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Il primo passo verso la soluzione di un problema consiste nel giungere alla conclusione che
esso esiste. La strada che aiuta a prendere coscienza dell’esistenza di un problema di
natura educativa prende il nome di valutazione (o analisi) dei bisogni educativi
(Kaufman,1972).
Nel 1972 il teorico J.Bradshaw ha identificato nel campo educativo quattro tipi differenti di
bisogno:
1. bisogno come scostamento verso il basso rispetto a una norma, dove un soggetto si sente ancor più
al di sotto degli standard minimi richiesti e definiti come normali;
2. bisogno come sentimento presente nell’ animo di una persona, evidenziato se gli si chiede di che cosa
sente il bisogno stesso;
3. bisogno espresso o domanda, che si basa sull’ assunto che se uno sente un desiderio, facilmente lo
manifesterà al prossimo,seppur in forma indiretta;
4. bisogno che nasce dal confronto con altre persone e altre istituzioni simili, ma che possiedono
qualcosa in più.
A questi quattro bisogni, altri due importanti teorici come Burton e Merrill (1977), ne
aggiungono un quinto, ossia:
⇒ il bisogno come anticipazione di future necessità, nel senso che l’educazione non può tener
conto solo della realtà sociale e culturale quale oggi si presenta in un luogo particolare.
Un tratto comune esistente in tutti questi tipi di bisogno, riguarda il fatto che esso è presente
quando si manifesta una qualche discrepanza tra come le cose dovrebbero essere, e come
esse lo sono di fatto.
⇒ È un processo che porta alla determinazione degli obiettivi, alla misurazione dei bisogni,
alla decisione dell’ordine di precedenza degli interventi.
Un tratto comune esistente in tutti questi tipi di bisogno, riguarda il fatto che esso è presente
quando si manifesta una qualche discrepanza tra come le cose dovrebbero essere, e come
esse lo sono di fatto.
⇒ Il bisogno nasce quindi da uno squilibrio.
Per questo la scuola, nella sua articolazione sul territorio, offre la possibilità di scelta tra diverse
opzioni organizzative e rispetta sia la libertà di insegnamento del personale docente, sia le scelte
individuali delle famiglie relative all’ insegnamento o meno della religione cattolica.
Nel libro del 1949 Basic Principles of Curriculum and Instruction Tyler individua 4 principi, ritenuti
i fondamenti di ogni azione di progettazione per sviluppare qualsiasi curricolo o piano educativo:
In esso, Tyler descrive l’apprendimento attraverso l’azione dello studente, inteso come “quello che
fa chi impara, non ciò che l’insegnante fa”.
Nello sviluppo di un curriculum usando il metodo Tyler, le ipotesi sono stabilite in relazione diretta
con gli apprendimenti attesi dagli studenti. Dal momento in cui il curriculum è realizzato in classe,
l’insegnante diviene osservatore, determinando se le sue ipotesi curricolari sono o meno confermate
dal comportamento degli studenti. Ciò consente di tornare ai piani di partenza per realizzare gli
aggiustamenti necessari al fine di assicurare risultati appropriati nella classe.
Egli è stato l’ideatore del programma nazionale “Otto anni di studio” (1933-1941), che ha coinvolto
30 scuole secondarie e 300 enti tra college ed università, soggetti alla ristrettezza e rigidità nei
programmi delle scuole superiori.
È importante che un insegnante conosca gli ostacoli epistemologici relativi a un ambito disciplinare,
in quanto le difficoltà che scienziati e studiosi hanno incontrato nell’approccio a certi concetti sono
spesso le stesse che incontrano gli studenti nella comprensione di quegli stessi concetti.
Altri autori parlano di ostacoli genetici, ontogenetici e epigenetici, inserendo gli ostacoli
epistemologici e didattici fra quelli epigenetici come fà invece Gaston Bachelard.
Per Bachelard il concetto di ostacolo epistemologico rappresenta una resistenza all’atto stesso del
conoscere.
La conoscenza, per Bachelard, non consiste in una crescita lineare, bensì discontinua, che si realizza
grazie a momenti di rottura con una conoscenza pregressa, non scientifica, costituitasi nel corso
della vita quotidiana. Affinché si affermi la nuova conoscenza occorre decostruire la vecchia, la
quale è stata efficace per affrontare problemi precedenti, ma si rivela fallimentare per gli attuali.
Guy Brousseau, ispirandosi al pensiero di Bachelard, costruisce una teoria degli ostacoli che si
frappongono all’apprendimento della matematica.
Bruno D’Amore nel testo La didattica e le difficoltà in matematica definisce l’ostacolo come
«qualcosa che si frappone all’apprendimento trasmissivo insegnante-allievo atteso, qualunque ne sia
la natura» (p. 42), descrivono le tre tipologie di ostacolo individuabili nell’apprendimento della
matematica, ma riscontrabili nell’apprendimento della maggior parte delle discipline.
Essi sono:
1. ostacoli di natura ontogenetica
2. ostacoli di natura didattica
3. ostacoli di natura epistemologica.
Gli ostacoli di natura ontogenetica sono legati alla maturazione psichica dell’individuo, la quale
dipende per lo più dalla sua età cronologica: la costruzione di un concetto può richiedere capacità e
conoscenze che un soggetto di una data età non ha ancora sviluppato. Questa mancata maturazione
determina una limitazione, ovvero un ostacolo. Occorre dunque selezionare gli oggetti culturali da
insegnare in relazione all’età mentale degli apprendenti, considerando che nei soggetti con patologie
neuro-cognitive l’età mentale spesso non corrisponde alla cronologica.
Gli ostacoli di natura didattica riguardano le scelte di contenuto e di metodologia del docente per
l’insegnamento di un dato concetto. D’Amore adduce come esempio di ostacolo didattico la scelta di
introdurre nel programma di scuola primaria i numeri razionali in un momento in cui gli alunni stanno
ancora assimilando idee relative ai naturali. Così la scelta di esemplificare con fili di perle l’idea del
segmento come insieme di punti si rivela non di rado un ostacolo alla successiva comprensione del
concetto di densità nell’insieme dei numeri razionali e di continuità in quello dei reali (D’Amore,
2008, p. 45).
Gli ostacoli epistemologici sono la prova di quell’idea di conoscenza come frattura, come cambio
radicale di concezione difficile da accogliere. Develay, riferendosi al lavoro dello scienziato, dichiara
essere due le rotture che devono verificarsi perché una nuova visione del mondo si sostituisca alla
vecchia: una rottura interiore, verso le proprie conoscenze, una esteriore in relazione alle idee che
oppongono lo scienziato ad altri scienziati che non condividono il suo punto di vista (1995).
Il potere può produrre attaccamento al potere stesso (Erich Fromm) e rendere la relazione
educativa una relazione di assoggettamento, dove il docente assoggetta lo studente, incute lui ansia e
paura. Il docente ha sempre potere su di un discente. C’è una relazione asimmetrica. Al contrario,
Fromm insiste sul concetto di relazione di cura, il quale si inserisce in un quadro educativo
complesso e poliedrico, all’interno del quale il ruolo del docente subisce un decentramento, ma
anche diviene un momento del dare, donare, e quindi dell’essere.
Erich Fromm scrive che “l’educazione debba portare inevitabilmente alla soppressione della
spontaneità, dato che il vero fine dell’educazione, è di promuovere l’indipendenza interiore e
l’individualità del bambino, il suo sviluppo e la sua integrità. … Nella nostra civiltà, tuttavia,
l’educazione troppo spesso produce l’eliminazione della spontaneità” — Erich Fromm. Nel caso di
una relazione educativa non sana (che Fromm identifica nel masochismo, nel sadismo, nella
distruttività e nel conformismo) il focus diventa il potere dell’insegnante sul docente, una
dimensione dell’avere avere potere sull’essere. Il docente vuole solo affermare il proprio potere,
non vuole invece aindividuare i bisogni formativi degli apprendenti e le strategie attraverso cui
soddisfarli.
La relazione educativa è una relazione asimmetrica orientata ad uno scopo, l’apprendimento,
verso il quale l’educatore conduce l’apprendente. La sfera più importante del dare, tuttavia, non è
quella delle cose materiali, ma sta nel regno umano. Che cosa dà una persona a un’altra? Nel caso di
una relazione educativa sana il focus è l’apprendimento dell’alunno, di conseguenza l’alunno
stesso, verso il quale il docente si pone in ascolto.
Fromm nel suo libro più famoso Essere o Avere, dice che possiede di più chi dà e non chi possiede,
ciò non significa dare necessariamente la propria vita per l’altro, ma che le dà ciò che di più vivo ha
in sé; le dà la propria gioia, il proprio interesse, il proprio umorismo, la propria tristezza, tutte le
espressioni e manifestazioni di ciò che ha di più vitale. In questo dono di se stessa, essa arricchisce
l’altra persona, sublima il senso di vivere dell’altro sublimando il proprio.
Insegnare significa allora donare. Non dà per ricevere; dare è in se stesso una gioia squisita.
Ma nel dare non può evitare di portare qualche cosa alla vita dell’altra persona, e colui che riceve si
riflette in essa; nel dare con generosità, non può evitare di ricevere ciò che le viene dato di ritorno.
Dare significa fare anche dell’altra persona un essere che dà, ed entrambi dividono la gioia di sentirsi
vivi.
Nell’atto di dare qualcosa nasce un senso di mutua gratitudine per la vita che è nata in loro e unisce
entrambe. Ciò significa che l’amore è una forza che produce amore. Insegnare significa amare.
Il docente ha il potere istituzionale di guidare gli alunni, potere che gli viene riconosciuto socialmente,
mentre gli alunni hanno il dovere, anch’esso riconosciuto socialmente, di farsi guidare.
Ciò può alterare in maniera negativa l’essenza della relazione educativa. Non si insegna per mostrare
le proprie competenze (ruolo centralizzato del docente), ma per accompagnare gli apprendenti nello
sviluppo delle loro competenze (ruolo decentrato del docente).
Per Erich Fromm, inoltre educare alla creatività equivale educare alla vita, tutte le affermazioni nate
nello sforzo di individuare il concetto di creatività, la più feconda e al tempo stesso la più adatta a
testimoniare in modo palmare le difficoltà imposte da una puntuale ricerca volta alla generalizzazione
e che finisce di fatto per dissolverne il termine.
Una relazione educativa sana è una relazione all’interno della quale il potere è
lo strumento per guidare verso l’apprendimento, che è il fine della strategia educativa non un
affermazione dell’avere conoscenza del docente che deve trasmetterle ad uno studente senza.
In una relazione educativa malata, l’apprendimento diventa lo
strumento per legittimare l’esercizio del potere, che diventa il fine dell’azione educativa.
Individuare il fine di un’azione vuol dire prenderne in considerazione il focus, cioè ciò verso cui è
diretta l’attenzione.
Posizioni del genere conducono spesso a relazioni conflittuali con il gruppo classe. Gli insegnanti che
si trovano a dover fronteggiare situazioni del genere difficilmente cercano in se stessi la causa del
fallimento che si perpetua davanti ai loro occhi e, spesso, si ritrovano intrappolati all’interno di schemi
conflittuali rigidi, che durano l’intero anno scolastico. A questo proposito è bene chiarire un aspetto
importante delle relazioni interpersonali, all’interno delle quali facciamo rientrare, in questo caso,
anche la relazione educativa.
Ogni relazione interpersonale si sviluppa seguendo due step fondamentali: all’inizio della
conoscenza i soggetti interagenti sperimentano varie forme di relazione, successivamente, si
assestano su schemi relazionali più o meno rigidi. Questo avviene anche nella relazione educativa:
dopo una prima familiarizzazione, che può durare diversi mesi, l’insegnante ed il gruppo classe
stabiliscono una dinamica relazionale più o meno rigida. Se ciò può essere un vantaggio nei casi in
cui la relazione instaurata è positiva, può rappresentare, al contrario, un problema quando il pattern è
negativo. Sentono che le richieste dell’insegnante non provengono dal suo intento di instradarli verso
la giusta direzione, ma dal bisogno di mantenere la situazione sotto controllo. Si accorgono che la
relazione instaurata non è una relazione di cura, come, invece, dovrebbe essere.
