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INTRODUZIONE
Nel secolo scorso si è creata una sostanziale uniformità del diritto tributario internazionale, e ciò è avvenuto per
diversi fattori:
- evoluzione del commercio internazionale (basti pensare alla “globalizzazione”);
- gli organi sovranazionali sono stati sempre più rivolti a ridurre le barriere doganali e a eliminare le doppie
imposizioni nelle operazioni transfrontaliere;
- grazie agli incontri a livello mondiale o continentale, che hanno dato origine alla dottrina più recente, e
hanno spesso condotto a un’uniformità di terminologia e di definizione dei concetti.
Il grande ostacolo alla evoluzione del diritto tributario internazionale è consistito essenzialmente nella resistenza
degli Stati, che consideravano (e tale considerazione, di origine ottocentesca, a tutt’oggi non è stata ancora del
tutto smantellata) l’imposizione fiscale un attributo essenziale della loro sovranità.
Ancora oggi sono presenti i segni di tale retaggio storico: un esempio è dato dal fatto che il Consiglio UE in
materia fiscale può deliberare soltanto con voto unanime, anziché a maggioranza come può fare in tutte le altre
materie.
È comunque da precisare che tale atteggiamento anacronistico è stato in parte superato grazie agli interventi e
alle sollecitazioni di organismi sopranazionali.
Fino alla conclusione della Prima Guerra Mondiale, gli accordi internazionali erano incentrati sui dazi doganali,
spesso gestiti in funzione protezionista. E le disposizioni sui dazi erano generalmente contenute nei trattati
commerciali, volti a regolare, impedire o limitare lo scambio delle merci e a imporvi dei tributi
(i dazi doganali in entrata o in uscita).
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale i rapporti economici tra le Nazioni si intensificarono a seguito della
collocazione di attività all’estero: l’effetto fu che i residenti in uno Stato divenivano tassabili per il reddito
prodotto sia nel territorio che all’estero, dando luogo a plurime imposizioni, che avrebbero frenato le operazioni
transnazionali. Si appalesò, così, la necessità di disciplinare i rapporti tra gli Stati nella sfera dell’imposizione, al
fine di evitare distorsioni dei rapporti economici.
A cominciare dal 1920 fu la Società delle Nazioni a preoccuparsi di promuovere convenzioni contro le doppie
imposizioni. Nella rubrica di alcune convenzioni era solitamente prevista come scopo delle stesse anche la lotta
alla frode fiscale, ma praticamente senza alcun riflesso nella normativa.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, sempre per stimolare i rapporti economici, furono intensificate le
convenzioni contro le doppie imposizioni, con la partecipazione anche dei Paesi in via di sviluppo, con particolare
tutela, per queste, da parte delle Nazioni Unite.
L’impulso fu dato particolarmente dall’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OECE, poi
diventato OCSE), che fissò un modello standardizzato di convenzione fiscale (c.d. Modello OCSE); in seguito, col
Trattato di Roma (1957), fu previsto che gli Stati membri avrebbero avviato negoziati intesi a garantire
l’eliminazione della doppia imposizione fiscale all’interno della Comunità.
Tuttavia, a poco a poco, si fece avanti la constatazione che a volte le convenzioni venissero utilizzate in maniera
impropria, ossia come strumento di elusione fiscale, così da creare vantaggi soprattutto per le multinazionali,
distorsivi della concorrenza. Al fine di evitare tali vantaggi, sono state previste clausole che non consentono
l’esclusione della tassazione in ambedue gli Stati contraenti (es. Taxation Limited Territorially). Anche nella
normativa dell’UE si riscontrano disposizioni miranti a evitare operazioni elusive.
L’art.26 del Modello OCSE disciplina lo scambio di informazioni tra le amministrazioni fiscali degli Stati
contraenti: lo Stato di un cittadino contribuente potrà chiedere all’autorità fiscale di un altro Stato se questo
cittadino non possegga anche in questo Stato beni patrimoniali, magari non menzionati nella dichiarazione dei
redditi.
