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Scheda dettagliata
Catalogo SBN

Ricerca: Tutti i campi = "genova mia" (parole in AND)

Scheda: 9/85

Livello bibliografico: Monografia


Tipo documento: Testo a stampa
Titolo:
Genova Mia : La città come non è mai stata raccontata / a cura di Elda Cerchiari
Necchi e Chiara Rosati
Pubblicazione:
Faenza : Polaris, 2017
Descrizione fisica:
447 p. : ill. ; 24 cm.
Collezione:
Le stelle
Numeri:
[ISBN] 978-88-6059-203-3
Nomi:
Rosati, Chiara
Cerchiari Necchi, Elda [scheda di autorità]
Soggetti:
Genova. Descrizioni
Lingua di pubblicazione:
ITALIANO
Paese di pubblicazione:
ITALIA
Codice identificativo:
IT\ICCU\UBO\4306368
Permalink:
http://id.sbn.it/bid/UBO4306368

Dove si trova:

[P] BO0563 - UBOSB - Biblioteca Sala Borsa - Bologna - BO


[P] GE0038 - LIG01 - Biblioteca Universitaria - Genova - GE
GE0163 - LIG48 - Biblioteca Internazionale Città di Rapallo - Rapallo - GE
GE0220 - LIG13 - Biblioteca della Fondazione Mario Novaro - Genova - GE

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Partenze e approdi musicali
di Jacopo Tomatis

Partire da Genova

E da Genova, il Sirio partiva


Per l’America il suo destin
Ed a bordo cantar si sentiva
Tutti allegri solcando i confin
(E da Genova il Sirio Partiva)

Genova è un porto – è una banalità, ma quando si parla di città e


canzoni non è mai un dato neutro. Dall’Ottocento almeno, da quando
cioè si formano repertori internazionali di musiche di intrattenimento
– la popular music, quella musica che non è musica di tradizione
orale e non è musica “colta” – i porti c’entrano sempre. Perché sono
luoghi di incontro, di scambio – di persone e di merci. Perché fra
l’economia collaterale di un grande porto ci sono, necessariamente,
gli intrattenimenti per viaggiatori e marinai di passaggio: ogni genere
di intrattenimento, da quelli per il piacere della carne a quelli per lo
spirito. Rimane da decidere a quale dei due tipi appartenga la musica,
ma certo è che nei locali dei porti – ogni genere di locale – si suonano,
si ballano e si ascoltano musiche di diversa provenienza, che spesso si
mescolano fra loro.
Così, nella neonata economia globalizzata, sul mare viaggiano merci e
persone, e fra le merci ci sono le canzoni (ancora in forma di musica
a stampa), e fra le persone ci sono i musicisti. Canzoni e musicisti
arrivano nei grandi porti, porte di ingresso a nuove culture, e molto
spesso soglie, zone liminari – tanto abitative quanto interpretative per
culture nuove. In queste soglie – i quartieri di prima immigrazione,
approdo di gente in viaggio per volontà propria o altrui, che molto
spesso finisce per fermarsi – sono nate molte musiche che ancora oggi

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ascoltiamo e balliamo: il jazz a New Orleans, il rebetiko ad Atene, il
fado a Lisbona, la canzone napoletana a Napoli, il tango a Buenos Aires
e altre ancora.
Genova, in questa fase della sua storia, importa ma – soprattutto –
esporta persone: moltissime le ritroviamo, una ventina di giorni di nave
più tardi, all’estuario del Rio de la Plata, lato argentino o uruguayano.
Fra queste, alcune finiranno nei locali di Buenos Aires o di Montevideo,
a suonare o ballare quello che nel giro di qualche anno verrà chiamato
tango. Jorge Luis Borges, ad esempio, incolpava proprio i genovesi
dell’imbarbarimento del futuro genere nazionale argentino: difficile
dire cosa pensasse davvero lo scrittore (con Borges è spesso così), certo
è che il giudizio suona oggi quantomeno discutibile, e più che altro
rafforza il ruolo dei genovesi nella sintesi di quella musica, “bastarda”
per eccellenza.
Quello che sarà il tango argentino si comincia a suonare, alla metà
dell’Ottocento, proprio in quelle “soglie” di cui si diceva, fra i grandi
slum dei porti sul Rio de la Plata. Qui gli emigranti dalla Liguria, dal
Piemonte, spagnoli, dal sud Italia, tedeschi (che al tango regalano il suo
strumento simbolo, il bandoneón) scoprono i ritmi afrobrasiliani del
candombe, o l’habanera da Cuba che, esportata più o meno negli stessi
anni in Europa dal compositore basco Sebastián Yradier, compare nella
Carmen, ma anche in O Sole Mio a Napoli, e che qualche anno dopo
sarà anche in Saint Louis Blues di W.C. Handy (sempre a proposito di
porti...).
Roberta Alloisio, cantante e attrice genovese, aveva ricercato in un
recente disco proprio questi “quarti di genovesità” del tango, in risposta
alla provocazione di Borges: Xena Tango (CNI), composto insieme a
Luis Bacalov (un argentino trapiantato in Italia), è una bella antologia
di questi paradossi musical-identitari. Basta scorrere i nomi dei musicisti
di quelle prime orchestre di tango, spesso genovesi, per rendersene
conto: Firpo, Roccatagliata, Repetto, Bacigalupo... O ascoltare il gergo
di quei primi tango-canción: una lingua da malavitosi – il lunfardo – che
allo spagnolo mescola parole di dialetti italiani, molte genovesi.
Senza dimenticare che i tifosi del Boca Juniors, una delle squadre di
calcio di Buenos Aires, ancora oggi sono detti xeneizes.

