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01.03.2021
Bonus di 1pt: x partecipazione su forum ed esercizi
PROVE:
1) questionario a risposta chiusa/scelta multipla. 30qx 30min sul manuale di storia eco globale. Non fa il
manuale con noi. Va letto per conto proprio. Lei ne fa riferimento, ma non lo spiega. Manuale (il mondo
globale): dal cap 4 al 23. Probabilmente una domanda a capitolo.
2) 3 domande aperte e risposte brevi (150w/q). In 30 Min. Sui contenuti del corso: materiali (ex. Articoli,
pwp con immagini e grafici, video) + il secondo volume: grande accelerazione (cap 1,2,3)
3) non il giorno dell'appello. Elaborato di 1500w tassative. Da caricare nella sezione portfolio su Ariel,
diviso per gruppi alfabetici. Scegliere noi un argomento tra quelli presentati durante le lezioni ed
approfondirlo con le fonti che troviamo noi. Fonti realistiche e nella scrittura dare l'idea di riconnettere
questo argomento ai contenuti del corso. Si possono fare anche interviste, mettere video, etc. L'argomento
non si deve concordare con lei, ma parte del voto è basato sul collegamento dei contenuti spiegati
all'argomento scelto. Per trovare le fonti si può consultare il sistema bibliotecario di ateneo. Interfaccia
"Minerva" -> molti corsi per imparare ad usare il sito (in questi giorni).
Anche podcast (da studiare)
Da domani due codici per due teams. Comunicazioni urgenti su Ariel.
La storia ambientale
È stata trovata una nuova specie animale nella fossa delle Marianne. Nell’esaminarla, hanno trovato
nell’apparato digerente del minuscolo gamberetto una molecola di plastica – chiamato eurythenes plasticus.
Prima volta che nome di un animale ingloba la plastica. È sorprendente sapere che la plastica è a 6.500m di
profondità, dove è stata scoperta questa specie.
La storia dell’ambiente è strettamente legata allo sviluppo economico moderno, ossia una serie di processi
attuati in Europa nella metà del 700, che continueranno nell’800, nel 900 fino ad oggi. La storia dello
sviluppo economico moderno si dispiega quindi in tre decenni. Qui vediamo una declinazione della storia
economica, ossia la storia ambientale. I dati mostrano che quasi un’università americana su due prevede la
storia ambientale tra le sue proposte didattiche.
Nel corso parleremo in particolare di Antropocene (“antropos” dal greco = uomo): epoca della storia del
pianeta dove l’uomo diventa una forza di trasformazione del pianeta stesso, diventa attore geologico e
biologico. L’eurythenes plasticus ne è un esempio chiaro. Il termine ci invita a mettere la storia dell’uomo
meno al centro della visione della storia stessa.
Il problema del riscaldamento globale non è visibile di anno in anno, ma lo vediamo osservando dati
mondiali su un tempo molto lungo. La temperatura mondiale è aumentata da quando la prima rivoluzione
industriale ha iniziato a dispiegare i suoi effetti più di un grado. A metà del 1700 nella Gran Bretagna inizia
la rivoluzione industriale. Questa differenza apparentemente piccola genera effetti crescentemente potenti.
Sembra emergere un’esigenza di approcci umanistici a problemi scientifici. Avvicinarsi ad una disciplina
umanistica non richiede prerequisiti così alti come per le materie scientifiche. I due ambiti in merito sono il
riscaldamento globale (quest’espressione non appare da molto tempo, ma solo dai primi anni 2000) e il
cambiamento climatico. Le due espressioni servono insieme, non si escludono vicendevolmente. Il mondo
sta cambiando a causa del riscaldamento globale, che significa aumento della temperatura dell’atmosfera,
dell’acqua, del suolo. Ciò che sta avvenendo è il progressivo scioglimento della calotta artica. Al polo
nord la calotta artica si sta surriscaldano più rapidamente di altre latitudini.
Circa un mese fa c’è stato un grande raffreddamento e gelo estremo nel nord America. Paradosso: fenomeni
di gelo estremo hanno a che fare con l’aumento della temperatura del pianeta. Luoghi, persone e città non
erano attrezzate a questo brusco abbassamento della temperatura. Ci sono state tempeste di neve, di ghiaccio,
che congelava apparecchiature. Sono morte alcune decine di persone. C’è un nesso diretto tra il
surriscaldamento della calotta artica e questi eventi climatici estremi. 200 milioni di americani sono stati
messi in stato di allerta. Più si scalda la calotta polare, più c’è un deflusso rapido verso sud di masse di aria
fredda, verso luoghi che prima non erano mai stati raggiunti. La temperatura nell’artico cambia il circuito di
venti attorno al polo nord, lo deforma e lo fa scendere verso sud. Questo episodio è stato definito storico.
Non è stato giudicato un fenomeno naturale. Un episodio di freddo intendo di questo tipo non accade
nonostante il pianeta si stia surriscaldando, ma accade a causa del fatto che il pianeta si stia surriscaldando.
Ci sono state 62 ore continuative sopra lo 0 in Groenlandia, mai successo prima.
L’ONU ha constatato che il 2020 è stato uno dei tre anni più caldi mai registrati. Il decennio 2011-2020 è
stato il più caldo mai registrato. I 6 anni più caldi sono quelli succeduti dopo il 2015.
Effetti:
ondate di calore marino, con ripercussioni sugli ecosistemi marini: oceani stanno subendo un
processo di acidificazione: cambia la chimica dell’acqua, che assorbe anidride carbonica in eccesso;
picchi nelle temperature;
incendi in ettari ed ettari di foreste
inondazioni, nel 2020 in Cina e India ci sono state inondazioni straordinarie
in Europa sono state registrate due forti tempeste nel 2020, Chara (Irlanda, Regno Unito) e Alex (sud
Francia, Liguria, Piemonte occidentale). In 12 ore in Piemonte è caduto mezzo metro d’acqua.
Nel gennaio 2020, la NASA ha pubblicato un video di pochi secondi che mostra l’accelerazione delle
temperature del mondo che crescono di un grado e mezzo circa. Il planisfero inizia a essere sempre più
intenso dal fine dell’800 (quando si iniziò a registrare dati sulla temperatura) fino ad oggi. Questo avviene in
maniera non uniforme nel pianeta. [video nelle slide]. La NASA ha preso dati su 20.000 stazioni
metereologiche nel pianeta, che raccolgono dati metereologici.
Il clima è sempre cambiato nella storia del pianeta, ma sempre in corrispondenza di stravolgimenti
importanti. L’equilibrio si è andato inclinando progressivamente nel corso degli ultimi secoli. Quindi il
riscaldamento globale è certamente un problema dell’oggi; ma non è un problema recente: ha una
stratificazione storica molto lunga e un’accelerazione storica che corrisponde allo sviluppo economico
moderno, che corrisponde agli ultimi 200 anni. Per questo la storia economica e la storia dell’ambiente
hanno molto a che fare l’uno con l’altro.
Quindi non è la prima volta che cambia il clima nel pianeta. Però:
Da quando l’essere umano è diventato stanziale, ossia 5.000 anni fa, il clima è stato relativamente
stabile. Adesso stiamo sperimentando un cambiamento climatico dopo migliaia di anni di relativa
stabilità climatica.
Il tasso con cui il riscaldamento del pianeta di sta manifestando è stata molto più rapido negli ultimi
200 anni di quanto non lo sia stato nell’ultima era geologica. C’è stata un’accelerazione
nell’accelerazione degli ultimi 70-80 anni, dopo le guerre mondiali. Inoltre, ci sono stati altri
cambiamenti climatici nella storia del pianeta ma oggi c’è una causa nuova: una causa umana. Sono
i comportamenti dell’uomo degli ultimi millenni e soprattutto negli ultimi due secoli che ha avuto
un’interferenza col pianeta mai verificata prima. La spinta più potente è determinata dalle emissioni
di anidride carbonica.
Parlare di riscaldamento globale ha un’urgenza oggi più che mai. Nel febbraio 2021 in Texas si sono
registrate temperature più fredde di quelle di alcune aree dell’Alaska.
L’uso del cemento, la riduzione della biodiversità (della varietà delle specie sul pianeta) hanno contribuito –
più l’uomo si allarga sul suolo, più lo cementifica, più le specie che vivevano quei suoli arretrano. Il cemento
è il singolo elemento inquinante più acuto nel pianeta.
Le Snicker sono il tipo di scarpe che produciamo di più. L’industria che le produce, se considerata come un
paese, sarebbe il 17esimo più inquinante sulla terra. Si tratta di un tipo di scarpe molto comune e classiche,
ma sono estremamente dannose. Finiscono o in discarica o in un inceneritore (che produce ugualmente
anidride carbonica).
Demografia: la popolazione mondiale ha raggiunto un numero di quasi 7 miliardi e mezzo con una velocità
senza precedenti. È stato introdotto il concetto di impronta ecologica, che serve a definire un indicatore che
dica qual è la quantità di risorse che un uomo, una nazione o un continente utilizza per soddisfare i propri
bisogni quotidiani. Questa impronta ecologica dipende dalla persona e dalla sua locazione (una donna
europea avrà un’impronta ecologica di una donna africana).
Occuparsi di storia ambientale in connessione alla storia economica significa occuparsi di interazioni tra ciò
che l’uomo ha fatto in questi due secoli e gli altri esseri viventi, il clima, le risorse naturali; e fare tutto
questo considerando il tempo come una delle dimensioni più importanti.
Vi è un modello di sfruttamento del pianeta che corrisponde allo sviluppo economico moderno; che si è
sviluppato dagli ultimi due secoli dall’Europa occidentale – il perno europeo della prima rivoluzione
industriale è diventato poi extraeuropeo, andando in nord America, in Russia…
Tra le ragioni di occuparsi di storia dell’ambiente all’interno dell’etichetta della storia economica c’è il fatto
che nella nostra generazione sembra esserci l’abitudine di potere affrontare problemi scientifici con
approcci umanistici. È difficile essere dotati degli strumenti che consentono di capire la complessità dei
fenomeni scientifici: anche il singolo scienziato che guarda il Covid-19 ne proporrà una dimensione stretta.
A costo di perdere rigore, gli approcci umanistici propongono una visione larga di questi fenomeni.
Spieghiamoci meglio: a partire dagli anni 2000 (quando si inizia a parlare di riscaldamento globale
sostituendo questo termine a quello di cambiamento climatico; e si inizia a parlare di Antropocene) si sono
affermate discipline che hanno preso l’etichetta di environmental humanities (studi umanistici ambientali).
Si parla di molte discipline: la geografia, l’antropologia, la linguistica (si è occupata molto di Antropocene),
gli studi di genere e di relazioni di genere (gli effetti del riscaldamento globale e del cambiamento climatico
non sembrano essere gli stessi nei maschi e nelle femmine); studi postcoloniali e culturali; la filosofia; la
storia; gli studi dei media.
Queste environmental humanities hanno cercato di aprire dei ponti tra ambiti di studi apparentemente molto
diversi (studi umanistici, sociali, economici, politici). Hanno parlato di questioni che coinvolgono molti, tra
cui la giustizia, l’uguaglianza e la disuguaglianza nella salute, etc. Un’altra questione sugli approcci
umanistici a problemi climatici viene anche dal fatto che sono mossi da e verso prospettive diverse: sono
alimentate da questioni che arrivano da fuori dell’Europa (Australia, Asia, America latina, Africa…). Una
questione molto interessante degli approcci umanistici è il tipo di materiale che propongono: le
rappresentazioni e le narrazioni visive, musicali, performative, poetiche, artistiche.
Il tema ambientale non è affatto lontano da ciò che studiamo. Nel ventaglio delle discipline umanistiche che
affrontano problemi scientifici c’è ad esempio la storia. La storia ambientale chiama in causa non solo
l’azione dell’uomo, ma anche le azioni planetarie e globali.
I vantaggi di interessarsi all’approccio storico all’ambiente:
1. Se ci interessa qualcosa del nostro immediato presente, sicuramente ci interessa anche la storia
ambientale – essa chiama in causa le azioni dell’uomo in relazioni alla natura o agli animali. Non c’è
qualcosa che causa qualcos’altro, ma c’è una reazione della natura che cambia l’azione umana: la
storia ambientale è costellata da questi elementi: azioni e reazioni.
2. L’ambiente non è esattamente una categoria della storia. L’ambiente non è una categoria come razza,
classe, genere; ma è il loro contenitore. La storia ambientale è una sorta di metastoria, una storia
della storia.
3. La storia ambientale può essere vista come una prospettiva contemporaneamente sia molto nuova (è
nuova come disciplina ad esempio universitaria – aumento recente dei dipartimenti americani che
impartiscono lezioni di storia ambientale nei loro corsi) che molto vecchia (l’idea dell’uomo che
riflette dell’interazione tra natura e cultura non è nuova affatto).
Ogni processo di civilizzazione implica un cambiamento di interazione tra uomo e natura. Una modalità di
declinare la parola civilizzazione può essere le maniere con cui l’uomo ha cercato di “usare” la natura:
pastorizia, agricoltura, tecnologie, industrie…
È come se la storia ambientale dicesse qualcosa su come l’uomo è vissuto negli ultimi secoli, qualcosa sul
“come”, sul “che cosa” e sul “dove”. È storia ambientale tutto ciò che guarda come l’uomo coltiva, alleva,
fabbrica, mangia, si ammala, guarisce, guadagna potere sulla natura attraverso la tecnologia. L’uomo degli
ultimi decenni e secoli ha guadagnato potere sulla natura in modo mediato dalla tecnologia.
Internet ci consente, tra le altre cose, di non spostarci. Si potrebbe pensare che questo permetta di non
generare anidride carbonica durante gli spostamenti. Nel 2019, internet consumava il 7% di tutta l’energia
consumata al mondo. Se pensiamo che sia una tecnologia “neutra” dal punto di vista delle emissioni, non è
così. Se fosse una nazione, sarebbe la quarta al mondo per energia: consumerebbe più del Giappone e meno
dell’India, contribuisce al 4% delle emissioni di gas serra a livello mondiale.
Il mondo preindustriale non è vero che non inquinava, ma non aveva i processi domino indotti
dall’industrializzazione.
03.03.2021
Civilizzazione: costante apprendimento degli uomini di come gestire la natura, tramite edificazione città,
allevamento, agricoltura, industria, tecnologia, che è lo strumento di controllo della natura più potente. Ogni
tecnologia non è mai, però, ambientalmente neutra (esempio internet scorsa lezione).
Possiamo immaginare la storia ambientale su diversi percorsi. Ci parla del “come” gli uomini hanno vissuto
nei secoli, come hanno guadagnato potere sulla natura; ha spiegato di “che cosa” si sono ammalate le
persone, cosa hanno mangiato, bevuto, dove hanno vissuto, etc.
La plastica e il cemento sono due materiali non naturali, ma derivano dalla capacità umana di fabbricarli
artificialmente e di produrli in grande massa.
La storia ambientale parla anche del “dove” gli uomini hanno storicamente vissuto (nella città o nelle
campagne…); e si collega al come lo hanno fatto e al che cosa hanno utilizzato per vivere.
L’impronta ecologica (indicatore di quante risorse sono consumate da singole comunità) è molto importante
in questo senso, dipende dalle varie comunità (europea consuma più di quella africana). L’Europa sta
cominciando politicamente a reagire allo stato delle cose da qualche decennio, sia a livello di istituzioni
continentali che locali. Ci sono anche movimenti sociali in merito, Greta Thumberg ne è la portavoce più
nota.
La storia ambientale ha molti vantaggi in termini di prospettiva, tra i quale ci spinge a smontare assunti
universalistici. Se diciamo che è stato l’uomo a generare la massa di emissioni di anidride carbonica che è
una delle cause più importanti del cambiamento globale, questo assunto viene smontato dalla storia
ambientale. L’”uomo” non può essere identificato come specie umana, perché non tutta la specie umana ha
contribuito egualmente a questo stato di cose: le comunità mondiali nei paesi che si sono industrializzati per
primi hanno avuto impatto maggiore (si tratta principalmente dell’Inghilterra). L’unico paese fuori
dall’Europa che ha contribuito, seppur più tardi rispetto all’Europa, sono stati gli USA.
Smontare assunti universalistici significa spesso fermarsi a chiedersi chi, quando, dove, perché. Chiedersi da
chi è stata detta, su quali media, per quale motivo.
Un altro aspetto della storia ambientale è che è una prospettiva profondamente interdisciplinare: non
sarebbe nata se gli storici che si sono occupati per dell’ambiente non l’avessero fatto facendo molta
attenzione a ciò che dicevano le altre discipline, come ad esempio l’economia, l’ecologia, la politica, le
scienze “dure” (matematica, fisica, chimica…), le scienze “della vita” (medicina, biologia…), scienze
umane, discipline umanistiche – sono i grandi ambiti in cui la conoscenza è stata strutturata nelle università.
La storia ambientale è costretta ad “annullare” questa divisione, costringendo gli umanisti ad andare a
guardare cosa fanno gli scienziati.
La storia ambientale è quindi una risposta a ciò che sembra emergere nella generazione degli studenti attuali,
ossia l’utilizzo di approcci umanistici a problemi scientifici. Naturalmente gli umanisti di rendono conto che
esistono problemi che devono avere soluzioni scientifiche (la pandemia ce lo sta dimostrando), ma è vero
anche il contrario: talvolta il mondo della scienza fatica a comprendere il mondo stesso che deve studiare
perché gli strumenti scientifici non sono onnipotenti. Nessuno al mondo ha mai avuto in mano uno
strumento onnipotente. In mezzo alla pandemia è stato chiaro come la scienza, che siamo ingenuamente tesi
a pensare come una verità indiscussa, è esattamente l’opposto: le realtà scientifiche non sono assolutamente
certe, ma pienamente discutibili: la scienza procede per prove d’errori, per molti più errori di quanto si
creda, per arrivare a teorie provvisorie, che saranno raffinate o eliminate da nuove scoperte.
La storia ambientale nasce quindi come interdisciplinare, e per progredire e interessare qualcuno esserlo,
andando a guardare fuori dalle discipline umanistiche.
Un altro tratto della storia ambientale è quello di essere globale. È globale non solo nel senso
omnicomprensiva (che comprende tanti punti di vista diversi), ma anche perché i fenomeni che studia
vengono a galla solo se guardati con il grandangolo del mondo. La storia ambientale ha bisogno di un
obbiettivo larghissimo per guardare ai suoi fenomeni. Questo perché ciò di cui si occupa (inquinamento,
alterazione dei ghiacci, estinzione di animali, acidificazione degli oceani…) non si ferma ai confini
nazionali. Il fenomeno di scioglimento dei ghiacciai sulle alpi non è solo un problema italiano. Invece, molti
altri fenomeni storici erano nazionali (stati totalitari, monocrazie, storia dei commerci, storia delle
migrazioni…).
La storia ambientale non ha nulla a che fare con i confini nazionali – anche le politiche nazionali di contrasto
ai problemi climatici sono utili ma non sufficienti – bisogno di coordinazione sovrannazionale (UE).
La storia ambientale ha un perno occidentale potente, ma ha anche moltissimi sviluppi e contributi da
ricercatori non europei e non occidentali, ma africani o asiatici – c’è una storia ambientale globale.
Cosa vorrebbe fare col corso: la storia dell’ambiente non è solo una serie di cose da sapere. Spera di rendere
il passato interessante per capire il presente. È importante la spinta verso il ragionamento sui
comportamenti sia individuali che collettivi, non necessariamente per volerli cambiare. È importante anche
discutere sui “dati per scontato”, capire come trovare delle fonti di informazioni giuste, chi ascoltare, come
ascoltare e perché determinate fonti piuttosto che altre. È importante anche capire chi per lavoro ascolta la
natura, come i fotografi, i documentaristi, i naturalisti, gli oceanografi. Su Netflix esistono molti documentari
sulle tematiche ambientali.
La storia ambientale è di vitale importanza per capire il nostro presente. Non è in nessun modo separata
dalla scienza, dall’economia e dalla politica, non solo perché si tratta di una materia interdisciplinare; ma
perché l’oggetto ambiente non può essere separato dalle questioni scientifiche e politiche. Ha a che fare
inoltre con i destini e con gli sviluppi statali: nessuno stato può ignorare il problema ambientale.
Inoltre, la storia economica ha molto a che fare con i destini delle democrazie occidentali: non c’è nessun
apparato statale che possa ignorare il problema ambientale – anche il non far nulla avrebbe delle
conseguenze. Nello scenario mondiale, alcuni conflitti sono già di carattere ambientale.
La storia ambientale non è catastrofista, chiede solamente di fermarsi a riflettere per poter diventare
un’azione.
La campagna pubblicitaria lanciata alla fine del 2020
Le discipline umanistiche parlano soprattutto di un oggetto privilegiato, ossia le narrazioni e le
rappresentazioni. È difficile che qualche cosa che facciamo durante la giornata non abbia a che fare con un
retaggio che la storia ambientale ci ha lasciato. Su questo lavorano tantissime narrazioni e rappresentazioni.
Una narrazione che se ne è accorta è sicuramente quella della pubblicità.
Questa pubblicità fa immediato riferimento al diluvio di rifiuti plastici che il mondo contemporaneo ha
prodotto. Le industrie produttrici di beni operano su scala globale, non solo nei paesi sviluppati – i PVS
hanno dinamiche demografiche acceleratissime, consumano molto e producono enormi quantità di plastica;
tutto ciò non è equilibrato da pratiche di riciclo o riutilizzo.
Questa campagna è importante perché fa leva su quello che
ci ricorda l’euryhtenes plasticus. Il CEO della società, ex
sportivo, ha pensato che il mondo dello sport consuma
moltissimi beni inquinanti, a cominciare dalle scarpe di
allenamento. Ha quindi lanciato delle scarpe con la
caratteristica di essere composte al 100% da materiali
riciclabili. Si utilizza quindi la pubblicità e lo sport per
“educare” il prossimo e ispirare cambiamento. Lo slogan
dello spot “run like the world depends on it“ – frase molto
usata, si ispira ad una frase detta da Sant’Ignazio di Loyola,
fondatore della compagnia dei gesuiti nel 1500: “prega come se tutto dipendesse da Dio, lavora come se tutto
dipendesse da te” – frase molto potente, utilizzata più volte dal mondo pubblicitario. Scarpe appaiono, non
casualmente, alla fine del 2020: anno che chiude il decennio più caldo dipeso da moltissimi fattori inquinanti
(il più netto dei quali è la produzione di anidride carbonica). È importante quindi riflettere sul tipo di
narrazioni che ci circondano, e di come sono intrise delle problematiche ambientali di cui stiamo parlando.
Dall’idea delle Snicker noi possiamo riflettere su nostri comportamenti quotidiani, che possono subire dei
cambiamenti. Una ricerca nata intorno alle Snicker dice che pur essendo uno degli oggetti più inquinanti del
pianeta, solo il 3% delle Snicker prodotte possono essere definite eco-friendly. Queste scarpe non vengono
riciclate, ma finiscono o in discariche o in inceneritori (diventando gas serra).
08.03.2021
Quando si inizia a parlare di questione climatica e di rischio climatico? Perché le soluzioni sono lente?
Il rischio climatico viene evidenziato nel 1972 durante una conferenza dell’ONU a Stoccolma. È
certamente possibile tracciare una storia molto più lunga della preoccupazione rispetto al clima; ma in quella
conferenza la paura del momento viene messa in luce come la rotta di collisione tra rapida crescita
economica e demografica da un lato, e scarsità di risorse dall’altro.
Quello stesso anno esce anche un libro molto importante: I limiti dello sviluppo. È una ricerca che dice che
se andando avanti così, si sarebbe potuti arrivare al collasso economico all’apertura del XXI secolo. Si
trattava di una ricerca che fu commissionata da un’organizzazione non governativa dell’epoca, chiamata Il
club di Roma ed era un'associazione di industriali, scienziati e giornalisti internazionali. La ricerca venne
commissionata a un gruppo di ricercatori dello MIT (Massachusetts institute of technology) di Boston. È
importante notare che fu sviluppata sulle prime simulazioni fatte al computer. Erano simulazioni ancora
molto primitive all’epoca. Pensiamo al fatto che all’apertura degli anni ‘70 siamo agli albori delle
applicazioni civili dell’elettronica. Quel libro diede il via a una serie di altre analisi della situazione della
Terra basate su "mondi" costruiti al computer, ossia simulazioni via via più sofisticate. Il rapporto raccontava
lo stato del pianeta e delle risorse di quella fase storica che chiudeva i decenni di crescita seguiti alla Seconda
Guerra Mondiale in Europa e nel Nord America, ossia in gran parte del mondo industrializzato di allora. Non
era un libro di previsioni, ma presentava idee, suggerimenti e allarmi su come affrontare i problemi che,
presumibilmente, il nostro pianeta si sarebbe trovato di fronte nel giro di pochi anni a partire da allora. Il
messaggio principale era «il pianeta è limitato nella sua dimensione e nelle sue risorse, e lo sviluppo
economico e soprattutto sociale non può proseguire molto a lungo senza andare a scontrarsi con i confini
fisici della terra.
In quel momento (1972), la grande preoccupazione è però che l’umanità stesse esaurendo i materiali
strategici, che fosse questo il motivo per il quale ci si sarebbe trovati nell’impossibilità di proseguire la
crescita.
