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Compendio Di Criminologia - PONTI
Compendio Di Criminologia - PONTI
COMPENDIO DI CRIMINOLOGIA
(Gianluigi Ponti)
CAPITOLO 1
INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CRIMINOLOGIA
1.1 – PREMESSA
La criminologia, contrariamente a quanto si creda, non è riservata solo agli addetti
ai lavori: essa offre anche , in una prospettiva umanistica, molteplici spunti per
ampliare le conoscenze e favorire una migliore conoscenza della persona umana.
Fornire conoscenze maggiormente approfondite, che non ricalchino solo il comune
buon senso o gli stereotipi e i luoghi comuni sul crimine è lo scopo specifico di
questa disciplina.
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La criminalistica, invece, non va confusa né con la criminologia né con le scienze
criminali: essa è da intendersi come l’insieme delle molteplici tecnologie che
vengono utilizzate per l’investigazione criminale. Si tratta di tecniche di polizia
scientifica che hanno come obiettivo la risoluzione di svariati problemi di ordine
investigativo, utili per la qualificazione del reato, per la identificazione del reo o
della vittima, per la caratterizzazione delle circostanze (es.: analisi grafometrica,
analisi di campioni biologici, indagini tossicologiche, ecc.).
Rientrano invece nelle competenze della criminologia gli studi e le applicazioni
pratiche aventi per oggetto l’identificazione del reo utilizzando le caratteristiche
psicologiche e comportamentali degli autori di taluni tipi di reato.
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delinquente, reo, dovrebbero semplicemente indicare colui che ha compiuto azioni
che la norma giuridica definisce reati ed evitare dunque generalizzazioni. Non
esistono, infatti “i” delinquenti come categoria o come astratti concetti ma una
realtà costituita da una infinita varietà di singole fattispecie delittuose e di singoli
autori: dunque, è necessario, per essere scientificamente corretti, parlare sempre al
singolare piuttosto che al plurale. Sarà bene poi non usare i verbi all’indicativo ma
utilizzare piuttosto espressioni possibilistiche o probabilistiche perché le certezze
non sono delle scienze dell’uomo e men che meno appartengono alla criminologia.
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1.5 – LA CRIMINOLOGIA COME SCIENZA
Per poter parlare di scienza è necessario che un certo tipo di sapere abbia alcune
caratteristiche. Irrinunciabili requisiti delle scienze sono:
- la sistematicità – nel senso che una scienza è l’insieme delle conoscenze
acquisite in determinati ambiti del sapere, integrate in un complesso
strutturato ed armonico;
- la controllabilità – posto che le enunciazioni debbono poter essere sottoposte
al vaglio delle critiche logiche e al confronto con i dati della realtà;
- la capacità teoretica – per la quale una scienza deve riunire e riassumere
molteplici osservazioni e dati sui fenomeni di cui si occupa in proposizioni
astratte unite da un nesso logico (le teorie) e intese a spiegare, in una
costruzione semplice e comprensibile, i rapporti causali, le correlazioni e le
variabili dei fatti oggetto della sua analisi;
- la capacità cumulativa – consistente nella caratteristica delle scienze di
costruire teorie in derivazione l’una dall’altra talché le più recenti
correggono, modificano, amplificano o perfezionano le teorie prima
formulate;
- la capacità predittiva – anche se è doveroso precisare che le scienze
dell’uomo presentano grandi limiti nella possibilità di prevedere quali
saranno i futuri comportamenti sia collettivi che dei singoli individui.
L’uomo, infatti, non è mai “costretto” ad agire in un certo modo ma è libero,
sia pur in modo non totale, di scegliere la sua condotta: la quale è
influenzata, anche fortemente, dal sistema delle relazioni interpersonali,d agli
obblighi legali e dalle norme di costume, così come lo è dai fattori sociali,
economici, familiari, ma alla fine la condotta è pur sempre rimessa alla scelta
dell’individuo.
Posto ciò, vediamo ora quali siano le particolari prerogative di dottrina scientifica
della criminologia.
Di certo la criminologia è stata da molti ricompresa fra le scienze empiriche, nel
senso che sarebbe fondata solo sull’osservazione della realtà criminosa e non sulla
speculazione astratta o su presupposti teorici o su giudizi di valore, e nel senso che i
suoi dati dovrebbero avere carattere oggettivo. Pertanto, le interpretazioni che essa
fornisce del suo campo di indagine, le valutazioni cui perviene e gli sviluppi
teoretici che propone dovrebbero essere unicamente il frutto della osservazione
della realtà. Ciò però accade solo per talune delle teorie criminologiche poiché altre
sono invece fortemente influenzate dall’atteggiamento soggettivo dello studioso. Il
carattere avalutativo e neutrale della criminologia intesa come scienza sempre e solo
empirica, a lungo sostenuto nel passato è oggi assai ridimensionata. Le teorie
criminologiche non vengono più considerate come oggettive certezze anche se
rimane pur sempre alla criminologia il requisito di scienza anche emprica, ma solo
relativamente a talune delle sue acquisizioni. Un altro aspetto del suo essere scienza
empirica si manifesta con la sua qualificazione come scienza descrittiva dei
fenomeni criminosi: per questo ad essa competa la descrizione fattuale, la
classificazione e la differenziazione tassonomica dei delitti e dei loro autori, Nel
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momento in cui alla descrizione si aggiunge però anche la ricerca e la
identificazione dei fattori responsabili di tali eventi, la criminologia viene ad
assumere il carattere di scienza eziologia, cioè di scienza che ricerca le cause dei
fenomeni da lei osservati.
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non dogmaticità, perché è proprio delle teorie scientifiche il poter essere demolite e
sostituite da nuove che dimostrano così la fallacia di quelle che le hanno precedute.
Non vi è cioè una verità assoluta, valida per sempre, ma piuttosto un succedersi di
verità, sempre provvisorie, in attesa di essere superate, modificate o smentite da
altre interpretazioni teoriche della realtà in cui viviamo.
Infine si contesta l’avalutatività della ricerca scientifica, affermando che i dati “non
parlano da soli” ma vengono letti alla luce della teoria: addirittura si sostiene che
sarà la teoria a permetterci di vedere certi date e ad accecarci rispetto ad altri. Il che,
poi, è tanto più vero per quelle scienze meno immediatamente a contatto col dato
naturale, e che rivolgono invece la loro attenzione all’uomo nel suo agire sociale o
individuale: dunque, tutte le scienze nelle quali lo scienziato è nello stesso tempo
osservatore di eventi e attore partecipe di quel contesto sociale, obbligatoriamente
contengono delle scelte di valore e riflettono gli orientamenti generali della cultura
del proprio momento. Quindi, anche la criminologia non può essere solo scienza
empirica e conoscitiva (il che comunque non salvaguarderebbe l’assoluta neutralità)
ma include in sé necessariamente anche aspetti di scienza etico-normativa poiché le
sue acquisizioni, oltre che basarsi su giudizi di fatti, contengono anche giudizi di
valore.
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E’ poi ormai risaputo che nelle scienze umane la libertà di autodeterminarsi non ha
carattere dogmaticamente assoluto ma è sentita come una responsabilità che può
essere spesso attenuata e ne parliamo pertanto come di una libertà morale
condizionata. Ben sappiamo che gli spazi della libertà umana sono molte volte
compromessi, anche in maniera rilevante, da handicap sociali, o da appartenenze a
particolari sottoculture o dallo stigma o da fattori psicologici e biologici. Ma al pari,
il nostro momento culturale rivaluta la residua possibilità di scelta dell’uomo dai
vari condizionamenti, riafferma la sua responsabilità e quindi anche la possibilità di
formulare giudizi in termini di merito o di demerito.
Sul terreno teorico risulta poi sterile ogni affermazione generalizzante o di priorità
fra le varie cause (o fattori) evidenziate dalle varie teorie: La complessità dei
fenomeni della psiche umana, e conseguentemente della condotta, impedisce di
stabilire delle gerarchie di importanza tra tali fattori: solo utilizzando i vari approcci
in una visione integrata e non esclusiva verrà favorita la migliore comprensione dei
fenomeni. Ciò che dovrà evitarsi, dunque, sarà il dogmatizzare una sola teoria.
Va chiarito comunque che il concetto di teoria unicausale non equivale a quello di
teoria deterministica, ben potendosi formulare teorie unicausali che non considerino
il fattore da esse eletto a condizione principale anche come escludente l’intervento
della scelta personale; viceversa, possono darsi teorie multifattoriali ma
deterministiche in quanto asseriscono che il concorrere di un certo numero di fattori
comporta necessariamente l’esito criminoso. Ma sarà comunque ben difficile che
una singola teoria possa soddisfacentemente chiarire, sotto il profilo causale, o
anche solo esplicativo, ogni tipo di condotta criminosa.
Tornando alla questione delle verità delle teorie criminologiche, c’è da ricordare
che il carattere distintivo della bontà di una teoria non è il suo essere più o meno
vera. Ogni costruzioni teorica che miri ad identificare la causa o le cause del
comportamento criminale incontra un primo insuperabile ostacolo nella estrema
variabilità dei crimini che sono straordinariamente diversi fra loro. Questa
considerazione consente di affermare che non ci sarà nessuna teoria in grado di
identificare una o più cause efficienti per ogni tipo di crimine, e che pertanto
nessuna teoria sarà più “vera” di altre.
Una seconda considerazione deriva dal fatto che le cause identificate (o comunque i
fattori ritenuti dalle varie teorie più importanti) oltre ad essere numerosissime sono
spesso inconciliabili tra loro.
Bene, oggi siamo consapevoli che il metodo scientifica, in modo particolare quello
che si utilizza nelle scienze dell’uomo, non è in grado né lo presume, di fornire
verità incontrovertibili: siamo consapevoli di non poter esprimere certezze sulla
personal umana.
Mentre la verità è un concetto assoluto, le teorie hanno una validità solo relativa e
provvisoria. Una teoria dovrà essere valutata piuttosto in funzione del suo valore
euristico: cioè della capacità di stimolare altre ricerche e a favorire il sorgere di
nuove conoscenze. Una teoria è perciò vera (quindi non in senso trascendente e
assoluto) solo se è utile (cioè se si presta a essere utilmente impiegata per
ulteriormente facilitare la comprensione di un fenomeno, per accrescere le
conoscenze e per più efficacemente intervenire su di esso).
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Non si deve dunque cercare la teoria più vera, posto che nessuna lo è in assoluto: il
criminologo si avvarrà piuttosto dei contributi derivanti da vari approcci teoretici,
così da poter fruire di un più ampio ventaglio conoscitivo. In questo senso
giocheranno infine un ruolo importante anche le affinità e gli orientamenti di
ciascun studioso in quanto sappiamo che non è possibile prescindere completamente
dai giudizi di valore, che necessariamente sono informati all’ideologia e alle
inclinazioni culturali di ciascuno.
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infatti secondo una prospettiva sistemica e alla luce di un nuovo concetto di
causalità detta di “causalità circolare”.
La teoria dei sistemi (Bethalanaffy, Bateson) invece di considerare i fenomeni
come “effetto necessario” di una causa data, certa piuttosto di analizzare le
reciproche influenze fra i fenomeni che sono inseriti nel sistema: questa teoria si
fonda sul concetto di “insieme” per il quale una unione di elementi è qualcosa di
diverso dalla semplice somma dei singoli componenti; essa spiega inoltre come
nell’insieme dei rapporti interpersonali, costituenti appunto un sistema, la condotta
di un soggetto influenza quella degli altri, e come quest’ultima a sua volta si
ripercuota sul comportamento del primo agente: è questo il concetto di causalità
circolare. Il modello è mutuato dalla cibernetica, che sostituisce lo schema della
causalità lineare con quello di “retroazione” o feedback per il quale ognuna delle
parti di un sistema influisce sulle altre (A --- B): ne deriva che la differenziazione
fra causa ed effetto viene in tal modo a perdere il significato perché ogni parte del
sistema è nello stesso tempo causa ed effetto e non può più parlarsi pertanto di
causa efficiente. E’ dunque centrale il concetto di sistema nel quale sono
ricompresse oltre all’attore del fenomeno osservato anche le altre persone e
circostanze con le quali il soggetto è venuto in rapporto, e le correlazioni tra di essi.
La criminologia, adottando una modalità esplicativa di queste genere favorirà una
conoscenza più ampia di quel soggetto e di quella condotto ma finisce per
ostacolare il giudizio morale nei suoi confronti e rischia di favorire un
atteggiamento globale di giustificazionismo e di deresponsabilizzazione: l’eccesso
del comprendere può portare all’impossibilità del giudicare.
Le attribuzioni di responsabilità debbono avvenire secondo un modello differente di
causalità, la causalità giuridica materiale, che procede secondo la logica della
causalità lineare.
Fra le molteplici teorie giuridiche sulla causalità, preferibile appare la teoria della
causalità cosiddetta umana, per la quale la condotta umana può considerarsi causa
dell’evento quando: a) è conditio sine qua non del medesimo, in quanto senza di
essa l’evento non si sarebbe prodotto; b) l’evento al momento della condotta era
prevedibile come conseguenza verosimile di essa, secondo la miglior scienza ed
esperienza del momento storico”.
Ecco che se il criminologo con le sue conoscenze è in grado di favorire proprio
attraverso la logica della casualità circolare, la comprensione approfondita di un
comportamento delittuoso identificando il reticolo dei fattori remoti e prossimi,
psicologici e relazioni che hanno avuto un ruolo più o meno rilevante nella condotta
incriminata, deve però astenersi dal formulare giudizi in quanto non solo perché
quanto maggiore è la comprensione tanto maggiore sarà la tendenza a giustificare
ma perché giudizi e giustificazioni spettano solo al giudice.
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Fra gli innumerevoli comportamenti il diritto ne indica infatti alcuni come proibiti,
prevedendo sanzioni per chi viola la proibizione: solo che l’indicazione di ciò che è
proibito cambia nel tempo e nei luoghi.
Oltre che mutevoli, le definizioni del diritto positivo sono necessariamente rigide e
schematiche. Per molti studiosi il delitto si sostanzia in una condotta che lede o
mette in pericolo un bene di rilievo per la collettività, nel senso che la sua lesione o
messa in pericolo costituisce danno sociale: essa cioè risulta intollerabile per la
società stessa e non altrimenti evitabile se non utilizzando sanzioni criminali.
Fin dal secolo scorso, all’epoca della Scuola Positiva, è stato rivalutato il vecchi
concetto di delitto naturale – contrapposto a quello di delitto come fatto
storicamente e socialmente contingente – che mira a identificare i delitti secondo un
criterio e un’etica universali, non subordinate al variare delle norme legali. Secondo
questa prospettiva giusnaturalistica, esisterebbe una sorta di “sistema legale non
scritto” cioè un insieme di valori che le leggi costantemente tutelano in ogni
momento storico e che rispecchierebbero i contenuti etici fondamentali, immutabili
e trascendenti, di una supposta “natura dell’uomo”: essi si affiancherebbero al
diritto positivo dei singoli stati e delle singole epoche, essendo indipendenti o
addirittura superiori ad esso ed è di essi che la criminologia dovrebbe soprattutto
occuparsi.
L’antropologia e l’etnologia informano invece che nessuna delle condotte proibite
dalle norme si è mantenuta immutata nel corso dei secoli. Tutti i valori etici, tra cui
anche quelli che parrebbero più radicati, non sono dunque frutto di principi innati o
del patrimonio biologico o di principi immanenti e immutabili ma della evoluzione
sociale e culturale.
Il delitto non è pertanto “fatto naturale” bensì “fatto sociale” identificato da una
definizione convenzionale, necessariamente mutevole con il mutare delle società e,
pertanto, l’idea del delitto naturale risulta inaccettabile per chi affronta il problema
in una prospettiva antropologico-culturale.
Nel tentativo di definire il delitto secondo criteri di validità generale, svincolata
dalle norme contingenti e mutevoli de diritto positivo, si è anche tentato di utilizzare
il principio della antisocialità o della pericolosità sociale. Sulla pericolosità si
incentrava la politica criminale propugnata della Scuola Positiva del diritto ed era
intesa come una specie di innata tendenza a compiere delitti non necessariamente
connessa con l’effettualità di comportamenti legalmente proibiti e che sugli
individui socialmente pericolosi si andò incentrando l’interesse dei criminologi di
quell’epoca. Ma l’antisocialità e la pericolosità sono però condizioni ben difficili da
oggettivare da arte delle scienze dell’uomo ed è in definitiva un mero giudizio di
valore espresso nei confronti di taluni individui in ragione non solo di talune loro
caratteristiche somatiche e psicologiche ma in pratica molto spesso semplicemente
del loro status. Rientrerebbero pertanto tra questi esseri antisociali anche coloro che
pur non avendo commesso reati ne vengono reputati potenzialmente capaci: si
ammette così l’esistenza di una criminalità “potenziale” o “induttiva” svincolando il
concetto di delinquente dal quello di delitto consumato o tentato. C’è anche da dire
che nel diritto penale moderno, il criterio della generica antisocialità ha assunto un
significato diverso in quanto beni giuridici meritevoli di tutela penale sono oltre i
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beni prevalente individuali anche quelli di più ampio interesse cosicchè sono
ritenuti fatti antisociali l’inquinamento ambientale, gli attentati all’ecologia, i reati
economici.
Non possono nemmeno seguirsi quei pensatori che, sempre nell’intento di
svincolare il campo d’indagine della criminologia dal diritto positivo, hanno parlato
di una criminologia dei diritti umani, muovendo dall’intento di prendere in esame
anche quei comportamenti che costituiscono violazione dei fondamentali “diritti e
libertà dell’uomo” e che sono stati definiti dalla Carta dell’ONU nel 1946
prescindendo dal fatto che siano, ovvero no, previsti come reati dal diritto positivo
delle singole nazioni. La questione è ancora oggi aperta in quanto comporta
limitazioni della sovranità dei singoli stati.
Analogamente non sono accettabili le ormai superate proposte di estendere
l’interesse della criminologia ai crimini del sistema,le cui prospettive politiche di
sinistra erano fin troppo palesi: “sistema”, prima della caduta del muro di Berlino,
era inteso come la struttura economico-plitica dei paesi occidentali e capitalistici e
come tale era da criminalizzare.
Peraltro, si è cercato di differenziare i delitti a seconda del criterio della maggiore o
minore gravità, pensando di circoscrivere la competenza della criminologia solo ai
primi: ma secondo quale gerarchia di gravità dei reati? Anche il parametro della
gravità, è evidente, può subire oscillazioni in funzione delle scelte contingenti di
politica criminale e degli orientamenti seguiti nella priorità della repressione penale.
E’ evidente, pertanto, che anche questo criterio non può essere accolto, essendo
contingente anche la valutazione di maggiore o minore gravità dei reati. La “gravità
del reato”, infatti, è prevista dal codice penale quale uno dei parametri per
l’applicazione discrezionale fra minimo e massimo della pena edittale (art. 133 c.p.)
e si tratta, quindi, di una prerogativa del giudice. In particolare, è prerogativa del
legislatore il porre il principio generale e, del giudice, l’identificare nelle singole
fattispecie la maggiore o minore rilevanza sociale del delitto, non certo del
criminologo.
Piuttosto, la criminologia si occupa anche della corrispondenza (o non
corrispondenza) fra la percezione nel corpo sociale della gravità degli illeciti penali
con quella della legge, percezione valutata attraverso ricerche empiriche, inchieste,
sondaggi di opinione, che vengono comparati con la scala di gravità emergente dalla
minore o maggiore entità delle pene.
In definitiva, il parametro per delimitare i confini del campo degli interessi della
criminologia può essere solo quello della legge.
La stretta dipendenza della criminologia dal diritto positivo non va intesa però come
subordinazione concettuale nei confronti della norma: anche la norma giuridica
costituisce una realtà sociale nei confronti della quale il criminologo mantiene la
propria libertà di studioso, esercita una analisi storica, ne studia caratteri e
dinamiche, evoluzioni e meccanismi.
Certo è che non vi può essere nei confronti del diritto un atteggiamento di inerte
accettazione dello status quo o di passiva acquiescenza, per cui se la criminologia
studia il delitto e il delinquente alla luce di ciò che definisce come tali la legge
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penale, nello stesso tempo, quale scienza autonomia, essa non si trova nei confronti
del diritto in una posizione subordinata, ma esamina e analizza criticamente, e in
piena indipendenza, la legge medesima, le sue modalità di applicazione e gli effetti
che produce.
1.10 - Il delitto quale convenzione sociale mutevole col succedersi delle culture:
la sua relatività storica
I delitti non sono qualificati come tali come espressione di valori eterni e
trascendenti: la loro identificazione è da intendersi come una convenzione sociale,
e, come tale, mutevole col succedersi delle culture.
La relatività del concetto di delitto deriva innanzitutto dal fatto che la norma penale
è espressione dei valori prevalenti e degli interessi particolarmente tutelati in una
determinata società.
In larghi archi di tempo, si può osservare che sono stati puniti come reati
comportamenti che successivamente non sono stati pi ritenuti tali (stregoneria,
eresia, maleficio, ecc.) e, per converso, atti oggi severamente puniti, in altre epoche
furono puniti con maggior mitezza se non addirittura non penalizzati.
La relatività del concetto di diritto si osserva anche per il fatto che nella stessa
epoca, concezioni assolutamente difformi sono presenti in diversi paesi, pur
appartenenti ad analoghe strutture culturali e, ancora, di più, in aree culturali fra
loro maggiormente differenti, possono osservarsi, in uno stesso momento storico,
assai diverse qualificazioni i delitti o un’assai dissimile percezione di gravità.
Per comprendere il carattere relativistico del delitto, occorre ricordare che tutta la
vita umana è ordinata da norme (legali o di costume) che vengono apprese e che
differiscono, con limitato margine di discrezionalità individuale, come ci si debba
comportare e viceversa come non sia lecito agire nelle varie circostanze.
