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Il presente volume, come gli editori spiegano nell’introduzione (pp. 7-13), raccoglie gli
atti di un incontro concepito come prolungamento del IX Convegno Internazionale sulla Storia
e l’Archeologia dell’Africa del Nord Antica e Medievale, organizzato tra il 19 e il 25 febbraio
del 2005 a Tripoli da Serge Lancel (di lì a qualche mese scomparso) con il titolo di Lieux de
cultes: aires votives, temples, eglises, mosquées. I 24 contributi presentati in quell’occasione
furono pubblicati tre anni dopo fra gli Études d’Antiquités Africaines del CNRS.
Il felice esito di un evento specificatamente teso a tracciare uno status quaestionis del-
le ricerche in corso sull’architettura religiosa dell’Africa antica e tardo-antica ha suggerito
a François Baratte, Véronique Brouquier-Reddé ed Elsa Rocca di raccoglierne l’eredità e
riprodurne, otto anni dopo, il formato. Il tomo qui recensito, frutto di un duro lavoro edito-
riale che ha richiesto cinque lunghi anni, riproduce in 376 dense pagine ben 22 contributi
suddivisi in tre sezioni tematiche, di cui la prima riunisce sette articoli relativi a “Les
Lieux de culte païens: caractéristiques et evolution” (pp. 15-110).
Jean-Claude Golvin, Samir Aounallah, Véronique Brouquier-Reddé e Louis Maurin
inaugurano questa serie di studi con un’attenta analisi delle principali fasi architettoni-
che del centro tunisino di Thugga («Dougga, réflexion sur l’évolution du forum à travers
l’étude des temples», pp. 17-35). Una particolare attenzione viene riservata all’analisi
delle tecniche edilizie e alla funzione di specifici monumenti, a partire dal cd. “tempio di
Massinissa”, probabilmente il cenotafio (maqdes) edificato dal re Micipsa nel 139-138
a.C. in onore del padre Massinissa, di cui un’iscrizione libica lascia testimonianza (RIL
2)1. Una seconda iscrizione, questa volta in latino e datata al 37 d.C. (DFH 23)2, com-
memora invece la pavimentazione del foro e della corte antistante al tempio di Cesare
(verosimilmente l’imperatore regnante, ovvero Tiberio), e la costruzione di un tempio di
Saturno, di un arco e di un altare dedicato ad Augusto. Gran parte dell’articolo è dedicato
all’identificazione di tali monumenti con vestigia archeologiche scavate o solo ipotizzate.
L’efficacia e il fascino di una tale minuziosa ricostruzione topografica risentono in parte
della mancata menzione del testo originale del materiale epigrafico analizzato, riprodotto
solo in traduzione francese.
Frutto degli studi condotti da Hichem Ksouri nel corso della sua tesi di dottorato alla
Université Bordeaux-Montaigne (2012), il secondo contributo («Le complexe monumen-
tal au sud du théâtre de Bulla Regia: essai d’identification et de restitution architecturale»,
1
RIL = J.-B. Chabot, Recueil des inscriptions libyques, Paris 1940-1941.
2
DFH = M. Khanoussi, L. Maurin (eds.), Dougga, fragments d’histoire. Choix d’inscriptions latines
éditées, traduites et commentées (Ier-IVe siècles), Mémoires 3, Bordeaux-Tunis 2000.
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pp. 37-54) si sposta di una cinquantina di chilometri più ad ovest, raggiungendo il sito di
Bulla Regia (Hammam Darradji, non lontano dall’attuale Jendouba). L’autore ricostruisce
tre distinte fasi architettoniche relative alla costruzione e alla monumentalizzazione della
terrazza a sud del teatro romano: in un primo tempo (nel corso del I secolo a.C.) l’area era
probabilmente costituita da una corte accessibile solo da est e dominata, sul lato opposto,
da un tempio (B, dalle caratteristiche architettoniche non dissimili rispetto al menzionato
maqdes di Thugga), intorno a cui in epoca giulio-claudia fu aggiunto un quadriportico; nel
II secolo d.C. (corrispondente alla fase di costruzione del teatro), ai lati del tempio B furo-
no costruiti altri due edifici di culto (templi A e C), mentre un terzo (D) fu eretto al centro
della terrazza, ora adornata da giardini e da un bacino centrale dotato di fontana; infine,
durante la prima metà del III secolo d.C., l’accesso orientale alla terrazza fu bloccato e
ricavato nell’angolo nord-occidentale della corte, ora popolata da due ulteriori tempietti
(C’ e C”) e delimitata a nord-est da altre tre celle connesse al culto della gens Septimia.
