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Giuseppe La Porta
1 Aprile 2023
Termoli
La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
Prefazione
La storia è da sempre un argomento che attrae l’uomo a se come una luce che non smette mai di
disperdere i suoi raggi verso ciò che la circonda, dando in ogni momento che passa, ogni istante ed
anche ogni secolo dell’esistenza, segno della sua presenza attraverso quei manufatti che i nostri avi,
abili figli di quell’arte storicamente irripetibile, hanno posto come una pietra miliare che ci conduce
nel loro cammino dentro un mondo che per tempo sarà ancora a noi ignoto, da tanta distanza che
ormai s’è interposta.
Come ogni cosa cambia in una generazione dopo l’altra, anche i nostri luoghi un tempo si mostravano
con un volto assai più estraneo a quello che ci immagineremmo oggi, da come la globalizzazione
crescente lungo gli eoni ha dato il modo di riplasmare le città in base alle nuove esigenze della società,
dove le ripide fortezze che si ergevano nelle creste rocciose dei monti da cui si era ben difesi dalle
invasioni e guerriglie, si erano spostate uniformemente verso le valli e le pianure, come una candela
consumata che si espande fusa in quell’ampio reticolo urbano privo di mura e ricco di spazi sconfinati
che volgono a giungere tutti in un'altra città, all’infinito.
Dette interconnessioni non esistono solamente oggi però, visto che per quanto riguarda le città
commerciali, dalla tarda antichità al medioevo, la loro fama era quella di poter riuscire a fungere da
crocevia per i più importanti mercati del tempo, che con le loro vaste e variegate produzioni più
pregiate e di enorme qualità, destarono da sempre un interesse economico per il mondo europeo
occidentale, dando così origine ad enormi scambi culturali e ‘’manifatturieri’’, senza cui oggi non
possederemmo tale eredità storica in ogni angolo d’Europa, ed in special modo nelle piccole realtà
attuali della nostra penisola italiana, che spesso mostrano una storia ed un valore repertuale
sproporzionato rispetto a quello che fa trasparire al seguito di tutto quello che ha portato alla
degradazione storica delle città più antiche.
Queste sono le premesse del risultato d’ un importante studio di ricerca che si è protratto per molti
anni, e non senza poche problematiche vista la difficoltà derivata dalla particolarità dell’evento
analizzato, che mi ha portato a dover analizzare l’elemento di studio in più settori storici.
Il mio investigare al fianco di mio padre mi ha condotto in una scoperta che mi ha dato davvero molto
filo da torcere, tanto che era particolare nel soggetto e nel significato che esso nascondeva una volta
confutato in una sua posizione di confronto verso le analogie storiche presenti nello stesso periodo
storico dell’esecuzione di quest’ultimo e dei legami che poteva avere con determinati individui,
confraternite, ordini o contesti culturali vari e inaspettati.
Il soggetto di tutto ciò è naturalmente la storia della cittadella adriatica di Termoli, che nel suo
mantello di pietra e mattoni, nasconde una storia ricca e sconfinata, rinchiusa nel buio più oscuro e
denso che esista, ravvivato dall’amnesia delle proprie radici che per vari secoli ha attanagliato la
popolazione termolese, causa anche delle problematiche che la fortezza federiciana dovette affrontare
a più riprese nel corso della sua vita, permettendo a noi però di essere ancora studiata, analizzata e
riportata alla luce senza dover ricorrere ad interventi invasivi che mai sarebbero stati portati a termine,
e che avrebbero potuto deturpare quel po’ di storico che è rimasto in mezzo a noi.
È ormai noto, dopo tutti questi anni di studio, della presenza di un ingente numero di incisioni di varia
forma e lessico simbologico nei paramenti interni ed esterni nella Cattedrale di Santa Maria della
Purificazione a Termoli, e la particolarità è che potrebbero non essere solo quelli che facilmente si
possono ancora oggi ammirare sulle buie pareti, ma che addirittura potrebbe essercene uno o più di
uno sfuggito alle tante menti che si sono occupate, assieme a noi, nello studio storiografico e
stratigrafico delle evoluzioni subite dal complesso monastico della Cattedrale termolese, uno dei più
antichi della odierna Regione Molise, ma forse uno dei meno valorizzati, anche per via della scarsità
di studi che riescano a tradurre pienamente i particolari di tutto, dei reperti, e delle persone che vi
hanno dato forma e come mai, dovendo anche sistemare nelle grandi difficoltà temporali nei confronti
del cantiere della basilica principale della città, e come mai vi sarebbe stata una alterazione tra le varie
produzioni artistiche del duecento, tutti punti che ho dovuto affrontare e di cui potrò spiegare le
motivazioni della mia tesi a riguardo.
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
©Giuseppe La Porta
Candida e allo stesso tempo sobria, una struttura quella della basilica di Santa Maria
della Purificazione, che resta in piedi a fronteggiare il tempo, anche dopo tutto quello
che la natura e soprattutto l'uomo, le hanno fatto passare, danneggiandola ma mai
facendola cadere in rovina, poiché opera di grandi ingegneri del passato e ovviamente
fortunata per la sua posizione pressoché schermante dalle scosse distruttive che hanno
sconquassato il Regno di Napoli in varie occasioni, pur essendo vittima anch'essa di
molti eventi sismici tra cui ci tengo a ricordare i più significativi nella notte del 5
dicembre 1456 e dell'anno 1627, che comportarono i principali stravolgimenti
strutturali di tale venerando tempio, al contempo lasciato alla mercé di incursioni,
guerre, erosione e campagne di restauro non sempre all'altezza nella loro totalità.
Senza dilungarmi troppo nelle descrizioni circostanziali, in questo articolo desidero
porre al vostro interesse un pensiero che per diversi anni mi ha avvolto la testa,
soprattutto al seguito di vari sopralluoghi svolti, prima da spettatore e poi come
collaboratore, in compagnia di mio padre, lo storico molisano Domenico La Porta,
grazie al quale non ho potuto che accertare ancor di più la risposta per questo dubbio
ricorrente, verso la possibile esistenza di una quinta incisione misteriosa dentro le buie
pareti della nostra Cattedrale, da anni sotto il nostro naso e che nonostante si trattasse
di una semplice linea multipla scalfita nella pietra calcarea, mi metteva in grandi
difficoltà, soprattutto per la scarsa integrità conservativa in cui essa si presentava ad
oggi, che mi fece spesso pensare ad un qualunque segno o ''bozzo'' lasciato da un
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
Tracciando con una linea il percorso delle spezzate solcanti il concio, è possibile notare
tre forme rettangolari ben distinte dalle ammaccature ed abrasioni vicine, tutte molto
asimmetriche rispetto ad altri elementi della muratura precedentemente elencati, e che
al seguito di varie osservazioni d'ambito esecutivo, è assai probabile dovessero essere
originarie di una figura terminata nella sommità, culminante proprio nel bordo del
mattone lapideo che mostra ancora le sue continuazioni interdette dallo stacco tra una
posa e l’altra.