L’apprendimento di tali norme è un fatto squisitamente culturale ed è favorito da un
insieme di strumenti di controllo sociale che agiscono su ogni attore sociale affinché
si conformi ai precetti del suo gruppo. L’insieme delle regole di comportamento fa
sì che tutte le azioni – dalle più semplici a quelle apparentemente innate, a quelle
più complesse – siano previste nel modo e nel tempo in cui debbono essere eseguite
lasciando uno spazio di libertà e di scelta al singolo individuo che è sempre limitato.
La maggior parte di queste norme non è codificata ed è talmente connaturata ai
costumi e alla cultura da passare del tutto inosservata, o dal farla ritenere non tanto
la conseguenza dello sviluppo della cultura realizzatosi nel millenario succedersi di
diverse società quanto addirittura “naturale”, cioè legata alla stesa struttura
biologica dell’uomo.
La dinamicità delle regole è tipica dell’evolversi delle varie culture e le leggi si
modificano e si succedono in un divenire continuo, per adeguarsi costantemente
all’evoluzione della società. Alcune regole durano più a lungo e sono ritenute
immutabile e perciò intrinseche alla natura dell’uomo; altre si modificano più
rapidamente e perciò vengono apprezzate più agevolmente come mutevoli regole
sociali.
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Si sono inoltre sempre poste distinzioni fra le varie norme, alcune delle quali
vengono ritenute di minor conto ed altre valutata come più importanti: sono quelle
che tutelano principi e beni che sono ritenuti primari e la cui osservanza è garantita
dal controllo esercitato dalla legge penale. Questo vuol dire che viene effettuata una
selezione fra principi, beni, interessi, diritti, secondo una precisa gerarchia di valori.
Qualche volta queste infrazioni possono anche essere lesive di valori morali, la cui
osservanza è però lasciata alla discrezione dei singoli e non è tutelata con punizioni
legali, bensì mediante il controllo esercitato in modo informale dai gruppi sociali
(riprovazione, derisione, emarginazione, censura, ecc.). A protezione di principi e
beni ritenuti essenziali esistono invece (nelle società simili alla nostra) norme
scritte, tradotte in codici e leggi, che ufficialmente ne proibiscono l’inosservanza,
prevedendo, per ciascuna trasgressione, la corrispondente pena.
Le leggi penali sono pertanto da intendersi come uno dei numerosi sistemi di
controllo sociale mirati a inibire quei comportamenti ritenuti più gravi, perché
minacciano quell’insieme di beni, materiali e no, che una data società ritiene
maggiormente preziosi e che protegge in modo privilegiato, mediante appunto
l’intimidazione e l’irrogazione della pena.
Di volta in volta, la società distingue per convenzione ciò che è lecito da ciò che
non lo è e, pertanto, anche la definizione di reato è mutevole e convenzionale, cioè
non assoluta, ma frutto di scelta, di decisione o accordo in funzione di una a sua
volta mutevole gerarchia di valori.
Il carattere relativistico delle definizioni legali di delitto non autorizza peraltro
alcune soggettivismo, per il quale, essendo la legge una convenzione, sarebbe a
ciascuno lecito decidere, secondo un proprio codice personale, se accettare e
rispettare la norma legale, ovvero rifiutarla e non osservarla. Principio irrinunciabile
di ogni società è l’osservanza della legge esistente, che mantiene la sua imperatività
anche constatandone il valore contingente e on trascendente. Semmai, le leggi
vanno modificate quando non sono più socialmente percepite come adeguate ai
valori della cultura.
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libertà dei singoli sia garantita appunto dai sistemi di controllo che, senza per ciò
essere necessariamente oppressivi, ne assicurano la salvaguardia.
Per comprendere l’utilità di queste strutture di salvaguardia, prendiamo in
considerazione il concetto di “agenzie di riduzione dell’ansietà”. Tali agenzie
svolgono una fondamentale funzione di stabilità sociale e sono rappresentate da
tutte quelle struttura più o meno istituzionalizzate o informali alle quali gli attori
sociali aderiscono per vari motivi e in vario modo (comunità, associazioni, partiti,
movimenti, organizzazioni sportive, ecc) che forniscono contestualmente
costellazioni di valori (ideologie, fede religiosa, fede politica, ideali, mete collettive,
etica sociale, regole di vita): il loro venire meno si riflette in aumento di ansia
sociale. Tali agenzie sono vissute come pregnanti: tanto più il singolo individuo può
riferirsi ad esse e tanto meno deviante sarà la sua condotta.
Queste agenzie costituiscono uno dei tanti mezzi di cui la società dispone per
assicurare nei suoi membri la massima osservanza delle regole che caratterizzano la
sua cultura e quindi anche per contenere la criminalità. Ogni tipo di società
impiegherà tutti gli strumenti idonei a evitare le tendenze devianti dai suoi valori
fondamentali: questi sono appunto gli strumenti di controllo sociale.
Fra gli strumenti di controllo sociale distinguiamo:
1) quelli istituzionalizzati o di “controllo formale” - che sono cioè organizzati
e regolamentati da specifici organismi. Controllo formale è il controllo
esercitato dagli organi pubblici in base a norme giuridiche che ne prevedono
esplicitamente le competenze e le procedure. I controllo formale è quello
esercitato dalle forze di polizia, dalle sanzioni detentive e pecuniarie, dalle
misure di sicurezza, ecc. Sono tutti strumenti che, regolamentati in precise
istituzioni, mirano a garantire il rispetto delle norme.
2) Quelli di controllo informale istituzionalizzato – sono organismi fondamenti
che, pur avendo diversi fini istituzionali, rappresentano anche
importantissime fondi di informazione normativa e canali di comunicazione
dei valori fondamentali, e che quindi fungono anche da agenzie di controllo
del comportamento. Il controllo informale è rappresentato dall’azione di
strutture riconosciute dal diritto per finalità diverse dalla lotta alla
criminalità (ad esempio, la famiglia, la scuola, la chiesa, il sindacato) o
anche indifferenti al diritto (es: le comunità abitative e le associazioni
spontanee) che, intenzionalmente o meno, concorrono a determinare
l’adattamento degli individui agli schemi delle società in cui vivono o anche
a correggere situazioni , comportamenti e abitudini di vita che fanno temere
un’esposizione al rischio di divenire delinquenti o una inclinazione in tal
senso (servizi sociali, presidi psichiatrici, i centri per alcolizzati e
tossicomani, ecc.).
3) Quelli di controllo informale non istituzionalizzato (o di gruppo) – Si tratta
di un sistema di controllo che non si esercita mediante le istituzioni ma da
persona a persona nel contesto stesso dei vari gruppi sociali Il vicinato, le
persone che si frequentano, gli amici e i colleghi, l’ambiente di studio e di
lavoro). Ciascun individuo è infatti costantemente sottoposto al giudizio di
coloro con i quali vive a contatto e, attraverso una fitta rete di messaggi,
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constata continuamente il grado di accettazione ovvero di critica e di
riprovazione che la sua condotta suscita. Questo tipo di controllo viene
esercitato con l’approvazione o l’elogio pubblico ovvero con la
riprovazione: quest’ultima si manifesta attraverso una gradualità di
atteggiamenti proporzionali alla gravità con cui viene giudicata la condotta
(riprovazione verbale in privato; rimprovero pubblico; severa censura;
derisione; temporaneo allontanamento dal gruppo; isolamento;
emarginazione; stigmatizzazione).
In sintesi, dunque, i controllo sociale consiste nell’azione di tutti i meccanismi
che controbilanciano le tendenze devianti, o impedendo del tutto la deviazione o,
cosa più importante, controllando o capovolgendo quegli elementi della
motivazione che tendono a produrre il comportamento deviante.
In una società vi è tanta maggior criminalità e devianza quanto maggiore è il
“vuoto di valori” o quanto più prevalgono gruppi sociali negativi.
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e l’impossibilità, a causa della costante contesa, di un funzionamento operativo dei
vari gruppi; il secondo, per impedire la sclerosi dell’immobilismo e il soffocamento
delle voci minoritarie.
I concetti si “struttura” e “sovrastruttura”, mutuato dalla filosofia marxista, ben si
presta per spiegare il legame esistente tra le caratteristiche di una società e i valori
ideologici, la morale, i costumi e le credenze della sua impalcatura culturale.
Struttura è, appunto, il tipo di sistema economico di una società data, controllato
dai gruppi che detengono i mezzi di produzione dei beni; sovrastruttura è l’insieme
di valori di quella società, che risulta funzionale al tipo di sistema economico. La
coerenza è assicurata dal fatto che i valori fondamentali non sono espressi da tutti i
membri della società ma, data la divisione in classi, solo dai gruppi che in quella
società detengono più potere e, di conseguenza, fanno leggi in modo
funzionalmente armonico alla propria posizione e interesse.
In realtà, la piena corrispondenza funzionale tra valori culturali di generale
accettazione e valori culturali dei gruppi o delle classi più potenti si realizza
solamente nei periodi storici caratterizzati da stabilità sociale, quando il potere è ben
definito; quando, invece, si affacciano nuovi gruppi in ascesa o quando una società
è pluralistica e composita, con la presenza di gruppi diversi, si realizza la
contestuale presenza di ideologie e valori diversi e contrastanti, funzionali a quelli
dei differenti gruppi con conseguente difficoltà di adeguamento sociale dovuta al
“conflitto delle norme”. Quello che deve essere ben chiaro, detto questo, è che la
classe dominate, oltre ad esprimere i propri valori, possedendo gli strumenti per
formulare ed imporre le leggi, stabiliscono quali siano i beni i valori ed i diritti
meritevoli di quella tutela privilegiata che la legge penale fornisce anche se è pur
vero che – entro certi limiti – i valori più specificatamente connessi agli interessi
che sono propri di chi ha più potere legislativo vengono percepiti e fatti propri
anche dalla maggior parte degli altri gruppi sociali.
E’ da porre in evidenza anche che i valori di una data cultura non sono
esclusivamente quelli che riflettono gli interessi della classe dominante ma ne
comprendono anche altri che fanno parte di un “patrimonio comune a tutti” come,
ad esempio, i valori di famiglia, di patria o di nazione, quelli religiosi, la carità, la
tolleranza o il fanatismo, il concetto di bello o brutto, ecc.
E’ poi da chiarire che per di “gruppi di potere” non si possono identificare
semplicisticamente con una classe o una casta, dato che si osserva nell’evoluzione
storica il susseguirsi e il subentrare di sempre diversi gruppi che di volta in volta
vengono ad assumere una rilevanza dominate. Tali gruppi di potere, in una
prospettiva dinamica, possono essere stabili o contrastati, in declino o in ascesa: non
può perciò sempre facilmente definirsi quali sono i gruppi potenti.
17
presupposto di una visione del mondo, che è anche filosofica ed etica. Così come,
reciprocamente, la criminologia non può prescindere anche dai dati
dell’osservazione empirica dei singoli individui, dell’ambiente e della realtà sociale.
Da qui, l’importanza di conoscere metodi e fondi dei dati empirici di cui pur sempre
la nostra disciplina si avvale.
Gli strumenti statistici a disposizione del criminologo sono:
Le statistiche di massa - servono per esaminare l’estensione dei fenomeni e le
caratteristiche più generali dei fatti criminosi (frequenza, diffusione, distribuzione e
fluttuazioni nel tempo e nei luoghi) e sono effettuate su grandi numeri o sulla
totalità dei soggetti dell’universo considerato. Queste ricerche non consentono,
però, l’identificazione dei fattori sociali che concorrono alla genesi del fenomeno
osservato e l’evidenziazione delle condizioni microsociali o individuali rilevanti, in
quanto privilegiano i fattori macrosociali di più generale influenzamento;
L’osservazione individuale – tipica della criminologia clinica, consente invece di
evidenziare circostanze particolari che la statistica non può considerare
(caratteristiche psicologiche o psicopatologiche del reo, aspetti del suo ambiente
particolare, riverberi su di esso della reazione sociale, la sua carriera criminale,
relazioni interpersonali, ecc.). Risulta però impossibile enucleare con questo mezzo
di indagine i fattori di più generico influenzamento presenti nell’ambiente sociale.
Questo tipo di investigazione può estendersi a più soggetti aventi una comune
caratteristica delittuoso, così che dalla moltiplicazione dei singoli casi osservati se
ne possono ricavare profili psicologici e identikit maggiormente significativi sulla
tipologia di particolari delinquenti: ricerche di questo tipo consentono di accertare,
ad esempio, le caratteristiche comuni di ladri o truffatori professionali, serial killer,
ecc.
Le ricerche su gruppi campione – con questo tipo di ricerche, l’indagine viene
sempre centrata su singoli individui ma estendendo l’indagine su un numero più
elevato di soggetti e utilizzando certe regole di rilevazione, se ne possono ricavare
conclusioni dotate di validità generale, così come avviene con le statistiche sui
grandi numeri. La ricerca è eseguita su un numero relativamente ristretto di soggetti
che diventa però “rappresentativa” (un campione, appunto) dell’intera popolazione.
Le indagini sul campo – Quando si vogliono studiare le caratteristiche criminali di
certi ambienti o gruppi, gli orientamenti particolari di certe sottoculture, le
interazioni che esistono fra i loro appartenenti, può essere utile che il ricercatore si
inserisca materialmente per un periodo di tempo.
Le ricerche settoriali – sono condotte, senza che il ricercatore si inserisca
personalmente nel campo indagato, su altri ambienti particolarmente significativi
(carcere, istituti per misure di sicurezza, ambienti dei tossicomani, ecc.) per
indagare su dati e situazioni non altrimenti conoscibili.
Interviste a testimoni privilegiati - Si eseguono inchieste su persone che, per la loro
veste professionale (assistenti sociali, psicologi, psichiatri, insegnanti, ecc.) hanno
conoscenze vissute ed esperienze professionali particolarmente preziose.
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Tutti questi tipi di indagine vengono eseguite con la tecnica delle interviste dirette e
con questionari, così da poter valutare le percezioni e le opinioni nei confronti di
vari problemi attinenti alla criminalità.
Quando si vogliono analizzare gli effetti di taluni trattamenti risocializzativi, le
conseguenze di certi interventi o la validità di talune innovazioni penali, si
utilizzano le ricerche operative, che consistono nel controllare i loro effetti
comparando una campione di soggetti che ne hanno beneficiato con altri che non ne
hanno fruito. In tal senso, queste possono essere definite ricerche sperimentali.
Ci sono poi le indagini anamnestiche che esaminano i risultati a distanza di tempo
di taluni interventi per valutarne l’efficacia.
Sono da ricordare anche gli studi predittivi, utilizzati per trovare indicatori che
consentono di prevedere il futuro comportamento sulla scorta di certi parametri e le
ricerche storiche, che offrono un’ampia gamma di studi, per esempio sulla
fenomenologia criminosa, sulle pene e sui sistemi carcerari di epoche passate.
19
L’indice di occultamento, quindi, è sempre negativo a causa della insormontabile
sproporzione fra i fatti-reato e l’impossibilità delle strutture a ciò deputate di
perseguirli tutti e di identificarne tutti gli autori.
20
1.15 – Statistiche di massa
Le statistiche di massa consentono al raccolta, l’analisi matematica e
l’interpretazione di dati quantitativi, inclusa la determinazione di correlazione fra
vari dati.
Poiché raccolgono, di un fatto osservato, tutti i casi che si sono verificati, o un
numero molto grande di essi, la veridicità dei dati di statistiche di questo tipo è
molto elevata. Le “statistiche sui grandi numeri” peraltro, non forniscono
interpretazioni raffinate dei fenomeni ma ne consentono in genere solo una
comprensione superficiale.
Può utilizzarsi questo genere di indagine per avere statistiche trasversali (es.:
caratteristiche della criminalità in un dato momento) ovvero statistiche
longitudinali o dinamiche (modificazioni da un momento all’altro o nello sviluppo
diacronico di un fenomeno).
Questi dati possono poi essere elaborati in funzione di numerose variabili: età,
sesso, tipo di reato, tipo di sanzione, condizioni economiche degli autori,
professione, regione di nascita e di residenza, scolarità, religione, razza, nazionalità,
condizione familiare e molti altri.
Di particolare interesse sono le correlazioni statistiche fra diverse serie di dati e
talune variabili. E’ possibile che si abbiano delle variazioni indipendenti nelle serie
confrontate (assenza di correlazione o correlazione indifferente = numero degli
omicidi e stagione in cui sono commessi); che le variazioni di un carattere
corrispondono a variazioni nell’altra serie nello stesso senso (correlazione positiva
= più aumenta l’urbanizzazione più aumenta la criminalità); ovvero nel senso
opposto (correlazione negativa = dopo i 30 anni, più aumenta l’età e minore
diventa il numero dei fatti delittuosi).
Ovviamente, le correlazioni possono variare, per uno stesso fenomeno, nei tempi e
nei luoghi. Inoltre, lo studio delle correlazioni può essere più complesso includendo
più variabili in funzione di un singolo carattere (detenuti esaminati in relazione
all’età, alle condizioni economiche e alla stabilità lavorativa nei riguardi della
residenza).
Dalle correlazioni statistiche è in genere arbitrario trarre delle illazioni di ordine
causale perché il fatto che due fenomeni si modifichino con andamento parallelo
non sempre indica che l’uno sia causato dall’altro. I fattori che intervengono nel
comportamento criminoso, infatti, sono estremamente numerosi e complessi e
accentrare l’attenzione su una variabile comporta sempre il rischio di non tener
conto di altri fattori che pur concorrono nel fenomeno osservato.
La statistica criminale è poi soggetta a errori non solo relativi all’interpretazione dei
dati ma anche per quanto concerne la loro validità come, da esempio, per quelli che
derivano dalla imprecisione o dalla non attendibilità delle fonti.
Assai ambigue sono poi le comparazioni statistiche internazionali, sia per la
diversità, da paese a paese delle fonti e dei criteri di rilevamento delle statistiche
ufficiali, sia per la variabilità delle terminologie giuridiche, del contenuto e della
procedura della legge penale: uno stesso tipo di condotta, ad esempio, può figurare
con denominazioni diverse, può costituire o no atto perseguibile, ecc.
21
Le interpretazioni, poi, possono essere inficiate da numerosi fattori di errore quali,
ad esempio, quelli derivanti da variabili non considerate o nascoste o sconosciute.
La molteplicità dei fattori che agiscono sulla condotta umana deve rappresentare
una costante remota alla tentazione sia di attribuire immediatamente, attraverso i
dati ricavati dalle indagini statistiche, valore di causa a certi fattori, sia di
generalizzare arbitrariamente.
22
carriere criminali, illuminando su fattori di peculiare importanza (es. difetti di
socializzazione o influenza di determinate vicende o ambienti sociali nel destino di
una persona) e mettendo in evidenza, con il circostanziato racconto biografico, il
riscontro e l’esemplificazione delle teorie criminologiche nel caso concreto.
Le indagini individuali hanno consentito così di enucleare fattori assai significativi
della condotta deviante e criminale: frequenza delle anomalie della personalità,
fattori familiari disturbanti, condizioni di frustrazione, ecc. E’ stato così possibile,
ad esempio, osservare il ruolo giocato nella criminogenesi dall’alcoolismo, dalle
tossicomanie, dal disturbo mentale, dalle condizioni di sfavore sociale.
24
CAPITOLO 2
LO SVILUPPO DEL PENSIERO CRIMINOLOGICO
26
chiedeva per poterlo assolvere di fare pubblica abiura onde favorire il
ravvedimento di coloro che egli, con parole e fatti, aveva traviato. E’ da mettere
ben in evidenza, ancora oggi, fra le finalità della pena, il suo contenuto
satisfattorio: la necessità di dare soddisfazione al bisogno di giustizia, vedendo
unito il colpevole, anche se oggi misconosciuto o sottaciuto, è un contenuto
sempre vissuto da tutti gli uomini come irrinunciabile. La pena risponde ad una
precisa necessità psicologica che nasce nel momento stesso in cui nasce l’etica,
vale a dire da quando l’uomo è divenuto tale. Ovviamente l’etica (cioè il
significato del bene e del male) muta nel tempo così come incessantemente muta
la cultura.
27
trovò in Cesare Beccarla (1738-1794) il suo più famoso sostenitore e divulgatore.
“Dei delitti e delle pene”, pubblicato anonimo per timore della censura nel 1764,
rappresenta la più nota, lucida e sintetica esposizione della nuova concezione
liberale del diritto penale, che segna l’inizio di una nuova filosofia della pena e che
fra l’altro sarà anche anticipatorio dei futuri approcci criminologici.
Gli aspetti fondamentali della concezione liberale del diritto, possono essere così
riassunti:
o separazione fra morale religiosa ed etica pubblica - la funzione della pena è
quella di rispondere alle esigenze di una determinata società anziché ai
principi morali;
o presunzione di innocenza – il diritto deve garantire la difesa dell’imputato
contro gli arbitri dell’autorità;
o i codici devono essere scritti ed i reati espressamente previsti;
o la pena deve avere un significato retributivo anziché unicamente
intimidatorio e vendicativo (“ciascuno deve subire una pena che tocchi i
propri diritti tanto quanto il delitto che ha commesso ha colpito i diritto
altrui”);
o la pena deve colpire il delinquente unicamente per quanto di illecito ha
commesso e non in funzione di quello che egli è o ciò che può diventare;
o il criminale non è un peccatore ma un individuo dotato di libero arbitrio,
pienamente responsabile, che ha effettuato scelte delittuose delle quali deve
rispondere nel modo stabilito dalla legge.
Vediamo come molti di questi fondamenti sono ancora attuali mentre è cambiato
oggi il modo riconsiderare la personalità del delinquente.
