece considera la valutazione delle com-
petenze e delle potenzialità di ciascun individuo presente all’interno dell’organizzazione.
20
Per famiglia professionale si intende: l “insieme di ruoli organizzativi caratterizzati da conoscenze, capacità,
atteggiamenti e stili cognitivi similari, tali da evidenziare una relativa omogeneità culturale” (Baravelli, 1982, p.
313).
21
È bene tenere in considerazione che l’analisi delle posizioni non può prescindere da una valutazione di indole
più generale, orientata ad esaminare in modo approfondito la situazione aziendale nella sua globalità, lo stato
del settore e la funzione in cui il ruolo è inserito.
159
Lineamenti di organizzazione aziendale
160
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
22
La valutazione tramite PAQ può venir richiesta al responsabile o ad altre persone. Una volta attribuiti i pun-
teggi, le dimensioni evidenziate vengono confrontate con i punteggi medi di un database che raccoglie migliaia
di risposte. Per ciascuna delle sei aree si chiede ai rispondenti di dare una propria valutazione in merito agli
items riportati. Nell’area “input informativi” ad esempio si richiede: “Per ciascuno dei seguenti item fornisci un
punteggio su quanto ciascuna dei seguenti strumenti è utilizzato dal lavoratore come fonte di informazione
nell’adempimento dei propri compiti lavorativi”. Di seguito sono elencate 14 fonti di informazione. Fra queste si
hanno: (1) materiali scritti (es. Libri, rapporti, circolai, articoli, istruzioni di lavoro)”, (2) dati di natura quantitativa
(es. Materiali relativi a quantità e ammontare, grafici, tabelle, numeri), (3) materiali visivi (es. rappresentazioni
come disegni, diagrammi, mappe, fotografie). Per ulteriori delucidazioni sul metodo si veda fra gli altri Noe et.
Al. 2006.
23
Molte imprese nel processo di definizione dei livelli retributivi, soprattutto con riferimento a profili professionali
particolarmente richiesti, si avvalgono dei servizi di società di consulenza specializzate nella fornitura di dati sui
salari medi (distinti sia per settore che per professione) e supportano altresì le aziende nella scelta dello stipendio
medio più idoneo da offrire per ogni ruolo organizzativo.
161
Lineamenti di organizzazione aziendale
24
La Banca Dati delle Professioni del Sistema Informativo Excelsior è promossa da Unioncamere e dal Ministero
del Lavoro. Il database è integrato nel Sistema Informativo sulle Professioni, realizzata da ISTAT e ISFOL. Per
approfondimenti si veda: https://excelsior.unioncamere.net/.
25
Si afferma in proposito che il colloquio, ad esempio, può essere più indicato per creare un elenco di compiti,
mentre il questionario può essere più idoneo a quantificare il contributo di valore apportato dalla singola posi-
zione ai fini della retribuzione (Dessler, 2019).
26
Molti manuali menzionano in proposito una sezione a sé stante della progettazione della posizione, ossia la
job specification, dove si riportano informazioni sulle competenze, le skills e le conoscenze che i soggetti titolari
della posizione devono possedere allo scopo di interpretare in modo conforme ed efficace il ruolo loro affidato
(vedi ad esempio: Noe et al., 2006). Per semplicità di trattazione il termine job description verrà qui utilizzato per
comprendere entrambe le sezioni, quella di job description e job specification.
162
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
lavorativo nonché una lista dei supporti strumentali e macchinari utilizzati per
lo svolgimento dei compiti assegnati.
Dunque, sebbene la job description possa variare da un’organizzazione
ad un’altra essa deve comunque includere alcuni contenuti fondamentali elen-
cati nella tabella che segue.
Non devono inoltre mancare informazioni utili quali il nominativo
dell’analista che ha redatto il documento, la data di redazione e/o aggiorna-
mento del documento, la periodicità con cui si deve provvedere al ricontrollo
circa la validità corrente dei suoi contenuti.
SEZIONE DESCRIZIONE
Titolo della posizione Richiama accuratamente e in modo inequivocabile il nome della po-
sizione oggetto della descrizione.
Ad esempio: addetto al ricevimento.
Scopo della posizione Si tratta di una descrizione concisa dello scopo della posizione. Ad
esempio lo scopo di un addetto al ricevimento non è “rispondere alle
telefonate dei clienti”. Questo rappresenta piuttosto un suo compito.
Il suo scopo è: “accogliere e assistere i clienti dell’albergo durante
la loro permanenza presso la struttura”
Collocazione gerar- Fornisce una descrizione del contesto interno ed esterno con cui la
chica della posizione posizione si relaziona.
Individua l’unità organizzativa di appartenenza, a chi la posizione
riporta ed i suoi eventuali subordinati.
Eventualmente in questa sezione si può prevedere l’inserimento
della rappresentazione parziale dell’organigramma aziendale che
raffiguri le relazioni esistenti fra la posizione in oggetto e le altre po-
sizioni organizzative.
Nel caso del nostro addetto al ricevimento avremo che: appartiene
all’unità di front desk, risponde al responsabile di ricevimento e può
avere eventuali rapporti con soggetti esterni.
Attività e responsabilità Elenco delle attività che una persona titolare della specifica posi-
zione deve svolgere e delle responsabilità che deve adempiere.
Ad esempio:
ricevere e registrare prenotazioni utilizzando telefono e computer,
identificare i clienti esaminando i loro documenti di identità e regi-
strando su computer i dati,
assegnare le camere ai clienti verificando la prenotazione, etc.
27
Nei contenuti della job description elencati in tabella, quelli relativi alle ultime due sezioni ovvero: cono-
scenze, skills, competenze e qualifiche, fanno parte della cosiddetta job specification. Tuttavia in questa sede,
con lo scopo di semplificare la trattazione, abbiamo deciso di includerle in una accezione più ampia di job de-
scription.
163
Lineamenti di organizzazione aziendale
Obiettivi della posizione Elenco degli obiettivi attesi dal titolare della posizione sia di carattere
qualitativo che quantitativo. Essi possono essere affiancati da relativi
indicatori sulla base dei quali valutare il raggiungimento degli obiet-
tivi assegnati.
Ad esempio, un addetto al ricevimento: deve essere in grado di as-
sistere efficacemente almeno 2.000 clienti all’anno.
Conoscenze, skills e Lista delle conoscenze, skills e comportamenti richiesti alla posi-
competenze comporta- zione di lavoro, suddivise anche per specifiche tipologie.
mentali Ad esempio: predisposizione ai rapporti interpersonali e al contatto
con il pubblico, conoscenze informatiche e dei principali applicativi
informatici, saper comunicare in una o più lingue.
Qualifiche Esperienze lavorative, esperienze di formazione, qualifiche, certifi-
cati o titoli di studio che sono necessari per svolgere la mansione. Si
possono includere anche eventuali caratteristiche fisiche reputate
indispensabili (come la capacità di sollevare pesi).
Ad esempio: diploma di istituto alberghiero.
28
La declaratoria è la “voce scritta che indica che cosa fa il lavoratore in una specifica attività, come lo fa, co-
noscenza, abilità e attitudini richieste per farlo, e scopo dell’attività” (Dessler, 2019, p. 65).
164
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
Quadro 4.3 Dal compito alla competenza: come cambia il concetto di lavoro
Il concetto di lavoro sta cambiando. Esso, in molti casi, non viene più considerato come un mero
insieme di compiti specifici svolti dal lavoratore in cambio di uno stipendio. I cambiamenti organizzativi
e le riprogettazioni delle posizioni, che coinvolgono ed hanno coinvolto molte realtà d’impresa, hanno
condotto ad attribuire maggiori responsabilità e discrezionalità ai lavoratori riducendo quindi l’impor-
tanza attribuita al compito e sfumando al contempo i confini tra una posizione e l’altra tanto che in
molte realtà d’impresa risulta impossibile basarsi su un elenco di compiti specifici per individuare ciò
che un lavoratore deve fare. Sempre più spesso le aziende stanno abbandonando il mero ricorso alla
logica del mansionario e si stanno affidando, invece, ai cosiddetti modelli (o profili) di competenze nei
quali la posizione viene descritta, non più come insieme di attività ma piuttosto in termini di compe-
tenze, misurabili ed osservabili, che un dipendente titolare della posizione deve dimostrare per poter
fare bene il proprio lavoro.
In questi casi il modello o profilo di competenze diviene la “linea guida” per reclutare, selezionare,
formare, valutare e sviluppare i dipendenti che occupano qualsiasi posizione.
Alle fasi appena individuate se ne aggiunge una terza con cui si mira ad attri-
buire un valore alla posizione, in relazione alle altre, ossia si intende “misurare”
il suo grado di contribuzione rispetto al risultato complessivo dell’organizza-
zione. L’indicazione dell'importanza della singola posizione in azienda, ossia il
contributo che essa produce ai fini del raggiungimento del risultato organizza-
tivo complessivo, è una ulteriore informazione che sarà riportata nel documento
della job description poc’anzi richiamato 29. Inoltre grazie alla valutazione della
posizione sarà possibile definire una “graduatoria” utile, fra l’altro, ad impo-
stare una politica retributiva differenziata sulla base del valore apportato da
ciascuna posizione alla singola organizzazione.
Nell’avvicinarsi alla valutazione della posizione è dunque necessario pro-
cedere definendo uno “strumento di misurazione” idoneo ad esprimere delle
comparazioni di valore e porre a confronto le posizioni investigate.
I metodi utilizzati per valutare le posizioni vengono tradizionalmente sud-
divisi in metodi globali (o qualitativi) e metodi analitici (o quantitativi).
I metodi globali prendono in esame la posizione nel suo complesso non
indicando analiticamente le sue caratteristiche. Si tratta di metodi volti a classi-
ficare le diverse posizioni senza tuttavia fornire una valutazione puntuale dei
suoi contenuti e lasciando ampia discrezionalità al valutatore. Inoltre, seppure
29
Tale valore è spesso rappresentato da un valore numerico, che permette di confrontare la posizione rispetto
alle altre presenti nella stessa organizzazione, ma anche con il mercato, in modo da poter essere garante sia di
un’equità interna che di una equità esterna all’organizzazione.
165
Lineamenti di organizzazione aziendale
si possa pervenire attraverso tali metodi ad una graduatoria delle posizioni ana-
lizzate non è possibile identificare la distanza fra il livello di una posizione e le
altre. Il più comune dei metodi globali è il metodo della graduatoria o del job
ranking. Fra tali metodi il più usato è il Global Grading System (GGS) intro-
dotto dalla società di consulenza Towers Watson. Il GGS consente di classifi-
care i lavori senza tuttavia misurare il volume di lavoro e il contributo delle sin-
gole posizioni ai risultati strategici di un'organizzazione come invece avviene nei
metodi analitici di seguito trattati. 30 Questa metodologia di valutazione si basa
su un sistema automatizzato e semplificato che produce i suoi risultati attra-
verso l'applicazione di software personalizzati. Il metodo del GGS risulta parti-
colarmente adatto per organizzazioni dotate di processi aziendali standardiz-
zati, in cui la struttura organizzativa e i ruoli professionali siano stabili e in cui
non si prevedano cambiamenti indotti da contesti dinamici.
I “metodi analitici” invece prevedono la scomposizione della posizione nei
suoi elementi significativi, cosiddetti “fattori di valutazione”, che a loro volta
saranno valutati singolarmente. Tali metodi dunque consentono di misurare
singolarmente i singoli fattori ed ottenere una misura quantitativa analitica della
posizione, nonché di definire la distanza esistente fra il livello di una posizione
e le altre.
Tra i metodi analitici il più diffuso è quello basato sul punteggio. In base
a questo metodo vengono individuati alcuni fattori presenti in modo trasversale
in tutte le posizioni, ma con un’intensità – ed un peso - differente da posizione a
posizione. Il più noto fra i metodi basato sul punteggio è il Metodo Hay 31 ap-
plicato in più di 5000 organizzazioni private e pubbliche nel mondo per la valu-
tazione di tutti i tipi e livelli di posizione.
Il metodo si concretizza in un processo di definizione del contributo di
una singola posizione al raggiungimento degli obiettivi dell'organizzazione at-
traverso la valutazione del lavoro medesimo. Si tratta di un confronto tra posi-
zioni al fine di definire il valore relativo di una posizione per l'organizzazione. Il
30
Nel Global Grading System (GGS) una posizione viene collocata all’interno di una “mappa dei voti” compo-
sta da 25 classi prestabilite mediante un processo che prevede tre distinti passaggi: 1. la definizione del “grade
aziendale” ovvero della classe più grande che le posizioni potranno raggiungere in relazione alla dimensione,
al livello di diversificazione e alla complessità che l’organizzazione è chiamata a gestire; 2. classificare le posi-
zioni secondo categorie sulla base del contributo al business aziendale; e 3. la valutazione della posizione
sulla base di alcuni fattori come ad esempio: conoscenza professionale, leadership e problem solving. I fattori
secondo cui si valuta la posizione nella terza fase del GGS sono: conoscenza professionale, conoscenza del
business, leadership, problem solving, natura dell’impatto, area dell’impatto, relazioni interpersonali (Gabrielli,
Profili, 2012).
31
Il metodo Hay viene introdotto per la prima volta al pubblico nel 1962 dalla omonima società di consulenza
Edward N. Hay & Associates, attuale Hay Group. La sua creazione risale, invece, alla fine degli anni Quaranta
ad opera del consulente americano Edward Hay che la utilizzò per valutare 450 posizioni alla General Foods
Corporation. Questa metodologia è la più utilizzata nel mondo. Una ricerca del CIPD afferma che il 78% delle
organizzazioni usa l’Hay Method in Gran Bretagna. Una ricerca simile condotta dalla Towers Perrin mostra che
il 75% delle principali organizzazioni in Europa usa come strumento di valutazione della posizione quello intro-
dotto dalla Hay Group.
166
La progettazione delle mansioni e dei ruoli
Al primo quesito, d’indole generale, può essere fornita una sufficiente risposta
con il ricorso ad uno dei metodi cosiddetti “globali”, caratterizzati da giudizi
complessivi, sovente di tipo soggettivo e qualitativo.
Gli altri due quesiti richiedono invece valutazioni più specifiche, cosicché
le differenze fra le varie posizioni vengano esaminate attraverso il metodo del
punteggio, volto a spiegare analiticamente le differenze medesime ed a cercare
di quantificarle.
In ogni caso i metodi di valutazione fin qui ricordati tendono a esprimere
delle relazioni sufficientemente stabili fra genere di compiti svolti e requisiti degli
individui chiamati a realizzarli. Tuttavia, il rapido evolversi del contesto d’im-
presa, la mutazione della natura stessa del lavoro e la variabilità ambientale con
cui la stessa impresa è chiamata a confrontarsi rendono necessario un costante
presidio e aggiornamento degli strumenti cui abbiamo fatto cenno, al fine di ren-
derlo effettivamente espressivo dei fabbisogni di capacità e competenze del si-
stema.
167
5 La progettazione dei gruppi di lavoro
di Enrico Cori
5.1. I gruppi informali nei contesti di lavoro – 5.2. Il gruppo di lavoro come unità di
progettazione organizzativa – 5.2.1. In base a che cosa ci si orienta verso una forma
team-based? – 5.2.2. Possibili vantaggi di un’organizzazione team-based – 5.3. Scelte
di progettazione a livello di gruppo – 5.3.1. Dimensione – 5.3.2. Composizione –
5.3.3. Collocazione – 5.3.4. Struttura – 5.4. Principali tipologie di gruppo – 5.5. Fron-
tiere della progettazione: team interaziendali e team virtuali – 5.5.1. Team interazien-
dali – 5.5.2. Team virtuali – 5.6. Impatti delle scelte di progettazione sui comporta-
menti organizzativi
169
Lineamenti di organizzazione aziendale
Le ricerche di Hawthorne segnano la nascita degli studi di psicologia sociale e di sociologia industriale,
che propongono un’interpretazione delle situazioni di lavoro e dell’impresa come “sistema umano e
sociale”.
170
La progettazione dei gruppi di lavoro
In esse ci si allontana dallo studio della fatica e della monotonia, che già nei primi decenni del 1900
aveva proposto soluzioni di “ricomposizione del lavoro” rispetto alle parcellizzazioni dei compiti e ai
frazionamenti dei tempi e dei movimenti prescritti dal “metodo scientifico” di Taylor.
Gli studi delle Relazioni Umane si focalizzano sulle relazioni interpersonali, le dinamiche di gruppo, la
leadership, la “soddisfazione” e il “morale” dei lavoratori, infine sulle funzioni delle regole informali
(sociali) che modificano o integrano le regole formali (Mayo, 1933; Roethlisberger, Dickson, 1939).
In particolare, le ricerche presso lo stabilimento industriale di Hawthorne, condotte in tre fasi succes-
sive, tra il 1927 e il 1932, sono rivolte a indagare rispettivamente: i fattori che influenzano il rendimento
degli operai, i motivi di insoddisfazione e lamentela degli stessi, il ruolo dei fattori informali. I principali
risultati mettono in evidenza il ruolo dei gruppi spontanei, la rilevanza di aspetti informali dell’organiz-
zazione, i processi di elaborazione di regole sociali come forme di autodifesa dei lavoratori.
Obiettivo degli studiosi delle Relazioni Umane non è tanto quello di introdurre nuovi criteri di proget-
tazione organizzativa, che verranno elaborati e si diffonderanno soprattutto a partire dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale, quanto quello di promuovere una nuova filosofia alla base delle scelte di
organizzazione del lavoro, e una consapevolezza degli aspetti informali che, insieme ai vincoli formali,
orientano i comportamenti individuali e collettivi.
(Fonte: Marchiori, 2009, con adattamenti e integrazioni)
171
Lineamenti di organizzazione aziendale
172
La progettazione dei gruppi di lavoro
Nel primo caso singoli gruppi di lavoro sono costituiti ad hoc a fronte di
specifiche esigenze aziendali, in un’organizzazione del lavoro che resta tuttavia
imperniata sulle mansioni individuali (è il caso, ad esempio, dei team di sviluppo
nuovi prodotti, o di task force costituite per risolvere specifici problemi tecnici
o nei rapporti con i clienti).
Nel secondo caso parliamo invece di organizzazione del lavoro team-ba-
sed, o forma collettiva di organizzazione del lavoro: qui il gruppo di lavoro rap-
presenta il livello base della progettazione organizzativa, rispetto al quale si at-
tribuiscono le attività da svolgere, si definiscono gli obiettivi da raggiungere, gli
ambiti di discrezionalità e responsabilità, le competenze minime necessarie per
svolgere quelle attività.
Appare ovvio come principi e criteri di progettazione dei gruppi di lavoro
debbano essere tenuti in attenta considerazione in entrambi i casi, cioè non solo
quando ci si orienta verso una forma di organizzazione team-based, ma anche
quando si costituisce un singolo gruppo, indipendentemente che questo abbia
natura permanente o temporanea. Nella realtà si osservano situazioni interme-
die rispetto a quelle appena descritte. Spesso, infatti, la scelta di organizzare il
lavoro per gruppi viene circoscritta ad alcune aree dell’azienda, le cui attività
meglio si prestano ad essere ripartite tra gruppi di lavoro, mentre in altre si pre-
dilige l’individuazione di mansioni individuali. L’orientamento più o meno mar-
cato verso forme team-based è infatti il risultato della considerazione di una serie
di fattori, che si elencano nel paragrafo successivo.
173
Lineamenti di organizzazione aziendale
174
La progettazione dei gruppi di lavoro
175
Lineamenti di organizzazione aziendale
esistenza (corrispondenti ai primi due gradini della scala di Maslow), relazione (corrispondenti al terzo
e quarto gradino) e crescita (associabile al quinto gradino). McClelland (1961), dal canto suo, si foca-
lizza sui bisogni collocati da Maslow al vertice della piramide, articolandoli in tre categorie: bisogni di
successo (achievement), potere e affiliazione, affermando che i diversi tipi di bisogni possono essere
sentiti con maggiore o minore intensità, a seconda della cultura di contesto. In altre parole, la perce-
zione dei bisogni secondo McClelland sarebbe condizionata da processi di apprendimento ed espe-
rienze individuali nell’ambito di un particolare contesto familiare e sociale.
Tra le teorie del processo, particolarmente rilevanti ai fini della progettazione organizzativa sono quelle
elaborate da Vroom (1964) e Locke (1968). Secondo il modello aspettativa-valenza proposto da Vroom
l’individuo valuta l’utilità attesa di un certo comportamento sulla base di due fattori: l’aspettativa, che
può riferirsi tanto alla probabilità che un determinato sforzo produca la performance richiesta, quanto
alla probabilità che al conseguimento della performance sia collegata una ricompensa; e la valenza,
cioè l’utilità assegnata dall’individuo alle ricompense ottenute a seguito della performance.
Secondo il modello di Locke, detto del goal setting, sono invece le caratteristiche degli obiettivi che
orientano le scelte e l’azione individuale: in particolare il grado di specificità, il livello di difficoltà (gli
obiettivi dovrebbero essere “sfidanti”, ma non essere percepiti come impossibili da raggiungere),
orientati a risultati da raggiungere anziché a comportamenti da rispettare. Rilevanti sono anche le ca-
ratteristiche del processo di formulazione degli obiettivi, il cui carattere partecipativo è considerato in
grado di favorire la motivazione.
(Fonte: Isotta, 2011, con adattamenti)
La cultura di contesto può essere intesa come insieme di valori condivisi da una
collettività locale, nel territorio di appartenenza, o nazionale. In entrambi i casi,
riprendendo l’impostazione di Hofstede (1980) 1, possiamo individuare due di-
mensioni particolarmente rilevanti nel determinare il grado di accettazione e
l’efficacia di un’organizzazione basata sui gruppi di lavoro: tali dimensioni sono
l’asse individualismo-collettivismo e l’asse mascolinità-femminilità. La preva-
lenza di valori ispirati all’individualismo e alla “mascolinità” in una collettività
locale o nazionale spingerà i manager ad adottare un’organizzazione imperniata
sulle mansioni individuali. Al contrario, la maggiore diffusione e la condivisione
di valori che si ispirano al collettivismo e alla “femminilità” suggeriscono l’esi-
stenza di condizioni particolarmente favorevoli ad un’organizzazione basata sui
gruppi di lavoro.
1
Hofstede (1980) propone quattro principali dimensioni che, configurandosi in vario modo, danno origine a quelle
che egli definisce “culture nazionali”. Tali dimensioni sono la distanza dal potere (il grado in cui una società
accetta il fatto che il potere nelle istituzioni e nelle organizzazioni è distribuito in modo diseguale); l’avversione
all’incertezza (il grado in cui una società si sente minacciata da situazioni incerte e ambigue), l’asse individuali-
smo-collettivismo (il grado in cui una società manifesta una propensione a prendersi cura esclusivamente di se
stessi e delle proprie famiglie) e l’asse mascolinità-femminilità (il grado in cui i valori dominanti nella società sono
orientati all’assertività e alla ricerca di beni materiali).
176
La progettazione dei gruppi di lavoro
177
Lineamenti di organizzazione aziendale
178
La progettazione dei gruppi di lavoro
179
Lineamenti di organizzazione aziendale
psicologiche dei lavoratori (psychological job requirements) e, in particolare, nel grado di soddisfa-
zione sul lavoro che, per questi studi, coincide con la “qualità della vita nei luoghi lavoro”.
