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Rocco Quaglia

Claudio Longobardi

Manuale
di psicologia
dinamica

SCHEDA DI APPROFONDIMENTO 10
Gli indipendenti
Rocco Quaglia, Claudio Longobardi

MANUALE DI
PSICOLOGIA DINAMICA

SCHEDA DI APPROFONDIMENTO 10
Gli indipendenti

Il Middle Group: Marjorie F. Brierley, Ella Freeman Sharpe, Marion Milner


e Charles Rycroft, Amedeo Limentani.
Mohammed M.R. Khan. Il trauma cumulativo, La personalità schizoide,
L’esplicito perverso, Conclusione.
Christopher Bollas. L’oggetto trasformativo, Il vero Sé, Il carattere normotico,
spettrale, antinarcisista.

Il Middle Group

Melanie Klein era approdata a Londra nel 1926, dove aveva sviluppato
un pensiero originale che ebbe un ruolo importante per il futuro del-
la psicoanalisi. Intorno a lei si raccolse infatti un gruppo di analisti che
fece proprie le sue idee sulla natura della realtà psichica e sul processo
psicoanalitico. Nel 1939 Anna Freud arrivò a Londra insieme al padre,
portando con sé visioni e timori del gruppo di Vienna. Fra le due donne
continuò così la discussione già aperta circa l’analizzabilità dei bambini
piccoli, fino a dar luogo a una serie di dispute note con il nome di “Di-
scussioni controverse” (Controversial discussions). Ricorrendo al gioco,
Melanie Klein (1923) aveva aggirato l’ostacolo presentato dalla comuni-
cazione verbale, poiché, giocando, il bambino esprimerebbe la propria
vita fantasmatica. Per Anna Freud (1927a), invece, il gioco era governato
dal principio di piacere; inoltre, se pure il gioco fosse stato interpretato
in termini simbolici, questi non potevano essere considerati equivalenti
alle associazioni prodotte dall’adulto.
Questa divergenza in realtà copriva altre e più profonde questioni
concernenti l’organizzazione della Società psicoanalitica e in particola-
re la formazione dei futuri analisti. La soluzione escogitata fu di istituire
due gruppi: il gruppo (A) degli analisti kleiniani e il gruppo (B) seguaci
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delle idee di Anna Freud. Lo studente, aspirante analista, doveva sce-


gliere due supervisori: uno aderente a uno dei due orientamenti, e uno
non appartenente a nessuno schieramento. Ebbe così, per motivi pratici,
inizio il Middle Group (gruppo C) che ben presto seppe distinguersi per
la propria “indipendenza” e “vivacità” intellettuale sia nella riflessione
teorica sia nella pratica clinica. In questo terzo gruppo si ritrovano mol-
te grandi personalità della psicoanalisi, quali D.W. Winnicott, W.R.D.
Fairbairn, M. Balint e J. Bowlby, alle cui teorie sono dedicati altri ap-
profondimenti per la straordinaria forza che il loro pensiero ha acquisito
nella riflessione psicoanalitica.
“L’ultimo gruppo” scrive Rayner “divenuto quello degli Indipenden-
ti, riflette in particolare – forse diversamente dagli altri due gruppi – al-
cune caratteristiche tipiche di una certa tradizione intellettuale britan-
nica. […] Essi originano in Gran Bretagna, ma provengono da Freud,
Melanie Klein e Anna Freud, e da molti altri ancora” (Rayner, 1991, pp.
7-8). La tradizione intellettuale britannica era alimentata dall’empirismo
che, sul piano concreto, si traduceva nel “valutare e rispettare le idee per
il loro valore reale e pratico, indipendentemente dalla loro provenienza”
(ibidem, p. 11). A un tale spirito sarebbero estranei le certezze dogma-
tiche, gli assolutismi e le faziosità settarie; al contrario sarebbero confa-
centi il dubbio, la sperimentazione e il confronto mediante la discussio-
ne. Per la loro “apertura mentale” gli autori del “gruppo di mezzo” non
costituirono mai, a differenza delle altre due fazioni, un gruppo chiuso
ma semplicemente una classe di psicoanalisti.
Gli Indipendenti, pur restando ancorati alla visione pulsionale
dell’organizzazione psichica, accolsero il pensiero kleiniano consideran-
dolo una nuova corrente nell’alveo della psicoanalisi. Klein introdusse
nell’universo del lattante e della psicoanalisi la relazione tra il neonato
e gli oggetti e per questo motivo fu identificata come “una teorizzatrice
delle relazioni d’oggetto” (ibidem, 1991, p. 19).
Gli Indipendenti andarono oltre, approfondendo il ruolo dei geni-
tori e la loro effettiva influenza sullo sviluppo del bambino; spostarono
quindi la loro riflessione dalla fantasia inconscia, evidenziata da Klein,
agli aspetti reali di tali oggetti e alla loro azione. Ronald Fairbairn fu il
primo a considerare i movimenti del bambino diretti verso l’oggetto.
Ad accomunare gli Indipendenti sarebbe proprio l’importanza da essi
attribuita agli oggetti reali e alle relazioni con tali oggetti per la qualità
dello sviluppo. A formare il gruppo degli Indipendenti contribuirono
fattori di diverso ordine, tra cui il desiderio di un compromesso per non
rischiare una “scissione” interna alla Società psicoanalitica britannica.
È una preoccupazione, questa, che si coglie tangibilmente nella lettera
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che James Strachey inviò a Edward Glover: “Preferirei che tu sapessi


[come informazione personale] che, se si dovesse giungere a mettere le
carte in tavola, io sono assolutamente favorevole a un compromesso a
tutti i costi […]. Comunque, ritengo che qualsiasi proposta di ‘scissio-
ne’ nella società debba essere condannata e contrastata fino all’ultimo”
(Strachey, cit. in Rayner, 1991, p. 21).
Gli Indipendenti, cioè quanti non si schierarono, costituivano la mag-
gioranza della Società, e ciò dovette contribuire non poco a mantenere
un’unità se pure soltanto in apparenza. Tale situazione consentì di co-
gliere l’importanza dei contributi di Klein e di far fruttare alcune sue
idee. La definizione “gli Indipendenti” non designa un gruppo omoge-
neo di analisti raccolti intorno a un sistema teorico; al contrario identifica
studiosi con opinioni differenti ma idealmente raccolti intorno a un’idea
di psicoanalisi, secondo cui ognuno possa sentirsi libero di sviluppare le
idee ispirate dai dati osservati e di seguirle.
I teorici che rientrano nella categoria degli Indipendenti sono molti;
trattando a parte quanti hanno acquisito un posto di rilievo nella rifles-
sione psicoanalitica, in queste pagine, ci limiteremo a illustrare il pensie-
ro di alcuni di loro, la cui riflessione ha prodotto un’importante traccia
e un valido dibattito nella comunità psicoanalitica.

Marjorie F. Brierley

Il lavoro di Brierley, pur apprezzato per la profondità e la novità della


sua riflessione clinica nell’àmbito del gruppo degli Indipendenti bri-
tannici, non ottenne mai un adeguato riconoscimento. Brierley è con-
siderata a ragione una “dei fondatori della teoria delle relazioni d’og-
getto” (Rayner, 1991, p. 34) ma il suo “torto” forse fu quello di voler
ricondurre l’attenzione dalla rappresentazione (Vorstellung) all’affetto
(Affekt), cioè all’espressione, secondo lei, maggiormente penalizzata
della pulsione. A suo avviso, l’elemento ideativo della pulsione prese
il sopravvento mentre gli aspetti emozionali delle idee perdettero pro-
gressivamente interesse. Lo stesso conflitto, in origine concepito con
riferimento alle cariche emotive, divenne soprattutto un conflitto tra
idee incompatibili tra loro. Per Brierley, gli affetti non sono riducibili
soltanto a fenomeni di scarica. Ella, recuperando la lezione di Freud
contenuta in Inibizione, sintomo e angoscia (1926b) – in cui l’affetto
svolge una funzione al servizio dell’Io nel compito di adattamento alle
richieste ambientali –, considera gli affetti come una forma di esperien-
za dell’Io. Di conseguenza li collega alle relazioni oggettuali, e li valuta
in termini d’investimento.
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Il bambino sarebbe consapevole fin dall’inizio dei suoi sentimenti,


poiché l’Io è “prima di ogni altra cosa un Io-corpo” (Freud, 1922b).
Ne deriva che i primi sentimenti del bambino, essenzialmente corporei,
formerebbero i primi oggetti della sua esperienza soggettiva. In breve,
oggetto e affetto sarebbero, nell’esperienza del lattante, indistinguibili:
o meglio, l’affetto costituirebbe l’oggetto del neonato.
Scrive: “L’affetto manifestato è, di fatto, l’indice del destino dell’im-
pulso e della natura dell’iniziale formazione psichica dell’oggetto”
(Brierley, 1951, p. 51).
I sentimenti, dunque, creerebbero gli oggetti nel senso che un sen-
timento buono è tutt’uno con l’oggetto. Fra qualità del sentimento e
qualità dell’oggetto si stabilisce, così, una costante azione reciproca: un
oggetto buono o cattivo produce uno stato di appagamento o di frustra-
zione del sentimento; d’altra parte, un sentimento piacevole o spiacevo-
le produce una correlativa natura buona o cattiva dell’oggetto psichico.
Il regno dell’affetto diventa così in Brierley il vero luogo d’incontro tra
mondo esterno e mondo interno.
I sentimenti corporei o la serie di Io-sensazione sarebbero gli oggetti
sui quali si fonderebbe la prima esperienza del bambino. Il passo suc-
cessivo nello sviluppo degli affetti è la distinzione che il bambino com-
pie nel discriminarli come interni oppure come esterni al Sé, e infine nel
loro riconoscimento in base alle corrispondenti qualità distintive. Gli af-
fetti assumono così un ruolo centrale nelle relazioni d’oggetto; in parte
svincolati dal polo pulsionale costituiscono in Brierley una dimensione
di sensibilità profonda e primitiva.

