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19 – LE POLITICHE DI BILANCIO: DAL PATTO DI STABILITA’ AL NEXT GENERATION UE

19.1 – RISCHIO DI DEFAULT E REGOLE SUI BILANCI PUBBLICI IN UN’UNIONE


MONETARIA – Illustrando le teorie AVO si era precisato che in un’unione monetaria, per contrastare gli
shock asimmetrici, sarebbe opportuno un bilancio pubblico centralizzato. In assenza di esso, la politica
fiscale nazionale dovrebbe essere gestita in modo flessibile dal suo paese, senza vincoli di bilancio. Allora
perché nell’Unione economia e monetaria europea, che non dispone di un bilancio centralizzato, sono
stati posti i vincoli del Patto di Stabilità e Crescita? Prescindendo dalle unioni monetarie, alcune scuole di
pensiero ritengono opportune alcune regole di comportamento ai governi, necessarie per evitare il
formarsi di disavanzi eccessivi con il rischio dell’insostenibilità del debito pubblico. Tali regole consistono, di
solito, in vincoli legislativi o costituzionali per il pareggio di bilancio. Nel caso delle unioni monetarie tali
regole sono ancora più necessarie per i seguenti motivi. 1) Esternalità negative – un paese indebitato e
con rischio default, soprattutto se di grandi dimensioni, può far salire, attraverso le esternalità negative (si
hanno quando il soggetto responsabile di impatti negativi non corrisponde al danneggiato un prezzo pari al
danno/costo subito) il tasso di interesse medio dell’unione monetaria con ricadute anche su altri paesi che
dovranno, ad esempio, aumentare le imposte o ridurre le spese per far fronte ai cresciuti oneri. 2) Incentivi
a disavanzi e debiti – la riduzione del tasso di interesse potrebbe costituire un incentivo per i governi a
creare debito; altro incentivo a creare debito potrebbe essere connesso alla possibilità che un paese faccia
affidamento sul salvataggio da parte di altri paesi. 3) Interferenze con la politica monetaria – ci potrebbero
essere pressioni da parte dei paesi più indebitati sulla Bce per una politica più espansiva intaccando la
credibilità antinflazionistica della stessa Bce. Ci sono stati dibattiti anche sull’eventualità che un default sia
più o meno probabile in un’Unione monetaria. Secondo Mc Kinnon lo è di più per l’impossibilità di creare
sorprese inflazionistiche per ridurre il valore del debito reale (come avvenne in Italia dopo le due guerre
mondiali), secondo altri è di meno soprattutto se le aspettative dei mercati finanziari migliorano all’avvio
dell’Unione monetaria o se la clausola del “no bail out” (clausola secondo cui gli stati appartenenti alla
Comunità Europea non possono farsi garanti del debito di un paese appartenente alla Comunità stessa) non
è creduta. Dopo l’avvio dell’Unione monetaria europea era evidente che la seconda teoria fosse quella
giusta in quanto, sin da subito (1999), il rischio di default era ritenuto molto basso così come percepito dai
mercati e incorporato negli spread (ad esempio, soltanto 29 punti base per l’Italia mentre nel ’96 era pari a
81 in valuta comune, 444 in valuta nazionale) e anche il rischio svalutazione era praticamente scomparso. Il
basso e decrescente livello dei differenziali di interesse sui titoli di stato era quindi una caratteristica
comune dei primi anni di vita dell’Unione monetaria, malgrado il persistere di posizioni di bilancio diverse.
Tale situazione dei mercati finanziari determinava non solo l’assenza di esternalità negative ma perfino
ricadute positive su tutti i paesi, anche quelli con elevato debito pubblico. Uno spread – la differenza di
rendimento tra due titoli dello stesso tipo e durata, uno dei quali è considerato un titolo di riferimento –
così basso in questa prima fase, è stato spiegato nel premio allo sforzo da parte di quasi tutti i paesi per
migliorare il rapporto debito/Pil rispetto alla Germania. Altre spiegazioni erano nella ricerca di rendimento
da parte degli operatori finanziari in un contesto di tassi bassi e modifiche nella regolamentazione contabile
e di vigilanza. Nonostante ciò, si ammetteva, già da allora, che la reazione dei mercati avrebbe potuto
presentarsi all’improvviso a seguito di eventi scatenanti quali valutazioni negative da parte delle agenzie di
rating. Inoltre, questa relativa tranquillità, non faceva venir meno l’opportunità di regolamentare i bilanci,
in quanto il miglioramento della posizione finanziaria dei paesi indebitati era stata resa possibile proprio
dalla presenza di vincoli come il Patto di Stabilità.

