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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELL’INSUBRIA -

VARESE
Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio - DiSUIT
Corso di Laurea Triennale in Scienze della Comunicazione

CSR: La nuova dimensione del marketing aziendale


di fronte alla responsabilità sociale

Relatore: Prof. Umberto LUCIANI

Tesi di Laurea di:


Giacomo POLETTI

Matricola 732721

Anno Accademico 2021/2022


Ai miei genitori che mi hanno sempre supportato.
Ai miei amici che mi mantengono umile.
SOMMARIO

INTRODUZIONE ___________________________________________________ 1
1. CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY ________________________________ 3
1.1 INTRODUZIONE ALLA CSR ___________________________________________ 3
1.2 ORIGINE E SVILUPPO DELLA CSR ______________________________________ 5
1.3 LA CSR NEL PANORAMA MONDIALE ___________________________________ 9
1.4 LA CSR E L’UNIONE EUROPEA _______________________________________ 15
1.5 LA CSR IN ITALIA __________________________________________________ 19
2. GESTIONE DELLA CSR NELLA STRATEGIA AZIENDALE __________________ 23
2.1 FASI DI IMPLEMENTAZIONE DELLA CSR ________________________________ 23
2.2 TRIPLE BOTTOM LINE ______________________________________________ 26
2.3 CSR VERSO GLI STAKEHOLDER INTERNI ________________________________ 28
2.3.1 CASE STUDY: LA FONDAZIONE FERRERO E IL PROGETTO IMPRENDITORIALE 30
2.4 CSR VERSO GLI STAKEHOLDER ESTERNI ________________________________ 32
2.4.1 CASE STUDY: AI FOR HUMANITARIAN ACTION ________________________ 35
2.5 CSR VERSO L’AMBIENTE ____________________________________________ 38
2.5.1 CASE STUDY: LE POLITICHE AMBIENTALI DI LEGO ______________________ 41
3. IL FENOMENO DEL GREENWASHING _______________________________ 44
3.1 DEFINIZIONE E ORIGINI ____________________________________________ 44
3.2 CARATTERISTICHE DEL FENOMENO ___________________________________ 46
3.3 DRIVER DEL GREENWASHING _______________________________________ 48
3.4 RISCHI DELLA COMUNICAZIONE _____________________________________ 53
3.5 CASE STUDY: GREENWASHING TRA IMPRESE ___________________________ 57
CONCLUSIONI ___________________________________________________ 60
BIBLIOGRAFIA ___________________________________________________ 63
SITOGRAFIA _____________________________________________________ 65
INTRODUZIONE

Nel mondo globalizzato di oggi, le sfide globali e locali, dal cambiamento climatico
alla crisi alimentare ed idrica, dalla crescente disoccupazione alle disuguaglianze
sociali, necessitano di soluzioni che devono essere pensate e condivise tra pubblico
e privato. Pertanto sta diventando sempre più evidente come le aziende, sia piccole
che grandi, debbano rispondere a tali sfide, iniziando ad andare oltre le proprie
responsabilità di base e adottando comportamenti strategici. Da questo punto di
vista non è più sufficiente avere solo imprese redditizie, ma aziende più
responsabili.

La Corporate Sociale Responsibility (CSR) invita quindi a porre l’attenzione, con


riguardo alla visione strategica d’impresa, all’insieme delle implicazioni di natura
etica della gestione aziendale affinché si pongano in essere gli strumenti gestionali
e strategici necessari per poter definire come sostenibile e responsabile. La
sostenibilità, essenza stessa di questa pratica, è un elemento che sintetizza vari
aspetti multidimensionali: essi vanno letti con riferimento sia alle specifiche
politiche poste in essere dalle imprese sia con riguardo al modo in cui tali politiche
influenzano le aspettative dei vari stakeholder e la generale strategia aziendale. Si
possono identificare 3 categorie principali di stakeholder, le prime 2 fanno si
rifanno alla tipica distinzione fra stakeholder interni e esterni, mentre la terza può
essere identificata nell’ambiente. Oggi infatti, alla luce delle sempre più pressanti
esigenze di rispetto dell’ambiente, non si può non considerare il nostro pianeta
come un “soggetto” che può essere influenzato dall’attività delle imprese.

La CSR non è il semplice rispetto delle leggi, questo piuttosto deve essere
considerato elemento essenziale dell’agire di un’impresa e, preso singolarmente,
non è sufficiente per definire un’azienda come socialmente responsabile. Ciò che
invece la contraddistingue è l’autonoma e volontaria sottoposizione delle
organizzazioni ad un modello di comportamento anche più rigido delle imposizioni
di fonte normativa, la quale può avvenire attraverso l’adozione di codici etici e di
vari standard di comportamento. Il punto di forza di una valida strategia di
responsabilità sociale è il ritorno che questa genera nei confronti dell’impresa. Il

1
beneficio che si consegue è di tipo reputazionale, che comporta una maggiore
fidelizzazione del cliente finale e dei partner commerciali; comporta anche un più
generale sentimento di affidabilità dell’impresa da parte degli altri stakeholder, che
potranno essere spinti ad assumere altri nuovi comportamenti altrettanto
socialmente responsabili. Per contro una scorretta politica di responsabilità sociale
può portare ad una perdita di capitale reputazionale. Ciò può avvenire per 2 ragioni:
o perché le azioni appaiono sporadiche e scoordinate o perché queste configurano
attività di cosiddetto “greenwashing”. Con tale termine si intende definire
un’attività di mera simulazione di una realtà che di socialmente ha ben poco.

Nel proseguimento di questo lavoro verrà analizzato il processo storico che ha


portato all’odierna definizione di CSR partendo dagli anni Sessanta, cioè da quando
il termine ha cominciato a comparire negli scritti di alcuni studiosi americani. Verrà
inoltre esplorato l’approccio di varie istituzioni al tema della responsabilità sociale,
sia a livello globale che nazionale. Nel secondo capitolo saranno presentati alcuni
degli approcci più frequenti alcuni degli approcci più frequenti che oggi le imprese
utilizzano nei confronti dei loro interlocutori, concentrandosi poi sui modelli di
gestione responsabile degli stakeholder interni, di quelli esterni e nei confronti
dell’ambiente. Infine nel terzo capitolo viene introdotto il concetto di
greenwashing, i rischi che esso comporta e le possibili cause di questo fenomeno
durante le fasi della comunicazione.

2
1. CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY

1.1 INTRODUZIONE ALLA CSR

La Responsabilità Sociale di Impresa, anche nota come Corporate Social


Responsibility o più brevemente CSR, è un fenomeno oramai diffuso in molte
imprese. Riguarda il modo in cui queste portano avanti varie politiche e strategie
volte al raggiungimento del maggior livello di sostenibilità possibile. Quest’ultima,
essenza stessa della responsabilità sociale, è un elemento che sintetizza vari aspetti
multidimensionali, quali l’ambiente e il contesto sociale, interno ed esterno
all’impresa.

La CSR pone al centro della visione aziendale la volontà di comporre e coordinare


i molteplici interessi dei diversi stakeholder esterni ed interni all’azienda stessa. Si
tratta di una vera e propria tensione che mira a soddisfare in maniera soddisfacente
le loro attese sociali, etiche ed ambientali, legittime quanto quelle economiche.

Non deve però ritenersi che perseguire obiettivi socialmente responsabili sia solo
da considerarsi un “onere” infatti tali strumenti, se applicati con genuinità, entrano
a pieno diritto nella catena del valore concedendo l’opportunità di sfruttare nuove
leve competitive. Robert Alan McDonald, CEO di Procter & Gamble, osserva che
“i consumatori hanno aspettative sempre maggiori nei confronti delle marche e
vogliono sapere ciò che esse fanno per il mondo. Deve però trattarsi di iniziative
autentiche, dettate da un genuino interesse”1. A conferma di ciò lo studio 2016 del
Reputation Institute2, che vede più di 41mila su oltre 350 aziende operanti in Italia
in più di 20 settori merceologici, ha rilevato che più forte è il percepito positivo
nelle aree di CSR, più aumenta la propensione all’acquisto da parte dei suoi
consumatori.

1
P. Kotler, K. L. Keller, Marketing Management, Pearson, 2012, p. 629.
2
L. La Posta, Imprese Centrali nelle Politiche Green, Sole24Ore, 31.05.2016.

3
Secondo Stefano Zamagni, economista italiano ed ex presidente dell’Agenzia per il
terzo settore, esistono poi 3 valide ragioni per promuovere l’impresa sociale3:

• La prima è quella di contribuire ad arrestare la “deriva escludente


dell’assetto economico oggi prevalente nella nostra società”. Il mercato
infatti, al seguito di fenomeni quali la globalizzazione e la terza rivoluzione
industriale, si è trasformato in una istituzione che tende ad escludere tutti
coloro che non sono in grado di assicurare livelli adeguati di produttività.
L’impresa sociale ha quindi come missione quella di accrescere il tasso di
inclusività economica.
• La seconda ragione è legata alla necessità di accrescere il tasso di
innovatività nel nostro paese. L’innovazione sociale deve diventare il
volano delle disruptive innovations. L’azienda tradizionale, di fronte alla
prospettiva di introdurre un’innovazione di rottura, si limita a confrontare il
costo marginale dell’innovazione stessa con quel che continuerebbe a
guadagnare con il prodotto esistente, e molto spesso il risultato è a favore di
quest’ultimo.
• Per ultima vi è la ragione della biodiversità economica. Al pari del mondo
naturale, anche l’economia ha bisogna che nel mercato operino tipologie
diverse di impresa. Diventa necessario quindi superare la concezione del
mercato come spazio riservato solo ed esclusivamente alle imprese for
profit. Non deve essere il fine perseguito dal soggetto imprenditoriale a
decretare l’appartenenza all’area del mercato, ma bensì la dimostrata
capacità di generare valore.

3
S. Zamagni, Tre motivi per favorire il più possibile l’impresa sociale nel nostro Paese,
Sole24Ore, 31.05.2016.

4
1.2 ORIGINE E SVILUPPO DELLA CSR

Fra le prime definizioni di Responsabilità Sociale d’Impresa, risalenti agli anni ’50,
si può ricordare quella fornita da Howard Bowen, il quale affermò che “le
responsabilità sociali dell’azienda si riferiscono agli obblighi per i manager di
perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni o di seguire quelle linee
d’azione che sono desiderabili in vista degli obiettivi e dei valori della società nel
suo complesso”4. L’analisi fatta da Bowen, nel suo libro Social Responsibility for
the Businessman, portò Archie Carroll a indicarlo come il padre della CSR, se non
altro perché fu il primo a dare una definizione al fenomeno della responsabilità
sociale, che potesse avere anche delle applicazioni di tipo pratico. La sua opera
diede inizio a un periodo di studio del fenomeno della responsabilità sociale
d’impresa caratterizzato, in questa prima fase, da un’opera di ricerca di una
definizione piuttosto che da un’attività di applicazione dei suoi principi.

Altro rilevante contributo si ebbe nel 1960 a opera di Keith Davis, il quale riteneva
che le considerazioni emerse in quegli anni sulla CSR dovessero essere applicate
ad un contesto manageriale, e non più restare confinate a un inquadramento
puramente teorico. Sostenne la necessità di commisurare la responsabilità sociale
al potere di chi svolge l’attività di azienda; fu inoltre uno dei primi ad accennare
alla possibilità che, nel lungo periodo, un comportamento socialmente responsabile
possa portare beneficio ai conti aziendali.

Solo un anno dopo Clarence C. Walton diede una successiva e più elaborata
definizione della Responsabilità Sociale: “Il nuovo concetto di responsabilità
sociale riconosce l’intimità della relazione che esiste tra azienda e società e che tale
relazione è necessario che venga tenuta a mente dal top management e dai relativi
gruppi che perseguono i rispettivi obiettivi”5. Walton elaborando tale definizione
riesce a cogliere l’essenza del problema della mediazione tra diversi gruppi di
interesse che spingono per il conseguimento dei propri obiettivi. Il passo avanti è

4
A. B. Carroll, Corporate Social Responsibility: Evolution of Definitional Construct, Sage
Publications, 1999, p. 270.
5
Ivi, p. 272

5
certamente quello di spostare il problema dalla sfera d’influenza del singolo uomo
d’affari e collocare il centro decisionale della responsabilità sociale nelle più alte
sfere aziendali, riconoscendo quindi il peso che la CSR può avere sui ricavi o con
riguardo all’impatto che l’azienda ha sull’ambiente esterno.

Un successivo passo avanti è stato compiuto nel 1971 grazie a Harold Johnson che
nella sua opera Business in Contemporary Society: Framework and Issues si
preoccupò di analizzare gli impatti e le problematiche che la CSR aveva nel
contesto sociale e aziendale. La Responsabilità Sociale d’Impresa, secondo
l’autore, doveva constare nella ricerca degli obiettivi socialmente ed
economicamente rilevanti ma attraverso l’elaborazione di norme sociali che si
potessero applicare in maniera uniforme al mondo degli affari. Tale approccio
doveva risultare nell’elaborazione di norme e comportamenti aziendali in grado di
definire ruoli e compiti; quelle norme avevano il compito di fornire uno schema
operativo riguardo le modalità di conduzione degli affari. Si può notare come
l’evoluzione della CSR si sia spostata anche sul piano normativo dovendosi
riconoscere la necessità di produrre un corpus di regole e regolamenti, non solo in
via di autoregolazione ma anche di fonte legislativa, in modo tale da poter bilanciare
il legittimo interesse dall’azienda nel ricercare il massimo profitto ma l’altrettanto
legittimo bisogno della società che tale ricerca non la danneggi.

Johnson fornisce però una seconda definizione della CSR dandole un’enfasi più di
lungo termine, asserendo che le imprese che adottano politiche di CSR svolgono
dei programmi sociali per aggiungere profitti alle loro organizzazioni. Tale visione
presuppone che le politiche di responsabilità sociale non possano essere applicate
in modo sporadico o disorganizzato poiché non servirebbero raggiungere l’obiettivo
di incremento dei profitti aziendali ma sarebbero delle mere azioni volte a
compiacere la società, peraltro con il rischio di gettare l’azienda, o quantomeno tali
azioni disorganizzate, in cattiva luce.

Johnson presenta anche una terza definizione dalla quale si evince che è ormai
pacifico affermare che la CSR concorre alla massimizzazione dell’utilità d’impresa
ove tale utilità non coincide esattamente con il massimo profitto ottenibile, ma si

6
riferisce ad un ventaglio di obiettivi. Infatti secondo Johnson “un imprenditore o
manager socialmente responsabile è colui che ha un programma di utilità […] tale
che è interessato non solo al proprio benessere, ma anche a quello degli altri membri
dell’impresa e quello dei suoi concittadini”6. Si formalizza sempre di più la
necessità di spostare al livello del top management le politiche di CSR, in virtù del
potenziale strategico che le politiche sostenibili possono fornire.