Negli ultimi vent’anni, l’impetuoso processo di globalizzazione dei mercati e di internazionalizzazione dei sistemi
economico-produttivi ha generato nuove sfide e aperto inedite prospettive. La forza lavoro, i capitali e le
materie prime spesso derivano da altri mercati, e anche ad altri mercati sono destinati i prodotti. La
globalizzazione degli investimenti ha reso le economie e la politica maggiormente interconnesse.
Da più parti si auspica l’introduzione di regole fiscali sovranazionali per regolare la globalizzazione, perché essa
crea preoccupazioni per la riduzione del gettito, principalmente per effetto:
1) della difficoltà di accertare, e quindi gravare di imposte, redditi provenienti da capitali estremamente
volatili;
2) della concorrenza delle legislazioni di favore atte ad attrarre la collocazione delle attività produttive;
3) dell’utilizzazione di mezzi di comunicazione come Internet che hanno aperto l’off-shore e-commerce,
che può sfuggire ai controlli del fisco e quindi alla tassazione, perché tiene celati i soggetti e la
localizzazione delle operazioni.
L’UE ha dato un grande impulso alle iniziative atte a limitare le “pratiche fiscali dannose” per una corretta
concorrenza in un’economia globalizzata. Alcuni Stati europei avevano introdotto negli ultimi anni agevolazioni
fiscali per facilitare gli investimenti stranieri: fu così costituito un “Gruppo per la politica fiscale”, composto dai
rappresentanti dei Ministri per le finanze dei singoli Stati membri, e fu approvato un pacchetto di misure volte a
contrastare la concorrenza fiscale dannosa, redigendo anche un “Codice di condotta” (1997). Tale codice di
condotta, pur non essendo giuridicamente vincolante, ha comunque prodotto rilevanti effetti.
In parallelo agli interventi dell’UE ha proceduto anche l’OCSE, che, in data 9 aprile 1998, ha pubblicato il
rapporto “Harmful Tax Competition”, dove si distingue tra “paradisi fiscali” e “regimi fiscali preferenziali
dannosi” e vengono individuati i fattori in base ai quali è possibile identificarli. Nel ’99 venne quindi pubblicata
dall’OCSE una lista di Stati da qualificare tax-havens, che nel corso degli anni ha subito una riduzione.
Anche l’Italia ha adottato una black list dei paradisi fiscali, emanando decreto ministeriale apposito.
CAPITOLO I – LE FONTI
Le fonti
Nell’ambito dell’imposizione sui redditi, la classificazione delle fonti normative si fonda su una bipartizione:
1. norme interne a un ordinamento giuridico che disciplinano le fattispecie impositive caratterizzate da
elementi di estraneità all’ordinamento medesimo (c.d. “diritto tributario internazionale”);
2. le norme contenute negli accordi internazionali che riguardano l’esercizio dell’attività degli stati in
materia tributaria nell’ambito dei singoli ordinamenti (c.d. “diritto internazionale tributario”).
Oltre a queste fonti, hanno assunto sempre maggior rilevanza le disposizioni e provvedimenti di natura tributaria
emanati dall’UE in base al relativo Trattato e le decisioni della Corte di Giustizia.
Ministro degli esteri, con la quale si approva il testo del trattato); la stipulazione, invece, consiste nella reciproca
notificazione da parte degli Stati contraenti dell’avvenuta ratifica. Quest’ultima, quindi, consiste nell’emissione
delle dichiarazioni negoziali con cui le parti manifestano la volontà di vincolarsi pienamente.
l’interpretazione evolutiva, cioè l’adeguamento della formula legislativa tenendo conto del tempo trascorso e
dell’evoluzione dell’ambiente socio-economico.
È inoltre possibile fare ricorso a mezzi supplementari di interpretazione, ivi inclusi i lavori preparatori del trattato
e le circostanze attinenti alla sua conclusione. Il giudice nazionale non può, inoltre, limitarsi a prendere in esame
soltanto il testo redatto nella sua lingua nazionale, ma deve tenere in considerazione anche quello redatto nella
lingua dell’altro Stato. Se comparando i due testi risulta una differenza ineliminabile, si adotterà il significato
che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, consente di conciliare nel modo migliore i diversi testi.
