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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Prof. Marco Pucciarini©

GIUDAISMO,ISLAMISMO, INDUISMO E BUDDISMO

Modulo I

Dispensa del Corso di Storia delle Religioni

PERUGIA 2007
2

INDICE

Cap.I IL Giudaismo. .................................................................................... 3


Cap.II. L’Islam. .......................................................................................... 23
Cap. III. L’INDUISMO ANTICO. ........................................................ 63
Cap.IV. Il BUDDISMO ...................................................................... 103
3

Cap.I IL Giudaismo.

Dalla tarda antichità sino ai giorni nostri, con il termine “giudaismo” ci si riferisce ad un sistema
ebraico specifico che evoca come simbolo generativo la parola Torah, intesa così come la
concepirono i saggi o i “rabbi”. Un sistema che promette la venuta del messia quando Israele, cioè
il popolo ebraico, osserverà la Torah insegnata dai saggi e che comprende nel canone della Torah
due modi di rivelazione: quello scritto (cioè le Scritture ebraiche o “Antico Testamento” come è
chiamato dai non ebrei e quello orale. Il sistema nel suo insieme forma un modo di vita –azioni
quotidiane e vita sociale – e una visione del mondo che spiega questo modo di vita e lo collega alla
volontà di Dio per “Israele”, definito come i figli, in senso genealogico, di Abramo, Isacco e
Giacobbe. Il giudaismo, così come lo conosciamo, emerse dopo una fase di forma zione di circa
seicento anni, dal primo al settimo secolo d.C., all’interno delle comunità ebraiche della Terra
d’Israele e Babilonia. Fu nel quarto secolo, in Terra d’Israele, in risposta al trionfo del cristianesimo
nell’Impero romano, che si delineò il profilo del giudaismo così come è giunto sino a noi.

LA LEGGE ORALE E LA SCRITTURA.

Qualche anno dopo la presa di Gerusalemme e l'incendio del Tempio da parte dei soldati del ge-
nerale romano Tito (70 d. C.), gli Ebrei riorganizza rono la loro religione, questa volta, ed in
modo definitivo, senza più il Tempio. Rimaneva loro la Legge (la Torah); essa ebbe, in un certo
senso, la stessa funzione che aveva l'edificio divino con il suo culto secolare. furono fissate le
leggi, definiti in modo netto la pr atica religiosa e soprattutto il canone delle Scritture. La
preoccupazione più grande era rappresentata dall'ortodossia. La religione ebraica si ristrutturò
unicamente in quanto farisaica, poiché i maestri superstiti appartene vano quasi esclusivamente
4

al gruppo che portava questo nome. I Sadducei, aristocratici vicini al Tempio, erano
praticamente scomparsi nel disastro; quanto ai Cristiani, stavano per mostrarsi come una setta
di Ebrei eretici da respingere.
Verso la fine del I secolo cristiano gli Ebr ei palestinesi definirono il loro canone delle
Scritture ; Parallelamente ai libri biblici il giudaismo posse deva anche un importante blocco di
tradizioni, leggi e leggende che circolavano oralmente nel culto, nell'insegnamento e nei
tribunali e che già si era iniziato a fissare per iscritto. Questo insieme è proprio ciò che sarà
chiamato Legge orale, complemento della Legge scritta, che a sua volta stava per diventare
Scrittura. Verso la fine del I secolo d. C., infatti, il giudaismo, divenuto la religio ne dei
rabbini - da cui la formula « giudaismo rabbi nico » - professò come un dogma che Legge scritta e
Legge orale erano state rivelate a Mosè sul Sinai e che la Legge orale completava e spiegava la
Legge scritta per renderla comprensibile e attuale per ogni generazione. Mosè fu considerato
come il Maestro « totale » della Torah; per questo si legge nel Talmud: « Tutto ciò che un
discepolo fervente è destinato a portare di nuovo è già stato detto a Mosè sul monte Sinai ». In
qualche modo, con questa distinzione tra Legge scritta e Legge orale (che non risale a prima del
II secolo d. C.) veniva posto e risolto il problema dei rapporti tra Scrittura e Tradizione che
diverrà classico nella teologia cristiana.

RICERCHE E TRADIZIONI ORALI.

Lo scopo dei rabbini nei confronti della Legge era scoprire e trasmettere il senso dei testi
rivelati. Per far ciò si proponevano due obiettivi: da una parte mostrare come la rivelazione della
Torah si applicava alle situazioni mutevoli e differenti della vita (è questo u n aspetto
piuttosto giuridico); dall'altra aiutare il popolo dei credenti ad accet tare i decreti come emanati
dalla volontà divina (è questo uno scopo soprattutto edificante). Questi due obiettivi diedero
origine a due attività specifiche chiamate halakāh e haggadāh.

La halakāh

Halakāh è un termine tecnico che deriva dalla radice ebraica hālak, « camminare »; designa le
decisioni delle autorità rabbiniche relative a punti discussi o incerti del modo di vivere che
riguardano sia gli individui che la com unità stessa. La halakāh è la « via », il « cammino » o la «
5

regola » che interpreta la Legge scritta e le permette di trovare applicazione nelle circostanze
reali della vita. Si chiama halakāh quella parte della letteratura giudaica che ha una portata
normativa; al plurale, halakōt, significa regole, « decisioni » e anche « raccolta di leggi ».
Sebbene l'insegnamento deII’'halakāh fosse intimamente legato alla Scrittura, poteva tuttavia
essere trasmesso in modo indipendente da essa. Così, l'elaborazione dell'halakāh avvenne in due
campi: uno vicino alla Scrittura, il Midrash, l'altro, più autonomo, la Mishnah:

a) Il MIDRASH.

Il Midrash, dalla radice darash, « cercare », significa « ricerca » ed è utilizzato per la


spiegazione delle Scritture. In modo più preciso designa:
- il compito ed il metodo di studio della Scrit tura (la beth hammidrash era la « casa di ricerca
» o la scuola di esegesi biblica);
- il risultato di questo studio: un brano di inter -pretazione o di commento sul tipo di quelli
che si potevano frequentemente rintracciare nelle ome lie in sinagoga;
- opere letterarie di commento biblico, chiamate midrashim (plurale di « midrash ») e più
tardi compilate in vaste raccolte. Il midrash è un mezzo di trasmissione della halakāh, così
come lo è anche la mishnah.

b) LA MISHNAH.

Mishnah viene da shānāh, « ripetere », e significa « ripetizione » o « studio (o in -


segnamento) fatto attraverso la ripetizione ». Questa parola si applica soprattutto alla Legge
orale; è quasi l'equivalente di halakàh ed anche di tutto l'insieme della tradizione detto Legge
orale. Collezione di halakōt, la Mishnah cita solo raramente i testi della Scrittura (a differenza
del Midrash che li prende come punti di partenza).

L'haggadah
Questa parola deriva dalla radice hīggīd, « annunciare », « raccontare », e significa « quello
che la Scrittura dice » oltre al suo significato ovvio. Tuttavia in senso stretto designa
l'interpretazione della Scrittura, distinta dalla halakāh. Il discorso haggadico segue molto da
vicino il testo biblico, ma spesso vi inserisce anche parole, proverbi, leg gende o racconti di
miracoli destinati a istruire e confortare il giusto che cerca Dio. L'haggadāh interpreta ed
illustra la Scrittura; proprio in essa si trova la maggior parte di elementi agiografici (o
6

racconti della vita di santi) della grande tradizione giudaica; analogamente molte « vite di santi
» fanno parte della haggadāh.

L'haggadāh è in appoggio agli elementi nor mativi o halakah; nel Vangelo di Matteo, il più
giudaico dei testi del Nuovo Testamento, i miracoli riportati nei capitoli 8 e 9 sono, ad esempio,
la « haggadàh del Nuovo Mosè » che segue, per darle maggior risalto, la « halakah del Nuovo
Sinai » (o Discorso della Montagna dei capitoli 5 -7).

FISSAZIONE DELLE TRADIZIONI ORALI

Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalem me, il giudaismo conobbe un lungo ed ampio
processo di fissazione per iscritto e di compilazione degli elementi sparsi della Legge orale.
Questo processo durò quattro o cinque secoli . Si tratta di una vera e propria storia letteraria
nella quale si possono individuare una serie di tappe fondamen tali di produzione, concatenate le
une alle altre e, parallelamente, una successione di generazioni di maestri — « rabbini » —
redattori.

La « Mishnah » e i « tannaim »
Nel corso del II secolo dell'era cristiana i rab bini hanno riordinato buona parte delle
tradizioni normative conosciute nel loro ambiente. Una com pilazione sistematica fu iniziata dal
famoso Rabbi Aqiba (martirizzato dai Romani verso il 135); fu poi proseguita dai suoi discepoli,
in modo particolare da Rabbi Meir, che ne fece una prima redazione. Su questa base, con
l'apporto di altri elementi, ver so l'anno 200 il patriarca Giuda I pubblicò la rac colta definitiva
chiamata Mishnah. Essa rappresentava il codice fondamentale di leggi del giudaismo rabbinico
e comprendeva sei sezioni (sedarim). Il termine Mishnah può voler dire sia « ripetizione »,
come già abbiamo detto e secondo la conferma della trascrizione greca dei Padri de lla Chiesa
(deuterosis; bisogna allora leggere l'ebraico come Mishnēh), sia anche « insegnamento » — in
realtà l'insegnamento della tradizione è necessariamente ripetitivo! La generazione dei rabbini
che furono gli artefici di quest'opera è chiamata genera zione dei tannaim (plurale di tanna, «
insegnamento »). La Mishnah è la prima delle grandi produzioni legislative del giudaismo senza
Tempio; il suo studio era addirittura considerato da alcuni come l'e quivalente dell'offerta di un
sacrificio.
7

[ La Mishnah è il risultato di un lavoro selettivo. Le tradizioni omesse nel corso della sua
redazione sono tuttavia state conservate in alcuni libri e sono state chiamate baraytot (plurale
di barayta, « esterno »). Presentano la particolarità di contenere molte parti di haggadāh, cioè
elementi non giuridici.]

La Ghemara , gli amoraim e il Talmud.

- il TALMUD DI GERUSALEMME, come è chiamato correntemente, è stato anche con più


esattezza chiamato « Talmud degli abitanti di Israele » o « Talmud degli occidenta li ». Iniziato
a Cesarea verso il 350 d.C., fu terminato a Tiberiade verso la fine del IV secolo circa.

- il TALMUD DI BABILONIA fu composto all'Accademia di Sura nel V secolo. Non copre


tutte le sezioni della Mishnah. Con la sua autorità e la sua ampiezza, soppiantò anche in Palestina
il Talmud di Gerusalemme; quando si parla di Talmud senza specificare di quale si tratti, ci si
riferisce ad esso. Con il Talmud l'insieme della Legge orale giudaica era divenuto scrittura. A
sua volta, quando fu completato e pubblicato, ci si mise a spiegarlo come se si trattasse di una
nuova Scrittura. La prima ge nerazione di rabbini che commentarono il Talmud nel V! e VII
secolo fu chiamata generazione dei saboraim («coloro che ragionano»): ad essi il Talmud deve
aggiunte, conclusioni e frasi di passaggio. Dal VII al IX secolo il Talmud, in modo particolare il
Talmud di Babilonia, fu imposto dai Geonìm (« eccellenze »: i rettori delle Accademie
giudaiche di Mesopotamia) come la grande autorità nor mativa per gli ebrei del mondo intero.
Ormai il giudaismo era « talmudico ».
8

La Sola Scrittura. 1
L'apparire della Mishnah e del Talmud, legato alla Teologia della Torah che il rabbinismo
aveva enunciato in modo netto dopo la rovina del Tempio — insieme al riconoscimento, quale
dato essenziale, di una Legge orale che, risalendo anch'essa a Mosè, illuminava e completava la
Legge scritta —, segnò una rottura decisiva in rapporto ad altri mo vimenti autenticamente
giudaici, ma di diversa ideologia e cioè quello dei Sadducei da un lato e quello dei Qumraniti
dall'altro. L'orientamento del giudaismo verso una sistemazione esclusiva delle idee e delle
tendenze farisaiche fu certamente condizionato dalla sparizione fisica tanto dei Sad ducei che dei
Qumraniti dopo la rivolta dei Giudei contro Roma, ma c'è un motivo ancora più impor tante: in
realtà per questi due movimenti, l'uno vi cino al Tempio e l'altro invece lontano, la Scrittura
soltanto o Legge scritta possedeva l'autorità di Legge rivelata.

1
« Sola Scriptura », « La Scrittura soltanto »! Questo grido riassume la caratteristica essenziale dello spirito della riforma
protestante del XVI secolo.
9

i SADDUCEI

I Sadducei erano il partito opposto ai Farisei 2. Nella storia dell'ebraismo appaiono come tali
per la prima volta sotto Giovanni Ircano (134 -104 a.C.). Di provenienza aristocratica, durante
tutto il I secolo a.C. e per buona parte del I secolo dell'era cri stiana, trovarono i loro adepti
soprattutto nella casta sacerdotale. Al tempo di Gesù controllavano l'amministrazione e il culto
del Tempio. Nonostante la loro complicità con gli occupanti romani, la rovina del Tempio fu
per essi fatale. Dato che erano dei politici, la loro forza non poteva sopravvive re
all'annientamento dello stato giudaico. Dopo questo evento, riguardo ai Sadducei si
ritrovarono solo delle false tracce; nella letteratura rabbinica (Mishnah e Talmud) « sadduceo
» è semplicemente sinonimo di « eretico » (la censura cattolica del XII, XIII e XIV secolo ha
spesso sostituito con « sadducei » il termine minim, « eretici », in cui essa vedeva la
designazione dei giudeo-cristiani).
L'origine e il significato del nome « sadduceo » sono enigmatici. Di solito l i si spiega
ricollegando il termine ai discendenti o sostenitori di Sadoq, sacerdote di Davide (2 Sam 8, 17)
e di Salomone (1 Re 2, 35). Questo è un dato lontano dall'essere acquisito3.
I Sadducei sono conosciuti da Giuseppe Flavio (sebbene fariseo, egli n on li accusa di essere
dei giudei empi) e dal Nuovo Testamento. Nella lette ratura rabbinica un racconto che sembra
risalire al I secolo d.C. (secondo le indicazioni delle Abbot Rabbi Natan) segnala che la
separazione tra farisei e sadducei si verificò verso la fine del II secolo a.C.; questa informazione
sembra sicura.
I Sadducei, lo abbiamo già detto, erano sosteni tori dell'autorità unica della Scrittura, che
essi limitavano al Pentateuco. In virtù di questo princi pio rifiutarono i dogmi o le credenze
tarde dei Farisei: la resurrezione dei corpi, l'immortalità personale, l'esistenza di angeli e di
demoni. Questo atteggiamento non impedì loro di far fronte ai cam biamenti sociali e di
produrre la loro propria halakàh, di cui ci è noto qualche esempio.

I QUMRANITI

2
V. l'importante lavoro di J. Le Moyne, Les Sadducéens, Gabalda, Parigi 1972.

3
II plurale che si trova nel Nuovo Testamento, saddou-kaioi, permette di supporre la vocalizzazione saddùqi (con certezza
si conoscono solo le consonanti ebraiche sdwqi al singolare, sdwqym al plurale), difficilmente derivabile da Sadoq.
10

A partire dal 1947 le grotte del deserto di Giuda hanno consegnato ai ricercatori molti pezzi
della biblioteca di una complessa fraternità giudaica che, nei due ultimi secoli precedenti la
nostra era e fino alla grande rivolta degli ebrei contr o Roma (70 d.C.), condusse una singolare
vita religiosa nei dintorni di Qumran, vicino al Mar Morto 4. Uno degli aspetti sorprendenti
della vita di questa comunità vicina, per i suoi scritti e i suoi costumi, agli Esseni, sta nel fatto
che essa era interamente organizzata al di fuori del Tempio e senza Tempio, in un'epoca in cui
questo era ancora in piedi con tutta l'imponenza del suo potere sociale e simbolico. I Qumraniti
erano dei praticanti della Scrittura. At torno alla lettura di quest'ultima, al suo studio e al suo
commento si strutturava buona parte della vi ta della loro comunità, detta della Nuova Alleanza.
Con la pratica che di essa si faceva, la Scrittu ra sostituiva da sola il Tempio e il suo culto. Per
questi credenti la Scrittura conteneva c ontemporaneamente « cose evidenti » (nigelòt) e « cose
nascoste » (nisterot). Le « cose evidenti » consiste vano in precetti enunciati nella Torah (che
esiste solo scritta) in termini chiari e precisi, sui quali nessuno poteva discutere; le « cose
nascoste » erano invece leggi formulate in modo vago ed im preciso: venivano precisate per
mezzo di una ricerca interna ed ininterrotta fatta sul testo della Scrittura. Questa ricerca si
chiamava midrash hat-torah, « ricerca della Legge ». I Qumraniti credeva no di possedere il
carisma dell'interpretazione e di usarne in modo infallibile; nell'adempimento di questo
compito si dicevano persino profeti. Inoltre a Qumran si credeva nella scoperta e nella rivela -
zione progressiva della Torah che sarebbe avvenuta grazie al lavoro degli « scrutatori della
Legge ». La Bet hattorah, « casa della Legge », designava an che il gruppo di Qumraniti che per
indicare il giudaismo che praticavano e coltivavano usavano l'espressione derēk YHWH, « il
cammino di Yahvé ». Questo « cammino » era lo studio della « Legge di Mosè », l'osservanza
dei precetti rivelati « quando giunse il tempo » e anche la sottomissione alla ri velazione dei
profeti; quest'ultimo fatto mostra come gli scritti profetici giocassero ugualmente un luogo
essenziale nella scoperta dei tesori nascosti della Legge di Mosè. Queste pratiche e l'idea ad
esse soggiacente si muovevano pertanto in senso contrario a quello che sarà l'insegnamento dei

4
Questa biblioteca - o queste biblioteche - contenevano testi biblici in ebraico ed anche in greco, libri apocalittici, opere
proprie al gruppo (commenti biblici, inni), testi profani. V. A. Dupont-Sommer, Les Ecrits esséniens découverts près de la Mer
Morte, Payot, Parigi 1964 (libro molto documentato ed abbordabile, con la traduzione dei testi maggiori) o J. T. Milik, Dix
ans de découvertes dans le désert de Judo, Cerf, Parigi 1957. In italiano si possono consultare: Manoscritti di Qumran, a
cura di L. Moraldi, Utet, Torino 1971; L. Moraldi, Maestro di Giustizia, Possano 1971; A. Penna, / figli della luce, Possano
1971; Michelini-Tocci, I manoscritti del Mar Morto, Bari 1967.
11

rabbini, per i quali la Legge scritta non poteva trovare in se stessa la sua interpretazione, ma
aveva bisogno della Legge orale, rivelata a Mosè al Sinai al pari di ogni altra rivelazione.

Il giudaismo rabbinico definì dunque la sua teoria e la sua dottrina della Torah in un modo che
radicalmente rompeva con i due gruppi, Sadducei e Qumraniti, per i quali esisteva una sola
Legge, scritta, comprendente tanto gli scritti attribuiti a Mosè che i testi dei profeti. Circa
sette secoli più tardi, quando ormai i Geonim avevano imposto il Talmud di Babilonia come il
grande testo normativo per tutto il giudaismo, intervenne una vigorosa reazione: si tratta di
quella dei Qaraiti, che opera rono un vero e proprio ritorno alla « sola Scrip tura » dei Sadducei
e soprattutto dei Qumraniti.

I « PROTESTANTI » DEL GIUDAISMO: I QARAITI

In un certo senso i Qaraiti rappresentano per il giudaismo ciò che i Protestanti sono per il
cristianesimo5. Questo nome è la trascrizione di Qaraim, « lettore (della scrittura) », parola
derivata dal verbo ebraico qara, « leggere » (i Qaraiti furono anche chiamati Benē-Miqera, «
figli della Scrittura »). Etimologicamente, i Qaraiti sono dunque i « Biblisti » o « Studiosi
della Scrittura »; e di fatto essi storicamente ebbero questo ruolo.
Verso la metà delI'VIll secolo, a Bagdad il rab bino Anan ben David ruppe con la tradizione
giudaica per proclamare il ritorno al testo della Legge: « Studiate la Legge a fondo! », questa
era la sua consegna.
Egli scrisse un Libro di Precetti che sostituiva per i suoi seguaci, chiamati in un primo tempo
Ananiti, la Mishnah e il Talmud. Questo movimento ben presto si diffuse negli ambienti
giudaici dell'Iraq e della Persia, poi, a partire dal IX secolo, in Palestina. Attraverso
Costantinopoli, punto di incontro e di scambio, rag giunse l'Europa centrale e orientale; qui si
moltiplicò con una fortuna variabile secondo le epoche, fino alla troppo celebre persecuzione
del XX secolo. Oggi in tutto il mondo esistono solo poche centinaia di Qaraiti.
Gente del Libro e sostenitori della sola Legge scritta, i Qaraiti si dedicarono ben presto a llo
studio scientifico della Bibbia. Dal IX al XII secolo si succedettero delle vere e proprie

5
V. l'opera erudita ma di facile lettura di A. Paul, Ecrits de Qumran et sectes juives aux premiers siècles de l'Islam.
Recherches sur l'origine du qaraisme, Letouzey et Ané, Parigi 1969.
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famiglie di ricercatori ai quali si devono alcuni commenti molto seri. Particolarmente notevoli
sono i loro studi sui Profeti. Gli interpreti qaraiti, eredi in ciò della grande tradizione
profetica e degli insegnamenti dei maestri di Qumràn, professavano una vera e propria teoria
dell'illuminazione; negli « Scrutatori della Legge » (titolo che come molti altri è comune ai
qumraniti e ai qaraiti) vedevano dei « p rofeti »ispirati da Dio. A servizio di questo compito i
qaraiti promossero ardenti ricerche sulla lingua ebraica; composero i primi grandi dizionari e
grammatiche, come l'importante dizionario che nel X secolo pub blicò Abraham al-Fassi: si
tratta di uno dei primi e più importanti lavori di questo genere nella sto ria della filologia
ebraica.
Come già si è detto, esiste uno stretto legame letterario e teologico tra i lavori esegetici dei
grandi commentatori qaraiti della Scrittura e i mano scritti di Qumràn. Una volta impiantatosi
in Palestina, cioè una volta che fu organizzato, il movi mento dei Qaraiti si impregnò di una
letteratura già conosciuta in alcuni ambienti dell'epoca, in cui molto probabilmente figuravano
testi di Qumràn. Si sa infatti in modo quasi certo che verso l'anno 800, alcuni libri biblici e non
biblici giudaici furono scoperti in una grotta nel sud della Pale stina. Questo avvenimento,
precursore delle grandi scoperte del Deserto di Giuda fatte a partire dal 1947, spiega il legame
materiale tra Qumraniti e Qaraiti; d'altra parte, nonostante una sospensione storica di otto
secoli, il legame profondo e teorico — la « Sola Scriptura » — anche se nascosto, non è meno
reale.

La funzione «post-biblica» del rabbinismo

L'esame dell'antitesi storica in cui da un lato si pongono i sostenitori della « sola Scriptura » e
dall'altro quelli dei due aspetti della Legge, solle cita le seguenti riflessioni:

1. Nonostante il suo costante insegnamento cir ca l'esistenza di due Leggi rivelate, l'una scri tta e
l'altra orale, il giudaismo rabbinico si è paradossal mente diretto, fin dalle sue origini e in
modo infaticabile, verso la « sola Scriptura ». La storia del rabbinismo, dopo la selezione delle
halakot che ha dato origine alla Mishnah fino all'enorme compilazione che ha preso il nome di
Talmud, è in realtà la storia di una scrittura o, molto di più, la storia del riassorbimento
materiale della Legge orale in quanto tale e della sua trasformazione in Legge scritta. Con il
Talmud il giudaismo non aveva più tradizione orale e tuttavia quest'ultima era teorica mente
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necessaria alla sua dottrina sulla rivelazio ne. Esso si situava ormai all'interno di un vasto corpo
in cui la Scrittura nel senso stretto del ter mine occupava solo un posto modesto e addiri ttura
secondario. D'altra parte l'insegnamento uffi ciale consisteva nel commentare il Talmud che a
sua volta era già un commento della Mishnah e non della Scrittura. A partire da ciò
l'affermazione tradizionale circa l'origine sinaitica della Legge orale che attribuiva alla
letteratura talmudica le qualità stesse della Scrittura rivelata. La situazio ne contradittoria al
massimo grado.

2. La posizione dei Qumraniti s'è affermata in Palestina prima della rovina del Tempio. La
sua tendenza, nella pratica religiosa e nella ricerca degli studiosi, alla canonizzazione esclusiva
della « sola Scriptura » al di fuori del Tempio e senza il Tempio, è molto significativa. Sembra
che, nonostante — o a causa — la scomparsa fisica dei suoi adepti, essa abbia in modo l atente,
ma non per questo meno efficace, determinato il compito degli Ebrei farisei che dopo il 70
organizzarono risolutamente e senza nostalgie il giudaismo senza il Tempio in un ininterrotto
movimento verso la Scrittura. Trova forse qui una spiegazion e pertinente la contraddizione
che è stata sottolineata e cioè l'af fermazione della necessità di una Legge orale avvenuta
simultaneamente alla fissazione per iscrit to delle tradizioni e delle leggi orali?
3. Nonostante le cause manifeste della sua na scita — che dipendevano tanto da fattori politici e
sociali che personali — il movimento qaraita si manifesta, nella sua reazione post -talmudica,
come una sintesi significativa, ma anch'essa contradit toria. Il ritorno alla « sola Scriptura »
metteva in evidenza l'aspetto contradittorio del corpus talmu dico ufficiale che era esso stesso
Scrittura anche se non ne aveva il nome, ma facendo ciò convali dava quest'ultimo nell'atto
stesso di rifiutarlo e rigettarlo. In tal modo, a prescindere dalla sua fe condità e fortuna, nel
corso di parecchi secoli, l'at teggiamento dei Qaraiti risultava conservatore. Il fatto che il
movimento qaraita si sia riallacciato con tanta facilità ad una letteratura qumranita più antica di
nove o dieci secoli è rivelatore riguardo a ciò. Nel giudaismo il Talmud era infatti scrittura; e la
religione giudaica non era più « biblica »: or mai era « talmudica ». In quanto tale essa viveva e
dunque, a partire da ciò, era eventualmente rifor mabile.

4. Le notazioni e gli spunti di questa no ta preliminare hanno lo scopo di porre, per via
negativa, il problema delle condizioni e dell'originalità di una religione « biblica ». Le pagine
che seguono esamineranno questo problema dal punto di vista storico, su basi positive.
14

LE BIBBIE ARAMAICHE: I TARGUM

Si chiamano targum le traduzioni aramaiche dei testi della Bibbia fatte nel corso dei secoli
dagli ebrei palestinesi, ma anche babilonesi, per il servi zio sinagogale. La parola targum può
designare sia la pratica liturgica della traduzione bibl ica, con le sue costrizioni e le sue usanze,
sia i testi prodotti da tale pratica. Orali e più o meno improvvi sate in un primo tempo,
frammentarie ed occasio nali all'inizio, fissate in seguito per iscritto in blocchi unitari
corrispondenti alle grandi sezioni della Bibbia - Pentateuco, Profeti, Agiografi -, le traduzioni
aramaiche hanno tutte una lunga storia. Questa storia, non priva di somiglianze con quella della
formazione della Bibbia stessa, è in qualche modo la storia della Bibbia (o delle Bibbie)
aramaica (-che).
La parola targum significa «traduzione». Nella Scrittura la radice di questa parola si trova
una sola volta, in Esdra 4, 7. Sembra oggi accertato che abbia un'origine ittita (non semitica) e
che derivi da un vocabolo il cui significato è “ annunciare”, “ spiegare”,” tradurre”. Nel Talmud,
targum designa soprattutto i testi biblici in lingua aramaica: con targum di Esdra si intendono
le parti aramaiche del Libro di Esdra, con targum di Daniele le parti aramaiche dei Libro di
Daniele. Il termine può anche designare una qualsiasi traduzione.

UNO SFORZO DI REGOLAMENTAZIONE

II traduttore ufficiale nell'ufficio sinagogale era chiamato targeman o torgeman, metorgeman o


meturgeman6. < Al fine di evitare ogni possibile confusione tra il testo ebraico e la parafrasi
aramaica, veniva specificatamente proibito di leggere il Targum in un libro, perché non si
avesse l'impressione che fos se anch'esso un testo rivelato. D'altronde non si traducevano tutti i
passi della Torah e si tralasciavano da un lato quelli che avevano un carattere in qualche modo
scabroso - non dimentichiamo che il Targum si rivolgeva soprattutto a persone poco istruite, a
donne e a bambini - come ad esempio la storia di Ruben (Gen 35, 22) e quella del vitello d'oro
(Es 32, 21-25) e, dall'altro, quello che si presumeva fosse conosciuto da tutti, come la benedi -
zione dei figli di Aronne (Num 6, 24 -26) ... Il numero dei passi biblici non parafrasati sembra d'al-
6
In Gen 42, 23, la versione aramaica chiama meturgetnan l'interprete tra Giuseppe e i suoi fratelli e in Es
4, 16 Aronne, che sostituiva Mosè nel parlare al pubblico, è qualificato con lo stesso titolo.
15

tronde variasse da una località all'altra. I docu menti rabbinici, dì fatto, insistono su certi passi
che non è necessario tradurre, insistenza che sa rebbe inutile se la cosa fosse stata normale e se
sempre fosse stato così...
Non sembra che originariamente fossero richie ste al Meturgeman delle precise qualità. In
ogni caso la Mishnah dice che questo ufficio può essere ricoperto perfino da un minorenne,
anche se escluso dalle altre funzioni liturgiche... Più tardi questa funzione veniva spesso
ricoperta dallo scaccino della sinagoga, fino a che si dovette ricorrere a fu nzionar! specializzati
nominati per questo ruolo, dato che le pericopi diventavano sempre più lun ghe. D'altra parte
furono proprio le libertà nei con fronti del testo biblico prese da alcuni traduttori che
obbligarono i maestri della traduzione a intro durre dei targumin (pi. di targum) scritti »7.

Il targum è nato dai bisogni della sinagoga in un'epoca in cui non si conosceva quasi più l'e -
braico, almeno l'ebraico biblico. Nel I secolo dell'era cristiana in Palestina si parlava
soprattutto aramaico; in alcuni luoghi anche greco.
Bisogna tuttavia distinguere la Galilea, dove quasi all'una nimità si praticavano entrambi i
dialetti aramaici, e la Giudea, dove la popolazione che non era mai stata deportata aveva
continuato a parlare l'ebraico. Ciò nonostante il testo biblico non era acces sibile nemmeno a
questi ultimi, poiché la lingua ebraica aveva avuto una sensibile evoluzione. Quanti italiani
comprenderebbero oggi la Divina Commedia o il Novellino, se si leggessero in un'assemblea
nella loro stesura originaria?

Un testo nuovo

II targum rappresenta qualche cosa di più che una traduzione; esso è, piuttosto e come
dovrebbe essere ogni traduzione, una produzione nuova di un testo. Quindi, l'attività di
interpretazione accompagna l'attività di traduzione . Ogni targum, anche quando ha fama di
essere letterario - come è il caso del Targum di Onqelos -, contiene elementi più o meno ampi di
parafrasi e di spiegazioni, di attualizzazioni e anche di correzioni: in altri termini, l'attività
targumica fa nascere un testo nuovo dall'immersione nella cultura e nella mentalità
contemporanea.

7
K. Hruby, « La place des lectures bibliques et de la prédication dans la liturgie synagogale
ancienne » in La Parole dans la liturgie, ouvrage collectif, Parigi 1970, p. 44-45.
16

« I targum... rendono chiari i racconti, conferi scono interesse al testo, riempiono le lacune,
armonizzano le contraddizioni, eliminano i problemi dottrinali, illustrano le affermazioni
astratte, danno una risposta a problemi di curiosità o di pole mica, giustificano il
comportamento di Dio, ad esempio quando presentano Dio che punisce i figli a causa del peccato
dei padri, quando sono ribelli ( Es 20, 5); eliminano soprattut to gli antropomorfismi e le
obiezioni al testo sacro... Il targum ha cura di rendere intelleggibile al popolo il testo e a
questo fine al testo sono aggiunte note, la sintassi è modificata, si ricorre allo stile di retto, alla
seconda persona, si inserisce un soggetto che manca, un complemento, un intero con -testo; si
interpretano le parole oscure, arcaiche, equivoche, di dubbia ortodossia; si introducono glosse
che danno la cifra esatta, la data precisa, il nome a personaggi anonimi; non ci si arresta
nemmeno di fronte a identificazioni anacronistiche come quella di Melchisedek con Sem, di
Labano con Balaam; si spiega il presente con il passato e con l'avvenire, perché nella Bibbia non
c'è "prima o dopo" (Mekhilta Es 15, 2) ...; si amano le allusioni storiche, gli accostamenti dei
brani paralleli, i tratti moralistici».
Per il primo giudaismo, difatti, il significato del testo della Scrittura non veniva reso dalla
semplice traduzione del contenuto emergente da una lettura superficiale del testo (peshat).
Bisognava « cercare » (darash) il significato profondo, immen samente ricco perché, si diceva,
« la Torah aveva settanta facce » (Midrash Esodo Rabba); e si insegnava che nella Parola divina
esiste un significato per ogni circostanza. Ancor prima che si iniziasse a tradurre, nel giudaismo
si interpretava. Ciò aveva fatto nascere il metodo detto del Midrash (« ricerca » su e nel testo
della Scrittura in vista della recezione e del l'enumerazione, attualizzata, del significato o di
uno dei significati). Nella pratica targumica, il giudaismo continuava dunque ad applicare le
regole di interpretazione, i riflessi della lettura e rilettura già da molto tempo compiuta nelle
sue produzioni letterarie monolingui. In modo analogo si può sup porre che un dato targum
fosse per il testo biblico che traduceva ciò che, ad esempio, la fonte Elohista del Pentateuco era
rispetto alla fonte Jahvista che la precedeva (ed anche, estrapolando un po', ciò che il Vangelo di
Luca sarà rispetto al Vangelo di Marco...). In queste prime esperienze di traduzione della Bibbia
già si verificava che la traduzione risultasse un'opera originale di auten tica produzione
letteraria, opera dunque autonoma, ma relativa alle nuove condizioni storiche, sociali,
culturali e religiose. - Se la traduzione è fedele, non da necessariamente origine ad un testo
nuovo?.
Gli storici della letteratura targumica hanno messo in evidenza un fenomeno sorprendente:
progressivamente la componente interpretativa del targum prese - o riprese - il sopravvento, al
17

punto da soppiantare a volte interamente la componente di traduzione. Infatti, il targum in


quanto traduzione si evolse a poco a poco verso il targum in quanto midrash - ora non più come
metodo, ma come produzione letteraria uscita dall'esercizio del met odo midrashico - cioè come
testo totalmenteoriginale rispetto al testo ebraico detto primitivo. Nel targum, tardo, del
Cantico dei Cantici, che si doveva leggere come « Scrittura » per la festa di Pasqua (dopo il
70 della nostra era), non si trova, ad esempio, più nulla che rassomigli, né da vicino né da
lontano, ad una traduzione. Di questo libro si faceva una lettura globale in aramaico veden dolo
come un'allegoria delle relazioni tra Dio e il suo popolo. Si era dunque arrivati a chiamare tar-
gum ciò che non lo era più. Si potrebbero fare altri esempi, più frammentari, è vero, di questa
evoluzione che riguarda soprattutto la parte della Bibbia detta degli Agiografi, l'ultima che
venne trasformata in targum 8.
Tuttavia, nel senso stretto del termine ed ori ginariamente, il targum era una traduzione
sistematica, versetto per versetto, del testo ebraico della Bibbia letto nella sinagoga. Non si
contrapponeva per nulla al midrash, che era il metodo esegetico degli ebrei; al contrario, esso
lo utilizzava largamente e persino obbligatoriamente. Tut tavia, ad essere rigorosi, il targum
esigeva che il midrash fosse subordinato alla traduzione. In altri termini, i limiti teorici e
tecnici del targum sono quelli propri ad ogni forma di comunicazione; essi sono dupli ci: da
un lato il testo da comunicare, dall'altro il contesto culturale e sociale di coloro che ricevono
questo testo. Questi ultimi sono il terreno vivente e fecondo nel quale una scrittura differente
viene elaborata nell'atto stesso della sua nascita.

Riscoperta dei targum

Fu verso la fine del XVI secolo dell'era cristia na che ci si volse con un reale interesse ai tar-
gum, ma solo molto recentemente si giunse a dis sipare le reticenze nei loro confronti; li si
giudicava troppo tardivi e troppo liberi. B isogna dire che i passi in cui, ad esempio, si
trovavano nominate la moglie e la figlia dì Maometto (in Gen 21, 21), in cui si faceva allusione
a Costantinopoli (in Num 24, 24) e altri ancora, non potevano che solle vare riserve e sospetti
sulla « verità » complessiva di questa letteratura. Nella grande poliglotta di Walton,
pubblicata a Londra nel 1657, fu fatto spa zio ai targum. Molto significativo è il modo in cui
l'editore parla di questi testi: « Non tamen omnia in Targum approbanda, sed triticum a
zizaniis, noxia a salutari discernendum »: « non tutto deve tuttavia essere approvato nel
8
II grande editore moderno dei targum, A. Sperber, ha intitolato il Tomo IV della sua Bibbia in aramaico (The Bible in
Aramaic, pubblicata a partire dal 1959): The Agiographa. Transition from translation io Midrash, « Gli Agiografi, passaggio
dalla traduzione al Midrash ». Questo titolo è già di per sé eloquente.
18

Targum, bisogna discernere il buon grano dalla zizzania, ciò che è sa lutare da ciò che può
nuocere ».
A partire dal 1930 circa, la situazione è molto cambiata, particolarmente grazie ai lavori di
P. Ka-Ihe in Inghilterra. Di recente due scoperte molto importanti hanno coronato questi
sforzi.
1. Nella grotta XI di Qumran, accanto a diversi frammenti di origine targumica, è stato
scoperto un targum di Giobbe. Si tratta del targum più antico attualmente conosciuto: sì
tende a datarlo nell'ultima metà del II secolo a. C 9.
2. Nel 1949 lo studioso spagnolo A. Diez Macho ha scoperto alla Biblioteca Vaticana una
redazione completa del Targum Palestinese del Pentateuco che fu identificato nel 1958. Si
trattava del famoso Targum Neophiti I (N) il cui testo era stato copiato, a Roma nel 1504 da
Egidio di Viterbo, futuro generale degli Eremitani di Sant'Agostino. Era in se guito passato tra le
mani del rabbino convertito Ugo Boncompagni, che nel 1602 lo regalò al col legio dei Neofiti
(donde il nome). Nel 1896 fu ac quistato dalla Biblioteca Vaticana, dove venne di menticato per
mezzo secolo.
Questa scoperta e le ricerche che ha suscitato sulla storia del Neophiti I fanno strabiliare, se
si pensa a quale doveva essere il « liberalismo » delle modalità della pratica biblica a Roma
nell'e-poca in questione. Sembra che il testo biblico rico nosciuto e ufficialmente utilizzato
tanto nella comunità giudaica in un primo tempo, quanto in quella dei giudei convertiti al
cristianesimo, in seguito, fosse il Targum o Bibbia aramaica.
Importantissima fu la scoperta per lo studio dei targum in generale e per la conoscenza del Tar-
gum del Pentateuco in particolare. Per studiarlo non si è atteso che il testo venisse pubblicato; fu
oggetto di tesi, articoli e lavori, particolarmente da parte di studenti e ricercatori cattolici.
Attualmente sono stati pubblicati i primi quattro libri di questo Pentateuco aramaico: Genesi
[1968), Esodo (1970), Levitico (1971) e Numeri (1974)10.

I targum attualmente conosciuti.

9
Vedere Le Targum de Job de la Grotte XI de Qumran, pubblicato e tradotto da J. P. M. Van der Ploeg e A. S. Van
der Woude, Leyde 1971

10
Queste opere sono state pubblicate in Spagna, Madrid-Barcellona. Oltre a traduzioni interessanti ed al testo aramaico, vi si
trova una traduzione in tre lingue: spagnolo (Diez Macho), inglese (McNamara) e francese (Le Deaut).
19

La letteratura targumica oggi esistente può essere classificata nel modo seguente: si tratta di
ottocentocinquanta versetti o frammenti, che vanno da interi capitoli a qualche elemento di
frase o parola isolata. Vi si riscontrano larghe parafrasi; brani assai tardivi si mescolano ad ele -
menti molto antichi.
- Frammenti della Genizah del Cairo: pubblicati nel 1930, rappresentano tradizioni più
antiche di quelle del targum precedente.
- Il Targum Neophiti I: il nucleo essenziale può esser fatto risalire al II secolo dell'era
cristiana; tuttavia nel suo stato attuale è più tardivo: è stato oggetto di ritocchi rabbinici e
riflette l'influenza del Targum di Onqelos7.

1. I TARGUM DEL PENTATEUCO

- Il Targum di Onqelos (o Targum di Babilonia):


Targum ufficiale del Pentateuco, ebbe un posto di primo piano sulla scia del Talmud di
Babilonia. La sua origine è sempre stata oggetto di discussioni. Secondo le più autorevoli
opinioni recenti si tratterebbe della revisione nell'aramaico letterario di un vecchio targum
palestinese piuttosto che di una produzione babilonese e malgrado le connivenze con le
tradizioni mesopotamiche.
- Lo Pseudo-Jonathan (o Jerushalmi I o Targum di Palestina) è autenticamente palestinese.
Spesso usa la parafrasi ed è molto composito; con tiene tutta un'antica tradizione di haggadah e
ci da, pertanto, testimonianza dell'esegesi contem poranea al Nuovo Testamento. Ciò nonostante
la sua redazione finale è di epoca tarda (in essa è fatta menzione della famiglia di Maometto e di
Costantinopoli).

- II Targum frammentario (o Jerushalmi II): si tratta di ottocentocinquanta versetti o


frammenti che vanno da interi capitoli a qualche elemento di frase o parola isolata. Vi si
riscontrano larghe parafrasi; brani assai tardivi si mescolano ad elementi molto antichi.

- Frammenti della Genizah del Cairo: pubblicati nel 1930, rappresentano tradizioni
più antiche di quelle del targum precedente.

- Il Targum Neophiti I: il nucleo essenziale può essere fatto risalire al II secolo dell’era
cristiana; tuttavia nel suo stato attuale è più tardivo; è stato oggetto di ritocchi rabbinici e
riflette l’influenza del Targum di Onqelos.
20

2. IL TARGUM DEI PROFETI

- Il Targum di Jonathan ben Uzziel: targum ufficiale dei Profeti, raccolta anonima che
viene attribuita a un discepolo di Hillel (I secolo d. C.). Fu redatto a Babilonia tra il III e il V
'secolo cristiano a partire da materiali di origine palestinese.

