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MODULO 2

LA SCUOLA COME AMBIENTE DI APPRENDIMENTO: ANALISI DEI BISOGNI


EDUCATIVI E FORMATIVI

La Scuola esiste perché esiste un bisogno formativo ed un ambiente di apprendimento dove


questo viene soddisfatto. Creare e costruire ambienti di apprendimento efficaci significa
rispondere non solo ai bisogni degli alunni, ma di tutta la “comunità educante”, ed il territorio
dove è presente la scuola.

1. I Fabbisogni informativi, analisi e strategie di rilevamento: Il bisogno educativo e formativo:


Che cos’è un bisogno educativo e formativo
Il concetto di bisogno di educazione o di istruzione può essere concettualizzato come la
distanza esistente tra una situazione educativa desiderata e la situazione quale essa è nella
realtà. Ben più specificatamente, l’analisi dei bisogni rientra nel ben più vasto quadro della
determinazione degli obiettivi educativi. Questi ultimi appartengono al quadro educativo
“desiderato”, al termine del processo formativo.

Il primo passo verso la soluzione di un problema consiste nel giungere alla conclusione che
esso esiste. La strada che aiuta a prendere coscienza dell’esistenza di un problema di
natura educativa prende il nome di valutazione (o analisi) dei bisogni educativi
(Kaufman,1972).
Nel 1972 il teorico J.Bradshaw ha identificato nel campo educativo quattro tipi differenti di
bisogno:

1. bisogno come scostamento verso il basso rispetto a una norma, dove un soggetto si sente ancor più
al di sotto degli standard minimi richiesti e definiti come normali;
2. bisogno come sentimento presente nell’ animo di una persona, evidenziato se gli si chiede di che cosa
sente il bisogno stesso;
3. bisogno espresso o domanda, che si basa sull’ assunto che se uno sente un desiderio, facilmente lo
manifesterà al prossimo,seppur in forma indiretta;
4. bisogno che nasce dal confronto con altre persone e altre istituzioni simili, ma che possiedono
qualcosa in più.

A questi quattro bisogni, altri due importanti teorici come Burton e Merrill (1977), ne
aggiungono un quinto, ossia:

⇒ il bisogno come anticipazione di future necessità, nel senso che l’educazione non può tener
conto solo della realtà sociale e culturale quale oggi si presenta in un luogo particolare.
Un tratto comune esistente in tutti questi tipi di bisogno, riguarda il fatto che esso è presente
quando si manifesta una qualche discrepanza tra come le cose dovrebbero essere, e come
esse lo sono di fatto.

Il bisogno nasce quindi da un certo squilibrio educativo e dalla sua valutazione.


La valutazione di un bisogno educativo e formativo
La valutazione di un bisogno educativo e formativo è un procedimento che va messo in atto
per determinare il dover essere (obiettivo educativo) e per misurare la distanza esistente tra
il dover essere e la situazione attuale (bisogno).
La determinazione dei bisogni educativi va fatta tenendo conto del contesto più generale e non solo
del singolo o del gruppo. Inoltre in essa andranno coinvolti non solo gli insegnanti, ma anche
quanti operano e partecipano all’intera realtà educativa locale, come studenti e genitori.

⇒ È un processo che porta alla determinazione degli obiettivi, alla misurazione dei bisogni,
alla decisione dell’ordine di precedenza degli interventi.

A questo proposito, Klein ha sviluppato un modello procedurale per la valutazione dei


bisogni consistente in quattro fasi:

1. Identificazione di un largo spettro di possibili obiettivi;


2. Strutturazione degli obiettivi secondo un ordine di importanza;
3. Identificazione delle discrepanze esistenti tra gli obiettivi ordinati secondo importanza e
l’attuale situazione degli allievi;
4. Determinazione dell’ordine di precedenza nell’ attuazione degli interventi educativi.

Un tratto comune esistente in tutti questi tipi di bisogno, riguarda il fatto che esso è presente
quando si manifesta una qualche discrepanza tra come le cose dovrebbero essere, e come
esse lo sono di fatto.
⇒ Il bisogno nasce quindi da uno squilibrio.

Bisogni educativi e formativi delle istituzioni scolastiche pubbliche


1. Integrazione e inclusione in applicazione della C.M. n. 8 del 6/3/2013;
2. sviluppo dell’azione educativa in coerenza con i principi dell’ inclusività;
3. integrazione degli alunni di culture altre (Vedi ⇒ modulo Antropologia culturale ed integrazione
studenti stranieri)
4. diversità: un valore aggiunto e irrinunciabile;
5. didattica metacognitiva, interattiva e digitale;
6. qualificazione dell’offerta formativa attraverso la certificazione delle competenze in
uscita per le classi quinte
I bisogni educativi e formativi e POF ed aree prioritarie di intervento funzionali alla
realizzazione del Piano dell’Offerta Formativa
I bisogni formativi ed educativi nel POF – aree e Collegio Docenti
Il Piano dell’Offerta Formativa tiene conto dei contenuti delle “Indicazioni nazionali” e delle
indicazioni che provengono dai bisogni espressi sul territorio.
Sulla base dell’analisi del territorio e sulla scorta delle riflessioni e osservazioni dei docenti, si sono
posti in evidenza tre bisogni fondamentali che gli studenti manifestano all’interno dell’istituzione
scolastica:
• stare bene con sé;
• stare bene con gli altri;
• sentirsi parte del proprio ambiente.
Per rispondere a questi bisogni ⇒ in sede di Collegio dei Docenti si individuano cinque aree
prioritarie di intervento funzionali alla realizzazione del Piano dell’Offerta Formativa per ampliare e
potenziare le attività curricolari:
1. area dell’accoglienza, dei linguaggi, dell’educazione interculturale e dell’insegnamento
dell’italiano come lingua seconda;
2. area dell’educazione ambientale, alla salute e allo sviluppo sostenibile;
3. area della continuità orizzontale e verticale;
4. area delle disabilità, della prevenzione e del disagio;
5. area delle tecnologie per la mediazione didattica.
La scuola nell’ offerta formativa, pone a fondamento di ogni sua azione il rispetto della
Costituzione e della normativa vigente in materia di formazione e istruzione. Aderisce e osserva,
inoltre, i principi della Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo (ONU, 1989 e Parlamento
Europeo, 1992).
Per queste ragioni la scuola, nel porre al centro dell’azione educativa lo studente, promuove:

• l’accoglienza e l’integrazione di bambini e famiglie;


• l’uguaglianza e il rispetto;
• la valorizzazione delle potenzialità individuali;
• la realizzazione della persona sul piano individuale e sociale

⇒ La scuola rifiuta ogni possibile forma di discriminazione determinata da differenze etniche,


sessuali, sociali, politiche, religiose.

Per questo la scuola, nella sua articolazione sul territorio, offre la possibilità di scelta tra diverse
opzioni organizzative e rispetta sia la libertà di insegnamento del personale docente, sia le scelte
individuali delle famiglie relative all’ insegnamento o meno della religione cattolica.

Ralph Tyler ed il principio dell’assestment e la progettazione didattica


Ralph W. Tyler e la progettazione didattica
Ralph W. Tyler è stato un esperto delle politiche educative americane, offrendo un significativo
contributo nel campo della valutazione dei sistemi educativi istituzionali.
Ha avuto il merito di aver coniato il termine “valutazione” associando il concetto di misura e test con
quello di obiettivo formativo mediante una raccolta sistematica degli apprendimenti non soltanto con
test ‘carta e matita’, ma anche ulteriori strumenti assimilabili al portfolio.

Tyler ha offerto un contributo fondamentale nella questione della progettazione educativa-didattica,


confermandone ancora una volta l’importanza nell’elaborazione di percorsi formativi e nella
costruzione del curricolo scolastico.

Nel libro del 1949 Basic Principles of Curriculum and Instruction Tyler individua 4 principi, ritenuti
i fondamenti di ogni azione di progettazione per sviluppare qualsiasi curricolo o piano educativo:

1. Quali FINALITÀ EDUCATIVE la scuola dovrebbe cercare di raggiungere? (definire


appropriati obiettivi educativi)
2. Come possono selezionarsi ESPERIENZE EDUCATIVE che siano utili per raggiungere tali
obiettivi tra quelle disponibili? (introdurre utili esperienze educative)
3. Come possono essere in concreto ORGANIZZATE queste esperienze per un’istruzione
efficace? (organizzare le esperienze educative per massimizzarne gli effetti)
4. In che modo è possibile VERIFICARE che queste FINALITÀ sono state RAGGIUNTE?
(valutare il processo e ridefinire le aree che non sono risultate efficaci)
Queste quattro domande, con relative risposte costituiscono il quadro di riferimento razionale utile a
esaminare i problemi del curricolo e dell’istruzione.

Questo è quindi in generale un primo modo di concepire il lavoro di PROGETTAZIONE


DIDATTICA.
Taylor analizza la :

1. Definizione di obiettivi di apprendimento appropriati;


2. Presentazione di esperienze di apprendimento utili;
3. Organizzazione di esperienze per massimizzare il loro effetto;
4. Valutazione del processo di revisione del progetto formativo ed individuazione delle aree
poco efficaci.

In esso, Tyler descrive l’apprendimento attraverso l’azione dello studente, inteso come “quello che
fa chi impara, non ciò che l’insegnante fa”.
Nello sviluppo di un curriculum usando il metodo Tyler, le ipotesi sono stabilite in relazione diretta
con gli apprendimenti attesi dagli studenti. Dal momento in cui il curriculum è realizzato in classe,
l’insegnante diviene osservatore, determinando se le sue ipotesi curricolari sono o meno confermate
dal comportamento degli studenti. Ciò consente di tornare ai piani di partenza per realizzare gli
aggiustamenti necessari al fine di assicurare risultati appropriati nella classe.
Egli è stato l’ideatore del programma nazionale “Otto anni di studio” (1933-1941), che ha coinvolto
30 scuole secondarie e 300 enti tra college ed università, soggetti alla ristrettezza e rigidità nei
programmi delle scuole superiori.

Brousseau, D’Amore e Bachelard e l’ostacolo didattico


Per ostacolo all’apprendimento si intende una difficoltà di natura ontogenetica (che ha origine
nell’allievo), didattica (che ha origine nelle scelte metodologiche dell’insegnante), epistemologica
(che deriva da elementi interni alla disciplina).1 Gli ostacoli epistemologici dipendono dallo statuto
epistemologico stesso di un concetto o oggetto culturale. Ci sono cioè dei concetti la cui forza
innovativa ha determinato una difficoltà di accettazione da parte della stessa comunità scientifica.

È importante che un insegnante conosca gli ostacoli epistemologici relativi a un ambito disciplinare,
in quanto le difficoltà che scienziati e studiosi hanno incontrato nell’approccio a certi concetti sono
spesso le stesse che incontrano gli studenti nella comprensione di quegli stessi concetti.

E’ un’ostacolo che lo studente incontra nel processo di apprendimento e costruzione della


conoscenza.

Altri autori parlano di ostacoli genetici, ontogenetici e epigenetici, inserendo gli ostacoli
epistemologici e didattici fra quelli epigenetici come fà invece Gaston Bachelard.

Per Bachelard il concetto di ostacolo epistemologico rappresenta una resistenza all’atto stesso del
conoscere.

Occorre infine precisare che in contesto di insegnamento-apprendimento si verificano intersezioni tra


le tre tipologie di ostacoli. 2 Una è data dalla scelta di contenuti non adatti all’età mentale dei discenti:
in questo caso l’ostacolo dipende da una limitazione interna al soggetto nei confronti di un contenuto
scelto dal docente. 3 Occorre inoltre dire che poiché non tutti apprendiamo allo stesso modo, può
accadere che le scelte didattiche di un docente si rivelino di ostacolo per alcuni soggetti ma non per
altri.

La conoscenza, per Bachelard, non consiste in una crescita lineare, bensì discontinua, che si realizza
grazie a momenti di rottura con una conoscenza pregressa, non scientifica, costituitasi nel corso
della vita quotidiana. Affinché si affermi la nuova conoscenza occorre decostruire la vecchia, la
quale è stata efficace per affrontare problemi precedenti, ma si rivela fallimentare per gli attuali.
Guy Brousseau, ispirandosi al pensiero di Bachelard, costruisce una teoria degli ostacoli che si
frappongono all’apprendimento della matematica.

Bruno D’Amore nel testo La didattica e le difficoltà in matematica definisce l’ostacolo come
«qualcosa che si frappone all’apprendimento trasmissivo insegnante-allievo atteso, qualunque ne sia
la natura» (p. 42), descrivono le tre tipologie di ostacolo individuabili nell’apprendimento della
matematica, ma riscontrabili nell’apprendimento della maggior parte delle discipline.
Essi sono:
1. ostacoli di natura ontogenetica
2. ostacoli di natura didattica
3. ostacoli di natura epistemologica.

Gli ostacoli di natura ontogenetica sono legati alla maturazione psichica dell’individuo, la quale
dipende per lo più dalla sua età cronologica: la costruzione di un concetto può richiedere capacità e
conoscenze che un soggetto di una data età non ha ancora sviluppato. Questa mancata maturazione
determina una limitazione, ovvero un ostacolo. Occorre dunque selezionare gli oggetti culturali da
insegnare in relazione all’età mentale degli apprendenti, considerando che nei soggetti con patologie
neuro-cognitive l’età mentale spesso non corrisponde alla cronologica.
Gli ostacoli di natura didattica riguardano le scelte di contenuto e di metodologia del docente per
l’insegnamento di un dato concetto. D’Amore adduce come esempio di ostacolo didattico la scelta di
introdurre nel programma di scuola primaria i numeri razionali in un momento in cui gli alunni stanno
ancora assimilando idee relative ai naturali. Così la scelta di esemplificare con fili di perle l’idea del
segmento come insieme di punti si rivela non di rado un ostacolo alla successiva comprensione del
concetto di densità nell’insieme dei numeri razionali e di continuità in quello dei reali (D’Amore,
2008, p. 45).
Gli ostacoli epistemologici sono la prova di quell’idea di conoscenza come frattura, come cambio
radicale di concezione difficile da accogliere. Develay, riferendosi al lavoro dello scienziato, dichiara
essere due le rotture che devono verificarsi perché una nuova visione del mondo si sostituisca alla
vecchia: una rottura interiore, verso le proprie conoscenze, una esteriore in relazione alle idee che
oppongono lo scienziato ad altri scienziati che non condividono il suo punto di vista (1995).

Erich Fromm: Essere o Avere e l’asimmetria nella relazione educativa, il potere


L’asimmetria della relazione educativa non è soltanto sostanziale, essa è anche formale, perché
determinata da ruoli sociali diversi.
Per Fromm l’uomo instaura relazioni positive con il mondo attraverso:
 l’assimilazione (acquisizione dell’ambiente);
 la socializzazione (tensione verso l’altro).
La socializzazione può essere tuttavia turbata dalla comparsa di almeno uno di quattro ben precisi
atteggiamenti che Fromm identifica nel masochismo, nel sadismo, nella distruttività e nel
conformismo. Questi stessi fattori possono inficiare e disturbare la relazione educativa.

Il potere può produrre attaccamento al potere stesso (Erich Fromm) e rendere la relazione
educativa una relazione di assoggettamento, dove il docente assoggetta lo studente, incute lui ansia e
paura. Il docente ha sempre potere su di un discente. C’è una relazione asimmetrica. Al contrario,
Fromm insiste sul concetto di relazione di cura, il quale si inserisce in un quadro educativo
complesso e poliedrico, all’interno del quale il ruolo del docente subisce un decentramento, ma
anche diviene un momento del dare, donare, e quindi dell’essere.

Erich Fromm scrive che “l’educazione debba portare inevitabilmente alla soppressione della
spontaneità, dato che il vero fine dell’educazione, è di promuovere l’indipendenza interiore e
l’individualità del bambino, il suo sviluppo e la sua integrità. … Nella nostra civiltà, tuttavia,
l’educazione troppo spesso produce l’eliminazione della spontaneità” — Erich Fromm. Nel caso di
una relazione educativa non sana (che Fromm identifica nel masochismo, nel sadismo, nella
distruttività e nel conformismo) il focus diventa il potere dell’insegnante sul docente, una
dimensione dell’avere avere potere sull’essere. Il docente vuole solo affermare il proprio potere,
non vuole invece aindividuare i bisogni formativi degli apprendenti e le strategie attraverso cui
soddisfarli.
La relazione educativa è una relazione asimmetrica orientata ad uno scopo, l’apprendimento,
verso il quale l’educatore conduce l’apprendente. La sfera più importante del dare, tuttavia, non è
quella delle cose materiali, ma sta nel regno umano. Che cosa dà una persona a un’altra? Nel caso di
una relazione educativa sana il focus è l’apprendimento dell’alunno, di conseguenza l’alunno
stesso, verso il quale il docente si pone in ascolto.

Fromm nel suo libro più famoso Essere o Avere, dice che possiede di più chi dà e non chi possiede,
ciò non significa dare necessariamente la propria vita per l’altro, ma che le dà ciò che di più vivo ha
in sé; le dà la propria gioia, il proprio interesse, il proprio umorismo, la propria tristezza, tutte le
espressioni e manifestazioni di ciò che ha di più vitale. In questo dono di se stessa, essa arricchisce
l’altra persona, sublima il senso di vivere dell’altro sublimando il proprio.
Insegnare significa allora donare. Non dà per ricevere; dare è in se stesso una gioia squisita.

Ma nel dare non può evitare di portare qualche cosa alla vita dell’altra persona, e colui che riceve si
riflette in essa; nel dare con generosità, non può evitare di ricevere ciò che le viene dato di ritorno.
Dare significa fare anche dell’altra persona un essere che dà, ed entrambi dividono la gioia di sentirsi
vivi.

Nell’atto di dare qualcosa nasce un senso di mutua gratitudine per la vita che è nata in loro e unisce
entrambe. Ciò significa che l’amore è una forza che produce amore. Insegnare significa amare.

C’è una differenza di responsabilità, perché l’insegnante ha il compito di trovare la strada


giusta per facilitare l’apprendimento, in quanto dotato di conoscenze, di competenze e di metodologie
educative di cui l’apprendente è, in buona parte, ignaro.
L’insegnante è, in pratica, il guardiano ma anche colui che guida, la guida, guidare, tirare fuori,
condure, è colui che conduce la classe, ma non come un capo autoritario ma come una guida.
Il rapporto con il mondo diviene produttivo mediante il giusto ed equilibrato connubio
fra ragione e amore.

Il docente ha il potere istituzionale di guidare gli alunni, potere che gli viene riconosciuto socialmente,
mentre gli alunni hanno il dovere, anch’esso riconosciuto socialmente, di farsi guidare.

Ciò può alterare in maniera negativa l’essenza della relazione educativa. Non si insegna per mostrare
le proprie competenze (ruolo centralizzato del docente), ma per accompagnare gli apprendenti nello
sviluppo delle loro competenze (ruolo decentrato del docente).
Per Erich Fromm, inoltre educare alla creatività equivale educare alla vita, tutte le affermazioni nate
nello sforzo di individuare il concetto di creatività, la più feconda e al tempo stesso la più adatta a
testimoniare in modo palmare le difficoltà imposte da una puntuale ricerca volta alla generalizzazione
e che finisce di fatto per dissolverne il termine.

Una relazione educativa sana è una relazione all’interno della quale il potere è
lo strumento per guidare verso l’apprendimento, che è il fine della strategia educativa non un
affermazione dell’avere conoscenza del docente che deve trasmetterle ad uno studente senza.
In una relazione educativa malata, l’apprendimento diventa lo
strumento per legittimare l’esercizio del potere, che diventa il fine dell’azione educativa.
Individuare il fine di un’azione vuol dire prenderne in considerazione il focus, cioè ciò verso cui è
diretta l’attenzione.
Posizioni del genere conducono spesso a relazioni conflittuali con il gruppo classe. Gli insegnanti che
si trovano a dover fronteggiare situazioni del genere difficilmente cercano in se stessi la causa del
fallimento che si perpetua davanti ai loro occhi e, spesso, si ritrovano intrappolati all’interno di schemi
conflittuali rigidi, che durano l’intero anno scolastico. A questo proposito è bene chiarire un aspetto
importante delle relazioni interpersonali, all’interno delle quali facciamo rientrare, in questo caso,
anche la relazione educativa.

Ogni relazione interpersonale si sviluppa seguendo due step fondamentali: all’inizio della
conoscenza i soggetti interagenti sperimentano varie forme di relazione, successivamente, si
assestano su schemi relazionali più o meno rigidi. Questo avviene anche nella relazione educativa:
dopo una prima familiarizzazione, che può durare diversi mesi, l’insegnante ed il gruppo classe
stabiliscono una dinamica relazionale più o meno rigida. Se ciò può essere un vantaggio nei casi in
cui la relazione instaurata è positiva, può rappresentare, al contrario, un problema quando il pattern è
negativo. Sentono che le richieste dell’insegnante non provengono dal suo intento di instradarli verso
la giusta direzione, ma dal bisogno di mantenere la situazione sotto controllo. Si accorgono che la
relazione instaurata non è una relazione di cura, come, invece, dovrebbe essere.
Avvertono di non essere il fine della relazione educativa, ma lo strumento per consentire
all’insegnante di esercitare il proprio potere.
Fromm distingue tra “istinti” e “pulsioni”: i primi bisogni primari legati al mondo animale e creano
comportamenti rigidi e fissati organicamente (come sessualità, fame, sete, etc.), i secondi frutto
dell’evoluzione dell’uomo e riguardano principalmente la sfera del desiderio e dei bisogni secondari
di tipo psichico e spirituale nonché la naturale tendenza ad aggregarsi per dare vita a delle comunità.
Fromm identifica i seguenti otto bisogni psicologici basilari:

 relazione;
 trascendenza;
 radicamento;
 identità;
 orientamento;
 stimolo;
 unità;
 realizzazione.
Per Fromm, il processo di formazione ha due principali dimensioni:
 quella sociale;
 quella individuale.

L’insegnante entra in classe e cerca di mantenere la calma, alla prima provocazione inizia a urlare,
urlare, alzare la voce, arrabbiarsi, mostrando le proprie emozioni negative, il docente falsa la
relazione, in seguito ai suoi atteggiamenti negativi gli alunni si agitano ulteriormente.
Studenti e docente iniziano un crescendo di provocazioni reciproche all’interno delle quali
nessuno retrocede, si perde il clima classe.
Entrare in dinamiche relazionali personali e soggettive con gli studenti è molto rischioso, sembra più
semplice concentrarsi sui contenuti del programma da presentare che sugli apprendenti, sulle regole
comportamentali da rispettare piuttosto che sui bisogni formativi e così si innescano relazioni
educative conflittuali.

In contesti del genere gli alunni avvertono istintivamente il disinteresse degli insegnanti nei loro
riguardi e reagiscono, manifestando altrettanto disinteresse ai suoi bisogni (bisogno di silenzio,
bisogno che le regole vengano rispettate).

Nella capacità di apprendimento, in quella di ricordare, nella conversazione, nella lettura, nella fede
e nell’amore, insomma in tutti gli aspetti della quotidianità, ci troviamo a dover scegliere quale
sistema esistenziale utilizzare e la scelta spesso viene fatta in maniera inconsapevole. Fromm,
scavando a fondo nel profondo dell’essenza umana prende in esame sia il pensiero buddhista che i
testi ebraici, spaziando da Marx a Freud e passando per Spinoza e Meister Eckhart.
La dicotomia essere/avere viene esposta con gli esempi (dai filosofi ai potesi, da composizioni
Matsuo Bashō a Tennyson). Secondo Erich Fromm ci sono due categorie attraverso le quali vengono
distinti gli individui: coloro che vivono secondo la modalità dell’avere e coloro che seguono invece
un sistema di vita incentrato sull’essere. Il sociologo e psicoanalista tedesco individua subito una
differenza sostanziale tra queste due modalità di esistenza. La modalità esistenziale dell’avere è tipica
di coloro che hanno un rapporto col mondo di possesso e proprietà e aspirano ad impadronirsi di ogni
cosa e di ogni persona, compreso se stessi. Nella modalità esistenziale dell’essere invece abbiamo
una prima forma che si contrappone all’avere identificandosi con la vitalità e l’autentico rapporto col
mondo.
L’altra differenza si riferisce alla vera natura dell’uomo e all’effettiva realtà di una persona.