Se ciò non è praticabile, la convenzione dovrà ritenersi lacunosa per contrasto tra i diversi significati, con la
conseguenza che la fattispecie concreta non sarà regolata da alcuna disciplina.
Esistono, inoltre, i criteri di interpretazione contenuti nel Modello OCSE di convenzione contro le doppie
imposizioni, che esercitano un’importante influenza, nonostante la loro natura di soft law.
Problemi particolari sorgono quando una convenzione utilizza concetti o istituti che appartengono al tempo
stesso al diritto materiale degli Stati contraenti (c.d. problemi di “qualificazione”). Il problema di qualificazione
può essere risolto dalla medesima convenzione mediante esplicita ed autonoma definizione oppure mediante
rinvio al diritto interno di uno degli Stati contraenti. Nel caso in cui la convenzione non preveda una definizione
espressa, la dottrina adotta le seguenti tre soluzioni:
1. ciascuno Stato che applica la convenzione qualifica le espressioni convenzionali secondo le regole del
proprio diritto interno: qualificazione secondo la lex fori;
2. entrambi gli Stati qualificano le espressioni convenzionali di comune accordo in base al diritto dello Stato
in cui il reddito è prodotto: qualificazione secondo lo Stato della fonte;
3. entrambi gli Stati tentano di individuare una qualificazione univoca in base al significato complessivo
della convenzione: qualificazione autonoma.
In conclusione, secondo la dottrina, sarà ineliminabile il metodo della qualificazione secondo la lex fori fino a
quando non si affermeranno criteri interpretativi volti a privilegiare la collaborazione tra gli Stati contraenti e
non si manifesterà la tendenza nelle convenzioni a definire i termini usati.
C’è stata una scarsa attenzione, da parte dei redattori del trattato, alle imposte dirette -> le direttive 434 e 435
del 1990 costituiscono l’inizio di un più generale processo di armonizzazione della fiscalità diretta che dovrà
necessariamente completarsi con l’avvicinamento delle imposte sui redditi negli Stati membri.
Il ruolo della Corte di Giustizia e il rapporto tra le convenzioni contro le doppie imposizioni e il diritto
dell’Unione europea
Le disposizioni degli Stati membri in materia di imposte dirette non possono comportare limitazioni alle libertà
fondamentali garantite dal trattato ai cittadini e alle imprese dell’UE. Gli Stati membri non possono addurre le
necessità di gettito erariale come giustificazione per una restrizione delle libertà fondamentali del Trattato.
Anche in presenza di una giustificazione per la limitazione nel godimento delle libertà fondamentali, la disciplina
nazionale deve essere proporzionata, riducendo quindi al minimo gli svantaggi imposti ai cittadini UE in
connessione all’introduzione della misura “giustificata”.
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La supremazia del diritto comunitario su quello nazionale in Italia è stata affermata dalla Corte costituzionale
nella sentenza Granital del 1980, fondata sull’art.11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della
sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la
pace a la giustizia tra le Nazioni.
Il giudice nazionale ha la facoltà di adire la Corte di giustizia qualora ritenga che per emanare la sentenza sia
necessaria la preventiva risoluzione di una questione interpretativa su una disposizione comunitaria. Ne ha,
invece, l’obbligo, quando contro la decisione del giudice stesso non sia proponibile un ricorso giurisdizionale di
diritto interno.
Nel fondamentale caso Schumacker la Corte di Giustizia ribadì che la competenza degli Stati membri in materia
di imposte dirette non poteva prescindere dal diritto comunitario.
In via di principio, in materia di imposte dirette, la Corte riconosce che gli Stati possono riservare ai non residenti
un trattamento diverso rispetto a quello garantito ai loro residenti. Questo principio trova però un limite
laddove la situazione del non residente sia equiparabile a quella dei residenti: in questo caso non si potrà
legittimamente sottoporre il non residente a un prelievo diverso e discriminatorio rispetto ai contribuenti
residenti.
pertanto, indipendentemente dalla loro collocazione geografica, si devono considerare al di fuori del territorio
italiano e non soggetti ad imposizione.
3. contrasto tra due ordinamenti che adottano un criterio di collegamento oggettivo (esempio luogo di
produzione del reddito), e che, in base alla propria legislazione interna, considerano entrambi il reddito
prodotto dal soggetto come prodotto nel proprio territorio.