19.2 – IL “PATTO DI STABILITA’ E CRESCITA” PRIMA DELLA CRISI – Il “Patto di Stabilità e


Crescita” (PSC), firmato nel 1997 su pressioni tedesche, era lo strumento per mantenere i criteri di
Maastricht sui bilanci anche dopo l’avvio dell’Unione monetaria. Le norme del patto erano esclusivamente
mirate all’obiettivo stabilità perché un paese, con elevati disavanzi e debiti, anche se si era comportato
bene durante la fase di convergenza, una volta ammesso non avrebbe dovuto tenere comportamenti
opportunistici in tema di finanza pubblica. Il PSC fissava due numeri importanti, oltre al 60% per il rapporto
debito/Pil. 1) Pareggio di bilancio pubblico come obiettivo di medio termine (il cosiddetto “Omt”). 2)
Rapporto deficit/Pil pari al 3%, da rispettare sempre, al di sopra di esso il paese sarebbe incorso in una
situazione di deficit eccessivo la cui sanzione, inizialmente costituita da un deposito infruttifero rapportato
al Pil e all’entità dello sforamento, sarebbe divenuta ammenda nel caso il deficit fosse rimasto nonostante
gli ammonimenti (un superamento eccezionale, transitorio e prossimo al valore del 3% era comunque
ammesso e non considerato deficit). Il PSC presentava anche una parte preventiva che prevedeva
programmi annui di stabilità, per i paesi della zona euro, e di convergenza per gli altri paesi dell’UE. La
differenza tra il 3% e lo 0 dell’obiettivo di medio termine (Omt) era pensata per lasciare margine di manovra
ai paesi nel caso di recessioni non gravi per le quali sarebbe stato possibile uno sforamento del 3% sebbene
lo stesso sarebbe dovuto tornare alla normalità finita l’emergenza. Ma quali sono state le critiche al PSC?
Innanzitutto, il margine di disavanzo rispetto al Pil, ritenuto insufficiente nel limite del 3% per consentire
l’agire degli stabilizzatori automatici, soprattutto in quei paesi dove il bilancio pubblico è una grande
componente del Pil nazionale. Ma anche una critica al valore numerico definito in modo arbitrario in
quanto il 3% del rapporto deficit/Pil ed il 60% del rapporto debito/Pil erano valori medi riscontrati in UE
negli anni ’90 con una crescita del Pil del 5% annuo; situazione irrealistica nell’Europa attuale con crescita
reale e inflazione poco più che nulle. Inoltre, secondo alcuni critici, sarebbe sempre meglio prevenire o
correggere gli errori in itinere anziché applicare sanzioni che avrebbero potuto peggiorare le cose. Infine, fu
esclusa la stessa “golden rule”, ossia la possibilità di effettuare in disavanzo almeno gli investimenti pubblici
che, se produttivi, creano nel tempo il loro finanziamento. A seguito di tali critiche fu mossa una prima
riforma del PSC nel 2005; il PSC fu reso più flessibile allungando i tempi per il rientro sotto il 3% e quelli per
il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine del bilancio pubblico di pareggio, l’Omt fu leggermente
differenziato tra paesi e fu ampliata la casistica per la non applicazione delle sanzioni. In conclusione, anche
prima della crisi, erano emerse criticità del PSC. I disavanzi pubblici non si erano ridotti così come anche i
debiti pubblici non erano diminuiti in maniera adeguata. Nessun paese era stato mai sanzionato. La calma
regnava e i policymaker trascuravano questi problemi fino al sopraggiungere della crisi finanziaria, della
Grande Recessione e della crisi dei debiti sovrani che cambiano completamento lo scenario, richiedendo
nuove misure anche sul fronte fiscale.

