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LA VIRTU’ DELLA STUDIOSITAS NELLA SUMMA MORALIS

E NELLA VITA DI S. ANTONINO PIEROZZI OP

Premessa

A chi è più addentro alle problematiche della morale sembra che non sia necessaria
l’autonoma formulazione della virtù dello studio, quando certi atteggiamenti virtuosi
possono farsi rientrare in altre realtà morali, quali il dovere professionale dello studente,
l’obbligo dell’uomo di conoscere Dio per meglio amarlo, la convenienza di sfruttare al
massimo le nostre doti intellettuali a gloria di Dio e per il bene dei fratelli.
Antonino, invece, seguendo in questo il grande maestro Tommaso, ha individuato, con
innegabili vantaggi, una virtù morale specifica dell’intelligenza, che da una parte tempera il
naturale desiderio di conoscere, e dall’altra sostiene la mente nell’inevitabile ascesi dello
studio, e l’ha chiamata studiositas.
E’ la studiositas una virtù sicuramente poco nota, eppure assai importante in un mondo
sempre più scolarizzato ed evoluto, dove l’affrancazione dalla fatica materiale permette a
molti di dedicarsi allo studio, nella prospettiva della carriera accademica, o per essere
all’altezza delle nuove esigenti offerte di lavoro, oppure semplicemente per soddisfare e
coltivare i propri interessi culturali crescenti e variegati.
Per disquisire di essa ci serviamo non solo della dottrina di questo santo vescovo ma
anche della sua vita, perché egli è uno di quei teologi che mette in pratica ciò che va
teorizzando, e in questo è un esempio mirabile per tutti coloro che si dedicano agli studi della
morale, la cui vita, ahimè, non sempre è in consonanza con le dottrine che professano.
Ci aiuterà ai fini della nostra indagine situare Antonino all’interno del suo Ordine, quello
domenicano, che lo ha formato e educato religiosamente allo studio, come pure inquadrare la
sua ricca esperienza di vita nell’epoca umanistica che vide il forte risveglio degli studi
classici.
Dalla nostra riflessione emergeranno alcuni aspetti della spiritualità dello studio, tali, ci
auguriamo, da sollecitare il desiderio di ulteriori e personali approfondimenti, soprattutto da
parte di chi fa della conquista del sapere la ragione precipua della propria vita.

CAP. I: LA VIRTU’ DELLA STUDIOSITAS


1
1. La studiositas: una forma di temperanza

Il desiderio di conoscere è un desiderio naturale che risulta perfettamente analogo al


desiderio del cibo o della sessualità, perciò anch’esso esige un controllo e una guida di
ordine razionale.
La studiositas è vista, pertanto, da S. Antonino come una forma di temperanza. Più
precisamente, c’è una temperanza in senso proprio che impone la moderazione nelle cose in
cui è particolarmente difficile moderarsi, ossia nelle concupiscenze relative ai piaceri del
tatto, e una temperanza chiamata modestia che impone la moderazione nelle altre cose meno
appetibili. La studiositas, virtù che modera il desiderio di conoscere, è una parte potenziale
della temperanza, quale virtù secondaria annessa alla principale, e rientra nella modestia 1.
Non sia ingannevole il termine “moderazione”, qui usato. Esso non costituisce un limite a
un serio sforzo intellettuale. Antonino ha definito lo studio: “vehemens animi applicatio
circa aliquid peragendum”2. La moderazione di cui egli ci parla vuol essere, allora, più un
impegno severo a scegliere come e cosa studiare, piuttosto che una limitazione di ardire e di
tenacia. In realtà, la virtù dello studio non deve portarci solo a fuggire l’intemperanza di
coloro che pretendono di conoscere oltre i limiti dell’umano e dell’onesto, ma pure ad
affrontare con seria determinazione la fatica intellettuale.
Di ciò ha fornito prova abbondante il nostro santo con la sua stessa vita. Nel proemio alla
Summa Moralis egli confessa l’improba fatica di scrivere un’opera di così vasta dimensione,
che nulla ha da invidiare, almeno quanto alla mole, ad analoghi compendi del periodo
medievale. Più volte ha dovuto interrompere e poi riprendere l’immenso lavoro, assillato
com’era da altri impegni pastorali e di governo, e non si è mai risparmiato, sottraendo per
esso tempo al riposo e allo stesso mangiare. In verità, la sua opera, che poi tanto successo
avrebbe avuto anche nelle generazioni successive, fu, senza esagerazione alcuna, il frutto del
sacrificio di un’intera vita3.

1 SANCTI ANTONINI, Summa Theologiae, Verona 1740, ristampa fotolitografica Akademische Druck-
U. Verlagsanstal, Graz 1959, (d’ora in poi Summa), IV, III, XI. Col. 167d.

2 Summa, IV, III, XI, col. 167c.

3 Ibidem, Prologus, col. 4.


2. La purezza della mente e l’umiltà

Dice Antonino che per ascendere al trono di Salomone, simboleggiante la sapienza, e quindi,
per acquisire e poi praticare la virtù della studiositas, occorre guadagnare vari gradini.
Il primo di questi è la purezza della mente per cui nel libro della Sapienza (Sap 1, 4) è
detto: “La sapienza non entra in un’anima che opera il male, né abita in un corpo schiavo
del peccato” (Sap 1, 4). Perciò in Giovanni l’evangelista la sapienza risultò grande, giacché
fu eminente nella purezza.
Alla purezza, poi, molto concorre il timore di Dio che è l’inizio di ogni sapienza (cfr. Sal
111, 10)4. Possiamo definire il timore di Dio come il senso di Dio, ma forse ancora meglio
come l’incanto di Dio. E lo possiamo descrivere così: come figli sentiamo il fascino della
grandezza del Padre; ci sentiamo avvolti dalla sua infinita bontà, misericordia, tenerezza,
sentiamo davvero quanto è confortante ciò che dice il Salmo: “Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature” (Sal 145, 9). Certamente sentiamo l’enorme
distanza che c’è tra noi e Dio, ma questa distanza Dio l’ha eliminata nel suo amore.
Soprattutto chi teme Dio si sforza, con intima dolcezza e interiore compiacimento, a un
esercizio di personale purificazione, perché ogni cosa sia in consonanza amorosa con la
Maestà divina.
Mediante la virtù della studiositas si cerca, allora, di guarire da ogni forma di illusione
accattivante, che i pensieri, spesso ribollenti della carne e delle seducenti realtà mondane,
esercitano sul nostro cuore, danneggiando la rettitudine dello studio.
Per salire al trono di Salomone è necessaria anche una sincera umiltà, così che quello più
sapiente tra i sapienti è il più umile. E mostra Antonino quali sono i segni dell’umiltà quando
essa è presente: primo, che uno non disprezzi nessuna dottrina; secondo, che non si eviti ciò
che fa arrossire come sarebbe per l’episcopo di tanti anni essere ammaestrato da un collega
ordinato non ancora da un anno; terzo, che chi non sa non si vergogni di ammettere di non
sapere; quarto, che nel parlare non si disprezzi ciò che contiene la Scrittura 5.
Un’illusione da dissolvere, per praticare l’umiltà nello studio, è la presunta autonomia
dell’intelletto rispetto alla volontà, per cui il primo svolgerebbe la sua funzione volta a
cogliere necessariamente e inequivocabilmente il vero. Ora, tale autonomia e necessità,