Avvertono di non essere il fine della relazione educativa, ma lo strumento per consentire
all’insegnante di esercitare il proprio potere.
Fromm distingue tra “istinti” e “pulsioni”: i primi bisogni primari legati al mondo animale e creano
comportamenti rigidi e fissati organicamente (come sessualità, fame, sete, etc.), i secondi frutto
dell’evoluzione dell’uomo e riguardano principalmente la sfera del desiderio e dei bisogni secondari
di tipo psichico e spirituale nonché la naturale tendenza ad aggregarsi per dare vita a delle comunità.
Fromm identifica i seguenti otto bisogni psicologici basilari:
relazione;
trascendenza;
radicamento;
identità;
orientamento;
stimolo;
unità;
realizzazione.
Per Fromm, il processo di formazione ha due principali dimensioni:
quella sociale;
quella individuale.
L’insegnante entra in classe e cerca di mantenere la calma, alla prima provocazione inizia a urlare,
urlare, alzare la voce, arrabbiarsi, mostrando le proprie emozioni negative, il docente falsa la
relazione, in seguito ai suoi atteggiamenti negativi gli alunni si agitano ulteriormente.
Studenti e docente iniziano un crescendo di provocazioni reciproche all’interno delle quali
nessuno retrocede, si perde il clima classe.
Entrare in dinamiche relazionali personali e soggettive con gli studenti è molto rischioso, sembra più
semplice concentrarsi sui contenuti del programma da presentare che sugli apprendenti, sulle regole
comportamentali da rispettare piuttosto che sui bisogni formativi e così si innescano relazioni
educative conflittuali.
In contesti del genere gli alunni avvertono istintivamente il disinteresse degli insegnanti nei loro
riguardi e reagiscono, manifestando altrettanto disinteresse ai suoi bisogni (bisogno di silenzio,
bisogno che le regole vengano rispettate).
Nella capacità di apprendimento, in quella di ricordare, nella conversazione, nella lettura, nella fede
e nell’amore, insomma in tutti gli aspetti della quotidianità, ci troviamo a dover scegliere quale
sistema esistenziale utilizzare e la scelta spesso viene fatta in maniera inconsapevole. Fromm,
scavando a fondo nel profondo dell’essenza umana prende in esame sia il pensiero buddhista che i
testi ebraici, spaziando da Marx a Freud e passando per Spinoza e Meister Eckhart.
La dicotomia essere/avere viene esposta con gli esempi (dai filosofi ai potesi, da composizioni
Matsuo Bashō a Tennyson). Secondo Erich Fromm ci sono due categorie attraverso le quali vengono
distinti gli individui: coloro che vivono secondo la modalità dell’avere e coloro che seguono invece
un sistema di vita incentrato sull’essere. Il sociologo e psicoanalista tedesco individua subito una
differenza sostanziale tra queste due modalità di esistenza. La modalità esistenziale dell’avere è tipica
di coloro che hanno un rapporto col mondo di possesso e proprietà e aspirano ad impadronirsi di ogni
cosa e di ogni persona, compreso se stessi. Nella modalità esistenziale dell’essere invece abbiamo
una prima forma che si contrappone all’avere identificandosi con la vitalità e l’autentico rapporto col
mondo.
L’altra differenza si riferisce alla vera natura dell’uomo e all’effettiva realtà di una persona.
Gli insegnanti, investiti di potere in maniera impropria, concentrati su se stessi, chiedono silenzio,
senza però verificare se dietro quel silenzio ci sia attenzione, un interesse reale verso l’attività
didattica e comprensione. La distinzione di Fromm sulle due differenti modalità esistenziali di Avere
o Essere? si fa più netta quando il sociologo individua nel consumismo la principale forma dell’avere,
introducendo una formula inquietante: “io sono = ciò che ho e ciò che consumo”.
La teoria della dipendenza e dell’influenza sociale di A. M Deutsch e H. B. Gerard
A. M Deutsch e H. B. Gerard studiando il fenomeno del conformismo, formularono la teoria della
doppia dipendenza.
L’influenza sociale è la pressione che il gruppo esercita sui singoli alterandone percezioni, opinioni,
atteggiamenti e comportamenti.
1. La prima scaturisce da un personale senso di incertezza che spinge l’individuo a ottenere più
informazioni possibili sul contesto in cui si trova per avere un’interpretazione accurata e precisa della
realtà. Parliamo di influenza sociale informativa, infatti quando un individuo, trovandosi in
situazioni ambigue, confuse, incerte, assume il comportamento degli altri come fonte di
informazioni e si adegua a tale comportamento.
2. Parliamo invece di influenza sociale normativa quando sono gli individui a conformare le proprie
opinioni e i propri comportamenti al modo di agire e di pensare delle persone che stanno loro intorno
al fine di venire accettati e apprezzati dagli altri.
L’influenza informazionale agisce in maniera più profonda rispetto allinfluenza normativa. Perchè
una cosa è adeguarsio alle norme un’altra è riconoscerle e ritrovarcisi.
INF. Secondo la teoria della dipendenza di A. M. Deutsch e H. B. Gerard i membri di un gruppo sono
cognitivamente e socialmente dipendenti ciascuno dagli altri e dalle norme che il gruppo difende.
Avviene inconsapevolmente ma comporta una conformità al pensiero altrui persistente nel tempo.
NORM. L’influenza normativa, invece, ha come obiettivo l’approvazione sociale degli altri e
scaturisce dalla compiacenza, ovvero un accordo pubblico con la fonte o con il gruppo ma che non
corrisponde ad un’accettazione privata del parere altrui.
Il conformismo, quindi, in questo secondo caso, è solamente pubblico e non persiste nel tempo.
Nel 1972 il teorico J.Bradshaw ha identificato nel campo educativo quattro tipi differenti di bisogno:
1-bisogno come scostamento verso il basso rispetto a una norma, dove un soggetto si sente
ancor più al di sotto degli standard minimi richiesti e definiti come normali;
2-bisogno come sentimento presente nell’animo di una persona, evidenziato se gli si chiede
di che cosa sente il bisogno stesso;
3-bisogno espresso o domanda, che si basa sull’assunto che se uno sente un desiderio,
facilmente lo manifesterà al prossimo,seppur in forma indiretta;
4-bisogno che nasce dal confronto con altre persone e altre istituzioni simili, ma che
possiedono qualcosa in più.
A questi quattro bisogni, altri due importanti teorici come Burton e Merrill (1977), ne aggiungono
un quinto, ossia il bisogno come anticipazione di future necessità, nel senso che l’educazione non
può tener conto solo della realtà sociale e culturale quale oggi si presenta in un luogo particolare.
Un tratto comune esistente in tutti questi tipi di bisogno, riguarda il fatto che esso è presente quando
si manifesta una qualche discrepanza tra come le cose dovrebbero essere, e come esse lo sono di fatto.
La valutazione di un bisogno è quindi un procedimento che va messo in atto per determinare il dover
essere (obiettivo educativo) e per misurare la distanza esistente tra il dover essere e la situazione
attuale (bisogno). E’ cioè in sintesi un processo che porta alla determinazione degli obiettivi, alla
misurazione dei bisogni, alla decisione dell’ordine di precedenza degli interventi.
A questo proposito, Klein ha sviluppato un modello procedurale per la valutazione dei bisogni
consistente in quattro fasi:
analisi strutturale sono raccolti dati utili ad una descrizione della realtà organizzativa (strategie,
obiettivi, funzionamenti, processi, vincoli)
analisi individuale le aree di analisi solitamente individuate sono: attività svolte, relazioni
interpersonali, eventi critici che si presentano con una certa frequenza, attese e bisogni.
Questo luogo è la scuola, e più nello specifico l’aula. Ambiguità della parola “classe” / “Classe
di alunni o alunni andate in classe?” – la parola “classe” usata come metonimia. In termini scolastici
il luogo dove avviene l’apprendimento si chiama AMBIENTE DI APPRENDIMENTO o AULA (in
inglese Virtual Learning Environment) , con le nuove tecnologie questo luogo può essere anche
virtuale (ad esempio si parla di Aula virtuale).
Il luogo fisico o virtuale dove avviene la formazione e la didattica si chiama ⇒ Vedi
glossario “Ambiente di Apprendimento” (1), mentre se si esce dalla classe il nuovo ambiente di
apprendimento è detto anche classe scomposta, flip teaching o casse capovolta.
Sono le stesse Indicazioni nazionali per il curricolo a sottolineare l’esigenza di un ambiente
di apprendimento che sappia ospitare e promuovere attività centrate sullo studente.
È dunque una sorta di scuola-casa, pensata espressamente per il benessere degli studenti, che lavorano
non sempre nella stessa aula, bensì in diversi laboratori, progettati per competenze. In questo modo,
si “scompone” appunto il luogo scolastico, sia dal punto di vista fisico che concettuale. Esso viene
infatti suddiviso in tanti piccoli luoghi che portano in sé diverse competenze, utili per creare il puzzle
finale che dovrebbe caratterizzare ogni studente.
In una classe scomposta tipica, gli spazi comunemente intesi sono completamente destrutturati: ad
esempio, si troveranno banchi spostati lungo le pareti, uno accanto all’altro, per i ragazzi che hanno
bisogno di studiare a scuola.
Ci saranno poi alcuni luoghi fuori dall’aula, adibiti a spazi comuni, dove soggiornare, discutere di
libri, comunicare, dibattere, riflettere insieme agli altri in momenti collettivi. Se poi gli studenti
volessero leggere libri (cartacei e non), o rilassarsi, o ancora scrivere i propri pensieri su un diario, ci
sarebbe per loro l’ambiente salottino. Una scuola scomposta prevede inoltre postazioni utili per
guardare i film in modo collaborativo (cineforum), e altre adibite alle webconference. Questi e tanti
altri sono quindi gli spazi e gli strumenti di cui i discenti possono fruire liberamente in una classe
scomposta, all’interno di un ambiente che li metta a loro agio e senza barriere architettoniche. È pur
vero che la libertà di azione dei discenti potrebbe creare un po’ di difficoltà agli insegnanti.
Infatti, il fatto che essi siano liberi di alzarsi, sedersi sui banchi, aggregarsi in maniera autonoma,
uscire dall’aula per andare in altre classi, ascoltare musica o guardare video senza dover chiedere un
esplicito permesso ai docenti, rappresenta una sfida dal punto di vista logistico e organizzativo.
Ci vorrà dunque uno sforzo, da parte degli insegnanti, per integrarsi nel gruppo degli alunni, in modo
da diventare “uno di loro” grazie ad una assidua partecipazione ai lavori di gruppo.
In tal modo, l’insegnante non si troverà a chiedere ai ragazzi – quando servirà per le lezioni frontali
– di rimettersi nell’assetto scolastico classico (banchi e cattedra di fronte): sarà quasi naturale, per
loro, far ciò per stare più comodi – nel momento in cui dovranno aprire i libri o i quaderni per prendere
appunti, guardando alla lavagna. Come si è visto, nella scuola scomposta gli studenti interagiscono
liberamente con i compagni e con gli altri insegnanti. Si cerca quindi di creare uno spazio sereno e
un’atmosfera collaborativa: il tutto, però, sempre nel rispetto delle regole.
È infatti timore comune dei docenti che questo tipo di ambiente renda difficoltosa la didattica, poiché
troppo dispersivo per alcuni tipi di alunni.Ciò potrebbe essere vero nella misura in cui, a questi ultimi,
non si dia contezza dei criteri con cui verranno valutati che, ovviamente, comprendono anche la
condotta. La classe scomposta, in effetti, adotta spazi del genere perché essi sono utili per sviluppare
tutte le competenze che l’Europa richiede da tempo alla scuola moderna, tra cui quelle di cittadinanza
e quelle relative all’uso delle nuove tecnologie.
