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L’UMORISMO EBRAICO
analisi, storia e caratteristiche della pratica di un popolo
Indice
2. Indice
2. Introduzione
3. I. Radici e motivazioni dell’umorismo ebraico
5. II. Funzioni e sviluppo nel tempo dell’umorismo ebraico
7. III. Meccanismi, scopo ed efficacia dell’umorismo
11. Conclusione
12. Bibliografia
Introduzione
Che il ridere sottenda una gamma di emozioni ben più ampia della comune ilarità è
cosa di cui tutti abbiamo fatto esperienza: chi ridendo dal nervosismo, chi dalla
tristezza e chi dal malessere. Ciò, molto spesso, in situazioni in cui la risata non solo
non si addiceva al contesto, ma pareva persino fuori luogo. Questo curioso aspetto
ha fatto sì che il riso come valvola di sfogo di sensazioni che vanno dalla gioia, alla
tensione, perfino al dolore incontrollabile, subisse, in quanto oggetto di studio,
numerose riflessioni; ma ora mi piacerebbe che declinassimo il riso, e più
precisamente l’umorismo, in una maniera più particolareggiata, parlando
dell’umorismo ebraico. Cosa si intende? Un umorismo di ebrei, sugli ebrei ed
intenzionato a far ridere, prima di tutti, gli ebrei.
Con questo lavoro ci proponiamo, infatti, di indagare la natura dell’umorismo
ebraico. A tal fine, nel primo capitolo tenteremo di stabilire quali sono le sue radici e
motivazioni; procederemo poi, nel secondo capitolo, con la trattazione delle sue
funzioni per giungere infine, nel terzo capitolo, all’indagine sui suoi meccanismi,
cercando di comprenderne lo scopo e l’efficacia. Va tenuto presente che non
possiamo buttarci a capofitto nella questione senza prima aver affrontato delle
tematiche, per così dire, preliminari, seguendo un filo logico basato sulle riflessioni
di tre studiosi in particolare: Lessing, Musatti e Freud. Cercheremo infatti di
proseguire nella nostra analisi avendo cura di spiegare il pensiero degli intellettuali
sopra citati man mano che risulterà utile ai fini della nostra ricerca.
I tre illustri studiosi hanno fornito spunti di riflessione a partire da considerazioni
che sembrano potersi susseguire l’un l’altra senza perdere alcun tratto di logicità
pur appartenendo a tre menti distinte. Così possiamo, con le dovute precisazioni e
chiarimenti, individuare un percorso che seguiremo e che ci condurrà, in ultimo, ad
avere un’idea, se non chiara perlomeno non del tutto offuscata, delle radici
dell’umorismo ebraico e della sua applicazione nel corso della storia ed in funzione
di essa. Appartenendo i già citati autori a differenti categorie di studio, l’analisi che
opereremo tenterà di passare dall’una all’altra con le dovute accortezze: senza cioè
dare per scontato alcunché, ma evitando di soffermarsi su tecnicismi e particolarità
puntuali delle singole discipline cui i tre studiosi dedicarono la maggior parte della
loro vita intellettuale.
1 Th. Lessing, Der Juedische Selbsthass (Berlin, 1930), Muenchen, Matthes & Seotz (trad. italiana a
cura di Ubaldo Fadini, L’odio di sé ebraico (Milano, 1995), Mimesis.
capitano tante disgrazie bisogna trovare la persona su cui far ricadere la colpa. Il
principio di casualità, inaccettato nella sua insensata incontrollabilità, cede così il
posto al ben più rassicurante principio di causalità.
Resta dunque aperta la questione del colpevole, il quale può essere identificato o
in qualcuno di estraneo, o in noi stessi. È l’ultima opzione quella scelta dall’ebreo, il
quale si pone come principio originario degli stessi mali che gli capitano, adottando
una visione che implica la concezione della disgrazia come espiazione di una colpa.
Ma la colpa del popolo ebraico nello specifico è collettiva e deriva da un evento
particolare, cioè la rottura dell’unità originaria. Quella che Lessing ipotizza è una
totalità di cui faceva parte tutto l’essente, tra cui anche l’uomo, ma senza coscienza
o spiritualità. Quando però emerse la coscienza umana, avvenne la fatidica rottura
dell’unità e la conseguente caduta in una realtà frammentaria di cui l’unico
colpevole è l’uomo stesso, costretto a pagarne eternamente le conseguenze. Così
ogni dolore non è che il ricordo di quella prima colpa, ogni sofferenza è espiazione. Il
tutto, se visto dall’ottica di un popolo la cui millenaria storia è segnata da
sofferenze, va a dare un significato alla marginalità in cui è relegato l’ebreo: si
merita di stare da solo, perché egli è colpevole.
