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L’ORTO BOTANICO O GIARDINO

GRANDE
Nel Giardino Grande della città dei Branciforti si celebrava il trionfo di quello che Leonardo
Sciascia chiamava la civiltà idrica? Le opulenti sorgenti del Crisa che già abbondantemente
hanno alimentato monumentali fontane, ninfei, abbeveratoi e quant'altro servisse a
soddisfare con dovizia l'animo, l'occhio e la gola di cittadini e forestieri, ora, convogliate nel
pianoro esposto a mezzogiorno che si estende lì sotto la Granfonte e la Strada degli Alberi,
davano vita a quel luogo straordinario non impropriamente definito Sicula Tempe, per
riversarsi poi nella vallata dove il prezioso liquido diveniva forza motrice degli storici nove
mulini e infine linfa vitale per i campi irrigui. Sicché, nel breve spazio del quartiere Granfonte,
quelle acque, declinate nella loro varia morfologia, nel geniale progetto del Branciforti
trovavano la più completa e organica attuazione quale perfetto sistema idrico.

Da tale luogo suggestivo promanava una gradevole atmosfera di serenità e di riposo sicché
nel rigoglioso mondo vegetale, in perfetta simbiosi con la natura, maturava il frutto
dell'umano operare più idoneo a promuovere le delizie dell'animo.
Il particolare fervore culturale che animava il clima di corte del si gnore di Cammarata Ercole
Branciforti e Agata Lanza, la vedova madre dell'infante Nicolò Placido, sposata nel 1598, ne
ha senz'altro alimentato i sogni e le ambizioni adolescenziali. Nella corte del patrigno del
futuro principe si attuava il disegno di un'ascesa politica tra le più rappresentative della
rampante aristocrazia dell'isola, che è da conside rare come il background della formazione
del giovane il quale, emulo dell'illustre parente, in particolare nella realizzazione del suo
Giardino Grande, faceva ampiamente ricorso al modello della villa di S. Michele e sul piano
morfologico e sul piano ideologico. Straordinarie affinità riscontriamo infatti tra la
«Descrizione» puntuale ed esaustiva che il vescovo Ottavio Branciforti faceva dell'hortus di
Cammarata e quella abborracciata sul Giardino Grande dal notaio, il quale dimostra però di
ignorare sia il sito che lo scritto dell'illustre prelato."

Quanto oggi sopravvive dell'Orto Botanico con i suoi pur superbi resti, non può dare se non
un'idea vaga e parziale, limitata cioè a quei pochi elementi prospettici che costeggiano
l'angolo sud-est dell'impianto architettonico.

Tanto augurabile sarebbe quanto efficace una ricostruzione virtuale che sulla base di rigorosi
studi archeologici del sito e di quanto giace nei relativi archivi - potrebbe fornirci un'immagine
verosimile di quello che era tutto il comprensorio col suo straordinario corredo di fontane e il
complesso andirivieni del percorso idrico, col suo labirinto di condutture ora scoperte ora
interrate, e favorire, anche se in modo approssimato, la conoscenza di quell'area preziosa.
Sulla base del manoscritto del La Marca e di altri elementi documentali nonché delle
emergenze architettoniche, riteniamo possibile imbastire alla meglio una certa immagine
dell'artistico apparato idrico nella sua morfologia attendibile ed essenziale. Mentre, a parte
una generica elencazione di tipologie di piante, restiamo del tutto disarmati in merito
all'universo vegetale che doveva costituire il tessuto connettivo con le sue aiuole, i filari di
alberi, la folta verzura delle fronti e quanto altro l'arte topiaria di abili giardinieri, adeguata al
superbo complesso architettonico, doveva ragionevolmente comportare.
Notizie e indizi utilizzabili all'occorrenza si possono rinvenire altresì nelle Carte Branciforti,
che redatte per motivi amministrativo-fiscali, se opportunamente studiate possono fornire
indicazioni magari vaghe e indirette, tali però da confermare, convalidare, rafforzare o
correggere informazioni provenienti da altre fonti.