4 Ibidem, IV, III, XI, col. 168c.

5 Cfr. ibidem, IV, III, XI, col. 168d.


3
capaci di condurre all’evidenza imbattibile della verità, si può avere facilmente solo nei
primi principi e forse, in qualche misura, nelle discipline estranee ai problemi vivi dell’uomo
(ad es. nello studio della matematica). Negli altri casi, invece, si sa quanto facilmente la
volontà e l’interesse compromettano l’imparzialità d’indagine, sospingendo l’intelletto a
considerare l’uno anziché l’altro lato dei problemi, ad assolutizzare verità soltanto probabili,
a preferire il meno probabile al più probabile. Per questo è necessaria la virtù della
studiositas, che è virtù morale, cioè tale da agire sulla volontà per impedire che le facoltà
intellettive cadano nell’errore.
La studiositas, infatti, non è una virtù intellettuale, per la quale si è acquisito un abito
positivo che rende facile lo studiare, o permette di dominare questa o quella materia.
Nota Antonino, riferendo esplicitamente il pensiero di Tommaso, che gli atti delle potenze
cognitive sono governati dalla facoltà appetitiva la quale muove tutte le nostre facoltà. Nella
conoscenza, perciò, si possono distinguere due tipi di bontà. La prima riguarda l’atto stesso
della conoscenza. E tale bontà è propria delle virtù intellettuali: che cioè su ogni cosa si
sappia la verità. L’altro tipo di bontà riguarda invece l’atto delle potenze appetitive: che cioè
si abbia la volontà retta di applicare le facoltà conoscitive in un modo o in un altro, a una
cosa o a un’altra. E ciò spetta alla virtù della studiositas6.

3. Docente e discente

Non si può comprendere la portata della virtù della Studiositas se non la si coglie all’interno
di un rapporto fondamentale, quello che si istaura tra docente e discente. Nella dinamica
dello studio non è possibile prescindere dalla figura dell’insegnante, del maestro, verso il
quale è doveroso nutrire rispetto e senso di riconoscenza. Anche chi studia fuori di una
dimensione strettamente scolastica, qualunque sia il campo dei suoi interessi, dovrà
inevitabilmente confrontarsi con tutti coloro che lo hanno preceduto, o che attualmente
svolgono analoghi studi, e tutti deve tendenzialmente considerare come suoi maestri.
Dice Sertillanges:“Con il pensiero noi troviamo qualche cosa, non la facciamo; rifiutare di
sottomettersi significa non incontrare, e non sottomettersi in anticipo significa eludere
l’incontro. Il nostro intelletto è al totale una potenza passiva; si è forti intellettualmente nella
misura in cui si è recettivi”7.

6 Cfr. ibidem, IV, III, XI, col. 167e.


Quest’aspetto rivela in modo peculiare in S. Antonino, la dove, con molta umiltà, cita
continuamente nelle sue opere i grandi autori del passato. Più che sostenitore di nuove,
brillanti idee dottrinali, ritiene di dover raccogliere ciò che altri hanno sostenuto,
naturalmente scegliendo quello che può servire alle sue costruzioni, e comunque
aggiungendo del suo, e avendo sempre come obiettivo principale di mostrare l’applicazione
concreta dei principi. Non dimentichiamoci, poi, che la sua fonte principale resta la Sacra
Scrittura, la quale, appunto perché parola rivelata, non può che essere trasmessa così com’è 8.
Anche uomini ritenuti di più grande ingegno del nostro santo furono, a loro modo, dei
raccoglitori. Illustri filosofi quali Platone e Aristotele, come dimostra la critica moderna, si
servirono per i loro sistemi di materiale preesistente; lo stesso S. Tommaso fu un geniale
sintetizzatore; la Divina Commedia può essere letta come un mirabile compendio dove riluce
tutto il pensiero medievale.
Ogni studioso, dunque, non è un’isola, nessuno può sentirsi in assoluto un maestro, un
iniziatore. Solo Gesù è il Maestro, “Uno solo è il vostro Maestro, voi siete tutti fratelli” (Mt
23, 8). E anche Gesù non è Maestro di per sé, ma in quanto è in relazione al Padre. Nella
sinagoga di Cafarnao Egli dette prova d’avere chiara percezione e convinzione di essere
stato mandato dal Padre, come Salvatore e Maestro di tutti gli uomini, applicando a sé la
parola di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo egli mi ha consacrato,
perché io annunci ai poveri la buona novella. Egli mi ha inviato a salvare tutti coloro che
hanno il cuore contrito” (Lc 4, 18).
E anche il Padre interverrà per dare garanzia agli uomini nei riguardi di Gesù Cristo. La
voce che fu udita dall’alto al momento in cui Gesù ricevette il Battesimo di penitenza, e
quella che risuonò sul Tabor al momento della Trasfigurazione, sono come due lampi di luce
atti a richiamare l’attenzione su di una realtà indiscutibile e indistruttibile:“Questi è il Figlio
mio prediletto, ascoltatelo” (Mc 9, 7).
È importante capire che Gesù è verace, che Gesù è il Maestro, proprio perché non è
portatore di una verità che è semplicemente sua; piuttosto la dottrina che egli insegna viene
da Dio. Infatti “Chi parla per conto suo cerca la propria gloria; chi invece cerca la gloria di
colui che lo ha mandato, quegli è verace”(Gv. 7, 16).

7 A.D. SERTILLANGES, La vita intellettuale, Studium, Roma, 1953, 3° ed., trad. it. Maria Pia Flick, La vie
intellectuelle, Revue des Jeunes, Paris, 1921, pp. 118-119.

8 Nel trattare della studiositas, come del resto gli altri argomenti di morale, Antonino fa largo uso della Scrittura,
mostrando in questo un aspetto di modernità. Il rinnovamento degli studi della morale è, infatti, nella linea di un
recupero pieno del dato biblico, l’unico a fondare veritativamente la dottrina morale.