Gli insegnanti, investiti di potere in maniera impropria, concentrati su se stessi, chiedono silenzio,
senza però verificare se dietro quel silenzio ci sia attenzione, un interesse reale verso l’attività
didattica e comprensione. La distinzione di Fromm sulle due differenti modalità esistenziali di Avere
o Essere? si fa più netta quando il sociologo individua nel consumismo la principale forma dell’avere,
introducendo una formula inquietante: “io sono = ciò che ho e ciò che consumo”.
La teoria della dipendenza e dell’influenza sociale di A. M Deutsch e H. B. Gerard
A. M Deutsch e H. B. Gerard studiando il fenomeno del conformismo, formularono la teoria della
doppia dipendenza.

L’influenza sociale è la pressione che il gruppo esercita sui singoli alterandone percezioni, opinioni,
atteggiamenti e comportamenti.

Deutsch e Gerard distinguono:


1. influenza informativa (la formazione del comportamento e delle convinzioni individuali che
può venire per manipolazione o per assorbimento)
2. influenza normativa (comportarsi in modo conforme alle norme sociali. LA conformità a tali
norme gli garantisce l’accettazione all’interno del gruppo. Si possono seguire delle norme pur
non essendo in accordo con esse)

1. La prima scaturisce da un personale senso di incertezza che spinge l’individuo a ottenere più
informazioni possibili sul contesto in cui si trova per avere un’interpretazione accurata e precisa della
realtà. Parliamo di influenza sociale informativa, infatti quando un individuo, trovandosi in
situazioni ambigue, confuse, incerte, assume il comportamento degli altri come fonte di
informazioni e si adegua a tale comportamento.
2. Parliamo invece di influenza sociale normativa quando sono gli individui a conformare le proprie
opinioni e i propri comportamenti al modo di agire e di pensare delle persone che stanno loro intorno
al fine di venire accettati e apprezzati dagli altri.
L’influenza informazionale agisce in maniera più profonda rispetto allinfluenza normativa. Perchè
una cosa è adeguarsio alle norme un’altra è riconoscerle e ritrovarcisi.

INF. Secondo la teoria della dipendenza di A. M. Deutsch e H. B. Gerard i membri di un gruppo sono
cognitivamente e socialmente dipendenti ciascuno dagli altri e dalle norme che il gruppo difende.
Avviene inconsapevolmente ma comporta una conformità al pensiero altrui persistente nel tempo.

NORM. L’influenza normativa, invece, ha come obiettivo l’approvazione sociale degli altri e
scaturisce dalla compiacenza, ovvero un accordo pubblico con la fonte o con il gruppo ma che non
corrisponde ad un’accettazione privata del parere altrui.

Il conformismo, quindi, in questo secondo caso, è solamente pubblico e non persiste nel tempo.

I bisogni educativi ed i suoi teorici Bradshaw, Burton e Merrill, Klein


Il concetto di bisogno di educazione o di istruzione può essere concettualizzato come la distanza
esistente tra una situazione educativa desiderata e la situazione quale essa è nella realtà. Ben più
specificatamente, l’analisi dei bisogni rientra nel ben più vasto quadro della determinazione degli
obiettivi educativi. Quest’ultimi appartengono al quadro educativo “desiderato”, al termine del
processo formativo. Il primo passo verso la soluzione di un problema consiste nel giungere alla
conclusione che esso esiste.
La strada che aiuta a prendere coscienza dell’esistenza di un problema di natura educativa prende il
nome di valutazione (o analisi) dei bisogni educativi (Kaufman,1972).
La determinazione dei bisogni educativi va fatta tenendo conto del contesto più generale e non solo
del singolo o del gruppo. Inoltre in essa andranno coinvolti non solo gli insegnanti, ma anche quanti
operano e partecipano all’intera realtà educativa locale, come studenti e genitori.

Nel 1972 il teorico J.Bradshaw ha identificato nel campo educativo quattro tipi differenti di bisogno:

 1-bisogno come scostamento verso il basso rispetto a una norma, dove un soggetto si sente
ancor più al di sotto degli standard minimi richiesti e definiti come normali;
 2-bisogno come sentimento presente nell’animo di una persona, evidenziato se gli si chiede
di che cosa sente il bisogno stesso;
 3-bisogno espresso o domanda, che si basa sull’assunto che se uno sente un desiderio,
facilmente lo manifesterà al prossimo,seppur in forma indiretta;
 4-bisogno che nasce dal confronto con altre persone e altre istituzioni simili, ma che
possiedono qualcosa in più.

A questi quattro bisogni, altri due importanti teorici come Burton e Merrill (1977), ne aggiungono
un quinto, ossia il bisogno come anticipazione di future necessità, nel senso che l’educazione non
può tener conto solo della realtà sociale e culturale quale oggi si presenta in un luogo particolare.
Un tratto comune esistente in tutti questi tipi di bisogno, riguarda il fatto che esso è presente quando
si manifesta una qualche discrepanza tra come le cose dovrebbero essere, e come esse lo sono di fatto.

Il bisogno nasce quindi da un certo squilibrio.

La valutazione di un bisogno è quindi un procedimento che va messo in atto per determinare il dover
essere (obiettivo educativo) e per misurare la distanza esistente tra il dover essere e la situazione
attuale (bisogno). E’ cioè in sintesi un processo che porta alla determinazione degli obiettivi, alla
misurazione dei bisogni, alla decisione dell’ordine di precedenza degli interventi.

A questo proposito, Klein ha sviluppato un modello procedurale per la valutazione dei bisogni
consistente in quattro fasi:

1)-Identificazione di un largo spettro di possibili obiettivi;


2)-Strutturazione degli obiettivi secondo un ordine di importanza;
3)-Identificazione delle discrepanze esistenti tra gli obiettivi ordinati secondo importanza e l’attuale
situazione degli allievi;
4)-Determinazione dell’ordine di precedenza nell’attuazione degli interventi educativi.

L’ANALISI DEI BISOGNI FORMATIVI ED EDUCATIVI


L’Analisi dei bisogni formativi
L’analisi dei bisogni di formazione è un’indagine educativa, consistente nel raccogliere, analizzare
e interpretare particolari informazioni (rispetto a un problema) che riflettono la presenza di carenze e
di attese (tacite ed esplicite) dei titolari del bisogno e dell’ambiente fenomenico, problematizzando
tali informazioni nel quadro delle condizioni di contesto, in vista di determinare risultati e ricadute
cui tutti gli attori sociali annettono valore.
Ci sono due tipi di analisi:

analisi strutturale sono raccolti dati utili ad una descrizione della realtà organizzativa (strategie,
obiettivi, funzionamenti, processi, vincoli)

analisi individuale le aree di analisi solitamente individuate sono: attività svolte, relazioni
interpersonali, eventi critici che si presentano con una certa frequenza, attese e bisogni.

La gestione della formazione è l’elaborazione di un processo di apprendimento “guidato” per


intervenire sul modo di lavorare e di essere di un individuo o di gruppi, attraverso scelte di
metodologie di apprendimento. Per queste ragioni si parla di “processo formativo”.

Il processo formativo può essere suddiviso in 5 fasi:

1. Analisi dei fabbisogni formativi;


2. Progettazione del piano formativo, in relazione alle specificità del contesto, definendo le
finalità e gli obiettivi, le possibili opzioni all’interno di diversi percorsi formativi in relazione
alla disponibilità di risorse;
3. Pianificazione degli interventi formativi (definizione dei contenuti specifici
dell’apprendimento, scelta dei docenti e delle metodologie e degli strumenti didattici,
considerando i fattori logistici ed organizzativi);
4. Attuazione degli interventi formativi (attuazione di quanto progettato, tutoraggio, eventuale
“ritaratura” del percorso formativo);
5. Valutazione dei risultati ottenuti rispetto agli obiettivi prefissati.

Le 5 fasi del processo di analisi dei bisogni formativi


La gestione della formazione è l’elaborazione di un processo di apprendimento “guidato”, per intervenire sul
modo di apprendere e di essere di un individuo o di gruppi, attraverso scelte di metodologie di
apprendimento.

⇒ Per queste ragioni si parla di “processo formativo”.


Il processo formativo può essere suddiviso in 5 fasi:

1. Analisi dei fabbisogni formativi; (Approfondisci ⇒ l’analisi dei fabbisogni formativi)


2. Progettazione del piano formativo, in relazione alle specificità del contesto, definendo le finalità e
gli obiettivi, le possibili opzioni all’interno di diversi percorsi formativi in relazione alla disponibilità
di risorse;
3. Pianificazione degli interventi formativi (definizione dei contenuti specifici dell’apprendimento,
scelta dei docenti e delle metodologie e degli strumenti didattici, considerando i fattori logistici ed
organizzativi);
4. Attuazione degli interventi formativi (attuazione di quanto progettato, tutoraggio, eventuale
“ritaratura” del percorso formativo);
5. Valutazione dei risultati ottenuti rispetto agli obiettivi prefissati.
L’analisi dei fabbisogni formativi
Nella progettazione formativa, l’analisi dei fabbisogni è quasi universalmente riconosciuta come
momento fondamentale per la realizzazione di interventi efficaci.
⇒La definizione di fabbisogno formativo è prevalentemente legata al superamento del gap esistente
tra le competenze che occorre possedere per svolgere una determinata attività e quelle possedute dal
soggetto in un dato momento.
I fabbisogni formativi vengono, inoltre, definiti come la necessità, più o meno esplicita, di adeguare
le competenze delle persone alle caratteristiche della struttura organizzativa e alle modalità di
lavoro aziendali, in funzione delle esigenze di produzione e del mercato o di determinati scenari
socio-economici previsionali. L’analisi dei bisogni di formazione può diventare quindi l’inizio di un
processo di formazione che coinvolga direttamente le organizzazioni e tutti gli individui che le
compongono nella ricerca di un miglioramento della propria capacità di agire. La difficoltà
principale sta proprio nell’armonizzare le due dimensioni (organizzativa e individuale).
È per questo motivo che è possibile distinguere due livelli di analisi per la definizione del
fabbisogno formativo:
 analisi strutturale: sono raccolti dati utili ad una descrizione della realtà organizzativa
(strategie, obiettivi, funzionamenti, processi, vincoli) con una particolare attenzione alle
risorse umane, sia nelle loro caratteristiche oggettive (età, titolo di studio, iter professionale,
anzianità nell’ organizzazione e nella funzione) che in quelle legate al cosiddetto
“comportamento organizzativo” (assenteismo, dimissioni, turnover) e sulla formazione già
effettuata.
 analisi individuale: le aree di analisi solitamente individuate sono: attività svolte, relazioni
interpersonali, eventi critici che si presentano con una certa frequenza, attese e bisogni.
NB
I fabbisogni formativi non sono sempre evidenti e immediatamente acquisibili. È necessario quindi
rilevarli attraverso forme di indagine diretta e indiretta.

Nella redazione di un percorso formativo è inoltre necessario che vengano indicati:

 I soggetti che esprimono il fabbisogno formativo: lavoratori singoli o gruppi di lavoratori


o strutture organizzative/imprese;
 Le modalità di rilevazione del fabbisogno formativo: interviste, rilevazione attraverso
matrici e/o schede di analisi e/o focus group.
In particolare le modalità di rilevazione possono essere:

 Strutturate e strumentate: relativi a processi di analisi e di ricerca realizzati ad hoc;


 Non strutturare e informali: sollecitazione da parte di esperti, stakeholders, ecc.
È infine importante analizzare e tenere in considerazione i ruoli aziendali nei loro vari aspetti:
 I compiti da svolgere che si esplicitano come attività e decisioni;
 Le responsabilità assegnate relative ai risultati ed ai comportamenti attesi;
 Le relazioni da gestire che si estrinsecano in rapporti e relazioni con altri;
 Le competenze richieste per ricoprire efficacemente il ruolo;
 Le conoscenze, cioè i saperi di riferimento dell’attività professionale;
 Le capacità cioè i processi cognitivi e attuativi da esercitare nell’attività professionale.
Dal BISOGNO FORMATIVO all’AMBIENTE DI APPRENDIMENTO
Una volta individuato il BISOGNO bisogna predisporre al meglio l’Ambiente dove tale
bisogno viene soddisfatto.

Questo luogo è la scuola, e più nello specifico l’aula. Ambiguità della parola “classe” / “Classe
di alunni o alunni andate in classe?” – la parola “classe” usata come metonimia. In termini scolastici
il luogo dove avviene l’apprendimento si chiama AMBIENTE DI APPRENDIMENTO o AULA (in
inglese Virtual Learning Environment) , con le nuove tecnologie questo luogo può essere anche
virtuale (ad esempio si parla di Aula virtuale).
Il luogo fisico o virtuale dove avviene la formazione e la didattica si chiama ⇒ Vedi
glossario “Ambiente di Apprendimento” (1), mentre se si esce dalla classe il nuovo ambiente di
apprendimento è detto anche classe scomposta, flip teaching o casse capovolta.
Sono le stesse Indicazioni nazionali per il curricolo a sottolineare l’esigenza di un ambiente
di apprendimento che sappia ospitare e promuovere attività centrate sullo studente.

(1) Ambiente di apprendimento: contesto di attività strutturate, intenzionalmente predisposto


dall’insegnante, in cui si organizza l’insegnamento affinché il processo di apprendimento che si
intende promuovere avvenga secondo le modalità attese: ambiente, perciò, come “spazio
d’azione” creato per stimolare e sostenere la costruzione di conoscenze, abilità, motivazioni,
atteggiamenti. In tale “spazio d’azione” si verificano interazioni e scambi tra allievi, oggetti del
sapere e insegnanti, sulla base di scopi e interessi comuni, e gli allievi hanno modo di fare
esperienze significative sul piano cognitivo, affettivo/emotivo, interpersonale/sociale.
Classe/Scuola Scomposta – L’ambiente didattico è un fattore essenziale per
l’apprendimento. (2)
Classe/Scuola scomposta – Una scuola scomposta si struttura con laboratori per competenze, in una
scuola-casa pensata appositamente per il benessere degli studenti e per dare forma a un luogo
accogliente per una didattica innovativa in cui al centro ci sono i ragazzi protagonisti del loro
apprendimento. Come detto è fondamentale scomporre l’aula per permettere agli studenti di
raggiungere gli obiettivi prefissati. Essere cittadini digitali implica vivere e sapersi muovere in nuovi
spazi, con oggetti sconosciuti sino a pochi anni fa, ma che ormai sono parte integrante del mondo
odierno e che perciò la scuola non può in alcun modo ignorare. Offrire libertà, anche di movimento,
nell’aggregazione spontanea e nella scelta delle proprie modalità di apprendimento rende i ragazzi
molto più responsabili: con la classe scomposta gli studenti crescono nell’autostima, nella disciplina
e la capacità di interagire socialmente rispettando le regole.
Una scuola (o classe) scomposta è pensata specificamente per essere un luogo accogliente, dove si
possa adottare un tipo di didattica innovativa al cui centro ci sono i ragazzi, protagonisti del proprio
apprendimento.

È dunque una sorta di scuola-casa, pensata espressamente per il benessere degli studenti, che lavorano
non sempre nella stessa aula, bensì in diversi laboratori, progettati per competenze. In questo modo,
si “scompone” appunto il luogo scolastico, sia dal punto di vista fisico che concettuale. Esso viene
infatti suddiviso in tanti piccoli luoghi che portano in sé diverse competenze, utili per creare il puzzle
finale che dovrebbe caratterizzare ogni studente.

In una classe scomposta tipica, gli spazi comunemente intesi sono completamente destrutturati: ad
esempio, si troveranno banchi spostati lungo le pareti, uno accanto all’altro, per i ragazzi che hanno
bisogno di studiare a scuola.

Ci saranno poi alcuni luoghi fuori dall’aula, adibiti a spazi comuni, dove soggiornare, discutere di
libri, comunicare, dibattere, riflettere insieme agli altri in momenti collettivi. Se poi gli studenti
volessero leggere libri (cartacei e non), o rilassarsi, o ancora scrivere i propri pensieri su un diario, ci
sarebbe per loro l’ambiente salottino. Una scuola scomposta prevede inoltre postazioni utili per
guardare i film in modo collaborativo (cineforum), e altre adibite alle webconference. Questi e tanti
altri sono quindi gli spazi e gli strumenti di cui i discenti possono fruire liberamente in una classe
scomposta, all’interno di un ambiente che li metta a loro agio e senza barriere architettoniche. È pur
vero che la libertà di azione dei discenti potrebbe creare un po’ di difficoltà agli insegnanti.

Infatti, il fatto che essi siano liberi di alzarsi, sedersi sui banchi, aggregarsi in maniera autonoma,
uscire dall’aula per andare in altre classi, ascoltare musica o guardare video senza dover chiedere un
esplicito permesso ai docenti, rappresenta una sfida dal punto di vista logistico e organizzativo.

Ci vorrà dunque uno sforzo, da parte degli insegnanti, per integrarsi nel gruppo degli alunni, in modo
da diventare “uno di loro” grazie ad una assidua partecipazione ai lavori di gruppo.
In tal modo, l’insegnante non si troverà a chiedere ai ragazzi – quando servirà per le lezioni frontali
– di rimettersi nell’assetto scolastico classico (banchi e cattedra di fronte): sarà quasi naturale, per
loro, far ciò per stare più comodi – nel momento in cui dovranno aprire i libri o i quaderni per prendere
appunti, guardando alla lavagna. Come si è visto, nella scuola scomposta gli studenti interagiscono
liberamente con i compagni e con gli altri insegnanti. Si cerca quindi di creare uno spazio sereno e
un’atmosfera collaborativa: il tutto, però, sempre nel rispetto delle regole.

È infatti timore comune dei docenti che questo tipo di ambiente renda difficoltosa la didattica, poiché
troppo dispersivo per alcuni tipi di alunni.Ciò potrebbe essere vero nella misura in cui, a questi ultimi,
non si dia contezza dei criteri con cui verranno valutati che, ovviamente, comprendono anche la
condotta. La classe scomposta, in effetti, adotta spazi del genere perché essi sono utili per sviluppare
tutte le competenze che l’Europa richiede da tempo alla scuola moderna, tra cui quelle di cittadinanza
e quelle relative all’uso delle nuove tecnologie.

Dal punto di vista della didattica, esse convogliano in varie UdA (unità d’apprendimento), che i
docenti progettano e comunicano agli alunni – anche affiggendo dei cartelloni negli spazi comuni.
Sarà sul loro raggiungimento che si baserà la valutazione.

Dal canto loro, anche gli alunni avranno modo di rendersi conto dei propri progressi: ciò è possibile
tramite dei moduli di auto-valutazione online che la scuola mette a disposizione degli alunni perché
questi, in maniera il più possibile obiettiva, cerchino di comprendere fino a che punto hanno fatto
progressi nel loro cammino di apprendimento. Moduli di valutazione e auto-valutazione vengono poi
messi a confronto, in modo da capire se ci siano criticità o discostamenti troppo evidenti tra il punto
di vista del discente e quello del docente: i due, in tal modo, continuano a dialogare fino alla fine del
loro percorso insieme.

Il processo di apprendimento prevede:

• ricercare e selezionare informazioni;

• sapersi confrontare con gli altri;

• affermare o confutare tesi;

• saper lavorare in gruppo;

• saper comunicare, esprimersi, ascoltare;

• indirizzare creatività ed emozioni;

• operativizzare;

• inquadrare e risolvere problemi;

• identificare e perseguire obiettivi e percorsi di soluzione;

La conoscenza è sempre in divenire, i ragazzi in classe devono essere in grado di comunicare con i
propri compagni, con chi si trova fuori dall’aula, con chi immaterialmente può dar loro informazioni
per costruire il proprio sapere. Devono saper ascoltare, confrontarsi, ricercare, affermare e confutare
tesi, lavorare in gruppo, saper esprimere e gestire emozioni e creatività. Il modello del Future
Classroom Lab di European Schoolnet e del TEAL (Technology Enabled Active Learning) utilizzato
in alcune aule del MIT di Boston; ne sono un esempio l’Istituto Pacioli di Crema16 o l’IIS Benincasa
di Ancona.17 Il costo di queste aule è sicuramente molto alto; esse seguono inoltre schemi didattici
che non ci appartengono del tutto, anche se la proposta di reinventare gli spazi, gli arredi, i colori e le
modalità didattiche non può che trovarci d’accordo.

Una “classe scomposta” parte da altre realtà: nessuno spazio extra aula, 32 banchi, una cattedra, una
LIM (preesistente ma per noi non necessaria), un videoproiettore, casse acustiche, una postazione per
creare e-book, ragazzi dotati di mobile device. Le nuove postazioni di lavoro normalmente utilizzate
a casa, quali i dispositivi a loro più congeniali per comunicare, reperire informazioni e lavorare; il
nostro intento è stato di ricostruire un ambiente familiare, in cui gli alunni potessero gestirsi
autonomamente e sentirsi a proprio agio, che rispecchiasse il loro modo di studiare e di apprendere.

Da queste considerazioni è nato il nostro modello di classe, che ha le seguenti caratteristiche:

• i banchi sono spostati lungo le pareti (sarebbe ancora più utile avere banchi e sedie che si chiudono
e si aprono all’occorrenza);

• sono stati creati alcuni posti fuori dall’aula in un vicino sottoscala, che è divenuto il luogo in cui gli
studenti studiano individualmente, anche con sedie più comode rispetto a quelle tradizionali;

• sono state create postazioni per poter leggere tranquillamente i libri cartacei (biblioteca della classe);

• altre postazioni servono per guardare i film in modo collaborativo;

• una postazione è stata adibita alle webconference;

• un’altra postazione è dedicata alla costruzione di e-book;

• la cattedra è stata spostata in fondo all’aula con accanto una bacheca in cui vengono pubblicate le
UDA, le griglie di valutazione definite dal CdC, gli orari dei docenti delle altre classi in modo che i
ragazzi possano tranquillamente spostarsi o interagire con altri studenti o altri insegnanti durante le
lezioni.

Sedie, banchi, quaderni, penne, mobile device, PC, LIM, videoproiettore, casse acustiche, biblioteca
di testi cartacei, postazioni per webconference… questi e tanti altri sono pertanto gli strumenti che i
ragazzi possono usare a loro piacimento per creare un ambiente liberante, senza ostacoli, che dia
serenità e consenta l’instaurarsi di un’atmosfera di collaboratività tra docente e discente, improntata
a reciproco rispetto, ma soprattutto offra ai ragazzi la possibilità di personalizzare il loro modo di
apprendere, secondo le singole e individuali necessità. Permettere ai ragazzi di alzarsi, di sedere sui
banchi, di aggregarsi in modo autonomo, di uscire dall’aula per recarsi in altre classi, di ascoltare
musica o di guardare video senza dover chiedere un esplicito permesso può creare imbarazzo e
problemi al docente, ma se il professore diventa “uno di loro” svolgendo le stesse attività,
partecipando con serenità e disponibilità al lavoro di ricerca, cadono tutte le barriere e il clima diviene
sereno, collaborativo, improntato a grande condivisione.
Riferimenti pedagogici: costruttivismo – Montessori-apprendimento collettivo e connettivo.-
Claparède – La scuola su misura-Dewey- la scuola laboratorio-Freinet

Sono le stesse Indicazioni nazionali per il curricolo a sottolineare l’esigenza di un ambiente di


apprendimento che sappia ospitare e promuovere attività centrate sullo studente.

Che cos’è l’ambiente di apprendimento


La definizione dell’OCSE di ambiente di apprendimento.:

Una prima definizione è quella data dall’ Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico). Con il complesso costrutto di “ambiente di apprendimento” si intende
un insieme di fattori che intervengono in un processo di formazione.
In base alle indagini OCSE, l’atteggiamento di docenti e studenti nei confronti
dell’apprendimento incide in misura maggiore sulla qualità di un ambiente di apprendimento
rispetto a molti altri fattori.

In tale “spazio d’azione” si verificano interazioni e scambi tra allievi, oggetti del sapere e insegnanti,
sulla base di scopi e interessi comuni, e gli allievi hanno modo di fare esperienze significative sul
piano cognitivo, affettivo/emotivo, interpersonale/sociale. Un ambiente d’apprendimento è composto
dal soggetto che apprende e dal “luogo” in cui esso agisce, usa strumenti, raccoglie e interpreta
informazioni, interagisce con altre persone (Wilson, 1996).
In quest’ottica, il docente diviene progettista di ambienti di apprendimento, costruiti
intenzionalmente per consentire percorsi attivi e consapevoli in cui lo studente sia orientato ma non
diretto.
Luoghi ricchi e variegati per esperienze possibili e materiali di lavoro, caratterizzati da una forte
struttura, ma allo stesso tempo aperti e polisemici, in cui gli studenti possano aiutarsi reciprocamente,
utilizzando una varietà di strumenti e di risorse in attività guidate.

Gli “ambienti di apprendimento” sono l’approccio didattico adeguato quando si vuole promuovere
un “apprendimento significativo” piuttosto che uno meccanico, quando si persegue la
comprensione e non la memorizzazione, la produzione di conoscenza invece che la sua mera
riproduzione, l’utilizzo dei contenuti didattici piuttosto che la loro ripetizione.