L’autore assegna a questa fase sia l’ingrandimento del teatro che la costruzione del tempio
di Iside (lungo il nuovo vano di accesso alla terrazza) e di un altro piccolo tempietto fra
l’Iseo e il teatro stesso. Quest’ultima ipotesi genera qualche perplessità dal momento che,
se il torso di Iside e la testa infantile con “Horuslock” rinvenuti presso l’area del teatro
sono effettivamente databili tra il tardo II e il primo quarto del III secolo d.C., l’iscrizione
che commemora la costruzione dell’altare dell’Iseo da parte di Publius Aelius Privatus
e della moglie Cocceia Bassa consiglia piuttosto una cronologia di pieno II secolo d.C.
(forse tra Nerva e Adriano, considerata l’onomastica), meglio corrispondente alla secon-
da fase del complesso. Del tutto inesplorata rimane poi la funzione rituale determinata
dal sistema teatro-area santuariale, la cui potenzialità meriterebbe sicuramente uno studio
topografico e storico-religioso ben più approfondito3.
Sono ben cinque le fasi ricostruite da Véronique Brouquier-Reddé, Abdelfattah
Ichkhakh e Abdelaziz El Khayari per il santuario D nel foro di Volubilis in Marocco
(«Architecture maurétanienne et romaine: le cas du sanctuaire D de Volubilis», pp. 55-66):
1) una fase pre-cultuale anteriore alla prima metà del I secolo a.C.; 2) una fase maura
caratterizzata dalla costruzione di due templi gemelli nella prima metà del I secolo a.C.;
3) una fase romana tra il I e la metà del II secolo d.C. in cui i due templi furono ingranditi
e collegati fra di loro attraverso la creazione di un unico tempio a due celle a sviluppo tra-
sversale; 4) una successiva fase (ascrivibile al 157-158 d.C.) durante cui un unico pronao
trasversale dava accesso a ben quattro celle dominanti una corte ora porticata lungo il lato
settentrionale e orientale; 5) un’ultima fase di inizi III secolo d.C. che previde l’aggiunta
di quattro altari a scapito del portico stesso.
Sempre in Marocco, a Kouass, Mohamed Kbiri Alaoui, Virginie Bridoux e Hédi
Dridi rendono conto di alcuni scavi condotti tra il 2008 e il 2012 presso un contesto abi-
tativo mauro occupato a partire dalla fine del VI secolo a.C. e poi in epoca romana (fase
testimoniata anche dalla presenza di un acquedotto e di alcune fabbriche per la salatura
del pesce), e infine abbandonato verso il 30 a.C. e rioccupato solo in epoca medievale
(«Un lieu de culte d’époque maurétanienne à Kouass?», pp. 67-78). In questo contributo
gli autori descrivono i risultati dello scavo del settore 4, che ha portato alla luce alcuni
resti databili alla fine del IV-metà del III secolo a.C.: una struttura rettangolare con
al centro una seconda struttura quasi quadrata (i cui lati misurano tra m 1,70 e 1,96),
3
Alcune considerazioni preliminari in V. Gasparini, «Les acteurs sur scène. Théâtre et théâtralisation dans
les cultes isiaques», in V. Gasparini, R. Veymiers (eds.), Individuals and Materials in the Greco-Roman Cults
of Isis. Agents, Images and Practices, Proceedings of the VIth International Conference of Isis Studies (Erfurt,
May 6-8 2013 – Liège, September 23-24 2013), Religions in the Graeco-Roman World 187, Leiden-Boston
2018, pp. 714-746 (il caso di Bulla Regia è esaminato alle pp. 731-732).
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costruita in parte con blocchi in pietra legati da terra argillosa e in parte in terra cruda,
che induce gli autori del contributo a ipotizzarne una funzione cultuale. In realtà, gli
strati di terra indagati sono risultati praticamente vergini di materiale di natura cultuale
e, dal punto di vista del metodo, i confronti architettonici presi in esame dagli autori (che
vanno a scomodare simili edifici con ambienti centrali quadrati non solo a Kerkouane
e Thinissut in Tunisia, ma anche ad Amrit in Siria, Abul in Portogallo e Aliki a Thasos)
risultano alquanto discutibili. Ciò ovviamente non esclude la plausibilità dell’interpre-
tazione sacra dell’edificio.