19.3 – LA CRISI FINANZIARIA, LA GRANDE RECESSIONE E LE NUOVE REGOLE PER


L’EUROZONA (FISCAL COMPACT) – I problemi dei bilanci pubblici si sono aggravati dopo la crisi
finanziaria (2007-2008) e la Grande Recessione (2009). La crisi ha mostrato la forte interdipendenza tra le
economie europee e la debolezza di un sistema di regolamentazione e governance che non ha agito in
maniera coordinata, in modo forte e rapido, ma soprattutto non è stato in grado di prevenire la crisi con
meccanismi correttivi. I disavanzi pubblici sono peggiorati in quasi tutti gli stati per salvataggi bancari,
recessione (il calo del Pil fa aumentare il rapporto deficit/Pil) e pacchetti di stimolo fiscale discrezionali di
entità diversa a seconda della gravità e della possibilità di indebitamento dei vari paesi (ad es. in Italia gli
stimoli furono molto ridotti per l’elevato debito pubblico di partenza). Dalla crisi finanziaria e fino al 2013-
2014, i rapporti tra disavanzo e Pil erano peggiorati in diversi paesi dell’Eurozona ma nel complesso di un
decennio, successivo al 2009, c’è stato poi un progressivo miglioramento per assicurare la sostenibilità del
debito, minacciata dalla crisi dei debiti sovrani, e per le nuove regole imposte con fermezza dall’Europa.
Quanto alle vecchie regole, esse si dimostravano ormai obsolete e questo portò a sviluppare idee diverse.
L’insieme delle misure legislative introdotte per riformare il PSC e attuare una nuova sorveglianza
macroeconomica è noto come Six-Pack e fu approvato nel dicembre del 2011. Il successivo Two-Pack (con
altri due regolamenti) entrò in vigore nel maggio del 2013. I punti salienti del PSC riformato furono i
seguenti: 1) restavano inalterati i parametri di Maastricht nei limiti del 3% per il rapporto deficit/Pil e del
60% per il debito/Pil. 2) correzione di almeno lo 0,50% annuo dei disavanzi verso il pareggio di bilancio
strutturale (Omt). 3) introdotta una nuova governance europea per gli squilibri macroeconomici ossia la
Commissione europea poteva raccogliere raccomandazioni dai singoli paesi basati su indicatori
macroeconomici e quindi avviare una procedura, con possibilità di sanzioni, per squilibri eccessivi. Un’ altra
novità riguardava i processi decisionali. In caso di mancato rispetto delle regole la procedura per deficit
diventava semi-automatica con una sanzione consistente in un deposito infruttifero. Le regole di bilancio
furono rafforzate ulteriormente con il Fiscal Compact che entrò in vigore nel 2013. Nella sostanza erano
confermati i parametri del PSC riformato ma si aggiungeva la richiesta di introdurre il vincolo del paraggio di
bilancio in norme costituzionali o comunque nelle legislazioni nazionali. Un’altra riforma concernente le
procedure e la governance europea, precedente al Fiscal Compact, era il “Semestre europeo” in vigore
dall’inizio del 2011 con l’obiettivo di migliorare il coordinamento delle politiche economiche degli stati
membri attraverso il monitoraggio reciproco e l’individuazione per tempo degli squilibri in un percorso
articolato in più tappe che da marzo arrivava anche ai mesi autunnali. Le riforme al PSC (incluso il Fiscal
Compact) erano tutte orientate nella direzione di un progressivo inasprimento e più stretti controlli al fine
di arginare i comportamenti opportunistici dei governi ed evitare la speculazione internazionale, irrobustita
dopo la crisi dei debiti sovrani. Ma le conseguenze del rigore fiscale sull’economia reale erano state
deleterie e si intensificarono gli attacchi alle politiche di austerità (che analizzeremo nel paragrafo
seguente). Fu così che nel gennaio del 2015 la Commissione europea introdusse delle linee guida per
perseguire tre finalità: 1) incoraggiare ulteriormente l’attuazione delle riforme strutturali; 2) promuovere gli
investimenti, soprattutto quelli realizzati con fondi europei; 3) tenere maggiormente conto del ciclo
economico dei singoli Stati membri. In altri termini, senza intervenire in un ulteriore riforma del PSC, si era
cercato di rendere più flessibile l’interpretazione tramite nuove linee guida volte a sviluppare una politica di
bilancio più favorevole alla crescita nella zona euro.

