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Capitolo 2- Alle origini della richiesta di lavoro flessibile da parte delle

imprese
La richiesta da parte delle imprese di aumentare la flessibilità del lavoro persegue due scopi:

1. RIDURRE IL COSTO DIRETTO E INDIRETTO DEL LAVORO adeguandolo all’andamento della produzione
e/o delle vendite di un certo periodo; viene messa in atto applicando alcuni principi di gestione
aziendale. uno stabilisce che tutto deve arrivare o succedere “giusto in tempo” => Principio di
organizzazione della produzione, elaborato dagli USA nella metà del 900 ma applicato più
efficacemente in Giappone (industria dell’auto) a partire dagli anni 70’. In pratica nel processo
produttivo nessuna materia prima e nessun ausilio deve arrivare nel punto fisico in cui deve venir
lavorato, se non, nel preciso momento in cui potrà essere utilizzato. PRINCIPIO CHE H A AVUTO
NOTEVOLE SUCCESSO PERCHÉ HA RIDOTTO DRASTICAMENTE STOCCAGGI, DEPOSITI, MAGAZZINI
recando cospicui risparmi alle imprese.
2. Ridurre il rischio d’impresa derivante dal fatto che ciascuna impresa è diventata un nodo di una
catena globale di creazione del valore. Stabilisce che il processo di fabbricazione si mette in moto
solamente se è stata registrata la domanda effettiva –movimento di denaro- di un determinato bene.
Ci sono delle previsioni, ma nessun costruttore produce se non nel momento in cui il cliente chiede.

Perché non applicare questi due principi anche per l’impego della forza lavoro?? Cioè puntare ad ottenere
che il lavoratore presti la sua forza lavoro solamente nel momento in cui c’è veramente bisogno della sua
attività. Il punto di queste riflessioni è il LAVORATORE FLESSIBILE cioè colui o colei che viene occupato in
termini di ore di prestazione solo a fronte di una domanda effettiva e che solo per quel tempo sarà
retribuito. Contemporaneamente si è deciso di frammentare/ridistribuire il processo produttivo per i
seguenti motivi:

o Quando le unità produttive sono di dimensioni ridotte e lontane tra loro diventa difficile
l’organizzazione sindacale dei lavoratori, facilitando salari bassi e basse condizioni di sicurezza.
o Se gli anelli di una catena di creazione del valore sono funzionalmente autonomi, è possibile
effettuare di essi valutazioni più precise.
o Più facile e rapido sostituire l’unità produttiva qualora presenti difetti qualità, prezzi…
o Si possono distribuire gli anelli della catena in modo che essi presentino la migliore condizione di
basso costo della manodopera.
o È più agevole costruire catene di creazione del prodotto che limitano l’accentramento. In questo
modo la società capogruppo incassa poco dalle altre ma spende molto per acquistare da esse beni e
servizi; così da rendere basso il guadagno dell’impresa capogruppo e di conseguenza l’imponibile
fiscale.

LA FLESSIBILITÀ È FIGLIA PRIMOGENITA DELLA GLOBALIZZAZIONE nel senso che quest’ultima è derivata
dalla ricerca di una complessiva riorganizzazione della produzione. Premia le imprese che sanno usare la
maggior quota di lavoro flessibile e impone di ridurre i rischi. LO SCOPO ESSENZIALE DELLA
GLOBALIZZAZIONE- riorganizzazione produttiva- È SOTTRARRE LE CONDIZIONI DI LAVORO PREDOMINANTI
NEI PAESI INDUSTRIALI AVANZATI caratterizzati da salari elevati.