Con il quinto e il sesto articolo si torna in Tunisia alla scoperta di due templi monu-
mentali comunemente interpretati il primo, in via del tutto ipotetica, come Capitolium, e il
secondo, grazie ad un’inedita testimonianza epigrafica, come santuario del culto imperia-
le. Jean-Claude Golvin e Pauline Piraud-Fournet analizzano i resti del primo edificio, un
tempio esastilo pseudo-periptero corinzio edificato su un monumentale podio di m 20 x
32 al centro di un’area di m 46 x 78, porticata su tre lati e pavimentata («Le grand temple
d’Ammaedara (Haïdra, Tunisie): étude architecturale et proposition de restitution», pp.
79-88). Il lastricato reca segni che testimoniano la originaria presenza di parapetti e di
una serie di canalizzazioni per la raccolta di liquidi. Non è possibile in questo studio non
notare in bibliografia la mancanza di quello che rappresenta il contributo più completo ed
aggiornato (anche se a tratti prudente contro ogni evidenza archeologica: vedasi il caso di
Pompei) relativo ai Capitolia dell’impero romano, firmato nel 2013 da Josephine Crawley
Quinn e Andrew Wilson4.
Aïcha Ben Abed-Ben Khader, Marc Griesheimer e Michel Fixot si occupano invece
del tempio dedicato ad Adriano nel 122-123 d.C. ad Aradi, ora Sidi Jdidi: una struttura di
ben m 22 x 23,80 composta, nella sua ultima fase, da una corte porticata su tre lati con cin-
que vani disposti lungo il lato nord-orientale, di cui quello centrale – mosaicato nel corso
del IV secolo d.C. – costituiva la cella principale del santuario («Aradi: le sanctuaire du
culte impérial», pp. 89-105). L’iscrizione che testimonia la costruzione del tempio viene
distrattamente menzionata nella prima pagina del testo, frustrando a lungo l’interesse cre-
ato nel lettore, che non viene avvisato dell’esistenza di un’appendice epigrafica dettagliata
alla fine dell’articolo (pp. 97-103). A p. 99 compare uno dei pochissimi errori editoriali del
volume (60 0000 al posto di 60 000 sesterzi).
L’ultimo studio della prima sezione del libro concerne le scoperte effettuate nel 2005
nel corso dei lavori condotti (per oltre un decennio, tra il 1996 e il 2006) presso il portico
orientale del tempio di origine numidica di Zama Regia (Jama, sempre in Tunisia). Ne dan-
no relazione Ahmed Ferjaoui, Mohamed Ben Nejma, Abdelkarim Ibiri, Walid Khalfalli,
Zied Msellem e Mahmoud Sebai («Aperçu sur la découverte du sanctuaire d’Attis à Zama
Regia (Tunisie)», pp. 107-110). La scoperta è eccezionale: si tratta di un secondo luogo
di culto costituito da una cella absidata di m 5 x 2,73 aperta su una sala i cui muri laterali
(anch’essi absidati) abbracciavano un bacino, il cui interno era suddiviso da muretti in
mattoni crudi (probabilmente un’aggiunta tardiva). Il sorprendente materiale votivo rinve-
nuto durante gli scavi include basi di statue iscritte in onore di Attis e statuette di marmo
e terracotta raffiguranti lo stesso dio o, più raramente, Cibele, fra cui merita una menzione
speciale una statuetta in argilla di cm 33 di lunghezza raffigurante Attis adagiato su delle
rocce. L’importanza del rinvenimento non può non creare una grande attesa di uno studio
più dettagliato che riconduca la scoperta nel quadro della ricezione del culto metroaco
nell’Africa romana.
4
J. Crawley Quinn, A. Wilson, «Capitolia», in JRS, 103, 2013, pp. 1-57 (il caso di Pompei è discusso
alle pp. 22-24; il caso di Ammaedara è citato a p. 40).