(Fonte: Marchiori, 2009, con adattamenti)
Nel 2010-11, lo stabilimento FCA di Pomigliano, alle porte di Napoli, è stato completamente ristruttu-
rato attraverso una serie di interventi volti in primo luogo all’innalzamento dei livelli di produttività e
competitività: tra questi, una nuova organizzazione del lavoro basata sui team, ognuno dei quali for-
mato da 6 addetti e 1 team leader. Ad ogni team è richiesto non solo di monitorare e risolvere le
anomalie che possono verificarsi lungo il processo di lavoro, ma anche di fornire suggerimenti su
come migliorare l’ergonomia delle postazioni di lavoro e di proporre cambiamenti e innovazioni relativi
all’organizzazione del flusso di lavoro. Il team partecipa attivamente alla pianificazione del lavoro lungo
le linee produttive, per quel che riguarda la definizione delle modalità di svolgimento di compiti, peraltro
in larga misura predefiniti. L’obiettivo è quello di eliminare ogni attività “non a valore aggiunto”, cioè
ogni operazione che tenderebbe a limitare la produttività. Gli stessi addetti sono incaricati di studiare
ogni possibile miglioramento, in quanto si parte dal presupposto che il sistema delle procedure stan-
dard può essere aggiornato in una logica bottom-up. In questo modo, la necessità di un’articolata
gerarchia con compiti di supervisione e controllo diretto sulle azioni degli addetti si riduce in maniera
significativa, in quanto i problemi (quando si manifestano) diventano immediatamente chiari e ricono-
scibili dai membri del team.
(Fonte: Pezzillo Iacono, De Nito, Martinez, Mercurio, 2017, con adattamenti)
180
La progettazione dei gruppi di lavoro
5.3.1. Dimensione
181
Lineamenti di organizzazione aziendale
si traducono in minori sforzi da parte delle persone che lavorano in gruppo an-
ziché individualmente (Robbins, Judge, Bodega, 2016).
Il manifestarsi congiunto delle situazioni appena descritte può suggerire
di dividere un gruppo numeroso in sotto-gruppi, decisione che sposterà il focus
dell’attenzione sul coordinamento tra questi. Tale opzione dovrebbe comunque
essere perseguita attraverso un processo formale. La formazione di sottogruppi
può infatti rappresentare un rischio, qualora avvenga sulla base di processi
spontanei e non risponda ad oggettive esigenze legate al raggiungimento degli
obiettivi assegnati al gruppo. In questo caso potrebbero emergere situazioni di
faultlines, cioè di creazione di confini invisibili e non formalizzati, ma non per
questo meno “divisivi”, frutto della percezione di differenze individuali, soprat-
tutto relative ai caratteri socio-demografici dei membri del gruppo (Robbins,
Judge, Bodega, 2016).
Tuttavia non bisogna credere che il verificarsi delle predette situazioni sia
imputabile unicamente o principalmente alla dimensione del gruppo. L’efficacia
dei processi interni al gruppo dipende in primo luogo dalle caratteristiche del
modello organizzativo: in particolare si ritengono condizioni fondamentali l’esi-
stenza di una cultura organizzativa che incorpora tra i propri valori quelli della
cooperazione sul lavoro e l’”essere squadra”, nonché una forte legittimazione
del modello team-based da parte del vertice aziendale.
5.3.2. Composizione
Le scelte relative alla composizione riguardano chi inserire nel gruppo di lavoro
e se mantenere nel tempo la stessa composizione o modificarla periodicamente,
e perché.
Riguardo alla selezione di chi entrerà a far parte di un gruppo, il criterio
base è rappresentato dal possesso o meno delle competenze necessarie per svol-
gere l’attività di cui il gruppo di dovrà occupare (“criterio delle competenze”).
È cioè necessario che in ogni gruppo “entrino” tutte le competenze “tecniche”
che consentono di raggiungere gli obiettivi assegnati al gruppo. Nell’insieme, i
membri del gruppo dovranno possedere quelle competenze, a prescindere di
come queste siano distribuite tra gli stessi. Parliamo di competenze tecniche per
distinguerle da quelle che “organizzative” (di controllo, coordinamento, pro-
grammazione e organizzazione del lavoro, etc.) Queste ultime possono anche
non essere presenti nel team, dipende dalle scelte di struttura e dalle linee di di-
pendenza con il resto della struttura.
Ma c’è un secondo criterio che, una volta soddisfatto il primo, dovrebbe
essere perso in considerazione nella composizione del gruppo di lavoro. Si tratta
del cosiddetto “criterio di affinità”, che suggerisce di inserire in uno stesso
182
La progettazione dei gruppi di lavoro
gruppo le persone sulla base delle loro preferenze a lavorare con altre 2. Un’ele-
vata affinità tra i membri di un gruppo è infatti considerata un carattere facili-
tante l’efficacia del team, in termini di qualità dei risultati, velocità di esecuzione
e decisione, armonia e spirito di gruppo.
Non sempre è possibile rispettare questo secondo criterio. Al di là delle
difficoltà che possono incontrarsi nel “misurare” il grado di affinità delle per-
sone, è necessario che per uno stesso tipo di figura professionale si possa sce-
gliere, tra più persone, quella che sembra integrarsi meglio con le altre, in virtù
della maggiore affinità. Il problema si pone soprattutto nelle imprese di piccole
dimensioni. Ad esempio, sappiamo che nel team di sviluppo di un nuovo pro-
dotto devono essere incluse competenze di progettazione, marketing, analisi dei
costi, ecc. Mettiamo il caso che in una piccola impresa vi sia un solo esperto di
marketing, un solo ingegnere progettista, un solo esperto di costi: ciò significa
che la scelta sarà obbligata, queste persone dovranno per forza di cose entrare
a far parte del team, a prescindere dal loro grado di affinità, da quanto esse
gradiscano lavorare “gomito a gomito”. A prescindere che si verifichi la situa-
zione appena descritta, sarà inoltre necessario considerare se il management
dell’impresa in oggetto dispone di conoscenze e capacità tali da permettere il
ricorso a strumenti di analisi del grado di affinità.
Spostandoci ora a considerare la questione inerente la composizione dei
gruppi di lavoro, cioè la sua variabilità o stabilità nel tempo, va anzitutto preci-
sato che questa scelta riguarda esclusivamente i team permanenti. Sarebbe fuori
luogo, infatti, pensare che con riferimento ad un gruppo temporaneo, con una
durata limitata al raggiungimento di un particolare obiettivo, ci si debba preoc-
cupare di modificare la sua composizione, a meno che non vi siano situazioni di
abbandono da parte di qualcuno dei suoi membri o evidenze di un cattivo fun-
zionamento addebitabili proprio alla sua particolare composizione.
Per quanto riguarda i gruppi destinati ad operare nel tempo, cosa può
indurre il manager a mettere mano periodicamente alla loro composizione? Ci
sono esigenze differenti che possono spingere verso il mantenimento nel tempo
della composizione originaria (c.d. gruppi “fissi”) o, al contrario, verso una mo-
difica della composizione dopo un certo tempo dalla loro costituzione (c.d.
gruppi “variabili”).
2 La social network analysis fornisce strumenti per misurare alcune dimensioni relative alle interazioni nei gruppi
di persone. In particolare, attraverso i sociogrammi è possibile descrivere graficamente la struttura delle relazioni
informali in un determinato gruppo di persone, in termini di amicizia, sintonia, antagonismo, disponibilità ad aiu-
tare gli altri, etc. Il loro utilizzo negli studi di organizzazione risale agli esperimenti di Hawthorne, condotti negli
anni ’20 del secolo scorso dai ricercatori della Scuola delle Relazioni Umane. Per un approfondimento si veda
Yang & Tang (2004).
183
Lineamenti di organizzazione aziendale
5.3.3. Collocazione
184
La progettazione dei gruppi di lavoro
185
Lineamenti di organizzazione aziendale
nuovi prodotti, i gruppi costituiti per l’assistenza ai key-client nelle aziende che
producono su commessa, i team multidisciplinari nell’ambito dei servizi socio-
sanitari.
Sembra evidente come la differente combinazione delle dimensioni oriz-
zontale e verticale, implicando eterogeneità di vario tipo fra i membri del
gruppo, sia all’origine di differenti gradi di complessità nella gestione di questo.
La soluzione non può essere, ovviamente, quella di ridurre il livello di eteroge-
neità, perché questo può essere adeguato agli obiettivi assegnati al gruppo
stesso. Per ridurre la complessità gestionale e facilitare così l’ottenimento di ri-
sultati soddisfacenti è allora necessario intervenire sia sulla composizione, cer-
cando di rispettare anche il criterio di affinità personale, sia sulla struttura del
gruppo stesso.
Nelle strutture socio-sanitarie numerose e varie sono le situazioni in cui si rende opportuno, se non
addirittura necessario, ricorrere a forme di lavoro in gruppo. Si pensi ad attività di diagnosi di patologie
complesse, alla decisione di intervenire o non intervenire chirurgicamente, alla valutazione periodica
degli effetti di trattamenti di lungo periodo, etc.
Nella maggior parte dei casi la natura dell’attività svolta richiede il coinvolgimento di specialisti di diverse
branche, determinando così un elevata varietà delle competenze (eterogeneità orizzontale). Inoltre, è fre-
quente che dello stesso gruppo facciano parte dirigenti medici, “semplici” specializzandi, oltre a infermieri
o terapisti (eterogeneità verticale). I gruppi di questo tipo non operano con continuità, ma si riuniscono a
cadenza prestabilita (una o più volte alla settimana) o quando se ne ravvisa la necessità, nell’arco della
giornata lavorativa. Un ulteriore elemento di complessità è dato dal fatto che questi gruppi possono essere
a configurazione variabile, per il fatto che il lavoro medico e infermieristico è organizzato per turni e non
è detto che ogni volta che il gruppo si riunisce le stesse persone siano “di turno”.
L’analisi del funzionamento di questi gruppi e le dinamiche che si osservano indicano l’elevata criticità
delle scelte di composizione degli stessi, la necessità che gli obiettivi ci si perseguono siano totalmente
condivisi, l’opportunità di bilanciare attentamente modalità di coordinamento gerarchiche e non, così
come controllo procedurale e controllo sui risultati. In particolare, la composizione dei gruppi di questo
tipo sembra non poter prescindere da una valutazione del grado di affinità tra le persone che ne fanno
parte, per evitare che le diversità in termini di “status” connesso alla posizione gerarchica e differenti
orientamenti professionali rendano difficile una proficua cooperazione e l’integrazione delle rispettive
competenze.
(Fonte: nostra elaborazione)
5.3.4. Struttura
186
La progettazione dei gruppi di lavoro
187
Lineamenti di organizzazione aziendale
Secondo il modello proposto da Tuckman & Jensen (1977), a partire dalla sua costituzione il gruppo,
di qualsiasi tipo esso sia, si sviluppa lungo una traiettoria che può prevedere l’attraversamento di cin-
que stadi: orientamento, ridefinizione, coordinamento, implementazione e conclusione. Non tutti i
gruppi attraversano necessariamente tutti gli stadi, né la durata delle fasi è definibile a priori. Lungo
questa traiettoria si modificano le relazioni interne al gruppo, la struttura delle comunicazioni, il grado
di coesione e condivisione degli obiettivi. Secondo questo modello l’efficacia del gruppo sarebbe cre-
scente fino alla fase di implementazione, per poi decrescere ai primi sintomi che segnano il passaggio
verso la fase conclusiva.
In particolare, obiettivo della fase di orientamento è il raggiungimento di un sufficiente livello di coe-
sione e coinvolgimento dei membri del gruppo. La fase di ridefinizione rappresenta forse lo snodo più
critico, in quanto l’emergere di personali percezioni del proprio ruolo nel gruppo e l’identificazione di
obiettivi individuali legati alla partecipazione al gruppo stesso possono essere all’origine di conflitti;
decisiva può risultare in questa fase l’azione del leader. Nella fase di coordinamento il gruppo giunge
ad una definizione condivisa di ruoli e responsabilità individuali; sono altresì chiariti sia i comporta-
menti attesi che gli specifici compiti operativi di ciascuno. Nella fase di implementazione il gruppo è
impegnato nel perseguimento degli obiettivi e nella risoluzione di eventuali problemi che ne possano
ostacolare il raggiungimento. Il livello di maturità e di coesione raggiunto fa sì che possibili conflitti
siano risolti quasi automaticamente, sulla base di routine ormai consolidate. Infine, la conclusione del
gruppo può rappresentare una condizione fisiologica, se avviene perché è stato raggiunto l’obiettivo
assegnato, o patologica, se è l’esito di una progressiva fuoriuscita dei membri dal gruppo stesso.
(Fonte: Franco, 2007, con adattamenti)
3
Nel gergo aziendale, ma anche in certa manualistica, è frequente l’impiego del termine leader per indicare il
supervisore o coordinatore del gruppo. Qui preferiamo ricorrere ai termini “supervisore” o “coordinatore”, in
quanto ruoli definiti in sede di progettazione, utilizzando invece il termine leader solo nei casi in cui si voglia fare
riferimento a individui che in modo spontaneo assumono la guida di un gruppo di lavoro e sono riconosciuti come
tali dagli altri membri del gruppo.
188
La progettazione dei gruppi di lavoro
un “capo” nelle figure professionali di livello più elevato; ma non si può esclu-
dere che anche nei gruppi orizzontali possa essere individuato un referente ge-
rarchico, magari in base all’esperienza maturata, all’anzianità nel ruolo o azien-
dale. Tra i gruppi costituiti nella parte alta della piramide organizzativa, i comi-
tati di direzione sono spesso strutturati gerarchicamente, poiché includono i ma-
nager funzionali (o divisionali) e il direttore generale.
Così come per la scelta di inserire dei ruoli sociali, come facilitatori del
gruppo, anche la scelta di prevedere una gerarchia interna al gruppo deve con-
siderare non solo la collocazione del gruppo stesso, dunque la sua estensione in
verticale o in orizzontale, ma anche le caratteristiche e l’abitudine al lavoro in
gruppo da parte dei suoi membri. Quanto maggiore è l’affinità tra gli stessi e
quanto più rilevante è l’esperienza pregressa nell’ambito di gruppi di lavoro,
tanto più si potrà fare affidamento su modalità non gerarchiche di coordina-
mento e controllo, anche grazie al possibile rinforzo costituito dal controllo di
clan o dall’azione di leader spontanei. Al contrario, nel caso in cui le scelte di
composizione del gruppo non abbiano potuto tenere in debito conto le prefe-
renze individuali e quanto minore è l’esperienza pregressa di lavoro in gruppo,
l’indicazione di un capo gerarchico all’interno del gruppo potrà rivelarsi oppor-
tuna, se non necessaria, per garantire un efficace funzionamento del gruppo
stesso.
189
Lineamenti di organizzazione aziendale
Task force: letteralmente “forza (destinata a un determinato) compito”; questa espressione, di deriva-
zione militare, nel linguaggio aziendale sta a indicare un piccolo gruppo di esperti costituito apposita-
mente per affrontare e risolvere un problema specifico.
Gruppo di progetto: con questa espressione si è soliti individuare una team di lavoro che riunisce
membri generalmente appartenenti a differenti aree/funzioni e al quale è assegnata la responsabilità di
realizzare un certo progetto.
Gruppo di re-engineering: questa espressione è utilizzata per indicare quei gruppi che vengono formati
a fini di analisi ed eventuale ri-organizzazione dei processi di lavoro, a fronte di performance insoddi-
sfacenti, soprattutto in termini di tempi e qualità del coordinamento.
190
La progettazione dei gruppi di lavoro
luppo, risorse umane, etc.). I secondi, al contrario, sono formati da persone pro-
venienti da differenti aree aziendali, le cui attività sono o complementari o for-
temente interdipendenti, e che si caratterizzano per l’eterogeneità delle compe-
tenze e dei profili professionali.
Due fenomeni, ormai consolidati, hanno ampliato nel tempo l’ambito di inter-
vento della progettazione organizzativa a livello di gruppo. Il primo è quello
relativo alla progressiva apertura dei confini aziendali, conseguente allo “spez-
zettamento” delle catene del valore tra più imprese. L’impulso iniziale in tale
direzione si è avuto negli anni ’70 a seguito delle strategie di de-verticalizzazione
dei processi produttivi, attuate da molte grandi imprese: queste hanno indotto
la formazione di relazioni particolarmente strette tra imprese fornitrici e imprese
clienti lungo le filiere produttive. In anni più recenti la permeabilità dei confini
aziendali si è accentuata con il diffondersi dei processi di outsourcing, cioè con
le scelte di esternalizzare alcuni processi (produttivi, logistici, ma anche di am-
ministrativi) o parte di essi, infine con la formazione di reti interorganizzative,
fenomeno che sta interessando sempre più anche le PMI impegnate a perseguire
economie di scala ed a sviluppare una maggiore capacità innovativa (vedi capi-
tolo 11). Il secondo fenomeno è relativo alla diffusione delle tecnologie internet-
based, che ha favorito, tra l’altro, la possibilità di svincolare le relazioni inter-
personali, anche in ambito lavorativo, dalla contiguità fisica e spaziale.
La diffusione di processi produttivi che attraversano i confini della singola
impresa, coinvolgendo più aziende, è stata all’origine, in non pochi casi, della
formazione di team interaziendali, i cui membri provengono da differenti
aziende coinvolte nella filiera. Mentre la progressiva diffusione e sofisticazione
di modalità telematiche di connessione ha consentito il diffondersi di team vir-
tuali, spesso nell’ambito di uno stesso gruppo professionale. In alcuni casi le due
dinamiche si sovrappongono, dando luogo a team interaziendali virtuali.
4
Questo paragrafo è frutto del lavoro congiunto di Enrico Cori e Sara Lombardi
191
Lineamenti di organizzazione aziendale
coordinamento, per la loro collocazione “a cavallo” tra due o più attori orga-
nizzativi.
I team interaziendali presentano svariate caratteristiche tipiche dei gruppi
di lavoro che prendono forma all’interno di un’unica organizzazione. Tuttavia,
vi sono alcuni aspetti che contraddistinguono le due tipologie di team.
Innanzitutto, essendo composti da membri che provengono da differenti
organizzazioni (aziende, gruppi professionali, associazioni, sindacati, etc.), i
team interaziendali risultano alquanto simili ai team inerfunzionali (cross-func-
tional) che, all’interno di una stessa organizzazione, riuniscono individui che
operano in funzioni diverse. Tuttavia, rispetto ad essi, i team interaziendali ri-
sultano di gran lunga più complessi in quanto i loro membri, parallelamente alla
loro identità funzionale e ai doveri ed impegni che ne conseguono, possiedono
anche una loro distinta e sovente conflittuale identità aziendale.
Una seconda differenza richiama il fatto che i team interaziendali tendono
spesso ad assumere carattere temporaneo. Così facendo, essi richiamano forte-
mente il ruolo svolto dalle task forces. Rispetto a queste ultime, i team intera-
ziendali sono tuttavia caratterizzati da una maggiore complessità in quanto i
loro membri sono chiamati a portare avanti molteplici impegni.
Una ulteriore differenza è connessa ad una delle attività-chiave in cui i
team interaziendali, diversamente da altri team, sono impegnati: le c.d. “attività
di confine” (boundary activities), per la cui analisi si rimanda al successivo capi-
tolo 11. Proprio la grande rilevanza delle attività di confine, oltre alle caratteri-
stiche esposte in precedenza, suggerisce di individuare alcuni criteri di progetta-
zione finalizzati alla realizzazione di condizioni di efficienza ed efficacia di que-
sto tipo di gruppi.
In considerazione delle suddette peculiarità, gli studiosi ritengono che a
determinare l’efficacia dei team interaziendali siano tre elementi principali 5:
• il grado di eterogeneità interna;
• la tipologia del legame esistente tra i membri del team;
• la presenza di connessioni esterne al team.
192
La progettazione dei gruppi di lavoro
193
Lineamenti di organizzazione aziendale
le diverse modalità attraverso cui i soggetti possono essere coinvolti nelle attività
del team. Tali modalità possono riguardare tre aspetti:
194
La progettazione dei gruppi di lavoro
Come discusso per il grado di eterogeneità interna e per i legami tra i mem-
bri del team, è facile comprendere che, anche in presenza di connessioni esterne
al gruppo, i confini del team risultano meno definiti, maggiormente permeabili,
rendendo meno rilevanti e tendenzialmente marginali i fenomeni di favoritismi
interni e di chiusura l’esterno. In tali casi, pertanto, il team sarà orientato ad
195
Lineamenti di organizzazione aziendale
interagire significativamente con gli stakeholder, potendo così risultare più effi-
cace nel portare a termine le proprie attività di confine 6.
Nella maggior parte dei casi i team interaziendali hanno rappresentato
l’esito di una scelta di progettazione “ai confini” dell’impresa, allo scopo di ge-
stire processi di lavoro che attraversavano i confini di due o più aziende. È il
caso delle attività di co-progettazione fornitore-cliente di componenti del pro-
dotto finito; dei processi di ricerca congiunta tra più aziende, volta allo sviluppo
di soluzioni innovative; o ancora, dei processi di ideazione di nuovi prodotti e
servizi aperti al contributo di utilizzatori, in una logica che viene definita di “co-
creazione” del prodotto. In quest’ultimo caso parlare di team interaziendale può
risultare inappropriato, ma la logica è la stessa: il team attraversa i confini azien-
dali, coinvolgendo clienti o potenziali tali, per accedere a competenze non rin-
tracciabili all’interno dell’azienda. Se formalmente il gruppo è interno alla sin-
gola azienda, nella sostanza il perseguimento degli obiettivi assegnati è reso pos-
sibile grazie all’apporto di conoscenze da parte di soggetti esterni, che in maniera
più o meno saltuaria vengono coinvolti nel processo di sviluppo di nuovi pro-
dotti e/o ser
Clementoni, tra i maggiori produttori mondiali di giocattoli, da tempo persegue una politica di differen-
ziazione della propria offerta. Ai prodotti che hanno decretato l’iniziale successo dell’azienda di Recanati
(il mitico Sapientino, i puzzle, etc.) si sono aggiunti via via nuovi prodotti, tra cui il primo i Pad per
bambini.
La politica di prodotto è presidiata da un apposito comitato, che riunisce le posizioni di vertice
dell’azienda, il responsabile dell’ufficio marketing e quello dell’ufficio prodotto. È il comitato che dà l’ok
al lancio di un nuovo tipo di giocattolo, dopo aver attentamente considerato i margini che esso può
generare e la probabile risposta del mercato. A valle di questa decisione prende il via il processo vero
e proprio di sviluppo del nuovo prodotto. Ogni linea di giocattoli ha il suo gruppo di lavoro, c’è quindi
il team dei giochi della prima infanzia, quello dei giochi ricreativi, quello dei giochi scientifici e così via.
In altre parole, in azienda si costituiscono n gruppi di ricerca e sviluppo quante sono le linee di prodotto.
Si tratta di team che lavorano con elevato grado di autonomia, anche se pur sempre sotto il coordina-
mento del direttore della ricerca e sviluppo.
