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I convegno BENI CULTURALI IN PUGLIA Dialoghi multidisciplinari per la ricerca, la tutela e la valorizzazione.

Bari, 16-17 settembre 2020

STUDI INTERDISCIPLINARI FINALIZZATI AL RESTAURO DI UN PLUTEO AD


INTARSIO MARMOREO ED INCROSTAZIONE DI MASTICE DEL XII-XIII SECOLO

Francesco Decaro1, Giacomo Eramo2, Stefano Roascio3, Antonella Martinelli4


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Dottore in "Conservazione e Restauro dei Beni Culturali", Università degli Studi di Bari Aldo Moro; 2 Dipartimento di Scienze
della Terra e Geoambientali, Università degli Studi di Bari Aldo Moro; 3Ministero per i Beni e le attività culturali e per il
turismo, Parco archeologico dell'Appia antica; 4 Alfa Restauro opere d’arte s.r.l

Introduzione

Nell’ambito del laboratorio di tesi in “Conservazione e Restauro dei Beni Culturali” dell’Università
degli Studi di Bari, un pluteo, databile tra XII e XIII secolo, è stato oggetto di studi interdisciplinari
finalizzati al restauro. L’attività di ricerca ha permesso di inquadrare l’opera sotto molteplici punti
di vista, costituendo un momento di approfondimento tanto sulla sua simbologia ed iconografia,
quanto sulla sua tecnica esecutiva e sulle vicissitudini conservative. Al fine di comprendere meglio
la natura dei suoi materiali costitutivi e di quelli ad esso soprammessi sono state effettuate analisi
chimiche e minero-petrografiche. Infine si sono testate le diverse metodologie di pulitura a base di
gel rigidi di agar-agar, cercando di seguire il principio del minimo intervento e della minore
invasività, ottenendo un livello di pulitura rispettoso del substrato lapideo, garantendone cioè la
giusta conservazione senza però cancellare le tracce del tempo trascorso, e ridonando leggibilità
all’opera.

Figura 1. Pluteo dell’Angelo e del Grifo.

Il manufatto (figura 1), soprannominato “Pluteo dell’Angelo e del Grifo”, oggi conservato
frammentario presso il Museo Nicolaiano di Bari, faceva parte delle suppellettili marmoree della
Basilica di San Nicola, probabile elemento dell’iconostasi di XIII secolo. Fu poi rimosso durante i

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lavori di ristrutturazione seicenteschi dell’area presbiteriale e riutilizzato capovolto per


pavimentare il transetto (Milella 1987); infine, come dimostra una foto d’archivio, venne ritrovato
durante i lavori di restauro del 1926-32. Esso è costituito da una lastra di marmo bianco lavorata in
parte ad intarsio marmoreo (con crustae di colore verde, giallo e rosso alternate tra loro) ed in parte
ad incrostazione di mastice (con amalgama di colore scuro).
Interrogativi sulle vicissitudini e sulla realizzazione stessa del pluteo sono emersi dopo una attenta
analisi dell’opera: alcuni dettagli delle decorazioni della cornice perimetrale hanno fatto supporre
che diverse sue parti siano state scalpellate e successivamente coperte dall’incrostazione di mastice
(figura 2). Ciò porta a ritenere che il manufatto sia stato oggetto, già in antico, di importanti
rilavorazioni, e che il mastice possa essere stato steso solo successivamente a queste, magari per
rimediare alla caduta di alcune crustae marmoree.

Figura 2. Elemento scalpellato e ricoperto dal mastice.

Studio iconografico

Analizzando l’opera dal punto di vista delle connotazioni stilistiche e delle scelte iconografiche, si è
subito rintracciato un gusto prettamente orientale, nel quale si fondono e si confondono suggestioni
bizantine ed islamiche, secondo un linguaggio diffuso in una comune matrice linguistica
mediterranea.
Lo schema compositivo sembra essere stato palesemente ripreso da un modello tessile; si sono
rintracciati infatti innumerevoli tessuti (Pellizzon 2012) che mostrano affinità col pluteo in
questione. Tuttavia anche altre tipologie di elementi artistici ed architettonici possono aver giocato
un ruolo fondamentale nella diffusione di un certo repertorio iconografico, in particolare le
pavimentazioni musive (Roascio 2011), come quella della stessa basilica nicolaiana, nella quale è

