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Modulo I
PERUGIA 2007
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INDICE
Cap.I IL Giudaismo.
Dalla tarda antichità sino ai giorni nostri, con il termine “giudaismo” ci si riferisce ad un sistema
ebraico specifico che evoca come simbolo generativo la parola Torah, intesa così come la
concepirono i saggi o i “rabbi”. Un sistema che promette la venuta del messia quando Israele, cioè
il popolo ebraico, osserverà la Torah insegnata dai saggi e che comprende nel canone della Torah
due modi di rivelazione: quello scritto (cioè le Scritture ebraiche o “Antico Testamento” come è
chiamato dai non ebrei e quello orale. Il sistema nel suo insieme forma un modo di vita –azioni
quotidiane e vita sociale – e una visione del mondo che spiega questo modo di vita e lo collega alla
volontà di Dio per “Israele”, definito come i figli, in senso genealogico, di Abramo, Isacco e
Giacobbe. Il giudaismo, così come lo conosciamo, emerse dopo una fase di forma zione di circa
seicento anni, dal primo al settimo secolo d.C., all’interno delle comunità ebraiche della Terra
d’Israele e Babilonia. Fu nel quarto secolo, in Terra d’Israele, in risposta al trionfo del cristianesimo
nell’Impero romano, che si delineò il profilo del giudaismo così come è giunto sino a noi.
Qualche anno dopo la presa di Gerusalemme e l'incendio del Tempio da parte dei soldati del ge-
nerale romano Tito (70 d. C.), gli Ebrei riorganizza rono la loro religione, questa volta, ed in
modo definitivo, senza più il Tempio. Rimaneva loro la Legge (la Torah); essa ebbe, in un certo
senso, la stessa funzione che aveva l'edificio divino con il suo culto secolare. furono fissate le
leggi, definiti in modo netto la pr atica religiosa e soprattutto il canone delle Scritture. La
preoccupazione più grande era rappresentata dall'ortodossia. La religione ebraica si ristrutturò
unicamente in quanto farisaica, poiché i maestri superstiti appartene vano quasi esclusivamente
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al gruppo che portava questo nome. I Sadducei, aristocratici vicini al Tempio, erano
praticamente scomparsi nel disastro; quanto ai Cristiani, stavano per mostrarsi come una setta
di Ebrei eretici da respingere.
Verso la fine del I secolo cristiano gli Ebr ei palestinesi definirono il loro canone delle
Scritture ; Parallelamente ai libri biblici il giudaismo posse deva anche un importante blocco di
tradizioni, leggi e leggende che circolavano oralmente nel culto, nell'insegnamento e nei
tribunali e che già si era iniziato a fissare per iscritto. Questo insieme è proprio ciò che sarà
chiamato Legge orale, complemento della Legge scritta, che a sua volta stava per diventare
Scrittura. Verso la fine del I secolo d. C., infatti, il giudaismo, divenuto la religio ne dei
rabbini - da cui la formula « giudaismo rabbi nico » - professò come un dogma che Legge scritta e
Legge orale erano state rivelate a Mosè sul Sinai e che la Legge orale completava e spiegava la
Legge scritta per renderla comprensibile e attuale per ogni generazione. Mosè fu considerato
come il Maestro « totale » della Torah; per questo si legge nel Talmud: « Tutto ciò che un
discepolo fervente è destinato a portare di nuovo è già stato detto a Mosè sul monte Sinai ». In
qualche modo, con questa distinzione tra Legge scritta e Legge orale (che non risale a prima del
II secolo d. C.) veniva posto e risolto il problema dei rapporti tra Scrittura e Tradizione che
diverrà classico nella teologia cristiana.
Lo scopo dei rabbini nei confronti della Legge era scoprire e trasmettere il senso dei testi
rivelati. Per far ciò si proponevano due obiettivi: da una parte mostrare come la rivelazione della
Torah si applicava alle situazioni mutevoli e differenti della vita (è questo u n aspetto
piuttosto giuridico); dall'altra aiutare il popolo dei credenti ad accet tare i decreti come emanati
dalla volontà divina (è questo uno scopo soprattutto edificante). Questi due obiettivi diedero
origine a due attività specifiche chiamate halakāh e haggadāh.
La halakāh
Halakāh è un termine tecnico che deriva dalla radice ebraica hālak, « camminare »; designa le
decisioni delle autorità rabbiniche relative a punti discussi o incerti del modo di vivere che
riguardano sia gli individui che la com unità stessa. La halakāh è la « via », il « cammino » o la «
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regola » che interpreta la Legge scritta e le permette di trovare applicazione nelle circostanze
reali della vita. Si chiama halakāh quella parte della letteratura giudaica che ha una portata
normativa; al plurale, halakōt, significa regole, « decisioni » e anche « raccolta di leggi ».
Sebbene l'insegnamento deII’'halakāh fosse intimamente legato alla Scrittura, poteva tuttavia
essere trasmesso in modo indipendente da essa. Così, l'elaborazione dell'halakāh avvenne in due
campi: uno vicino alla Scrittura, il Midrash, l'altro, più autonomo, la Mishnah:
a) Il MIDRASH.
b) LA MISHNAH.
L'haggadah
Questa parola deriva dalla radice hīggīd, « annunciare », « raccontare », e significa « quello
che la Scrittura dice » oltre al suo significato ovvio. Tuttavia in senso stretto designa
l'interpretazione della Scrittura, distinta dalla halakāh. Il discorso haggadico segue molto da
vicino il testo biblico, ma spesso vi inserisce anche parole, proverbi, leg gende o racconti di
miracoli destinati a istruire e confortare il giusto che cerca Dio. L'haggadāh interpreta ed
illustra la Scrittura; proprio in essa si trova la maggior parte di elementi agiografici (o
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racconti della vita di santi) della grande tradizione giudaica; analogamente molte « vite di santi
» fanno parte della haggadāh.
L'haggadāh è in appoggio agli elementi nor mativi o halakah; nel Vangelo di Matteo, il più
giudaico dei testi del Nuovo Testamento, i miracoli riportati nei capitoli 8 e 9 sono, ad esempio,
la « haggadàh del Nuovo Mosè » che segue, per darle maggior risalto, la « halakah del Nuovo
Sinai » (o Discorso della Montagna dei capitoli 5 -7).
Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalem me, il giudaismo conobbe un lungo ed ampio
processo di fissazione per iscritto e di compilazione degli elementi sparsi della Legge orale.
Questo processo durò quattro o cinque secoli . Si tratta di una vera e propria storia letteraria
nella quale si possono individuare una serie di tappe fondamen tali di produzione, concatenate le
une alle altre e, parallelamente, una successione di generazioni di maestri — « rabbini » —
redattori.
La « Mishnah » e i « tannaim »
Nel corso del II secolo dell'era cristiana i rab bini hanno riordinato buona parte delle
tradizioni normative conosciute nel loro ambiente. Una com pilazione sistematica fu iniziata dal
famoso Rabbi Aqiba (martirizzato dai Romani verso il 135); fu poi proseguita dai suoi discepoli,
in modo particolare da Rabbi Meir, che ne fece una prima redazione. Su questa base, con
l'apporto di altri elementi, ver so l'anno 200 il patriarca Giuda I pubblicò la rac colta definitiva
chiamata Mishnah. Essa rappresentava il codice fondamentale di leggi del giudaismo rabbinico
e comprendeva sei sezioni (sedarim). Il termine Mishnah può voler dire sia « ripetizione »,
come già abbiamo detto e secondo la conferma della trascrizione greca dei Padri de lla Chiesa
(deuterosis; bisogna allora leggere l'ebraico come Mishnēh), sia anche « insegnamento » — in
realtà l'insegnamento della tradizione è necessariamente ripetitivo! La generazione dei rabbini
che furono gli artefici di quest'opera è chiamata genera zione dei tannaim (plurale di tanna, «
insegnamento »). La Mishnah è la prima delle grandi produzioni legislative del giudaismo senza
Tempio; il suo studio era addirittura considerato da alcuni come l'e quivalente dell'offerta di un
sacrificio.
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[ La Mishnah è il risultato di un lavoro selettivo. Le tradizioni omesse nel corso della sua
redazione sono tuttavia state conservate in alcuni libri e sono state chiamate baraytot (plurale
di barayta, « esterno »). Presentano la particolarità di contenere molte parti di haggadāh, cioè
elementi non giuridici.]
La Sola Scrittura. 1
L'apparire della Mishnah e del Talmud, legato alla Teologia della Torah che il rabbinismo
aveva enunciato in modo netto dopo la rovina del Tempio — insieme al riconoscimento, quale
dato essenziale, di una Legge orale che, risalendo anch'essa a Mosè, illuminava e completava la
Legge scritta —, segnò una rottura decisiva in rapporto ad altri mo vimenti autenticamente
giudaici, ma di diversa ideologia e cioè quello dei Sadducei da un lato e quello dei Qumraniti
dall'altro. L'orientamento del giudaismo verso una sistemazione esclusiva delle idee e delle
tendenze farisaiche fu certamente condizionato dalla sparizione fisica tanto dei Sad ducei che dei
Qumraniti dopo la rivolta dei Giudei contro Roma, ma c'è un motivo ancora più impor tante: in
realtà per questi due movimenti, l'uno vi cino al Tempio e l'altro invece lontano, la Scrittura
soltanto o Legge scritta possedeva l'autorità di Legge rivelata.
1
« Sola Scriptura », « La Scrittura soltanto »! Questo grido riassume la caratteristica essenziale dello spirito della riforma
protestante del XVI secolo.
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i SADDUCEI
I Sadducei erano il partito opposto ai Farisei 2. Nella storia dell'ebraismo appaiono come tali
per la prima volta sotto Giovanni Ircano (134 -104 a.C.). Di provenienza aristocratica, durante
tutto il I secolo a.C. e per buona parte del I secolo dell'era cri stiana, trovarono i loro adepti
soprattutto nella casta sacerdotale. Al tempo di Gesù controllavano l'amministrazione e il culto
del Tempio. Nonostante la loro complicità con gli occupanti romani, la rovina del Tempio fu
per essi fatale. Dato che erano dei politici, la loro forza non poteva sopravvive re
all'annientamento dello stato giudaico. Dopo questo evento, riguardo ai Sadducei si
ritrovarono solo delle false tracce; nella letteratura rabbinica (Mishnah e Talmud) « sadduceo
» è semplicemente sinonimo di « eretico » (la censura cattolica del XII, XIII e XIV secolo ha
spesso sostituito con « sadducei » il termine minim, « eretici », in cui essa vedeva la
designazione dei giudeo-cristiani).
L'origine e il significato del nome « sadduceo » sono enigmatici. Di solito l i si spiega
ricollegando il termine ai discendenti o sostenitori di Sadoq, sacerdote di Davide (2 Sam 8, 17)
e di Salomone (1 Re 2, 35). Questo è un dato lontano dall'essere acquisito3.
I Sadducei sono conosciuti da Giuseppe Flavio (sebbene fariseo, egli n on li accusa di essere
dei giudei empi) e dal Nuovo Testamento. Nella lette ratura rabbinica un racconto che sembra
risalire al I secolo d.C. (secondo le indicazioni delle Abbot Rabbi Natan) segnala che la
separazione tra farisei e sadducei si verificò verso la fine del II secolo a.C.; questa informazione
sembra sicura.
I Sadducei, lo abbiamo già detto, erano sosteni tori dell'autorità unica della Scrittura, che
essi limitavano al Pentateuco. In virtù di questo princi pio rifiutarono i dogmi o le credenze
tarde dei Farisei: la resurrezione dei corpi, l'immortalità personale, l'esistenza di angeli e di
demoni. Questo atteggiamento non impedì loro di far fronte ai cam biamenti sociali e di
produrre la loro propria halakàh, di cui ci è noto qualche esempio.
I QUMRANITI
2
V. l'importante lavoro di J. Le Moyne, Les Sadducéens, Gabalda, Parigi 1972.
3
II plurale che si trova nel Nuovo Testamento, saddou-kaioi, permette di supporre la vocalizzazione saddùqi (con certezza
si conoscono solo le consonanti ebraiche sdwqi al singolare, sdwqym al plurale), difficilmente derivabile da Sadoq.
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A partire dal 1947 le grotte del deserto di Giuda hanno consegnato ai ricercatori molti pezzi
della biblioteca di una complessa fraternità giudaica che, nei due ultimi secoli precedenti la
nostra era e fino alla grande rivolta degli ebrei contr o Roma (70 d.C.), condusse una singolare
vita religiosa nei dintorni di Qumran, vicino al Mar Morto 4. Uno degli aspetti sorprendenti
della vita di questa comunità vicina, per i suoi scritti e i suoi costumi, agli Esseni, sta nel fatto
che essa era interamente organizzata al di fuori del Tempio e senza Tempio, in un'epoca in cui
questo era ancora in piedi con tutta l'imponenza del suo potere sociale e simbolico. I Qumraniti
erano dei praticanti della Scrittura. At torno alla lettura di quest'ultima, al suo studio e al suo
commento si strutturava buona parte della vi ta della loro comunità, detta della Nuova Alleanza.
Con la pratica che di essa si faceva, la Scrittu ra sostituiva da sola il Tempio e il suo culto. Per
questi credenti la Scrittura conteneva c ontemporaneamente « cose evidenti » (nigelòt) e « cose
nascoste » (nisterot). Le « cose evidenti » consiste vano in precetti enunciati nella Torah (che
esiste solo scritta) in termini chiari e precisi, sui quali nessuno poteva discutere; le « cose
nascoste » erano invece leggi formulate in modo vago ed im preciso: venivano precisate per
mezzo di una ricerca interna ed ininterrotta fatta sul testo della Scrittura. Questa ricerca si
chiamava midrash hat-torah, « ricerca della Legge ». I Qumraniti credeva no di possedere il
carisma dell'interpretazione e di usarne in modo infallibile; nell'adempimento di questo
compito si dicevano persino profeti. Inoltre a Qumran si credeva nella scoperta e nella rivela -
zione progressiva della Torah che sarebbe avvenuta grazie al lavoro degli « scrutatori della
Legge ». La Bet hattorah, « casa della Legge », designava an che il gruppo di Qumraniti che per
indicare il giudaismo che praticavano e coltivavano usavano l'espressione derēk YHWH, « il
cammino di Yahvé ». Questo « cammino » era lo studio della « Legge di Mosè », l'osservanza
dei precetti rivelati « quando giunse il tempo » e anche la sottomissione alla ri velazione dei
profeti; quest'ultimo fatto mostra come gli scritti profetici giocassero ugualmente un luogo
essenziale nella scoperta dei tesori nascosti della Legge di Mosè. Queste pratiche e l'idea ad
esse soggiacente si muovevano pertanto in senso contrario a quello che sarà l'insegnamento dei
4
Questa biblioteca - o queste biblioteche - contenevano testi biblici in ebraico ed anche in greco, libri apocalittici, opere
proprie al gruppo (commenti biblici, inni), testi profani. V. A. Dupont-Sommer, Les Ecrits esséniens découverts près de la Mer
Morte, Payot, Parigi 1964 (libro molto documentato ed abbordabile, con la traduzione dei testi maggiori) o J. T. Milik, Dix
ans de découvertes dans le désert de Judo, Cerf, Parigi 1957. In italiano si possono consultare: Manoscritti di Qumran, a
cura di L. Moraldi, Utet, Torino 1971; L. Moraldi, Maestro di Giustizia, Possano 1971; A. Penna, / figli della luce, Possano
1971; Michelini-Tocci, I manoscritti del Mar Morto, Bari 1967.
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rabbini, per i quali la Legge scritta non poteva trovare in se stessa la sua interpretazione, ma
aveva bisogno della Legge orale, rivelata a Mosè al Sinai al pari di ogni altra rivelazione.
Il giudaismo rabbinico definì dunque la sua teoria e la sua dottrina della Torah in un modo che
radicalmente rompeva con i due gruppi, Sadducei e Qumraniti, per i quali esisteva una sola
Legge, scritta, comprendente tanto gli scritti attribuiti a Mosè che i testi dei profeti. Circa
sette secoli più tardi, quando ormai i Geonim avevano imposto il Talmud di Babilonia come il
grande testo normativo per tutto il giudaismo, intervenne una vigorosa reazione: si tratta di
quella dei Qaraiti, che opera rono un vero e proprio ritorno alla « sola Scrip tura » dei Sadducei
e soprattutto dei Qumraniti.
In un certo senso i Qaraiti rappresentano per il giudaismo ciò che i Protestanti sono per il
cristianesimo5. Questo nome è la trascrizione di Qaraim, « lettore (della scrittura) », parola
derivata dal verbo ebraico qara, « leggere » (i Qaraiti furono anche chiamati Benē-Miqera, «
figli della Scrittura »). Etimologicamente, i Qaraiti sono dunque i « Biblisti » o « Studiosi
della Scrittura »; e di fatto essi storicamente ebbero questo ruolo.
Verso la metà delI'VIll secolo, a Bagdad il rab bino Anan ben David ruppe con la tradizione
giudaica per proclamare il ritorno al testo della Legge: « Studiate la Legge a fondo! », questa
era la sua consegna.
Egli scrisse un Libro di Precetti che sostituiva per i suoi seguaci, chiamati in un primo tempo
Ananiti, la Mishnah e il Talmud. Questo movimento ben presto si diffuse negli ambienti
giudaici dell'Iraq e della Persia, poi, a partire dal IX secolo, in Palestina. Attraverso
Costantinopoli, punto di incontro e di scambio, rag giunse l'Europa centrale e orientale; qui si
moltiplicò con una fortuna variabile secondo le epoche, fino alla troppo celebre persecuzione
del XX secolo. Oggi in tutto il mondo esistono solo poche centinaia di Qaraiti.
Gente del Libro e sostenitori della sola Legge scritta, i Qaraiti si dedicarono ben presto a llo
studio scientifico della Bibbia. Dal IX al XII secolo si succedettero delle vere e proprie
5
V. l'opera erudita ma di facile lettura di A. Paul, Ecrits de Qumran et sectes juives aux premiers siècles de l'Islam.
Recherches sur l'origine du qaraisme, Letouzey et Ané, Parigi 1969.
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famiglie di ricercatori ai quali si devono alcuni commenti molto seri. Particolarmente notevoli
sono i loro studi sui Profeti. Gli interpreti qaraiti, eredi in ciò della grande tradizione
profetica e degli insegnamenti dei maestri di Qumràn, professavano una vera e propria teoria
dell'illuminazione; negli « Scrutatori della Legge » (titolo che come molti altri è comune ai
qumraniti e ai qaraiti) vedevano dei « p rofeti »ispirati da Dio. A servizio di questo compito i
qaraiti promossero ardenti ricerche sulla lingua ebraica; composero i primi grandi dizionari e
grammatiche, come l'importante dizionario che nel X secolo pub blicò Abraham al-Fassi: si
tratta di uno dei primi e più importanti lavori di questo genere nella sto ria della filologia
ebraica.
Come già si è detto, esiste uno stretto legame letterario e teologico tra i lavori esegetici dei
grandi commentatori qaraiti della Scrittura e i mano scritti di Qumràn. Una volta impiantatosi
in Palestina, cioè una volta che fu organizzato, il movi mento dei Qaraiti si impregnò di una
letteratura già conosciuta in alcuni ambienti dell'epoca, in cui molto probabilmente figuravano
testi di Qumràn. Si sa infatti in modo quasi certo che verso l'anno 800, alcuni libri biblici e non
biblici giudaici furono scoperti in una grotta nel sud della Pale stina. Questo avvenimento,
precursore delle grandi scoperte del Deserto di Giuda fatte a partire dal 1947, spiega il legame
materiale tra Qumraniti e Qaraiti; d'altra parte, nonostante una sospensione storica di otto
secoli, il legame profondo e teorico — la « Sola Scriptura » — anche se nascosto, non è meno
reale.
L'esame dell'antitesi storica in cui da un lato si pongono i sostenitori della « sola Scriptura » e
dall'altro quelli dei due aspetti della Legge, solle cita le seguenti riflessioni:
1. Nonostante il suo costante insegnamento cir ca l'esistenza di due Leggi rivelate, l'una scri tta e
l'altra orale, il giudaismo rabbinico si è paradossal mente diretto, fin dalle sue origini e in
modo infaticabile, verso la « sola Scriptura ». La storia del rabbinismo, dopo la selezione delle
halakot che ha dato origine alla Mishnah fino all'enorme compilazione che ha preso il nome di
Talmud, è in realtà la storia di una scrittura o, molto di più, la storia del riassorbimento
materiale della Legge orale in quanto tale e della sua trasformazione in Legge scritta. Con il
Talmud il giudaismo non aveva più tradizione orale e tuttavia quest'ultima era teorica mente
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necessaria alla sua dottrina sulla rivelazio ne. Esso si situava ormai all'interno di un vasto corpo
in cui la Scrittura nel senso stretto del ter mine occupava solo un posto modesto e addiri ttura
secondario. D'altra parte l'insegnamento uffi ciale consisteva nel commentare il Talmud che a
sua volta era già un commento della Mishnah e non della Scrittura. A partire da ciò
l'affermazione tradizionale circa l'origine sinaitica della Legge orale che attribuiva alla
letteratura talmudica le qualità stesse della Scrittura rivelata. La situazio ne contradittoria al
massimo grado.
2. La posizione dei Qumraniti s'è affermata in Palestina prima della rovina del Tempio. La
sua tendenza, nella pratica religiosa e nella ricerca degli studiosi, alla canonizzazione esclusiva
della « sola Scriptura » al di fuori del Tempio e senza il Tempio, è molto significativa. Sembra
che, nonostante — o a causa — la scomparsa fisica dei suoi adepti, essa abbia in modo l atente,
ma non per questo meno efficace, determinato il compito degli Ebrei farisei che dopo il 70
organizzarono risolutamente e senza nostalgie il giudaismo senza il Tempio in un ininterrotto
movimento verso la Scrittura. Trova forse qui una spiegazion e pertinente la contraddizione
che è stata sottolineata e cioè l'af fermazione della necessità di una Legge orale avvenuta
simultaneamente alla fissazione per iscrit to delle tradizioni e delle leggi orali?
3. Nonostante le cause manifeste della sua na scita — che dipendevano tanto da fattori politici e
sociali che personali — il movimento qaraita si manifesta, nella sua reazione post -talmudica,
come una sintesi significativa, ma anch'essa contradit toria. Il ritorno alla « sola Scriptura »
metteva in evidenza l'aspetto contradittorio del corpus talmu dico ufficiale che era esso stesso
Scrittura anche se non ne aveva il nome, ma facendo ciò convali dava quest'ultimo nell'atto
stesso di rifiutarlo e rigettarlo. In tal modo, a prescindere dalla sua fe condità e fortuna, nel
corso di parecchi secoli, l'at teggiamento dei Qaraiti risultava conservatore. Il fatto che il
movimento qaraita si sia riallacciato con tanta facilità ad una letteratura qumranita più antica di
nove o dieci secoli è rivelatore riguardo a ciò. Nel giudaismo il Talmud era infatti scrittura; e la
religione giudaica non era più « biblica »: or mai era « talmudica ». In quanto tale essa viveva e
dunque, a partire da ciò, era eventualmente rifor mabile.
4. Le notazioni e gli spunti di questa no ta preliminare hanno lo scopo di porre, per via
negativa, il problema delle condizioni e dell'originalità di una religione « biblica ». Le pagine
che seguono esamineranno questo problema dal punto di vista storico, su basi positive.
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Si chiamano targum le traduzioni aramaiche dei testi della Bibbia fatte nel corso dei secoli
dagli ebrei palestinesi, ma anche babilonesi, per il servi zio sinagogale. La parola targum può
designare sia la pratica liturgica della traduzione bibl ica, con le sue costrizioni e le sue usanze,
sia i testi prodotti da tale pratica. Orali e più o meno improvvi sate in un primo tempo,
frammentarie ed occasio nali all'inizio, fissate in seguito per iscritto in blocchi unitari
corrispondenti alle grandi sezioni della Bibbia - Pentateuco, Profeti, Agiografi -, le traduzioni
aramaiche hanno tutte una lunga storia. Questa storia, non priva di somiglianze con quella della
formazione della Bibbia stessa, è in qualche modo la storia della Bibbia (o delle Bibbie)
aramaica (-che).
La parola targum significa «traduzione». Nella Scrittura la radice di questa parola si trova
una sola volta, in Esdra 4, 7. Sembra oggi accertato che abbia un'origine ittita (non semitica) e
che derivi da un vocabolo il cui significato è “ annunciare”, “ spiegare”,” tradurre”. Nel Talmud,
targum designa soprattutto i testi biblici in lingua aramaica: con targum di Esdra si intendono
le parti aramaiche del Libro di Esdra, con targum di Daniele le parti aramaiche dei Libro di
Daniele. Il termine può anche designare una qualsiasi traduzione.
tronde variasse da una località all'altra. I docu menti rabbinici, dì fatto, insistono su certi passi
che non è necessario tradurre, insistenza che sa rebbe inutile se la cosa fosse stata normale e se
sempre fosse stato così...
Non sembra che originariamente fossero richie ste al Meturgeman delle precise qualità. In
ogni caso la Mishnah dice che questo ufficio può essere ricoperto perfino da un minorenne,
anche se escluso dalle altre funzioni liturgiche... Più tardi questa funzione veniva spesso
ricoperta dallo scaccino della sinagoga, fino a che si dovette ricorrere a fu nzionar! specializzati
nominati per questo ruolo, dato che le pericopi diventavano sempre più lun ghe. D'altra parte
furono proprio le libertà nei con fronti del testo biblico prese da alcuni traduttori che
obbligarono i maestri della traduzione a intro durre dei targumin (pi. di targum) scritti »7.
Il targum è nato dai bisogni della sinagoga in un'epoca in cui non si conosceva quasi più l'e -
braico, almeno l'ebraico biblico. Nel I secolo dell'era cristiana in Palestina si parlava
soprattutto aramaico; in alcuni luoghi anche greco.
Bisogna tuttavia distinguere la Galilea, dove quasi all'una nimità si praticavano entrambi i
dialetti aramaici, e la Giudea, dove la popolazione che non era mai stata deportata aveva
continuato a parlare l'ebraico. Ciò nonostante il testo biblico non era acces sibile nemmeno a
questi ultimi, poiché la lingua ebraica aveva avuto una sensibile evoluzione. Quanti italiani
comprenderebbero oggi la Divina Commedia o il Novellino, se si leggessero in un'assemblea
nella loro stesura originaria?
Un testo nuovo
II targum rappresenta qualche cosa di più che una traduzione; esso è, piuttosto e come
dovrebbe essere ogni traduzione, una produzione nuova di un testo. Quindi, l'attività di
interpretazione accompagna l'attività di traduzione . Ogni targum, anche quando ha fama di
essere letterario - come è il caso del Targum di Onqelos -, contiene elementi più o meno ampi di
parafrasi e di spiegazioni, di attualizzazioni e anche di correzioni: in altri termini, l'attività
targumica fa nascere un testo nuovo dall'immersione nella cultura e nella mentalità
contemporanea.
7
K. Hruby, « La place des lectures bibliques et de la prédication dans la liturgie synagogale
ancienne » in La Parole dans la liturgie, ouvrage collectif, Parigi 1970, p. 44-45.