Sono tutti timori che vanno contestualizzati in quel momento storico: siamo alla fine dei tre decenni di
crescita ininterrotta da dopo la II guerra mondiale, alla vigilia di due gravi crisi energetiche che marcano
proprio gli anni ’70:
1973: il prezzo del petrolio passa nel giro di pochi mesi da 3 a 12$ al barile
1979: il prezzo del petrolio decuplica rispetto all’inizio del decennio
I temi della storia ambientale sono, lo ripetiamo di nuovo, davvero strettamente intrecciati ai temi della storia
dell’energia. Di energia parla soprattutto il libro “La grande accelerazione”. I paradigmi dell’energia sono
storicamente in sequenza (prima il carbone-petrolio-nucleare…); ma non si sostituiscono reciprocamente, in
realtà si sommano e convivono storicamente almeno parzialmente.
Quello che nel 1972 non si comprendeva ancora era che i limiti della crescita non avevano a che fare col
petrolio, ma col funzionamento degli ecosistemi terrestri, con la biodiversità e con la capacità
dell’atmosfera di assorbire i gas serra, ossia i gas emessi dall’uomo attraverso il consumo di tutti i
combustibili fossili sia nei processi agricoli che nei processi industriali.
È solo da una ventina d’anni a questa parte che è diventato chiaro che le materie prime centrano poco con i
limiti dello sviluppo.
La più seria minaccia all’equilibrio del pianeta è data dal cambiamento climatico generato dall’uomo;
cambiamento a sua volta nato dall’accumulo dei gas serra. Specificatamente, questi gas serra sono:
o Biossido di carbonio
o Metano
o Ossido di diazoto
o Altre sostanze chimiche di origine industriale
Sono chiamati così perché sono i responsabili dell’effetto serra, che è due cose contemporaneamente:
Un fenomeno naturale benefico molto prezioso per l’uomo: il pianeta si riscalda per effetto dei gas
serra presenti nell’atmosfera; essi trattengono il calore delle radiazioni solari nell’atmosfera
impedendogli di tornare nello spazio. È grazie all’effetto serra che la temperatura media della terra è
di circa 15°; se non ci fosse l’effetto serra sarebbe di -18°.
Un grande problema ambientale. Negli ultimi anni si è intensificato a causa delle emissioni di gas
serra relative alle attività umane: industria, agricoltura, deforestazione…
Tutto questo ha generato un aumento della temperatura media globale: il fenomeno del
riscaldamento globale.
Le questioni ambientali generate dal cambiamento climatico sono molto urgenti e molto serie. Mentre ci
domandiamo perché non si fa qualcosa rapidamente, dobbiamo tenere a mente due questioni molto
importanti:
È la prima volta (negli anni ’70) che l’umanità si trova ad affrontare un problema ambientale così
complicato come quello ambientale.
Il cambiamento climatico e il problema ambientale che lo segue è la questione più complessa mai
affrontata dalle politiche pubbliche.
Nel rispondere alle questioni – riferimento a volume L’era dello sviluppo sostenibile, 2015 di un economista
americano, Jeffrey Sachs – studioso importante di sviluppo economico e di lotta alla povertà, docente alle
Columbia University. Secondo Sachs ci sono 7 ragioni perché il cambiamento climatico è la questione più
complessa affrontata dalle politiche pubbliche:
1. Perché si tratta di una crisi globale – l’aggettivo “globale” ha una duplice accezione:
Significa che il cambiamento climatico riguarda ogni luogo del pianeta: non c’è un posto in
cui si possa sfuggirgli;
Significa che tutte le regioni del mondo vi contribuiscono
2. Perché quando le crisi sono globali è difficile concentrare la mobilitazione dei diversi paesi – i
diversi paesi hanno opinioni diverse sul rischio climatico, hanno fatto investimenti molto diversi
sulle diverse fonti energetiche. Alcuni paesi sviluppati stanno anche uscendo dalla fase industriale
(deindustrializzazione); alcuni PVS aspirano almeno allo sviluppo e ai suoi benefici. Alcuni paesi,
inoltre, sono democrazie; altri no: le decisioni sono molto diverse.
Quindi tutte queste divergenze insieme alimentano le differenze di opinione sulla questione
ambientale.
3. Perché si tratta di un problema trasversale alle generazioni – chi sarà più influenzato dal
cambiamento sono certamente i giovani che ad oggi stanno anche protestando (Fridays for future);
ma molto di più saranno coinvolte le generazioni che devono ancora nascere, che non votano, non
scrivono, non intervengono sui giornali. L’umanità non è preparata ad affrontare una crisi
multigenerazionale come quella climatica, perché non c’è una rappresentanza politica per le
generazioni future. Nessuno può parlare a nome loro.
4. Perché l’emissione di gas serra è il perno dello sviluppo economico da 250 anni a questa parte – la
crescita dell’economia moderna ruota attorno all’emissione dei gas serra, ed è stata possibile proprio
grazie alla capacità di sfruttare i combustibili fossili.
Nella prima rivoluzione industriale a farlo era la macchina a vapore che funzionava col carbone;
nella seconda rivoluzione industriale (ultimi decenni dell’800) appare il motore a combustione
interna che utilizza petrolio e i suoi derivati (benzina, gasolio). Tutta l’economia mondiale negli
ultimi due secoli e mezzo si è sviluppata attorno ai combustibili fossili; ma ora è diventato chiaro che
sono loro la grande causa del cambiamento climatico.
5. Perché il cambiamento climatico procede lentamente – è un cambiamento certamente molto più
veloce rispetto alle epoche storiche che ci hanno preceduti; ma è comunque più lento rispetto ai
cambiamenti quotidiani o agli eventi politici. I cambiamenti lenti sono più complicato da osservare:
hanno bisogno di strumenti diversi dai nostri 5 sensi. Se la crisi climatica si condensasse ad un unico
evento (immaginiamo ondata di piena che ha sommerso Venezia a Novembre – ha catalizzato
l’attenzione dei media di tutto il mondo), forse è probabile che l’umanità si organizzerebbe in
maniera più rapida. Il Covid-19 ha catalizzato repentinamente tutta l’attenzione dei media e ha
coordinato rapidamente l’attenzione dei governi; ma questo non accade col clima. Questo perché è
successo di botto, improvvisamente: il clima è un processo molto lento, quindi ne vediamo meno gli
effetti.
Vale il principio della rana bollita: metafora – se si cerca di far entrare una rana in una pentola di
acqua bollente, non riusciamo perché la rana, d’istinto, salta subito fuori. Se invece immergiamo la
rana nell’acqua fredda e riscaldiamo l’acqua a poco a poco, la rana finirà bollita in poco tempo senza
avere la spinta istintiva a uscire dalla pentola. L’umanità rischia di fare la fine della rana perché gli
effetti del riscaldamento del clima sono lenti.
6. Perché le soluzioni sono complesse – il termine “complesso” rimanda ad un sistema in cui ci sono
molteplici variabili e delle variabili che interagiscono tra di loro in modo tale che l’effetto d’insieme,
intrecciato, che ne deriva non può più essere ricondotto alla semplice somma delle parti; ma può
essere ricondotto a come le diverse variabili si sommano reciprocamente. Per il clima non si tratta di
fare 1 cosa o di usare 1 nuova energia, non ci sono soluzioni semplici perché il problema è
intrecciatissimo di variabili molteplici. Le modifiche che bisogna apportare al nostro sistema
economico mondiale per ottenere dei risultati coinvolgono ogni ambito di economia (edilizia,
urbanistica, industria…). Sono pochissimi i governi che hanno già definito un itinerario fattibile.
7. Perché ci sono degli imponenti interessi economici coinvolti – nel settore dell’energia tradizionale
operano le imprese più potenti del pianeta. Le grandi compagnie del petrolio e del gas sono nei primi
posti per fatturato a livello mondiale: nel 2013 le prime sette aziende elencate nella classifica della
rivista internazionale «Global Fortune» erano tutte nel settore energetico.
La lobby energetica è in grado col suo peso economico e finanziario di esercitare un’influenza
politica enorme, e certamente non c’è nessun paese, anche democratico, in cui quest’influenza non
sia esercitata. Sono diverse le inchieste giornalistiche che hanno svelato grandi interessi petroliferi
dietro campagne di comunicazione contro le scienze del clima e contro i provvedimenti allo studio
per un passaggio a energie a basso impatto di emissioni di carbonio.
09.03.2021
Film Una scomoda verità, documentario del 2006 che riguarda il problema del riscaldamento globale. Vedi
link YouTube su Ariel.
Quando?
Il film è uscito negli USA nel 2006, in Italia nel 2007; ma è stato realizzato nel 2005: si tratta di un film di 15
anni fa. Ciò significa che risale a quando, per esempio, la Cina era entrata da molto poco tempo nel sistema
globale degli scambi: aderisce al WTO (World Trade Organisation) solo nel 2001. Questo ingresso ha
implicato un’accelerazione al sistema industriale cinese.
I 15 anni che ci separano dalla produzione del film hanno cambiato molte cose sul suo soggetto. In una scena
del documentario tra gli spezzoni proposti ci si riferisce al fatto che gli USA sono il maggior produttore
mondiale di anidride carbonica. Questo era assolutamente vero nel 2005; ma nel 2019 non lo è più: alla fine
degli anni ’10 del XXI secolo non soltanto la Cina ha superato gli USA, ma lo ha fatto con una percentuale
doppia rispetto agli Stati Uniti, che restano secondi per emissione di CO2; il terzo paese è l’India. Classifica:
1. Cina 27.52% 6. Germania
2. USA 14.81% 7. Iran
3. India 8. Corea del Sud
4. Federazione Russa 9. Arabia Saudita
5. Giappone 10. Indonesia
Ricordare il grafico dell’Economist parte della lezione 2. Mostra come la curva delle emissioni di CO2 dopo
il 1990 seguisse l’andamento dell’aumento PIL a livello mondiale. Questa crescita dal 1990 in poi è legata la
crescita di alcuni paesi che erano stati sulla via dello sviluppo fino a quel momento. I più importanti tra
questi paesi hanno preso l’acronimo di “BRIC”: Brasile, Russia, India, Cina (BRICS se si include anche il
Sud Africa).
Chi?
Il protagonista (nonché voce narrante) di Una scomoda verità è l’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore.
L’intento del film è quello di mescolare il tema ambientale con alcuni episodi della vita personale
dell’autore.
Al Gore fu vicepresidente tra il 1993 al 2001, quindi sotto il doppio mandato della presidenza di Bill Clinton.
Quelli furono gli anni dello slancio della globalizzazione contemporanea. Al Gore è ancora oggi un
esponente molto in vista del Partito Democratico americano: è stato rappresentante del Tennessee al
Congresso sia alla Camera che al Senato.
Ha corso lui stesso per la presidenza USA alle elezioni del 2000 ma fu battuto da George Bush Junior. Fu
battuto non per numero di elettori in senso assoluto, ma per le modalità con cui funziona il sistema elettorale
del paese (successe la stessa cosa per Trump, che ebbe meno voti in assoluti rispetto a Hillary Clinton ma
ebbe “grandi” elettori). Quindi, Al Gore è chiaramente una persona influente nel panorama politico
americano. Per le sue battaglie sistematiche con obbiettivi ambientalisti ha ricevuto il premio Nobel per la
pace ne 2007.
Il film si basa in larga parte su una presentazione multimediale, che lo spettatore guarda insieme al pubblico.
È stata pensata e creata dallo stesso Al Gore, che l’ha portata in giro per il mondo negli anni che precedono
la realizzazione del film. La presentazione è stata quindi lo strumento per una campagna di informazione
sistematica sui cambiamenti climatici. Durante una delle rappresentazioni pubbliche, Al Gore ha conosciuto
il futuro produttore del film, che gli propose di farne un documentario pensato per la grande distribuzione,
per un pubblico più ampio possibile – così fu.
Una scomoda verità è stato presentato a molti festival, per primo al Sundance Film Festival del 2006 – il
maggior festival di cinema indipendente americano. È stato un grande successo sia di critica che di pubblico,
tanto che ha vinto il premio Oscar nel 2007 come miglior documentario. È il terzo documentario per
successo commerciale.
Che cosa?
Il film si impegna a spiegare il fenomeno del riscaldamento globale in modo semplice e ben fondato.
Considera un arco di tempo non storico, ma geologico: mostra le variazioni di temperatura del globo e dei
livelli di CO2 su più di 600.000 anni; ma approfondisce soprattutto il livello di emissioni nell’arco di tempo
su cui abbiamo più certezze, ossia dal 1958 – da quest’anno la concentrazione di CO2 viene misurata da un
osservatorio scientifico stabile specificatamente dedicato a questo, con sede a Manua Loa, una delle isole
Hawaii. Mentre per le epoche precedenti al ’58 si procede per evidenza congetturale (fonti indirette), da
quell’anno in avanti si può contare su dati certi.
Inoltre, il film passa in rassegna una serie di dati scientifici sul cambiamento climatico. Riesamina posizioni
di studiosi autorevoli di diverse discipline e discute le implicazioni politiche ed economiche dei problemi
climatici. Illustra le conseguenze che nel 2005 erano più probabili del riscaldamento del pianeta se non si
interviene presto a livello globale.
Questo film ha una tesi molto precisa:
Il global warming è reale, non la costruzione discorsiva di qualcuno
Può avere delle conseguenze potenzialmente catastrofiche
È causato dall’azione dell’uomo
Questi tre punti non sono la stessa cosa: c’è chi non nega che il riscaldamento globale sia in atto, ma nega
che abbia un’origine antropogenica.
La cosa più rilevante è l’ampiezza del ventaglio di ricerche che Gore porta a sostegno della sua tesi.
Esempi (negli spezzoni):
o La ritirata dei ghiacciai mostrata da foto scattate negli stessi punti in anni diversi.
o Uno studio condotto dai ricercatori dell’università svizzera di Berna
o Un progetto speciale europeo che fa dei sistematici carotaggi nella calotta dell’Antartide: da “carote”
di ghiaccio che gli scienziati estraggono si vede quale concentrazione di anidride carbonica il
ghiaccio cattura – i livelli di CO2 nell’atmosfera oggi sono largamente superiori a qualsiasi altro
periodo negli ultimi 650.000 anni.
È importante sottolineare il fatto che Gore fa leva su una rassegna di studi scientifici sul cambiamento
climatico, un lavoro che a sua volta passa in rassegna altri studi scientifici. Tutti gli articoli più seri apparsi
su riviste scientifiche dal 1993 al 2003 (il decennio precedente la realizzazione del documentario)
sostengono il fatto che il riscaldamento globale ha origini umane.
Gore non nega che esistano opinioni diverse circa il riscaldamento, le sue cause e i suoi effetti; però mostra
due cose nel 2005:
L’ottavo paese per perdite materiali in milioni di dollari per persone e per perdite correlate a disastri
ambientali
Il 28esimo paese per morti conseguenti a tragedie connesse a fenomeni ambientali
Il 27esimo paese in termini di perdita di prodotto interno lordo che consegue a un disastro
ambientale
Allargando la spanna temporale considerata portandola indietro di vent'anni al 1999, troviamo che in Italia
sono morte per disastro ambientale circa 500.000 persone, che l'Italia è stata colpita da 12.000 eventi
meteorologici estremi; e in questa statistica quindi l’Italia risulta:
Inequivocabile,
Esteso su tutto il pianeta (non ci sono luoghi “salvi”),
Può essere globalmente quantificato.
E l’IPCC lo quantificava, nel 2013/14, in 0,85 centesimi di grado, calcolando questo aumento dal 1880 al
2012. Questo aumento è stato però ricalcolato: nel 2013, il climatologo della Columbia University e della
NASA James Hansen ha ricalcolato l’aumento della temperatura globale in 1.1 centesimi di grado. Quindi,
il ricalcolo ci dice che non solo c’è stato un aumento della temperatura a livello globale ma è stato più alto
rispetto a quello che l’IPCC segnalava nel 2013/14. Ci dice anche che il trentennio che va dal 1983 al 2012 è
stato il più caldo da almeno 1.500 anni. In assoluto, nell’emisfero settentrionale ancora più in particolare.
Il V rapporto di valutazione dell’IPCC fa anche previsioni allarmate circa una serie di scenari che
attendono il pianeta nel 2050 (data di riferimento per molti ragionamenti sul clima). Entro il 2050 dobbiamo
attendere:
1. La scomparsa del 50% dei ghiacci a livello mondiale
2. La fusione quasi totale della banchisa artica
3. L’aumento del livello degli oceani di quasi 1m (il documentario di Al Gore conteneva un errore:
parlava di 6m)
4. Impennata dell’inquinamento dell’aria
5. Impennata dei processi di acidificazione delle acque dei mari – cambia la chimica delle acque dei
mari, ciò causa un…
6. Impoverimento drastico della biodiversità (delle forme di vita nell’acqua e sulla terra)
Parlando di riscaldamento globale è intuitivo pensare all’aumento della temperatura dell’aria. Non dobbiamo
dimenticarci, però, che anche gli oceani si stanno riscaldando notevolmente, soprattutto in superficie ma
anche in profondità (sotto i 700m). Da questo punto di vista, la temperatura degli oceani presenta un’area del
mondo in controtendenza rispetto al riscaldamento progressivo: si tratta dell’area che si trova a sud
dell’Islanda – si sta raffreddando invece che riscaldandosi, perché sta rallentando la corrente del golfo a
causa dello scioglimento dei ghiacci della Groenlandia: questo scioglimento dei ghiacci sta raffreddando
alcune correnti dell’oceano atlantico, tra cui la corrente del Golfo, che dunque rallenta e raffredda il mare a
sud dell’Islanda. Abbiamo quindi un fenomeno locale di raffreddamento che non contraddice affatto il
riscaldamento climatico, ma ne è una conseguenza un po’ paradossale.
2015: Il Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani – è frutto di una ricerca svolta da un gruppo che fa capo
all’Università di Milano. Il Catasto dice che dal 1960 ad oggi la superficie dei ghiacciai italiani è calata del
30%. Il ghiacciaio dello Stelvio ne è un esempio.
Però altre ricerche dicono che su un arco di tempo più lungo, dal 1880 agli anni ’10 del 2000 nella provincia
di Torino e di Cuneo il regresso dei ghiacciai è arrivato all’80%.
2018: rapporto del World Glacier Monitoring Service segnala che l’attuale fase di de-glaciazione (perdita
di volumi di ghiaccio a livello mondiale) è senza precedenti. Tra il 2010 al 2018 (in meno di 10 anni) si sono
persi dei livelli di spessore glaciale di quasi 1m l’anno, che corrispondono ad un tasso di scioglimento 5 volte
maggiore rispetto agli anni ’60. Nel corso di una vita umana di qualcuno nato negli anni ’60, la de-
glaciazione è accelerata di 5 volte.
2019: congresso dell’Unione Geofisica di Vienna che presenta una serie di ricerche – prevedono che
resteranno solo i ghiacciai che stanno sopra i 4000m. A preoccupare sono le calotte polari, in particolare le
calotte dell’Antartide e della Groenlandia perché lì ci sarebbe l’accelerazione maggiore di scioglimento.
Gli impatti del riscaldamento globale sulla biosfera – la biosfera è la sfera del vivente in termini di flora e
fauna. Uno studio di un ecologo dell’università di Stanford dice che è iniziata una nuova estinzione di
massa sulla terra. Il tasso di scomparsa di una serie di specie animali (in particolare di vertebrati) oggi è 100
volte superiore rispetto a quello naturale (a quello che ci sarebbe senza l’intrusione dell’uomo).
Nel 2014, uno studio del WWF dichiarava che i vertebrati si sono ridotti del 52% dal 1970.
Nel 2019, invece, il Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) ha
pubblicato un rapporto completo sullo stato degli ecosistemi globali, redatto da 145 scienziati di 50 paesi del
mondo. Si parla di una catastrofe degli ambienti terresti e marini del tutto inedita negli ultimi 20 anni.
Altre istituzioni molto solide sul clima oltre all’IPCC: la Società Italiana delle Scienze del Clima; il sito
dell’ISPRA = Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale. Entrambe italiane. I siti
presentano molte informazioni.
In questo decennio si sono moltiplicati gli studi sul clima, e con loro le prospettive secondo cui il clima
viene studiato. Climatologi, biologi, etologi, ecologi, chimici, fisici, etc. lavorano congiuntamente per
inquadrare la gravità della situazione e immaginare soluzioni.
Alcuni studi importanti di questo decennio. Hanno in comune il fatto di essere usciti negli ultimissimi anni
su una rivista autorevolissima, gli Atti dell’Accademia delle Scienze Americane (PNAS):
1. 2017: «Well below 2 °C: Mitigation strategies for avoiding dangerous to catastrophic climate
changes»
un articolo di Yangyang Xu and Veerabhadran Ramanathan pubblicato sulla rivista PNAS
2. 2018: “Trajectories of the Earth System in the Anthropocene” un articolo di Will Steffen, Johan
Rockström pubblicato sulla rivista PNAS
3. 2019: «Pliocene and Eocene provide best analogs for near-future climates», un artcicolo di K.D.
Burke, J.W. Williams, M.A. Chandler, A.M. Haywood, D.J. Lunt pubblicato sulla rivista PNAS
4. 2020: «Opinion: Sustainable development must account for pandemic risk», un articolo di un ampio
gruppo di ricerca (Moreno Di Marco, Michelle L. Baker, Peter Daszak, Paul De Barro, Evan A.
Eskew, Cecile M. Godde, Tom D. Harwood, Mario Herrero, Andrew J. Hoskins, Erica
Johnson, William B. Karesh, Catherine Machalaba, Javier Navarro Garcia, Dean Paini, Rebecca
Pirzl, Mark Stafford Smith, Carlos Zambrana-Torrelio, and Simon Ferrier) pubblicato sulla rivista
PNAS
L’ultimo articolo, casualmente, fu pubblicato poco prima dello scoppio del Covid19 e parla del rapporto tra
cambiamento climatico e il rischio pandemico.
Approfondiamo come il cambiamento climatico ha agito nelle ultime decine di anni. Questo serve a capire
perché un aumento della temperatura globale di poco più di 1° dall’’800 è stato capace di generare effetti
così potenti. Anche se a prima vista la variazione di 1° potrebbe sembrare molto piccola, non è affatto
ininfluente e bisogna attivarsi per contenerla in futuro.
L’obbiettivo dichiarato in accordi multilaterali sul clima (es. Accordo di Parigi, firmato nel 2015 tra i
rappresentanti di 196 paesi) è di mantenere ogni eventuale ulteriore incremento della temperatura globale
sotto i 2°. Si tratta di un obbiettivo fondamentale. È fondamentale, ovviamente, se si è disposti a fidarsi delle
opinioni degli scienziati, cioè che se si arrivasse nei prossimi decenni ad un aumento di 2° sarebbe molto
pericoloso per il pianeta. Se invece l’aumento nei prossimi secoli fosse di 4°, sarebbe catastrofico. Non è la
terra in sé a soffrire di questo: ha conosciuto nella sua storia geologica temperature anche molto più ampie di
quelle che conosciamo noi; ma sarebbe catastrofico per la specie umana e per molte delle specie viventi.
Infatti, quando 50 milioni di anni fa la Terra era 13° più calda, il pianeta era del tutto privo di ghiacci e aveva
livelli del mare di decine di metri più elevati rispetto ad adesso. Infatti, nelle rocce delle Dolomiti sono
presenti resti fossili di vita marina. Quel genere di temperature non sono, quindi, impossibili per la vita in
assoluto ma sono impossibili per la vita dell’uomo
Quindi, contenere l’aumento della temperatura della terra passa attraverso una strada maestra: contenere
l’aumento delle emissioni di gas serra generate dall’uomo; e quindi passa per il capire su che cosa e su quali
gas serra l’uomo ha la possibilità.
Quindi, perché un aumento della temperatura globale di poco più di un grado a partire dal 1800 è stato
capace di generare effetti così potenti?
Per rispondere bisogna tenere presente che dentro i processi del cambiamento climatico ci sono dinamiche
non lineari = che non vedono una proporzione tra le cause e gli effetti, ma sono invece dinamiche che
appoggiano su dei meccanismi detti “di retroazione”, di circolo vizioso. Tre esempi (semplificati e non
esaustivi):
Riscaldamento degli oceani
1. Il riscaldamento degli oceani è da un lato una conseguenza dell’effetto serra e dell’aumento della
temperatura globale, che riscalda sia l’atmosfera che i mari. È una conseguenza perché una temperatura
globale più alta favorisce l’evaporazione degli oceani.
Dall’altro lato, il riscaldamento degli oceani è la causa della produzione di masse sempre maggiori di
vapori acquei, che sono però uno dei gas serra più potenti. Le concentrazioni sempre crescenti di vapore
acqueo nell’atmosfera a loro volta peggiorano l’effetto serra di partenza.
2. Più gli oceani si riscaldano, meno CO2 trattengono . Più aumenta la temperatura degli oceani (anche un
solo grado è un impulso molto potente), meno gli oceani sono in grado di immagazzinare anidride
carbonica dall’atmosfera. Invece, catturare CO2 è una delle cose che gli oceani fanno fisiologicamente.
Solo che più l’acqua è fredda, maggiore è la CO2 che catturano; più l’acqua è calda, più si riduce la
capacità degli oceani di immagazzinare anidride carbonica. Questo, a sua volta, agisce peggiorando
l’effetto serra di partenza perché ci sarà più CO2 nell’atmosfera.
Grandi incendi
In California si infiammano quasi regolarmente tra il 2013 e il 2018. Vi sono anche in Siberia e in Australia.
Qualche anno fa, inoltre, altri incendi hanno devastato l’Amazzonia.