Dal punto di vista della didattica, esse convogliano in varie UdA (unità d’apprendimento), che i
docenti progettano e comunicano agli alunni – anche affiggendo dei cartelloni negli spazi comuni.
Sarà sul loro raggiungimento che si baserà la valutazione.
Dal canto loro, anche gli alunni avranno modo di rendersi conto dei propri progressi: ciò è possibile
tramite dei moduli di auto-valutazione online che la scuola mette a disposizione degli alunni perché
questi, in maniera il più possibile obiettiva, cerchino di comprendere fino a che punto hanno fatto
progressi nel loro cammino di apprendimento. Moduli di valutazione e auto-valutazione vengono poi
messi a confronto, in modo da capire se ci siano criticità o discostamenti troppo evidenti tra il punto
di vista del discente e quello del docente: i due, in tal modo, continuano a dialogare fino alla fine del
loro percorso insieme.
• operativizzare;
La conoscenza è sempre in divenire, i ragazzi in classe devono essere in grado di comunicare con i
propri compagni, con chi si trova fuori dall’aula, con chi immaterialmente può dar loro informazioni
per costruire il proprio sapere. Devono saper ascoltare, confrontarsi, ricercare, affermare e confutare
tesi, lavorare in gruppo, saper esprimere e gestire emozioni e creatività. Il modello del Future
Classroom Lab di European Schoolnet e del TEAL (Technology Enabled Active Learning) utilizzato
in alcune aule del MIT di Boston; ne sono un esempio l’Istituto Pacioli di Crema16 o l’IIS Benincasa
di Ancona.17 Il costo di queste aule è sicuramente molto alto; esse seguono inoltre schemi didattici
che non ci appartengono del tutto, anche se la proposta di reinventare gli spazi, gli arredi, i colori e le
modalità didattiche non può che trovarci d’accordo.
Una “classe scomposta” parte da altre realtà: nessuno spazio extra aula, 32 banchi, una cattedra, una
LIM (preesistente ma per noi non necessaria), un videoproiettore, casse acustiche, una postazione per
creare e-book, ragazzi dotati di mobile device. Le nuove postazioni di lavoro normalmente utilizzate
a casa, quali i dispositivi a loro più congeniali per comunicare, reperire informazioni e lavorare; il
nostro intento è stato di ricostruire un ambiente familiare, in cui gli alunni potessero gestirsi
autonomamente e sentirsi a proprio agio, che rispecchiasse il loro modo di studiare e di apprendere.
• i banchi sono spostati lungo le pareti (sarebbe ancora più utile avere banchi e sedie che si chiudono
e si aprono all’occorrenza);
• sono stati creati alcuni posti fuori dall’aula in un vicino sottoscala, che è divenuto il luogo in cui gli
studenti studiano individualmente, anche con sedie più comode rispetto a quelle tradizionali;
• sono state create postazioni per poter leggere tranquillamente i libri cartacei (biblioteca della classe);
• la cattedra è stata spostata in fondo all’aula con accanto una bacheca in cui vengono pubblicate le
UDA, le griglie di valutazione definite dal CdC, gli orari dei docenti delle altre classi in modo che i
ragazzi possano tranquillamente spostarsi o interagire con altri studenti o altri insegnanti durante le
lezioni.
Sedie, banchi, quaderni, penne, mobile device, PC, LIM, videoproiettore, casse acustiche, biblioteca
di testi cartacei, postazioni per webconference… questi e tanti altri sono pertanto gli strumenti che i
ragazzi possono usare a loro piacimento per creare un ambiente liberante, senza ostacoli, che dia
serenità e consenta l’instaurarsi di un’atmosfera di collaboratività tra docente e discente, improntata
a reciproco rispetto, ma soprattutto offra ai ragazzi la possibilità di personalizzare il loro modo di
apprendere, secondo le singole e individuali necessità. Permettere ai ragazzi di alzarsi, di sedere sui
banchi, di aggregarsi in modo autonomo, di uscire dall’aula per recarsi in altre classi, di ascoltare
musica o di guardare video senza dover chiedere un esplicito permesso può creare imbarazzo e
problemi al docente, ma se il professore diventa “uno di loro” svolgendo le stesse attività,
partecipando con serenità e disponibilità al lavoro di ricerca, cadono tutte le barriere e il clima diviene
sereno, collaborativo, improntato a grande condivisione.
Riferimenti pedagogici: costruttivismo – Montessori-apprendimento collettivo e connettivo.-
Claparède – La scuola su misura-Dewey- la scuola laboratorio-Freinet
Una prima definizione è quella data dall’ Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico). Con il complesso costrutto di “ambiente di apprendimento” si intende
un insieme di fattori che intervengono in un processo di formazione.
In base alle indagini OCSE, l’atteggiamento di docenti e studenti nei confronti
dell’apprendimento incide in misura maggiore sulla qualità di un ambiente di apprendimento
rispetto a molti altri fattori.
In tale “spazio d’azione” si verificano interazioni e scambi tra allievi, oggetti del sapere e insegnanti,
sulla base di scopi e interessi comuni, e gli allievi hanno modo di fare esperienze significative sul
piano cognitivo, affettivo/emotivo, interpersonale/sociale. Un ambiente d’apprendimento è composto
dal soggetto che apprende e dal “luogo” in cui esso agisce, usa strumenti, raccoglie e interpreta
informazioni, interagisce con altre persone (Wilson, 1996).
In quest’ottica, il docente diviene progettista di ambienti di apprendimento, costruiti
intenzionalmente per consentire percorsi attivi e consapevoli in cui lo studente sia orientato ma non
diretto.
Luoghi ricchi e variegati per esperienze possibili e materiali di lavoro, caratterizzati da una forte
struttura, ma allo stesso tempo aperti e polisemici, in cui gli studenti possano aiutarsi reciprocamente,
utilizzando una varietà di strumenti e di risorse in attività guidate.
Gli “ambienti di apprendimento” sono l’approccio didattico adeguato quando si vuole promuovere
un “apprendimento significativo” piuttosto che uno meccanico, quando si persegue la
comprensione e non la memorizzazione, la produzione di conoscenza invece che la sua mera
riproduzione, l’utilizzo dei contenuti didattici piuttosto che la loro ripetizione.
Ambiente di apprendimento
L’espressione “ambiente di apprendimento” è oggi molto usata nel lessico delle scienze
dell’educazione. La sua diffusione è avvenuta in concomitanza con il cambiamento di prospettiva
che, da un ventennio a questa parte, è stato registrato in campo psico-pedagogico. Si parla in proposito
del passaggio dal paradigma dell’insegnamento a quello dell’apprendimento: da una visione
incentrata sull’insegnamento (che cosa insegnare) si è passati ad una prospettiva focalizzata sul
soggetto che apprende e quindi sui suoi processi, con particolare attenzione a come è costruito il
contesto di supporto all’apprendimento (come facilitare, come guidare, come accompagnare gli
allievi nella costruzione dei loro saperi, e perciò quali situazioni organizzare per favorire
l’apprendimento). In un’accezione molto ampia, l’ambiente di apprendimento può essere inteso come
luogo fisico o virtuale, ma anche come spazio mentale e culturale, organizzativo ed emotivo/affettivo
insieme. Il termine ambiente, dal latino “ambire”, potrebbe dare l’idea degli elementi che delimitano
i contorni dello spazio in cui ha luogo l’apprendimento. È vero però che, se guardiamo alla
conoscenza e al modo in cui si costruisce, non possiamo prendere in considerazione soltanto lo spazio;
dobbiamo osservare l’insieme delle componenti presenti nella situazione in cui vengono messi in
atto i processi di apprendimento. Il che vuol dire analizzare le condizioni e i fattori che intervengono
nel processo: gli insegnanti e gli allievi, gli strumenti culturali, tecnici e simbolici. Possiamo pertanto
provare a definire l’ambiente di apprendimento come un contesto di attività
strutturate,”intenzionalmente” predisposto dall’insegnante, in cui si organizza l’insegnamento
affinché il processo di apprendimento che si intende promuovere avvenga secondo le modalità
attese: ambiente, perciò, come “spazio d’azione” creato per stimolare e sostenere la costruzione
di conoscenze, abilità, motivazioni, atteggiamenti. In tale “spazio d’azione” si
verificano interazioni e scambi tra allievi, oggetti del sapere e insegnanti, sulla base di scopi e
interessi comuni, e gli allievi hanno modo di fare esperienze significative sul piano cognitivo,
affettivo/emotivo, interpersonale/sociale.
Apprendimento: la definizione proposta da Jonassen e Land (2012)
Secondo Jonassen e Land (2012) l’apprendimento è una pratica:
1. intenzionale
2. premeditata
3. attiva
4. cosciente
5. costruttiva
LE COMUNITA’ DI PRATICHE
Comunità di pratiche – Breve introduzione
Comunità di pratiche: gli alunni imparano l’uno dall’altro, quando sono insieme impegnati
in un compito comune, come possono essere quelle della ricerca, o della progettazione e
realizzazione di un prodotto. Il lavorare insieme promuove diverse forme di
collaborazione, consente di mettere in comune conoscenze tacite altrimenti non svelate,
fa emergere ruoli, evidenzia la mutua rilevanza perché tutti concorrono all’obiettivo
condiviso.
Comunità di pratiche o comunità di apprendimento
Le comunità di pratica e di apprendimento sono gruppi sociali aventi l’obiettivo di
produrre conoscenza organizzata e di qualità, alla quale ogni membro ha libero accesso. In
queste comunità, gli individui mirano a un apprendimento continuo attraverso la consapevolezza
delle proprie conoscenze e di quelle degli altri.
Dunque creare un contesto di apprendimento cooperativo implica necessariamente avere delle abilità
sociali, una maggiore apertura allo scambio di esperienze e competenze: «è donando che ci si dichiara
concretamente pronti a giocare il gioco dell’associazione e dell’alleanza e che si sollecita la
partecipazione degli altri allo stesso gioco […]. L’obbligo che ci fa il dono è un obbligo di libertà. Le
comunità di pratica condividono interessi e problematiche, per collaborare, promuovere, discutere e
confrontarsi su questioni correlate ai diversi interessi dei componenti. Si tratta di gruppi sociali, cioè
insiemi di persone che interagiscono in modo ordinato, sulla base di aspettative condivise, con status
e ruoli interrelati, che si organizzano sia per il miglioramento collettivo che per apprendere, partendo
dalle singole conoscenze degli individui che li compongono.
Ogni individuo contribuisce con le proprie competenze e la comunità di pratica tende a scambiarsi
reciprocamente il meglio di ciò che viene prodotto dai collaboratori. Inoltre gli appartenenti
condividono spesso una reciproca attrazione l’uno verso l’altro, ed ogni membro tende ad identificarsi
con il gruppo di appartenenza.
Una comunità di pratica è composta da un gruppo di persone che condividono un interesse e un codice
comuni. All’interno di questo gruppo è costante il concetto di il mutuo aiuto. Molte di queste
caratteristiche fanno capire come tali comunità non possano essere imposte, in quanto le anima e le
sostiene una motivazione intrinseca presente in ogni suo componente. Si fondano su conoscenze,
abilità tecniche ma principalmente sul know how. Wenger identifica la Comunità di Pratica come una
combinazione di elementi che devono interagire tra loro e non possono mancare:
Il Cooperative Learning;
Diversità e parzialità;
Mutue relazioni.
Nella comunità di pratica si innesca una continua negoziazione di pratiche e di significati, poiché il
percorso formazione/apprendimento diventa luogo di scambio e richiede maggiori azioni di vero e
proprio negozio.
Secondo Wenger per poter svolgere un compito in una comunità di pratica devono intervenire le
seguenti fasi:
1. Reificazione: realizzazione del compito in modo collaborativo;
2. Partecipazione: attiva e collaborativa nonché paritaria e personalizzata;
3. Negoziazione di significati: riflessione del gruppo su quanto svolto.
In queste comunità ogni membro mette a disposizione due tipi di conoscenza: esplicita e tacita.
