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Anna Laura Rossi

Università Ca’ Foscari di Venezia


Corso di studi in Lingue, culture e civiltà dell’Asia e dell’Africa
mediterranea
Curriculum vicino e medio Oriente

L’UMORISMO EBRAICO
analisi, storia e caratteristiche della pratica di un popolo
Indice
2. Indice
2. Introduzione
3. I. Radici e motivazioni dell’umorismo ebraico
5. II. Funzioni e sviluppo nel tempo dell’umorismo ebraico
7. III. Meccanismi, scopo ed efficacia dell’umorismo
11. Conclusione
12. Bibliografia

Introduzione

Che il ridere sottenda una gamma di emozioni ben più ampia della comune ilarità è
cosa di cui tutti abbiamo fatto esperienza: chi ridendo dal nervosismo, chi dalla
tristezza e chi dal malessere. Ciò, molto spesso, in situazioni in cui la risata non solo
non si addiceva al contesto, ma pareva persino fuori luogo. Questo curioso aspetto
ha fatto sì che il riso come valvola di sfogo di sensazioni che vanno dalla gioia, alla
tensione, perfino al dolore incontrollabile, subisse, in quanto oggetto di studio,
numerose riflessioni; ma ora mi piacerebbe che declinassimo il riso, e più
precisamente l’umorismo, in una maniera più particolareggiata, parlando
dell’umorismo ebraico. Cosa si intende? Un umorismo di ebrei, sugli ebrei ed
intenzionato a far ridere, prima di tutti, gli ebrei.
Con questo lavoro ci proponiamo, infatti, di indagare la natura dell’umorismo
ebraico. A tal fine, nel primo capitolo tenteremo di stabilire quali sono le sue radici e
motivazioni; procederemo poi, nel secondo capitolo, con la trattazione delle sue
funzioni per giungere infine, nel terzo capitolo, all’indagine sui suoi meccanismi,
cercando di comprenderne lo scopo e l’efficacia. Va tenuto presente che non
possiamo buttarci a capofitto nella questione senza prima aver affrontato delle
tematiche, per così dire, preliminari, seguendo un filo logico basato sulle riflessioni
di tre studiosi in particolare: Lessing, Musatti e Freud. Cercheremo infatti di
proseguire nella nostra analisi avendo cura di spiegare il pensiero degli intellettuali
sopra citati man mano che risulterà utile ai fini della nostra ricerca.
I tre illustri studiosi hanno fornito spunti di riflessione a partire da considerazioni
che sembrano potersi susseguire l’un l’altra senza perdere alcun tratto di logicità
pur appartenendo a tre menti distinte. Così possiamo, con le dovute precisazioni e
chiarimenti, individuare un percorso che seguiremo e che ci condurrà, in ultimo, ad
avere un’idea, se non chiara perlomeno non del tutto offuscata, delle radici
dell’umorismo ebraico e della sua applicazione nel corso della storia ed in funzione
di essa. Appartenendo i già citati autori a differenti categorie di studio, l’analisi che
opereremo tenterà di passare dall’una all’altra con le dovute accortezze: senza cioè
dare per scontato alcunché, ma evitando di soffermarsi su tecnicismi e particolarità
puntuali delle singole discipline cui i tre studiosi dedicarono la maggior parte della
loro vita intellettuale.

