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Riassunto Diritto tributario internazionale di V. Uckmar -


Diritto Tributario Internazionale
Diritto tributario internazionale comunitario (Università degli Studi di Genova)

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V. UCKMAR - DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE

INTRODUZIONE

Nel secolo scorso si è creata una sostanziale uniformità del diritto tributario internazionale, e ciò è avvenuto per
diversi fattori:
- evoluzione del commercio internazionale (basti pensare alla “globalizzazione”);
- gli organi sovranazionali sono stati sempre più rivolti a ridurre le barriere doganali e a eliminare le doppie
imposizioni nelle operazioni transfrontaliere;
- grazie agli incontri a livello mondiale o continentale, che hanno dato origine alla dottrina più recente, e
hanno spesso condotto a un’uniformità di terminologia e di definizione dei concetti.
Il grande ostacolo alla evoluzione del diritto tributario internazionale è consistito essenzialmente nella resistenza
degli Stati, che consideravano (e tale considerazione, di origine ottocentesca, a tutt’oggi non è stata ancora del
tutto smantellata) l’imposizione fiscale un attributo essenziale della loro sovranità.
Ancora oggi sono presenti i segni di tale retaggio storico: un esempio è dato dal fatto che il Consiglio UE in
materia fiscale può deliberare soltanto con voto unanime, anziché a maggioranza come può fare in tutte le altre
materie.
È comunque da precisare che tale atteggiamento anacronistico è stato in parte superato grazie agli interventi e
alle sollecitazioni di organismi sopranazionali.

Fino alla conclusione della Prima Guerra Mondiale, gli accordi internazionali erano incentrati sui dazi doganali,
spesso gestiti in funzione protezionista. E le disposizioni sui dazi erano generalmente contenute nei trattati
commerciali, volti a regolare, impedire o limitare lo scambio delle merci e a imporvi dei tributi
(i dazi doganali in entrata o in uscita).
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale i rapporti economici tra le Nazioni si intensificarono a seguito della
collocazione di attività all’estero: l’effetto fu che i residenti in uno Stato divenivano tassabili per il reddito
prodotto sia nel territorio che all’estero, dando luogo a plurime imposizioni, che avrebbero frenato le operazioni
transnazionali. Si appalesò, così, la necessità di disciplinare i rapporti tra gli Stati nella sfera dell’imposizione, al
fine di evitare distorsioni dei rapporti economici.
A cominciare dal 1920 fu la Società delle Nazioni a preoccuparsi di promuovere convenzioni contro le doppie
imposizioni. Nella rubrica di alcune convenzioni era solitamente prevista come scopo delle stesse anche la lotta
alla frode fiscale, ma praticamente senza alcun riflesso nella normativa.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, sempre per stimolare i rapporti economici, furono intensificate le
convenzioni contro le doppie imposizioni, con la partecipazione anche dei Paesi in via di sviluppo, con particolare
tutela, per queste, da parte delle Nazioni Unite.
L’impulso fu dato particolarmente dall’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OECE, poi
diventato OCSE), che fissò un modello standardizzato di convenzione fiscale (c.d. Modello OCSE); in seguito, col
Trattato di Roma (1957), fu previsto che gli Stati membri avrebbero avviato negoziati intesi a garantire
l’eliminazione della doppia imposizione fiscale all’interno della Comunità.
Tuttavia, a poco a poco, si fece avanti la constatazione che a volte le convenzioni venissero utilizzate in maniera
impropria, ossia come strumento di elusione fiscale, così da creare vantaggi soprattutto per le multinazionali,
distorsivi della concorrenza. Al fine di evitare tali vantaggi, sono state previste clausole che non consentono
l’esclusione della tassazione in ambedue gli Stati contraenti (es. Taxation Limited Territorially). Anche nella
normativa dell’UE si riscontrano disposizioni miranti a evitare operazioni elusive.
L’art.26 del Modello OCSE disciplina lo scambio di informazioni tra le amministrazioni fiscali degli Stati
contraenti: lo Stato di un cittadino contribuente potrà chiedere all’autorità fiscale di un altro Stato se questo
cittadino non possegga anche in questo Stato beni patrimoniali, magari non menzionati nella dichiarazione dei
redditi.
Negli ultimi vent’anni, l’impetuoso processo di globalizzazione dei mercati e di internazionalizzazione dei sistemi
economico-produttivi ha generato nuove sfide e aperto inedite prospettive. La forza lavoro, i capitali e le
materie prime spesso derivano da altri mercati, e anche ad altri mercati sono destinati i prodotti. La
globalizzazione degli investimenti ha reso le economie e la politica maggiormente interconnesse.
Da più parti si auspica l’introduzione di regole fiscali sovranazionali per regolare la globalizzazione, perché essa
crea preoccupazioni per la riduzione del gettito, principalmente per effetto:

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1) della difficoltà di accertare, e quindi gravare di imposte, redditi provenienti da capitali estremamente
volatili;
2) della concorrenza delle legislazioni di favore atte ad attrarre la collocazione delle attività produttive;
3) dell’utilizzazione di mezzi di comunicazione come Internet che hanno aperto l’off-shore e-commerce,
che può sfuggire ai controlli del fisco e quindi alla tassazione, perché tiene celati i soggetti e la
localizzazione delle operazioni.
L’UE ha dato un grande impulso alle iniziative atte a limitare le “pratiche fiscali dannose” per una corretta
concorrenza in un’economia globalizzata. Alcuni Stati europei avevano introdotto negli ultimi anni agevolazioni
fiscali per facilitare gli investimenti stranieri: fu così costituito un “Gruppo per la politica fiscale”, composto dai
rappresentanti dei Ministri per le finanze dei singoli Stati membri, e fu approvato un pacchetto di misure volte a
contrastare la concorrenza fiscale dannosa, redigendo anche un “Codice di condotta” (1997). Tale codice di
condotta, pur non essendo giuridicamente vincolante, ha comunque prodotto rilevanti effetti.
In parallelo agli interventi dell’UE ha proceduto anche l’OCSE, che, in data 9 aprile 1998, ha pubblicato il
rapporto “Harmful Tax Competition”, dove si distingue tra “paradisi fiscali” e “regimi fiscali preferenziali
dannosi” e vengono individuati i fattori in base ai quali è possibile identificarli. Nel ’99 venne quindi pubblicata
dall’OCSE una lista di Stati da qualificare tax-havens, che nel corso degli anni ha subito una riduzione.
Anche l’Italia ha adottato una black list dei paradisi fiscali, emanando decreto ministeriale apposito.

CAPITOLO I – LE FONTI

Le fonti
Nell’ambito dell’imposizione sui redditi, la classificazione delle fonti normative si fonda su una bipartizione:
1. norme interne a un ordinamento giuridico che disciplinano le fattispecie impositive caratterizzate da
elementi di estraneità all’ordinamento medesimo (c.d. “diritto tributario internazionale”);
2. le norme contenute negli accordi internazionali che riguardano l’esercizio dell’attività degli stati in
materia tributaria nell’ambito dei singoli ordinamenti (c.d. “diritto internazionale tributario”).
Oltre a queste fonti, hanno assunto sempre maggior rilevanza le disposizioni e provvedimenti di natura tributaria
emanati dall’UE in base al relativo Trattato e le decisioni della Corte di Giustizia.

Le misure bilaterali per evitare la doppia imposizione internazionale


I fenomeni di doppia imposizione possono ostacolare il commercio internazionale e quindi impedire la creazione
di ricchezza: considerato il duplice onere fiscale gravante sul soggetto passivo, questi si troverà a dover
rinunciare alle operazioni internazionali colpite da tale fenomeno, per preferire quelle puramente interne, che
hanno un costo ridotto rispetto alle prime.
I metodi adottati dai vari Paesi per evitare la doppia imposizione internazionale sono molto differenti, e i
principali sono:
1. il metodo dell’esenzione dei redditi realizzati all’estero (c.d. “exemption method”);
2. il metodo del credito di imposta o dell’imputazione (c.d. “foreign tax credit method”);
3. il metodo della deduzione dell’imposta estera dal reddito imponibile;
4. il metodo dell’aliquota ridotta per i redditi prodotti all’estero;
5. il metodo dell’esenzione con progressione.
Tuttavia, non tutti questi metodi consentono una piena eliminazione della doppia imposizione.
Fu proprio per evitare i “conflitti positivi di tassazione” che ebbe inizio la stipulazione di convenzioni
internazionali contro la doppia imposizione.

La stipulazione delle convenzioni internazionali in materia tributaria


Le convenzioni contro la doppia imposizione sono trattati internazionali.
I lavori preparatori di una convenzione internazionale in materia tributaria possono essere utilizzati
nell’interpretazione del testo finale.
La fase delle trattative si conclude con la definizione di un testo su cui le parti concordano, che viene autenticato
mediante l’apposizione in calce delle iniziali dei negoziatori. L’autenticazione in sé non comporta l’approvazione
della convenzione da parte degli Stati contraenti.
La fase successiva all’autenticazione consiste nella ratifica e nella stipulazione. La ratifica contiene la
dichiarazione dello Stato di voler osservare in buona fede il trattato nel testo fissato mediante autenticazione (in
Italia essa consiste in una dichiarazione scritta, sottoscritta dal Presidente della Repubblica e controfirmata dal
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Ministro degli esteri, con la quale si approva il testo del trattato); la stipulazione, invece, consiste nella reciproca
notificazione da parte degli Stati contraenti dell’avvenuta ratifica. Quest’ultima, quindi, consiste nell’emissione
delle dichiarazioni negoziali con cui le parti manifestano la volontà di vincolarsi pienamente.

