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Tesi di Laurea
Relatore
Laureanda
Matricola 859245
Anno accademico
2020 /2021
INDICE
INTRODUZIONE 7
16
1. DEFINIRE I MONUMENTI
17
Monumenti come beni culturali
Monumenti e potere
20
Monumenti e memoria
22
2.2. I MONUMENTI ERETTI DAL REGIME TRA GLI ANNI VENTI E LA METÀ 49
L’appropriazione fascista del culto dei caduti della prima guerra mondiale
49
1
L'Ossario di Redipuglia
51
53
Il Monumento alla Vittoria di Bolzano
74
L’Esposizione Universale (E42)
80
Mussolini e il mito augusteo mito
3.1. CONSERVAZIONE/DISTRUZIONE
86
2
3.2. NUOVE RISPOSTE: COSTRUZIONE, RILOCAZIONE, 102
RICONTESTUALIZZAZIONE
Il caso di Pola
121
Il progetto WeGil nell’ex Casa della Gioventù Italiana del Littorio 129
a Roma
CONCLUSIONE
133
Scheda n. 1
136
Scheda n. 2
145
Il fregio scultoreo in piazza del Tribunale a Bolzano
Scheda n. 3
151
Scheda n. 4
156
Scheda n. 5
158
La stele di Axum tra Roma e l’Etiopia
Scheda n. 6
168
Scheda n. 7
174
BIBLIOGRAFIA
177
SITOGRAFIA
180
4
INDICE IMMAGINI
4. Sacrario dei Partiti alla Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932 a Roma
5. Ossario di Redipuglia
6. Ossario di Redipuglia
7. Supplemento illustrato del “Corriere della Sera”, Anno XXXVII - n.9, 3 marzo 1935 -
Anno XIII
10. Copertina della rivista “La difesa della razza”, Anno 1 - N.1 - 5 agosto XVI
13. La storia di Roma attraverso le opere edilizie di Publio Morbiducci nel Palazzo degli
Uffici dell’EUR
19. Interno del palazzo Gil, sala della mappa coloniale dell’Africa
5
28. Bosco a forma di svastica a Zernokow (Berlino)
30. Cancellata di Mirko Basaldella del Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma
6
INTRODUZIONE
La presente ricerca si colloca nell’ambito del dibattito attuale intorno alla presenza negli
spazi pubblici dei monumenti che fanno riferimento alla storia e al passato occidentale,
in particolar modo all’esperienza del fascismo, del colonialismo e dello schiavismo.
Quello che emerge è una messa in discussione di certo tipo di narrazione e rappresen-
tazione della storia, soprattutto nella sua accezione di memoria e responsabilità colletti-
ve; tutto ciò converge nel dibattito intorno al ruolo che rivestono i monumenti come
manifestazioni fisiche di tale narrazione all’interno degli spazi pubblici e urbani, vissuti
quotidianamente da popolazioni e società i cui valori e caratteristiche sono in continuo
cambiamento.
Nel tentare di avviare una riflessione sul ruolo del monumento in ambito contempora-
neo, entrano in gioco, però, numerose implicazioni e problematiche a cui è necessario
dedicare attenzione: il monumento, come conformazione particolare di uno spazio
pubblico e collettivo, può trasformarsi in un mezzo di affermazione del potere politico
che ha la facoltà di decidere quali caratteristiche tale spazio, visto e vissuto, debba pos-
sedere. Di conseguenza, esso è frutto di determinate scelte che portano l’immagine a
legarsi profondamente ad una particolare narrazione storica e politica, che è inevitabil-
mente parziale.
7
Questa parzialità della rappresentazione viene oggi interpretata, in alcuni casi, come
mistificazione del passato; pertanto, bisogna domandarsi che cosa si intenda per me-
moria condivisa e quali siano le modalità più adatte per rappresentarla.
Come possiamo assolvere al nostro bisogno di ricordare (che è il principio del monu-
mento in quanto tale, poiché derivante etimologicamente dal verbo latino monere, cioè
ricordare) in una società in continua trasformazione e che mette profondamente in di-
scussione alcuni di quelli che vengono concepiti come valori fondanti e immutabili?
La questione della conservazione e trasmissione nel presente delle tracce del passato
per mezzo del monumento si riversa, inoltre, nell’ambito della storia dell’arte e dell’ar-
chitettura e pertanto, rientra nella sfera delle problematiche di patrimonializzazione del-
la cultura.
Come riportato nella definizione di «monumento»1, infatti, esso si definisce «in senso
più ampio, qualunque opera d’arte, specialmente d’architettura o di scultura, che per il
suo pregio d’arte e di storia, o per il suo significato, abbia speciale valore culturale, arti-
stico, morale.»2
«La parola latina monumentum va ricollegata alla radice indoeuropea men che esprime
una delle funzioni fondamentali della mente (mens), la memoria (memini). Il verbo monere
significa ‘far ricordare’, donde ‘avvisare’, ‘illuminare’, ‘istruire’. Il monumentum è un segno
del passato. Il monumento, se si risale alle origini filologiche, è tutto ciò che può richiama-
re il passato, perpetuare il ricordo»3
2 Ibidem.
3 Jacques LeGoff, Documento/Monumento, Enciclopedia Einaudi, Torino 1978, vol. V, pp. 38-43.
8
periodo, sarà necessario cercare di individuare e mettere in luce gli aspetti principali dei
mutamenti storici e sociali del periodo considerato, come risposta e conseguenza di
dinamiche anteriori.
La cultura memoriale sviluppata nello spazio pubblico in Italia negli ultimi due secoli è
stata condizionata dall’affermazione di tre realtà politiche e istituzionali principali: lo sta-
to monarchico liberale, lo stato fascista (che vide l’istituzione del regime totalitario retto
dal Mussolini affiancato dalla monarchia sabauda) e lo stato democratico repubblicano
istituitosi nel dopoguerra.
I monumenti realizzati in questi tre contesti si possono collocare in tre macroaree, indi-
viduate a livello stilistico ed estetico, politico ed ideologico: Risorgimento, Grande
Guerra/Fascismo e Resistenza.
Un ulteriore finestra si apre nel contesto attuale, sviluppatosi con la messa in discussio-
ne delle narrazioni egemoniche occidentali, con una ricaduta nell’elaborazione della
memoria pubblica e nell’uso degli spazi collettivi della società.
Il dibattito contemporaneo vede la ridefinizione del ruolo del monumento, sia nel suo
relazionarsi alla storia (nel caso di monumenti realizzati nel passato), sia nei nuovi mes-
saggi di cui si fa portatore (nel caso, ad esempio, della costruzione di nuovi
monumenti).
Nella presente ricerca si cerca di mettere in luce le dinamiche con cui i monumenti rea-
lizzati in epoca fascista sono sopravvissuti alla «crisi di regime»4 che ha portato alla ca-
4 M.L. Salvadori, L’Italia e i suoi tre stati. Il cammino di una nazione, Laterza, Bari, 2011, p. VIII.
9
duta del fascismo e all’istituzione della repubblica, ma anche come essi rispondono ai
più recenti episodi di crisi sociale e culturale che hanno condizionato il periodo del do-
poguerra fino ad oggi.
Il fine e l’intento di questa analisi coincide con ciò che Igiaba Scego esprime nel testo
Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, a proposito della necessità «di inserire i
punti di riferimento simbolici del fascismo nella sintassi della storia e della città, con un
peso specifico diverso»5.
La tematica monumentale viene scelta, pertanto, per tentare di rintracciare una risposta
ad una problematica assai più ampia e complessa, ossia quella che riguarda le modalità
con cui l’Italia si confronta con il proprio passato fascista e coloniale, una storia che ha
lasciato numerose tracce di sé che oggi vengono sottoposte ad una lettura e rilettura, al
fine di attribuire un senso al presente.
Si procede, dunque, tramite un’analisi del monumento nelle sue linee generali, ripercor-
rendo ciò che è essenziale per la sua conformazione attuale, avvalendosi di un approc-
cio possibilmente ampio e multidisciplinare, che comprenda, ad esempio, i più recenti
studi di cultura visuale e teoria dell’immagine, di storia dell’arte e dell’architettura, inter-
cettando esempi di discussione specifici nei quali sono state intraprese particolari ed
innovative soluzioni per l’ideazione dei monumenti nel secolo scorso e nel periodo at-
tuale.
Al fine di questa ricerca, sono stati individuati studi sulle modalità costruzione della
memoria collettiva inserite all’interno delle pratiche costruttive e architettoniche avviate
dai regimi dittatoriali, con particolare riferimento al regime fascista.
5 R. Bianchi, I. Scego, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, 2014, p. 87.
10
di affermazione del nuovo ruolo imperiale dell’Italia), vengono presi in esame alcuni casi
specifici di monumenti realizzati durante il ventennio fascista.
Questi casi emblematici vengono esaminati, nelle loro dinamiche di nascita e sviluppo,
all’interno di apposite schede analitiche collocate nella sezione conclusiva della ricerca;
in questo modo si è cercato di mantenere una continuità discorsiva all’interno della trat-
tazione, lasciando uno spazio specifico per l’approfondimento delle caratteristiche più
oggettive relative a questi monumenti.
Essi esemplificano l’uso della monumentalità come espressione della dittatura e del cul-
to della personalità di Mussolini, ma anche come strumento di fascistizzazione, coloniz-
zazione e italianizzazione delle aree controllate dal regime, quale volontà di realizzare
delle «architetture per un’identità italiana»6, come specificato nel testo di Nicoloso; in
esso viene evidenziata la finalità del progetto unitario mussoliniano, cioè la «rimodella-
zione antropologica dell’italiano»7 ad un livello più profondo e di cui i segni vengano
tramandati anche nel futuro.
«Architetture pensate non solo per lasciare ai posteri il ricordo “positivo” del fascismo
mussoliniano, ma anche […] per continuare a produrre sistemi semantici identitari»8
Tali esempi rispondono, quindi, alla volontà di mettere in luce le modalità di appropria-
zione dello spazio e del potere da parte del fascismo, ma anche le modalità di risposta e
fruizione che tali tracce suscitano nel periodo ad esso successivo e nel presente, nel
conformare e definire la cultura e la civiltà contemporanea.
Tra i casi presi in in considerazione vi è la città di Roma, analizzata attraverso alcuni mo-
numenti e i progetti architettonici realizzati durante l’arco del ventennio fascista, in ri-
sposta alle sue differenti esigenze nel tempo. Gli esempi all’interno della capitale sono
molti, essendo stata sottoposta ad una grande concentrazione di interventi in quegli
anni.
7 ivi, p. 9.
8 ivi, p. 10.
11
Successivamente si ripercorrono le vicissitudini della stele di Axum situata nella piazza
di Porta Capena, seguendo l’analisi che ne fa Igiaba Scego, quale importante esempio
di testimonianza e rappresentazione delle imprese coloniali in Eritrea, Etiopia e Somalia.
Un altro caso in ambito laziale che viene preso in esame è quello della colossale scritta
“DUX” realizzata nel 1939 dalla Scuola Allievi Guardie Forestali di Cittaducale lungo uno
dei fianchi del Monte Giano ad Antrodoco, in provincia di Rieti; nel 2017 questa partico-
lare testimonianza di monumentalità “vegetale” è stata data alle fiamme e poi sottopo-
sta ad alcune operazioni di “restauro” da parte del gruppo di estrema destra Casapound
durante l’anno successivo, ripiantando circa mille pini austriaci, al fine di ristabilire
l’aspetto originario della scritta.
In un ulteriore fase si cerca di evidenziare la continuità tra passato e presente (con par-
ticolare attenzione al contesto contemporaneo, inteso come successivo alla fine della
seconda guerra mondiale), incarnata in questi monumenti, spesso oggetto di interventi,
discussioni, critiche e revisioni tali da suggerire che la questione della memoria fascista
e colonialista sia ancora aperta e in via di definizione.
9J. Gudelj, Resemiotization of Eastern Adratic Antiquities. Uses and Abuses of the Ancient Past, Ikon Journal
of Iconographic Studies, volume 13, Rijeka, 2020, p. 269
10Wu Ming, Speciale Point Lenana: Alto Adige, Trento e Trieste, Internazionale, video e recensioni, Wu Ming’s
Blog, 1 ottobre 2013, <https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/10/reading-point-lenana-in-alto-adi-
ge-urbanistica-architettura-e-colonialismo/>
12
Le tracce architettoniche, monumentali e simboliche del fascismo sono ancora presenti
e suscitano reazioni e risposte differenti all’interno del dibattito politico, intellettuale,
ma anche comunitario e cittadino; è necessario quindi valutare queste reazioni più ap-
profonditamente, come risposte ad un bisogno di riappropriazione dello spazio e di riaf-
fermazione di valori fondamentali.
Si passa quindi ad un’analisi del dibattito tra chi sostiene la conservazione di queste
manifestazioni e chi, invece, ne vorrebbe l’eliminazione; successivamente si prendono
in esame le altre proposte, tra cui quelle artistiche, avanzate al fine di «ri-immaginare la
nozione di monumento»11 in base alle tre possibilità esposte dalla studiosa Ruth Ben-
Ghiat nel primo incontro I luoghi dei fascismo all’interno del progetto dell’Istituto Parri:
costruzione di nuovi monumenti, rilocazione, ricontestualizzaizone/risignificazione.
Nuove necessità e valori, quindi, che vogliono essere espressi e trovare il proprio spazio
di rappresentazione, anche come elaborazione e ri-elaborazione di un passato com-
plesso e in molti casi doloroso, ma con cui è necessario confrontarsi.
L’ambito della storia dell’architettura si è arricchito negli ultimi decenni di studi relativi
all’attività costruttiva del fascismo, nel quale è stato dedicato spazio anche alla questio-
ne dei monumenti e della memorialistica impiegata negli spazi pubblici. Tra questi, per
poter acquisire uno sguardo maggiormente approfondito sul contesto in cui si origina-
13
rono tali monumenti, si cita qui il testo di Emilio Gentile sul «fascismo di pietra»12 e quel-
li di Paolo Nicoloso sulle implicazioni identitarie dell’architettura elaborata dal regime13.
Il repertorio messo a disposizione online, attraverso gli archivi e altre fonti digitali, si è
rivelato uno strumento essenziale per realizzare questa ricerca, soprattutto a causa del-
la particolare situazione pandemica, che ha condizionato e limitato la possibilità di usu-
fruire dei luoghi del sapere e della ricerca, come le biblioteche, gli archivi, i musei e, per
il caso particolare dei monumenti che sono oggetto di questo elaborato, le stesse città.
Nell’ultima sezione di questa analisi, tale repertorio ha fornito gran parte delle fonti a
supporto dell’analisi, in quanto il dibattito attuale intorno alle risposte e al ruolo attribui-
to ai monumenti di epoca fascista, si sviluppa soprattutto nell’ambito giornalistico come
registrazione di eventi controversi, oppure nell’elaborazione di nuove pratiche artistiche
e culturali che impiegano frequentemente gli spazi forniti da internet e dal mondo digi-
tale.
13 P. Nicoloso, Architetture per un'identità italiana: progetti e opere per fare gli italiani fascisti, Gaspari, 2012;
P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Einaudi, Torino, 2008.
14
Nell’elaborazione e nella stesura di questo elaborato sono stati fondamentali il contributo e
la guida della Prof.ssa Gudelj, a cui dedico un ringraziamento speciale per avermi seguita
con attenzione e disponibilità in questa ricerca.
15
1
DEFINIRE I MONUMENTI
La presenza del monumento nello spazio pubblico, che configura la coscienza e la me-
moria storica di una comunità, conduce inevitabilmente a considerare tali oggetti attra-
verso una prospettiva al di là di quella esclusivamente estetica e storico-artistica. Ciò
non vuol dire rinnegare un particolare valore artistico insito nei monumenti, quanto va-
lutare la questione in un’ottica più ampia e approfondita.
«[Il monumento] è oggetto etico, teologico e politico. Sul suo corpo si celebrano culti e
rituali, si combattono aspre battaglie ideologiche, si fanno e si disfano i legami della me-
moria, si sfogano violenze iconoclaste, si intessono sofisticate strategie di riappropriazione
e di rimediazione.»
La concezione del monumento si ricollega alla questione dell’esercizio del potere (sia
per quanto riguarda il potere insito nelle immagini, sia quello esercitato dalle istituzioni),
ma anche con l’esperienza della morte e della memoria.
14 Memorie di pietra: i monumenti delle dittature, a cura di G. P. Piretto, Milano, Raffaello Cortina, 2014, p. 17.
16
Monumenti come beni culturali
Una possibile definizione dei monumenti è riconducibile alla loro natura di beni culturali
facenti parte del patrimonio culturale italiano.
In base all’articolo 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, sono beni culturali
«le cose immobili e mobili che, ai sensi degli att. 10 e 11, presentano interesse artistico,
storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose in-
dividuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà»15.
È interessante notare come si è verificato un passaggio fondamentale tra una delle pri-
me elaborazioni legislative in merito al patrimonio culturale, la legge Bottai del 1939, e
l’attuale definizione del Codice dei beni culturali.
La legge Bottai, infatti, indicava come oggetto dell’interesse pubblico «le cose d’inte-
resse artistico o storico, [che] si distinguono per la loro non comune bellezza»16. Dalla
mera valutazione estetica elaborata dalla legge fascista, si passa al concetto di testimo-
nianza del valore di civiltà.
A questo punto è necessario riflettere sulla concezione e sull’uso del termine “civiltà”,
tentando di esaminare e mettere in luce ciò che ne costituisce il valore.
Etimologicamente il termine deriva dal latino civis (derivante da civilitas), con cui si
identificava il soggetto che viveva nella città; nell’uso del linguaggio italiano si possono
individuare alcuni significati diversi, tra cui quello riportato dall’Enciclopedia Treccani,
come «la forma particolare con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale
d’un popolo»17.
In questo senso si parla, ad esempio, di civiltà etrusca, romana o di civiltà egizia (e tante
altre); essa designa una particolare conformazione culturale e sociale collocata stori-
camente nel passato, in una dimensione passata rispetto al presente. Nel senso dei beni
culturali, tali civiltà vengono identificate attraverso le tracce che hanno lasciato di loro
stesse e che possono fornire importanti chiavi di lettura della storia e ampliare, attraver-
so l’allontanamento della prospettiva, la comprensione e la valutazione del presente.
17
La distanza temporale che le caratterizza porta molto spesso ad attribuire loro una con-
cezione unitaria, come una sorta di blocco di caratteristiche e valori che caratterizzaro-
no determinate culture e popolazioni del passato, da cui attingere gli elementi per la
creazione di un’identità collettiva e sedimentata nel tempo.
Ciò che si identifica, piuttosto, è l’elaborazione da parte del regime di un apparato poli-
tico, ideologico e culturale, in molti casi largamente condiviso e sostenuto dalla popo-
lazione italiana, che condizionò profondamente la concezione che gli italiani ebbero di
loro stessi e del loro ruolo nel mondo. Tale condizionamento comporta la sopravvivenza
di alcune dinamiche e problematiche negli anni successivi alla fine del fascismo e che
possiamo identificare all’interno del dibattito intorno ai monumenti. La questione del
razzismo e delle politiche imperialiste messe in atto dal regime, ad esempio, rientrano
pienamente in queste problematiche.
Il concetto di civiltà, infatti, presenta un legame molto forte con l’esperienza del colo-
nialismo e dell’imperialismo occidentali, che vennero condotti attraverso la retorica del
“portare la civiltà” ai popoli che ne erano considerati carenti.
Nell’ambito del Codice dei beni culturali, però, il valore della civiltà si differenzia dalla
concezione che di essa ne aveva il fascismo: essa non si colloca più nell’ambito di un
percorso di dominazione e supremazia di una presunta civiltà italica moderna.
I beni culturali all’interno della legislazione italiana, invece, vengono considerati stru-
mento di sviluppo culturale della nazione; tale implicazione viene sottolineata dal lega-
me che intercorre tra tutela e valorizzazione.
18
1. La tutela consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sul-
la base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimo-
nio culturale e a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizio-
ne.
[…]
1. La valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività di-
rette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori con-
dizioni di utilizzazione e fruizione pubblica, anche da parte delle persone diversamente
abili, del patrimonio stesso, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura. Essa compren-
de anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio
culturale.»18
Il valore di civiltà, in questo modo, non si ricollega in senso fascista alla creazione di una
grande civiltà italiana considerata come un blocco immutabile di valori e tradizioni, ma
nel riconoscimento della pluralità di conformazioni culturali e storiche che caratterizza-
no il bene culturale.
La legittimità degli interventi nei confronti dei monumenti di epoca fascista si colloca
proprio Ion questa prospettiva: ampliare le possibilità di dialogo e di scambio di infor-
mazioni tra le varie componenti della comunità.
18 G. B. Zanetti, Il nuovo diritto dei beni culturali, Libreria Editrice Cafoscarina, 2017, p. 27.
19
Monumenti e potere
«Riguardo al rapporto con la sfera del potere e il suo esercizio, il monumento da un lato
corrisponde compiutamente all’esigenza connaturata al potere stesso di autorappresen-
tarsi ed esibirsi in immagine. […] Dall’altro è esso stesso immagine potente ed efficace,
performativa nel senso che induce reazioni e produce risposte nel pubblico»19
Le relazioni tra l’immagine e il potere sono state esaminate all’interno dell’ambito della
cultura visuale e delle teorie dell’immagine da studiosi come Louis Marin e David Freed-
berg.
«Che cosa diciamo quando diciamo “potere”? Potere vuol dire innanzitutto essere in con-
dizione di esercitare un’azione su qualcosa o su qualcuno. […] Potere dell’immagine, auto-
rità dell’immagine: nella sua manifestazione, nella sua autorità, determina un cambiamento
nel mondo, crea qualcosa.»22
La questione del potere delle immagini viene analizzata da Freedberg in relazione alla
loro efficacia e vitalità che conducono a particolari «reazioni»23 da parte degli osserva-
19 Memorie di pietra: i monumenti delle dittature, a cura di G. P. Piretto, Milano, Raffaello Cortina, 2014, p. 18.
20 Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, Einaudi, 2016, p. 235.
21 Ibidem.
22Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Raffaello Cortina Edito-
re 2009, p. 276.
23D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi,
2009, p. 8.
20
tori e dei fruitori, tra cui si colloca anche l’atto distruttivo dell’iconoclastia (che verrà
esaminata nelle pagine seguenti della presente ricerca).
Come si è già evidenziato nel caso dell’uso strumentale che ne fece il fascismo, l’archi-
tettura è, da sempre, un veicolo fondamentale nell’affermazione del pensiero dominante
e nella formazione dell’immagine che un popolo ha di se stesso; i meccanismi di rico-
noscimento che essa è in grado di attuare rappresentano un elemento fondamentale
nella definizione dell’identità collettiva e individuale di una società e dei suoi protagoni-
sti.
I monumenti sono realizzati per essere visti e letti da una moltitudine di persone che at-
traverso le dinamiche di migrazione e di ricambio generazionale, costituiscono l’ele-
mento mobile della società e delle sue trasformazioni. Allora bisogna interrogarsi su
quali siano le modalità con cui questi oggetti architettonici connotati da una forte quali-
tà di durevolezza e permanenza, si confrontino con tale mobilità storica e sociale.
24 Memorie di pietra: i monumenti delle dittature, a cura di G. P. Piretto, Milano, Raffaello Cortina, 2014, p. 19.
21
Monumenti e memoria
«La memoria collettiva e la sua forma scientifica, la storia, si applicano a due tipi di mate-
riali: i documenti e i monumenti. Infatti ciò che sopravvive non è il complesso di quello che
è esistito nel passato, ma una scelta attuata sia dalle forze che operano nell’evolversi tem-
porale del mondo e dell’umanità, sia da coloro che sono delegati allo studio del passato e
dei tempi passati, gli storici»25
La parola latina documentum, invece, deriva dal verbo docere (insegnare), ma, nel tem-
po, il significato di prova ha sostituito quello originario di insegnamento.
Un interessante itinerario etimologico che mette in luce la natura del monumento è for-
nita dalla terminologia impiegata dalla lingua tedesca: il termine tedesco Mahnmal rin-
via al verbo mahnen, che, riconducibile alla sfera semantica del latino monere, indica «il
far ricordare, far pensare, avvertire, ammonire, esortare, consigliare, ispirare, predire e
preannunciare»26.
25 Jacques LeGoff, Documento/Monumento, Enciclopedia Einaudi, Torino 1978, vol. V, pp. 38-43.
26 Memorie di pietra: i monumenti delle dittature, a cura di G. P. Piretto, Milano, Raffaello Cortina, 2014, p. 20.
22
un particolare ruolo di prova, di testimonianza di quanto è accaduto nel corso della sto-
ria e, in certi casi, contribuire al fatto che alcuni eventi non si verifichino più.
Secondo la definizione che Alois Riegl diede nel testo Il culto moderno dei monumenti:
«per monumento s’intende, nel senso più originale e più antico del termine, un’opera della
mano dell’uomo creata con lo specifico scopo di conservare sempre presenti e vivi singoli
atti o destini umani (o anche loro aggregati) nella coscienza delle generazioni a venire»27.
Riegl individuò due valori necessari per comprendere la nozione di monumento: il valo-
re storico e quello artistico. Il primo caratterizza «tutto ciò che è stato e che oggi non
esiste più»28 e che va a costituire un anello decisivo nella catena di sviluppo del percor-
so umano. Il valore storico consiste nell’elemento oggettivo, mentre il valore artistico in
quello soggettivo; quest’ultimo, infatti, è determinato dal Kunstwollen, dall’intenzione
d’arte che cambia nel tempo e negli individui.
Entrambi vivono in una relazione di compresenza all’interno della definizione del mo-
numento, e, singolarmente, non sono in grado di costituirne l’essenza.
Riegl prosegue la suo riflessione analizzando il «valore in quanto memoria»29, che ap-
partiene all’epoca moderna e che ha innescato un processo di generalizzazione del
concetto di monumento; questo valore influisce sulle modalità di conservazione dei
monumenti antichi messe in atto dalla società (Riegl fa l’esempio del cambiamento nel-
l’atteggiamento nei confronti della Colonna Traiana tra Medioevo e Rinascimento).
Attraverso questa estensione della nozione di monumento, innescata dal valore in quan-
to memoria, avviene la conciliazione del valore storico e di quello artistico; in questo
modo la funzione del monumento diventa quella di perpetuare e tramandare al futuro
eventi, atti e valori essenziali della storia.
27A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i sui inizi, a cura di S. Scarrocchia, Abscondita,
Milano, 2011. p. 11.
28 Ivi, p. 12.
29 Ibidem.
30E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Edizioni
Diabasis, Reggio Emilia, 2010, p. 13.
23
I monumenti costruiscono particolari luoghi della memoria, nella definizione fornita da
Pierre Nora nel 1984:
«un’unità significativa, d'ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavorio
del tempo ha reso un elemento simbolico di una qualche comunità»31
«Il significato che noi cerchiamo di legare agli oggetti dipende infatti dal contesto storico
e dalle multiple memorie collettive che determinano la modalità con cui vengono percepi-
ti»32
Maurice Halbwachs nella prima parte del Novecento, mise in relazione memoria colletti-
va e gruppo sociale; egli identificò la memoria individuale come il punto si intersezione
di più flussi collettivi di memoria, considerando la memoria individuale del singolo
come priva di fondamento.33 La memoria di ognuno, infatti, è costantemente stimolata
dalle interazioni che intrattiene con altri membri della comunità e del gruppo sociale in
cui si identifica.
La memoria collettiva, pertanto, non si configura come una realtà oggettiva e un ripro-
posizione tale e quale della storia, ma costituisce una ricostruzione del passato, profon-
damente influenzata dalle caratteristiche dei gruppi sociali che la producono e che, allo
stesso, ne sono condizionati.
31Istituto per i beni artistici, culturali e naturali, Per una definizione di luogo di memoria, <http://rivista.ibc.-
regione.emilia-romagna.it/xw-200303/xw-200303-d0001/xw-200303-a0017>, consultato in data
14/06/2021.
24
«È proprio il rapporto tra costruzione della memoria e pensiero dominante della società a
essere l’elemento chiave per il riverbero architettonico (monumentale e museale) del ri-
cordo: ciò non è in sé né positivo né negativo, ma è fondamentale riconoscere la dipen-
denza della memoria dal sistema sociale in cui è generata»34
«Il memoriale, come corpo della memoria, viene a essere un frammento tendenzioso, che
si vorrebbe essere espressione universale, ma che è sempre espressione della memoria
collettiva di una comunità. Accanto a questa esigenza identitaria, ovvero sapere quello che
si è stati, vi è il desiderio di non essere dimenticati, di “scongiurare il tempo”. […] Il memo-
riale/monumento viene quindi investito di una sorta di funzione sciamanica in un rito di
preservazione dal tempo.»36
34E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Edizioni
Diabasis, Reggio Emilia, 2010, p. 25.
36E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Edizioni
Diabasis, Reggio Emilia, 2010, p. 15.
25
significati e valori che possono essere condivisi oppure creare reazioni contrastanti e
conflittuali.
I monumenti fanno parte della narrazione con la quale l’Italia racconta e concepisce se
stessa e la propria storia, all’interno di un processo di scambio di informazioni continuo
tra passato, presente e futuro.
Durante il Ventennio tale narrazione si svolse attorno alla glorificazione e alla modella-
zione del carattere e dello spirito italiano in un’ottica fascista e imperiale, che abbiamo
evidenziato nel capitolo precedente. Mussolini era consapevole delle modalità con cui
l’architettura incide sull’immaginario collettivo e soprattutto, della sua capacità di per-
manere nel tempo e continuare ad agire anche nei contesti storici futuri.
26
2
La natura e le intenzioni del fascismo variarono nel corso degli anni in relazione alla cre-
scita del potere e del consenso che esso si andava aggiudicando attraverso diverse
modalità di intervento, da quelle prettamente propagandistiche e demagogiche, alle vie
più violente dello squadrismo e della repressione, fino alla totale conquista del potere
politico e della direzione del paese.
Un aspetto peculiare del periodo in cui si verificò l’avvento e l’instaurazione del fasci-
smo, fu che esso vide la coesistenza di regime fascista e monarchia, che perdurò fino
alla caduta definitiva del regime e alla fine della seconda guerra mondiale.
La casa dei Savoia veniva identificata come guida del Regno d’Italia, profondamente
condizionato dal mito del Risorgimento e dell’Unità. Il ruolo dei Savoia come guida del
processo unitario e la conformazione monarchica dello Stato italiano, costituiva un ele-
mento identitario rilevante per il popolo italiano del primo Novecento.
27
l’identità nazionale italiana nei decenni precedenti e in quelli successivi all’instaurazione
dello stato totalitario.
Durante l’intera durata del ventennio fascista, il ruolo della monarchia non venne mai
messo in discussione, nonostante esso subisse un sostanziale indebolimento politico e
istituzionale.
Tuttavia, la componente monarchica continuò ad avere un peso nella direzione del go-
verno e dell’esercito; lo testimonia la presenza di esponenti della corona nelle cerimonie
ufficiali, tra cui le inaugurazioni dei nuovi monumenti.
Fino all’arresto di Mussolini, Vittorio Emanuele III beneficiò del consenso e della cele-
brazione che il fascismo riuscì a suscitare attraverso l’ampio programma di modernizza-
zione e di intervento urbanistico e architettonico del paese, nonché della conquista co-
loniale a fondazione dell’impero, con cui si attribuì la nomina di Imperatore d’Etiopia.
Il monumento di Torino venne inaugurato nel 1937 per celebrare la morte del Duca d’Ao-
sta avvenuta nel 1931; la cerimonia venne immortalata dalle telecamere del cinegiornale
dell’Istituto Luce.