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presente una formella circolare contenente un grifo alato rampante, con testa d’aquila, analogo a
quello rappresentato nella rota sinistra del pluteo.
Si sono quindi analizzate le figure rappresentate nell’opera. Si è innanzitutto notata la differente
tipologia iconografica dei due grifi, uno con testa d’aquila e uno con testa leonina. È apparso evidente
che tale differenziazione non sia casuale, ma atta a conferire loro due significati diversi e
contrapposti. Difatti, il bifrontismo tipico di questa figura fantastica gli consente di assumere
molteplici significati diversi tra loro, anche contraddittori. Nel presente caso, l’atteggiamento più
aggressivo del grifo con testa d’aquila, rispetto a quello più mansueto del grifo con testa leonina, ha
portato a supporre che sia il primo ad incarnare gli aspetti negativi (il male), mentre, in questa logica
di contrapposizione dualistica, il secondo simboleggerebbe il bene, secondo una rilettura
cristologica e soteriologia che la presenza in una basilica imponeva. Si è notato inoltre che ad
aumentare i tratti di alterità tra le due creature, è un segno, simile ad una palmetta stilizzata,
presente sulla coscia del grifo con testa d’aquila ed assente in quello con testa leonina, che
difficilmente può essere scambiato come un vezzo stilistico.
Nella rota centrale la figura angelica seduta su di un animale, purtroppo mutilo e quindi di difficile
individuazione, sembra avere tra le mani una fune, simile a delle redini, con la quale soggioga la
bestia, dominandola. L’espressione seria quasi severa dell’angelo, e il capo chino in segno di
sottomissione dell’animale, sembrerebbero confermare questa ipotesi. Inoltre è da notare che, come
per il grifo con testa d’aquila, anche in questa creatura è presente una palmetta stilizzata sulla coscia,
cosa che, insieme alla somiglianza tra le terminazioni delle due code, ha portato a supporre si tratti
dello stesso animale fantastico. Tale scena, che potrebbe trarre origine dalle Sacre Scritture, in
particolare dall’Apocalisse, rappresenterebbe quindi il dominio della Chiesa, o più in generale della
Fede, rappresentata dalla figura angelica, sul male, riproposto dall’animale soggiogato; ciò ha portato
dunque ad ipotizzare il significato soteriologico complessivo del pluteo: il male può essere sconfitto
solo grazie a Dio, che attraverso la Chiesa e la Fede lo domina, facendo trionfare il bene.

Studio sulla tecnica esecutiva

La tecnica esecutiva del pluteo è stata oggetto di una approfondita indagine. Innanzitutto si è fatta
chiarezza sulla corretta terminologia da impiegare. Infatti è risultato evidente come nel corso degli
anni non ci sia stata uniformità da parte della critica nel definire le tecniche utilizzate per la
realizzazione del pluteo; opus sectile, champlevè, tarsia marmorea, riempimento con stucco, tecnica del
sottosquadro, sono solo alcuni dei termini adoperati. Dopo un’attenta analisi del manufatto si è
ritenuto che i termini più adatti a definire la particolare tecnica mista di realizzazione dell’opera,
siano quelli individuati dal Coden, ovvero: scultura ad incrostazione di mastice e intarsio marmoreo
(Coden 2006).
L’annosa questione legata alla terminologia di quella che veniva definita scultura a champlevè o
scultura a niello, mutuando termini provenienti dal mondo dell’oreficeria, è stata infatti risolta dal
Coden coniando la locuzione “scultura ad incrostazione di mastice”. Alcuni studiosi infatti, a
cominciare da Emile Bertaux e Lucien Begule, notando una particolare somiglianza di questa tecnica
di scultura con la lavorazione dei metalli, e in particolare con quella degli smalti, adoperarono il
termine champlevè (Begule 1905); altri studiosi, tra cui quelli nord italiani, preferirono utilizzare il
termine niello, quelli meridionali invece la locuzione “scultura a sottosquadro”. È evidente quindi
come, in assenza di una terminologia esclusiva e di una corretta caratterizzazione delle tecniche
esecutive dell'opera, la critica si sia avvalsa di termini provenienti da altri ambiti artistici, arrivando
però addirittura a teorizzare, esclusivamente per la somiglianza delle procedure esecutive e talvolta
degli esiti formali, una derivazione della scultura ad incrostazione di mastice da queste tecniche,
generando così valutazioni errate sia sull’origine cronologica, sia su quella geografica di prima
apparizione. Secondo Susan Boyd, ad esempio, questa tecnica, che consiste nell’intaglio di una lastra
di supporto con la creazione di alveoli sagomati secondo un disegno prestabilito e successivamente
riempiti con amalgama di vari tipi, rappresenterebbe una variante povera dell’opus sectile, nella quale