Esistono inoltre casi in cui la doppia imposizione è da ricondursi semplicemente alla diversa interpretazione che i
due Stati attribuiscono allo stesso concetto giuridico che costituisce criterio di collegamento nei due differenti
ordinamenti (c.d. conflitto di qualificazione).
Il treaty shopping
L’abuso dei trattati contro la doppia imposizione può assumere forme diverse. Essenzialmente si distingue tra
violazione diretta e violazione indiretta delle norme del trattato. Nella prima ipotesi, sono violate direttamente
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le norme che prevedono la diminuzione dell’onere fiscale. Nella seconda ipotesi, si configura il c.d. treaty
shopping. Per «treaty shopping» si intende una tecnica che consiste nell’utilizzo delle Convenzioni contro le
doppie imposizioni al fine di trarne vantaggi sotto il profilo fiscale.
Più in dettaglio, il treaty shopping nasce dall’esigenza di contenere l’onere fiscale attraverso l’accorto utilizzo
delle differenze esistenti tra gli Stati nella ripartizione delle pretese impositive mediante trattati contro le doppie
imposizioni, ovvero, nel caso di mancanza di accordi bilaterali tra il Paese dell’investitore e quello
dell’investimento, attraverso la scelta del trattato più conveniente, al fine di contenere, a livelli
(soggettivamente) considerati sostenibili, il carico tributario che grava sui flussi reddituali transnazionali.
Accanto ai casi di stabile organizzazione «materiale» (e cioè consistente in una serie di mezzi materiali
organizzati per l’esercizio dell’attività) vi sono anche due ipotesi di stabile organizzazione cd. «personale», in cui,
pur potendo mancare i requisiti di una stabile organizzazione materiale (la «sede fissa d’affari»), ne ricorrono
altri, previsti rispettivamente dai paragrafi 5 e 6 dell’art. 5 del Modello OCSE.
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Il primo caso è quello in cui il soggetto non residente operi nel Paese attraverso un “agente dipendente”, che
conclude abitualmente in nome dell’impresa stessa contratti diversi da quelli di acquisto di beni. Si considera
“dipendente” l’agente che recepisce comunque una remunerazione a prescindere dalla conclusione dei
contratti, e il rischio ricade sull’impresa non residente.
Il secondo caso è quando l’impresa non residente esercita la sua attività nel territorio dello Stato attraverso un
agente indipendente, che però agisce al di fuori della sua ordinaria attività.
L’ultimo paragrafo dell’art.5 del Modello OCSE stabilisce che un’impresa controllata non costituisce di per sé
stabile organizzazione del soggetto controllante, ma possono esserlo soltanto se ricorrono dei requisiti di legge
in tal senso.
In campo IVA, la nozione di stabile organizzazione è più ristretta che nell’ambito delle imposte dirette. Per aversi
una stabile organizzazione ai fini IVA, infatti, occorre che ricorra sia un elemento materiale che un elemento
materiale.
La branch profit tax
Alcuni Paesi, come gli USA, prevedono che il rimpatrio dei profitti di una stabile organizzazione verso il Paese
della casa madre sconti un’imposta (c.d. Branch profit tax). L’imposta, per l’appunto, grava sulla stabile
organizzazione, sicché quando vi è un rimpatrio dei profitti, essa sconta in realtà un prelievo superiore rispetto a
quello che grava sulle società residenti.
In Europa sembrerebbe impossibile imporre una branch profit tax, anche se la questione andrebbe valutata caso
per caso.
Nel caso di operazioni tra parti correlate, per verificare che il prezzo pattuito sia in linea con quello di mercato si
possono utilizzare vari sistemi di confronto. In linea teorica, il metodo migliore per eseguire questa verifica è
quello del «confronto dei prezzi». In sostanza, il prezzo praticato nell’operazione infragruppo esaminata viene
confrontato con il prezzo di un’operazione simile, in cui però la controparte non era una società o una stabile
organizzazione del gruppo.
Tuttavia, spesso accade che il confronto con altri prezzi non sia realizzabile (ad es. perché i beni non siano
comparabili): per questa ragione, è ammissibile anche il ricorso ad altri metodi “alternativi” elaborati dall’OCSE.
