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Pechino vs Washington, una guerra tra grandi potenze è

ancora possibile 16-11-2020


Il nuovo ordine internazionale ha evitato conflitti tra gli Stati economicamente e
militarmente più forti, almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Un’analisi di Foreign Affairs ci ricorda come le condizioni che in passato hanno
portato ai conflitti più accesi, come quello tra Paesi europei nel 1914, siano
presenti anche nello scenario geopolitico attuale

Nel mondo sono in corso molti conflitti militari, Afghanistan, Siria, Yemen, Sudan. È dalla fine
della Seconda guerra mondiale però che non ci sono conflitti diretti tra grandi potenze. Una
condizione quasi eccezionale rispetto alla grande quantità di guerre tra Paesi militarmente molto
attrezzati da quando è stato definito l’ordine mondiale dominato dagli Stati-nazione nel 1648, con la
Pace di Vestfalia.
Una lunga analisi della rivista Foreign Affairs porta l’attenzione sull’assenza di guerre tra
superpotenze: «L’assenza di conflitti dal 1945 è sorprendente, ma non significa che siano ormai
impossibili». L’articolo di Christopher Layne parte da una critica ad alcune affermazioni di esperti
del settore, studiosi di relazioni internazionali e analisti politici che si sono affrettati a etichettare
come storie del passato le guerre tra grandi potenze. Il punto di partenza è che «le condizioni che
rendono possibili questi scontri esistono ancora, le tensioni ci sono, così come diversi potenziali
inneschi».
Il focus dell’analisi di Layne è inevitabilmente su un possibile scontro militare tra USA e Cina. I
rapporti diplomatici tra le due superpotenze di quest’epoca negli ultimi anni sono in una fase di
sfaldamento progressivo. Certo, nel discorso pesa e peserà molto anche l’elezione di Biden alla
Casa Bianca: non è lecito aspettarsi un atteggiamento di condiscendenza nei confronti di Pechino,
ma non è escluso che l’ex vice di Obama adotti un approccio più morbido e lineare, almeno
inizialmente, rispetto a quello avuto da Trump nel corso della sua amministrazione. Il primo invito è
a non seguire quel mal riposto ottimismo di chi considera l’interdipendenza tra due economie come
un muro invalicabile: in questo senso la storia, con l’esempio del conflitto tra Paesi europei nella
Prima guerra mondiale, insegna che i rapporti economici da soli non possono bastare a impedire un
conflitto.
«La storia dimostra anche che i legami che dovrebbero scongiurare una guerra tra grandi potenze
sono più deboli di quanto spesso appaiano. La rivalità tra Regno Unito e Germania che portò alla
guerra nel 1914 mostra come due grandi potenze possano essere trascinate inesorabilmente verso un
conflitto che sembrava altamente improbabile, fino al momento in cui è iniziato.E i parallelismi con
la competizione odierna tra USA e Cina difficilmente potrebbero essere più chiari», scrive Layne.
All’inizio del Novecento, la Weltpolitik tedesca voluta da Guglielmo II, cioè la costruzione di una
grande flotta e di qualcosa che potesse somigliare a un impero coloniale, poteva essere letta come
una sfida al primato economico, tecnologico e navale britannico. La Germania non voleva
necessariamente scalzare il Regno Unito, ma voleva raggiungere lo stesso status. Così nonostante i
legami commerciali, Londra iniziò vide nell’ascesa tedesca una minaccia alla sua supremazia.
«C’erano fattori importanti – scrive Foreign Affairs – che avrebbero potuto promuovere la pace:
commercio, legami culturali, élite interconnesse, solo per citarne alcuni. Ma una volta scoppiata la
guerra, gli inglesi arrivarono rapidamente a intendere il conflitto come una crociata ideologica che
contrapponeva il liberalismo all’autocrazia e al militarismo prussiano».
I parallelismi tra l’antagonismo britannico-tedesco e le attuali relazioni tra Cina e USA sono un
segnale. Così come il Regno Unito sentiva che la sua influenza sugli altri Stati era in calo, allo
stesso modo oggi gli Stati Uniti risentono dell’ascesa di un altro Stato. Da parte sua, come la
Germania prima della Prima guerra mondiale, la Cina vuole diventare la principale potenza della
sua regione ed essere riconosciuta alla pari degli Stati Uniti a livello internazionale.