I. RADICI E MOTIVAZIONI DELL’UMORISMO EBRAICO

Innanzitutto, dobbiamo essere sinceri e dichiarare che la tematica centrale che


intendiamo analizzare non sarà tanto il punto di partenza del nostro lavoro, quanto
piuttosto il fine cui la ricerca tenderà: ci risulterà chiaro ed andrà definendosi mano a
mano che affronteremo altri concetti, senza cui una comprensione della questione
complessiva ci sarebbe quantomeno ostica. Non stupirà dunque che io cominci
parlando della storia, ed in particolare di come la intende Lessing, cioè in relazione
all’idea che l’uomo ha e si è fatto di essa.
Theodor Lessing — nato ad Hannover nel 1872 e morto a Marienbad nel 1933 —
è stato un filosofo e saggista tedesco. Nato in una famiglia ebrea assimilata dell’alta
borghesia, sin da giovane avverso al nazionalismo tedesco, è noto per il suo saggio
più celebre, nonché oggetto preso in analisi nel nostro studio, L’odio di sé ebraico1,
in cui ha cercato di fornire una spiegazione all’atteggiamento di alcuni intellettuali
ebrei che incitavano all’antisemitismo contro il popolo ebraico e che consideravano
l’ebraismo come la fonte del male del mondo.
Ora, seguendo il suo stesso pensiero espresso nel libro sopra citato, focalizziamoci
sulla sua concezione di storia. Egli illustra che, dato il fatto che le disgrazie
accadono e non si finisce mai di sperimentare nuove sofferenze, l’uomo ha
cominciato ad interrogarsi su come ciò sia possibile, rifiutando l’ipotesi che prevede
il tutto derivare da una casualità che governerebbe il mondo ed il suo divenire. Non
è possibile, si sono detti gli uomini, che tutto ciò che di spiacevole accade non abbia
la sua ragion d’essere, il suo principio: deve esistere una colpa per ogni
accadimento. È, questa, una smania di trovare un senso al tutto che ha portato alla
visione della storia come conferimento di senso: tutto avviene per un motivo, e se

1 Th. Lessing, Der Juedische Selbsthass (Berlin, 1930), Muenchen, Matthes & Seotz (trad. italiana a
cura di Ubaldo Fadini, L’odio di sé ebraico (Milano, 1995), Mimesis.
capitano tante disgrazie bisogna trovare la persona su cui far ricadere la colpa. Il
principio di casualità, inaccettato nella sua insensata incontrollabilità, cede così il
posto al ben più rassicurante principio di causalità.
Resta dunque aperta la questione del colpevole, il quale può essere identificato o
in qualcuno di estraneo, o in noi stessi. È l’ultima opzione quella scelta dall’ebreo, il
quale si pone come principio originario degli stessi mali che gli capitano, adottando
una visione che implica la concezione della disgrazia come espiazione di una colpa.
Ma la colpa del popolo ebraico nello specifico è collettiva e deriva da un evento
particolare, cioè la rottura dell’unità originaria. Quella che Lessing ipotizza è una
totalità di cui faceva parte tutto l’essente, tra cui anche l’uomo, ma senza coscienza
o spiritualità. Quando però emerse la coscienza umana, avvenne la fatidica rottura
dell’unità e la conseguente caduta in una realtà frammentaria di cui l’unico
colpevole è l’uomo stesso, costretto a pagarne eternamente le conseguenze. Così
ogni dolore non è che il ricordo di quella prima colpa, ogni sofferenza è espiazione. Il
tutto, se visto dall’ottica di un popolo la cui millenaria storia è segnata da
sofferenze, va a dare un significato alla marginalità in cui è relegato l’ebreo: si
merita di stare da solo, perché egli è colpevole.
Il problema della colpa che Lessing descrive è stato affrontato anche da altri
studiosi, tra cui Moritz Lazarus — filosofo e psicologo tedesco di origine ebraica,
oppositore dell’antisemitismo del suo tempo, nato nel 1824 a Filehne, allora Regno
di Prussia, e morto a Merano nel 1903 — nella sua opera L’etica dell’ebraismo2. Egli
collocò il sentimento di colpa al centro dello stesso ebraismo: in una dottrina
secondo cui tutto è Dio, anche le disgrazie, si spiega così che l’unica origine del male
non è che l’uomo stesso, alle cui azioni sbagliate corrisponde una pena da scontare
assegnatagli da Dio. Si delinea dunque una situazione di dualità per il popolo
ebraico, che è da un punto di vista il più sacrificabile, poiché ammette in prima
persona la propria colpevolezza, ma per la stessa ammissione di colpa è anche il più
propriamente definibile ‘popolo dell’etica’. Ne deriva una nobilitazione dell’intero
popolo che, unito in un vincolo solidale di responsabilità collettiva, resta tuttavia
agli occhi degli altri colpevole e per questo condannato ad una condizione di
oppressione. È la minoranza sofferente, la cui vulnerabilità costringe ad una
costante attenzione: sempre vigile, per non svelare le proprie debolezze conduce
una vita nel sospetto di chiunque, perfino di sé.
Così sviluppa una forma di diffidenza nei suoi stessi confronti che sfocia in una
naturale inclinazione all’ironia, la quale permette di trattare le cose con maggior
2 M. Lazarus, Die Ethik des Judentums, 2 voll., (Germania, 1898-1901), traduzione inglese a cura di
Henrietta Szold The Ethics of Judaism, 2 voll., (Philadelphia, 1901), The Jewish Publication society of
America, par. 41, 42.
distacco, lasciando quindi la possibilità di proteggersi da ogni eventuale pericolo. Si
tratta dunque, più ampiamente, dell’odio di sé come di una caratteristica propria di
ogni minoranza o creatura oppressa e bisognosa, messa tuttavia in particolare
risalto dalla psicologia dell’ebreo.
È a partire da questo timido accenno alla psicologia che possiamo collegarci alle
riflessioni che lo psicologo, psicanalista e filosofo italiano Cesare Musatti, nato a
Dolo nel 1897 e morto a Milano nel 1989, espone in Ebraismo e psicoanalisi3.
Nell’opera lo studioso si sofferma sul fatto che la psicoanalisi ha una storia la cui
ambientazione, inizialmente, fu perlopiù ebraica: non solo Freud, ma anche molti dei
suoi primi discepoli erano di origine ebraica. Sorge dunque spontanea la riflessione
circa il rapporto fra la teoria psicoanalitica, il pensiero ebraico e l’ambiente culturale
centroeuropeo di ebrei assimilati in cui Freud visse; riflessione che porta Musatti ad
affermare che la psicoanalisi non poteva che nascere e svilupparsi in un ambiente
ebraico.
Ciò è dovuto alle caratteristiche della mentalità degli ebrei, al tempo stesso ferma
nella conservazione della propria millenaria natura e tendente ad innovazioni. In
essa forze rivoluzionarie e sovversive trovano spazio accanto ad uno spirito
conservatore, mostrando quella che Musatti chiama “indipendenza di spirito” 4, forse
derivata proprio dal mai completo inserimento nella realtà dei gentili e dal timore di
esporsi ai loro occhi.

