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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “ROMA TRE”

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA.

TESI DI LAUREA
in

Diritto Processuale Civile

“L’ammissibilità delle prove atipiche nel processo civile”

Relatore: Chiar.mo Laureando:


Antonio Carratta Giovanni Loschiavo

Anno Accademico 2020– 2021


2
3
I need to be myself,
I can’t be no one else

A mio nonno,
Ad Illi

4
INDICE

L’ammissibilità delle prove atipiche nel processo civile

Introduzione: una possibile definizione di prova atipica

1. La nozione a-tecnica di prova atipica: atipicità rispetto al “modo” di acquisizione della


prova e al “mezzo” di prova
2. L’erronea identificazione dottrinale delle prove atipiche con le presunzioni
3. L’espressa ammissibilità delle prove atipiche nel processo penale secondo l’art. 189 c.p.p.
Necessità di un’indagine separata per il processo civile

Capitolo I: Le prove atipiche nel codice di procedura civile del 1865 e nella riflessione della
dottrina del tempo

1. Il pensiero dei Patres al tempo del codice di procedura civile del 1865
2. La non tassatività dei mezzi di prova
3. Il principio iudex secundum probata decidere debet secondo Calamandrei
4. L’atipicità propria della fonte di prova e del modo di acquisizione della prova

Capitolo II: Le prove tipiche nella riflessione dottrinale successiva all’introduzione del c.p.c.
del 1942

1. La tassatività delle prove nella sistematica del c.p.c. del 1942


2. Il mito della verità materiale

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3. Il libero convincimento e le prove innominate
4. L’efficacia delle prove atipiche
4.1. Le prove atipiche come argomenti di prova (artt. 116, 2 co. e 310, 3 co. c.p.c)
4.2. Le prove atipiche come indizi (art. 2729 e seguenti)
4.3. La presunzione come grimaldello giurisprudenziale delle prove atipiche
5. Le prove atipiche e la mancanza di una norma di chiusura del catalogo delle prove tipiche
6. L’inutilità di un principio di apertura o chiusura del catalogo

Capitolo III: I possibili strumenti probatori atipici nell’elaborazione giurisprudenziale

1. La giurisprudenza e le prove atipiche


2. Lo scritto proveniente da un terzo
2.1. Lo scritto proveniente da un terzo avente un interesse nella causa
3. Le prove assunte in un altro processo estinto
3.1. Le prove assunte da un giudice incompetente
3.2. Le prove raccolte in un altro giudizio
4. Le prove assunte in un processo penale
5. L’efficacia della consulenza tecnica assunta in un altro processo
6. La sentenza come mezzo di prova

Capitolo IV: Critica alla teorica delle prove atipiche

1. Il diritto alla prova e la parità delle armi tra le parti


1.1 Il diritto di difendersi provando anche attraverso le prove atipiche
2. L’oralità del processo
3. Il contraddittorio come garanzia e le prove atipiche
3.1. Le conseguenze derivanti dal mancato rispetto del contraddittorio
4. Calamandrei e il rischio di una pubblicizzazione del processo
4.1. Assorbimento della giustizia nell’amministrazione
5. Le prove illecite come prove atipiche

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6. Considerazioni conclusive

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Introduzione: Una possibile definizione di prova atipica

1. La nozione a-tecnica di prova atipica: atipicità rispetto al “modo” di acquisizione


della prova e al “mezzo” di prova

Lodovico Mortara nella sua opera maggiore definisce con il nome di prova “quegli istituti
giuridici che sono classificati e riconosciuti dalla legge come idonei, ora in tutti i casi, ora con
talune restrizioni, ora in casi particolari soltanto, allo scopo della prova giudiziaria, vale a
dire che possono essere usati dalle parti nel processo per convincere il magistrato della
verità ed esattezza dei fatti sui quali fanno fondamento in modo rispettivo, per giustificare
il diritto dell’una contro l’altra vantato e di cui invocano la protezione dell’ufficio
giurisdizionale”1.
Partendo da quanto appena evidenziato, nonostante appaia comprensibile come questa
prima definizione di prova risulti fin troppo generica, la dottrina suole distinguere le prove
atipiche in due grandi gruppi:
a) riferendosi alle fonti di prova, considerando atipiche le fonti non previste
dall’ordinamento;
b) riferendosi al modo di introduzione nel processo della fonte di prova, considerando atipici
quei procedimenti - di acquisizione della fonte - che non sono regolati dall’ordinamento o
che si differenziano in modo sostanziale da quelli regolati dal legislatore.
Nel primo caso quindi il termine atipico si riferisce alla “fonte di convincimento”2 utilizzata
dal giudice, intesa come factum probans, non previsto tuttavia dalla legge. Si è
semplicemente di fronte ad uno strumento probatorio non previsto dal codice.
Poiché le prove atipiche appartenenti al primo gruppo sono specificatamente definite in
negativo rispetto alle prove tipiche, risulta utile evidenziare come siano considerate prove
tipiche quelle indicate negli articoli 2699-2739 del codice civile, e più precisamente: l’atto
pubblico, la scrittura privata, le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione, le

1 L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, Vallardi, Vol. III, 1903, p.540
2 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.42

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riproduzioni meccaniche delle scritture, le taglie o tacche di contrassegno, le copie degli atti,
gli atti di ricognizione o di rinnovazione, la confessione, il giuramento, le presunzioni e la
testimonianza. E dunque, qualsiasi prova non rientri in questo catalogo sarebbe da
considerare atipica.
Nel secondo caso invece l’atipicità deriverebbe “dal modo in cui tale fonte viene formata ed
acquisita al giudizio”3.
Si intende, quindi, la modalità, non normativamente disciplinata, attraverso la quale la prova
è assunta. In altri termini, il mezzo probatorio è sì un mezzo tipico espressamente
disciplinato dal legislatore, ma venutosi a formare non rispettando le regole poste alla base
dello stesso.
Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale si è negli anni sempre più incentrato
sull’ammissibilità o meno delle prove atipiche intese come fonti di prove, tralasciando invece
le varie problematiche relative ai metodi di acquisizione.
Questo perché il codice di procedura civile nulla dice riguardo l’atipicità della fonte di
convincimento e quindi riguardo l’ammissibilità della stessa, lasciando la questione aperta
ed irrisolta.
Ancora più nello specifico, l’aver espressamente previsto dei tipici strumenti probatori non
sta a significare necessariamente l’esclusione di altri.
Si ritornerà più avanti sulla tematica del numerus clausus delle prove tipiche.
Quello che adesso in questa fase introduttiva interessa mettere in risalto è come ipotizzare
la legittimità di altre e differenti forme di acquisizione di strumenti probatori risulti
incompatibile con il c.d. principio dispositivo del processo civile, riassumibile con la formula
judex secundum allegata et probata partium decidere debet.
Si arriverebbe, infatti, ad un procedimento istruttorio diverso da quello espressamente
sancito dal legislatore.
E’ evidente come l’analisi del concetto di prova atipica vada allora ristretto solo all’ipotesi di
un mezzo probatorio atipico. In altri termini, dovrebbe essere escluso ogni riferimento a

3 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p. 394

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mezzi istruttori assunti in deroga alle regole che ne disciplinano il procedimento di
acquisizione.
Tuttavia, né la dottrina né la giurisprudenza sono pervenute ad una conclusione
dell’indagine definitoria della prova atipica.
Questo perché varie risultano essere le tipologie di strumenti probatori che possono
rientrare in questa nozione.
La suddivisione in questo campo può essere fatta mediante una tripartizione4:
a) quando gli strumenti usati non abbiano, per legge, una vera e propria funzione
probatoria (basti pensare alle risposte date dalle parti nell’interrogatorio libero ed al
comportamento processuale delle parti);
b) quando si tratta di fonti di conoscenza introdotte nel processo attraverso un mezzo
tipico diverso da altro mezzo tipico predestinato a far entrare normalmente quelle
fonti di conoscenza nel processo (basti pensare alle dichiarazioni dei terzi risultanti
dalla consulenza tecnica d’ufficio, che il giudice voglia usare per la prova dei fatti
allegati, senza che questi terzi siano stati sentiti come testimoni);
c) quando gli strumenti usati hanno una funzione istruttoria estranea al processo in cui
vengono impiegati (basti pensare alle prove assunte in un altro processo);
Questa tripartizione permette di raggruppare ed analizzare da un unico angolo di visuale
fenomeni differenti e con caratteristiche diverse.
E’ poi necessario operare sin da subito una summa divisio, che verrà approfondita in seguito,
tra prove innominate e prove illecite.
Le due tematiche non vanno confuse.
Per prova illecita si intende comunemente quello strumento istruttorio che, pur essendo
previsto espressamente dal legislatore, “risulti essere affetto da vizi per quanto riguarda
qualche aspetto”5.
Vedremo, infatti, come sia da registrare un orientamento nella dottrina, molto forte, volto
a giustificare lo scardinamento dei limiti posti dal legislatore inerenti alla formazione degli

4 L. Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del giudice civile, in Studi in memoria di Salvatore
Satta, Padova, Cedam, Vol. II, 1982, p. 1004
5 G.F. Ricci, “Le prove illecite nel processo civile”, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987 p. 34-35

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elementi istruttori, o, quantomeno, a considerare tali limiti alquanto flessibili. Così flessibili
da consentire al giudice la possibilità di usufruire di gran parte (forse sarebbe meglio dire:
tutto il) materiale comunque entrato nel processo.
Tale scardinamento viene giustificato da questa parte della dottrina, dal punto di vista logico,
sfruttando l’inevitabile problema, mai definitivamente risolto, della genericità della
definizione di prova atipica.
I sostenitori di questa tesi, infatti, allargano a dismisura la categoria di prova atipica fino a
farvi rientrare anche “le prove raccolte in modo difforme da quello consentito”6.
Tutto ciò appare possibile esclusivamente ritenendo fondamentali e imprescindibili i principi
del libero convincimento del giudice e della ricerca della verità materiale.
Tuttavia, tutte le argomentazioni che si esporranno nelle pagine che seguono con riguardo
all’ammissibilità e all’efficacia delle prove atipiche non potranno essere a loro volta
impiegate per sostenere l’ammissibilità e l’efficacia delle prove illecite.
Si motiverà meglio in seguito come appaia decisamente inopportuno, da un punto di vista
logico e sistematico, ritenere appartenenti ad un unico genus commune le prove innominate
e le prove illecite.
Di conseguenza, dal punto di vista definitorio, l’unica nozione di prova atipica valida ed
accettabile, non può essere altra che quella che identifica come mezzo istruttorio
innominato ciò che non è previsto come tale dall’ordinamento 7.
Sebbene questa sia una definizione generica, poco precisa e ottenuta negativamente
rispetto a ciò che è tipico, perché espressamente disciplinato dall’ordinamento, essa viene
a delinearsi come l’unica in grado di costituire il punto di partenza da cui impostare qualsiasi
discorso sull’ammissibilità prima, e sull’efficacia poi, di questi mezzi probatori.
Definizione generica in quanto il problema delle prove atipiche è stato da sempre affrontato
dalla maggioranza degli studiosi in maniera disorganica. Infatti, gli Autori favorevoli
all’ammissibilità delle prove fuori catalogo hanno fatto ricorso agli argomenti più disparati
ed eterogenei.

6G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987 p. 64-65
7G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.41 “prova atipica significa prova diversa dai tipi di modelli legali
previsti dal codice”

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Avendo proprio il fine di avvalersi del maggior numero di argomentazioni possibili a sostegno
di questa tesi, raramente la dottrina si è preoccupata di offrire una definizione in positivo di
prova atipica. Gli sforzi in tal senso sono veramente minimi.
Una definizione in positivo, del resto, porterebbe all’inevitabile conseguenza della
individuazione di limiti più puntuali di questa categoria di mezzi probatori e avrebbe quindi
come risultato indiretto quello di impedire di prendere in considerazione intere
argomentazioni di molti studiosi, perché appunto escluse dalla maggior puntualità di una
definizione in positivo.
Proprio dall’attività interpretativa di intendere come atipico tutto ciò che non è tipico,
consegue la possibilità per i vari studiosi di riempire e sostenere il concetto di prova
innominata con le argomentazioni più varie.
Nonostante queste evidenti imperfezioni, tale definizione di prova atipica risulta comunque
essere la più corretta. Essa ha infatti il pregio di ricondurre dal punto di vista concettuale
sotto un unico insieme degli elementi che invece risultano essere molto spesso
ontologicamente differenti.
Nel proseguo del discorso, allora, si intenderà per prova atipica o innominata quel mezzo
probatorio non espressamente regolato come tale dall’ordinamento che il giudice può porre
alla base del proprio libero convincimento, “purché idone[a] a fornire elementi di giudizio
sufficienti, se ed in quanto non smentit[a] dal raffronto critico – riservato al giudice di merito
e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze
del processo”8.

2. L’erronea identificazione dottrinale delle prove atipiche con le presunzioni

Una volta assunta una definizione, seppure generica, di prova atipica, occorre rispondere
alla questione relativa a quale valore probatorio attribuire a tali strumenti istruttori.

8 Cass., V sez. trib. 14/11/2012, n.19859,

12
Gran parte degli studiosi tende a riconoscere nel carattere intrinsecamente atipico delle
presunzioni semplici la prova, o quanto meno un elemento a favore, della ammissibilità, nel
nostro sistema, della categoria delle prove atipiche.
Fondamentale da questo punto di vista risulta essere la posizione di Taruffo 9 , il quale
afferma, prima di cambiare idea venti anni più tardi10, come l’unica strada percorribile per
la corretta introduzione delle prove atipiche nel nostro sistema processuale sia quella delle
presunzioni semplici11.
L’Autore critica sia la visione di parte della dottrina che avrebbe riconosciuto l’ammissibilità
delle prove atipiche impiegando l’argomento della “analogia”12, sia i tentativi fatti da altra
parte della dottrina di ricondurre le prove atipiche entro la categoria degli argomenti di
prova.
Le prove innominate vanno infatti intese come elementi esterni rispetto al processo e,
pertanto, in difetto di una precisa previsione normativa, non assimilabili agli argomenti di
prova.
Il 2°co. dell’art.116 c.p.c., indica precisamente i fatti dai quali il giudice potrà desumere
argomenti di prova: si tratta di comportamenti tenuti dalle parti all’interno del processo.
Tale limitazione, evidentemente, esclude ogni assimilabilità dell’indizio, che è
prevalentemente fatto esterno al processo, agli argomenti di prova.
A questo punto allora, per Taruffo, l’unica strada percorribile rimane quella della categoria
delle presunzioni semplici.
Elemento portante nel ragionamento dell’Autore risulta essere la mancanza di un’espressa
norma di chiusura del catalogo delle prove. Secondo Taruffo l’esistenza delle prove fuori
catalogo troverebbe il proprio fondamento nella presenza di un mezzo di prova, che, da un
lato, fa parte del catalogo delle prove tipiche, ma che, dall’altro lato, ha natura
intrinsecamente atipica.

9 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973 p. 389-433
10 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992
11Art.2727 c.c.: “Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto

ignoto”.
12 M.Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 392

13
Le presunzioni sono infatti espressamente ammesse e regolate dal codice civile e fanno
parte a tutti gli effetti del novero delle prove tipiche. In questo modo, la questione delle
prove atipiche sembrerebbe, seppur astrattamente, superata.
Tuttavia, è importante sottolineare come questo tentativo di inquadramento delle prove
atipiche si basi su un’inesattezza dal punto di vista concettuale non indifferente.
Conseguentemente, è necessario partire da interpretazione corretta e rigorosa del concetto
di presunzione semplice.
Vi è una profonda differenza tra le presunzioni semplici così come disciplinate dal codice
civile e le varie ipotesi di prove atipiche.
Le prime sono fatti giuridici veri e propri, cioè situazioni espressamente previste dal
legislatore, al cui verificarsi, sono ricollegati determinati effetti giuridici. Determinante
risulta essere a tal proposito la disposizione dell’art.2727 c.c.
Le seconde invece sono degli atti giuridici, ossia “degli strumenti aventi una specifica finalità
prevista dall’ordinamento che è appunto quella di attestare il fatto in essi contenuto, non
un fatto diverso. In altre parole, qualificarli come indizi, può significare confondere il fatto
con lo strumento, il contenuto con il contenente”13.
Ecco che allora potrebbe risultare completamente fuorviante e controproducente
confondere i diversi campi di applicazione di questi due elementi, fatti e atti giuridici.
Volendo essere ancora più puntuali, bisogna osservare come nelle disposizioni del codice
civile sia stato tipicizzato solo lo strumento istruttorio adoperato (cioè la presunzione), non
anche il fatto oggetto della presunzione 14.
E’ solo lo strumento ad essere stato precisamente individuato dal legislatore, il quale ne ha
dettato le precise caratteristiche tipiche.
La divergenza è anche e soprattutto di natura strutturale. Non tenendo conto di queste
considerazioni, si correrebbe il rischio di sovrapporre due distinti campi di indagine,
arrivando a confondere la natura di questi strumenti probatori con la loro efficacia 15. Le
prove atipiche potranno avere anche una efficacia presuntiva, come sostenuto da amplia

13 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 61


14 E non potrebbe essere altrimenti vista l’eterogeneità dei fatti secondari da cui può dedursi il fatto primario, premessa
del ragionamento inferenziale
15 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 61

14
parte della dottrina16, ma questo non significa che la loro natura sia necessariamente quella
dell’indizio. Infatti, separando questi due aspetti, non si è obbligati ad attribuire alle prove
innominate “un’efficacia necessariamente presuntiva ma si potrà concludere che il loro
valore può essere anche diverso e cioè maggiore, minore o infine diverso caso per caso” 17.
Per concludere, non ogni fatto della realtà può essere correttamente considerato indizio in
senso tecnico, utile per un ragionamento presuntivo.
Si può quindi giungere ad affermare, senza troppe difficoltà, che sia corretto utilizzare le
presunzioni, perché espressamente disciplinate dalla legge. Ma le presunzioni però non
possono trasformarsi nella “comoda porta” attraverso la quale si immette nel processo tutto
ciò che fa più comodo.

3. L’espressa ammissibilità delle prove atipiche nel processo penale secondo l’art.
189 c.p.p. Necessità di un’indagine separata per il processo civile

Quanto detto precedentemente permette di evidenziare i due termini fondamentali della


questione: da un lato quello dell’ammissibilità, dall’altro quello dell’efficacia e della
valutazione delle prove atipiche nel processo civile.
Essi costituiscono due aspetti radicalmente distinti del problema e, conseguentemente, in
maniera distinta è necessario che siano trattati.
Cercando di rendere ancora più chiaro il quadro definitorio, riguardo l’ammissibilità delle
prove atipiche, gran parte della dottrina ha cercato di risolvere la questione rifacendosi a
quello che il legislatore prevede espressamente nel campo del processo penale. Si sta
facendo riferimento agli artt. 189 e 190 del nuovo codice di procedura penale del 1988.
Con tale codice si è avuto un cambio di paradigma sostanziale nel campo della procedura
penale.
Il processo penale è passato da un sistema prettamente inquisitorio ad uno squisitamente
dispositivo. Infatti, per adeguarsi agli sviluppi scientifici e tecnologici in materia di strumenti
cognitivi, il sistema processuale penalistico si è aperto a chiare lettere alle prove atipiche.

16 Su tutti M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973
17 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999 p.62

15
L’oggetto della prova atipica deve comunque rispettare il principio di pertinenza di cui
all’art.187 c.p.p. e quello di superfluità di cui all’art. 190, comma 1, c.p.p.
La dottrina ha cercato per molto tempo di trovare delle fondamenta comuni ad entrambi i
processi 18 , anche e soprattutto per offrire un fondamento all’utilizzazione delle prove
innominate nel contesto del processo civile.
In realtà, appare comunque veramente complesso ipotizzare un’autonoma trasferibilità nel
processo civile della regola contenuta nell’art.189 del codice di procedura penale.
Nel processo penale grande spazio è riservato al principio del libero convincimento del
giudice. Se però questo principio può trasformarsi, quando non bilanciato da opportuni
contrappesi, in un disvalore in campo penale, dove il processo è tradizionalmente orientato
alla ricerca della verità materiale (o obiettiva), tale pericolo risulterà ancora più evidente nel
contesto del processo civile, dove “la coincidenza tra accertamento dei fatti e realtà dei fatti
è puramente eventuale: e l’accertamento della verità non potrà mai essere considerato
come uno degli scopi essenziali di questo tipo di processo”19.
E’ chiaro come a questo punto del discorso ci si trovi di fronte alla forte contrapposizione tra
due diversi principi, ugualmente rilevanti: da un lato quello del libero convincimento del
giudice; dall’altro quello della limitazione legale dei poteri del giudice stesso in materia di
assunzione e valutazione delle prove.
Il problema è rappresentato dal fatto che una eventuale commistione del principio del libero
convincimento del giudice con quello dell’ammissibilità delle prove atipiche possa
rappresentare un qualcosa di esplosivo ed incontrollabile 20.

18 F. Carnelutti Prove civili e prove penali in Rivista di diritto processuale civile, 1925 p.2 e ss. L’Autore afferma come la
prova civile e quella penale abbiano notevoli tratti in comune. Elemento fondamentale di questo ragionamento risulta
essere la convinzione che sia il processo penale sia il processo civile non sarebbero nient’altro che due branche
appartenenti al diritto processuale, inteso come unico. Di conseguenza le due scienze non verrebbero a distinguersi, ma
risulterebbero essere solo “due grandi rami, in cui si bipartisce, ad una buona altezza, un unico tronco”.
19 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999 p.164. Nonostante ciò, l’Autore afferma nelle pagine precedenti

che se è vero che il processo civile non può avere come fine ultimo l’accertamento della verità materiale, non ci potrà
mai essere una decisione giusta del giudice nel momento in cui questa si basi su un accertamento erroneo dei fatti. Ricci,
allora, sostiene che la ricerca della verità debba essere intesa come lo strumento, la modalità con cui il processo civile
realizza il suo scopo. (p. 160)
20 E. Amodio, Libertà e Legalità della prova nella disciplina della testimonianza, in Rivista italiana di diritto e procedura

penale, 1973 p.316

16
Non è difficile quindi capire come, almeno da un angolo di visuale processual-civilistico, da
un lato il principio del libero convincimento del giudice non costituisca un valore fine a sé
stesso; dall’altro, però, esso risulta essere la più naturale via d’uscita da un qualsiasi discorso
che assuma come premessa il necessario raggiungimento della verità materiale a qualsiasi
prezzo.
Rileva comunque sottolineare che, anche constatando l’esistenza della categoria delle prove
atipiche nel processo penale, non potranno essere considerate prove innominate “quelle
raggiunte senza l’osservanza del metodo prescritto dalla legge processuale e ottenute
attraverso l’imputazione di alcuni elementi richiesti dalla fattispecie normativa”21. Queste
osservazioni diventano ancora più rilevanti in quanto sostenute e argomentate proprio da
studiosi del processo penale.
Si deve poi anche tenere conto delle specifiche esigenze del processo penale, le quali non
hanno nulla da spartire con quello civile. Prendendo come riferimento i “nuovi mezzi di
indagine imposti dal processo scientifico, appare subito chiaro che vi sono metodiche di
accertamento che non hanno praticamente nessun rilievo nel processo civile e che
presentano invece un’enorme importanza, almeno potenziale, nel caso di accertamento del
reato”22.
Ciò significa che la liberalizzazione delle prove innominate avvenuta per il processo penale
non è sufficiente per condurre alla stessa conclusione anche per il processo civile.
E’ indispensabile allora che l’indagine sull’ammissibilità venga effettuata esclusivamente
avendo di mira il processo civile, sempre che si voglia cercare di arrivare ad una
soddisfacente soluzione di una questione così controversa dal punto di vista dottrinale e non
solo23.

21M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, Giuffrè, 1974 p.394
22 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999 p.525
23 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999 p.80

17
Capitolo I: Le prove atipiche nel codice di procedura civile del 1865 e nella
riflessione della dottrina del tempo

1. Il pensiero dei Patres al tempo del codice di procedura civile del 1865

Sin dall’entrata in vigore del codice di procedura civile del 1865 la dottrina si era più volte
imbattuta in situazioni in cui il giudice era chiamato a decidere, impiegando strumenti
istruttori non rientranti nel novero dei normali mezzi di prova previsti dalla legge.
In altri termini, non il legislatore, ma esclusivamente gli studiosi dell’epoca si trovarono ad
affrontare il problema delle prove innominate, senza però accorgersi da subito della reale
complessità della questione.
Il legislatore dell’epoca, infatti, trattò la questione limitandosi a stabilire all’art. 206 del
codice di procedura civile come semplicemente che “per l’ammissione di qualunque mezzo
di prova le parti devono provvedersi nel modo stabilito per gli incidenti”.
Posizione decisamente più netta era quella del codice Estense del 1852. Tale legislatore
preunitario con grande fermezza all’art. 514 prescrisse come alle parti non fosse concesso
far ricorso ad altri mezzi di prova fuori da quelli ammessi dalla legge.
Analoga dimostrazione di quanto appena affermato si rinviene nel fatto che nella relazione
ministeriale sul primo libro del progetto di codice di procedura civile del Regno d’Italia,
presentato al Senato dal Ministro della Giustizia Giuseppe Pisanelli nel novembre del 1863,
non vi sia la minima traccia della questione delle prove innominate.
Esattamente come per il vigente codice, anche per quanto riguarda quello del 1865 il
legislatore non si pronunciò direttamente sulla tassatività o meno dei mezzi di prova
all’interno del processo civile.
Conseguenza diretta di quanto appena detto è la circostanza che in ambito dottrinale nessun
Autore, non essendoci alcuna reale esigenza, affrontò il tema da un punto di vista
sistematico, almeno nel periodo appena successivo all’emanazione del codice, chiedendosi
se potesse realisticamente essere costruita una categoria di prove fuori catalogo.

18
Il primo studioso a cimentarsi col problema dell’ammissibilità di altri tipi di prova, diversi
rispetto a quelli espressamente disciplinati dal legislatore è Francesco Saverio Gargiulo.
Egli, più esattamente, si interroga riguardo alla natura e al valore da attribuire nel processo
civile al verbale di una prova raccolta nel processo penale. Gargiulo esclude, viste le marcate
differenze tra i due giudizi sia nelle diverse modalità di assunzione delle risultanze istruttorie
sia nelle diverse finalità che li governano, che tale mezzo probatorio possa assurgere al rango
di prova precostituita.
Secondo l’Autore, “tutt’al più il magistrato può tenere presente il verbale di prova penale
per trarne semplici indizi o schiarimenti”24. Egli, quindi, se quindi da un lato ritiene che, come
confermato da giurisprudenza e dottrina dell’epoca, solo i giudici della causa possono
dirigere le investigazioni permesse dalla legge, dall’altro sostiene che “nessuna disposizione
di legge prescrive che il magistrato non possa avere riguardo a tale o tale altra prova
materiale o morale che l’esame della causa fa passare sotto i suoi occhi”25.
Appare quindi consono e opportuno per l’Autore che il giudice possa trarre da qualsiasi
mezzo istruttorio elementi da utilizzare quali fondamenta del suo convincimento, essendo
questo discrezionalmente libero.
Gargiulo, portando questo ragionamento alle sue più estreme conseguenze, si spinge ad
affermare come anche da un atto giuridicamente nullo il giudice possa trarre elementi di
prova. Infatti “per quanto il difetto degli elementi necessari per legge alla regolarità e validità
di un atto renda l’atto medesimo privo dei suoi effetti giuridici, non distrugge però la
materiale esistenza dell’atto stesso, né quindi impedisce che si possa da esso attingere la
convinzione su fatti per i quali la legge non prescrive un mezzo tassativo di prova”26.
Non si può non osservare come queste identiche argomentazioni verranno riprese e
articolate, più o meno consapevolmente, un secolo più tardi dai sostenitori della teoria
dell’ammissibilità delle prove innominate.

24 F.S. Gargiulo Codice di procedura civile, Del procedimento formale davanti i tribunali civili e le corti d’appello 1877, II,
Giuseppe Marghieri Editore, p. 8
25 F.S. Gargiulo Codice di procedura civile, Del procedimento formale davanti i tribunali civili e le corti d’appello 1877, II,

Giuseppe Marghieri Editore, p. 8


26 F.S. Gargiulo Codice di procedura civile, Del procedimento formale davanti i tribunali civili e le corti d’appello 1877, II,

Giuseppe Marghieri Editore, p. 8

19
Altro studioso che analizza e affronta questa problematica è Francesco Ricci, il quale afferma
che “i mezzi valevoli ad ingenerare nell’animo del giudice il convincimento di un fatto sono
quelli determinati dalla legge e non altri; per modo che la legge sarebbe violata se il
magistrato fondasse il suo convincimento su di un mezzo di prova che essa stessa non
riconosce come tale”27.
Secondo l’Autore in questione, le motivazioni che avrebbero indotto il legislatore di quegli
anni a specificare direttamente i mezzi istruttori a disposizione delle parti sarebbero dettate
da due diverse riflessioni: una di interesse privato, una di interesse pubblico.
Per un verso è interesse pubblico che “i diritti del cittadino siano certi, e tale certezza non si
può avere se non siano certi i mezzi con cui se ne può provare l’esistenza. Occorre che tutti
sappiano se un dato mezzo di prova sia come tale riconosciuto e quale efficacia si attribuisca
al valore medesimo”28.
Per l’altro è interesse del privato cittadino, che intende far valere i propri diritti in giudizio,
potersi premunire del mezzo di prova che sarà poi utilizzato nell’aula di tribunale,
assicurandosi dalla certezza e della validità del fatto di prova.
Dunque, secondo Ricci, in nome del principio primario della certezza del diritto, devono
considerarsi inammissibili le fonti di prova diverse da quelle espressamente previste dalla
legge.
L’Autore, nella stessa opera, si sofferma poi sulle modalità di acquisizione e di introduzione
nel processo civile delle fonti di prova.
Alla luce di quanto appena detto, non sembra che Ricci possa essere considerato un
sostenitore delle prove innominate.
Egli sostiene semmai una chiara posizione di netta ostilità nei confronti di questa eventuale
categoria di strumenti istruttori.
In maniera altrettanto netta e contraria Ricci esprime la propria ostilità all’ammissione delle
prove innominate anche con riferimento alla mancata ottemperanza delle norme relative
alle modalità di introduzione nel processo delle fonti di prova.

27 F. Ricci, Delle prove in trattati speciali di diritto con riferenze al codice di commercio e alla più recente giurisprudenza,
Torino, 1891 p.2 ss.
28 F. Ricci, Delle prove in trattati speciali di diritto con riferenze al codice di commercio e alla più recente giurisprudenza,

Torino, 1891 p.2 ss.

20
L’Autore in questione, infatti, afferma come le prove “che debbono raccogliersi in pendenza
di lite, in tanto sono efficaci, in quanto si raccolgono in contraddittorio di tutti gli interessati
e con l’osservanza delle forme stabilite dalla legge”29.
Analizzando questi aspetti delle varie forme istruttorie di convincimento del giudice, Ricci si
sofferma su una questione molto spinosa: l’efficacia nel processo civile delle prove raccolte
in un processo penale e l’efficacia nel processo civile delle prove raccolte in altro processo
civile, in ogni caso sempre tra le stesse parti.
La conclusione cui l’Autore perviene è che le prove raccolte nel processo penale e, a maggior
ragione, le prove raccolte in altro processo civile, conservino piena efficacia nell’altro
giudizio civile instaurato fra le stesse parti.
Questo perché una prova, raccolta in altro processo fra le stesse parti, non può essere
considerata una res inter alios acta, in quanto assunta nel contraddittorio delle stesse parti.
Dunque, secondo Ricci, non solo è indispensabile il rispetto del contraddittorio, ma è anche
necessario che la prova assunta in un altro processo sia stata raccolta nel rispetto delle
norme procedurali. Solo ed esclusivamente con il rispetto di tali requisiti formali si potranno
soddisfare secondarie esigenze di economia processuale.
Anche Lodovico Mortara, nel suo Commentario, una volta data una definizione di prova in
generale, afferma come il giudice non potrà utilizzare ai fini della decisione qualsiasi fonte,
in qualunque modo entrata nel processo, bensì esclusivamente “quegli istituti giuridici che
sono classificati e riconosciuti dalla legge come idonei”30.
Tuttavia, secondo Mortara, tale principio troverebbe almeno tre eccezioni. La prima di
queste risulterebbe essere rappresentata dalle prove e dalle sentenze di un processo penale.
Infatti, nonostante non risulti essere “scritto nella legge che le prove e gli atti e le sentenze
di un processo penale possano servire alla istruzione di un processo civile dell’efficacia di
tale principio non si dovrebbe dubitare”31.

29 F. Ricci, Delle prove in trattati speciali con riferenze al codice di commercio e alla più recente giurisprudenza, Torino,
1891 p.2 ss.
30 L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile Milano, Vallardi, III, 1903, p. 540

31 Saranno “in discussione solo i confini, dentro i quali debba esserne contenuta l’applicazione” L. Mortara,

Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, Vallardi, III, 1903, p. 541

21
La dottrina più recente, proprio partendo dal riconoscimento di queste ipotesi eccezionali
che possono concorrere nel convincimento del giudice32, ha ritenuto superficiale e confusa
l’affermazione del principio di tassatività delle prove.
Guardando però più attentamente queste eccezioni, non si può fare a meno di constatare
come si tratti di situazioni che ben poco hanno a che fare con quelle che attualmente,
secondo le indicazioni che si rilevano nella dottrina moderna, costituirebbero le cosiddette
prove atipiche.
Passando alla seconda eccezione, Mortara evidenzia come, all’interno del codice di
procedura civile del 1865, non sia prevista la disposizione generale per cui la notorietà di un
fatto sia sufficiente per darne prova in giudizio. Secondo l’Autore è quindi di cruciale
importanza stabilire cosa debba essere inteso per fatto notorio.
“La ricerca si può restringere e semplificare in modo affatto razionale riflettendo che la
notorietà non è certamente la cognizione provata che il giudice abbia, o creda di avere, dei
fatti controversi, bensì una cognizione comune, tale cioè che qualunque altro giudice in
analoga situazione ufficiale avrebbe o avrebbe potuto avere, sia per la divulgazione ottenuta
dal fatto, sia perché la coltura ordinaria del magistrato comprende normalmente la
conoscenza di esso, qualora si tratti di una nozione scientifica o storica”33.
Il codice di procedura civile attualmente vigente, a differenza di quello del 1865, prevede
espressamente al 2 co. dell’art.115 che il giudice possa esonerare le parti dal provare
determinati fatti storici sulla cui esistenza esiste una pacifica e oggettiva accettazione e
condivisione da parte dei consociati in un determinato contesto sociale ed economico 34.
Per fatto notorio si intende infatti quello che rientra nella comune esperienza dell’uomo di
media cultura nel tempo e nello spazio in cui il giudice assolve al proprio ruolo decisorio.
Si potrebbe ritenere che tale norma appartenga a quella categoria di principi definibili come
“pregiuridici”, cioè che attengono alla logica e che come tali, non avrebbero bisogno di una
specifica ed espressa manifestazione normativa.

32 In particolare, il riferimento è a Michele Taruffo e Gian Franco Ricci.


33 L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, Vallardi, III 1903, p. 541
34 Art. 115 secondo comma codice di procedura civile: “Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a

fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.

22
Difficilmente, dunque, se tale norma non fosse stata codificata dal legislatore, si potrebbero
far rientrare i fatti notori nel novero delle prove atipiche.
Terza e ultima eccezione del principio di tassatività riscontrata da Mortara è quella costituita
dalla nozione di fatto non controverso.
L’Autore evidenzia come non sia “scritto in nessun testo di legge che i fatti non controversi
si hanno come provati: malgrado ciò, si può dirla una delle massime del diritto probatorio
più universalmente e frequentemente praticate”35.
Risulta chiaro come anche tale eccezione non potrebbe rientrare nella categoria delle prove
innominate. Anche in questo caso ci si trova di fronte ad un principio attinente alla logica e
avente natura pregiuridica.
A conferma di ciò, il problema del fatto non controverso è oggi correttamente studiato
nell’ambito della categoria delle “ammissioni” e delle “non contestazioni”, come relevatio
ab onere probandi, che è cosa ben diversa dalle prove atipiche.
Infine, l’Autore passa ad esaminare una questione che attiene invece direttamente al tema
delle prove atipiche. Egli si interroga circa la validità che hanno in un processo le prove
raccolte in altro processo.
Al fine di circoscrivere l’indagine, Mortara osserva in maniera puntuale come il problema
riguardi esclusivamente le prove costituende, non essendoci alcun tipo di dubbio per quanto
concerne quelle precostituite.
Una distinzione andrebbe fatta poi a seconda che si tratti di elementi probatori raccolti tra
le medesime parti o con la presenza di un terzo.
Nel primo caso, il primo comma dell’art.341 del codice di procedura civile del 1865
prevedeva espressamente che le prove formatesi in un processo tra le stesse parti, colpito
da “perenzione” e poi oggetto di rinnovazione, conservassero la loro efficacia originaria.
In via di interpretazione analogica, secondo Mortara, questa norma dovrebbe essere
applicata anche nel caso di un diverso processo con un diverso oggetto ma tra le stesse parti,
grazie all’avvenuto rispetto del principio del contraddittorio nella fase di formazione della
prova36.

35 L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile Milano, Vallardi, III, 1903, p. 541
36 L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile Milano, Vallardi, III, 1903, p. 553

23
Secondo l’Autore dovrebbero poi mantenere efficacia anche le prove raccolte in un processo
colpito da una pronuncia di incompetenza, la quale non farebbe perdere validità ai singoli
atti37.
Spostando l’attenzione invece sull’ipotesi in cui vi sia un nuovo processo con l’ingresso di un
terzo, egli avrà diritto a non riconoscere la validità della prova raccolta nell’altro e
precedente processo, per il mancato rispetto del contraddittorio 38.
Tenuto conto, allora, dei limiti che Mortara pone all’ammissibilità delle prove raccolte in un
altro processo, non sembrerebbe completamente corretto far rientrare anche queste prove
nella categoria delle prove atipiche.
Questo vale certamente per le prove raccolte nel processo perento; infatti, il codice del 1865
prevedeva espressamente il principio di conservazione delle prove raccolte nel processo
perento, poi riproposto tra le stesse parti.
E’ dunque evidente che l’impiego di queste prove non costituiva un’eccezione al principio di
tassatività.
Ma vale anche per le prove raccolte in un altro processo, fra le stesse parti e con oggetto
diverso.
Di prova innominata si potrebbe in realtà realisticamente parlare secondo l’Autore con
riferimento a quegli elementi istruttori raccolti in altro processo ma fra parti diverse. In
questa precisa ipotesi, secondo Mortara, le prove raccolte in altro processo possono essere
impiegate dal giudice come fonti di presunzione.
E’ tuttavia necessaria una precisazione. Mortara non ritiene che queste prove abbiano ex se
natura presuntiva. Semplicemente l’Autore ammette la possibilità della utilizzazione di
queste come indizi, solo laddove però sussistano i presupposti logici e normativi.
Se Mortara, dunque, non sembra poter essere annoverato tra i sostenitori delle prove
innominate, lo stesso non può dirsi di Carlo Lessona, almeno non con la medesima sicurezza.
La posizione di quest’ultimo risulta essere alquanto contraddittoria.

37 L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, Vallardi, III, 1903, p. 554
38 L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, Vallardi, III, 1903, p. 554

24
In un primo momento, nella sua opera fondamentale39, egli reputa requisito imprescindibile
la specificazione, in maniera tassativa da parte del legislatore, degli strumenti probatori
utilizzabili dalle parti, “al fine di impedire arbitrii, incertezze e diseguaglianze”40.In ragione
di ciò, la legge non può mai subire deroghe di natura consuetudinaria.
In un secondo momento però l’Autore ritiene applicabile il principio opposto di non
tassatività sia per la mancanza di una dichiarazione espressa di tassatività nei codici di
procedura civile e di diritto civile del 1865, sia per la presenza nel codice di procedura penale
dell’epoca (sempre del 1865) della norma di cui all’art.339 in cui si stabiliva che “i reati si
proveranno sia con verbali o rapporti, sia con testimoni o con ogni altro mezzo non vietato
dalla legge”.
Inoltre, per Lessona, se è ammessa l’utilizzabilità delle prove precostituite raccolte fra le
stesse parti ma in altro processo in quanto esse “non danno luogo a dubbio alcuno”41, invece,
per quanto concerne le prove costituende, sono da ritenersi ammissibili solo quelle raccolte
in altro processo ma tra le stesse parti, escludendo quindi quelle assunte “in un giudizio
dibattutosi fra parti diverse”42
Francesco Carnelutti è il primo studioso che effettivamente si rese conto della portata della
questione e la analizzò creando appositamente la categoria delle prove atipiche 43 ,
riconoscendone quindi l’esistenza.
Nei ragionamenti degli Autori di cui precedentemente è stato illustrato il pensiero, infatti,
manca l’enunciazione di un preciso criterio ermeneutico alla stregua del quale fosse
possibile valutare l’ammissibilità prima e l’efficacia poi delle prove innominate 44.
Anche Carnelutti dal punto di vista definitorio si limita a delineare le prove atipiche in
negativo, senza indicare gli elementi positivi che farebbero di una qualsiasi fonte di
conoscenza una prova innominata.

39 C. Lessona Teoria della prova nel diritto giudiziario civile italiano, Firenze, Fratelli Cammelli, 1904, II ed., p. 10,11,12
40 C. Lessona Teoria della prova nel diritto giudiziario civile italiano, Firenze, Fratelli Cammelli, 1904, II ed., I, p. 11
41 C. Lessona, Teoria della prova nel diritto giudiziario civile italiano, Firenze, Fratelli Cammelli, 1904, II ed., I, p. 12

42 C. Lessona, Teoria della prova nel diritto giudiziario civile italiano, Firenze, Fratelli Cammelli, 1904, II ed., I, p. 12

43 F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, Padova, Cedam, 1936, I, p. 746-748

44 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.64

25
Il criterio impiegato dall’Autore consiste nell’andare a ricercare, alla stregua di un
ragionamento analogico, se uno strumento probatorio atipico sia equiparabile, per struttura
e natura, ad uno di quelli espressamente definiti dal legislatore.
Ogniqualvolta risulti possibile quindi riscontrare una corrispondenza fra strumento
istruttorio atipico e strumento istruttorio tipico, il problema dell’ammissibilità della prova
innominata potrebbe ritenersi positivamente risolto senza troppe difficoltà.
Questione più controversa, invece, risulta essere quella in cui non sia possibile effettuare
tale comparazione. In questo caso Carnelutti sostiene che in tal caso il criterio analogico
vada impiegato con riferimento all’art.1354 del codice civile del 1865, il quale stabiliva che
“le presunzioni, il cui valore non è stabilito dalla legge, sono lasciate alla prudenza del giudice”
45
.
Prontamente però Carnelutti circoscrive la possibilità di utilizzazione, da parte del giudice,
nell’esercizio del suo libero convincimento, delle fonti di conoscenza comunque introdotte
nel processo.
L’Autore, pur non rinnegando le prove innominate non può fare a meno di affermare con
forza come costituisca un errore non indifferente considerare innominate le prove tipiche
assunte senza il rispetto delle norme previste 46 . Tali prove dovranno infatti essere
considerate semplicemente irregolari e, in quanto tali, inutilizzabili al fine della decisione del
giudice.
Carnelutti si pone inoltre il problema dell’efficacia delle prove innominate, se cioè possano
avere valore di prova legale, o se invece debbano essere sempre valutate liberamente dal
giudice. L’Autore parte dall’osservazione che i due principi della libera valutazione e della
valutazione legale sono completamente autonomi, senza costituire l’uno eccezione
dell’altro. Conseguentemente, non vi sono motivi secondo l’Autore di negare la possibilità
di interpretazione analogica delle norme che stabiliscono regole legali di prova47.