L’efficacia delle convenzioni internazionali in materia tributaria


Per quanto concerne il rango da riconoscersi alle norme convenzionali introdotte dall’ordinamento italiano, esso
corrisponderà a quello della fonte che ha provveduto all’adattamento (e quindi, di regola, al rango di legge
ordinaria).
Da tempo ormai si sostiene la prevalenza della norma convenzionale, basandola su un principio di specialità sui
generis, secondo cui la natura della specialità si baserebbe sulla volontà del legislatore di rispettare gli obblighi
internazionalmente assunti. Se il legislatore mediante una norma interna successiva esprime in modo
inequivocabile la volontà di non rispettare il preesistente vincolo internazionale, il requisito della specialità verrà
meno e la norma interna successiva potrà validamente derogare o modificare la previgente disposizione di
origine convenzionale, facendo riemergere il principio della successione delle leggi nel tempo.
I trattati internazionali, non appena resi direttamente applicabili all’ordinamento interno, pertanto, prevalgono
sicuramente sulle norme tributarie interne. E la supremazia degli accordi internazionali rispetto alle leggi
ordinarie rimane salda anche per quanto concerne il diritto tributario.
Resta sempre salva, però, la competenza della Corte costituzionale: se il giudice ritiene sussistente un contrasto
tra la disciplina interna e quella convenzionale deve comunque rimettere la questione alla Corte costituzionale
affinché questa giudichi della costituzionalità della disposizione interna in ragione del parametro di cui
all’art.117 co.1 Cost. Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme
alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia
possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale, egli deve
investire la Corte costituzionale.
Non esiste un diritto internazionale privato uniforme: ciascuno Stato è dotato di proprie regole, con la
conseguenza che non possono escludersi norme configgenti. Invero, le norme di diritto internazionale privato
sono tradizionalmente definite come norme di collisione.
Le norme convenzionali in materia tributaria, invece, non sono norme di collisione, come quelle di diritto
internazionale privato, ma norme di distribuzione o di delimitazione, perché non comportano l’applicazione del
diritto straniero a una data fattispecie, bensì limitano la potestà impositiva dei due Stati contraenti al fine di
evitare la doppia imposizione.

L’interpretazione delle convenzioni in materia tributaria


La dottrina classica è fedele al criterio che i trattati in materia fiscale devono essere esclusivamente interpretati
in base ai criteri interni di ciascun ordinamento. La pratica stessa mostra però che adottare una interpretazione
così restrittiva significa spesso rendere i trattati inoperanti.
La dottrina tradizionale ha indicato tre metodi di interpretazione dei trattati internazionali per evitare la doppia
imposizione:
1. l’interpretazione autentica ;
2. l’interpretazione concordata tra le due Amministrazioni per la soluzione di casi particolari;
3. l’interpretazione sistematica secondo i princìpi del trattato, i princìpi del diritto tributario internazionale,
le norme interne dei due Stati.
I principi interpretativi dei trattati internazionali sono mutuati oggi dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati. La convenzione in materia tributaria deve quindi essere interpretata in buona fede, attribuendo
rilevanza al significato ordinario delle parole e delle espressioni usate nel loro contesto e alla luce dell’oggetto e
dello scopo del trattato stesso.
È anche possibile andare oltre l’interpretazione letterale e fare riferimento:
1. a ogni altro accordo successivo tra le parti relativo all’interpretazione del trattato;
2. a ogni successiva prassi applicativa del trattato;
3. a ogni altra norma di diritto internazionale applicabile.
La dottrina italiana è oggi concorde nel ritenere che la disposizione tributaria vada interpretata come qualunque
altra norma dell’ordinamento, salvo che quest’ultimo detti particolari regole di interpretazione. Si applica
dunque il principio generale di cui all’art.12 co.1 delle disposizioni preliminari al codice civile. Occorre quindi
procedere a un’interpretazione letterale seguita da una logico-sistematica. La dottrina ritiene inoltre applicabile

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l’interpretazione evolutiva, cioè l’adeguamento della formula legislativa tenendo conto del tempo trascorso e
dell’evoluzione dell’ambiente socio-economico.
È inoltre possibile fare ricorso a mezzi supplementari di interpretazione, ivi inclusi i lavori preparatori del trattato
e le circostanze attinenti alla sua conclusione. Il giudice nazionale non può, inoltre, limitarsi a prendere in esame
soltanto il testo redatto nella sua lingua nazionale, ma deve tenere in considerazione anche quello redatto nella
lingua dell’altro Stato. Se comparando i due testi risulta una differenza ineliminabile, si adotterà il significato
che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, consente di conciliare nel modo migliore i diversi testi.
Se ciò non è praticabile, la convenzione dovrà ritenersi lacunosa per contrasto tra i diversi significati, con la
conseguenza che la fattispecie concreta non sarà regolata da alcuna disciplina.
Esistono, inoltre, i criteri di interpretazione contenuti nel Modello OCSE di convenzione contro le doppie
imposizioni, che esercitano un’importante influenza, nonostante la loro natura di soft law.
Problemi particolari sorgono quando una convenzione utilizza concetti o istituti che appartengono al tempo
stesso al diritto materiale degli Stati contraenti (c.d. problemi di “qualificazione”). Il problema di qualificazione
può essere risolto dalla medesima convenzione mediante esplicita ed autonoma definizione oppure mediante
rinvio al diritto interno di uno degli Stati contraenti. Nel caso in cui la convenzione non preveda una definizione
espressa, la dottrina adotta le seguenti tre soluzioni:
1. ciascuno Stato che applica la convenzione qualifica le espressioni convenzionali secondo le regole del
proprio diritto interno: qualificazione secondo la lex fori;
2. entrambi gli Stati qualificano le espressioni convenzionali di comune accordo in base al diritto dello Stato
in cui il reddito è prodotto: qualificazione secondo lo Stato della fonte;
3. entrambi gli Stati tentano di individuare una qualificazione univoca in base al significato complessivo
della convenzione: qualificazione autonoma.
In conclusione, secondo la dottrina, sarà ineliminabile il metodo della qualificazione secondo la lex fori fino a
quando non si affermeranno criteri interpretativi volti a privilegiare la collaborazione tra gli Stati contraenti e
non si manifesterà la tendenza nelle convenzioni a definire i termini usati.

Il diritto tributario europeo dall’abbattimento dei dazi di frontiera al trattato di Lisbona


1951 -> Trattato per l’istituzione della CECA
1957 -> creazione della CEE ed Euratom (Trattato di Roma)
1986 -> Atto unico europeo, che completò il Mercato unico
1992 -> Trattato di Maastricht
1997 -> Trattato di Amsterdam
2001 -> Trattato di Nizza
2004 -> progetto di Costituzione europea
2007 -> Trattato di Lisbona
La partecipazione all’UE ha comportato la limitazione della sovranità dello Stato, come previsto dall’art.11 Cost.,
con la conseguenza che nelle materie regolate da fonti comunitarie i giudici nazionali devono risolvere le
controversie con l’applicazione diretta del diritto dell’Unione, disapplicando il diritto interno con esso
contrastante, salvi i soli principi fondamentali della Costituzione e i diritti fondamentali dell’Uomo.
Ai sensi dell’art.288 TFUE, le istituzioni dell’Unione adottano regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni
e pareri:
- regolamento -> ha portata generale ed è obbligatorio in tutti i suoi elementi. È direttamente applicabile;
- direttiva -> vincola lo stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato, ma lascia alla competenza
nazionale i mezzi per l’attuazione. Non è direttamente applicabile, tranne se le norme
contenute nella direttiva sono incondizionate e sufficientemente precise
- decisione -> obbligatoria in tutti i suoi elementi, può avere efficacia diretta quando designa lo Stato
destinatario;
- raccomandazioni e pareri -> non sono vincolanti.
A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le deliberazioni in materia fiscale devono essere assunte
all’unanimità.

Le disposizioni comunitarie per evitare la doppia imposizione internazionale


Il Trattato di Roma ha posto tra i primari mezzi di un mercato comune la garanzia della libera concorrenza e
l’eliminazione delle distorsioni, comprese quelle di natura fiscale.

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C’è stata una scarsa attenzione, da parte dei redattori del trattato, alle imposte dirette -> le direttive 434 e 435
del 1990 costituiscono l’inizio di un più generale processo di armonizzazione della fiscalità diretta che dovrà
necessariamente completarsi con l’avvicinamento delle imposte sui redditi negli Stati membri.

Il peso crescente del diritto dell’UE in materia tributaria


Il TFUE non attribuisce competenze dirette all’UE in materia di imposizione diretta, ma soltanto in relazione alle
imposte indirette. È tuttavia noto che anche le imposte dirette possono intralciare l’esercizio delle libertà
fondamentali garantite dai Trattati e il funzionamento del mercato interno -> è quindi evidente l’esigenza di
ridurre in ambito europeo le barriere fiscali anche nel campo dell’imposizione diretta.
L’armonizzazione fiscale in ambito europeo è anche fondata, oltre che sulla disciplina positiva, anche sulla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, che vincola l’interpretazione dei giudici nazionali. Nella sentenza
Traghetti del Mediterraneo, la Corte di Giustizia ha affermato la responsabilità civile dello Stato membro le cui
autorità giudiziarie abbiano emesso una decisione in contrasto con il diritto comunitario.
La Cassazione ritiene vincolanti per il nostro ordinamento anche le decisioni della Commissione europea.
A livello europeo, comunque, lo strumento maggiormente utilizzato è la direttiva, in quanto più flessibile, e
dunque più idoneo al conseguimento di obiettivi di armonizzazione fiscale.
Le direttive comunitarie possono avere un’efficacia diretta verticale od orizzontale:
- verticale = i cittadini e le imprese possono far valere immediatamente le disposizioni della direttiva contro
lo Stato membro;
- orizzontale: diretta applicabilità della direttiva nei rapporti tra cittadini e imprese.
È previsto che i cittadini dell’UE possano denunciare alla Commissione europea lo Stato inadempiente degli
obblighi di recepimento delle direttive comunitarie: questa potrà avviare una procedura di infrazione contro lo
Stato inadempiente e adire la Corte di Giustizia per ottenere una pronuncia di condanna.

