Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
XVI / 3, 2013
a cura di
Paolo Canettieri e Arianna Punzi
viella
Filippo Petricca
1. Il motivo, inaugurato da Thomas nel Lai Guirun contenuto nel suo Tri-
stan, ha una straordinaria diffusione geografica (Nord della Francia, area occitana,
Germania) e cronologica (arrivando fino a Stendhal). Sull’analisi in generale si
vedano, per una prospettiva che ne ripercorre lo sviluppo nel romanzo francese e
nella lirica trobadorica L. Rossi, Il cuore, mistico pasto d’amore: dal Lai Guirun
al Decameron, in «Studi provenzali e francesi», 82 (1983), 6, pp. 28-128; per un
punto di vista cronologico di ampio raggio utile il lavoro di M. Di Maio, II cuore
mangiato. Storia di un tema letterario dal Medioevo all’Ottocento, Milano, Guerini
e Associati, 1996. In L. Terrusi, Ancora sul ‘cuore mangiato’: riflessioni su Deca-
meron IV, 9 con una postilla doniana, in «La Parola del Testo», 1 (1998), pp. 49-62,
viene riportata la bibliografia relativa: S. Thompson, Motif-Index of folk-literature,
Copenhagen, Rosenkilde-Bagger, 1955-1958, Q 478 1; J. E. Matzke, The legend of
eaten heart, in «Modern Language Notes», 26 (1911), pp. 1-8; H. Hauvette, La 39e
nouvelle du Decameron et la legende du “coeur mangé”, in «Romania», 41 (1912),
6. Come dice giustamente nel suo commento De Robertis (Dante Alighieri, Vita
Nuova, a c. di D. De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980), il tempo della prosa
e il tempo della poesia sono essenzialmente diversi, e anzi è proprio l’articolarsi del
prosimetro che crea questa distanza tra i due e – dichiaratamente – realizza l’ordina-
mento di secondo grado tra commento e poesie: «L’anteriorità della poesia rispetto
alla prosa è esplicitamente dichiarata, i due tempi sono tenuti ben distinti; e dal primo
istante è sottolineato questo carattere di ritorno sulla propria esperienza, di sguardo
volto al passato (…), di dialogo con se stesso» (p. 11).
7. Tutte le citazioni dalla Vita Nuova sono tratte da Dante Alighieri, Vita Nuova,
ed. De Robertis cit.; il testo di riferimento per il Decameron è Giovanni Boccaccio,
Decameron, a c. di A. Quondam, M. Fiorilla e G. Alfano, Milano, Rizzoli, 2013. I
corsivi – salvo diversa indicazione – sono sempre miei.
Ghismonda e Beatrice 135
8. I rapporti tra Dante e Cavalcanti sono stati ampiamente analizzati, a partire
da B. Nardi, L’averroismo del “primo amico” di Dante, in «Studi danteschi», XXV
(1940), pp. 43-79, ora in Id., Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 19492, pp.
93-129; da G. Contini, Cavalcanti in Dante (1966), in Id., Varianti e altra lingui-
stica: una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 427-463 ora
in Id., Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976, pp. 143-157; L. Cassata, Il disde-
gno di Guido (Inf. X, 63), in «Studi danteschi», 53 (1981), pp. 167-185; M. Corti,
La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi,
1983; D. De Robertis, Il caso Cavalcanti in Dante e la Bibbia, Atti del convegno
internazionale promosso da «Biblia» (Firenze, 26-28 settembre 1986), a c. di G.
Barblan, Firenze, Olschki, 1988, pp. 341-350; N. Del Sal, Cavalcanti in Dante
“comico”, in «Rivista di Letteratura Italiana», 9 (1991), pp. 9-52; A. Gagliardi,
Guido Cavalcanti e Dante: una questione d’amore, Catanzaro, Pullano, 1997; E.
Malato, Dante e Guido Cavalcanti. Il dissidio per la Vita Nuova e il «disdegno» di
Guido, Roma, Salerno Editrice, 1997; D. Bonanno, La perdita e il ritorno. Presenze
cavalcantiane nell’ultimo Dante, Pisa, ETS, 1999 e Id., Guido in Paradiso. Donna
me prega e l’ultimo canto della Commedia, in «Critica del testo», IV (2001), 1, pp.