Ella Freeman Sharpe

Sharpe (1875-1947) studiò le pitture presenti nelle grotte di Altamira,


in Spagna (Sharpe, 1930) e diede un’interpretazione delle raffigurazioni
che avrebbe ampliato il significato e la funzione della simbolizzazione.
In tali disegni rupestri le figure degli uomini sono rappresentate in un
momento di danza rituale; per Sharpe, mediante tali immagini, gli uo-
mini avrebbero imitato nella danza i comportamenti degli animali che
cacciavano. Alcune figure di uomini sono raffigurate come cacciatori,
altre con maschere di animali nella parte delle prede. Questi uomini,
dunque, facevano finta di essere gli animali, mettendo in atto il delirio
(o illusione) di aver annullato i limiti e le differenze tra il proprio corpo
e quello degli animali e, nello stesso tempo, di aver superato la propria
impotenza e fragilità di uomini. In questa danza propiziatoria, Sharpe
situa le origini di diverse espressioni artistiche, in particolare della danza
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e delle arti figurative, ma anche del canto e della poesia, poiché l’uomo
danzante canta e recita formule magiche. Attori e artisti, in modo simile,
diventerebbero i personaggi delle loro creazioni. L’attore in particolare,
nel diventare l’altro, resta sé stesso, entrando nell’area dei fenomeni tran-
sizionali, o terza area della mente. Sharpe evidenzia pertanto, nella pos-
sibilità di mimare e di imitare l’oggetto, l’uso di un simbolismo in grado
di produrre una sublimazione. La simbolizzazione che ha nell’imitazio-
ne le sue radici diventa matrice sia del gioco sia della sublimazione. Nel
gioco, infatti, si fa riferimento all’identità fra persone e non soltanto fra
oggetti. Sharpe amplia così la concezione kleiniana, secondo cui il neo-
nato sposterebbe i suoi impulsi derivanti dal sadismo orale dall’ogget-
to originario a un nuovo oggetto, mediante il processo delle equazioni
simboliche. Inoltre con riferimento all’imitazione ipotizza, a differenza
di Ernest Jones (1916), che la simbolizzazione non rappresenti soltanto
un oggetto nascosto e rimosso ma anche un oggetto assente. Si può sin-
tetizzare il contributo più importante di Sharpe nel riconoscimento del
gioco e dell’imitazione come vere attività simboliche.
Un altro contributo riguarda la personalità dell’artista in riferimen-
to alla sua etica volta alla realizzazione della buona forma, creata in base
ai criteri dei mezzi espressivi utilizzati. Egli si riporterebbe a un mon-
do sensoriale recuperandone il ritmo e dunque la sua dimensione pre-
verbale. Dal suo codice morale votato alla creazione della buona forma
dipenderebbe la sua compulsione creativa. In questo aspetto, l’artista
avrebbe molto in comune con il nevrotico ossessivo, ma la sua creatività
lo affranca da una ripetizione pedissequa.
Nel volume L’analisi dei sogni (1937), che Eric Rayner definisce “una
piccola opera d’arte” (Rayner, 1991, p. 80), Sharpe evidenzia lo stretto
legame esistente tra l’attività onirica e il processo creativo, paragonan-
do la creazione dei sogni alle opere d’arte. Uno stesso processo remini-
scente per il ricupero di esperienze perdute opererebbe nel sognatore
e nell’artista. Sharpe utilizza pertanto le leggi dell’estetica, in particola-
re le regole dell’espressione poetica, per indagare il processo onirico. A
Sharpe non interessa il risultato poetico né il valore artistico, ma l’uso
di specifici espedienti nella creazione di una poesia, quali la similitudi-
ne, la metafora, il gioco di parole, le figure retoriche della metonimia e
della sineddoche. Il sogno diventa di conseguenza un’espressione della
creatività e una forma di drammatizzazione. Sharpe anticipa alcuni con-
cetti importanti, soprattutto con riferimento al compito dell’analisi. Ri-
tiene fondamentale aiutare i pazienti a ritrovare la ragione della propria
esistenza, cioè a riconquistare il sentimento del proprio diritto a vivere.
La nevrosi, infatti, insorgerebbe in conseguenza alla perdita della pro-
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pria normale creatività; aiutare il paziente a recuperarla diventa allora


l’obiettivo centrale del trattamento analitico (Sharpe, 1950).
In breve, Sharpe intuisce l’esistenza di una rispondenza tra lavoro oni-
rico e struttura del linguaggio, poiché comune è la fonte che governano i
meccanismi dell’espressione poetica, pittorica e onirica, cioè il simbolismo
inconscio e i desideri arcaici generati da una mistione di mente e corpo.
Vita artistica e vita onirica non si limitano, dunque, ad attingere a un uni-
co serbatoio di esperienze ma sono veicoli delle pulsioni, aventi proprie
e intrinseche leggi che presiedono alla formazione delle loro produzioni.

Marion Milner e Charles Rycroft

Il tema del simbolismo e della creatività è ripreso da Milner (1952) che,


muovendo alcune critiche al saggio di Jones (1916) sulla teoria del sim-
bolismo, approda ad alcuni interessanti risultati. Jones aveva definito il
concetto freudiano di simbolo rispetto al concetto junghiano, ed era per-
venuto a differenziare due tipi di simbolizzazione; l’uno in un’accezione
ampia, l’altro riferito unicamente al simbolismo psicoanalitico, identifi-
cato come “vero”. Da tali premesse segue che un simbolo vero rappre-
senta qualcosa che è nascosto e che è stato rimosso; il legame pertanto tra
simbolo e cosa simbolizzata sfugge, per cui il loro collegamento incontra
incredulità e resistenze; gli elementi della realtà possono simboleggiare
contenuti inconsci, ma non viceversa; le cose simbolizzate si riferiscono
soprattutto a sensazioni, a parti e ad atti del corpo, perciò i loro simboli,
se pure numerosi, sono circoscritti.
Milner non restringe il simbolo alla rappresentazione del contenuto
inconscio rimosso, ma seguendo Sharpe riprende il concetto dell’illu-
sione di essere identico all’altro o anche alle cose, e vede nell’atto della
fusione un’esperienza che consente all’individuo sia di superare i confi-
ni dell’Io sia di conoscere quel che è familiare in quel che è ignoto. Un
atto creativo ha come condizione il recupero di un sentimento primiti-
vo, cioè dell’unione con l’altro. Quel che rende non patologica questa
regressione è la possibilità di ripristinare la separazione. Il processo di
fusione nel procedimento creativo è reversibile. Il libro di Milner più
conosciuto è Disegno e creatività (1950), in cui adotta un metodo molto
simile a quello di Winnicott riferito allo scarabocchio (1971b). Milner
studia i suoi stessi disegni prodotti da una mano lasciata libera di vaga-
bondare sul foglio; analizza sia i contenuti dei disegni sia i processi men-
tali coinvolti nell’attività, come se i disegni fossero equivalenti alle libere
associazioni. Milner mette in luce che nel raffigurare oggetti del mondo
reale è rivelata l’organizzazione stessa dei propri pensieri e sentimenti.
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Milner distingue tra la simbolizzazione logico-verbale, propria del pro-