Lungo il processo di sviluppo di un nuovo prodotto viene coinvolto un certo numero di utilizzatori,
genitori o bambini in età scolare. Un team di due-tre persone, selezionate tenendo conto della capacità
di interazione con i bambini (in genere si tratta di laureati in psicologia) è incaricato di organizzare
6
Un ulteriore supporto a questa prospettiva può essere rintracciato negli studi condotti sulle reti tra imprese da
Granovetter (1983). Egli teorizza la possibilità, per ogni organizzazione, di costruire legami sia forti (strong ties)
sia deboli (weak ties) con altre organizzazioni o altri attori dell’ambiente esterno. La sua idea (strength-of-weak-
ties hypothesis) suggerisce che, sebbene i soggetti connessi da un legame forte tendano ad avere una motiva-
zione più elevata a mantenere e ad alimentare il legame stesso nonché ad aiutarsi reciprocamente, quelli carat-
terizzati da collegamenti deboli possono accedere a conoscenze, risorse, informazioni ed esperienze conside-
revolmente diverse rispetto a quelle disponibili all’interno del gruppo di lavoro, agendo positivamente sulle attività
di confine.
196
La progettazione dei gruppi di lavoro
incontri presso scuole ed asili, che sono stati preventivamente contattati dall’azienda e che hanno ade-
rito all’iniziativa. Le istituzioni scolastiche coinvolte sono ubicate in varie zone dell’Italia, in modo da
rispecchiare differenti gusti “territoriali”, così come il coinvolgimento dei genitori (questo vale per le
scuole dell’infanzia) tiene conto della differente estrazione culturale. In generale gli utilizzatori coinvolti
esprimono una valutazione qualitativa, anche se nel caso in cui l’azienda voglia testare una linea di
giochi creativi decisamente innovativa, il test può prevede modalità più strutturate, come la sommini-
strazione di questionari.
Normalmente questo processo di cooptazione dei clienti finali avviene per testare un nuovo concept,
un’idea di prodotto, da realizzare nel medio periodo (12-18 mesi). Il test ha lo scopo di verificare se
l’idea può avere un senso, che gradimento potrebbe ricevere. Non si tratta dunque di test di mercato
in senso stretto, ma di richiesta di pareri specifici, su argomenti ben precisi. Talvolta il coinvolgimento
dei potenziali consumatori avviene a processo di sviluppo del gioco quasi ultimato, in un’ottica di
breve/brevissimo periodo. In questo caso il test ha lo scopo di validare modalità funzionamento, pac-
kaging, comprensibilità delle istruzioni, etc.
(Fonte: intervista a Vincenzo Mandolese, R&D Director, Clementoni SpA)
197
Lineamenti di organizzazione aziendale
Tuttavia, come è facile immaginare, i team virtuali pongono anche alcune pro-
blematiche di cui è importante essere consapevoli. In primo luogo, venendo a
mancare l’interazione faccia-a-faccia tra i membri del team, trasmettere infor-
mazioni relative al contesto e alle percezioni può essere molto difficile (si pensi,
ad esempio, al modo in cui persone provenienti da culture diverse interagiscono
nel gruppo attraverso la comunicazione non verbale e alle reazioni che questo
può generare negli altri). Inoltre, il fatto che la comunicazione sia mediata dalla
tecnologia può essere all’origine di una non perfetta comprensione reciproca fra
i componenti del team. Le naturali difficoltà legate alla lingua, unite a problemi
di connessione web, possono ostacolare lo svolgimento di una riunione in vi-
deoconferenza, così come rendere difficile capire quali siano le informazioni più
importanti da cogliere. A volte anche interpretare i silenzi degli altri può risul-
tare assai complicato (ad esempio, il silenzio può derivare dalla scarsa connes-
sione Internet oppure dal fatto che l’interlocutore non vuole rispondere, non sa
cosa rispondere o è stato colpito negativamente da quanto è stato comunicato).
In sintesi, i team virtuali rendono più complesso lo scambio di informazioni, in
particolar modo di quelle a carattere socio-emotivo. Per questo motivo, essi ten-
dono ad essere maggiormente orientati al compito anziché alla creazione e al
mantenimento di legami relazionali.
La separazione geografica rappresenta una sfida per i gruppi di lavoro del 21° secolo. La “distanza
virtuale” tra i membri di un team virtuale può essere misurata prendendo in considerazione tre tipi di
distanza:
- fisica - separazione spaziale o temporale, o appartenenza a differenti unità organizzative o imprese;
- operativa –variazioni della dimensione del gruppo, la rilevanza degli altri impegni dei membri del
gruppo, intensità e frequenza delle interazioni face-to face, abilità e supporto tecnico;
- affinità – differenze culturali, di status, livello di interdipendenza e preesistenza di relazioni tra i
membri.
198
La progettazione dei gruppi di lavoro
Ricerche sul campo hanno evidenziato che i team con alti punteggi di distanza virtuale mostrano com-
plessivamente cali di fiducia, risultati insoddisfacenti in termini di innovazione, basso livello di presta-
zioni e soddisfazione individuale. Anche colleghi ubicati su piani diversi nello stesso edificio potrebbero
essere considerati fisicamente distanti, e la distanza operativa e di affinità può certamente influire in
ogni situazione; ma i problemi sembrano essere più ricorrenti e più significativi nel caso di team vir-
tuali. Questi rischi suggeriscono di attenuare la modalità di interazione virtuale, da una parte preve-
dendo obbligatoriamente alcuni incontri “in presenza”, soprattutto nelle fasi iniziali, dall’altra stabilendo
ex ante regole chiare di interazione e condivisione di informazioni.
(Fonte: traduzione da Ferrazzi, 2014, con adattamenti)
Allorché i team virtuali siano espressione di comunità professionali (le c.d. “co-
munità di pratica”, aggregazioni informali di figure professionali operanti in
particolari settori di attività), si caratterizzano per un’elevata omogeneità cultu-
rale, sia quando rimangono circoscritti alla singola azienda, sia quando assu-
mono una configurazione interaziendale. Questa caratteristica, unita alla parti-
colarità degli obiettivi perseguiti, più orientati al medio-lungo periodo e meno
ad obiettivi commerciali di breve, consente in genere di evitare il ricorso a stru-
menti gerarchici di coordinamento e controllo, anche quando tali gruppi siano
il risultato di scelte di progettazione organizzativa.
199
Lineamenti di organizzazione aziendale
200
La progettazione dei gruppi di lavoro
201
6 La gestione delle interdipendenze
e il coordinamento
di Vincenzo Cavaliere e Lucia Varra
203
Lineamenti di organizzazione aziendale
1
Il corsivo è nostro.
2
È fondamentale osservare che esistono altre dimensioni strutturali che, oltre all’interdipendenza, influenzano
la progettazione della struttura a livello micro e meso come le economie di scala, di specializzazione e di raggio
d’azione. Su questo punto si veda Perrone, V., 1990; Grandori, A. 1995.
204
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
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3
Pur consapevoli che alcuni testi parlano di interdipendenze intensive, in questa specifica parte intendiamo fare
riferimento alle sole c.d. interdipendenze interne proposte da Thompson distinguendole da quella che, a rigore,
è la “terza variante” della tecnologia, appunto quella intensiva (Thompson, 1988, p. 86 e ss.).
208
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
211
Lineamenti di organizzazione aziendale
4
La tecnostruttura è costituita dai così detti analisi che con la loro attività influenzano il lavoro degli altri. Sebbene
non siano coinvolti direttamente nel flusso primario di lavoro essi lo influenzano attraverso la progettazione e
pianificazione, la definizione di regole e procedure standardizzate, la formazione, ecc. La loro attività è svolta
sempre a seguito di un processo di delega da parte della gerarchia, pertanto essi si possono anche interpretare
come meccanismi tipo gerarchico sebbene rispetto alla supervisione diretta funzionino per via mediata. Vero è
che nelle piccole e medie imprese mancando spesso la tecnostruttura si assiste al presidio delle regole standar-
dizzate, delle norme e dei programmi da parte della gerarchia.
212
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
5
Il concetto di condizionatamente autonomo riconosce il fatto che l’autonomia del gruppo, che facilita il coordi-
namento per mutuo adattamento, non è completa perché se così fosse le unità non sarebbero parte dell’orga-
nizzazione (Thompson, 1967).
213
Lineamenti di organizzazione aziendale
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La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
possedere gli attori organizzativi chiamati a svolgere quelle attività. Siamo ov-
viamente in presenza di una dimensione non squisitamente tecnica, che richiama
le c.d. dimensioni soft di progettazione (Perrone, 1990; Grandori, 1988) 6.
6
Su questo punto si rimanda ai contributi degli autori che propongono diversi tipi di orientamento: generalista vs
specialista; breve vs lungo termine; ottimizzazione vs innovazione; stile di direzione (Perrone, V., 1990, pag. 386
e ss; Grandori, 1988).
215
Lineamenti di organizzazione aziendale
La scelta di uno dei suddetti criteri rispetto ad un altro risponde alle esigenze o
alla volontà di gestire le interdipendenze tra attività.
Il graduale processo di aggregazione delle attività e queste in unità di li-
vello via via superiore, così come illustrato nel precedente paragrafo, porta ad
una strutturazione dell’organizzazione per livelli e culmina con il raggruppa-
mento direttamente dipendente dalla direzione generale. Le scelte di criterio
adottato a questo livello di raggruppamento, ovvero a quello gerarchicamente
216
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
6.5. Il coordinamento
217
Lineamenti di organizzazione aziendale
Il coordinamento tra due soggetti può avvenire attraverso il processo della co-
municazione informale. Le parti in causa, attraverso un mutuo aggiustamento
delle proprie attività, opinioni, obiettivi, ricompongono il flusso del lavoro, tro-
vano una soluzione alla condivisione di risorse, definiscono un comune modo
di operare.
I collegamenti informali tra posizioni, frutto dell’iniziativa spontanea di
una delle parti, si avvale di tutte le forme della comunicazione diretta, non solo
vis-à-vis, ma anche telefonica, per email e per ogni altra modalità che la tecno-
logia mette a disposizione. Una sua rappresentazione è quella della Figura 6.4.
nella quale si evidenziano il Manager (M), gli operatori (O) e l’analista di pro-
gettazione (A).
218
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
221
Lineamenti di organizzazione aziendale
degli output), i meccanismi definizione degli input intesi anche come conoscenze
e capacità degli attori organizzativi (standardizzazione degli input). Le modalità
di regolazione dei risultati, delle attività e azioni e delle risorse in ingresso ri-
prende la più nota classificazione di Mintzberg, che facendo riferimento al con-
cetto di standardizzazione come principio di coordinamento mediante la ridu-
zione delle variabilità (Grandori, 1995, pag. 462), distingue appunto tra stan-
dardizzazione degli output, standardizzazione dei processi di lavoro e la stan-
dardizzazione degli input (Mintzberg, 1996) 7. La rappresentazione riportata in
Figura 6.6 evidenzia il ruolo degli analisti di progettazione, che operano sempre
su delega e indicazione della gerarchia, nella definizione degli standard.
7
Gli altri meccanismi di coordinamento indicati da Mintzberg sono: l’adattamento reciproco e la supervisione
diretta.
222
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
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Lineamenti di organizzazione aziendale
224
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
Alla base ci sono le azioni organizzative che rappresentano l’attuazione dei pro-
grammi e il raggiungimento degli obiettivi.
La terza forma di regolazione riguarda le risorse in ingresso. Il concetto si
riferisce sia alla standardizzazione degli input materiali, sia, più propriamente,
alle conoscenze e le informazioni necessarie per svolgere le attività. È infatti la
regolazione della professionalità dei soggetti che può garantire il coordinamento
tra di essi.
La standardizzazione degli input è efficace sia in situazioni routinarie, in
cui essa è associata solitamente alla standardizzazione dei processi, delle cono-
scenze e delle abilità, sia in situazione di elevata incertezza, in cui, attraverso la
precisa individuazione e standardizzazione del set di conoscenze e competenze
necessarie alle attività da svolgere si cerca di armonizzare i comportamenti di
soggetti e le unità organizzative che agiscono in condizioni di elevata comples-
sità e incertezza, non potendone definire a priori le specifiche azioni e compor-
tamenti da tenere.
Quindi anche la standardizzazione degli input incide solo indirettamente
sui comportamenti, aumentando le possibilità che conoscenze omogenee con-
sentano a soggetti ed attività di armonizzare gli sforzi. Sempre in modo indiretto
si incide sui comportamenti attraverso la standardizzazione degli input mate-
riali: il livello di regolazione è più elevato nel caso di input materiali associati a
tecnologie di concatenamento che impongono determinati comportamenti per
la loro trasformazione fisica.
La regolazione degli input si avvale di alcuni strumenti quali la comuni-
cazione e la formazione. Attraverso la comunicazione si trasmettono le infor-
mazioni circa le risorse materiali e immateriali che devono essere garantite per
lo svolgimento delle attività e si contribuisce, nel caso della professionalità, ad
omogeneizzare le conoscenze attraverso scambi di messaggi e di esperienze.
La formazione è uno strumento molto efficace nella standardizzazione
degli input in quando contribuisce allo sviluppo e al consolidamento delle co-
noscenze e competenze necessarie. Inoltre, i contenuti e le modalità di eroga-
zione della formazione oltre che agire come meccanismo di regolazione di input
cognitivi, possono agire direttamente sui comportamenti, trasmettendo conte-
nuti su come svolgere le attività e su quali sono i comportamenti efficaci o non
efficaci da tenere.
225
Lineamenti di organizzazione aziendale
8
Tale soluzione organizzativa, come si può intuire, determina generalmente per la posizione in oggetto una
dipendenza multipla: l’una, di tipo funzionale, l’altra, di tipo gerarchico,
226
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
Il Product Manager (PM) svolge un ruolo di coordinamento sulle attività relative ad uno stesso prodotto
alla cui realizzazione contribuiscono più unità funzionali o più divisioni. Pertanto il suo ruolo di coordi-
namento consiste nel gestire le interdipendenze tra attività svolte in più funzioni, oppure di garantire
l’omogeneità di attività che si svolgono in diverse divisioni, dedite a realizzare uno stesso prodotto
destinato a più aree geografiche.
A volte il coordinamento attraverso un organo individuale riguarda tutte le attività collegate ad uno
stesso marchio, allo scopo di armonizzare le politiche relative ad un gruppo di prodotti accomunato da
uno stesso brand (Brand Manager), quando questo non costituisca una divisione.
Quando il coordinamento è finalizzato alla massima soddisfazione di alcuni clienti importanti la figura
di integrazione può essere il Key Account Manager, che ha come compito quello di integrare servizi e
prodotti in funzione delle esigenze del cliente. (Martinez, 2000, pagg 208 e ss).
Altra figura con funzione analoga è quella del process manager o process owner. Si tratta di due sog-
getti che coordinano flussi si attività dall’input all’output, all’interno di organizzazioni che abbiano in-
trapreso procedure di cambiamento organizzativo. A differenza del product manager, la cui funzione
è finalizzata alla gestione integrata del prodotto in un approccio d’insieme delle singole attività, il pro-
cess manager o process owner opera allo scopo di garantire l’efficienza di processi standardizzati,
funzionali al conseguimento del valore per il cliente.
Il project Manager o Program Manager ha la responsabilità del coordinamento di più attività facenti
parte di un progetto, pertanto coordina operazioni che riguardano iniziative uniche, un intervento su
commessa, un progetto ad alta complessità tecnologica (project manager) o del piano delle attività di
programmazione e controllo di un progetto (program manager). A differenze delle altre figura di inte-
grazione orizzontale, il Project Manager svolge un ruolo anche di coordinamento gerarchico, dato dalle
elevate competenze tecniche, assieme alle conoscenze di programmazione e controllo delle attività
lavorative, che gli consentono di indirizzare, supportare e controllare la realizzazione del progetto.
227
Lineamenti di organizzazione aziendale
9
Su questi e sul successivo si rimanda a quanto ampiamente discusso nel capitolo cinque.
228
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
flusso. Sono queste le cosiddette task forces di prodotto. In altri casi il coordi-
namento avviene attraverso una task force composta da soggetti che operano in
analoghe funzioni di divisioni diverse e che sono chiamati a risolvere un pro-
blema specifico per il quale è necessaria una visione specialistica, maturata
all’interno di prodotti e ambiti diversi. In questo caso si tratta di task force fun-
zionali, come può essere una task force composta dalle direzioni del personale
di divisioni diverse, i quali sono chiamati a risolvere le distorsioni di un sistema
incentivante utilizzato da tutta l’organizzazione. Altro esempio è costituito da
una task force composta da direttori di stabilimento di sedi diverse che devono
risolvere un problema comune di produzione.
Un team di progetto può nascere ad esempio per partecipare ad un bando
internazionale di ricerca universitaria per il quale sia necessario concepire una
proposta integrata che metta assieme conoscenze ed esperienze provenienti dai
diversi settori disciplinari.
A differenza delle task forces non nascono per una criticità specifica, ma
per tutta una tipologia di problemi che si possono generare da alcune attività.
Questo spiega perché non hanno natura temporanea, bensì stabile, costituendo
dunque un ambito operativo permanente in cui si si monitorano alcune attività
e si individuano problemi e soluzioni. Un esempio è costituito dai comitati per
la qualità: sono organi interfunzionali, che stabilmente affrontano problemi re-
lativi alla qualità tecnica, alla qualità percepita da parte del cliente, alle proce-
dure di qualità, ecc. Pertanto nel caso specifico si occupano di tutti quei pro-
blemi connessi a risorse, processi, valutazione della qualità e con riferimento a
questi cercano di prevenirli e di risolverli via via che si manifestano.
In conclusione di questa disamina dei meccanismi personali vogliamo os-
servare come essi si qualifichino come strumenti che, in modo strutturato anche
se non sempre formalizzato, rafforzano il funzionamento, Mintzberg direbbe
lubrificano le ruote”, del reciproco adattamento. Se né la supervisione diretta e
le atre forme di standardizzazione o sistemi operativi sono sufficienti per rag-
giungere il coordinamento, è necessario l’utilizzo dei c.d. meccanismi di collega-
mento, quelli appunto esaminati in questo paragrafo.
229
Lineamenti di organizzazione aziendale
sono essere classificati in base alla loro stabilità o temporaneità. Sono tenden-
zialmente considerati individuali e temporanei i project manager 10 e i program
manager: il primo espleterà il suo ruolo nella realizzazione di un progetto, il
secondo di un programma di pianificazione e controllo di attività, a conclusione
dei quali il ruolo non ha ragion d’essere. Le figure di product manager, brand
manager, key account manager, process manager sono invece inserite stabil-
mente nella organizzazione per coordinare i flussi o le specificità che ci sono
dietro la realizzazione di un prodotto, di un brand, di un processo o della sod-
disfazione di una tipologia di clienti.
Nella dimensione collettiva sono organi temporanei le riunioni, le task
force e i team di progetto. Le riunioni sono temporanee nella misura in cui la
loro presenza sia estemporanea e non istituzionalizzata, mentre task force e task
team sono destinati a durare fino alla soluzione di un problema o fino alla rea-
lizzazione di un progetto. Le riunioni possono essere stabili se è prevista una
regolarità nella loro manifestazione. Esempio di riunioni stabili sono le assem-
blee annuali di approvazione del bilancio d’esercizio.
La Tabella 6.2 presenta la classificazione degli organi personali di coordi-
namento orizzontale e trasversale.
10
Nelle organizzazioni che operano stabilmente per progetto, come ad esempio i general contractor, le organiz-
zazioni di gestione eventi, tale figura si qualifica, invece, per la sua stabilità, caratterizzando, di fatto, l’intero
modello organizzativo.
230
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
231
Lineamenti di organizzazione aziendale
11
In una successiva versione (1999, pag. 455) Grandori modifica la relazione parlando interdipendenze semplici
(generiche e sequenziali) e complesse (reciproche o intensive).
232
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
modello distingue la gerarchia tra piena e decentrata, indicando con tali termini
un diverso livello di accentramento decisionale nell’organo di supervisione. Tra
i meccanismi sono inoltre riportate delle forme indirette quali l’incentivazione,
ma anche i diritti di proprietà, la partecipazione alle decisioni e il controllo.
Le interdipendenze semplici comprendono quelle generiche (per accumu-
lazione) e quelle sequenziali. Per questa tipologia di interdipendenze i meccani-
smi di coordinamento più appropriati risultano essere le regole, le norme, le pro-
cedure e programmi laddove si tratti di “azioni prevedibili e osservabili” (Gran-
dori, 1995, pag. 468), ovvero i meccanismi di incentivo, se sono prevedibili e
osservabili non le azioni ma “i risultati delle azioni”. Gli incentivi possono ri-
guardare le ricompense legate ai risultati o anche la fissazione di prezzi di tra-
sferimento di beni e servizi da una unità all’altra.
In una situazione di maggiore complessità delle interdipendenze, dovuta
a imprevedibilità e innovatività delle attività e conseguente necessità di maggiori
comunicazioni o ad elevato numero delle unità interconnesse, diventano preva-
lenti altri meccanismi di coordinamento. In caso, infatti, di interdipendenze “mi-
ste”, comprendenti oltre alle generiche e sequenziali anche interdipendenze re-
ciproche o quelle intensive, i meccanismi di coordinamento si trovano in un con-
tinuum tra gerarchia piena e decisioni congiunte: all’aumento della complessità
delle situazioni da coordinare si passa da una gerarchia piena ad una più decen-
trata e all’inserimento di appositi organi che si affiancano alle comunicazioni
laterali o alle decisioni collettive, fino agli organi di integrazione. Le interdipen-
denze complesse (reciproche e intensive) in situazioni di massima complessità
informativa ed elevata potenzialità di conflitti sono affidate a meccanismi indi-
retti o residuali che puntano all’allineamento agli obiettivi tramite meccanismi
culturali o facendo leva su diritti di proprietà (ad esempio una cooperativa di
lavoro che coordina un pool di professionisti interni), su forme di ricompensa
diverse da quelle collegate ai risultati individuali (partecipazione agli utili di im-
presa, diritti di acquisto su azioni aziendali, ecc.), o forme di controllo per ecce-
zioni.
Il modello di Galbraith (1973) distingue in base all’incertezza relativa ai
compiti da coordinare.
Per i compiti classificati di routine e prevedibili è possibile programmare
le attività e procedere per eccezione alla soluzione dei problemi non prevedibili.
Pertanto i meccanismi di coordinamento in questi casi sono la fissazione di re-
gole e procedure, la fissazione di obiettivi o il ricorso alla gerarchia quando se
ne avverta la necessità. In condizioni di elevata incertezza si può agire o per
ridurre il livello di incertezza o per individuare le azioni atte a fronteggiarla. Le
azioni per ridurre l’incertezza consistono nella modifica dei criteri adottati per
definire le basi di raggruppamento o nella creazione di risorse di riserva. Nel
233
Lineamenti di organizzazione aziendale
primo caso si passa solitamente da una base per input (ad esempio, per fun-
zioni), ad una per output (ad esempio, prodotto/mercato), in modo da rendere
autonome le unità nella realizzazione del risultato e limitare così le relazioni
esterne all’ unità stessa.