223-244; R. Antonelli, Cavalcanti e Dante: al di qua del Paradiso, in Dante. Da
Firenze all’aldilà, a c. di M. Picone, Firenze, Cesati, 2001, pp. 289-302; L. Leonar-
di, Cavalcanti, Dante e il nuovo stile in Dante. Da Firenze all’aldilà, Atti del Terzo
Seminario Dantesco Internazionale (Firenze, 9-11 giugno 2000) a c. di M. Picone,
Firenze, Cesati, 2001, pp. 331-354.
9. D. De Robertis, Il libro della Vita Nuova, Firenze, Sansoni, 1961, p. 16: «Il
titolo di Dante è Vita Nuova alludendo proprio a questa totale “renovatio” di cui il
libro è la testimonianza (…). Le nove rime, lo “stil novo” sono una scoperta, dico
scoperta piena e cosciente, della Vita Nuova, di quando il libro fu composto. Per un
poeta come Dante, la conquista del linguaggio era conquista di vita; una soluzione ar-
tistica investiva l’intera attività umana». Aggiungendo: «Dal primo tirocinio culturale
e guittoniano alla iniziazione cortese, all’abbracciamento della concezione cavalcan-
tiana dell’amore-passione, fino all’amore che ha in sé il suo premio» (a p.17).
10. La Vita Nuova, nelle sue fasi iniziali, descrive dunque una situazione di
lontananza dell’Io dalle verità dell’Amore e della poesia. Il libro si realizza come
un’inchiesta ed è indicativo che il primo componimento sia una domanda e, dopo la
negazione del saluto, si realizzi un secondo inizio attraverso una ferma definizione:
Amore e’l cor gentil sono una cosa.
11. Come ripercorre Rossi, Il cuore mistico pasto cit., p. 111: «Gli interpreti
hanno mostrato sempre un certo imbarazzo nell’esegesi della “meravigliosa visione”
del protagonista (…) nell’uso simbolico del motivo omofagico. A conferma di quanto
ho detto potrei citare due esempi (…): Alessandro D’Ancona che, nel suo commento,
dedica cinque fitte pagine alla storia del cuore mangiato, senza preoccuparsi, però, di
stabilire le possibili connessioni del testo dantesco con i suoi antecedenti romanzi e
quello di De Robertis che, quasi con fastidio, considera superfluo l’apparato danco-
niano e osserva semplicemente che Dante ha utilizzato un topos largamente diffuso
nella tradizione romanza». Segue Rossi, ibid.: «Ecco dunque che i versi di A cia-
scun’alma presa e gentil core si caricano di molti significati: sono i primi della Vita
Nuova e per questo, come ho detto, simbolizzano la conquista del canto; sono rivolti
ai fedeli d’amore e anzi, come ha notato Gorni, hanno inaugurato “un gergo aristocra-
tico entro una stretta consorteria di poeti”». Tra i commenti moderni affronta il tema
solo G. Gorni nella sua edizione (Dante Alighieri, Vita nuova, Einaudi, Torino, 1996,
Ghismonda e Beatrice 137
p. 20), che si limita a suggerire: «Il motivo del cuore mangiato, che l’antropologia
dichiara modo primario d’appropriazione delle virtù di cui era titolare la vittima, è già
nella tradizione letteraria occitanica, e specialmente nella vida di Guillem de Cabe-
stanh (cui s’ispirerà la novella di Decameron IV, 9) dove il cuore del trovatore amante
è dato in pasto dal marito alla moglie infedele» (p. 20).
12. L’avverbio di tempo è stato interpretato come riferito al momento della
morte della donna amata. Tra gli altri M. Colombo nel suo commento a Dante
Alighieri, Vita Nuova, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 46: «“Ora”, adesso che è av-
venuta la morte di Beatrice»; De Robertis: «Ora, che Beatrice è morta, si capisce
il pianto d’amore» (p. 44); anche Stefano Carrai (Dante Alighieri, Vita Nova, a c.
di S. Carrai, Milano, Rizzoli, 2009) sottolinea che il «verace giudizio» allude alla
premonizione della morte della donna (p. 49).
