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Rivista trimestrale numero 1


marzo 2010
Lo stato dell'arte
ae-review n. 1/2010
Editoriale
Lo stato dell'arte
Emergenze Le parole della sostenibilità
Dossier
Idee progettuali di Simona Magioncalda
Autori
Recensione & pillole
Eventi Nella civiltà odierna il modo stesso di
Prossimo numero comunicare ha subito una
numero 0 ottobre 2009 mutazione, nell’era di Internet e
ae-review n. 0/2009 delle chats, la comunicazione
Editoriale avviene con video, immagini e
Lo stato dell'arte soprattutto con frasi sempre più
Emergenze sintetiche ed essenziali. Pertanto, anche la divulgazione
Dossier
di istanze e tematiche legate alla sostenibilità, per
Idee progettuali
Autori
raggiungere ed informare un numero maggiore di
Recensione & pillole persone, deve seguire gli stessi dettami ed essere
Eventi quanto mai concisa ed immediata. Questa sorta di
Prossimo numero condensazione di frasi, ma non di concetti e di idee,
deve avvenire mantenendo un’ efficienza nel contenuto
inviato.

Diventa quindi indispensabile, in un messaggio che deve


essere stringato ma chiaro, l’utilizzo di vocaboli e parole
il cui significato sia più che mai condiviso e compreso.
L’accuratezza nella scelta ed utilizzo di idonee parole è
un’esigenza molto sentita che si percepisce dall’ampio
numero di dizionari e glossario specializzati che, con
sempre maggior frequenza, sono pubblicati.

In Internet sono rintracciabili molti link dedicati ai vari


“glossari dell’ambiente”, “glossari della sostenibilità”,
“eco-glossari”, etc. Tra questi, emergono anche notevoli
differenze nel numero di sostantivi citati, ad esempio si
può passare dall’autorevole “Sustainability Glossary”
dell’Università di Yale composto da 139 lemmi all’eco-
glossario italiano del sito InformAmbiente con ben 2197
voci. Il nostro paese ha infatti prontamente risposto alle
istanze del rispetto ambientale moltiplicando e
componendo nuovi vocaboli, spesso anteponendo “bio”
od “eco”; sull’onda dello stesso entusiasmo abbiamo
assistito anche alla proliferazione di innumerevoli bio-
prodotti con i nomi più fantasiosi nonché alla creazione
di nuove eco-aziende che, in qualche singolo caso,
hanno poi dimostrato di possedere un’anima ecologista
solamente nel nome. Infatti, se l’impegno di un paese
nei confronti della salvaguardia ambientale fosse
direttamente proporzionale al numero di parole, nello
specifico campo, impiegate e coniate, probabilmente
l’Italia sarebbe ai primi posti nel mondo, ma la realtà
dei fatti dimostra ben altro. Molte, anzi moltissime cose
bisogna ancora fare per fondare una coscienza
rispettosa dell’ambiente nel nostro paese che sia
indifferenziata sul territorio e venga così superato il
divario esistente tra le diverse regioni. La situazione
italiana, relativamente all’applicazione dei trattati
sull’ambiente, è purtroppo molto disomogenea:
abbiamo tra le regioni l’eccellenza del Trentino Alto
Adige che, grazie alle caratteristiche climatiche simili
alla Germania, ne ha assunto le soluzioni innovative, tra
le quali la “Passive House” ne è un esempio tra i più
noti. In questa marea di parole, lemmi e terminologie è
possibile individuare poche e semplici voci che,
utilizzate per la divulgazione delle tematiche della
sostenibilità, ne possano diventare delle vere “alleate”?

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Iniziamo con “ecologia”, un termine oggi utilizzato a


piene mani, ma che fu in origine coniato dal biologo
tedesco Ernst Haeckel nel lontano 1866; l’ecologia
deriva dal greco οίκος, oikos, "casa" o anche
"ambiente" e λόγος, logos, "discorso" o “studio” ed è la
disciplina che studia la biosfera, ossia la porzione della
Terra in cui è presente la vita e le cui caratteristiche
sono determinate dall'interazione degli organismi tra
loro e con l’ambiente circostante, o ancora porzioni
della biosfera medesima. É però la definizione di
ecologia di Charles Krebs (1972) che meglio rispecchia
il concetto corrente di “ecologia” come “lo studio
scientifico delle interazioni che determinano la
distribuzione e l'abbondanza degli organismi''. La
trattazione prosegue con le definizioni di sostenibilità e
di sviluppo sostenibile osservando come anche i
significati non restino immutati nel tempo, ma
assumano connotazioni ogni volta più articolate e
complesse.