Il termine ambiente va inteso in senso lato.


Certamente come luogo fisico o virtuale (e relative strumentazioni), con la conseguente disposizione
e collocazione delle persone, ma anche come luogo mentale, considerando le caratteristiche del
compito proposto, le azioni richieste, le modalità relazionali che vengono sollecitate, il tipo di
valutazione, l’azione di sostegno del docente e più in generale il clima emotivo e cognitivo che lo
caratterizza.

Concetti chiave – Ambiente di Apprendimento

Ambiente di apprendimento
L’espressione “ambiente di apprendimento” è oggi molto usata nel lessico delle scienze
dell’educazione. La sua diffusione è avvenuta in concomitanza con il cambiamento di prospettiva
che, da un ventennio a questa parte, è stato registrato in campo psico-pedagogico. Si parla in proposito
del passaggio dal paradigma dell’insegnamento a quello dell’apprendimento: da una visione
incentrata sull’insegnamento (che cosa insegnare) si è passati ad una prospettiva focalizzata sul
soggetto che apprende e quindi sui suoi processi, con particolare attenzione a come è costruito il
contesto di supporto all’apprendimento (come facilitare, come guidare, come accompagnare gli
allievi nella costruzione dei loro saperi, e perciò quali situazioni organizzare per favorire
l’apprendimento). In un’accezione molto ampia, l’ambiente di apprendimento può essere inteso come
luogo fisico o virtuale, ma anche come spazio mentale e culturale, organizzativo ed emotivo/affettivo
insieme. Il termine ambiente, dal latino “ambire”, potrebbe dare l’idea degli elementi che delimitano
i contorni dello spazio in cui ha luogo l’apprendimento. È vero però che, se guardiamo alla
conoscenza e al modo in cui si costruisce, non possiamo prendere in considerazione soltanto lo spazio;
dobbiamo osservare l’insieme delle componenti presenti nella situazione in cui vengono messi in
atto i processi di apprendimento. Il che vuol dire analizzare le condizioni e i fattori che intervengono
nel processo: gli insegnanti e gli allievi, gli strumenti culturali, tecnici e simbolici. Possiamo pertanto
provare a definire l’ambiente di apprendimento come un contesto di attività
strutturate,”intenzionalmente” predisposto dall’insegnante, in cui si organizza l’insegnamento
affinché il processo di apprendimento che si intende promuovere avvenga secondo le modalità
attese: ambiente, perciò, come “spazio d’azione” creato per stimolare e sostenere la costruzione
di conoscenze, abilità, motivazioni, atteggiamenti. In tale “spazio d’azione” si
verificano interazioni e scambi tra allievi, oggetti del sapere e insegnanti, sulla base di scopi e
interessi comuni, e gli allievi hanno modo di fare esperienze significative sul piano cognitivo,
affettivo/emotivo, interpersonale/sociale.
Apprendimento: la definizione proposta da Jonassen e Land (2012)
Secondo Jonassen e Land (2012) l’apprendimento è una pratica:
1. intenzionale
2. premeditata
3. attiva
4. cosciente
5. costruttiva

Significato di ” ambiente di apprendimento”:


Questo termine è legato ad una “filosofia” educativa costruttivista che interpreta la conoscenza come
insiemi di significati costruiti con l’intelligenza, attraverso l’interazione con il proprio ambiente,
ricco di strumenti e di risorse; inoltre, il soggetto si appropria dei modi di vedere e di agire di un
gruppo di cui è parte integrante (prospettiva situazionista). L’ambiente
d’apprendimento costruttivista è un posto in cui gli studenti possono lavorare insieme ed aiutarsi a
vicenda per imparare ad usare una molteplicità di strumenti e risorse informative nel comune
perseguimento di obietttivi d’apprendimento e di attività di problem solving (Wilson).

Le componenti di un ambiente di apprendimento costruttivista:


Un ambiente d’apprendimento è determinato, secondo Salomon, dai seguenti elementi: uno spazio
fisico, un insieme di attori che vi agiscono, dei comportamenti concordati, una serie di regole o
vincoli, attività o compiti assegnati o concordati, tempi di operatività, un insieme di strumenti
oggetto di osservazione, manipolazione, lettura, argomentazione, un insieme di relazioni fra gli attori,
un clima determinato dalle relazioni instaurate e dallo svolgimento di attività e compiti, un insieme
di aspettative, un modo di vedere se stessi, lo sforzo mentale impegnato nei processi di
apprendimento.

Componenti e funzioni di un ambiente tecnologico di apprendimento costruttivista:


Un ambiente tecnologico d’apprendimento si qualifica mediante le banche di informazioni (libri,
dizionari, Cd-rom, ISBN, etc.). Gli ambienti d’apprendimento possono essere minimalisti o ricchi a
seconda del prevalere di un certo tipo di strumenti su altri. Negli ambienti minimalisti (classi
tradizionali) prevale la presenza delle banche d’informazione: agli studenti non è permesso di gestire
il proprio apprendimento. Negli ambienti ricchi (ambienti costruttivisti) prevale la presenza di
strumenti per la simulazione, per la costruzione di modelli, strumenti di “authoring
ipermediale“: l’allievo è responsabile del suo apprendimento generativo (cioè attivo e autonomo,
ancorato a problemi autentici, cooperativo), mentre l’insegnante assume il ruolo di consulente,
assistente e guida.

Il ruolo del docente nella progettazione di un ambiente efficace:


Per la costruzione dell’ambiente di apprendimento il docente pone in essere una serie di azioni
finalizzate a perseguire obiettivi di insegnamento/apprendimento, che sono azioni di pianificazione,
attuazione e valutazione e sono in relazione a fattori didattici (il rapporto con i
saperi), psicopedagogici (il rapporto con gli allievi e le loro caratteristiche), organizzativi (la
gestione vera e propria dell’insegnamento in rapporto alla classe e all’esterno, ai tempi e modi
dell’insegnare). Le modalità in cui il suo intervento sarà strutturato determinerà la qualità (il grado
e il tipo) dei processi di apprendimento negli allievi. Occorre pertanto che le condizioni create dal
docente abbiano caratteristiche di adeguatezza tali da produrre un’efficacia dell’ambiente di
apprendimento.

LE COMUNITA’ DI PRATICHE
Comunità di pratiche – Breve introduzione
Comunità di pratiche: gli alunni imparano l’uno dall’altro, quando sono insieme impegnati
in un compito comune, come possono essere quelle della ricerca, o della progettazione e
realizzazione di un prodotto. Il lavorare insieme promuove diverse forme di
collaborazione, consente di mettere in comune conoscenze tacite altrimenti non svelate,
fa emergere ruoli, evidenzia la mutua rilevanza perché tutti concorrono all’obiettivo
condiviso.
Comunità di pratiche o comunità di apprendimento
Le comunità di pratica e di apprendimento sono gruppi sociali aventi l’obiettivo di
produrre conoscenza organizzata e di qualità, alla quale ogni membro ha libero accesso. In
queste comunità, gli individui mirano a un apprendimento continuo attraverso la consapevolezza
delle proprie conoscenze e di quelle degli altri.

Le “comunità di apprendimento”, in cui ciascuno contribuisce in maniera cooperativa alla


costruzione di conoscenza, creando un clima di co-costruzione reciproca, grazie a strumenti e precise
disposizioni che orientino ciascun membro del gruppo ad una maggiore consapevolezza
dell’ambiente di appartenenza e degli attori coinvolti nel processo di apprendimento.
Di solito, all’interno della comunità, non esiste una gerarchia esplicita, i ruoli vengono assunti in base
alle competenze ed ai bisogni degli individui.

Dunque creare un contesto di apprendimento cooperativo implica necessariamente avere delle abilità
sociali, una maggiore apertura allo scambio di esperienze e competenze: «è donando che ci si dichiara
concretamente pronti a giocare il gioco dell’associazione e dell’alleanza e che si sollecita la
partecipazione degli altri allo stesso gioco […]. L’obbligo che ci fa il dono è un obbligo di libertà. Le
comunità di pratica condividono interessi e problematiche, per collaborare, promuovere, discutere e
confrontarsi su questioni correlate ai diversi interessi dei componenti. Si tratta di gruppi sociali, cioè
insiemi di persone che interagiscono in modo ordinato, sulla base di aspettative condivise, con status
e ruoli interrelati, che si organizzano sia per il miglioramento collettivo che per apprendere, partendo
dalle singole conoscenze degli individui che li compongono.

Ogni individuo contribuisce con le proprie competenze e la comunità di pratica tende a scambiarsi
reciprocamente il meglio di ciò che viene prodotto dai collaboratori. Inoltre gli appartenenti
condividono spesso una reciproca attrazione l’uno verso l’altro, ed ogni membro tende ad identificarsi
con il gruppo di appartenenza.

Étienne Wenger e le comunità di pratica


Tale sintesi è riferita al pensiero di Étienne Wenger, uno dei massimi esponenti delle teorie
dell’apprendimento applicate nel settore delle comunità di pratica.
La sua sintesi è uno strumento di partenza per una efficace riprogrammazione delle organizzazioni
orientate alla conoscenza. Secondo Wenger la comunità di pratica è un sistema auto-organizzato che
si sviluppa in tre dimensioni:
 Campi tematici: accomunano i membri ai quali partecipano e possono evolversi;
 Comunità: elemento che stimola alla condivisione di idee ed alle interazioni;
 Pratica: conoscenza specifica che viene condivisa e mantenuta (applicazione pratica)

Una comunità di pratica è composta da un gruppo di persone che condividono un interesse e un codice
comuni. All’interno di questo gruppo è costante il concetto di il mutuo aiuto. Molte di queste
caratteristiche fanno capire come tali comunità non possano essere imposte, in quanto le anima e le
sostiene una motivazione intrinseca presente in ogni suo componente. Si fondano su conoscenze,
abilità tecniche ma principalmente sul know how. Wenger identifica la Comunità di Pratica come una
combinazione di elementi che devono interagire tra loro e non possono mancare:

 Il Cooperative Learning;
 Diversità e parzialità;
 Mutue relazioni.

Nella comunità di pratica si innesca una continua negoziazione di pratiche e di significati, poiché il
percorso formazione/apprendimento diventa luogo di scambio e richiede maggiori azioni di vero e
proprio negozio.
Secondo Wenger per poter svolgere un compito in una comunità di pratica devono intervenire le
seguenti fasi:
1. Reificazione: realizzazione del compito in modo collaborativo;
2. Partecipazione: attiva e collaborativa nonché paritaria e personalizzata;
3. Negoziazione di significati: riflessione del gruppo su quanto svolto.

In queste comunità ogni membro mette a disposizione due tipi di conoscenza: esplicita e tacita.
La conoscenza tacita o conoscenza implicita è “…ciò che si conosce, ma non si esprime perché non
si può o sarebbe inutile farlo: possiamo conoscere più di quanto possiamo esprimere…”.
È del 1963 l’idea, secondo il Becker, che solo l’apprendimento emergente dalla conoscenza pratica e
da situazioni reali può essere efficace, e, insieme a conoscenze, abilità e capacità, si può trasformare
in apprendimento dell’esperto.
LO SCAMBIO CON L’ALTRO è IMPORTANTISSIMO.

Knowledge management, o gestione della conoscenza NONAKA E TAKEUKI


Altri che si occuparono di conoscenza tacita furono Nonaka e Takeuchi,[14] nel 1995, che suddivisero
il processo della conoscenza in quattro fasi:
1. Socializzazione: condivisione della conoscenza tacita tra persone che hanno esperienze comuni nello
stesso contesto.
2. Esteriorizzazione: espressione della conoscenza tacita attraverso forme esplicite, è il momento in cui
la conoscenza tacita viene messa a disposizione degli altri.
3. Combinazione: organizzazione della conoscenza diventata oramai esplicita.
4. Interiorizzazione: trasformazione della conoscenza esplicita nuovamente in conoscenza tacita,
arricchendo la persona e capitalizzando le conoscenze.
Questo modello rappresenta la struttura del Knowledge Management.

Va poi ricordato Donald Schön, che si è occupato di apprendimento individuale e collettivo.


Shon pone al centro della sua attenzione il professionista riflessivo, cioè una persona che
problematizza l’azione, riflette, analizza, dà senso alla propria pratica quotidiana, sviluppando una
competenza importantissima: imparare a imparare.
Dopo le prime esperienze condotte preso la Xerox Corporation di Palo Alto sui propri dipendenti,
con la collaborazione dell’Institute for Research on Learning (IRL), Brown e Gary (1995)
sottolineano che le comunità di pratica sono contraddistinte da: “… piccoli gruppi di persone che
lavorano insieme durante un periodo di tempo… svolgono la stessa funzione… collaborano allo
sviluppo di un lavoro comune. Fanno questo agendo alla pari, e ciò che li tiene uniti è la comune
percezione di avere ciascuno l’esigenza di sapere ciò che gli altri sanno”.

Le comunità di pratica così intese sono capaci di produrre apprendimento, costruire significati e
sviluppare aspetti sociali identitaria. Queste comunità intendono la collaborazione, sia in rete che non
in rete, come nucleo fondante dell’apprendimento fra individui, basato sulla condivisione delle
esperienze, sull’individuazione delle pratiche migliori e sull’aiuto reciproco nell’affrontare i problemi
quotidiani.

Tale forma di apprendimento è fondamentalmente un fenomeno sociale. L’individuo accresce le


proprie conoscenze attraverso le comunità sociali a cui partecipa.
La scuola, ambiente di apprendimento per eccellenza, è tale solo per chi la riconosce, e di
conseguenza la vive, come comunità sociale. Memoria comunitaria. Il principale problema delle
comunità di pratica è quello di poter disporre e mantenere un adeguato archivio delle conoscenze
condivise. Occorre lasciare traccia di quanto viene sviluppato in termini di nuova conoscenza,
costituendo la cosiddetta memoria comunitaria, cioè il risultato tra quanto viene reperito nel corso
delle ricerche e quanto viene selezionato perché ritenuto utile dai singoli soggetti che compongono il
gruppo.

Il costrutto di comunità di pratica (CdP) nasce alla fine degli anni ’80 ed è maturato dentro un
settore di ricerca nato in un ambito di confine tra studi educativi sull’apprendimento e studi
organizzativi. Tale concetto è considerato in letteratura un precursore degli studi sulla conoscenza
pratica e di come questa venga creata e custodita nei contesti sociali e lavorativi.

Nell’elaborazione di Wenger (2006), la CdP è descritta come un’aggregazione informale di attori


che, nelle organizzazioni, si costituiscono spontaneamente attorno a pratiche di lavoro comuni
sviluppando solidarietà organizzativa sui problemi, condividendo scopi, saperi pratici, significati,
linguaggi.

Wenger sostiene che le CdP sono dappertutto: “tutti noi apparteniamo a delle CdP. A casa, al
lavoro, a scuola, negli hobby, in qualunque fase della nostra vita, apparteniamo a svariate CdP. E
quelle a cui apparteniamo cambiano nel corso della nostra vita. In effetti, le CdP sono dappertutto.
Le famiglie […] sviluppano delle pratiche, delle routine, dei rituali, dei costrutti, dei simboli e delle
convenzioni, delle narrazioni e delle vicende storiche. I familiari si odiano e si amano; concordano
e dissentono. Fanno il necessario per tirare avanti. […] i lavoratori organizzano la propria vita con i
colleghi e con i clienti in modo da poter svolgere la loro attività. Così facendo, sviluppano e
preservano un senso di sé con cui possono convivere, divertirsi un po’ e soddisfare le esigenze dei
datori di lavoro e dei clienti. Quale che sia la loro job description ufficiale, creano una prassi per
fare ciò che bisogna fare. Pur essendo contrattualmente alle dipendenze di una grande istituzione,
nella pratica quotidiana lavorano con […] un gruppo molto più ristretto di persone e di comunità.
Gli studenti vanno a scuola e, quando si riuniscono per affrontare a loro modo gli impegni imposti
da quella istituzione […], le comunità germogliano dappertutto: in classe come ai giardini, in modo
ufficiale o sotterraneo. E nonostante il programma, la disciplina e le esortazioni, l’apprendimento
che ha il più alto impatto trasformativo sul piano personale risulta essere quello che nasce
dall’appartenenza a queste CdP. […]Negli uffici, gli utilizzatori dei computer si affidano gli uni agli
altri per affrontare le complessità di sistemi sempre più oscuri. […] Le CdP fanno parte integrante
della nostra vita quotidiana. Sono così informali e così pervasive da entrare raramente nel mirino
di un’analisi esplicita, ma per quelle stesse ragioni sono anche del tutto familiari” (p. 13).

Wenger (2006) definisce le CdP come gruppi che:

 nascono attorno a interessi di lavoro condivisi – in genere problemi comuni da gestire e risolvere
in condizioni d’interdipendenza cooperativa – e si costituiscono (informalmente) come esito di
forme di negoziazione (anche implicita) tra gli attori organizzativi;
 si alimentano di contributi e d’impegni reciproci legati alla consapevolezza di partecipare a
un’impresa comune;
 dispongono di un repertorio condiviso inteso come l’insieme – costruito nel tempo – di linguaggi,
routine, sistemi di attività, storie, valori, strumenti che ‘fissano’ – rendendo così riconoscibili le
conoscenze – l’esperienza e la storia della comunità;
 definiscono attraverso la partecipazione alla pratica l’identità individuale e collettiva “intesa come
esperienza negoziata, come appartenenza alla comunità, come traiettoria di apprendimento,
come relazione tra globale e locale” (ibidem, p. 153);
 si fondano sui legami che si instaurano tra i partner mettendo in secondo ordine i “vincoli
organizzativi di tipo gerarchico” (ibidem, p. 290);
 vivono fino a quando persistono gli interessi comuni e fino a quando l’energia che alimenta
l’insieme riesce a riprodursi con un certo grado di regolarità.

Questa schematica definizione mette in evidenza il fatto che attorno alla pratica si strutturano
aggregazioni sociali spontanee di attori che nella pratica e attraverso la pratica, elaborano
significati comuni, apprendono e costruiscono la loro identità soggettiva e collettiva (Wenger,
McDermott, Snyder, 2007).

Il costrutto di CdP chiama in causa una teoria dell’apprendimento che interpreta il coinvolgimento
nella pratica sociale come quell’esperienza fondamentale attraverso la quale individui e
organizzazioni imparano e ‘diventano quelli che sono’. Tale costrutto offre un contributo
fondamentale in termini di nuove chiavi di lettura sui processi di apprendimento e di conoscenza
nei contesti lavorativi in una prospettiva di innovazione organizzativa. Al riguardo, Wenger e Lave
(2006) approfondiscono il concetto di “apprendimento situato” distinguendolo dai tradizionali
studi sull’apprendimento al lavoro e, in particolare, dalle forme storiche di apprendistato.
L’apprendimento situato viene esplorato come forma di “partecipazione periferica legittima” e si
configura come “parte integrante della pratica sociale nel mondo” (ibidem, p. 23).

Il concetto di partecipazione periferica legittima descrive come le persone che apprendono


partecipano a una comunità di praticanti e come, attraverso, un processo sociale e collettivo
diventano membri di una CdP. Questa forma di socialità costituisce la condizione di esistenza del
sapere in azione e il meccanismo della sua perpetuazione e progressivo mutamento. La nozione di
CdP suggerisce l’idea che ogni pratica generi delle forme di socialità e solidarietà, le quali, a loro
volta, sostengono i processi di apprendimento individuale e colletivo.

Alla luce di quanto sopra, si può sostenere che il contributo degli studi sulle CdP è importante per
tutti coloro che si occupano di studiare e supportare i processi di costruzione della conoscenza
nelle organizzazioni poiché esse possono essere considerate i “mattoni” che costituiscono i sistemi
sociali di lavoro e di apprendimento e, quindi, le leve su cui fare forza per supportare l’innovazione
organizzativa.

Comunità di pratiche e problem posing


Oltre alla realizzazione del compito e del prodotto, l’esperienza di laboratorio ha come obiettivo lo
sviluppo delle abilità sociali equivalenti al lavorare insieme, rispettare i ruoli e apprezzare il lavoro
di ogni componente del gruppo.

Le esperienze laboratoriali, cioè, consentono di costruire a scuola «comunità di pratiche»,


in cui gli apprendenti si confrontano, condividono, interagiscono, dialogano, costruendo
conoscenze attraverso un processo di discussione-costruzione-verifica collegiale.

In questo contesto sono centrali la socializzazione, la relazione, la risoluzione di problemi,


che si inseriscono all’interno di dinamiche di aggregazione-disaggregazione-
riaggregazione degli apprendenti in gruppi mobili ed eterogenei in cui lo studio, la
ricerca, la creatività fanno da collante relazionale.

Al termine della fase di preparazione, il gruppo svolge le operazioni di:

 delimitazione del campo di indagine, attraverso la formulazione di una proposta


condivisa;
 discussione-costruzione-verifica collegiale e operativa delle problematiche dell’attività,
finalizzata alla costruzione di quadri interpretativi comuni;
 attivazione delle operazioni mentali del problem posing e del problem solving.
 Il problem posing è quella parte dell’attività di problematizzazione che può essere
descritta come l’abilità nel rilevare, sollevare o impostare problemi. Si avvia, dunque,
ponendo domande finalizzate a cogliere i dati che caratterizzano l’oggetto preso in
esame elencandone prima tutti gli attributi e, successivamente, dopo averne negato
uno, applicando i relativi interrogativi. Questo procedimento sviluppa, in chi lo applica,
il pensiero divergente, avviando un’attività di ricerca e di scoperta.
 Le esperienze laboratoriali permettono all’insegnante di testare l’efficacia
dell’insegnamento-apprendimento, perché osservando gli alunni all’opera è possibile
verificare se sono padroni dell’apprendimento oppure se necessitano di essere
guidati, attraverso interventi mirati.

Il ruolo dell’insegnante si articola nelle funzioni di:

 tutorato e consulenza;
 progettazione e organizzazione;
 facilitazione dell’interazione fra diversi soggetti;
 negoziazione.
 Il motto “si impara facendo” esplicita il fatto che l’essere padroni di una certa
competenza è l’esito del percorso, non il presupposto.

I percorsi laboratoriali, infine, facilitano la metacognizione, perché gli alunni, di fronte


ad un ostacolo, ad un esito negativo, sono invogliati, con l’aiuto dell’insegnante (se
necessario), a tornare indietro, a ricostruire il percorso di apprendimento e a trovare
l’errore per superarlo. Da ciò emerge che il ruolo degli apprendenti nella didattica
laboratoriale è attivo
Da questo tipo di approccio che pensa e prevede la conoscenza come costruzione in ambienti di
apprendimenti nasce la teoria dell’apprendimento di tipo costruttivista (che vedremo nel modulo
successivo) – vedi i teorici del costruttivismo.

Progettare, pensare e costruire ambienti di apprendimento


La scuola come Learning Organization
Un’organizzazione può definirsi learning se ha sviluppato la capacità di
apprendere mediante processi di riflessione rivolti verso l’interno e verso
l’esterno; inoltre, è tale, se l’apprendimento è utilizzato, intenzionalmente, per
promuovere potenzialità innovative funzionali al miglioramento delle prestazioni
sia sul versante qualità dell’apprendimento studenti (individuali) sia anche
organizzativi stessi della scuola, in termini di efficienza, efficacia, sostenibilità,
innovazione di processo, etc.(organizzativi).
L’apprendimento organizzativo rappresenta, per la scuola, un modello cui
ispirarsi per migliorare le proprie pratiche, ed uno schema operativo da adottare
per promuovere processi di ⇒ apprendimento continuo. Il delinearsi della
scuola quale learning organization richiede ovviamente lo sviluppo
professionale dei docenti, da realizzarsi nelle modalità della ricerca-azione
cooperativa, che consenta un apprendimento integrato con l’esperienza di lavoro,
frutto di processi di riflessione e di autoanalisi (Calidoni, 2000).