45 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.69


46 F. Carnelutti, Commento a Cass. 9.9.1959 n.2573 in RDPr, 1969 p.676
47 F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, Padova, Cedam, I, 1936, p. 747

26
Deriva da questa considerazione il ragionamento per cui le prove innominate potranno
avere efficacia di prova legale quando siano assimilabili, per analogia, a prove legali tipiche48,
mentre in tutti gli altri casi dovranno essere liberamente valutati dal giudice 49.

2. La non tassatività dei mezzi di prova

Il principale terreno di scontro tra gli studiosi riguardo l’ammissibilità o meno delle prove
atipiche è rappresentato dalla rilevata mancanza nel nostro ordinamento, sin dai codici del
1865, di una norma di chiusura che circoscriva in maniera tassativa l’elencazione degli
strumenti probatori utilizzabili dal giudice50.
Il primo studioso ad affrontare il problema in questi termini è Carlo Lessona.
Egli si chiede se sia auspicabile che il legislatore fissi in maniera tassativa quali siano i mezzi
di prova utilizzabili o non si debba invece direttamente rimettere in tutto e per tutto la
questione nelle mani del giudice e delle parti.
Lessona conclude osservando che il legislatore, sia per quanto riguarda la procedura civile
sia per quanto riguarda la procedura penale, aveva optato per la seconda alternativa,
essendo palese la mancanza nei codici dell’epoca di una enumerazione dei mezzi di prova
accompagnata da una dichiarazione di tassatività51.
L’Autore rileva anche che il codice di procedura penale del 1913, non riproduceva l’art. 339
del codice di procedura penale del 1865, secondo il quale i reati dovevano provarsi “sia con
verbali o rapporti, sia con testimoni o con ogni altro mezzo non vietato dalla legge”52.
Secondo Lessona, l’eliminazione di questo disposto normativo (già di per sé notevolmente
liberale in quanto ammetteva l’uso di ogni mezzo di prova che non fosse espressamente
vietato) è idonea a far pensare ad una spinta verso un’ulteriore apertura del sistema
processual penalistico.

48 L’Autore fa l’esempio di planimetrie o disegni assimilabili, per analogia alle scritture private,
49 Da queste considerazioni trae origine il principio carneluttiano per cui “le prove, la cui valutazione non viene regolata
dalla legge, espressamente o per analogia, si valutano secondo la esperienza del giudice” F. Carnelutti, Lezioni di diritto
processuale civile, 1923, Cedam, Padova, III, p. 344
50 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.80

51 C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, Firenze, 1922, I, p.12-13

52 C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, Firenze, 1922, I, p. 13

27
La stessa conclusione per Lessona, alla stregua di un’operazione interpretativa analogica,
deve accogliersi anche riguardo al processo civile, ammettendosi pertanto l’uso di ogni
mezzo di prova che non sia espressamente vietato.
Altra posizione rilevante sul tema è quella di Francesco Carnelutti, il quale sottolinea 53 come
la previsione di specifiche prove da parte del legislatore deve avere riguardo solo alla loro
valutazione, nel senso cioè che a tali prove non può attribuirsi efficacia diversa da quella
stabilita dalla norma: ma allo stesso tempo, non esclude la possibilità di prove differenti, il
cui valore sia da regolare per analogia, o nell’impossibilità di un richiamo analogico, secondo
la prudenza del giudice.

3. Il principio iudex secundum probata decidere debet secondo Calamandrei

Anche Piero Calamandrei si occupa delle prove innominate, seppur solo secondariamente,
in un articolo intitolato “La sentenza civile come mezzo di prova”.
Precisamente l’Autore si interroga se trovi fondamento, sul piano istruttorio, l’esigenza di
impiegare in un differente processo i giudizi di fatto contenuti nella motivazione di una
precedente sentenza.
Calamandrei esclude in maniera netta che tali giudizi possano essere introdotti in un altro
processo sotto le spoglie del documento e, tanto meno, della testimonianza e della perizia.
L’Autore si chiede, retoricamente, se non sia possibile sostenere l’efficacia probatoria dei
giudizi di fatto contenuti nelle premesse di una sentenza facendoli “passare sotto la comoda
porta dell’art. 1354 c.c., alla quale la giurisprudenza ricorre tutte le volte in cui si tratta di
introdurre nel processo nuovi strumenti di indagine che valgono ad attenuare sempre più
l’originaria rigidezza del nostro sistema probatorio. A tale quesito potrebbe darsi una
risposta positiva se si ammette che il principio della libera valutazione consenta alla
prudenza del giudice, là dove la legge espressamente non lo vieti, la facoltà di utilizzare come

53 F. Carnelutti, “Sistema di diritto processuale civile”, Padova, Cedam, I, n. 306, 1938 p.746

28
elementi di convinzione tutte quelle fonti di informazione che non possono rientrare sotto i
tipi di prova previsti dalla legge (le cosiddette prove innominate)54.
Dunque, secondo Calamandrei, è molto improbabile che, de iure condito, possano essere
ammesse prove diverse da quelle previste dalla legge. Coerentemente, secondo l’Autore,
dovrebbe escludersi in via principale l’esistenza della categoria delle prove innominate.
Calamandrei, inoltre, affronta anche una delle argomentazioni attraverso la quale la dottrina
moderna cercherà di affermare l’ammissibilità delle prove atipiche: il principio della libera
valutazione del giudice in riferimento alla possibilità di utilizzazione delle presunzioni
semplici.
Sempre secondo l’Autore, le presunzioni rappresenterebbero lo strumento cui fare ricorso,
ogni qual volta la giurisprudenza intenda introdurre nel processo elementi di prova al di fuori
di ogni controllo della legge. Tuttavia, non ogni fatto della realtà può essere correttamente
considerato tecnicamente come indizio, utile per un ragionamento presuntivo.
Il discorso fatto dai sostenitori della utilizzabilità istruttoria dei giudizi di fatto contenuti nella
sentenza “si baserebbe sul noto schema logico del ragionamento presuntivo: dal fatto noto,
consistente nella esistenza di una sentenza che, nella motivazione, afferma veri certi fatti, il
giudice di un diverso processo sarebbe autorizzato a ritenere che questi fatti siano veri in
realtà (fatto ignorato), in ossequio alla massima di esperienza secondo la quale è probabile
che i giudizi di fatto contenuti in una sentenza passata in giudicato corrispondano a verità”55.
In altre parole, quando un giudice fa affidamento sul giudizio di fatto formulato da un altro
giudice, si deve ritenere che lo faccia, spinto da pigrizia mentale, basandosi sul presupposto
che il convincimento del collega sia stato determinato da prove che verosimilmente
avrebbero convinto anche lui.
Quindi, indirettamente, anche il nuovo giudice finisce per fondare il suo ragionamento su
quei medesimi mezzi probatori.

54 P. Calamandrei, La sentenza civile come mezzo di prova, in Rivista di diritto processuale civile 1938, XV, I, p. 108-129,
ora in “Opere giuridiche”, Morano, Napoli, V, 1972, p.573
55 P. Calamandrei, La sentenza civile come mezzo di prova, in Rivista di diritto processuale civile 1938, XV, I, p. 108-129,

ora in “Opere giuridiche”, Morano, Napoli, V, 1972, p.574

29
Ma, secondo l’Autore, questo ragionamento risulterebbe essere fallace in quanto
racchiuderebbe un vizio di fondo: considerare come fatto noto la valutazione di un altro
giudice.
Infatti, è alquanto contraddittorio ritenere che un giudice possa considerare base
abbastanza solida per fondare una presunzione l’opinione espressa dal giudice precedente,
senza prendere visione e riesaminare autonomamente la fase istruttoria e il materiale
probatorio su cui ha ragionato lo stesso giudice precedente 56.
Calamandrei affronta poi il tema delle prove innominate, seppur sempre indirettamente,
anche nel suo saggio del 1939 dal titolo “Il giudice e lo storico”
Nell’esaminare le restrizioni che la legge processuale impone alla ricerca storica del giudice
e dopo aver ricordato il principio processuale secondo il quale il giudice deve concentrare la
sua indagine su quei soli fatti che l’una o l’altra parte abbia indicato come giuridicamente
rilevanti, egli osserva che “in giudizio la verità non può essere accertata se non col sussidio
di certi procedimenti logici corrispondenti ad alcuni tipi fissati in anticipo dalla legge, che si
denominano prove per eccellenza, come a dire che la verità conosciuta dal giudice con mezzi
non corrispondenti a questi schemi, non può valere in giudizio, per quanto sicura sia la sua
intima convinzione, come verità. Il principio “iudex secundum probata decidere debet”
significa dunque non soltanto che in giudizio la verità non può essere provata se non con
quei procedimenti catalogati ai quali solo la legge riconosce efficacia probatoria; ma significa
altresì che, ove il giudice possedesse di scienza propria qualche conoscenza diretta dei fatti
controversi, o avesse per avventura acquisito sui medesimi qualche notizia fuori dal
processo e fuori da quel catalogo ufficiale di mezzi probatori di queste informazioni
extraprocessuali, egli dovrebbe assolutamente dimenticarsi al momento della decisione 57”.
Concludendo, sebbene Calamandrei non abbia mai affrontato direttamente la questione
delle prove atipiche, si potrebbe affermare senza troppe difficolta come l’Autore ritenga che
un nuovo tipo di prova necessiti sempre di una espressa disposizione di legge, mettendo in

56 P. Calamandrei, La sentenza civile come mezzo di prova, in Rivista di diritto processuale civile 1938, XV, I, p. 108-129,
ora in “Opere giuridiche”, Morano, Napoli, V, 1972, p.574
57 P. Calamandrei “Il giudice e lo storico”, in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta, II, Milano, Giuffrè, II, 1939,

ora in Opere giuridiche, Morano, Napoli, 1965, I, p. 399

30
questo modo in discussione le stesse fondamenta dell’impianto della teoria delle prove
atipiche.

4. L’atipicità propria della fonte di prova e del modo di acquisizione della prova

A questo punto si può rilevare come la dottrina meno recente si muova con grande
incertezza, non essendo infatti realmente conscia dell’importanza della questione,
assistendo a numerose oscillazioni sul significato da dare all’espressione prova atipica.
Da quanto detto precedentemente si può escludere senza grosse difficoltà che la dottrina
formatasi al tempo del codice di procedura civile del 1865 si sia posta in maniera conscia e
completa la questione delle prove innominate (con l’eccezione, almeno parzialmente, di
Carnelutti e, come si vedrà, di Calamandrei).
La situazione non sembra cambiare negli anni immediatamente successivi all’entrata in
vigore dei nuovi codici.
Riprendendo quanto anticipato nella sezione introduttiva, gli studiosi favorevoli all’uso nel
processo di prove non ricomprese tra i mezzi istruttori tipici sono soliti distinguere
ulteriormente le stesse, a seconda che l’atipicità si riferisca alla “fonte” oppure al
“procedimento” di acquisizione di questa.
Il termine “fonte” di prova viene appunto genericamente usato per indicare il factum
probans, allorchè quest’ultimo può essere individuato come il contenuto rappresentativo
della prova, cioè l’insieme dei fatti che dimostrano l’esistenza o l’inesistenza o solo alcune
caratteristiche del thema probandum, ma anche come il fatto (materiale) che permette,
attraverso il suo contenuto, di raggiungere la prova della decisione.
“Mezzo” di prova, a sua volta, può essere lo strumento materiale dal quale si ricava la prova,
ed in questo caso verrebbe quasi a coincidere col secondo significato di “fonte”; ma il
termine viene usato pure in una diversa accezione, indicando il modo (formale)
dell’assunzione della prova al giudizio.
Così si distingue tra atipicità della “fonte” di convincimento, di cui il giudice si avvale (nel
senso che si tratti di un factum probans non espressamene previsto dalla legge come tale) e
atipicità del modo in cui tale fonte viene formata ed acquisita al giudizio (nel senso che

31
l’introduzione in giudizio del factum probans non avviene secondo uno dei procedimenti di
assunzione regolati dalla legge).
La differenza tra queste due forme di atipicità è lampante.
Nel primo caso ci si imbatte in un mezzo istruttorio non previsto dall’ordinamento.
Nel secondo il mezzo istruttorio risulta essere tipico, alla stregua di quanto disposto dal
legislatore, ma risultano essere atipiche invece le modalità derogatorie con cui è stato
assunto.58
Entrambe le situazioni possono essere raggruppate sotto il canone dell’atipicità. Atipicità del
mezzo di prova in quanto tale o atipicità dell’assunzione avvenuta derogando alle regole
stabilite.
Se sul piano concettuale risulta non troppo complesso operare questa distinzione, nella
pratica tuttavia può risultare molto più complicato arrivare a isolare queste due versioni del
concetto di atipicità.
Come già segnalato, la dottrina si è prevalentemente occupata dell’atipicità relativa alla
fonte istruttoria.
Questo perché il procedimento atipico di acquisizione è stato sempre ritenuto come una
problematica sui generis.
Occorre però una precisazione in relazione all’atipicità nel modo atipico di acquisizione della
prova: la dottrina è concorde nel ritenere inammissibile non solo uno strumento probatorio
formatosi alla stregua di un procedimento acquisitivo per nulla disciplinato dal legislatore,
ma anche il caso in cui lo stesso procedimento risulti difforme dal modello normativo di
riferimento anche solo per delle discrepanze59.
Merita comunque particolare attenzione la tesi secondo la quale le modalità atipiche (cioè
anomale o imperfette) di acquisizione di elementi istruttori nel processo sarebbero da
ritenersi concepibili e accettabili, solo laddove vengano rispettate le regole riguardanti il
principio del contraddittorio60.

58 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999 p. 44


59 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.47
60 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.426

32
Il rispetto delle regole del principio del contraddittorio costituirebbe allora condizione
processuale necessaria e sufficiente per l’acquisizione atipica di elementi istruttori. Tale
impostazione del problema non è rimasta esente da critiche. Critiche che hanno cercato di
metterne in risalto l’inesattezza e conseguentemente la pericolosità.
Inesattezza perché tale impostazione del problema, condurrebbe al controsenso per cui
tutta la normativa degli stringenti limiti 61 nelle modalità di introduzione delle prove nel
processo risulterebbe trascurabile, riducendosi al mero rispetto formale del contraddittorio
e svuotandosi di ogni contenuto di natura sostanziale.
Pericolosità perché, seguendo quest’orientamento, non si farebbe altro che incoraggiare il
deleterio comportamento dei giudici di ritenere impiegabile ai fini del processo qualsiasi
elemento di fatto62.
Bisogna infatti specificare come il richiamo alla nozione di atipicità “non potrebbe mai
servire a legittimare deviazioni dai modelli normativi dei diversi procedimenti probatori, che
non trovassero la propria giustificazione nell’ambito stesso della disciplina dell’istruzione;
poiché altrimenti questa cesserebbe addirittura di essere tale, per ridursi ad un corpus di
paterni suggerimenti forniti dal legislatore agli avvocati e ai giudici intorno ai metodi più
efficaci e meglio collaudati dalla tradizione per provare ed accertare in giudizio i fatti
controversi”63.
Prestando ancora più attenzione e portando questo ragionamento alle sue estreme
conseguenze, risulterebbe anche poco corretto e superficiale discutere di “modi di
acquisizione” atipici: non ci si troverebbe di fronte a nessun tipo di procedimento probatorio
anomalo.
Il modus procedendi così inteso, cioè non rispettoso dei comandi del legislatore,
costituirebbe semplicemente un corpo estraneo rispetto alla disciplina vigente, non
qualificabile né come tipico né come atipico64.

61 Di come questi limiti, vero nocciolo della questione, siano posti a difesa delle parti si dirà più avanti
62 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991 p.359
63 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991 p. 350

64 Cavallone in questo caso si limita a sottolineare come questi mezzi istruttori non vadano certamente considerati come

tipici, “e indiscriminatamente utilizzabili, né all’estremo opposto, debbano sempre considerarsi tamquam non esset”.
B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991 p. 350

33
Occorre però una precisazione in relazione all’atipicità nel modo atipico di acquisizione della
prova: la dottrina è concorde nel ritenere inammissibile non solo uno strumento probatorio
formatosi alla stregua di un procedimento acquisitivo per nulla disciplinato dal legislatore,
ma anche il caso in cui lo stesso procedimento risulti difforme dal modello normativo di
riferimento anche soltanto per delle singole discrepanze65.

Una posizione molto più decisa è invece sostenuta da Taruffo il quale, ritrattando quanto scritto nel 1973, afferma che
“non può considerarsi atipica una provata formata nel processo in violazione delle norme che regolano la formazione
delle prove tipiche (..) La prova nulla non è una prova non è affatto una prova atipica: non è altro che una prova tipica
viziata e quindi non utilizzabile” (Michele Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale,
Milano, Giuffrè, 1992 p.384)
65 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.47

34
Capitolo II: Le prove atipiche nella riflessione dottrinale successiva
all’introduzione del codice di procedura civile del 1942

1. La tassatività delle prove nella sistematica del codice di procedura civile del
1942

Lo scontro dottrinale descritto e analizzato nel capitolo precedente, con riferimento al


codice di procedura civile del 1865, si ripropone, con toni ancora più aspri, anche sotto
l’imperio del nuovo codice di procedura civile del 1942.
L’argomento principale, per giustificare l’ammissibilità delle prove atipiche, continua ancora
ad essere la mancanza di una norma “di chiusura”, che espressamente stabilisca per il
giudice la possibilità di avvalersi dei soli mezzi probatori individuati tassativamente dal
legislatore.
Tuttavia, almeno inizialmente, sotto la vigenza del codice del 1865, la dottrina si occupa delle
prove fuori catalogo esclusivamente, o quasi, come di una realtà di fatto esistente solo nella
pratica e definibile negativamente.
Spingendosi oltre, potrebbe dirsi che la dottrina di quegli anni giunge ad ammettere
l’esistenza di questi strumenti probatori, senza però averne piena consapevolezza 66.
In altri termini, i primi studiosi che si trovano ad affrontare la questione non dimostrano
alcun interesse né alla elaborazione di una teoria delle prove fuori catalogo, né tantomeno
all’individuazione - non solo in negativo - dei caratteri generali ed astratti che dovrebbe
avere qualsiasi fonte di conoscenza per poter essere considerata una vera e propria prova
atipica.
Soltanto a partire dagli studi di Mauro Cappelletti si può riscontrare uno sforzo di definizione
in positivo della prova atipica67.
Questo diverso modo di porsi della dottrina nei confronti delle prove fuori catalogo
corrisponde, grosso modo, al passaggio dall’uso dell’espressione “prove innominate” a
quello di “prove atipiche” 68.

66 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1972 p. 390
67 M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, Milano, Giuffrè, 1974
68 Termini che sono stati e continueranno ad essere utilizzati come sinonimi.

35
Proprio la dottrina meno recente cerca in un primo momento di dimostrare come anche le
dichiarazioni rese dalla parte a proprio vantaggio (la c.d. testimonianza della parte) possano
costituire per il giudice un valido elemento per fondare la sentenza. Inevitabilmente, per
sviluppare questa teoria, è necessario affrontare il tema delle prove innominate.
Obiettivo della dottrina in esame è quello di ribaltare completamente la tesi prevalente,
orientata a ritenere che la pro se declaratio nel nostro ordinamento sia priva di ogni efficacia
probatoria69.
Al contrario, un siffatto principio non esisterebbe né nel campo della logica né tantomeno
nel campo del diritto positivo; soprattutto in un processo orale come, tendenzialmente,
dovrebbe essere il processo civile italiano.
Inoltre, esisterebbe anche uno specifico momento processuale preposto all’assunzione della
testimonianza della parte: l’interrogatorio libero.
L’interrogatorio libero, con il concorso di elementi o aspetti ricavati esclusivamente dal
contegno processuale della parte, rappresenterebbe il migliore strumento istruttorio
affinché la pro se declaratio possa costituire elemento di prova del fatto allegato valutabile
dal giudice70.
Il rischio, però, è quello di spingersi fino al punto di asserire, forse fin troppo arditamente,
che “sussista nel processo l’obbligo per la parte di dire la verità”71.
A questo punto, assume fondamentale importanza la necessità di dare una precisa
collocazione normativa a tale elemento probatorio. Sicuramente la dichiarazione della parte
pro se non trova alcuna collocazione nel catalogo delle prove previste dai codici vigenti.

69 M. Cappelletti, Il giuramento della parte nel processo litisconsortile, in Rivista trimestrale diritto e procedura civile,
1955, p.1158
70 M. Cappelletti, Il giuramento della parte nel processo litisconsortile, in Rivista trimestrale diritto e procedura civile,

1955, p.1170
71 M. Cappelletti, Il giuramento della parte nel processo litisconsortile, in Rivista trimestrale diritto e procedura civile,

1955, p.1170;
CONTRA P. Calamandrei secondo cui “quando si parte dalla premessa che vi sia nell’imputato un vero e proprio obbligo
giuridico di dire la verità e si nega che vi sia a suo favore un diritto al segreto o un diritto al silenzio, riconducibile tra i
diritti di libertà, questa negazione porti a fil di logica a legittimare la tortura...”. (Piero Calamandrei A proposito di Tortura
in Rivista di diritto processuale, 1952, p.238-239, ora in Opere giuridiche, Morano, Napoli, 1972, V, p. 613-614).

36
È proprio ai fini dell’ammissibilità di tale prova che la dottrina richiama la categoria delle
prove innominate e manifesta chiaramente il proprio dissenso nei confronti della teoria del
numerus clausus delle prove.
Fondamentale nello sviluppo di questo ragionamento è l’art. 116 del nuovo codice di
procedura civile, dove vi è l’esplicita affermazione del principio del libero convincimento del
giudice.
Tale principio, senza l’ausilio delle prove innominate, risulterebbe essere nient’altro che
lettera morta.
Infatti, gran parte dei sostenitori 72 dell’ammissibilità delle prove atipiche affermano come
proprio l’ammissibilità o meno delle prove innominate rappresenti il miglior elemento di
differenziazione per comprendere, con assoluta certezza, se un ordinamento giuridico si
fondi sul principio del libero convincimento del giudice o meno.
Se un dato ordinamento, infatti, incentra la fase istruttoria del processo su un sistema
probatorio chiuso, con un’elencazione tassativa dei mezzi di prova impiegabili, assume
un’importanza di natura primaria quella disposizione di chiusura che impedisce al giudice di
basare la propria decisione su elementi probatori diversi da quelli elencati.
Solo questa disposizione, dal punto di vista pratico, può rendere totalmente privi di valore
istruttorio eventuali fatti, atti e argomenti non espressamente specificati dal legislatore
stesso, altrimenti valutabili dal giudice73.
Tuttavia, sostenendo come sia invece necessaria l’esistenza delle prove atipiche in virtù del
principio del libero convincimento del giudice, si cade in una evidente tautologia: infatti, si
cerca di provare l’esistenza del libero convincimento affermando l’esistenza delle prove
atipiche, la cui esistenza vuole ugualmente provare74.
La petizione di principio è tutt’altro che nascosta.

72Il riferimento
è in particolare a G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.95 e F. Carnelutti, Sistema di diritto
processuale civile, Padova, Cedam, I, 1936, p. 746
73 M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, Milano, Giuffrè, 1974, p. 269-270

74 Anche Taruffo (M. Taruffo Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.391)

afferma che “libertà del convincimento del giudice significa essenzialmente assenza di regole legali inerenti all’efficacia
delle prove.”

37
Altri studiosi ammettono l’esistenza delle prove innominate ritenendole semplicemente
nient’altro che una dimostrazione concreta ed esplicita del più generale ed astratto principio
del libero convincimento del giudice 75.
Tale argomento, però, non risulterebbe essere determinante e decisivo.
Invero, la libertà di valutazione della prova significa che il giudice non è vincolato nella
valutazione delle prove da una prevalutazione legale, con la conseguenza che “un principio
di tassatività delle prove ammissibili è teoricamente compatibile con un sistema
interamente dominato dalla regola della libera valutazione della prova, così come,
all’opposto, un sistema in cui prevalgano prove legali non implica necessariamente una
tipologia tassativa dei mezzi di prova ammissibili”76.
Ugualmente insufficiente a provare l’ammissibilità delle prove atipiche risulta essere
l’argomento della analogia.
A conferma di ciò, tale argomento sembrerebbe dirigersi nel senso opposto riaffermando
“in realtà il principio di tipicità dei mezzi di prova proprio nel momento in cui ne propone
una versione attenuata: è pur sempre l’idea di prova atipica a costituire il criterio di
ammissione della prova, benché tale criterio opera per analogia e non in modo rigoroso. Ma
quanto appena detto presuppone una premessa non dimostrabile, cioè appunto la
tassatività del catalogo legale delle prove”77.
Né paiono accettabili i tentativi, fatti da un’altra parte della dottrina 78, di assimilare le prove
innominate alla categoria degli argomenti di prova, reputandole quindi come dei meri
elementi, da un lato, secondari e sussidiari rispetto alla valutazione delle prove effettive,
dall’altro lato, sprovvisti di autonomo valore istruttorio 79.
È facile osservare come tale equiparazione finirebbe con il sottrarre le prove atipiche al
principio del libero convincimento del giudice, introducendo una sorta di regola di prova

75 M. Taruffo Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.390
76 M. Taruffo Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.392
77 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 387

78 L. Montesano, Le “prove atipiche” nelle “presunzioni” e negli “argomenti” del giudice civile, in Studi in memoria di

Salvatore Satta, Vol. II, Padova, Cedam, 1982, p. 1004


79 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 387

38
legale negativa, secondo la quale l’efficacia probatoria delle prove atipiche non potrebbe
mai superare un certo “grado” di convincimento del giudice.
Ma questo andrebbe fondato, secondo il disposto del 1° co. dell’art. 116, sulla base di una
espressa previsione legislativa; tale espressa previsione legislativa in grado di derogare al
principio del libero convincimento del giudice non potrebbe mai essere rappresentata dal 2°
co. dell’art. 116 c.p.c.
Tale norma, infatti, tratta sì degli argomenti di prova, ma con il solo fine di tipizzarli, venendo
usata, a conferma di ciò, una categoria ampia e dai confini non ben definiti 80.
Il 2° co. dell’art. 116 indica precisamente i fatti dai quali il giudice può desumere argomenti
di prova: si tratta di comportamenti tenuti dalle parti all’interno del processo.
Tale limitazione, evidentemente, esclude qualsiasi assimilabilità dell’indizio, che per lo più è
un fatto esterno al processo, agli argomenti di prova.
Dunque, non resta che percorrere la strada delle presunzioni semplici, associata alla
mancanza di un’espressa norma di chiusura del catalogo.
La presenza degli indizi all’interno del catalogo delle prove specificatamente ammesse dal
legislatore, avendo già di per sé una natura atipica, produce effetti anche da un punto di
vista sistematico, in quanto non prevede alcuna regola di tassatività 81.
Quindi, l’ammissibilità delle prove innominate si fonderebbe sull’esistenza di un mezzo
istruttorio facente parte del catalogo delle prove. Le presunzioni sono infatti espressamente
ammesse e disciplinate dal codice civile e fanno parte a tutti gli effetti del catalogo delle
prove.
Posizione molto più radicale è, invece, quella secondo cui le prove atipiche sono ammissibili
per la semplice ragione che il catalogo non possiede le caratteristiche di completezza e
tassatività82. Tale catalogo si dedicherebbe solo alla disciplina di determinati mezzi istruttori
che il legislatore ha ritenuto appropriato giustificare, “ma qualunque elemento fuori
catalogo è utilizzabile se è utile per accertare il fatto”83.

80 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 387, nota
266
81 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.393-394

82 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 382
83 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 382

39
Come già evidenziato precedentemente, si è in presenza di un ragionamento evidentemente
tautologico: si dà per provato ciò che in realtà si intende dimostrare.
La conseguenza direttamente derivante da questa interpretazione, venendo disancorate le
prove atipiche dagli indizi e quindi dal procedimento presuntivo, sarà di escludere la diretta
applicabilità dei criteri previsti dall’art. 2729 c.c. alle prove atipiche.
Quindi, un rafforzamento della prova atipica, lasciando spazio al rischio di un libero, più che
prudente, apprezzamento del giudice.
Tuttavia, non si può non evidenziare come anche i più strenui sostenitori 84 dell’ammissibilità
delle prove innominate continuino a sostenere l’impossibilità per una prova nulla di
trasformarsi in una prova atipica.
Non è infatti condiviso quell’orientamento, soprattutto giurisprudenziale, che considera
valutabili gli elementi di fatto, ad esempio, contenuti in una perizia dichiarata nulla, proprio
facendo riferimento alla categoria delle prove atipiche.
In contrasto con quanto appena detto, però, secondo questa dottrina l’art. 310, 3° comma,
c.p.c. non rappresenterebbe un limite alla utilizzabilità delle prove assunte in un altro
processo85.
Allo stesso modo, non può costituire un limite di natura assoluta alla possibilità delle prove
innominate né la circostanza che si tratti di fonti di conoscenza formatesi al di fuori del
contraddittorio, né la circostanza che si tratti di prove “equivalenti” 86. Bisogna però cercare
di capire cosa si intenda per prove equivalenti.
Per prove atipiche equivalenti dovrebbero intendersi quelle risultanze probatorie formatesi
al di fuori del processo, ma che se raccolte correttamente all’interno della fase istruttoria
del processo, costituirebbero vere e proprie prove tipiche.

84 “Vi è poi una differenza essenziale tra la prova formata nel processo in violazione delle norme che ne regolano in
modo vincolante la formazione, e la prova formata fuori del processo: la prima non può essere utilizzata perché nulla o
illecita, mentre la seconda non presenta alcun vizio giuridicamente rilevante, e quindi non si vede perché non possa
essere utilizzata” M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992,
p.383
85 Art. 310, 3° co., c.p.c. “Le prove raccolte (nel processo estinto) sono valutate dal giudice a norma dell’art. 116 2 co.”

Tale articolo “opera, infatti, nel senso di ammettere, invece che di escludere, queste prove quando provengono da un
altro processo civile.” Michele Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano,
Giuffrè, 1992, p. 383
86 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p.384

40
Esempio chiarificatore di questa situazione è la testimonianza: essa consiste in una
dichiarazione di un terzo sulle circostanze fattuali dedotte dalle parti a sostegno delle
rispettive attività difensive. Tale dichiarazione può essere materialmente fatta all’interno o
all’esterno del processo.
Se formata all’interno del processo, costituirà la prova tipica della testimonianza disciplinata
dal codice civile e dal codice di procedura civile.
Il problema è allora determinare quale valore attribuire alla dichiarazione del terzo avvenuta
fuori dall’udienza, tenendo sempre presente che la prova testimoniale è espressamente
prevista e disciplinata.
Secondo alcuni studiosi 87, anche tra coloro che ammettono l’esistenza della categoria delle
prove atipiche, non si può consentire al giudice di impiegare quale fonte di conoscenza la
dichiarazione del terzo, resa al di fuori del processo. Il legislatore ha, infatti, disciplinato
espressamente la testimonianza, stabilendo limiti e precise modalità di assunzione.
Ammettere l’impiego della dichiarazione fatta dal terzo fuori dal processo, significherebbe
consentire non solo al giudice, ma anche alle parti, di violare tali limiti e tali modalità di
assunzione88.
Secondo l’orientamento adesso in esame89, invece, non vi sarebbe alcuna valida ragione,
non essendoci né disposizioni espresse né principi generali, per non impiegare una prova
atipica laddove risulti equivalente ad uno strumento probatorio tipico.
Anzi, l’impiego di prove innominate equivalenti si rivelerebbe assai utile per l’accertamento
del fatto nel momento in cui risulti impossibile reperire la prova tipica 90.
Inoltre, secondo questa teoria, la prova tipica formatasi irregolarmente nel processo è altra
cosa dalla equivalente prova innominata formatasi fuori dal processo.
Nel primo caso, la prova non può essere usata poiché nulla o illecita, ma, nel secondo caso,
la prova, non presentando alcun vizio giuridico, può essere oggetto del prudente
apprezzamento del giudice91.

87 F. Carnelutti, Commento a Cass. 9.9.1959, n. 2573, in Rivista di diritto processuale, 1960, p. 675-676
88 F. Carnelutti, Commento a Cass. 9.9.1959, n. 2573, in Rivista di diritto processuale, 1960, p. 675
89 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p.384

90 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p.384

91 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p.383

41
Ritenendo di dover ammettere l’esistenza delle prove atipiche per il motivo che non esiste
una norma di chiusura del catalogo, coerentemente si dovrà arrivare a queste conclusioni.
Non bisogna pertanto stupirsi se, sulla base di queste argomentazioni, i giudici potranno
fondare la propria decisione su una dichiarazione rilasciata per iscritto, fuori dal processo,
da un terzo che non avrebbe potuto essere ascoltato in giudizio perché, ad esempio,
giuridicamente interessato92.
Oltretutto, proprio questo caso viene indicato come esempio dell’utilità della tesi avanzata:
“se questi terzi, la cui testimonianza sarebbe in giudizio inammissibile, e sarebbe viziata se
fosse acquisita, hanno compiuto dichiarazioni stragiudiziali, non si vede perché esse non
possano essere utilizzate, posto che non si tratta di testimonianze e che quindi tali
dichiarazioni non sono in alcun modo viziate”93.
Per quanto riguarda l’efficacia da attribuire alle prove atipiche, parte della dottrina si spinge
ad affermare che la migliore strada da seguire sarebbe quella di rimettere la decisione
sull’ammissibilità e sull’efficacia delle singole prove innominate al prudente apprezzamento
discrezionale del singolo giudice 94.
Ritorna allora - in tutta la sua forza - il binomio libero convincimento del giudice e prove
atipiche. La domanda, a questo punto, concerne le modalità con cui dovrà avvenire il
controllo circa la correttezza dell’uso del prudente apprezzamento, soprattutto per quanto
riguarda le prove atipiche.
Generalmente, si tende ad eliminare qualsiasi forma di controllo preventivo, in favore del
più generale controllo sulla motivazione. Tuttavia, non ci si può esimere dal costatare come
non di rado la prassi della motivazione, nella pratica, sia ben lontana dal modello ideale
prospettato95.
Secondo altra autorevole dottrina, in un sistema come il nostro che si fonda sul principio di
libertà di valutazione, in cui il contrario principio di prova legale viene relegato al rango di

92 Art. 246 c.p.c


93 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p.385-386
94 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 391

95 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 391-392

Ma questo “è un problema pratico e contingente, poiché è connesso al modo in cui de facto i giudici di un certo
ordinamento fanno uso delle prove atipiche”.

42
eccezione, il problema delle prove viene necessariamente ad assumere dei connotati che
trascendono la scienza giuridica.
A tal fine, è fondamentale osservare come, secondo l’orientamento dottrinale ora in analisi,
non vada assolutamente confuso il diritto che viene tutelato nel processo civile, che deve
essere lasciato alla libera disponibilità del titolare, con la difesa di tale diritto all’interno del
giudizio96.
Precisamente, il principio dispositivo vale sicuramente al di fuori del processo, con la
conseguenza che saranno le parti che dovranno decidere se, quando e fino a quando
richiedere l’intervento del giudice. Tuttavia, il dato fondamentale è come tale principio non
valga necessariamente anche all’interno del processo 97.
A questo proposito, non sembrano condivisibili e appaiono superate quelle teorie secondo
le quali al principio della libera disponibilità di diritti e azioni nel campo privatistico
necessariamente corrisponda la disponibilità della difesa delle parti stesse all’interno del
giudizio. Seguendo questa argomentazione, ad esempio, il giudice non potrebbe mai in alcun
modo influire sulle prove che le parti hanno intenzione di assumere98.
In altre parole, deve considerarsi viziata l’argomentazione secondo cui “la tecnica del
processo” debba essere condizionata dai rapporti sostanziali sottostanti 99.
“Tali teorie determinano che nel processo civile, la coincidenza fra accertamento dei fatti e
realtà dei fatti sia puramente eventuale: e l’accertamento della verità non potrà mai essere
considerato uno degli scopi essenziali di questo tipo di processo”100.
Logicamente, rispetto a quanto appena detto, lo scopo del processo, anche quando si tratti
di diritti privati, disponibili, appare sempre e comunque la ricerca della verità.
Quale verità, però, non è chiaro. Si potrebbe dire la “verità obiettiva”.
Non può non essere osservato come, considerando il principio della verità oggettiva come
obiettivo primario del processo e, conseguentemente, ritenendo allora il principio del libero

96 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.163


97 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.163
98 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.163

99 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 164; In questo senso per Ricci bisogna ritenere “ammissibile un

processo che, pur avendo per presupposto la disponibilità del diritto fatto valere, veda però articolarsi in senso
inquisitorio il meccanismo della ricerca delle prove.” p.164
100 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 164

43
convincimento strumentale all’accertamento della verità stessa, questi principi devono
necessariamente avere dei limiti.
Infatti, se, da un lato, i limiti imposti dal legislatore, direttamente o indirettamente, possono
condizionare il libero convincimento del giudice, dall’altro, l’assenza di qualsiasi tipologia di
limiti, inevitabilmente, provoca risultati ben peggiori, in quanto si impedisce ogni controllo
sulla decisione giudiziaria101.
Tornando alle motivazioni dell’assenso per l’ammissibilità delle prove atipiche, va inoltre
rilevato come “il fatto che l’ordinamento abbia fissato certe regole di ammissibilità o abbia
vietato l’impiego di determinati mezzi istruttori in alcuni casi, non significa neppure che ciò
che per avventura è stato raccolto al di fuori di quelle prescrizioni, sia sempre privo di valore.
Si potrà discutere sulla portata del vizio, sul fatto che la prova sia totalmente inefficace o se
l’irregolarità possa essere sanata dall’acquiescenza della controparte, sulla natura della
norma violata che alle volte può portare alla nullità dell’assunzione e all’irrilevanza della
prova assunta. Ma in ogni caso, i molteplici studi effettuati sull’argomento, hanno
dimostrato come non si possa affatto concludere per una totale ablazione della prova in tutti
i casi in cui essa sia stata assunta in deroga a qualche precetto di legge”102.
Appare palese, secondo questo orientamento, che se un sistema, basato su regole e limiti
tassativi per l’assunzione dei tipi di prova, non riesce neanche ad impedire l’utilizzazione
delle prove illecite, a fortiori non potrà essere rifiutata l’utilizzazione delle prove innominate.
Oltretutto, quest’ultime non rappresenterebbero un’irregolarità tanto evidente quanto le
prime, essendo nient’altro che strumenti probatori non regolati direttamente dal legislatore
e non assunti contro le regole 103.
Dunque, poiché la giurisprudenza prevalente e parte della dottrina ritengono che il giudice
abbia la possibilità di utilizzare anche le prove illecite, risulterebbe oltremodo illogico
escludere la possibilità di impiego delle prove innominate che non hanno natura illecita.

101 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 3


102 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 114-115
103 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 116

44
2 Il mito della verità materiale

In relazione al mito della verità materiale, si può osservare come la dottrina abbia più volte
accuratamente distinto l’attività del giudice da quella dello storico, sottolineando la
necessità, per il giudice, di ricercare la verità all’interno del perimetro delle regole stabilite
dal legislatore.
In questo senso “qualsiasi fine si attribuisca al processo, esso non può mai andare disgiunto
dall’accertamento della verità”104.
Tuttavia, se, per un verso, può apparire inconcepibile assumere come scopo principale del
processo l’apprendimento assoluto della realtà, essendo certo di imbattersi in degli
insuperabili limiti gnoseologici, pratici e giuridici che impediscono il raggiungimento di tale
obiettivo, costringendo gli interpreti ad accontentarsi di soluzioni conoscitive “di
compromesso”, dall’ altro, tutto ciò non cancella “che il problema possa essere posto nei
termini della migliore approssimazione possibile dell’accertamento giudiziale alla realtà
storica dei fatti...” 105.
Secondo la più importante critica a questa impostazione, invece, il fine ultimo del processo
non è quello della ricerca della verità in quanto le caratteristiche della prova giuridica
tendono solo alla determinazione formale dei fatti di causa 106.
La prova giuridica si specificherebbe rispetto agli elementi probatori presenti negli altri
campi del sapere per due ordini di motivi, che costituiscono il requisito della “giuridicità”:
“la presenza di una disciplina giuridica della prova e il fatto che essa serve ad usi tipicamente
giuridici, in contesti giuridici come il processo” 107.
La prova giuridica quindi si specifica in funzione della disciplina legale del fenomeno
istruttorio.

104 G. F. Ricci, “Le prove atipiche”, Milano, Giuffrè, 1999, p. 159-160. In questo senso anche M. Taruffo, Note per una
riforma del diritto delle prove, in Rivista di diritto processuale, 1986, p.243
105 M. Taruffo, “La ricerca della verità nell’adversary system angloamericano” in Rivista di diritto processuale, 1977,

p.596
106 F. Carnelutti, “La prova Civile”, ristampa, Giuffrè, Milano, 1992, p. 29

Tesi che ha inoltre il pregio di evitare qualsiasi impervia discussione su quale sia, eventualmente, la natura della
verità da ricercare all’interno del processo.
107 Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 316

45
“A fondamento della ricostruzione della funzione della prova giudiziaria in termini
dimostrativi, dunque, vi è la convinzione:
a) che all'interno del processo si possano logicamente distinguere gli aspetti che
attengono al giudizio sui fatti da quelli che interessano, invece, il giudizio di diritto;
b) che - con riguardo agli aspetti che attengono al giudizio sui fatti - sia necessario
organizzare il procedimento probatorio del giudice secondo un'impostazione di tipo
razionale;
c) che solo in questo modo sia possibile ottenere il controllo delle scelte operate dallo
stesso giudice nella formazione del suo convincimento sulla veridicità o meno degli
enunciati fattuali della causa”108
La vera questione è allora capire se la rappresentazione del processo civile, da intendere
come finalizzato al raggiungimento della verità, possa costituire il punto di partenza per
costruire una teoria sull’ammissibilità delle prove atipiche109.
Per evitare di condurre un’analisi superficiale, è necessario distinguere in maniera netta il
concetto della verità materiale dal principio del libero convincimento del giudice. Essi
operano su due piani completamente distinti, anche se vengono molto spesso confusi dalla
dottrina.
Il principio del prudente apprezzamento interviene esclusivamente nell’ambito di
valutazione della prova.
Ancora più nello specifico: il principio del libero convincimento, come regola processuale, ha
ragione di esistere esclusivamente in quanto limitato alla sola valutazione delle risultanze
istruttorie raccolte nel giudizio e indifferente rispetto alle varie modalità di acquisizione delle
stesse110.