La sostenibilità è secondo J.R. Hichs: il "massimo


ammontare che una comunità può consumare in un
certo periodo e rimanere, tuttavia, lontana
dall'esaurimento delle risorse come all'inizio". Una
prima definizione di “sviluppo sostenibile” viene
indicata, nel rapporto di Gro Harlem Bruntland
(Presidente della Commissione Mondiale su Ambiente e
Sviluppo) del 1987, come lo "sviluppo che risponde alle
necessità del presente, senza compromettere la
capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie
esigenze". Una successiva definizione di “sviluppo
sostenibile”, in cui è inclusa invece una visione più
complessiva, è stata fornita, nel 1991, dal World
Conservation Union (WCU), UN Environment
Programme (UNEP) e dal World Wide Fund for Nature
(WWF), che lo identifica come “un miglioramento di
qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico
degli ecosistemi di supporto, dai quali la vista stessa
dipende”.

Nel 1994 nel documento relativo al Local Agend 21


Model Communities Programme, promosso dall’ ICLEI
(International Council for Local Environmental
Initiatives), lo “sviluppo sostenibile” è individuato come
lo "sviluppo che offre servizi ambientali, sociali ed
economici di base a tutti i membri di una comunità,
senza minacciare l'operabilità dei sistemi naturale,
edificato e sociale da cui dipende la fornitura di tali
servizi". Ma è con la dichiarazione universale
dell’UNESCO sulla diversità culturale, adottata
all'unanimità a Parigi durante la 31esima sessione della
Conferenza Generale dell'UNESCO (Parigi, 2 novembre
2001), nella quale si afferma che “la diversità culturale
è, per il genere umano, necessaria quanto la
biodiversità per qualsiasi forma di vita” ed inoltre “la
diversità culturale amplia le possibilità di scelta offerte a
ciascuno; è una delle fonti di sviluppo, inteso non
soltanto in termini di crescita economica, ma anche
come possibilità di accesso ad un'esistenza intellettuale,
affettiva, morale e spirituale soddisfacente”. Con questa
importante dichiarazione dell’UNESCO la diversità
culturale, in quanto valore irrinunciabile dell’umanità, è
da far rientrare insieme al sistema naturale, sociale ed
economico tra le caratterizzazioni dello sviluppo
sostenibile. Non solo è fondamentale avere ben chiaro
che cosa si intende come sviluppo sostenibile, ma è
anche importante determinare degli indicatori in grado
di fornire specifiche sui diversi livelli di sostenibilità
raggiunti.

L'indice di sostenibilità ambientale (Environmental


Performance Index), (EPI) è invece un metodo per
quantificare numericamente le prestazioni ambientali di
un paese. Questo indice è stato sviluppato dal Pilot
Environmental Performance Index, pubblicato dal
2002, e progettato per integrare gli obiettivi ambientali
delle Nazioni Unite. Questo indice è stato sviluppato

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dalla Yale University e dalla Columbia University in


collaborazione con il Forum economico mondiale ed il
Centro comune di ricerca della Commissione europea.
Dal gennaio 2008 l'EPI ha emesso due rapporti: il Pilot
2006 Environmental Performance Index e l'Indice di
sostenibilità ambientale. Con l’Indice di sostenibilità
ambientale si chiude questo breve excursus sulle parole
del sostenibile e sulla trasformazione nel tempo dei loro
significati.