La conoscenza tacita o conoscenza implicita è “…ciò che si conosce, ma non si esprime perché non
si può o sarebbe inutile farlo: possiamo conoscere più di quanto possiamo esprimere…”.
È del 1963 l’idea, secondo il Becker, che solo l’apprendimento emergente dalla conoscenza pratica e
da situazioni reali può essere efficace, e, insieme a conoscenze, abilità e capacità, si può trasformare
in apprendimento dell’esperto.
LO SCAMBIO CON L’ALTRO è IMPORTANTISSIMO.
Le comunità di pratica così intese sono capaci di produrre apprendimento, costruire significati e
sviluppare aspetti sociali identitaria. Queste comunità intendono la collaborazione, sia in rete che non
in rete, come nucleo fondante dell’apprendimento fra individui, basato sulla condivisione delle
esperienze, sull’individuazione delle pratiche migliori e sull’aiuto reciproco nell’affrontare i problemi
quotidiani.
Il costrutto di comunità di pratica (CdP) nasce alla fine degli anni ’80 ed è maturato dentro un
settore di ricerca nato in un ambito di confine tra studi educativi sull’apprendimento e studi
organizzativi. Tale concetto è considerato in letteratura un precursore degli studi sulla conoscenza
pratica e di come questa venga creata e custodita nei contesti sociali e lavorativi.
Wenger sostiene che le CdP sono dappertutto: “tutti noi apparteniamo a delle CdP. A casa, al
lavoro, a scuola, negli hobby, in qualunque fase della nostra vita, apparteniamo a svariate CdP. E
quelle a cui apparteniamo cambiano nel corso della nostra vita. In effetti, le CdP sono dappertutto.
Le famiglie […] sviluppano delle pratiche, delle routine, dei rituali, dei costrutti, dei simboli e delle
convenzioni, delle narrazioni e delle vicende storiche. I familiari si odiano e si amano; concordano
e dissentono. Fanno il necessario per tirare avanti. […] i lavoratori organizzano la propria vita con i
colleghi e con i clienti in modo da poter svolgere la loro attività. Così facendo, sviluppano e
preservano un senso di sé con cui possono convivere, divertirsi un po’ e soddisfare le esigenze dei
datori di lavoro e dei clienti. Quale che sia la loro job description ufficiale, creano una prassi per
fare ciò che bisogna fare. Pur essendo contrattualmente alle dipendenze di una grande istituzione,
nella pratica quotidiana lavorano con […] un gruppo molto più ristretto di persone e di comunità.
Gli studenti vanno a scuola e, quando si riuniscono per affrontare a loro modo gli impegni imposti
da quella istituzione […], le comunità germogliano dappertutto: in classe come ai giardini, in modo
ufficiale o sotterraneo. E nonostante il programma, la disciplina e le esortazioni, l’apprendimento
che ha il più alto impatto trasformativo sul piano personale risulta essere quello che nasce
dall’appartenenza a queste CdP. […]Negli uffici, gli utilizzatori dei computer si affidano gli uni agli
altri per affrontare le complessità di sistemi sempre più oscuri. […] Le CdP fanno parte integrante
della nostra vita quotidiana. Sono così informali e così pervasive da entrare raramente nel mirino
di un’analisi esplicita, ma per quelle stesse ragioni sono anche del tutto familiari” (p. 13).
nascono attorno a interessi di lavoro condivisi – in genere problemi comuni da gestire e risolvere
in condizioni d’interdipendenza cooperativa – e si costituiscono (informalmente) come esito di
forme di negoziazione (anche implicita) tra gli attori organizzativi;
si alimentano di contributi e d’impegni reciproci legati alla consapevolezza di partecipare a
un’impresa comune;
dispongono di un repertorio condiviso inteso come l’insieme – costruito nel tempo – di linguaggi,
routine, sistemi di attività, storie, valori, strumenti che ‘fissano’ – rendendo così riconoscibili le
conoscenze – l’esperienza e la storia della comunità;
definiscono attraverso la partecipazione alla pratica l’identità individuale e collettiva “intesa come
esperienza negoziata, come appartenenza alla comunità, come traiettoria di apprendimento,
come relazione tra globale e locale” (ibidem, p. 153);
si fondano sui legami che si instaurano tra i partner mettendo in secondo ordine i “vincoli
organizzativi di tipo gerarchico” (ibidem, p. 290);
vivono fino a quando persistono gli interessi comuni e fino a quando l’energia che alimenta
l’insieme riesce a riprodursi con un certo grado di regolarità.
Questa schematica definizione mette in evidenza il fatto che attorno alla pratica si strutturano
aggregazioni sociali spontanee di attori che nella pratica e attraverso la pratica, elaborano
significati comuni, apprendono e costruiscono la loro identità soggettiva e collettiva (Wenger,
McDermott, Snyder, 2007).
Il costrutto di CdP chiama in causa una teoria dell’apprendimento che interpreta il coinvolgimento
nella pratica sociale come quell’esperienza fondamentale attraverso la quale individui e
organizzazioni imparano e ‘diventano quelli che sono’. Tale costrutto offre un contributo
fondamentale in termini di nuove chiavi di lettura sui processi di apprendimento e di conoscenza
nei contesti lavorativi in una prospettiva di innovazione organizzativa. Al riguardo, Wenger e Lave
(2006) approfondiscono il concetto di “apprendimento situato” distinguendolo dai tradizionali
studi sull’apprendimento al lavoro e, in particolare, dalle forme storiche di apprendistato.
L’apprendimento situato viene esplorato come forma di “partecipazione periferica legittima” e si
configura come “parte integrante della pratica sociale nel mondo” (ibidem, p. 23).
Alla luce di quanto sopra, si può sostenere che il contributo degli studi sulle CdP è importante per
tutti coloro che si occupano di studiare e supportare i processi di costruzione della conoscenza
nelle organizzazioni poiché esse possono essere considerate i “mattoni” che costituiscono i sistemi
sociali di lavoro e di apprendimento e, quindi, le leve su cui fare forza per supportare l’innovazione
organizzativa.
tutorato e consulenza;
progettazione e organizzazione;
facilitazione dell’interazione fra diversi soggetti;
negoziazione.
Il motto “si impara facendo” esplicita il fatto che l’essere padroni di una certa
competenza è l’esito del percorso, non il presupposto.
Gli oggetti, le cose che il bambino vede e desidera conoscere sono caratterizzate da proprietà da
individuare, da concettualizzare, descrivere, nominare e rappresentare in modo conveniente: la forma,
il colore, la grandezza, lo spazio occupato, la posizione nello spazio, la posizione rispetto ad altre
cose, vicine o lontane, dentro o fuori, sopra o sotto.
Le cose, poi, possono essere confrontate fra loro rispetto alle proprietà che possiedono, e rivelarsi
uguali o diverse; gli oggetti possono essere suddivisi in gruppi di varie quantità, questi insiemi
possono essere confrontati fra di loro.
3. abilità sociali: sono quelle connesse con l’interazione con altri individui.
Questo tipo di LO persegue l’attivazione di competenze non facilmente misurabili con procedure
docimologiche oggettivanti proprio perché scarsamente predefinibili e fortemente connesse con la
sfera dell’individualità.
L’idea di fondo del modello problematico è comunque che non sia possibile riconoscere elevata
qualità formativa ad esperienze corsuali che non prevedano alcun LO di una delle tre tipologie.
1. Offrire molteplici rappresentazioni della realtà e molteplici prospettive da cui guardare l’oggetto
2. Rappresentare la naturale complessità del mondo reale
3. Focalizzarsi sulla costruzione di conoscenza più che sulla riproduzione
4. Presentare compiti autentici più che formule astratte
5. Offrire un ambiente di apprendimento situato e realistico più che sequenze istruttive predeterminate
6. Incoraggiare pratiche riflessive
7. Rendere possibile la costruzione di conoscenza legata al contesto e al contenuto
8. Supportare la costruzione collaborativa di conoscenza mediante la negoziazione.
Il docente è istruttore, un coach che predispone tools e ambienti che aiutino lo studente a interpretare
le molteplici prospettive del mondo e analizza le strategie utilizzate dall’alunno per risolvere
il problema. Gli obiettivi educativi non vengono imposti, ma sono il frutto della negoziazione
tra docente e studenti.
1. è attivo: si interagisce con l’ambiente, si manipolano gli oggetti presenti in quell’ ambiente e si osserva
l’esito dell’azione;
2. è costruttivo: si riflette sulle attività e sulle osservazioni;
3. è intenzionale (goal-directed): si fa qualcosa per uno scopo;
4. è cooperativo, conversazionale, collaborativo: si negozia socialmente una comune comprensione;
5. è autentico
6. è complesso e contestuale
L’apprendimento significativo, proprio per queste sue caratteristiche, per le operazioni che lo
realizzano può essere attivato e sostenuto da un adeguato uso delle tecnologie.
Il concetto di “cambiamento concettuale” ben esprime queste caratteristiche, a partire dal principio –
già presente in Piaget, Ausubel – ovvero la dinamica di apprendimento si caratterizza per una
progressiva sintonizzazione tra i modelli mentali del soggetto e i contenuti della conoscenza, tra la
struttura psicologica del soggetto e la struttura logica della conoscenza:
⇒ l’apprendimento è un dare senso al mondo, integrando e sintetizzando le nuove esperienze.
I principi fondamentali del suo costruttivismo radicale sono proposti in quattro punti:
1. la conoscenza non viene ricevuta passivamente né attraverso i sensi né grazie alla comunicazione;
2. la conoscenza viene attivamente costruita dal soggetto “conoscente”;
3. la funzione della conoscenza è adattiva, nel senso biologico del termine, e tende verso l’adattezza
o la “viabilità”;
4. la conoscenza serve all’organizzazione del mondo esperienziale del soggetto, non alla scoperta di
una realtà ontologicamente oggettiva.
Seymour Papert – il costruzionismo
Il costruzionismo condivide con il costruttivismo l’idea di un soggetto-studente costruttore di
strutture di conoscenze, ma specifica anche che la costruzione di conoscenze è molto più significativa
in un contesto dove il soggetto che apprende è impegnato nella costruzione di un qualcosa di
concreto e condivisibile.
Non vi è più un apprendimento passivo, ma si costruisce attraverso oggetti, cose, manipolazione,
esperienze dirette.
Il costruzionismo introduce quindi il concetto di “artefatti cognitivi” ovvero degli oggetti o dispositivi
che facilitano l’apprendimento e di cui l’uomo necessita esattamente come un costruttore necessita
dei materiali da costruzione.
⇒ Tali prodotti concreti debbono poter essere mostrati, discussi, esaminati, sondati e ammirati.
Si propongono quindi dei veri e propri “set di costruzione”, che permettono all’apprendimento di
concretizzarsi ed anche di avvicinarsi alla realtà. Secondo questa impostazione se gli studenti sono
lenti nell’apprendere non è dovuto alla complessità delle informazioni in sé, ma al fatto che non sono
stati proposti materiali adeguati, tali da avvicinare il concetto il più possibile alla realtà e da rendere
l’informazione semplice da apprendere.
L’esponente principale di questo tipo di approccio, specialmente per gli apporti forniti alla didattica
e alle tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento, è Seymour Papert.
Seymour Papert
Secondo Papert, costruzionismo è una parola con due aspetti, uno si richiama alla
teoria costruttivista ed a Piaget che considera l’apprendimento come una ricostruzione e non come
una mera trasmissione di conoscenze (istruzionismo), l’altro estende il concetto dei materiali
manipolativi affermando che la costruzione e quindi l’apprendimento è più efficace e padroneggiato
quando non è solo mentale, ma è supportato da una costruzione reale, da una attività come la
costruzione di un progetto significativo (Papert 1986).
⇒ Papert chiama questa forma di costruzione mentale “pensiero concreto”.
Nella visione epistemologica di Piaget era solo uno stadio “intermedio” mentre nell’impostazione
proposta da Papert diventa il protagonista dell’apprendimento, un apprendimento definito “sintonico”
e fondato sui tre principi:
Nella creazione di ambienti per l’apprendimento che utilizzano tecnologie, ambito privilegiato da
Papert, diventa centrale l’allievo e le sue attività concrete che generano apprendimenti.