La scuola come Learning Organization


Un’ organizzazione può definirsi learning se ha sviluppato la capacità di apprendere
mediante processi di riflessione rivolti verso l’interno e verso l’esterno; inoltre, è tale, se
l’apprendimento è utilizzato, intenzionalmente, per promuovere potenzialità innovative funzionali
al miglioramento delle prestazioni sia sul versante qualità dell’apprendimento studenti (individuali)
sia anche organizzativi stessi della scuola, in termini di efficienza, efficacia, sostenibilità, innovazione
di processo, etc.(organizzativi).
L’apprendimento organizzativo rappresenta, per la scuola, un modello cui ispirarsi per migliorare le
proprie pratiche, ed uno schema operativo da adottare per promuovere processi di ⇒ apprendimento
continuo. Il delinearsi della scuola quale learning organization richiede ovviamente lo sviluppo
professionale dei docenti, da realizzarsi nelle modalità della ricerca-azione cooperativa, che consenta
un apprendimento integrato con l’esperienza di lavoro, frutto di processi di riflessione e di autoanalisi
(Calidoni, 2000).
La scuola, in quanto organizzazione che fa dell’apprendimento il suo fine peculiare, almeno
potenzialmente, presenta condizioni adeguate in vista di costituirsi e di agire come una learning
organization.
In quanto organizzazione che apprende, la scuola, assumendo un atteggiamento autoriflessivo,
processa informazioni relative tanto ai comportamenti professionali quanto alle modalità attraverso
cui si perseguono i risultati, rileggendo in tal modo il proprio rapporto con l’ambiente, individuando
le proprie specifiche routines, e innescando processi di correzione degli errori indagati.
Aspetto peculiare della scuola quale learning organization è il processo di “valutazione
retroattiva” (Scheerens), che, a differenza di quella proattiva, non si concentra soltanto sulla
differenza tra obiettivi programmati e risultati, ma avvia una riflessione sui valori sottesi al progetto
e sugli obiettivi e i mezzi del fare scuola, realizzando processi di apprendimento a circuito doppio
(Argyris, Schön, 1978).
È chiaro come questo atteggiamento di valutazione rivolto verso l’interno non escluda un
processo di analisi delle richieste dell’ambiente esterno, che oggi vanno nella direzione della
formazione di competenze chiave e di abilità trasversali (Scheerens). In un modello didattico
CONTEXT ORIENTED (come vedremo nel Modelli didattici Context Oriented (“comunità di
pratica”) e Content Oriented (progettazione didattica dei contenuti), tale processo di analisi è
fondamentale per cogliere l’effettiva rispondenza degli obiettivi dell’azione educativa alle
esigenze del contesto.
I docenti, in un clima di decisionalità diffusa, si configurano oltre che esperti della disciplina,
anche gestori del processo didattico, elaboratori di decisioni in rapporto all’utenza e al
territorio, valutatori della qualità dei processi in direzione del miglioramento continuo;
quest’ultimo, tra l’altro, per potersi realizzare, esige l’inclusione, all’interno della scuola, non
a caso definita organizzazione “assorbente”, dell’allievo, che è considerato, al pari del
docente, un “lavoratore” della conoscenza.

Abilità trasversali COGNITIVE, AFFETTIVE, SOCIALI


Insegnare a usare, ma soprattutto a sviluppare le abilità cognitive e trasversali di un alunno è molto
importante, perché proprio su questa capacità il discente assumerà tutte le conoscenze specifiche del
sapere, riuscirà ad adattare la sua mente a contesti e metodi differenti e a trasferire i suoi schemi
generali di ragionamento in ambiti specifici.
⇒ Abilità trasversali
Abilità comuni a più discipline curricolari. Esse possono essere distinte in 3 gruppi principali:

1. abilità cognitive: comprensione del linguaggio, capacità di scrittura e di lettura, acquisizione di un


metodo di studio;
Le abilità cognitive sono quelle capacità che ci permettono una corretta interpretazione ed
integrazione della realtà. Sono la memoria, l’attenzione, la percezione, il riconoscimento e la
comprensione delle informazioni del mondo esterno, la capacità di dare risposte adeguate e di farsi
capire con le parole e le azioni, l’orientamento nello spazio e nel tempo.
Queste capacità, che si acquisiscono durante lo sviluppo, si affinano in età prescolare quando il
bambino impara soprattutto guardandosi intorno, esplorando in vari modi l’ambiente circostante
(toccando, spostando, manipolando le cose), interagendo verbalmente e gestualmente con adulti e
coetanei.

Gli oggetti, le cose che il bambino vede e desidera conoscere sono caratterizzate da proprietà da
individuare, da concettualizzare, descrivere, nominare e rappresentare in modo conveniente: la forma,
il colore, la grandezza, lo spazio occupato, la posizione nello spazio, la posizione rispetto ad altre
cose, vicine o lontane, dentro o fuori, sopra o sotto.

Le cose, poi, possono essere confrontate fra loro rispetto alle proprietà che possiedono, e rivelarsi
uguali o diverse; gli oggetti possono essere suddivisi in gruppi di varie quantità, questi insiemi
possono essere confrontati fra di loro.

2. abilità affettive: sono legate alla sfera dei sentimenti;


Per lo sviluppo delle abilità affettive occorrerebbe:
1. Controllare gli impulsi. Gli impulsi sono il sostrato dei sentimenti. È perciò importante
considerarne la portata e la eventuale carica eversiva per apprestare i mezzi di controllo e di
resistenza in vista delle opportune decisioni.
2. Riconoscere le emozioni negli altri. È la capacità di accostarsi all’ animo
altrui cogliendone i segni sottili che ne indicano i bisogni e i desideri. È essenziale per
l’armonizzazione con i mondi emotivi degli altri.
3. Ridurre lo stress. La scuola, la famiglia, è spesso fonte di stress per i bambini, specie di
quelli più sensibili. Un ambiente di classe sereno, commisurato al ritmo della loro vita
mentale, può contribuire ad alleviarlo in gran parte.
4. Conoscere i sentimenti. Identificarli, nominarli e classificarli. Collegare un nome con
ciascun sentimento e questo con il relativo atteggiamento facciale e corporeo.
5. Scoprire le cause dei sentimenti. Trovare ciò che determina i nostri modi di sentire per
capire le spinte o i freni interiori ai nostri atti. L’impegno deve essere maggiore per i
sentimenti negativi perché interferiscono nocivamente con la nostra attività intellettuale.
6. Valutare l’intensità dei sentimenti. Costruire una scala, seppur grezza, dei gradi di
intensità. Porre mente soprattutto ai gradi estremi e opposti (tonalità emotiva esuberante o
deficitaria) perché sono entrambi pregiudizievoli alla capacità si concentrazione del
pensiero.
7. Gestire i sentimenti. È saper guidarli in modo che siano appropriati alle varie situazioni e
quindi produttivi. Chi è povero di questa abilità fondamentale non riesce a dominare le
circostanze difficili e a tirarsene fuori.

3. abilità sociali: sono quelle connesse con l’interazione con altri individui.

Considerando la natura interdisciplinare di queste abilità, occorre avere a disposizione gli


strumenti giusti: parliamo di libri, ma anche di software di programmazione, oggetti e giocattoli come
le costruzioni, il “vecchio” Meccano o il Lego, oppure dei nuovi sociable robots.
Ogni strumento sarà allineato al livello di scolarizzazione preso in esame, e sarà introdotto come
laboratorio e in funzione di un preciso obiettivo di apprendimento.
Le abilità sociali consistono soprattutto nel:
1. saper comunicare
2. saper distribuire la leadership
3. saper gestire i conflitti
4. saper risolvere i problemi
5. saper prendere decisioni

La didattica collaborativa o cooperative learning


Negli ultimi hanno sta sempre avendo maggiore spazio, come metodo didattica una dimensione
collaborativa o cooperative. Una modalità detta Cooperative Learning.
[Si ricorda che troverete decine di domande sul cooperative learning nei diversi simulatori di
Origine, anche le domande serviranno a meglio mettere a fuoco il concetto] – SI CONSIGLIA
SEMPRE DI FARE TUTTE LE DOMANDE DEL CORSO!
La didattica collaborativa non prevede ruoli specifici nel gruppo, mentre nella didattica cooperativa
ogni studente ha un ruolo-funzione nel gruppo di studio e di ricerca. Si coopera ma ognuno sapendo
bene cosa va a ricercare e fare nel gruppo, come in una squadra di calcio, ogni studente fa qualcosa
di preciso in vista del risultato finale, mentre nella collaborazione tutto fanno tutti e si collabora
liberamente.
Può essere definita “un metodo di apprendimento-insegnamento in cui la variabile significativa è
la cooperazione tra gli studenti” o “un insieme di tecniche di classe nelle quali gli studenti lavorano
in piccoli gruppi per attività di apprendimento e ricevono valutazioni in base ai risultati
conseguiti”.
La didattica cooperativa punta al miglioramento dei processi di apprendimento e socializzazione
attraverso la mediazione del gruppo (in genere di utilizzano piccoli gruppi in cui gli studenti lavorano
insieme), i cui membri devono agire sentendosi positivamente interdipendenti tra loro.

Si tratta di una metodologia fondata sulla convinzione dell’importanza dell’interazione e della


cooperazione nella scuola come mezzo di promozione umana e sociale. Inoltre, nel cooperative
learning il contatto con i coetanei più capaci all’interno del gruppo consente di operare
reciprocamente all’interno delle zone di sviluppo prossimale di ciascuno, ottenendo risultati migliori
di quelli conseguibili con le normali attività individuali.
RUOLO DEL DOCENTE
il docente assume il ruolo di tutor:
 favorisce l’interazione tra gli studenti
 stimola la discussione
 facilita l’apprendimento ricorrendo a continue stimolazioni (domande, verifice, etc.)
⇒ Successivamente vi è una fase operativa:

 si organizza un gruppo di lavoro;
 si assegna un compito;
 si definisce cosa si vuole produrre o fare di concreto, una ricerca, un testo, un power-
point, una presentazione, un prodotto didattico rispondente e funzionale alle richieste del
compito assegnato;
 si assegnano i ruoli e si definiscono compiti e responsabilità;
 individuazione degli ambiti operativi e selezione dei compiti di ciascuna area di
responsabilità.

Obbiettivi e finalità didattiche del COOPERATIVE LEARNING (su cui torneremo)


 sviluppo di un legame concreto tra studenti: il lavorare insieme per un progetto comune
agevola il successo dell’impresa
 interazione faccia a faccia: garantisce processi di reciproco apprendimento e
incoraggiamento
 stimolo alla responsabilizzazione verso se stessi e verso l’altro.
 sviluppo di abilità sociali (saper ascoltare, essere disponibili, condividere decisioni, gestire i
conflitti)
Nell’ambito della gestione e della relazione interpersonale, inoltre la cooperazione va intesa come
una tecnica che aiuta ad implementare le soft skills:
 non come semplice fare insieme;
 ma come un più profondo prendersi cura con empatia gli uni degli altri, ed in tal senso è
anche una tecnica di gestione delle emozioni, insegna gestire conflitti, ad accettare i punti di
vista differenti, etc.
Giorno dopo giorno bambini e ragazzi sperimentano, nel corpo e nello sguardo proprio e dei
compagni, l’importanza ma soprattutto la bellezza di un‘etica dell’empatia essenziale per diventare
cittadini dotati di menti critiche e cuori intelligenti.
Learning Objects: modalità didattiche centrate sulla motivazione e sul problema
L’idea di un modello didattico problematico per la realizzazione di Learning Objects riprende i temi
del problematicismo pedagogico e si impegna a definire un’ipotesi formativa complessa capace di
valorizzare la possibile positiva compresenza integrata di strategie didattiche diverse (finanche
antitetiche) ma componibili in una logica appunto di matrice problematicità.
Il punto di partenza del modello proposto è rappresentato dalla opportunità di definire tre tipologie
fondamentali di Learning Objects, rispettivamente centrati sull’oggetto, sul processo e sul soggetto
dell’apprendimento.
Le modalità didattiche privilegiate sono in fondo quelle dell’animazione culturale: di strategie anche
provocatorie di stimolazione nello studente di riflessioni che vanno oltre il piano della competenza
oggettiva e dell’abilità professionale per toccare la sfera del significato personale assunto da “quel”
sapere per il soggetto apprendente.

Tali riflessioni costituiscono comunque un quadro di competenze determinante che precede e


accompagna l’apprendimento in tutte le sue forme.

La tipologia di LO è centrata sulle motivazioni ed “emozioni” del soggetto apprendente si propone di


affrontare un problema tradizionalmente non preso in considerazione in ambiente formativo
tradizionale, ma da sempre individuato come fondamentale dalla ricerca educativa: quello del peso
assunto dagli aspetti motivazionali ed emozionali nella determinazione dell’efficacia (in termini di
qualità e quantità) del percorso di apprendimento.

Questo tipo di LO persegue l’attivazione di competenze non facilmente misurabili con procedure
docimologiche oggettivanti proprio perché scarsamente predefinibili e fortemente connesse con la
sfera dell’individualità.

Come si è visto, le tre tipologie di LO nascono da interpretazioni diverse dell’apprendimento e si


propongono, di conseguenza, obiettivi formativi diversi.

All’interno di un modello didattico problematico il problema da affrontare non è quello di decidere


in assoluto quale sia la tipologia migliore, bensì di definire nel modo più accurato possibile la
specificità della singola tipologia per poter pianificare realtà concorsuali nelle quali siano integrati
LO dei tre tipi indicati secondo proporzioni e successioni differenziate che tengano conto, tra possibili
altri criteri:
– delle specificità disciplinari dell’oggetto di apprendimento
– delle finalità dichiarate del corso di studio
– dell’età e delle competenze di partenza dei partecipanti
– delle caratteristiche del contesto.

L’idea di fondo del modello problematico è comunque che non sia possibile riconoscere elevata
qualità formativa ad esperienze corsuali che non prevedano alcun LO di una delle tre tipologie.

Concetti idee e prospettive didattiche e pedagogiche:

Jonassen è il concetto di “mindtool” – come progettare ambienti di apprenidemento


Centrale nella filosofia educativa di David Jonassen è il concetto di mindtool: “Mindtools are
knowledge construction tools that learners learn with, not from” (Jonassen, 2000).
Sono strumenti di costruzione di conoscenza con i quali gli studenti apprendono.
Strumenti quali spreadsheets, databases, hypermedia ed altri programmi permettono allo studente di
costruire la propria conoscenza, effettuando operazioni quali analizzare, valutare, sintetizzare,
risolvere problemi, riflettere sul sapere per costruire nuova conoscenza.
Nell’evidenziare le implicazioni del Costruttivismo per l’instructional Design, Jonassen ha elaborato
una serie di principi per la progettazione di ambienti di apprendimento che facilitino la costruzione
di conoscenza:

1. Offrire molteplici rappresentazioni della realtà e molteplici prospettive da cui guardare l’oggetto
2. Rappresentare la naturale complessità del mondo reale
3. Focalizzarsi sulla costruzione di conoscenza più che sulla riproduzione
4. Presentare compiti autentici più che formule astratte
5. Offrire un ambiente di apprendimento situato e realistico più che sequenze istruttive predeterminate
6. Incoraggiare pratiche riflessive
7. Rendere possibile la costruzione di conoscenza legata al contesto e al contenuto
8. Supportare la costruzione collaborativa di conoscenza mediante la negoziazione.
Il docente è istruttore, un coach che predispone tools e ambienti che aiutino lo studente a interpretare
le molteplici prospettive del mondo e analizza le strategie utilizzate dall’alunno per risolvere
il problema. Gli obiettivi educativi non vengono imposti, ma sono il frutto della negoziazione
tra docente e studenti.

( ⇒ vedi anche il concetto di ERGONOMIA DIDATTICA)


Ergonomia didattica: Il termine è stato usato da A. Calvani per indicare gli elementi che debbono
essere tenuti presente in un positivo rapporto uomo/macchina e per allestire ambienti di
apprendimento in cui la tecnologia è usata come risorsa positiva per la costruzione della
conoscenza. L’ergonomia è una disciplina di studio che ha come oggetto l’attività umana in relazione
alle condizioni ambientali, strumentali e organizzative in cui si svolge, avendo come obiettivo la
promozione della salute e del benessere delle persone.
Analogamente in campo didattico quando utilizziamo una nuova tecnologia occorre chiedersi a quale
condizione il suo uso favorisce un reale processo cognitivo o garantisce processi di apprendimento
significativo, come ottimizzare a fini educativi l’interazione con lo strumento tecnologico, come
progettare il setting e le condizioni di fruizione affinché si costruisca un ambiente di apprendimento
produttivo per la crescita.
E’ un settore di ricerca che nasce dall’intersezione dell’ergonomia e delle tecnologie dell’istruzione
e che vuole studiare non tanto l’artefatto tecnologico ma le relazioni che esso stabilisce con
i molteplici fattori che caratterizzano i processi di insegnamento/apprendimento, invitando i docenti
ad una consapevolezza critica e ad una competenza digitale che eviti sia opposizioni preconcette sia
facili entusiasmi.
Essa pertanto dovrebbe coadiuvare la progettazione e l’allestimento di ambienti di apprendimento a
forte caratterizzazione tecnologica affinché possano liberare il potenziale degli allievi in termini di
espressività, crescita personale e insieme costruzione sociale e creativa della conoscenza.

David Jonassen – Costruttivismo ed ambienti di apprendimento


Jonassen è un esponente della teoria del Costruttivismo*, secondo cui la conoscenza si
raggiunge per esperienza personale attraverso un processo di costruzione.
L’iniziatore di questo paradigma è Seymour Papert, un matematico sudafricano che dopo aver
lavorato con Piaget si è trasferì (anni ’60) al MIT per lavorare con il gruppo che si occupava
di Intelligenza artificiale e in particolare con Marvin Minsky.
⇒ L’insegnante non è più trasmettitore di conoscenza ma diviene un facilitatore, che indirizza gli
studenti verso la giusta direzione e permette loro di acquisire conoscenza in modo autonomo
coniugando le esperienze presenti e passate.
Jonassen cerca di individuare le modalità per promuovere negli studenti un apprendimento
significativo***, ossia una forma d’apprendimento che abbia un senso per il soggetto che
apprende, e che non sia semplice memorizzazione di contenuti. Perché questo abbia luogo,
il soggetto deve essere impegnato e coinvolto in prima persona, con tutte le sue
conoscenze, esperienze e credenze, collaborando alla costruzione di significati con i propri
pari, grazie alla mediazione di esperti.
⇒ Inoltre, l’apprendimento è significativo se contestualizzato, se può trovare applicazione
nella realtà quotidiana.
Infine, dovrebbe comportare uno stimolo a riflettere e organizzare in modo sistematico i
propri apprendimenti, i processi e le decisioni.
A partire da questi assunti, le tematiche di maggior interesse affrontate dall’autore
riguardano la progettazione d’ambienti d’apprendimento costruttivisti **** (Constructivist
Learning Enviroment), l’apprendimento attraverso le tecnologie, le tecnologie come
strumenti cognitivi.
Centrale nella filosofia educativa di Jonassen è il concetto di mindtool: “Mindtools are
knowledge construction tools that learners learn with, not from” (Jonassen, 2000). Sono
strumenti di costruzione di conoscenza con i quali gli studenti apprendono.

ll concetto di apprendimento “significativo” (meaningful learning) di Jonassen.


MAINTOOLS
La tematica dell’apprendimento “significativo” (meaningful learning), è stata sviluppata attraverso
ricerca e pratica da David Jonassen il quale ha sviluppato diversi approcci operativi in cui le
tecnologie hanno un ruolo importante.
L’apprendimento significativo è quella forma di apprendimento per il quale le persone sono in grado
di dare un senso a ciò apprendono, è quell’apprendimento che può essere, successivamente ed in
contesti differenti, utilizzato dalle persone per risolvere problemi e per realizzare attività.
L’apprendimento significativo è l’opposto della memorizzazione.
Secondo David Jonassen, l’apprendimento significativo ha queste caratteristiche:

1. è attivo: si interagisce con l’ambiente, si manipolano gli oggetti presenti in quell’ ambiente e si osserva
l’esito dell’azione;
2. è costruttivo: si riflette sulle attività e sulle osservazioni;
3. è intenzionale (goal-directed): si fa qualcosa per uno scopo;
4. è cooperativo, conversazionale, collaborativo: si negozia socialmente una comune comprensione;
5. è autentico
6. è complesso e contestuale

Il processo di apprendimento significativo, secondo David Jonassen è caratterizzato da:

1. investigazione, esplorazione, scrittura,


2. modellamento, comunicazione,
3. progettazione, visualizzazione e valutazione.

L’apprendimento significativo, proprio per queste sue caratteristiche, per le operazioni che lo
realizzano può essere attivato e sostenuto da un adeguato uso delle tecnologie.

Principi secondo Savey e Duffy per la progettazione di ambienti d’apprendimento


costruttivisti
 ancorare tutte le attività a compiti o problemi più ampi
 sostenere il soggetto che apprende nello sviluppare il possesso personale di qualsiasi
problema
 progettare un compito autentico
 progettare un compito ed un ambiente di apprendimento che rifletta la complessità
trattata
 dare a chi apprende la possibilità di impossessarsi del processo usato per sviluppare
una situazione
 progettare un ambiente di apprendimento per supportare e sfidare il pensiero dello
studente
 incoraggiare il testing delle idee con punti di vista e contesti alternativi
 offrire opportunità di supporto alla riflessione sia sul contenuto appreso che sui
processi svolti

*Costruttivismo – approccio e teoria


L’ attributo che più di altri lo contraddistingue è quello di costruttivo, a denotare un processo di
apprendimento inteso come ricostruzione di quanto il soggetto già conosce, rielaborazione degli
schemi mentali e delle conoscenze pregresse. vedi COSTRUTTIVISMO ⇒ (teorie
dell’apprendimento**)
L’approccio costruttivista si qualifica per il superamento definitivo
dell’antinomia soggetto/oggetto che ha da sempre contraddistinto la ricerca sull’ apprendimento, nell’
opposizione tra visioni oggettiviste centrate sulla realtà esterna, in base ad una concezione
dell’apprendimento come adeguamento del soggetto a essa, e visioni soggettiviste centrate sulla realtà
interna, in base a una concezione dell’apprendimento come evoluzione delle strutture mentali del
soggetto.
Con il costruttivismo si afferma definitivamente la natura relazionale della conoscenza, come
interazione dialettica tra il soggetto che conosce e l’oggetto della conoscenza, e il suo carattere
dinamico, di progressiva evoluzione generata dalla dialettica indicata.

Il concetto di “cambiamento concettuale” ben esprime queste caratteristiche, a partire dal principio –
già presente in Piaget, Ausubel – ovvero la dinamica di apprendimento si caratterizza per una
progressiva sintonizzazione tra i modelli mentali del soggetto e i contenuti della conoscenza, tra la
struttura psicologica del soggetto e la struttura logica della conoscenza:
⇒ l’apprendimento è un dare senso al mondo, integrando e sintetizzando le nuove esperienze.

**Ernst von Glaserfeld-costruttivismo radicale -teorie dell’apprendimento-


“Radical constructivism: A way of knowing and learning” di Ernst von Glasersfeld
Il costruttivismo radicale che Glasersfeld propone è un approccio non-convenzionale al problema
della conoscenza e del conoscere.
Parte dall’assunto che la conoscenza, indipendentemente da come venga definita, sta nella testa
delle persone, e che il soggetto pensante non ha alternativa: può solo costruire ciò che sa sulla base
della sua stessa esperienza.
Ciò che noi capiamo dell’esperienza costituisce l’unico mondo in cui sappiamo di vivere.

I principi fondamentali del suo costruttivismo radicale sono proposti in quattro punti:
1. la conoscenza non viene ricevuta passivamente né attraverso i sensi né grazie alla comunicazione;
2. la conoscenza viene attivamente costruita dal soggetto “conoscente”;
3. la funzione della conoscenza è adattiva, nel senso biologico del termine, e tende verso l’adattezza
o la “viabilità”;
4. la conoscenza serve all’organizzazione del mondo esperienziale del soggetto, non alla scoperta di
una realtà ontologicamente oggettiva.
Seymour Papert – il costruzionismo
Il costruzionismo condivide con il costruttivismo l’idea di un soggetto-studente costruttore di
strutture di conoscenze, ma specifica anche che la costruzione di conoscenze è molto più significativa
in un contesto dove il soggetto che apprende è impegnato nella costruzione di un qualcosa di
concreto e condivisibile.
Non vi è più un apprendimento passivo, ma si costruisce attraverso oggetti, cose, manipolazione,
esperienze dirette.
Il costruzionismo introduce quindi il concetto di “artefatti cognitivi” ovvero degli oggetti o dispositivi
che facilitano l’apprendimento e di cui l’uomo necessita esattamente come un costruttore necessita
dei materiali da costruzione.
⇒ Tali prodotti concreti debbono poter essere mostrati, discussi, esaminati, sondati e ammirati.
Si propongono quindi dei veri e propri “set di costruzione”, che permettono all’apprendimento di
concretizzarsi ed anche di avvicinarsi alla realtà. Secondo questa impostazione se gli studenti sono
lenti nell’apprendere non è dovuto alla complessità delle informazioni in sé, ma al fatto che non sono
stati proposti materiali adeguati, tali da avvicinare il concetto il più possibile alla realtà e da rendere
l’informazione semplice da apprendere.
L’esponente principale di questo tipo di approccio, specialmente per gli apporti forniti alla didattica
e alle tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento, è Seymour Papert.