Resiste tuttora nitida per la gran parte del suo perimetro l'originale cornice muraria entro la
quale si dispiegava la grande macchina botanico-architettonica. Immutato il profilo della
massiccia parete (tranne che nella parte iniziale della Porta Palermo), opera quadrata dai
solidi conci disposti a scarpa, che sostiene il terrapieno della Strada degli Alberi lungo tutta
la linea est-ovest.

Sopravvive, seppur malconcio, l'ingresso principale con la solenne scritta (CHRYSEIS


UNDIS SICULA TEMPE) incisa sull'architrave. Questo, sovrapponendosi all'arco bugnato,
appare architettonicamente monco in quanto suggerisce una struttura capitozzata che ha
perso l'indispensabile fastigio che adeguatamente coronava la monumentalità dell'ingresso.
Della fisionomia sommitale della porta di accesso al Giardino Grande, della cui rovina si fa
cenno nel manoscritto, possiamo comunque farci una certa idea rifacendoci per analogia a
quello che un tempo era la contigua Porta Palermo che è possibile descrivere sulla scorta di
perso nali dati mnemonici e di reperti fotografici. La Porta Palermo - che oggi è ridotta in
condizioni ancora più infelici di quella dell'Orto Botanico ma è pervenuta fino al 1950 nella
sua integra struttura originale presentava al di sopra dell'arco e della trabeazione un aereo
fastigio composito. Oltre l'aggetto della trabeazione, tra due merli posti alle estremità di
questa, s'innalzava una struttura che inquadrava a mo' di ampia cornice una grande lapide
iscritta. Sopra di questa, al di là delle due volute di raccordo, si ergeva una nicchia
rettangolare. L'area edicola che svettava dall'alta cimasa della porta, sopravvisse per più di
tre secoli fino a quando crollava, intorno al 1950, forse per una scossa sismica.

Anche i due merli sono andati in rovina negli ultimi decenni del '900, smica. Dalle
caratteristiche strutturali della Porta Palermo possiamo verisi milmente risalire a una
attendibile immagine della porta di ingresso del l'Orto Botanico nel suo insieme.

E ciò nella convinzione che precise analogie morfologiche animavano i due manufatti che,
contigui nella loro disposizione angolare, dovevano coerentemente raccordarsi, considerato
l'accurato criterio estetico che presiedeva alla realizzazione di tutto il contesto
architettonico-urbanistico del territorio della Granfonte. Alla porta di ingresso del Giardino
Grande si allinea il muro che scende verso sud per una ventina di metri per poi deviare, con
angolazione ortogonale verso est e correre, parallelamente all'alta fabbrica della Granfonte,
con percorso di circa 30 metri, che all'origine doveva essere strutturalmente la parte più
consistente di tutta la cinta muraria. Quindi, deviando ancora una volta con perfetto angolo
retto verso sud, il muro scende lungo la via Favara, accanto all'attuale lavatoio, per circa 60
metri e, abbandonato il percorso viario che quivi s'incurva tortuoso per la forte inclinazione
del terreno, si richiude nel raccordo ortogonale con i tratti precedenti.

Del tratto di muro, orientato verso ovest, che da qui si diparte parallelamente a quello sotto
la Granfonte, sopravvive ora solo la parte iniziale in cui i conci scomposti e interrati
accennano in modo larvato alla cortina del lato sud.
Quindi la delimitazione dell'area dell'intero Orto Botanico oggi risulta manchevole solo nella
parte occidentale, in cui un tempo c'era l'altro ingresso, mentre la linea che si diparte
dall'angolo sud della Favara la valle del Crisa dove erano i mulini. In merito alla lunghezza
del Giar risulta illeggibile a causa del terreno scosceso e franoso che corre lungo dino, la
distanza cioè tra le due porte, il manoscritto presenta una evidente contraddizione tra il
riferimento iniziale di 100 passi, senz'altro più attendibile, e quello finale di 50 passi

Quella recinzione che racchiudeva l'intero Orto Botanico (hortus conclusus) con una cortina
muraria ben definita geometricamente, con i due ingressi disposti rispettivamente a oriente e
a occidente, ricalcava senz'altro una simbologia iniziatica. Luogo elitario quindi, spazio a
misura d'uomo, sottratto al volgo, luogo che poteva suggerire uno spazio sacro, una
dimensione iniziatica distinta dalla realtà quotidiana... uno spazio finalizzato all'esercizio
dell'otium (il riposo positivo) e all'elevazione dell'anima.