Le città diversamente vivibili

di Maria Grazia Capra

Oggi è necessario e possibile


superare i dogmi “modernisti” su cui
si fondano le normali pratiche
dell’architettura e dell’urbanistica. Da decenni questo
modo di costruire le città ha dimostrato la sua incapacità
di dare origine ad un ambiente urbano migliore. La crisi
delle metropoli che ne è seguita si manifesta in modi
diversi, dall’inquinamento alla disintegrazione sociale,
dall’inefficienza dei servizi ai problemi di accessibilità,
dalla sicurezza al controllo del territorio. Dopo l’idea della
città “pubblica”, della città “moderna e funzionale”, e del
più recente modello della città “sostenibile”, quello che si
deve tornare a chiedere ad un centro urbano è di essere
semplicemente vivibile. Non è tecnicamente impossibile
nè economicamente irrealizzabile. È solo una scelta
politica aperta verso un futuro ancora tutto da costruire.
Si può fare, e si può fare diversamente. Non è detto che
la città debba continuare ad espandersi per ampliamenti
privi di centro e identità. Non è detto che i suoi margini
debbano essere sempre più indefiniti e frammentari.

Non è detto che l’edilizia economico-popolare debba


essere alienante come l’abbiamo sempre conosciuta. E
non è detto che un nuovo intervento architettonico non
possa contribuire a restaurare l’immagine urbana.
L’attualità è la città tradizionale, poiché “l’unica parte
veramente moderna della città è il centro storico”.

Le esperienze di rinascimento urbano in diversi paesi


dell’Europa e negli Stati Uniti, dimostrano nel concreto
che “si può fare” e che, di fatto, si sta facendo. Il mensile
Monocle, fondato poco più di un anno fa da alcuni dei più
noti giornalisti nazionali, propone la graduatoria delle 25
città più vivibili del mondo ed ha stabilito dei criteri
particolari: le solite statistiche, sì, ma anche quello che
per la sua redazione è importante, come la bassa
criminalità, buone scuole e buoni ospedali pubblici,
tolleranza verso la diversità e quel "certo non so che",
come diremmo in Italia, che spinge il trend di un luogo
verso l'alto anziché verso il basso. Ne viene fuori un
elenco che, se in parte è prevedibile e rispetta il canone
di quello che ci si può aspettare, per certi aspetti è
sorprendente e originale. Per cominciare, mancano due
metropoli che di solito sono sempre in tutte le classifiche
di questo tipo: New York e Londra. Troppo costose,
troppo classiste, troppo orientate su istruzione e sanità
privata. Restano alla moda, tutti i turisti ci vogliono
andare in vacanza (specie gli italiani), ma appunto
rischiano di perdersi qualcosa di meglio, che è altrove. E
poi: il punto della lista di Monocle non è trovare le città
più affascinanti per i turisti ma quelle dove vivono meglio
i residenti. Ecco allora la graduatoria. In testa
Copenaghen, capitale della Danimarca: bella, intelligente,
proporzionata, a misura d'uomo, con senso
dell'umorismo, sensibile ai problemi dell'ambiente, con
buoni trasporti, buone scuole pubbliche, buoni ospedali,
buoni ristoranti, poca criminalità, grande cultura e meno
pioggia e freddo di quanto uno si aspetterebbe. Una città
a misura d'uomo, con tanto verde, ma anche tanti

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incentivi per il business. Al secondo posto Monaco di


Baviera: stretta tra il boom di Berlino e i progressi di
Dresda, sembrava candidata a entrare in crisi, invece
rimane la più vivibile, divertente, cosmopolita città
tedesca. Al terzo, a sorpresa, Tokyo: una megalopoli che
funziona come un orologio svizzero, veloce e lenta al
tempo stesso, capace di smentire gli stereotipi su se
stessa. Poi seguono i "soliti noti", ovvero le città che sono
famose per la loro buona qualità della vita: Zurigo e
Vienna, Helsinki e Stoccolma (la dolce vita nordica),
Vancouver e Montreal, Sidney e Melbourne (tutti
vorrebbero vivere in Canada e Australia, se non fossero
uno freddo e l'altra lontana), Madrid e Barcellona. Altre
sorprese: Honolulu (non solo spiagge e surf). Poi,
Fukuoka, in Giappone, la capitale dello shopping con le
misure giuste. Infine, Minneapolis: la città emergente
degli Stati Uniti. In classifica ci sono anche Parigi (decimo
posto), Amsterdam (diciottesimo), Kyoto (ventesimo),
seguita da Amburgo, Singapore, Ginevra, Lisbona e
Portland (quella dell'Oregon, una specie di San Francisco
un po' più settentrionale). A proposito, San Francisco è
un'altra assenza di rilievo dall'elenco. Non ci sono né
Roma, né Milano. Siamo, insieme alla Grecia, l'unica
grande nazione europea assente dall'elenco. La
consolazione è che la prima delle non-elette è Genova.
Forse l'anno prossimo, scrivono i redattori di Monocle,
sarà entrata fra le "top 25", così come le altre "quasi"
classificate: Buenos Aires, Istanbul, Beirut e Phnom Penh.
Le venticinque città più vivibili del mondo più altre
cinque, resta solo da decidere in quale trasferirsi.