II. FUNZIONI E SVILUPPO NEL TEMPO DELL’UMORISMO EBRAICO

Proprio nell’ottica di una mentalità indipendente e a sé stante, anche l’umorismo


assume un importante ruolo, rivelandosi efficace strumento di difesa. Infatti, nel
momento stesso in cui l’autore di una storiella umoristica presenta se stesso o la
comunità di cui fa parte nei suoi aspetti più criticabili e stereotipici, ecco che provoca
un riso nell’ascoltatore che sarà portato a non provare più avversione per quegli
oggetti di riso, ma simpatia e, talvolta, compassione. Esporsi tanto quanto basta per
far capire all’interlocutore che non solo si è innocui, ma che si è persino i primi a
riconoscere le proprie debolezze, vanifica ogni sforzo aggressivo esterno,
permettendo un’elevazione di sé.

3 C. Musatti, Ebraismo e psicoanalisi (Pordenone, 1994), Edizioni Studio Tesi.


4 Musatti, op. cit., p. 11
Così non si spiega, però, perché gli ebrei facciano uso dell’umorismo anche tra di
loro, in una situazione in cui cioè non è necessario difendersi da alcun attacco
esterno né vi è alcuna esigenza di riscatto nei confronti di qualcuno da cui si è
considerati estranei. Secondo Musatti, questo comportamento trova le sue ragioni in
un fortissimo spirito autocritico, una tendenza autoaggressiva e masochistica che
prova compiacimento nel descrivere le proprie debolezze.
Non è poi da tralasciare un’altra caratteristica essenziale per l’umorismo: il fatto,
cioè, che presuppone una corrispondenza di struttura psicologica fra l’autore e il
ricettore del messaggio. Risulta infatti più semplice ed efficace fare dell’umorismo
rivolgendosi a persone che capiscono appieno ciò di cui si sta parlando, tanto più se
lo stesso oggetto del riso rientra in un sistema culturale comune, se cioè il ricettore
del messaggio umoristico coglie immediatamente il riferimento, perché viene a
crearsi una straordinaria intesa fra l’umorista e l’ascoltatore.
Di qui anche l’aspetto problematico dell’umorismo ebraico, nonché l’impossibilità
di comprenderlo appieno a meno che non si abbia una specifica cultura. Non appena
si supera questa complicazione, però, svanisce il gusto puro dell’umorismo, che per
essere recepito deve passare da chi recita la battuta a chi l’ascolta evitando il filtro
della ragione, che sottopone ad un’analisi troppo specifica. Non è un caso se Freud,
nell'avanzare esempi di storielle divertenti, cita spesso e volentieri quelle ebraiche:
le conosce perché ridono di quel mondo di cui lui stesso fa parte e che pertanto
conosce fino in fondo.
Sempre nel contesto dell’umorismo ebraico, Musatti delinea tre differenti periodi di
evoluzione di questo comportamento, con conseguenti tratti caratteristici. Il primo è
l’umorismo ebraico classico, nato nei ghetti o nelle chiuse e segregate comunità
dell’Europa centro-orientale come antidoto alla miseria e al disprezzo, che non ha
tuttavia alcun interlocutore esterno proprio a motivo del suo essere un fenomeno
dovuto alla condizione di confinamento. Esso altro non è che l’amara espressione di
uomini che vivono nella tragedia dell’assenza di una patria.
Il secondo è l’umorismo delle popolazioni israelite emigrate in Occidente, in cui si è
sì verificato un contatto con il resto del mondo, ma l’ebreo rimane comunque solo in
un ambiente perlopiù formato da gentili: in questo caso egli sfrutta la propria
destrezza per trasformare, tramite artifici comici, l’infelicità in dominio della
situazione.
Vi è infine l’umorismo della generazione successiva, quella cioè degli ebrei
assimilati che, apparentemente in perfetta armonia con il mondo culturale in cui
vivono, conservano sempre e comunque quel retaggio che la loro origine implica. Ne
è esempio Woody Allen, regista, attore, sceneggiatore, scrittore e commediografo
nato a New York nel 1935, tra i più famosi umoristi dell’epoca contemporanea. Egli
propone personaggi non particolarmente fortunati — e qui si crea la condizione per
l’umorismo — le cui debolezze e sofferenze sono messe a nudo agli occhi degli altri,
in modo da dimostrarsi capace di superare i propri limiti e superiore ai propri guai. In
particolare, la potenza del suo umorismo sta, secondo Musatti 5, nel suo stesso
ebraismo, mai mascherato e talvolta addirittura ostentato. Allen può farlo perché sa
che ad ogni modo ne uscirà come vincente e che, al contrario, ogni possibile
sentimento ostile suscitato risulterà perdente, in una situazione che è dominata da
quell’umorismo tanto sicuro di sé.
È, questa, una sicurezza che permette di dare sfogo alla propria fantasia artistica,
libera di proporre oggetti su cui ridere perché in essi stessi si identifica. Diversa è
invece una situazione in cui l’oggetto del riso non ha a che vedere con il soggetto
che ne ride.
In quest’ultimo caso, l’efficacia dell’umorismo svanisce del tutto, lasciando
intravedere sentimenti ben più cupi: spesso aggressività, disprezzo e mancanza di
rispetto. Se, ad esempio, un gentile racconta una battuta che mette in luce gli
aspetti che ritiene più comici degli usi e costumi degli ebrei, allora non solo
mostrerà una notevole superficialità, in quanto giudica senza conoscere davvero, ma
potrebbe anche goffamente ricadere nell’espressione di una vana irruenza verbale,
senza fini né ragioni, il cui obiettivo è un individuo ch’egli reputa, in qualche modo,
diverso ed estraneo.