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« I targum... rendono chiari i racconti, conferi scono interesse al testo, riempiono le lacune,
armonizzano le contraddizioni, eliminano i problemi dottrinali, illustrano le affermazioni
astratte, danno una risposta a problemi di curiosità o di pole mica, giustificano il
comportamento di Dio, ad esempio quando presentano Dio che punisce i figli a causa del peccato
dei padri, quando sono ribelli ( Es 20, 5); eliminano soprattut to gli antropomorfismi e le
obiezioni al testo sacro... Il targum ha cura di rendere intelleggibile al popolo il testo e a
questo fine al testo sono aggiunte note, la sintassi è modificata, si ricorre allo stile di retto, alla
seconda persona, si inserisce un soggetto che manca, un complemento, un intero con -testo; si
interpretano le parole oscure, arcaiche, equivoche, di dubbia ortodossia; si introducono glosse
che danno la cifra esatta, la data precisa, il nome a personaggi anonimi; non ci si arresta
nemmeno di fronte a identificazioni anacronistiche come quella di Melchisedek con Sem, di
Labano con Balaam; si spiega il presente con il passato e con l'avvenire, perché nella Bibbia non
c'è "prima o dopo" (Mekhilta Es 15, 2) ...; si amano le allusioni storiche, gli accostamenti dei
brani paralleli, i tratti moralistici».
Per il primo giudaismo, difatti, il significato del testo della Scrittura non veniva reso dalla
semplice traduzione del contenuto emergente da una lettura superficiale del testo (peshat).
Bisognava « cercare » (darash) il significato profondo, immen samente ricco perché, si diceva,
« la Torah aveva settanta facce » (Midrash Esodo Rabba); e si insegnava che nella Parola divina
esiste un significato per ogni circostanza. Ancor prima che si iniziasse a tradurre, nel giudaismo
si interpretava. Ciò aveva fatto nascere il metodo detto del Midrash (« ricerca » su e nel testo
della Scrittura in vista della recezione e del l'enumerazione, attualizzata, del significato o di
uno dei significati). Nella pratica targumica, il giudaismo continuava dunque ad applicare le
regole di interpretazione, i riflessi della lettura e rilettura già da molto tempo compiuta nelle
sue produzioni letterarie monolingui. In modo analogo si può sup porre che un dato targum
fosse per il testo biblico che traduceva ciò che, ad esempio, la fonte Elohista del Pentateuco era
rispetto alla fonte Jahvista che la precedeva (ed anche, estrapolando un po', ciò che il Vangelo di
Luca sarà rispetto al Vangelo di Marco...). In queste prime esperienze di traduzione della Bibbia
già si verificava che la traduzione risultasse un'opera originale di auten tica produzione
letteraria, opera dunque autonoma, ma relativa alle nuove condizioni storiche, sociali,
culturali e religiose. - Se la traduzione è fedele, non da necessariamente origine ad un testo
nuovo?.
Gli storici della letteratura targumica hanno messo in evidenza un fenomeno sorprendente:
progressivamente la componente interpretativa del targum prese - o riprese - il sopravvento, al
17
Fu verso la fine del XVI secolo dell'era cristia na che ci si volse con un reale interesse ai tar-
gum, ma solo molto recentemente si giunse a dis sipare le reticenze nei loro confronti; li si
giudicava troppo tardivi e troppo liberi. B isogna dire che i passi in cui, ad esempio, si
trovavano nominate la moglie e la figlia dì Maometto (in Gen 21, 21), in cui si faceva allusione
a Costantinopoli (in Num 24, 24) e altri ancora, non potevano che solle vare riserve e sospetti
sulla « verità » complessiva di questa letteratura. Nella grande poliglotta di Walton,
pubblicata a Londra nel 1657, fu fatto spa zio ai targum. Molto significativo è il modo in cui
l'editore parla di questi testi: « Non tamen omnia in Targum approbanda, sed triticum a
zizaniis, noxia a salutari discernendum »: « non tutto deve tuttavia essere approvato nel
8
II grande editore moderno dei targum, A. Sperber, ha intitolato il Tomo IV della sua Bibbia in aramaico (The Bible in
Aramaic, pubblicata a partire dal 1959): The Agiographa. Transition from translation io Midrash, « Gli Agiografi, passaggio
dalla traduzione al Midrash ». Questo titolo è già di per sé eloquente.
18
Targum, bisogna discernere il buon grano dalla zizzania, ciò che è sa lutare da ciò che può
nuocere ».
A partire dal 1930 circa, la situazione è molto cambiata, particolarmente grazie ai lavori di
P. Ka-Ihe in Inghilterra. Di recente due scoperte molto importanti hanno coronato questi
sforzi.
1. Nella grotta XI di Qumran, accanto a diversi frammenti di origine targumica, è stato
scoperto un targum di Giobbe. Si tratta del targum più antico attualmente conosciuto: sì
tende a datarlo nell'ultima metà del II secolo a. C 9.
2. Nel 1949 lo studioso spagnolo A. Diez Macho ha scoperto alla Biblioteca Vaticana una
redazione completa del Targum Palestinese del Pentateuco che fu identificato nel 1958. Si
trattava del famoso Targum Neophiti I (N) il cui testo era stato copiato, a Roma nel 1504 da
Egidio di Viterbo, futuro generale degli Eremitani di Sant'Agostino. Era in se guito passato tra le
mani del rabbino convertito Ugo Boncompagni, che nel 1602 lo regalò al col legio dei Neofiti
(donde il nome). Nel 1896 fu ac quistato dalla Biblioteca Vaticana, dove venne di menticato per
mezzo secolo.
Questa scoperta e le ricerche che ha suscitato sulla storia del Neophiti I fanno strabiliare, se
si pensa a quale doveva essere il « liberalismo » delle modalità della pratica biblica a Roma
nell'e-poca in questione. Sembra che il testo biblico rico nosciuto e ufficialmente utilizzato
tanto nella comunità giudaica in un primo tempo, quanto in quella dei giudei convertiti al
cristianesimo, in seguito, fosse il Targum o Bibbia aramaica.
Importantissima fu la scoperta per lo studio dei targum in generale e per la conoscenza del Tar-
gum del Pentateuco in particolare. Per studiarlo non si è atteso che il testo venisse pubblicato; fu
oggetto di tesi, articoli e lavori, particolarmente da parte di studenti e ricercatori cattolici.
Attualmente sono stati pubblicati i primi quattro libri di questo Pentateuco aramaico: Genesi
[1968), Esodo (1970), Levitico (1971) e Numeri (1974)10.
9
Vedere Le Targum de Job de la Grotte XI de Qumran, pubblicato e tradotto da J. P. M. Van der Ploeg e A. S. Van
der Woude, Leyde 1971
10
Queste opere sono state pubblicate in Spagna, Madrid-Barcellona. Oltre a traduzioni interessanti ed al testo aramaico, vi si
trova una traduzione in tre lingue: spagnolo (Diez Macho), inglese (McNamara) e francese (Le Deaut).
19
La letteratura targumica oggi esistente può essere classificata nel modo seguente: si tratta di
ottocentocinquanta versetti o frammenti, che vanno da interi capitoli a qualche elemento di
frase o parola isolata. Vi si riscontrano larghe parafrasi; brani assai tardivi si mescolano ad ele -
menti molto antichi.
- Frammenti della Genizah del Cairo: pubblicati nel 1930, rappresentano tradizioni più
antiche di quelle del targum precedente.
- Il Targum Neophiti I: il nucleo essenziale può esser fatto risalire al II secolo dell'era
cristiana; tuttavia nel suo stato attuale è più tardivo: è stato oggetto di ritocchi rabbinici e
riflette l'influenza del Targum di Onqelos7.
- Frammenti della Genizah del Cairo: pubblicati nel 1930, rappresentano tradizioni
più antiche di quelle del targum precedente.
- Il Targum Neophiti I: il nucleo essenziale può essere fatto risalire al II secolo dell’era
cristiana; tuttavia nel suo stato attuale è più tardivo; è stato oggetto di ritocchi rabbinici e
riflette l’influenza del Targum di Onqelos.
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- Il Targum di Jonathan ben Uzziel: targum ufficiale dei Profeti, raccolta anonima che
viene attribuita a un discepolo di Hillel (I secolo d. C.). Fu redatto a Babilonia tra il III e il V
'secolo cristiano a partire da materiali di origine palestinese.
[ È esistito in Palestina un targum del Pentateuco all'epoca di Gesù o addirittura prima? Gli
specialisti ne discutono. Esistono due ipotesi: o un targum originario che avrebbe in seguito
dato origine ad altre opere, o dei saggi targumici fram-mentari che sarebbero stati raccolti e
unificati. Data l'originalità e la complessità della nascita dei targum, non bisogna cercare una
soluzione troppo rigida e preferiremo perciò la seconda ipotesi..]
In una certa misura proprio nell'antichità del testo ebraico della Bibbia bisogna cercare una
delle sorgenti del metodo del targum. Lo studio di questo metodo servirà da ponte per una
migliore comprensione dell'interpretazione giudaica antica, la stessa che è stata utilizzata nella
composizione del testo originario. Così i targum sono a modo loro una scuola di
interpretazione dell'Antico Testamento.
Le ricerche sul targum sono egualmente preziose per la conoscenza delle tradizioni anti che
del giudaismo (i numerosi materiali di difficile classificazione e datazione della haggadàh e della
halakàh) e quella della loro trasmissione e della loro stessa proliferazione. Nel movimento che
portò alla stesura degli elementi della tradizione e della Legge orale (Talmud, Midrashim),
la letteratura targumica è un momento ed un luogo che non va trascurato; le sue risorse su
questo punto sono molteplici.
Lo studio dei targum permette di riflettere sulla storia delle tradizioni della Bibbia e sull'o-
pera stessa del tradurre. Qual è il rapporto tra « tradurre » e « scrivere »? Studiando il processo
dì evoluzione del targum come traduzione verso il targum come midrash, vi si possono
21
11
A questo proposito si sa come davanti agli « eccessi » targumicizzanti della Bibbia greca dei Settanta e di fronte alla sua
adozione da parte dei cristiani, i rabbini del Il secolo della nostra èra incaricarono Aquila di realizzare una versione letterale
ad uso delle popolazioni ebraiche di lingua greca.
22
Complementi bibliografici.
1- S.N. Eisenstadt, Civiltà Ebraica, Roma, Donzelli 1993.
2- R. A. Rosenbérg, L’Ebraismo, Storia, Pratica, Fede, Milano, Mondadori 1995.
3- H. Ringgren, Israele. I Padri. L’Epoca dei Re. Il Giudaismo, Milano, Jaca Book 1987.
4- G. Stemberger, Il Midrash, Bologna, EDB 1992.
5- Idem, Il Talmud, Bologna, EDB 1989.
6- G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino, Einaudi 1993.
7- C. Sirat, La filosofia ebraica medievale, Brescia, Paideia 1990.
8- B. Migliau- F. Tagliacozzo, Gli Ebrei nella storia e nella società contemporanea,
Firenze, La Nuova Italia 1993.
23
Cap.II. L’Islam.
alcune delle quali ebbero una parte importante nella storia, come i Qais e i
Quraish fra i Nizariti; i Lakhm, i Kindah e i Ghassan fra gli Yemeniti. La
rivalità che opponeva i due gruppi si protrasse ben oltre le prime lotte fra i
Meccani nizuriti e i Medinesi yemeniti, al tempo di Maometto.
L'Arabia del Sud ebbe molto presto;una civiltà avanzata e conobbe dapprima il
regno dei Minei, risalente almeno al IX secolo prima di Cristo; quindi il regno di
Saba, che traeva la sua ricchezza dall'esportazione delle sostanze aromatiche e
dal traffico di materie preziose con l'India (leggenda dell'Arabia Felice); infine il
Regno himyarita che, sorto verso il II secolo prima di Cristo, decadde poi fino
ad essere invaso, al termine del IV secolo della nostra era, dagli Abissini di
Aksum. L'Arabia del Nord entrò nella storia più tardi. I Beduini, grandi
cammellieri o piccoli pastori di pecore, non ebbero mai un'organizzazione:
vivevano con l'aiuto di alcuni nuclei seden tari, i quali versavano loro tributi per
essere difesi e protetti. Solo all'epoca della decadenza himyarita, la Mecca si
trasformò in « repubblica mercantile », grazie all'opera della potente famiglia dei
Quraish; ed ereditò così il traffico fra l'Oceano Indiano e il Me diterraneo,
divenendo base di partenza di carovane regolari. Finalmente, ai margini della
penisola, nelle steppe che portano alla Siria, le tribù arabe che emi gravano verso
il Nord costituirono diversi Stati: il regno dei Nabatei che, trasformatesi da
conduttori di carovane in popolazioni sedentarie, subirono l'influenza aramaica ed
elaborarono una scrittura da cui ebbe poi origine la scrittura araba (capitale Petra,
dal IV secolo a. C. al I secolo d. C.); il regno dei Lakhmidi (capitale al-Hirah, dal
328 al 622); e, più tardi, il regno dei Ghassanidi, cui l'imperatore bizantino ave va
affidato la difesa della frontiera siro-palestinese (VI secolo). Delle discordie insorte
fra sovrani e vassalli, approfittò il sorgente regno dei Kindah: di breve durata, esso
segnò tuttavia una prima tappa sulla via della centralizzazione politica che sarebbe
stata raggiunta nel secolo seguente.
I Lakhmidi e i Ghassanidi si erano convertiti al cristianesimo, nelle versioni
“ereticali” nestoriana e monofisita; ma gli Arabi della penisola avevano conservato
la loro religione, una sorta di politeismo cosmico. Di questo abbiamo una
conoscenza limitata, che ci permette tuttavia di rilevare, fra i culti del Nord e quelli
del Sud, differenze notevoli ma anche tutto un complesso di elementi comuni.
Esistevano dunque divinità locali e tribali, scarsamente individuate, spesso di
25
carattere astrale, che si riteneva avessero sede in certe pietre sacre (betili). Alcune di
tali divinità, come, ad esempio, al-'Uzza (stella del mattino, Venere), sembra fossero
venerate in quasi tutta l'Arabia. Gli abitanti della Mecca onoravano inoltre al -
Manah, dea della felicità, e El Lat, dea del ciclo ; al di sopra di esse, stava Allah (« il
Dio »), riconosciuto nel VII secolo come « Signore del Tempio» (la Ka'bah della
Mecca). Ma nel IV secolo, presso le popolazioni seminomadi della steppa siriana,
Allah veniva ultimo fra le divinità; e forse solo l'influenza di credenze straniere gli
fece conquistare il primo posto. Intorno alle pietre ed agli oggetti sacri (come la «
pietra nera » e il maqam Ibrahim conservati presso la Ka 'bah, che già prima
dell'Isiam era meta di un celebre pellegrinaggio) si celebravano riti; mentre i nomadi
portavano in processione betili protettori. Questi idoli erano circondati da interdizioni
sacre: zone dove non si potevano uccidere ammali né abbattere alberi, e riti di
purificazione obbligatori prima dei sacrifici. Infine, in tutte le principali circostanze
della vita, si consultavano gli indovini che, ispirati, secondo la credenza, dai « ginn
», davano i loro responsi in formule di prosa rimata e ritmata di valore magico (saih).
La vita morale era invece praticamente sconosciuta. Costretti a una vita dura, cui
solo i più forti potevano resistere, gli antichi Arabi consideravano virtù supreme la
forza e l'astuzia, a cui si accompagnava talvolta una generosità teatrale. Questo
periodo, in cui gli uomini si abbandonavano senza ritegno ai loro istinti, venne poi
chiamato dai musulmani Giahiliyyah (« ignoranza », o meglio « stato selvaggio »).
Unico obbligo era la vendetta che del resto, ai tempi di Maometto, non si praticava
più con rigore.
Tuttavia, già prima del VII secolo, influenze esterne si erano infiltrate nella
penisola araba. Nuclei ebrei e cristiani si erano infatti stabiliti, gli uni a Khaibar e
Yathrib, gli altri più a sud, a Najran. Nella regione della Mecca, solo gli ebrei erano
raccolti in comunità organizzate, mentre i cristiani rimanevano dispersi e senza
gerarchie, poco numerosi nella città stessa dove annoveravano solo gente da poco,
schiavi abissini e artigiani. Di quando in quando, però, transitavano mercanti
cristiani di al-Hirah, che probabilmente conoscevano meglio la propria religione.
Questi ebrei e cristiani che, sia pur come stranieri, vivevano mescolati alla composita
popolazione della Mecca, prepararono forse gli spiriti al messaggio monoteista di
Maometto? Parrebbe indicarlo il fatto che il Corano parla di hanif, cioè di
26
Agli inizi, Maometto non si sentiva troppo sicuro della sua missione; ma
Khadigiah lo sostenne ed egli cominciò allora a comunicare agli abitanti della Mec -
ca le rivelazioni che via via riceveva. Quando lo Spirito cominciava a parlare, il
Profeta cadeva in trance, si avvolgeva nel mantello e sembrava in preda a un attacco
nervoso: fenomeni fisiologici e psicologici che si riscontrano talvolta in chi è
soggetto ad ispirazioni il cui valore e la cui autenticità, riposando nell'atto di fede,
non possono venir negati né sostenuti con argomenti razionali.
Maometto ebbe dapprima difficoltà a trovare seguaci. Dopo la moglie, pare che il
primo a seguirlo sia stato il cugino 'Ali, figlio di Abu-Talib; poi fu la volta del figlio
adottivo, Zaid. Ma i due convertiti più importanti furono l'amico intimo e devoto
Abu-Baker, e 'Ornar, uomo integro ed energico, i quali in seguito dirigeranno la
comunità musulmana. Fuori della cerchia dei parenti e degli amici, Maometto trovò
maggior udienza fra il popolo minuto che non presso le grandi famiglie della Mecca.
Ciò era prevedibile, per il carattere stesso della sua predicazione. Maometto si
presentava, infatti, come l'annunciatore dell'imminente Giudizio Finale in cui il Dio
Unico avrebbe giudicato gli uomini a seconda delle loro azioni; cercando di scuotere
dall'indifferenza i suoi contemporanei, di ispirare loro il terrore di Allah, egli
proclama la che il fine della vita non era di arricchirsi ma di sottomettersi ai voleri
di Allah (islàm) e di obbedire ai suoi comandamenti: compiere i riti della Preghiera
e far l'elemosina. L'annuncio del Giudizio rappresentava una novità per gli Arabi
pagani. Tuttavia nella predicazione di Maometto si possono trovare elementi che
richiamano le credenze dei cristiani orientali, parimenti dominate dal timore di Dio.
Così, nella descrizione del Giudizio, sono state rilevate alcune somiglianze esteriori
fra il Corano e le omelie di S. Efrem (predicatore della Chiesa siriana), al punto che
Tor Andrae concluse aver Maometto ripreso da un sermone cristiano alcuni temi
della sua predicazione. Si tratta però di una ipotesi non confortata da alcuna solida
prova e che non basta a spiegare l'anelito e l'ardore delle prime sure (capitoli) del
Corano. D'altra parte, la concezione di Maometto sulla vita futura appare ben
diversa da quella cristiana: non vi è infatti una nozione precisa dell'immortalità
dell'anima, la quale è considerata solo come il soffio della vita; dopo la morte,! l'uo-
mo cade in uno stato di incoscienza fino al giorno del Giudizio e della resurrezione,
che perciò a lui sembrano seguire immediatamente la morte.
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Le sure, che si ritiene siano state rivelate alla Mecca nei primi anni della
predicazione di Maometto, si distinguono per la loro brevità, lo stile immaginoso
ora poetico ora oratorio, la frequenza dei giuramenti e delle esortazioni. La forma
richiama il modo di esprimersi degli indovini pagani, cui però Maometto negava
energicamente di appartenere; peraltro i versetti del Corano sfuggono spesso alle
esigenze della rima, ogni volta che il senso lo imponga. Alle sure più infiammate e
tumultuose, che esortano gli uomini a rivolgere il pensiero al Giudizio, succedono
capitoli d'un andamento più disteso e infine racconti in tono oratorio: storie degli
antichi profeti, le quali mostrano i tremendi castighi inflitti da Dio agli uomini che
non vollero ascoltare i suoi inviati.
Questa evoluzione sembra corrispondere allo sviluppo dei rapporti fra Maometto e
gli abitanti della Mecca. Agli inizi, il Profeta sarebbe rimasto in buoni rapporti con i
Quraish; astenendosi infatti dell'attaccare gli dèi pagani, egli si limitava ad
esortazioni morali ed evocazioni escatologiche che venivano accolte con altera
indifferenza. Ma in seguito, con la sempre più decisa affermazione del principio
monoteistico e la guerra dichiarata agli idoli, Maometto giunge a scuotere non
solo la religione dei padri ma tutto l'ordine sociale. Le grandi famiglie, già urtate
dal fatto che un uomo così volgare si fosse presentato come porta tore di un
messaggio divino, cominciarono a temere la sua influen za. Maometto diviene il
bersaglio di continui attacchi, mentre i suoi seguaci, perseguitati, sono costretti in
molti casi a emigrare in Abissinia. È al lora che Maometto scaglia i suoi anatemi
contro gli increduli ed evoca gli esempi degli antichi profeti .
Ben presto però, rendendosi conto dell'inefficacia della sua azione nella città
paterna, egli prende contatto con le tribù arabe delle vicinanze e quindi con
abitanti di Yathrib. Questi accettano la sua proposta di alleanza e si impegnano a
seguirlo, rinunciando all'idolatria (patto di al-'Aqabah). Assicuratosi così 11 loro
appoggio, Maometto fa partire i propri segua ci, e infine, di nascosto, lascia a sua
volta la Mecca il 12 rabl'I (24 settembre) del 622: è l'Ègira, cioè l' espatrio.
Al periodo del soggiorno a Medina corrisponde una seconda serie di sure di stile
meno tormentato. Opera di un legislatore religioso e sociale, esse contengono
principalmente prescrizioni e norme per organizzare il nuovo ordine instaurato
dall'Isiam. Tali regole, spesso molto precise, rispondono direttamente alle esigenze
dell'epoca, senza prevedere la futura estensione della comunità; accanto ad esse,
numerose sentenze permettono di definire l'ideale morale e religioso proprio
dell'Isiàm. Molti versetti infine rispecchiano le circostanze storiche: lotte che i Cre-
denti dovettero sostenere contro i loro nemici, idolatri, ebrei, cristiani (la cui dottrina
è oggetto di violenti attacchi), e « ipocriti », che vengono colpiti con le più tremende
maledizioni.
Ma pur apparendo spesso legate ai diversi periodi della vita e della predicazione di
Maometto, le sure costituiscono nel loro insieme un'unica « rivelazione », base
essenziale dell'Islam, che, come scrisse il Massignon, è « accettazione del Corano
prima ancora che imitazione del Profeta ».
Per i musulmani, infatti, Maometto è un uomo che condusse una vita normale,
preoccupandosi di organizzare la comunità nell'interesse di tutti e di avvertire nel
contempo gli uomini dell'imminenza del Giudizio. Ed anche se in seguito si avrà una
tendenza a trasformarlo in santo, l'ortodossia dell'Islam negherà sempre che egli
abbia compiuto miracoli all'infuori della rivelazione del Libro Sacro.
Scritto nella lingua del Higiaz (con alcuni termini presi da dialetti vicini), il Corano
costituisce per gli Arabi un messaggio chiaro, anche se improntato di una
inimitabilità letteraria. Da questo punto di vista, può essere accostato a certi libri del
Vecchio Testamento (i Libri della Sapienza, ad esempio), in quanto « si ritrovano in
esso i bruschi trapassi dal senso proprio al senso metaforico, propri delle lingue
semitiche, che ignorano le lente progressioni delle lingue ariane » (G. M. 'Abd al-
Gialil). Libro arabo, libro semitico, il Corano è anche un libro « ispirato », retto da
un'intenzione dominante, che libera il suo stile dai canoni ristretti del linguaggio
poetico. Esso appare così come il primo libro in prosa degli Arabi, quello che solleva
il loro idioma alla dignità di lingua civile, mentre la sua recitazione scandisce e ispira
tutta la vita dei musulmani.
a) La fede. - II Corano si presenta come un codice rivelato religioso e sociale; di
qui il carattere essenzialmente giuridico dell'Islam, definito innanzi tutto da una
Legge (sharì'ah) che si applica solo alla comunità dei Credenti. Si spiega così la
32
forma assunta dalla professione di fede: non una semplice affermazione, ma una
testimonianza che inserisce nella comunità, in maniera definitiva, chi la pronuncia. Il
contenuto della professione di fede è condensato io una formula, tratta da un versetto
del Corano (VII, 157) : « Non vi è altro Dio fuori di Allah, e Maometto è il suo
profeta. » Questa fede semplice, destinata ad una costante esteriorizzazione, è di una
tale intensità da stupire spesso gli stranieri; così qualcuno ha affermato che « un
grande spirito di fede affiora in tutte le manifestazioni della vita del musulmano, an-
che se questi ignora gli autentici insegnamenti della sua religione o se le è infedele »
(G. M. "Abd al-Gia-lil). Si tratta innanzi tutto di una « sottomissione » (islàm)
all'onnipotenza divina, che sostanzialmente non si distingue dalla « fede » (iman,
anche se questo secondo termine indica piuttosto la convinzione intima mentre il
primo allude alla professione verbale. Le opere e la pratica dei riti canonici hanno per
i musulmani un valore secondario. Esse infatti completano e accrescono la fede, ma
non incidono sulla sostanza di questa; al punto che il credente che commette un
peccato mortale diviene un reprobo, ma non un dannato escluso dal paradiso. Al
credente si contrappongono l'« ipocrita », le cui buone azioni esteriori dissimulano
un'assenza di convinzione, e il « miscredente » (kàfir), termine che accomuna tutti i
non musulmani ed equivale praticamente ad « as sociatore » (colui che associa ad
Allah altri dei).
« Tutto perisce ad eccezione del Suo volto » (Eternità); «Non vi è nulla che sia
simile a Lui» (Trascendenza assoluta che esclude ogni analogia con le creature) ; «
Egli non deve render ragione a nessuno di quel che fa » (Volontà che non conosce
leggi). Sola realtà, Allah è qualificato nel Corano con una serie di epiteti (il
Vivente, il Potente, il Sapiente, il Misericordioso...), i « nomi più belli » che, in
numero di 99, sono stati estratti dal testo e ordinati in litanie. La credenza in un
Dio unico costituisce per i musulmani la caratteristica che distingue radical mente
la loro religione da tutte le altre, compreso il cristianesimo che, col suo dogma
della Trinità, ritenuto una menomazione dell'unicità divina, si rende anch'esso
colpevole di « associazionismo ».
L'onnipotenza di Allah si manifesta nella sua potenza creatrice. Con un atto di
pura volontà, egli ha creato il mondo dal nulla in sette giorni, facendo apparire
l'uomo al sesto e non riposando al settimo; vi sono sette cicli e sette terre, sette parti
del ciclo e dell'inferno; e tradizioni bizzarre circolano sulla organizzazione del
mondo fisico. Dio ha creato gli angeli che non hanno sesso e sono fatti di luce. In
testa, si trovano i quattro arcangeli: Gibril, messaggero di Allah; Mikhail, che veglia
sulla natura; Israfil, che suona la tromba del Giudizio; e 'Azra'il, l'angelo della morte.
L'uomo ha due angeli custodi, che forse si confondono coi due « scrivani » i quali
annotano le sue buone e cattive azioni. Esistono inoltre i due angeli del sepolcro,
Munkar e Nakli, l'angelo del paradiso Ridwan e quello dell'inferno Malik. Fra gli
angeli, uno, Satana (ash-Shaitan), chiamato anche Iblis (corruzione del greco
diabolos), rifiutò di prosternarsi davanti al primo uomo e venne cacciato dal
paradiso; per vendicarsi, egli fece esiliare Adamo ed Eva, colpevoli di averlo
ascoltato. Ma poiché la colpa di Adamo non ricade sui suoi discendenti, per l'Islam
non esistono né peccato originale, né decadenza della natura umana. Iblis comanda
tutta una legione di demoni (ginn), creati prima di Adamo e fatti di fuoco, che si
mescolano alla vita degli uomini e occupano un posto importante nelle credenze
popolari (di qui l'impiego di talismani per scongiurare i loro malefizi e sottrarsi alle
loro vendette).