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Una “genovesità musicale”, insomma, è qualcosa che sembra esistere
innanzitutto al di fuori dei confini di Genova, lì dove non ci si
aspetterebbe di trovarla. Lo conferma anche il fertile filone di canzoni
genovesi a tema emigrazione, pensate per quegli stessi emigranti partiti
per “La Merica” e finiti – nei casi migliori – a suonare nelle orchestre di
tango di cui sopra, quando non dispersi per mare, come gli sfortunati
passeggeri del piroscafo Sirio.
Quella sul “tragico naufragio della nave Sirio”, che da Genova salpa per
la rotta transatlantica verso Brasile, Uruguay e Argentina nel 1906, è
solo una di queste canzoni, che dall’Ottocento e per tutta la prima metà
del Novecento continuano a essere immesse sul mercato, in Italia e nel
mondo: dalla celebre Mamma mia dammi cento lire a Italia bella mostrati
gentile, ad altre ancora dimenticate. Si tratta di merci nostalgiche,
pensate per evocare qualcosa della patria lontana. Un cliché, spesso: la
mamma, la fidanzata, i paesaggi da cartolina, le canzoni stesse (insieme
oggetto e soggetto di nostalgia). Ogni città italiana ha le sue canzoni
di questo tipo, scorrendo i testi raccolti da Virgilio Savona e Michele
Straniero per l’antologia Canti dell’emigrazione (Garzanti 1976). Firenze
ha la celebre Un bacione a Firenze, di Odoardo Spadaro. Genova ha, ad
esempio, Barcon da Foxe di Enrico Guerci e Piero Bozzo (Oh quanti e
quanti son passae / da quande son partìo da-a mae çittaê). Oppure Preghëa
de ‘n’emigrante di A. Celso, e ancora Saluti a Zena, di Anselmi-Antola.
O Canson da Chêullia, con la musica di Attilio Margutti e le parole di
Mario Cappello (Chêullia era il suo quartiere natale):

Chêullia, onde t’è?


Me ricordo a mâe casetta
de quand’eo ancon figgêu!
... Cosa son queste palanche
cose servan a un vegetto
se a sò casa, meschinetto
certo a no-a veddià mai ciù?
(Colle dove sei? / Mi ricordo la mia casetta / di quand’ero ancora
bambino! / … / Cosa sono questi soldi, / cosa servono a un vecchietto
/ se la sua casa, poveretto, / certo non la vedrà mai più?)

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Margutti e Cappello firmano anche la canzone per eccellenza
sull’emigrazione genovese, la celeberrima Se ghe penso (il Ma sarà aggiunto
più tardi al titolo). Come in Canson da Chêullia, il protagonista, ormai
anziano, è partito dalla città della Lanterna sensa ‘na palanca trent’anni
prima, ma dal suo esilio in Sudamerica ancora Genova gli appare come
in sogno, illuminata e splendida. La canzone, lanciata nel 1925, ha
un grande successo, e diventa rapidamente una delle icone musicali di
Genova, per rimanere tale fino a oggi. È un indizio importante nella
ricerca del legame fra Genova e le “sue” canzoni: che è evidentemente un
legame nostalgico. Non è un caso che molti di questi brani siano passati
nella memoria collettiva contemporanea anche attraverso la (nostalgica)
mediazione di Gino Paoli, che li incise in un disco del 1975 (Ciao,
salutime un po’ Zena, Durium). Genova è stata cantata, innanzitutto, da
chi da Genova è partito, e ha guardato alla città da lontano, nel tempo
e nello spazio.