Oltretutto, ci tengo a farvi notare che la particolarità di questa composizione
quadrilatera, si riscontra nella tecnica scultorea con cui essa venne eseguita nella pietra
calcarea, che in tale caso ci riproduce mediante un solco ad incavo, con profondità
variabile ad ogni "raggio" cubico, terminando con una profondità massima nel
rettangolino centrale, di circa un centimetro o poco meno, mostrandosi con un
andamento continuo che potremmo denominare "a tramoggia", davvero insolito, e
determinandovi così la peculiarità di una incisione misteriosa agli occhi di un semplice
spettatore o di un ricercatore alle
prime armi che mai s’è imbattuto in
una cosa simile.
Oltretutto, ci tengo a farvi notare che
la particolarità di questa composizione
quadrilatera, si riscontra nella tecnica
scultorea con cui essa venne eseguita
nella pietra calcarea, che in tale caso ci
riproduce mediante un solco ad
incavo, con profondità variabile ad
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
ogni "raggio" cubico, terminando con una profondità massima nel rettangolino
centrale, di circa un centimetro o poco meno, mostrandosi con un andamento continuo
che potremmo denominare "a tramoggia", davvero insolito, e determinandovi così la
peculiarità di una incisione misteriosa agli occhi di un semplice spettatore o di un
ricercatore alle prime armi che mai s’è imbattuto in una cosa simile.
Come ho ribadito spesso in precedenza, per molti anni è stato un vero enigma
all'interno dei miei studi del complesso monastico che caratterizzò in varie epoche la
diocesi di Termoli, confermata dal X secolo circa ma già citata intorno al VI secolo e
probabilmente nata come comunità cristiana intorno al V, come se per altro non
bastassero già tutte le incisioni dell'intera basilica cattedrale, ed anche i vari ''misteri'',
se vogliamo chiamarli così, che tutt'ora avvolgono alcuni bassorilievi del suo
programma iconografico, statue e reperti erratici rinvenuti in questo trentennio proprio
in situ, i quali sono tutt'ora oggetto di ricerche molto complesse e dall'enormissima
mole, che dunque necessitano di ancora molto tempo per una corretta dissipazione delle
incertezze e delle sviste degli eruditi precedenti a noi, così da consentirne anche una
definitiva catalogazione storica, accurata ed anche il più vicino possibile alla realtà
degli eventi che hanno interessato l'insediamento monastico tra l’alto e il basso
medioevo, ed ovviamente contestualizzando il tutto nella realtà storica dei territori
centromeridionali oggi circoscritti dai confini molisani.
Andando quindi per tappe in questa esposizione, sin da subito ho cercato di trovare un
possibile collegamento con altri simboli simili e quantomeno assimilabili vagamente
al tipo di significato e geometria di detto enigmatico imbuto quadrilatero sbozzato, con
moltissima difficoltà iniziale proprio a causa della parte mancante nella cima del concio
e della sua singolare ed insolita posizione verticale, nonché composizione geometrica
variabile verso il centro, il che mi condusse definitivamente a credere di trovarmi di
fronte ad un simbolismo di carattere sacro, come del resto poteva riscontrarsi nei
simboli restanti della chiesa, che diversamente non possono essere definiti, e quindi vi
subentrava una vasta lettura simbologica che si annida anche nella composizione delle
più schematiche facciate dei templi della nostra penisola e dell'Europa tutta, oppure
rivelandosi in svariati casi come ''l'impronta'' di una determinata cultura antica ripresa
in più momenti della storia umana e da più popoli, che doveva aver senza dubbio spinto
le maestranze d'epoca ad inciderlo nella parete del presbiterio durante i cantieri
federiciani della chiesa, all'incirca tra il 1220 e il 1247, con un range temporale di
grande attività particolarmente confermabile negli anni 30 del '200, e quindi
avvicinabile al suddetto evento dell’occultamento delle sacre reliquie di Timoteo, ma
di questo dettaglio si avrà modo di parlare più dettagliatamente dopo, per il momento
ci concentreremo in una analisi del significato che questo ‘’triplo quadro’’ ebbe nelle
varie epoche storiche.
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
c'è la testimonianza lapidea della presenza di Rectina, figura molto vicina a Plinio il
Vecchio che però riuscì a salvarsi da quell'inferno che piombò sulla costa
circumvesuviana nell'ottobre del 79 d.C.
Il simbolo in questione dunque non è presente solo in Molise, ed ho potuto apprendere
che è stato anzi rinvenuto quasi in ogni angolo d'Europa e in moltissimi paesi del Medio
Oriente, fino all'Asia più antica, e come per molti altri simboli d’ogni origine ed epoca,
pare che la nascita antica di questo segno sia stata la matrice di grandi cambiamenti per
il significato generico di quest'ultimo, in base al periodo d’appartenenza e ovviamente
alla cultura dei popoli che ne fecero uso o ne trovavano una familiarità nel lessico
comune, variando nelle forme, dei dettagli geometrici e nelle tecniche rappresentative,
dalla pietra che era la più comune ‘’tavolozza’’ per la creazione dei petroglifi dalle più
arcane origini umane, all'affresco fino ad arrivare ai dipinti su tela e alle miniature che
giunsero fino ai secoli più vicini a noi, tanto da mettere in difficoltà la critica storica
che lo teneva come oggetto di confutazione per collocarlo negli usi e nei costumi di
società non più qui tra noi.
Sul nome con cui esso viene indicato oltretutto, come avreste potuto immaginare non
ve n’è una sola desinenza, perché proprio la scarsità di fonti al riguardo e la generica
apposizione in più parti del mondo ha mosso la curiosità di più individui che hanno
tentato di definirlo nel parlato odierno, cambiando addirittura nome tra una città e
l’altra di un’unica nazione.
