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Quadrittico – Giovanni Pascoli (1891/1892)

Il Quadrittico è l’insieme di quattro poesie composte dal poeta Giovanni Pascoli tra il 1891 e il
1892: Temporale, Lampo, Tuono e Dopo l’acquazzone. Sono state inserite successivamente nella
terza edizione di Myricae, l’opera più acclamata e famosa dell’autore. Esse sono i più lampanti
esempi del cosiddetto impressionismo pascoliano. Ispirato dall’impressionismo francese, il quale
stava prendendo molto piede in quegli anni, Pascoli decide di descrivere ciò che stava vedendo non
tramite i dipinti (come facevano Monet, Manet e Renoir) bensì esprime le sue personali impressioni
con la parola, trattenendo come delle pennellate le sue sensazioni e l’evento atmosferico che stava
scorgendo non poco lontano.
Temporale
Un bubbolio lontano…
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
Questo primo componimento è una ballata di settenari in rime A BCBCCA. Nell’unica strofa è
possibile dividere due sequenze: una raffigurante il mare, e l’altra la terraferma, nonostante si trovi
un unico, lungo periodo.
Il poeta osserva l’inizio di una tempesta. Egli non può rimanere indifferente di fronte al “dramma”
della natura, e inizia l’unica strofa con una voce onomatopeica, “bubbolio”, cioè un brontolio del
tuono. La scossa che ciò porta all’ordine delle cose viene resa in poesia con il verso bianco, come a
significare uno stacco. Deduciamo che il sole sta per tramontare, infatti il cielo “rosseggia”,
“affocato” (infuocato, o “soffocato”, in una diversa chiave). Il cielo si fa nero, ma rimangono gli
”stracci” di nubi chiare a dare un minimo di speranza e di reminiscenza della situazione originaria;
così come, negli ultimi versi, si scorge un casolare insieme all’ala di gabbiano (analogia). Pascoli
non si limita a visualizzare ciò che è intorno a sé, ma esprime, tramite la sintassi e il chiaroscuro
degli ultimi versi, un senso di smarrimento, come si sarà probabilmente sentito il gabbiano,
precipitato in maniera del tutto inaspettata nel pieno di un evento atmosferico così caotico. Sarà il
casolare una sorta di speranza a cui aggrapparsi per superare il nero del temporale, ricordando
sempre il solito nido?
Lampo
E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;


il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio che largo, esterrefatto,
si aprì si chiuse, nella notte nera.
Qua Pascoli opta per gli endecasillabi, mantenendo lo spazio tra il primo e il secondo verso e anche
lo schema di rime A BCBCCA. Vengono presi in considerazione due piani semantici: cielo e terra.
“Cielo e terra” sono due, ma il poeta decide di utilizzare un verbo alla terza persona singolare.
Scelta studiata, nulla è lasciato al caso: oltre che per ragioni metriche, cielo e terra vengono
considerati un tutt’uno, in questo momento. Si stanno fondendo davanti agli occhi del pover’uomo,
che non può far altro se non annotare le sue impressioni davanti al fenomeno del lampo, impotente
davanti a un qualcosa più grande di lui. La tenebra notturna impedisce di vedere lo stato del
paesaggio, ma il lampo rende una chiara osservazione di nuovo possibile (“si mostrò qual era”) e
quel bagliore “bianco bianco>” di luce rivela un pianeta impaurito, in balia degli eventi, “livido”
(violaceo) e in “sussulto”. Sono due i momenti in cui verbi opposti vengono accostati (versi 5 e 7),
per indicare una luce momentanea, che in un lasso di tempo così piccolo riporta alla luce la “casa”.
La luce in cui è presentato il paesaggio è drammatica, il linguaggio preciso e nuovo.
Questi primi due componimenti sono concentrati sull’impressione visiva.
Tuono
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.
Anche questa terza poesia è scritta in endecasillabi, con rime ABCBCCA. Il primo lungo periodo è
scandito da virgole e spezzatò a metà dai due punti, il secondo ha uno schema paratattico. Pascoli
riprende l’ultimo verso della precedente lirica, con l’immagine della notte nera.
La natura si è finalmente scatenata in tutta la sua violenza. L’uso della similitudine vuole dare
l’impressione del buio intenso e pauroso. Il tuono viene poi accompagnato liricamente dall’aspetto
fonico; dopo aver iniziato a narrare con vocali chiuse ed aperte in alternanza, per preannunciare il
“fragore” vengono introdotte le sibilanti e le liquide (da sottolineare l’allitterazione della r).
L’impressione prevalente è uditiva, e l’immagine è chiusa paragonando la paura dell’uomo a quella
del bambino, che vuole essere di nuovo “cullato dalla madre”, simbolo di sicurezza, precauzione e
pace, dopo lo spavento della notte buia.
Dopo l’acquazzone
Passò strosciando e sibilando il nero
nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,
luccica; un fresco odor dal cimitero
viene di bosco.
Presso la sua chiesa; mentre la sua voce
tintinna, canta, a onde lunghe romba;
ruzza uno stuolo, ed alla grande croce
tornano a bomba.
Un vel di pioggia vela l’orizzonte;
ma il cimitero, sotto il ciel sereno,
placido olezza, va da monte a monte
l’arcobaleno.
Il più lungo dei quattro nonché il conclusivo del quadrittico: tre quartine di tre endecasillabi e un
quinario in rima alternata.
Qui si narra la fine del temporale la mattina seguente, accompagnando le solite impressioni visive
ed uditive alle sensazioni olfattive, tra cui il caratteristico odore dopo la fine di una pioggia. Il
paesaggio è fissato divinamente nella testa del lettore: la tendenza abbracciata da Pascoli è ancora di
tipo impressionistico, aprendosi lui a nuove visioni e ampliando l’espressività poetica.

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