La creazione di risorse di riserva consiste, invece, nella predisposizione di
risorse o modalità operative che possano ridurre la possibilità che si manifestino
eccezioni (Brusa, 1986, pag. 71). Quando l’organizzazione non può incidere sui
fattori che generano le interdipendenze, interviene sugli effetti delle stesse: in
questo caso accetta le interdipendenze e le gestisce facendo ricorso ai rapporti
laterali tra le unità, sia nella forma di collegamenti spontanei che in quella di
organi veri e propri, fino alla creazione della struttura a matrice con cui, attra-
verso un duplice criterio di divisione del lavoro, si garantisce il coordinamento
sia verticale che orizzontale tra le attività, secondo principi di funzionamento
illustrati nel capitolo sulle forme a criterio multiplo.
Il modello di Mintzberg (1996) mette in relazione i meccanismi di coordi-
namento con la complessità della situazione (Tabella 6.5.).
234
La gestione delle interdipendenze e il coordinamento
235
Premessa alla progettazione della macrostruttura
organizzativa
di Mariacristina Bonti ed Enrico Cori
237
Lineamenti di organizzazione aziendale
238
Premessa alla progettazione della macrostruttura organizzativa
condizioni aziendali e di contesto. Essa può essere presa, in una logica proattiva,
per predisporre l’azienda a fronteggiare possibili cambiamenti nell’arena com-
petitiva, per consolidare o ridisegnare le attribuzioni di autorità formale e gli
ambiti di controllo coerentemente con le dinamiche interne di potere, o anche
per promuovere un’evoluzione della cultura organizzativa.
Idealmente possiamo pensare all’insieme delle scelte relative alla macro-
struttura di un’azienda come ad un processo che ha come primo input l’inizio
dell’attività di impresa e come successivi input scelte imprenditoriali o manage-
riali, tanto in una logica di adattamento quanto di anticipazione, che possono
suggerire o l’abbandono di una forma di macrostruttura in favore di un’altra
(ad esempio il passaggio dalla forma funzionale e quella divisionale) o, più sem-
plicemente, la modifica di uno o più caratteri della stessa forma organizzativa
(possibili esempi possono essere l’appiattimento della struttura, cioè la ridu-
zione del numero dei livelli gerarchici, la costituzione di una nuova funzione, il
potenziamento delle unità in staff alla Direzione, l’inserimento di unità di pro-
getto).
In altre parole, il processo di progettazione si snoda attraverso alcuni mo-
menti di discontinuità, dei “salti” rappresentati dal cambio di forma di macro-
struttura e che si configurano come cambiamenti radicali, intervallati da possi-
bili modifiche interne ad una stessa forma, che si configurano come cambia-
menti incrementali. Esso non può mai dirsi definitivamente concluso, se non con
la cessazione dell’attività di impresa.
L’analisi delle forme di macrostruttura non può prescindere da un’attenta
osservazione dell’organigramma. Questo strumento, ormai diffuso anche al di
fuori dell’ambito aziendale (la vostra Università ne ha molto probabilmente di-
segnato uno e magari lo ha inserito sul proprio sito web) consente di pervenire
ad una rappresentazione formale della struttura organizzativa aziendale, che
consente di visualizzare in modo abbastanza immediato alcuni caratteri della
struttura stessa.
In prima approssimazione possiamo dire che l’organigramma evidenzia
l’insieme delle unità organizzative che svolgono le attività finalizzate alla realiz-
zazione del prodotto/servizio. In particolare esso dà informazioni riguardo ai
criteri utilizzati per il raggruppamento delle attività (osservabile leggendo il
primo livello sotto gli organi di direzione generale), al numero dei livelli gerar-
chici (sempre che l’organigramma evidenzi in modo completo le successive arti-
colazioni, dagli organi di direzione generale alle unità operative alla base della
“piramide organizzativa”), all’ampiezza del controllo, infine ai collegamenti ge-
rarchici fra unità.
239
Lineamenti di organizzazione aziendale
240
7 Le forme a criterio unico
di Lucia Varra e Sara Sassetti
241
Lineamenti di organizzazione aziendale
Introduzione
1
Nel presente capitolo i termini “forma”, “modello”, “configurazione”, “assetto”, “archetipo”, “struttura” sono uti-
lizzati come sinonimi, laddove non sia espressamente richiamato un diverso significato.
242
Le forme a criterio unico
Nel presente capitolo sono esaminate le due strutture basate sul criterio
unico: la struttura funzionale e quella divisionale.
Si tratta di due modelli molto noti e diffusi, due ideal tipo di strutture
organizzative, con peculiarità molto diverse tra di loro, ciascuno adatto a con-
testi e scelte strategiche e di gestione molto differenti, tant’è che presentano, nei
punti di forza o nelle criticità, caratteri di specularità dell’uno rispetto all’altro.
Il modello funzionale si basa su un principio di specializzazione delle atti-
vità per input, tale per cui le unità risultano caratterizzate da omogeneità della
tecnica di svolgimento delle operazioni, delle competenze e dei criteri di valuta-
zione economica del complesso delle attività (in termini prevalenti di costo e
ricavo).
Il modello divisionale si base invece sul principio di specializzazione delle
attività per output, quindi su un orientamento al risultato, per cui le attività
sono raggruppate secondo una logica di eterogeneità e complementarità, stru-
mentale allo svolgimento completo di tutte le fasi della realizzazione dell’output.
Se la specializzazione delle attività e la gestione integrata di ogni output
costituiscono, rispettivamente, la peculiarità del modello funzionale e divisio-
nale e pertanto tale peculiarità è sempre presente nella relativa struttura, con
riferimento alle modalità di funzionamento e/o alla relativa articolazione in-
terna si individuano varie forme sia di modello funzionale che divisionale.
Nella trattazione del capitolo, dopo aver illustrato le caratteristiche di
base dei modelli funzionale e divisionale, sono presentate le diverse forme che i
due modelli possono assumere sulla base di specifiche variabili organizzative. Il
modello funzionale è esaminato nelle sue varianti di: funzionale meccanica, pro-
fessionale, funzionale modificata con organi di integrazione ed infine la forma
funzionale dinamica. Il modello divisionale è illustrato nelle sue forme a copia
carbone e a unità di business, nonché nelle forme di divisionale accentrata e de-
centrata.
243
Lineamenti di organizzazione aziendale
244
Le forme a criterio unico
Alla direzione generale competono tre specifiche attività (Costa, Gubitta, Pit-
tino, 2014; Isotta, 1989). La prima è quella di elaborare ed esplicitare la strategia
generale dell’impresa, definendo gli indirizzi e la direzione verso la quale l’orga-
nizzazione intende andare: chi siamo, quali sono i nostri obiettivi, chi sono i
nostri clienti e come li vogliamo servire. A tal fine, essa ha il compito di indivi-
duare le risorse (finanziarie, umane, tecnologiche) necessarie al raggiungimento
dei fini organizzativi e le fonti dalle quali procurarle.
Un secondo compito importante in capo alla direzione generale riguarda
la gestione delle relazioni interaziendali e i rapporti con i portatori di interessi
istituzionali; tali relazioni definiscono i confini dell’organizzazione e rappresen-
tano un continuo riferimento per le strategie aziendali.
Infine, una tipica attività della direzione generale riguarda la definizione
delle attività che caratterizzano ciascuna unità funzionale e l’individuazione, in
relazione alle esigenze interne e alle dinamiche ambientali, dei più idonei modelli
di coordinamento attraverso cui armonizzare le attività delle diverse funzioni.
Il direttore/manager di funzione si occupa, invece, di tradurre a livello di
unità funzionale la linea strategica stabilita dalla direzione generale. A tali ma-
nager è delegato, pertanto, il potere gestionale delle funzioni organizzative loro
assegnate, quindi la discrezionalità di individuare e mettere a punto le politiche
e le azioni più consone al raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Un importante compito del direttore di funzione è di assolvere, svolgendo
il ruolo di “filtro tra vertice e nucleo operativo” (Costa, Gubitta, Pittino, 2014),
alla funzione di duplice coordinamento gerarchico, sia verso l’alto che verso il
245
Lineamenti di organizzazione aziendale
2
Come già sottolineato nel cap. 7, l’ampiezza del controllo è un principio della teoria classica dell’organizza-
zione, il quale richiama l’attenzione sulla necessità di contenere il numero di persone che un capo deve coordi-
nare. Il suddetto principio, assieme agli altri della teoria classica dell’organizzazione, sono richiamati in nota 3.
246
Le forme a criterio unico
247
Lineamenti di organizzazione aziendale
248
Le forme a criterio unico
249
Lineamenti di organizzazione aziendale
Nel rispetto delle caratteristiche di fondo che abbiamo finora esaminato, il mo-
dello funzionale può presentare forme diverse. La distinzione più nota è ricon-
ducibile a due delle cinque configurazioni di Mintzberg (1983), ovvero alla bu-
rocrazia meccanica e alla burocrazia professionale. Altre forme sono rappresen-
tate dalla forma funzionale modificata con organi di integrazione e dalla forma
dinamica.
250
Le forme a criterio unico
251
Lineamenti di organizzazione aziendale
3
Il principio scalare stabilisce che l’autorità e la corrispondente responsabilità) devono fluire secondo una linea
chiara e continua dall’alto verso il basso, ovvero dal dirigente di massimo livello ai ruoli esecutivi, attraverso una
scala formale di posizioni gerarchicamente subordinate. Il principio dell’ampiezza del controllo stabilisce che
occorre limitare il numero di collaboratori sottoposti all’autorità di uno stesso capo, altrimenti diventa difficoltoso
il coordinamento; il principio dell’unità comando stabilisce che nessun soggetto dovrebbe ricevere ordini da più
di un superiore, onde evitare contrapposizioni di indicazioni e altre incoerenze; il principio dell’eccezione attribui-
sce al agli appartenenti ad una unità organizzativa i relativi problemi, rinviando al superiore solo quelli che esu-
lano dalla routine; il principio del bilanciamento tra autorità e responsabilità stabilisce il dovere di chi ha un potere
decisionale deve rispondere dell’uso che ne fa. Una ampia trattazione dei principi è presente, tra gli altri, in Brusa
L.: Strutture organizzative d’impresa, 1986, pp. 27-33.
4
Per indottrinamento si intende un processo di educazione culturale verso l’adesione a determinati valori e i
principi.
252
Le forme a criterio unico
253
Lineamenti di organizzazione aziendale
Questo modello è tipico delle imprese complesse che erogano servizi pro-
fessionali, come ad esempio ospedali, università, scuole, ecc.; è, quindi, una
struttura che si adatta bene in ambienti che sono relativamente stabili e com-
plessi. Per rispondere ai caratteri del contesto risulta fondamentale l’attenzione
al servizio, attraverso la standardizzazione delle conoscenze e delle competenze;
tale processo di standardizzazione interna e allineamento con l’esterno richiede,
come si è accennato, importanti ed articolate azioni di formazione e di informa-
zione.
Per quanto la struttura funzionale sia ancora l’approccio prevalente nella co-
struzione della struttura aziendale (Daft, 2010), nel contesto estremamente di-
namico in cui le organizzazioni oggi operano sono molte le aziende che speri-
mentano i problemi dell’eccessivo “spacchettamento” della struttura per com-
parti omogenei. In tali strutture molto articolate orizzontalmente e vertical-
mente, il coordinamento verticale, con i relativi processi che discendono a ca-
scata e risalgono per step, risulta lento; le eccezioni sono molte ed eterogenee
per essere gestite dal capo in modo efficace e rapido; il coordinamento orizzon-
tale attraverso standardizzazione dei processi è applicato in modo pressochè li-
mitato, essendo poche le situazioni routinarie, mentre sono numerose quelle per
cui va trovata una soluzione all’occorrenza.
Pertanto le organizzazioni, nella ricerca di modalità di funzionamento più
efficaci rispetto a quelle tradizionali, fanno sempre più ricorso a sistemi di coor-
dinamento più innovativi, che comprendono la costituzione di team, task forces,
sistemi informativi, contatto diretto tra manager e collaboratore, comitati, in-
serimento di manager di integrazione (su cui ci soffermeremo nel prossimo pa-
ragrafo), ecc.
254
Le forme a criterio unico
Questi tipi di interventi vanno ad incidere sulle interazioni tra le unità or-
ganizzative, trascurando in larga misura la linea gerarchica (Perrone, 1990) che
risulta pertanto fortemente depotenziata nel suo ruolo di coordinamento verti-
cistico. A livello di singola unità, la necessità di trovare rapidamente le risposte
a problemi complessi fa sì che le persone siano messe nelle condizioni di auto-
determinare gran parte dei propri comportamenti, i quali più che dalla standar-
dizzazione dei processi sono guidati dell’adattamento alle situazioni contin-
genti, dalle premesse decisionali, dalla cultura, dagli obiettivi da conseguire
L’affievolimento dell’intervento del vertice, assieme alla necessità di fles-
sibilità, può portare ad un appiattimento della struttura funzionale, che elimina
molti dei suoi livelli intermedi, trasferendo su ciascun individuo le capacità di
coordinamento, rispetto alla propria attività e alle relazioni con le altre posi-
zioni, interne o esterne alla funzione. Allo stesso modo, mentre nascono e si raf-
forzano gli organi di integrazione, si eliminano o si snelliscono alcuni staff della
tecnostruttura, le cui attività possono essere assorbite all’interno dei ruoli del
manager di linea o del nucleo operativo. Ad, esempio, in una necessaria azione
di riprogettazione delle mansioni, a supporto di interventi di appiattimento della
struttura, si tenderanno ad arricchire le mansioni di contenuti di programma-
zione e controllo, come accade, ad esempio, in una posizione di addetto che au-
todefinisce le modalità di lavoro e individua i parametri di controllo della pro-
pria attività. Al contempo, in simili contesti, risulta quale scelta efficace l’ester-
nalizzazione di alcuni organi di staff di servizio (ad esempio, l’ufficio legale, l’as-
sistenza clienti, ecc.), a condizione che il loro livello di specializzazione e com-
petenza sia sufficientemente garantito dalla qualità dei provider presenti sul
mercato. Tale fenomeno di esternalizzazione (altrimenti detto outsourcing) di
alcuni organi di staff, che coinvolge molte organizzazioni, indipendentemente
dal modello adottato, contribuisce in questo caso a rendere snella una struttura
funzionale eccessivamente specializzata.
L’organizzazione che ne deriva, pur mantenendo il principio dell’aggre-
gazione delle risorse secondo il principio della specializzazione per funzione, è
più facilmente sollecita agli stimoli ambientali, è una struttura funzionale dina-
mica, i cui caratteri sono rappresentati da: presenza di pochi livelli gerarchici
intermedi, che costituirebbero un inutile filtro tra il livello superiore e inferiore,
appesantendo i processi decisionali e di comunicazione; basso peso della tecno-
struttura, le cui attività sono distribuite tra manager di linea e nucleo operativo;
255
Lineamenti di organizzazione aziendale
ricorso all’outsourcing per alcuni staff di servizio, non strategici per l’organiz-
zazione; ampliamento delle modalità di coordinamento orizzontale 5, sia infor-
male che formale, quest’ultimo affidato a appositi organi di integrazione (comi-
tati, task force, manager di integrazione, ecc.) 6; presenza di principi di funzio-
namento che riproducano all’interno della struttura la logica dello scambio
cliente-fornitore e dei relativi parametri di valutazione delle performance, al po-
sto della catena del comando capo-collaboratore e del criterio del controllo at-
traverso la supervisione. Infine, come già accennato, lo snellimento della strut-
tura passa attraverso l’attuazione di politiche di riprogettazione delle mansioni
e di empowerment sulle risorse umane, affinchè il collaboratore, nell’ambito di
una mansione più ampia e meno formalizzata, disponga delle conoscenze, com-
petenze e deleghe decisionali idonee a svolgere con soddisfazione e successo le
attività assegnategli.
I modelli suesposti colgono i presupposti e le specificità del modello fun-
zionale, ma anche le peculiarità del contesto interno e esterno che determinano
la necessità di considerare il funzionamento dell’organizzazione specializzata
per input, in modo più articolato e contingente.
Un tipico esempio di forma funzionale dinamica si riscontra quando l’or-
ganizzazione modifica la struttura con l’inserirmento di un manager di integra-
zione per coordinare e gestire meglio il proprio business di riferimento.
5
“Per far fronte alle disfunzioni della forma funzionale, per renderla cioè più dinamica attraverso un maggior
coordinamento, si fa generalmente ricorso a meccanismi di relazione e cioè a manager integratori, a riunioni,
task force, task teams, comitati,....” Martinez, 2000, pag. 239.
6
Per una panoramica sugli organi di collegamento orizzontale (laterale) o trasversale si rinvia al relativo para-
grafo del cap.6 del presente volume.
256
Le forme a criterio unico
formale) relativa alle proprie attività; strutture con organi tecnici inseriti ac-
canto alle funzioni con una autorità formale, ma temporanei (strutture per pro-
getti); strutture funzionali affiancate da organi con autorità formale e duraturi
(strutture a matrice). In quest’ultimo caso, si esce dall’ambito tipico delle strut-
ture a criterio unico eviene altresì meno il principio dell’unità di comando.
Nel presente paragrafo ci soffermiamo sulla prima tipologia di strutture
funazionali modificate, rinviando al capitolo successivo la trattazione della
struttura per progetti e a matrice.
Quando l’organizzazione strutturata per funzioni decide di operare con
organi di integrazione, le funzioni continuano a presidiare le funzioni di loro
competenza, nonché le logiche di efficienza e di specializzazione. Nello specifico,
tale situazione si può presentare quando all’interno di una funzione che risulta
critica per il successo aziendale si inserisce un organo che può avere la respon-
sabilità di un prodotto o una linea di prodotti (product manager), un’area di
mercato o di canale distrubutivo o un gruppo di clienti (rispettivamente, market
manager e trade manager, account manager).
La figura più nota e diffusa in organizzazioni di questo tipo è quella del
product manager. Tale figura si colloca in posizioni diverse a seconda del ruolo
che svolge. Quando a tale organo è affidata la responsabilità delle politiche com-
merciali relative ad un prodotto o ad una tipologia di prodotti, esso è inserito
alle dipendenze della direzione commerciale: Al product manager sono pertanto
affidate le decisioni di comunicazione, promozione di prodotto e, molto spesso,
in collaborazione con la funzione commerciale, le decisioni di prezzo, di inno-
vazione relative ad prodotto o ad un gruppo di prodotti, pur non essendo dotato
di un’autorità gerarchica nei confronti dei resposanbili delle unità organizzative
con cui si interfaccia e dei loro collaboratori. Si tratta in tal caso di un organo
di integrazione sulle politiche di marketing operativo e la sua responsabilità de-
cisionale si circoscrive entro tale area di attività per il prodotto o i prodotti as-
segnati (Fig. 7.6).
257
Lineamenti di organizzazione aziendale
258
Le forme a criterio unico
259
Lineamenti di organizzazione aziendale
7
La strategia di diversificazione è una scelta strategica di ingresso in nuovi mercati con nuovi prodotti (Ansoff,
1957). Per strategia di diversificazione correlata si intende la scelta di diversificare d il proprio business in ambiti
competitivi simili da un punto di vista strategico e tecnico-economico economico. Al contrario, si ha una strategia
di di diversificazione non correlata quando l’organizzazione si estende in settori poco attinenti o privi di collega-
menti industriali o di mercato con quelli originari.
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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Le forme a criterio unico
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Lineamenti di organizzazione aziendale
Sono rinvenibili più forme divisionali, derivanti dalle variabili del modello
e dalle relative scelte di divisionalizzazione e decentramento su cui ci siamo sof-
fermati.
Con riferimento all’ambito della divisionalizzazione, cioè le scelte di foca-
lizzazione divisionale, si generano modelli in cui le divisioni possono essere so-
stanzialmente simili tra di loro o possono nettamente differenziarsi in termini di
output da conseguire.
Si hanno a tal proposito due principali forme divisionali. La prima è detta
a copia carbone (Fig. 7.9), una struttura in cui ogni divisione replica le altre. Si
tratta di una riproduzione su mercati diversi di una stessa formula, secondo un
criterio di divisionalizzazione per area geografica (Martinez, 2000) La ripeti-
zione della struttura in aree diverse va di pari passo con la proposta in più con-
testi di uno stesso prodotto o tipologia di prodotti. Siamo di fronte a processi di
espansione territoriale, spesso internazionale, dove l’azienda punta su un pro-
dotto o una gamma di prodotti di successo che si ritiene possa essere apprezzato,
senza sostanziali cambiamenti, nelle diverse aree di presenza. Il fatto che in cia-
scun territorio si ricostruisca “una copia finita” del modello, fa sì che le divisioni
abbiano una bassa interdipendenza tra di loro.
La seconda struttura alla quale si può fare riferimento quando si prende in con-
siderazione la divisionalizzazione è quella per unità di business (Fig. 10). In que-
sta struttura, ogni divisione costituisce una particolare combinazione pro-
dotto/mercato. Si tratta di un’articolazione coerente sia con strategie di diversi-
ficazione non correlata (ad esempio, divisione abbigliamento e divisione calza-
ture) che per strategie di diversificazione correlata (ad esempio, divisione filati e
divisione tessuti). Nel primo caso la struttura divisionale (chiamata anche M-
conglomerata) si caratterizza per una diversità di prodotti, derivanti da diverse
formule imprenditoriali, elevata autonomia delle singole divisioni e rare e gene-
riche interdipendenze tra di esse. In questo caso ogni divisione (Area Strategica
266
Le forme a criterio unico
Se si opta per una divisionalizzazione per unità di business, per meglio compren-
derne il funzionamento, diverrà opportuno analizzare anche i rapporti interdi-
visionali e i rapporti divisione- direzione generale. Prendeno a riferimento que-
ste due variabili è possibile classificare le strutture divisionali secondo quattro
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Lineamenti di organizzazione aziendale
8 Quando si adotta una strategia di diversificazione correlata all’interno di una stessa catena del valore accade
spesso che le divisioni sviluppino tra di esse delle interdipendenze di scambio di beni o servizi nell’ambito dei
processi di trasformazione. Questo comporta la necessità che siano stabiliti i prezzi dei prodotti/servizi che si
spostano da una divisione all’altra, in modo che nessuna divisione, nella realizzazione del profitto di cui è re-
sponsabile, risulti avvantaggiata da politiche di prezzo definite singolarmente.
268
Le forme a criterio unico
La forma pura della struttura divisionale è rappresentata dalla sua variante de-
centrata, in cui si applica il massimo grado di decentramento decisionale verti-
cale e dove ogni divisione opera in maniera autonoma rispetto alle altre dell’or-
ganizzazione. Le divisioni, in questa forma, raggiungono un alto grado di auto-
nomia e la direzione centrale funge da regia di controllo che vigila principal-
mente sul raggiungimento degli obiettivi economici da parte delle unità divisio-
nali. I meccanismi di coordinamento sono basati su regole di mercato e incentivi
di tipo economico, collegati a parametri economico-finanziari.
Questa forma divisionale si riscontra quando un’azienda, operante in un
ambiente con alto grado di incertezza e variabilità ambientale, deve gestire bu-
siness fra loro diversi e poco o per nulla correlati. Ciò spiega la pressoché totale
mancanza di interdipendenze operative tra le diverse divisioni.