Il contributo più rilevante di Johnson tuttavia lo possiamo trovare nella sua quarta
e ultima definizione della Corporate Social Responsibility, da lui chiamata “visione
lessicografica della responsabilità sociale”. La teoria lessicografica suggerisce che
le imprese profit-oriented potrebbero adottare comportamenti socialmente
responsabili perché “una volta ottenuto l’obiettivo di profitto, queste si comportano
come se la responsabilità sociale fosse un obiettivo importante, anche se non lo è”7.
Lo stesso autore, nel far presente che tale definizione può sembrare contraddittoria
con le tre precedenti, precisa che in realtà è solo un “modo complementare di vedere
la stessa realtà”8. Questa definizione permette una duplice lettura riguardo le
politiche di CSR: se da una parte si riconosce che le azioni socialmente responsabili
possono portare le aziende ad ottenere agli occhi dei consumatori un quid in più in
termini di brand image e brand fidelity; dall’altra è necessario riconoscere che le
imprese meno attente alle tematiche sociali e ambientali possono sempre
implementare delle politiche di CSR dopo aver raggiunto gli obiettivi di profitto,
quasi a legittimare quanto fatto precedentemente. Ovviamente quest’ultimo
approccio è più rischioso poiché è possibile che chi osserva noti una certa ipocrisia
nell’applicazione delle politiche di CSR.

La definizione che meglio di tutte però consente di comprendere la vera dimensione


della Responsabilità Sociale d’Impresa, è quella fornita da Archie B. Carroll,
docente della Georgia University e uno dei massimi studiosi in materia. Egli definì
così la CSR: “La responsabilità sociale delle imprese comprende le aspettative

6
A. B. Carroll, Corporate Social Responsibility: Evolution of Definitional Construct, Sage
Publications, 1999, p. 273.
7
Ivi, p. 274.
8
Ibidem

7
economiche, legali, etiche e discrezionali che la società ha nei confronti delle
organizzazioni in un determinato momento”9. Grazie a questa semplice ma
esaustiva definizione, risalente al 1981, è possibile suddividere la Responsabilità
Sociale d’Impresa in 4 categorie:

• Responsabilità Economica; prima di ogni altra cosa infatti l’azienda è


l’istituzione cardine dell’economia capitalistica. In quanto tale ha la
responsabilità di produrre beni e servizi e venderli per poter generare un
profitto.
• Responsabilità Legale; l’azienda, in quanto soggetto giuridico che vive in
un contesto sociale, è tenuta a rispettare le leggi che si applicano nello
stesso.
• Responsabilità Etica; i comportamenti e le norme etiche che, pur non
essendo stabilite dalla legge, la società si aspetta dall’azienda.
• Responsabilità Discrezionale; i comportamenti volontari orientati ad
assolvere una funzione sociale positiva per i quali la società non nutre
aspettative pari a quelle delle responsabilità etiche.

Carroll decise anche di rappresentare la sua di CSR servendosi di un grafico


piramidale (Figura 1.1), il quale ricorda molto la gerarchia dei bisogni di Maslow.
A differenza di quella però, Carroll specificò che non vi è un ordine preciso da
rispettare nel compimento di tali responsabilità, sottolineando che l’azienda
virtuosa non può astenersi dal rispettarle tutte.

Grazie a quanto detto fino ad ora possiamo evincere che il tema della Corporate
Social Responsibility, già presente nei dibattiti sulle corporations statunitensi agli
inizi dell’anni ’50, sia un tema in crescente sviluppo. Il modo di operare delle
imprese esercita una forte influenza sulla conformazione del contesto socio-
economico; non sono infatti solo i mercati a subirne l’influenza, ma i valori etici, le
condizioni lavorative ed il livello di attenzione nei confronti delle problematiche

9
A. B. Carroll, Corporate Social Responsibility: Evolution of Definitional Construct, Sage
Publications, 1999, p. 273.

8
sociali quali integrazione, discriminazione e povertà. In un contesto come quello
attuale, in continuo cambiamento, l’area di responsabilità delle imprese, e di
conseguenza di ciò di cui devono rendere conto, si è decisamente ampliata. Da qui
è possibile comprendere come il fenomeno della CSR non sia una moda passeggera,
ma rappresenti una vera e propria dimensione strutturale della strategia aziendale,
finalizzata alla sopravvivenza e allo sviluppo dell’impresa.

Figura 1 – A. B. Carrol, Piramide di Carroll

1.3 LA CSR NEL PANORAMA MONDIALE

L’interesse dell’attenzione pubblica mondiale agli inizi del millennio nei confronti
delle tematiche che ricadono sotto l’ombrello della Responsabilità Sociale si è
manifestato in diverse iniziative intraprese dalle istituzioni internazionali, come
l’OCSE e l’ONU. Proprio quest’ultima al Word Economic Forum del 1999 propone
ai business leader di tutto il mondo di sottoscrivere un Patto Globale, noto come
UN Global Compact, al fine di promuovere e canalizzare gli sforzi congiunti verso
gli aspetti più critici riguardanti la società e l’ambiente. Siglato da oltre 18.000
aziende in circa 160 paesi nel mondo, il Global Compact comincia ad essere

9
operativo nel luglio del 2000 e rappresentava l’assunzione di un impegno su base
volontaria di aderire a dei principi atti a promuovere i valori della sostenibilità nel
lungo termine, da mettere in pratica attraverso politiche aziendali, comportamenti
sociali e civili responsabili, sfruttando la cooperazione internazionale. I 10 principi
fondamentali contenuti nel Patto riguardano10:

• Diritti Umani: alle imprese è richiesto di promuovere e rispettare i diritti


umani universalmente (Principio I) e di assicurarsi di non essere complici,
anche indirettamente, negli abusi di questi ultimi (Principio II).
• Lavoro: si richiede alle imprese di sostenere e riconoscere la libertà di
associazione dei lavoratori come il diritto alla contrattazione collettiva
(Principio III), di eliminare tutte le forme di lavoro forzato (Principio IV) e
di lavoro minorile (Principio V), nonché di ogni forma di discriminazione
(Principio VI).
• Ambiente: è necessario che le imprese adottino un approccio preventivo
nelle sfide ambientali (Principio VII), che intraprendano iniziative
favoreggiatrici di una maggiore responsabilità ambientale (Principio VIII)
e che incoraggino lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che rispettino
l’ambiente (Principio IX).
• Lotta alla Corruzione: le imprese devono impegnarsi a combattere la
corruzione in ogni sua forma (Principio X).

Per aiutare le imprese ad integrare i suddetti principi nel proprio modello


organizzativo è stato sviluppato anche un modello di gestione, detto UNGC
Management Model. Affinché si adatti a quante più realtà possibili, si tratta di un
modello flessibile che si presta ad essere utilizzato come guida nella pianificazione
della strategia imprenditoriale, in maniera personalizzata per ogni impresa, a
seconda dei bisogni specifici. È rappresentato attraverso una forma circolare

10
https://www.globalcompactnetwork.org/it/

10
(Figura 1.2) per suggerire che la sua implementazione richiede un processo iterativo
e continuativo, composto di 6 fasi11.

Figura 2 - GC Management Model

Il primo passo è Commit, ovvero impegnarsi. I leader devono segnalare al pubblico


il proprio impegno nel sostenere il Global Compact, attraverso la chiara aderenza a
valori e strategie che devono riflettersi nelle operazioni giornaliere. Il secondo step
è Assess, cioè valutare i rischi, le opportunità e gli impatti lungo la catena del valore,
in termini finanziari e non, connessi ai vari aspetti della CSR. Il terzo è Define e
include la formulazione di obiettivi, strategie e politiche basate sulle valutazioni
emerse dallo step precedente, disegnando il percorso per concretizzare i suoi
programmi. Quarto è l’implementazione delle strategie all’interno dell’azienda e
della sua catena di valore, aggiustando continuamente i propri processi, risorse e

11
https://www.globalcompactnetwork.org/it/

11
azioni. Il quinto passo è Measure, ovvero la misurazione e monitoraggio degli
indicatori di performance determinati in relazione agli obiettivi, per valutarne il
grado di raggiungimento. L’ultimo step infine è quello della comunicazione,
necessaria all’impresa per migliorare il proprio engagement con gli stakeholder, che
comprende i progressi effettuati e strategie a lungo termine per efficientare il suo
operato.

Al fine di disegnare un campo d’azione per concretizzare l’azione sociale


internazionale, nel settembre del 2000 tutti i 193 stati membri dell’ONU si sono
impegnati a raggiungere per il 2015 8 obiettivi, i cosiddetti Millenium Development
Goals12. Ognuno di essi ha un target specifico (Figura 3) e degli indicatori utili a
monitorare i progressi raggiunti a partire dalla situazione esistente nel 1990. Lo
scopo finale dell’agenda 2000-2015 era quello di sconfiggere le disuguaglianze
sociali, ridurre drasticamente le situazioni di povertà estrema e migliorare
sensibilmente il livello medio di istruzione e alfabetizzazione.

Figura 3 - Millenium Development Goals

I MDG costituiscono impegni morali e pratici, ma hanno il difetto di non avere la


forma di veri e propri impegni vincolanti, da rispettare in maniera obbligatoria.

12
https://www.un.org/millenniumgoals/

12
Proprio questo fu uno dei loro punti più critici: imporre vincoli e limitazioni
richiedeva tempo e negoziazioni che, in soli quindici anni, erano impossibili da
raggiungere; seppur in certi casi gli effetti positivi degli impegni profusi in tale
direzione erano evidenti.

Il limite più grande nell’idea di fondo dei MDG però fu il mancato coinvolgimento
iniziale del settore privato, il quale sarebbe stato capace, grazie a tecnologie
avanzate e risorse maggiori, di garantire soluzioni migliori e più ampie. Proprio per
superare questo ostacolo all’inizio del 2015 è emersa una nuova Agenda, con
scadenza nel 2030, e avente come obiettivo principale quello di trovare un punto di
contatto tra i bisogni umani e la crescente trasformazione economica, prestando nel
contempo l’attenzione alla protezione dell’ambiente, alla ricerca della pace e alla
realizzazione dei diritti umani, il tutto con l’aiuto e il ruolo proattivo delle imprese.
I 193 Paesi hanno quindi concordato l’introduzione dei 17 Sustainable
Development Goals (Figura 4), ripartendo da ciò che di buono era emerso nel
periodo 2000-2015 e usando i MDG come target di riferimento per poter
raggiungere risultati migliori.

Figura 4 - Sustainable Development Goals

13
La nuova Agenda si differenzia principalmente per il suo maggiore rigore. Se gli
MDG furono elaborati per raggiungere un punto intermedio nel percorso che
avrebbe portato ad azzerare povertà e a porre fine alla fame del mondo, i SDG hanno
come compito principale quello di completare il cammino precedentemente
iniziato. L’approccio degli MDG ha portato le imprese e i governi ad applicare la
strategia “fare prima la parte più semplice”; al contrario invece, il difficile obiettivo
posto dagli SDG ha spinto i soggetti istituzionali a dedicare maggiori risorse sin da
subito. Questi obiettivi inoltre vedono al centro della loro struttura una crescita
economica sostenibile ed esclusiva, sottolineando ed incoraggiando i singoli Stati a
far emergere abilità e idee sfidanti. Infine la più grande differenza tra le due Agende
sta nell’utilizzo delle informazioni: se nei primi nulla è detto circa l’utilizzo di
database condivisi, gli SDG ruotano attorno all’efficiente utilizzo di sistemi di
monitoraggio e accountability.

I Sustainable Development Goals sono target integrati ed indivisibili, globali ed


universalmente applicabili, rispettando allo stesso tempo le priorità e le politiche
nazionali. Ogni governo dovrà decidere come queste aspirazioni dovranno essere
integrate nei processi interni; ed è proprio in questo contesto che si inserisce il ruolo
fondamentale che avranno le imprese: continuare ad operare avendo come fine
ultimo la massimizzazione del profitto, ma tendendo sempre di più al rispetto di
valori condivisi, di codici etici e di regole di integrazione. Le Nazioni Unite hanno
fatto appello ad uno sforzo comune da parte degli agenti economici in relazione a
diversi aspetti del contesto d’impresa:

• Scambi Commerciali: l’Agenda promuove un sistema universale,


multilaterale, non discriminatorio ed equo di trading system; vengono
inoltre incentivati l’incremento delle esportazioni da parte dei paesi in
crescita e la realizzazione di vie d’accesso più facili al mercato.
• Multi-stakeholder Partnerships: si propone di aumentare la global
partnership per lo sviluppo sostenibile, mobilitando e condividendo
conoscenze, expertise, tecnologie e risorse finanziare con l’obiettivo di
supportare il raggiungimento dei SDG in tutti i Paesi.

14
Altro importante intervento a livello internazionale da riportare è quello dell’OCSE,
che nel 2011 ha pubblicato le Linee Guida destinate alle Imprese Multinazionali,
con le quali i governi raccomandano alle multinazionali l’adozione di
comportamenti responsabili, finalizzati a migliorare il rapporto e la fiducia fra
imprese e società e allo stesso tempo incrementare e valorizzare l’impegno verso
uno sviluppo sostenibile. Le Linee Guida spingono le imprese a contribuire al
progresso economico, sociale e ambientale, instaurando un rapporto cooperativo
con la comunità locale anche creando opportunità di occupazione e formazione,
rispettando i diritti umani, promuovendo un dialogo con i vari stakeholder,
prevenendo o minimizzando gli impatti negativi della propria attività e osservando
le pratiche di buon governo societario. Per un’efficace attuazione delle stesse, nella
seconda parte del documento, vengono indicati gli strumenti operativi che si intende
implementare. Viene prevista l’istituzione di Punti di Contatto Nazionali, incaricati
di promuovere, guidare e informare le imprese in relazione alle Linee Guida, che in
Italia è organizzato all’interno del Ministero dello Sviluppo Economico13.

1.4 LA CSR E L’UNIONE EUROPEA

In Europa l’armonizzazione dei concetti di CSR proposti dalla letteratura scientifica


è spettata alle istituzioni comunitarie, che hanno fatto propri gli orientamenti di
prevalente accettazione a livello internazionale, tentando di trovare un punto di
convergenza e sintesi tra le varie interpretazioni.

Il tema della Responsabilità Sociale d’Impresa entra formalmente nell’agenda UE


a partire dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000, nel quale si fa esplicito appello
proprio al senso di responsabilità sociale delle imprese in materia di migliori
pratiche concernenti l’organizzazione del lavoro, le pari opportunità e lo sviluppo
sostenibile. Il vero spartiacque sull’argomento per gli anni a venire è però da
considerarsi il documento presentato dalla Commissione Europea nel 2001: il Libro
Verde infatti fa propria la maggior parte delle definizioni prevalenti della CSR di

13
OCSE, Linee Guida OCSE destinate alle Imprese Multinazionali, 2011.

15
accettazione internazionale e la descrive come “l’integrazione volontaria delle
preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni
commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”14. Essere socialmente
responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi, ma anche andare
oltre, investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti. Lo scopo
del documento quindi era quello di incentivare le imprese a scommettere nel loro
futuro e a sperare che un impegno volontario e concreto potesse contribuire ad
incrementare la redditività; un impegno non indifferente, dal momento che si
doveva iniziare ad andare oltre la logica del profitto, sforzandosi di adottare un
sistema di governo aperto, capace di conciliare gli interessi nell’ambito di un
approccio globale della qualità e dello sviluppo sostenibile.