13. Inoltre, come nota R. Antonelli, «Per forza convenia che tu morissi», in
Donna me prega: Guido Cavalcanti laico e le origini della poesia europea nel 7°
centenario della morte. Poesia, filosofia e ricezione, Atti del Convegno internazionale
(Barcellona, 16-20 ottobre 2001), a c. di R. Arqués, Alessandria, Edizioni dell’Or-
so, 2004, p. 122 «Cavalcanti e Dante rispondono (…) ad uno stesso problema. (…)
L’uno, Cavalcanti, abolendo di fatto la donna come polo dialogico della possibilità:
se la donna è inconoscibile e inattingibile, ne deve seguire sempre la morte dell’indi-
viduo assoluto, l’Io poetante in nome dell’umanità: è la condizione necessaria per cui
si dia poesia, lirica: la donna non viene uccisa, come in Dante, dopo le rime della loda
(…); l’altro, Dante, ben consapevole della soluzione trovata dal suo primo amico (…)
unifica i due filoni cavalcantiani, loda e morte, nella persona/anima di Beatrice, alle-
goria necessaria oltre la lettera». Cavalcanti è del resto stato visto come poeta della
morte, e la sua rappresentazione indiretta nella Commedia dantesca si basa su questa
constatazione. Per un’analisi esaustiva rimando a R. Mercuri, Il poeta della morte, in
«Critica del testo», 4 (2001), 1, pp. 173-197.
E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete
parlavano così sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così non
avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande
vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore
rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale
vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e
io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente.
18. In parallelo ancora una volta con la razo di Guillem de Cabestaing, trova-
tore innamorato che nella versione di P compone per rimediare all’offesa di midons
(e fra l’altro proprio la composizione nella razo del trovatore è la causa principale
della morte, proprio perché Raimon scopre l’inganno dalle parole della canzone).
La scoperta – del tradimento, in questo caso, oppure dell’identità del soggetto – at-
traverso la canzone è anch’essa motivo largamente topico che curiosamente, come
Ghismonda e Beatrice 143
l’immagine del cuore mangiato, viene inaugurato all’interno del Tristan e arriva
fino al Decameron. In Dante il rapporto è capovolto, perché la morte della donna è
la precondizione della poesia: la negazione del saluto diventa il primo passo verso
le rime della lode, proprio perché la consapevolezza dell’assenza provoca la volon-
tà di porre la beatitudine «in quello che non (…) puote venire meno» cioè «in quelle
parole che lodano la donna mia» (VN XVIII, 4 ss.).
19. Come nota giustamente Antonelli, «Per forza convenia che tu morissi»
cit., «La lirica moderna europea nasce dunque narcisistica e maschile: l’abolizione
del corpo femminile (…) è infatti assunta quale condizione necessaria del perpetuo
possesso di un Oggetto altrimenti irraggiungibile e inconoscibile; soltanto allora
l’Io poetico, liberato dai vincoli dell’uso e dello scambio fisiologicamente intrinseci
alla poesia trobadorica e prestilnovistica, può individuare in se stesso e nella Parola
l’Oggetto, stavolta sì, per statuto conoscibile e posseduto, della propria attività e
della propria beatitudine; tanto infine da poterlo ri-pensare in Storia, la Vita Nuova,
lirica della separazione/assenza dalla Donna e assenza/cancellazione del corpo a
beneficio della Parola. La morte della donna non implicherà dunque più la fine del
canto ma il suo vero inizio» (p. 203).
20. La necessità della morte della donna amata nel cap. XXVIII è riproposi-
zione di uno stilema variamente usato nella poesia di Cavalcanti: «Di necessitade
conviene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia» (VN XXVIII, 3) cor-
risponde a «Tu sai, quando venisti, ch’io ti dissi, / poi che l’avéi veduta, / per forza
convenia che tu morissi» (Io non pensava che lo cor giammai, vv. 40-42); come ha
già notato Antonelli, «Per forza convenia che tu morissi» cit., p. 207 ss.
21. Opposta è la concezione dantesca cfr. VN XVIII, 4-6: «Allora dissi queste
parole loro: “Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna,
forse di cui voi intendete, e in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti
li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la
sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire
meno” (…). E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna
che m’avea prima parlato, queste parole: “Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sta
questa tua beatitudine”. Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: “In quelle parole che
lodano la donna mia”».
22. Nel percorso della Vita Nuova seguirà alla dialettica tra saluto e lode un’altra
anticipazione della morte dell’amata, nel funerale del padre di Beatrice a cui segue
un’invocazione della morte da parte di Dante (VN XXIII). E inoltre: al momento della
morte preannunciata di Beatrice, ancora una volta in una visione (VN XXIV), ritrove-
remo Amore che lietamente sigilla il nesso tra Dante e Cavalcanti. Il rimando all’amico
si realizza sempre secondo lo schema della prefigurazione: Giovanna diventa Prima-
vera – “prima verrà” – annuncio della Beatrice dantesca, così come la poesia di Guido,
ancora in Pg. XXIV, presuppone l’arrivo dell’autore del libello (né è forse casuale che
il numero del canto sia lo stesso del capitolo della Vita Nuova in cui si teorizza tutto
questo; né che preceda il ragionamento meta-letterario del capitolo successivo).