108 A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 76 “I tre presupposto sono
strettamente collegati fra di loro virgola in quanto è l'obiettivo di rendere controllabile dall'esterno il ragionamento
probatorio del giudice che impone di impostare detto ragionamento su basi razionali; ma questo è possibile soltanto
ammettendo che si possa distinguere in maniera netta il giudizio di fatto da quello di diritto”
109 Molto più condivisibile appare il pensiero di chi ritiene come sia ormai inutile contrapporre verità materiale e verità

formale, o verità e certezza, essendo ormai evidente come il risultato della decisione del giudice “sia sempre
l’acquisizione della probabilità della relazione fra factum probandum e factum probans, e di una probabilità non di tipo
quantitativo, per quanto detto difficilmente utilizzabile all’interno del processo, ma di tipo logico”. A. Carratta, Funzione
dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 102
110 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 706

46
111
Per una parte della dottrina , seppure minoritaria, invece, il raggiungimento
dell’accertamento della verità materiale, da un lato, giustificherebbe il sacrificio delle regole
che disciplinano il corretto svolgimento del processo 112 , dall’altro, conseguentemente
comporterebbe un incontrollabile arbitrio del giudice nell’analisi del materiale probatorio 113.
Questa concezione è diretta quindi a tollerare - se non addirittura a favorire - una totale e
indiscriminata accettazione di qualunque mezzo istruttorio entrato nel processo,
escludendo qualsiasi tipo di controllo preventivo.
Non bisogna trascurare come un’assenza di limiti comporti necessariamente un
prosciugamento del contenuto delle garanzie processuali. La disciplina normativa della
prova, infatti, si caratterizza per avere una funzione limitativa ed esclusiva 114.
Non può, infatti, non essere preso in considerazione come “la previsione legislativa di mezzi
e procedimenti probatori tipici per l’accertamento delle allegazioni fattuali risponde ad
imprescindibili esigenze di certezza e di sicurezza nelle relazioni fra privati e di garanzia di
quest’ultimi contro l’abuso di poteri discrezionali del giudice”115.
Emerge, allora, in maniera limpida come l’utilizzazione indiscriminata delle prove atipiche
rilevi quale strumento utile per il conseguimento di un obiettivo puramente ideologico.
È importante, infatti, sottolineare come, al contrario, i sostenitori dell’ammissibilità delle
prove innominate giudichino opportuno e necessario per “realizzare in modo concreto
l’accertamento della verità dei fatti, la riduzione delle regole di esclusione dei mezzi di
prova”116.

111 V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale, Torino, Utet, 1952, p. 231-232, secondo cui “il principio
dell’accertamento della verità materiale dovrebbe essere meta di ogni ordinamento processuale, anche civile o
amministrativo”.
112 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.388

113 Gian Franco Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 118

114 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 320 “Questa

funzione si esplica più nel senso di limitare l’ambito delle prove che possono essere impiegate nel processo rispetto a
quelle che si impiegano nella vita quotidiana o in altri campi di indagine su fatti, escludendo espressamente certi tipi di
prova o privilegiandone alcuni rispetto ad altri”.
115 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 50

116 Gian Franco Ricci Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 175. In questo senso anche M. Taruffo Note per una

riforma del diritto delle prove, in Rivista di diritto processuale, 1986, p.246

47
Ciò nonostante, i giudici, nella pratica, risultano fare un uso assai limitato dei poteri istruttori
che la legge conferisce loro117.
Se dunque l’aumento dei poteri inquisitori del giudice non opera come dovrebbe, non resta
altra soluzione se non quella di affidarsi all’incontrollato impiego, da parte del giudice stesso,
di tutto il materiale istruttorio introdotto in giudizio ad opera delle parti 118.
Si deve evidenziare come, dal punto di vista dei sostenitori della verità (se non materiale,
quantomeno il più aderente possibile alla realtà delle cose)119, una volta constatata l’inerzia
del giudice nella fase di acquisizione del materiale probatorio, risulta intrinsecamente
illogico e contraddittorio voler consentire al giudice di utilizzare tutto il materiale probatorio
introdotto in qualsiasi modo dalle parti nel processo.
Il giudice, invero, finirebbe inevitabilmente “per favorire la parte più intraprendente, o più
fantasiosa, o più dotata di mezzi di prova o più priva di scrupoli”120.
In conclusione, bisogna anche aggiungere che il processo civile italiano si caratterizza per
avere come fondamenta, da un lato, le prove legali e varie limitazioni probatorie, dall’altro,
il principio dispositivo, seppur temperato121.

3. Il libero convincimento e le prove innominate

È indispensabile, a questo punto, analizzare quell’orientamento dottrinale secondo cui un


ordinamento giuridico come il nostro, fondato sul principio del libero convincimento del
giudice, non potrebbe escludere, ma anzi necessiterebbe, per una sua piena realizzazione,
la presenza delle prove atipiche122.

117 “Nei casi in cui c’è stato un effettivo conferimento al giudice di poteri inquisitori (come, ad esempio, nel processo del
lavoro), quest’ultimo ha sempre finito per farne un uso particolarmente limitato, preferendo rimettersi quasi sempre
alle richiese delle parti ed assumendo così un ruolo meramente recettizio”. G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè,
1999, p. 171
In questo senso anche V. Denti, Le prove nel processo civile, Milano, Giuffrè, 1973, p.13
118 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.391

119 M. Taruffo, Note per una riforma del diritto delle prove, in Rivista di diritto processuale, 1986, p.243

120 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.392

121 G. F.Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 171

122 In questo senso: M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Milano, Giuffrè, 1974, p.270;

Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, Padova, Cedam, I, 1936-1939, p. 746 CONTRA A. Carratta, Prova e
convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 47-48

48
Esse, infatti, costituirebbero una diretta rappresentazione pratica di questo principio.
È però necessario, per esaminare al meglio questo orientamento dottrinale, dare una
definizione il più precisa possibile di cosa si intende per libero convincimento del giudice.
Partendo dal dato di diritto positivo, il codice di procedura civile stabilisce espressamente i
limiti entro i quali il convincimento del giudice deve essere esercitato. Esistono, cioè, nel
codice, delle norme che espressamente limitano la possibilità di valutazione delle prove da
parte del giudice.
Appare, quindi, “incontestabile che la formazione del convincimento del giudice sulla
verità/falsità delle allegazioni fattuali, sebbene sia un’operazione gnoseologica, e quindi
guidata da procedimenti logici e, talvolta, scientifici, è anche un’attività giudiziale
disciplinata – sia pure parzialmente – da regole giuridiche”123.
Pertanto, ancora una volta, per essere il più precisi possibile, bisogna vedere cosa
espressamente dispone il legislatore.
Occorre, innanzitutto, ricordare che ai sensi dell’art. 115 del codice “il giudice deve porre a
fondamento della decisione le prove”, “valutate secondo il suo prudente apprezzamento”
ex art. 116 1°co. c.p.c.
In aggiunta, secondo quanto previsto dal 2° co. dell’art. 116, il giudice può trarre argomenti
di prova esclusivamente dalle riposte date alle parti nell’interrogatorio libero, dal loro rifiuto
di consentire le ispezioni e dal loro contegno processuale, oltre che, ai sensi del 3° co. dell’art.
310, dal materiale istruttorio assunto in un processo estinto, a condizione che venga
riproposta l’azione fra le stesse parti.
Questo significa che, all’infuori di ciò che la legge espressamente valuta come prova o come
argomenti di prova, non è possibile per il giudice creare autonomamente altre e diverse fonti
probatorie da porre a fondamento della decisione124.
Per libero convincimento, allora, non si deve infatti intendere la possibilità per il giudice di
porre a fondamento della sentenza qualsiasi elemento istruttorio entrato nel processo,
anche eventualmente disattendendo le regole poste dal legislatore.

123 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 32
124 G. Monteleone, Diritto processuale civile, Padova, Cedam, 2000, p. 272

49
Proprio in quest’ottica assume particolare importanza l’obbligo di motivazione contenuto
all’interno dell’art. 111, 6° co., Cost.
Tale obbligo ha la funzione di consentire il controllo esterno della propria decisione, in
quanto il giudice dovrebbe configurare “la motivazione giudiziale come giustificazione su
basi logiche e razionali delle scelte operate” 125 , prendendo in considerazione sia tutti i
ragionamenti inferenziali svolti sia tutte le conclusioni decisive emerse all’esito di questi
ragionamenti.
La motivazione della sentenza, quindi, “riveste – nell’ottica della funzione dimostrativa della
prova basata sulla probabilità logica – una funzione prevalentemente giustificativa del
fondamento razionale delle scelte operate”126.
È chiaro allora come l’art. 116, 1° co., c.p.c assuma la veste di specificazione, a livello
legislativo, della garanzia costituzionale dell’obbligo di motivazione sancita dall’art. 111 Cost.
Infatti, il giudice deve intendersi come portatore di una discrezionalità relativa circoscritta
al fatto concreto oggetto della causa, e non assoluta, al fine di rendere razionale e
controllabile la decisione assunta sulla base di prove libere.
A conferma di ciò, “dire che il giudice deve valutare i risultati probatori secondo il suo
prudente apprezzamento non significa affatto che il giudice possa liberamente individuare
le fonti del suo convincimento e quindi ammettere nel novero delle prove elementi che, per
il legislatore, non vanno considerati tali”127.
Consentire al giudice di esercitare un tale potere normativo scardinerebbe i principi
fondamentali del processo civile128.
È importante, quindi, sottolineare come “di libero convincimento si può parlare solo con
riferimento alla valutazione della prova. Tale principio ha ben poco a che fare con il problema
dell’ammissibilità delle prove atipiche. Se infatti il libero convincimento viene in

125 A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 99
126 A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 99. “Solo in questo modo,
infatti, l’iter logico seguito dal giudice per arrivare a ritenere altamente probabile il verificarsi del factum probandum in
presenza di un determinato factum probans ed i vari passaggi inferenziali che hanno portato ad una simile valutazione
potranno essere controllati dai destinatari della decisione, come dal giudice dell’impugnazione”. A. Carratta, Funzione
dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 99
127 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 48

128 G. Monteleone, Diritto processuale civile, Padova, Cedam, 2000, p. 272

50
considerazione solo nell’ambito delle prove raccolte al fine di stabilirne il valore, è ovvio che
esso diventa del tutto neutro rispetto al problema dell’ammissibilità del mezzo istruttorio. E
cioè, quindi, anche rispetto all’ammissibilità (o alla non ammissibilità) delle prove non
previste dalla legge”129.
In particolare, il giudice deve essere contemporaneamente sia libero nella valutazione degli
strumenti probatori assunti, sia non disturbato da qualsiasi ingerenza esterna proprio nella
stessa attività di valutazione. Allo stesso tempo però, in nome di questi concetti non possono
essere demolite tutte le garanzie processuali riguardo l’assunzione, l’ammissibilità e
l’efficacia delle prove130.
È chiaro, quindi, che, cercare di affermare l’ammissibilità delle prove atipiche utilizzando il
principio del libero convincimento, risulta non solo essere un errore di prospettiva, ma
rappresenta anche un fraintendimento del principio dello stesso libero convincimento.
Esso, infatti, non è nient’altro che una “tecnica di valutazione” delle varie risultanze
probatorie131.
Dunque, è evidente come né il principio del libero convincimento in generale, né la sua
specificazione normativa contenuta nell’art. 116 c.p.c., possano rilevare “al fine di stabilire
se il giudice possa fondare l’accertamento dei fatti anche, o soltanto, su prove diverse da
quelle positivamente regolate”132.

129 G. F.Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 123.


In questo senso anche Taruffo collega il principio della libera convinzione esclusivamente al problema dell’efficacia delle
prove, non a quella della loro ammissibilità. M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto
processuale, 1973, p. 391
130 G. Monteleone, Note sui rapporti tra giurisdizione e Legge nello Stato di diritto, in Rivista trimestrale del diritto e

procedura civile, 1987, p.18


131M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, Giuffrè, 1974 p. 43

132 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p. 391.

In questo senso anche A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale,
2001, p. 48 secondo cui “al fine di stabilire se le fonti del convincimento del giudice siano (debbano essere) solo quelle
selezionate dal legislatore o se invece lo stesso giudice possa selezionarne di nuove o di diverse non mi pare si possa
partire dalla regola fissata dall’art. 116 c.p.c. (libero o prudente convincimento non coincide con libera o prudente scelta
delle prove), in quanto quest’ultimo fa riferimento espresso ai criteri che il giudice deve seguire nella valutazione dei
risultati probatori e non anche nella individuazione delle fonti del suo convincimento.
In senso contrario, anche in questo caso M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Milano,
Giuffrè, I, 1974, p. 105 ss., afferma che di libero convincimento giudiziale potrebbe parlarsi anche con riferimento
all’ammissione delle prove, in quanto il giudice “non è vincolato a priori a non ammettere una data prova”. Secondo
Cappelletti, infatti, il principio del libero convincimento costituisce un necessario completamento dell’“oralità” del
procedimento e non può sussistere senza quest’ultima.

51
Un’eventuale confusione, e quindi unione, del principio del libero convincimento con
l’ammissibilità delle prove atipiche, comporterebbe, da un lato, un aumento e un
potenziamento della “signoria sulla prova” del giudice, dall’altro, “una mortificazione dei
diritti della difesa” 133.
Alla luce di quanto appena detto, appare svincolata da qualsiasi fondamento normativo la
“convinzione che il migliore sistema probatorio sia quello che consente al giudice di
sperimentare tutti i mezzi possibili e leciti per riuscire ad accertare la verità/falsità
dell'enunciato fattuale”134.
Non è pensabile, almeno alla stregua delle norme contenute nel codice civile e di procedura
civile, “un sistema che stabilisce che il giudice (e non il legislatore) possa liberamente
individuare il factum probans più efficace a dimostrare la veridicità delle affermazioni
fattuali di parte”135.
In conclusione, compiendo un’interpretazione letterale, non può non vedersi come il
legislatore all’art. 116 1° co. c.p.c disciplini esclusivamente il principio del prudente
apprezzamento, alla luce della garanzia costituzionale dell’obbligo di motivazione ex art. 111
Cost.
Proprio a questo proposito, per garantire alle parti processo conforme al dettato
costituzionale, il principio di tipicità dei mezzi di prova si dimostra essere in perfetta armonia
con il fondamentale canone del giusto processo, evitando, da un lato, che la discrezionalità
del giudice raggiunga livelli incontrollabili, ed assicurando, dall’altro, che la decisione si fondi
su criteri logici che “consentano una ricostruzione dei fatti il più possibile veritiera e
razionalmente controllabile dalle parti, dal giudice dell'impugnazione e, più in generale,
dall'opinione pubblica”.136

133 E. Amodio, Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza, in Rivista italiana di diritto e procedura
penale, 1973, p.313
134 A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2003, p.82
135 A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2003, p.82
136 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 40

52
4 L’efficacia delle prove atipiche

Una volta discusso e affrontato il problema dell’ammissibilità delle prove innominate, è il


momento di analizzare quale valore la dottrina abbia riconosciuto loro e in che misura,
quindi, possano incidere sul convincimento del giudice.
Ad onore del vero, la dottrina si è prevalentemente interessata della questione
dell’ammissibilità delle prove innominate, non dando particolare rilevanza al valore da dare
alle stesse, nonostante col passare degli anni la giurisprudenza abbia fatto un largo uso di
questi strumenti istruttori.
Il legislatore civile ha tuttavia definito le varie risultanze probatorie tipiche, prima stabilendo
varie regole per la loro ammissibilità, poi raggruppandole in categorie a seconda della loro
diversa valutazione137.
Se questo discorso vale per le prove tipiche, a fortiori se ne dovrà quantomeno tenere conto
per quanto riguarda le prove innominate.
Ecco perché la questione della valutazione delle prove atipiche risulta essere fondamentale.
Osservando le varie tipologie di prove atipiche, due sono le ipotesi di valutazione teorizzate
dagli studiosi: da un lato, la possibilità di assimilare le prove atipiche agli argomenti di prova,
dall’altro, la possibilità di assimilare le prove atipiche alle presunzioni semplici.
Gli obiettivi che la dottrina si è prefissata di raggiungere con riguardo il problema delle prove
innominate sono principalmente quelli di:
a) “evitare gli eccessi di giudiziaria discrezione”;
b) “tipizzare il più possibile quelle prove”;
c) “usare a tal fine gli strumenti legislativi delle presunzioni e degli argomenti di
prova”138.
Risulta evidente come la finalità sia, da una parte, quella di denunciare l’uso discrezionale
che la giurisprudenza fa di questi strumenti istruttori, dall’altra, quella di cercare di stabilire

137G. F.Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 309


138L.Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del giudice civile, in Studi in memoria di Salvatore
Satta, Vol. II, Padova, Cedam, 1982, p. 233

53
dei limiti alla loro efficacia, ancorandoli a strumenti legislativi ben individuati quali le
presunzioni.
Primariamente, è opportuno rilevare la tendenziale completezza delle disposizioni presenti
nel codice civile, in materia istruttoria, in quanto perfettamente idonee ad assumere ogni
possibile fonte di prova139.
Non potrà essere, dunque, lasciata all’arbitrio del giudice la determinazione dei mezzi
attraverso i quali le fonti di prova debbono entrare nel processo.
La precisazione risulta molto importante perché, così facendo, si esclude espressamente che
possano essere considerate prove, seppur atipiche, tutte le fonti di convincimento entrate
nel processo attraverso strade diverse da quelle disegnate dal legislatore.
Un altro limite all’ammissibilità delle cosiddette prove atipiche viene poi individuato nel
rispetto del contraddittorio140.
Principio del contraddittorio da rispettare non solo nel momento dell’acquisizione della
prova innominata, “ma anche, e precedentemente, nella formazione della prova stessa”141.
È importante ancora sottolineare come tale limite del rispetto del contraddittorio è da molti
Autori142 considerato essenziale, anche se forse non esclusivo, all’ammissione delle prove
innominate.
In via preliminare, è allora necessario considerare l’analisi effettuata dalla dottrina riguardo
le prove atipiche sostitutive di quelle costituende. Tali fonti di conoscenza, fintanto che non
vengano riscontrate contrarie indicazioni di legge, dovrebbero essere ritenute del tutto
inammissibili, “non già solo munite di minor efficacia probatoria”143.

139 L.Montesano Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del giudice civile, in Studi in memoria di Salvatore
Satta, Vol. II, Padova, Cedam, 1982, p. 234
140 In questo senso A. Carratta Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 98 secondo

cui al contraddittorio deve essere attribuito un valore epistemologico di ricerca della verità, in quanto “oltre che garanzia
per l’esercizio del diritto alla prova e del diritto di difesa delle parti , finisce per assolvere anche il fondamentale ruolo
di metodo di conoscenza dei fatti: si acquisisce un maggior grado di conoscenza dei fatti di causa quanto più elevato
(non solo dal punto di vista quantitativo, evidentemente) è il grado di contraddittorio garantito alle parti”.
141 G.Tarzia “Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile” in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 639

142 G.Tarzia “Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile” in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 634

ss.; B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Cedam, Padova, 1991, p. 719; G. F. Ricci, Le prove atipiche,
Milano, Giuffrè, 1999, p. 461
143 G. Tarzia “Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile” in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 639

54
Questo non tanto perché si voglia contrapporre un astratto principio di tipicità ad un
altrettanto astratto principio di atipicità, bensì per la ragione fondamentale che
l’ammissione di queste particolari prove atipiche, consentirebbe al giudice di avvalersi, al di
fuori del contraddittorio delle parti, di prove equivalenti a quelle espressamente previste dal
legislatore, e per le quali il legislatore ha espressamente previsto una puntuale forma di
assunzione.
Si può concludere osservando che “la forma documentale, che la prova atipica può assumere,
e normalmente assume, è del tutto insufficiente a legittimare la sua introduzione nel
processo; come non è certo la forma documentale l’elemento idoneo a rendere ammissibili
prove illecitamente sottratte alla controparte o illegittimamente formate.
Risulta altrettanto evidente che non è la garanzia di un contraddittorio posticipato alla
formazione della prova, e quindi tardivo, quella, che può legittimare l’introduzione della
fonte atipica di prova nel processo. La formazione della prova deve pertanto avere luogo nel
contraddittorio delle parti”144.
Ma quale valore dare allora alle prove innominate?

4.1. Le prove atipiche come argomenti di prova (artt. 116, 2°co. e 310, 3° co c.p.c)

Di fronte ad una giurisprudenza che impiega in grandissimo numero le prove innominate,


senza però predisporre criteri per il loro impiego nell’ambito del giudizio di fatto, la dottrina
ha cercato di individuare criteri limitativi dell’efficacia di questi elementi probatori.
Scopo di questa ricerca era naturalmente quello di evitare i pericoli derivanti da un non
corretto impiego delle prove innominate, a scapito del sistema delle prove tipiche delineato
dal legislatore.
Si è così cercato di ricondurre le prove atipiche entro lo schema degli argomenti di prova,
secondo il 2° co. dell’art. 116 del codice di procedura civile145.

144G. Tarzia, Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile, in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 643
145Questa tesi è sostenuta principalmente da L. Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del
giudice civile, in Studi in memoria di Salvatore Satta, Vol. II, Padova, Cedam, 1982, p.1004
Alla tesi di Montesano si avvicina quella di G.Tarzia, “Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile” in
Rivista di diritto processuale, 1984, p. 640 ss.

55
Sin da subito è di fondamentale importanza evidenziare come gli argomenti di prova siano
mezzi istruttori dotati di una vis probatoria inferiore rispetto alle prove libere e alle prove
legali146.
In altri termini, un argomento di prova non sarà mai in grado di assurgere a rango di prova
piena al fine di ritenere accertato il diritto controverso. Potrà invece risultare utile per
integrare e corroborare altre risultanze probatorie emerse nel processo.
Gli argomenti di prova risulterebbero essere quindi “non più che elementi complementari
ed integrativi della valutazione delle vere e proprie prove, privi però di autonomo valore
probatorio”147.
Altra disposizione normativa che viene richiamata da parte dei sostenitori della minore
efficacia istruttoria delle prove atipiche è l’art. 310, 3° co., codice di procedura civile,
contenente il richiamo espresso all’art. 116, 2° co., del medesimo codice.
Tale articolo afferma che le prove assunte in un processo estinto sono degradate a meri
argomenti di prova.
L’Autore che più di tutti ha affrontato un’analisi combinata di queste due disposizioni risulta
essere Romano Vaccarella. Egli ha esaminato in una sua monografia 148 il problema
dell’interpretazione del 3° co. dell’art. 310 del codice di procedura civile secondo cui “le
prove raccolte nel corso del processo estinto sono valutate dal giudice a norma dell’art. 116
2° co.”
Il problema della efficacia probatoria delle prove raccolte in un altro processo ha una grande
importanza pratica.
La giurisprudenza è, come si vedrà più avanti, stabilmente orientata nel consentire al giudice
di fare un uso indiscriminato delle prove comunque assunte in un altro processo, sia civile
sia penale, sia tra le stesse parti sia tra parti diverse. Il rischio evidente è che le parti si trovino,
per volontà del giudice, un processo “preconfezionato”.

146 La giurisprudenza maggioritaria risulta comunque essere di diverso avviso. Si distingue da un lato, infatti, la
possibilità che gli argomenti di prova siano assimilabili alle presunzioni semplici (Cass. Civ., sez. I, 26 marzo 2003, n.
4472), dall’altro l’equiparazione degli stessi sul piano dell’efficacia alle prove piene, ritenendoli elementi probatori
idonei di sorreggere una decisione nel merito (Cass. Civ., sez. III, 29 gennaio 2013, n.2071).
147 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 387

148 R. Vaccarella, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, Jovene, 1975

56
Dunque, non solo i giudici tendono a dare una interpretazione alquanto estensiva al 3° co.
dell’art. 310, ma addirittura applicano, sembrerebbe per analogia, tale interpretazione
anche ad ipotesi di prove assunte in un processo diverso dal processo estinto.
Vaccarella dichiara di non condividere l’opinione secondo cui il legislatore abbia
espressamente voluto “declassare” le prove raccolte nel processo estinto al rango di
argomenti di prova ex. art. 116 c.p.c.149.
Allo stesso modo, sostiene di non condividere quell’orientamento dottrinale secondo il
quale la ratio della norma dovrebbe essere individuata nel fatto che il legislatore,
prevedendo un processo ispirato ai principi di oralità e immediatezza, abbia voluto attribuire
alle prove assunte nel processo estinto una efficacia minore: l’efficacia appunto prevista
dall’art. 116, 2° co., per gli argomenti di prova.
In realtà, osserva l’Autore, tali principi di oralità e immediatezza, trovano, nel sistema voluto
dal legislatore, molte altre eccezioni; così, ad esempio, con le norme di istruzione preventiva
si consente al giudice di merito, ove ritenga ammissibili e rilevanti le prove assunte, di porle
come fondamento della decisione valutandole secondo la loro ordinaria efficacia e questo
indipendentemente dalla circostanza che il giudice di merito sia o non sia lo stesso giudice
che ha assunto le prove.
Dunque, venendo meno questa ratio della norma, non vi è motivo di escludere la possibilità,
per il giudice decidente, di utilizzare le prove assunte nel processo estinto secondo la loro
ordinaria efficacia.
Bisogna poi prendere in considerazione un altro orientamento dottrinale, molto simile alle
posizioni di Vaccarella, che si caratterizza per una forte critica verso la tesi secondo la quale
gli elementi probatori, anche se aventi natura legale, raccolti nel processo estinto, sarebbero
nel nuovo processo tutti liberamenti valutabili dal giudice, perdendo quindi la loro originaria
efficacia vincolante.
In primo luogo, secondo tale dottrina, il rinvio operato dal legislatore all’art. 116 sarebbe al
2° co. e non al 1° co.150.

149 R. Vaccarella, “Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione”, Napoli, Jovene, 1975, p.356.
Eppure, il tenore letterale della norma non sembrerebbe lasciare spazio a diverse interpretazioni. Secondo l’Autore
più della lettera bisognerebbe dare valore alla ratio della stessa.
150 G. F. Ricci, “Le prove Atipiche” Milano, Giuffrè, 1999, p. 346

57
In secondo luogo, si afferma che l’eventuale riduzione dell’efficacia probatoria degli
elementi istruttori raccolti in un processo estinto sia dovuta alla necessità che il legislatore
abbia voluto rispettare il principio dell’oralità, presupponendo necessariamente che ogni
giudice debba effettuare “la sua istruttoria”. Al tempo stesso, vengono però avanzate
“riserve sulla circostanza che il nostro processo civile sia effettivamente improntato al
principio dell’oralità: o quantomeno che tale principio debba avere valore assoluto ed
inderogabile” 151.
La soluzione individuata per risolvere il problema sarebbe nient’altro che il rispetto del
principio del contraddittorio nell’utilizzazione di questo tipo di risultanze probatorie;
contraddittorio che non dovrebbe essere limitato solo alla loro scelta e valutazione, ma
dovrebbe anche e soprattutto estendersi alla loro assunzione.
Vari sono i motivi che non rendono condivisibile questa corrente di pensiero. Innanzitutto,
questa interpretazione contrasta con il preciso tenore della norma.
Come si è visto, il 3° co. dell’art. 310 afferma espressamente che le prove raccolte nel
processo estinto devono essere valutate dal giudice a norma dell’art. 116, 2° co.
Questo articolo espressamente prevede la possibilità per il giudice di desumere argomenti
di prova da tutta una serie di situazioni, fra le quali, dunque, dovranno farsi rientrare anche
le prove assunte nel processo estinto.
Tale interpretazione è avvalorata dagli stessi lavori preparatori del codice di procedura civile,
così come peraltro richiamati da Romano Vaccarella. Quest’ultimo non può fare a meno di
ricordare che la norma de qua ebbe una storia travagliata, infatti “si è passati dalla negazione
di ogni efficacia alla possibilità di tener conto delle prove raccolte nel processo estinto fino
alla formulazione attuale”152.
Risulta abbastanza chiaro come il legislatore abbia voluto mediare rispetto a posizioni
radicalmente contrastanti, ed abbia finito per attribuire alle prove assunte nel processo
estinto un’efficacia probatoria minore e, precisamente, l’efficacia probatoria propria degli
argomenti di prova.

151 G. F. Ricci, “Le prove Atipiche” Milano, Giufrè, 1999, p. 352


152 R. Vaccarella, “Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione”, Napoli, Jovene, 1975, p.358

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Si è stabilito in questo modo un limite in negativo al prudente apprezzamento del giudice, il
quale non potrà attribuire alle prove raccolte nel processo estinto l’efficacia di una prova
liberamente valutabile.
Lo stesso fatto che in altre ipotesi il legislatore abbia ritenuto di disciplinare diversamente
non pare del tutto sufficiente come dimostrazione.
Va inoltre sottolineata la presenza di un riferimento normativo esplicito per quanto riguarda
le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero e il contegno processuale delle
parti. Esiste, infatti, una norma del codice di rito che prende in considerazione tali situazioni.
Tale norma è proprio il 2° co. dell’art. 116 153.
Non può non essere evidenziato come tale disposizione contenga un evidente divieto,
rivolto al giudice, per quanto concerne la possibilità di considerare come essenziali per il
proprio convincimento le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio non formale
e il contegno processuale delle parti.
Da ciò deve dedursi che, a maggior ragione, nessuna efficacia essenziale per il convincimento
del giudice potrà essere data a strumenti utilizzati contro una proibizione normativa154.
Né pare condivisibile quell’orientamento dottrinale volto ad equiparare gli argomenti di
prova alle prove vere e proprie, sulla base di una “interpretazione evolutiva” della norma155.
La determinazione specifica del valore di argomenti di prova, prevista espressamente dal
legislatore, per le risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero e per il contegno
processuale delle parti, ha un significato ben preciso e attuale: “garantire le parti contro
‘tranelli probatori’ tesi a loro insaputa nelle ‘libere domande’ dell’interrogatorio ex art. 117
c.p.c. o dalla ‘supervalutazione’ di aspetti del contegno processuale, che possono essere,
nella lecita ‘tattica difensiva’, secondari, occasionali e rivedibili”156.
Si aggiunga che, per espressa disposizione di legge (art. 229 c.p.c.), le dichiarazioni rese
contra se dalle parti in sede di interrogatorio libero, non possono costituire confessione

153 Art. 116, 2° co., c.p.c. “Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti danno a norma
dell’articolo seguente –e cioè in sede di interrogatorio libero-e in genere dal contegno delle parti stesse nel processo”.
154 Si pensi, ad esempio, alla prova testimoniale assunta nonostante un divieto di legge.

155 Contro questa interpretazione evolutiva Luigi Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del

giudice civile, in Studi in memoria di Salvatore Satta, Vol. II, Padova, Cedam, 1982, p. 1003-1004
156 Luigi Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del giudice civile, in Studi in memoria di

Salvatore Satta, Vol. II, Padova, Cedam, 1982, p. 1004

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giudiziale (spontanea o provocata). Di conseguenza, dalla lettura in combinato disposto di
questa norma e della norma contenuta nell’art. 116 2° co., sembrerebbe doversi desumere
che il legislatore abbia intenzionalmente voluto escludere le dichiarazioni rese dalle parti in
sede di interrogatorio libero dal novero delle prove vere e proprie.
Diversamente, non vi sarebbe stato motivo per il legislatore di escludere espressamente il
carattere di confessione giudiziale alle dichiarazioni rese contra se dalla parte in questa sede.
Allo stesso modo, non avrebbe avuto senso la previsione espressa della possibilità per il
giudice di trarre argomenti di prova dalle risposte date dalle parti in sede di interrogatorio
libero.
Anzi, sembrerebbe che quest’ultima previsione normativa rappresenti un’eccezione alla
regola secondo la quale le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero non
dovrebbero avere alcuna efficacia probatoria.
Inoltre, la stessa espressione usata dal legislatore per definirli, sembra confermare l’assunto
secondo il quale gli argomenti di prova non sono prove e non possono pertanto da soli
fondare la decisione del giudice.
Ritenere valido il contrario, invece, significherebbe effettuare un “uso distorto dei criteri di
valutazione dei risultati probatori fissati dal legislatore”157.
Di conseguenza, le prove atipiche, ammettendo la loro esistenza prima e la loro efficacia di
argomenti di prova poi, risulterebbero come tali inidonee a fondare da sole, o in concorso
con altri elementi istruttori dotati di medesima efficacia, la decisione.
Altra questione che è necessario affrontare è quella della verifica della sussistenza di una
qualche differenza di fondo tra le presunzioni e gli argomenti di prova158.
Se da un lato è innegabile una differenza sostanziale, da un punto di vista di diritto positivo,
tra argomenti di prova e presunzioni, dall’altro un confronto trai due strumenti istruttori
risulta essere necessario, prendendo le mosse dalla struttura inferenziale delle situazioni
presenti nell’art. 116 2° co159.

157 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 57
158 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 317
159 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 320

60
Dal punto di vista pratico, infatti, sussistendo un’identità di efficacia tra indizi e argomenti
di prova, per il giudice sarebbe più che sufficiente impiegare questi ultimi come base della
decisione.
Nel caso contrario, invece, non essendovi questa equivalenza di forza probatoria tra i due
strumenti, gli argomenti di prova non sarebbero sufficienti, neanche cumulativamente, a
dare vita alla decisione del giudice160.
Una parte della dottrina, affrontando le similitudini e le diversità tra argomenti di prova e
indizi, arriva alla conclusione che il giudice possa porre a fondamento della sua decisione
soltanto quei mezzi di prova “che la legge considera tali in astratte previsioni”161.
D’altro canto, sarebbe difficile attribuire soltanto un valore esemplificativo ad una precisa
disciplina come quella prevista dal codice civile dall’art. 2699 all’art. 2738 del c.c. “(la quale
tende alla completezza nell’ipotizzare i fatti naturalmente idonei a provare)”162.
In altre parole: non c’è alcun bisogno della categoria delle prove atipiche al fine di consentire
alle parti di introdurre nel processo le fonti di conoscenza utili a convincere il giudice. Infatti,
i codici prevedono tutti i mezzi naturali di controllo della realtà, dalle prove storiche
documentali e testimoniali, alle prove critiche.
Dunque, anche astrattamente, il problema si pone solamente per quanto riguarda i modi di
ammissione delle fonti di conoscenza nel processo.
A questo riguardo, per la dottrina in esame, non c’è spazio per molti dubbi: il processo di
ammissione “è disciplinato dalla legge secondo criteri funzionali che essa assume essere più
che gli altri idonei, e che non potrebbero sostituirsi senza violare lo scopo della loro
previsione”163 . Ciò non significa che il giudice non possa utilizzare “una realtà, che non sia
tradotta nelle forme tipiche, ma che è di fatto idonea a somministrare una prova”164.
A tal fine, la legge prevede espressamente e in particolare distingue tra le presunzioni
semplici e gli argomenti di prova.

160 G. F. Ricci, Le prove atipiche Milano, Giuffrè, 1999, p. 320


161 E. Grasso, Dei poteri del giudice nel Commentario del codice di procedura civile Torino, Utet, I, 1973, p. 1304
162 E. Grasso, Dei poteri del giudice nel Commentario del codice di procedura civile Torino, Utet, I, 1973, p.1305

163 E. Grasso, Dei poteri del giudice, nel Commentario del codice di procedura civile Torino, Utet, I, 1973 p.1305

164 E. Grasso, Dei poteri del giudice, nel Commentario del codice di procedura civile Torino, Utet, I, 1973, p.1305

61
Con un’interpretazione originale, pur operando una distinzione concettuale, in qualche
modo vengono assimilate le presunzioni semplici (indicate dall’art. 2729 c.c.) agli argomenti
di prova presentandoli come “sottospecie di un’unica categoria: quella degli indizi”.
Tuttavia, come anticipato precedentemente, è importante tenere a mente come
presunzioni semplici e argomenti di prova risultino essere elementi concettualmente distinti:
“quando l’art. 2729 parla di fatto noto, di cui il giudice piò servirsi per risalire ad un fatto
ignorato, si riferisce ad una realtà che è stata introdotta nel processo secondo le regole
dell’allegazione e già è stata fatta oggetto di prova, a meno che non sia notoria (…): si tratta
di un fatto che in tal modo è noto non solo al giudice ma anche alle parti che hanno modo
di percepirlo e di discutere del medesimo. Altra cosa è l’accadimento costituito dal
comportamento processuale della parte: questo potrà anche considerarsi, a certi effetti,
fatto noto, ma la sua conoscenza ha origini e limiti del tutto diversi: esso non si introduce
ma si forma nel processo, può non essere avvertito dalla stessa parte che l’ha posto in essere,
e comunque su di esso non si esercita normalmente contraddittorio”165.
Peraltro, bisogna osservare come vi sia un elemento particolare che accomuna le
presunzioni semplici agli argomenti di prova: da una parte, i fatti previsti dall’art. 2729 c.c.
hanno la caratteristica di far prova soltanto “in cumulo”, mentre, dall’altra parte, gli
argomenti di prova sono mezzo inadeguato a determinare da soli il convincimento del
giudice.
Dunque, presunzioni semplici ed argomenti di prova potranno concorrere, quali mezzi di
conoscenza atipici, alla formazione del convincimento del giudice in quanto relativi a fatti
a) notori o introdotti (o presenti) nel processo secondo le precise disposizioni di legge
(accertati con mezzo di prova tipico o verificatosi nel corso del processo e percepiti
direttamente dal giudice);
b) plurimi, non essendo sufficiente a fondare la decisione del giudice un solo fatto
presuntivo o un solo argomento di prova;
c) gravi precisi e concordanti166.

165 E. Grasso, Dei poteri del giudice, nel Commentario del codice di procedura civile Torino, Utet, I, 1973, p. 1319-1320
166 E. Grasso, Dei poteri del giudice, nel Commentario del codice di procedura civile Torino, Utet, I, 1973, p. 1319-1320

62
Tuttavia, questa lettura interpretativa, volta ad assimilare gli argomenti di prova alle
presunzioni per renderli partecipi del comune genere degli indizi, non sembra essere del
tutto soddisfacente e anzi appare come una forzatura non troppo velata.
Come si è avuto modo di osservare, si tratta di due strumenti istruttori diversi, sia per natura
sia per funzione.
Imprescindibile rilievo da considerare è inoltre la possibilità che le presunzioni possono
costituire, da sole, una prova.
Gli argomenti di prova, invece, da soli o insieme, non possono mai fondare la decisione del
giudice.
Sembrerebbe, tale sforzo di assimilazione, maggiormente dettato dall’esigenza di costruire
una teoria, anziché dal bisogno di capire un fenomeno complesso 167 , sicuramente non
disciplinato dal legislatore nel migliore dei modi.
Altrettando non condivisibile appare l’opinione, presente in parte della dottrina e già
analizzata168, secondo cui si avrebbe l’equiparazione dell’efficacia degli argomenti di prova
a quella degli indizi, basandosi sul ragionamento che entrambi questi strumenti istruttori
costituirebbero prova solo cumulativamente.
Non condividendo questo pensiero, è necessario rimarcare come “la prima di queste
opinioni non è compatibile con il disposto della norma ora citata (art. 116, 2° co., c.p.c.), né
con quello dell’art. 310, 3° co., cod. proc. civ., che diventerebbero del tutto incomprensibili
ove gli argomenti equivalessero alle prove tout court; mentre alla seconda si oppone la
stessa considerazione che consente di ricondurla a sua volta alla prima: ovverosia la
constatata impossibilità di differenziare l’efficacia delle presunzioni semplici da quelle delle
prove vere e proprie”169.
Ancora una volta, de iure condito, gli argomenti di prova sono cosa diversa dalle prove.
A conferma di ciò, è proprio l’art. 116 c.p.c ad istituire una gerarchia, sia pure approssimativa,
delle fonti di prova.

167 Sicuramente non disciplinato dal legislatore nel migliore dei modi.
168 Le più esplicite e motivate prese di posizione in questo senso sono quelle di E. Grasso, Dei poteri del giudice nel
Commentario del codice di procedura civile, Torino, Utet, I, 1973, p. 1318 ss.; in precedenza anche F. Carnelutti,
Istituzioni del processo civile italiano, Roma, Foro italiano, 1956, I, p.158
169 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 19991, p.377

63
Tale gerarchia vede sul gradino più alto del podio le prove strictu sensu legali (cioè quelle
che vincolano l’apprezzamento del giudice); sul gradino intermedio le prove soggette al
“prudente apprezzamento” del giudice (comprese le presunzioni semplici); sul gradino più
basso, infine, vi sono gli argomenti di prova, che, in quanto tali, non sono di per sé sufficienti
a fondare il convincimento del giudice.
Dunque, l’art. 116, 2° co., contiene, in negativo, una vera e propria regola di prova legale: è
prevista cioè un’efficacia probatoria inferiore per le circostanze costituenti meri argomenti
di prova.
Se gli argomenti di prova hanno un valore probatorio ridotto, perché non attribuire a questo
punto questa stessa efficacia ridotta alla categoria delle prove innominate?
Oltretutto, tale equiparazione di efficacia tra prove innominate e argomenti di prova
risulterebbe agevolata dal fatto che, da un lato, l’art. 310, 3° co., c.p.c. attribuisce
espressamente alle prove raccolte in un processo estinto efficacia di argomenti di prova,
dall’altro, le prove raccolte in un altro processo 170 sono comunemente inserite nella
categoria delle prove innominate.
L’attribuzione dell’efficacia di argomento di prova a tutta la categoria delle prove atipiche in
quanto tale, quindi, contrasterebbe con l’assunto per cui nessun grado di efficacia può
essere attribuito ad alcun tipo di prova atipica, non disciplinata dal legislatore, fintanto che
non sia accertata la liceità del suo impiego; “mentre per converso il risultato di una prova
legittimamente acquisita, il cui valore non sia predeterminato dalla legge (come è per
definizione il caso delle prove atipiche) dovrebbe in via di principio ritenersi soggetto allo ius
commune, e cioè alla regola del prudente apprezzamento enunciato dall’art.116, 1° co., cod.
proc. civ.”171.
Peraltro, per concludere, quanto appena detto non significa che debba escludersi la
possibilità di attribuire ad ogni prova cosiddetta atipica l’efficacia propria degli argomenti di
prova. Motivi di analogia portano a ritenere che, tenendo conto del disposto di cui all’art.

170 È comunque necessario precisare che il processo estinto costituisce a tutti gli effetti un altro processo.
171 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.380-381

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310, 3° co., debba attribuirsi efficacia di argomenti di prova alle prove raccolte in altro
processo fra le stesse parti172.
Va poi rilevato che la norma enunciata nel predetto articolo, esclude che possa darsi a tali
prove efficacia di prova soggetta al prudente apprezzamento del giudice.
Ragionando diversamente, infatti, si finirebbe per attribuire una efficacia probatoria
superiore alle prove raccolte in un altro processo avente diverso oggetto, rispetto alle prove
raccolte in un altro processo avente il medesimo oggetto. In altre parole, un elemento di
diversità, dal quale deriva la necessità di una maggiore prudenza, verrebbe ad essere la
causa di una minor prudenza.
Ciò andrebbe non solo contro le regole del sistema, ma anche e soprattutto contro le regole
della logica.

4.2. Le prove atipiche come indizi (art. 2729 c.c e seguenti)

L’altra ipotesi di valutazione dell’efficacia delle prove innominate consiste nell’equiparare


questi elementi istruttori agli indizi.
Gli Autori appartenenti a questo orientamento dottrinale 173 sostengono che se, da un lato,
la regolamentazione rigorosa ed approfondita di alcuni strumenti probatori effettuata dal
legislatore non dimostra nulla per quanto concerne l’inammissibilità delle prove innominate,
dall’altro, appare come un valido motivo per ritenere che il legislatore, nel non escluderle
espressamente, non abbia voluto assegnare loro l’efficacia di prove vere e proprie, “bensì
sottoporle al regime che l’art. 2729 cod. civ. prevede per la valutazione degli indizi”174.
Tale affermazione è dettata dalla convinzione che l’indizio, inteso come il fatto noto usato
come punto di partenza di un ragionamento presuntivo, sia intrinsecamente atipico.
Atipico nel senso di aperto a recepire ogni elemento idoneo a fondare un ragionamento
logico deduttivo, a condizione che risulti grave, preciso e concordante.