Dal contenuto del Libro Verde è poi possibile distinguere gli ambiti della CSR,
individuando una dimensione interna all’azienda ed una esterna ad essa. Nel primo
caso, le prassi socialmente responsabili hanno riflessi in primo luogo sui dipendenti
e aprono una via che consente di gestire il cambiamento e di conciliare sviluppo e
competitività. Tra gli ambiti interni su cui si appone il focus possiamo trovare:

• Gestione delle Risorse Umane: si tratta di una delle maggiori sfide lanciate
dal documento. L’UE propone una serie di consigli e correttivi atti a
valorizzare la formazione e la qualificazione dei dipendenti ed incentiva alle
prassi non discriminatorie di reclutamento, che dovrebbero facilitare la
riduzione della disoccupazione, facendo aumentare i tassi di occupazione e
limitando l’esclusione sociale.
• Salute e Sicurezza sul Lavoro: essendo un tema già presente nella
legislazione ordinaria, si richiede alle imprese di effettuare uno sforzo nella
promozione di una cultura della prevenzione, nonché di misure volontarie
volte a rendere più sicuro il luogo di lavoro.
• Adattamento alle Trasformazioni: dato il contesto altamente mutevole e
la tendenza delle grandi imprese a concentrarsi o ristrutturarsi, adottare un

14
Commissione delle Comunità Europee, Libro Verde: Promuovere un quadro europeo per la
responsabilità sociale delle imprese, Bruxelles, 2001, COM(2001) 366 definitivo, p. 7.

16
approccio responsabile in questo ambito significa prendere in
considerazione gli interessi e le preoccupazioni di tutte le parti interessate a
tali cambiamenti.
• Gestione degli Effetti sull’Ambiente e delle Risorse Naturali: ridurre il
consumo di risorse ed emissioni inquinanti può diminuire le ripercussioni
sull’ambiente e recare, allo stesso tempo, vantaggi all’impresa, riducendo la
fattura energetica e le spese di eliminazioni dei rifiuti.

Si passa quindi alla dimensione esterna. La Corporate Social Responsibility infatti


si estende oltre il raggio d’azione dell’impresa, integrando la comunità locale e
coinvolgendo un ampio ventaglio di parti correlate: partner commerciali e fornitori,
clienti, poteri pubblici, rappresentanti della comunità locale e dell’ambiente. Gli
ambiti esterni su cui il Libro Verde si sofferma sono:

• Comunità Locali: lo sviluppo di relazioni positive con la comunità locale


e pertanto l’accumulazione di capitale sociale sono fattori estremamente
importanti per un’azienda. Proprio per questo motivo le imprese spesso
forniscono posti di lavoro, salari, prestazioni ed entrate fiscali, dipendendo
dalla buona salute e dalla stabilità delle comunità che le accolgono.
• Partnerships Commerciali, Fornitori e Consumatori: si sottolinea
l’importanza della costruzione di rapporti con questi soggetti basati su
chiarezza, onestà, eticità e che siano duraturi nel tempo; le imprese inoltre
sono consapevoli che la loro immagine può essere danneggiata dalle prassi
dei loro partner e fornitori lungo tutta la catena produttiva.
• Diritti dell’Uomo: le imprese svolgendo la propria attività devono
assicurarsi di non ledere i diritti fondamentali dell’uomo, vigilando che
questo accada anche lungo tutta la catena del valore. Spesso si dotano di
codici di condotta relativi alle condizioni di lavoro; in tal modo agiscono
per migliorare la loro immagine, limitando i rischi di una reazione negativa
dei consumatori.

17
• Preoccupazione Ambientali a Livello Planetario: si rende necessario
assumere la propria responsabilità non solo a livello europeo, ma anche
globale, seguendo le indicazioni dell’OCSE e dell’ONU.

Da questo primo contributo dell’Unione Europea è possibile comprendere che il


fenomeno era già stato percepito come multisettoriale, coinvolgendo una pluralità
di aspetti, e introduceva la necessità di pensare alla CSR come un concetto su cui
le imprese dovevano poggiare le basi delle proprie attività.

Un altro importante passo in avanti è stato compiuto grazie alla Comunicazione


n.681 del 2011, detta anche Strategia rinnovata dell’UE 2011-2014 per la
Responsabilità Sociale d’Impresa, nella quale la definizione di CSR viene rivista
in quanto “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società” 15. Viene
così neutralizzata la contrapposizione tra approcci obbligatori e approcci volontari
presente nella definizione proposta dal Libro Verde, in quanto l’osservanza delle
leggi e degli accordi collettivi fra le parti sociali costituisce un prerequisito per far
fronte a tale responsabilità. Per adempiere pienamente alle proprie responsabilità
sociali d’impresa, le aziende devono prevedere un processo per l’integrazione delle
questioni sociali, ambientali ed etiche all’interno delle proprie strutture gestionali e
strategie di base, in stretta collaborazione con i propri stakeholder, con gli obiettivi
di massimizzare la creazione di un valore condiviso per la società e individuare,
prevenire e mitigare i possibili effetti negativi.

Tra le varie iniziative europee infine è stata assunta una particolare rilevanza dalla
principale rete di imprese europee, denominata CSR Europe, la quale “agisce come
una piattaforma per quelle aziende che cercano di migliorare la crescita sostenibile
e supportandole nella costruzione di una competitività sostenibile, contribuendo
positivamente alla crescita della società”16. Creata nel 1995, ha lanciato nel 2010
Enterprise 2020, un’ambiziosa iniziativa con l’obiettivo con l’obiettivo di dare
forma al contributo delle imprese a Europa 2020, la strategia europea più completa

15
Commissione Europea, Strategia rinnovata 2011-2014 per la Responsabilità Sociale d’Impresa,
Bruxelles, 2011, COM(2011) 681 definitivo, p. 7.
16
https://www.csreurope.org/

18
per il raggiungimento di una “crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” a livello
comunitario. Questa iniziativa è rapidamente diventata il movimento di riferimento
per le imprese impegnate nella CSR e il suo lancio è stato particolarmente per il
raggiungimento particolarmente rilevante per il raggiungimento di alcuni obiettivi
politici europei. Al fine di favorire la diffusione della CSR e migliorare le
performance aziendali questa piattaforma ha lanciato numerose campagne, tra le
quali possiamo annoverare:

• Skills for Jobs: finalizzata ad aumentare le opportunità di lavoro e


l’occupazione a lungo termine.
• Sustainable Living in Cities: incentrata sulla creazione di alleanze
sostenibili e strategie urbanistiche sostenibili in grado di affrontare le future
sfide sociali, demografiche e ambientali delle città.
• Rebuilding Trust in Finance Initiative and the Etichs in Finance Initiative:
volta a supportare banche e gruppi assicurativi nell’integrazione di CSR e
etica nelle loro operazioni.

All’interno delle campagne lanciate da questo network europeo, sono rilevanti


anche alcune iniziative di comunicazione, come l’European CSR Award, una
competizione a livello europeo tra progetti finalizzati a sensibilizzare sul tema della
CSR.

1.5 LA CSR IN ITALIA

Una prima traccia di Responsabilità Sociale d’Impresa nell’ordinamento italiano


può essere ritrovata già nella Costituzione, in cui all’articolo 41 si legge
“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La
legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica
pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”17. A ben

17
Costituzione italiana, art. 41.

19
vedere, l’Assemblea costituente del 1947 aveva già messo in conto ciò che proprio
in quegli anni veniva affermato da Bowen in America, ovvero che le imprese
dovessero svolgere la propria attività nel rispetto del contesto ecologico e sociale,
dando anche il proprio contributo al suo miglioramento.

A seguito dell’impulso fornito dal Libro Verde, discusso nel paragrafo precedente,
il governo italiano, in particolare il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
ha avviato nel 2002 il Progetto CSR-SC, dove SC sta per Social Commitment, con
l’obiettivo di promuovere l’adozione di una cultura fondata sulla responsabilità e la
consapevolezza riguardo alle tematiche sociali ed ambientali nelle aziende italiane.
Partendo dalla definizione di CSR formulata dalla Commissione Europea, il
Progetto si propone di coinvolgere soprattutto le piccole e medie imprese, elemento
caratteristico del tessuto aziendale italiano, nello sviluppo di sistemi di sistemi
organizzativi e gestionali in grado di includere i nuovi orientamenti. Esso si
presenta ben strutturato e pone le sue basi su tre soggetti promotori, ravvisabili nel
Ministero del Lavoro e Politiche Sociali, le imprese e un CSR Forum, strumento ad
hoc istituito al fine di presidiare tutte le attività operative connesse con
l’implementazione del Progetto e composto dai rappresentanti delle varie parti
sociali, dal governo e dalle ONG.

La proposta italiana contenuta nel Progetto si sostanzia di un percorso dinamico che


ha come obiettivo finale il coinvolgimento delle imprese sulle tematiche di CSR e
che si compone di 3 fasi. La prima fase prevede l’implementazione di forze
promotrici e iniziative informative focalizzate sulla diffusione della cultura
responsabile all’interno dell’impresa, da attuarsi tramite l’inclusione di associazioni
imprenditoriali e soggetti qualificati. Attraverso l’adesione volontaria al Progetto si
passa alla seconda fase, nella quale si guidano le imprese nell’esecuzione del
proprio Social Statement, cioè uno strumento flessibile di rendicontazione sociale
fondato su un set di indicatori di performance legate alla CSR; questi ultimi, sia
qualitativi che quantitativi, possono essere divisi tra Comuni, applicabili per tutte
le imprese, e Addizionali, applicabili alle imprese di maggiori dimensioni. Il
documento viene poi inviato al CSR Forum, che poi procederà con la sua

20
valutazione, identificando in questa fase il livello CSR del Progetto. L’impresa a
questo punto può decidere se fermarsi al livello CSR oppure andare oltre
partecipando attivamente alle iniziative sociali, finanziando l’apposito Fondo SC.
Quest’ultimo, costituito nell’ambito del Bilancio dello Stato, è deputato ad
accogliere le risorse fornite dalle imprese, supportando i progetti determinati nelle
linee di azione nazionale. Quest’ultima fase si identifica con il livello SC del
progetto. Con la promozione di questo articolato progetto, l’Italia ha mostrato sin
da subito forte interesse e intenzione di sostenere le sue aziende al nuovo modo di
fare impresa che si stava delineando.

Successivamente, per dare un indirizzo organico a livello nazionale e in


applicazione di quanto previsto dalla Commissione Europea nella Strategia UE
2011-2014, i Ministeri del Welfare e dello Sviluppo Economico hanno varato nel
2012 il Piano d’Azione Nazionale sulla Responsabilità d’Impresa 2012-2014 con
l’obiettivo di valorizzare le azioni già messe in pratica e orientare quelle future. Il
Piano definisce 6 obiettivi che toccano tutto il ciclo di vita aziendale, ognuno dei
quali è composto da linee prioritarie, azioni e specifici interventi18:

• Aumentare la cultura responsabile presso le imprese, i cittadini e le


comunità territoriali.
• Sostenere le imprese che adottano la Responsabilità Sociale d’Impresa,
attraverso incentivi, sgravi fiscali, premialità e semplificazioni.
• Contribuire a rafforzare gli incentivi di mercato, facendo leva sul contributo
del mondo finanziario in materia di investimenti sostenibili e finanza etica.
• Promuovere le iniziative delle imprese sociali, organizzazioni del Terzo
Settore, cittadinanza attiva e società civile, da perseguirsi tramite un
maggiore dialogo tra questi soggetti e le imprese.
• Favorire la trasparenza e la divulgazione delle informazioni economiche,
finanziarie, sociali e ambientali, mediante la diffusione o il sostegno di linee
guida per il reporting.

18
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Ministero dello Sviluppo Economico, Piano
d’Azione Nazionale sulla Responsabilità Sociale d’Impresa 2012-2014.

21
• Promuovere la CSR attraverso gli strumenti riconosciuti a livello
internazionale e la cooperazione e la solidarietà internazionale, integrando i
principi del Global Compact o dell’OCSE.

La diffusione della Corporate Social Responsibility è stata incoraggiata anche


tramite la creazione, nel 2006, del CSR Manager Network, una rete italiana che
l’obiettivo di “qualificare e promuovere i professionisti e le professioniste della
sostenibilità”19 tramite la diffusione e la condivisione delle migliori pratiche di
CSR. Rinnovatasi recentemente come Sustainability Makers – the professional
network, essa continua il percorso originale promuovendo politiche sostenibili e
supportando numerose iniziative pubbliche rivolte a istituzioni politiche,
associazioni imprenditoriali, sindacati e organizzazioni non profit.

19
https://www.sustainability-makers.it/

22
2. GESTIONE DELLA CSR NELLA STRATEGIA AZIENDALE

2.1 FASI DI IMPLEMENTAZIONE DELLA CSR

L’introduzione nella strategia aziendale di una politica di Corporate Social


Responsibility è un processo che può essere intrapreso seguendo un andamento a
stadi, riflettendo la crescita della stessa azienda. Tale progressività è utile per
adattare le politiche aziendali alle condizioni esterne e a dosare l’utilizzo delle
risorse necessarie all’implementazione delle politiche socialmente responsabili.
Può anche succedere che un’impresa, sin dalla sua origine, inglobi in sé stessa dei
temi di responsabilità sociale e su essi basi il suo sviluppo strategico e vantaggio
competitivo. In ogni caso è possibile suddividere le fasi attraverso le quali la CSR
entra a far parte della realtà aziendale per stadi di sviluppo, valutati in base al tempo
e al grado di integrazione di tali politiche20:

Figura 5 - Molteni, Fasi di Sviluppo CSR

20
M. Molteni, Gli stadi di sviluppo della CSR nella strategia aziendale, ImpresaProgetto, rivista
online del DITEA

23
• 1° Stadio – CSR Informale: In questa fase iniziale il problema il problema
dell’applicazione delle politiche di CSR non si pone in modo formalizzato
ed è tipico delle realtà aziendali medio-piccole nelle quali eventuali strategie
di responsabilità sono presenti solo perché volute dal management. Si tratta
generalmente di manifestazioni ad orientamento sociale e ambientale a cui
non viene nemmeno dato il nome di CSR. Spesso però diventa necessario
passare ad una fase successiva, adottando politiche di responsabilità sociale
più strutturate, sulla spinta di soggetti esterni o dei dipendenti stessi che
chiedono un comportamento più responsabile.
• 2° Stadio – CSR Corrente: Le imprese, a causa delle varie spinte esterne
e interne, in questa fase iniziano a formalizzare alcune operazioni tipiche di
CSR. Alcuni esempi sono la stesura di un codice etico (documento ufficiale
contenente i valori su cui si fonda l’impresa e le sue politiche aziendali),
l’elaborazione di un bilancio sociale (documento con cui l’impresa
comunica la propria strategia e le sue linee di sviluppo) e la realizzazione di
campagne di cause-related marketing (strategia grazie alla quale l’azienda
persegue i propri obiettivi commerciali e, al tempo stesso, fornisce un
contributo ad una causa sociale). In questo stadio l’impegno assunto corre
il rischio di non essere intrapreso in maniera strutturale e di essere visto
come una mera necessità, a causa dei concorrenti che fanno altrettanto o del
mercato che semplicemente lo richiede. Se non viene assunta un’ottica di
lungo termine, si corre il rischio di perdere il vantaggio competitivo che è
in grado di far conseguire una valida strategia di CSR.
• 3° Stadio – CSR Sistemica: Una volta giunti a questa fase, non vi è più
spazio per azioni isolate o sporadiche di CSR e si rende necessario un
approccio strategico alla materia. L’attuazione di una politica di CSR
implica che questa diventi parte dell’impresa stessa e che condizioni i suoi
obiettivi futuri; le strategie di responsabilità sociale devono essere
migliorate e rese operative, le azioni già realizzate devono essere ripetute in