Le periferie urbane "paesaggi umanizzati"

di Marco Cuomo

L’umanizzazione del paesaggio


urbano attraverso la “…
trasformazione come processo
protratto nel tempo...” (P. Eisenman)
è un contributo culturale
indispensabile per una ricerca
analogica dei principi evolutivi, che innescano una
mutazione eco-sostenibile dell’architettura. “...Perché
oggi l’architettura deve appartenere al contesto...,
altresì dobbiamo armonizzare i differenti e autonomi
frammenti di non-città in un tessuto urbano
aggregante...” e non repellente; “...bisogna lottare
contro la mercificazione del nostro pianeta...” e “.... le
tre ecologie sociale, culturale, materiale...“ (L. Kroll)
sono gli strumenti traduttori per determinare le scelte
sociali e politiche volte ad arginare le lacune e le
deformazioni ambientali ereditate dalla cultura
modernista. Bisogna avere il coraggio di scardinare
questo bubbone figlio della deregulation, immorale
assemblaggio di pezzi metropolitani i cui flussi erratici e
non-luoghi incancreniscono e sgretolano l’identità
collettiva del paesaggio urbano. Attenzione agli anatemi
sgarbiani forieri solo di luoghi comuni che trasformano
le periferie come tavolozze dove “gli architetti
potrebbero fare cose formidabili” (Costruire num. 227),
le nostre periferie hanno bisogno di cose semplici, e non
formidabili, che sono il risultato di una attenta ricerca
metodologica del processo costruttivo e non cernesse di
forme o di volumi griffati.

Le utopie fattibili, di cui parla Aldo Rossi,


consentono agli architetti nella realtà costruita di
modificare e di umanizzare la macchina abitativa di Le
Corbusier, al fine di recuperare e rigenerare il landscape
geografico della città.

“...Tutto é paesaggio...” sostiene il maestro belga


dove l’architettura delle differenze trova un equilibrio
naturale e non inquinato “dall’ostinazione modernista” a

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cui i maledetti architetti contemporanei, citati nel libro


di Tom Wolfe, hanno guardato al modello funzionale.
Risulta scelta efficace e trainante la riqualificazione del
tessuto urbano apatico della città diffusa tramite un
operazione di ri-montaggio, che sposa la tesi già
esposta da Colin Rowe nel suo libro “Collage
city” (1981), in cui si attribuisce all’atto costruttivo la
capacità del montaggio per creare un architettura
umana, la quale si avvale anche dei principi di
Christofer Alexander precursore nell’indicare come
metodo evolutivo un lavoro di équipe tra architetto e
utente nelle fasi esecutive del cantiere. Progettisti come
P. Hubner ribadiscono oggi attraverso la loro opera
l’indispensabile necessità di un lavoro partecipativo,
ammonendo gli architetti colleghi di non cadere “...nella
tentazione di credere che senza di loro non si
riuscirebbe a costruire...”.

Il dialogo tra l’uomo e lo spazio in cui


quotidianamente abita, garantisce l’armonia e la qualità
del vivere, un bene che è la ragione stessa della vita;
l’offerta di aree aperte con funzioni di luoghi aggreganti
deve avere una priorità assoluta. La piazza come spazio
pulsante (cuore) di un contesto costruito in cui la natura
é protagonista, si introduce l’idea della strada giardino,
cara a Ponti, e generatrice di un paesaggio urbano non
più schiavo della lava grigia di cemento ed asfalto “...I
progetti dovranno mirare alla qualità del contesto...” (P.
Lefevre).