Gli aiuti di Stato


Tra le prerogative che la commissione europea può esercitare in materia tributaria, rientra la vigilanza sulle
norme fiscali introdotte dagli Stati membri che violino il divieto di aiuti di Stato (di cui all’art.107 TFUE): è infatti
vietato elargire aiuti di Stato sotto qualsiasi forma che abbiano carattere selettivo (cioè siano riservati a talune
imprese o produzioni), e che falsino o minaccino di falsare la concorrenza.
Qualora ritenga che una determinata norma fiscale di agevolazione sia passibile di rientrare nell’ambito del
divieto, la Commissione dispone, mediante una decisione, che lo Stato interessato sia tenuto a sopprimerla o
modificarla entro un termine perentorio.
La Commissione svolge anche funzioni di controllo di carattere preventivo: qualora, infatti, uno Stato membro
intenda introdurre un’agevolazione fiscale o modificarne una esistente, deve comunicarlo alla Commissione,
affinché questa possa presentare osservazioni e rilevarne un’eventuale incompatibilità.
In tutti i casi in cui lo Stato membro non si uniformi alla decisione della Commissione, eliminando o modificando
la norma censurata, la Commissione o qualsiasi Stato interessato può adire direttamente la Corte di Giustizia,
affinché si pronunci sulla legittimità della decisione e ne confermi la portata, richiamando lo Stato alla sua
esecuzione.

Il codice di condotta contro la concorrenza fiscale dannosa


Nel 1997 il Consiglio dei Ministri della comunità europea ha approvato il Codice di condotta in materia di
tassazione delle imprese. Benché questo non sia legalmente vincolante, ha avuto grande influenza sulla politica
fiscale degli Stati membri.
Il Codice invita gli Stati membri ad astenersi dall’introdurre o conservare misure fiscali che risultino dannose per
la concorrenza, e individua i criteri in base ai quali queste si possono riconoscere.

Il ruolo della Corte di Giustizia e il rapporto tra le convenzioni contro le doppie imposizioni e il diritto
dell’Unione europea
Le disposizioni degli Stati membri in materia di imposte dirette non possono comportare limitazioni alle libertà
fondamentali garantite dal trattato ai cittadini e alle imprese dell’UE. Gli Stati membri non possono addurre le
necessità di gettito erariale come giustificazione per una restrizione delle libertà fondamentali del Trattato.
Anche in presenza di una giustificazione per la limitazione nel godimento delle libertà fondamentali, la disciplina
nazionale deve essere proporzionata, riducendo quindi al minimo gli svantaggi imposti ai cittadini UE in
connessione all’introduzione della misura “giustificata”.
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La supremazia del diritto comunitario su quello nazionale in Italia è stata affermata dalla Corte costituzionale
nella sentenza Granital del 1980, fondata sull’art.11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della
sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la
pace a la giustizia tra le Nazioni.
Il giudice nazionale ha la facoltà di adire la Corte di giustizia qualora ritenga che per emanare la sentenza sia
necessaria la preventiva risoluzione di una questione interpretativa su una disposizione comunitaria. Ne ha,
invece, l’obbligo, quando contro la decisione del giudice stesso non sia proponibile un ricorso giurisdizionale di
diritto interno.
Nel fondamentale caso Schumacker la Corte di Giustizia ribadì che la competenza degli Stati membri in materia
di imposte dirette non poteva prescindere dal diritto comunitario.
In via di principio, in materia di imposte dirette, la Corte riconosce che gli Stati possono riservare ai non residenti
un trattamento diverso rispetto a quello garantito ai loro residenti. Questo principio trova però un limite
laddove la situazione del non residente sia equiparabile a quella dei residenti: in questo caso non si potrà
legittimamente sottoporre il non residente a un prelievo diverso e discriminatorio rispetto ai contribuenti
residenti.

La clausola della nazione più favorita e la discriminazione orizzontale nella UE


Fino alla sentenza sul D.Case (2005) la Corte di Giustizia non si era mai espressa sulla c.d. discriminazione
orizzontale, ossia sulla disparità di trattamento da parte di uno Stato membro ai cittadini di altri Stati membri,
uno dei quali riceve un trattamento meno favorevole in base alle disposizioni di una convenzione contro le
doppie imposizioni. Come accaduto nel D. Case, infatti, può accadere che un cittadino dell’UE che risieda in
Germania e che effettui un investimento immobiliare in Olanda può essere assoggettato a un prelievo maggiore
di quello riservato a un cittadino che risiede in Belgio.
Prima del caso D. non vi erano precedenti sull’equiparazione di un cittadino non residente con un soggetto che
risieda in un altro Paese dell’UE diverso da quello dove è prodotto il reddito (c.d. clausola della nazione più
favorita, o MFN clause). La decisione del D. case ha negato l’applicazione della MFN clause.
L’unica via per affermare la dottrina della nazione più favorita anche all’interno della Comunità in materia di
imposte dirette pare l’adozione di un’unica convenzione multilaterale contro le doppie imposizioni.

Il futuro del rapporto tra diritto UE e convenzioni contro le doppie imposizioni


Il problema delle discriminazioni derivanti dalla bilateralità dei trattati contro le doppie imposizioni è ben
presente a livello comunitario da molti anni. Si è sviluppato un dibattito sulla compatibilità delle disposizioni
contenute in convenzioni contro le doppie imposizioni con il diritto comunitario: il conflitto tra il mercato unico e
le Convenzioni tra gli Stati membri è in effetti insanabile, in quanto la realizzazione del primo presuppone
l’eliminazione delle seconde.
La dottrina si è divisa sull’opportunità di estendere l’applicazione del trattamento più favorevole alle convenzioni
stipulate tra gli Stati membri.
Da una parte c’è chi considera la discriminazione orizzontale come un ostacolo inammissibile alla realizzazione
degli obiettivi del Trattato, e quindi ritiene fondamentale rimuoverla. Dall’altra si pone chi difende la potestà
degli Stati membri in materia di imposte dirette e il principio di sussidiarietà.
Si è dunque proposto di adottare un modello europeo di convenzione contro le doppie imposizioni, sulla scorta
del Modello OCSE. Tuttavia la situazione presenta aspetti molto delicati, che difficilmente potranno essere risolti
nel breve periodo. Sicché ancora oggi non è stata stipulata alcuna convenzione multilaterale in materia di
doppie imposizioni.

I rapporti con la Città del Vaticano


L’11 febbraio 1929 fu sottoscritto tra l’Italia e la Santa Sede il Trattato lateranense (poi modificato nel 1984)
costituendo la Città del Vaticano “per assicurare alla Santa Sede l’assoluta e visibile indipendenza” e “garantirle
una sovranità indiscutibile pure nel campo internazionale”.
L’Italia ha così riconosciuto alla Santa Sede la piena proprietà e la esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione
sovrana sul Vaticano, e quindi la disponibilità di tutta una serie di “immobili con privilegio di extraterritorialità e
con esenzione da espropriazione e tributi”. Inoltre “tutti gli altri edifici nei quali la Santa Sede in avvenire crederà
di sistemare altri Dicasteri” potranno godere, “benché facenti parte del territorio dello Stato italiano, delle
immunità riconosciute dal diritto internazionale alle sedi degli agenti diplomatici di Stati esteri”. Tali immobili,

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pertanto, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, si devono considerare al di fuori del territorio
italiano e non soggetti ad imposizione.

GATT – World Trade Organization (O.M.C. Organizzazione mondiale del commercio)


L’ Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio, meglio conosciuto come GATT (1948), ebbe il merito di
disciplinare il commercio e le tariffe nelle importazioni ed esportazioni di merci, e diede un grande impulso al
commercio internazionale: furono notevolmente abbattute le aliquote e furono introdotte norme per evitare
distorsioni e discriminazioni quali la clausola della “Nazione più favorita”. Peraltro, attorno agli anni ’80 si
riscontrò che il GATT non era più sufficiente, in quanto gli scambi internazionali non erano più limitati alle merci.
Nel 1995 fu costituita l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), conosciuta anche con il
nome inglese di World Trade Organization (WTO): essa è un'organizzazione internazionale creata allo scopo di
supervisionare numerosi accordi commerciali tra gli stati membri. Essa può emanare disposizioni urgenti per gli
Stati membri, e le dispute sono risolte attraverso organi giudiziali.

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU)


La Convenzione europea dei diritto dell’uomo (CEDU) è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 dai 12 stati al
tempo membri del Consiglio d'Europa. Ha istituito la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il protocollo addizionale alla Convenzione del 1952 ha introdotto nel catalogo dei diritti fondamentali protetti il
diritto al pacifico godimento dei propri beni.
L’accesso alla Corte europea dei diritto dell’uomo in materia fiscale finora è stato limitato a casi di negazione di
un “giusto processo” in controversie relative alla restituzione di un credito di imposta e di sanzioni, in violazione
del principio di proporzionalità.
Si conferma, tuttavia, l’importanza della CEDU anche in materia tributaria, come in maniera sempre maggiore
emerge dalle sentenze della Corte.

CAPITOLO II – LA DOPPIA IMPOSIZIONE E IL MODELLO OCSE

La nozione di doppia imposizione internazionale


Si parla di doppia imposizione internazionale quando, in due o più Stati, i presupposti di imposta si
sovrappongono, e quindi le diverse leggi nazionali assoggettano la stessa ricchezza ad imposta due o più volte.
Quindi, la doppia imposizione internazionale (in senso giuridico) si avrebbe a seguito dell’applicazione di imposte
simili (e quindi comparabili), da parte di due o più Stati, a carico dello stesso contribuente, per lo stesso
presupposto di fatto e per lo stesso periodo di imposta.
Occorre aggiungere che la doppia imposizione internazionale sussiste soltanto quando l’ammontare complessivo
delle imposte riscosse risulta superiore a quello che si sarebbe realizzato nell’ipotesi di prelievo da parte di un
solo Stato.
Due nozioni di doppia imposizione:
- doppia imposizione giuridica -> è la duplice tassazione in capo allo stesso soggetto dello stesso reddito
giuridicamente qualificato, ad es. la duplice tassazione in capo allo stesso soggetto persona fisica di una
determinata categoria di reddito.
- doppia imposizione economica -> è la duplice tassazione in capo a soggetti diversi, di un reddito di identica
natura economica, ad es. la tassazione degli utili della società in capo al socio e dei dividendi trattati da
utili e distribuiti al socio.