3. IL TARGUM DEGLI AGIOGRAFI

È complessivamente di origine palestinese e tardivo. Nessuna sezione risale a prima


dell'epoca talmudica (i soli targum ufficialmente riconosciuti dagli Ebrei erano i Targum del
Pentateuco e dei Profeti). Può essere diviso in quattro gruppi: Targum dei Salmi e di
Giobbe; Targum dei Cinque rotoli; Targum delle Cronache.

[ È esistito in Palestina un targum del Pentateuco all'epoca di Gesù o addirittura prima? Gli
specialisti ne discutono. Esistono due ipotesi: o un targum originario che avrebbe in seguito
dato origine ad altre opere, o dei saggi targumici fram-mentari che sarebbero stati raccolti e
unificati. Data l'originalità e la complessità della nascita dei targum, non bisogna cercare una
soluzione troppo rigida e preferiremo perciò la seconda ipotesi..]

Funzione storica dei targum e Significato del loro studio.

In una certa misura proprio nell'antichità del testo ebraico della Bibbia bisogna cercare una
delle sorgenti del metodo del targum. Lo studio di questo metodo servirà da ponte per una
migliore comprensione dell'interpretazione giudaica antica, la stessa che è stata utilizzata nella
composizione del testo originario. Così i targum sono a modo loro una scuola di
interpretazione dell'Antico Testamento.
Le ricerche sul targum sono egualmente preziose per la conoscenza delle tradizioni anti che
del giudaismo (i numerosi materiali di difficile classificazione e datazione della haggadàh e della
halakàh) e quella della loro trasmissione e della loro stessa proliferazione. Nel movimento che
portò alla stesura degli elementi della tradizione e della Legge orale (Talmud, Midrashim),
la letteratura targumica è un momento ed un luogo che non va trascurato; le sue risorse su
questo punto sono molteplici.
Lo studio dei targum permette di riflettere sulla storia delle tradizioni della Bibbia e sull'o-
pera stessa del tradurre. Qual è il rapporto tra « tradurre » e « scrivere »? Studiando il processo
dì evoluzione del targum come traduzione verso il targum come midrash, vi si possono
21

riscontrare alcuni tratti chiarificatori. Se tradurre significa produrre un testo nuovo - e si


constata con i targum quanto grande possa essere questa novità -, ci si può chiedere se «
tradurre » non sia forse un'altra parola per dire « scrivere » in un contesto sociale e culturale
determinato.
La conoscenza della letteratura targumica e della sua storia può aiutare a comprendere
meglio ciò che è « la tradizione ». Il metodo targumico è infatti nato e si è affermato mentre il
giudaismo - e dietro ad esso il cristianesimo - stava fissando, a partire dalla fine del I secolo
della nostra èra, il canone delle Scritture. Questo canone ave va un aspetto quantitativo
(determinava la lista dei libri ritenuti ed omologati come sacri) e quali tativo (fissava il testo
ufficiale di questi libri) 11. Ora, dato ciò che essa fu e malgrado le regolamentazioni rabbiniche
che intervennero, la trasformazione delle Scritture in targum significò in realtà la possibilità
che a queste Scritture venisse attribuito un diverso significato, cosa che contraddiceva la
dottrina di un unico canone. Ciò nonostante il targum rimase una pratica istituzionale; i
targum non furono mai considerati come apocrifi.
C'è di più. Il periodo in cui più attiva fu la mi -drashizzazione del targum fu anche quello dei
grandi Masoreti. Normalmente l'ebraico si scrive solo con le consonanti e il lettore mette poi
le vocali durante la lettura: a volte ciò permette più di una interpretazione a seconda delle
vocali che si leggono. I Masoreti sono specialisti in filologia che dalI'VIII all'XI secolo della
nostra èra aggiunsero al testo ebraico punti ed altri segni con valore di vocali e fissarono così,
una volta per tutte, la lettura di un testo che in molti luoghi lasciava l'inter pretazione aperta a
più significati. Il fatto dunque che il targum possa svilupparsi in midrash nello stesso periodo
in cui avviene questa fissazione è una contraddizione tanto significativa quanto la precedente.
Le istituzioni fanno le leggi, ma le tensioni nascoste riescono a trasformare in forze vitali la
parte di queste leggi divenuta arbitraria.
Lo studio dei targum permette di far luce sulla genesi del Nuovo Testamento e in modo par -
ticolare dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli. Fin dall'origine il cristianesimo ha ereditato
Bibbie interpretate, sia in aramaico (in Palestina), sia in greco (la Settanta). Il Nuovo
Testamento si è imposto come la continuazione e il compimento del l'Antico, ma questo Antico
Testamento (come noi lo chiamiamo) era in realtà un discorso biblico che una prolifica
tradizione aveva prodigiosamente arricchito. Proprio in questo contesto di interpreta zione
targumica bisogna anche comprendere la for mazione dei Vangeli e degli Atti. La Bibbia dei cri -

11
A questo proposito si sa come davanti agli « eccessi » targumicizzanti della Bibbia greca dei Settanta e di fronte alla sua
adozione da parte dei cristiani, i rabbini del Il secolo della nostra èra incaricarono Aquila di realizzare una versione letterale
ad uso delle popolazioni ebraiche di lingua greca.
22

stiani non è l'Antico Testamento più il Nuovo: è il risultato di un lavoro globale di


interpretazione. Solo a cose fatte si sono poi potuti distinguere due insiemi (Antico e Nuovo
Testamento); non si può opporli senza grave rischio.
Le ricerche filologiche sul targum permettono infine di conoscere meglio la lingua
aramaica o più esattamente il dialetto galileo che dovette par lare Gesù.

Complementi bibliografici.
1- S.N. Eisenstadt, Civiltà Ebraica, Roma, Donzelli 1993.
2- R. A. Rosenbérg, L’Ebraismo, Storia, Pratica, Fede, Milano, Mondadori 1995.
3- H. Ringgren, Israele. I Padri. L’Epoca dei Re. Il Giudaismo, Milano, Jaca Book 1987.
4- G. Stemberger, Il Midrash, Bologna, EDB 1992.
5- Idem, Il Talmud, Bologna, EDB 1989.
6- G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino, Einaudi 1993.
7- C. Sirat, La filosofia ebraica medievale, Brescia, Paideia 1990.
8- B. Migliau- F. Tagliacozzo, Gli Ebrei nella storia e nella società contemporanea,
Firenze, La Nuova Italia 1993.
23

Cap.II. L’Islam.

Con la parola Islam, che letteralmente sta ad indicare un atteggiamento di


sottomissione, abbandono, al volere di Dio (Allah), si suole indicare la rivelazione
monoteistica predicata da Maometto (Muþammad) in Arabia nel VII secolo e
diffusa poi in tutta una parte del mondo. Lo stesso termine serve anche a designare la
comunità degli adepti di tale fede e la civiltà che ne è derivata.

1. L'Arabia pre-islamica. - Quando l'Islam fece la sua apparizione, la penisola


araba (Giazirat al-'A-rab) presentava ancora un aspetto inorganico dal punto di vista
religioso come da quello politico e sociale. A ciò contribuiva la particola re
conformazione del paese. Questa grande piattaforma granitica inclinata verso il
Golfo Persico, orlata di catene montagnose, ricoperta di sabbie e di colate
vulcaniche, comprende infatti: una fascia costiera pianeggiante (tihamah) di
larghezza variabile, malsana e inospitale; un rialzo montagnoso quasi interamente
selvaggio; e un altipiano con immense distese di deserto o di steppa (dal nord al sud:
Badiyat ash-Sham, en-Nefud, Negd, ar-Rub' al Khalil, quest'ultimo appena esplorato).
In un paese così vario, la differenza del clima determina poi un netto contrasto tra le
regioni del Sud (Yemen, Hadramut), rivolte verso l'Oceano Indiano, che, favorite
dal monsone, si prestano a coltivazioni intensive; e le regioni settentrionali e
centrali, soggette ai capricci delle piogge rare e poco abbondanti: in quelle
prevalgono popolazioni stabili; in queste, i Beduini nomadi. Al centro, solo le oasi
del Higiaz, sul versante occidentale, godono di una situazione privilegiata: Yathrib
(la futura Medina), at-Ta'if, Khaibar, sorte su terreno vulcanico, attorniano il centro
commerciale e carovaniero della Mecca, che giace al fondo di un anfiteatro
montagnoso, in prossimità della costa. Qui, nel VII secolo, era il cuore
dell'Arabia.
Popolazioni stabili e nomadi erano organizzate in tribù indipendenti, sotto la
guida di sheikh o sayyd. Fra le tribù, si distinguevano tradizionalmente due
gruppi rivali che si richiamavano alla discendenza di Abramo; Arabi del Sud (o
Yemeniti), discendenti di Qahtan; e Arabi del Nord (o Niz ariti), discendenti di
Isma 'il (Ismaele). Yemeniti e Nizariti si ramificarono in numerose famiglie,
24

alcune delle quali ebbero una parte importante nella storia, come i Qais e i
Quraish fra i Nizariti; i Lakhm, i Kindah e i Ghassan fra gli Yemeniti. La
rivalità che opponeva i due gruppi si protrasse ben oltre le prime lotte fra i
Meccani nizuriti e i Medinesi yemeniti, al tempo di Maometto.
L'Arabia del Sud ebbe molto presto;una civiltà avanzata e conobbe dapprima il
regno dei Minei, risalente almeno al IX secolo prima di Cristo; quindi il regno di
Saba, che traeva la sua ricchezza dall'esportazione delle sostanze aromatiche e
dal traffico di materie preziose con l'India (leggenda dell'Arabia Felice); infine il
Regno himyarita che, sorto verso il II secolo prima di Cristo, decadde poi fino
ad essere invaso, al termine del IV secolo della nostra era, dagli Abissini di
Aksum. L'Arabia del Nord entrò nella storia più tardi. I Beduini, grandi
cammellieri o piccoli pastori di pecore, non ebbero mai un'organizzazione:
vivevano con l'aiuto di alcuni nuclei seden tari, i quali versavano loro tributi per
essere difesi e protetti. Solo all'epoca della decadenza himyarita, la Mecca si
trasformò in « repubblica mercantile », grazie all'opera della potente famiglia dei
Quraish; ed ereditò così il traffico fra l'Oceano Indiano e il Me diterraneo,
divenendo base di partenza di carovane regolari. Finalmente, ai margini della
penisola, nelle steppe che portano alla Siria, le tribù arabe che emi gravano verso
il Nord costituirono diversi Stati: il regno dei Nabatei che, trasformatesi da
conduttori di carovane in popolazioni sedentarie, subirono l'influenza aramaica ed
elaborarono una scrittura da cui ebbe poi origine la scrittura araba (capitale Petra,
dal IV secolo a. C. al I secolo d. C.); il regno dei Lakhmidi (capitale al-Hirah, dal
328 al 622); e, più tardi, il regno dei Ghassanidi, cui l'imperatore bizantino ave va
affidato la difesa della frontiera siro-palestinese (VI secolo). Delle discordie insorte
fra sovrani e vassalli, approfittò il sorgente regno dei Kindah: di breve durata, esso
segnò tuttavia una prima tappa sulla via della centralizzazione politica che sarebbe
stata raggiunta nel secolo seguente.
I Lakhmidi e i Ghassanidi si erano convertiti al cristianesimo, nelle versioni
“ereticali” nestoriana e monofisita; ma gli Arabi della penisola avevano conservato
la loro religione, una sorta di politeismo cosmico. Di questo abbiamo una
conoscenza limitata, che ci permette tuttavia di rilevare, fra i culti del Nord e quelli
del Sud, differenze notevoli ma anche tutto un complesso di elementi comuni.
Esistevano dunque divinità locali e tribali, scarsamente individuate, spesso di
25

carattere astrale, che si riteneva avessero sede in certe pietre sacre (betili). Alcune di
tali divinità, come, ad esempio, al-'Uzza (stella del mattino, Venere), sembra fossero
venerate in quasi tutta l'Arabia. Gli abitanti della Mecca onoravano inoltre al -
Manah, dea della felicità, e El Lat, dea del ciclo ; al di sopra di esse, stava Allah (« il
Dio »), riconosciuto nel VII secolo come « Signore del Tempio» (la Ka'bah della
Mecca). Ma nel IV secolo, presso le popolazioni seminomadi della steppa siriana,
Allah veniva ultimo fra le divinità; e forse solo l'influenza di credenze straniere gli
fece conquistare il primo posto. Intorno alle pietre ed agli oggetti sacri (come la «
pietra nera » e il maqam Ibrahim conservati presso la Ka 'bah, che già prima
dell'Isiam era meta di un celebre pellegrinaggio) si celebravano riti; mentre i nomadi
portavano in processione betili protettori. Questi idoli erano circondati da interdizioni
sacre: zone dove non si potevano uccidere ammali né abbattere alberi, e riti di
purificazione obbligatori prima dei sacrifici. Infine, in tutte le principali circostanze
della vita, si consultavano gli indovini che, ispirati, secondo la credenza, dai « ginn
», davano i loro responsi in formule di prosa rimata e ritmata di valore magico (saih).
La vita morale era invece praticamente sconosciuta. Costretti a una vita dura, cui
solo i più forti potevano resistere, gli antichi Arabi consideravano virtù supreme la
forza e l'astuzia, a cui si accompagnava talvolta una generosità teatrale. Questo
periodo, in cui gli uomini si abbandonavano senza ritegno ai loro istinti, venne poi
chiamato dai musulmani Giahiliyyah (« ignoranza », o meglio « stato selvaggio »).
Unico obbligo era la vendetta che del resto, ai tempi di Maometto, non si praticava
più con rigore.
Tuttavia, già prima del VII secolo, influenze esterne si erano infiltrate nella
penisola araba. Nuclei ebrei e cristiani si erano infatti stabiliti, gli uni a Khaibar e
Yathrib, gli altri più a sud, a Najran. Nella regione della Mecca, solo gli ebrei erano
raccolti in comunità organizzate, mentre i cristiani rimanevano dispersi e senza
gerarchie, poco numerosi nella città stessa dove annoveravano solo gente da poco,
schiavi abissini e artigiani. Di quando in quando, però, transitavano mercanti
cristiani di al-Hirah, che probabilmente conoscevano meglio la propria religione.
Questi ebrei e cristiani che, sia pur come stranieri, vivevano mescolati alla composita
popolazione della Mecca, prepararono forse gli spiriti al messaggio monoteista di
Maometto? Parrebbe indicarlo il fatto che il Corano parla di hanif, cioè di
26

personaggi che, senza appartenere ad alcuna comunità straniera, erano riusciti a


liberarsi della religione tradizionale per giungere alla credenza in un Dio unico.
Maometto prima dell'Egira.
Della vita di Maometto prima della sua predicazione sappiamo ben poco. Il
Corano non ci fornisce alcuna informazione in proposito e le biografie del Profeta
(Sìrat), dato il loro carattere aneddotico, hanno un valore storico re lativo. Così non
è possibile stabilire neppure la cro nologia della sua vita; unica data sicura è quella
dell'Egira, e cioè della partenza di Maometto dalla Mec ca per Yathrib. Tutti i
musulmani concordano su questa data, da cui ha inizio l'era islamica: D'altra parte,
seguendo un'interpretazione tradizionale, ma piutto sto incerta, di un versetto del
Corano, Maometto avrebbe iniziato la sua predicazione a quarant'anni.
Stando alla Sirat, egli perdette molto presto i geni tori, per cui fu allevato prima
dal nonno 'Abd-al-Mut-talib, poi dallo zio Abu-Talib. Benché membro della
potente tribù dei Quraish, Maometto era piuttosto povero; ma a venticinque anni si
mise al servizio di una ricca vedova, Khadigiah, che sposò qualche tempo do po.
Finché Khadigiah visse, egli non prese altre mo gli; solo dopo la morte di lei
(avvenuta poco prima dell'Egira), portò a nove il numero delle sue spose. Fece il
mercante e il carovaniere, conducendo una vi ta che, dopo il matrimonio, non
conobbe più difficoltà materiali. Quanto ai viaggi che avrebbe compiuto in Siria
con lo zio e poi con Khadigiah, e nel corso dei quali avrebbe incontrato monaci
cristiani, si tratta di notizie derivanti da tradizioni piuttosto dubbie. Ed anzi
sembra che Maometto abbia sempre avuto del cristianesimo una idea piuttosto
lontana dalla realtà.
Anche sulle circostanze in cui maturò la s ua vocazione, mancano particolari.
Secondo la tradizione, egli avrebbe preso l'abitudine di ritirarsi spesso in solitu dine
fino al giorno in cui, durante il mese del rama dan, l'arcangelo Gabriele gli
apparve, dicendogli più volte: « Ripeti » (iqra). Maometto seppe allora che Allah
l'aveva prescelto come suo Inviato, per « ripetere » agli uomini le rivelazioni a lui
trasmesse da Gabriele –secondo la tradizione successiva- o dallo Spirito divino. Tali
rivelazioni frammentarie verranno in seguito ordinate e formeranno il Corano
(Qur'an, « ripetizione »), traduzione della parola stessa di Allah, il cui testo si
presenta quindi « come un dettato soprannaturale riprodotto dal Profeta ispirato » (L.
Massignon).
27

Agli inizi, Maometto non si sentiva troppo sicuro della sua missione; ma
Khadigiah lo sostenne ed egli cominciò allora a comunicare agli abitanti della Mec -
ca le rivelazioni che via via riceveva. Quando lo Spirito cominciava a parlare, il
Profeta cadeva in trance, si avvolgeva nel mantello e sembrava in preda a un attacco
nervoso: fenomeni fisiologici e psicologici che si riscontrano talvolta in chi è
soggetto ad ispirazioni il cui valore e la cui autenticità, riposando nell'atto di fede,
non possono venir negati né sostenuti con argomenti razionali.
Maometto ebbe dapprima difficoltà a trovare seguaci. Dopo la moglie, pare che il
primo a seguirlo sia stato il cugino 'Ali, figlio di Abu-Talib; poi fu la volta del figlio
adottivo, Zaid. Ma i due convertiti più importanti furono l'amico intimo e devoto
Abu-Baker, e 'Ornar, uomo integro ed energico, i quali in seguito dirigeranno la
comunità musulmana. Fuori della cerchia dei parenti e degli amici, Maometto trovò
maggior udienza fra il popolo minuto che non presso le grandi famiglie della Mecca.
Ciò era prevedibile, per il carattere stesso della sua predicazione. Maometto si
presentava, infatti, come l'annunciatore dell'imminente Giudizio Finale in cui il Dio
Unico avrebbe giudicato gli uomini a seconda delle loro azioni; cercando di scuotere
dall'indifferenza i suoi contemporanei, di ispirare loro il terrore di Allah, egli
proclama la che il fine della vita non era di arricchirsi ma di sottomettersi ai voleri
di Allah (islàm) e di obbedire ai suoi comandamenti: compiere i riti della Preghiera
e far l'elemosina. L'annuncio del Giudizio rappresentava una novità per gli Arabi
pagani. Tuttavia nella predicazione di Maometto si possono trovare elementi che
richiamano le credenze dei cristiani orientali, parimenti dominate dal timore di Dio.
Così, nella descrizione del Giudizio, sono state rilevate alcune somiglianze esteriori
fra il Corano e le omelie di S. Efrem (predicatore della Chiesa siriana), al punto che
Tor Andrae concluse aver Maometto ripreso da un sermone cristiano alcuni temi
della sua predicazione. Si tratta però di una ipotesi non confortata da alcuna solida
prova e che non basta a spiegare l'anelito e l'ardore delle prime sure (capitoli) del
Corano. D'altra parte, la concezione di Maometto sulla vita futura appare ben
diversa da quella cristiana: non vi è infatti una nozione precisa dell'immortalità
dell'anima, la quale è considerata solo come il soffio della vita; dopo la morte,! l'uo-
mo cade in uno stato di incoscienza fino al giorno del Giudizio e della resurrezione,
che perciò a lui sembrano seguire immediatamente la morte.
28

Le sure, che si ritiene siano state rivelate alla Mecca nei primi anni della
predicazione di Maometto, si distinguono per la loro brevità, lo stile immaginoso
ora poetico ora oratorio, la frequenza dei giuramenti e delle esortazioni. La forma
richiama il modo di esprimersi degli indovini pagani, cui però Maometto negava
energicamente di appartenere; peraltro i versetti del Corano sfuggono spesso alle
esigenze della rima, ogni volta che il senso lo imponga. Alle sure più infiammate e
tumultuose, che esortano gli uomini a rivolgere il pensiero al Giudizio, succedono
capitoli d'un andamento più disteso e infine racconti in tono oratorio: storie degli
antichi profeti, le quali mostrano i tremendi castighi inflitti da Dio agli uomini che
non vollero ascoltare i suoi inviati.
Questa evoluzione sembra corrispondere allo sviluppo dei rapporti fra Maometto e
gli abitanti della Mecca. Agli inizi, il Profeta sarebbe rimasto in buoni rapporti con i
Quraish; astenendosi infatti dell'attaccare gli dèi pagani, egli si limitava ad
esortazioni morali ed evocazioni escatologiche che venivano accolte con altera
indifferenza. Ma in seguito, con la sempre più decisa affermazione del principio
monoteistico e la guerra dichiarata agli idoli, Maometto giunge a scuotere non
solo la religione dei padri ma tutto l'ordine sociale. Le grandi famiglie, già urtate
dal fatto che un uomo così volgare si fosse presentato come porta tore di un
messaggio divino, cominciarono a temere la sua influen za. Maometto diviene il
bersaglio di continui attacchi, mentre i suoi seguaci, perseguitati, sono costretti in
molti casi a emigrare in Abissinia. È al lora che Maometto scaglia i suoi anatemi
contro gli increduli ed evoca gli esempi degli antichi profeti .
Ben presto però, rendendosi conto dell'inefficacia della sua azione nella città
paterna, egli prende contatto con le tribù arabe delle vicinanze e quindi con
abitanti di Yathrib. Questi accettano la sua proposta di alleanza e si impegnano a
seguirlo, rinunciando all'idolatria (patto di al-'Aqabah). Assicuratosi così 11 loro
appoggio, Maometto fa partire i propri segua ci, e infine, di nascosto, lascia a sua
volta la Mecca il 12 rabl'I (24 settembre) del 622: è l'Ègira, cioè l' espatrio.

Maometto dopo l'Ègira. - A Yathrib, divenuta ormai Medina (madinat al


Nabi, « città del Profeta »), Maometto assume la figura di capo teocratico. Alle
vecchie organizzazioni tribali, egli sostituisce la Comunità (ummah) dei
Credenti, fondata unicamente sul legame religioso e composta allora di due
29

gruppi : Muhagirun («Espatriati» dalla Mecca) e Ansar (« Sostenitori » di


Medina). Nei primi tempi sembra che egli abbia cercato di ottenere anche
l'adesione degli ebrei, che riteneva molto vicini alla sua religione: i Credenti,
infatti, nella Preghiera, si volgevano verso Gerusalemme. Ma gli ebrei di
Medina risposero al Profeta col disprezzo e con lo scherno. Maometto allora
rompe con loro ed oppone al culto mosaico la religione di Allah: il santuario
della Mecca diviene il punto verso cui i Credenti si rivolgono per la Preghiera
(qiblah). Inoltre, Maometto riallaccia la nuova fede direttamente a quella di
Abramo che, essendo vissuto prima della rivelazione della Legge mosaica, non
era né ebreo né cristiano. In tal modo egli afferma la sua assoluta indipendenza
nei confronti dei « popoli della Scrittura », la cui rivelazione, pur avendo la
stessa origine del Corano, è incompleta e deformata.
Ma occorreva anche assicurare la vita materiale della comunità: a questo scopo
Maometto non esitò a far depredare, durante la tregua sacra del mese di ragiab,
una carovana proveniente dalla Siria e diretta alla Mecca. Senonchè, quando i
Medinesi tentarono di ripetere il colpo, si trovarono di fronte truppe della
Mecca: e fu la battaglia di Badr, nell'anno 2 dell'Egira. I Credenti misero in fuga
gli avversari, che lasciarono sul terreno quarantanove morti. Questo scontro,
insignificante in apparenza, ebbe invece conseguenze incalcolabili: Allah si era
dichiarato per il suo Profeta, e il Corano chiama quello « il giorno decisivo ».
Umiliati dalla sconfitta, i Meccani raccolsero l'anno seguente tremila uomini e
marciarono su Medina; Maometto e i Credenti li attesero nei pressi della cit tà,
sulle pendici del monte Uhud. Attaccati alle spalle, i musulmani furono presi dal
panico, il Profeta rimase ferito e suo zio Hamza ucciso; tuttavia i superstiti
riuscirono a ripiegare su Medina. Non contenti di questo mezzo successo, i
Quraish, nell'anno 5, decisero di attaccare la città stessa. Fu allora che Mao-
metto, servendosi dell'opera di un persiano, fece scavare un fossato (« guerra del
fossato »); e i Meccani, stanchi dell'assedio, finirono col ritirarsi.
Nel corso di questi avvenimenti, la potenza di Maometto era andata lentamente
aumentando. Egli ne approfittò per eliminare una dopo l'altra le tribù ebree
di Medina che lo disturbavano. Dopo Badr, i Banu-Qaintiqa, spogliati dei loro beni,
emigrarono in i Siria; analoga sorte toccò, ai Banu-Nadir, che dovettero ritirarsi a
Khaibar; infine, in seguito alla guerra del fossato, gli ultimi rimasti, i Banu-Quraiza
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accusati d'aver mancato di lealismo, furono puniti esemplarmente: gli uomini


passati a fil di spada, le donne e i bambini venduti come schiavi. Divenuto così
padrone incontrastato di Medina, Maometto non pensò più che a rientrare nella sua
città; natale. Nel marzo del 628, approfittando di un mese sacro e dopo essersi posto
in stato di consacrazione secondo le prescrizioni del rito pagano, egli parte assieme
ad alcuni compagni, per compiere il pellegrinaggio alla Mecca. I Quraish si
oppongono; Maometto pianta le sue tende ad al-Hudaibiyah e riesce a concludere un
armistizio di dieci anni alle seguenti condizioni: egli non sarebbe entrato alla Mecca
quell'anno; però, l'anno seguente, i Meccani avrebbero sgomberato la città per tre
giorni per permettere a lui e ai suoi compagni di compiere il pellegrinaggio. Così,
per la prima volta, gli abitanti della Mecca accettavano di trattare su un piano di
parità con Maometto : questi però, nel testo del trattato, non riuscì a farsi chiamare «
Inviato di Allah », ma solo « Muhammad, figlio di 'Abd Allah».
La sua autorità diveniva sempre più grande: si univano a lui tribù di beduini, e
alcuni importanti notabili quraish, come Khalid bin al-Wallid, si convertivano. Nel
gennaio del 630, egli decise di marciare sulla Mecca, violando il trattato. Non ci
furono combattimenti : i capi quraish fecero atto di sottomissione e Maometto entrò
nella città senza colpo ferire. Armato, egli andò a toccare la « pietra nera », e al
grido di « Allah akbar » (Allah è il più grande), fece distruggere gli idoli che
ingombravano la Ka'bah. Poi parlò ai musulmani, annunciando l'inizio di una nuo va
era, in cui « sola aristocrazia sarebbe stata quella della pietà ».
Maometto era riuscito a estendere progressivamente il suo dominio su gran parte
dell'Arabia, che stava ormai trovando un'organizzazione. Anche i cristiani di Najran si
sottomisero, ottenendo, secondo la tradizione, di conservare i loro beni e la loro fede,
dietro pagamento di un tributo. Poi, preoccupato, a quanto sembra, dei progetti
dell'imperatore bizantino Eraclio, Maometto lanciò una spedizione contro la Siria.
Benché praticamente fallita, questa impresa segnò l'inizio delle grandi conquiste:
l'Islàm cessava di essere la religione di un popolo eletto per divenire una religione
universale. Finalmente, nel 632, Maometto compì il pellegrinaggio alla Mecca
secondo il rito da lui stesso prescritto : e fu « il pellegrinaggio di addio ». Qualche
mese dopo, egli veniva colto da , una febbre violenta che lo portava alla tomba: era il
13 rabl'I (8 giugno).
31

Al periodo del soggiorno a Medina corrisponde una seconda serie di sure di stile
meno tormentato. Opera di un legislatore religioso e sociale, esse contengono
principalmente prescrizioni e norme per organizzare il nuovo ordine instaurato
dall'Isiam. Tali regole, spesso molto precise, rispondono direttamente alle esigenze
dell'epoca, senza prevedere la futura estensione della comunità; accanto ad esse,
numerose sentenze permettono di definire l'ideale morale e religioso proprio
dell'Isiàm. Molti versetti infine rispecchiano le circostanze storiche: lotte che i Cre-
denti dovettero sostenere contro i loro nemici, idolatri, ebrei, cristiani (la cui dottrina
è oggetto di violenti attacchi), e « ipocriti », che vengono colpiti con le più tremende
maledizioni.
Ma pur apparendo spesso legate ai diversi periodi della vita e della predicazione di
Maometto, le sure costituiscono nel loro insieme un'unica « rivelazione », base
essenziale dell'Islam, che, come scrisse il Massignon, è « accettazione del Corano
prima ancora che imitazione del Profeta ».
Per i musulmani, infatti, Maometto è un uomo che condusse una vita normale,
preoccupandosi di organizzare la comunità nell'interesse di tutti e di avvertire nel
contempo gli uomini dell'imminenza del Giudizio. Ed anche se in seguito si avrà una
tendenza a trasformarlo in santo, l'ortodossia dell'Islam negherà sempre che egli
abbia compiuto miracoli all'infuori della rivelazione del Libro Sacro.
Scritto nella lingua del Higiaz (con alcuni termini presi da dialetti vicini), il Corano
costituisce per gli Arabi un messaggio chiaro, anche se improntato di una
inimitabilità letteraria. Da questo punto di vista, può essere accostato a certi libri del
Vecchio Testamento (i Libri della Sapienza, ad esempio), in quanto « si ritrovano in
esso i bruschi trapassi dal senso proprio al senso metaforico, propri delle lingue
semitiche, che ignorano le lente progressioni delle lingue ariane » (G. M. 'Abd al-
Gialil). Libro arabo, libro semitico, il Corano è anche un libro « ispirato », retto da
un'intenzione dominante, che libera il suo stile dai canoni ristretti del linguaggio
poetico. Esso appare così come il primo libro in prosa degli Arabi, quello che solleva
il loro idioma alla dignità di lingua civile, mentre la sua recitazione scandisce e ispira
tutta la vita dei musulmani.
a) La fede. - II Corano si presenta come un codice rivelato religioso e sociale; di
qui il carattere essenzialmente giuridico dell'Islam, definito innanzi tutto da una
Legge (sharì'ah) che si applica solo alla comunità dei Credenti. Si spiega così la
32

forma assunta dalla professione di fede: non una semplice affermazione, ma una
testimonianza che inserisce nella comunità, in maniera definitiva, chi la pronuncia. Il
contenuto della professione di fede è condensato io una formula, tratta da un versetto
del Corano (VII, 157) : « Non vi è altro Dio fuori di Allah, e Maometto è il suo
profeta. » Questa fede semplice, destinata ad una costante esteriorizzazione, è di una
tale intensità da stupire spesso gli stranieri; così qualcuno ha affermato che « un
grande spirito di fede affiora in tutte le manifestazioni della vita del musulmano, an-
che se questi ignora gli autentici insegnamenti della sua religione o se le è infedele »
(G. M. "Abd al-Gia-lil). Si tratta innanzi tutto di una « sottomissione » (islàm)
all'onnipotenza divina, che sostanzialmente non si distingue dalla « fede » (iman,
anche se questo secondo termine indica piuttosto la convinzione intima mentre il
primo allude alla professione verbale. Le opere e la pratica dei riti canonici hanno per
i musulmani un valore secondario. Esse infatti completano e accrescono la fede, ma
non incidono sulla sostanza di questa; al punto che il credente che commette un
peccato mortale diviene un reprobo, ma non un dannato escluso dal paradiso. Al
credente si contrappongono l'« ipocrita », le cui buone azioni esteriori dissimulano
un'assenza di convinzione, e il « miscredente » (kàfir), termine che accomuna tutti i
non musulmani ed equivale praticamente ad « as sociatore » (colui che associa ad
Allah altri dei).

b) II dogma. - Benché il dogma abbia avuto formulazione ufficiale solo nella


shahadah, i dottori musulmani si sforzarono di raccoglierne gli elementi di spersi nel
Corano e di esporli in catechismi: trattati attribuiti a Abu -Hanifah (X secolo),
saggi di al-Ash' ari (m. nel 936) e di al-Ghazzāli (m. nel 1111). I principali articoli
di fede (unicità di Dio, missione dei Profeti e Giudizio universale) risultano
chiaramente dal seguente versetto coranico : « O musulmani, cre dete ad Allah, al
suo apostolo, al Libro che gli è stato rivelato, alle Scritture rivelate prima di lui.
Chiunque non crede ad Allah, ai suoi angeli, ai suoi libri, ai suoi inviati e al giorno
ultimo, è completamente fuorviato » (IV, 135) (cf. II, 285).
L'unicità di Dio. — Essere eterno, trascendente e onnipotente, Allah è unico.
Affermata da tutto il Corano, la sua unicità risulta in modo particolare dalla celebre
sur a 112, che molti considerano la più antica: «Di': Egli è il Dio Uno, il Dio Eterno,
che non ha generato e non è stato generato e non ha uguali. » Solitamente si citano
tre testi coranici per caratterizzare la concezione di Dio secondo l'Islam ufficiale :
33

« Tutto perisce ad eccezione del Suo volto » (Eternità); «Non vi è nulla che sia
simile a Lui» (Trascendenza assoluta che esclude ogni analogia con le creature) ; «
Egli non deve render ragione a nessuno di quel che fa » (Volontà che non conosce
leggi). Sola realtà, Allah è qualificato nel Corano con una serie di epiteti (il
Vivente, il Potente, il Sapiente, il Misericordioso...), i « nomi più belli » che, in
numero di 99, sono stati estratti dal testo e ordinati in litanie. La credenza in un
Dio unico costituisce per i musulmani la caratteristica che distingue radical mente
la loro religione da tutte le altre, compreso il cristianesimo che, col suo dogma
della Trinità, ritenuto una menomazione dell'unicità divina, si rende anch'esso
colpevole di « associazionismo ».
L'onnipotenza di Allah si manifesta nella sua potenza creatrice. Con un atto di
pura volontà, egli ha creato il mondo dal nulla in sette giorni, facendo apparire
l'uomo al sesto e non riposando al settimo; vi sono sette cicli e sette terre, sette parti
del ciclo e dell'inferno; e tradizioni bizzarre circolano sulla organizzazione del
mondo fisico. Dio ha creato gli angeli che non hanno sesso e sono fatti di luce. In
testa, si trovano i quattro arcangeli: Gibril, messaggero di Allah; Mikhail, che veglia
sulla natura; Israfil, che suona la tromba del Giudizio; e 'Azra'il, l'angelo della morte.
L'uomo ha due angeli custodi, che forse si confondono coi due « scrivani » i quali
annotano le sue buone e cattive azioni. Esistono inoltre i due angeli del sepolcro,
Munkar e Nakli, l'angelo del paradiso Ridwan e quello dell'inferno Malik. Fra gli
angeli, uno, Satana (ash-Shaitan), chiamato anche Iblis (corruzione del greco
diabolos), rifiutò di prosternarsi davanti al primo uomo e venne cacciato dal
paradiso; per vendicarsi, egli fece esiliare Adamo ed Eva, colpevoli di averlo
ascoltato. Ma poiché la colpa di Adamo non ricade sui suoi discendenti, per l'Islam
non esistono né peccato originale, né decadenza della natura umana. Iblis comanda
tutta una legione di demoni (ginn), creati prima di Adamo e fatti di fuoco, che si
mescolano alla vita degli uomini e occupano un posto importante nelle credenze
popolari (di qui l'impiego di talismani per scongiurare i loro malefizi e sottrarsi alle
loro vendette).
La missione dei profeti. — Allah ha affidato a determinati uomini l'incarico di
trasmettere la sua volontà e di chiamare i popoli eletti ad un'obbedienza che spesso,
nel loro accecamento, essi rifiutano. Il dogma musulmano impone dunque di credere
alla missione non del solo Maometto, ma anche dei profeti che l'hanno preceduto,
34

come quelli del Vecchio Testamento (Adamo, Noè, Abramo, Mosè, ecc.) e Ge sù.
Tuttavia Maometto resta il più importante, « il Sigillo dei profeti », che
ristabilisce nella sua integrità la rivelazione divina (riproduzione di un arche -
tipo increato, la « madre del Libro »), già ricevuta in parte da ebrei e cristiani
ma da loro deformata. I profeti, immuni da peccati gravi e p osti al di sopra
degli angeli, hanno il privilegio di far miracoli; ma la rivelazione del Corano è
il solo che Maometto stesso si sia attribuito.
Il Giudizio Finale. — L'intera storia umana si concluderà con la Resurrezione
ed il Giudizio Finale, che i morti attendono nella loro tomba, ad eccezione dei
profeti e dei martiri che vanno direttamente in para diso. La fine dei tempi sarà
contrassegnata da un terribile sconvolgimento, dopo il quale apparirà il Mahdi, il
« Ben guidato » da Allah, mentre l'Anticr isto, falso messia apparso fra l'Iraq e
la Siria, verrà ucciso da Gesù; numerose tradizioni completano gli accenni
forniti in proposito dal Corano. Quanto al giorno del Giudizio, dopo i due
squilli di tromba che segneranno la morte e la resurrezione di tu tti gli uomini,
ognuno comparirà davanti ad Allah con un li bro su cui saranno scritte le sue
azioni buone e cattive; quindi traverserà un ponte più sottile di un ca pello e
precipiterà nell'inferno oppure raggiungerà il paradiso; il Profeta interverrà i n
favore dei musulmani. L'inferno, indicato generalmente con la pa rola « fuoco
», comprende sette ripartizioni : la pri ma, giahannam (geenna), è il purgatorio
dei musulmani colpevoli, le altre sono riservate alle diverse ca tegorie di
infedeli. Il paradiso (giannat, chiamato anche firdaws) è descritto nel Corano
come il luogo sognato dal beduino, arso dalla sete, avido di ombre e di riposo;
meravigliosi giardini traversati in ogni sen so da ruscelli di acqua fresca, di vino
o di miele (celebre il Kawthar), e in cui gli eletti potranno diver tirsi, mangiare
e bere a loro agio in compagnia delle Uri, splendide vergini dagli occhi
scintillanti. Un simile paradiso soddisfa tutti i desideri dei sensi; ma in questo
bisogna scorgere una caratteristica locale dell'epoca piuttosto che una vera
originalità.

e) Lo sviluppo teologico. - II Corano, presentandosi come un dato rivelato,


senza misteri né parabole, non richiede in linea di principio nessuno sforzo di
riflessione. Ma i Credenti vi scoprirono presto contraddizioni, di cui il Profeta,
secondo la tradizione, poco si preoccupava: « Quello che vi mette in imbarazzo,
35

accettatelo con fede, » egli avrebbe detto. Più tardi i musulmani, che non si
accontentavano di un'accettazione ingenua, dovettero cercar d i definire, e
coordinare gli elementi contenuti nel testo sacro. Nacquero così l'esegesi e la
teologia coraniche.
Il primo ad essere discusso fu il problema della predestinazione e del libero
arbitrio, che Maometto sembrava lasciar insoluto. Se la creatura umana non può
far nulla contro il decreto divino (qadar, applicazione nel tempo di un decreto
universale ed eterno), nondimeno essa viene giudicata secondo i suoi atti;
onnipotenza divina e responsabilità umana, affermate in formule di diverso
orientamento, appaiono contraddittorie se poste a confronto; e il Corano non
spiega come le due verità possano conciliarsi. In realtà, l'onnipotenza divina
domina a tal punto la rivelazione coranica che la libertà dell'uomo ne risul ta
soffocata; il senso di responsabilità scompare di fronte alla sottomissione ai
voleri di Dio, atteggiamento quest'ultimo predicato, per ragioni politiche,
soprattutto nel periodo ommayyade.
Ma alcuni musulmani, ritenendo, nel loro pietoso zelo la potenza di Allah
incompatibile con la sua giustizia, cercarono di limitarla: e furono i qadariti
(coloro che limitano il qadar), in contrasto coi giabariti (sostenitori della
costrizione divina). Accettarono quella dottrina uomini che, al momento
dell'avvento di Mu'awiyah, si erano tenuti lontani dalla lotta politica (di qui il
nome di mu'taziliti, « coloro che si tengono in disparte »). Agli inizi, si
limitarono ad attribuire al credente peccatore una posizione inter mediaria fra la
fede e la miscredenza; poi, insorgen do contro la predicazione ommayyade,
sostennero la tesi del libero arbitrio. Infine, a partire dall'VIII se colo, i
mu'taziliti si proposero di difendere la fede rivelata con argomenti razionali,
onde controbattere la crescente diffusione delle teorie filosofiche greche. Ess i
rappresentano la prima scuola del kalām, divenuta più tardi « eterodossa »
(Abu-l-Hudhai, an-Nazzam, m. verso l'845; Abū-Haklm, m. nel 933).
Questi mu'taziliti, volendo giustificare la Legge con la ragione, svilupparono
essenzialmente due idee: la giustizia e l'unicità di Dio. Essi infatti portarono alle
estreme conseguenze la tesi qadarita del libero arbitrio, dichiarando che l'uomo è
il creatore dei propri atti; veniva così salvaguardata la giustizia di Allah, qualità
necessaria e inerente alla divinità. Mentre per l'Islam tradizionale il bene è
36

determinato dalla volontà divina, per i mu'taziliti esiste un bene in sé al quale


Dio non può che conformarsi. Inoltre, essi purificarono il monoteismo
dell'Isiàm, escludendo tutte le rappresentazioni antropomorfiche di Allah e ne -
gando il carattere eterno degli « attributi » divini nascosti sotto i novantanove
nomi. Ammettere l'esistenza di questi attributi increati e distinti dall'essenza
divina, era rendersi colpevoli di « associazionismo »; la parola stessa di Allah
non poteva essere che creata. Quest'ultima questione appassionò le folle e fece
apparire in seguito la credenza al « Corano creato » come l'elemento essenziale
della dottrina mu'tazilita, di cui essa era in realtà il semplice corollario.