Arrivare a Genova

Fin da Pavia si pensa al mare


Fin da Alessandria si sente il mare
Dietro una curva improvvisamente, il mare
(Ivano Fossati, Questi posti davanti al mare)

Come ha ben riassunto il genovese Ivano Fossati, “Genova si vede solo dal
mare” (Chi guarda Genova). Ovvero, è solo dal mare – allontanandosi –
che si può concepire una città che a guardarla da dentro sfugge nella
sua unità, con tutti i suoi caruggi, i moli, i quartieri, i campanili. Anche
l’immagine che i genovesi danno della loro città da dentro è spesso
un gioco di specchi, da questo punto di vista: come molti caratteri
identitari, quelli della genovesità devono essere riconosciuti da fuori, dai
genovesi lontani o dai non genovesi. Ma a Genova – almeno secondo
alcune canzoni che di Genova parlano, e che hanno contribuito a
costruire l’immagine mentale che della città hanno molti “forestieri”
– si arriva quasi esclusivamente via terra (per ripartire via mare: il
tragitto degli emigranti), non beneficiando della visione d’insieme che

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garantiscono i piroscafi in partenza, o lo sguardo nostalgico da un porto
distante migliaia di chilometri. Per i non-genovesi che la raggiungono
dall’entroterra, la città e il mare si manifestano improvvisamente,
tortuosamente. Francesco De Gregori, in quel catalogo di città italiane
che è Viaggi e miraggi, sceglie di riassumere Genova negli “svincoli
micidiali” delle autostrade che la raggiungono. Per Ivano Fossati, in
Questi posti davanti al mare, Genova (o meglio, la costa) è qualcosa
che compare d’improvviso dietro una curva, anticipata come da
un presentimento (che, evidentemente, Fossati possiede in quanto
genovese). Più di recente, in quel magnifico racconto della Genova
post-G8 che è Dall’ultima galleria (che ha aggiunto piazza Alimonda
sulla mappa dei toponimi genovesi immortalati in canzone), Alessio
Lega descrive così l’arrivo alla Stazione di piazza Principe, porta di
accesso alla città per molti continentali e pendolari:

Dall’ultima galleria
sembra mai più poter riaprirsi il sole
e quando luccica dal fondale
sulla rugginosa ferrovia
dalle budella della grande vedova
dritto in faccia a un muro alto
Piazza Principe in un sussulto
ti vomita addosso a Genova

Genova per noi di Paolo Conte, forse il pezzo più famoso sulla città
ligure – che è, guarda caso, un tango – descrive proprio quel sentimento
di spaesamento che suscita Genova a chi la guarda “dal continente”. La
città, a un centinaio di chilometri dall’Asti di Conte e a un paio d’ore
da Milano e Torino, è irrimediabilmente altra. Un oggetto misterioso,
da annusare con circospezione. Spaventa quel “mare scuro che si muove
anche di notte”, la paura di essere inghiottiti “e non tornare più” – come
a molti in effetti è capitato. Quando in un crescendo emotivo della
musica Conte pronuncia la parola “macaia”, con tutti i suoi birignao da
avvocato astigiano, pare che stia nominando un qualche dio greco, un
idolo ancestrale, una formula magica e misteriosa. La città a quel punto,

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da semplice oggetto dello sguardo circospetto di un provinciale, si
trasfigura definitivamente in qualcosa di incomprensibile, una fantasia
da febbre tropicale, un delirio malarico o psichedelico (come suggerisce
il sitar sullo sfondo).

Macaia, scimmia di luce e di follia,


foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia

Sono solo alcuni esempi, ma in effetti poche città italiane hanno un


legame così stretto con le “loro” canzoni. Pochi posti ci sembra di
conoscere altrettanto bene come Genova, ed esclusivamente avendola
ascoltata cantata da qualcuno: persino i toponimi ci sono spesso noti
a partire dai testi delle canzoni (e questa è una peculiarità che Genova
condivide forse solo con Roma).
Come Alessio Lega, se si scende a piazza Principe dopo “l’ultima
galleria” e ci si dirige verso il mare, non si può non passare da via del
Campo, il primo luogo mentale della canzone genovese. Per la verità,
via del Campo ne è stato anche uno dei luoghi “reali”, in un miscuglio
tutto zeneize di realtà e fantasia: proprio qui si ritrovava intorno allo
storico negozio di musica di Gianni Tassio (ora trasformato in piccolo
e asettico museo) il bel mondo della canzone genovese. Ma andando
oltre, cercando i bordelli cantati da De André, o le osterie preferite
da Max Manfredi, ogni quartiere – Carignano, Foce, Sant’Ilario... – è
inevitabilmente già stato incontrato in qualche canzone.