172 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.381
173 S. Chiarloni, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura
civile, 1987 p. 819 ss.; G. Verde, L’onere della prova nel processo civile, Napoli, Jovene, 1974, p.605 ss.; M. Taruffo, Prove
atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.390 ss.
174 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.397

65
Equiparare l’efficacia delle prove atipiche a quella delle presunzioni semplici, se da un lato
risolve il problema dal punto di vista formale e definitorio, dall’altro lascia irrisolta la
questione relativa a quale sia in concreto tale efficacia nel processo civile.
“È certamente vero che il legislatore, opportunamente, non predetermina la nozione di
indizio, lasciando il giudice libero di individuare i fatti sui quali fondare il procedimento
inferenziale alla base della prova presuntiva. Ma quando si ammette la possibilità che il
giudice utilizzi le c.d. prove atipiche come indizi dai quali trarre vere e proprie presunzioni,
in realtà si utilizza l’atipicità della nozione di indizio in modo non proprio ortodosso”175.
A questo punto tre sono le diverse strade percorribili176:
a) risulta sufficiente una sola presunzione semplice per fondare la decisione del giudice;
b) soltanto un insieme di presunzioni semplici potrà costituire il fondamento della
decisione del giudice;
c) i ragionamenti di natura presuntiva potranno soltanto avallare la decisione del
giudice, formatasi tenendo esclusivamente conto di elementi istruttori tipici.
Pertanto, assume assoluta importanza la regola per cui solo un insieme di più presunzioni
tra loro convergenti possono provare un fatto. Appare, quindi, insufficiente una sola
presunzione per dare fondamento alla decisione del giudice. L’unica eccezione è
rappresentata dall’ipotesi in cui la presunzione si basi su una legge o di natura o di scienza,
“che come tale non ha bisogno di ulteriori conferme”177.
Il giudizio conclusivo di questa parte della dottrina sull’operato della giurisprudenza, in tema
di prove innominate, è molto severo, in quanto non sono stati sviluppati dei validi criteri per
l’utilizzazione delle stesse.
L’unica cosa certa “è l’impiego indiscriminato e illimitato che il giudice tende a fare di tutto
il materiale di fatto che viene acquisito al giudizio”178.

175 A. Carratta, Prove e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 56
176 F. De Santis, Il documento non scritto come prova civile, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, in Pubblicazioni della
scuola di specializzazione in diritto civile dell’Università di Camerino, 1988, p.123
177 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale,1973, p.397

178 M. Taruffo Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.424

66
Quale potrebbe essere un correttivo a questa situazione? Valida e legittima alternativa alle
incertezze ed alle ambiguità risultanti dalle decisioni dei giudici risulterebbe essere l’impiego,
nel modo più rigoroso possibile, del concetto di presunzione semplice179.
Infatti, la motivazione dei giudici dell’uso delle prove atipiche costituirebbe una garanzia
imperfetta e insufficiente: “la conferma di ciò è data dal fatto che non consta alcuna
decisione in tema di prove atipiche, che sia stata annullata per vizio di motivazione”180.
Dunque, anche i sostenitori dell’ammissibilità delle prove atipiche devono costatare come
dall’introduzione di questa categoria istruttoria derivi non solo la possibilità di evidenti
violazioni dei diritti delle parti, ma anche l’aumento esponenziale del rischio di
strumentalizzare il principio del libero convincimento, causando un uso arbitrario ed
incontrollato del potere dei giudici.
Sembra tuttavia non essere compreso come, probabilmente, queste siano state anche le
medesime preoccupazioni del legislatore, il quale, proprio al fine di evitare tali inconvenienti,
da una parte, ha minuziosamente disciplinato i tipi di prova ammissibili nel processo,
dall’altra, ha posto delle regole per l’ammissione delle prove, limitando i poteri autoritativi
del giudice e garantendo il più possibile i diritti delle parti.
In conclusione, si riconosce come strumento probatorio anche quello “che nasce in mente
iudicis, quando il giudice formula, in sede di decisione, il proprio convincimento sui fatti. Ne
deriva che le parti, non conoscendo ex ante le presunzioni che il giudice può trarre
dall’eterogeneo complesso degli elementi di fatto di cui dispone, non sono in condizione nel

179 “Di fronte a questa situazione, in cui le incertezze terminologiche sono chiaramente il sintomo dell’ambiguità e
dell’occasionalità dei criteri di giudizio che di fatto vengono impiegati, l’unica alternativa sembra consistere in un uso
più rigoroso del concetto di presunzione semplice” M. Taruffo Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di
diritto processuale, 1973, p.425. Tale uso più rigoroso, secondo l’Autore, si sostanzia o nel requisito della gravità,
precisione, concordanza degli indizi cumulativamente intesi, o nell’esistenza di una legge scientifica in grado di
confermarne senz’altro il contenuto probatorio.
180 M. Taruffo Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.426. Taruffo termina

la trattazione del problema richiamandosi genericamente a “principi di razionalizzazione del convincimento del giudice
del giudice” e questo al fine di evitare “che vengano costruiti ed impiegati strumenti probatori svincolati dall’osservanza
dei diritti delle parti ..., sia al fine di evitare che il significato reale del principio del libero convincimento diventi la
legittimità del giudizio arbitrario e incontrollato”. M. Taruffo Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di
diritto processuale, 1973, p.434

67
corso dell’istruzione di poter proporre prove idonee a contrastare la ricostruzione dei fatti
che il giudice deriverà dalle presunzioni” 181.
È facile a questo punto arrivare alla conclusione che il “fatto noto” che mette in moto il
ragionamento presuntivo deve originare da strumenti probatori espressamente tipizzati,
quindi formatisi nel contraddittorio tra le parti o desunti dalla comune esperienza o dalla
quotidianità delle vicende umane182.
Esattamente come avvenuto per la teoria a sostegno dell’assimilazione del valore delle
prove innominate a quello degli argomenti di prova, anche l’orientamento dottrinale
secondo cui le prove atipiche avrebbero un’efficacia indiziaria non è stato per nulla esente
da critiche.
In primo luogo, “facendo rientrare le prove atipiche fra gli indizi si utilizza una nozione
diversa e più ampia di atipicità dell’indizio, includendovi anche fatti che sono noti per il
giudice non perché provati (con strumenti probatori tipici), o notori o non contestati, ma
perché provati in modo atipico. E dunque, impropriamente si richiama l’atipicità della
nozione di indizio al fine di utilizzare le prove atipiche come indizi: l’atipicità che rileva nel
caso di specie è solo quella degli strumenti ritenuti idonei a rendere noto il fatto storico sul
quale il giudice può fondare il procedimento inferenziale alla base della presunzione”183.
In secondo luogo, questa teoria risulta essere imperfetta sia per difetto sia per eccesso.
“Per difetto, in quanto non può trovare conferma né plausibile applicazione nelle ipotesi in
cui la prova atipica abbia per oggetto un fatto principale; mentre si risolve in
un’enunciazione tautologica là dove la prova atipica abbia ad oggetto un indizio.
Per eccesso, in quanto essa pretende di attribuire comunque una qualche efficacia anche a
risultanze probatorie che, per il modo della loro formazione o acquisizione al processo, non
ne meriterebbero alcuno” 184.

181 M. Taruffo, Il diritto alla prova nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 100
182 F. De Santis, Il documento non scritto come prova civile, in Pubblicazioni della scuola di specializzazione in diritto civile
dell’Università di Camerino, 1988, p.137
183 A. Carratta, Prove e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 56
184 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 371

68
Anzitutto, non sembra corretto ritenere che la prova per presunzioni semplici abbia, come
tale, una efficacia particolare, comunque minore rispetto a quella attribuita dall’art. 116 1°
co. c.p.c. a qualsiasi prova non legale.
Infatti, può accadere che la conferma testimoniale di un indizio dal quale debba inferirsi
necessariamente (per una legge naturale) il fatto che si deve provare abbia la stessa efficacia
probatoria della conferma testimoniale del fatto stesso; così come potrà succedere che la
conferma di un indizio non legato necessariamente al fatto da provare possa contribuire al
convincimento del giudice maggiormente di una testimonianza diretta fatta da una persona
che si trovi con la parte in una posizione di evidente cointeressenza (interesse non giuridico
che non esclude l’ammissione del teste).
Né, d'altro canto, la minore efficacia probatoria dell’indizio potrebbe trovare un argomento
a proprio favore dal contenuto dell'art. 2729, 1° co., c.c. che laddove parla di necessaria
concordanza delle presunzioni semplici parrebbe esigerne la pluralità; cosa non prevista per
le altre prove soggette al prudente apprezzamento del giudice.
Bisogna evidenziare come coloro che parlano di efficacia indiziaria delle prove atipiche, sia
in dottrina sia in giurisprudenza, sostengono che anche un solo fatto noto può essere talvolta
sufficiente a fondare la decisione del giudice.
Tuttavia, non risultano essere stati individuati i criteri in base ai quali la regola di prova legale
qualche volta funzionerebbe e qualche volta no.
Non sembra destare particolari problematiche l’orientamento dottrinale secondo cui, in
taluni casi, un solo indizio può essere sufficiente a fondare la decisione: si pensi al fatto
secondario legato per legge di natura al fatto da provare185.
A conferma di ciò, il contenuto dell'art. 2729, 1° co., c.c. va interpretato come una
raccomandazione al giudice ad essere particolarmente prudente nel momento in cui non
disponga di prove dirette sul fatto principale186.

185 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p.397
186 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.376

69
Ma, è bene precisare come non si possa costruire su questa semplice “sfumatura” la teoria
di una minor efficacia probatoria delle presunzioni semplici, dalla quale far derivare, per
motivi di analogia, identica efficacia alle prove innominate 187.
Altra critica, ancora più radicale, sempre nei confronti dell’equiparazione dell’efficacia delle
prove innominate a quella degli indizi, afferma come il problema delle prove atipiche
rappresenti nient’altro che un problema mal posto dal punto di vista metodologico.
In realtà, a ben vedere, le cosiddette prove innominate si risolverebbero tutte nella più
ampia categoria dei mezzi di prova precostituiti e cioè dei documenti.
Infatti, si esclude che nella realtà del processo “si sia mai discusso dell’ammissibilità di prove
costituende innominate o atipiche”188.
Peraltro, secondo questa dottrina, non è molto chiaro come sia possibile considerare atipici
questi documenti, quando le categorie, previste dalla legge, di atto pubblico e scrittura
privata sono di per sé idonee a ricomprendere tutti i documenti 189.
Il problema risulta pertanto essere non più quello della esistenza o meno delle prove atipiche,
bensì quello di “stabilire se e quale efficacia probatoria vada riconosciuta a ben individuate
categorie di prove precostituite provenienti da terzi”190.
Una cosa comunque è certa: non potrà parlarsi di prove atipiche in relazioni a fatti di causa
non ricostruiti nel processo, nel contraddittorio delle parti, attraverso i mezzi consentiti
dall’ordinamento.
Dunque, di prove innominate si può parlare esclusivamente con riferimento ad una precisa
categoria di documenti. Sicuramente non se ne può parlare in relazione a fonti di conoscenza
entrate nel processo al di fuori delle regole previste dal legislatore.

187 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.376
188 S. Chiarloni, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura
civile, 1987 p. 836
189 “Non risulta ben chiaro in che senso tali documenti dovrebbero considerarsi atipici, posto che ciascuno di essi non

può non rientrare in una delle categorie, legislativamente previste, dell'atto pubblico o della scrittura privata,
logicamente esaustive di tutti i pensabili documenti ottenibili tramite il medium dello scritto. Probabilmente i nostri
documenti vengono qualificati come atipici per segnalare che si tratta di atti scritti provenienti da terzi, anziché dalle
parti.” S. Chiarloni, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura
civile, 1987 p. 836-837
190 S. Chiarloni, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura

civile, 1987 p. 838

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Se questa dottrina si caratterizza, da un lato, per non reputare l’ intrinseca natura atipica
dell’indizio come elemento sufficiente né per desumere l’ammissibilità delle prove
innominate né la tassatività o non tassatività del catalogo dei mezzi di prova 191, dall’altro,
ritiene che i documenti provenienti da terzi, cui vanno assimilati le prove (diverse da quelle
legali) raccolti in altro processo, possono essere impiegati legittimamente dal giudice in
quanto, normalmente, considerati come indizi.
Seguendo questo ragionamento, allora, “le c.d. prove atipiche si connotano essenzialmente
come indizi, e quindi come fonte di un possibile ragionamento presuntivo ad opera del
giudice, secondo lo schema disegnato dagli artt. 2727 e 2729 c.c.” 192.
La questione si sposta, quindi, dal tema delle prove innominate al tema delle presunzioni
semplici.
Senza dubbio, in questo modo, il tema delle prove atipiche è, astrattamente, superato;
poiché la legge prevede espressamente la possibilità per il giudice, di far ricorso all' indizio,
non si potrà accusare il giudice che fa ricorso al processo presuntivo di far uso di prove non
previste dalla legge.
Naturalmente però, il problema, allontanato dalla porta delle prove atipiche, rischia di
rientrare dalla finestra degli indizi.
Si tratterà allora di interpretare correttamente e rigorosamente il concetto stesso di indizio.
Bisogna comunque notare come la tesi appena analizzata, in ordine alla utilizzabilità delle
prove raccolte in un altro processo, con la distinzione posta a seconda che la prova sia
(sempre se richiesto da una delle parti in causa) o non sia riproponibile nel nuovo processo,
risulti sicuramente interessante e, probabilmente, nella maggior parte dei casi, informata a
buon senso.
Ma non si può non vedere come sia destinata a confliggere inesorabilmente con il dato
testuale di cui al 3 co. dell’art. 310 c.p.c.
A questo proposito, è indispensabile sottolineare come appaia fortemente contraddittorio
richiamare ed esaltare continuamente i principi della oralità e della concentrazione, ai quali

191 Sergio Chiarloni, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura
civile, 1987 p. 836
192 Sergio Chiarloni, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura

civile, 1987 p. 851

71
il processo dovrebbe informarsi, per poi negare efficacia ad una norma come il 3 co. dell’art
310 c.p.c. appunto, che ne è una delle espressioni più chiare.
È proprio questo, quindi, il nodo cruciale del problema.
Assumendo come premessa del discorso il fatto che il nostro sistema processuale civile,
soprattutto per quanto concerne la fase istruttoria, si basa sul principio del contraddittorio,
la corrente di pensiero che tende ad attribuire alle prove atipiche un valore probatorio pari
a quello delle presunzioni semplici non sembra poter garantire a tutti gli effetti il pieno
rispetto di questo principio cardine 193.

4.3 La presunzione come “grimaldello” giurisprudenziale per l’ammissibilità delle


prove atipiche

Se in campo dottrinale la confusione e l’imprecisione rendono molto difficile una corretta


individuazione dell’efficacia delle prove atipiche, in campo giurisprudenziale appare salda
l’erronea convinzione per cui il giudice può utilizzare, per fondare la propria decisione,
qualsiasi elemento probatorio dotato di qualsiasi efficacia.
A conferma di ciò, particolarmente rilevante appare la preoccupazione espressa da Michele
Taruffo per quanto concerne l’uso che la giurisprudenza fa delle prove innominate.
L’Autore denuncia “l’oscurità circa i criteri che di fatto vengono applicati in ordine
all’utilizzazione che delle prove atipiche, ma anche l’emergenza di soluzione apertamente
contrastanti con i principi che regolano il procedimento probatorio” 194.
Peraltro, coerentemente con il proprio pensiero, l’Autore osserva come tale atteggiamento
della giurisprudenza non dipenda “in astratto dal potere del giudice di servirsi di fonti di
convincimento non predeterminate dalla legge, quanto alle modalità con cui tali fonte
vengono usate nei singoli casi concreti”195.

193 Francesco De Santis, Il documento non scritto come prova civile, in Pubblicazioni della scuola di specializzazione in
diritto civile dell’Università di Camerino, 1988, p. 136
194 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p. 403

195 M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p. 406

72
In questo articolo del 1973 Taruffo ritiene ancora che le prove innominate debbano
considerarsi equiparabili agli indizi, con la conseguenza che alle stesse sia sempre necessario
applicare i limiti previsti dall’art. 2729 c.c.
Osserva Taruffo che se la giurisprudenza risulta univocamente orientata nell’ammettere le
prove atipiche, non altrettanto può dirsi quando si tratta di determinarne l’efficacia.
Sembrerebbe che la giurisprudenza le impieghi a proprio piacimento, attingendo a piene
mani dagli schemi del ragionamento presuntivo per fare entrare le prove innominate nel
processo.
Le incongruenze e le inesattezze dottrinali in ambito definitorio, quindi, finiscono per
produrre conseguenze molto più nocive nella pratica giurisprudenziale.
Come già sostenuto precedentemente, le presunzioni risulterebbero avere la funzione di
“foglia di fico” dietro la quale nascondere un uso molto libero del proprio convincimento.

5. Le prove atipiche e la mancanza di una norma di chiusura del catalogo delle


prove tipiche

Un’altra fondamentale questione che è necessario analizzare riguardo l’ammissibilità delle


prove innominate, è quella della tassatività, o non tassatività, dei mezzi di prova.
Bisogna, quindi, affrontare il problema delle prove innominate in relazione alla mancata
previsione da parte del legislatore di una norma che chiuda il novero degli strumenti
probatori impiegabili dal giudice nella sua attività.
È opinione diffusa che il novero dei mezzi di prova predisposto dal legislatore presenti come
caratteristica principale il fatto di essere chiuso. Di conseguenza gli unici mezzi di prova
legittimi sono soltanto quelli specificatamente regolati dalla legge, processuale o sostanziale
che sia.
Al di fuori della legge, non sussiste alcuna possibilità per il giudice di ricorrere ad altre
tipologie di fonti di prova.
Esattamente questo risulta essere il significato della nozione di tipicità di mezzi di prova: la
totale mancanza di qualsiasi potere discrezionale per il giudice nell’impiegare, ai fini
dell’assunzione di fonti di convincimento, strumenti diversi da quelli stabiliti dalla legge.

73
Vi è il rischio sia che questi mezzi istruttori possano cadere sotto il divieto per il giudice di
ricorrere alla propria scienza privata, sia che vengano compromessi i principi primari della
tutela giurisdizionale, sanciti dall’art. 24 della Costituzione.
In primo luogo, risulterebbe non garantita una posizione paritaria delle parti.
In secondo luogo, le parti stesse non avrebbero possibilità di conoscere le singole fonti di
prova utilizzabili dal giudice.
Sarebbe infatti concreto il pericolo che il giudice possa fondare il suo convincimento sulla
base di un’argomentazione puramente mentale, senza alcuna possibilità per le parti di
verificarne la correttezza e la logicità196, a differenza di quanto avviene mediante l’impiego
di strumenti probatori tipizzati con precisione dal legislatore197.
Non è sbagliato ritenere che, nonostante manchi un’espressa disposizione normativa in
questo senso, gli unici mezzi di prova siano esclusivamente quelli predisposti in maniera
specifica dal legislatore.
Questo sta a significare che l’impianto delle fonti di prova è chiuso, “senza possibilità, per il
giudice, di inventarne altri: è la c.d. tipicità dei mezzi di prova”198.
Peraltro, va precisato che la c.d. tipicità degli strumenti istruttori viene in considerazione
non già con riferimento “solo alle fonti di prova (dato che tutti i mezzi naturali di conoscenza
sono considerati nel sistema) ma al processo mediante il quale se ne esperimenta la virtù
rappresentativa del fatto da provare”199.
E anche sotto questo profilo si può osservare come le prove possono confluire in un processo
esclusivamente tramite le vie che la legge espressamente disciplina.

196 La decisione del giudice deve essere non solo rigorosamente organizzata secondo termini razionali e logici rispettosa
della volontà del legislatore, vista la soggezione del giudice solo alla legge ex art. 101 Cost., ma anche e soprattutto non
può rappresentare una persuasione contrassegnata dal carattere privato e dall’incomunicabilità dei motivi che sono a
fondamento della credenza in cui essa consiste. A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto
processuale, 2001, p.88
197 L. Montesano e G. Arieta, “Diritto processuale civile” Torino, Giappichelli, 1999, p. 147

198C. Mandrioli e A. Carratta, “Diritto processuale civile” Torino, V.II, Giappichelli, 2015, p. 186

199C. Mandrioli e A. Carratta, “Diritto processuale civile” Torino, V.II, Giappichelli, 2015, p. 186 “In altri termini, non

esistono altre vie per fare entrare nel processo di convincimento del giudice, all’infuori di quelle che la legge
espressamente disciplina”.

74
Né, d’altra parte, questo impedisce che le norme del codice civile, relative alla ammissibilità
e all’efficacia delle prove, non trovino applicazione anche in riferimento a situazioni non
espressamente contemplate dalla legge.
Va poi evidenziato come l’art. 111, 1° co., Cost. rappresenti un’altra norma di rango
costituzionale che rende pressoché impossibile introdurre all’interno del processo civile le
prove innominate200. Più specificatamente, il riferimento è all’inciso secondo cui il processo
“giusto” deve essere “regolato dalla legge”. Questo inciso, pertanto, adotta una riserva di
legge valida anche per quanto concerne le garanzie relative all’ammissione, assunzione e
valutazione della prova”201.
Conseguentemente “si avrebbe di fatto violazione della riserva tutte le volte che si
concedesse al giudice – come si fa ammettendo la legittimità della formazione del
convincimento sulla base anche di prove c.d. atipiche – di regolare direttamente tutti i profili
di conciliabilità dell’ammissione, dell’assunzione e della valutazione di queste prove con il
rispetto delle garanzie del c.d. giusto processo”202
Appare allora veramente poco vantaggioso continuare a domandarsi se il novero dei mezzi
di prova, così come progettato dal legislatore, sia tassativo o meno.
La consueta tripartizione (ispezione, documento e dichiarazione di scienza) tende ad essere
completa, essendo pressoché sempre possibile ricomprendere in una di queste tre categorie
tutti i mezzi di prova normativamente disciplinati.
Addirittura, ci si può anzi spingere ad affermare che la categoria dei documenti, vista la sua
“onnicomprensività residuale”, risulterebbe idonea a ricomprendere qualsiasi strumento
probatorio. Così facendo, anche le prove comunemente note come atipiche, sarebbero da
inquadrare come tipiche203.
Tuttavia, la vera questione è che “si tratterebbe comunque di documenti rappresentativi di
fatti o di attività, i quali non sono conformi ai modelli procedimentali previsti dal codice di
rito civile per la documentazione degli uni o delle altre”204.

200 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 52
201 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 53
202 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 53

203 F. De Stefano L’istruzione della causa nel nuovo processo civile, Padova, Cedam, 1999, p. 303

204 F. De Stefano L’istruzione della causa nel nuovo processo civile, Padova, Cedam, 1999, p. 303

75
Dunque, sembrerebbe che il problema venga solo spostato, restando comunque di grande
importanza.
Risulta pur vero che la giurisprudenza, consapevole dell’esistenza di difficoltà circa il valore
delle prove innominate, tende a degradarle, nel momento della valutazione, a prove ad
efficacia ridotta, pari a quella degli indizi o a quella degli argomenti di prova.
Ciò nonostante, è altrettanto vero che la Corte di legittimità normalmente avvalla la prassi
di ritenere sufficiente alla decisione, se motiva in modo congruo, un solo indizio o un solo
argomento di prova.
Questo significa che, se motivata in modo congruo, dovrà ritenersi legittima una sentenza
fondata su una sola prova atipica “con buona pace del principio generale, invece
indefettibile, della necessaria formazione del processo, e con le regole proprie di questo, del
materiale probatorio da sottoporre al decidente per la formulazione del giudizio di fatto”205.
Dunque, “è per questo che la problematica delle prove atipiche, nella parte in cui si risolve
nell’applicazione del divieto di utilizzazione delle prove illegittimamente ammesse o assunte
davanti al giudice che deve valutarle, va risolta con una sostanziale ripulsa di una categoria
già di per sé di ardita ricostruzione dommatica”206.

5.1. L’inutilità di un principio di apertura o chiusura del catalogo

A questo punto, è necessario chiedersi, una volta per tutte, se “nel processo civile abbiano
efficacia probatoria quei mezzi, non espressamente previsti dalla legge, ma che tuttavia si
tende ad usare”207 .
Una soluzione interpretativa può essere quella di capovolgere il discorso fatto dai sostenitori
delle prove atipiche: non è l’esistenza delle presunzioni semplici che prova l’esistenza della
categoria delle prove fuori catalogo, bensì la possibilità di un ragionamento presuntivo, fatto
nei limiti stabiliti dalla legge, esclude la necessità del ricorso alla categoria delle prove
innominate208.

205 F. De Stefano, L’istruzione della causa nel nuovo processo civile, Padova, Cedam, 1999, p. 306
206 F. De Stefano, L’istruzione della causa nel nuovo processo civile, Padova, Cedam, 1999, p. 306-307
207 G. Monteleone, Diritto processuale civile Padova, Cedam, II ed., 2000, p. 259-260

208 G. Monteleone, Diritto processuale civile Padova, Cedam, II ed., 2000, p. 260

76
Il giudice, infatti, può utilizzare determinate fonti di conoscenza, che non hanno valore
istruttorio in senso tecnico, per un ragionamento presuntivo 209 tutte le volte che queste
abbiano i caratteri dell’indizio.
Lo stesso discorso vale qualora si tratti di fonti di conoscenza, diverse dalle prove in senso
tecnico, che abbiano i caratteri dell’argomento di prova: in questo caso il giudice potrà
utilizzare tali fonti di conoscenza entro gli angusti limiti posti dal 2 co. dell’art.116 codice di
procedura civile210.
Dunque, il giudice potrà tenere conto delle fonti di conoscenza atipiche, che pertanto non
possono essere considerate come delle prove in senso tecnico, nel caso in cui queste
integrino quei fatti certi, indizi, dai quali può cominciare un procedimento inferenziale.
Se ne sussisteranno i requisiti e se ne saranno rispettate le condizioni tassativamente
previste dall’art. 2729 del codice civile, il giudice potrà decidere sulla base di tali indizi e del
procedimento presuntivo che ne consegue.
Allo stesso identico modo, il giudice potrà tenere conto delle fonti di conoscenza atipiche
per il caso che queste ultime integrino una di quelle situazioni 211 dalle quali, ai sensi dell’art.
116 2° co. del codice di procedura civile, può desumere argomenti di prova.
In questo caso, però, tali fonti di conoscenza, non potendo assurgere neppure
indirettamente al rango di prova piena, non saranno sufficienti da sole a fondare la decisione
del giudice.
Da queste osservazioni risulta chiaro che non è veramente necessario ricorrere alla categoria
delle prove atipiche per utilizzare fonti di conoscenza diverse dalle prove intese in senso
tecnico.
Queste diverse fonti di conoscenza potranno infatti essere utilizzate dal giudice in quanto
abbiano i caratteri dell’indizio ovvero dell’argomento di prova.

209 Ragionamento presuntivo che dovrà svilupparsi tenendo in considerazione il preciso dettato normativo degli
artt.2727 e 2729 c.c.
210 G. Monteleone, Diritto processuale civile, Padova, Cedam, II ed., 2000, p.261

211 Come ad esempio: risposte date nell’interrogatorio libero, prove raccolte in un processo estinto riproposto tra le

stesse parti, mancata esecuzione dell’ordine di consentire ispezioni, senza giusto motivo ed in genere il contegno
processuale delle parti.

77
La costruzione della categoria delle prove atipiche risulta dunque inutile; o meglio, potrà
risultare dannosa in quanto sia idonea ad ingenerare nel giudice la convinzione di poter
espandere il proprio libero convincimento sino alla creazione di nuovi mezzi istruttori,
ovvero sino alla utilizzazione di mezzi di prova illecitamente introdotti nel processo.
In conclusione, il problema della tassatività o non tassatività dei mezzi di prova è un falso
problema.
Il libero convincimento, pertanto, dal punto di vista definitorio, va inteso come
indispensabile discrezionalità del giudice nel momento valutativo delle prove in relazione al
singolo caso concreto.
I mezzi di prova indicati dal legislatore possono essere intesi per taluni, come “una
classificazione per summa genera degli elementi della realtà sensibile, dai quali il giudice
può attingere le informazioni necessarie alla cognizione dei fatti controversi”212.
Ovvero, il repertorio dei mezzi di prova può essere inteso da altri “come un’elencazione per
species delle fonti materiali utilizzabili dal giudice”213.
In entrambi i casi il ricorso al principio di apertura o di chiusura del catalogo risulterà del
tutto inutile.
Se infatti si ritiene che il legislatore abbia pensato ai mezzi di prova indicati quali summa
genera degli elementi della realtà sensibile da cui il giudice può attingere le informazioni
necessarie alla cognizione, in questo caso non avrà senso parlare di tassatività dei mezzi di
prova, dovendosi escludere a priori la possibilità, anche solo astratta, di superarne i limiti.
Allo stesso modo, se viceversa si ritiene che il legislatore abbia voluto specificare i mezzi di
cui il giudice può servirsi per assumere le informazioni necessarie alla cognizione, in questo
caso sarà ugualmente inutile far riferimento al principio di chiusura (o apertura) del catalogo
delle prove, al fine di valutare la eventuale legittimità di fonti atipiche.
Infatti, il problema consisterà, più semplicemente, nell’ “interpretare ed applicare in
relazione a ciascuna ipotesi specifica la disciplina di istituti tipici: e così nei casi ora citati, di
vedere se sia documento, e di che specie, anche la certificazione amministrativa, o se il

212 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.347-348
213 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.347-348

78
divieto di cui all’art.246 codice di procedura civile si riferisce a tutte le possibili forme di
intervento, o solo ad alcune ed a quali” 214.
Vedendo la questione da questa prospettiva, vengono dunque meno gli stessi presupposti
logici per la creazione della categoria delle prove atipiche.
Argomentazioni simili sono sostenute per quanto riguarda la questione del modo di
acquisizione. Infatti, non avrà alcuna utilità pratica, ma anzi risulterà essere fuorviante,
parlare di prove atipiche con riferimento a fonti di conoscenza ammesse od assunte violando
i requisiti e le condizioni stabilite dalla legge.
Ciò che interesserà sapere, dunque, è se in questi casi tali requisiti e tali condizioni previsti
dalla legge per l’ammissione o l’assunzione di prove, abbiano o meno carattere essenziale
ed inderogabile.
Peraltro, “nulla proibisce di definire atipico il procedimento che diverga marginalmente dal
suo modello normativo. È altrettanto certo, però, che il richiamo alla nozione di atipicità non
potrebbe mai servire a legittimare deviazioni dai modelli normativi dei diversi procedimenti
probatori, che non trovassero la propria giustificazione nell’ambito stesso della disciplina
dell’istruzione” 215.

214 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.348-349
215 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p.350

79
Capitolo III: I possibili strumenti probatori atipici nell’elaborazione
giurisprudenziale

1. La giurisprudenza e le prove atipiche

Le questioni precedentemente trattate a proposito delle prove innominate sono risolte dalla
giurisprudenza senza fare alcun riferimento, neppure da un punto di vista terminologico, a
questa categoria probatoria.
Ciò probabilmente dipende dalla circostanza che la nozione di prova atipica è quasi
esclusivamente di derivazione dottrinale.
È interessante osservare come, sia sotto il codice più “liberale” del 1865, sia sotto quello più
“autoritario” del 1942, i giudici abbiano spesso cercato di riservarsi un’ampia possibilità di
utilizzazione degli elementi di conoscenza comunque entrati nel processo, in ossequio ad un
non ben inteso principio di libertà del proprio convincimento 216.
In ogni caso, va tenuto a mente che le scelte praticate caso per caso dalla giurisprudenza
non riposano quasi mai su un particolare rigore di indagine, essendo ispirate più che altro a
criteri pratici, senza alcuna pretesa di esattezza scientifica 217.
Tutto ciò si è forse verificato perché la giurisprudenza, per quanto concerne il particolare
problema dell’efficacia delle prove atipiche, non ha potuto trovare quasi mai specifici punti
d’appoggio forniti dalla dottrina. Come già evidenziato nel precedente capitolo, la dottrina
si è prevalentemente preoccupata del problema della ammissibilità dei mezzi istruttori non
previsti dalla legge, non curandosi della questione relativa alla loro efficacia218.
Prima di valutare nello specifico le varie tipologie di prove innominate, è necessario
analizzare, seppure brevemente, alcune delle più importanti posizioni giurisprudenziali sul
tema.

216 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.228


217 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.228
218 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.229

80
Quest’ultime seguono, in modo spesso confuso, le conclusioni della dottrina maggioritaria,
limitandosi ad affermazioni di generica ammissibilità e valutabilità delle prove atipiche.
Risulta tuttavia impossibile, nel susseguirsi delle sentenze pronunciate nel tempo,
specialmente da parte della Cassazione, cogliere aspetti di certezza sistematica e di chiarezza
decisoria219.
“Se, infatti, la giurisprudenza muove quasi sempre dalla considerazione della prova atipica
come indizio, non sempre è dato di poter distinguere come esso debba in concreto operare:
se come presunzione sic et simpliciter, in grado di fondare da sola il convincimento del
giudice; ovvero in concorso con altre presunzioni; ovvero ancora come semplice fattore
corroborante del carneluttiano libero convincimento giudiziario” 220.
La prima delle tre posizioni citate riguarda essenzialmente le prove raccolte in un diverso
giudizio.
Si legge emblematicamente in una sentenza della Cassazione agli inizi degli anni settanta che
“In base al principio dell’unità della funzione giurisdizionale, le prove raccolte con le garanzie
di legge in altro processo, svoltosi tra le stesse parti o altre parti, pur valendo come indizi,
possono costituire fonte, anche esclusiva, del convincimento del giudice di merito, il cui
apprezzamento non è soggetto al sindacato di legittimità della Corte di Cassazione se
immune da vizi logici e giuridici”221.
Lo scritto proveniente dal terzo, al contrario, “avendo valore di semplice indizio, può fornire
la base al giudice per la formazione del suo convincimento, in concorso con elementi
probatori desumibili da circostanze diverse”222.
Queste diverse circostanze vengono variamente e sparsamente individuate, richiedendo, in
alcuni casi che il contenuto degli scritti sia conforme alle dichiarazioni dei testimoni 223, o, in

219 F. De Santis, Il documento non scritto come prova civile, in Pubblicazioni della scuola di specializzazione in diritto civile
dell’Università di Camerino, 1988, p. 133
220 F. De Santis, Il documento non scritto come prova civile, in Pubblicazioni della scuola di specializzazione in diritto civile

dell’Università di Camerino, 1988, p. 133


221 Cass., 23 novembre 1970, n. 2410, in Foro italiano, 1971, I, c. 133

222 Cass., 24 maggio 1969, n. 1848, in Foro italiano, 1970, I, c. 1793

223 Cass., 15 febbraio 1971, n. 383, in Repertorio Foro italiano, 1971, voce Prova civile, c. 2315, n. 102

81
altri casi, che essi oltre a concorrere con diverse circostanze, non siano contestati dalle
parti224.
Non mancano però occasioni in cui le prove raccolte in diverso giudizio devono
necessariamente essere corroborate da altre risultanze istruttorie, venendo allora impiegate
come elementi indiretti e concorrenti nella costruzione del procedimento logico-induttivo e
presuntivo per l’accertamento del fatto controverso 225.
Altre volte, infine, il contenuto delle prove anzidette diviene impreciso in ragione del
principio del libero convincimento, e allora il giudice è libero “in difetto di qualsiasi divieto
normativo, di utilizzare, al fine del suo convincimento, anche prove raccolte in un diverso
giudizio, svoltosi tra le stesse od altre parti, le quali, ovviamente, possono valere come
semplici indizi, atti a fornire elementi indiretti e concorrenti di giudizio, complessivamente
valutabili nel procedimento logico-induttivo o presuntivo per l’accertamento del fatto
controverso”226.
A questo punto, ogni tentativo di rintracciare nella giurisprudenza una linea di
interpretazione univoca sul tema finisce col risultare senza successo 227.
La pronuncia più recente 228 della Corte di Cassazione in materia di prove atipiche sembra
proprio andare in questa direzione.
Da un lato, viene ripetuto come vi sia una “mancanza nell'ordinamento processuale vigente
di una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice può
legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche”;
dall’altro si sottolinea come la loro rilevanza dipenda “esclusivamente dalla maggiore o
minore efficacia probatoria ad esse riconosciuta dal giudice di merito, non sussistendo (né
potendo essere censurato in cassazione) alcun vizio invalidante la formazione della prova
atipica per essere stata questa assunta nel diverso processo in violazione di regole a quello
esclusivamente applicabili”.

224 Cass., 2 novembre 1971, n. 3104, in Repertorio Foro italiano, 1971, voce Prova civile, c. 2315, n. 103
225 Cass., 10 luglio 1975, n. 2728, in Repertorio Foro italiano, 1975, voce Prova civile, c. 2316, n. 46
226 Cass., 2 agosto 1969, n. 2913, in Foro italiano, 1969, I, c. 2407

227 F. De Santis Il documento non scritto come prova civile, in Pubblicazioni della scuola di specializzazione in diritto civile

dell’Università di Camerino, 1998, p. 134


228 Cass., sez. lav., 13 aprile 2021, sez. lavoro, n. 9657

82
2. Lo scritto proveniente da un terzo

L’uso degli scritti dei terzi è una delle ipotesi maggiormente ricorrente nell’impiego di
materiale istruttorio atipico.
Nell’ormai abrogato codice di procedura civile del 1865, il 2° co. dell’art. 283 affermava che
“se (la parte) comparisca e non risponda, o, rispondendo, non neghi la scrittura
specificamente o non dichiari di non riconoscere quella attribuita ad un terzo, la scrittura si
ha ugualmente per riconosciuta”.
Veniva così espressamente richiamata la situazione in cui, prodotto in giudizio uno scritto
attribuito ad un terzo, sulla controparte gravava un onere di disconoscimento, o
quantomeno era chiamata ad una dichiarazione di non conoscenza229.
“Nell’attuale codice è, invece, scomparso ogni riferimento alla scrittura attribuita ad un terzo
e giustamente la modifica non deve apparire casuale, ma indice di un mutamento
dell’indirizzo rispetto al passato”230.
A questo punto, l’attribuzione di un valore probatorio alle dichiarazioni scritte di un terzo
potrebbe significare un distorcimento del sistema delle fonti di convincimento del giudice. Il
rischio sarebbe quello di far assumere alla prova documentale una finalità che le norme
attribuiscono esclusivamente alla prova testimoniale; cioè “di informare il giudice sui fatti di
causa ad opera di soggetti diversi dalle parti” 231.
In particolare, lo scritto contenente narrazioni o dichiarazioni di scienza, non dovrebbe avere
efficacia probatoria. In base alle regole che governano il nostro sistema probatorio, la
modalità tipica di acquisizione della scienza del terzo al processo è la testimonianza, resa nel
contraddittorio tra le parti.
Quando invece il documento proveniente dal terzo contiene la rappresentazione immediata
del fatto da provare, integra un indizio di fatto che, per un verso, può essere contestato con

229 M. Conte, Le prove civili, Milano, Giuffrè, 2009, p.682


230 M. Conte, Le prove civili, Milano, Giuffrè, 2009, p.682
231 A. Ronco, Riflessioni sulla disciplina processuale e sull’efficacia probatoria delle scritture provenienti da terzi, in Rivista

di diritto processuale, 1986, p. 558.

83
ogni mezzo da colui contro il quale è prodotto e, per altro verso, può costituire materia di
prova (probatio probationis) per chi voglia trarne argomenti a proprio favore232.
Secondo un altro orientamento, invece, tutte le scritture - dal punto di vista processuale -
fanno ingresso nel processo indipendentemente dal loro contenuto sostanziale233.
Ad ogni buon conto, la giurisprudenza è ormai costante nel ritenere che i documenti
provenienti da terzi possono sia valere come elementi indiziari sia contribuire con altre
prove al convincimento del giudice.
Maggior valore, ovviamente, è riconosciuto agli scritti che non siano oggetto di
contestazione fra le parti234.
In relazione a questo strumento probatorio, l’indagine deve riguardare due aspetti tra loro
strettamente connessi: da un lato, la verifica della provenienza del documento, dall’altro,
l’efficacia dello stesso235.
La giurisprudenza si è quasi sempre astenuta dall’analizzare separatamente queste
tematiche, limitandosi, ad affermare come lo scritto proveniente da un terzo, pur non
valendo come piena prova, sia comunque in grado di fornire elementi indiziari di
convincimento, una volta provata la sua “veridicità formale”236.
Per veridicità formale si intende nient’altro che la dimostrazione della provenienza della
dichiarazione. La questione relativa alla certezza della provenienza dello scritto del terzo è
stata di solito affrontata sulla falsariga della verificazione della scrittura privata.
Tali documenti sono stati definiti - da parte della giurisprudenza e della dottrina – come
scritture private “rafforzate”.

232 In questo senso B. Cavallone, Critica della teoria delle prove atipiche, in Rivista di diritto processuale, 1978, p. 679 ss.,
A. Proto Pisani, Appunti sulle prove, in Foro Italiano, 1994, V, p. 66 ss.
233 In questo senso S. Chiarloni, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto, in Rivista trimestrale di diritto processuale civile,

1986, p. 866, M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p. 411
234 Cass., 3 settembre 2004, n. 18190, in Guida al Diritto, 2004, 48, 67

235 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p.229

236 Cass., 4 novembre 1988, n. 5974, in Repertorio della giustizia civile, 1988, voce Prova civile, n. 24; Cass., 7 giugno

1984, n. 3440 in Repertorio della giustizia civile, 1984, voce Prova civile, n. 21; Cass., 21 ottobre 1980, n. 5675, in
Repertorio della giustizia civile, 1980, voce Prova civile, n. 57; Cass., 25 ottobre 1971, n. 3008, in Repertorio della giustizia
civile, 1972, voce Prova civile, n. 82.