Nel 1963, in contrapposizione alle applicazioni CAI (Computer Assisted Instruction) di stampo
comportamentista, Papert realizza il progetto didattico-tecnologico innovativo LOGO, un linguaggio
e un ambiente di programmazione appositamente sviluppato per i bambini e sviluppa
successivamente l’estensione del set di costruzioni LEGO ad un set di robotica in modo da rendere
disponibili ai bambini strumenti per concretizzare il pensiero astratto e strumenti per realizzare ed
esplorare anche creature artificiali.
⇒ Il sistema scolastico, reso obsoleto anche dall’avvento delle nuove tecnologie, va quindi ripensato
per andare oltre un programma lineare e statico verso un percorso flessibile e dinamico in cui sia data
ai bambini la possibilità di gestire il proprio apprendimento e di imparare non a dare la giusta risposta
alle domande inerenti quello che si è appreso a scuola, ma trovare giuste soluzioni a situazioni che
vadano oltre l’ambito scolastico: “The one really competitive skill is the skill of being able to learn”
(Papert 1998).
Viene privilegiato il problem solving e il problem finding in quanto nell’utilizzo attivo e costruttivo
del LOGO e dei micro mondi i problemi nascono e si definiscono facendo, si procede per continui
aggiustamenti confrontandosi via via con i risultati perseguiti. Nella “pedagogia dell’errore” questo
assume un’accezione positiva, si parla infatti di “matetica” ovvero corso sull’arte dell’apprendimento.
⇒ Si costruisce così un sapere utile e condiviso, che si adegua allo stile dell’allievo, un sapere pratico
ed intenzionale, realizzato in concreti contesti di utilizzo (Harel & Papert 1991; Varisco 1995)
***
Il Goodness of Fit si concentra molto sull’ambiente post natale perchè è lì che si modelleranno le
architetture corticali delle strutture emotive,cognitive e linguistiche che gli serviranno a vivere in una
cultura di una complessità che non ha eguali nel mondo animale.
I numerosi studi dedicati all’evoluzione dei temperamenti nell’ambiente post natale, in modi
diversi,sono ancora profondamente influenzati dal concetto di ‘goodness of fit’ (bontà
dell’adattamento) introdotto nel 1977 dagli psichiatri Alexander Thomas, Stella Chess e altri.
Il modello descrive un insieme di caratteristiche del rapporto tra il temperamento del bambino e il
suo ambiente familiare, evidenziando quali atteggiamenti da parte dei genitori o della scuola e quindi
dell’ambiente permettono uno sviluppo ottimale, un ‘buon adattamento’ appunto.
Ricordiamo brevemente che i tratti di temperamento emergono precocemente come una serie di
tendenze latenti, influenzate da fattori biologici, che si esprimono in alcune differenze di
comportamento fra gli individui. Caratteristiche psicologiche individuali, presenti fin dal la nascita,
che permangono costanti al variare delle situazioni, esprimono poi differenze individuali nei modi di
rispondere a stimoli/situazioni.
Possiamo pertanto definire il temperamento l’insieme di caratteristiche innate che distinguono una
persona dall’altra nello stile comportamentale che manifesta.
Nella prospettiva di Thomas e Chess la ‘bontà dell’adattamento’ può essere facilitata nei casi in cui genitore e
figlio avranno tratti di carattere in comune che permetteranno una reciproca comprensione,ma anche in quelli
in cui, pur avendo il figlio/a caratteristiche temperamentali differenti da quelle del genitore,quest’ultimo eviterà
giudizi negativi e sprezzanti su di lui, facendo leva sui valori del rispetto e della tolleranza e sulle informazioni
ricevute da esperti riguardo alle caratteristiche delle differenze ereditarie di personalità.
La filosofia di Thomas & Chess cerca di isolare ed assegnare a ogni tratto della personalità i propri geni,
definendo una serie di rapporti singoli che convergevano nel comportamento generale mettendo insieme una
batteria di questionari di personalità, per vedere come un genitore esaspera o rifiuta, modera o amplifica tratti
della personalità come l’introversione o l’estroversione ‘estreme‘ del figlio creando intorno a lui un ambiente
familiare fatto di comprensione ed educazione, o al contrario di rifiuto, non-ascolto, etc..
A secondo del come i genitori costruiscono ambienti intorno a loro, i ragazzi/bambini sviluppano diversi tratti
della personalità. Questi tratti permettono di dividere i soggetti in tre gruppi:
Ovviamente nell’adolescenza il rapporto con i genitori già in se conflittuale genera problemi di adattamento.
Il genitore che ti controlla, quello che non ti controlla e ti fa esprimere, e poi quelli che indipendentemente dai
genitori sviluppano una loro naturale resilienza/adattamento.
Il temperamento è poi dipendente dalla relazione entro cui si osserva; le differenze temperamentali hanno
effetti sui genitori che variano in base all’interpretazione che questi danno del comportamento
dell’adolescente; tale interpretazione dipenderà poi dalla loro personalità, dai loro valori e dalle loro preferenze
che sono funzione della cultura specifica di appartenenza.
I risultati hanno dimostrato che seppure la somiglianza di personalità tra gli adolescenti e i loro genitori sotto
tali profili correlava negativamente con i problemi di personalità, tale relazione non era mediata dalla qualità
del rapporto genitore figlio, eccetto che per gli over-controllati.
Solo per questi la qualità relazionale era efficace a moderare gli effetti patologici del comportamento;non lo
era invece per gli adolescenti resilenti e per gli under-controllati/impulsivi.Anzi per quest’ultimi la similitudine
dei tratti genitori-figli aveva l’effetto opposto,cioè di amplificare il loro comportamento.
Se essere under o over controllati vuol dire ospitare tratti che sono parti di insiemi comportamentali ereditari
progettati dall’evoluzione, allora in questo assemblaggio di regolazioni fisiche,nervose,cognitive non ci può
essere una che abbia il potere di manovrare tutte le altre dal suo posto di comando.
Se questa esistesse e fosse,ad esempio,la coscienza razionale e linguistica del figlio under-controllato,sarebbe
lecito aspettarsi che qual’ora un genitore s’impegna ad addestrarlo per esserlo meno,alla fine qualche
cosa,seppure di temporaneo e incerto,potrebbe ottenere.
Il temperamento è dunque influenzato da fattori ambientali, i quali agidscono nel contribuire a modificare il
comportamento del bambino. L’ambiente fisico in primis può avere ripercussioni nel definire il temperamneto
del bambino (es. luoghi rumorosi > umore negativo in bambini di due anni). Oltre all’ambniente fisico sul
bambino impatta anche l’ambiente relazionale (esempio rapporto tra bambino e adulto- bambini
difficili/bambini facili e differenti risposte da parte del caregiver es. rifiuto, rabbia, punizione)
ESEMPIO:
Un bambino con temperamento difficile può fiorire positivamente in un contesto che è in gradi di accogliere e
comprendere i suoi tratti, fornendo accudimento e stimoli a lui adatti. Viceversa, un bambino con
temperamento facile potrebbe faticare nel suo percorso di crescita qualora incontrasse caregivers con pretese
eccessive e che faticano a capire i suoi bisogni.
Le critiche adultocentriche portano molto spesso al fallimento nell’analisi e la ricerca di un buon ambiente per
l’apprendimento, uan visione oggettiva dei problemi ed una analisi degli stessi è prassi richiesta per conoscere
e poter lavorare con la soggettività del piccolo.
1)Ricerca delle novità (novelty seeking-NS-) che con valori elevati si associa a problemi di
esternalizzazione/estroversione, agitazione sociale e altri disturbi, tra cui l’insorgenza di comportamenti
antisociali,
2)Persistenza (persistence-P-) che a valori bassi si lega a comportamenti distruttivi e problemi di attenzione
e indica la capacità di un individuo a perseverare in un obbiettivo nonostante difficoltà e frustrazioni,
Tale posizione “attiva” spinge il soggetto a essere motivato ad apprendere, poiché istigato da fattori
interni quali: bisogno di autostima, desiderio di autorealizzazione, acquisizione di conoscenze
specifiche utili sia nella vita quotidiana che in quella lavorativa.
L’autoapprendimento è efficace nel soggetto perché diretto da una motivazione intrinseca; quindi, il
soggetto è spinto a conoscere ciò che considera “interessante” piuttosto che ciò che gli è “imposto o
proposto” da altri. L’autoapprendimento sarebbe quindi più in sintonia con i processi naturali di
sviluppo psicologico, poiché il soggetto nel corso della propria vita sente la necessità di dirigere da
sé i propri processi di apprendimento.
Nel ramo specifico della formazione, l’auto-formazione riguarda l’insieme delle modalità, tecniche e
strumenti per poter affrontare situazioni e problemi formativi differenti.
– autonomia personale:
si tratta di un aspetto di grande rilievo all’interno di questo approccio. È caratterizzata da indipendenza, libertà
di scelta e riflessione e viene anche considerata uno dei principali obiettivi di apprendimento, in qualunque
contesto e a qualunque età;
– autogestione dell’apprendimento:
si riferisce alla capacità di mettere in atto la propria autonomia sia sul piano della volontà, sia su quello della
capacità di gestione del proprio apprendimento. Il doppio riferimento alla dimensione sia cognitiva sia
motivazionale richiama le tipiche caratteristiche dell’autoregolazione dell’apprendimento, come definite, per
esempio, nel modello di Boekaerts (1996);
– controllo da parte del discente e realizzazione indipendente dell’apprendimento:
il primo aspetto riguarda il controllo delle caratteristiche del contesto di apprendimento, mentre il secondo
pone il focus sulle capacità di autoformazione e sulle occasioni di apprendimento non formali.
Per poter regolare in modo adeguato il proprio processo di apprendimento, lo studente deve in primo luogo
credere in se stesso e nelle proprie capacità. Si è detto del ruolo dell’interesse; a questo, su un piano più
motivazionale, si aggiungono l’importanza di un atteggiamento vincente e l’obiettivo di costruire un bagaglio
conoscitivo e operativo personale.
Non si parla più di una formazione generalizzata, ma di una formazione orientata verso fini specifici
tipica della formazione degli adult.i
Malcolm Knowles, ha sviluppato il concetto di apprendimento autodiretto (self-directed learning),
definendolo come un processo che ha come obiettivo quello di far acquisire ai soggetti un livello
sempre più elevato di autonomia e in cui essi sentono il bisogno di apprendimento che funge da
stimolo all’apprendimento stesso.
Tale processo deve essere sempre accompagnato da quelle figure che Knowles chiama “discenti
proattivi”, ossia tutte quei soggetti che promuovono l’insegnamento, come docenti, tutor e mentor.
Knowles sottolinea l’importanza dei “discenti proattivi” in quanto sono coloro che prendono
l’iniziativa nell’apprendimento e sostengono i pilastri dell’autoformazione, al contrario dei
“discenti reattivi” che ricevono passivamente le informazioni da colui che sta dietro la cattedra.
Altro punto al quale da rilevanza Knowles, è il fatto che l’apprendimento autodiretto sia favorito
qualora ci sia una tendenza del soggetto a far emergere il proprio bisogno psicologico di
indipendenza, quindi al bisogno di voler apprendere in autonomia. Da qui, Knowles parte per
marcare la necessità che il “discente reattivo” sia accompagnato dalle figure di supporto (“discenti
proattivi”) nell’apprendere ad apprendere, in modo tale da non generare ansia e frustrazione.
L’accresciuta importanza del costrutto di autodirezione nell’apprendere molto deve all’esaurirsi delle
ideologie e all’indebolimento dei miti e delle certezze che avevano caratterizzato la modernità.
Nell’attuale condizione umana, definita da alcuni postmoderna, dove l’uomo è sollecitato ad essere
protagonista autentico delle scelte e delle decisioni, il soggetto è il punto di partenza e di arrivo di
ogni esperienza autenticamente educativa.