Ulteriore complessità discende poi dalla stipula di accordi volti alla ripartizione dei costi, c.d. cost sharing
agreement (d’ora in avanti anche CSA), i quali consistono nell’accentramento, presso una unità del gruppo, di
servizi di vario genere, le cui attività ed i cui risultati sono messi a disposizione delle varie sezioni dell’impresa
sulla base di criteri di imputazione determinati.
A fronte delle pratiche di transfer price, il Modello OCSE riconosce alle Amministrazioni finanziarie dei Paesi
interessati il potere di rettificare gli utili dichiarati dalle imprese associate in misura pari alla differenza che
deriva dall’applicazione del valore di mercato alle operazioni intercorse tra tali imprese.
Il potere di riqualificazione dell’amministrazione finanziaria
Un problema di riqualificazione contrattuale si porrà ogni qual volta il contribuente abbia dato un nomen iuris a
un determinato atto o negozio giuridico, non corrispondente agli elementi essenziali astrattamente previsti e al
successivo comportamento tenuto dai contraenti.
L’amministrazione finanziaria può riqualificare il rapporto contrattuale pattuito dalle parti, ma questa
riqualificazione va valutata caso per caso. Questo potere può essere esercitato soltanto in due circostanze
particolari:
1. quando la sostanza dell’operazione differisce dalla sua forma;
2. quando, pur coincidendo forma e sostanza, le clausole contrattuali relative risultano nel complesso
differenti.
In sintesi, quindi, l’Amministrazione finanziaria dovrà valutare, caso per caso, se vi siano valide ragioni per
dubitare della sostanza economica dell’operazione.
I dividendi (art.10)
Nella definizione convenzionale di «dividendi» si annoverano di regola gli utili distribuiti ai soci da parte di
società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata o di altre società di capitali. In particolare:
- gli utili distribuiti su azioni;
- gli altri redditi assoggettati al medesimo regime fiscale degli utili distribuiti su azioni, secondo la
legislazione dello Stato di cui la società distributrice è residente.
La riqualificazione deve essere accertata caso per caso, e di regola al verificarsi di una pluralità di circostanze.
Il Modello OCSE ripartisce la potestà impositiva sui dividendi tra il Paese di residenza del socio e quello della
società che distribuisce i dividendi (Stato della fonte).
L’art. 10 del Modello OCSE prevede che i dividendi siano imponibili nello Stato di residenza della società
distributrice in conformità alla legislazione di tale Stato, ma se l’effettivo beneficiario (cd. «beneficial owner») è
residente nell’altro Stato contraente, l’imposizione non potrà eccedere la misura del 15 per cento.
L’art. 10, secondo paragrafo, del Modello OCSE non specifica le modalità del prelievo impositivo nello Stato della
fonte. Pertanto lo Stato interessato può disciplinare l’imposizione sui dividendi mediante l’applicazione di una
ritenuta alla fonte a titolo di imposta effettuata dalla società erogante i dividendi ovvero mediante
l’autoliquidazione da parte della società percipiente operata in sede di dichiarazione dei redditi.
La limitazione all’imposizione per lo Stato della fonte non si applica se l’effettivo beneficiario dei dividendi
esercita l’attività nell’altro Stato contraente mediante una stabile organizzazione ivi insediata (ovvero ivi svolge
una libera professione mediante una base fissa) e la partecipazione generatrice dei dividendi si ricollega
effettivamente ad esse. Lo Stato della fonte, pertanto, tasserà i dividendi in capo alla
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stabile organizzazione del soggetto non residente secondo le regole domestiche e senza quindi applicare le
ritenute previste per i soggetti non residenti.
L’ultimo paragrafo dell’art. 10 del Modello OCSE prevede che se una società residente di uno Stato contraente
produce utili o redditi nell’altro Stato contraente, quest’ultimo Stato non può applicare alcuna imposta sui
dividendi distribuiti dalla società, a meno che tali dividendi siano pagati a un residente di detto altro Stato o ad
una stabile organizzazione ivi situata, né prelevare alcuna imposta sugli utili non distribuiti della società, anche
se i dividendi corrisposti o gli utili non distribuiti costituiscono in tutto o in parte
utili o redditi realizzati in detto altro Stato.