23. Guido è «il primo e l’unico, in cui Amore si identifica di fatto con una
Morte ‘assoluta’, a priori, del Soggetto: la necessità della morte non è sottoposta
a diegesi, è precondizione della Poesia e semmai sarà da ricondurre, ma solo in
quanto ambito di legittimazione teoretica, al bipolarismo amoroso insito nella
melanconia e alla patologia conseguente, che porta all’immoderata cogitatio con-
seguente a una passio per il possesso di una forma alterius sexus irraggiungibile
e al tentativo di sostituire quindi l’Oggetto irraggiungibile con qualcosa di appa-
rentemente conoscibile, comunque rassicurante: se stessi, pur se anche alla fine
di questo percorso si può trovare la morte» (Antonelli, «Per forza convenia che
tu morissi» cit., p. 212).
Ghismonda e Beatrice 145
cosa gentile» (vv. 73-74) e infine, dove ricorre anche l’immagine del
velo, «Vedea che donne la covrian d’un velo» (v. 68).
Alla luce dello sviluppo progressivo, il sonetto iniziale diviene
dunque una mise en abyme di tutto il percorso complessivo del li-
bello dantesco: da una parte per la prefigurazione della morte della
donna amata, dall’altra per il cuore mangiato, che implica la morte
del soggetto amante dato in pasto a midons. Operazione che segna
il passaggio da una concezione cavalcantiana iniziale alla nuova po-
esia della lode. Il componimento è dunque il naturale e inevitabile
séguito dell’incontro con Beatrice (la poesia), il primo passo del Li-
bro della memoria, l’ingresso di Dante nella tradizione letteraria,
ma anche la rappresentazione di una condizione transitoria che può
essere descritta solo in quanto successivamente superata. Soprattut-
to perché Dante, a quest’altezza del racconto e nel momento dell’or-
dinamento dei componimenti, rappresenta un sistema (basato sulla
sua concezione d’amore iniziale e giovanile del “saluto”) che viene
descritto solamente in quanto successivamente superato.24 La Vita
Nuova, in quanto trattato d’amore,25 propone un modello a cui uni-
sie vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza:
e come che tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi essercitato ti sii,
non dovevi di meno conoscere quello che gli ozii e le dilicatezze possano ne’
vecchi non che ne’ giovani.
poeta attinge a una vera e propria parabola: il percorso esistenziale e letterario di ogni
auctor si stabilizza e attraversa delle fasi, generalmente scandite da un evento-cesura
(per una prospettiva generale si veda J. Burrow, The ages of man, Oxford, Clarendon
Press, 1986). La giovinezza come condizione sociale solo inizialmente legata all’età
anagrafica era già stata al centro dell’indagine di Eric Köhler (Sense et fonction du ter-
me “jeunesse” dans la poésie des troubadours, in AA. VV., Mélanges offerts à René
Crozet, Poitiers, Societé d’études médiévales, 1966, pp. 569-583, tradotto in italiano
in Id., Sociologia della fin’amor: saggi trobadorici, a c. di M. Mancini, Padova, Li-
viana, 1976), che ha analizzato la fin’amor come un’espressione della pulsione di una
classe di iuvenes alla ricerca di una nuova e più prestigiosa collocazione sociale. La
concezione dell’amore come forza naturale, e la discussione che oppone modelli che
predicano l’allontanamento dal corpo a una più edonistica concezione del piacere ma-
teriale, diventano una polarità di riflessione sulla propria scelta letteraria considerata
in rapporto alla propria esistenza di uomo e di auctor. Per attenerci al solo universo
trobadorico, un terzo delle vidas finiscono con il trovatore che termina la propria vita
in monastero, spesso rinnegando la propria esperienza poetica precedente (sul tema
R. Antonelli, La morte di Beatrice e la struttura della storia, in Beatrice nell’opera di
Dante e nella memoria europea (1290-1990), Atti del Convegno internazionale [Na-
poli 10-14 dicembre 1990], Firenze, Cadmo, 1994, pp. 34-56, in part. p. 41: «A livello
storiografico, le vidas e le razos ripropongono analiticamente lo schema portante,
iscrivendolo compiutamente, però, all’interno del fatto poetico letterario. Ad un certo
punto della vita del trovatore avviene qualcosa che spiega le ragioni di una svolta e
che comporta un mutamento delle condizioni istituzionali, anche interiori, dell’atti-
vità poetica, quindi la cessazione dello stesso canto cortese»). Al centro del cambio
di paradigma si pone la morte della donna amata, causa scatenante che porta il poeta
a comporre versi di ispirazione religiosa, e che divide la vita poetica e anagrafica in
due parti. Alla scomparsa della ragione del canto, all’impossibilità di ottenere una
mercé dallo scambio amante-amata nel mondo, corrisponde il ripiegamento verso la
religione. Folchetto di Marsiglia diviene il modello di questa parabola, tanto da essere
l’unico trovatore nel Paradiso di Dante, proprio perché ha rinnegato la lirica amorosa
giovanile in vista di un passaggio spirituale, al termine del quale diviene vescovo.