Per esempio nei suoi riguardi in quanto sagoma di una tabula lusoria, lo conosciamo
più diffusamente con il nome di ''Mulino'', o gioco del mulino, in italiano, che diviene
nelle varie culture il ''Mühlespiel'' in tedesco e la semplice traduzione di ''jeu du moulin''
in lingua francese, ma la terminologia cambia anche in ulteriori modi più disparati man
mano che ci si sposta nei territori dell’europa occidentale, per esempio nella nostra area
‘’italica’’, lo troviamo definito come ‘’grisia’’, oppure nella sua traslitterazione
diminutiva di ‘’mulinello’’, seguito dai termini di carattere geometrico visivo come
‘’schiera, tela, trea, tria, tris’’, seppure come forma identificativa differente dal
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
semplice centro quadrilatero che qui si sviluppa in più line trasversali che intersecano
il centro del quadrato, ma la nomea più comunemente utilizzata in Europa per
classificarlo, è quella di gioco del ''Filetto’’, e nel nostro caso mi atterrò alla sua
seconda attribuzione più classica e presa dai ricercatori ed epigrafisti che ne hanno
trattato nella loro vita accademica, , e cioè quello di ‘’Triplice Cinta’’, proprio per il
suo aspetto che ricorda vagamente tre cinte murarie decrescenti che sono direzionate
verso il centro dalle vie che conducono al suo interno, un simbolismo dinamico che
non è raro nelle incisioni di carattere religioso.
Tutti questi nomi precedentemente elencati, eccezion fatta per quello tecnico di matrice
simbologica, come ho già detto fanno riferimento alla sua versione ludica, o meglio, si
attengono in entrambi i casi alla descrizione sia del simbolo che viene inciso o dipinto,
sia del gioco a cui si riferisce, mantenendoli prettamente collegati e con univoco
significato, che sarebbe addirittura di origini molto antiche, comparendo, secondo
molti studi archeologici, per la prima volta in un paramento dell’Acropoli Ateniese,
per poi arrivare in molteplici culture lontane che a loro volta sono state influenzate da
determinati movimenti culturali che portarono tale simbolo fuori dai confini culturali
europei, e forse nei quali esso è proprio giunto da questi ultimi, per esempio come per
il ritrovamento del segno anche nelle terre dello Sri Lanka.
Ci sono dunque degli aspetti particolari che riguardano la comparsa di questo
petroglifo, in più occasioni ed ambiti storici spesso legati alla presenza di culture
medio-orientali come anche gli scacchi nel caso di Morrone del Sannio, simboli giunti
da quelle terre oltre il Mediterraneo, oppure ricondotte in queste località anche da
persone che vi hanno soggiornato molto a lungo, e ne hanno riadottato l’effige con un
nuovo significato, diverso naturalmente da quello della sua origine ancestrale,
insomma, come anche avvenne in tutta la storia epigrafica ed archeologica dell’Europa
medievale, portando questo studio a soffermarsi sulla storia dell’Ordine dei Cavalieri
del Tempio, conosciuti più generalmente da noi come Templari, ordine formatosi nel
decorso della I Crociata verso la fine dell’XI e inizio del XII secolo, ufficializzato nel
1129 ed operante nelle comunicazioni con il Medio-Oriente fino alla tragica
soppressione del 1312 per volere di Filippo il Bello.
Parlando dei cavalieri templari, divenuti ormai quasi onnipresenti nel folklore storico
mondiale, vi sono delle controversie di un peso non trascurabile ed ancora attive e
ricche di dibattiti nel mondo scientifico per quanto riguarda la componente esoterica di
stampo ottocentesco che ha causato non pochi problemi alla storiografia dei cavalieri
di Gerusalemme, mischiando un semplice ordine cavalleresco con sette che nulla
avevano a che vedere con la loro esistenza, intaccando anche la visione della
simbologia dei tanti segni e bassorilievi ritenuti enigmatici dalla più parte della
comunità storica e presenti in moltissime strutture civili, sacre o anche militari
dell’Europa occidentale e del mondo orientale, con la presenza costante dei
revisionismi storci che non esime nemmeno i templari, di cui è veramente difficile
distinguere incisioni reali con significato liturgico, e falsi storici creati ad hoc da
fraintendimenti sul reale scopo di un determinato graffito nel suo contesto, parlando
proprio della Triplice Cinta per cui la faccenda è già resa ardua dalla numerosissima
varietà di esempi sparsi nel tempo e nello spazio come già abbiamo ben descritto,
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
soprattutto per via della ingente perdita di patrimonio storico dopo la frantumazione
degli elementi scultorei della facciata per la produzione degli intonaci per imbiancare
la basilica nel suo stato barocco settecentesco.
Pertanto, sembrerebbe strano e piuttosto insolito l'impiego di un concio sfregiato
precedentemente a scopo lusorio, in una struttura sacra d’importanza davvero rilevante,
e oltretutto in presenza di tanti altri elementi singolari che la rivestono in più parti, che
a loro volta sono stati probabilmente ottenuti con lo stesso scopo di trasmettere un
messaggio o di lasciare una specie di marchio, una firma indelebile sul luogo, di un
evento particolare che doveva essere immortalato sulla pietra, unica capsula del tempo
naturale.
Per quanto concerne i cavalieri templari nella nostra regione, al contrario di quanto si
sia detto dal secolo scorso fino ad oggi, vi è una enorme quantità di fonti, documenti e
reperti, nonché architetture storiche e toponomastiche della regione che riconducono
alla loro presenza, e di ciò trattammo già moltissime volte negli anni passati, mostrando
in convegni e in pubblicazioni posteriori, ogni singolo elemento che è andato a favore
di una tesi impolverata ed abbandonata nel cassetto a prendere polvere, e non sarebbe
mai stato possibile il tutto senza la ricerca attenta degli storici Domenico La Porta ed
Antonio Sciarretta.
Si è già parlato della presenza delle
cosiddette commende che in Termoli
erano appartenute ai cavalieri
Templari, dedicate a loro volta al
culto di San Marco Evangelista e San
Giacomo, localizzate tra la città
principale, sede della diocesi e del
palazzo comitale, e le località del
feudo di San Giacomo degli
Schiavoni e la zona del Pantano
basso, in un documento che riporta
informazioni dei regesti angioini
dell’anno 1309, periodo della stesura,
riportati dal professor Guerrieri nel
libro ‘’I Cavalieri Templari nel
Regno di Sicilia’’, dove si fa chiaro
riferimento ad una disputa giuridica tra l’ordine ospitaliero e il vescovo Bartolomeo
Aldomaresco, in quello che viene definito appunto luogo appartenuto alla milizia del
Tempio, e che come per altri possedimenti della regione e dell’Italia intera, appartenuti
all’ordine, dopo lo scioglimento dell’ordo templare, passarono in molti casi al
superstite ordine dei cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, gli Ospitalieri
appunto, e in altre occasioni come sancito da regolamentazioni del pontefice, al
vescovo della diocesi d’appartenenza, come avvenne in questo caso.