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Con i successivi nove contributi si accede alla seconda sezione del tomo, dedicata
a “Les manifestations des cultes: pratiques, rites et offrandes” (pp. 111-256), che meno
aderisce agli obbiettivi propri del sottotitolo del volume (ovvero lo studio dell’architettura
religiosa), ma che ne costituisce un’eccellente e necessaria integrazione relativa alle pra-
tiche rituali (e connessa cultura materiale) effettuate in seno ai luoghi di culto dell’Africa
romana e bizantina. Visto l’itinerario tematico proposto, forse il titolo del libro avrebbe
meritato di essere modificato in Du sanctuaire aux cultes, e non viceversa.
Si comincia da Althiburos (Fej El Tamar, non lontano da Medeina, in Tunisia), dove
un progetto di cooperazione tra INP (Institut National du Patrimoine) e ISMA (Istituto di
Studi sul Mediterraneo Antico) del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha previsto, a par-
tire dal 2007, l’indagine di un tophet e di un santuario dedicati al culto di Ba‘al Hammon/
Saturno. Nabil Kallala, Sergio Ribichini, Massimo Botto e Fabio Fabiani ne descrivono
con cura i risultati («Le tophet-sanctuaire de Ba‘al Hammon-Saturne d’Althiburos: de la
découverte à la fouille. Résultats préliminaires», pp. 113-134). Lo scavo ha comportato
l’indagine di 56 urne, di cui 42 contenevano i resti di individui deceduti fra le 28 e le 40
settimane di gestazione, 12 di età prenatale e solo 2 ascrivibili ad un età fino a sei mesi
dalla nascita. Altre sepolture non prevedevano sorprendentemente l’uso di un’urna, bensì
probabilmente di un tipo di involucro di natura organica (tessuto). Frequenti sono i resti
botanici, malacologici e archeozoologici (ovini, per lo più). Contemporanea alla fase di
vita del tophet (dalla fine del II secolo a.C. alla tarda antichità) è la frequentazione del san-
tuario ad esso connesso: una corte quadrangolare coronata da una piccola struttura dentro
cui si è rinvenuto un ustrinum, mentre al centro della corte una base di altare, provvista di
una fossa con i resti dei vasi destinati alle libazioni, accoglieva le offerte sacrificali donate
al dio. La struttura, funzionante fino al II-III secolo d.C., fu in seguito convertita in quello
che viene definito provvisoriamente come un “mausoleo” (nel IV secolo d.C.), quindi tra-
sformata verosimilmente in una cappella o reliquario cristiano (seconda metà del V secolo
d.C.), e infine abbandonata nel corso del VII secolo d.C.
Véronique Brouquier-Reddé, Abdelfattah Ichkhakh, Séverine Leclercq e Abdelaziz
El Khayari riconducono il lettore in Marocco, ancora a Volubilis, questa volta per inda-
garne il tophet del santuario B («Quelques aspects du rituel du sanctuaire B de Volubilis
(Maurétanie occidentale)», pp. 135-150). Il tophet, esteso su circa 3 ettari e popolato
da almeno 900 stele anepigrafi e 43 urne cinerarie contenenti anche resti ossei di bovi-
ni, caprini e suini, fu edificato tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C.
Monumentalizzato probabilmente prima dell’80 d.C., il santuario fu ulteriormente ingran-
dito nel corso della sua terza fase architettonica (seconda metà del II secolo d.C.) attraver-
so la costruzione di un porticato di m 61 x 60 coronato da almeno tre celle e corredato, al
suo centro, da tre cisterne, un bacino e tre altari. La quarta e ultima fase è evidentemente
successiva alla metà del III secolo d.C. come anticipato a p. 135, e non del II secolo d.C.
come erroneamente segnalato a p. 137, datazione che farebbe coincidere terza e quarta
fase. In questa fase il numero di celle innalzate lungo il perimetro della corte sale ad un
totale di dieci e il colonnato del portico viene sostituito.
I due articoli successivi si concentrano entrambi sull’iconografia delle stele prove-
nienti dalla Tunisia centrale. Ahmed M’Charek dedica la sua attenzione alle stele numi-
diche (di cui alcune inedite) del tipo detto di “La Ghorfa” provenienti dalla regione di
Mactaris e Zama Regia: Makthar, Maghrāwa, Hammam Zouakra e Ellès. Si tratta di circa
50 stele in totale databili tra la metà del I e la metà del II secolo d.C. («À propos de la gran-
de divinité féminine sur les stèles figurés de la Thusca occidentale (region de Mactaris
et Zama Regia)», pp. 151-165). La regione è punteggiata da numerosi santuari dedicati
a Ba‘al Hammon/Saturno (almeno una ventina, di cui tre scavati o in corso di scavo:
Henchir El-Hami, Henchir Ghayadha, Althiburos), mentre non sembra esservi attestato
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di cruciale interesse per lo studio della religione del Nord Africa romano e delle relative
pratiche cultuali.