«Nella vasta piazza sul cui sfondo si ergono i torrioni di palazzo Madama, la statua del con-
dottiero domina l’imponente monumento su cui i capisaldi, quattro statue, rappresentano i
28
1. Monumento a Emanuele Filiberto duca d’Aosta a Torino
fanti e le specialità delle varie armi. I cinquantamila ex combattenti venuti da tutta Italia
sfilano davanti alla maestà del sovrano, alla duchessa d’Aosta madre, ai principi di Piemon-
te e agli altri principi sabaudi che hanno presenziato all’austera cerimonia. Il re imperatore
e i principi accompagnati dal quadrunviro maresciallo De Bono che ha pronunciato il di-
scorso inaugurale, osservano l’artistico monumento che l’Italia fascista dedica all’invitto
condottiero della terza armata.»38
38 Archivio Luce, Inaugurazione del monumento a Emanuele Filiberto duca d’Aosta, 7 luglio 1937, <https://
patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL5000025856/2/l-inaugurazione-del-monumento-emanuele-
filiberto-duca-d-aosta>, consultato in data 13/06/2021.
29
A Roma, invece, il monumento al Duca d’Aosta prese le forme di un ponte sul Tevere,
iniziato nel 1936 e terminato nel 1939, per congiungere il quartiere Flaminio e il nuovo
complesso del Foro Italico.
Ai quattro angoli furono collocati dei pilastri marmorei in Travertino, decorati con altori-
lievi raffiguranti le battaglie combattute dalla Terza Armata presso i fiumi Sale, Piave,
Tagliamento e Isonzo durante la Prima Guerra Mondiale.
L’esperienza della prima guerra mondiale fu decisiva per la nascita e l’affermazione dei
Fasci di combattimento e del fascismo.
Mussolini vedeva nella guerra la possibilità di compimento della rivoluzione che il socia-
lismo non aveva la forza di mettere in atto sul suolo italiano.
In questo ambito, infatti, circolava la nozione della «vittoria mutilata»40, espressione co-
niata da Gabriele d’Annunzio in relazione ai risultati ottenuti dall’Italia nelle trattazioni
con gli alleati vincitori del conflitto mondiale (Inghilterra, Francia, Stati Uniti): secondo i
sostenitori di questa concezione l’Italia non aveva ottenuto ciò che le spettava come
paese vincitore della guerra, specialmente il dominio dei territori dell’Adriatico orienta-
le, problematica che viene definita all’interno della "questione adriatica”.
a) che il Trattato di Versailles sia riveduto e modificato in quelle parti che si appalesano
inapplicabili o la cui applicazione può essere fonte di odi formidabili e fomite di nuove
guerra;
40 N. Labanca, Dizionario storico della prima guerra mondiale, Laterza, 2016, p. 395.
30
b) l'applicazione effettiva del Patto di Londra e l’annessione di Fiume all’Italia e la tutela
degli italiani residenti nelle terre non comprese nel Patto di Londra.»41
Con il Patto di Londra del 26 aprile 1915, l’Italia, in accordo con gli stati dell’Intesa, si as-
sicurava l’acquisizione del Trentino, del Tirolo cisalpino, della contea di Gorizia e di Gra-
disca, di Trieste, dell’Istria, della Dalmazia settentrionale e delle isole; veniva contempla-
ta inoltre, la costituzione di una Croazia indipendente con Fiume (odierna Rijeka) e il li-
torale croato fino alla Dalmazia come confine, della Serbia, del Montenegro e dell’Alba-
nia.
L’introduzione della cosiddetta dottrina Wilson, dal nome del presidente degli Stati Uniti
quando questi entrarono in guerra, minava le ambizioni italiane nei territori dell’Adriati-
co orientale, in quanto introduceva «il diritto all’indipendenza secondo il principio di
nazionalità»42.
Quando la guerra finì e si avviarono le trattazioni a Versailles nell’ottobre del 1919 tra gli
stati vincitori – Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Italia – , il principio di Wilson diven-
ne uno dei criteri con cui si discusse per la delimitazione del confine orientale italiano.
«Ciò era difficile da accettare per i governanti italiani, che volevano ottenere un confine
non giustificato solo da ragioni etniche ma anche geografiche e militari»43
L’Italia rivendicava gli accordi del patto di Londra e, in aggiunta, la città di Fiume, non
compresa dal patto ma considerata a causa della maggioranza italiana presente nella
città dichiarata da un censimento del 1919.
41Fasci di Combattimento Italiani, Orientamenti teorici. Postulati pratici, Sede Centrale Milano, Via Monte di
Pietà 21, <https://iamthehistorian.files.wordpress.com/2017/05/fasci-italiani-di-combattimento-orientamenti-
teorici-postulati-pratici.pdf>, consultato in data 13/06/2021.
42Istria nel tempo, Centro Ricerche Storiche di Rovigno, 2006, cap V archiviato il 3 aprile 2016 in Internet
Archive, p. 481.
43 Ivi, p. 482.
31
Le aspirazioni italiane, dunque, entravano in conflitto con quelle del nuovo soggetto in-
ternazionale nato in seguito alla dissoluzione dell’Austria-Ungheria, il Regno dei Serbi,
Croati e Sloveni.
Il 12 novembre 1920 i due Paesi firmarono un trattato, il Trattato di Rapallo, con cui veni-
vano stabiliti i relativi confini: l’Italia si aggiudicava l’intera Venezia Giulia, ad eccezione
di Fiume, ma perdeva la quasi totalità della Dalmazia, tranne la Zara e l’isola di Lagosta.
La città di Fiume era già stata occupata dai legionari di Gabriele D’Annunzio già nel set-
tembre del 1919, che avevano instaurato un «libero Stato corporativo con tratti in parte
socialrivoluzionari»44. D’Annunzio si fece portavoce dello scontento del movimento na-
zionalista, incarnato nella tematica della «vittoria mutilata»45
«”Italiani di Trieste, italiani dell’Istria intera, italiani di tutta la Venezia Giulia, dal Timavo al
Carnaro, il delitto sta per essere consumato, il sangue sta per essere versato. I morituri vi
salutano. I morituri salutano la patria vicina e la patria lontana. Essi dedicano il loro sacrifi-
cio all’avvenire... L’Orbo della vittoria sta per essere abbattuto dal Lungimirante del tradi-
mento. Questo era scritto; e questo è meraviglioso. Eia, fratelli! Se sarò colpito alla gola
troverò tuttavia la forza di sputare il mio sangue e di gettare il mio grido. Turatevi gli orec-
chi con un po’ di fango fiscale. Viva l’Italia!”
Le tematiche in gioco all’intento della questione non erano di pertinenza soltanto della
politica estera, ma esprimevano anche lo scontento del movimento nazionalista, incar-
nato nella concezione della vittoria mutilata.
Con il Trattato di Rapallo, infatti, l’Italia si aggiudicava il dominio della Venezia Giulia, di
Zara e dell’isola di Lagosta, ma rinunciava alla città di Fiume, l’odierna Rijeka; la città era
stata al centro delle rivendicazioni italiane che, invocando il principio dell’autodetermi-
nazione dei popoli elaborato dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, ne soste-
nevano l’annessione al Regno d’Italia.
44 N. Labanca, Dizionario storico della prima guerra mondiale, Laterza, 2016, p. 395.
45 Ibidem.
46 M. Scurati, M. Il figlio del secolo, A. Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani, 2018, p. 470.
32
In questi territori e nelle «nuove province»47 di Trento e del Tirolo meridionale (Alto Adi-
ge) annesse il 26 settembre 1920 (in precedenza appartenenti all’impero d’Austria) il fa-
scismo mise in atto un processo di italianizzazione forzata (che verrà esaminata più ap-
profonditamente nel seguito dell’analisi) attraverso la soppressione delle componenti
considerate “straniere” e l’esaltazione del carattere di italianità attribuito a queste zone.
Il ruolo degli arditi, corpi speciali di truppe d’assalto nati durante il conflitto, ebbe un
peso decisivo nella formazione della cultura politica fascista: essi infatti rifiutarono di
riprendere le abitudini della vita civile nell’ottica di perpetuare lo stato di guerra nell’in-
tento di rivoluzionare l’intera società: culto del sacrificio e amore per la patria si coniu-
gavano allo sprezzo di qualunque forma politica. Fu insieme agli arditi che d’Annunzio
tra il 1919 e il 1920 portò a compimento l’occupazione della città di Fiume.
«A Fiume comparvero per la prima volta nuove pratiche cerimoniali e nuovi simboli, come i
discorsi fra il leader e la folla, il saluto romano con il braccio destro alzato, o il grido “eja,
eja, alalà”, che avrebbero costituito un aspetto fondamentale della cultura politica
fascista.»48
Nelle elezioni del novembre 1919 i Fasci di combattimento subirono una sconfitta ecla-
tante, a fronte, invece, di un grande successo del Partito Socialista. Fu allora, a partire
47A. Di Michele, L’Italia in Alto Adige e l’evoluzione del paradigma etnico, «Contemporanea», gennaio 2010,
Vol. 13, No. 1 (gennaio 2010), pp. 132-137, <https://www.jstor.org/stable/24653283?seq=1#metadata_info_ta-
b_contents>, consultato in data 13/06/2021.
33
dal Secondo Congresso dei fasci nel maggio del 1920, che avvenne un primo cambia-
mento verso la definizione di un’ideologia che andasse oltre alle tematiche emerse con
la prima guerra mondiale: a fronte di una democrazia e di un liberalismo impegnati a
difendere i propri interessi e non quelli del popolo, i militanti fascisti si dichiaravamo an-
tidemocratici, antiliberali e antisocialisti.
Il fascismo si poneva in questo modo come una milizia al servizio della nazione, al di là
degli interessi di parte, atto a costituire un nuovo Stato moderno e antidemocratico, nel
quale le masse popolari avrebbero trovato la loro identità all’interno del concetto tota-
lizzante della nazione. Fu allora che si ebbe la svolta nelle intenzioni del fascismo, attra-
verso una virata verso il sostenimento degli interessi dei ceti medi e borghesi.
Il movimento fascista, nelle sue conformazioni violente e repressive incarnate dal feno-
meno dello squadrismo, divenne lo strumento con cui il governo di Giolitti cercò di se-
dare le proteste e gli scioperi che costellarono il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920).
Attraverso l’uso delle squadre d’azione fasciste, che attaccavano le camere di lavoro, le
case del popolo, i sindacati a difesa degli interessi della borghesia agraria, il fascismo
subì una normalizzazione nel panorama politico italiano. Di conseguenza la sua base di
consenso andò crescendo.
Le cronache quotidiane folteggiano di episodi di violenza nella lotta impegnata tra fascisti
e socialisti... Si tratta, ora, in vista della continuazione della lotta, di dare una “linea” all’e-
sercizio della nostra violenza, in modo che essa rimanga tipicamente fascista... Anzitutto
dobbiamo tornare a dichiarare che per i fascisti la violenza non è un capriccio o un delibe-
rato proposito. Non è l’arte per l’arte. È una necessità chirurgica. Una dolorosa necessità. In
49 Ibidem.
34
secondo luogo, la violenza fascista non può essere violenza di “provocazione”... Infine, la
violenza fascista deve essere cavalleresca. Assolutamente... Non si superano impunemen-
te dei confini. La violenza, per noi, è una eccezione, non un metodo, o un sistema. La vio-
lenza, per noi, è una eccezione, non un metodo, o un sistema. La violenza, per noi, non ha
un carattere di vendetta personale, ma carattere di difesa nazionale.”
Per quanto Mussolini ribadisca l’eccezionalità dell’uso della violenza, non ne rinnega
l’impiego qualora il fascismo lo ritenga necessario per il principio ideale della difesa del-
la nazione; ciò che successe, di fatto, è che lo squadrismo violento diventò strumento
politico per silenziare gli oppositori ed eliminare il dissenso.
Nel 1922 il PNF poteva contare su circa duecentomila iscritti, andando a costituire un
importante peso nella politica del paese. Nonostante la mutazione in partito, il fascismo
non abbandonò l’impostazione squadrista e paramilitare, con cui si fece largo tra le di-
verse province italiane fino al decisivo esito del 28 ottobre con la marcia su Roma.
Il «quadrumvirato»51 nelle persone di Michele Bianchi, Italo Balbo, Emilio De Bono e Ce-
sare Maria De Vecchi, avrebbero assunto i poteri e guidato la mobilitazione di circa ven-
ticinquemila uomini verso alcune località chiave, mentre Mussolini avrebbe assunto le
direttive politiche rimanendo a Milano. La marcia su Roma, quindi, si declinò attraverso
una manovra militare e una politica, in cui determinante fu la mancata firma della di-
chiarazione dello stato d’assedio, promulgata dal Presidente del Consiglio Facta, da par-
te del re Vittorio Emanuele III, che consentì alle camicie nere di entrare nella città senza
incontrare significative opposizioni da parte dell’esercito ufficiale.
35
Dal 1922 in poi Mussolini intraprese il processo di trasformazione dell’Italia in uno Stato
totalitario, nel quale la maggior parte dei poteri furono attribuiti alla sua persona nel
ruolo di “duce” della nazione.52
Durante gli anni Trenta il governo prese definitivamente la forma di una vera e propria
dittatura, profondamente influenzata dal culto della personalità di Mussolini e dalla fa-
scistizzazione dell’organizzazione di ogni aspetto della vita quotidiana; enorme impor-
tanza, all’intento di questo processo, venne attribuita alla politica culturale e all’educa-
zione.
Nella definizione della politica culturale ed educativa del fascismo un ruolo decisivo
venne svolto dall’attività del filosofo Giovanni Gentile, che contribuì alla formazione del-
la riforma scolastica e alla creazione dell’Istituto nazionale fascista di cultura.
Gentile contribuì anche alla redazione della Dottrina del fascismo, documento scritto
nel 1935 insieme a Mussolini, in cui si tentava di definire le finalità e i confini del fasci-
smo nei confronti del suo passato e delle sue intenzioni future.
Il testo, soprattutto nella sezione ideata da Gentile, appare come un tentativo di elevare
il fascismo ad un livello politico, ad una concezione filosofica e di pensiero che ha va-
lenze etiche totalizzanti all’interno dello stato.
52 In questo processo fu fondamentale il discorso che Mussolini tenne il 3 gennaio 1925 alla Camera dei
Deputati, in conseguenza del clima venutosi a creare in seguito al delitto Matteotti. «Ma poi, o signori, quali
farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al
cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto
quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la
corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della
migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo
di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima sto-
rico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e mo-
rale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi.» (Archivio Luce, Il delitto Matteotti,
<https://www.archivioluce.com/2019/06/10/il-delitto-matteotti/>).
54 Ivi, p. 63
36
«Come ogni salda concezione politica, il fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è
immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi
resta inserita e vi opera dal di dentro. Ha quindi una forma correlativa alle contingenze di
luogo e di tempo, ma ha insieme un contenuto ideale che la eleva a formula di verità nella
storia superiore del pensiero.»55
Uno dei punti più trattati è quello della definizione dello Stato.
«Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello Stato, della sua essenza, dei suoi
compiti, delle sue finalità. Per il fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e
gruppi sono il relativo. […] Lo Stato così come il fascismo lo concepisce e attua è un fatto
spirituale e morale, poiché concreta l'organizzazione politica, giuridica, economica della
nazione, e tale organizzazione è, nel suo sorgere e nel suo sviluppo, una manifestazione
dello spirito. Lo Stato è garante della sicurezza interna ed esterna, ma è anche il custode e
il trasmettitore dello spirito del popolo così come fu nei secoli elaborato nella lingua, nel
costume, nella fede. Lo Stato non è soltanto presente, ma è anche passato e soprattutto
futuro. E' lo Stato che trascendendo il limite breve delle vite individuali rappresenta la co-
scienza immanente della nazione. Le forme in cui gli Stati si esprimono, mutano, ma la ne-
cessità rimane. […]chi dice fascismo dice Stato. Ma lo Stato fascista è unico ed è una crea-
zione originale. Non è reazionario, ma rivoluzionario. […] Lo Stato fascista organizza la na-
zione, ma lascia poi agli individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o no-
55 B. Mussolini, Dottrina del fascismo, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1935, XIII, p. 1.
56 Ivi, p. 7.
37
cive e ha conservato quelle essenziali. Chi giudica su questo terreno non può essere l'indi-
viduo, ma soltanto lo Stato.»57
Ecco il pensiero con cui Mussolini elaborò la giustificazione all’instaurazione del regime
totalitario; la soppressione delle differenze (e delle libertà individuali) non viene perpe-
tuata in virtù della pace interna, ma della forza e della vitalità dello Stato, che in questo
modo è in grado di intraprendere le imprese dal carattere imperiale che ne costituisco-
no l’imprescindibile fondamento.
«Lo Stato fascista è una volontà di potenza e d'imperio. La tradizione romana è qui un'idea
di forza. Nella dottrina del fascismo l'impero non è soltanto un'espressione territoriale o
militare o mercantile, ma spirituale o morale. Si può pensare a un impero, cioè a una na-
zione che direttamente o indirettamente guida altre nazioni, senza bisogno di conquistare
un solo chilometro quadrato di territorio. Per il fascismo la tendenza all'impero, cioè all'e-
spansione delle nazioni, è una manifestazione di vitalità; il suo contrario, o il piede di casa,
è un segno di decadenza: popoli che sorgono o risorgono sono imperialisti, popoli che
muoiono sono rinunciatari. Il fascismo è la dottrina più adeguata a rappresentare le ten-
denze, gli stati d'animo di un popolo come l'italiano che risorge dopo molti secoli di ab-
bandono o di servitù straniera. Ma l'impero chiede disciplina coordinazione degli sforzi,
dovere e sacrificio; questo spiega molti aspetti dell'azione pratica del regime e l'indirizzo di
molte forze dello Stato e la severità necessaria contro coloro che vorrebbero opporsi a
questo moto spontaneo e fatale dell’Italia nel secolo XX, e opporsi agitando le ideologie
superate del secolo XIX, ripudiate dovunque si siano osati grandi esperimenti di trasforma-
zioni politiche e sociali: non mai come in questo momento i popoli hanno avuto sete di
autorità, di direttive, di ordine. Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare
che quella del secolo attuale è il fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo mostra il fatto
che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il
fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri.»58
Lo stesso concetto di vitalità e forza fu alla base dello spirito con cui il fascismo intra-
prese nel 1935 le campagne coloniali in Africa orientale, che condussero alla conquista
dell’Etiopia e alla proclamazione dell’impero il 9 maggio del 1936.
57 Ivi, p. 10-13.
58 Ivi, p. 13.
38
La nuova fase che si aprì da questa data in poi (che verrà esaminata nella seconda se-
zione di questo capitolo) fu caratterizzata da un’ulteriore svolta in senso totalitario del
regime fascista, che aspirava sempre di più a conformarsi come nuovo impero, al pari di
quello romano dell’antichità.
All’interno del processo di «sacralizzazione»59 della nazione e dell’idea della patria, il fa-
scismo si impegnò nella costruzione di un universo simbolico, elaborato attraverso l’ap-
propriazione di miti, l’elaborazione di una ritualità specifica e la creazione di monumen-
ti, che confermassero e perpetuassero il nuovo stato totalitario fascista.
«Anche nell’elaborazione della sua liturgia, come per la mitologia, il fascismo si comportò
come una religione sincretica, assimilando i materiali che riteneva utili per sviluppare il
proprio corredo di riti e simboli, incorporando disinvoltamente tradizioni rituali dei altri
movimenti e integrandole con i propri riti. I fascisti non si preoccupavano della originalità
di riti e simboli, ma guardavano all’efficacia di questi per l’azione, per rappresentare i loro
miti e rafforzare il senso di identità del movimento, come validi strumenti di lotto contro i
“nemici della nazione”, e anche come forme di propaganda per impressionare gli spettato-
ri e conquistare proseliti.»60
Il fascio littorio, ad esempio, fu il simbolo che da subito entrò a far parte dell’iconografia
dello Stato. Il fascio, nella sua declinazione in chiave risorgimentale, era già presente
nell’insegna del Partito del Fascista; quando il fascismo salì al potere venne introdotta la
variante littoria – prima nelle monete e poi nell’architettura – sia come richiamo alla ro-
manità, ma anche per eliminare dal simbolo qualsiasi ascendenza da ideali di libertà.
60 Ibidem.
39
Dal Vittoriano all’Altare della Patria
Fin dai suoi esordi il movimento fascista fu caratterizzato dal culto della patria come
fondamento di uno Stato nazionale, che portasse a termine il processo di costruzione
della nuova Italia moderna, intrapreso dal Risorgimento e dall’Unità d’Italia.
Una delle manifestazioni di questo processo fu, alla fine degli anni ottanta del Dicianno-
vesimo secolo, la creazione del monumento a Vittorio Emanuele II, costruito per «con-
sacrare nel marmo e nel bronzo il culto monarchico della “religione della patria”»61.
L’opera si trova alle pendici del Campidoglio e nasce come monumento dinastico voluto
dal Parlamento per celebrare il re; progettato da Giuseppe Sacconi, venne inaugurato
nel 1911 e nel corso dei secoli subì un’evoluzione negli usi e nell’interpretazioni.
Un momento decisivo nella definizione della natura del monumento fu nel 1921 con la
decisione da parte del Parlamento di collocare all’interno dell’opera i resti del “milite
ignoto”, per celebrare la memoria dei caduti della prima guerra mondiale.
«Per la sacralizzazione di quel corpo viene organizzato un grande rito collettivo, curato fin
nei minimi particolari. I resti di undici soldati sconosciuti, prelevati da altrettanti cimiteri
militari sparsi sull’intero arco del fronte di guerra, sono raccolti nella basilica, di origine
romane, di Aquileia. Il 28 ottobre del 1921, a una popolana triestina viene affidata la scelta
dell’Ignoto tra le undici bare. Dopodiché un treno funerario aperto inizia un lento viaggio
di cinque giorni che dai luoghi della guerra porta a Roma. […] Accolto sotto le volte della
basilica di Santa Maria degli Angeli, il 4 novembre 1921 il corpo sconosciuto verrà sepolto
61 Ivi, p. 24.
40
con i massimi onori in un’ara all’Altare della Patria. Questo cerimoniale prevede, e riceve,
una grande partecipazione di popolo, spinto a identificarsi con il soldato senza nome. Per
il paese il rito si trasforma in una gigantesca elaborazione collettiva del lutto. È l’inizio di un
processo indotto di riconciliazione del popolo con una guerra in gran parte non voluta e
che, nonostante la vittoria, non è amata.
[…] Trasportare in quel luogo il corpo del soldato ignoto dà nuova linfa al monumento.
Quel corpo – di fratello, di figlio, di padre – proviene dal popolo e ora, di conseguenza, an-
che l’altero monumento che accoglie i suoi misti resti è del popolo, non più solo di un
re.»62
Il significato del monumento muta da simbolo del culto della nazione incarnata nella
figura del suo re, a quello di celebrazione e commemorazione dell’intero popolo italia-
no, che venne dunque a coincidere con lo stato.
L’esperienza della guerra di massa e della morte collettiva, divenne un elemento fonda-
mentale nella definizione del carattere di italianità e nello stabilire un senso di apparte-
nenza a una comunità nazionale.
«L’istituzione del culto della patria, incentrato sulla glorificazione della guerra, servì a pre-
parare l’ambiente per instaurare il culto del littorio come liturgia dello Stato.»63
A questo scopo, il 4 novembre del 1922, qualche giorno dopo aver ricevuto l’incarico di
primo ministro, Mussolini andò ad inginocchiarsi presso l’Altare della Patria «per riceve-
re dall’Ignoto la suprema legittimazione del potere»64; in questo modo veniva persegui-
ta la fascistizzazione della simbologia dello Stato. Questo processo passò anche attra-
verso la costruzione di nuovi monumenti, impiegando l’architettura come tassello fon-
damentale nell’elaborazione e nell’affermazione del regime.
64 B. Tobia, Salve o popolo d’eroi…La monumentalità fascista nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuni-
ti, Roma, 2002, p.23.
41
«Come la Chiesa, [il fascismo] ha affidato all’arte il compito di tradurre e glorificare in im-
magini fisiche, e pur spirituali, i fatti dello spirito. Il compito di concretare nella realtà que-
sto simbolo del mito, toccò come era giusto, all’architettura, la più concreta e insieme la
più simbolica delle arti.
M.G. Sarfatti.»65
Questi aspetti non sfuggirono a Mussolini, che fece dell’attività costruttiva un elemento
portante dell’ideologia fascista, nella quale costruire e combattere venivano concepite
come forme dell’azione politica, in cui l’azione, appunto, rivestiva un ruolo fondamenta-
le nella definizione della natura dell’«uomo nuovo»67 fascista.
«Il fascismo vuole l'uomo attivo e impegnato nell'azione con tutte le sue energie: lo vuole
virilmente consapevole delle difficoltà che ci sono, e pronto ad affrontarle. Concepisce la
vita come lotta pensando che spetti all'uomo conquistarsi quella che sia veramente degna
di lui, creando prima di tutto in sé stesso lo strumento (fisico, morale, intellettuale) per
edificarla. Così per l'individuo singolo, così per la nazione, così per l'umanità. Quindi l'alto
valore della cultura in tutte le sue forme - arte, religione, scienza - e l'importanza grandis-
sima dell’educazione.»68
68 B. Mussolini, Dottrina del fascismo, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1935, XIII,
42
«L’architettura, dunque, è il simbolo unificante della nazione, simbolo pietra, fatto per du-
rare, per tramandare ai posteri il tempo del fascismo.»70
L’intenzione era dunque quella di estendere lo stile di vita fascista alle diverse modalità
del vivere, sovrapponendo alla concezione storica dell’Italia, quella della nuova Italia
fascista, insieme di passato, presente e futuro, mito e progresso.
Durante tutti gli anni Trenta il dibattito architettonico verté attorno alla definizione di
«arte di Stato»71, cercando di attribuire una specificità architettonica ai concetti cari al
fascismo, tra cui emerse soprattutto quello di italianità e di culto della patria. L’obiettivo
condiviso all’interno del dibattito era quello di assegnare una connotazione nazionale
all’architettura italiana, al fine di celebrare il regime fascista che, sopratutto in conse-
guenza della proclamazione dell’impero, aspirava al superamento dei confini dei singoli
stati, ponendosi come potenza mondiale.
Come dichiarato da Pietro Maria Bardi, i compiti dell’architettura dovevano essere quelli
di «sorreggere, accompagnare e illustrare le conquiste del fascismo»72.
Queste funzioni vennero assolte, anche e soprattutto, dai monumenti che, all’interno
dell’ambito architettonico sviluppato dal regime, diventarono parte del lessico con cui il
fascismo comunicò e glorificò se stesso, avvalendosi di un repertorio di simboli e strut-
ture, che nella loro reiterazione continua e colossale si fanno perfettamente riconoscibi-
li, andando a costituire un tassello fondamentale nella costruzione dell’immaginario col-
lettivo e popolare di quegli anni (e, come vedremo, anche di quelli successivi).
L’apparato dei monumenti ideato dal fascismo si avvaleva di tutto il repertorio della re-
torica fascista e anch’essa, quindi, fu caratterizzata da quella ambiguità già individuata
da Togliatti in riferimento all’ideologia fascista.
70 Ibidem.
71 G. Ciucci, Gli architetti e il fascismo: architetture e città, 1922 - 1944, Torino, Einaudi, 1989.
72 Ibidem.
43
non più immagine di un regime inteso come rivoluzione, ma di una nazione dai destini im-
periali.»73
Giorgio Ciucci (in Gli architetti e il fascismo: architetture e città, 1924-1944) mette in re-
lazione l’identità camaleontica del fascismo e la problematica relativa alla definizione di
uno “stile” o di un architettura prettamente “fascista”.
Questo carattere di ambiguità del fascismo venne individuato da Palmiro Togliatti all’in-
terno dell’ideologia che ne sta alla base.
«Vediamo ora un altro problema: la questione [della] ideologia fascista. Che cosa rappre-
senta essa in questa lotta? Analizzando questa ideologia, che cosa vi troviamo ? Di tutto. E
un’ideologia eclettica.
[…] La ideologia fascista contiene una serie di elementi eterogenei. Dobbiamo tener pre-
sente questo perché questa caratteristica ci permette di capire a che cosa questa ideolo-
gia serve. Essa serve a saldare assieme varie correnti nella lotta per la dittatura sulle masse
lavoratrici e per creare a questo scopo un vasto movimento di massa. L’ideologia fascista è
uno strumento creato per tener legati questi elementi.
[…]Una parte della ideologia, la parte nazionalista, serve direttamente alla borghesia, l’altra
serve come legame. Io vi metto in guardia contro la tendenza a considerare l’ideologia fa-
scista come qualche cosa di saldamente costituito, finito, omogeneo; nulla più dell’ideolo-
gia fascista assomiglia ad un camaleonte. Non guardate all’ ideologia fascista senza vedere
l' obbiettivo che il fascismo si poneva di raggiungere in quel determinato momento
con quella determinata ideologia.»74
In questo testo, tratto da un ciclo di conferenze tenutesi a Mosca tra il gennaio e l’aprile
del 1935, Togliatti identifica alcuni degli aspetti fondanti dell’ideologia fascista: l’ecletti-
smo, l’eterogeneità, l’uso strumentale di correnti preesistenti come il nazionalismo e il
socialismo (a cui Mussolini aveva aderito durante i primi anni di militanza politica nella
socialdemocrazia e sul quotidiano «Avanti!») costituirono elementi fondamentali all’in-
terno degli obiettivi che il fascismo si era posto e che portarono alla costituzione dello
stato totalitario.
73 Ibidem.
74 P. Togliatti, Corso sugli avversari. Le lezioni sul fascismo, Einaudi, 2010, ISBN 978-88-06-20085-8, p. 70-71.
44
Il problema dello stile: razionalismo e classicità
«Dalle polemiche fra le diverse correnti di artisti che reclamano di essere riconosciuti quali
autentici interpreti dello «stile fascista», emerge come motivo comune il richiamo alla fun-
zione sociale e politica dell’arte. E quale che fosse il loro orientamento estetico, volto alla
ripetizione dei modelli classici della romanità più tradizionale o volto alla ricerca di una
«modernità fascista», questi artisti si impegnarono con le loro opere nel propagandare la
religione fascista.
Lo scenario figurativo e architettonico che essi costruirono per la celebrazione del culto
del littorio, ispirato a contrastanti e persino opposti indirizzi estetici, può essere oggi va-
riamente giudicato dal punto di vista propriamente artistico, ma esso era comunque coe-
rente con il proposito di realizzare una “monumentalità religiosa” ispirata ai miti del fasci-
smo.»75
Non ponendosi unicamente come problema di stile, quanto di veicolazione del mes-
saggio fascista, le modalità con cui i monumenti vennero realizzati sotto la direzione di
Mussolini, appaiono caratterizzati da una fondamentale eterogeneità.
I sostenitori del razionalismo in Italia, concepivano questo stile quale unico adatto a
rappresentare la forza innovatrice e le spinte di modernizzazione promosse dal fasci-
smo; il linguaggio razionalista venne promosso quale strumento di definizione di un ca-
rattere italiano e fascista dell’architettura. In quest’ottica la rottura con la tradizione co-
stituisce una tappa necessaria all’affermazione del “nuovo” identificativo che il fascismo
andava cercando.
45
Piuttosto che la definizione di uno stile, il Gruppo 7 mira ad un «uso costante della ra-
zionalità, della perfetta rispondenza dell’edificio agli scopi che si propone»76, considera-
te condizioni indispensabili per la creazione architettonica.
La prima mostra di Architettura razionale venne inaugurata da Mussolini nel 1928 e i ra-
zionalisti vi si presentarono riuniti in una loro associazione, il MIAR, «movimento italiano
per l’architettura razionale»77.