cesso secondario, e la simbolizzazione psicoanalitica che non comunica
informazioni della realtà fisica, ma stati affettivi. La differenza tra scienza
e arte sarebbe nell’utilizzo di una simbolizzazione discorsiva oppure rap-
presentazionale. La prima riguarda la simbolizzazione del mondo esterno,
la seconda, cioè la creatività artistica, tende a comunicare stati emotivi e
proprietà del mondo interno. Nell’arte si esprime il simbolismo dei sen-
timenti in una forma ritmica, e nell’autenticità della rappresentazione,
che riguarda l’esperienza affettiva dell’artista, si manifesta il “vero Sé”.
La concezione della creatività intesa come fenomeno ordinario dell’e-
sperienza umana, o come espressione del “vero Sé”, o infine come segno
di equilibrio e di salute mentale, troverà in Winnicott la sua più com-
pleta descrizione.
Anche Charles Rycroft affronta il discorso sul simbolismo, conside-
rando restrittivo confinare la sua concezione nei processi primari. Sim-
bolizzare è un’attività mentale fondata sulla percezione di cui i pro-
cessi sia primari sia secondari possono avvalersi. Non necessariamente
i simboli sostituirebbero una realtà nascosta o un materiale inconscio
rimosso. La mente non sarebbe mai, neppure durante il sogno, in una
condizione di psicosi o d’immaturità dell’Io e, quindi, completamente
dominata dal processo primario.
«Il processo di formazione dei simboli consiste nello spostamen-
to dell’investimento dall’idea d’un oggetto o d’una attività di interesse
pulsionale primario all’idea d’un oggetto di minor interesse pulsionale.
Quest’ultimo funge da simbolo del primo» (Rycroft, 1956, pp. 77-78).
Oggetto di minor interesse pulsionale è l’immagine di un oggetto
percepito nel mondo esterno, o immagini che possano essere simili per
forma all’oggetto primario. D’altra parte, anche un oggetto di primario
interesse pulsionale può essere usato come simbolo, così il pene può sim-
boleggiare un seno. Una volta formato, un simbolo può essere usato sia
dal processo primario sia da quello secondario. Molti simboli, tuttavia
rivelano aspetti di entrambi i processi presentando una diversa mistio-
ne: nei simboli insoliti predominerebbe il processo primario, nei simboli
evidenti o logici prevarrebbe il processo secondario. In quest’ultimo ca-
so il legame tra simbolo e oggetto reale rappresentato sarebbe stabile e il
suo significato continuerebbe a dipendere dall’oggetto. Questo simbolo,
inoltre, sarebbe impegnato nei processi immaginativi consci e inconsci
promuovendo il senso di realtà.
Con riferimento al pensiero di Susanne Langer (1942), Rycroft pun-
tualizza che il simbolismo dei processi primari sarebbe non discorsivo,
mentre quello dei processi secondari lo sarebbe. Il simbolismo non di-
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scorsivo o rappresentazionale designa un’attività mentale che ricorre non


alle parole ma a immagini sia visive sia uditive. I suoi elementi costitutivi,
inoltre, non sono consequenziali ma coesistenti. Si tratta di un simboli-
smo che non segue le regole grammaticali e sintattiche, il cui significato
deriva dalle connessioni con altri simboli. I sogni e l’attività artistica im-
piegano soprattutto simboli non discorsivi, le cui immagini rappresen-
tano soprattutto stati affettivi.
“Il simbolismo discorsivo, dall’altra parte, è simbolismo del pensie-
ro cosciente razionale, in cui le parole sono presentate in successione,
conformemente alle convenzioni grammaticali, sintattiche e lessicali”
(Rycroft, 1956, p. 143).
Entrambe le forme di simbolismo, pur funzionando in modo diverso
e per scopi differenti, si completano; infatti, l’uno è un mezzo di comu-
nicazione di sentimenti e di stati emotivi, l’altro consente di comunica-
re tali affetti in modo razionale, e soprattutto rende possibile il dialogo.

Amedeo Limentani

Limentani si laureò in medicina a Roma, ma in seguito alle leggi razziali


promulgate nel 1938 fu costretto a trasferirsi a Londra. Scelse per il suo
addestramento analitico il “gruppo di mezzo”, che rispondeva al suo
bisogno di restare aperto alla “verità” da qualunque parte provenisse.
I suoi contributi sono rivolti soprattutto alle perversioni e alle tossico-
dipendenze che avevano trovato in Edward Glover (1956) un primo at-
tento studioso. Per quest’ultimo, le perversioni costituivano una difesa
contro un’angoscia avvertita come annichilente. Nella perversione, in-
fatti, la paura di annientamento e di perdita del senso di realtà sarebbe
mitigata mediante il processo di erotizzazione dell’angoscia.
Limentani riprende tali temi ma senza trascurare i fattori ambientali
già messi in evidenza da Khan. Nei lavori sul transessualismo si discosta
dalla teoria di Robert Stoller (1974) che individua in un rapporto sim-
biotico tra madre e figlio, con esclusione della figura paterna e assenza
del rapporto edipico, la condizione per l’insorgenza del disturbo di ge-
nere. In tali casi, il bambino, considerato una fonte d’amore, sarebbe
per la madre ciò che non è stato per lei il seno materno. Nel caso della
bambina, invece, Stoller parla di disinteresse della madre e di tendenze
del padre a incoraggiare comportamenti maschili.
Limentani, accanto a un rapporto con la madre con qualità simbiotica,
insiste sull’importanza del ruolo del padre nell’attenuare l’intensità del-
le proiezioni e delle identificazioni che avvengono tra madre e bambino.
Scrive: “Restano infatti ben poche possibilità di internalizzare un ‘buon
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seno’ quando non c’è un padre [o qualcosa che lo rappresenti] che per-
metta al bambino di imparare a sentire che ‘non è solo con me, è anche al-
trove’” (Limentani, 1979, p. 185). Di conseguenza, il nucleo psicopatolo-
gico del transessualismo si costituirebbe non per una regressione “al buon
seno” ma per la sua mancata introiezione. Questa situazione porterebbe a
valutare in modo erroneo gli organi genitali, influenzando la formazione
del simbolo. In altre parole, la persona transessuale non si forma un’idea
simbolica del pene e di conseguenza il significato, che gli attribuisce non
è in sintonia con le funzioni dell’Io. In breve, egli non collega la presen-
za di un organo sessuale specifico all’appartenenza a un preciso genere.
Un concetto importante introdotto da Limentani è “l’uomo-vagina”
(1987), corrispondente alla donna fallica. Questi uomini vivono sen-
za particolari problemi la loro eterosessualità; possono manifestare un
occasionale interesse per persone dello stesso sesso ma è transitorio e
superficiale. Normalmente si tratta di individui intelligenti, disponibili
all’amicizia e dotati di notevole fascino. Instaurano buoni rapporti con
le donne, e conseguono un notevole successo, anche se sono attratti da
donne con caratteri molto mascolini e con importanti capacità intellet-
tuali. A differenza dell’omosessuale, l’uomo-vagina non usa un’even-
tuale omosessualità latente come una difesa contro angosce paranoiche;
nell’ambito dei rapporti oggettuali non si rintraccia né una madre se-
duttiva né un padre debole o aggressivo. “D’altra parte, e questa può
sembrare una contraddizione, ci sono molte prove che la madre sia stata
piuttosto mascolina, se non proprio una donna fallica, e che abbia trat-
tato il figlio come il proprio fallo” (Limentani, 1987, p. 241).
Dominante nell’uomo-vagina è la passività, tratto che non lo aiuta
quando è in relazione con gli uomini. L’estensione del disturbo, tutta-
via, se evidenziato nel trattamento psicoanalitico, può mettere in luce
una profonda invidia per tutto quello che è femminile e un segreto de-
siderio di essere donna.

Bibliografia
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Roma 1990.
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pany Publishers, New York.
Freud, S.* (1922a), Due voci di enciclopedia: “Psicoanalisi” e “Teoria della libido”.
osf, vol. 9.

* Salvo diversa indicazione, per la traduzione italiana degli scritti di Sigmund Freud si fa rife-
rimento alle Opere, edite da Boringhieri, Torino 1967-1980, in 12 volumi, che citiamo con la
sigla osf seguita dal numero del volume.
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Freud, S. (1922b), L’Io e l’Es. osf, vol. 9.


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Sharpe, E.F. (1950), Collected Papers on Psychoanalysis. The Hogarth Press,
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Stoller, R.J. (1975), Perversion. Pantheon, New York.
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Winnicott, D.W. (1971b), Colloqui terapeutici con i bambini. Tr. it. Armando,
Roma 1974.

Mohammed M.R. Khan. Il trauma cumulativo


Era ironico e arrogante,
un vero principe.
(emilio rodrigué, in Willoughby, 2005)

Masud Khan (1924-1989) fu allievo di Winnicott e analista di Bollas.