La missione dei profeti. — Allah ha affidato a determinati uomini l'incarico di
trasmettere la sua volontà e di chiamare i popoli eletti ad un'obbedienza che spesso,
nel loro accecamento, essi rifiutano. Il dogma musulmano impone dunque di credere
alla missione non del solo Maometto, ma anche dei profeti che l'hanno preceduto,
34
come quelli del Vecchio Testamento (Adamo, Noè, Abramo, Mosè, ecc.) e Ge sù.
Tuttavia Maometto resta il più importante, « il Sigillo dei profeti », che
ristabilisce nella sua integrità la rivelazione divina (riproduzione di un arche -
tipo increato, la « madre del Libro »), già ricevuta in parte da ebrei e cristiani
ma da loro deformata. I profeti, immuni da peccati gravi e p osti al di sopra
degli angeli, hanno il privilegio di far miracoli; ma la rivelazione del Corano è
il solo che Maometto stesso si sia attribuito.
Il Giudizio Finale. — L'intera storia umana si concluderà con la Resurrezione
ed il Giudizio Finale, che i morti attendono nella loro tomba, ad eccezione dei
profeti e dei martiri che vanno direttamente in para diso. La fine dei tempi sarà
contrassegnata da un terribile sconvolgimento, dopo il quale apparirà il Mahdi, il
« Ben guidato » da Allah, mentre l'Anticr isto, falso messia apparso fra l'Iraq e
la Siria, verrà ucciso da Gesù; numerose tradizioni completano gli accenni
forniti in proposito dal Corano. Quanto al giorno del Giudizio, dopo i due
squilli di tromba che segneranno la morte e la resurrezione di tu tti gli uomini,
ognuno comparirà davanti ad Allah con un li bro su cui saranno scritte le sue
azioni buone e cattive; quindi traverserà un ponte più sottile di un ca pello e
precipiterà nell'inferno oppure raggiungerà il paradiso; il Profeta interverrà i n
favore dei musulmani. L'inferno, indicato generalmente con la pa rola « fuoco
», comprende sette ripartizioni : la pri ma, giahannam (geenna), è il purgatorio
dei musulmani colpevoli, le altre sono riservate alle diverse ca tegorie di
infedeli. Il paradiso (giannat, chiamato anche firdaws) è descritto nel Corano
come il luogo sognato dal beduino, arso dalla sete, avido di ombre e di riposo;
meravigliosi giardini traversati in ogni sen so da ruscelli di acqua fresca, di vino
o di miele (celebre il Kawthar), e in cui gli eletti potranno diver tirsi, mangiare
e bere a loro agio in compagnia delle Uri, splendide vergini dagli occhi
scintillanti. Un simile paradiso soddisfa tutti i desideri dei sensi; ma in questo
bisogna scorgere una caratteristica locale dell'epoca piuttosto che una vera
originalità.
accettatelo con fede, » egli avrebbe detto. Più tardi i musulmani, che non si
accontentavano di un'accettazione ingenua, dovettero cercar d i definire, e
coordinare gli elementi contenuti nel testo sacro. Nacquero così l'esegesi e la
teologia coraniche.
Il primo ad essere discusso fu il problema della predestinazione e del libero
arbitrio, che Maometto sembrava lasciar insoluto. Se la creatura umana non può
far nulla contro il decreto divino (qadar, applicazione nel tempo di un decreto
universale ed eterno), nondimeno essa viene giudicata secondo i suoi atti;
onnipotenza divina e responsabilità umana, affermate in formule di diverso
orientamento, appaiono contraddittorie se poste a confronto; e il Corano non
spiega come le due verità possano conciliarsi. In realtà, l'onnipotenza divina
domina a tal punto la rivelazione coranica che la libertà dell'uomo ne risul ta
soffocata; il senso di responsabilità scompare di fronte alla sottomissione ai
voleri di Dio, atteggiamento quest'ultimo predicato, per ragioni politiche,
soprattutto nel periodo ommayyade.
Ma alcuni musulmani, ritenendo, nel loro pietoso zelo la potenza di Allah
incompatibile con la sua giustizia, cercarono di limitarla: e furono i qadariti
(coloro che limitano il qadar), in contrasto coi giabariti (sostenitori della
costrizione divina). Accettarono quella dottrina uomini che, al momento
dell'avvento di Mu'awiyah, si erano tenuti lontani dalla lotta politica (di qui il
nome di mu'taziliti, « coloro che si tengono in disparte »). Agli inizi, si
limitarono ad attribuire al credente peccatore una posizione inter mediaria fra la
fede e la miscredenza; poi, insorgen do contro la predicazione ommayyade,
sostennero la tesi del libero arbitrio. Infine, a partire dall'VIII se colo, i
mu'taziliti si proposero di difendere la fede rivelata con argomenti razionali,
onde controbattere la crescente diffusione delle teorie filosofiche greche. Ess i
rappresentano la prima scuola del kalām, divenuta più tardi « eterodossa »
(Abu-l-Hudhai, an-Nazzam, m. verso l'845; Abū-Haklm, m. nel 933).
Questi mu'taziliti, volendo giustificare la Legge con la ragione, svilupparono
essenzialmente due idee: la giustizia e l'unicità di Dio. Essi infatti portarono alle
estreme conseguenze la tesi qadarita del libero arbitrio, dichiarando che l'uomo è
il creatore dei propri atti; veniva così salvaguardata la giustizia di Allah, qualità
necessaria e inerente alla divinità. Mentre per l'Islam tradizionale il bene è
36
a) II Corano. - II testo del Corano, che rimane il fondamento della Legge, non
venne stabilito mentre Maometto era vivo. A quell'epoca, solo alcuni compagni, detti
i « segretari » (come Ubayy bin Ka'b, 'Ab-dallah bin Abu-Sarh, Zaid bin Thabit e
altri), avevano trascritto frammenti della rivelazione; nessuno pensava a una raccolta
completa, poiché quasi tutti i Credenti sapevano a memoria le diverse sure. Ma verso
l'anno 11 dell'Egira, 'Ornar, su consiglio del califfo Abu-Bakr, incaricò il giovane
Zaid bin Thabit di riunire tutto quanto era stato scritto e ciò che i compagni
ritenevano a memoria. I fogli componenti l'opera furono rimessi da 'Ornar a sua
figlia Hafsa, vedova del Profeta. Fino alla morte di 'Ornar, questo primo testo non
ebbe alcun carattere ufficiale, tanto più che erano apparse altre raccolte, compilate
da quattro compagni: Ubayy bin Ka'b, 'Abdallah bin Mas'ùd, Abfi-Musa e Miqdad
bin 'Amr. Esse però non concordavano e finirono col provocare divisioni fra i musul-
mani: infatti una raccolta era stata adottata a Damasco, un'altra a al-Kufah, una terza
38
oggetto di speciali commenti (tafsir), che hanno come scopo essenziale di precisare
il senso dei termini e la loro funzione grammaticale, facendo ricorso all'antica
poesia araba, alle « tradizioni », al linguaggio parlato dei Beduini e al
ragionamento; essi devono inoltre determinare quale tra due versetti contraddittori
abbia il sopravvento (scienza dell'« abrogante e dell'abrogato », fondata su un
versetto del Corano). In tal modo è assicurata la base dell'interpretazione giuridica e
dogmatica.
ambiente nell'VIII secolo, egli ammette come fonti della Legge: in primo luogo, il
Corano e la sunnah; poi, ove ve ne sia bisogno, il diritto consuetudinario di
Medina; e infine l'interpretazione personale (ray] nella forma del consensus (igma)
dei dottori di Medina (esclusi gli altri) su una questione precisa.
All'incirca nella stessa epoca si formava in Siria), poi nell'Iraq, un'altra scuola il
cui rappresentante più celebre fu Abu Ha nifa (m. nel 767, persiano di origine,
giurista ma non giudice). Dopo il Corano e la sunnah, egli am mette il giudizio
personale nella forma del « principio di analogia » (qiyas), che consiste nel
ravvicinare il caso nuovo ad uno antico ed analogo. Ma questo metodo di
ragionamento del tutto formale deve essere regolato da un principio che, per Ab -
Hanl, è quello d'istihsan, cioè di « scegliere la soluzione migliore ». Infine, la
scuola « hanafita » riconosce il valore del consensus, senza limitarlo ai dottori di
Medina.
Il principio dell'istihsan venne molto discusso, per ché poteva dar luogo a giudizi
arbitrari; così la preoccupazione delle scuole fu di eliminare l'elemento soggettivo
che fatalmente entra in ogni interpretazione personale. I discepoli di Malik,
cercando di migliorare il metodo del maestro, assoggettarono il giudizio
individuale a un principio più preciso di quello del l'istihsan: l'« istihlah », « ricerca
del bene della comunità ».
Il terzo caposcuola, ash-Shafi'i (m. nell'820), limitò considerevolmente
l'importanza del ragionamento. Dopo il Corano e la sunnah, egli pose il consensus,
di cui tentò una definizione esatta: l'accordo unanime dei dottori di un determinato
periodo su una determinata questione. Il consensus, fondato su un hadith (« La
mia comunità non si troverà mai d'accordo su un errore »), ebbe una parte
importante nell'evoluzione del diritto e del dogma islamici, permettendo di
trasformare in sunnah un uso universalmente seguito, ma fino allora considerato
come « innovazione ». Così fu il consensus a consacrare il testo del Corano, le
sei raccolte canoniche di « tradizioni », le feste anniversarie in onore del Profeta
e il culto dei santi. Il « principio di analogia » venne invece relegato da ash-
Shafi'i al quarto posto, « per i casi non contemplati né dal Corano, né dalla
sunnah, né dal consensus », e anche allora con precise limitazioni.
Un antico discepolo di ash-Shàf'i, Ahmad bin Hanbal (m. nell'855), diede il
suo nome a un quarto sistema, di carattere essenzialmente negativo. Infatti egli
42
si oppose per principio ad ogni innovazione, riconobbe come uniche fonti della
Legge il Corano e la sunnah, e ammise il giudizio personale solo in casi di
assoluta necessità. Ancor più rigorista, la scuola zahirita, fondata da Daud nel
IX secolo, che condannava ogni ricorso al giudizio personale o al consensus e
rifiutava ogni interpretazione del Corano che non fosse il « senso letterale »
(zhahir). Ma neppure gli sforzi dell'andaluso Ibn Hazm (m. nel 1064) riuscirono
a salvare il rito zahirita che finì con lo scomparire. Ugualmente altri sistemi
giuridici ebbero vita effimera.
Oggi, le sole scuole ortodosse sono la malikita, la hanfita, la sciafeita e la
hanbalita. E poiché esse differiscono, agli occhi dei musulmani, solo nelle appli-
cazioni pratiche (gli hanafiti, ad esempio, ammettono la recitazione della Fatihah
in persiano), sono considerate tutte ugualmente valide e le grandi università
religiose comprendono rappresentanti di ciascuna tendenza. Le quattro scuole si
sono divise il mondo sunnita con diversa fortuna: l'hanafismo, meno rigido,
adottato dai Turchi e dagli Ottomani, domina attualmente in Turchia, nelle Indie
e in Cina; lo sciafeismo, che fu la scuola ufficiale del califfato abbaside, ma che
in seguito declinò, si trova ancora nel basso Egitto, nel Higiàz, nell'Africa
orientale e meridionale, in Palestina e nell'Insulindia ; il malikismo è diffuso
nell'Africa del Nord (una volta, anche in Spagna), nell'alto Egitto, nell'Africa
occidentale e nel Sudan; il hanbalismo (riconosciuto solamente nel XII secolo),
già diffuso nella Siria e nell'Iraq, si ridusse, dopo l'arrivo dei Turchi, all'Arabia
(Negd).
La forma definitiva di un sistema giuridico è chiamata igtihad. Ogni fondatore
di scuola riconosciuta è mugtahid mutlaq (« che ha la capacità assoluta di
ricorrere alla igtihad »), mentre i suoi immediati suc cessori, cui toccò di
applicare il suo metodo e svilupparne le conseguenze, sono chiamati
semplicemente mugtahid; dopo di loro, nessuno può più ricorrere all'igtihad che
è chiuso per sempre (benché alcuni dottori, ai loro tempi, abbiano preteso di
riaprirlo: Ibn Taymyya, as-Suyuti). Tuttavia, quando si tratta di risolvere un
caso imbarazzante, si ricorre a un giurista chiamato muftì, il quale può dare un
parere giuridico basato su precedenti. Normalmente, per applicare il diritto si
usano brevi manuali pratici, che riassumono le disposizioni di ogn i scuola:
quello di Khalil (m. nel 1365) per il malikismo; quello di an-Nawawì (m. nel
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In quanto rinnovazione del patto preeterno (cf. C., VII, 171) concesso da Allah
ai posteri di Adamo, la Legge islamica (shari’a) è l'espressione del contratto che il
Signore elargisce al credente, il quale da semplice schiavo viene assunto così a
uno « stato giuridico » privilegiato. La Legge ha come scopo di garantirgli le
migliori condizioni di esistenza nella vita presente e la ricompensa eterna nella
vita futura. Di qui le tre grandi suddivisioni del « diritto canonico » : presc rizioni
religiose, diritto penale e norme giuridiche. Ma l'applicazione della Legge
incontrò diversi ostacoli, costumi locali, credenze popolari o circostanze sto-
riche, che costrinsero quasi sempre l'Islam a scendere a compromessi,
giustificati con diversi artifici. Il distacco fra la teoria e la pratica, sensibile
soprattutto nella vita familiare e sociale, appare già nella vita religiosa.
Questa, per il musulmano, consiste essenzialmente nel compimento dei cinque
obblighi rituali stabiliti dalla Legge e che vengono chiamati i << pilastri della
.religione» (arkan ad-din). Essa non implica alcuna idea di « paternità » divina,
poiché Dio è sempre il Signore di fronte al quale la personalità del fedele esiste
solo per una convenzione giuridica ; tuttavia il ' problema della devozione
personale e della vita intcriore fu sentito anche nell'Islàm.
Essa viene compiuta cinque volte al giorno (nel Corano, tre volte sola mente;
l'obbligo delle cinque preghiere è basato sulla sminali): fra l'alba e il sorgere del
sole (fagr), subito dopo mezzogiorno (zuhr), verso le sedici (asr), subito dopo il
tramonto (maghrib) e ad un'ora qualsiasi della notte (isha). Ogni volta il muezzin,
dall'alto del minareto che domina la moschea, lancia l'appello composto dalle
seguenti invocazioni: «Allah è grande (quattro volte). Io attesto che non esiste altro
Dio fuori di Allah (due volte). Io attesto che Maometto è l'inviato di Allah (due
volte). Venite alla Preghiera (due volte). Venite alla salvezza (due volte). Allah è
grande (due volte). Non v'è altro Dio fuori di Allah. »
II fedele può compiere la Preghiera solo dopo essersi posto in stato di « purezza
legale » con una abluzione completa o ridotta, secondo i casi (talvolta sostituita dalla
« lustrazione polverale »); in casa o all'aperto, deve orientarsi verso la Mecca e
delimitare sul terreno uno spazio che lo separi dal mondo esterno; per questo, adopera
il « tappeto della Preghiera ». La Preghiera (salat), infatti, può essere compiuta
ovunque, salvo quella del mezzogiorno del venerdì per la quale i musulmani devono
riunirsi nella moschea (masgid) e comprende inoltre un “sermone” (khutba), in
origine pronunciato dal califfo, e in seguito da predicatori di professione. Nella
moschea i fedeli, in file serrate, seguono i gesti dell'imam che dirige la Preghiera;
costui sta davanti alla nicchia (mihrab) che, nel muro di fondo, indica la direzione
della Mecca (qiblah) verso la quale bisogna rivolgersi.
La Preghiera comporta un numero variabile di rakaa, comprendente ciascuna :
formulazione dell'« intenzione»; parole di consacrazione (Allah akbàr); recitazione
della fatihah; inclinazione del corpo; raddrizzamento; due prosternazioni complete;
recitazione della « professione di fede », poi sconsacrazione. I particolari di questi
gesti formano oggetto di discussione fra le scuole giuridiche. Esistono inoltre
preghiere facoltative o supererogatorie (preghiera di notte) e preghiere speciali («
invocazione della pioggia », « preghiera per i morti » compiuta sia nelle case dei
defunti, sia nella moschea, sia al cimitero).
// digiuno del ramadan. - Sembra che sia stato istituito a Medina, nel secondo
anno dell'Egira, in luogo del primitivo digiuno d'ashura (decimo giorno), imitato
dagli ebrei. Il Profeta avrebbe così ristabilito nella sua purezza un us o snaturato
da ebrei e cristiani. Circa il mese del ramadan, esso fu scelto indubbiamente
perché in quel periodo dell'anno Maometto ebbe le prime rivelazioni.
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Il digiuno (sawm) è obbligatorio durante tutto il mese del ramadan, nono mese
del calendario lunare musulmano (salvo per i malati e i viaggiatori, dispensati a
determinate condizioni). Esso comincia all'apparizione della luna nuova,
annunciata ufficialmente per ordine del cadì, e deve essere rigorosamente
osservato dall'alba al tramonto. Prima dell'alba, si formula l'intenzione, senza la
quale l'atto del digiuno non avrebbe valore; durante la giornata, in terdizione
assoluta di ingerire qualsiasi sostanza materiale, solida o liquida, di fumare e di
avere rapporti sessuali; dopo il tramonto, si consuma un pasto e all'alba, prima
della ripresa del digiuno, un altro pasto. Il digiuno è ugualmente obbligatorio
come compensazione (quando non si è digiunato per tutto il mese), come
espiazione maggiore o minore (quando il digiuno è stato rotto con att i sessuali o
per una dispensa legale) e in alcune altre circostanze eccezionali. Alla fine del
ramadan, si celebra una delle maggiori feste dell'anno, la « festa della rottura » o
« piccola festa » (‘id saghir), che comprende una preghiera e una elemosina ai
poveri.
L'elemosina legale. • Indicata col termine zakat (purificazione), essa è destinata
a purificare i beni di questo mondo, di cui si può godere solo a condizione di
restituirne una parte ad Allah. Così la zakat si di stingue dall'elemosina volontaria
(sadaqa): distinzione post-coranica. L'obbligo incombe ad ogni possidente, sano
di corpo e di spirito (C., LVIII, 14) che goda di un minimo di rendita. In origine
il versamento era compiuto in natura, perché il commerciante, l'agricoltore o
l'allevatore dovevano consegnare il decimo e talvolta il ventesimo dei loro
guadagni o raccolti. Il ricavato andava distribuito fra i poveri, gli agenti delle
imposte, coloro « di cui si voleva conciliarsi il cuore » (categoria da lungo
tempo scomparsa), gli schiavi desiderosi di affrancarsi, gli indebitati per una
causa pia, i volontari per la guerra santa e i viaggiatori. L'« elemosina legale » è
dunque, all'origine, una decima prelevata ai ricchi per essere ripartita tra i poveri;
in seguito essa finì col perdere il suo carattere caritatevole e divenire una
semplice imposta.
Il pellegrinaggio (hagg). - II musulmano è tenuto a soddisfare quest'obbligo di
carattere particolare una volta nella sua vita, ma solo se è « in grado di farlo »
(C., IlI, 91). Le difficoltà materiali del viaggio costituiscono altrettanti motivi di
dispensa: ne beneficiano coloro che non possono viaggiare soli (alienati, schiavi,
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Le correnti dell’Islam.
Così al senso della storia che sta alla base dello sciismo, gli Ismailiti aggiunsero il
concetto dell'emanazione divina, per cui il mondo è opera di un'intelligenza e di
un'anima universali, create da Dio. E per il parallelismo instaurato fra macrocosmo
e microcosmo, questi principi fondamentali si manifestano anche sul piano umano :
sette « parlatori » (Adamo, Noè, Mosè, Gesù, Maometto e il mahdi), e sette «
silenziosi », interpreti dei parlatori. La rivelazione diviene progressiva e Maometto
(che ha per interprete 'Ali) non è più il « Sigillo dei Profeti », poiché la sua opera
verrà superata da quella del mahdi.
Lo spirito divino si manifesta tramite i « parlatori », nella forma di veli corporei,
che bisogna strappare per raggiungere la verità nascosta. Il testo coranico e la Legge
fanno parte di quésti veli; così, per gli Ismailiti, la Legge è solo un « mezzo
pedagogico di valore relativo o transitorio ». Del Corano, conta solo il senso intimo,
svelato da un'interpretazione allegorica spinta all'estremo. In tal modo, trasformando
e superando il dogma musulmano, l'ismailismo giunse a riconoscere la verità relativa
di tutte le religioni, suscettibili come l'Islam di una interpretazione simbolica (cf.
sincretismo dei Fratelli della Purezza).
I membri della setta sono sottoposti a un'iniziazione progressiva, al termine della
quale il discepolo è . adottato dal suo maestro. Questa filiazione spirituale ha una
grande importanza: grazie ad essa, infatti, è stato possibile, nel corso della storia,
delegare l'imamato a rappresentanti temporanei (legame fra l'imam « permanente »,
costretto a rimanere nascosto, e l'imam « delegato », che si occupa dell'azione).
Inutile quindi indagare, come spesso si è fatto, sulla legittimità o meno di questo
o quel pretendente 'alide.
L'ismailismo assunse diverse forme: movimento siromesopotamico, detto a
torto « qarmata », che sconvolse la Siria (901-6), movimento che, passando dallo
Yemen al Maghreb, si concluse con l'instaurazione del califfato fatimide; infine,
movimento qarmata del Bahrain, di origine incerta, che dapprima sostenne i
Fatimidi e poi li combattè con le armi. Mentre il mo vimento qarmata, interprete
di rivendicazioni sociali, approda a un regime comunitario ancora mal cono -
sciuto, il califfato fatimide mostra i risultati dell'azione politica degli Ismailiti.
I Fatimidi stessi diedero origine a diverse sètte: Drusi, che, dopo la sua morte,
divinizzarono il califfo al-Hakim (attuali rappresentanti, in Siria); Musta liani,
seguaci di un figlio di al-Mustansir, morto nel 1094, (in India e nell'Africa
54
IL SUFISMO.
Non c'è vita religiosa senza uno stato di tensione fra tendenze opposte. E
l'Isiam mantenne la sua vitalità proprio in quanto si mescolavano alla sua essen-
za giuridica l'approfondimento interiore del sentimento religioso, spinto talvolta
fino all'estasi mistica, e l'esercizio della riflessione filosofica. Così sufismo e
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trasformate, idee di origine ellenistica. È innanzi tutto la « scienza dei cuori » che,
attraverso la mortificazione del desiderio, permette all'anima di spogliarsi di ogni
attaccamento sensibile e di trasformarsi in « spirito » (equivalente filosofico del «
cuore » coranico). Lo spirito ardente d'amore è dedito esclusivamente a concepire
l'unicità divina, pronto a « restare in solitudine davanti all'Unico ». Al culmine
dell'estasi, la personalità del mistico scompare, trasfigurata da Dio nel quale «
sussiste » : « Io sono divenuto Colui che amo e Colui che amo è divenuto me.
Siamo due spiriti infusi in un solo corpo » (al-Hallag).
Lo stato mistico, una volta raggiunto, procura la « conoscenza », intuitiva, diversa e
superiore al sapere comune. Questo possesso intimo della realtà, pone il sufi al di
sopra del Profeta, semplice strumento della rivelazione. Dotato dell'« ispirazione
privata », egli si trova in stato di « santità », nozione che si svilupperà
progressivamente nell'Islam: dapprima riservata agli eletti e ai martiri della « guerra
santa », essa si estende a tutti coloro che conducono questa << guerra » in-
teriormente, contro le passioni. A partire dall'VIII secolo, al « Sigillo dei Profeti »,
Muhammad, si opporrà il « Sigillo dei Santi » incarnato da Gesù, la cui figura appare
più volte nel Corano e che diviene così il modello del sufi. Cercando e trovando Dio
in se stesso, il sufi lascia in secondo piano i riti canonici, accordando loro solo un
valore relativo e temporaneo e ponendo l'intenzione al di sopra dell'atto. La Legge,
senza essere distrutta, viene superata.
La mistica finiva così con l'urtare l'insegnamento tradizionale; e i suoi adepti
furono ben presto attaccati come colpevoli di zandaqa (in origine, manicheismo, poi
eresia, empietà). Le accuse loro mosse riguardavano sia la concezione dell'« amore
reciproco » (Nuri, accusato a Baghdad nel IX secolo), sia la pretesa all'ispirazione
privata (Ibn Kharram, espulso dal Sigistan), sia in modo più generale la dottrina del-
l'unione con Dio (al-Hallag). Lo stato mistico infatti appariva ai teologi come un'«
incarnazione », vigorosamente condannata in ogni tempo dall'Isilm. Inoltre le
prediche di al-Hallag in piena capitale tendevano a minare le fondamenta della
Legge e di conseguenza tutto 1'ordinamento religioso e sociale.
Il movimento sufi era scevro da influenze straniere? Prettamente islamico nella sua
struttura primitiva, esso incorporò, nel corso della sua evoluzione, metodi spirituali
ispirati al monachesimo cristiano se non addirittura, in epoca più tardiva, concezioni
di origine indiana o persiana. I primi asceti ebbero certamente contatti coi monaci
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'Arabi (m. nel 1240 a Damasco), dottrina « immanentista » che porta all'estremo
l'esoterismo e l'indifferenza per le confessioni religiose. In questo sistema, le anime e
l'intera creazione non sono più che emanazioni divine prodotte da un'evoluzione
cosmogonica in cinque tempi, che l'anima deve percorrere in senso inverso per
ritornare a Dio. Non vi è più creazione dal nulla e si può affermare allora che « l'e-
sistenza delle cose create è solo l'esistenza del Creatore » (secondo la definizione con
la quale Ibn Taymyyah condanna questo atteggiamento). Al momento dell'unione
mistica, non sussiste più alcuna distinzione fra l'anima e Dio: è nell'uomo, immagine
di Dio, che l'assoluto prende coscienza di se stesso. Tuttavia Ibn al-'Arabi non osa
affermare la preminenza assoluta del santo sul profeta; egli considera Maometto come
il prototipo dell'uomo perfetto e distingue il « Sigillo della santità assoluta » (Gesù)
dal « Sigillo della santità muhammadiana » .
Ibn al-'Arabi è infine conosciuto come il grande maestro dell'esegesi sufi. Fin
dall'inizio, infatti, i mistici si servirono dell'iriterpretazione allegorica del Corano,
prolungamento naturale di ogni meditazione che miri a superare la lettera per cogliere
il significato profondo del testo sacro ; così il « ritorno a Dio » era divenuto il
simbolo dell'unione mistica. Ibn al-'Arabi sviluppò e trasformò in sistema questo
procedimento che, contrariamente al metodo sciita, non esclude mai il senso
letterale: le prescrizioni giuri-diche, ad esempio, continuano ad essere valide anche
quando i versetti che le formulano vengono intesi in senso allegorico. L'esegesi e la
dottrina di Ibn al-'Arabi appaiono inoltre nutrite di idee neoplatoniche.
A partire dall'XI secolo, la poesia mistica diviene un genere letterario, in cui sono
trasposti il vocabolario e i temi della poesia profana, erotica e bacchica. Vi si
distinsero l'arabo Ibn al-Farid (m. 'nel 1235), il « sultano degli innamorati », e
soprattutto i persiani 'Attar (m. nel 1220?), Gelai ad-DIn Rumi (m. nel 1273 a
Qonya), fondatore della confraternita dei maulawi (dervisci danzanti) e autore del
famoso Mathnawi, Hafiz (m. nel 1389), e in seguito i turchi Nesimi e Niyazl.
Questa poesia, poco originale e in cui vivo rimane il ricordo di al-Hallàg, si
allontana in genere dalla sua vera tradizione, cedendo a idee panteistiche.
. I mistici persiani ebbero nel XIV secolo una sicura influenza sull'India, dove molti
di essi si rifugiarono all'epoca dell'invasione mongola. Fra asceti musulmani e
adepti dell'induismo krisnaista a tendenza teista, si stabilirono contatti e scambi, che
restano gli unici rapporti provati fra la spiritualità musulmana e quella indù.