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il mastice prende il posto delle crustae marmoree. Gli indispensabili studi di Fabio Coden hanno
invece dimostrato la piena autonomia e indipendenza di questa tecnica artistica dalle altre.
Esaminando l’evoluzione e la diffusione della scultura ad incrostazione di mastice, si è notato come
essa abbia goduto di un lungo periodo d’impiego, dall’epoca romana, ai grandi sviluppi in epoca
proto-bizantina, fino alla straordinaria rinascita negli anni centrali del Medioevo, diffondendosi in
un’area assai estesa, che interessa grosso modo l’intero bacino del Mediterraneo, dalla Grecia
bizantina, all’oriente islamico, passando per Costantinopoli e l’area microasiatica, fino alle numerose
manifestazioni nella penisola italiana, coincidendo, sostanzialmente, con quel vasto areale
mediterraneo dove abbiamo visto manifestarsi e riattualizzarsi anche gli apparati iconografici
presenti sul pluteo oggetto dello studio. È stato possibile rintracciare le attestazioni più significative
di tale tecnica, notando come all’indomani dell’VIII secolo fosse pressoché abbandonata; si è dovuto
attendere la metà del X secolo per ritrovarla, con una certa rilevanza, nell’arte greco-bizantina, dalla
quale poi tornò a diffondersi, con numerosi esempi anche in Puglia dove, tra XI e XIII secolo, le
maestranze locali elaborarono e adattarono questa tecnica, sostanzialmente immutata da secoli, alle
nuove esigenze, facendola evolvere verso nuove linee di gusto, forse anche grazie alla presenza diretta
di maestranze alloctone, che potrebbero avere operato in loco mettendo in pratica il loro bagaglio
operativo e le tecniche impiegate nei territori d'origine.
L’incrostazione di mastice non è stata però la sola metodologia impiegata per la realizzazione del
“Pluteo dell’Angelo e del Grifo”; infatti, come già detto, l’opera è stata compiuta con una tecnica
mista, costituita anche dall’intarsio marmoreo.
Incongruenze legate alla terminologia e al corretto riconoscimento di quest’ultima tecnica sono state
rilevate in letteratura, soprattutto in quella del secolo scorso, nella quale risulta evidente una
mancata coerenza nelle definizioni dei termini, tarsia, intarsio, e mosaico, e nella quale spesso vengono
utilizzati binomi e locuzioni desunti dalle fonti antiche (opus sectile, opus interrasile, opus alexandrinum,
ecc.), la cui interpretazione può rivelarsi arbitraria o soggettiva. Analizzando il pluteo in questione
è risultato evidente che la terminologia più corretta da utilizzare è intarsio marmoreo, che corrisponde
al binomio latino opus interrasile, desunto da un passo della Naturalis Historia di Plinio, nel quale
l’autore parlando di interraso marmore allude senza dubbio al marmo intagliato, ovvero scavato e
riempito di crustae marmoree colorate, al fine di creare un effetto pittorico (Bonanni 1998). Il metodo
di lavorazione è risultato essere particolarmente simile a quello della scultura ad incrostazione di
mastice, cosa che ha spesso creato fraintendimenti e portato alcuni studiosi a ipotizzare
erroneamente una derivazione di quest’ultima dall’intarsio. Affinità sono state riscontrate tra le due
metodologie nell’esecuzione dell’alveolo, che però in questo caso si distingue per la maggiore
profondità e per una differente lavorazione del bordo. È stato inoltre opportuno distinguere
chiaramente questa tecnica, nella quale lastre più sottili sono inserite nell’incavo creato in un
supporto di maggiore spessore, da quella dell’opus sectile, nella quale lastre di marmo di eguale
spessore sono giustapposte, l’una accanto all’altra, su una preparazione cementizia.