Lungi dall'essere tolleranti, questi razionalisti non esitarono ad impiegare la


forza per imporre la loro dottrina. Così il califfo al-Mamun, convinto alle idee
mu'tazilite, perseguitò chiunque si rifiutasse di credere al « Corano creato ». Ma
nell'847 venne la reazione: il califfo al-Mutawakkil dichiarò guerra alla nuova
dottrina e ristabilì le concezioni tradizionali. Il mu'tazilismo aveva ormai fatto il
suo corso. Ma il kalam continuò, sia pure in una forma attenuata che restituiva alla
Legge il primato sulla ragione. Gli iniziatori di. questo kalam « ortodosso » furono
al-Ash' ari (m. nel 956), già uscito dal mu'tazilismo, e al-Ma-turidi (m. nel 944). Al-
Ash'arì, malgrado la celebrità che circondò il suo nome dopo il trionfo della scuola
da lui fondata, non riuscì a mantenere una posizione conciliatrice : bisogna credere,
diceva, perché « questo è scritto ». Al-Maturidi, più abile, sosteneva invece : il
dovere di credere in Allah è fondato sul comandamento divino, che però può essere
compreso dalla ragione. Successivamente i discepoli di al-Ash' ari ebbero la meglio
sui maturiditi perché riuscirono a inserire nella conoscenza religiosa una ragione
speculativa attenuata, accogliendo fra l'altro numero-* se interpretazioni allegoriche
del Corano proposte dai mu'taziliti. Essi mantenevano così il giusto mezzo fra la
negazione degli attributi divini, alla quale tendevano i mu'taziliti, e l'interpretazione
« letterale » del libro sacro. In particolare, limitando l'eccessiva venerazione di certi
musulmani per il testo stesso del Corano, essi insegnavano, senza precisare il «
come », che la parola di Allah è increata, ma che le lettere e i suoni impiegati per
manifestarla sono creati.
La scuola ash'arìta tuttavia si distinse sempre per la preponderanza attribuita al
volontarismo divino a detrimento della libertà umana; libertà che invece tutti i
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maturidìi riconoscevano senza riserve ma anche senza spiegazioni. Nell'XI secolo,


introducendo concezioni ellenistiche, al-Ghazzali diede nuovo impulso alla scuola e
la orientò verso quella che Ibn Khaldun chiamò la «via dei moderni», resa poi
illustre da Fakhr-ad-Din ar-Razi (m. nel 1210). Certo, il kalam continuò ad essere
considerato con sospetto dai musulmani intransigenti, gli hanbaliti, e soprattutto dal
loro celebre dottore Ibn Taymyya (m. nel 1328); ma ancor oggi, ash'arìsmo e
maturidismo, modificati ed arricchiti dai reciproci contributi, costituiscono la base
dell'insegnamento religioso ufficiale.

Le fonti della Legge Sacra.

La Legge, complesso di prescrizioni religiose e sociali che devono in ogni tempo


governare la comunità dei Credenti, riposa sul Corano, testo sacro di valore assoluto.
Ma alcune disposizioni contenute in esso erano adatte solo a un determinato stadio
della società musulmana. Per cui, di fronte all'evoluzione politica, i giuristi si videro
costretti a completare tali regole con elementi nuovi, che però, ai loro occhi,
rappresentavano il contenuto implicito della rivelazione e rientravano nel suo spirito
grazie all'autorità della tradizione o al ragionamento analogico. Questi nuovi elementi
costituiscono, col Corano, le « fonti della legge » (usul al-fiqh).

a) II Corano. - II testo del Corano, che rimane il fondamento della Legge, non
venne stabilito mentre Maometto era vivo. A quell'epoca, solo alcuni compagni, detti
i « segretari » (come Ubayy bin Ka'b, 'Ab-dallah bin Abu-Sarh, Zaid bin Thabit e
altri), avevano trascritto frammenti della rivelazione; nessuno pensava a una raccolta
completa, poiché quasi tutti i Credenti sapevano a memoria le diverse sure. Ma verso
l'anno 11 dell'Egira, 'Ornar, su consiglio del califfo Abu-Bakr, incaricò il giovane
Zaid bin Thabit di riunire tutto quanto era stato scritto e ciò che i compagni
ritenevano a memoria. I fogli componenti l'opera furono rimessi da 'Ornar a sua
figlia Hafsa, vedova del Profeta. Fino alla morte di 'Ornar, questo primo testo non
ebbe alcun carattere ufficiale, tanto più che erano apparse altre raccolte, compilate
da quattro compagni: Ubayy bin Ka'b, 'Abdallah bin Mas'ùd, Abfi-Musa e Miqdad
bin 'Amr. Esse però non concordavano e finirono col provocare divisioni fra i musul-
mani: infatti una raccolta era stata adottata a Damasco, un'altra a al-Kufah, una terza
38

a Bassorah e la quarta a Homs. Il califfo 'Othman decise allora di riunire una


commissione che, presieduta da Zaid, stabilì, in base ai « fogli » di Hafsa, il testo
ufficiale del Corano. L'originale rimase a Medina e copie furono inviate nelle città
dove erano diffuse versioni differenti. Questa « Volgata », il cui più antico esemplare
conservato risale al 776 e che non può evidentemente abbracciare la totalità delle
rivelazioni, contiene certo passaggi interpolati; ma non esiste alcun serio motivo per
dubitare della sua autenticità, concordemente ammessa dai musulmani (le sètte
contestano solo alcuni passaggi oppure il carattere esauriente della recensione).
Il testo coranico così stabilito si divide in 114 aure, composte da un numero di
versetti variabile (dai tre della siira 108, ai duecentottantotto della sura 2) e ordinate da
Zaid unicamente secondo la loro lunghezza: le più lunghe in principio, le più brevi
alla fine. Un posto a parte occupano « quella che apre », la fatihah, breve ed usata
come preghiera; e le due ultime, che riproducono antiche formule di scongiuro.
Ventinove sure iniziano con lettere isolate (da una a cinque), il cui significato rimane
oscuro per i musulmani come per gli studiosi occidentali; quanto ai titoli delle
singole sure, essi non fanno parte del testo rivelato. Infine, una nuova divisione in
parti uguali fu stabilita per la recitazione.
Il testo di 'Othman lasciava ancora adito a molte discussioni, causate
dall'insufficienza della scrittura araba primitiva che non conosceva i segni delle vocali
brevi (erano notate solo le tre lunghe a, u, i), e neppure i segni diacritici che
permettono di indicare gli elementi vocalici appoggiati, in una serie di parole, alle
stesse consonanti radicali di sostegno (come t, th, n e y). Così non si poteva
distinguere, ad esempio, se un verbo era alla seconda o alla terza persona, all'attivo
o al passivo; e ciò apriva la via a gravi errori, che in genere però vennero evitati
grazie alla tradizione orale e al particolare sistema di lettura che essa imponeva. Nel
IX secolo, si sentì il bisogno di stabilire letture ufficiali e se ne scelsero sette fra
quelle che venivano contemporaneamente usate e che del resto differivano solo su
punti secondari: i loro autori appartenevano ai diversi centri, Medina, la Mecca,
Damasco, al-Kufah, Bassorah, ed erano quasi tutti di origine iraniana. Più tardi il
numero fu elevato a dieci, poi a quattordici, ma le prime sette conservarono sempre
maggiore autorità; inoltre per ciascuna di esse vennero scelti lettori ufficiali
incaricati di trasmetterle nella loro integrità. Le due letture più in uso sono quelle di
Abù-'Amr bin al-'Ala nel Vicino Oriente, e di Nafi' nel Maghreb. Il testo coranico è
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oggetto di speciali commenti (tafsir), che hanno come scopo essenziale di precisare
il senso dei termini e la loro funzione grammaticale, facendo ricorso all'antica
poesia araba, alle « tradizioni », al linguaggio parlato dei Beduini e al
ragionamento; essi devono inoltre determinare quale tra due versetti contraddittori
abbia il sopravvento (scienza dell'« abrogante e dell'abrogato », fondata su un
versetto del Corano). In tal modo è assicurata la base dell'interpretazione giuridica e
dogmatica.

b) La Sunnah. - La seconda fonte della Legge è la sunnah, termine che,


significando « condotta, maniera di agire », si riferisce particolarmente alla con-
dotta del Profeta. Per rispondere ai problemi nuovi posti dall'evoluzione della
comunità primitiva, si indagarono gli usi del tempo del Profeta, si interrogarono i
compagni circa i suoi detti, fatti ed atteggiamenti, e si raccolse un complesso di «
tradizioni » (hadith) che servì di base alla scienza giuridica e costituì una « legge di
tradizione orale che si sovrappone alla legge scritta» (H. Masse), come già era av-
venuto presso gli Ebrei. Coloro che si allontanavano dai suoi principi si rend evano
colpevoli di « innovazione » (bid'ah), parola che finì con l'assumere il senso di
eresia e confondersi con la miscredenza. Così l'osservanza della sminali divenne la
caratteristica dei membri fedeli della comunità; e si chiamò sminali « la pratica e la
teoria dell'ortodossia musulmana » (H. Masse), e sunniti i seguaci dell'ortodossia uf-
ficiale.
Il hadith è un « detto » che risale al Profeta o ai suoi compagni e il cui testo
(matn) proviene da una catena di successivi garanti. Eccone lo schema carat-
teristico: «X seppe da Y che l'aveva saputo da Z che Egli (il Profeta) o quel suo
compagno disse (o fece, oppure tacitamente approvò, ecc.)... » La raccolta dei
hadlih cominciò nell'epoca ommayyade, ma fu solo nel IX secolo che vennero
composte, da autori in maggior parte persiani, raccolte complete di tradizioni, ordi-
nate alcune per materia, altre secondo l'ordine cronologico dei personaggi ai quali
risaliva la catena. Sei raccolte hanno ricevuto consacrazione ufficiale: il Sahih di
al-Bukhari (m. nell'870), che ebbe molte pubblicazioni e commenti; il Sahih di
Muslim (m. nell'875); e opere di Ibn Maja, Abu-Da’ud, at-Tirmidhi e an-Nasa’i e
Ibn MaGa.
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Questi autori dovettero non solo raccogliere e classificare i hadith, ma anche


eliminare tutti gli apocrifi che, nel IX secolo, per ammissione degli stessi musul-
mani, erano divenuti molto numerosi. Il hadith infatti aveva acquistato fin dalle
origini una tale autorità, che anche gli spiriti più onesti avevano ritenuto opportuno
creare « detti » falsi per giustificare i nuovi principi sorti dallo sviluppo della Legge
o del dogma primitivo. Essi, d'altronde, non nascondevano questa « pia frode »
poiché ritenevano un dovere confermare con la tradizione ciò che a loro avviso
avrebbe dovuto essere la parola del Profeta. Tanto più facilmente, altri, meno
scrupolosi, presero l'abitudine di inventare hadith per difendere questa o quella
setta, questa o quella tendenza religiosa o politica (filo o anti ommayyade, sciita,
ecc.).
Per vagliare criticamente le « tradizioni », gli autori musulmani si limitarono a
controllare la catena: e classificarono i hadith in « sani » (sahih) e « buoni »
(hasan), <deboli> (da’if) o <falso> (mawdu’) distinsero quelli la cui ca tena era
continua o irregolare o interrotta e quelli conosciuti attraverso una o più file di
garanti. Ma questa critica dall'esterno parve insufficiente agli stu diosi
occidentali, i quali vedono in molti hadith considerati autentici il semplice
riflesso dell'opinione della comunità ad una determinata epoca : in questo senso,
la « tradizione » costituisce per lo storico una fonte di documentazione unica.
c) Le scuole giuridiche. - II diritto canonico (fiqh) deve essersi formato
contemporaneamente alla scienza delle « tradizioni », se non addirittura prim a di
questa, e i dottori non attesero certo per giudicare che la sunnah fosse codificata.
Quando, agli inizi dell'epoca 'abbaside, si cominciò a studiare il « diritto » in
maniera approfondita, sorsero divergenze fra i giuristi in quanto alcuni si
attenevano alla lettera della tradizione, mentre altri, in casi dubbi, seguivano la
propria opinione personale. Ebbero così origine diversi sistemi giuridici
(madhhab), chiamati impropriamente riti. Richiamandosi a diversi metodi di
giurisprudenza, essi differiscono soltanto, il più delle volte, in particolari pratici
(come il rito della preghiera, il potere del rappresentante della donna nei
contratti di matrimonio, il valore delle testimonianze).
La scuola più antica fu quella di Malik bin Anas (m. nel 795) , giudice di Medina,
autore di un'opera intitolata al-Muwatta (« il ben spiegato ») che è al tempo stesso
un trattato di fiqh ed una raccolta di hadith. Riflettendo l'opinione del suo
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ambiente nell'VIII secolo, egli ammette come fonti della Legge: in primo luogo, il
Corano e la sunnah; poi, ove ve ne sia bisogno, il diritto consuetudinario di
Medina; e infine l'interpretazione personale (ray] nella forma del consensus (igma)
dei dottori di Medina (esclusi gli altri) su una questione precisa.
All'incirca nella stessa epoca si formava in Siria), poi nell'Iraq, un'altra scuola il
cui rappresentante più celebre fu Abu Ha nifa (m. nel 767, persiano di origine,
giurista ma non giudice). Dopo il Corano e la sunnah, egli am mette il giudizio
personale nella forma del « principio di analogia » (qiyas), che consiste nel
ravvicinare il caso nuovo ad uno antico ed analogo. Ma questo metodo di
ragionamento del tutto formale deve essere regolato da un principio che, per Ab -
Hanl, è quello d'istihsan, cioè di « scegliere la soluzione migliore ». Infine, la
scuola « hanafita » riconosce il valore del consensus, senza limitarlo ai dottori di
Medina.
Il principio dell'istihsan venne molto discusso, per ché poteva dar luogo a giudizi
arbitrari; così la preoccupazione delle scuole fu di eliminare l'elemento soggettivo
che fatalmente entra in ogni interpretazione personale. I discepoli di Malik,
cercando di migliorare il metodo del maestro, assoggettarono il giudizio
individuale a un principio più preciso di quello del l'istihsan: l'« istihlah », « ricerca
del bene della comunità ».
Il terzo caposcuola, ash-Shafi'i (m. nell'820), limitò considerevolmente
l'importanza del ragionamento. Dopo il Corano e la sunnah, egli pose il consensus,
di cui tentò una definizione esatta: l'accordo unanime dei dottori di un determinato
periodo su una determinata questione. Il consensus, fondato su un hadith (« La
mia comunità non si troverà mai d'accordo su un errore »), ebbe una parte
importante nell'evoluzione del diritto e del dogma islamici, permettendo di
trasformare in sunnah un uso universalmente seguito, ma fino allora considerato
come « innovazione ». Così fu il consensus a consacrare il testo del Corano, le
sei raccolte canoniche di « tradizioni », le feste anniversarie in onore del Profeta
e il culto dei santi. Il « principio di analogia » venne invece relegato da ash-
Shafi'i al quarto posto, « per i casi non contemplati né dal Corano, né dalla
sunnah, né dal consensus », e anche allora con precise limitazioni.
Un antico discepolo di ash-Shàf'i, Ahmad bin Hanbal (m. nell'855), diede il
suo nome a un quarto sistema, di carattere essenzialmente negativo. Infatti egli
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si oppose per principio ad ogni innovazione, riconobbe come uniche fonti della
Legge il Corano e la sunnah, e ammise il giudizio personale solo in casi di
assoluta necessità. Ancor più rigorista, la scuola zahirita, fondata da Daud nel
IX secolo, che condannava ogni ricorso al giudizio personale o al consensus e
rifiutava ogni interpretazione del Corano che non fosse il « senso letterale »
(zhahir). Ma neppure gli sforzi dell'andaluso Ibn Hazm (m. nel 1064) riuscirono
a salvare il rito zahirita che finì con lo scomparire. Ugualmente altri sistemi
giuridici ebbero vita effimera.
Oggi, le sole scuole ortodosse sono la malikita, la hanfita, la sciafeita e la
hanbalita. E poiché esse differiscono, agli occhi dei musulmani, solo nelle appli-
cazioni pratiche (gli hanafiti, ad esempio, ammettono la recitazione della Fatihah
in persiano), sono considerate tutte ugualmente valide e le grandi università
religiose comprendono rappresentanti di ciascuna tendenza. Le quattro scuole si
sono divise il mondo sunnita con diversa fortuna: l'hanafismo, meno rigido,
adottato dai Turchi e dagli Ottomani, domina attualmente in Turchia, nelle Indie
e in Cina; lo sciafeismo, che fu la scuola ufficiale del califfato abbaside, ma che
in seguito declinò, si trova ancora nel basso Egitto, nel Higiàz, nell'Africa
orientale e meridionale, in Palestina e nell'Insulindia ; il malikismo è diffuso
nell'Africa del Nord (una volta, anche in Spagna), nell'alto Egitto, nell'Africa
occidentale e nel Sudan; il hanbalismo (riconosciuto solamente nel XII secolo),
già diffuso nella Siria e nell'Iraq, si ridusse, dopo l'arrivo dei Turchi, all'Arabia
(Negd).
La forma definitiva di un sistema giuridico è chiamata igtihad. Ogni fondatore
di scuola riconosciuta è mugtahid mutlaq (« che ha la capacità assoluta di
ricorrere alla igtihad »), mentre i suoi immediati suc cessori, cui toccò di
applicare il suo metodo e svilupparne le conseguenze, sono chiamati
semplicemente mugtahid; dopo di loro, nessuno può più ricorrere all'igtihad che
è chiuso per sempre (benché alcuni dottori, ai loro tempi, abbiano preteso di
riaprirlo: Ibn Taymyya, as-Suyuti). Tuttavia, quando si tratta di risolvere un
caso imbarazzante, si ricorre a un giurista chiamato muftì, il quale può dare un
parere giuridico basato su precedenti. Normalmente, per applicare il diritto si
usano brevi manuali pratici, che riassumono le disposizioni di ogn i scuola:
quello di Khalil (m. nel 1365) per il malikismo; quello di an-Nawawì (m. nel
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1278) per lo sciafeismo; quello di al-Khorasani e di an-Nasafi per il


hanafinsmo.
Occupando un posto considerevole nella comunità musulmana, i giuristi,
interpreti della Legge, hanno profondamente influito sulla mentalità dell'Islàm;
e il « diritto », base della vita religiosa e sociale, domi na anche l'attività
intellettuale, che solo in rari casi riuscì a liberarsi dei suoi metodi e del suo
vocabolario.

La Legge islamica e la vita religiosa.

In quanto rinnovazione del patto preeterno (cf. C., VII, 171) concesso da Allah
ai posteri di Adamo, la Legge islamica (shari’a) è l'espressione del contratto che il
Signore elargisce al credente, il quale da semplice schiavo viene assunto così a
uno « stato giuridico » privilegiato. La Legge ha come scopo di garantirgli le
migliori condizioni di esistenza nella vita presente e la ricompensa eterna nella
vita futura. Di qui le tre grandi suddivisioni del « diritto canonico » : presc rizioni
religiose, diritto penale e norme giuridiche. Ma l'applicazione della Legge
incontrò diversi ostacoli, costumi locali, credenze popolari o circostanze sto-
riche, che costrinsero quasi sempre l'Islam a scendere a compromessi,
giustificati con diversi artifici. Il distacco fra la teoria e la pratica, sensibile
soprattutto nella vita familiare e sociale, appare già nella vita religiosa.
Questa, per il musulmano, consiste essenzialmente nel compimento dei cinque
obblighi rituali stabiliti dalla Legge e che vengono chiamati i << pilastri della
.religione» (arkan ad-din). Essa non implica alcuna idea di « paternità » divina,
poiché Dio è sempre il Signore di fronte al quale la personalità del fedele esiste
solo per una convenzione giuridica ; tuttavia il ' problema della devozione
personale e della vita intcriore fu sentito anche nell'Islàm.

a) Gli obblighi canonici. - Oltre alla professione di fede, riconoscimento della


trascendenza e unicità divina e, per ciò stesso, condizione del contratto, gli
obblighi comprendono la Preghiera, il digiuno, l'elemosina legale e il
pellegrinaggio.
La Preghiera rituale. - Elemento essenziale del culto insieme di gesti e di
parole rigorosamente stabiliti, la Preghiera è un atto di lode e di adorazione, che
non implica alcuna idea di domanda né di legame personale fra l'uomo e Dio.
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Essa viene compiuta cinque volte al giorno (nel Corano, tre volte sola mente;
l'obbligo delle cinque preghiere è basato sulla sminali): fra l'alba e il sorgere del
sole (fagr), subito dopo mezzogiorno (zuhr), verso le sedici (asr), subito dopo il
tramonto (maghrib) e ad un'ora qualsiasi della notte (isha). Ogni volta il muezzin,
dall'alto del minareto che domina la moschea, lancia l'appello composto dalle
seguenti invocazioni: «Allah è grande (quattro volte). Io attesto che non esiste altro
Dio fuori di Allah (due volte). Io attesto che Maometto è l'inviato di Allah (due
volte). Venite alla Preghiera (due volte). Venite alla salvezza (due volte). Allah è
grande (due volte). Non v'è altro Dio fuori di Allah. »
II fedele può compiere la Preghiera solo dopo essersi posto in stato di « purezza
legale » con una abluzione completa o ridotta, secondo i casi (talvolta sostituita dalla
« lustrazione polverale »); in casa o all'aperto, deve orientarsi verso la Mecca e
delimitare sul terreno uno spazio che lo separi dal mondo esterno; per questo, adopera
il « tappeto della Preghiera ». La Preghiera (salat), infatti, può essere compiuta
ovunque, salvo quella del mezzogiorno del venerdì per la quale i musulmani devono
riunirsi nella moschea (masgid) e comprende inoltre un “sermone” (khutba), in
origine pronunciato dal califfo, e in seguito da predicatori di professione. Nella
moschea i fedeli, in file serrate, seguono i gesti dell'imam che dirige la Preghiera;
costui sta davanti alla nicchia (mihrab) che, nel muro di fondo, indica la direzione
della Mecca (qiblah) verso la quale bisogna rivolgersi.
La Preghiera comporta un numero variabile di rakaa, comprendente ciascuna :
formulazione dell'« intenzione»; parole di consacrazione (Allah akbàr); recitazione
della fatihah; inclinazione del corpo; raddrizzamento; due prosternazioni complete;
recitazione della « professione di fede », poi sconsacrazione. I particolari di questi
gesti formano oggetto di discussione fra le scuole giuridiche. Esistono inoltre
preghiere facoltative o supererogatorie (preghiera di notte) e preghiere speciali («
invocazione della pioggia », « preghiera per i morti » compiuta sia nelle case dei
defunti, sia nella moschea, sia al cimitero).
// digiuno del ramadan. - Sembra che sia stato istituito a Medina, nel secondo
anno dell'Egira, in luogo del primitivo digiuno d'ashura (decimo giorno), imitato
dagli ebrei. Il Profeta avrebbe così ristabilito nella sua purezza un us o snaturato
da ebrei e cristiani. Circa il mese del ramadan, esso fu scelto indubbiamente
perché in quel periodo dell'anno Maometto ebbe le prime rivelazioni.
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Il digiuno (sawm) è obbligatorio durante tutto il mese del ramadan, nono mese
del calendario lunare musulmano (salvo per i malati e i viaggiatori, dispensati a
determinate condizioni). Esso comincia all'apparizione della luna nuova,
annunciata ufficialmente per ordine del cadì, e deve essere rigorosamente
osservato dall'alba al tramonto. Prima dell'alba, si formula l'intenzione, senza la
quale l'atto del digiuno non avrebbe valore; durante la giornata, in terdizione
assoluta di ingerire qualsiasi sostanza materiale, solida o liquida, di fumare e di
avere rapporti sessuali; dopo il tramonto, si consuma un pasto e all'alba, prima
della ripresa del digiuno, un altro pasto. Il digiuno è ugualmente obbligatorio
come compensazione (quando non si è digiunato per tutto il mese), come
espiazione maggiore o minore (quando il digiuno è stato rotto con att i sessuali o
per una dispensa legale) e in alcune altre circostanze eccezionali. Alla fine del
ramadan, si celebra una delle maggiori feste dell'anno, la « festa della rottura » o
« piccola festa » (‘id saghir), che comprende una preghiera e una elemosina ai
poveri.
L'elemosina legale. • Indicata col termine zakat (purificazione), essa è destinata
a purificare i beni di questo mondo, di cui si può godere solo a condizione di
restituirne una parte ad Allah. Così la zakat si di stingue dall'elemosina volontaria
(sadaqa): distinzione post-coranica. L'obbligo incombe ad ogni possidente, sano
di corpo e di spirito (C., LVIII, 14) che goda di un minimo di rendita. In origine
il versamento era compiuto in natura, perché il commerciante, l'agricoltore o
l'allevatore dovevano consegnare il decimo e talvolta il ventesimo dei loro
guadagni o raccolti. Il ricavato andava distribuito fra i poveri, gli agenti delle
imposte, coloro « di cui si voleva conciliarsi il cuore » (categoria da lungo
tempo scomparsa), gli schiavi desiderosi di affrancarsi, gli indebitati per una
causa pia, i volontari per la guerra santa e i viaggiatori. L'« elemosina legale » è
dunque, all'origine, una decima prelevata ai ricchi per essere ripartita tra i poveri;
in seguito essa finì col perdere il suo carattere caritatevole e divenire una
semplice imposta.
Il pellegrinaggio (hagg). - II musulmano è tenuto a soddisfare quest'obbligo di
carattere particolare una volta nella sua vita, ma solo se è « in grado di farlo »
(C., IlI, 91). Le difficoltà materiali del viaggio costituiscono altrettanti motivi di
dispensa: ne beneficiano coloro che non possono viaggiare soli (alienati, schiavi,
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donne che non abbiano parenti per accompagnarle) e i bisognosi. L'insicurezza


delle strade era un ostacolo al quale si pose rimedio organizzando carovane di
pellegrini che ogni anno partivano dalle grandi metropoli del mondo musulmano
(soprattutto Istanbul e il Cairo); alcune giungono per mare e sbarcano a Gedda.
Obiettivo del pellegrinaggio è il santuario della Mecca, al centro del quale si
trova la Ka'bah, edificio rettangolare in pietra (10 m. per 12 e 15 m. di altez za)
circondato da un lastrico e ricoperto da un velo di broccato nero, che una volta
era confezionato in Egitto e che viene cambiato ogni anno. Su un angolo sta la «
pietra nera » ; attraverso una porta, che si apre a due metri sotto il livello del
suolo, si accede all'interno, dove si trovano solo lampade e iscrizioni. Un piccolo
edificio ospita la pietra che Abramo avrebbe calpestato e una cupola ricopre-la
sorgente Zam-zam. Queste le edicole più importanti fra le molte che ingombrano la
corte del santuario, completamente restaurata nel 1630 dopo essere stata più volte
danneggiata (assedio della Ka'bah sotto l'anticaliffo 'Abd-Allah ibn az-Zubair nel 683,
assalto dei Qarmati nel 929, intemperie e inondazioni).
Il territorio della Mecca è sacro (haram): per entrarvi, bisogna porsi in stato di
consacrazione e cioè compiere un'abluzione, radersi accuratamente e indossare una
veste speciale. Lo stato sacrale vieta inoltre i rapporti sessuali, le cure di toletta e le
effusioni di sangue. Prima di cominciare, il fedele formula l'intenzione di compiere i
riti del pellegrinaggio e grida: « labbaika allahomma, labbaika» (antica e-spressione
il cui senso sembra essere : « Eccomi, mio Dio, eccomi »).
Le cerimonie si suddividono in due serie distinte: la 'umrah e il haggj («
pellegrinaggio » propriamente detto). La 'umrah corrisponde ai riti pre-islamici che
si svolgevano sempre alla Mecca, e comprende essenzialmente sette rapidi giri
intorno alla Ka'bah (tawaf) e sette corse fra i due rilievi di Safa e Marwa (sa'y).
Limitata in origine al mese sacro di ragiab, la 'umrah, a partire dal XII secolo, può
essere compiuta tutto l'anno, eccettuati i due mesi del haggj. Se il pellegrino si limita
alla 'umrah (pratica che tende a scomparire), egli abbandona lo stato di
consacrazione; altrimenti attende l'inizio del haggj.
Il haggj è una manifestazione collettiva, che ha luogo una volta l'anno, a data
fissa, nel mese di Dhu-al-higgia, e comprende i seguenti riti e cerimonie : il 7,
predica alla moschea della Ka'bah; l'8 sera, partenza per Mina; il 9, giorno di
adorazione, «sosta in piedi » sulla collina di Arafat a cominciare dall'alba ; al
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tramonto, preghiera, veglia e ritorno a Mina l'indomani mattina; il 10, lapidazione di


una stele di Mina con sette piccoli ciottoli raccolti a Marwa, sacrificio della vittima
che il pellegrino ha contrassegnato entrando nel ter ritorio sacro, in corrispondenza
con la « grande festa » celebrata nell'intero mondo musulmano , poi piccola
sconsacrazione; l' 1l, il 12 e il 13, lapidazioni, ultime visite ai luoghi sacri e alla
Ka'bah.
Al ritorno, molti pellegrini si fermano a Medina, per visitare la tomba del
Profeta; ed anche a Gerusalemme, terza città santa dell'Islam dall'epoca degli
Ommayyadi (la « qubbat as-Sakhra » o « moschea di Ornar » ricopre la roccia
legata al ricordo del « viaggio notturno » di Maometto).
Importante cerimonia religiosa che riproduce uno degli ultim i atti del Profeta, il
pellegrinaggio ha pure un'importanza politica, raccogliendo i musulmani dispersi
nel mondo. Esso presenta inoltre un interes se per il fatto di conservare usi risalenti
al periodo preislamico.
La guerra santa. - Dovere non personale, ma collettivo, che si concretò solo dopo
la morte del Profeta, la guerra santa (gihad) non è in genere considerata come un
obbligo fondamentale. Affidata a un nume ro ristretto di volontari membri della
comunità, essa deve essere diretta contro i popoli infedeli prossimi al «territorio
dell'Islam». Questi, però, prima di es sere combattuti, devono essere invitati a
convertirsi: se accettano, entrano a far parte della comunità; al trimenti vengono
conquistati con la forza o costretti a capitolare. Nel pri mo caso, la sorte dei
prigionieri di guerra è rimessa all'arbitrio del comandante mu sulmano; e il bottino,
costituito dai beni confiscati, viene diviso fra le truppe, ad eccezione di un quinto,
la « parte di Dio », destinata ai poveri. In caso di re sa, invece, ebrei e cristiani, in
quanto « popoli del Libro », godono di uno statuto privilegiato e conser vano il
libero esercizio del loro culto, dietro paga mento di una imposta prò capite (gizya);
diverse sette e perfino degli idolatri come gli Indù, vennero assimilati a queste
categorie di « protetti ». Essi dovevano inoltre pagare Una imposta fondiaria
(kharaj) sui beni immobiliari lasciati in loro possesso, ed erano soggetti a
determinati obblighi e divieti (contributo al mantenimento degli eserciti
musulmani, proibizione di portare armi).

b) Il culto dei santi. - È un'innovazione che, diffusasi rapidamente fra le classi


popolari, specialmente nell'Africa del Nord, finisce per essere ammes sa come
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pratica canonica in virtù del consensus. Le devozioni che questa pratica


comporta hanno sovente permesso di integrare delle tradizioni religiose locali;
ma la storia dell'Isilm fornisce egualmente dei santi (wali). Erano compagni del
Profeta, membri della sua famiglia, « martiri » caduti nella guerra santa al tempo
delle prime conquiste o più tardi, mistici celebri e fondatori di confraternite
sùfite, giuristi famosi per la loro pietà; insomma tutti coloro i cui meriti
sembravano garantire dei miracoli a chi li invocasse. Nel Maghreb furono
venerati soprattutto gli uomini che insorsero contro l'invasore infedele, quando
la Spagna volle conquistare il Marocco dopo la presa di Granata (1492): erano i
« marabutti », che occupavano i conventi-fortezze eretti a difesa delle frontiere
dell'Isiam. Il santo possedeva un potere soprannaturale, definito dalla sua
baraka, effluvio sacro, che si materializzava nelle sue reliquie e poteva
comunicarsi per contatto. Santuario del santo era abitualmente la sua tomba; vi
si celebravano delle feste stagionali), o che commemoravano l'anniversario della
sua nascita (milud). Il più importante milud era quello del Profeta, ben presto as-
sunto alla testa dei santi. La venerazione d'un santo era una questione locale;
alcuni di loro godevano tuttavia di una fama universale, come 'Abd-al-Qadir al-
Gilani, i cui qubba (tombe presunte o monumenti commemoratori) sono
disseminati in tutto il mondo musulmano, fino in Indonesia.
Così il popolo, per proteggersi dall'arbitrio dell'onnipotenza divina, aggiunse ai
« doveri fondamentali » determinate devozioni particolari che, pur confinando
talvolta con la superstizione, se non addirittura con la magia, hanno assunto
nella vita religiosa una importanza di primo piano. Una delle pratiche popo lari
più interessanti è la « preghiera di domanda » (du'a) giustificata d'altronde dal
Corano (« Invocatemi ed io vi esaudirò », XL, 62). I mu'taziliti negavano a tale
pratica ogni valore, mentre gli ash'ariti si sforzarono di conciliarla col dogma
della predeterminazione; e per la massa dei fedeli essa è divenuta il supremo
ricorso : « L'uomo non ha altro in mano che la preghiera di domanda, » afferma
un detto.
I primi contrasti politici insorti per la successione al califfato diedero origine a
movimenti settari, le cui dottrine, non ispirate ad alc una delle quattro scuole
giuridiche riconosciute, si allontanavano in diversa misura dall'Isiam ufficiale.
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Le correnti dell’Islam.

1. Il kharigismo. - II movimento più antico fu quello dei Kharigiti, (oggi


sopravvivono di questo antico orientamento solo gli Ibaditi) partigiani di 'Ali, i
quali rifiutarono l'arbitrato favorevole ad al-Muawiyya, ritenendo che « il
giudizio spettasse a Dio solo ». Ritiratisi nei dintorni di al-Kufah, essi iniziarono
una violenta campagna di opposizione al regime. Dopo la morte del califfo
Yazld (683), i Kharigiti si frazionarono in diverse sètte. La più importante fu
quella degli Ibaditi che, insorti in Arabia sotto l'ultimo degli Ommayyadi,
vennero respinti verso il Maghreb ; qui incitarono alla rivolta i Berberi,
predicando un'eguaglianza assoluta fra tutti i musulmani. Uno Stato ibadita,
quello dei Rostemidi, durò a Tahert fino all'arrivo dei Fatimidi; e ancor oggi si
trovano gruppi ibaditi nell'Africa del Nord (Uargla, Gerba e soprattutto Mzab),
come pure in Tripolitania, a Zanzibar e nell'Oman (Arabia). La dottrina dei
Kharigiti, pur non avendo mai ricevuto una formulazione ufficiale, subì poche
variazioni. In politica, essi auspicano un califfato elettivo, affidato al più degno;
nella teologia e nella morale, sono rigoristi e « letteralisti » : condanna del lusso,
rifiuto di una sùra considerata frivola (quella di Giuseppe), interpretazione
letterale del Corano (parola increata di Allah), necessità di una coscienza pura
prima ancora della Preghiera, e di opere che accompagnino la fede.
2. Lo sciismo. - Contrariamente al kharigismo, lo sciismo subì attraverso i
secoli una profonda evoluzione, fino a dar origine a dottrine religiose molto lon-
tane dall'Islam ufficiale. Esso si presentò dapprima come un partito politico
puramente arabo, quello di 'Ali; apparsa in seguito alla deposizione di quest'ulti -
mo, la sci’a (il « partito » di 'Ali) difese il califfato ereditario contro gli
Ommayyadi. Poi, sotto l'influenza delle circostanze storieche, lo sciismo
divenne un movimento religioso estremista, che reclutò la maggior parte dei suoi
adepti fra i mawalì insofferenti del giogo arabo, soprattutto in Persia; il
matrimonio di al-Husain, figlio di 'Ali, con la figlia dell'ultimo re sasanide
contribuì forse al suo successo fra gli Iraniani. Inoltre lo sciismo introdusse una
teoria originale che doveva modificare considerevolmente le concezioni
tradizionali dell'Islam.
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Si tratta dell’Imanato, principio politico a base religiosa, che riserva ad 'Ali e


ai suoi discendenti il diritto di guidare la comunità. Questo compito è affidato
non a un califfo, capo temporale che deve semplicemente far eseguire la Legge,
ma a un dottore, investito su designazione divina, che continua la missione del
Profeta. Gli imam, scelti fra la discendenza di 'Ali dal loro predecessore o dalla
famiglia (secondo le sètte), si tramandano conoscenze segrete che 'Ali avrebbe
appreso da Maometto. Col tempo, 'Ali finì con l'essere posto al di sopra del
Profeta stesso e gli imam furono allora considerati portatori di una luce divina,
esenti dal peccato e infallibili per natura.
La credenza negli imam, sesta base della religione per lo sciismo, è integrata
da un'idea messianica. La serie degli imam infatti non è infinita, ma si è con -
clusa con un imam che, morendo, lasciò solo temporaneamente il mondo
visibile, dove riapparirà trionfante un giorno, per aprire un'era di giustizia e di
pace. Egli si confonde così col mahdì, di cui tutti i musulmani attendono la
venuta alla fine dei tempi.
Ma per gli sciiti, il mahdi è molto più del vincitore dell'Anticristo: «signore del
tempo», rimane, durante la sua « assenza », capo legittimo della comunità, che
egli libererà dalla tirannia; senza che vi sia mai stato, tuttavia, un accordo sulla
identità di quest'ultimo imam, designato differentemente secondo le sètte.
Questi elementi fondamentali dello sciismo si tro vano in germe nel movimento
che, nel 685, poco dopo Kerbela, sfociò nella rivolta di Mukhtar a favore di
Muhammad bin al-Hanafiya, figlio di 'Ali e di una su a moglie che non era
Fatimah. Infatti, alla morte di Muhammad (700), i suoi partigiani si divisero in
vari gruppi. Alcuni ritennero che il defunto fosse il mahdi; altri addirittura lo
divinizzarono; altri ancora elessero un successore nella persona del fi glio Abù-
Hashim. Ma la morte di questi (716) provocò una nuova scissione: delle tre sètte
che allora si separarono, una seguì un discendente di al-'Abbas, e su di essa fece
leva la propaganda 'abbaside.
Saliti gli 'Abbasidi al potere, le sètte per dettero molto della loro importanza. Ma
lo sciismo, rappresentato adesso dai partigiani dei discendenti di al -Hasan e al-
Husain, figli di Fatimah, prende nuovo sviluppo. Perseguitato dall'autorità
temporale, esso trova seguaci fra i popoli sottomessi e soprattut to nelle classi
inferiori, che l'evoluzione economica getta nella miseria. Così lo sciismo inserisce
51

nel suo programma politico le rivendicazioni sociali e diviene il partito degli


oppressi.
Ed ecco allora sorgere un concetto nuovo, la Pas sione. Il mondo corrotto soffre
nell'attesa del Mahdi; la passione dell'imam, che fu martire o perseguitato, da forza
ai suoi fedeli. Gli sciiti venerano in modo particolare le tombe di 'Ali e di al -
Husain, e commemorano ogni anno, ai primi di al-muharram, dopo dieci giorni di
lutto, il massacro di Kerbela. Piangere su al-Husain, dicono, è ciò che da « un
valore alla nostra vita e alla nostra anima ». Visione del mondo pessimistica, valore
liberatorio della sofferenza, ecco due nozioni estranee alla mentalità islamica
comune.
Tuttavia gli imam perseguitati non devono rischiare il martirio, che potrebbe
annientare lo sciismo . Essi dunque hanno l'obbligo di nascondersi e i loro se guaci
di dissimulare le proprie convinzioni, agendo come musulmani sottomessi al potere
costituito e alla dottrina ufficiale. E questo è ancora un principio della morale
islamica detto « precauzione », che consente al musulmano di rinnegare
esteriormente la fede, quando la sua vita sia minacciata. Lo sciismo però trasforma
tale principio in dovere assoluto.
Questi i principali caratteri dello sciismo moderato, che si distingue dalla dottrina
sunnita anche nei seguenti punti:
a) Esegesi: la credenza negli imam portò dapprima gli sciiti a metter in dubbio
l'autenticità della recensione ufficiale del Corano, che avrebbe omesso i passi
relativi ad 'Ali ed ai suoi privilegi. Ma essi non riuscirono ad accordarsi sul testo
autentico e continuano quindi a servirsi della redazione corrente. In questa però si
sono sforzati di trovare la giustificazione della loro dottrina, facendo ricorso
all'esegesi allegorica dei mu' taziliti.
b) Tradizione: gli sciiti fanno risalire i hadlih non profetici agli imam e non ai
compagni.
e) Diritto: l'imam è la sola autorità qualificata a interpretare la Legge. Il diritto
sciita riposa dunque, non sul consensus, ma sull'insegnamento dell'imam. In
particolare l'unica originalità consiste nel mantenimento del matrimonio
temporaneo.
d) Teologia: al di fuori della teoria dell'imamato, gli sciiti professano in genere
idee vicine al mu'tazilismo, che, secondo loro, sarebbe stato fondato da 'Ali.
52

Favorevoli al razionalismo, essi considerano talvolta l'esistenza dell'imam, la sua


sparizione e il suo ritorno, come necessari in se stessi perché conformi alla ragione.
e) Culto: oltre ai pellegrinaggi alle tombe dei primi imam e alla festa del 10 al-
muharram, gli sciiti hanno solennità proprie: ad esempio, quella dello « stagno »,
luogo dove 'Ali avrebbe ricevuto l'investitura. Inoltre, nell'appello alla Preghiera,
essi aggiungono la formula : « Venite alla migliore delle opere. »
Sciismo e sunnismo si contrappongono dunque, dividendosi, sia pure in maniera
ineguale, il mondo musulmano; ma non è vero, come qualcuno ha detto, che il primo
respinga la sunnah e favorisca il « lassismo » nel campo giuridico e morale.
Nell'epoca 'abbaslde, lo sciismo si frazionò in numerose sètte dalle più moderate
alle più estremiste.
Alcuni adepti, dopo aver sostenuto un nipote di al-Husain, Zaid (morto nel 743),
prendevano in seguito partito per diversi discendenti di al-Hasan (tra cui Muhammad
an-Nafs az-Zakiya, ucciso nel 762); e furono detti Zaiditi. Altri, invece, restavano
fedeli ai discendenti di al-Husain, Muhammad al-Baquir (m. nel 731) e il figlio Ja'far
as Sadiq (m. nel 765). Questo secondo gruppo si divise poi in Duodecimani, che
credevano all'esistenza di dodici imam (di cui l'ultimo, Muhammad, disparve dopo
l'873), e Ismailiti, partigiani di un figlio di Ja'far, Isma'Il, escluso dalla successione a
causa delle sue tendenze rivoluzionarie.
Di questi gruppi, uno solo, quello degli Zaiditi, mantenne un programma puramente
politico. Dopo Zaid, essi non considerarono più l'imamato ereditario, ma elettivo
nelle discendenze di al-Husain e di al-Hasan; e abbandonarono la credenza nel
mahdi.
Una dinastia zaidita regnò sul Tabaristan nel IX secolo; e dall'860, lo Yemen è
governato da Zaiditi.
I seguaci di tutte le altre sètte possono essere considerati Imamiti.
II movimento ismailita merita una menzione particolare sia per l'originalità della
sua dottrina esoterica (che gli valse il nome di batiniya), sia per la sua importanza
storica. Gli imam ismailiti, costretti ad una clandestinità assoluta perché perseguitati
anche dai rivali Duodecimani, si servirono di propagandisti (dal), incaricati di
preparare il loro avvento con la predicazione.
La dottrina degli Ismailiti era fondata su un sistema filosofico, la cui ispirazione
neo-platonica derivava in gran parte dall'Enciclopedia dei « Fratelli della Purezza ».
53

Così al senso della storia che sta alla base dello sciismo, gli Ismailiti aggiunsero il
concetto dell'emanazione divina, per cui il mondo è opera di un'intelligenza e di
un'anima universali, create da Dio. E per il parallelismo instaurato fra macrocosmo
e microcosmo, questi principi fondamentali si manifestano anche sul piano umano :
sette « parlatori » (Adamo, Noè, Mosè, Gesù, Maometto e il mahdi), e sette «
silenziosi », interpreti dei parlatori. La rivelazione diviene progressiva e Maometto
(che ha per interprete 'Ali) non è più il « Sigillo dei Profeti », poiché la sua opera
verrà superata da quella del mahdi.
Lo spirito divino si manifesta tramite i « parlatori », nella forma di veli corporei,
che bisogna strappare per raggiungere la verità nascosta. Il testo coranico e la Legge
fanno parte di quésti veli; così, per gli Ismailiti, la Legge è solo un « mezzo
pedagogico di valore relativo o transitorio ». Del Corano, conta solo il senso intimo,
svelato da un'interpretazione allegorica spinta all'estremo. In tal modo, trasformando
e superando il dogma musulmano, l'ismailismo giunse a riconoscere la verità relativa
di tutte le religioni, suscettibili come l'Islam di una interpretazione simbolica (cf.
sincretismo dei Fratelli della Purezza).
I membri della setta sono sottoposti a un'iniziazione progressiva, al termine della
quale il discepolo è . adottato dal suo maestro. Questa filiazione spirituale ha una
grande importanza: grazie ad essa, infatti, è stato possibile, nel corso della storia,
delegare l'imamato a rappresentanti temporanei (legame fra l'imam « permanente »,
costretto a rimanere nascosto, e l'imam « delegato », che si occupa dell'azione).
Inutile quindi indagare, come spesso si è fatto, sulla legittimità o meno di questo
o quel pretendente 'alide.
L'ismailismo assunse diverse forme: movimento siromesopotamico, detto a
torto « qarmata », che sconvolse la Siria (901-6), movimento che, passando dallo
Yemen al Maghreb, si concluse con l'instaurazione del califfato fatimide; infine,
movimento qarmata del Bahrain, di origine incerta, che dapprima sostenne i
Fatimidi e poi li combattè con le armi. Mentre il mo vimento qarmata, interprete
di rivendicazioni sociali, approda a un regime comunitario ancora mal cono -
sciuto, il califfato fatimide mostra i risultati dell'azione politica degli Ismailiti.
I Fatimidi stessi diedero origine a diverse sètte: Drusi, che, dopo la sua morte,
divinizzarono il califfo al-Hakim (attuali rappresentanti, in Siria); Musta liani,
seguaci di un figlio di al-Mustansir, morto nel 1094, (in India e nell'Africa
54

orientale); Nizari, partigiani dell'erede deposto di al-Munstansir, che sotto il


nome di Assassini (hashshashin, mangiatori di hashish), riuscirono, nei secoli
XII-XIII, a creare, in Iran e in Siria, uno stato politico indipendente ricco di
ramificazioni segrete.
Infine la setta dei Nusairi, di origine oscura, che professa idee molto vicine
all'ismailismo, ma se ne distingue poiché pone 'Ali al di sopra del « Parlatore »
(rappresentanti attuali: gli Alawiti di Siria).
L'ismailismo ebbe dunque, intorno al X secolo, una funzione di primo piano,
sia per le sue realizzazioni politiche e sociali, fra cui stanno senza dubbio le cor -
porazioni, sia per l'influenza esercitata sul pensiero e la letteratura arabi
dell'epoca. Quanto al movimento duodecimano, la sua dottrina moderata fu
adottata ufficialmente dalla dinastia safavide dell'Iran nel XVI secolo, e ispirò la
letteratura persiana (in particolare, drammi religiosi, sulla passione degli 'Alidi).
Dallo sciismo derivano inoltre, più o meno direttamente, movimenti religiosi
originali: il sistema sincretista di Akbar, sovrano mogul dell'India, il quale, mostrando
un'eguale simpatia per i musulmani, gli induisti, i buddisti e i cristiani, istituì un
deismo senza sacerdozio che ebbe però pochi seguaci: il Babismo, tentativo di
riforma dell'Islam intrapreso dallo sciita Mirza 'Ali Muhammad, che nel 1844 a Sciraz
si proclamò Bab (« Porta », titolo di alcuni dignitari sciiti) e raccolse tutti coloro che
attendevano la venuta del mahdi; sostituendo al Corano di Maometto una nuova
rivelazione, egli soppresse i riti purificatori e inserì nella sua dottrina rivendicazioni
sociali (emancipazione della donna), ma finì con l'essere condannato a morte per
agitazione politica (1850); il Bahaismo, religione nuova e universale, fondata da un
discepolo di Bab, Bahu-‘llah (morto nel 1892), che non ha più nulla in comune con
l'Isiàm, ma che si riallaccia, per il suo sincretismo e il suo ideale di progresso, ad
alcune tendenze fondamentali dell'ismailismo.