Nella prospettiva pedagogica l’autodirezione nell’apprendere è un costrutto che si confronta sia con
il principio esistenzialista che afferma il diritto degli esseri umani di vivere nel modo che
preferiscono; sia con il principio umanistico secondo cui non c’è educazione in assenza della libertà
del soggetto di autodeterminare i propri traguardi. Principi che richiamano istanze ineludibili per
la formazione dell’uomo. In particolare, l’importanza della partecipazione attiva del soggetto nel
processo dell’apprendere, l’assunzione di responsabilità e di autonomia, il rafforzamento dell’identità
attraverso vie capaci di sottrarre i soggetti di qualunque età dalle trappole della conformità e dai
pericoli del vivere di riflesso.
Poiché a prima vista l’autodirezione nell’apprendere sembrerebbe richiamare il progetto utopico del
‘bastare a sé stessi’, evocativo di concezioni solitarie dell’esperienza formativa, è opportuno sin d’ora
sgombrare il campo da concezioni errate che hanno alimentato frequenti equivoci.
Knowles ha così definito l’autodirezione nell’apprendere:
“Un processo in cui gli individui prendono l’iniziativa, con o senza l’aiuto di altri, per
diagnosticare i propri bisogni di apprendimento, formulare degli obiettivi di
apprendimento, identificare le risorse – umane e di altro tipo – necessarie per l’apprendimento,
scegliere e implementare delle strategie di apprendimento e valutare i risultati”.
Nella definizione di Knowles si trova conferma che l’iniziativa personale è uno tra gli aspetti di
primo piano che qualificano il processo autodiretto, dove le operazioni richiamate rinviano alle
tradizionali fasi del processo formativo: progettazione, realizzazione, valutazione.
Nel suo libro Epstein J.L. (2002), School, family, and community partnerships: Caring for the
children we share, il professore americano Joyce L. Epstein propone una ricerca
sull’influenza degli ambienti di apprendimento sul rendimento scolastico e sul ruolo della
famiglia e dei genitori nella dinamica educativa.
Epstein individua sei tipi di coinvolgimento. Due autori sono fondamentali: Joyce L. Epstein
and Karen Clark Salinas.
Sei tipi di coinvolgimento dei genitori nella learning comunity della scuola.
– offrire una supervisione generale nel corso dello studio a casa sotto forma
di monitoring, cioè di attenzione e controllo a ciò che fa il figlio, in particolare ai segnali
positivi o di difficoltà rispetto al compito e alla motivazione;
– rispondere alla prestazione, ovvero rinforzare e lodare lo sforzo, il completamento e la
correttezza delle attività svolte, offrire un supporto emozionale, rivedere i compiti conclusi.
Nella seconda categoria vengono descritti comportamenti più strettamente connessi con il
processo di apprendimento o con i contenuti delle attività assegnate per casa, ad esempio:
– impegnarsi nello svolgimento dei compiti e lavorare «con» lo studente: assistere ed
aiutare, insegnare il compito (fare apprendere informazioni, esercitare, memorizzare, ecc.)
oppure usare metodi più indiretti e informali come rispondere alle domande o seguire i
suggerimenti dell’allievo;
– attuare meta-strategie volte a creare un adattamento (fit) tra il compito da svolgere e le
conoscenze e le abilità dello studente: scomporre il compito in parti più brevi, osservare e
riconoscere il livello di sviluppo di chi apprende e «insegnare» in conformità ad esso;
Si parte dal presupposto che il pensiero e l’esperienza si influenzino a vicenda. Così, nello strutturare
il pensiero, l’uomo si avvale di un sistema di significati, di complesse strutture di credenze, teorie e
assunzioni psicoculturali che gli permettono di mediare e interpretare l’esperienza personale e che da
essa nascano.
In questo modo, l’esperienza viene organizzata e resa coerente, ma allo stesso tempo tali strutture
distorcono e limitano la percezione perché vincolate da un significato consolidato nella struttura di
significati. Perché quest’ultima subisca un cambiamento, occorre realizzare una discussione critica.
Solo in questo modo si garantisce che i significati prospettati per l’assunzione da parte del soggetto
siano identificati, valutati criticamente e riformulati in modo tale da rendere più permeabile la
prospettiva di pensiero del soggetto.
Secondo Mezirow per poter parlare di apprendimento auto-diretto formula e distingue tre funzioni
dell’apprendimento adulto:
Pineau
Secondo Gaston Pineau, l’individuo apprende sia grazie ad un soggetto esterno che lo forma, sia
tramite l’interazione con gli altri, sia attraverso le esperienze che vive all’interno dell’ambiente di
riferimento. A tal proposito, egli parla di etero ed eco formazione intendendo la formazione che
l’individuo coglie dagli altri esseri e dall’ambiente fisico, ma non meno importanti sono le successive
fasi di sviluppo: è a questo punto che si inizia a parlare di autoformazione.
Emerge dunque come: più la vecchiaia si avvicina, più aumenta il desiderio di apprendere, di passare
dalla giovinezza alla saggezza. Il ritiro dalla vita lavorativa non è un ritiro dalla vita attiva ma una
possibilità di “nuovo approfondimento” che comporta un’analisi più profonda della propria vita
personale, ma anche lavorativa. Vissuto in modi più o meno attivi e drammatici, il processo di
autoformazione della vecchiaia viene direttamente alle prese con i limiti naturali, come la morte.
Competenze
L’autoformazione si impone come un percorso in cui è fondamentale conoscere la propria persona in
quanto agisce, vive e si forma; a tal proposito è dunque importante che il soggetto faccia leva sulle
proprie capacità di individuare le modalità migliori per apprendere e che sviluppi quelle competenze
per rendere l’autoformazione una formazione efficace.
Tremblay propone un modello che focalizza cinque competenze-chiave per l’autoformazione:
Tali competenze possono concretizzare, per il soggetto che si autoforma, alcune capacità, quali ad
esempio quella di aprirsi al cambiamento di sé, di ricercare in maniera autentica se stessi, di costruire
dinamicamente la propria formazione, di contestualizzare la formazione
L’apprendimento per Hinton e Fischer dipende non solo dalla possibilità del cervello di creare un
maggior numero di connessioni neuronali attraverso le sinapsi, ma anche dai collegamenti che li
riguardano.
Da un lato, l’architettura del nostro cervello, con la sua dotazione genetica iniziale, dall’altro la
capacità di creare connessioni (il modello di apprendimento proposto proprio dalla piattaforma di
Origine Concorsi che sviluppa tutte le potenzialità dell’ipertestualità). Infatti studiando per il TFA
Sostegno Origine ci fornisce una base di connettività necessarie, predisposte per lo sviluppo futuro di
connessioni, teorie, parole chiavi, mappe concettuali: sono tutte addestramento per il cervello.
L’incremento delle connessioni dipende dalle risposte che saranno fornite alle sollecitazioni che
provengono dall’ambiente (in questo senso i nostri simulatori digitali). Durante la vita di ciascun
individuo, dotazioni genetiche ed esperienze interagiscono per formare lo sviluppo, come durante la
preparazione della prova preselettiva.
Questo aspetto è rilevante poiché conferma come la qualità delle esperienze di apprendimento possa
migliorare in modo considerevole lo sviluppo del cervello e del potenziale umano.
Classe/Scuola Scomposta – L’ambiente didattico è un fattore essenziale per
l’apprendimento.
È dunque una sorta di scuola-casa, pensata espressamente per il benessere degli studenti, che lavorano
non sempre nella stessa aula, bensì in diversi laboratori, progettati per competenze. In questo modo,
si “scompone” appunto il luogo scolastico, sia dal punto di vista fisico che concettuale. Esso viene
infatti suddiviso in tanti piccoli luoghi che portano in sé diverse competenze, utili per creare il puzzle
finale che dovrebbe caratterizzare ogni studente.
In una classe scomposta tipica, gli spazi comunemente intesi sono completamente destrutturati: ad
esempio, si troveranno banchi spostati lungo le pareti, uno accanto all’altro, per i ragazzi che hanno
bisogno di studiare a scuola.
Ci saranno poi alcuni luoghi fuori dall’aula, adibiti a spazi comuni, dove soggiornare, discutere di
libri, comunicare, dibattere, riflettere insieme agli altri in momenti collettivi. Se poi gli studenti
volessero leggere libri (cartacei e non), o rilassarsi, o ancora scrivere i propri pensieri su un diario, ci
sarebbe per loro l’ambiente salottino.
Una scuola scomposta prevede inoltre postazioni utili per guardare i film in modo collaborativo
(cineforum), e altre adibite alle webconference. Questi e tanti altri sono quindi gli spazi e gli strumenti
di cui i discenti possono fruire liberamente in una classe scomposta, all’interno di un ambiente che li
metta a loro agio e senza barriere architettoniche. È pur vero che la libertà di azione dei discenti
potrebbe creare un po’ di difficoltà agli insegnanti.
Infatti, il fatto che essi siano liberi di alzarsi, sedersi sui banchi, aggregarsi in maniera autonoma,
uscire dall’aula per andare in altre classi, ascoltare musica o guardare video senza dover chiedere un
esplicito permesso ai docenti, rappresenta una sfida dal punto di vista logistico e organizzativo.
Ci vorrà dunque uno sforzo, da parte degli insegnanti, per integrarsi nel gruppo degli alunni, in modo
da diventare “uno di loro” grazie ad una assidua partecipazione ai lavori di gruppo.
In tal modo, l’insegnante non si troverà a chiedere ai ragazzi – quando servirà per le lezioni frontali
– di rimettersi nell’assetto scolastico classico (banchi e cattedra di fronte): sarà quasi naturale, per
loro, far ciò per stare più comodi – nel momento in cui dovranno aprire i libri o i quaderni per prendere
appunti, guardando alla lavagna. Come si è visto, nella scuola scomposta gli studenti interagiscono
liberamente con i compagni e con gli altri insegnanti. Si cerca quindi di creare uno spazio sereno e
un’atmosfera collaborativa: il tutto, però, sempre nel rispetto delle regole.
È infatti timore comune dei docenti che questo tipo di ambiente renda difficoltosa la didattica, poiché
troppo dispersivo per alcuni tipi di alunni.Ciò potrebbe essere vero nella misura in cui, a questi ultimi,
non si dia contezza dei criteri con cui verranno valutati che, ovviamente, comprendono anche la
condotta. La classe scomposta, in effetti, adotta spazi del genere perché essi sono utili per sviluppare
tutte le competenze che l’Europa richiede da tempo alla scuola moderna, tra cui quelle di cittadinanza
e quelle relative all’uso delle nuove tecnologie.
Dal punto di vista della didattica, esse convogliano in varie UdA (unità d’apprendimento), che i
docenti progettano e comunicano agli alunni – anche affiggendo dei cartelloni negli spazi comuni.
Sarà sul loro raggiungimento che si baserà la valutazione.
Dal canto loro, anche gli alunni avranno modo di rendersi conto dei propri progressi: ciò è possibile
tramite dei moduli di auto-valutazione online che la scuola mette a disposizione degli alunni perché
questi, in maniera il più possibile obiettiva, cerchino di comprendere fino a che punto hanno fatto
progressi nel loro cammino di apprendimento. Moduli di valutazione e auto-valutazione vengono poi
messi a confronto, in modo da capire se ci siano criticità o discostamenti troppo evidenti tra il punto
di vista del discente e quello del docente: i due, in tal modo, continuano a dialogare fino alla fine del
loro percorso insieme.
La conoscenza è sempre in divenire, i ragazzi in classe devono essere in grado di comunicare con i
propri compagni, con chi si trova fuori dall’aula, con chi immaterialmente può dar loro informazioni
per costruire il proprio sapere. Devono saper ascoltare, confrontarsi, ricercare, affermare e confutare
tesi, lavorare in gruppo, saper esprimere e gestire emozioni e creatività. Il modello del Future
Classroom Lab di European Schoolnet e del TEAL (Technology Enabled Active Learning) utilizzato
in alcune aule del MIT di Boston; ne sono un esempio l’Istituto Pacioli di Crema16 o l’IIS Benincasa
di Ancona.