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come probabile parte mancante di una Deesis, come si prospetterebbe da questo tipo di
elementi motivi di produzione costantinopolitana, riconoscibile soprattutto
dall’identificazione incisa al lato destro dell’aureola, in caratteri greci che recitano la
parola ‘’Prodromos’’, ovvero ‘’Precursore’’, tradotta erroneamente nel 2002 come
‘’Martire di Cristo’’, e confusa per una probabile effige di San Timoteo o Sant’Andrea,
ma per alienare ogni dubbio non posso che ringraziare l’operato dell’Iconologo Ivan
Polverari, che anni fa ci aiutò definitivamente nell’identificazione del personaggio
biblico qui raffigurato, con una iconografia bidimensionale laterale tipica nelle forme
e nelle proporzioni ad una fattura del XIII
secolo.
La presenza di questo elemento per altro
ci ha indotto in maniera pressoché
generale ad individuare la sepoltura di
uno dei più celebri maestri architetti che
si occuparono del cantiere federiciano
della basilica cattedrale di Termoli, il
noto Alfano da Termoli, figlio di
Ysembardo, e tramite la testimonianza
storica del Ragni, riconoscibile con il
nome Eusebio, inciso sulla cornice
inferiore dell’atto della presentazione al
tempio, di cui purtroppo rimane ad oggi
solo il tratto Hoc Opus Fecit, dandoci
certezza della versione novecentesca di
questa epigrafe come unica testimonianza
di valore per quanto concerne il cantiere
termolese, mentre la sua presenza è più
chiara e leggibile nel ciborio della
cattedrale di San Sabino a Bari, e si
denotano come già abbiamo evidenziato anni fa, delle attinenze con il pulpito bruno di
Ferrazzano e in ulteriori opere tra Campania ed Abruzzo, di cui come per molti
argomenti trattati, sen è disquisito molto nelle precedenti occasioni, nei confronti delle
basiliche di San Giovanni in Toro e nella celebre abbazia di San Giovanni in Venere a
Fossacesia dove abbiamo la quasi perfetta copia del Pantocratore che ritroviamo nella
mensola destra dell’archivolto frontale della cattedrale termolese, purtroppo
danneggiato negli anni 40 del ‘900, e da allora rimasta senza volto anche dopo il suo
restauro nel 2012, scambiata erroneamente per la statua di San Timoteo nonostante il
parere contrario degli iconografi professionisti per l’assenza storica di una iconografia
del genere riferita al santo martire di Efeso.
La presenza di Alfano, proveniente da una famiglia originaria della Repubblica
Marinara di Amalfi, in tal caso Scala, assieme alle svariate famiglie del patriziato
amalfitano come i D’Afflitto, Grisone, i Frezza ed i Grimaldi, permette di collegare la
storia della città con i numerosi sistemi economici e comunicativi che s’erano
sviluppati nei secoli tra l’Italia e le altre sponde del Mediterraneo e dell’Egeo che
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conducevano alle più importanti terre orientali, vedendo come pioniera tra tutte le
repubbliche marinare, proprio quella di Amalfi, che nelle suddette città commerciali
possedeva un ricco patriziato, influente e ben legato alle attività istituzionali
dell’epoca, anche dopo il termine del dominio Svevo, visto che tra le cariche più fidate
dei re angioini c’erano proprio gli amalfitani, visti come valorosi collaboratori anche
da parte della sede vaticana.
Alfano oltre ad essere di tale origine, è legato anche alla stessa nascita dell’Ordine
Ospitaliero visto che Frate Gerardo Sasso, suo fondatore, era proprio di Amalfi, che
dall’ordine prenderà nella sua arma araldica la cosiddetta croce amalfitana dei
Giovanniti, adottata a sua volta diversi secoli dopo da Malta che diverrà sede ultima
dei Cavalieri, ormai nominati come Ordine di Malta, ma tenendo le medesime funzioni.
I Templari e gli Ospitalieri erano collegati fra loro, non soltanto per le crociate, ma per
l’assistenza dei pellegrini all’interno degli Ospitali, mentre ai Templari spettava la
mansione di protezione delle rotte pellegrinali tra Italia e Medio-Oriente,
militarizzando le aree della Terrasanta in quelle che si possono riconoscere come
Fortezze Templari, ma anche ospitaliere come nel caso del Krak Des Chevaliers di
Homs in Siria, che probabilmente vide la presenza tra le sue mura del nostro prode
Alfano quando era ancora in giovane età, nel corso della Quinta Crociata, posto al
fianco dell’Imperatore Federico II di cui diventerà poi fedele architetto palatino e
collaboratore stretto, tanto da definire in più momenti della sua produzione artistica,
un legame con la ‘’passio’’ dell’imperatore svevo, visibile molto accuratamente nelle
effigi del pulpito ferrazzanese, nelle architetture di Castel Del Monte, della stessa
basilica di Termoli e anche in castelli come quello di Siracusa, dove c’è un forte
rimando stilistico alle correnti multiculturali incentivate dal mecenatico Federico II,
che fiorirono ben presto nel cosiddetto Romanico Pugliese, sviluppatosi nei principali
centri come la città imperiale di Foggia, Bari, Termoli, ma anche nelle terre abruzzesi
come a San Clemente a Casauria e Fossacesia, ed in quelle campane, dando così
l’immagine di un territorio, quello centromeridionale, ricco di artisti di diversa
formazione, dalla Francia Fiammeggiante al meridione bizantino, fino all’Oriente
Arabo, e dove la figura in cui tutto si unì sembra essere proprio quella del Magister
Bartolomeo da Foggia, padre dell’illustre architetto Nicola di Bartolomeo e maestro di
future generazioni artistiche che influenzeranno le regioni più a nord della penisola,
come nell’ambito toscano dove fa capolino il magister pugliese Nicola Pisano.