Le cause della doppia imposizione


Il fenomeno della doppia imposizione internazionale può aver luogo per ogni tipo di imposta.
Le cause della doppia imposizione internazionale possono essere così raggruppate:
1. contrasto tra due ordinamenti che adottano un diverso criterio di collegamento; per esempio un
ordinamento adotta un criterio di collegamento personale, basato sulla residenza, sulla sede, sulla
cittadinanza, mentre l’altro ordinamento adotta un criterio di collegamento oggettivo, basato cioè sul
luogo di produzione del reddito;
2. contrasto tra due ordinamenti che adottano un criterio di collegamento personale (esempio residenza)
e che, in base alla propria legislazione interna, considerano entrambi lo stesso soggetto come rientrante
nelle propria giurisdizione fiscale;
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3. contrasto tra due ordinamenti che adottano un criterio di collegamento oggettivo (esempio luogo di
produzione del reddito), e che, in base alla propria legislazione interna, considerano entrambi il reddito
prodotto dal soggetto come prodotto nel proprio territorio.
Esistono inoltre casi in cui la doppia imposizione è da ricondursi semplicemente alla diversa interpretazione che i
due Stati attribuiscono allo stesso concetto giuridico che costituisce criterio di collegamento nei due differenti
ordinamenti (c.d. conflitto di qualificazione).

La doppia imposizione e il diritto internazionale


La dottrina internazionalistica prevalente (Conforti) considera come regole di diritto internazionale vigente
soltanto quelle per cui possa dimostrarsi la costante e uniforme osservanza della maggior parte degli Stati, nella
convinzione che esse siano vincolanti. E si rileva che il diritto internazionale non conosce il principio del ne bis in
idem, ossia il principio che vieta espressamente la doppia imposizione -> di conseguenza si può dire che i
correnti principi generali del diritto internazionale non vietano la doppia imposizione.

La nascita del modello OCSE e le sue disposizioni di apertura.


La natura del Modello e del Commentario OCSE
Per evitare il fenomeno della doppia imposizione, gli Stati hanno stipulato convenzioni internazionali che
regolano i rapporti tributari tra i soggetti che operano negli stati firmatari della convenzione. Con questo
strumento si cerca di evitare la tassazione del reddito sia nel Paese in cui questo è stato prodotto sia nel paese di
residenza del soggetto che lo ha prodotto.
L’OCSE - l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico - ha prodotto un modello di convenzione
(il primo schema di Convenzione risale al 1963, l’ultima versione è del 2010), prevalentemente adottato negli
accordi bilaterali tra Stati. A quello dell’OCSE si aggiungono ulteriori modelli di convenzione, tra cui in
particolare il modello ONU.
Nonostante sia il Modello OCSE sia il relativo commentario siano soft law, in linea teorica uno Stato membro
dell’OCSE non potrebbe rinnegarne il contenuto o interpretare una convenzione, stipulata in sua conformità, in
maniera a esso divergente.

Le funzioni e la struttura delle convenzioni bilaterali contro la doppia imposizione


La funzione delle Convenzioni generali è quella di evitare la doppia imposizione; le funzioni delle Convenzioni
particolari sono, invece, lo scambio di informazioni, la cooperazione tra Stati in materia fiscale, la risoluzione
delle controversie e il contrastare l’evasione fiscale internazionale.
Una Convenzione consiste tipicamente dei seguenti gruppi di disposizioni:
1. articoli introduttivi -> descrivono i presupposti di applicazione della Convenzione, individuando
specificamente le persone, le imposte e i territori;
2. criteri di localizzazione e di imposizione del reddito e del patrimonio;
3. soluzioni per l’eliminazione delle doppie imposizioni (alcuni Paesi utilizzano il metodo del credito di
imposta, cioè garantiscono la detrazione delle imposte assolte all’estero dal debito dovuto nello Stato di
residenza; altri Paesi adottano il metodo dell’esenzione, che consiste nell’escludere dall’imposta i redditi
di fonte estera);
4. disposizioni finali -> riguardanti l’applicazione delle convenzioni e la lotta contro evasione ed elusione
fiscale
5. protocolli aggiuntivi -> in essi si formalizzano i risultati di discussioni e trattative ritenuti meno
importanti.

Le persone cui si applica la convenzione (art.1)


Ai sensi dell’art.1 del Modello OCSE, le convenzioni si applicano ai «residenti» dei due Stati contraenti, senza
alcuna distinzione in termini di nazionalità (a differenza dei primi trattati stipulati, che si applicavano in genere ai
«cittadini» degli Stati contraenti). Alcuni trattati prevedono un campo di applicazione più ampio, che si estende
ai «contribuenti» degli Stati contraenti, cioè a persone che sono soggette ad imposte su parte del loro reddito in
ognuno degli Stati contraenti, pur non essendo residenti in alcuno di essi.

Il treaty shopping
L’abuso dei trattati contro la doppia imposizione può assumere forme diverse. Essenzialmente si distingue tra
violazione diretta e violazione indiretta delle norme del trattato. Nella prima ipotesi, sono violate direttamente
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le norme che prevedono la diminuzione dell’onere fiscale. Nella seconda ipotesi, si configura il c.d. treaty
shopping. Per «treaty shopping» si intende una tecnica che consiste nell’utilizzo delle Convenzioni contro le
doppie imposizioni al fine di trarne vantaggi sotto il profilo fiscale.
Più in dettaglio, il treaty shopping nasce dall’esigenza di contenere l’onere fiscale attraverso l’accorto utilizzo
delle differenze esistenti tra gli Stati nella ripartizione delle pretese impositive mediante trattati contro le doppie
imposizioni, ovvero, nel caso di mancanza di accordi bilaterali tra il Paese dell’investitore e quello
dell’investimento, attraverso la scelta del trattato più conveniente, al fine di contenere, a livelli
(soggettivamente) considerati sostenibili, il carico tributario che grava sui flussi reddituali transnazionali.

L’abuso del diritto e l’elusione fiscale internazionale


Il Modello OCSE non contiene una definizione di “abuso” del diritto, né una disciplina specifica di questo
fenomeno, perché le pratiche abusive possono essere contrastate efficacemente anche attraverso le disposizioni
previste dai singoli Stati. Alcuni trattati, comunque, contengono una propria clausola generale antielusiva.
È importante specificare che, quando si parla di evasione fiscale, ci si riferisce ai fenomeni di diretta violazione
della disciplina tributaria, mentre quando ci si riferisce all’elusione fiscale/abuso del diritto non si intende una
violazione diretta del precetto normativo, ma soltanto un suo aggiramento (= utilizzo di forme e fattispecie
legittime per scopi illegittimi).
Una particolare forma di abuso è il c.d. rule shopping, che consiste nello sfruttamento, da parte del
contribuente, dei conflitti di qualificazione di un determinato reddito da parte dei due ordinamenti coinvolti, in
modo da poter beneficiare di un arbitraggio fiscale.

Le imposte cui si applica la Convenzione (art.2)


La convenzione si applica alle imposte sui redditi e sul patrimonio e alle imposte ad esse similari degli Stati
contraenti.

Definizioni dei termini usati nella Convenzione (art.3)


L’art. 3 del Modello OCSE fornisce le definizioni generali di alcuni termini impiegati dalla convenzione.

La residenza nell’ambito dei trattati contro le doppie imposizioni (art.4)


Il termine “residente” di uno Stato indica coloro che, in base all’ordinamento di tale Stato, sono assoggettati ad
imposta per via del loro domicilio, residenza, sede di amministrazione o criteri simili.
Nel caso in cui un soggetto sia considerato residente in più Paesi, l’art.4 del Modello OCSE prevede una serie di
criteri (c.d. tie breaker rules) che mirano a dirimere il contrasto delle potestà impositive degli Stati interessati. I
criteri dirimenti devono essere applicati “a cascata”, e sono, in ordine di applicazione, i seguenti:
a) l’abitazione permanente
b) il domicilio
c) la dimora abituale
d) la cittadinanza
se il conflitto non può essere risolto in base a nessuno di questi criteri, i due Stati contraenti devono risolvere la
questione in via amichevole.
Per quanto concerne le società, l’art.4 del Modello OCSE stabilisce che la residenza fiscale si colloca nel luogo in
cui si trova la sede dell’amministrazione.

La stabile organizzazione (art.5)


L'importanza di definire il concetto di "stabile organizzazione" è determinata dall'esigenza di determinare con
esattezza il luogo ove il reddito prodotto debba essere assoggettato a tassazione.
L’art.5 del Modello OCSE fornisce la definizione della stabile organizzazione: essa “designa una sede fissa di
affari in cui l'impresa esercita in tutto o in parte la sua attività”.
L’art. 5 passa quindi a fare una lista positiva di casi in cui si configura una stabile organizzazione (es. sede di
direzione) e una negativa, in cui la stabile organizzazione non sussiste (es. deposito per esposizione di merci).

Accanto ai casi di stabile organizzazione «materiale» (e cioè consistente in una serie di mezzi materiali
organizzati per l’esercizio dell’attività) vi sono anche due ipotesi di stabile organizzazione cd. «personale», in cui,
pur potendo mancare i requisiti di una stabile organizzazione materiale (la «sede fissa d’affari»), ne ricorrono
altri, previsti rispettivamente dai paragrafi 5 e 6 dell’art. 5 del Modello OCSE.
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Il primo caso è quello in cui il soggetto non residente operi nel Paese attraverso un “agente dipendente”, che
conclude abitualmente in nome dell’impresa stessa contratti diversi da quelli di acquisto di beni. Si considera
“dipendente” l’agente che recepisce comunque una remunerazione a prescindere dalla conclusione dei
contratti, e il rischio ricade sull’impresa non residente.
Il secondo caso è quando l’impresa non residente esercita la sua attività nel territorio dello Stato attraverso un
agente indipendente, che però agisce al di fuori della sua ordinaria attività.

L’ultimo paragrafo dell’art.5 del Modello OCSE stabilisce che un’impresa controllata non costituisce di per sé
stabile organizzazione del soggetto controllante, ma possono esserlo soltanto se ricorrono dei requisiti di legge
in tal senso.