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Anche se qualcuno fosse portatore d’idee sicuramente nuove, e ciò è raro, queste non
potrebbero essere altro che un barlume di luce della verità che è nel Padre.
CAP II: LA CURIOSITA’

Dicevamo che nella studiositas sono presenti due aspetti, quello di porre un freno al
desiderio smodato di conoscere proprio dell’anima, e quello che consiste in una certa
applicazione per acquistare il sapere, per contrastare la tendenza a evitare la fatica negli
studi, propria del corpo. La prima di tali tendenze, però, è più significante della seconda.
Infatti, il desiderio di conoscere è essenziale alla conoscenza, cui la studiositas è ordinata. La
fatica che si fa nello studio è, invece, un certo impedimento alla conoscenza, per cui è
qualcosa di accidentale in questa virtù, come un ostacolo da superare 9.
Per questo il vizio specifico della studiositas è la curiosità che si ha quando il desiderio di
conoscere è disordinato10.
I moralisti dei secoli scorsi si mostravano molto preoccupati del vizio della curiosità. È un
vizio, diceva Antonino, che trascina in basso quasi tutti, non abbastanza conosciuto, ma
molto nocivo, che il salmista si augura di allontanare da sé dicendo: “Distogli i miei occhi,
perché io non vedo ciò che è vano: per la tua strada dammi vita” (Sal 119, 37)11.
Invece, i moralisti contemporanei sembrano solo preoccupati di affermare e di dimostrare
che la curiosità è un peccato veniale “ex suo genere”. E nulla abbiamo da eccepire su questo,
però crediamo ugualmente opportuno sensibilizzare i cristiani dei nostri giorni dal riflettere
su gravi danni che questo vizio può portare a tutta la vita spirituale 12.
Il curioso per S. Antonino è come l’invitato del Vangelo che si scusa di non poter venire
alla cena perché ha comprato cinque paia di buoi e deve provarli. Il bove per le sue corna,
che ha ben sviluppate in testa, indica che è superbo, che ha grande estimazione di sé, (la
curiosità è posta tra i gradi della superbia e da essa procede), e per la ruminazione con la
quale tritura il cibo indica l’atteggiamento proprio del curioso che vuole sapere ogni più

9 Cfr. Summa, IV, III, XI, col. 168b.

10 Essendo la virtù morale della studiositas un giusto mezzo tra due possibili comportamenti viziosi, oltre alla
curiosità che è il vizio per eccesso, si configura pure il vizio per difetto che è la negligenza (s’intende negli studi), e
questa può assumere in alcuni casi forme anche gravi. Si pensi, ad esempio, alla negligenza negli studi in ciò che
serve alla salvezza e che porta all’ignoranza religiosa volontaria. Tuttavia, Antonino parla soltanto del vizio di
curiosità, e in ciò ancora una volta segue S. Tommaso.

11 Cfr. Summa, II, III, VII, col. 485c.

12 Cfr. T. CENTI, Studiosità e curiosità, in: “Rivista di ascetica e mistica”, n.5 (1960), p. 424.
piccola cosa, oltre il lecito e il necessario. Le cinque paia di buoi sono i cinque sensi
esteriori, da quali nasce ogni nostra conoscenza. Sono paia (di buoi), non singoli. perché gli
organi esteriori degli stessi sensi sono doppi; così ci sono due occhi, due orecchi, due narici,
due labbra, due mani13.

1. La non facile delimitazione tra studiositas e curiosità

Non si può negare che desta una certa difficoltà stabilire un limite tra la studiositas e la
curiosità, se si considera che nessun progresso possa attendersi nello studio delle varie
discipline, qualora manchi una certa dose di curiosità che spinge ad approfondire la
conoscenza.
Su ciò riflette il teologo Antonino sostenendo che la conoscenza, sia essa sensitiva o
intellettiva, non è in sé peccato. Intanto la conoscenza sensitiva è buona perché serve
l’intellettiva. La conoscenza intellettiva, poi, è in se stessa buona, giacché mostra la
perfezione dell’uomo, come il suo intelletto passi dalla potenza all’atto, e ciò facendo
conosca la verità. Inoltre, ciò che viene da Dio non può essere male, perché Dio non è autore
del male. Anzi, “ogni sapienza viene dal Signore ” (Sir 1, 1) ed “Egli (mi) ha concesso la
conoscenza infallibile delle cose, per comprendere la struttura del mondo e la forza degli
elementi” (Sap 7, 17). Anche ciò che ci assimila a Dio non può essere male, e l’uomo si
assimila a Dio in questo, che conosce la verità.
Per quanto la cognizione della verità sia di per sé buona, per accidens, cioè per qualche
sua conseguenza, può essere cattiva, o perché l’uomo se ne insuperbisce, o perché se ne
serve per compiere altri peccati.
Il vizio della curiosità si configura, poi, in relazione al desiderio o all’impegno che
conduce alla conoscenza della verità, quando questi sono disordinati. L’uomo trova il suo
bene nel conoscere ciò che è vero; sennonché a ciò non basta la conoscenza di una verità
qualsiasi, quanto il pervenire alla somma verità. Perciò nella conoscenza di certe verità ci
può essere un vizio, poiché tale ricerca non è debitamente ordinata alla conoscenza della
verità somma14.

13 Cfr. Summa, II, III, VII, col. 485e-486a.

14 Cfr. ibidem, II, III, VII, col. 486d.


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2. I cinque modi della curiosità

Sulla base di queste considerazioni Antonino individua cinque fattispecie che, a suo parere,
rappresentano le manifestazioni più rilevanti della curiosità intellettiva 15.

2.1 La curiosità quando con lo studio si persegue un fine non onesto

Il caso più grave che si possa configurare circa la curiosità sta nel ricercare nello studio un
fine disonesto, quale può essere ad esempio l’omicidio, o un furto, oppure penetrare nelle
questioni giuridiche per aggirare le leggi, e meglio perorare con abilità consumata la causa
dei prepotenti, e combattere gli interessi degli onesti.
Fine illecito persegue anche chi mira alla conoscenza della verità per inorgoglirsene, caso
questo più frequente di quanto si voglia ammettere. Per essi Antonino trova opportuno
ricordare le parole riportate da Agostino nel libro sui costumi della Chiesa: “sunt qui desertis
virtutibus et nescentes quid sit Deus, et quanta sit majestas semper ejusdem manentis
naturae, magnum se aliquid agere putant, si universam istam corporis molem, quam
mundum nuncupamus, curiosissime intentissimeque perquirant. Unde etiam et tanta
superbia in eis gignitur, ut in ipso caelo, de quo saepe disputant, inhabitare videantur”16.

2.2 La curiosità superstiziosa

Al secondo posto sta la curiosità consistente nel ricercare la conoscenza per vie illecite e
superstiziose. Si parla di curiosità superstiziosa quando si cerca di investigare l’occulto
attraverso individui e mezzi non leciti, come chi pratica lo spiritismo, l’occultismo, il
satanismo. Pratiche diffuse ai tempi di Antonino, e purtroppo ancora oggi. A parte, il danno
economico cui queste persone possono facilmente andare incontro, sfruttate spesso da abili
impostori che prosperano e se ne ridono della loro insana passione, ancora più grave è il

15 Cfr. ibidem, II, III, VII, col. 487c-489b.

16 AGOSTINO, De moribus Ecclesiae et de moribus manichaeorum, I, 21.38, in: Nuova biblioteca Agostiniana
opere di S. Agostino, Città Nuova, Roma 1997, vol. XIII/1, p. 66; Summa, II, III, VII, col. 488c-d.
danno morale e fisico che si subisce, quando ci si mette effettivamente in contatto con tali
potenze sconosciute.
Il nostro santo non esclude che i filosofi siano stati impediti dall’abbracciare la fede per il
vizio della curiosità nel consultare Satana, e ricorda come Cristo rimproverasse i demoni che
lo riconoscevano gridando: “So bene chi sei, il Santo di Dio” (Lc 4, 34) perché tacessero,
allo scopo di farci capire che non bisogna cercare dai demoni la conoscenza della verità.
Questi dicono sì, talvolta, qualcosa di vero, perché gli uomini attratti da ciò credano in loro,
ma poi in questo modo finiscono per indurli verso il male 17.