84
Parte della giurisprudenza237 ha poi sottolineato come l’efficacia probatoria, ex art. 2702 c.c.,
della provenienza del documento da colui che lo ha sottoscritto, è esclusiva delle scritture
provenienti dai soggetti che sono parti del processo; pertanto alle scritture provenienti da
terzi è riconosciuto un valore indiziario e, in difetto di contestazione della parte contro cui
sono prodotte e in concorso con altri elementi che ne confortino la credibilità e l'attendibilità,
tali scritti possono fornire argomenti di convincimento ed integrare il fondamento della
decisione238.
Si è avuto poi un passaggio fondamentale nell’evoluzione interpretativa della questione con
la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione n. 15169 del 2010239.
Allo scopo di comporre il contrasto sulle modalità di contestazione delle scritture private
provenienti da terzi, la Corte ne ha precisato l'efficacia probatoria, definendole come prove
atipiche dal valore meramente indiziario.
Particolare rilievo assume a questo riguardo un obiter dictum, dove la Corte chiarisce che le
scritture provenienti da terzi devono in realtà essere ricomprese in due diverse
sottocategorie.
Mentre la prima riguarda la generalità delle scritture private, definite come “documenti a
valenza probatoria debole”; la seconda contempla tutti quegli atti caratterizzati da

237 Cass., 9 marzo 2000, n. 2668; Cass., 19 gennaio 1990, n. 316; Cass., 27 maggio 1987, n.4719.
238 In particolare, Cass., 26 settembre 2000, n. 12763, in Giurisprudenza italiana, 2001, 1378, con nota di C. Besso, Prove
atipiche e testimonianza scritta, che individua nella pronuncia un accostamento agli ordinamenti stranieri che
ammettono la testimonianza scritta resa fuori dal processo. Segnatamente, la Corte ha confermato la pronuncia del
giudice di merito, in un processo di risarcimento del danno causato da un incidente stradale, fondata sulle dichiarazioni
rese al cancelliere della pretura da due soggetti che avevano assistito all’incidente. La sentenza giustifica l’utilizzazione
delle dichiarazioni rese al di fuori del processo, impiegando lo strumento della prova atipica e legittimando, di fatto, il
giudice, a fronte della produzione della testimonianza scritta, a fondare il proprio convincimento su tale documento,
senza sentire il testimone. In seguito all'introduzione dell'art. 257 bis c.p.c., il documento contenente le dichiarazioni
testimoniali costituisce una scrittura proveniente da terzi estranei al procedimento regolamentata e tipizzata dal
legislatore. Tuttavia, è stato correttamente evidenziato che in seguito all'introduzione di tale norma “è ancora più
difficile ammettere l'utilizzazione in giudizio la valutazione da parte del giudice gli scritti di terzi che non posseggano i
requisiti e non rivestano le precise forme previste oggi dall'ordinamento”: così Vanzetti, sub art. 214, cit., 739, nota 79.
Di recente Cass., 23 ottobre 2017, n. 24976, Ha affermato che le dichiarazioni scritte provenienti da terzi estranei alla
lite, su fatti aventi relazione con questa, non possono esplicare efficacia probatoria nel giudizio se non siano convalidate
attraverso la testimonianza ammessa ed assunta nei modi di legge. Tali dichiarazioni possono unicamente assumere il
valore di semplice indizio, “l'utilizzazione del quale costituisce non già un obbligo del giudice del merito, bensì una
facoltà, il cui mancato esercizio non può formare oggetto di utile censura in Cassazione, sia sotto il profilo della
violazione dell'art. 115 c.p.c., sia sotto quello dell’omesso esame su punto decisivo della controversia”.
239 Cass., 23 giugno 2010, n. 15169

85
particolare incisività, perché costituiscono essi stessi il titolo da cui scaturisce il diritto fatto
valere e, pertanto, si caratterizzano per una più profonda valenza sostanziale e processuale.
Avvalendosi di tale distinzione, le Sezioni Unite perseguono una precisa finalità: quella di
risolvere la questione del valore istruttorio degli scritti provenienti da terzi, individuando la
soluzione nel valore intrinseco o sostanziale del documento medesimo.
Tuttavia, seguendo questo ragionamento, si finisce per non dare alcuna rilevanza al rapporto
intercorrente tra la scrittura e il soggetto (terzo) contro cui è prodotta.
La soluzione accolta dalle Sezioni Unite non sembra pienamente corretta.
Una prima difficoltà, non indifferente, è rappresentata dal fatto che la divisio tra scritture
private semplici e scritture private con efficacia probatoria privilegiata risulta del tutto priva
di un sostegno normativo.
Si deve anche aggiungere che, al di là dalle fattispecie espressamente individuate dalla Corte,
(testamento olografo, titoli cambiari, documenti provenienti da terzi “in connessione diretta
con la fattispecie”), non è chiaro quali scritture private del terzo sarebbero caratterizzate da
un intrinseco grado di attendibilità, tale da conferire loro un valore privilegiato - rispetto ad
altre scritture private di soggetti estranei al giudizio - sia riguardo alla provenienza, sia al
contenuto (thema probandum).
Né è chiaro se da tale presunta attendibilità consegua solo talvolta oppure sempre e
comunque un'efficacia probatoria.
La decisione delle Sezioni Unite finisce paradossalmente per attribuire i documenti
provenienti da terzi un regime giuridico privilegiato rispetto a quello proprio delle scritture
private provenienti dalle parti. La contraddizione è tutt’altro che nascosta.
Inoltre, non può non essere evidenziato come la decisione della Corte richiami alcune
scritture provenienti da soggetti terzi (titoli cambiari ecc.), solo a titolo esemplificativo,
lasciando alla valutazione del giudice di merito, l'individuazione delle scritture dei terzi
dotata di un intrinseco grado di attendibilità.
Da ultimo, riguardo all’efficacia probatoria della scrittura del terzo, va segnalato come essa
non sembri integrare una prova atipica o un argomento di prova come rilevato dalla
giurisprudenza, trattandosi piuttosto di un mero indizio.

86
In definitiva, la dichiarazione scritta viene in considerazione come elemento indiziario che
consente al giudice di risalire dal fatto noto al fatto ignorato.
È necessario comunque precisare che il ragionamento presuntivo deve avere le tipiche
caratteristiche di gravità, precisione e concordanza stabilite dall’art. 2729 c.c..
A ben guardare, prima di quest’ultima sentenza delle Sezioni Unite, l’orientamento
giurisprudenziale era pressoché unanime nel ritenere che:
a) gli scritti dei terzi potessero sì costituire oggetto di valutazione giudiziale, ma senza una
autonoma efficacia decisoria;
b) tale efficacia avrebbe potuto essere acquisita solo in concorso con altri elementi di
convincimento, come il difetto di contestazione, il comportamento delle parti o altre
circostanze240.
Tuttavia, anche questa linea interpretativa non risulta completamente soddisfacente in
quanto, nel momento in cui si afferma la possibilità per lo scritto di un terzo di avere valore
decisorio in caso di difetto di contestazione, “non ci si accorge che in questo caso il
convincimento del giudice non si forma sulla prova fornita dallo scritto, ma sulla relevatio ab
onere probandi, data dal fato non contestato” 241.
Tutto questo rende palese l’illogicità delle soluzioni proposte dalla giurisprudenza, di
legittimità e non solo, proprio per la mancanza di un inquadramento del problema
dell’efficacia probatoria degli scritti dei terzi, nell’ambito della disciplina generale delle
prove atipiche.
L’ultimo indirizzo giurisprudenziale 242 fornito dalla Corte di Cassazione risulta essere di
fondamentale importanza.
Da un lato, nelle sentenze più recenti, la Corte ribadisce ancora una volta “che le
dichiarazioni dei terzi non hanno valore ex se di prova, ma ciò non toglie che esse siano
utilizzabili ai fini del convincimento giudiziale, essendo ammissibili nel giudizio anche le
prove atipiche, purché il giudice fornisca adeguata motivazione della loro utilizzazione”243.

240 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 233


241 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 233
242 Cass., sez. 2, ord., 30 ottobre 2020, n. 24123

243 Cass., sez. I, 10 ottobre 2018 n. 25067, e Cass., sez. 2, ord., 30 ottobre 2020, n. 24123

87
Dall’altro, afferma come sia ormai principio acquisito in tema di presunzioni semplici la
possibilità che “gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente
più d'uno, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su uno solo di essi, purché
grave e preciso, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge
solo in previsione di un'eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi
presuntivi”244.
Qui la contraddittorietà del ragionamento è lampante per due diversi ordini di ragione:
a) in primo luogo, sfugge la ragione che ha portato la Corte ad affermare come le
dichiarazioni dei terzi non costituiscano in quanto tali elementi di prova, se, in un secondo
momento, il giudice può in ogni caso impiegarle come fonti di convincimento, essendo delle
prove atipiche. Delle due l’una: o le dichiarazioni dei terzi in quanto prove, al di là
dell’atipicità o tipicità delle stesse, sono idonee a fondare il convincimento del giudice,
ovvero non sono dotate di una intrinseca efficacia probatoria e per questo motivo non
possono essere impiegate dal giudice come fonte del suo convincimento. Sulla base di
questa sentenza appare estremamente difficile capire se le prove atipiche equivalgano a
delle prove piene o meno, come tali idonee singolarmente a sostenere una decisione.
L’unica soluzione per rendere conforme al testo normativo l’orientamento della Corte è
quella di intendere le dichiarazioni dei terzi non come delle prove atipiche, ma come dei
semplici argomenti di prova. In questo modo, pur non avendo “valore ex se di prova”, tali
dichiarazioni potranno essere impiegate ex art. 116 c.p.c. come chiavi di lettura di altri
elementi probatori. In questo modo, seppur in una maniera secondaria e subordinata alle
prove tipiche, esse saranno utilizzabili al fine del convincimento giudiziale”.
b) in secondo luogo, eliminare il requisito della concordanza dal ragionamento inferenziale
risulta essere un rischio ingiustificato e sconsiderato. Più nello specifico, il crisma della
concordanza pone come condizione necessaria la convergenza in maniera ordinata dei fatti

244Cass. sez.I, 26 settembre 2018 n. 23153 e Cass., sez. 2, ord., 30 ottobre 2020, n. 24123.
In senso contrario Cass., Sez. 2, sent. 7 ottobre 2020, n. 21554 secondo cui “è principio consolidato che le scritture
private provenienti da terzi estranei alla lite possono essere liberamente contestate dalle parti, non applicandosi alle
stesse né la disciplina sostanziale di cui all'art. 2702 cod. civ., né quella processuale di cui all'art. 214 cod. proc. civ.,
atteso che esse costituiscono prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario, e che possono, quindi,
contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo (Cass. sez. un.
n. 15169 del 2010; conf. Cass. 23155 del 2014; Cass. 76 del 2010; Cass. n. 19354 del 2005)”.

88
noti verso la medesima conclusione. Pertanto, un ragionamento presuntivo dovrebbe avere
sempre tutti i tre requisiti, (gravità, precisione e concordanza) dell’art. 2729 c.c.: infatti,
ognuno di questi tre requisiti svolge una specifica ed imprescindibile funzione di garanzia. Il
mancato rispetto dell’elemento della concordanza si manifesta allora come nient’altro che
un’erronea interpretazione giurisprudenziale del dettato normativo, contraria al senso dello
stesso, con l’unico fine di consentire al giudice di merito di ritenere sufficiente una sola prova
indiziaria per fondare la sua decisione.
In questo modo verrebbe svuotato dal punto di vista contenutistico ogni limite sancito dallo
stesso art. 2729 c.c., compreso quello della necessaria sussistenza di più presunzioni, dirette
alla medesima dimostrazione del medesimo fatto ignoto.

2.1 Lo scritto proveniente da un terzo avente un interesse nella causa

Un’altra specifica ipotesi di prove atipiche da analizzare è quella relativa alla possibilità di
attribuire efficacia probatoria alle scritture, anteriori all’inizio della controversia, prodotte
da soggetti terzi incapaci a testimoniare.
Invero, particolari criticità sono prodotte dal rapporto che si instaura fra lo scritto del terzo
e la disposizione dell’art. 246 c.p.c.
Si corre il rischio di arrivare ad un’erronea e contraddittoria interpretazione, secondo cui
“quella stessa norma che vieta al terzo di testimoniare, non precluderebbe la testimonianza
stragiudiziale”245.
La ratio della norma dell’art. 246 c.p.c. 246 è, infatti, quella di affermare il fondamentale
principio di incompatibilità tra la posizione di parte, anche solo potenziale, e di testimone
nel processo.
Questa norma non è nient’altro che la trasposizione sul piano legislativo della massima di
esperienza secondo cui difficilmente una persona renderebbe dichiarazioni che potrebbero,
anche solo indirettamente, danneggiarla. È lo stesso principio in base al quale il nostro

245G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999 p. 233


246Art. 246 c.p.c “Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe
legittimare la loro partecipazione al giudizio”

89
ordinamento giuridico esclude qualsiasi efficacia probatoria alle dichiarazioni rese dalla
parte pro se.
Peraltro, questa situazione di diffidenza, che giustifica la norma sull'incapacità, non sussiste
per il caso di dichiarazione fatta dal terzo interessato quando ancora non si poteva sapere
dell’utilizzazione della dichiarazione in un giudizio futuro (a favore o contro la stessa parte).
In tal caso la dichiarazione del terzo, incapace o meno, viene in considerazione non già come
dichiarazione testimoniale, bensì come punto di partenza da cui, ex art. 2727 c.c., il giudice
può risalire ad un altro fatto, ignorato, attraverso un procedimento inferenziale.
Naturalmente, tali fatti, per poter essere apprezzati dal giudice come prove dovranno avere
le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza stabilite dalla legge.
Dunque, nulla di nuovo rispetto a quanto disciplinato dal legislatore.
Non vi è pertanto nessuna necessità di ricorrere alla categoria delle prove atipiche che, per
la sua intrinseca generalità, potrebbe poi portare al compimento di gravi errori, quale
l'attribuire efficacia ad indizio ad una dichiarazione testimoniale scritta resa da una persona
incapace in occasione del giudizio o da una persona.
A questo proposito, con una sentenza di grande importanza, la Corte di Cassazione nel 1968
sembra percorrere la strada appena indicata.
Più nel dettaglio, secondo il giudice di legittimità “gli scritti e le dichiarazioni stragiudiziali
provenienti da terzi incapaci di testimoniare e anteriori all’inizio della controversia, qualora
appaiano sicuri e spontanei per le circostanze in cui siano resi possono essere utilizzati dal
giudice fino al punto da consentirgli di trarre da essi la fonte principale del suo
convincimento”247.
Nella motivazione della decisione si legge anche che “niente vieta che gli scritti e le
dichiarazioni stragiudiziali di persone escluse dalla testimonianza possano essere utilizzati
dal giudice come elementi di prova o per desumere elementi indiziari potendo il giudice
tenerne conto per formare il proprio convincimento da tali documenti e narrazioni
stragiudiziali anteriori all’inizio della controversia, ove le ritenga sicure e spontanee per le

247 Cass., 27 marzo 1968, n. 959, in Foro Italiano, 1968, I, 2601

90
circostanze in cui siano rese, tanto da poterne trarre la fonte principale del proprio
convincimento”248.
Questa sentenza dimostra come sia tutt’altro che necessario ricorrere alla categoria delle
prove innominate, al fine di ritenere impiegabili, in circostanze ben precise, dichiarazioni
scritte provenienti da terzi. Sarà, infatti, più che sufficiente utilizzare, in modo rigoroso, lo
strumento disciplinato direttamente dal legislatore: la presunzione semplice.
Con questa sentenza la Suprema Corte sembrerebbe aver voluto affermare la necessità di
adoperare precisi parametri al fine di ritenere, correttamente, la dichiarazione scritta del
terzo un vero e proprio indizio; tali parametri sarebbero stati individuati, correttamente, sia
nella “spontaneità” della dichiarazione, sia nella sua “anteriorità” al giudizio.
Meno convincente appare un passaggio della sentenza in questione. La Corte, infatti, prende
in considerazione un doppio e alternativo livello di efficacia della dichiarazione del terzo
come mezzo di prova: si parla, infatti, contemporaneamente, di elementi indiziari e di
elementi di prova.
Questa possibile alternanza non sembra valida.
Il principale motivo di perplessità è rappresentato dal fatto che la dichiarazione del terzo
può assumere rilevanza, nella decisione del giudice di merito, soltanto come fatto (indizio)
dal quale iniziare un procedimento inferenziale (e non come un eventuale diverso strumento
probatorio), mediante l’applicazione in modo rigoroso delle norme in materia di presunzioni
semplici.
In conclusione, nonostante il consolidamento della tesi giurisprudenziale a sostegno
dell’efficacia indiziaria dello scritto del terzo, in ogni caso, non si potrà mai giungere alla
conclusione che una sentenza possa fondarsi, anche esclusivamente, su una prova non tanto
atipica, quanto vietata dalla legge, come quella dello scritto del terzo incapace di deporre
nella causa249.

248Cass., 27 marzo 1968, n. 959, in Foro Italiano, 1968, I, 2601


249G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999 p. 233.
In questo senso anche A. Ronco, Riflessioni sulla disciplina processuale e sull’efficacia probatoria delle scritture
provenienti da terzi, in Rivista di diritto processuale, 1986, p. 561

91
3. Le prove assunte in altro processo estinto

L’art. 341 del codice di procedura civile del 1865 affermava espressamente che “la
perenzione non estingue (…) le prove che risultano dagli atti”.
Il codice vigente prevede, invece, all’art. 310 che in caso di estinzione del processo “le prove
raccolte sono valutate dal giudice a norma dell’art. 116 2° co.”
Mediante un’interpretazione il più possibile aderente al testo della legge, considerando il
preciso richiamo all’art. 116, 2°co, c.p.c, la ratio della norma appare quella di “attribuire alle
prove raccolte nel processo estinto quell’efficacia relativa inferiore propria degli argomenti
di prova”250.
La prima parte dell’art.116 c.p.c. stabilisce che “il giudice deve valutare le prove secondo il
suo prudente apprezzamento”, mentre il 2° co. della disposizione, mutando espressione,
prevede che “il giudice può desumere argomenti di prova” da una serie di circostanze ivi
indicate.
Non è solo in sé la locuzione utilizzata dal legislatore, cioè il riferimento all’argomento di
prova, a far pensare che esso sia qualcosa di diverso dalle prove, ma anche, il contrasto fra
1° e 2° comma.
“Sembra evidente che il legislatore, parlando di argomenti di prova, abbia senza alcun
dubbio, inteso riferirsi ad un quid diverso dalla prova propriamente detta: altrimenti
l’indicare in diverso modo una stessa cosa nel medesimo articolo sarebbe errore troppo
grave da ritenere senz’altro colpevole il redattore della norma”251.
Non si può non vedere come il legislatore al 2° co. dell’art.116 abbia cercato di salvaguardare
i principi di oralità e immediatezza all’interno del processo, attribuendo alla categoria degli
elementi di prova, una minore vis probatoria.
Altro aspetto che vale la pena rimarcare, ancora una volta, è quello del rispetto del
contraddittorio. Esso riveste un ruolo centrale non solo nella scelta e nella valutazione delle

250 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999 p. 349


251 V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, Jovene, 1957I, p. 339

92
prove, ma anche e soprattutto nell’assunzione delle stesse252, anche per esempio riguardo
quelle già raccolte in un processo estinto tra le stesse parti 253.
Da un’attenta lettura del testo normativo, risulta essere completamente scevro di dubbi
l’orientamento secondo cui l’argomento di prova non possa costituire una prova piena,
bensì soltanto un apporto minore alla formazione della prova.
La differenza tra argomento di prova e prova, come già detto più volte, risiede allora nella
impossibilità dell’argomento di prova di fondare autonomamente la decisione, in ragione
della sua estraneità al fatto.
Tuttavia, al pari della dottrina, anche la giurisprudenza si rivela essere frammentata.
Infatti, è possibile riscontrare sia decisioni che ribadiscono la natura secondaria degli
argomenti di prova, ritenendoli correttamente solo delle chiavi di lettura e valutazione delle
prove stricto sensu intese254, sia decisioni diametralmente antitetiche.
Invero, secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale sempre più consolidatosi nel
tempo255, per nulla attinente né alla ratio né tantomeno al dato letterale della norma, il
comportamento processuale della parte, anche e soprattutto preso in considerazione
singolarmente, può essere sufficiente, seppur in casi residuali, per fondare la decisione del
giudice256.

252 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999 p. 356


253 “Sulla base di questo rilievo, non può negarsi che i poteri riconosciuti al giudice dalle norme sopracitate, adempiano
il compito fondamentale di assicurare il diritto alla difesa delle parti anche per ciò che riguarda la ricostruzione del fatto,
a seconda del modo in cui questi poteri vengono utilizzati, il contraddittorio, pur restando le parti identiche, può infatti
attuare in modo diverso. Per fare solo un esempio, una stessa testimonianza raccolta in tempi diversi da giudici diversi,
può dare esiti completamente differenti. non si può dunque dire che il contraddittorio e rispettato, se le parti restano
le stesse, giacché l'esplicazione di tale principio dipende anche dal giudice”. G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè,
1999, p. 356.
In questo senso, anche L. Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del giudice civile, in Studi in
memoria di Salvatore Satta, Padova, Cedam, Vol. II, 1982, p. 1004, il quale ribadisce che il principio dell’”oralità” esposto
da Chiovenda, presuppone necessariamente che ogni giudice debba effettuare la sua istruttoria.
254 Cass., 27 agosto 2004, n. 17076, in Repertorio Foro italiano, 2004, voce Lavoro e previdenza (controversie), n.120;

Cass., 10 luglio 1998, n. 6769, in Repertorio Foro italiano, 1999, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 183; Cass.,
10 giugno 1998, n 5784, in Repertorio Foro italiano, voce Prova civile in genere, n. 33; Cass., 19 agosto 1994, n. 7447, in
Repertorio Foro italiano, 1995, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 143.
255 Cass. 1° aprile 1995, n.3822, in Repertorio Foro italiano, 1995, voce Prova civile in genere, n. 32; Cass., Cass., 5 gennaio

1995, n 193, in Repertorio Foro italiano, 1995, voce Prova civile in genere, n. 34; Cass., 3 settembre 1994, n. 7664, in
Repertorio Foro italiano, 1994, voce Prova civile in genere, n.33; Cass., 13 luglio 1991, n7800, in Repertorio Foro italiano,
1991, voce Prova civile in genere, n.13.
256 In particolare, Cass., 26 marzo 1997, n. 2700, in Repertorio Foro Italiano, 1997, voce Prova civile in genere, n. 24,

secondo cui “un argomento di prova, specie quando non risulti isolato ma si inserisca in un più ampio contesto valutativo,

93
Così facendo, si allarga in maniera pericolosissima la discrezionalità del giudice di merito,
scardinando le regole relative all’ammissibilità, alla formazione e alla valutazione degli
elementi probatori.

3.1. Le prove assunte da un giudice incompetente

Di grande importanza è anche la questione relativa alla conservazione o meno dell’efficacia


delle prove raccolte davanti ad un giudice incompetente.
Durante l’imperio del codice di procedura civile del 1865, la giurisprudenza era solita 257
adottare un criterio conservativo, più o meno marcato, a seconda della qualità delle prove
raccolte e, soprattutto, del grado di partecipazione del giudice alla formazione delle stesse 258.
La dottrina affermava invece la piena conservazione dell'efficacia delle prove
precedentemente raccolte di fronte un giudice incompetente, formulando una distinzione
fra atto giudiziario, per il quale era ritenuta necessaria la competenza, ed atto giurisdizionale
la cui validità prescindeva dalla competenza del giudice259.
La prima soluzione conservativa ha trovato sostegno ancor maggiore dopo l'entrata in vigore
del nuovo codice di rito.
La lettera dell’art. 50 c.p.c., prevedendo che, a seguito della declaratoria di incompetenza, il
processo continui di fronte al giudice competente, ha favorito, infatti, l'interpretazione
propensa a riconoscere la perdurante validità delle prove raccolte dal giudice incompetente.
Questo è anche l’orientamento attualmente condiviso dalla giurisprudenza 260.

può costituire esso stesso una sufficiente fonte di prova, e non soltanto un elemento di valutazione degli elementi già
acquisiti al processo”.
257 Corte d’App., Venezia, 28 luglio 1899, in Temi veneta, 1899, n. 563

258 Ad esempio, si riteneva sprovvista di efficacia la prova formatasi grazie al contributo determinante del giudice

incompetente. Al contrario, in caso di scarsa collaborazione da parte del giudice, come nel caso della perizia o del
giuramento, l’efficacia della prova era fatta salva. (Cass., Torino, 28 gennaio 1869, citata da C. Lessona, Trattato delle
prove in materia civile, Firenze, Fratelli Cammelli, 1922, I, p. 20).
259 In questo senso anche L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, Vallardi, 1903, III,

p. 554, secondo il quale tale efficacia non sarebbe stata infirmata neppure dall’annullamento della sentenza proferito
dalla Corte di Cassazione, salva l’ipotesi, tuttavia, di annullamento della sentenza e degli atti processuali deliberato in
base a motivi direttamente attinenti la formazione o l’ammissione della prova.
260 Cass., 6 agosto 1994, n. 7309, in Massimario di giurisprudenza italiana, 1994; Cass., 9 settembre 1993, n. 9444, in

Giurisprudenza italiana, 1994, 1, I, 1352; Cass., 28 aprile 1989, n. 2037, in Massimario Giurisprudenza italiana, 1989.

94
È pacifico, sia in dottrina sia in giurisprudenza, come l’istituto della traslatio iudicii che si
realizza, in concreto, con la riassunzione della causa, non comporti la costituzione di un
nuovo rapporto processuale, ma semplicemente il trasferimento e la prosecuzione
dell'originario rapporto.
Le prove raccolte dinnanzi al giudice poi dichiarato incompetente conservano la loro
efficacia di fronte al giudice competente, e non subiscono un declassamento, dal punto di
vista della vis probatoria, al rango di argomenti di prova. A conferma di ciò, secondo la Corte
di Cassazione, “la declaratoria di incompetenza non spiega di per sé effetti invalidanti sugli
atti istruttori disposti ed espletati dal giudice che ha dichiarato la propria incompetenza e,
inoltre, la tempestiva riassunzione della causa innanzi al giudice competente determina la
prosecuzione del processo originariamente instaurato; ne discende che nel giudizio
riassunto ben può essere utilizzata la consulenza tecnica espletata innanzi al giudice
dichiaratosi incompetente”261.
La piena efficacia di tali elementi probatori è sostenuta sulla base della considerazione che
la competenza non sarebbe specifico requisito di validità degli atti del giudice, ma solo una
condizione del provvedimento di merito262.
L’orientamento, dottrinale e giurisprudenziale, favorevole alla conservazione dell’efficacia
delle prove raccolte dal giudice incompetente è quindi da preferire, anche in relazione alla
disciplina prevista dall’art. 310, 3° co., c.p.c.
Nel caso di mancata riassunzione innanzi al giudice competente il processo è destinato ad
estinguersi e, conseguentemente, le prove raccolte sono comunque destinate a mantenere,
seppur con una minor efficacia stando alla lettera della norma, degli effetti.
La scelta di ritenere invece prive di valore le prove raccolte innanzi al giudice incompetente,
pur a fronte della tempestiva traslatio, risulta essere non poco stridente con l’evoluzione del
dato normativo.

261 Cass., 7 ottobre 2014, n. 21105


262 G. Bongiorno, Il regolamento di competenza, Milano, Giuffrè, 1970, p. 51

95
Non può non considerarsi come il legislatore abbia preferito, modificando l’art. 38 c.p.c nel
1990 (art. 4 l. 26 novembre 1990 n. 353) prima e nel 2009 (art. 45 co. 2° l. 18 giugno 2009 n.
69)263, dare maggior risalto possibile al principio di economia processuale.
Tali ragioni di opportunità possono quindi prevalere sull’astratta regola definitoria della
competenza.
Quanto appena detto comporta inevitabilmente delle conseguenze per quanto riguarda la
nozione stessa di competenza: essa continuerà certamente ad essere connessa alla
legittimazione del giudice, ma solo come requisito che condiziona il dovere decisorio sul
merito, non anche come requisito generico di validità dei singoli provvedimenti, più nello
specifico delle prove. Questa lettura non sembra scontrarsi con la regola della pre-
costituzione del giudice264.
Non paiono esserci particolari difficoltà a ritenere che proprio l’attuale portata delle regole
sulla competenza permetta di affermare la preservazione delle prove assunte innanzi il
magistrato incompetente265.
Se questo è vero, questi elementi probatori, assunti precedentemente, avranno la stessa
identica vis probatoria di fronte al nuovo magistrato individuato come competente. Come
già accaduto molte volte, anche in questo caso il richiamo alla categoria delle prove atipiche
risulta essere superfluo ed inutile.

263 Art. 38 co. 1° c.p.c “L’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio, sono eccepite, a pena di
decadenza, nella comparsa di risposta a pena di decadenza” La L. 18 giugno 2009 n. 69, in vigore dal 4 luglio 2009 ed
applicabile ai giudizi istaurati successivamente a tale data ex art. 58 l. n. 69/2009, ha stabilito che la preclusione
all’eccezione di competenza non è più riferita come in passato, alla sola incompetenza territoriale semplice, ma investe
ora ogni genere di incompetenza, sia essa per valore, per materia o appartenente alla sfera della c.d. competenza
territoriale funzionale.
264 In questo senso Corte Cost., ord. 16 aprile 1999, n. 128, in Giurisprudenza costituzionale, 1999, 1048, secondo cui “la

ratio del novellato art. 38 c.p.c., consistente nell’esigenza di una sollecita definizione delle questioni preliminari di
competenza, è stata perseguita dal legislatore con l’unificazione del regime della rilevazione dell'incompetenza e con la
imposizione di un limite temporale, oltre il quale è preclusa ogni questione relativa alla competenza; e che tale ratio
risulta perfettamente coerente con i principi che caratterizzano la riforma del processo civile”.
265 Ulteriore conferma di quanto appena esposto si può riscontrare nell’art. 9-bis della legge fallimentare. Si stabilisce

come in seguito alla dichiarazione di incompetenza del tribunale che abbia dichiarato il fallimento, gli atti debbono
essere trasmessi al giudice competente affinché la procedura prosegua innanzi a quest’ultimo, con salvezza degli atti
precedentemente compiuti.

96
3.2. Le prove raccolte in un altro giudizio

Riprendendo quanto precedentemente osservato, se, ai sensi dell’art. 310, 3° co. c.p.c., le
prove raccolte nel processo estinto (dunque nel processo tra le stesse parti ed avente lo
stesso oggetto) possono essere valutate dal giudice soltanto come semplici argomenti di
prova, a maggior ragione non si potrà attribuire una efficacia superiore alle prove raccolte
addirittura in un diverso processo, fra parti diverse.
Motivi logici e sistematici vorrebbero anzi che a queste prove non venisse attribuita alcuna
efficacia.
Ragionando in termini diametralmente opposti, invece, la Corte di Cassazione è orientata
nel senso di ritenere che il giudice del merito, nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali, “è
libero di utilizzare per la formazione del suo convincimento anche prove raccolte in un
diverso processo, svoltosi tra le stesse o altre parti una volta che la relativa documentazione
sia ritualmente esibite dalla parte interessata secondo le regole della legazione, ma tali
prove possono valere come semplici indizi, idonei a fornire elementi indiretti e concorrenti
di giudizio e non anche ad assurgere a fonte determinante per l'accertamento del fatto
controverso virgola in mancanza di un adeguato raffronto critico con le risultanze del
processo”266.
La stessa Corte di Cassazione si spinge anche ad affermare che “il giudice del merito può
assumere quale fonte anche esclusiva del suo convincimento risultanze tratte da altri
processi civili o penali”267. Con questa sentenza viene quindi riaffermato il principio secondo
il quale il giudice può decidere anche utilizzando esclusivamente prove assunte in un altro
processo.
È quindi ormai consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte 268 l’orientamento
secondo cui, il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio
convincimento anche in base ha prove atipiche come quelle raccolte in un giudizio tra le

266 Cass., 26 febbraio 1983, n. 1484 in Repertorio Foro Italiano, 1983, 2603, n. 38
267 Cass., 28 gennaio 1983, n. 809, in Repertorio Foro Italiano, 1983, 2603, n. 39
268 In questo senso Cass., 25 giugno 2019; Cass., 13 agosto 2018 n. 20719; Cass., 26 giugno 2015 n. 13229; Cass., 20

gennaio 2015, n. 840; Cass., 25 marzo 2004, n. 5965; Cass., 26 settembre 2000 n. 12763.

97
stesse o tra altre parti, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che
rilevi la divergenza delle regole, proprio di quel procedimento, relative alla missione e
all'assunzione della prova.
Per il giudice di legittimità, quindi, non è ricavabile “dall'ordinamento una regola che vieti di
fondare il convincimento del giudice esclusivamente su una prova atipica o che, per
converso, attribuisca a questa una efficacia probatoria per così dire dimidiata o condizionata
dall'esistenza di altre convergenti prove tipiche”269.
Con una recente sentenza del 2021, il giudice di legittimità ha cercato di individuare,
erroneamente, nel combinato disposto degli artt. 310 3° co. e 116 2° co. c.p.c., non solo la
porta d’ingresso principale per l’impiego delle risultanze probatorie raccolte in un altro
processo, ma anche un criterio generale per la valutazione delle prove atipiche.
Infatti, nella motivazione della sentenza si legge come, richiamando l’art. 116 2° co. c.p.c e
quindi la categoria degli argomenti di prova, il legislatore non avrebbe assolutamente voluto
attribuire una minore vis probatoria agli elementi istruttori acquisiti in un altro processo.
Molto più semplicemente “dire che il giudice trae argomenti di prova da un fatto significa
inequivocabilmente che quel fatto è utilizzabile ai fini probatori” 270.
L’efficacia di questi elementi dal punto di vista probatorio, capaci sia di accertare il fatto
oggetto della controversia, sia di fondare la decisione del giudice di merito anche in via
esclusiva, secondo la Corte di Cassazione, si manifesterebbe sotto le forme del
ragionamento presuntivo, dotato dei crismi di gravità, precisione e concordanza, previsti
dall’art. 2729 c.c. “L’ordinamento consente, infatti, che l’accertamento dei fatti possa
fondarsi su presunzioni semplici; in tal modo, dunque, la legge si preoccupa soltanto di
prevedere le modalità del ragionamento inferenziale idoneo a fondare l’accertamento dei
fatti, mentre non tipizza le fonti (vale a dire, gli indizi) dell’inferenza presuntiva” 271.
Gli elementi di criticità di questa sentenza sono alquanto evidenti.
Innanzitutto, non è chiaro il motivo per cui non ci si debba accuratamente attenere alla
lettera della norma. Il legislatore ha, infatti, in un primo momento, riconosciuto

269 Cass., 2 luglio 2021 n. 18810


270 Cass., 2 luglio 2021 n. 18810
271 Cass., 2 luglio 2021, n. 18810

98
l’ammissibilità delle prove raccolte in un diverso giudizio, e, in un secondo momento,
utilizzando come norma generale l’art. 310, 3° co., attraverso l’esplicito richiamo all’art. 116,
2° co., ne ha disciplinato l’efficacia probatoria.
Sebbene possa essere riconosciuta all’interno del sistema processuale una tendenza ad
evitare una dispersione delle risultanze istruttorie conseguite in un altro contesto
processuale, ciò deve avvenire rispettando sempre “il principio del contraddittorio e il diritto
di difesa dei soggetti nei cui confronti questi accertamenti siano destinati ad essere
efficaci”272.
Date le circostanze, il problema non è tanto quello dell’impiego di questi mezzi probatori
nell’ordinamento, quanto piuttosto di coglierne la reale efficacia273.

4. Le prove assunte in un processo penale

Un discorso leggermente diverso, rispetto alle ipotesi di prove atipiche finora esaminate, va
fatto per quanto riguarda gli elementi probatori emersi durante un procedimento penale.
Fermo restando la reciproca e assoluta autonomia dei due giudizi, non si può negare come
alcuni atti elementi probatori, o addirittura la sentenza conclusiva, di un giudizio penale
possono confluire in un giudizio civile tra le stesse o tra altre parti.
Quindi, sempre dalla lettura dell’art. 310, co. 3°, c.p.c. può ricavarsi la possibilità di impiego
nel processo civile di prove raccolte da giudici di diversa natura 274.
Più nello specifico, risulterebbe “totalmente contraria a principi di economia processuale la
dispersione di accertamenti già effettuati, anche se in giudizi diversi”275.
Dal punto di vista giurisprudenziale, la Corte di Cassazione ha cercato di fare ulteriore
chiarezza, affermando come “il giudice civile In presenza di una sentenza penale di condanna

272 A. Carratta, Accertamento fattuale del giudice penale nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2020, p.
1464
273 G.F. Ricci, “Le prove atipiche”, Milano, Giuffrè, 1999, p.373
274 In questo senso, G.F. Ricci, “Le prove atipiche”, Milano, Giuffrè, 1999, p.360; Così anche G. Tarzia, “Problemi del

contraddittorio nell’istruzione probatoria civile”, in Rivista di diritto processuale civile, 1984, p. 642, il quale riconosce
espressamente che le prove raccolte altrove possono derivare non solo da altro processo civile, ma anche penale o
amministrativo.
275 G.F. Ricci, “Le prove atipiche”, Milano, Giuffrè, 1999, p. 361

99
non definitiva, può trarre elementi di convincimento dalle risultanze del procedimento
penale virgola in particolare utilizzando come fonti le prove raccolte gli elementi di fatto
acquisiti in tale giudizio, ma è necessario che il procedimento di formazione del proprio
libero convincimento sia esplicitato nella motivazione della sentenza, attraverso
l'indicazione degli elementi di prova e delle circostanze sui quali esso si fonda, non essendo
sufficiente il generico richiamo alla pronuncia penale, che si tradurrebbe nella elusione del
dovere di autonoma valutazione delle complessive risultanze probatorie e di conseguenza
nel vizio di omessa motivazione”276.
Appare evidente come la giurisprudenza 277 sia pressoché unanime nel ritenere che, se
prodotte ritualmente, cioè entro i termini di cui all’art. 184 c.p.c., le prove raccolte in un
processo penale possano essere impiegate anche in un processo civile 278.
Al giudice civile è consentito, però, usufruire di questa possibilità, sempre a patto che venga
osservata la condicio sine qua non della instaurazione del contraddittorio sulla medesima
prova all’interno del processo civile. Infatti, venendo sollevato il contraddittorio fra le parti
anche davanti al giudice civile, “va anche ammessa la possibilità che le parti deducano
ulteriori prove in grado di smentire le risultanze probatorie su cui si basa la sentenza penale,
ma anche la necessita che il giudice civile si formi liberamente il suo convincimento sul
complesso delle risultanze probatorie, senza che sussista per lui alcun vincolo rispetto
all’accertamento conseguito davanti al giudice penale”279.
Altro limite, emerso in giurisprudenza, per questa particolare ipotesi di circolazione della
prova è quello secondo cui “non costituiscono validi elementi di prova nel giudizio civile gli

276 Cass., 27 aprile 2010, n. 10055, In questo senso anche Cass., 2 marzo 2009, n. 5009; Cass., 26 giugno 2007, n. 14766;
Cass., 18 gennaio 2007, n. 1095; Cass., 31 ottobre 2005, n. 21115 ove si legge che “il giudice può desumere elementi sui
quali fondare il proprio convincimento anche dalle risultanze del processo penale concernenti i medesimi fatti, delle
quali la sentenza che in detto giudizio è stata pronunciata costituisce documentazione”
277 In questo senso Cass. 2 marzo 2004, n. 4186 secondo cui “Il giudice può utilizzare, come fonte del proprio

convincimento, anche prove raccolte in un giudizio penale, esaminandone direttamente il contenuto ovvero ricavandolo
dalla sentenza o dagli altri del processo penale ed effettuando la relativa valutazione con ampio potere discrezionale,
senza essere vincolato dalla valutazione che ne abbia fatto il giudice penale”
278 M. Conte, Le Prove civili, Milano, Giuffrè, 2009, p.674

279 A. Carratta, Accertamento fattuale del giudice penale nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2020, p.

1456

100
accertamenti penali consistenti in atti acquisiti o formati in sede di indagini preliminari e non
ancora sottoposti al vaglio del giudice dibattimentale”280.
Naturalmente, è permesso al giudice civile di discostarsi, in virtù del libero convincimento,
dal giudizio compiuto dal giudice penale.
Una volta terminata l’indagine relativa alla possibilità di impiego delle risultanze probatorie
penali all’interno del processo civile, è il momento di concentrarsi sulla questione del valore
probatorio da riconoscere a questi elementi.
La domanda è ancora una volta la medesima: possono essere le risultanze probatorie
emerse in un processo penale idonee anche da sole a fondare il convincimento del giudice
civile? Potranno quindi essere impiegate come prova piena dal giudice, o avranno comunque
sempre un minor valore probatorio, in quanto semplici argomenti di prova?
Prendendo come punto di riferimento l’art. 310, co. 3°, in quanto norma generale avente la
funzione di consentire l’ingresso e di disciplinare l’efficacia delle prove raccolte in un diverso
giudizio, nel caso di specie quello penale, ancora una volta, non può non osservarsi come il
legislatore sia stato molto preciso nell’attribuire a questi strumenti la minore vis probatoria
di argomenti di prova, proprio al fine di evitare il pericolo di arbitrio nella decisione.
Proprio a questo proposito, in senso diametralmente opposto rispetto a quanto appena
sostenuto, assume grandissima rilevanza la sentenza della Corte di Cassazione n. 8585
dell’11 agosto 1999.
Nella motivazione della decisione, infatti, si legge come “Il giudice del merito può utilizzare
in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le
stesse parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, al fine di trarne non solo
semplici indizi o elementi di convincimento, ma anche di attribuire loro valore di prova
esclusiva, il che vale anche per una perizia svolta in sede penale o una consulenza tecnica
svolta in altre sedi civili”281.

280 Cass., 10 giugno 1999, n. 5703


281 Questo orientamento viene confermato anche nella decisione della Cass., 20 gennaio 1995, n. 623 in Repertorio
Giustizia Civile, 1995, voce Prova civile, n. 42, dove si afferma che il giudice “Può utilizzare per la formazione del proprio
convincimento, anche le prove raccolte in un diverso processo, svoltosi tra le stesse o altre parti, una volta che la relativa
documentazione sia stata ritualmente prodotta dalla parte interessata”. “Nel caso di specie la Suprema Corte aveva
ritenuto adeguata la motivazione del giudice di merito che aveva valorizzato una perizia effettuata in un procedimento
penale, al quale l'appellante non aveva partecipato, tenendo presente da un lato l'irripetibilità degli accertamenti

101
Altra decisione di grande rilievo, in tempi più recenti, della Corte di Cassazione è la n. 22384,
sezione lavoro, del 22 ottobre 2014. In questo caso viene affermato il principio per cui “il
giudice civile può utilizzare e autonomamente valutare come fonte del proprio
convincimento, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria,
comprese le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le risultanze della
relazione di una consulenza tecnica esperita nell'ambito delle indagini preliminari,
soprattutto quando La relazione abbia ad oggetto una situazione di fatto rilevante in
entrambi i giudizi, e le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di
sommarie informazioni testimoniali”282.
Opposta giurisprudenza, più attenta al dato del diritto positivo, invece ritiene che le
risultanze istruttorie di altri processi, in questo caso quello penale, non appartengano alla
categoria giuridica di prova atipica e di conseguenza non sono in grado di assurgere al rango
di fonte esclusiva del convincimento del giudice.
“Il giudice del merito, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, oltre che utilizzare prove
raccolte in altro giudizio tra le stesse o altre parti, può anche avvalersi delle risultanze
derivanti da atti di indagini preliminari svolte in sede penale le quali devono tuttavia
considerarsi quali semplici indizi idonee a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio e la
cui concreta efficacia sintomatica di singoli fatti noti deve essere valutata virgola in
conformità alla regola in tema di prove per presunzioni virgola non solo analiticamente ma
anche nella loro convergenza globale, accertando nella pregnanza conclusiva in base a un

all’epoca compiuti e dall'altro che l'appellante neanche nel secondo grado, dopo che tale perizia era già stata posta a
base della sentenza di primo grado, non aveva contestati, pur avendone la possibilità, metodi e risultati, mediante la
produzione di elaborati tecnici e la deduzione di altri mezzi di prova”. G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999,
p. 369, nota 100.
282 In questo senso anche Cass. 22 aprile 2003, n. 6396, Guida al Diritto, 2003, 24, 69 afferma che “al giudice civile è

consentito non solo di utilizzare il materiale probatorio raccolto in sede penale con le garanzie di legge, bensì anche di
farne l’unica fonte del proprio convincimento”.
Anche secondo la Cass., 9 ottobre 2014 n. 21299 sezione lavoro, secondo cui “Il giudice civile può anche avvalersi delle
prove raccolte in sede penale quando e se siano state assunte nel contraddittorio tra le parti o quando il contraddittorio
sia mancato per l'autonoma scelta dell'imputato di avvalersi di riti alternativi oppure quando tutte le parti gliene
facciano concorde richiesta, ma in ogni caso deve procedere autonoma e motivata valutazione dell'attendibilità,
dell'affidabilità e dell'idoneità delle prove medesime a dimostrare l'esistenza o l'inesistenza dei fatti rilevanti nella
controversia civile innanzi a lui pendente”.