Il ricomporre le periferie partendo dai “rottami” e


non dalle “rovine” di V. Gregotti “Architettura, tecnica e
finalità” (2002) risulta senz’altro una sfida difficile, ma
necessaria, vitale, per riuscire a dare delle risposte
concrete e non solo teoriche. La lezione di L. Kroll,
pioniere dell’architettura partecipativa ed ecologica non
deve essere accantonata in fondo ad un cassetto, ma
continuata e implementata con l’aiuto di nuove bio-
tecnologie ed aggiornate metodiche progettuali. La
recente opera di villaggio urbano ecocompatibile (B.
Dunster) ubicata nella periferia urbana di Londra fa ben
sperare (VilleGiardini num. 284) sulla preparazione
professionale delle giovani generazioni di architetti.
L’azione di ricostruire delle ecologie urbane risulta
determinante nel concetto di definire “l’utopia
praticabile” introdotta dal maestro belga, che vuole
determinare la complessità dell’architettura come
ricchezza innata del sito urbano e utilizzare la
spontaneità come metodo evolutivo progettuale per
costituire un’immagine vivibile della realtà costruita e
direttamente codificata dal DNA del contesto. Il
processo spontaneo, che non interviene mai
forzatamente sulla morfologia del luogo, ma interagisce
emotivamente coi fatti quotidiani, propone elementi
costruttivi con dimensioni equilibrate e materiali
ecologici, che ben si rapportano con la tradizione
costruttiva regionale e con i modelli architettonici locali.

L’obiettivo é di conservare una continuità geografica del


paesaggio antropico, al fine di stabilire un confronto
evolutivo tra ambiente e progetto. Questo principio si
integra con il pensiero di James Wines fondatore del
gruppo americano dei Site, che con il concetto di
contestualizzazione applicato all’architettura propone
una ricerca environmental sul paesaggio, evidenziando
il rapporto tra uomo e ambiente e creando così
un’architettura composta di acqua, aria, terra e luce. Il
riconoscere all’abitante del sito, il potere di prendere
decisioni, il diritto a modificare il luogo in cui vive,
rinforza ulteriormente questo legame inscindibile tra
persone e il genius loci.

L'equosostenibilità nella

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quotidianità

di Simona Calissano

E’ trascorso poco più di un anno


dalla scomparsa di Mario Rigoni
Stern, il Sergente dell’Altopiano di
Asiago, scrittore noto soprattutto
per i suoi racconti di guerra, ma
anche per il suo rapporto con la natura. Nei libri e nei
numerosi articoli pubblicati su “La Stampa” lo scrittore ci
ha restituito la storia degli uomini, della terra, degli
animali con singolare sensibilità, chiarezza e umiltà. Il
suo stile è sempre stato sobrio ed essenziale, riflesso di
un suo modo d’essere quotidiano, “montanaro” sino al
midollo.

Per Rigoni Stern osservare la natura significa


prendersene cura, con impegno e fatica. Sempre
realistici, i suoi scritti risultano privi di quella retorica
bucolica che a volte connota l’approccio dello spettatore-
cittadino. Da essi traspare piuttosto una pura
amorevolezza: l’ambiente è casa. Una casa in cui il tempo
viene scandito attraverso le stagioni e la solidità morale
ne costituisce le fondamenta; proprio le riflessioni sul
ritmo naturale, cioè ciclico, costituiscono forse le sue
pagine più belle, di certo uno dei temi più amati, il
metodo dello scrittore per fare memoria. Scrivere non è
tanto e non solo un’opera intellettuale, quanto un lavoro
da artigiano: la scrivania si chiama semplicemente tavolo
e questo è sempre posto davanti alla finestra, a saldare il
legame indissolubile con la natura viva.

Le annotazioni, le impressioni sono tratte dall’esperienza


diretta, dal contatto, dal lavoro, quindi mai liriche o
sognanti, anche se cariche di ricordi spesso anche
dolorosi. I racconti di Rigoni Stern sono piuttosto “favole
pedagogiche”, destinate a trasmettere un insegnamento
e quindi narrate con precisione, facendo attenzione ai
particolari, ai nomi, ai comportamenti e alle interazioni
fra ambiente umano, animale e vegetale.