Analogamente a quanto previsto per i dividendi, l’OCSE ha elaborato una soluzione di compromesso ai fini
dell’imposizione degli interessi a livello internazionale. Anche in questo caso, pertanto, la soluzione è ispirata alla
ripartizione della potestà impositiva tra lo Stato della fonte del reddito e lo Stato di
residenza del beneficiario.
Come detto, gli interessi sono imponibili anche nello Stato dal quale essi provengono e in conformità alla
legislazione di tale Stato, ma se l’«effettivo beneficiario» di tali interessi è residente nell’altro Stato, l’imposta
prelevata non può eccedere il 10 per cento dell’ammontare lordo degli interessi (art.11 Modello OCSE). Come
sempre, gli Stati contraenti possono prevedere un livello di imposizione ulteriormente ridotto, oppure maggiore,
o attribuire la potestà impositiva esclusivamente allo Stato di residenza del beneficiario.
L’art. 11, secondo paragrafo, del Modello OCSE non specifica le modalità del prelievo nello Stato della fonte.
Pertanto, lo Stato contraente può assoggettare a imposizione gli interessi mediante la ritenuta alla fonte a titolo
di imposta ovvero mediante il sistema dell’autoliquidazione.
Al fine di eliminare tutti i rischi di una doppia imposizione, gli Stati contraenti possono aggiungere al paragrafo 2
dell’art. 11 un’ulteriore disposizione volta ad attribuire la potestà impositiva soltanto allo Stato contraente di cui
la persona che riceve gli interessi è residente, a condizione che la persona sia il «beneficiario effettivo» di tali
interessi e che gli stessi siano corrisposti:
a) in connessione con la vendita a credito di un’attrezzatura industriale, commerciale o scientifica;
b) in connessione con la vendita a credito di merci consegnate da un’impresa ad un’altra;
c) in forza di prestiti di qualsiasi natura concessi da un istituto bancario.
Analogamente a quanto si verifica per i dividendi, i benefici convenzionali sono inapplicabili nel caso in cui il
«beneficiario effettivo» degli interessi, residente di uno Stato contraente, eserciti nell’altro Stato contraente,
dal quale provengono gli interessi, sia un’attività commerciale o industriale, sia una professione indipendente
per mezzo di una stabile organizzazione o base fissa ivi situata ed il credito generatore degli interessi si ricolleghi
effettivamente ad essa.
«Gli interessi si considerano provenienti da uno Stato contraente quando il debitore è un residente di tale Stato.
Tuttavia, quando il debitore degli interessi, sia esso residente o non di uno Stato contraente, ha
in uno Stato contraente una stabile organizzazione, per le cui necessità è stato contratto il debito generatore
degli interessi, e che ne sopporta l’onere, si considerano provenienti dallo Stato contraente in cui è situata la
stabile organizzazione ». Dalla disposizione si evince, quale regola generale, che lo Stato di provenienza degli
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interessi è quello di residenza del debitore; tuttavia, se il prestito è stato contratto per le esigenze della stabile
organizzazione, situata in uno dei due Stati contraenti, e l’onere è stato sostenuto alla stessa, si considera che la
fonte dell’interesse sia nello Stato in cui è insediata la stabile organizzazione.
In assenza di una connessione economica tra il debito generatore degli interessi e la stabile organizzazione, il
Paese in cui quest’ultima è situata non può considerarsi Stato della fonte, con la conseguenza che non è
ad esso attribuibile la potestà impositiva sugli interessi corrisposti dalla stabile organizzazione.
Il quinto paragrafo dell’art. 11 del Modello OCSE non offre alcuna soluzione nel caso in cui il debitore ed il
beneficiario siano residenti negli Stati contraenti, ma il prestito sia stato contratto per le necessità di una stabile
organizzazione del debitore situata in uno Stato terzo e gli interessi siano a carico di tale stabile organizzazione.
In tal caso, infatti, gli interessi si considerano originati nello Stato in cui il debitore è residente. Gli interessi sono
imponibili sia nello Stato della fonte sia nello Stato di residenza del beneficiario.