2.3 La curiosità quando si favoriscono gli studi meno utili o frivoli

Il terzo modo di manifestarsi della curiosità, almeno ordinariamente meno grave, consiste nel
trascurare gli studi utili e necessari per quelli meno utili o leggeri.
Studi necessari sono quelli che per un giovane sono imposti dal curriculum scolastico, che
preparano a svolgere un mestiere, o che permettono, per chi ha già un lavoro, un continuo
aggiornamento nel settore in cui si svolge la propria attività, come anche quelle ricerche che
un professore è tenuto a fare nell’ambito della sua disciplina. Questi studi che devono essere
svolti con la massima diligenza, di fatto possono essere trascurati quando si preferisce
dedicare il proprio tempo ad altri studi ritenuti più gratificanti, o perché li sentiamo più
consoni alla nostra natura, oppure perché, e questo succede il più delle volte, non essendo
questi gli studi di cui dobbiamo rendere conto negli esami o nella produzione di opere, hanno
l’effetto di stemperare la tensione, e di farci come dimenticare i nostri veri impegni.
Non è inutile ricordare che la connotazione di “studio necessario” va commisurata alla
precisa circostanza nella quale attualmente ci troviamo. S. Antonino condanna, ad esempio,
quegli ecclesiastici che dedicano tempo alle vanitose letture letterarie, trascurando lo studio
della scrittura e la predicazione. Con le parole di Gerolamo dice: “Sacerdotes Dei, omissis
evangeliis, et prophetis, videmus comoedias legere, amatoria buccolicorum, versuum verba
cantare, tenere Virgilium in manibus, id quod in pueris adest caussa necessitatis, crimen in
se facere voluptatis”18.

17 Summa, II, III, VII, col. 488a.

18 GIROLAMO, Epistulae, XXI, c. 13, PL 22, 386; Summa, II, III, VII, col. 488c.
9
Quando, invece, abbiamo dedicato tutto il tempo occorrente agli studi da considerarsi
strettamente utili, possiamo liberamente darci ad altro genere di studi, purché non se ne
abusi.

2.4 Curiosità per mancanza di sobrietà nel sapere

Si cade nel vizio di curiosità quando tutto si vuole sapere. All’amor del sapere la modestia
cristiana domanda sobrietà. I mistici parlano di “golosità spirituale”, malattia specialmente
dei principianti, impazienti di gustare tutte le dolcezze e tutti i trasporti che Dio concede ai
suoi santi. Allo stesso modo vi è una “golosità intellettuale”, quella di colui che tutto vuole
sapere.
Questa smania del conoscere si può presentare come un’azione in profondità, volta a
scendere negli abissi inaccessibili alla limitata conoscenza umana, oppure come sforzo della
mente di portarsi nei campi più disparati dello scibile, realizzandosi in questo caso la
cosiddetta “tentazione del vagabondo intellettuale”. Già Umberto de Romans (ca. 1200-
1263), quinto Maestro generale dell’Ordine dei Predicatori, si burlava di queste mentalità
universali, cui piaceva dilungarsi per diversi campi, senza disciplina né accordo: “Ora nel
diritto, dopo la filosofia, dopo la medicina o la teologia fino alla meccanica...; a nessuna cosa
fissa si dedicano, come quelli che vagano per diversi luoghi, questi vagano per diversi libri e
materie”19. Conseguenza: imprecisione o instabilità intellettuale che, forse, riescono a fare un
saccente, ma che non possono soddisfare un’autentica vocazione intellettuale.
Si cade nel vizio della curiosità anche quando, con riferimento al singolo individuo, questi
vuole sapere più di quanto le attuali capacità gli consentono. Per cui nella Scrittura è detto :
“Non cercare le cose troppo difficili per te, non indagare le cose per te troppo grandi. Bada
a quello che ti è stato comandato, poiché tu non devi occuparti delle cose misteriose. Molti
ha fatto smarrire la loro presunzione, una misera illusione ha fuorviato i loro pensieri” (Sir
3, 21-22. 24). Coloro che mirano più in alto di quanto sono le loro forze si espongono
facilmente all'errore e all’inconcludenza, sprecando le loro reali capacità 20.

19 UMBERTO DE ROMANS, De vita regulari, in: Opera omnia, Paris 1890-99, 1, 148.

20Summa, II, III, VII, col. 488d-e.


Antonino non corse questo rischio. Infatti, prima di cimentarsi nei suoi lavori più
importanti, e in modo particolare nella Summa moralis, si era esercitato opportunamente in
opere minori. La prima di queste sembra essere stata l’Omnis mortalium cura, con la quale
non intendeva propriamente comporre un libro, quanto di soddisfare una pia richiesta di
persona a lui ben nota, che aveva bisogno di essere formata a una solida cultura religiosa.
Essendo il suo primo scritto è facile riscontrare in esso sproporzioni e oscurità.
Altra opera ad personam è il “tractatus de viduitate ad uxorem Laurentii de Medicis,
Cosmi Magni fratris”. In essa Antonino vuole dare delle indicazioni di vita a Ginevra dei
Cavalcanti, ora che con la morte del marito, Lorenzo dei Medici, era rimasta vedova. Pur
nella sua semplicità questa lettera, che può essere utile a tutte le donne che entrano nello
stato vedovile, è da considerarsi un preludio allo scritto “Opera a ben vivere” della maturità.
La singolare attitudine del nostro moralista di calare il discorso morale nella concretezza
delle diverse situazioni in cui gli uomini si vengono a trovare, compresi i diversi stadi della
vita, comincia ad affacciarsi nel “libretto della dottrina cristiana”, che egli scrisse
espressamente per i fanciulli e i giovani, di cui ben conosceva le esigenze e le necessità.
I materiali di altre opere minori sono, poi, confluiti, più o meno direttamente, nella
Summa moralis. Così è per il libro che può essere titolato “direttorio o informatorio della
vita umana” che, in generale, tratta dei vizi e delle virtù, e anche di un breve scritto in latino
“De ordinato mulierum” sul peccato della vanità femminile, il cui materiale servì per il titolo
IV della seconda parte della Summa. Sempre nella Summa, nel XIV titolo della sua terza
parte, viene riportato, e questa volta completamente, il trattato “De excomunicatione”21.
Da questi brevi cenni risulta dimostrato con quanta gradualità Antonino si è accinto al
lavoro intellettuale. Del resto, a prescindere dalla composizione di specifiche opere minori, a
preparare la strada ai capolavori della maturità, ha contribuito notevolmente anche l’aver
raccolto con umiltà e continuità, nell’arco di decenni, tanto materiale che si sarebbe rivelato
utile per la grande impresa.