Seymour Papert
Secondo Papert, costruzionismo è una parola con due aspetti, uno si richiama alla
teoria costruttivista ed a Piaget che considera l’apprendimento come una ricostruzione e non come
una mera trasmissione di conoscenze (istruzionismo), l’altro estende il concetto dei materiali
manipolativi affermando che la costruzione e quindi l’apprendimento è più efficace e padroneggiato
quando non è solo mentale, ma è supportato da una costruzione reale, da una attività come la
costruzione di un progetto significativo (Papert 1986).
⇒ Papert chiama questa forma di costruzione mentale “pensiero concreto”.

Nella visione epistemologica di Piaget era solo uno stadio “intermedio” mentre nell’impostazione
proposta da Papert diventa il protagonista dell’apprendimento, un apprendimento definito “sintonico”
e fondato sui tre principi:

1. di continuità con le esperienze e conoscenze pregresse del soggetto


2. potenza nel realizzare progetti personali carichi di significato
3. risonanza culturale delle conoscenze da apprendere.

Nella creazione di ambienti per l’apprendimento che utilizzano tecnologie, ambito privilegiato da
Papert, diventa centrale l’allievo e le sue attività concrete che generano apprendimenti.
Nel 1963, in contrapposizione alle applicazioni CAI (Computer Assisted Instruction) di stampo
comportamentista, Papert realizza il progetto didattico-tecnologico innovativo LOGO, un linguaggio
e un ambiente di programmazione appositamente sviluppato per i bambini e sviluppa
successivamente l’estensione del set di costruzioni LEGO ad un set di robotica in modo da rendere
disponibili ai bambini strumenti per concretizzare il pensiero astratto e strumenti per realizzare ed
esplorare anche creature artificiali.
⇒ Il sistema scolastico, reso obsoleto anche dall’avvento delle nuove tecnologie, va quindi ripensato
per andare oltre un programma lineare e statico verso un percorso flessibile e dinamico in cui sia data
ai bambini la possibilità di gestire il proprio apprendimento e di imparare non a dare la giusta risposta
alle domande inerenti quello che si è appreso a scuola, ma trovare giuste soluzioni a situazioni che
vadano oltre l’ambito scolastico: “The one really competitive skill is the skill of being able to learn”
(Papert 1998).

il progetto LOGO di Papert


Papert realizza il LOGO, un linguaggio e un ambiente di programmazione appositamente sviluppato
per i bambini e sviluppa successivamente l’estensione del set di costruzioni LEGO ad un set di
robotica in modo da rendere disponibili ai bambini strumenti per concretizzare il pensiero astratto e
strumenti per realizzare ed esplorare anche creature artificiali. In tal modo “È il bambino che
programma il computer e non il computer che programma il bambino“. Questa impostazione si
distanzia da una didattica fondata sull’imparare per usare, dove risulta preminente l’insegnamento
esplicito sull’apprendimento e privilegia invece una didattica fondata sull’usare per imparare, dove è
preminente l’apprendimento attivo sull’insegnamento (Papert 1993). Il motto risulta così essere
“non apprendere per applicare, ma fare per imparare”.
L’atteggiamento del costruzionismo nei confronti dell’insegnamento non è del tutto negativo perché
minimalista, l’obiettivo è insegnare in modo tale da offrire il maggiore apprendimento con il minimo
di insegnamento.

Viene privilegiato il problem solving e il problem finding in quanto nell’utilizzo attivo e costruttivo
del LOGO e dei micro mondi i problemi nascono e si definiscono facendo, si procede per continui
aggiustamenti confrontandosi via via con i risultati perseguiti. Nella “pedagogia dell’errore” questo
assume un’accezione positiva, si parla infatti di “matetica” ovvero corso sull’arte dell’apprendimento.
⇒ Si costruisce così un sapere utile e condiviso, che si adegua allo stile dell’allievo, un sapere pratico
ed intenzionale, realizzato in concreti contesti di utilizzo (Harel & Papert 1991; Varisco 1995)

***

Goodness of Fit (o bontà dell’adattamento) di Thomas & Chess


Il concetto di Goodness of Fit (o bontà dell’adattamento) fu introdotto da Thomas & Chess.
Mette in relazione le proprietà dell’ambiente di apprendimento e come queste si adattano alle
caratteristiche generali dell’alunno.
L’ambiente si deve adattare alle caratteristiche del bambino (il suo temperamento) tenendo conto e
favorendo il suo processo di adattamento all’ambiente stesso.
Ovviamente nei contesti familiari è la relazione con le figure genitoriali la prima fonda di adattamento
questa può essere buona o ottimale o negativa con strascichi su tutta la vita dell’individuo,
specialmente nel caso di individui disabili.
Il concetto è semplice: in un ambiente favorevole anche il temperamento di un bambino difficile è
gestibile.
Obbiettivo è cercare uno sviluppo ottimale, in considerazione del fatto che in un ambiente adeguato
anche un temperamento difficile sarà meglio gestibile, così come un temperamento troppo tranquillo
non è garanzia di sviluppo ottimale se le richieste dei genitori nei confronti dei figli sono irrealistiche.
Il giusto adattamento è come l’intelligenza emotiva: un equilibrio tra soggetto ed ambiente.
Il temperamento è dipendente dalla relazione entro cui si osserva. Le differenze temperamentali hanno effetti
sui genitori che variano in base all’interpretazione che questi danno del comportamento del bambino, tale
interpretazione deriverà dalla personalità e dalla cultura di appartenenza.

Il Goodness of Fit si concentra molto sull’ambiente post natale perchè è lì che si modelleranno le
architetture corticali delle strutture emotive,cognitive e linguistiche che gli serviranno a vivere in una
cultura di una complessità che non ha eguali nel mondo animale.
I numerosi studi dedicati all’evoluzione dei temperamenti nell’ambiente post natale, in modi
diversi,sono ancora profondamente influenzati dal concetto di ‘goodness of fit’ (bontà
dell’adattamento) introdotto nel 1977 dagli psichiatri Alexander Thomas, Stella Chess e altri.
Il modello descrive un insieme di caratteristiche del rapporto tra il temperamento del bambino e il
suo ambiente familiare, evidenziando quali atteggiamenti da parte dei genitori o della scuola e quindi
dell’ambiente permettono uno sviluppo ottimale, un ‘buon adattamento’ appunto.
Ricordiamo brevemente che i tratti di temperamento emergono precocemente come una serie di
tendenze latenti, influenzate da fattori biologici, che si esprimono in alcune differenze di
comportamento fra gli individui. Caratteristiche psicologiche individuali, presenti fin dal la nascita,
che permangono costanti al variare delle situazioni, esprimono poi differenze individuali nei modi di
rispondere a stimoli/situazioni.
Possiamo pertanto definire il temperamento l’insieme di caratteristiche innate che distinguono una
persona dall’altra nello stile comportamentale che manifesta.

Nella prospettiva di Thomas e Chess la ‘bontà dell’adattamento’ può essere facilitata nei casi in cui genitore e
figlio avranno tratti di carattere in comune che permetteranno una reciproca comprensione,ma anche in quelli
in cui, pur avendo il figlio/a caratteristiche temperamentali differenti da quelle del genitore,quest’ultimo eviterà
giudizi negativi e sprezzanti su di lui, facendo leva sui valori del rispetto e della tolleranza e sulle informazioni
ricevute da esperti riguardo alle caratteristiche delle differenze ereditarie di personalità.

La filosofia di Thomas & Chess cerca di isolare ed assegnare a ogni tratto della personalità i propri geni,
definendo una serie di rapporti singoli che convergevano nel comportamento generale mettendo insieme una
batteria di questionari di personalità, per vedere come un genitore esaspera o rifiuta, modera o amplifica tratti
della personalità come l’introversione o l’estroversione ‘estreme‘ del figlio creando intorno a lui un ambiente
familiare fatto di comprensione ed educazione, o al contrario di rifiuto, non-ascolto, etc..

A secondo del come i genitori costruiscono ambienti intorno a loro, i ragazzi/bambini sviluppano diversi tratti
della personalità. Questi tratti permettono di dividere i soggetti in tre gruppi:

– i resilenti (individui sopra la media su estroversione,gradevolezza, coscienziosità,apertura all’esperienza e


stabilità emotiva),

– i super-controllati (individui con bassa stabilità emotiva,bassa estroversioone, elevata coscienziosità e


tendenza verso problemi di inibizione comportamentale e internalizzazione)

– i sotto-controllati (individui con bassa coscienziosità e gradevolezza, alta impulsività e problemi di


esternalizzazione).

Ovviamente nell’adolescenza il rapporto con i genitori già in se conflittuale genera problemi di adattamento.
Il genitore che ti controlla, quello che non ti controlla e ti fa esprimere, e poi quelli che indipendentemente dai
genitori sviluppano una loro naturale resilienza/adattamento.

Il temperamento è poi dipendente dalla relazione entro cui si osserva; le differenze temperamentali hanno
effetti sui genitori che variano in base all’interpretazione che questi danno del comportamento
dell’adolescente; tale interpretazione dipenderà poi dalla loro personalità, dai loro valori e dalle loro preferenze
che sono funzione della cultura specifica di appartenenza.

I risultati hanno dimostrato che seppure la somiglianza di personalità tra gli adolescenti e i loro genitori sotto
tali profili correlava negativamente con i problemi di personalità, tale relazione non era mediata dalla qualità
del rapporto genitore figlio, eccetto che per gli over-controllati.

Solo per questi la qualità relazionale era efficace a moderare gli effetti patologici del comportamento;non lo
era invece per gli adolescenti resilenti e per gli under-controllati/impulsivi.Anzi per quest’ultimi la similitudine
dei tratti genitori-figli aveva l’effetto opposto,cioè di amplificare il loro comportamento.

Se essere under o over controllati vuol dire ospitare tratti che sono parti di insiemi comportamentali ereditari
progettati dall’evoluzione, allora in questo assemblaggio di regolazioni fisiche,nervose,cognitive non ci può
essere una che abbia il potere di manovrare tutte le altre dal suo posto di comando.

Se questa esistesse e fosse,ad esempio,la coscienza razionale e linguistica del figlio under-controllato,sarebbe
lecito aspettarsi che qual’ora un genitore s’impegna ad addestrarlo per esserlo meno,alla fine qualche
cosa,seppure di temporaneo e incerto,potrebbe ottenere.

Il temperamento è dunque influenzato da fattori ambientali, i quali agidscono nel contribuire a modificare il
comportamento del bambino. L’ambiente fisico in primis può avere ripercussioni nel definire il temperamneto
del bambino (es. luoghi rumorosi > umore negativo in bambini di due anni). Oltre all’ambniente fisico sul
bambino impatta anche l’ambiente relazionale (esempio rapporto tra bambino e adulto- bambini
difficili/bambini facili e differenti risposte da parte del caregiver es. rifiuto, rabbia, punizione)

ESEMPIO:

Un bambino con temperamento difficile può fiorire positivamente in un contesto che è in gradi di accogliere e
comprendere i suoi tratti, fornendo accudimento e stimoli a lui adatti. Viceversa, un bambino con
temperamento facile potrebbe faticare nel suo percorso di crescita qualora incontrasse caregivers con pretese
eccessive e che faticano a capire i suoi bisogni.

Le critiche adultocentriche portano molto spesso al fallimento nell’analisi e la ricerca di un buon ambiente per
l’apprendimento, uan visione oggettiva dei problemi ed una analisi degli stessi è prassi richiesta per conoscere
e poter lavorare con la soggettività del piccolo.

I ricercatori cercano alcuni tratti distintivi di questo adattamento:

1)Ricerca delle novità (novelty seeking-NS-) che con valori elevati si associa a problemi di
esternalizzazione/estroversione, agitazione sociale e altri disturbi, tra cui l’insorgenza di comportamenti
antisociali,

2)Persistenza (persistence-P-) che a valori bassi si lega a comportamenti distruttivi e problemi di attenzione
e indica la capacità di un individuo a perseverare in un obbiettivo nonostante difficoltà e frustrazioni,

3)Evitamento (Harm avoidance-HA-),che a valori elevati è connesso a problemi di interiorizzazione in


bambini e adolescenti e al grado di inibizione comportamentale espressi nell’ansia,nella preoccupazione e nei
comportamenti di ritiro,cioè,in altri termini,nel grado di attivazione del Sistema di Inibizione
Comportamentale (BIS) rispetto al BAS (Sistema di avvicinamento Comportamentale),
4)Dipendenza dai premi(Reward Dependence-RD) che definisce una tendenza a mantenere comportamenti
di attaccamento e dipendenza da beni ed esperienze gradevoli;in altre parole esprime il grado di attivazione
del BAS rispetto al BIS.

Apprendimento auto-diretto di Candy e Knowles


Il costrutto riflette l’istanza di mettere il soggetto adulto autenticamente al centro del processo
formativo. Esso designa un processo dove, al contempo, si apprende di Sé (reinterpretando in modo
nuovo il rapporto tra il Sé e il mondo) e da Sé (autoregolando e autogestendo l’apprendimento in
funzione dei propri bisogni, ritmi, risorse e condizioni presenti nell’ambiente), anche avvalendosi
della presenza di soggetti esperti (insegnanti).
L’autoformazione, o apprendimento autodiretto, è quel processo che vede il soggetto in una
posizione attiva rispetto alle conoscenze ed esperienze che sperimenta.

Tale posizione “attiva” spinge il soggetto a essere motivato ad apprendere, poiché istigato da fattori
interni quali: bisogno di autostima, desiderio di autorealizzazione, acquisizione di conoscenze
specifiche utili sia nella vita quotidiana che in quella lavorativa.

L’autoapprendimento è efficace nel soggetto perché diretto da una motivazione intrinseca; quindi, il
soggetto è spinto a conoscere ciò che considera “interessante” piuttosto che ciò che gli è “imposto o
proposto” da altri. L’autoapprendimento sarebbe quindi più in sintonia con i processi naturali di
sviluppo psicologico, poiché il soggetto nel corso della propria vita sente la necessità di dirigere da
sé i propri processi di apprendimento.

Nel ramo specifico della formazione, l’auto-formazione riguarda l’insieme delle modalità, tecniche e
strumenti per poter affrontare situazioni e problemi formativi differenti.

Nell’apprendimento attraverso la scoperta, il discente si assume la responsabilità della pianificazione e


della realizzazione del proprio apprendimento.

Si tratta di una forma di apprendimento autodiretto caratterizzato dall’iniziativa dell’individuo «nel


diagnosticare le proprie necessità formative, formulare obiettivi, identificare risorse umane o
materiali, scegliere e implementare strategie di apprendimento e valutare gli esiti» (Knowles, 1975, p. 18).

Nell’analisi dell’apprendimento autodiretto proposta da Candy (1991), le quattro dimensioni caratterizzanti


possono essere lette sia globalmente come processo, sia come obiettivi di apprendimento:

– autonomia personale:

si tratta di un aspetto di grande rilievo all’interno di questo approccio. È caratterizzata da indipendenza, libertà
di scelta e riflessione e viene anche considerata uno dei principali obiettivi di apprendimento, in qualunque
contesto e a qualunque età;

– autogestione dell’apprendimento:

si riferisce alla capacità di mettere in atto la propria autonomia sia sul piano della volontà, sia su quello della
capacità di gestione del proprio apprendimento. Il doppio riferimento alla dimensione sia cognitiva sia
motivazionale richiama le tipiche caratteristiche dell’autoregolazione dell’apprendimento, come definite, per
esempio, nel modello di Boekaerts (1996);
– controllo da parte del discente e realizzazione indipendente dell’apprendimento:

il primo aspetto riguarda il controllo delle caratteristiche del contesto di apprendimento, mentre il secondo
pone il focus sulle capacità di autoformazione e sulle occasioni di apprendimento non formali.

Per poter regolare in modo adeguato il proprio processo di apprendimento, lo studente deve in primo luogo
credere in se stesso e nelle proprie capacità. Si è detto del ruolo dell’interesse; a questo, su un piano più
motivazionale, si aggiungono l’importanza di un atteggiamento vincente e l’obiettivo di costruire un bagaglio
conoscitivo e operativo personale.

Non si parla più di una formazione generalizzata, ma di una formazione orientata verso fini specifici
tipica della formazione degli adult.i
Malcolm Knowles, ha sviluppato il concetto di apprendimento autodiretto (self-directed learning),
definendolo come un processo che ha come obiettivo quello di far acquisire ai soggetti un livello
sempre più elevato di autonomia e in cui essi sentono il bisogno di apprendimento che funge da
stimolo all’apprendimento stesso.
Tale processo deve essere sempre accompagnato da quelle figure che Knowles chiama “discenti
proattivi”, ossia tutte quei soggetti che promuovono l’insegnamento, come docenti, tutor e mentor.
Knowles sottolinea l’importanza dei “discenti proattivi” in quanto sono coloro che prendono
l’iniziativa nell’apprendimento e sostengono i pilastri dell’autoformazione, al contrario dei
“discenti reattivi” che ricevono passivamente le informazioni da colui che sta dietro la cattedra.

Altro punto al quale da rilevanza Knowles, è il fatto che l’apprendimento autodiretto sia favorito
qualora ci sia una tendenza del soggetto a far emergere il proprio bisogno psicologico di
indipendenza, quindi al bisogno di voler apprendere in autonomia. Da qui, Knowles parte per
marcare la necessità che il “discente reattivo” sia accompagnato dalle figure di supporto (“discenti
proattivi”) nell’apprendere ad apprendere, in modo tale da non generare ansia e frustrazione.
L’accresciuta importanza del costrutto di autodirezione nell’apprendere molto deve all’esaurirsi delle
ideologie e all’indebolimento dei miti e delle certezze che avevano caratterizzato la modernità.

Nell’attuale condizione umana, definita da alcuni postmoderna, dove l’uomo è sollecitato ad essere
protagonista autentico delle scelte e delle decisioni, il soggetto è il punto di partenza e di arrivo di
ogni esperienza autenticamente educativa.
Nella prospettiva pedagogica l’autodirezione nell’apprendere è un costrutto che si confronta sia con
il principio esistenzialista che afferma il diritto degli esseri umani di vivere nel modo che
preferiscono; sia con il principio umanistico secondo cui non c’è educazione in assenza della libertà
del soggetto di autodeterminare i propri traguardi. Principi che richiamano istanze ineludibili per
la formazione dell’uomo. In particolare, l’importanza della partecipazione attiva del soggetto nel
processo dell’apprendere, l’assunzione di responsabilità e di autonomia, il rafforzamento dell’identità
attraverso vie capaci di sottrarre i soggetti di qualunque età dalle trappole della conformità e dai
pericoli del vivere di riflesso.
Poiché a prima vista l’autodirezione nell’apprendere sembrerebbe richiamare il progetto utopico del
‘bastare a sé stessi’, evocativo di concezioni solitarie dell’esperienza formativa, è opportuno sin d’ora
sgombrare il campo da concezioni errate che hanno alimentato frequenti equivoci.
Knowles ha così definito l’autodirezione nell’apprendere:
“Un processo in cui gli individui prendono l’iniziativa, con o senza l’aiuto di altri, per
diagnosticare i propri bisogni di apprendimento, formulare degli obiettivi di
apprendimento, identificare le risorse – umane e di altro tipo – necessarie per l’apprendimento,
scegliere e implementare delle strategie di apprendimento e valutare i risultati”.
Nella definizione di Knowles si trova conferma che l’iniziativa personale è uno tra gli aspetti di
primo piano che qualificano il processo autodiretto, dove le operazioni richiamate rinviano alle
tradizionali fasi del processo formativo: progettazione, realizzazione, valutazione.

Joyce L. Epstein e Salinas – le ricerche sull’influenza della famiglia


sull’apprendimento sociale- I sei tipi di coinvolgimento.

Nel suo libro Epstein J.L. (2002), School, family, and community partnerships: Caring for the
children we share, il professore americano Joyce L. Epstein propone una ricerca
sull’influenza degli ambienti di apprendimento sul rendimento scolastico e sul ruolo della
famiglia e dei genitori nella dinamica educativa.
Epstein individua sei tipi di coinvolgimento. Due autori sono fondamentali: Joyce L. Epstein
and Karen Clark Salinas.

Sei tipi di coinvolgimento dei genitori nella learning comunity della scuola.

● 1. Parenting/Genitoriale. La scuola deve offrire sostegno ai genitori per le questioni


relative alla crescita dei figli. I genitori devono aiutare la scuola a comprendere il
background familiare e culturale del ragazzo.
⇒Assist families with parenting skills, family support, understanding child and adolescent
development, and setting home conditions to support learning at each age and grade level.
Assist schools in understanding families’ backgrounds, cultures, and goals for children.
● 2. Communicating/Comunicazione.
⇒ Communicate with families about school programs and student progress. Create two-way
communication channels between school and home.
● 3. Volunteering /Volontariato o attività sociali di supporto alla comunità ed
associazionismo. Improve recruitment, training, activities, and schedules to involve
families as volunteers and as audiences at the school or in other locations. Enable educators
to work with volunteers who support students and the school. Coinvolgere i genitori a
partecipare alle attività che si svolgono a scuola e alla attività formative in generale.
● 4. Learning at Home /Compiti a casa. Coinvolgere i genitori nell’apprendiemnto a
casa.
⇒ Involve families with their children in academic learning at home, including homework,
goal setting, and other curriculum-related activities. Encourage teachers to design
homework that enables students to share and discuss interesting tasks.
● 5. Decision Making/ Prendere decisioni insieme, partecipare alla governance delle
istituzioni scolastiche attraverso i consigli di istituto etc.
⇒Include families as participants in school decisions, governance, and advocacy activities
through school councils or improvement teams, committees, and parent organizations.
● 6. Collaborating with the Community/ Collaborare con la comunità in cui si trova la
scuola, concetto di “comunità educante”. Permettere a tutti di contribuire al servizio
della comunità.
⇒ Coordinate resources and services for families, students, and the school with community
groups, including businesses, agencies, cultural and civic organizations, and colleges or
universities. Enable all to contribute service to the community.
Un altro elemento importante è il rapporto con la comunità:
La ricerca di questi autori Epstain e di Salinas, ma anche di autori come Huntsinger, Jose,
Liaw e Ching (1997) sulle differenze culturali, si pone diversi obiettivi:
1. individuare le strategie con le quali i genitori intervengono a casa per supportare e
indirizzare le attività scolastiche dei figli. Alla luce dei contributi che sottolineano che il
coinvolgimento dei genitori è multidimensionale, un primo obiettivo è circoscrivere in
maniera operazionale i comportamenti più comuni nell’interazione con gli allievi nel contesto
dell’apprendimento a casa e di rilevarne la frequenza con l’ausilio di strumenti di
autovalutazione;
2. analizzare l’andamento di queste strategie in funzione della scolarità dei figli (dalla prima
alla quinta classe della scuola primaria). Alcuni studi indicano che i genitori si mostrano più
coinvolti nello svolgimento dei compiti a casa quando gli allievi sono più giovani pertanto
abbiamo ipotizzato un’attenuazione delle forme più dirette e «convergenti» di intervento
all’aumentare degli anni scolari;
3. rilevare, attraverso checklist osservative, i comportamenti problema più comuni in questa
fascia d’età scolare, con lo scopo di valutare le possibili associazioni con le strategie dei
genitori. Per il disegno correlazionale della ricerca, l’ipotesi è che in presenza di un profilo
problematico (distraibilità, evitamento del compito, difficoltà di organizzazione, scarsa
accuratezza, ecc.) il genitore tenda ad attuare forme più dirette di controllo.
Gli interventi della scuola si distinguono tra:
(a) comportamenti che contribuiscono ad aumentare il rendimento e la motivazione degli
studenti.
(b) strategie più circoscritte che richiedono all’adulto uno sforzo più sistematico e diretto
rispetto ai compiti a casa.
Al primo gruppo appartengono attività come:
– mantenere contatti con gli insegnanti: informarsi dei progressi e del
rendimento scolastico, seguire consigli e raccomandazioni sul metodo di studio;
– strutturare un contesto fisico e psicologico per lo studio a casa: stabilire un
orario specifico e aiutare il figlio a organizzare gli spazi e il materiale, assicurare una
«disponibilità a richiesta», ecc.;

– offrire una supervisione generale nel corso dello studio a casa sotto forma
di monitoring, cioè di attenzione e controllo a ciò che fa il figlio, in particolare ai segnali
positivi o di difficoltà rispetto al compito e alla motivazione;
– rispondere alla prestazione, ovvero rinforzare e lodare lo sforzo, il completamento e la
correttezza delle attività svolte, offrire un supporto emozionale, rivedere i compiti conclusi.
Nella seconda categoria vengono descritti comportamenti più strettamente connessi con il
processo di apprendimento o con i contenuti delle attività assegnate per casa, ad esempio:
– impegnarsi nello svolgimento dei compiti e lavorare «con» lo studente: assistere ed
aiutare, insegnare il compito (fare apprendere informazioni, esercitare, memorizzare, ecc.)
oppure usare metodi più indiretti e informali come rispondere alle domande o seguire i
suggerimenti dell’allievo;
– attuare meta-strategie volte a creare un adattamento (fit) tra il compito da svolgere e le
conoscenze e le abilità dello studente: scomporre il compito in parti più brevi, osservare e
riconoscere il livello di sviluppo di chi apprende e «insegnare» in conformità ad esso;

Qualè l’approccio efficace per i compiti a casa?