28
Essa si incentrava su tre principi fondamentali:
1) la volontà colpevole – il delinquente è percepito perciò come persona del
tutto libera senza tener conto, nella criminogenesi, dei condizionamenti
ambientali e sociali;
2) l’imputabilità – per aversi volontà colpevole occorre che il reo sia capace di
intendere il disvalore etico e sociale delle proprie azioni (da cui deriva il
presupposto della capacità di intendere e di volere, quale requisito necessario
per essere sottoposto al giudizio e alla pena);
3) il significato di retribuzione della pena – per il male compiuto che, come tale,
doveva essere: affittiva, proporzionata, determinata e inderogabile. La pena
dunque doveva essere severa e gravata da sofferenza fisica nel
convincimento che la riabilitazione sociale dovesse essere il frutto di una
correzione morale quale conseguenza pedagogica della sofferenza della
punizione (= emenda) che sarebbe appunto scaturita dalla durezza del
trattamento.
Il delitto veniva dunque considerato quale entità di diritto e non di fatto cioè come
una astrazione rigidamente dogmatica che prescindeva da qualsiasi considerazione
della realtà psicologica del reo e che comportava il giudizio nei suoi confronti
prescindendo dalle condizioni individuali e sociali interferenti nel suo agire.
I principi fondamentali della Scuola Classica costituiscono la base di un sistema
normativo che ancora oggi mantiene piena validità:
1) il principio della legalità – nessuna azione può essere punita se non
esplicitamente prevista dalla legge come reato;
2) il principio della non punibilità per analogia – non si può punire un
comportamento non espressamente previsto come fatto illecito assimilandolo
ad altri reati o perché potenzialmente foriero di futuri delitti;
3) il principio garantistico – con le norme a salvaguardia del diritto di difesa e
della presunzione di innocenza;
4) il principio di certezza del diritto – che mette al bando ogni discrezionalità
nell’irrogazione delle pene e che comporta la loro eguaglianza per tutti
coloro che hanno commesso il medesimo delitto.
In tempi a noi più vicini, un’aspra critica è stata portata alla Scuola Classica
dall’ideologia di derivazione marxista secondo la quale essa era la tipica
espressione del capitalismo ottocentesco, gravido di ingiustizie sociale e
incentrato sullo sfruttamento delle classi lavoratrici, che impose una normativa
penale rigidamente repressiva che andava a colpire specialmente la classe
operaia classe che, a quell’epoca, era ritenuta il focolaio della maggior parte
della delinquenza.
29
2.3 – Le classi pericolose
Nel 1800 era generale convincimento che la delinquenza fosse pressoché
prerogativa esclusiva delle classi più povere dato che il tumultuoso sviluppo
industriali aveva attirato dalle campagne grandi masse di proletari che erano
costretti a vivere in condizioni miserrime e ai limiti della sopravvivenza. Di
conseguenza, le città si popolavano di reietti la cui vita era segnata dalla miseria,
dall’ignoranza, dall’alcolismo, dalla delinquenza. In effetti, le statistiche relative
alla criminalità che proprio allora si cominciavano ad elaborare, indicavano che
la maggior parte dei delinquenti proveniva proprio da quelle fasce di
popolazione più misera così che nella cultura dominante dell’epoca, che era la
cultura borghese, andò affermandosi il concetto di “classi pericolose”. Le classi
pericolose erano considerate come agglomerati di individui degenerati e carichi
di vizi, privi di volontà e di iniziativa: alle loro deficienze di doti morali veniva
attribuita non solo la criminalità, fra essi selettivamente dilagante, ma anche le
stesse misere condizioni di vita e l’incapacità di emanciparsi da tali condizioni.
Questa concezione era ovviamente legata all’ideologia borghese dell’attivismo e
della volontà di successo dei singoli, che era congeniale a una economia fondata
sul liberalismo sfrenato e all’esaltazione dell’iniziativa imprenditoriale. Secondo
questa ideologia, dalle lontane origini calviniste, a chiunque fosse dotato di
ambizione e volontà di fare erano aperte le strade del successo mentre era
riprovevole restare poveri. Tale mentalità raggiunse il suo apice nella società
americana degli “anni ruggenti”, antecedente alla grande crisi del 1929, e sarà
riassunta nel concetto del self made man, l’uomo che si fa da sé. Ad alimentare
questi principi contribuì anche, e non poco, quella filosofia nota col nome di
“darwinismo sociale” secondo la quale le teorie di Darwin dell’evoluzione delle
specie e della selezione naturale andavano applicata anche al campo sociale: era
ritenuto funzionale all’evoluzione della società che gli “inetti” ed i “perdenti”
dovessero soccombere nella lotta per la vita e che andassero ad occupare gli
strati più squalificati della società: appunto, quelli delle classi pericolose.
A questo modo di intendere il delinquente dobbiamo riconoscere alcuni aspetti
positivi:
a) quello di aver dato l’avvio a nuove metodologie di ricerca con le “indagini sul
campo” condotte nei quartieri più poveri dei centri urbani;
b) quello di aver messo per la prima volta in evidenza le correlazioni tra
depressione socio-ambientale e condotta criminale anche se alla criminalità è
stata così attribuita una valutazione unicasuale, cosa che oggi non è più
accettata.
Nel 1800, a fianco alla visione colpevolizzante del povero e dell’inetto, andò
contestualmente sviluppandosi anche un filone ideologico cristiano e
filantropico, improntato a principi di umana carità e di aiuto nei confronti dei
“bisognosi e dei traviati” che segnò una nuova modalità di intervento nei
confronti dei delinquenti. Si trattava dunque di una concezione moralistica,
come quella della “emenda”che informava la Scuola Classica, con la differenza
che mentre per quest’ultima la redenzione doveva essere il frutto della pena
severa e affittiva, questi indirizzi alternativi miravano ad ottenere la redenzione
30
come risultato dell’assistenzialismo umanitario. Nacquero così organizzazioni
come l’Esercito della Salvezza, che mirava a redimere gli alcolizzati e i
vagabondi, le prime associazioni volontarie di soccorso e di cristiana solidarietà
per i detenuti, i primi trattamenti differenziali per i delinquenti più giovani e i
primi esperimenti di porbation, utilizzato per la prima volta a Boston. Questo
istituto, che tanto sviluppo ebbe poi in America ed in Europa, fu dettato
all’origine proprio da questa diversa percezione del delinquente che anziché
come un depravato, venne considerato per la prima volta quale persona
bisognosa di aiuto per riuscire a reinserirsi nella società.
2.4 – Primi studi statistici e sociologici (= prime concezioni del diritto come
fatto sociale)
La concezione del reato quale astratta entità di diritto, tipica della Scuola
Classica, è stata messa in crisi, verso la metà del 1800, dai primi studi statistici
impiegati per l’approccio scientifico ai fenomeni criminosi. Così, mentre in
precedenza il delitto era percepito quale azione malvagia o depravata compiuta
da un individuo del pari astratto, in quanto non considerato nel suo contesto, si
passava ad una concezione che chiamava in causa l’ambiente sociale nel quale il
delinquente agiva.
Ai ricercatori Quetelet e Guerry, che hanno utilizzato per primi i dati statistici e
demografici, ed è stato riservato l’attributo di “statistici morali” in quanto le
loro ricerche indicavano una concentrazione particolarmente elevata di criminali
nell’interno dei gruppi sociali più squalificati, ove frequentissime erano la
miseria, la prostituzione, l’alcolismo e il degrado morale. Nei loro studi, per la
prima volta fu considerata l’incidenza dei reati in relazione all’età, al sesso, alle
professioni, al grado di istruzione, ecc.: tutto ciò consentì di aprire la strada per
la comprensione del delitto anche come fenomeno sociale.
Si affermava, in sostanza, con la presenza di costanti e di regolarità statistiche
dei delitti, anche una loro qual prevedibilità – almeno a livello di grandi numeri
– quindi si apriva la strada a una percezione del crimine di tipo deterministico o
almeno pluricausata, del tutto assente in precedenza.
Ora, si poteva anche dire che se le condizioni dell’ambiente sociale
influenzavano il crimine, si poteva anche affermare che la condotta delittuosa
era determinata , al di là dell’immoralità dei rei, anche da altri fattori: è da
questo momento, dunque, che si poteva iniziare a pensare al delitto come fatto
sociale secondo la concezione di Emile Durkheim (1858-1917)che lo intendeva
come “non soltanto un’idea soggettiva ma una cosa esistente di per sé, una parte
inevitabile del tipo particolare di una struttura sociale”. Anche il delitto
costituiva pertanto un fenomeno generale di ogni società, una sua parte
integrante e non più una occasionale aberrazione di certi individui; pertanto il
delitto non poteva essere eliminato, anche se era modificabile, nella quantità e
nella tipologia, con il mutare del contesto sociale nel quale si manifestava.
Proprio del mutamento nella quantità e nel tipo di delitti si occupò Gabriel
Tarde (1843-1904) secondo cui alla radice della crescita dei delitti riscontrata
31
nel corso del XIX secolo, era da porsi l’inizio di una nuova prosperità che
fungeva da stimolo alle aspirazioni e alla instabilità sociale: infatti, prima
dell’avvento della società moderna, gli individui non solo avevano ben poche
possibilità di cambiare il proprio status ma non subivano neanche la frustrazione
derivante dal fatto di non poter conseguire determinate mete, ora divenute
possibili anche se difficili per la maggior parte di essi. La delinquenza era per
Tarde il prezzo da pagare al maggior benessere sociale.
32
26 – Cesare Lombroso, la criminologia dell’individuo e il determinismo
biologico.
Sempre nel XIX secolo, che vide l’inizio del filone sociologico della
criminologia, Cesare Lombroso (1835-1909) rappresenta il pioniere del nuovo
indirizzo individualistico della criminologia, secondo il quale lo studio del
reato doveva polarizzarsi principalmente sulla personalità del delinquente,
fino ad allora del tutto trascurata.
Lombroso indirizzò i suoi numerosi studi sulla persona del delinquente e sulle
sue componenti morbose ritenute responsabili della sua condotta: ciò ha
rappresentato una svolta importante nei confronti dell’astrattismo di una
concezione solo legale o morale o sociale del delitto, fino ad allora dominanti.
Oggi, la maggior parte delle sue teorie è priva di valore scientifico ma ciò non
toglie a Lombroso il merito di aver per primo impiegato i metodi della ricerca
biologica per lo studio del singolo autore del reato, di aver fatto convergere
l’interesse delle scienze penalistiche sulla personalità del delinquente (prima
unicamente rivolto all’entità di diritto costituita dal reato), di aver stimolato una
larga massa di indagini sui problemi della criminalità e di aver dato avvio a un
indirizzo organico e sistematico nello studio della delinquenza (Scuola di
Antropologia Criminale) cosicché la criminologia come scienza ebbe modo di
imporsi come nuovo filone della cultura.
La teoria del delinquente nato – è la più nota delle sue teorie e sostiene che
un’alta percentuale dei più incalliti criminali possiederebbe disposizioni
congenite (cioè presenti fin dalla nascita) che, indipendentemente dalle
condizioni ambientali, li renderebbe inevitabilmente antisociali: particolari
caratteristiche anatomiche, fisiologiche e psicologiche si accompagnavano
secondo il Lombroso a tali disposizioni e ne consentivano l’identificazione.
Importanti erano anche, tra le cause di innata tendenza al delitto, all’epilessia e
ad altre patologie generali.
La teoria dell’atavismo – tentava di interpretare la condotto criminosa del
delinquente nato come una forma di regressione o di fissazione a livelli
primordiali dello sviluppo dell’uomo; il delinquente era dunque un individuo
primitivo, una sorta di selvaggio ipoevoluto nel quale la scarica degli istinti e
delle pulsioni aggressive si realizzava nel delitto senza inibizioni.
Lombroso riconobbe poi anche un gran numero di delinquenti occasionali, non
dissimili per la loro costituzione dagli uomini normali, e nei quali assumevano
rilevanza, nel condizionare la loro condotta, l’ambiente e le circostanze. I fattori
individuali innati e predisponesti al delitto mantenevano comunque un
significato di privilegio: la loro primarietà fra le cause e l’ineluttabilità con cui
essi condurrebbero allo sbocco criminoso configurano quella componente di
determinismo biologico che è un carattere saliente del pensiero lombrosiano.
Il delitto rappresentava dunque nella visione lombrosiana un evento strettamente
legato a qualcosa di “patologico” o di ancestrale che alcuni uomini presentavano
come loro specifica caratteristica. Questo atteggiamento proponeva una visione
33
deresponsabilizzante del fatto delittuoso che tuttora persiste in taluni filoni di
pensiero: esistono uomini giusti, osservanti delle leggi e uomini reprobi che
inevitabilmente delinquono perché la loro natura è “diversa” e “malata”. Nei
confronti di costoro nulla può farsi in quanto predestinati al delitto, se non
difendersi dalla loro innata antisocialità. Il reato e le anomalia della condotta
vengono così visti come se fossero solo una malattia da combattere e da
neutralizzare individualmente, in un approccio che risulta essere
decolpevolizzante nei riguardi della società e del reo e che libera da ogni
responsabilità collettiva e individuale nei confronti del fatto delittuoso.
La prospettiva lombrosiana verrà ripresa attorno agli anni ’50 del XX secolo
dall’ideologia detta del “mito medico” (secondo la quale le carceri avrebbero
dovuto assumere almeno idealmente l’aspetto e le funzioni di un luogo dove si
cura o si cerca di curare) e, più di recente, da quegli orientamenti di
“criminologia clinica” sempre centrati sullo studio dell’individuo e che hanno
avuto importanti riflessi anche sulla politica penitenziaria penale.
27 La Scuola Positiva
Le teorie lombrosiane sul delitto hanno costituito la base di un nuovo
orientamento giuridico e criminologico che si ispirava al pensiero positivistico
allora imperante secondo il quale i dati dell’osservazione empirica dovevano
costituire l’unico punto di partenza per interpretare i fatti delittuosi e per
proporne i rimedi.
Unitamente a Cesare Lombroso, i penalisti Enrico Ferri (1856-1929) e
Raffaele Garofalo (1852-1934) furono i teorici e i divulgatori dei principi di
quella che si sarebbe appunto chiamata la Scuola Positiva di diritto penale.
La Scuola positiva si incentrava sui seguenti postulati:
1) il delinquente è un individuo anormale;
2) il delitto è la risultante di un triplice ordine di fattori antropologici, psichici e
sociali;
3) la delinquenza non è la conseguenza di scelte individuali ma è condizionata
da tali fattori;
4) la sanzione penale non deve avere finalità punitive ma deve mirare alla
neutralizzazione e possibilmente alla rieducazione del criminale e deve
pertanto essere individualizzata in funzione della personalità del delinquente.
La pena non doveva pertanto avere più il significato di retribuzione per la
colpa commessa o di dissuasione dal delitto mediante l’intimidazione ma
quello di realizzare il controllo delle tendenze antisociali, considerando più la
personalità del criminale che non il tipo di delitto commesso.
I principi della Scuola Positiva si tradussero in un vero e proprio programma di
politica penale, per il quale, accertata l’attribuibilità del fatto al singolo autore,
una misura di difesa sociale doveva sostituire la pena, ed essa doveva essere non
tanto commisurata alla gravità del delitto compiuto, secondo il sistema tariffario,
34
quanto piuttosto proporzionata alla maggiore o minore perniciosità sociale del
reo.
Cardine dunque di ogni misura penale era la pericolosità sociale del criminale,
sia attuale, dimostrata dalla condotta delittuosi, sia potenziale, insita nella sua
personalità.
Assai rilevanti sono state le influenze che la Scuola Positiva ha avuto sia sulla
criminologia che sulla evoluzione del diritto penale: essa polarizzò l’interesse
sulla personalità del criminale piuttosto che sul fatto delittuoso, promuovendo la
ricerca e lo studio sulle cause individuali della criminalità. Inoltre, l’approccio
con metodologie scientifiche segnò l’inizio delle prime vere scuole
criminologiche, sia di indirizzo individualistico che sociologico.
Anche se codici totalmente ispirati ai principi della Scuola Positiva non sono
mai stati adottati nei paesi europei, l’influenza del pensiero positivistico ha
portato comunque all’introduzione, in molti sistemi giuridici, del principio
secondo il quale andava tenuto conto, nell’irrogare misure penali, oltre che della
gravità del reato, anche della potenzialità criminale del reo.
Ciò si è realizzato secondo due indirizzi:
1) con il sistema del “doppio binario” (Germania e Italia a partire dagli anni
’30) – secondo il quale a fianco delle pene tradizionali, commisurate alla
gravità del reato, venivano disposte anche misure di sicurezza per i
delinquenti ritenuti socialmente pericolosi (malati di mente, plurirecidivi,
soggetti particolarmente aggressivi, delinquenti abituali e professionali) che
si aggiungevano alla pena detentiva. Tali misure erano indeterminate nel
tempo e destinate a durare fino a quando non veniva a cessare la pericolosità;
2) con il sistema della pena a “tempo indeterminato” (USA e paesi scandinavi)
– secondo il quale la durata effettiva della pena non era preventivamente
stabilita dal giudice secondo la gravità del reato ma dipendeva dalle
prospettive di successo del reinserimento sociale, in virtù del buon esito del
trattamento risocializzativo.
35
penale moderno verso i principi della individualizzazione della sanzione e del
trattamento individualizzato del delinquente.
36
criminalità, sostenne di conseguenza che tale causa portava alla impossibilità
concettuale del libero arbitrio e della responsabilità individuale.
Altri autori della scuola socialista, come Turati, Ferri, Colajanni, consideravano
anch’essi la criminalità come strettamente connessa ai fattori sociali, e più
specificamente quale conseguenza del capitalismo.
A – TEORIE SOCIOLOGICHE
Nella prima metà del ‘900, mentre in Europa venivano maggiormente coltivati
gli indirizzi individualistici, si sviluppa ampiamente negli USA la sociologia
criminale, che diverrà per un lungo periodo il filone più rigoglioso della
criminologia.
Vediamo in particolare le teorie maggiormente significative.
38
In definitiva, si realizza “disorganizzazione sociale” quando perdono di efficacia
gli abituali strumenti di controllo sociale ed in particolare il controllo di gruppo e
quello familiare.
Secondo questo approccio, il singolo individuo, vivendo in una struttura instabile e
in troppo rapido mutamento, perde la possibilità di governarsi secondo i vecchi
parametri normativi, divenendo egli stesso, come la società, disorganizzato nella sua
condotta.
Questo approccio teorico non è solo rivolto a rendere conto dell’incremento della
criminalità fra gli individui più poveri e più emarginati, come faceva la teorica
ecologica ma fornisce una interpretazione a più largo raggio, idonea a spiegare in
una più ampia prospettiva il dilagare della criminalità anche in altre classi sociali,
ed anche fra coloro che subivano l’influenza della disorganizzazione sociale pur
senza essere afflitti da disagi economici.
Sutherland (1934), ha utilizzato anch’egli il concetto di disorganizzazione sociale,
legandolo, però, più che al mutamento e alla instabilità conseguenti alla espansione
industriale e allo sconvolgimento culturale a esso seguito,piuttosto all’esistenza
nella società di contraddizioni normative. Una società è disorganizzata perché le
norme sono contrastanti e contraddittorie e non assolve pertanto alla sua
fondamentale funzione socializzatrice: di rendere cioè gli individui osservanti delle
norme più cogenti. In pratica, il delitto si verifica perché la società non è
saldamente organizzata contro questa forma di comportamento.
Il conflitto di norme è quindi una delle condizioni più significative nel provocare la
disorganizzazione sociale, dal momento che la coesistenza di regole, leggi e costumi
fra di loro in contrasto riduce grandemente l’efficacia del controllo sulla condotta
dei singoli.
Una sintesi dei più significativi aspetti del conflitto di norme, responsabile della
disorganizzazione sociale e del conseguente incremento di criminalità, è stata
formulata, in epoca successiva, da Johnson (1960). Secondo questo autore, vi è
conflitto di norme:
• quando vi sia socializzazione difettosa o mancante – E’ questa la situazione
che si realizza in coloro che, facendo parte di gruppi marginali, possono
essere ambivalenti verso norme legati che, in gran parte, sentono come
estranee o riguardanti solo i diritti delle più favorite fasce sociali piuttosto
che i propri (sono questi gli appartenenti alle sottoculture delinquenziali);
• quando vi siano sanzioni deboli e vi è quindi insufficienza di intimidazione
punitiva verso alcuni tipi di azioni delittuose che vengono pertanto
implicitamente incentivate;
• quando vi sia inefficienza o corruzione dell’apparato giudiziario o di
polizia – in questo caso le sanzioni contemplate nei codici possono essere
anche severe, ma la loro efficacia è ridotta perché le leggi vengono
scarsamente o per nulla applicate.
39
Il conflitto e la contraddizione delle norme accentuano notevolmente il carattere di
instabilità degli strumenti del controllo sociale e costituiscono pertanto
un’importante causa di disorganizzazione sociale e di delinquenza.
40
comportamenti delittuosi se contemporaneamente non vi è l’appoggio e la
solidarietà nello stesso senso da parte del gruppo di appartenenza.
41
La conformità alle norme sociali del proprio momento non è garantita solo dai
valori ideologici e dal timore delle sanzioni ma anche dagli interessi costituiti, cioè
dai vantaggi legittimi che il rispetto delle norme comporta.
Pertanto, riassumendo, possiamo dire che nella genesi del comportamento conforme
possono distinguersi:
• il momento dell’apprendimento delle norme – che si realizza tramite i
processi di socializzazione e attraverso i continui contatti fra persone e
gruppi;
• la fase del mantenimento e del rinforzo dell’apprendimento normativo –
che è attuata dai vari strumenti di controllo sociale, dalla minaccia di
sanzioni, dall’ideologia, dagli interessi costituiti.
42
L’anomia si realizza dunque quando le regole, che in altri momenti si mostravano
idonee ad assicurare la condotta socializzata dei membri, perdono la loro efficacia
cosicché gli attori sociali si vengono a trovare in una condizione di particolare
difficoltà, dovuta proprio alla carenza dei necessari parametri di riferimento
normativo: si genera quindi disagio se le regole non sono più adeguate, se hanno
perso di credito, se pur essendo formalmente ancora presenti sono nella sostanza
divenute prive di significato.