102
apprezzamento che, se sorretto da adeguate corretta motivazione, sotto il profilo logico
giuridico, non è sindacabile in sede di legittimità”283.
In conclusione, appare inequivocabile come anche le risultanze di un processo penale non
siano riconducibili alla categoria delle prove innominate, ma nient’altro che argomenti di
prova espressamente disciplinate dal legislatore all’art. 310, 3° co., c.p.c.
In maniera ancora più dettagliata, risulta fortemente contraddittorio classificare come
atipico un elemento perfettamente riconducibile, seguendo la lettera della norma, a
determinate fattispecie tipiche.

5. L’efficacia della consulenza tecnica assunta in altro processo

È il momento adesso di analizzare l’origine e l’evoluzione dello strumento probatorio della


consulenza tecnica e l’utilizzazione dello stesso effettuata dalla giurisprudenza.
È infatti necessaria una premessa di natura storica.
Bisogna innanzitutto considerare come il codice di rito del 1865 mettesse in rilievo la
funzione probatoria della relazione peritale, tanto da annoverare la perizia trai mezzi di
prova in senso stretto, mentre il legislatore del 1942 abbia preferito ricondurre il perito tra
gli ausiliari del giudice, ponendo l’accento sulla sua funzione assistenziale rispetto
all’operato del giudice.
Infatti, la perizia, declassata dagli artt. 191 ss. al rango di consulenza tecnica, è confluita nella
sezione del codice di procedura civile dedicata all’istruzione probatoria, rimanendo però
confinata in una sezione autonoma rispetto a quella sull’assunzione dei mezzi di prova,
restando esclusa dal novero dei singoli mezzi probatori.
La legge processuale vigente evidenzia come la consulenza d’ufficio non sia un mezzo di
prova, ma un mezzo di comprensione e di valutazione, sotto il profilo tecnico-scientifico, di
dati già acquisiti.

283“Nella specie, in applicazione del riferito principio si è ritenuto che anche una consulenza tecnica disposta dal P.M.
in un procedimento penale, una volta ritualmente prodotta dalla parte in un giudizio civile, può essere liberamente
valutata come elemento indiziario, ancorché la valutazione stessa non può non tener conto che essa sia formata,
eventualmente, senza il contraddittorio delle parti del giudizio civile che non risulta sottoposta al vaglio del giudice del
dibattimento” Cass., 20 dicembre 2001, n. 16069, Guida al Diritto, 2002, 11, 74

103
Dunque, il legislatore ha volutamente accentuato il ruolo della consulenza quale atto
d’integrazione dell’attività deduttiva del giudice, relegando su un piano marginale la
possibilità che tale istituto, quale strumento di accertamento dei fatti, possa assurgere al
rango di fonte oggettiva di prova.
Proprio la mancanza di un inquadramento sistematico univoco della consulenza tecnica ha
determinato nella prassi molteplici incertezze, avallate dalla giurisprudenza. Si è così spesso
trascurata la funzione di integrazione istruttoria della consulenza tecnica.
Deve inoltre essere considerato il ruolo assolutamente centrale che, con il progredire delle
scienze, ha inesorabilmente assunto la prova scientifica 284 , finendo per incentivare l’uso
della consulenza tecnica, accentuandone i profili di criticità.
Per questa ragione, sembra indispensabile ricostruire l’efficacia istruttoria della consulenza
tecnica d’ufficio attraverso un’interpretazione del dato normativo, rispettosa del principio
del contraddittorio.
A questo proposito, l’attuale 3° co. dell’art. 195 c.p.c., consente l’attuazione, fuori udienza,
di una forma semplificata di contraddittorio che non interferisce con la celerità della
procedura. Il consulente tecnico, infatti, prima di depositare in cancelleria la relazione, deve
trasmetterla alle parti che, anche avvalendosi di esperti, hanno l’onere di comunicargli le
proprie osservazioni e controdeduzioni sull’elaborato; il consulente d’ufficio deposita, infine,
la relazione finale, contenente anche le risposte alle osservazioni delle parti.
Occorre poi segnalare che i termini per le osservazioni sono funzionali alla formazione della
consulenza tecnica nel contraddittorio delle parti; è pertanto affetta da nullità (relativa) la
consulenza depositata in cancelleria, senza concessione del termine per le osservazioni.

Tale assunto muove, inoltre, dal fatto che la partecipazione delle parti (e dei rispettivi
consulenti) alla formazione della perizia permette al consulente di recepire nel documento
finale soltanto le osservazioni effettivamente attendibili e, contemporaneamente, di chiarire

284G.F. Ricci, Nuovi rilievi sul problema della “specificità” della prova giuridica, in Rivista trimestrale diritto e procedura
civile, 2000, p. 1129. In questo senso anche L. Dittrich, La ricerca della verità nel processo civile, in Rivista di diritto
processuale, 2011, I, p. 117, secondo il quale “le tecniche di indagine oggi disponibili restringono il potere valutativo del
giudice, in cui confini sono sempre più erosi. Accade così che fenomeni, olim, valutabili solo tramite le classiche prove
costituende, o addirittura tramite l'utilizzo delle massime di esperienza, sono oggi indagabili tramite strumenti scientifici,
ai quali il giudice e di fatto obbligato a rivolgersi: si pensi alla prova della paternità tramite l'analisi del DNA, ma anche
ad una comunissima perizia grafica, ad una perizia dinamica sulle modalità di un incidente stradale”.

104
le ragioni che escludono la rilevanza di altre osservazioni.
In questo modo il giudice è posto in condizione di verificare agevolmente i risultati raggiunti,
sia sotto il profilo della coerenza logica, sia dell’affidabilità di tipo tecnico-scientifico.
Non va, inoltre, trascurato che la consulenza tecnica d’ufficio riesce, spesso, a sovvertire i
ruoli: il giudice, che solitamente non è dotato di particolare specializzazione, finisce spesso
per soggiacere alle determinazioni del perito, spogliandosi della qualifica di peritus
peritorum.
Sempre più spesso la relazione tecnica assume, infatti, il ruolo di una vera e propria prova
legale, che le consulenze di parte raramente riescono ad erodere, essendo queste ultime
predisposte da soggetti nominati dalle parti (e non dal giudice) e caratterizzate – per il
giudice - da una difficoltà di comprensione pari a quella propria della consulenza d’ufficio.
Per tutte queste ragioni occorre favorire l’apertura del (giudice e del) processo civile a quelle
nozioni che sfuggono alla maggior parte dei giudici, assicurando il principio del
contraddittorio non solo tra le parti davanti al giudice, ma anche tra il consulente d’ufficio e
i consulenti di parte sul diverso piano delle rispettive conoscenze specialistiche.
Una volta terminata questa premessa, bisogna ora interrogarsi sull’efficacia probatoria che
nel processo civile può assumere una consulenza tecnica resa in altro giudizio,
indipendentemente dalla circostanza che riguardi le stesse o altre parti.
In particolare, non è chiaro se si tratti di una prova in senso stretto, idonea a fondare in via
esclusiva il convincimento del giudice285, di un indizio, dotato della medesima efficacia che
viene riconosciuta alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c.286, ovvero, infine, di un mero
argomento di prova, che necessita di essere corroborato da altre prove raccolte nel giudizio
civile.
Al riguardo, va sempre tenuto in considerazione che la consulenza tecnica non è un mezzo

285 Cass., 22 ottobre 2014, n. 22384 (che conferma Cass., 30 gennaio 2013, n. 2168, per la generalità delle prove assunte
in altri processi); Cass., 2 luglio 2010, n. 15714.
286 Con specifico riferimento all’efficacia indiziaria della c.t.u. assunta nel giudizio penale, Cass., 20 dicembre 2001, n.

16069, in Guida al diritto, 2002, 11, 74, stabilisce che, se ritualmente prodotta, può essere liberamente valutata dal
giudice civile come elemento indiziario idoneo alla dimostrazione di un fatto determinato (ancorché la valutazione
debba sempre tener conto della circostanza che l'atto si è formato senza il contraddittorio tra le parti e che esso non
risulta sottoposto al vaglio del giudice del dibattimento). Senza trascurare che il giudice del gravame ha l'obbligo di
estendere il proprio giudizio a tutte le eventuali, successive risultanze probatorie, e non limitarsi ad una rivalutazione
della sola consulenza eventualmente posta a fondamento della decisone di primo grado.

105
di prova in senso proprio, sempre che non abbia un contenuto percettivo o assertivo 287.
Pertanto, al fine di stabilire l’efficacia probatoria della consulenza tecnica assunta in altri
giudizi, occorre prima chiarire se essa abbia avuto nel precedente giudizio natura valutativa
o percipiente.
Nessun problema si pone se la consulenza è meramente integrativa della scienza del giudice
che può stabilire se (e quanto) avvalersi della relazione formata in altro processo, fermo
restando il rispetto del contraddittorio: alle parti va riconosciuto, infatti, il potere di
interloquire, anche mediante i rispettivi consulenti, sulle valutazioni e sui risultati contenuti
nella perizia.
Questa impostazione si fonda sull’ampia discrezionalità del giudice riguardo all’opportunità
di nominare un consulente tecnico. Infatti, il giudice può ritenere superflua la nomina di un
nuovo consulente, con conseguente risparmio di costi e tempi del giudizio, qualora gli
aspetti tecnici siano già stati chiariti da una precedente relazione valutativa.
Parimenti rientra nella discrezionalità del giudice disporre il conferimento dell’incarico allo
stesso o ad altro perito, con quesiti (in tutto o in parte) diversi che tengano conto (o meno)
delle risultanze della precedente relazione.
Il discorso diventa più complesso quando la relazione tecnica assunta in altro processo
contiene l’accertamento di un fatto mediante specifiche conoscenze tecniche e costituisce
un mezzo di prova vero e proprio.
A ben guardare, per verificare l’ammissibilità e l’efficacia della consulenza di natura
asseverativa assunta in altro processo, l’unico dato normativo che consente alla parte di
avvalersi di qualsiasi tipologia di prova per l’accertamento dei fatti posti a fondamento della
domanda giudiziale è l’art. 24 Cost. nella parte in cui sancisce il diritto alla prova.
Ne consegue allora che tutte le prove che superano il giudizio di rilevanza possono essere
valutate dal giudice, salvo l’ipotesi di esplicita inammissibilità ed il rispetto del principio del
contraddittorio, inteso quale garanzia per ogni processo dopo la sua espressa previsione
all’interno dell’art. 111 Cost.

287La consulenza tecnica d’ufficio in questo caso viene definita come percipiente. Per la Corte di Cassazione (Cass., 5
febbraio 2013, n. 2663) essa costituisce un mezzo oggettivo di prova qualora si risolva nell’accertamento diretto di fatti
e situazioni rilevabili unicamente con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche o specialistiche.

106
A questo proposito deve essere segnalato che se si esamina la più recente giurisprudenza
della Cassazione emerge chiaramente come i giudici di merito tendano a recepire
“acriticamente” sia il risultato delle consulenze tecniche formate aliunde, sia il percorso
logico argomentativo seguito dal primo giudice288.
Di qui l’affermazione della Cassazione che la “condizione di utilizzabilità delle prove acquisite
in altro processo, è quella della presenza della documentazione nel giudizio”289.
Tuttavia, perché si abbia un effettivo rispetto del principio del contraddittorio, non basta
che le parti e le regole processuali che hanno retto la formazione del mezzo prova nel primo
giudizio coincidano con quelle proprie del giudizio pendente, ma occorre che:
a) la prova sia ritenuta ammissibile e rilevante dal giudice nel rispetto delle norme proprie
della legge sostanziale e processuale;
b) le parti si trovino nella condizione di contestare le risultanze della prova, stimolando
conseguentemente la valutazione giudiziale della stessa.
Ciò significa che il giudice non può (e non deve) limitarsi a prendere atto del risultato
probatorio già confezionato, ma è tenuto ad esaminarlo in maniera analitica, anche alla luce
delle circostanze che hanno inciso sulla sua formazione, dei rilievi delle parti e del fatto da
provare.
Con particolare riferimento all’ipotesi della consulenza con funzione di accertamento
tecnico (e non invece di valutazione tecnica) assunta in altro processo sembra necessario
che il giudice civile, dopo aver acquisito la relazione, conceda termine ai difensori per
l’esame della stessa, riconoscendo alle parti la facoltà di nominare i rispettivi consulenti; ad
un tempo deve fissare un’udienza per la discussione sull’elaborato peritale e sulle
osservazioni ed i rilievi prospettati dalle parti ed un ulteriore termine per la redazione di
memorie290.
È appena il caso di osservare che l’attuazione posticipata del contraddittorio (sulle risultanze
di una perizia percipiente formatasi in altro processo), anche se comporta – indubbiamente
- un certo dispendio di tempo, consente di risparmiare i costi di una nuova consulenza ma,

288 Si è già avuto modo di analizzare la sentenza della Cass., 22 ottobre 2014, n. 22384.
289 Cass., 7 maggio 2014, n. 9843.
290 Trib. Varese, 12 marzo 2012, in www.ilcaso.it

107
soprattutto, di ritenere raggiunta la prova quando l’accertamento tecnico non può più
ripetersi.
Non solo: il rispetto del principio del contradditorio assicura, inoltre, un buon grado di
stabilità alla successiva decisione, poiché limita in maniera significativa i successivi motivi di
impugnazione. Rimane, comunque, fermo che il giudice può - secondo la propria
discrezionalità - disporre un’ulteriore consulenza, anche limitatamente ad alcuni quesiti,
indipendentemente da un’espressa richiesta delle parti.
Lo specifico campo d’indagine è allora il seguente: si vuole cercare di individuare, nel modo
più preciso possibile, la natura di un mezzo di prova che ha acquisito questa funzione solo in
seguito ad una sua costante utilizzazione nella prassi come strumento per l’accertamento di
fatti controversi, nonostante l’idea del legislatore fosse quella di dar vita soltanto ad un
mezzo di integrazione della scienza del giudice.
Nonostante l’effettiva presenza di problematiche di merito, la giurisprudenza è ormai
pacificamente orientata nel ritenere che, in mancanza di un esplicito divieto di legge, il
giudice di merito è libero di formare il proprio convincimento utilizzando la consulenza
tecnica assunta in altro giudizio, assegnando a questo mezzo istruttorio “artificiale” una
valenza probatoria indiziaria291.
Non può non essere osservato come comunque esistano tre ordini di problemi.
Un primo problema è legato al fatto che l’attività processuale in esame non si è svolta dinanzi
al magistrato decidente davanti al quale si vuole documentare e, peraltro, non
necessariamente nel rispetto delle norme di rito che il decidente stesso potrebbe ritenere
applicabili.
La questione non è di poco conto: il mezzo probatorio, una volta assunto in un procedimento

291 In questo senso Cass. 16 maggio 2006, n. 11426, Massimario di giustizia civile, 2006, 5 secondo cui “il giudice di
merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse
o anche fra altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, e può quindi trarre elementi di convincimento
ed anche attribuire valore di prova esclusiva ad una perizia disposta in sede penale, tanto più se essa sia stata
predisposta in relazione ad un giudizio avente ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i processi”.
Anche per Cass., 19 settembre 2000, n 12422, Massimario di giustizia civile, 2000, 1960 “il giudice di merito può
utilizzare in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in diverso giudizio fra le stesse o altre parti,
come qualsiasi altra produzione delle parti stesse e può quindi avvalersi anche di una consulenza tecnica ammessa ed
espletata in un diverso procedimento, valutandone liberamente gli accertamenti ed i suggerimenti una volta che la
relativa relazione peritale sia stata ritualmente prodotta dalla parte interessata”.

108
speciale, potrebbe essere non solo acquisito nel corso di un giudizio ordinario ma potrebbe
anche presentare dei vizi, non sanati nel corso del procedimento speciale.
La seconda problematica è invece determinata dal fatto che l’assunzione della prova nei
confronti di una sola delle parti potrebbe ledere il diritto di difesa della controparte, la quale
potrebbe non aver partecipato affatto all’acquisizione della prova e, dunque, non aver
completamente interloquito sulla stessa.
È opportuno quindi attuare una limitazione all’utilizzabilità di consulenze assunte in altri
giudizi: l’ammissibilità di tale mezzo formato aliunde, nel caso in cui si considerino le prove
assunte tra parti diverse rispetto a quelle del giudizio in cui avviene la produzione, deve
ammettersi esclusivamente previa apertura e corretto svolgimento del contraddittorio sulle
stesse.
In assenza di questa fondamentale garanzia, si rischierebbe di violare il principio di parità
delle armi per le parti, utilizzando in maniera distorta l’art. 24 Cost. e il derivato diritto alla
prova.
L’ultima ma non meno importante questione da affrontare è quella relativa all’efficacia
probatoria di questo strumento in relazione al dato normativo del codice vigente.
Se si ritiene valida la soluzione adottata nelle pagine precedenti, secondo cui l’art. 310, co.
3°, mediante il richiamo all’art. 116 2° co., rappresenta la norma generale per l’introduzione
nel processo civile delle risultanze probatorie raccolte in altri procedimenti, anche per
questa particolare tipologia di mezzo di prova bisognerà necessariamente attenersi nel
modo più preciso possibile a quanto disposto dal legislatore.
Pertanto, impiegando l’art. 310 3° co, e il rimando in esso contenuto 292 , come porta
d’ingresso principale nel processo civile per gli elementi probatori raccolti altrove, non solo
è necessario che comunque il giudice di merito svolga una propria istruttoria, sia osservando
il principio del contraddittorio da intendere come garanzia per le parti processuali, sia non
limitandosi a riproporre quanto già precedentemente affermato da un suo collega, ma è
anche indispensabile che la valutazione di questi elementi non avvenga ignorando

292 Non sembrano esserci altre strade percorribili: laddove non venisse utilizzata questa norma, non sono rintracciabili
nel codice di procedura civile altri riferimenti normativi che consentono l’ingresso nel processo civile di prove raccolte
altrove.

109
l’indicazione fornita dal legislatore.
Anche in questo caso, ricorrere alla categoria delle prove atipiche quando il legislatore ha,
da un lato, specificamente indicato la natura di questi mezzi istruttori (argomenti di prova)
e, dall’altro lato, ha attribuito loro una probatio inferior, non potendo autonomamente
fondare la decisione del giudice ma solo offrire elemento di valutazione per altre prove,
risulta essere un’interpretazione inconciliabile con la lettera e con la ratio della norma.
Altro tema di notevole rilevanza è quello dell’efficacia della perizia stragiudiziale.
Per perizia stragiudiziale si intendono tutte quelle particolari dichiarazioni di terzi, fatte
all’interno o fuori del giudizio, che contengono delle valutazioni su una questione tecnica.
“Secondo lo schema del codice, il modo naturale attraverso il quale un soggetto del processo
può prendere posizione su una questione tecnica, è quello del ricorso al consulente di parte.
In quest’ottica si presuppone che vengano seguiti i criteri previsti dall’art. 201 c.p.c, che ne
definiscono i poteri, fra i quali non è previsto quello di predisporre un’autonoma
relazione”293.
Tali dichiarazioni dovrebbero quindi essere considerate alla stregua di semplici allegazioni,
con la conseguenza che le circostanze di fatto e le valutazioni relative dovrebbero
necessitare di prova tramite la consulenza tecnica d’ufficio294.
Da un altro punto di vista, si può riscontrare un opposto orientamento giurisprudenziale che
attribuisce invece alla perizia stragiudiziale valore indiziario, in quanto autonoma fonte di
prova. La Corte di Cassazione ha infatti più volte avuto modo di affermare come sia
“consentito al giudice del merito fondare la decisione su una consulenza stragiudiziale,
anche se impugnata dalla controparte, purché fornisca adeguate ragioni di tale sua
valutazione discrezionale”295.

293 G. F. Ricci, “Le prove atipiche”, Milano, Giuffrè, 1999, p. 260


294 In questo senso Cass., 9 novembre 1973, n. 2944, in Repertorio Foro italiano, 1973, 2046, n. 70, secondo cui “le
perizie stragiudiziali, poiché non offrono garanzie, né di contraddittorio né di obiettività, costituiscono semplici
allegazioni difensive di carattere tecnico, prive di autonomo valore probatorio”.
In dottrina anche S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, Casa editrice dr. Francesco Vallardi, II,
1962, p. 127 afferma che la perizia stragiudiziale non sarà altro che una difesa tecnica, la cui efficacia è quella di un
semplice parere.
295 Cass., 15 giugno 1981, in Repertorio Foro italiano, 1981, 2315, n. 46. In questo stesso senso anche Cass., 2 febbraio

1987, n. 1416, in Repertorio Foro italiano, 1987, 580, n. 10.; Cass. 30 novembre 1988, n. 6501, in Repertorio Giustizia
civile, 1988, voce Prova Civile, n. 23.

110
Il motivo principale per cui è da escludere nel modo più netto possibile qualsiasi efficacia
probatoria della perizia stragiudiziale va ricercato ancora una volta nel dato normativo, e più
precisamente nell’art. 246 c.p.c.
Invero, in un ordinamento come il nostro in cui il legislatore si è pronunciato in maniera
esplicita nel non ritenere ammissibile la testimonianza di parte, tantomeno potrebbero
avere alcuna vis probatoria le argomentazioni delle parti, neppure se particolarmente
tecniche.
“Pertanto, non pare azzardato osservare che nel nostro ordinamento, giusto o sbagliato che
sia il principio, l’argomentazione può costituire prova, solo se proveniente da un terzo
imparziale. Ciò significa che per la perizia stragiudiziale, il problema sta a monte del
contraddittorio e dipende solo dal fatto che non si può essere parte e testimone nello stesso
tempo”296.

6. La sentenza come mezzo di prova

La questione da analizzare consiste nell’eventualità che una sentenza di un giudice possa, in


quanto strumento probatorio, “influenzare l’esito di un successivo processo, al di fuori dei
casi in cui essa venga invocata con efficacia di giudicato” 297.
Quindi, è necessario comprendere se la formazione del convincimento del giudice civile
possa avvenire anche mediante l’utilizzazione degli accertamenti di fatto e dei giudizi storici
contenuti nella motivazione di un precedente provvedimento giurisdizionale, sia civile sia
penale.
Bisogna, quindi, verificare se il contenuto della sentenza di un precedente giudizio possa
essere apprezzato ai fini probatori “in altri processi in cui sia rimessa in discussione la verità
storica degli stessi fatti”298.

296 G. F. Ricci, “Le prove atipiche”, Milano, Giuffrè, 1999, p. 263; Anche M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del
giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p. 421-422 propende per la totale inutilizzabilità della perizia stragiudiziale,
nonché di quella assunta in un altro giudizio, in quanto in entrambi i casi verrebbe meno la garanzia del contraddittorio
297 G.F. Ricci, “Le prove atipiche”, Milano, Giuffrè, 1999, p. 420

298 P. Calamandrei, La sentenza civile come mezzo di prova, in Rivista di diritto processuale, 1938, XV, I, p. 108-129, ora

in “Opere giuridiche”, Napoli, Morano, V, 1972, p. 563

111
Sul punto, se, da un lato, la giurisprudenza è assolutamente ferma nell’affermare che il
giudice possa liberamente servirsi, tra i vari elementi probatori atti a formare la sua
convinzione sui fatti controversi, anche degli accertamenti contenuti nelle sentenze
provenienti da altri processi, dall’altro, non risulta essere fatta alcuna differenziazione
riguardo la possibile diversa efficacia probatoria nel caso in cui l’altro processo verta tra le
stesse parti o tra parti diverse299.
Ad ogni buon conto, non può non considerarsi come questa tipologia di elementi di prova
sembra porsi in contrasto con il principio per cui, anche in questa situazione, le esigenze di
oralità e contraddittorio impongono ad ogni giudice di effettuare una propria istruttoria,
senza adagiarsi sulle risultanze degli accertamenti altrui.
È necessario approfondire preliminarmente la questione dell’estensione nel processo civile
dell’accertamento fattuale contenuto in una sentenza penale irrevocabile. In relazione a
questa specifica circostanza, la norma di riferimento è l’art. 654 c.p.p.
In questo caso il legislatore stabilisce che, laddove vi sia stata una sentenza penale
irrevocabile, di condanna o di assoluzione emessa a seguito del dibattimento, tale sentenza
nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile costituitosi “ha
efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte
intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende
dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché
i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge
civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”.
In particolare, il legislatore afferma che l’estensione dell’efficacia vincolante di una sentenza
penale irrevocabile 300 deve limitarsi agli accertamenti materiali in essa contenuti e che
pertanto questi possono essere valutati dal giudice civile in maniera completamente diversa

299 Cass., 4 giugno 2001, n. 7518, Massimario di giustizia civile, 2001, n. 1123 “Se il giudice è libero di utilizzare, per la
formazione del suo convincimento, anche prove raccolte non diverso processo svoltosi tra le stesse od altre parti, tale
prova può valere, come indizio idoneo a fornire elementi di giudizio, solo una volta che la relativa documentazione sia
ritualmente esibita dalla parte interessata, secondo le regole della allegazione”.
In questo senso anche Cass., 17 gennaio 1995, n. 478 in Repertorio Giustizia civile, 1995, voce Prova civile, n. 41; Cass.,
22 aprile 1993, n. 4763 in Repertorio Giustizia civile, 1994, voce Prova civile, n. 22; Cass., 25 febbraio 1986, n. 1191, in
Repertorio Giustizia civile, 1986, voce Prova civile, n. 35.
300 Definita erroneamente come estensione dell’efficacia del giudicato

112
ai fini della ricostruzione della fattispecie giuridica oggetto del giudizio: infatti, “il vincolo per
il giudice civile attiene soltanto alla realtà fenomenica e storica accertata”, senza alcuna
qualificazione giuridica degli accertamenti301.
Se questo è vero per quanto riguarda l’utilizzabilità degli accertamenti presenti in una
sentenza penale irrevocabile, non si può fare a meno di osservare come sia la dottrina sia la
giurisprudenza siano concordi nell’ammettere la possibilità di utilizzazione degli
accertamenti fattuali presenti in una sentenza pronunciata da un giudice civile e in una
sentenza non passata in giudicato pronunciata da un giudice penale, sebbene manchi una
specifica disposizione a questo proposito nel codice di procedura civile.
Bisogna pertanto accertare se questa tipologia di elementi istruttori possa essere
ricompresa nella categoria delle prove innominate, oppure se esista, in quanto previsto
espressamente dal legislatore, uno strumento istruttorio tipico.
In questo caso, per la giurisprudenza e per la dottrina, l’ipotesi da preferire non è quella
dell’atipicità.
Invero, esisterebbe, uno specifico strumento probatorio per le risultanze istruttorie ore in
esame: quello della presunzione semplice ex art. 2729. c.c.
Il precedente giudizio formulato dal precedente giudice, riguardo l’accertamento di
determinati fatti, costituirebbe allora il fatto noto “storico” da cui è logicamente possibile,
osservando i crismi di precisione, gravità e concordanza, risalire al fatto ignoto, secondo un
ragionamento inferenziale, verificando la sussistenza dei criteri di precisione, gravità e
concordanza.
A conferma di ciò, la Corte di Cassazione afferma come “le sentenze pronunciate in altro
processo tra parti diverse hanno valore di documentazione delle risultanze dei mezzi di
prova, allora esperiti, senza però che l'omesso esame di tali risultanze concreti un vizio di
motivazione, in quanto, trattandosi di prove svoltesi in giudizio diverso, alle stesse può
attribuirsi valore di meri indizi, che non possono assurgere a fonti determinanti per

301
A. Carratta, Accertamento fattuale del giudice penale nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2020, p.
1447

113
l'accertamento del fatto controverso, in mancanza di un adeguato raffronto critico con le
altre risultanze del processo”302.
Tuttavia, è necessario prendere in considerazione il rischio che il giudice del secondo
processo fondi il proprio ragionamento non su accertamenti da lui direttamente effettuati
sul materiale istruttorio, ma, invece, su accertamenti effettuati da un diverso giudice in una
motivazione di un’altra sentenza 303.
Nonostante la giurisprudenza sia unanime nel ritenere che questi elementi istruttori abbiano
dal punto di vista probatorio una forza presuntiva riconducibile all’art. 2729 c.c., tale
orientamento risulta essere completamente sprovvisto di un preciso riferimento normativo.
La questione, infatti, ricalca perfettamente quella già affrontata riguardo le prove assunte in
un diverso giudizio.
Sembra infatti chiaro come, ancora una volta, lo strumento impiegato, correttamente, dalla
giurisprudenza per favorire la circolazione della prova nei processi civili sia la norma generale
prevista dall’art. 310 3° co, contenente l’espresso richiamo all’art. 116 2° co. c.p.c.
Tuttavia, se il dato normativo da cui far discendere l’efficacia probatoria di un
provvedimento giurisdizionale è identico a quello precedentemente utilizzato in relazione
alle singole risultanze istruttorie raccolte in un altro giudizio, ugualmente dovrebbe essere
uguale l’efficacia probatoria di queste due diverse tipologie di strumenti.
Appaiono incomprensibili le ragioni per cui la vis probatoria dei due elementi probatori non
debba essere perfettamente equivalente.
Ragioni di logica inducono ad affermare che non può ritenersi plausibile uno scenario dove
il valore probatorio degli accertamenti contenuti nella motivazione di una sentenza di un
altro giudizio sia di natura presuntiva, mentre quello della risultanza probatoria raccolta in
un altro giudizio risulti un mero argomento di prova.
L’esplicita contraddittorietà del ragionamento risiede nel fatto di non far discendere i
medesimi effetti da un’interpretazione che in entrambi i casi ha come punto di partenza il

302Cass., 11 dicembre 1999, n. 13889, Massimario di giustizia civile, 1999, 2493


303G.F. Ricci, “Le prove atipiche”, Milano, Giuffrè, 1999, p. 423. A questo proposito, nel 1° capitolo sono state già esposte
le preoccupazioni di Calamandrei riguardo l’utilizzazione da parte della giurisprudenza, attraverso la “comoda porta”
delle presunzioni, dei giudizi di fatto contenuti nella motivazione di una precedente sentenza.

114
medesimo dato normativo, cioè l’art. 116 2° co. mediante il richiamo effettuato dall’art. 310
co. 3°.
Non pare essere condivisibile la teoria secondo la quale, in questo caso, il maggior valore
probatorio deriverebbe dall’accrescimento della forza di convinzione propria della prova
raccolta grazie all’accertamento e alla valutazione della stessa effettuata dal precedente
magistrato nella motivazione della sentenza304.
Al contrario, proprio il filtro del libero convincimento del giudice precedente rende
opportuno maneggiare con cura questo strumento istruttorio. È necessario che il giudice di
merito conduca un accertamento sui fatti nella maniera più diretta e libera possibile. Solo in
questo modo il suo convincimento potrà essere realmente libero. Per fare ciò, il legislatore
ha cercato di circoscrivere l’efficacia delle risultanze probatorie formatesi aliunde,
attribuendo loro l’efficacia di argomenti di prova.
Ritorna allora con forza la necessità dell’osservanza del principio per cui ogni giudice deve
svolgere una propria istruttoria, salvaguardando così i più generali principi del
contraddittorio e del diritto alla prova.
Non è per nulla ammissibile un’interpretazione che attribuisca alle risultanze istruttorie
contenute nella motivazione di una sentenza una forza di convinzione pari a quella di una
presunzione ex art. 2729 c.c.
La giurisprudenza arriva correttamente a ritenere che la sentenza come mezzo di prova non
possa essere ricompresa nel genus delle prove innominate, ma percorrendo una strada
sbagliata.
Lo “sbarramento” presente all’interno del 3° co. dell’art. 310 c.p.c, in quanto norma avente
carattere generale, rappresenta una garanzia per le parti, non sacrificabile dinnanzi ad
alcuna esigenza di economia processuale 305.

304G.F. Ricci, “Le prove atipiche”, Milano, Giuffrè, 1999, p. 426


305CONTRA A. Carratta, Accertamento Fattuale del giudice penale nel processo civile, in Rivista diritto processuale, 2020,
p. 1455-1456, secondo cui, per quanto riguarda l’ipotesi di un processo civile instauratosi tra le stesse e avente il
medesimo oggetto di una precedente sentenza penale non passata in giudicato, dovrebbe trovare giustificazione “una
più articolata graduazione dell’efficacia dell’accertamento fattuale proveniente da altro giudizio e la prospettazione di
soluzioni intermedie fra la vincolatività di tale accertamento per il secondo giudice di cui agli artt. 651-654 c.p.p. e la sua
degradazione ad argomenti di prova di cui all’art. 310 3° co. c.p.c.”.

115
Il legislatore ha chiaramente voluto evitare, non assegnando agli strumenti probatori in
questione valore di prova piena, che il singolo giudice di merito potesse adagiarsi sui risultati
delle istruttorie altrui, e quindi sul libero convincimento altrui.
Proprio per evitare questo rischio, il legislatore ha specificatamente individuato la categoria
probatoria dell’argomento di prova, da intendere come un elemento che può aggiungersi e
connettersi al convincimento, ma che non può assolutamente fondarlo in via esclusiva.
Ancora una volta, una qualsiasi interpretazione della lettera della norma, sia
giurisprudenziale sia dottrinale, non può discostarsi talmente tanto dal dato normativo fino
ad arrivare a disattenderne la ratio.

116
Capitolo IV: Critica alla teorica delle prove atipiche

1. Il diritto alla prova e la parità delle armi tra le parti

Del diritto alla prova nulla si legge all’interno del codice di procedura civile. Nonostante ciò,
la dottrina è unanime nel ritenere che esso sia un aspetto integrante e fondamentale del più
generale diritto di difesa espresso nell’art. 24 della Costituzione, da intendersi quale diritto
di “difendersi provando”.
In maniera ancora più analitica, il diritto alla prova può essere inteso come quel diritto
garantito alle parti di avvalersi dei mezzi di prova generalmente riconosciuti
dall’ordinamento. Di conseguenza, questo diritto può anche essere inteso come un aspetto
particolare del più generale diritto della tutela giurisdizionale 306: in questo senso, non può
essere trascurato come la portata dell’art. 24 Cost. sia di natura strumentale rispetto alle
situazioni giuridiche riconosciute dal diritto sostanziale.
I sostenitori dell’ammissibilità delle prove atipiche 307 hanno rinvenuto proprio in questa
disposizione di rango costituzionale il riferimento normativo della possibilità per il giudice di
fondare il proprio convincimento impiegando delle risultanze probatorie non ricomprese tra
gli strumenti espressamente disciplinati dalla legge.
Parte della dottrina ha poi anche indicato il diritto alla prova come diretta manifestazione
dell’essenzialità del principio del contraddittorio, giacché la possibilità degli interessati di
partecipare al processo sarebbe “puramente illusoria”, nel momento in cui essa non
riguardasse anche i momenti preordinati alla fissazione del fatto, fondando la duplice
garanzia del diritto alla prova e del corretto metodo di acquisizione delle prove 308.
Altro principio da analizzare insieme al diritto alla prova è quello contenuto nell’art. 111 Cost.
2° co., secondo cui il processo deve svolgersi “in condizione di parità” tra le parti.

306 V. Denti, Armonizzazione e diritto alla prova, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1994, p. 673
307 In particolare, il riferimento è a G. F. Ricci e M. Taruffo.
308 In questo senso Colesanti, Principio del contradditorio e procedimenti speciali, in Rivista diritto processuale, 1975, p.

608; L. P. Comoglio, La garanzia costituzionale dell’azione e il processo civile, Padova, Cedam, 1970, p. 148 ss.

117
Tuttavia, per alcuni, da un punto di vista contenutistico, questo principio non
rappresenterebbe nient’altro che “una specificazione tutt’altro che indispensabile della più
generale regola della cosiddetta libertà sostanziale, ricavabile direttamente dall’art. 3 Cost.
2°co.”309.

1.1 Il diritto di difendersi provando anche attraverso le prove atipiche

L’art. 24 della Costituzione, dopo aver stabilito al 1° co. che “tutti possono agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, dispone, al 2° co., che “la difesa è un
diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
Una corretta lettura del dato normativo lascia facilmente intendere come il diritto alla prova
rappresenti una diretta esplicazione sia del diritto d’azione, rappresentandone il sostegno
processuale, sia del diritto di difesa. Tuttavia, sarebbe un errore affermare come questa
norma enunci il generale diritto della parte di impiegare in giudizio tutte le prove di cui
dispone, sia a sostegno delle sue pretese sostanziali sia in opposizione alle pretese altrui.
Tale interpretazione estensiva della norma, avanzata da parte della dottrina310, non risulta
valida, poiché l’art. 24 Cost. risulta essere una norma di principio, la cui corretta applicazione
è affidata al legislatore. Non vi è traccia nell’ordinamento vigente dell’esistenza di un diritto
alla prova assoluto311. Assoluto in questo caso va inteso nel significato latino del termine,
ab-solutus, cioè “sciolto da” ogni vincolo normativo e compiuto in sé e per sé, libero da
qualsiasi condizione.
Questo significa che il c.d. diritto alla prova non può giustificare l’eliminazione di ogni limite
alla possibilità di ammissione e di valutazione della prova stessa 312.

309 G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, Cacucci, Vol. I, 2019, p. 64
310 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 208 ss.
311 In senso diametralmente opposto G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 209, secondo il quale

all’interno dell’ordinamento è assicurata “l’ammissibilità di ogni mezzo di prova, anche se non espressamente nominato,
purché sia rilevante ai fini del decidere e purché non sia espressamente escluso dalla legge. Se così non fosse, se cioè si
ritenesse vincolante la catalogazione legislativa, le possibilità difensive della parte verrebbero diminuite ed il diritto
garantito dall’art. 24 Cost. risulterebbe mutilato in un suo aspetto determinante”.
312 In questo senso M. C. Vanz, La circolazione della prova nei processi civili, Milano, Giuffrè, 2008, p. 53 secondo cui

“l’ammissione indiscriminata di qualsivoglia mezzo di prova, indipendentemente dal rispetto di esigenze legate al
contraddittorio, è del tutto arbitraria”.

118
Tutte le prove, comprese quelle innominate, possono essere ritenute ammissibili solo ed
esclusivamente313 in quanto conformi ai dati emergenti dal diritto positivo, nel rispetto dei
limiti voluti dal legislatore e senza violare il principio di parità delle armi tra le parti.
Ritenere attribuito alle parti il diritto di impiegare all’interno del procedimento qualsiasi
prova non vietata314 incrementerebbe considerevolmente il rischio di assunzione, e quindi
di valutazione, di prove inutili da parte del giudice.
Per prove inutili o superflue bisogna intendere quelle mere risultanze probatorie
confermative o rafforzative degli esiti istruttori già raggiunti, utili pertanto a dimostrare solo
ciò che già è stato dimostrato: proprio per questo motivo sono da ritenere contrarie
all’altrettanto importante principio di economia processuale 315.
Un altro profilo di criticità riguardo quell’orientamento dottrinale che fa discendere dall’art.
24 Cost. un generale diritto alla prova è rappresentato dall’art. 209 c.p.c. Tale articolo,
anch’esso ispirato al rispetto del principio di economia processuale, riconosce al giudice di
merito la possibilità di emettere l’ordinanza di chiusura della fase probatoria anche nel caso
in cui “egli ravvisa superflua, per i risultati già raggiunti, la ulteriore assunzione” di ulteriori
strumenti istruttori.
Alla luce di tutti gli atti processuali e dei mezzi di prova già acquisiti, il giudice può quindi
ritenere di essere in grado di formare in maniera esauriente il suo convincimento e pertanto
può ritenere inutile la prosecuzione dell’attività probatoria.
Tenendo in considerazione sia il dato normativo dell’art. 209 c.p.c, sia l’interpretazione
dottrinale in questione riguardo l’art. 24 Cost., il rischio concreto è allora quello di giungere
all’inevitabile e assurda conseguenza “di riconoscere alle prove atipiche un’efficacia
addirittura maggiore rispetto a quelle tipiche: e ciò allorché appunto il giudice, ritenendo di

313 In senso contrario M. Taruffo, Il diritto alla prova nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 78, nota
12, secondo cui sono rilevanti tutte quelle prove “che appaiono ipoteticamente idonee ad apportare, direttamente o
indirettamente, elementi di conoscenza intorno ai fatti che debbono essere provati”.
314 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 504

315 In questo senso L.P. Comoglio, Il principio di economia processuale, Padova, Cedam, 1980, p. 200 ss.; G. Tarzia,

Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile, in Rivista di diritto processuale, 1984 p. 647

119
essersi ormai formato il proprio convincimento sulla base di materiale atipico, consideri
inutile l’acquisizione di ulteriori prove tipiche proposte dalle parti” 316.
La soluzione più corretta per ovviare a questo problema non sembra affatto quella di
riconoscere come esistente nell’ordinamento, una volta di più, un diritto alla prova assoluto,
quindi slegato dai vincoli posti dal legislatore, in maniera tale da poter permettere alle parti
di allegare nuovi strumenti istruttori, tipici o atipici, anche una volta che il giudice abbia
anticipatamente chiuso la fase dell’istruzione.
L’unico caso in cui può aversi la revoca dell’ordinanza di superfluità, oltre allo specifico caso
di origine giurisprudenziale del giuramento decisorio, la cui assunzione non può essere
evitata dal giudice anche quando sussistono elementi probatori sufficienti alla decisione
della controversia317, è rappresentato dall’ipotesi in cui il giudice istruttore valuti di aver
erroneamente ritenuto superflue prove che, invece, appaiano utili alle considerazioni da
svolgersi in sede di decisione finale.
È quindi evidente come un’eventuale revoca dell’ordinanza di chiusura della fase probatoria,
discendente da valutazioni di superfluità, possa essere disposta dal giudice di merito solo ed
esclusivamente sulla base di una valutazione discrezionale relativa alla pertinenza e alla
rilevanza di nuovi, o già presenti, elementi probatori, idonei a mutare il suo convincimento.
L’apprezzamento della sufficienza o meno dei mezzi istruttori assunti, tipici o atipici, rientra
nell’ambito della discrezionalità riconosciuta al giudice.
Alla luce di quanto appena affermato, ad essere lesiva del principio della difesa non tanto è
la chiusura anticipata della fase istruttoria ex art. 209 c.p.c., quanto piuttosto l’eventualità
che tale chiusura anticipata avvenga sulla base di prove atipiche, a discapito di quelle tipiche.
Non pare allora per nulla decisivo il rilievo della tipicità o meno dei nuovi mezzi istruttori
allegati dalle parti in ordine alla possibilità di cambiare l’ormai fondato convincimento sui
fatti di causa.