La pressione sui salari che si avverte in Italia e la domanda di flessibilità dell’occupazione, stanno a
significare che se non si accettano salari più bassi e contratti che facilitano l’uscita dei lavoratori dalle
imprese, il lavoro viene trasferito in altri paesi (es. Cina). La diffusione dei lavori flessibili presenta una
deresponsabilizzazione dell’impresa; nella seconda metà dell’800 l’impresa si opponeva alla
disoccupazione, ora le imprese reputano che non spetti a loro la decisione di preoccuparsi del destino di chi
perde il lavoro. La loro pima preoccupazione è la competitività. A porre rimedio alla precarietà
dell’occupazione deve pensarci lo stato, gli enti locali e in primo luogo l’interessato.

Capitolo 3
Molti esperti credono che bisogni prendere spunto dagli altri paesi europei e rendere il lavoro italiano più flessibile per
aumentare l’occupazione. La differenza da evidenziare è però quella tra il numero degli occupati e il numero delle ore
lavorate effettivamente in un dato periodo. Infatti se gli occupati lavorano per più tempo il numero di ore lavorate
aumenterà, ma può anche essere che gli occupati aumentino perché lavorano tutti meno ore. [ESEMPIO: Olanda:
numero occupati aumentato ma ore lavorate variato di poco]. Appare evidente che il saldo positivo tra occupati e
non appare molto superiore a quello che si avrebbe senza questi contratti. Fatto innegabile se teniamo conto che le
statistiche dell’occupazione dichiarano come “occupato” una persona che ha lavorato almeno un’ora nella settimana
di riferimento.

Inoltre noi sappiamo che per affermare con sicurezza che i nuovi occupati sono più numerosi dei disoccupati
dovremmo tener conto di quanti sono gli occupati a tempo pieno o con un orario standard e non quelli che dichiarano
di avere un’occupazione qualsiasi. I sottoinsiemi che vale la pena considerare per fare stime adeguate sono:

a) L’occupazione regolare in base al contratto registrato presso l’Inps o l’Inail (che è un solo dossier). Sarebbe
l’indicatore più sicuro ma è poco attendibile visto il numero di enti previdenziali in Italia (alcune centinaia) e i
differenti tempi di modifica e cancellazione dei registri di ciascun ente.
b) Il tasso di disoccupazione secondo le iscrizioni presso le agenzie pubbliche (come i centri per l’impiego).
Anche questo è irrealizzabile perché le caratteristiche in base alle quali una persona viene iscritta o eliminata
dal registro dei disoccupati cambiano continuamente.
c) L’occupazione rilevata mediante l’intervista di un campione nazionale con successiva proiezione sulle
rilevazioni dell’Istat e altre statistiche. Ma in base a queste statistiche l’occupato è colui che ha svolto almeno
un’ora di lavoro con qualsiasi attività retributiva (moneta o natura) mentre il disoccupato è colui che non ha
lavorato per nemmeno un’ora ed ha effettuato un’azione attiva di ricerca di lavoro negli ultimi 30 giorni.
d) L’occupazione informale o sommersa stimata retroattivamente partendo dal PIL di cui gran parte irregolare e
una minor parte regolare ma non rilevata. Qui rientrano le unità di lavoro stimate dall’Istat.
e) L’occupazione misurata mediante il censimento dell’intera popolazione. Sarebbe la migliore ma viene
misurata ogni 10 anni quindi non può essere usata per stimare la dinamica attuale di occupazione ( non
comprende D).

[Non è chiaro su quale di questi indicatori i governi italiani ed europei si basino per le loro riforme e considerazioni
ma è chiaro quanto fragili siano le affermazioni riportate da questi].

L’Ocse è forse l’unico ente al mondo che può fare una comparazione statistica internazionale e ha inventato un indice
per misurare il grado di rigidità di un paese in questo mercato (Epl). L’Ocse ha spronato molto l’Italia affinché rendesse
il suo mercato del lavoro più flessibile, quando in realtà non aveva niente di meglio di un rapporto del 1996 per fare le
proprie considerazioni. Questo rapporto conteneva dati degli anni 80 e inizi 90 che per noi sono stati anni riconducibili
a “guerre d’indipendenza” per i fatti e gli eventi successi. L’Ocse quindi premette molto perché i governi di tutto il
mondo accrescessero la flessibilità del lavoro, per poi affermare nel 2004 che non vi è nessun dato che colleghi la
flessibilità al volume totale dell’occupazione [Non esiste nessuna prova che facilitare i licenziamenti accresca
l’occupazione].