Il temine di anomia era già stato introdotto in sociologia da Emile Durkheim
(1858-1917) all’inizio del ‘900 col significato di frattura delle regole sociali. In
particolare, egli intendeva la particolare situazione che si instaura in certe società e
che ingenera, in un elevato numero di soggetti, disagio e condotta dissociale. Per
Durkehiem causa dell’anomia era essenzialmente la iperstimolazione delle
aspirazioni che la società industriale ha indotto, e quindi nell’insofferenza verso i
sistemi di controllo che tendono a limitare le aspirazioni stesse: il difetto di quella
società sarebbe stato nel non aver saputo porre limiti alle domande dei vari gruppi
sociali. Il mito del successo, il miraggio dell’ascesa economica sempre più rapida,
hanno provocato irrequietezza, esasperazione, frustrazione e malcontento: ciò è
stato causa della rottura delle regole sociali, ovvero, anomica: che non vuol dire
pertanto assenza di norme bensì significa contraddizione, incoerenza, ambivalenza e
ambiguità delle norme stesse.
Robert Merton, negli anni ’30, ha fornito della devianza una nuova teoria.
L’anomia è intesa infatti come la conseguenza di una incongruità fra le mete
proposte dalla società e la realtà possibilità di conseguirle: una società ha
caratteristiche di anomia quando la sua cultura propone delle mete senza che
vengano a tutti forniti i mezzi per conseguirle. Questa teoria è incentrata dunque
sulla antinomia dinamica tra mete e mezzi legittimi per conseguirle. Le mete sociali
possono intendersi come le prospettive che la cultura di un certo momento pone
come prioritarie ai suoi membri, come quell’insieme di obiettivi verso i quali
debbono tendere le aspirazioni di tutti, obiettivi che sono nello stesso tempo
ideologici, morali e materiali. Naturalmente, con il variare delle società variano
anche le mete che la cultura di ciascuna società propone come fondamentali, come
più meritorie e qualificanti. Pertanto, le società, per non produrre frustrazioni,
debbono mantenere un buon equilibrio tra le norme e le mete istituzionalmente
suggerite e devono offrire la possibilità di raggiungere le mete con i mezzi legittimi
che vengono prescritti o forniti. La società industriale, ad esempio, ha come
caratteristica l’imperativo di non accontentarsi del proprio status e di mirare a
traguardi sempre più elevati ma se ciò può essere inteso come una delle ragioni
degli enorme progressi materiali compiuti vi è contestualmente insita una elevata
fonte di ansietà e di frustrazione dato che non è facile, per chi parta da condizioni
sociali svantaggiate soddisfare questo imperativo con mezzi legittimi. Pertanto, la
disuguaglianza nelle opportunità di successo sociale stimolano la non osservanza
delle norme che regolano le modalità lecite per conseguire le mete proposte dalla
cultura. Nella nostra società non troviamo solo frustrazione individuale ma anche un
più ampio fenomeno che implica un diverso atteggiamento di interi gruppi sociali
nei riguardi delle orme. Tale teoria, però, non è in grado di risolvere il problema
43
psicologico del perché alcuni individui siano più sensibili e altri meno alle influenze
anomiche.
Merton ha anche individuato le diverse modalità di reagire alla condizione anomica
(peraltro, Merton on considera la devianza come conseguenza delle differenti
caratteristiche psicologiche o di anomalie delle personalità ma come frutto di fattori
insiti nella stessa struttura sociale. Dunque, abbiamo:
1) un comportamento di conformità – che risulta tanto più agevole e tanto meno
ansiogeno e frustrante quanto maggiori sono le opportunità di successo
offerte dal proprio status.
2) Un comportamento deviante che, a seconda di come viene risolta l’antinomia
fra le mete poste dalla cultura e i mezzi impiegato per conseguirle, può
essere così manifestato:
a. Innovazione – che si realizza quando l’attore sociale è orientato verso
i fini proposti dalla cultura, mira a raggiungerli ma per ottenerli non si
pone problemi circa il carattere eventualmente illegittimo dei mezzi
impiegati. Costoro diventano delinquenti trovandosi a essere
osservanti dei fini ma non dei mezzi per conseguirli.
b. Ritualismo – questo tipo di devianza sui generis, si realizza quando
permane il rispetto per le norme e vi è invece rifiuto di ricorrere ai
mezzi illegittimi anche se ciò comporta la rinunzia a perseguire le
mete del successo sociale. Esiste in questo modo devianza solo
perché vengono mortificate le aspirazioni, ci si accontenta di ciò che
si ha.
c. Rinunzia – è la devianza che si realizza quando vengono persi di
vista sia i fini che i mezzi, cioè quando si rinunzia a raggiungere i fine
dell’ascesa economica o del successo ma nello stesso tempo non vi è
rispetto delle norme istituzionali. E’ questa la devianza di chi cessa di
combattere, dei vagabondi, dei drogati, dei derelitti: si tratta di
persone che in varia modalità infrangono le regole legali ma nelle
quali il mancato rispetto delle norme non serve a migliorare il proprio
status.
d. Ribellione – è la devianza caratterizzata dalla sostituzione delle mete
culturali con mete diverse, da un rifiuto globale della società e,
pertanto, anche delle regole circa l’uso dei mezzi illegittimi. Il ribelle,
l’anarchico, il contestatore assumono un sistema di valori del tutto
alieno e contrapposto a quello della cultura dominante e si
propongono di conseguire un sistema sociale e culturale alternativo.
44
Tale teoria ha come suo carattere distintiva il principio che il
comportamento delinquenziale è appreso: poco importerebbe pertanto nel
divenire delinquenti la psicologia dei singoli individui.
La delinquenza non viene appresa per semplice imitazione bensì
mediante l’associazione interpersonale con altri individui che già si
comportano da delinquenti. L’apprendimento della condotta criminosa è
in relazione pertanto con i tipi di persone con le quali si viene a contatto,
con il tipo dei loro valori, mediante un processo di comunicazione
analogo, ma di segno opposto, a quello tramite il quale si apprende il
rispetto delle norme legali.
Il termine “dissociazione differenziale” non deve essere inteso come una
sorta di società di fatto ma come semplicemente partecipazione a certi
gruppi sociali “differenti” dagli altri per la loro abituale indifferenza nei
confronti della legge.
Questa teoria venne proposta da Sutherland come schema per una teoria
generale della criminalità, una teoria eziologica capace di render conto di
tutti i tipi di condotta criminosa – non solo quella delle classi sfavorite ma
anche di quella imprenditoriale e professionistica – e del perché,
nonostante la presenza di analoghe opportunità, si verificano orientamenti
differenti da un individuo all’altro circa il rispetto o meno della legge, in
funzione della frequentazione appunto di gruppi inosservanti della legge
penale.
Una persona è dunque favorita nella scelta delinquenziale a parità di
condizioni economiche e sociali, quando si trova inserita in un gruppo
ove prevalgono definizioni favorevoli alla violazione della legge rispetto
a quelle sfavorevoli.
Di conseguenza, ora è chiaro che sia i valori etici che le tecniche per
compiere i delitti devono essere necessariamente appresi da altre persone.
Non esisterebbe dunque una criminalità innata, ma si imparerebbe ad
agire criminalmente assimilando i modelli di comportamento
delinquenziale proposti da un certo ambiente, sempre che questi
prevalgano sui modelli di condotta integrata.
Però non tutti i gruppi con i quali si è via via in contatto hanno la stessa
capacità di influenzare la condotta: fra i vari ambienti di cui un individuo
si trova a far parte, avranno più elevata capacità di orientare la condotta
quelli che vengono frequentati con maggiore intensità; quelli nei quali i
rapporti hanno maggiore priorità (in quanto i membri godono per il
soggetto di maggiore prestigio), quelli dove i rapporti hanno maggiore
durata e, infine, quelli che per anteriorità si sono proposti come modello
in epoca più precoce e in età più giovane.
L’associazione soggettivamente percepita come più importante, che viene
più frequentata, che è inoltre più duratura e anteriore, è quella da cui più
facilmente verranno appresi ideali, valori e tecniche di condotta: se questa
45
associazione sarà di tipo delinquenziale, si apprenderà uno stile di vita
criminoso.
Analiticamente possiamo dunque puntualizzare che:
1) il comportamento criminale è un comportamento appreso;
2) tale comportamento è appreso attraverso il contatto con altre persone
e per mezzo di processi di comunicazione;
3) esso è appreso all’interno di dirette relazioni interpersonali;
4) si apprendono anche le tecniche necessarie al compimento del reato,
le valutazioni e le attitudini nei confronti del crimine;
5) si diventa delinquenti quanto le interpretazioni contrarie rispetto alla
legge sono in un dato ambiente prevalenti rispetto a quelle favorevole;
6) le associazioni differenziali possono variare in rapporto all’intensità,
alla priorità, alla durata, alla anteriorità del “contagio”;
7) il processo di apprendimento del comportamento criminale implica gli
stessi meccanismi che verrebbero chiamati in causa in qualsiasi altro
tipo di apprendimento.
Il fatto che Sutherland si sia sforzato di costruire una teoria eziologia per spiegare
cioè ogni forma di criminalità non significa che egli ignorasse del tutto la possibilità
dell’intervento di altri fattori nell’eziologia del crimine e, anzi, li indicò nelle
opportunità, nell’intensità del bisogno, nella possibilità che vengano proposte
alternative al comportamento criminoso e, soprattutto, nella disorganizzazione
sociale. Egli era comunque convinto della necessità di ricondurre tutti gli elementi
criminogenetici in una unica teorica.
Però, se certamente è condivisibile l’assunto secondo cui le tecniche e gli
atteggiamenti criminali devono essere appresi, è difficile però condividere il
principio secondo cui tutte le forme di criminalità debbano essere necessariamente
apprese, secondo lo schema fornito da questa teoria. Del tutto insufficiente appare
infatti questo tipo di spiegazione per rendere conto della criminalità aggressiva o
d’impeto o di quello su base emotivo-passionale, agita dai singoli.
Altri appunto che si possono muovere alla teoria delle associazioni differenziali
sono:
o essa si mostra del tutto carente dal punto di vista dell’indagine psicologica in
quanto trascura il problema della “risposta differenziale” che si pone a livello
personale;
o non piega l’invenzione di nuove condotte delittuose mai utilizzate in
precedenza o anche di quella criminalità che si manifesta spontaneamente,
senza precedenti contatti con associazioni differenziali;
o è portatrice di un determinismo piuttosto rigido in quanto le motivazioni e le
tecniche attraverso cui si delinque sembrano apprese all’interno di un
46
ambiente in cui l’attore gioca un ruolo per lo più passivo, senza che gli siano
possibili, in apparenza, altre alternative.
Un indiscutibile merito di Sutherland (condiviso con la teoria dell’anomia di
Merton) è comunque quello di avere infranto l’equazione secondo la quale la
delinquenza sarebbe sempre e solo strettamente collegata all’indigenza e alle
condizioni sociali favorevoli.
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stigma del “criminale” è diventato una sanzione di per sé che può
accompagnarsi ad altre sanzioni o essere del tutto evitato;
o per chi compie delitti di questo tipo perdono di significato tutti quei fattori di
anomalia di personalità e di sfavore sociale che tanto hanno occupato la
criminologia impegnata nello studio dei delitti comuni;
o per configurare questo specifico tipo di delinquenza, è fondamentale la
tipologia dei reati commessi, che devono essere strettamente connessi alle
attività di produzione di beni o servizi.
48
Benigno di Tullio (1896-1979) al quale va anche il merito di aver mantenuto vivi
gli interessi criminologici in Italia anche durante il fascismo.
Nella prima metà degli anni ’50, Di Tullio iniziò la trasposizione in ambito
criminologico delle finalità e delle criteriologie del metodo clinico della medicina.
La criminologia clinica venne concepita come disciplina volta allo studio non tanto
dei fenomeni generali della delinquenza ma del singolo delinquente a fini
diagnostici, prognostici e terapeutici, cioè di trattamento individualizzato per
finalità risocializzativa. Parallelamente, lo studio clinico di un elevato numero di
soggetti avrebbe permesso la elaborazione di nozioni e concetti di carattere
generale, così da costruire un sapere che, in chiave eziologia, identificasse le cause
individuali (e anche microsociali) responsabili della commissione del reato.
L’opera di Di Tullio è stata poi importantissima in quanto ha realizzato una stretta
collaborazione tra diritto penale e criminologia. Se, infatti, la giustizia penale
mantiene una funzione principale nel meccanismo di lotta alla criminalità, alla
criminologia clinica spetta il compito di attuare la prevenzione speciale, attraverso
l’osservazione scientifica del reo. Infatti, se si vuole applicare il criterio della
individualizzazione della pena è imprescindibile la conoscenza in senso biologico,
psicologico e sociale della personalità del singolo delinquente. Intervento medico-
criminologico che poi dovrebbe proseguire nella fase di trattamento del condannato
in carcere per rimuovere le carenze fisio-psichiche che sarebbero distintive della
personalità del delinquente.
La criminologia clinica rappresenta dunque il momento della utilizzazione operativa
delle conoscenze mediche psichiatriche e psicologiche relative alla personalità
dell’individuo e al suo ambiente microsociale, per intervenire in senso terapeutico al
fine di “curare” la criminalità, per cercare cioè di eliminare le cause individuali del
comportamento criminoso.
Il fine operativo di questo indirizzo appare tuttora quello d rimuovere i più
immediati fattori psichici e ambientali favorenti il persistere della condotta
delinquenziale, e di intervenire in definitiva al fine di indurre il delinquente ad
assumere un ruolo integrato.
La criminologia clinica si caratterizzerebbe in senso politicamente conservatore:
agirebbe cioè in modo funzionale al sistema dato, lasciando immutate le
contraddizioni sociali e cercando solo di fare accettare ai criminali una struttura
sociale che andava invece, secondo il loro orientamenti, radicalmente rinnovata.
49
Tali contenuti ideologici propri dei paesi occidentali verranno a riflettersi anche
sulla percezione della criminalità e si tradurranno in un nuovo programma di
politica penale che va ricollegato a un fondamentale principio sociale già da qualche
anno introdotto nel mondo occidentale, cioè l’ideologia del Welfare State
(introdotta da Roosevelt nel 1932 come risposta alla grande crisi economica di
quegli anni e poi fatto proprio, in Europa, dal riformismo socialdemocratico).
Secondo questo principio, lo stato non può disinteressarsi delle difficoltà dei meno
abbienti, che in precedenza non coinvolgevano la collettività e che venivano
affrontate solo con le istituzioni umanitarie e di mutua assistenza. Lo stato, in
questa ottica, dove farsi carico di assicurare a tutti i cittadini i beni materiali
fondamentali e garanzie di sicurezza e benessere. Fra le garanzie che lo stato deve
offrire vi è anche quella di fornire a chi ha compiuto reati gli strumenti per essere
risocializzato così da poter nuovamente fruire di un normale assetto sociale. La
rieducazione socializzativa – da realizzare attraverso gli strumenti risocializzativi
della criminologia clinica - costituisce dunque un nuovo diritto del cittadino e un
nuovo impegno dello stato.
In questo clima culturale, politico e giuridico, deve essere ricordata l’opera di
Filippo Gramatica, che tentò di riproporre i principi della Scuola Positiva e che
trovò espressione compiuta nei “Principi di difesa sociale”, pubblicato nel 1961. Per
l’autore, la difesa sociale si concreta in una sostituzione del diritto repressivo con
un sistema penale non punitivo di reazione contro l’antisocialità. Tale sistema
avrebbe dovuto escludere ogni riferimento al principio di punizione e conferire allo
stato il solo dovere di recuperare l’individuo allo società, negandogli quello di
punire. Sarebbe caduta, seguendo questi principi, ogni distinzione fra pena e misura
di difesa sociale (misura di sicurezza) posto che la giustizia non avrebbe avuto se
non lo scopo della risocializzazione del delinquente.
Contro questa dottrina estremistica e utopistica, reagirono i propugnatori di
posizioni pur sempre riformative del diritto penale ma di ispirazione moderata e
realistica, che raccoglieranno i maggiori consensi in seno alla Società Internazionale
di Difesa Sociale. L’opera che meglio interpreta queste esigenze e che dà il nome
all’intera corrente di pensiero è “Nuova Difesa Sociale”, di Marc Ancel, pubblicata
nel 1954. Tra i più interessanti asserti di questo movimento vi è senz’altro il rifiuto
del determinismo degli indirizzi sia antropologici che sociologici. Coloro che
hanno aderito a questa corrente di pensiero rivalutano la nozione di libero arbitrio,
in cui peraltro il riconoscimento della libertà e responsabilità dell’individuo deve
tener conto della concreta realtà umana e sociale in cui egli si trova a vivere e
quindi degli eventuali condizionamento economici e ambientali a cui ciascuno è
esposto. La Nuova Difesa Sociale parla di doveri dell’uomo verso i suoi simili e di
risocializzazione come presa di coscienza di una morale sociale vincolante. La
politica penale, pertanto, impone allo Stato precisi doveri tra cui l’obbligo di
reintegrare l’individuo che ha commesso il reato in una comunità sociale che non
sia oppressiva cui corrisponde il “diritto alla socializzazione” da parte dei cittadini.
Non si tratta quindi di sopprimere (come era stato per i positivisti) il diritto penale
come sistema o di abbandonare l’apprezzamento giuridico-penale del delinquente, e
nemmeno di sopprimere la sanzione penale retributivo sostituendola con la misura
di difesa sociale quale strumento preminente della giustizia penale. La Nuova
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Difesa Sociale tende solo ad adeguare la reazione anticriminale ai bisogni congiunti
dell’individuo e della società, oggetti e soggetti, insieme, della protezione sociale.
Essa in definitiva tradusse in principi di politica penale i contenuti ideologici del
Welfare State.
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40 – Teorie multifattoriali dell’integrazione psico-ambientale
(individuo/ambiente)
52
3. per l’atteggiamento psicologico – per essere più frequentemente ostili,
antagonisti, pieni di risentimento, rivendicanti diritti, sospettosi, non
convenzionali e non remissivi;
4. intellettivamente – perché capaci di apprendere preferibilmente secondo
modalità concrete e dirette piuttosto che tendere al pensiero astratto,
simbolico, logico-razionalizzante;
5. per la loro condizione familiare – caratterizzata dalla inadeguatezza dei
genitori e di tutto l’ambiente familiare, da poca coesione, da basso livello di
aspirazione e scarsi valori sociali, dalla presenza di genitori non adatti a
essere guide e protettori, inidonei a fungere da modello di identificazione ed
a fornire una buona socializzazione.
Il fatto che le caratteristiche differenziali fra i due gruppi presentino una elevata
frequenza statistica indica la loro effettiva importanza nella criminogenesi tanto è
vero che il riscontro di tali caratteristiche in un dato soggetto è stato utilizzato dai
coniugi Glueck come indice predittivo di sua probabile futura criminalità.
Ora, è stato evidenziato che la predizione della futura condotta criminosa mantiene
lo stesso elevato margine di validità se anziché considerare congiuntamente i dati
psicologici e quelli familiari, la predizione venga effettuata sulla scorta delle sole
caratteristiche della famiglia: ciò sottolinea l’importanza dei fattori legati
all’inadeguatezza dell’ambiente familiare.
Si potrebbe in sintesi affermare che le aree sociali meno privilegiate dalle quali
provenivano i due gruppi di giovani esaminati dai Glueck contengono molteplici
fattori potenzialmente criminogeni: solo però nel caso in cui i fattori negativi
ambientali si sommino a certa particolari caratteristiche psichiche dell’individuo e/o
all’inadeguatezza della famiglia, si realizza più facilmente la condotta criminosa.
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In questo clima culturale, in quegli anni, taluni filoni della criminologia si sono
intessuti di esplicite connotazioni ideologiche e politiche di sinistra e si sono
andata qualificando come criminologia del conflitto in opposizione ad una
criminologia del consenso. Per la criminologia del consenso, è centrale la
percezione della società come struttura non certo ottimale, con gravi disfunzioni
di organizzazione, disparità di accesso ai beni, carente di giustizia sociale, ma
comunque migliorabile con le riforme e dove la delinquenza è ritenuta favorita
da certi handicap sociali e individuali che però nulla tolgono alla responsabilità
dei singoli autori di delitti (responsabilità su cui viene in definitiva a far leva
ogni intervento risocializzativo, obiettivo fondamentale della politica criminale).
Per i filoni più estremistici della criminologia del conflitto, invece, la
delinquenza non è eliminabile senza la radicale trasformazione della struttura
economico-sociale e senza la più o meno apertamente auspicata soluzione
rivoluzionaria che avrebbe condotto alla eliminazione dei conflitti di classe e
delle ingiustizie e che avrebbe risolto anche la questione criminale.
Gli approcci meno ideologizzati e più cauti, furono quelli che negli USA si
sono rivolti allo studio delle sottoculture delinquenziali e delle bande
giovanili che vedono nelle discriminazioni sociali, nelle difficoltà economiche e
nella riduzione delle opportunità di successo la ragione prima della attrattiva
esercitata sui giovani delle classi disagiate da parte delle sottoculture criminose.
I filoni più radicali e massimalisti si sono sviluppati invece in Inghilterra
prendendo corpo nella teoria dell’etichettamento fino a giungere alla
criminologia critica che vedrà la stessa criminalità quale fatto politico ed
addirittura rivoluzionario.
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- un gruppo può venire a trovarsi in contrasto e anche in lotta con altri gruppi
nell’ambito del gruppo esiste un’organizzazione e divisione dei compiti,
spesso su base gerarchica
- nel gruppo si sviluppa un complesso di usi, costumi e regole che creano una
tradizione (spirito di gruppo).
Si nota pertanto come le particolari norme, valori, principi e tradizioni del
gruppo sono inseriti nella sua cultura e sono fatti propri dagli appartenenti a quel
gruppo.