59
Significativo a questo proposito il caso dell'apostolo Kabir (nato nel 1398?), conteso
fra indù e musulmani.
Malgrado l'opposizione netta che separa la prima forma del sufismo dalla sua
ultima tappa immanentista, la mistica musulmana fu sempre caratterizzata da una
tendenza all'adogmatismo che le impedì di rientrare nel quadro dell'Islam ufficiale. A
questo adogmatismo volle porre rimedio al-Ghazzali teologo, filosofo e sufita, che,
non potendo evidentemente creare una « mistica ortodossa », riuscì tuttavia a dar
forma a un'« ortodossia mistica » (Nicholson). Insorgendo ad un tempo contro una
concezione giuridica e una visione filosofica della religione, al-Ghazzalì ricorse
all'esperienza mistica per rendere tutta la sua pienezza alla nozione dell'unicità
divina. La credenza tradizionale richiede di essere completata con una conoscenza
più intima (o « gusto ») di Dio, che si ottiene mediante una moderata ascesi: l'anima
allora è pronta a ricevere l'illuminazione divina. L'atteggiamento mistico viene così
giustificato senza menomare la trascendenza divina; e il profetismo rimane la
sorgente della santità.
Ma il sufismo di al-Ghazzali, essenzialmente pratico, da maggior peso alla ricerca
della perfezione morale. Così l'apporto del sufismo all'Isilm (che lo rispetta e lo
ammette nella sua forma moderata) consistè soprattutto nel vivificare la morale. Esso
infatti insiste sulla virtù della fiducia in Dio ; incita ad anteporre al compimento dei
riti ed anche all'« intenzione », spesso puramente formale, le disposizioni del cuore,
senza le quali nessun atto religioso ha valore; esso predica lo sforzo personale, base
indispensabile delle virtù sociali del musulmano, e la pratica della beneficenza spinta
fino al disinteresse eroico. Inoltre il sufismo ha notevolmente contribuito a
diffondere il culto dei santi, tutti i grandi mistici essendo considerati tali a causa delle
loro grazie estatiche e dei loro doni taumaturgici. Il primo, al-Hallag, fu imme-
diatamente venerato come uno dei maggiori, nonostante la scomunica con cui i
teologi lo avevano colpito. Così il sufismo, malgrado la diversità delle scuole e gli
eccessi e le deviazioni cui diede luogo, riuscì ad offrire ai fedeli musulmani un
alimento che l'Islam ufficiale non poteva concedere; in questo senso, esso divenne
veramente « una religione popolare » (Nicholson).
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Orientamenti bibliografici:
PANORAMA GENERALE:
CAETANI L., Gli annali dell'Isilm, 10 voll, più altri in via di pubblicazione, ristampato Georg
Oms Verlag, Hildeshaeim-New York, 1972.
GABRIELI F., Gli Arabi, Sansoni, Firenze 1975.
GABRIELI F., Maometto, De Agostini, Novara 1989.
NOJA S., Maometto Profeta dell'Isiam, Esperienze, Fossano 1974.
NOJA S., Storia dei Popoli dell'Isiam, 4 voll. Mondadori, Milano 1993.
WATT W.-M., WELCH A.-T., Islam, Maometto, il Corano, Jaca Book, Milano 1981.
LA “LEGGE” DELL'ISLAM.
MISTICA ISLAMICA.
SCATTOLINI G., Esperienze mistiche in Islam, I primi tre secoli, EMI, Bologna 1994.
SCHIMMAL A.-M., Aspetti spirituali dell'Islam, Fondazione G. Cini, Venezia 1961.
VACCA V., Vite e detti di Santi Musulmani, UTET, Torino 1968.
AA.VV., Bibbia e Corano, Cristiani e Musulmani di fronte alle Scritture, Cittadella, Assisi
1992.
RIZZARDI G., // Problema della Cristologia Coranica. Istituto Propaganda Libraria, Milano
1982.
Quest'ultimo riporta anche una discreta bibliografia sull'argomento.
LE RELAZIONI ISLAMO-CRISTIANE.
BORRMANS M., Islam e Cristianesimo. Le vie del dialogo. San Paolo Edizioni, Milano 1993.
BORRMANS M., Orientamenti per un Dialogo tra Cristiani e Musulmani, Urbaniana University
Press, Roma 1991.
WATT W.-M., Cristiani e Musulmani, II Mulino, Bologna 1994.
I testi di Borrmans riportano anche una buona bi bliografia sul dialogo islamo-cristiano.
62
Traduzioni consigliabili sono: Bonelli L, Hoepli, Milano 1976, letterale, difficile da leggere, ma
molto fedele al testo arabo. È importante notare che la numerazione dei versetti usata da Bonelli è
quella dell'edizione araba del Flügel (1834), usata in passato da molti orientalisti e am messa anche dai
musulmani, ma che è ora in disuso e cede sempre più il passo alla lettura adottata dalla edizione araba
del Cairo (Dar al-Kutub, 1923). Bausani A., BUR, Milano 1988, con introduzione e commento, ricca
bibliografia e un buon indice anali tico, è una traduzione fedele al testo originario e allo stesso tempo
comprensibile e di buona qualità letteraria.
Per una lettura proficua del Corano si suggerisce di farla precedere dalla lettura di una Vita di
Maometto e di andare quindi a vedere nel testo coranico i passi a cui tale «via» fa riferimento in modo
da situare i vari passi nel contesto storico della rivelazione. È anche importante leggere una
introduzione al Corano stesso (vedi quella sopra citata del Bausani), che dia indicazioni per la lettura
del testo. La lettura del Corano a temi è consigliabile, e per questo è importante fare uso degli Indici
delle materie offerti dagli autori di numerose traduzioni.
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Il termine "India".
nei Purāna chiama tale regione Jambudvipa (la terra della pianta jambu -melarosa-),
oppure Bhratavarsa. Quest'ultima denominazione (varsa significa "versante", terra
compresa fra due catene montuose, Bharata è il mitico eroe da cui discesero le due
stirpi di cugini, i Pandava e i Kaurava, che combatterono la grande battaglia
descritta dal Mahābhārata) indica propriamente l'India settentrionale, la zona
compresa fra la catena himalayana, a Nord e i monti Vindhya, a Sud. Tale
denominazione è ancora attuale, visto che l'Unione Indiana si chiama "Bharat".
Le orìgini: la preistoria
Prima dell'arrivo degli Ari, l'India era abitata da popolazioni di gruppo me-
diterraneo, o Caucasoidi, caratterizzate dalla statura non molto alta, dalla testa
allungata, dalla carnagione scura e dai capelli crespi. Queste popolazioni (gli attuali
Dravida dell'India meridionale, della quale costituiscono il gruppo etnico più
importante) diedero vita alla più antica civiltà sorta sul suolo indiano. Le notizie
che possediamo su questa antichissima civiltà, contemporanea alla civiltà sumerica
della Mesopotamia, si desumono quasi esclusivamente dai reperti archeologici:
non abbiamo né fonti letterarie od epigrafiche, mentre i caratteri pittografici
ritrovati su sigilli in pietra non sono ancora stati decifrati: la civiltà dell'Indo
appartiene ancora, dunque, ad un periodo antecedente la "storia".
Gli scavi diedero alla luce imponenti rovine di una civiltà detta impropriamente
"dell'Indo" o "di Mohenjo Darò e di Harappa", dal nome dei centri più importanti, i
cui siti, attraverso gli scavi che si succedettero nel tempo si rivelarono estesi non
solo attorno al corso dell'Indo, da Nord a Sud, bensì in tutta l'India nord
occidentale. Nel corso del tempo furono riportati alla luce importanti siti quali Kot
Diji a est di Mohenjo Daro, Amri, lungo il basso corso dell'Indo; lungo le coste del
Gujarat, a sud di Ahmadabad, sono emersi i resti di Lothal, probabilmente un
fiorente porto vallindo. Ancora più a Sud è scavata Malwan che, fino ad oggi, segna
l'estremo confine meridionale della civiltà vallinda, così come gli scavi di
Alamgipur, fra il Gange e la Yamun ā, ne segnano il confine orientale. A Nord il
sito più settentrionale finora individuato è Rupar, nelle pendici himālayane; mentre
l'avamposto più occidentale viene tracciato ai confini con l'odierno Iran, nel sito di
Sutkagen Dor; avamposti vallindi sono stati individuati anche in Afghanistan.
Secondo alcuni autori la cultura vallinda ebbe origine proprio nell'Asia
occidentale, da qui sarebbe poi arrivata nella piana dell'Indo, dopo essere passata
attraverso il Belucistan e l'Afghanistan, dove avrebbe dato vita a nu merose culture di
villaggio. In questa migrazione da Ovest verso Est, le popo lazioni responsabili della
cultura vallinda avrebbero portato con sé le idee fondamentali della civiltà
sumerica, quali l'organizzazione civica, la scrittura, l'uso dei sigilli e la lavorazione
dei metalli su larga scala. Questi tratti, derivati in prima istanza dalla Mesopotamia,
sarebbero poi stati sviluppati autonomamente e in maniera originale nella valle
dell'Indo.
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Dalla primitiva idea di una civiltà limitata al corso dell'Indo le conoscen ze si sono
ampliate fino a delineare una civiltà di straordinaria ampiezza, così gli scavi
rivelando la diversa cronologia dei siti, hanno permesso anche una descrizione delle
varie fasi della civiltà vallinda: dalle più antiche della cultura di Mehrgarh, nelle
valli del Belucistan (VI millennio a.C.), alle più recenti di Kalibangan in Rajasthan
e Lothal nel Gujarat (fine III e II millennio a.C.) con la fase intermedia di Harappa e
Mohenjo Darò (primo, medio e tardo Harappa) che rappresenta l'apogeo, preceduta
da una fase detta di Amri o pre-Harappa.
Lungo la vallata del fiume Indo sorsero dunque, in un periodo che va dall'inizio
del III millennio (con prodromi precedenti più occidentali) al 1500 a.C., grandi città,
attorno alle quali dovettero gravitare numerosi centri mino ri, per un'estensione che
corrisponde a quasi tutta l'India nord-occidentale.
La storia della scoperta di questi siti è meritatamente famosa. Nel 1856 John e
William Brunton vennero incaricati di porre i binari della ferrovia Karachi-Lahore,
ciascuno su due tronconi differenti: John a Sud, nel Sindh, William a Nord, nel
Panjab, da Labore a Multan. Per costruire la massicciata entrambi ricorsero alle
pietre reperibili in loco; ma, quando queste si fecero più rare, John fece uso dei
mattoni che potè far togliere da una città medio evale, disabitata e in rovina:
Brahminabad. William (se ne vantò anche in un suo libro di memorie) seguì
l'esempio del fratello ricorrendo ai matton i di un sito archeologico, non ancora
scavato, nei pressi di Harappa: tale "cava" fu tanto ricca da permettere più di
centocinquanta chilometri di manto ferroviario.
Saccheggiando questo sito adibito a cava, furono rinvenuti alcuni oggetti, fra cui
un sigillo di steatite che recava incisa la figura di un unicorno, con l'aggiunta di
caratteri apparentemente pittografici, del tutto ignoti. Questo
piccolo oggetto era la prima testimonianza di una delle più antiche civiltà del mondo.
Dopo varie peripezie, questo sigillo giungeva nelle mani del generale Cunningham,
primo direttore dell'Archaeological Survey of India, Istituzione fondata nel 1870.
Cunningham ne riconobbe subito l'importanza, attribuendo il sigillo ad una civiltà
antichissima, arrivando però alla conclusione che fosse completamente estraneo
all'India. Nel 1902 la dirczione dell'Archaeological Survey of India passò a John
Marshall. Da alcuni anni egli aveva dato al sigillo la necessaria importanza, studiando
successivamente altri reperti analoghi che erano via via entrati a far parte del
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patrimonio archeologie del British Museum, a Londra. Come primo atto della sua
nuova carica egli fece immediatamente acquistare i terreni di Harappa, dai quali gli
oggetti erano usciti, anche se, per mancanza di fondi, dovette per il momento
accantonare il progetto degli scavi.
Nel 1912 John Fleet, su richiesta di Marshall, fece uno studio più avanzato sui
sigilli confluiti al British Museum, pubblicandolo nel Journal of the Royal Asiatic
Society, ma nonostante tutto si potè incominciare a scavare ad Harappa solo nel
1920. Dagli scavi, diretti da Rai Bahadur Ram Sahni, finalmente incominciarono ad
emergere le vestigia di una delle più grandi metropoli dell'antichità. Nel 1922 a
Mohenjo Daro, nel Sindh, l'archeologo R. D. Banerjee iniziava gli scavi attorno ad
uno stupa [ Caratteristico monumento buddista, destinato a conservare reliquie del
corpo del Budda o a ricordare momenti particolari della sua vita Di forma varia
(cilindrica, semisferica su base quadrata), spesso costruito su edifici preesistenti, si
diffuse in tutta l’Asia dando vita a quella particolare forma a “pagoda” che
contraddistingue i monumenti religiosi.].
Anche qui vennero alla luce costruzioni più antiche, del tutto simili a quelle
scoperte ad Harappa: la seconda grande città dell'India protostorica era stata
ritrovata.
Da allora, come si diceva in precedenza, gli scavi, ripresi ed interrotti più volte per
varie vicissitudini, hanno rivelato quella civiltà, così vasta dal punto di vista
geografico e così articolata da quello cronologico, che viene ormai definita "della
valle dell'Indo" o "vallinda", ma per la quale anche questo nome appare ormai
inadeguato.
Harappa sorgeva su un lembo di terra compreso fra due rami del fiume Ravi
(affluente indiretto dell'Indo), mentre attualmente il ramo principale del fiume scorre
a circa nove Km di distanza; Mohenjo Daro, invece, sorgeva sulle rive dell'Indo, che
ora scorre a poca distanza dal luogo. Questi siti erano esposti a frequenti inondazioni,
per frenare le quali, oltre che per difesa, sembrano fossero costruite le grandi mura di
mattoni e fango che circondano le città. Certamente queste città dovettero più volte,
nel corso dei secoli, fare i conti con rovinose inondazioni e proprio a causa di un
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disastro ecologico, più che per l'arrivo degli Ari, avvenne, secondo le ipotesi più
recenti, la distruzione o, per lo meno, l'inarrestabile declino di questi siti.
Gli scavi di Harappa e Mohenjo Daro rivelano che le città erano costruite sulla
base di un preciso piano regolatore, con strade perpendicolari, con un avanzato ed
esteso sistema di canalizzazione e di fognature.
poter riconoscere la raffigurazione di una tigre, nel qua l caso i vallindi conoscevano
anche la bassa valle del Gange, dove vive questo animale, sconosciuto agli Ari
invasori, almeno all'epoca del Ŗgveda (quando cioè abitavano l'India Nord-
occidentale, detta [aryāvarta).
A favore di una vastissima area dravida c ome contesto per le culture vallinde
vi sono anche indizi di tipo linguistico: nel Nord Pakistan c'è una zona in cui si
parla tuttora un dialetto dravidico e un tentativo, compiuto in Russia, di tradurre
alcuni pittogrammi dei sigilli in modelli matematici , facendo l'ipotesi che si tratti
di desinenze, avrebbe trovato riscontro solo nel sistema grammaticale delle lingue
dravidiche
IL declino
In un periodo di tempo compreso fra il 1900 e il 1700 a.C., le due principali città,
Mohenjo Daro ed Harappa, vennero completamente abbandonate dai loro abitanti,
per non essere più rioccupate. Il completo abbandono, secondo quanto è emerso
dagli scavi di Mohenjo Daro, fu preceduto da un lungo periodo di declino
(probabilmente un secolo o due), periodo caratterizzato dal deterioramento di norme e
codici (particolarmente abitativi) che in precedenza venivano, invece, rigorosamente
rispettati.
Per quanto riguarda le ipotesi sulle cause della fine della civiltà vallinda ne sono
emerse tendenzialmente due, anche se la seconda, ormai comunemente accettata, ha
subito tante e tali articolazioni dai più recenti studi, da costituire un ambito di varie
ipotesi, più che una sola. La tendenza iniziale fu di individuare cause di natura
bellica nella fine della civiltà vallinda e di porre in relazione tale fine con l'inizio
delle invasioni delle tribù arie in India. La civiltà vallinda sarebbe passata dalla fase
di crescita a quella matura, avrebbe conosciuto un rapido declino e, infine, la morte
per mano di invasori portatori di una nuova cultura. Sul piano archeologico tale
ipotesi è confermata da strati di distruzione generalizzata e dalla comparsa di
oggetti di tipo insolito, in particolare armi nuove. L'individuazione della cosidetta
cultura di Jukhar, sopra gli ultimi live lli di occupazione con tipologia ancora
classicamente vallinda, ha portato ad ipotizzare un periodo di invasioni, cor -
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Gli indoeuropei
Gli Ari che scesero in India erano popolazioni indoeuropee. Prima, dun que, di
raccontare la storia delle invasioni e, quindi, la storia di quegli indoeuropei che,
scesi in India, si autodefinirono arya (nobili), possiamo fer marci un momento sul
concetto di "indoeuropeo". Probabilmente, al di là delle poche certezze sull'unità
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Indoeuropei sono dunque quei popoli che, stanziati probabilmente nella fascia
centrale dell'attuale Europa (dalle ipotesi più antiche orientate verso l'Asia si è
passati a ipotesi più recenti e più "occidentali"), parlavano una lingua comune
ricostruita dagli studiosi, sulla base delle varie lingue antiche e moderne che
derivano direttamente da questa lingua comune.
Diamo ora il prospetto di una classificazione consueta, delle famiglie linguistiche
dell'una e dell'altra area (indoeuropea e non-indoeuropea) in quanto, per la storia
dell'India, entrambi i gruppi sono significativi.
Lingue indoeuropee, comprendono dieci gruppi: 1) indo-iranico 2) armeno 3)
greco 4) albanese 5) italico 6) celtico 7) germanico 8) balta-slavo 9) tochario 10) ittita.
Lingue non indoeuropee, comprendono diciotto gruppi principali: 1) uralo-
altaico; 2) giapponese e coreano; 3) paleo-asiatico (o lingue iperboree); 4) dravidico;
5) burushaski o khaguna; 6) australiano; 7) papuano; 8) andamanese; 9)
tasmano; 10) indo-cinese (diviso in tre sottogruppi: tibeto-birmano o gruppo
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La fase che precedette l'arrivo degli Ari in India, attraverso i passi afghani, a
partire dalla metà del secondo millennio a.C, è di controversa rico struzione. Sembra
fuori dubbio un periodo di unità culturale fra gli Ari dell'Iran e gli Ari indiani, quelli
cioè che entrarono in territorio indiano, mentre non tutti gli studiosi sono d'accordo
sul fatto che tale unità culturale abbia significato un periodo di convivenza in Iran,
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dopo aver lasciato gli originari siti indoeuropei e prima della ulteriore migrazione
degli Ari indiani verso l'India. L'unità culturale era, secondo questa visione del
problema, già un patrimonio delle tribù indo-iraniche, indivise, che lasciarono
l'originario sito indoeuropeo dopo gli Ittiti e i proto-Tocarici, ma prima di ogni
altra tribù indoeuropea.
Altri studiosi ritengono invece che le originarie affinità culturali abbiano
conosciuto una convivenza intermedia, prima del distacco definitivo, avvenu to con lo
spostamento delle tribù indo-arie verso l'India. Tale convivenza intermedia sarebbe
appunto avvenuta nell'altopiano iranico, dal terzo millennio fino alla metà del
secondo e molte sembrano le conferme di un passaggio degli Indo Ari in Iran,
prima di volgersi verso l'India. Le prime tracce di Ari vedici si trovano infatti in Asia
minore, nel regno di Mitanni, che fiorì intorno alla metà del II millennio a.C.,
dove troviamo una classe dominante aria che si sovrappone ad una khurrita, come
si può dedurre dagli appellativi e dai nomi propri ari. I reperti linguistici portano a
concludere che la lingua della classe dominante si accostasse piuttosto a quella
ario-indiana che non a quella iranica; potrebbe trattarsi di un ceppo paleo-ario
comune, con alcune particolarità paleoindiane.
Alle indubbie affinità lessicali fra il Vedico e l'Avestico si aggiungono altri indizi
di una unità culturale indo-iranica prima della separazione fra i due rami di
popolazioni indoeuropee: in un trattato in lingua accadica, stipulato nel 1360 a.C.
fra il re Shuppiluliuma e il re di Mitanni Mattiwaza, sono invo cati nel giuramento gli
dei Mitra, Varuna, Indra e Nasatya, nomi che addirit tura sono già indo-ari.
Abbiamo poi un manuale di ippica, composto dal l'esperto di cavalli Kikkuli,
richiesto dagli Ittiti al regno di Mitanni, nel quale alcuni termini sono sicuramente
ari. Già prima del II millennio a.C. in alcuni stati khurriti stirpi arie si erano
impadronite del potere, divenendo la classe dominante: il regno più importante
era quello di Mitanni. Se dunque nel regno di Mitanni vi era una classe dominante
aria, si era un tempo supposto che fosse stata proprio questa classe dominante a
dirigersi, dopo il crollo della propria potenza (XIV secolo a.C.) verso oriente e a
conquistare l'India. Ma i termini ari del libro sui cavalli possono essere stati
usati in senso conservativo, così come frutto di conservatorismo culturale può
essere il permanere di nomi maschili ari accanto a nomi femminili khurriti. Già
verso la metà del II millennio a.C. la classe dominante di Mitanni si era assimilata
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alla popolazione khurrita e l'ario era ormai una lingua morta; non è quindi
pensabile che questa classe dominante, così assimilata al popolo khurrita, venuto
meno il suo dominio sul paese di Mitanni avesse ancora la forza per penetrare nella
penisola indiana.
Bisogna infine tenere conto dell'ipotesi secondo la quale mitanno, iraniano e
indoario potrebbero essere diramazioni di un'unica famiglia di ceppo indo -
europeo, parlata da tribù che, all'incirca verso l'inizio del secondo millennio a.C.,
cominciarono a migrare a ondate verso varie sedi. Punto di partenza potrebbe
essere stata la regione al di là del Caucaso e della Siberia sud-occidentale.
Così come fecero moltissimi popoli invasori nei successivi tre millenni, anche
gli Ari potrebbero essere giunti da questa parte dell'Asia direttamente in India,
senza passare per l'Iran o l'Asia occidentale e potrebbero essersi fermati per
qualche generazione in Afghanistan. L'ipotesi di una migrazione arya direttamente
dall'Asia centrale attraverso l'Afghanistan è sorretta dal fatto che nei Veda non
viene menzionato alcun toponimo che faccia riferi mento all'Iran. Comunque,
proprio per l'assenza di riferimenti e di ritrovamenti archeologici, l'origine degli
Indo-Ari rimane avvolta nel mistero.
A partire dunque dalla metà del II secolo a.C. popolazioni indoeuropee, parlanti una
lingua comune, entrarono a ondate successive nel sub -continente indiano, invadendo
ed occupando il territorio dell'India nord -occidentale. Aggregati in tribù nomadi,
dediti prevalentemente alla caccia e all'allevamen to del bestiame, avevano una
cultura diversissima dalle sedentarie genti vallinde, con le quali vi fu certamente
un impatto di tipo militare. La superiorità degli invasori, grazie alle armi di ferro e
all'uso di carri da guerra trainati da cavalli (mentre i vallindi conoscevano solamente
i lenti carri trainati da buoi), fu schiacciante e, come si legge nel Rigveda, gli Arya,
guidati dal dio Indra, ingaggiavano vittoriose battaglie contro i dasyu, di pelle scura,
chiusi nelle loro cittadelle fortificate (pur). Gli Arya non dilagarono nell'intero sub-
continente indiano, ma, dopo la prima fase delle invasioni attorno alla piana
dell'Indo, si frammentarono in una serie di piccoli gruppi, clan o tribù che, nel
tempo, penetrarono anche in altri territorì più a Est, con un fenomeno ormai di
infiltrazione più che di conquista. Dalle testimonianze dei Veda si può dire che,
attorno al 1000 a.C., l'India meridionale, ma anche la valle del Gange erano estranee
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all'espansione aria. Il confine orientale della prima fase della conquista aria è segnato
dalla Sarasvatl, fiume sacro per eccellenza degli Indiani vedici, che scorre
immediatamente ad est del bacino dell'Indo; il confine meridionale, almeno per il
periodo vedico, è costituito dai monti Vindhya.
La civiltà a cui gli Ari diedero origine sul suolo indiano, tenuto conto degli
apporti della cultura vallinda che riaffiorarono anche secoli dopo e della
coabitazione con le culture del sud, arianizzate attra verso la religione, ma
fortemente conservatrici della loro matrice autoctona, è proprio quella civiltà
genericamente detta "indiana" che ha una fisionomia unitaria, nei secoli, pur
essendo crogiuolo di culture, razze, lingue e religioni diverse, nella loro matrice e
anche nel loro sviluppo.
La fase più antica di questa civiltà, che riguarda storicamente l'India Nord-
occidentale, teatro delle invasioni e dei primi stanziamenti degli Ari, è detta
vedica, perché caratterizzata dalla letteratura vedica, straord inaria testimonianza
religiosa, storica e letteraria della cultura dei nuovi abitanti dell'India.La parola
veda significa "conoscenza" con una sfumatura semantica legata alla visione (la radice
via significa anche "vedere", "vedere sacro"). Di conseguenza veda indica la
conoscenza sacra per eccellenza.
I Veda sono dunque quei testi che contengono tale conoscenza. Esiste
attualmente un ben definito canone chiamato Veda, ma è bene ricordare che si tratta
di una vasta letteratura che si formò nel corso di molti secoli, trasmessa oralmente
da una generazione all'altra, infine dichiarata sacra, "rivelazione divina" (sruti)
dall'ultima generazione. Non vi è dunque un Canone fissato in qualche concilio; la
fede nella sacertà di tale letteratura è sorta spontaneamente, nel tempo e quasi mai
messa in discussione.
sacri, fu così sentita in India da avallare l'ipotesi che la scrittura sia stata
relativamente tarda. Certamente più antica delle prime te stimonianze scritte
indiane, vale a dire le iscrizioni di Ashoka del III secolo a.C., tuttavia ugualmente
non precoce e riservata a lungo per usi forse solo commerciali o politici. Anche
testi letterari come i poemi epici conobbero secoli di trasmissione orale e ciò fu
funzionale alla costante modifica di tali testi sui quali le famiglie dei cantori
intervenivano liberamente, continuamente aggiungendo, inventando, cambiando.
Diversamente i testi del Veda, supportati dalla necessità assoluta del non errore,
furono tramandati con precisione infallibile per secoli, proprio perché la perferzione
della formula e della pronuncia era parte integrante della scienza religiosa.
Infine va ricordato che la natura stessa della scie nza religiosa, che è scienza del
sacrificio, ed è appannaggio di una categoria di persone, i sacer doti appunto, che
detengono la funzione sacrificale e religiosa di tutta la società, fa sì che in una
società castale non possa essere indiscriminatamente diffuso ciò che è conoscenza di
prima casta. Nulla dunque è più alieno alla natura dei Veda di una trasmissione
scritta. Se è vero che noi possediamo manoscritti relativamente recenti di tutta la
letteratura indiana, non solo religiosa e che, si è visto, esisteva una diffusa
predilezione per la trasmissione orale anche del sapere non religioso, ciò è dunque
maggiormente vero per la letteratura religiosa che, in periodo vedico, certamente,
ma anche oltre, preserva il suo canone da errori e da manomissioni non volute solo
attraverso la recitazione dei dotti.
Il corpusdellashruti
Queste classi di testi che compongono il corpus del Veda dichiarato "vero per
rivelazione" sono in relazione tra loro a partire dalle quattro Samhita le quali
dunque costituirebbero, almeno nella teoria, la vera ripartizione della materia
religiosa legata al sacrificio o, come spesso vengono denominati, i "quattro Veda".