In fattispecie triangolari come quella descritta, il rischio della doppia imposizione può essere evitato,
secondo il Commentario, con una Convenzione bilaterale che contenga una disposizione analoga a quella del
quinto paragrafo tra lo Stato di residenza del debitore e lo Stato terzo in cui è situata la stabile organizzazione
che sostiene gli interessi.
L’ultimo paragrafo dell’art. 11 del Modello OCSE stabilisce che se in conseguenza di particolari relazioni esistenti
tra debitore e beneficiario effettivo o tra ciascuno di essi e terze persone, l’ammontare degli interessi pagati
eccede quello che sarebbe stato convenuto tra debitore e beneficiario effettivo
in assenza di simili relazioni («arm’s length price»), tale eccedenza non può fruire dei benefici convenzionali.
Pertanto, essa è imponibile in conformità alla legislazione di ciascuno Stato contraente.
I canoni (art.12)
L’art. 12, secondo paragrafo, del Modello OCSE designa con l’espressione «canoni» («royalties») i compensi di
qualsiasi natura corrisposti per l’uso o la concessione in uso di diritti di autore su opere letterarie, artistiche o
scientifiche, ivi comprese le pellicole cinematografiche, di brevetti, di marchi di fabbrica o di commercio, di
disegni o modelli, di progetti, di formule o processi segreti. Il Commentario precisa che l’espressione «canoni»
include non solo i pagamenti relativi ad una licenza, ma anche i risarcimenti dovuti per effetto della violazione
dei diritti protetti.
Il know-how
«il know-how è l’insieme non divulgato di informazioni tecniche, siano esse brevettabili o no, che è necessario,
direttamente e alle stesse condizioni, per la riproduzione industriale di un prodotto o di un processo; poiché
esso deriva dall’esperienza, il know-how rappresenta ciò che un produttore non è in grado di conoscere
mediante il mero esame del prodotto e la generica conoscenza del processo tecnico». Pertanto, mediante il
contratto di trasferimento del know-how una parte contraente si impegna ad impartire all’altra parte, affinché
questa le possa sfruttare per conto suo, le specifiche conoscenze ed esperienze che restano segrete al pubblico.
L’art.12 del Commentario specifica una serie di criteri per distinguere i contratti di concessione di know-how da
quelli di prestazione di servizi:
1) i contratti di know-how riguardano informazioni esistenti o che saranno fornite dopo la loro creazione e
prevedono clausole di segretezza delle informazioni medesime;
2) nel caso di contratti di prestazioni di servizi, il fornitore si impegna ad eseguire un’opera che richiede
particolari competenze ed esperienze, ma non è richiesto che tali competenze siano trasferite all’altra parte;
3) nei casi di fornitura di know-how, il fornitore non deve svolgere altre attività se non quella di trasmettere le
informazioni già esistenti al cliente o riprodurre il materiale di supporto già predisposto.
Il franchising
Un esempio importante fornito dal Commentario, che comprende sia il know-how, sia la fornitura di assistenza
tecnica, è il contratto di franchising. Mediante tale contratto, il concedente impartisce le proprie conoscenze ed
esperienze al concessionario, e fornisce assistenza tecnica di varia natura, che può addirittura sfociare in
assistenza finanziaria e forniture di beni. Per i contratti misti, precisa il Commentario, è opportuno ripartire, sulla
base delle informazioni contenute nel contratto o mediante altri criteri ragionevoli, l’intero compenso pattuito
tenuto conto dei servizi resi ed applicare alle quote di compenso così determinate il relativo regime tributario.
Se però una delle prestazioni pattuite costituisce l’oggetto principale del contratto, mentre le altre prestazioni
assumono un carattere ausiliario e marginale, è ammissibile applicare all’intero compenso pattuito il regime
tributario previsto per la prestazione principale.
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Il software
Con riguardo alle problematiche connesse alle forme di diffusione del software rispetto ad altri beni immateriali,
il Commentario si sofferma su tre tipiche modalità di trasferimento dell’utilità in questione.