24
altre aree di business e devono essere oggetti di comunicazione strategica
verso tutti gli stakeholder.
• 4° Stadio – CSR Innovativa: In questo stadio le azioni di CSR che hanno
come quadro di riferimento il solo rispetto degli standard o una stringente
attenzione alle norme vigenti non sono più sufficienti, si devono quindi
implementare politiche ben più innovative. Si può ora riscontrare una
“creatività socio-competitiva”, dato che la CSR qui si caratterizza per la
ricerca di nuove soluzioni capaci di premiare sia l’azienda che le aspettative
degli stakeholder. Tali soluzioni saranno poi fattori di sviluppo del
vantaggio competitivo, purché si abbia cura di non trascurare le azioni a
tutela dei diritti degli altri stakeholder non direttamente coinvolti nelle
azioni di CSR. Attributo necessario ma non sufficiente è la tutela dei diritti
degli stakeholder interni ed esterni; essa identifica il limite morale entro il
quale l’impresa deve necessariamente mettere in campo le politiche di CSR
di breve termine. La creatività socio-competitiva invece si comporta come
soluzione di medio-lungo termine poiché tende ad inglobare nella strategia
aziendale progetti di “sintesi socio-competitiva”, un’innovazione aziendale
che simultaneamente identifica una soluzione efficace rispetto alle esigenze
degli stakeholder e genera la capacità di consolidare il vantaggio
competitivo dell’impresa.
• 5° Stadio – CSR Dominante: Quando la soluzione adottata configura una
sintesi socio-competitiva potrà dirsi ultimato il percorso di integrazione
della CSR nella strategia aziendale, ma il quinto stadio indica un ulteriore
livello di impegno che nasce dalla volontà dell’azienda di autoimporsi sul
mercato come organizzazione sostenibile e socialmente responsabile.
Spesso accade che aziende di questo tipo finiscano per trainarne altre che si
trovano in uno stadio di CSR meno strutturata, divenendo esempi di best
practice. Spesso in questa fase le attività di CSR vanno ben al di fuori del
contesto aziendale estendendosi ad una platea di interlocutori molto ampia;
bisogna quindi valutare quando un’azione tesa a soddisfare un gruppo tanto
allargato sia sostenibile sul piano dei costi. Può anche verificarsi che i

25
concorrenti conseguano un vantaggio di costo per il solo fatto di non
assumere tali comportamenti responsabili. In tal caso diventa di preminente
interesse per l’azienda tentare di imporre a tutto il settore nuove regole di
comportamento, perseguendo la via dell’autoregolazione, in modo che il
proprio impegno sociale non si trasformi in una perdita di competitività.

2.2 TRIPLE BOTTOM LINE

Le azioni che intendono avere un comportamento socialmente responsabile


necessitano di strumenti operativi orientati al perseguimento di tale obiettivo. Un
modello che propone un paradigma di business è quello della Triple Bottom Line,
noto anche come “modello delle 3 P” (Planet, People, Profit), finalizzato alla
progettazione di politiche di sostenibilità aventi riguardo nei confronti
dell’ambiente, degli stakeholder e alla redditività. Un’azienda può dirsi
effettivamente sostenibile quando, nel perseguimento dell’obiettivo reddituale,
riesce a conciliare le proprie necessità di profitto con le esigenze degli degli
stakeholder interni ed esterni e con la tutela dell’ambiente21.

La dimensione Profit è legata ad un’analisi tradizionale costi-ricavi e alla necessità


di conseguire e mantenere un’adeguata posizione competitiva. La dimensione
People invece ha come destinatari tutti i soggetti interni ed esterni all’impresa
preoccupandosi di tutelare le loro ragioni riguardo i rischi di salute o sicurezza che
l’attività d’impresa potrebbe far nascere; si ha in generale attenzione a tutte le attese
degli stakeholder. Infine la dimensione Planet ha il compito di verificare che
l’impresa si curi di minimizzare l’impatto delle sue attività sull’ambiente. Le
dimensioni delle 3 P si influenzano reciprocamente agendo l’una a sostegno
dell’altra e, se virtuosamente intrecciate fra loro, rendono necessaria una visione
sistematica dei vari elementi che portano al raggiungimento dell’obiettivo di
sostenibilità: la sostenibilità economica alluda alla capacità di creare ricchezza non

21
A. Siano, La comunicazione per la sostenibilità: implicazioni manageriali, Sinergie, Rivista di
Studi e Ricerche, 2012

26
solo per l’azienda, ma per il mercato in generale (fornitori, clienti, investitori,
banche, etc.); la sostenibilità sociale riguarda la condizione dei lavoratori ma anche
la tutela della salute dei consumatori, sia in tema di emissioni che in tema di
salubrità e sicurezza dei prodotti; la sostenibilità ambientale si riferisce alla
valutazione degli impatti sia dei processi che dei prodotti.

Un’efficace sintesi degli interessi degli stakeholder e degli interessi aziendali


consente di identificare un Sustainability Sweet Spot come punto di incontro tra
interessi multipli, spesso contrapposti, sui quali progettare nuovi modelli di
business in grado di fornire una risposta sostenibile22.

Figura 6 - Savitz e Weber, The Sustainability Sweet Spot

Attraverso il Sustainability Sweet Spot è possibile identificare le innovazioni che è


necessario introdurre per progettare un’offerta capace di conseguire il prefissato
obiettivo di performance e di soddisfare le esigenze ambientali e degli stakeholder.
Le innovazioni che emergono possono riguardare diverse dimensioni: nuovi
processi, nuovi mercati, nuovi modelli di business, nuovi sistemi di reporting, etc.

22
A. W. Savitz, K. Weber, The Triple Bottom Line – How Today’s best-run companies are
achieving economic, social and environmental success, and how you can too, Jossey Bass, San
Francisco, 2006

27
2.3 CSR VERSO GLI STAKEHOLDER INTERNI

Possiamo considerare fra tutti gli stakeholder interni le risorse umane come la
categoria di maggior interesse, se non altro per il peso che queste hanno sulla
competitività e capacità innovativa dell’impresa. Vi sono diversi ambiti della
responsabilità sociale d’impresa applicabili alle risorse umane: dai trattamenti
salariali alle condizioni di lavoro, dalla gestione dei licenziamenti ai trattamenti
pensionistici, temi che mutano sensibilmente in ogni impresa e con riferimento a
diversi settori. Si può notare, specialmente in tema di risorse umane, come nessuna
deroga sia ammissibile alle norme vigenti in tema di prestazioni lavorative, seppur
queste varino da paese a paese, ma è altrettanto evidente come possano essere
differenti gli orientamenti di HRM, o Human Resource Management.

È possibile identificare un processo step-by-step, proposto da Kira e Balkin, che


consenta di costruire un Sustainable Work System23. Il modello parte dall’assunto
che il lavoro costituisca un elemento di “energia psicofisica” in grado di
incrementare il senso di benessere del lavoratore, oltre a creare un ambiente in grado
di stimolare capacità di apprendimento e problem solving. Perché si abbiano degli
impatti positivi sulle performance dei lavoratori però, l’organizzazione del lavoro
deve avere determinate caratteristiche. I contenuti del sistema di lavoro sostenibile
devono essere:

• Autentici; al lavoratore deve essere quindi consentito di esprimere i propri


pensieri e valori.
• Significativi; le prestazioni richieste al lavoratore devono fargli percepire
che sta facendo qualcosa che effettivamente apporta un valore aggiunto.
• Basati sulle Competenze; si deve prevedere un certo grado di variabilità
dei task in modo che sia possibile un apprendimento continuo dovuto a
situazioni nuove.

23
M. Guerci, La gestione delle risorse umane per la sostenibilità dell’impresa, Franco Angelo
Edizioni, Milano, 2011

28
Affinché il sistema di lavoro sostenibile presenti queste caratteristiche è necessario
che vi siano 2 condizioni di fondo. La prima è che si metta il lavoratore nella
condizione di vivere un’esperienza; se si prevede autonomia decisionale con
l’utilizzo di competenze specifiche del lavoratore, e si fa in modo che il lavoratore
soddisfi le sue esigenze professionali, questo percepirà il proprio lavoro
positivamente. La seconda condizione riguarda le relazioni lavorative, per
soddisfarla è necessario fare in modo che i rapporti interpersonali siano improntati
sulla fiducia, accettazione e sulla reciprocità.

Kira e Balkin, inoltre, presentano 3 linee guida che devono necessariamente essere
adottate in caso di progettazione di un modello di sostenibilità:

• Progettare il lavoro in modo collaborativo; si deve evitare che la


direzione della funzione risorse umane “impartisca ordini” coinvolgendo
invece una pluralità di lavoratori e, soprattutto, il titolare del ruolo
professionale che si sta progettando e i soggetti che costituiranno il suo
team.
• La progettazione deve svilupparsi su un continuum; si deve tenere conto
che nella vita del lavoratore possono insorgere delle contingenze che
rendono quello specifico compito o team non più idoneo, si dovrà quindi
prevedere una certa intercambiabilità dei lavoratori in modo che questi
possano trovare il bilanciamento ideale fra lavoro e vita privata.
• Avere riguardo al sistema di relazioni che i lavoratori sviluppano; non
solo i contenuti del lavoro quindi, ma anche le relazioni interpersonali, se
costruttive, sono un elemento cruciale della sostenibilità del sistema.

29
2.3.1 CASE STUDY: LA FONDAZIONE FERRERO E IL PROGETTO
IMPRENDITORIALE

Ferrero, impresa leader nel mondo per la produzione dolciaria, ha sempre


implementato consistenti programmi volti alla sostenibilità e alla CSR, tanto che si
è dotata di un ufficio con specifiche responsabilità in tema di Corporate Social
Responsibility. L’azienda inoltre fa parte di diverse associazioni quali, per esempio:
il Global Compact (Paragrafo 1.3) che coinvolge imprese di tutto il mondo con il
fine di allineare le loro attività a principi universalmente accettati con riferimento
ai diritti umani, al lavoro, all’ambiente e alla lotta alla corruzione, la Global
Reporting Initiative che si occupa di studiare ed elaborare strumenti metrici utili
alla costruzione di un sistema di reporting completo in tema di sostenibilità e la CSR
Europe (Paragrafo 1.4), fondata nel 1995, che consta oggi di oltre 10.000 imprese
e ha lo scopo di sostenere la responsabilità sociale d’impresa all’interno del circolo
delle imprese europee.

Tra le varie iniziative portate avanti da Ferrero nel corso degli anni, possiamo notare
come l’attenzione verso i propri dipendenti si caratterizzi per la creazione di un
ambiente di lavoro positivo in grado di sviluppare le competenze del singolo
lavoratore e nello sviluppo di una politica sociale d’integrazione e non
discriminazione. In particolare sono molto importanti per la sua strategia di
responsabilità sociale la Fondazione Ferrero e il Progetto Imprenditoriale Michele
Ferrero.

La Fondazione nasce per dare sostegno ai dipendenti ormai in pensione, ma nel


tempo la sua attività è sconfinata in altri ambiti divenendo un luogo di riferimento
per iniziative culturali ed educative. Nata nel 1983 come un’iniziativa pionieristica
per volere di Michele Ferrero, ha oggi sede ad Alba e opera in campo sociale,
filantropico e culturale. Sin dalla sua nascita, come già detto, si impegna per
migliorare la qualità della vita dei suo vecchi dipendenti in età da pensione e fornire
loro l’opportunità di essere persone attive, valide e incisive sulle proprie vite ed
altrui, promuovendo a tal fine numerose attività: ad oggi infatti esistono oltre 40
gruppi di attività suddivise in diversi laboratori che gli ex dipendenti possono

30
frequentare anche accompagnati da amici e parenti; particolarmente sentito è il
“rapporto fra nonni e nipoti” con molte attività, anche all’esterno della Fondazione,
sono loro dedicate. Interno alla Fondazione vi è poi il “Nido Ferrero” che, arrivando
a poter ospitare fino a 80 bambini, si propone di offrire sostegno in tema educativo
ai genitori e attiva vari progetti per le loro famiglie.

Nell’ampio ventaglio di attività svolte dalla Fondazione sono anche numerosi i


progetti culturali, infatti essa incoraggia diversi progetti di ricerca sviluppati per
accrescere la propria rete di conoscenze in vari ambiti scientifici. A tal fine vengono
erogate annualmente alcune borse di studio, nazionali e internazionali, ai figli dei
dipendenti. Sono inoltre sviluppati diversi progetti di respiro internazionale che
hanno lo scopo di promuovere la cultura piemontese nel mondo ed attrarre ad Alba
nuovi talenti. Spesso poi la Fondazione realizza al suo interno mostre tematiche
destinate alla fruizione di chiunque abbia interesse.

Un altro importante esempio di responsabilità sociale dell’azienda è quello del


Progetto Imprenditoriale Michele Ferrero, noto anche come Imprese Sociali Ferrero
fino al 2015, istituito per la prima volta in Camerun nel 2005 e poi successivamente
in Sud Africa e India. La connotazione “sociale” di questo progetto si fonda su 2
linee direttrici: la creazione di posti di lavoro in parti del mondo in via di sviluppo
e la realizzazione di progetti di carattere sociale o umanitario.

Per quanto riguarda la creazione di posti di lavoro, Ferrero si assicura che i


lavoratori ricevano un salario sufficiente a sostentare sé e la propria famiglia; inoltre
viene assicurata la formazione professionale e il miglioramento della capacità
lavorativa in luoghi dove la scolarizzazione e la conoscenza tecnica sono piuttosto
ridotti. Con questi nuovi impianti produttivi si generano, e proprio questo è uno
degli obiettivi, evidenti esternalità positive relative al coinvolgimento di tali
imprese nel territorio. In tal senso Ferrero si impegna anche ad utilizzare quanto più
possibile le materie prime locali al fine di creare un indotto.

Per la realizzazione dei progetti di carattere sociale e umanitario è invece prevista


la costituzione di un fondo separato, interno al Progetto Imprenditoriale, regolato

31
in base alle performance raggiunte ogni anno. I proventi di tale fondo vengono poi
impiegati integralmente per la realizzazione di alcune iniziative, programmate con
la collaborazione delle istituzioni locali. Alcuni fra i progetti umanitari più
significativi hanno riguardato la prestazione di cure mediche a favore di bambini o
la realizzazione e ristrutturazione di scuole e strutture sanitarie.

2.4 CSR VERSO GLI STAKEHOLDER ESTERNI

L’obiettivo di ogni impresa può essere semplicemente riassunto nella soddisfazione


del cliente finale. Tale obiettivo tuttavia può definirsi “etico” solo se non produce
effetti negativi moralmente ingiustificabili nelle ragioni degli altri stakeholder. Il
problema è che, data l’impossibilità di creare contemporaneamente valore per tutti
gli stakeholder, l’obiettivo deve essere un adattamento degli effetti delle scelte di
marketing in un risultato che sia moralmente corretto24. Un marketing etico deve
quindi avere il compito di creare valore partendo da vantaggi morali (fiducia,
reputazione, etc.) affinché esso possa un fattore di richiamo per gli stakeholder,
consumatori compresi. La concorrenza fra imprese etiche poi può essere un fattore
di spinta o di ostacolo alla diffusione di valori etici. Nel primo caso perché un
comportamento etico consente di selezionare e mantenere relazioni durature con i
partner commerciali e consente di costruire un elemento di fidelizzazione per i
consumatori; nel secondo perché spesso le politiche di sostenibilità comportano un
aggravio dei costi, che in una situazione competitiva non può essere integralmente
trasferito sui consumatori, generando una potenziale erosione dei margini di
profitto.