III. MECCANISMI, SCOPO ED EFFICACIA DELL’UMORISMO

L’umorismo ha un sapore tutto suo, e non lo si può gustare che a determinate


condizioni. Di ciò si era ben reso conto, già più di un secolo fa, il neurologo,
psicoanalista e filosofo austriaco Sigmund Freud — nato a Freiberg nel 1856 e
morto a Londra nel 1939 — che nel 1905 pubblicò un saggio dal titolo Il motto di
spirito e la sua relazione con l’inconscio 6. Nell’opera in questione espresse il suo
interesse per i dinamismi psichici che si innescano nella mente umana quando si
elabora un pensiero divertente, che sia esso umoristico, spiritoso o comico. È, la
sua, una riflessione che verte tutt’attorno al riso ed ha come come punto di

5 Musatti, op. cit., pagg.38-43.


6 S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten (Deuticke, Leipzig-Vienna, 1905),
traduzione italiana a cura di Pietro L. Segre, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio
(Roma, 1975), Newton Compton.
maggiore messa a fuoco, come lascia ampiamente intuire il titolo stesso del saggio,
il motto di spirito, indagato nei suoi aspetti caratteristici e nella sua dinamica.
Ci risulta ora necessario perlomeno tentare di definire cosa sia il motto di spirito al
fine di comprendere l’analisi che ne fa Freud; tuttavia bisogna ammettere che se
intendiamo la definizione come universalmente considerabile valida, allora sarà per
noi irraggiungibile. Approcciandoci dunque con le dovute accortezze, procediamo
analizzando le definizioni che prima di Freud altri studiosi hanno cercato di fornire e,
riconoscendo che il nostro non sarà che un tentativo di delineare un concetto tanto
complesso ed interessante quanto necessario alla nostra ricerca, giungiamo infine
ad affermare che il motto di spirito è una battuta particolarmente spiritosa ed
arguta, che trae l’efficacia più dalla forma in cui è espressa che dal concetto che
intende trasmettere.
Il tratto più interessante del motto di spirito, nonché fulcro della ricerca condotta
da Freud, sono i meccanismi psichici da esso messi in moto: si tratta di processi
complessi che hanno a che fare con l’inconscio, la parte più intima ed ignota della
mente umana. Noi non ci soffermeremo sulla specificità della genesi del motto di
spirito né tantomeno sulle tecniche adoperate per renderlo efficace, perché la
nostra attenzione sarà, funzionalmente alla ricerca che stiamo portando avanti,
posta sui suoi scopi.
Un motto di spirito può infatti essere innocente, quindi fine a se stesso, o, al
contrario, tendere ad un fine, ed essere dunque definito tendenzioso. In quest’ultimo
tipo, l’intenzione può essere oscena, al servizio della denudazione, oppure ostile,
volutamente aggressiva. In questo caso, il motto serve per sfuggire a rigide
imposizioni, quali quelle in uso nelle relazioni formali della vita quotidiana
dell’uomo: esso rende possibili l’invettiva e l'ingiuria, che di per loro sono
impossibilitate dalle circostanze esterne, quali buona creanza, timore delle
ripercussione che ciò può avere, rispetto delle condizioni di subalternanza. La
battuta spiritosa è dunque una forma di ribellione e di scardinamento delle regole,
mezzo per andare oltre i limiti imposti senza tacciarsi di irrispettosità.
Questa intenzione critica è talora rivolta contro il soggetto stesso o qualcuno con
cui egli ha a che fare, ed è proprio lì che il motto di spirito trova una condizione
favorevole: alcuni tra i motti di spirito meglio riusciti sono nati da questa stessa
esigenza di autocriticità, come ad esempio le storielle ebraiche. In questo caso,
Freud parla di causa determinante soggettiva del motto di spirito, intesa come
elemento creato dalla comunanza fra il soggetto del motto di spirito e la persona