Nato nel Punjab dell’India britannica, raggiunse l’Inghilterra nel 1946
motivato dal desiderio di proseguire l’analisi iniziata subito dopo la mor-
te del padre. “La decisione di partire per Londra risponde comunque a
molteplici esigenze: è la logica conseguenza dell’identificazione di Masud
con la classe dominante inglese” (Gazzillo, Silvestri, 2008, p. 25). Nello
Gli indipendenti 11

stesso anno fu ammesso al training analitico e affidato a Ella Freeman


Sharpe. Alla morte di Sharpe, avvenuta nel 1947, l’analisi di Khan pro-
seguì con John Rickman; intanto gli fu concesso di seguire i corsi dell’I-
stituto di psicoanalisi. Divenne membro associato della Società britan-
nica di psicoanalisi nel 1950, e nello stesso anno iniziò il training per la
qualifica di analista infantile con Donald Winnicott come supervisore.
Khan proseguì la sua carriera alla British Society, diventando membro
ordinario e infine analista didatta. Dopo gli anni di successo della sua
vita privata e professionale, nella seconda metà degli anni Sessanta, eb-
be inizio il declino, con il moltiplicarsi dei suoi espliciti (acting out) nar-
cisistici e autodistruttivi. Gli ultimi anni di Khan sono segnati sia da un
progressivo deterioramento delle sue condizioni mentali sia, soprattutto,
da intemperanze, trasgressioni analitiche e comportamenti provocatori.
Una tale situazione determinò nel 1988 la sua espulsione dalla Società
psicoanalitica britannica con la motivazione di “persona non gradita”.
“È forse possibile pensare” precisano Gazzillo e Silvestri “che Khan
avesse una struttura di personalità borderline dalle caratteristiche spic-
catamente narcisistiche, psicopatiche e perverse” (Gazzillo, Silvestri,
2008, p. 103).
Nel suo ultimo libro Trasgressioni (1988) si parla di un uomo che ha
combattuto la più primitiva delle battaglie: accettare i limiti della nasci-
ta. Khan voleva essere sé stesso con il desiderio e la sincerità di un bam-
bino appena nato. Masud Khan morì nel 1989, all’età di sessantacinque
anni, per cirrosi conseguente all’alcolismo.

Il trauma cumulativo

Il concetto più importante formulato da Khan è sicuramente il trauma


cumulativo. Egli riconsidera le riflessioni di Freud circa le vicissitudi-
ni che l’organismo vivente, a causa della sua prolungata dipendenza
dall’ambiente, deve affrontare per non soccombere agli stimoli soprat-
tutto esterni. La superficie dell’organismo rivolta verso il mondo esterno
e ricevente gli stimoli si trasforma in una sorta di strato corticale ricettivo
e quindi in una “barriera protettiva”. Tale rivestimento, o scudo protet-
tivo, avrebbe la vitale funzione di respingere gli stimoli per “tutelare le
particolari forme di trasformazione di energia che hanno luogo nell’or-
ganismo contro l’influsso uniformante e distruttivo delle enormi energie
che operano nel mondo esterno” (Freud, 1920, p. 237).
In breve, questa corteccia sensibile protegge gli strati profondi dell’or-
ganismo da tutti gli stimoli, esterni e interni (anche questi ultimi, poiché
proiettati, sono trattati come se provenissero dall’esterno), aventi un ca-
12 Scheda di approfondimento 10

rattere sgradevole. La conseguenza è che diventano traumatici tutti gli


stimoli che riescono a infrangere la membrana di protezione.
“Chiamiamo ‘traumatici’ quegli eccitamenti che provengono dall’e-
sterno e sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo. Penso
che il concetto di trauma implichi quest’idea di una breccia inferta nella
barriera protettiva che di norma respinge efficacemente gli stimoli dan-
nosi” (ibidem, p. 239).
Il trauma attiverebbe una serie di meccanismi di difesa per padro-
neggiare gli stimoli e riequilibrare il disturbo provocato nell’economia
energetica dell’organismo. In questa cornice teorica il problema diven-
ta comprendere quali effetti produca l’apertura di una breccia da parte
di grandi masse di stimoli che fanno irruzione nell’apparato psichico.
Tali formulazioni sono da Khan considerate alla luce dei nuovi ap-
porti alla psicologia con riferimento sia al primo sviluppo dell’Io, sia al-
la riflessione sorta intorno al rapporto madre-bambino. “La nuova im-
portanza” scrive “attribuita al rapporto madre-bambino, ha interamente
mutato il nostro quadro di riferimento per lo studio della natura e del
ruolo del trauma” (Khan, 1963, p. 43).
All’organismo vivente suscettibile di stimolazione ipotizzato da
Freud, Khan sostituisce il neonato, o meglio, il “bambino da accudire”
quale è stato descritto da Winnicott (1960a). Lo scudo protettivo – da
superficie rivolta verso l’esterno dell’organismo vivente – diventa la ma-
dre che cura il suo piccolo. Non si tratta più di studiare in che modo
si formi e funzioni una tale “corteccia”, ma come “funziona” la madre
quale barriera protettiva.
La tesi di Khan è che il rinnovarsi delle brecce nella barriera di pro-
tezione in un periodo che interessa l’intero sviluppo del bambino, dalla
nascita all’adolescenza, sia responsabile del trauma cumulativo. Le brec-
ce si aprirebbero nelle zone di esperienza in cui il bambino richiede che
la madre funzioni come Io ausiliario per sostenere il suo Io immaturo.
Non si tratta più di una sola breccia formatasi nella prima infanzia, ma
di una serie di brecce che si sommano nel tempo, a causa della perdu-
rante dipendenza del bambino dalla madre. Il loro accumularsi è “silen-
zioso e invisibile”, fissandosi in specifici tratti della struttura caratteriale.
Il trauma si può considerare e verificare nel suo aspetto di cumulazione
soltanto retrospettivamente. “Il trauma cumulativo deriva così dalle ten-
sioni e dalle pressioni che il bambino piccolissimo sperimenta nel conte-
sto della dipendenza del suo Io dalla madre in quanto scudo protettivo
e Io ausiliario” (Khan, 1963, p. 45).
Secondo Khan, le brecce che si verificano nella barriera protettiva
materna sarebbero qualitativamente diverse dalle pressioni di tipo in-
Gli indipendenti 13

trusivo attivate da madri con una grave patologia, e sarebbero dovute


soprattutto all’incapacità della madre di adattarsi ai bisogni del piccolo.
Khan identifica negli scritti di Winnicott (1956) la descrizione più effi-
cace dello scudo protettivo materno. In un rapporto soddisfacente, la
madre si rende disponibile come scudo protettivo favorendo lo sviluppo
delle funzioni dell’Io. Il bambino non è, in questo modo, esposto a una
precoce consapevolezza della sua dipendenza e non deve utilizzare le sue
primitive funzioni mentali per difendersi. Il bambino, attraverso la ma-
dre, può conservare l’illusione dell’onnipotenza; giunge a distinguere il
proprio mondo interno da quello esterno; ha la possibilità di fare investi-
menti oggettuali, passando dalla dipendenza primaria a una dipendenza
relativa. Importanti sono, in questa fase, le frustrazioni somministrate in
misura proporzionata alla capacità del bambino di tollerare la tensione.
I fallimenti materni possono essere di vari tipi. Il più grave è identi-
ficabile in un’interferenza massiccia della psicopatologia materna, che
può provocare una psicosi o anche una deficienza mentale. Gravi sono
anche le conseguenze derivanti sia dalla perdita della madre sia dall’im-
possibilità della madre di assolvere il proprio compito, come nei casi di
una minorazione del bambino. Tuttavia, il disturbo chiamato “trauma
cumulativo” è il risultato di fallimenti parziali del ruolo protettivo ma-
terno. Qualora l’ambiente non risponda ai bisogni di cura del bambi-
no e non offra un valido sostegno, si ostacola un’autentica integrazione
dell’Io. Inoltre, tali carenze del ruolo protettivo producono nel tempo la
formazione di un nucleo di reazioni patologiche, non potendo il bambi-
no far fronte in alcun modo agli “urti” provocati dall’ambiente.
“Il concetto di trauma cumulativo è un tentativo di offrire, nell’am-
bito del primo sviluppo dell’Io e nel contesto del rapporto madre-bam-
bino, un’ipotesi complementare al concetto di punti di fissazione del-
lo sviluppo libidico” (Khan, 1963, p. 53). In altre parole, tale concetto
intende tracciare i momenti rilevanti del rapporto madre-bambino che
convergono in una configurazione dinamica di un preciso carattere e di
una specifica personalità. Nello scambio tra madre e bambino possono
verificarsi tentativi volti a correggere le deformazioni provocate dagli
urti; tuttavia, il risultato è una complicazione della patologia. In breve,
nell’azione patogena tra madre e bambino, ogni tentativo di recupero
peggiora ulteriormente la patologia in atto.
D’altronde, se da un lato le brecce nella barriera protettiva materna
possono generare una serie di effetti patogeni, dall’altro l’Io del bambi-
no – pur vulnerabile – ha sorprendenti potenzialità e capacità di recupe-
ro. “Questa forza non soltanto può guarire, ed effettivamente guarisce
dal danno causato dalle brecce nella barriera protettiva, ma può usare
14 Scheda di approfondimento 10