19.4 – IL DIBATTITO SULLE POLITICHE DI AUSTERITA’ – L’inasprimento delle regole di bilancio


furono troppo stringenti per quei paesi assistiti, come Grecia, Irlanda e Portogallo, che avevano ricevuto
aiuti attraverso i fondi salva-Stati. L’inevitabile consolidamento fiscale, al fine di ridurre il rischio di default
per questi paesi o addirittura la fine dell’euro, assieme alle politiche restrittive intense, prolungate ed
estese, determinarono effetti negativi sottovalutati. Mentre gli Stati Uniti si ripresero presto dopo la Grande
Recessione del 2009, l’Eurozona subì una nuova recessione nel 2012-2013 e una successiva ripresa debole e
diversificata tra paesi. Una lunga (o ripetuta) recessione complica l’aggiustamento dei conti pubblici
nonostante le politiche di austerità. Si crea un circolo vizioso in cui i disavanzi migliorano per via delle
strette fiscali ma i debiti aumentano in rapporto al Pil per la dinamica negativa di quest’ultimo. In pratica i
consolidamenti fiscali non sono espansivi come sostenevano i fautori del rigore assoluto. Le politiche fiscali
restrittive hanno causato questi tipici keynesiani andando a stagnare reddito e occupazione piuttosto che
presunti effetti non keynesiani di crescita propugnati dai sostenitori della cosiddetta “austerità espansiva”.
Le istituzioni europee si resero conto in ritardo che qualche aggiustamento sarebbe stato opportuno nella
direzione della crescita e l’occupazione come, ad esempio, l’Euro Plus Pact del 2011 o un piano
d’investimenti strategici proposto da Juncker nel 2015 ma questi interventi sembrarono utili ma
insufficienti. La Bce e le altre istituzioni europee hanno sostenuto che il problema della bassa crescita in
Europa fosse un problema di mancate o lente riforme strutturali. Il Presidente Draghi nel 2014 ammise che
la crescita dipende dalle riforme strutturali e dal rilancio della domanda aggregata; e che la politica
monetaria da sola non è in grado di sostenere l’economia (facendo riferimento al ruolo importante giocato
in questo contesto dalle politiche fiscali). Le riforme strutturali e le liberalizzazioni favoriscono la crescita
nel lungo periodo ma per combattere l’acuta recessione e la fiacca ripresa, dovute soprattutto alla carenza
di domanda aggregata (la spesa in consumi e investimenti da parte di famiglie, imprese e settore pubblico),
occorrevano politiche macroeconomiche espansive e il mantenimento di politiche monetarie
accomodanti, incluse le misure non convenzionali, oltre ad un maggiore gradualismo nei meccanismi di
aggiustamento fiscale. Nell’UE era mancato anche il coordinamento delle politiche macroeconomiche:
misure di austerità imposte ai paesi debitori con lo scopo del pareggio di bilancio per i paesi creditori. I
primi avevano ridotto salari e prezzi per una svalutazione interna, in sostituzione di un’impossibile
svalutazione del cambio, mentre i secondi (Germania) non avevano voluto giocare il ruolo di locomotiva per
il rilancio, sebbene le condizioni fossero presenti (equilibrio di bilancio e surplus commerciale). Un forte
rilancio della domanda interna della Germania in consumi e investimenti avrebbe favorito la crescita con
ricadute benefiche su tutto il resto d’Europa. Considerato il crollo degli investimenti pubblici in molti paesi,
sarebbe stata necessaria una spinta attraverso l’adozione di una “golden rule” (maggior indebitamento
pubblico per finanziare spese con ricadute di lungo periodo) modificando le regole fiscali (Patto di Stabilità
e Fiscal Compact). Un recupero della spesa pubblica in investimenti avrebbe consentito un immediato
sollievo per l’economia: investimenti in infrastrutture, trasporti, alta formazione e ricerca. Non
necessariamente grandi opere ma anche tanti micro-interventi come ad esempio nell’edilizia popolare,
nella salvaguardia ambientale e nel risparmio energetico o in campo sanitario. Tutto questo perché il