Elemento architettonico superstite del portale interno dell'Orto Botanico. Il concio monolitico,
con bassorilievo decorato, conclude la lesena che fiancheggia la porta interna sul lato
sinistro, aggettandosi oltre il peduccio con voluta prominente la teralmente incisa e un
riquadro frontale non definibile, da cui pende una grossa nарра.

Il Principe che dando vita a una nuova città, costruendo strade, case, chiese per la nuova
comunità e creando per le esigenze civiche tutta una serie di ambienti confortevoli e di
artistiche fontane non solo piazze, per attingere acqua e abbeverare armenti ma altresì per
rendere la qualità della vita a misura d'uomo, ha voluto riservare per sé, per la sua privacy
spirituale, un luogo di delizie privilegiato ed esclusivo (hortus conclusus) atto a gentiluomini
per casta e per cultura.

Tra quello che è lo stato attuale dei resti e ciò che fu all'origine l'Orto Botanico, non abbiamo
purtroppo testimonianze apprezzabili se non la descrizione del Giardino Grande del tardo
Settecento di Filippo La Marca.

Una precedente descrizione in merito, anteriore di circa mezzo secolo, si trova nella citata
Historia dell'ennese Fra' Giovanni, la cui notizia sull'argomento, però, anche se
appassionata ed efficace, è solo di pochi righi.

Quanto a quella fornita dal Dottore Testa, riportata da Mazzola non è altro che la trascrizione
del testo del notaio con qualche modesto ritocco, trascrizione che non chiarisce i dubbi e le
imprecisioni del manoscritto notarile.

La descrizione del La Marca, d'altra parte, confusionaria e disordinata, come è suo costume,
sia sul piano espressivo che espositivo, non può garantire una lettura esatta del sito
originale e quindi il recupero rigoroso e pienamente soddisfacente dell'autentica fisionomia
dell'insieme dell'area dell'Orto Botanico, pur facendo ricorso a tutti gli elementi attualmente
utilizzabili. Approssimata si rivela la descrizione anche perché dal manoscritto non si evince
ciò che il notaio constata de visu e quanto egli riferisce del passato.

Incomprensibile risulta pertanto il silenzio del manoscritto riguardo alla disastrosa alluvione
del 13 settembre 1740 che fu particolarmente rovinosa nel quartiere Granfonte e nella
Strada degli Alberi, dove la devastante furia delle acque provocò morte e distruzione,
inondando, sradicando, e trascinando a valle uomini, animali e cose. Possiamo quindi
immaginarci lo sfacelo prodotto nel sottostante Orto Botanico. Ulteriore disastro questo
dovette subire nella alluvione del 23 ottobre 1809 come rileviamo dalle animate pagine del
Nicoletti.

Se quindi tracce del Giardino Grande di Nicolò Placido Branciforti sono sopravvissute
all'azione rovinosa degli uomini e degli eventi naturali negli ultimi due secoli ci sarebbe da
gridare al miracolo. Pertanto, riprendendo la descrizione del La Marca, ci sforziamo
comunque, per quanto è possibile, di elencarne la sequenza nei punti essenziali.

Seguendo il testo in questione rileviamo che, superato l'ingresso principale, si scendeva per
una comoda scala, da questa si poteva scorgere di primo acchito una fontana (la cui
ubicazione risulta sfuggente) nella quale una certa struttura verticale con un potente getto
d'acqua creava uno spettacolare flusso intermittente simile al faro di Messina. Tale opera, se
bene interpretiamo l'autore, è durata fino al tardo 700.

Si accenna quindi al terrapieno dove un ingrottamento capiente accoglieva l'artificio di un


fonte che con i suoi spruzzi dava luogo ad ampie volute atte a stimolare la sfida degli uomini
audaci e curiosi che si divertivano a passarvi sotto più o meno impunemente.