Ciascuna opera che appartiene alla categoria dei Brahmana o degli Aranyaka
o delle Upanishad fa riferimento ad una delle quattro Samhita: V Aitareya-
Brahmana, per esempio, si riferisce al Rigveda, il Shatapatha-Brahmana allo
Yajurveda bianco (vedi oltre); otto Brahmana si ricollegano al Samaveda, fra i quali il
Chandogya-Brahmana che termina con la Chandogya-Upanishad, una delle Up. più
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Riassumendo: ciascuna delle quattro Samhita e ogni opera di ciascuna delle tre
classi di testi (Brahmana, Aranyaka, Upanishad) che costituiscono una riflessione-
spiegazione di varia natura sulle quattro Samhita, costituisce il corpus dei testi
vedici detto shruti.
Le scuole vediche
intendere che ogni sacerdote doveva conoscere ed utilizzare, nel culto, stanze,
formule, melodie.
Questi quattro Veda non sono completamente differenziati in maniera
specialistica: ciascuna delle quattro raccolte ha elementi che potrebbero appartenere
anche alle altre, oltre che parti molto ampie in comune (la Rv S. in particolare
costituisce elemento omogeneizzante). Lo stesso rituale, pur comprendendo parti
specializzate è un unicum al quale tutte le figure officianti partecipano, rendendo,
in definitiva, indispensabile una conoscenza di tutto il culto Si può arrivare ad
immaginare che ciascun gruppo sacerdotale ci tenesse a possedere un proprio Veda
completo, ossia la scienza sacra nella sua interezza, magari presentandola nel modo a
lui più consono (spostando l'accento sulle melodie, le stanze o le formule ecc.). La
suddivisione del Veda in base alla forma letteraria (metrica o prosa) è il sistema di
classificazione che più da corpo all'idea che non vi siano, in realtà, fra i testi
differenze considerate sostanziali (ricordiamo che il Veda è "uno"). Per Samhita, ad
esempio, si deve intendere tutto quello che è in versi nel Veda in questione, ma tale
definizione è in certo senso teorica perché talune Samhita (ad esempio la Yajurveda
S.) contengono prosa, mentre parti metriche si trovano negli Aranyaka e nelle
Upanishad. Ciò che tiene unito l'eterogeneo materiale del Veda, eterogeneo anche dal
punto di vista formale, è l'utilizzo nel rituale il quale è dunque il centro ispiratore
delle Samhita, particolarmente di quelle liturgiche (Yv e Sv). Le stanze delle Samhita
liturgiche derivano quasi tutte dagli inni del Rv; quest'ultima Samhita ha, dunque,
preminenza sulle altre ed è sempre stata considerata dalla tradizione come la parte
più santa ed autorevole del Veda, una sorta di sacro thesaurus a cui attingere, senza
che gli inni, di per sé, avessero un posto privilegiato nel rituale (almeno seguendo
quanto ci descrivono i kalpasutra.
La composizione-trasmissione dei testi è prerogativa delle scuole vediche
denominate shakha (branca) o carana (sentieri); due termini usati spesso come
sinonimi ma dei quali il primo fa riferimento al corpus dei testi tradizionali
tramandati dalla scuola, mentre il secondo fa riferimento alle persone che
appartengono alla scuola stessa. Le scuole che tramandarono la scienza del Veda sono
molte di più rispetto alle tradizionali recensioni dei testi che ci sono giunte, segno
che molte recensioni andarono perdute, altre furono eclissate da recensioni "forti",
infine che molte scuole facevano riferimento alle stesse shakha.
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Come si è già detto tale scienza sacra non veniva scritta e quindi letta, a
trasmessa oralmente e dunque "udita". inizialmente"alitata","emanata"da Brahman, e
"carpita", "vista" dai veggenti (rishi), mantiene attraverso questo modo di
trasmissione il suo carattere di shruti.
Le Samhita:
II Rigveda
Della Rigveda Samhita esistono due recensioni: la sakala e la vaskala, legate alle
due omonime scuole del Rigveda; si parla anche di cinque antiche recensioni, di
cui comunque queste due sarebbero le più importanti. Delle due una, la sakala,
eclissò l'altra e rimase come unica, anche se bisogna sem pre ricordare, soprattutto nel
caso del Rgveda, quanto la precisione della trasmissione mnemonica renda irrilevanti
le differenze fra recensioni diverse.
La ripartizione tradizionale (ve ne è anche un'altra, più recente, basata su criteri
più complessi) di questa Samhita prevede milleventotto inni (sukta) suddivisi in
dieci libri (mandala). Il nucleo più antico del Rv è costituito dai libri II-VII, detti
"libri di famiglia" in quanto ognuno è attribuito ad una determinata famiglia di
cantori vedici (rispettivamente Grtsamada, Visvamitra, Vamadeva, Atri, Bharadvaja e
Vasistha. Conosciamo i nomi dei cantori vedici che hanno "udito" questi inni, in parte
dai Brahmana, in parte da liste separate di autori dette Anukramani, collegate alla
letteratura Vedanga). In questo primo gruppo gli inni sono raggruppati per divinità, a
partire da Agni e da Indra, seguendo un ordine progressivo che tiene conto del
numero delle strofe, mettendo prima gli inni più lunghi, poi quelli più brevi.
Un primo ampliamento di tale nucleo antico sarebbe costituito dalla se conda
metà del I mandala (inni 51-191), dal libro VIII (nel quale gli inni 49-59, i cosidetti
valakhilya (da khila, supplemento), sono una ulteriore successiva interpolazione), che
contiene inni attribuiti ad alcune famiglie di cantori e dal libro IX, che ha una sua
unitarietà in quanto contiene inni dedicati a Soma. Gli inni del IX libro,
direttamente collegati al sacrificio del Soma ( il nome di una pianta dalla quale si
estraeva un succo inebriante, che già nel periodo indo-iranico era considerata come la
dolce e voluttuosa bevanda degli dèi e che successivamente ha un ruolo importante nel
sacrificio vedico, così come, con il nome di haoma, in quello degli antichi Iranici. Nella
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mitologia indiana il soma è la bevanda con la quale gli dèi si assicurano l’immortalità,
racchiusa nella Luna, la scintillante goccia d’oro nel cielo.) pur aggiunti in un secondo
momento al nucleo originario del Rv, sono molto antichi, in quanto connessi al
culto di Soma-Haoma, risalente al periodo indo-iranico, mentre più recente,
collegata all'apogeo del sacrifìcio del Soma, è la loro integrazione, attraverso il Rv,
nel rituale sacrificale vedico.
La prima metà del libri I e il libro X costituiscono l'ultimo ampliamento del
materiale del Rv e presentano disomogeneità di contenuto : inni antichi accanto ad
altri il cui contenuto rivela concezioni religiose e sociali più re centi. Infine, mentre
la seconda metà del I mandala è attribuita a nove famiglie di poeti, la prima parte di
questo libro, così come i libri VIlI, IX, sono attri buiti ad autori diversi, fra i quali
compaiono nomi femminili (Apala, A treyi), concetti astratti quali Manyu (la
collera) e Yajna (il sacrificio), dèi (Trita Aptya) e semidivinità femminili (Apsaras).
Per quanto riguarda la questione cronologica (non solo di inni rispetto ad altri, ma
di tutta la Samhita in relazione con le altre), la questione non è di facile soluzione.
Anche il linguaggio, infatti, che sembra l'elemento più sicuro per determinare
l'antichità o meno di un testo può essere determinato dal contenuto e non solo
dall'età di esso. In ogni caso grande è l'antichità del Rv anche nelle parti più recenti;
la stessa metrica degli inni è lontanissima dalla metrica classica, si basa su versi
(pada) determinati dal numero delle sillabe (di otto, undici, o dodici sillabe, più
raramente di cinque). Tali versi sono liberi nella prima parte e solo le quattro o
cinque ultime sillabe sono fisse (dipodia giambica o dipodia trocaica). La strofa più
usata è la gayatri formata da tre ottonali, (cioè tre pàda di otto sillabe) seguita
daìl'anustubh (quattro ottonari), dalla tristubh (tre ottonari) e dalla jagati (quattro
dodecasillabi). L'antichità della metrica vedica, collegata, come rivelano numerose
osservazioni dei Brahmana e delle Upanishad, ad una mistica del numero che rende
sacra la gayatrl, è attestazione dell'antichità degli inni del Rv.
Samaveda
Delle molte recensioni del Sv, di cui parla la tradizione (i Purana ne contano mille)
tre sono pervenute, fra le quali la più conosciuta è quella attribuita alla scuola dei
Kauthuma e ad essa si fa comunemente riferimento, salvo precisazione contraria. Dal
punto di vista del contenuto il Sv è sicuramente il meno significativo dei Veda; le
stanze di cui è composto, infatti, derivano quasi interamente dal Rv (particolarmente
dai libri VIlI e IX) qualche altra dallo Yv ed altre ancora dall'Av. Non così, invece, dal
punto di vista liturgico, dove il aàman aveva grande importanza, come si evidenzia
anche dal cospicuo numero di Brahmano, che si riferiscono al Sv.
La raccolta consiste in millecinquecentoquarantanove strofe
(milleottocentodieci se si comprendono anche le ripetizioni) per lo più in metro
gayatri (tre versi di otto sillabe). Tali strofe, come si diceva, sono tratte
principalmente dal Rv, tuttavia il testo è modificato dall'adattamento ai diver si
moduli musicali e presenta quindi modific azioni foniche,di accenti,
allungamenti, ripetizioni di sillabe. Infatti il Sv è solo il testo (modificato
come si diceva) del canto, mentre non contiene le annotazioni musicali che sono
date in manuali di canto chiamati gana (canti) risalenti ad epoca più recente. Il
testo del Sv si divide in due parti: Arcika (versetti) e Uttararcika (ulteriori versetti);
L’Arcika (denominata anche purvarcika "versetti che stanno prima") consta di
cinquecentottantacinque strofe, suddivise in sei lezioni (prapathaka)', di tali
strofe centoquattordici sono indirizzati ad Agni, trecentocinquantadue ad Indra,
centodiciannove a Soma. I versi sono indipendenti gli uni dagli altri e ciascuno
indica un diverso tipo di melodia. La seconda parte (Uttararcika) comprende
quattrocento stotra (piccoli canti), composti ciascuno di tre strofe
(milleduecentoventicinque in tutto). La prima delle tre strofe è presa dall'Arcika ed
indica quindi su quale melodia devono essere modulate le altre due.
Lo Yajurveda
La Yvs ha una particolarità rispetto alle altre Samhita, mentre esse, infatti, hanno
un unico testo seppur tramandato in redazioni diverse, lo Yv ha due diversi testi
(fino a poter dire che vi sono due Samhità dello Yv): lo Yv nero (krsna Yv) e lo Yv
bianco (sukla Yv). La differenza fondamentale fra le due tradizioni testuali consiste
nel fatto che lo Yv bianco contiene solo mantra, preghiere, formule sacrificali che il
celebrante yajurvedico mormorava durante il rituale, mentre lo Yv nero contiene
anche parti in prosa, spiegazioni relative al rituale a cui mantra, preghiere e
formule si riferiscono. I Brahmana dello Yv bianco sono delle composizioni
distinte, mentre quelli dello Yv nero sono una continuazione delle parti in prosa.
Lo Yv sia nero che bianco è pervenuto attraverso numerose redazioni, dovute
alle varie scuole vediche, le cui reciproche differenze sono il più delle volte legate ad
una diversa distribuzione della materia. Lo Yv bianco o Vajasaneyi Samhita, dal
nome dei liturgisti che l'hanno tramandata (il saggio tradizionalmente accettato
come autore, Yajnavalkya, era ritenuto figlio di Vajasani) si basa su due redazioni:
quella della scuola dei Kanva e quella dei Madhyandina; delle due la Kanva è la più
antica.
Lo Yv nero è giunto in quattro principali redazioni (ma ve ne sono anche altre,
talvolta semplici parti della redazione principale): la Kathaka Samhità e la
Kapisthala Katha Samhita dovute entrambe alla scuola Katha; la Maitrayanlya
Samhita della scuola Maitrayani e la Taittinya Samhita attribuita alla scuola dei
Taittinya o degli Apastamba che è la redazione più cono sciuta dello Yv nero.
Lo Yv, la cui composizione appartiene al periodo del Rv, è da porre
cronologicamente a seguito di essa. Il contenuto dello Yv, infatti, presuppone una
familiarità con il Rv; non poche "formule" sono versetti del Rv dati però in ordine
sparso, così come si presentavano durante l'accompagnamento di questo o quel
sacrificio.
Lo Yv tratta dei maggiori sacrifici collettivi, gli shrautayaga, ma anche,
talvolta, di momenti significativi legati alle attività produttive (ad esempio la semina
dei campi) oppure domestiche. Fra i sacrifici solenni a cui gli Yv mantra fanno
riferimento, alcuni sono dì vecchia data, altri appena "inventa ti". E fra questi ultimi
in particolare vi sono riti per la seconda funzione, quella guerriera, il cui potere si
sta consolidando ed ha bisogno dell'appoggio religioso. Lo stimolo che sta dietro alla
composizione dello Yv è anche dovuto a questa crescente importanza unita al fatto
87
Dalle frammentarie notizie che lo Yv può dare si evincono anche alcuni aspetti
della società. Gli uomini Ari spesso sposavano donne non arie e ciò può avere
contribuito all'abbassamento della condizione della donna nella misura in cui regole
relative alle unioni portavano già il presupposto dell'inferiorità femminile. Si
proibisce alla donna di avere due mariti (contro quindi alcuni costumi poliandrici),
mentre si permette la poligamia; si chiarisce la quadripartizione della società nei
quattro varna con la preminenza gerarchica del primo varna.
L'Atharvaveda
L'antico nome di questa Samhita è atharvangirasah, vale a dire "scienza degli atharvan
e degli angiras". Atharvan indica antichi sacerdoti sciamani risalenti al periodo indo
iranico (gli atharvan dell'Avesta) collegati ad un culto del fuoco, così come atharvan sono
anche le formule magiche da essi pronunciate.
Anche gli angiras sono una particolare categoria di antichi sacerdoti del fuoco e
angiras sono le loro formule magiche. Ma differente è il tipo di magia a cui i due tipi di
formule fanno riferimento: le prime sono formule di magia bianca, positiva, le seconde di
magia nera, cattiva. Il titolo accreditato successivamente ha mantenuto, forse solo per
motivi di abbreviazione (ma è comprensibile anche una sorta di neutralizzazione di ciò che
può essere più difficilmente accettabile dalla religiosità ufficiale), il senso di magia bianca;
tuttavia entrambi gli aspetti, quello positivo e quello negativo sono presenti
nell’Atharvaveda.
Per quanto riguarda il periodo di composizione, l’Atharvaveda è più recente del
Rgveda, tuttavia le parti più propriamente magiche contengono concezioni non solo
antiche quanto quelle del Rv, ma anche di più e possono risalire fino al periodo preistorico.
D'altra parte YAv così come il Rv contiene parti cronologicamente differenziate, forse
anche di alcuni secoli; una collocazione cronologica è dunque possibile solo a partire dalla
redazione definitiva, così come la conosciamo.
Si è discusso a lungo sul contenuto dell'Av, se sia stato il suo carattere palesemente
magico a relegarlo a ultimo Veda, al di fuori della trayi vidya (triplice scienza) e a
ritardare la sua canonizzazione. Magia, come è stato detto, si riscontra anche in altre
Samhita, compreso il Rgveda, il Veda sacro per eccellenza, ma è probabilmente l'aspetto
molto spesso privato, domestico, di tale magia, che determina la sostanziale diversità
dell'Av, estraneo al rituale del sacrificio pubblico, vale a dire il cuore della trayi vidya.
Essendo dunque legato al culto e alle credenze domestiche, affonda le sue radici non
tanto e non solo in un periodo molto antico (cosa che accade, come abbiamo visto, anche
alle più antiche concezioni del Rv), ma soprattutto in un ambiente domestico, privato e
quindi spesso anche autoctono, rispetto alla cultura aria.
La fusione, che certamente vi fu, fra cultura aria e anaria, deve essere avvenuta più
nell'ambito delle credenze popolari e domestiche, che in quelle del sacrificio pubblico, il
90
quale organizzava un sistema di credenze e culti ufficiali più "ari", rispetto a credenze e
culti domestici, più impregnate di cultura anaria.
Circa la pericolosità dell'Av essa si può ricollegare alla forte presenza di magia nera;
all'essere, come si è detto, al di fuori del sistema religioso ufficiale, e quindi
all'appartenere, per molti aspetti, alla fase precedente fluida e dai confini incerti del
differenziarsi successivo fra magia e religione che separano, nelle fasi più antiche delle
civiltà, l'ambito d'azione degli sciamani stregoni da quello dei sacerdoti, inizialmente
indiviso. Quindi anche i Brahmani del sistema ufficiale sono più volte messi in guardia
dall'uso delle formule dell'Av la cui presenza è accettata, con fatica, nel sistema del
sacrificio solenne, solamente in alcuni momenti ben definiti, probabilmente con funzione
scaramantica e deprecativa.
Come accade per le altre Samhita, anche l'Av raccoglie materiali provenienti da età
diverse. Nonostante il processo di brahmanizzazione e il conseguente livellamento che
questa Samhita subì prima di essere canonizzata nella shruti è evidente un grande divario
cronologico fra le parti di contenuto magico, risalenti spesso ad epoca addirittura anteriore
a quella del Rv, in quanto contenenti credenze e culti delle popolazioni aborigene prearie,
e le parti filosofiche e religiose, contenenti inni con concezioni cosmogoniche e religiose
di tipo panteistico, che preludono alle speculazioni filosofiche delle Upanìshad. Anche il
mutato ambiente geografico (fra gli animali più temibili è ormai ricordata la tigre, segno
che gli Ari sono già stanziati nelle regioni orientali dell'India e più a sud, nel Magadha),
testimonia che questa è l'ultima delle Samhita, prima che la speculazione religiosa si
manifestasse nelle forme dei Brahmana, Àranyaka e Upanìshad.
Del testo dell'Av abbiamo due recensioni, una dovuta alla scuola Shaunaka e l'altra alla
scuola Paippalada. La recensione Shaunaka, completa e meglio conservata, costituisce il
testo-base della raccolta atharvanica. Qui la materia è raccolta in venti libri, per la maggior
parte in versi (soltanto un sesto della raccolta è in prosa: il libro XV al completo, buona
parte del XVI e una trentina di inni sparsi in libri diversi), che comprendono
complessivamente settecentotrentuno inni, di diversa lunghezza, per un totale di seimila
versi. Di questi, circa milleduecento appartengono al Rv, che, dunque, continua ad essere
una sorta di enciclopedia religiosa il cui materiale è spesso e variamente usato.
Ad esclusione dei libri XX e XIX che sono più recenti degli altri, la raccolta si può
dividere in tre gruppi: libri I-VII, caratterizzati da inni brevi (da un minimo di una a un
massimo di diciotto strofe) e di argomento vario; libri VIII-XII, caratterizzati da inni più
91
lunghi e di soggetti diversi; libri XIII-XVIII caratterizzati dalla disposizione secondo una
certa unità di temi (ad esempio tutto il libro XIII è dedicato a Rohita e Rohini e sviluppa il
tema di un mito cosmico solare; il libro XIV contiene inni per i riti nuziali, il XV tratta il
tema del Principio Primo e dell'Assoluto (denominato Vratya), il XVI raccoglie formule
rituali, scongiuri, incantesimi; il libro XVII è molto particolare in quanto formato da un
unico inno lunghissimo (trenta strofe) costituito da una serie di formule invocatrici per
ottenere prosperità; il XVIII contiene inni funerari). Degli ultimi due libri il XIX è un
insieme di scongiuri, malie, contromalie, invocazioni, nella quasi totalità rientrante
nell'ambito della magia distruttiva; il XX è totalmente diverso rispetto al materiale
atharvanico in quanto è dedicato al sacrifìcio del Soma e contiene centoquarantatre inni
quasi tutti ripresi testualmente dal Rv.
L'elemeno coesivo che permea e anima quasi tutta la raccolta atharvanica e che le
conferisce un carattere unitario e organico è dunque rappresentato dalla "preghiera
magica", invocazione, formula augurale o deprecativa che sia, la quale interessa le più
diverse vicende della vita familiare e non pochi aspetti della vita sociale. Si incontrano
perciò inni per assicurare la nascita di un figlio e per proteggerlo poi nella prima infanzia;
incantesimi validi a salvaguardare da ogni sorta di malattie: febbre, itterizia, lebbra,
idropisia, scrofola, tosse, follia, impotenza. Altri inni hanno per tema l'amore...
Formule auspicali per ogni circostanza della vita e deprecative contro ogni sorta di
male, causato spesso da demoni e spiriti maligni che vagano dovunque, preferibilmente di
notte, attentando alla salute degli uomini, alla loro felicità e fortuna. Soprattutto portano
ogni specie di malattie e ciò rende gli inni dell'Av dedicati a questo aspetto della vita il
primo testo di medicina indiana. La descrizione degli effetti devastanti della malattia, così
come quella dei poteri di unguenti, cataplasmi, erbe o anche solo scongiuri, pur nel loro
ambito magico, rientrano nel binomio diagnosi-cura nel quale interverranno i testi ausiliari
(es. il Kausikasutra) a chiarire il procedimento materiale che li accompagnava.
Gli inni di carattere religioso dell'Av sono più recenti di quelli a carattere magico e
preludono talvolta alle riflessioni upanisadiche su atman e brahman; l'Assoluto viene più
volte indicato come motore primo dell'universo, supremo reggitore del mondo. Il Principio
Universale è identificato con il sole, con l'amore, col sacrificio o con il respiro cosmico in
intima e indissolubile connessione con il soffio vitale che anima l'uomo (Av X, 8, 43-44).
92
I Brahmana
Il Satapatha B. è molto significativo non solo per il rituale sacrificale, ma anche per il
suo risvolto narrativo; contiene infatti molte leggende sia di carattere mitologico (la storia
di Manu e il diluvio universale) sia di carattere più "laico" e che grande fortuna avranno
nella letteratura indiana successiva (ad esempio l'amore fra Pururavas e Urvasi, vale a dire
il difficile amore fra un mortale e una creatura non mortale; la rivalità fra le due mogli di
Kasyapa Kadru e Vinata, e altre).
Al Samaveda sono attribuiti ben nove Brahmana, ma solo a pochi di essi
corrispondono davvero le caratteristiche di Brahmana, mentre la maggior parte si possono
considerare semplici appendici (parisista). Il Jaiminlya B., diviso in
milleduecentocinquantadue sezioni, contiene dettagliate informazioni sulla tecnica
dell’udgatar (il sacerdote che canta i saman durante il sacrificio); il Tandya B, conosciuto
anche come Pancavimsa B in quanto suddiviso in venticinque libri, tratta del sacrificio del
soma, ed è interessante per la sua trattazione dei riti che si svolgono sulle rive della
Drsadvari e della Sarasvati e per la descrizione del vratya stoma (una particolare forma di
canto ritualistico). L’Adbhuta B, nome che si dà all'ultimo libro del Sadvimsa B (il B in
ventisei libri) tratta di incantesimi e magie.
Dell''Atharvaveda conosciamo un solo Brahmana: il Gopatha B costituito da due libri
divisi in undici prapathaka, forse gli unici rimasti di un'opera più ampia. Ricco di miti e
leggende, con le quali illustra il rituale del sacrificio, esalta, in pieno accordo con il suo
carattere atharvanico, Angiras, il "saggio dei saggi"ed enfatizza l'intervento, durante il
sacrificio, del sacerdote dell'Atharvaveda senza il quale il sacrificio è destinato a fallire.
L'importanza dei Brahmana è davvero notevole per vari aspetti, a partire da quello
religioso: si tratta, infatti, del primo tentativo di interpretazione dei mantra vedici oltre che
della più esauriente, prima dei kalpasutra, descrizione del complesso cerimoniale dei più
importanti sacrifici vedici, momento centrale, come si è visto, della religiosità di questo
periodo. Ma i Brahmana sono importanti anche dal punto di vista letterario, perché
segnano l'inizio della prosa in Sanscrito ed un fase più matura di tale lingua; sono infine
significativi per il loro contenuto non strettamente ritualistico, sono, infatti, ricchi di miti e
di leggende ed anche di spunti filosofici davvero importanti per lo sviluppo che tali temi
non ritualistici ebbero successivamente.
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Aranyaka e Upanishad
Aranyaka
Fra i testi più ortodossi del karma marga (i Brahmana) e quelli dello jnana marga (le
Upanishad) in aperto contrasto con i primi, abbiamo il passaggio degli Aranyaka.
96
Difficile, dunque tracciare una linea di demarcazione fra gli Aranyaka e le più antiche
Upanisad, tanto che la denominazione di Vedanta (fine del Veda) che ufficialmente
appartiene alle Upanihsad, può essere attribuita anche agli Aranyaka, così come molto
spesso gli Aranyaka costituiscono la parte finale di un Brahmana.
Tali testi contengono tutto ciò che nel sacrificio e nel cerimoniale ha carattere segreto,
misterioso, ma, soprattutto, simbolico e insistono a glorificare il sacrificio mentale,
interiore, come in opposizione a quello visibile, esterno, materiale. Quando prese piede lo
schema di vita dei quattro asrama (grande idea brahmanica che si affaccia con la necessità
di dare spazio allo jnana marga, ma che caratterizza soprattutto l'ideologia del periodo
sutra, vedi oltre), tali testi, che il loro nome indica, proprio per il contenuto esoterico, non
brahmanico, come non adatti ai luoghi abitati e ad una fruizione collettiva, fatti, dunque,
per essere meditati nella solitudine della foresta (aranya), furono con molta facilità intesi
come testi adatti al terzo stadio di vita, quello del vanaprastha, stadio in cui vi può essere
la necessità di celebrare dei sacrifici senza che vi siano utensili e luoghi adatti. Situazione,
quindi, dove le equivalenze simboliche spiegate negli Aranyaka, possono essere di grande
utilità.
Pochi testi compongono il gruppo degli Aranyaka. L’Aitareya A, collegato al Rv, si
divide in cinque libri: il primo e il terzo esprimono concezioni mistico-naturalistiche, le
prime tre sezioni del secondo libro contengono insegnamenti dedicati a coloro che
desiderano attraversare vari stadi di liberazione, e insegnano la prana-upasana
(meditazione del potere vitale); le ultime tre sezioni costituiscono l’'Aitareiya Upanisad. Il
terzo libro tratta di samhita upasana (forme unificate di meditazione) ed è rivolto a
persone che sono ancora attaccate ai beni materiali; negli altri due libri si tratta di
cerimonie sacrificali, in particolare del Mahavrata (antico rito popolare di fertilità, tra-
sformato in vero e proprio rito religioso).
Il Kausitaki o Shankhayana A, sempre collegato al RV, è formato di tre libri, di cui i
primi due sono ritualistici alla maniera degli A, mentre il terzo costituisce la Kausitaki Up.
Il Taittiriya A, come si è già visto, è una diretta continuazione della Taittiriya Samhita (Yv
nero) e del TB. Si divide in dieci libri di cui i primi sei trattano di sacrifici come il
sarvamedha, il pitrmedha e il pravargya, supportando quanto detto nella S e nel B., gli
altri tre libri costituiscono la Taittirìya U, mentre il decimo libro è chiamato Maha
narayana U. Per quanto riguarda il Shatapathabrahmana (Yajurveda bianco) i primi tre
adhyaya (capitoli) della quattordicesima sezione (kanda) costituiscono il relativo
97
Àranyaka che tratta in particolare del sacrificio pravargya. Gli ultimi sei adhyaya di
questo kanda costituiscono la Brhadaranyaka Upanihsad. Al Samaveda appartiene
l’Aranyakasamhita.