questi urti e sforzi come ‘nutrimento’ (Rapaport, 1958) di un’ulteriore


crescita e strutturazione” (ibidem, p. 54).
Una relazione collusiva con la madre, conseguenza degli urti dovuti
al fallimento del ruolo protettivo materno nella prima infanzia, ostacola
la normale differenziazione delle strutture psichiche e altera le relazioni
oggettuali della fase edipica.
“All’epoca dell’adolescenza il ragazzo diventa acutamente consape-
vole degli effetti alteranti e distruttivi di questo legame collusivo con la
madre. La reazione dell’adolescente è allora un drammatico rifiuto del-
la madre e di tutti gli investimenti di cui l’aveva fatta oggetto in passa-
to” (ibidem, p. 55).
Gli esiti possono essere sia di inibizione dello sviluppo della perso-
nalità, sia di isolamento onnipotente, sia ancora di ricerca di ideali, di
relazioni e di interessi nuovi.
Nella situazione analitica, soggetti con disturbi dell’Io dovuti a trau-
mi cumulativi si sottraggono alla tensione mediante una fuga nella real-
tà. Secondo Khan, nel trattamento terapeutico di questi pazienti non si
riattiverebbe il conflitto originario ma insorgerebbe un’affettività che es-
si non saprebbero gestire. L’analista deve esercitare tolleranza nei con-
fronti del paziente che cerca di esercitare un controllo su di lui, finché
non sia in grado di individuare i traumi originari e interpretarli con ri-
ferimento alla situazione analitica.

La personalità schizoide

La riflessione di Khan parte dal saggio di Fairbairn Fattori schizoidi del-


la personalità (1940), in cui erano evidenziate tre caratteristiche di que-
sto tipo di pazienti:
a) atteggiamento di onnipotenza;
b) isolamento e distacco relazionale;
c) eccessiva preoccupazione per la realtà interiore.
Il fenomeno schizoide, caratterizzato da scissioni nell’Io, è stato da
Fairbairn considerato con riferimento all’incorporazione orale e, quin-
di, come una forma di fissazione alla prima fase dello sviluppo. Il ca-
rattere schizoide è contrassegnato dalla tendenza a non sentire gli altri
come persone: le relazioni oggettuali sono pertanto prive di ogni emo-
tività. Fairbairn faceva risalire tale patologia a un insoddisfacente rap-
porto del bambino con la madre, qualificando quest’ultima come pos-
sessiva o come indifferente, una madre, cioè, incapace a trasmettere al
figlio amore e significato.
Gli indipendenti 15

Khan esamina la posizione schizoide identificata da Fairbairn, e ne


collega i tratti – tra cui il carattere teatrale – alla personalità “come se”
descritta da Helene Deutsch (1942). Si tratta dunque di persone che
modellano il proprio comportamento in modo conforme alle attese del
mondo esterno in base ai segnali raccolti.
Khan legge la tecnica schizoide della suggestionabilità e non come
disposizione alla traslazione (Fairbairn), né come un atteggiamento pas-
sivo con cui mascherare tendenze aggressive (Deutsch), ma come una
forma di passività dell’Io per evitare sentimenti intensi. L’imitazione di
un comportamento e delle espressioni emotive non presuppone necessa-
riamente il vissuto dei relativi sentimenti. In seguito, Khan collega queste
qualità della personalità “come se” al falso Sé di Winnicott, in cui sono
centrali gli aspetti di “compiacenza” e di “imitazione”.
Stabilita l’identità clinica di questa personalità, Khan ne descrive i
tratti comportamentali nella situazione analitica. In sintesi si tratta di
pazienti inclini:
a) a provocare o a sedurre l’analista;
b) a esibire piuttosto che a comunicare i loro contenuti psichici;
c) a scaricare gli affetti con premura;
d) a mascherare e difendere con forme aggressive compensatorie un nar-
cisismo chiaramente difettoso;
e) ad appoggiarsi completamente all’analista, mettendolo alla prova;
f) a una completa collaborazione ma senza lasciarsi coinvolgere e senza
stabilire un reale rapporto con l’analista;
g) a utilizzare ogni forma di difesa pur di evitare l’angoscia. Le difese
più importanti sono: la scissione, la svalutazione sia delle esperienze
emotive sia delle persone, l’identificazione proiettiva, l’idealizzazione.
Il ricorso all’idealizzazione in questi pazienti rivela sia la presenza di
un ideale dell’Io organizzato, sia gli sforzi compiuti per rispondere alle ri-
chieste di un tale ideale. Khan, tuttavia, identifica l’origine di questo Io
non nell’introiezione degli oggetti primari idealizzati, ma in una formazio-
ne psichica sostitutiva di tali oggetti. L’idealizzazione diventa pertanto un
espediente per sostenere, in forma compensatoria, l’assenza della figura
primaria. L’oggetto idealizzato (cioè l’ideale dell’Io) è utilizzato per sfuggi-
re alla disperazione e alla delusione conseguenti a ogni relazione nella real-
tà. In breve, questo tipo di idealizzazione non avrebbe né una base narcisi-
stica né un’identificazione con l’oggetto, ma sarebbe soltanto una struttura
psichica che serve come difesa in un rapporto avvertito come precario.
Khan ipotizza che da bambini questi pazienti fossero mentalmente
vivaci e ipersensibili, e presentassero un sovrainvestimento libidico per
16 Scheda di approfondimento 10

la madre con un legame forte e protratto nel tempo. Le madri di questi


pazienti, inoltre, avrebbero evitato con il proprio bambino, considerato
“speciale”, ogni contraddittorio e raffronto aggressivo non permetten-
dogli così di operare un’integrazione dell’aggressività.

L’esplicito perverso

Sempre con riferimento alla teoria di Fairbairn e in una prospettiva re-


lazionale, Khan estende il discorso del carattere schizoide alle perver-
sioni, la cui genesi è inquadrata in un particolare modello del rapporto
madre-bambino. Khan rivolge, inoltre, l’attenzione agli oggetti che infe-
stano il mondo interno del perverso; in altre parole, indaga sulle precoci
relazioni oggettuali descritte da Klein, considerate all’origine dei com-
portamenti perversi. Egli identifica così due oggetti interni nel mondo
intrapsichico del perverso: l’oggetto idoleggiato e l’oggetto composito.
Nel primo caso, si tratta dell’immagine del Sé del bambino equi-
valente a “cosa idoleggiata” dalla madre in una relazione simbiotica.
Nel secondo caso, l’oggetto composito si riferisce all’introiezione di più
aspetti, sia dell’oggetto sia del Sé, tra loro contrastanti e incoerenti. In
altre parole, il bambino cerca di compensare le carenze delle cure ma-
terne mediante un lavoro di idealizzazione di aspetti delle cure ambien-
tali corrispondenti al suo bisogno; inoltre, ricorrendo alla fantasia, raffor-
zerebbe le esperienze di cura inadeguate fino a “comporre un collage”
(Khan, 1969, p. 156). Il bambino s’inventa così un ambiente ideale, va-
le a dire un oggetto interno composito, che può ricrearsi soltanto in un
evento sessuale.
In ogni modo – nella primissima relazione del futuro pervertito – la
madre tende a manipolare il corpo del bambino come fosse un’esten-
sione narcisistica di sé stessa, negandogli sia la sua indipendenza sia la
sua aggressività. Il termine “idoleggiamento” indica il superinvestimento
affettivo di un oggetto reale; in particolare, nella relazione madre-bam-
bino, indica un investimento materno di aspetti parziali del piccolo, che
sarebbe ignorato come persona che si sta formando con propri bisogni
e propri desideri.
Il Sé, sia nell’aspetto di oggetto idoleggiato, sia in quello di oggetto
composito, non può essere raggiunto, attuato, o sperimentato se non me-
diante specifici espliciti sessuali. Mediante gli espliciti perversi, infatti,
l’individuo può vivere un’esperienza primitiva e ricongiungere momen-
taneamente una profonda scissione della sua personalità.
Dalla sua esperienza clinica, Khan evince che questo tipo di pazien-
te è stato un bambino amato; tuttavia, non idealizzato bensì idoleggiato
Gli indipendenti 17

e, quindi, trattato in modo impersonale. La madre, dunque, dopo aver


idoleggiato il figlio, lo abbandona per la nascita di un nuovo figlio, o per
essersi resa conto del suo eccessivo investimento. Il sentimento della per-
dita provocato nel bambino è riferito a quell’aspetto di sé idoleggiato
dalla madre. Al bambino non resta che introiettare tale aspetto parziale
del Sé, amato e creato dalla madre, per conservarlo e custodirlo. Negli
espliciti perversi si compie un tentativo di riparazione, richiamando in
vita l’oggetto interno idoleggiato. Nella pratica perversa è riattualizzata
la primitiva relazione con la madre, mediante l’utilizzo del corpo dell’al-
tro come oggetto idoleggiato, con valore di oggetto transizionale.