L’autonomia delle divisioni può essere tale da comportare anche un’auto-
nomia giuridica delle unità, che diventano vere e proprie imprese. In tal caso si
hanno due tipologie di organizzazioni: i gruppi di imprese e le holding di im-
prese. Il gruppo di imprese rappresenta un involucro giuridico di una struttura
multidivisionale, volta a gestire in modo decentrato una pluralità di business
269
Lineamenti di organizzazione aziendale
Conclusioni
In questo capitolo sono stati analizzati alcuni criteri, caratteri e problemi orga-
nizzativi relativi a due specifiche strutture organizzative: la struttura funzionale
e la struttura divisionale. La prima configurazione trova la sua ragion d’essere
nel principio della specializzazione per funzioni ovvero sul raggruppamento in
una stessa unità organizzativa (la direzione funzionale) di attività simili da un
punto di vista tecnologico ed economico, per le quali sono richieste conoscenze
e competenze sostanzialmente omogenee. La struttura divisionale trova la sua
270
Le forme a criterio unico
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8 Le forme a criterio multiplo
di Mariacristina Bonti
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Lineamenti di organizzazione aziendale
Se fino ad ieri il successo aziendale era legato alla capacità di gestione delle at-
tività correnti al fine di conseguire elevati livelli di efficienza nella produzione e
l’ottimizzazione dell’organizzazione, oggi sempre più le aziende sono chiamate
a confrontarsi in un ambiente turbolento e complesso.
Ciò pone loro inevitabilmente di fronte ad un non semplice trade-off:
mantenere le proprie più tradizionali modalità di funzionamento, ma cercare
contemporaneamente di creare le condizioni per avviare modalità assoluta-
mente nuove e diverse. Cogliere la sfida di un contesto ambientale dinamico e
in continua evoluzione significa sviluppare la capacità di gestire due flussi di
attività paralleli. Da un lato, infatti, le aziende sono chiamate a gestire flussi di
attività e situazioni tendenzialmente stabili, note e di routine, in quanto stret-
tamente collegate al tradizionale svolgimento dei processi interni. Dall’altro,
esse sono chiamate a recepire le molteplici istanze di cambiamento e innova-
zione che provengono dal contesto ambientale, ricercando soluzioni e risposte
il più possibile tempestive ed efficaci, dando vita pertanto a flussi di attività
connotati da minore prevedibilità, standardizzazione e formalizzazione, quindi
maggiore complessità (Mercurio, Testa, 2000). In sostanza, mentre una parte
dell’organizzazione opera e continua ad operare in una logica di sostanziale
continuità, strettamente funzionale al conseguimento di obiettivi di efficienza,
un’altra opera in una logica di discontinuità, più o meno rilevante, predispo-
nendo condizioni destinate ad apportare alcuni cambiamenti che dovranno poi
essere introdotti e metabolizzati dalla prima, al fine di tradursi in nuove routi-
ne organizzative e regole di funzionamento. Quest’ultima parte
dell’organizzazione presenta pertanto elevati connotati di flessibilità, ma, si
può intuire, opera altresì quale “cuscinetto” rispetto alla prima (Thompson,
1967), filtrando e attenuando l’impatto dei cambiamenti nei confronti del si-
stema organizzativo (il c.d. nucleo tecnico), il quale può lavorare con continui-
tà e in modo prevedibile.
Questo trade-off tra stabilità e cambiamento, tra exploration ed exploita-
tion (March, 1991) (vedi capitolo I) non è certamente un’esigenza “nuova”: a
partire dalla concezione dell’organizzazione quale sistema aperto, le aziende si
sono sempre trovate ad “esplorare” nuove strade, per non vedere progressiva-
mente corrodere le basi del proprio vantaggio competitivo. Le forme organiz-
zative tradizionali ed ideal-tipiche non si prestano a questa duplice gestione: la
soluzione a questo “problema” organizzativo ha visto pertanto nel tempo lo
sviluppo di soluzioni organizzative alternative, idonee a “recuperare” questa
dimensione dell’innovazione. Tra queste, si può pensare all’introduzione di
1
Il presente paragrafo è frutto del lavoro congiunto di Mariacristina Bonti e Maria Zifaro.
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Le forme a criterio multiplo
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Le forme a criterio multiplo
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Il presente paragrafo è frutto del lavoro congiunto di Mariacristina Bonti e Maria Zifaro.
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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Le forme a criterio multiplo
Nella forma per progetto pura o forte, la struttura organizzativa vede in-
vece modificare il proprio assetto funzionale con l’introduzione di una o più
unità organizzative dedicate alla realizzazione del progetto. Le risorse necessa-
rie sono assegnate in maniera stabile, seppure per la durata del progetto, al
project manager, che viene quindi a gestire una specifica unità e ad esercitare
un’autorità gerarchica nei confronti dei componenti di un team di progetto. Si
può certamente intuire come questa scelta comporti una maggiore focalizza-
zione sul risultato/obiettivo e una maggiore concentrazione degli sforzi rispetto
a quanto accade nella forma debole.
Nella figura che segue (figura 8.2), le linee tratteggiate mettono in evi-
denza la provenienza delle risorse messe a disposizione del progetto A.
Nella forma per progetti forte, le risorse necessarie sono assegnate in
maniera stabile, seppure per la durata del progetto, al project manager, che
viene quindi a gestire una specifica unità e ad esercitare un’autorità gerarchica
nei confronti dei componenti di un team di progetto. Si può certamente intuire
come questa scelta comporti una maggiore focalizzazione sul risulta-
to/obiettivo e una maggiore concentrazione degli sforzi rispetto a quanto ac-
cade nella forma debole. Ciò si rende particolarmente importante in presenza
di progetti altamente innovativi, nei quali le relazioni di causa/effetto tra pro-
blemi e soluzioni non sono note, ridotta è l’analizzabilità dei problemi (difficile
quindi pensare di realizzare il coordinamento ricorrendo a piani e standard à
la Thompson) e numerose sono le eccezioni da fronteggiare (Perrow, 1967).
Comparativamente più elevato è pertanto il livello delle competenze coinvolte
(all’esperienza, devono affiancarsi l’intuizione, la scoperta di nuove proposte,
la capacità di sperimentazione), maggiore è la velocità con cui i problemi si
possono presentare e necessitano di essere affrontati. Il complesso di queste
condizioni motiva l’importanza della scelta di costituire gruppi di progetto ad
hoc, all’interno dei quali divengono possibili un’intensa interazione tra i com-
ponenti del team, intensi scambi di comunicazione, un coordinamento per mu-
tuo aggiustamento che se consente ampi margini di flessibilità, crea inevitabil-
mente possibili situazioni di ambiguità.
Gli specialisti funzionali possono essere assegnati al progetto part-time,
alternando momenti in cui lavorano per il progetto a momenti in cui svolgono
le loro attività tradizionali per le funzioni di appartenenza, più spesso a tempo
pieno, ritornando all’interno delle proprie funzioni al termine del progetto. Il
project manager si trova pertanto ad affiancare alla responsabilità di risultato
un’autorità piena, che si traduce in una situazione di dipendenza gerarchica
unica dei componenti del team nel caso in cui questi sono assegnati a tempo
pieno all’unità di progetto; in una situazione di duplice dipendenza gerarchica
non contemporanea qualora i componenti del team si trovino a lavorare in
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Lineamenti di organizzazione aziendale
parte all’interno delle funzioni (l’unità del comando farà riferimento al respon-
sabile funzionale), in parte all’interno del progetto (il comando sarà del capo
progetto).
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Le forme a criterio multiplo
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Lineamenti di organizzazione aziendale
8.2.2. Aspetti relazioni per la gestione per progetti: il ruolo del Project
Manager
4
Come rilevano Ondoli e Pilati (2018:27), le molteplici esigenze e situazioni legate alle diverse tipologie di pro-
getti, hanno favorito l’emergere di molteplici denominazioni diverse di questo ruolo. Se il termine project ma-
nager è certamente uno dei più utilizzati, diffusi sono anche altri, quali: program manager o director (respon-
sabile/direttore di programma), task force director (direttore del gruppo di specialisti), project leader (capo-
progetto), ad hoc committee chairman (presidente di comitato ad hoc), project coordinator (coordinatore di
progetti), project engineer (tecnico di progetto), project planner and controller (pianificatore e controllore del
progetto).
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Lineamenti di organizzazione aziendale
del personale, che può trovare nella struttura a matrice un contesto favorevole
allo sviluppo di competenze non solo tecniche, grazie soprattutto alla rotazio-
ne degli esperti funzionali, ma anche relazionali e gestionali: la ricerca del con-
senso nella presa delle decisioni, il confronto tra orientamenti diversi,
l’ampliamento degli orizzonti di valutazione in presenza di problemi,
un’elevata partecipazione alla soluzione di problemi spesso molto complessi, la
gestione delle diversità di orientamenti e di conflitti, la capacità di riconoscere
l’obiettivo comune come superiore al possibile interesse personale.
Anche il primo svantaggio scaturisce dalle stesse peculiarità della strut-
tura: la presenza di una duplice linea di autorità esprime un’esigenza di bilan-
ciamento che non può essere dato per scontato, ma deve essere quasi quotidia-
namente conquistato e confermato. Quando questo bilanciamento viene meno,
possono scatenarsi molteplici situazioni di conflitto istituzionalizzato. Alcuni
conflitti ripropongono contrasti tipici delle strutture funzionali e divisionale:
quelli interni tra i responsabili di funzione e tra i responsabili di divisione, per
lo più in occasione della allocazione delle risorse a loro destinate. Altri si pre-
sentano peculiari, come nel caso di conflitti reciproci tra i matrix boss: il ri-
schio è assistere ad un rallentamento del processo decisionale, alla “perdita di
tempo ed energie” per la ricerca di soluzioni di compromesso, al rinvio di pro-
blemi al vertice aziendale. In questi casi, il compito principale dei matrix boss
diviene accaparrarsi il sostegno da parte della direzione generale, chiamata ad
intervenire per dirimere tali situazioni di contrasto.
Possono infine scatenarsi conflitti di ruolo 5 (Padroni, 1979) in capo ai
two boss manager, quando le aspettative che convergono verso le proprie posi-
zioni si fanno poco chiare (ambiguità di ruolo) o risultano contraddittorie (oc-
cupazione simultanea di più ruoli), oppure quando vengono percepite richieste
5
I conflitti di ruolo si presentano come situazioni nelle quali un attore organizzativo, a prescindere dalla funzio-
ne svolta e dalla posizione formalmente ricoperta all’interno della gerarchia aziendale, sperimenta dentro di sé
condizioni di difficoltà, incertezza, persino disagio nell’interpretare il proprio ruolo, concepito non semplicemen-
te come una sommatoria di compiti ma anche come un insieme di aspettative che provengono da e vanno ver-
so l’intera organizzazione (Padroni, 1979). Queste situazioni di conflitto appaiono pertanto diverse da quelle,
forse più note, che si palesano all’interno di gruppo e tra gruppi: non siamo infatti in presenza di un contrasto
tra “fazioni” diverse, quanto piuttosto di uno stato psicologico, di un disagio emotivo che costituisce un freno
per l’attore nel riuscire a svolgere le proprie attività, ottenere le prestazioni attese, intese in senso lato. In linea
generale, tali situazioni di conflitto tendono ad emergere via via che le mansioni, i confini delle mansioni diven-
gono meno precisi, risultando difficile una univoca definizione (solitamente oggettiva, ex-ante e totalmente
esterna all’attore) di ciò che deve essere fatto e come deve essere fatto, mentre assumono comparativamente
maggiore rilevanza le dimensioni soggettive connesse appunto con la capacità di interpretare determinate si-
tuazioni e individuare i comportamenti più opportuni, per consentire risposte adeguate alle diverse circostanze.
Lasciando margini di manovra, valutazione e scelta agli attori, si riducono comparativamente le condizioni di
chiarezza e certezza (in termini di autorità, responsabilità, aspettative di comportamento da parte dell’azienda)
dei confini del contributo individuale ed, inevitabilmente, si vengono a creare aree di ambiguità. Per questo
motivo, non di rado i conflitti di ruolo vengono indicati come “il prezzo” che un’organizzazione si trova a dover
pagare in cambio della flessibilità. Sono tra le più frequenti cause dell’insorgere di situazioni di conflitto di ruolo
aspettative poco chiare o tra loro contrastanti, l’occupazione simultanea di più ruoli, l’inserimento di nuovi ruoli,
i cambiamenti di ruolo.
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Lineamenti di organizzazione aziendale
I vantaggi e limiti di questa forma non sono molto dissimili da quelli già esa-
minati. Si può in particolare sottolineare (Jones, 2007) come questa struttura
favorisca il trasferimento delle conoscenze, competenze ed esperienze tra le di-
verse aree geografiche e tra i diversi gruppi di prodotti, promuovendo oppor-
tunità di sviluppare e condividere miglioramenti nei prodotti stessi. L’esistenza
di molteplici punti di contatto tra i manager, a tutti i livelli, locali e internazio-
nali, rende possibile la diffusione dei valori, delle norme e dei principi propri
dell’azienda, che vengono adattati all’interno dei contesti nazionali, pur risul-
tando sempre riconducibili ad una matrice unitaria, quella corporate globale.
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9 L’organizzazione process-driven e il lean thinking
di Fabio Fraticelli e Maria Zifaro
9.1. Lean Thinking – 9.2. Lean Production – 9.3. Lean office – 9.4. Lean Thinking:
implicazioni sulla progettazione – 9.5. Dalla logica per funzioni all’orientamento ai
processi – 9.6. I processi organizzativi: definizioni, caratteri e tipologie – 9.7. Due
approcci verso un’organizzazione per processi – 9.7.1. L’approccio radicale - 9.7.2.
L’approccio moderato – 9.7.3. Una scelta ponderata – 9.8. Orientamento ai proces-
si: implicazioni sulla progettazione
301
Lineamenti di organizzazione aziendale
L’opera Lean thinking: banish waste and create wealth in your corporation
(Womack & Jones, 1996) è la prima in cui compare l’espressione “Lean Thin-
king”, unitamente ad una estesa descrizione dei principi che lo costituiscono.
Questa pubblicazione rappresenta la modellizzazione dei principi ispiratori del
Toyota Production System (d’ora in poi, TPS), messo in atto a partire dal se-
condo dopoguerra dall’azienda automobilistica giapponese Toyota, sotto la
guida del suo ingegnere capo Taiichi Ohno.
Il Lean Thinking può essere considerato anzitutto un “atteggiamento”
con il quale si osserva, si comprende e si progetta l’organizzazione. Non a caso
esso si sostanzia in cinque principi applicativi che consentono di individuare i
più diffusi sprechi presenti nelle organizzazioni e, conseguentemente, di ridurli
progressivamente fino ad eliminarli del tutto. Per un’organizzazione, “diventa-
re lean” significa dunque intraprendere un percorso di eliminazione degli spre-
chi con la finalità ultima di creare valore.
I cinque princìpi applicativi del Lean Thinking sono: value, value stream,
flow, pull, perfection. Di seguito forniremo una breve descrizione di ciascuno di
questi princìpi.
Il punto di partenza nella riduzione di qualsiasi spreco (in giapponese
muda) consiste nell’identificazione di cosa vada veramente prodotto. In altri
termini occorre stabilire cosa crei valore e cosa, invece, sia un inutile orpello.
La diretta conseguenza di questo approccio alla definizione del valore è capire
“per chi” sia da intendere questo valore. Dire che l’organizzazione genera va-
lore per il cliente finale e che è costantemente orientata a comprenderne e sod-
disfarne le esigenze è cosa piuttosto semplice. Riuscire invece a ripensare
l’organizzazione per fare in modo che questo accada è un’impresa completa-
mente differente. Non di rado, infatti, i desiderata del cliente finale vengono
piegati alle esigenze produttive e tecnologiche che, in un dato momento,
l’organizzazione si trova ad affrontare. In altri termini, esiste una serie di vin-
coli (spesso dettati dalle eredità di decisioni precedenti), che distorcono la defi-
nizione di valore e portano i manager a convenire sul fatto che i desideri del
cliente finale vadano soddisfatti in relazione a ciò che è possibile fare date le
conoscenze detenute e le possibilità offerte dagli impianti disponibili.
Le imprese snelle, invece, affrontano la questione del valore da una pro-
spettiva completamente diversa. Esse si chiedono quanti costi di produzione si
potrebbero evitare se si eliminassero tutti gli sprechi, ovvero fissano un target
cost in condizioni di produzione senza muda (l’assenza di spreco è un concetto
da valutare in senso assoluto ma anche, e soprattutto, in relazione al livello di
muda presente nei competitors). Val la pena far presente che le condizioni in
cui Ohno concettualizza la rilevanza del target cost sono quelle di un mercato
302
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
Il processo di identificazione del muda dei due tipi va fatto nell’intero sistema
di produzione del valore. Sotto questo profilo, è bene considerare che molte
persone, attraverso numerose fasi possono aggiungere (o sottrarre) valore al
cliente finale, sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione.
Un celebre esempio di value stream è offerto proprio da Womack e Jones nella descrizione del flusso
di valore di un cartone di Cola. Analizzando tutte le attività implicate nel processo, dall’estrazione del-
la bauxite fino all’imbottigliamento, alla conservazione sugli scaffali del supermercato ed al consumo
a casa, i ricercatori realizzano che a fronte di una durata totale di 319 giorni, si registra un tempo di
303
Lineamenti di organizzazione aziendale
lavorazione di sole 3 ore. Tutto il resto è muda, e solo una partnership tra tutti gli attori coinvolti nel
value stream può portare alla riduzione di questo spreco.
Un esempio evidente dell’impatto di una logica batch and queue nel rallentamento del flusso è facil-
mente individuabile se si ragiona sul modo ottimale di gestire il processo di imbustamento, indiriz-
zamento, chiusura, affrancamento e spedizione di una certa quantità di inviti ad un matrimonio. Se vi
trovaste a identificare il modo migliore di gestire questo flusso, probabilmente rispondereste che si
dovrebbero dapprima imbustare tutti gli inviti, per poi procedere con l’indirizzamento, la chiusura e
l’affrancatura degli stessi. In realtà, se ci si mette “nei panni dell’invito che vorrebbe essere spedito
nel modo più veloce e con il minimo sforzo”, la logica corretta sarebbe quella di imbustarlo, sigillarlo,
apporre l’indirizzo e quindi affrancarlo (nostra elaborazione da Womack & Jones, 1996).
Questo esempio, per quanto banale, descrive il modo con cui i reparti e le fun-
zioni operano quotidianamente nelle imprese “non lean”. Non si ragiona
sull’intero flusso delle attività che creano valore per un dato prodotto (o servi-
zio), ma si tende a parcellizzare il flusso in batch che restano in attesa della la-
vorazione successiva.
Sotto questo punto di vista, il grande passo in avanti di Taiichi Ohno e
del suo collega Shigeo Shingo è nel considerare che tutte le produzioni, anche
quelle in piccoli o piccolissimi lotti, possono seguire un flusso continuo (Shin-
go, 1981) e, dunque, non solo le grandi produzioni di massa à la Ford. In que-
sto caso, la sfida diventa - ad esempio - quella di miniaturizzare i macchinari
impiegati e minimizzare il loro riattrezzaggio, in modo tale che si possa rapi-
damente passare da un prodotto all’altro, mantenendo in un flusso continuo
l’oggetto della produzione nelle diverse fasi di lavorazione.
In questa ottica, la riduzione delle scorte è un passaggio essenziale per
“costringere” le organizzazioni a mantenere il flusso. Le scorte agiscono infatti
come l’acqua in un torrente, che - presente in grandi quantità - nasconde i
304
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
massi presenti sul fondo, e dà l’illusione che, al disotto della superficie, non ci
siano asperità e le barche possano viaggiare tranquille (Figura 9.1).
In realtà, non appena il livello dell’acqua scende, vengono a galla diversi massi
che rischiano di bloccare le imbarcazioni che si trovano a percorrere il fiume.
Nel fluire delle operazioni aziendali, questi massi sono ritardi nelle forniture
dei semilavorati, tempi di attrezzaggio dei macchinari, rilavorazioni e non con-
formità nei prodotti realizzati e tutti gli altri fattori che impediscono un veloce
scorrimento del flusso di lavoro. La riduzione delle scorte porta a galla questi
fattori, e ne consente una progressiva rimozione.
Nella visione di Womack e Jones, l’introduzione dei concetti di value
stream e flow non si limita esclusivamente a facilitare la riduzione di costosi
stock di prodotti o semilavorati, ma consente soprattutto alle organizzazioni
di dare ai propri clienti il potere di “tirare” il prodotto dall’azienda attraverso
il flusso. Pull è infatti il quarto principio applicativo del Lean Thinking e consi-
ste nel progettare, programmare e realizzare esattamente quello che il cliente
vuole, nel momento in cui lo vuole (facendo ciò di cui il cliente ha realmente
bisogno).
In una gestione rigorosamente pull, l'ingresso dei prodotti in produzione
non è anticipato rispetto agli ordini, perché la produzione è regolata “da val-
305
Lineamenti di organizzazione aziendale
le”. In una logica push, invece, al fine di garantire il tempo di consegna richie-
sto dal cliente (fattore esogeno a cui l’organizzazione deve sottostare, pena la
fuoriuscita dal mercato), l’organizzazione anticipa l’ingresso dei materiali in
fabbrica rispetto all’ordine stesso, in un processo di stima che - se scorretto -
genererà scorte (nelle diverse fasi di produzione) il cui effetto è quello di allun-
gare il cosiddetto lead time, cioè il tempo di attraversamento del processo pro-
duttivo, dall’ordine alla consegna al cliente.
Una volta che il valore è stato definito, il flusso di valore accuratamente
identificato (eliminando le attività inutili), il flusso garantito e una volta che ai
clienti è stata data la possibilità di “tirare” il flusso, le imprese si rendono conto
che potenzialmente non c’è fine al miglioramento. La perfezione è proprio il
quinto principio applicativo del Lean Thinking ed è la diretta conseguenza della
presa d’atto che i primi quattro principi applicativi interagiscono fra loro in un
circolo virtuoso. Man mano che il flusso di valore viene fatto scorrere più velo-
cemente, le aziende sono più confidenti nel dare ai propri clienti il potere di “ti-
rare” il prodotto. A questo punto, il contatto sempre più assiduo con il cliente
crea anche i presupposti per definire sempre più accuratamente il valore.
306
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
Nella cultura giapponese il termine “spreco” (muda) si carica di significati sociali ed etici molto forti,
paragonabili a quelli di “peccato” nella tradizione cattolica. È importante ricordare, infatti, che in una
società relativamente povera come quella giapponese di qualche decennio fa, lo spreco rappresenta
molto più di fattore trascurabile e connaturato al sistema economico-produttivo, come invece si ten-
deva a considerare in sistemi produttivi più opulenti, come quello americano nel post-guerra.
I sette tipi di spreco previsti nel TPS sono associati alle attività di: trasporto, immagazzinamento,
spostamento, attesa, nonché alle attività inutili, alla sovrapproduzione e ai difetti. Nel tempo, poi, ver-
rà introdotto un ottavo tipo di muda, individuato nel sottoutilizzo delle capacità personali.
Lungi dal poter trattare in maniera estesa il TPS in questo manuale, basti sa-
pere che si tratta di una vasta serie di principi di organizzazione e di strumenti
per la gestione della produzione (fra cui il just-in-time, JIT, e la metodologia
Kanban) ma anche - e soprattutto - una cultura organizzativa fortemente per-
meata di valori quali il rispetto per gli addetti ed un loro elevato coinvolgimen-
to nella risoluzione delle criticità riscontrate in fase di produzione.