Gli Àranyaka sono, come si è già detto e come è evidente anche dall'incastro di un testo
nell'altro, strettamente collegati ai Brahmana sia per il contenuto (trattano dei vari
sacrifici) sia per la forma letteraria, ma sono diversi nel modo di esporre la materia
sacrificale. Dei riti non offrono infatti descrizioni, ma spiegazioni spesso simboliche, né si
preoccupano di stabilire regole e norme per l'esecuzione dei riti. Sembra infatti esaurita la
fase didascalica e normativa dei Brahmana per fare posto ad analogie e simbolismi che
spiegano i significati. Tale atteggiamento prelude alle Upanihsad, alla ricerca della verità,
del significato primo delle cose e innanzi tutto, del significato della vita.
Àranyaka ed Upanisad non sono tanto uno sviluppo cronolgicamente successivo
rispetto alle concezioni precedenti (anche se vale in parte tale criterio cronologico), quanto
l'affiorare e poi la trattazione sistematica di un modo diverso e, i certo senso, alternativo di
occuparsi del sacro e di concepire la religione, rispetto all'ortodossia brahmanica. La
religione ufficiale, grazie alla capacità dell'ortodossia brahmanica di comprendere, almeno
formalmente, tutto ciò che non è in aperta e dichiarata opposizione, sistema tali diversità
aiutandosi soprattutto con lo schema dei quattro asrama (stadi della vita).
Upanishad
comune con le eterodossie, nel quale l'evoluzione è ormai avvenuta, in cui serpeggia
rivolta e insofferenza verso la sterilità a cui il pensiero brahmanico era ormai giunto.
Il Buddhismo e il Jainismo percorrono la loro strada di movimenti sempre più
caratterizzati in senso religioso e quindi sempre più lontani dalla religione del dharma e
delle caste, quale sta diventando, dopo la fase sacrificale, la religione brahmanica, mentre
le Upanisad, proprio per il loro carattere prettamente filosofico, possono restare al loro
posto, concludendo la fase della shruti e avviando la speculazione filosofica. Dopo le
Upanishad, che portano in superficie e sistemano una corrente di pensiero sostanzialmente
non sacerdotale e mistica, neppure l'ortodossia brahmanica sarà più la stessa e sarà sempre
riconosciuta (vedi lo schema dei quattro asrama, considerando soprattutto il terzo e il
quarto stadio) la possibilità di una ricerca religiosa personale, fuori da ogni schema,
persino da quello castale.
Il termine Upanishad è stato variamente interpretato. La sua più evidente accezione
etimologica fa riferimento al modo di trasmissione del sapere che è da maestro a discepolo
(sedere vicino ed in basso), come è logico per insegnamenti che hanno un carattere
riservato o addirittura segreto. A questo aspetto della segretezza si riferisce l'altro termine,
meno frequente, usato come equivalente di Upanihad, Rahasya, che significa appunto
"segreto", "mistero".
Per quanto riguarda il periodo di composizione esso può comprendersi fra l'ottavo e il
terzo secolo a.C. anche se le U più antiche sono sicuramente pre-buddhiste e quindi non
possono ascriversi a periodi più recenti del VI secolo. Le U non antiche hanno impronta
più settaria e vengono spesso definite Vedanta, Yoga, Sannyasa, Saiva, Vaisnava, Sakta U,
in linea con le loro tendenze.
Sotto la categoria di Upanishad, dunque, si raccolgono opere di epoche diverse e anche
di ispirazione diversa, tuttavia il numero delle U canoniche è stato fissato in centootto
(quante ne enumera la Muktika U), delle quali dieci appartengono al Rv, diciannove allo Yv
bianco, trentadue a quello nero, sedici al Sv e trentuno all'Av. Dalle più antiche, appunto
quelle canonizzate e appartenenti circa al periodo che va dal VI al III secolo a.C, fino alle
più recenti (si sono scritte U fino al secolo scorso) esse hanno dato vita ad un particolare
genere della letteratura filosofico-religiosa in voga per molto tempo.
La caratteristica più evidente di questa letteratura è la forma dialogica che permette ai
quesiti di carattere religioso e filosofico di essere sviscerati attraverso domande e risposte
in genere da discepolo a maestro. Le U sono i primi testi di "filosofia" dell'India; non
99
arrivano ad essere una trattazione metodica in cui i problemi sono inquadrati in uno
schema teoretico organico, ma sono una si potrebbe dire spontanea e sbrigliata liberazione
di felici intuizioni e riflessioni sui due grandi temi che da questo momento in poi sono a
fondamento di tutto il pensiero filosofico dell'India: l'idea dell'identità fra ātman e
brahman (principio individuale e principio assoluto) e il riconoscimento della legge
universale di karman e samsàra (l'atto che produce un frutto provoca il susseguirsi delle
rinascite).
Si è visto che le U sono in numero assai elevato, mentre è la Muktikà U a contarne
centootto, canonizzando tale numero, comunemente accettato, anche se gli studiosi ne
hanno individuato molte di più. Per quanto riguarda le quattordici più antiche o le più
importanti, le cosidette U vediche si possono dividere in tre gruppi a seconda della forma
in cui si presentano. Abbiamo allora: U in prosa solo eccezionalmente interrotta da versi e
con andamento molto simile ai Brahmana, U metriche, infine U ancora in prosa o in prosa
alternata a versi.
Al primo gruppo appartengono la Brhadaranyaka, la Chandogya, la Taittiriya,
l’Aitareya, la Kausitaki e la Kena. Al secondo gruppo la Katha o Kathaka, l'Isa, la
Svetasvara, la Mundaka e la Mahanarayana. Al terzo gruppo: la Prasna, la Maitri o
Mairtayaniya, la Mandukya.
La Chandogya U, appartenente al Samaveda e la Brhadaranyaka U dello Yv bianco,
sono di gran lunga le U più importanti ed autorevoli. La prima si articola in dieci capitoli,
dei quali i primi due sono il Mantra Brahmana e trattano di argomenti di carattere
ritualistico, mentre gli altri otto costituiscono la Chandogya U. In essi si tratta della
mistica del saman, dell'identità brahmanaàtman, di questioni cosmologiche.
La Brhadaranyaka U appartiene allo Yv bianco ed è la più antica e la più ampia delle
U. Corrisponde ai capitoli IV-VIII del quattordicesimo kanda e al capitolo VI del decimo
kanda del Shatapatha Brahmana nella recensione Madhyandina; nella recensione Kanva
corrisponde agli ultimi sei capitoli del sedicesimo kanda. Tratta dell'identità di atman e
brahman il riconoscimento della quale porta alla liberazione (moksa) dal ciclo delle
rinascite (samsara).
La Taittiriya U appartiene alla scuola Taittiriya dello Yv nero. Il settimo, ottavo e nono
libro del Taittiriya Aranyaka costituiscono questa U, mentre il decimo e undicesimo
costituiscono la Maha-narayana U (annoverata fra le U metriche). La Taittiriya, divisa in
tre sezioni, descrive il valore simbolico ed evocatorio di alcune formule mistiche,
100
concepisce il brahman come Assoluto e illustra la via per la quale l'anima vivente
(jivaātman) si congiunge con il brahman.
L’.Aitareya si riallaccia al Rv facendo riferimento al mito del Mahapurusha (Rv X, 90)
e rappresenta una fase cosmologica del pensiero upanisadico. Espone in tre capitoli
l'origine del mondo derivata da àtman e la natura panteistica di questo.
La Kausitaki U pur chiamata Kausitaki (o Sahkhayana) Brahmana U, non si collega al
Brahmana omonimo, ma, come si è già visto, è il terzo capitolo del Sahkhayana
Aranyaka, collegato quindi al Rv; descrive Indra come vita e immortalità, enuncia la teoria
del "soffio vitale", definisce il brahman e il brahmaloka (la sfera di Brahma).La Kena U
deriva il suo nome dalla prima parola del testo che significa "come", "perché" ed è
collegata al Samaveda essendo parte del Talavakara B del Sv. È divisa in quattro sezioni
di cui le prime due in versi e le ultime due in prosa. Nelle prime si tratta di brahman
(principio assoluto), visto come imperscrutabile, la cui realtà è ignota persino agli dei, di
para-vidya (conoscenza superiore) e di sadyamukti (liberazione immediata), nelle seconde
si parla di Ishvara (Signore) di apara-vidya (conoscenza inferiore) e di krama-mukti
(liberazione graduale). In questa U è esposta anche la famosa storia di Urna
HaimavatIi(figlia di Himavat, la personificazione dell'Himalaya) forse proprio il nucleo
originario (uno spirito femminile della regione himalayana) delle successive
personificazioni (Parvati, Durga ecc.) di questa dea-madre indiana.
Fra le U metriche annoveriamo: l'Isa U, appartenente allo Yv bianco, inclusa nella
Vajasaneyi Samhiaà come suo ultimo adhyaya. Deriva il titolo dalla sua prima parola, è
dunque l’'U del Signore (Isa) tratta l'unità dell'Essere e del Divenire, elabora la dottrina
della vidya (conoscenza) e dell’ avidya (ignoranza) e come la fusione di entrambe
(samuccaya) sia indispensabile per il raggiungimento di amrtattva (immortalità).
La Katha (nome proprio di un sapiente dello Yv) o Kathaka U appartiene allo Yv nero
ed è famosissima perché inserisce i suoi insegnamenti religiosi e filosofici all'interno del
celebre racconto di Yama e di Naciketas (vale a dire le domande che il giovane brahmano
Naciketas pone al dio della morte Yama, dopo che il padre, da lui provocato circa il suo
zelo religioso considerato tiepido, lo ha offerto a Yama in quanto il più prezioso dei propri
beni). L’U disserta sull'identità atman e brahman, sul non attaccamento e sulla rinuncia ad
ogni desiderio come condizione per il conseguimento dell'immortalità.
La Munda (o Mundaka) U (di chi ha il capo rasato e, quindi, della rinuncia) è divisa in
tre capitoli, disserta su sannyàsa (rinuncia), para vidya (conoscenza suprema), samsara
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(realtà contigente) e apara vidya (conoscenza inferiore). Nella Svetasvara, che si compone
di sei capitoli, la riflessione su brahman si sviluppa con caratteri teistici. Brahman assume
infatti le caratteristiche di un dio personale, Rudra, che insegna la dottrina della bhakti (de-
vozione). Un'altra particolarità di questa U è il frequente ricorrere alla terminologia del
Samkhya (uno dei sei sistemi metefisici –darshana- “ortodossi”).e lo sforzo di conciliare il
punto di vista religioso con quello filosofico.
La Mahanarayana ha un contenuto eterogeneo: inni, strofe in stretta relazione con le
diverse raccolte vediche, insegnamenti sul brahman, formule da recitare durante le
abluzioni rituali o le offerte "a tutti gli dei" e ai "soffi vitali".
Nel terzo gruppo sono comprese U in prosa o in prosa alternata a versi. La Prasna U
(Ì'U delle domande), e la Mandukya U (della scuola dei Manduka) appartengono all’Av.
La Prasna, divisa in sei sezioni, pone quesiti sul significato di om e sulle relazioni esistenti
fra l'Assoluto e la parola, e ripercorre i principali temi della speculazione upanishadica. La
Mandukya, che esalta anch'essa l'identità fra la sillaba sacra om e la verità suprema, pur
essendo un testo molto breve, consta, infatti, solo di dodici stanze, è assurta a grande
importanza nella storia del pensiero indiano. Fu infatti oggetto del famoso commento di
Gaudapada (predecessore del filosofo Shankara) le Mandukya-karika che costituiscono la
prima elaborazione sistematica della concezione del non-dualismo, dalla quale si sviluppa
il pensiero sankariano.
La Maitrì (o Maitrayanì) U appartenente allo Yv nero, consta di sette capitoli di cui gli
ultimi due sono più recenti degli altri. In questa U compare il concetto di trimurti si pone il
principio della differenza fra l’atman individuale e l’atman assoluto e si esprimono
concezioni sul carattere illusorio del mondo che potrebbero derivare dall'influenza del
pensiero buddhista, ormai potentemente affacciatosi sulla scena.
Con le U si conclude la shruti, tanto che un altro termine per indicare le U è Vedanta
(fine del Veda), termine che tuttavia indica più propriamente una reinterpretazione delle
verità fondamentali del Veda alla luce degli insegnamenti delle Upanishad.
102
Complementi bibliografici:
Cap.IV. Il BUDDISMO .
Il territorio nel quale il Buddha visse e predicò apparteneva al mosaico dei piccoli stati
nei quali era suddivisa Madyadeśa, la « Contrada di Mezzo ». Essa comprendeva la felice e
fertile zona che partendo dai contrafforti nepalesi del Himalaya giungeva sino alle due rive
del Gange stendendosi, ad occidente, da Delhi e dal bacino dello Jumma fino, ad oriente,
all'attuale regione delle Province Unite.
Gli Stati che formavano tale vasto complesso territoriale, spesso menzionati nei
riferimenti geografici del Canone Pāli alla predicazione del Buddha (ad es., Anguttara-
Nìkāya, I, 123; IV, 256-60; Dīgha-Nikāya, II, 200), erano molto numerosi. Sia le fonti
Buddhiste sia Jaina ed epiche 12 segnalano in questo periodo (VI secolo a.C.,) l'esistenza di
sedici forti stati (sodaśa mahājanapada), o regioni sottomesse all'elemento ariano, ma
abitate, particolarmente quelle dell'Est, da popolazioni di origine autoctona e non ancora
completamente bramanizzate. La « contrada di mezzo » comprendeva quattordici
mahājanapada, sui circa sedici o poco più delle liste, e sette principali città: Srāvasti,
Sāketa, Campā, Vārānasi, Rājagrha e Kauśambi (v., Dīgha-Nikāya, II, 146).
Una parte delle popolazioni che, verso la fine del VII secolo a.C., abitavano i sedici
territori erano organizzate in gana, termine che alcuni hanno reso con « repubbliche
aristocratiche ». Le faccende dello Stato erano curate da una assemblea di anziani13 che,
per un periodo di tempo determinato e secondo norme che non conosciamo, eleggeva un
capo (probabilmente questi era considerato come un primus inter pares) cui veniva
affidato il potere e che governava con il titolo di raja “ rege”.
Una particolare rilevanza, per la storia del periodo e per la loro consistenza
territoriale, hanno alcuni di questi Stati; quello dei Vrjji, (Vajji), una confederazione di
otto clan il più importante dei quali era quello dei Licchavi, la più nobile famiglia della «
Contrada di Mezzo ». La loro regione aveva per capitale (Vaisali). Altro importante gana
era quello dei Malia con capitale a Kusingara, e quello dei Shakya con capitale
Kapilavastu (Kapilavatthu), al quale apparteneva il Buddha. I Shakya erano tributari del
Kosala, anche se ricvendicavano un comune capostipite, il leggendario re Okkava
12
W.KIRFEL, Die Kosmographie der Inder, Boon 1920, pp.225-26; E. LAMOTTE, Histoire du Buddhisme
Indien, Des Origines à l’ère Saka, Louvain 1958, pp.8-9.
13
Cfr., B.C.LAW, Some Ksatriyas Tribes of Ancient India, Calcutta 1924, IDEM., Tribes in Ancient India,
Poona 1943; A.P. DE ZOYSA, Indian Culture in the Days of the Buddha, Colombo 1955.
104
(Iksvaku). I quattro grandi regni d'Avanti, di Vamsa, di Kosala e del Magadha, in questo
stesso periodo, erano in piena fase di espansione territoriale a discapito dei gana più
deboli.
Il regno di Avanti, diviso in settentrionale e meridionale, aveva due capitali (Ujjayim
ed Mahissati) ed era governato dal re Canda Pradyota. A nord vi era il regno di Vamsà con
la sua capitale Kausambi, e su di esso regnava Udayana; poi vi era il Kosala che aveva per
capitale bravasti ed era retto da Prasenajit, figlio di Mahakosala e discepolo del Buddha;
infine il Magadha con capitale a Pataliputra. Il Magadha era governato dalla dinastia dei
Saissunuga che risaliva al re Sisunaga; esso si era ingrandito territorialmente alle spese del
Kosala che sottomise completamente durante il regno di Ajatashatru (554-527 a.C.)
conquistando anche il regno degli Anga e lo stato dei Licchavi. Dopo un tale
consolidamento la capitale fu portata, durante il regno di Udasi (504-470 a.C), a
Pataliputra (prima le capitali erano Girivraya e Rajgrha) che, con la dinastia dei Maurya,
divenne la capitale di tutta l'India. Al tempo della nascita del Buddha era re del Magadha
Bimbisara (582-554 a.C.) a cui successe Ajatasatru.
Si è spesso sostenuto che quest'epoca era attraversata da profonde crisi economiche e
soaciali, e che proprio questa situazione ha favorito, propiziato, il nascere e l'affermarsi del
Buddhismo, come di altri movimenti definiti eterodossi che non facevano altro che
incanalare il diffuso malcontento nei confronti dell'egemonia bramanica. Ma, al contrario,
le condizioni
economiche del periodo ci appaiono particolarmente floride in tutta l'area descritta; il
suolo particolarmente fertile permetteva lo svilupparsi di una ricca agricoltura e di un
prospero commercio. Le corti erano luoghi di raffinata cultura e i principi erano ben attenti
ad esercitare l'arte del buon governo cercando di tenere lontane dai loro regni violenze e
brutalità.
I traffici commerciali godevano di questa particolare situa zione di benessere e di
generale tranquillità e non potevano far altro che prosperare e svilupparsi lungo le vaste
reti di canali e le grandi piste carovaniere che da Nord a Sud attraversavano il territorio.
Da questi scarni dati si può concludere che la predicazione del Buddha non era affatto
situata entro un quadro di forti crisi e di gravi tensioni sociali per cui « si era fatto più
intenso il processo di sviluppo dei rapporti schiavistici e di formazione dei grandi stati
schiavistici. Per questa ragione il periodo è caratterizzato dalla apparizione di diverse
tendenze religiose predicanti l'uguaglianza fra tutti gli uomini; la comparsa di queste
105
dottrine rifletteva l'insoddisfazione dei paria e degli infimi, maltrattati e sfruttati... (dal
volume a cura di A. BAUSANI, La religione nell'URSS, Milano 1961, p. 229) ».
Se crisi c'era, questa va ricercata ad un ben diverso livello da quello economico-
sociale; si trattava dell'intensa ricerca di una religiosità che, in una dimensione diversa da
quella ritua-listica e sacrificale, affrontasse e risolvesse il problema del rapporto fra l'uomo
e l'Assoluto, fra il finito e l'infinito; gli uomini di questo periodo vivevano questa intensa
situazione di crisi e chiedevano che si mostrasse loro il passaggio « al limite » e questo
venne ad indicare il Buddha, il Perfettamente Svegliato. Il Buddhismo si pone come
esempio paradigmatico di questa atmosfera drammatica che regnava fra i « ricercatori
dell'Assoluto » del periodo.
II rito, sclerotizzatosi in una vacua ripetitività in cui il Sacro era ormai sì postulato
come esistente, ma non più penetrato e penetrante presente che bruciava il cuore
dell'uomo, necessitava di un adattamento alle nuove condizioni che l'espressione religiosa
doveva affrontare e risolvere per poter mantenere aperto agli uomini quel « passaggio al
limite » di cui prima si diceva.
I segni, le tracce, di questa ricerca di nuove vie che sono « nuove » perché « diverse »
e non diverse perché nuove, si trovano già nelle Upanishad ed il Buddhismo non fa che
allinearsi lungo quella prospettiva di Liberazione e di eterno commento alla Verità
dell'esperienza interiore.
Anello di congiunzione fra la letteratura dei Brahmana e le Upanishad sono gli
Àranyaka; la loro distinzione dai Brahmana non è assoluta: anch'essi concernono i riti
sacrificali, anche se il loro accento si pone maggiormente sulla penetrazione del significato
interiore dei riti. Sempre maggior importanza acquista la pratica della meditazione, la via
delle opere viene considerata di qualità inferiore rispetto a quella della conoscenza.
L'atman talora indica semplicemente l'organismo grossolano (cfr. Taitt.-Ar., VII, 2; IX, 1 e
Ait.-Ar., II, 3,1-2), ma si afferma soprattutto come pura coscienza-conoscenza. Egli è
omnipervadente (vibhu), non-qualificabile, presente in ogni essere, anche se secondo un
diverso grado gerarchico, ed è pienamente attuale solo nella modalità umana; nell'Aita.-
Air. viene già identificato con il Brahman.
Il Brahman vi appare sotto tre diverse modalità: sthula (grossolano) nel limite del
dominio della quantità; suksma (sottile) nello psichico; suddha (puro) quale assoluto nel
dominio dello Spirito. Egli è ciò da cui gli esseri e gli oggetti inanimati sono usciti, è ciò
per cui essi partecipano all'Esistenza e ciò in cui ritornano dopo la dissoluzione del loro
106
14
Tutte le citazioni di brani delle Upanishad che compaiono nelle pagine del presente studio, salvo diversa
indicazione, sono tratte dalla tra.it curata da Carlo Della Casa per la U.T.E.T., Torino 1976.
107
elemento che li governa, il Karman, vera e propria forza propellente del ciclo del divenire
(samsàra) forza dalla quale l'uomo deve liberarsi, svincolarsi, a questo fine viene posta la
legittimità e l'efficacia dello Yoga come prassi soteriologica ascetico-meditativa.
A fianco dei brahmani impegnati nelle realizzazioni rituali e nell'indagine del senso
che le correlazioni-chiave delle Upanishad proponevano, vi erano dei brahmani e dei non-
brahmani che cercavano nella ascesi il senso del mondo, del piacere, del dolore, della vita
e della morte. Questi individui, per il loro modo di vivere, erano chiamati parivrajaka
(paribbajaka) « itineranti »; essi andavano soli o con qualche discepolo al seguito per le
strade dei regni, vivendo d'elemosina e cercando di spengere con la ascesi la sete
d'Assoluto che straziava i loro cuori. Strani uomini dovevano apparire agli sguardi dei più
questi « pellegrini » che vagavano per contrade desolate, cercando proprio quei luoghi che
i più sfuggivano per paura delle belve e dei terrificanti demoni che la tradizione voleva che
in quei siti eleggessero la loro dimora; strani uomini che si sottoponevano a ogni tipo di
privazione quasi che « sperimentalmente » provassero e riprovassero nella speranza che
alla fine il mistero si sarebbe loro svelato; strani uomini con la pelle consumata e cotta dal
sole che già faceva intrawedere la forma dello scheletro abitatore di quell'altro mondo a
cui si era destinati fin dalla nascita ma che era pur sempre un mondo, come questo, dal
quale si poteva ruggire; strani uomini con gli occhi persi nella contemplazione di un
paesaggio che è dovunque ed in nessun luogo, e che solo loro potevano vedere.
Quel poco che sappiamo di questi religiosi, delle loro abitudini e dei loro costumi ci è
dato dalle allusioni fatte ad essi dai buddhisti o dai Jainisti per confutarli, condannarli.
Molti di loro professano dottrine eterodosse e perciò erano chiamati, spregevolmente,
nastika.
Nastikā15 è detto chi si oppone alle comuni credenze, disprezzando ogni pratica
religiosa, negando l'offerta al brahmano e la preghiera al dio, ma nastika è anche chi si
serve di sofismi, di arguzie dialettiche, di paradossi per gettare il ridicolo sugli uomini
santi facendoli oggetto di scherno e dileggio. In un luogo del Mahabharata abbiamo una
descrizione di questo atteggiamento:
« Iudhishthira disse: "O nonno, dimmi se c'è merito nel largire, nel sacrificare, nel
fare penitenza e nell'ubbidire ai maestri". Risponde Bhishma: "Il cuore si volge al
male a causa dell'Io che aderisce a ciò che è dannoso e che, avendo reso impura la
15
Cfr. A. M. Pizzagalli, Nāstika, Cārvāka e Lokāyatika, Pisa 1907; G.Tucci, Opera Minora, Parte I, Roma
1971, pp.49-155.
108
In questo caso i nastika non possono che essere i « miscredenti », i ribelli ad ogni
legge umana e divina. Il termine in seguito venne usato per indicare il brahmano
ragionatore, cavillatore e negatore dei Veda17. In un altro episodio è Indra stesso, sotto
forma di sciacallo, che consola Kasyapa e lo persuade ad accontentarsi della sorte che ha.
Dice Indra: « Io sono ridotto ad essere uno sciacallo perché fui un pandit sottolizzatore,
sprezzatore dei Vada, dedito alla logica, alla vana scienza del ragionamento,
espositore di dubbi, abile argomentatore nelle riunioni, dileggiatore e contraddittore
dei brahmani nei discorsi su Brahma, nastika, scettico, stolto e ritenendomi saggio ».
« O Grande Re, non esiste né l'elemosina, né l'oblazione, non esiste né frutto (phala), né
maturazione (vipaka) di buone e cattive azioni, non esiste né questo né un altro mondo,
non esiste né il padre, né la madre, non esistono gli esseri opapatika, non esistono in
16
Testo cit. in A.M.Pizzagalli, Op:, cit.,p.25-26.
17
Cfr., MBh., 19,23, 47-49.
109
questo mondo né brahmani, né sramana che, conseguito il giusto scopo, percorsa la retta
via, questo e l'altro mondo da sé stessi avendo conosciuto e intuito, possano spiegarlo.
Quest'uomo è composto dei quattro elementi, e, quando muore, la terra ritorna alla terra,
l'acqua all'acqua, il fuoco al fuoco, il vento al vento, mentre i sensi vanno all'etere.
Quattro uomini, con una bara sollevandolo, vanno fino al luogo della cremazione cantando
inni funebri; restano bianche ossa e le offerte le divora la brace. L'elemosina, l'olio, le
essenze sono raccomandate dagli stolti, bugia e chiacchiera è quella di coloro che parlano di
un essere reale (athakavada). Ignoranti e dotti, quando il corpo si dissolve, sono infranti,
distrutti, non esistono più dopo la morte » ( Digha-Nikaya II,23).
18
R.Guénon, Etudes sur l’hindouisme, Parigi 1976, pp.80-81; cfr., L. Dumont, Homo Hierarchicus : il
sistema delle caste e le sue interpretazioni, Milano 1991
19
A.K. Coomaraswamy, Induismo e Buddhismo, Milano 1973, p. 83 e ss.
111
contestato. I nomi delle caste sono citati frequentemente, e la loro esistenza è così ben
stabilita da venir ammessa dal Buddha stesso e dai suoi discepoli... La distinzione delle
caste era agli occhi del Shakyamuni un accidente dell'esistenza dell'uomo di quaggiù,
accidente che riconosceva, ma che non poteva arrestare l'opera sua. Ecco perché le caste
appaiono, in tutti i surra e in tutte le leggende che ho letto, come un fatto stabilito contro il
quale Shakyamuni non muove nessuna obiezione d'ordine politico o sociale. E ciò è così
vero che quando un uomo che era al servizio di un principe si rivolse al Buddha per essere
ammesso nell'Ordine, il Buddha non l'accettò sino a quando il principe non ebbe concesso
il suo permesso al servo »20 .
Nel Buddhismo antico non v'è nulla che possa essere descritto come una « rivoluzione
sociale » contro il sistema delle caste; non ha forse detto il Buddha: « Ciò che il mondo
ammette, io lo ammetto; ciò che il mondo non ammette, io non l'ammetto. Io non sono in
contraddizione con il mondo; il mondo è in contraddizione con me » (Samyutta-Nik., III,
113). Come non pensare alle analoghe parole del Cristo: « Non pensate che io sia venuto
ad abolire la legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento
(Matteo, 5,17) ».