In questa data, la posizione dei razionalisti di dimostra ancora moderata, sia nei con-
fronti del legame con la tradizione architettonica, sia con il fascismo che in quel periodo
si manifesta come forza giovane, rivoluzionaria e con attenzione alle avanguardie.
La situazione subì una rottura in occasione della seconda mostra di Architettura raziona-
le del 1931 presso la galleria di Pietro Maria Bardi; qui, infatti, si colse l’occasione per de-
nunciare, attraverso un libretto redatto da Bardi, la corruzione e il clientelismo di certa
architettura divenuta “di regime”. Venne presentato, inoltre, un fotomontaggio definito
«tavolo degli orrori» in cui vi erano riportati alcuni esempi di opere di architetti iscritti al
partito fascista ed allineati con le teorie antimoderniste e antirazionaliste.
77 Ivi, p. 16.
79 Ivi, p. 63
46
«L’architettura razionale, priva di orpelli, diventa parola comprensibile, arte sociale, chiara,
rettilinea, aggressiva, contemporanea, e perciò fascista.»80
Sul fronte opposto vi furono le posizioni di coloro che individuavano nella prosecuzione
dello stile e dei caratteri dell’architettura antica e romana, fatta di «archi e colonne»81,
l’unica via per la costituzione di un’identità italiana e fascista della nazione, rifiutando
categoricamente gli apporti del razionalismo e del nuovo linguaggio moderno.
Tra il 1929 (data della Conciliazione e del Plebiscito) e il 1940 (quando l’Italia entrò nella
seconda guerra mondiale) si assiste ad una fase di consolidamento del consenso al re-
gime e di forte fascistizzazione dell’Italia, in cui l’architettura assunse un ruolo predomi-
nante nell’affermazione del disegno politico mussoliniano, soprattutto in relazione alla
città di Roma e alla volontà di realizzare una «Terza Roma»82, oltre a quella imperiale an-
tica e a quella rinascimentale.
I monumenti e le architetture a cui Mussolini mise la firma erano molto diverse tra di
loro: per quanto riguarda il dibattito stilistico, fino alla metà degli anni Trenta Mussolini
non espresse alcuna preferenza esplicita tra il linguaggio modernista e quello tradizio-
80 Ibidem.
81 Ivi, p. XVI.
82 Ivi, p. XXIV.
47
nalista, purché il discorso rientrasse nelle direttrici dell’affermazione fascista. Le pro-
blematiche sul fronte formale furono affrontate con una certa libertà, poiché non intac-
cavano l’adesione al fascismo degli architetti e degli intellettuali impegnati in quel di-
battito, i quali, in ogni caso, si fecero portavoce del messaggio fascista.
Alla metà degli anni Trenta, però, avvenne una svolta: l’architettura divenne strumento
di educazione di massa e, pertanto, doveva avvalersi di forme chiare e comprensibili da
tutti.
Ciucci, infatti, individua due date fondamentali nell’ambito del dibattito sul ruolo della
città e dell’architettura: il 1928 e il 1936.
«Bisogna allora inventare uno stile che senza rinunciare ai caratteri di modernità parli alla
memora della nazione, che sia sintesi di quella tradizione classica che ha avuto un suo ori-
ginario splendore nell’antica Roma; uno stile capace di risvegliare sentimenti di apparte-
nenza e di orgoglio nazionale nel popolo, di alimentare nell’immaginario collettivo l’idea di
una nazione diventa nuovamente potente, chiamata a una “missione di civiltà”; che con il
suo richiamo all’ordine inalterabile della classicità sia icona rassicurante contro ciò che di
caotico, straniero e inquietante, accompagna l’irrompere della modernità.»83
I monumenti realizzati negli anni Venti e nella prima metà degli anni Trenta, e quelli de-
gli anni successivi, seppur rientrando nel comune intento di fare dell’architettura un «in-
strumentum regni»84, risposero ciascuno a necessità specifiche, che discendevano di-
rettamente dallo sviluppo del fascismo e del regime totalitario.
83 Ivi, p. XIX.
48
2.2. I MONUMENTI ERETTI DAL REGIME TRA GLI ANNI VENTI E LA METÀ DEGLI ANNI
TRENTA
Nella prima fase di questi anni è possibile individuare alcune linee direttrici all’interno
della cultura memoriale e architettonica del fascismo: il culto dei caduti (che si riallaccia
agli obiettivi del Fasci di combattimento primigeni) e il processo di italianizzazione dei
territori recentemente annessi all’Italia come conseguenza dei trattati stabiliti dopo la
prima guerra mondiale.
L’appropriazione fascista del culto dei caduti della prima guerra mondiale
L’appropriazione del culto dei caduti e della glorificazione dei combattenti, costituisce
un elemento fondamentale nella definizione dei miti impiegati dal fascismo nel costruire
un culto della patria in chiave fascista.
Fin da subito, alla fine della guerra, cominciarono a sorgere monumenti commemorativi
per i caduti; essi furono il sintomo di un processo di elaborazione del lutto percepito a
livello nazionale. Gli italiani espressero in questo modo la necessità collettiva di «depo-
sitare e di monumentalizzare il ricordo, di edulcorare la morte»85.
La tematica dei sacrari costituì un elemento decisivo nel programma iconografico del
regime; essa fu al centro della mostra tenutasi a Roma nel 1932 in occasione del decen-
nale della rivoluzione fascista. Il percorso della mostra culminava nel Sacrario dedicato
49
ai caduti per la rivoluzione, un progetto realizzato da Adalberto Libera e Antonio Valen-
te.
4. Sacrario dei Martiri alla Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932 a Roma
50
L'Ossario di Redipuglia
5. Ossario di Redipuglia
6. Ossario di Redipuglia
51
L’Ossario di Redipuglia, in provincia di Gorizia, ad esempio, presenta le caratteristiche
sopraelencate.
Esso rientrò nel programma di monumentalizzazione dei luoghi della guerra predisposto
nel 1928 (e riconfermato nel 1930) dal generale Giovanni Faracovi, allora Commissario
per le onoranze ai caduti, che prevedeva l’edificazione di grandi costruzioni identitarie a
carattere funerario in ricordo dei morti della Grande Guerra.
«Il luogo era principalmente espressione di una pietistica ingenua e popolare, adatta a un
esercito di reduci e di familiari in visita alle tombe dei loro cari. Questo cimitero comunica-
va un’idea di sofferenza, di disordine, di improvvisazione, di arte della sopravvivenza, che
male si accordava con la mitizzazione e l’estetizzazione della guerra elaborata dal
regime.»86
Nel 1936, quindi, venne affidato il compito all’architetto Giovanni Greppi e allo scultore
Giannino Castiglioni di realizzare un ossario monumentale, in grado di ospitare gli oltre
centomila resti dei soldati caduti.
«Nessuno riposa: tutti sono schierati, sull’attenti, fieramente rivolti verso la morte. In que-
sto senso non si tratta di un monumento alla quiete e al risposo né di un monumento a ciò
che è stato. È un monumento che è, che nel suo silenzio grida.»87
86 Ivi, p. 91.
87 Memorie di pietra: i monumenti delle dittature, a cura di G. P. Piretto, Milano, Raffaello Cortina, 2014, p. 87.
52
Attraverso un processo di «fascistizzazione postuma»88 si verifica l’appropriazione del
fascismo del sacrificio dei caduti della prima guerra mondiale; esso si fa presente in
quel conflitto, i soldati della prima guerra diventano squadristi fascisti che si sono im-
molati in virtù della patria.
All’interno di questa prima fase degli anni venti e della prima metà degli anni trenta, è
possibile rintracciare una prima conformazione della politica colonialista del fascismo, il
quale si assunse il compito di italianizzare quelle popolazioni che vivevano nei territori
recentemente annessi all’Italia dopo la prima guerra mondiale.
Tra questi vi erano le «nuove province»89 di Trento e del Tirolo meridionale (Alto Adige)
annesse il 26 settembre 1920, in precedenza appartenenti all’impero d’Austria.
La questione del Trentino e dell’Alto Adige si trovava già nel secolo precedente all’inter-
no della problematica relativa all’attribuzione della nazionalità italiana ai territori sotto il
dominio austriaco in cui si parlava l’italiano e, in generale, in cui la popolazione si rite-
neva italiana. Il movimento irredentista che si sviluppò negli anni successivi all’unifica-
zione dell’Italia, ne costituisce un sintomo decisivo; esso si basava sull’affermazione del
principio di nazionalità come criterio di identificazione e di cittadinanza.
I territori di confine annessi all’Italia nel 1920 erano caratterizzati dalla convivenza di
popolazioni di lingue e culture diverse, tra cui una maggioranza tedesca e una minoran-
za italiana.
88 Ivi, p. 70.
89A. Di Michele, L’Italia in Alto Adige e l’evoluzione del paradigma etnico, «Contemporanea», gennaio 2010,
Vol. 13, No. 1 (gennaio 2010), pp. 132-137, <https://www.jstor.org/stable/24653283?seq=1#metadata_info_ta-
b_contents>, consultato in data 13/06/2021.
90 Ibidem.
53
1923. Essi furono elaborati da Ettore Tolomei e Giovanni Preziosi e previdero un pro-
gramma di rimozione di ogni forma e manifestazione della lingua e della cultura tede-
sca.
«Il fascismo […] si mosse subito con estrema durezza, rimuovendo funzionari pubblici e
insegnanti, vietando l’uso della lingua tedesca negli uffici e locali pubblici, mettendo al
bando i partiti tedeschi e le associazioni culturali e sportive giudicate anti-nazionali, elimi-
nando le scuole con lingua d’insegnamento diversa dall’italiano, italianizzando la topono-
mastica, ecc.»91
Emblematico fu il caso di Bolzano, la cui provincia venne istituita nel 1927 e che fu og-
getto di un vasto programma di interventi urbanistici che portarono anche alla creazio-
ne di un nuovo polo industriale nel quale impiegare la nuova manodopera. La città di-
venne uno dei centri principali dell’attenzione fascista, che tramite la realizzazione di
una “Bolzano italiana” si proponeva di espandere il proprio progetto di assimilazione e
influenza.
91 Ibidem.
92Wu Ming, Speciale Point Lenana: Alto Adige, Trento e Trieste, Internazionale, video e recensioni, Wu Ming’s
Blog, 1 ottobre 2013, <https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/10/reading-point-lenana-in-alto-adi-
ge-urbanistica-architettura-e-colonialismo/>, consultato in data 13/06/2021.
54
mento tra Bolzano e l’antica Roma imperiale, secondo una prassi tipica dell’architettura
monumentale elaborata dal fascismo. L’inserimento di simboli riconoscibilmente fascisti
accostati alle figure dei “martiri trentini” innesca quel meccanismo analizzato preceden-
temente nel caso dell’Ossario di Redipuglia: il fascismo si appropriò di culti e miti pre-
cedenti (in questo caso provenienti dal fenomeno dell’irredentismo trentino) istituendo
come comune discendenza italiana, nella sua concezione nazionalista e unitaria.
La visione dell’Italia che il monumento doveva restituire, era quella di una «patria in ca-
micia nera»93, ora estesa anche nei territori che appartenevano ad una potenza stranie-
ra ormai sconfitta; non a caso Mussolini scelse di far costruire l’opera proprio in quel
punto, perché era lì che nel 1916 erano state gettate le fondamenta per la realizzazione
di un monumento per celebrare la memoria dei caduti del II reggimento dei Tiroler Kai-
serjäger di stanza a Bolzano, impiegato dall’Austria-Ungheria su diversi fronti durante la
Prima guerra mondiale.
«[Nel Monumento alla Vittoria] la lingua tenta di farsi coerente all’ideologia. L’intento di
Piacentini non è quello di applicare banalmente il simbolo del fascismo al monumento. Il
suo tentativo è di farne parte costitutiva di un linguaggio architettonico, inserendo un
elemento figurativo [il fascio littorio], che ha un esplicito significato politico, nella regola
millenaria degli ordini architettonici.»94
93 E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2001,
p. 43
94P. Nicoloso, Architetture per un’identità italiana, Gaspari Editore, 2012, p. 50.
55
Nel Monumento alla Vittoria di Bolzano, esso non costituì una semplice decorazione, ma
rappresentò un ordine per eternare il nuovo regime.
Gli interventi fascisti a carattere monumentale nella città di Bolzano proseguirono negli
anni successivi; il fregio realizzato a partire dal 1942 da Hans Piffrader in piazza del Tri-
bunale è uno di questi.
In questi anni il fascismo si era ormai consolidato ed era entrato in una fase di celebra-
zione e glorificazione delle proprie imprese. L’opera di Piffrader raffigura nella pietra le
tappe della mitologia fascista, che, occupando uno spazio pubblico, vengono inserite
nell’immaginario collettivo della città di Bolzano, ormai parte ben integrata del nuovo
stato totalitario.
Il fine era quello di portare a compimento le ambizioni espresse all’interno della cosid-
detta “questione adriatica”, esercitando il nuovo controllo fascista nei territori della co-
sta orientale dell’Adriatico.
Per fare ciò anche qui il fascismo si avvalse dell’imposizione di simboli e strategie che
esaltassero la componente di italianità del popolo di queste regioni e la comune deriva-
zione dal glorioso passato romano.
A Zara, diventata uno dei centri della nuova politica italiana in Dalmazia, il processo di
italianizzazione andò di pari passo con un’altra delle componenti caratteristiche del fa-
scismo degli anni Venti: la strumentalizzazione del culto dei caduti della prima guerra
mondiale.
95 P. Dragoni, A. Mlikota, The Destroyed Italian Monument “Ara ai caduti Dalmati” in Zadar, Ars Adriatica,
8/2018, p. 181, tr. dell’autrice.
56
La commemorazione dei caduti costituiva un aspetto di continuità con quanto il fasci-
smo stava facendo in Italia nell’ambito della cultura memorialistica in quel periodo; si
venne a creare un collegamento tra lo spirito dalmata e quello italiano, che passò attra-
verso l’esaltazione di un passato storico comune e l’imposizione dei nuovi criteri unifi-
canti della liturgia fascista.
Osservando uno dei cinegiornali relativi alla città di Zara realizzato in epoca fascista e
custodito nell’archivio dell’istituto Luce, possiamo esaminare questo processo di italia-
nizzazione, reso tramite la serie di sequenze che nel giornale vengono fatte susseguire
per presentare la città. Tale presentazione passa attraverso la proposta dei suoi monu-
menti ed architetture più rilevanti.
Zara, infatti, viene descritta come una «città moderna ma ancor ricca di nobili monu-
menti che ne attestano la millenaria esistenza, l’indomita fierezza e l’alta tradizione itali-
ca»96. Nelle sequenze vediamo il leone di San Marco, simbolo della dominazione vene-
ziana che abbellisce la Porta di Terraferma; i cinque pozzi costruiti per ordine di Venezia
per l’approvvigionamento idrico della città; una veduta della Torre pentagonale nei
pressi dell'acquedotto denominato sepolcro di Giadro, fondatore della città; la cattedra-
le della città in stile romanico; la Loggia del Comune; la Loggia della Gran Guardia. Infi-
ne viene proposta la visione dei nuovi palazzi costruiti dal regime fascista, tappa finale
di questo percorso storico monumentale.
Il caso di Pola, invece, esemplifica l’uso di edifici antichi come parte del fenomeno di
«monumentomania»97, inteso come installazione di opere artistiche memoriali all’inter-
97J. Gudelj, Resemiotization of Eastern Adratic Antiquities. Uses and Abuses of the Ancient Past, Ikon Journal
of Iconographic Studies, volume 13, Rijeka, 2020, p. 268.
57
no o nei pressi di strutture antiche, inserendo le antichità in nuovi modelli e forme co-
municative di potere. Anche questa pratica venne adoperata dal fascismo per rendere
visibile il collegamento tra l’antichità e il retaggio romano delle terre dell’Istria, e l’italia-
nità fascista che si stava imponendo in quegli anni.
Uno degli elementi caratteristici di Pola è il suo grandioso anfiteatro, che nel corso degli
anni ha fatto da sfondo alle vicissitudini che hanno riguardato la città, tra cui il prose-
guirsi del processo di territorializzazione messo in atto dal regime fascista: l’introduzio-
ne nel 1933 di una copia della statua di Augusto imperatore (copia di un’altra scultura
basata su quella dell’Augusto di Prima Porta e situata a Roma nella Via dei Fori Imperiali)
nel parco circostante l’anfiteatro rientrò in questa strategia. Più tardi, nel 1940, avvenne
la sostituzione della statua dell’imperatrice Elisabetta d’Austria (realizzata nel 1904,
quando Pola apparteneva al dominio austriaco), con quella di una replica della Lupa
Capitolina, che andò ad occupare lo spazio lasciato nell’area intorno all’anfiteatro.
In questo modo, non solo si rese esplicita la vittoria dell’Italia sull’Austria nella prima
guerra mondiale, (tramite un meccanismo molto simile a quello analizzato nel caso del
Monumento alla Vittoria di Bolzano, in cui si opera una sovrapposizione in sito del nuovo
monumento di volontà fascista) ma si volle mettere chiaramente in evidenza il riferi-
mento alla Roma antica e imperiale. L’iscrizione apposta sul piedistallo della statua,
«ROMA MADRE A POLA FEDELE»98 restituiva il concetto di una filiazione di Pola rispetto
all’Italia.
La scelta dei soggetti, così come il posizionamento delle statue nei pressi dell’anfiteatro,
rientrarono nell’operazione di ribadire la continuità del regime fascista rispetto all’anti-
chità romana e alle sue glorie, espresse, soprattuto in questa fase, attraverso l’esaltazio-
ne della figura imperiale di Augusto.
Un aspetto specifico di Pola fu che le statue inserite (differentemente dal caso di Zara
del Monumento ai Caduti Dalmati) non avessero un particolare legame con il contesto
della città, né nella scelta dei soggetti, né nella realizzazione stilistica, ma presentasse-
ro, invece, delle connotazioni piuttosto generiche. Ciò che le riveste del loro particolare
98 Ivi, p. 269.
58
significato politico e culturale, è la loro posizione presso un edificio simbolo dell’antichi-
tà della città e del suo legame con i grandi avvenimenti della storia.
A Roma, più che altrove, si realizzò quello che Emilio Gentile definisce «fascismo di pie-
tra»99, realizzato attraverso un grandioso programma di interventi urbanistici ed archi-
tettonici, che avevano lo scopo di apportare una modernizzazione della città, ma anche
di veicolare il messaggio e il culto fascista su un piano simbolico e monumentale.
«Il “fascismo di pietra” è la vistosa e indelebile impronta che il regime di Benito Mussolini
ha lasciato sul suolo italiano per i secoli futuri. Nei monumenti, negli edifici, nelle strade,
nelle piazze di antiche città d’Italia, come nelle città nuove fondate dal duce, si è materia-
lizzata una concezione dell’uomo, della vita e della politica che negli anni fra le due guerre
mondiali sembrava prossima a diventare, nel mondo moderno, il modello di una nuova ci-
viltà imperiale, che pretendeva di essere universale come universale era stata la civiltà ro-
mana nel mondo antico. Il fascismo condensava nel mito di Roma e dell’impero la sua vi-
sione di passato, del presente e del futuro.»100
L’atteggiamento del fascismo nei confronti di Roma subì un’evoluzione nel corso degli
anni e dell’affermazione dello stato totalitario; in esso si manifestò una distinzione «ver-
so la Roma reale, la Roma antica e la nuova Roma imperiale»101 che Mussolini si accinse
a realizzare.
100 Ivi, p. V.
101 Ibidem.
59
La ripresa del mito della romanità non rispecchiava un reale interesse storico e archeo-
logico del passato dell’Italia; esso fu introdotto nella cultura fascista per formare una
nuova religione dello Stato totalitario. Il concetto di romanità, come quello di italianità
venne rivisto e reinterpretato in ottica fascista (e successivamente coloniale, ma se ne
parlerà più avanti), come elemento unificante sul piano nazionale e di identificazione
collettiva.
«Pur se il fascismo si esaltava nella rievocazione idealizzata della Roma antica, la Roma che
esso vagheggiava, come modello di nuova civiltà, era interamente concepita secondo la
sua visione della modernità. Il culto della romanità, come la celebrazione nel Natale di
Roma, doveva contribuire a creare una sorta di atmosfera mistica, un’evocazione rituale
della “storia sacra” e del “tempo delle origini”, attraverso la quale gli italiani moderni
avrebbero minimato in sé le virtù dei Romani antichi, non per imitazione, ma per originale
e attuale rinascita di affinità spirituale.»103
La creazione di una Terza Roma moderna, simbolo della nuova civiltà italiana posta a
modello di quella mondiale, era la vera ambizione del fascismo; la romanità a cui il re-
gime faceva riferimento non aveva una precisa collocazione storica (anche se durante
gli anni Venti Mussolini dichiarò di riferirsi soprattutto alla Roma repubblicana), ma servì
come giustificazione dell’impostazione totalitaria e dell’instaurazione della dittatura.
Questa Terza Roma, pertanto, doveva rendere visibili gli elementi costituivi del fasci-
smo, nonché portare la chiara impronta della volontà di Mussolini, che rivestì un ruolo
centrale nell’elaborazione dei diversi piani di interventi sulla città.
Nel suo discorso del 21 aprile 1924, tenuto in occasione dell’attribuzione della cittadi-
nanza romana, Mussolini divise i problemi di Roma in «problemi della necessità e pro-
blemi della grandezza»104, affermando che non sarebbe stato possibile affrontare questi
ultimi senza la risoluzione dei primi. Tra i problemi di necessità venivano considerati
quelli relativi alle case e alla comunicazione, mentre quelli della grandezza rispondeva-
no al bisogno di creare una nuova Roma monumentale del Ventesimo secolo, accanto a
quella antica. Alla grandezza dei monumenti antichi doveva far seguito quella dei nuovi
monumenti edificati dal regime fascista.
60
La definizione di queste due categorie di problemi appartiene al duplice indirizzo intra-
preso dal fascismo in questa fase di consolidamento del consenso: quello della moder-
nizzazione del paese (che si può collocare nelle questioni della necessità), e quello del-
l’eternizazzione del mito fascista attraverso la strumentalizzazione del passato.
Dopo il primo progetto per il nuovo centro di Roma elaborato da Armando Brasini, mai
portato a compimento, nel 1931 venne messo a punto il Piano regolatore di Roma a cui
lavorò una commissione formata da Piacentini, Bazzani, Brasini, Giovannoni, Alberto
Calza Bini e Antonio Munoz; quest’ultimo fu anche l’autore del testo illustrato Roma di
Mussolini del 1935, una sorta di compendio celebrativo degli interventi urbanistici e ar-
chitettonici realizzati a Roma, quali diretta emanazione della volontà e della personalità
del duce. Nell’introduzione al testo leggiamo:
«Roma di Mussolini: non è una frase convenzionale per indicare dal nome del Duce la
Roma del tempo fascista. […] Ma quando noi parliamo della Roma di Mussolini, adoperia-
mo una frase che corrisponde alla realtà nel senso più stretto e letterale. Nella grande ope-
ra di trasformazione di Roma da dodici anni si va compiendo sotto i nostri occhi, nella for-
mazione del nuovo volto che l’Urbe Eterna va assumendo, la volontà di Benito Mussolini
agisce in pieno; è quella che vigila, consiglia, comanda. […] È giusto dunque, nella storia
delle vicende edilizie dell’Urbe, registrare a grandi lettere l’epoca di Mussolini, come sono
ricordate quelle di Augusto, di Leone X, di Sisto V. Solo l’energia di un grande reggitore
poteva attuare un così breve tempo un rinnovamento così profondo. Rinnovamento mate-
riale e morale: non soltanto si tracciano nella terra sacra le nuove vie, e si edifica nella sal-
da pietra la città nuova, ma si plasma e si costruisce con saldi propositi l’animo dei suoi
abitanti.»105
Nonostante l’eterogeneità della commissione del Piano regolatore, infatti, ciò che spic-
cò nella realizzazione degli interventi a Roma, fu la diretta partecipazione di Mussolini,
che, attraverso un’attenta strumentalizzazione dei mezzi di propaganda (come i cine-
105 A. Munoz, Roma di Mussolini, Milano, S.A. Fratelli Treves Editori, 1935.
61
giornali e la stampa), venne percepito quale unico ideatore e attuatore della nuova
Roma.
Anche Marcello Piacentini, nonostante fosse uno degli interlocutori privilegiati di Mus-
solini e avesse svolto un ruolo decisivo nell’ambito delle decisioni architettoniche nella
capitale, non surclassò mai la figura del duce, a cui spettava sempre l’ultima parola per
ogni intervento.
Anche a Roma, come nel resto dell’Italia, il dibattito sulle tipologie di linguaggio archi-
tettonici da impiegare caratterizzò le scelte di intervento di Mussolini; come in altri am-
biti, furono le vittorie coloniali del 1936 e la svolta imperialistica del fascismo a condurre
ad una definizione delle soluzioni formali intraprese nei nuovi monumenti. Per Mussolini,
62
la caratteristica principale dei nuovi monumenti doveva essere quella di stimolare forme
di riconoscibilità da parte del popolo, a cui l’arte di metteva a servizio, in nome dell’a-
zione unificante all’interno della patria: tutto ciò apparteneva ai “problemi di grandezza”
a cui il fascismo rispose imponendo ai progetti architettonici e urbanistici, una distintiva
caratteristica di monumentalità.
In questa sede non è possibile analizzare la totalità degli interventi architettonici e mo-
numentali che il fascismo introdusse nella città di Roma. Ciò che verrà qui considerato è
l’elemento di monumentalità con la quale il regime si mosse nella realizzazione della
Terza Roma di Mussolini.
Nel dicembre del 1925 Mussolini dichiarò che nell’arco di cinque anni Roma sarebbe do-
vuta apparire «meravigliosa a tutte le genti del mondo: vasta, ordinata, potente come fu
ai tempi del primo impero di Augusto.»106
Oltre al restauro dei monumenti della Roma antica, il fascismo formulò un programma
di interventi che avevano lo scopo di mettere in atto, a fianco della conquista politica,
una «conquista monumentale»107 attuata attraverso l’inserimento diffuso di simboli e
monumenti esplicitamente fascisti. La grandiosità monumentale divenne la cifra con cui
il regime elaborò la propria impronta urbanistica e architettonica, concependo la pro-
pria azione nell’ambito dell’eternità, che condizionò, inoltre, la scelta dei materiali con
cui i monumenti vennero realizzati (sopratutto bronzo, pietra e cemento).
«Il fascismo ebbe il culto della monumentalità come espressione collettiva di una civiltà
che vuole lasciare la sua impronta nella storia sfidando il tempo, conferendole per questo
un significato simbolico e sacrale. “La monumentalità fascista” dichiarava Mario Sironi, era
la “espressione architettonica della società fascista, dello Stato, della Religione, del Co-
106 P. Nicoloso, Architetture per un’identità italiana, Gaspari Editore, 2012, p. 46.
63
mando, dei simboli dominanti, per racchiudere in una grande unità i caratteri della nostra
civiltà”»108
Il progetto venne ideato dagli architetti Enzo del Debbio, Luigi Moretti e Costantino Co-
stantini su commissione dell’’Opera Nazionale Balilla. All’interno del Foro venne realizza-
ta l’Accademia Fascista di Educazione Fisica, prima architettura realizzata del comples-
so.
Il Foro si componeva, inoltre, di diversi edifici, tra cui il Palazzo delle Terme, l’Accademia
della Musica, le Foresterie Nord e Sud, la Casa delle Armi.
La decorazione parietale e pavimentale del Foro Italico venne realizzata tramite la crea-
zione di mosaici, ideati su bozzetti dei maggiori artisti del Novecento, che trattavano
vari tematiche, da quello della Fontana della Sfera con animali marini bicromi di deriva-
zione classica, a quelli del viale dell’Impero che raccontano la nascita mitica di Roma e
le leggende a essa legate; vi sono, inoltre, immagini che inneggiano alla pratica sportiva
e iscrizioni che rimandano all’apparato dei motti fascisti e all’esaltazione della figura del
duce.
L’inserimento di cicli musivi dal carattere narrativo e didascalico, infatti, fu una pratica
legalmente impiegata per la decorazione dei nuovi edifici e monumenti realizzati duran-
te il regime: se ne trovano, ad esempio, a Forlì, nel quadriportico del Cortile Italico del-
l’ex Collegio Aeronautico, a Roma nella Stazione Ostiense.
64
8. Obelisco del Foro Italico
65
9. Stadio dei Marmi del Foro Italico
Questa visione monumentale costituì il pensiero dominante nel corso dell’intero pro-
cesso di interventi del fascismo nella capitale; la nuova Roma fascista doveva andare
oltre ai problemi di necessità e realizzarsi compiutamente in un’ottica eterna e grandio-
sa.
Nel corso del decennio successivo queste aspirazioni si concretizzarono in alcuni pro-
getti (tra cui quello dell’E42) volti a dare forma ad una nuova Roma moderna e comple-
tamente fascista, che si affiancasse a quella antica e ne proclamasse la continuazione;
durante tutti gli anni Trenta proseguì il tentativo del fascismo di creare una nuova civiltà
italiana, che gravitasse nell’orbita fascista e nel culto di Mussolini e che si affermasse
come guida nel panorama mondiale. Ciò venne messo in pratica attraverso l’elaborazio-
ne di quei miti (quello della romanità, dell’impero e della nazione) che il fascismo anda-
va elaborando fin dalle sue origini, ma che trovarono un’attuazione nel corso degli anni,
anche attraverso l’ideazione di una nuova cultura architettonica e monumentale.
66
2.3. LA CULTURA MEMORIALE DOPO LA PROCLAMAZIONE DELL’IMPERO
Nel decennio degli anni venti fino alla metà degli anni trenta, l’azione del fascismo nel
campo dell’architettura e della cultura monumentale era stata caratterizzata da una lo-
gica del «durare», condizionata dall’attività di costruzione del consenso del popolo e di
glorificazione del nuovo regime.
I miti animatori del fascismo in questa seconda fase del ventennio (il mito della romani-
tà, dell’impero, della nazione, della personalità di Mussolini) vennero elaborati all’interno
del processo di espansione e di fondazione dell’impero fascista; alla logica del «durare»
caratteristica del decennio precedente, si passò a quella dell’«osare», in linea con il
nuovo indirizzo dello stato totalitario.
«Ora all’architettura, in sintonia con i “tempi nuovi”, viene richiesto un passo ulteriore, di
utilizzare un certo linguaggio, più consono all’elaborazione dei miti fondanti del fascismo,
della romanità e dell’impero. All’architettura, alimentando quei miti, viene richiesto di inci-
dere sul carattere degli italiani, di intervenire con maggiore incisività nel processo di fasci-
stizzazione, per affrettare la costruzione della “nuova civiltà”»109
Fino all’avvento della Seconda guerra mondiale, quando nel corso del conflitto vi fu un
indebolimento del consenso e dell’influenza fascista sulla popolazione, il fascismo si
impegnò a portare avanti l’opera di progettazione del “nuovo italiano” attraverso l’edifi-
cazione di monumenti dalla chiara impronta imperiale e romana. Il regime si indirizzò
verso un’accelerazione del processo totalitaristico e dittatoriale, che sfociò nell’elabora-
109P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi,
2008, p. 220.
67
zione della nuova concezione fascista dello stato e della vita, profondamente intessuti
dei miti della romanità e del culto della figura di Mussolini.
Alla metà degli anni trenta verificò un’accelerazione della direzione totalitaria intrapresa
dal regime fascista, data dalle aspirazioni imperiali di Mussolini che andarono di pari
passo con le conquiste coloniali in Africa orientale e con la guerra in Etiopia. Il 3 ottobre
1935 venne inaugurata la guerra d’Etiopia, che si concluse l’anno successivo con la pro-
clamazione dell’impero da parte di Mussolini, il 9 maggio dal balcone di Palazzo Venezia
a Roma.