- La prima modalità consiste nella cessione parziale dei diritti legati allo sfruttamento del software, senza il
trasferimento di tutti i diritti protetti dello stesso. In tal caso, se il cedente è l’autore del software e ha reso
disponibile a terzi tale programma per autorizzare questi ultimi al relativo sfruttamento mediante lo sviluppo e
la distribuzione , il compenso percepito potrà essere considerato come royalty.
Nel caso in cui la cessione del software sia finalizzata all’uso personale, invece, il corrispettivo conseguito è
qualificabile come utile di impresa.
- La seconda modalità consiste nella cessione di tutti i diritti connessi al software, con la conseguenza che
oggetto del trasferimento è il diritto di proprietà del programma medesimo e quindi il corrispettivo ricade nella
disciplina dell’utile di impresa di cui all’art. 7, oppure nell’art. 13 (capital gain) del Modello OCSE, a seconda
dell’attività commerciale esercitata dal cedente.
Problematico è il caso in cui oggetto del trasferimento sia soltanto una parte dei diritti relativi, ad esempio,
all’uso esclusivo, per un periodo di tempo limitato o in una determinata area geografica. Sul punto, il
commentario suggerisce di esaminare i contratti caso per caso.
- La terza modalità consiste nella cessione del software insieme ad altri beni o servizi, come ad esempio un
computer. In questi casi, occorre esaminare le clausole contrattuali, per stabilire se il corrispettivo pattuito può
essere ripartito in redditi di diversa natura.
La potestà impositiva esclusiva dello Stato di residenza del beneficiario effettivo
I canoni provenienti da uno Stato contraente sono imponibili soltanto nello Stato di residenza del beneficiario
effettivo. Autorevole dottrina consiglia di adottare i criteri contenuti nell’art.11 per stabilire in quale Stato
debbano considerarsi prodotti i canoni.
La forza attrattiva della stabile organizzazione e l’effettiva connessione
L’art. 12, terzo paragrafo, del Modello OCSE prevede che il beneficio convenzionale è inapplicabile se il
beneficiario effettivo dei canoni, residente di uno Stato contraente, esercita, nell’altro Stato contraente, dal
quale provengono i canoni, un’attività commerciale o una professione indipendente per mezzo di una stabile
organizzazione ivi situata, ed i diritti o i beni generatori dei canoni si ricollegano effettivamente ad esse.
Il criterio del valore normale
Se in conseguenza di particolari relazioni esistenti tra debitore e beneficiario effettivo o tra ciascuno di essi e
terze persone, l’ammontare dei canoni eccede quello che sarebbe stato convenuto tra debitore e beneficiario
effettivo in assenza di simili relazioni, tale eccedenza non può fruire dei benefici convenzionali. L’eccedenza dei
pagamenti rispetto al valore di mercato del canone è pertanto imponibile in conformità
alla legislazione di ciascuno Stato contraente, tenuto conto delle altre disposizioni convenzionali.
Tale disposizione è applicabile, ad esempio, quando i canoni sono pagati ad una società che controlla
direttamente o indirettamente il licenziatario o è controllata dallo stesso o è parte del medesimo gruppo
societario.
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interessato ha solitamente la possibilità di impugnare l’atto impositivo che ritenga in contrasto con disposizioni
domestiche o del Trattato applicabile di fronte ad un organo giurisdizionale.
L’OCSE ha introdotto nell’art.25 del Modello una clausola arbitrale che consente la soluzione delle controversie
irrisolte dopo due anni dall’inizio della procedura amichevole. Tale procedura arbitrale può essere avviata
soltanto dal contribuente.
Il contribuente non potrà avviare la fase arbitrale della procedura nel caso in cui gli Stati coinvolti trovino una
soluzione concordata. Nella normalità dei casi, pertanto, il modello di procedura amichevole ideato dall’OCSE
necessita di un accordo tra gli Stati contraenti e la procedura arbitrale è solo un’eventualità
riservata ai casi in cui tali Stati non riescano a trovare un accordo su specifici aspetti della controversia.
La soluzione della controversia quindi è sempre rimessa all’eventuale accordo delle parti ed il contribuente
rimane libero di accettare o rifiutare la soluzione proposta dagli Stati interessati.
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