Quello che questi incendi hanno in comune è che sono stati tutti preceduti da anomalie termiche: rialzi di
temperatura, caldo record, siccità – prodotti dell’effetto serra. Però il persistere di alte temperature modifica
le caratteristiche della vegetazione del suolo, ha l’effetto di alimentare facilmente le fiamme, e favorire
l’estensione dei roghi. I grandi incendi corrispondono all’emissione nell’atmosfera di milioni di tonnellate di
CO2, che incrementano la concentrazione di gas serra, peggiorano l’effetto serra e peggiorano il
riscaldamento globale.
Quindi l’effetto di retroazione è in questo caso: effetto del riscaldamento globale (incendi) è in grado di
diventare causa, di agire su una delle cause del riscaldamento globale (la concentrazione di CO2) e in questo
modo amplificare il riscaldamento globale stesso; e azionare il circolo vizioso.
Metano
Viene rilasciato sia sulla terra che sul fondo dei mari. Nel suolo di regioni artiche come la Siberia o il Canada
ci sono intrappolate grandissime quantità di sostanze organiche accumulate nel corso dei millenni. Questo
suolo si chiama Permafrost, un tipo di suolo permanentemente ghiacciato.
Con l’aumento delle temperature globali, il Permafrost si altera e le sostanze organiche che trattiene si
decompongono e liberano nell’atmosfera metano e anidride carbonica che prima erano intrappolate.
Lo stesso accade sul fondo degli oceani: se aumenta la temperatura dell’acqua anche in profondità si riduce
la pressione sul fondale marino e si libera metano in forma gassosa.
Il metano è un gas che ha un effetto serra 28 volte superiore a quello della CO2. Quindi se per effetto
dell’aumento delle temperature si sprigiona più metano, le temperature stesse tenderanno ad aumentare
ancora di più.
La retroazione di questo fenomeno è che ci sarà nuovo Permafrost che si scioglie e nuovo metano che si
sprigiona.
Quindi, con tutti questi esempi possiamo capire che nonostante la temperatura sia aumentata di un solo
grado, è comunque tanto.
16.03.2021
La storia intellettuale dell’Antropocene
Il termine Antropocene viene introdotto per la prima vola da uno scienziato dell’atmosfera di origine
olandese, Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica nel 1995, per i suoi studi sulla chimica dell’atmosfera
e in particolare dell’ozono.
Nel 2000 introduce il termine Antropocene nel dibattito pubblico. L’occasione è una conferenza di studi
sulla biosfera e sulla geosfera, che si tiene in Messico. Il termine viene introdotto nel corso di un dibattito
scientifico che ha a che fare con i tempi e i modi dell’impatto dell’uomo sul pianeta. A un certo punto,
Crutzen dichiara che non siamo più nell’epoca geologica dell’Olocene, ma nel 2000 siamo entrati da qualche
tempo in un’era diversa.
Con questo discorso, Crutzen sovverte quello che la stratigrafia geologica aveva acquisito fino ad allora. La
stratigrafia geologica è una disciplina che si occupa di storia del pianeta per come appare nella forma delle
rocce, delle sedimentazioni geologiche. È anche la disciplina che ha più finemente strutturato per unità di
tempo la storia della terra. Questa strutturazione della storia della terra da parte della stratigrafia geologica è
organizzata per unità di tempo che si misurano in questo modo:
eoni = unità di tempo di miliardi di anni
ere = unità di tempo di centinaia di
milioni di anni. Un'era appartiene a
un determinato eone ed è divisa, al
suo interno, in numerosi periodi
periodi = unità di tempo di decine di
milioni di anni
epoche = unità di tempo di milioni di
anni
età = unità di tempo di migliaia di
anni
La tabella descrive i tempi geologici
a partire della formazione della
terra, fatta risalire a 4 miliardi e 500
milioni di anni fa. Questa tabella viene accettata internazionalmente in questa suddivisione per
fasi. Le unità di tempo sono decrescenti perché più ci si avvicina all’oggi, più ci sono dati: quindi le
unità di tempo diventano più brevi.
Fino al dibattito sull’Antropocene, l’epoca più recente era individuata nell’Olocene, che inizia
11mila e 700 anni fa con l’ultima glaciazione.
L’Antropocene sarebbe (secondo la definizione di Crutzen) non solo l’epoca geologica attuale, ma
soprattutto l’epoca geologica dominata dall’azione dell’uomo: l’uomo stesso diventa attore
geologico, interviene sulla terra, sull’ambiente e quindi sul clima.
Crutzen fa risalire l’inizio dell’Antropocene a 250 anni fa, nel momento della prima rivoluzione
industriale (questa datazione non è senza dispute). La prima rivoluzione industriale viene a sua
volta marcata dalla scoperta della macchina a vapore di James Watt, che viene fatta risalire al
1784. Ha dei precedenti anche immediati nel secolo 700 (macchina di Newcomen).
La macchina a vapore di Watt:
Ha cambiato il corso della storia umana a partire da un luogo limitato come l’Inghilterra
Per funzionare aveva bisogno di carbone, un combustibile fossile estratto dalla terra. Non
era più (come era stato fino ad allora) una macchina alimentata dalla forza umana o dalla
forza animale; ma veniva alimentata dalla forza del vapore sprigionato grazie alla fonte
energetica del carbone.
La prima rivoluzione industriale è un processo che è poi percolato dall’Inghilterra verso sud,
seguendo processi differenti. Si è sviluppato principalmente in Europa, poi nel corso dell’800 in
tutto il mondo seguendo anche rotte tracciate dagli scambi coloniali europei.
Abbiamo quindi un’industrializzazione ottocentesca soprattutto europea, ma anche mondi coloniali
europei con l’eccezione del Giappone: uno dei pochissimi paesi che si industrializza già
dall’ottocento; ma che non è stato colonia europea.
Il 1784 è la data in cui Watt ottiene il brevetto per la sua invenzione, che dà l’avvio alla prima
rivoluzione industriale e alla carbonificazione della nostra atmosfera. “Carbonificazione” non
rimanda a carbone, ma a carbonio, alla CO2 (anidride carbonica), al gas serra che viene liberato
come risultato dell’ossidazione delle molecole organiche definite carboniose, perché si strutturano
attorno all’atomo del carbonio.
La CO2 è un gas serra che, soprattutto tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 effettivamente viene
liberato dal carbone. Ma dalla fine dell’800 e nel ‘900 in avanti la CO2 è liberata anche da una
serie di altri combustibili fondamentali per l’industria. Questi combustibili si aggiungono l’uno
all’altro, non si autoescludono. Tanto che ancora oggi, molta della Co2 nell’atmosfera del mondo
contemporaneo è legato alla persistenza dell’uso del carbone come fonte energetica (esempio:
sistema economico cinese è molto legato al carbone, più dei sistemi economici occidentali).
Vedi saggio di John McNeill.
La parola Antrocene ha un’origine greca: “antropos” significa uomo; “kainos” significa nuovo, recente.
Quindi il termine va inteso come “nuova età dell’uomo”. “Nuova” nel fatto che l’impronta umana
sull’ambiente negli ultimi due secoli ha assunto un carattere così ampi e profondo che la mette in grado sia di
competere con le grandi forze della natura; sia di interagire con le stesse forze (vedi tre esempi della
lezione scorsa).
Sulla fase di avvio dell’Antropocene si è aperto un dibattito: non tutti sono d’accordo che dovrebbe iniziare
con l’avvio della prima rivoluzione industriale. Certamente, però, il termine Antropocene oggi sembra
denotare l’intervallo di tempo geologico che l’umanità ha davanti a sé. (!) Non è la prima volta che gli
scienziati dicono che esiste un tipo di potere umano sulla terra in grado di agire sul destino del pianeta.
Ragionare attorno all’idea di Antropocene richiede un aggiustamento della nostra prospettiva storica.
Dobbiamo capire cosa ha reso questo termine capace di attirare così tanta attenzione dopo il 2000.
Nel 2000 era stato lanciato come un’idea destinata a una cerchia ristretta di scienziati e addetti ai lavori.
Negli ultimi 20 anni, questo concetto ha spopolato nel mondo, anche infiltrandosi in diversi discorsi sulle
scienze sociali o nella divulgazione dei media.
Dobbiamo vedere quale storia ha avuto la riflessione sulla presenza della specie umana sulla terra. Tutti
abbiamo in mente almeno due grandi narrazioni riguardo alla presenza della specie umana sulla terra: la
narrazione biblica e la narrazione evoluzionistica darwiniana. La storia della scienza mostra che proprio nel
momento in cui la specie umana assumeva un cambio di passo con la prima rivoluzione industriale (chiusura
del 1700), già allora vi furono prime riflessioni su quel cambio di passo. Gli scienziati ai tempi non erano
inconsapevoli che qualcosa di potente stava accadendo.
Georges-Louis Leclerc conte di Buffon è un naturalista francese che lavora nel ‘700. Si riconosce nel
movimento scientifico illuminista, influenzerà molto il pensiero evoluzionista di Lamarque e Darwin. Nel
1778 scrive Le epoche della natura dove spiega: “l’intera faccia della Terra reca oggi segno della
presenza dell’uomo”. Nel libro Buffon riconosce che l’influenza che l’uomo esercita sulla terra, la esercita
in particolare sul clima. Gli storici che per primi all’inizio del ‘900 hanno iniziato a interessarsi di storia del
clima con gli strumenti degli storici (fonti archivistiche) erano soprattutto francesi, che erano
particolarmente aperti alle prospettive delle discipline scientifiche come l’agronomia (e non delle scienze
umane). Si sono interessati in modo particolare alla storia del clima andando a leggere un tipo di fonti che a
prima vista non accosteremmo alla storia del clima, quelle scientifiche (andamento quantitativo delle
vendemmie in Francia, raccolta di altri prodotti agricoli in Europa).
Antonio Stoppani (nato a Lecco ma frequenta ambienti scientifici milanesi), uomo di chiesa me legato al
mondo scientifico milanese. Parteciperà anche alle cinque giornate di Milano. È il padre della geologia
italiana. Nel 1873 definisce l’uomo “una nuova forza tellurica”. Stoppani riconosce l’uomo come attore
geologico, che è il punto su cui Crutzen ha attirato l’attenzione dei colleghi nel 2000.
“Tellurico” è un aggettivo che si riferisce ai movimenti profondi della terra, come per esempio i terremoti.
Buffon alla fine del ‘700 e Stoppani alla fine dell’800 dicono che l’uomo stava guadagnando una forza
d’azione artificiale sul pianeta analoga per potenza e per forza a quella della natura (come ad esempio la
forza dei terremoti).
Charles Lyell, geologo scozzese amico di Darwin, nel 1833 pubblica I Principi di Geologia, l’opera nella
quale presenta e rivede la stratigrafia moderna. Egli è una delle voci della scienza più autorevoli nella ricerca
delle fondazioni moderne nella discussione dell’Antropocene. Egli ha stabilito molte cose importanti che da
quel momento in poi hanno fondato la geologia: che l’epoca del quaternario veniva fissata 2 milioni e 700
mila anni fa, fissata in relazione della comparsa del genere homo habilis in Africa (l’homo sapiens arriva
solo 250 mila anni fa).
Lyell stabilisce anche che l’Olocene è l’epoca
geologica più recente, definita sulla base sia
dell’ultima glaciazione, sia sulla base della
comparsa dell’uomo sul pianeta.
Solo nel 1833 l’Olocene viene aggiunto alle
epoche geologiche identificate prima. Questa sua
posizione, che il mondo fosse entrato 11.000
anni prima nell’epoca dell’Olocene, non è stata
pienamente accettata fino alla fine del suo
secolo.
L’immagine rappresenta la storia del pianeta
come se fosse una giornata di 24 ore.
L’homo habilis appare negli ultimi due minuti (che equivalgono a 2 milioni e 600 mila anni fa).
L’Olocene appare nell’ultimo quarto di secondo (eppure dura più di 11.000 anni).
L’Antropocene, se fatto iniziare dalla rivoluzione industriale come detto da Crutzen, corrisponde a 2
millesimi di secondo (eppure sono 250 anni).
Il dibattito scientifico che porta questo concetto e questa idea nel discorso comune
Abbiamo quindi iniziato a intuire che l’Antropocene è due cose contemporaneamente:
1. Una nuova narrazione che riguarda la relazione tra la storia umana e la storia naturale, tra l’uomo e
la natura
2. Un paradigma scientifico
Qualcuno ha definito questo paradigma scientifico una “seconda rivoluzione copernicana”. Questo
appellativo è così evocativo perché l’Antropocene sarebbe un ribaltamento di alcune convinzioni
precendenti, in grado di rovesciare il modo in cui intendiamo il rapporto tra natura e cultura, il rapporto tra la
natura e quei saperi dell’uomo diventati capacità di agire sulle dinamiche del cambiamento della natura
stessa.
Paul Crutzen nel 2000 diceva che siamo netrati nell’era dell’Antropocene. Radicava questa sua affermazione
nelle cause umane dei cambiamenti dell’atmosfera terrestre. Il messaggio che egli sentiva di non dover più
astenersi dal mandare ai colleghi era: la scienza non può più permettersi di trascurare i mutamenti
antropogenici (=generati dall’uomo). Quindi afferma che l’epoca dell’Olocene è finita, ed è iniziata un’epoca
stratigraficamente diversa.
Nel 2000, quando Crutzen fa questa dichiarazione, non è il solo a portare avanti questo genere di discorso. In
realtà, questo termine ha infatti un precedente: negli anni ’80 era stato introdotto da un importante ecologo
americano: Eugene Stoermer.
Più avanti nel tempo troviamo due occasioni fondamentali, diventati un punto di riferimento successivo
rispetto al quale è difficile fare a meno.
Nel 2004 viene pubblicato un rapporto emanato da un’istituzione di ricerca molto importante: International
Geosphere-Biosphere programme (IGBP): è un programma di ricerca che ha funzionato tra il 1987 e il 2015;
e aveva organizzato anche la conferenza a cui partecipò Crutzen nel 2000.
Si tratta di un programma di ricerca a cui era già stato avvio alla fine degli anni ’80, che si era preposto degli
obbiettivi:
Prima del 1950, sembrava non accadere nulla, tutto sembra essere fermo ad una stasi; invece qualcosa
accade, ma accade così lentamente che il mondo non lo percepisce. Lo percepisce solo quando i singoli
fenomeni esplodono improvvisamente in termini di crescita. La caratteristica principale, infatti, di questi
fenomeni di crescita, è l’improvvisa, inaspettata, impennata di crescita.
Potrebbero essere mostrati molti più grafici, ma tutti indicano lo stesso dato.
La scienza e la politica, quindi, dovrebbero trovare un punto di contatto più efficace. Dovrebbero parlarsi
senza sbilanciamenti da un lato o dall’altro. Uno di questi sbilanciamenti, ad esempio, è stato che la scienza
dice che alcune cose sulla rischiosità di un determinato vaccino, l’opinione pubblica reagisce ad alcuni casi
avversi, e la politica reagisce alla reazione dell’opinione pubblica – quindi ciò che dice la scienza e ciò che fa
la politica tendono a divaricarsi. Questa ricomposizione potrebbe non accadere.
Il sistema climatico è un sistema complesso, fatto di moltissime retroazioni e crescite esponenziali. Il
cambiamento climatico, inoltre, è un ambito in cui è impossibile fare degli esperimenti – quindi procede con
altri strumenti: per modellizzazioni teoriche, spesso modellizzazioni statistiche.
Sappiamo però che per l’uso di combustibili fossili la temperatura del pianeta è aumentata di un grado
rispetto al periodo preindustriale, ma questo aumento sta accelerando. Questi due secoli, rispetto alla stoia
del pianeta, è un periodo brevissimo – questo è quello che deve essere sottolineato.
Un climatologo americano, per spiegare perché se si vuole bloccare un qualsiasi fenomeno esponenziale
bisogna agire prima che esploda in tutta la sua drammaticità, dà un breve esempio, un breve racconto:
“Immaginate uno stagno in cui ci sono delle foglie di ninfea. La popolazione delle ninfee raddoppia ogni
giorno e se le lasciate incontrollata soffocherà lo stagno in 30 giorno uccidendo tutte le forme viventi
presenti dell’acqua. È stato chiesto ad un giardiniere di tenere sotto controllo lo stagno, di muoverle nel caso
dovessero diventare troppo invasive. Le ninfee all’inizio sono pochissime, dopo qualche giorno occupano
solo lo 0,25% del lago, poi lo 0,50% poi l’1%, e così via. La situazione, quindi, è stabile – in un grafico
sarebbe una linea orizzontale molto bassa, si alza poco ma impercettibilmente. Questa è la fase in cui la
situazione sembra sotto controllo, quindi si decide di lasciare crescere le ninfee fino a quando non
ricopriranno la metà dello stagno. Al trentesimo giorno le ninfee, che il giorno prima ricoprivano metà dello
stagno, lo avranno ricoperto tutto. A quel punto, sarà molto più difficile salvare lo stagno”.
I climatologi dicono di fare attenzione, perché potremmo essere vicini al 29esimo giorno. Dobbiamo quindi
agire, tenendo presente sia i meccanismi di retroazione sia i meccanismi di crescita esponenziale. È questo
che significa pensare il cambiamento climatico come sistema complesso.
Le controazioni da parte dell’uomo dovrebbero considerare anche l’impatto diseguale (quindi anche sociale
ed economico) nel mondo che i problemi climatici presentano. I problemi climatici non hanno solo effetti
ritardati nel tempo, ma hanno effetti molto diversi a seconda di dove si manifestano o dove sono generati.
Notiamo che i maggiori emettitori di gas serra, in questo momento, sono la Cina, gli Usa, l’India, l’Unione
Europea. Vediamo quanto siano piccoli tante altre aree del pianeta: l’Africa, il Sudamerica, l’Asia
meridionale – sono aree del sud del mondo, dove vivono miliardi di persone, tra le più povere di questo
pianeta oggi. Sono persone povere, non stanno generando emissioni, eppure sono tra quelle che soffrono
maggiormente le conseguenze climatiche delle emissioni. Quindi c’è una forte diseguaglianza tra chi emette
emissioni (quindi ha almeno un vantaggio) e chi non le emette, che subisce più conseguenze.
Quindi viviamo in un mondo in cui i singoli presidenti o i singoli stati si aspettano che siano gli altri a
tagliare le proprie emissioni; ma pochissimi sono disposti a tagliare le proprie. L’UE bisogna dire che ha
fatto eccezione in questo, secondo le ultime politiche verdi (Green New Deal). Se il mondo rimane bloccato
in questa situazione (io da solo non mi muovo perché mi aspetto che si muovano gli altri), le conseguenze
delle emissioni che non scendono saranno irreversibili. Irreversibili significa che se anche le emissioni
globali nel corso di questo secolo si riducessero a 0, la temperatura globale non scenderebbe.
Per capire l’Antropocene bisogna quindi familiarizzarsi con una terminologia nuova, con alcuni concetti che
non sono intuitivi e comprendere alcune unità di misura a cui non siamo abituati.
Il problema climatico è una questione in cui sono coinvolti giganteschi interessi economici che lavorano
molto intensamente per manipolare l’opinione pubblica globale e salvaguardare i propri profitti. Lavorano
quindi per screditare la scienza, per confondere l’opinione pubblica e ritardare l’azione di contrasto.
22.03.2021
In questa lezione vediamo un tema lasciato in sospeso dalla lezione del 16 marzo, ovvero come lo AWG
sottopone l'ipotesi dell'Antropocene (ossia l'ipotesi che si sia aperta una nuova epoca della terra a causa
dell'azione umana) alla prova della geologia e della stratigrafia geologica.
La ricerca viene portata sui ghiacci polari, sui fanghi dei fondali marini e sulle rocce, per capire se essi stesse
incorporino già traccia del cambiamento innescato dall'uomo.
Abbiamo visto alcune occasioni in cui durante gli anni ’10 la comunità scientifica internazionale si riunisce e
si coordina con degli obbiettivi:
1. Fare sintesi sulla grandissima mole di ricerche accumulate negli ultimi anni
2. Dibattere l’ipotesi che questo impatto avesse fatto prendere una nuova traiettoria alla biosfera e alla
geosfera, e quindi che si sia aperta un’epoca geologica nuova
3. Capire come sarebbe avvenuto questo passaggio da Olocene ad Antropocene
Vediamo come queste convenzioni scientifiche sull’Antropocene non si limitano ad essere convenzioni
scientifiche (che circolano tra un gruppo ristretto di studiosi); ma sono molto alto: sono diventate un
problema popolare, politico, sociale, filosofico, materiale per le arti visive e non…
Gruppo di lavoro dell’AWG – Il discorso lasciato in sospeso riguarda una serie di valutazioni che lo AWG
ha sottoposto a discussione durante il 35esimo congresso geologico internazionale tenuto nel 2016 – si
discuteva l’ipotesi dello AWG sull’Antropocene.
Oggi ci concentriamo sulla geologia. Se dobbiamo parlare seriamente dell’ipotesi che si sia inaugurata una
nuova epoca nella storia della terra, la geologia è molto importante.
Dal 2000 (da quando Paul Croetzen prende la parola in modo provocatorio dicendo che è finito l’Olocene),
l’idea di Antropocene come epoca nuova si era andata man mano imponendo nell’ambiente scientifico; ma
non sembrava aver fatto una presa particolare tra i geologi, che pure sono gli studiosi della terra per
eccellenza.
Le congetture dei geologi sull’idea di Antropocene
I geologi sono abituati a studiare la terra dalle rocce, da una prospettiva di centinaia di milioni di anni.
Quindi faticavano a validare l’idea che una singola specie vivente potesse diventare proprio lei una forza
geologica; a maggior ragione se questa è la specie umana, che sta sul pianeta per un tempo quasi
trascurabile rispetto alla storia della terra (2 secondi su 24 ore). Quindi la resistenza dei geologi è dovuta
alla loro fatica nel prendere in considerazione l’ipotesi che la specie umana non solo avesse iniziato a
modificare il pianeta, ma che addirittura lo avesse fatto negli ultimi due secoli e mezzo, oppure, secondo
altri, negli ultimi settant’anni (dalla fine della II guerra mondiale).
Nella resistenza (almeno iniziale) alla definizione dell’Antropocene come nuova epoca storica, i geologi si
sono espressi in questi termini:
Per definire una nuova epoca non basta introdurre un nuovo termine, anche se suona bene.
Per il momento (nei primi anni 2000), l’Antropocene sembra essere una categoria che riguarda molto
di più la politica e i media che non la scienza – in quegli anni esce il film si Al Gore, molto fondato
con ciò che la scienza stava dicendo in quel momento là.
Col passare del tempo nel XXI secolo, il tema dell’Antropocene si evolve e arricchisce – diventa difficile per
i geologi ignorarlo. Diventa difficile, soprattutto, ignorare la ricerca che tanti altri ambiti scientifici (chimica
dell’atmosfera, climatologia, astronomia, biologia, fisica…) sostengono rispetto all’Antropocene stesso.
Quindi i geologi iniziano a prendere sul serio il concetto di Antropocene; e soprattutto la stratigrafia; e lo fa
sotto la spinta, in particolare, di uno scienziato: Ian Zalasievick [pronunciato con la “c” dolce finale],
geologo e paleo-biologo, insegna all’università di Leicester (UK) e guida lo Anthropocene Working Group
(AWG), di cui fa parte dalla sua fondazione nel 2009, della International Union of Geological Sciences
(IUGS).
Egli prende l’iniziativa di chiamare in appello un particolare sottogruppo dello AWG, col quale si incarica di
impostare un singolo problema particolare: se l’Antropocene (l’idea che l’uomo è diventato a sua volta forza
di cambiamento geologico) è un’ipotesi che regge anche dal punto di vista della geologia e della stratigrafia
(l’analisi delle rocce).
Del gruppo che valora con Zalasievick fa parte anche uno storico dell’ambiente (quindi non vi sono solo
scienziati delle scienze “dure”), John McNeill, autore de “La grande accelerazione” – libro uscito nel 2013
in America. Il volume fu pensato e scritto proprio nell’ambito delle ricerche con lo AWG. La partecipazione
di McNeill a quel particolare sottogruppo dello AWG che cerca le prove stratigrafiche della trasformazione
della terra è importante per le acquisizioni che uno storico come McNeill ha fatto proprie, e che poi ha
inserito nel suo volume.
La stratigrafia è quella particolare branca della geologia che studia gli strati di cui le rocce son fatte, i
contenuti dei ghiacci, i fanghi depositati sui fondali dell’oceano (i fanghi sono particolarmente interessanti
perché uno dei materiali che diventerà roccia a sua volta). È una materia importante per l’Antropocene
perché è la stratigrafia che fonda la scala temporale della storia terrestre – la stratigrafia assume che ogni
strato geologico corrisponda ad un ambiente climatico relativamente uniforme, come è stato per 11.000 anni
l’ambiente climatico dell’Olocene.
Quindi saranno proprio le rocce a dire l’ultima parola sull’Antropocene. Il punto è, però, che i ghiacci e i
fanghi (materiali terrestri che non sono ancora roccia ma che lo diventeranno), e anche l’acqua degli oceani,
stanno già in realtà dicendo qualcosa di importante sull’ipotesi dell’Antropocene.
Zalasievick ha per conto dell’AWG preso l’incarico di sottoporre l’ipotesi dell’Antropocene alla geologia e
ai colleghi geologi. Lo ha fatto organizzando, tra l’altro, il congresso geologico di Cape Town nel 2016.
Questo congresso è fondamentale perché è stato un momento fondamentale della discussione
dell’Antropocene; ma anche perché ha portato gli scienziati lì presenti a votare: per alzata di mano hanno
votato pro o contro l’ipotesi dell’Antropocene come nuova epoca del sistema terra; e lo hanno fatto,
soprattutto, sulla base delle risultanze delle ricerche scientifiche che il gruppo dello AWG aveva vagliato e
raccolto in grandi e importanti sintesi (uno dei maggiori punti di riferimento).