IL SUFISMO.

Non c'è vita religiosa senza uno stato di tensione fra tendenze opposte. E
l'Isiam mantenne la sua vitalità proprio in quanto si mescolavano alla sua essen-
za giuridica l'approfondimento interiore del sentimento religioso, spinto talvolta
fino all'estasi mistica, e l'esercizio della riflessione filosofica. Così sufismo e
55

filosofia, pur sviluppandosi in margine ed anche in contrasto con la Legge,


rimasero elementi attivi e fecondi del pensiero islamico.

Movimento prettamente musulmano nonostante le influenze che potè subire


nel corso della sua evoluzione, il sufismo poggia su una tendenza coranica di
pietà, scartata dall'Islam ufficiale; e tende a sviluppare i valori spirituali impliciti
nel dogma, ma non espressi nella sua formulazione.
Il riconoscimento dell'assoluta onnipotenza divina richiede infatti la pratica di
virtù morali, quali l'accettazione fiduciosa del decreto di Dio (tawakkul). Inoltre,
il Corano prescrive e raccomanda diverse pratiche di ascesi, che permettono
all'uomo di purificare il suo cuore e di giungere all'intesa e al piacere reciproco
fra Dio e l'anima. Questo « avvicinamento » a Dio accenna una tendenza
propriamente mistica, fondata sull'esistenza di una comunicazione preliminare
fra Dio e la creatura (rivelazione della parola divina), e rafforzata ancora da
alcuni appelli a un amore reciproco fra Dio e l'uomo (così C., IlI, 29). Tali so no
essenzialmente i « germi coranici » (L. Massignon) della mistica musulmana.
A partire dall'VIII secolo appaiono nell'Iraq gruppi di asceti che, conducendo
una vita di povertà, basata sulla « fiducia in Dio », inaugurano una nuova
pratica liturgica, il dhikr, « ripetizione » del nome di Allah (cf. C., XXXIII, 14)
congiunta alla recitazione del Corano.
Più tardi, gli asceti danno ai loro esercizi di pietà un nuovo scopo di cui essi stessi
prendono lentamente coscienza: la ricerca di un'unione d'amore con Dio. Questi primi
mistici portano un vestito di lana bianca (saf) da cui il nome di sufi. Spesso riuniti
in circoli e convegni spirituali, essi formarono diverse scuole di cui le principali
furono quelle di Bassorah (Hasan-al-Basri m. nel 782) e di al-Kufah, ben presto
oscurate da quella di Baghdad (al-Muhasibì m. nel-l'857, al-Kharraz m. nell'899, e
Gionaid m. nel 910, maestro di al-Hallag, il martire mistico suppliziato a Baghdad
nel 922). Nel Khorasan, troviamo Ibn Karram (m. nell'863) i cui discepoli si
sparsero nell'Afghanistan e in India; nell'Iran, al-Bistami (m. nel-l'874) e at-
Tirmidhi (m. nell'898); in Egitto, Dhu-an-Nun (m. nell'856).
La mistica musulmana si presenta allora come un seguito di esperienze personali
(il più delle volte esposte in forma poetica) sostenute da ricerche teologiche
originali, da cui si possono trarre gli elementi di una comune dottrina morale e
religiosa. Compaiono così, accanto a nozioni coraniche arricchite, se non addirittura
56

trasformate, idee di origine ellenistica. È innanzi tutto la « scienza dei cuori » che,
attraverso la mortificazione del desiderio, permette all'anima di spogliarsi di ogni
attaccamento sensibile e di trasformarsi in « spirito » (equivalente filosofico del «
cuore » coranico). Lo spirito ardente d'amore è dedito esclusivamente a concepire
l'unicità divina, pronto a « restare in solitudine davanti all'Unico ». Al culmine
dell'estasi, la personalità del mistico scompare, trasfigurata da Dio nel quale «
sussiste » : « Io sono divenuto Colui che amo e Colui che amo è divenuto me.
Siamo due spiriti infusi in un solo corpo » (al-Hallag).
Lo stato mistico, una volta raggiunto, procura la « conoscenza », intuitiva, diversa e
superiore al sapere comune. Questo possesso intimo della realtà, pone il sufi al di
sopra del Profeta, semplice strumento della rivelazione. Dotato dell'« ispirazione
privata », egli si trova in stato di « santità », nozione che si svilupperà
progressivamente nell'Islam: dapprima riservata agli eletti e ai martiri della « guerra
santa », essa si estende a tutti coloro che conducono questa << guerra » in-
teriormente, contro le passioni. A partire dall'VIII secolo, al « Sigillo dei Profeti »,
Muhammad, si opporrà il « Sigillo dei Santi » incarnato da Gesù, la cui figura appare
più volte nel Corano e che diviene così il modello del sufi. Cercando e trovando Dio
in se stesso, il sufi lascia in secondo piano i riti canonici, accordando loro solo un
valore relativo e temporaneo e ponendo l'intenzione al di sopra dell'atto. La Legge,
senza essere distrutta, viene superata.
La mistica finiva così con l'urtare l'insegnamento tradizionale; e i suoi adepti
furono ben presto attaccati come colpevoli di zandaqa (in origine, manicheismo, poi
eresia, empietà). Le accuse loro mosse riguardavano sia la concezione dell'« amore
reciproco » (Nuri, accusato a Baghdad nel IX secolo), sia la pretesa all'ispirazione
privata (Ibn Kharram, espulso dal Sigistan), sia in modo più generale la dottrina del-
l'unione con Dio (al-Hallag). Lo stato mistico infatti appariva ai teologi come un'«
incarnazione », vigorosamente condannata in ogni tempo dall'Isilm. Inoltre le
prediche di al-Hallag in piena capitale tendevano a minare le fondamenta della
Legge e di conseguenza tutto 1'ordinamento religioso e sociale.
Il movimento sufi era scevro da influenze straniere? Prettamente islamico nella sua
struttura primitiva, esso incorporò, nel corso della sua evoluzione, metodi spirituali
ispirati al monachesimo cristiano se non addirittura, in epoca più tardiva, concezioni
di origine indiana o persiana. I primi asceti ebbero certamente contatti coi monaci
57

orientali e si servirono di trasposizioni di opere cristiane (come parabole attribuite a


Gesù). E pur non potendosi misurare l'influenza delle idee cristiane già vicine ai «
germi coranici » da cui ebbe origine il sufismo, si deve riconoscere un legame fra le
due spiritualità (numerosi i casi di mistici occidentali del Medioevo che riconobbero
il loro debito verso il pensiero musulmano).
La personalità di al-Hallag segna il punto culminante della mistica musulmana; con
lui il sufismo prende piena coscienza delle sue tendenze fondamentali e le armonizza
in un equilibrio che non verrà più raggiunto. Inoltre, il processo intentato contro al-
Hallag mise in piena luce l'antinomia esistente fra sufismo e Legge islamica. Dal
disagio che ne seguì, ebbe origine un movimento di eterodossia, aperta o inconfessata,
che, combinandosi con la crescente infiltrazione delle idee neo-platoniche, impresse
al sufismo un nuovo orientamento. Mentre Abu-Sa' ìd (persiano, m. nel 1047)
proclama risolutamente l'inanità del ritualismo, le idee ellenistiche permettono a
pensatori come al-Farabi, as-Suhrawardi e Ibn Sab'in di elaborare nuove definizioni
dell'unione mistica.
La grande preoccupazione sarà di rimanere esteriormente in regola con l'autorità
giuridica, pur continuando la ricerca dell'estasi. Ne risulta una tendenza
all'esoterismo, eretto a dottrina e ad obbligo assoluto; e la costituzione, a partire dal
XII secolo, di associazioni iniziatiche perpetue o confraternite. Ciascuna di queste è
caratterizzata dal suo metodo o « via » (tarlqa), stabilita dal suo fondatore e che l'a-
depto deve seguire per raggiungere lo stato mistico. L'estasi è così ottenuta grazie a
una tecnica minuziosa, talvolta anche attraverso mezzi artificiali: e allora la
confraternita degenera in fumeria d'oppio e si assiste al moltiplicarsi di falsi dervisci
erranti, dai costumi dissoluti, che profittano delle loro pretese doti per ingannare le
folle. Evidentemente non è su di loro che va giudicato il sufismo.
Ciò non di meno questa deviazione è significativa, e dopo al-Hallag le « esperienze
mistiche » autentiche divengono rare. I tre elementi essenziali del sufismo, ascetismo,
espressione poetica, sforzo filosofico, si dissociano seguendo ciascuno una propria
evoluzione. Mentre i membri delle confraternite cercano l'estasi come fine a se stessa,
i poeti si lasciano sedurre da un Dio di bellezza la cui contemplazione li inebria, e i
filosofi perseguono un Dio idea pura, astratto e impersonale.
Nel XIII secolo, sotto l'influenza platonica, il sufismo filosofico si trasforma in una
teosofia apertamente eterodossa, il « monismo esistenzialista » dell'andaluso Ibn al-
58

'Arabi (m. nel 1240 a Damasco), dottrina « immanentista » che porta all'estremo
l'esoterismo e l'indifferenza per le confessioni religiose. In questo sistema, le anime e
l'intera creazione non sono più che emanazioni divine prodotte da un'evoluzione
cosmogonica in cinque tempi, che l'anima deve percorrere in senso inverso per
ritornare a Dio. Non vi è più creazione dal nulla e si può affermare allora che « l'e-
sistenza delle cose create è solo l'esistenza del Creatore » (secondo la definizione con
la quale Ibn Taymyyah condanna questo atteggiamento). Al momento dell'unione
mistica, non sussiste più alcuna distinzione fra l'anima e Dio: è nell'uomo, immagine
di Dio, che l'assoluto prende coscienza di se stesso. Tuttavia Ibn al-'Arabi non osa
affermare la preminenza assoluta del santo sul profeta; egli considera Maometto come
il prototipo dell'uomo perfetto e distingue il « Sigillo della santità assoluta » (Gesù)
dal « Sigillo della santità muhammadiana » .
Ibn al-'Arabi è infine conosciuto come il grande maestro dell'esegesi sufi. Fin
dall'inizio, infatti, i mistici si servirono dell'iriterpretazione allegorica del Corano,
prolungamento naturale di ogni meditazione che miri a superare la lettera per cogliere
il significato profondo del testo sacro ; così il « ritorno a Dio » era divenuto il
simbolo dell'unione mistica. Ibn al-'Arabi sviluppò e trasformò in sistema questo
procedimento che, contrariamente al metodo sciita, non esclude mai il senso
letterale: le prescrizioni giuri-diche, ad esempio, continuano ad essere valide anche
quando i versetti che le formulano vengono intesi in senso allegorico. L'esegesi e la
dottrina di Ibn al-'Arabi appaiono inoltre nutrite di idee neoplatoniche.
A partire dall'XI secolo, la poesia mistica diviene un genere letterario, in cui sono
trasposti il vocabolario e i temi della poesia profana, erotica e bacchica. Vi si
distinsero l'arabo Ibn al-Farid (m. 'nel 1235), il « sultano degli innamorati », e
soprattutto i persiani 'Attar (m. nel 1220?), Gelai ad-DIn Rumi (m. nel 1273 a
Qonya), fondatore della confraternita dei maulawi (dervisci danzanti) e autore del
famoso Mathnawi, Hafiz (m. nel 1389), e in seguito i turchi Nesimi e Niyazl.
Questa poesia, poco originale e in cui vivo rimane il ricordo di al-Hallàg, si
allontana in genere dalla sua vera tradizione, cedendo a idee panteistiche.
. I mistici persiani ebbero nel XIV secolo una sicura influenza sull'India, dove molti
di essi si rifugiarono all'epoca dell'invasione mongola. Fra asceti musulmani e
adepti dell'induismo krisnaista a tendenza teista, si stabilirono contatti e scambi, che
restano gli unici rapporti provati fra la spiritualità musulmana e quella indù.
59

Significativo a questo proposito il caso dell'apostolo Kabir (nato nel 1398?), conteso
fra indù e musulmani.
Malgrado l'opposizione netta che separa la prima forma del sufismo dalla sua
ultima tappa immanentista, la mistica musulmana fu sempre caratterizzata da una
tendenza all'adogmatismo che le impedì di rientrare nel quadro dell'Islam ufficiale. A
questo adogmatismo volle porre rimedio al-Ghazzali teologo, filosofo e sufita, che,
non potendo evidentemente creare una « mistica ortodossa », riuscì tuttavia a dar
forma a un'« ortodossia mistica » (Nicholson). Insorgendo ad un tempo contro una
concezione giuridica e una visione filosofica della religione, al-Ghazzalì ricorse
all'esperienza mistica per rendere tutta la sua pienezza alla nozione dell'unicità
divina. La credenza tradizionale richiede di essere completata con una conoscenza
più intima (o « gusto ») di Dio, che si ottiene mediante una moderata ascesi: l'anima
allora è pronta a ricevere l'illuminazione divina. L'atteggiamento mistico viene così
giustificato senza menomare la trascendenza divina; e il profetismo rimane la
sorgente della santità.
Ma il sufismo di al-Ghazzali, essenzialmente pratico, da maggior peso alla ricerca
della perfezione morale. Così l'apporto del sufismo all'Isilm (che lo rispetta e lo
ammette nella sua forma moderata) consistè soprattutto nel vivificare la morale. Esso
infatti insiste sulla virtù della fiducia in Dio ; incita ad anteporre al compimento dei
riti ed anche all'« intenzione », spesso puramente formale, le disposizioni del cuore,
senza le quali nessun atto religioso ha valore; esso predica lo sforzo personale, base
indispensabile delle virtù sociali del musulmano, e la pratica della beneficenza spinta
fino al disinteresse eroico. Inoltre il sufismo ha notevolmente contribuito a
diffondere il culto dei santi, tutti i grandi mistici essendo considerati tali a causa delle
loro grazie estatiche e dei loro doni taumaturgici. Il primo, al-Hallag, fu imme-
diatamente venerato come uno dei maggiori, nonostante la scomunica con cui i
teologi lo avevano colpito. Così il sufismo, malgrado la diversità delle scuole e gli
eccessi e le deviazioni cui diede luogo, riuscì ad offrire ai fedeli musulmani un
alimento che l'Islam ufficiale non poteva concedere; in questo senso, esso divenne
veramente « una religione popolare » (Nicholson).
60

Orientamenti bibliografici:

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I testi di Borrmans riportano anche una buona bi bliografia sul dialogo islamo-cristiano.
62

Per leggere il Corano

Traduzioni consigliabili sono: Bonelli L, Hoepli, Milano 1976, letterale, difficile da leggere, ma
molto fedele al testo arabo. È importante notare che la numerazione dei versetti usata da Bonelli è
quella dell'edizione araba del Flügel (1834), usata in passato da molti orientalisti e am messa anche dai
musulmani, ma che è ora in disuso e cede sempre più il passo alla lettura adottata dalla edizione araba
del Cairo (Dar al-Kutub, 1923). Bausani A., BUR, Milano 1988, con introduzione e commento, ricca
bibliografia e un buon indice anali tico, è una traduzione fedele al testo originario e allo stesso tempo
comprensibile e di buona qualità letteraria.
Per una lettura proficua del Corano si suggerisce di farla precedere dalla lettura di una Vita di
Maometto e di andare quindi a vedere nel testo coranico i passi a cui tale «via» fa riferimento in modo
da situare i vari passi nel contesto storico della rivelazione. È anche importante leggere una
introduzione al Corano stesso (vedi quella sopra citata del Bausani), che dia indicazioni per la lettura
del testo. La lettura del Corano a temi è consigliabile, e per questo è importante fare uso degli Indici
delle materie offerti dagli autori di numerose traduzioni.
63

Cap. III. L’INDUISMO ANTICO.

Il termine "India".

II termine "India", attraverso la mediazione persiana che elimina la sibilante


iniziale, ha origine dal sanscrito sindhu (fiume). Tale denominazione, per indicare
l'India, si trova per la prima volta nella letteratura classica gre ca, nelle Storie di
Erodoto (V secolo a.C.), dove si parla del fiume Indo chiamandolo, appunto, 'Ivδóc,
(Storie IV, 44) e degli abitanti di quella regione, denominandoli 'Ivδoi (Storie III, 38;
III, 94 e passim) e, infine, della regione nel suo complesso definendola ή Ίνδιχή (Storie
III, 106; IV, 40; e passim).
Sindhu, il "fiume per eccellenza" della storia indiana nelle sue fasi più antiche,
con il nome comune divenuto nome proprio, viene dunque ad indi care la regione
bagnata da esso e anche i suoi abitanti. L'Indo, con i suoi af fluenti ("terra dei cinque
fiumi" (panjab) è uno dei molti modi autoctoni di indicare la regione attraversata
dall'Indo), ha reso fertili le sedi di uno dei più antichi insediamenti umani del
mondo. Gli Ari, infatti, che invasero l'India a partire dal II millennio a.C. e vi si
stanziarono, sovrapponendosi alle popolazioni locali e, prima di loro, i siti urbani
della civiltà vallinda, ebbero come scenario proprio la "terra dei cinque fiumi". Nella
fase più antica della civiltà indiana, il grande fiume ebbe davvero il ruolo di centro
propulsore: la civiltà vallinda fu, per molto tempo, definita "civiltà dell'Indo", per
l'importanza che il fiume ebbe negli insediamenti degli abitanti. All'epoca dei Veda
l'attuale Panjab si chiamava Saptasindhava* (i sette fiumi), quindi già da allora la
denominazione era legata al fiume, così come ancora adesso la bas sa valle dell'Indo si
chiama Sindh.
Il termine "India", tuttavia, è il modo in cui gli stranieri, a partire da Erodoto,
indicarono questa terra, ma gli Indiani usavano e usano per se stes si e per la propria
terra denominazioni diverse. Gli Indoeuropei che invasero il territorio indiano,
diedero a se stessi il nome di ārya (nobili); la regione in cui si stanziarono fu
chiamata [aryāvarta cioè "dominio degli Ari". L'antica cosmografia indiana esposta
64

nei Purāna chiama tale regione Jambudvipa (la terra della pianta jambu -melarosa-),
oppure Bhratavarsa. Quest'ultima denominazione (varsa significa "versante", terra
compresa fra due catene montuose, Bharata è il mitico eroe da cui discesero le due
stirpi di cugini, i Pandava e i Kaurava, che combatterono la grande battaglia
descritta dal Mahābhārata) indica propriamente l'India settentrionale, la zona
compresa fra la catena himalayana, a Nord e i monti Vindhya, a Sud. Tale
denominazione è ancora attuale, visto che l'Unione Indiana si chiama "Bharat".

Geograficamente si intende per India tutta la penisola delimitata ad Ovest


dall'Oceano indiano, a Nord-Ovest dai deserti del Belucistan, dai contrafforti afghani
dell'altipiano iranico e dall'Indukush, a Nord dal massiccio himalayano, a
Nord-Est dal complesso montuoso che la separa dalla Birmania, a Sud-Est dal
Golfo del Bengala.
Politicamente ciò che viene chiamato India comprende vari stati: l'Unione
Indiana, il Pakistan, il Bangla Desh, il Nepal, il Bhutan e Shri Lanka.
Culturalmente si intende per India un'area che corrisponde circa a quella
geografica del sub-continente indiano, un'area disomogenea dal punto di vista
etnico, linguistico, storico e culturale. L'unità culturale dell'India è, infatti, un
fenomeno religioso, intendendo però per "religioso" quel concetto vasto, di natura
socio-religiosa, che sta alla base dell'induismo. Tale concetto, quando lo si esamini
particolarmente dal punto di vista della omogeinizzazione culturale che ne
deriva, è più spesso definito arianizzazione (della quale brahmanesimo e
induismo sono potenti veicoli), che si sovrappone a culture differenti (ad esempio a
quella dei Dravida del Sud) e si fonde con esse.
Volendo infine allargare al massimo il concetto di India, diciamo che
esiste anche una Magna India, comprendente zone molto vaste (Sud-est asia-
tico e Indonesia) sulle quali la cultura indiana, spesso attraverso l'espansione
del Buddhismo, ebbe grande influenza. E proprio attraverso il veicolo del
Buddhismo l'influenza indiana si diffuse in Tibet, Cina e Giappone: il
Lamaismo, il Buddhismo Chan e lo Zen sono l'originale risultato dell'incon
tro di queste culture.
65

Le orìgini: la preistoria

Sui primi abitanti dell'India le informazioni sono pochissime, come è inevitabile


trattandosi di preistoria; forse erano abitatori di foreste, raccoglitori di radici
commestibili e cacciatori. Si suppone fossero di tipo australoide, affine alle
popolazioni che si trovano oggi in Australia, Nuova Guinea.
Durante il Pleistocene e, precisamente, a partire dalla seconda glaciazione o dal
principio del secondo periodo interglaciale (tra i quattrocentomila e i duecentomila
anni fa) vi fu un insediamento le cui tracce (schegge di pietra sparse lungo la valle del
fiume Soan, nel Pakistan settentrionale) costituiscono i più antichi resti di
insediamento umano nell'Asia meridionale e l'unica traccia di uomo paleolitico
nell'India settentrionale. Questa cosiddetta "civiltà di Soan", con caratteristiche
simili al Paleolitico dell'Asia orientale (dove sono stati scoperti scheletri umani del
paleolitico, così come attrezzi di pietra), rivela una discesa nel subcontinente indiano
di gente originaria dell'Asia centrale e/o orientale. A questo filone settentrionale del
paleolitico indiano si affianca un filone meridionale, detto "civiltà di Madras", privo
di reperti ossei, ma con ritrovamenti litici quasi identici a quelli dell'Africa
meridionale ed Europa sud-orientale. La civiltà di Soan è forse dovuta ad un
ceppo paleoantropico (cui appartiene anche il sinanthropus), quella di Madras ad
un ceppo neoantropico (a cui è collegato l'uomo moderno).
Successivamente si passa ad una civiltà microlitica, i cui utensili sono di
grandezza minima, forse destinati ad essere inseriti in supporti di le gno o di osso.
Questa industria, dovuta forse all'arrivo di nuove genti, si rinviene in molte regioni
dell'India peninsulare e rappresenta il passaggio dal tardo paleolitico al neolitico.
La civiltà neolitica, vale a dire popoli dediti all'agricoltura, ma ignoranti ancora
dell'uso dei metalli, si trova localizzata soprattutto nel Sindh (Rohri, Sukkir) e nel
Maisur, dove però si svolge in tempi ormai protostorici (I mil lennio a.C.). La civiltà
neolitica si evolve gradualmente alla civiltà del ferro, senza passare per lo stadio
intermedio dell'età del bronzo; unica importante eccezione è la civiltà vallinda,
altrimenti non vi sarebbe in India una civiltà del bronzo.
66

La protostoria: la civiltà vallinda

Prima dell'arrivo degli Ari, l'India era abitata da popolazioni di gruppo me-
diterraneo, o Caucasoidi, caratterizzate dalla statura non molto alta, dalla testa
allungata, dalla carnagione scura e dai capelli crespi. Queste popolazioni (gli attuali
Dravida dell'India meridionale, della quale costituiscono il gruppo etnico più
importante) diedero vita alla più antica civiltà sorta sul suolo indiano. Le notizie
che possediamo su questa antichissima civiltà, contemporanea alla civiltà sumerica
della Mesopotamia, si desumono quasi esclusivamente dai reperti archeologici:
non abbiamo né fonti letterarie od epigrafiche, mentre i caratteri pittografici
ritrovati su sigilli in pietra non sono ancora stati decifrati: la civiltà dell'Indo
appartiene ancora, dunque, ad un periodo antecedente la "storia".
Gli scavi diedero alla luce imponenti rovine di una civiltà detta impropriamente
"dell'Indo" o "di Mohenjo Darò e di Harappa", dal nome dei centri più importanti, i
cui siti, attraverso gli scavi che si succedettero nel tempo si rivelarono estesi non
solo attorno al corso dell'Indo, da Nord a Sud, bensì in tutta l'India nord
occidentale. Nel corso del tempo furono riportati alla luce importanti siti quali Kot
Diji a est di Mohenjo Daro, Amri, lungo il basso corso dell'Indo; lungo le coste del
Gujarat, a sud di Ahmadabad, sono emersi i resti di Lothal, probabilmente un
fiorente porto vallindo. Ancora più a Sud è scavata Malwan che, fino ad oggi, segna
l'estremo confine meridionale della civiltà vallinda, così come gli scavi di
Alamgipur, fra il Gange e la Yamun ā, ne segnano il confine orientale. A Nord il
sito più settentrionale finora individuato è Rupar, nelle pendici himālayane; mentre
l'avamposto più occidentale viene tracciato ai confini con l'odierno Iran, nel sito di
Sutkagen Dor; avamposti vallindi sono stati individuati anche in Afghanistan.
Secondo alcuni autori la cultura vallinda ebbe origine proprio nell'Asia
occidentale, da qui sarebbe poi arrivata nella piana dell'Indo, dopo essere passata
attraverso il Belucistan e l'Afghanistan, dove avrebbe dato vita a nu merose culture di
villaggio. In questa migrazione da Ovest verso Est, le popo lazioni responsabili della
cultura vallinda avrebbero portato con sé le idee fondamentali della civiltà
sumerica, quali l'organizzazione civica, la scrittura, l'uso dei sigilli e la lavorazione
dei metalli su larga scala. Questi tratti, derivati in prima istanza dalla Mesopotamia,
sarebbero poi stati sviluppati autonomamente e in maniera originale nella valle
dell'Indo.
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Dalla primitiva idea di una civiltà limitata al corso dell'Indo le conoscen ze si sono
ampliate fino a delineare una civiltà di straordinaria ampiezza, così gli scavi
rivelando la diversa cronologia dei siti, hanno permesso anche una descrizione delle
varie fasi della civiltà vallinda: dalle più antiche della cultura di Mehrgarh, nelle
valli del Belucistan (VI millennio a.C.), alle più recenti di Kalibangan in Rajasthan
e Lothal nel Gujarat (fine III e II millennio a.C.) con la fase intermedia di Harappa e
Mohenjo Darò (primo, medio e tardo Harappa) che rappresenta l'apogeo, preceduta
da una fase detta di Amri o pre-Harappa.
Lungo la vallata del fiume Indo sorsero dunque, in un periodo che va dall'inizio
del III millennio (con prodromi precedenti più occidentali) al 1500 a.C., grandi città,
attorno alle quali dovettero gravitare numerosi centri mino ri, per un'estensione che
corrisponde a quasi tutta l'India nord-occidentale.
La storia della scoperta di questi siti è meritatamente famosa. Nel 1856 John e
William Brunton vennero incaricati di porre i binari della ferrovia Karachi-Lahore,
ciascuno su due tronconi differenti: John a Sud, nel Sindh, William a Nord, nel
Panjab, da Labore a Multan. Per costruire la massicciata entrambi ricorsero alle
pietre reperibili in loco; ma, quando queste si fecero più rare, John fece uso dei
mattoni che potè far togliere da una città medio evale, disabitata e in rovina:
Brahminabad. William (se ne vantò anche in un suo libro di memorie) seguì
l'esempio del fratello ricorrendo ai matton i di un sito archeologico, non ancora
scavato, nei pressi di Harappa: tale "cava" fu tanto ricca da permettere più di
centocinquanta chilometri di manto ferroviario.
Saccheggiando questo sito adibito a cava, furono rinvenuti alcuni oggetti, fra cui
un sigillo di steatite che recava incisa la figura di un unicorno, con l'aggiunta di
caratteri apparentemente pittografici, del tutto ignoti. Questo
piccolo oggetto era la prima testimonianza di una delle più antiche civiltà del mondo.
Dopo varie peripezie, questo sigillo giungeva nelle mani del generale Cunningham,
primo direttore dell'Archaeological Survey of India, Istituzione fondata nel 1870.
Cunningham ne riconobbe subito l'importanza, attribuendo il sigillo ad una civiltà
antichissima, arrivando però alla conclusione che fosse completamente estraneo
all'India. Nel 1902 la dirczione dell'Archaeological Survey of India passò a John
Marshall. Da alcuni anni egli aveva dato al sigillo la necessaria importanza, studiando
successivamente altri reperti analoghi che erano via via entrati a far parte del
68

patrimonio archeologie del British Museum, a Londra. Come primo atto della sua
nuova carica egli fece immediatamente acquistare i terreni di Harappa, dai quali gli
oggetti erano usciti, anche se, per mancanza di fondi, dovette per il momento
accantonare il progetto degli scavi.
Nel 1912 John Fleet, su richiesta di Marshall, fece uno studio più avanzato sui
sigilli confluiti al British Museum, pubblicandolo nel Journal of the Royal Asiatic
Society, ma nonostante tutto si potè incominciare a scavare ad Harappa solo nel
1920. Dagli scavi, diretti da Rai Bahadur Ram Sahni, finalmente incominciarono ad
emergere le vestigia di una delle più grandi metropoli dell'antichità. Nel 1922 a
Mohenjo Daro, nel Sindh, l'archeologo R. D. Banerjee iniziava gli scavi attorno ad
uno stupa [ Caratteristico monumento buddista, destinato a conservare reliquie del
corpo del Budda o a ricordare momenti particolari della sua vita Di forma varia
(cilindrica, semisferica su base quadrata), spesso costruito su edifici preesistenti, si
diffuse in tutta l’Asia dando vita a quella particolare forma a “pagoda” che
contraddistingue i monumenti religiosi.].
Anche qui vennero alla luce costruzioni più antiche, del tutto simili a quelle
scoperte ad Harappa: la seconda grande città dell'India protostorica era stata
ritrovata.
Da allora, come si diceva in precedenza, gli scavi, ripresi ed interrotti più volte per
varie vicissitudini, hanno rivelato quella civiltà, così vasta dal punto di vista
geografico e così articolata da quello cronologico, che viene ormai definita "della
valle dell'Indo" o "vallinda", ma per la quale anche questo nome appare ormai
inadeguato.

I tratti della civiltà vallinda nella fase matura

Harappa sorgeva su un lembo di terra compreso fra due rami del fiume Ravi
(affluente indiretto dell'Indo), mentre attualmente il ramo principale del fiume scorre
a circa nove Km di distanza; Mohenjo Daro, invece, sorgeva sulle rive dell'Indo, che
ora scorre a poca distanza dal luogo. Questi siti erano esposti a frequenti inondazioni,
per frenare le quali, oltre che per difesa, sembrano fossero costruite le grandi mura di
mattoni e fango che circondano le città. Certamente queste città dovettero più volte,
nel corso dei secoli, fare i conti con rovinose inondazioni e proprio a causa di un
69

disastro ecologico, più che per l'arrivo degli Ari, avvenne, secondo le ipotesi più
recenti, la distruzione o, per lo meno, l'inarrestabile declino di questi siti.
Gli scavi di Harappa e Mohenjo Daro rivelano che le città erano costruite sulla
base di un preciso piano regolatore, con strade perpendicolari, con un avanzato ed
esteso sistema di canalizzazione e di fognature.

Le costruzioni pubbliche, così come quelle private, sono costruite in mattoni,


quasi sempre cotti e mostrano un aspetto semplice, severo, essendo quasi totalmente
prive di decorazioni. Le case private erano a più piani, secondo quanto testimoniano
i resti dei muri che si elevano tuttora, nonostante l'inevitabile usura del tempo, ad
un'altezza che va dai cinque agli otto metri circa sull'attuale piano di scavo. Sono
state rinvenute tracce delle strutture interne e delle volte, sicuramente in legno, soste-
nute da pilastri a base quadrata, o anche da tronchi di legno, che, probabilmente,
venivano inseriti in basi circolari di pietra che si sono conservate. La copertura delle
case, che erano concepite in modo razionale e confortevole, era fatta "a terrazza", un
sistema molto in uso nei paesi caldi, in quanto consente agli abitanti di dormire,
durante l'estate, sulle terrazze stesse. Queste ultime servivano, inoltre, per lo scorri-
mento e il deflusso delle acque piovane, che potevano anche essere raccolte, per
mezzo di grondaie d'argilla o di legno, in appositi contenitori.
Alcuni resti di edifici si distinguono dagli altri per una particolare imponenza; a
questo proposito gli scavi sono stati più soddisfacenti a Mohenjo Darò che, nei secoli,
dovette subire assai meno grave saccheggio di mattoni da parte delle popolazioni del
luogo. Il più interessante dei grandi edifici, presumibilmente di uso pubblico, scoperti
a Mohenjo Darò è quello noto come il "Grande Bagno", messo in luce durante la
campagna archeologica del 1925-26. Le condutture di scarico di questo grande edifi-
cio, di tali proporzioni da consentire agevolmente ad un uomo di accedervi per le
pulizie e la necessaria manutenzione, testimoniano ancora una volta la grande perfe-
zione tecnica raggiunta dagli abitanti della valle dell'Indo in fatto di canalizzazioni.
Ma anche in altri settori la loro civiltà rivela, nel complesso, un progresso tecnico
notevole, al quale si accompagna un gusto spiccato per le comodità e l'efficienza della
vita urbana: è una civiltà tipicamente sedentaria e assai pratica, che rivela ben poche
delle caratteristiche dei popoli primitivi, mostrando al contrario una forte tendenza
razionalizzante.
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La cultura materiale, il potere, la religione

Se la classe predominante si può prefigurare essere quella di una borghe sia


mercantile che commerciava i prodotti della terra e i ma nufatti artigianali
(metallurgici, terracotta e avorio), base dell'economia doveva essere l'agri coltura,
praticata dalla massa dei contadini. La civiltà vallinda, in particolare prendendo in
considerazione i due grandi centri di Mohenjo Daro e di Harappa, era grande
produttrice di cotone, ma coltivava anche tutto ciò che le fertili terre alluvionali
dell'Indo, consentivano: grano, orzo, piselli, fichi, mango, datteri, banane; si
praticava anche l'allevamento del bestiame, soprattutto buoi, ma anche capre e
pecore.
Per quanto riguarda la fabbricazione degli utensili (rame e bronzo) si nota un
significativo conservatorismo nelle forme che ha fatto parlare di abilità tecnica,
applicata senza genialità,...complessi procedimenti tecnici erano conosciuti, ben
compresi e mirabilmente organizzati per la produzione, ma la qualità dei prodotti era
oppressa dalla standardizzazione e dall'utilitarismo quasi puritano.