che lo enuncia. Per cercare di capire meglio , ci può essere utile la riflessione che lo
stesso Freud fa: prendendo come oggetto della riflessione spiritosa un ebreo, un
motto di spirito creato da un ebreo ammette, esattamente come un motto frutto
della mente di uno straniero, la comicità della figura dell’oggetto di riso in
questione; tuttavia vi è una differenza sostanziale. Lo straniero infatti non ammette
che quello, mentre l’ebreo ha una visione più ampia, in cui ai difetti comici si
uniscono ed intrecciano le qualità positive. Ecco che si crea la causa determinante
soggettiva: il motivo per cui un ebreo ride di un altro ebreo è che valutandone le
mancanze e debolezze non può scinderle dalla ben più complessa figura positiva e
nobile ch’egli non solo riesce a vedere, ma addirittura non potrebbe non vedere,
perché già la conosce.
È quindi la dimensione soggettiva, la compartecipazione con l’oggetto del riso che
permette al meccanismo del motto di spirito di funzionare. Meccanismo che,
tuttavia, risulta il più delle volte difficile da trovare; d’altronde, più si capisce
razionalmente cosa sta alla base di una battuta spiritosa, meno forte e sincero sarà
il riso che ne scaturirà. Occorre capire perché già si sa, non cercare di comprendere
le ragioni sottese al motto di spirito e che ne garantiscono l’efficacia.
Di qui un'altra questione, consequenziale e ben utile alla nostra riflessione
generale sul motto di spirito: il fattore del risparmio. Si risparmia, infatti, se non
bisogna indagare le qualità di una persona di cui si ride perché già le si conosce, se
non occorre istruirsi sugli usi e costumi di una comunità di cui si vuol mettere in
ridicolo un tratto peculiare perché già li si mette in pratica; se, insomma, non
bisogna fare uno sforzo mentale o cognitivo, che difatti ostacolerebbe la pura risata.
È, inoltre, sempre nell’ottica del risparmio che va collocata, secondo Freud, un’altra
caratteristica fondamentale del motto di spirito, cioè la concisione. Vari sono gli
espedienti che possono garantirne la presenza — dal molteplice uso dello stesso
materiale ai più comuni doppi sensi — e ad essi Freud dedica buona parte del suo
elaborato, sia nella parte analitica, ed in particolare nelle pagine in cui analizza la
tecnica del motto di spirito, sia nella parte sintetica, in cui le sue riflessioni ruotano
tutt’intorno al meccanismo del piacere e alla psicogenesi del motto di spirito.
L’intero processo di formazione e fruizione del motto di spirito implica, secondo
Freud, il concetto di risparmio, inteso dal punto di vista psichico ed intellettuale.
Difatti, si esprime un concetto nella maniera più concisa possibile, comprimendo o
risparmiando le parole, e si fa riferimento ad una persona o un oggetto già noto,
ripescandolo nella memoria e non dovendo obbligare nessuno ad uno sforzo
immaginativo creativo.
Teniamo a mente che l’obiettivo finale è il piacere, che di per sé deriva dal
soddisfacimento di uno scopo, il quale può essere reso inaccessibile o da un
ostacolo esterno, ed occorre dunque evitarlo, o da un ostacolo interno, un impulso
inibitorio già esistente che bisogna eliminare. Analizzando questo secondo caso,
Freud afferma che dal momento che la mente umana effettua un dispendio psichico
per costruire e mantenere un’inibizione, possiamo supporre che quando essa viene
rimossa dal meccanismo del motto di spirito, allora se ne trae un profitto di piacere
corrispondente al dispendio psichico risparmiato. È questo risparmio di energia
mentale che per Freud produce il piacere, e quanti più ostacoli inibitori si riescono
ad annullare, tanto più intenso si fa il soddisfacimento del piacere. Il riso è, in
quest’ottica, lo sfogo di quella energia psichica risparmiata, manifestazione esterna