I risultati di queste politiche sull’Italia sono stati:

a) Un’accelerazione della crescita dell’occupazione;


b) Un aumento del contenuto occupazionale della crescita economica (e un declino della produttività);
c) Un contributo significativo dei contratti a termine alla crescita aggregata dell’occupazione [crescita solo
temporanea];

Il che porta alla conclusione che i contratti a termine hanno un effetto negativo sulla produttività perché il lavoratore
deve pensare a come trovare un nuovo contratto e quindi è scarsamente motivato. Non viene formato perché
l’impresa non ha interesse nel fornirgliela e lascia l’impresa prima di apprendere esperienze formative e non ci sono
basi solide sul quale affermare che innalzare la flessibilità aumenti in modo stabile il numero di occupati. Se nel 1993
la classe politica avesse ascoltato i sindacati che dicevano “In Italia il lavoro è flessibilizzato in maniera più che
adeguata” i giovani conoscerebbero oggi migliori condizioni di lavoro e di vita.

Capitolo 4- Il ruolo della legislazione sul lavoro


In Italia come in altri paesi europei, il diritto e la legislazione sul lavoro sono sorti nel 1945, ora è vista come
un ostacolo alla competitività perché presuppone che le imprese modifichino di loro iniziativa orari,
retribuzione, senza vincoli rappresentati dal diritto di lavoro.

Dalla metà degli anni 70’ processo di derogazione del mercato del lavoro (Derogare=far girare all’indietro
l’orologio della storia del lavoro, per ritornare ai tempi in cui il lavoro veniva venduto dall’individuo
all’impresa come una qualsiasi merce) per via legislativa = smantellamento della legislazione protettrice
dell’occupazione.

Si svilupparono 2 fazioni: 1. vogliono smantellare l’affermazione “il lavoro non è una merce” (che recitava il
primo comma della dichiarazione di Filadelfia del 1944) perché sostengono che è un elemento integrale ed
integrante del soggetto che lo presta, dell’identità della persona, dell’immagine di sé.. Portati a credere che
qualunque provvedimento modifichi le condizioni alle quali il lavoro viene prestato, incide direttamente o
no su tutti i caratteri della persona. 2.“dopotutto il lavoro non è altro che una merce” è una separazione del
lavoro stesso dalla persona, le conseguenze che può avere la separazione dal lavoro sulla persona appaiono
irrilevanti. Dal 90 in poi, sono stati emanati provvedimenti a favore della mercificazione del lavoro 
concezione del lavoro come merce separata e indipendente dal soggetto; visibile particolarmente in 2
principi

- LAVORO A CHIAMATA/CONTRATTO A CHIAMATA Il lavoratore si rende disponibile a essere convocato sul


posto di lavoro in certe ore del giorno. Questo tempo è retribuito al lavoratore trascorre con una somma
pari a ¼ del salario medio. L’avviso di lavoro può avvenire anche con poco preavviso. Contro: non puoi
staccarti dal telefono perché se non rispondi, perdi il lavoro.

- LAVORO IN AFFITTO massima separazione del lavoro dalla persona. Il lavoratore viene assunto da una
determinata impresa, chiamata <fornitrice> o <somministratrice>. Da questa, viene fisicamente spedito
presso un'altra impresa che utilizzerà il suo lavoro chiamata <utilizzatrice> cioè il lavoratore dipende da
un’impresa ma lavora per conto di un'altra.

Le tappe fondamentali della ri-mercificazione del lavoro nella legislazione italiana sono 4:

1.Protocollo 23 luglio 1993 è un protocollo di intesa tra governo, sindacati e organizzazione dei datori di
lavoro, indicherà la strada alle successive leggi riguardo la flessibilità del lavoro.