«L’Italia ha finalmente il suo Impero. Impero fascista perché porta i segni indistruttibili della
volontà e della potenza del Littorio romano; perché questa è la meta verso la quale duran-
te quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate delle giovani,
gagliarde generazioni italiane. Impero di pace, perché l'Italia vuole la pace per sé e per tut-
ti, e si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose incoercibili necessità di
vita. Impero di civiltà e di umanità per tutte le popolazioni dell'Etiopia. Questo è nella tradi-
zione di Roma, che, dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino. Ecco la legge, o Ita-
liani, che chiude un periodo della nostra storia e ne apre un altro, come un immenso varco
aperto su tutte le possibilità del futuro: I territori e le genti che appartenevano all'Impero di
Etiopia sono posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d'Italia. Il titolo di Imperatore
viene assunto per sé e per i suoi successori dal Re d’Italia.»
68
stati interessanti senza troppa decisione), la conquista dell’Etiopia venne sancita e rico-
nosciuta sul piano internazionale, nonostante gli appelli dell’imperatore Hailé Selassié.
La questione delle sanzioni ebbe un riverbero soprattutto nella retorica fascista della
contrapposizione e superiorità del popolo italico rispetto alle altre nazioni, piuttosto che
suscitare una reale politica di contenimento dell’aggressione italiana nell’Africa orienta-
le. L’espansione coloniale venne presentata come una diretta conseguenza del percorso
storico e culturale dell’Italia, che in questa epoca entrava in una nuova fase della sua
evoluzione verso l’affermazione sul piano mondiale.
«Mai come in questa epoca storica il popolo italiano ha rivelato le qualità del suo spirito e
la potenza del suo carattere. Ed è contro questo popolo, al quale l’umanità deve talune del-
le sue più grandi conquiste, ed è contro questo popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi,
di navigatori, di trasmigratori, è contro questo popolo che si osa parlare di sanzioni. Italia
proletaria e fascista, Italia di Vittorio Veneto e della rivoluzione! In piedi! Fa’ che il grido del-
la tua decisione riempia il cielo e sia di conforto ai nemici in ogni parte del mondo: grido di
giustizia, grido di vittoria!»111
Fu in questi anni, infatti, che l’Italia si propose come modello di una nuova civiltà in gra-
do di fronteggiare la Russia sovietica e la crisi economica che aveva travolto il mondo
occidentale negli anni Trenta, presentandosi come «direttrice della civiltà umana»112 ed
il Ventesimo secolo quello del fascismo e della potenza italiana.
L’enorme mobilitazione di uomini e di risorse messa in atto da parte del regime, aveva lo
scopo di presentare la guerra come un importante evento nel processo di affermazione
dell’Italia nel panorama mondiale e nel perseguimento del destino imperiale della nuova
civiltà italica.
«Il vero scopo dell’aggressione risultava dalle dimensioni che Mussolini le assegnava: non
più una guerra coloniale, affrontata da qualche decina di migliaia di uomini, ma una guerra
nazionale, con un enorme spiegamento di truppe e di mezzi»
69
La campagna in Etiopia doveva apparire come una clamorosa iniziativa di portata stori-
ca eccezionale e Mussolini fece tutto ciò che era in suo potere per convogliare la situa-
zione verso un rilancio politico del fascismo e della sua persona.
Dopo la fine della guerra in Etiopia i principali protagonisti del conflitto furono accolti in
patria con tutti gli onori e celebrati come eroi dal regime e da Vittorio Emanuele III. Il
vero trionfo, però, fu attribuito a Mussolini, che grazie ad uso oculato degli strumenti
della propaganda, rivestì un nuovo livello di importanza nell’immaginario collettivo e
popolare.
La celebrazione trionfale della guerra ebbe un risvolto anche nella cultura monumentale
elaborata dal fascismo in questa fase; sulla scia dell’emulazione delle pratiche e della
ritualità dell’antico imperialismo romano, il regime introdusse in suolo italiano oggetti e
monumenti provenienti dai territori conquistati, che, in qualità di bottini di guerra, ren-
devano evidente la vittoria italiana nella sua politica di potenza. Tra questi vi fu la Stele
di Axum, un antico obelisco etiope condotto a Roma nel 1937 (di cui si esaminano le vi-
cissitudini nelle schede successive di questa analisi).
70
rappresaglie sulla popolazione per tentare di sedare la resistenza abissina senza creare
troppo clamore in Italia.
Il 19 settembre del 1938, in un discorso tenuto nella città di Trieste, Mussolini parlò aper-
tamente «di un problema di scottante attualità», cioè «quello razziale.»114
Al 1938 risale la pubblicazione del primo numero della rivista «Il giornale della razza» su
cui venne pubblicato il Manifesto della razza, che, tramite la firma di alcuni scienziati
italiani, dichiarava l’esistenza biologica delle razze e della superiorità di alcune di esse.
In questo periodo la rielaborazione antropologica del nuovo italiano assunse una valen-
za razzista di supremazia della «nuova razza italiana» rispetto al panorama globale; tale
processo rientrava nell’elaborazione della romanità in chiave moderna impiegata dal fa-
scismo, attraverso l'esaltazione del mito imperialista e di conquista della civiltà mondia-
le.
115 Ibidem.
71
orientale questo approccio prese forma nei provvedimenti per impedire le unioni tra la
popolazione etiope e quella italiana, di modo che la nuova civiltà italica forgiata dal fa-
scismo non subisse la mescolanza con altre ritenute inferiori.
10. Copertina della rivista “La difesa della razza”, Anno 1 - N.1
- 5 agosto XVI
72
Il mito della romanità e la nuova Roma imperiale
Il mito della conquista dell’impero, infatti, era profondamente connesso alla concezione
fascista della romanità e, soprattutto, all’idea della creazione di una nuova civiltà model-
lo universale del Ventesimo secolo, così come la civiltà romana era stata modello nel
mondo antico; l’esibizione dei resti dell’antichità, l’evocazione della simbologia e del lin-
guaggio romano nell’arte e nell’edificazione monumentale a Roma e nelle altre città,
rientrava in questa aspirazione.
«La rigenerazione degli italiani, il fascismo universale, Roma capitale della nuova civiltà:
sono questi i fondamentali motivi che ispirarono la più grandiosa ambizione imperiale di
Mussolini, quella di diventare immortale nella storia quale fondatore di un nuovo modello
di Stato e un nuovo stile di vita, le espressioni di vita collettiva che per il fascismo com-
pendiavano il concetto di civiltà, e soprattutto quale creatore di una nuova razza di italiani
conquistatori e dominatori, che dovevano eguagliare, nel ventesimo secolo, i Romani anti-
chi.»117
All’interno di questa prospettiva, il fascismo elaborò una concezione imperiale della ro-
manità fascista, in cui la nuova Roma mussoliniana e moderna si sovrapponeva a quella
antica, attraverso una manipolazione degli aspetti storici in base alle proprie necessità
politiche e culturali.
73
L’Esposizione Universale (E42)
L’Italia imperiale, pertanto, richiedeva una Roma imperiale, che rispecchiasse i progetti
del fascismo per la nuova civiltà italiana; la capitale era stata oggetto durante il decen-
nio precedente, del vasto programma di interventi che ne aveva modificato radicalmen-
te l’assetto urbanistico e monumentale, smantellando ciò che veniva considerato
superfluo e mettendo in risalto le vestigia dell’antichità.
L’occasione di realizzare tale impresa avvenne quando l’Italia propose la propria candi-
datura per ospitare un’esposizione universale nel 1942 (ventennale dell’avvento del fa-
scismo), che sfociò nella progettazione e nell’edificazione dei monumenti permanenti
dell’Esposizione Universale (E42) a Roma.
«Le mostre furono, in un certo senso, una genuina arte fascista, dove più efficacemente il
fascismo riuscì a realizzare la sua concezione totalitaria e monumentale della integrazione
politica delle arti, attraverso un eclettico sincretismo di stili, che tuttavia rispondeva ad un
principio unitario costante: rendere visibili i miti del fascismo concretizzandosi sia in mo-
numenti perenni, come le opere architettoniche e urbanistiche, sia in monumenti contin-
L’idea dell’Esposizione Universale era stata concepita nel 1934, un anno prima della
conquista dell’Etiopia, attuata successivamente nel 1936 per iniziativa di Giuseppe Bot-
tai, allora governatore di Roma e approvata da Mussolini il 26 giugno dello stesso anno.
L’obiettivo dichiarato dell’esposizione era quello di offrire al mondo la visione della po-
tenza e della grandezza dell’Italia, sia passata che presente; il progetto dell’E42, infatti,
aveva soprattutto una valenza simbolica e rappresentativa, volta a glorificare la civiltà
74
italiana che, ereditando l’universalità romana, si poneva in una posizione di superiorità
in quanto nuova romanità fascista, all’interno della quale Roma diveniva capita spirituale
della civiltà moderna.
«Con L’E42 viene data una svolta, che incide profondamente nel rapporto tra regime e ar-
chitettura. Lo stile della città, a cui il fascismo più di ogni altra vuole legare il suo nome,
deve essere duraturo, deve identificare l’architettura con quel preciso periodo storico»120
Anche qui proseguì l’affermazione dei criteri di grandiosità e monumentalità che aveva-
no indirizzato l’azione architettonica del fascismo fin dal principio, ma dopo la procla-
mazione dell’impero Mussolini smise di oscillare tra posizioni stilistiche diverse, stabi-
lendo come linguaggio necessario il richiamo all’antichità classica, rielaborata in chiave
moderna.
Tra gli edifici monumentali permanenti il progetto comprendeva gli Uffici dell’Eur, la
Piazza Imperiale, il Palazzo della Civiltà italiana, il Palazzo dei Congressi, il Palazzo delle
Forze armate, la chiesa dedicata ai santi Pietro e Paolo e altri edifici destinati ad ospitare
la Mostra della Romanità e quella della Civiltà Italiana, da Augusto a Mussolini.
Quest’ultima doveva costituire il centro ideale della Roma moderna, una sorta di tempio
sacro della nuova civiltà; l’aspetto monumentale e le caratteristiche formali del palazzo
della Civiltà, progettato dagli architetti Guerrini, La Padula e Romano, richiamano diret-
tamente quelle del Colosseo, di cui si tentò di evocare l’aura di sacralità attraverso le
dimensioni grandiose e la creazione di una sequenza ritmica degli archi, allineati sulle
quattro facciate. Sulla parete frontale dell’edificio vi fu apposta l’iscrizione «un popolo di
poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori»,
espressione mussoliniana già incontrata in occasione della dichiarazione in conseguen-
za delle sanzioni intraprese contro l’Italia dalla Società delle Nazioni riguardo all’aggres-
120P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi,
2008, p. 196.
75
sione dell’Etiopia. Questa era, infatti, il carattere della nuova civiltà italiana, incarnato
nell’edificio monumentale del palazzo della Civiltà.
76
77
All’interno dell’E42, il fascismo si preoccupò di mettere in evidenza le tappe che aveva-
no condotto al raggiungimento della nuova conformazione esistenziale degli italiani; le
fasi di tale conquista vennero rappresentate nel monumentale bassorilievo di Publio
Morbiducci, collocato su una delle pareti esterne del Palazzo degli Uffici. Il titolo, La sto-
ria di Roma attraverso le opere edilizie, rendeva subito evidente il peso politico e cultu-
rale che il regime attribuiva agli interventi architettonici e urbanistici.
78
Riprendendo il movimento a spirale tipico delle colonne narrative di epoca romana (lo
spunto più evidente era quello della Colonna Traiana), il bassorilievo ripercorre gli even-
ti importanti del fascismo attraverso la riproduzione dei monumenti significativi all’in-
terno del percorso di affermazione della nuova Roma fascista e imperiale.
A partire dall’alto a sinistra vi sono raffigurati: la lupa capitolina che allatta i gemelli la
fondazione di Roma, il tempio di Giove capitolino, il Tabularium dell’epoca repubblicana,
i littori, Cesare trionfante a cavallo, Augusto incoronato di alloro fra l’Ara Pacis e il Pan-
theon, il Colosseo, l’Arco di Tito, la statua di Marco Aurelio, Costantino durante le visioni
della croce, scene della Roma cristiana, la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, il Campi-
doglio, la basilica di San Pietro, il sollevamento degli obelischi all’epoca di papa Sisto V.
Successivamente si trovano gli episodi appartenenti all’epoca moderna con l’immagine
di Garibaldi, il Monumento a Vittorio Emanuele II e, a conclusione del percorso, l’imma-
gine di Mussolini a cavallo al cui fianco vi sono, sulla sinistra i soldati della Prima guerra
mondiale, sulla destra donne e bambini e soldati coloniali a simboleggiare la conquista
dell’Etiopia, rappresentata dall’obelisco di Axum.
«[…] la Roma fascista era una realtà monumentale destinata a durare, tramandando nei
secoli futuri il nome di Mussolini. Il duce era certamente orgoglioso dell’opera compiuta,
anche se molto ancora dei suoi ambiziosi progetti monumentali attendeva d’essere portato
a compimento. Compreso il più ambizioso di tutti, il progetto di un monumento non di pie-
tra, ma di esseri umani: la creazione dei Romani della modernità, una nuova razza di italiani
conquistatori e dominatori, eredi ed emuli dei Romani dell’antichità»121
Col passare degli anni e con l’avvento della Seconda guerra mondiale, i progetti per ul-
timare l’Esposizione Universale nel 1942 furono rinviati e interrotti, cosicché la realizza-
zione complessiva di una nuova Roma monumentale e moderna non venne mai portata
a termine.
79
Mussolini e il mito augusteo
La mostra doveva essere dedicata all’imperatore romano e alla romanità del passato, ma
di fatto si caratterizzò come la celebrazione della figura di Mussolini, presentato come
nuovo Augusto.
In seguito alla conquista dell’Etiopia, infatti, la connotazione imperiale del duce si fece
sempre più preponderante; fin dal suo avvento al potere Mussolini era stato identificato
come l’uomo della provvidenza, incaricato di condurre l’Italia verso il suo destino di glo-
ria e grandezza. Dopo la proclamazione dell’impero, questo aspetto subì un ulteriore
evoluzione e l’immagine del duce divenne simbolo onnipresente del fascismo e della
nuova romanità.
Il popolo doveva identificarsi con Mussolini, pertanto, l’introduzione della propria effige
nei complessi scultorei e monumentali divenne una pratica diffusa all’interno di quel
processo identitario di creazione di simboli riconoscibili e condivisibili da parte della
popolazione.
Le fattezze del duce divennero parte dell’iconografia elaborata dal regime; gli vennero
attribuite le fattezze del legionario romano, in un processo di stilizzazione dei tratti so-
matici, che mirava ad universalizzarne la tipologia antropologica.
Il culto della personalità di Mussolini implicava la consacrazione da parte del popolo del
progetto dittatoriale e totalitario fascista. Non solo l’aspetto fisionomico venne elevato
ad emblema dell’italianità; anche la nomina stessa di “DUX” si rivestì di un carattere
80
simbolico, che giustifica la costante reiterazione della sua iscrizione sugli edifici e i mo-
numenti.
Tra i casi più eclatanti vi furono le colossali iscrizioni inserite nei contesti naturalistici
delle montagne del Lazio e dell’Abruzzo: si citano in questa analisi gli esempi della scrit-
ta realizzata nel 1939 dalla Scuola Allievi Guardie Forestali di Cittaducale su una delle
pareti del Monte Giano, in prossimità del comune di Antrodoco (provincia di Rieti) e
quello dell’incisione sul costone roccioso che sovrasta il paese di Villa Santa Maria, in
provincia di Chieti.
Questi casi rappresentano il processo di inserimento del mito di Mussolini nel tessuto
stesso del territorio italiano; non edificazione ex novo di monumenti in un contesto ur-
banistico e cittadino, ma introduzione di una variante paesaggistica, che collocò l’opera
di costruzione dell’immagine perenne del fascismo ad un ulteriore livello di profondità.
Il sistema dittatoriale e totalitario, identificato nella scritta “DUX”, venne innervato nel
territorio fisico e ambientale dell’Italia; come la crescita spontanea degli alberi, esso
venne presentato come la naturale evoluzione del processo di espansione e di sviluppo
della civiltà italiana.
Alla spontaneità dell’elemento vegetale, alla durevolezza della pietra e alla grandiosità
delle montagne, vennero associate le qualità della nuova concezione fascista della vita
e del ruolo storico dell’Italia. L’effetto scenico, di fortissimo impatto, era supportato da
questa aspirazione da parte dei sostenitori del fascismo, che concepivano ogni gesto
relativo all’affermazione della nuova civiltà in un’ottica dell’eternità.
«La conquista dell’Etiopia […] esasperò nel duce il desiderio di grandezza e la volontà di
accelerare l’esperimento totalitario per creare una nuova razza di italiani, degna del nuovo
impero, che egli aveva voluto e conquistato. […] La proclamazione dell’impero e tutto quel-
lo che ne seguì in politica intera e in politica estera – la partecipazione militare alla guerra
civile in Spagna, l’accrescimento della concentrazione del potere del duce e nel partito
fascista a scapito della monarchia, la campagna antiborghese per la riforma del costume,
l’introduzione delle leggi razziali e antisemite, l’alleanza con la Germania nazista, e infine
l’intervento dell’Italia nella Seconda guerra mondiale – furono le tappe decisive dell’ultima
fase dell’esperimento totalitario per la rigenerazione degli italiani e l’espansione imperiale,
in nome della nuova civiltà nata dal connubio fra romanità e fascismo.»123
81
Mussolini veniva identificato con lo spirito di gloria e grandezza che egli era stato in
grado di risvegliare nelle coscienze degli italiani, restituendogli il posto assegnatogli
dalla storia nel destino dei popoli della terra. L’istituzione dell’impero venne accolta
come la conferma di questo ruolo dell’Italia, rinvigorita dall’azione rigeneratrice del re-
gime fascista, di cui, in moltissimi casi, venne ignorata la fondamentale portata razzista
e liberticida.
82
3
Il precedente capitolo sugli aspetti costitutivi e ideologici alla base della costruzione di
nuovi monumenti da parte del regime, serve da tassello per comprendere ed affrontare
il dibattito odierno intorno alle tracce del fascismo, che vede la messa in discussione
delle narrazioni egemoni e il coinvolgimento delle comunità marginali e delle minoran-
ze, che rivendicano il loro posto negli spazi di rappresentazione pubblica e collettiva.
83
Il legame con la storia si caratterizza in numerose varianti a livello collettivo, generando
concezioni differenti nei confronti delle responsabilità e degli approcci verso ciò che
resta del passato, spesso condizionati da coinvolgimenti emozionali e identitari diversi.
«[…] if monuments are treated merely as depoliticized aesthetic objects, then the far right
can harness the ugly ideology while everyone else becomes inured»125
L’articolo suscitò reazioni molto forti nell’opinione pubblica e nella stampa italiane, che
accusarono Ben-Ghiat di non comprendere il valore di tali monumenti, di promuovere e
istigare la furia iconoclasta contro un’importante parte del patrimonio artistico e cultu-
rale dell’Italia.
«L’articolo di Ruth Ben-Ghiat su “The New Yorker” dimostra come ormai il populismo non
sia solo più appannaggio della politica, ma è entrato, con la formula subdola del politica-
mente corretto, anche nel giornalismo di qualità. […] L'idea che la storia sia una tabula rasa
124 R. Ben-Ghiat, Why are so many fascist monuments still standing in Italy?, 5 ottobre 2017, «New Yorker»,
<https://www.newyorker.com/culture/culture-desk/why-are-so-many-fascist-monuments-still-standing-in-
italy>, consultato in data 15/06/2021.
125 Ibidem.
84
che si può ridisegnare secondo i criteri del politicamente corretto del momento, purtrop-
po è diventata la regola di dittatori e populisti democratici in cerca di legittimazione. Non
ci vuole molto infatti a capire che dietro le parole del New Yorker si celi l'ennesima versio-
ne del funesto principio dell'esportazione della democrazia, che tanti dissesti ha creato
nelle coscienze e nella geopolitica di questo inizio secolo.»126
«C’è una confusione di fondo […] Cos’è un monumento? Si intende la statua? Il simbolo
mediatico il cui principale e precipuo scopo è la dichiarazione ideologica? Ma quei monu-
menti un cambio di regime li rimuove subito, come fu fatto da noi dopo la guerra. I fasci
furono scalpellati. Si intende l’edificio? Ma quello dappertutto lo si tiene»128
Nella sezione finale di questa analisi, pertanto, si tenta di mettere in evidenza nuove so-
luzioni e nuovi approcci che hanno caratterizzato la tematica della permanenza dei mo-
numenti di epoca fascista, frutto di una più profonda presa di coscienza delle comples-
sità e delle numerose implicazioni che tali tracce del passato istituiscono nel presente.
126Fulvio Irace, Il populismo giornalistico che ignora i capolavori dell’architettura fascista, «Il Sole 24 Ore», 9
ottobre 2017, <https://www.ilsole24ore.com/art/il-populismo-giornalistico-che-ignora-capolavori-dell-archi-
tettura-fascista-AENr8VhC>, consultato in data 15/06/2021.
127Ne riportiamo alcuni: Intervista a Stefano Sbalchiero, Cosa significa abbattere le statue? Le reazioni della
società a uno scomodo passato, 22 giugno 2020, <https://ilbolive.unipd.it/it/news/cosa-significa-abbattere-
statue-reazioni-societa>, consultato in data 15/06/2021; La memoria pubblica in Italia è una partita ancora
aperta, «Leggi Scomodo» 30 ottobre 2020, <https://www.leggiscomodo.org/memoria-pubblica-italia-cultu-
ral-blindness/>, consultato in data 15/06/2021; F. Giannini, Se ci sentiamo toccati sui monumenti fascisti,
forse abbiamo ancora qualche conto in sospeso, «Finestre sull’Arte», 31 ottobre 2017, <https://www.finestre-
sullarte.info/opinioni/monumenti-fascisti-se-ci-sentiamo-toccati>, consultato in data 15/06/2021.
128Intervista ad Antonio Pennacchi, “Il Palazzo della Civiltà all'Eur è bellissimo!” La risposta di Pennacchi al
New Yorker, 12 ottobre 2017, <https://www.ilfoglio.it/cultura/2017/10/12/news/il-palazzo-della-civilta-alleur-e-
bellissimo-la-risposta-di-pennacchi-al-new-yorker-157269/>, consultato in data 15/06/2021.
85
3.1. CONSERVAZIONE/DISTRUZIONE
All’interno del dibattito relativo alla questione dei monumenti di epoca fascista, molto
spesso la problematica viene ricondotta ad una visione polarizzante e inconciliabile del-
le possibili soluzioni, che prende le mosse dalla contrapposizione conservazione/distru-
zione.
Le Olimpiadi di Roma del 1960 rappresentarono un’occasione importante per l’Italia per
rilanciare la propria immagine, ancora legata al regime fascista e alla vicinanza con la
Germania nazista di Hitler, nonostante i tentativi dei partiti antifascisti di elaborare una
memoria nazionale fondata sulla Resistenza e sulla guerra partigiana. Il Foro Italico,
quindi, rappresentava un problema, poiché custodiva in bella mostra le tracce di quel
fascismo dalle implicazioni razziste e imperiali, che il paese, in quel periodo, desiderava
dimenticare.
«per sapere se non ritengano opportuno, in occasione delle olimpiadi di Roma e in consi-
derazione del carattere di pacifica solidarietà internazionale della grande manifestazione,
di rimuovere dal Foro Italico le scritte scolpite ad apologetica memoria di un passato che il
popolo italiano e la coscienza democratica del mondo hanno condannato; scritte che po-
trebbero essere considerate dagli ospiti come esaltazione espressa del nostro paese e che
86
ingiustamente attribuiscono meriti di ricostruzione dovuti soltanto allo sforzo e al sacrificio
dell’Italia democratica»129
«Premetto che il valore di queste scritte è storicamente nullo. Basti pensare che su un cip-
po è riprodotto il discorso del 9 maggio, quello stesso in cui si affermava “che tutti i nodi
erano ormai stati tagliati dalla spada lucente del fascismo”, che “l’Italia ha finalmente il suo
impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà, della potenza del fascio
littorio”, ecc. Di questi segni giudicati indistruttibili oggi non è rimasto più nulla; non è ri-
masto il fascismo, non è rimasta una sola delle sue conquiste. Sono però rimaste le lapidi, i
cippi e i marmi commemorativi del Foro Italico, e solo questi. Come poi sono finite le con-
quiste e per colpa di chi, nessun cippo e nessun marmo lo ricorda.»131
In seguito venivano riportate alcune delle posizioni di personaggi di spicco della vicen-
da resistenziale e del dopoguerra, tra cui Ferruccio Parri e il generale Cadorna, che au-
spicavano la rimozione delle iscrizioni fasciste dal Foro Italico e dagli spazi pubblici ita-
liani.
«Chiunque vada al Foro Italico e veda le iscrizioni in argomento non può non essere indot-
to a meditare sui rischi che corrono gli uomini quando troppo avventatamente vogliono
incidere per l’eternità nei blocchi di marmo o nel bronzo date ed avvenimenti, prima che
questi siano stati dimensionati nelle prospettive della storia. Non vi è infatti chi non avverta
quale enorme sproporzione, pur solo dopo pochi anni, si sia stabilita tra la solennità con
Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, seduta del 6 ottobre 1959, pp. 10613-10615, <http://legislature.-
129
130 Ibidem.
131 Ibidem.
87
cui si vollero esaltare taluni avvenimenti e quello che oggi appare a tutti il loro effimero
valore e significato, per non dire dell’ammonimento che scaturisce dai blocchi che rimar-
ranno non incisi, a testimoniare il rapido tramonto di un regime che aveva preteso di inau-
gurare addirittura un’era, paragonandola perfino a quella cristiana. Per quanto poi concer-
ne le scritte che fanno parte della decorazione a mosaico, esse oggi suonano a chiunque
così stranamente retoriche che credo […] che nessuno oggi vorrebbe difenderne il mante-
nimento sotto il profilo di un interesse politico. Il problema è di vedere se un governo che
interpreta e regge un popolo di antichissima civiltà possa dar luogo alla demolizione di ciò
che è testimonianza di un passato, e possa farlo non per ragioni tecniche, né per altro mo-
tivo che non sia appunto il desiderio di cancellare quella testimonianza. […] Noi lasciamo
alle dittature, che si illudono di essere principio e fine di storia, la non confessata paura dei
fantasmi del passato e l’accanirsi contro le pietre e contro il marmo che quel passato ri-
cordano.»132
Con il cambio di governo e l’insediamento di Fanfani alla Presidenza del Consiglio, av-
venne una revisione delle posizioni riguardanti le scritte fasciste del Foro Italico; il nuo-
vo ministro del Turismo dispose per la cancellazione della formula del giuramento fasci-
sta dal pavimento del piazzale e per la copertura della scritta che ricordava la questione
delle sanzioni economiche intraprese dalla Società delle Nazioni di fronte all’aggressio-
ne italiana dell’Etiopia.
Altri interventi alla vigilia delle Olimpiadi vennero effettuati nell’area dell’ex piazzale del-
l’Impero: vennero inseriti tre nuovi blocchi su cui furono incise le iscrizioni per ricordare
la caduta del fascismo (25 luglio 1943), il referendum istituzionale (2 giugno 1946) e la
costituzione repubblicana (1 gennaio 1948).133
Gli interventi suscitarono reazioni contrastanti tra neo-fascisti e comunisti: i primi so-
stennero che, vista l’introduzione delle nuove iscrizioni, non era più necessaria la can-
cellazione delle scritte di epoca fascista; i secondi, invece, individuarono in quell’inse-
rimento l’indicazione di una continuità tra l’Italia fascista e quella democratica.
Un ulteriore intervento venne effettuato spostando i blocchi di pietra realizzati dal fasci-
smo con le date principali del regime: essi vennero ricollocati mettendo al primo posto
l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale, al secondo la battaglia di Vittorio Veneto
132 Ibidem.
133Cfr. V. Vidotto, Il mito di Mussolini e le memorie nazionali. Le trasformazioni del Foro Italico 1937-1960,
<https://www.spsonline.it/Specializzazione01b/Convegni/EventiSPS/SeminarioItinerante/ROMA.pdf>, con-
sultato in data 16/06/2021.
88
e al terzo la fondazione del «Popolo d’Italia». L’intento era quello di attenuare la caratte-
rizzazione mussoliniana dello spazio, caratterizzandolo come luogo di memorie naziona-
li.
Il caso del Foro Italico esprime le difficoltà in ambito italiano di affrontare la questione al
di là della contrapposizione tra conservazione e distruzione, che, infatti, ha caratterizza-
to e caratterizza tuttora il dibattito intorno ai monumenti realizzati durante l’epoca fasci-
sta.
La funzione dei monumenti viene ricondotta alla loro capacità di informare lo spazio
collettivo della memoria della storia; in questo caso il ruolo del monumento costituisce
un tassello fondamentale nella costruzione di una coscienza storica. Inoltre, tramite la
loro funzione di ammonimento e ricordo, i monumenti possono fungere da deterrente
per non ripetere gli errori del passato; nel caso degli sconvolgimenti portati dalla Se-
conda Guerra Mondiale e dagli stermini di massa del secolo precedente, questo aspetto
assume una particolare rilevanza.
89
vengono percepiti come l'espressione architettonica di un periodo storico, alla pari di
tante altre che danno forma e immagine alle città e al paesaggio.
Ciò che avviene è una sorta di diluizione delle immagini, dei simboli e dei monumenti
elaborati dal fascismo all’interno del tessuto urbanistico e paesaggistico complessivo,
come se appartenessero ad un naturale processo evolutivo del territorio.
Nel dibattito odierno, la questione dello stile non verte più, come durante gli anni Trenta
del secolo scorso, sulla scelta tra l’impiego delle forme dell’antichità classica o di quelle
del razionalismo moderno; ciò su cui si è posta l’attenzione negli ultimi decenni è la va-
lidità artistica e architettonica dei monumenti, quali espressioni stilistiche e formali di
un’epoca, tralasciandone la portata e il messaggio politici.
Il legame percepito con il passato fascista viene fatto ricondurre alle iscrizioni e ai sim-
boli che testimoniano un chiaro riferimento al fascismo, ma, anche in questo caso, tali
caratteristiche vengono inserite all’interno della salvaguardia della conoscenza dei pro-
cessi storici e della memoria del passato.
La continuità stilistica tra gli edifici del periodo fascista e quelli degli anni successivi,
nonché la prosecuzione dopo l’instaurazione della Repubblica di progetti avviati duran-
te il regime, parrebbe la conferma del fatto che l’apprezzamento per tali forme architet-
toniche trascenda il contesto politico che ne ha segnato l’origine.
«Il linguaggio messo a punto dagli architetti italiani in ambito monumentale […] dal dopo-
guerra fino ad almeno gli anni Ottanta è, in realtà, saldamente ancorato a tutta l’esperienza
90
maturata nel ventennio fascista, risentendo in maniera feconda delle diverse anime che ne
hanno contraddistinto la cultura architettonica»134
Gli atteggiamenti nei confronti del Palazzo della Civiltà, dei mosaici e delle sculture del
Foro Italico ne sono un esempio: essi, infatti, molto spesso vengono considerati da par-
te dell’opinione pubblica come grandiosi esempi dell’architettura modernista italiana.
A questo proposito è utile osservare i risultati del progetto elaborato da Francesco Mat-
tioli sull’identità urbana di Roma e riportato nel testo I simboli del fascismo nella Roma
del XXI secolo. Cronache di un oblio del 2014.
Attraverso un’indagine sul campo condotta tramite gli strumenti della sociologia visuale
e urbana, all’interno di un percorso universitario dell’ateneo La Sapienza di Roma, il
progetto tentava di dare una risposta alla domanda «fino a che punto i simboli architet-
tonici del fascismo sono diventati parte integrante dell’identità urbana di Roma?»135.