Compito del Buddha non fu quello di predicare una riforma della Società che gli era
contemporanea, ma fu quello di predicare una riforma dell'uomo, di indicare una « via di
salute » agli uomini, di restaurare l'Antico Ordine, il Sanatana Dharma: « Io ho visto »,
egli dice, « l'Antica Via, l'Antico Sentiero percorso dai perfetti Risvegliati di ogni tempo:
questa è la mia Via » ( Ibid,II, 106) ; adesso i brahmani hanno da tempo trascurato la loro
antica legge, il Buddha la insegna nuovamente.
I brahmani, contemporanei del Buddha, « avevano perduto i favori spirituali che erano
l'appannaggio dei loro antenati puri e senza ego » (Sutta-Nipata, 284 e ss). Scopo della
dottrina rivelata dal Buddha era quello di riproporre la verità di una Antica Dottrina, non
perché si fosse interrotta la trasmissione dell'insegnamento — la cui continuità era
assicurata dagli eremiti che vivevano nelle selve —, ma perché i brahmani erano divenuti
troppo legati alla vita mondana, immersi negli intrighi di corte, interessati soltanto alle
forme esteriori del rituale e, forse, troppo attratti dagli emolumenti; erano diventati più «
brahmani di nascita » (brahma-bandhu) che brahmani nel senso che tale termine riveste
nelle Upanishad o nel Buddhismo, cioè di « conoscitori di Brahma » (brahmavit). «
Quando il Buddha si riferisce "all'incolta moltitudine", vuole soltanto alludere a coloro che
20
E. Burnouf, Introduction à l’histoire du Bouddhisme Indien, Parigi, 1876, pp. 138-211.
112
coltivano quella falsa "teoria dell'anima" o quella credenza in una reincarnazione personale
che egli combatte incessantemente » 21.
È indubbio che, parlando dell'Antica Via, il Buddha, alludesse a quello « stretto
sentiero che conduce molto lontano », percorrendo il quale i contemplativi, i conoscitori di
Brahma, si elevano e sono liberati (yimuktah) (Samyutta-Nikh., IV,117); egli aveva
penetrato completamente la Legge Eterna {akalika dharma) e verificato ogni cosa in Cielo
e in Terra. A chi gli chiede: « Quegli asceti e brahmani, o Gotamo, quei capi scuole,
accerchiati da numerosi discepoli e seguaci, quei celebrati pionieri, che sono altamente
stimati da molti... tutti costoro sono savi come essi affermano, o non lo sono? O alcuni
sono savi ed altri no?
« Lascia andare », risponde il Buddha, « brahmano resti là, se tutti costoro come essi
affermano, sono savi, o se non lo sono, o se alcuni sono savi ed altri no. Io voglio mostrarti
la dottrina brahmano, ascoltala »22... « pura virtù mena a puro cuore, puro cuore a pura
conoscenza, pura conoscenza a pura sicurezza, pura sicurezza a pura scienza delle vie,
pura scienza delle vie a pura Scienza del Sentiero, pura scienza del Sentiero a pura scienza,
pura scienza ad immateriale perfetta Estinzione. A scopo di immateriale perfetta
Estinzione, o fratello, viene presso il Sublime menata Santa Vita » (Majjhi.,24. 231).
E chi è conoscitore di questa suprema Scienza è un brahmavit un « conoscitore di
Brahma »; è detto: « Il brahmano: questo è, o monaci, una designazione per il Compiuto, il
Santo, Perfetto Svegliato » (Ibidem, 23.223) che trova conferma nel « chiunque comprenda
la Dottrina può essere chiamato un brahmano » (Shatapata-Brahmana, XII, 6, 1, 41) e, dal
fatto che « solo la Conoscenza impartita da coloro che hanno esperienza della Realtà è
efficace, e nessun'altra » (Shankara, ad Bhagavadgita, 4, 34); perché « il Brahman è
conoscibile solo grazie all'insegnamento conforme a tradizione (agama) dei maestri che
l'hanno sperimentato, e non attraverso ragionamenti, studio del Vedanta, intelligenza,
erudizione, ascesi sacrifìci, ecc. » ( Idem., ad Kenopanishad, I, 4).
Il Compiuto si rivolgeva a chiunque, senza tener conto della casta di appartenenza, nel
suo insegnamento a chi lo rimproverava di accogliere presso di sé persone poco
raccomandabili, egli, rispondeva:
« La mia Dottrina è Grazia per tutti. E com'è di Grazia per tutti? Perché con essa
anche dei miserabili pezzenti possono divenire asceti ». Affermando questo il Buddha si
21
A.K:Coomaraswamy,Op. cit.,p.98.
22
Majjihima-nikaya, 30, 295-296, nella trad. di G. De Lorenzo e E. Neuman, I discorsi di Gotamo Buddho,
3 voll. , Bari 1916-1927. Le cit del Majjhi... rimandano prevalentemente a questa trad. italiana.
113
rivolgeva a qualunque essere, quale che fosse la sua condizione di casta, che volesse porre
fine alla ruota del divenire, per raggiungere l'Estinzione. Interrogato sulle caste e sul loro
intrinseco valore, il Buddha mostra come da ognuna di esse si possa aspirare alla
Liberazione, come vizi e virtù in esse siano equamente ripartiti, e come sia quindi assurdo
vantare uno stato spirituale solo sulla base della propria nascita.
Questo atteggiamento viene chiaramente espresso dal dialogo fra l'asceta
Mahakaccano ed il re Madhuro dell'Avanti (Majjhi.,84.349 ss.), o da quello che Pasenadi,
re del Kosala, ha con il Buddha riguardo alle differenze esteriori ed interiori che
caratterizzano le quattro caste:
« Quattro caste, Signore, vi sono: sacerdoti, guerrieri, borghesi e
servi. Ora tra queste quattro caste, Signore, che vi sia una diversità,
che vi sia una differenza?
Quattro caste vi sono, gran re: sacerdoti, guerrieri, borghesi e
servi. Ora di queste quattro caste, gran re, due sono superiori, guerrieri
e sacerdoti, in quanto a saluto, ossequio, rispetto e riverenza.
Io, Signore, non chiedo al Sublime lo stato visibile: l'intima con-
dizione, Signore, io chiedo al Sublime! ».
Così interrogato il Buddha fa notare come in ognuna delle quattro caste si possano
trovare individui buoni, leali, intelligenti, saggi e capaci di lottare strenuamente per
liberarsi dal divenire e conclude:
« Allora io dico, gran re, non si può parlare più per loro di una differenza, stando
redenzione difronte a redenzione. Così come quasi, gran re, se un uomo, prendendo
una scheggia secca di legno di saka, accendesse fuoco, producesse fiamma; ed un altro
uomo, prendendo una scheggia secca di legno di amba, accendesse fuoco, producesse
fiamma; ed un altro uomo, prendendo una scheggia secca di legno di adumbara,
accendesse fuoco, producesse fiamma; tu che pensi, gran re: che vi sia ora tra questi
fuochi accesi da diverse legna, una qualche differenza, tra luce e luce, colore e colore,
splendore e splendore? ».
« No di certo, Signore!
Or così anche appunto, gran re, è di quella fiamma suscitata dalla virtù, accesa
dall'esercizio: io dico, che non v'è in essa alcuna differenza, essendo redenzione
difronte a redenzione » (Ibid., 90. 415 e ss.).
114
Una complessa discussione sulla questione delle caste avvenne una volta a Savatthi in
occasione di una riunione di cinquecento brahmani che, tra le altre cose, avevano anche
trattato della dottrina predicata dal Buddha che in tutte e quattro le caste si potesse, ove si
volesse, esser puri; questi brahmani incaricarono il loro dotto collega Assalayano di
confutare questa sovvertitrice dottrina. Assalayano in un primo momento rifiutò, conscio
della superiorità del Buddha: « L'asceta, veramente, il Signore Gotamo dice la Verità; ed è
difficile opporsi a chi dice la verità. Io non posso discutere su questo argomento con l'a-
sceta Gotamo ». Assalayano dicendo così riconosce l'ortodossia della tesi del Buddha, non
ha nulla da obbiettare contro di essa. Ma i brahmani che si vedono minacciati da una tale
dottrina nei loro privilegiati di casta, essenso divenuti più brahmani di nascita che «
conoscitori del Brahma », insistono e, anche se a malincuore, Assalayano è costretto ad
accettare:
« I brahmani, o Gotamo, dicono così: "I brahmani soli sono casta superiore,
inferiore ogni altra; i sacerdoti soli sono casta bianca, nera ogni altra; i sacerdoti soli
sono puri non i non sacerdoti; i sacerdoti soli sono figli di Brahma, legittimi, nati dalla
sua bocca, prodotti da Brahma, formati da Brahma, discendenti da Brahma!".
Che dice il Signore Gotamo di Ciò?
Eppure si vedono, Assalayano, donne brahmane mestruanti e pregne partorienti ed
allattanti; ma questi brahmani, pur essendo nati da matrice, dicendo così: "I sacerdoti
soli sono casta superiore...". Allora, Assalayano, che forza e che potere hanno i
brahmani, per dire che essi soli sono casta superiore, e che ogni altra casta è inferiore?
Se anche il Signore Gotamo dice così, i brahmani la pensano a loro modo ».
A questo punto il Buddha inizia a confutare una per una le affermazioni che i
brahmani recano a sostegno della tesi della loro pretesa superiorità interiore sugli altri
membri della Società. Il Sublime dimostra come sia fra essi che fra i componenti delle
115
altre caste possano prodursi indifferentemente tutte le forme di virtù e tutti i vizi che
portano, rispettivamente, le une a buoni risultati, gli altri a cattivi esiti:
Il meccanismo dialettico del dialogo si sviluppa in adamantine sequenze con una tale
efficacia logica nel loro incalzare che non lasciano spazio e nessuna possibilità di replica e
conducono, l'interlocutore, piano piano ad esprimere e riconoscere la stessa opinione che
intendeva, in un primo tempo, confutare; sembra di assistere ad una operazione di alta
chirurgia in cui, con rapide e precise incisioni, il chirurgo giunge là ove s'annida il male e,
con mano ferma e decisa, asporta la parte malata (nel nostro caso ciò che si asporta è
l'erronea opinione) per ridare la salute al paziente, cioè la retta conoscenza all'anima.
Ma ritorniamo al dialogo:
Gotamo, quasi per dare un ultimo colpo all'erronea opinione nutrita dai brahmani e
che per dimostrare che la Dottrina da lui predicata è conforme all'insegnamento degli
116
antichi vati (rishi), narra un episodio che si svolse negli antichissimi tempi, quando i sette
vati che vivevano nelle loro capanne nella selva, concepirono per la prima volta la stolta
opinione della esclusiva purità della casta sacerdotale; tale falsa opinione fu colta dal
Sommo Vate, Asito Devaio, che viveva solitario sull'alta montagna ed egli si decise a
confutarla. Indossato il rosso abito ed acconciatosi, magicamente apparve nell'eremitaggio
dei sette vati e così parlò loro:
« Orsù, dicano questi signori vati brahmani: chi ha precedenza? Orsù, dicano
questi signori vati brahmani: chi ha la precedenza? Allora, Assalayano, i sette vati
brahmani dissero fra loro così: "Chi è dunque costui che, girando come un bove
sull'aia, cammina su e giù per l'eremitaggio dei sette vati brahmani escalamdo: 'Orsù,
dicano questi signori vati brahmani: chi ha la precedenza?' Orsù, malediciamolo!".
Quindi, ora, Assalayano, i sette vati brahmani maledissero il vate Asito Devalo:
"Cenere sii, miserabile! Cenere sii, miserabile!" Quanto più i sette vati brahmani
maledicevano il vate Asito Devalo, tanto più il vate Asito Devalo diveniva
maggiormente prestante e più vistoso ed imponente. Allora, Assalayano, i sette vati
brahmani esclamarono così: "Vana, veramente, è la nostra penitenza; senza frutto il
nostro ascetismo! Chiunque prima noi maledicevamo: Cenere sii, miserabile! Subito
era fatto cenere. Questo però, quanto più noi lo maledicevamo, tanto più ne diviene
prestante e più vistoso e più imponente". Non è vana la penitenza di lor signori; non è
senza frutto il loro ascetismo! Su via, signori, il pensiero di collera dentro di me,
abbandonatelo! "Il pensiero di collera, sorto in noi, lo abbandoniamo! Ma chi è il
Signore?".
Avete sentito, voi Signori, del vate Asito Devalo?
"Si, signore?".
Quello dunque sono io.
Allora Assalayano, i sette vati brahmani andarono incontro al vate Asito Devalo,
per riverirlo. Ed il vate Asito Devalo disse loro così: "Io ho sentito, o signori, che tra i
sette vati brahmani, seduti nella solitudine della selva, è sorta tale cattiva, falsa veduta:
I sacerdoti soli sono casta superiore, inferiore ogni altra casta; i sacerdoti soli sono
bianca casta, nera ogni altra; i sacerdoti soli sono puri, non i non sacerdoti; i sacerdoti
soli sono figli di Brahma, legittimi, nati dalla sua bocca, prodotti da Brahma, formati
da Brahma, discendenti da Brahma".
Così è, signore!
117
Sanno però i signori, se la loro ava avvicinò proprio un brahmano, non un non
brahmano?
Questo certo no, signore!
E sanno i signori, se la madre della loro ava e la madre di Lei, fino alla settima
generazione ascendente, avvicinò proprio un brahmano, non un non brahmano?
Questo certo no, signore!
Sanno però i signori, se il loro avo avvicinò proprio una brahmana, non una non
brahmana?
No, signore!
E sanno i signori, se il padre del loro avo ed il padre di lui, fino alla settima
generazione ascendente, avvicinò proprio una brahmana, non una non brahmana?
Veramente no, signore!
Sanno però i signori, come avviene la concezione di un feto?
Noi sappiamo, o signore, come avviene la concezione di un feto. Se padre e madre
si uniscono, e la madre ha il suo tempo, ed il genio è pronto; ecco che per l'unione dei
tre avviene la concezione del feto.
Sanno però i signori certamente, se il genio è un guerriero od un sacerdote, od un
borghese o un servo?
No, o signore, che non lo sappiamo, se il genio è un sacerdote od un guerriero od
un borghese od un servo!
Stando così le cose, signori, sapete chi voi siete?
Stando così le cose, signore, noi non sappiamo chi siamo!
E — conclude il Buddha — perfino i sette vati brahmani, interrogati, esaminati,
contrastati dal vate Asito Devalo sul loro discorso sulla nascita, non poterono venirne
a capo.
Come potrai venirne a capo tu, interrogato, esaminato, contrastato da me su questo
discorso della nascita: tu, che del loro insegnamento non ne hai ancora pieno un
cucchiaio? » (Ibid., 93.445 ss).
È quindi chiaro che il Buddha, come i testi citati dimostrano, aveva lo sguardo fisso,
sì all'eguaglianza, ma all'unica e vera possibilità di « uguaglianza », quella del « dove c'è
Lui, là, io non sono »; quella data dalla realizzazione spirituale, dalla integrazione e
risoluzione dell'illusorio molteplice nell'Unico Reale, in « quell'Uno... ».
Nella Dottrina che s'impernia sul distacco, sul non-attaccamento, non c'è posto per
nessuna idea o concezione o atteggiamento che, in un modo o in un altro, continui ad
alimentare la « sete » d'esistenza e l'oscura ignoranza; non ha forse egli detto: «
Dell'immortalità si aprono le porte: chi ha orecchi per udire venga ed ascolti ».
Questa attitudine non è, d'altronde, estranea allo stesso Induismo: « Le quattro caste
sono state create da Me secondo la divisione dei guna e del karma... » (Bh.G, IV, 13); «
Gli atti dei brahmana, dei ksatryas, dei vaisya e dei sudrah, o Distruttore dei Nemici, sono
distinti in funzione dei guna che provengono dalla loro natura propria », « La serenità, il
controllo di sé, la vita ascetica, la purezza, la tolleranza e la rettitudine sincera, la sapienza
e la pietas (tale è) il karman del brahmano che trae origine dalla sua propria natura »
(Bh.G, XVIII 41-42), a cui sembra far eco: «... nessuno di noi nasce uguale all'altro, anzi
ciascuno è per sua natura diverso dall'altro... » (Platone, Rep., II, 370b). In un luogo del
Mahabharata leggiamo: « All'origine non vi era, o Yudhisthira, che una sola casta al
mondo; le quattro caste furono istituite in seguito alla differenziazione delle funzioni ».
Il Buddhismo non ha mai rifiutato l'ideale del brahmano, questo stato è, per la
letteratura buddhista, quello di chi « rifiuta il male »; un intero capitolo del Dhammapada,
il XXVI (Brahmanavaggo), è dedicato alla illustrazione di cosa si deve intendere per
brahmano: « Non per la treccia, non per la famiglia, non per la casta si è brahmani, in chi è
verità, Disciplina, costui è un brahmano» (Dhammapada, 393; cfr. Suttanipata, 618 ss.).
119
Per il Buddha, i veri brahmana sono quei che « conoscano secondo realtà questo
dolore, conoscano secondo realtà questa origine del dolore, conoscano secondo realtà
questa cessazione del dolore, conoscano secondo realtà questo sentiero che mana alla
cessazione del dolore, questi davvero per me sono asceti, brahmani...; ed inoltre questi
venerabili dimorano avendo da sé stessi realizzato, sperimentato, conseguito in questo
visibile mondo il fine dell'ascetismo ed il fine della condizione brahmanica » (Itivuttaka,
103).
L’INSEGNAMENTO FONDAMENTALE.
Il Buddha- come abbiamo visto- nacque nel Nord dell'India, ai piedi dell'Himalaya, più
precisamente in quello che si chiama il Terai, in un piccolo Stato repubblicano del Nepal,
in prossimità della frontiera con l'attuale Repubblica Indiana, verso il 560 a.C. Il suo nome
era Siddhartha, Gautama il patronimico. Tutte le fonti concordano press'a poco nel dire che
Siddhartha visse 80 anni, e morì verso il 480 a.C.. All'età di 29 anni, dopo essersi sposato e
dopo aver avuto un figlio, cosa molto importante in India, Siddhartha Gautama abbandonò
nottetempo il palazzo paterno con il suo scudiero - dando vita a quella che la tradizione
buddhista chiamerà "La grande partenza" - e si mise alla scuola di alcuni maestri di Yoga.
Dopo aver passato qualche anno presso tali maestri, ottenne probabilmente dei "poteri".
120
Tuttavia Siddhartha rimase deluso e decise di continuare la ricerca spirituale coi propri
mezzi. Si dice che verso l'età di 36 anni, cioè circa sette anni dopo avere abbandonato la
famiglia e il mondo, dopo aver meditato tutta la notte sotto un albero, che fu chiamato poi
"albero della bodhi", cioè del "risveglio", albero che si trova ancor oggi a Bodhgaya, nel
momento in cui sorse l'aurora, Siddhartha si svegliò, si svegliò dal sogno della vita, dal
sogno del mondo e comprese quella che si potrebbe chiamare la verità, benché il termine
non sia pienamente adeguato. Da quel momento egli fu il Buddha, il Risvegliato.
Quello che ci permette di conoscere quello che ha insegnato il Risvegliato sono i sutra, i
detti del Buddha, che sono stati trasmessi da una generazione all'altra, in seno alla
comunità monastica. Dapprima sono stati fissati oralmente, in seguito, verso l'inizio della
nostra, questi sutra e il Vinaya, cioè l'insieme delle regole monastiche, sono stati codificati
per iscritto in pali, e si è venuto così a formare il Canone buddhista, cioè l'insieme dei detti
del Buddha, dei suoi insegnamenti e delle regole; ma il Canone è rimasto aperto fino a
verso il IV d.C. In quei secoli si sono potute fare aggiunte agli insegnamenti dottrinali o
alle regole monastiche, dettate a poco a poco dal Maestro, o dal Beato, come lo
chiamavano i suoi discepoli. Tale insegnamento lo si trova condensato nel famoso
"Sermone di Benares", un discorso pronunciato dal Buddha nel Parco delle gazzelle di
Sarnath, nei pressi di Benares. Cinque brahmani, che avevano prima plaudito al Siddhartha
asceta e poi se ne erano distaccati, gli si accostano di nuovo a causa dello straordinario
irraggiamento conseguente al "Risveglio" dal sogno della vita. Davanti a questi cinque
brahmani il Buddha pronuncia la sua prima predica, che per questo motivo è anche nota
come la "messa in movimento della ruota della legge", o Dharmacakrapravartana".
Questoe sermone, nel quale vengono esposte le Quattro Nobili Verità, si sviluppa
secondo uno schema medico che era in voga e in onore ai tempi del Buddha nel bacino del
Medio Gange, zona dove andavano e venivano molti asceti medici. Ora, quando si va dal
medico, questo fa una diagnosi, risale a una eziologia, formula una prognosi, e, in quarto
luogo, assegna una cura. Secondo tale "schema medico" la diagnosi del Buddha è
"sarvamduhkham", "tutto è malessere", "tutto è disagio". Si è tradotto talvolta tale
affermazione con "tutto è dolore" o "sofferenza", ma personalmente ritengo tale traduzione
eccessiva, in quanto il Buddha, in gioventù, aveva avuto una vita di piaceri e quindi sapeva
perfettamente che la vita era un'alternanza di piaceri e di sofferenze. Egli dunque intende
che tutto è malessere, sia in atto, ovvero quando si soffre effettivamente, sia in potenza,
121
quando il piacere o la gioia di cui si gode è suscettibile di trasformarsi, più tardi, in pene e
afflizioni. Semplificando si potrebbe dire che, per il Buddha, nella vita c'è sempre una
piccola cosa che non va.. Si tratta dunque di una diagnosi solo relativamente pessimistica.
In secondo luogo il Buddha individua l'eziologia, e afferma che l'origine del malessere - o
del dolore - è la sete, o "Duhkasamudaya trisna". Generalizzando si potrebbe parlare di
desiderio piuttosto che di sete, ma personalmente preferisco conservare il termine concreto.
La parola delicata è invece samudaya, che è tradotta letteralmente con "origine". Ora con
"origine" bisogna intendere il punto da cui si può veder sgorgare il dolore o il malessere.
Non si tratta dunque necessariamente della causa, perché non c'è posto, nella dottrina
buddhistica, per l'idea di una causa prima qualsiasi. La causa del malessere, che è senza
principio, è nel malessere stesso, che sgorga in occasione del sentimento-sensazione della
sete, o del desiderio. In terzo luogo il Buddha fa una prognosi. Tanto la diagnosi del
medico buddhista è fondamentalmente, benché relativamente, pessimistica, tanto la
prognosi è essenzialmente ottimistica. Infatti il Buddha afferma che è possibile porre fine
al dolore. Esiste infatti il nirodha, o il nirvana, cioè l'estinzione dell'io che ha sete, che
soffre e che trasmigra. La radice verbale nirva vuol dire letteralmente estinguere, soffiare
su una lampada, su una scottatura; il termine nirvana dunque significa estinzione dell'io
che ha sete, che soffre e che trasmigra. Occorre riconoscere che quello che il Buddhismo
propone è un rimedio eroico, poiché c'è motivo di pensare che il malato ne morirà, nel
senso che non potrà conservare il suo "io" e affermare la propria individualità. Quindi la
terapeutica buddhistica non è destinata a tutti, ma solo a quelli che hanno la vocazione
eroica di sradicare l'io o di dissolverlo. In quarto luogo il Buddha offre la ricetta o la
prescrizione medica. Ci sono otto rimedi, che la tradizione ha raggruppato comodamente
sotto tre titoli: shila, samadhi e prajna. Shila è l'ordinamento della condotta pratica, la
moralità. Samadhi è l'apprendere a fissare il pensiero in modo tranquillo, l'apprendere a
concentrarsi attraverso lo yoga. Per quanto riguarda la prajna, è difficile trovare
un'espressione che la traduca bene; ve n'è, però, una eccellente in latino: "acies mentis",
che si trova in Cicerone, nelle Tusculanae. Altrimenti è possibile anche una buona
traduzione in inglese, attraverso il termine "insight". Tuttavia se dovessi tentare una
traduzione direi che la prajna è la finezza, l'acuità dell'intelligenza. Un fatto capitale, che
generalmente gli europei non capiscono, è che ognuno di questi tre elementi non funziona
mai separato dagli altri due. La conseguenza è questa: poiché la morale non funziona
separata dallo yoga e dall'intelligenza, il Buddhismo non è un moralismo; poiché
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l'intelligenza non funziona separata dalla morale e dallo yoga, il Buddhismo non è un
intellettualismo - cosa che lo distingue dalla filosofia, anche se esso contiene, a causa della
prajna, una parte notevole di filosofia - e infine poiché lo yoga non funziona mai separato
dalla morale e dall'esercizio dell'intelligenza, il Buddhismo non è uno yoga selvaggio, ma
uno yoga addomesticato, subordinato a quell'esercizio di intelligenza che è la prajna.
La dottrina della "coproduzione condizionata", o, in sanscrito, pratityasamutpada è una
dottrina profonda, o gambhira, termine per altro costantemente associato all'insegnamento
del Buddha. Ora quando si va in profondità si finisce nel chiaroscuro, perciò non deve
sorprendere se la spiegazione della dottrina della "coproduzione condizionata" abbia un
sapore di enigma, tanto più, che tale dottrina si applica al descrivere ciò che precede la
vita, ovvero all'esistenza intra-uterina. Ma prima di presentare questa applicazione alla vita
umana della coproduzione condizionata, vorrei ricordare il condensato di questa dottrina,
che si trova nel Canone buddhistico, o più esattamente nel Majjhimanikaya dove si dice
che se questo è, è anche quello; se questo appare, appare anche quello; se questo non è,
neanche quello è; se questo cessa, cessa anche quello. In altri termini si tratta della prima
esposizione dell'idea di legge o di funzione, nella letteratura filosofica dell'umanità.
Naturalmente questa funzione o legge resta soltanto allo stato qualitativo, poiché a
quell'epoca non era stata ancora quantificata. Tuttavia io ritengo che si tratti della prima
enunciazione dell'idea di legge che non contenga l'idea di causa transitiva metafisica. Ora,
l'applicazione concreta alla vita umana della coproduzione si articola in una catena di
dodici anelli. Il Buddha l'ha esposta la prima volta partendo dalla fine, dal dodicesimo
anello, cioè dalla vecchiaia e dalla morte, risalendo anagogicamente fino al primo anello,
che rappresenta una fondamentale e radicale ignoranza, un irrazionale che starebbe alla
base della vita e forse anche del mondo. Ma poiché considero troppo ardua la spiegazione
secondo il modo regressivo, o pratiloma, ritengo sia meglio esporre questa duodecupla
concatenazione nel senso discendente.