2. legge del 24 giugno 1997 n°196 _Pacchetto Treu_ La maggior innovazione è il lavoro interinale cioè i
lavoratori vengono assunti da un’impresa “fornitrice” ma lavorano presso un'altra “utilizzatrice” con
contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ha introdotto inoltre l’orario pluriperiodale 40 ore settimanali
assumendo come base 11 mesi lavorativi; l’orario varia tra 32 e 48 h e posso essere richieste al lavoratore
96 ore di disponibilità con poco preavviso.

3. Decreto legislativo 6 settembre 2001 n°368 Ha liberalizzato i contratti di lavoro, stabilendo che devono
passare 20 giorni tra la fine e l’inizio del nuovo contratto.

4. Legge 30/2003 ha fatto compiere ulteriori passi in direzione di una ri-mercificazione. La legge del 1960
vietava l’imposizione di terze parti nel rapporto tra lavoratore ed impresa che viene abrogata; uno degli
effetti più negativi consiste, nel lavoratore di essere privato di qualsiasi capacità di negoziazione nei
confronti dell’impresa utilizzatrice; quella in cui effettivamente lavora. Il lavoratore è semplicemente uno
che cede la sua merce-lavoro, una volta ceduto, il soggetto non ha nessun titolo da far valere presso
l’impresa utilizzatrice. Inoltre ha fatto saltare i limiti di contenimento dei lavoratori atipici nelle aziende
indicato nel Treu; e ha moltiplicato le tipologie di rapporto di lavoro; imponendo una contrattazione
individuale del rapporto.

A fine 2006, è comparso il libro della commissione europea il cui obiettivo era quello di lanciare un
dibattito pubblico nell’Ue al fine di far riflettere sul modo di far evolvere la strategia di Lisbona OTTENERE
UNA CRESCITA SOSTENIBILE CON Più POSTI DI LAVORO DI MIGLIORE QUALITÀ. LA MODERNIZZAZIONE DEL
DIRITTO DEL LAVORO COSTITUISCE UN ELEMENTO FONDAMENTALE PER GARANTIRE LE CAPACITÀ DI
ADATTAMENTO DEI LAVORATORI E DELLE IMPRESE Al centro delle proposte del libro c’è il concetto della
flessicurezza che dovrebbe combinare la libertà delle imprese di assumere e licenziare solo quando serve,
con un elevata probabilità per il lavoratore che perde il lavoro di trovarne uno, di pari livello
professionale e retribuito in egual misura.
Capitolo 5
I lavori flessibili comportano costi psicologici importanti sia per l’individuo che per tutta la famiglia e la sua comunità. Il
lavoro intermittente, a chiamata o in nero sono fonti di ansia per il giovane (ma non solo!) che è sottoposto a tutto
questo. Un altro problema è che, quando la giovinezza del lavoratore sarà passata, le lacune formative dovute ai lavori
flessibili da lui fatti comporranno un curriculum scarno e che lo renderà poco appetibile dalle imprese.

[Il problema è riassumibile nella precarietà del lavoro che diventa via via più pesante con il proseguirsi della
sequenza di lavori flessibili]. Proprio questa precarietà genera pesanti condizioni umane e grandi sensi di insicurezza
che si ripercuotono nella società e nel sistema economico. Ciò porta alla limitazione di progettare progetti a
medio/lungo termine come ad esempio sotto l’ambito familiare ed esistenziale, facendo astenere e disinteressare il
soggetto alla vita pubblica (ad esempio l’astensionismo elettorale).