2.5 La curiosità quando lo studio delle creature non è finalizzato a Dio

La quinta modalità del vizio della curiosità consiste nel desiderio di conoscere le creature,
senza indirizzare questa conoscenza al debito fine, cioè alla conoscenza di Dio. Come nota

21 Cfr. C. C. CALZOLAI., Frate Antonino Pierozzi dei domenicani Arcivescovo di Firenze , Ars Grafica
Editorialis Presbiterium, Roma 1961, pp. 245-251.

11
giustamente il Gaetano, non si richiede per questo che la conoscenza di Dio sia il fine
prossimo di ogni conoscenza delle creature, poiché la conoscenza della creatura, secondo la
retta ragione, ha come fine prossimo se stessa. Invece, è necessario che la conoscenza di Dio
sia il fine ultimo di tale conoscenza. Perciò non è indispensabile, per evitare il peccato, che
quando uno attende alle scienze delle creature ordini esplicitamente la loro cognizione alla
conoscenza di Dio. Chi aspira alla scienza delle creature, aspira per ciò stesso a un gradino
che porta alla conoscenza di Dio, a meno che con un desiderio perverso non si disprezzi
codesta deduzione, optando per la negazione dell’ordine suddetto nella conoscenza delle
creature22.
Ci sono degli studiosi che seguono scrupolosamente i progressi di questa o di quell’altra
disciplina, senza uno sguardo alla scienza suprema. Essi si rinchiudono nel loro ristretto
campo intellettuale, concentrano tutta la loro attenzione sopra un fenomeno, sopra un
avvenimento, e così rifiutano di salire più in alto, di salutare dietro il mondo, i fenomeni e gli
avvenimenti, il Dio che li fa nascere. E’ proprio la loro competenza, il loro sapere, che, lungi
dall’essere la via per giungere a Dio, li riempie solo di orgoglio, infondendo in loro falsa
sicurezza e quindi autosufficienza. Che bisogno hanno di Dio se si percepiscono così
onniscienti?

CAP. III: LO STUDIO NELL’ORDINE DOMENICANO

Antonino poteva parlare con competenza e sensibilità della virtù della studiositas anche
perché ebbe in dono dalla provvidenza di poter appartenere a una grande famiglia religiosa,
quella fondata da S. Domenico, i cui caratteri più tipici, impressi nell’animo suo fin da
giovanissimo, non lo abbandonarono mai.
Egli visse in un periodo che possiamo definire di transizione per l’Ordine, in cui la crisi
della vita religiosa conosceva la sua punta estrema, ma al contempo, per fortuna, erano già
presenti i germi del cambiamento.
Sulla scia di una grande maestra spirituale quale fu S. Caterina da Siena, prima con il B.
Raimondo da Capua, e poi con Fra Giovanni Dominici e Fra Lorenzo da Ripafratta, fu

22 GAETANO DE VIO, Commentarium in Summam Theologiae, II-II, q. 167, a. 1, in: TOMMASO


D’AQUINO (SANTO), Sancti Thomae de Aquino Opera Omnia, Iussu Leonis XIII P.M. edita, vol. X, II-
II, q. 167, a. 1.
iniziata la riforma. L’Ordine aveva già in Italia la corrente degli «osservanti» quando
Antonino incontrò il Dominici, divenendo suo ammirato discepolo.
Il Pierozzi cercò, quindi, di essere un domenicano secondo lo spirito del fondatore e le
migliori tradizioni, e avendo rivestito ruoli di governo nell’ambito dei conventi riformati fino
alla carica di Vicario generale, ebbe modo di trasmettere, con la parola e l’esempio di vita,
questo suo ideale a tanti confratelli ben intenzionati ad abbracciare le istanze di
rinnovamento.
Quando poi assunse l’altissima carica di Arcivescovo di Firenze che non gli permise più
di vivere la regolarità religiosa, non per questo smise di sentirsi figlio di S. Domenico e fece
di tutto per conservare un rapporto stretto con l’Ordine, sia esteriormente continuando a
portare l’abito domenicano e vivendo la povertà, sia interiormente coltivando la preghiera e
lo studio.

1. L’importanza dello studio nell’Ordine domenicano

“Assidui nello studio” è un’espressione che si legge già nelle Constitutiones primaevae
dell’Ordine, e che permane inalterata in quelle attuali. I frati domenicani sono assidui nello
studio, costituendo questo parte integrante della loro vita e della loro spiritualità.
S. Domenico è ben consapevole che il mistero di Dio non può essere racchiuso in
coordinate puramente umane. Tuttavia egli sa quale ruolo insostituibile è riservato
all’intelligenza nella scoperta di Dio, come da essa occorra sempre partire, essendo per essa
che siamo fatti a immagine del Creatore. Non utilizzarla, sopratutto nell’investigazione
teologica, significherebbe venire meno a un nostro dovere verso Dio.
L’Ordine è nato da quest’amore della verità e dalla convinzione che gli uomini e le donne
siano capaci di conoscerla. Fin dall’origine i frati furono ispirati dall’audacia innovatrice di
S. Domenico che li incoraggiò a essere utili alle anime con la compassione intellettuale,
condividendo con loro la misericordia veritatatis23.
Si tratta di una tradizione tanto più rilevante in un mondo spesso tentato dal pessimismo
intellettuale, dal dubbio sulla possibilità di raggiungere la verità, o da un fondamentalismo
violento. Essa è basata sulla fiducia che ci sia in ciascun uomo una propensio ad veritatem,
contrastando in ciò il comportamento di alcuni teologi che si criticano gli uni gli altri da

23 Cfr. Capituli generalis electivi Ordinis predicatorum (Provvidence U.S.A) Romae , ex Curia Generalitia ad S.
Sabinam, 2001, n.107.

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trincee opposte, e in cui spesso esiste la paura di un reale dibattito intellettuale con coloro
che la pensano diversamente24.