A fronte di questo schema s’innesta, in modo complesso e articolato, il tema della
giovinezza come fenomeno comune a tutti gli uomini, che suggerisce la divisione tra
un periodo in cui essere innamorati (e dunque scrivere poesia d’amore) è legittimo
e una vecchiaia in cui si deve rientrare verso il porto della fede sotto le insegne di
philosophus moralis – dinamica che era anche nel trattato di Andrea Cappellano e che
arriverà fino e oltre a Petrarca. È dunque in relazione alla convenienza rispetto all’età
della vita che l’intellettuale medievale deve cambiare il proprio modo di vivere – e
dunque, di fare poesia.
Ghismonda e Beatrice 149
pur men reo e più piacevole alla bocca è il capo di quello, il quale voi general-
mente, da torto appetito tirate, il capo vi tenete in mano e manicate le frondi, le
quali non solamente non sono da cosa alcuna ma son di malvagio sapore. E che
so io, madonna, se nello elegger degli amanti voi vi faceste il simigliante? E se
voi il faceste, io sarei colui che eletto sarei da voi, e gli altri cacciati via.
32. Tutte e tre le novelle (I, 5; IV, 1; X, 6), incentrate sulla tematica amorosa,
vengono anche raccontate dalla stessa narratrice, Fiammetta.
33. Con sullo sfondo la caratterizzazione dantesca di Guido Guinizzelli in
Purgatorio («[…] Perché non servammo umana legge, / seguendo come bestie l’ap-
petito” [Pg. XXVI, 83-84]). La dinamica che coinvolge follia, posizione sociale e
amore è comune anche alla novella II, 8, che racconta le vicende del conte d’An-
versa e dei figli, costretti ad allontanarsi dalla corte del re di Francia. Il precetto
enunciato da Fiammetta in I, 5 si ritrova prima nel rifiuto del conte, che sarà alla
base dell’esilio della famiglia (Dec. II, 8, 20 ss.: «[il conte] con gravissime ripren-
sioni cominciò a mordere così folle amore e a sospignerla indietro») e in séguito
quando la figlia del conte, Giannetta, giunta a Londra e adottata da una gentildonna,
è costretta a reprimere il proprio sentimento in osservanza della regola (§ 41): «E
per ciò che egli imaginava lei di bassa condizion dovere essere, non solamente non
ardiva addomandarla al padre e alla madre per moglie, ma, temendo non fosse
ripreso che bassamente si fosse a amar messo, quanto poteva il suo amore teneva
nascoso; per la qual cosa troppo più che se palesato l’avesse lo stimolava». Inol-
tre, il giovane innamorato di Giannetta si ammala «per soverchio di noia» (§ 42)
39. Nella sua canzone manifesto (Donna me prega, v. 2), Guido definisce
l’amore un «accidente - che sovente - è fero».
Ghismonda e Beatrice 159
40. L’immagine della Fortuna che «mena» i casi umani è anch’essa ripresa dal
libello giovanile dantesco, in particolare da VN, XVIII: «Con ciò sia cosa che per la
vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne,
le quali adunate s’erano dilettandosi l’una ne la compagnia de l’altra, sapeano bene
lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte mie sconfitte; e io passando
appresso di loro, sì come da la fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili
donne», che corrisponde a un passo della conclusione dell’opera boccacciana «La
quale, quando questo vi piaccia, sia questa: che, con ciò sia cosa che dal principio
del mondo gli uomini sieno stati da diversi casi della fortuna menati, e saranno in-
fino al fine, ciascun debba dire sopra questo: chi, da diverse cose infestato, sia oltre
alla speranza riuscito a lieto fine» (Dec. Concl. I giornata, 10-11).
Ghismonda e Beatrice 161