Che un gruppo di scienziati abbia votato democraticamente per raggiungere una soluzione condivisa è un
elemento importante, perché non tendiamo a pensare agli ambienti scientifici (in particolare delle scienze
dure) come a dei luoghi di dibattito democratico.
Qualcuno ha detto che per i geologi andare a modificare, aggiungendo un nuovo gradino (un’epoca
stratigraficamente diversa), la scala temporale su cui la loro disciplina aveva lavorato fino a quel momento è
stato un po’ come far passare un emendamento, come andare a toccare un documento fondamentale del loro
agire come scienziati – infatti non l’hanno fatto alla leggera, ma è stato un processo molto lungo che ha
richiesto molte occasioni di dibattito.
Per arrivare a quel momento di voto nel 2016, la stratigrafia aveva portato alla luce alcune considerazioni
nuove particolarmente fondanti per la tesi dell’Antropocene. Un’epoca geologica, per poter essere
identificata come indipendente dalla precedente, ha bisogno di due elementi di conoscenza che la riguardano:
1. Deve avere dei particolari marcatori, una chiara evidenza di quello che si deposita nelle rocce, nei
fanghi, nei ghiacci. In altre parole, i segni del cambiamento per i geologi devono essere incorporati nei
depositi che col tempo diventeranno roccia, oppure nei ghiacci perenni.
Non solo, i segni fossili del cambiamento che è già avvenuto devono coinvolgere la terra globalmente –
questi marcatori si devono riscontrare in diverse parti del mondo.
2. Per essere identificata un’epoca geologica, deve essere definita anche dal golden spike, un chiodo d’oro.
L’espressione golden spike rimanda all’idea che ci deve essere una discontinuità temporale che spiega
il cambiamento di epoca geologica; e questa discontinuità
deve essere identificabile con precisione.
Esempio: la fine del Cretaceo è identificata dai sedimenti
di iridio nell’aria a seguito della collisione di un grosso
meteorite sul pianeta; meteorite che ha poi causato
l’estinzione dei dinosauri. Per la fine del Cretaceo i
geologi hanno un chiodo d’oro molto preciso – lo
identificano con il momento a cui risalgono i sedimenti di
iridio, non presenti nello strato geologico dell’era
precedente.
Questa discontinuità geologica deve essere a livello
globale, non è necessario che si presenti in un luogo
soltanto.
Viene cercata a livello globale ma in alcuni siti precisi, studiati più o meno contemporaneamente
chiamati sezioni e punti stratigrafici globali (GSSP).
Per l’Antropocene è stata fatta una ricerca su un ventaglio di GSSP in giro per il mondo (California,
Svizzera, Antartide, Italia…).
L’espressione golden spike – la Cerimonia del Golden Spike è una cerimonia che si tiene dal 1869 in
America, anno in cui si stava costruendo la rete ferroviaria negli USA. Gli USA sono un paese che deve
il suo primo slancio economico e industriale alle sue ferrovie, e in particolare alle linee ferroviarie che
collegano le due coste affacciate a due diversi oceani. Sulle due coste si addensano ancora oggi il
maggior numero di attività economiche principali. Il golden spike (un oggetto che pesa quasi mezzo kg,
davvero fatto d’oro) venne piantato nel 1869 esattamente nel punto di congiunzione, esattamente nel
mezzo del paese, tra le due più importanti linee ferroviarie dell’epoca che partivano dalle due coste: la
Central Pacific Railroad (che partiva da Sacramento in California) e la Union Pacific Railroad (che
partiva da Omaha nel Nebraska). Ora è conservato presso il Cantor Museum dell’Università di Stanford
(CA).
23.03.2021
Quindi, dal punto di vista della stratigrafia servono due elementi per definire una nuova era geologica: dei
marcatori ed una chiara discontinuità temporale, chiamata golden spike. Vediamo questi due elementi
applicati all’Antropocene.
Il golden spike dell’Antropocene è stato trovato in un momento preciso. Tra il 1945 e il 1950: l’inizio della
“grande accelerazione”. È stata collocata la seconda metà del ‘900 proprio andando a misurare alcuni
particolari marcatori.
Vedi il contesto storico nel libro di McNeill.
Il marcatore che agli occhi degli stratigrafi è parco come più evidente, più chiaro: gli elementi radioattivi
rilasciati da migliaia di test atomici condotti dal 1945 in poi. Il primo test nucleare americano, chiamato
Trinity Test viene condotto nel deserto del New Mexico il 16 Luglio 1945; nell’ambito del progetto
Manhattan – che metterà la bomba atomica nelle mani degli USA. Quel giorno precede di poco lo sgancio
delle bombe di Hiroshima e Nagasaki sul Giappone; ciò chiuderà la II guerra mondiale.
Si allineano poi tutti gli ulteriori test condotti da quel momento in poi nel mondo. Nel 1996 questi test erano
più di 2000 su scala globale.
Di marcatori dell’Antropocene rilevanti per la stratigrafia ne sono rilevati molti altri.
Il marcatore del carbonio
Le particelle di carbonio emesse dalle centrali elettriche in tutto il mondo nel 1950 hanno toccato il record
400 ppm (parti per milione). Prima della rivoluzione industriale si calcola che questo livello fosse di meno di
300 ppm. Ci sono due isotopi particolari del carbonio che oggi si ritrovano largamente nei ghiacci, negli
insediamenti di arenaria, nelle conchiglie, nelle piante…
Il marcatore dell’alluminio
L’alluminio è uno dei metalli più diffusi. Come altri metalli esiste in natura solo sottoforma di composto. È
conosciuto dall’inizio dell’800; ma è anche il più giovane tra i metalli di uso industriale: su scala industriale
viene prodotto molto più tardi, da più di 100 anni – da quando l’austriaco Carl Bayer nel 1888 brevetta la
tecnica per estrarre l’ossido di alluminio dalla bauxite.
La storia dell’alluminio comincia col 1888. La scoperta di nuove applicazioni di questo metallo è stata
continua. La ricerca vi si è applicata molto perché ha tre caratteristiche particolarmente interessanti dal punto
di vista industriale:
1. È molto leggero
2. È molto duttile
3. Resiste all’ossidazione
Per queste caratteristiche insieme è diventato fondamentale non solo per la produzione di prodotti banali
(esempio: tappaviti) ma soprattutto, a partire dalla II rivoluzione industriale, senza l’alluminio non avremmo
l’intera industria aeronautica. Dall’inizio del 900 sono state prodotte circa 500 milioni di tonnellate di
alluminio.
Il marcatore del cemento
Il cemento è un composto legante che serve per fare il calcestruzzo (materiale conosciuto sin dall’antichità).
Nella seconda metà dell’800 viene brevettata una prima (prima di molte) miscela di polveri di inerti
mescolati insieme (calcio, silicio, magnesio, solfati…). Questo procedimento fu brevettato – brevetto
Portman. Questa particolare miscela consente di dare al calcestruzzo che ne deriva una resistenza così
marcata da poter essere impiegata in sicurezza in tutta l’industria moderna delle infrastrutture. Non
potremmo avere grattacieli, viadotti, dighe, ponti, autostrade… senza il brevetto Portman e senza la ricerca
che viene fatta da quel momento in avanti.
Nel corso del ‘900 la produzione di cemento ha raggiunto dei ritmi tali per cui oggi, sulla terra, ci sia 1kg di
cemento per ogni metro quadrato. Se spalmassimo l’intera quantità del cemento che esiste sulla terra sulla
sua superfice, ne ricaveremmo uno strato di 2mm che la ricopre interamente.
Il marcatore della plastica
La plastica è un prodotto artificiale del pieno ‘900. Il termine “plastica” è un nome unico per un’intera
famiglia di polimeri chimici. La storia di questa famiglia ha a che fare direttamente con la storia
dell’industria petrolchimica (collegamento al manuale “mondo globale”). L’industria petrolchimica prende lo
slancio attorno agli anni ‘20/’30 del secolo scorso. La plastica è un derivato del petrolio. L’industria
petrolchimica produce plastica per usi militari durante la II guerra mondiale; ma la produzione e il consumo
di plastica hanno una vera e propria esplosione dopo il 1945 – dentro quei tre decenni di crescita quasi
ininterrotta che i paesi sviluppati conoscono tra la fine della II guerra mondiale e gli anni ’70. In questi 30
anni gli oggetti di plastica diventano di uso comune – oggetti che non esistevano sul pianeta diventano di uso
comune tra gli anni ’40 e ’70.
La produzione e il consumo di plastica, però, accelerano di più nei decenni successivi agli anni ’70; e ancora
di più nei decenni nostri. Questo non solo perché negli ultimi anni è aumentata la popolazione mondiale e
di conseguenza anche i consumi di plastica; ma anche perché è cresciuto a dismisura l’utilizzo sciagurato
della plastica monouso: quella che diventa subito spazzatura a spese dell’ambiente e della salute umana.
Si calcola che vangano prodotti circa tra i 300 e i 500 milioni di tonnellate di plastica all’anno. Solo nel 2015
la plastica che è diventata direttamente spazzatura era di 300 milioni di tonnellate. Questo rende chiaro
perché le microplastiche (particelle di plastica di dimensione minuscola, fino ai 5mm) stanno impregnando
il pianeta: si mescolano nell’acqua, sono inglobate nei ghiacci, nell’aria delle città – finiamo per cibarci, bere
e respirare microplastiche.
Una ricerca del 2019 condotta da alcuni studiosi di Londra e pubblicata su “Environment International”,
importante rivista scientifica. La ricerca si è basata sulla raccolta di depositi di microplastica sul tetto di un
edificio nel centro di Londra. Quella che è stata raccolta in questo caso è solo la microplastica che proviene
dall’atmosfera. Nei campioni raccolti si sono trovati tassi di presenza di microplastica tra i 575 e oltre i 1000
pezzi di microplastica per metro quadro, ogni giorno. Sono state identificate 15 diversi tipi di plastiche
ridotte in microparticelle. La maggior parte di queste microplastiche riguarda fibre di acrilico: probabilmente
di tratta di qualcosa che deriva dal nostro abbigliamento – è una delle cose più inquinanti nel pianeta.
Quindi c’è più inquinamento che deriva dall’abbigliamento che, per esempio, dagli imballaggi degli alimenti.
È interessante notare che a Londra è stato rilevato un tasso di microplastiche nell’atmosfera che è addirittura
20 volte superiore a quello di Dongguan in Cina, 7 volte superiore a quello di Parigi, 3 volte superiore a
quello di Amburgo. I ricercatori stanno cercando di capire quale sia il motivo della differenza di
concentrazione di microplastiche nel mondo e nel continente europeo.
Il punto allarmante è che si tratta di sfere di microplastica talmente piccole da poter entrare nelle vie
respiratorie, o essere ingerite attraverso la saliva. Queste particelle potrebbero raggiungere i polmoni e il
flusso sanguigno; e presentare così un potenziale pericolo per la salute.
Il marcatore dei fertilizzanti chimici – i solfati
Il ‘900 ha conosciuto un uso massiccio di fertilizzanti chimici impiegati nell’agricoltura a conduzione
capitalistica. Un uso così massiccio da aver già alterato la composizione dei suoli. È stato verificato che i
suoli sulla terra sono così intrisi di concimi azotati e fosfati che a partire dalla metà nel ‘900 la percentuale
di azoto e fosforo a livello globale è raddoppiata.
Questo è un dato che fa pensare che ci sarà un impatto diretto nel modificare il ciclo naturale dell’azoto (uno
di quelli di cui abbiamo parlato).
Il marcatore dei polli domestici da allevamento intensivo
Si tratta di uno dei meno ovvi marcatori, ma ha una diffusione planetaria. Dall’epoca moderna diventa
pratica comune ed estensiva dell’uomo quella di agire sulla biosfera attraverso un sistematico trasferimento
di specie vegetali e animali tolte dai loro habitat e portate in continenti nuovi (il pomodoro e la patata sono
stati diffusi in Europa dalla scoperta delle Americhe).
Dalla metà del ‘900 i polli domestici sono diventati la specie di uccelli più diffusa al mondo e l’animale
vertebrato più comune del pianeta. Talvolta, l’arretramento di alcune specie animali è spinto dal fatto che ci
sono altre specie che si allargano in modo esponenziale. Si calcola che in ogni dato momento ci siano al
mondo circa 23 miliardi di polli vivi, che servono all’alimentazione umana.
Quello che Ian Zalasievick ha affermato a proposito di che cosa i polli domestici dicono alla stratigrafia, è
che anche questa enorme massa organica è già diventata fossile; e che questi resti fossili si ritrovano in molti
angoli del mondo.
Il marcatore dei tecnofossili
Si tratta di manufatti soprattutto di ordine tecnologico di varia natura di cui l’uomo si circonda da diverse
generazioni. Si tratta della penna a sfera, di cassette, di smartphone…
Questa famiglia di manufatti tecnologici è importante anche dal punto di vista geologico e stratigrafico da
aver preso il nome di tecnofossili.
Anche il loro destino è di andare in pezzi e diventare sedimenti che saranno a loro volta incorporati in rocce
in futuro; e anche per questi oggetti è stata fatta una stima della loro impronta: il peso dei tecnofossili da
quando questa famiglia è entrata a far parte della storia dell’uomo (nel pieno ‘900 e in particolare dopo il
1950) si aggira sui 30 trilioni di tonnellate (un trilione è un milione di milioni).
Lo AWG ha chiamato l’insieme di questi manufatti “tecnofossili” e ha previsto che sopravvivranno
incorporati nella roccia a testimonianza della nostra civiltà per milioni di anni.
Le ricerche dello AWG sono state sottoposte a voto. Le ricerche sull’Antropocene sono ormai già state
votate più volte, la prima di queste votazioni si è tenuta proprio al convegno di Città del Capo nel 2016. Le
domande che durante questo convegno sono state poste alla comunità scientifica lì presente sulla base di quei
marcatori appena visti sono due:
1. L’Antropocene dovrebbe essere trattata come una unità geologica formalmente definita dal punto di
vista cronostratigrafico? Sì all’88%.
2. I marcatori guida che sono stati individuati per fissare l’inizio dell’Antropocene dovrebbero essere
identificati con i segnali stratigrafici che convergono a identificare come golden spike la metà del
ventesimo secolo? Sì all’88%.
Poiché le risposte a queste due domande superano il 60% di voti favorevoli richiesto dallo AWG per
procedere nell’analisi e nella ricerca sull’Antropocene, noi possiamo prendere atto che dal 2016 la ricerca
sull’Antropocene non è soltanto un corridoio importante, ma decisamente molto urgente.
24.03.2021
Vedi grafici su Ariel. Rappresentano con quanta velocità e subitaneità i processi si presentano, danno idea
visiva molto precisa. Uno dei grafici: “pannello di controllo dell’Antropocene” – serve per la
comprensione dell’Antropocene. L’83% della superficie del pianeta esclusi i ghiacci passa in due secoli sotto
il controllo dell’uomo. Questo discorso ha molto a che fare con le prossime lezioni.
29.03.2021
Prof. aveva proposto una serie di grafici e rappresentazioni di dati che riguardavano l’Antropocene e la
grande accelerazione; erano dati che riguardavano l’intero arco degli ultimi due secoli.
Questo genere di dati sono stati resi possibili dal fatto che la nuova epoca umana, che ora chiamiamo
Antropocene, lascia tracce in tutti i suoi dispositivi naturali, lascia tracce in tutto ciò che poi diventa
archivio di dati: i sedimenti geologici, che saranno poi le rocce del futuro; i ghiacci; l’aria; l’atmosfera.
Guardando l’andamento di questi dati nel corso degli ultimi due secoli, vediamo che registrano dei
cambiamenti importanti e subitanei.
Partiamo col chiarire da dove vengono questi dati.
Il cruscotto o pannello di controllo dell’Antropocene è un pannello di controllo che è stato prodotto
dall’istituto IGBP evocato spesso nelle lezioni scorse. È stato tratto da un volume (già citato) sempre
dell’IGBP: Global Change and the Earth System - A planet under Pressure, un volume del 2005.
Tutti gli altri grafici, invece, sono tratti da un volume un po’ più recente, uscito nel 2018, ma in edizione
italiana nel 2019: Il pianeta umano – come abbiamo creato l’Antropocene. Gli autori sono Simon Lewis e
Mark Maslin, rispettivamente uno scienziato del clima e uno scienziato della terra che lavorano per lo
University College di Londra.
L’influenza dell’azione umana sulla terra è stata più profonda di quanto sia stato riconosciuto fino a tempi
recenti e di quanto molti riconoscano:
Sappiamo che dagli albori della rivoluzione industriali i livello di CO2 sono aumentati del 44%.
Globalmente le attività umane spostano più suolo, sedimenti e rocce di quanto non facciano tutti
insieme gli altri processi naturali.
Agricoltura e industria insieme sottraggono azoto dall’atmosfera tanto quanto fanno tutti i processi
naturali.
Stiamo modificando la vita sulla terra in molti altri modi:
- ogni anno la pesca preleva 80 milioni di tonnellate di pesce dagli oceani; ne vengono allevate altre
80 milioni di tonnellate;
- sul pianeta a causa dell’attività dell’uomo sono comparse 250mila km di coste povere di ossigeno;
- ogni anno il terreno utilizzato dall’uomo produce e quasi 5 miliardi di piante coltivate (per esempio,
canna da zucchero, mais, riso, grano e patate); e quasi 5 miliardi di capi di bestiame
- solo il 3% dei grandi mammiferi sulla terra vive allo stato selvatico;
- il 67% dei grandi mammiferi del pianeta serve all’alimentazione umana (l’altro 30% è costituito
dalla specie umana)
- dall‘ industria della carne, ossia dagli allevamenti, sempre più concepiti secondo il modello
intensivo, proviene anche il 20% dei gas serra.
[ qui sopra contenuto slide ]
Lewis e Maslin sostengono che l’influenza dell’azione umana sulla terra è stata non solo più importante di
quanto non sia stata riconosciuta in tempi molto recenti, ma anche parecchio più importante di quanti ancora
vogliano riconoscere.
Abbiamo già fatto riferimento alla dimensione della produzione e consumo del cemento, plastica e alluminio
e all’impronta ecologica di questi elementi. Sappiamo che dagli albori della rivoluzione industriale il livello
di anidride carbonica è aumentato di poco meno del 50% e che globalmente, ci dicono Lewis e Maslin, le
attività umane spostano più suolo, sedimenti e rocce di quanto non facciano tutti insieme gli altri
processi naturali. Dicono che agricoltura e industria insieme sottraggono azoto dall’atmosfera, tanto quanto
fanno tutti gli altri processi naturali.
E ancora Lewis e Maslin ci dicono anche che noi stiamo modificando la vita sulla terra in molti i sensi,
alcune dimensioni importanti sono queste:
1. Ogni anno la pesca preleva ottanta milioni di pesci dagli oceani; di pesce ne vengono comunque
allevate altre ottanta milioni di tonnellate
2. Sul pianeta oggi ci sono oltre 250 mila chilometri di coste che sono povere o prive totalmente di
ossigeno, a seguito dell’attività umana.
3. Ogni anno, il terreno utilizzato dall’uomo produce circa 5 miliardi di piante coltivate (canna da
zucchero, riso, mais, patate) e quasi 5 miliardi di capi di bestiame di allevamento.
4. Il 67% dei grandi mammiferi del pianeta serve all’alimentazione umana – l’altro 30% è costituito
dalla specie umana; i mammiferi di grandi dimensioni che sulla terra vivono in uno stato selvatico
sono ridotti al 3%.
Questo ci dà l’idea della preponderanza che la nostra specie ha anche tra i mammiferi di grandi dimensioni.
Questo discorso chiama in causa l’industria della carne e di conseguenza gli allevamenti, concepiti sempre
di più il modello intensivo, perché dagli allevamenti intensivi proviene il 20% dei gas serra; ma anche
perché una serie di rapporti di ricerca accumulati nell’ultimo decennio ci danno un’altrettanta serie di dati
particolarmente importanti in termini di patto dell’allevamento intensivo in termini dell’inquinamento del
pianeta.
Innanzitutto, vi sono le emissioni di metano e di anidride carbonica da parte di questi allevamenti.
L’anidride carbonica proviene dalle combustioni che riguardano tutta l’industria della carne: dalla
produzione del foraggio, in particolare di cereali, mais e soia; fino alla deforestazione, necessaria per aprire
campi a pascolo; la produzione e l’uso dei fertilizzanti e dei pesticidi; il trasporto, le attività e operazioni di
mantenimento degli allevamenti, in particolare quelli intensivi.
L’industria della carne produce il 65% del protossido d’azoto rilasciato in atmosfera e il 44% di tutto il
metano presente nell’atmosfera (metano: gas serra particolarmente critico). La FAO, organizzazione
internazionale, ha calcolato che il consumo di carne è aumentato da 70milioni di tonnellate l’anno, quale era
nel 1961 a quasi 463 milioni di tonnellate l’anno a metà degli anni ’10; ma ancora che è destinato a crescere
del 73% entro il 2050. Essendo, l’allevamento intensivo, un’attività umana così fortemente inquinante,
questo genere di dati è piuttosto importante.
Sappiamo che la tendenza in ascesa del consumo di carne è legata soprattutto ai consumi di paesi emergenti
– India, Cina, Brasile – paesi che adottano sempre di più uno stile di vita e un modello alimentare
occidentale.
Viene calcolato, inoltre, che per produrre un chilo di carne di manzo vengono impiegati circa 15000 litri
d'acqua, viceversa, per produrre un chilo di quantità di vegetali, di acqua ne servono tra i 500 e i 2000 litri –
un terzo delle risorse idriche mondiali viene utilizzato per l'allevamento; il 70% della produzione globale di
cereali finisce ad essere a sua volta utilizzato nell'allevamento. Ma il fatto che il 70% della produzione di
cereali sia assorbito dall'industria dell'allevamento significa anche che il prezzo di questi prodotti essenziali
per l'alimentazione umana (soprattutto delle popolazioni più povere) cresce.
Torniamo ai grafici. Facciamo tre considerazioni che li riguardano, per mettere in ordine tre implicazioni.
1) c'erano delle condizioni climatiche che sostanzialmente stabili per oltre 10000 anni (durante l’Olocene)
ma che, con l'apertura del 19° secolo, si sono interrotte. Siamo entrati in un periodo di maggiore
variabilità, di eventi meteorologici estremi. Questi eventi si vanno verificando con una frequenza che è
incommensurabilmente maggiore rispetto a quella che era nel passato. Esempio: in un solo anno, nel
2015, la città di Houston nel Texas è stata colpita da due inondazioni. Il tempo di ritorno (espressione
tecnica) che era stato calcolato per quel tipo di evento atmosferico era di 500 anni: quello che
nell’Olocene era un evento che si manifestava ogni circa 5 secoli (questo è il significato di condizioni
climatiche stabili), nel 2015 si è manifestato due volte nel corso dello stesso anno.
Quindi prima implicazione: fine delle condizioni di stabilità climatica, questo è uno dei significati
dell’Antropocene.
2) La storia dell’umanità e la storia della terra non vanno più viste, studiate, concepite, come
separate. La visione dell’Antropocene fa esattamente il contrario: considera continuamente le
interazioni che intercorrono tra l'umanità e il pianeta, tra il pianeta e l'umanità. Si tratta di interazioni
costellate da innumerevoli meccanismi di azione e retroazione. Allora, uno dei messaggi che
l'Antropocene manda è che dal punto di vista della interazione tra storia dell'umanità e storia della terra,
con la metà del 900, cambia tutto e cambia irreversibilmente. Anche per questo che non è possibile, o
certamente piuttosto improbabile, basarsi sul passato per prevedere il futuro, per esempio dal punto di
vista climatico.
3) Implicazione che ha un importante riflesso politico. Ha a che fare con un’idea indifferenziata di
umanità come attore geologico, perché se andiamo a guardare le cose più da vicino e da una prospettiva
storica, possiamo facilmente renderci conto che non è l'umanità che ha avuto un impatto ambientale; ma
gruppi specifici di uomini in paesi specifici e momenti storici specifici. Per essere chiari potremmo
richiamare alcuni dati che sono in realtà molto noti: un cittadino americano medio consuma 32 volte in
più in termini di energia di un cittadino keniota medio; un bambino che nasce oggi in un paese ricco
lascerà una impronta ecologica enormemente maggiore rispetto a un bambino che nasce invece in un
paese del Sud del mondo (in una porzione del globo più povera). Potremmo porci una domanda e farla
corollario: le tribù amazzoniche o i popoli indigeni del Brasile che coltivano i loro orti nella foresta
pluviale senza usare alcuna energia fossile possono essere considerati responsabili per i cambiamenti
climatici che noi riconduciamo all’Antropocene? È difficile rispondere affermativamente. Quindi,
tornando alla questione cardine: non è l’umanità ad essere attore geologico, ma sono gruppi specifici in
momenti specifici.
Questo è un punto di dibattito piuttosto importante per capire che e perché viene contestata l’idea di
Antropocene quando viene proposta come se fosse scientificamente neutra. Questa supposta neutralità
viene contestata soprattutto da chi sostiene che invece l’Antropocene è sì un evento geologico con
un’ampia evidenza, ma è contemporaneamente, e non meno importante, un evento politico, perché sia
nelle cause, sia negli effetti, dobbiamo andare a guardare l’azione politica di gruppi e luoghi precisi del
pianeta.