Il viridarium del santuario di Aqua Septimiana a Thamugadi è fra gli esempi analiz-
zati anche nel successivo contributo di Amina-Aïcha Malek circa «Le jardin dans les san-
ctuaires de l’Afrique romaine: premières approaches» (pp. 213-230). Tale raccolta delle
informazioni relative alla presenza di giardini in contesti santuariali include altri esempi,
quali, sempre a Timgad, il tempio del foro; a Thuburbo Maius il santuario anonimo Est,
quello di Baalat e di Caelestis; a Thugga il santuario B (ovvero i templa Concordiae),
quello di Minerva 2, quello anonimo detto Dar Lachheb, quello delle Vittorie di Caracalla,
e quello di Caelestis; a Thubursicum Numidarum il tempio presso il teatro; e infine a
Volubilis il santuario B già incontrato nel corso del volume.
Nel suo articolo su «Autels et aménagements du culte domestique dans les cités de
Maurétanie Tingitane» (pp. 231-240), Néjat Brahmi abbandona per un attimo la categoria
“santuario” per offrire un rapido panorama delle pratiche cultuali di ambito domestico
in Marocco, o meglio, nello specifico, di altari e statuette verosimilmente coinvolti in
tali pratiche: 76 esemplari di altari e due statuette da Volubilis (di cui solo in 19 casi si
possiedono informazioni circa il contesto archeologico di rinvenimento), nove altari e
una statuetta da Banasa, una statuetta da Thamusida. Le aralae menzionate a p. 237 sono
evidentemente da interpretarsi come arulae.
Senz’altro meno pertinente agli obbiettivi del volume è l’ultimo contributo della
seconda sezione («La céramique du groupe épiscopal de Sidi Jdidi (Tunisie)», pp. 241-
256), a cura di Tomoo Mukai, che ci riporta ad Aradi per analizzare i risultati dello studio
della ceramica rinvenuta nel corso degli scavi effettuati tra 1996 e 2006 presso il locale
gruppo episcopale di epoca vandala, poi riutilizzato in seguito alla riconquista bizantina
per la costruzione di due basiliche, varie abitazioni, e ambienti destinati alla produzione
di olio, vino e pane.
Gli ulteriori sei articoli riuniti nella terza e ultima sezione («Les phénomènes reli-
gieux païens et chrétiens: origine, développement et survie», pp. 257-345) privilegiano un
approccio diacronico che spazia dall’epoca punica a quella islamica (IV secolo a.C. – fine
del VII secolo d.C.).
Mounir Fantar indaga il sorprendente fenomeno di continuità nella frequentazione
di carattere cultuale del noto santuario punico di Kerkouane, in Tunisia («Espace sacré
préromain fréquenté à l’époque romaine: le cas du sanctuaire punique de Kerkouane», pp.
259-265): costruito tra il IV e la prima metà del III secolo a.C., il tempio (di cui si ignora la
divinità venerata) fu distrutto agli inizi della I Guerra Punica da parte del console Regolo,
per poi tornare ad essere utilizzato in epoca romana durante almeno due fasi tra la prima
metà del II e il primo terzo del III secolo d.C., e quindi tra la seconda metà del IV e la
prima metà del V secolo d.C. Nonostante l’abbandono forzato per circa quattro secoli, la
villa imperiale impostata sui resti del santuario ne preservò il carattere sacrale, così come
testimoniato da una favissa colma di materiale.