Tra queste figure però il maggiore spicco lo si ha con gli esponenti di origine araba,
con una formazione d’ambito arabo-bizantino, una matrice artistica che ha origini
antichissime nei primi califfati delle terre palestinesi e siriane, in questo caso del
dominio Omayyade della Terrasanta, che influenzò a sua volta i territori spagnoli di
dominio islamico, portando alla nascita dell’architettura visigota, prima in Europa a
presentare il massiccio uso di componenti arabe, tipo gli archi a ferro di cavallo e
policromi, nonché le variegate tessiture con motivo stellato che ricoprono i paramenti
delle finestre e dei pulpiti, un dettaglio che riscontriamo nell’architettura arabo-
normanna della penisola e della Sicilia, accresciuta ed evolutasi nel corso delle crociate
e degli interscambi con l’Oriente, sfociata poi nell’architettura romanica
centromeridionale di cui abbiamo parlato poc’anzi, e per la quale tra i vari esponenti
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vicini alle figure di Federico II e di Alfano, si annovera un co-magister che operò nei
territori pugliesi del primo duecento, e sto parlando in questo caso del Magister Ismael
o ‘’Isma’il’’, autore di diverse architetture del cantiere federiciano del Castello di Bari
in concomitanza con la presenza di Alfano nel cantiere della basilica di San Sabino,
terminato intorno al 1233, periodo che coincide anche con la firma del maestro Ismael
su di un capitello della corte barese, e periodo che indica anche la ripresa dei lavori di
ampliamento della Cattedrale di Termoli, alla quale verosimilmente Alfano avrebbe
condotto con se uno dei suoi collaboratori giunti dall’Oriente proprio durante il
rimpatrio dei Crociati dalle terre Siriane e Palestinesi, in cui proprio lui ebbe natali e
formazione prima di seguirlo verso le terre di Capitanata in quelle che furono le
cosiddette colonie arabe volute dallo stesso Stupor Mundi per la grande utilità e bravura
degli arcieri e dei mastri saraceni, con sede maggiore nella fortezza di Lucera (Luceria
Sarracenorum sino alla fine del ‘200).
Nella cattedrale gli elementi derivati
dalla sua mano sono facilmente
riconoscibili nelle architetture che ho
già elencato, come gli archivolti a ferro
di cavallo e ad ogiva con sesto rialzato,
per non dimenticare la policromia dei
marmi scelti per la realizzazione dei
paramenti ed anche i simboli che
riscontrammo nel fondo del presbiterio,
visto che come già detto in precedenza,
si possono identificare due tipi di
incisioni all’interno della struttura,
quelle d’ambito sacro cristiano, e quelle
d’ambito mussulmano, come le stelle
islamiche ottocuspidate che sono uno
dei simboli più importanti nella cultura
araba, seppure come molti altri segni, di
origine ancestrale che riconduce alla mezzaluna fertile, ma in tale caso parliamo del
segno Rubʿ al-Hizb, onnipresente nell’architettura orientale e probabilmente
ricollegato anche alla presenza della dinastia Omayyade in Medio-Oriente, centro
principale della odierna architettura islamica ch’ebbe moltissimi prestiti culturali dalle
maestranze bizantine da loro impiegate per la costruzione di fortezze, templi ed altre
suppellettili, da cui derivano per altro gli archi moreschi a ferro di cavallo, la stella
sviluppatasi in maniera biunivoca nelle due culture, l’uso di impianti centrali
nell’architettura dei minareti derivanti dalle famose torri bizantine presenti anche nel
territorio italiano, che influenzarono allo stesso modo le culture normanne e
longobarde.
Questo simbolo è riscontrabile in una tipica trama che è presente in molte produzioni
del romanico duecentesco centromeridionale e nelle pavimentazioni musive siciliane,
per non dimenticare della sua presenza in paramenti esterni di basiliche come nel caso
della Cattedrale di Troia, in altre della basiliche pugliesi e nei grandi complessi
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Tutto questo che abbiamo riportato nei vari anni, è servito definitivamente a calcificare
il concetto della presenza templare nell’alta Capitanata e nella cittadina termolese, in
collaborazione con le più importanti equipe storiche e gruppi rievocativi con i quali
abbiamo portato all’interesse pubblico, moltissime informazioni dimenticate negli
archivi e nelle collezioni private, il tutto
svolto per via di un legame
particolarissimo in questa città ancor più
di altre del Mezzogiorno, che è
tramandato nei secoli proprio dalla
presenza del santo discepolo, vescovo e
martire Timoteo, una particolarità che si
ricollega a sua volta con il simbolo della
Triplice Cinta posta proprio alla destra
dell’altare maggiore dove egli venne
celato per volere del Vescovo Stephanus
nell’anno 1239 com’è riportato dalla lapide frammentaria che copriva il sepolcro di
laterizi in cui il corpo del patrono termolese venne inserito in un contenitore e sepolto
sotto il piano di calpestìo del presbiterio, rimasto incompleto a causa del pericolo della
voracità degli incursori veneziani che di lì a poco avrebbero messo a ferro e fuoco la
città, razzìandola dei suoi beni più preziosi ancora oggi presenti in svariate opere della
serenissima, come marmi pregiati e suppellettili varie, di cui ci stiamo occupando in
una ricerca al dettaglio per poter identificare la ‘’refurtiva’’ reimpiegata nelle opere
interne od esterne alla città madre del tempio di San Marco.
Per questo motivo la reliquia scomparve dal ricordo della popolazione termolese, per
com’era ben nascosta, seppure il culto locale ebbe un momento di ripresa storicamente
confermato dalla questione del cosiddetto Pallio, come si può evincere anche dalla
devozione per il santo da parte dei cittadini ma ancor di più da parte dei pellegrini e
delle commende crociate che qui risiedevano, che veneravano le reliquie del Santo
Basso Lucerino, convertito nel culto locale con quello per il San Basso di Nizza già dal
1225 e poco prima quando venne stipulato il trattato commerciale tra la città frentana
e Fermo, da cui come nelle Marche accadde, era venerato in special modo dai marinai
a partire dal X secolo quando le sue spoglie vennero condotte alla città di Cupra
Marittima, dove risiedono ancora oggi, mentre per il patrono Timoteo vi era un
reliquiario medievale, un ostensorio argenteo del XIII secolo nel quale, com’era
classico fare per le reliquie, veniva divisa dal corpo e riposta la calotta cranica,
posseduto dal Capitolo Diocesano e oggi posta nella parrocchia di San Timoteo a
Termoli, mentre il corpo è tutt’ora posto in un’urna speciale che permette la visione di
esso da parte del pubblico, posizionata nell’abside sinistra contrariamente all’ordine di
ritrovamento dei due reliquiari, ma poco importa, basta poter definire questo per capire
che il culto in Termoli per Timoteo era molto sentito nel medioevo, come forse lo era
per San Basso Lucerino e San Biagio di Sebaste, mentre per San Sebastiano a partire
dai secoli rinascimentali tra il XVI-XVII secolo, sotto le grandi pestilenze che ne
invocarono la preghiera in più parti d’Italia.