La grotta, naturale o artificiale, onnipresente nei siti votati al culto delle acque e della natura
vegetale costituiva, si sa, con i suoi suggestivi richiami al mondo mitologico, un elemento
fondamentale che secondo la complicata simbologia iniziatica corredava giardini. Tuttavia
sconcertante risulta il riferimento al terrapieno con relativa grotta, fontana con statua di
pottino di marmo e divertenti giochi d'acqua che non possiamo identificare con l'elegante
nicchia, con le due valve di conchiglia e rivestimento di mattonelle maiolicate riproducenti i
moncherini, l'emblema dei Branciforti, la quale adorna l'angolo, giù in basso, sotto la porta
d'ingresso. La nicchia pervenuta fino a noi, infatti, è inserita organicamente nella cornice in
pietra elegantemente sagomata all'interno della parete e si rivela incompatibile con la
grottesca del manoscritto. D'altra parte di quest'ultima non ritroviamo traccia alcuna
compatibile con la descrizione del La Marca per cui si potrebbe pensare a una
contaminazione mnemonica dell'autore.

Ricaviamo comunque precisi riferimenti della fontana della grotta col suo apparato idraulico,
il putino di marmaro in detta grutta, non che li cannola di piombo per li giochi dell'acqua e la
relativa somma spesa per tale magisterio, dalle citate Carte Branciforti.

La descrizione procede accennando a una quarta struttura di forma quadrata con ampia
vasca, dai cui lati (forse gli angoli?) emergevano quattro emblematiche pigne di marmo dalle
quali altrettanti getti d'acqua si sollevavano verticalmente con furia per ricadere nella stessa
vasca. Viene quindi citata la fontana del Nettuno che era situata in frontispicio della
precedente fontana. C'è da chiedersi (e il manoscritto in ciò non ci soccorre) se questa altra
fontana con la statua di Nettuno che comunica ad altri due fonti di lato situati, l'acqua del
Paraninfo, costituiva una unità architettonica a se stante o faceva parte di tutta una
complessa macchina idrica che si concludeva nei fastigi del prospetto monumentale
sopravissuto fino a noi.
Attendibile senz'altro risulta la presenza di una statua di Nettuno nella non bene definita
fonte omonima, mentre ci sfugge la denominazione dell'acqua del Paraninfo.

Nettuno era soggetto ricorrente nelle fontane monumentali che adornavano in età
rinascimentale le corti dei Signori, le piazze e ville di tante città italiane in cui il dio col
tridente, l'antico dio delle fonti e del le acque, veniva spesso rappresentato con altre divinità
minori, Ninfe, Naiadi, delfini, tritoni, ecc.

Nel Giardino del Branciforti il motivo dell'acqua che si snoda nella serie di fontane col suo
percorso pregno di eloquente simbologia, la fontana del dio Nettuno doveva assumere una
suggestiva valenza allegorica: le acque del Crisa, divinità minore del pantheon della
mitologia siciliana, venivano accolte ed esaltate dalla somma divinità olimpica - il supremo
signore delle acque, universalmente conosciuto e onorato - il quale, si direbbe, così
proiettava l'opera del fervido Signore di Tavi nel l'Olimpo della cultura universale.

La fontana del Nettuno parrebbe quindi connessa al plastico fondale dei bassorilievi che
oggi costituisce l'emergenza archeologica più eloquente dei resti dell'Orto Botanico. Quivi
nella ordinata geometria del prospetto rettangolare emerge centrale l'altorilievo della figura
femmi nile tra due lapidi con scritture incise e due emblematiche divinità fluviali. Questo
ultimo apparato con la complessa tubatura fittile di cui sono tracce ancora visibili che
emergono ai suoi piedi, e soprattutto il manufatto verticale con i suoi bassorilievi, le due
iscrizioni lapidee e infine la scritta a caratteri cubitali nella trabeazione

D. NICOLAUS PLACIDUS BRANCIFORTI

rappresentava il vertice di tutto il complesso idrico e quindi dell'intero Orto Botanico di cui le
lapidi, non più leggibili, dovevano verosimilmente contenere la didascalia.

Trattandosi del nucleo centrale del complicato sistema di fontane è ovvio pensare che
questo doveva offrire lo spettacolo più vistoso con i giochi d'acqua di straordinario effetto
scenografico. Ciò testimoniano le cospicue tracce della trama di tubi di argilla che resistono
tutt'oggi cementati su un rudere sporgente di muratura da cui si diramano a raggiera
facendoci immaginare la funzione e quindi gli effetti spettacolari dei formidabili spruzzi.