D. Harper, F. Mattioli, I simboli del fascismo nella Roma del XXI secolo. Cronache di un oblio, Roma, Bo-
135
91
Leggendo alcune delle risposte alle interviste riportate nel testo, infatti, si nota una ge-
nerale tendenza di apprezzamento estetico (in particolare del Palazzo della civiltà del-
l’Eur e al complesso del Foro Italico) nei confronti delle architetture mostrate, mentre la
valutazione di natura politica e ideologica viene riservata agli elementi che presentano
un chiaro riferimento all’apparato simbolico fascista.
«Il principale risultato dell’indagine sul campo è [che] pur con qualche sacca di resistenza,
i romani si stanno progressivamente abituando alla presenza di monumenti e segnacoli del
fascismo, intesi sempre meno come simboli del regime e sempre più come mera compo-
nente scenografica della stratificazione storica e culturale della città»136
Considerando i risultati di questa analisi, sembra che parte degli obiettivi della cultura
della memoria elaborata dal fascismo sia stata portata a compimento; gli interventi che
esso realizzò a Roma, infatti, avevano lo scopo di formare una nuova immagine della cit-
tà, conferendole le qualità di una capitale grandiosa e moderna, in cui ai monumenti
dell’antichità si affiancassero quelli realizzati dal regime.
In virtù di questo meccanismo si è reso possibile, ad esempio, che nel 2015 una grande
casa di moda come Fendi, stabilisse la propria sede negli spazi del Palazzo della Civiltà
Italiana dell’EUR; per l’occasione venne inaugurata la mostra Una nuova Roma. L’EUR e il
Palazzo della Civiltà Italiana, che prevedeva un percorso espositivo in cui si illustrava la
storia e l’influenza dell’EUR nell’opera di artisti, fotografi e registi italiani (tra cui Mario
Sironi, Gino Severini, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini).
Il progetto Poesia di Luce di Mario Nanni, che illumina le arcate del palazzo e ribadisce
tramite proiezioni luminose l’iscrizione “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di
pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori” si pone in continuità con quanto
affermato da Pietro Baccari, amministratore delegato della maison: «Siamo orgogliosi di
poter restituire oggi alla nostra città, Roma, e al mondo intero il Palazzo della Civiltà Ita-
92
liana, simbolo delle nostre radici romane e del continuo dialogo fra tradizione e moder-
nità, valori da sempre cari a Fendi»137.
Nella descrizione del progetto di Nanni si rende evidente la concezione del monumento
come simbolo dei pregi associati ad una concezione d’italianità che per molti aspetti
non si discosta da quella concepita dal fascismo.
«il palazzo della civiltà italiana, nella sua metafisica e silenziosa potenza, con la sua materi-
ca e imponente presenza nel paesaggio romano, si contraddistingue come un simbolo del-
la magnificenza romana, come il vessillo dell’italianità nel mondo. L’opera più importante
costruita a Roma negli ultimi 100 anni, perfetta espressione dell’avanguardia culturale ita-
liana del XX secolo»138
In questo caso l’operazione consiste nel ribadire un carattere già insito nel monumento,
estrapolato ed epurato di ogni riferimento politico e contestuale, che viene messo in
ombra rispetto dalla nuova luce con cui leggere il messaggio di cui è portatore: la pro-
secuzione e la glorificazione dell’italianità come identità storica e culturale della nazio-
ne, che rende possibile il fiorire di nuove eccellenze italiane, in questo caso in relazione
alla casa di moda Fendi.
L’esempio delle iscrizioni DUX sulle pareti delle montagne ad Antrodoco e a Villa Santa
Maria ne chiarisce gli aspetti: esse (rispettivamente realizzate attraverso la piantuma-
zione di alberi nel caso del Monte Giano, e l’incisione sulla parete rocciosa che sovrasta
il paese di Villa Santa Maria) costituiscono particolare conformazione “naturalistica” di
monumento.
Le operazioni di restauro per ristabilire l’integrità della scritta sul Monte Giano andata
perduta a causa di un incendio e quelle per rendere di nuovo visibile l’iscrizione di Villa
gettazione/architettura/2015/10/fendi-polemica-palazzo-della-civilta-italiana-roma/>
93
Santa Maria usurata dal tempo, possono essere ricondotti ad atti di apologia del fasci-
smo in virtù del particolare soggetto che sono andati a ristabilire.
Se per molti dei monumenti realizzati durante il regime fascista si può instaurare un di-
scorso parallelo riguardo alla salvaguardia dello stile e delle forme architettoniche al di
là del messaggio fascista, in questo caso tale accezione appare irrilevante.
Tale riabilitazione della figura di Mussolini, associata ad una determinata e parziale con-
cezione della conservazione delle tracce storiche del passato, ha portato alla legittima-
zione degli interventi di Antrodoco e di Villa Santa Maria, nonostante l’acceso dibattito
che li ha visti protagonisti.
Essi manifestano l’espressione di quella parte della popolazione che guarda al presente
con occhio nostalgico verso il passato fascista, nonostante in molti casi non lo abbia
mai vissuto. In questo caso l’apparato dei simboli elaborati e diffusi dal fascismo, tra cui
l’effigie di Mussolini e la scritta DUX, manifesta l’attaccamento all’universo dei valori e
dell’ideologia fascisti, sopravvissuti alla fine del regime.
Cfr. F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo,
139
94
È pertanto possibile individuare nella continuità e nell’assimilazione dei monumenti di
epoca fascista nell’immaginario collettivo, la prosecuzione del progetto di rimodellazio-
ne antropologica degli italiani messo in atto dal fascismo, che prevedeva la continuità e
la trasmissione nel tempo dei propri segni e simboli.
«[Se guardiamo a quello che è successo nell’architettura nel Novecento] non in un’ottica
riduttiva tesa a privilegiare solo la qualità sulla base di aprioristiche convinzioni estetiche,
ma di una più complessa visione storica; se inseriamo il ventennio fascista all’interno di un
processo di più lungo termine, nella prospettiva di una nation building, allora quelle opere
monumentali volute da fascismo (e in parte completate dopo la sua caduta), rimosse dalla
“storiografia operativa” perché ritenute prive di valore artistico, poco moderne o antimo-
derne, insincere e demagogiche, assumono ben altro peso. Esse, infatti, partecipano in
maniera determinante alla costruzione del paesaggio italiano. […] La loro presenza marmo-
rea sulle piazze, lungo i viali, agli incroci delle strade si trasmette e si radica nelle nostre
menti anche senza che noi ce ne accorgiamo. Questo patrimonio visivo comune produce
cultura e diventa un segmento importante nella formazione di un’identità italiana»140
In questo caso i monumenti vengono letti attraverso la lente dell’ideologia e del mes-
saggio che furono alle base della loro edificazione.
La reazione nei confronti del perdurare di tali manifestazioni del fascismo, talvolta pren-
de le forme di atti distruttivi riconducibili ai fenomeni dell’iconoclastia, che prevedono
la demolizione dei monumenti come atto di protesta per eliminare le tracce della glori-
ficazione fascista.
95
ta dagli organi di potere per celebrare se stessi e i propri protagonisti; le forme di dam-
natio memoriae della Roma antica sono state impiegate nel corso dei secoli durante le
fasi di rinnovamento politico e sociale, attraverso la rimozione di statue e monumenti
considerati visualizzazioni materiali della storia e di un passato che si vuole cancellare.
La distruzione iconoclasta può configurarsi nella censura da parte del potere dominante
o, al contrario, costituire un atto di rivolta contro di esso; può avere valenze religiose,
oppure esprimersi in forme di vandalismo generalizzato. In generale essa scaturisce da
complicate relazioni che l’immagine, reificata in un supporto fisico e materiale, suscita
nello spettatore, il quale riversa su tale mezzo i propri sentimenti e la propria reazione.
«Warnke noticed that the former [from above] tended to lead to a replacement of what
they destroy by new symbols and to the prohibition of further destruction, whereas the
latter [from below], springing from political impotence, mostly failed to establish new
symbols of their own. […] He added that by ending in surpassing the aesthetic quality of
the eliminated works, “the iconoclasm from above” managed to be celebrated among the
great dates of history of art, while “iconoclasm from below” were denounced as “blind
vandalism”: iconoclasm thus became “a privilege for the victors, and a sacrilege for the
vanquished”»142
Cfr. D. Gamboni, Destruction of Art: Iconoclasm and Vandalism Since the French Revolution, Reaction
141
142 Ibidem.
D. Gamboni, Destruction of Art: Iconoclasm and Vandalism Since the French Revolution, Reaction Books,
143
2007, p. 212.
96
Un aspetto determinante delle problematiche relative alla definizione dell’iconoclastia è
quello dello spazio pubblico e collettivo nel quale esse si verificano. Le immagini intro-
dotte nello spazio sociale dalle istituzioni, che esercitano il loro potere figurativo tramite
il controllo dei media, sono in grado di suscitare un effetto collettivo («Wirkung»144), da
cui scaturiscono le reazioni di distruzione iconoclasta.
Come individuato da Hans Belting riguardo la distruzione delle sculture pubbliche (tra
cui quella dei monumenti iracheni e sovietici): «le immagini ufficiali, pensate per impri-
mersi nell’immaginario collettivo, provocano l’iconoclastia come una pratica di libera-
zione simbolica»145. Belting, inoltre, identifica una distinzione tra l’immagine e il suo
mezzo, che permette di mettere in luce i potenziali risultati e l’efficacia della distruzione
delle immagini e dei monumenti che abbiamo preso in esame.
«L’iconoclastia, che è violenza contro le immagini, riesce nel solo intento di distrugger il
mezzo o il supporto-mezzo di un’immagine, ossia il lato tecnico, materiale o tangibile. La-
scia intatta l’immagine stessa, perché essa non abbandona l’osservatore, e questo si verifi-
ca anche se era la distruzione dell’immagine che l’atto iconoclasta si proponeva. L’icono-
clastia, spogliando un’immagine dalla sua presenza fisica, punta anche a spogliarla della
sua presenza pubblica, cioè della sua esistenza nella sfera pubblica. La distruzione in que-
sto caso è simbolica come l’installazione originale o l’introduzione dell’immagine nello
spazio pubblico. La distruzione è diretta contro l’immagine […], ma di fatto danneggia so-
lamente la pietra o il bronzo dell’immagine. Quando a Baghdad furono distrutte le colossali
statue di Saddam, chi le distruggeva stava decretando una vittoria simbolica sul tiranno
attraverso la sua immagine. Tuttavia, la sola eliminazione di una scultura o di un ritratto
pubblici non può garantire quello che tale atto si propone come scopo ultimo, vale a dire
l’oblio o il disprezzo per quell’immagine nella mente delle persone.»146
In virtù di queste considerazioni sembra che la scelta di distruggere le tracce del passa-
to fascista non comporti un risultato significativo nel promuovere letture diverse e
maggiormente approfondite dei monumenti realizzati dal regime.
145Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Raffaello Cortina Edito-
re 2009, p. 73.
97
La volontà di eliminare determinate forme di narrazione deve essere considerata come
la manifestazione di un momento di crisi caratterizzato da scontri di valori contrapposti,
determinati in larga misura delle modalità di elaborazione dei processi storici e culturali
all’interno di una determinata comunità.
«Alla radice di ogni furia iconoclastica c’è, secondo Bruno Latour, la tendenza costante a
considerare le immagini come terreno di scontro, come fulcro di un qualche tipo di icono-
clash»147
Nel 2002 Bruno Latour e Peter Weibel curarono la mostra Iconoclash: Beyond the Image
Wars in Science, Religion, and Art nel quale venivano affrontate le forme e le manifesta-
zioni di odio nei confronti delle immagini, per cui elaborarono il termine iconoclash.
«Iconoclastia è quando noi sappiamo che cosa sta succedendo nel momento in cui si di-
strugge qualche cosa e conosciamo le motivazioni che sono dietro a quel che sembra un
chiaro progetto di distruzione. Iconoclash, invece, è quando non si sa, o si esita, o si è in
difficoltà di fronte a un’azione per la quale non c’è modo di sapere, senza ulteriori indagini,
se sia distruttiva o costruttiva.»148
Nel testo che descrive la mostra, Latour realizzò una classificazione in cinque tipi di ge-
sti iconoclasti, divisi in gruppo A (che sono contro a tutte le immagini), B, C, D, E. Per il
discorso che viene affrontato in questa analisi, il gruppo più interessante appare il
gruppo C, in cui le persone non sono contro tutte le immagini, ma solo quelle dei loro
oppositori. In questo caso l’immagine è identificata come un simbolo, «luogo di raccol-
ta dei tesori simbolici di un popolo»149. La teorizzazione di Latour in questo caso va con-
siderata in relazione alla questione degli attacchi terroristici, tra cui l’attentato dell’11
settembre 2001 che mirava a distruggere le Twin Towers anche su un piano simbolico. I
recenti gesti di distruzione e deturpamento dei personaggi legati all’esperienza colonia-
le e fascista non si possono identificare con fenomeni di terrorismo; essi condividono
con la tipologia identificata dal Latour nel gruppo C la volontà di affrontare le immagini
147Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Raffaello Cortina Edito-
re 2009, p. 288.
98
come oggetti portatori di significati simbolici da ricondurre ai processi identitari di de-
terminate comunità.
Tale fenomeno viene spesso identificato, sopratutto dalla stampa e da parte dell’opinio-
ne pubblica, come il sintomo di una nuova corrente iconoclasta, che, tramite la demoli-
zione di statue e simboli, mira alla distruzione di un determinato establishment conside-
rato non compatibile con i nuovi modelli della società. I casi in cui, all’interno di manife-
stazioni spontanee e popolari sono state distrutte rappresentazione scultoree di alcuni
personaggi del passato considerati controversi, si sono infatti moltiplicati negli ultimi
anni.
Tra gli episodi più noti quello di Bristol, in cui i manifestanti hanno demolito la statua di
Edward Colston, mercante di schiavi; l’imbrattamento con la scritta was a racist della
statua di Winston Churchill a Londra; il dibattito in Belgio contro la statua di Leopoldo II
per la sua politica coloniale in Congo; negli USA, a Richmond, l’abbattimento della sta-
tua di Cristoforo Colombo; mentre in Italia i casi forse più noti sono il movimento di cri-
tica verso la statua di Indro Montanelli a Milano e il caso del mausoleo ad Affile dedicato
a Rodolfo Graziani.
La problematica questione relativa alla statua di Indro Montanelli, realizzata nel 2006
dallo scultore Vito Tongiani e collocata nei Giardini pubblici di via Palestro a Milano
99
(luogo dove il giornalista subì un attentato brigatista nel 1977), risente di questo conte-
sto.150 La scultura venne realizzata per rendere omaggio ai meriti di Montanelli in quanto
figura di spicco del giornalismo italiano, concezione ancora ben custodita da larga par-
te dell’opinione pubblica.
La statua di Montanelli nasce per la volontà di celebrarne i meriti nel campo giornalisti-
co; questo è il motivo da cui l’opera trae la propria origine e la propria ragione d’essere
e, nell’intenzionalità che ne sta alla base, la questione della sua adesione al fascismo e
150Cfr. Statua di Indro Montanelli imbranata a Milano. Tutte le volte che la scultura ha creato dissensi, «Artri-
bune», 14 giugno 2020, <https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2020/06/statua-di-in-
dro-montanelli-imbrattata-a-milano-tutte-le-volte-che-la-scultura-ha-creato-dissensi/>, consultato in data
17/06/2021.
100
alle modalità della politica coloniale italiana in Africa non appare rilevante. Questo
aspetto differenzia tale caso specifico dagli altri monumenti presi in esame in questa
riflessione, che nacquero come espressione diretta della volontà e dell’ideologia fasci-
sta.
Ciò nonostante, esso si inserisce nel contesto contemporaneo della contestazione della
narrazione egemonica italiana sviluppata nei decenni successivi alla fine della guerra,
costruita sull’assoluzione delle colpe dell’Italia e caratterizzata dalla visione unica del
paese conquistatore e vittorioso. All’interno di tale contestazione, le posizioni femmini-
ste, antirazziste e anticolonialiste convergono nel mettere in evidenza le responsabilità
di Montanelli all’interno del contesto storico e sociale complessivo. A queste responsa-
bilità, condivise con gran parte della popolazione italiana che sostenne e appoggiò la
politica del regime, viene ricondotta la radice dei fenomeni di disuguaglianza e razzi-
smo attuali.
Come nel caso della statua di Indro Montanelli, i monumenti presi in causa nel dibattito
attuale appaiono attraversati da correnti contrapposte, che tentano di rintracciare e di
mettere in luce la prevalenza degli aspetti positivi o di quelli negativi, facendo scaturire
posizioni opposte e spesso inconciliabili.
101
3.2. NUOVE RISPOSTE: COSTRUZIONE, RILOCAZIONE, RICONTESTUALIZZAZIONE
Come evidenziato da Ruth Ben-Ghiat in una delle conferenze all’interno del progetto
dell’Istituto Parri sui Luoghi dei fascismi, (anch'esso sintomatico dell’attualità del dibatti-
to intorno alla permanenza di luoghi ed edifici con una connotazione chiaramente fasci-
sta), quando si parla di dibattiti sui monumenti e di memoria collettiva, si tratta di una
dialettica fra assenze e presenze, chi ha il diritto di essere rappresentato e chi invece
deve rimanere invisibile.
102
recognition. This work has taken on greater urgency at a moment of national reckoning
with the power and influence of memorials and commemorative spaces»152
The Monuments Project è un’iniziativa della durata di cinque anni che si occupa di sup-
portare lo studio e la ricerca relativa alla questione dei monumenti negli Stati Uniti; il
progetto prevede la collaborazione tra storici, artisti, architetti, operatori della memoria,
teorici, archivisti, attivisti e tecnologi, insieme a organizzazioni senza scopo di lucro,,
studiosi e tutte quelle figure che hanno istituiscono riflessioni critiche riguardo la politi-
ca della razza, dello spazio pubblico e della memorialistica. Il primo grande finanzia-
mento emesso dalla Mellow Foundation nell'ambito del Monuments Project è di quattro
milioni di dollari per supportare il Monument Lab di Philadelphia, uno studio di ricerca e
arte pubblica indipendente che lavora con artisti, attivisti e leader della comunità nelle
città di tutto il paese per reinventare gli spazi pubblici sulla base della giustizia sociale e
dell’equità. Tra gli altri sforzi di ricerca memorialistica intrapresi con il supporto della
sovvenzione triennale della Mellow Foundation, lo studio Monument Lab si occupa di
condurre una verifica del «monument landscape»153 negli Stati Uniti.
The Monuments Project riflette il bisogno generale e diffuso anche in Italia, di ripensare
e riconsiderare le modalità di narrazione della storia occidentale; gli interventi intrapresi
in questa direzione si collocano all’interno di un processo che prevede di «inserire i
punti di riferimento simbolici del fascismo nella sintassi della storia, della città, con un
peso specifico diverso»154. La diversità, in questo caso, consiste nel prendere coscienza
della storia e dei processi che hanno condotto alla particolare conformazione del pre-
sente, riconoscendo i limiti e le lacune di una narrazione che, in molti casi, è l’espres-
sione parziale di un’egemonia dominante.
Nella seguente trattazione si è deciso di prendere spunto dalla tripartizione del progetto
della Mellow Foundation per l’analisi degli approcci e delle soluzioni intrapresi fino ad
oggi nei confronti di monumenti di epoca fascista considerati problematici. Gli edifici di
cui si è accennato nel capitolo precedente vengono esaminati attraverso le attività di
costruzione di nuovi monumenti, di rilocazione dei monumenti e ricontestualizzazione
152 Ibidem.
153 Ibidem.
154 R. Bianchi, I. Scego, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, 2014, p. 87.
103
dei monumenti, come risposta e prosecuzione nel presente della funzione e del signifi-
cato dei monumenti di epoca fascista.
Nel secondo dopoguerra la necessità che si manifestò con più evidenza fu quella di
cercare di elaborare i grandi sconvolgimenti e i lutti portati dalla guerra e dallo stermi-
nio di massa attuati dal nazismo e fascismo, con ricadute fondamentali nella creazione
di un nuovo clima memoriale e di una nuova definizione dei monumenti.
«In Italia la varietà dell’esperienza bellica ha prodotto una molteplicità di “memorie divise”,
spesso “inconciliate” e “antagoniste”»155
Tale operazione veniva considerata necessaria per consolidare il nuovo spirito unitario
ispirato dall’instaurazione della Repubblica il 2 giugno del 1946, che instaurò un nuovo
sentimento nazionale forgiato dall’esperienza della guerra e dalla volontà di riscatto. La
colpa delle atrocità commesse in quel periodo venne attribuita a personalità singole e al
popolo tedesco, percepito come straniero, che aveva occupato il suolo italiano inqui-
nandolo con le proprie nefandezze e crudeltà.
104
confronti dei partigiani e della popolazione civile italiana, senza che venisse compiuta
una reale riflessione sulle implicazioni e sul coinvolgimento dell’Italia.
L’amnistia del 22 giugno del 1946 concessa ai fascisti colpevoli di reati comuni e firmata
da Palmiro Togliatti, allora ministro della Giustizia, venne istituita in nome della «con-
cordia nazionale»157 per tentare di integrare nell’Italia democratica le generazioni più
giovani che avevano aderito al fascismo poiché profondamente indottrinati fin dalla
prima educazione.
«L’atto solenne di amnistia con cui la Repubblica celebra il suo avvento rappresenta, al
tempo stesso, un atto di generosità e un atto di forza, cioè di fiducia in se stessa e nella
sua funzione pacificatrice e unificatrice di tutti gli italiani. Il decreto di amnistia e condono,
presentato dal compagno Togliatti e approvato ieri dal Consiglio dei Ministri, esteso com’è
largamente ai delitti di natura politica, viene infatti a riammettere nella vita civile tutta la
larga schiera di cittadini che, illusi o traviati dal fascismo, si resero colpevoli di fronte alla
Nazione e ne insidiarono la sicurezza e l’onore. […] I democratici e gli antifascisti italiani, e
primi fra tutti noi comunisti, ci eravamo impegnati, superata vittoriosamente la lotta per la
sconfitta della monarchia fascista, a iniziare una politica di pacificazione per ricostruire,
sotto il vessillo repubblicano, l’unità di tutti gli italiani: la Repubblica non ha atteso molto
per gettare concretamente le basi di questa politica. È, lo ripetiamo, un atto di generosità
e, al tempo stesso, di fiducia cosciente nella propria intima forza. Non ci resta, a noi che
abbiamo adempiuto alla nostra promessa, che auspicare che tutti gli italiani si rendano
conto oggi dei propri doveri verso la Nazione, facciano sinceramente ammenda dei propri
errori, e ritrovino, in seno al nuovo Stato democratico, la volontà e la possibilità di rico-
struirsi una vita più onesta, migliore e più felice.»158
«L’Unità», Generosità e forza, 22 giugno 1946, in F. Focardi, La guerra della memoria, Roma, Laterza,
158
2005, p. 130.
105
di guida del nuovo paese democratico; a questo periodo risalgono, infatti, numerosi
processi a carico di partigiani ritenuti responsabili di azioni criminali svolte durante la
guerra e, soprattutto, della responsabilità per le rappresaglie naziste contro i civili.
Tra di essi vi fu la causa promossa nel 1948 contro i partigiani autori dell’attentato di via
Rasella a Roma, che aveva suscitato la rappresaglia tedesca e la strage delle Fosse Ar-
deatine; la causa, che era stata intentata da alcuni parenti delle vittime che considera-
vano illegittima l’azione partigiana, si risolse con l’assoluzione degli imputati, ma costituì
comunque un’importante sfida alla memoria della Resistenza.
Si innescava così il processo di revisione dei meriti della Resistenza, che andava di pari
passo ad una riabilitazione del fascismo, esigenza sostenuta anche dalla Democrazia
cristiana, che costituiva allora il maggior partito di governo. L’appello alla pacificazione
portato avanti dai neofascisti e caldeggiato dalla Democrazia cristiana, si poneva nella
prospettiva di sostituire l’antifascismo con l’anticomunismo come fonte di legittimazio-
ne della Repubblica; proprio per questo i democristiani cercarono di includere nel bloc-
co anticomunista le destre estreme riabilitate.
Col passare degli anni, la prospettiva anticomunista si tramutò in una critica radicale al
«paradigma antifascista»159 innescata dall’avvento del cosiddetto «pentapartito»160
160 Ibidem.
106
(formato dalla Democrazia cristiana, dal Partito Socialista italiano, dal Partito Socialista
Democratico italiano, dal Partito Repubblicano Italiano e dal Partito Liberale Italiano)
con cui tra il 1981e il 1991si costituì la coalizione di governo, che isolava il Partito Comu-
nista.
Nel corso degli anni Novanta, questa critica alla memoria pubblica della Resistenza si
tramutò in una vera e propria sollecitazione alle istituzioni perché si promuovesse una
«nuova memoria pubblica pacificata, svincolata dalla contrapposizione fascismo/antifa-
scismo»162; questa esigenza scaturì soprattutto dalla crisi delle forze politiche protago-
niste della Resistenza e della Prima Repubblica (con lo scandalo del 1992 di “Tangento-
poli”), e dalla nascita dei partiti di Forza Italia e della Lega Nord. Questi, infatti, si pre-
sentavano come una novità nel panorama politico italiano, rompendo la relazione con
l’esperienza della Resistenza e del fascismo, il quale veniva comunque legittimato dalla
partecipazione del Movimento sociale italiano al governo di Silvio Berlusconi nel 1994, a
cui seguì l’affermazione di Alleanza Nazionale, nuovo soggetto politico post-fascista.
«Tali critiche alla Resistenza si inserivano […] in un’azione culturale, ampiamente sostenuta
dai maggiori mezzi di comunicazione, contraddistinta da una rilettura edulcorata del fasci-
smo, che ne riabilitava l’immagine, dipingendolo come un “autoritarismo all’italiana”, reto-
161 Ibidem.
162 Ibidem.
107
rico e velleitario; […] come un regime bonario e paternalista, che aveva accelerato la mo-
dernizzazione del paese godendo a lungo di un vasto consenso fra gli italiani»163
La realizzazione del Mausoleo delle Fosse Ardeatine rientra nella celebrazione della
memoria dell’antifascismo e delle vittime dell’azione nazista in Italia nell’immediato do-
poguerra.
All’indomani della liberazione di Roma del 4 giugno 1944, le cave che ospitavano le 335
salme, costituivano una meta di pellegrinaggio per la popolazione e per le famiglie delle
vittime, che col tempo si organizzarono in associazioni volte ad attribuire una degna se-
poltura ai loro cari.
L’opera che si venne a creare costituisce una tappa fondamentale nell’architettura me-
moriale italiana.
«Non più oggetto, figurativo o astratto, da contemplare, ma percorso da agire, per rivivere
fisicamente ed emotivamente lo stesso tragitto seguito dalle vittime: questa la prerogativa
rivoluzionaria del mausoleo che si limita a indicare, attraverso segni dissonanti, i momenti
cruciali di quel tragitto: le emergenze, naturali, architettoniche e artistiche, non sono infat-
ti stazioni di arrivo, ma tappe intermedie di un circuito continuo»165
164 A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli editore, 2014, p. 21.
108
«Pur configurandosi come l’episodio preminente, il sacrario delle Fosse Ardeatine è l’anti-
tesi del “monumento”»
Esso costituisce una tappa iniziale nel percorso architettonico e artistico verso una nuo-
va concezione delle funzioni e delle forme dei monumenti che, spogliati di alcune delle
loro tipicità, si caratterizzano per difetto.
Il percorso individuato da Zevi prosegue con il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Eu-
ropa (Denkmal für die ermordeten Juden Europas) progettato da Peter Eisenman a Berli-
no, che compie un passo ulteriore rispetto al Mausoleo delle Fosse Ardeatine: da mo-
numento come percorso (che caratterizzava il caso romano) si passa al monumento
come brano stesso della città.
166 Ivi, p. 9.
109
passato sono state coinvolte in interventi artistici particolarmente interessanti167 che
rispecchiano la vitalità del dibattito tedesco intorno alla questione della memoria.
Un ulteriore differenza con il caso romano è la scelta del linguaggio stilistico impiegata
da Eisenman: il Mausoleo delle Fosse Ardeatine è caratterizzato dalla compresenza di
linguaggi differenti che rispecchiano il dibattito artistico e architettonico degli anni in
cui fu realizzato (figurazione, astrazione, espressionismo). A Berlino invece viene adotta-
ta una scelta linguistica univoca attraverso la realizzazione di una griglia astratta e indif-
ferenziata, che potenzialmente è riproponibile all’infinito; esso non mostra cosa ricorda-
re, ma suggerisce un percorso di memoria da affrontare nel silenzio e nella solitudine.
17. Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa (Denkmal für die ermordeten Juden Euro-
pas) di Peter Eisenman a Berlino
167Citiamo qui due episodi. Il progetto Die Endlichkeit der Freiheit del 1990 per ideare interventi nelle due
parte delle città appena riunite, a cui parteciparono vari artisti tra cui Giovanni Anselmo, Barbaro Bloom,
Christian Boltanski, Hans Haacke, Rebecca Horn, Ilya Kabakov, Jannis Kounellis, Via Lewandowsky, Mario
Merz, Raffael Rheinsberg, Krysztof Wodiczko. Il secondo è il concorso per il Mahnmal für die ermordeten der
Juden Europas del 1994/1995 che diede vita ad una mostra nel quale vennero illustrati i progetti degli artisti
e degli architetti che vi avevano partecipato. Tra questi vi fu Horst Hoheisel che proponeva di far saltare in
aria la Porta di Barndeburgo, ridurre la pietra in polvere, spargerla per l’area che in seguito sarebbe dovuta
essere ricoperta con lastre di granito.
110
La svolta più radicale all’interno dell’ambito dei monumenti “per difetto” viene identifi-
cata nell’ambito dei «contro-monumenti»168, in cui la sparizione del monumento è previ-
sta nella sua stessa ideazione e concezione: tale categoria ha avuto origini in Germania,
dove è forte la necessità di elaborare la responsabilità per i crimini e le atrocità da lei
stessa commessi.
Il Monumento contro il fascismo, la guerra, la violenza - per la pace dei diritti umani
(Mahnmal gegen Faschismus, Krieg, Gewalt - für Frieden und Menschenrechte) di Jochen
Gerz ed Esther Shalev Gerz realizzato ad Amburgo nel 1986 ne costituisce il paradigma.
Esso si compone di una colonna di piombo su cui i cittadini sono invitati ad apporre fir-
me e iscrizioni, portando la colonna ad inabissarsi progressivamente fino a scomparire
nell’arco di sette anni.
«Confiscata al monumento, la memoria è quella viva dello spettatore che, attraverso la sua
firma/testimonianza, diventa complice dell’artista nella realizzazione/sparizione
dell’opera»170
«Nulla al mondo è più invisibile. Non c’è dubbio tuttavia che essi [i monumenti] sono fatti
per essere visti, anzi per attirare l’attenzione; ma nello stesso tempo hanno qualcosa che li
rende, per così dire, impermeabili, e l’attenzione vi scorre sopra come le gocce d’acqua su
un indumento impregnato d’olio, senza arrestarvisi un istante»172
169 Memorie di pietra: i monumenti delle dittature, a cura di G. P. Piretto, Milano, Raffaello Cortina, 2014, p.
21.
170 A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli editore, 2014, p. 11.
171 Memorie di pietra: i monumenti delle dittature, a cura di G. P. Piretto, Milano, Raffaello Cortina, 2014, p. 21.
111
Tale meccanismo rientra nella dinamica con cui si attribuisce a determinati dispositivi la
responsabilità di conservare ed esternalizzare la memoria, promuovendone, tuttavia,
l’oblio; affidando la funzione del ricordo ad un supporto esterno, l’individuo si libera del
dovere di ricordare e può permettersi di dimenticare.