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
È plausibile che ciò sia accaduto non solo per la perdita di memoria della presenza
dell’intero corpo, ma anche per le moltitudini di carestìe, cataclismi e guerre che
attraversarono la città e danneggiarono la sua continuità storica, facendo perdere ogni
traccia delle spoglie sante e di tanti riferimenti al discepolo di Paolo per circa 700 anni,
fino alla riscoperta del corredo reliquiario celato sotto la cattedrale, come in precedenza
accadde nel XVIII secolo per San Basso, che ne definì una ripresa maggiore di
devozione da parte della popolazione, tanto da stravolgerne l’agiografia e la
celebrazione in più occasioni, causando un miscuglio liturgico che ha danneggiato e
non poco la questione storica del Primo Vescovo Lucerino, ultimo discepolo del primo
Papa della storia.
La presenza di questo tesoro sacro e di un insediamento fortificato così importante per
l’area in cui ci troviamo, è spiegata da una moltitudine di fattori, molti dei quali già
citati in precedenza come la presenza della fortezza in una zona di frontiera, frequentata
dai flussi dei pellegrini incentivati nel percorso alterno anche grazie alla grande
bonifica della viabilità centromeridionale adottata dall’Imperatore svevo, che assieme
al collegamento diretto tra le due coste e i principali santuari mediante delle arterie
della Via Francigena presenti nella regione, fu un crocevia molto importante per i
commercianti amalfitani, per gli ordini cavallereschi che ne sfruttavano il porto come
unione verso la Terrasanta e soprattutto per la familiarità che la fortezza aveva con
Federico II, a partire dalla occupazione del padre Enrico VI nel 1294, con una prima
ricostruzione ed implementazione del porto, e con la presenza di Costanza D’Altavilla
che ebbe in dote il feudo originariamente sede della corte degli Altavilla Conti di
Loritello, a partire con Roberto I nel XII secolo, e per terminare con Roberto II di
Bassavilla divenuto III di Loritello fino al 1184.
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
L'esistenza stessa della corte normanna in cui ebbe luogo la gran riunione del Re
Tancredi D’Altavilla, lascia intendere che in Termoli doveva esistere il castello di cui
ho parlato in precedenza, testimoniato da altre fonti storiche e dai saggi archeologici
svolti nel quartiere di Montecastello, lasciandoci così la visione di una struttura che
doveva assolvere a quella di residenza fortificata, con annesso dongione separato dal
castello ed unito solo mediante un ponte levatoio, tipologia residenziale che si può
riscontrare anche nelle città di Foggia, nella sede di Fiorentino ed anche di San
Nicandro di Bari per citare alcune delle località comparabili, e non vorrei dimenticare
anche il mastio di Gravina di Puglia che presenta esattamente lo stesso carattere di
fortificazione residenziale, una presenza che raramente si riscontra in altre città, con
determinate caratteristiche a favore di una crescita economica e socio-politica del
fortilizio termolese, interrotta dalle cause che ho precedentemente elencato, alle quali
però va aggiunta la pressione politica da parte della Serenissima, che reputava la città
termolese come sua nemica indipendente dalla sua brama di totale potere sulle acque
del bacino Adriatico.
Come abbiamo potuto già esporre in un
articolo diversi anni fa sulle modalità con
cui le reliquie del Santo Martire sono
giunte fin qui, le caratteristiche
favorevoli della fortezza e del suo porto
hanno ricondotto ad una delle più
importanti figure di spicco che nel ‘200
condussero forse la maggior parte delle
reliquie e suppellettili sacre del Sacco
crociato di Costantinopoli, nell’Europa
occidentale, il Cardinale e legato papale
Pietro Capuano, futuro vescovo di
Amalfi che operò in Medio-Oriente
proprio nel corso della IV Crociata
(1202-‘204), prima di abbandonare la
resistenza di San Giovanni D’acri contro
gli infedeli per raggiungere il neo-imperatore Baldovino V, seguito dal contingente di
Templari ed Ospitalieri, contro le richieste di Innocenzo III che reputava tali atti come
irresponsabili verso la difesa della Terrasanta, anche se contrariamente alla richiesta
pontificia di tornare ad Acri, egli ebbe reggenza nella capitale bizantina fino al 1207
almeno finché non si stabilisse politicamente il dominio latino.
Nella sua permanenza egli riuscì ad entrare in possesso del vasto carme di Reliquie, tra
cui si ricordano le celebri ossa di Sant’Andrea apostolo, oggi conservate nel Duomo
amalfitano, che in precedenza erano state poste nel reliquiario della basilica bizantina
dei Santissimi Apostoli, in cui si annoveravano i resti del Santo Andrea, Timoteo
martire di Efeso e San Luca evangelista, quest’ultimo giunto in Italia mediante
traslazione già nel XII secolo, portandoci quindi a vedere nell’enorme numero della
refurtiva di Pietro Capuano anche le ossa di Timoteo, inserite in quell’enorme numero
di reliquie di sconosciuta identificazione nel momento del ratto, forse proprio per
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
evitare che l’entità del furto potesse diventare nota, disperdendo molte di esse come
verosimilmente fece al suo ritorno in Italia nel 1208, tramite la Via Egnatia e il
collegamento costiero tra i porti di Durazzo, Ragusa e la rotta diretta tra la città dalmata
e le Isole Tremiti giungendo così a Termoli da cui poté ricollegarsi alle vie dirette tra
Nord della Capitanata e la costa campana, nel cui percorso dovette verosimilmente
cedere alcune delle reliquie come pegno degli ordini cavallereschi e di tutti coloro che
lo aiutarono nell’organizzazione della traslazione clandestina, come fece per le vicine
diocesi del golfo napoletano e di Salerno, ed anche nelle principali diocesi francesi,
tanto care al Capuano, in cui compare proprio una mandibola di San Timoteo donata a
San Giovanni in Vineis di Soissons nell’anno 1205, donata secondo l’agiografia dal
ciambellano dell’imperatore Baldovino V dopo averla acquistata dai crociati, o forse
proprio dal Capuano che ne aveva sgraffignato le spoglie mortali un anno addietro.