In campo IVA, la nozione di stabile organizzazione è più ristretta che nell’ambito delle imposte dirette. Per aversi
una stabile organizzazione ai fini IVA, infatti, occorre che ricorra sia un elemento materiale che un elemento
materiale.
La branch profit tax
Alcuni Paesi, come gli USA, prevedono che il rimpatrio dei profitti di una stabile organizzazione verso il Paese
della casa madre sconti un’imposta (c.d. Branch profit tax). L’imposta, per l’appunto, grava sulla stabile
organizzazione, sicché quando vi è un rimpatrio dei profitti, essa sconta in realtà un prelievo superiore rispetto a
quello che grava sulle società residenti.
In Europa sembrerebbe impossibile imporre una branch profit tax, anche se la questione andrebbe valutata caso
per caso.

La disciplina dei singoli redditi nel Modello OCSE


I redditi immobiliari (art.6)
L’art. 6 stabilisce che i redditi che un residente di uno Stato contraente («Stato di residenza») ritrae da beni
immobili (inclusi i redditi delle attività agricole) situati nell’altro Stato contraente (c.d. «Stato della
fonte») sono imponibili in quest’ultimo Stato.
Pertanto l’art. 6 attribuisce la potestà impositiva non esclusiva allo Stato della fonte, con la conseguenza che i
redditi dei beni immobiliari possono essere assoggettati a tassazione anche nello Stato di residenza del
percettore. L’espressione «immobile» ha il significato attribuito dalla normativa dello Stato contraente in cui i
beni stessi sono situati.

Gli utili di impresa (art.7)


L’art.7 stabilisce il principio per cui i redditi di impresa sono tassabili soltanto nel paese di residenza dell’impresa,
a meno che non siano prodotti nell’altro Stato contraente attraverso una stabile organizzazione. Infatti lo Stato
in cui si trova la stabile organizzazione può assoggettare a tassazione soltanto i redditi che siano attribuibili ad
essa.

I redditi della navigazione marittima e aerea (art.8)


In base all’art. 8 del Modello OCSE, gli utili derivanti dall’esercizio, in traffico internazionale, di navi o di
aeromobili «sono imponibili soltanto» nello Stato contraente in cui è situata la sede della direzione effettiva
dell’impresa. Il Commentario OCSE fornisce un elenco, non tassativo, dei redditi che rientrano in questa
categoria.

Le imprese associate e il transfer pricing (art.9)


Con l’espressione “transfer pricing” vengono individuate particolari operazioni di carattere internazionale che
coinvolgono due o più imprese domiciliate fiscalmente in Paesi diversi, ma facenti capo allo stesso soggetto
economico, poste in essere allo scopo di minimizzare il prelievo fiscale a livello di gruppo.
Nella maggior parte dei casi, ciò viene realizzato facendo confluire gli utili in capo alle società residenti in quei
Paesi in cui vi è un minor prelievo tributario.
Sotto il profilo soggettivo, si richiede che le imprese associate si trovino in un rapporto di “controllo”.
Tali comportamenti, diffusamente utilizzati dalle imprese multinazionali, sono definiti «difensivi», poiché
tendono a concentrare il carico fiscale nello Stato della società holding.
Viceversa, si parla di schemi «offensivi» quando gli stessi redditi vengono fatti confluire in un «paradiso fiscale»
(o tax haven), caratterizzato, per l’appunto, da un’imposizione forfetaria o comunque molto ridotta.
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Nel caso di operazioni tra parti correlate, per verificare che il prezzo pattuito sia in linea con quello di mercato si
possono utilizzare vari sistemi di confronto. In linea teorica, il metodo migliore per eseguire questa verifica è
quello del «confronto dei prezzi». In sostanza, il prezzo praticato nell’operazione infragruppo esaminata viene
confrontato con il prezzo di un’operazione simile, in cui però la controparte non era una società o una stabile
organizzazione del gruppo.
Tuttavia, spesso accade che il confronto con altri prezzi non sia realizzabile (ad es. perché i beni non siano
comparabili): per questa ragione, è ammissibile anche il ricorso ad altri metodi “alternativi” elaborati dall’OCSE.

Ulteriore complessità discende poi dalla stipula di accordi volti alla ripartizione dei costi, c.d. cost sharing
agreement (d’ora in avanti anche CSA), i quali consistono nell’accentramento, presso una unità del gruppo, di
servizi di vario genere, le cui attività ed i cui risultati sono messi a disposizione delle varie sezioni dell’impresa
sulla base di criteri di imputazione determinati.

A fronte delle pratiche di transfer price, il Modello OCSE riconosce alle Amministrazioni finanziarie dei Paesi
interessati il potere di rettificare gli utili dichiarati dalle imprese associate in misura pari alla differenza che
deriva dall’applicazione del valore di mercato alle operazioni intercorse tra tali imprese.
Il potere di riqualificazione dell’amministrazione finanziaria
Un problema di riqualificazione contrattuale si porrà ogni qual volta il contribuente abbia dato un nomen iuris a
un determinato atto o negozio giuridico, non corrispondente agli elementi essenziali astrattamente previsti e al
successivo comportamento tenuto dai contraenti.
L’amministrazione finanziaria può riqualificare il rapporto contrattuale pattuito dalle parti, ma questa
riqualificazione va valutata caso per caso. Questo potere può essere esercitato soltanto in due circostanze
particolari:
1. quando la sostanza dell’operazione differisce dalla sua forma;
2. quando, pur coincidendo forma e sostanza, le clausole contrattuali relative risultano nel complesso
differenti.
In sintesi, quindi, l’Amministrazione finanziaria dovrà valutare, caso per caso, se vi siano valide ragioni per
dubitare della sostanza economica dell’operazione.

I dividendi (art.10)
Nella definizione convenzionale di «dividendi» si annoverano di regola gli utili distribuiti ai soci da parte di
società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata o di altre società di capitali. In particolare:
- gli utili distribuiti su azioni;
- gli altri redditi assoggettati al medesimo regime fiscale degli utili distribuiti su azioni, secondo la
legislazione dello Stato di cui la società distributrice è residente.
La riqualificazione deve essere accertata caso per caso, e di regola al verificarsi di una pluralità di circostanze.

Il Modello OCSE ripartisce la potestà impositiva sui dividendi tra il Paese di residenza del socio e quello della
società che distribuisce i dividendi (Stato della fonte).
L’art. 10 del Modello OCSE prevede che i dividendi siano imponibili nello Stato di residenza della società
distributrice in conformità alla legislazione di tale Stato, ma se l’effettivo beneficiario (cd. «beneficial owner») è
residente nell’altro Stato contraente, l’imposizione non potrà eccedere la misura del 15 per cento.
L’art. 10, secondo paragrafo, del Modello OCSE non specifica le modalità del prelievo impositivo nello Stato della
fonte. Pertanto lo Stato interessato può disciplinare l’imposizione sui dividendi mediante l’applicazione di una
ritenuta alla fonte a titolo di imposta effettuata dalla società erogante i dividendi ovvero mediante
l’autoliquidazione da parte della società percipiente operata in sede di dichiarazione dei redditi.

In conclusione, il «beneficial owner» è colui il quale può decidere senza limitazioni:


1) se il capitale o gli altri beni devono essere impiegati direttamente o concessi in uso a terzi; e/o
2) come disporre dei redditi derivanti da tali impieghi.

La limitazione all’imposizione per lo Stato della fonte non si applica se l’effettivo beneficiario dei dividendi
esercita l’attività nell’altro Stato contraente mediante una stabile organizzazione ivi insediata (ovvero ivi svolge
una libera professione mediante una base fissa) e la partecipazione generatrice dei dividendi si ricollega
effettivamente ad esse. Lo Stato della fonte, pertanto, tasserà i dividendi in capo alla
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stabile organizzazione del soggetto non residente secondo le regole domestiche e senza quindi applicare le
ritenute previste per i soggetti non residenti.

L’ultimo paragrafo dell’art. 10 del Modello OCSE prevede che se una società residente di uno Stato contraente
produce utili o redditi nell’altro Stato contraente, quest’ultimo Stato non può applicare alcuna imposta sui
dividendi distribuiti dalla società, a meno che tali dividendi siano pagati a un residente di detto altro Stato o ad
una stabile organizzazione ivi situata, né prelevare alcuna imposta sugli utili non distribuiti della società, anche
se i dividendi corrisposti o gli utili non distribuiti costituiscono in tutto o in parte
utili o redditi realizzati in detto altro Stato.

Gli interessi (art.11)


L’art. 11, quarto paragrafo, del Modello OCSE designa con l’espressione «interessi» i redditi derivanti da crediti
di qualsiasi natura, garantiti o meno da ipoteca e portanti o meno una clausola di partecipazione agli utili, ed in
particolare redditi dei titoli del debito pubblico, dei buoni e delle obbligazioni, compresi i relativi premi. Il
Commentario precisa che con l’espressione «crediti di qualsiasi natura» si intendono, tra l’altro, mutui, depositi
e conti correnti.
La definizione di “interesse” contenuta all’art.10 è puntuale ed esaustiva, e preclude quindi il ricorso alla nozione
domestica. Tuttavia, il Commentario lascia impregiudicata la facoltà degli Stati di inserire nelle Convenzioni una
disposizione volta ad annoverare nella categoria degli interessi qualsiasi altro provento assimilabile, in base alla
legislazione fiscale dello Stato da cui i redditi provengono, ai redditi di somme
date in prestito.

Analogamente a quanto previsto per i dividendi, l’OCSE ha elaborato una soluzione di compromesso ai fini
dell’imposizione degli interessi a livello internazionale. Anche in questo caso, pertanto, la soluzione è ispirata alla
ripartizione della potestà impositiva tra lo Stato della fonte del reddito e lo Stato di
residenza del beneficiario.

Come detto, gli interessi sono imponibili anche nello Stato dal quale essi provengono e in conformità alla
legislazione di tale Stato, ma se l’«effettivo beneficiario» di tali interessi è residente nell’altro Stato, l’imposta
prelevata non può eccedere il 10 per cento dell’ammontare lordo degli interessi (art.11 Modello OCSE). Come
sempre, gli Stati contraenti possono prevedere un livello di imposizione ulteriormente ridotto, oppure maggiore,
o attribuire la potestà impositiva esclusivamente allo Stato di residenza del beneficiario.
L’art. 11, secondo paragrafo, del Modello OCSE non specifica le modalità del prelievo nello Stato della fonte.
Pertanto, lo Stato contraente può assoggettare a imposizione gli interessi mediante la ritenuta alla fonte a titolo
di imposta ovvero mediante il sistema dell’autoliquidazione.