Ma non è solo questo: nella mente di molti c’è l’idea ben radicata che
Genova sia la città della canzone per eccellenza, la capitale dei cantautori
e dei narratori in musica. Effettivamente un elenco non rende onore
alla qualità speciale della canzone d’autore genovese, e alla sua quantità:
a volerlo tentare, dovrebbe comprendere almeno Fabrizio De André,
i fratelli Reverberi, Gino Paoli, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Giorgio
Calabrese, Bruno Lauzi e poi Ivano Fossati, Vittorio De Scalzi, Mario
Panseri, Francesco Baccini, Cristiano De André, Oscar Prudente,
Gian Piero Alloisio, Max Manfredi e via dicendo, al punto che ci si
potrebbe convincere che oggi in Italia “cantautore” e “genovese” sia un

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binomio quasi obbligato. Non che non ci siano cantautori milanesi o
veneziani, ma nessuno si premura quasi mai di ricordare la loro origine.
Un cantautore di Genova è sempre e comunque un cantautoregenovese,
tutto attaccato. Città “da cantautori” per eccellenza – come l’ha definita
l’insider Max Manfredi – Genova ha inglobato anche i “suoi” musicisti
in questa strana genovesità musicale, che la rende così affascinante a chi
a Genova arriva, necessariamente via terra.

Vivere a Genova
Genova città ripida
Buone gambe per camminare
Flipper messo in bilico
Dove rotola un temporale
Città da cantautori
Per i ciclisti è micidiale
Se pisci sulle alture
Mezzo minuto e si inquina il mare
(Max Manfredi, Fado del dilettante)

Il paradosso, rilevato da molti, è che la natura di “porto”, luogo di


passaggio per eccellenza, di Genova riguarda anche i cantautori della
cosiddetta “scuola di Genova”, che in molti casi arrivarono in città da
bambini – forse, con lo stesso timore reverenziale cantato da Paolo
Conte in Genova per noi.

È il caso di Luigi Tenco, nato a Cassine in provincia di Alessandria,


cresciuto fra Cassine, Ricaldone e Maranzana e arrivato a Nervi nel
1948 al seguito della madre, che apre un negozio di vini in via Rimassa,
alla Foce. È il caso di Bruno Lauzi, nato un po’ più lontano, ad Asmara.
È il caso di Gino Paoli, nato a Monfalcone e che a Genova arriva
bambino, per vivere in una casa di via Vespucci, a Pegli. Adulto, Paoli
si sposterà nella celebre “soffitta vicino al mare” di Boccadasse (in via
Capo di Santa Chiara 12) in cui è ambientata La gatta, dove molti dei
suoi amici e colleghi ricordano di averlo conosciuto.

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A Pegli ci nasce, invece, Fabrizio De André (in via De Nicolay 12),
ma la sua è una storia un po’ diversa: il suo tragitto verso i piaceri
carnali del centro storico e di via del Campo è piuttosto quello di un
figlio trasgressivo della Genova benestante. Per quanto genovese, De
André visita – più che viverla da dentro – la Genova popolare con
sguardo da antropologo, da osservatore partecipante. È un percorso di
scoperta e di racconto, il suo, che perfezionerà per tutta la vita, dalla
rassegna di umanità de La città vecchia (un adattamento da Brassens
non esattamente dichiarato) fino a quel sublime catalogo dei bordelli
cittadini che è Â duménega, da Crêuza de mä.

Nati o meno a Genova, alcuni dei futuri primi cantautori – passando


di casa in casa, di scuola in scuola – intersecano le loro traiettorie in
una metropoli lunghissima, i cui diversi quartieri sembrano quasi città
a sé, poco a poco assorbiti nella città in espansione del Dopoguerra.
L’epicentro di molti di questi percorsi è la zona della Foce, all’epoca
ancora con una forte identità di borgo di pescatori, come ricorda la
bella Io e il mare, scritta da Umberto Bindi (nato a Bogliasco) e Bruno
Lauzi (alla Foce sbarca anche il pescatore di Le acciughe fanno il pallone
di De Andrè). Qui, dai primi anni Cinquanta, nella “piazzetta” alberata
di via Cecchi, all’incrocio con corso Torino, si incontrano Tenco, i
fratelli Giampiero e Gianfranco Reverberi (che abitavano proprio in
corso Torino, al 58) e Bindi (che stava in via della Libertà).

