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L’accessibilità museale come rivoluzione culturale

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14/5/2015

I nostri musei stanno affrontando un momento di svolta. Il futuro è un passo di distanza. Due paradigmi: coltivare
quello sguardo introspettivo, di corretta tutela e cauta valorizzazione cui siamo abituati o, a questi temi
imprescindibili, associare l’adozione consapevole di una responsabilità educativa e insieme sociale. L’accessibilità
al museo apre frontiere rivoluzionarie, destinate a riportare al centro l’attenzione sui visitatori e le loro esigenze.

Una strada già tracciata da numerosi predecessori, all’estero e più sporadicamente in Italia, capace di restituire
centralità sociale ad un’istituzione che merita di accompagnare il cambiamento di una società sempre più equa.Il
museo, dal punto di vista del visitatore, è uno spazio di rappresentazione: seleziona ciò che ritiene meritevole e lo
mette in mostra.

Ne fa, giustamente, un vanto. Generalmente contestualizza prospettive uniformi, talvolta proprie dei vincenti, ma
saprebbe anche farsi portavoce dei valori richiesti allo sviluppo di una cittadinanza condivisa. Se solo lo volesse. È
necessariamente spazio politico, mai neutro, come tutte le istituzioni che esprimono delle scelte inevitabilmente
capaci di veicolare opinioni. È un luogo di formazione che, come per la scuola nelle sue migliori accezioni, sarebbe
riduttivo destinare esclusivamente alla trasmissione dei saperi.

Il museo è il luogo delle potenzialità; in questo senso, la riflessione sui temi dell’accessibilità ne facilita l’indagine
degli scopi e del suo possibile ruolo.

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MAXXI di Roma

Quello dell’accessibilità è, in senso stretto, un settore relativamente datato. Erano gli anni Sessanta e, anche in
Italia, si iniziava a parlare di barriere architettoniche. Ad oggi, la disciplina, soprattutto in ambito museale, è molto
cambiata. Si arricchita di nuove riflessioni teoriche che ne fanno un tema di discussione articolato, soprattutto sul
fronte delle possibili barriere e delle ricadute collettive . Ciò che non è cambiato, però, è l’immaginario comune;
l’accessibilità è ancora associata ad una rampa di scale.

Un elemento architettonico che tuttavia, in relazione al museo, presenta ancora una forte accezione simbolica: è
rappresentazione di quella che pare una conquista (alle volte impossibile) e ricorda l’importanza della motivazione
che occorre per percorrerla; si appella al tema della fatica fisica (raramente presa in considerazione) lasciando
intuire, suo malgrado, l’equivoca premessa di una gerarchia di valore.

In altre parole, l’accessibilità odierna riformula nuove prassi, cercando di suggerirne il suo ruolo universale a partire
anche dalla nota distinzione fra museo tempio (imponente, ieratico, in cima ad una scala) e museo forum (aperto,
dialogico, collaborativo) che tuttora guida lo sviluppo della cosiddetta “nuova museologia”. Un museo accessibile,
dunque, è innanzitutto un luogo empatico che fa dell’ascolto attivo la prima strategia per il coinvolgimento. A questo
scopo, è chiamato a rimuovere le proprie barriere (sensoriali, fisiche, cognitive ma anche culturali, emotive ed
economiche) per permettere ai visitatori di sentirsi parte attiva e, insieme, pienamente rappresentati.

L’accessibilità al museo di cui si discute in questi anni prende esempio soprattutto dalla riflessione condotta nei
paesi anglofoni, intercettando discipline molto diverse: la museologia, la museografia, gli studi sui visitatori museali,
la didattica, la curatela ma anche la pedagogia, i disability studies, le ricerche sul gaming, sulla partecipazione e il
coinvolgimento delle comunità, ad esempio. Il caso specifico dell’inclusione della disabilità, cui spesso l’accessibilità
museale viene associata in modo esclusivo, ne rende evidente le più ampie necessità di adozione.

Aprire il museo alla disabilità offre l’opportunità di riformulare la complessità delle strategie educative

I presupposti di questo approccio sono molteplici. Due i principali: il modello per la disabilità e le logiche di
percezione. Il primo è il riferimento al modello sociale che sposta il focus dal singolo (nell’accezione di un problema
da medicalizzare) alla collettività, facendone quindi una responsabilità di contesto. La disabilità, infatti, si sviluppa
quando le condizioni ambientali non offrono adeguata risposta ad una esigenza: se la offrissero, la disabilità in sé
non enfatizzerebbe la propria problematicità.