rilancio degli investimenti è doppiamente utile, sia perché sostiene la domanda aggregata nel breve
periodo, sia perché consente la crescita nel lungo periodo. Essenziali per la ripresa sono anche gli
investimenti delle imprese private, crollati nel decennio successivo alla crisi. A tal fine, in aggiunta al
ribaltamento delle aspettative e alla migliorata fiducia conseguente al rilancio degli investimenti pubblici,
un ruolo importante dovrebbe essere giocato dal settore del credito. Bisognerebbe individuare quegli
strumenti affinché la liquidità emessa dalla Bce pervenga al sistema produttivo senza il rischio di asimmetrie
informative che provochi selezione avversa e degeneri in azzardo morale. In definitiva, la crescita non si
ottiene in modo automatico con le sole riforme strutturali o con l’aggiustamento dei conti pubblici
impostato dall’alto. Le politiche dell’UE, dopo gli anni dell’austerità, dovranno essere riorientate alla
crescita in un contesto di stabilità economica e finanziaria.

19.5 – LA SVOLTA CON LO SCOPPIO DELLA PANDEMIA: IL NGEU – La risposta allo shock
pandemico del 2020 è stata immediata con un rapporto deficit/Pil aumentato, per tutta l’Eurozona (ad
eccezione di Germania e pochi altri), rispetto all’anno precedente la pandemia in cui si era raggiunto quasi il
pareggio di bilancio, ma inferiore rispetto ai disavanzi di tre paesi extra-UE come Stati Uniti, Giappone e
Regno Unito. Stesso discorso anche per il rapporto debito/Pil con aumenti considerevoli (ovviamente con
differenze tra paesi dell’area euro) ma inferiori rispetto ai già menzionati paesi extra-UE. Il deterioramento
delle finanze pubbliche è stato il risultato di misure di politica monetaria espansiva. I governi nazionali, ma
anche l’UE nel suo complesso, questa volta hanno agito abbastanza velocemente dopo lo shock pandemico.
- INIZIO FOCUS su DEFICIT/PIL e DEBITO/PIL (differenze) - Deficit pubblico significa la differenza negativa
tra le entrate e le uscite di uno Stato che si genera in un anno. Si tratta di un disavanzo primario, misurato
al netto degli interessi che quello stesso Paese sostiene per finanziare il proprio debito pubblico. Questo
deficit è calcolato in rapporto al PIL (la misura del valore di tutte le merci ed i servizi finali di nuova
produzione all’interno dei confini di un paese in un anno) in modo da definire la possibilità di ripagare il
debito accumulato. Così facendo la misura è in grado di ignorare il processo inflativo. Il Pil non è mai
sufficiente quindi si ricorre al debito per finanziarie il proprio deficit (disavanzo). Il debito pubblico, invece,
indica l'ammontare complessivo del debito che uno Stato contrae (o ha già contratto) con soggetti pubblici
e privati, nazionali o esteri per far fronte al proprio fabbisogno. Lo strumento finanziario più utilizzato per
raccogliere denaro è l’emissione di Titoli di Stato. Appare evidente che, nonostante siano spesso
(erroneamente) utilizzati come due sinonimi, i termini deficit e debito pubblico indicano due concetti
distinti. N.B: È importante sottolineare che, per calcolare le uscite di uno Stato, si considera, oltre alla spesa
pubblica, anche l’interesse sul debito: ovvero l’importo totale che lo Stato deve corrispondere a titolo di
interesse, nell'arco di un singolo esercizio finanziario, ai soggetti con cui ha contratto il debito. Nel caso
dell’Italia a sbilanciare i conti verso il segno negativo è proprio l’ammontare dell’interesse sul debito:
considerando solo la spesa pubblica, messa a confronto con il totale delle entrate, il bilancio dello Stato
sarebbe infatti in attivo (avanzo primario). FINE FOCUS – Per quanto riguarda la politica di bilancio già nel
marzo del 2020 sono state sospese le regole del Patto di Stabilità e Crescita come pure le norme sugli aiuti