Sull’etica del marketing quindi pesano vari fattori: alcuni individuali come l’etica
del singolo e lo stile di leadership, altri organizzativi come la cultura aziendale o la
visione e la missione, e altri ancora competitivi come la visibilità dell’impresa sul
mercato. Questi fattori, intrecciandosi, orientano le politiche di marketing ad un
comportamento etico nei confronti degli stakeholder. Tale orientamento poi trova

24
S. Sciarelli, Etica e responsabilità sociale nell’impresa, Giuffrè Editore, 2007

32
la sua maggiore espressione nelle politiche di prodotto e di promozione
commerciale.

La politica di prodotto di certo costituisce uno dei momenti fondamentali della


progettazione della strategia di marketing e possiamo trovare 4 fattori sui quali si
può agire per renderla più responsabile:

• Nell’attività di sviluppo dei nuovi prodotti i marketing manager dovrebbero


introdurre un’analisi etica quale parte del processo di progettazione
dell’offerta.
• Si dovrebbero predisporre adeguate istruzioni sull’uso e idonee etichette di
avvertimento, oltre quelle imposte dalla legge.
• L’azienda dovrebbe ritirare dal mercato, con assoluta prontezza, i prodotti
quando sorgono problemi di salubrità o sicurezza.
• Le aziende dovrebbero adottare un comportamento etico in tema di
eliminazione di un prodotto dal portafoglio (es. assicurando assistenza
tecnica per tutto il periodo di vita utile del prodotto già acquistato) e in tema
di introduzione di uno nuovo (es. riciclabilità, compatibilità con versioni
precedenti, ecocompatibilità, etc.)

Anche per quanto riguarda la politica di prodotto, comunque, il dilemma etico


ricade nella sfera di un necessario trade-off fra una giusta ripartizione, tra produttore
e consumatori, dei maggiori costi che derivano dal concetto di “eticità” del prodotto
e un adeguato livello di qualità dell’offerta.

È lecito domandarsi però se ai consumatori effettivamente importi quando


un’azienda socialmente responsabile e se questi basino i loro acquisti o decisioni di
investimento adottando come criterio la responsabilità sociale delle imprese. Se ci
si da una risposta affermativa, diventa necessario allora interrogarsi sull’esistenza
un comportamento d’acquisto socialmente responsabile, o SCRB (Socially
Responsible Consumer Behavior), e in che cosa consista. Possiamo provare a
definirlo come l’acquisizione, l’uso e la disposizione di prodotti che minimizzano
o eliminano ogni effetto dannoso e massimizzano i benefici di lungo termine per la

33
società; un comportamento d’acquisto socialmente responsabile inoltre fa evitare ai
consumatori di acquistare prodotti di aziende che arrecano danno alla società. Un
interessante studio25 in tal senso è stato svolto nel 2011 da Mohr, Webb e Harris, il
cui scopo era comprendere se esistesse una correlazione tra CSR e comportamento
d’acquisto. Il primo risultato emerso è stato che i consumatori non adottano un
SRCB sin da subito, ma è il risultato di un processo graduale: si tratta quindi di un
comportamento contrapposto al paradigma classico di acquisto basato solo su
prezzo, qualità o convenienza, in quanto si lega maggiormente ad un’attività di
ricerca di informazioni più lenta e complessa, finalizzata a conoscere il grado di
responsabilità sociale di una specifica impresa. Questo comportamento di acquisto
inoltre è soggetto ad essere mutevole nel tempo e segue un andamento a stadi:

• Precontemplation; lo stadio nel quale i soggetti non basano i loro


comportamenti di acquisto sulla CSR.
• Contemplation; in questo stadio i consumatori pensano di basare un loro
futuro acquisto anche sulla CSR, ma tale criterio non gioca comunque un
forte ruolo.
• Action; qui i soggetti hanno già deciso di basare alcune delle loro decisioni
usando la CSR come criterio di scelta.
• Maintenance; in quest’ultimo stadio si ha il più alto grado di impegno da
parte dei consumatori nell’uso della CSR come principale strumento di
scelta per la maggior parte dei loro acquisti.

I risultati della ricerca mostrano che generalmente i soggetti che non assumono un
comportamento d’acquisto socialmente responsabile basano i loro criteri di scelta
sul prezzo o sulla qualità e ritengono che la CSR non influisca in misura rilevante
riguardo la loro soddisfazione. Tuttavia emerge anche che alcuni soggetti non
assumono un comportamento d’acquisto sostenibile solo per lo scarso livello di
informazioni in loro possesso o per la difficoltà di reperimento delle stesse. Molti

25
L. A. Mohr, D. J. Webb, K. E. Harris, Do Consumers Expect Companies to be Socially
Responsible? The Impact of Corporate Social Responsibility on Buying Behavior, Journal of
Consumer Affairs, 2001, Vol. 35, n.1

34
partecipanti alla ricerca hanno affermato che apprezzerebbero avere delle
informazioni sistematiche e periodiche riguardo le azioni socialmente responsabile
delle imprese. Invero esiste un segmento di consumatori, i mainteiners, che si
allontana dal modello tradizionale e non basa le sue decisioni sul self-interest: da
ciò si evince che esiste un segmento di mercato che considera il grado di
responsabilità sociale delle imprese nelle proprie decisioni di acquisto e
investimento; le aziende manifatturiere e i retailer hanno quindi l’opportunità di
azionare questo segmento di mercato, e nel fare ciò hanno anche la possibilità di
contribuire allo sviluppo sostenibile della società.

In questo contesto è evidente, soprattutto alla luce dei risultati della ricerca, che la
comunicazione di marketing ha il nuovo e ulteriore compito di fornire ai soggetti
disposti a mutare i loro comportamenti di acquisto, tutte le informazioni necessarie
affinché questi pervengano ad un giudizio di sostenibilità nei confronti dell’azienda.
Per le aziende è quindi un fattore critico sviluppare la fiducia nei consumatori e
intraprendere programmi di CSR strategica può essere di grande appeal per quelli
che compiono acquisti socialmente responsabili o che intendono compierli in
futuro.

2.4.1 CASE STUDY: AI FOR HUMANITARIAN ACTION

Microsoft è una delle più grandi società di software al mondo, spaziando da


applicazioni e sistemi per PC a produzioni videoludiche e periferiche, oltre a fornire
servizi di posta elettronica. L’impresa è stata anche classificata come numero tra i
100 migliori cittadini aziendali da Corporate Responsibility Magazine sia per
l’impegno ambientale che per il punteggio sociale, il quale misura le prestazioni
aziendali utilizzando più di 200 fattori. Oltre a varie attività infatti, tra cui la
costante innovazione, le attività filantropiche di Bill Gates hanno portato l’azienda
a farsi conoscere e negli ultimi anni il nuovo CEO, Satya Nadella, è stata in grado
di portare le cose sotto una nuova luce, trovando a Microsoft un nuovo focus:
l’empowerment del cliente e della società. In qualità di gigante tecnologico, essa

35
utilizza la tecnologia stessa per aiutare sia le persone che l’ambiente. Una filosofia
i cui sforzi sono solo cresciuti con l’aumento delle entrate dell’azienda negli ultimi
anni.

Un esempio di tale applicazione può trovato nel progetto AI For Humanitarian


Action, un’iniziativa del valore di 40 milioni di dollari che punta ad utilizzare il
potere delle intelligenze artificiali per venire incontro alle crisi umanitarie. Il
programma fa parte del pacchetto AI For Good di Microsoft, un impegno crescente
il cui scopo è trovare soluzioni alle grandi sfide della società con l’intelligenza
artificiale. Imitando progetti simili, come AI For Earth e AI For Accessibility,
Microsoft lavora a stretto contatto con specifiche organizzazioni non organizzative
(ONG) e organizzazioni umanitarie attraverso sovvenzioni finanziare, investimento
tecnologici e partnership che combinano il know-how di Data Science e IA con le
competenze chiavi di questi gruppi. L’impresa ritiene che tale programma
accelererà il ritmo dell’innovazione grazie alla gestione strategica di progetti di
intelligenza artificiale, fornendo nuove applicazioni e soluzioni riapplicabili e
collaborando con altri per espandere i progetti iniziali. Ci sono 4 aree in particolare
in cui Microsoft concentra i propri sforzi per la ricerca di nuove soluzioni26:

• Risposte al Disastro; l’intelligenza artificiale e la modellazione dei dati


sono strumenti estremamente promettenti nella previsione e nel rilevamento
dei primi segnali di disastri imminenti, nonché come supporto ai soccorritori
per indirizzare meglio i loro sforzi. Tecnologie IA, come la visione
artificiale, possono analizzare rapidamente le immagini delle strade
danneggiate da un evento, promuovendo una risposta rapida e sicura. Grazie
ad una nuova partnership con la Banca Mondiale, le Nazioni Unite e i
partner dell’industria tecnologica, le organizzazioni di soccorso saranno poi
in grado di prevedere con precisione quando e dove si verificheranno le
future carestie in modo che gli aiuti possano arrivare prima, e
potenzialmente salvare un maggior numero di vite.

26
G. Sehgal et al., Corporate Social Responsibility: A Case Study of Microsoft Corporation, Asia
Pacific Journal of Management and Education, 2021, Vol. 3, no. 1

36
• Esigenze dei Bambini; Microsoft ritiene che le intelligenze artificiali
possano dotare le ONG e le organizzazioni di strumenti migliori per
proteggere i bambini, una delle categorie più vulnerabili. Ad esempio,
utilizzando l’analisi predittiva e Bot Framework, è possibile prendere di
mira sia l’offerta che la domanda alla base del traffico di essere umani, una
delle più grandi industrie criminali del mondo, portando col tempo
all’interruzione di questa pratica.
• Rifugiati e Sfollati; le intelligenze artificiali e il machine learning hanno il
potenziale per migliorare la vita di circa 68 milioni di sfollati nel mondo, di
cui circa 28 milioni sono rifugiati. Tale tecnologia può aiutare ad
ottimizzare la fornitura di aiuti, servizi e forniture ai rifugiati e può
supportare gli sforzi delle ONG a comprendere e comunicare i bisogni di
queste persone. Microsoft collabora anche con alcune organizzazioni, tra
cui il Norwegian Refugee Council, NetHope e University College Dublin,
per sviluppare un chat bot che utilizzi tecnologie IA, come il riconoscimento
vocale, la comprensione della lingua e la traduzione automatica per aiutare
i giovani sfollati a connettersi con risorse educative gratuite e di qualità.
L’utilizzo di un chat bot come questo potrebbe anche fornire un modello per
gli operatori umanitari sul campo, aiutandoli a comunicare con gli sfollati
che parlano lingue diverse e che necessitano di servizi fondamentali
specifici.
• Diritti Umani; Microsoft collabora con le ONG e le organizzazioni
umanitarie per trovare nuove soluzioni che aiutino a monitorare, rilevare e
prevenire le violazioni ai diritti umani. Grazie al deep learning, infatti, ha
creato la capacità di prevedere, analizzare e rispondere meglio a situazioni
cruciali in questo campo. Utilizzando poi la traduzione vocale basata
sull’intelligenza artificiale, le persone possono connettersi con avvocati pro
bono, specializzati nella protezione di diritti umani.

37
2.5 CSR VERSO L’AMBIENTE

La gestione ambientale, intesa come l’insieme di politiche e attività rivolte al


miglioramento della sostenibilità ambientale dell’impresa, è uno dei campi di
maggiore impatto della CSR. Nei confronti di questo particolare stakeholder diversi
studi dimostrano che l’adozione di comportamenti per la sua valorizzazione
dell’ambiente e la riduzione dell’impatto negativo sullo stesso delle attività
aziendali concorrono al conseguimento di vantaggi competitivi in termini di
differenziazione dell’offerta, di riduzione dei rischi, di rafforzamento della
produttività per effetto della riduzione dei costi27.

Tradizionalmente la protezione dell’ambiente è sempre stata considerata qualcosa


di pubblico interesse ed esterna alla sfera privata. I governi di vari paesi si sono fatti
carico di assicurare la sicurezza ambientale imponendo regole di condotta e
spingendo il settore privato ad adottare sistema rispettosi dell’ambiente. Nel corso
del tempo però, il ruolo dei privati è cambiato per via di una mutata sensibilità al
problema ambientale. Allo stesso modo è mutata l’idea secondo la quale la
protezione dell’ambiente e la crescita economica fossero temi antitetici: molte
aziende infatti si sono rese conto che assumere un comportamento sostenibile
poteva essere vantaggioso per i loro business28.

L’aspetto ambientale della CSR è definito dal dovere di prestare attenzione


all’impatto delle operazioni, dei prodotti e degli impianti aziendali sull’ambiente,
all’eliminazione degli sprechi, all’abbattimento delle emissioni, alla
massimizzazione dell’efficienza produttiva e alla produttività delle risorse
impiegate e, in generale, alla minimizzazione delle pratiche nocive che limitano il
godimento dell’ambiente e delle risorse disponibili per le generazioni presenti e
future. L’implementazione delle iniziative di CSR in tema ambientale non può certo
non sottostare alla legislazione di settore ma, come ormai di consueto, le iniziative

27
F. Perrini, C. Vurro, L’implementazione della CSR nei rapporti di filiera delle piccole e medie
imprese: un’analisi quantitativa del contesto italiano, Centro CReSV, Università Commerciale
Luigi Bocconi, 2009
28
P. Mazurkiewicz, Corporate Enviromental Responsibility: is a common CSR framework
possible?, DevCoom-SDO, World Bank, 2004

38
di responsabilità sociale trovano il loro incipit nella volontà delle organizzazioni di
autoregolarsi.

Le iniziative di tutela ambientale differiscono in ogni impresa, soprattutto se si ha


riguardo al settore di appartenenza. Le imprese manufatturiere si confrontano con
un più vasto numero di sfide ambientali, mentre le aziende di servizi o i retailer
devono affrontare tali sfide solitamente in misura più attenuata. Molte aziende
inoltre si approcciano al problema ponendo attenzione ad un impianto o funzione
aziendale alla volta, sebbene la tendenza sia ormai di un approccio di tipo integrato.
In ogni caso molte organizzazioni possiedono un approccio simile alla sostenibilità
ambientale, infatti possiamo individuare alcuni tratti comunemente riscontrabili:

• Corporate Enviromental Policy; le aziende impegnate a ridurre il loro


impatto sull’ambiente di solito elaborano un set di principi e di standard ai
quali si sottopongono, stabilendo degli obiettivi di sostenibilità. La maggior
parte di questi programmi palesano l’intenzione delle aziende di rispettare
l’ambiente in relazione alla progettazione, produzione e distribuzione dei
prodotti e dei servizi, di rispettare le norme in tema di inquinamento e ove
possibile adottare un comportamento anche più responsabile di quanto
previsto dalle stesse, l’adozione di sistemi di rendicontazione per mezzo dei
quali tutti gli stakeholder possano informarsi sulle attività intraprese e la
predisposizione di sistemi di “avviso” per gli stakeholder di possibili
situazioni rischiose per l’ambiente.
• Environmental Audit; prima che le aziende pongano rilievo esterno sul
problema della sostenibilità ambientale, sarà necessaria un’adeguata
conoscenza della problematica. Per la maggior parte delle aziende ciò
avviene per mezzo di una forma di audit ambientale, il cui obiettivo è
conoscere il tipo e l’ammontare di risorse usate nel processo produttivo e
quale sia in relazione ad esse il livello di emissioni prodotte e di situazioni
di spreco eliminabili. Attraverso gli audit si può quantificare il fenomeno in
termini monetari così da predisporre una scala di priorità e fare una
previsione di ritorno economico.