L’appartenenza a un gruppo è un fatto dinamico perché il singolo individuo può
partecipare contemporaneamente a più gruppi.
Qualora un gruppo sociale abbia una propria cultura fortemente differenziata
rispetto alla cultura dominante per taluni valori importanti, si parlerà allora di
sottogruppo che avrà, a sua volta, una sua propria sottocultura, volendo
sottolineare con questi termini il contrasto e la differenza di taluni precetti
normativi rispetto a quelli della cultura generale.
Per sottocultura delinquenziale si intende quella di un sottogruppo che ha una
sua particolare visione normativa in contrasto con ciò che la cultura generale
considera come illegale. La sottocultura delinquenziale è pertanto quella di un
sottogruppo che, pur avendo molti valori normativi comuni con gli altri gruppi, se
ne diversifica per quanto attiene a certi comportamenti inibiti dalla legge (concetto
che si ricollega dunque a quello di “associazione differenziale” di Sutherland di
qualche decennio prima). E’ bene notare, poi, che una sottocultura può esistere
anche largamente distribuita nello spazio e senza alcun contatto interpersonale fra
singoli individui o gruppi interi di individui.
Nella prospettiva sottoculturale si collocano alcune teorie che hanno mirato a
illuminare nell’ambito della criminologia del conflitto, le ragioni che favoriscono la
confluenza verso le sottoculture criminose dei giovani delle classi più disagiate.
42.1 – La teoria della cultura delle bande criminali di Cohen (1955) –
Questa teoria vuole fornire una spiegazione delle dinamiche che portano alla
delinquenza nelle grandi città i giovani delle classi più sfavorite. Per Cohen, la
sottocultura delinquenziale dei giovani di bassa estrazione sociale nasce dal
conflitto con la cultura della classe media, che rappresenta i valori più diffusi, ma
dalla quale essi si sentono estranei ed estraniati: per questi giovani, di conseguenza,
è impossibile conseguire i vantaggi ed il successo sociale di cui godono i loro
coetanei dei ceti più favoriti ed essi vivono pertanto più frequentemente
l’insuccesso, la frustrazione e l’umiliazione. Per Cohen, questi giovani trovano una
soluzione a tale dissonanza nel disconoscere le regole della cultura dominante e nel
cercare di organizzare nuovi e diversi rapporti interpersonali con proprie norme e
propri criteri di status. Quindi essi metterebbero in atto il meccanismo difensivo
della formazione reattiva che è un meccanismo psicodinamico di marca
psicoanalitica che implica la sostituzione nella coscienza di un sentimento che
provoca angoscia con il suo opposto. In tal modo, le norme e gli ideali borghesi,
essendo irraggiungibili, non costituiscono più mete culturali ambite ma sono
rifiutate e disprezzate perché espressione del sistema dominante, giudicato a loro
56
estraneo, ingiusto, da rifiutare e disprezzare. Questi giovani sono favoriti a inserirsi
stabilmente nelle sottoculture dei delinquenti abituali dal fatto che queste ultime
sono frequentemente insediate proprio nei quartieri poveri dove essi risiedono e dal
loro vivere “all’angolo della strada” con conseguente maggiore facilità di rapporti
con soggetti già facenti parte della delinquenza comune che proprio da questi
giovani attinge nuove leve.
Questa teoria, tuttavia, non offre alcuna spiegazione del fatto che fra tutti i giovani
che gravitano sulla strada per le sfavorevoli condizioni economiche delle loro classi
di appartenenza, solo una parte finisce per confluire nelle file della delinquenza.
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- tanto la teoria di Cohen quanto quella di Cloward e Ohlin cadono facilmente
in un approccio che risulta rigidamente deterministico in quanto finiscono
per lasciare l’impressione che i giovani provenienti da certi gruppi siano
quasi fatalmente destinati alla delinquenza.
43 – Teorie dell’etichettamento
La visione di una società travagliata dalla continua conflittualità tra classe detentrice
del potere e le classi lavoratrici viene ulteriormente radicalizzata negli anni ’60 dai
teorici del nuovo filone criminologico del labelling approach che recuperano la
prospettiva dell’interazionismo simbolico di Gorge Mead (1934).
Gli aspetti caratterizzanti della “teoria dell’etichettamento” (Becker, Lemert,
Kitsuse) sono incentrati sui seguenti punti:
1. visione rigida e dicotomica delle classi sociali – percepite come classe dei
proletari sfruttati e classe dei padroni sfruttatori;
2. non univoca accettazione delle norme legali – in quanto ritenute funzionali ai
detentori del potere e quindi con condivise da quella parte dei consociati da
essi vessati;
3. valorizzazione del concetto di reazione sociale – quale risposta che la cultura
dei ricchi mette in atto nei confronti delle condotte devianti mediante la
stigmatizzazione, l’emarginazione e le sanzioni penali;
4. percezione della devianza e della criminalità non quali comportamenti
riprovevoli o colpevoli ma quale mero frutto di un etichettamento negativo
esercitato dal potere nei confronti delle sole condotte antigiuridiche
commesse dalle classe subalterne.
I teorici del labelling approach, affermano che il deviante non è tale perché
commette certe azioni, ma perché la società qualifica come deviante chi compie
quelle azioni: con la reazione sociale consistente nel conferire la qualifica di
deviante, la devianza viene in un certo senso “creata” dalla nostra stessa società.
Il punto focale del nuovo approccio è spostato pertanto dall’atto del singolo,
com’era nelle precedenti teorie, alle reazioni della società nei confronti dell’atto
stesso.
- Il deviante non è più visto come disfunzionale al sistema sociale ma la
condotta deviante è invece intesa come necessaria e utile alla società
che in essa trova il confine ben delineato della propria conformità. Il
deviante, quindi, deve essere “creato” per differenziarsene ed avere un
termine di paragone negativo.
- Il deviante svolge anche un ruolo di capro espiatorio – nel momento
in cui si polarizza contro di lui tutta l’emotività e lo sdegno per gli
autori del male, si ha il vantaggio di non far percepire come devianti
altre condotte, parimenti dannose per la società, ma che sono proprie
delle classi domianti;
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- Il criminale, nella comune accezione, non è tanto colui che commette
un crimine ma piuttosto colui che, fra i molti atti illegali, ne compie
certuni. I concetti di stereotipo e di stigma, rappresentano bene questi
meccanismi nel senso che lo stereotipo culturale del criminale (cioè la
concezione di delinquente diffusa nell’opinione pubblica) corrisponde
a quello della criminalità abituale e convenzionale ma non comprende
tutti gli atti contrari ai codici. Si avrebbe così una discriminazione in
relazione al tipo di delitto, all’ambiente in cui esso viene attuato e al
ceto dell’autore. La discriminazione si attua a vari livelli: chi ha più
potere può fare leggi a sé più favorevoli e decide, ne contempo, cosa
è lecito e cosa non lo è.
I gruppi sociali, quindi, creano devianza facendo le norme la cui
infrazione costituisce devianza, applicando queste norme ad alcune
persone ed etichettandole come outsider. Da questo punto di vista la
devianza non è una qualità dell’atto commesso dalla persona ma piuttosto
una conseguenza dell’applicazione di norme e sanzioni a un delinquente
da parte di altri. Il deviante è una persona alla quale l’etichettamento è
stato applicato con successo: il comportamento deviante è un
comportamento che viene etichettato come tale.
Il processo di consolidamento della devianza si realizza poi attraverso
una serie di eventi. Infatti, colui che è definito come deviante tende a
stabilizzare la sua condotta in una carriera deviante, il che comporta
l’assunzione di un ruolo deviante e conseguentemente anche il sentimento
della identità personale diviene quello di un Io deviante. La
stigmatizzazione fa dunque in modo che il soggetto che si è comportato
in un certo modo finisca per riconoscere se stesso nell’etichetta che gli è
stata posta e non tende più a modificare la condotta.
Viene inoltre distinta:
- la devianza primaria – che definisce una condotta deviante senza
che si mettano in moto reazioni sociali e psicologiche che
modifichino il ruolo e il sentimento della propria identità del
soggetto agente; questi, pertanto, non si vive come un deviante ed
ha ampie possibilità di rientrare nella conformità;
- la devianza secondaria – si realizza come effetto della reazione
sociale (stigmatizzazione e sanzione legale) e comporta peculiari
effetti psicologici sull’individuo che si percepisce come deviante,
sviluppa tutta una serie di atteggiamenti oppositivi che il suo ruolo
comporta, con conseguente fissazione in tale ruolo di deviante
ovvero di delinquente.
Dunque, si diviene devianti perché si è qualificati come tali e, quindi, deviante
colui al quale l’etichettamento è stato applicato con successo; viceversa, colui che
commette azioni criminose ma che non viene raggiunto dalla censura, non sarebbe
un deviante, con buona pace dei principi morali e della giustizia.
Critiche possono essere mosse a questa teoria:
59
1. la confusione fra devianza e criminalità - che sono spesso usate come
sinonimi;
2. questa teoria spiega la devianza non criminosa e la piccola delinquenza di
poco conto, la microcriminalità di strada ma non si presta affatto ad essere
applicata nei confronti della criminalità più grave in quanto i delinquenti di
questo tipo si auto-emarginano per loro scelta primaria e sono assolutamente
indifferenti alla stigmatizzazione;
3. questa teoria è deterministica in quanto la persona che ha subito lo stigma
sembrerebbe non potersi sottrarre ad un inevitabile destino delinquenziale;
4. questa teoria è deresponsabilizzante perché equiparando delinquenti e
devianti finisce per attenuare la colpevolezza dei primi che vengono a fruire
dell’atteggiamento più tollerante riservato ai secondi.
61
La sottocultura, per Matza è il luogo in cui il soggetto per sollevarsi da situazioni
angosciose, può accentuare inclinazioni che non sente.
La volontà di violare una norma è un processo molto complesso che nasce quando
alla preparazione (che consiste nell’apprendimento delle tecniche di
neutralizzazione) subentra un vero e proprio senso di disperazione dovuto al sentirsi
incapaci di dominare gli eventi e l’ambiente circostante: disperazione che a sua
volta si traduce in un generico desiderio di far accadere qualche cosa, pur di
convincere se stessi che si è ancora padroni della situazione.
Matza dunque spiega non solo la devianza primaria ma riconferisce uno spazio di
libertà al deviante stesso (e quindi una responsabilità), pur evidenziando i fattori che
tale libertà in parte limitano.
46 - Il Nuovo Realismo
Nella seconda metà degli anni ’80, la constatata inefficienza del regime comunista e
del centralismo economico ad assicurare condizioni di vita comparabili con quelle
dell’occidente, aveva provocato un mutamento radicale anche nella politica interna
dell’URSS con la richiesta di maggiori libertà democratiche (si pensi alla
perestrojka, e alla glasnost di Gorbaciov) per giungere infine al crollo nel 1989 del
muro di Berlino e alla dissoluzione dell’impero sovietico.
Gli stessi autori di ispirazione marxista che in Gran Bretagna erano stati i promotori
della New Deviance Conference e della criminologia critica, pur sempre rimanendo
su posizioni di sinistra, diedero avvio (Lea, Young, 1984) alla scuola del Nuovo
Realismo.
63
A circa dieci anni di distanza, l’impostazione viene completamente capovolta dal
punto di vista metodologico e da quello dei contenuti: da una riflessione
esclusivamente ideologica e teorica e di fronte alle esasperazioni di un approccio
che vedeva solo nelle sperequazioni sociali la causa della criminalità e che
intendeva il deviante esclusivamente come vittima, questi autori rivolgono la loro
attenzione all’osservazione empirica, particolarmente riguardo ai reati da strada
(street crimes) che avvengono nei quartieri popolari delle metropoli scoprendo così
che la delinquenza, studiata in precedenza in una prospettiva tutto sommato astratta,
è invece una realtà di fatto. I Nuovi Realisti, scoprono l’elevata vittimizzazione e la
richiesta di protezione propria dei meno abbienti e dei più indifesi, di conseguenza,
propongono ora programmi sociali miranti a ridurre la marginalizzazione, a offrire
alternative alla carcerazione, a promuovere esperimenti di riconciliazione tra reo e
vittima (nei casi meno gravi) e a creare una organizzazione nella comunità mirante a
cooperare con la polizia in vista della prevenzione dei reati nei quartieri. La
prevenzione, prima rifiutata, diviene ora un obiettivo primario, che dovrebbe essere
perseguito attraverso “progetti di sorveglianza di vicinato” formati da comitati di
zona di cui fanno parte anche privati cittadini, in una rivalutazione, quindi, dei
sistemi di controllo informali o semi-formali.
64
taluni crimini, di difesa sociale. Ciò che costituisce un atteggiamento
erroneo verso l’istituto della carcerazione è piuttosto il considerarla
come l’unica o la principale modalità di punizione, buona per ogni
tipo di persona e di reato. Corretto appare invece lo sforzo, ispirato
dal principio riduttivistico, di trovare sanzioni idonee a sostituire il
carcere con altri strumenti di punizione meno dolorosi per il reo e
meno costosi per l’economia pubblica.
b. Abolizionismo penale – il più noto esponente di questa corrente di
pensiero è il norvegese Christie che, partendo dal presupposto che “la
pena è dolore e occorre ridurre al minimo il bisogno cosciente di
infliggere sofferenza legale per esigenze di controllo sociale”,
propugna la soppressione non solo del carcere ma di ogni tipo di pena
e, conseguentemente, dell’intero sistema della giustizia penale. Le
correnti abolizionisti che si sono ispirate a Christie esordiscono col
ritenere l’inutilità di tale sistema, negandone la deterrenza e qualsiasi
altra finalità positiva. Siamo pertanto di fronte ad una estrema e
semplicistica generalizzazione di situazioni viceversa tra loro troppo
differenti. L’abolizionismo penale, oltre che di impossibile
realizzazione, comporta rischi di iniquità e aumento di sofferenze per
le vittime mentre del tutto inadeguate appaiono le soluzioni alternative
proposte dallo stesso autore della risoluzione in chiave privatistico-
risarcitoria fra autore e vittima del comportamento delittuoso e del
controllo disciplinare esercitato dalle comunità in quanto, tra l’altro,
rimarrebbero del tutto insoddisfatte le domande su cosa succederebbe
quando il patteggiamento fra le parti non fosse possibile o non fosse
voluto, quando non vi è vittima o quando il delitto è troppo grave.
65
Così, come conseguenza di queste critiche, si è andato articolando il filone di
pensiero penalistico e criminologico inteso a rivalutare i principi
retribuzionistici della Scuola Classica del diritto, le garanzie processuali, la
certezza della pena, secondo un modello chiamato appunto neo-classicismo o
neo-retributivismo. Negli USAS, questa inversione di tendenza si è tradotta
oltre che in una riduzione dell’impegno nelle misure alternative e nei
programmi di trattamento, anche in un inasprimento delle pene e
nell’introduzione di sanzioni rigidament prefissate. In luogo della pena
indeterminata, ha avuto incentivazione il sistema della incapacitazione
selettiva, fondato sulla difesa sociale e sulla mera deterrenza e mirante ad
aggravare le sanzioni nei confronti dei delinquenti recidivi e più pericolosi.
Un polo di nao-classicismo ha preso piede anche nei Paesi scandinavi dove,
del pari, è stato riabilitato l’ideale retributivo però come reazione alla crisi
del modello terapeutico.
Vediamo come tutte le citate tendenze neo-retribuzionistiche hanno in
comune un drastico e progressivo abbandono di qualsiasi individualizzazione
discrezionale delle risposte sanzionatorie per sviluppare un sistema penale
che stabilizzi e rassicuri la società attraverso una comminazione oggettiva
delle pene, vincolata a ben precisi criteri quantitativi.
48 – L’approccio economico-razionale
I mutamenti economici hanno prodotto grandi cambiamenti anche delle idee, delle
prospettive della gente e degli assi portanti ideologici; l’economia è divenuta una
componente importante ed essa si riflette sul pensiero intellettuale e sulla cultura..
E’ accaduto così che i fattori legati all’economia si sono fatti strada pure nel
pensiero ciminologico, dal quale in precedenza erano del tutto estranei. Si è così
affacciato negli ultimi anni un approccio ai problemi della criminalità del tutto
nuovo, che vede la condotta criminosa agita secondo principi razionali: secondo
cioè quegli stessi criteri che guidano le scelte economiche.
Una comprensione dell’approccio economico-razinale è possibile utilizzando il
contributo di Becker, economista americano e capostipite della sociology economy,
che già alla fine degli anni ’60 ha iniziato ad applicare le teorie economiche a settori
di ricerca usualmente non esplorati dagli economisti, quali la famiglia, l’educazione,
le discriminazioni razziali.
Secondo Becker, la causa del comportamento criminale non deve essere ricercata in
una propensione biologica o psicologica dell’individuo né in problemi legati al suo
ambiente fo a fattori sociali: semplicemente, alla base dell’agire criminale vi è una
forte componente di calcolo e una razionale analisi dei costi-benefici connessi alla
commissione del reato. Il delinquente calcola, valuta e soppesa i vantaggi e gli
svantaggi derivanti dalla commissione di un fatto illecito e, se i benefici attesi
risultano essere significativi e superiori ai costi e agli svantaggi, si determinerà a
delinquere. Egli non si differenzia pertanto da qualsiasi altro operatore economico.
Becker sintetizza il suo assunto nella formula 0 = (P, F, U): dove 0 è il numero dei
reati commessi da una persona in un determinato periodo; P la probabilità di essere
condannato per quel reato; F la sanzione per quel reato; U una variabile complessiva
66
di tutte le altre influenze. E’ dunque evidente che taluni cambiamenti della variabile
U (ad es.: aumento del reddito disponibile, aumento dell’educazione rispetto alla
legge) potrebbero ridurre gli incentivi ad entrare in attività illegali.
Secondo Becker
i costi del delitto possono distinguersi in:
• costi diretti - connessi alla organizzazione o alla esecuzione del reato;
• costi indiretti – collegati al rischio dell’essere individuati e condannati (tale
distinzione si rende necessaria perché l’individuazione e la condanna
rappresentano momenti diversi affidati ad istituzioni diverse che potrebbero
avere, di conseguenza, diverso grado di efficienza);
mentre i benefici connessi alla commissione del reato - posto che in alcuni casi
possono essere valutati, dal punto di vista economico, immediatamente mentre
in altri no – sono di difficile valutazione e sono legati anche al tipo di reato
commesso. Ad esempio, gli atti di vandalismo, apportano scarso beneficio dal
punto di vista economico ma un intenso senso di piacere e di soddisfazione.
Nella scelta se compiere o meno un delitto, abbiamo visto che operano altre
variabili ambientali, quali i profitti provenienti da attività illegali e la presenza di
valori etici provenienti dalla famiglia e dalla scuola. Così, un soggetto con un
lavoro stabile ed una buona condizione familiare e sociale considererà la violazione
di questi principi etici un costo elevatissimo da sostenere nella commissione di
reati: intervengono dunque nella criminogenesi anche fattori legati alla variabilità
psicologica e ambientale propria dei singoli individui.
Recentemente Becker ha affermato che per raggiungere buoni risultati nella lotta
contro i crimini, occorre una combinazione di tutte queste misure: leggi severe e
certe ma anche tutte quelle misure sociali come il miglioramento della qualità
dell’educazione e puntare sui valori della famiglia.
La critica che può essere portata a questo approccio è che si tratta di un punto di
vista teorico troppo astratto per essere applicato a tutte le condotte delittuose: esso
non può trovare applicazione per i delitti d’impeto o connessi a disturbi psichici.
D’altro canto un settore dove più brillantemente sono stati applicati questi principi è
quello delle attività corruttive e concessive dei colletti bianchi dal momento che
coloro che compiono reati di questo tipo non possono non aver fatto una
valutazione più o meno attenta delle conseguenze del proprio agire delittuoso e la
scelta di metterlo in atto è dovuta alla convinzione o al calcolo probabilistico che i
benefici che se ne potranno trarre supereranno i costi.
L’approccio economico-razionale fornisce dunque una nuova e realistica chiave di
lettura di moltissimi delitti: sia in primo luogo dei delitti compiuti per lucro ma
anche di condotte criminali violente sulle cose o sulle persone per le quali l’utile
perseguito non è economico ma semmai psicologico quale soddisfacimento di
pulsioni e desideri.
La visione che viene fornita da questa teoria è quella di una persona umana
responsabile che, prescindendo dalle motivazioni profonde come dai determinismi
sociali, è consapevole di quel che compie e delle scelte che effettua sia nell’ambito
67
delittuoso che in quello lecito . Ma anche se la condotta delittuosa è talora
irrazionale o addirittura autolesiva, essa è pur sempre attuata per conseguire un
utile, pecuniario o psicologico che esso sia.
69
CAPITOLO 3
PSICOLOGIA E CRIMINALITA’
70
Naturalmente, dobbiamo sempre tenere presente che questa distinzione tra fattori
sociali e fattori individuali risponde solo a ragioni di comodità espositiva perché
nella realtà il comportamento è frutto di una costante integrazione di condizioni
individuali e ambientali.
71
sia motivazioni profonde o inconsce. Sulla volontà si incentra tutta le
tematica della libertà, del libero arbitrio, della responsabilità, o all’opposto,
del determinismo.
72
scambi e influenzamenti così che essa non può considerarsi come data una volta
per tutte, immodificabile ed obbligata.
52. La psicoanalisi
Fra le teorie della personalità, la psicoanalisi può considerarsi la prima ad essersi
posta l’obiettivo di fornire un sistematico paradigma interpretativo della struttura
psicologica e dei meccanismi psicodinamici agenti nella persona umana. E,
sebbene i diretti contributi della psicoanalisi nel fornire una sua specifica teoria
criminologia sono stati assai modesti, ben più rilevante è stato il suo apporto
nell’aprire nuove vie per comprendere in generale la condotta umana e, quindi,
anche quella delittuosa
La psicoanalisi è venuta a far parte del patrimonio culturale italiano molto più tardi
che negli altri paesi perché (come anche la sociologia) fu osteggiata dal regime
fascista.