Questo genere di lavoro non permette di accumulare esperienze perciò nega al soggetto una carriera e un’identità
lavorativa: proprio i due pilastri del lavoro! [che lo portano ad un sentimento di inferiorità rispetto a chi ha un lavoro
stabile]

L’accumulo dei lavori flessibili erode la maggior parte dei fondamenti delle forme di sicurezza dell’Organizzazione del
lavoro:

1. Sicurezza dell’occupazione: non solo protezione dai licenziamenti abusivi ma anche stabilità
dell’occupazione.
2. Sicurezza professionale: possibilità di valorizzare la propria formazione accrescendo le proprie competenze.
3. Sicurezza sui luoghi di lavoro: prevede, oltre alla protezione contro gli incidenti e malattie professionali un
limite agli orari e agli straordinari.
4. Sicurezza del reddito: creazione e mantenimento di un reddito adeguato che consentano di coprire i costi
minimi della vita sociale.
5. Sicurezza di rappresentanza: protezione da parte di organi come sindacati e organizzazioni che tutelano gli
interessi dei lavoratori.
6. Sicurezza previdenziale: possibilità di assicurarsi, dopo il lavoro, un reddito che permette di mantenere un
tenore di vita pari a quello di quando lavoravi.

Il lavoro flessibile intacca tutti e 6 questi aspetti: riduce per definizione la stabilità dell’occupazione e la valorizzazione
della professionalità, rende difficile l’acquisizione di nuove competenze, l’impresa non ha interesse nell’investire nella
sicurezza e nella salute del lavoratore che tra un paio di mesi/anni smetterà di lavorare per essa (anche il lavoratore
stesso è meno motivato a curarsi della propria salute), si riduce fortemente il livello del reddito (uno studio ha
riportato che i lavoratori flessibili guadagnano il 20% in meno di quelli a tempo indeterminato) e di conseguenza anche
la sicurezza previdenziale che assicuri un reddito sostenibile per uno stile di vita dignitoso.

Riguardo al piano psico-sociale è doveroso indicare che può portare a disturbi di tipo clinico, differenti da soggetto a
soggetto. In certi casi può favorire lo sviluppo di disturbi della personalità e quindi nel comportamento. L’insicurezza
lavorativa mina fortemente l’idea di fare una famiglia e di inserirsi nella società. I giovani che crescono in famiglie dove
entrambi i genitori sono precari manifestano disturbi della personalità rilevanti che sfociano nella resa o la rivolta
senza scopo, tra il rinchiudersi in se stessi isolandosi dal resto del mondo alla violenza fisica.
Capitolo 9
Cosa fare per ridurre i costi personali e collettivi della flessibilità del lavoro? Si può intervenire sulle cause della
flessibilità o dei suoi effetti. La maggior causa della crescente domanda di lavoro flessibile dalle imprese è la
riorganizzazione globale del processo produttivo che non vuole altro che abbassare il costo del lavoro e disporre in
ogni momento della manodopera necessaria. Siccome nei paesi sviluppati i lavoratori godono di diritti tutelati, la
riorganizzazione ha spostato le basi produttive nei paesi del mondo in cui i salari e i diritti dei lavoratori sono minimi.
In questo modo, i governi di tutto il mondo hanno attuato politiche per incrementare la competitività aumentando la
flessibilità del lavoro nel loro paese. Anche tra i più fermi sostenitori della flessibilità del lavoro c’è chi riconosce che
essa comporta oneri rilevanti sotto forma di insicurezze per il lavoratore. [La flessibilità del lavoro giova alle imprese,
alla competitività e aiuta il risanamento del debito pubblico, ma va resa più sostenibile in termini di sicurezza
sociale].

Secondo gli esperti italiani gli obiettivi da conseguire sono: lasciare alle imprese ampia libertà di licenziamento, ma
stabilizzando sufficientemente il reddito ed evitare che si inneschi quella reazione a catena per cui uscire dalla
“trappola” della precarietà sia impossibile dopo esserci finiti. [La “flessicurezza” è intesa quindi come il fatto che, alla
crescita della possibilità di perdere l’occupazione cresca anche la probabilità di trovarne rapidamente un’altra]. I
paesi più avanzati sotto questo punto di vista (Danimarca e Olanda) hanno aumentato la libertà di licenziamento alle
imprese (con un esteso preavviso) e istituito dispositivi di legge che assegnano automaticamente un posto di lavoro
indeterminato a chi abbia cumulato un dato numero/periodo di contratti temporanei. Sempre i suddetti stati virtuosi
hanno istituito generose indennità di disoccupazione, largo impiego di personale specializzato nei servizi pubblici e
obbligo per il disoccupato (pena multe severe per chi si rifiuta) di seguire corsi formativi per migliorare le proprie
competenze.