Jacques Derrida, nel testo La Farmacia di Platone del 1968, tradusse con il termine “mo-
numenti” l’espressione platonica «hypo-mnesis»173 per indicare il processo di rammemo-
razione possibile grazie alla scrittura, che si configura come il mezzo a cui consegnare i
saperi e le coscienze. Allo stesso modo i monumenti (considerati come grandi «hypom-
nemata»174) rappresentano le tracce materiali a qui viene affidato il compito di perpetua-
re e tramandare la memoria collettiva.
Molto spesso, però, accade quanto rilevato da Musil e i monumenti sbiadiscono all’in-
terno del paesaggio urbano, perdendo la loro funzione di ammonimento.
«Una volta che assegniamo una forma monumentale alla memoria, spogliamo in un certo
grado noi stessi dall’obbligo di ricordare. […] Meno la memoria è vissuta internamente più
ostentati e visibili sono i segnali e l’impalcatura esteriore. […] La sua nuova vocazione è
registrare: delegando al luogo della memoria la responsabilità di ricordare, si spoglia dei
suoi segni per depositarli lì, come fa il serpente con la sua pelle»175
174 Ibidem.
175 A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli editore, 2014, p. 66.
112
persona, l'anno di nascita, la data, l'eventuale luogo di deportazione e la data di morte
(nel caso si conosca).
15, 16, 17, Pietre d’inciampo (Stolpersteine) nel Ghetto Ebraico di Venezia
A partire dagli anni Settanta, quindi, si sono delineate nuove modalità di concepire e
realizzare i monumenti in relazione alla memoria e alle forme attraverso i quali essa
esprime e tramanda se stessa, infondendo negli luoghi vissuti collettivamente e indivi-
dualmente nuove modalità di percepire e fruire gli spazi dei monumenti.
177 Ibidem.
113
La questione irrisolta dei crimini di guerra
La questione dei crimini di guerra rientra nel fenomeno di autoassoluzione dell’Italia, nel
rifiuto di assumersi le responsabilità del ventennio di dittatura e di tutto ciò che aveva
comportato, tra cui la guerra e le violenze ad essa associati, sia negli anni quaranta che
durante l’esperienza coloniale italiana in Africa orientale. L’atteggiamento che l’Italia re-
pubblicana e democratica tenne nei confronti dei crimini di guerra compiuti durante la
dominazione coloniale in Africa e l’occupazione dei Balcani, esemplifica questa manca-
ta presa di coscienza, sia a livello politico che nell’opinione pubblica, degli aspetti più
critici e violenti della recente storia italiana.
Nei primi anni dopo la fine del conflitto, le sinistre antifasciste tentarono di avviare una
serie di processi contro i criminali di guerra, ma questa spinta si affievolì negli anni suc-
cessivi, fino a determinare la quasi totale cancellazione di tale fenomeno, sostituito dal-
l’affermazione del mea culpa nei confronti del popolo ebraico, spostano l’attenzione
verso il nazismo a cui si attribuiva la responsabilità principale.
Il caso del maresciallo Graziani, protagonista della conquista e del dominio italiano in
Etiopia, appare emblematico: nel 1950 fu condannato a diciannove anni di reclusione da
parte del tribunale militare di Roma, ma, di fatto, egli restò in prigione solo pochi mesi,
grazie a una serie di condoni e amnistie. Tuttavia ciò non segnò la fine del suo coinvol-
gimento nella politica italiana, all’interno di un fenomeno tipico dell’Italia repubblicana
in cui esponenti del vecchio regime continuarono ad esercitare ruoli istituzionali; una
volta uscito dal carcere, infatti, Graziani assunse la carica di presidente onorario del
Movimento sociale italiano, partito nato nel 1946 che si poneva come prosecuzione
ideale della Repubblica sociale italiana.
114
18. Mausoleo a Graziani ad Affine
Il caso suscitò un grande dibattito, che sfociò nel 2019 in una prima condanna da parte
della Corte di Appelli di Roma del sindaco e di alcuni assessori, accusati del reato di
apologia del fascismo, istituito con la legge Scelba del 1952.178
Nel 2020, però, tale condanna venne annullata dalla Cassazione; da ciò si deduce la
complessità del rapporto tra istituzioni e passato fascista, che si alimenta anche grazie
all’ambiguità e al disinteresse con cui si trattò la questione delle responsabilità e delle
colpe del fascismo. Il passaggio nella concezione della figura di Graziani dopo l’instau-
razione della Repubblica, da criminale di guerra a eroe della patria, fu frutto della politi-
ca autoassolutoria condotta dall’Italia, che permise di riabilitare personaggi di spicco
del fascismo, impiegati nella retorica neofascista attuale.
178 «Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione
del disciolto partito fascista quando una associazione o un movimento persegue finalità antidemocratiche
proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o
propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue
istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esal-
tazione di esponenti, principii, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di
carattere fascista.» Legge 20 giugno 1952, n. 645, Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, <https://
www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1952/06/23/052U0645/sg>, consultato in data 16/06/2021.
115
«D’altronde, mentre i vincitori hanno eretto monumenti ai loro trionfi e le vittime al loro
martirio, è raro che una nazione si mobiliti per ricordare le vittime di crimini da lei stessa
commessi»179
Tuttavia, negli ultimi decenni e a partire soprattutto dalla metà degli anni Novanta, si è
verificato un rinnovamento degli interessi storiografici verso la questione dei crimini di
guerra, volta a scardinare la raffigurazione bonaria e paternalistica dell’azione italiana in
Etiopia e in Jugoslavia. Il riconoscimento ufficiale da parte del Ministero della Difesa nel
1996 dell’impiego di armi chimiche da parte delle forze armate italiane nella guerra in
Etiopia, costituì una prima tappa significativa di questa messa in discussione dello ste-
reotipo di un colonialismo «dal volto umano»180, che avrebbe condotto un’opera di civi-
lizzazione delle popolazioni africane, piuttosto che una politica di sfruttamento e op-
pressione.
L’affermazione del mito degli «italiani brava gente»181, sedimentato nel tempo, impedì
una reale riflessione sulle responsabilità italiane; in questa immagine autoassolutoria e
autocelebrativa, l’Italia non elaborò una coscienza storica completa, costituita da lacu-
ne e carenze che si manifestano nel dibattito attuale.
Questa memoria divisa e mai ricomposta che caratterizza il periodo del dopoguerra tro-
va la sua manifestazione nella «guerra dei monumenti»182 che si verificò tramite «l’alter-
narsi, sovrapporsi e contraddirsi di targhe e memoriali dedicati all’una o all’altra memo-
ria».183
179 A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli editore, 2014, p. 43.
181Cfr. S. Hodzic, P. Vitali, «Italiani brava gente?» Storiografia recente dell'occupazione italiana in Croazia
durante la seconda guerra mondiale, Ventunesimo Secolo , Giugno 2008, Vol. 7, No. 16 (Giugno 2008), pp.
31-55, Rubettino Editore, <https://www.jstor.org/stable/23720316>
182 A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli editore, 2014, p. 19.
183 ibidem.
116
La stele di Axum costituiva un reperto della conquista italiana dell’Etiopia nel 1936, un
bottino di guerra dal potente valore simbolico e imperiale.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con il Trattato di Pace del 10 febbraio del
1947 venne stabilito l’obbligo di restituzione, entro diciotto mesi dall’entrata in vigore
del Trattato, di tutte le opere d’arte e oggetti di valore storico e religioso appartenenti
all’Etiopia e portati in Italia in seguito all’occupazione.
Come riportato nella scheda d’analisi relativa alla Stele di Axum, il monumento fu og-
getto di lunghe e complesse trattative tra il governo italiano e quello etiopico, che si
conclusero nel 2005 con il rientro della stele in Etiopia.
La soluzione intrapresa per colmare il vuoto l’asciato dalla restituzione dell’obelisco co-
stituisce un esempio di come, molto spesso, le istituzioni non siano in grado di affronta-
re apertamente e compiutamente la questione coloniale.
Proprio per la valenza del luogo, che possedeva già una relazione con la guerra e la
conquista dell’Etiopia, si sarebbe potuto elaborare una soluzione che riflettesse la ne-
cessità italiana di prendere coscienza dei crimini di guerra e delle violenze perpetuate
in terra etiopica.
La radice di tale mancanza viene individuata da Scego nel fatto che «la storia, in Italia
non è mai stata decolonizzata»184, all’interno di quel percorso di dimenticanza e divisio-
ne della memoria, che condiziona l’approccio e la visione dei monumenti e delle archi-
tetture del passato in Italia.
«Di fatto, il dispositivo del razzismo coloniale in Italia non è mai stato smantellato. Tutte
quelle tesi xenofobe che sedicenti antropologi fascisti avevano dichiarato nel manifesto
per la razza sono ancora in circolo nella società italiana. Nessuno ha disinnescato questo
meccanismo malato. L’Italia non ha vissuto un processo di defascistizzazione come la
Germania. L’Italia non ha fatto i conti con il suo passato coloniale e con le sue immense
colpe»
184 R. Bianchi, I. Scego, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, 2014, p.
117
La continuità tra il razzismo impiegato dal fascismo e applicato alle modalità di domina-
zione italiana in Etiopia appare evidente nei fenomeni di razzismo o di indifferenza che
vedono protagonisti i migranti che dai diversi stati dell’Africa giungono in Italia, all’in-
terno di un fenomeno migratorio che si verifica da molti decenni.
«We must be serious about transforming the spaces that we inhabit and experience into
transcultural spaces. In a Europe that wishes to be ever more unified, we can no longer al-
low society to be dominated by a handful of white men. We need all our colours, all our
genders, and all our religions. Finally, to come back to urban spaces, it will be increasingly
necessary to have “restorative” monuments so that the oppressed can have, from this point
forward, a place in cities.»186
I. Scego, To heal the wounds of colonialism, let’s build monuments to its victims, <https://voxeurop.eu/en/
185
186 Ibidem.
118
steriale del 23 dicembre 2014 (in cui viene aggiunta la specificazione finale « promuo-
vendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica»188).
«Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del
suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed
immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e spe-
cificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto, promuovendone la co-
noscenza presso il pubblico e la comunità scientifica.»189
I musei si caratterizzano come luoghi di memoria, nei quali l’identità collettiva si con-
serva e si tramanda, attraverso modalità che possono ricondurre a quelle messe in atto
dai monumenti; anch’essi, infatti, rivestono un ruolo sociale fondamentale, intrapren-
dendo con le comunità un dialogo complesso e mutevole.
«[I musei] preservano, proteggono, difendono gli oggetti scelti in un processo collettivo
per rappresentare il passato e la cultura di un popolo, e questo stesso processo, basato sul
desiderio prospettico di tramandare ai posteri una determinata concezione della società,
assicura l’esistenza e il ruolo dei musei. Le forme di narrazione e di presentazione, invece,
sono destinate a una continua modifica, nell’intento di rispondere alle esigenze della col-
lettività.»190
Allo stesso modo dei monumenti, i musei subiscono le influenze e i cambiamenti che
avvengono all’interno della società, poiché anch’essi, molto spesso, sono il frutto delle
narrazioni messe in atto dal potere dominante che modella le manifestazioni culturali e
memoriali secondo le proprie esigenze e la propria prospettiva.
Negli ultimi decenni, ad esempio, anch’essi hanno risentito del dibattito intorno alla
questione del colonialismo europeo in Africa e delle modalità con cui le culture africane
vengono percepite e rappresentate dalla prospettiva eurocentrica dominante.
188Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Organizzazione e funzionamento dei musei sta-
tali, <http://musei.beniculturali.it/wp-content/uploads/2018/04/Decreto-Ministeriale-23-12-2014-
agg.-02-2018-ECA.pdf>
190 E. Christillin, C. Greco, Le memorie del futuro, Einaudi, Torino, 2020, p. 21.
119
con cui i popoli colonizzatori esercitavano il proprio dominio su quelli colonizzati, con-
siderati appartenenti ad uno stadio evolutivo arretrato.
Il patrimonio culturale dell’Africa diventa il metro con cui l’Occidente misura la propria
superiorità artistica e culturale; i manufatti artistici delle varie comunità africane vengo-
no presentati come manifestazioni di questo presunto stadio di arretratezza, testimo-
nianze di una civiltà viste attraverso l’ottica dei suoi colonizzatori. Un esempio di questa
riflessione è costituito dal documentario Les Statues Meurent Aussi, realizzato nel 1953
dai registi Alain Resnais e Chris Marker nelle gallerie delle collezioni africane del Musée
de l’Homme e del Museo del Congo Belga; il film costituisce una denuncia dei meccani-
smi di sopraffazione culturale che il colonialismo ha introdotto nei musei.
Il tema della decolonizzazione culturale, che tocca anche l’ambito delle architetture e
dei monumenti, rappresenta un’occasione per ripensare ed ideare nuove pratiche espo-
sitive e nuove modalità di concepire gli spazi collettivi.
Questo ripensamento condiziona anche la questione delle statue e dei monumenti che,
spostati all’interno dei musei, vengono investiti di nuovi significati, tra cui quello di do-
cumenti storici e tracce del passato, da osservare con una certa distanza e un coinvol-
gimento diverso.
«Quando un artefatto è rimosso dal suo contesto per venire successivamente collocato in
una disposizione tassonomica diversa, acquisisce un altro significato»191
Questo è uno degli aspetti che hanno condotto alla creazione del Memento Park, istitu-
to nel 1993 nella campagna ungherese a dieci chilometri da Budapest: esso accoglie 42
statue, raffiguranti leader comunisti, personalità importanti del movimento operaio, sol-
dati e ufficiali dell’Armata Rossa, realizzate durante il periodo comunista. Le opere sono
state collocate nel parco prelevandole dagli spazi pubblici dove, in seguito al crollo del
regime tra il 1989 e il 1990, erano state oggetto di azioni distruttive e atti vandalici.
120
Soluzioni simili sono state proposte in Italia, principalmente dall’opinione pubblica e
dalla stampa, per tentare di conciliare il rispetto della conservazione (a fronte dei gesti
iconoclasti e distruttivi) e quello delle rivendicazioni per una maggiore inclusione nei
processi di narrazione e rappresentazione messi in atto nello spazio pubblico.
Tuttavia, per molti casi italiani, tali soluzioni appaiono infattibili a causa della natura ar-
chitettonica e delle caratteristiche dei monumenti profondamente radicati nel tessuto
urbanistico delle città.
Vi sono casi, inoltre, in cui la rilocazione dei monumenti di epoca fascista è avvenuta
attraverso lo spostamento da uno spazio pubblico ad un altro. L’episodio della Stele di
Axum, analizzato precedentemente, appartiene a questa casistica, all’interno del lungo
processo di restituzione dei bottini di guerra intrapreso dopo la fine del conflitto.
Il caso di Pola
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i due monumenti vennero smantellati e
portati in Italia; la replica della Lupa Capitolina venne inserita nel Quartiere Giuliano
Dalmata di Roma, mentre la statua di Augusto venne portata a Gorizia, in uno spazio
successivamente rinominato Largo ai Martiri delle Foibe. In questo periodo, con il pas-
saggio dell’Istria sotto il governo della Jugoslavia, le due opere assunsero un valore di-
verso, come testimonianza dell’esodo giuliano-dalmata degli italiani dai territori croati.
Alla fine della seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, le foibe
diventarono tristemente conosciute come il luogo in cui vennero gettati i corpi delle
vittime di esecuzioni collettive per mano di esponenti del movimento di liberazione iu-
121
goslavo, avvenute nel settembre del 1943 e nella primavera del 1945, contro italiani ed
esponenti di altre nazionalità considerati nemici.
Negli anni Novanta in Italia, si andò inasprendo la sfida alla memoria pubblica della Re-
sistenza, che passò anche per una revisione delle responsabilità fasciste nella violenze e
nei crimini durante la seconda guerra mondiale. A questo proposito venne elaborata
una tematica che potesse anteporsi e sovrapporsi alle colpe fasciste, attribuendo al fe-
nomeno della violenza di quegli anni una presenza diffusa al di là delle appartenenze
politiche, che giustificasse le necessità di pacificazione collettiva, al di là delle contrap-
posizioni fascismo/antifascismo.
Molto spesso, inoltre, la questione delle foibe e delle violenze subite dagli italiani per
mano del movimento di liberazione jugoslavo, venne impugnata dai movimenti neofa-
scisti e dalle destre per delegittimare la narrativa eroica della Resistenza.
In questo clima venne istituito il Giorno del Ricordo con la legge del 30 marzo 2004, di
cui nell’articolo 1 si legge:
«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e
rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo
dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più com-
plessa vicenda del confine orientale»192
L’uso strumentale che si fece dell’evento delle foibe, per quanto drammatico, venne rin-
forzato dalla mancata assunzione di responsabilità dell’Italia nei confronti dei crimini e
della violenza con cui le autorità fasciste esercitarono il controllo nei territori dei Balca-
ni.
122
la e ne invase significative porzioni annettendosi la provincia di Lubiana e instaurando un
regime d’occupazione durissimo che ben poco ebbe da invidiare a quello che l’Italia
avrebbe subito dopo l’8 settembre 1943. […] La storia d’Italia è unitaria. Le sole divisioni
dipendono dal rifiuto degli eredi politici del fascismo di riconoscere le enormi responsabi-
lità di un regime reazionario, imperialista e razzista che tolse al paese libertà e dignità per
poi gettarlo dal 1935 in poi in una guerra praticamente ininterrotta che culminò nell’inter-
vento al fianco di Hitler. […] Questa verità storica e questa memoria intendiamo difendere
senza cedimenti, e perciò faremo di tutto per impedire che delle mistificazioni diventino il
fondamento della nuova memoria collettiva degli italiani.»193
La questione delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata ebbe una ricaduta anche nell’am-
bito architettonico e urbanistico, tramite l’intitolazione di vie, targhe e, come nel caso di
Roma, di interi quartieri ad essa relativa. I monumenti trasferiti da Pola all’Italia rientrano
in questo percorso.
La statua di Augusto e della Lupa Capitolina, simboli della fascistizzazione dei territori
della costa orientale dell’Adriatico, vengono liberati dalle implicazioni politiche e perce-
piti come manifestazioni di italianità e delle vicissitudini storiche del popolo italiano.
«Analizzare il modo in cui le immagini sono – e sono state – contestualizzate aiuta ad attri-
buire loro una storia, una storia che non termina in un preciso momento temporale, bensì
continua; una storia legata da invisibili fili ad altre immagini, alle istituzioni che ne resero
possibile la produzione, e alla posizione storica degli osservatori cui si rivolgono»194
Foibe: contro Violante un appello per la verità, [il manifesto, 15 marzo 1998], in F. Focardi, La guerra della
193
194Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Raffaello Cortina Edito-
re 2009, p. 227.
123
Prendere atto e coscienza del contesto nel quale le opere architettoniche vengono rea-
lizzate costituisce un’operazione fondamentale per definirne le implicazioni storiche e
culturali senza commettere omissioni o mistificazioni importanti.
Il caso di Montanelli ritorna ancora una volta esemplare: interrogato pubblicamente sul-
la questione del suo coinvolgimento nella guerra d’Etiopia nel 1969 durante il program-
ma televisivo L’ora della verità di Gianni Bisiach, egli raccontò le vicende che lo portaro-
no all’acquisto della dodicenne etiope Destà. In quell’occasione Montanelli ricevette
aspre critiche da parte della giornalista Elvira Banotti, che lo accusava di non essersi fat-
to scrupoli a violentare una bambina di dodici anni grazie alla sua condizione privilegia-
ta di colonizzatore bianco (già durante il fascismo, infatti, il rapporto sessuale con mino-
ri di quattordici anni era considerato reato di stupro). La risposta di Montanelli è esem-
plare per quanto riguarda la dinamica della contestualizzazione come meccanismo au-
toassolutorio e superficiale: egli dichiarò che tale pratica rappresentava un'usanza in
Africa, accusando Banotti di volergli istituire «un processo a posteriori»195
Questo atteggiamento e queste posizioni non vennero mai ritrattate da Montanelli, che
le ribadì successivamente, il 12 febbraio 2000, sul «Corriere della Sera» nella sua rubrica
La stanza di Montanelli, rispondendo ad un lettrice diciottenne che gli chiedeva infor-
mazioni sull’episodio.
«Cara Rossella, la tua domanda è alquanto indiscreta, e se tu fossi una diciottenne dei
tempi in cui ero io un venticinquenne, la cestinerei senza esitare. Ma siccome sento dire
che le diciottenni di oggi sono in grado di affrontare qualsiasi verità senza nemmeno
l’imbarazzo di doversene fingere scandalizzate, eccoti quella mia, anche se probabil-
mente tornerà a tirarmi addosso – com’è già accaduto – le qualifiche di colonialista, im-
perialista, e perfino quella di stupratore. […] Si trattava di trovare una compagna intatta
per ragioni sanitarie […] e di stabilirne col padre il prezzo. Dopo tre giorni di contratta-
zioni tornò con la ragazza e un contratto redatto dal capo-paese in amarico, che non
La statua di Montanelli a Milano è stata nuovamente imbrattata, «Il Post», 14 giugno 2020, <https://
195
124
era un contratto di matrimonio ma – come si direbbe oggi – una specie di “leasing”,
cioè di uso a termine. […] La ragazza di chiamava Destà e aveva 14 anni: particolare che
in tempi recenti mi tirò addosso i fuori di alcuni imbecilli ignari che nei Paesi tropicali a
quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. Faticai molto
[…] a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che,
oltre a sopporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per
demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile.»196
Piuttosto che suscitare un serio dibattito e una riflessione sulle modalità di trasmissione
e di permanenza della memoria collettiva, si parla di «censura di tipo etico ai monumen-
ti del passato»197 per la quale sarebbe giustificabile la demolizione del Colosseo perché
l’impero romano non rispecchiava i valori del presente.
Queste posizioni non tengono conto della distanza temporale come di un fattore crucia-
le nella definizione del rapporto con le tracce del passato; esso, infatti, non va conside-
rato come un percorso evolutivo a tappe da contrapporsi all’attuale conformazione del
presente. Gli scambi tra passato e presente conducono alla continua ridefinizione degli
aspetti più rilevanti e fondativi di una particolare comunità. Per questo siamo in grado di
riconoscere nelle architetture e nel passato romano qualità scevre da implicazioni eti-
che e ideologiche, mentre la questione si fa più problematica riguardo alle tracce del
fascismo e dell’imperialismo, la cui vicinanza temporale si riflette anche nei valori e nel-
le idee che essi hanno immesso durante la loro esistenza passata, ma che, per molti
aspetti, perdurano anche nel presente.
I. Montanelli, Quando andai a nozze con Destà, «Corriere della Sera», 12 febbraio 2000, <https://www.il-
196
197Della distruzione di monumenti di personaggi storici, Opificio delle pietre dure, 13 luglio 2020, <http://
www.opificiodellepietredure.it/index.php?it/21/news/728/della-distruzione-di-monumenti-di-personaggi-
storici>, consultato in data 15/06/2021.
125
Il fascismo, con tutto l’apparato simbolico che porta con sé, rappresenta una pagina
piuttosto recente della storia dell’Italia; esso è stato sottoposto al vaglio dei cambia-
menti politici e istituzionali che si sono verificati con la caduta del regime totalitario e
l’instaurazione della repubblica. Proprio questa vicinanza temporale instaura delle rica-
dute sul piano ideologico e sociale, così come sul campo della conservazione artistica e
architettonica. Più ci si allontana, però, più la prospettiva su quel periodo si arricchisce
di nuove letture e apporti che nascono dalle nuove relazioni che si instaurano nel per-
corso umano.
Nei momenti di crisi avviati dai mutamenti sociali e culturali, si ricercano ragioni e spie-
gazioni nella storia, che viene continuamente modellata e riformulata dallo scorrere co-
stante del tempo e delle generazioni. Questo comporta un ripensamento dei ruoli e del-
le posizioni con cui le comunità concepiscono e rappresentano loro stesse, stabilendo
di volta in volta narrazioni e prospettive differenti, suscitando scontri e reazioni contra-
stanti tra i differenti attori sociali.
In ogni caso la presa di coscienza del contesto d’origine nel quale i monumenti vennero
realizzati costituisce un fattore essenziale per comprenderle ed esaminarne la natura e
le implicazioni attuali; tuttavia è necessario andare oltre le modalità di contestualizza-
zione, come finora le abbiamo analizzate, parlando piuttosto di una ri-contestualizza-
zione e una risignificazione delle opere.
Portando la definizione di ricontestualizzazione dal piano dei testi a quello delle archi-
tetture, possiamo individuare come testi precedenti dello stesso autore e dello stesso
126
genere, i monumenti realizzati durante il periodo fascista (seppure caratterizzate dalle
differenze stilistiche e formali esaminate in precedenza) inseriti nel contesto storico e
culturale del presente, in cui avviene lo spostamento e l’affermazione di nuovi significa-
ti.
Per far fronte alla permanenza delle tracce del fascismo e per inserirle in uno spazio ur-
banistico e architettonico maggiormente inclusivo e rappresentativo, è necessario svi-
luppare strategie narrative e interventi che vadano a reindirizzare il messaggio fascista,
che lungi dall’essere dimenticato, deve essere valutato in un’ottica scevra da implica-
zioni glorificanti del regime.
Il fallimento dello stato totalitario, così come dei progetti per la realizzazione di una ci-
viltà fascista e italiana e le vicende storiche che sono ne sono susseguite, assegnano ai
monumenti realizzati per quel progetto, un nuovo ruolo e una nuova percezione.
Il contesto fascista, pertanto, viene riproposto attraverso le letture che si possono avere
soltanto con la consapevolezza del dopo e che si pongono l’obiettivo di parlare nel pre-
sente e al presente, sviluppando narrazioni che non si pongano come sostituzione ma
come approfondimento dei diversi aspetti che condizionano la memoria e la coscienza
collettiva.
L’arte si fa risposta alle domande suscitate dal confronto con la complessità della storia
italiana, alle problematiche della memoria pubblica e dei processi identitari che si svi-
luppano negli spazi legati al passato. Le risposte fornite in campo artistico e culturale
non si pongono come soluzione conclusiva e terminale del dibattito, ma lo arricchisco-
127
no attraverso l’inserimento di prospettive e linguaggi comprensivi delle complessità e
delle molteplicità delle dinamiche in gioco all’interno della questione.
Quello che le pratiche artistiche in relazione alle tracce del fascismo attivano è un pro-
cesso di stratificazione in cui riscrivere il dialogo tra il passato e il presente di un luogo e
di quello che rappresenta; «un’opera di ri-significazione che si snoda attraverso più di-
mensioni»199.
«Immaginare nuove possibilità di innestarsi nel territorio, modificare il reale, stare a contat-
to con ciò che non sappiamo ancora indovinare e che pure ci sta accanto, reinventare
forme di coabitazione, all’interno di uno spazio e di un tempo che non esisterebbe senza la
sua comunità. Farsi piattaforma di de-costruzione, insieme alle artiste e gli artisti invitate/i,
insieme ad attiviste/i, scrittrici/tori, teorici/che, pubblico, cittadinanza: convocare una co-
L’articolo Poscritto per il Foro, che Gianni Rodari scrisse nel 1967 per il quotidiano «Pae-
se Sera» in occasione del dibattito suscitato in occasione delle Olimpiadi di Roma del
1960 riguardo all’apparato decorativo nel Foro Italico, si colloca in questa prospettiva di
ricontestualizzazione e risignificazione degli spazi del fascismo attraverso gli strumenti
dell’arte.
200 Ibidem.
128
scista, a prendere le armi contro il fascismo. […] Punto per punto, l’aggiornamento delle
scritte al Foro Italico consentirebbe la creazione di un museo di storia contemporaneo, nel
quale le scolaresche potrebbero utilmente essere portate a studiare passeggiando e respi-
rando l’aria di Monte Mario. […] Per dare l’ultimo tocco all’opera, si potrebbe addirittura
ordinare a uno scultore figurativo un monumento a Mussolini che fugge vestito da soldato
tedesco, sarebbe il primo esempio di “monumento negativo”, accanto a troppi monumenti
a lodi di illustri mediocrità.»201
Nel narrare questa storia, non si vuole lasciare alle tracce del fascismo e ai suoi mes-
saggi l’ultima parola nella costruzione dello spazio collettivo; si instaura con esso un
dialogo, si prosegue nel percorso storico che ha visto la nascita, ma anche la caduta del
regime fascista, nel quale si inserisce anche il contesto presente.
Il progetto WeGil nell’ex Casa della Gioventù Italiana del Littorio a Roma
In questo senso, nel 2019 a Roma, si è svolta l’iniziativa di inserire alcune delle attività
legate al festival Short Theatre all’interno del palazzo che un tempo fu la Casa della Gio-
ventù Italiana del Littorio (Gil), ideato dall’architetto Luigi Moretti nel 1933 e inaugurato
nel 1937 per celebrare la vittoria nella guerra d’Eitopia. Negli spazi del Gil, infatti, venne
realizzata una rappresentazione in stucco dell’Africa, raffigurata nella prospettiva colo-
niale e fascista del 1936: essa infatti presenta le zone di conquista italiane, mentre è la-
sciata in bianco senza alcuna caratterizzazione territoriale nel resto del continente. La
mappa è contornata superiormente dalla frase «noi tireremo dritto» pronunciata da
Mussolini in un discorso durante la guerra d’Etiopia, e lateralmente dalle date delle bat-
taglie vinte dall’Italia, delle sanzioni e della proclamazione dell’Impero. A fianco della
raffigurazione delle colonie venne inserita la M mussoliniana.
129
19. Interno del palazzo Gil, sala della mappa coloniale dell’Africa
L’intervento (we) are not GIL del collettivo delle studiose postcoloniali e femministe
composto da Ilenia Caleo, Isabella Pinto, Serena Fiorletta e Federica Giardini, si relazio-
nava in particolare con questa immagine: essa è stata riempita di frasi, proiettate o su
cartelli, che avevano l’obiettivo di colmare il vuoto lasciato dalla rappresentazione fasci-
sta e colonialista dell’Africa.
130
Chi è il custode che custodisce? Patrimonio è proprietà del padre? Ricordare è femmini-
sta? Si può restaurare il fascismo?»202
Il palazzo della Gil diventa occasione di elaborazione di memorie condivise, in cui l’iden-
tità coloniale e fascista non viene celata, quanto piuttosto messa in evidenza e ri-signi-
ficata.
«Il patrimonio cultuale va ri-abitato per passare da un’idea di museo-tempio ad una in cui
agiscono corpi e memorie condivise. Non volevamo risolvere il problema del’identità colo-
niale e fascista dell’edificio, ma piuttosto sollevarlo, agitarlo. (We) are not GIL è un interven-
to murale, e insieme un esercizio di immaginazione e decolonizzazione.»203
Il progetto BZ ’18 - ’45 un monumento, una città, due dittature si colloca tra gli interventi
culturali volti a attuare quel completamento di cui parlava Rodari. Il monumento, infatti,
viene completato attraverso l’inserimento del percorso espositivo che gli restituisce la
sua storia e il suo legame con il passato fascista.
Tra il 2001 e il 2004, di fronte alla persistenza di momenti di tensioni legati alla presenza
di questa simbologia fascista, è nata l’esigenza di intervenire su questo monumento e,
successivamente sul fregio di Piazza del Tribunale. Si è deciso per un intervento che
provasse a trasformare questi manufatti da elementi di divisione in momenti di appro-
fondimento di ciò che era stata la dittatura fascista e gli anni compresi tra le due guerre
mondiali.