La parte formidabile che riguarda i crociati nella nostra cittadina, è che la domus templi
termolese e le rispettive commende, non furono soggette ad alcuna confisca da parte
dell'Imperatore dopo i risvolti della prima scomunica ricevuta da Gregorio IX che portò
alla totale rottura dei rapporti politici pacifici tra Impero e Papato, e come si evince dal
''Quaternus Revocationis Capitanate'', le domus risparmiate dalla punizione sveva
furono quelle di Troia, Siponto e Termole in alta Capitanata, per cui appunto non vi
furono repressioni di sorta verso l'ordine cavalleresco del Tempio, che in Termoli
specialmente possedeva anche molti terreni atti al pascolo ed al raccolto, e poté
proseguire con la gestione del patrimonio derivante dalla consumazione delle risorse
della terra, dal pellegrinaggio e dal commercio delle reliquie attraverso i porti pugliesi,
e per quanto riguarda la nostra città, abbiamo modo di credere che vi sia accorsa una
collaborazione molto particolare con l'Imperatore e le commende crociate in situ, forse
di matrice strategica per le condizioni della Civita Termolense nel panorama dell'Italia
Sveva.
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
Una delle fonti più importanti riguardo al furto delle reliquie da parte dei crociati, per
ultimare con le prove a carico della tesi di un possesso di esse solo al seguito della IV
crociata, è uno stralcio di pergamena trascritta nei primi anni del XIII secolo ad Acri,
ed inserita nella raccolta della Hystoria Friderici Imperatoris Magni, in due differenti
versioni del 1225 e del 1255, rinvenuto diversi anni fa durante il rettorato del Molise
da parte dello storico Domenico La Porta verso la famiglia Hohenstaufen-Puoti, in
collaborazione con il direttore dell’archivio storico privato Hohenstaufen, Michele
Lamanna, presentato da noi in una mostra timoteana svolta nel 2018 nell’allestimento
medievale del Castello Svevo di Termoli, che ci ha permesso di definire bene il gran
numero di elementi sacri trafugati nella dissacrazione della captale bizantina, tra cui
vari oggetti della Passione di Cristo, una stola di San Biagio giunta dalla divisione di
quest’ultimo dopo la traslazione verso Roma, ed ovviamente le reliquie di Sant’Andrea
e Timoteo.
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
Per quanto concerne le analogie storiche con la Triplice Cinta termolese, sono
riscontrabili numerosissime sue esecuzioni in aree dell’Europa e più precisamente
dell’Italia, che hanno avuto a che fare con la presenza di una commenda, una domus o
un percorso battuto dai Templari e i Pellegrini a loro corrispondenti, molti dei quali
sono perfettamente riconoscibili o almeno lo sono grosso modo vista la vetustà di
questi conci che spesso e volentieri
sono posti all’aperto, su scalini o
utilizzati come riempimento nelle
ristrutturazioni di luoghi pertinenti a
strutture medievali, com’è accaduto nel
rinvenimento di una triplice cinta
molto accurata, svolta su un laterizio
medievale appartenente al Castello di
Serracapriola, e portato alla luce dal
proprietario e mio caro amico
Antonino Maresca, che mi ha permesso
di eseguire un sopralluogo in loco al
fine di studiare le origini dell’antica
torre bizantina stellata, e del primo
nucleo fortificato d’origine sveva,
prima di essere ampliato nei secoli del
basso medioevo e rinascimento, per
diventare la residenza signorile di oggi,
meta turistica molto ambita per le
cerimonie, senza alterare la funzione
del castello stesso che per altro è
allestito con reperti ed arredo storico di
pregevole fattura.
Uno dei ritrovamenti più importanti
della Triplice Cinta, non può non
essere quello che vide la sua presenza
in uno dei luoghi che vide per l’ultima
volta i principali esponenti dell’Ordine
Templare, accompagnato ovviamente
da tanti altri simboli con una radice
simbologica sacra, che tappezzano le
pareti della segreta della fortezza
francese di Chinon, in cui furono
rinchiusi in attesa della loro
esecuzione, diverse delle più alte
cariche dell’ordo cavalleresco, come il
Granmaestro Jaques De Molay, che attendeva il rogo che lo avrebbe atteso ben presto
sulla Senna, circondato dai suoi compagni che verosimilmente, secondo gli studi degli
storici Louis Charbonne-Lassay e la ricercatrice Anna Giacomini, si riferirebbero ad
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La Triplice Cinta della Cattedrale di Termoli
una specie di messaggio ermetico, lasciato per i posteri che così avrebbero ricordato la
loro esistenza, anche se nel mio modesto parere, sono più propenso a credere che, come
per altri simboli cristiani adoperati a scopo liturgico, ci troviamo di fronte all’incisione
tragica di amuleti apotropaici e di effigi atte alla preghiera da parte dei cavalieri che
qui attendevano la loro sentenza, nella speranza di avere salva la loro anima, non
avendo altra scelta che il pregare, cosa che sembrerebbe già essere stata adoperata nel
linguaggio graffitario dei crociati in Terrasanta e nei luoghi santuario, che a loro volta
influenzarono nella liturgia dei pellegrini che adottarono le medesime tecniche di
affissione dei loro ex-voto sulle pareti e sui pavimenti nel corso dei secoli, seppure con
una netta differenza rispetto a quelli di origine crociata, con un lessico molto più
profondo e teologicamente preciso, come nel caso del labirinto unicursale, altro
simbolo presente in vari casi nella regione, con il più prezioso riferimento nel primo
pilastro sinistro della basilica di San Giorgio Martire a Petrella Tifernina, sormontato
da due volatili simili a due pavoni o animali galliformi, che rappresenta il cammino del
fedele, e la zona centrale si mostra con l’effige di una croce dalla punta convessa.