del piacere che la nostra mente prova. Potremmo dunque affermare che in una certa
maniera i motti di spirito sono sempre tendenziosi, in quanto mirano allo scopo di
promuovere il pensiero proteggendolo contro la critica.
A questo punto della nostra riflessione potremmo anche aver compreso perché gli
ebrei ridono di loro stessi, ma una domanda si insinuerebbe fastidiosamente tra i
nostri pensieri: non si stancano mai di ridere? Cioè, non esauriscono mai gli oggetti
del riso? Ecco dunque giungere in soccorso un’altra risorsa tecnica del motto di
spirito: l’attualità, cioè il riferimento a persone ed avvenimenti contemporanei che
suscitano immediatamente l’interesse del pubblico perché ancora freschi.
L’associazione con qualcosa di recente è semplice ed immediata, quindi facilitata, e
permette perciò un grande risparmio che rende ancora maggiore il piacere che si
trae dal motto di spirito.
Se da un lato, riferendosi a fatti o personaggi familiari e recenti, pertanto non
dimenticabili, questa caratteristica rende i motti particolarmente puntuali ed adatti
al momento, dall’altro, però, fa sì che molti di essi abbiano vita breve, come se il
potere spiritoso decadesse con il passare del tempo.
Il fattore dell’attualità è una fonte di piacere, seppur effimera, particolarmente
abbondante. Infatti, la forza vitale dei motti di spirito di attualità non è loro propria,
ma deriva da allusioni a interessi il cui morire determina anche il destino del motto.
Proprio per questo motivo l’uomo sente la necessità di creare costantemente dei
motti nuovi: l’attualità ha una forza tale, permette un accesso al piacere derivato dal
riso così intenso che spinge l’uomo a creare sempre nuovi motti, di modo che il
fattore dell’attualità non venga mai a mancare.
In questa nostra analisi non dimentichiamoci un punto essenziale del motto di
spirito: il fatto, cioè, che esso deve essere raccontato a qualcun altro. Tra le funzioni
psichiche che mirano al piacere, difatti, il motto di spirito è quella più sociale. Ha
infatti bisogno di tre componenti — chi lo pronuncia, chi lo ascolta e l’oggetto del
motto stesso — ed è completo solo se un’altra persona partecipa al processo
psichico cui il motto dà luogo, pertanto è necessariamente intelligibile. Io stesso
infatti non posso ridere di un motto da me creato o venutomi in mente, per quanto
mi provochi evidentemente piacere, ed il fatto che debba essere raccontato ne fa un
processo sociale. Può darsi che raccontiamo i motti di spirito agli altri proprio perché
in loro si generano quella ilarità e quel riso che in noi non sopraggiungono
ugualmente né si manifestano. Così si compie, fra la prima e la terza persona, un
processo psichico con cui riusciamo a giungere all’euforia del riso.
A tal proposito, Freud osserva come proprio l’euforia che cerchiamo di raggiungere
con il motto altro non è che lo stato d’animo dell’infanzia, quando tutta la nostra
attività psichica prevedeva un dispendio ridotto di energia. È una sorta di ritorno ad
una condizione infantile di gioco, in cui c’è un centro di piacere originario, che si
ricopre a sua volta di ulteriore piacere derivato dal liberare da inibizioni, sia proprie
sia altrui. Nell’ipotesi di Freud, l’elemento infantile è la fonte dell’inconscio ed i
processi del pensiero inconscio sono quelli della prima fanciullezza. Non è un caso,
infatti, se il motto sceglie le occasioni in cui il gioco può apparire lecito o razionale, e
nella sua creazione il pensiero si tuffa nell’inconscio per ricercare la sede del gioco
di un tempo: così il pensiero viene riportato per un momento allo stadio della
fanciullezza per riconquistare il possesso di quella infantile fonte di piacere.