A tale scopo era preposta una sorta di centralina idrica, una vasca scavata in un blocco di
pietra di forma cubica, di circa 50 cm, che incassata nella parete esterna alle spalle del
prospetto con un vano sopra ispezionabile come una specie di archivolto, mostrava
all'interno in basso i fori da cui defluiva l'acqua che qui perveniva dall'alto della Granfonte,
andando ad alimentare i vari getti del plastico fondale. Inopinatamente sia la vasca che il
vano soprastante sono stati chiusi alcuni decenni fa con muratura. Fortunatamente, tuttavia,
il danno non è irreversibile in quanto asportando il materiale murario spurio è pur sempre
possibile svuotare la cavità e ripristinare il manufatto riproponendolo nelle sue fattezze
iniziali.

Nella lettura fantasiosa del notaio, in merito alla simbologia delle numerose sculture situate
nelle varie fontane, si aggiunge qui la diceria circa un verosimile intervento moralistico per
cui uomini onesti avrebbero provveduto a coprire le ”pudende” della presunta impudica
Venere con un intervento analogo a quelle che aveva subito il Giudizio Universale di
Michelangelo. A questa opera, infatti, nel 1564, nell'acceso clima iper moralistico della
controriforma, erano state imposte le “braghe” alle parti “oscene” dei corpi nudi per opera di
Daniele da Volterra, che sarà per questo chiamato il “Braghettone”.

Scandalo altresi avevano provocato, in quegli stessi anni, a Palermo, i nudi della fontana del
Camilliani eretta in piazza Pretoria, che sarà denominata la fontana della vergogna. Echi di
ciò, riteniamo, si riversarono nella città di Branciforti si da fare immaginare anche qui
interventi di chirurgia plastica su quel soggetto muliebre considerato sconcio, per
salvaguardare la pubblica moralità. Sicché quella figura femminile che si erge al centro del
prospetto, ritenuta l'impudica Venere, ricoperta solo del plastico indumento che si avvolge
attorno al bacino prominente e stranamente interpretata come la bruttissima statua d'una
vecchia nuda, cosa che contraddice l'aspetto statuario e aitante del soggetto in grado
reggere agevolmente sul capo una pesante cesta, avrebbe subito una sorta di protesi nelle
sue parti vergognose.

La diceria in questione, riteniamo, potrebbe significare l'aria di mistero che circondava


quell'ambiente iniziatico di hortus conclusus dal quale generalmente il volgo era escluso e
quindi spinto ad alimentare leggende, a fantasticare o travisare dati e notizie. Per quanto
riguarda l’eventuale operazione plastica sul bassorilievo è da pensare che un esame
scientifico del manufatto potrebbe facilmente smentirla o confermare mentre crediamo
improbabile una soluzione assolutamente certa sulla identificazione di quella figura
femminile.

Nel riferimento alle fontane con i due bottiglioni riscontriamo il dato più preciso di tutta la
descrizione, in quanto queste sono tuttora ben visibili nella parete, a destra e a sinistra del
prospetto monumentale. Dalle rispettive nicchie, di cui una ancora integra con la conchiglia
sovrapposta, emergono due caratelli con il buco al centro da cui sgorgava l'acqua.
L'allusione al dio Bacco che il notaio scorge nei due recipienti non è infondata, anche se
l'allegoria dei due altorilievi non dovrebbe farci pensare all'uso smoderato del vino quanto
piuttosto all'esaltazione del l'agricoltura e nel caso particolare al sapiente impiego e quindi al
sorti di Cammarata si trovava un «Bacco che tiene nelle mani un piccolo otre, legio
dell'acqua che si fa uva e quindi vino. Analogamente nelle fontane per indicare l'abbondanza
e la rinomanza dei vini, che si producono in tutta l'isola».

In merito alle due fontane resta comunque il dubbio che siano quelle stesse dell'acqua del
Paraninfo citate precedentemente in modo approssimato.

Infine, il testo reca una descrizione sommaria di un ambiente (il superbissimo Padiglione) cui
la penna del notaio non lesina elogi sperticati dai quali traspare straordinaria ammirazione
per il manufatto artistico del quale però lamentiamo l'altrettanta approssimazione descrittiva.