Il problema della colpa che Lessing descrive è stato affrontato anche da altri
studiosi, tra cui Moritz Lazarus — filosofo e psicologo tedesco di origine ebraica,
oppositore dell’antisemitismo del suo tempo, nato nel 1824 a Filehne, allora Regno
di Prussia, e morto a Merano nel 1903 — nella sua opera L’etica dell’ebraismo2. Egli
collocò il sentimento di colpa al centro dello stesso ebraismo: in una dottrina
secondo cui tutto è Dio, anche le disgrazie, si spiega così che l’unica origine del male
non è che l’uomo stesso, alle cui azioni sbagliate corrisponde una pena da scontare
assegnatagli da Dio. Si delinea dunque una situazione di dualità per il popolo
ebraico, che è da un punto di vista il più sacrificabile, poiché ammette in prima
persona la propria colpevolezza, ma per la stessa ammissione di colpa è anche il più
propriamente definibile ‘popolo dell’etica’. Ne deriva una nobilitazione dell’intero
popolo che, unito in un vincolo solidale di responsabilità collettiva, resta tuttavia
agli occhi degli altri colpevole e per questo condannato ad una condizione di
oppressione. È la minoranza sofferente, la cui vulnerabilità costringe ad una
costante attenzione: sempre vigile, per non svelare le proprie debolezze conduce
una vita nel sospetto di chiunque, perfino di sé.
Così sviluppa una forma di diffidenza nei suoi stessi confronti che sfocia in una
naturale inclinazione all’ironia, la quale permette di trattare le cose con maggior
2 M. Lazarus, Die Ethik des Judentums, 2 voll., (Germania, 1898-1901), traduzione inglese a cura di
Henrietta Szold The Ethics of Judaism, 2 voll., (Philadelphia, 1901), The Jewish Publication society of
America, par. 41, 42.
distacco, lasciando quindi la possibilità di proteggersi da ogni eventuale pericolo. Si
tratta dunque, più ampiamente, dell’odio di sé come di una caratteristica propria di
ogni minoranza o creatura oppressa e bisognosa, messa tuttavia in particolare
risalto dalla psicologia dell’ebreo.
È a partire da questo timido accenno alla psicologia che possiamo collegarci alle
riflessioni che lo psicologo, psicanalista e filosofo italiano Cesare Musatti, nato a
Dolo nel 1897 e morto a Milano nel 1989, espone in Ebraismo e psicoanalisi3.
Nell’opera lo studioso si sofferma sul fatto che la psicoanalisi ha una storia la cui
ambientazione, inizialmente, fu perlopiù ebraica: non solo Freud, ma anche molti dei
suoi primi discepoli erano di origine ebraica. Sorge dunque spontanea la riflessione
circa il rapporto fra la teoria psicoanalitica, il pensiero ebraico e l’ambiente culturale
centroeuropeo di ebrei assimilati in cui Freud visse; riflessione che porta Musatti ad
affermare che la psicoanalisi non poteva che nascere e svilupparsi in un ambiente
ebraico.
Ciò è dovuto alle caratteristiche della mentalità degli ebrei, al tempo stesso ferma
nella conservazione della propria millenaria natura e tendente ad innovazioni. In
essa forze rivoluzionarie e sovversive trovano spazio accanto ad uno spirito
conservatore, mostrando quella che Musatti chiama “indipendenza di spirito” 4, forse
derivata proprio dal mai completo inserimento nella realtà dei gentili e dal timore di
esporsi ai loro occhi.
Conclusione
S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten (Deuticke, Leipzig-Vienna, 1905),
traduzione italiana a cura di Pietro L. Segre, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio
(Roma, 1975), Newton Compton.
M. Lazarus, Die Ethik des Judentums, 2 voll., (Germania, 1898-1901), traduzione inglese a cura di
Henrietta Szold The Ethics of Judaism, 2 voll., (Philadelphia, 1901), The Jewish Publication society of
America.
Th. Lessing, Der Juedische Selbsthass (Berlin, 1930), Muenchen, Matthes & Seotz (trad. italiana a
cura di Ubaldo Fadini, L’odio di sé ebraico (Milano, 1995), Mimesis.