Il costo di queste aule è sicuramente molto alto; esse seguono inoltre schemi didattici che non ci
appartengono del tutto, anche se la proposta di reinventare gli spazi, gli arredi, i colori e le modalità
didattiche non può che trovarci d’accordo.
Una “classe scomposta” parte da altre realtà: nessuno spazio extra aula, 32 banchi, una cattedra, una
LIM (preesistente ma per noi non necessaria), un videoproiettore, casse acustiche, una postazione per
creare e-book, ragazzi dotati di mobile device. Le nuove postazioni di lavoro normalmente utilizzate
a casa, quali i dispositivi a loro più congeniali per comunicare, reperire informazioni e lavorare; il
nostro intento è stato di ricostruire un ambiente familiare, in cui gli alunni potessero gestirsi
autonomamente e sentirsi a proprio agio, che rispecchiasse il loro modo di studiare e di apprendere.
• i banchi sono spostati lungo le pareti (sarebbe ancora più utile avere banchi e sedie che si chiudono
e si aprono all’occorrenza);
• sono stati creati alcuni posti fuori dall’aula in un vicino sottoscala, che è divenuto il luogo in cui gli
studenti studiano individualmente, anche con sedie più comode rispetto a quelle tradizionali;
• sono state create postazioni per poter leggere tranquillamente i libri cartacei (biblioteca della classe);
• la cattedra è stata spostata in fondo all’aula con accanto una bacheca in cui vengono pubblicate le
UDA, le griglie di valutazione definite dal CdC, gli orari dei docenti delle altre classi in modo che i
ragazzi possano tranquillamente spostarsi o interagire con altri studenti o altri insegnanti durante le
lezioni.
Sedie, banchi, quaderni, penne, mobile device, PC, LIM, videoproiettore, casse acustiche, biblioteca
di testi cartacei, postazioni per webconference… questi e tanti altri sono pertanto gli strumenti che i
ragazzi possono usare a loro piacimento per creare un ambiente liberante, senza ostacoli, che dia
serenità e consenta l’instaurarsi di un’atmosfera di collaboratività tra docente e discente, improntata
a reciproco rispetto, ma soprattutto offra ai ragazzi la possibilità di personalizzare il loro modo di
apprendere, secondo le singole e individuali necessità. Permettere ai ragazzi di alzarsi, di sedere sui
banchi, di aggregarsi in modo autonomo, di uscire dall’aula per recarsi in altre classi, di ascoltare
musica o di guardare video senza dover chiedere un esplicito permesso può creare imbarazzo e
problemi al docente, ma se il professore diventa “uno di loro” svolgendo le stesse attività,
partecipando con serenità e disponibilità al lavoro di ricerca, cadono tutte le barriere e il clima diviene
sereno, collaborativo, improntato a grande condivisione.
Schwab J. J. e la struttura della disciplina ed il curriculo
Schwab J. J., nel suo La struttura delle discipline, mette in relazione La struttura della conoscenza
e il curricolo.
Ogni disciplina è «una finestra sul mondo» che non assomiglia a nessun’altra; lo sguardo «alto e
altro» che i saperi disciplinari permettono di avere conferisce loro “sapore”.
Per J. J. Schwab, che si occupa del passaggio dalle discipline “di ricerca” alle discipline “di
insegnamento” (1971), in ogni disciplina sono individuabili due strutture interdipendenti: una
struttura sostanziale o concettuale, costituita dalle leggi, dai principi, dalle idee base e dalle nozioni
propri della disciplina; una struttura sintattica, di cui fanno parte le procedure metodologiche e i
criteri di validazione, gli strumenti utilizzati, il linguaggio specifico della disciplina.
L’approccio strutturale di Schwab J. J., per settori-chiave, non perde mai di vista l'”unità”
dell’educazione, il curricolo complessivo in tutti i suoi equilibri, portando a far vedere nessi
insospettati, per esempio, tra un nuovo curricolo di matematica e le scienze, gli apprendimenti
linguistici, le stesse attività espressive, e viceversa: nessi di fondo, non fortuite convergenze.
In base alla sua matrice ogni disciplina è organizzata e funziona «come un principio globale di
intelligibilità» che associa intimamente:
Infatti discipline che hanno lo stesso oggetto, ad esempio l’uomo per le scienze umane (psicologia,
sociologia, antropologia, ecc.), lo trattano in maniera differente. Gli scienziati, preoccupati dal
crescente divario tra scienza moderna e l’insegnamento scientifico nella scuola, e gli psicologi,
impegnati nello studio dello sviluppo mentale e dell’apprendimento, hanno richiamato l’attenzione
su un’organizzazione del curricolo che tenga conto di una razionale “organizzazione della
conoscenza”, cioè delle complesse articolazioni del sapere così come si presentano oggi.
Un ambiguo interesse al discorso sul curricolo, come a un’aspirazione educativa chiusa entro i limitati
orizzonti di una efficienza intellettuale valorizzata al di fuori di ogni concezione d’insieme. Occorre
perciò tenere ben presente che il significato di “curricolo” non è solo quello di “programma per un
certo corso di studi”, ma si estende ad aspetti psicologici, organizzativi, didattici, valutativi.
Egli dimostra come i curricoli delle nostre scuole, frutto dei successivi adattamenti di
un’impostazione di tipo umanistico, siano superati e inorganici (basta pensare che identificano
senz’altro le “scienze” con le “scienze della natura”).
L’Index per l’inclusione di Tony Booth e Mel Ainscow
La concezione di inclusione presuppone il superamento della logica integrazionista con cui i sistemi
di istruzione moderni tendono a gestire la diversità e muove verso quella dell’inclusione.
Dall’integrazione ⇒ all’inclusione, in particolare nei confronti di disabilità e multiculturalità.
L’Index per l’inclusione è uno strumento tramite cui le scuole (su iniziativa di singoli o di gruppi)
possono operare un’auto-analisi ed un’ auto-riflessione sul grado per questo è l’indice, cioè il grado
di inclusività e apportare cambiamenti alla propria organizzazione per accrescere l’inclusione di tutti
i suoi membri, minori e adulti, al proprio interno. Secondo gli autori non sussiste differenza tra
inclusione sociale e inclusione a livello scolastico.
Obbiettivi dell’Index sono:
1. Creare politiche inclusive
2. Sviluppare pratiche inclusive
3. Creare culture inclusive
In pratica, la mancanza di inclusione sociale e/o di successo scolastico di un alunno non dipenderebbe
da un deficit a lui interno, ma da un difetto nell’organizzazione della scuola e delle sue pratiche
didattiche, definibile come “ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione”, o di ambienti di
apprendimento non adatti al suo sviluppo ed alla sua crescita.
L’Index per l’inclusione è una proposta metodologica e di analisi degli ambienti di apprendimento
sviluppata da Tony Booth e Mel Ainscow, gli autori hanno raccolta la proposta in un testo uscito poi
uscito nel 2000 in inglese, ma tradotto poi anche in Italiano.
L’Index o indice per l’inclusione è usato come strumento per promuovere l’inclusione nella scuola.
L’index parla, infatti, di valori inclusivi a cui si ispirano gli autori, una selezione frutto di dibattito e
ricerca.
Uguaglianza, partecipazione, comunità, sostenibilità, rispetto per la diversità sono selezionati come
cinque valori fondamentali, a cui si aggiungono diritti, non violenza, fiducia, empatia, onestà,
coraggio, gioia, amore, speranza/ottimismo e bellezza.
L’index prova ad andare oltre la logica dei numeri e delle tecniche, e cerca di tener conto dei bisogni
legati all’individualità/ismo (speciali/tà/ismi) e cerca di rendere i valori dell’inclusione davvero
universali; non li tratta come problemi ma come momenti dell’essere al mondo e nel mondo. Infatti,
Tony Booth e Mel Ainscow, sorprendentemente individuano un nesso tra il tema dell’inclusione e il
tema della sostenibilità ambientale e globale.
Sulla base dell’indice e dei suoi valori la scuola è chiamata a elaborare un quadro “negoziato”,
condiviso e partecipato dei propri valori, i cui principi si possono trovare anche nel PTOF. L’indice
offre anche questionari da somministrare al personale, agli alunni e alle famiglie per vagliare la
percezione dell’inclusione nella scuola e stabilire priorità d’intervento.
Il metodo di insegnamento deve infatti anche porsi il problema dei valori in gioco e dei fini da
perseguire. La scelta del metodo di insegnamento ha un valore sociale e politico (per costruire la
società democratica cui Kilpatrick è legato è necessaria una consapevole azione educativa). Per
Kilpatrick l’individuo agisce in funzione di fini: ogni azione intenzionale si concretizza in un
“progetto”.
Il metodo di insegnamento migliore è di conseguenza un metodo di “progetti”.
Questi lavora alla relazione tra pedagogia e società, tipica del metodo attivista, dove conoscenza e
lavoro pratico, ma anche la formazione sul modello di Dewey, significa partecipazione alla vita
collettiva, economica e sociale”.
Per Kilpatrick educare significava un’unità di “cuore”, “mente” e “mano”, gli studenti, stimolati
nell’interesse, erano stati in grado di studiare da soli senza la sua supervisione.
Secondo Kilpatrick il sapere deve essere soprattutto invenzione, scoperta. Non ci si può limitare a un
“problema stretto del metodo” (come insegnare una disciplina) ma ci si deve aprire a un “largo
problema del metodo”.
- Come iniziare a lavorare per progetti? Secondo Kilpatrick, ci sono tre cose che l’insegnante
potrebbe fare fin da subito:
Ausubel introduce anche l’idea dei concetti assimilatori, concetti che forniscono una base per il
collegamento tra le nuove informazioni e le conoscenze preesistenti. Col passare del tempo,
tuttavia, la maggior parte delle informazioni apprese sarebbe dimenticata. Secondo la teoria di
Ausubel, la quantità di informazioni ricordata dipenderebbe principalmente dal grado di
significatività.
L’apprendimento significativo ha i seguenti vantaggi:
Durante la nostra vita scolastica, o semplicemente osservando con attenzione quello che ci succede,
realizziamo presto che non tutto quello che apprendiamo è uguale. Le differenze sembrano ovvie
quando paragoniamo l’apprendimento profondo, derivato da un argomento di nostro interesse, con
l’apprendimento mnemonico di un concetto noioso a cui non diamo significato. Per questo motivo,
David Ausubel ha studiato le differenze tra questi due approcci e sviluppato la sua teoria
dell’apprendimento significativo.
Molti psicologi dell’educazione hanno concentrato i loro sforzi nel cercare di sviluppare modelli che
descrivono il modo in cui acquisiamo conoscenza. Quello sull’apprendimento significativo è uno
dei modelli che meglio spiega in che modo si produce un apprendimento profondo non letterale.
E questo viene definito come un apprendimento costruito e legato alla conoscenza previa, in cui il
soggetto svolge un ruolo attivo, ristrutturando e riorganizzando le informazioni.
In questa teoria possiamo intravedere grandi influenze costruttiviste.
Per David Ausubel, la vera conoscenza è costruita dal soggetto attraverso le sue interpretazioni.
Tutte le nozioni apprese a memoria, dunque, sarebbero solo il risultato di ripetizioni con poco o
nessun significato. In questa forma di conoscenza l’interpretazione del soggetto non entra in gioco e
difficilmente ha un’influenza significativa sulla vita della persona. Per conoscere la natura
dell’apprendimento significativo, è necessario capire che la teoria di Ausubel è una teoria destinata
all’applicazione diretta. In nessun caso, un apprendimento letterale o superficiale può modificare le
rappresentazioni del soggetto, e questo ci fa mettere in discussione che si tratti di un reale
apprendimento. Proprio da ciò nasce la necessità di capire cos’è l’apprendimento significativo.
David Ausubel ha proposto i seguenti
principi che l’insegnamento dovrebbe seguire per raggiungere un apprendimento
significativo da parte degli studenti:
Tenere in considerazione le conoscenze precedenti. L’apprendimento significativo è relazionale, la
sua vastità dipende dalla connessione tra nuovi contenuti e conoscenze precedenti.