Indagini diagnostiche

Preliminarmente alle operazioni di restauro, il manufatto è stato sottoposto ad una serie di analisi
chimiche e minero-petrografiche. Sono stati quindi prelevati un totale di sette campioni: tre dai
residui di mastice nero, presenti nella cornice perimetrale e nella rota centrale; uno dai residui della
malta di colore rossiccio, utilizzata per l’allettamento delle crustae; uno dai residui di una malta di
colore chiaro soprammessa al substrato marmoreo; e infine due prelevati da delle crustae di colore
verde, interessate da un particolare fenomeno di erosione (figura 3).
I tre campioni di mastice sono stati analizzati tramite pirolisi accoppiata a gascromatografia e a
spettrometria di massa (Py-GC-MS), al fine di comprendere la natura del legante utilizzato. I
risultati hanno evidenziato la presenza, in tutti i campioni, di una resina appartenente alla famiglia
delle Pinaceae, probabilmente colofonia, miscelata a caldo, e di cera d’api.

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Figura 3. Erosione di una crusta verde.

Dai restanti campioni, relativi alle malte e alle crustae di colore verde, si sono ricavate delle sezioni
sottili che sono state prima osservate al microscopio ottico polarizzatore e successivamente
analizzate tramite microscopia elettronica a scansione associata a spettroscopia dispersiva in
energia (SEM-EDS), al fine di caratterizzarne e comprenderne la composizione.
Per quanto riguarda il campione di malta rossiccia, le analisi hanno evidenziato l’utilizzo di calce
aerea come legante, con una tessitura cripto-cristallina e una struttura nodulare, e la presenza,
nell’aggregato, che rappresenta circa il 40% del volume, di cocciopesto (con matrice composta da
argilla caolinitica-illitica), cristalli di quarzo, provenienti molto probabilmente dal cocciopesto
stesso, nonché una piccola percentuale di sabbia calcarea, la cui presenza potrebbe essere casuale.
I risultati ottenuti dalle analisi sul campione di malta chiara, presente in maniera diffusa sul
manufatto, hanno evidenziato l’utilizzo, anche in questo caso, di calce aerea come legante, con una
struttura cripto-cristallina omogenea, e la presenza nell’aggregato, che rappresenta il 40% del
volume, di clasti carbonatici, di pirosseni e di cristalli di quarzo, ed in misura minore di K-feldspati
e ossidi di ferro e titanio.
Per quanto riguarda i campioni prelevati dalle crustae di colore verde, le analisi hanno finalmente
chiarito la natura di questo materiale, che nelle osservazioni al microscopio ottico ha mostrato una
struttura omogenea e una tessitura cripto-cristallina con domini verdi di dimensioni maggiori; le
analisi effettuate al SEM-EDS hanno evidenziato la presenza di silicio, alluminio, sodio, ferro e
magnesio. Questi dati hanno fatto supporre che si tratti di celadonite, un fillosilicato di potassio,
ferro e alluminio con formula K(Mg,Fe2+)(Fe3+,Al)[Si4O10](OH)2, appartenente al gruppo minerale
delle miche; inoltre, è stata rintracciata la presenza di cristalli di quarzo e titanite che possono
effettivamente trovarsi naturalmente associati alla celadonite.

Il restauro

Al fine di mettere a punto la migliore metodologia d’intervento per la pulitura del manufatto dai
depositi, più o meno coerenti, che ingrigivano la superficie marmorea, sono stati effettuati diversi
saggi. Particolare attenzione si è rivolta alla scelta dei materiali da impiegare, in modo che fossero il
più possibile ecocompatibili, meno invasivi, non solo per l’opera, ma anche per la salute degli
operatori e per l’ambiente. Dopo un attento studio a riguardo, si è constatato che il materiale che
maggiormente rispecchia queste caratteristiche è l’agar-agar, un polisaccaride complesso,
assolutamente atossico ed ecocompatibile, in grado di formare gel ad altissima viscosità che hanno