Ma, come storici della canzone, dobbiamo interessarci più alle geografie
musicali della città tutta, che non ai singoli tragitti dei futuri cantautori.
A quel sottobosco di teatrini dove debuttano dilettandosi con il jazz,
la vera musica dei giovani “colti” di quegli anni: il Teatro Vittorino
dal Feltre, dove Fabrizio De Andrè esordisce nel 1958 alla chitarra
elettrica; il Teatro Margherita, dove interpreta una canzone di Bindi
e Gianni Cozzo, Arlecchino ha paura; i Pomeriggi studenteschi al Lido
o all’Italo-americana, dove Paoli suona rock’n’roll in un complesso, e
dove conoscerà la prima moglie; la Cambusa di Capurro, in piazza De
Ferrari, dove Tenco è il sassofonista del Trio Garibaldi... E ancora prima,
dobbiamo guardare ai cinema: le matinée dello Smeraldo, dove Paoli si

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rifugia quando marina la scuola, o il Cinema Aurora dove – stando ai
biografi – Tenco vede infinite volte Parole e musica (con le canzoni di
Richard Rodgers e Lorenz Hart) e Un americano a Parigi.

Non sono appunti aneddotici o spigolature da fan: nell’Italia degli anni


Cinquanta è il cinema il primo veicolo di importazione delle mode
musicali, anche più del disco. In un cinema – non sappiamo quale –
Paoli e Tenco vedono insieme il primo film sul rock’n’roll importato in
Italia, Rock around the Clock (Senza tregua il rock’n’roll) – e probabilmente
ascoltano per la prima volta quella musica. Al cinema scoprono i Platters,
Nat King Cole, il grande musical americano... È in queste sale e in questi
incontri che va ricercato il background musicale dei primi cantautori, la
loro prima ispirazione, più ancora che in quella Francia che tutti citano,
spesso acriticamente, come madre spirituale della canzone d’autore. Ma
in questo, il ruolo di Genova “porto” verso le musiche del mondo sembra
essere meno decisivo. Per quanto sia probabile che le novità musicali
arrivassero a Genova prima che altrove, ed esista una mitografia di
dischi “esotici” recuperati al porto freschi di sbarco, in realtà la forza del
gruppo dei genovesi è proprio l’essere dei tipici ragazzi italiani degli anni
Cinquanta. E la “scuola di Genova”, se mai è esistita, è nata ancora una
volta fuori da Genova: a Milano, quando fra il 1959 e il 1960 il gruppo
della Foce si ricompone, solo per un paio d’anni anni, alla corte della
neonata Dischi Ricordi (il primo ad approdarvi è Gianfranco Reverberi,
il maggiore dei due fratelli di via Cecchi).

La porosità di Genova, il Mediterraneo “Mare genovese” che si estende


fino alle Americhe, da un lato e – dall’altro – la genovesità immaginata
dal continente, confermano come sia in fondo inutile (oltre che
sbagliato) cercare di identificare una qualche genovesità su basi etniche,
come se fosse qualcosa che sta nell’acqua che si beve o nel sale della
focaccia. Genova comunque – ed è questo che emerge, quando si
cercano di tracciare i confini di una qualche genovesità musicale –
rimane sempre luogo di passaggio, nelle biografie e nelle influenze,
irriducibile a qualunque solidità identitaria. Persino in una delle icone
indiscusse della Genova musicale, Crêuza de mä di Fabrizio De André,

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la genovesità è insieme forte e debole: affermata con vigore dalla scelta
del dialetto, indebolita dalla natura stessa di quella lingua – una lingua
inventata, un idioletto pieno di termini arabi e pronunce fantasiose,
un personalissimo lunfardo per giunta, ambientato in un Mediterraneo
musicale (concepito da Mauro Pagani) altrettanto immaginario. Luogo
mentale per eccellenza della canzone italiana, la meravigliosa Genova
della canzone rimane – appunto – un luogo mentale più che reale,
immaginato e immaginario. Osservabile solo da fuori, arrivando o
partendo, con lo stupore del forestiero, o la nostalgia dell’emigrante.

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