Non oro tutto ciò che luccica però. Infatti nelle rilevazioni danesi sono escluse dalle rilevazioni varie categorie di
lavoratori: quelli in pensione anticipata (molto numerosi in Danimarca), i molti che sono stanno seguendo un corso di
riqualificazione e coloro che sono in congedo. Queste misure fanno diminuire in modo notevole la popolazione attiva,
in modo da far sembrare la quota degli occupati significatamente più alta. Inoltre questi dati non sono comparabili con
altri paesi perché il settore pubblico occupa il 36% del totale mentre in Paesi come Francia, Italia e Germania è circa il
20%. [Il limite all’importazione danese non è la differenza legislativa, ma bensì il costo della flessicurezza che è lato
e richiede enorme cura].

Problemi: L’indennità danese di disoccupazione arriva anche al 90%, il numero degli addetti pubblici dovrebbe essere
accresciuto di molto, dovrebbero essere tenuti corsi di formazione costosi, dovrebbe crescere anche la rete di asili
nido in tutto il territorio e infine il modello danese prevede consistenti aiuti alle famiglie più bisognose erogati dallo
stato. [Queste spese vorrebbero dire un aumento di spesa di parecchi miliardi di euro l’anno, più del triplo di
quanto spende adesso (da 21 a 67 miliardi)].

In Italia questi costi sono fuori portata ma non perché non ce li possiamo permettere ma bensì perché vorrebbe dire
aumentare la quota di prelievo fiscale e nessun politico vuole prendersene la responsabilità (in Italia i contributi
obbligatori sono il 43% del Pil, in Danimarca invece supera il 50%, l’IVA è unica e del 25% e il prelievo fiscale del
63%).

In Italia la flessicurezza è sostenuta da: cassaintegrazione guadagni, ordinaria per le imprese in difficoltà e
straordinaria per le imprese in crisi. Ammortizzatori molto al di sotto del modello danese in quanto corrispondono
l’80% del reddito ma con un massimo di 900€. Le cose vanno anche peggio se si tengono in considerazione le
indennità di disoccupazione e mobilità. A condizione di aver svolto per almeno due anni prima del licenziamento il
lavoratore riceve il 40% della retribuzione mensile lorda, con massimo analogo ai 900€ (per coloro che non hanno
maturato i due anni, scende al 30%). Nel 2007 sono state aumentate le percentuali delle indennità di disoccupazione
al 60% per i primi 6 mesi e 50% per i successivi 2 mesi, pur restando con gli attuali massimali. Ciononostante sono
comunque scarsi e insufficienti rispetto a quelli danesi.

Comunque, anche se si riuscisse nell’intento di seguire il modello danese, il risultato non cambia. Seppur verrebbero
curati gli effetti più deleteri, cambiare lavoro innumerevoli volte durante la vita aggradando tutti gli interessi delle
imprese, è un costo molto alto sotto il profilo individuale e familiare. È pesante rinunciare alla carriera e quindi
rinunciare ad un aumento dell’autostima e reddito, dover sempre apprendere nuove competenze dai corsi di
formazione, doversi adattare a nuovi orari e lavori, a un modo o luogo diverso di abitazione, gestire in modo diverso la
famiglia e veder costantemente affievolire la propria sensazione di libertà.

Capitolo 10
A questo punto viene da pensare: come fa un unico governo a risolvere i problemi di un processo globale? Certamente
è un impegno a lungo termine che prevede politiche da portare avanti per diversi mandati, ma non è così impensabile
come si pensa. Per capirlo bisogna dividere la questione in due piani: quello internazionale e quello interno.