39
• Coinvolgimento dei dipendenti; per essere efficace una policy di
sostenibilità ambientale deve coinvolgere tutti i dipendenti
dell’organizzazione, e non soltanto quelli più strettamente coinvolti in ruoli
“inquinanti”. Le aziende devono predisporre varie attività, principalmente
di formazione, in modo che i dipendenti comprendano l’impatto delle loro
attività lavorative. Devono inoltre valorizzare una cultura organizzativa
improntata alla salvaguardia e alla sostenibilità dell’ambiente. Alcune
imprese sviluppano anche delle campagne di formazione volte a trasmettere
una cultura ambientalista al di fuori del contesto lavorativo, con il fine di
trasmettere ai dipendenti una vera e propria etica di ecologia. Oltre ad
attività di formazione, si possono poi predisporre sistemi di incentivazione
del personale che premino i dipendenti che si mostrano impegnati nella
sostenibilità ambientale.
• Produzione Green; per aumentare il proprio grado di sostenibilità
ambientale le aziende possono fornirsi di materie prime e prodotti più
ecologici e sostenibili. Aggregarsi in gruppi di acquisto “green” può fare in
modo che anche i fornitori si orientino verso la produzione e la fornitura di
materie più ecocompatibili. Oltre all’utilizzo di queste ultime, si deve avere
riguardo alla logistica in entrata e in uscita, con particolare riguardo alle
emissioni inquinanti prodotte dai mezzi trasporto usati nelle fasi di
approvvigionamento e distribuzione.
• Prodotti Green; di certo anche i prodotti possono essere progettati in modo
che siano più sostenibili dal punto di vista ambientale. Si deve avere
riguardo sia alle caratteristiche del prodotto che al packaging.
Particolarmente rilevante, in questo caso, è l’attenzione alla salubrità e alla
riciclabilità dei prodotti e delle confezioni.

Tutte queste possono contribuire al miglioramento del dialogo con gli stakeholder
e a creare alleanze strategiche improntate al rispetto dell’ambiente. La sostenibilità
green inoltre contribuisce a migliorare la reputazione complessiva dall’azienda, con
la diretta conseguenza che i consumatori siano più ben disposti verso le attività

40
dell’organizzazione. In conclusione, fare della CSR in tema di ambiente il proprio
punto di forza può diventare un fattore critico di vantaggio competitivo, che se non
altro può aiutare l’impresa ad essere “socialmente accettata”, soprattutto per quelle
aziende che immettono sul mercato prodotti vissuti come rischiosi o non ecologici
dai consumatori.

2.5.1 CASE STUDY: LE POLITICHE AMBIENTALI DI LEGO

Lego è il quarto produttore mondiale di materiali di gioco e il quinto per quanto


riguarda il mercato dei giocattoli. Fondata nel 1932 da Ole Kirk Christiansen, è
tutt’ora posseduta dalla famiglia di quest’ultimo sebbene, a causa della crisi, ha
trasferito la gestione a terzi. Dal 2004 infatti l’azienda è controllata Jorgen Vig
Knudstorp, esterno alla famiglia, che l’ha condotta ad un continuo successo grazie
anche alla trasparenza nel sistema di gestione, ereditata da quello danese. Uno dei
cardini della politica aziendale, ormai noto da diversi anni a questa parte, è
l’attenzione di LEGO al problema ambientale29: in particolar modo nei confronti
delle conseguenze che l’aumento della popolazione, e quindi della domanda,
comporta, dalla scarsezza di risorse all’elevata richiesta di energia e all’aumento
degli sprechi.

Uno dei passi più importanti è stato fatto nel 2010 quando LEGO ha adottato un
nuovo metodo, chiamato Design4Planet (D4P), per sostenere le proprie attività. Si
fonda sul Cradle to Cradle (C2C), un approccio innovativo e sostenibile volto alla
realizzazione di prodotti il cui scopo è creare un sistema sostenibile che sia
rispettoso della vita e delle generazioni future, e il Life Cycle Assessment (LCA),
un processo di valutazione sugli effetti che un prodotto ha sull’ambiente per il suo
intero ciclo di vita con il fine di aumentare l’efficienza dell’uso di risorse. Grazie a
questo l’azienda ha quindi iniziato a porre maggiore attenzione sulla progettazione
del prodotto, stabilendo nuovi standard e aprendo un dialogo trasparente con gli
stakeholder, poiché il processo di produzione e l’input utilizzato hanno un’effettiva

29
https://www.lego.com/it-it

41
influenza sull’ambiente. Il programma D4P è stato strutturato su 5 progetti, i quali
consentono continui aggiustamenti per tutta la durata del progetto stesso:

• Chimica dei Materiali; gli input utilizzati nella produzione di articoli


LEGO vengono testati utilizzando la standardizzazione. Sulla base degli
standard, esso identifica gli elementi che possono essere utilizzati nel
processo di produzione ed elimina quelli che hanno un impatto non
necessario sull’ambiente, mantenendo una totale trasparenza nei confronti
dei vari stakeholder. Durante l’acquisto dei materiali, l’impresa collabora
con i fornitori per identificare soluzioni innovative per gli input ad alto
impatto sull’ambiente.
• Certificazione Ambientale; questo progetto viene utilizzato per verificare
se i prodotti sono rispettosi dell’ambiente o meno. Lo scopo finale è la
conformazione agli standard volontari di certificazione ambientale per tutti
i prodotti del gruppo LEGO.
• Confezionamento Ridotto e Compostabile; l’azienda mette particolare
attenzione agli effetti ambientali che possono essere generati dai processi di
stampa e imballaggio. Il progetto si fonda quindi sul ricercare articoli di
stampa e imballaggio, utilizzati nel processo di produzione, che siano di
lunga durata e facilmente riciclabili.
• Design per lo Smontaggio; il progetto lavora per mantenere a zero il livello
di sprechi riutilizzando i prodotti disassemblati nel processo di produzione
come materia prima. I componenti sono quindi fabbricati considerando la
riutilizzabilità dopo lo smaltimento. A questo proposito, il gruppo LEGO
lavora in collaborazione con i propri fornitori per innovare i materiali
riutilizzabili.
• Soluzione di Ritorno; l’azienda cerca di trovare una soluzione per i clienti
che desiderano smaltire gli articoli usati in modo rispettoso dell’ambiente.
Questo progetto, poi ampliatosi e divenuto noto come LEGO Replay, cerca
di convincere i possessori di articoli LEGO a donare i mattoncini che non
utilizzano in modo tale che, anche sfruttando l’alta qualità che riescono a

42
mantenere nel tempo, essi continuino a circolare minimizzando gli sprechi.
Al momento il progetto è attivo unicamente negli USA e in Canada, ma
l’azienda conta di espanderlo nei prossimi anni.

Altra grande sfida intrapresa da LEGO, è la riduzione dell’impatto ambientale delle


sue strutture tramite le emissioni di CO2. Nel 2020 sono stati la prima azienda di
giocattoli ad annunciare un obiettivo su base scientifica, ovvero approvato
dall’iniziativa Science Based Target in quanto in linea con l’Accordo di Parigi,
secondo il quale si impegnano a ridurre tali emissioni del 37% entro il 2032. Per
raggiungere questo obiettivo, oltre al continuo investimento nella ricerca di
materiali sostenibili sia per i prodotti che per le confezioni e alla creazione di
un’economia circolare, è importante la loro collaborazione con i propri fornitori
tramite il programma Engage-to-Reduce, istituito nel 2014 per guidarli e supportali
nella riduzione del loro impatto, e l’aumento dell’efficienza energetica in tutte le
sue operazione tramite l’investimento e l’espansione di energia rinnovabile in
fabbriche, uffici e negozi.

43
3. IL FENOMENO DEL GREENWASHING

3.1 DEFINIZIONE E ORIGINI

Abbiamo visto come un’azienda riesca a perseguire l’obiettivo di massimizzare il


profitto e al tempo stesso tener conto dell’interesse collettivo. In questo modo
efficienza ed efficacia possono procedere di pari passo: l’impresa riesce tanto più
agevolmente a restare a lungo sul mercato quanto più riesce ad assecondare obiettivi
plurimi oltre a quello del mero profitto, quali, ad esempio, quelli ecologici e sociali.
Si è inoltre parlato anche della nuova figura del consumatore più responsabile
socialmente, che abbandona la figura del ricettore passivo per passare a quella del
consumare più informato e critico, capace di influenzare i comportamenti
dell’azienda. Si tratta quindi di un nuovo contesto nel quale è necessario cambiare
l’approccio delle aziende verso il mercato, e quindi trovare una nuova forma di
comunicazione che permetta di venire incontro alle nuove esigenze di informazione
dei consumatori e di evidenziare la sostenibilità del prodotto/servizio offerto; grazie
all’attuazione di questa “comunicazione sostenibile” l’azienda ha poi l’opportunità
di ottenere numerosi vantaggi. Dove ci sono opportunità, tuttavia, si nascondono
anche dei rischi, e uno dei più pericolosi è quello del Greenwashing.

Dagli anni ’80 infatti, parallelamente all’adozione di pratiche più responsabili dal
punto di vista ambientale, sociale ed economico, si è assistito ad una rapida
diffusione dei medesimi comportamenti con finalità puramente opportunistiche e
fraudolente. Questo fenomeno ha generato e tutt’ora genera molti effetti negativi
nei rapporti tra le imprese e nelle relazioni con i consumatori: questi ultimi, in virtù
di numerosi scandali legati al greenwashing e a comportamenti scorretti, hanno
iniziato a sviluppare un certo grado di scetticismo nei confronti della gestione
dell’attività di responsabilità d’impresa. Esso costituisce quindi un forte ostacolo al
raggiungimento dello sviluppo sostenibile.

Si possono far risalire le origini di questa strategia agli anni ’70, quando la tecnica
veniva utilizzata prevalentemente per nascondere o rimediare a veri e propri disastri

44
ambientali causati da organizzazioni che operavano senza riguardo per l’ambiente.
Nel 1972 Jerry Mander, ambientalista e opinionista, parlava di ecopornography
riferendosi appunto alle strategie di greenwashing messe in atto dalle compagnie
petrolifere, chimiche e automobilistiche: esse ingannavano il pubblico cercando di
migliorare la propria immagine ambientale attraverso campagne pubblicitarie poco
trasparenti e superficiali, perché non basate su metodologie e pratiche ecologiche
affidabili e certificabili. I danni provocati dalla proliferazione di aziende che
adottano una strategia greenwashed sono difficili da misurare e, come già detto,
rischiano di creare un mercato “non credibile”, compromettendo la fiducia
dell’intero settore. Nel 2009 circa l’80% delle persone ritiene che il messaggio
ambientalista, divulgato sia da imprese private che dal governo, sia falso.

Il termine, coniato nel 1986 dall’ambientalista newyorkese Jay Westervel per


criticare il modo in cui le catene alberghiere promuovessero il riutilizzo degli
asciugamani attraverso lo slogan “Salviamo il Pianeta”, senza però adottare alcuna
pratica effettivamente ecologica, è un neologismo che deriva dalla crasi di green
(verde, inteso in senso ecologico) e whitewash (imbiancare, nel senso di occultare
o riabilitare) e indica, nello specifico, l’ingiustificata appropriazione di virtù
ambientali da parte di un’azienda finalizzata alla creazione di un’immagine positiva
per le proprie attività o di un’immagine mistificatoria per distogliere l’attenzione
dalla responsabilità che l’azienda detiene nei confronti del rispetto dell’ambiente.
Nell’ultimo decennio poi la crescente rilevanza di questo fenomeno e la maggiore
attenzione per gli scandali ambientali ha suscitato l’interesse di molti studiosi e
accademici. Le definizioni del fenomeno si sono quindi ampliate dal 1986 ma finora
concordano tutte nel descriverlo come una comunicazione ingannevole di carattere
ambientale, nella quale l’impresa pone in essere 2 comportamenti: scarse
prestazioni ambientali e comunicazioni positive su tali prestazioni30.

A. Vollero, Il rischio di greenwashing nella comunicazione per la sostenibilità: implicazioni


30

manageriali, Sinergie, rivista di studi e ricerche, 2013

45
3.2 CARATTERISTICHE DEL FENOMENO

Gli studi di letteratura finora condotti hanno classificato 2 diversi livelli di questa
strategia: a livello di impresa e a livello di prodotto. Al giorno d’oggi la significativa
pressione degli stakeholder verso maggiori livelli di responsabilità e trasparenza ha
portato all’adozione di pratiche di greenwashing a livello aziendale. Si tratta di una
comunicazione simbolica dell’impegno dell’impresa verso questioni sociali, che
tuttavia non si traduce in azioni effettive, per mantenere così un’impressione
positiva ma fuorviante delle reali prestazioni ambientali. Mentre, a livello di
prodotto, la comunicazione di carattere ambientale si riferisce a singoli prodotti o
servizi31. L’intento di questo ambientalismo “di facciata” è quello di sfruttare
l’interesse del consumatore per le tematiche green inserendo dei claims, spesso
vaghi e non supportati da evidenze scientifiche; nei casi più gravi, possono essere
del tutto falsi e mendaci, altre volte invece possono fornire informazioni
volutamente incompletamente, che possono essere in parte vere, ma comunque
vaghe e idonee ad ingannare il destinatario.

Creare un’immagine reputazionale positiva permette all’impresa di essere più


apprezzata e di mantenere relazioni più salde con i principali attori del mercato.
Affinché ciò avvenga la comunicazione di carattere ambientale deve essere
credibile agli occhi del proprio pubblico destinatario, ovvero deve far coincidere le
aspettative degli stakeholder con l’attività effettiva condotta dall’impresa. Tuttavia
la credibilità è un elemento della comunicazione fortemente influenzato dalla
percezione soggettiva del singolo destinatario, pertanto le pratiche di greenwashing
si avvalgono di strumenti comunicativi che tentano di falsare la percezione degli
stakeholder, rendendo il messaggio ingannevole, falso e artificiale comunque
credibile. Sono molte le tecniche adottate dall’impresa per rendere la
comunicazione ingannevole comunque credibile; tra quelle più conosciute
possiamo individuare il decoupling (sdoppiamento), ossia l’apparenza nel
soddisfare le richieste delle parti interessate senza tuttavia un impegno effettivo

B. Chaudhary, S. Tripathi, N. Monga, Green Marketing and CSR, International Journal of


31

Research, 2011, v. 1 no. 6

46
nell’attuare queste promesse di cambiamento, e l’attention deflection (deviazione
dell’attenzione), la quale consiste nell’adozione di pratiche ed indicatori di
sostenibilità che mostrano il proprio impatto positivo sull’ambiente per evitare di
svelare come il complesso delle proprie performance si presenti poco significativo
in termini di sostenibilità, se non addirittura poco etico.