202 Ibidem.
203 Ibidem.
131
Si è deciso di realizzare un percorso storico espositivo sotterraneo intorno alla cripta,
dall’annessione di Bolzano fino alla Seconda Guerra Mondiale. Nell’area esterna, l’inter-
vento viene segnalato tramite l’inserimento di un anello luminoso attorno ad una delle
colonne, su cui scorre il nome del progetto.
L’intervento di BZ ’18 - ’45 un monumento, una città, due dittature, rappresenta il tentati-
vo di desacralizzare questo spazio e segnalare che il monumento non è più identico a
quello concepito e realizzato dal regime, ma riflette la volontà di inserirlo all’interno del-
la continuità storica della città e del paese. Le stesse finalità sono state perseguite negli
interventi sul fregio di Piazza del Tribunale, realizzato dallo scultore Piffrader, raffiguran-
te le tappe principali del fascismo, con l’immagine di Mussolini a cavallo al centro della
rappresentazione.
Qui l’azione è stata duplice: da una parte è stato realizzato un approfondimento tramite
un’installazione che racconta le immagini raffigurate da Piffrader. Dall’altra si è deciso di
intervenire con la luce, proiettando una citazione di una frase di Hannah Arendt («nes-
suno ha il diritto di obbedire») sulla superficie del fregio.
Così come per il Monumento alla Vittoria, questa scritta non poggia, non tocca il manu-
fatto preesistente. L’intervento non demolisce e non danneggia, ogni implicazione di-
struttiva viene esclusa in favore della restituzione dell’evidenza della storia e delle dina-
miche che portarono alla creazione di questi monumenti.
In questo modo si opera una sorta di storicizzazione del messaggio fascista, che viene
depotenziato della sua facoltà di conformare lo spazio pubblico del presente, aprendosi
a più ampie riflessioni ed interazioni con la collettività.
132
CONCLUSIONE
«Il migliore memoriale […] al fascismo e alle sue vittime non è il singolo memoriale quanto
piuttosto il dibattito senza soluzione su quale memoria preservare, come preservarla, in
nome di chi e con quale obiettivo»204
Tale dibattito ha ricevuto, e continua a ricevere negli anni, nuovi impulsi e nuovi arric-
chimenti, soprattutto grazie all’instaurarsi di pratiche artistiche e culturali volte ad inne-
scare riflessioni identitarie e rappresentative dirompenti e maggiormente inclusive,
aprendosi a tutte le componenti della società.
Una delle difficoltà maggiori è stata quella di andare oltre letture parziali condizionate
da orientamenti politici anacronistici o da gusti prettamente estetici, che hanno caratte-
rizzato le principali modalità attraverso cui si è condotto il dibattito intorno ai manufatti
architettonici del fascismo; pur rivestendo una loro validità, esse non appaiono più suf-
ficienti per far fronte alle nuove istanze attualmente in gioco nella questione.
Il dibattito attuale non può rifuggire dalla complessità delle dinamiche che si instaurano
quando i manufatti umani vengono concepiti come terreni di scontri e riconciliazioni tra
visioni e concezioni differenti; i monumenti sono spazi in cui si costruiscono e deco-
204 A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli editore, 2014, p. 43.
133
struiscono i valori e i significati che attribuiamo al mondo e al nostro relazionarci tra in-
dividui differenti ma interconnessi. Alla logica dello scontro fisico e materiale bisogna
sostituire un’approccio nel quale l’incontro sia di natura generativa e non distruttiva, nel
quale la pluralità delle voci dia vita a nuovi linguaggi in grado di evolvere e mutare nel
tempo, accogliendo di volta in volta ciò che viene offerto dall’intrecciarsi di relazioni e
scambi culturali.
In questo senso, ad esempio, i fenomeni migratori provenienti dalle aree del continente
africano e diretti nel territorio italiano, danno un ulteriore spinta alle riflessioni sviluppa-
te nell’ambito degli studi postcoloniali, che mirano al superamento della divisione raz-
ziale all’interno delle dinamiche di rappresentazione identitarie italiane. Tale caratteriz-
zazione dell’italianità in base alla razza, costituisce una continuità con concezioni del
passato, in cui anche il fascismo giocò un ruolo fondamentale nell’affermazione di una
mentalità e di una narrazione dominante nel quale la componente bianca della società
assume maggior rilievo rispetto a quella nera.
Gli interventi più interessanti individuati nel dibattito, sono quelli che intravedono in
questi momenti di crisi e di scontri tra visioni differenti, una possibilità di approfondire,
rimodellare in un senso positivo e plurale i valori che informano le comunità e gli scam-
bi relazionali che in essa si realizzano.
Attraverso alcune delle soluzioni e delle riletture presentate in questo elaborato, i mo-
numenti, da entità statiche e conflittuali, si fanno custodi dinamici dei mutamenti che
avvengono nella società, trasmettendo una concezione dell’identità come frutto dell’in-
terazione di presenze in cui far convergere il passato e proiettare il futuro.
134
Tramite i monumenti la storia si fa viva ed attiva, ci parla di noi stessi e ci mette di fronte
alle nostre responsabilità e al nostro ruolo come parte di uno scambio costante tra nar-
razioni differenti, all’interno di un percorso tuttora aperto e in via di definizione.
135
SCHEDA N. 1
136
La costruzione del Monumento alla Vittoria
Collocato in piazza della Vittoria, vicino al ponte sul torrente Talvera, uno dei motivi
principali per cui venne scelto questo particolare spazio all’interno della città di Bolzano
è che dieci anni prima, nell’estate del 1916, l’architetto boemo Karl Ernstberger aveva
progettato un monumento in memoria dei caduti del II reggimento dei Tiroler Kaiserjä-
ger di stanza a Bolzano, impiegato dall’Austria-Ungheria su diversi fronti durante la Pri-
ma guerra mondiale. Questa opera doveva celebrare la vittoria dei tedeschi e, proprio
per questo, Mussolini decise che sarebbe stato il contesto perfetto per un monumento
che, invece, glorificasse la memoria dei “martiri trentini” come Cesare Battisti, irredenti-
sta che si era battuto per l’autonomia del Trentino dall’Austria, e condannato a morte da
questa nel 1916; la vedova di Battisti, però, non acconsentì a che si intitolasse l’opera al
defunto marito, per cui il monumento venne dedicato generalmente alla “vittoria italia-
na”. In questo modo, non soltanto si celebrava una gloria nazionale, ma si voleva mette-
re l’accento sulla natura italiana del popolo del Tirolo e dei territori a sud del Brennero,
passati all’Italia con la fine della Prima guerra mondiale. L’operazione, infatti, fa parte del
progetto più ampio di italianizzazione e fascistizzazione dei territori recentemente ac-
quisiti e sui cui il regime voleva consolidare la propria presenza e un maggior consenso.
«Il colonialismo interno – che ebbe luogo nelle terre irredente che l’Italia riuscì a strappare
all’Austria dopo il voltafaccia nella Grande Guerra – vestì i panni dell’italianizzazione forzata
delle popolazioni autoctone (sloveni nella Venezia Giulia e tirolesi in Alto Adige) e non fu
meno violento del colonialismo esterno. Anzi si può tranquillamente dire che tra i due pro-
getti coloniali ci fossero ampi e documentati tratti di continuità nei metodi e nelle
finalità.»205
L’opera viene inaugurata il 12 luglio del 1929, anniversario della morte di Cesare Battisti.
205 Wu Ming, Speciale Point Lenana: Alto Adige, Trento e Trieste, Internazionale, video e recensioni, Wu
Ming’s Blog, 1 ottobre 2013, <https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/10/reading-point-lenana-in-
alto-adige-urbanistica-architettura-e-colonialismo/>, consultato in data 14/06/2021.
137
Il progetto architettonico fu affidato da Mussolini a Marcello Piacentini; l’apparato scul-
toreo venne realizzato dagli artisti Adolfo Wildt, Libero Andreotti, Arturo Dazzi, Pietro
Canonica e, successivamente, Giovanni Pirini.
I legami di molte opere scultoree inserite nel monumento si estendono alla statuaria
che domina la pittura metafisica e del “realismo magico”.
Per quanto riguarda il rapporto con lo spazio esterno e con il paesaggio, il monumento
viene percepito come una gigantesca struttura porticata, collocata su un alto basamen-
to a gradini sotto il quale si ricava la cripta.
Misura in pianta m. 19,50 x 9,30 ed è alto m. 18,30 in tutto; su tre delle quattro facciate
del monumento sono presenti le seguenti iscrizioni in bronzo a caratteri romani, tra due
teste raffiguranti Mussolini con l’elmo militare.
Facciata principale:
«Hic patria fines siete signa / Hinc ceteros axcoluimus lingua / legibus partibus»
Traduzione:
«Qui sono i confini della Patria / Pianta le insegne / Da qui educammo glia altri alla lin-
gua / al diritto, alle arti».
Facciata posteriore:
«In honorem et memoriam fortissimorum / virorum qui iustis artis strenue pugnantes
hanc / patriam sanguine suo paraverunt / Itali omnes aer Coll».
Fianco destro:
138
Sull’attico sono applicati, nel prospetto anteriore la Vittoria Saettante di Arturo Dazzi e,
nel prospetto posteriore tre tondi in bassorilievo scolpiti da Canonica, raffiguranti la
Nuova Italia, l’Aria e il Fuoco.
Nell’interno dell’attico vi è una spaziosa camera con pareti intonacate, alla quale si ac-
cede mediante una scala alla marinara dagli ambienti sottostanti alla gradinata.
Sulla parete destra vi è il busto di Cesare Battisti in marmo di Carrara patinato, scolpito
da Adolfo Wildt. Nella parete opposta vi sono i busti di Fabio Filzi e di Damiano Chiesa
dello stesso autore, materia e dimensioni. Sulle basi sono scritti i nomi dei martiri con
lettere di bronzo a caratteri romani. Ai lati del busto di Battisti vi è scritto: «Facere et pați
fortia romanum est, Adversus Hostem aeterna auctoritas»; di fronte: «Qui pro patria red-
diderunt, non mortem sed immortaliate sunto consecuti».
Nella parte posteriore del monumento, sotto alle gradinate, si accede ala cripta, chiusa
da un muro rivestito di porfido; all’interno di questa le lunette decorative dipinte ad af-
fresco da Guido Cadorin con figure femminili rappresentanti La custode della Storia con
libro e spada e La custode della Vittoria con face e spada.
BZ ’18 - ’45 un monumento, una città, due dittature. Un percorso espositivo nel Mo-
numento alla Vittoria
La problematica questione dei resti dei monumenti e delle architetture fasciste trova
un’ampia discussione nella città di Bolzano, soprattutto in seguito a due appelli pubbli-
cati da storici locali: uno promosso dall’archivio storico della città, l’altro invece da un
gruppo che fa riferimento all’associazione Gestiche und Region («Storia e regione»), i
139
quali richiedono che vengano realizzate degli interventi al fine di «storicizzarne e pro-
lematizzarne il senso, senza evocare nuovamente i fantasmi del conflitto di identità»206.
Il percorso espositivo nel Monumento alla Vittoria è stato elaborato dalla commissione
scientifica composta da Andrea di Michele, Hannes Obermair, Christine Roilo, Ugo So-
ragni e Silvia Spada, nominati dallo Stato Italiano, dalla Provincia Autonoma di
Bolzano e dal Comune di Bolzano nel marzo 2011.
«L’obiettivo condiviso dalle tre istituzioni è di risolvere finalmente, in uno spirito europeo,
un problema capace periodicamente di suscitare tensioni e divisioni all’interno del tessuto
sociale e politico della città e della provincia di Bolzano, vale a dire la presenza nel cuore
del capoluogo di un monumento di forte impatto retorico caratterizzato in primo luogo da
elementi simbolici costituenti espressione della cultura e dell’ideologia fascista.
206 F. Pintarelli, Quello che resta dei monumenti fascisti, Il Tascabile, 13 giugno 2018, <https://www.iltascabi-
le.com/societa/monumenti-fascisti/>, consultato in data 14/06/2021.
207Wissenschaftskonzept. Progetto scientifico per un percorso espositivo nel Monumento alla Vittoria di
Bolzano, <https://www.monumentoallavittoria.com/fileadmin/user_upload/pdfs/Wissenschaftskonzept-IT.p-
df>, consultato in data 14/06/2021.
140
Il percorso espositivo si delinea attraverso aree tematiche legate alla più recente storia
di Bolzano e del monumento stesso, attraverso documentazioni, foto storiche ed imma-
gini dell’epoca.
- Sala 2. «Il cambio di sovranità»: si tratta degli esiti della prima guerra mondiale con la
conseguente dissoluzione dell’Austria-Ungheria, lacerazione del Tirolo e passaggio
all’italiana delle terre a sud del Brennero.
- Sala 3. «L’Italia liberale»: primi anni di governo delle terre passate all’Italia erano anco-
ra in mano alla classe dirigente liberale.
208BZ ’18 - ’45 un monumento, una città due dittature. Un percorso espositivo nel monumento alla vittoria,
<https://www.monumentoallavittoria.com/it/mostra/perimetro-esterno.html>, consultato in data
14/06/2021.
209 Ibidem.
141
- Sala 11. «La zona d’operazione delle prealpi»: dopo l’8 settembre 1943 l’Alto Adige
passò in mano tedesca e nella città di Bolzano venne realizzato un campo di concen-
tramento.
- Sala 1. «Nasce un monumento»: nell’estate del 1916 si diede vita alla realizzazione del
progetto dell’architetto Karl Ernstberger per un monumento in memoria dei caduti del
II reggimento dei Tiroler Kiseräger di stanza Bolzano.
- Sala 2. «Interruzioni»: l’opera non venne mai completata a causa dell’esito della guerra
nel 1918 e all’annessione di Bolzano all’Italia nel 1919-
- Sala 4. «Un arco (quasi) razionale»: Piacentini si ispirò agli archi di trionfo della classi-
cità, rovistandone la struttura in chiave moderna.
- Sala 5. «Demolizione e costruzione»: la cerimonia per la posa della prima pietra si ve-
rificò il 12 luglio del 1926; nel 1927 si diede avvio alle operazione di demolizione del
Monumento ai Kiserjäger.
- Sala 6. «Dalla prima all’ultima pietra»: dopo la demolizione i lavori procedettero spedi-
tamente e la data per l’inaugurazione venne fissata al 12 luglio 1928.
- Sala 8. «Icona del “Nuovo ordine”»: l’opera, per la sua posizione e per l’attenzione ri-
servatogli dalla retorica fascista, divenne presto un luogo simbolo della città.
- Sala 9. «Scenografie I»: il Monumento era destinato a fare da sfondo alle maggiori
manifestazioni e cerimonie politiche.
210 Ibidem.
142
- Sala 10. «Scenografie II»: il Monumento diventò simbolo delle vittorie nazionali in se-
guito delle guerre in Africa e Spagna.
- Sala 11. «Il fulcro della città fascista»: nel periodo della realizzazione del Monumento,
la città di Bolzano era stata sottoposta ad una serie di interventi finalizzati alla moder-
nizzazione della città, tramite la costruzione di edifici e infrastrutture che posero in
evidenza il Monumento come perno della “Nuova Bolzano”.
- Sala 12. «Conservare o distruggere?»: dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il
Monumento entrò a far parte del dibattito tra sostenitori della conservazione e quelli
della distruzione degli interventi urbanistici del regime fascista.
- Sala 13. «Un monumento ad altre vittorie?»: viene sottolineata l’acquisizione di nuovi
significati da parte del Monumento alla Vittoria, che tramite questo percorso espositi-
vo diventa uno spazio pubblico di riflessione storica e di dialogo tra presente e passa-
to.
Infine, il percorso si sviluppa attraverso «Le quattro sale angolari»211, dedicate agli ap-
profondimenti riguardanti le tematiche espositive.
«I monumenti hanno funzioni diverse nella storia della civiltà umana. Sorgono perlopiù in
luoghi già connotati da significato sacro o sui siti di grandi battaglie, oppure ricordano le
sepolture di re, padri fondatori e figure carismatiche. Inizialmente erano utilizzati soprat-
tutto da potenti e vincitori per consegnare ai posteri la propria fama, mentre nell’era mo-
derna vengono sempre più sottoposti alle regole democratiche, suscitando dibattiti sulla
loro collocazione, legittimità e significato.»212
211 Ibidem.
212 Ibidem.
143
- Sala 3. «L’architetto Marcello Piacentini»: viene presa in esame la figura dell’architetto
e dei diversi incarichi che gli furono affidati durante il ventennio fascista.
- Sala 4. «Eppur si muove…»: questa sala è dedicata alla partecipazione civile, aperto a
tutti e che possa servire per discutere, porre domande e trovare soluzioni per pro-
blematiche comuni.
144
SCHEDA N. 2
Il bassorilievo scultoreo venne realizzato da Hans Piffrader (Chiusa 1888 - Bolzano 1950)
a partire dal 1942 allo scopo di abbellire la sede del Partito nazionale fascista e delle or-
ganizzazioni collaterali, la cosiddetta “Casa Littoria”, costruita tra il 1939 e il 1942, su
progetto degli architetti Guido Pellizzari, Francesco Rossi e Luis Plattner. L’odierna piaz-
za del Tribunale, dove si trova il fregio, venne costruita tra il 1939 e il 1942 nell’ambito
della progettazione della “Nuova Bolzano” voluta dal regime fascista.
L’incarico della realizzazione del fregio scultoreo venne assegnato a Piffrader dal Comi-
tato per la costruzione della Casa Littoria, al fine di realizzare un’opera che illustrasse
145
«l’ascesa dell’Italia fascista dai giorni grigi ma gloriosi della prerivoluzione fino alla con-
quista dell’impero, alla guerra di Spagna e alla liberazione del Mare Nostrum»214.
Il tema del Trionfo del fascismo doveva essere illustrato tramite scene a carattere allego-
rico, ispirate allo stile del cosiddetto “Ritorno all’ordine”, movimento artistico sviluppa-
tosi negli anni venti del Novecento che, attraverso un recupero della tradizione, propo-
neva contenuti in riferimento al passato e al mito di Roma imperiale.
Per questo e per le difficoltà tecniche di una tale operazione, la realizzazione dell’opera
richiese molto tempo e nel 1943 tre pannelli risultavano ancora non collocati; solo nel
1957 si decise di sistemare le tavole mancanti sulla parete.
Il fregio si compone di 57 pannelli alti 2,75 metri, posti su due file sovrapposte per una
lunghezza di 36 metri; al centro è collocato un bassorilievo che occupa entrambi i livelli
e raffigura Mussolini a cavallo. Complessivamente vengono illustrate 14 scene.
1. «Al centro il Duce a cavallo con intorno le sigle delle principali organizzazione fasci-
ste e da quattro figure allegoriche»: Mussolini a cavallo che alza il braccio destro nel
“saluto romano”. Attorno a lui quattro figure allegoriche, le sigle dei Gruppi universi-
tari fascisti, il Partito nazionale fascista, l’Opera nazionale dopolavoro, la Gioventù
italiana del littorio, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, la data di realizza-
zione espressa secondo il calendario fascista (anno ventesimo dell’era fascista 1942)
e infine il “comandamento del duce”: «credere, obbedire, combattere».
2. «La fine della Grande Guerra e il ritorno a casa del soldato»: all’inizio della scena vi è
un cannone cinto d’alloro che simboleggia la vittoria italiana; di seguito i soldati che
fanno ritorno e di cui, il primo di loro un alpino, viene accolto dalla moglie con i due
bambini.
3. «La furia rivoluzionaria del “biennio rosso”» (1919-1920): quattro figure a torso nudo
circondati da edifici in fiamme, che simboleggiano le violenze dei “sovversivi” negli
anni successivi alla prima guerra mondiale.
La piazza del Tribunale di Bolzano e il frego di Hans Piffrader sull’edificio degli Uffici finanziari, <http://
214
www.bassorilievomonumentale-bolzano.com/fileadmin/user_upload/images/Die-Installation/Relazione_-
commissione.pdf>, consultato in data 14/06/2021.
146
4. «I “martiri” fascisti della violenza bolscevica»: a sinistra troviamo rappresentato Gio-
vanni Berta, realmente esistito e mitizzato dal fascismo, nel momento della sua ucci-
sione, quando venne buttato nell’Arno e tentò inutilmente di aggrapparsi all’argine.
A destra, invece, due figure immaginarie impegnate a torturare giovani fascisti con
corde e fuoco.
7. «28 ottobre 1922: la marcia su Roma»: un giovane balilla col tamburo segna il tempo
della marcia; fanno seguito alcuni personaggi fascisti in atteggiamento combattivo;
sulla sfondo il Colosseo ed i colli romani.
9. «La conquista dell’Impero: Libia ed Etiopia»: la Libia appare come una una figura con
indosso una lunga tunica al cui fianco vi è il cosiddetto arco dei Fileni, un’opera ar-
chitettonica posta lungo la Litoranea libica, una strada inaugurata da Mussolini nel
1937. Di seguito vi sono due miliziani che uccidono trafiggendo due leoni: il primo
leone rappresenta l’imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè, il secondo è il leone britan-
nico che si era opposto alla conquista italiana dell’Etiopia. Alla fine della scena tro-
viamo un africano sottoposto al giogo del dominio coloniale inglese nel mediterra-
neo.
10. «La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola»: la figura con indosso la car-
tucciera rappresenta il legionario italiano che accorre in Spagna a combattere per il
fascismo; alle sue spalle la fortezza dell’Alcàzar di Toledo, dove tra il luglio e il set-
tembre 1936 vi erano asserragliate le forze nazionaliste assediate dai repubblicani,
liberate poi da truppe golpiste giunte in aiuto. Di seguito vi è una donna velata che
147
simboleggia la Spagna oppressa e un uomo spagnolo in abiti tipici con un cesto di
doni.
11. «Le arti, la scienza, l’educazione sportiva nell’Italia fascista»: la serie di scene che si
aprono con questo pannello sono dedicate all’”idillio fascista”; queste tre figure rap-
presentano le arti (il giovane affiancato dalle maschere del teatro classico), la scien-
za (la figura con la bilancia e il rotolo di pergamena), l’educazione sportiva (giovane
con i tuffatori sullo sfondo).
12. «La ricchezza dell’agricoltura assicurata dal fascismo»: tre donne cariche di uva,
frutti e grano rappresentano la ricchezza del paese e l’autosufficienza alimentare ga-
rantite dal fascismo.
13. «La famiglia e la ricostruzione nel segno della pax fascista»: in questa scena fami-
gliare, l’uomo ha appeso il fucile al chiodo, mentre la moglie tiene in braccio un
bambino che porge un frutto al padre; di seguito un operaio costruisce la nuova
casa.
14. «Il Duce costruttore ma forse anche l’artista e il suo progetto sotto il segno del
Duce»: a chiusura del fregio troviamo una figura maschile come costruttore della
nuova Italia, con in mano il progetto; in alto a destra la scritta DUX in forma originale
e in basso la firma dell’artista “Giov. Piffrader d’anni 52”.
Come il Monumento alla Vittoria, anche la presenza di questa traccia urbanistica del re-
gime fascista alimentava il dibattito nella città di Bolzano intorno alla necessità di man-
tenere, distruggere o ricontestualizzare tale tipologia di opere.
La questione si muoveva anche sul piano politico, sia comunale che nazionale: nel feb-
braio del 2011 venne riconfermata la fiducia all’allora ministro dei Beni Culturali Sandro
Bondi, grazie alla decisiva astensione dei due senatori della Suedtirole Volks Partei, il
principale partito di raccolta della minoranza tedesca dell’Alto Adige. Bondi, infatti, ave-
va scambiato il favore dell’astensione con la promessa di rimuovere il fregio con il Duce
a Cavallo, problematica molto sentita dal partito sudtirolese.215
215 Wu Ming, Speciale Point Lenana: Alto Adige, Trento e Trieste, Internazionale, video e recensioni, Wu
Ming’s Blog, 1 ottobre 2013, <https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/10/reading-point-lenana-in-
alto-adige-urbanistica-architettura-e-colonialismo/>, consultato in data 14/06/2021.
148
Nei fatti, però, non fu fatto alcun intervento di rimozione del bassorilievo.
Quello che invece venne proposto fu un progetto in continuità con quanto era stato
realizzato nell’ambito di BZ ’18 - 45 per il Monumento alla Vittoria. La stessa Commissio-
ne del progetto del Monumento venne istituita il 3 gennaio 2012, tramite un accordo tra
lo Stato, la Provincia autonoma di Bolzano e il Comune di Bolzano, al fine di promuovere
una proposta di intervento sul complesso di Piazza del Tribunale e, in particolare, sul
fregio di Piffrader.
«Allo scopo si ritiene di dover escludere alterazioni materiali del fregio scultoreo in que-
stione o accorgimenti volti ad occultarne alcune parti, puntando viceversa sull’efficacia di
un intervento di illustrazione e contestualizzazione storica, urbanistica, architettonica e
artistica, in grado di farne emergere sia le intenzionalità celebrative – connotate dall’affer-
mazione di finalità e parole d’ordine tipicamente fascisti – sia gli innegabili valori figurativi
ed espressivi.»216
«la prima, caratterizzata da una forte valenza simbolica e comunicative, mira a rendere
evidente la riflessione compiuta sul fregio in questione, giustapponendo al predetto bas-
sorilievo nuovi elementi capaci di controbilanciarne i contenuti ideologici; la seconda in-
tende illustrare mediante il ricorso a un adeguato apparato esplicativo, l’opera di Piffrader
e i suoi contenuti artisti e simbolici, approfondendone il contesto storico, urbanistico e
architettonico.»217
In relazione alla prima linea, venne recuperato il progetto di Arnold Holzknecht e Miche-
le Bernardi, vincitori del concorso di idee indetto dalla Giunta provinciale di Bolzano nel
2011, la cui finalità era quella di promuovere interventi che trasformassero il fregio in un
«luogo di memoria»218. La proposta di Holzknecht e Bernardi fu dunque quella di collo-
care sul bassorilievo una frase di Hanna Arendt: «Kein Mensch hat das Recht zu gehor-
chen – Nessuno ha il diritto di obbedire».
216 Ibidem.
217 Ibidem.
149
La citazione deriva da un’intervista radiofonica dello storico Joachim Fest ad Harendt
nel novembre del 1964, anche se nel progetto è riportata in maniera imprecisa, in quan-
to ella disse esattamente: «Kein Mensch hat Recht zu gehorchen bei Kant», in relazione
all’imperativo categorico kantiano utilizzato come espediente da Adolf Eichman – il cui
processo a Gerusalemme viene analizzato nel saggio La banalità del male del 1963 –
come da tanti altri nazisti, per giustificare le proprie azioni. All’obbedienza cieca agli
“ordini superiori” Hanna Arendt oppone il dovere etico individuale di rifiutarsi di seguire
ordini ingiusti e di assumersi la responsabilità delle proprie azioni.
Nel rispetto del mantenimento delle condizioni materiali dell’opera di Piffrader, il proget-
to per l’applicazione dell’iscrizione, rinominato BZ’ Luce sulle dittature, venne realizzato
attraverso lettere illuminate a LED sospese davanti alla facciata tramite cavi d’acciaio, in
modo da non intaccare in alcun modo la superficie scultorea del bassorilievo. La frase
viene riproposta in tre lingue – ladino «Deguni n’a l dërt de ulghé», tedesco «Kein Men-
sch hat Recht zu gehorchen», italiano «Nessuno ha il diritto di obbedire» – e si sviluppa
orizzontalmente lungo l’intera lunghezza del fregio.
150
SCHEDA N. 3
151
Il monumento e la “Questione Adriatica”: una dichiarazione di italianità
Il monumento ai soldati della Dalmazia caduti durante la Prima guerra mondiale, venne
eretto a Zara nel 1928. Durante la Seconda guerra mondiale venne distrutto e, in seguito
al conflitto, completamente demolito. La sua edificazione, il repertorio memorialistico e
decorativo che lo caratterizzarono, rientrano all’interno dell’ambito di quella che venne
definita la «Questione Adriatica»219.
Con questa espressione si intende la problematica relativa al dominio delle aree orienta-
li del mare Adriatico, dibattute durante le trattazioni di Versailles del 1919 e contese tra il
Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e l’Italia; all’interno della questione si colloca la deci-
sione di annettere la città di Zara al Regno d’Italia, tramite il Trattato di Rapallo del 1920.
Nell’ambito delle scelte e delle dinamiche della politica estera, avevano rivestito un ruo-
lo fondamentale le spinte nazionalistiche, che rivendicavano i territori dell’Adriatico
orientale quali domini italiani, e che si erano rafforzate precedentemente in ottica anti-
austriaca, attraverso i fenomeni dell’irredentismo.
Quando la città venne annessa al Regno d’Italia, fu assegnata alla «Soprintendenza alle
opere d’antichità e di arte delle Marche, degli Abruzzi, del Molise e di Zara con sede ad
Ancona»220 tramite Decreto Reale del 31 dicembre 1923, che istituiva ufficialmente le
Soprintendenze quali organi predisposti alle funzioni di tutela e conservazione. In que-
sto modo, il patrimonio artistico e architettonico della città dalmata veniva dichiarato di
pertinenza italiana e le soluzioni monumentali che si adottarono successivamente, rien-
trarono nell’ottica dell’esaltazione del carattere di «italianità»221 di questi territori.
Nell’agosto del 1926 una delegazione costituita dai membri del partito fascista italiano a
Zara e dell’Associazione dei Soldati e Volontari della Prima guerra mondiale, si recò a
Roma da Benito Mussolini, allora capo del governo, con la proposta di erigere un mo-
numento a Dante nella città dalmata.
219P. Dragoni, A. Mlikota, The Destroyed Italian Monument “Ara ai caduti Dalmati” in Zadar, Ars Adriatica,
8/2018, p. 179-194, tr. dell’autrice.
221P. Dragoni, A. Mlikota, The Destroyed Italian Monument “Ara ai caduti Dalmati” in Zadar, Ars Adriatica,
8/2018, p. 181, tr. dell’autrice.
152
Successivamente la proposta venne rivista da Mario Sani, Podestà di Zara, che, in una
lettera indirizzata al Segreteria della Presidenza del Consiglio dei Ministri di Roma, di-
chiarò che fosse desiderio di Zara onorare i propri caduti durante la prima guerra mon-
diale «[…]non volendo ricorrere ai soliti monumenti, che, se non eccellenti, male ri-
spondono allo scopo di glorificazione ed esaltazione» preferendo «affidare i nomi e ri-
cordo dei propri combattenti morti sul campo ad un’ ‘Ara ai Caduti’»222. Sani, inoltre,
proponeva la cifra di 25,000 lire come limite massimo di fondi da parte dell’amministra-
zione cittadina e un contributo da parte dell’Italia di 50,000 lire per la costruzione del
monumento.
Vennero proposti alcuni progetti che non trovarono realizzazione soprattutto a causa
degli eccessivi costi di realizzazione.
Per questo, nell’agosto del 1927, la Commissione per i Monumenti Commemorativi dei
Soldati Caduti decise di chiedere alla Soprintendenza di Arte Moderna delle Marche e di
Zara il permesso di impiegare i resti provenienti dalle mura veneziane distrutte nel Di-
ciannovesimo secolo per fare spazio alla Riva Vittorio Emanuele III. La proposta era quel-
la di costruire un altare in cui inserirvi un’aquila legionaria e quattro rostri derivanti da
navi romane collegate da una banda di pietra su cui fosse impressa la frase «O mare
non mi rendere i miei morti, né le mie navi, rendimi la Gloria»223, citazione dai Canti del-
la guerra latina di D’Annunzio del 1918.