Analogamente tutta la statuaria, non si esprime mai in composizioni de stinate


alla decorazione; se si escludono pochissime statuette di un certo valore artistico,
si tratta per lo più di una copiosa serie di figure umane ed animali in terracotta o
in pietra dura, di fattura molto primitiva, raffiguranti probabilmente divinità
domestiche: molto diffusa è la rappresentazione di una figura con gli attributi
femminili in marcata evidenza, da collegarsi vero similmente al culto della Dea
madre.
L'uniformità artistica e architettonica, la grande razionalità degli
insediamenti è da imputarsi, secondo alcuni, ad un probabile forte potere
centrale, di tipo religioso, ad un dispotismo a base teocratica, al di sotto del quale si
sviluppava la religiosità popolare. Le città erano probabilmente go vernate da
un'autorità temporale, con forti risvolti religiosi, che sola poteva imporre i rigidi
criteri, forse di natura religiosa, che sono alla base degli insediamenti vallindi
(una cittadella sopraelevata rivolta sempre a ovest, le case sempre della stessa
misura e sempre ricostruite negli stessi luoghi, i mattoni, anche in siti lontanissimi
tra loro, sempre con misure fisse: un'unità per l'altezza, il doppio per la larghezza, il
quadruplo per la lunghezza). Oltre la presenza di un clero detentorc del potere
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politico, anche il ritrovamento di particolari edifici ci riportano alla prassi religiosa


dei vallindi: la presenza di bagni pubblici (il Grande Bagno di Mohenjo Daro) con
funzione probabilmente religiosa ci riporta alle caratteritiche della cultura indiana
che attribuisce grande importanza rituale all'acqua e ai luogh i ad essa collegati
(tīrtha).
Il ritrovamento dei sigilli, numerosi, molti dei quali arricchiti di quei se gni non
ancora decifrati di cui abbiamo parlato in precedenza, di forma quadrata e di
probabile uso commerciale (es. stampigliatura di merci, come per i sigilli cilindrici
della Mesopotamia) ha aperto un ulteriore spiraglio nelle possibili conoscenze
sulla religiosità dei vallindi. Vi sono molti sigilli che recano raffigurazioni di alberi
o di figure umane che escono dagli alberi (in un sigillo vi è il contrario, cioè un
albero che esce dal corpo di una figura, forse di donna, rovesciata, a testa in giù,
sorretta dalle mani e con le gambe in alto in mezzo alle quali fuoriesce una
pianta). Si è quindi ipotizzato un culto degli alberi, così come l'assenza di
ritrovamenti precisi di templi ha fatto pensare a rituali all'aperto, sotto grandi
alberi. Tale culto degli alberi ben si associerebbe all'importanza sacra che gli
alberi hanno nell'induismo (l'albero di pipal o "ficus religiosa") a riprova che le
caratteristiche della civiltà vallinda sono sostanzialmente autoctone e molto "india -
ne", contro l'ipotesi iniziale, avanzata dopo i primi ritrovamenti, che voleva questi
siti avamposti ad oriente della contemporanea civiltà sumerica.
La figura maschile circondata di animali, sed uta in posizione yogica, detta
proto-Śiva, ritrovata su un famoso sigillo, unita ai ritrovamenti di pie tre falliche
nella zona di Harappa e di anelli di pietra ondulata (forse rappre sentanti l'organo
sessuale femminile) ha fatto pensare all'origine anari a del culto di Śiva, i cui
attributi di pāśupati (signore degli animali) e yogīśvara (signore dello yoga) ben si
collegano alla raffigurazione del sigillo.
Si è già visto l'ipotesi secondo la quale la cultura vallida può avere avuto origine
nell'Asia occidentale e come nella valle dell'Indo i tratti si sarebbero sviluppati in
modo autonomo dando origine ad una civiltà che secondo molti studiosi è affine a
quella dravidica, oggi presente nell'India meridionale.
Quanto all'area di estensione della civiltà vallinda essa, come si è detto, è molto
più vasta a Nord, a Sud, a Ovest ed anche ad Est rispetto alle ipotesti iniziali,
successive ai primi scavi di Mohenjo Daro e Harappa; su di un sigillo sembra di
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poter riconoscere la raffigurazione di una tigre, nel qua l caso i vallindi conoscevano
anche la bassa valle del Gange, dove vive questo animale, sconosciuto agli Ari
invasori, almeno all'epoca del Ŗgveda (quando cioè abitavano l'India Nord-
occidentale, detta [aryāvarta).
A favore di una vastissima area dravida c ome contesto per le culture vallinde
vi sono anche indizi di tipo linguistico: nel Nord Pakistan c'è una zona in cui si
parla tuttora un dialetto dravidico e un tentativo, compiuto in Russia, di tradurre
alcuni pittogrammi dei sigilli in modelli matematici , facendo l'ipotesi che si tratti
di desinenze, avrebbe trovato riscontro solo nel sistema grammaticale delle lingue
dravidiche

IL declino

In un periodo di tempo compreso fra il 1900 e il 1700 a.C., le due principali città,
Mohenjo Daro ed Harappa, vennero completamente abbandonate dai loro abitanti,
per non essere più rioccupate. Il completo abbandono, secondo quanto è emerso
dagli scavi di Mohenjo Daro, fu preceduto da un lungo periodo di declino
(probabilmente un secolo o due), periodo caratterizzato dal deterioramento di norme e
codici (particolarmente abitativi) che in precedenza venivano, invece, rigorosamente
rispettati.

Per quanto riguarda le ipotesi sulle cause della fine della civiltà vallinda ne sono
emerse tendenzialmente due, anche se la seconda, ormai comunemente accettata, ha
subito tante e tali articolazioni dai più recenti studi, da costituire un ambito di varie
ipotesi, più che una sola. La tendenza iniziale fu di individuare cause di natura
bellica nella fine della civiltà vallinda e di porre in relazione tale fine con l'inizio
delle invasioni delle tribù arie in India. La civiltà vallinda sarebbe passata dalla fase
di crescita a quella matura, avrebbe conosciuto un rapido declino e, infine, la morte
per mano di invasori portatori di una nuova cultura. Sul piano archeologico tale
ipotesi è confermata da strati di distruzione generalizzata e dalla comparsa di
oggetti di tipo insolito, in particolare armi nuove. L'individuazione della cosidetta
cultura di Jukhar, sopra gli ultimi live lli di occupazione con tipologia ancora
classicamente vallinda, ha portato ad ipotizzare un periodo di invasioni, cor -
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rispondenti al declino dei siti, culminato nel cosidetto "grande massacro" di


Mohenjo Daro, testimoniato da gruppi di scheletri insepolti nella città. Ovvio che in
questi invasori si siano riconosciuti gli Ari.
Questa teoria pone però alcuni importanti dubbi, principalmente di ordi ne
cronologico. Molti studiosi sono infatti convinti che la città di Harappa fosse
scomparsa già da alcuni secoli prima dell'arrivo degli Ari, inoltre, se eventi bellici
vi furono stati, come alcuni riscontri archeologici dimostrano, ciò non consente di
attribuire ad essi importanza definitiva. Molti siti recano tracce di rioccupazioni
successive, così come altri, come si è già visto erano scomparsi da tempo.
La seconda ipotesi focalizza l'attenzione sulla natura. Cambiamenti cli matici,
inondazioni, spostamenti di corso del fiume Indo, terremoti, sconvolgimenti
geologici, furono indicati come i responsabili della c aduta della civiltà vallinda.
Anche lo stile di vita di queste popolazioni può aver innescato una serie di reazioni
a catena che potrebbero aver portato al declino e, quindi, all'abbandono dei siti: il
disboscamento per alimentare i forni per la fabbricazione dei famosi mattoni da
costruzione, una cultura intensiva dei campi per obbedire alle leggi sempre più
esigenti di un fiorente commercio (la produzione di cotone era sicuramente al primo
posto nelle esportazioni), senza la necessaria rotazione, può avere impoverito in
modo continuo il suolo, fino a provocare l'allontanamento degli abitanti per
cercare nuove zone e sperimentare nuove pratiche agricole.
Ormai le ipotesi sono diventate interdisciplinari, abbandonata l'idea di una
"fine" della civiltà vallinda si cercano le molteplici cause del declino: vale a dire che
la civiltà vallinda abbia subito rovesci armati e naturali, abbia co nosciuto
spostamenti in base a problemi climatici o altro, ma che, sostanzial mente, non sia
"scomparsa" bensì si sia lentamente trasformata, perdendo le sue caratteristiche
peculiari, adattandosi a nuovi ambienti, ma anche suben do, nella sua fase più tarda,
l'influsso di nuovi venuti.

Gli indoeuropei

Gli Ari che scesero in India erano popolazioni indoeuropee. Prima, dun que, di
raccontare la storia delle invasioni e, quindi, la storia di quegli indoeuropei che,
scesi in India, si autodefinirono arya (nobili), possiamo fer marci un momento sul
concetto di "indoeuropeo". Probabilmente, al di là delle poche certezze sull'unità
74

storico-geografica di questi popoli, prima delle ondate migratorie che li portarono


lontano dai siti originari, nei vari luoghi dove, poi, svilupparono le diverse civiltà
che da tali migrazioni derivarono, il criterio più certo per ricostruire l'identità
indoeuropea è quello linguistico:

Nessuna tradizione leggendaria, nessun evento storico, conosciuto direttamente,


nessuna concordanza appariscente di civiltà avrebbe permesso di concepire la nozione
di una antichissima comunità culturale, se non si fosse risolto in modo chiaro e, per
così dire, preliminare, un problema grammaticale.
La parentela reciproca, che lega un certo numero di lingue, in parte ancora usate,
in parte scomparse dall'uso, ci riconduce a una antica unità linguistica, e per ciò stes-
so, nazionale, in modo non diverso dalle lingue neolatine, alle cui spalle sta la nozione
e la realtà storica del mondo romano di occidente... Rispetto ai problemi della lingua
indeuropea comune, le singole lingue indeuropee si trovano in condizione diver-
sissima: le une attestate solo in tarda età, le altre in età antichissima; le une in forma
che abbiamo ragione di ritenere poco lontana dai modelli, le altre in forma profonda-
mente alterata...tuttavia non c'è lingua indeuropea, fra quelle effettivamente interpre-
tate, così povera, così snaturata, da essere del tutto inutile ai fini della ricostruzione
del concetto di lingua e civiltà comune .

Indoeuropei sono dunque quei popoli che, stanziati probabilmente nella fascia
centrale dell'attuale Europa (dalle ipotesi più antiche orientate verso l'Asia si è
passati a ipotesi più recenti e più "occidentali"), parlavano una lingua comune
ricostruita dagli studiosi, sulla base delle varie lingue antiche e moderne che
derivano direttamente da questa lingua comune.
Diamo ora il prospetto di una classificazione consueta, delle famiglie linguistiche
dell'una e dell'altra area (indoeuropea e non-indoeuropea) in quanto, per la storia
dell'India, entrambi i gruppi sono significativi.
Lingue indoeuropee, comprendono dieci gruppi: 1) indo-iranico 2) armeno 3)
greco 4) albanese 5) italico 6) celtico 7) germanico 8) balta-slavo 9) tochario 10) ittita.
Lingue non indoeuropee, comprendono diciotto gruppi principali: 1) uralo-
altaico; 2) giapponese e coreano; 3) paleo-asiatico (o lingue iperboree); 4) dravidico;
5) burushaski o khaguna; 6) australiano; 7) papuano; 8) andamanese; 9)
tasmano; 10) indo-cinese (diviso in tre sottogruppi: tibeto-birmano o gruppo
75

occidentale; sino-siamese o gruppo orientale; ienisseiano o gruppo settentrionale o


kety); 11) munda, polinesiaco o austrìco; 12) caucasico; 13) antico dell'Asia
anteriore; 14) camito-semitico; 15) ottentotto o dei Boscimani; 16) sudanese o
centro-africano; 17) bantu; 18) indigeno d'America.

Per quanto riguarda le lingue indoeuropee di particolare interesse per il sub-


continente indiano è il gruppo indo-iranico che si divide in due sottogruppi: a)
indo-ario; b) iranico, L’indo-ario, seguendo un ordine cronologico comprende: 1)
Antico indiano (Vedico, Sanscrito); 2) Medio -indiano (pracrìti, Apabhramsa) 3)
Neo-indiano (le moderne lingue indiane di derivazione indoeropea; es. la Bengali, la
Hindi ecc.).
L'iranico, al quale, in una posizione isolata e particolare appartiene L’ Osseto,
unico rappresentante di idiomi scito-sarmatici, si suddivide, sempre in ordine
cronologico, in: 1 ) Avestico e Antico Persiano (iscrizioni cuneiformi degli
Achemenidi); 2) Medio Persiano; 3) Medio iranico, nel quale troviamo il Persiano
moderno.
Per quanto riguarda le lingue non indoeuropee ci interessano le lingue
dravidiche: il Tamil (parlato nella parte sud-orientale dell'India e in quella
settentrionale dell'isola di Ceylon); il Malayam (parlato lungo la costa del
Malabar); il Canarese (parlato nello stato di Mysore), il Telugu (nel distretto
di Anantapur). Fra le lingue dravidiche minori annoveriamo il Tulu, Kodagu,
Toda, Kota; alcune sacche dravidiche si trovano anche fra le lingue neoarie
dell'India settentrionale, la Brahui si trova a grande distanza, nel Belucistan
centro-orientale.

La discesa in India degli Ari. La precedente unità indo-iranica

La fase che precedette l'arrivo degli Ari in India, attraverso i passi afghani, a
partire dalla metà del secondo millennio a.C, è di controversa rico struzione. Sembra
fuori dubbio un periodo di unità culturale fra gli Ari dell'Iran e gli Ari indiani, quelli
cioè che entrarono in territorio indiano, mentre non tutti gli studiosi sono d'accordo
sul fatto che tale unità culturale abbia significato un periodo di convivenza in Iran,
76

dopo aver lasciato gli originari siti indoeuropei e prima della ulteriore migrazione
degli Ari indiani verso l'India. L'unità culturale era, secondo questa visione del
problema, già un patrimonio delle tribù indo-iraniche, indivise, che lasciarono
l'originario sito indoeuropeo dopo gli Ittiti e i proto-Tocarici, ma prima di ogni
altra tribù indoeuropea.
Altri studiosi ritengono invece che le originarie affinità culturali abbiano
conosciuto una convivenza intermedia, prima del distacco definitivo, avvenu to con lo
spostamento delle tribù indo-arie verso l'India. Tale convivenza intermedia sarebbe
appunto avvenuta nell'altopiano iranico, dal terzo millennio fino alla metà del
secondo e molte sembrano le conferme di un passaggio degli Indo Ari in Iran,
prima di volgersi verso l'India. Le prime tracce di Ari vedici si trovano infatti in Asia
minore, nel regno di Mitanni, che fiorì intorno alla metà del II millennio a.C.,
dove troviamo una classe dominante aria che si sovrappone ad una khurrita, come
si può dedurre dagli appellativi e dai nomi propri ari. I reperti linguistici portano a
concludere che la lingua della classe dominante si accostasse piuttosto a quella
ario-indiana che non a quella iranica; potrebbe trattarsi di un ceppo paleo-ario
comune, con alcune particolarità paleoindiane.
Alle indubbie affinità lessicali fra il Vedico e l'Avestico si aggiungono altri indizi
di una unità culturale indo-iranica prima della separazione fra i due rami di
popolazioni indoeuropee: in un trattato in lingua accadica, stipulato nel 1360 a.C.
fra il re Shuppiluliuma e il re di Mitanni Mattiwaza, sono invo cati nel giuramento gli
dei Mitra, Varuna, Indra e Nasatya, nomi che addirit tura sono già indo-ari.
Abbiamo poi un manuale di ippica, composto dal l'esperto di cavalli Kikkuli,
richiesto dagli Ittiti al regno di Mitanni, nel quale alcuni termini sono sicuramente
ari. Già prima del II millennio a.C. in alcuni stati khurriti stirpi arie si erano
impadronite del potere, divenendo la classe dominante: il regno più importante
era quello di Mitanni. Se dunque nel regno di Mitanni vi era una classe dominante
aria, si era un tempo supposto che fosse stata proprio questa classe dominante a
dirigersi, dopo il crollo della propria potenza (XIV secolo a.C.) verso oriente e a
conquistare l'India. Ma i termini ari del libro sui cavalli possono essere stati
usati in senso conservativo, così come frutto di conservatorismo culturale può
essere il permanere di nomi maschili ari accanto a nomi femminili khurriti. Già
verso la metà del II millennio a.C. la classe dominante di Mitanni si era assimilata
77

alla popolazione khurrita e l'ario era ormai una lingua morta; non è quindi
pensabile che questa classe dominante, così assimilata al popolo khurrita, venuto
meno il suo dominio sul paese di Mitanni avesse ancora la forza per penetrare nella
penisola indiana.
Bisogna infine tenere conto dell'ipotesi secondo la quale mitanno, iraniano e
indoario potrebbero essere diramazioni di un'unica famiglia di ceppo indo -
europeo, parlata da tribù che, all'incirca verso l'inizio del secondo millennio a.C.,
cominciarono a migrare a ondate verso varie sedi. Punto di partenza potrebbe
essere stata la regione al di là del Caucaso e della Siberia sud-occidentale.
Così come fecero moltissimi popoli invasori nei successivi tre millenni, anche
gli Ari potrebbero essere giunti da questa parte dell'Asia direttamente in India,
senza passare per l'Iran o l'Asia occidentale e potrebbero essersi fermati per
qualche generazione in Afghanistan. L'ipotesi di una migrazione arya direttamente
dall'Asia centrale attraverso l'Afghanistan è sorretta dal fatto che nei Veda non
viene menzionato alcun toponimo che faccia riferi mento all'Iran. Comunque,
proprio per l'assenza di riferimenti e di ritrovamenti archeologici, l'origine degli
Indo-Ari rimane avvolta nel mistero.

A partire dunque dalla metà del II secolo a.C. popolazioni indoeuropee, parlanti una
lingua comune, entrarono a ondate successive nel sub -continente indiano, invadendo
ed occupando il territorio dell'India nord -occidentale. Aggregati in tribù nomadi,
dediti prevalentemente alla caccia e all'allevamen to del bestiame, avevano una
cultura diversissima dalle sedentarie genti vallinde, con le quali vi fu certamente
un impatto di tipo militare. La superiorità degli invasori, grazie alle armi di ferro e
all'uso di carri da guerra trainati da cavalli (mentre i vallindi conoscevano solamente
i lenti carri trainati da buoi), fu schiacciante e, come si legge nel Rigveda, gli Arya,
guidati dal dio Indra, ingaggiavano vittoriose battaglie contro i dasyu, di pelle scura,
chiusi nelle loro cittadelle fortificate (pur). Gli Arya non dilagarono nell'intero sub-
continente indiano, ma, dopo la prima fase delle invasioni attorno alla piana
dell'Indo, si frammentarono in una serie di piccoli gruppi, clan o tribù che, nel
tempo, penetrarono anche in altri territorì più a Est, con un fenomeno ormai di
infiltrazione più che di conquista. Dalle testimonianze dei Veda si può dire che,
attorno al 1000 a.C., l'India meridionale, ma anche la valle del Gange erano estranee
78

all'espansione aria. Il confine orientale della prima fase della conquista aria è segnato
dalla Sarasvatl, fiume sacro per eccellenza degli Indiani vedici, che scorre
immediatamente ad est del bacino dell'Indo; il confine meridionale, almeno per il
periodo vedico, è costituito dai monti Vindhya.
La civiltà a cui gli Ari diedero origine sul suolo indiano, tenuto conto degli
apporti della cultura vallinda che riaffiorarono anche secoli dopo e della
coabitazione con le culture del sud, arianizzate attra verso la religione, ma
fortemente conservatrici della loro matrice autoctona, è proprio quella civiltà
genericamente detta "indiana" che ha una fisionomia unitaria, nei secoli, pur
essendo crogiuolo di culture, razze, lingue e religioni diverse, nella loro matrice e
anche nel loro sviluppo.
La fase più antica di questa civiltà, che riguarda storicamente l'India Nord-
occidentale, teatro delle invasioni e dei primi stanziamenti degli Ari, è detta
vedica, perché caratterizzata dalla letteratura vedica, straord inaria testimonianza
religiosa, storica e letteraria della cultura dei nuovi abitanti dell'India.La parola
veda significa "conoscenza" con una sfumatura semantica legata alla visione (la radice
via significa anche "vedere", "vedere sacro"). Di conseguenza veda indica la
conoscenza sacra per eccellenza.
I Veda sono dunque quei testi che contengono tale conoscenza. Esiste
attualmente un ben definito canone chiamato Veda, ma è bene ricordare che si tratta
di una vasta letteratura che si formò nel corso di molti secoli, trasmessa oralmente
da una generazione all'altra, infine dichiarata sacra, "rivelazione divina" (sruti)
dall'ultima generazione. Non vi è dunque un Canone fissato in qualche concilio; la
fede nella sacertà di tale letteratura è sorta spontaneamente, nel tempo e quasi mai
messa in discussione.

La trasmissione dei Veda

Si è detto "trasmessa oralmente" e conviene ricordare che tale trasmissio ne è


l'unica possibile per la scienza sacra degli Indiani; la stessa parola shruti (dalla
radice shru che significa "udire") indica con precisione tale modo di trasmissione.
È vero che la predilezione per una trasmissione orale dei testi, non solo di quelli
79

sacri, fu così sentita in India da avallare l'ipotesi che la scrittura sia stata
relativamente tarda. Certamente più antica delle prime te stimonianze scritte
indiane, vale a dire le iscrizioni di Ashoka del III secolo a.C., tuttavia ugualmente
non precoce e riservata a lungo per usi forse solo commerciali o politici. Anche
testi letterari come i poemi epici conobbero secoli di trasmissione orale e ciò fu
funzionale alla costante modifica di tali testi sui quali le famiglie dei cantori
intervenivano liberamente, continuamente aggiungendo, inventando, cambiando.
Diversamente i testi del Veda, supportati dalla necessità assoluta del non errore,
furono tramandati con precisione infallibile per secoli, proprio perché la perferzione
della formula e della pronuncia era parte integrante della scienza religiosa.
Infine va ricordato che la natura stessa della scie nza religiosa, che è scienza del
sacrificio, ed è appannaggio di una categoria di persone, i sacer doti appunto, che
detengono la funzione sacrificale e religiosa di tutta la società, fa sì che in una
società castale non possa essere indiscriminatamente diffuso ciò che è conoscenza di
prima casta. Nulla dunque è più alieno alla natura dei Veda di una trasmissione
scritta. Se è vero che noi possediamo manoscritti relativamente recenti di tutta la
letteratura indiana, non solo religiosa e che, si è visto, esisteva una diffusa
predilezione per la trasmissione orale anche del sapere non religioso, ciò è dunque
maggiormente vero per la letteratura religiosa che, in periodo vedico, certamente,
ma anche oltre, preserva il suo canone da errori e da manomissioni non volute solo
attraverso la recitazione dei dotti.
Il corpusdellashruti

Ciò che attualmente si chiama Veda consiste in categorie di opere di carattere


letterario differente; a ciascuna di queste categorie appartengono un più o meno
cospicuo numero di testi, dei quali alcuni sono stati conservati, mentre molti sono
andati perduti.
Dividendo dunque i testi del Veda soprattutto in base alla forma letteraria con cui
si presentano ed al loro contenuto, noi abbiamo:

1) le Samhitā (raccolte), nelle quali il contenuto religioso, nella fattispecie


di inni, preghiere, formule sacrificali, canti, litanie, benedizioni, incantesimi ecc. si
presenta in forma prevalentemente metrica.
80

Le Samhita, proprio in base al loro contenuto, sono quattro:


a) Rigveda Samhita = raccolta del Veda degli inni (rc);
b) Samaveda Samhiaà = raccolta del V. dei canti (saman);
e) Yajurveda Samhita = raccolta del V. delle formule sacrificali (yajus);
d) Atharvaveda Samhita = raccolta del V . delle formule magiche
(atharvan).

2) I Brahmana (libri sacerdotali) voluminosi testi in prosa che,


ricollegandosi alle Samhita, contengono questioni di carattere teologico, particolari
osservazioni sul sacrificio, descrizione del significato relistico o mistico dei vari rituali
connessi al sacrificio.
3) Gli Àranyaka (testi della foresta, aranya) testi in prosa, in parte inclusi nei
Brahmana stessi, in parte indipendenti. Si tratta di meditazioni tipiche degli eremiti,
di riflesioni sul significato simbolico del rituale sacrificale, sempre ricollegantesi
alle Samhita.

4) Le Upanishad (testi della dottrina segreta da trasmettersi seduti vicino (ni) e


in basso (upa). Parte in prosa e parte in versi, (ma le più antiche Upanishad sono
in versi), testi dialogati talvolta connessi con gli Aranyaka e, quindi, con i
Brahmana di riferimento, più spesso del tutto indipendenti, sebbene sempre
connesse con le Samhita. Trattano di problemi connessi con l’atman (spirito
individuale) e brahman (l'assoluto); karman (l'atto che produce un frutto) e samsara
(ciclo delle rinascite).

Queste classi di testi che compongono il corpus del Veda dichiarato "vero per
rivelazione" sono in relazione tra loro a partire dalle quattro Samhita le quali
dunque costituirebbero, almeno nella teoria, la vera ripartizione della materia
religiosa legata al sacrificio o, come spesso vengono denominati, i "quattro Veda".
Ciascuna opera che appartiene alla categoria dei Brahmana o degli Aranyaka
o delle Upanishad fa riferimento ad una delle quattro Samhita: V Aitareya-
Brahmana, per esempio, si riferisce al Rigveda, il Shatapatha-Brahmana allo
Yajurveda bianco (vedi oltre); otto Brahmana si ricollegano al Samaveda, fra i quali il
Chandogya-Brahmana che termina con la Chandogya-Upanishad, una delle Up. più
81

famose; il Gopatha-Brahmana all'Atharvaveda. E ancora: Aitareya-Aranyaka, incluso


nel Brahmana omonimo, fa riferimento al Rigveda e così via.

Riassumendo: ciascuna delle quattro Samhita e ogni opera di ciascuna delle tre
classi di testi (Brahmana, Aranyaka, Upanishad) che costituiscono una riflessione-
spiegazione di varia natura sulle quattro Samhita, costituisce il corpus dei testi
vedici detto shruti.

Alcune osservazioni sulla shruti e sulla sua trasmissione.

Le scuole vediche

È evidente, da quanto detto fino a qui, che il Veda ha funzionato come


patrimonio comune di famiglie sacerdotali (acarya, il maestro, colui che insegna le
regole) che ne memorizzavano la materia a fini utilitari e la trasmettevano oralmente
nelle scuole (Corano) in cui si formavano i futuri sacerdoti. Si può anche spiegare così
il fatto che esistano Veda diversi (le quattro Samhita, ad esempio, o tutte le altre
articolazioni della shruti) i quali, nelle loro intitolazioni più precise rispetto a quelle
date fino a qui, recano i nomi delle famiglie che ne hanno curato l'ordinamento. Ad
esempio i Kanva (scuola dello Yajurveda bianco) e i Madhyaüdina (l'altra scuola di
liturgisti "bianchi", meno antica della prima) hanno un testo praticamente identico,
differente solo per la disposizione della materia, la quale disposizione evidente -
mente rispondeva ad esigenze particolari delle due famiglie.
Il fatto che i testi del Veda siano raggruppati nelle quattro Samhita, ognuna delle
quali porta il nome di Veda, ha talvolta favorito il paragone con il Vangelo che è
considerato unico, ma si presenta in quattro redazioni (secondo Marco, secondo Luca
ecc.). Analogamente, l'unico Veda si presenta in quattro forme: il sapere sotto forma
di inni (rc), il sapere sotto forma di melodie (saman); il sapere, sotto forma di for-
mule liturgiche (yajus); il sapere nella forma propria degli atharvan (nome di un
particolare gruppo di sacerdoti).
Le prime tre forme sono molto legate fra loro, tanto che la successiva letteratura
indiana indica spesso il Veda come trayi vidya, triplice scienza, volendosi con ciò
82

intendere che ogni sacerdote doveva conoscere ed utilizzare, nel culto, stanze,
formule, melodie.
Questi quattro Veda non sono completamente differenziati in maniera
specialistica: ciascuna delle quattro raccolte ha elementi che potrebbero appartenere
anche alle altre, oltre che parti molto ampie in comune (la Rv S. in particolare
costituisce elemento omogeneizzante). Lo stesso rituale, pur comprendendo parti
specializzate è un unicum al quale tutte le figure officianti partecipano, rendendo,
in definitiva, indispensabile una conoscenza di tutto il culto Si può arrivare ad
immaginare che ciascun gruppo sacerdotale ci tenesse a possedere un proprio Veda
completo, ossia la scienza sacra nella sua interezza, magari presentandola nel modo a
lui più consono (spostando l'accento sulle melodie, le stanze o le formule ecc.). La
suddivisione del Veda in base alla forma letteraria (metrica o prosa) è il sistema di
classificazione che più da corpo all'idea che non vi siano, in realtà, fra i testi
differenze considerate sostanziali (ricordiamo che il Veda è "uno"). Per Samhita, ad
esempio, si deve intendere tutto quello che è in versi nel Veda in questione, ma tale
definizione è in certo senso teorica perché talune Samhita (ad esempio la Yajurveda
S.) contengono prosa, mentre parti metriche si trovano negli Aranyaka e nelle
Upanishad. Ciò che tiene unito l'eterogeneo materiale del Veda, eterogeneo anche dal
punto di vista formale, è l'utilizzo nel rituale il quale è dunque il centro ispiratore
delle Samhita, particolarmente di quelle liturgiche (Yv e Sv). Le stanze delle Samhita
liturgiche derivano quasi tutte dagli inni del Rv; quest'ultima Samhita ha, dunque,
preminenza sulle altre ed è sempre stata considerata dalla tradizione come la parte
più santa ed autorevole del Veda, una sorta di sacro thesaurus a cui attingere, senza
che gli inni, di per sé, avessero un posto privilegiato nel rituale (almeno seguendo
quanto ci descrivono i kalpasutra.
La composizione-trasmissione dei testi è prerogativa delle scuole vediche
denominate shakha (branca) o carana (sentieri); due termini usati spesso come
sinonimi ma dei quali il primo fa riferimento al corpus dei testi tradizionali
tramandati dalla scuola, mentre il secondo fa riferimento alle persone che
appartengono alla scuola stessa. Le scuole che tramandarono la scienza del Veda sono
molte di più rispetto alle tradizionali recensioni dei testi che ci sono giunte, segno
che molte recensioni andarono perdute, altre furono eclissate da recensioni "forti",
infine che molte scuole facevano riferimento alle stesse shakha.
83

Come si è già detto tale scienza sacra non veniva scritta e quindi letta, a
trasmessa oralmente e dunque "udita". inizialmente"alitata","emanata"da Brahman, e
"carpita", "vista" dai veggenti (rishi), mantiene attraverso questo modo di
trasmissione il suo carattere di shruti.

Le Samhita:

II Rigveda

Della Rigveda Samhita esistono due recensioni: la sakala e la vaskala, legate alle
due omonime scuole del Rigveda; si parla anche di cinque antiche recensioni, di
cui comunque queste due sarebbero le più importanti. Delle due una, la sakala,
eclissò l'altra e rimase come unica, anche se bisogna sem pre ricordare, soprattutto nel
caso del Rgveda, quanto la precisione della trasmissione mnemonica renda irrilevanti
le differenze fra recensioni diverse.
La ripartizione tradizionale (ve ne è anche un'altra, più recente, basata su criteri
più complessi) di questa Samhita prevede milleventotto inni (sukta) suddivisi in
dieci libri (mandala). Il nucleo più antico del Rv è costituito dai libri II-VII, detti
"libri di famiglia" in quanto ognuno è attribuito ad una determinata famiglia di
cantori vedici (rispettivamente Grtsamada, Visvamitra, Vamadeva, Atri, Bharadvaja e
Vasistha. Conosciamo i nomi dei cantori vedici che hanno "udito" questi inni, in parte
dai Brahmana, in parte da liste separate di autori dette Anukramani, collegate alla
letteratura Vedanga). In questo primo gruppo gli inni sono raggruppati per divinità, a
partire da Agni e da Indra, seguendo un ordine progressivo che tiene conto del
numero delle strofe, mettendo prima gli inni più lunghi, poi quelli più brevi.
Un primo ampliamento di tale nucleo antico sarebbe costituito dalla se conda
metà del I mandala (inni 51-191), dal libro VIII (nel quale gli inni 49-59, i cosidetti
valakhilya (da khila, supplemento), sono una ulteriore successiva interpolazione), che
contiene inni attribuiti ad alcune famiglie di cantori e dal libro IX, che ha una sua
unitarietà in quanto contiene inni dedicati a Soma. Gli inni del IX libro,
direttamente collegati al sacrificio del Soma ( il nome di una pianta dalla quale si
estraeva un succo inebriante, che già nel periodo indo-iranico era considerata come la
dolce e voluttuosa bevanda degli dèi e che successivamente ha un ruolo importante nel
sacrificio vedico, così come, con il nome di haoma, in quello degli antichi Iranici. Nella
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mitologia indiana il soma è la bevanda con la quale gli dèi si assicurano l’immortalità,
racchiusa nella Luna, la scintillante goccia d’oro nel cielo.) pur aggiunti in un secondo
momento al nucleo originario del Rv, sono molto antichi, in quanto connessi al
culto di Soma-Haoma, risalente al periodo indo-iranico, mentre più recente,
collegata all'apogeo del sacrifìcio del Soma, è la loro integrazione, attraverso il Rv,
nel rituale sacrificale vedico.
La prima metà del libri I e il libro X costituiscono l'ultimo ampliamento del
materiale del Rv e presentano disomogeneità di contenuto : inni antichi accanto ad
altri il cui contenuto rivela concezioni religiose e sociali più re centi. Infine, mentre
la seconda metà del I mandala è attribuita a nove famiglie di poeti, la prima parte di
questo libro, così come i libri VIlI, IX, sono attri buiti ad autori diversi, fra i quali
compaiono nomi femminili (Apala, A treyi), concetti astratti quali Manyu (la
collera) e Yajna (il sacrificio), dèi (Trita Aptya) e semidivinità femminili (Apsaras).
Per quanto riguarda la questione cronologica (non solo di inni rispetto ad altri, ma
di tutta la Samhita in relazione con le altre), la questione non è di facile soluzione.
Anche il linguaggio, infatti, che sembra l'elemento più sicuro per determinare
l'antichità o meno di un testo può essere determinato dal contenuto e non solo
dall'età di esso. In ogni caso grande è l'antichità del Rv anche nelle parti più recenti;
la stessa metrica degli inni è lontanissima dalla metrica classica, si basa su versi
(pada) determinati dal numero delle sillabe (di otto, undici, o dodici sillabe, più
raramente di cinque). Tali versi sono liberi nella prima parte e solo le quattro o
cinque ultime sillabe sono fisse (dipodia giambica o dipodia trocaica). La strofa più
usata è la gayatri formata da tre ottonali, (cioè tre pàda di otto sillabe) seguita
daìl'anustubh (quattro ottonari), dalla tristubh (tre ottonari) e dalla jagati (quattro
dodecasillabi). L'antichità della metrica vedica, collegata, come rivelano numerose
osservazioni dei Brahmana e delle Upanishad, ad una mistica del numero che rende
sacra la gayatrl, è attestazione dell'antichità degli inni del Rv.

Samaveda

La Samaveda Samhita è il testo dell'udgàtar, il cantore, l'officiante che durante il


sacrificio ha il compito di salmodiare e accompagnare con canti il sacrificio.
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Delle molte recensioni del Sv, di cui parla la tradizione (i Purana ne contano mille)
tre sono pervenute, fra le quali la più conosciuta è quella attribuita alla scuola dei
Kauthuma e ad essa si fa comunemente riferimento, salvo precisazione contraria. Dal
punto di vista del contenuto il Sv è sicuramente il meno significativo dei Veda; le
stanze di cui è composto, infatti, derivano quasi interamente dal Rv (particolarmente
dai libri VIlI e IX) qualche altra dallo Yv ed altre ancora dall'Av. Non così, invece, dal
punto di vista liturgico, dove il aàman aveva grande importanza, come si evidenzia
anche dal cospicuo numero di Brahmano, che si riferiscono al Sv.
La raccolta consiste in millecinquecentoquarantanove strofe
(milleottocentodieci se si comprendono anche le ripetizioni) per lo più in metro
gayatri (tre versi di otto sillabe). Tali strofe, come si diceva, sono tratte
principalmente dal Rv, tuttavia il testo è modificato dall'adattamento ai diver si
moduli musicali e presenta quindi modific azioni foniche,di accenti,
allungamenti, ripetizioni di sillabe. Infatti il Sv è solo il testo (modificato
come si diceva) del canto, mentre non contiene le annotazioni musicali che sono
date in manuali di canto chiamati gana (canti) risalenti ad epoca più recente. Il
testo del Sv si divide in due parti: Arcika (versetti) e Uttararcika (ulteriori versetti);
L’Arcika (denominata anche purvarcika "versetti che stanno prima") consta di
cinquecentottantacinque strofe, suddivise in sei lezioni (prapathaka)', di tali
strofe centoquattordici sono indirizzati ad Agni, trecentocinquantadue ad Indra,
centodiciannove a Soma. I versi sono indipendenti gli uni dagli altri e ciascuno
indica un diverso tipo di melodia. La seconda parte (Uttararcika) comprende
quattrocento stotra (piccoli canti), composti ciascuno di tre strofe
(milleduecentoventicinque in tutto). La prima delle tre strofe è presa dall'Arcika ed
indica quindi su quale melodia devono essere modulate le altre due.

Lo Yajurveda

La Yajurveda Samhita è il libro di preghiere dell'adhvaryu, il sacerdote


officiante vero e proprio. Molte erano le scuole vediche di adhvaryu (il grammatico
Patanjali ne nomina centouno); è facile, infatti, comprendere come su gesti e formule
che accompagnavano le cerimonie potessero esservi delle differenze che portarono
alla composizione di manuali scuola per scuola.
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La Yvs ha una particolarità rispetto alle altre Samhita, mentre esse, infatti, hanno
un unico testo seppur tramandato in redazioni diverse, lo Yv ha due diversi testi
(fino a poter dire che vi sono due Samhità dello Yv): lo Yv nero (krsna Yv) e lo Yv
bianco (sukla Yv). La differenza fondamentale fra le due tradizioni testuali consiste
nel fatto che lo Yv bianco contiene solo mantra, preghiere, formule sacrificali che il
celebrante yajurvedico mormorava durante il rituale, mentre lo Yv nero contiene
anche parti in prosa, spiegazioni relative al rituale a cui mantra, preghiere e
formule si riferiscono. I Brahmana dello Yv bianco sono delle composizioni
distinte, mentre quelli dello Yv nero sono una continuazione delle parti in prosa.
Lo Yv sia nero che bianco è pervenuto attraverso numerose redazioni, dovute
alle varie scuole vediche, le cui reciproche differenze sono il più delle volte legate ad
una diversa distribuzione della materia. Lo Yv bianco o Vajasaneyi Samhita, dal
nome dei liturgisti che l'hanno tramandata (il saggio tradizionalmente accettato
come autore, Yajnavalkya, era ritenuto figlio di Vajasani) si basa su due redazioni:
quella della scuola dei Kanva e quella dei Madhyandina; delle due la Kanva è la più
antica.
Lo Yv nero è giunto in quattro principali redazioni (ma ve ne sono anche altre,
talvolta semplici parti della redazione principale): la Kathaka Samhità e la
Kapisthala Katha Samhita dovute entrambe alla scuola Katha; la Maitrayanlya
Samhita della scuola Maitrayani e la Taittinya Samhita attribuita alla scuola dei
Taittinya o degli Apastamba che è la redazione più cono sciuta dello Yv nero.
Lo Yv, la cui composizione appartiene al periodo del Rv, è da porre
cronologicamente a seguito di essa. Il contenuto dello Yv, infatti, presuppone una
familiarità con il Rv; non poche "formule" sono versetti del Rv dati però in ordine
sparso, così come si presentavano durante l'accompagnamento di questo o quel
sacrificio.
Lo Yv tratta dei maggiori sacrifici collettivi, gli shrautayaga, ma anche,
talvolta, di momenti significativi legati alle attività produttive (ad esempio la semina
dei campi) oppure domestiche. Fra i sacrifici solenni a cui gli Yv mantra fanno
riferimento, alcuni sono dì vecchia data, altri appena "inventa ti". E fra questi ultimi
in particolare vi sono riti per la seconda funzione, quella guerriera, il cui potere si
sta consolidando ed ha bisogno dell'appoggio religioso. Lo stimolo che sta dietro alla
composizione dello Yv è anche dovuto a questa crescente importanza unita al fatto
87

che, moltipllcandosi i sacrifici, si moltiplicano anche i dettagli del rituale e la casta


sacerdotale, in particolare il gruppo dei liturgisti, ha bisogno di rendere tal i sacrifici
non solo di pubblica utilità, ma persino obbligatori in situazioni specifiche. Nello
Yv nero, infatti, il commento in prosa che rende tale testo così diverso dalle al tre
Samhità, ha proprio per la prima volta la funzione di indicare che cosa i l sacrificio
significhi per la comunità, perché viene celebrato, anticipando in tal modo i
Brahmana., sia per la forma in prosa, sia per il contenuto.
Dei sacrifici trattati nello Yv i più significativi sono: l'ashvamedha (il sacrificio del
cavallo), il rajasuya (sacrificio per l'incoronazione di un re), la sautramanì (per
avere maggiore potere, benessere, tipico sacrificio di potenza delle prime tre
funzioni), agnicayana (la formazione della catasta per il fuoco), somayaga (il
sacrificio del Soma), il "sacrificio umano" (purushamedha) rito simbolico che
rievoca una pratica sacrificale preistorica. Sono inoltre descritte altre cerimonie
relative al novilunio, plenilunio, alle oblazioni ai Mani. Ovvio che nello Yv la
descrizione dei sacrifici è molto sommar ia e frammentaria, essendo questa
Samhita il resoconto e delle preghiere e delle formule recitate durante il rituale, non
la descrizione del rituale stesso; diversamente, nei Brahmana, ma più ancora negli
srautasutra della snirti, tali sacrifici sono ampiamente descrìtti.
Nello Yv i sacrifici più complessi, quelli ai quali sembra essere data mag giore
importanza sono: l'asvamedha, l'agnicayana e il sacrificio del Soma. Le descrizioni
dei sacrifici talvolta si sovrappongono; accade infatti che il sacri ficio del cavallo sia
più volte interrotto per parlare dell'agnicayana e del sacrificio del Soma. Ciò è stato
anche interpretato come una voluta oscurità e difficoltà in relazione a questo
importante sacrificio di casta kshatriya, quasi a voler significare, con interruzioni
legate a rituali prettamente brahmanici, che gli kshatriya, pur potenti, come il
sacrificio del cavallo dimostra, non possono prescindere, per rituali cosi
complicati, dal potere della casta brahmanica.
Interessante, per le informazioni che fornisce sulla società in questo periodo, la
descrizione del purushamedha. Nell'elenco delle persone sacrificabili infatti,
ritroviamo alcune categorie (cacciatori, pescatori, pastori, contadini, barbieri,
lavandai, macellai, vasai ecc.) che in epoca successiva costituiscono caste e sottocaste
impure, così come è interessante il disprezzo espresso verso figure quali cantanti o
medici. Tali resistenze ebbero infatti ampio riscontro anche in epoca successiva.
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Dalle frammentarie notizie che lo Yv può dare si evincono anche alcuni aspetti
della società. Gli uomini Ari spesso sposavano donne non arie e ciò può avere
contribuito all'abbassamento della condizione della donna nella misura in cui regole
relative alle unioni portavano già il presupposto dell'inferiorità femminile. Si
proibisce alla donna di avere due mariti (contro quindi alcuni costumi poliandrici),
mentre si permette la poligamia; si chiarisce la quadripartizione della società nei
quattro varna con la preminenza gerarchica del primo varna.