316 G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 509; In questo senso anche M. Taruffo, Prove atipiche e
convincimento del giudice, in Rivista di diritto processuale, 1973, p. 428
317 Cass. civ., 12 febbraio 1979, n. 950

120
Pertanto, il ripensamento del giudice potrà derivare esclusivamente o da un nuovo fatto di
prova così determinante da mutare l’opinione ormai formatasi nella mente del giudicante,
o da un diverso apprezzamento di elementi probatori già acquisti.
A questo punto, molto più agevole, idonea ad evitare degenerazioni nell’applicazione del
principio del libero convincimento ed aderente al dato normativo, appare la scelta
interpretativa sia di non far discendere dall’art. 24 Cost. un diritto alla prova absolutus, libero
da limitazioni e condizioni, sia di non utilizzare tale norma come fondamento costituzionale
per l’introduzione nel sistema processuale civile delle prove innominate. Affermare che per
diritto alla prova bisogna intendere “il diritto delle parti di influire sull’accertamento
giudiziale dei fatti per mezzo di tutte le prove rilevanti, dirette e contrarie, di cui
dispongono” 318 significa non rispettare il perimetro normativo tracciato dal legislatore in
materia istruttoria.
Per avere una piena applicazione dell’art. 24 Cost. non è sufficiente che tutti i cittadini
possano agire e possano difendersi in giudizio, ma è necessario, soprattutto, che il giudizio
si svolga con tutte quelle garanzie processuali garantite da una Costituzione veramente
moderna319 come la nostra. Le norme che il legislatore ha previsto in materia istruttoria sono
poste a garanzia delle parti. Non rispettarle significa non assicurare ai protagonisti del
processo una tutela processuale effettiva.
Quest’esempio conferma come gli svantaggi arrecati dall’utilizzazione di queste pseudo
prove siano ben maggiori dei vantaggi.
Altrettanto non condivisibile appare l’orientamento dottrinale secondo cui la problematica
della corretta interpretazione del diritto alla prova riguardi non solo l’ammissibilità delle
prove, ma anche l’assunzione e la valutazione delle stesse da parte del giudice 320.
Il rischio concreto è appunto quello di dilatare eccessivamente l’oggetto della garanzia
costituzionale, fino al punto di istituire per il giudice l’obbligo di valutare qualsiasi elemento
istruttorio, trascurando completamente la catalogazione legislativa, e consentire l’ingresso
indiscriminato nel procedimento civile della categoria delle prove innominate.

318 M. Taruffo, Il diritto alla prova nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 106
319 M. Cappelletti, Processo e ideologie, Bologna, Il Mulino, 1969, p. 502
320 M. Taruffo, Note per una riforma del diritto delle prove, in Rivista di diritto processuale, 1986, p. 259

121
Non interpretare in maniera così ampia l’art. 24 Cost. non significherebbe mutilare l’essenza
del diritto alla prova in esso contenuto.
Al contrario, appare decisamente più opportuno attenersi alla selezione non solo dei vari
mezzi di prova, ma anche e soprattutto dei requisiti che questi devono soddisfare per poter
essere ammessi, assunti e valutati, effettuata a priori dal legislatore, che permette di
attribuire a ciascuno di essi un preciso valore, piuttosto che attribuire un potere normativo
tanto grande al giudice di merito.
Sacrificare sull’altare del diritto alla prova ex art. 24 Cost. tutte le indicazioni e i requisiti in
ambito istruttorio predisposti dal legislatore, in modo da conferire all’ammissibilità delle
prove innominate un fondamento costituzionale, sembra un’operazione alquanto azzardata.
Un tratto fondamentale della tutela giurisdizionale richiesta dal singolo risiede proprio nella
certezza dell’impianto istruttorio statuito nei codici.
Non garantire questo principio, dando la possibilità al giudice di basare il suo convincimento
sulle prove innominate, significherebbe, ancora una volta, non rispettare i cardini del nostro
sistema processuale. Finirebbe per assumere importanza solo ciò che è rilevante,
indifferentemente se ammissibile o meno.
In questo senso, allora, “non è possibile immaginare un diritto del singolo ad un determinato
assetto dell’istruzione probatoria che sia vincolante nei confronti del legislatore: e ciò non
foss’altro poiché l’opera normativa è caratterizzata da quel carattere di generalità ed
astrattezza che necessariamente prescinde, nell’ambito delle normative costituzionali di
principio, da predeterminati assetti del caso singolo”321.
I mezzi di prova e la loro precisa disciplina normativa vanno intesi come strumenti di
razionalizzazione, “atti a raccordare il noto e l’ignoto, cioè quanto le parti dichiarano essere
avvenuto nel passato e quanto il giudice stabilisce successivamente essere avvenuto
realmente. Ed in questa attività di ricerca il giudice non opera, tuttavia, in una situazione di
completa libertà, ma all’interno di molteplici vincoli, inseriti appunto nella disciplina
normativa delle prove”322.

321
L. Dittrich, I limiti soggettivi della prova testimoniale, Milano, Giuffrè, 2000, p. 55
C. Viazzi, Poteri del giudice e prassi giurisprudenziali nell’istruzione probatoria: una serie di questioni aperte, in
322

Quaderni del CSM, 1999, n. 108, p. 260

122
In conclusione, la legittimità di ogni acquisizione istruttoria o probatoria andrebbe valutata
esclusivamente interpretando ed applicando la disciplina degli istituti tipici, in relazione a
ciascuna specifica ipotesi di fonte di prova che si intenda utilizzare e verificando, di volta in
volta, l’essenzialità ed inderogabilità dei requisiti normativamente previsti per ogni singolo
procedimento di acquisizione probatoria regolato dalla legge.
Proprio in relazione a queste considerazioni, nel capitolo precedente si è avuto modo di
evidenziare come molte di quelle che vengono considerate prove atipiche, in realtà, sono
elementi probatori riconducibili alla categoria degli indizi, sicuramente non tipizzata dal
legislatore. Tuttavia, non si può non notare come a non essere tipizzate siano solo le fonti
del ragionamento presuntivo, mentre sono espressamente disciplinati i criteri della gravità,
della precisione e della concordanza, cui il giudice di merito deve uniformarsi nel dedurre da
un fatto noto l’accertamento di un fatto ignoto.
L’indizio può essere inteso allora come accadimento processuale della prova 323 : in altri
termini, in questo caso il legislatore, non delimitando preventivamente la nozione di indizio,
ha opportunamente lasciato libero il giudice di determinare su quali elementi costruire il
ragionamento presuntivo. Sono invece regolate in maniera più che precisa le modalità da
osservare per l’inferenza che porta dal dato probatorio (factum probans) al fatto da provare
(factum probandum).
“L’atipicità che rileva nel caso di specie è solo quella degli strumenti ritenuti idonei a rendere
noto il fatto storico sul quale il giudice può fondare il procedimento inferenziale alla base
della presunzione”324. Ancora una volta, affermare che le presunzioni semplici siano delle
prove innominate rappresenta nient’altro che un errore, oppure un espediente per
disattendere la volontà del legislatore 325.

323 Luigi Lombardo, Profili delle prove civili atipiche, in Il diritto delle prove, Torino, Giappichelli, 2009, p. 59
324 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, p. 56
325 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, p. 56. In questo

senso anche B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p 367, secondo cui una cosa “è
definire come atipico un modus probandi della cui legittimità non è possibile dubitare”, altra cosa è “pretendere di
ricavare, dal riconoscimento normativo” di questo fenomeno, “la legittimità di altri fenomeni eterogenei, per i quali la
qualifica di atipico ha un significato del tutto diverso e più proprio”.

123
2. L’oralità del processo

È necessario adesso evidenziare come il legislatore non può non aver ritenuto come
l’impiego delle prove innominate rappresenti un qualcosa di assolutamente incompatibile
con alcuni principi cui è improntato il giudizio civile.
Il riferimento in questo caso è al principio dell’oralità. Esso non solo presuppone un contatto
diretto fra il giudice e il materiale probatorio acquisito, ma richiede anche la coincidenza “fra
il magistrato che deve decidere e quello che ha assunto la prova” 326.
Appare allora di gran rilievo il presupposto di questo principio, completamente antitetico
rispetto all’uso delle prove innominate fatto dalla giurisprudenza, secondo cui ogni giudice
deve effettuare la sua istruttoria e utilizzare questa per fondare la sua decisione.
Per quanto non assistite da una specifica “copertura” costituzionale, vi sono tante garanzie
strutturali che incidono sulle forme in cui debbono compiersi gli atti dell’istruzione
probatoria. Questo tipo di garanzie assume notevole rilevanza soprattutto nella materia
delle prove innominate, “per le quali la mancata previsione legislativa e l’assenza di regole
codificate possono essere causa di gravi deviazioni nell’elaborazione del giudizio di fatto” 327.
Nello specifico, per il principio di oralità del processo, che non può essere preso in
considerazione senza i suoi corollari di concentrazione ed immediatezza, si deve intendere
una forma procedimentale prevalentemente orale di trattazione e di istruzione della causa
dinnanzi al giudice.
L’oralità è quindi un’espressione sintetica, utilizzata per racchiudere in un unico termine un
sistema di principi inseparabili 328.
Soltanto un dibattimento in cui l’udienza sia condotta oralmente può dirsi effettivamente
proficuo, esposto al controllo diretto della pubblica opinione e di conseguenza condizione
fondamentale per lo svolgimento di un giusto processo. Proprio per questo motivo tutte le
attività di trattazione davanti al giudice devono essere condotte oralmente, in un
dibattimento aperto e nel pieno contraddittorio delle parti.

326 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 350


327 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 460
328 P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press, p. 452

124
Fondamentale appare quindi il ruolo di direzione esercitato dal giudice nell’incanalare il
processo entro i parametri di ordine e di tipicità delle attività espletate, evitando le udienze
di mero rinvio ed evitando di autorizzare fasi istruttorie diverse da quelle tipiche, che
costituiscono una inaccettabile deroga proprio al principio dell’oralità e dell’immediatezza.
A questo proposito, l’art. 127 c.p.c. afferma al 1° co. come “L’udienza è diretta dal giudice
singolo o dal presidente del collegio”: in maniera più dettagliata, il giudice regola e modera
la discussione e stabilisce i punti su cui la medesima deve svilupparsi, garantendo la struttura
dialettica del processo, il concreto rispetto del contraddittorio, le effettive garanzie di difesa
delle parti e la partecipazione al processo delle stesse in condizioni di parità 329.
Tutto questo risulta essenziale ai fini della esatta individuazione del thema decidendum e
del thema probandum, affinché tutti i soggetti processuali possano avere immediata e piena
contezza delle questioni da trattare, secondo un ordinato sviluppo del dibattito processuale.
Di conseguenza, dagli artt. 183 e 184 c.p.c si evince chiaramente come assurgano a principi
fondamentali l’unitarietà e la non frazionabilità della fase istruttoria, restando comunque
sempre possibile l’espletamento di prove officiose resesi necessarie come la consulenza
tecnica d’ufficio, l’ispezione o il confronto dei testimoni.
L’oralità, quindi, non si sovrappone ad un altro requisito imprescindibile del processo, quello
della pubblicità: al contrario, questi due concetti rappresentano un’endiadi. Essi si
sviluppano parallelamente e tendono a rafforzarsi a vicenda.
La pubblicità, allora, deve essere intesa come amministrazione della giustizia in pubblico,
ovvero in pubblica udienza 330 . La norma di riferimento a questo riguardo nel codice di
procedura civile è l’art. 128 1° co., secondo cui “l’udienza in cui si discute la causa è pubblica,
a pena di nullità…”
La ratio della disposizione è quella di garantire il controllo esterno da parte dei consociati su
come viene esercitato il potere giurisdizionale che promana dal Popolo 331.

329 In questo senso Cass., civ., sez. III, 16 ottobre 2015, n. 20944.
330 L. P. Comoglio, Poteri delle parti e ruolo del giudice nella fase istruttoria del processo civile ordinario, in Quaderni del
CSM, 1999, n. 108, p. 196
331 La norma si riferisce però solo all’udienza in cui si discute la causa; durante la fase istruttoria, di fronte al giudice

istruttore, possono partecipare solo i difensori e le parti ex art. 84 disp. att. al c.p.c.

125
È indubbio come la novella del 1990, ravvicinando attraverso i principi dell’oralità, della
pubblicità e dell’immediatezza il giudice e le parti, abbia attribuito al primo un ruolo più
incisivo nella direzione del processo: infatti, proprio grazie alle attività disciplinate all’interno
dell’art. 183 c.p.c., il nuovo processo civile vede un giudice non più mero osservatore
silenzioso delle schermaglie processuali delle parti.
Dunque, non può non vedersi come sia stata introdotta, nell’ottica dell’oralità e della
concentrazione, anche alla luce dell’art. 111 Cost., una nuova disciplina delle fasi procedurali
ed istruttorie, che si sviluppa tra il momento del primo incontro tra le parti, a mezzo dei loro
difensori, ed il giudice e quello di ammissione dei mezzi istruttori dalle stesse eventualmente
richiesti.
I rapporti fra le parti e il giudice, nell’istruzione della causa, rappresentano i cardini di
qualsiasi modello processuale. L’aspetto più importante dell’oralità consiste proprio nel
“dialogo diretto fra l’organo giudicante e le persone di cui esso deve raccogliere e valutare
le dichiarazioni”332.
Proprio alla luce di quanto appena detto, si ritiene che la novella del 1990 abbia introdotto
sul piano normativo una regola di collaborazione tra i vari soggetti processuali, “quale
principio che caratterizza tutta l’organizzazione del processo” 333 , ma senza essere un
correttivo del principio dispositivo e della massima latina iudex secundum allegata iudicare
debet.
Tale regola di collaborazione, infatti, non mortifica ma, al contrario, esalta i poteri delle parti
processuali, in quanto dagli spunti prodotti dal giudice queste ultime dovrebbero trarre
stimoli per la produzione di materiale istruttorio ammissibile, avuto riguardo ai divieti
previsti normativamente sia dal codice di procedura civile sia dal codice civile, e rilevante,
cioè rispondente alla necessità di dimostrare sia gli assunti posti a fondamento delle
domande e delle eccezioni formulate sia rispetto alla contestazione o meno di essi.

332
P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press p. 452
L. Luciana Razete, L’attività istruttoria. In particolare i poteri del giudice e delle parti, in Quaderni del CSM, 1999, n.
333

108, p. 135 e P. D’Ascola, Poteri del giudice nel processo civile, in Quaderni del C.S.M., n. 92, 1997

126
È, infatti, fuori da ogni dubbio come, ex art. 115 1° co. c.p.c., rimanga comunque a carico
delle parti processuali l’onere dispositivo di dare impulso al giudizio nel raccogliere le prove
rilevanti per la decisione.
Da un lato, pertanto, viene stimolata, o almeno dovrebbe essere tenendo conto della ratio
della disposizione, l’allegazione di fatti e la produzione di prove tipiche durante la trattazione
di questioni controverse, mediante l’osservanza del principio del contraddittorio, dall’altro
sarà disincentivato il ricorso ai fatti notori, alle prove innominate formatesi fuori dal
processo, non sottoposte al preventivo dibattito processuale e l’abuso di presunzioni
semplici e di argomenti di prova.
In conclusione, oralità significa anche concentrazione ed immediatezza: pertanto, da un lato,
il giudice ha il potere direttivo di promuovere un “rapido” e “concentrato” approfondimento
orale dei fatti e delle questioni rilevanti, in funzione della successiva pronuncia di una
decisione giusta, dall’altro, gli è preclusa “l’utilizzazione decisoria di prove che siano diverse
da quelle legittimamente acquisite con il metodo orale”334.
Ancora una volta, la categoria delle prove innominate non sembra per nulla sposarsi con uno
dei principi cardini che governa il processo civile. Anzi, ritenere ammissibile la categoria delle
prove innominate, e quindi specificatamente tutte le prove raccolte e formate aliunde, come
nel caso dell’art. 310 c.p.c., 3° co., significherebbe giustificare nient’altro che un processo
sostanzialmente scritto, dove il giudice di merito non sarebbe messo in condizione di
percepire direttamente e dunque di valutare concretamente le prove stesse.
Al contrario, un processo giusto dovrebbe essere un processo orale, da un lato,
caratterizzato dal diretto contatto tra il giudice e gli altri protagonisti del processo, dove gli
elementi probatori costituiscono oggetto di valutazione diretta e non mediata da parte dello
stesso organo giudicante, dall’altro, finalizzato ad ottenere una decisione frutto solo ed
esclusivamente di prove formate all’interno del procedimento.

334
L. P. Comoglio, Poteri delle parti e ruolo del giudice nella fase istruttoria del processo civile ordinario, in Quaderni del
CSM, 1999, n. 108, p. 196

127
3. Il contraddittorio come garanzia e le prove atipiche

Il principio del contraddittorio deve essere inteso come un principio “di struttura”, in quanto
codifica la massima latina audiatur et altera pars ed incorpora il diritto delle parti ad un
procedimento leale e corretto.
Questo principio “non copre solamente il momento iniziale del processo, bensì ogni sua fase,
assicurando che ciascuna delle parti abbia la concreta possibilità di replicare sia di fronte ad
eventuali nuove allegazioni o richieste dell’avversario, sia di fronte alle stesse iniziative del
giudice da cui possa derivarle un qualche pregiudizio o possa addirittura scaturire un
ampliamento del dibattito processuale” 335.
Il principio del contraddittorio deve essere quindi interpretato nel suo significato più
restrittivo, cioè come la possibilità riconosciuta alle parti di interloquire sull’attività di
assunzione e di valutazione delle varie prove sulle quali successivamente il giudice dovrà
fondare il suo convincimento.
Il fondamento normativo di questo principio, che deve essere rispettato in ogni fase
processuale ma in particolar modo durante quella istruttoria, trova il suo fondamento
normativo sia nell’art. 111 Cost. 2° co., dove si afferma che “ogni processo si svolge nel
contraddittorio tra le parti”, sia nell’art. 206 c.p.c., secondo cui “le parti possono assistere
personalmente all’assunzione dei mezzi di prova”.
Infatti, sono le parti a conoscere i fatti della controversia: ciò significa che la loro presenza
integra la concreta possibilità di contraddire nel momento stesso in cui si ha la formazione
della prova336. “Quest’attività è fondamentale per le parti, poiché è intuitivo che è da essa
che traggono vita le loro difese finali e cioè il contenuto delle comparse conclusionali e delle
memorie di replica, sì che tale ulteriore aspetto del contraddittorio costituisce una realtà
che normalmente non è messa in discussione da alcuno 337.
In particolar modo, la necessità del rispetto del contraddittorio assume notevole rilevanza
per quanto concerne le prove atipiche di natura documentale.

335 G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, Cacucci, Vol. I, 2019, p. 64
336 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 460
337 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 485

128
Queste si presentano sì nel processo sotto la veste di prova documentale costituitasi
precedentemente, ma in realtà la loro origine è quella di una prova costituenda 338.
Allora, se per determinate fonti di prova è necessario che la loro formazione avvenga
all’interno del processo e quindi nel contraddittorio fra le parti, sono da ritenere
completamente inammissibili “prove sostitutive di queste ultime che si siano formate al di
fuori del contraddittorio. In sostanza, questa tesi conduce all’esclusione dell’uso delle prove
documentali atipiche sostitutive di prove costituende” 339.
Proprio questa linea interpretativa sembra essere quella maggiormente apprezzabile in
quanto attribuisce il rilievo che meritano a principi fondamentali all’interno
dell’ordinamento come quello del contraddittorio e della difesa paritaria.
Non pare soddisfacente, invece, un altro orientamento che, per ovviare a questo problema,
ritiene sufficiente attribuire alla prova innominata documentale, formatasi aliunde,
sostituiva di una prova costituenda, una vis probatoria pari a quella degli argomenti di prova
ex art. 116, 2° co., c.p.c.
L’elemento probatorio atipico non sarebbe, quindi, secondo questa teoria, in grado di
fondare il convincimento del giudice di merito, né cumulativamente, né tantomeno se preso
in considerazione singolarmente 340.
Tuttavia, appare quantomeno difficile individuare dei possibili motivi di condivisione di
questa interpretazione dottrinale: infatti, non è chiaro come si possa risolvere un problema
relativo all’ammissibilità di alcune determinate prove atipiche diminuendone l’efficacia,
escludendo per il giudice la possibilità di impiegarle come fondamento, non solo esclusivo,
del proprio convincimento.
A questo proposito, si è già avuto modo di verificare nei capitoli precedenti come
l’ammissibilità e l’efficacia degli elementi di prova siano due aspetti tra loro completamente
diversi, per quanto inscindibilmente legati. Pertanto, risulta più che opportuno trattarli in
maniera distinta per arrivare a dei risultati interpretativi accettabili, tenendo conto
dell’intero impianto processuale disegnato dal legislatore nel codice.

338 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 464


339 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 465
340 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 466

129
Va inoltre precisato come, da un lato, una parte dei sostenitori delle prove atipiche sostienga
che “il filtro del contraddittorio può sembrare non essenziale nella materia delle prove
atipiche”341.
Per questo orientamento, infatti, il contraddittorio nella formazione della prova non
costituirebbe una condizione generale ed assoluta non solo per le prove innominate, ma
neppure per tutte le restanti tipologie di prova: l’unica ipotesi in cui questa garanzia
dovrebbe essere osservata è quella delle prove costituende, cioè quelle prove che si
formano nel processo342.
Ancora una volta, le osservazioni appena prese in considerazione appaiono essere tutt’altro
che condivisibili. Il legislatore ha determinato caso per caso le specifiche ipotesi in cui la
formazione di un determinato mezzo di prova può prescindere dal rispetto del principio del
contraddittorio.
Tuttavia, proprio per questo motivo, essendo residuali i casi in cui l’effettività della garanzia
del principio del contraddittorio è minore, poiché non richiesta in entrambi i momenti di
formazione e di valutazione dello strumento probatorio, non si possono far assurgere al
rango di regola queste singole e residuali ipotesi “eccezionali”.
Infatti, non è possibile ipotizzare una compressione di una garanzia fondamentale e
soprattutto di natura generale, come quella del contraddittorio, per tutte le diverse tipologie
di prove solo perché la legge ha determinato alcuni casi specifici in cui tale garanzia non
opera nella fase della formazione della prova stessa.
A questo punto è allora necessario compiere un ulteriore passaggio logico nel ragionamento:
da un punto di vista garantista, rivestendo il principio del contraddittorio una indispensabile
funzione di controllo per quanto concerne la determinazione del materiale istruttorio che
costituirà il fondamento della decisione, sotto i profili di ammissibilità e rilevanza, ed avendo
il legislatore previsto espressamente i casi in cui il rispetto di questa garanzia può venire
meno, a maggior ragione sarà necessario rispettare questa garanzia nel caso della categoria
delle prove innominate.

341 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 467


342 M, Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 403

130
Questo perché, proprio in relazione a queste risultanze probatorie che si caratterizzano per
avere dei contorni molto indefiniti, in quanto non direttamente disciplinate, il
contraddittorio nel procedimento probatorio rappresenta una fondamentale salvaguardia
dei diritti delle parti costituzionalmente garantiti, scongiurando una pericolosa deviazione
del processo civile verso un modello di tipo autoritario, sottratto ad ogni effettivo controllo
in ordine alla formazione del convincimento del giudice sul fatto.
A rigore di logica, comportando già le prove innominate un’attenuazione e un’erosione di
certi principi generali, come ad esempio quello della tassatività dei mezzi di prova e,
conseguentemente, dell’accertamento del diritto basato su un giudizio di certezza e non di
probabilità, emerge come indispensabile la rigorosa osservanza di altre garanzie di rango
costituzionale, come il principio del contraddittorio, il diritto ad un procedimento legale e
razionale il diritto ad una fase istruttoria visibile e controllabile, non riservata o segreta,
escludendo che la decisione possa basarsi su mezzi istruttori alla cui formazione le parti sono
rimaste estranee343.
In altri termini, nel caso in cui si trovi di fronte a delle prove innominate, il giudice dovrebbe
come prima cosa segnalare alle parti se e quali di queste determinate acquisizioni intende
utilizzare per la decisione.
Al fine di rendere ammissibili le prove innominate, tale principio andrebbe osservato “non
solo nell’acquisizione della prova atipica preformata al processo, ma anche, e
precedentemente, nella formazione della prova stessa” 344.
Proprio per questo motivo non pare un’alternativa valida, in quanto non osserva
pienamente la funzione di garanzia, la possibilità di ricorrere, per legittimare l’introduzione
nel processo della fonte atipica di prova, ad un contraddittorio posticipato alla formazione
della prova, e quindi tardivo.
Assume, pertanto, una certa rilevanza approfondire quali possono essere le conseguenze
della non osservanza da parte del giudice di merito della garanzia del contraddittorio.

343 C. Viazzi, Poteri del giudice e prassi giurisprudenziali nell’istruzione probatoria: una serie di questioni aperte, in
Quaderni del CSM, 1999, n. 108, p. 283- 284
344 G. Tarzia, Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile, in Rivista di diritto processuale, 1984 p. 639

131
3.1. Le conseguenze derivanti dal mancato rispetto del contraddittorio

Più nello specifico, bisogna innanzitutto analizzare l’ipotesi in cui non si svolto il
contraddittorio per quanto riguarda quelle prove innominate, acquisite durante la fase
istruttoria, di cui il giudice abbia intenzione di avvalersi ai fini della decisione.
La soluzione migliore risulta essere quella dell’impossibilità per il giudice di impiegare tale
risultanza probatoria come base del suo convincimento fintanto che non venga emanata
un’ordinanza di rimessione nella fase istruttoria che specifichi di quali prove atipiche si
intende fare uso per motivare la decisione 345. Si tratterebbe della violazione dell’art. 183, 4°
co. c.p.c., secondo cui è impedito al giudice l’adozione della decisione della c.d. “terza via”.
Sono chiamate pronunce della terza via proprio quelle in cui il giudice decide la controversia
senza aver prima stimolato il contraddittorio su questioni non affrontate dalle parti, ma
comunque rilevabili d’ufficio.
Successivamente, è necessario prendere in considerazione anche l’ipotesi in cui vi sia stata
la decisione della causa da parte del giudice, impiegando però una o più prove innominate,
senza aver precedentemente sollevato il contraddittorio. Deve essere comunque richiamato
l’intervento del legislatore che, con la l. 18 giungo 2009, n. 69 ha aggiunto un nuovo 2° co.
all’art. 101 c.p.c. La norma in questione ora estende il principio del contraddittorio anche al
giudice, obbligandolo a sottoporre al dibattito le questioni rilevabili d’ufficio che intenda
porre a fondamento della pronuncia, pena la nullità di quest’ultima346.
Il dibattito dottrinale precedente alla riforma del 2009 si manifestava come fortemente
polarizzato rispetto a quest’ultima eventualità del mancato rispetto del contraddittorio in
sede di valutazione della prova e alle sue conseguenze processuali
Una parte della dottrina, infatti, riteneva che, nel caso di specie, l’uso illegittimo delle prove
atipiche rappresentasse uno specifico motivo di appellabilità o ricorribilità per cassazione
della sentenza emessa: infatti, non solo era ritenuto illegittimo assumere per fini decisori
delle risultanze atipiche senza aver precedentemente sollevato il contraddittorio, ma inoltre

345G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 500


346Secondo la Cass. 30 settembre 2009, n. 20935 le questioni rilevanti ai fini della validità della sentenza sarebbero
unicamente quelle di fatto e quelle miste di fatto e diritto.

132
essendo violate delle inderogabili norme di ordine pubblico come quelle sulle garanzie di
egualitaria difesa, la sentenza sarebbe risultata fondata su un atto nullo 347.
Altra parte della dottrina, invece, sosteneva come i vizi derivanti dal mancato esperimento
del contraddittorio avrebbero comportato soltanto l’irrilevanza delle stesse prove
innominate. In sostanza, gli atti di acquisizione probatoria sarebbero risultati autonomi fra
loro, non collegati teleologicamente verso il raggiungimento di un risultato finale:
assumendo questa lettura interpretativa come punto di partenza, gli atti istruttori avrebbero
dovuto operare indipendentemente l’uno dall’altro e le patologie di uno non avrebbero
dovuto colpire anche gli altri, restando circoscritte al primo348.
Secondo tale orientamento, allora, la sentenza sarebbe stata impugnabile non direttamente
per la violazione del contraddittorio, ma solo ed esclusivamente in quanto la prova atipica,
assunta senza previo contraddittorio, fosse risultata decisiva ai fini della decisione349.
In questo senso, sarebbe opportuno “porsi il problema effettivo del se la mancanza del
contraddittorio sia rimasta fine a sé stessa o abbia invece dato vita ad una sostanziale
ingiustizia della pronunzia” 350.
Dando seguito a questo tipo di ragionamento, quindi, nel caso in cui il giudice avesse
impiegato delle risultanze probatorie atipiche senza aver sollevato il contraddittorio sulle
stesse, per impugnare la sentenza sarebbe stato necessario dimostrare l’ingiustizia
sostanziale presente nella motivazione del giudice, non bastando più la circostanza che il
fatto materiale atipico, assunto senza contraddittorio, fosse stato rilevante per la pronuncia
sul merito.
Non sembra difficile scorgere come, seguendo quest’ordine di idee, ci si trovi di fronte ad
una progressiva erosione di una fondamentale garanzia processuale posta a tutela delle parti.
È necessario non lasciare spazio a qualsiasi tipo di dubbi: affermare che non solo non è una
condizione sufficiente il mancato rispetto del contraddittorio relativamente all’assunzione

347 L. Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del giudice civile, in Studi in memoria di Salvatore
Satta, Vol. II, Padova, Cedam, 1982, p. 238
348 In questo senso V. Denti, Nullità degli atti processuali civili, in Novissimo Digesto italiano, XI, Torino, 1965, p. 473,

349 G. Tarzia, Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile, in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 656

ss.
350 G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffè, 1999, p. 503

133
di una prova atipica per impugnare una decisione del giudice di merito, ma sia anche
necessario che lo stesso materiale atipico sia risultato determinante per la produzione di
un’ingiustizia sostanziale della pronuncia, comporta una inaccettabile compressione, in
favore di ragioni di economia processuale, questa volta si, del diritto di difesa garantito alle
parti ex art. 24 Cost., declinato sotto i profili di ammissibilità e rilevanza del materiale
probatorio.
Anzi, proprio alla luce dell’art. 24 Cost. può essere agevolmente individuato il generale
dovere per il giudice di sollevare il contraddittorio351 per quanto riguarda sia la formazione
degli elementi di prova, sia la valutazione degli stessi 352.
Alla luce delle varie posizioni dottrinali analizzate, ancora una volta, non ci si può esimere
dal considerare come principio fondamentale del processo civile la regola secondo cui, non
solo la valutazione, ma anche la formazione della prova deve avvenire nel contraddittorio 353.
“Il contraddittorio fra le parti, oltre che garanzia per l’esercizio del diritto alla prova e del
diritto di difesa delle parti, finisce per assolvere anche il fondamentale ruolo di metodo di
conoscenza dei fatti: si acquisisce un maggior grado di conoscenza dei fatti di causa quanto
più elevato (non solo dal punto di vista quantitativo, evidentemente) è il grado di
contraddittorio garantito alle parti”354.
Per quest’ordine di motivi, appare decisamente preferibile la tesi della nullità della sentenza,
tesi successivamente confermata direttamente dal legislatore con la riforma del 2009, in
tutti quei casi in cui il giudice abbia fondato il proprio convincimento su degli elementi
probatori, tipici o atipici che siano, rispetto ai quali le parti non hanno avuto modo di
esplicare le proprie argomentazioni difensive355.
Conseguentemente, risulta particolarmente agevole concordare con quell’orientamento
dottrinale, tutt’altro che propenso ad accettare l’ammissibilità delle prove innominate, che

351 M. Taruffo, Il diritto alla prova nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1984, p.106, nota 72
352 Un’altra parte della dottrina ricava quest’obbligo di provocare il contraddittorio dall’art. 183 c.p.c. In questo senso,
E. Grasso, La pronuncia di ufficio, Milano, Giuffrè, 1967, p. 121 e p. 310
353 G. Tarzia, Problemi del contraddittorio nell’istruzione probatoria civile, in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 643;

in questo senso anche B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p 360
354 A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 98

355 L. Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del giudice civile, in Studi in memoria di Salvatore

Satta, Vol. II, Padova, Cedam, 1982, p. 238

134
sostiene come, laddove fosse sufficiente e necessario il rispetto di questa sola garanzia fino
ad ora esaminata, si finirebbe col cadere “nel paradosso secondo cui tutte le regole attinenti
ai limiti di ammissibilità e alle modalità di acquisizione delle prove possono essere
tranquillamente ignorate, o private di contenuto normativo, solo che si abbia cura di definire
atipico ciò che con essa non si concilia”356.
In conclusione, ci si può spingere ad affermare come il solo rispetto del contraddittorio non
garantirebbe le parti dall’utilizzazione di procedimenti probatori anomali, da intendere
come “deviati” rispetto ad un modello catalogato, o dall’utilizzazione anomala di
procedimenti probatori atipici.
Concludendo, da un lato, il rispetto del principio del contraddittorio, è una condizione
necessaria e indispensabile nel corso di tutto il procedimento, soprattutto durante lo
sviluppo della fase istruttoria al fine di garantire un corretto ingresso degli elementi
probatori nel processo, ma, dall’altro, non rappresenta per le parti una garanzia sufficiente
al fine di rendere ammissibili le prove innominate.

4. Calamandrei e il rischio di una pubblicizzazione del processo

Arrivati a questo punto della trattazione, è necessario osservare quali possono essere i rischi
per l’ordinamento derivanti dal ritenere ammissibili le prove innominate all’interno del
sistema processuale civile.
Alla luce di quanto affermato nei paragrafi precedenti, il fenomeno delle prove innominate
rappresenta la concretizzazione di una progressiva erosione del principio dispositivo e di
molte altre garanzie processuali. Il rischio più evidente è quello di un prosciugamento del
valore garantistico delle norme disciplinanti il diritto alla prova.
Non pare un’esagerazione affermare che l’introduzione delle prove atipiche nel processo
civile possa essere l’inizio sia di un generale impoverimento del sistema probatorio, sia,
contemporaneamente, della perdita della strumentalità del diritto processuale rispetto al
diritto sostanziale sottostante.

356 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 359

135
Questo aspetto della strumentalità merita una riflessione più approfondita. È opportuno
comprendere come il diritto processuale non sia fine a sé stesso, bensì risulti “per così dire
al servizio del diritto sostanziale, del quale tende a garantire la effettività ossia l’osservanza
e, per il caso d’inosservanza, la reintegrazione”357.
La natura strumentale del diritto processuale si rivela ancora più chiaramente nel sistema
delle prove e nei principi che lo modellano. Tuttavia, riconoscere al giudice di merito la
possibilità di ricorrere alle prove innominate rappresenta invece nient’altro che la rottura di
questo rapporto di strumentalità con il diritto sostanziale sottostante.
Una volta realizzatasi definitivamente questa spaccatura, si spalancano le porte alla
penetrazione nel processo delle più disparate ideologie, come quella della verità materiale
e del libero convincimento del giudice.
Proprio in questo senso, secondo Calamandrei l’evoluzione del processo civile sarebbe
caratterizzata da un progressivo “slittamento” delle leggi processuali civili verso il diritto
pubblico e, pertanto, verso il principio inquisitorio.
È necessaria una premessa: per pubblicizzazione non ci si riferisce al potere giudiziale di
direzione e di controllo del processo, ma ad una ben più radicale pubblicizzazione, che
coinvolge anche il diritto sostanziale e quindi l’oggetto del processo, e che incide dunque sul
principio dispositivo” 358.
Vi sarebbe pertanto, sempre secondo Calamandrei, una sempre maggiore ingerenza degli
organi pubblici, attraverso un aumento dei poteri del giudice, nell’attuazione della tutela
giurisdizionale.
L’Autore riporta l’esempio dell’ordinamento giuridico russo della prima metà del 1900, dove,
sebbene venisse riconosciuto dalle leggi sostanziali il diritto di credito ai privati, da intendere
come pretesa individuale alla prestazione di un obbligato, tuttavia da un punto di vista
processuale la legge riconosceva al pubblico ministero, non solo la possibilità di intervenire
in un qualsiasi giudizio già pendente, ma anche e soprattutto il potere di far valere in giudizio

357 M. Cappelletti, Processo e ideologie, Bologna, Il Mulino, 1969, p. 5


358 M. Cappelletti, Processo e ideologie, Bologna, Il Mulino, 1969, p. 205

136
un qualsiasi diritto individuale in caso di inerzia del titolare del diritto, in nome di un non
meglio precisato diritto collettivo359.
Pertanto, ci si trova di fronte al rischio di una totale compressione dei diritti soggettivi dei
privati. Visto il ruolo “attivo” dello Stato, il cittadino non sarebbe più sovrano nell’esercitare
o nel rinunciare al titolo oggetto della causa360. Tale concezione appare come figlia di quella
ideologia secondo cui “i cittadini non sono i migliori rappresentanti dei propri interessi
correttamente intesi, ossia dei loro interessi, come appaiono alla luce dei valori dello
Stato”361.
Venendo infatti riconosciuto in ogni caso un interesse ad agire al pubblico ministero, si
finirebbe col perdere completamente l’assioma fondamentale dell’autonomia della volontà
privata. “Attraverso la concessione di illimitati poteri processuali all’organo dell’interesse
pubblico, la pubblicizzazione retroagisce dal processo sul diritto sostanziale, in quanto non
può considerarsi come un diritto privato quello la cui attuazione processuale, invece di
essere rimessa alla insindacabile iniziativa della parte, è affidata a un organo dello Stato che
può agire anche contro la volontà del privato interessato” 362.
L’introduzione di un processo civile di carattere nettamente inquisitorio urterebbe
fortemente con “la realtà storica” del diritto sostanziale, ancora fortemente ispirato
all’iniziativa privata.
Infatti, solo nel caso specifico in cui crescessero le esigenze pubblicistiche del diritto
sostanziale, sarebbe allora legittima l’introduzione di tratti inquisitori nel processo civile
ordinario: a conferma di ciò, diritto processuale e diritto sostanziale rappresentano infatti
l’uno lo specchio dell’altro.

359 P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press p. 421
360 In questo senso “lo Stato attivo cerca di distrarre i cittadini dalle preoccupazioni private e di mobilitarli nel
perseguimento dei suoi scopi. È dunque del tutto comprensibile che lo Stato incoraggi una serie di forme di
coinvolgimento dei cittadini nell'amministrazione della giustizia”. M.R. Damaška, I volti della giustizia e del potere.
Analisi comparatistica del processo, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 258-259
361 M.R. Damaška, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 258

362 P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press, p. 421

137
Calamandrei, confutando le idee presenti in un articolo di Baumbach 363 , giurista della
Germania nazionalsocialista, afferma che ritenere come necessaria la pubblicizzazione del
processo civile equivale nient’altro che ad una abolizione del processo civile stesso 364.
Il processo civile ha motivo di esistere soltanto in quanto svolge una funzione di garanzia e
di realizzazione dei diritti soggettivi. Al contempo il processo civile, infatti, ha come
caratteristica quella di riconoscere alla parte una precisa situazione giuridica, solo ed
esclusivamente nel momento in cui essa produca un determinato atto processuale, nella
forma richiesta ed entro uno specifico lasso temporale.
Tuttavia, laddove i diritti soggettivi si comprimessero fino a diventare dei meri interessi e
conseguentemente con l’atto giurisdizionale si cercasse solo di soddisfare un pubblico volere,
non ci sarebbe alcuna necessità “di intralciare l’opera del giudice col prescrivergli la
meticolosa ed ingombrante osservanza di un rito”365.
In questo modo, da un lato, non esisterebbe più alcun diritto d’azione ma solo una semplice
richiesta di una pronuncia, né inoltre i soggetti processuali potrebbero più essere intesi
come titolari di interessi individuali, in quanto ormai semplici strumenti di una volontà
statale superiore, dall’altro, la rigorosa disciplina di forme e termini, elaborata nei codici per
assicurare al meglio ai consociati “la certezza dei loro diritti e la difesa delle loro libertà” 366
finirebbe col diventare anche controproducente, non essendo il metodo più veloce per
attuare l’interesse pubblico.

4.1. Assorbimento della giustizia nell’amministrazione

Piero Calamandrei, nel denunciare i pericoli che derivano dalla pubblicizzazione del processo,
osserva che l’idea che ne sta a fondamento, se portata alle estreme conseguenze, non può
che condurre alla “burocratizzazione” del processo attraverso la sua trasformazione in
amministrazione.

363 A. Baumbach, Zivilprozess und freiwilligen Gerichtsbarkeit, in Zeitschrift der Akademie für Deutsches Recht, 1938, p.
583
364 P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press, p. 389

365 P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press, p. 389

366 P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press, p. 389

138
Laddove, infatti, vi fosse un accrescimento dell’ingerenza dello Stato nei rapporti individuali
fino al punto di non essere più necessaria la volontà del singolo per modificarli, assurgendo
a condizione necessaria e sufficiente l’intervento dello Stato, ci si troverebbe non più nel
campo della giurisdizione civile ma in quella della giurisdizione volontaria, “che in sostanza
è amministrazione, è uno dei modi in cui indirettamente ma efficacemente si compie
l’assorbimento del diritto privato nel diritto pubblico”367.
Può essere interpretata in questo senso anche la tendenza ad aumentare i poteri
discrezionali ed equitativi del giudice.
Qualora, infatti, il processo non venisse più considerato in funzione degli interessi individuali
delle parti che chiedono tutela, ma unicamente come strumento finalizzato all’attuazione
della volontà dello Stato e dell’interesse pubblico, “quel mirabile ordigno di indagine che è
nella fase istruttoria il principio dispositivo, ma anche tutta la struttura formale del processo,
inteso come serie ordinata di attività umane, ciascuna delle quali per poter produrre certi
effetti giuridici deve essere compiuta nella forma ed al momento voluti dalla legge”
perderebbe completamente il suo significato368.
Si assisterebbe, quindi, all’esaurimento della giustizia nella amministrazione, in quanto, da
un lato, il potere discrezionale soffocherebbe l’osservanza della norma precostituita,
dall’altro, si avrebbe l’accomodamento equitativo del caso singolo in luogo della legge
uguale per tutti i casi simili.
In questo senso “la burocratizzazione della funzione giudiziaria, propria dei paesi di civil law
a partire da un determinato momento storico, ha creato indubbiamente problemi diversi da
quelli in funzione dei quali era sorto il sistema delle prove legali, ma non sembra aver
eliminato totalmente l'esigenza di una professione normativa di limiti alla scelta, da parte
del giudice, delle tecniche di ricerca e valutazione delle prove: In altri termini, quella che è
stata definita come “metodologia legale” appare ancora un'esigenza intrinseca di ogni
ordinamento processuale e che solo si prospetta in modi diversi a seconda delle varie

367 P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press, p. 442- 443
368 P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press, p. 389

139
epoche storiche e dei vari ambienti sociali, nonché della posizione del giudice nei diversi
ordinamenti”369.
Lo scenario può esprimersi in termini di un potere creativo del giudice, alludendo ad un
fenomeno collocato al confine tra la giurisdizione e l’attività legislativa.
Rispetto a quest’ordine di idee, propense a riconoscere una maggiore libertà per il
giudicante, un’aspra critica può essere rinvenuta anche nelle parole di Chiovenda.
Egli definisce “pericolose” le dottrine ora in esame, evidenziando come da questa libertà per
il giudice, propensa all’arbitrio incontrollato e alla confusione, possa discendere uno
sproporzionato potere di correzione della legge370.
Sia l’assorbimento del processo civile nella giurisdizione volontaria sia l’aumento dei poteri
discrezionali del giudice, anche in campo istruttorio, sono sintomi di una crisi del sistema
processuale 371 di cui il giurista deve essere conscio.
Come si è avuto modo di vedere, proprio le prove innominate costituiscono in molti casi uno
strumento assai utile per violare le norme del processo, in quanto sia impiegate al fine di
aumentare il potere discrezionale del giudice, sia considerate come strumento
fondamentale per la ricerca della verità materiale e per il fondamento del libero
convincimento del giudice.
Tuttavia, si è anche avuto modo di approfondire proprio a questo proposito come piuttosto
che di libero convincimento del giudice nel processo civile, sarebbe meglio parlare di
prudente apprezzamento delle prove raccolte nel processo secondo le regole direttamente
dettate dal legislatore.

369 V. Denti, L’evoluzione del diritto delle prove nei processi civili contemporanei, in Processo e giustizia sociale, Milano,
1971, p. 77 ss,
370 G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, Jovene, 1923 ristampa anastatica 1965 p. 75 ss.