Il suo è un modo pulito, dignitoso, attento di muoversi


nel mondo e di relazionarsi con esso, nel rispetto
reciproco – in nessuna delle sue memorie della seconda
guerra mondiale compare mai la parola “nemico” –
basato soprattutto sul lavoro soprattutto manuale.
Coltivare l’orto è una metafora della vita, è come scrivere
un bel racconto. E’ frutto di conoscenze scientifiche
specifiche, del sapere degli anziani e di un’etica personale
molto radicata, in base alla quale ogni cosa deve essere
fatta per bene. “Ogni giorno, risvegliandoci, dovremmo
avere un unico pensiero: cercare di far bene quanto ci
attende” ha affermato Rigoni, indipendentemente da
cosa, perché solo dall’azione ben fatta ricaveremo sempre
il nostro benessere (e non solo nostro). Così la stessa
arte della manutenzione si eleva a stile di vita,
esprimendo il profondo rispetto verso le cose, il proprio
“stare in vita con il mondo” con laboriosità e sensibilità.

Fra i numerosi temi naturali che costellano l’opera del


Sergente vorrei sottolineare la predilezione per gli alberi,
ai quali egli ha dedicato uno dei suoi libri più suggestivi:
“Arboreto salvatico”. Non selvatico, ma salvatico, perché
gli alberi sono stati per lui fonte di guarigione quando,
appena rientrato dalla traumatica esperienza della guerra
di Russia, avevo perduto fiducia negli uomini. Camminare
fra i boschi lo riportò alla vita: “Andavo solo, con i ricordi
che premevano sul cuore, ponendomi molti perché. Mi
accompagnavano gli spiriti degli amici che non erano
ritornati a baita. «Perché mi avete lasciato solo?»
chiedevo. Ma loro erano benevoli, sorridevano: «Noi
siamo sempre con te. Non devi avere rimorsi per essere
ancora vivo. Racconta, fai sapere»”(1). Dall’amato Larice
alla leggiadra Betulla, Rigoni Stern ha raccontato gli
alberi nei loro aspetti botanici e ambientali, senza
tralasciare le leggende e le influenze della cultura

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popolare, mischiate ai ricordi personali di bambino e di


uomo. “Chi conosce la scienza – scrisse – sente che un
pezzo di musica e un albero hanno qualcosa in comune,
che l’uno e l’altro sono creati da leggi egualmente logiche
e semplici”. E ancora: “Com’è bene ciò che è forestale!
Ora, con il terreno coperto da tanta neve, gli alberi
appaiono diritti, solenni e vivi si perdono nella profondità
del cielo come silenziosa preghiera” (2). Non a caso
soleva definire il bosco “la cattedrale del creato”. La
particolare sensibilità nei confronti delle piante lo
accomuna a Elzéard Bouffier, “L’uomo che piantava gli
alberi” nella bella storia di Jean Giono. Il loro mondo,
infatti, non si traduce in un malinconico ritorno al
passato, quanto in una volontà di riconciliare l’uomo con
la natura, affinché possa tornare a vivere con lei e non
contro, o separato da lei: un messaggio di rinnovamento
e di vita che il Sergente ci ha lasciato come monito e
testamento.

1) Mario Rigoni Stern, Luci al neon sul mio presepe, in


“Le vite dell’Altopiano”, Einaudi 2008, p. 559.

2) M. Rigoni Stern, Stagioni, Einaudi 2006, pp. 17-18.

Pensieri e riflessioni sul concetto di


sostenibilità

di Federico Morchio

Ci è capitato di dover riprendere in


mano un testo di tecnica bioclimatica
intitolato “Building for energy
conservation” (“edifici per la
conservazione dell’energia”) scritto
da Peter Burberry e pubblicato in
Gran Bretagna nel 1978. Rileggere l’introduzione ed il
primo capitolo ci ha stupito non poco. Lo stupore è
derivato dallo scoprire come frasi scritte oltre trenta
anni fa siano drammaticamente attuali anche oggi dopo
oltre un quarto di secolo, dall’osservare come i problemi
energetici fossero allora già ben noti e delineati e dal
verificare quanto poco sia stato fatto, in seguito, per dar
loro una soluzione alternativa e futuribile.

Ci pare quindi interessante riportare alcune frasi che ci


hanno colpito, che ci hanno fatto riflettere e che
speriamo facciano riflettere anche il lettore.