C’è un ulteriore corollario a questa affermazione che ha a che fare con la necessaria politicizzazione del
termine Antropocene. Riguarda da vicino i meccanismi che negli ultimi decenni hanno visto ridursi la
povertà nel mondo – si è ridotta soprattutto quando si sono aperti potentemente i settori di sviluppo di
due paesi con ampie percentuali di popolazione (l’India e la Cina); ma contemporaneamente ci sono stati
processi di crescita delle diseguaglianze. Si riduce la povertà nel mondo, ma crescono le diseguaglianze
– crescono soprattutto le diseguaglianze interne ai paesi. Infatti, l’1% della popolazione mondiale
corrisponde alle persone più ricche del pianeta. Non solo, questo 1% in termini di popolazione detiene
una percentuale che è stata variamente calcolata a seconda degli anni di riferimento, tra il 44 e il 48%
della ricchezza del mondo. In altre parole, le 80 persone più ricche del mondo hanno un reddito superiore
a quello delle 400 milioni di persone più povere del mondo messe tutte assieme.
Questi processi di crescita delle diseguaglianze a loro volta stanno all’interno dell’alveo di quel processo
storico chiamato della Grande Divergenza [vedi il mondo globale], cioè la divaricazione che la crescita
dei paesi che si sono industrializzati a partire dalla fine del ‘700 e l’800, hanno conosciuto rispetto al
resto del mondo.
Questa divaricazione non ha solo delle ripercussioni sociali, ma ha anche una correlazione con il
disordine ecologico mondiale, perché sono i paesi industrializzati che hanno fissato lo standard di
produzione e consumo, sia nell’agricoltura sia nell’industria. Uno standard di produzione e consumo che
i paesi in via di sviluppo hanno cercato di raggiungere, eguagliare, imitare; per esempio, nei consumi
alimentari e nei consumi di carne.
Allora, secondo questa precisazione, l’Antropocene non è un’era geologica provocata dall’interazione tra
la specie umana e il sistema terra, ma è provocata da un’interazione tra una frazione precisa di umanità
dentro un gruppo preciso di paesi e dentro un periodo preciso dello sviluppo economico moderno
rispetto alla terra.
Ora, dire questo non è soltanto stabilire una questione di verità storica ma è anche la base per attuare delle
politiche che possano essere efficaci in futuro (per esempio, per prendere sul serio la questione delle
migrazioni ambientali e dei profughi del clima).
Questa considerazione – che non esiste una sola entità chiamata “umanità” come autrice dei cambiamenti del
pianeta ma che sono specifici gruppi di uomini, donne, paesi, momenti storici a agire in questo senso – non
ci dovrebbe esimere dl porci un problema diverso, che Lewis ed Maslin sottopongono alla nostra attenzione:
se, prendendo in considerazione la specie umana nel suo complesso, gli esseri umani si siano comportati
sulla terra in modo diverso dalle altre specie, almeno negli ultimi due secoli.
Sappiamo che le altre specie consumano risorse critiche fino ai loro limiti naturali, cioè crescono in
modo esponenziale e poi crollano quando le risorse di cui hanno bisogno esauriscono. La domanda è: è la
stessa cosa per gli esseri umani? La specie umana si è comportata biologicamente come le altre specie negli
ultimi due secoli? La risposta è no, perché la specie umana è arrivata a toccare un miliardo molto lentamente
(ci ha messo centinaia di migliaia di anni), arriva a toccare un miliardo soltanto nel 1800 – quindi ha avuto
una crescita numerica molto lenta, perché l’umanità è sempre stata falcidiata da guerre, da carestie, da
malattie e da catastrofi. Poi, a partire dall’800 la crescita della popolazione umana ha preso
un’accelerazione: è raddoppiata nel corso di un solo secolo (se ci poniamo all’inizio del 900, vediamo che è
già di 2 miliardi e da quel momento in poi). Da quel momento in poi ha accelerato più che esponenzialmente.
Per questo è diversa dalle altre specie: la spanna di tempo necessaria per raddoppiare di numero è diventata
nel corso del 900, progressivamente più breve ed è ancora più breve nel 1945 (il picco dei tassi di crescita in
realtà è stato raggiunto nel 1965).
Nella prima parte del volume “La grande accelerazione”: interessante porzione devoluta a proporvi dei
ragionamenti sulla popolazione umana e alla relazione della crescita della popolazione umana e le
problematiche ambientali del pianeta.
Nel 2019 la popolazione mondiale ha toccato i 7miliardi e 700milioni. Però le Nazioni Unite (che si sono
occupate di raccogliere una serie di stime e di modelli demografici) stimano che il ritmo di crescita
rallenterà: si può prevedere che la popolazione umana sarà di “soli” 10miliardi nel 2050 e che si potrebbe
stabilizzare intorno agli 11 e non più di 12 miliardi alla fine del XXI esimo secolo.
Ora, come dicono anche John McNeill e Peter Hengelke nella grande accelerazione, questa crescita numerica
registrata dalla specie umana a partire dal 1800 può essere considerata un grande successo dal punto di vista
biologico; e questo successo biologico è l’asse portante dell’Antropocene, così come lo è il fatto che,
soprattutto dopo il 1945 nei paesi più ricchi del mondo crolla la mortalità, e gradatamente questa caduta della
mortalità inizia a considerare anche gli altri paesi.
Ci si è posti più spesso la domanda del perché il Covid-19 in Italia sembra produrre dei tassi di mortalità più
alti rispetto in altri paesi. Una delle possibili risposte ha a che fare con il fatto che la popolazione italiana è la
più vecchia di tutto il continente: oltre il 23% dei residenti in Italia sono più vecchi di 65 anni. La
popolazione italiana è marcatamente più vecchia rispetto alla popolazione europea e la popolazione
americana.
Anche questa può essere considerata una delle diverse dimensioni dell’Antropocene, così come lo può essere
il cambiamento del corpo umano, non solo del numero degli umani: tra il 1800 e il 2000, questi due secoli,
anche le dimensioni del corpo umano sulla terra si sono accresciute.
Citazione da “Il corpo e l’Antropocene”. Un docente della University del Kant in Inghilterra che lavora per
la BBC e scrive per il Guardian, ha redatto questo libro interessante sugli effetti dell’Antropocene sul corpo
umano, in cui dice:
“il corpo dell’uomo dell’Antropocene, è cambiato, ed è cambiato non come risultato dell’evoluzione, ma in
risposta all’ambiente che noi stessi abbiamo creato, con le nuove scoperte scientifiche, gli esperimenti in
vivo, le diverse modalità di lavoro, le trasformazioni del panorama sociale e innumerevoli altri
cambiamenti, con tutto questo il mondo che abbiamo modificato, ci ha silenziosamente cambiati”.
Ora, i nostri impatti sono certamente legati a quanti sono gli umani: c’è certamente una connessione molto
importante tra aumento della popolazione mondiale e motivi di preoccupazione dell’ambiente. Questo è
certamente un aspetto importantissimo dell’Antropocene da studiare; ma gli impatti degli uomini e delle
donne sul pianeta non sono legati solo al loro numero ma sono legati anche a che cosa, quanto e dove
producono e a quando lo producono. Negli ultimi 50 anni la popolazione mondiale è “solo” raddoppiata,
invece l’economia globale è aumentata per 6 volte.
30.03.2021
Il periodo che è successivo alla Seconda Guerra Mondiale vede lo sviluppo di nuovi farmaci, un generale
miglioramento delle condizioni igieniche e di assistenza sanitaria in Europa e in America e la cosiddetta
Rivoluzione Verde in agricoltura, che non riguarda solo il nord del mondo.
Rivoluzione Verde: etichetta che si applica ad un intero approccio molto innovativo nel momento in cui
veniva proposto all’agricoltura, che ha consentito un incremento molto significativo delle produzioni. Lo ha
consentito in una grande parte del mondo a partire dalla seconda metà degli anni ‘40 fino a tutti gli anni ‘70
del ‘900. Questo è accaduto soprattutto per impiego congiunto di alcune varietà vegetali geneticamente
selezionate, l’impiego di fertilizzanti, di fitofarmaci, di acqua e una serie di altri investimenti di capitale
(mezzi tecnici e meccanici). La rivoluzione verde prende il via in Messico nel 1944, alimentata soprattutto
dalle conoscenze che arrivano da uno scienziato americano: Norman Borlaug (premio Nobel per la pace nel
1970 per la sua azione sulla rivoluzione verde). Nella seconda parte degli anni 40 il primo obiettivo diventa
quello di selezionare nuove varietà vegetali che potessero fare fronte a richieste alimentari crescenti nel
secondo dopoguerra; e contemporaneamente anche l’obiettivo di ridurre le aree del mondo a rischio di
carestia.
Nel tempo, le tecniche sviluppate e i caratteri che vengono selezionati nelle piante si sono diffusi in tutti i
continenti, però le nazioni e soprattutto le aree del mondo dove si sono avuti i migliori risultati sono l’India e
sud-est asiatico e il centro-sud America. In parte a causa delle condizioni climatiche più avverse, ma
soprattutto a causa di una situazione geo-politica molto complessa, sono stati molto meno significativi i
risultati della rivoluzione verde condotti nell’Africa subsahariana, che infatti è ancora oggi una parte che
soffre di carestie endemiche.
Sappiamo che il periodo che segue il 45-50 è quello in cui la popolazione umana ha conosciuto una crescita
senza precedenti, un aumento di 5 miliardi in 70 anni.
La specie umana è aumentata non esponenzialmente, ma più che esponenzialmente. Il tempo di raddoppio
della popolazione umana è crescentemente diminuito nel tempo. Ora questa velocità di accrescimento si è già
molto rallentata, perché a mano a mano che i paesi si sviluppano vanno incontro alla transizione
demografica [descritta nel manuale].
Quelli che diminuiscono più lentamente sono i tassi di natalità rispetto ai tassi di mortalità. I tassi di
mortalità sono più veloci a diminuire, mentre i tassi di natalità diminuiscono marcatamente soprattutto
quando aumentano gli investimenti nell’istruzione delle donne. Ma anche considerando che c’è un
rallentamento nella crescita della popolazione (perché tutti i paesi, prima o poi, entrano nella transizione
demografica), si prevede che nell’arco di pochi decenni si aggiungeranno almeno 2 miliardi di persone a
quelli che già vivono nel pianeta.
I grafici sono presi dal libro di Lewis e Maslin, “Il pianeta umano”.
Questo grafico racconta che per alimentare una
popolazione in crescita più che esponenziale,
negli ultimi 70 anni è aumentato in maniera
analoga anche il consumo di energia globale –
ma questo aumento non è stato omogeneo nel
pianeta: un cittadino medio degli USA utilizza
più o meno 10.000 watt di energia all’anno, una
quantità 5 volte superiore a quella che veniva
consumata da un cittadino del mondo
preindustriale.
L’aumento nel consumo di energia è legato
soprattutto al progressivo uso dei combustibili
fossili (carbone, idrogeno, energia idraulica,
energia nucleare, biomasse) - la figura mostra il
loro progressivo aumento.
Se un cittadino consuma 10.000 watt di energia
all’anno, collettivamente l’umanità ne consuma
17 miliardi all’anno (quantità consumata
principalmente dai paesi a reddito più elevato).
Questa quantità è la stessa dell’energia catturata grazie ai processi di fotosintesi di più della metà delle
foreste nel mondo.
La prospettiva teorica dell’Antropocene ci costringe a pensare alla storia dell’uomo e del pianeta, come
intrinsecamente connesse. Due storie che non devono essere pensate come separate. Dal punto di vista dei
tempi geologici, possiamo rintracciare nella storia della terra un altro momento in cui una sola forma di vita
(nel nostro caso l’uomo) ha avuto improvvisamente accesso ad una nuova e abbondante forma di energia:
470 milioni di anni fa, cioè a quando sono le piante iniziano a colonizzare la superficie terrestre.
Queste figure ci dicono che dopo il 1945 crescono in modo rapido e parallelo tutta una serie di aspetti
dell’attività umana sulla terra: aumenta la produzione alimentare agricola (e questo causa un ulteriore
aumento dell’uso dell’acqua dolce e dei
fertilizzanti), aumenta ulteriormente rispetto al
secolo precedente anche la produzione industriale –
e ciò avviene soprattutto sotto la spinta e nel quadro
tecnologico-scientifico della “seconda rivoluzione
industriale”. Si tratta di un quadro tecnologico-
scientifico che si dischiude verso la fine del ‘900 e
inizia dopo il 1945. Scienza e tecnologia e industria
iniziano a dialogare e influenzarsi molto più di
quanto avessero fatto tra ‘700 e ‘800, aumentano
soprattutto i beni industriali prodotti in serie per i
mercati di massa. La figura 7.2 fa riferimento al
prodotto di massa per eccellenza, cioè l’automobile.
Da questa figura, la produzione di auto e autocarri è
arrivata nel 2015 ad essere di 1 miliardo e 300
milioni di pezzi.
Uno degli elementi di congiunzione più importanti
tra le figure dei grafici è una precisa acquisizione
della scienza e della tecnologia ed in particolare
all’invenzione del processo che rende possibile
l’inversione dell’azoto in ammoniaca, in altre parole che rende possibile la produzione industriale di
ammoniaca. L’ammoniaca è una importante materia prima, ma soprattutto è un prodotto che ha molte
applicazioni nella sintesi di tutta una serie di prodotti.
La produzione industriale di ammoniaca è una scoperta scientifica che prende il nome da due chimici
tedeschi che sono Fritz Haber e Karl Bosch. Il processo della produzione di ammoniaca è originariamente
brevettato da Fritz Haber, ma nel 1910 è Karl Bosch che inizia a diffondere commercialmente e con
grandissimo successo il loro successo congiunto ed è Bosch che si assicura i successivi brevetti.
Questo processo Haber-Bosch fu poi utilizzato per la prima volta su scala industriale in Germania durante la
I Guerra Mondiale. Prima di quel momento i tedeschi importavano dal Cile il nitrato di sodio, che serviva per
le munizioni di armi belliche. Ma la capacità di produrre ammoniaca industrialmente, a quel punto li libera
dalle incertezze che erano legate alle fonti di approvvigionamento. Haber e Bosch, quindi, stavano facendo
ricerche sugli esplosivi, e durante le loro ricerche fanno reagire l’azoto atmosferico con l’idrogeno e li
portano a temperature molto elevate in presenza di un catalizzatore metallico. Ed è in questo modo che la
Germania è riuscita ad assicurarsi le munizioni che sono state necessarie per tutto il primo conflitto
mondiale. Il processo Haber-Bosch, quindi, è un fattore molto importante dell’Antropocene per due versanti
molti diversi:
Per le applicazioni belliche – una narrazione possibile dell’Antropocene è certamente quella delle
guerre del ‘900, che hanno costruito l’Antropocene esattamente come altri processi hanno fatto.
Per le applicazioni agricole – il processo Haber-Bosch entra definitivamente nella produzione dei
fertilizzanti azotati. Una narrazione alternativa dell’Antropocene è quella dei consumi alimentari che
sono possibili nel 900 grazie all’uso dei fertilizzanti.
Oggi, a livello globale, per la produzione di fertilizzanti servono 115 milioni di tonnellate di azoto
atmosferico. Noi sappiamo che i fertilizzanti nel corso dell’ultimo secolo hanno quadruplicato la produttività
dei terreni sul pianeta (non certo di tutti nello stesso modo) e hanno consentito l’aumento della popolazione
nel corso del 900, popolazione che ha potuto crescere anche grazie all’utilizzo dei fertilizzanti azotati. Se
volessimo produrre senza fertilizzanti azotati la stessa quantità di cibo che oggi ricaviamo dalla terra,
servirebbe una superficie tripla di quella che viene effettivamente utilizzata. La superficie della terra
utilizzata per l’allevamento equivale ad oggi a 5 miliardi di ettari, ovvero un terzo di tutte le terre emerse.
Una superficie tripla che sia effettivamente dedicabile, per caratteristiche del terreno, all’agricoltura, non
esiste. Quindi, senza i fertilizzanti azotati non sarebbe possibile alimentare quasi 8 miliardi di persone.
Ci sono diverse aree forestali in Brasile, Africa, Indonesia che vengono deforestate per essere messe a
coltura; però sappiamo anche che la superficie di terre arabili sul pianeta è rimasta pressoché costante a
partire dagli anni 70 del 900. Ed il fatto sia rimasta costante nonostante si abbia deforestato grandi pezzi del
pianeta ogni anno, dipende dal fatto che queste aree che si guadagnano per l’agricoltura vanno in realtà a
sostituire delle terre che hanno perso la possibilità di essere coltivate, per esempio perché sono state
eccessivamente salinizzate, perché si è impoverito eccessivamente il suolo, oppure per l’avanzare
dell’urbanizzazione.
Quindi ci sono stati certamente dei benefici storici nell’uso dei fertilizzanti, perché senza i fertilizzanti
l’umanità non sarebbe probabilmente uscita da quel plateau tra il miliardo e i due miliardi in cui è stata tra
l’Ottocento e il Novecento. Ma la figura rappresenta anche l’altra faccia della medaglia: gli imponenti costi
ambientali che l’uso dei fertilizzanti ha avuto, e questo perché l’uso massiccio dell’azoto nei suoli finisce
nelle acque dei fiumi, dei laghi e infine nelle acque costiere e danneggia gli ecosistemi acquatici.
Questo danneggiamento è noto come processo di eutrofizzazione. Questo processo deriva dall’accumulo
dei nutrienti nell’acqua. Certamente può essere anche un processo naturale ma il punto è che quantità
eccessive di nutrienti (in particolare nutrienti chimici creati dall’uomo) sono finite nelle acque prima nei
laghi e nei fiumi e poi nelle acque costiere; e questo ha generato tassi di crescita delle alghe che a questo
punto non sono naturali affatto. Ci sono casi in cui proliferano alghe tossiche, ci sono altri casi in cui
proliferano all’eccesso delle alghe non tossiche, ma proprio perché crescono troppo muoiono e la loro
decomposizione esaurisce l’ossigeno presente nell’acqua circostante. Insomma, entrambi questi effetti (alghe
tossiche, alghe non tossiche che proliferano all’eccesso) portano alla mortalità molto elevata di molte
specie sia animali che vegetali e questo fa parte di quella riduzione di biodiversità che l’Antropocene ha
come marchio di fabbrica.
Si calcola che nel mondo ci siano circa 250.000 km² di acque marine che sono ormai quasi senza vita a causa
della povertà di ossigeno.
Resta infine da intrecciare il piano dell’energia con quello industriale, con quello dell’espansione agraria. Il
processo di Haber-Bosch è un processo che consuma molta energia, soprattutto gas naturale e quindi ha
anche un impatto sul ciclo del carbonio.
Ma l’impatto principale del processo Haber-Bosch resta comunque quello sul ciclo dell’azoto. L’attività
umana di fissazione dell’azoto atmosferico equivale oggi a tutti i processi naturali di fissazione dell’azoto
atmosferico. Se vogliamo avere un’idea dell’essere umano che diventa agente sulla naturalità del pianeta, il
processo dell’azoto ce la dà molto plasticamente.
Così nel corso del ‘900 e molto più marcatamente dopo il 1945, l’attività umana ha raddoppiato l’intensità
del ciclo dell’azoto sul pianeta, e questo è certamente un cambiamento cruciale per il sistema Terra. Lo è
anche perché l’azoto, come il carbonio, è un sistema fondamentale della vita, fa parte del DNA e delle
proteine. L’attività umana ha alterato il ciclo dell’azoto in modo così fondamentale che per trovare un evento
geologico naturale che abbia fatto qualcosa di simile gli scienziati ci dicono che dovremmo andare indietro
nel tempo di 2 miliardi e mezzo di anni.
Torniamo al filo principale del discorso e torniamo all’intreccio tra consumi di energia, industrializzazione e
sviluppi dell’agricoltura intensiva, perché per fare questo dobbiamo guardare anche al ciclo del fosforo. Per
disporre del fosforo per i fertilizzanti in realtà non servono dei processi industriali complessi come il
processo Haber-Bosch, quello che ne è derivato, perché il fosforo si estrae dalle rocce fosforiche.
Il primo produttore mondiale di fosfati è il Marocco, ci sono però depositi importanti in molti altri paesi
dell’Africa: l’Egitto, Israele, in Giordania, in tutta la fascia del Sahara, negli Stati Uniti, soprattutto nella
fascia meridionale, in diverse isole del Pacifico dove però i fosfati si sono già esauriti. Il punto è proprio
questo: da un lato il fosforo è una risorsa non meno fondamentale dell’azoto ed è una risorsa finita, non
rinnovabile (si calcola anzi che al ritmo attuale è una risorsa che potrebbe esaurirsi nel giro di 300 anni);
dall’altro lato però, il fosforo contribuisce a sua volta all’eutrofizzazione delle acque esattamente come fa
l’azoto. Ma se si riducesse l’uso del fosforo in agricoltura calerebbero marcatamente le rese delle produzioni
alimentari, e questo in vista di 2 o ulteriori miliardi di donne e uomini in più sul pianeta entro la fine del
secolo sembra piuttosto preoccupante.
Riprendiamo ad argomentare i grafici elaborati da Simon Lewis e Mark Maslin, rispettivamente uno
scienziato del clima e uno scienziato della Terra col loro libro Un pianeta Umano.
Questa figura riguarda i cambiamenti avvenuti lungo più di un secolo, dopo il 1900. Quindi avvenuti a
partire da una fase, l’apertura del ‘900 per
l’appunto, di pieno compimento della prima
Rivoluzione industriale ma anche di ulteriori
trasformazioni e innovazioni che sono
contemporaneamente scientifiche, tecnologiche e
manifatturiere; una fase che prende il nome di
Seconda Rivoluzione industriale [vedi
manuale].
Questa figura 7.5 riguarda soprattutto quello che
avviene in termini di cambiamento a livello della
superficie della Terra, e quindi del suolo e della
diversità biologica sul pianeta. In pochi dati
quantitativi e in pochi tratti immediatamente
visivamente intuitivi, quello che fanno questi
grafici è di rendere conto di una intera serie di
dinamiche che sono sia simultanee (accadono
allo stesso tempo) e sia intrecciate tra loro, cioè
in alimentazione reciproca l’una con l’altra. Il
primo dei quattro grafici che sono contenuti nella
figura 7.5 mostra come dopo il 1945 la
destinazione della Terra ad uso umano aumenta a
ritmo elevato e soprattutto aumenta molto di più di
quanto non fosse accaduto nella prima parte del secolo. Se nella prima parte del secolo noi avevamo un
mondo dentro un quadro geopolitico ancora coloniale, invece dopo il 1945 il mondo si apre alla
decolonizzazione.
In questo caso, uso umano della Terra significa principalmente un po’ di cose diverse: uso per il consumo
di prodotti agricoli derivati dalla terra come cibo, derivate dalla terra come fibra (importanza del cotone e
del legno), e come foraggio per animali da allevamento. La conseguenza di questa estensione delle superfici
coltivate è stata una perdita netta di alberi.
La conseguenza di questa estensione superficie coltivata è stata una perdita netta di alberi: viene calcolato
che prima della rivoluzione industriale gli alberi sulla terra fossero circa 6000 miliardi, oggi sono la metà,
3000 miliardi. Questa perdita di alberi sul pianeta dipende dal fatto che si sono sostituiti degli insediamenti
umani ad alta densità soprattutto di popolazione umana come città, villaggi, paesi ma anche terreni coltivati,
pascoli per l’allevamento oppure foreste gestite dall’uomo per ricavarne legname; ad habitat che avevano
invece come vegetazione dominante boschi temperati, foreste, savane, anche deserti.
Se chiamiamo biomi naturali proprio gli ambienti che presentano, appunto, un tipo di vegetazione
dominante; gli scienziati hanno cominciato a chiamare invece antromi (cioè biomi antropici) i biomi che
sono stati naturali e che sono invece stati largamente modificati dall’uomo. Esempio: la città di Phoenix in
Arizona sta certamente dentro un bioma naturale che è un deserto, però di sicuro non è più, essendo una
grande città con milioni di abitanti, un bioma naturale – è diventato un bioma antropico, un antroma,
radicalmente antropizzato.
Il terzo grafico della figura 7.5 mostra la tendenza verso una omogeneizzazione dei biomi e una
antropizzazione dei biomi sul pianeta, che è andata crescendo per tutto il 900, con due periodi che fanno
eccezione che corrispondono alle due guerre mondiali.
Quindi tutti questi ecosistemi trasformati dall’azione dell’uomo, da un lato hanno subito una grave perdita
di diversità biologica; dall’altro invece hanno reso possibile l’emergere di nuove specie. Quindi l’azione
dell’uomo procede su due binari paralleli:
Aggiunge specie – esempio della zanzara della metropolitana di Londra.
Elimina specie
La zanzara della metropolitana di Londra è una variazione della zanzara comune, che si è adattata
all’ambiente sotterraneo della rete metropolitana di Londra. Probabilmente si è insediata lì sin da quando
sono stati aperti i primi cantieri quell’opera infrastrutturale intorno al 1863. Per sopravvivere punge quello
che di vivente trova negli spazi sotterranei dei cunicoli della metropolitana (topi, ratti e esseri umani). Se è
probabile che la zanzara della metropolitana si sia insediata appunto intorno al 1863, viene “scoperta”
durante la Seconda Guerra Mondiale quando i cittadini di Londra usano le gallerie come rifugio dai
bombardamenti tedeschi. Questo perché ci si accorge che quel tipo di zanzara non va più in ibernazione
durante l’inverno, perché si è in qualche modo adattata ai tunnel umidi della rete metropolitana dove la
temperatura resta sempre relativamente più mite anche nella stagione più fredda. Non solo, è una zanzara che
si è evoluta nel tempo in una forma geneticamente specifica che non è più in grado di accoppiarsi con le
zanzare comuni rimaste all’aria aperta.