2. L’Ordine domenicano insegna a spiritualizzare lo studio

Avendo lo studio trovato uno spazio rilevante all’interno dell’Ordine domenicano, questo di
fatto è diventato come il laboratorio di una sperimentazione protrattasi nei secoli, che ha per
oggetto la spiritualità dello studio, come sia possibile e doveroso perseguire la virtù mentre si
avanza nella conoscenza. Non è un caso che sia stato un teologo domenicano, S. Tommaso
D’Aquino, a teorizzare per primo una virtù specifica per lo studio, specificandola all’interno
delle altre virtù, e mostrandone le corrispondenti fattispecie viziose, materiale cui Antonino,
come abbiamo già detto, attinge abbondantemente.
Soprattutto nell’esperienza plurisecolare dell’Ordine due aspetti sono stati approfonditi. Il
primo è la carità dello studio, per cui lo studio non può essere ricercato per se stesso ma deve
sempre essere finalizzato ad un qualche bene del prossimo (per il frate predicatore è
esplicitamente la salvezza delle anime); il secondo è la ricerca di una continua osmosi tra
preghiera e studio.
Per la verità non mancarono all’interno della vita religiosa domenicana contrasti tra
scienza e pietà, e ciò sin dalle origini, essendo quello il tempo in cui il razionalismo
cominciava a prevalere, appunto in opposizione alla fede. La scienza vuol bastare a se stessa,
e la pietà, sentendosi ancor troppo viva per soccombere, si costituisce un dominio a parte,
spesso caratterizzato da sfiducia e pessimismo, se non addirittura dal conflitto con la vita
intellettuale. Furono, però, gli stessi Frati Predicatori a dare un contributo importante per
ricucire lo strappo, ad iniziare da Tommaso, che ne fu il caposcuola. Il grande Aquinate
riuscì a conciliare fede e ragione, innestando con sapienza elementi del pensiero cristiano
con la filosofia aristotelica, giungendo a una perfetta armonia dei due ordini, naturale e
soprannaturale. In tal modo scienza e pietà si fondono fino a formare una sola cosa: la
contemplazione25.

3. La preghiera e lo studio

24 Cfr. ibidem, n. 116.

25 Cfr. R. SPIAZZI, La vocazione domenicana, edizioni S. Sisto Vecchio, ROMA 1966, p. 94.
S. Antonino nella Summa moralis afferma l’assoluta necessità della preghiera per la virtù
della studiositas. È questa un altro dei gradini con il quale si sale al trono di Salomone. Egli
ricorda come nel libro della Sapienza si dica: “" Invocavi et venit in me spiritus sapientiae"
(Sap. 7,7)
Così che a Salomone orante, dopo la preghiera, fu elargita la sapienza. E cita l’esempio di
grandi dottori come S. Tommaso e S. Bernardo che ottennero la sapienza più per la loro
orazione che per lo studio. Questi santi, quando si trovavano in difficoltà nella speculazione
teologica, si mettevano in contemplazione davanti al tabernacolo, e in quello stato
ricevevano le giuste ispirazioni per risolvere le spinose questioni 26.
Di per sé la preghiera non può essere in alcun modo in contrasto con lo studio, che anzi
permette a questo di realizzarsi più pienamente, giacché da una parte lo studio può, anzi deve
essere offerto a Dio nella preghiera, mentre d’altra parte la preghiera, come ogni atto di
culto, si fa più consapevole attraverso lo studio. È proprio la preghiera che tiene lontano
l’uomo dai pericoli dello studio disordinato, e primo tra tutti quello della superbia.
Quando lo studio è rettamente inteso non è che un modo per incontrare il Signore, cioè
una forma anch’esso di preghiera. Lo studio, soprattutto quello delle cose di Dio, ma anche
ogni altro studio, alimenta la preghiera, gli dà sostanza, corposità; a sua volta la preghiera
aiuta lo studio a spiritualizzarsi, preservandolo dall’aridità.
Nonostante tutto ciò, è innegabile che esista il problema di conciliare studio e orazione,
perché nell’esperienza concreta si avverte un certo dualismo.
La causa più profonda del dissidio tra vita contemplativa e studio va individuata nella
rottura dell’unità interiore dell’uomo, conseguente alla prima caduta. L’armonica
collaborazione tra le potenze inferiori e quelle superiori fu infranta: la fantasia si è sottratta al
dominio della ragione; perciò anche l'intelligenza è spesso soggetta al gioco dei fantasmi, e,
quello che è peggio, è stato rotto l'equilibrio e la reciproca collaborazione tra intelletto e
volontà, tra facoltà apprensive e facoltà affettive, tra conoscenza e amore. L’uomo, il
cristiano, il figlio di Dio non sarà perfetto che quando l'armonia primitiva tra questi due
principi di vita e di sviluppo sarà stata completamente restaurata 27.

26 Cfr. Summa, IV, III, XI, col. 168c.

27 Cfr. R. VOILLAUME, Come loro nel cuore delle masse. Vita e spiritualità dei Piccoli fratelli di Gesù, S. Paolo,
Roma, 1959, 4a ed., trad. it. Vanna Casara, Au coeur des masses, Éd. du Cerf, Paris 1950, pp. 291-292.

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Mentre lo studio coinvolge prevalentemente le facoltà razionali, la preghiera, pur avendo
anche una sua dimensione intellettiva, è soprattutto effusione di cuore, e il cuore, se ci
dedichiamo a un’intensa e prolungata attività cerebrale, tende fatalmente a inaridirsi.
Spesso noi avvertiamo l’intelligenza come qualcosa di assolutamente nostro,
dimenticandoci che da Dio proviene e a Dio deve essere indirizzata.
Il primo e più importante consiglio di carattere spirituale che si può dare è, dunque, quello
di sforzarsi di dare un orientamento teocentrico all’intelligenza. Ciò si può fare cogliendo il
necessario nesso oggettivo che corre tra ogni verità e Dio28.
Se poi, a volte, fosse difficile cogliere il nesso tra le verità studiate e la verità eterna, è
sempre possibile coltivare un orientamento soggettivo verso Dio nell’atto dello studio,
offrendo a Dio ogni nostra fatica intellettuale, usando della nostra intelligenza per
glorificarlo, trasformare la nostra sottomissione alla verità in atto di omaggio, di adorazione
del divino Intelletto. Non dimentichiamoci che l’essere umano per sua stessa natura è nato
per Dio, per una specie di consacrazione naturale primitiva essenziale, che coincide con la
sua stessa creazione. Per questo dovrebbe essere la cosa più naturale del mondo offrire a Dio
il frutto della più nobile attività dell’uomo. Noi siamo come dei sacrileghi sottraendo a Dio
ciò che per divina vocazione è a lui solo destinato. Un uso meramente profano, laico, della
nostra conoscenza è indegno di un figlio di Dio.
E’ evidente come un orientamento teocentrico dell’intelligenza fa perdere allo studio
quell’aspetto di freddezza, avvicinandolo così alla preghiera, dandogli come la connotazione
della preghiera, riducendo in questo modo la difficoltà del passaggio dall’una all’altra
espressione umana.
Come visse Antonino questo rapporto tra preghiera e studio? Non è dato riscontrare nella
sua vita testimonianze esplicite di alta contemplazione mistica, se si eccettua l’estasi dinanzi
al Crocefisso, di cui fu testimone un servitore entrato nella sua stanza durante la notte. La sua
preghiera era sobria, concreta, regolare; lungi dall’estraniarlo dall’azione e dallo studio, a
questi lo conduceva. Iniziava la sua giornata molto presto con la preghiera di lode a Dio, poi
s’immergeva nello studio, approfittando di quelle prime ore del mattino in cui la mente è più