Conclusione

Giunti al termine della nostra analisi, ci dovremmo essere schiariti le idee


sull’umorismo ebraico. Non si intenda con questo che ora ci è del tutto noto, ma,
piuttosto, che siamo a conoscenza della sua natura sfaccettata e ricca di sfumature.
Ne abbiamo indagato le fondamenta e compreso gli sviluppi, per giungere infine a
considerazioni riguardanti più l’umorismo in generale che quello ebraico in
particolare. D’altronde, come abbiamo messo in luce in questa ricerca, un umorismo
che non ci appartiene non lo potremmo mai comprendere pienamente, quindi tanto
vale ammettere questo nostro limite e cercare di godere, da esterni, della messa in
pratica di una forma di espiazione e sublimazione di sé da parte di un popolo che
l’ha applicata nel corso della storia ed in funzione di essa.
Bibliografia

S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten (Deuticke, Leipzig-Vienna, 1905),
traduzione italiana a cura di Pietro L. Segre, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio
(Roma, 1975), Newton Compton.

M. Lazarus, Die Ethik des Judentums, 2 voll., (Germania, 1898-1901), traduzione inglese a cura di
Henrietta Szold The Ethics of Judaism, 2 voll., (Philadelphia, 1901), The Jewish Publication society of
America.

Th. Lessing, Der Juedische Selbsthass (Berlin, 1930), Muenchen, Matthes & Seotz (trad. italiana a
cura di Ubaldo Fadini, L’odio di sé ebraico (Milano, 1995), Mimesis.

C. Musatti, Ebraismo e psicoanalisi (Pordenone, 1994), Edizioni Studio Tesi.

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