Internazionale: sappiamo che la crescente domanda di lavoro flessibile è da ricercare nella ristrutturazione del
processo produttivo a livello globale [andare a produrre dove il costo del lavoro è minimo, come pure i diritti dei
lavoratori]. È evidente che la quota destinata al mercato interno o alle esportazioni di prodotto dipende dalla natura
di quest’ultimo ma nella maggior parte dei casi viene esportato. Il fatto che vengano prodotti in aree del mondo dove i
salari sono all’estremo della sopravvivenza e non esistono diritti che li tutelino, permette di rendere fuori mercato le
altre imprese che costruiscono con costi maggiori oppure rincari e quindi profitti elevati.

Possiamo perciò affermare che la flessibilità funge da mezzo di comunicazione. Mezzo che dice: ci sarà sempre
qualcuno che accetterà un salario più basso del tuo con minori diritti quindi acconsenti. I sindacati hanno pochi mezzi
per opporsi perché l’offerta di lavoro a basso costo c’è sempre. L’esito della sfida tra i paesi ricchi e con numerose
tutele e quelli poveri con bassi costi per le imprese dipenderà dal fatto di pareggiare i diritti e i redditi di entrambi
(verso l’alto, non il basso). Il rischio che le multinazionali usassero i paesi in via di sviluppo per alzare i ricavi
sbarazzandosi dei sindacati e delle tutele dei lavoratori era già stato visto negli anni 70 ma nessun appello è stato
ascoltato.

I governi dovrebbero assicurarsi il limite delle 48 ore di lavoro settimanali tranne in circostanze particolari, abolire il
lavoro infantile, fornire livelli di sicurezza adeguati, libertà di sindacati e contrattazione collettiva. Il problema è che
tutti i documenti dell’Ocse e Oil sono privi di qualsiasi potere vincolante sul comportamento delle multi e
transnazionali, piccole e medie imprese.

Anche se le imprese dichiarano di seguire le clausole per il rispetto dei diritti umani, è sconcertante come le
comprendano in modo distorto e del tutto diverso da quello che realmente vogliono dire.

È comunque doveroso dire che alla base delle relazioni commerciali i paesi più avanzati cercano di indurre queste
clausole sociali ai paesi in via di sviluppo, con penalità doganali o l’esclusione dal commercio. I Paesi in via di sviluppo
si oppongono fermamente a queste clausole perché a detta loro, entrano in affari interni non di competenza degli altri
stati. Va comunque precisato che queste clausole dovevano essere destinate alle imprese, non allo stato in generale,
perché è il modus operandi delle grandi imprese che va cambiato, non i governi nazionali (seppur non innocenti).

La Cina ne è un esempio lampante. Nelle zone economiche speciali (Zes) il governo offre manodopera ad un prezzo tra
i più bassi del mondo, piena facoltà di licenziamento, prolungare i periodi di prova per anni, imporre decine di ore di
straordinario, nessuna indennità di licenziamento, prezzo dei terreni irrisori e anzi, farsi rimborsare dal lavoratore le
spese per la sua formazione nel caso si licenzi. Ci fu un tentativo di aumentare il salario minimo ma le grandi
multinazionali, grazie a politiche di lobbying annacquarono il disegno di legge, approvato ma in modo molto più
morbido rispetto all’originale e con scarsa probabilità di applicazione. Tra i primi ad indignarsi ci furono numerosi
parlamentari americani, anche se la loro indignazione ha suscitato solo in parte l’esito che sperava.

Cose da fare osservando l’esempio e confrontandolo con il resto del mondo:

1) Da ciò ne deriva che le politiche del lavoro sono un problema centrale e prioritario a livello mondiale. La domanda
ossessiva di lavoro flessibile deriva infatti dallo squilibrio tra i redditi e i diritti nei paesi sviluppati e quelli in via di
sviluppo. [La sola via per ridurla consiste nel diminuire tale squilibrio].