Il Monumento venne inaugurato il 22 Settembre 1928 con una cerimonia solenne (do-
cumentata dal giornale locale «Il Littorio dalmatico»). Di fronte all’altare venne inserito
un mosaico recante la scritta S.P.Q.R, simbolo della frase latina Senatus Populusque
Romanus, ad enfatizzare il carattere di «italianità» della Dalmazia. L’importanza di questo
aspetto nell’edificazione del monumento è testimoniata, inoltre, dalla campagna intra-
presa da politici locali con il supporto del Partito fascista, che reclamavano la restituzio-
ne di quattro statue imperiali ritrovate in una piccola città nei pressi di Zara durante il
Diciottesimo secolo e finite successivamente in diverse parti d’Europa.
Queste giunsero a Zara nell’agosto del 1928, ma, per ragioni di conservazione, vennero
collocate all’interno del Museo Archeologico della chiesa di San Donato.
222 Ibidem.
153
L’Ara ai Caduti Dalmati a Zara
L’autore del monumento era lo scultore italiano Antonio Bassi, mentre il parco tra l’Ara e
il lungomare fu progettato da Gino Tosoratti.
Il monumento venne installato alla base del bastione veneziano, con quattro rostri in-
corporati nel bastione con nomi memorabili di battaglie navali inscritti in uno sfondo
dorato: Milae, Lepanto, Dardanelli, Premuda. Essi erano collegati ad una banda di pietra
recante i versi di D’Annunzio in caratteri romani. Nella parte centrale, tra i rostri e sopra
l’Ara, vi era l’aquila romana, con la scritta latina “ITALIA”, fedele riproduzione di un
frammento antico conservato a quel tempo nel Museo Archeologico. L’Ara si ergeva su
un piedistallo centrale con tre lunghi e bassi gradini. A lato del piedistallo centrale vi
erano due colonne, moderne riproduzioni dell’ordine dorico, con un grande basamento
e larghi capitelli. Le colonne fiancheggiavano l’altare centrale nella forma di «due can-
dele votive»224 di 4,50 metri in altezza; esse erano divise in tre sezioni delimitate da
bande decorate con le teste che rappresentavano i soldati caduti. Tra le bande vi erano
i rilievi con le allegorie del sacrificio di Zara e della Vittoria.
Ai lati dell’Ara vi era il simbolo del Fascio Littorio e i nomi dei caduti: Francesco Rismon-
do, i fratelli Renato ed Egidio Croce, i fratelli Cornelio ed Ezio Zink, i fratelli Umberto e
Giacomo Zingaro, Ferruccio Fabbrovich, Gregorio Linz, Lana Umberto, Francesco Co-
dognato, i fratelli Roberto e Mirando Kreljevich Orlandini, Menotti Benevenia, Antonio
Tommaseo Ponzetta. Eccetto Francesco Rismondo di Spalato e Antonio Tommaseo
Ponzetta di Postira, tutti i nomi riportati appartenevano a persone di Zara.
Il parco circostante venne nominato Parco della Rimembranza e al suo interno furono
pianeti fiori, sempreverdi e quindici alberi di alloro per ciascuno dei caduti. Nel parco vi
era inoltre una piccola targa per commemorare Riccardo Vucassovich e Spiridione Sto-
ian, morti nel 1921 per «le cause dalmate e fiumane»225.
Il parco era diviso in due parti da un largo sentiero costeggiato da sei panchine di pie-
tra, tre su ogni lato, decorate con allori e leoni alati; il sentiero terminava con due larghi
piedistalli in pietra su cui erano rappresentati il Leone di San Marco sul primo e il Fascio
Littorio sul secondo. Questi erano una reinterpretazione del capitello ionico classico,
154
con due grandi portabandiera: uno con l’insegna di Zara e l’altro con quella del Regno
d’Italia.
Il monumento venne realizzato con tipologie di pietra differenti, portati a Zara da Trani e
dalla Puglia.
L’opera nel suo complesso si può considerare come «la monumentale testimonianza di
italianità e di continuità dell’influenza italiana nel Adriatico orientale»227; il monumento
oggi si può considerare «come una memoria perduta e indesiderata del passato, la cui
erezione fu supportata dal Partito fascista italiano a Zara, un monumento con i nomi lo-
cali e le insegne fasciste italiane.»228
155
SCHEDA N. 4
L’esempio della città di Pola e dell’area circostante l’anfiteatro di epoca augustea, verrà
analizzato attraverso i cambiamenti e le introduzioni monumentali inseritevi durante il
Ventesimo secolo da parte del regime fascista, come strumenti di una «strategia politica
di territorializzazione»229, fascistizzazione e italianizzazione dei territori della costa
orientale dell’Adriatico.
Durante il Diciannovesimo secolo, Pola era divenuta il principale porto militare dell’Au-
stria-Ungheria. Nel 1904, all’interno dell’area intorno all’anfiteatro, venne realizzata una
statua, opera dell’artista Alfonso Canciani, in memoria dell’imperatrice Elisabetta d’Au-
156
stria, assassinata nel 1898. La scelta della posizione derivava dalla volontà di sottolinea-
re la discendenza imperiale dal Sacro Romano Impero.
Al termine della Prima guerra mondiale, Pola divenne parte del Regno d’Italia e il mo-
numento ad Elisabetta venne smantellato.
Nel 1933 il parco intorno all’area dell’anfiteatro venne ampliato tramite la demolizione
del vecchio magazzino militare, e al suo interno fu introdotta una statua dell’imperatore
Augusto, donata a alla città di Pola da Benito Mussolini, come testimoniato dalle iscri-
zioni. L’opera, che dominava la vista verso l’edificio antico, era una copia di un’altra scul-
tura basata su quella dell’Augusto di Prima Porta e situata a Roma nella Via dei Fori Im-
periali.
Nel 1940 lo spazio occupato in precedenza dalla statua di Elisabetta d’Austria venne
rimpiazzato da una replica della Lupa Capitolina, collocata su un alto piedistallo e re-
cante l’iscrizione: «ROMA MADRE A POLA FEDELE»230.
Anche in questo caso, l’intento era quello di sottolineare il carattere di italianità – analiz-
zato in precedenza per la situazione di Zara – dell’Istria e del suo popolo, nonché di riaf-
fermare con forza la legittimità dell’espansione italiana in altri territori, soprattutto in
conseguenza della proclamazione dell’Impero italiano nel 1936.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i due monumenti vennero smantellati e
portati in Italia; la replica della Lupa Capitolina venne inserita nel Quartiere Giuliano
Dalmata di Roma, mentre la statua di Augusto venne portata a Gorizia, in uno spazio
successivamente rinominato Largo ai Martiri delle Foibe. In questo periodo, con il pas-
saggio dell’Istria sotto il governo della Jugoslavia, le due opere assunsero un valore di-
verso, come testimonianza tragica dell’esodo degli italiani dai territori oggi sloveni e
croati.
157
SCHEDA N. 5
158
La stele di Axum: bottino di guerra a Roma
La stele di Axum è un obelisco funerario proveniente dall’antica città di Axum, sugli alti-
piani etiopici, trasportata ed eretta a Roma nel 1937 come bottino di guerra e come glo-
rificazione dell’occupazione coloniale dell’Africa orientale da parte del regime fascista.
La maggior parte dei monoliti di Axum risale ad un periodo compreso tra il II ed il V se-
colo d.c ed avevano una funzione funebre; essi rappresentano l’antica tradizione africa-
na di indicare con l’uso di monoliti un’area cimiteriale.
Secondo gli studi di Rodolfo Fattovich231 vi sono quattro tipologie principali di stele ad
Axum e quella presa in esame apparterebbe al quarto, caratterizzato da stele a piani,
intagliate con rappresentazioni simboliche di case, alte dai 15 ai 33 metri.
I monoliti venivano ottenuti dalle cave vicine ai cimiteri, ritagliandoli dalla pietra attra-
verso l’uso di cunei lignei e poi eretti per mezzo di terra riportata, allo stesso modo degli
obelischi egiziani.
«Caro Bonardi ho letto l’ultimo numero de “Le vie d’Italia” e ho molto apprezzato gli articoli
e le illustrazioni intesi a far conoscere […] il nostro nuovissimo Impero. Era nei miei propo-
nimenti di disporre il trasporto a Roma del più alto degli obelischi di Axum, per essere in-
nalzato in una delle grandi piazze dell’Urbe a ricordo della gloriosa impresa africana, in-
231 Cfr R. Fattovich, Some remarks on the origins of the aksumite stelae, in «Annales d’Ethiopie» Tomo XIV,
1987
232 M. Santi, La stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edi-
zioni, 2016, p.35.
159
tendimento che potrà essere attuato quando, nel prossimo autunno, verrà istituito in Eri-
tree un ufficio per i monumenti e gli scavi»233
Lessona, infatti, aveva affidato al professor Ugo Monneret del Villard una campagna di
scavo ad Axum.
Nonostante l’aspirazione del ministro fosse quella di far giungere in Italia la più grande
delle stele, a causa delle difficoltà di trasporto e dei tempi concessi – l’obiettivo era
quello dell’inaugurazione del 9 maggio 1937, primo anniversario della fondazione del-
l’impero – si optò, invece, per la seconda in dimensioni, quella di 24 metri.
Fu Mussolini stesso ad indicare il luogo della sua erezione, scegliendo la località di Porta
Capena, piuttosto che Piazza del Colosseo, come era stato pensato in precedenza.
La stele all’interno del sito archeologico si presentava rotta in cinque pezzi, che vennero
poi trasportati tramite autocarri specializzati fino a Massaua e poi da lì imbarcati per
l’Italia.
Dopo varie vicissitudini e difficoltà per il trasporto e l’erezione, l’edificazione della stele
venne inaugurata il 31 ottobre 1937 «alla presenza del popolo e delle rappresentanze del
Regime, dal Governatore dell’Urbe».234
Essa si presentava, secondo le indicazioni riportate dal Giornale d’Italia il 28 ottobre del
1937, come un obelisco in granito bigio africano, alto 24 metri, diviso in cinque blocchi
del peso di oltre 160 tonnellate, innalzato sul fianco dell’ingresso di Porta Capena su di
un basamento di travertino a gradoni.»
Nonostante l’importanza retorica attribuitale dal regime, la stele non fu oggetto di molte
indagini ed interesse scientifici; tra le poche eccezioni troviamo l’articolo Stele di Axum
in forma anonima apparso sulla rivista «Capitolium» nel numero di dicembre.
« […] la stele restaurata, per dimensioni la seconda delle steli axumite, è alta 24 metri e raf-
figura una specie di torre ad undici piani coronata da un cimiero. Al piano terra, scolpita sui
233 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Africa Italiana, busta 159/F 64, lettera di Lessona a Bonardi n
110462 del 25 luglio 1936, in M. Santi, La stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una
storia italiana, Mimesis Edizioni, 2016, p.35.
234 «Il Popolo d’Italia», 1 novembre 1937, L’obelisco di Axum solennemente inaugurato a Porta Capena, in M.
Santi, La stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edizioni,
2016.
160
due lati principali, una porta con un grosso battente ad anello, simulo l’ingresso. Ogni pia-
no è separato dall’altro per mezzo di una fila di borchie rotonde che formano motivo or-
namentale e fingono di essere le testate delle travi di legno sorreggenti i vari piani. … Di-
nanzi alla porta, che simula l’ingresso, un ampio gradino della stessa pietra costituisce il
cosiddetto Altare Sacro.»235
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con il Trattato di Pace del 10 febbraio del
1947 venne riconosciuta l’indipendenza e la sovranità dell’Etiopia e, in particolare, l’arti-
colo 37 stabilì l’obbligo di restituzione, entro diciotto mesi dall’entrata in vigore del Trat-
tato, di tutte le opere d’arte e oggetti di valore storico e religioso appartenenti all’Etiopia
e portati in Italia in seguito all’occupazione.
Ma dopo diciotto mesi nulla venne restituito, mentre la questione aveva cominciato ad
avere una discreta rilevanza in occasione della ripresa dei rapporti diplomatici tra Italia
ed Etiopia nel 1951; la mancata restituzione venne affrontata anche durante i diversi in-
contri tra ministri italiani ed etiopici, all’interno della problematica più ampia della lista
degli oggetti che l’Italia si impegnava a restituire. Il Ministro degli Esteri dell’Etiopia nel
1952 rilevava «che da parte italiana non si era ancora provveduto alla restituzione dell’o-
belisco né vi era stato accenno circa il proposito di farlo nel prossimo futuro»236.
Nel corso degli anni e con la ripresa delle trattative diplomatiche tra i due paesi, la pro-
blematica della stele di Axum e della sua restituzione tornava ad apparire come assai
rilevante nella definizione dei rapporti tra i due stati. Alle rivendicazioni dell’Etiopia, l’Ita-
lia opponeva le difficoltà di rimozione e trasporto di un’opera di tale portata, arrivando
persino a proporre l’offerta di una colonna romana in sostituzione della stele. Queste le
parole dell’Ambasciatore della Repubblica Tacoli a riguardo:
235 «Capitolium», Stele di Axum, XII, 1937, p. 604, in M. Santi, La stele di Axum da bottino di guerra a patri-
monio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edizioni, 2016.
236 Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, Affari Politici, 1950-1957, Etiopia, busta 804, telespresso
di Tacoli sl Ministero degli Affari Esteri n.663/213 del 31 maggio 1952, p. 1, in M. Santi, La stele di Axum da
bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edizioni, 2016.
161
«La restituzione dell’Obelisco di Axum è sempre presente nella mente degli etiopici, che
tutte le Autorità senza distinzione di tendenza o di gruppi, vi sono attaccatissime…ritenuta
la nostra resistenza basata da ragioni di politica interna e sentimentale, tale questione sta
per diventare, tra pochissimo tempo, uno dei principali ostacoli allo svolgimento delle trat-
tative»237
In una lettera aperta al popolo etiopico ed italiano, il direttore della rivista «Africa», l’av-
vocato Gregorio Consiglio, sosteneva che la restituzione non avesse alcun fondamento,
giacché l’opera era stata condotta in Italia per interesse archeologico e culturale, non
come bottino di guerra, salvata da una situazione di abbandono tra le rovine e gli
sterpi.238
La questione continuò negli anni, tanto che nel 1955 l’imperatore d’Etiopia Haile Selas-
sie ribadì l’intenzione di riportare l’obelisco nel sito d’origine, rivendicando, inoltre, non
solo la restituzione in quanto tale, ma anche la copertura delle spese di smontaggio e
trasporto da parte dell’Italia.
Quando le trattative sembravano ormai a termine, l’istituzione del nuovo governo in Ita-
lia con il presidente del Consiglio dei Ministri Segni, portò ad una battuta d’arresto della
questione, con la sospensione di ogni decisione in merito, poiché la questione delle ri-
parazioni di guerra sollevava reazioni negative all’interno del Paese. Le direttive ministe-
riali si dichiaravano disponibili alla restituzione, a patto che il governo etiopico avesse
fatto dono della stele di Axum alla città di Roma, in cambio della donazione da parte
dell’Italia di una chiesa copta o di un ospedale in Etiopia.
La proposta trovò una ferma opposizione da parte dei ministri etiopici, che non voleva-
no cedere sulla restituzione dell’obelisco.
237 Ibidem.
238 «Africa. Rivista mensile di interessi africani», La stele di Axum,, Anno IX n. 5, Maggio 1954, in M. Santi, La
stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edizioni, 2016.
162
Dopo diverse trattative riguardanti le spettanti somme per il trasporto del monumento,
il 5 marzo del 1956 l’accordo italo-etiopico venne sottoscritto ad Addis Abeba: in uno
degli annessi del documento vennero definite le modalità di restituzione della stele di
Axum. Il governo italiano si impegnava, nei mesi successivi all’entrata in vigore dell’ac-
cordo, a coprire le spese per smontare l’obelisco e trasportarlo a Napoli dove sarebbe
poi stato imbarcato per l’Etiopia in modalità free on board. Nell’accordo veniva inoltre
specificato che l’opera doveva essere restituita nel suo stato originario, priva delle ag-
giunte costruite per la sua installazione a Roma.
A questo punto l’Italia non solo assolveva ai suoi obblighi dopo la guerra, ma inaugurava
anche la via di cooperazione internazionale tra i due paesi, aprendo il mercato etiopico
agli investimenti italiani. Nonostante questo, parte dell’opinione pubblica rimase forte-
mente contraria alla restituzione della stele di Axum e, in generale, alle normative impo-
ste dal Trattato di Pace, giudicate troppo onerose; questa battaglia fu portata avanti so-
prattutto dalla rivista «Il Tempo» che considerava il monumento un emblema dei valori
ideali e patriottici della nazione italiana.
Nel corso degli anni sessanta, però, le relazioni tra i due paesi si raffreddarono, a causa
della lentezza del governo italiano nella restituzione delle opere previste dagli accordi e
della posizione di distanza intrapresa dall’Italia nella questione della contesa tra Somalia
ed Etiopia. La visita del negus Haile Selassie in Italia venne rinviata fino a quando, venne
dichiarato, la stele non fosse stata restituita.
Con la nomina di Aldo Moro al Ministero degli Affari Esteri i rapporti italo-etiopici si
normalizzarono; nella sua visita ad Addis Abeba egli fece appello ai legami «spirituali,
religiosi e culturali»239 presenti tra i due popoli. A seguito dell’incontro di Moro con gli
esponenti del governo etiopico, venne stabilita una data per la visita di Haile Selassie in
Italia, indipendentemente dalla questione della stele, che veniva lasciata come materia
di una Commissione tecnica mista etiopica e italiana.
La visita del negus a Roma venne fissata per il 6 novembre 1970 e suscitò grande fervo-
re ed interesse nell’opinione pubblica e nella stampa; tra questa vi è l’intervento di Indro
Montanelli, che aveva partecipato alla rimozione dell’obelisco da Axum da parte delle
239 M. Santi, La stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edi-
zioni, 2016, p. 155.
163
truppe italiane durante la campagna in Africa orientale nel 1936. Egli si espresse a favo-
re della restituzione, non tanto per una questione del valore e dell’importanza storico-
artistica del monumento in sé – che egli ritiene rispondere, già nella precedente volontà
di portarlo a Roma, alle dinamiche di una retorica inutile – quanto piuttosto per un debi-
to di gratitudine nei confronti dell’imperatore d’Etiopia, al fine di evitare «un errore poli-
tico, di cui le spese farebbero gli italiani di Abissinia»240
Durante tutto il soggiorno e nei numerosi incontri diplomatici di Haile Selassie in Italia,
la questione dell’obelisco non venne trattata, rimanendo legata alle disposizioni già
espresse da Moro riguardo la Commissione tecnica mista.
Durante gli anni Settanta, l’Etiopia visse un periodo di drammatici cambiamenti politici
che portarono alla deposizione e, successivamente all’uccisione nel 1975 di Haile Selas-
sie; il paese, almeno fino agli anni Ottanta, si ritrovò immerso in un isolamento interna-
zionale ed anche le ricerche archeologiche subirono un’interruzione. Il nuovo governo
Menghistu non reclamò mai la restituzione dell’obelisco, questione che venne invece
mantenuta in vita da Richard Pankhurst, storico inglese che pubblicò diversi articoli sul-
la stele di Axum e sulle altre opere portate via dall’Etiopia come bottino di guerra. Fu
proprio grazie ai suoi articoli che, alla fine del governo Menghistu nel 1991, venne ripor-
tata l’attenzione dell’opinione pubblica etiopica sulle sorti del monumento.
Nel corso degli anni Novanta, pertanto, il dibattito intorno alla restituzione della stele si
mossero sia sul campo degli studiosi, storici e archeologi, sia su quello politico, tramite
spedizioni –archeologiche e diplomatiche –, pubblicazioni ed appelli.
«Per tutto il 1997 la stele di Axum rimase al centro del dibattito parlamentare».241
240 «Epoca», È giusto restituire all’Etiopia l’obelisco di Axum?, 8 novembre 1970, n. 1050, in M. Santi, La stele
di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edizioni, 2016, p. 155.
241 M. Santi, La stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edi-
zioni, 2016, p. 155.
164
di Giovanni Alemanno, che negava la legittimità dell’operazione e l’impossibilità fisica di
un tale intervento.
Quando nel 2001 si riconfermò alle elezioni il governo di centrodestra guidato da Silvio
Berlusconi, la questione della stele di Axum venne ritrattata dal neo sottosegretario Vit-
torio Sgarbi, il quale affermò che l’opera sarebbe rimasta a Roma, poiché l’attività di ri-
mozione e trasporto avrebbe inferto un danno irreparabile al monumento stesso, dichia-
rando che la stele fosse ormai «naturalizzata»242 italiana.
Fu in questo momento, il 19 luglio del 2002, che il Consiglio dei Ministri si pronunciò a
favore della restituzione, con la contrarietà dei ministri di Alleanza nazionale.
Terminati i lavori di restauro nel 2003, si procedette con le prime operazioni per il tra-
sporto che furono complesse ed impegnarono funzionari, storici ed archeologici sui di-
versi fronti, quello italiano e quello etiopico, con il coinvolgimento dell’UNESCO a so-
vrintendere le operazioni nel sito di Axum, area archeologica divenuta patrimonio del-
l’Umanità dal 1980.
Con l’articolo 1 della Convenzione di Parigi del 1972, riguardante la Protezione del patri-
monio culturale e naturale dell’Umanità, venne sancito il principio secondo cui poteva-
no essere considerato patrimonio culturale dell’umanità:
242 «La Repubblica», 8 agosto 2001, Obelisco di Axum rinasce nel parco, in M. Santi, La stele di Axum da bot-
tino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edizioni, 2016, p. 202.
165
siti archeologici, di valore universale eccezionale dall’aspetto storico ed estetico, etnologi-
co o antropologico.»243
Il 25 aprile dello stesso anno anche l’ultimo pezzo dell’obelisco giunse in Etiopia, accolto
da festeggiamenti e con grande positività da parte dell’opinione pubblica etiopica.
244 M. Santi, La stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una storia italiana, Mimesis Edi-
zioni, 2016, p. 203
166
A questo punto a Roma, in piazza Porta Capena, rimaneva il vuoto lasciato dall’assenza
della stele.
«In ricordo delle vittime della strage di New York e Washington dell’11 settembre 2001. La
città di Roma per la pace contro ogni forma di terrorismo.»
245 Cfr R. Bianchi, I. Scego, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, 2014.
167
SCHEDA N. 6
168
La scritta DUX sul Monte Giano
Nel 1939 la Scuola Allievi Guardie Forestali di Cittaducale si impegnò, assieme alla co-
munità locale, in un intervento di piantumazione di circa ventimila pini lungo la parete
ovest del Monte Giano, in prossimità del comune di Antrodoco, provincia di Rieti; gli al-
beri, appartenenti ad una specie arborea non locale, vennero collocati in modo da for-
male la scritta DUX, in omaggio a Benito Mussolini.
L’iscrizione, infatti, occupa una superficie di otto ettari e, nelle giornate più limpide, è
visibile dalla città di Roma.
Fin dalla fine della guerra, questa particolare forma di monumento naturalistico è stata
oggetto di polemiche e dibattiti; negli anni Cinquanta, ad esempio, fu effettuato un pri-
mo intervento di rimboschimento che mirava ad infoltire la zona costituta dagli alberi di
pini per assorbire e quindi mitigare la rilevanza della scritta. Il risultato fu la scomparsa
della parte basale della scritta, che però rimase leggibile.
Negli anni Ottanta, il sindaco di Antrodoco aveva presentato un piano di ripristino della
scritta, che aveva subito danneggiamenti a causa del tempo, delle frane e della caduta
di massi. Gli interventi di restauro vennero deliberati il 20 dicembre 1998 dalla regione
Lazio, che a tal fine stanziava 260 milioni di lire per opere di «rimboschimento»247 sul
Monte Giano; l’area, infatti, era stata dichiarata patrimonio nazionale, in quanto monu-
mento naturale, da una legge regionale nel 1997.
247Senato della Repubblica, Fascicolo n. 162, Risposte scritte ad interrogazioni (pervenute dal 25 al 31 mag-
gio 2000), <http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/17878.pdf>, consultato in data 14/06/2021.
169
l'istituzione dei monumenti naturali e l'individuazione dei siti di importanza
comunitaria.»248
«[Premesso che] dovrebbe dunque essere evidente che lo scopo e l'intento dei lavori che
si vogliono effettuare è quello del ripristino della scritta «DUX» sul monte Giano e che non
hanno, di conseguenza, alcuna attinenza con lo spirito che ha ispirato le due leggi regiona-
li, si chiede di sapere: se si ritenga che nella Repubblica democratica nata dalla Resistenza,
a cinquantaquattro anni dal crollo del regime fascista, si possano impegnare 260 milioni
dei contribuenti italiani per ripristinare un'opera della propaganda fascista volta ad esaltare
il culto della persona del «Duce», responsabile di tanti lutti e rovine per il nostro paese».249
«[…] se, sito che proprio il consiglio regionale del Lazio vuole ricordare il Duce con la pine-
ta di Antrodoco, non sia più opportuno allora apporre su ogni pianta il nome di un italiano
caduto in una delle tante guerre imperialiste volute da Mussolini od i nomi dei valorosi
combattenti della Resistenza caduti per liberare l'Italia dall'oppressione nazi-fascista. In
questo modo sarebbero più realistici ed evidenti i «meriti» del fondatore dell’impero.»251
250 Ibidem.
251 Ibidem.
170
La risposta del Ministero per gli Affari Regionali, ribadì la necessità degli interventi di
rimboschimento a causa delle frane e delle cadute di massi verificatisi nel corso degli
anni, con il conseguente stanziamento dei fondi necessari. Venne specificato, però, che
tali interventi avrebbero portato conseguentemente alla scomparsa della scritta, inglo-
bata dalla piantumazione delle altre piante realizzata negli anni precedenti.
«La delibera n. 11706 del 29 gennaio 1995 della giunta della regione Lazio relativa all'ap-
provazione dei lavori di rimboschimento della pineta «Dux», alla quale ha fatto seguito la
delibera di finanziamento n. 2454 del 22 dicembre 1998, è stata approvata anche a seguito
di diverse segnalazioni, tra le quali quella della prefettura di Rieti che, nel rilevare soventi
cadute di massi che si staccavano dai versanti del Monte Giano, sollecitava gli interventi di
rimboschimento. La delibera autorizza il taglio dei soggetti deperienti o malformati e vieta
il taglio delle piante sane insediatesi naturalmente tra le lettere della scritta Dux. Un primo
intervento di rimboschimento, effettuato negli anni cinquanta, ha già fatto scomparire la
parte basale della scritta Dux. La detta scritta è destinata a scomparire completamente
anche per effetto dei lavori di rimboschimento previsti dalla nominata delibera n. 11706.»252
Il 24 agosto del 2017 la pineta che costituisce la scritta subì un incendio, la cui natura –
dolosa o colposa – non è tuttora accertata; l’incendio si propagò per gran parte dell’i-
scrizione, lasciando intatta soltanto la lettera “D”.
La questione venne presa in mano dal gruppo di estrema destra CasaPound nel 2018,
quando, tramite una raccolta fondi e il raduno di circa duecento persone, si intraprese
un intervento di piantumazione di nuovi pini, al fine di restituire omogeneità alla scritta
DUX.
252Senato della Repubblica, Fascicolo n. 162, Risposte scritte ad interrogazioni (pervenute dal 25 al 31 mag-
gio 2000), <http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/17878.pdf>, consultato in data 14/06/2021.
171
La scritta DUX a Villa Santa Maria
Un caso simile è quello della scritta DUX incisa nel 1940 per celebrare il diciottesimo
dell’era fascista, sul costone roccioso che sovrasta Villa Santa Maria, in provincia di
Chieti.
L’iscrizione, lunga circa tre metri, è stata riportata alla luce in occasione degli interventi
per la creazione di un percorso d’arrampicata sulla parete rocciosa, realizzati con finan-
ziamenti dell’amministrazione comunale tramite una convenzione con la società sporti-
va dilettantistica Moving Wellness per sistemare la roccia, investendo 12.500 euro del
bilancio pubblico.254
La decisione di restaurare e pulire la scritta fu presa dal sindaco Pino Finamore, secon-
do il quale essa costituisce una «scritta storica»255 e «un’attrattiva per il paese»256.
I casi tedeschi
255 Ibidem.
256Ibidem.
257Ibidem.
172
dall’alto restituiva la forma di una svastica; nel 1938, infatti, una guardia forestale piantò
alcuni larici all’interno di un bosco di sempreverdi e quelli, ingiallendosi nel periodo in-
vernale, formavano il simbolo nazista.
La scoperta della svastica avvenne in maniera casuale nel 1992, durante una perlustra-
zione aerea dell’architetto paesaggista Gunthar Reschke per la realizzazione di foto ae-
ree per individuare linee di irrigazione.258
Ciò portò ad un primo tentativo di abbattimento degli alberi nel 1995 da parte delle au-
torità del Brandeburgo, che però non condusse alla totale eliminazione del simbolo.
Pertanto, nel dicembre del 2000 vennero avviati le nuove operazioni per la rimozione di
altri 25 larici, al fine di modificare definitivamente l’aspetto della svastica.259
Un caso molto simile in Germania, fu quello della “scritta” «1933» – per celebrare l’anno
di ascesa al potere di Hitler – sempre composta da larici in una pineta di sempreverdi, in
un bosco in Assia.
173
SCHEDA N. 7
Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine venne realizzato per commemorare le 335 vittime del-
l’eccidio nazista avvenuto il 24 marzo del 1944 a Roma, presso le cave di pozzolana fra
via Ardeatine e via delle Sette Chiese.
La strage venne compiuta in risposta all’azione dei partigiani, che il 23 marzo avevano
gettato una bomba contro una colonna della polizia tedesca in via Rasella, provocando
la morte di 32 tedeschi. Secondo la prassi delle rappresaglie naziste, per ogni tedesco
ucciso era prevista l’esecuzione di dieci persone, sia civili che prigionieri.
Il 2 luglio del 1944 il governo elaborò la decisione di intraprendere nel luogo della strage
l’edificazione di un monumento per commemorare i caduti della guerra di Liberazione
174
contro il nazi-fascismo; nel gennaio del 1945 venne istituito un bando rivolto ad inge-
gneri e architetti, rivolto a questo fine.
Finalmente, nel 1947 venne presa la decisione definitiva e nel novembre dello stesso
anno vennero iniziati i lavori di costruzione del monumento, inaugurato successivamen-
te nel 1949.
L’intera area è custodita da un muro di pietra sperone che si apre all’ingresso in cui è
collocata la cancellata realizzata da Mirko Basaldella, costituita da un groviglio di spine
bronzee; di seguito il percorso prosegue all’interno di gallerie che conducono al sacra-
rio.
Esso consiste in un ambiente di 25x50 metri incassato per due metri nel suolo e coper-
to da un imponente parallelepipedo che poggia su sei dadi in cemento armato, in modo
da far entrare la luce all’interno del percorso.
I sepolcri sono collocati all’interno della vasca ipogea coperta dalla lastra del soffitto
che in questa area è leggermente incurvata, in modo da alleggerire l’effetto di pesan-
tezza: essi sono disposti in otto doppie file e sono segnati da nome e cognome, età,
professione e simbolo della fede religiosa dei defunti.
175
31.. Cancellata di Mirko Basaldella del Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma
«La costruzione racchiude due concezioni oppositive: da un alto l’antico sistema costrutti-
vo lapideo applicato nella sua forma più arcaica, dall’altro la modernità del calcestruzzo
armato in una soluzione strutturale ardita. La pietra è preminente ma spogliata della tradi-
zionale retorica monumentale.»260
260 A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli editore, 2014, p. 30.
176
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Organizzazione e funzionamento dei musei statali, Ministero dei Beni e delle Attività Cul-
turali e del Turismo
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co_di_antrodoco_aiutateci_subito_-173931949/#:~:text=Lo%20ha%20detto%20il%20sin-
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I. Scego, To heal the wounds of colonialism, let’s build monuments to its victims
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urbanistica-architettura-e-colonialismo/>
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