28 “La Verità divina è la sorgente di ogni verità. Tutto ciò che è vero viene da Dio e può, in certo
modo, ricondurci a Lui. A tal riguardo la spiritualità cristiana si è divisa in due tendenze: quella che in modo
soggettivo e restrittivo ha interpretato il principio di non cercare altra verità se non quella che conduce alla
contemplazione di Dio; e quella di S. Tommaso, che l’ha inteso nel modo più ampio possibile. Più si
conosce la Verità divina e più si riesce a vederla riflessa in tutte le verità umane. Non c'è d'altra parte
conoscenza che approfondita ed universalizzata non possa servire alla conoscenza di Dio, come non c'è
conoscenza, che non possegga, per la sua stessa virtualità, un valore , una specie di solidarietà con Dio
stesso” (M. G. NICOLAS, Sainteté et Verité, in: “Cahiers Saint Dominique”, n. 11, 1959, p. 62).
calma e attenta, per poi concludere con la celebrazione della S. Messa, e ciò faceva prima di
dedicarsi a tutte quelle altre incombenze dovute al governo della diocesi.
Da buon domenicano passava dalla preghiera allo studio e dallo studio alla preghiera,
avendo compreso in profondità il mistero che li lega e li arricchisce vicendevolmente.

CAP. IV: LA STUDIOSITAS E GLI STUDI UMANISTICI

Nella disanima della virtù della studiositas non può, infine, mancare il riferimento a quel
particolare periodo storico in cui si colloca la vita di S. Antonino che, come è noto, va sotto il
nome di umanesimo.
1. Il risveglio degli studi

Fu in generale l’umanesimo un’epoca di indubbio risveglio degli studi, che aveva già
declassato la teologia dal suo ruolo di protagonista nel sistema delle conoscenze, un’epoca in
cui un uomo poteva diventare famoso in vasti ambienti intellettuali per le sue profonde
ricerche nei settori più aridi degli studi filologici, oppure per la riscoperta di una qualche
dimenticata opera minore di un autore greco o romano.
Per i contemporanei il termine “umanesimo” non indicava solo un interesse per i classici
dell’antichità, ma pure un’attenzione all’uomo, visto più in rapporto alla società umana che a
Dio. La maggior parte degli umanisti era interessata principalmente al ritrovamento, al
restauro, a1 commento e alla valorizzazione della letteratura greca e latina (senza escludere
del tutto la letteratura teologica), e si proclamava ribelle alla scolastica, intesa come
disciplina intellettuale di quelle scuole medievali che si occupavano più di logica e di
teologia, che di letteratura e di studi profani. Con riferimento alle materie scientifiche, per
quanto la scienza non fosse ancora considerata un settore autonomo del sapere, si seguiva
norme analoghe a quelle degli studi letterari. Gli scienziati convenivano che, per capire un
autore, erano necessari testi e traduzioni accurate, e che esistevano molti testi scientifici
antichi i quali, pur essendo interessanti e importanti, erano stati poco conosciuti o del tutto
fraintesi durante il Medioevo. Erano così pronti a imparare il greco e i metodi della cultura
classica, e ad arruolarsi nel campo umanistico.

2. Antonino e gli studi umanistici

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Fu Antonino antiumanista? Altri trattando ampiamente di questa questione hanno dato una
risposta ben articolata e precisa a questa domanda. Noi facciamo cenno a questa polemica
solo in quanto risulta rilevante circa la virtù della studiositas.
Sulla posizione da tenere circa i nuovi studi, quelli cosiddetti profani, Antonino subì
certamente l’influenza del Dominici, che su questo tema aveva avuto un dibattito con il
Salutati, e sulla quale compose una specifica opera, la Lucula Noctis, dove emergono
valutazioni piuttosto severe a riguardo.
Soprattutto nella sezione relativa alla trattazione della curiosità, anche il santo vescovo
cerca di affrontare l’argomento del ruolo dei testi classici nella vita intellettuale, e perviene
alla conclusione abbastanza moderata che quelli che studiano i pagani per le dottrine che
riguardano Dio fanno qualcosa di utile e di lecito, quelli invece che studiano solo per la
vanità di farlo o per altri fini illeciti abusano in questo studio, e perciò studiano illecitamente.
Per Antonino, quindi, i testi classici erano accettabili se erano subordinati alla fede e alla
salvezza29.
Sono queste posizioni sicuramente equilibrate, a condizione che siano collocate nel
preciso periodo storico in cui furono sostenute.
Ciò che, invece, alla luce di queste considerazioni, risulta per noi importante e sempre
attuale, è comprendere che ai fini della virtù della studiositas non è indifferente ciò che si
studia, l’oggetto dello studio. Ogni disciplina ha, infatti, le sue luci e le sue ombre, aspetti
che facilitano il raggiungimento del fine, ma anche specifici pericoli.
Prendiamo ad esempio la teologia. Nessun’altra disciplina può vantare un così evidente
collegamento con la verità ultima, avendo proprio questa come oggetto di ricerca. Tuttavia
anche per essa non mancano le difficoltà. Infatti, mentre in tutti gli altri studi, il piano
d’indagine è quello stesso naturale dell’intelletto umano e, quindi, c’è una fondamentale
adeguazione tra la capacità intellettiva e l’oggetto, negli studi sacri, invece, siamo di fronte
ad un’essenziale sproporzione tra l’intelletto e ciò che con esso s’intende studiare. Con
umiltà ciò deve essere pienamente riconosciuto. Ogni senso di sufficienza razionale deve
quindi sparire, e il bisogno del soccorso divino deve essere sentito necessario, non solo come
generico sostegno alla debole capacità intellettiva (come già per gli studi profani), ma
proprio a sua essenziale integrazione.
Riflessioni di altro tipo sarebbero necessarie per chi ci si accinge allo studio delle scienze.
Qui la Studiositas deve togliere l'illusione che i progressi scientifici possano portare
29 Cfr. Summa, III, III, VII, col. 499c.
all’eliminazione del mistero e della grandezza della natura, mentre essi non sono che la
rivelazione crescente dell’infinita sapienza e potenza del Creatore. Inoltre la studiositas
esclude che il sapere scientifico sia semplicemente “il sapere”, quando invece la scienza ha
solo un suo specifico ambito di competenza, limitandosi a studiare il mondo materiale, anche
se di questo riesce a dare una descrizione assai esatta.
Occorre quindi lasciare soprattutto alla filosofia e alla teologia il compito di coglierne gli
aspetti più profondi e generali della realtà, riconoscendo a tali discipline una ragione d’essere
e un’ autonomia.