– avviare processi interattivi per sostenere lo studente nella comprensione del compito: modellare o
dimostrare adeguate modalità d’apprendimento, discutere strategie di problem solving, favorire e
valutare la comprensione dei concetti;
– attuare meta-strategie che aiutino ad apprendere processi che contribuiscono al successo: supportare
le abilità di autoregolazione, la responsabilità personale e nei risultati, aiutare a organizzare le idee
riguardo ai compiti, incoraggiare l’automonitoraggio e la focalizzazione dell’attenzione, insegnare
come regolare le risposte emozionali rispetto allo studio.
Secondo Delgado-Gaitan (1992) un approccio del secondo tipo, esclusivamente «convergente» e
centrato sul compito, in cui il controllo da parte dell’adulto è maggiore (dà istruzioni, revisiona e
corregge il lavoro del figlio, ecc.), è associato a prestazioni scolastiche più scarse, mentre un
approccio meno strutturato ma più responsivo, cioè centrato su chi apprende, sembra favorire migliori
risultati, in quanto più flessibile e attento agli aspetti motivazionali (in primo luogo, incoraggiare e
sostenere l’impegno).
Hoover-Dempsey e colleghi (2001) sottolineano però che la maggior parte dei genitori adopera
entrambi gli approcci, prestando contemporaneamente attenzione alle caratteristiche del compito e a
quelle di chi apprende. In altre parole, vi può essere un’interazione guidata dall’adulto che sa
riconoscere quando è necessario aiutare e assistere (ad esempio, evidenziando sul testo le
informazioni essenziali, parafrasando un’istruzione poco chiara, mostrando una procedura di calcolo,
ecc.) in modo da favorire un adattamento (fit) dello studente al compito ed eliminare ogni
eventuale ostacolo al suo svolgimento; contemporaneamente, l’adulto sa incoraggiare ogni attività
autonoma con una supervisione (monitoring) che riduce l’aiuto superfluo e favorisce la motivazione
intrinseca e l’autoregolazione.
La strategia più utile sembrerebbe quindi mostrare interesse e garantire l’aiuto, quando quest’ultimo
diventa necessario, con una sorta di disponibilità “a richiesta”
Le ricerche suggeriscono, tuttavia, che non tutte le conseguenze sono positive, perché i compiti svolti
a casa possono avere un impatto non favorevole sull’esperienza dei genitori e degli stessi studenti.
Reetz (1990), valutandone l’utilità dal punto di vista delle famiglie, rileva che il problema più spesso
riferito dai genitori di alunni di scuola primaria è la sottrazione di tempo e di risorse da dedicare ad
altre attività personali o familiari piacevoli; i compiti, inoltre, possono creare tensioni e ridurre il
numero di interazioni positive con i figli, in particolare se vi sono problemi di attenzione e
concentrazione o veri e propri disturbi dell’apprendimento (Rogers, Wiener, Marton e Tannock,
2009). Kay, Fitzgerald, Paradee e Hellencamp (1994) ritengono che il coinvolgimento nello studio a
casa possa accrescere il senso di inadeguatezza quando i genitori non si sentono opportunamente
preparati ad affiancare i figli affrontando i contenuti più specifici o complessi di alcune discipline,
soprattutto negli ordini di scuola superiori.
Secondo altri studi, alcuni limiti potrebbero derivare da un eccessivo coinvolgimento familiare nello
studio dei figli, con effetti negativi sull’apprendimento e sul loro orientamento motivazionale. Gli
adulti a volte esercitano pressioni perché i bambini svolgano i compiti in un certo modo, ma senza
tenere conto delle loro preferenze o dell’effettivo livello di apprendimento, fino a diventare insistenti
perché li completino o punitivi se non raggiungono buoni risultati (Cooper, 1989). È anche possibile
che questa pressione spinga l’adulto ad assumere un ruolo impropriamente didattico, con il rischio di
creare confusione con i metodi e i contenuti proposti in classe dall’insegnante; c’è anche la possibilità
che l’aiuto vada al di là del semplice supporto (come svolgere i compiti al posto del figlio),
minacciando il senso di fiducia e l’autonomia dell’allievo (Cooper, 2001).
Alcune ricerche hanno dimostrato che lo stile di interazione efficace, che influenza positivamente il
rendimento, è quello di tipo collaborativo, in cui gli adulti condividono le informazioni e strutturano
le attività verso il compito in modo da consentire allo studente di apprendere e di mantenere il suo
controllo sull’apprendimento. Esempi di attività collaborative sono: dirigere l’attenzione sulle
componenti del compito, semplificare l’esercizio quando è necessario, spiegare nuovi contenuti,
facilitare il collegamento con contesti simili, rispondere alle domande (Hoover-Dempsey, Bassler e
Burow, 1995).
Di contro, le strategie più intrusive non sembrano promuovere il rendimento, creano un clima
emozionale negativo (Pomerantz, Wang e Ng, 2005) e influenzano lo sviluppo di schemi
motivazionali di impotenza: infatti, «le tecniche che lasciano poco spazio all’autonomia del bambino
potrebbero soffocare la sua iniziativa e trasmettere esplicitamente il messaggio che gli adulti non
hanno fiducia nelle sue capacità» e nelle sue possibilità di successo (Hokoda e Fincham, 2000, p.
167).
Ciò che emerge dalla letteratura è dunque l’idea che il coinvolgimento genitoriale sia un costrutto
complesso e multideterminato.
La mentalità dei genitori riguardo all’importanza dell’istruzione — la necessità di mantenere un
contatto con la scuola, le aspettative di successo, ecc. — e, dall’altro, i comportamenti prossimali e
lo stile di interazione con cui, all’interno dell’ambiente familiare, essi strutturano il contesto e
influenzano i processi di apprendimento (Bakker e Denessen, 2007).
Alcuni autori evidenziano anche il rischio che una definizione generica del coinvolgimento
genitoriale possa racchiudere una gamma troppo ampia di variabili che, a loro volta, potrebbero essere
predittive in misura diversa di risultati positivi riguardo all’utilità dei compiti a casa,
dell’autoregolazione dello studio, della motivazione o del successo scolastico degli allievi.

La teoria della prospettiva trasformativa Jack Mezirow e Pineau


La teoria della prospettiva trasformativa
La teoria della prospettiva trasformativa si propone come teoria generale dei processi formativi in età
adulta.
Secondo Jack Mezirow, il processo della prospettiva trasformativa è centrale nello sviluppo
dell’adulto.

Si parte dal presupposto che il pensiero e l’esperienza si influenzino a vicenda. Così, nello strutturare
il pensiero, l’uomo si avvale di un sistema di significati, di complesse strutture di credenze, teorie e
assunzioni psicoculturali che gli permettono di mediare e interpretare l’esperienza personale e che da
essa nascano.

In questo modo, l’esperienza viene organizzata e resa coerente, ma allo stesso tempo tali strutture
distorcono e limitano la percezione perché vincolate da un significato consolidato nella struttura di
significati. Perché quest’ultima subisca un cambiamento, occorre realizzare una discussione critica.
Solo in questo modo si garantisce che i significati prospettati per l’assunzione da parte del soggetto
siano identificati, valutati criticamente e riformulati in modo tale da rendere più permeabile la
prospettiva di pensiero del soggetto.
Secondo Mezirow per poter parlare di apprendimento auto-diretto formula e distingue tre funzioni
dell’apprendimento adulto:

 L’apprendimento strumentale, ossia apprendimento che avviene attraverso l’esperienza ed è


funzionale all’azione che il soggetto deve produrre;
 L’apprendimento dialettico, ossia apprendimento che si basa su valori, ideali, sentimenti e sulla
cultura di riferimento del soggetto che apprende. Quindi, la conoscenza avviene nel momento in cui
ci rapportiamo con gli individui facenti parte del contesto in cui siamo inseriti e nel momento in cui
cerchiamo di capire quello che ci vogliono comunicare attraverso la parola, il discorso (quindi
mediante elementi di una cultura condivisa);
 L’apprendimento auto riflessivo, ossia apprendimento che avviene sulla base di assunti psicologici
pregressi che sono divenuti disfunzionali nell’età adulta e che influenzano di conseguenza il
comportamento del soggetto in maniera negativa. L’apprendimento auto riflessivo porta a livello di
coscienza questi assunti psicologici costrittivi che dà luogo alla separazione tra passato, fatto di
sentimenti ansiogeni, e presente adulto.
Mezirow sostiene infatti che: “…In quanto discenti adulti, siamo prigionieri della nostra storia
personale. Per quanto abili a dare un significato alle nostre esperienze, tutti noi dobbiamo partire da
ciò che ci è stato dato, e operare entro gli orizzonti fissati dal modo di vedere e di capire che abbiamo
acquisito attraverso l’apprendimento pregresso”.

Pineau
Secondo Gaston Pineau, l’individuo apprende sia grazie ad un soggetto esterno che lo forma, sia
tramite l’interazione con gli altri, sia attraverso le esperienze che vive all’interno dell’ambiente di
riferimento. A tal proposito, egli parla di etero ed eco formazione intendendo la formazione che
l’individuo coglie dagli altri esseri e dall’ambiente fisico, ma non meno importanti sono le successive
fasi di sviluppo: è a questo punto che si inizia a parlare di autoformazione.

La concezione dell’etero formazione si concentra soprattutto in età infantile e adolescenziale,ma


risultano essere relativamente poche le ricerche e pubblicazioni sulla formazione per adulti.

Pineau contesta le teorie classiche della psicoanalisi e dell’apprendimento e i modelli di decrescita e


di compensazione che si riferiscono alla terza età, egli ritiene che la fase di passaggio tra infanzia-
adolescenza e anzianità non sia per nulla piatta ma ricca di stimoli importanti per la propria
formazione.

Emerge dunque come: più la vecchiaia si avvicina, più aumenta il desiderio di apprendere, di passare
dalla giovinezza alla saggezza. Il ritiro dalla vita lavorativa non è un ritiro dalla vita attiva ma una
possibilità di “nuovo approfondimento” che comporta un’analisi più profonda della propria vita
personale, ma anche lavorativa. Vissuto in modi più o meno attivi e drammatici, il processo di
autoformazione della vecchiaia viene direttamente alle prese con i limiti naturali, come la morte.

Competenze
L’autoformazione si impone come un percorso in cui è fondamentale conoscere la propria persona in
quanto agisce, vive e si forma; a tal proposito è dunque importante che il soggetto faccia leva sulle
proprie capacità di individuare le modalità migliori per apprendere e che sviluppi quelle competenze
per rendere l’autoformazione una formazione efficace.
Tremblay propone un modello che focalizza cinque competenze-chiave per l’autoformazione:

 La conoscenza di sé e delle proprie modalità di apprendimento;


 La riflessione critica durante e dopo l’apprendimento;
 L’accettazione dell’incertezza quale condizione connaturata alla complessità apprendimento e quale
limite al controllo/potere del soggetto che apprende;
 La flessibilità al cambiamento nei confronti della realtà in cui si vive e in cui si apprende, con i
condizionamenti e i limiti che essa pone (adattamento agli avvenimenti);
 La condivisione e l’interazione con gli altri (ci si serve del sistema di risorse)

Tali competenze possono concretizzare, per il soggetto che si autoforma, alcune capacità, quali ad
esempio quella di aprirsi al cambiamento di sé, di ricercare in maniera autentica se stessi, di costruire
dinamicamente la propria formazione, di contestualizzare la formazione

L’architettura del cervello quando apprende. Hinton e Fischer: apprendimento e


qualità del cervello, stimolo e relazioni chimico-celebrali
Hinton e Fischer hanno formulato il principio di “principio di “usa le connessioni altrimenti le perdi”.
Vediamo cosa significa e come va inquadrato all’interno delle teorie dell’apprendimento.

L’apprendimento per Hinton e Fischer dipende non solo dalla possibilità del cervello di creare un
maggior numero di connessioni neuronali attraverso le sinapsi, ma anche dai collegamenti che li
riguardano.
Da un lato, l’architettura del nostro cervello, con la sua dotazione genetica iniziale, dall’altro la
capacità di creare connessioni (il modello di apprendimento proposto proprio dalla piattaforma di
Origine Concorsi che sviluppa tutte le potenzialità dell’ipertestualità). Infatti studiando per il TFA
Sostegno Origine ci fornisce una base di connettività necessarie, predisposte per lo sviluppo futuro di
connessioni, teorie, parole chiavi, mappe concettuali: sono tutte addestramento per il cervello.
L’incremento delle connessioni dipende dalle risposte che saranno fornite alle sollecitazioni che
provengono dall’ambiente (in questo senso i nostri simulatori digitali). Durante la vita di ciascun
individuo, dotazioni genetiche ed esperienze interagiscono per formare lo sviluppo, come durante la
preparazione della prova preselettiva.

Le esperienze di apprendimento sono quindi tradotte in segnali – elettro-chimici – che gradualmente


modificano le connessioni tra i neuroni.

In seguito le connessioni così acquisite debbono essere costantemente sollecitate seguendo il


principio di “usa le connessioni altrimenti le perdi”. Per Hinton e Fischer il cervello umano è fatto
per apprendere: è quanto fa meglio e preferisce fare, in qualsiasi momento, incessantemente, a partire
da quando elabora l’informazione, formandosi in modo consistente nelle esperienze.

Questo aspetto è rilevante poiché conferma come la qualità delle esperienze di apprendimento possa
migliorare in modo considerevole lo sviluppo del cervello e del potenziale umano.
Classe/Scuola Scomposta – L’ambiente didattico è un fattore essenziale per
l’apprendimento.

Scuola scomposta come ambiente di apprendimento.


Classe/Scuola scomposta – Una scuola scomposta si struttura con laboratori per competenze, in
una scuola-casa pensata appositamente per il benessere degli studenti e per dare forma a un luogo
accogliente per una didattica innovativa in cui al centro ci sono i ragazzi protagonisti del loro
apprendimento.
Come detto è fondamentale scomporre l’aula per permettere agli studenti di raggiungere gli obiettivi
prefissati.
Essere cittadini digitali implica vivere e sapersi muovere in nuovi spazi, con oggetti sconosciuti sino
a pochi anni fa, ma che ormai sono parte integrante del mondo odierno e che perciò la scuola non può
in alcun modo ignorare.
Offrire libertà, anche di movimento, nell’aggregazione spontanea e nella scelta delle proprie modalità
di apprendimento rende i ragazzi molto più responsabili: con la classe scomposta gli studenti crescono
nell’autostima, nella disciplina e la capacità di interagire socialmente rispettando le regole.
Una scuola (o classe) scomposta è pensata specificamente per essere un luogo accogliente, dove si
possa adottare un tipo di didattica innovativa al cui centro ci sono i ragazzi, protagonisti del proprio
apprendimento.

È dunque una sorta di scuola-casa, pensata espressamente per il benessere degli studenti, che lavorano
non sempre nella stessa aula, bensì in diversi laboratori, progettati per competenze. In questo modo,
si “scompone” appunto il luogo scolastico, sia dal punto di vista fisico che concettuale. Esso viene
infatti suddiviso in tanti piccoli luoghi che portano in sé diverse competenze, utili per creare il puzzle
finale che dovrebbe caratterizzare ogni studente.

In una classe scomposta tipica, gli spazi comunemente intesi sono completamente destrutturati: ad
esempio, si troveranno banchi spostati lungo le pareti, uno accanto all’altro, per i ragazzi che hanno
bisogno di studiare a scuola.

Ci saranno poi alcuni luoghi fuori dall’aula, adibiti a spazi comuni, dove soggiornare, discutere di
libri, comunicare, dibattere, riflettere insieme agli altri in momenti collettivi. Se poi gli studenti
volessero leggere libri (cartacei e non), o rilassarsi, o ancora scrivere i propri pensieri su un diario, ci
sarebbe per loro l’ambiente salottino.
Una scuola scomposta prevede inoltre postazioni utili per guardare i film in modo collaborativo
(cineforum), e altre adibite alle webconference. Questi e tanti altri sono quindi gli spazi e gli strumenti
di cui i discenti possono fruire liberamente in una classe scomposta, all’interno di un ambiente che li
metta a loro agio e senza barriere architettoniche. È pur vero che la libertà di azione dei discenti
potrebbe creare un po’ di difficoltà agli insegnanti.
Infatti, il fatto che essi siano liberi di alzarsi, sedersi sui banchi, aggregarsi in maniera autonoma,
uscire dall’aula per andare in altre classi, ascoltare musica o guardare video senza dover chiedere un
esplicito permesso ai docenti, rappresenta una sfida dal punto di vista logistico e organizzativo.

Ci vorrà dunque uno sforzo, da parte degli insegnanti, per integrarsi nel gruppo degli alunni, in modo
da diventare “uno di loro” grazie ad una assidua partecipazione ai lavori di gruppo.
In tal modo, l’insegnante non si troverà a chiedere ai ragazzi – quando servirà per le lezioni frontali
– di rimettersi nell’assetto scolastico classico (banchi e cattedra di fronte): sarà quasi naturale, per
loro, far ciò per stare più comodi – nel momento in cui dovranno aprire i libri o i quaderni per prendere
appunti, guardando alla lavagna. Come si è visto, nella scuola scomposta gli studenti interagiscono
liberamente con i compagni e con gli altri insegnanti. Si cerca quindi di creare uno spazio sereno e
un’atmosfera collaborativa: il tutto, però, sempre nel rispetto delle regole.

È infatti timore comune dei docenti che questo tipo di ambiente renda difficoltosa la didattica, poiché
troppo dispersivo per alcuni tipi di alunni.Ciò potrebbe essere vero nella misura in cui, a questi ultimi,
non si dia contezza dei criteri con cui verranno valutati che, ovviamente, comprendono anche la
condotta. La classe scomposta, in effetti, adotta spazi del genere perché essi sono utili per sviluppare
tutte le competenze che l’Europa richiede da tempo alla scuola moderna, tra cui quelle di cittadinanza
e quelle relative all’uso delle nuove tecnologie.

Dal punto di vista della didattica, esse convogliano in varie UdA (unità d’apprendimento), che i
docenti progettano e comunicano agli alunni – anche affiggendo dei cartelloni negli spazi comuni.
Sarà sul loro raggiungimento che si baserà la valutazione.

Dal canto loro, anche gli alunni avranno modo di rendersi conto dei propri progressi: ciò è possibile
tramite dei moduli di auto-valutazione online che la scuola mette a disposizione degli alunni perché
questi, in maniera il più possibile obiettiva, cerchino di comprendere fino a che punto hanno fatto
progressi nel loro cammino di apprendimento. Moduli di valutazione e auto-valutazione vengono poi
messi a confronto, in modo da capire se ci siano criticità o discostamenti troppo evidenti tra il punto
di vista del discente e quello del docente: i due, in tal modo, continuano a dialogare fino alla fine del
loro percorso insieme.

Il processo di apprendimento prevede:


• ricercare e selezionare informazioni;
• sapersi confrontare con gli altri;
• affermare o confutare tesi;
• saper lavorare in gruppo;
• saper comunicare, esprimersi, ascoltare;
• indirizzare creatività ed emozioni;
• operativizzare;
• inquadrare e risolvere problemi;
• identificare e perseguire obiettivi e percorsi di soluzione;

La conoscenza è sempre in divenire, i ragazzi in classe devono essere in grado di comunicare con i
propri compagni, con chi si trova fuori dall’aula, con chi immaterialmente può dar loro informazioni
per costruire il proprio sapere. Devono saper ascoltare, confrontarsi, ricercare, affermare e confutare
tesi, lavorare in gruppo, saper esprimere e gestire emozioni e creatività. Il modello del Future
Classroom Lab di European Schoolnet e del TEAL (Technology Enabled Active Learning) utilizzato
in alcune aule del MIT di Boston; ne sono un esempio l’Istituto Pacioli di Crema16 o l’IIS Benincasa
di Ancona.
Il costo di queste aule è sicuramente molto alto; esse seguono inoltre schemi didattici che non ci
appartengono del tutto, anche se la proposta di reinventare gli spazi, gli arredi, i colori e le modalità
didattiche non può che trovarci d’accordo.

Una “classe scomposta” parte da altre realtà: nessuno spazio extra aula, 32 banchi, una cattedra, una
LIM (preesistente ma per noi non necessaria), un videoproiettore, casse acustiche, una postazione per
creare e-book, ragazzi dotati di mobile device. Le nuove postazioni di lavoro normalmente utilizzate
a casa, quali i dispositivi a loro più congeniali per comunicare, reperire informazioni e lavorare; il
nostro intento è stato di ricostruire un ambiente familiare, in cui gli alunni potessero gestirsi
autonomamente e sentirsi a proprio agio, che rispecchiasse il loro modo di studiare e di apprendere.

Da queste considerazioni è nato il nostro modello di classe, che ha le seguenti caratteristiche:

• i banchi sono spostati lungo le pareti (sarebbe ancora più utile avere banchi e sedie che si chiudono
e si aprono all’occorrenza);

• sono stati creati alcuni posti fuori dall’aula in un vicino sottoscala, che è divenuto il luogo in cui gli
studenti studiano individualmente, anche con sedie più comode rispetto a quelle tradizionali;

• sono state create postazioni per poter leggere tranquillamente i libri cartacei (biblioteca della classe);

• altre postazioni servono per guardare i film in modo collaborativo;

• una postazione è stata adibita alle webconference;

• un’altra postazione è dedicata alla costruzione di e-book;

• la cattedra è stata spostata in fondo all’aula con accanto una bacheca in cui vengono pubblicate le
UDA, le griglie di valutazione definite dal CdC, gli orari dei docenti delle altre classi in modo che i
ragazzi possano tranquillamente spostarsi o interagire con altri studenti o altri insegnanti durante le
lezioni.

Sedie, banchi, quaderni, penne, mobile device, PC, LIM, videoproiettore, casse acustiche, biblioteca
di testi cartacei, postazioni per webconference… questi e tanti altri sono pertanto gli strumenti che i
ragazzi possono usare a loro piacimento per creare un ambiente liberante, senza ostacoli, che dia
serenità e consenta l’instaurarsi di un’atmosfera di collaboratività tra docente e discente, improntata
a reciproco rispetto, ma soprattutto offra ai ragazzi la possibilità di personalizzare il loro modo di
apprendere, secondo le singole e individuali necessità. Permettere ai ragazzi di alzarsi, di sedere sui
banchi, di aggregarsi in modo autonomo, di uscire dall’aula per recarsi in altre classi, di ascoltare
musica o di guardare video senza dover chiedere un esplicito permesso può creare imbarazzo e
problemi al docente, ma se il professore diventa “uno di loro” svolgendo le stesse attività,
partecipando con serenità e disponibilità al lavoro di ricerca, cadono tutte le barriere e il clima diviene
sereno, collaborativo, improntato a grande condivisione.
Schwab J. J. e la struttura della disciplina ed il curriculo
Schwab J. J., nel suo La struttura delle discipline, mette in relazione La struttura della conoscenza
e il curricolo.

Ogni disciplina è «una finestra sul mondo» che non assomiglia a nessun’altra; lo sguardo «alto e
altro» che i saperi disciplinari permettono di avere conferisce loro “sapore”.

Per J. J. Schwab, che si occupa del passaggio dalle discipline “di ricerca” alle discipline “di
insegnamento” (1971), in ogni disciplina sono individuabili due strutture interdipendenti: una
struttura sostanziale o concettuale, costituita dalle leggi, dai principi, dalle idee base e dalle nozioni
propri della disciplina; una struttura sintattica, di cui fanno parte le procedure metodologiche e i
criteri di validazione, gli strumenti utilizzati, il linguaggio specifico della disciplina.

Rifacendosi al concetto di «matrice disciplinare».