Quindi abbiamo una specie che presenta caratteristiche nuove che dipendono dall’azione dell’uomo. Tutto
questo dal punto di vista della teoria dell’evoluzione è già interessante di per sé. La teoria dell’evoluzione
dice che se una caratteristica che si manifesta in un esemplare della specie permette una migliore capacità di
sopravvivenza, allora questa caratteristica probabilmente si affermerà anche nelle generazioni successive,
fino a diventare una caratteristica prevalente. Una volta entrata a far parte del patrimonio genetico quella
caratteristica lì avrà determinato la nascita di una nuova specie, ed è esattamente quello che è successo per la
zanzara della metropolitana di Londra.
Quindi non è un esempio banale perché ci dice una cosa in più sull’Antropocene: in questa fase successiva
all’industrializzazione e all’urbanizzazione, l’uomo non è più soltanto un attore geologico, cioè che agisce
sulla composizione degli strati della terra, ma diventa anche un attore biologico. Le attività umane
concorrono da sempre a determinare la comparsa di nuove caratteristiche e a esercitare nuove pressioni sugli
organismi viventi; ma questo si è molto accelerato nel ‘900 e si è ancora più accelerato dopo il 1945.
A dire tutto questo è una ricerca abbastanza recente della Royal Society del 2016 ha analizzato proprio
questo genere di meccanismi per cui l’uomo diventa attore biologico, cioè attraverso cui l’uomo provoca
l’insorgere di nuove specie. In alcuni casi lo fa da molto prima della Rivoluzione industriale, ma appunto lo
fa più intensamente dopo la Rivoluzione industriale. L’articolo della Royal Society indica questi meccanismi
uno dopo l’altro. Eccoli:
1. Addomesticamento
Il più comune dei meccanismi è la pratica forse più vecchia del mondo, quella dell’addomesticamento:
togliere animali e piante dallo stato selvatico, allevare gli animali e coltivare le piante. Da quando è nata
l’agricoltura fino a oggi l’uomo pare abbia domesticato quasi 500 specie di animali e quasi 300 specie di
piante. Poiché il loro ciclo vitale ad un certo punto è passato sotto il controllo dell’uomo, queste specie
domesticate hanno visto comparire e prevalere dei tratti diversi da quelli che avevano allo stato naturale.
L’esempio forse più chiaro è quello del cane: è con l’addomesticamento che a un certo punto si è distinto dal
lupo. Le prime tracce fossili del cane così come noi lo conosciamo risalgono a 11-12.000 anni fa; ma zoologi
e biologi hanno calcolato che il cane probabilmente è apparso come specie distinta da lupo sul pianeta anche
tra i 20 e 40 mila anni fa. È distinta dal lupo perché ha sviluppato canini meno aguzzi, artigli meno affilati,
comportamenti meno aggressivi e quindi una relazione diversa con gli uomini di quella che non potessero
avere i lupi.
2. Caccia e pesca
A causare lo sviluppo di nuovi tratti potenziali precursori dell’origine di una nuova specie, spesso sono
proprio le pratiche della caccia e della pesca. Proprio perché nel tempo si sono trovati a rischio di estinzione,
ci sono animali come i cervi e gli elefanti che hanno cominciato a sviluppare corna e zampe più piccole,
proprio perché le loro corna e le loro zanne diventavano trofei dei cacciatori di frodo. Inoltre, per sfuggire
alle reti della pesca intensiva in mare i pesci hanno cominciato a nascere sempre più piccoli.
3. L’introduzione in habitat diversi da quelli originali di animali e vegetali
Che l'abbia fatto intenzionalmente o meno, l'uomo ha per molti millenni introdotto specie in habitat diversi
da quelli di cui erano originarie. Ciò che viene rilocalizzato subisce sempre dei cambiamenti per adattarsi,
per sopravvivere all'ambiente nuovo e questi cambiamenti nell’arco del tempo portano alla cosiddetta
“speciazione”.
4. Creazione di nuovi ecosistemi
L'uomo cementifica, disbosca, converte l'uso del suolo, costruisce, inquina; e facendo tutto questo crea nuovi
ecosistemi e quindi altera irreversibilmente quelli che esistevano prima. Questo implica quasi sempre una
significativa perdita di diversità biologica ma (e questo era il caso che vedevamo prima) anche la nascita di
comunità biologiche in grado di sopravvivere agli ambienti nuovi: il caso della zanzara della metropolitana
di Londra era proprio un esempio di questo tipo.
5. Tecnologia
Ultimo meccanismo indicato dalla Royal Society è quello della tecnologia. Se tutti i meccanismi che
abbiamo visto fino adesso sono stati abbondantemente sperimentati nella storia, quelli di speciazione per via
tecnologica sono al confine tra il nostro presente e il futuro, perché le biotecnologie si fanno ogni giorno più
avanzate. Stiamo parlando di organismi geneticamente modificati, possibilità di riportare in vita specie
estinte, ovviamente tutto questo poi apre comprensibili e enormi questioni etiche.
Il punto è che le azioni umane probabilmente costituiscono non solo una leva di trasformazione geologica,
ma anche la più importante pressione evolutiva sulla terra a partire dalla prima rivoluzione industriale .
Anche gli organismi viventi con il passaggio all' 800 e al 900 vengono spostati da un continente all'altro in
quantità sempre maggiori e a ritmi sempre più rapidi. Il riquadro terzo della figura 7.5 vi diceva proprio
questo: il quadro che riguarda la omogeneizzazione biotica. Un dato che ha a che fare con questa
omogeneizzazione biotica ci dice che il 4% delle specie vegetali è stato trasferito da un habitat originario a
qualche altra parte del mondo. Il 4% potrebbe anche sembrare poco, ma in realtà equivale a tutte le specie
vegetali native dell’Europa. Poi sappiamo che ogni nuovo arrivo di una specie vegetale causa anche un
qualche adattamento anche alla fauna, quindi effetti domino tra ambienti vegetali e ambienti faunistici che si
alimentano le reciprocamente.
Prima abbiamo detto che dal punto di vista della diversità biologica la nazione dell'uomo si sviluppa su due
binari: quello di aggiungere specie (zanzare di Londra serviva); e uno più drammatico dell’eliminazione
delle specie – per la maggior parte i diversi habitat sulla terra hanno subito infatti delle perdite di diversità
biologica molto marcate e [questo dato viene illustrato molto estesamente nel volume “la grande
accelerazione” di Robert McNeill e Peter Engelke] questa perdita di diversità biologica a sua volta segue un
doppio movimento:
Primo movimento
Il primo movimento consiste nel fatto che si è andata drammaticamente riducendosi la consistenza delle
popolazioni animali. A dirci che si stanno riducendo le popolazioni animali è il Living Planet Index: un
indicatore dello stato della biodiversità globale, che segnala lo stato di salute del nostro pianeta. Si tratta di
un indicatore che viene presentato nell'ambito del Living Planet Report che è a sua volta una pubblicazione
periodica del WWF dal 1998. I primi report sono stati annuali e poi dal 2000 il rapporto è diventato
biennale, quindi l'ultimo rapporto del WWF in questa direzione è del 2018.
Questo Living Planet Index analizza la tendenza delle popolazioni animali e la prende come misura di
cambiamenti della biodiversità. L'ultimo grafico della figura 7.5 si basa proprio sul Living Planet Index e
dice che da quando le popolazioni animali sono monitorate sistematicamente, ossia dal 1970, le dimensioni
medie delle popolazioni animali si sono più che dimezzate.
Quindi primo movimento che tende a eliminare biodiversità e riduce le popolazioni animali.
Secondo movimento
Se il primo movimento elimina la biodiversità e riduce solamente le popolazioni animali, il secondo
movimento invece è proprio quello della eliminazione di specie intere: si tratta in questo caso di vere e
proprie estinzioni che sono storicamente già avvenute oppure che stanno avvenendo. In particolare è
l'agricoltura industriale ad avere cambiato radicalmente le percentuali soprattutto dei diversi mammiferi che
ci sono sulla terra: i mammiferi selvatici oggi costituiscono solo il 3% della massa totale dei mammiferi, il
resto si divide tra la componente umana e la componente data dai mammiferi di allevamento. Ma, appunto, i
mammiferi allo stato selvatico sono il 3%.
Ora, se la riduzione delle popolazioni animali veniva misurata da questo indice prodotto dal WWF, in questo
caso l’eliminazione delle specie è monitorata da un particolare organismo dell’ONU, l’Unione
internazionale per la conservazione della Natura, che è incaricato di compilare un elenco chiamato lista
rossa delle specie minacciate. Questa lista rossa è stata istituita nel 1948 e rappresenta il database più ampio
di informazioni sullo stato di conservazione delle specie animali e vegetali di tutto il nostro pianeta, i dati
tecnici e scientifici che servono alla compilazione della lista rossa delle specie minacciate sono raccolti e
analizzati da uno sforzo di coordinamento scientifico davvero imponente perché si tratta di 7500 scienziati in
tutto il mondo, sono generalmente degli esperti di vari ambiti della zoologia, della botanica e di altre
discipline affine alla biologia, sono degli scienziati che lavorano in modo volontario e gratuito e questa lista
rossa appunto si basa su una serie di criteri di valutazione del rischio di estinzione.
La lista rossa dell’ONU segnala le specie estinte e le specie in pericolo; ma soprattutto registra che dal 1500
in avanti, cioè dalla conquista del continente americano, ci sono state quasi 800 estinzioni documentate. Ma
gli scienziati avvisano: si tratta di una stima certamente tarata per difetto e di una stima a cui bisognerebbe
probabilmente aggiungere 60 specie animali che sopravvivono solo in cattività e che se fossero lasciati allo
stato brado sarebbero già estinte a loro volta.
Il punto rilevante è che 2/3 di queste quasi 800 estinzioni sono avvenute dopo il 1900. Anzi, c’è uno
zoologo britannico piuttosto noto in Gran Bretagna perché tiene una rubrica fissa sulla BBC, Mark
Carwardine, che sostiene che certamente queste 800 estinzioni sono una stima per difetto, perché dice: “gli
scienziati che tengono questo elenco stanno cercando a tentoni di registrare l'esistenza di alcune specie prima
che si estinguano; ma è come se qualcuno attraversasse di corsa le sale di una biblioteca in fiamme provando
disperatamente a prender nota di alcuni titoli di libri che non saranno letti mai più”.
Allora, questi due movimenti spingono gli scienziati a considerare che le azioni umane, soprattutto le azioni
umane che si sono condensate dopo la rivoluzione industriale, stanno causando un processo di estinzione di
massa e un processo di estinzione di massa di una portata tale che nella storia della terra sarebbe considerato
il sesto a partire dalla apparizione della vita multicellulare e viene fatta risalire a 541 milioni di anni fa.
Una divulgatrice scientifica americana dedica un libro proprio all'ipotesi che siamo di fronte a una sesta
estinzione di massa. Lei dice che ci sono delle specie che mandano dei segnali più allarmanti di altre (gli
invertebrati, per esempio, gli insetti che si estinguono a tassi più rapidi ancora di altre specie). Un discorso
abbastanza interessante è quello che ci dice che se consideriamo le 5 estinzioni di massa della storia della
terra precedenti a quella a noi contemporanea, quella più simile a quella in corso è l'ultima, la quinta: quella
dal Cretaceo al Paleocene, avvenuta 66 milioni di anni fa. È avvenuta a causa dell’impatto di un meteorite al
largo dello Yucatan, in Messico. Per gli effetti di questo impatto sull’atmosfera, è finita la vita dei dinosauri
(che era durata 170 milioni di anni), sono scomparse il 75% delle specie animali sulla terra; e si è creato però
lo spazio per l'espansione la diversificazione dei mammiferi.
Quindi abbiamo un estinzione dei dinosauri che è simile a quella che stiamo attraversando oggi; ed è simile
perché è egualmente selettiva, riguarda piante e animali che vengono eliminati (non tutte, una percentuale
alta), e quindi abbiamo delle specie che presentano rischi maggiori, per esempio gli animali di più grossa
taglia oppure gli ecosistemi nelle zone costiere (gli oceani si stanno acidificando, le alghe proliferano in
modo tale da soffocare la vita nell'acqua vicino alle coste, aumenta la temperatura delle acque degli oceani e
questo ha portato molte barriere coralline già alla morte e probabilmente ne porterà altre nei prossimi
decenni e secoli).
Una sintesi: l'impatto dell'azione umana dopo il 1945 secondo alcuni sarebbe simile a quello del meteorite
che 66 milioni di anni fa a 30 km al secondo si è schiantato sulla terra . La grande accelerazione di cui parla
McNeill nel suo volume in qualche modo sembrerebbe corrispondere agli effetti in una sorta di meteorite
umana.
Nonostante questa similitudine tra la quinta estinzione e la sesta, c'è però un aspetto che le differenzia:
mentre l'azione del meteorite è stata istantanea, questa sesta estinzione di massa non viene agita in modo
istantaneo, proprio perché ci sono delle dinamiche avviate con la rivoluzione industriale, e ci sono voluti
almeno 250 anni perché si estinguessero percentuali molto importanti di esseri viventi; e potrebbero volerci
altri 250 anni perché scompaia il 75% delle specie attuali (è esattamente l’effetto del meteorite).
Ora, se la cattiva notizia è che rimanendo le cose come stanno questo potrebbe accadere; la buona notizia è
che 250 anni non sono tanti dal punto di vista geologico, ma certamente sono tanti dal punto di vista della
vita degli uomini – il che significa che gli uomini potrebbero essere ancora in tempo per fare molto per la
vita su questo pianeta. Quello a cui evidentemente l'umanità deve politicamente e esistenzialmente fare
attenzione è proprio che elevati livelli di estinzione già in atto portano però ad alterare radicalmente degli
interi ecosistemi, e questo scatena una serie di effetti domino che provocano altre perdite con reazione a
cascata che potrebbe essere difficile controllare.
In conclusione, l'impatto dell'azione umana sull’evoluzione va molto al di là dell’eliminazione di forme di
vita, implica lo sviluppo di prodotti artificiali che interagiscono con la vita: l'uso dei pesticidi per
esempio, lo sviluppo degli antibiotici (uno dei portati dell'industria chimica di seconda rivoluzione
industriale) e quello dei nuovi organismi geneticamente modificati, che sono uno dei portati degli sviluppi
molto più recenti.
Probabilmente il più grande cambiamento di portata planetaria però è la pressione selettiva che agiscono le
temperature in crescita a causa dei gas serra. È questo aumento delle temperature che farà da filtro alle
specie che sopravviveranno in futuro. Questo è una delle cose che ci su cui ci ammoniscono i biologi. Anzi,
secondo alcuni biologi evoluzionisti, l'evoluzione è accelerata in questa fase della vita dell'uomo e del
pianeta proprio perché è accelerato il cambiamento ambientale causato dall’uomo – il che significa che la
specie umana oggi è la forza evolutiva più potente della terra.
31.03.2021
La lezione di oggi ha per tema l’Antropocene e l’inquinamento industriale, anche se poi ci concentreremo
sull’inquinamento da plastica.
Vediamo tre contenuti caricati su Ariel. Tema della scoperta e dell’esistenza, soprattutto, di quell’isola di
plastica. Usiamo come stratagemma l’isola di plastica per parlare del Antropocene-inquinamento, che fa
tutt’uno con i discorsi che stiamo svolgendo. I contenuti sono nello spazio Ariel della lezione 6 e sul team.
Tra i segnali più potenti dell’Antropocene ci sono quelli dell’inquinamento industriale. La storia ci insegna
che l’inquinamento non nasce con lo sviluppo economico-moderno, non nasce con l’industria. In realtà, il
Medioevo conosceva molte forme di inquinamento per mano dell’uomo e la storia europea documenta leggi
e editti che i governi emanano per vietare alcune pratiche umane che sono considerate inquinanti.
Però lo sviluppo economico moderno, quindi dalla Prima Rivoluzione Industriale in avanti, mette in moto dei
processi di inquinamento nuovi e sono su scala dimensionale nuova, si tratta di forme legate allo sviluppo, in
particolare, dell’industria. Lo abbiamo visto su diversi aspetti quantitativi della grande accelerazione
[+volume la grande accelerazione].
Con l’industrializzazione però non cambiano soltanto le forme e i volumi dell’inquinamento, ma cambiano
anche i modi di pensare l’inquinamento e si diversificano i modi di riferirsi all’inquinamento. Sarebbe più
corretto dire “inquinamenti, le varie forme di inquinamento” usando il plurale. Il significato di questa parola
è cambiato nei secoli: la parola inquinamento ha significato cose diverse in momenti diversi. Ad essere
precisi, nemmeno adesso c’è un accordo generale su che cosa inquinamento significhi (esempio: esiti così
contraddittori dei processi che giungono alla fine che riguardano battaglie di tipo ambientalista).
Riflettiamo sulla parola. In italiano noi parliamo di inquinamento – radice latina che rimanda al verbo
“defecare”. Cioè, la parola latina da cui si forma la parola “inquinamento” è una parola che il mondo
classico rimandava alle deiezioni umane. Di fatto, questa è l’accezione di “inquinamento” che vale fino al
tardo Medioevo, perché le città in particolare, erano, essendo prive dei servizi igienici, molto esposte alle
deiezioni umane.
Progressivamente questa parola ha guadagnato in asetticità, cioè si è emancipata da quel riferirsi direttamente
alla lordura umana e alla repulsione verso le deiezioni umane. È diventata una parola relativamente asettica
che oggi si riferisce a sostanze, particelle più o meno visibili, più o meno percepibili che nell’aria, nell’acqua
e nel suolo alterano l’aria, l’acqua e il suolo.
La parola inglese e francese che si riferisce all’inquinamento ha, invece, una radice diversa: pollution in
inglese e pollutiòn in francese. La radice è sempre latina, ma è diversa da quella dalla quale deriva la parola
“inquinamento”. Queste due parole derivano non da defecare, ma dal verbo “polluere” che significa
“dissacrare”, “violare qualcosa di sacro” e cioè violare la sacralità della natura.
Quindi c’è una radice latina della parola inquinamento che ha una lontana connotazione religiosa che, anche
in questo caso, gradatamente si perde. Si perde soprattutto a partire dal 1600, dal secolo della Rivoluzione
Scientifica, che poi introdurrà l’età dei lumi nel 1700. Ci vogliono comunque 200 anni, da quella svolta
scientista nella cultura europea del secolo ‘600, per far perdere a quella parola la sua connotazione religiosa
per assumere il significato che ha oggi, cioè “alterazione di ambienti naturali per azione dell’uomo”.
Questa accezione contemporanea si diffonde prima in Inghilterra (nella prima parte dell’800), e in
Francia (nella seconda parte dell’800), con un’iniziale riferimento all’acqua. È dopo il ‘900, che viene
adottata per indicare anche le contaminazioni dell’aria e per considerare i rischi sulla salute, che derivano
dalle contaminazioni dell’aria, ma che in generale derivano da un campo di contaminazione più ampio che
solo quello dell’acqua.
Per tutta la prima parte del 900, la parola “inquinamento” è utilizzata in particolare nel linguaggio
scientifico e nelle riviste scientifiche, ed è solo dopo il 1945 che inizia ad entrare nel discorso e linguaggio
pubblico. Ma sappiamo già dalle lezioni scorse che il decennio spartiacque è stato quello del ’70 quando le
preoccupazioni ambientalistiche e le preoccupazioni per le prime manifestazioni di cambiamento climatico
irrompono dal discorso scientifico al discorso comune, all’azione politica, alle prime forme di ecologia
politica che si affermano con il 1970.
Quindi per tutto l’800, il concetto di inquinamento ancora non si disgiunge e non si diversifica da quello di
“disturbo della natura”. Da un lato questo disturbo può essere definito e regolato dalla legge (dai processi
giuridici, dai processi sociali), e questo lo fa se ha la Common Law, che è il diritto umano; dall’altro,
l’inquinamento dipende sempre di più dal giudizio scientifico, cioè la scienza guadagna sempre più parola
sul tema dell’inquinamento, sui criteri biochimici che hanno finito per rendere vuota l’accezione precedente
di tipo religioso e ha consentito alla scienza di entrare nel campo delle questioni ambientali e, soprattutto,
alle questioni relative all’inquinamento.
È importante specificare di nuovo che l’inquinamento precede l’industrializzazione moderna e che ci sono
delle forme d’inquinamento anche importanti nell’Asia e nell’Europa medioevali, che derivano dal fatto che
c’erano già, per esempio, le fonderie che lavoravano il ferro; c’erano forme di proto manifattura sin dal tardo
medioevo che hanno alterato la natura circostante (le concerie lavoravano la pelle degli animali, che è stata
sempre una delle attività più inquinanti soprattutto delle acque).
Noi sappiamo che in questo passaggio, cioè tra ‘800 e ‘900, viene sperimentato l’inquinamento su grande
scala per l’accelerarsi dell’industrializzazione. Viene sperimentato soprattutto durante quella frase di
Seconda Rivoluzione Industriale: quella che si apre dagli anni ’70, ’80 dell’800 e che, in realtà, non si è
mai chiusa da un certo punto di vista: ci sono industrie di Seconda Rivoluzione Industriale che continuano
ampiamente a lavorare nel nostro mondo contemporaneo. Ha avuto, però, il suo apogeo nella prima parte
del ‘900 e un declino rapido negli anni ’70 del ‘900, esattamente gli stessi anni in cui le preoccupazioni
ambientali si affacciano alla coscienza pubblica).
Quindi questi anni ’70 del ‘900 sono un termine finale di una fase di un secolo di Seconda Rivoluzione
Industriale, che corrisponde all’accelerazione più potente dell’inquinamento industriale; e che poi viene
cambiata nell’ultimo cinquantennio anche dal ridisegnarsi profondo della geografia dell’industria del mondo,
cioè dallo spostarsi graduale ma accentuatissimo dell’industria dagli scenari europei e nordamericani a quelli
che oggi si chiamano paesi in via di sviluppo.
Torniamo a questo nesso Antropocene e inquinamento. È lo sviluppo economico moderno a mettere in moto
processi di inquinamento nuovi su scala quantitativa nuova; e sono le forme di inquinamento legate allo
sviluppo economico moderno che hanno creato dei danni definitivi al sistema Terra, non solo come pianeta
fatto di rocce, ma anche come sistema biochimico, fisico e climatico. Chiamiamo Antropocene l’atto umano
di avere superato anche questa soglia, quella dell’irreversibilità dell’inquinamento del pianeta.
Ma irreversibilità non significa che non dobbiamo fare niente o non possiamo fare niente. Significa che la
scienza ci dice che non dobbiamo attenderci di potere tornare ad uno stato primigenio, a ripristinare la natura
com’era prima dell’industrializzazione. Questo non accadrebbe neanche se il mondo, oggi, finisse di
inquinare attraverso l’industria o attraverso l’azione dell’uomo.
Negli ultimi decenni è successa una cosa interessante da tanti punti di vista, che è: l’inquinamento, anche
nell’eccezione nuova novecentesca, non viene più percepito come una questione locale: negli anni ’70 le
battaglie ambientaliste spesso si scatenano dalla percezione di un inquinamento che si abbatte su alcuni
luoghi specifici. Ma quello che accade, a partire dagli anni ’80 del ‘900, è che si prende sempre più
coscienza dell’emergere di problemi le emissioni di gas serra, i cambiamenti climatici in senso lato, la
distruzione dello strato di ozono nella stratosfera, quest’ultimo in particolare è stato una preoccupazione di
fine ‘900 che ha spostato la percezione dell’inquinamento da problema locale a problema globale.
Della questione dell’ozono è interessante la cronologia, perché la scoperta di quello che chiamiamo “buco
nell’ozono”, cioè assottigliamento preoccupante dello strato di ozono nella stratosfera (un gas che si trova a
diverse decine di chilometri dalla crosta terrestre), la sua scoperta è data da degli studi che si stavano facendo
già dagli anni ’50, condotti in particolare da una base britannica nell’Antartide chiamata Stazione Halley,
come l’astronomo che ha scoperto la cometa di Halley. Questi scienziati, che lavorano in varie branche,
lavorano in questa stazione oceanografica in Antartide dalla fine degli anni ’50, raccolgono dati sul clima e
sulle acque oceaniche dalla fine degli anni ’50, li riportano all’Organizzazione Metereologica Mondiale
(un’organizzazione molto importante per l’evoluzione delle conoscenze su quello che sta avvenendo a livello
ambientale e climatico nel pianeta) e raccolgono dati sempre più importanti. Questi scienziati cominciamo a
denunciare l’assottigliamento dello strato dell’ozono già a metà degli anni ’80; ma il dato più preoccupante,
il livello minimo dello strato dell’ozono è denunciato nel 1993.