307
Lineamenti di organizzazione aziendale
Il lavoro di Taiichi Ohno inizia negli anni ’50 con l’introduzione della
logica “a zero sprechi” nell’ambito della produzione di motori, per poi esten-
dersi negli anni ’60 all’assemblaggio delle auto e, negli anni ’70, all’intera sup-
ply chain. Solo in quest’ultimo stadio dello sviluppo Toyota produce i primi
manuali per i propri fornitori, rendendo pubbliche le componenti base del suo
approccio. Tuttavia, questi manuali sono scritti in giapponese, ed occorre al-
meno un’altra decade prima che vengano tradotti in inglese e diffusi al grande
pubblico internazionale (Hall, 1983; Monden, 1983; Ohno, 1988; Sandras,
1989; Schonberger, 1982; Shingo, 1981).
All’inizio degli anni ’80 si rende evidente che i principi del TPS spiegano
gran parte del gap “a parti rovesciate” che - nel frattempo - si origina
nell’industria automobilistica mondiale: i produttori giapponesi (Toyota in te-
sta) guadagnano enormi quote di mercato, e la loro offerta conquista il merca-
to americano a discapito dei produttori nazionali. Proprio questa tendenza
spinge lo sviluppo di un intenso programma di ricerca guidato da tre studiosi
del MIT di Boston (James Womack e Daniel Jones, con il contributo di Daniel
Roos) che culminerà nel 1990 con la pubblicazione del volume intitolato “The
Machine that Changed the World” (Womack, Jones, & Roos, 1990) nel quale
la rassegna delle caratteristiche del TPS culmina in una sintesi concettuale che
prende il nome di “Lean Production” (o “lean manufacturing”).
Lean Production è pertanto una descrizione sistematica del funziona-
mento del sistema di produzione automobilistica giapponese (a livello fabbrica
e filiera) e diventa una pietra miliare nella diffusione di pratiche di produzione
incentrate sulla riduzione degli sprechi, perché per la prima volta gli autori so-
stengono che il modello organizzativo e le pratiche che supportano la Lean
Production possano essere trasferite in sistemi economici diversi da quello
giapponese.
L’intero corpus concettuale che oggi viene sintetizzato con l’espressione
Lean Production è pertanto da intendersi come modellizzazione teorica di
quanto osservato empiricamente nella filiera produttiva automobilistica giap-
ponese: Lean Production è il modo con cui in Occidente si descrive (e si trasfe-
risce) l’approccio vincente sperimentato in Giappone.
Nonostante la semplicità dell’intuizione fondamentale su cui è stata svi-
luppata, la Lean Production è considerata un modello rivoluzionario. Tramite
il suo modello, infatti, Toyota ha introdotto nel mondo un nuovo modo di
pensare all’organizzazione della produzione. Come è stato osservato di recente
, “Toyota è efficace nell’integrare persone, processi e tecnologie con progetti di
sviluppo dei prodotti altamente specializzati, a supporto di piani strategici a
lungo termine” (Attolico, 2012: IX).
La Lean Production si basa su un approccio orientato al lungo periodo e
di investimento nel futuro; tali fondamenti hanno permesso l’organizzazione di
308
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
processi efficaci e orientati alla qualità fino dalla fase di progettazione, lungo
tutto il ciclo produttivo, nonché per lo sviluppo delle abilità e delle conoscenze
di collaboratori interni e partner esterni Questui dovevano essere in grado di
risolvere problemi in modo rigoroso e di trasformare quanto appreso in una
base di conoscenza utile ad essere utilizzata in futuro. Pertanto, “Lean” può
essere interpretato come un orientamento strategico, non come semplice rispo-
sta ad uno specifico problema legato all’organizzazione della produzione
(Hayes & Pisano, 1994).
309
Lineamenti di organizzazione aziendale
Uno di tipi di spreco più diffusi in ufficio riguarda i file digitali e nel loro trasferimento. Quando si par-
la di muda rintracciabile nei trasferimenti documentali, infatti, non si fa solo riferimento ai trasferi-
menti fisici. Ogni volta che un file viene riprodotto in diverse versioni o copie, multiple e diverse del
lavoro, che devono essere riconciliate, potenzialmente si sta generando dello spreco: spesso non si
conosce l’ultima versione del file, oppure versioni diverse contengono differenze (seppur piccole) che
richiedono un lavoro di comparazione fra le versioni. Questo tipo di muda genera tipicamente altri tipi
di sprechi, come la sovrapproduzione e rilavorazione.
310
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
311
Lineamenti di organizzazione aziendale
dei valori che danno origine alla sua cultura. Utilizzando la lente del Lean
Thinking, nel prossimo paragrafo capiremo più nel dettaglio cosa significa co-
struire una “Lean Company”.
I principi del Lean Thinking prevedono che solo la completa cancellazione de-
gli sprechi può generare un sistema produttivo in grado di rispondere veloce-
mente al cambiamento (Holweg, 2007).
Una delle prime implicazioni a livello operativo è che in un’impresa snel-
la si cerca il più possibile di concentrare il maggior numero di addetti
nell’esecuzione di attività direttamente creatrici di valore. La diretta conse-
guenza di questa tendenza è che le attività ritenute “non a valore aggiunto”
non dovrebbero trovare spazio nella progettazione dei flussi di lavoro e nella
corrispondente organizzazione del lavoro. Ciò evidentemente pone problemi di
riqualificazione e riallocazione, quando possibile, della forza lavoro preceden-
temente impiegata in quelle attività.
In una visione tradizionale d’impresa, infatti, gli addetti delle diverse
funzioni tendono ad immaginare dei percorsi di carriera che si articolano den-
tro la funzione a cui fanno capo. In altre parole, l’autonomia di un addetto “in
carriera” tende ad aumentare con l’anzianità di servizio, così come la propria
retribuzione e l’ampiezza del controllo sui suoi collaboratori, ma in un’ottica
“interna” alla funzione, sia essa la progettazione, le vendite, la programmazio-
ne, la contabilità, etc.
Quando un individuo viene assegnato per la maggior parte del suo tem-
po ad un team di prodotto, ha l’opportunità di capire con maggiore chiarezza
qual è l’impatto delle proprie attività nel flusso di valore, ma tende a percepire
in maniera più confusa le proprie possibilità di carriera.
Inoltre, nel medio periodo, le imprese snelle rischiano di incorrere in
quello che è conosciuto come problema “dell’ingegnere generalista”, ovvero di
una complessiva riduzione delle competenze specialistiche che, invece, vengono
fortemente sviluppate in un’impresa organizzata per funzioni.
Per attenuare questo rischio, le imprese che adottano il Lean Thinking
devono introdurre meccanismi che tengano l’individuo “a stretto contatto con
il flusso di lavoro”, dandogli al contempo la possibilità di sviluppare le proprie
competenze specialistiche.
Sotto questo profilo, l’adozione di un paradigma lean ha una prima im-
plicazione in termini di progettazione organizzativa, in particolare sulla co-
struzione di percorsi di sviluppo professionale basati sulle cosiddette “carriere
alternative”, ovvero su percorsi nei quali l’individuo alterna fasi di presenza
312
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
nel team di prodotto (o servizio) a fasi “in funzione” nelle quali può arricchire
la propria dotazione di competenze specialistiche.
Un’impresa snella tende progressivamente ad attenuare l’idea tradizio-
nale di carriera come avvicinamento progressivo alle posizioni di vertice (e
contestuale aumento del numero di soggetti coordinati), perché si ritiene che
questa impostazione non aggiunga alcun beneficio al flusso di valore. Al con-
trario, resta valida l’idea di un percorso di carriera basato sull’acquisizione di
nuove competenze, applicate a problemi, spesso caratterizzati da bassa analiz-
zabilità, per i quali non si dispone a priori di un repertorio di soluzioni già spe-
rimentate. L’approccio di un’impresa snella allo sviluppo delle carriere può es-
sere letto prevalentemente come un progressivo arricchimento della mansione,
che ha come esito l’attenuazione del potere delle gerarchie funzionali in favore
dei team adibiti alla gestione del processo.
Come noto, l’arricchimento delle mansioni consiste nel conferire gradi di
discrezionalità crescenti a soggetti incaricati di svolgere una determinata attivi-
tà da svolgere, in virtù di un percorso di formazione ed esperienza che aumen-
ta la consapevolezza e la visione d’insieme con la quale un soggetto affronta il
proprio lavoro. L’arricchimento della mansione si affianca al suo allargamen-
to, ovvero all’incremento nel tempo del numero o dell’ampiezza di compiti
svolti da un unico soggetto.
Mentre in una organizzazione tradizionale l’arricchimento e
l’allargamento della mansione rappresentano due tecniche di job design tese a
mitigare gli effetti negativi di una progettazione “taylorista” delle mansioni
impostata ripartendo scientificamente i carichi di lavoro fra i diversi individui
al fine di ridurre i tempi di apprendimento dei lavoratori, aumentare la loro
capacità nella esecuzione degli stessi e ridurre i costi di produzione, in una pro-
spettiva lean l’arricchimento e l’allargamento delle mansioni rappresentano
spesso l’esito naturale di un’alternanza degli individui fra team di prodotto e
funzioni.
La nuova concezione di carriere professionali, figlia del contributo di
ciascuno allo sviluppo di un’impresa lean, ha importanti implicazioni nel ruolo
assegnato alle funzioni. Infatti, se un’impresa snella canalizza il flusso di valo-
re, le funzioni perdono molti dei loro attuali compiti. Attività come gli acqui-
sti, la produzione ed il controllo qualità vengono di frequente spostati dalle
funzioni ai team di prodotto, ed agli specialisti funzionali viene richiesto di
pensare al futuro, ovvero di agire come centri di ricerca e sviluppo focalizzati
sul proprio ambito di attività.
Nell'impresa snella, dunque, le funzioni fungono innanzitutto da “scuo-
le” che riassumono sistematicamente le conoscenze generate collettivamente
dall’organizzazione, mentre esplorano nuove pratiche e insegnano tutto questo
313
Lineamenti di organizzazione aziendale
agli addetti che verranno coinvolti nei vari team di prodotto, il cui scopo pri-
mario è la creazione di valore. Inoltre, le funzioni hanno il compito di svilup-
pare linee-guida e best practice che consentiranno lo sviluppo dell’impresa nel
medio periodo (ad esempio, in un’impresa snella il ruolo della funzione acqui-
sti è quello di trovare modalità efficaci per individuare fornitori in grado di
aiutare l’organizzazione a generare valore nel medio periodo).
L’attenzione ai percorsi di carriera alternativi e la concezione di funzioni
come scuole portano inevitabilmente a domandarsi cosa diventino le imprese
che adottano il Lean Thinking per impostare le proprie attività, o – in altri
termini – quale sia l’essenza di una Lean Company.
Gli obiettivi di un’impresa snella sono fondamentalmente quattro. In-
nanzitutto, essa deve specificare correttamente il valore per il cliente, evitando
che ci siano definizioni diverse fra le diverse aziende situate lungo il flusso (ti-
picamente il produttore ritiene che il prodotto rappresenti l’interesse primario
del cliente, mentre l’organizzazione che si occupa di commercializzazione si fo-
calizza sulle relazioni intrattenute con lui). In secondo luogo, deve favorire
l’identificazione di tutte le attività che compongono il flusso di attività a valore
aggiunto. Quindi, deve facilitare la rimozione di tutte le attività che non gene-
rano valore nell’intero flusso. Infine, l’impresa snella ha il compito di reiterare
questo ciclo di azioni in una ottica di miglioramento continuo.
È il flusso di valore che definisce una impresa snella, non l’insieme di as-
set che - mediante contratti - vengono ricondotti ad una medesima “proprietà”
(Womack & Jones, 1994). In altre parole, l’impresa snella può attraversare i
tradizionali confini delle aziende che sono situate lungo il flusso di valore e
che, mediante le proprie funzioni, hanno proprio il compito di facilitare lo
scorrimento dello stesso.
All’interno di questa rinnovata concezione di impresa (e, più in generale,
del compito del management), si ipotizza anche la creazione di una funzione di
promozione del pensiero snello (Womack & Jones, 1994). Questa funzione ha
lo scopo precipuo di formare i soggetti impegnati nella transizione dell’impresa
da un modello tradizionale ad un approccio lean, iniziando dalla diffusione di
una terminologia omogenea all’interno dell’organizzazione e dalla promozione
di momenti nei quali i responsabili delle attività operative possano verificare
periodicamente i progressi realizzati.
Al netto di queste considerazioni, è importante tenere presente che una
lean company deve abbracciare in modo convinto un nuovo codice di compor-
tamento, finalizzato ad attenuare alla base i pregiudizi che minano lo sviluppo
di un’impresa snella. Il pensiero snello costringe ad un sostanziale ripensamen-
to di quale sia il ruolo dei soggetti afferenti alle diverse funzioni aziendali:
l’eliminazione integrale dei muda porterebbe infatti alla soppressione di tutte le
figure impegnate nell’esecuzione di attività che non creano valore (a partire da
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L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
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Lineamenti di organizzazione aziendale
1
Come già detto nei capitoli sulla progettazione della macrostruttura, una funzione rappresenta l’insieme di
risorse, materiali e immateriali, aggregate per realizzare attività che presentano una stessa natura.
316
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
A partire dagli anni ’80 del secolo scorso nella letteratura manageriale e orga-
nizzativa si susseguono numerose definizioni di processo che, pur caratterizza-
te da differenti sfumature, condividono alcuni elementi fondamentali 2.
2
Pall (1987: 73) considera il processo come “l’organizzazione logica di persone, materiali, energia, attrezzatu-
re e procedure in attività di lavoro al fine di produrre un ben definito risultato finale”, mentre Melan (1992: 67) lo
317
Lineamenti di organizzazione aziendale
definisce come “work-flow ossia un gruppo circoscritto di attività interrelate che forniscono un output di maggior
valore degli input utilizzati nell’attività di trasformazione”. Secondo un’accezione più ampia “un processo di bu-
siness è una serie di passi per realizzare un prodotto o fornire un servizio” (Brache e Rummler, 1990: 50), o,
similmente “una serie di attività che hanno un input, aggiungono valore ad esso e realizzano un output” (Har-
rington, 1990: 32). Una terza prospettiva enfatizza il ruolo dell’orientamento ai processi nella produzione di
valore per il cliente. In questa ottica Hammer (1995: 82) sostiene che “il processo è un insieme di attività che
utilizzano uno o più tipi di input e crea un output che ha valore per il cliente”, Scheer (1993: 26) afferma “il pro-
cesso è costituito da una serie di relazioni cliente-fornitore che produce un ben definito risultato in un determi-
nato processo”; Johansson, Mchugh, Pendlebury e Wheeler (1994: 59) affermano che “la trasformazione che
avviene (…) dovrebbe aggiungere valore all’input e generare un output che sia maggiormente utile ed efficace
per il destinatario, sia esso a monte o a valle”; infine, Armistead e Rowland (1996: 39) sostengono che: “i pro-
cessi formano delle reti in cui le attività di un certo processo servono ad aggiungere valore agli input derivati
dal processo precedente”.
318
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
RISORSE
VINCOLI
È importante che gli obiettivi del singolo processo siano misurabili attraverso
indicatori di performance quantitativi e qualitativi che valutino le condizioni
di efficienza ed efficacia in cui esso è svolto.
Come anticipato, un processo è composto da più attività che sono colle-
gate tra loro. Ogni attività è caratterizzata da un costo, un tempo di svolgi-
mento, un certo livello di qualità dell’output. Se questi tre elementi sono valu-
tati per tutte le attività che compongono un processo otteniamo una misura
dell’efficacia e dell’efficienza con cui si svolge il processo stesso.
In un’ottica di processo è importante riuscire a distinguere tra attività
che agli occhi dei clienti creano valore per il prodotto/servizio (attività “a valo-
re aggiunto”), e attività che, sempre agli occhi del cliente, non concorrono alla
produzione del valore dell’output attività “a valore aggiunto” o “a non valore
aggiunto”. Questo in modo tale da cercare di comprimere tempi e costi delle
attività che non sono decisive nel processo di creazione del valore.
I principali caratteri di un’organizzazione process driven possono essere
così individuati:
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
321
Lineamenti di organizzazione aziendale
Il diagramma di flusso (Figura 9.4), chiamato anche flow chart, è un grafo in cui
i nodi rappresentano le attività e archi orientati secondo la sequenza cronologi-
ca. Le diverse forme geometriche dei blocchi rappresentano le diverse attività.
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L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
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Lineamenti di organizzazione aziendale
gono spesso riuniti in capo a singoli addetti o team di lavoro, in maniera non
dissimile dalle pratiche di arricchimento.
L’attuazione del BPR ha in genere come conseguenze un appiattimento
della struttura gerarchica e l’intensificazione del ricorso a gruppi di lavoro in-
terfunzionali dove a compiti di esecuzione si sommano compiti di valutazione
e controllo, con l’attribuzione al team della responsabilità diretta dei risultati
conseguiti.
Ripensare da zero l’azienda significa scomporla nei suoi processi-chiave
che vengono disegnati con un costante riferimento al cliente e attraverso il
confronto con le esperienze realizzate da altre aziende, nella logica di bench-
marking. La struttura organizzativa non è assunta come vincolo, in quanto
tutto è messo in discussione ed il cambiamento può avere contestualmente ad
oggetto struttura, meccanismi operativi e cultura aziendale, determinando un
fabbisogno anche rilevante di nuovi ruoli e nuove competenze. Ogni attività e
operazione deve essere rivista partendo da un “foglio bianco”.
Il cambiamento può avere altresì ad oggetto le modalità di interazione e
relazione con fornitori e clienti, soprattutto se essi sono coinvolti nella realiz-
zazione di un determinato progetto o nell’ideazione di un nuovo prodotto
(Racheli e Perrone, 1995). Per questi motivi il BPR difficilmente può attuarsi
con successo in tempi brevi e non è possibile individuare una one best way.
Le logiche di riprogettazione aziendale alla base delle tecniche di BPR
conducono dunque ad una nuova struttura organizzativa in cui emergono tre
elementi (Ceppatelli, 2000):
326
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
I progetti BPR realizzati dai consulenti di Berenschot hanno riportato i seguenti risultati:
98% affidabilità nella consegna
70% riduzione dei tempi di consegna degli ordini
60% di riduzione del livello di rimanenze
50% di riduzione di manodopera indiretta
25% di aumento dei ricavi
Fonte: nostra rielaborazione da Berenschot (2018)
327
Lineamenti di organizzazione aziendale
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L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
BPI BPR
Grado di cambiamento Incrementale Radicale
Punto di partenza Attuale processo Foglio bianco
Frequenza Continuo One time
Tempo di realizzazione Breve periodo Medio periodo
Coinvolgimento Bottom-up Top-down
Dimensione intervento Funzionale Interfunzionale
Rischio Moderato Alto
Abilitatore principale Misure, strumenti Tecnologia informatica
Tipologia di cambiamento Procedurale Culturale
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Lineamenti di organizzazione aziendale
330
L'organizzazione process-driven e il lean-thinking
è lasciata ampia autonomia nella gestione delle rispettive risorse in una logica
di supporto e collaborazione con i responsabili di processo.
Nel secondo caso, che prevede il mantenimento di una forma funzionale
di macrostruttura, la tradizionale articolazione per funzioni, e delle funzioni,
coesiste con l’organizzazione per processi. Per questo motivo al process owner
non può essere assegnata un’autorità “piena” sul processo; in questo caso egli
rappresenta soprattutto una figura di coordinamento tra le varie funzioni
coinvolte con l’obiettivo di favorire la creazione di valore lungo il processo. Vi
è un’attenzione bilanciata al fronteggiamento delle interdipendenze di flusso e
a quelle di costo. Questa forma strutturale di norma è il risultato di un approc-
cio moderato all’organizzazione per processi, che punta sulla modifica e
l’integrazione delle strutture esistenti.
Alla luce di quanto appena detto, le implicazioni in termini di progetta-
zione organizzativa dell’adozione della logica per processi variano a seconda
dell’effettivo orientamento e del contenuto del cambiamento, cioè della distan-
za tra l’attuale configurazione dei processi (as is) e di quella che si intende rea-
lizzare (to be).
In generale, l’adozione di un orientamento ai processi può determinare
la necessità di “mettere mano” all’articolazione della macrostruttura, alla con-
figurazione dell’organizzazione del lavoro, così come l’opportunità di perse-
guire un diverso bilanciamento tra modalità gerarchiche e non gerarchiche di
coordinamento e controllo.
Per quanto riguarda l’articolazione verticale della struttura organizzati-
va aziendale, la riduzione del numero dei livelli gerarchici, pur non essendo ne-
cessariamente collegata ad una riorganizzazione nell’ottica di processo, è in
grado di favorirla e sostenerla, soprattutto se originata da processi di arric-
chimento delle mansioni e quindi di ampliamento dei margini di discrezionalità
degli addetti.
La modifica dell’articolazione orizzontale può consistere
nell’accorpamento di alcune unità funzionali, in modo da ridurre il fabbisogno
di coordinamento a monte. Storicamente, un esempio ricorrente è dato dalla
costituzione della funzione logistica, come risultato dell’aggregazione di unità
dedicate alla gestione dei magazzini (materiali, componenti, semilavorati e
prodotti finiti), ai trasporti interni, alla progettazione del layout degli stabili-
menti, e via dicendo.
Per ciò che concerne l’organizzazione del lavoro, per poter valutare
l’entità dei cambiamenti necessari a supporto dell’organizzazione per processi
è necessario considerare:
331
Lineamenti di organizzazione aziendale
Tra gli interventi più frequenti, in tema di organizzazione del lavoro, vi è il po-
tenziamento del ruolo dei team di lavoro (si veda il capitolo 5). In particolare,
la costituzione di team interfunzionali può giocare un ruolo fondamentale ri-
guardo alla possibilità di gestire l’interdipendenza reciproca attraverso forme
di coordinamento non gerarchiche focalizzate sul mutuo adattamento e facili-
tate dall’identificazione con il team di appartenenza e da relazioni ispirate alla
fiducia reciproca. La logica del teamwork consente altresì di sviluppare com-
petenze condivise e di rendere più efficaci i flussi di informazione.
A livello individuale, l’adozione di un approccio per processi può rende-
re opportuno, se non necessario, adeguare capacità e attitudini delle persone
coinvolte, al fine di rafforzare l’efficacia del coordinamento lungo il processo e
stimolare iniziative di miglioramento dal basso. Questo è vero in particolare
allorché, coesistendo funzioni e processi, tanto ai manager funzionali quanto
ai manager di processo è richiesto di rafforzare capacità di coordinamento re-
ciproco, di negoziazione, ma soprattutto di sviluppare la necessaria attitudine
a condividere l’autorità ed a gestire congiuntamente le attività operative azien-
dali.