Nella parte meridionale del Giardino (il boschetto), da due balconi con ringhiere in ferro (in
una indefinibile collocazione) si ammirava quel lo che doveva essere l'angolo più suggestivo
del luogo per la presenza di un meraviglioso edificio della cui mole e caratteristiche non si
hanno più tracce. Ci soccorre tuttavia eccezionalmente per tale mirabile struttura che nel
manoscritto resta nel vago, la testimonianza del pittore francese Chatelet che, in una delle
due storiche vedute di Leonforte ritratte nel 1781, ci dà una efficace descrizione iconica del
Padiglione.
In quel disegno una superba costruzione ariosa delinea l'angolo sud est del Giardino con
loggia e terrazze panoramiche che, affacciandosi sulla vallata, permettevano di spaziare
nell'ampio scenario, mentre la scia intravedere all'interno (e soprattutto immaginare) le
delizie del luogo con i suoi accattivanti artifici, i viali, i filari di alberi e la dinamica trama delle
varie fontane e la comoda e razionale disposizione di un ambiente aristocratico votato
all'otium.

Sebbene sia scomparsa la fabbrica del Padiglione, di questo si può oggi individuare parte
del muro di base esposto a mezzogiorno. Nel manoscritto non c'è riferimento esplicito a una
importante struttura architettonica che corredava la panoramica costruzione, la cui
morfologia è suggerita dalla sfuggente indicazione di una circonferenza. Questa era ed è
una esedra, miracolosamente ancora integra in tutta la sua cortina muraria che può
permettere un esame attendibile delle caratteristiche e delle dimensioni della sua area.
Connettendosi organicamente con l'edificio del Padiglione essa si raccordava, come si vede,
con l'angolo sud ovest del muro rimasto e incurvandosi verso nord, creava lo spazio del
l'emiciclo nel quale era disposto il superbissimo fonte del Padiglione circondato da comodi
sedili.

Al di là della cavità circolare, il cui diametro si aggira sui dodici metri, il terrapieno è
contenuto e sorretto da bastioni angolari le cui scarpate in robusti conci continuano ancora
tutt'oggi a sorreggere il pianoro soprastante e a delimitare quell'angolo dell'Orto Botanico
rispetto alla vallata. Lo stato attuale del pianoro dell'esedra oramai spoglio di elementi
architettonici e l'infestante vegetazione che assedia muri sopravvissuti non fanno
adeguatamente ripensare l'originale immagine del sito. Scomparsi i comodi sedili,
scomparso il superbissimo fonte. Sopravviveva, ahimé, fino ai primi anni Cinquanta del
secolo scorso, lì, in quel luogo intasato da fitta vegetazione, ambiente off limits per estranei,
circondato da un alone di vago e di mistero, denominato da giardinieri del tempo Torno
(forse per analogia con l'omonima fonte sopra la strada degli Alberi della quale intanto si era
perso il ricordo), al centro del l'emiciclo, il manufatto in pietra con vasca ed elementi verticali
della fontana che facevano fantasticare popolaresche funzioni battesimali.

Smantellato in quegli anni pare che il fonte abbia fornito il materiale per la costruzione del
casolare, nei pressi dell'angolo monumentale, in cui si scorgono delle pietre lavorate.

In conclusione, sulla base degli elementi testimoniali ed architettonici individuabili in vario


modo possiamo desumere che la straordinaria ammirazione del notaio per quest'ultima
fontana di fronte alla quale fa vergogna ed arrossisce la deliziosa Villa di Versaglies, non era
priva di fondamento pur considerando la sua vocazione alle dichiarazioni iperboliche e gli
intenti encomiastici della sua opera. In effetti quel luogo suggestivo, con la sua straordinaria
posizione scenografica che si affaccia sulla sottostante vallata e sui verdi campi fino a
contemplare le alture superbe di Enna e Calascibetta, suggerisce tuttora, anche nello stato
attuale di abbandono, l'incanto che da esso un tempo promanava.