Nel Molise la Triplice Cinta è stata individuata in vari anni nei pressi di moltissime
località storiche, come la fortezza di Fornelli, dove ne è stata trovata una incisone
vicino la chiesa di San Michele Arcangelo e tra le più frequenti e segnalate vi sono
quelle di lapidi presenti nel Rione San Pietro di Campobasso, ed ancora nel paese di
Riccia, conservati in maniera ottimale si potrebbe dire, contando anche la presenza del
simbolo nella porta da inferiore di Petrella Tifernina, vicino a croci votive ascrivibili
alla presenza di una domus templi nei pressi dell’area della basilica longobarda-
normanna di San Giorgio, seguite queste da tante altre che però vanno a toccare località
di enorme importanza per le rotte dei crociati e dei pellegrini lungo la via Appia-
Traiana, e verso il santuario garganico dell’arcangelo guerriero, soprattutto con una
risaputa e confermata presenza dell’ordine Templare ed Ospitaliero tra il XII e il XIV
secolo ed oltre, come nei casi delle città pugliesi di Trani e nella fortezza di Barletta
dentro la Basilica del Santo Sepolcro, a Molfetta dove nel 1216 è documentata
l’esistenza della domus collegata alle pertinenze della Basilica di San Nicola, seguita
da Terlizzi dove recentemente è stata rinvenuta l’effige della triplice cinta nel santuario
di Santa Maria di Sovereto, e di molte altre sue incisioni in luoghi che circondano il
Santuario di Monte Sant’Angelo, nella cui stessa fortezza sono presenti altri simboli in
cui ovviamente non manca quest’ultimo.
Tornando poi all’incisione della cripta termolese, soprattutto al seguito di questa
rielaborazione dei dati raccolti, posso esprimere alcune perplessità a riguardo, con
derivati giudizi nei confronti dei vari manufatti, e vorrei subito partire dal dettaglio
della loro irregolarità geometrica che li porta ad essere differenti nella squadratura e
nelle proporzioni, che non sembrano essere dovuti ad una semplice mano diversa o
dello stile dello scalpellino che li ha incisi, non mantenendo lo stesso assetto cubico
dall’esterno all’interno della cinta, che non solo ci pone di fronte ad un segno
dall’impossibile scopo ludico, come abbiamo detto in precedenza, ma che ci porta a
vedere un qualcosa che è stato svolto volutamente in questa maniera irregolare e dalla
forma schiacciata, in rimando ad una precisa iconografia graffitaria, visibile per altro
nelle altre località cristiane della Cattedrale di Venosa, nelle mura del Castello di
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Minturno e nella città di Osimo dove in quest’ultima siamo al cospetto di una delle più
elaborate triplici cinte che io abbia mai visto, quasi una fusione tra il centro sacro e
l’effige del labirinto unicursale quadrato, con una ben marcata pendenza a tramoggia
verso il centro dei raggi cubici, un effetto ad incavo tridimensionale davvero raro e di
un inestimabile valore storico.
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Nel 362 d.C. la sua ricostruzione venne commissionata dall’Imperatore Claudio Flavio
Giuliano al prefetto e vicario di Britannia, Alipio d’Antiochia, come ci viene descritto
nella cronaca del Marcellino, e da questa definitiva riformazione sembra essere
plausibile conoscere l’aspetto che si doveva presentare da lì in poi a tutti i popoli che
calpestarono i suoi ed i pavimenti del
tempio più celebre di tutti.
Ed è in questo insieme che ci tengo a
descrivere con precisione le strutture
religiose oggi presenti sulla carcassa
del Templum Solomonis, in quello
che oggi è definito appunto Monte
del Tempio, e la cui piattaforma è
conosciuta come spianata del tempio
o delle Moschee, visto che qui
troviamo posizionate le due più
importanti moschee del mondo
arabo, la più celebre, conosciuta
come la Cupola della Roccia, una struttura a pianta centrale voltata con una cupola in
coperture dorate, conosciuta anche come Moschea di Omar in ricordo dell’undicesimo
Califfo Umar Ibn Al-Khattab, che ivi costruì in precedenza una proto-mosche in legno,
sostituita poi tra il 687 ed il 691 da una struttura in muratura, ad opera di Maestranze
bizantine sotto il dominio Omayyade, ispirata all’edificio del Santo Sepolcro, che
nell’età delle crociate vide una netta modifica di carattere decorativo, visto che nel
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periodo in questione venne sottoposta alla custodia dei crociati, che a loro modo si
stabilirono anche nella vicina sede ad impianto basilicale della Mosche di Al-Aqsa, di
cui un’ala era stata concessa loro dal Re di Gerusalemme Baldovino II, che possedette
come sua residenza il cosiddetto Templum Solomonis, dal quale a quanto pare, ebbe
origine la detoponimia dell’ordine cavalleresco dei Templari, ma solo al seguito
dell’acquisizione come loro quartier generale, e che per quanto riguarda il tipo di
impianto centrale nella cupola antistante, occupata da loro sino al 1187, anno della
ripresa di Saladino, lo stile edificativo avrebbe ottenuto un posto privilegiato
nell’ambito schematico e simbologico della sfera crociata e delle maestranze che
operarono in loco, giunte dall’Occidente e dall’Oriente, influenzando così la
costruzione ideale di moltissimi templi cristiani europei, e ponendo la forma del monte
del tempio gerosolimitano come simbolo ideale e proporzionato del Templum Domini,
un tempio fisico che non avrebbe quindi la valenza solo di una firma o di un elemento
liturgico, ma anche di una sorta di consacrazione, come per l’uso delle Croci Patenti e
del Calvario, e che addirittura questo segno formasse anche uno schema modulare che
permetteva l’organizzazione ordinata e precisa di un programma iconografico o nella
proporzione della struttura stessa, cosa che si può riscontrare in opere corregionali
come la Fontana Fraterna di Isernia e in altri casi come nella modulazione della facciata
del Duomo di Fidenza e così via, per ultimare poi con la enorme somiglianza esecutiva
che questo simbolo enigmatico possiede, in comparazione con la sagoma stessa del II
o III tempio gerosolimitano e con ciò che ne resta oggi, visto che per tale precisione
nelle fattezze come notiamo a Termoli, sono dell’idea definitiva che solo un individuo
che è realmente stato nella spianata dei templi nell’età delle crociate, abbia potuto
eseguire una così sapiente incisione precisa del perimetro murario del complesso sacro,
dove in molti casi è presente in Italia il cosiddetto centro forato, con un rimando
davvero importante alla forma stessa della Cupola della Roccia, che assieme ad altri
templi della città vecchia, ha suscitato l’interesse di una loro riproduzione da parte
dell’Ordine in più luoghi dell’Italia e dell’Europa tutta, un significato davvero
profondo che ci ricollega a coloro che condussero qui, assieme al cardinale Capuano,
le spoglie del Santo Timoteo, e che in questo angolo del tempio sacro le avrebbero
celate per proteggere questo prezioso tesoro giunto fino a noi nel ventunesimo secolo.
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Bibliografie di riferimento