di Stato. Inoltre, la Commissione ha utilizzato subito fondi a propria disposizione con un pacchetto di
quattro misure. 1) presiti per un ammontare pari a 100 mld a sostengo dei sistemi nazionali di
ammortizzatori sociali (Sure). 2) prestiti a sostegno delle piccole e medie imprese per 200 mld a mezzo
interventi della Banca europea degli investimenti (Bei). 3) una linea “pandemica” del fondo Mes per 240
mld finalizzata a concedere prestiti a tassi agevolati per le spese nazionali di tipo sanitario. 4) il Next
Generation UE (NGEU) per un valore complessivo di 750 mld. Proprio il Next Generation EU (NGEU)
rappresenta il piano più importante, non solo per il suo aspetto quantitativo ma anche qualitativo quale
tappa fondamentale per il processo di integrazione. Nella sua versione finale è stato fissato l’importo
potenziale, come già detto pari a 750 Mld, ripartito in sussidi a fondo perduto e prestiti a bassissimo tasso
rimborsabili in 30 anni; ha una durata di 6 anni (dal 2021 al 2026). Lo strumento principale attraverso il
quale opera il piano è l’RRF “Recovery and Resilience Facility”; altri strumenti minori sono previsti, il
principale tra i secondi è il React-UE. Per quanto riguarda l’allocazione delle risorse tra i paesi, i principali
beneficiari sono l’Italia (con 191,5 mld dalla RRF e oltre 13,5 mld dal React-UE) seguita dalla Spagna in
seconda posizione, Francia, Polonia e paesi est-europei (la Germania è sottorappresentata tenuto conto
delle sue condizioni demografiche ed economiche). Per quanto riguarda la tipologia di spesa c’è abbastanza
discrezionalità nelle scelte dei paesi ma con vincoli del 37% per la green economy e il 20% per l’economia
digitale. Il NGEU è stato considerato una tappa cruciale lungo il cammino dell’integrazione non solo perché
si è deciso di ripartire i fondi in base alle necessità dei singoli paesi ma soprattutto perché prevede, per la
prima volta, l’emissione di debito comune. Inoltre, per rimborsare questo debito, è prevista anche
l’introduzione di nuove imposte sulle emissioni di CO2, sulla plastica, sulle società multinazionali e altro. Le
risorse sono elargite sotto una specifica condizionalità: controlli ex-ante, in itinere ed ex-post
sull’allocazione delle risorse decise dai singoli paesi e sui progetti di investimento. Innanzitutto, per
accedere al fondo Next Generation EU, i paesi hanno dovuto presentare entro aprile 2021 i “Piani nazionali
di ripresa e resilienza” (PNRR) definendo un pacchetto coerente di riforme e investimenti per il periodo
2021-2026, dettagliando i progetti e le misure previste finalizzate alla modernizzazione del paese, nonché la
calendarizzazione degli interventi. Il PNRR italiano è articolato in sei missioni che riguardano: M1)
Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo. M2) Rivoluzione verde e trasformazione
ecologica. M3) Infrastrutture per una mobilità sostenibile. M4) Istruzione e ricerca. M5) Inclusione e
coesione. M6) Salute. Come già detto si compone principalmente di RRF (per 191,5 mld) ma raggiunge i 235
mld se si includono anche gli altri fondi. Con l’approvazione del nostro PNRR da parte del Consiglio Europeo
(13 luglio 2021) sono state definite 527 condizioni distribuite nel tempo fino al 2026, suddivise in 213
traguardi qualitativi (“millestones”) e 314 obiettivi quantitativi (“targets”) da rispettare nella tempistica
prevista per ottenere l’erogazione delle rate semestrali. Per il 2022 dovranno essere rispettate 100
condizioni (di cui 83 traguardi e 17 obiettivi) inclusa l’approvazione di un nuovo codice dei contratti
pubblici, la riforma sulla legge sulla concorrenza e quella sull’istruzione primaria e secondaria. L’attuazione
del PNRR dovrebbe portare ad un buon aumento del Pil nei prossimi anni ma il problema di fondo per
l’Italia non è solo realizzare una buona ripresa ma elevare la tendenza di crescita di lungo periodo rispetto a