Alla radice di tutto, nella vita umana, nella vita animale e nel mondo intero c'è un
principio che il Buddha e molti altri in ambito indù chiamano avidya, ovvero "ignoranza",
"nescienza", o ignoranza radicale. In termini moderni si potrebbe dire che l'avidya
rappresenta quell'irrazionale alla radice di tutto, sia della vita che del mondo. Il secondo
anello della catena, destinato a spiegare la genesi dell'individualità psico-somatica, è
rappresentato dai samskara, o "formazioni psichiche". In altre parole i samskara sono il
residuo delle vite anteriori: non si tratta dunque di semplici latenze, ma piuttosto di latenze
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Il Mahāyāna (il «grande veicolo»), ha come ideale, non il commino dell’ Arhat che
vive distaccato dal mondo, bensì quella del Bodhisattva. Sulle sue figure di eroi scelti a
modello e molto simili alle grandi figure eroiche dell'Induismo (Krishna, Rāma, ecc.) gli
adepti intrecciarono con vivace fantasia molte leggende: essi divennero il centro della loro
fervida devozione, molto affine alla bhakti dell'Induismo, a cui i Bodhisattva rispondono
con grande benevolenza e con sconfinata compassione e misericordia. In queste figure
piene d'affetto e altruismo la massa ritrova i suoi salvatori, esseri onnipotenti, da cui può
attendersi difesa contro le necessità e le miserie e aiuto nelle faccende mondane; aiuto che
il Buddha, irraggiungibile nel suo nirvāna, non può concedere. Il compimento delle dieci
virtù perfette (pāramitā: misericordia, moralità, pazienza, energia, meditazione, sapienza,
abilità nell'uso dei mezzi, voti, forza e conoscenza) è ora per i monaci e per i non monaci
l'ideale supremo — considerato come irraggiungibile dai loro avversari — perché tutti
possono tendere a divenire un Bodhisattva. Poiché la salvezza, seguendo l'esempio dei
Bodhisattva, non va più ricercata nel raggiungimento del nirvāna, scomparve l'interesse
posto dapprima nello sforzo per ottenere la liberazione, e la severa vita claustrale perse
molto della sua importanza. La letteratura mahayanica che, benché assai voluminosa, si è
conservata in gran parte in traduzioni cinesi e tibetane, e che si serve di tutti i tipi della
letteratura indiana, nei suoi sūtra, composti secondo il modello dei più antichi sūtra,
attraverso alla sua predilezione per i numeri smisurati e i miracoli colossali e per gli
avvenimenti che si compiono in spazi sconfinati e in tempi infiniti rispecchia i fondamenti
della sua idea sulla mancanza di sostanzialità, come anche le crescenti tendenze teistiche
che già si affiancavano nella venerazione resa al Buddha e ai Bodhisattva e che, con
l'assunzione di numerosi riti popolari diffusi nell'Induismo, condussero gradualmente il
Mahāyāna a impregnarsi di usanze e credenze induiste. I Bodhisattva più importanti sono
gli immediati successori del Buddha, già riconosciuti nel Buddhismo primitivo: Maitreya,
il « Messia », il quale dall'alto del cielo dove dimora può concedere la sua amorosa
protezione ai fedeli, applicando loro la ricchezza sovrabbondante delle sue buone opere;
Avalokiteśvara, la cui grande figura riunisce in sé i lineamenti di molte divinità
brahmaniche (Brahmā, Shiva, Visnu, ecc.) e che è il grande salvatore e soccorritore, che
tiene in mano il loto, che anche per gli induisti è il fiore della felicità, della vita e della
divinità; Manjusrī, il signore della parola, che con la spada della conoscenza distrugge
l'ignoranza; Vajrapāni, in cui rivive Indra.
126
I princìpi filosofici del Mahāyāna — che, secondo i seguaci dello Hīnayāna («il piccolo
o difettoso veicolo »), sono riprovevoli, perché non insegnati dal Buddha — portano con
sé una riprovazione dell''abhidharma, di cui tale corrente tenta di distruggere i fondamenti
con la sua dialettica sofisticata. Essi vengono esposti nelle opere note col nome di
Praj¤āpāramitāsūtra “Sūtra della perfetta sapienza», sui cui princìpi il grande maestro
Nāgārjuna creò una ontologia strettamente collegata con la mistica.
Interessanti peculiarità mahayaniche rispetto al Buddhismo primitivo sono, fra l'altro
in primo luogo la credenza che un Bodhisattva, nel tentativo di realizzare la salvezza
universale, può trasferire ad altri esseri i meriti da lui guadagnati con le sue opere buone:
il che costituisce una modificazione sostanziale della legge del karman e, in secondo
luogo, la credenza che un Buddha è in realtà un'essenza assolutamente pura, eterna,
onnipotente e sovramondana, il cui vero corpo — secondo la dottrina dei tre corpi del
Buddha sviluppatasi con l'andare del tempo e perfezionata definitivamente solo da Asaïga
(circa 400) — è il corpo della dottrina, spirituale, eterno e trascendente, che coincide con
la realtà assoluta e risulta, quindi, identico al brahman degli hinduisti. Nel « corpo della
fruizione », ugualmente eterno e trascendente, che costituisce il frutto delle infinite opere
buone compiute nelle precedenti esistenze, esso è visibile solo dai Bodhisattva che,
contemplandolo, ne possono godere. Come « corpo della creazione incomprensibile agli
uomini » esso è la forma, sotto il cui aspetto egli compare agli uomini sulla terra per
condurli alla salvezza. Questa dottrina fu perfezionata come segue: se l'essenza reale e
propria del Buddha coincide con la realtà ultima ed universale, allora tutte le essenze, che
ne partecipano, posseggono il germe della loro futura condizione di Buddha e sono,
quindi, destinate alla salvezza.
L'altra grande scuola del Mahāyāna , lo Yogācāra o Vij¤ānavāda, fu fondata dai fratelli
Asanga e Vasubandhu, che erano dei brahmani convertiti di Peshāwar (India
nordoccidentale). Asanga, servendosi d'un metodo positivo, insegnava una teoria idealista,
eclettica e sintetica nel suo complesso, in cui, tuttavia, modificava in senso positivo la
dottrina della « vacuità » universale. Secondo questa teoria, tutte le cose esistono solo in
quanto oggetti di conoscenza, ossia come fenomeni spirituali. Secondo questo monismo
idealistico, le “impregnazioni” (vāsanā) causate dai precedenti fenomeni costituiscono una
specie di terreno di cultura psichica, un fondamento inconscio dei fenomeni coscienti, la
cosiddetta « conoscenza-magazzino » dove le “impregnazioni” ridivengono germi, da cui
hanno origine nuovi fenomeni spirituali. Questa corrente subcosciente e psichica scorre
127
verso la morte, di modo che è conservata la connessione fra le diverse esigenze. In ogni
essere è insito allo stato latente il germe della sua salvezza ; questo germe, che coincide
col « corpo della dottrina » del Buddha e con l'unica sostanza insita nell'universo, viene
pure chiamato l’ātman « impersonale » del Buddha. Gli oppositori di questa dottrina
rinfacciano ad Asanga di avere nuovamente introdotto l’ātman brahmanico. D'altra parte,
anche al grande pensatore del Vedānta, Śaïkara stesso, a causa della sua dottrina, sostan-
zialmente parallela, con cui propugnava l'identità del’ātman e del brahman, fu rinfacciato
d'essersi lasciato eccessivamente influenzare dal sistema degli Yogācāra.
Dignāga o Dinnāga, discepolo di Vasubandhu, anch'egli di origine brahmanica, fu un
logico grande e fertile, e lo si può considerare come il fondatore della logica indiana
medievale, di cui fu il sistematizzatore. Egli e i suoi seguaci insegnavano nella famosa
università buddhista di Nālandā.
La venerazione popolare, resa fin dagli inizi al Buddha Gautama, si rivolse, a partire
dai primi anni dell'era cristiana, anche agli altri Buddha, che operano fuori del nostro
mondo e nella cui vicinanza si spera di poter rinascere. Il più famoso di tutti è Amitābha «
(il Buddha) dall'infinito splendore ». Egli vive nel Paradiso dell'Occidente — considerato
anche in India come un'antica terra dei Beati — nel paradiso « della perfetta beatitudine »
(sukhāvatī), i cui abitanti sono destinati al nirvāna e oltremodo contenti di poter insegnare
la loro dottrina soterica. Nell'adorazione di Amitābha si va operando una evoluzione
simile a quella operante nell'Induismo puranico contemporaneo : la lunga e diffìcile via
delle opere buone può venire sostituita dalla via della fede, facile e spedita che, pur
essendo affatto estranea al Buddhismo primitivo, attirava maggiormente le masse.
Probabilmente sotto l'influsso della corrente induistica della bhakti, si arriva a sostenere
che basta addirittura udire il nome di Amitābha e pensare sovente a questo Buddha o
anche solo, come si affermerà in seguito, avere pronunciato il suo nome per essere nell'ora
della morte condotti da lui nel suo paradiso che, in questo modo, è praticamente divenuto
il sostituto del nirvāna.
Il Mahāyāna, che ai tempi di Hsűan-Tsang fioriva nell'India nordoccidentale, nel bacino
del Gange e in tutto il Dekkhan settentrionale — ci limitiamo qui all'India — cominciò a
perdere d'importanza verso la fine del VII sec. a causa della diffusione del Tantrismo
buddhista, che è una corrente mistica parallela al Tantrismo induista. Il Tantrismo
buddhista, affine a quello induista, è caratterizzato, come questo, da consacrazioni, dalla
grande importanza assunta dal guru, da meditazioni, da mantra e mandala (che sono
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formule e figure cariche di « forza » magica), ecc. Questa corrente, verso il 700, si estese a
tutti i territori dell'India, trovando accoglienza persino in Nālandā. Già alla fine dell'VIII
sec. il Bengala e l'Orissa erano divenuti i capisaldi del Tantrismo buddhista, dove il
tempio Vikramaśīla, costruito dal re Dharmapāla verso l'8oo, divenne la sede principale di
questa corrente. Molta parte della sua dottrina era fortemente influenzata dal Tantrismo
scivaitico con la sua credenza in una universale analogia tra le grandezze e i fenomeni del
micro e macrocosmo, e incontrò notevole opposizione da parte dei Theravādin e degli altri
seguaci del Buddhismo tradizionale. I Tantristi si opposero al monachesimo;
sottolinearono il lato pratico della religione; diffusero una ritualizzazione assai ampia ed
elaborarono una dottrina in molti casi esoterica, tramandata in una copiosa letteratura che
costituisce la base dottrinale di questo ritualismo spiegato simbolicamente e sovente
giustificato. La teoria della « vacuità » universale fu spinta fino alle più estreme
conseguenze dal Tantrismo che insegna che tutto è equivalente a una copia dell'unica
realtà e, aderendo in pari tempo a Nāgārjuna, sostiene, per esempio, che bene e male sono
soltanto concetti relativi, la cui fittizia esistenza è dimostrata anche dal loro carattere
contraddittorio. Ne deducono conseguentemente che la salvezza consiste nel lasciarsi
compenetrare dalla verità, che tutto è « vuoto » di natura propria e, quindi, identico. La
comprensione piena e difficilmente raggiungibile di questa verità si trova nel mondo della
māyā, in cui viviamo ; ma è possibile solo con l'uso di metodi particolari, ossia attraverso
riti numerosi, spesso e volentieri di carattere sacrale e magico, non raramente sessuale.
L'esecuzione di atti sessuali, altrimenti vietati, può secondo loro, liberare l'adepto dalla
sfera della relatività e dell'illusione. L'efficacia dei riti — che sovente dimostrano la loro
efficacia proprio attraverso il loro carattere assurdo — si fonda sull'insegnamento di
Asaïga che ammetteva solo l'esistenza di fenomeni spirituali, da cui consegue che la
rappresentazione rituale, la recitazione di mantra carichi di forza spirituale, e la piena
comprensione del simbolismo rituale possono esercitare un influsso straordinario.
Sebbene non tutte le scuole tantriche arrivarono nella prassi alle estreme conseguenze
giustificando l'omicidio, la lussuria e l'ubriachezza rituale, tuttavia molti « operatori di
miracoli » (siddha) riuscirono a dimostrare di avere, con queste azioni magiche e
scandalose, compiuto buoni progressi nella pratica tantrica sì da potere rivolgere il loro
lungo e intenso esercizio in quelle azioni al soddisfacimento di scopi mondani. Tuttavia la
maggior parte delle scuole tantriche erano pienamente d'accordo per quanto riguardava il
simbolismo sessuale: gli elementi complementari dell'apparente dualismo di questo
129
mondo, considerati come maschili e femminili, debbono essere riuniti per poter realizzare
la suprema e assoluta unità e permettere la partecipazione alla grande felicità, ossia
l'esperienza di questa unità, a chi compie riti che arrivano a permettere il coito rituale.
Queste considerazioni e pratiche portarono con sé anche un grande ampliamento del
Pantheon, che ora comprende, non solo Buddha e Bodhisattva, ma anche molti geni,
divinità e demoni, che rappresentano le potenze trascendentali che si debbono
signoreggiare e sono, generalmente, accompagnati da partner femminili, le loro śakti, fra
cui particolarmente famosa divenne Tārā, nera, munita di quattro braccia, d'una pelle di
tigre, armata di spada e adorna d'una collana di teschi umani.
Delle singole scuole tantriche ricorderemo solo quella Vajrayāna, sorta fin dal VII
secolo. Essa rappresentava simbolicamente la suprema realtà, la « vacuità », per mezzo del
fulmine o diamante (vajra), invincibile e indistruttibile; e il suo culto aveva lo scopo di
scoprire sotto la pluralità il Buddha Vajrasattva (« la cui essenza è imperitura »), ossia
l'ultima e indistruttibile essenza di tutto ciò che esiste, e di trasformare i suoi adepti in una
essenza-diamante.
Secondo una ben nota tradizione induista, il tramonto del Buddhismo indiano sarebbe
stato avviato dalla comparsa di maestri induisti, soprattutto dell'esponente della Mīmāüsā,
Kumārila (circa 700), che polemizzò vivacemente contro di esso. È comprensibile che
molti maestri — non certamente tutti — sia scivaiti sia visnuiti, criticassero il Buddhismo
e considerassero il suo fondatore alla stessa stregua d'un esaltato. Tra le dottrine oppugnate
si trovavano, fra l'altro, la negazione dell'esistenza d'un ātman e le conseguenti dottrine
della inesistenza della sostanza, del non più che momentaneo sussistere di tutte le
grandezze e della impossibilità di ammettere l'esistenza d'una cosa qualsiasi. Per
controbattere le quali, essi, sostenendo le tesi contrarie, si appoggiavano, fra l'altro, alla
tradizione brahmanica delle Upanişad, alla realtà sperimentale, alle conclusioni
analogiche, ecc. Kumārila combatte anche l'affermazione per cui Buddha sarebbe
onnisciente : come potevano i suoi contemporanei, che non erano certamente onniscienti,
avere definito questa verità? La scuola Vedānta di Shankara, il cui insegnamento era sotto
vari aspetti assai vicino a quello della setta Vij¤ānavāda, si sforzò a lungo per rilevare e
criticare le « stupidità » e le « sofisticherie » dei Buddhisti. Era ovvio che si rinfacciasse ai
Buddhisti la loro negazione ereticale dell'autorità del Veda e dei Brāhmana; che si
imputasse a loro carico il disordine regnante nel dharma e nell'ordine sociale; così come i
Giaina rimproveravano allo Hinayāna il permesso di cibarsi di carne. Negli scritti
130
propagandistici la diffusione della loro dottrina è considerata come una prova della
degenerazione dell'umanità. In questa letteratura spiccatamente settaria si incontrano
naturalmente anche ammonimenti contro l'ingresso nei santuari buddhisti e l'affermazione
che nel regno ideale d'un principe indù, amico dei brahmani, non dovrebbe esistere
nemmeno un solo adepto del Buddha.
Sebbene il Buddha nell’XI sec. fosse già da lungo tempo entrato a far parte degli
avatāra di Viùõu, e lo scrittore Kshemendra nel 1066 avesse trasformato la leggenda del
Buddha in una leggenda visnuitica, sussiste tuttora, praticamente, l'opinione che il dio
abbia assunto l'aspetto del Buddha solo per portare l'eresia al suo acme e poter così
distruggere i nemici del Veda. Rāmānuja (circa 1100), scagliandosi contro la teoria
dell'illusoria apparenza del mondo, combattè non solo Shankara, ma anche le varie scuole
del Buddhismo. Contro i ragionamenti dei Mādhyamika, la cui dottrina sulla irrealtà o
sulla « vacuità » è, secondo lui, il vero punto d'arrivo del Buddha, il quale avrebbe
sostenuto che « la liberazione altro non sarebbe che un passaggio nel nulla », egli oppone,
per esempio, che la tesi che tutto sia « vuoto » è assolutamente indimostrabile; la
presupposta non-esistenza non deve essere mai accettata, dato che nella vita ordinaria le
espressioni essere e non-essere vengono usate solo parlando di un oggetto veramente
esistente. Inoltre chi volesse provare la non-esistenza, dovrebbe, almeno, ammettere la
realtà di un qualche mezzo di conoscenza, dato che egli deve pure averla conosciuta con
un qualche mezzo conoscitivo. Già Kumārila si era domandato come potessero gli scrittori
delle opere buddhiste e giainiste essere onniscenti, dato che non possedevano affatto la
potenza creatrice. Riferendosi alla dottrina buddhista che l'errore (l'ignoranza) produce i
samskāra ( le impressioni residue e le disposizioni da queste dipendenti) o engrafie,
Rāmānuja osserva che l'ignoranza può, sì, fare in modo che qualcuno ritenga stabili le cose
transeunti, ma non può far sì che le cose non spirituali si conglomerino.
Questa opposizione dei maestri brahmanici costituisce, tuttavia, solo uno dei molti
fattori nel lungo e complicato processo del declino del Buddhismo in India, e nemmeno il
più importante. Anche l'organizzazione e la diffusione generale dell'Induismo puranico
non fu che una delle cause tra i molti momenti interni ed esterni che si possono
distinguere in questo processo. Ci si deve ricordare che la « buona dottrina » in India non
fu mai l'unica dottrina di liberazione e, ancora, ch'essa non tentò mai di eliminare le altre
dottrine di liberazione. Essa, anzi, lasciò affatto intatta sia la credenza popolare sia la
prassi religiosa delle masse, anche quando una parte di questa massa divenne partigiana
131
della sua dottrina. Sebbene i riti di liberazione brahmanici e induisti non servissero
affatto allo scopo, poiché solamente « i riti spiritualizzati », come la purezza del cuore,
hanno una ben determinata importanza, tuttavia molti laici, che consideravano la dottrina
del Buddha troppo unilaterale, e che non si accontentavano di concetti religiosi, vi
prendevano parte. Poiché questi riti puntualizzavano tutta la vita ed erano approvati o
almeno permessi dai brahmani, i “laici”, soprattutto i seguaci dello Hinayāna, risentirono
incessantemente dell'influenza dell'Induismo. Solo quando prìncipi, come Harsa nel VII
secolo e la dinastia buddhista Pala nel Bangala, Bihar e Magadha (circa 730-1199) si
interessarono della dottrina del Buddha, questa riuscì a controbilanciarsi in un qualche
modo. Inoltre la sua diffusione non aveva mai goduto d'una intensità costante; anzi, in
molti territori del centro e del sud essa non possedette mai se non qualche monastero o
santuario isolato. Perciò, quanto più si diffondeva, tanto meno essa poteva corrispondere
all'antico ideale di essere una dottrina di liberazione per una élite, che si era già sotto-
posta alla necessaria preparazione spirituale. Un fattore importante nel processo di
decadenza del Buddhismo fu anche la mancanza di unità, di una guida centrale e di una
dottrina obbligatoria per tutti. Il Buddhismo era tanto tollerante di fronte alle dottrine
estranee, quanto discorde internamente a causa delle scuole e correnti in continua,
vicendevole rivalità. L'accoglimento di numerosi elementi induisti o estranei avvenuto
nel Mahāyāna; il riconoscimento di figure divine e il culto, sempre più frequentemente
reso loro; la compenetrazione permessa a comuni pratiche e concezioni tantriche, inoltre,
contribuirono a scalzare le fondamenta del Buddhismo, troppo facile all'assimilazione e
sempre pronto a concessioni. Da dottrina gnostica e di liberazione per pochi eletti, nel
corso dei secoli il Buddhismo era diventato un movimento di fede per una porzione della
massa quasi completamente induizzata. Quando l'Induismo nell'VIII sec, sotto la guida di
un Kumārila e di un Shankara, prese ad adottare princìpi etici e metafisici del Buddhismo
e, inoltre, a riorganizzare il suo ascetismo sull'esempio buddhista — oltre il resto,
adottando la vita monastica — il Buddhismo minacciò di divenire ancor più velocemente
solo una forma dell'Induismo generalmente dominante.
Un punto debole del Buddhismo era costituito dalla concentrazione della dottrina nei
monasteri che incentravano, altresì, le condizioni economiche della sua esistenza. Da una
parte, la ricchezza di quegli istituti condusse al lassismo; dall'altra, la distruzione di questi
centri significava sempre un duro colpo per la dottrina. Secondo lo storico tibetano
Tāranātha, molte sètte erano già scomparse alla fine del VII sec. ; e il viaggiatore cinese I-
132
Tsin notava già alla fine dello stesso secolo parecchi indizi di decadenza; e nel 1125 lo
storico Kalhaõa conosceva nel Kashmir solo una forma ormai deformata della Dottrina. La
fine, tuttavia, fu accelerata particolarmente dalle distruzioni provocate dai Musulmani,
intolleranti e iconoclasti, che verso il 1200 inondarono l'India nordorientale, mettendo a
ferro e fuoco, fra gli altri luoghi sacri, anche Nālandā e Vikramaśīla, proprio mentre il
Buddhismo sotto la dinastia Pāla costituiva una potenza ancora viva solo nel Bengala, nel
Bihar e in qualche territorio isolato del nord. Durante la conquista musulmana del Bihar
(verso il 1193) tutti i monaci vennero sgozzati, cosicché non vi era più nessuno in grado di
leggere i libri conservati nelle biblioteche dei monasteri. Alla decadenza del Buddhismo
contribuì pure considerevolmente l'emigrazione di numerosi monaci verso il Nepal e il
Tibet; decisiva fu pure la conversione, in parte forzata in parte per opportunismo, di molti
laici al musulmanesimo. Tuttavia alcuni centri resistettero ancora per poco tempo: fino al
1331 si trovavano ancora monaci nell'antico centro di pellegrinaggi del Buddha (Bodh)
Gayā nel Bihar, dove Gautama aveva trovato il « risveglio » e dove l'albero sacro aveva
continuato a fiorire, nonostante fosse stato più volte abbattuto. Una propaggine del
medesimo albero viene tuttora venerata dai Buddhisti; un'altra, trapiantata a breve
distanza, è oggetto di culto da parte degli indù che vi adorano il Buddha come nono
avatāra di Viśnu.
La ricezione del Buddhismo in Europa nel XIX secolo e nella prima metà del XX.
evidentemente embrionale, nelle Lezioni sulla filosofia della storia parla dell'elevazione
negativa propria del Buddhismo, per il quale, secondo lui, il nulla è il principio di ogni
cosa, da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna. Anche Nietzsche si è interessato del
Buddhismo sostenendo un atteggiamento a due versanti. Da un lato, infatti, afferma che il
fenomenismo stretto del Buddhismo, ovvero l'impermanenza e l'insostanzialità, lo ha
liberato dal platonismo che esecrava, aggiundo che «il Buddhismo è l'unica religione
veramente positivistica che ci mostri la storia». (F. Nietzsche, L'anticristo, a cura di
Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1982, p.47), che il Buddha è un «profondo fisiologo»,
e la sua igiene è fondata sulla constatazione che il risentimento «che nasce dalla debolezza,
non è dannoso a nessuno quanto al debole stesso» (F. Nietzsche, Ecce Homo, a cura di
Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1965/81 p.27), che «il Buddhismo è cento volte più
realista del Cristianesimo» (F. Nietzsche, L'anticristo, a cura di Ferruccio Masini, Milano,
Adelphi, 1982, p.47) e che l'Occidente cristiano avrebbe forse bisogno di un neo-
buddhismo. Ma dall'altro lato Nietzsche vede nel Buddhismo una astenia della volontà.
Nell'ultima pagina della Genealogia della morale, infatti, egli dichiara, a proposito del
ascetismo, che «l'uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere...» (F.
Nietzsche, Genealogia della morale, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1968/84,
p.157). E analogamente spiega il misticismo come un sadismo rivolto contro se stesso. Di
conseguenza afferma che la volontà del nulla ha la meglio sulla volontà di vita, e che vede
approssimarsi il tempo del nihilismo e che soltanto la tragedia ci potrà salvare dal
Buddismo. Ed è perciò che in definitiva Nietzsche si oppone al Buddhismo, che aveva
conosciuto attraverso il suo amico Deussen, il quale, d'altronde, detestava il Buddhismo al
quale preferiva il Brahmanesimo. Nel XIX secolo, dunque, il Buddhismo, in generale è
visto come una dottrina e un culto del nulla, salvo rare eccezioni, come quella
rappresentata da Burnouf, con la sua Introduction à l'histoire du Buddhisme indien del
1844, e per certi aspetti da Schopenhauer. Ma anche Burnouf in definitiva, benché sia
molto al di sopra dei suoi contemporanei, pensa che la volontà del nulla nel Buddhismo sia
predominante. Schopenhauer forse è più lucido. Egli infatti non pensa che il Buddhismo
sia un nihilismo, ma piuttosto che sia una dottrina fondamentalmente pessimistica.
Agli inizi del XX secolo vi è però un grande studioso, Louis de La Vallée Poussin
decisamente in anticipo sulla maggior parte dei suoi contemporanei. Egli ha curato
un'edizione critica delle Stanze del cammino di mezzo di Nagarjuna, con il commento di
Candrakirti, assai dotta, sulla base di tre manoscritti. Tuttavia anche Louis de La Vallée
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Poussin, che è tutto, tranne che desueto, tanto è vero che ancora oggi viene salutato come
un maestro da scienziati di livello internazionale, quando si interessa ai buddhisti più
radicali, quali Nagarjuna, afferma che questi non era certo un nihilista, ma era un sofista,
anche se un sofista così "virtuoso", così brillante, che non gliene si può volere. E aggiunge
che forse di Nagarjuna, che si prende gioco di noi senza dircelo, bisognerebbe cogliere tra
le righe il sorriso.
Attualmente il Buddhismo sopravvive in India, nel Bengala, con tanti piccoli focolai, che
non si sono mai spenti. Questo perché uno dei fondatori della costituzione indiana,
Ambedkar, che era il leader degli intoccabili, si convertì al Buddhismo, pensando che
questo fosse il modo migliore per uscire dal sistema delle caste. Egli dunque si trasferì a
Bombay, dove, con un gran numero di discepoli, che erano, come lui, degli intoccabili,
fondò un gruppo buddhista indiano. Sfortunatamente morì pochi mesi dopo, sicché il
Buddhismo è sopravvissuto in India soltanto all'interno di cerchie assai ristrette. Nell'Asia
settentrionale il Buddhismo ha una presenza pregnante in Tibet, Cina, Mongolia, Corea e
Giappone. Inoltre è presente anche in quasi tutti i paesi del Sud-Est asiatico, quali lo Sri-
Lanka, la Birmania, il Laos, la Thailandia e il Vietnam. Perciò la comunità buddhistica, in
senso largo, è ancora pienamente viva ai giorni nostri. La domanda che possiamo porci è:
qual è l'avvenire del Buddhismo europeo o americano? L'illustre Professore Edward
Conze, buddhista praticante, si è posto la domanda circa venti anni fa, e ha risposto che il
Buddhismo in Europa avrebbe sicuramente avuto uno sviluppo. Quanto a me, ritengo che il
Buddhismo potrà acclimatarsi in America o in Europa, sotto forma di piccoli gruppi, che
potranno diventare molto influenti, ma che non saranno mai numerosi. Il Buddhismo non
può adattarsi alle masse europee o americane perché gli occidentali hanno un senso
violento e pregnante dell'io. E in definitiva, nella vita quotidiana, che cosa implica dire "io"
o "me"? Personalmente ritengo possa implicare due cose: il concepirsi e il sentirsi come
l'autore e l'attore dei propri atti, o il sentirsi anche come il consumatore e il fruitore del
proprio godere, nella buona e nell'avversa sorte. Ora, a livello dell'esperienza quotidiana,
un occidentale non si potrà mai disfare dell'idea di un io sostanziale, unico e soprattutto
semplice, perché si concepisce e vive, come autore dei suoi atti, responsabile dei suoi atti,
nel bene e nel male, come il degustatore e il consumatore di ciò che gli accade di piacevole
o di spiacevole nella vita.
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Complementi Bibliografici.
ENCICLOPEDIE
DIZIONARI
ANTOLOGIE DI TESTI
La rivelazione del Buddha, voi. I: I testi antichi, a c. di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001.
La rivelazione del Buddha, voi. II: II grande veicolo, a c. di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2004.
Testi Buddhisti in sanscrito, a c. di Raniero Gnoli, UTET, Torino 1983.
STUDI