332
10 La progettazione organizzativa nella piccola
e media impresa
di Sara Sassetti e Mariacristina Bonti
10.1. La dimensione: una variabile poliedrica – 10.1.1. La dimensione nella teoria or-
ganizzativa – 10.1.2. La progettazione nell’azienda “minore” – 10.2. Le caratteristi-
che della struttura elementare – 10.2.1. La dimensione interna della struttura elemen-
tare: il grado di accentramento decisionale – 10.2.2. La dimensione esterna della strut-
tura elementare: la scelta del network organizzativo – 10.3. Le configurazioni della
struttura elementare – 10.3.1. La struttura elementare gerarchico-imprenditoriale –
10.3.2. La forma artigiana – 10.3.3. Il gruppo di pari – 10.3.4. Il distretto
333
Lineamenti di organizzazione aziendale
L’analisi sinora svolta ha messo in evidenza quelli che sono due tra i principali
fattori che influenzano le scelte di progettazione organizzativa: le strategie e la
dimensione. Tali fattori possono operare separatamente, spesso tuttavia agi-
scono in maniera combinata, incrementando la complessità organizzativa da ge-
stire.
Focalizzando l’attenzione sul secondo, abbiamo visto in generale come la
problematica organizzativa tenda a palesarsi solo quando l’azienda raggiunge
di una “certa” dimensione, non quantificabile con precisione a priori: accanto a
quella finanziaria ed economica, si rende necessario mettere mano anche alla
questione organizzativa, individuando un possibile “ordine” per lo svolgimento
delle diverse attività, insieme ad adeguate condizioni di funzionamento per il
sistema aziendale.
Ma cosa si intende per dimensione? E a quale dimensione intendiamo fare
riferimento? Sono queste domande alle quali non è possibile dare una risposta
univoca: la questione dimensionale costituisce ancora uno dei temi caldi all’in-
terno del dibattito scientifico.
Di norma, la dimensione aziendale viene individuata facendo riferimento
ad un set di parametri, che possono essere di natura economica (volume di fat-
turato, valore aggiunto); patrimoniale (capitale investito, capitale fisso, capitale
circolante, capitale proprio); tecnica (potenzialità impianti, numerosità unità
produttive, quantità prodotti); organizzativa (numero addetti, numero livelli di-
rettivi, esecutivi).
Questi parametri vengono utilizzati per distinguere “classi” diverse di
aziende, in particolare per identificare l’universo delle piccole o delle medie im-
prese: è con riferimento a queste aziende, che costituiscono come noto la spina
dorsale del nostro sistema economico, che la questione dimensionale sembra as-
sumere maggiore rilevanza.
Non di rado, il fatto che siano “piccole”, con un organico formato da un
numero ridotto di dipendenti, induce a pensare che la problematica insieme ge-
stionale ed organizzativa sia nel complesso semplice e possa essere considerata
una “variazione di scala” di quella riscontrabile nelle aziende di grande dimen-
sione. In realtà, più che al numero degli elementi, fattori, variabili da pren-
dere/non prendere in considerazione, occorre prestare attenzione soprattutto
alle capacità di assicurare una loro efficiente ed efficace gestione. Non è detto
quindi che la problematica gestionale ed organizzativa delle piccole e medie im-
prese sia “per definizione” caratterizzata da un livello di complessità inferiore
rispetto alla grande impresa (Padroni, 2008): la mancanza di più solide basi di
1
Di Mariacristina Bonti.
334
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
337
Lineamenti di organizzazione aziendale
Il modello analitico di Chandler trova la sua originaria elaborazione in relazione all’analisi storica delle
grandi imprese statunitensi (come Dupont e General Motors), anche se riscontri e conferme sono
derivate da analoghe ricerche condotte successivamente in vari paesi europei. Il percorso strategico-
organizzativo (Coda, 1973) seguito delle imprese si articola in quattro tappe: una strategia mono-pro-
dotto, caratterizzata da un’espansione del volume di produzione in un solo ramo di attività ed in una
limitata area geografica, e una struttura organizzativa elementare, imperniata su un solo centro deci-
sore; una strategia incentrata su una linea articolata di prodotti, con allargamento dell’area geografica
di azione, e una struttura organizzativa funzionale, articolata in unità centrali e periferiche, con caratte-
ristiche sostanzialmente meccaniche; una strategia di integrazione verticale ed una struttura organiz-
zativa burocratico-funzionale a line e staff; infine, una strategia di diversificazione, con linee di prodotto
anche non correlati tra loro per aspetti tecnologici e di mercato ed una espansione territoriale nazionale
ed internazionale, e una struttura organizzativa multi divisionale, per prodotto o area geografica.
L’evolversi degli indirizzi strategici e delle condizioni di sviluppo è seguito pertanto da adeguamenti
della forma organizzativa, come conseguenza di un’accresciuta complessità insieme gestionale e ope-
rativa che impatta sulle dimensioni complessive dell’impresa. Tuttavia, questa evoluzione non ha ri-
svolti solo di ordine organizzativo e tecnico: la crescita, comporta infatti anche la necessità di elaborare
nuovi metodi e logiche gestionali e di definire diversi assetti relazionali e di potere.
338
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
Verso la fine degli anni ’60, un gruppo di studiosi inglesi guidati da Pugh e Hickson dell’Università di
Aston, Birmingham, proseguendo e perfezionando una ricerca condotta presso l’Università di Chicago,
portò in evidenza una forte varianza delle caratteristiche strutturali spiegabile soprattutto con la dimen-
sione. Il programma di ricerca, articolato in più ricerche successive, si propone, in base ad un approc-
cio di tipo induttivo e all’utilizzo di tecniche di indagine ed elaborazioni di tipo statistico, di verificare se
esistono principi generali di organizzazione dotati di validità per tutte le realtà aziendali, come suggerito
dalla visione classica della one best way, oppure se è il contesto a determinare la struttura organizzativa
più appropriata per ogni singola azienda. Il primo studio prende in esame un campione di 52 imprese,
successivamente estese a quasi 200, appartenenti a settori diversi, con un numero di dipendenti su-
periore alle 150 unità di personale. Il contesto viene operazionalizzato ricorrendo ad una serie di varia-
bili indipendenti quali: l’origine e la storia aziendale, la proprietà e il controllo, le dimensioni aziendali,
l’oggetto (scopi statutari), la tecnologia produttiva, la localizzazione geografica, le interdipendenze. La
struttura organizzativa, a sua volta, viene misurata in un primo momento in relazione a sei variabili
strutturali – specializzazione, standardizzazione, standardizzazione delle pratiche di impiego, formaliz-
zazione, centralizzazione, configurazione –, successivamente ricondotte a quattro fattori di base in
grado di descrivere e qualificare qualsiasi struttura organizzativa: strutturazione delle attività, accen-
tramento dell’autorità nell’assunzione delle decisioni, controllo gerarchico sul flusso di lavoro contrap-
posto al controllo quantitativo basato su procedure impersonali, dimensione relativa della componente
di staff. I risultati conseguiti, mediante analisi fattoriale, evidenziano che alcuni caratteri della struttura
organizzativa – in particolare i primi tre, ritenuti più significativi – sono correlati positivamente con le
339
Lineamenti di organizzazione aziendale
Le indagini del gruppo di Aston, lungo tutto il programma di ricerca, non rie-
scono tuttavia a pervenire a risultati univoci, circostanza che apre il fianco a
molteplici critiche in merito all’esistenza di una relazione causale fra dimensione
(espressa in termini di addetti) e caratteristiche strutturali. Tra gli stessi ricerca-
tori, emergono divergenze nell’interpretazione dello schema di analisi adottato,
dal momento che vengono rilevate possibilità di relazioni inverse tra “centraliz-
zazione” e “specializzazione, standardizzazione, formalizzazione” (Maggi,
2001), che contraddicono la relazione dimensione – struttura, ma anche la ca-
pacità esplicativa della prima (Pugh, Hickson, Hinings et alii, 1963, 1968; Child,
1972).
Nonostante i limiti di queste ricerche e le critiche loro rivolte, non si può
negare come esse abbiano contribuito a mettere sotto le lenti di analisi le aziende
di minore dimensione, al fine di meglio comprendere le loro peculiarità, aprendo
altresì la strada ad un filone innovativo di studi e di ricerche.
340
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
ruoli: proprietario, in quanto apporta i capitali, vertice aziendale, colui che de-
tiene le prerogative decisionali e opera le scelte, prestatore d’opera, dal mo-
mento che è direttamente coinvolto (sovente perché lo vuole) nei processi ope-
rativo-esecutivi (Preti, 1996b, 2011).
Questa sovrapposizione di ruoli, occorre riconoscerlo, è certamente posi-
tiva al momento della nascita dell’azienda e nel periodo del suo primo sviluppo.
L’essere proprietario e al contempo manager introduce un interesse proprio e
personale che produce energie positive, impegno, dedizione, coinvolgimento di-
retto indubbiamente utili a sostenere il successo aziendale. L’essere prestatore
di lavoro favorisce l’instaurarsi di intense relazioni interpersonali, l’ampia dif-
fusione delle informazioni, la puntuale trasmissione di idee e indicazioni di com-
portamento. Si possono tuttavia generare possibili ambiguità, nel momento in
cui il coinvolgimento operativo tende ad attenuare la percezione della linea ge-
rarchica e diventa quasi intromissione nel lavoro altrui o parziale disconosci-
mento dell’esistenza di specifici ambiti lavorativi di pertinenza altrui; la visione
d’insieme e la concentrazione delle scelte si traducono in un freno al riconosci-
mento di capacità decisionali e gestionali dei collaboratori, la familiarità delle
relazioni, il rapporto di fiducia, la prossimità fisica sono all’origine di un basso
grado di formalizzazione di ruoli e strutture.
Verrebbe da dire che l’organizzazione è non organizzazione, laddove in-
tendiamo per organizzazione il risultato di un percorso strutturato e razionale
di valutazioni e scelte. Le aziende di minore dimensione sono, sotto questo
punto di vista, il regno della spontaneità delle soluzioni organizzative. Possiamo
osservare come questa spontaneità trova un limite nelle esigenze di standardiz-
zazione originate dalla tecnologia utilizzata, la quale detta in qualche misura
alcune regole fondamentali di funzionamento, sulle quali viene costruita l’orga-
nizzazione del lavoro. La tecnologia a cui facciamo riferimento è da intendersi
come processo tecnico nel caso di aziende manifatturiere, rivisto e interpretato,
vale a dire personalizzato, in relazione alle possibili precedenti esperienze
dell’imprenditore che, in veste di fondatore dell’azienda, di fatto forma i primi
collaboratori su quelle che sono per lui le best practices da seguire.
La problematica organizzativa che emerge è quindi legata all’organizza-
zione del lavoro, proviene dal basso (vale a dire non scaturisce da un’esigenza
strategica), ha una forte valenza operativa, è guidata dalle peculiarità della tec-
nologia, seppure mediata dall’esperienza dell’imprenditore, è affrontata senza
fare riferimento a particolari regole, norme o principi formalmente costituiti:
ciò non significa che si osservi un approccio irrazionale, ma che molto carenti
possono risultare l’analisi e la valutazione delle situazioni, non supportate da
una raccolta strutturata e organica di informazioni, verosimilmente più appro-
fondite, efficienti ed efficaci.
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Lineamenti di organizzazione aziendale
342
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
Vertice
Strategico
2
Di Sara Sassetti.
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
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Lineamenti di organizzazione aziendale
L’essere così dipendente dalla figura dell’imprenditore, dalle sue idee, dal
suo modo di pensare e di agire, rende questa tipologia di struttura particolar-
mente legata alla sua mission, cioè a quella della persona che ne è la guida (Min-
tzberg, 1996). Da un pinto di vista di gestione delle risorse umane, il fatto di
avere un imprenditore-leader organizzativo che ricopre il ruolo quotidiano di
guida e ispirazione sul modo di lavorare, la direzione da seguire e l’obiettivo da
raggiungere, sicuramente fa accrescere nei collaboratori un senso di apparte-
nenza, di commitment e motivazione nei confronti dell’organizzazione. Alcune
persone, però, possono vedere questa caratteristica della struttura elementare
come un vincolo alla loro crescita professionale sia in senso verticale che oriz-
zontale. Dato l’appiattimento gerarchico che caratterizza questa struttura, sono
rare le opportunità di avanzamenti di carriera; anche la crescita professionale
orizzontale, nel senso soprattutto di diversificazione e approfondimento di de-
terminate conoscenze e competenze specifiche, è di più difficile realizzazione.
346
La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
Per quanto quella elementare sia una struttura semplice è bene tenere presente
che dalla combinazione delle due variabili sopra esposte, accentramento deci-
sionale e le relazioni con l’ambiente esterno, si possono rintracciare alcune im-
portanti differenziazioni.
La Tabella 1 riassume le diverse declinazioni che la struttura elementare
può assumere. Come si può notare, se l’organizzazione decide di agire prevalen-
temente in maniera indipendente all’interno del suo ambiente di riferimento po-
trà assumere un assetto gerarchico-imprenditoriale qualora il potere decisionale
sia incentrato esclusivamente nelle mani di un’unica persona, in genere l’impren-
ditore; se invece il potere decisionale è maggiormente diffuso e condiviso all’in-
terno dell’organizzazione si può dar vita ad una struttura elementare che segue
le peculiarità delle forme così dette artigiane o gruppo di pari (Grandori, 1995).
In alternativa, qualora l’organizzazione scelga di operare nel suo am-
biente di riferimento prevalentemente secondo una logica di network si po-
tranno costruire due altrettanti assetti organizzativi: il distretto, network più in-
formale all’interno del quale la singola organizzazione decide come agire e per
3
Di Sara Sassetti.
347
Lineamenti di organizzazione aziendale
Accentramento decisionale
Alto Basso
Relazione con l’esterno
Forma artigiana
Indipendente Gerarchico
Gruppo di pari
imprenditoriale
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La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
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Lineamenti di organizzazione aziendale
10.3.4. Il distretto
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La progettazione organizzativa nella piccola e media impresa
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Lineamenti di organizzazione aziendale
354
11 La gestione delle relazioni interorganizzative
di Fabio Fraticelli e Sara Lombardi
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Lineamenti di organizzazione aziendale
1
Come trattato nel Capitolo 2, la visione di organizzazione come “sistema chiuso”, nel quale le scelte manageriali
non sono condizionate da alcuna sorta di “perturbazione” esterna, consentendo la ricerca della massima effi-
cienza operativa, risulta sempre meno adeguata a rappresentare le dinamiche organizzative. Essa viene pro-
gressivamente superata dalla logica di “sistema aperto”, nel quale forze e pressioni ambientali condizionano le
scelte imprenditoriali e manageriali, consentendo il perseguimento di condizioni di livelli di efficienza ed efficacia
soddisfacenti, ma che non rappresentano un ottimo.
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La gestione delle relazioni interorganizzative
2
Chiarita l’etimologia della parola, pur consapevoli di introdurre una semplificazione, nel proseguo del capitolo
si utilizzerà la parola rete come sinonimo di network.
357
Lineamenti di organizzazione aziendale
3
È importante notare che, quando si utilizza il concetto di network collaborativo, si può far riferimento sia ad un
“insieme di relazioni con una forma ed un contenuto” (Lomi, 1991, p. 62) che - in una prospettiva di tipo “macro”
- ad aggregazioni sociali analizzabili come veri e propri attori organizzativi (Tosi, 1998, p. 16), al pari dell’indivi-
duo, del gruppo e dell’organizzazione.
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La gestione delle relazioni interorganizzative
(modificabili all’occorrenza) che possono modificarsi nel tempo e trovare nuova integrazione all’interno
di network collaborativi in continua evoluzione.
La coopetizione, ed il conseguente sviluppo di network collaborativi, è pertanto una lente per descrivere
le ragioni e le modalità attraverso le quali si sviluppano relazioni di tipo collaborativo tra organizzazioni
anche molto eterogenee.
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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La gestione delle relazioni interorganizzative
quali alcune tipologie di organizzazioni tendono a scomparire nel tempo mentre altre sopravvivono. Gli
esponenti di questo filone teorico concepiscono l’ambiente come un insieme di pressioni e vincoli che
vengono variamente intercettati dalle organizzazioni per dare vita a diverse forme. Solo le organizza-
zioni che riescono ad adeguarsi al meglio all’evoluzione ambientale (ed al suo perenne dinamismo)
sopravviveranno. In questa prospettiva, le organizzazioni non vengono prese in considerazione come
singole entità, ma come parte di gruppi (ovvero specie) più ampi in lotta per la sopravvivenza. Le
relazioni fra organizzazioni sono pertanto prese in considerazione in relazione al loro ambiente di rife-
rimento ed alla loro capacità di adattarsi allo stesso, evolvendo.
361
Lineamenti di organizzazione aziendale
confine organizzativo è una sfida quanto mai ardua. I confini organizzativi rap-
presentano infatti uno degli aspetti portanti delle scienze organizzative, che nel
tempo sono stati studiati sotto lenti teorico-interpretative totalmente differenti
(Thompson, 1967; Pfeffer e Salancik, 1978).
Come illustrato da Santos e Eisenhardt (2005), i confini possono essere
considerati “come la demarcazione delle strutture sociali che costituiscono una
organizzazione” (Dutton et al., 1994; Kogut, 2000) oppure come “la sfera di
influenza organizzativa, incluso il grado di controllo sul settore di riferimento e
sulle altre forze esterne (D’Aveni, 2001).
La difficoltà di pervenire ad una unica definizione dipende dalla necessità
di disporre di un adeguato criterio di demarcazione. A tal proposito, esistono
quattro criteri fondamentali per definire un confine organizzativo (Santos e Ei-
senhardt, 2005). Un’organizzazione, dunque, può (o deve) cedere il coordina-
mento e la responsabilità dello svolgimento di porzioni di lavoro quando:
A prescindere dal criterio scelto, la definizione dei confini determina una (più o
meno) ben definita separazione fra le attività svolte all’interno e quelle svolte
all’esterno. Mentre in alcuni casi questa scelta è dettata da norme, principi o
pratiche consolidate (si pensi, ad esempio, ad un’azienda che lascia al Comune
il compito di asfaltare le strade che portano all’area industriale in cui ha sede),
molto spesso la scelta di esternalizzare (outsourcing) o internalizzare (insourcing)
specifiche porzioni del flusso di lavoro deriva da una specifica strategia azien-
dale. Assai di frequente, tale strategia prende forma dalla necessità di garantire
un’elevata efficienza nello svolgimento delle attività organizzative. In ragione
del primo criterio poco sopra descritto, infatti, le organizzazioni tendono a va-
lutare i vantaggi di mantenere al proprio interno determinate attività oppure, al
contrario, esternalizzarle ad altri attori. A tal proposito, la delimitazione dei
confini organizzativi che ne risulta può essere meglio compresa se esaminata se-
condo l’ottica proposta dagli studi sui costi di transazione di Ronald Coase e,
più tardi, di Oliver Williamson. Come sarà discusso nelle pagine successive, la
prospettiva suggerita dagli studiosi è quella secondo cui l’organizzazione deve
essere intesa non tanto come un’entità produttiva, quanto una struttura di go-
verno (governance). Il focus, dunque, si sposta dalla necessità di garantire un
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La gestione delle relazioni interorganizzative
utilizzo ottimale delle tecnologie a quella di stipulare transazioni con altre orga-
nizzazioni, ossia contratti che, per l’organizzazione stessa, risultino tanto con-
venienti quanto affidabili. In altri termini, secondo gli studiosi, la questione cen-
trale che le organizzazioni si trovano a fronteggiare è quella di comprendere se
e in che misura variare i propri confini producendo internamente un bene o un
servizio o acquistarlo all’esterno da altre organizzazioni dedicate a tale produ-
zione. Si richiama cioè il noto dilemma del “make or buy”. Osservata attraverso
questa lente teorica, la definizione dei confini organizzativi diventa dunque con-
seguenza della scelta che l’organizzazione compie relativamente al grado di con-
trollo che decide di avere sulle transazioni che intrattiene con altre organizza-
zioni. Tale scelta si collocherà all’interno di un continuum i cui estremi sono rap-
presentati, da un lato, dal totale controllo sulle attività organizzative che ri-
chiede una completa internalizzazione delle stesse (make) e, dall’altro, dalla
esternalizzazione di tutte (o pressoché tutte) le attività ad altre organizzazioni
(buy). Va da sé che gli scenari estremi sono alquanto irrealistici e rari da rintrac-
ciare nella vita reale. Molto più plausibili sono i casi intermedi, vale a dire quelli
in cui l’organizzazione si lega ad altre entità per mezzo di intese informali, ac-
cordi su base azionaria o rapporti di collaborazione. Una trattazione dettagliata
di alcuni esempi viene proposta più avanti in questo capitolo.
Detto ciò, sono prioritariamente due gli elementi che guidano la scelta di
insourcing (ossia il “make”) ed outsourcing (ovvero l’opzione “buy”).
Da un lato, si valuta quanto una specifica attività (o un set di attività) è
funzionale a garantire le performance operative dell’organizzazione, ad esempio
in termini di garantire livelli di fornitura in modalità, tempi e standard qualita-
tivi giudicati adeguati dai diversi stakeholders. Dall’altro, si valuta quanto lo
svolgimento di una specifica attività è strategico (ovvero determinante) per l’esi-
stenza stessa dell’organizzazione. Sotto quest’ultimo profilo, le attività più stra-
tegiche sono quelle che caratterizzano l’organizzazione e la distinguono rispetto
ai propri competitors. Dati questi criteri, si tende ad internalizzare le attività ad
alta rilevanza strategica ed alto impatto sulle performance operative, mentre si
potranno esternalizzare quelle che - pur impattando significativamente sulle
performance operative dell’impresa, non rivestono un ruolo fondamentale per
la sua sopravvivenza (Schniederjans et al., 2005).
A prescindere dalla natura giuridica e dalle forme organizzative scelte per governare le scelte di ester-
nalizzazione, in un processo di outsourcing coesistono tre attori chiave: l’outsourcee, o committente,
o cliente, ovvero l’azienda che prende la decisione di servirsi dell’outsourcer senza produrre interna-
363
Lineamenti di organizzazione aziendale
mente un certo prodotto/servizio; l’outsourcer, detto anche provider, vendor, partner, o fornitore, ov-
vero l’azienda che svolge le attività che il committente sceglie di distrarre dalla propria sfera di con-
trollo; il cliente finale che riceverà l’output generato dal processo lavorativo esternalizzato.
Oltre alle valutazioni sulla priorità strategica delle attività oggetto di esternaliz-
zazioni e del rischio connesso ad eventuali non conformità nello svolgimento
delle stesse, la configurazione dei confini organizzativi deve tener conto di altri
fattori, tra cui la disponibilità di molteplici fornitori ai quali rivolgersi e la di-
sponibilità delle abilità interne richieste per gestire la relazione con il fornitore
(in termini di misurazione delle performance e gestione dei rischi) nonché l’im-
patto economico complessivo che una scelta di esternalizzazione ha in termini
di costi fissi, variabili e di coordinamento (Hamilton, 2002).
Chiariti i criteri con i quali un confine organizzativo può essere definito e
configurato in funzione di specifiche strategie di outsourcing ed insourcing, resta
da capire come si possano coordinare le interdipendenze fra organizzazioni.