Soltanto un’analisi spregiudicata degli intensi ed elaborati interessi dell’Io


di questi pazienti e del rapporto sessuale con i loro oggetti mi ha aiutato
a comprendere che ciò che era messo in atto era una particolare modali-
tà di relazione precoce infantile. Tale relazione, nonostante l’evidente ed
euforica consapevolezza di ciò che stavano facendo, era loro nascosta, ed
era essenzialmente una ripetizione del processo di trasformazione in idolo
operato dalla madre sul bambino in quanto oggetto da lei creato, proces-
so dal bambino interiorizzato e nascosto. (Khan, 1968, p. 17)

L’esplicito perverso trasforma l’altro nel “Sé idoleggiato”, attraverso


il meccanismo dell’identificazione proiettiva, con la segreta speranza di
recuperare quel che gli è stato sottratto con la separazione dalla madre
e di reintegrarlo al proprio Sé. L’intera operazione è tuttavia condotta
senza il riconoscimento dello stato depressivo, cioè dei propri sentimenti
di colpa e di perdita, ma con un senso di trionfo sull’oggetto, dal quale
è negata in modo maniacale ogni forma di dipendenza. Nell’agire per-
verso troviamo, infatti, la negazione della propria dipendenza dall’altro,
la sua riduzione a “cosa propria”, e infine la trasformazione di un’espe-
rienza subìta in un’azione sull’altro manipolato in modo onnipotente.
Questi individui sono in realtà grati verso loro stessi per l’esperienza
che si sono procurata, e possono così sfuggire al rimpianto di quel che
vivono come irrimediabilmente perduto. La sessualità perversa utilizza
una strategia – tecnica dell’intimità – per creare una relazione fittizia,
cioè senza un reale investimento dell’altro. Il perverso progetta e or-
ganizza l’incontro ma senza lasciarsi coinvolgere, temendo un’intimità
profonda e autentica. Il complice è sedotto ed è indotto a partecipare
volontariamente alla realizzazione di una situazione artefatta. Tuttavia,
poiché l’atto perverso è un’erotizzazione delle proprie paure, il perver-
so non riesce a vivere fino in fondo l’esperienza dell’incontro; l’intimità
è cercata e temuta, e ogni suo residuo insoddisfatto è destinato a rinno-
varsi. Ogni successo di incontro è segnato dal fallimento del suo scopo
18 Scheda di approfondimento 10

principale. Il perverso è costretto a consumare sempre e soltanto il con-


torno mai la pietanza.

Invece di raggiungere il soddisfacimento pulsionale o l’investimento


dell’oggetto, il pervertito resta una persona privata del suo desiderio,
con la sola soddisfazione di uno sfogo piacevole e dell’intensificazione
dell’interesse dell’Io. Nella sua soggettività il pervertito è un uomo man-
cato. (Khan, 1964, pp. 26-27)

Un senso di “insaziabilità” resta così al perverso dopo ogni incontro


sessuale; inappagato e inconsolabile il pervertito è assalito da una forte
invidia per il partner, che avrebbe conseguito il suo desiderio di intimi-
tà e i bisogni del proprio Io.

Conclusione

Come Winnicott, Khan pone l’accento sulla capacità del bambino di


“essere solo” come condizione di creatività e di autenticità. Winnicott,
tuttavia, ambienta tale capacità alla presenza di qualcun altro e la con-
sidera essenziale per “scoprire la propria vita personale” (Winnicott,
1958a, p. 36). Khan reinterpreta tale capacità come l’attitudine di una
persona a “essere spontanea quando è sola con sé stessa” (Khan, 1977,
p. 202). In generale, l’individuo, nel corso del suo sviluppo, dovrebbe
maturare sia la capacità di essere spontaneo nei suoi stessi confronti sia
la capacità di restare tale, quando è in relazione con l’altro, senza dover-
si alienare dietro una molteplicità di maschere. Compito dell’analisi è
mettere l’individuo in rapporto con sé stesso, consentendo l’esperienza
di Sé mediante la traduzione dei vissuti in nozioni concettuali.
Il rapporto dell’individuo con sé stesso non è necessariamente un
problema; per Khan esistono condizioni psichiche non conflittuali, ossia
condizioni in cui è possibile l’esperienza di “restare oziosi”. Non è que-
sta una condizione mentale di inerzia o di pigrizia, e non è neppure una
forma di ritiro in sé, in una sorta di vita in opposizione all’attivismo; al
contrario: “È uno stato transizionale dell’esperienza, un modo di esse-
re caratterizzato da una quiete vigile e da una consapevolezza ricettiva
desta e sensibile” (Khan, 1977, p. 198). Si tratta di uno stato d’animo in
cui non si avvertono tensioni; è una condizione simile a quella del ter-
reno che giace incolto nell’anno sabbatico: lasciato a sé stesso, è pronto
per ogni produzione spontanea.
In ogni modo, anche per Khan la capacità di “essere solo” si realizza
unicamente se qualcuno è presente e attendibile. Il bambino può godere
del suo essere solo se sa che qualcuno, dopo questo tempo, è disposto
Gli indipendenti 19

ad accoglierlo. La “capacità di restare oziosi” è, tuttavia, uno sviluppo


successivo, poiché comporta l’introiezione della madre. Per completare
la metafora del terreno, come il “maggese sabbatico” non produce ciò
che è seminato ma lascia germogliare quello che in sé è contenuto, co-
sì chi “giace incolto”, non lasciandosi distrarre da stimolazioni esterne,
può coltivare quello che germoglia dal proprio Sé.

Bibliografia
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Winnicott, D.W. (1960a), “La distorsione dell’Io in rapporto al vero e al falso
Sé”. In Sviluppo affettivo e ambiente. Tr. it. Armando, Roma 1970.

Christopher Bollas. Il vero Sé

Bollas radica il suo pensiero in quello di Winnicott e tuttavia sviluppa


un’originale riflessione teorica. Scrittore creativo e versatile, lascia sup-
porre che la sua ricerca non sia ancora conclusa. In queste pagine sono
esposti alcuni concetti ormai facenti parte del patrimonio della lettera-
tura psicoanalitica.
20 Scheda di approfondimento 10

L’oggetto trasformativo

Winnicott aveva descritto la madre sia come l’ambiente nel quale il bam-
bino è, vive e si muove sia come la vera sorgente di stimoli e di esperien-
ze, che gradualmente facilitano lo sviluppo delle innate potenzialità del
vero Sé del bambino. All’interno di questa concezione, Bollas si sofferma
sui processi di continua negoziazione che avvengono tra madre e bambi-
no, e sul tipo di esperienza che quest’ultimo fa della madre. Essa, prima
ancora di “portare il mondo al bambino” (Winnicott, 1945), “trasforma
realmente il mondo del bambino” (Bollas, 1987, p. 23). Le prime espe-
rienze che il bambino fa della madre non sono di tipo cognitivo, ossia
non riguardano le rappresentazioni oggettuali; il bambino si trova in un
processo in cui il suo essere è continuamente modificato. La madre, in-
fatti, nel soddisfare i bisogni del bambino è costretta ad alterare il suo
ambiente. Segue che la prima esperienza dell’oggetto, da parte del bam-
bino, è di un oggetto trasformativo. A una conoscenza rappresentativa
Bollas sostituisce così una conoscenza esistenziale della madre, e scam-
bia le statiche qualità dell’oggetto con i ritmi, le alternanze, le scansioni,
che qualificano la natura del rapporto.

La madre non è ancora identificata come altro ma è vissuta come un pro-


cesso di trasformazione, e questa caratteristica dell’inizio della vita rimane
in certe forme di ricerca oggettuale nella vita dell’adulto, in cui io credo
che l’oggetto sia cercato per la sua funzione di significante del processo
di trasformazione. (Ibidem, p. 22)

Se il rapporto che il bambino instaura con la madre precede quello


di una sua identificazione a livello mentale, allora tale rapporto non è
motivato dal desiderio dell’oggetto, e neppure il desiderio dell’oggetto
nella vita dell’adulto sarà motivato dal bisogno di possedere l’oggetto.
Il bambino, nel vivere la madre come un processo di trasformazione,
cercherà anche nei successivi rapporti un oggetto che assolva la stessa
funzione di trasformazione del Sé. L’oggetto non contiene alcuna pro-
messa di soddisfacimento di un desiderio ma “promette” di trasforma-
re il soggetto.
Il processo trasformativo ha, dunque, origine nell’ambiente madre,
ma con l’emergere dei fenomeni transizionali si ha una dislocazione su
oggetti soggettivi, o transizionali. Alla fase trasformativa subentra così la
fase di transizione dal soggettivo puro all’oggettivo reale. Attraverso l’u-
so dell’oggetto transizionale, il bambino può esplorare il regno dell’illu-
sione e della metafora e, di conseguenza, tollerare la perdita della madre
quale oggetto trasformatore del Sé. “Ciò che era un processo reale può
Gli indipendenti 21

essere spostato in equazioni simboliche che, se sostenute dalla madre,


mitigano la perdita della madre ambiente originario” (ibidem, p. 23).
Nella vita adulta, la ricerca dell’oggetto trasformativo si manifesta
nella segreta speranza che nuove amicizie, un nuovo lavoro, o nuove
esperienze possano causare un cambiamento nella propria esistenza. Si-
milmente un’intensa esperienza affettiva non dipende dall’intensità con
cui l’oggetto è desiderato ma dall’identificazione dell’oggetto attuale con
un oggetto trasformativo evocativo di un’antica esperienza oggettuale.
Nella vita adulta, dunque, si è alla costante ricerca dell’oggetto tra-
sformativo sotto forma di “equivalenti simbolici” per riattivare esperien-
ze di primitive metamorfosi.