3. I costumi degli umanisti

Che Antonino non fosse antiumanista per partito preso lo dimostra tra l’altro il ben noto
episodio, nel quale accolse nel convento di S. Marco, quando ne era ancora priore, i classici
della collezione Niccoli, che da questi erano stati destinati all’educazione della gioventù.
Altro, però, sono i libri dei classici, tanto amati dagli umanisti, e altro la vita e i costumi di
questi.
Non pochi umanisti si presentavano come uomini superbi, cupidi di denaro, amanti del
fasto, lussuriosi, e pronti a irridere ai valori religiosi. Per quest’aspetto allora è facile
affermare che Antonino fu nemico dichiarato degli umanisti. Il santo sapeva bene tra l’altro
come questi comportamenti, oltre ad essere detestabili in se stessi, inficiassero la tanto amata
virtù della studiositas.
Nell’uomo, afferma S. Tommaso, la perfezione dell’attività intellettuale consiste in
un’astrazione dalle rappresentazioni delle realtà sensibili. Quanto più, dunque, l’intelletto
umano è libero da queste rappresentazioni, tanto più è capace di considerare le realtà
intelligibili e di ordinare tutte quelle sensibili. Come l’agente deve essere superiore alla
materia per poterla muovere, così l’intelletto deve essere senza mescolanze con la materia
che intende per poterla dominare. D’altra parte, si costata facilmente come ciascuno si
applica e compie nel migliore dei modi gli atti in cui prova piacere, mentre non compie per
nulla, oppure solo con fiacchezza, gli atti contrari.
Ora, i vizi della carne, cioè la gola e la lussuria, essendo i più violenti fra tutti i piaceri
materiali, applicano nel modo più forte l’intenzione dell’uomo ai beni del corpo, debilitando
necessariamente le sue operazioni di ordine intellettivo. Al contrario le virtù opposte
19
dell’astinenza e della castità predispongono l’uomo nel migliore dei modi alla perfezione
dell'attività intellettuale30.
Non si esclude che pure chi è dominato dai vizi della carne possa pervenire alla
conoscenza, grazie alla bontà del suo ingegno naturale, o per un abito intellettivo già
acquisito; tuttavia, è inevitabile, che la sua speculazione sia disturbata dai piaceri corporei 31.
S’inficia lo studio anche quando si mescola con la cupidigia. Assorbito e dedito a
problemi dello spirito, l’uomo di studio è in generale più incline alla trascuratezza che al
lusso. Antica come l’umanità è l’immagine del filosofo trasandato, dimentico delle più
elementari convenienze urbane, ostentatamente prodigo e sprezzante del superfluo;
altrettanto antico il rammarico di quanti, sperimentandone la nostalgia, non possono
dedicarsi allo studio perché impegolati o travolti dall’ingranaggio delle attività commerciali.
Nessun peggiore amministratore che un uomo di tavolino; nessun metodo più sicuro per
rovinare uno studioso che affidargli mansioni e incombenze amministrative! Per questo,
quando nella mente dello studioso s’insinuano i traffici, i commerci, i guadagni, che sono
cose che riguardano la superficie della realtà, diventa poi difficile, se non impossibile,
pervenire alle verità più profonde e recondite.

4. Il crocefisso

Diceva il P. Colosio che se proprio si vuole parlare di umanesimo nei riguardi di Antonino, si
deve tenere presente l’uomo inchiodato alla croce, che non era però propriamente l’ideale
degli umanisti32.
Gesù è la verità, l’unica verità, lo splendore della verità, eppure questa sua luce può
brillare in mezzo agli uomini perché gli uomini l’hanno contraddetta e negata. Quando il
Bambino fu portato al tempio per l’offerta al Signore, il vecchio Simeone rivolgendosi a
Maria disse: “Egli è qui per la rovina e la resurrezione di molti in Israele, segno di
contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2, 34-35).
Nell’accoglienza fatta a Gesù, il Messia, il primo ostacolo è quello dell'ignoranza sulla sua
persona, sulla verità di cui egli è portatore. Assistiamo a un continuo conflitto tra Gesù e i

30 Cfr. THOMA DE AQUINO, Summa Theologiae, II II, q.15 a.3 (in corpore).

31 Cfr. ibidem, II II, q. 15, a. 3, ad. 1.

32 Cfr. I. COLOSIO, Il crocefisso e S. Antonino in “ Rivista di Ascetica e Mistica” n.3 (1959), pp. 305-323.
capi della sua nazione; controversie, diverbi, prima che l’ostilità si manifesti con azioni
concrete. Alcuni suoi ascoltatori si convincono: “Questi è davvero il profeta” (Gv 7, 40);
altri, però, lo negano dicendo che il Messia non poteva nascere a Nazareth, bensì a
Betlemme, il villaggio di David.
C’è chi viene a lui per appagare la propria sete, e chi lo vuole arrestare e uccidere. Di
fronte a Gesù c’è amore oppure ostilità, non si può restare neutrali.
Assistiamo nei Vangeli, con l’inizio della vita pubblica del Maestro, a un crescendo di
ostilità contro di lui, che si fa massima poco prima della sua cattura e uccisione.
Contemporaneamente a questo intensificarsi dell’avversione alla sua persona, Egli va
rivelando sempre più il suo segreto messianico.
In altre parole più è contraddetta la verità sulla persona di Gesù, più essa emerge. Alla
fine, dopo essere stata completamente negata e crocefissa, rifulge ancor più in tutto il suo
splendore nella resurrezione.
Come si può allora pensare di procedere nello studio, che ha come obiettivo il
raggiungimento della verità, senza passare attraverso dei momenti di critica, di negazione, di
limite, di sofferenza? La verità, bene sublime e prezioso, comporta necessariamente un
tributo da pagare. Anche lo studio, allora, visto nell’ottica giusta, diventa partecipazione alla
croce di Cristo, strumento di ascesi e purificazione, preludio, a volte doloroso, della
beatitudine adorante della verità piena, quando essa sarà definitivamente raggiunta.
Il beato Angelico in modo mirabile ci racconta tutto ciò nel famoso affresco che si trova
nel museo di S. Marco, raffigurante S. Domenico ai piedi della croce 33. Questa immagine,
dove il fondatore di un Ordine di religiosi dediti allo studio abbraccia il legno sanguinante,
può essere considerata l’emblema di tutti gli studiosi cristiani.
Il merito dell’uomo, quello che gli varrà per la vita eterna, diceva S. Antonino, non viene
dalla scienza, ma dal buon uso di essa, che è frutto della carità. E la più alta carità si è
manifestata nella verità crocefissa, di chi si immolò per tutti noi.
Chi vuol sapere dunque sappia Cristo e Cristo crocifisso. Altrimenti, anche se crede di
sapere, non sa nulla.

33 Il grande affresco è il primo che si vede dirimpetto all’entrata del museo. La figura di Cristo troneggia su un’alta
croce, in uno sfondo arido e deserto, composto da un semplice terreno e un cielo genericamente azzurro. Il Cristo è
dipinto con un forte chiaroscuro che ne accentua la massa plastica, in conformità allo stile di Masaccio del quale
l’Angelico fu uno dei primi continuatori. S. Domenico abbraccia la croce inginocchiato ai suoi piedi, e allo stesso
modo dovevano fare, imitando il loro fondatore, i frati del convento, anche quando meditavano e studiavano.
L’indicazione è chiara: come l’affresco è scevro da dettagli decorativi superflui, così anche per lo studio l’essenziale
sta nell’abbraccio doloroso con la croce di Cristo.

21
Fr. Luciano Santarelli OP

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