Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
rpnlabel=+Tutti+i+campi+%3D+"genova+mia"+%28parole+in+AND%29+&Invia=Cerca&nentries=1&fname=…
Scheda dettagliata
Catalogo SBN
Scheda: 9/85
Dove si trova:
https://opac.sbn.it/opacsbn/opaclib?rpnlabel=+Tutti+i+campi+%3D+"genova+mia"+%28parole+in+AND%29+&Invia=Cerca&nentries=1&fname=none&savep… 1/1
Partenze e approdi musicali
di Jacopo Tomatis
Partire da Genova
130
ascoltiamo e balliamo: il jazz a New Orleans, il rebetiko ad Atene, il
fado a Lisbona, la canzone napoletana a Napoli, il tango a Buenos Aires
e altre ancora.
Genova, in questa fase della sua storia, importa ma – soprattutto –
esporta persone: moltissime le ritroviamo, una ventina di giorni di nave
più tardi, all’estuario del Rio de la Plata, lato argentino o uruguayano.
Fra queste, alcune finiranno nei locali di Buenos Aires o di Montevideo,
a suonare o ballare quello che nel giro di qualche anno verrà chiamato
tango. Jorge Luis Borges, ad esempio, incolpava proprio i genovesi
dell’imbarbarimento del futuro genere nazionale argentino: difficile
dire cosa pensasse davvero lo scrittore (con Borges è spesso così), certo
è che il giudizio suona oggi quantomeno discutibile, e più che altro
rafforza il ruolo dei genovesi nella sintesi di quella musica, “bastarda”
per eccellenza.
Quello che sarà il tango argentino si comincia a suonare, alla metà
dell’Ottocento, proprio in quelle “soglie” di cui si diceva, fra i grandi
slum dei porti sul Rio de la Plata. Qui gli emigranti dalla Liguria, dal
Piemonte, spagnoli, dal sud Italia, tedeschi (che al tango regalano il suo
strumento simbolo, il bandoneón) scoprono i ritmi afrobrasiliani del
candombe, o l’habanera da Cuba che, esportata più o meno negli stessi
anni in Europa dal compositore basco Sebastián Yradier, compare nella
Carmen, ma anche in O Sole Mio a Napoli, e che qualche anno dopo
sarà anche in Saint Louis Blues di W.C. Handy (sempre a proposito di
porti...).
Roberta Alloisio, cantante e attrice genovese, aveva ricercato in un
recente disco proprio questi “quarti di genovesità” del tango, in risposta
alla provocazione di Borges: Xena Tango (CNI), composto insieme a
Luis Bacalov (un argentino trapiantato in Italia), è una bella antologia
di questi paradossi musical-identitari. Basta scorrere i nomi dei musicisti
di quelle prime orchestre di tango, spesso genovesi, per rendersene
conto: Firpo, Roccatagliata, Repetto, Bacigalupo... O ascoltare il gergo
di quei primi tango-canción: una lingua da malavitosi – il lunfardo – che
allo spagnolo mescola parole di dialetti italiani, molte genovesi.
Senza dimenticare che i tifosi del Boca Juniors, una delle squadre di
calcio di Buenos Aires, ancora oggi sono detti xeneizes.
131
Una “genovesità musicale”, insomma, è qualcosa che sembra esistere
innanzitutto al di fuori dei confini di Genova, lì dove non ci si
aspetterebbe di trovarla. Lo conferma anche il fertile filone di canzoni
genovesi a tema emigrazione, pensate per quegli stessi emigranti partiti
per “La Merica” e finiti – nei casi migliori – a suonare nelle orchestre di
tango di cui sopra, quando non dispersi per mare, come gli sfortunati
passeggeri del piroscafo Sirio.
Quella sul “tragico naufragio della nave Sirio”, che da Genova salpa per
la rotta transatlantica verso Brasile, Uruguay e Argentina nel 1906, è
solo una di queste canzoni, che dall’Ottocento e per tutta la prima metà
del Novecento continuano a essere immesse sul mercato, in Italia e nel
mondo: dalla celebre Mamma mia dammi cento lire a Italia bella mostrati
gentile, ad altre ancora dimenticate. Si tratta di merci nostalgiche,
pensate per evocare qualcosa della patria lontana. Un cliché, spesso: la
mamma, la fidanzata, i paesaggi da cartolina, le canzoni stesse (insieme
oggetto e soggetto di nostalgia). Ogni città italiana ha le sue canzoni
di questo tipo, scorrendo i testi raccolti da Virgilio Savona e Michele
Straniero per l’antologia Canti dell’emigrazione (Garzanti 1976). Firenze
ha la celebre Un bacione a Firenze, di Odoardo Spadaro. Genova ha, ad
esempio, Barcon da Foxe di Enrico Guerci e Piero Bozzo (Oh quanti e
quanti son passae / da quande son partìo da-a mae çittaê). Oppure Preghëa
de ‘n’emigrante di A. Celso, e ancora Saluti a Zena, di Anselmi-Antola.