2) Di fatto sono già stati stipulati trattiti internazionali atti ad imporre ad ogni singolo stato la responsabilità di
controllare il rispetto dei diritti umani e quindi dei lavoratori. Molte leggi sono state fatte per chiamare le
multinazionali (o Tnc) in causa per la violazione dei diritti umani. Fatto sta che i governi dei paesi in via di sviluppo
vogliono i finanziamenti della Banca mondiale per costruire strade, ferrovie, aeroporti, ecc. e per ottenerli consentono
che i diritti vengano tacitamente calpestati. In vari casi i contratti risultano ineccepibili, ma l’assenza di controlli fa si
che tutto passi inosservato. Va anche detto che molti paesi asiatici, africani e latino-americani hanno al potere
dittature che non hanno nessun interesse a tutelare i lavoratori, anzi che traggono indebitamente credito dalle casse
dello stato.

Da un lato, la separazione fra i continenti delle filiere ha indebolito molto i sindacati nazionali, dall’altro è anche
difficile, per un investitore che vuole fare un investimento socialmente responsabile incontra non poche difficoltà, in
quanto è praticamente impossibile sapere in quali condizioni stanno lavorando i lavoratori della specifica impresa.

Sul piano nazionale, un passo importante per contrastare la diffusione del lavoro flessibile, non può che essere una
nuova legge sul lavoro, che raccordi le norme redatte e gli accordi stipulati nel nostro paese, con nuovi accordi da
promuovere a livello globale. Il testo legislativo dovrebbe rivedere l’intera materia, collegandosi agli articoli della
costituzione che promuovono il lavoro e la qualità della vita, articoli che in gran parte del mondo vengono violati.
Anche la sola diffusione dei contratti atipici (lavoro flessibile) appare in contrasto con i suddetti articoli. Come pure
altri numerosi articoli con altrettante problematiche portate da questo tipo di lavoro (riduzione del reddito vista
l’alternanza dei periodi di lavoro, il limite di ore giornaliere e settimanali di lavoro, il ripetuto venir meno delle
sicurezze lavorative, ecc.).

La nuova legge dovrebbe stabilire formalmente che il lavoro non è una merce e come tale non dovrebbe essere
trattato o scambiato come tale. I diritti del lavoratore non andrebbero scambiati con delle migliorie alla sicurezza
sociale. Com’è vero che sul piano legale, il lavoratore si trova in una situazione di netta inferiorità rispetto all’impresa
che dispone di capitali ben più alti. Questo andrebbe corretto mettendo il lavoratore in una posizione più favorevole
rispetto alla controparte. Un altro punto cruciale della legge è che dovrebbe stabilire che il lavoro dipendente è il tipo
di contratto più diffuso e non solo un’alternativa tra tante. Infatti il contratto, sarebbe da considerarsi sempre a tempo
indeterminato e a orario pieno. Tutti gli altri tipi di contratti andrebbero considerati delle deroghe da ammettere
solamente a fronte di specifiche esigenze dell’imprese o del lavoratore. La legge dovrebbe anche dedicare una parte
specifica al lavoro irregolare e modi per promuoverne la regolarizzazione. Non regolarizzare i lavoratori costituisce
infatti un gravissimo impedimento all’attività sindacale che non può proteggere i lavoratori.

In Italia tre quarti delle forze politiche pensa di poter curare il mondo del lavoro tramite l’aggiunta di ammortizzatori
sociali. Va infine evidenziato che una politica del lavoro globale potrà affermarsi solo quando la maggioranza delle
persone diventerà consapevole che la richiesta di utilizzare la forza lavoro solo quando serve è un fattore di conflitto
sociale. Dopodiché si tratterebbe solo di vedere se e quando, la suddetta maggioranza arriverà a mobilitarsi per
difendere i diritti dei lavoratori, trasformando l’esigenza in un’adeguata domanda politica.

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