Nel 2010 la società di consulenza canadese TerraChoice Environmental Marketing


ha condotto una ricerca sul mercato nord-americano, proprio per analizzare nei
dettagli quali fossero le tecniche che rendono una comunicazione ingannevole
comunque credibile agli occhi dei destinatari. In questo modo sono stati elaborati i
Seven Sins of Greenwashing, ovvero una lista contenente le caratteristiche
principali di queste strategie ingannevoli32:

• Nascondere la Verità; il messaggio trasmesso non è necessariamente falso


ma suggerisce che il prodotto sia green solo sulla base di una singola
caratteristica, ignorando le altre questioni ambientali più significative. Ad,
esempio la carta non può sempre essere preferita alla plastica da un punto
di vista ambientale, poiché la sua produzione determina un dispendio di
energia, emissioni di gas serra e inquinamento di aria e acqua altrettanto
significativi.
• Non Dimostrare; ovvero dichiarare caratteristiche che non sono sostenute
da sufficienti informazioni o certificazioni da terze parti. Un esempio
abbastanza comune è quello dei fazzoletti di carta che dichiarano varie
percentuali di materiale riciclato senza fornire alcuna prova.
• Vaghezza; si tratta di claim così imprecisi e vaghi che rischiano di essere
fraintesi dal consumatore. La dicitura “tutto naturale” ne è un classico
esempio, in quanto sostanze come arsenico, mercurio, uranio e formaldeide,
pur essendo presenti in natura, se utilizzate in alcuni prodotti al di sopra di
certe soglie, sono particolarmente velenose.

32
TerraChoice, The Sins of Greenwashing – Home and Family Edition, 2010

47
• False Etichette; l’etichetta di un prodotto è realizzata in modo tale da dare
la falsa impressione che esista un certificato ecologico da terze parti
autorevoli.
• Irrilevanza; si enfatizzano caratteristiche ritenute green dall’azienda ma in
realtà ininfluenti per una scelta consapevole da parte dei consumatori. Ne è
un esempio la certificazione “CFC Free”, sostanze ormai vietate da anni per
legge e quindi non riconducibili a scelte di responsabilità ambientale del
consumatore.
• Scegliere il Male Minore; si tratta di affermazioni vere all’interno della
categoria di un determinato prodotto, ma che distolgono l’attenzione del
consumatore sulla grande insostenibilità della categoria nel suo complesso.
Sebbene le informazioni riportate sul prodotto non siano false, non
risolvono l’impatto ambientale provocato dalla categoria merceologica; il
tabacco biologico potrebbe essere un buon esempio per questo “peccato”,
così come i veicoli a basso consumo di carburante).
• Mentire; ovvero utilizzare immagini o parole per affermazioni pubblicitarie
che sono semplicemente false.

3.3 DRIVER DEL GREENWASHING

Abbiamo visto come la percezione pubblica relativa agli sforzi delle imprese che
operano in modo sostenibile e responsabile è fonte di vantaggio competitivo. Le
imprese non sono comunque obbligate per legge ad intraprendere programmi di
responsabilità sociale, ed è proprio questo carattere volontario che incentiva alcune
di loro a non impegnarsi seriamente in questi progetti. Alcune realtà preferiscono
semplicemente dare l’impressione di essere responsabili, poiché risulta più facile,
più economico e all’inizio sembra portare gli stessi benefici di un vero impegno. Le
motivazioni che guidano e influenzano le imprese a comunicare positivamente le
loro scarse prestazioni ambientali, sono molte e diverse tra loro. Uno studio
condotto da Delmas e Burbano nel 2011 esamina, per l’appunto, i principali driver
del greenwashing, identificando 3 livelli che influenzano tale fenomeno,

48
identificandoli come esterno, organizzativo e individuale. Le autrici inoltre
distinguono i driver esterni tra quelle pressioni che dipendono sia da attori non di
mercato (regolatori e ONG) sia da attori di mercato (consumatori, investitori e
concorrenti).

Figura 7 - Delmas e Burbano, Drivers del Greenwashing

Possiamo quindi ora andare a definire le caratteristiche specifiche di ogni singolo


driver33:

• Driver Esterno, Attore non di Mercato – Contesto Normativo Lassista


ed Incerto; gli standard di regolamentazione e le normative sul
greenwashing sono diversi da paese a paese. In alcuni, soprattutto in quelli
in via di sviluppo, non esiste una chiara regolamentazione di tale fenomeno,
e per i paesi con tale regolamentazione, gli standard sono spesso confusi e

33
M. A. Delmas, V. C. Burbano, The Drivers of Greenwashing, California Management Review,
2011

49
vaghi. Questo porta ad una forte incertezza del contesto normativo, dando
maggiore possibilità alle imprese di adottare pratiche ingannevoli.
• Driver Esterno, Attore non di Mercato – Media, ONG e Pressioni di
Attivisti; negli ultimi anni i media, le ONG e gli attivisti sono diventati
sempre più attenti e in grado di svelare le varie forme di greenwashing.
L’enorme impatto mediatico che ciò ha provocato ha suscitato gravi
conseguenze sull’impresa coinvolta, sia a livello reputazionale, sia a livello
economico e legale. In questo contesto giocano un ruolo importante i social
media, perché sono coerenti e rapidi nel comprendere l’indebita attribuzione
di caratteristiche o attività ecologiche. Questi strumenti di comunicazione
sono diventati anche un potente strumento di prevenzione, perché
scoraggiano le imprese a diffondere campagne ingannevoli e d’altra parte le
incentivano ad intraprendere una responsabilità sociale più autentica.
• Driver Esterno, Attore Interno al Mercato – Il Ruolo dei Consumatori,
dei Concorrenti e degli Investitori; una comunicazione positiva sulle
proprie prestazioni ambientali è vista come un fattore di successo da
consumatori, concorrenti ed investitori. Queste pressioni possono
influenzare positivamente anche pratiche di green marketing davvero
sostenibili e con nobili intenzioni. Tuttavia, maggiore sarà la pressione
esercitata da questi attori, maggiore sarà la propensione delle imprese ad
adottare pratiche sostenibili senza compiere sforzi, ma al solo scopo di
raggiungere un successo di breve termine per soddisfare così le aspettative
e le pressioni del pubblico.
• Driver Organizzativo – Caratteristiche dell’Impresa; la dimensione
dell’impresa, il settore in cui opera, le sue risorse e competenze influenzano
la strategia che essa può mettere in atto e la sua propensione o meno verso
pratiche di greenwashing. Sono maggiormente incentivate ad intraprendere
pratiche di comunicazione ingannevole sia le imprese che hanno maggiori
dimensioni e con più stakeholder, sia quelle che operano in un settore nel
quale vi è una maggiore attenzione verso le questioni ambientali. Anche le
imprese che si rivolgono al mercato di consumo sono più soggette al

50
greenwashing, viste le maggiori pressioni esercitate da consumatori, social
media e ONG. Tuttavia se un’imprese è potente, di grandi dimensioni e
dispone di elevate capacità economiche riuscirà comunque a resistere agli
shock generati dai media, ONG e attivisti, rispetto ad un’impresa di piccole
dimensioni.
• Driver Organizzativo – Clima Etico e Struttura degli Incentivi; un clima
etico, ovvero l’insieme di comportamenti, percezioni e sentimenti condivisi
tra i membri di una società, svolge un ruolo importante nel processo
decisionale. All’interno dell’impresa questo si traduce nella soddisfazione
del personale, degli interessi degli stakeholder e nel desiderio di garantire
un benessere generale conforme ai codici etici interni e agli standard esterni.
Al contrario quando prevale l’aspetto egoistico, ovvero i dirigenti mirano a
perseguire i propri interessi, spesso si determinano comportamenti non etici.
D’altra parte risulta che gli incentivi che premiano prestazioni tempestive e
puntuali contribuiscono all’adozione di comportamenti più etici. Di
conseguenza in un ambiente con i giusti incentivi e in un clima etico è meno
probabile che si verifichino comportamenti ingannevoli, come il
greenwashing.
• Driver Organizzativo – Inerzia Organizzativa; si tratta di un elemento
che ostacola i cambiamenti della strategia d’impresa e caratterizza
soprattutto le imprese di grandi dimensioni. L’inerzia determina un ritardo
delle modifiche dei processi e delle strutture organizzative, in risposta alla
decisione del vertice dell’impresa di seguire pratiche più verdi.
• Driver Organizzativo – Efficacia della Comunicazione Interna; la
comunicazione e la circolazione di informazioni all’interno di un’impresa è
fondamentale per determinare una migliore capacità innovativa, una
maggiore coerenza tra i vari processi e il successo di una comunicazione
verde. Per esempio, se il reparto dello sviluppo di un prodotto non
informasse efficacemente il reparto marketing e comunicazione sulle
caratteristiche dello stesso, quest’ultimo reparto potrebbe sottovalutare il
livello di ecologizzazione del prodotto, con conseguente possibilità di

51
greenwashing. Al contrario, in un ambiente etico che presente i giusti
incentivi è più probabile che la comunicazione interna sia più efficace.
• Driver Individuale – Quadro Decisionale Ristretto; questo driver si
riferisce alla tendenza dei dirigenti di un’impresa a prendere decisioni in
modo isolato, pensando ad un orizzonte di breve periodo, senza apportare i
giusti adeguamenti sul lungo periodo. Nello specifico il fenomeno del
greenwashing si verifica quando l’impresa comunica la sostenibilità di un
prodotto, senza considerare in maniera adeguata la sua implementazione
futura.
• Driver Individuale – Sconto Intertemporale Iperbolico; alcuni studi
dimostrano che la funzione di sconto è iperbolica, ovvero è caratterizzata da
un tasso di sconto relativamente alto (impaziente) su orizzonti brevi e da un
tasso di sconto relativamente basso (paziente) su orizzonti lunghi. Questa
funzione è stata dimostrata anche nelle decisioni di consumo e di risparmio,
nelle quali ad esempio i consumatori iperbolici mostrano un divario tra i
loro obiettivi di lungo termine e il loro comportamento di breve termine.
Questa situazione si verifica anche nell’ambito del green marketing, nella
quale i dirigenti e manager dell’impresa comunicano la loro responsabilità
ambientale e le attività perché sono impazienti e vogliono ottenere benefici
immediati nel breve periodo, senza tuttavia sostenere i costi associati a tali
impegni, nel lungo periodo.
• Driver Individuale – Pregiudizi Ottimistici; si tratta della tendenza a
sopravvalutare gli eventi positivi e sottostimare gli eventi negativi passati.
Questi pregiudizi possono assumere 3 diverse forme: autovalutazione
irrealisticamente positiva, ottimismo irrealistico e piani futuri e illusione di
controllo. È stato dimostrato che l’aspettativa di successo media è del 80%,
mentre la reale probabilità di successo si attesta al 59%. Inoltre i dirigenti e
manager tendono a sopravvalutare la probabilità dei risultati positivi del
greenwashing, come l’acquisizione di quote di mercato verde e maggiori
investimenti in capitali dagli investitori SRI, ma d’altra parte tendono a
sottovalutare la probabilità che si verifichino eventi negativi, come

52
l’attenzione dei consumatori, media e ONG e l’impatto mediatico che ciò
può suscitare in caso di segnalazioni che riguardino le loro imprese.

3.4 RISCHI DELLA COMUNICAZIONE

Le pratiche di greenwashing possono essere svelate attraverso l’identificazione di


precisi segnali di comunicazione. Il rischio di tale fenomeno è legato pertanto in
maniera indissolubile alla dimensione comunicativa e può generare effetti negativi
anche per la reputazione di imprese autenticamente improntate ai principi della
sostenibilità. Di conseguenza si tende a creare un pericoloso “paradosso”, in cui i
benefici della comunicazione per la sostenibilità possono ridursi notevolmente non
solo per le organizzazioni che ricorrono ad esso in modo consapevole e deliberato,
ma anche per quelle che si comportano in maniera genuinamente responsabile;
queste ultime, adottando prassi manageriali incoerenti, possono venire danneggiate
a seguito di accuse di greenwashing. In effetti una pratica che può essere vista come
tale non implica automaticamente la malafede dell’impresa: in alcuni casi accade
che all’origine vi siano semplicemente superficialità o errori nel management della
comunicazione.

Per poter comprendere quali siano le principali determinanti del rischio


greenwashing che avvengono durante l’attività di comunicazione, è importante
considerare il fatto che tale attività è composta da 4 fasi ben distinte:

• Attività di Ascolto Organizzato degli Stakeholder; serve a percepire i


cambiamenti emergenti di tipo sociale, economico, culturale, politico e
tecnologico. In un ambiente sempre più interconnesso e interattivo è
necessario che il top management sia in costante ascolto dei differenti
stakeholder, dei loro bisogni e delle loro aspettative, favorendo la
comunicazione bidirezionale, il dialogo e la cooperazione con essi.
• Attività Strategico-Riflessiva; successiva a quella di ascolto organizzato,
consente di trasferire al top management le informazioni riguardanti

53
bisogni, aspettative, aspirazioni, percezioni degli stakeholder, utili per
decidere quale strategia di comunicazione attuare.
• Attività di Comunicazione Strategica; in questa fase vengono definiti
elementi quali la corporate vision, la corporate culture e la corporate
strategy, i quali vengono poi tradotti in un set di risorse di corporate identity
(keywords e elementi simbolici, canali di comunicazione, guidelines…).
• Attività Operativa di Comunicazione; consiste infine in scelte di impiego
di risorse di comunicazione per la costruzione dei messaggi da veicolare e
per la selezione del mix di canali nei piani comunicativi annuali. Tali
decisioni comportano scelte di utilizzo di risorse di corporate identity
nell’ambito dell’organizzazione e delle restanti risorse di comunicazione
occorrenti, acquistabili attraverso transazioni di mercato (es. acquisti di
spazi pubblicitari sui media). Inoltre al management che si occupa dello
sviluppo spetta il compito di instaurare e mantenere relazioni simmetriche
con gli stakeholder e stimolare la loro partecipazione, in particolare nei
social media, per indurre la produzione di contenuti multimediali generati
in rete.

L’attività di ascolto organizzato, destinata a conoscere le aspettative degli


stakeholder, permette all’organizzazione di proporsi al meglio in termini di
orientamento alla sostenibilità. L’errore più frequente è proporre un set limitato di
touch point che limita le attività di collaborazione con gli stakeholder. Può capitare
anche che, per evitare le accuse di greenwashing, viene messa in atto una
comunicazione bidirezionale in maniera superficiale senza un effettivo engagement
degli stakeholder. In questo caso si rischia di non avere successo o in alcune
circostanze di generare un effetto “boomerang”, aumentando lo scetticismo delle
parti interessate. Non a caso, attualmente, nei report di stabilità sono sempre più
presenti le descrizioni dettagliate dei “punti di contatto” e delle modalità di
engagement degli stakeholder. Durante questa fase un’ulteriore causa scatenante
del greenwashing va identificata nello scostamento tra le enunciazioni di
sostenibilità e le effettive percezioni degli stakeholder; tale gap può portare ad

54
effetti negativi per l’impresa e i suoi prodotti, anche in virtù della distanza tra
identità percepita e identità desiderata. Le accuse di greenwashing relative a tale
attività possono originarsi anche nel momento in cui il commitment dell’impresa
nei confronti delle tematiche di sostenibilità sia visto come un insieme di impegni
assunti nel breve periodo: in questo caso la posizione dell’impresa può essere
ritenuta prevalentemente opportunistica, tesa a capitalizzare i potenziali vantaggi di
un’immagine green (sfruttare opportunità di mercato, evitare determinate
critiche...).