O Canson da Chêullia, con la musica di Attilio Margutti e le parole di
Mario Cappello (Chêullia era il suo quartiere natale):
132
Margutti e Cappello firmano anche la canzone per eccellenza
sull’emigrazione genovese, la celeberrima Se ghe penso (il Ma sarà aggiunto
più tardi al titolo). Come in Canson da Chêullia, il protagonista, ormai
anziano, è partito dalla città della Lanterna sensa ‘na palanca trent’anni
prima, ma dal suo esilio in Sudamerica ancora Genova gli appare come
in sogno, illuminata e splendida. La canzone, lanciata nel 1925, ha
un grande successo, e diventa rapidamente una delle icone musicali di
Genova, per rimanere tale fino a oggi. È un indizio importante nella
ricerca del legame fra Genova e le “sue” canzoni: che è evidentemente un
legame nostalgico. Non è un caso che molti di questi brani siano passati
nella memoria collettiva contemporanea anche attraverso la (nostalgica)
mediazione di Gino Paoli, che li incise in un disco del 1975 (Ciao,
salutime un po’ Zena, Durium). Genova è stata cantata, innanzitutto, da
chi da Genova è partito, e ha guardato alla città da lontano, nel tempo
e nello spazio.
Arrivare a Genova
Come ha ben riassunto il genovese Ivano Fossati, “Genova si vede solo dal
mare” (Chi guarda Genova). Ovvero, è solo dal mare – allontanandosi –
che si può concepire una città che a guardarla da dentro sfugge nella
sua unità, con tutti i suoi caruggi, i moli, i quartieri, i campanili. Anche
l’immagine che i genovesi danno della loro città da dentro è spesso
un gioco di specchi, da questo punto di vista: come molti caratteri
identitari, quelli della genovesità devono essere riconosciuti da fuori, dai
genovesi lontani o dai non genovesi. Ma a Genova – almeno secondo
alcune canzoni che di Genova parlano, e che hanno contribuito a
costruire l’immagine mentale che della città hanno molti “forestieri”
– si arriva quasi esclusivamente via terra (per ripartire via mare: il
tragitto degli emigranti), non beneficiando della visione d’insieme che
133
garantiscono i piroscafi in partenza, o lo sguardo nostalgico da un porto
distante migliaia di chilometri. Per i non-genovesi che la raggiungono
dall’entroterra, la città e il mare si manifestano improvvisamente,
tortuosamente. Francesco De Gregori, in quel catalogo di città italiane
che è Viaggi e miraggi, sceglie di riassumere Genova negli “svincoli
micidiali” delle autostrade che la raggiungono. Per Ivano Fossati, in
Questi posti davanti al mare, Genova (o meglio, la costa) è qualcosa
che compare d’improvviso dietro una curva, anticipata come da
un presentimento (che, evidentemente, Fossati possiede in quanto
genovese). Più di recente, in quel magnifico racconto della Genova
post-G8 che è Dall’ultima galleria (che ha aggiunto piazza Alimonda
sulla mappa dei toponimi genovesi immortalati in canzone), Alessio
Lega descrive così l’arrivo alla Stazione di piazza Principe, porta di
accesso alla città per molti continentali e pendolari:
Dall’ultima galleria
sembra mai più poter riaprirsi il sole
e quando luccica dal fondale
sulla rugginosa ferrovia
dalle budella della grande vedova
dritto in faccia a un muro alto
Piazza Principe in un sussulto
ti vomita addosso a Genova
Genova per noi di Paolo Conte, forse il pezzo più famoso sulla città
ligure – che è, guarda caso, un tango – descrive proprio quel sentimento
di spaesamento che suscita Genova a chi la guarda “dal continente”. La
città, a un centinaio di chilometri dall’Asti di Conte e a un paio d’ore
da Milano e Torino, è irrimediabilmente altra. Un oggetto misterioso,
da annusare con circospezione. Spaventa quel “mare scuro che si muove
anche di notte”, la paura di essere inghiottiti “e non tornare più” – come
a molti in effetti è capitato. Quando in un crescendo emotivo della
musica Conte pronuncia la parola “macaia”, con tutti i suoi birignao da
avvocato astigiano, pare che stia nominando un qualche dio greco, un
idolo ancestrale, una formula magica e misteriosa. La città a quel punto,
134
da semplice oggetto dello sguardo circospetto di un provinciale, si
trasfigura definitivamente in qualcosa di incomprensibile, una fantasia
da febbre tropicale, un delirio malarico o psichedelico (come suggerisce
il sitar sullo sfondo).