Dinamica di trasformazione religiosa all'epoca dello Yajurveda

Nello Yv si nota un'importante evoluzione religiosa nei confronti del pantheon


rigvedico; le più tipiche divinità, Varuna, Indra, Agni sono ancora divinità primarie,
ma il loro potere è limitato; Rudra ha fuso le sue caratteristiche con quelle di Siva;
Prajapati, "padre delle creature, degli dei e dei demoni" ha ora una preminenza
sugli altri dei; Visnu è ormai divinità di primissimo piano e viene talvolta
identificato con il sacrificio stesso. Le Apsaras semplici comparse nel Rv hanno
crescente importanza e sono invocate nelle formule sacrificali, talvolta assimilate alle
formule stesse.
Il fatto più significativo dal punto di vista religioso è la preminenza assoluta che
è venuto assumendo il sacrificio, il quale diventa fine a se stesso. Non è dunque più,
mezzo per impetrare il favore degli dei, ma è atto determinante che li piega alla
volontà del sacrificante, li costringe a esaudirne le preghiere. Agli utensili del
sacrificio vengono rivolte le formule propiziatorie e a tutti gli atti che Yadhvaryu
compie nell'esecuzione del rito: l'atto rituale, infatti, conferisce all'officiante una
specie di forza magica e gli assegna la funzione di intermediario fra uomini e dei.
Attribuire agli utensili valori magici significa anche usare un linguaggio denso di
significati reconditi, connessioni mistiche. Sono frequenti brevi parole o sillabe
convenzionali: svaha, vasai, vai, vet, om, il cui significato è unicamente nella
potenza del suono.
Anche l'ambiente geografico è mutato rispetto a quello del Rgveda. Le regioni
abitate ora dagli Ari sono denominate Kuruksetra e Pa¤cali, sono i territori
compresi fra la Sarasvati e la Drsadvati a Nord, fra Jumna e Gange verso Sud-Est.
89

L'Atharvaveda

L'antico nome di questa Samhita è atharvangirasah, vale a dire "scienza degli atharvan
e degli angiras". Atharvan indica antichi sacerdoti sciamani risalenti al periodo indo
iranico (gli atharvan dell'Avesta) collegati ad un culto del fuoco, così come atharvan sono
anche le formule magiche da essi pronunciate.
Anche gli angiras sono una particolare categoria di antichi sacerdoti del fuoco e
angiras sono le loro formule magiche. Ma differente è il tipo di magia a cui i due tipi di
formule fanno riferimento: le prime sono formule di magia bianca, positiva, le seconde di
magia nera, cattiva. Il titolo accreditato successivamente ha mantenuto, forse solo per
motivi di abbreviazione (ma è comprensibile anche una sorta di neutralizzazione di ciò che
può essere più difficilmente accettabile dalla religiosità ufficiale), il senso di magia bianca;
tuttavia entrambi gli aspetti, quello positivo e quello negativo sono presenti
nell’Atharvaveda.
Per quanto riguarda il periodo di composizione, l’Atharvaveda è più recente del
Rgveda, tuttavia le parti più propriamente magiche contengono concezioni non solo
antiche quanto quelle del Rv, ma anche di più e possono risalire fino al periodo preistorico.
D'altra parte YAv così come il Rv contiene parti cronologicamente differenziate, forse
anche di alcuni secoli; una collocazione cronologica è dunque possibile solo a partire dalla
redazione definitiva, così come la conosciamo.
Si è discusso a lungo sul contenuto dell'Av, se sia stato il suo carattere palesemente
magico a relegarlo a ultimo Veda, al di fuori della trayi vidya (triplice scienza) e a
ritardare la sua canonizzazione. Magia, come è stato detto, si riscontra anche in altre
Samhita, compreso il Rgveda, il Veda sacro per eccellenza, ma è probabilmente l'aspetto
molto spesso privato, domestico, di tale magia, che determina la sostanziale diversità
dell'Av, estraneo al rituale del sacrificio pubblico, vale a dire il cuore della trayi vidya.
Essendo dunque legato al culto e alle credenze domestiche, affonda le sue radici non
tanto e non solo in un periodo molto antico (cosa che accade, come abbiamo visto, anche
alle più antiche concezioni del Rv), ma soprattutto in un ambiente domestico, privato e
quindi spesso anche autoctono, rispetto alla cultura aria.
La fusione, che certamente vi fu, fra cultura aria e anaria, deve essere avvenuta più
nell'ambito delle credenze popolari e domestiche, che in quelle del sacrificio pubblico, il
90

quale organizzava un sistema di credenze e culti ufficiali più "ari", rispetto a credenze e
culti domestici, più impregnate di cultura anaria.
Circa la pericolosità dell'Av essa si può ricollegare alla forte presenza di magia nera;
all'essere, come si è detto, al di fuori del sistema religioso ufficiale, e quindi
all'appartenere, per molti aspetti, alla fase precedente fluida e dai confini incerti del
differenziarsi successivo fra magia e religione che separano, nelle fasi più antiche delle
civiltà, l'ambito d'azione degli sciamani stregoni da quello dei sacerdoti, inizialmente
indiviso. Quindi anche i Brahmani del sistema ufficiale sono più volte messi in guardia
dall'uso delle formule dell'Av la cui presenza è accettata, con fatica, nel sistema del
sacrificio solenne, solamente in alcuni momenti ben definiti, probabilmente con funzione
scaramantica e deprecativa.
Come accade per le altre Samhita, anche l'Av raccoglie materiali provenienti da età
diverse. Nonostante il processo di brahmanizzazione e il conseguente livellamento che
questa Samhita subì prima di essere canonizzata nella shruti è evidente un grande divario
cronologico fra le parti di contenuto magico, risalenti spesso ad epoca addirittura anteriore
a quella del Rv, in quanto contenenti credenze e culti delle popolazioni aborigene prearie,
e le parti filosofiche e religiose, contenenti inni con concezioni cosmogoniche e religiose
di tipo panteistico, che preludono alle speculazioni filosofiche delle Upanìshad. Anche il
mutato ambiente geografico (fra gli animali più temibili è ormai ricordata la tigre, segno
che gli Ari sono già stanziati nelle regioni orientali dell'India e più a sud, nel Magadha),
testimonia che questa è l'ultima delle Samhita, prima che la speculazione religiosa si
manifestasse nelle forme dei Brahmana, Àranyaka e Upanìshad.
Del testo dell'Av abbiamo due recensioni, una dovuta alla scuola Shaunaka e l'altra alla
scuola Paippalada. La recensione Shaunaka, completa e meglio conservata, costituisce il
testo-base della raccolta atharvanica. Qui la materia è raccolta in venti libri, per la maggior
parte in versi (soltanto un sesto della raccolta è in prosa: il libro XV al completo, buona
parte del XVI e una trentina di inni sparsi in libri diversi), che comprendono
complessivamente settecentotrentuno inni, di diversa lunghezza, per un totale di seimila
versi. Di questi, circa milleduecento appartengono al Rv, che, dunque, continua ad essere
una sorta di enciclopedia religiosa il cui materiale è spesso e variamente usato.
Ad esclusione dei libri XX e XIX che sono più recenti degli altri, la raccolta si può
dividere in tre gruppi: libri I-VII, caratterizzati da inni brevi (da un minimo di una a un
massimo di diciotto strofe) e di argomento vario; libri VIII-XII, caratterizzati da inni più
91

lunghi e di soggetti diversi; libri XIII-XVIII caratterizzati dalla disposizione secondo una
certa unità di temi (ad esempio tutto il libro XIII è dedicato a Rohita e Rohini e sviluppa il
tema di un mito cosmico solare; il libro XIV contiene inni per i riti nuziali, il XV tratta il
tema del Principio Primo e dell'Assoluto (denominato Vratya), il XVI raccoglie formule
rituali, scongiuri, incantesimi; il libro XVII è molto particolare in quanto formato da un
unico inno lunghissimo (trenta strofe) costituito da una serie di formule invocatrici per
ottenere prosperità; il XVIII contiene inni funerari). Degli ultimi due libri il XIX è un
insieme di scongiuri, malie, contromalie, invocazioni, nella quasi totalità rientrante
nell'ambito della magia distruttiva; il XX è totalmente diverso rispetto al materiale
atharvanico in quanto è dedicato al sacrifìcio del Soma e contiene centoquarantatre inni
quasi tutti ripresi testualmente dal Rv.

L'elemeno coesivo che permea e anima quasi tutta la raccolta atharvanica e che le
conferisce un carattere unitario e organico è dunque rappresentato dalla "preghiera
magica", invocazione, formula augurale o deprecativa che sia, la quale interessa le più
diverse vicende della vita familiare e non pochi aspetti della vita sociale. Si incontrano
perciò inni per assicurare la nascita di un figlio e per proteggerlo poi nella prima infanzia;
incantesimi validi a salvaguardare da ogni sorta di malattie: febbre, itterizia, lebbra,
idropisia, scrofola, tosse, follia, impotenza. Altri inni hanno per tema l'amore...

Formule auspicali per ogni circostanza della vita e deprecative contro ogni sorta di
male, causato spesso da demoni e spiriti maligni che vagano dovunque, preferibilmente di
notte, attentando alla salute degli uomini, alla loro felicità e fortuna. Soprattutto portano
ogni specie di malattie e ciò rende gli inni dell'Av dedicati a questo aspetto della vita il
primo testo di medicina indiana. La descrizione degli effetti devastanti della malattia, così
come quella dei poteri di unguenti, cataplasmi, erbe o anche solo scongiuri, pur nel loro
ambito magico, rientrano nel binomio diagnosi-cura nel quale interverranno i testi ausiliari
(es. il Kausikasutra) a chiarire il procedimento materiale che li accompagnava.
Gli inni di carattere religioso dell'Av sono più recenti di quelli a carattere magico e
preludono talvolta alle riflessioni upanisadiche su atman e brahman; l'Assoluto viene più
volte indicato come motore primo dell'universo, supremo reggitore del mondo. Il Principio
Universale è identificato con il sole, con l'amore, col sacrificio o con il respiro cosmico in
intima e indissolubile connessione con il soffio vitale che anima l'uomo (Av X, 8, 43-44).
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I Brahmana

Il termine Brahmana è un neutro singolare che significa "spiegazione sacerdotale"


usato poi in senso collettivo per indicare gli insegnamenti sacerdotali sul rito.
I Brahmana sono dunque una categoria di testi specificamente sacerdotali, la cui
funzione è quella di commentare, spiegare il sacrificio vedico, il rituale e tutto ciò che può
connettersi, anche a livello di leggende, storie ecc., al rito. Essi sono il punto di arrivo di
un lungo processo evolutivo della religiosità che ha finito per concentrare intorno al
sacrificio l'interesse primo della religione. In questo modo il sacrificio viene innalzato ad
un grado di potenza che supera anche quella degli dei, è rappresentazione stessa dell'or-
dine cosmico. Ovvio che tale evoluzione va di pari passo con l'esaltazione della classe
sacerdotale che della scienza del sacrificio è detentrice, con la sua specializzazione e con la
necessità, quindi, di puntualizzare attraverso questi trattati, la complessità di un rituale che
conosce ormai differenziazioni, specializzazioni ed anche controversie rituali.
Il contenuto dei Brahmana è dunque: una discussione sacerdotale sulla scienza del
sacrificio; oltre alle sopradette spiegazioni e discussioni, dal tema del Sacrificio si
dipartono anche miti cosmogonici, antiche leggende (itihasa) storie (akhyana) su dei, eroi
saggi ecc.; viene trattato anche il tema che è caratteristico degli Aranyaka, vale a dire
osservazioni sulle relazioni degli atti sacrificali tra loro, osservazioni sul loro significato
anche simbolico e riflessioni sulle connessioni delle cerimonie sacrificali con le formule
del Sacrificio. Infine, sempre per rimanere in materia trattata in modo specifico dagli
Aranyaka, si parla anche delle modifiche di alcune cerimonie in particolari circostanze;
infine non manca mai la precisazione di quanto deve essere il pagamento (daksina) per
ogni atto sacrificale.
In definitiva i Brahmana si occupano di tutto ciò che a lungo o a breve raggio può
riguardare la scienza del sacrificio, con preminenza per la discussione-spiegazione del
rituale.
Ognuna delle quattro Samhita possiede i suoi Brahmana in stretta connessione con
essa; il numero dei Brahmana che ci è pervenuto è notevole, tuttavia molti probabilmente
sono andati perduti a giudicare dalle citazioni che alcuni testi fanno di Brahmana che non
possediamo. Questa vasta letteratura ha avuto un periodo di composizione piuttosto lungo:
vari elementi rivelano una stratificazione cronologica che possiamo contenere fra il X se-
colo e il VII a.C. sono scritti in prosa (raramente interrotta da versi gnomici o epici
{gatha), ormai vicina al sanscrito classico); dei vari testi vedici che sono tradizionalmente
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chiamati Brahmana, i più significativi sono l’Aitareya e il Kausitaki, appartenenti al Rv; il


Taittiriya appartenenete allo Yv nero; il Shatapatha appartenente allo Yv bianco; lo
Jaiminiya e il Tandya appartenenti al Sv; il Gopatha appartenente all'Av.
L’Aitareya B che si occupa dei doveri e delle funzioni del sacerdote del Rv, vale a dire
l'invitatore {hotr), si divide in otto pa¤cika di cinque adhyaya ciascuno. I primi
ventiquattro adhyaya trattano della funzione e dei compiti dello hotr nei vari sacrifici a
Soma, i successivi sei trattano della funzione dello hotr e dei suoi assistenti nei sacrifici ad
Agni, gli ultimi dieci, che potrebbero essere un'aggiunta posteriore, trattano del pasuyaga e
del rajasaya.
Il Kausitaki B (conosciuto anche come Sahkhayana B) è composto di trenta adhyaya e
tratta in modo ben organizzato l'intera procedura di un rito sacrificale.
Il Taittiriya B è, come si è visto, prosecuzione della Taittiriya S (una delle recensioni
più seguite dello Yv nero); si compone di tre kanda nei quali riprende la discussione del
rituale o aggiunge maggiori dettagli a quanto detto nella S.
Il Shatapatha B, collegato allo Yv bianco, ha però le caratteristiche di un'opera a sé
stante ed ha grande importanza sia per la sua estensione che per il suo ricco e interessante
contenuto. Le due redazioni nelle quali è pervenuto, la Madhyandina e la Kanva
differiscono di poco nella divisione in kànda (quattordici la prima e diciassette la seconda),
i quali kanda, ciascuno caratterizzato da un nome diverso, sono ulteriormente suddivisi in
prapathaka, adhyaya, brahmana e kandikà. È proprio dal numero degli adhayaya (sono
infatti cento) che il Shatapatha B riceve il suo nome: "B dai cento sentieri".
Per quanto riguarda il contenuto, i primi nove kanda (nella redazione Madhyandina)
che sembrano essere la parte più antica, sono pienamente corrispondenti ai primi diciotto
adhyaya della Vajasaneyi S. (Yv bianco) e trattano dei fondamenti del sacrificio. Il decimo
kanda, intitolato Agnirahasya (fuoco segreto) illustra il significato mistico dei molti aspetti
del fuoco sacro; l'undicesimo kanda, intitolato Astadhyayl, riassume l'intero rituale del
sacrificio; il dodicesimo kanda, intitolato Madhyama, parla di riti espiatori e del sacrifìcio
sautramani; il tredicesimo kanda parla diffusamente dell'asvamedha e, più brevemente,
del purushamedha e del sarvamedha; il quattordicesimo kanda è composto dai primi tre
adhyaya, nei quali si danno indicazioni sui preliminari del sacrificio del soma, mentre gli
ultimi sei adhyaya costituiscono, come si è già visto in precedenza, la celebre
Brhadaranyaka Upanishad.
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Il Satapatha B. è molto significativo non solo per il rituale sacrificale, ma anche per il
suo risvolto narrativo; contiene infatti molte leggende sia di carattere mitologico (la storia
di Manu e il diluvio universale) sia di carattere più "laico" e che grande fortuna avranno
nella letteratura indiana successiva (ad esempio l'amore fra Pururavas e Urvasi, vale a dire
il difficile amore fra un mortale e una creatura non mortale; la rivalità fra le due mogli di
Kasyapa Kadru e Vinata, e altre).
Al Samaveda sono attribuiti ben nove Brahmana, ma solo a pochi di essi
corrispondono davvero le caratteristiche di Brahmana, mentre la maggior parte si possono
considerare semplici appendici (parisista). Il Jaiminlya B., diviso in
milleduecentocinquantadue sezioni, contiene dettagliate informazioni sulla tecnica
dell’udgatar (il sacerdote che canta i saman durante il sacrificio); il Tandya B, conosciuto
anche come Pancavimsa B in quanto suddiviso in venticinque libri, tratta del sacrificio del
soma, ed è interessante per la sua trattazione dei riti che si svolgono sulle rive della
Drsadvari e della Sarasvati e per la descrizione del vratya stoma (una particolare forma di
canto ritualistico). L’Adbhuta B, nome che si dà all'ultimo libro del Sadvimsa B (il B in
ventisei libri) tratta di incantesimi e magie.
Dell''Atharvaveda conosciamo un solo Brahmana: il Gopatha B costituito da due libri
divisi in undici prapathaka, forse gli unici rimasti di un'opera più ampia. Ricco di miti e
leggende, con le quali illustra il rituale del sacrificio, esalta, in pieno accordo con il suo
carattere atharvanico, Angiras, il "saggio dei saggi"ed enfatizza l'intervento, durante il
sacrificio, del sacerdote dell'Atharvaveda senza il quale il sacrificio è destinato a fallire.
L'importanza dei Brahmana è davvero notevole per vari aspetti, a partire da quello
religioso: si tratta, infatti, del primo tentativo di interpretazione dei mantra vedici oltre che
della più esauriente, prima dei kalpasutra, descrizione del complesso cerimoniale dei più
importanti sacrifici vedici, momento centrale, come si è visto, della religiosità di questo
periodo. Ma i Brahmana sono importanti anche dal punto di vista letterario, perché
segnano l'inizio della prosa in Sanscrito ed un fase più matura di tale lingua; sono infine
significativi per il loro contenuto non strettamente ritualistico, sono, infatti, ricchi di miti e
di leggende ed anche di spunti filosofici davvero importanti per lo sviluppo che tali temi
non ritualistici ebbero successivamente.
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Aranyaka e Upanishad

Non tutte le correnti di pensiero si uniformarono o restarono ancorate a lungo al


sistema ufficiale del sacrificio e, più in generale, al tipo di religiosità espressa dai
Brahmana. Nella prima casta, ma più ancora nella seconda (tradizionalmente legata al
potere politico, al comando e alla guerra) e in altri strati della società che la parziale
immagine della religiosità brahmanica ufficiale vorrebbe solo "pagatrici/fruitrici" e/o
"spettatrici" delle pratiche religiose affidate ai brahmani più sapienti e più potenti (non
tutti, quindi) si sviluppava un rapporto con il pensiero religioso e, infine, anche filosofico,
diverso, parallelo e spesso in contrasto con il sistema del sacrificio.
Gli Aranyaka e le Upanisahd sono gruppi di testi, canonizzati in seguito dalla
straordinaria capacità dell'ortodossia brahmanica di comporre in una "unità" differenziata
anche i contrasti più vivi, ma maturati in una corrente di pensiero e in ambienti extra-
brahmanici indifferenti o, addirittura, in opposizione al sistema ufficiale del sacrificio che
aveva occupato tutta la sfera religiosa.
Partendo anch'essi dalle Samhita, mantenendo con esse legami più o meno labili, si
pongono, come i Brahmana, come "riflessioni su", ma con presupposti e conclusioni del
tutto diverse. Il contenuto ma, soprattutto, l'intenzione sostanzialmente diversa di questi
testi rispetto ai Brahmana, non impedisce che il collegamento con essi sia talmente stretto
da costituire talvolta un unico testo. Ciò è frutto non solo del riordino ortodosso di questo
pensiero che ha desiderato mostrare come vi sia una sostanziale unicità di riflessioni-
spiegazioni sulle Samhita, (rimaste quindi al centro della shruti), ma anche dal fatto che
effettivamente non c'era difficoltà a riconoscere nelle Samhita il centro ispiratore anche di
un percorso che portava lontano dalla religiosità tradizionale, legata alla pratica sacrificale.
È così che dalla via dell'azione (sacrificale) karma marga si arriva alla via della
conoscenza, jnana marga, che le Upanishad sottolineano essere una conoscenza superiore
dell'identità fra atman e brahman e della legge universale di karman e samsara).

Aranyaka

Fra i testi più ortodossi del karma marga (i Brahmana) e quelli dello jnana marga (le
Upanishad) in aperto contrasto con i primi, abbiamo il passaggio degli Aranyaka.
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Difficile, dunque tracciare una linea di demarcazione fra gli Aranyaka e le più antiche
Upanisad, tanto che la denominazione di Vedanta (fine del Veda) che ufficialmente
appartiene alle Upanihsad, può essere attribuita anche agli Aranyaka, così come molto
spesso gli Aranyaka costituiscono la parte finale di un Brahmana.
Tali testi contengono tutto ciò che nel sacrificio e nel cerimoniale ha carattere segreto,
misterioso, ma, soprattutto, simbolico e insistono a glorificare il sacrificio mentale,
interiore, come in opposizione a quello visibile, esterno, materiale. Quando prese piede lo
schema di vita dei quattro asrama (grande idea brahmanica che si affaccia con la necessità
di dare spazio allo jnana marga, ma che caratterizza soprattutto l'ideologia del periodo
sutra, vedi oltre), tali testi, che il loro nome indica, proprio per il contenuto esoterico, non
brahmanico, come non adatti ai luoghi abitati e ad una fruizione collettiva, fatti, dunque,
per essere meditati nella solitudine della foresta (aranya), furono con molta facilità intesi
come testi adatti al terzo stadio di vita, quello del vanaprastha, stadio in cui vi può essere
la necessità di celebrare dei sacrifici senza che vi siano utensili e luoghi adatti. Situazione,
quindi, dove le equivalenze simboliche spiegate negli Aranyaka, possono essere di grande
utilità.
Pochi testi compongono il gruppo degli Aranyaka. L’Aitareya A, collegato al Rv, si
divide in cinque libri: il primo e il terzo esprimono concezioni mistico-naturalistiche, le
prime tre sezioni del secondo libro contengono insegnamenti dedicati a coloro che
desiderano attraversare vari stadi di liberazione, e insegnano la prana-upasana
(meditazione del potere vitale); le ultime tre sezioni costituiscono l’'Aitareiya Upanisad. Il
terzo libro tratta di samhita upasana (forme unificate di meditazione) ed è rivolto a
persone che sono ancora attaccate ai beni materiali; negli altri due libri si tratta di
cerimonie sacrificali, in particolare del Mahavrata (antico rito popolare di fertilità, tra-
sformato in vero e proprio rito religioso).
Il Kausitaki o Shankhayana A, sempre collegato al RV, è formato di tre libri, di cui i
primi due sono ritualistici alla maniera degli A, mentre il terzo costituisce la Kausitaki Up.
Il Taittiriya A, come si è già visto, è una diretta continuazione della Taittiriya Samhita (Yv
nero) e del TB. Si divide in dieci libri di cui i primi sei trattano di sacrifici come il
sarvamedha, il pitrmedha e il pravargya, supportando quanto detto nella S e nel B., gli
altri tre libri costituiscono la Taittirìya U, mentre il decimo libro è chiamato Maha
narayana U. Per quanto riguarda il Shatapathabrahmana (Yajurveda bianco) i primi tre
adhyaya (capitoli) della quattordicesima sezione (kanda) costituiscono il relativo
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Àranyaka che tratta in particolare del sacrificio pravargya. Gli ultimi sei adhyaya di
questo kanda costituiscono la Brhadaranyaka Upanihsad. Al Samaveda appartiene
l’Aranyakasamhita.
Gli Àranyaka sono, come si è già detto e come è evidente anche dall'incastro di un testo
nell'altro, strettamente collegati ai Brahmana sia per il contenuto (trattano dei vari
sacrifici) sia per la forma letteraria, ma sono diversi nel modo di esporre la materia
sacrificale. Dei riti non offrono infatti descrizioni, ma spiegazioni spesso simboliche, né si
preoccupano di stabilire regole e norme per l'esecuzione dei riti. Sembra infatti esaurita la
fase didascalica e normativa dei Brahmana per fare posto ad analogie e simbolismi che
spiegano i significati. Tale atteggiamento prelude alle Upanihsad, alla ricerca della verità,
del significato primo delle cose e innanzi tutto, del significato della vita.
Àranyaka ed Upanisad non sono tanto uno sviluppo cronolgicamente successivo
rispetto alle concezioni precedenti (anche se vale in parte tale criterio cronologico), quanto
l'affiorare e poi la trattazione sistematica di un modo diverso e, i certo senso, alternativo di
occuparsi del sacro e di concepire la religione, rispetto all'ortodossia brahmanica. La
religione ufficiale, grazie alla capacità dell'ortodossia brahmanica di comprendere, almeno
formalmente, tutto ciò che non è in aperta e dichiarata opposizione, sistema tali diversità
aiutandosi soprattutto con lo schema dei quattro asrama (stadi della vita).

Upanishad

Con le Upanishad il pensiero religioso controcorrente, eterodosso o, comunque,


contrario a perpetuare la ormai sterile preminenza del sistema del sacrificio, soprattutto per
le involuzioni teoriche che questo ormai comporta, si stacca nettamente dal ritualismo, per
percorrere un'altra via considerata più allettante in vasti ambienti intellettuali e anche
religiosi. Siamo nel periodo delle eterodossie buddhiste e jaina; il pensiero delle Upanisad
pur all'interno dell'ortodossia indù, registra le grandi novità che chiudono definitivamente
la porta dei Veda e spalancano quella della speculazione filosofica e anche del pensiero
religioso successivo.
Se Buddhismo e Jainismo appartengono ufficialmente alla eterodossia, mentre le
Upanisad sono shruti, fine del Veda e quindi, ufficialmente, ortodosse, in realtà queste
ultime appartengono al fermento del sesto secolo a.C. e partecipano di un contesto,
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comune con le eterodossie, nel quale l'evoluzione è ormai avvenuta, in cui serpeggia
rivolta e insofferenza verso la sterilità a cui il pensiero brahmanico era ormai giunto.
Il Buddhismo e il Jainismo percorrono la loro strada di movimenti sempre più
caratterizzati in senso religioso e quindi sempre più lontani dalla religione del dharma e
delle caste, quale sta diventando, dopo la fase sacrificale, la religione brahmanica, mentre
le Upanisad, proprio per il loro carattere prettamente filosofico, possono restare al loro
posto, concludendo la fase della shruti e avviando la speculazione filosofica. Dopo le
Upanishad, che portano in superficie e sistemano una corrente di pensiero sostanzialmente
non sacerdotale e mistica, neppure l'ortodossia brahmanica sarà più la stessa e sarà sempre
riconosciuta (vedi lo schema dei quattro asrama, considerando soprattutto il terzo e il
quarto stadio) la possibilità di una ricerca religiosa personale, fuori da ogni schema,
persino da quello castale.
Il termine Upanishad è stato variamente interpretato. La sua più evidente accezione
etimologica fa riferimento al modo di trasmissione del sapere che è da maestro a discepolo
(sedere vicino ed in basso), come è logico per insegnamenti che hanno un carattere
riservato o addirittura segreto. A questo aspetto della segretezza si riferisce l'altro termine,
meno frequente, usato come equivalente di Upanihad, Rahasya, che significa appunto
"segreto", "mistero".
Per quanto riguarda il periodo di composizione esso può comprendersi fra l'ottavo e il
terzo secolo a.C. anche se le U più antiche sono sicuramente pre-buddhiste e quindi non
possono ascriversi a periodi più recenti del VI secolo. Le U non antiche hanno impronta
più settaria e vengono spesso definite Vedanta, Yoga, Sannyasa, Saiva, Vaisnava, Sakta U,
in linea con le loro tendenze.
Sotto la categoria di Upanishad, dunque, si raccolgono opere di epoche diverse e anche
di ispirazione diversa, tuttavia il numero delle U canoniche è stato fissato in centootto
(quante ne enumera la Muktika U), delle quali dieci appartengono al Rv, diciannove allo Yv
bianco, trentadue a quello nero, sedici al Sv e trentuno all'Av. Dalle più antiche, appunto
quelle canonizzate e appartenenti circa al periodo che va dal VI al III secolo a.C, fino alle
più recenti (si sono scritte U fino al secolo scorso) esse hanno dato vita ad un particolare
genere della letteratura filosofico-religiosa in voga per molto tempo.
La caratteristica più evidente di questa letteratura è la forma dialogica che permette ai
quesiti di carattere religioso e filosofico di essere sviscerati attraverso domande e risposte
in genere da discepolo a maestro. Le U sono i primi testi di "filosofia" dell'India; non
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arrivano ad essere una trattazione metodica in cui i problemi sono inquadrati in uno
schema teoretico organico, ma sono una si potrebbe dire spontanea e sbrigliata liberazione
di felici intuizioni e riflessioni sui due grandi temi che da questo momento in poi sono a
fondamento di tutto il pensiero filosofico dell'India: l'idea dell'identità fra ātman e
brahman (principio individuale e principio assoluto) e il riconoscimento della legge
universale di karman e samsàra (l'atto che produce un frutto provoca il susseguirsi delle
rinascite).
Si è visto che le U sono in numero assai elevato, mentre è la Muktikà U a contarne
centootto, canonizzando tale numero, comunemente accettato, anche se gli studiosi ne
hanno individuato molte di più. Per quanto riguarda le quattordici più antiche o le più
importanti, le cosidette U vediche si possono dividere in tre gruppi a seconda della forma
in cui si presentano. Abbiamo allora: U in prosa solo eccezionalmente interrotta da versi e
con andamento molto simile ai Brahmana, U metriche, infine U ancora in prosa o in prosa
alternata a versi.
Al primo gruppo appartengono la Brhadaranyaka, la Chandogya, la Taittiriya,
l’Aitareya, la Kausitaki e la Kena. Al secondo gruppo la Katha o Kathaka, l'Isa, la
Svetasvara, la Mundaka e la Mahanarayana. Al terzo gruppo: la Prasna, la Maitri o
Mairtayaniya, la Mandukya.
La Chandogya U, appartenente al Samaveda e la Brhadaranyaka U dello Yv bianco,
sono di gran lunga le U più importanti ed autorevoli. La prima si articola in dieci capitoli,
dei quali i primi due sono il Mantra Brahmana e trattano di argomenti di carattere
ritualistico, mentre gli altri otto costituiscono la Chandogya U. In essi si tratta della
mistica del saman, dell'identità brahmanaàtman, di questioni cosmologiche.
La Brhadaranyaka U appartiene allo Yv bianco ed è la più antica e la più ampia delle
U. Corrisponde ai capitoli IV-VIII del quattordicesimo kanda e al capitolo VI del decimo
kanda del Shatapatha Brahmana nella recensione Madhyandina; nella recensione Kanva
corrisponde agli ultimi sei capitoli del sedicesimo kanda. Tratta dell'identità di atman e
brahman il riconoscimento della quale porta alla liberazione (moksa) dal ciclo delle
rinascite (samsara).
La Taittiriya U appartiene alla scuola Taittiriya dello Yv nero. Il settimo, ottavo e nono
libro del Taittiriya Aranyaka costituiscono questa U, mentre il decimo e undicesimo
costituiscono la Maha-narayana U (annoverata fra le U metriche). La Taittiriya, divisa in
tre sezioni, descrive il valore simbolico ed evocatorio di alcune formule mistiche,
100

concepisce il brahman come Assoluto e illustra la via per la quale l'anima vivente
(jivaātman) si congiunge con il brahman.
L’.Aitareya si riallaccia al Rv facendo riferimento al mito del Mahapurusha (Rv X, 90)
e rappresenta una fase cosmologica del pensiero upanisadico. Espone in tre capitoli
l'origine del mondo derivata da àtman e la natura panteistica di questo.
La Kausitaki U pur chiamata Kausitaki (o Sahkhayana) Brahmana U, non si collega al
Brahmana omonimo, ma, come si è già visto, è il terzo capitolo del Sahkhayana
Aranyaka, collegato quindi al Rv; descrive Indra come vita e immortalità, enuncia la teoria
del "soffio vitale", definisce il brahman e il brahmaloka (la sfera di Brahma).La Kena U
deriva il suo nome dalla prima parola del testo che significa "come", "perché" ed è
collegata al Samaveda essendo parte del Talavakara B del Sv. È divisa in quattro sezioni
di cui le prime due in versi e le ultime due in prosa. Nelle prime si tratta di brahman
(principio assoluto), visto come imperscrutabile, la cui realtà è ignota persino agli dei, di
para-vidya (conoscenza superiore) e di sadyamukti (liberazione immediata), nelle seconde
si parla di Ishvara (Signore) di apara-vidya (conoscenza inferiore) e di krama-mukti
(liberazione graduale). In questa U è esposta anche la famosa storia di Urna
HaimavatIi(figlia di Himavat, la personificazione dell'Himalaya) forse proprio il nucleo
originario (uno spirito femminile della regione himalayana) delle successive
personificazioni (Parvati, Durga ecc.) di questa dea-madre indiana.
Fra le U metriche annoveriamo: l'Isa U, appartenente allo Yv bianco, inclusa nella
Vajasaneyi Samhiaà come suo ultimo adhyaya. Deriva il titolo dalla sua prima parola, è
dunque l’'U del Signore (Isa) tratta l'unità dell'Essere e del Divenire, elabora la dottrina
della vidya (conoscenza) e dell’ avidya (ignoranza) e come la fusione di entrambe
(samuccaya) sia indispensabile per il raggiungimento di amrtattva (immortalità).
La Katha (nome proprio di un sapiente dello Yv) o Kathaka U appartiene allo Yv nero
ed è famosissima perché inserisce i suoi insegnamenti religiosi e filosofici all'interno del
celebre racconto di Yama e di Naciketas (vale a dire le domande che il giovane brahmano
Naciketas pone al dio della morte Yama, dopo che il padre, da lui provocato circa il suo
zelo religioso considerato tiepido, lo ha offerto a Yama in quanto il più prezioso dei propri
beni). L’U disserta sull'identità atman e brahman, sul non attaccamento e sulla rinuncia ad
ogni desiderio come condizione per il conseguimento dell'immortalità.
La Munda (o Mundaka) U (di chi ha il capo rasato e, quindi, della rinuncia) è divisa in
tre capitoli, disserta su sannyàsa (rinuncia), para vidya (conoscenza suprema), samsara
101

(realtà contigente) e apara vidya (conoscenza inferiore). Nella Svetasvara, che si compone
di sei capitoli, la riflessione su brahman si sviluppa con caratteri teistici. Brahman assume
infatti le caratteristiche di un dio personale, Rudra, che insegna la dottrina della bhakti (de-
vozione). Un'altra particolarità di questa U è il frequente ricorrere alla terminologia del
Samkhya (uno dei sei sistemi metefisici –darshana- “ortodossi”).e lo sforzo di conciliare il
punto di vista religioso con quello filosofico.
La Mahanarayana ha un contenuto eterogeneo: inni, strofe in stretta relazione con le
diverse raccolte vediche, insegnamenti sul brahman, formule da recitare durante le
abluzioni rituali o le offerte "a tutti gli dei" e ai "soffi vitali".
Nel terzo gruppo sono comprese U in prosa o in prosa alternata a versi. La Prasna U
(Ì'U delle domande), e la Mandukya U (della scuola dei Manduka) appartengono all’Av.
La Prasna, divisa in sei sezioni, pone quesiti sul significato di om e sulle relazioni esistenti
fra l'Assoluto e la parola, e ripercorre i principali temi della speculazione upanishadica. La
Mandukya, che esalta anch'essa l'identità fra la sillaba sacra om e la verità suprema, pur
essendo un testo molto breve, consta, infatti, solo di dodici stanze, è assurta a grande
importanza nella storia del pensiero indiano. Fu infatti oggetto del famoso commento di
Gaudapada (predecessore del filosofo Shankara) le Mandukya-karika che costituiscono la
prima elaborazione sistematica della concezione del non-dualismo, dalla quale si sviluppa
il pensiero sankariano.
La Maitrì (o Maitrayanì) U appartenente allo Yv nero, consta di sette capitoli di cui gli
ultimi due sono più recenti degli altri. In questa U compare il concetto di trimurti si pone il
principio della differenza fra l’atman individuale e l’atman assoluto e si esprimono
concezioni sul carattere illusorio del mondo che potrebbero derivare dall'influenza del
pensiero buddhista, ormai potentemente affacciatosi sulla scena.
Con le U si conclude la shruti, tanto che un altro termine per indicare le U è Vedanta
(fine del Veda), termine che tuttavia indica più propriamente una reinterpretazione delle
verità fondamentali del Veda alla luce degli insegnamenti delle Upanishad.
102

Complementi bibliografici:

Bareau, A. Buddha, Accademia, Milano 1972.


Botto, O. "Letterature antiche dell'india", in Storia delle Letterature d'Oriente, vol.III,
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Della Casa,C. // Giainismo, Boringhieri, Torino 1962
Della Casa, C. (a cura di), Upanishad vediche, Editori Associati, Milano 1976.
Devoto, G. Origini indeuropee, Sansoni, Firenze 1962.
Doniger, W.; Smith, B.K. (a cura di) Le Leggi di Manu, Adelphi, Milano. 1966.
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Rothermund, D. Storia dell'India, Garzanti, Milano 1991.
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Filoramo) 4. Religioni dell'India e dell'Estremo Oriente, Laterza, Bari 1996, pp. 49-131.
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Puech, H.C (a cura di) Le religioni dell'Estremo Oriente, Biblioteca
Universale Laterza, Bari 1988.
103

Cap.IV. Il BUDDISMO .