Un altro fattore di ottimismo da allontanare, secondo Foreign Affairs, sarebbe quello della
deterrenza nucleare. Il rischio di una distruzione reciproca che causerebbe milioni e milioni di morti
ha avuto un ruolo determinante durante la Guerra Fredda, impedendo che USA eURSS sfociassero
in un conflitto militare vero e proprio. Ma oggi, ricorda Foreign Affairs «la combinazione di testate
nucleari miniaturizzate a basso rendimento e sistemi altamente accurati ha reso possibile ciò che
una volta era impensabile: una guerra nucleare limitata, che non si tradurrebbe in una distruzione
apocalittica».
E ancora, molto spesso si fa riferimento all’ordine internazionale come un fattore di contenimento
dei conflitti: il politologo Ikenberry, ad esempio, ritiene che l’attuale ordine mondiale sia
abbastanza stabile da essere destinato a durare ancora diversi decenni. In questo caso l’analisi di
Layne prende le distanze citando l’ondata populista degli ultimi anni che ha investito soprattutto
Europa e Stati Uniti, da Trump a Orban, dalla Brexit all’ascesa della Lega in Italia, fino ai risultati
elettorali ottenuti da Afd in Germania, Vox in Spagna, PiS in Polonia e Rassemblement National in
Francia.
«L’ascesa del populismo e della democrazia illiberale è una reazione contro l’ordine attuale e le
élite che lo sostengono e ne traggono profitto. Man mano che il sostegno interno all’ordine
diminuisce e l’equilibrio del potere si sposta verso altri Paesi, il sistema diventerà inevitabilmente
meno efficace nel mediare i conflitti», si legge nell’articolo.
Oltre a confutare le tesi più ottimistiche, l’analisi di Foreign Affairs prende in considerazione altri
due elementi fondamentali che fanno immaginare che un conflitto tra Stati Uniti e Cina non sia
un’ipotesi così remota.
Da una parte l’idea di Pechino di dover «compiere un passaggio allo status di grande potenza».
Anche in questo caso c’è un insegnamento ricavato dalla storia, ma si va più indietro: a metà
Ottocento le sconfitte cinesi per mano di GB e Francia nelle due guerre dell’oppio sono figlie di una
incapacità dei quadri di Pechino di adattarsi ai cambiamenti della rivoluzione industriale.
«L’obiettivo a lungo termine della Cina – si legge nell’analisi di Foreign Affairs – non è
semplicemente quello di arricchirsi, ma acquisire le capacità militari e tecnologiche necessarie per
strappare agli Stati Uniti l’egemonia regionale nell’Asia orientale. La Cina ha aderito all’ordine
mondiale non per aiutare a preservarlo, ma per sfidarlo dall’interno, e i risultati economici e militari
sembrano premiare l’atteggiamento cinese».
Dall’altra parte, gli Stati Uniti stanno trasformando questa nuova rivalità in una sfida ideologica
forzando una visione della Cina come «regime marxista-leninista», per usare le parole del
Segretario di Stato americano Mike Pompeo.
Una retorica che «mira a gettare le basi per una fase più intensa del conflitto, richiamando le
posizioni della Guerra Fredda, delegittimando il governo della Cina agli occhi del pubblico
americano e dipingendo Pechino come un cattivo attore sulla scena internazionale», scrive Foreign
Affairs.
I comportamenti più o meno ostili delle due grandi potenze fanno sì che le relazioni bilaterali siano
sempre meno stabili. Gli esempi non mancano: la guerra commerciale a colpi di dazi, le tensioni nel
Mar Cinese Meridionale o il riconoscimento dell’indipendenza di Taiwan da parte di Washington.
Per Foreign Affairs queste frizioni sono inevitabili: «Per gli Stati Uniti rinunciarvi significherebbe
riconoscere la fine del loro primato mondiale, per la Cina significherebbe abbandonare l’obiettivo di
diventare potenza egemone dell’Estremo Oriente e di ottenere lo stesso status del rivale americano».
È ancora da capire se gli Stati Uniti possano, o vogliano, cedere il loro controllo sull’Asia orientale
e riconoscere la posizione della Cina come una grande potenza al suo livello. «Se Washington non
lo fa – spiega Layne – si apre una corsia preferenziale per la guerra, una guerra che potrebbe far
impallidire al confronto i disastri militari del Vietnam, dell’Afghanistan e dell’Iraq».

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