quello tendenzialmente nullo dell’ultimo ventennio. Per quanto riguarda l’UE il rischio da evitare è quello
che si torni all’assetto pre-shock pandemico. Per la politica monetaria, un graduale abbandono delle
politiche ultra-espansive è forse reso inevitabile dal riaccendersi dell’inflazione, ma la Bce non può certo
abbandonare l’obiettivo della sostenibilità dei debiti pubblici nazionali e la stabilità finanziaria. In tema di
politica fiscale, bisogna evitare che si torni ai vincoli precedenti del Patto di Stabilità e Crescita, come già
chiedono i paesi “frugali” (paesi molti piccoli con poco peso come Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, con
Finlandia e Repubbliche baltiche a supporto in posizione leggermente più defilata). Il processo di riforma
del PSC dovrebbe concludersi entro la fine del 2022 e una qualche forma di golden rule (ossia la possibilità
di effettuare in disavanzo almeno gli investimenti pubblici che, se produttivi, creano nel tempo il loro
finanziamento) parrebbe fattibile, così come sembrerebbe fattibile il superamento dell’obiettivo di medio
termine basato sul controverso e poco robusto calcolo sul deficit strutturale (il deficit strutturale è la
componente del deficit pubblico che ha a che fare con le decisioni assunte da responsabili e dirigenti o
dovute a situazioni strutturali e normali della vita economica quotidiana; in altre parole, non è legato a
fattori ciclici nella vita economica o a spese straordinarie) e dell’output gap (indica la distanza tra prodotto
interno lordo effettivo e potenziale; dunque rappresenta la differenza tra l''economia reale, la crescita, e le
sue stime). Mentre appare molto improbabile che non si ribadisca la necessità di una dinamica decrescente
del rapporto debito/Pil per i paesi più indebitati. L’auspicio è che l’emissione di debito comune, avviata con
l’NGEU, non resti un episodio isolato ma sia seguito da altri interventi. Alcune riforme istituzionali nella
governance della UE sono auspicabili, a cominciare dal superamento del voto unanime del Consiglio
europeo, anche se è vero che alcune riforme sono complesse sul piano giuridico perché richiedono la
modifica dei Trattati. Di sicuro le politiche più espansive attuate dal 2020 hanno stimolato la crescita anche
nei paesi dove era stata sempre debole e, migliorando il quadro economico-sociale attraverso una
diminuzione della disoccupazione e degli indici di povertà, si riuscirebbe forse ad intaccare anche quel
sentimento anti UE ed antieuro che si era diffuso in molti paesi con i movimenti sovranisti. In questo modo,
un po’ alla volta, potrebbe diventare più realistico quel processo di riforma radicale nella governance e
nelle politiche europee. Un processo che non deve essere imposto dall’alto ma deve nascere all’interno,
rendendo partecipi i cittadini, i gruppi sociali e il mondo civile e conquistando un crescente supporto che
favorisca l’integrazione europea e contrasti l’attuale disaffezione dei cittadini europei. Lo scenario
alternativo sarebbe un “tirare a campare” con il rischio che si arrivi all’implosione dell’euro e all’involuzione
del processo di integrazione con conseguenze drammatiche sul piano economico, sociale e politico.
Un’Europa disunita tenderebbe ad essere schiacciata da Stati Uniti, Cina, Russia e in futuro da India e paesi
emergenti; il destino dei singoli paesi europei (Germania e Francia inclusi) sarebbe di un progressivo declino
economico (e non solo). Un’UE più integrata potrebbe contribuire sia ad allentare le tensioni tra Stati Uniti,
Russia e Cina che nel favorire uno sviluppo sostenibile (in termini economici, sociali e ambientali) e più
attento alle libertà personali e democratiche nonché all’equità delle opportunità e alla giustizia sociale.

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