364
La gestione delle relazioni interorganizzative
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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La gestione delle relazioni interorganizzative
La crescente tendenza, a partire dagli anni ‘80 dello scorso secolo, a costruire
relazioni produttive tra committenti (o clienti) e fornitori trae origine dal com-
provato successo registrato dalle pratiche giapponesi applicate alle realtà mani-
fatturiere del tempo. Grazie alla loro capacità di gestire efficientemente la loro
rete di fornitori secondo i principi della lean production già discussa all’interno
del capitolo 9, durante gli anni 1970-1990 numerose imprese nipponiche regi-
strarono uno straordinario vantaggio competitivo rispetto alle loro concorrenti
occidentali. A determinare questo successo contribuì la comprensione, da parte
dei grandi player del momento quali Toyota e NEC (Nippon Electronic Com-
pany), che la loro competitività non poteva prescindere dalla presa in esame di
due elementi basilari: da un lato, il valore richiesto dal consumatore finale e,
dall’altro, la riduzione al minimo (e, ove possibile, la completa eliminazione) di
qualunque spreco lungo la catena di produzione. A tal fine, queste imprese strut-
turarono la suddetta catena in livelli diversi di fornitura per potenziarne non
solo l’efficienza, bensì anche i flussi comunicativi. Inoltre, ogni loro sviluppo e
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Lineamenti di organizzazione aziendale
4
L’eccesso di capacità produttiva (excess capacity, nella sua dicitura inglese) denota una situazione in cui l’ef-
fettiva produzione di un’impresa risulta inferiore rispetto alla produttività realmente ottenibile, ovvero al livello
ottimale di produttività che la stessa potrebbe raggiungere in ragione della struttura di cui si è dotata. Tale ec-
cesso fa sì che il costo marginale di produzione risulti inferiore rispetto al costo medio di produzione, lasciando
dunque spazio alla possibilità di ridurre ulteriormente il costo medio per unità realizzate attraverso la produzione
di una quantità maggiore di prodotti e/o servizi. Si parla, dunque, di eccesso di capacità per indicare un certo
ammontare di capacità produttiva che l’impresa al momento non sta utilizzando.
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La gestione delle relazioni interorganizzative
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Lineamenti di organizzazione aziendale
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La gestione delle relazioni interorganizzative
5
Ad esempio, applicata al contesto dei software, la qualità dell’utilizzo indica i risultati che un soggetto che
usufruisce di un determinato software raggiunge, date le proprietà del software stesso. Ciò significa che, pur
utilizzando lo stesso software, due soggetti diversi potrebbero registrare performance altrettanto diverse.
6
Si stima che circa l’85% del costo totale dei nuovi prodotti dipenda dalle spese necessarie al loro design (si
veda Fynes e Voss, 2002).
371
Lineamenti di organizzazione aziendale
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La gestione delle relazioni interorganizzative
rio opposto rispetto alle partnership strategiche è quello dello “scambio di mer-
cato” in cui né committente né fornitore sviluppano assets specifici ai fini del
mantenimento della loro relazione. Quest’ultima può infatti essere alimentata
attraverso risorse di carattere generale che non richiedono investimenti partico-
lari. In questo caso ognuna delle parti, qualora lo ritenga necessario, può esa-
minare nuovamente il mercato e rintracciare un nuovo partner a costi molto
bassi e senza incorrere in conseguenze dannose ingenti. Vi sono, infine, due si-
tuazioni intermedie. La prima è quella che vede il solo “committente vincolato”
alla relazione, in ragione del fatto che questi, e non anche il fornitore, compie
investimenti specifici alla relazione. Qualora questa non dovesse garantire i be-
nefici sperati, mentre il fornitore potrebbe ricercare un nuovo cliente sul mer-
cato, il committente originale risulterebbe ben più limitato, in quanto guidato
dalle risorse specializzate sviluppate esattamente per dar vita alla relazione con
quel fornitore. Caso simile emerge dal quadrante in basso a destra, “fornitore
vincolato”, in cui, come appena descritto, a risultare intrappolato negli investi-
menti realizzati è il fornitore e non anche l’acquirente.
Detto ciò, la domanda da porsi è la seguente: vi è un quadrante che più
degli altri garantisce che la relazione produca performance migliori? La ricerca
sul tema sembra non aver rintracciata differenze sostanziali, indicando dunque
che ognuna delle quattro tipologie di relazione può risultare vincente, se gestita
in modo efficace. In particolare, affinché la gestione della filiera (supply chain)
sia redditizia, gli esperti (Bensaou, 1999) suggeriscono di prestare attenzione a
due aspetti: in primo luogo, le organizzazioni devono garantire allineamento tra
il tipo ideale di relazione da stabilire e le condizioni sotto cui si presentano i
prodotti, il mercato e i partner; inoltre, esse devono adottare un approccio ma-
nageriale che sia adeguato ad ogni tipologia di relazione.
Molto spesso, infatti, i fallimenti registrati nella gestione della supply
chain di frequente sono riconducibili all’incapacità delle imprese sia di proget-
tare che di gestire adeguatamente la relazione col partner.
373
Lineamenti di organizzazione aziendale
prodotti, servizi o tecnologie in partnership, dando vita così ad una forma du-
ratura di commitment tra i partner (Gulati e Gargiulo, 1999).
Se per un approfondimento concettuale dell’espressione “team interazien-
dale” si rimanda al capitolo 5, qui si intende piuttosto porre l’attenzione sulle
attività che tali team sono chiamati a svolgere, coerentemente con la necessità
di mantenere una relazione costante col mercato esterno. Tali attività, dette
boundary activities, ossia attività di confine, sono state oggetto di numerose clas-
sificazioni (si vedano, a tal fine, Ancona e Caldwell, 1998; Yan e Louis, 1999).
Una tra quelle che consideriamo essere maggiormente omnicomprensiva è
quella secondo cui esse ricomprendano tre compiti principali (Drach-Zahavy,
2011):
374
La gestione delle relazioni interorganizzative
Come si evince da quanto riportato sopra, tali attività richiedono ai membri del
team di gestire la complessa rete di relazioni esterne al fine di cogliere i trend dei
diversi stakeholders che operano nel proprio mercato di riferimento. Coerente-
mente con ciò, essi sono chiamati a gestire il coordinamento, il trasferimento
delle conoscenze e le strategie politiche necessarie a dar vita a prodotti e servizi
nuovi e personalizzati per i propri clienti. Ciò non significa che i gruppi di lavoro
tradizionali non siano impegnati in tali attività, bensì che per i team interazien-
dali questo ruolo è maggiormente rilevante e caratterizzante la loro ragion d’es-
sere. Il contesto che essi rappresentano coinvolge infatti molteplici attori, tanto
interni quanto esterni ai team stessi, generando ulteriore complessità nelle atti-
vità di confine. Queste tendono pertanto ad interessare relazioni a più livelli: tra
gli attori interni al team, tra il team e le organizzazioni di origine dei suoi mem-
bri, così come tra il team ed altre organizzazioni che operano all’interno del
mercato. Va da sé che tali attività finiscono per coinvolgere una vasta diversità
di obiettivi, valori, risorse e strategie di cui ogni singolo attore partecipante alla
relazione si fa portatore. Ecco che, molto più di quanto accada nei gruppi di
lavoro tradizionali, le attività di confine risultano maggiormente peculiari nei
team interaziendali.
Il vantaggio che i team interaziendali possono ottenere dal portare a ter-
mine con successo le loro attività di confine deriva sia dal fatto che essi sono
progettati in modo tale da sovrapporsi alle unità funzionali già esistenti, sia
dalla consapevolezza che essi operano sulla linea di confine tra la loro organiz-
zazione di origine e l’ambiente esterno. Tale posizione consente loro di accumu-
lare risorse e costruire legami strategici con organizzazioni operanti in tale am-
biente, siano essi fornitori, clienti, concorrenti o altri attori economici. L’accesso
agevolato a risorse e conoscenze strategiche consente ai team di sviluppare
un’elevata competenza nella risoluzione di problemi complessi non risolvibili
con approcci organizzativi maggiormente tradizionali e fondati, ad esempio, su
un approccio organizzativo funzionale o comunque focalizzato sulla separa-
zione tra reparti.
Il grande apporto che le attività di confine garantiscono all’efficacia dei
team interaziendali trova la sua giustificazione teorica all’interno della lettera-
tura sui c.d. sistemi aperti, in particolar modo nel modello della dipendenza
dalle risorse presentato all’inizio del presente capitolo (Pfeffer e Salancik, 1978).
Secondo tale modello, i team interaziendali sviluppano una forte dipendenza dal
loro ambiente per quanto concerne le risorse di cui necessitano per funzionare
efficacemente. Ovvero, dato che la loro sopravvivenza ed il loro successo non
possono essere garantiti attraverso la completa autosufficienza nella produzione
di tali risorse, tali team devono necessariamente dedicarsi alle attività di confine
375
Lineamenti di organizzazione aziendale
per poter acquisire le ciò di cui hanno bisogno. Tuttavia, dato che le risorse
nell’ambiente sono per definizione scarse e che, oltre ai team interaziendali, nello
stesso ambiente vi saranno altre organizzazioni che competono per accaparrarsi
le stesse risorse, le attività di confine di questi gruppi dovranno concentrarsi
sulla conquista del potere e del controllo di quelle risorse essenziali di cui essi
necessitano.
Le joint ventures (JV) sono forme di collaborazione tra organizzazioni che im-
plicano la creazione di una terza organizzazione separata, autonoma, con pro-
pria validità legale. Le parti coinvolte in una joint venture contribuiscono alla
sua creazione attraverso l’apporto di capitale (è il caso delle c.d. equity joint ven-
ture), dando così vita a unità di business la cui proprietà risulta condivisa tra
due o più partner. Ad esempio, CFMI è la joint venture nata dalla collaborazione
tra General Electric e Snecma; Telespazio è sorta dalla collaborazione tra Leo-
nardo e Thales; Sony Ericsson, nata nel 2001 dall’accordo tra il gruppo giappo-
nese Sony e la telco svedese Ericsson.
Un’alleanza è invece definita come un accordo volontario di scambio di
risorse tra imprese che si impegnano nello sviluppo congiunto o nella fornitura
di servizi, prodotti o tecnologie (Gulati, 1998). Diversamente dalle joint venture,
le alleanze strategiche non prevedono la creazione di una nuova impresa e, pa-
rallelamente, non richiedono alle imprese partecipanti l’apporto di capitale.
Tuttavia, data la similarità dei fini per i quali esse vengono create, alcuni studiosi
tendono a denominare le alleanze non-equity joint ventures. Inoltre, per tutta la
durata dell’alleanza, l’organizzazione partecipante mantiene la propria autono-
mia, distinguendosi perciò da altre forme di collaborazione quali le fusioni e le
acquisizioni di impresa.
Attraverso la partecipazione ad un’alleanza, le imprese collaborano com-
binando le proprie risorse e capacità al fine di raggiungere obiettivi sia collettivi
(ossia, riconducibili al fine per cui l’alleanza ha preso vita) che individuali (at-
tribuibili, cioè, alla singola organizzazione partner dell’alleanza). Un aspetto in-
teressante è quello per cui le alleanze possono prevedere la collaborazione di
imprese concorrenti.
Alcuni studiosi del tema ritengono che, mentre le joint venture sono mag-
giormente utilizzate in settori maturi, le alleanze strategiche tendono a compa-
rire in quelli più dinamici quali quelli high-tech.
Le ragioni che inducono le organizzazioni ad optare per una joint venture
o un’alleanza sono numerose.
376
La gestione delle relazioni interorganizzative
377
Lineamenti di organizzazione aziendale
parte di alcuni settori (quali quello dei servizi finanziari, delle automobili, dei
servizi di trasporto aereo, del biotech, etc.) registrano una partecipazione mag-
giore ad alleanze e joint venture rispetto a quanto emerga per imprese operanti
in altri settori. In alcuni casi, è possibile perfino affermare che vi siano settori la
cui nascita e sopravvivenza si fondano considerevolmente sull’esistenza di col-
laborazioni strategiche tra imprese. Un esempio proviene dal settore delle bio-
tecnologie, il quale continua a prosperare e ad ampliarsi in gran misura grazie
agli accordi di collaborazione che legano imprese di ricerca e sviluppo di piccole
dimensioni a quelle più grandi, fino alle multinazionali farmaceutiche (Zollo et
al., 2002). In maniera simile, il settore dei semiconduttori fonda il suo successo
sul contributo strategico fornito dalle alleanze esistenti tra i produttori dei vari
componenti e i relativi assemblatori (Browning et al., 1995). In questi settori, la
presenza di collaborazioni formali tra organizzazioni consente di condividere il
rischio e gli elevati costi connessi alle attività di ricerca e sviluppo che il settore
richiede di portare avanti costantemente. Attraverso la collaborazione con altre
organizzazioni, i partner partecipanti possono accedere a competenze chiave
complementari alle loro, potendo così restare focalizzati sul consolidamento e
sull’implementazione delle proprie competenze distintive ed evitando, così, di
disperdere investimenti nello sviluppo di ulteriori capacità. Tuttavia, oltre ai set-
tori manifatturieri, si ricordi che le relazioni interorganizzative formali, quali le
joint venture e le alleanze, sono ampiamente utilizzate anche nei settori dei ser-
vizi, quali gli studi legali, le agenzie pubblicitarie, le società di consulenza e di
revisione contabile. Attraverso la partecipazione a queste collaborazioni, tali
imprese possono entrare in nuovi mercati e/o ampliare la gamma di servizi of-
ferti. Dinamiche simili si evidenziano anche nel settore della sanità e in quello
pubblico (si veda, ad esempio, Sandfort e Milward, 2009). Quanto detto sugge-
risce la diffusa applicazione delle alleanze strategiche e delle joint venture a pres-
soché ogni settore economico.
Tuttavia, è importante ricordare che spesso le joint venture sono forte-
mente preferite ad altre forme di relazioni tra imprese, quali i contratti di licenza
e le alleanze strategiche (Beamish e Lupton, 2009). Infatti, in ragione dell’ap-
porto di capitale che richiedono di versare, le joint venture risultano essere so-
luzioni maggiormente “vincolanti”, tali da indurre le imprese partecipanti a con-
tribuire al successo del business creato. Avendo tutti i partner un importante
incentivo a far sì che tale business risulti profittevole, risulterà vantaggioso as-
sicurare una collaborazione reciproca continuativa, anche qualora tali partner
siano imprese concorrenti di uno stesso settore 7.
7
Per una lettura approfondita degli aspetti salienti di una joint venture si veda Beamish e Lupton (2009).
378
La gestione delle relazioni interorganizzative
Box 11.4 La joint venture tra BYD e Toyota a supporto dei veicoli elettrici
A seguito di una partnership costituita nel mese di luglio 2019, a novembre dello stesso anno è stata
annunciata la costituzione della joint venture tra BYD (Build Your Dream, il principale produttore cinese
di veicoli a nuova energia) e Toyota. La nuova società, risultante dalla partecipazione del 50% di
ognuno dei due partner, avrà sede in Cina e sarà interamente dedicata alle attività di ricerca e sviluppo
di veicoli elettrici a batteria (BEV), ricambi auto e piattaforme di produzione. BYD e Toyota trasferiranno
parte del loro attuale personale già attivo su analoghi progetti alla nuova impresa, mirando ad assumere
presto nuovo personale. Sulla creazione della nuova JV, il Vice Presidente di BYD, Lian Yu-bo ha ricor-
dato i benefici che essa assicurerà. Combinando, da un lato, le competenze consolidate di BYD nello
sviluppo di batterie per veicoli elettrici e, dall’altro, la riconosciuta qualità e sicurezza della tecnologia
sviluppata da Toyota, la JV consentirà di rispondere alle richieste del mercato di tali veicoli con i pro-
dotti migliori mai realizzati. Il Vice Presidente di Toyota, Shigeki Terashi, ha aggiunto che il fine dei
partner è quello di promuovere ulteriormente l’utilizzo di veicoli elettrici, mettendo da parte la rivalità
delle due imprese e facendo vincere la collaborazione.
379
Lineamenti di organizzazione aziendale
A conferma del fatto che i contratti di licenza restano uno tra gli strumenti per il trasferimento tecno-
logico più utilizzati, a Dicembre 2019 è stato firmato un accordo di licenza tra Prada e L’Oréal finalizzato
alla creazione, allo sviluppo e alla distribuzione di prodotti cosmetici di lusso a marchio Prada.
L’accordo, che avrà decorrenza a partire da gennaio 2021, offrirà alle imprese partner la possibilità di
combinare le rispettive competenze nei settori di loro appartenenza: da un lato, Prada, uno dei key
player nell'industria mondiale del lusso. Simbolo di eccellenza e avanguardia; dall’altro, L’Oréal, leader
indiscusso nel mondo della cosmesi e del beauty, contraddistinto da grande esperienza e prestigio e
già distributore in licenza di cosmetici per altri importanti marchi della moda, quali Armani, Valentino,
Polo Ralph Laurent e Yves Saint Laurent.
380
La gestione delle relazioni interorganizzative
381
Lineamenti di organizzazione aziendale
o Solo Affitti) così come dal noleggio di automobili (si vedano, ad esempio, Eu-
ropcar o B-Rent), dall’abbigliamento (si pensi a Benetton, Camomilla, e a molti
altri) e dall’hotellerie (Holiday Inn, Accor, etc.).
A conferma delle potenzialità e del successo di questa tipologia di rela-
zione interorganizzativa giunge il rapporto Assofranchising 20198, il quale evi-
denzia come nel 2018 le reti attive (definite come quelle comprendenti almeno
tre punti vendita tra diretti e in franchising) siano aumentate del 2% rispetto
all’anno precedente, contando un totale di 961 reti capaci di generare un giro di
affari di oltre 25 miliardi di Euro.
Il consorzio nasce col fine di agevolare la cooperazione tra imprese per la rea-
lizzazione di uno o più processi organizzativi. L’ampiezza di tale fine può limi-
tarsi all’ambito della produzione o della distribuzione fino a coinvolgere la col-
laborazione su più aspetti quali la progettazione, la produzione e la commercia-
lizzazione di prodotti o servizi. Gli imprenditori partner (non meno di cinque)
sottoscrivono un contratto con cui danno vita ad una società consortile – gene-
ralmente una società di capitali – alla quale vengono affidati gli scopi del con-
sorzio.
Una distinzione che merita attenzione è quella tra consorzio con sola at-
tività interna e consorzio destinato a svolgere anche attività esterna:
8
Per maggiori informazioni si consiglia di visitare il seguente link: https://www.assofranchising.it/news/news/le-
nostre-news/rapporto-sul-franchising-2019-una-piacevole-confer.html
382
La gestione delle relazioni interorganizzative
imprese di piccole e medie dimensioni che, in ragione del frequente ridotto po-
tere contrattuale in loro possesso, traggono grandi benefici dall’entrare a far
parte di un consorzio. Numerosi esempi provengono dal settore agroalimentare,
in particolar modo, dal comparto lattiero caseario. Consorzi di tutela quali
Asiago, Grana Padano e Parmigiano Reggiano riuniscono produttori, stagio-
natori e commercianti del relativo formaggio mirando a garantire il rispetto
della ricetta tradizionale e la sua alta qualità affinché sia riconoscibile e ritrova-
bile in ogni singola forma prodotta.
Sono estremamente diffusi ed efficaci anche i c.d. consorzi di tutela delle
denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini i quali, compo-
sti da viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori della denominazione, hanno il
fine di tutelare, promuovere, valorizzare e vigilare sulle attività di accredita-
mento dei prodotti vitivinicoli in quanto prodotti da tutelare quali patrimonio
collettivo frutto della cultura e della tradizione di un determinato Paese. Alcuni
esempi del territorio italiano sono il Consorzio del Vino Brunello di Montal-
cino, il Consorzio del Vino Chianti Classico, il Consorzio Prosecco DOC, il
Consorzio di tutela Primitivo di Manduria, etc. Insieme alle cooperative, il con-
sorzio è una delle più antiche forme aggregative tra operatori economici presenti
in Italia.
11.4 Il ruolo della fiducia quale fattore determinante l’efficacia delle relazioni in-
terorganizzative
383
Lineamenti di organizzazione aziendale
384
La gestione delle relazioni interorganizzative
Inoltre, una volta che è stata stabilita, la fiducia aiuta a rendere stabili le rela-
zioni, rafforzando il carattere fiduciario tra le parti coinvolte. Ulteriormente, gli
attori che godono di fiducia da parte dei loro partner riescono, col tempo, a
sviluppare il c.d. capitale reputazionale (Fombrun, 1996), il quale è considerato
essere una preziosa fonte di vantaggio competitivo.
Nel complesso, dunque, la presenza di una relazione fiduciaria tra attori
supporta lo sviluppo di strategie collettive di crescita che molto spesso tendono
a prevalere su quelle definite dai singoli attori, i quali definiscono e monitorano
il loro futuro attraverso un processo che coinvolge i partner con cui condividono
determinate relazioni (Astley e Fombrun, 1983). Così facendo, i costi di transa-
zione risulteranno significativamente più bassi, lo scambio di informazioni e
l’apprendimento organizzativo saranno facilitati, agevolando così la stabilità
dei sistemi economici.
Estendendo il focus dalle singole imprese alla società, è stato evidenziato
che società fortemente fondate sulla fiducia tendano a prosperare economica-
mente in quanto la fiducia funge da lubrificante, agevolando la risoluzione di
attriti nei rapporti economici. La c.d. fiducia istituzionale (institutionally embed-
ded trust), tipica dei Paesi altamente regolamentati come la Germania, crea in-
fatti un elemento tacito che gli attori danno per scontato ogni qual volta parte-
cipino ad una relazione sociale. Essa, infatti, consente loro di inserirsi più facil-
mente all’interno di relazioni di business senza dover investire tempo e denaro
per assicurarsi che in futuro non vi siano inadempienze della controparte (Ba-
chmann e Zaheer, 2008).
Tuttavia, non si dimentichi che l’inasprirsi della competizione e la carat-
terizzazione globale del business hanno reso la creazione di relazioni di fiducia
assai complessa: investire nello sviluppo di rapporti fiduciari con altre organiz-
zazioni può infatti trasformarsi in un processo molto rischioso, soprattutto qua-
lora gli attori coinvolti presentino significative differenze culturali con inevita-
bili implicazioni relativamente alla condivisione di linguaggi, routine e pratiche
comuni.
L’emergere di questi elementi ha dunque reso la creazione di fiducia un
fattore tanto necessario quanto problematico nelle relazioni interorganizzative.
385
Lineamenti di organizzazione aziendale
secondo il quale qualunque contatto di natura sociale tra acquirenti e fornitori diventava sostanzial-
mente anti-competitivo, creando un freno alla competizione. Così facendo, ancor più degli economisti
di stampo classico, quelli di estrazione neoclassica guardano all’alienazione sociale come un elemento
caratterizzante la concorrenza perfetta. Contrariamente a questa visione del comportamento umano,
Granovetter propose la nozione di embeddedness, la quale prende forma qualora, pur originando da
ragioni puramente economiche, relazioni economiche continuative assumano un carattere sociale, ge-
nerando aspettative circa rapporti fiduciari e assenza di comportamenti opportunistici da parte degli
attori coinvolti nelle relazioni. Inoltre, secondo lo studioso, nè accordi istituzionali nè una diffusa mo-
ralità come tali possono essere considerate le vere origini dei rapporti fiduciari nella società; piuttosto,
sono le reali connessioni sociali tra gli attori a dare vita alla fiducia.
La fiducia può acquisire forme diverse, in base agli elementi ai quali si riferisce
e da cui deriva. Zucker (1986) ne ha identificato tre forme:
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