Il boschetto vicino del Padiglione che sia pure di sfuggita viene citato più volte, doveva
essere l'angolo verde più folto e interessante di tutta la vegetazione dell'Orto Botanico della
quale non risulta alcuna descrizione organica nel notaio o in altri autori, a parte qualche
riferimento che magnifica la ricchezza e la varietà delle piante.
In tale ambiente, prodotto della natura e dell'ingegno umano per la serenità e le delizie
dell'animo offerte dalla folta verzura, si ammirava l'effetto scenografico di una ulteriore,
originale fontana. Ma, come per tanto altro, anche le indicazioni di quest’ultimo fonte fornite
dal manoscritto risultano molto limitate e monche facendoci solo intravedere questo altro
capolavoro di quell'arte del giardinaggio tanto profusa in ogni angolo del Giardino del
Branciforti.
Nella fontana del boschetto l'allegorismo che regnava sovrano nell'intera area dell'Orto
Botanico, si esprimeva una nuova simbologia dell'acqua proteiforme che qui si manifestava
ispirandosi al mitologico mondo dei venti. Questi, personificati sulla scorta del classico filone
della mitologia greco-romana, vengono qui rappresentati in una simbiotica commistione con
l'acqua accomunando alla funzione bio-vegetale di questa la loro funzione anemofila atta
alla riproduzione delle piante.

Nell'artistico fonte l'allegoria che rappresenta la complessa dinamica dei fenomeni eolici
veniva oggettivata in una rappresentazione antropomorfa dei venti in 12 Testoni di marmo
che assumevano la plastica fisionomia di volti umani, maschere dalla cui bocca fuoriusciva il
fluido e sonoro liquido. Ciascuno dei dodici mascheroni (non sappiamo se erano disposti in
ordine circolare o lineare o in altro modo che non sapremmo immaginare) recava inciso il
nome di uno dei venti fornendo una rassegna dei principali fenomeni eolici che, riteniamo,
più che ispirarsi alle vaghe conoscenze scientifiche del tempo riguardo la fenomenologia
atmosferica, traeva origine dalla iconografia mitologica.

Non possiamo senz'altro riprovare l'incanto che proveniva da quel l'atmosfera fatta di suoni
che erano le voci misteriose dell'acqua espresse secondo una articolata sintassi e che si
sposavano con la variegata tavolozza delle immagini polimorfe del loro fluire. Nel Giardino
Grande il principe fondatore aveva creato l'opera più originale e gratificante per se stesso
con notevole dispendio di mezzi e di uomini che, utilizzando le più raffinate tecniche dell'arte
del giardinaggio, realizzavano un capolavoro tra i più ambiziosi della Sicilia. Ignoti, geniali
architetti, nel cuore dell'isola, facendo ricorso ad ardite soluzioni dell'ingegneria idraulica
creavano, con complicati meccanismi e marchingegni misteriosi, quel meraviglioso
spettacolo di giochi idrici e sofisticati virtuosismi, spettacolo che perseguito dalla più remota
antichità ha da sempre fornito la misura del livello di civiltà e della dimensione culturale di
una società.

L'acqua che faceva da protagonista nella articolata composizione dei vari elementi del
Giardino del signore di Leonforte, veniva utilizzata nella sua proteiforme versatilità, ora in
senso verticale con ariosi getti prepotenti e zampilli pluridirezionali, ora per il fragore delle
cascate o per il morbido fluire del liquido, ora per la solenne linearità delle acque
placidamente stagnanti nelle ampie vasche. In ciò possiamo cogliere l'eco della fioritura di
giardini nell'Italia rinascimentale e barocca in cui, al di là di una complessa simbologia
risalente ad antiche e nuove filosofie, non che a culti esoterici, si esaltava il motivo
onnipresente della ra gione che sottomette la natura. Pertanto l'opera del principe Nicolò
segue quella moda della nobiltà siciliana più colta che concepiva il giardino come luogo
privilegiato di operazioni simbolico-parenetiche per cui la famiglia Branciforti, nelle varie
diramazioni e componenti parentali, doveva fornire un fertile humus culturale in tal senso.