La reflective communication, o attività strategico-riflessiva, ha la finalità di


supportare le decisioni del top management, attraverso il trasferimento delle
informazioni utili circa le aspettative e le percezioni degli stakeholder. Tale attività
fornisce dunque gli input per comportamenti responsabili da parte
dell’organizzazione, tuttavia la formalizzazione di questo processo risulta ancora
piuttosto vaga nei report di sostenibilità. Diversi studi rilevano come nelle iniziative
presentate nei report di sostenibilità spesso non venga chiarito il modo in cui gli
elementi (attese, bisogni, richieste...) derivanti dall’attività di ascolto organizzato,
siano effettivamente tradotti in indicazioni operative. Dal punto di vista
comunicazionale il coordinamento è una caratteristica essenziale, in quanto assicura
la coerenza dei messaggi e la corrispondenza tra la comunicazione d’impresa e
l’effettivo comportamento aziendale; spesso accade invece che le decisioni sulla
sostenibilità e la relativa strategia di comunicazione vengano prese dal top
management senza essere pienamente condivise all’interno dell’azienda, né
comunicate alle parti interessate. In genere i dipendenti non sono costantemente
coinvolti nel processo decisionale riguardante la sostenibilità e spesso ricevono
messaggi unidirezionali sulle decisioni prese in materia da parte del CEO e dai top
manager. Ciò non consente alle imprese di sfruttare appieno il potenziale dei
dipendenti come “comunicatori attivi” di sostenibilità, vale a dire come fonti
credibili di informazioni per i restanti stakeholder. Similmente anche la mancanza
di coordinamento intra-organizzativo può determinare problemi nella
comunicazione verso l’esterno: ad esempio, esiste il rischio che alcuni dati possano

55
essere giudicati in maniera errata dalla funzione marketing-comunicazione,
provocando una sopravvalutazione degli aspetti di sostenibilità.

Le decisioni relative alla strategia di comunicazione per la sostenibilità hanno un


ruolo centrale nel determinare possibili accuse di greenwashing. La mancata
definizione di core theme, necessari a dare distintività alle proprie azioni di
sostenibilità, è spesso rilevatrice del tentativo di non esporsi con impegni concreti,
per dissimulare la natura del problema e nascondere le conseguenze negative della
propria condotta. Come già accennato nei paragrafi precedenti, ciò costituisce una
pratica di attention deflection, che serve ad evitare di svelare le reali performance
su determinati aspetti critici in termini di sostenibilità. Secondo l’attribution theory
ciascun individuo assegna delle motivazioni intrinseche (disinteressate o
altruistiche) o estrinseche (opportunistiche) per spiegare i comportamenti propri e
altrui; in questa prospettiva gli stakeholder interpretano la comunicazione per la
sostenibilità sulla base delle motivazioni che attribuiscono alle iniziative delle
imprese. Lo scetticismo dei consumatori sembra essere più elevato nel momento in
cui il profitto appare il motivo principale dell’impegno in termini di sostenibilità.
Altri studi invece hanno sostenuto che una chiara esplicitazione degli obiettivi,
anche commerciali, della comunicazione per cause sociali possa accrescere la
credibilità dei messaggi. Queste posizioni non devono essere viste necessariamente
in contrasto: la congruenza logica tra il dominio di un’iniziativa di sostenibilità e le
attività principali dell’impresa viene generalmente apprezzata dai consumatori.

Il management operativo della comunicazione per la sostenibilità è la fase


maggiormente critica per il rischio di greenwashing, perché sottoposta
continuamente alla valutazione degli stakeholder. Le organizzazioni tendono ad
usare spesso messaggi attraenti non basati sulla realtà, con immagini suggestive e
un linguaggio fluffy, pieno di tecnicismi o con termini quali “eco-friendly” o
“riciclabile”, senza mostrare gli indicatori concreti ai quali si riferiscono. Spesso
capita che le aziende tendono ad evidenziare esclusivamente gli elementi del
bene/servizio che mostrano l’impatto positivo delle azioni di sostenibilità, di solito
poco rilevanti se considerati in un’ottica più ampia. Tali meccanicismi sono

56
strettamente legati ai messaggi di comunicazione company-controlled (report di
sostenibilità, messaggi pubblicitari, dichiarazioni dei top management…) vale a
dire alla comunicazione pianificata dell’impresa. L’utilizzo di fonti terze
indipendenti di comunicazione (e di certificazione) invece può rivelarsi utile per
accrescere sia l’accuratezza sia la credibilità della comunicazione per la
sostenibilità. Lo stesso effetto favorevole si può avere anche stimolando il
passaparola positivo dei consumatori sui social media.

3.5 CASE STUDY: GREENWASHING TRA IMPRESE

In una decisione storica, il 25 novembre 2021, il tribunale di Gorizia in Friuli-


Venezia Giulia ha accolta la richiesta di un ricorso d’urgenza da parte di un’azienda
nei confronti di un competitor, emettendo di fatto la prima pronuncia della
magistratura ordinaria sul tema del greenwashing. La causa è stata promossa da
Alcantara S.p.A., produttore di un tessuto in microfibra utilizzato in vari settori,
verso Miko S.r.l, suo competitor diretto che commercializzava un altro prodotto in
microfibra descrivendo lo stesso e il suo metodo di produzione con affermazioni di
carattere green e ambientalistico.

Tali green claim, in base a quanto sostenuto da Alcantara, costituivano un atto di


concorrenza sleale ai sensi dell’articolo 2598 comma 3, il quale afferma che “[…]
compie atti di concorrenza sleale chiunque si vale direttamente o indirettamente di
ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo
a danneggiare l'altrui azienda”34. Su tale base l’impresa ha chiesto quindi
un’ingiunzione cautelare che impedisca al suo concorrente di continuare ad
avanzare tali rivendicazioni ambientali e la Corte ha convenuto come queste
dichiarazioni fossero vaghe, generiche, false e non verificabili. Ha decretato quindi
un’ordinanza, destinata sia ai claim reclamati da Alcantara sia ad ogni altra

34
Codice Civile, art. 2598 c.c. 3 comma

57
informazione non verificabile sul contenuto di materiale riciclato del prodotto, la
quale

inibisce, con effetto immediato, in via diretta e indiretta, la diffusione dei messaggi
pubblicitari ingannevoli […], sia nella versione in italiano che in inglese, in qualsiasi
forma ed in qualsiasi contesto e sito, a mezzo internet su qualunque sito e social
media, reti televisive, quotidiani e stampa, riviste, messaggi promozionali televisivi,
volantini e in ogni caso veicolati con qualsiasi canale di comunicazione, online e
offline, ordinandosi l’immediata rimozione da ogni possibile contesto dei predetti
messaggi pubblicitari35.

Inoltre ha imposto un’ulteriore condizione di grande rilevanza: la pubblicazione


dell’ordinanza di condanna sulla home page del sito internet di Miko per un periodo
di 60 giorni, con ovvie ricadute a livello reputazionale.

La decisione è particolarmente degna di nota perché si tratta della prima volta che
un tribunale civile ordinario in Italia ordina esplicitamente ad un’impresa di cessare
di fare green claim su richiesta di un loro competitor, discutendo in particolare dei
vantaggi competitivi ottenibili dal greenwashing data l’accresciuta sensibilità
odierna sulle questioni ambientali e commentando come le virtù ecologiche
rivendicate da un’azienda possano influenzare le scelte di acquisto del consumatore
medio. In precedenza in Italia le decisioni in materia di greenwashing sono sempre
state emesse dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) e
dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), le quali però portavano solo
all’irrogazione di sanzioni e sempre su incitazione di associazioni di consumatori.
Infatti il primo caso di greenwashing in territorio italiano è stato contro ENI S.p.a.
e condotto dall’AGCM, che ha imposto la massima sanzione possibile di 5 milioni
di euro per aver utilizzato messaggi pubblicitari per aver utilizzato messaggi
pubblicitari ingannevoli nella sua campagna di promozione del carburante Eni
Diesel+. La decisione dell’AGCM è stata poi impugnata dall’azienda davanti al
TAR del Lazio, il quale ha confermato la natura ingannevole di quelle dichiarazioni
ambientali, e di conseguenza la sanzione stessa, nel novembre 2021. La sentenza di

35
Ordinanza N. R.G. 2021/721, Tribunale Ordinario di Gorizia, 2021, p. 8.

58
Gorizia potrebbe quindi segnalare l’estensione dei casi di greenwashing oltre
l’ambito delle indagini a tutela dei consumatori, diventando un campo di battaglia
tra imprese concorrenti. Ciò potrebbe rivelarsi particolarmente allettante per le
imprese che possono dimostrare di aver perso quote di mercato a causa del
greenwashing dei concorrenti, dato che la direttiva prevede che in tali casi possano
anche essere concessi i danni.

Poiché la decisione della Corte italiana si basa sulla Direttiva sulle Pratiche
Commerciali 2005/29/CE, il caso potrebbe avere potenziali implicazioni
transazionali per le società in altre giurisdizioni europee che applicano tale direttiva:
infatti la motivazione alla base della decisione segue gli orientamenti interpretativi
forniti dalla Commissione Europea nelle sue linee guida pubblicate nel 2016, le
quali applicano specificatamente i principi degli articoli 6, 7 e 12 sui claim
ambientali. Tuttavia è anche possibile che, in assenza di disposizioni sanzionatorie
di pratiche commerciali scorrette e di un parallelismo dei casi, la sentenza di Gorizia
potrebbe avere implicazioni meno dirette per i paesi esterni all’Unione Europea.

Se l’approccio sostenuto in questo particolare caso dovesse diffondersi altrove, le


aziende (e quindi non solo gli attivisti dei consumatori o le autorità di controllo)
avranno uno strumento molto semplice da utilizzare contro i concorrenti che fanno
affermazioni ambientali su sé stessi, i loro prodotti o servizi, qualora l’immagine
che ritraggono non corrisponda alla realtà.

59
CONCLUSIONI

Lo scopo del presente lavoro è stato quello di mettere in luce le ragioni che portano
le imprese a mettere in piedi un sistema, più o meno complesso, di responsabilità
sociale e le modalità attraverso le quali è possibile farlo. L’approccio alla CSR è
mutato notevolmente dagli anni ’60 ad oggi: molte organizzazioni si rendono conto
che per poter legittimare il loro operato nel mercato non è più sufficiente assicurare
un ritorno solo in termini di performance. Si richiede loro di assumere un
comportamento non speculativo e rispettoso delle ragioni della società. Tutte le
imprese, nell’interfacciarsi con i loro interlocutori, assumono dei comportamenti
che portano gli stakeholder a formulare un giudizio di valore. Per un’impresa
sarebbe pericoloso ritenere che le proprie azioni non abbiano un impatto sulla
propria reputazione.

Da questa semplice considerazione discendono svariate possibilità di approccio al


tema della responsabilità sociale. La CSR non può certo identificarsi con il rispetto
degli obblighi di fonte normativa poiché il rispetto di questi è elemento essenziale
della vita di ogni soggetto, sia esso persona fisica o organizzazione; essa deve
quindi essere uno strumento assunto volontariamente dalle imprese che maturano
una concezione improntata all’etica e alla sostenibilità del loro operato. L’adozione
della responsabilità sociale per la via dell’autoregolazione rappresenta l’essenza
stessa della CSR, consentendo alle imprese di far aderire al meglio le istanze tipiche
della sostenibilità al proprio business. Qui si può individuare il punto critico: la
definizione delle politiche sostenibili è rimessa alla valutazione della singola
impresa, o gruppi di esse. Da tali valutazioni può discendere un più o meno
articolato sistema di CSR, come può discendere la decisione di non intraprenderne
alcuno. Proprio per questo fatto esistono imprese che non assumono nella propria
strategia le istanze della CSR, e queste imprese, più semplicemente, non potranno
dirsi irresponsabili fintanto che producono ricchezza e rispettano le leggi.

Un’altra criticità risiede nella difficoltà della misurazione dei risultati. Il ritorno
tipicamente generato dalle politiche di CSR è di tipo reputazionale e quindi
intangibile; inoltre una buona reputazione aziendale è qualcosa che richiede uno

60
sforzo economico i cui risultati si producono sul lungo termine. Da questa relazione
fra difficoltà di misurazione degli intangibles e manifestazione lontana nel tempo
dei risultati, occorre che si indaghi ulteriormente poiché è ovviamente necessario
progettare le strategie di CSR in modo che siano compatibili con la complessiva
struttura dei costi. Eppure gli asset intangibili, in molti casi, costituiscono il
principale elemento che crea valore. La responsabilità sociale d’impresa non è
unicamente un costo, ma un complesso di attività e iniziative che, se
opportunatamente progettate, il valore lo generano. La Corporate Social
Responsability è anche utile a trasmettere un certo senso di sicurezza con
riferimento a prodotti o processi vissuti come pericolosi per la società o l’ambiente.

Se un prodotto o processo ha un potenziale impatto negativo è possibile, tramite


appositi programmi, minimizzarne il rischio sociale o ambientale. Si agirà su un
duplice piano: da un lato si dovranno effettivamente implementare dei nuovi sistemi
in grado di ridurre al minimo gli impatti negativi, dall’altro lato tramite appositi
strumenti di comunicazione sarà possibile limitare il rischio di un cattivo ritorno
reputazionale. In un tale contesto si capisce perfettamente ciò che spinse Carroll a
definire le imprese che adottano politiche di CSR come dei buoni “cittadini
aziendali”. Queste infatti si rendono conto che si interfacciano con una società
sempre più attenta al rispetto del pianeta, delle condizioni di lavoro, della tutela
della salute, alla sicurezza dei propri prodotti…

A questo punto è lecito chiedersi se tale “cittadinanza” si acquista solo se si adotta


un comportamento responsabile. Volendo polarizzare la questione, si potrebbe dire
che a un polo vi sono le imprese che si preoccupano solo di creare quanta più
ricchezza possibile, mentre all’altro polo vi sarebbero quelle che fanno della
responsabilità sociale il loro unico fine, tralasciando una necessaria e ponderata
analisi di profittabilità di questi programmi e, alla fine, producendo un fascio di
iniziative scoordinate fra loro. Una tale visione sarebbe ovviamente fin troppo
semplicistica.

Le imprese che non adottano un comportamento socialmente responsabile, fintanto


che rispettano tutti gli obblighi imposti loro dalla legge, baseranno la costruzione

61
della loro reputazione su altri driver. Le imprese che invece adottano un
comportamento sostenibile e responsabile avranno cura di adeguare la CSR al loro
business. Le politiche di Corporate Social Responsibility di successo quindi
saranno quelle coerenti con la strategia, con le aspettative degli stakeholder e quelle
che produrranno un tangibile beneficio per la collettività e l’impresa.

62
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