Da quando Sigmund Freud (1856-1939) pose le basi della sua dottrina sono molto
cambiati sia gli uomini sia il mondo e, di conseguenza, molte delle sue asserzioni
appaiono incompatibili con le più recenti acquisizioni scientifiche. Del resto, che la
73
psicoanalisi fosse una vera scienza è stato da sempre contestato perché le sue
asserzioni sfuggono alla possibilità della verifica sperimentale e perché non le è
applicabile il principio di falsificalbiltà di Karl Popper.
Due contributi della psicoanalisi sono rimasti comunque fondamentali
indipendentemente dal far proprie tutte le implicazioni che la teoria comporta; il
concetto di inconscio e quello di visione dinamica della psiche. Infatti, mentre in
precedenza la personalità era praticamente identificata con l’area della coscienza,
intesa come consapevolezza, la lezione psicoanalitica ha indicato come i pensieri, le
scelte e i bisogni coscienti dell’uomo siano collegati con forze psichiche profonde,
prima sconosciute: l’inconscio, appunto. Di conseguenza, una psicologia che si
limiti ad analizzare solamente ciò di cui si è consapevoli sarà per la psicoanalisi del
tutto incapace di comprendere i motivi veri e primari del comportamento umano.
Secondo Freud, si possono identificare nella personalità tre istanze fondamentali:
l’ES, l’Io e il Super-Io, da intendersi come tre livelli o momenti dell’attività
psichica e sebbene ognuna di queste componenti si a dotata di funzioni, proprietà e
dinamismi propri, la loro interazione è così intima da rendere difficile scinderne i
singoli effetti e valutarne separatamente le conseguenze sul comportamento umano.
- L’Es – è l’istanza posta all’origine della personalità, è il nucleo primitivo
e la matrice nel cui seno si differenziano successivamente l’Io e il Super-
io. Lo compongono tutti i fattori psicologici ereditari e presenti alla
nascita, compresi gli istinti e gli impulsi, le passioni, le idee e i sentimenti
rimossi. L’Es rappresenta inoltre il serbatoio dell’energia psichica nel
senso che l’Es, e in particolare gli istinti vitali fondamentali, costituiscono
la sorgente della forza dalla quale deriva ogni spinta ad agire. Tutto ciò
che è contenuto nell’Es ha la caratteristica di essere inconscio, perciò
l’uomo non è consapevole di quali siano le pulsioni e gli istinti collocati
nel suo profondo, che pure costituiscono il motore di ogni sua attività. In
una prima fase, Freud identificò nell’istinto sessuale la fonte primaria e
unica dell’energia (libido) e lo stimolo vitale da cui derivava ogni spinta:
la libido cioè non serviva solo a realizzare le pulsioni sessuali ma era
l’impulso per ogni tipo di azione. Tale visione era perciò monopolare in
quanto un solo istinto, quello sessuale, dominava e promuoveva il
comportamento. Freud in seguito cambiò questa prima versione ed
identificò nell’Es due istinti contrapposti (visione bipolare): l’uno è
l’istinto di vita (Eros) che contiene le cariche sessuali ma anche tutte le
pulsioni vitali e le spinte all’azione; l’altro è l’istinto di morte (Thanatos)
che mira invece a ricondurre verso l’inerzia, verso la quiete, verso
l’inattività da cuci l’uomo ha avuto origine con la nascita e a cui tende
con la morte a ritornare. In ogni caso, gli istinti per realizzarsi danno
origine a una carica interna che comporta aumento di energia: ciò si
traduce in stato di tensione. Quando la tensione dell’organismo aumenta
per l’azione degli stimoli pulsionali, l’Es opera in modo da scaricarla
immediatamente per riportare l’organismo al livello energetico di base. Il
superamento della tensione si realizza soddisfacendo con l’azione le
pulsioni istintuali: l’Es, che non tollera gli aumenti di tensione, agisce
pertanto stimolando l’uomo a dar soddisfazione immediata e diretta ai
74
propri istinti. Questo meccanismo di riduzione della tensione mediante il
soddisfacimento immediato delle pulsioni, da cui l’Es è governato, viene
denominato principio del piacere.
- L’Io – si sviluppa in conseguenza dei bisogni dell’individuo che
richiedono rapporti adeguati col mondo oggettivo della realtà, rapporti
che l’Es non è in grado di avere dato che conosce solo la realtà psichica
soggettiva, costituta dal suo mondo pulsionale. L’Io invece sa distinguere
i contenuti mentali dalla realtà del mondo esterno. Quindi, mentre l’Es
obbedisce al principio del piacere, l’Io opera in funzione del principio
della realtà: egli è in grado cioè di dilazionare il soddisfacimento delle
pulsioni fino a quando non siano a disposizione l’oggetto richiesto o le
opportunità situazionali idonee a ridurre la tensione. L’Io quindi agisce
nel reale organizzando l’azione in modo da consentire all’uomo di
soddisfare concretamente i bisogni mettendoli a confronto con le
possibilità offerte dal reale. Esame di realtà, si denomina appunto la
funzione dell’Io consistente nel valutare i dati oggettivi e nell’esaminarne
l’idoneità ai fini di soddisfare le pulsioni. L’Io rappresenta quindi la
componente esecutiva della personalità.
- Il Super-io – è il rappresentante interiore dei valori etici e delle norme
sociali; esso si va strutturando nel corso dell’infanzia, facendo propri,
mediante il meccanismo dell’identificazione, i contenuti etici e le regole
di comportamento dei genitori e poi delle altre persone con le quali si è
venuti a contatto. Il Super-io esercita la funzione di arbitro morale interno
della condotta, sia disapprovando i comportamenti contrari alle norme
sociale e facendo sentire l’uomo colpevole (funzione questa che viene
chiamata “coscienza”) sia approvandolo e facendolo sentire orgoglioso di
sé quando la sua condotta è conforme alle regole e adeguata a quell’ideale
di sé che ciascuno tende a perseguire secondo i modelli che genitori e
società impongono.
75
dell’Es e del Super-io, l’Io stesso vive una situazione di pericolo che porta
all’angoscia.
L’angoscia o ansia soggettivamente vissuta come disagio, sofferenza, timore,
è pertanto l’espressione di una non realizzata soluzione delle conflittualità fra
le istanze interiori, ovvero fra l’individuo e l’ambiente.
Freud distinse tre tipi di angoscia:
1. l’ansia reale – che è il timore di un pericolo insito nella realtà
oggettiva;
2. l’ansia sociale – cioè il timore della riprovazione degli altri per aver
commesso qualcosa di contrario alle norme che regolano la
convivenza;
3. l’ansia nevrotica – espressione del timore della severità del Super-io
quando gli istinti, sfuggendo al controllo, costringono la persona a
pensare, sentire, fare qualcosa (ma anche pensare o provare un
sentimento) per cui verrà riprovata appunto dal Super-io,
ingenerandosi così il senso di colpa. Questo tipo di ansia è la più
temibile perché la mancata armonizzazione fra pulsioni e coscienza,
fra richieste dell’istinto ed esigenze morali pone l’individuo in uno
stato di grave pericolo per il suo equilibrio interiore.
Normalmente l’Io è in grado di risolvere i contrasti fra le opposte istanze in
modo armonico utilizzando meccanismi razionali ma quando questi non
sono sufficienti, l’Io ha a disposizione altri particolari meccanismi psichici
che gli consentono di trovare ugualmente l’equilibrio: questi sono i
meccanismi di difesa dell’Io mediante i quali ci si difende dal pericolo della
nevrosi e della psicosi posto che questi stati morbosi si realizzano quando i
meccanismi di difesa falliscono.
I meccanismi di difesa sono molteplici:
1. la rimozione – consiste nel respingere dalla coscienza nell’inconscio qui
contenuti che provocano un allarme eccessivo. Tutte le pulsioni istintuali che
non possono essere accettate dal Super-io vengono rifiutate ma se esse non
trovano compensazione cagionano nell’inconscio una tensione da cui può
derivare una condizione di squilibrio;
2. la dislocazione – consiste nel fatto che una pulsione istintuale rivolta verso
un obiettivo e che sia respinta (dalla morale pubblica, dall’educazione o da
controcariche interne della coscienza) può essere deviata su altri oggetti o
altre mete. D’altro canto un oggetto sostitutivo non sempre riesce a ridurre
completamente la tensione originata dalla pulsione istintuale non soddisfatta
per cui si può accumulare un continua carico di tensione tanto più elevato
quanto più il Super-io è rigido, cioè inflessibile e rigoroso nel rifiutare certi
impulsi o quanto più la società pone norme costrittive al soddisfacimento
istintuale. Da ciò deriva l’insoddisfazione e l’irrequietezza.
76
3. la sublimazione – consiste in uno spostamento dell’energia istintuale per
conseguire le più elevate conquiste culturali o per raggiungere mete
altruistiche o morali
4. la proiezione – consiste nel disconoscere alcuni aspetti negativi della propria
personalità attribuendoli ad altri, così ottenendo il risultato di deviare sul
mondo esterno le conflittualità interiori. I processi di responsabilizzazione
comuni a tanti criminali (come in tutti quelli che “cercano scuse”) traggono
origine da questo meccanismo di difesa mediante il quale l’angoscia
derivante dalla riprovazione è attribuita al mondo esterno piuttosto che alle
minacce della coscienza. Tale meccanismo al di là della formulazione
freudiana, è di riscontro frequente nella forma di meccanismi di
neutralizzazione che, secondo Matza, vengono usati per autoassolversi.
5. la formazione reattiva – è un altro meccanismo di difesa che implica la
sostituzione nella coscienza di un impulso o sentimento che genera angoscia
col suo opposto (amore/odio). Un impiego in ambito criminologico di questo
meccanismo lo troviamo in Cohen a proposito delle sottoculture urbane dei
giovani delinquenti.
6. la fissazione e la regressione – la personalità di ogni individuo, per
raggiungere la maturità attraversa fasi successive di sviluppo affettivo-
emotivo, abbastanza ben definite (fase orale, fase anale, fase fallica, fase
genitale). Ogni nuovo passaggio comporta una certa quantità di frustrazione
e di angoscia: qualora queste divengono eccessive può realizzarsi un arresto
(fissazione) temporaneo o permanente in una certa fase dello sviluppo senza
che venga pertanto raggiunta la piena maturazione. Invece, le difficoltà
derivanti dall’incapacità di superare esperienze traumatiche possono
comportare il ritorno (regressione) a fasi anteriori e già superate dello
sviluppo (es. rifugio nell’alcolismo e nella droga può essere interpretato
come una regressione alla fase orale dello sviluppo)
7. l’identificazione – mediante questo processo una persona mira a rendersi
simile o ad assumere tratti psicologici caratteristici di un altro individuo che
viene eletto a proprio modello; si incorporano così nella propria personalità
contenuti psicologici e valori, norme comportamentali e principi morali
propri della persona eletta a proprio modello ideale. L’identificazione non si
realizza globalmente per tutte le caratteristiche di colui che è stato preso a
modello ma in modo selettivo, assumendo cioè via vai solo quei contenuti
psichici e quei valori che risultano più utili per ridurre la tensione.
L’identificazione è anche una fondamentale modalità di apprendimento e di
trasmissione nel tempo delle regole e dei valori della società dal momento
che anche i modelli di identificazione hanno a loro volta formato il loro
Super-io mediante l’identificazione con altri: si assicura così la continuità
nella cultura dei valori morali e delle regole sociali.
77
53 – Psicoanalisi e criminalità
La teoria psicoanalitica della personalità offre la possibilità di interpretare talune
modalità della condotta criminale. Si tratta dell’utilizza della chiave di lettura della
psicoanalisi anche per la identificazione di alcuni meccanismi della criminogenesi.
La visione dell’Io come istanza consapevole dell’uomo continuamente in bilico tra
le spinte dell’istinto e le controspinte del Super-Io ha accreditato una lettura
sostanzialmente deterministica della teoria psicoanalitica della personalità. L’Io cioè
non sarebbe altro che il passivo esecutore di istanze a lui estranee e nei confronti
delle quali, quindi, possiede ben poca autonomia: l’uomo pertanto non avrebbe
alcuno spazio di libertà rispetto alle proprie pulsioni istintuali e alla severità del
Super-Io quasi fossero altro da sé. Quindi la libertà di scelta e la responsabilità
scompaiono nel momento in cui l’individuo agisce solo spinto da forze che non può
controllare. Questa visione tanto rigida è stata però oggi superata da molti
psicoanalisti che considerano l’Io come dotato di maggior autonomia, non più
necessariamente succube dei desideri dell’Es e dei conflitti fra le diverse istanze ma
con possibilità di scelta perché provvisto di proprie energie.
Il più organico contributo psicoanalitico in ambito criminologico è quello di
Alexander e Staub (1929).
Secondo questi autori la condotta criminosa è l’effetto di molteplici modalità dello
svincolo dal controllo del Super-io. Essi identificano diverse condizioni nelle quali
il controllo dell’istanza superiore si riduce fino ad abolirsi completamente, secondo
il seguente schema:
1. la normalità (o integrazione sociale) – è rappresentata dal pieno controllo
del Super-io sul mondo pulsionale-istintuale: in tali condizioni vi è piena
conformità di condotta e rispetto delle regole;
2. la delinquenza fantasmatica – nella quale il controllo delle pulsionalità
antisociale è ancora pienamente efficiente sul comportamento tant’è vero che
l’individuo non delinque; esistono tuttavia istinti antisociali più pressanti che
il soggetto riesce comunque ad arginare mediante il processo della
dislocazione dell’antisocialità sul piano della semplice fantasia (ammirazione
per i personaggi devianti dei film);
3. la delinquenza colposa (condotta motivata da imprudenza, negligenza,
imperizia) – può essere interpretata col meccanismo della dislocazione delle
pulsioni aggressive: l’aggressività che il Super-io non consente che si realizzi
come tale, cioè come violenza volontaria, verrebbe estrinsecata attraverso
una condotta imprudente o negligente che provoca ugualmente danno alla
persona osteggiato o alle sue cose;
4. la delinquenza nevrotica – nella quale la condotta criminale rappresenta un
sintomo di una situazione conflittuale profonda. Il Super-io non ha
completamenti rinunziato al controllo dell’antisocialità e questi si realizza
unicamente per l’esistenza di profondi contrasti interiori che trovano una
possibilità di soluzione nella condotta deviante. Quest’ultima è dunque non
l’effetto di un progetto razionale e consapevole o di un ideale dell’Io di tipo
criminale ma una sorta di ripiego per eliminare la tensione delle conflittualità
78
interiori: la delittuosità nevrotica (piuttosto rara) non essendo completamente
accettata si accompagna pertanto a sensi di colpa (es. cleptomania).
5. delinquenza occasionale e affettiva – viene definita così quella delinquenza
che si attua appunto solo in circostanze eccezionali, particolarmente
favorevoli allo svincolo delle controspinte superiori (delitti per passionalità,
delitti scaturiti da violenti diverbi, in stato d’ira). Tale tipo di delinquenza per
gli autori è anche quella commessa quando vi sia un’ampia probabilità di non
essere scoperti oppure quando un oggetto desiderato è offerto in modo
suggestivo (furti nei grandi magazzini).
6. Delinquenza normale – rappresenta l’ultimo stadio, dove il controllo del
Super-io cessa completamente e l’Io può realizzare senza ostacoli le pulsioni
aggressive e antisociali: non essendovi più controllo superegoico il
delinquente non si sentirà in colpa per la sua condotta.
Da quanto abbiamo appena considerato, appare chiaro come l’adeguamento alla
vita sociale è da vedersi essenzialmente in funzione dell’efficienza del Super-io.
Il Super-io può essere:
1. anomalo - essendo strutturato come Super-io criminale gli ideali dell’io
sono strutturati in modo antisociale e il soggetto adegua la sua condotta
che diviene pertanto criminale;
2. debole - e non costituire una guida sufficientemente costante e valida per
la condotta: ciò si realizza quando vi siano stati fattori desiducativi
ambientali, difetti dei processi di identificazione, inadeguatezza della
famiglia o mancanza di modelli;
3. del tutto assente - si realizza in tal modo un inadeguamento globale alla
vita sociale.
Concludendo, per Alexander e Staub, si possono distinguere due tipi
fondamentali di delinquenza:
o la delinquenza accidentale – nella quale sono assenti tratti psicologici
devianti delle personalità e la delittuosità può realizzarsi con delitti
colposi o con delitti occasionali correlati a situazioni eccezionali che
inattivano il Super-io in stati di particolare pregnanza emotiva o per
occasioni particolarmente favorevoli o allettanti;
o la delinquenza cronica – che rappresenta la propensione al delitto
dovuta alla struttura stessa della personalità: essa può dipendere dal fatto
che l’Io è fragile o compromesso (per fatti tossici, per difetto
d’intelligenza) o perché esiste una condizione nevrotica perché il Super-
io è strutturato in modo anomalo e il delitto è coerente con l’anomala
struttura dell’istanza superiore o infine perché il Super-io è assente e
quindi la condotta dell’individuo è in balia degli istinti.
Importanti contributi di matrice psicoanalitica sono stati utilizzati al fine di
comprendere la criminogenesi (il perché del comportamento criminoso) e la
criminodinamica (il come). In base a questi studi si potrà comprendere, per
esempio, quanto l’armonica struttura dell’istanza superiore possa essere
79
compromessa dai disturbi nel rapporto con le figure parentali. Il processo
di identificazione con le figure dei genitori rappresenta infatti il primo nucleo
attorno al quale si formerà il Super-io, e disturbi in questa fase si
ripercuoteranno sulla definitiva struttura della personalità. Assenza o
lontananza dei genitori, genitori iperoccupati, autoritari, troppo deboli,
iperprotettivi, indifferenti, sono stati indicati come causa di disturbo nella
formazione del Super-io così da favorire la condotta criminosa. Inoltre,
l’identificazione con figure parentali antisociali può concorrere alla
formazione di un Super-io criminale.
E’ stata identificata anche una delinquenza per senso di colpa: alcuni
soggetti agirebbero cioè in modo criminoso unicamente per essere poi puniti,
e soddisfare, così, senza rendersene conto, un bisogno inconscio di
espiazione di stampo nevrotico.
In certe situazione, poi, i comportamenti criminali sono stati interpretati
come originati dalla fissazione alla fase del principio del piacere: la
delinquenza, in questo caso, esprimerebbe un modo di dar soddisfacimento
diretto alle pulsioni. Le frustrazioni ambientali e familiari, la marginalità, le
sconfitte, l’assenza di ragionevoli prospettive di successo sociale, sono
tipiche situazioni che ostacolano il processo di maturazione verso la fase
governata dal principio di realtà, favorendo la fissazione o la regressione a
modalità più immature di condotta.
Questa, come altre interpretazioni psicodinamiche, comportano il rischio di
fornire una lettura della condotta criminosa che finisce per essere
deresponsabilizzativi perchè il delinquente viene percepito come se fosse
costretto a delinquere da forze da lui non governabili. Il tanto deprecato
determinismo della psicanalisi consiste proprio nel fatto che vendono da
taluni ignorate, nel gioco delle dinamiche psicologiche, le componenti
volontarie e morali che sono pur sempre alla base delle scelte
comportamentali.
80
frustrazione che inevitabilmente comporta la convivenza sociale. Quanto più
bassa è la tolleranza alla frustrazione di un soggetto tanto più facilmente egli
sarà indotto a reagire con aggressività o con impulsività, alla frustrazione
stessa. Ad analoga situazione si ricollega anche il meccanismo della difesa
dalla frustrazione mediante l’identificazione del frustrato nel frustratore: il
soggetto che ha subito ripetute frustrazioni può eleggere come propri modelli
di identificazione, figure per lui altamente frustranti divenendo pertanto egli
stesso, con l’adeguarsi ai modelli, un soggetto frustratore.
L’incapacità di identificarsi col prossimo caratterizza, secondo Musatti,
molti degli autori di reati contro la persona; fa in loro difetto quella qualità
comune invece nelle altre persone, per la quale normalmente si condivide il
dolore e la pena altrui come se fossero nostri, qualità che consente pertanto di
controllare la violenza. In quest’ottica, Musatti classifica le condotte
criminose violente in questo modo:
1. condotte dovute a deficienza globale di identificazione con
l’oggetto dell’impulso aggressivo – come accade per esempio nella
legittima difesa;
2. condotte dovute a processi di identificazione soltanto parziale – in
base al fatto che determinati valori morali non sono fortemente
avvertiti come veri e propri valori (è il caso delle sottoculture violente
o delle bande giovanili di tipo distruttivo);
3. condotte dovute a processi di identificazione particolari –
attraverso i quali la passività alla violenza si converte in attività (è il
caso della identificazione del frustrato nella figura del frustratore)
Al meccanismo di difesa della proiezione è da attribuirsi l’atteggiamento di
deresponsabilizzazione riscontrabile in tanti criminali. Proiettando su altri
(famiglia, società) la responsabilità della propria condotta criminosa, ci si
sente anziché colpevoli piuttosto delle vittime, ci si libera dal senso di colpa
e si mette il prossimo (costà, giudici, operatori penitenziari) nella posizione
di chi infierisce su un innocente.
L’incapacità di sublimazione della libido, cioè l’incapacità di indirizzare la
pulsionalità verso mete socialmente accettate anziché su oggetti proibiti,
rende conto di comportamenti delinquenziali primitivi, immediati e miranti a
soddisfare i bisogni e le pulsioni nelle modalità più rozze.
81
54 – La psicologia analitica di Jung
La teoria analitica di Jung (1875-1961) fornisce una visione dell’uomo
diversa da quella psicoanalitica freudiana dalla quale deriva e propone
concetti importanti per la comprensione della condotta deviante.