Fornire attività che possano suscitare l’interesse dello studente. A un più alto interesse lo studente sarà
più disposto a integrare le nuove conoscenze nel suo quadro concettuale.
Abbiamo visto come i concetti assimilatori siano soggetti a un continuo processo evolutivo, chiamato
da Ausubel “differenziazione progressiva”, questi hanno una forte attinenza con i problemi della
progettazione didattica, come anche quello della “conciliazione integrativa”. Secondo questa
concezione, lo sviluppo dei concetti procede meglio quando sono insegnati prima i concetti più
generali, i quali possono essere in seguito differenziati in termini di dettagli e specificità.
Partendo dal presupposto che “l’apprendimento significativo implica l’assimilazione dei nuovi
concetti nelle strutture cognitive esistenti“, nacque l’ipotesi della costruzione delle mappe
concettuali per poter formalizzare la conoscenza strutturata, ovvero il modo in cui i vari concetti
posseduti sono interconnessi tra di loro all’interno di un determinato dominio conoscitivo.
Assumendo che le tecnologie didattiche hanno lo scopo di rendere più efficace il processo formativo,
le mappe, in quanto strumenti di rappresentazione, innalzano da un lato la nostra comprensione su
come gli studenti organizzano ed usano le loro conoscenze, dall’altro aumentano gli strumenti
di autovalutazione dei processi di apprendimento. Per loro natura, infatti, le mappe fanno parte di
quegli attrezzi cognitivi che supportano, guidano ed estendono il processo di pensiero di chi li usa, in
quanto è molto difficile costruire delle rappresentazioni significative senza riflettere profondamente
sulle informazioni possedute.
Gli scritti didattici di Alfredo Giunti offrono tuttora spunti e itinerari molto freschi e ricchi per una
risposta efficace a questo problema, dimostrando di poter essere considerati, nel loro genere,
“classici”.
Non più l’aula come simulazione lontana dalla realtà ma la realtà come aula, come scrive nei sui
libri il pedagostia statunitente E. Clark evidenza la necessità di interventi socialmente significativi,
sviluppando così responsabilità sociale, riportato anche nel testo di Fiorn, OLTRE L’AULA La
proposta pedagogica del service-Learning .
Solidarietà, apprendimento sistematico e responsabilità, crescita della capacità di leadership, tutti
fattori che influenzano positivamente l’autostima.
Tali conflitti si producono quando, rispetto a un problema dato, più individui utilizzano approcci
cognitivi diversi e tutti ugualmente insufficienti. Il confronto simultaneo tra vari approcci o soluzioni
individuali nel corso di un’interazione sociale rende necessaria e genera la loro integrazione in una
nuova organizzazione.
Agli individui si pone un problema sociale – come far evolvere le loro relazioni – e insieme un
problema cognitivo: come dare conto delle differenze fra le cognizioni e, eventualmente, coordinarle
o integrarle in una visione comune. Gli aspetti sociali e quelli cognitivi sono intimamente legati, ma
l’analisi della situazione è facilitata quando le due fonti dell’eventuale perturbazione e del riequilibrio
sono prese esplicitamente in considerazione.
Ricerche recenti nel campo dell’apprendimento tra pari (peer groups learning) illustrano la pertinenza
di questa analisi nei termini di una duplice dinamica. (W. Doise, Confini e identità, Il Mulino,
Bologna 2010, pp. 51-53
In tale “spazio d’azione” si verificano interazioni e scambi tra allievi, oggetti del sapere e insegnanti,
sulla base di scopi e interessi comuni, e gli allievi hanno modo di fare esperienze significative sul
piano cognitivo, affettivo/emotivo, interpersonale/sociale. Un ambiente d’apprendimento è composto
dal soggetto che apprende e dal “luogo” in cui esso agisce, usa strumenti, raccoglie e interpreta
informazioni, interagisce con altre persone.
Affinché un luogo “qualsiasi” sia inteso e possa essere definito un “ambiente di apprendimento”
sono necessario alcune condizioni. Un docente o una scuola che crei le condizioni perchè l’aula
diventi realmente un luogo di apprendimento, dove:
Si valorizzano contesti autentici per la didattica (questa è la condizione che poi sarà detta di
apprendimento significativo)
Si utilizzano nelle attività di apprendimento le esperienze degli studenti;
Si ancorano le teorie, i contenuti, le abilità da apprendere ad esperienze;
Si dà agli studenti la responsabilità dell’organizzazione e della gestione delle attività di
apprendimento;
Si mette a disposizione degli studenti un’ampia gamma di risorse (contenuti, tecnologie,
supporto, contesti);
Si favoriscono le capacità di autoapprendimento degli alunni;
Si ha fiducia nelle capacità e si valorizzano le risorse in possesso degli studenti;
Si consente agli studenti di lavorare come “professionisti” di un dominio di conoscenza;
Si assicura un costante presidio didattico delle attività;
Si collegano le attività scolastiche al mondo reale;
Si utilizzano tutte le opportunità di apprendimento offerte dai contesti e dai compiti autentici;
Si attivano contesti di lavoro e apprendimento aperti, non strutturarti per rendere possibile
apprendimenti non previsti, prevedibili, serendipici;
Si favorisce una costante attività metacognitiva;
Si valutano gli apprendimenti con modalità autentiche.
attivo
orientato ai contenuti
aperto
determinato dalla pianificazione didattica
dinamico
principi di apprendimento della disciplina
Ognuno di noi vive in un proprio ambiente (fisico, culturale, sociale…) e cerca di attribuirgli un
significato personale. Per far questo esplora l’ambiente nei molteplici aspetti, fa uso di numerose
risorse, s’inserisce in relazioni già stabilite e ne attiva di nuove con lo scopo di correlarsi
efficacemente con l’ambiente stesso, di soddisfare i propri bisogni, di padroneggiarlo.
La condizione prima perché sia possibile generare un apprendimento con queste caratteristiche è che
l’ambiente sia ricco di risorse e che a ciascuno sia data la possibilità di attraversarlo in modo non
vincolato da una strutturazione didattica rigida: questa è la prima caratteristica di un apprendimento
centrato su chi apprende (learner-centred).
Di “ambienti di apprendimento” (learner centred o problem solving oriented) ne sono stati concepiti
e sviluppati numerosi che si differenziano per la focalizzazione concettuale (ad esempio, alcuni
rendono operativa la “flessibilità cognitiva”, altri l’“apprendimento situato”), ma che condividono
tutti lo stesso insieme di principi epistemologici.
L’“ambiente di apprendimento” rappresenta un sistema dinamico, aperto, forse caotico, in cui le
persone che apprendono hanno la possibilità di vivere una vera e propria “esperienza di
apprendimento”; esso è ricco e ridondante di risorse per poter essere funzionale alle differenti
situazioni reali in cui si svilupperà il processo formativo, determinato dai sistemi personali di
conoscenza che caratterizzano ciascun allievo.
Gli “obiettivi di apprendimento” rappresentano, in questa prospettiva, più la direzione del percorso
che la meta da raggiungere.
I “contenuti” non sono pre-strutturati e sono presentati da una pluralità di prospettive; non tutti devono
essere appresi ma rappresentano una “banca dati” cui attingere al bisogno.
Da Don Milani alla Montessori e Dewey, da Freinet a Malaguzzi, chiunque abbia avvertito la
necessità di mettere in primo piano lo studente è giunto alla conclusione che la cattedra e la sua
collocazione sulla predella sono l’emblema di una relazione di tipo gerarchico.
VEDI LA SEZIONE DI APPROFONDIMENTO SULLA PEDAGOGIA STORICA E GENERALE
(sezione che trovi ora anche nel Modulo 5)
Fondamenti di pedagogia generale, storia dei processi formativi e pedagogia sociale.
Questi cinque nomi sono da imparare potrebbero essere presenti in domande:
Don Milani
Montessori
Dewey
Freinet
Malaguzzi
attivismo pedagogico
Compito di chi progetta “ambienti di apprendimento” dovrebbe essere quello di creare le condizioni
per attivare e supportare un ciclo di attività cognitive che iniziano con la raccolta, registrazione e
analisi di dati, proseguono con la formulazione e la verifica di ipotesi nonché la riflessione sui propri
livelli di comprensione e di apprendimento, per concludersi con la costruzione di senso personale
delle informazioni, che è la dimostrazione di un apprendimento autentico (Crotty 1994).
estendere le responsabilità degli studenti: determinare che cosa hanno bisogno di apprendere,
come poter gestire le proprie attività di apprendimento, sviluppare abilità metacognitive;
promuovere lo studio, l’investigazione, il problem solving in contesti autentici, significativi e
soddisfacenti: fare il massimo uso delle conoscenze pregresse, ancorare l’istruzione a situazioni
realistiche, predisporre nodi molteplici per apprendere lo stesso contenuto;
utilizzare attività dinamiche di apprendimento che promuovono operazioni di alto livello:
utilizzare attività che includono informazioni ambigue, problemi mal strutturati e aperti.
Promuovere la presentazione ed articolazione di idee, strategie, approcci, soluzioni.
L’ordinanza ministeriale ministeriale all’art.4, c.3 dell’O.M. n.11 del 16.05.2020 recita che
i Collegi dei Docenti adottino e approvino una griglia di valutazione i cui indicatori e
descrittori consentano di valutare le competenze acquisite dagli alunni nella globalità
dell’attività didattica svolta durante l’intero anno scolastico.
Quali sono le procedure richieste ai docenti, per gli alunni ammessi con insufficienze? Per
ogni alunno che riporti voti inferiori al 6, il Consiglio di Classe predispone un Piano di
Apprendimento Individualizzato (PAI) in cui devono essere necessariamente indicati, per
ciascuna disciplina, gli obiettivi di apprendimento da conseguire e le strategie per il
raggiungimento degli stessi.
Non esiste un modello unico: il PAI può essere redatto da ogni istituzione scolastica sulla
base delle precise indicazioni fornite dall’ordinanza ministeriale e approvato dal Collegio dei
docenti. A partire da questo piano, sarà possibile il prossimo anno monitorare l’effettiva
acquisizione degli obiettivi non raggiunti da parte degli alunni ammessi con insufficienze.
Per gli alunni con disabilità certificata, con DSA e con BES non certificati, il Piano di
Apprendimento Individualizzato, ove necessario, integra il PEI o il PDP.
Veniamo, adesso, alla nota dolente, perché l’idea di ammettere un alunno all’anno
successivo con insufficienze anche gravi e magari una frequenza discontinua prima e/o
dopo la sospensione delle attività didattiche, ma senza la necessità che debba colmare a
settembre i debiti formativi, è un aspetto molto delicato e che ha suscitato non poche
perplessità nel corpo docente, anche a causa dei numerosi cambi di rotta manifestati negli
annunci a mezzo stampa della Ministra Azzolina.
⇒ La non ammissione all’anno successivo è possibile solo in uno specifico caso: il Consiglio
di classe non deve essere in possesso di “alcun elemento valutativo relativo all’alunno” per
tutto l’anno scolastico e deve aver già verbalizzato questa assoluta mancanza di
valutazione (“per cause perduranti e già opportunamente verbalizzate per il primo periodo
didattico”), dovuta a mancata o sporadica frequenza delle attività didattiche. Solo se
coesistono queste condizioni, tra l’altro non imputabili alle difficoltà legate alla disponibilità
di apparecchiature tecnologiche o alla connettività di rete, il Consiglio di classe può non
ammettere l’alunno alla classe successiva, ma solo con motivazione espressa all’unanimità.
Oltre al Piano di Apprendimento Individualizzato, per gli alunni che hanno riportato
insufficienze, i docenti hanno la possibilità di redigere anche un altro documento relativo,
però, tutto il gruppo classe e che crea i presupposti da cui far partire le programmazioni
all’inizio del prossimo anno scolastico.
Vedi
https://www.rivistaorigine.it/tfa/wp-content/uploads/2020/06/Griglie_di_Valutazione_I_C__Cal.pdf