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la capacità di trattenere grandi quantità d’acqua per poi rilasciarle gradualmente (Anzani 2013). Le
sue proprietà chimico-fisiche lo rendono quindi ideale per l’utilizzo nel restauro dei Beni Culturali.
Di notevole importanza si è rivelata essere la versatilità offerta da questo tipo di gel rigido, superiore
ad altri metodi tradizionali che utilizzano materiali supportanti per la pulitura acquosa, come la
polpa di carta, poiché consente di controllare il rilascio di acqua attraverso la modifica di alcuni
parametri, quali: la densità della soluzione (che può variare tra 0,5 e 5%), la modalità di applicazione
(fluida, in fogli preformati, destrutturato ridotto a consistenza neve, schiumato), la temperatura di
applicazione, i tempi di posa sulle superfici (da pochi minuti fino a secchezza del gel) e lo spessore
della pellicola. Questo sistema consente inoltre di variare il tipo di azione esercitata dal gel, che può
essere incrementata e differenziata aggiungendo, nel caso in cui la sola acqua risulti insufficiente a
solubilizzare lo sporco, tutte le sostanze utilizzate con i più tradizionali impacchi.
Si è perciò deciso di testare le numerose variabili di utilizzo di questo materiale modificando, di volta
in volta, i parametri precedentemente citati. Al fine di poterlo paragonare con le più tradizionali
metodologie di pulitura, si sono effettuati anche due saggi tramite impacchi, in polpa di carta, di
soluzioni di carbonato d’ammonio al 10% e al 25%; tale metodologia, pur essendo molto efficace, non
è sembrata idonea dal punto di vista conservativo, dava infatti l’impressione di non rispettare la
naturale patina che nel tempo si forma sui substrati lapidei. Si è proceduto quindi con i saggi di
pulitura a base di gel di agar-agar, testando tutte le diverse metodologie di applicazione, con diverse
densità (al 2%, al 3%, e al 4%), con diversi tempi di contatto (da un minimo di 15 minuti, fino a 15
ore e quindi a secchezza del gel) (figura 4), e con l’aggiunta di additivi chimici (carbonato
d’ammonio) e/o tensioattivi (Tween® 20) in concentrazioni comunque inferiori all’1%.

Figura 4. Risultati dei saggi di pulitura con agar-agar fluido al 4%, dopo 15 min. (3A), 30 min. (3B), 60 min. (3C) e
dopo 15 ore (3D).

A seguito di oltre trenta diverse combinazioni di questi parametri, e quindi di altrettanti saggi, si è
scelta come metodologia di intervento per la pulitura della superficie marmorea, quella con gel di

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agar-agar al 4% applicato fluido ad una temperatura di circa 50°C, nebulizzando sulla superficie,
prima della sua applicazione, Tween® 20 all’1% (figura 5). Sui residui della malta di allettamento
delle crustae rimasta a vista si è però deciso di applicare il gel di agar-agar schiumato, avendo
quest’ultimo una minore adesione al substrato e permettendo quindi di agire sulla delicata superficie
della malta senza rischiare distacchi. Nei casi di depositi più spessi e coesi si è deciso di additivare
al gel di agar-agar il carbonato d’ammonio ad una concentrazione dello 0,5%; variando inoltre i tempi
di contatto da 1 a 3 ore in base alle diverse situazioni e, nel caso, riapplicando il gel fino ad ottenere
un livello di pulitura uniforme ed equilibrato.

Figura 5. Particolare dell’applicazione del gel in una zona non ancora pulita.

Bibliografia
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di), Tecniche di restauro, UTET Scienze Tecniche, PLT 43.
Begule L. (a cura di) 1905, Les incrustations décoratives des cathédrales de Lyon et de Vienne. Recherches sur
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Bonanni A. 1998, Interraso Marmore: esempi della tecnica decorativa a intarsio in età romana, in: Pensabene P.
(a cura di), Marmi Antichi II, Roma, pp. 259-278.
Campani E., Casoli A., Cremonesi P., Saccani I., Signorini E. (a cura di) 2007, L’uso di agarosio e agar per la
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Coden F. (a cura di) 2006, Corpus della scultura ad incrostazione di mastice nella penisola italiana (XI-XIII
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Milella N. 1987, Storia dei restauri, in: Otranto G. (a cura di), San Nicola di Bari e la sua basilica. Culto, arte,
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Pellizzon M. (a cura di) 2012, I tessuti bizantini con motivo decorativo a “rotae”. Analisi e sviluppo storico-
iconografico, Tesi di Laurea in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari,
Venezia.
Roascio S. (a cura di) 2011, Le sculture ornamentali “veneto-bizantine” di Cividale. Un itinerario artistico e
archeologico tra Oriente e Occidente medievale, All’insegna del Giglio.

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