Al fine di eliminare tutti i rischi di una doppia imposizione, gli Stati contraenti possono aggiungere al paragrafo 2
dell’art. 11 un’ulteriore disposizione volta ad attribuire la potestà impositiva soltanto allo Stato contraente di cui
la persona che riceve gli interessi è residente, a condizione che la persona sia il «beneficiario effettivo» di tali
interessi e che gli stessi siano corrisposti:
a) in connessione con la vendita a credito di un’attrezzatura industriale, commerciale o scientifica;
b) in connessione con la vendita a credito di merci consegnate da un’impresa ad un’altra;
c) in forza di prestiti di qualsiasi natura concessi da un istituto bancario.

Analogamente a quanto si verifica per i dividendi, i benefici convenzionali sono inapplicabili nel caso in cui il
«beneficiario effettivo» degli interessi, residente di uno Stato contraente, eserciti nell’altro Stato contraente,
dal quale provengono gli interessi, sia un’attività commerciale o industriale, sia una professione indipendente
per mezzo di una stabile organizzazione o base fissa ivi situata ed il credito generatore degli interessi si ricolleghi
effettivamente ad essa.

«Gli interessi si considerano provenienti da uno Stato contraente quando il debitore è un residente di tale Stato.
Tuttavia, quando il debitore degli interessi, sia esso residente o non di uno Stato contraente, ha
in uno Stato contraente una stabile organizzazione, per le cui necessità è stato contratto il debito generatore
degli interessi, e che ne sopporta l’onere, si considerano provenienti dallo Stato contraente in cui è situata la
stabile organizzazione ». Dalla disposizione si evince, quale regola generale, che lo Stato di provenienza degli
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interessi è quello di residenza del debitore; tuttavia, se il prestito è stato contratto per le esigenze della stabile
organizzazione, situata in uno dei due Stati contraenti, e l’onere è stato sostenuto alla stessa, si considera che la
fonte dell’interesse sia nello Stato in cui è insediata la stabile organizzazione.
In assenza di una connessione economica tra il debito generatore degli interessi e la stabile organizzazione, il
Paese in cui quest’ultima è situata non può considerarsi Stato della fonte, con la conseguenza che non è
ad esso attribuibile la potestà impositiva sugli interessi corrisposti dalla stabile organizzazione.

Il quinto paragrafo dell’art. 11 del Modello OCSE non offre alcuna soluzione nel caso in cui il debitore ed il
beneficiario siano residenti negli Stati contraenti, ma il prestito sia stato contratto per le necessità di una stabile
organizzazione del debitore situata in uno Stato terzo e gli interessi siano a carico di tale stabile organizzazione.
In tal caso, infatti, gli interessi si considerano originati nello Stato in cui il debitore è residente. Gli interessi sono
imponibili sia nello Stato della fonte sia nello Stato di residenza del beneficiario.
In fattispecie triangolari come quella descritta, il rischio della doppia imposizione può essere evitato,
secondo il Commentario, con una Convenzione bilaterale che contenga una disposizione analoga a quella del
quinto paragrafo tra lo Stato di residenza del debitore e lo Stato terzo in cui è situata la stabile organizzazione
che sostiene gli interessi.

L’ultimo paragrafo dell’art. 11 del Modello OCSE stabilisce che se in conseguenza di particolari relazioni esistenti
tra debitore e beneficiario effettivo o tra ciascuno di essi e terze persone, l’ammontare degli interessi pagati
eccede quello che sarebbe stato convenuto tra debitore e beneficiario effettivo
in assenza di simili relazioni («arm’s length price»), tale eccedenza non può fruire dei benefici convenzionali.
Pertanto, essa è imponibile in conformità alla legislazione di ciascuno Stato contraente.

I canoni (art.12)
L’art. 12, secondo paragrafo, del Modello OCSE designa con l’espressione «canoni» («royalties») i compensi di
qualsiasi natura corrisposti per l’uso o la concessione in uso di diritti di autore su opere letterarie, artistiche o
scientifiche, ivi comprese le pellicole cinematografiche, di brevetti, di marchi di fabbrica o di commercio, di
disegni o modelli, di progetti, di formule o processi segreti. Il Commentario precisa che l’espressione «canoni»
include non solo i pagamenti relativi ad una licenza, ma anche i risarcimenti dovuti per effetto della violazione
dei diritti protetti.
Il know-how
«il know-how è l’insieme non divulgato di informazioni tecniche, siano esse brevettabili o no, che è necessario,
direttamente e alle stesse condizioni, per la riproduzione industriale di un prodotto o di un processo; poiché
esso deriva dall’esperienza, il know-how rappresenta ciò che un produttore non è in grado di conoscere
mediante il mero esame del prodotto e la generica conoscenza del processo tecnico». Pertanto, mediante il
contratto di trasferimento del know-how una parte contraente si impegna ad impartire all’altra parte, affinché
questa le possa sfruttare per conto suo, le specifiche conoscenze ed esperienze che restano segrete al pubblico.
L’art.12 del Commentario specifica una serie di criteri per distinguere i contratti di concessione di know-how da
quelli di prestazione di servizi:
1) i contratti di know-how riguardano informazioni esistenti o che saranno fornite dopo la loro creazione e
prevedono clausole di segretezza delle informazioni medesime;
2) nel caso di contratti di prestazioni di servizi, il fornitore si impegna ad eseguire un’opera che richiede
particolari competenze ed esperienze, ma non è richiesto che tali competenze siano trasferite all’altra parte;
3) nei casi di fornitura di know-how, il fornitore non deve svolgere altre attività se non quella di trasmettere le
informazioni già esistenti al cliente o riprodurre il materiale di supporto già predisposto.
Il franchising
Un esempio importante fornito dal Commentario, che comprende sia il know-how, sia la fornitura di assistenza
tecnica, è il contratto di franchising. Mediante tale contratto, il concedente impartisce le proprie conoscenze ed
esperienze al concessionario, e fornisce assistenza tecnica di varia natura, che può addirittura sfociare in
assistenza finanziaria e forniture di beni. Per i contratti misti, precisa il Commentario, è opportuno ripartire, sulla
base delle informazioni contenute nel contratto o mediante altri criteri ragionevoli, l’intero compenso pattuito
tenuto conto dei servizi resi ed applicare alle quote di compenso così determinate il relativo regime tributario.
Se però una delle prestazioni pattuite costituisce l’oggetto principale del contratto, mentre le altre prestazioni
assumono un carattere ausiliario e marginale, è ammissibile applicare all’intero compenso pattuito il regime
tributario previsto per la prestazione principale.
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Il software
Con riguardo alle problematiche connesse alle forme di diffusione del software rispetto ad altri beni immateriali,
il Commentario si sofferma su tre tipiche modalità di trasferimento dell’utilità in questione.
- La prima modalità consiste nella cessione parziale dei diritti legati allo sfruttamento del software, senza il
trasferimento di tutti i diritti protetti dello stesso. In tal caso, se il cedente è l’autore del software e ha reso
disponibile a terzi tale programma per autorizzare questi ultimi al relativo sfruttamento mediante lo sviluppo e
la distribuzione , il compenso percepito potrà essere considerato come royalty.
Nel caso in cui la cessione del software sia finalizzata all’uso personale, invece, il corrispettivo conseguito è
qualificabile come utile di impresa.
- La seconda modalità consiste nella cessione di tutti i diritti connessi al software, con la conseguenza che
oggetto del trasferimento è il diritto di proprietà del programma medesimo e quindi il corrispettivo ricade nella
disciplina dell’utile di impresa di cui all’art. 7, oppure nell’art. 13 (capital gain) del Modello OCSE, a seconda
dell’attività commerciale esercitata dal cedente.
Problematico è il caso in cui oggetto del trasferimento sia soltanto una parte dei diritti relativi, ad esempio,
all’uso esclusivo, per un periodo di tempo limitato o in una determinata area geografica. Sul punto, il
commentario suggerisce di esaminare i contratti caso per caso.
- La terza modalità consiste nella cessione del software insieme ad altri beni o servizi, come ad esempio un
computer. In questi casi, occorre esaminare le clausole contrattuali, per stabilire se il corrispettivo pattuito può
essere ripartito in redditi di diversa natura.
La potestà impositiva esclusiva dello Stato di residenza del beneficiario effettivo
I canoni provenienti da uno Stato contraente sono imponibili soltanto nello Stato di residenza del beneficiario
effettivo. Autorevole dottrina consiglia di adottare i criteri contenuti nell’art.11 per stabilire in quale Stato
debbano considerarsi prodotti i canoni.
La forza attrattiva della stabile organizzazione e l’effettiva connessione
L’art. 12, terzo paragrafo, del Modello OCSE prevede che il beneficio convenzionale è inapplicabile se il
beneficiario effettivo dei canoni, residente di uno Stato contraente, esercita, nell’altro Stato contraente, dal
quale provengono i canoni, un’attività commerciale o una professione indipendente per mezzo di una stabile
organizzazione ivi situata, ed i diritti o i beni generatori dei canoni si ricollegano effettivamente ad esse.
Il criterio del valore normale
Se in conseguenza di particolari relazioni esistenti tra debitore e beneficiario effettivo o tra ciascuno di essi e
terze persone, l’ammontare dei canoni eccede quello che sarebbe stato convenuto tra debitore e beneficiario
effettivo in assenza di simili relazioni, tale eccedenza non può fruire dei benefici convenzionali. L’eccedenza dei
pagamenti rispetto al valore di mercato del canone è pertanto imponibile in conformità
alla legislazione di ciascuno Stato contraente, tenuto conto delle altre disposizioni convenzionali.
Tale disposizione è applicabile, ad esempio, quando i canoni sono pagati ad una società che controlla
direttamente o indirettamente il licenziatario o è controllata dallo stesso o è parte del medesimo gruppo
societario.