Jung ha distinto, oltre all’inconscio nel senso inteso dalla psicoanalisi
classica, un inconscio collettivo, che trascende l’individuo e costituisce
l’istanza psichica più potente e di maggior influenza.
Mentre Freud vede le origini della personalità nell’infanzia, Jung risale ben
più addietro, cosicchè l’uomo è inteso come dotato di predisposizioni
trasmessegli fin dai suoi più lontani antenati.
Mentre la psicoanalisi freudiana attribuisce agli antecedenti (gli istinti, i
conflitti, i meccanismi di difesa, ecc.) un significato e un valore di causa
determinante del comportamento presente, Jung considera
contemporaneamente, assieme agli elementi sedimentati dal passato che
agiscono in lui inconsciamente, perciò al di fuori del suo consapevole
controllo, anche la dimensione dell’individuo proiettato verso il futuro a
conseguire conformemente alla sua volontà gli obiettivi che si prefigge.
L’istanza fondamentale è rappresentata dal Sé, che costituisce il punto
centrale della personalità, e alle cui unità, stabilità ed equilibrio mira
costantemente l’individuo. L’uomo, pertanto, non agisce solo spinta dagli
istinti e dall’inconscio ma anche perché organizza la propria vita per
raggiungere le sue finalità e aspirazioni.
Concetto fondamentale della psicologia analitica è il concetto di conflitto
psichico da intendersi come l’urto fra forze, pulsioni, controspinte insite
nella psiche dell’individuo.
Con il termine di frustrazione, si indica invece quella condizione di disagio
psicologico che insorge quando taluni bisogni o aspirazioni non possono
essere soddisfatti a causa di ostacoli esterni ed anche ciò provoca, come nel
conflitto psichico, uno stato di tensione particolarmente spiacevole.
Dinanzi alla tensione, si possono realizzare modalità comportamentali di
differente polarità:
1. l’atteggiamento estroverso o alloplastico – che orienta l’individuo
verso il mondo oggettivo della realtà esterna, è caratteristico di coloro
che risolvono la tensione con l’azione, che tendono cioè a rispondere
alla frustrazione o al conflitto psichico agendo verso l’esterno, sulla
realtà, proiettando eventualmente sull’ambiente i loro problemi con
una condotta abnorme. Non si ha in tal caso la prevalenza di
sofferenza interiore e si parla in questo caso di una modalità di essere
di tipo ego-sintonico, perché l’individuo è in accordo con se stesso, si
sente nel giusto, e la sofferenza causata dalla sua condotta si riversa
sugli altri e sull’ambiente. In questo caso, la proiezione dei conflitti
sull’ambiente può portare a commettere più facilmente delitti.
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2. l’atteggiamento introverso o autoplastico – che indirizza l’attività
psichica prevalentemente verso il proprio mondo soggettivo, è tipico
di quegli individui che risolvono ed esauriscono la tensione all’interno
della propria psiche, con sofferenza, disagio, ansia. Questa modalità di
reagire è pertanto di tipo ego-distonico, poiché l’individuo è
interiormente combattuto e in disaccordo con se stesso. In questo
caso, le condotte antigiuridiche saranno più rare perché la risposta alla
tensione non si risolve in azione nella realtà.
83
sentimento, a sua volta, è il punto di partenza che stimola l’individuo verso il
conseguimento di livelli di aspirazione più alti.
In condizioni particolari (iperprotezione, carenza affettiva familiare, innata
disposizione) il sentimento d’inferiorità può essere talmente accentuato da
provocare manifestazioni anomale tanto da sviluppare un complesso di
inferiorità (a sua volta responsabile di atteggiamenti o condotte anomale per
la consapevolezza della propria inefficienza) ovvero una condizione opposta
di ipercompensazione altrettanto disturbante (complesso di superiorità).
Volontà di potenza, complesso di inferiorità, complesso di superiorità sono
processi psicologici che non infrequentemente possono ravvisarsi nella
criminogenesi di taluni soggetti.
84
propria persona e ai fini e ai mezzi che devono informare il suo inserirsi
nel mondo.
2) Quello di ruolo – che si riferisce alle aspettative che nella società si
formano nei confronti di ciascun individuo in conseguenza della
posizione specifica che egli occupa nella società o delle funzioni che
svolge nei gruppi sociali.
Ai problemi della formazione delle disarmonie della identità personale è
dedicata buona parte del pensiero di Erikson (1963) che intende il
sentimento della propria identità come l’organizzazione di un’immagine
coerente, omogenea, continua e stabile dell’essenza della propria personalità.
La formazione dell’identità si realizza:
- attraverso l’identificazione con successivi modelli significativi;
- attraverso i ruoli via via proposti e assunti.
Questo iter ha il suo culmine formativo durante l’adolescenza. In questa fase
e anche successivamente, un rapporto disarmonico con la famiglia o coni vari
gruppi di appartenenza può portare a una disturbata strutturazione della
identità personale, visto che questa è fortemente influenzata
dall’atteggiamento degli altri.
Se per questa cattiva organizzazione della identità, o per qualsiasi altro
motivo, si verifica qualche iniziale comportamento deviante o delinquenziali,
si risvegliano nel prossimo aspettative negative nei confronti di tali soggetti:
ciò finisce con l’alterare l’identità personale sicchè l’attore realizza poi
stabilmente con la condotta deviante o criminosa il giudizio negativo
anticipato nei suoi confronti (profezia che si autoadempie).
La società, i gruppi, la famiglia continuamente confermano pertanto il
sentimento dell’identità personale con i giudizi, le valutazioni, le
gratificazioni, le frustrazioni. Ma in talune condizioni la società provoca una
serie di degradazioni e mortificazioni che possono alle volte condurre a una
immagine di sé valorizzata, che si denomina identità negativa. In questi casi
l’individuo riconosce se stesso come persona con valori socialmente negativi
perché i gruppi sociali gli hanno attribuito questa qualità (è lo stesso processo
dell’etichettamento). Il giudizio squalificato che un gruppo formula verso un
individuo fa sì che quest’ultimo sia facilitato ad adeguarsi a tale ruolo
negativo, assumendo una identità a esso conforme, e adottando quindi una
condotta stabilmente deviante.
Quindi, l’atteggiamento del prossimo e i giudizi istituzionali, riflettendosi sul
sentimento della propria identità possono (nel senso che favoriscono) tradursi
in fattori di decisivo influenzamento comportamentale ma non
necessariamente comportano un destino comportamentale delinquenziale.
La formazione della propria identità è influenzata oltre che dal giudizio degli
altri anche dalla posizione che ciascuno occupa nella società e dalle funzioni
che vengono svolte in coerenza alla posizione occupata. La posizione di ogni
individuo nella società, o status, costituisce un sistema relazionale che
85
caratterizza ogni persona in base a una serie di diritti e di doveri che regolano
i suoi rapporti di interazione con persone di altro status.
In tutte le società esiste un certo numero di status, tanto più elevato quanto
più la società è complessa tanto da formare un vero e proprio sistema nel
quale ciascuno occupa contemporaneamente più posizioni. Taluni di questi
status sono ascritti in funzione di ciò che una persona è (per l’età, per il
sesso, per la razza) mentre altri sono acquisiti in base a ciò che uno può fare
e divenire a partire dalla posizione sociale.
Ciò che in criminologia è importante è il fatto che in ogni tipo di società ogni
status è legato a norme che ne regolano i rapporti con gli altri, e ad
aspettative circa l’osservanza dei compiti spettanti a chi occupa quello status:
questo è quello che si intende per ruolo. Questo concetto si riferisce dunque
alle attese che esistono nella società nei confronti di chi occupa una
determinata posizione ma in questo concetto è insita la consapevolezza
nutrita da chi occupa quel ruolo su ciò che gli altri si attendono da lui: ciò si
riflette sull’identità personale, per cui ciascuno finisce per avere un
sentimento di sé coerente e conforme al proprio ruolo. Se esiste un ruolo
prescritto (allo studente è prescritto di apprendere, all’insegnante di fornire
nozioni e cultura, ecc.) esistono anche un ruolo soggettivo (la professione è
pur sempre una decisione personale così come quella di fare il delinquente) e
un ruolo svolto (divenire un insegnante impegnato o uno studente svogliato)
che sono liberamente scelti dai soggetti anche se condizioni ambientali e
varie circostanze possono favorire l’uno piuttosto che l’altro.
Significativo, in senso criminogenetico, è l’occupare un ruolo negativo. Una
serie di status squalificati (per ceto, posizione economica, regione di nascita,
razza, immigrazione, ecc.) facilitano l’assunzione di ruoli altrettanto
squalificati che favoriscono la scelta comportamentale delinquenziale.
Erving Goffman (1961) ha particolarmente sottolineato l’influenza sul
sentimento di identità e sulla stabilizzazione in ruoli negativi dell’essere
inseriti negli istituti correzionali, nelle carceri, nei manicomi, negli istituti
rieducativi e in tutte quelle istituzioni che egli chiamò istituzioni totali
perché coinvolgono globalmente l’individuo, deformandone la personalità e
limitandone le prospettive. All’individuo inserito nell’istituzione totale
veniva prospettata come più reale e più probabile l’identificazione in truoli
squalificati; egli era sentito come ridotto ad una condizione di passività che
gli frustrava l’aspirazione ad assumere o riassumere ruoli socialmente
accettabili, che gli sarebbero apparsi irraggiungibili con i propri mezzi;
avrebbe finito pertanto con l’accogliere, quale propria identità, quei modelli
negativi che l’istituzione gli proponeva e gli suggeriva, andando così a
occupare stabilmente ruoli altrettanto negativi. Le istituzioni totali ed i ruoli
negativi che in esse più facilmente si assumono svolgerebbero dunque una
parte di rilievo nell’aggravare le difficoltà di reinserimento e nel favorire la
cronicizzazione in carriere criminali persistenti. Queste considerazioni hanno
fortemente influenzato importanti scelte di politica sociale come l’abolizione
dei manicomi, la tendenza a non rinchiudere i giovani delinquenti in istituti
correzionali, la tendenza a far sempre minore ricorso al carcere.
86
Queste interpretazioni psicosociali devono, in conclusione, favorire la
comprensione dei meccanismi agenti nei rapporti fra gli uomini ma non
devono tradursi in atteggiamenti che siano delle complete
deresponsabilizzazioni nei confronti della condotta dei singoli attori né
devono sfociare nella troppo meccanicistica visione di destini inevitabili o di
colpe unicamente attribuibili alla società, senza che l’uomo sia più percepito
come libero e responsabile e perciò chiamato a rispondere del bene o del
male che ha compiuto.
87
- Il concetto di marginalità – Marginalità indica una condizione statica o
uno status cioè la condizione di taluni individui che “si trovano ai margini
della società”. Marginali sono quegli status sociali che provocano, per
persone o gruppi, il “vivere in condizioni diverse e solitamente peggiori
di quelle della società nel suo complesso; la marginalità comporta
riduzione delle aspettative di affermazione sociale, minore responsabilità
sociale, minore partecipazione alla vita e alle decisioni collettive”. Il
fenomeno della marginalità si osserva nei confronti di certi status
collettivi, i giovani, i vecchi, le donne, gli handicappati, le persone di
colore, gli extracomunitari. La marginalità è operata verso coloro che,
nella logica dell’ideologia del profitto, non solo produttivi o hanno
perduto la capacità di produrre beni economici: gli inetti, i pensionati, i
disoccupati La marginalità è anche la posizione nella società di certi
malati cronici e specialmente dei sofferenti di AIDS e dei malati di
mente. Infine, divengono marginali i devianti e i delinquenti. Ma mentre i
devianti o i delinquenti si vengono a trovare ai margini della società a
causa della loro condotta disapprovata, gli altri si trovano ai margini della
società per un pregiudizio aprioristico in funzione del sesso, dell’età, del
luogo di nascita ma non per colpa della loro condotta. Vi sono dunque dei
marginali per il solo fatto di essere quello che sono e marginali per quel
che hanno fatto: in altri termini, vi sono marginali per loro colpa e
marginali senza colpa.
- Il concetto di emarginazione – L’emarginazione invece è un concetto
dinamico che viene messo in atto dai singoli e dai gruppi nei confronti di
taluni soggetti che si tende a escludere dagli abituali rapporti.
L’emarginazione è il ridurre le prospettive, è il togliere la responsabilità,
è il nutrire aspettative negative rispetto a taluni soggetti a causa della loro
condotta riprovata: essi divengono perciò marginali per colpa della loro
condotta. Il deviante e il criminale sono collocati in una posizione di
marginalità per effetto della emarginazione agita nei loro confronti:
costoro vengono esclusi a cagione del loro comportamento delittuoso o
disapprovato dalla posizione che occupavano. Donne, vecchi, gli invalidi,
la gente di colore sono in condizioni di marginalità ma non vengono
emarginati per la loro condotta ma lo sono perché occupano, in definitiva,
nella società, status più o meno squalificati.
88
realtà fenomenica, espressione della intenzionalità del soggetto del suo “agire nel
mondo”. Così, l’atto criminoso, secondo questa prospettiva, viene assunto come
rivelatore di un modo di essere che, seppure si ponga violentemente di traverso nei
riguardi degli aspetti etici e normativi del vivere in società, rappresenta pur tuttavia
anche’sso una estrema possibilità espressiva dell’umano.
La teoria del campo di Lewin ha derivato i propri assunti dal concetto di campo di
forze elettromagnetiche tratto dalla fisica: ogni elemento all’interno si un sistema,
detto campo, influenza tutti gli altri elementi e ne viene a sua volta influenzato. In
psicologia ciò significa che l’individuo è costantemente influenzato dall’ambiente, e
non può quindi essere studiato isolatamente da esso, posizione del resto condivisa
da tutta la psicologia sociale. Balloni (1984) ha esteso alla criminologia i concetti
espressi da Lewin considerando “campo” la persona, l’ambiente a lui più vicino
(cioè il suo spazio di vita) e l’ambiente nel senso più ampio. La combinazione di
questi elementi può formularsi come una legge fisica in cui il comportamento, in
questo caso criminoso, è in funzione della persona e dell’ambiente.
La teoria dei sistemi, invece di considerare un fatto o una condotta come effetto
necessario di una causa data (causalità lineare) cerca piuttosto di analizzare le
reciproche influenze tra i fenomeni: relativamente al comportamento umano,
analizza il processo attraverso il quale, in un rapporto interpersonale, la condotta di
un soggetto influenza quella degli altri, cioè la loro risposta, e come di nuovo questa
risposta ha effetto sul comportamento del primo agente (“causalità circolare”).
Questo modello è mutuato dalla cibernetica che sostituisce allo schema delle
scienze classiche della causalità lineare (da A a B) un altro schema in cui per un
fenomeno detto di retroazione o feedback, ognuna delle parti di un sistema influisce
sull’altra (da A a B e da B ad A): essendo ogni parte contemporaneamente causa ed
effetto, la distinzione medesima fra questi due termini perde di significato. Centrale
i questa prospettiva è il concetto di sistema che comprende oltre agli attori o agli
oggetti di un fenomeno osservato anche le relazioni tra di essi, costituendo quindi
una complessità organizzata diversa dalla mera somma delle sue parti.
Relativamente alla criminologia, lo schema interpretativo della teoria dei sistemi è
stato applicato soprattutto nello studio dei rapporti tra reo e vittima, ritenendosi che
talora l’atto aggressivo può essere considerato come il risultato di una serie di
comunicazioni, risposte ed effetti di feedback in cui appunto non sempre è possibile
sceverare con chiarezza tra l’aggressore, la vittima ignara ovvero quella
provocatrice e a sua volta aggressiva.
Una serie di studi sulla comunicazione (Haley, 1963) derivano direttamente dalla
teoria dei sistemi. Il presupposto da cui essi partono è che esiste anche una
comunicazione di messaggi non verbali, quella appunto attuata coi genti, con la
mimica, con la postura, insomma, con l’atteggiamento. Inoltre, anche la
comunicazione fatto con le parole può assumere un significato contrario al suo
significato letterale. Inoltre, anche la comunicazione fatta con le parole può
assumere un significato contrario al suo significato letterale, poiché il tono della
89
voce, unito alle comunicazioni non verbali può comportare un messaggio di
significato opposto a quello palese. Pertanto, sia l’agire che non l’agire, sia l’attività
che l’inattività, parole o silenzi, hanno tutti valore di messaggio. Data la difficoltà o
l’impossibilità di inviare messaggi comportamentali privi di significato, l’unico
modo di segnalare la negazione di un comportamento o la non volontà di agirlo è
quella di mostrare e proporre l’azione che si vuol negare e poi di non portarla a
termine: da ciò la possibilità di leggere certi comportamenti violenti come disperato
e fallito tentativo di mostrare le proprie intenzioni non violente.
59 - Il comportamentismo
I comportamentismo (o psicologia dello stimolo-risposta) è una scuola psicologica
che si differenzia da tutte quelle fino ad ora considerate perché fornisce una teoria
della personalità maggiormente legata alle metodologie empiriche delle scienze
naturali. Pertanto, ad esso non possono essere avanzate quelle riserva di non
scientificità che sono state rivolte alla psicoanalisi dato che i suoi principi sono
essenzialmente il frutto della sperimentazione e della osservazione empirica.
Il behaviorismo si limita ad osservare come l’uomo reagisce agli stimoli provenienti
dall’ambiente, partendo dal principio che non può impiegarsi la introspezione per
comprendere la condotta umana perché tutto ciò che avviene nell’intimo della
persona non può essere conosciuto ed è al più solo intuibile o ipotizzabile: quanto
può conoscersi con obiettiva certezza dell’uomo è solo il suo comportamento che è
visibile e verificabile anche sperimentalmente. Da questa premessa, subito emerge
la profonda differenza con le altre teorie della personalità che, secondo diversi
modelli, mirano a spiegare e a comprendere le ragioni e i meccanismi psicologici
che sottendono al comportamento umano: per il behaviorismo la psicologia si deve
limitare allo studio del comportamento.
Questa teoria nasce negli Stati Uniti dal caposcuola J.B. Watson (1914). Secondo
Watson, della struttura della persona può essere conosciuto solo il sistema delle
risposte ai molteplici stimoli e sollecitazioni che l’ambiente pone a ciascuna
persona. Può solo studiarsi, in altri termini, come l’individuo reagisce al suo
ambiente, prescindendo da ogni analisi di ciò che avviene dentro di lui.
Da questi presupposti la psicologia comportamentista è giunta d un altro suo
fondamentale contenuto: la condotta umana può essere indirizzata a seconda di
90
come l’ambiente, con i suoi diversi stimoli, contrasta o ricompensa o rafforza il
comportamento. L’uomo, cioè, non è libero nella sua condotta ma ne è guidato dalle
condizioni ambientali secondo il meccanismo dello stimolo → risposta: pertanto,
modificando l’ambiente può indirizzarsi il comportamento nel senso voluto.
Sarebbe inutile pertanto invocare tendenze innate, eredità o variabili psicologiche e
biologiche individuali: esiste invece un’elevata regolarità nelle risposte per cui, in
circostanze analoghe, la maggior parte degli individui reagisce agli stimoli esterni in
ugual modo. Le risposte mutano in modo statisticamente significativo non tanto per
le variabili dei singoli individui quanto col mutare delle condizioni esterne in
funzione degli stimoli cui gli individui stessi sono sottoposti.
La psicologia comportamentistica, e soprattutto quella di Skinner (1953) ha
profondamente influenzato anche il pensiero sociologico, fornendo un sistema
interpretativo della personalità umana rigidamente deterministico, secondo il quale
date certe condizioni, verrebbero lasciati strettissimi margini di libertà alla scelta
comportamentale dei singoli.
Secondo Skinner la psicologia deve studiare quali sono i rinforzi che tendono a
indirizzare il comportamento e come applicarli più efficacemente. Vi possono
essere rinforzi positivi (gratificazioni) ovvero rinforzi negativi (frustrazioni) che
sono rappresentati da tutti quegli eventi capaci statisticamente di influenzare la
comparsa delle risposte volute. Una corretta utilizzazione dei rinforzi avrà come
risultato di far sì che le persone indirizzino stabilmente la loro condotta in un certo
senso: da qui la visione utopica di una società ideale ove con una preordinata
applicazione di stimoli e di rinforzi adeguati, potranno essere eliminate tutte le
anomalie comportamentali.
La visone behavioristica è dunque quella dell’uomo determinato e condizionato
dalla situazioni ambientali e dalle modificazioni e dalle manipolazioni degli stimoli,
dunque privo di sostanziali alternative e le cui scelte, apparentemente libere, sono
invece semplici deviazioni nell’ambito di un indirizzo prefissato dalla struttura
sociale o dalla cultura del suo momento.
Dal punto di vista criminologico il comportamentismo è stato utilizzato per
identificare quali siano gli stimoli e i rinforzi che, provenendo dall’ambiente,
portano alla condotta criminosa.
I principi della psicologia behavioristica sono stati anche utilizzati in una specifica
prospettiva criminologia nella teoria della frustrazione-aggressione di Dollard
(1939) secondo cui l’emergere di un comportamento aggressivo presupporrebbe
sempre l’esistenza di una frustrazione (lo stimolo) ed esso porterebbe sempre a
qualche forma di aggressione (la risposta). Quanto più perciò una società pone mete
complesse tanto più facilmente diverrà arduo il conseguirle e si realizzeranno molte
più occasioni di vivere situazioni frustranti. L’aumento di aggressività, e più in
generale di criminalità, nella società moderna sarebbe pertanto la conseguenza di
sempre maggiori occasioni frustranti per l’eccesso di stimoli a conseguire mete
sempre più alte. E’ chiaro a questo punto il richiamo alla teoria dell’anomia di
Merton.
91
L’impedimento temporaneo o definitivo al raggiungimento di un intento può essere
perciò una delle cause della condotta criminosa. Pertanto, anche la delinquenza è
intesa come reazione comportamentale alla frustrazione.