L’approccio strutturale di Schwab J. J., per settori-chiave, non perde mai di vista l'”unità”
dell’educazione, il curricolo complessivo in tutti i suoi equilibri, portando a far vedere nessi
insospettati, per esempio, tra un nuovo curricolo di matematica e le scienze, gli apprendimenti
linguistici, le stesse attività espressive, e viceversa: nessi di fondo, non fortuite convergenze.

In base alla sua matrice ogni disciplina è organizzata e funziona «come un principio globale di
intelligibilità» che associa intimamente:

 – l’uso di concetti propri;


 – pratiche teoriche specifiche;
 – forme particolari di validazione;
 – strumenti, materiali, fonti, riferimenti
Egli sottolinea che una disciplina non si definisce per gli oggetti del suo dominio empirico, ma per il
quadro teorico originale che i suoi concetti producono.

Infatti discipline che hanno lo stesso oggetto, ad esempio l’uomo per le scienze umane (psicologia,
sociologia, antropologia, ecc.), lo trattano in maniera differente. Gli scienziati, preoccupati dal
crescente divario tra scienza moderna e l’insegnamento scientifico nella scuola, e gli psicologi,
impegnati nello studio dello sviluppo mentale e dell’apprendimento, hanno richiamato l’attenzione
su un’organizzazione del curricolo che tenga conto di una razionale “organizzazione della
conoscenza”, cioè delle complesse articolazioni del sapere così come si presentano oggi.

Un ambiguo interesse al discorso sul curricolo, come a un’aspirazione educativa chiusa entro i limitati
orizzonti di una efficienza intellettuale valorizzata al di fuori di ogni concezione d’insieme. Occorre
perciò tenere ben presente che il significato di “curricolo” non è solo quello di “programma per un
certo corso di studi”, ma si estende ad aspetti psicologici, organizzativi, didattici, valutativi.

Egli dimostra come i curricoli delle nostre scuole, frutto dei successivi adattamenti di
un’impostazione di tipo umanistico, siano superati e inorganici (basta pensare che identificano
senz’altro le “scienze” con le “scienze della natura”).
L’Index per l’inclusione di Tony Booth e Mel Ainscow
La concezione di inclusione presuppone il superamento della logica integrazionista con cui i sistemi
di istruzione moderni tendono a gestire la diversità e muove verso quella dell’inclusione.
Dall’integrazione ⇒ all’inclusione, in particolare nei confronti di disabilità e multiculturalità.
L’Index per l’inclusione è uno strumento tramite cui le scuole (su iniziativa di singoli o di gruppi)
possono operare un’auto-analisi ed un’ auto-riflessione sul grado per questo è l’indice, cioè il grado
di inclusività e apportare cambiamenti alla propria organizzazione per accrescere l’inclusione di tutti
i suoi membri, minori e adulti, al proprio interno. Secondo gli autori non sussiste differenza tra
inclusione sociale e inclusione a livello scolastico.
Obbiettivi dell’Index sono:
1. Creare politiche inclusive
2. Sviluppare pratiche inclusive
3. Creare culture inclusive

In pratica, la mancanza di inclusione sociale e/o di successo scolastico di un alunno non dipenderebbe
da un deficit a lui interno, ma da un difetto nell’organizzazione della scuola e delle sue pratiche
didattiche, definibile come “ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione”, o di ambienti di
apprendimento non adatti al suo sviluppo ed alla sua crescita.

L’Index per l’inclusione è una proposta metodologica e di analisi degli ambienti di apprendimento
sviluppata da Tony Booth e Mel Ainscow, gli autori hanno raccolta la proposta in un testo uscito poi
uscito nel 2000 in inglese, ma tradotto poi anche in Italiano.
L’Index o indice per l’inclusione è usato come strumento per promuovere l’inclusione nella scuola.
L’index parla, infatti, di valori inclusivi a cui si ispirano gli autori, una selezione frutto di dibattito e
ricerca.
Uguaglianza, partecipazione, comunità, sostenibilità, rispetto per la diversità sono selezionati come
cinque valori fondamentali, a cui si aggiungono diritti, non violenza, fiducia, empatia, onestà,
coraggio, gioia, amore, speranza/ottimismo e bellezza.
L’index prova ad andare oltre la logica dei numeri e delle tecniche, e cerca di tener conto dei bisogni
legati all’individualità/ismo (speciali/tà/ismi) e cerca di rendere i valori dell’inclusione davvero
universali; non li tratta come problemi ma come momenti dell’essere al mondo e nel mondo. Infatti,
Tony Booth e Mel Ainscow, sorprendentemente individuano un nesso tra il tema dell’inclusione e il
tema della sostenibilità ambientale e globale.
Sulla base dell’indice e dei suoi valori la scuola è chiamata a elaborare un quadro “negoziato”,
condiviso e partecipato dei propri valori, i cui principi si possono trovare anche nel PTOF. L’indice
offre anche questionari da somministrare al personale, agli alunni e alle famiglie per vagliare la
percezione dell’inclusione nella scuola e stabilire priorità d’intervento.

Ogni scuola deve:


a. analizzare la scuola
b. elaborare un progetto di sviluppo
c. passare all’azione
d. rivedere lo sviluppo del processo

Per poi tornare a ri-analizzare l’istituto, in un «processo inesauribile».


A livello didattico, l’Index propone anche una radicale revisione dei curricoli, con un superamento
della classica sistematizzazione disciplinare che approdi a un «curricolo basato sui diritti globali»

Presupposto dell’inclusione è che ogni scuola è in se un’impresa collettiva, e va condivisa e la


promozione dell’apprendimento e della partecipazione così come la lotta alla discriminazione sono
un compito che non ha mai fine, poiché “coinvolge tutti in funzione della riflessione e della riduzione
degli ostacoli che noi ed altri abbiamo creato e continuiamo a creare. L’index enumera i criteri in
base ai quali una scuola può essere considerata inclusiva sulla base di una serie di domande-stimolo
da cui far partire la riflessione e la discussione a livello personale o dei gruppi di lavoro.

Kilpatrick ed il Metodo dei Progetti


Se il pedagogista Friedrich Froebel (1782-1852), è ideatore dei “giardini d’infanzia”, Kilpatric lo è
del Metodo dei progetti.

Il metodo di insegnamento deve infatti anche porsi il problema dei valori in gioco e dei fini da
perseguire. La scelta del metodo di insegnamento ha un valore sociale e politico (per costruire la
società democratica cui Kilpatrick è legato è necessaria una consapevole azione educativa). Per
Kilpatrick l’individuo agisce in funzione di fini: ogni azione intenzionale si concretizza in un
“progetto”.
Il metodo di insegnamento migliore è di conseguenza un metodo di “progetti”.
Questi lavora alla relazione tra pedagogia e società, tipica del metodo attivista, dove conoscenza e
lavoro pratico, ma anche la formazione sul modello di Dewey, significa partecipazione alla vita
collettiva, economica e sociale”.
Per Kilpatrick educare significava un’unità di “cuore”, “mente” e “mano”, gli studenti, stimolati
nell’interesse, erano stati in grado di studiare da soli senza la sua supervisione.

Secondo Kilpatrick il sapere deve essere soprattutto invenzione, scoperta. Non ci si può limitare a un
“problema stretto del metodo” (come insegnare una disciplina) ma ci si deve aprire a un “largo
problema del metodo”.

- I progetti individuati da Kilpatrick sono i seguenti:

1. progetto del produttore, il cui scopo è produrre qualcosa di pratico e operativo;


2. progetto del consumatore (progetto con cui si usa qualcosa e se ne gode esteticamente);
3. progetto di un problema (progetto di tipo intellettuale) il cui proposito è di far luce su qualche
difficoltà concettuale;
4. progetto di apprendimento specifico, il cui proposito è perseguire un qualche tipo di abilità o
conoscenza (lettura, scrittura, ecc.).

- Come iniziare a lavorare per progetti? Secondo Kilpatrick, ci sono tre cose che l’insegnante
potrebbe fare fin da subito:

1. trasformare gradualmente il lavoro di classe in un lavoro per progetti;


2. riservare almeno mezz’ora al giorno al lavoro libero (è il terreno di prova per poi intraprendere
progetti che richiedono più tempo);
3. mantenere alcune attività fuori dal programma.
Ausubel gli organizzatori anticipati/avanzati e l’apprendimento significativo
David Paul Ausubel è stato uno psicologo cognitivista. Vedremo nei prossimi moduli di Origine, cosa
significa essere uno psicologo cognitivista edi principali esponenti di cui ricordiamo, il più importante
ricordiamo è stato Jean Piaget. Ausubel è noto per aver sviluppato la strategia cognitiva degli advance
organizers tradotti come organizzatori anticipati a volte tradotti anche con avanzati e per il concetto
di apprendimento significativo. Ausbel pone la sua riflessione sull’apprendimento di tipo cognitivo,
cioè sull’acquisizione e sull’utilizzo della conoscenza.
Per Ausubel l’apprendimento significativo è il processo attraverso il quale le nuove informazioni
entrano in relazione con i concetti preesistenti nella struttura cognitiva della persona. Questo
approccio presuppone un ruolo attivo, una scelta consapevole da parte di chi apprende. Sia Ausbel
sia Novak (⇒ vedi NOVAK), che a essa si ispira, traggono spunto dalle conoscenze che pian piano
emergono, in seno alla comunità scientifica, sui meccanismi biologici della memoria e
dell’immagazzinamento delle conoscenze (⇒ vedi anche le mappe concettuali di Novak). Le
informazioni provenienti dall’esterno siano immagazzinate in alcune regioni del cervello e che tale
processo coinvolga decine di migliaia di cellule cerebrali che subirebbero modificazioni in base alle
nuove conoscenze apprese.
Le cellule neurali attive in fase di immagazzinamento nel corso dell’apprendimento significativo
sarebbero sottoposte a ulteriori modificazioni formando delle sinapsi o altri tipi di associazioni
funzionali coi nuovi neuroni. Con lo sviluppo del processo di apprendimento, la natura e l’estensione
delle associazioni neurali andrebbero così a svilupparsi.
Ausubel, nel riferirsi alla pratica didattica, riteneva fosse più utile prima di somministrare un’unità
didattica complessa, fornire un insegnamento più generale e astratto, affinché questo contenuto
servisse da organizzatore anticipato aiutando l’alunno a mettere in relazione le nuove conoscenze
con quelle già in suo possesso. Gli organizzatori anticipati sono dunque in primo luogo una strategia
didattica che si basa sul principio che il fattore più determinante nei processi di apprendimento è
rappresentato dalle pre‐conoscenze. Logica conseguenza di questa impostazione è che la
progettazione dei curricula formativi debba basarsi sull’analisi delle conoscenze di ingresso (in
adesione a tali principi, le mappe concettuali potrebbero essere utilmente impiegate a questo scopo).
Gli organizzatori anticipati si collocano all’interno della teoria dell’apprendimento significativo,
secondo cui quando gli studenti si trovano a dover affrontare materiale nuovo o su cui hanno poche
conoscenze pregresse, possono migliorare il loro apprendimento se adottano un metodo strutturato e
chiaro con i quali già si sono cimentati in passato, con cui organizzare informazioni. In quest’ottica
dunque gli organizzatori anticipati svolgono un ruolo di scaffolding, ovvero mediano nel processo
di costruzione di nuove conoscenze.
Si tratta perlopiù di strumenti che consentono una rappresentazione visiva della conoscenza, ossia un
modo di strutturare l’informazione o di organizzare gli aspetti importanti di un concetto o di un
argomento in uno schema o in una mappa che viene consegnata allo studente prima dello
svolgimento della lezione, consentendogli di avere, in via preliminare, una forma di organizzazione
dei contenuti che verranno spiegati.

Ausubel introduce anche l’idea dei concetti assimilatori, concetti che forniscono una base per il
collegamento tra le nuove informazioni e le conoscenze preesistenti. Col passare del tempo,
tuttavia, la maggior parte delle informazioni apprese sarebbe dimenticata. Secondo la teoria di
Ausubel, la quantità di informazioni ricordata dipenderebbe principalmente dal grado di
significatività.
L’apprendimento significativo ha i seguenti vantaggi:

1. le conoscenze acquisite sono ricordate più a lungo;


2. l’assimilazione delle informazioni aumenta la differenziazione degli assimilatori, rendendo più facile
il successivo apprendimento di argomenti simili;
3. l’informazione che non viene ricordata dopo l’assimilazione lascia comunque effetti residuali sul
concetto assimilatore e di fatto sulla struttura concettuale;
4. l’informazione appresa può essere applicata a un’ampia varietà di nuovi problemi o contesti.

Durante la nostra vita scolastica, o semplicemente osservando con attenzione quello che ci succede,
realizziamo presto che non tutto quello che apprendiamo è uguale. Le differenze sembrano ovvie
quando paragoniamo l’apprendimento profondo, derivato da un argomento di nostro interesse, con
l’apprendimento mnemonico di un concetto noioso a cui non diamo significato. Per questo motivo,
David Ausubel ha studiato le differenze tra questi due approcci e sviluppato la sua teoria
dell’apprendimento significativo.
Molti psicologi dell’educazione hanno concentrato i loro sforzi nel cercare di sviluppare modelli che
descrivono il modo in cui acquisiamo conoscenza. Quello sull’apprendimento significativo è uno
dei modelli che meglio spiega in che modo si produce un apprendimento profondo non letterale.
E questo viene definito come un apprendimento costruito e legato alla conoscenza previa, in cui il
soggetto svolge un ruolo attivo, ristrutturando e riorganizzando le informazioni.
In questa teoria possiamo intravedere grandi influenze costruttiviste.
Per David Ausubel, la vera conoscenza è costruita dal soggetto attraverso le sue interpretazioni.
Tutte le nozioni apprese a memoria, dunque, sarebbero solo il risultato di ripetizioni con poco o
nessun significato. In questa forma di conoscenza l’interpretazione del soggetto non entra in gioco e
difficilmente ha un’influenza significativa sulla vita della persona. Per conoscere la natura
dell’apprendimento significativo, è necessario capire che la teoria di Ausubel è una teoria destinata
all’applicazione diretta. In nessun caso, un apprendimento letterale o superficiale può modificare le
rappresentazioni del soggetto, e questo ci fa mettere in discussione che si tratti di un reale
apprendimento. Proprio da ciò nasce la necessità di capire cos’è l’apprendimento significativo.
David Ausubel ha proposto i seguenti
principi che l’insegnamento dovrebbe seguire per raggiungere un apprendimento
significativo da parte degli studenti:
 Tenere in considerazione le conoscenze precedenti. L’apprendimento significativo è relazionale, la
sua vastità dipende dalla connessione tra nuovi contenuti e conoscenze precedenti.
 Fornire attività che possano suscitare l’interesse dello studente. A un più alto interesse lo studente sarà
più disposto a integrare le nuove conoscenze nel suo quadro concettuale.

Abbiamo visto come i concetti assimilatori siano soggetti a un continuo processo evolutivo, chiamato
da Ausubel “differenziazione progressiva”, questi hanno una forte attinenza con i problemi della
progettazione didattica, come anche quello della “conciliazione integrativa”. Secondo questa
concezione, lo sviluppo dei concetti procede meglio quando sono insegnati prima i concetti più
generali, i quali possono essere in seguito differenziati in termini di dettagli e specificità.

Novak – Le mappe concettuali


La tecnica delle mappe concettuali è stata sviluppata da Novak negli anni ’60.
Essa si basa sulle teorie di Ausubel, il quale ha evidenziato l’importanza dellen pre-conoscenze
possedute dalle persone per l’apprendimento di nuovi concetti.

Partendo dal presupposto che “l’apprendimento significativo implica l’assimilazione dei nuovi
concetti nelle strutture cognitive esistenti“, nacque l’ipotesi della costruzione delle mappe
concettuali per poter formalizzare la conoscenza strutturata, ovvero il modo in cui i vari concetti
posseduti sono interconnessi tra di loro all’interno di un determinato dominio conoscitivo.

Le mappe sono un modello di come noi organizziamo e applichiamo le conoscenze.

Possono essere categorizzate, connettive, associative, specificative o divise in categorie, ad esempio


di tipo causale o temporale.
Una mappa evidenzia i saperi di una persona permettendole di guardarsi in profondità e capire le
proprie conoscenze. Rende cioè esplicito e conscio ciò che è spesso implicito. Punto focale della
costruzione delle mappe è la loro dinamicità intrinseca, per cui, in differenti contesti e in tempi
diversi le rappresentazioni possono essere molto diverse.
Le mappe toccano alcuni degli elementi centrali delle tecnologie didattiche e dell’apprendimento.

Assumendo che le tecnologie didattiche hanno lo scopo di rendere più efficace il processo formativo,
le mappe, in quanto strumenti di rappresentazione, innalzano da un lato la nostra comprensione su
come gli studenti organizzano ed usano le loro conoscenze, dall’altro aumentano gli strumenti
di autovalutazione dei processi di apprendimento. Per loro natura, infatti, le mappe fanno parte di
quegli attrezzi cognitivi che supportano, guidano ed estendono il processo di pensiero di chi li usa, in
quanto è molto difficile costruire delle rappresentazioni significative senza riflettere profondamente
sulle informazioni possedute.

Alfredo Giunti – La scuola come Centro di Ricerca


La proposta di Alfredo Giunti è di una scuola diversa, già quarant’anni fa avesse imboccato la strada
aperta da Alfredo Giunti e da “Scuola Italiana Moderna” con l’ipotesi didattica de “La scuola come
centro di ricerca”.
Meglio chiedersi come possa oggi la scuola primaria italiana, nell’epoca delle nuove tecnologie della
comunicazione, caratterizzarsi per una didattica fondata sulla ricerca.

Gli scritti didattici di Alfredo Giunti offrono tuttora spunti e itinerari molto freschi e ricchi per una
risposta efficace a questo problema, dimostrando di poter essere considerati, nel loro genere,
“classici”.

Clark ed il Service Learning


L’approccio pedagogico del Service Learning (o Apprendimento Servizio), è strategia molto
diffusa a livello internazionale.
La proposta pedagogica del Service Learning sembra particolarmente interessante sotto il profilo
formativo, per la sua capacità di collegare l’apprendimento scolastico alla vita reale, favorendo lo
sviluppo delle competenze che la scuola o l’università richiedono, e, al tempo stesso, indirizzandole
verso interventi socialmente significativi, sviluppando così responsabilità sociale.
Lo scenario culturale e pedagogico che è a fondamento del Service Learning è studenti veri
protagonisti di azioni solidali ed attivi nella comunità, fanno progetti, attività concrete, ne sviluppano
le potenzialità.

Non più l’aula come simulazione lontana dalla realtà ma la realtà come aula, come scrive nei sui
libri il pedagostia statunitente E. Clark evidenza la necessità di interventi socialmente significativi,
sviluppando così responsabilità sociale, riportato anche nel testo di Fiorn, OLTRE L’AULA La
proposta pedagogica del service-Learning .
Solidarietà, apprendimento sistematico e responsabilità, crescita della capacità di leadership, tutti
fattori che influenzano positivamente l’autostima.

Willem Doise: la differenziazione categoriale ed il conflitto socio-cognitivo


Gli studi di Willem Doise hanno messo in evidenza il ruolo che le interazioni fra bambini possiedono
nella soluzione di problemi. Apprendere in un contesto relazionale provoca dei profondi mutamenti
di carattere strategico.

Il suo testo di riferimento è W. Doise, Confini e identità, Il Mulino, Bologna 2010


La teoria social-costruttivista permette infatti di superare il modello chiuso di Piaget, in cui
l’apprendimento era visto in chiave sostanzialmente individuale: quando un bambino si trova ad
operare insieme ad altri, il suo modo di agire e di pensare cambia, tenendo conto del contributo
collettivo. Doise ipotizza che l’interazione sociale diviene fonte di progresso cognitivo grazie ai
conflitti socio-cognitivi. Sono i conflitti socio-cognitivi che fanno crescere gli individui, l’apertura
alla complessità del possibile ed hanno quindi una valenza positiva di “agone”/competizione
stimolante. Egli ipotizza che la sua analisi parte dal fatto che ogni individuo in fase di apprendimento
si trova in una posizione (sociale, comunitaria, rispetto agli altri, etc.) e non in un laboratorio astratto
ed isolato (modello di Piaget).
Apprendiamo in una posizione ed a partire da una posizione sociale, di classe, di status, una posizione
contro e non solo una posizione a favore.

Tali conflitti si producono quando, rispetto a un problema dato, più individui utilizzano approcci
cognitivi diversi e tutti ugualmente insufficienti. Il confronto simultaneo tra vari approcci o soluzioni
individuali nel corso di un’interazione sociale rende necessaria e genera la loro integrazione in una
nuova organizzazione.

Perché possa nascere un conflitto sociocognitivo, i partecipanti a un’interazione devono già


disporre di certi strumenti cognitivi; analogamente, il bambino trae profitto dall’interazione solo
se è in grado di coordinare il proprio approccio con quello degli altri.

Questa competenza pre-acquisita consente ad alcuni bambini di giovarsi di un’interazione data,


mentre quelli che non hanno ancora raggiunto una competenza iniziale non ne traggono alcun
profitto.

Processo di differenziazione categoriale – Doise


Secondo Doise devono essere distinti tre aspetti delle relazioni tra gruppi: quello comportamentale,
quello dei giudizi di valore, quello delle rappresentazioni. Questi tre aspetti sono strettamente
interconnessi.
Willem Doise presuppone un legame tra le regolazioni sociali e funzionamento cognitivo quale
generatore delle rappresentazioni sociali, puntualizza tre assunzioni principali:

 Le rappresentazioni sociali possono essere considerate come principi organizzatori delle


relazioni simboliche fra individui e gruppi, in quanto i diversi membri di un gruppo
condividono delle conoscenze comuni sull’oggetto a cui si riferiscono nel corso delle
conversazioni.
 Si organizzano delle differenze nelle prese di posizione individuali entro l’ambito della
conoscenza condivisa, in funzione della intensità della loro adesione ai vari aspetti della
rappresentazione sociale.
 Tali differenze fra le prese di posizione individuali sono ancorate alle appartenenze a gruppi,
alle realtà simboliche che questi elaborano, ad esperienze sociopsicologiche condivise in
diversa misura dagli individui, alle loro credenze circa la realtà sociale.
In questo modo le strategie di apprendimento s’intrecciano e rendono necessario un lavoro d’insieme,
che provoca necessariamente una revisione delle singole posizioni di partenza e la costruzione di una
conoscenza più ampia e cooperativa.

1. Mentre nella prospettiva piagetiana l’interiorizzazione e la simbolizzazione delle


azioni ad opera dell’individuo sono alla base dell’attività cognitiva, noi riteniamo che
solo coordinando le proprie azioni con quelle altrui il bambino giunga ad elaborare
coordinazioni cognitive di cui non sarebbe ancora capace individualmente.

2. I bambini che hanno partecipato a certe coordinazioni sociali in seguito diventano


capaci di attuarle autonomamente.

3. Certe operazioni cognitive che si attuano su un materiale dato e in una situazione


sociale specifica hanno un carattere di stabilità e di generalità e possono, in una certa
misura, essere applicate ad altri materiali e ad altre situazioni.

Le regolazioni di natura sociale (norme, rappresentazioni) che presiedono a una data


interazione possono essere un fattore importante nel costituirsi di nuove coordinazioni
cognitive. L’intervento di tali rappresentazioni o significazioni sociali nel corso delle coordinazioni
cognitive effettuate in vista di un compito particolare viene studiato grazie alla nozione di
connotazione sociale.
Essa si riferisce alle possibili corrispondenze tra le regolazioni sociali che caratterizzano i rapporti tra
i protagonisti realmente o simbolicamente presenti in una situazione specifica e le operazioni
cognitive riguardanti certe proprietà degli oggetti che mediano tali relazioni sociali. Una
corrispondenza di questo genere esiste, per esempio, quando una norma sociale richiede l’equa
ripartizione di un liquido in due recipienti di dimensioni diverse.

I bambini praticano la regola dell’uguaglianza prima di padroneggiare tutte le operazioni cognitive


necessarie a concepire l’esistenza di un’identità nel campo dei volumi. È soprattutto in situazioni di
questo genere che il conflitto socio-cognitivo diventa un potente fattore di sviluppo cognitivo. […]
Un’interazione breve ma appropriata, che faceva intervenire il conflitto sociocognitivo e/o la
connotazione sociale, permetteva ai bambini provenienti da ambienti socialmente svantaggiati di
raggiungere i livelli che i bambini più privilegiati raggiungono da soli (fonte W. Doise, Confini e
identità, Il Mulino, Bologna 2010).
Leggiamo un estratto su la connotazione sociale

La connotazione sociale, e quindi l’intervento di norme o regolazioni sociali, ha effetti significativi


solo se si accompagna a un conflitto sociocognitivo, solo se attese fondate su una norma sociale sono
contraddette dalla realtà apparente così come la percepiscono le centrazioni individuali. Pensare che
ogni situazione di connotazione sociale porti a un progresso cognitivo potrebbe implicare il fatto che
il funzionamento cognitivo sia una semplice interiorizzazione delle regolazioni sociali. Poiché non è
così, bisogna definire le condizioni necessarie perché possa intervenire un conflitto sociocognitivo.