Il vero Sé

Il Sé è l’argomento centrale della teoria di Winnicott; si tratta di un po-


tenziale ereditario dal cui sviluppo dipende la futura organizzazione
mentale. Egli descrive i processi che promuovono, oppure inibiscono,
l’evoluzione del nucleo psicosomatico chiamato vero Sé potenziale. In
un ambiente sufficientemente buono, il Sé nucleare si sviluppa senza
difficoltà, mentre le sue parti danno origine al Sé, vale a dire all’espe-
rienza di un senso della propria identità, alla sensazione di essere vivo e
consapevole di sé. È il Sé che si esprime nella spontaneità dei gesti, nella
naturalezza e nella continuità dell’esistere. In caso di fallimenti materni
si ha una scissione tra il vero Sé, che si nasconde, e il falso Sé i cui con-
tenuti si formano in risposta alle richieste ambientali.
Bollas ha approfondito la dinamica interattiva tra le potenzialità in-
nate del vero Sé e l’ambiente, valutando i rischi delle invadenze indebi-
te e delle sollecitazioni inappropriate operate sul bambino. Egli postula
che il nucleo del Sé preesista a ogni rapporto con gli oggetti, e che con-
sista in un puro potenziale la cui attivazione dipenda dalle sollecitudini
che il bambino riceve dall’ambiente, in particolare dalle cure materne e
paterne. L’insieme delle disposizioni geneticamente determinate costi-
tuirebbe l’idioma della personalità di ogni individuo.
“Ciascuna disposizione ereditaria si incontra con il mondo reale, e
uno dei prodotti della dialettica tra idioma personale e cultura umana è
la vita psichica” (Bollas, 1989, p. 17).
L’idioma personale è una sorta di nucleo essenziale che precisa e li-
mita ciascun individuo; come un seme, esso si sviluppa se incontra le
condizioni favorevoli. La consapevolezza che ogni uomo ha un proprio
idioma, cioè un modo personale di essere, deriva da una sensazione con-
divisa non traducibile in termini cognitivi: è una conoscenza non pensa-
22 Scheda di approfondimento 10

ta. Secondo Winnicott, in ogni individuo agisce una pulsione a evolvere


verso una condizione di separazione e di distinzione dagli altri; si tratta
di una potenzialità innata del vero Sé (Winnicott, 1965a).
Lo sviluppo cui l’individuo è “predestinato” può pertanto realizzar-
si nella manifestazione spontanea delle potenzialità del suo vero Sé; in
altre parole, l’individuo realizza il proprio “destino” evolutivo qualora
le sue potenzialità biologicamente radicate interagiscano con l’ambiente
appropriato. Bollas fa, pertanto, riferimento a una sorta di pulsione del
destino, intesa come una spinta a sprigionare il potenziale del Sé, elabo-
rando il proprio idioma attraverso gli oggetti.
“La vita del vero Sé si trova nell’esperienza del mondo fatta da cia-
scuna persona. L’idioma che noi siamo trova espressione nella scelta de-
gli oggetti disponibili nell’ambiente e nel loro uso” (Bollas, 1989, p. 18).
La madre può così fornire al bambino sé stessa quale oggetto, dive-
nendo un trasformatore dell’esperienza delle sue potenzialità e contri-
buendo alla formazione del Sé. Al contrario, se non si costituisse il Sé,
il bambino sarebbe costretto ad accogliere e a conformarsi alle richieste
dell’ambiente, cadendo in questo modo nelle mani del fato.
La madre può essere l’oggetto mediante cui il bambino realizza le
proprie potenzialità e costruisce il proprio destino; tuttavia può anche
agire come una forza esterna al bambino, cioè in modo imprevedibile e
fuori delle possibilità deliberative del piccolo. In questo caso, il bambino
perde la sua capacità creativa che gli permette di sperimentare la pro-
pria soggettività, mentre gli eventi diventano impersonali e irrazionali.
Lo sviluppo è dunque segnato dalla possibilità che il bambino ha di
realizzare, mediante un oggetto trasformativo, nuove forme nel suo Io; in
altre parole, lo sviluppo si concreta nella capacità di organizzare l’espe-
rienza nel tempo e nello spazio. Per Bollas ogni trasformazione è sentita
come un’esperienza estetica; pertanto, se la madre si pone come oggetto
trasformativo, l’interazione con lei costituisce la prima esperienza estetica
del bambino. Questa prima esperienza di trasformazione riguarda un mo-
do di essere dell’espressione del Sé (non riducibile a una rappresentazione
mentale) e, di conseguenza, predispone le future esperienze estetiche, vale
a dire rapporti soggettivi con l’oggetto estetico. La fusione con tale oggetto
rievocherebbe una sensazione destata la prima volta dall’esperienza che
il bambino ha fatto nell’interazione trasformativa con la madre. In ogni
ricerca dell’oggetto estetico vi è in realtà la ricerca dell’oggetto trasforma-
tivo. Le esperienze estetiche contengono, quindi, l’intrinseca promessa di
integrazione in una nuova forma delle parti del Sé non integrate.
Il dolore della fame è dunque trasformato nel piacere della sazietà, la
sofferenza in soddisfazione. Questi momenti di esperienza estetica, pu-
Gli indipendenti 23

ramente soggettivi, trasformano le realtà interne ed esterne del bambino.


Secondo Bollas, insieme con il latte, il bambino incorpora non soltanto
una nuova esperienza ma anche “l’estetica della cura”, ossia la forma me-
diante cui la madre somministra contenuti. Una contraddizione si verifica,
pari al doppio legame di Gregory Bateson (1972), qualora il contenuto sia
in contrasto con la forma, oppure il messaggio non si accordi con l’espres-
sione. Il modo di essere di una madre, il suo stile espressivo, descrive i mo-
di in cui l’essere del bambino si trasforma, preservandone la continuità.
“Col tempo, nelle situazioni normali, l’estetica materna cede alla
struttura del linguaggio, e a questo punto l’essere può essere detto”
(Bollas, 1987, p. 44). La parola costituisce un nuovo oggetto trasforma-
tivo e consente la transizione dal soggettivo alla “cultura del villaggio
umano”. Le trasformazioni operate dalla madre continueranno a influen-
zare i futuri modi di essere del bambino. In questo senso, per Bollas, “il
carattere è un’estetica dell’essere” (ibidem, p. 44).

Il carattere normotico, spettrale, antinarcisista

Se le potenzialità innate sono all’origine della formazione del vero Sé,


tale formazione è tuttavia ostacolata dalla formazione di strutture di fal-
so Sé. Questo Sé protegge il vero Sé, nascondendolo, compiacendo le
richieste dell’ambiente (Winnicott, 1960). In breve, il falso Sé ha la fun-
zione di prevedere le attese ambientali e le possibili reazioni, perciò fa
riferimento alle funzioni cognitive private di ogni base affettiva. Possono
esserci persone – afferma Winnicott – che, pur conducendo un’esistenza
ordinaria, sono tuttavia “schizoidi o schizofreniche” (Winnicott, 1971a).
Bollas denuncia la particolare condizione di un numero crescente
di disturbi della personalità caratterizzati da un carente elemento “sog-
gettivo”.
“I soggetti in questione” scrive “spesso non riescono a disfarsi del-
la vita intrapsichica, perché non riescono a risolvere il dolore psichico
che deriva dall’annullamento della vita interiore” (Bollas, 1987, p. 143).
La sensazione di questi soggetti è quella di vuoto, di non avere il senso
del Sé. Alcune persone, tuttavia, riescono a eliminare il fattore sogget-
tivo, o l’aspetto creativo della loro personalità, sviluppando una menta-
lità che privilegia gli elementi oggettivi. Si tratta di un tipo di persona,
“anormalmente normale”, che Bollas chiama normotica. Una persona
con carattere normotico può essere sicura, spigliata, estroversa; tuttavia
ha un interesse esclusivo per gli oggetti considerati per la loro costitu-
zione materiale e per il loro uso pratico e concreto. Gli stati mentali del
soggetto sono come trasferiti negli oggetti reali mediante un processo di
24 Scheda di approfondimento 10