Per la verità, questi scienziati avevano nel frattempo scoperto che lo strato dell’ozono aveva anche un
andamento stagionale, che si modificava col passare delle stagioni con dei minimi che venivano registrati
durante le primavere. Però hanno anche registrato una tendenza progressiva, decennio dopo l’altro,
all’assottigliamento assoluto dei livelli dell’ozono (che è una copertura gassosa che ha drammaticamente a
che fare con la sopravvivenza della specie umana sul pianeta). Ed è un caso molto interessante sia per
spostare l’idea dell’inquinamento da problema locale a problema globale, perché la questione dell’ozono è
chiaramente un problema globale; sia perché ha dimostrato la capacità, in quel caso anche relativamente
rapida, delle nazioni e dei governi, di poter raggiungere un accordo fattivo e di poter dare una risposta a
questo problema. Perché dalla scoperta del cosiddetto “buco nell’ozono” si sono aperti dibattiti sulle cause di
questo assottigliamento che hanno raggiunto una qualche conclusione, sufficientemente condivisa, per dire
che i principali responsabili dell’assottigliamento dell’ozono erano un certo gruppo di gas, che sono cloro
fluoro e carbonio (i cosiddetti clorofluorocarburi), che sono i gas che vengono utilizzati da tutti i sistemi
refrigeranti, o meglio che erano utilizzati perché, per azione concertata dei governi sono stati gradatamente
aboliti. Oggi si refrigera con miscele gassose di altro tipo che hanno decisamente ridotto e mitigato il
problema dell’assottigliamento dello strato di ozono.
Quindi è con gli anni ’00 che, inevitabilmente, il discorso sull’inquinamento e quello sull’Antropocene
trovano una fatale convergenza.
Se guardiamo l'inquinamento con gli occhiali dell'Antropocene, non possiamo che riconoscere che
l'inquinamento è solo una delle dimensioni dell’Antropocene. Però è certamente una dimensione
importantissima che a sua volta ha tante sottodimensioni; e a sua volta dimostra una grande accelerazione:
ciascuna delle sottodimensioni dell’inquinamento non solo è cresciuta in termini quantitativi (come abbiamo
visto nei grafici); ma le dimensioni dell’inquinamento, man mano che ci addentriamo nel ‘900 e soprattutto
nella seconda metà del ‘900, si moltiplicano, cioè si ampliano.
E comunque sono molte di più alla fine del ‘900 e anche molto più preoccupanti di quante non ce ne fossero
alla metà del ‘900. Questa è per l'appunto uno degli aspetti della grande accelerazione.
Anche abbastanza intuitivamente, sappiamo che alcune delle dimensioni dell’inquinamento sono
direttamente percepibili (perché le vediamo o le annusiamo). Il problema, però, è che l'inquinamento è solo
in parte percepibile: ci sono molte sue dimensioni che sfuggono alla percezione umana ma non sfuggono alla
percezione scientifica. Questo per rendere ragione anche ad alcune inerzie politiche: non dobbiamo
dimenticare che c'è questo sfasamento percettivo nei termini in relazione a ciò che l'inquinamento è. Non
siamo sempre consapevoli delle varie dimensioni dell’inquinamento in cui siamo immersi: delle
concentrazioni del particolato dannoso nell'aria, del mercurio e delle microplastiche nel pesce, delle tracce di
pesticidi nel cibo; degli antibiotici, degli ormoni nella carne e gli elementi chimici che stanno dentro in molti
dei prodotti che noi usiamo, le onde elettromagnetiche che attraversano le nostre case (dai Wi-Fi alla rete dei
telefoni cellulari), è una scoperta relativamente recente che alcuni tipi di vernici rilasciano un certo tipo di
sostanze, e quindi anche gli arredamenti della nostra casa sono potenzialmente inquinanti. Il punto è che
magari tutto questo non ci uccide, ma il corpo umano in questa fase dell'Antropocene è diventato un grande
consumatore di sostanze contaminanti, è diventato un grande consumatore di inquinamento.
Le prossime lezioni approfondiranno esattamente questo tema: il tema del corpo nell’Antropocene, come
l'Antropocene lo trasforma – tema già citato in lezioni precedente e il libro “Il corpo dell'Antropocene”,
volume di un divulgatore scientifico britannico che raccoglie diverse recenti ricerche e le presenta con un
linguaggio molto accessibile.
L’inquinamento ha quindi sia aspetti visibili che invisibili, soprattutto dell’inquinamento industriale. Noi
abbiamo la drammatica consapevolezza che la plastica è uno degli aspetti più visibili dell'inquinamento
industriale. Ma le microplastiche e le nano plastiche sono, invece, le forme più invisibili dell’inquinamento
industriale. La decomposizione della plastica nel tempo in particelle, che a seconda della loro dimensione
viene definito un micro o nano plastica, invece finiscono con lo sfuggire quantomeno all'occhio umano.
In due secoli l'inquinamento ha guadagnato molte dimensioni con un'accelerazione pronunciatissima nel
secondo dopoguerra e ciascuna di queste nuove dimensioni costituisce, in qualche modo, un’ emergenza.
Alcune dimensioni:
Scorie nucleari
Una, non necessariamente la più drammatica anche se certamente ci colpisce, è quella che riguarda le scorie
nucleari. Esse non sono meno nocive delle scorie emesse dagli esperimenti militari sull'energia nucleare.
McNeil parla delle sperimentazioni nucleari che coinvolgono le ricerche relative alla Seconda Guerra
Mondiale – c'è un aspetto dell'Antropocene importantissimo che riguarda le guerre del ‘900 e l'inizio della
Guerra Fredda: l'umanità ha imparato nel 1945 a proprie spese quale era l'impatto, il costo di vite umane e di
alterazioni definitive dell’impatto dell’energia nucleare, con le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Ma gli
esperimenti nucleari della Guerra Fredda continuano negli anni successivi.
Non meno pericolosi, non meno nocivi di questo genere di emissioni sono quelle che sono collegate alle
applicazioni civili dell'energia nucleare, che è un'energia interessante perché dal punto di vista
dell'emissione dei gas serra, l'energia nucleare è in assoluto la più pulita. Non lo è in termini dei rifiuti
radioattivi che genera e che devono essere stoccati con cautele infinite; e in più l'energia nucleare non è
immune dagli errori umani o da altre ripercussioni dei movimenti della terra. Il caso del disastro nucleare di
dieci anni fa a Fukushima ci dice esattamente questo, c'è stato un terremoto che ha generato uno tsunami che
si è ripercorso sulla centrale nucleare che era in prossimità dell'oceano. Quindi, una dimensione di
inquinamento è nucleare, che è conosciuta dal secondo ‘900 e che era sconosciuta la prima parte del secolo.
Gli sversamenti di petrolio nei mari
Ma non solo nei mari, in realtà, anche sulla terra. Li troviamo dai naufragi dalle navi cisterna, dalle
piattaforme petrolifere, dai pozzi petroliferi. Il primo grande disastro per naufragio è del 1967.
Probabilmente non è il primo in assoluto ma è quello che ha avuto un risalto mediatico più importante.
Inquinamento luminoso
Può sembrare marginale ma in realtà ha un impatto sul comportamento di molte specie animali: disorienta
gli animali che hanno dei comportamenti migratori. L'inquinamento luminoso è tutt’uno con la Seconda
Rivoluzione Industriale, con l'apparizione dell'elettricità come fonte energetica fondamentale.
Interferenti endocrini
Tutti gli oggetti quotidiani di cui ci circondiamo contengono delle sostanze chimiche che sono
necessariamente stabili: si trasmettono all'organismo, alterano alcune delle funzioni degli organismi e sono
assolutamente ubiqui, stanno in una grande quantità di oggetti che utilizziamo.
Incidenti industriali
Il secondo ‘900, in particolare, è stato costellato da una serie di incidenti industriali, cioè dispersioni di una
qualche sostanza, il più delle volte chimica. Il disastro di Seveso, alle porte di Milano. C'è stata una
dispersione in una sostanza chimica particolarmente tossica da uno stabilimento che faceva parte di un
gruppo farmaceutico svizzero. Le conseguenze di lungo periodo di questo disastro sono state ampiamente
studiate e oggi costituiscono un pezzo della letteratura ambientale più robusto.
Rifiuti solidi
Le porzioni del mondo che generano più rifiuti (dai dati della Banca Mondiale dell’ultimo decennio) sono
sicuramente i più sviluppati, il primo sono gli Stati Uniti. Ad essere più preoccupanti sono i rifiuti solidi
prodotti dai paesi ricchi; ma i paesi ricchi sono anche quelli che negli ultimi decenni si sono dotati delle
tecnologie in grado di riciclare almeno una parte di questi rifiuti solidi. I paesi in via di sviluppo invece si
addentrano nei loro percorsi di crescita economica, ma sono quelli che almeno in questa fase decisamente
riciclano meno o non riciclano del tutto. Sappiamo che sono destinati ad aumentare i rifiuti solidi di quella
porzione del mondo e, per l'intensità della popolazione, sono destinati ad aumentare di più che in occidente.
Il punto è che negli ultimi 200 anni, ma acceleratamente nell'ultimo secolo, ogni nuova generazione di
prodotti di consumo (soprattutto di massa) ha generato una nuova ondata di rifiuti. Il mondo contemporaneo
conosce enormi masse di rifiuti cosiddetti elettrici ed elettronici, che oggi si chiamano con l'acronimo RAE
e sono, appunto, una nuova forma di rifiuto che era sconosciuta fino a pochi decenni fa, quando
l'inquinamento non comprendeva questa dorsale.
Fino agli anni ‘70 i problemi ambientali avevano una scarsa presa sul discorso pubblico ed erano considerati
problemi locali, che andavano anche gestiti a livello locale. A mano a mano che ci spostiamo da quegli anni
’70, riconosciamo un’attenzione crescente di campi di conoscenza sempre più ampi che ci parlano di clima.
Questo ha creato una enorme espansione di competenze e di conoscenze, che è anche un'arma a doppio
taglio:
si genera sempre più informazione su basi di dati sempre più ampi, anche più affidabili;
dall'altro, questa enorme massa di dati è sempre meno facile da decifrare, da navigare. È sempre più
difficile vedere il quadro d'insieme ed è sempre più facile che si inseriscano in questo discorso
dorsali di tipo negazionista.
L’inquinamento da plastica
Le plastiche sono l’elemento più visibile di rifiuto nel mondo. Negli ultimi poco più di dieci anni si è
prodotta la metà della plastica che si è prodotta dal 1950 in poi. Quindi quando parliamo di grande
accelerazione se c’è una dimensione che possiamo intuitivamente afferrare è decisamente questa.
Viene calcolato che la quantità di plastica dispersa nell’ambiente potrebbe superare le 10 miliardi di
tonnellate tra poco.
Video: mockumentary / falso documentario “The Majestic Plastic Bag”: genere che propone degli
eventi finti, di fiction, che vengono però presentati con un linguaggio e con degli stilemi di tipo espressivo,
di un altro registro: in questo caso il mockumentary ha come protagonista un sacchetto di plastica, la cui
traiettoria dal parcheggio di un supermercato americano agli oceani viene documentata come se fosse un
animale da seguire in un documentario scientifico. L'intento di questo mockumentary è una parodia dei
documentari naturalistici (tra cui quelli di Attenbourgh, un’autorità dei documentari). Questo perché, in
realtà, l'intento è quello di denuncia.
Si tratta di un documentario del 2010 perché in quel momento in California stava passando la legge che
vietava l'utilizzo dei sacchetti di plastica, quindi si propone di pensare alla dimensione quantitativa della
presenza dei sacchetti di plastica nelle nostre vite: milioni di sacchetti di plastica prodotti e utilizzati ogni
anno che creano tonnellate di rifiuti.
Allora l'obiettivo di questo genere di prodotto culturale era di raggiungere determinate generazioni con un
discorso di coscienza ambientalista attraverso un linguaggio che non è necessariamente quello persuasivo-
serio. In questo caso è più efficacemente persuasivo proprio perché parodistico e satirico. Tra l’altro, ci sono
delle ricerche interessanti nell'ambito della scienza della politica sul fatto che le generazioni contemporanee
sono raggiunte molto più facilmente dal discorso politico quando esso passa attraverso la satira, la comicità –
non per leggerezza, perché spesso dentro questo genere di discorsi passano elementi importantissimi
e serissimi, è solo una scelta di registro comunicativo.
Questo ci riporta al tema dell’Antropocene, dell’inquinamento industriale da plastica, o meglio
microplastica.
Le isole di plastica negli oceani
L'isola di plastica dell'Oceano Pacifico è la più stabile. Il suo acronimo internazionale è GBGP (Great
Pacific Garbage Patch), dove patch sta per placca, placca di plastica = isola galleggiante. Questa isola ha una
storia interessante, in particolare per l’argomento che trattiamo.
Quest’ isola di plastica, che è fisicamente esistente (anche se con dei confini mobili nell’Oceano Pacifico
settentrionale) è stata scoperta alla fine degli anni 80. L’agenzia federale americana (NOAA, National
Oceanic and Atmospheric Administration) compie i suoi studi oceanografici, climatologici; e denuncia nel
1988 all'ambiente scientifico il fatto che si è formata un’isola di plastica nel nord del pacifico.
Il discorso pubblico, però, in qualche modo non è raggiunto da questa notizia. Non perché ci sia un
complotto per tenere l'opinione pubblica all'oscuro di queste informazioni, ma perché è così che funziona la
diffusione delle notizie nel mondo contemporaneo, nel mondo della cultura di massa. Che cos’era necessario
affinché questa informazione arrivasse al cittadino comune?
Alla fine del decennio successivo, nell’estate del 1997, un ambientalista e un oceanografo (che è anche un
velista, un uomo che attraversa gli oceani per lavoro), rientrando dopo una regata alle isole Hawaii verso la
California, decide di cambiare rotta rispetto a quelle più comuni e con i venti di solito più favorevoli. Entra
in una zona dell’oceano che battuta proprio perché è soggetta a delle strane correnti marine e a calma di
vento, povera di pesce. Si dirige più a nord, sta facendo questo tratto di oceano tra il Giappone e le Hawaii e
scopre un'immensa isola di rifiuti e detriti plastici, che poi prenderà appunto il nome di GBGP.
La misura esatta di quest'isola non è ancora nota perfettamente e non è facile misurarla. Non è stabile come
un’isola vera e propria, quindi i suoi confini sono continuamente mutevoli. Le stime più affidabili dicono che
ha una superficie di circa un milione e mezzo di chilometri quadrati: l'Italia è 300.000 km², quindi si dice
grande di 5 volte l'Italia, 3 volte la Francia.
Il velista che l’ha trovata si chiama Charles Moore e nel 1997 scopre il garbage patch. Da quel momento la
sua attività di ambientalista è completamente rivolta a parlare di questo. Siamo 10 anni prima che uscisse il
documentario “Una scomoda verità”. Navigherà e scoprirà altre isole di plastica portandole alla coscienza
comune, e ha scritto anche un libro sull’argomento: “L’oceano di plastica”.
È davvero importante capire quali sono gli snodi che portano determinati tipi di conoscenze sulle
trasformazioni ambientali da ciò che la scienza studia al come queste conoscenze arrivano all' opinione
pubblica.
Una delle modalità con cui l'impatto delle plastiche soprattutto sugli oceani, sull'acqua arriva, passa anche
attraverso una rappresentazione diversa. Un’artista ambientale, Maria Cristina Fanucci, ha intitolato una
sua installazione chiamata Garbage Patch State – perché, tra l'altro, con una iniziativa provocatoria, è stato
proposto che questa isola sia riconosciuta questa isola come settimo continente, per sollecitare l’opinione
pubblica – e fatta in plastica. La presentò all' Unesco a Parigi nel 2013 e da allora l’ha portata in molti altri
luoghi del mondo.
È costruita con una grande distesa di bottiglie, tappi e altri prodotti di plastica e specchi, che quindi
rifrangono sia l’immagine della plastica sia quella degli spettatori – ciò che la rappresentazione vuole dire è :
questo è un pezzo del nostro pianeta e voi che vi vedete riflessi siete parti del tutto attive in questo processo.
Le dimensioni, dicevamo, di quest’ isola del pacifico non sono neanche semplici da capire. Una delle
istituzioni che si occupa della misurazione della plastica nel mondo è Banca Mondiale, che fa uscire dei
rapporti fondatissimi. Secondo uno di questi, il peso dell’isola di plastica si aggira tra le 45 le 130.000
tonnellate di plastica per 1,6 milioni di chilometri quadrati.
Il 94% di questa enorme quantità di pezzi di plastica è costituita da microplastiche, cioè di plastica che non
degrada completamente ma, per azione degli eventi atmosferici (l'acqua del mare, la salinità, i venti, le onde,
processi di acidificazione) si degrada sufficientemente da disperdersi in particelle piccole o piccolissime.
Se la plastica si dissolve (non del tutto perché non si biodegrada), si decompone in microplastica, viene
ingerita con sempre maggiore facilità dalle diverse specie marine – la plastica diventa così la specie
ambientale più pericolosa; e la sua degradazione in microplastica diventa il più pericoloso di tutti gli impatti
possibili della plastica in assoluto. Questo perché le microplastiche passano ad essere alimentazione di tutta
la fauna marina, quando la fauna marina è a sua volta alimentazione di tre miliardi di persone sul pianeta –
catena di problemi.
Il biologo marino italiano Silvio Greco ha fatto uscire un volume, “La plastica nel piatto”, molto accessibile.
Documentario Seaspiracy e Cowspiracy: gioco di parole. Uno ha a che fare con mondo della pesca, l’altro
era finanziato da una campagna di crowdfunding a metà del decennio scorso, e riguarda la
sostenibilità dell’industria dell’allevamento. Seaspiracy si ispira a Cowspiracy ed è realizzato da un giovane
regista inglese, e riguarda la sostenibilità della pesca industriale oggi. È un documentario molto discusso
prima di tutto perché ha una tesi molto forte, molto netta; i dati scientifici sono da prendere con le pinze.
Seaspiracy centra col discorso sull’inquinamento da plastiche sotto un duplice profilo: la pesca industriale è
responsabile di gran parte dell’inquinamento da plastiche, soprattutto per quello che riguarda la dispersione
delle reti da pesca nel mare. È stato calcolato che il 46% della massa fisica che costituisce il Great Pacific
Garbage Patch è costituito da reti da pesca. Quindi l’industria della pesca industriale ha una responsabilità
diretta nell'inquinamento da plastiche dei mari; e una responsabilità ulteriore perché la pesca industriale
finisce per portare nell’alimentazione umana enormi quantità di pesce contaminato da plastica.
Naturalmente non sono solo i pesci coinvolti nell’inquinamento da plastica; ma anche gli uccelli marini che
si cibano di questi.
Il Garbage Patch del nord pacifico, scoperto da Charles Moore (in realtà prima scoperto dagli scienziati
dell'agenzia federale americana di oceanografia), è quello diciamo più mediaticamente rappresentato. Ma da
quel momento, dalla fine degli anni 90 e gli anni zero, le ricerche di questo genere di patch sono aumentate.
Oggi li possiamo vedere con la tecnologia satellitare e con discreta facilità; prima della applicazione
comune nella tecnologia satellitare le ricerche su questo genere di fenomeni erano più complessi. Però, in
realtà c'è un patch nord atlantico conosciuta già dal 1972.
Le cause
Ma come si formano queste placche? Poiché sono placche costituite da plastica, la causa umana è evidente.
Ma la causa umana agisce sia in modo diretto che indiretto.
Inoltre, si è capito che interagiscono fattori umani, fattori che hanno a che fare con le correnti marine, con
i venti, la forma dei fondali, quindi la geomorfologia e le variazioni del clima. La plastica causa le
variazioni del clima ma le variazioni del clima retroagiscono sull'invasione di plastica nei nostri oceani.
Questo perché, per esempio, molta della plastica oceanica discende dai grandi fiumi del mondo: tutti i grandi
fiumi europei sono certamente contaminati e forse il più contaminato è il Danubio, ma non da meno è la
Senna, il Tamigi e il Po. Questi sono il vettore di ulteriore plastica quando sono coinvolti da inondazioni,
cicloni e uragani. Quindi tutte le grandi alluvioni accelerate nell’ultimo ventennio hanno portato più plastica
agli oceani di quanto non ne fosse portata prima dalla portata media di questi grandi fiumi.
Quando poi arriva negli oceani, la plastica si degrada solo nel corso di un tempo lunghissimo rispetto agli
impatti sulla salute dell'uomo. A seconda del tipo di polimeri che sono trascinati nell’acqua, la degradazione
può variare da 300-400 anni per un sacchetto e può arrivare a 1000 anni per una bottiglia (il tipo di polimero
deve essere più resistente)
Questo comporta:
Dispersione di plastiche sulle superfici degli oceani
Una prima degradazione parziale che diventa più pericolosa quando si trasforma in microplastiche
o nanoplastiche; per poi diventare affondamento delle plastiche più pesanti – trascinate da alghe o
dai pesci verso i fondali, i quali che stanno conoscendo il fenomeno di…
Plastificazione dei fondali: i detriti di plastica sepolti nei fondali degli oceani diventano coperti dai
fanghi, dalla sabbia, limo quindi incorporati dalla geologia del pianeta terra.
…
All'inizio del mese di Marzo è apparsa una nuova notizia scientifica. È interessante perché c’è da un lato la
notizia; e dall’altro la diffusione della notizia. La scoperta che questo articolo del gennaio 2021 porta alla
conoscenza è che la ricerca degli ultimi anni ha cercato di capire come funzionano le correnti che creano le
isole di plastica. È una scoperta importante, non tanto e non solo per disegnare meglio la geografia di queste
isole in plastica, ma anche per fronteggiare l'emergenza data da queste isole plastica.
Stiamo parlando modelli statistico-matematici, nutriti da moltissimi dati presi dai satelliti e dalle boe
oceanografiche. Un gruppo di ricercatori in parte americani e in parte tedeschi guidati da un esperto di fisica
dei fluidi che si chiama Philip Miròn (di origini canadesi). Hanno pubblicato questo articolo sulla rivista
interdisciplinare Chaos, che si occupa di fenomeni non lineari, cioè di fenomeni di retroazione. Hanno
utilizzando dati storici dalle boe oceanografiche, hanno elaborato una serie di mappe per spiegare come
funzionano le correnti che creano le origini delle isole, dando degli strumenti per poter
fronteggiare questo problema, dare degli strumenti per potere pulire gli oceani o aprire delle ipotesi di
pulizia. Questo articolo, che contiene la modellizzazione matematica delle correnti, identifica il principale
corridoio di passaggio delle correnti che forma il patch del pacifico e conferma l'ipotesi che la fonte di
inquinamento principale che costituisce l'isola è di origine asiatica. Confermo inoltre che è quella
particolare area del pacifico che si comporta come una vera e propria trappola per la plastica, perché lì
confluiscono due correnti diverse che conoscono come una impasse che blocca la plastica in un vortice che
poi non si muove più.
Una volta che capiamo queste cose, è molto importante perché possiamo anche capire che il fatto che la
plastica degli oceani sia compattata in queste fluide isole galleggianti può essere una buona notizia per
poterla poi pulire. Naturalmente c'è già chi è al lavoro su questo da diversi anni.
Questo genere di nuove acquisizioni scientifiche di modellizzazioni matematico-statistiche ha consentito di
capire che queste isole di plastica hanno una storia a loro volta. Si tratta di una storia che non ha tempi
geologici, ma ha i tempi della grande accelerazione: l'inizio di queste isole plastica possono essere fatti
risalire tra gli anni 50 e gli anni 80 del 900.
Infine, c’è un video su vimeo costruito da un giovane data scientist, che ha preso i dati delle modellizzazioni
scientifiche e li ha trasformati in un video che dà un'idea anche visiva di come tra gli anni 50 e 80 si insemini
l'inizio dell'isola di plastica; e come poi plausibilmente può essere evoluta tra il 1985 e il 1998, quando viene
scoperta da Charles Moore.
Ricordiamo la scoperta del microscopico gamberetto l’Eurythenes Plasticus nella fossa delle Marianne. Per
la prima volta, il nome plastica viene incorporata nel nome di una specie.
Non è necessariamente la plastica nello stomaco che finisce per essere la più pericolosa per le creature, ma in
generale per la apparizione di plastica nel resto dell’organismo.
L'interazione tra sviluppo economico moderno e l’accelerazione dell’industrializzazione all'interno della
Seconda Rivoluzione Industriale l’Antropocene, dovrebbe essere un po' meno scura. C'è qualche aggancio
più netto sull’Antropocene e come l’Antropocene centra in modo diretto con la storia economica e con la
storia dello sviluppo economico moderno.
12.04.2021
Abbiamo commentato una serie di grafici proposti da Lewis e Maslin nel saggio “Il pianeta umano”. Tutti
questi grafici mostrano che, dopo il 1945, si registra una netta accelerazione di una serie di dinamiche che, di
volta in volta, ci si presentano come indicative dell'Antropocene: i consumi di energia, la crescita della
popolazione e la crescita del consumo dei fertilizzanti per alimentare quella stessa popolazione in
espansione, la crescita dei consumi d'acqua, la crescita dei trasporti, l'aumento nella concentrazione dei gas
serra nell'atmosfera ma anche cambiamenti profondi nella composizione delle acque dei mari e degli oceani
e, infine, i cambiamenti della biosfera.
La chiusura del secondo conflitto mondiale, il completamento della fase di ricostruzione dei paesi che erano
stati coinvolti nel conflitto e, ancora più marcatamente, l'avvio della crescita economica molto sostenuta
durante il decennio 50: tutti questi meccanismi aprono sia negli Stati Uniti sia in Europa l’avvento della
società dei consumi. È decisamente questa società dei consumi che è alla base della grande accelerazione.
Nei dati avevamo visto da vicino alcuni dei principali impatti sull'ambiente che la società dei consumi
esercita. Ma la società dei consumi non agisce solo sull’ambiente, o meglio, agisce sull’ambiente anche
cambiando profondamente l’alimentazione. In particolare, estende l’industrializzazione dell’alimentazione
che era incominciata negli Stati Uniti con gli ultimi decenni dell’800. Attraverso l’industrializzazione
dell’alimentazione, finisce per agire anche sul corpo, sui corpi. Questo è esattamente il tema della lezione di
oggi che fa riferimento a un’intera pista di ricerca che riguarda il corpo nell’Antropocene: come cambia il
corpo umano nell’Antropocene.