Agli individui si pone un problema sociale – come far evolvere le loro relazioni – e insieme un
problema cognitivo: come dare conto delle differenze fra le cognizioni e, eventualmente, coordinarle
o integrarle in una visione comune. Gli aspetti sociali e quelli cognitivi sono intimamente legati, ma
l’analisi della situazione è facilitata quando le due fonti dell’eventuale perturbazione e del riequilibrio
sono prese esplicitamente in considerazione.
Ricerche recenti nel campo dell’apprendimento tra pari (peer groups learning) illustrano la pertinenza
di questa analisi nei termini di una duplice dinamica. (W. Doise, Confini e identità, Il Mulino,
Bologna 2010, pp. 51-53

CHE COS’è L’AMBIENTE DI APPRENDIMENTO?


Ambiente di apprendimento e contesto di realtà
Si può intendere l’ambiente di apprendimento: come “spazio d’azione” creato per stimolare e
sostenere la costruzione di:
1. conoscenze
2. abilità
3. motivazioni
4. atteggiamenti

In tale “spazio d’azione” si verificano interazioni e scambi tra allievi, oggetti del sapere e insegnanti,
sulla base di scopi e interessi comuni, e gli allievi hanno modo di fare esperienze significative sul
piano cognitivo, affettivo/emotivo, interpersonale/sociale. Un ambiente d’apprendimento è composto
dal soggetto che apprende e dal “luogo” in cui esso agisce, usa strumenti, raccoglie e interpreta
informazioni, interagisce con altre persone.

Affinché un luogo “qualsiasi” sia inteso e possa essere definito un “ambiente di apprendimento”
sono necessario alcune condizioni. Un docente o una scuola che crei le condizioni perchè l’aula
diventi realmente un luogo di apprendimento, dove:

 Si valorizzano contesti autentici per la didattica (questa è la condizione che poi sarà detta di
apprendimento significativo)
 Si utilizzano nelle attività di apprendimento le esperienze degli studenti;
 Si ancorano le teorie, i contenuti, le abilità da apprendere ad esperienze;
 Si dà agli studenti la responsabilità dell’organizzazione e della gestione delle attività di
apprendimento;
 Si mette a disposizione degli studenti un’ampia gamma di risorse (contenuti, tecnologie,
supporto, contesti);
 Si favoriscono le capacità di autoapprendimento degli alunni;
 Si ha fiducia nelle capacità e si valorizzano le risorse in possesso degli studenti;
 Si consente agli studenti di lavorare come “professionisti” di un dominio di conoscenza;
 Si assicura un costante presidio didattico delle attività;
 Si collegano le attività scolastiche al mondo reale;
 Si utilizzano tutte le opportunità di apprendimento offerte dai contesti e dai compiti autentici;
 Si attivano contesti di lavoro e apprendimento aperti, non strutturarti per rendere possibile
apprendimenti non previsti, prevedibili, serendipici;
 Si favorisce una costante attività metacognitiva;
 Si valutano gli apprendimenti con modalità autentiche.

Indicazioni nazionali per il curricolo in merito agli ambienti di apprendimetno


La società dell’informazione e della conoscenza (Castells, 2008) ha sovvertito queste logiche,
mettendo fortemente in crisi le strutture gerarchiche e favorendo processi orizzontali e reticolari allo
sviluppo dei quali il web 2.0 ha certamente contribuito ponendo al centro l’individuo e i suoi bisogni
(RSS, Personal Learning Environments, cookies, identità digitali e molto altro che concorrono a
restituirci un’informazione sempre più mirata).
Questo cambio di paradigma non può non interessare anche la scuola, come ci ricordano le
“Indicazioni per il Curricolo della Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo d’Istruzione”: “il ‘fare
scuola’ oggi significa mettere in relazione la complessità di modi radicalmente nuovi di
apprendimento con un’opera quotidiana di guida, attenta al metodo, ai nuovi media e alla ricerca
multi-dimensionale.
1. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener
conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle
sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione.
2. La scuola si deve costruire come luogo accogliente, coinvolgendo in questo compito gli
studenti stessi. Sono, infatti, importanti le condizioni che favoriscono lo star bene a scuola,
al fine di ottenere la partecipazione più ampia dei bambini e degli adolescenti a un progetto
educativo condiviso.
3. L’organizzazione degli spazi e dei tempi diventa elemento di qualità pedagogica
dell’ambiente educativo e pertanto deve essere oggetto di esplicita progettazione e verifica.
4. L’acquisizione dei saperi richiede un uso flessibile degli spazi, a partire dalla stessa aula
scolastica, ma anche la disponibilità di luoghi attrezzati che facilitino approcci operativi alla
conoscenza per le scienze, la tecnologia, le lingue comunitarie, la produzione musicale, il
teatro, le attività pittoriche, la motricità”.

Ambiente di apprendimento e Corso: differenze.


Ambiente vs corso
Se l’AMBIENTE DI APPRENDIMENTO è l’insieme delle risorse logistiche, tecniche e didattiche
che caratterizzano l’ambiente-scuola, il CORSO è invece, presenta risorse limitate a disposizione di
coloro che apprendono (uno o più docenti, dei materiali didattici) e un percorso vincolato e
determinato dalla pianificazione didattica (apprendimento centrato sui contenuti, content-centred).

⇔ Il “corso” è un processo trasmissivo, un sistema strutturato attorno ai principi di


apprendimento della disciplina e predeterminato in sede di progettazione con poche possibilità di
cambiamento.
⇒ L’ambiente di apprendimento NON è un processo trasmissivo, ma una pratica intenzionale,
premeditata, attiva, cosciente, costruttiva, che comprende attività reciproche di azione e riflessione
(Jonassen e Land, 2012).
AMBIENTE DI APPRENDIMENTO CORSO

attivo
orientato ai contenuti
aperto
determinato dalla pianificazione didattica

dinamico
principi di apprendimento della disciplina

obbiettivi di apprendimento come metà da raggiungere


obbiettivi di apprendimento come finalità pre-

learner-centred strutturata precisa e verificabile

pratica intenzionale, premeditata, attiva, cosciente, content-centred

costruttiva è un processo trasmissivo

l’AMBIENTE DI APPRENDIMENTO si sviluppa all’interno dell’epistemologia costruttivista per


designare un contesto di insegnamento e di apprendimento che rompe con le teorie e con le pratiche
che caratterizzano la didattica tradizionale, quella che si svolge in un’aula, dove l’insegnante realizza
la sua attività sulla base di un programma ben strutturato e gli studenti “seguono”, ripetono e
rispondono a domande volte a una loro valutazione.

Ognuno di noi vive in un proprio ambiente (fisico, culturale, sociale…) e cerca di attribuirgli un
significato personale. Per far questo esplora l’ambiente nei molteplici aspetti, fa uso di numerose
risorse, s’inserisce in relazioni già stabilite e ne attiva di nuove con lo scopo di correlarsi
efficacemente con l’ambiente stesso, di soddisfare i propri bisogni, di padroneggiarlo.

Quindi, la metafora di “ambiente” designa un contesto in cui l’apprendimento venga attivato,


supportato e costruito e in cui ciascuno sia in grado di attribuire al proprio processo di conoscenza un
significato, personale ma socialmente e culturalmente mediato.

La condizione prima perché sia possibile generare un apprendimento con queste caratteristiche è che
l’ambiente sia ricco di risorse e che a ciascuno sia data la possibilità di attraversarlo in modo non
vincolato da una strutturazione didattica rigida: questa è la prima caratteristica di un apprendimento
centrato su chi apprende (learner-centred).

Di “ambienti di apprendimento” (learner centred o problem solving oriented) ne sono stati concepiti
e sviluppati numerosi che si differenziano per la focalizzazione concettuale (ad esempio, alcuni
rendono operativa la “flessibilità cognitiva”, altri l’“apprendimento situato”), ma che condividono
tutti lo stesso insieme di principi epistemologici.
L’“ambiente di apprendimento” rappresenta un sistema dinamico, aperto, forse caotico, in cui le
persone che apprendono hanno la possibilità di vivere una vera e propria “esperienza di
apprendimento”; esso è ricco e ridondante di risorse per poter essere funzionale alle differenti
situazioni reali in cui si svilupperà il processo formativo, determinato dai sistemi personali di
conoscenza che caratterizzano ciascun allievo.
Gli “obiettivi di apprendimento” rappresentano, in questa prospettiva, più la direzione del percorso
che la meta da raggiungere.

I “contenuti” non sono pre-strutturati e sono presentati da una pluralità di prospettive; non tutti devono
essere appresi ma rappresentano una “banca dati” cui attingere al bisogno.

L’ambiente di apprendimento ed i pedagogisti dell’attivismo pedagogico


L’attenzione per lo spazio dell’apprendimento non è un tema nuovo: i padri fondatori dell’attivismo
pedagogico avevano già riconosciuto un ruolo chiave dell’ambiente nei processi di insegnamento e
apprendimento.

Da Don Milani alla Montessori e Dewey, da Freinet a Malaguzzi, chiunque abbia avvertito la
necessità di mettere in primo piano lo studente è giunto alla conclusione che la cattedra e la sua
collocazione sulla predella sono l’emblema di una relazione di tipo gerarchico.
VEDI LA SEZIONE DI APPROFONDIMENTO SULLA PEDAGOGIA STORICA E GENERALE
(sezione che trovi ora anche nel Modulo 5)
Fondamenti di pedagogia generale, storia dei processi formativi e pedagogia sociale.
Questi cinque nomi sono da imparare potrebbero essere presenti in domande:

Don Milani

Montessori

Dewey

Freinet

Malaguzzi
attivismo pedagogico

Cosa sono e come funzionano gli “ambienti di apprendimento”?


Come funzionano gli “ambienti di apprendimento”?
Organizzare contesti di insegnamento e di apprendimento improntati alla logica degli ambienti di
apprendimento significa ritenere che la conoscenza si “costruisce” e non si “trasmette”:
 la costruzione di conoscenza avviene attraverso l’attività ed è “inserita” nell’attività stessa;
 la conoscenza è ancorata nel contesto in cui le attività si sviluppano ed è da questo indirizzata;
 il significato si sviluppa nella mente di chi conosce e nelle sue relazioni con il contesto;
 la costruzione di conoscenza richiede articolazione, espressione e rappresentazione di cosa si sta
apprendendo, del significato che si sta costruendo;
 Rientrano ovviamente nella dimensione del clima di classe anche l’atteggiamento di docenti e studenti
nei confronti dell’apprendimento:

1. Clima disciplinare della classe


2. Relazione tra insegnante e studente
3. Capacità del docente nello stimolare motivazione e impegno
4. Ruolo, coinvolgimento ed aspettative dei genitori rispetto a processo formativo
5. Leadership educativa espressa dal dirigente scolastico

 la costruzione di significato deve essere condivisa con altri


 la costruzione di significato è indotta da un problema, da una domanda e, per questo, richiede lo
sviluppo della padronanza di quel problema;
 un problema può essere affrontato da molteplici prospettive;

Compiti e possibilità degli alunni all’interno di ambienti di apprendimento

In un “ambiente di apprendimento” autentico il docente è chiamato ⇒ a svolgere il ruolo di


allenatore (coach) e di facilitatore.
In tal senso, molte sono le forme di interazione e collaborazione che possono essere introdotte
(dall’aiuto reciproco all’apprendimento cooperativo, all’apprendimento tra pari), sia all’interno della
classe, sia attraverso la formazione di gruppi di lavoro con alunni di classi e di età diverse».

L’apprendimento è sostenuto, ma non controllato e diretto, in esso «l’apprendimento è stimolato e


supportato» (Wilson, 1996).
Il docente come coach e facilitatore.
Secondo Perkins (1991) in un “ambiente di apprendimento” a chi apprende viene data la possibilità
di:

 determinare i propri obiettivi di apprendimento;


 scegliere le attività da svolgere;
 accedere a risorse informative ed a strumenti;
 lavorare con supporto e guida.
Gli allievi, dunque, possono determinare i propri obiettivi di apprendimento, scegliere le attività da
svolgere, hanno accesso a risorse informative (libri, courseware, video…) e a strumenti (word
processor, e-mail, motori di ricerca, ecc.), possono lavorare con un supporto e una guida.

La natura di un “ambiente di apprendimento” implica che, inizialmente, non venga completamente


definito ed “impacchettato”: se l’allievo deve godere di una certa libertà di scelta, un certo livello di
incertezza e di non-controllo deve essere messo nel conto. Infatti, chi apprende è la persona migliore
a decidere cosa sia significativo per lui. Avere un ambiente di apprendimento libero da costrizioni di
tempo e di spazio è fondamentale per costruire e condividere conoscenza. (Conceição-Rumble, S.,
Daley B.J., 1998, pag. 3).
Perché un simile contesto non sia caotico (anche se tale potrebbe apparire all’esterno e a chi studia),
è necessario che chi governa il processo sia continuamente presente alle dinamiche, come in un
perenne stato di allerta, per evitare che il tutto precipiti nel caos e imploda, perché non ben progettato
e supportato.

Compito di chi progetta “ambienti di apprendimento” dovrebbe essere quello di creare le condizioni
per attivare e supportare un ciclo di attività cognitive che iniziano con la raccolta, registrazione e
analisi di dati, proseguono con la formulazione e la verifica di ipotesi nonché la riflessione sui propri
livelli di comprensione e di apprendimento, per concludersi con la costruzione di senso personale
delle informazioni, che è la dimostrazione di un apprendimento autentico (Crotty 1994).

Approfondimento: Le linee guida per la progettazione di ambienti d’apprendimento costruttivisti


Definire gli obiettivi operativi secondo Cunningham

Obiettivi educativi per la progettazione di ambienti d’apprendimento costruttivisti


L’ambiente d’apprendimento costruttivista è un posto in cui gli studenti possono lavorare insieme
ed aiutarsi a vicenda per imparare ad usare una molteplicità di strumenti e risorse informative nel
comune perseguimento di obbiettivi d’apprendimento e di attività di problem solving (Wilson).
 favorire l’esperienza attraverso il processo di costruzione della conoscenza (maggiore
responsabilità negli studenti, ruolo di facilitatore per l’insegnante)
 inserire l’apprendimento in un’esperienza sociale
 incoraggiare l’uso di più media e linguaggi
 promuovere l’autoconsapevolezza del processo di costruzione della conoscenza (conoscere
come noi conosciamo)
 promuovere esperienze di comprensione e verifica diversificate (risolvere lo stesso problema
in diversi modi)
 inserire l’apprendimento in contesti realistici e rilevanti (osmosi tra scuola e vita reale)
 incoraggiare il processo di apprendimento centrato sullo studente (obiettivi autodefiniti)

Black e McClintock i principi guida


Principi guida, secondo Black e McClintock per la progettazione di ambienti
d’apprendimento costruttivisti
 osservazione di artefatti ancorati a situazioni realistiche
 costruzione dell’interpretazione di quanto osservato, argomentandone la validità
 la contestualizzazione dei materiali
 l’apprendistato cognitivo nell’osservazione, interpretazione, contestualizzazione
 la collaborazione tra pari negli stessi processi
 le interpretazioni multiple che sviluppano flessibilità cognitiva
 le manifestazioni multiple delle stesse interpretazioni che favoriscono il transfer

La progettazione di ambienti d’apprendimento di Lebow


Per la progettazione di ambienti d’apprendimento costruttivisti.
Quali sono le componenti di un ambiente d’apprendimento costruttivista?
Un ambiente d’apprendimento è determinato dai seguenti elementi: uno spazio fisico, un
insieme di attori che vi agiscono, dei comportamenti concordati, una serie di regole o vincoli,
attività o compiti assegnati o concordati, tempi di operatività, un insieme di strumenti oggetto
di osservazione, manipolazione, lettura, argomentazione, un insieme di relazioni fra gli
attori, un clima determinato dalle relazioni instaurate e dallo svolgimento di attività e compiti,
un insieme di aspettative, un modo di vedere se stessi, lo sforzo mentale impegnato nei
processi di apprendimento.
 promuovere l‘autonomia personale e il controllo dell’apprendimento sostenendo
l’autoregolazione, e proponendo argomenti rilevanti per chi apprende
 creare un contesto di apprendimento che supporti lo sviluppo di autonomia
personale e di relazione
 inserire le ragioni dell’apprendimento internamente alle stesse attività
d’apprendimento
 sostenere il feedback dell’apprendimento promuovendo capacità ed attitudini atte a
rendere lo studente capace di assumersi crescente responsabilità nei riguardi del
processo di ristrutturazione della propria conoscenza
 sostenere la tendenza degli studenti a coinvolgersi in processi d’apprendimento
intenzionale, incoraggiando la strategica esplorazione dell’errore

Ambienti ricchi per l’apprendimento attivo, secondo Dunlap e Grabinger, (analoghi


agli ambienti costruttivisti)

 estendere le responsabilità degli studenti: determinare che cosa hanno bisogno di apprendere,
come poter gestire le proprie attività di apprendimento, sviluppare abilità metacognitive;
 promuovere lo studio, l’investigazione, il problem solving in contesti autentici, significativi e
soddisfacenti: fare il massimo uso delle conoscenze pregresse, ancorare l’istruzione a situazioni
realistiche, predisporre nodi molteplici per apprendere lo stesso contenuto;
 utilizzare attività dinamiche di apprendimento che promuovono operazioni di alto livello:
utilizzare attività che includono informazioni ambigue, problemi mal strutturati e aperti.
Promuovere la presentazione ed articolazione di idee, strategie, approcci, soluzioni.

Principi secondo Savey e Duffy per la progettazione di ambienti d’apprendimento


costruttivisti
 ancorare tutte le attività a compiti o problemi più ampi
 sostenere il soggetto che apprende nello sviluppare il possesso personale di qualsiasi
problema
 progettare un compito autentico
 progettare un compito ed un ambiente di apprendimento che rifletta la complessità
trattata
 dare a chi apprende la possibilità di impossessarsi del processo usato per sviluppare
una situazione
 progettare un ambiente di apprendimento per supportare e sfidare il pensiero dello
studente
 incoraggiare il testing delle idee con punti di vista e contesti alternativi
 offrire opportunità di supporto alla riflessione sia sul contenuto appreso che sui
processi svolti
Tecnologie educative ed ambienti di apprendimento VEDI MODULO 6
Uno dei filoni più importanti della ricerca tecnologico/educativa è quello dei micromondi e
degli ambienti artificiali di apprendimento.
Papert, ispirandosi al costruttivismo piagietiano, ritiene che il processo di apprendimento sia
un processo di costruzione di rappresentazioni più o meno corrette e funzionali del mondo
con cui si interagisce. In base a questa idea sostiene che i computer vadano usati come banali
supporti all’istruzione, ma in una prospettiva diversa che in un momento successivo definirà
costruzionista.
Il costruzionismo si discosta dal costruttivismo perché non si limita come il primo a fornire una
chiave per spiegare gli stadi di sviluppo dei bambini conseguenti alla loro interazione con il
mondo (che in qualche modo è sempre lo stesso), ma elabora un modello in cui il mondo
esterno, e quindi le rappresentazioni che può suscitare, è modificato dall’introduzione di
artefatti cognitivi che possono risultare utili allo sviluppo di specifici apprendimenti. Il
costruzionismo è inoltre influenzato dalla prospettiva vigotskiana che riconosce molta
importanza agli aspetti culturali e all’interazione sociale nei processi di apprendimento.
Gli esempi di uso di micromondi forniti da Papert mettono in evidenza come il computer debba
essere usato quale ambiente d’apprendimento che aiuta a costruirsi nuove idee; il docente che usa i
micromondi si trasforma in promotore di attività in cui i bambini progettano e imparano
esplicitando e discutendo teorie sul mondo con cui interagiscono. La prospettiva dei
micromondi sottolinea la specificità del computer come macchina per simulare, a differenza
della multimedialità che pone l’enfasi sul suo ruolo di macchina per comunicare e integrare
codici.
⇒La classe funziona come una comunità di pratiche scientifiche in cui i bambini comunicano
e condividono le loro idee, giuste o sbagliate che siano.
Nelle didattiche proposte da Papert ha grande importanza la gestione dell’errore: la sua idea,
largamente condivisibile, è che l’unico modo per imparare in modo significativo è quello
di prendere coscienza dei propri errori.

Piano di Apprendimento Individualizzato (PAI) e


Piano di Integrazione degli Apprendimenti (PIA) per ciascuna disciplina in cui non siano stati
raggiunti gli obiettivi di apprendimento programmati all’inizio dell’anno.

L’ordinanza ministeriale ministeriale all’art.4, c.3 dell’O.M. n.11 del 16.05.2020 recita che
i Collegi dei Docenti adottino e approvino una griglia di valutazione i cui indicatori e
descrittori consentano di valutare le competenze acquisite dagli alunni nella globalità
dell’attività didattica svolta durante l’intero anno scolastico.
Quali sono le procedure richieste ai docenti, per gli alunni ammessi con insufficienze? Per
ogni alunno che riporti voti inferiori al 6, il Consiglio di Classe predispone un Piano di
Apprendimento Individualizzato (PAI) in cui devono essere necessariamente indicati, per
ciascuna disciplina, gli obiettivi di apprendimento da conseguire e le strategie per il
raggiungimento degli stessi.
Non esiste un modello unico: il PAI può essere redatto da ogni istituzione scolastica sulla
base delle precise indicazioni fornite dall’ordinanza ministeriale e approvato dal Collegio dei
docenti. A partire da questo piano, sarà possibile il prossimo anno monitorare l’effettiva
acquisizione degli obiettivi non raggiunti da parte degli alunni ammessi con insufficienze.
Per gli alunni con disabilità certificata, con DSA e con BES non certificati, il Piano di
Apprendimento Individualizzato, ove necessario, integra il PEI o il PDP.
Veniamo, adesso, alla nota dolente, perché l’idea di ammettere un alunno all’anno
successivo con insufficienze anche gravi e magari una frequenza discontinua prima e/o
dopo la sospensione delle attività didattiche, ma senza la necessità che debba colmare a
settembre i debiti formativi, è un aspetto molto delicato e che ha suscitato non poche
perplessità nel corpo docente, anche a causa dei numerosi cambi di rotta manifestati negli
annunci a mezzo stampa della Ministra Azzolina.

L’art.4, c.6, dell’O.M. n.11 del 16.05.2020, a questo proposito, è chiaro.

⇒ La non ammissione all’anno successivo è possibile solo in uno specifico caso: il Consiglio
di classe non deve essere in possesso di “alcun elemento valutativo relativo all’alunno” per
tutto l’anno scolastico e deve aver già verbalizzato questa assoluta mancanza di
valutazione (“per cause perduranti e già opportunamente verbalizzate per il primo periodo
didattico”), dovuta a mancata o sporadica frequenza delle attività didattiche. Solo se
coesistono queste condizioni, tra l’altro non imputabili alle difficoltà legate alla disponibilità
di apparecchiature tecnologiche o alla connettività di rete, il Consiglio di classe può non
ammettere l’alunno alla classe successiva, ma solo con motivazione espressa all’unanimità.
Oltre al Piano di Apprendimento Individualizzato, per gli alunni che hanno riportato
insufficienze, i docenti hanno la possibilità di redigere anche un altro documento relativo,
però, tutto il gruppo classe e che crea i presupposti da cui far partire le programmazioni
all’inizio del prossimo anno scolastico.

In considerazione della sospensione delle attività didattiche in presenza e delle iniziative


svolte in modalità a distanza, se necessario, il Consiglio di classe redige un Piano di
Integrazione degli Apprendimenti (PIA) per ciascuna disciplina in cui non siano stati raggiunti
gli obiettivi di apprendimento programmati all’inizio dell’anno. Anche in quanto caso, non
esiste un modello unico. Le attività previste nei due Piani costituiscono a tutti gli effetti attività
didattica ordinaria, hanno inizio a decorrere dal 1° settembre 2020, integrano il primo
quadrimestre e, se necessario, proseguono per l’intera durata dell’a.s. 2020 2021.

GRIGLIE DI VALUTAZIONE INDICATORI E DESCRITTORI

Vedi

https://www.rivistaorigine.it/tfa/wp-content/uploads/2020/06/Griglie_di_Valutazione_I_C__Cal.pdf

Griglie di valutazione aggiornate al dlgs 62/2017

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