desimbolizzazione che li priva di ogni significato psichico. In breve, si


tratta di persone deprivate di uno spazio interno, non in grado di intro-
spezione, e che vivono come oggetti tra oggetti. In assenza di un mondo
soggettivo, non possono neppure utilizzare gli elementi affettivi legati
ai fenomeni transizionali. Entro un certo limite, sono persone con un’i-
dentità stabile, in cui l’azione ha sostituito la riflessione e ogni analisi in-
teriore: sono affini alla personalità definita da Joyce McDougall (1980)
dell’“Anti analizzando”.
Normalmente la personalità normotica ha una vita programmata, in
cui sono eliminati gli imprevisti come le scelte spontanee; tutto si svol-
ge come in un rituale. Il normotico può avere molti amici ma è incapace
di condividere scambi in cui siano presenti elementi soggettivi capaci
di creare un senso di intimità. Questi individui non avvertono l’esigen-
za di parlare di loro stessi, e non hanno bisogno di conoscere gli altri e
le loro vicende.
Qualora vi fosse un eccessivo trasferimento, una sorta di evacuazione,
di stati mentali soggettivi nella realtà concreta degli oggetti, con conse-
guente desimbolizzazione del contenuto psichico, potrebbe verificarsi
una vera e propria malattia normotica. In questo caso, ogni significato
soggettivo è attribuito a un oggetto esterno, inutilizzabile per fini sim-
bolici.
Con riferimento all’eziologia del disturbo, secondo Bollas un soggetto
normotico è riuscito a rispecchiarsi nei genitori soltanto parzialmente,
ricevendo una visione appannata di Sé. Non avendo trovato un riflesso
del proprio Sé, egli non ha potuto interiorizzare la funzione di rispec-
chiamento e sostituire al dialogo intersoggettivo quello interiore. Qualo-
ra si verificasse una perdita della soggettività e quindi di contatto con il
mondo reale si assisterebbe a un crollo normotico. A differenza della ma-
lattia psicotica orientata esclusivamente al mondo della fantasia, la ma-
lattia normotica sarebbe rivolta soltanto al mondo degli oggetti concreti.
Per comprendere la personalità spettrale è necessario riconsiderare il
passaggio che avviene nel bambino dal regno della creatività primaria,
cioè dal mondo allucinato, al regno degli oggetti reali e all’uso creativo
di tali oggetti per la soddisfazione dei bisogni. Gli oggetti, infatti, sono
utilizzati in modo transizionale, entrando il bambino in un’area inter-
media di esperienza e quindi nell’immaginazione del Sé. Alla base di
questo passaggio vi è l’illusione, favorita dalla madre, che gli oggetti ri-
spondano ai bisogni del bambino, e che i desideri creino la realtà. Nei
pazienti psicotici, invece, non sarebbe avvenuto il passaggio dalla crea-
tività allucinatoria all’uso creativo degli oggetti concreti in vista di una
loro funzione naturale. Tra gli esempi più indicativi di tale condizione
Gli indipendenti 25

vi è il bambino autistico, che utilizza gli oggetti soltanto con riferimento


alle sensazioni che produce e quindi fuori dello spazio transizionale, cioè
dell’esperienza. Gli oggetti possono essere immaginati secondo il loro
uso appropriato e il loro significato soltanto se le cure materne hanno
prodotto uno spazio potenziale, in cui il soggetto può utilizzare creati-
vamente gli oggetti della realtà.
Tra queste due condizioni, ossia tra uno stato di psicosi dominato
dal pensiero allucinato e uno stato in cui gli oggetti reali sono utilizzati
al servizio del Sé, Bollas indica una terza possibilità in cui, pur essendo
preclusa una vera e propria attività transizionale, gli individui non sono
psicotici ma manifestano tratti di natura schizoide. Bollas parla, infatti,
di soluzione schizoide che comporta una frattura tra il vero e il falso Sé.
In questi casi, l’individuo si crea un mondo immaginario e alternativo
a quello reale, in cui il vero Sé si rifugia vivendo nei sogni e nell’attività
fantastica. L’immaginazione non è più utilizzata per vivere nel mondo
reale ma serve a creare un’esistenza parallela popolata di personaggi con
i quali il paziente convive. In questi casi, l’oggetto alternativo a quello
transizionale non è né amato né aggredito, ed è usato per compensare
l’uso di oggetti reali in un mondo interiore divenuto molto diverso da
quello esterno. Anche questo spazio mentale interno, tuttavia, è alterna-
tivo, e non soltanto allo spazio potenziale creato dalle cure materne, cioè
alla terza area dell’esperienza umana, ma anche rispetto allo spazio inte-
riore normale. Gli oggetti alternativi inseriti in questo spazio avrebbero,
secondo Bollas, “una presenza particolare”, poiché sarebbero sopravvis-
suti a un’esperienza di morte; in altre parole, essi personificherebbero
gli “spiriti” degli oggetti morti. Questi oggetti, infatti, non rappresente-
rebbero gli oggetti reali, di cui conservano le caratteristiche, ma sareb-
bero simulacri senza vita.

Quando il soggetto fa passare una rappresentazione di un oggetto di là


di questa linea interiore, lo modifica volutamente e lo definisce come una
presenza interiore speciale. In particolare, prova la sensazione di creare
qualcosa di diverso dal mondo degli oggetti reali, di trafugare l’essenza
del Sé e altri stati in questo mondo alternativo, in cui i Sé del passato e
gli altri vivono come spiriti o spettri. (Bollas, 1989, p. 129)

La personalità spettrale, ossia la persona che si crea e vive in un mon-


do alternativo insieme con altri fittizi non avrebbe sperimentato il rico-
noscimento dei suoi bisogni corporei da parte della madre. Bollas ipo-
tizza anche la presenza di una depressione materna che avrebbe reso
impossibile al bambino qualunque tipo di negoziazione con la vita reale,
costringendolo in un mondo alternativo.
26 Scheda di approfondimento 10

Il terzo carattere descritto da Bollas è l’antinarcisista. Esiste un narci-


sismo normale che è costituito da un investimento non idolatrico ma di
premura nei confronti del proprio Sé. Tuttavia, vi sono persone che non
si amano, coltivando un narcisismo negativo. L’antinarcisista sarebbe una
persona in lotta con il proprio destino, che ostacola il suo vero Sé. “Negan-
do il suo destino, questa persona antielaborante ‘cuoce nel suo brodo’ e
adamantinamente rifiuta di contribuire alla propria vita” (ibidem, p. 170).
In questi individui, amati in modo narcisistico dalla madre, non ha
avuto luogo il complesso edipico; il conflitto con il padre è stato elimi-
nato e, pertanto, anche il confronto con la realtà. Per Bollas, infatti, è la
partecipazione del padre a trasformare la scena edipica in un comples-
so. La costruzione di un falso Sé negativo diventa il modo per sottrarsi
all’idolatria materna, sentita come un onere eccessivo e come fonte di
sofferenza. L’unica soluzione sembra essere quella di distruggersi come
oggetto d’amore della madre. Il giudizio, talora impietoso, nei propri ri-
guardi unito al disconoscimento delle proprie capacità mira a far cessare
l’ammirazione della madre che impedirebbe l’instaurarsi di un vero rap-
porto con lei. L’antinarcisista deve distruggere l’immagine che la madre
ha di lui, per poter dipendere ancora dalla madre. La situazione è simile
a quella di una madre che dichiara al figlio di essere “grande”, mentre
questi vuole essere soltanto un bambino per soddisfare il suo bisogno
di dipendenza. La distruzione dell’antinarcisista non è rivolta contro sé
stesso come persona, cioè contro il vero Sé, bensì contro la sua immagine
riflessa nello “stagno”. Il falso Sé dell’antinarcisista non è compiacente,
pertanto può apparire antisociale e litigioso, come se fosse alla costan-
te ricerca di un conflitto, cioè di un confronto intellettuale, dal quale il
proprio falso Sé possa uscire sconfitto.

Bibliografia
Bateson, G. (1972), Verso un’ecologia della mente. Tr. it. Adelphi, Milano 1976.
Bollas, C. (1987), L’ombra dell’oggetto: psicoanalisi del conosciuto non pensato.
Tr. it. Borla, Roma 2007.
Bollas, C. (1989), Forze del destino. Tr. it. Borla, Roma 1991.
McDougall, J. (1980), Plea for a Measure of Abnormality. International Univer-
sities Press, New York.
Winnicott, D.W. (1945), “Lo sviluppo emozionale primario”. In Dalla pedia-
tria alla psicoanalisi. Tr. it. Martinelli, Firenze 1975.
Winnicott, D.W. (1960), Sviluppo affettivo e ambiente. Tr. it. Armando, Roma
1970.
Winnicott, D.W. (1965a), La famiglia e lo sviluppo dell’individuo. Tr. it. Ar-
mando, Roma 1968.
Winnicott, D.W. (1971a), Gioco e realtà. Tr. it. Armando, Roma 1974.

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