Il territorio nel quale il Buddha visse e predicò apparteneva al mosaico dei piccoli stati
nei quali era suddivisa Madyadeśa, la « Contrada di Mezzo ». Essa comprendeva la felice e
fertile zona che partendo dai contrafforti nepalesi del Himalaya giungeva sino alle due rive
del Gange stendendosi, ad occidente, da Delhi e dal bacino dello Jumma fino, ad oriente,
all'attuale regione delle Province Unite.
Gli Stati che formavano tale vasto complesso territoriale, spesso menzionati nei
riferimenti geografici del Canone Pāli alla predicazione del Buddha (ad es., Anguttara-
Nìkāya, I, 123; IV, 256-60; Dīgha-Nikāya, II, 200), erano molto numerosi. Sia le fonti
Buddhiste sia Jaina ed epiche 12 segnalano in questo periodo (VI secolo a.C.,) l'esistenza di
sedici forti stati (sodaśa mahājanapada), o regioni sottomesse all'elemento ariano, ma
abitate, particolarmente quelle dell'Est, da popolazioni di origine autoctona e non ancora
completamente bramanizzate. La « contrada di mezzo » comprendeva quattordici
mahājanapada, sui circa sedici o poco più delle liste, e sette principali città: Srāvasti,
Sāketa, Campā, Vārānasi, Rājagrha e Kauśambi (v., Dīgha-Nikāya, II, 146).
Una parte delle popolazioni che, verso la fine del VII secolo a.C., abitavano i sedici
territori erano organizzate in gana, termine che alcuni hanno reso con « repubbliche
aristocratiche ». Le faccende dello Stato erano curate da una assemblea di anziani13 che,
per un periodo di tempo determinato e secondo norme che non conosciamo, eleggeva un
capo (probabilmente questi era considerato come un primus inter pares) cui veniva
affidato il potere e che governava con il titolo di raja “ rege”.
Una particolare rilevanza, per la storia del periodo e per la loro consistenza
territoriale, hanno alcuni di questi Stati; quello dei Vrjji, (Vajji), una confederazione di
otto clan il più importante dei quali era quello dei Licchavi, la più nobile famiglia della «
Contrada di Mezzo ». La loro regione aveva per capitale (Vaisali). Altro importante gana
era quello dei Malia con capitale a Kusingara, e quello dei Shakya con capitale
Kapilavastu (Kapilavatthu), al quale apparteneva il Buddha. I Shakya erano tributari del
Kosala, anche se ricvendicavano un comune capostipite, il leggendario re Okkava
12
W.KIRFEL, Die Kosmographie der Inder, Boon 1920, pp.225-26; E. LAMOTTE, Histoire du Buddhisme
Indien, Des Origines à l’ère Saka, Louvain 1958, pp.8-9.
13
Cfr., B.C.LAW, Some Ksatriyas Tribes of Ancient India, Calcutta 1924, IDEM., Tribes in Ancient India,
Poona 1943; A.P. DE ZOYSA, Indian Culture in the Days of the Buddha, Colombo 1955.
104

(Iksvaku). I quattro grandi regni d'Avanti, di Vamsa, di Kosala e del Magadha, in questo
stesso periodo, erano in piena fase di espansione territoriale a discapito dei gana più
deboli.
Il regno di Avanti, diviso in settentrionale e meridionale, aveva due capitali (Ujjayim
ed Mahissati) ed era governato dal re Canda Pradyota. A nord vi era il regno di Vamsà con
la sua capitale Kausambi, e su di esso regnava Udayana; poi vi era il Kosala che aveva per
capitale bravasti ed era retto da Prasenajit, figlio di Mahakosala e discepolo del Buddha;
infine il Magadha con capitale a Pataliputra. Il Magadha era governato dalla dinastia dei
Saissunuga che risaliva al re Sisunaga; esso si era ingrandito territorialmente alle spese del
Kosala che sottomise completamente durante il regno di Ajatashatru (554-527 a.C.)
conquistando anche il regno degli Anga e lo stato dei Licchavi. Dopo un tale
consolidamento la capitale fu portata, durante il regno di Udasi (504-470 a.C), a
Pataliputra (prima le capitali erano Girivraya e Rajgrha) che, con la dinastia dei Maurya,
divenne la capitale di tutta l'India. Al tempo della nascita del Buddha era re del Magadha
Bimbisara (582-554 a.C.) a cui successe Ajatasatru.
Si è spesso sostenuto che quest'epoca era attraversata da profonde crisi economiche e
soaciali, e che proprio questa situazione ha favorito, propiziato, il nascere e l'affermarsi del
Buddhismo, come di altri movimenti definiti eterodossi che non facevano altro che
incanalare il diffuso malcontento nei confronti dell'egemonia bramanica. Ma, al contrario,
le condizioni
economiche del periodo ci appaiono particolarmente floride in tutta l'area descritta; il
suolo particolarmente fertile permetteva lo svilupparsi di una ricca agricoltura e di un
prospero commercio. Le corti erano luoghi di raffinata cultura e i principi erano ben attenti
ad esercitare l'arte del buon governo cercando di tenere lontane dai loro regni violenze e
brutalità.
I traffici commerciali godevano di questa particolare situa zione di benessere e di
generale tranquillità e non potevano far altro che prosperare e svilupparsi lungo le vaste
reti di canali e le grandi piste carovaniere che da Nord a Sud attraversavano il territorio.
Da questi scarni dati si può concludere che la predicazione del Buddha non era affatto
situata entro un quadro di forti crisi e di gravi tensioni sociali per cui « si era fatto più
intenso il processo di sviluppo dei rapporti schiavistici e di formazione dei grandi stati
schiavistici. Per questa ragione il periodo è caratterizzato dalla apparizione di diverse
tendenze religiose predicanti l'uguaglianza fra tutti gli uomini; la comparsa di queste
105

dottrine rifletteva l'insoddisfazione dei paria e degli infimi, maltrattati e sfruttati... (dal
volume a cura di A. BAUSANI, La religione nell'URSS, Milano 1961, p. 229) ».
Se crisi c'era, questa va ricercata ad un ben diverso livello da quello economico-
sociale; si trattava dell'intensa ricerca di una religiosità che, in una dimensione diversa da
quella ritua-listica e sacrificale, affrontasse e risolvesse il problema del rapporto fra l'uomo
e l'Assoluto, fra il finito e l'infinito; gli uomini di questo periodo vivevano questa intensa
situazione di crisi e chiedevano che si mostrasse loro il passaggio « al limite » e questo
venne ad indicare il Buddha, il Perfettamente Svegliato. Il Buddhismo si pone come
esempio paradigmatico di questa atmosfera drammatica che regnava fra i « ricercatori
dell'Assoluto » del periodo.
II rito, sclerotizzatosi in una vacua ripetitività in cui il Sacro era ormai sì postulato
come esistente, ma non più penetrato e penetrante presente che bruciava il cuore
dell'uomo, necessitava di un adattamento alle nuove condizioni che l'espressione religiosa
doveva affrontare e risolvere per poter mantenere aperto agli uomini quel « passaggio al
limite » di cui prima si diceva.
I segni, le tracce, di questa ricerca di nuove vie che sono « nuove » perché « diverse »
e non diverse perché nuove, si trovano già nelle Upanishad ed il Buddhismo non fa che
allinearsi lungo quella prospettiva di Liberazione e di eterno commento alla Verità
dell'esperienza interiore.
Anello di congiunzione fra la letteratura dei Brahmana e le Upanishad sono gli
Àranyaka; la loro distinzione dai Brahmana non è assoluta: anch'essi concernono i riti
sacrificali, anche se il loro accento si pone maggiormente sulla penetrazione del significato
interiore dei riti. Sempre maggior importanza acquista la pratica della meditazione, la via
delle opere viene considerata di qualità inferiore rispetto a quella della conoscenza.
L'atman talora indica semplicemente l'organismo grossolano (cfr. Taitt.-Ar., VII, 2; IX, 1 e
Ait.-Ar., II, 3,1-2), ma si afferma soprattutto come pura coscienza-conoscenza. Egli è
omnipervadente (vibhu), non-qualificabile, presente in ogni essere, anche se secondo un
diverso grado gerarchico, ed è pienamente attuale solo nella modalità umana; nell'Aita.-
Air. viene già identificato con il Brahman.
Il Brahman vi appare sotto tre diverse modalità: sthula (grossolano) nel limite del
dominio della quantità; suksma (sottile) nello psichico; suddha (puro) quale assoluto nel
dominio dello Spirito. Egli è ciò da cui gli esseri e gli oggetti inanimati sono usciti, è ciò
per cui essi partecipano all'Esistenza e ciò in cui ritornano dopo la dissoluzione del loro
106

effimero composto; il tutto è in Brahman, ma Brahman non è il tutto. È chiamato verità


(satya), conoscenza (jnana), infinito (ananta). Chi lo conosce si libera da ogni nascita, dal
ciclo del divenire, diviene un mukta « un liberato » e in Lui si identifica (cfr. Taitt.-Ar.,
Vili, 2). Il concetto di Brahman si scioglie sempre più da ogni assimilazione ad una figura
divina per divenire esclusivamente metafisico.
Il processo di produzione della manifestazione negli Àranyaka, secondo una versione
(Taitt.-Ar., Vili, 2), prospetta la condizione primordiale di asat dalla quale si produsse il
sat cioè l'atman che a sua volta avrebbe prodotto l'intero universo; secondo un'altra
versione (Taitt.-Ar., II, 4,1) il principio originario è direttamente l'atman che attraverso un
processo di sue successive qualificazioni manifesta l'intero Universo; ed è in Taitt.-Ar., I,
2,1 che, per la prima volta, si enumerano i quattro mezzi di conoscenza: la tradizione
(smrti), la visione diretta (pratyaksa), l'autorità di chi conosce (aitithya) e la inferenza
(anumana).
Ognuno dei quattro Veda ha i propri commentari liturgici (i Brahmana) ognuno di
questi contiene un Aranyaka, ogni Aranyaka ha come parte integrante una Upanishad14 e,
queste ultime, costituiscono la estrema rivelazione dei Veda o Vedanta.
È ardua questione lo stabilire l'ordine diacronico di successione di ciascuna
Upanishad, poiché quasi tutte risultano composte da un miscuglio di parti antiche e recenti
sì che è praticamente impossibile fornire una qualsiasi datazione cronologica di esse. Si
può avanzare a livello di congettura che l'età iniziale della loro composizione non può di
molto discostarsi da quella dei Brahmana; si può quindi considerare il VII secolo come
termine a quo e il VT secolo come il periodo della loro più fiorente elaborazione, data la
presenza di elementi dottrinali che sono quasi delle anticipazioni di dottrine del
Buddhismo e del Jainismo che proprio in questo secolo si affacciano nella storia dell'India.
Il termine ad quem di quelle più recenti, dette Medie, si ritiene possa porsi al III secolo
a.C. Le opere che composte successivamente sino ai nostri tempi ricevono ancora il nome
di Upanishad, costituiscono le Upanishad recenti e vengono escluse dal corpus formato da
quelle Vediche che sono le più antiche.
La caratteristica che è peculiare alle Upanishad è la loro precisa determinazione del
concetto di àtman, la chiara identificazione del Brahman con l'Atman, l'esplicita
formulazione della dottrina della produzione dei diversi stati d'esistenza e dell'invisibile

14
Tutte le citazioni di brani delle Upanishad che compaiono nelle pagine del presente studio, salvo diversa
indicazione, sono tratte dalla tra.it curata da Carlo Della Casa per la U.T.E.T., Torino 1976.
107

elemento che li governa, il Karman, vera e propria forza propellente del ciclo del divenire
(samsàra) forza dalla quale l'uomo deve liberarsi, svincolarsi, a questo fine viene posta la
legittimità e l'efficacia dello Yoga come prassi soteriologica ascetico-meditativa.
A fianco dei brahmani impegnati nelle realizzazioni rituali e nell'indagine del senso
che le correlazioni-chiave delle Upanishad proponevano, vi erano dei brahmani e dei non-
brahmani che cercavano nella ascesi il senso del mondo, del piacere, del dolore, della vita
e della morte. Questi individui, per il loro modo di vivere, erano chiamati parivrajaka
(paribbajaka) « itineranti »; essi andavano soli o con qualche discepolo al seguito per le
strade dei regni, vivendo d'elemosina e cercando di spengere con la ascesi la sete
d'Assoluto che straziava i loro cuori. Strani uomini dovevano apparire agli sguardi dei più
questi « pellegrini » che vagavano per contrade desolate, cercando proprio quei luoghi che
i più sfuggivano per paura delle belve e dei terrificanti demoni che la tradizione voleva che
in quei siti eleggessero la loro dimora; strani uomini che si sottoponevano a ogni tipo di
privazione quasi che « sperimentalmente » provassero e riprovassero nella speranza che
alla fine il mistero si sarebbe loro svelato; strani uomini con la pelle consumata e cotta dal
sole che già faceva intrawedere la forma dello scheletro abitatore di quell'altro mondo a
cui si era destinati fin dalla nascita ma che era pur sempre un mondo, come questo, dal
quale si poteva ruggire; strani uomini con gli occhi persi nella contemplazione di un
paesaggio che è dovunque ed in nessun luogo, e che solo loro potevano vedere.
Quel poco che sappiamo di questi religiosi, delle loro abitudini e dei loro costumi ci è
dato dalle allusioni fatte ad essi dai buddhisti o dai Jainisti per confutarli, condannarli.
Molti di loro professano dottrine eterodosse e perciò erano chiamati, spregevolmente,
nastika.
Nastikā15 è detto chi si oppone alle comuni credenze, disprezzando ogni pratica
religiosa, negando l'offerta al brahmano e la preghiera al dio, ma nastika è anche chi si
serve di sofismi, di arguzie dialettiche, di paradossi per gettare il ridicolo sugli uomini
santi facendoli oggetto di scherno e dileggio. In un luogo del Mahabharata abbiamo una
descrizione di questo atteggiamento:

« Iudhishthira disse: "O nonno, dimmi se c'è merito nel largire, nel sacrificare, nel
fare penitenza e nell'ubbidire ai maestri". Risponde Bhishma: "Il cuore si volge al
male a causa dell'Io che aderisce a ciò che è dannoso e che, avendo reso impura la

15
Cfr. A. M. Pizzagalli, Nāstika, Cārvāka e Lokāyatika, Pisa 1907; G.Tucci, Opera Minora, Parte I, Roma
1971, pp.49-155.
108

propria sfera d'azione, è quindi destinato ad un mondo colmo di patimenti. Da fame a


fame, da angustia ad angustia, da pericolo a pericolo, da morte a morte, passano
miseri i peccatori. Invece i virtuosi, da sensi domi, credenti, vanno ricchi da festa a
festa, da cielo a cielo, da felicità a felicità. Vanno i Nastika coi ceppi ai polsi incontro
ai passi forti di belve ed elefanti, incontro a pericoli di serpi e di ladri, e che peggio di
questo?
I pii invece, ospitali, liberali, benevoli verso le persone care, tenendo
in mano dakshina permangono sul sentiero dei virtuosi pieno di gio-
16
condo riposo" » .

In questo caso i nastika non possono che essere i « miscredenti », i ribelli ad ogni
legge umana e divina. Il termine in seguito venne usato per indicare il brahmano
ragionatore, cavillatore e negatore dei Veda17. In un altro episodio è Indra stesso, sotto
forma di sciacallo, che consola Kasyapa e lo persuade ad accontentarsi della sorte che ha.

Dice Indra: « Io sono ridotto ad essere uno sciacallo perché fui un pandit sottolizzatore,
sprezzatore dei Vada, dedito alla logica, alla vana scienza del ragionamento,
espositore di dubbi, abile argomentatore nelle riunioni, dileggiatore e contraddittore
dei brahmani nei discorsi su Brahma, nastika, scettico, stolto e ritenendomi saggio ».

II nastika è, come abbiamo visto, un negatore, uno scettico, « non vi è né questo


mondo né un altro » ciò esprime il suo pensare, il suo argomentare. Più che essere un
negatore dell'altro mondo, egli è uno per cui l'altro mondo non esiste, come non esiste la
felicità. Ajitakesakambali, contemporaneo del Buddha e suo rivale, argomentava che « non
vi è né elemosina, né sacrificio, né offerta », intendendo dire con ciò che né l'elemosina,
cioè l'esercizio della Misericordia verso i propri simili; né il sacrificio, cioè l'esercizio del
mantenimento dei giusti rapporti gerarchici del mondo che produce la buona vita; né
l'offerta, cioè la disponibilità dell'uomo ad essere pronto al richiamo della divinità, sono
efficaci mezzi soteriologici. Egli sosteneva che:

« O Grande Re, non esiste né l'elemosina, né l'oblazione, non esiste né frutto (phala), né
maturazione (vipaka) di buone e cattive azioni, non esiste né questo né un altro mondo,
non esiste né il padre, né la madre, non esistono gli esseri opapatika, non esistono in

16
Testo cit. in A.M.Pizzagalli, Op:, cit.,p.25-26.
17
Cfr., MBh., 19,23, 47-49.
109

questo mondo né brahmani, né sramana che, conseguito il giusto scopo, percorsa la retta
via, questo e l'altro mondo da sé stessi avendo conosciuto e intuito, possano spiegarlo.
Quest'uomo è composto dei quattro elementi, e, quando muore, la terra ritorna alla terra,
l'acqua all'acqua, il fuoco al fuoco, il vento al vento, mentre i sensi vanno all'etere.
Quattro uomini, con una bara sollevandolo, vanno fino al luogo della cremazione cantando
inni funebri; restano bianche ossa e le offerte le divora la brace. L'elemosina, l'olio, le
essenze sono raccomandate dagli stolti, bugia e chiacchiera è quella di coloro che parlano di
un essere reale (athakavada). Ignoranti e dotti, quando il corpo si dissolve, sono infranti,
distrutti, non esistono più dopo la morte » ( Digha-Nikaya II,23).

Atteggiamenti come questo, esprimenti un crudo esistenzialismo, sono fortemente


criticati dal Buddha; la posizione del Buddhismo è sì critica verso un ritualismo che è solo
uno stereotipo e che nulla ha più della vivente esperienza interiore, ma non giunge mai a
negare l'esperienza religiosa in sé stessa; il suo atteggiamento è quello di chi indichi la Via
per giungere all'acquisizione di quella Conoscenza che salva, e che non può mai essere
racchiusa entro formule e definizioni statiche; è quello di chi sa che le parole non fanno
che velare, nascondere ed allontanare da quell'esperienza che sola è efficace distruttrice
del divenire. Solo l'ascesi, il « fare », è l'unico mezzo con cui l'uomo può sottrarsi alla sua
condizione dl'impotenza esistenziale. Dedicarsi ad altro è eludere il problema, è cadere nel
roveto delle opinioni secondo una efficace espressione Buddhista; è travestire la propria
pochezza, essere soggetti al potere ipnotico di Maya (= la magia cosmica) che tesse un
velo di rappresentazioni e sensazioni che concorrono a rinchiudere l'uomo in quella illu-
soria, non per questo meno potente prigione che è il mondo. A nulla vale disquisire sulla
origine del mondo come sulla sua fine, così come su tutte le altre questioni analoghe, ciò
che conta è « fare »: Liberarsi.
Siamo ben lungi, dunque, da quell'atteggiamento agnostico a forti tinte relativiste ed
esistenzialiste che caratterizza l'atteggiamento eterodosso, nastika; è, quindi, in grave
errore chi accusa il Buddhismo di eterodossia senza precisare prima e cosa sia per la
tradizione Indù l'atteggiamento eterodosso ed aver paragonato con questo il Buddhismo
per vedere se e dove esso risponda a tali caratteristiche; risulta indubbiamente di maggior
facilità l'emettere vuote sentenze ed il darsi ad una facile critica,
troppo influenzata da quelle che sono le « mode ideologiche » del tempo, che impegnarsi
in un approfondito e costruttivo confronto con ciò che si studia. Per non parlare poi di
coloro per cui l'accusa di eterodossia rivolta al Buddhismo è solamente funzionale alla loro
110

pretesa di interpretare correttamente la tradizione religiosa del mondo indiano, ma, a


nostro avviso, è sempre più opportuno lasciar parlare i testi che pretendere di interpretarli,
soprattutto quando l'interpretazione ha il solo pregio di rendere complicato e fumoso
quanto nei testi viene detto chiaramente e comprensibilmente.

La sfera di moksha considerata analogicamente identica all'esperienza del Nirvana,


entro la quale si muove nella realtà religiosa indiana ogni « via » verso la Liberazione dal
processo del divenire, è d'un ordine totalmente diverso da quelli che sono considerati i tre
fini dell'esistenza ordinaria secondo la tradizione Indù (Dharma, kama, artha) e, con
questi, non ha nessun comune denominatore. Essa si situa al di là di tutto quello che può
corrispondere alle particolari nozioni di casta (varna) con tutte le implicazioni che un tale
ordine di idee comporta sul piano politico-sociale; essa « non può essere contenuta, come
lo sono i fini transitori e contingenti, nella sfera che rappresenta il dominio dell'esistenza
condizionata, poiché costituisce, per definizione, la liberazione da questa stessa esistenza;
essa è anche al di là dei tre guna, i quali non concernono che degli stati della
manifestazione universale » 18.
L'asceta che ha rinunziato al mondo (samnyasi, parivrajaka, saddhu = bikkhu) non si
cura più, in maniera attiva, di quel che nel mondo avviene: « Si può accedere al quarto
stadio in qualsiasi momento, purché si sia maturi e il richiamo sia irresistibile... La pura e
semplice presenza di tali uomini in seno ad una società cui non appartengono più, ne
influenza tutti gli aspetti mediante la loro affermazione dei valori supremi... la vita sopra-
sociale ed anonima di coloro che hanno consapevolmente rinunziato ai loro obblighi ed ai
loro diritti costituisce invero la quintessenza delle quattro caste su cui si fonda la società
Indù; essi hanno rinunciato a sé stessi e hanno abbandonato tutto a causa del "Seguimi!"
Questa superiore elezione è offerta a tutti, qualunque sia la loro condizione sociale »19.
La Divisione della società indiana in caste è per il Buddha un fenomeno naturale ,
come la divisione degli uomini in razze o quella delle piante e degli animali in ordini,
famiglie, generi, specie e varietà; se gli viene di pronunciarsi su di esse è solo per
denunciare i pregiudizi e gli errori che in esse albergano. Già il Burnouf notava: « L'India
era sottomessa al regime delle caste, che erano quelle dei brahmani, degli kshatriya, dei
vaiscya, dei sudra e dei tchandala. È questo un punto che giammai scrittore Buddhista ha

18
R.Guénon, Etudes sur l’hindouisme, Parigi 1976, pp.80-81; cfr., L. Dumont, Homo Hierarchicus : il
sistema delle caste e le sue interpretazioni, Milano 1991
19
A.K. Coomaraswamy, Induismo e Buddhismo, Milano 1973, p. 83 e ss.
111

contestato. I nomi delle caste sono citati frequentemente, e la loro esistenza è così ben
stabilita da venir ammessa dal Buddha stesso e dai suoi discepoli... La distinzione delle
caste era agli occhi del Shakyamuni un accidente dell'esistenza dell'uomo di quaggiù,
accidente che riconosceva, ma che non poteva arrestare l'opera sua. Ecco perché le caste
appaiono, in tutti i surra e in tutte le leggende che ho letto, come un fatto stabilito contro il
quale Shakyamuni non muove nessuna obiezione d'ordine politico o sociale. E ciò è così
vero che quando un uomo che era al servizio di un principe si rivolse al Buddha per essere
ammesso nell'Ordine, il Buddha non l'accettò sino a quando il principe non ebbe concesso
il suo permesso al servo »20 .
Nel Buddhismo antico non v'è nulla che possa essere descritto come una « rivoluzione
sociale » contro il sistema delle caste; non ha forse detto il Buddha: « Ciò che il mondo
ammette, io lo ammetto; ciò che il mondo non ammette, io non l'ammetto. Io non sono in
contraddizione con il mondo; il mondo è in contraddizione con me » (Samyutta-Nik., III,
113). Come non pensare alle analoghe parole del Cristo: « Non pensate che io sia venuto
ad abolire la legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento
(Matteo, 5,17) ».
Compito del Buddha non fu quello di predicare una riforma della Società che gli era
contemporanea, ma fu quello di predicare una riforma dell'uomo, di indicare una « via di
salute » agli uomini, di restaurare l'Antico Ordine, il Sanatana Dharma: « Io ho visto »,
egli dice, « l'Antica Via, l'Antico Sentiero percorso dai perfetti Risvegliati di ogni tempo:
questa è la mia Via » ( Ibid,II, 106) ; adesso i brahmani hanno da tempo trascurato la loro
antica legge, il Buddha la insegna nuovamente.
I brahmani, contemporanei del Buddha, « avevano perduto i favori spirituali che erano
l'appannaggio dei loro antenati puri e senza ego » (Sutta-Nipata, 284 e ss). Scopo della
dottrina rivelata dal Buddha era quello di riproporre la verità di una Antica Dottrina, non
perché si fosse interrotta la trasmissione dell'insegnamento — la cui continuità era
assicurata dagli eremiti che vivevano nelle selve —, ma perché i brahmani erano divenuti
troppo legati alla vita mondana, immersi negli intrighi di corte, interessati soltanto alle
forme esteriori del rituale e, forse, troppo attratti dagli emolumenti; erano diventati più «
brahmani di nascita » (brahma-bandhu) che brahmani nel senso che tale termine riveste
nelle Upanishad o nel Buddhismo, cioè di « conoscitori di Brahma » (brahmavit). «
Quando il Buddha si riferisce "all'incolta moltitudine", vuole soltanto alludere a coloro che

20
E. Burnouf, Introduction à l’histoire du Bouddhisme Indien, Parigi, 1876, pp. 138-211.
112

coltivano quella falsa "teoria dell'anima" o quella credenza in una reincarnazione personale
che egli combatte incessantemente » 21.
È indubbio che, parlando dell'Antica Via, il Buddha, alludesse a quello « stretto
sentiero che conduce molto lontano », percorrendo il quale i contemplativi, i conoscitori di
Brahma, si elevano e sono liberati (yimuktah) (Samyutta-Nikh., IV,117); egli aveva
penetrato completamente la Legge Eterna {akalika dharma) e verificato ogni cosa in Cielo
e in Terra. A chi gli chiede: « Quegli asceti e brahmani, o Gotamo, quei capi scuole,
accerchiati da numerosi discepoli e seguaci, quei celebrati pionieri, che sono altamente
stimati da molti... tutti costoro sono savi come essi affermano, o non lo sono? O alcuni
sono savi ed altri no?
« Lascia andare », risponde il Buddha, « brahmano resti là, se tutti costoro come essi
affermano, sono savi, o se non lo sono, o se alcuni sono savi ed altri no. Io voglio mostrarti
la dottrina brahmano, ascoltala »22... « pura virtù mena a puro cuore, puro cuore a pura
conoscenza, pura conoscenza a pura sicurezza, pura sicurezza a pura scienza delle vie,
pura scienza delle vie a pura Scienza del Sentiero, pura scienza del Sentiero a pura scienza,
pura scienza ad immateriale perfetta Estinzione. A scopo di immateriale perfetta
Estinzione, o fratello, viene presso il Sublime menata Santa Vita » (Majjhi.,24. 231).
E chi è conoscitore di questa suprema Scienza è un brahmavit un « conoscitore di
Brahma »; è detto: « Il brahmano: questo è, o monaci, una designazione per il Compiuto, il
Santo, Perfetto Svegliato » (Ibidem, 23.223) che trova conferma nel « chiunque comprenda
la Dottrina può essere chiamato un brahmano » (Shatapata-Brahmana, XII, 6, 1, 41) e, dal
fatto che « solo la Conoscenza impartita da coloro che hanno esperienza della Realtà è
efficace, e nessun'altra » (Shankara, ad Bhagavadgita, 4, 34); perché « il Brahman è
conoscibile solo grazie all'insegnamento conforme a tradizione (agama) dei maestri che
l'hanno sperimentato, e non attraverso ragionamenti, studio del Vedanta, intelligenza,
erudizione, ascesi sacrifìci, ecc. » ( Idem., ad Kenopanishad, I, 4).
Il Compiuto si rivolgeva a chiunque, senza tener conto della casta di appartenenza, nel
suo insegnamento a chi lo rimproverava di accogliere presso di sé persone poco
raccomandabili, egli, rispondeva:
« La mia Dottrina è Grazia per tutti. E com'è di Grazia per tutti? Perché con essa
anche dei miserabili pezzenti possono divenire asceti ». Affermando questo il Buddha si
21
A.K:Coomaraswamy,Op. cit.,p.98.
22
Majjihima-nikaya, 30, 295-296, nella trad. di G. De Lorenzo e E. Neuman, I discorsi di Gotamo Buddho,
3 voll. , Bari 1916-1927. Le cit del Majjhi... rimandano prevalentemente a questa trad. italiana.
113

rivolgeva a qualunque essere, quale che fosse la sua condizione di casta, che volesse porre
fine alla ruota del divenire, per raggiungere l'Estinzione. Interrogato sulle caste e sul loro
intrinseco valore, il Buddha mostra come da ognuna di esse si possa aspirare alla
Liberazione, come vizi e virtù in esse siano equamente ripartiti, e come sia quindi assurdo
vantare uno stato spirituale solo sulla base della propria nascita.
Questo atteggiamento viene chiaramente espresso dal dialogo fra l'asceta
Mahakaccano ed il re Madhuro dell'Avanti (Majjhi.,84.349 ss.), o da quello che Pasenadi,
re del Kosala, ha con il Buddha riguardo alle differenze esteriori ed interiori che
caratterizzano le quattro caste:
« Quattro caste, Signore, vi sono: sacerdoti, guerrieri, borghesi e
servi. Ora tra queste quattro caste, Signore, che vi sia una diversità,
che vi sia una differenza?
Quattro caste vi sono, gran re: sacerdoti, guerrieri, borghesi e
servi. Ora di queste quattro caste, gran re, due sono superiori, guerrieri
e sacerdoti, in quanto a saluto, ossequio, rispetto e riverenza.
Io, Signore, non chiedo al Sublime lo stato visibile: l'intima con-
dizione, Signore, io chiedo al Sublime! ».

Così interrogato il Buddha fa notare come in ognuna delle quattro caste si possano
trovare individui buoni, leali, intelligenti, saggi e capaci di lottare strenuamente per
liberarsi dal divenire e conclude:

« Allora io dico, gran re, non si può parlare più per loro di una differenza, stando
redenzione difronte a redenzione. Così come quasi, gran re, se un uomo, prendendo
una scheggia secca di legno di saka, accendesse fuoco, producesse fiamma; ed un altro
uomo, prendendo una scheggia secca di legno di amba, accendesse fuoco, producesse
fiamma; ed un altro uomo, prendendo una scheggia secca di legno di adumbara,
accendesse fuoco, producesse fiamma; tu che pensi, gran re: che vi sia ora tra questi
fuochi accesi da diverse legna, una qualche differenza, tra luce e luce, colore e colore,
splendore e splendore? ».
« No di certo, Signore!
Or così anche appunto, gran re, è di quella fiamma suscitata dalla virtù, accesa
dall'esercizio: io dico, che non v'è in essa alcuna differenza, essendo redenzione
difronte a redenzione » (Ibid., 90. 415 e ss.).
114

Una complessa discussione sulla questione delle caste avvenne una volta a Savatthi in
occasione di una riunione di cinquecento brahmani che, tra le altre cose, avevano anche
trattato della dottrina predicata dal Buddha che in tutte e quattro le caste si potesse, ove si
volesse, esser puri; questi brahmani incaricarono il loro dotto collega Assalayano di
confutare questa sovvertitrice dottrina. Assalayano in un primo momento rifiutò, conscio
della superiorità del Buddha: « L'asceta, veramente, il Signore Gotamo dice la Verità; ed è
difficile opporsi a chi dice la verità. Io non posso discutere su questo argomento con l'a-
sceta Gotamo ». Assalayano dicendo così riconosce l'ortodossia della tesi del Buddha, non
ha nulla da obbiettare contro di essa. Ma i brahmani che si vedono minacciati da una tale
dottrina nei loro privilegiati di casta, essenso divenuti più brahmani di nascita che «
conoscitori del Brahma », insistono e, anche se a malincuore, Assalayano è costretto ad
accettare:

« Evidentemente, o Signori, io non trovo ascolto. Eppure l'asceta, il Signore


Gotamo, dice la verità. Io non posso discutere su questo argomento con l'asceta
Gotamo: quindi andrò in vostro nome! ».

Ed Assalayano, il dotto brahmano, con un grande seguito di brahmani, si recò là dove


ove soggiornava il Sublime; scambiati con lui i saluti d'obbligo, aprì così la discussione:

« I brahmani, o Gotamo, dicono così: "I brahmani soli sono casta superiore,
inferiore ogni altra; i sacerdoti soli sono casta bianca, nera ogni altra; i sacerdoti soli
sono puri non i non sacerdoti; i sacerdoti soli sono figli di Brahma, legittimi, nati dalla
sua bocca, prodotti da Brahma, formati da Brahma, discendenti da Brahma!".
Che dice il Signore Gotamo di Ciò?
Eppure si vedono, Assalayano, donne brahmane mestruanti e pregne partorienti ed
allattanti; ma questi brahmani, pur essendo nati da matrice, dicendo così: "I sacerdoti
soli sono casta superiore...". Allora, Assalayano, che forza e che potere hanno i
brahmani, per dire che essi soli sono casta superiore, e che ogni altra casta è inferiore?
Se anche il Signore Gotamo dice così, i brahmani la pensano a loro modo ».

A questo punto il Buddha inizia a confutare una per una le affermazioni che i
brahmani recano a sostegno della tesi della loro pretesa superiorità interiore sugli altri
membri della Società. Il Sublime dimostra come sia fra essi che fra i componenti delle
115

altre caste possano prodursi indifferentemente tutte le forme di virtù e tutti i vizi che
portano, rispettivamente, le une a buoni risultati, gli altri a cattivi esiti:

« Tu che pensi, Assalayano: solo un sacerdote può prendendo un bagno od


andando al fiume, tergersi da polvere e sudore; ma non così un guerriero, né un
borghese, né un servo?
No certamente, o Gotamo! Perché anche un guerriero, o Gotamo, può prendendo
un bagno od andando al fiume tergersi da polvere e sudore, e così pure un servo, un
borghese: ognuno, o Gotamo, appartenente alle quattro caste, può, prendendo un
bagno od andando al fiume, tergersi da polvere e da sudore ».

Il meccanismo dialettico del dialogo si sviluppa in adamantine sequenze con una tale
efficacia logica nel loro incalzare che non lasciano spazio e nessuna possibilità di replica e
conducono, l'interlocutore, piano piano ad esprimere e riconoscere la stessa opinione che
intendeva, in un primo tempo, confutare; sembra di assistere ad una operazione di alta
chirurgia in cui, con rapide e precise incisioni, il chirurgo giunge là ove s'annida il male e,
con mano ferma e decisa, asporta la parte malata (nel nostro caso ciò che si asporta è
l'erronea opinione) per ridare la salute al paziente, cioè la retta conoscenza all'anima.
Ma ritorniamo al dialogo:

« Tu che pensi Assalayano », prosegue il Buddha, « ecco vi siano due brahmani,


fratelli uterini; uno istruito e promosso, ma indisciplinato e cattivo di carattere, l'altro
non istruito, non promosso, ma disciplinato e di buon carattere: quale dei due i
brahmani sosterrebbero per primo, col riso cotto nel latte o altra appropriata offerta?
Il giovane brahmano, o Gotamo, non istruito e non promosso, ma disciplinato e di
buon carattere, quello i brahmani sosterrebbero, col riso cotto nel latte od altra
appropriata offerta: che ne verrebe, o Gotamo, dal donare ad un indisciplinato e di
cattivo carattere?
Prima dunque tu, Assalayano, sei venuto alla nascita; poi abbandonando la nascita,
sei passato all'istruzione, sei ora giunto a quella purezza delle quattro caste che io
proclamo. A queste parole il giovane Assalayano, divenuto silenzioso e turbato,
rimase a sedere con tronco curvo, il capo basso, arrossito ed abbattuto ».

Gotamo, quasi per dare un ultimo colpo all'erronea opinione nutrita dai brahmani e
che per dimostrare che la Dottrina da lui predicata è conforme all'insegnamento degli
116

antichi vati (rishi), narra un episodio che si svolse negli antichissimi tempi, quando i sette
vati che vivevano nelle loro capanne nella selva, concepirono per la prima volta la stolta
opinione della esclusiva purità della casta sacerdotale; tale falsa opinione fu colta dal
Sommo Vate, Asito Devaio, che viveva solitario sull'alta montagna ed egli si decise a
confutarla. Indossato il rosso abito ed acconciatosi, magicamente apparve nell'eremitaggio
dei sette vati e così parlò loro:

« Orsù, dicano questi signori vati brahmani: chi ha precedenza? Orsù, dicano
questi signori vati brahmani: chi ha la precedenza? Allora, Assalayano, i sette vati
brahmani dissero fra loro così: "Chi è dunque costui che, girando come un bove
sull'aia, cammina su e giù per l'eremitaggio dei sette vati brahmani escalamdo: 'Orsù,
dicano questi signori vati brahmani: chi ha la precedenza?' Orsù, malediciamolo!".
Quindi, ora, Assalayano, i sette vati brahmani maledissero il vate Asito Devalo:
"Cenere sii, miserabile! Cenere sii, miserabile!" Quanto più i sette vati brahmani
maledicevano il vate Asito Devalo, tanto più il vate Asito Devalo diveniva
maggiormente prestante e più vistoso ed imponente. Allora, Assalayano, i sette vati
brahmani esclamarono così: "Vana, veramente, è la nostra penitenza; senza frutto il
nostro ascetismo! Chiunque prima noi maledicevamo: Cenere sii, miserabile! Subito
era fatto cenere. Questo però, quanto più noi lo maledicevamo, tanto più ne diviene
prestante e più vistoso e più imponente". Non è vana la penitenza di lor signori; non è
senza frutto il loro ascetismo! Su via, signori, il pensiero di collera dentro di me,
abbandonatelo! "Il pensiero di collera, sorto in noi, lo abbandoniamo! Ma chi è il
Signore?".
Avete sentito, voi Signori, del vate Asito Devalo?
"Si, signore?".
Quello dunque sono io.
Allora Assalayano, i sette vati brahmani andarono incontro al vate Asito Devalo,
per riverirlo. Ed il vate Asito Devalo disse loro così: "Io ho sentito, o signori, che tra i
sette vati brahmani, seduti nella solitudine della selva, è sorta tale cattiva, falsa veduta:
I sacerdoti soli sono casta superiore, inferiore ogni altra casta; i sacerdoti soli sono
bianca casta, nera ogni altra; i sacerdoti soli sono puri, non i non sacerdoti; i sacerdoti
soli sono figli di Brahma, legittimi, nati dalla sua bocca, prodotti da Brahma, formati
da Brahma, discendenti da Brahma".
Così è, signore!
117

Sanno però i signori, se la loro ava avvicinò proprio un brahmano, non un non
brahmano?
Questo certo no, signore!
E sanno i signori, se la madre della loro ava e la madre di Lei, fino alla settima
generazione ascendente, avvicinò proprio un brahmano, non un non brahmano?
Questo certo no, signore!
Sanno però i signori, se il loro avo avvicinò proprio una brahmana, non una non
brahmana?
No, signore!
E sanno i signori, se il padre del loro avo ed il padre di lui, fino alla settima
generazione ascendente, avvicinò proprio una brahmana, non una non brahmana?
Veramente no, signore!
Sanno però i signori, come avviene la concezione di un feto?
Noi sappiamo, o signore, come avviene la concezione di un feto. Se padre e madre
si uniscono, e la madre ha il suo tempo, ed il genio è pronto; ecco che per l'unione dei
tre avviene la concezione del feto.
Sanno però i signori certamente, se il genio è un guerriero od un sacerdote, od un
borghese o un servo?
No, o signore, che non lo sappiamo, se il genio è un sacerdote od un guerriero od
un borghese od un servo!
Stando così le cose, signori, sapete chi voi siete?
Stando così le cose, signore, noi non sappiamo chi siamo!
E — conclude il Buddha — perfino i sette vati brahmani, interrogati, esaminati,
contrastati dal vate Asito Devalo sul loro discorso sulla nascita, non poterono venirne
a capo.
Come potrai venirne a capo tu, interrogato, esaminato, contrastato da me su questo
discorso della nascita: tu, che del loro insegnamento non ne hai ancora pieno un
cucchiaio? » (Ibid., 93.445 ss).

Chiunque sostenesse che il Buddha ha predicato una dottrina mirante all'egualitarismo


sociale è, quindi, completamente nel falso, come il racconto sopracitato mostra; altrove
egli afferma:
118

« Io proclamo un alto, sovrumano diritto come proprietà dell'uomo: in qualsiasi


modo uno si ricordi della sua pristina discendenza da padre e madre e dove egli
appunto così generato abbia tale e tal'altro nome ricevuto; chiunque ha abbandonato la
famiglia per la solitudine dell'eremo ed è pervenuto alla Dottrina del Compiuto, si
astiene da uccisione, si astiene da furto, si astiene da lussuria, si astiene da menzogna,
calunnia, lite e vane chiacchiere, e non è bramoso, non astioso, ma ben intenzionato:
costui ha acquisito vero e salutare diritto. Presso colui che mentre lo si serve, cresce
col servizio, la fiducia, cresce la virtù, cresce l'esperienza, cresce la forza d'animo,
cresce la sapienza: quello, io dico, si deve servire » (Ibid., 96.485 ss)..

È quindi chiaro che il Buddha, come i testi citati dimostrano, aveva lo sguardo fisso,
sì all'eguaglianza, ma all'unica e vera possibilità di « uguaglianza », quella del « dove c'è
Lui, là, io non sono »; quella data dalla realizzazione spirituale, dalla integrazione e
risoluzione dell'illusorio molteplice nell'Unico Reale, in « quell'Uno... ».
Nella Dottrina che s'impernia sul distacco, sul non-attaccamento, non c'è posto per
nessuna idea o concezione o atteggiamento che, in un modo o in un altro, continui ad
alimentare la « sete » d'esistenza e l'oscura ignoranza; non ha forse egli detto: «
Dell'immortalità si aprono le porte: chi ha orecchi per udire venga ed ascolti ».
Questa attitudine non è, d'altronde, estranea allo stesso Induismo: « Le quattro caste
sono state create da Me secondo la divisione dei guna e del karma... » (Bh.G, IV, 13); «
Gli atti dei brahmana, dei ksatryas, dei vaisya e dei sudrah, o Distruttore dei Nemici, sono
distinti in funzione dei guna che provengono dalla loro natura propria », « La serenità, il
controllo di sé, la vita ascetica, la purezza, la tolleranza e la rettitudine sincera, la sapienza
e la pietas (tale è) il karman del brahmano che trae origine dalla sua propria natura »
(Bh.G, XVIII 41-42), a cui sembra far eco: «... nessuno di noi nasce uguale all'altro, anzi
ciascuno è per sua natura diverso dall'altro... » (Platone, Rep., II, 370b). In un luogo del
Mahabharata leggiamo: « All'origine non vi era, o Yudhisthira, che una sola casta al
mondo; le quattro caste furono istituite in seguito alla differenziazione delle funzioni ».
Il Buddhismo non ha mai rifiutato l'ideale del brahmano, questo stato è, per la
letteratura buddhista, quello di chi « rifiuta il male »; un intero capitolo del Dhammapada,
il XXVI (Brahmanavaggo), è dedicato alla illustrazione di cosa si deve intendere per
brahmano: « Non per la treccia, non per la famiglia, non per la casta si è brahmani, in chi è
verità, Disciplina, costui è un brahmano» (Dhammapada, 393; cfr. Suttanipata, 618 ss.).
119

Una analoga concezione sullo stato di brahmana, si ha nelle Upanishad: « Satyakama


Jabala si rivolse a sua madre Jabala (dicendole):

"O venerata, vorrei fare il mio noviziato di brahmacarin. A quale famiglia


appartengo?" La madre gli rispose: "Non so, o figlio, a quale famiglia appartieni. Io ti
ebbi quando in gioventù servivo qua e là, e praticavo molti uomini e non so io stessa a
quale famiglia tu appartieni. Io mi chiamo Yabala e tu Satyakama. Chiamati dunque
Satyakama Yabalà". Egli si recò a casa di Haridrumata Gautama e disse: "Io desidero
fare il noviziato di brahmacarin presso il Venerabile. Vorrei accostarmi come scolaro
al Venerabile!" Quello gli replico: "Di che famiglia sei, o caro?" E l'altro: "Non so,
signore, di quale famiglia io sia. Ne ho chiesto alla mamma ed essa mi rispose: Io ti
ebbi quando in gioventù... Così io sono Satyakama Jabala, o signore". Quello allora
disse: "Così francamente non può parlare uno che non sia un brahmano". O caro, porta
il combustibile, io ti farò l'iniziazione » (Chandogya Upanishad, IV, 4,1-5).

Per il Buddha, i veri brahmana sono quei che « conoscano secondo realtà questo
dolore, conoscano secondo realtà questa origine del dolore, conoscano secondo realtà
questa cessazione del dolore, conoscano secondo realtà questo sentiero che mana alla
cessazione del dolore, questi davvero per me sono asceti, brahmani...; ed inoltre questi
venerabili dimorano avendo da sé stessi realizzato, sperimentato, conseguito in questo
visibile mondo il fine dell'ascetismo ed il fine della condizione brahmanica » (Itivuttaka,
103).

L’INSEGNAMENTO FONDAMENTALE.

Il Buddha- come abbiamo visto- nacque nel Nord dell'India, ai piedi dell'Himalaya, più
precisamente in quello che si chiama il Terai, in un piccolo Stato repubblicano del Nepal,
in prossimità della frontiera con l'attuale Repubblica Indiana, verso il 560 a.C. Il suo nome
era Siddhartha, Gautama il patronimico. Tutte le fonti concordano press'a poco nel dire che
Siddhartha visse 80 anni, e morì verso il 480 a.C.. All'età di 29 anni, dopo essersi sposato e
dopo aver avuto un figlio, cosa molto importante in India, Siddhartha Gautama abbandonò
nottetempo il palazzo paterno con il suo scudiero - dando vita a quella che la tradizione
buddhista chiamerà "La grande partenza" - e si mise alla scuola di alcuni maestri di Yoga.
Dopo aver passato qualche anno presso tali maestri, ottenne probabilmente dei "poteri".
120

Tuttavia Siddhartha rimase deluso e decise di continuare la ricerca spirituale coi propri
mezzi. Si dice che verso l'età di 36 anni, cioè circa sette anni dopo avere abbandonato la
famiglia e il mondo, dopo aver meditato tutta la notte sotto un albero, che fu chiamato poi
"albero della bodhi", cioè del "risveglio", albero che si trova ancor oggi a Bodhgaya, nel
momento in cui sorse l'aurora, Siddhartha si svegliò, si svegliò dal sogno della vita, dal
sogno del mondo e comprese quella che si potrebbe chiamare la verità, benché il termine
non sia pienamente adeguato. Da quel momento egli fu il Buddha, il Risvegliato.