371 P. Calamandrei, Opere giuridiche, Problemi generali del diritto e del processo, Vol. I, Roma Tre-press, p. 449

140
5. Le prove illecite come prove atipiche

Merita a questo punto di essere analizzata anche un’altra ipotesi di classificazione


probatoria avanzata dalla dottrina: il riferimento è alla categoria delle prove illecite.
Dallo studio sin qui fatto, si è avuto modo di costatare come sia presente, sia nella dottrina
sia nella giurisprudenza, un assai affermato orientamento diretto a giustificare il
superamento dei limiti posti dal legislatore nella materia istruttoria del processo civile, in
modo tale da permettere al giudice di poter usufruire di gran parte del materiale comunque
entrato nel processo, purché venga rispettata la generale garanzia del contraddittorio 372.
Invero, ancora una volta, può essere considerata come atipica quella prova non prevista
come tale dall’ordinamento373.
Tuttavia, i sostenitori delle prove innominate, pur impiegando in maniera distorta i principi
del libero convincimento e della ricerca della verità materiale, non si spingono mai così tanto
in là fino al punto di affermare che il giudice nel processo civile, ai fini della decisione, possa
fondare il proprio convincimento anche sulle prove assunte in violazione della legge.
Eppure, una volta affermata la possibilità per il giudice di impiegare ogni fonte di conoscenza
comunque entrata nel processo, la possibilità di impiegare anche le prove assunte in
violazione dei divieti posti dal legislatore risulterebbe essere il proseguimento più logico del
ragionamento.
Dal punto di vista definitorio, per prova illecita si deve intendere quel mezzo istruttorio che,
sebbene espressamente disciplinato dal legislatore, è colpito da un vizio che ne pregiudica

372In questo senso G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 114, secondo cui “Il fatto che l'ordinamento
abbia fissato certe regole di ammissibilità o abbia vietato l'impiego di determinati mezzi istruttori in alcuni casi non
significa neppure che ciò che per avventura è stato raccolto al di fuori di quelle prescrizioni, sia sempre privo di valore.
si potrà discutere sulla portata del vizio, sul fatto se la prova sia totalmente inefficace o se l'irregolarità possa essere
sanata dalla acquiescenza della controparte, sulla natura della norma violata che alle volte può portare la nullità
dell'assunzione e alla irrilevanza della prova assunta. ma in ogni caso i molteplici studi effettuati sull'argomento hanno
dimostrato come non si possa affatto concludere per una totale ablazione della prova in tutti i casi in cui sia stata assunta
in deroga a qualche precetto di legge”.
373 Secondo B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 402 nota 144, “evidentemente,

qualsiasi disciplina normativa dell’istruzione probatoria può essere considerata come un complesso di vincoli, di limiti e
di condizionamenti imposti alla ricerca giudiziale della “verità”: ed è proprio nel trascurare questo dato banale che
consiste, in ultima analisi, il vizio d’origine di ogni difesa del presunto principio di “atipicità” della prova”.

141
la validità374. In questo senso, in maniera ancor più precisa, si intende per prova illecita quella
prova la cui formazione sia avvenuta senza rispettare le regole attinenti al procedimento di
formazione della stessa.
Bisogna inoltre specificare come, sotto un profilo strettamente normativo, esattamente
come avviene per le prove atipiche, il codice di procedura penale disciplina espressamente
all’art. 191 le “prove illegittimamente acquisite”, prevedendo testualmente che “le prove
acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. Questa
disposizione, a prescindere dall’interpretazione che si intende attribuirle 375 , offre un
riferimento testuale per ritenere inutilizzabile nel processo penale la prova illecita.
Una simile norma nel processo civile, invece, è del tutto assente.
Proprio in relazione a questa lacuna normativa, sembrerebbe dunque che la categoria delle
prove innominate possa essere utilizzata anche al fine di ricomprendere al suo interno tutti
gli strumenti probatori raccolti in modo difforme rispetto a quanto esplicitamente
disciplinato dalla legge.
Una volta ricondotte le prove illecite entro il perimetro della categoria delle prove
innominate, logicamente, le prime erediteranno dalle seconde, non solo l’ammissibilità
all’interno del processo civile, ma anche e soprattutto il medesimo grado di efficacia
individuato dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
In pratica, i limiti stabiliti dal legislatore in ambito istruttorio si trasformerebbero in meri
ostacoli superabili discrezionalmente da parte del giudice. “La disciplina processuale delle
modalità di formazione e di controllo delle prove rappresenta una parte molto importante
del diritto delle prove, ma essa non esaurisce tutte le possibilità relative ai modi di
formazione di “cose” utilizzabili come prove nell’ambito del processo” 376.

374 G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987 p. 34
375 Secondo la tesi prevalente, l’art. 191 c.p.p. dovrebbe riferirsi solo a divieti derivanti da norme processuali; In questo
senso, F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2012, p. 613;
CONTRA, M. Nobili, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, Clueb, 1989, p. 156.
376 In questo senso M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè,

1992, p. 357

142
A conferma di quanto appena detto, “i limiti previsti dalla legge in materia probatoria non
riguardano la validità delle singole prove, ma fungono solo da garanzie precostituite
dall’ordinamento per l’attendibilità delle stesse”377.
Conseguentemente, una volta che una prova risulti essere stata introdotta nel processo,
anche oltre i limiti predisposti dal legislatore, essa non avrebbe necessariamente i caratteri
dell’invalidità, e l’unica questione da risolvere rimarrebbe quella dell’attendibilità e della
rilevanza del medesimo strumento istruttorio.
Pertanto, secondo i sostenitori dell’ammissibilità delle prove illecite, la valutazione
effettuata astrattamente e preventivamente dal legislatore, dovrà essere specificata
direttamente dal giudice, nel modo più aderente possibile al caso concreto 378.
Allora, sembra trovare piena e concreta applicazione quella teoria interpretativa volta a
rendere suscettibile di valutazione da parte del giudice qualsiasi rilevanza probatoria
introdotta all’interno del processo, una volta superato il duplice vaglio di rilevanza ed
ammissibilità379.
Secondo quest’orientamento, quindi, “sia che si ritenga che la verifica della rilevanza debba
precedere logicamente quella della ammissibilità380, sia che si prediliga, invece, un ordine
nell’applicazione dei due criteri più rispondente ad un canone di efficienza economica, non
pare potersi dubitare del fatto che la regola è costituita dall’ammissibilità della prova
rilevante e l’eccezione è invece, costituita dalla sua inammissibilità, per la quale, infatti,
vengono dettate dal legislatore disposizioni ad hoc. In mancanza di deroga, si applica la
regola”381.
Tuttavia, tali argomentazioni non risultano pienamente convincenti.
Infatti, non risulta facile comprendere quale sia l’argomento giuridico, impiegato dai
sostenitori dell’ammissibilità (sia pure limitata) delle prove illecite, idoneo a sostenere che i
limiti e le garanzie poste dal legislatore in ambito istruttorio riguarderebbero non la validità
ma solo ed esclusivamente l’attendibilità delle prove stesse.

377 G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987 p. 48
378 G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987 p. 47
379 M. Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, Padova, Cedam, 1970, p. 6 ss.

380 In questo senso, M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano, Giuffè, 1992, p. 377 ss.

381 L. Passanante, La prova illecita nel processo civile, Torino, Giappichelli, 2017, p. 27

143
Per approfondire e analizzare ulteriormente il problema delle prove illecite è indispensabile
cercare di essere il più precisi possibile dal punto di vista definitorio.
A questo proposito, può essere fatta una prima summa divisio in materia.
L’efficacia di una prova costituenda non ammissibile, ma comunque ammessa
erroneamente, è un fenomeno ben diverso rispetto “alla prova ritualmente acquisita al
processo, ma venuta in possesso della parte in modo illecito” 382.
Specificatamente, nell’ipotesi della prova costituenda inammissibile assunta per errore, ad
essere violata è una norma di rango processuale, mentre, nel caso della prova introdotta nel
processo seguendo le norme del codice di rito, ma acquisita in modo illecito dalla parte, a
non essere rispettata è una norma di natura sostanziale383.
Oltre a questa bipartizione, all’interno del genere delle prove illecite poi possono essere
ricomprese anche:
a) le prove costituende ammissibili, ma assunte irregolarmente;
b) le prove precostituite o costituende che si siano formate in modo irregolare;
c) le prove precostituite prodotte fuori termine;
384
Secondo parte della dottrina , analizzando le singole fattispecie, la risposta
all’interrogatorio formale o al giuramento illegittimamente ammessi, l’efficacia probatoria
sarebbe quella del comportamento processuale delle parti ex art. 116 2° co. c.p.c.
L’argomentazione è la seguente: avendo il legislatore voluto attribuire una, seppur minima,
efficacia probatoria al contegno delle parti, in maggior misura dovrà essere consentito al
giudice di valutare anche il contenuto delle dichiarazioni, dalle stesse rese, in violazione delle
norme in materia di ammissibilità dell’interrogatorio formale e del giuramento.
Non pare convincente l'interpretazione del termine “contegno”, contenuto nel 2° co. dell’art.
116 c.p.c.
Si tratta, mutatis mutandis, dello stesso problema che si è avuto modo di analizzare a
proposito dell'interpretazione del termine “indizio”, utilizzato per il ragionamento
presuntivo. Il contegno processuale della parte nel processo è il comportamento della parte

382 L. Passanante, La prova illecita nel processo civile, Torino, Giappichelli, 2017, p. 73
383 L. Passanante, La prova illecita nel processo civile, Torino, Giappichelli, 2017, p. 73
384 G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987 p. 63

144
nel processo, e non qualcosa d’altro. Quando il legislatore ha voluto attribuire efficacia
probatoria alle “dichiarazioni”385 delle parti nel processo, lo ha previsto espressamente.
A conferma di ciò, la legge stabilisce che:
a) la dichiarazione contra se, resa dalla parte nel processo, costituisce confessione (art.
2733 c.c.) e forma piena prova contro chi l'ha fatta, sempre che non verta su fatti
relativi a diritti non disponibili (art. 2730 c.c.);
b) la confessione giudiziale, e cioè la dichiarazione contra se che la parte fa nel processo,
può essere spontanea o provocata mediante interrogatorio formale (art. 228 c.p.c.);
c) se la dichiarazione contra se è resa da alcuno soltanto dei litisconsorti necessari non
avrà efficacia di prova piena, ma sarà liberamente apprezzabile dal giudice (art. 2733
c.c.);
d) se la parte fa delle dichiarazioni aggiunte alla confessione occorrerà distinguere a
seconda che l'altra parte abbia o non abbia contestato tale dichiarazioni aggiunte: nel
primo caso (di avvenuta contestazione) le dichiarazioni della parte, saranno rimesse
al libero apprezzamento del giudice, nel secondo caso (di mancata contestazione) Le
dichiarazioni della parte faranno prova piena nella loro interezza (art. 2734 c.c.).
Regole altrettanto precise sono poi previste dal legislatore per disciplinare l'efficacia
probatoria di quelle particolari dichiarazioni delle parti che costituiscono “giuramento” (artt.
2736 e ss. c.c.).
Inoltre, secondo i codici, non tutte le dichiarazioni contra se fatte dalla parte nel processo
hanno efficacia confessoria: il legislatore ha infatti previsto una eccezione per le
dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio libero.
Tale eccezione ha una sua logica: come è ben noto, l’interrogatorio libero ha come scopo
principale quello di individuare precisamente il thema decidendum della causa, e di stabilire,
in altri termini, quali siano gli effettivi punti di disaccordo tra le parti.
Pertanto, al fine di consentire delle risposte il più possibile libere e corrispondenti al vero, il
legislatore ha voluto escludere ogni carattere confessorio alle dichiarazioni delle parti rese
in questa sede. Inoltre, proprio al fine di favorire la spontaneità delle risposte delle parti, il

385 Che sono cosa ben diversa dal contegno processuale

145
legislatore ha altresì escluso l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese nell’interrogatorio libero
alla stregua delle prove prudentemente apprezzabili; per questo motivo ha espressamente
previsto che le dichiarazioni rese dalle parti interrogatorio libero non costituiscono
confessione (art. 229 c.p.c.) e che le risposte date dalle parti in sede di interrogatorio libero
possono solamente consentire al giudice di desumere argomenti di prova (art. 116 c.p.c.)
che, come dice la stessa espressione, sono cosa diversa dalle prove.
Non pare perciò condivisibile quell’orientamento dottrinale che vuole inserire fra gli
argomenti di prova le dichiarazioni rese dalle parti fuori dai limiti stabiliti dalla legge,
facendole rientrare, attraverso la finestra del contegno delle parti386. Invero, la dichiarazione
della parte è una cosa, il contegno della parte è un’altra cosa.
Quando il legislatore ha voluto attribuire efficacia alla dichiarazione della parte lo ha
espressamente stabilito ed ha inoltre specificato la forza dell’efficacia probatoria della
dichiarazione a secondo della circostanza in cui è stata resa.
Accanto alle dichiarazioni delle parti, il legislatore ha preso in considerazione anche il
contegno delle parti nel processo (art. 116 c.p.c 2° co.), cioè il comportamento delle parti
nello svolgimento delle attività processuali, stabilendo come il giudice possa desumerne
argomenti di prova.
Di conseguenza, alle dichiarazioni rese dalle parti fuori dal processo o rese dai terzi in
violazione delle norme di legge non potrà essere attribuita alcuna efficacia probatoria,
neanche quella probatio inferior propria degli argomenti di prova: non può non essere preso
in considerazione, infatti, il chiaro disposto della norma dell’art. 116 c.p.c. che individua gli
argomenti di prova esclusivamente nel contegno delle parti nel processo.
Capovolgendo il discorso sostenuto dai sostenitori dell’utilizzabilità, con efficacia di
argomenti di prova, delle prove illecitamente ammesse, è invece possibile ritenere che il
giudice, proprio in osservanza dell’art. 116 2° co. c.p.c., può trarre argomenti di prova dal
comportamento scorretto della parte che abbia chiesto l’ammissione di prove illecite, come,
ad esempio, l’ammissione di testimoni incapaci, l’interrogatorio o il giuramento di alcuno
soltanto dei litisconsorti necessari. Infatti, con tale contegno, diretto ad ottenere

386 G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987 p. 63

146
l’ammissione di prove illecite, la parte potrebbe dimostrare di avere, a sostegno delle
proprie ragioni, soltanto armi spuntate.
È chiaro allora come “il principio del libero convincimento del giudice si applica alle prove
acquisite al processo nel rispetto della legge, non a quelle che, se si fosse tributata alla legge
la debita osservanza, non sarebbero mai state acquisite al processo” 387.
Sempre secondo il medesimo orientamento dottrinale propenso a ritenere utilizzabili le
prove illecite 388 , per quanto concerne le prove costituende provenienti da terzi e,
specificatamente, per la testimonianza è necessario effettuare un altro tipo di ragionamento.
Infatti, poiché la giurisprudenza inserisce nella categoria delle prove atipiche la
testimonianza resa in violazione dell’art. 246 c.p.c., o non preceduta dal giuramento e
l’ispezione e poiché queste risultanze sono a tutti gli effetti prove illecite, in quanto assunte
in modo difforme da quello consentito, nulla impedisce di far rientrare nella categoria delle
prove atipiche ogni altra prova costituenda assunta senza rispetto dei requisiti di legge,
comprese pertanto le dichiarazioni dei terzi assunte illecitamente389.
“In questo caso non si ha una testimonianza in senso proprio perché (il testimone) non
potrebbe testimoniare nel processo; però la sua dichiarazione stragiudiziale non è in sé né
nulla né illecita, sicché non potrebbe essere esclusa dal novero delle fonti utilizzabili, qualora
sia rilevante, solo perché proviene da un soggetto che non potrebbe testimoniare in
giudizio”390.
Anche questo ragionamento, di natura inferenziale, non sembra essere per nulla scevro da
criticità.
La premessa minore su cui si fonda il sillogismo consiste, infatti, nell’indimostrato assunto
che la testimonianza resa da chi sia incapace di testimoniare costituisca una prova
utilizzabile dal giudice, sotto le spoglie di prova atipica, con la conseguenza che tutto il
ragionamento si riduce ad una semplice petizione di principio.

387 M. Cappelletti, Efficacia di prove illegittimamente ammesse e comportamento della parte, in Raccolta di scritti in
onore di A.C. Jemolo, Milano, 1963 p. 175
388 G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987 p.

389 In questo senso M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè,

1992, p. 355 nota 167


390 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 355

147
Non può non vedersi come vi sia una identità del metodo di argomentazione usato dalla
dottrina sia per sostenere l’esistenza della categoria delle prove innominate, sia per
ammettere l’utilizzabilità delle prove illecite.
Proprio a questo proposito, è di non poca importanza rilevare come queste due species di
pseudo-prove, condividano analoghi profili di ambiguità dal punto di vista concettuale,
derivanti dal fatto che, inevitabilmente, all’interno di categorie dai contorni così sfumati,
possono essere ricomprese ipotesi molto diverse tra loro.
In maniera più precisa, avendo la dottrina avuto modo di ricollegare sotto il concetto di
prova innominata sia lo strumento probatorio non previsto espressamente dalla legge, sia
lo strumento probatorio formatosi senza l’osservanza del meccanismo di assunzione 391, in
quest’ultima sottocategoria possono essere ricomprese anche le risultanze istruttorie
ammesse contro un divieto previsto dalla legge, e pertanto inammissibili.
Seguendo questa linea di pensiero, ritenendo illecita in egual modo sia la prova assunta
violando una norma processuale sia la prova assunta violando una norma sostanziale 392,
concretizzandosi quindi una totale sovrapposizione trai due fenomeni, ogni prova atipica
finirebbe con l’essere illecita, non dovendosi ammettere deviazioni dalle forme
dell’istruzione probatoria, così come regolata dalla legge processuale.
In altri termini, una risultanza probatoria non prevista dalla legge, in quanto assunta al di
fuori delle forme stabilite dal legislatore, è una prova illecita e, conseguentemente,
inammissibile393.

391 In questo senso la dottrina è solita distingue tra l’atipicità che riguarda la fonte di prova dall’atipicità che riguarda il
procedimento di assunzione della stessa. M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Rivista di diritto
processuale, 1973
392 In questo senso, G. F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, p. 34; Contra, L. Passanante, La prova illecita nel

processo civile, Torino, Giappichelli, 2017


393 È interessante constatare come in questo modo è facile capovolgere l’argomentazione sostenuta da G.F. Ricci, Le

prove atipiche, Milano, Giuffrè, 1999, p. 116, il quale, per giustificare l’ammissibilità delle prove innominate, afferma
come escludere la possibilità di impiego delle prove atipiche, risulterebbe irragionevole, dal momento che
l’ordinamento non è “riuscito ad immunizzarsi completamente neppure nei confronti delle prove illecite”.

148
Dal punto di vista del diritto positivo emerge allora con grande chiarezza come non sussista
alcuna contrapposizione tra prove tipiche e prove atipiche; esistono solo prove lecite o prove
illecite394.
In conclusione, “non v’è motivo per cui non debba valere l’equazione: prova irritualmente
ammessa = prova processualmente inefficace”395.
Va poi ribadito come il procedimento probatorio consti di due momenti: in primo luogo, del
momento di ammissione della prova; in secondo luogo, dell’atto di istruzione probatoria.
Il giudice, nel momento in cui fonda il proprio convincimento, dovrà tenere conto e
soffermarsi su entrambi questi momenti.
Qualora la prova dovesse risultare essere stata acquisita all’interno del processo in contrasto
con un divieto di legge, dal quale scaturiva l’inammissibilità della stessa risultanza probatoria,
non potrà non aversi una revoca del provvedimento di ammissione. Questa stessa revoca
avrà poi l’effetto di travolgere, di conseguenza, anche il successivo atto di istruzione
probatoria, impedendo l’attribuzione di qualsiasi tipo di efficacia a quest’ultimo.
Esattamente come per le prove innominate, anche per le prove illecite appare tutt’altro che
opportuno trovare una giustificazione nel principio del libero convincimento del giudice al
fine di superare un espresso divieto di legge.
Infatti, “il principio della libertà di convincimento del giudice si applica alle prove acquisite
al processo nel rispetto della legge, non a quelle che, se si fosse tributata alla legge la debita
osservanza, non sarebbero mai state (materialmente) acquisite al processo” 396 .
Non esistendo, pertanto, un criterio univoco per determinare esattamente quale sia il
perimetro del fenomeno della prova illecita 397 , appare decisamente inopportuno e
svantaggioso, richiamando i principi della ricerca della verità materiale e della libertà di

394 Contra, M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 357,
secondo cui “la circostanza che una cosa o una dichiarazione siano avvenute ad esistenza non in violazione ma al di fuori
del campo di applicazione delle norme relative alla formazione delle prove, non è una ragione sufficiente per escluderne
l’utilizzabilità ai fini probatori, tutte le volte che quella cosa o dichiarazione sia rilevante per l’accertamento del fatto”.
395 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 403

396 E. Allorio, Efficacia giuridica di prove ammesse in contrasto con un divieto di legge? , in Giurisprudenza Italiana, 1960,

p. 870
397 L. Passanante, La prova illecita nel processo civile, Torino, Giappichelli, 2017, p. 147

149
valutazione, ricorrere a questa impropria categoria di strumenti probatori, a meno che non
si voglia trasformare il giudice in legislatore e il prudente apprezzamento in arbitrio.
In conclusione “ammettere, dunque, anche le risultanze derivanti da prove illecite appare
un’ardita opera di delegificazione, che risulta assai preoccupante, in quanto elimina, in
sostanza, ogni normativa relativa all’acquisizione dei mezzi istruttori, trasformando il
processo in un fatto assolutamente privato, scevro da ogni regola”398

6. Considerazioni conclusive

Essendo arrivati al termine del presente studio, si può affermare senza troppi problemi come
la categoria delle prove innominate non dovrebbe esistere. L’utilizzazione che viene fatta
dalla giurisprudenza e dalla dottrina di questo strumento si risolve nella violazione dei
principi che governano l’assunzione della prova e nell’elusione delle garanzie stabilite dal
legislatore in funzione delle parti.
La costruzione della categoria delle prove atipiche appare inutile, e quindi dannosa. Si
verrebbe a creare un sistema libero da regole e, dunque, in quanto tale, incontrollabile. In
altre parole, le prove sulle quali il giudice fonda il proprio convincimento, e quindi la
decisione, non solo non possono essere che quelle espressamente previste dal legislatore,
ma è anche necessario che siano assunte seguendo rigorosamente le regole stabilite dal
legislatore.
Non possono infatti ritenersi ammissibili le prove innominate alla luce di una
sopravvalutazione del principio del libero convincimento, ritenendo erroneamente che con
questi mezzi istruttori sia possibile rafforzare il percorso di avvicinamento dell’indagine
giudiziale alla realtà.
Un processo può essere considerato come giusto, ex art. 111 Cost., solo ed esclusivamente
in quanto vengano rispettati i valori fondamentali contenuti all’interno delle disposizioni
costituzionali: non possono pertanto essere tollerati, se non addirittura ammessi, casi in cui

398 M. Conte, Le prove civili, Milano, Giuffrè, 2009, p. 701

150
la formazione del mezzo istruttorio non segui la disciplina dell’istruzione probatoria
predisposta dal legislatore.
Quindi, alla luce di quanto esposto nelle pagine precedenti, non sembra particolarmente
difficoltoso giungere alla conclusione che i rischi derivanti dall’impiego indiscriminato e
incontrollato, proprio perché non disciplinato dal legislatore, delle prove atipiche superino
abbondantemente i vantaggi, ammesso che possano essere intesi come tali, della
dilatazione della possibilità di accertamento della verità materiale e della valorizzazione del
libero convincimento del giudice.
L’orientamento di generale ammissibilità delle prove atipiche da parte della giurisprudenza
e della dottrina rischia di trasformare il prudente apprezzamento del giudice in un arbitrio
senza regola alcuna.
Altro forte motivo di critica nei confronti dell’utilizzabilità del genus delle prove atipiche, e
più in generale dell’ingresso indiscriminato di tutto il materiale probatorio all’interno del
processo399, consiste non solo nell’inevitabile erosione dei principi di oralità e immediatezza,
ma anche nel progressivo impoverimento del diritto delle prove, “al culmine del quale
quest’ultimo parrebbe destinato a rattrappirsi in poche e rozze regole generali, incapaci di
per sé sole di tutelare i valori che dovrebbero giustificarle”400.
Perdendosi la dimensione analitica e approfondita del diritto delle prove, da intendere come
studio delle modalità con cui un fatto può essere provato in giudizio, laddove questa
involuzione non dovesse interrompersi, si arriverebbe ad un punto in cui la disciplina legale
dell’istruzione probatoria si ridurrebbe ad una serie di mere massime, tanto semplici quanto
vuote di contenuto.
Il risultato, seguendo questa strada, sarebbe quello di adottare una soluzione semplicistica
per un problema a dir poco complesso, favorendo “il perpetuarsi delle distorsioni
giurisprudenziali contro le quali si vorrebbe e si dovrebbe insorgere” 401 . L’istruzione

399 In senso contrario, come più volte rilevato, M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e
commerciale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 356, secondo cui “vi sono casi in cui modalità processuali per la formazione di
determinate prove sono specificamente regolate dalla legge ma non sono affatto tassative, perché la stessa prova, o un
risultato probatorio equivalente, può essere conseguito anche con modalità diverse”.
400 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 409

401 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 400

151
probatoria del processo civile è un problema complesso che necessita una soluzione
complessa.
Non può non essere sottolineato come, ammettendo l’ingresso nel processo civile di prove
non tipizzate dal codice di procedura civile, mediante l’utilizzazione del concetto di
presunzione semplice, vengano riesumate delle fonti di conoscenza nei cui confronti è stato
precluso lo status di prova.
Pertanto, “la decisione, non deriva da quanto raccolto nel contraddittorio delle parti, ma da
autonome e incontrollate scelte del giudice che seleziona a suo piacimento il materiale
caoticamente riversato negli atti”402.
È evidente come sia ancora attuale e meritevole di attenzione l’avvertimento chiovendiano,
ancora di grande modernità, secondo cui “la libertà del convincimento vuole l’aria e la luce
dell’udienza, mentre nei labirinti del processo scritto essa si corrompe e muore”403.
Le esigenze di celerità, speditezza ed economia processuale non possono mai sfociare nel
superamento della salvaguardia delle garanzie costituzionali in materia di tutela
giurisdizionale dei diritti soggettivi404.
Tale avvertimento non può essere rispettato se non imperniando il discorso sulla “presenza
di regole normative che consentono almeno al giudice di distinguere nella congerie del
materiale raccolto quello da utilizzare e quello da scartare”405.
In questo senso, se il processo deve servire ad applicare la legge, sostanziale e processuale,
al caso concreto, il giudice non solo ha il compito di procedere ad una individuazione e
interpretazione coerente della norma, ma anche e soprattutto deve tenere in
considerazione, sia in sede istruttoria sia in sede di decisione, quei criteri giuridici richiamati
dal legislatore, che “permangono ed acquistano particolare rilevanza sia ai fini
dell’individuazione del grado minimo di certezza dei fatti su cui fondare la decisione
(probabilità logica, ma non mera verosimiglianza), sia ai fini dell’individuazione delle fonti

402 C. Viazzi, La riforma nel processo civile e alcune prassi giurisprudenziali in materia di prove: un nodo irrisolto, in Foro
Italiano, 1994, p.112
403 G. Chiovenda, Sul rapporto tra le forme del procedimento e la funzione della prova. L’oralità e la prova, in Saggi di

diritto processuale civile, Roma, Foro Italiano, II, 1931, p. 197 ss,
404 Questa esigenza è stata più volte sottolineata dalla Corte Costituzionale: ad es. sent. 21 marzo 2002, n. 78, ord. n. 32

del 2001
405 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 401

152
del convincimento giudiziale (prove tipiche o non anche prove atipiche o argomenti di pro-
va), sia per il controllo esterno delle decisioni giudiziali (garanzia della motivazione vera e
non “implicita” sulle scelte operate nella valutazione dei risultati probatori)” 406.
Sostenere l’ammissibilità delle prove atipiche all’interno del processo civile, aumentando
così l’arbitrio del giudice e attribuendogli una funzione normativa, aumenta inesorabilmente
il rischio di ricondurre la valutazione delle prove a dei meccanismi dell’intuizionismo, della
persuasione e della retorica, ontologicamente contrapposti allo schema razionale su cui si
deve il ragionamento probatorio, individuato dal legislatore407.
In conclusione, due sono i profili di criticità più evidenti che non permettono di considerare
ammissibili le prove atipiche.
In primo luogo, bisogna prendere in considerazione l’art. 111 Cost. L’ammissibilità delle
prove innominate si pone, infatti, in evidente contrasto con la garanzia costituzionale del
giusto processo408.
L’art. 111 Cost. 1° co., stabilendo una riserva di legge in materia di garanzie processuali,
impone l’osservanza della medesima riserva anche per quanto concerne non solo il
momento di ammissione, assunzione e valutazione degli elementi probatori, ma anche e
soprattutto il momento di formazione del giudizio di fatto 409.
Si avrebbe pertanto una violazione dell’art. 111 Cost. 1° co. ogni volta che il giudice, non
esercitando i propri poteri conferitigli dalla legge processuale, fondi il proprio convincimento
sulla base di prove innominate.
Alla fine di questo ragionamento, ancora una volta prendendo come punto di partenza il
dato letterale della norma, non è difficile vedere come ammettere l’utilizzabilità nel
processo civile delle prove atipiche significa nient’altro che non assolvere pienamente al
bisogno di tutela giurisdizionale dei consociati, non garantendo loro il principio di parità delle
parti.

406 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 60
407 A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 102
408 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 55

409 A. Carratta, Prova e convincimento del giudice nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 2003, p. 53

153
Una tutela giurisdizionale piena e un giusto processo si possono avere solo tenendo sempre
in considerazione il parametro della tipicità legale, in quanto l’unico processo
“costituzionalmente giusto” è quello “regolato dalla legge”.
Infatti, se, da un lato, l’art. 24 Cost. 1° co. sancisce il diritto del singolo consociato di ottenere,
in quanto titolare di una situazione sostanziale protetta, una tutela giurisdizionale effettiva
dall’autorità giudiziaria, dall’altro, la pretesa sostanziale può trovare una piena realizzazione
sul piano processuale solo ed esclusivamente se i fatti esposti dalla parte siano assunti e
valutati secondo gli strumenti predisposti dal legislatore, utilizzando “il vestito della
prova”410.
Oltretutto, assume una primaria importanza sottolineare come, propendendo per una
ricostruzione della funzione della prova in termini dimostrativi, soltanto attinendosi a
quanto espressamente stabilito dal legislatore, risulta pienamente possibile esercitare per i
consociati una verifica delle scelte operate dal giudice nella formazione del suo
convincimento sulla veridicità o meno delle affermazioni fattuali 411.
I “poteri” del giudice devono infatti essere intesi non come autonome e monistiche
prerogative dell’organo giurisdizionale, ma come specifiche sfaccettature del corretto
esercizio della funzione giurisdizionale, nel rapporto dinamico e bilanciato con i poteri
processuali delle parti.
Questa funzione è un’indispensabile premessa per il corretto funzionamento dello
strumento processuale ed il conseguimento di una decisione giusta, rispettosa dei
fondamentali principi contenuti nella Carta costituzionale.
In secondo luogo, un definitivo colpo alla categoria delle prove atipiche consiste
nell’affermare, nella maniera più aderente possibile al dato normativo, che non sussiste
alcuna necessità di costruire la categoria delle prove innominate. Infatti, il legislatore,
all’interno sia del codice civile sia del codice di procedura civile, ha già previsto tutti possibili
mezzi istruttori utilizzabili dalle parti.
La disciplina minuziosa degli strumenti probatori prevista dalla legge, quindi, ha come
caratteristica quella della completezza e della onnicomprensività.

410 F. Carnelutti, La prova civile, Milano, Giuffrè, 1992, p. 3


411 A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Rivista di diritto processuale, 2001, p. 75

154
“Il principio di tassatività è implicito, necessariamente, nella stessa minuziosità, categoricità
e severità della regolamentazione legislativa della struttura e del procedimento dei mezzi
catalogati, quale emerge dal sistema degli artt. 2697-2738 c.c., che tende alla completezza
nell’ipotizzare i fatti naturalmente idonei a provare e al quale non potrebbe attribuirsi un
mero valore esemplificativo, perché il rigore di questa regolamentazione risulterebbe del
tutto inutile se, per sottrarvisi, fosse sufficiente mettersi semplicemente fuori da ogni tipo
di catalogo”412.
È proprio la circostanza che la legge già preveda astrattamente gli strumenti probatori degli
argomenti di prova e delle presunzioni a rendere inutile il ricorso a questa categoria.
In altri termini, sono già presenti all’interno dell’ordinamento sia la possibilità per il giudice
di merito di ricorrere ad un ragionamento presuntivo, idoneo a fondare anche da solo il
convincimento, osservando attentamente i limiti e i crismi stabiliti dagli artt. 2727 e 2729
c.c., sia la possibilità di ricomprendere sotto il genere degli argomenti di prova ex art. 116 2°
co. c.p.c. le fonti di conoscenza, diverse dalle prove in senso tecnico e proprio per questo
insufficienti per fondare autonomamente la decisione del giudice, poiché dotate di una vis
probatoria inferiore e aventi una mera natura sussidiaria.
Tutto ciò significa che all’interno del sistema processuale delle prove sono già presenti, o
comunque possono esservi ricompresi, tutti i mezzi di convincimento di cui il giudice ha
bisogno per svolgere la sua attività di ius dicere, venendo così confermata la completezza
del catalogo.
Inoltre, in questo modo, rovesciando la situazione e ricomprendendo le prove atipiche negli
strumenti delle presunzioni semplici e degli argomenti di prova, risulterebbero anche risolti
degli ulteriori problemi derivanti dalla creazione di questa categoria probatoria: da un lato,
quello dell’impossibilità di adottare una disciplina unitaria per quanto concerne
l’ammissibilità, dall’altro quello della mancanza di un parametro univoco per misurare caso
per caso l’efficacia di fenomeni tanto eterogenei413.
Appare evidente come, allora, quello delle prove innominate sia un falso problema.

412 F.C. D’alessandro, Prove atipiche, argomenti di prova e presunzioni, in Quaderni del CSM, 1999, n. 108, p. 240-241
413 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 401

155
Come visto nel paragrafo precedente, l’unica vera distinzione che merita di essere effettuata
in ambito probatorio è quella tra le prove ammesse, assunte e valutate secondo quanto
regolamentato dalla legge, perciò lecite, e le prove illecite, da intendere o come non
espressamente previste o come assunte e valutate senza tener conto di tutte le disposizioni
proprie dell’istruzione probatoria.
“L’uso indiscriminato di tutte le informazioni di fatto comunque acquisite agli atti, purché
ritenuti utili all’accertamento della verità, rappresenta un imbarbarimento del processo” 414.
È chiaro, dunque, come l’utilizzazione della categoria delle prove atipiche non può essere la
strada per legittimare l’ingresso all’interno del processo civile di prove altrimenti
inammissibili.
L’ingresso sempre più frequente, come si è avuto modo di evincere dalle decisioni della
giurisprudenza più recente, di prove costruite fuori dal processo comporta quindi nient’altro
che un’anarchia nelle operazioni conoscitive del giudice e un non accettabile “ritaglio
all’interno dell’ordinamento di una zona franca nella quale collocare l’accertamento del
fatto al di fuori di ogni inquadramento razionale e giuridico del fenomeno” 415.
È evidente come un’effettiva razionalizzazione del procedimento civile può essere
pienamente realizzata soltanto mediante l’impiego di strumenti normativi, che nel caso del
codice civile e del codice di procedura civile consistono, non in canoni oggettivi e formali di
valutazione delle risultanze probatorie, ma nei limiti di ammissibilità delle stesse416.
Gli analizzati limiti posti ai poteri giudiziali di cognizione devono essere correttamente intesi
come garanzie da salvaguardare per un corretto e giusto svolgimento della dinamica
processuale.
È esattamente questo il motivo per cui, da un lato, le linee del ragionamento giudiziale non
devono risultare aleatorie, ma invece il più possibile prevedibili, mentre, dall’altro, la
prevedibilità si deve accompagnare auspicabilmente ad una giustificazione razionale417.

414 A. Silvestrini, Le innovazioni introdotte dalla legge di riforma N. 353 del 1990, in materia di istruzione probatoria, in
Quaderni del CSM, 1999, n. 108, p. 252
415 M. Taruffo, Certezza e probabilità delle presunzioni, in Foro italiano, 1974, p. 104

416 B. Cavallone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, Cedam, 1991, p. 398 nota 137

417 C. Viazzi, Poteri del giudice e prassi giurisprudenziali nell’istruzione probatoria: una serie di questioni aperte, in

Quaderni del CSM, 1999, n. 108, p. 287

156
In conclusione, per giusto processo bisogna intendere un procedimento in cui il giudice sia
rispettoso dei limiti preposti dal legislatore in materia istruttoria. Quei limiti esistono perché
finalizzati a tutelare le parti processuali.
Solo rispettando in maniera rigorosa i limiti presenti nei codici, aventi una funzione ancillare
rispetto ai principi e alle garanzie costituzionali, e seguendo la ratio delle varie norme, il
giudice tutela pienamente le parti.
Un processo senza “il vestito della prova”418 sarebbe un processo spoglio di qualsiasi difesa
e garanzia.
Sul punto appaiono chiarificatrici come non mai le parole di Chiovenda, il quale rileva come
“i lamenti contro le forme … sono anch’essi un fenomeno che merita tutta la nostra
attenzione”, e tuttavia “le forme sole rendono possibile la precisa determinazione
dell’oggetto delle contestazioni; tracciando la via che le parti debbono seguire sostituiscono
l’ordine al disordine, e se ciò porta ritardi evita ritardi maggiori; escludendo la licenza dei
litiganti e l’arbitrio del giudice, garantendo il libero esercizio della difesa giudiziale”419.

418 F. Carnelutti, La prova civile, Parte Generale, Il concetto giuridico di prova, Milano, Giuffrè, 1992, p. 3
419 G. Chiovenda, Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Saggi, I, ristampa, Milano, Giuffrè, 1993, p. 353 ss.

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161
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Cass., 23 novembre 1970, n. 2410, in Foro italiano, 1971, I, c. 133
Cass., 15 febbraio 1971, n. 383, in Repertorio Foro italiano, 1971, voce Prova civile, c. 2315, n. 102
Cass., 2 novembre 1971, n. 3104, in Repertorio Foro italiano, 1971, voce Prova civile, c. 2315, n. 103
Cass., 9 novembre 1973, n. 2944, in Repertorio Foro italiano, 1973, 2046, n. 70
Cass., 10 luglio 1975, n. 2728, in Repertorio Foro italiano, 1975, voce Prova civile, c. 2316, n. 46
Cass. civ., 12 febbraio 1979, n. 950
Cass., 15 giugno 1981, in Repertorio Foro italiano, 1981, 2315, n. 46.
Cass., 28 gennaio 1983, n. 809, in Repertorio Foro Italiano, 1983, 2603, n. 39
Cass., 26 febbraio 1983, n. 1484 in Repertorio Foro Italiano, 1983, 2603, n. 38
Cass., 25 febbraio 1986, n. 1191, in Repertorio Giustizia civile, 1986, voce Prova civile, n. 35.
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Cass., 27 maggio 1987, n.4719
Cass., 4 novembre 1988, n. 5974, in Repertorio della giustizia civile, 1988, voce Prova civile, n. 24;
Cass., 7 giugno 1984, n. 3440 in Repertorio della giustizia civile, 1984, voce Prova civile, n. 21;
Cass., 21 ottobre 1980, n. 5675, in Repertorio della giustizia civile, 1980, voce Prova civile, n. 57;
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Cass. 30 novembre 1988, n. 6501, in Repertorio Giustizia civile, 1988, voce Prova Civile, n. 23.
Cass., 28 aprile 1989, n. 2037, in Massimario Giurisprudenza italiana, 1989.
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Cass., 13 luglio 1991, n7800, in Repertorio Foro italiano, 1991, voce Prova civile in genere, n.13.
Cass., 22 aprile 1993, n. 4763 in Repertorio Giustizia civile, 1994, voce Prova civile, n. 22;
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Cass., 6 agosto 1994, n. 7309, in Massimario di giurisprudenza italiana, 1994;
Cass., 19 agosto 1994, n. 7447, in Repertorio Foro italiano, 1995, voce Lavoro e previdenza
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Cass., 3 settembre 1994, n. 7664, in Repertorio Foro italiano, 1994, voce Prova civile in genere, n.33;
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Cass., 1° aprile 1995, n.3822, in Repertorio Foro italiano, 1995, voce Prova civile in genere, n. 32;
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Cass., 10 giugno 1998, n 5784, in Repertorio Foro italiano, voce Prova civile in genere, n. 33;
Cass., 10 luglio 1998, n. 6769, in Repertorio Foro italiano, 1999, voce Lavoro e previdenza
(controversie), n. 183;
Cass., 10 giugno 1999, n. 5703
Cass., 11 dicembre 1999, n. 13889, Massimario di giustizia civile, 1999, 2493
Cass., 9 marzo 2000, n. 2668
Cass., 19 settembre 2000, n 12422, Massimario di giustizia civile, 2000, 1960
Cass., 26 settembre 2000, n. 12763, in Giurisprudenza italiana, 2001, 1378, con nota di C. Besso,
Prove atipiche e testimonianza scritta
Cass., 26 settembre 2000 n. 12763.
Cass., 4 giugno 2001, n. 7518, Massimario di giustizia civile, 2001, n. 1123
Cass., 20 dicembre 2001, n. 16069, in Guida al diritto, 2002, 11, 74,
Cass. 26 marzo 2003, n. 4472
Cass. 22 aprile 2003, n. 6396, Guida al Diritto, 2003, 24, 69
Cass. 2 marzo 2004, n. 4186
Cass., 25 marzo 2004, n. 5965;
Cass., 27 agosto 2004, n. 17076, in Repertorio Foro italiano, 2004, voce Lavoro e previdenza
(controversie), n.120;
Cass., 3 settembre 2004, n. 18190, in Guida al Diritto, 2004, 48, 67
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Cass. 16 maggio 2006, n. 11426, Massimario di giustizia civile, 2006, 5
Cass., 18 gennaio 2007, n. 1095;
Cass., 26 giugno 2007, n. 14766;
Cass., 2 marzo 2009, n. 5009;
Cass., 27 aprile 2010, n. 10055,
Cass., 23 giugno 2010, n. 15169
Cass., 2 luglio 2010, n. 15714
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Cass., 29 gennaio 2013, n.2071
Cass., 7 maggio 2014, n. 9843
Cass., 7 ottobre 2014, n. 21105
Cass., 9 ottobre 2014 n. 21299
Cass., 22 ottobre 2014, n. 22384;
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Cass., 23 ottobre 2017, n. 24976
Cass., 13 agosto 2018 n. 20719;
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Cass., 10 ottobre 2018 n. 25067,
Cass, 7 ottobre 2020, n. 21554
Cass., ord., 30 ottobre 2020, n. 24123
Cass., ord., 30 ottobre 2020, n. 24123
Cass., ord., 30 ottobre 2020, n. 24123
Cass., 13 aprile 2021, n. 9657
Cass., 2 luglio 2021 n. 18810

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Corte d’App., Venezia, 28 luglio 1899, in Temi veneta, 1899, n. 563

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