Ma non è solo questo: nella mente di molti c’è l’idea ben radicata che
Genova sia la città della canzone per eccellenza, la capitale dei cantautori
e dei narratori in musica. Effettivamente un elenco non rende onore
alla qualità speciale della canzone d’autore genovese, e alla sua quantità:
a volerlo tentare, dovrebbe comprendere almeno Fabrizio De André,
i fratelli Reverberi, Gino Paoli, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Giorgio
Calabrese, Bruno Lauzi e poi Ivano Fossati, Vittorio De Scalzi, Mario
Panseri, Francesco Baccini, Cristiano De André, Oscar Prudente,
Gian Piero Alloisio, Max Manfredi e via dicendo, al punto che ci si
potrebbe convincere che oggi in Italia “cantautore” e “genovese” sia un
135
binomio quasi obbligato. Non che non ci siano cantautori milanesi o
veneziani, ma nessuno si premura quasi mai di ricordare la loro origine.
Un cantautore di Genova è sempre e comunque un cantautoregenovese,
tutto attaccato. Città “da cantautori” per eccellenza – come l’ha definita
l’insider Max Manfredi – Genova ha inglobato anche i “suoi” musicisti
in questa strana genovesità musicale, che la rende così affascinante a chi
a Genova arriva, necessariamente via terra.
Vivere a Genova
Genova città ripida
Buone gambe per camminare
Flipper messo in bilico
Dove rotola un temporale
Città da cantautori
Per i ciclisti è micidiale
Se pisci sulle alture
Mezzo minuto e si inquina il mare
(Max Manfredi, Fado del dilettante)
136
A Pegli ci nasce, invece, Fabrizio De André (in via De Nicolay 12),
ma la sua è una storia un po’ diversa: il suo tragitto verso i piaceri
carnali del centro storico e di via del Campo è piuttosto quello di un
figlio trasgressivo della Genova benestante. Per quanto genovese, De
André visita – più che viverla da dentro – la Genova popolare con
sguardo da antropologo, da osservatore partecipante. È un percorso di
scoperta e di racconto, il suo, che perfezionerà per tutta la vita, dalla
rassegna di umanità de La città vecchia (un adattamento da Brassens
non esattamente dichiarato) fino a quel sublime catalogo dei bordelli
cittadini che è Â duménega, da Crêuza de mä.
Ma, come storici della canzone, dobbiamo interessarci più alle geografie
musicali della città tutta, che non ai singoli tragitti dei futuri cantautori.
A quel sottobosco di teatrini dove debuttano dilettandosi con il jazz,
la vera musica dei giovani “colti” di quegli anni: il Teatro Vittorino
dal Feltre, dove Fabrizio De Andrè esordisce nel 1958 alla chitarra
elettrica; il Teatro Margherita, dove interpreta una canzone di Bindi
e Gianni Cozzo, Arlecchino ha paura; i Pomeriggi studenteschi al Lido
o all’Italo-americana, dove Paoli suona rock’n’roll in un complesso, e
dove conoscerà la prima moglie; la Cambusa di Capurro, in piazza De
Ferrari, dove Tenco è il sassofonista del Trio Garibaldi... E ancora prima,
dobbiamo guardare ai cinema: le matinée dello Smeraldo, dove Paoli si
137
rifugia quando marina la scuola, o il Cinema Aurora dove – stando ai
biografi – Tenco vede infinite volte Parole e musica (con le canzoni di
Richard Rodgers e Lorenz Hart) e Un americano a Parigi.
138
la genovesità è insieme forte e debole: affermata con vigore dalla scelta
del dialetto, indebolita dalla natura stessa di quella lingua – una lingua
inventata, un idioletto pieno di termini arabi e pronunce fantasiose,
un personalissimo lunfardo per giunta, ambientato in un Mediterraneo
musicale (concepito da Mauro Pagani) altrettanto immaginario. Luogo
mentale per eccellenza della canzone italiana, la meravigliosa Genova
della canzone rimane – appunto – un luogo mentale più che reale,
immaginato e immaginario. Osservabile solo da fuori, arrivando o
partendo, con lo stupore del forestiero, o la nostalgia dell’emigrante.
139