Quello che ci permette di conoscere quello che ha insegnato il Risvegliato sono i sutra, i
detti del Buddha, che sono stati trasmessi da una generazione all'altra, in seno alla
comunità monastica. Dapprima sono stati fissati oralmente, in seguito, verso l'inizio della
nostra, questi sutra e il Vinaya, cioè l'insieme delle regole monastiche, sono stati codificati
per iscritto in pali, e si è venuto così a formare il Canone buddhista, cioè l'insieme dei detti
del Buddha, dei suoi insegnamenti e delle regole; ma il Canone è rimasto aperto fino a
verso il IV d.C. In quei secoli si sono potute fare aggiunte agli insegnamenti dottrinali o
alle regole monastiche, dettate a poco a poco dal Maestro, o dal Beato, come lo
chiamavano i suoi discepoli. Tale insegnamento lo si trova condensato nel famoso
"Sermone di Benares", un discorso pronunciato dal Buddha nel Parco delle gazzelle di
Sarnath, nei pressi di Benares. Cinque brahmani, che avevano prima plaudito al Siddhartha
asceta e poi se ne erano distaccati, gli si accostano di nuovo a causa dello straordinario
irraggiamento conseguente al "Risveglio" dal sogno della vita. Davanti a questi cinque
brahmani il Buddha pronuncia la sua prima predica, che per questo motivo è anche nota
come la "messa in movimento della ruota della legge", o Dharmacakrapravartana".
Questoe sermone, nel quale vengono esposte le Quattro Nobili Verità, si sviluppa
secondo uno schema medico che era in voga e in onore ai tempi del Buddha nel bacino del
Medio Gange, zona dove andavano e venivano molti asceti medici. Ora, quando si va dal
medico, questo fa una diagnosi, risale a una eziologia, formula una prognosi, e, in quarto
luogo, assegna una cura. Secondo tale "schema medico" la diagnosi del Buddha è
"sarvamduhkham", "tutto è malessere", "tutto è disagio". Si è tradotto talvolta tale
affermazione con "tutto è dolore" o "sofferenza", ma personalmente ritengo tale traduzione
eccessiva, in quanto il Buddha, in gioventù, aveva avuto una vita di piaceri e quindi sapeva
perfettamente che la vita era un'alternanza di piaceri e di sofferenze. Egli dunque intende
che tutto è malessere, sia in atto, ovvero quando si soffre effettivamente, sia in potenza,
121

quando il piacere o la gioia di cui si gode è suscettibile di trasformarsi, più tardi, in pene e
afflizioni. Semplificando si potrebbe dire che, per il Buddha, nella vita c'è sempre una
piccola cosa che non va.. Si tratta dunque di una diagnosi solo relativamente pessimistica.
In secondo luogo il Buddha individua l'eziologia, e afferma che l'origine del malessere - o
del dolore - è la sete, o "Duhkasamudaya trisna". Generalizzando si potrebbe parlare di
desiderio piuttosto che di sete, ma personalmente preferisco conservare il termine concreto.
La parola delicata è invece samudaya, che è tradotta letteralmente con "origine". Ora con
"origine" bisogna intendere il punto da cui si può veder sgorgare il dolore o il malessere.
Non si tratta dunque necessariamente della causa, perché non c'è posto, nella dottrina
buddhistica, per l'idea di una causa prima qualsiasi. La causa del malessere, che è senza
principio, è nel malessere stesso, che sgorga in occasione del sentimento-sensazione della
sete, o del desiderio. In terzo luogo il Buddha fa una prognosi. Tanto la diagnosi del
medico buddhista è fondamentalmente, benché relativamente, pessimistica, tanto la
prognosi è essenzialmente ottimistica. Infatti il Buddha afferma che è possibile porre fine
al dolore. Esiste infatti il nirodha, o il nirvana, cioè l'estinzione dell'io che ha sete, che
soffre e che trasmigra. La radice verbale nirva vuol dire letteralmente estinguere, soffiare
su una lampada, su una scottatura; il termine nirvana dunque significa estinzione dell'io
che ha sete, che soffre e che trasmigra. Occorre riconoscere che quello che il Buddhismo
propone è un rimedio eroico, poiché c'è motivo di pensare che il malato ne morirà, nel
senso che non potrà conservare il suo "io" e affermare la propria individualità. Quindi la
terapeutica buddhistica non è destinata a tutti, ma solo a quelli che hanno la vocazione
eroica di sradicare l'io o di dissolverlo. In quarto luogo il Buddha offre la ricetta o la
prescrizione medica. Ci sono otto rimedi, che la tradizione ha raggruppato comodamente
sotto tre titoli: shila, samadhi e prajna. Shila è l'ordinamento della condotta pratica, la
moralità. Samadhi è l'apprendere a fissare il pensiero in modo tranquillo, l'apprendere a
concentrarsi attraverso lo yoga. Per quanto riguarda la prajna, è difficile trovare
un'espressione che la traduca bene; ve n'è, però, una eccellente in latino: "acies mentis",
che si trova in Cicerone, nelle Tusculanae. Altrimenti è possibile anche una buona
traduzione in inglese, attraverso il termine "insight". Tuttavia se dovessi tentare una
traduzione direi che la prajna è la finezza, l'acuità dell'intelligenza. Un fatto capitale, che
generalmente gli europei non capiscono, è che ognuno di questi tre elementi non funziona
mai separato dagli altri due. La conseguenza è questa: poiché la morale non funziona
separata dallo yoga e dall'intelligenza, il Buddhismo non è un moralismo; poiché
122

l'intelligenza non funziona separata dalla morale e dallo yoga, il Buddhismo non è un
intellettualismo - cosa che lo distingue dalla filosofia, anche se esso contiene, a causa della
prajna, una parte notevole di filosofia - e infine poiché lo yoga non funziona mai separato
dalla morale e dall'esercizio dell'intelligenza, il Buddhismo non è uno yoga selvaggio, ma
uno yoga addomesticato, subordinato a quell'esercizio di intelligenza che è la prajna.
La dottrina della "coproduzione condizionata", o, in sanscrito, pratityasamutpada è una
dottrina profonda, o gambhira, termine per altro costantemente associato all'insegnamento
del Buddha. Ora quando si va in profondità si finisce nel chiaroscuro, perciò non deve
sorprendere se la spiegazione della dottrina della "coproduzione condizionata" abbia un
sapore di enigma, tanto più, che tale dottrina si applica al descrivere ciò che precede la
vita, ovvero all'esistenza intra-uterina. Ma prima di presentare questa applicazione alla vita
umana della coproduzione condizionata, vorrei ricordare il condensato di questa dottrina,
che si trova nel Canone buddhistico, o più esattamente nel Majjhimanikaya dove si dice
che se questo è, è anche quello; se questo appare, appare anche quello; se questo non è,
neanche quello è; se questo cessa, cessa anche quello. In altri termini si tratta della prima
esposizione dell'idea di legge o di funzione, nella letteratura filosofica dell'umanità.
Naturalmente questa funzione o legge resta soltanto allo stato qualitativo, poiché a
quell'epoca non era stata ancora quantificata. Tuttavia io ritengo che si tratti della prima
enunciazione dell'idea di legge che non contenga l'idea di causa transitiva metafisica. Ora,
l'applicazione concreta alla vita umana della coproduzione si articola in una catena di
dodici anelli. Il Buddha l'ha esposta la prima volta partendo dalla fine, dal dodicesimo
anello, cioè dalla vecchiaia e dalla morte, risalendo anagogicamente fino al primo anello,
che rappresenta una fondamentale e radicale ignoranza, un irrazionale che starebbe alla
base della vita e forse anche del mondo. Ma poiché considero troppo ardua la spiegazione
secondo il modo regressivo, o pratiloma, ritengo sia meglio esporre questa duodecupla
concatenazione nel senso discendente.
Alla radice di tutto, nella vita umana, nella vita animale e nel mondo intero c'è un
principio che il Buddha e molti altri in ambito indù chiamano avidya, ovvero "ignoranza",
"nescienza", o ignoranza radicale. In termini moderni si potrebbe dire che l'avidya
rappresenta quell'irrazionale alla radice di tutto, sia della vita che del mondo. Il secondo
anello della catena, destinato a spiegare la genesi dell'individualità psico-somatica, è
rappresentato dai samskara, o "formazioni psichiche". In altre parole i samskara sono il
residuo delle vite anteriori: non si tratta dunque di semplici latenze, ma piuttosto di latenze
123

dinamiche, di tendenze. Pertanto, secondo il Buddha, su un fondo di ignoranza e di


irrazionale si innestano delle forze motrici, degli schemi ideo-motori, che portano
l'individuo a fare qualcosa. Il terzo anello in questa genesi dell'individualità è il vijnana, o
coscienza. Ma questo termine, che è facile fraintendere, designa al tempo stesso l'embrione
nel grembo materno. A questo punto potrebbe sembrare strano che la stessa parola possa
indicare una forma di coscienza o conoscenza e al tempo stesso la formazione
dell'embrione nel grembo materno. Esiste tuttavia una parola che può chiarire il problema
poiché ha la stessa ambivalenza: si tratta del termine "concezione". A tal proposito è
importante notare che, in generale gli Indiani, e non soltanto i buddhisti, ritengono che la
concezione abbia luogo con l'intervento di tre elementi: il padre, la madre e il resto sottile
di una vita anteriore, che viene a bussare alla porta degli sposi e li sollecita con il piacere, li
persuade a unirsi, per poter rinascerere. Quarto anello della catena è il namarupa. Rupa è
ciò che designa il corpo, l'apparenza fisica che si mostra agli altri, ma anche il corpo
proprio, e nama sono le funzioni mentali. Tali funzioni mentali, secondo la filosofia
buddhista sono: vedana, la "sensibilità affettiva", che si traduce spesso in modo fuorviante
con "sensazione"; samjna, o l'insieme delle nozioni, che si sono apprese a scuola, nella
famiglia, per strada, in società, ma anche nei dizionari, nelle enciclopedie, e che servono
nella vita; samskara, che sono le forze motrici che spingono ad agire; e infine vijnana, che
tuttavia in tale contesto è da intendersi come coscienza segregatrice, discernente. Le
funzioni mentali più il corpo sono i cinque elementi o skandha che compongono
l'individualità psico-somatica. Le funzioni mentali, poi, sono considerate, per natura,
inconsce, ed è solo perché la potenza della coscienza si sposta come un proiettore da un
punto all'altro per illuminarli che questi quattro elementi diventano consci. Inoltre si fa
tanta fatica a concentrarsi, proprio perché il carattere del vijnana è di essere come una
scimmia che salta di ramo in ramo Il quinto anello della catena è chiamato sadayatana, o le
"sei sfere sensoriali", di cui cinque corrispondono ai cinque sensi che conosciamo e la sesta
alla conoscenza mentale, manas o citta.
Il sesto anello è il "contatto" o sparsha, e rappresenta appunto il mettersi in contatto dei
cinque sensi, più il sesto che è il pensiero, l'organo mentale, con le sei sfere che vi
corrispondono. Il settimo anello è rappresentato da vedana, ovvero la "sensazione" che
sorge conseguentemente al contatto degli organi di senso con i rispettivi oggetti. L'ottavo
anello prende in sanscrito il nome di trisna, o "sete". Infatti, una volta che, dal contatto con
l'ambiente circostante o anche con i propri pensieri, è sorta una sensazione piacevole o
124

spiacevole, sorge la voglia, o "sete", di ricominciare. La caratteristica della sete o del


desiderio, sia dopo che è stato soddisfatto, sia nel caso che resti insoddisfatto o frustrato, è
di spingere verso un nuovo desiderio e così di seguito. Dall'anello trisna si passa al nono
anello della genesi dell'individualità psico-somatica, detto upadana, che rappresenta l'
"appropriazione", il gesto del prendere qualcosa per sé e di possederlo. Ricorro volentieri
all'esempio del croupier che con il suo rastrello raccoglie dal tavolo le puntate dei
giocatori, ma anche a quello dei bambini quando giocano, che prima danno all'amico il
proprio giocattolo, ma dopo cinque minuti se ne riappropriano brutalmente. Ciò equivale a
quando si sta davanti a un bicchiere di vino e lo si trova buono, e viene voglia di bere tutta
la caraffa e magari anche la botte. Pertanto ritengo che questo sia l'anello decisivo nella
formazione dell'io, proprio perché è attraverso l'esercizio del "mio" che si forma e si
organizza l'io, ed è proprio quando si dice: "E' mio", che si prende coscienza dell'io.
Decimo anello della catena è bhava. A questo punto il feto nel grembo materno è pronto a
entrare in una nuova esistenza, nel "divenire" o bhava appunto. Personalmente ritengo sia
importante insistere sul fatto che questa esistenza non è statica, ma è portata via dalla
corrente della durata e del tempo, nell'impermanenza. Successivamente, quando le cose
sono mature, tale esistenza esce dalla matrice, espulsa da vayu, dall'"aria compressa", -
come i medici indiani chiamano l'espulsione del feto, - e ha luogo la "nascita", o jati, che
rappresenta l'undicesimo anello. Infine, col dodicesimo e ultimo elemento, l'intero percorso
della vita finisce nel jaramarana, nella vecchiaia e nella morte. Si tratta del declino che tutti
attende. Ma cosa c'è dopo? La risposta della tradizione buddhista è molto semplice: si
ricomincia, con una rinascita assolutamente immediata, che in sanscrito prende il nome di
pratisamdhi; in altre parole si è di nuovo afferrati da quell'irrazionale, da quelle ignoranze
radicali, o samskara, ereditati dalla vita anteriore, e di nuovo si articola la duodecupla
concatenazione, che in fondo, in noi occidentali potrebbe evocare, sia pure su un piano
sentimentale, il mito di Sisifo.

Il Mahāyāna: uno sguardo sintetico.

L'adesione di grandi masse popolari, collegata all'accoglienza di molti elementi che in


un primo tempo erano stati estranei alla dottrina del Buddha, la devozione popolare e
l'influenza dei “laici” hanno senza dubbio contribuito assai allo sviluppo del Mahāyāna.
125

Il Mahāyāna (il «grande veicolo»), ha come ideale, non il commino dell’ Arhat che
vive distaccato dal mondo, bensì quella del Bodhisattva. Sulle sue figure di eroi scelti a
modello e molto simili alle grandi figure eroiche dell'Induismo (Krishna, Rāma, ecc.) gli
adepti intrecciarono con vivace fantasia molte leggende: essi divennero il centro della loro
fervida devozione, molto affine alla bhakti dell'Induismo, a cui i Bodhisattva rispondono
con grande benevolenza e con sconfinata compassione e misericordia. In queste figure
piene d'affetto e altruismo la massa ritrova i suoi salvatori, esseri onnipotenti, da cui può
attendersi difesa contro le necessità e le miserie e aiuto nelle faccende mondane; aiuto che
il Buddha, irraggiungibile nel suo nirvāna, non può concedere. Il compimento delle dieci
virtù perfette (pāramitā: misericordia, moralità, pazienza, energia, meditazione, sapienza,
abilità nell'uso dei mezzi, voti, forza e conoscenza) è ora per i monaci e per i non monaci
l'ideale supremo — considerato come irraggiungibile dai loro avversari — perché tutti
possono tendere a divenire un Bodhisattva. Poiché la salvezza, seguendo l'esempio dei
Bodhisattva, non va più ricercata nel raggiungimento del nirvāna, scomparve l'interesse
posto dapprima nello sforzo per ottenere la liberazione, e la severa vita claustrale perse
molto della sua importanza. La letteratura mahayanica che, benché assai voluminosa, si è
conservata in gran parte in traduzioni cinesi e tibetane, e che si serve di tutti i tipi della
letteratura indiana, nei suoi sūtra, composti secondo il modello dei più antichi sūtra,
attraverso alla sua predilezione per i numeri smisurati e i miracoli colossali e per gli
avvenimenti che si compiono in spazi sconfinati e in tempi infiniti rispecchia i fondamenti
della sua idea sulla mancanza di sostanzialità, come anche le crescenti tendenze teistiche
che già si affiancavano nella venerazione resa al Buddha e ai Bodhisattva e che, con
l'assunzione di numerosi riti popolari diffusi nell'Induismo, condussero gradualmente il
Mahāyāna a impregnarsi di usanze e credenze induiste. I Bodhisattva più importanti sono
gli immediati successori del Buddha, già riconosciuti nel Buddhismo primitivo: Maitreya,
il « Messia », il quale dall'alto del cielo dove dimora può concedere la sua amorosa
protezione ai fedeli, applicando loro la ricchezza sovrabbondante delle sue buone opere;
Avalokiteśvara, la cui grande figura riunisce in sé i lineamenti di molte divinità
brahmaniche (Brahmā, Shiva, Visnu, ecc.) e che è il grande salvatore e soccorritore, che
tiene in mano il loto, che anche per gli induisti è il fiore della felicità, della vita e della
divinità; Manjusrī, il signore della parola, che con la spada della conoscenza distrugge
l'ignoranza; Vajrapāni, in cui rivive Indra.
126

I princìpi filosofici del Mahāyāna — che, secondo i seguaci dello Hīnayāna («il piccolo
o difettoso veicolo »), sono riprovevoli, perché non insegnati dal Buddha — portano con
sé una riprovazione dell''abhidharma, di cui tale corrente tenta di distruggere i fondamenti
con la sua dialettica sofisticata. Essi vengono esposti nelle opere note col nome di
Praj¤āpāramitāsūtra “Sūtra della perfetta sapienza», sui cui princìpi il grande maestro
Nāgārjuna creò una ontologia strettamente collegata con la mistica.
Interessanti peculiarità mahayaniche rispetto al Buddhismo primitivo sono, fra l'altro
in primo luogo la credenza che un Bodhisattva, nel tentativo di realizzare la salvezza
universale, può trasferire ad altri esseri i meriti da lui guadagnati con le sue opere buone:
il che costituisce una modificazione sostanziale della legge del karman e, in secondo
luogo, la credenza che un Buddha è in realtà un'essenza assolutamente pura, eterna,
onnipotente e sovramondana, il cui vero corpo — secondo la dottrina dei tre corpi del
Buddha sviluppatasi con l'andare del tempo e perfezionata definitivamente solo da Asaïga
(circa 400) — è il corpo della dottrina, spirituale, eterno e trascendente, che coincide con
la realtà assoluta e risulta, quindi, identico al brahman degli hinduisti. Nel « corpo della
fruizione », ugualmente eterno e trascendente, che costituisce il frutto delle infinite opere
buone compiute nelle precedenti esistenze, esso è visibile solo dai Bodhisattva che,
contemplandolo, ne possono godere. Come « corpo della creazione incomprensibile agli
uomini » esso è la forma, sotto il cui aspetto egli compare agli uomini sulla terra per
condurli alla salvezza. Questa dottrina fu perfezionata come segue: se l'essenza reale e
propria del Buddha coincide con la realtà ultima ed universale, allora tutte le essenze, che
ne partecipano, posseggono il germe della loro futura condizione di Buddha e sono,
quindi, destinate alla salvezza.
L'altra grande scuola del Mahāyāna , lo Yogācāra o Vij¤ānavāda, fu fondata dai fratelli
Asanga e Vasubandhu, che erano dei brahmani convertiti di Peshāwar (India
nordoccidentale). Asanga, servendosi d'un metodo positivo, insegnava una teoria idealista,
eclettica e sintetica nel suo complesso, in cui, tuttavia, modificava in senso positivo la
dottrina della « vacuità » universale. Secondo questa teoria, tutte le cose esistono solo in
quanto oggetti di conoscenza, ossia come fenomeni spirituali. Secondo questo monismo
idealistico, le “impregnazioni” (vāsanā) causate dai precedenti fenomeni costituiscono una
specie di terreno di cultura psichica, un fondamento inconscio dei fenomeni coscienti, la
cosiddetta « conoscenza-magazzino » dove le “impregnazioni” ridivengono germi, da cui
hanno origine nuovi fenomeni spirituali. Questa corrente subcosciente e psichica scorre
127

verso la morte, di modo che è conservata la connessione fra le diverse esigenze. In ogni
essere è insito allo stato latente il germe della sua salvezza ; questo germe, che coincide
col « corpo della dottrina » del Buddha e con l'unica sostanza insita nell'universo, viene
pure chiamato l’ātman « impersonale » del Buddha. Gli oppositori di questa dottrina
rinfacciano ad Asanga di avere nuovamente introdotto l’ātman brahmanico. D'altra parte,
anche al grande pensatore del Vedānta, Śaïkara stesso, a causa della sua dottrina, sostan-
zialmente parallela, con cui propugnava l'identità del’ātman e del brahman, fu rinfacciato
d'essersi lasciato eccessivamente influenzare dal sistema degli Yogācāra.
Dignāga o Dinnāga, discepolo di Vasubandhu, anch'egli di origine brahmanica, fu un
logico grande e fertile, e lo si può considerare come il fondatore della logica indiana
medievale, di cui fu il sistematizzatore. Egli e i suoi seguaci insegnavano nella famosa
università buddhista di Nālandā.
La venerazione popolare, resa fin dagli inizi al Buddha Gautama, si rivolse, a partire
dai primi anni dell'era cristiana, anche agli altri Buddha, che operano fuori del nostro
mondo e nella cui vicinanza si spera di poter rinascere. Il più famoso di tutti è Amitābha «
(il Buddha) dall'infinito splendore ». Egli vive nel Paradiso dell'Occidente — considerato
anche in India come un'antica terra dei Beati — nel paradiso « della perfetta beatitudine »
(sukhāvatī), i cui abitanti sono destinati al nirvāna e oltremodo contenti di poter insegnare
la loro dottrina soterica. Nell'adorazione di Amitābha si va operando una evoluzione
simile a quella operante nell'Induismo puranico contemporaneo : la lunga e diffìcile via
delle opere buone può venire sostituita dalla via della fede, facile e spedita che, pur
essendo affatto estranea al Buddhismo primitivo, attirava maggiormente le masse.
Probabilmente sotto l'influsso della corrente induistica della bhakti, si arriva a sostenere
che basta addirittura udire il nome di Amitābha e pensare sovente a questo Buddha o
anche solo, come si affermerà in seguito, avere pronunciato il suo nome per essere nell'ora
della morte condotti da lui nel suo paradiso che, in questo modo, è praticamente divenuto
il sostituto del nirvāna.
Il Mahāyāna, che ai tempi di Hsűan-Tsang fioriva nell'India nordoccidentale, nel bacino
del Gange e in tutto il Dekkhan settentrionale — ci limitiamo qui all'India — cominciò a
perdere d'importanza verso la fine del VII sec. a causa della diffusione del Tantrismo
buddhista, che è una corrente mistica parallela al Tantrismo induista. Il Tantrismo
buddhista, affine a quello induista, è caratterizzato, come questo, da consacrazioni, dalla
grande importanza assunta dal guru, da meditazioni, da mantra e mandala (che sono
128

formule e figure cariche di « forza » magica), ecc. Questa corrente, verso il 700, si estese a
tutti i territori dell'India, trovando accoglienza persino in Nālandā. Già alla fine dell'VIII
sec. il Bengala e l'Orissa erano divenuti i capisaldi del Tantrismo buddhista, dove il
tempio Vikramaśīla, costruito dal re Dharmapāla verso l'8oo, divenne la sede principale di
questa corrente. Molta parte della sua dottrina era fortemente influenzata dal Tantrismo
scivaitico con la sua credenza in una universale analogia tra le grandezze e i fenomeni del
micro e macrocosmo, e incontrò notevole opposizione da parte dei Theravādin e degli altri
seguaci del Buddhismo tradizionale. I Tantristi si opposero al monachesimo;
sottolinearono il lato pratico della religione; diffusero una ritualizzazione assai ampia ed
elaborarono una dottrina in molti casi esoterica, tramandata in una copiosa letteratura che
costituisce la base dottrinale di questo ritualismo spiegato simbolicamente e sovente
giustificato. La teoria della « vacuità » universale fu spinta fino alle più estreme
conseguenze dal Tantrismo che insegna che tutto è equivalente a una copia dell'unica
realtà e, aderendo in pari tempo a Nāgārjuna, sostiene, per esempio, che bene e male sono
soltanto concetti relativi, la cui fittizia esistenza è dimostrata anche dal loro carattere
contraddittorio. Ne deducono conseguentemente che la salvezza consiste nel lasciarsi
compenetrare dalla verità, che tutto è « vuoto » di natura propria e, quindi, identico. La
comprensione piena e difficilmente raggiungibile di questa verità si trova nel mondo della
māyā, in cui viviamo ; ma è possibile solo con l'uso di metodi particolari, ossia attraverso
riti numerosi, spesso e volentieri di carattere sacrale e magico, non raramente sessuale.
L'esecuzione di atti sessuali, altrimenti vietati, può secondo loro, liberare l'adepto dalla
sfera della relatività e dell'illusione. L'efficacia dei riti — che sovente dimostrano la loro
efficacia proprio attraverso il loro carattere assurdo — si fonda sull'insegnamento di
Asaïga che ammetteva solo l'esistenza di fenomeni spirituali, da cui consegue che la
rappresentazione rituale, la recitazione di mantra carichi di forza spirituale, e la piena
comprensione del simbolismo rituale possono esercitare un influsso straordinario.
Sebbene non tutte le scuole tantriche arrivarono nella prassi alle estreme conseguenze
giustificando l'omicidio, la lussuria e l'ubriachezza rituale, tuttavia molti « operatori di
miracoli » (siddha) riuscirono a dimostrare di avere, con queste azioni magiche e
scandalose, compiuto buoni progressi nella pratica tantrica sì da potere rivolgere il loro
lungo e intenso esercizio in quelle azioni al soddisfacimento di scopi mondani. Tuttavia la
maggior parte delle scuole tantriche erano pienamente d'accordo per quanto riguardava il
simbolismo sessuale: gli elementi complementari dell'apparente dualismo di questo
129

mondo, considerati come maschili e femminili, debbono essere riuniti per poter realizzare
la suprema e assoluta unità e permettere la partecipazione alla grande felicità, ossia
l'esperienza di questa unità, a chi compie riti che arrivano a permettere il coito rituale.
Queste considerazioni e pratiche portarono con sé anche un grande ampliamento del
Pantheon, che ora comprende, non solo Buddha e Bodhisattva, ma anche molti geni,
divinità e demoni, che rappresentano le potenze trascendentali che si debbono
signoreggiare e sono, generalmente, accompagnati da partner femminili, le loro śakti, fra
cui particolarmente famosa divenne Tārā, nera, munita di quattro braccia, d'una pelle di
tigre, armata di spada e adorna d'una collana di teschi umani.
Delle singole scuole tantriche ricorderemo solo quella Vajrayāna, sorta fin dal VII
secolo. Essa rappresentava simbolicamente la suprema realtà, la « vacuità », per mezzo del
fulmine o diamante (vajra), invincibile e indistruttibile; e il suo culto aveva lo scopo di
scoprire sotto la pluralità il Buddha Vajrasattva (« la cui essenza è imperitura »), ossia
l'ultima e indistruttibile essenza di tutto ciò che esiste, e di trasformare i suoi adepti in una
essenza-diamante.
Secondo una ben nota tradizione induista, il tramonto del Buddhismo indiano sarebbe
stato avviato dalla comparsa di maestri induisti, soprattutto dell'esponente della Mīmāüsā,
Kumārila (circa 700), che polemizzò vivacemente contro di esso. È comprensibile che
molti maestri — non certamente tutti — sia scivaiti sia visnuiti, criticassero il Buddhismo
e considerassero il suo fondatore alla stessa stregua d'un esaltato. Tra le dottrine oppugnate
si trovavano, fra l'altro, la negazione dell'esistenza d'un ātman e le conseguenti dottrine
della inesistenza della sostanza, del non più che momentaneo sussistere di tutte le
grandezze e della impossibilità di ammettere l'esistenza d'una cosa qualsiasi. Per
controbattere le quali, essi, sostenendo le tesi contrarie, si appoggiavano, fra l'altro, alla
tradizione brahmanica delle Upanişad, alla realtà sperimentale, alle conclusioni
analogiche, ecc. Kumārila combatte anche l'affermazione per cui Buddha sarebbe
onnisciente : come potevano i suoi contemporanei, che non erano certamente onniscienti,
avere definito questa verità? La scuola Vedānta di Shankara, il cui insegnamento era sotto
vari aspetti assai vicino a quello della setta Vij¤ānavāda, si sforzò a lungo per rilevare e
criticare le « stupidità » e le « sofisticherie » dei Buddhisti. Era ovvio che si rinfacciasse ai
Buddhisti la loro negazione ereticale dell'autorità del Veda e dei Brāhmana; che si
imputasse a loro carico il disordine regnante nel dharma e nell'ordine sociale; così come i
Giaina rimproveravano allo Hinayāna il permesso di cibarsi di carne. Negli scritti
130

propagandistici la diffusione della loro dottrina è considerata come una prova della
degenerazione dell'umanità. In questa letteratura spiccatamente settaria si incontrano
naturalmente anche ammonimenti contro l'ingresso nei santuari buddhisti e l'affermazione
che nel regno ideale d'un principe indù, amico dei brahmani, non dovrebbe esistere
nemmeno un solo adepto del Buddha.
Sebbene il Buddha nell’XI sec. fosse già da lungo tempo entrato a far parte degli
avatāra di Viùõu, e lo scrittore Kshemendra nel 1066 avesse trasformato la leggenda del
Buddha in una leggenda visnuitica, sussiste tuttora, praticamente, l'opinione che il dio
abbia assunto l'aspetto del Buddha solo per portare l'eresia al suo acme e poter così
distruggere i nemici del Veda. Rāmānuja (circa 1100), scagliandosi contro la teoria
dell'illusoria apparenza del mondo, combattè non solo Shankara, ma anche le varie scuole
del Buddhismo. Contro i ragionamenti dei Mādhyamika, la cui dottrina sulla irrealtà o
sulla « vacuità » è, secondo lui, il vero punto d'arrivo del Buddha, il quale avrebbe
sostenuto che « la liberazione altro non sarebbe che un passaggio nel nulla », egli oppone,
per esempio, che la tesi che tutto sia « vuoto » è assolutamente indimostrabile; la
presupposta non-esistenza non deve essere mai accettata, dato che nella vita ordinaria le
espressioni essere e non-essere vengono usate solo parlando di un oggetto veramente
esistente. Inoltre chi volesse provare la non-esistenza, dovrebbe, almeno, ammettere la
realtà di un qualche mezzo di conoscenza, dato che egli deve pure averla conosciuta con
un qualche mezzo conoscitivo. Già Kumārila si era domandato come potessero gli scrittori
delle opere buddhiste e giainiste essere onniscenti, dato che non possedevano affatto la
potenza creatrice. Riferendosi alla dottrina buddhista che l'errore (l'ignoranza) produce i
samskāra ( le impressioni residue e le disposizioni da queste dipendenti) o engrafie,
Rāmānuja osserva che l'ignoranza può, sì, fare in modo che qualcuno ritenga stabili le cose
transeunti, ma non può far sì che le cose non spirituali si conglomerino.
Questa opposizione dei maestri brahmanici costituisce, tuttavia, solo uno dei molti
fattori nel lungo e complicato processo del declino del Buddhismo in India, e nemmeno il
più importante. Anche l'organizzazione e la diffusione generale dell'Induismo puranico
non fu che una delle cause tra i molti momenti interni ed esterni che si possono
distinguere in questo processo. Ci si deve ricordare che la « buona dottrina » in India non
fu mai l'unica dottrina di liberazione e, ancora, ch'essa non tentò mai di eliminare le altre
dottrine di liberazione. Essa, anzi, lasciò affatto intatta sia la credenza popolare sia la
prassi religiosa delle masse, anche quando una parte di questa massa divenne partigiana
131

della sua dottrina. Sebbene i riti di liberazione brahmanici e induisti non servissero
affatto allo scopo, poiché solamente « i riti spiritualizzati », come la purezza del cuore,
hanno una ben determinata importanza, tuttavia molti laici, che consideravano la dottrina
del Buddha troppo unilaterale, e che non si accontentavano di concetti religiosi, vi
prendevano parte. Poiché questi riti puntualizzavano tutta la vita ed erano approvati o
almeno permessi dai brahmani, i “laici”, soprattutto i seguaci dello Hinayāna, risentirono
incessantemente dell'influenza dell'Induismo. Solo quando prìncipi, come Harsa nel VII
secolo e la dinastia buddhista Pala nel Bangala, Bihar e Magadha (circa 730-1199) si
interessarono della dottrina del Buddha, questa riuscì a controbilanciarsi in un qualche
modo. Inoltre la sua diffusione non aveva mai goduto d'una intensità costante; anzi, in
molti territori del centro e del sud essa non possedette mai se non qualche monastero o
santuario isolato. Perciò, quanto più si diffondeva, tanto meno essa poteva corrispondere
all'antico ideale di essere una dottrina di liberazione per una élite, che si era già sotto-
posta alla necessaria preparazione spirituale. Un fattore importante nel processo di
decadenza del Buddhismo fu anche la mancanza di unità, di una guida centrale e di una
dottrina obbligatoria per tutti. Il Buddhismo era tanto tollerante di fronte alle dottrine
estranee, quanto discorde internamente a causa delle scuole e correnti in continua,
vicendevole rivalità. L'accoglimento di numerosi elementi induisti o estranei avvenuto
nel Mahāyāna; il riconoscimento di figure divine e il culto, sempre più frequentemente
reso loro; la compenetrazione permessa a comuni pratiche e concezioni tantriche, inoltre,
contribuirono a scalzare le fondamenta del Buddhismo, troppo facile all'assimilazione e
sempre pronto a concessioni. Da dottrina gnostica e di liberazione per pochi eletti, nel
corso dei secoli il Buddhismo era diventato un movimento di fede per una porzione della
massa quasi completamente induizzata. Quando l'Induismo nell'VIII sec, sotto la guida di
un Kumārila e di un Shankara, prese ad adottare princìpi etici e metafisici del Buddhismo
e, inoltre, a riorganizzare il suo ascetismo sull'esempio buddhista — oltre il resto,
adottando la vita monastica — il Buddhismo minacciò di divenire ancor più velocemente
solo una forma dell'Induismo generalmente dominante.
Un punto debole del Buddhismo era costituito dalla concentrazione della dottrina nei
monasteri che incentravano, altresì, le condizioni economiche della sua esistenza. Da una
parte, la ricchezza di quegli istituti condusse al lassismo; dall'altra, la distruzione di questi
centri significava sempre un duro colpo per la dottrina. Secondo lo storico tibetano
Tāranātha, molte sètte erano già scomparse alla fine del VII sec. ; e il viaggiatore cinese I-
132

Tsin notava già alla fine dello stesso secolo parecchi indizi di decadenza; e nel 1125 lo
storico Kalhaõa conosceva nel Kashmir solo una forma ormai deformata della Dottrina. La
fine, tuttavia, fu accelerata particolarmente dalle distruzioni provocate dai Musulmani,
intolleranti e iconoclasti, che verso il 1200 inondarono l'India nordorientale, mettendo a
ferro e fuoco, fra gli altri luoghi sacri, anche Nālandā e Vikramaśīla, proprio mentre il
Buddhismo sotto la dinastia Pāla costituiva una potenza ancora viva solo nel Bengala, nel
Bihar e in qualche territorio isolato del nord. Durante la conquista musulmana del Bihar
(verso il 1193) tutti i monaci vennero sgozzati, cosicché non vi era più nessuno in grado di
leggere i libri conservati nelle biblioteche dei monasteri. Alla decadenza del Buddhismo
contribuì pure considerevolmente l'emigrazione di numerosi monaci verso il Nepal e il
Tibet; decisiva fu pure la conversione, in parte forzata in parte per opportunismo, di molti
laici al musulmanesimo. Tuttavia alcuni centri resistettero ancora per poco tempo: fino al
1331 si trovavano ancora monaci nell'antico centro di pellegrinaggi del Buddha (Bodh)
Gayā nel Bihar, dove Gautama aveva trovato il « risveglio » e dove l'albero sacro aveva
continuato a fiorire, nonostante fosse stato più volte abbattuto. Una propaggine del
medesimo albero viene tuttora venerata dai Buddhisti; un'altra, trapiantata a breve
distanza, è oggetto di culto da parte degli indù che vi adorano il Buddha come nono
avatāra di Viśnu.

La ricezione del Buddhismo in Europa nel XIX secolo e nella prima metà del XX.

Occorre, in primo luogo, riportare rapidamente le idee di alcuni autori poco


ricordati ai giorni nostri, ma che hanno avuto una popolarità immensa. Nel 1860 Jules
Barthélemy Saint-Hilaire, spiritualista e discepolo di Victor Cousin, in un libro che ha fatto
scalpore, Le Bouddha et sa religion, scrive che ci si potrebbe chiedere se l'intelligenza di
quei popoli è fatta come la nostra e se in quei climi in cui si ha la vita in orrore e in cui si
adora il nulla al posto di Dio, la natura umana è la stessa che sentiamo in noi. Persone
come Victor Cousin, professore al Collège de France, che avevano grande successo tra i
giovani, hanno avuto opinioni più sfumate, più varie. All'inizio Victor Cousin pensava che
il Buddhismo fosse qualcosa di valido, ma poi si allineò con una opinione prossima a
quella di Barthélemy Saint-Hilaire e cioè che il Buddhismo fosse una dottrina, un culto del
nulla. Quinet intende il Buddha nel libro Le génie des religions del 1842, come il grande
Cristo del vuoto. Renan nel 1851 parla del Buddha come del fondatore della Chiesa del
nihilismo. E perfino un grande come Hegel, a partire da una documentazione,
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evidentemente embrionale, nelle Lezioni sulla filosofia della storia parla dell'elevazione
negativa propria del Buddhismo, per il quale, secondo lui, il nulla è il principio di ogni
cosa, da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna. Anche Nietzsche si è interessato del
Buddhismo sostenendo un atteggiamento a due versanti. Da un lato, infatti, afferma che il
fenomenismo stretto del Buddhismo, ovvero l'impermanenza e l'insostanzialità, lo ha
liberato dal platonismo che esecrava, aggiundo che «il Buddhismo è l'unica religione
veramente positivistica che ci mostri la storia». (F. Nietzsche, L'anticristo, a cura di
Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1982, p.47), che il Buddha è un «profondo fisiologo»,
e la sua igiene è fondata sulla constatazione che il risentimento «che nasce dalla debolezza,
non è dannoso a nessuno quanto al debole stesso» (F. Nietzsche, Ecce Homo, a cura di
Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1965/81 p.27), che «il Buddhismo è cento volte più
realista del Cristianesimo» (F. Nietzsche, L'anticristo, a cura di Ferruccio Masini, Milano,
Adelphi, 1982, p.47) e che l'Occidente cristiano avrebbe forse bisogno di un neo-
buddhismo. Ma dall'altro lato Nietzsche vede nel Buddhismo una astenia della volontà.
Nell'ultima pagina della Genealogia della morale, infatti, egli dichiara, a proposito del
ascetismo, che «l'uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere...» (F.
Nietzsche, Genealogia della morale, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1968/84,
p.157). E analogamente spiega il misticismo come un sadismo rivolto contro se stesso. Di
conseguenza afferma che la volontà del nulla ha la meglio sulla volontà di vita, e che vede
approssimarsi il tempo del nihilismo e che soltanto la tragedia ci potrà salvare dal
Buddismo. Ed è perciò che in definitiva Nietzsche si oppone al Buddhismo, che aveva
conosciuto attraverso il suo amico Deussen, il quale, d'altronde, detestava il Buddhismo al
quale preferiva il Brahmanesimo. Nel XIX secolo, dunque, il Buddhismo, in generale è
visto come una dottrina e un culto del nulla, salvo rare eccezioni, come quella
rappresentata da Burnouf, con la sua Introduction à l'histoire du Buddhisme indien del
1844, e per certi aspetti da Schopenhauer. Ma anche Burnouf in definitiva, benché sia
molto al di sopra dei suoi contemporanei, pensa che la volontà del nulla nel Buddhismo sia
predominante. Schopenhauer forse è più lucido. Egli infatti non pensa che il Buddhismo
sia un nihilismo, ma piuttosto che sia una dottrina fondamentalmente pessimistica.
Agli inizi del XX secolo vi è però un grande studioso, Louis de La Vallée Poussin
decisamente in anticipo sulla maggior parte dei suoi contemporanei. Egli ha curato
un'edizione critica delle Stanze del cammino di mezzo di Nagarjuna, con il commento di
Candrakirti, assai dotta, sulla base di tre manoscritti. Tuttavia anche Louis de La Vallée
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Poussin, che è tutto, tranne che desueto, tanto è vero che ancora oggi viene salutato come
un maestro da scienziati di livello internazionale, quando si interessa ai buddhisti più
radicali, quali Nagarjuna, afferma che questi non era certo un nihilista, ma era un sofista,
anche se un sofista così "virtuoso", così brillante, che non gliene si può volere. E aggiunge
che forse di Nagarjuna, che si prende gioco di noi senza dircelo, bisognerebbe cogliere tra
le righe il sorriso.

La situazione attuale del Buddhismo sia in Oriente che in Occidente.

Attualmente il Buddhismo sopravvive in India, nel Bengala, con tanti piccoli focolai, che
non si sono mai spenti. Questo perché uno dei fondatori della costituzione indiana,
Ambedkar, che era il leader degli intoccabili, si convertì al Buddhismo, pensando che
questo fosse il modo migliore per uscire dal sistema delle caste. Egli dunque si trasferì a
Bombay, dove, con un gran numero di discepoli, che erano, come lui, degli intoccabili,
fondò un gruppo buddhista indiano. Sfortunatamente morì pochi mesi dopo, sicché il
Buddhismo è sopravvissuto in India soltanto all'interno di cerchie assai ristrette. Nell'Asia
settentrionale il Buddhismo ha una presenza pregnante in Tibet, Cina, Mongolia, Corea e
Giappone. Inoltre è presente anche in quasi tutti i paesi del Sud-Est asiatico, quali lo Sri-
Lanka, la Birmania, il Laos, la Thailandia e il Vietnam. Perciò la comunità buddhistica, in
senso largo, è ancora pienamente viva ai giorni nostri. La domanda che possiamo porci è:
qual è l'avvenire del Buddhismo europeo o americano? L'illustre Professore Edward
Conze, buddhista praticante, si è posto la domanda circa venti anni fa, e ha risposto che il
Buddhismo in Europa avrebbe sicuramente avuto uno sviluppo. Quanto a me, ritengo che il
Buddhismo potrà acclimatarsi in America o in Europa, sotto forma di piccoli gruppi, che
potranno diventare molto influenti, ma che non saranno mai numerosi. Il Buddhismo non
può adattarsi alle masse europee o americane perché gli occidentali hanno un senso
violento e pregnante dell'io. E in definitiva, nella vita quotidiana, che cosa implica dire "io"
o "me"? Personalmente ritengo possa implicare due cose: il concepirsi e il sentirsi come
l'autore e l'attore dei propri atti, o il sentirsi anche come il consumatore e il fruitore del
proprio godere, nella buona e nell'avversa sorte. Ora, a livello dell'esperienza quotidiana,
un occidentale non si potrà mai disfare dell'idea di un io sostanziale, unico e soprattutto
semplice, perché si concepisce e vive, come autore dei suoi atti, responsabile dei suoi atti,
nel bene e nel male, come il degustatore e il consumatore di ciò che gli accade di piacevole
o di spiacevole nella vita.
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Complementi Bibliografici.

ENCICLOPEDIE

The Buddhists. Encyclopaedia of Buddhism, a c. di Subodh Kapoor, Cosmo Publications,


New Delhi 2001

DIZIONARI

Philippe Cornu, Dizionario del Buddhismo, Bruno Mondadori, Milano 2003.

ANTOLOGIE DI TESTI

La rivelazione del Buddha, voi. I: I testi antichi, a c. di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001.
La rivelazione del Buddha, voi. II: II grande veicolo, a c. di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2004.
Testi Buddhisti in sanscrito, a c. di Raniero Gnoli, UTET, Torino 1983.

CONOSCENZA OCCIDENTALE DEL BUDDISMO

Henry de Lubac, Buddhismo e Occidente, Vita e Pensiero, Milano 1958.

STUDI

Buddhismo, a c. di Giovanni Filoramo, Laterza, Roma-Bari 2001.


Donald S. Lopez jr., Il Buddhismo Tibetano, Elledici, Leumann (Torino) 2003.
R.H. Robinson, W.L. Johnson, La Religione Buddhista, Ubaldini, Roma 1998.
Paul Williams, // buddhismo dell'India, Ubaldini, Roma 2002.
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