Negli ultimi decenni il mondo ha visto contrarsi la povertà e la fame (ma dal 2017 i dati sulla fame nel
mondo hanno ripreso a crescere) e, però, ha visto apparire anche nuove forme di diseguaglianza nel mondo.
La ricerca recente, che riguarda l'alimentazione, ci racconta che le diseguaglianze tra le nazioni si leggono
anche nei corpi e che tutto questo ha a che fare con l’Antropocene.
Questi studi più approfonditi sull’alimentazione e sugli effetti dell’alimentazione sul corpo non sono
esattamente iniziati alla fine degli anni ‘80, ma hanno certamente avuto un grande slancio in quel momento,
quando hanno iniziato a mostrare che, mentre nei paesi sviluppati i maggiori livelli di obesità e di sovrappeso
fra gli adulti e fra gli adolescenti erano correlati ai redditi più bassi nella stratificazione della popolazione;
nei paesi in via di sviluppo invece le cose stavano all’opposto: erano correlate ai redditi più alti. Però un
aggiornamento di questo studio condotto quasi vent’anni dopo, nel 2007, ha mostrato che quella
divaricazione che si vedeva alla fine degli anni 80 tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, in realtà si
era molto indebolita col proseguire della globalizzazione e, anzi, che sovrappeso e obesità iniziavano a
dilagare anche nei paesi del sud del mondo e anche tra le fasce di popolazione più povere dei paesi del sud
del mondo, mano a mano che i paesi del sud del mondo omogeneizzavano le proprie abitudini alimentari al
tipo di cibo e di bevande che l’industrializzazione globale propone.
Una delle correlazioni interessanti che è stata trovata, per esempio, riguarda il fatto che, nei paesi in via di
sviluppo, sembra che sia l’urbanizzazione a svolgere un ruolo determinante nella diffusione dell’obesità. In
Cina, per esempio, se si calcola che i tassi complessivi di obesità, che sono al di sotto del 5% nel paese in
generale, superano però il 20% in alcune delle città più popolose.
Nel 2012 si tiene a San Francisco una conferenza internazionale di esperti di nutrizione, che aveva per titolo
“Il peso delle nazioni”. Il titolo fa un gioco di parole: The weight of Nations riecheggia il titolo del saggio
che Adam Smith scrive all’alba della rivoluzione industriale inglese, tra il 1767 e il 1773 e che diventerà il
testo fondativo della moderna economia politica The Wealth of Nations).
Un gruppo di ricercatori della The London School of Hygiene & Tropical Medicine presenta a questa
conferenza una relazione chiamata anch’essa The Weight of Nations. I ricercatori vi propongono una
valutazione della biomassa umana nel mondo, ossia una valutazione della distribuzione degli organismi
umani tra le diverse regioni e paesi del mondo. È interessante perché diventa una valutazione comparativa in
cui quegli stessi ricercatori danno una serie di elementi quantitativi per stabilire quale porzione di questa
biomassa umana sia legata all’obesità e, quindi, quanto incide l’obesità oggi nel mondo.
L’obesità è una condizione che non ha nulla a che fare con i canoni estetici, ma ha molto più a che fare con
questioni sociali molto rilevanti, perché tanto è il sovrappeso che l’obesità, sono due sfumature della stessa
fragilità nella salute umana, possono avere dei pesantissimi effetti sulle aspettative di vita, e che, in questo
senso, è un elemento di frattura sociale.
Il sovrappeso e l’obesità stanno diventando un marcatore di classe. Un dato contenuto nella ricerca cui ho
fatto riferimento poco fa offre un modo interessante di osservare, dal punto di vista globale, questa questione.
All’apertura del nostro secolo (nel 2005) la biomassa, che corrisponde all'intera umanità, viene calcolata a
pesare 287 milioni di tonnellate – l'umanità intera pesa 287 milioni di tonnellate. 15 milioni di questa
biomassa corrispondono a una condizione di pericoloso sovrappeso; sempre nel 2005 noi abbiamo che, nel
mondo, più di un miliardo di persone sono sovrappeso. Ma soprattutto, quei dati del 2005 stavano già
raccontando che in tutto il pianeta quello stesso dato stava crescendo. Infatti, è davvero cresciuto
marcatamente.
Per quanto riguarda l’obesità vera e propria, questa riguarda diverse decine di milioni di persone. Mentre il
sovrappeso riguardava nel 2005 più di un miliardo di persone. Ma ancora più interessante è vedere come
questa condizione di salute si distribuisce tra paesi diversi.
Negli Stati Uniti vive il 6% della popolazione mondiale, ma in questo paese si concentra il 34% della
biomassa umana che è attribuibile all’obesità. Viceversa, il continente asiatico nel suo insieme conta il 61%
della popolazione mondiale, eppure registra soltanto il 13% della biomassa legata all’obesità.
Negli Stati Uniti, inoltre, nel corso degli ultimi 2 secoli la quantità di grassi che entrano nell’alimentazione è
aumentata di 5 volte. Sempre nel corso degli ultimi 2 secoli, la quantità degli zuccheri che è entrata
nell’alimentazione è aumentata di 15 volte.
Una svolta fondamentale nell’alimentazione americana avviene proprio negli anni della Grande
Accelerazione, o meglio degli anni in cui una grande accelerazione marca il nostro oggetto di studio,
l’Antropocene. Dal punto di vista dell’alimentazione, tra gli anni '40 e '50, si ha l’ascesa delle grandi catene
di fast food. Il caso più noto ovviamente è quello di McDonald’s, che ha aperto il suo primo ristorante
proprio durante la Grande Depressione, nel 1937, in California, con l’obiettivo di offrire sul mercato pasti a
basso prezzo. La cosa storicamente più rilevante è che McDonald’s ha iniziato a diffondere la rete dei suoi
negozi attraverso lo strumento commerciale del franchising, prima degli Stati Uniti, durante gli anni '50, e
poi con gli anni '60 nel resto nel mondo, tanto che almeno fino a 2 anni fa è stata la catena di fast food con
più punti vendita al mondo.
Se McDonald’s è stato il primo caso storicamente rilavante, gli anni 50 lanciano negli Stati Uniti tutta
un’altra serie di catene di fast food: le prime sono state quelle di Kentucky Fried Chicken (KFC) e di
Burger King.
Nel 2001 viene pubblicato negli USA una ricerca investigativa, precedentemente apparsa a puntate sulla
rivista Rolling Stone, condotta dal giornalista Eric Schlosser, che affronta il tema della Fast Food Industry
sia negli Stati Uniti sia nella sua influenza a livello globale sia nella sua storia. Da questo volume è poi stato
tratto nel 2006 un film documentario dello stesso titolo.
La diffusione di queste catene accompagna l’aumento dell’apporto calorico nella dieta americana e
accompagna l’aumento dell’indice di massa corporea. Questo indice di massa corporea, che nell’acronimo
inglese è BMI, è un dato biometrico molto più preciso che non il solo peso dell’individuo. Per precisione,
l’indice di massa corporea, si calcola come rapporto tra il peso e il quadrato dell’altezza. Negli anni '50 ci
sono stati anche molti errori nell’interpretazione scientifica dei dati da parte di chi scientificamente si era
messo a studiare l’alimentazione. Per esempio, nel periodo del passaggio tra anni '50 e '60, i nutrizionisti
americani dell’epoca insistono molto sulle carenze alimentari del paese, anche a causa di alcuni assunti che
poi si rivelano sbagliati.
Un esempio interessante, anche abbastanza noto, è uno studio condotto a partire dal 1948 da un gruppo di
ricercatori finanziati dalla Fondazione Rockefeller, inviati in Europa (l’Europa del 1948 è una Europa in
mezzo alla ricostruzione postbellica) per fare un’indagine comparativa sulle abitudini alimentari in
quell’immediato dopoguerra (siamo anche negli anni del lancio del piano Marshall). Dai ricercatori della
Fondazione Rockefeller vengono studiati come esemplari gli abitanti dell’isola di Creta. Gli abitanti
dell’isola di Creta in media hanno una statura piuttosto elevata, sono snelli e vengono descritti nel rapporto
della Rockefeller Foundation come malnutriti, perché secondo quei ricercatori, l’apporto di carne e latticini
sarebbe stato insufficiente rispetto agli standard americani. Già qui c’è quindi una distorsione piuttosto
importante, che poi si riverbererà potente sui suggerimenti alimentari e sui convincimenti culturali di
un’intera generazione. Quello studio, per di più, si inserisce in un movimento più ampio che investe anche
l’Europa dopo il 1945 e che nei decenni successivi in realtà investirà molto altre porzioni del mondo, a mano
a mano che ciascuna imbocca i propri sentieri di sviluppo; specie nei paesi che dopo il 1945 guadagnano la
propria indipendenza dai rispettivi paesi colonizzatori.
Dopo il 1945 si afferma una corrente di pensiero che detta un nuovo modello alimentare. Si tratta di un
modello molto ricco di carni e di zuccheri ed è soprattutto dominato da prodotti trasformati dall’industria
alimentare. E i prodotti trasformati dall’industria alimentare sono prodotti marcatamente ipercalorici, che
ritardano il senso di sazietà e quindi fisiologicamente inducono ad essere consumati in eccesso.
Ovviamente dovremmo tenere presente che il passaggio dagli anni '50 agli anni '60 è anche quello
dell'affermarsi della pubblicità su larga scala: sono gli anni della diffusione di un nuovo mezzo di
comunicazione di massa, la televisione, e dovremmo tenere presente che l'industria alimentare è una delle
branche dell'industria che alla pubblicità fa più ricorso.
Nel 2018 viene pubblicata una ricerca condotta da una giovane studiosa di storia che lavora alla Oklahoma
State University, Anna Zeide. Il libro ripercorre la storia dell’industria alimentare americana e di come essa
abbia gradatamente guadagnato la figura dei consumatori USA. I suoi studi sull'evoluzione della fiducia dei
cittadini americani nell'industria alimentare americana mostrano che alla fine dell’800 (quando apparve), si
fidavano poco di un cibo che non era cotto nella cucina di casa, di cui non avevano acquistato
personalmente gli ingredienti e che era per lo più conservato in scatola. La storia dell’industria alimentare
non è affatto una storia esclusivamente americana perché è diventata rapidamente una storia europea, e una
storia italiana. Si intreccia con quella delle acquisizioni della ricerca biologica, specie sui batteri e il loro
ruolo nella deperibilità del cibo; con la storia dell’industria dell’auto: è nell’industria alimentare e soprattutto
nell’industria della carne che per prima appare qualche cosa di simile alla “catena di montaggio”.
Quindi negli anni della grande accelerazione dell’Antropocene vi è l'affermarsi di un modello alimentare
nuovo, che ha alle spalle un poderoso processo industriale e sistemi di comunicazione sociale. Tutto questo
finisce con l'accompagnarsi a pesca intensiva, specializzazione agricola a mono-coltura, che a loro volta
sappiano agire sulla diversità biologica sia nei mari sia sulla terra; sulle foreste tropicali che arretrano per far
posto agli allevamenti intensivi e alle coltivazioni su modello della piantagione.
La piantagione è un modello di impresa capitalistica agricola monoculturale, generalmente di grandi
dimensioni, che si specializza su colture di grande valore economico che poi sono destinate alla vendita sul
mercato internazionale. Gli esempi più chiari che abbiamo tutti in mente sono quelli del cotone, della canna
da zucchero, della palma da olio, del caffè, cacao, le banane, tabacco, la gomma (che si ricava dell'albero
della gomma), il teak o altri legnami pregiati. Storicamente una grande parte delle piantagioni sono state
coltivate da manodopera schiava o tenuta in servitù. Le piantagioni sono associate a grandi disparità di
ricchezza tra proprietari e braccianti che prestano il loro lavoro. Sono associate spesso a proprietà
multinazionali straniere rispetto a territori su cui le piantagioni insistono e sono collegate all'influenza
politica che spesso le multinazionali che gestiscono le piantagioni sono in grado di esercitare.
Se se storicamente gran parte delle piantagioni è collegata alla manodopera schiava, nel mondo
contemporaneo noi sappiamo bene che l'agricoltura di piantagione è ancora drammaticamente intrecciata allo
sfruttamento del lavoro e molto spesso anche del lavoro minorile. Si può certamente sostenere che i primi
esempi di piantagione sono stati i latifondi del mediterraneo dove si produceva vino e olio di oliva. Le
piantagioni però hanno visto decisamente il loro numero aumentare molto rapidamente quando il commercio
internazionale ha preso più slancio, e questo soprattutto dentro la fase di espansione degli imperi coloniali
europei e poi nelle fasi di globalizzazione storicamente successive.
Tornando alla seconda metà del '900, vediamo che si afferma a partire dal nord del mondo un modello
alimentare nuovo che si accompagna a tutto questo: pesca intensiva, specializzazione agricola e
allevamento intensivo, ma anche a inquinamento da concimi e da pesticidi. È una storia, quella di concimi e
pesticidi, che meriterebbe un capitolo a parte, perché non solo è una storia interessantissima ma è anche
particolarmente cruenta che se intreccia con la storia delle armi chimiche a partire dalla prima e dalla
seconda guerra mondiale – perché dello stesso ceppo di ricerca in ambito chimico fanno studi sulle armi
chimiche e sui diserbanti e fertilizzanti che si intreccia anche con la storia di alcuni grandi disastri ambientali
di portata globale e, forse, questo ce l'abbiamo meno in mente, con la storia della medicina indirettamente
con lo sviluppo delle chemioterapie e della capacità umana di combattere il cancro.
Poiché l'argomento di oggi è il corpo nell'Antropocene, è importante ricordare qual è stato storicamente il
corollario di tutto questo: da un lato la possibilità di nutrire una popolazione mondiale in aumento più che
esponenziale dopo la II Guerra Mondiale; ma dall'altro un aumento vertiginoso di nuove patologie croniche,
come:
- alcune patologie oncologiche e soprattutto le patologie cardiovascolari;
- la pubertà sempre più precoce nelle bambine che nascono nelle famiglie povere (per esempio,
questo è un dato che si riscontra negli Stati Uniti per primo);
- l'aumento dell'incidenza del cancro infantile in Europa (è stato calcolato che le patologie
oncologiche nell'infanzia sono aumentate del 35% nel corso degli ultimi 30 anni);
- …
Questo genere di problematiche, tuttavia, non sono limitate agli Stati Uniti e all'Europa, ma sono diventate
un problema globale. La popolazione mondiale in sovrappeso o obesa è passata da meno di un miliardo o
poco meno di 1 miliardo nel 1980 a 2 miliardi e 100 milioni di individui nel 2013. Si è molto più che
raddoppiata ed è cresciuta a velocità molto maggiore di quella in cui è cresciuta la popolazione.
Inoltre, all'inizio del 2000 i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che le malattie
croniche rappresentano oggi la prima causa di mortalità mondiale : all'apertura degli anni '10 erano il 63% tra
le cause di morte totale contro il 37% legato invece alle malattie infettive che attaccano soprattutto l'apparato
respiratorio e digerente.
Gli scienziati però già all'apertura degli anni '10 ammonivano che anche le malattie infettive avrebbero
potuto diventare una bomba a orologeria, soprattutto data la densità di popolazione in paesi come la Cina e
l'India, e di alcune megalopoli della Cina e dell'India; e soprattutto data la facilità di spostamento delle
persone sul pianeta, aumentata con l'ultima fase di globalizzazione accelerata con gli anni '90 del 1900.
13.04.2021
Completiamo il discorso sull’Antropocene e il corpo.
L’Organizzazione Mondiale della sanità è uno di quegli organismi internazionali che sorgono subito dopo la
Seconda Guerra Mondiale, è stato fondato nel 1948, ha una storia molto interessante per suo conto. Quando è
nata ha adottato la Classificazione Internazionale delle Patologie, una classificazione che si era affermata a
livello internazionale già a partire dal 1900 – a partire dal 1900 perché quella apertura del secolo era una fase
di scambi molto intensi di capitali, di merci ma soprattutto di lavoro. Quindi una fase che registra flussi
migratori fortissimi, flussi che sono soprattutto dall'Europa verso le Americhe. Quindi, conseguentemente a
queste migrazioni, si sono diffuse moltissime e particolari patologie.
Nel 1900 quindi un network mondiale di medici e patologi è spinto dalle particolari urgenze di quel
momento storico (che è a tutti gli effetti un centro temporale di una fase di globalizzazione e sotto molti
aspetti e senza precedenti), che fanno sì che questo network di medici si accordi sui criteri per confrontare i
tassi di diffusione delle malattie nel mondo.
La Classificazione Internazionale delle Patologie è stata poi rinnovata periodicamente. Quando l’OMS nasce,
nel 1948, acquisisce quella che in quel momento era la sesta versione della Classificazione Internazionale
della Patologia nata nel 1900. Già in quel momento, le connessioni tra alimentazione e salute erano
ovviamente previste in quella sesta Classificazione Internazionale. Erano previste insieme a tutte le norme
ventaglio delle infezioni, delle malattie portate dai parassiti e disordini cardiovascolari, neurologici,
oncologici, etc. Era già presente un’attenzione alla connessione tra alimentazione e salute, ma come abbiamo
visto nella lezione precedente, era declinata in relazione alla denutrizione.
Quasi 30 anni dopo, nel 1975, quando si arriva a definire la nona versione della Classificazione
Internazionale delle Patologie, entra a farne parte per la prima volta l'identificazione della iperalimentazione
come fattore di morbilità, come potenziale fattore che fa ammalare il paziente.
Durante gli anni 70 tuttavia, la dieta delle popolazioni dei paesi occidentali stava spostandosi ancora sempre
di più verso il cibo industrialmente lavorato, e ancora sempre più lontano dal consumo di cibo prodotto
nell'orto di casa, nella campagna vicina, cucinato da sé. Abbiamo visto che questa dinamica ha iniziato a
svilupparsi a partire dagli Stati Uniti dello snodo tra gli anni 40-50.
Ma negli anni 70 il mondo occidentale stava ancora spostandosi in modo sempre più pronunciato verso il
consumo di beni alimentari di tipo industriale, e questo mentre la popolazione assumeva complessivamente
uno stile di vita più sedentario. Quindi mentre assumeva più calorie si muoveva di meno, grazie anche, per
esempio, alla diffusione sempre più capillare dell'automobile, dei mezzi di trasporto in generale, dei mezzi a
motore e in generale che diventano uno dei beni di consumo di massa della società dei consumi.
Se questo era vero negli anni 70, è decisamente più tardi, ossia negli anni 90 che si incomincia a riflettere e a
prendere coscienza su questa dinamica, la dinamica che sta spostando le abitudini alimentari di settori
sempre più ampi di popolazione all’interno di paesi più ricchi e più sviluppati.
Ma negli anni 90 si inizia a realizzare che anche paesi con culture del cibo profondamente diverse tra loro
(dal Messico alla Polinesia) e non necessariamente industrializzati, man mano che ci si sposta verso la fine
del ventesimo secolo, iniziano a mostrare dei rischi nutrizionali che invece simili lo sono, e a mostrare delle
tendenze altrettanto simili verso la diffusione di malattie che vengono a quel punto collegate
all'alimentazione, come il diabete e l'ipertensione.
Molta ricerca quindi si è indirizzata a capire il perché questo sia stato possibile e se ci sono delle correlazioni
(e se ci sono come funzionano) tra i processi di globalizzazione accelerata che si aprono proprio nel 1990 e i
cambiamenti di abitudini alimentari che sono avvenuti globalmente da quel momento in avanti – o che da
quel momento in avanti si sono ulteriormente globalmente accelerati.
In prospettiva storica, questo è un cambiamento molto rilevante. Questo perché nel corso dei secoli e ancora
nel pieno del 800, gli stili alimentari delle varie regioni del mondo si erano dimostrati vischiosi = molto
lenti a cambiare, anche quando subivano la spinta di nuove configurazioni del commercio internazionale,
oppure perché cambiavano le strutture dei prezzi relativi ai singoli alimenti. Esempio: nella seconda metà
dell'800, a livello globale si registra un'impennata del prezzo del riso in rapporto al prezzo dei grani – questo
nel momento in cui il riso (ma soprattutto l'amido del riso) entrano nella filiera industriale soprattutto per usi
non alimentari, in particolare entrano nella produzione industriale di cipria per il mercato di massa
occidentale. Quello che accade è che l'impennata del prezzo del riso spinge intere popolazioni, per esempio
del subcontinente indiano che avevano la loro dieta storicamente impegnata sul riso, a spostarsi se non
totalmente almeno parzialmente sul consumo dei grani che a quel punto sono più convenienti.
Quindi, alla fine dell'Ottocento, la vischiosità dei gusti alimentari non ha impedito questo processo di
sostituzione di un alimento all’altro perché cambiavano i loro prezzi relativi; ma certamente questo processo
di sostituzione era stato molto lento. Invece, un secolo dopo (1990), l'adattamento a nuovi esempi di cibo
industriale è stato incommensurabilmente rapido e si è accompagnato alla globalizzazione non di un singolo
comportamento, quello alimentare per esempio, ma di interi fasci di comportamenti sociali, informazioni
globali, modelli e stili di vita che si globalizzano.
Come abbiamo visto, a cavallo tra il secolo scorso e gli ultimi 30-40 anni, le trasformazioni
dell'alimentazione hanno portato a un'impennata nell'incidenza del sovrappeso e dell'obesità che da problema
dei soli paesi ricchi è diventata una problematica poi esplosa a livello planetario.
Certamente ancora oggi questo tipo di condizioni incidono di più nei paesi ricchi, ma il punto è che molti
paesi in via di sviluppo o paesi più poveri stanno purtroppo eguagliando l'Occidente. Questo avviene anche
negli arcipelaghi più isolati in mezzo all'oceano Pacifico, come Tonga o Samoa, isole dove si registrano
percentuali di obesità femminile che superano il 50%. Ma perfino alcuni paesi dell'area subsahariana e della
parte meridionale del continente africano conoscono un fenomeno del genere.
Quindi, quello che sta facendo l’industria è agire sul corpo umano a livello planetario. L'organizzazione
Mondiale della sanità è stato ovviamente in prima fila nelle ricerche che cercano di spiegare perché un
fenomeno del genere si sia messo in moto; cercano le cause di questo fenomeno per esempio in nuove forme
di sedentarietà, di inattività fisica ma soprattutto nello spostamento delle abitudini alimentari verso delle
diete che sono marcatamente più ricche di zuccheri, di prodotti di derivazione animale, di grassi – e tutto
questo diventa un fattore di rischio per lo sviluppo di una serie di patologie in cui in cima ci sono quelle
cardiovascolari.
L’OMS ha calcolato che le sole malattie cardio-vascolari, nel solo anno 2012 hanno causato la morte nel
mondo di 17 milioni e mezzo di persone; e ¾ di queste morti sono state registrate in paesi con reddito medio
e medio basso, con pesanti ricadute sui loro sistemi di protezione sanitaria, se ne hanno uno.
L’OMS ritiene che le patologie croniche correlate all’alimentazione industriale siano in aumento nel mondo,
ormai da diversi decenni, e stiano diventando nel mondo un rischio che sembra non essere inferiore a quello
collegato alla denutrizione e alle malattie infettive.
Il mondo occidentale è stato il primo a imboccare e a percorrere questa parabola. Nel 1993 esce su un
importante rivista di medicina, un articolo che poi è diventato un punto di riferimento. L’articolo è a firma di
un docente della North Carolina University, un esperto di alimentazione a livello globale: Berry Popkin e
parla di “Nutrition Transition” - transizione nutrizionale-, questa transizione consiste nello slittamento
progressivo da una dieta basata su carboidrati grezzi, frutta e verdura; a una dieta in cui hanno sempre più
spazio i grassi animali, alcuni oli vegetali industrialmente lavorati, gli zuccheri, sale in eccesso, i
conservanti. È uno slittamento che nei paesi più sviluppati oggi sta evolvendo in una fase di maggiore
consapevolezza riflessiva sulla qualità del cibo e sulla necessità di moderare l’alimentazione rispetto a questo
genere di prodotti. Questo anche perché è sempre più chiaro dentro ai paesi più ricchi, che l’alimentazione è
diventata una delle varie dimensioni della disuguaglianza sociale.
Secondo il saggio di Berry Popkin del 1993, questa transizione nutrizionale è in relazione con la transizione
demografica; ma soprattutto è una transizione epidemiologica, proprio perché nel momento in cui avviene il
passaggio da un tipo di alimentazione all’altra (quella appunto industrialmente connotata), si aprono una
serie di effetti che, a suo parere, sono a tutto e per tutto pandemici sulla salute a livello globale.
Ora in quale stadio della transizione nutritiva sia un determinato paese, dipende da molti fattori sociali ed
economici diversi, dal livello di sviluppo di quel paese. Ma dipende anche, per esempio, dal tasso di
partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, dall’organizzazione stessa del lavoro. Per esempio, se il
lavoro è organizzato nell’industria e nei servizi sulle 24 ore, determinando cambiamenti non solo nel come ci
si alimenta, ma anche nel quando e quanto tempo si dedica all’alimentazione.
Nel 1993 quando esce l’articolo di Berry Popkin sulla Nutrition Transition, la ricerca ha cominciato a
considerare questo aspetto, ma certamente da allora è proseguita e si è intensificata. Soprattutto, è prosegu