Gli utili di capitale (art.18)


L’imposizione delle plusvalenze varia considerevolmente da Paese a Paese. Il Modello OCSE si limita solo a
ripartire la pretesa impositiva tra i due Stati contraenti, senza modificare le relative legislazioni interne né per
quanto riguarda il presupposto né per quanto concerne le modalità impositive. Ciascuno Stato contraente potrà,
nella misura in cui la Convenzione lo consente, applicare la sua legge interna in relazione alle diverse forme di
imposizione disciplinate.
L’imposizione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di:
a) Beni immobili
L’art. 13, primo paragrafo, del Modello OCSE prevede che gli utili che un residente di uno Stato contraente ritrae
dall’alienazione di beni immobili siano assoggettati ad imposizione nello Stato in cui sono situati i beni medesimi.
A tal riguardo, il Commentario al Modello OCSE precisa che la disposizione si applica anche alla proprietà
immobiliare facente parte di un’impresa adibita all’esercizio di un’attività professionale. Il Commentario rileva
che alcune legislazioni fiscali equiparano la cessione totale o parziale delle partecipazioni di una società, il cui
oggetto principale consiste nella detenzione e gestione di un patrimonio immobiliare, alla cessione di tale
patrimonio. Tuttavia, il Modello OCSE non consente di per sé tale equiparazione, con la conseguenza che gli Stati
contraenti devono inserire una disposizione speciale nelle loro Convenzioni bilaterali, se intendono confermare
espressamente che la cessione della partecipazione sia equiparata alla cessione del patrimonio immobiliare.
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b) Beni strumentali appartenenti a una stabile organizzazione


L’art. 13, secondo paragrafo, del Modello OCSE dispone che gli utili derivanti dall’alienazione di beni mobili
facenti parte dell’attivo di una stabile organizzazione che un’impresa di uno Stato contraente ha nell’altro Stato
contraente, compresi gli utili derivanti dall’alienazione di detta stabile organizzazione (da sola o con l’intera
impresa), sono imponibili in questo altro Stato. Nell’art. 13 del Modello OCSE non è definita l’espressione «beni
mobili » che si può tuttavia desumere a contrario dalla «proprietà immobiliare» disciplinata nel primo paragrafo
dello stesso articolo. Secondo il Commentario tra i «beni mobili» devono includersi anche i beni immateriali,
quali, ad esempio, l’avviamento, le licenze ed altri diritti simili. Il Commentario chiarisce inoltre che l’art. 13 del
Modello OCSE si applica non solo quando sono ceduti i beni mobili appartenenti alla stabile organizzazione, ma
anche quando è alienata l’intera stabile organizzazione o l’impresa che la possiede.
c) Beni mobili registrati
L’art. 13, terzo paragrafo, del Modello OCSE dispone che gli utili derivanti dall’alienazione di navi o di aeromobili
utilizzati in traffico internazionale, nonché di beni mobili destinati ad essere utilizzati in tali navi o aeromobili,
sono imponibili soltanto nello Stato contraente in cui è situata la sede della direzione effettiva dell’impresa.
d) Altri beni
L’art. 13, quinto paragrafo, del Modello OCSE prevede che le plusvalenze derivanti dall’alienazione di ogni altro
bene diverso da quelli sopra richiamati sono imponibili soltanto nello Stato contraente di cui l’alienante è
residente. Ne consegue che gli utili derivanti dall’alienazione di quote di partecipazioni detenute in società di
capitali, obbligazioni e titoli similari non facenti parte dell’attivo di una stabile organizzazione sono imponibili
soltanto nello Stato di residenza del cedente.

I redditi di lavoro autonomo (aart.7, già art.14)


Nella versione del 1992 del Modello OCSE, per quanto concerne i redditi da lavoro autonomo, l’art. 14 attribuiva
la potestà impositiva esclusivamente allo Stato di residenza del soggetto esercente una libera professione o altre
attività di carattere indipendente, a meno che l’esercizio di tale attività non fosse effettuato attraverso una base
fissa che il lavoratore autonomo utilizzasse abitualmente nell’altro Stato contraente. La disposizione forniva una
elencazione esemplificativa dell’elemento della «indipendenza», qualificando come attività di lavoro autonomo
quelle di carattere scientifico, letterario, artistico, educativo o pedagogico. Per effetto delle modifiche apportate
al Modello OCSE nel 2000, però, l’art. 14 è stato soppresso, con la conseguenza che per la disciplina dei redditi
derivanti da professioni indipendenti si rinvia all’articolo 7 del Modello stesso. L’abrogazione dell’art. 14 è
giustificata dal fatto che non esiste alcuna differenza sostanziale tra il concetto di stabile organizzazione e quello
di base fissa, né una diversa modalità di computare il reddito nell’articolo 7 e nell’articolo 14. Nonostante l’art.
14 sia stato espunto dal Modello OCSE, peraltro, tale disposizione è stata comunque inserita anche nelle
convenzioni stipulate dall’Italia successivamente alla modifica del Modello. Come detto, la regola generale della
tassazione nello Stato di residenza ammette un’eccezione nel caso in cui il professionista disponga abitualmente
di una base fissa per l’esercizio delle sue attività nell’altro Stato: in tal caso, infatti, i redditi derivanti dalle
attività del lavoratore autonomo sono imponibili anche nello Stato in cui è situata la base fissa, nella «misura in
cui sono imputabili a detta base fissa».
Per «base fissa» deve intendersi un centro di attività avente carattere fisso e permanente.

La disciplina convenzionale dei redditi di lavoro dipendente (art.15)


In quasi tutti i trattati stipulati dall’Italia, è l’art.15 che si occupa dei casi di doppia imposizione riguardante i
redditi di lavoro dipendente.
In via principale la potestà impositiva spetta al Paese di residenza del lavoratore a meno che l’attività di lavoro
non sia svolta in un Paese diverso. In tal caso la norma attribuisce potestà impositiva anche all’altro Stato (quello
della fonte).
Gli Stati di residenza del lavoratore e di svolgimento dell’attività di lavoro dipendente sono gli estremi per la
scelta della convenzione applicabile al fine dell’eliminazione della doppia imposizione.

I compensi e gettoni di presenza (art.16)


L’art. 16 del Modello OCSE statuisce che i gettoni di presenza e le altre retribuzioni similari che un residente di
uno degli Stati riceve in qualità di membro del consiglio di amministrazione di una società residente nell’altro
Stato sono imponibili in detto altro Stato.

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I redditi degli artisti e sportivi (art.17)


L’articolo 17, comma 1, del Modello OCSE stabilisce che, nonostante quanto disposto dagli articoli 7 e 15, i
redditi che un soggetto residente in uno Stato contraente consegue a seguito di attività artistiche o sportive da
lui stesso realizzate nell’altro Stato contraente, sono soggette a tassazione in detto altro Stato. In tal modo,
artisti e sportivi sono tassati nel Paese ove hanno realizzato la loro prestazione.
Occorre rilevare che il termine inglese «artist» non è definito dal Modello OCSE, di modo che, ai fini
dell’interpretazione dello stesso, si deve far riferimento alla legislazione domestica dello Stato contraente in
base all’art. 3, comma 2, del Modello OCSE. In realtà, l’articolo de quo fornisce una elencazione
di soggetti ai quali la disposizione deve essere applicata, anche se il Commentario OCSE rende esplicita la
circostanza che le esemplificazioni fornite nell’articolo non hanno carattere esaustivo.

Gli altri redditi (art.21)


L’art. 21 del Modello OCSE prevede due modalità di ripartizione del potere
impositivo:
a) per i redditi conseguiti da un residente di uno Stato contraente che non ha nell’altro Stato contraente una
stabile organizzazione o base fissa, è prevista la potestà esclusiva del Paese di residenza, a prescindere dal luogo
di produzione di questi redditi;
b) per i redditi conseguiti da un residente di uno Stato contraente che ha nell’altro Stato contraente una stabile
organizzazione (o base fissa), attraverso la quale esercita un’attività d’impresa (o di lavoro autonomo) ed alla
quale siano effettivamente connessi i beni o i diritti generatori di tali redditi, è previsto
il prelievo nello Stato ove è situata la stabile organizzazione (o base fissa).

L’eliminazione della doppia imposizione internazionale


L’adozione di un sistema di tassazione dei redditi esteri piuttosto che di un altro comporta ovviamente diverse
conseguenze rispetto agli investitori. In teoria, un sistema fiscale ottimale non dovrebbe impattare sulle scelte
economiche dei contribuenti, nemmeno in ambito internazionale. Come si comprende, però, il fisco di ogni
Paese non è mai perfettamente neutrale, vuoi per difficoltà tecniche nell’impianto di un sistema effettivamente
tale, vuoi perché ragioni di politica fiscale inducono il legislatore ad incentivare questa piuttosto che quella
attività. Generalmente si parla di tre diversi principi di neutralità:
- Capital export neutrality: il credito d’imposta – tassazione su base mondiale e principi di eguaglianza e
capacità contributiva contro le ragioni del mercato comune
Il principio di capital export neutrality (CEN) è attuato attraverso il meccanismo del credito per le imposte assolte
all’estero dal contribuente residente, che è tassato su tutti i redditi ovunque prodotti (worldwide principle).
Secondo il principio di CEN, tutti i redditi ovunque prodotti dal contribuente residente devono subire la stessa
aliquota di prelievo. Il che, evidentemente, non accade perfettamente nemmeno nei Paesi che, come l’Italia,
attuano il meccanismo del credito d’imposta, in quanto tale meccanismo soffre comunque alcune limitazioni.
Il mancato accreditamento di un’imposta versata all’estero comporta pertanto una doppia imposizione che
restringe la libera circolazione dei capitali.
Di regola la detrazione delle imposte assolte all’estero non può superare l’ammontare dell’imposta che sarebbe
dovuta se tutti i redditi fossero prodotti nello Stato di residenza dei soggetti interessati.
Si può dire che mentre con il metodo dell’esenzione si divide tra i due Stati interessati la materia imponibile, con
il metodo del credito si divide l’imposta. Il metodo del credito d’imposta è di origine anglosassone ed è
largamente diffuso negli ordinamenti che adottano un sistema di imposizione
personale sui redditi.
- Capital import neutrality: esenzione dei redditi esteri – tassazione su base territoriale
Al contrario del principio di CEN, l’esenzione dei redditi esteri mira a consentire ai soggetti residenti di
competere sui mercati esteri a parità di condizioni con i soggetti ivi operanti. L’applicazione del metodo
dell’esenzione, ovviamente, comporta una rinuncia al principio di eguaglianza e di capacità contributiva.
Tradizionalmente, pertanto, il metodo dell’esenzione è adottato negli Stati dotati di un sistema di tassazione
reale.
- National neutrality: deduzione delle imposte estere
Sebbene scarsamente impiegato, occorre infine menzionare anche il principio di national neutrality. Tale
principio si accompagna alla deducibilità delle imposte assolte all’estero dalla base imponibile. Con ogni
evidenza, questo sistema limita la convenienza degli investimenti all’estero rispetto
a quelli domestici. È un metodo che, non eliminando la doppia imposizione, ha un’efficacia molto limitata.
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Il divieto di discriminazione (art.24)