Nel primo paragrafo del primo capitolo si legge: «Per


molti anni le persone consapevoli dei problemi
ambientali ci hanno avvertito che le risorse naturali si
stavano rapidamente esaurendo [che] i paesi dell’OPEC
avrebbero bruscamente rialzato i loro prezzi con
l’aumentare della domanda di petrolio e della
dipendenza da esso. E’ perciò sorprendente osservare
come l’intera classe politica [NdR: britannica di allora,
ma per estensione anche la nostra di allora ed odierna]
sia stata manifestamente colta di sorpresa dalla recente
[nel 1978] crisi del petrolio e come il paese [Gran
Bretagna] ne fosse totalmente impreparato.»

Più avanti nel capitolo si legge: «Non c’è alcun dubbio


che i nuovi edifici possano essere progettati in modo da
usare meno energia e che gli edifici esistenti possano
essere notevolmente migliorati sotto questo aspetto […]
via via che i prezzi aumenteranno i proprietari e i
locatari degli edifici e, a tempo debito, i progettisti
cominceranno a tenere maggiore conto dell’economia di
energia.» L’autore spiega poi come la spesa energetica
assuma poca influenza sul bilancio economico di chi
costruisce case da vendere/affittare o edifici
commerciali o per uffici poiché il costruttore non paga

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direttamente tali costi che invece sono a carico degli


acquirenti o degli affittuari. Burberry termina il discorso
affermando: «Perciò coloro che inevitabilmente sono i
responsabili delle decisioni per la conservazione
dell’energia hanno un interesse personale insufficiente a
incoraggiare una buona progettazione per la
conservazione dell’energia». Cosa che è accaduta (ed
ancora oggi accade) sistematicamente anche da noi
interessando un’ulteriore categoria di persone: coloro
che si sono fatti progettare e costruire la propria casa.

Sul tema dell’approccio al progetto Burberry


aggiungeva: «Sono necessari provvedimenti molto più
sofisticati del controllo della trasmittanza termica
“k” (ovvero della caratteristica fisico-tecnica che indica
la maggiore o minore capacità dei materiali ad essere
attraversati dal flusso di energia termica ovvero la
maggiore o minore capacità di dispersione) e nessuno di
essi è stato fino ad ora escogitato.». Allo stato attuale,
30 anni dopo, la trasmittanza è restata, soprattutto in
Italia, l’elemento principale di verifica utilizzato dalla
maggioranza dei tecnici in fase di progettazione. Anzi il
fatto che la legge abbia recentemente abbassato il
valore di “k” è da molti di essi, troppo spesso, definito
come un elemento di “disturbo” per il costruire
“comune” a dimostrazione di un elevato e diffuso stato
di non-cultura tecnico-progettuale in chiave di
valutazione/conservazione energetica.

Burberry in un sottocapitolo intitolato “Scadimento della


progettazione” scriveva:«In un’epoca in cui per
controllare l’ambiente vengono usati impianti altamente
sofisticati è deprimente rendersi conto che per tanta
parte della storia gli edifici stessi erano esempi
altamente avanzati delle scienze applicate,
raggiungendo alti livelli di rendimento anche quando i
progettisti non riuscivano [NdR: con le conoscenze
tecnico-scientifiche e con gli strumenti in loro possesso]
a definire o a quantificare i fattori di cui tenevano conto.
Ora che gli architetti progettano consapevolmente in
termini termici la qualità dei progetti è scaduta e si
accettano come facili soluzioni progettuali impianti
costosi e alti costi di esercizio.»

Ebbene non ci pare di sbagliare affermando che in


trent’anni in Italia è cambiato molto poco, mentre in
Gran Bretagna (ma non solo), sul piano della
consapevolezza energetico-progettuale sono stati fatti
interessanti passi in avanti. Noi siamo indietro, e molto.
E allora, se gli input nel muovere verso edifici non
energivori (ma che allo stesso tempo osservino anche le
“sane” regole per l’ottenimento di condizioni di
benessere ambientale, non dimentichiamolo!) non
partono direttamente dal legislatore perché non farli
arrivare ai progettisti direttamente dai committenti
ovvero da coloro che oltre a pagare saranno gli
utilizzatori finali degli immobili realizzati?

Redazione made in EditArea

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