Il secondo aspetto va di pari passo con il primo; riguarda l’immagine della disabilità che scegliamo di veicolare, non
sempre consapevolmente, attraverso le nostre proposte. Questo tema è chiaramente espresso nella scelta dei toni,
delle parole e nella qualità strumentale ed educativa delle soluzioni adottate. Ricorrendo ad un’immagine, la
questione è ben esemplificata dal confronto fra il logo della disabilità cui siamo abituati e il più recente
dell’Accessible Icon Project. Il primo, ci lascia intuire la passività immobile di una sedia a rotelle; il secondo,
raffigurando una persona su di una carrozzina in movimento, ce ne suggerisce l’autonomia di azione e la necessità
di un confronto fra pari.

Per questi motivi, valutare la qualità dell’offerta accessibile implica l’analisi di aspetti fortemente correlati fra loro che
vanno dall’attivazione concreta di strategie per l’inclusione (ad esempio, percorsi specifici o soluzioni
multisensoriali) all’adozione di un approccio accogliente (ma mai infantilizzante o pietistico), insieme una
comunicazione chiara e puntuale.

Ipotizzare un museo aperto all’inclusione della disabilità significa, d’altronde, rispondere a una molteplicità di
pubblici le cui esigenze, per quanto reali, non sempre sono dichiarate: mamme con il passeggino, anziani che
hanno bisogno di soste frequenti, persone con una tenuta dell’attenzione ridotta. Sordi, persone ipovedenti, anche.
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Per ogni caso non esiste una sola risposta: possiamo trovare soluzioni che rispondano contemporaneamente ai
bisogni di più visitatori o che presentino, a seconda dei casi, un alto tasso di specificità. Comunque sia, si tratterà di
orientare delle scelte. Per esempio, significherà permettere a chiunque di frequentare il museo per tutto il corso
della propria vita, a dispetto di un invecchiamento inevitabile che, facilmente, ne comprometterà le abilità in modo
progressivo.

Aprire il museo alla disabilità, inoltre, ci offre l’opportunità di riformulare la complessità delle nostre strategie
educative. Stantie, omogenee, troppo spesso verbali e basate su approcci visivi. L’accessibilità ci obbliga a

Mudec di Milano

considerare le differenze di ognuno anche solo nell’accettazione della varietà degli stili di apprendimento di cui
anche i pubblici già fedeli sono portatori.

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Il museo inclusivo è uno spazio messo a disposizione del sociale e delle sue risorse

Sempre sullo stesso piano, la disabilità, specie quando cognitiva, ci insegna a ripensare alla ristrettezza dei nostri
metodi valutativi. Numerosi modelli, (per citarne uno, si veda l’anglossassone Generic Learning Outcomes), ci
impongono di riformulare la gamma degli impatti museali in modo più articolato: il successo di una visita non potrà
solo valutarsi sulla base delle informazioni apprese ma dovrà considerare, ad esempio, il cambiamento attitudinale,
il benessere, il rafforzamento di competenze, l’acquisizione di valori, la motivazione a ritornare al museo. Tutti
aspetti centrali ad ogni percorso, che varrebbe la pena, anche da un punto di vista economico, di analizzare.

Il museo inclusivo, del resto è uno spazio messo a disposizione del sociale e delle sue risorse: comprende il
potenziale dei suoi strumenti, offrendo tempi e soluzioni per coinvolgere anche persone che spesso vivono
l’isolamento offrendo il supporto di una rete. Promuovere opportunità per il coinvolgimento della disabilità, inoltre, la
rende visibile, comune e sempre più tollerabile.

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MUSE di Trento

È il complesso tema della rappresentazione che non solo si esplicita nell’incentivare la partecipazione di tutte le
comunità ma, anche, nella definizione dei temi affrontati in una mostra e nell’inserimento lavorativo del personale:
riconoscersi nelle persone che vi lavorano (diverse per abilità, cultura, genere, età) ne guiderebbe il processo di
progressiva riappropriazione identitaria valorizzando, allo stesso tempo, competenze capaci di scardinare gli
stereotipi.

Immaginare un museo accessibile, anche solo a partire dalla sintesi di queste considerazioni, lascia dunque
intravedere opportunità reali. Lasciarsi ispirare dal modello di un museo corretto, del resto, vorrebbe anche
significare diffondere trasversalmente nuove strategie di pensiero; l’accessibilità ci insegnerebbe a sperimentare il
problem solving, più che mai imprescindibile in un’epoca considerata di crisi. Darebbe ulteriore valore a quello, già
inestimabile, che possiede il nostro patrimonio, lasciando intuire l’importanza di una sfida creativa e certamente in
salita ma, insieme, portatrice di risultati misurabili per l’intera collettività. Soddisfazione personale, ovviamente,
inclusa.

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