Il modello OCSE vieta ogni tipo di discriminazione fiscale fondata sulla nazionalità del contribuente, a
prescindere quindi dalle residenza in uno degli Stati contraenti. Al contrario, la disposizione non vieta di
garantire agli stranieri un trattamento migliore, con il fine ad esempio di attrarne le attività economiche.
La stabile organizzazione non può essere tassata in maniera più gravosa rispetto alle imprese residenti nel Paese
in cui essa è situata.
Sempre secondo il principio di non discriminazione, il soggetto non residente con s.o. nel territorio dell’altro
Stato non può essere assoggettato ad un’aliquota di prelievo maggiorata rispetto a quella applicata alle società
residenti. I redditi del non residente effettivamente connessi alla stabile organizzazione dovranno esser tassati
allo stesso modo di quelli delle imprese residenti.
L’art. 24 vieta inoltre di trattare una società residente in uno dei due Stati in maniera deteriore soltanto perché il
suo capitale è detenuto da soggetti che risiedono nell’altro Stato.

Le procedure amichevoli (art.25)


Le procedure amichevoli nel Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni
Nel diritto internazionale, gli strumenti utilizzabili per la risoluzione delle controversie sono tre: il negoziato tra
gli Stati interessati, il ricorso alle decisioni di Corti internazionali e l’arbitrato internazionale.
Nell’ambito del diritto internazionale tributario, la risoluzione delle controversie di natura fiscale è affidata allo
strumento negoziale, che, nel Modello OCSE, è oggetto dell’art. 25. Questa disposizione disciplina la procedura
amichevole che le competenti autorità fiscali dei Paesi coinvolti adottano per risolvere le controversie sorte
nell’ambito di applicazione delle convenzioni contro la doppia imposizione
sul reddito.
In particolare, il modello OCSE prevede tre distinte forme di procedura amichevole:
1) (art.25 par.1 e 2) -> procedura amichevole in senso stretto, ossia volta a porre rimedio alle situazioni in
cui il contribuente è assoggettato a un’imposizione contrastante con le disposizioni della convenzione ->
ha luogo su impulso del contribuente, che può rivolgersi alle autorità competenti dello Stato in cui
risiede, lasciando impregiudicati i rimedi previsti dalla legislazione interna e dalla legislazione dell’altro
Stato. Dette autorità competenti, solitamente facenti parte dell’Amministrazione Finanziaria di tale
Stato, hanno, a questo punto, l’obbligo di verificare se la richiesta del contribuente è giustificata e, nel
caso affermativo, se è possibile risolverla nel quadro della normativa nazionale. Se ciò, invece, non è
possibile, le autorità competenti interpellate dovranno senz’altro dare inizio alla procedura amichevole
vera e propria, cioè coinvolgendo anche le autorità fiscali dell’altro stato contraente.
2) Procedura amichevole finalizzata alla soluzione di problematiche relative all’interpretazione e
applicazione della convenzione;
3) Procedura amichevole per la risoluzione dei casi di doppia imposizione relativi a ipotesi non previste
dalla convenzione.
La norma in esame non obbliga gli Stati coinvolti a risolvere la controversia, ma soltanto a impegnarsi a tal fine.

Gli Advance Pricing Agreements (APA)


Come di recente è avvenuto in Italia, anche altri Paesi hanno introdotto una serie di norme che permettono al
contribuente di rivolgersi alle autorità fiscali nazionali, per ottenere un concordato preventivo sulle metodologie
di applicazione dei prezzi di trasferimento tra imprese dello stesso gruppo. Nella prassi internazionale, i
concordati preventivi innanzi richiamati sono conosciuti come «advance pricing agreements» (d’ora in poi
«APA»). Essi possono assumere la forma di: ruling unilaterali (unilateral APA), ossia tra contribuente e
amministrazione fiscale di un solo Paese, ovvero di ruling bilaterali (o multilaterali), bilateral (o multilateral) APA,
qualora siano coinvolte le amministrazioni fiscali di due (o più) Stati.
L’obiettivo principale dei ruling è quello di ottenere in anticipo dalle autorità fiscali competenti l’intesa sui
prezzi di trasferimento applicati, per un arco temporale definito, ad una serie di transazioni internazionali.
Conoscendo in anticipo la posizione dell’amministrazione finanziaria, il contribuente eviterà, in molti casi, i costi
e i rischi del contenzioso potendo anche, sulla base del ruling, decidere di non dare corso all’operazione.
La posizione dell’OCSE sulle procedure amichevoli per la soluzione delle controversie in materia di fiscalità
internazionale
la lettera dell’articolo 25 del Modello OCSE stabilisce che gli Stati interessati cercheranno di eliminare la doppia
imposizione, senza però che vi siano costretti da alcuna disposizione: fino alla modifica del Modello OCSE 2008,
gli unici rimedi di carattere giuridico e cogenti sono quelli previsti dal diritto interno, per cui il contribuente
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interessato ha solitamente la possibilità di impugnare l’atto impositivo che ritenga in contrasto con disposizioni
domestiche o del Trattato applicabile di fronte ad un organo giurisdizionale.
L’OCSE ha introdotto nell’art.25 del Modello una clausola arbitrale che consente la soluzione delle controversie
irrisolte dopo due anni dall’inizio della procedura amichevole. Tale procedura arbitrale può essere avviata
soltanto dal contribuente.
Il contribuente non potrà avviare la fase arbitrale della procedura nel caso in cui gli Stati coinvolti trovino una
soluzione concordata. Nella normalità dei casi, pertanto, il modello di procedura amichevole ideato dall’OCSE
necessita di un accordo tra gli Stati contraenti e la procedura arbitrale è solo un’eventualità
riservata ai casi in cui tali Stati non riescano a trovare un accordo su specifici aspetti della controversia.
La soluzione della controversia quindi è sempre rimessa all’eventuale accordo delle parti ed il contribuente
rimane libero di accettare o rifiutare la soluzione proposta dagli Stati interessati.

Lo scambio di informazioni (art.26)


La collaborazione tra due o più Stati per prevenire e reprimere l’evasione fiscale può assumere la forma dello
scambio di informazioni o quella delle verifiche simultanee. Gli scambi di informazioni previsti da Accordi
internazionali possono avvenire automaticamente, spontaneamente o su richiesta.
L’ipotesi più ricorrente è quella in cui lo scambio di informazioni avviene a seguito di una specifica richiesta da
parte di uno Stato all’altro su casi singoli ben individuati.
Una richiesta di provvedimenti accertativi o di indagini specifiche risulta non vincolante per lo Stato destinatario
di tale richiesta non solo quando ciò integri la violazione di norme di legge o della prassi amministrativa di tale
Paese, ma anche quando gli atti oggetto dell’istanza siano contrari alle leggi ed alla prassi amministrativa dello
stesso Stato richiedente.
Non è riconosciuto l’obbligo di fornire informazioni che potrebbero rivelare segreti commerciali, di affari,
industriali, professionali o processi commerciali, oppure informazioni la cui comunicazione sarebbe contraria
all’ordine pubblico.

L’assistenza nella riscossione (art.27)


La riscossione dei crediti fiscali da parte di uno Stato estero
Difficoltà sorgono quando uno Stato debba agire all’estero per ottenere il soddisfacimento di propri crediti
fiscali, con conseguenti evasioni.
È pacifico che uno Stato non può esercitare i suoi poteri di sovranità all’estero e che quindi non può pretendere
di far valere direttamente i crediti fiscali al di fuori della sua giurisdizione. Il soddisfacimento di tali crediti può
ottenersi solo con la cooperazione dello Stato nel cui territorio deve avvenire l’esecuzione, il che potrebbe
attuarsi con il ricorso all’Autorità giudiziaria di tale Stato.
Tuttavia, sono ormai maturi i tempi, specialmente dopo il processo di globalizzazione, perché le Autorità
giudiziarie riconoscano agli Stati stranieri il diritto di far valere il proprio credito fiscale accertato attraverso un
«giusto processo».
Ed infatti, al fine di superare le difficoltà che si frappongono al soddisfacimento dei crediti tributari all’estero,
sono state stipulate alcune convenzioni di mutua assistenza fra vari Stati.
Il Modello OCSE dedica alla questione l’art. 27. In base a tale disposizione gli Stati contraenti si obbligano a
fornirsi reciprocamente assistenza nella riscossione dei tributi di ogni genere e specie.
È previsto che lo Stato che riceva una richiesta di assistenza debba procedere con la riscossione sui beni del
contribuente secondo le sue regole interne. Allo stesso modo, anche la possibilità di applicare misure cautelari in
pendenza del giudizio è ammessa laddove richiesta da uno dei due Stati contraenti, ma sarà disciplinata dalle
disposizioni dello Stato che riceve la richiesta.
Lo Stato che riceve la richiesta può rifiutarsi di collaborare laddove la soddisfazione della richiesta
comporterebbe una violazione delle sue leggi o prassi amministrative o laddove il beneficio per lo Stato
richiedente sarebbe inferiore rispetto al sacrifico amministrativo richiesto allo Stato che deve
eseguire la riscossione. Parimenti, lo Stato che riceve la richiesta non è tenuto a soddisfarla se ciò comporta una
violazione di disposizioni di ordine pubblico, oppure se lo Stato richiedente non ha preventivamente esperito
invano tutte le procedure interne per riscuotere il suo credito fiscale. Analoghi strumenti di assistenza nella
riscossione sono, inoltre, previsti in sede comunitaria.

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