Va sottolineato che il meccanismo dello stimolo → risposta ha un valore solo
statistico nel senso che somministrato un certo stimolo la risposta voluta è
prevedibilmente ottenibile solo in una percentuale significativa di soggetti ma non
in tutti coloro che hanno ricevuto quello stimolo. Vi è sempre una quota di persone
che si comporteranno in modo diverso. Gli uomini, infatti, non sono tutti uguali e
ciascuno conserva pur sempre un suo spazio di libertà di scelta e questo spazio
rimane comunque quali che siano i rinforzi che vengono effettuati.
Le critiche che possiamo rivolgere alla teoria della frustrazione/aggressione sono:
o non tutte le condotte delittuose possono intendersi come atti
aggressivi anche in senso lato;
o non tutte le condotte aggressive hanno la loro origine nelle
frustrazioni e non tutte le frustrazioni provocano aggressività – il
diverso livello di tolleranza alla frustrazione gioca infatti un ruolo
molto importante nel provocare tipi diversi di riposte così come lo
giocano la qualità, l’intensità e la frequenza delle frustrazioni.
o La frustrazione può dar luogo all’aggressione ma, a seconda delle
circostanze e delle persone, può causare anche la fuga o la
rinunzia.
o La frustrazione è una componente ineliminabile della vita umana e
l’idea che si possa vivere senza è illusoria: non solo essa può
essere stimolante ma evitare qualsiasi occasione di frustrazione
(come nel caso di una educazione troppo permissiva) impedisce la
strutturazione di personalità forti e mature.
93
CAPITOLO 4
BIOLOGIA E CRIMINALITA’
61 – L’approccio naturalistico
Come approccio naturalistico, si considera un campo di indagine che pur senza
ritenere le condotte criminose come unicamente riconducibili a cause organiche,
riserva particolare attenzione a certi fattori quali gli istinti, l’ereditarietà e le
predisposizioni all’aggressività, che rientrano nell’abito dell’indagine delle scienze
biologiche e mediche.
Questo filone della criminologia è visto frequentemente in antitesi a quello
sociologico e psicologico ma va ricordato che è da evitarsi la visione dicotomica
corpo-mente e che lo studio della condotta criminosa deve condursi nella
prospettiva più ampia possibile, mirando a integrare le conoscenze da qualsiasi
settore dello scibile esse provengano.
L’approccio naturalistico può essere dunque limitativo solo se inteso come unica
fonte di conoscenza con la pretesa di considerare l’uomo come struttura
esclusivamente biologica avulsa dal suo ambiente sociale.
Lo studio del crimine secondo l’approccio naturalistico, può essere affrontato
secondo diverse prospettive, quindi, possiamo distinguere:
a. teorie della predisposizione – per “predisposizione” si intende
l’aumentata suscettibilità di un individuo ad ammalarsi. Il trasferire
questo termine alla criminologia può comportare il rischio di
considerare la delinquenza come una sorta di malattia mentre, invece,
bisogna ben guardarsi dal cadere nell’errore di associare malattia e
criminalità. Possono inoltre ricondursi alla predisposizione biologica
solamente alcune caratteristiche psichiche o certe strutture di
personalità che possono facilitare talune condotte delittuose ma senza
che esista alcun diretto rapporto fra tali aspetti psichici e la
criminalità. Gli approcci relativi alle predisposizioni biologiche
consentono semplicemente di evidenziare taluni elementi facilitanti le
scelte delinquenziali: questa agevolazione è connessa alla esistenza di
alcune condizioni psichiche “a rischio” biologicamente determinate
nel senso che esse sono collocate nel novero dei fattori di
vulnerabilità individuale.
b. Teorie degli istinti – secondo le quali il comportamento
delinquenziale (certi tipi di delinquenza particolarmente violenta)
deriverebbero dal prevalere di pulsioni istintuali aggressive o
predatorie. Queste teorie, cadute in discredito, sono state riportate
all’attenzione grazie alle più recenti scoperte delle neuroscienze che
hanno fornito nuove angolature per indagare e comprendere le
relazioni fra struttura biologica, psiche e comportamento.
c. Sociobiologia – è un filone recentemente riproposto che mira a
identificare anche nel comportamento sociale un’origine ereditaria
94
anziché vedere le strutture sociali come solo dovute all’evolvere della
cultura.
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1. la frequenza di soggetti condannati fra ascendenti e collaterali è
statisticamente maggiore di quanto si possa trovare nelle famiglie di coloro
che non sono mai stati condannati;
2. coloro che hanno avuto genitori criminali possono essere maggiormente
esposti a divenire essi stessi delinquenti senza per questo dimenticare che
questi individui delinquono perché hanno avuto una cattiva educazione e
perché i loro ambiente familiare è stato carente.
Altri studi si sono in passato rivolti ad esaminare il rapporto fra la costituzione e la
criminalità, partendo dal principio che la conformazione corporea è certamente
legata a fattori ereditari e dal fatto che esiste un certo rapporto fra costituzione e
caratteristiche psichiche, inferendo che la presenza di talune di queste
comporterebbe una sorta di predisposizione alla delinquenza.
Basti ricordare gli studi di:
1. Lombroso che aveva costruito la sua tipologia criminale correlando certe
caratteristiche morfologico-costituzionali con la predisposizione al delitto;
2. Di Tullio che considerava, a fianco del delinquente meramente occasionale
e di quello psicotico, tre tipi di delinquenti costituzionali: soggetti ciui
sarebbero prevalenti fattori ereditari condizionanti una loro specifica
struttura psicologica. Egli distingueva il “delinquente costituzionale a
orientamento ipoevoluto” (così chiamato per lo scarso sviluppo delle
caratteristiche psichiche superiori), il “delinquente costituzionale a
orientamento psico-nevrotico” (nel quale prevalgono dinamismi psichici di
natura nevrotica) e, infine, i “delinquenti costituzionali a orientamento
psicopatico” (che hanno come tratto caratteristico le anomalie del carattere e
i disturbi di personalità).
3. Sheldon (1942) – ha costruito una classificazione tripartita che prevede la
corrispondenza fra la costituzione fisica e certi tratti del temperamento.
a. La “costituzione endomorfa” – nella quale è presente una struttura
corporea morbida e rotondeggiante con scarso sviluppo dei muscoli
alla quale corrisponderebbe un orientamento psichico caratterizzato
da socievolezza, ghiottoneria, amore per la comodità, umore stabile,
tolleranza;
b. La “costituzione mesomorfa” – nella quale la struttura corporea è
forte con prevalente sviluppo della muscolatura e particolare
resistenza al dolore e agli sforzi fisici; ad essa corrisponderebbe un
temperamento volto verso l’aggressività e l’amore per il rischio;
c. La “costituzione ectomorfa” – con struttura corporea longilinea e
delicata caratterizzata da un temperamento volto al forte
autocontrollo, carattere chiuso, timore della gente, amore per la
solitudine.
Da questi studi condotti su popolazioni di detenuti, Sheldon è giunto alla
dimostrazione una particolare frequenza fra costoro di individui con
costituzione mesomorfa: i soggetti con tale costituzione avrebbero
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pertanto una sorta di predestinazione costituzionale a diventare criminali
posto che la struttura fisica e il corrispondente temperamento siano
sicuramente dovuti a fattori genetici.
Tutti questi approcci, naturalmente, sono oggi caduti in discredito e la validità delle
correlazioni fra fisico e psiche è limitata a un semplice livello statistico perché le
variabili psichiche individuali sono talmente tanto numerose da risultare arbitrario il
farle corrispondere a una tipologia costituzionale che prevede così poca varietà.
Semplicistico e improprio è pertanto il parlare di disposizioni ereditarie al delitto in
quanto il fattore genetico non può invocarsi per una modalità di condotta così
complessa come la criminalità nella quale interferiscono circostanze ambientali e
situazionali, momenti storici differenti, diversità di luoghi, culture, norme e
soprattutto valori morali. Si può parlare solo di predisposizioni biologicamente
determinate in senso genetico verso particolari caratteristiche mentali che possono a
loro volta diventare condizioni favorenti (= fattori psichici di vulnerabilità) il
comportamento criminoso: tali sono specialmente l’aggressività, lo scarso controllo
dell’emotività e delle pulsioni, l’intolleranza alle frustrazioni.
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In biologia si sono a lungo contrapposti due antitetici orientamenti per quel che
riguarda le determinanti del comportamento, sia degli animali sia dell’uomo: quello
che privilegia l’istinto (secondo il quale il comportamento è l’effetto delle
predisposizioni congenite) e quello che dà maggiore rilievo all’ambiente (secondo il
quale il comportamento è la conseguenza delle condizioni e degli stimoli
ambientali). Vediamoli:
1) orientamento istintivistico – secondo questo vecchio orientamento per
istinto si intende una serie di spinte ad agire in modo sempre uguale e in
prefisse direzioni per conseguire certi fini senza che l’animale avesse
alcuna consapevolezza dello scopo ultimo cui il suo agire mirava; si
riteneva che gli istinti fossero esclusivamente trasmessi per via ereditaria e
che fossero in numero relativamente scarso. Essi erano concepiti inoltre
come una potenzialità innata, come una forza che spinge all’azione senza la
necessità di alcun apporto proveniente dall’ambiente o meglio l’ambiente
forniva solo dei segnali che scatenavano l’azione istintuale. Questa
concezione è andata successivamente temperandosi con gli studi di Karl
Lorenz e degli altri etologi i quali hanno scoperto che gli istinti vanno intesi
come semplici schemi operativi generali: tendenze innati che devono essere
integrate con l’apprendimento, l’esperienza, l’insegnamento da parte dei
genitori, cioè con fattori che provengono dall’ambiente. La scuola
dell’etologia facente capo a Lorenz, partendo dall’osservazione degli
animali, ha fondato il suo contenuto teorico sul principio secondo cui
qualsiasi essere vivente e il suo ambiente naturale non sono concepibili
separatamente ma si influenzano e si realizzano continuamente in un
reciproco rapporto di stimoli e risposte. L’organismo animale è strutturato in
modo da raccogliere segnali dall’ambiente e le risposte a taluni stimoli sono,
ma solo in parte, congenitamente determinate. Per questo motivo, Lorenz
preferisce chiamare gli istinti “schemi di azione”. Il principi mutuati
dall’etologia naturalmente valgono anche per l’uomo con la differenza però
che nell’uomo, meno condizionato degli animali dai fattori della natura,
l’ambiente è da intendersi come ambiente sociale e come tale è molto più
complesso e mutevole di quello che non sia per gli animali.
2) L’orientamento ambientalistico – secondo questo orientamento non può
distinguersi nella condotta ciò che è determinato congenitamente da ciò che
viene appreso dall’ambiente. La dotazione genetica si manifesterebbe nella
diversa capacità dell’animale di recepire (cioè apprendere) i messaggi
provenienti dall’ambiente che sarebbe, in definitiva, il principale fattore
inducente le varie modalità di condotta. Il comportamento sarebbe solo
genericamente ricollegabile ai geni ereditari mentre la differenziazione
individuale delle condotte viene ritenuto sostanzialmente attribuibile alle
varie circostanze ambientali che gli individui incontrano. Enorme importanza
ha quindi l’apprendimento correlato alle mutevoli stimolazioni e alle
occasioni fornite dall’ambiente.
3) Orientamento correlazionistico – da un po’ di tempo, in biologia, si tenda
superare l’antinomia fra istinto e ambiente per giungere a una visione che
miri invece a sottolineare sempre più la stretta interdipendenza dei due
98
termini. Si è cercato di risolvere il dilemma alla luce di una concezione che
considera da un lato taluni comportamenti fondamentali (basilari e tipici di
ogni specie) come programmi comportamenti di massima condizionati solo
geneticamente; dall’altro vi sarebbero altri programmi di dettaglio dove le
variabili comportamentali si ricollegano più strettamente a fattori ambientali
pur nell’ambito degli schemi generali genetici. L’antinomia fra istinto e
ambiente verrebbe superata, come suggerisce Gottlieb (1971), considerando
due distinti tipi fondamentali di comportamento. Il comportamento innato,
esclusivo degli esseri viventi più semplici (che si può rappresentare con uno
schema del tipo: geni → struttura biologica → maturazione →
comportamento innato) in cui la determinante ereditaria si riflette sulla
struttura biologica individuale la quale, giunta a maturazione e senza
necessità di interventi dell’ambiente, dà luogo al comportamento. Il
comportamento acquisito, tipico degli animali superiori, in cui i fattori
genici, comportando una struttura individuale diversificata, fanno sì che gli
individui interagiscano con l’ambiente in modo differente in quanto agenti
sul diverso modo di apprendere e sul modo con cui i successivi
apprendimenti si traducono in esperienza.
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Anche l’altruismo perde in questa prospettiva qualsiasi connotazione di ordine
etico e di merito: il gene, infatti, oltre che egoistico può anche indurre a
comportamenti altruistici ma solo qualora siano funzionali alla sopravvivenza
della specie.
La sociobiologia si pone dunque quale antitesi al principio che vede nella cultura
il motore fondamentale dell’evolversi e del diverso caratterizzarsi del genere
umano attraverso un processo di apprendimento e trasmissione culturale.
Uno dei principi basilari della sociobiologia è dunque l’utilizzazione della teoria
evoluzionistica quale paradigma valido non solo per le scienze biologiche ma
anche per lo studio del comportamento sociale umano.
La sociobiologia ha dato adito a molte critiche, certamente valide nei confronti
degli esponenti più estremisti:
1) per aver arbitrariamente esteso al comportamento umano osservazioni fatte
sugli animali, dimenticando o sottostimando la dimensione culturale
dell’uomo, e svalutando in tal modo le scienze sociali e l’etica;
2) per la visione per la quale le società risulterebbero non tanto il frutto del
lungo evolversi storico e culturale, dei conflitti di potere e del succedersi di
sempre nuovi ideali e valori, ma piuttosto la risultante inevitabile di fattori
insiti nella informazione genetica.
Venendo all’utilizzazione in criminologia dei principi della sociobiologia,
potrebbe ipotizzarsi che i comportamenti aggressivi, le violenze sui più deboli
non sono comportamenti scelti e voluti dai loro autori in spregio all’etica e alle
norme ma sono una sorte di inevitabile conseguenza di una selezione naturale
che è venuta a privilegiare i più forti, i più violenti e i più aggressivi.
Comunque, non può certamente ammettersi che esista un “gene della
criminalità” né potrebbe esistere in quanto nel nostro DNA non è inscritto alcun
destino (delinquenziale o meno) da cui sia impossibile sottrarsi; l’unicità e la
prerogativa della nostra specie risiedono nella sua natura dicotomica, biologica e
culturale, soggette all’influenza di entrambe queste determinanti.
100
ma ciò determina il tipo di reazione motoria (l’attacco oppure la fuga o
l’immobilizzazione) non è solo la natura dello stimolo, ma anche il modo secondo
cui l’animale lo vive e lo percepisce emotivamente in relazione a sé e all’ambiente.
Già a livello proto-emotivo sussiste quindi una stretta correlazione tra due stati
affettivi di segno contrario, in cui indubbiamente processi cognitivi ed esperienze
giocano un ruolo determinante nella motivazione comportamentale.
L’a,ambiente poi esercita un ruolo fondamentale ed è l’interpretazione
dell’ambiente da p arte dell’animale a decidere il tipo di risposta, di aggressione o di
fuga, che non è pertanto legata a schemi di azione esclusivamente dovuto all’istinto.
Passando dal mondo animale a quello umano si ritiene che fattori biologici e
sociologici interagiscano fra loro nel produrre più o meno facilmente un
comportamento violento.
E’ da sottolineare che l’aggressività negli animali non ha nulla a che vedere con ciò
che noi intendiamo per violenza fra gli uomini. Esiste poi una profonda differenza
fra l’aggressività rivolta verso animali di specie diversa e l’aggressività
intraspecifica cioè tra individui della stessa specie e l’aggressività tra specie
diverse (molto rara salvo quando ricorra il rapporto di predatore/preda).
L’aggressione intraspecifica negli animali oltre a svolgere precise funzioni di
sopravvivenza dell’individuo e della specie, difficilmente ha esiti mortali in quanto
sussiste un insieme di meccanismi di contenimento dell’aggressività atti a inibire o
bloccare l’aggressività del rivale ma si tratta di una vera e propria ritualizzazione
della lotta condotta con scopi ben precisi (selezione sessuale, difesa del territorio,
regolamento degli schemi elementari di condotta e dei rapporti sociali). In
definitiva, quindi, nel comportamento animale pur essendo generalizzata e
determinante, l’aggressività risulta quasi sempre funzionale e in armonia con le
finalità biologiche e non mette in pericolo la specie perché frenata da meccanismi
spontanei di auto-contenimento: meccanismi che nell’uomo sono andati perduti o
vengono rifiutati col risultato che egli è divenuto l’essere vivente più aggressivo che
mai sia comparso sulla faccia della terra.
67 – Aggressività e neuroscienze
Sempre in tema di aggressività merita un cenno quel che le scienze
neurofisiologiche hanno consentito di appurare relativamente al rapporto fra
struttura biologica e inclinazione alla violenza di taluni individui.
I recenti studi condotti sul funzionamento del cervello, starebbero ad indicare che
taluni individui sono più violenti di altri proprio per certe caratteristiche organiche
del loro sistema nervoso.
A questo proposito occorre ricordare la teoria triunitaria di MacLean introdotta
nell’ambito criminologia da F. Bruno (1987). Essa fornisce informazioni
sull’organizzazione evolutiva del cervello umano che sarebbe costituito da tre tipi
fondamentali di sistemi:
1. la struttura filogeneticamente più antica ricorda morfologicamente le forme
più rudimentali del cervello dei vertebrati e presiede ad attività di tipo
101
istintuale (difesa del territorio, caccia, accoppiamento, nutrizione,
organizzazione gerarchica);
2. un secondo sistema è deputato al controllo degli stati emozionali (collera,
paura, piacere);
3. il sistema più recente e perfezionato è quello che ha consentito all’uomo il
maggiore e più avanzato sviluppo, rappresentato proprio lo strumento delle
sua peculiari capacità intellettive.
Tale sistema, essendo passato per trasformazioni evolutive più incisive e rapide,
non è riuscito a integrarsi del tutto armonicamente con le strutture cerebrali più
antiche che sono rimaste relativamente immutate. Da questo, la non perfetta
integrazione di un prodigioso sviluppo delle capacità cognitive, operative e
intellettuali, cui non ha corrisposto una analogo progresso nel controllo delle più
antiche funzioni emozionali e istintuali.
La teoria trinitaria può fornire un modello atto a spiegare taluni comportamenti
delittuosi nei quali si può constatare il ricorso di condotte agite sotto la spinta
degli istinti o dell’emotività eludendo transitoriamente i controlli superiori.
Molto interessanti sono le ricerche che hanno messo in luce, in anni recenti, i
rapporti fra difetti neurologici (verificatisi durante lo sviluppo o acquisiti più
tardi) e la p propensione all’aggressività. In questa prospettiva risulterebbe che i
criminali violentemente aggressivi presentano difetti in una proporzione molto
più elevata di quella rilevabile nella popolazione generale.
Sofisticate indagini strumentali hanno consentito poi di rilevare come siano assai
frequenti nei soggetti violenti disturbi minimi cerebrali di varia natura. Soggetti
di questo genere sarebbero più facilmente impulsivi.
68 – La criminalità violenta
Secondo alcuni studiosi, l’aggressività sarebbe una delle pulsioni istintuali o
delle motivazioni psichiche che più frequentemente entrano in gioco nella
criminogenesi.
E’ necessario distinguere tra aggressione, intesa come effettivo comportamento
lesivo di persone e aggressività, che si riferisce invece a una disposizione o
atteggiamento psichico favorevole all’aggressione.
L’aggressività può essere incanalata, mediante processi della dislocazione e
della sublimazione, verso altri obiettivi; infatti, non sempre l’aggressività si
esprime con condotte giuridicamente perseguibili ma frequentemente può
trovare modi di esprimersi socializzati o quanto meno socialmente tollerati: essa
è addirittura necessaria alla sopravvivenza dell’uomo e della sua affermazione
sociale. Sotto questo profilo, audacia, spirito di iniziativa, intraprendenza,
scalata sociale, ambizione, competitività, possono rappresentare altrettante
maniere di indirizzare o sublimare l’aggressività secondo modalità socialmente
accettate o addirittura qualificanti.
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Ci sono diversi modi di comportarsi aggressivamente e di commettere delitti su
base violenta:
1. aggressività diretta sulle cose e sull’ambiente, con significato
genericamente distruttivo, quando la pulsione aggressiva viene deviata
dalla persona cui è diretta verso gli oggetti;
2. aggressività diretta sulla persona esclusivamente in modo verbale, con
l’ingiuria e la calunnia;
3. aggressività diretta sulle persone, con la violenza sessuale, le percosse, i
maltrattamenti, l’omicidio;
4. aggressività rivolta contro sé stessi fino ad arrivare al suicidio.
5. aggressività rivolta verso sé stessi al solo fine di ottenere detenzione
emotiva nell’impossibilità di rivolgerla su altri (da non confondersi con il
tentativo di suicidio, è tipica delle personalità immature e impulsive e si
manifesta con alta frequenza fra i soggetti in reclusione sotto forma di
lesioni da taglio multiple e superficiali).
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una sempre maggiore efficacia degli unici mezzi disponibili, cioè quelli delle
norme e dei valori della cultura perché se dalla cultura la violenza deriva, ancora
e solo nella cultura può trovarsi lo strumento per contrastarla.
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Non esistono in tutti gli animali superiori e in modo particolare per l’uomo,
moduli comportamentali fissi e perciò meccanicisticamente vincolanti la
condotta: la moderna scienza biologica ha pertanto accantonato il determinismo
fatale, e da essa derivano addirittura indicazioni su come la scelta e la non-
determinazione del comportamento siano peculiarmente umani in funzione della
plasticità del cervello.
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