Efficacemente Montana parla di prassi familiare dei Branciforti che nella Sicilia spagnola
promuovevano il primato dell'architettura come strumento di accreditamento sociale.
Tra i vari modelli di riferimento per il giovane principe, determinante è stato, come si è già
detto, soprattutto il giardino di San Michele che il patrigno Ercole Branciforti aveva realizzato
a Cammarata e che, meno fortunato di quello di Leonforte per quanto riguarda la
sopravvivenza, ha avuto però la straordinaria fortuna di essere minuziosamente descritto dal
dotto vescovo Ottavio, fratellastro di Nicolò, il quale pure creava un suo viridarium in quel di
Catania. Sicché ricorrendo a tale lavoro con attenta lettura ed acuta analisi possiamo
cogliere elementi, soggetti, morfologie e soprattutto finalità riscontrabili analogicamente nel
nostro Giardino Grande. In quello di Cammarata una epigrafe situata nell'ingresso recitava:
Opera di Ercole Branciforti per propiziare gli onesti riposi di sé, dei suoi e degli amici.

Luogo quindi riservato e propizio questo in cui l'aristocratico duca di San Giovanni intendeva
esercitare il classico ideale dell'otium in un'ottica tutta stoico-paganeggiante.
Quanto al nostro Orto Botanico, se la scritta nella porta maggiore reca un messaggio
mirante ad esaltare l'opera della Sicula Tempe, che può sembrare di spirito diverso
(ignoriamo d'altra parte il messaggio della iscrizione che sormontava l'architrave), perfetta
analogia invece riscon triamo con quella di Cammarata nell'icastica espressione che il notaio
rinveniva nella porta di ponente, per cui il Principe, operando sulla etimologia del proprio
nome, inventava, con gioco semantico (nomen omen), quella felice formula barocca (Placida
Placido) secondo la quale il Giardino Grande, deputato alla tranquillità dell'animo, doveva
fornire dolce quiete esistenziale (Placida) al suo artefice (Placido).

Effettivamente da quell'ambiente così esteticamente concepito doveva spirare un'aura di


aristocratico edonismo. Per di più, quell'altra scritta Quid non invenies deliciarum? (Quali
delizie non vi troverai?), non faceva che consolidare quella filosofia del piacere perseguita
dal Branciforti e ribadire l'atmosfera sensuale che promanava dal giardino di delizie.21
Giardino di delizie quindi l'Orto Botanico, articolato complesso monumentale che come un
giardino epicureo-paganeggiante in tutte le sue componenti esaltava il piacere e la bellezza,
vera antitesi dell'altro universo chiesastico-conventuale che, sovvenzionato con tanta
prodigalità dallo stesso Principe, era un eloquente tributo allo spirito della contro riforma
religiosa che tutto proiettava nell'attesa della vita ultraterrena. Metafora eloquente queste
due realtà, entrambe creature dello stesso Principe fondatore, esprimevano in pieno le
contraddizioni dell'uomo, della vita e di quel secolo che sarà definito audace e sconsolato.
Co sì nel Principe Nicolò Placido potremmo intravedere il travaglio e il ten tativo di una
freudiana composizione tra il mondo del piacere terreno, che a dire del Giarrizzo era stato
impersonato in chiave stoico-pagana dal duca Ercole, e quello del piacere spirituale che,
cristianamente inteso, si riscontrava nella sublimazione del vescovo Ottavio.

Recuperare pertanto anche i pochi indizi possibili di quel suggestivo sito potrà arricchire di
molto la conoscenza del nostro passato, definire meglio la nostra storica identità e rafforzare
il senso di appartenenza.

Le sorti del Giardino Grande che in questi ultimi tempi ha raggiunto il livello massimo di
degrado e di abbandono sembrano irreversibili sicché in esso trionfa la natura selvaggia.
Avanzano i rovi e la vegetazione spontanea ha il sopravvento su quell'area la quale, seppure
nel passato era adibita ad agrumeto e alla coltivazione di ortaggi, aveva mantenuto, nelle
linee essenziali fino a qualche anno fa, la fisionomia dell'Orto Botanico di N.P. Branciforti.
In antitesi, quindi, all'operato del Principe, che aveva espresso l'ideale rinascimentale
dell'homo faber, il quale con l'ingegno e la volontà trionfa sulla natura, oggi vediamo
riaffermarsi l'oraziano Naturam expelles furca, tamen usque recurret, per cui l'uomo e la
razionalità arretrano dinanzi alla natura bruta. Eppure dobbiamo aver fede e sperare.

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