Ancora più sorprendente è la vivacità della vita religiosa del sito di Simitthus, di cui
si occupa egregiamente Mustapha Khanoussi, «Cultes et lieux de culte dans les carriers
antiques de marbre numidique de Chemtou (Tunisie)» (pp. 267-275). Il sito, che copre
circa 120 ettari, risulta frequentato almeno dall’VIII secolo a.C. Fu sotto il re numidico
Micipsa (48-118 a.C.) che iniziarono ad essere sfruttate le sue cave di marmor numidi-
cum (giallo antico), in seguito divenute proprietà imperiale una volta che Augusto fondò
la Colonia Iulia Augusta Numidica Simitthus. A detenere il potere amministrativo delle
cave e della vicina collina Bourfifa era appunto non l’ordo decurionale della colonia,
bensì un procuratore, liberto imperiale. Fu precisamente un procuratore (a fine II secolo
d.C.) ad autorizzare le modifiche al santuario di Ba‘al Hammon, sorto sulla cima della
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5
Cfr. V. Gasparini, «Urban religion and risk-management at Simitthus (Chemtou, Tunisia)», in M. Pat-
zelt, J. Rüpke, A. Weissenrieder (eds.), Prayer and the ancient city. Influences of urban space, Berlin-Bos-
ton, in corso di stampa.
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Se limiti esistono, questi non vanno certo cercati nell’approccio cronologico proposto,
giustamente esteso fino a coprire un largo spettro tra il IV secolo a.C. e la fine del VII
d.C. Ciò su cui si dovrà certamente insistere in futuro sono, da un lato, le micro-strategie
di appropriazione e rielaborazione individuale e locale di pratiche o iconografie religiose,
senza l’ansia di dover ricondurre necessariamente tali elementi a “visioni del mondo”
condivise attraverso i millenni dalla costa atlantica al Medio Oriente. E tale risultato, reso
possibile grazie ai più recenti studi nel campo della sociologia e dell’antropologia, può
essere ottenuto solo se il dato archeologico viene correttamente inserito nel contesto di una
disamina storico-religiosa più ampia e aggiornata.
In conclusione, è questo un libro che emana speranza, che ispira fiducia sul fatto che
il Maghreb stia finalmente uscendo dall’isolamento scientifico in cui a lungo, per una
serie di ragioni storico-culturali tanto complesse quanto note, si è trovato (ed è stato tenu-
to). Tale processo non può non avvenire se non reintegrando Marocco, Algeria, Tunisia
e Libia nel circuito mediterraneo di riflessione sulle dinamiche storiche del mondo anti-
co e sulla metodologia di indagine propria dell’archeologia classica. Non è banale e per
niente scontato ricordare che lo studio della storia delle religioni non debba ridursi allo
sfruttamento dell’enorme patrimonio epigrafico latino o all’analisi di qualche selezionata
fonte letteraria tardo-antica, ma creare piuttosto una piattaforma multidisciplinare dove
colleghi magrebini ed europei possano (come appunto accade in questo volume) dialogare
e apprendere vicendevolmente. Ne è un recente splendido esempio l’impegno infaticabile
profuso in questa direzione dalla neo-nata Scuola Archeologica Italiana di Cartagine e dal
suo Presidente, Attilio Mastino.
Valentino Gasparini
Nel 2018 ha visto la luce il primo numero del Corpus Vrbium Baeticarum (CVB
I) dedicato alle città dei conventus Hispalensis e Astigitanus quale lavoro conclusivo
di un ampio progetto di ricerca finanziato dalla Secretaria General de Universidades,
Investigación y Tecnologia de la Consejeria de Economía, Innovación, Ciencia y Empleo
nell’ambito dei Proyectos de Excelencia del 2012. I due tomi che lo compongono, primi
di una serie che andrà a coprire tutto il territorio della provincia ispanica, sono editi da
Juan M. Campos Carrasco e Javier Berméjo Meléndez dell’Universidad de Huelva che
hanno avuto il non facile compito di gestire una ingente quantità di dati e di organizzarla
in maniera sintetica e chiara nei limiti di una pubblicazione che nelle intenzioni non vuole
rivolgersi solo agli specialisti ma anche agli amministratori sui cui ricade la tutela del
patrimonio storico-archeologico.
Il primo tomo è dedicato ad una analisi di vari aspetti del territorio e delle città dei due
conventus i cui risultati sono presentati in una serie di contributi di ampio respiro.
Al primo capitolo introduttivo a firma dei due editori, che spiegano la genesi del pro-
getto e i suoi fondamenti metodologici, segue un’analisi di Luís Javier Sánchez Hernando
dal titolo «Paleopaisajes y ecosistemas en el mundo bético». L’A. traccia un quadro del
paesaggio intorno alle città dei conventus che in epoca romana appare dominato da forme di
sfruttamento agricolo di tipo intensivo per quello che riguarda la coltivazione dei cereali e
dell’ulivo, un fatto peraltro ampiamente documentato dai testimoni archeologici, da una più