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EDICTUM DE ADTEMPTATA PUDICITIA

1. Il delitto di iniuria e gli editti speciali de iniuriis.

I vari aspetti del delitto di iniuria 1, come è noto, hanno formato oggetto di

numerose ricerche e discussioni da parte della storiografia moderna. E’ dibattuta

l’interpretazione del testo delle XII Tavole2, così come vi sono divergenze di opinioni

intorno ai successivi sviluppi, che videro l’abbandono della pena del taglione3,

dapprima sostituita dalla composizione stragiudiziale - la pactio4 - e poi da una pena

1
Il significato più risalente di iniuria indicava ogni atto contra ius, cioè non conforme al diritto, ed
una delle prime testimonianze del termine è contenuta nel formulario, antichissimo, della legis actio
sacramento in rem: Gai. 4.16. Per l’identificazione dell’iniuria con “ciò che è contrario al diritto”
vedi TH. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, trad. fr. in Le droit pénal romain, Paris
1907, seguito da D.V. SIMON, Begriff und tatbestand der iniuria im altromischen recht, in
«Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», LII (1965) 132-187 e M. KASER, Die
Beziehung von lex und ius die XII Tafeln, in Studi in memoria di Guido Donatuti, Milano 1973, 523-
546. Vedi anche: E. POLAY, Iniuria dicitur quod non iure fit, in «Bullettino dell'Istituto di Diritto
romano», LVIII (1985) 73-81.
2
Tab. 8.2-4. Per l’iniuria nelle XII Tavole vedi: V.L. DA NOBREGA, L’”iniuria” dans la loi des XII
Tables, in Romanitas 8 (1967) 250-279; A.WATSON, Personal injuries in the XII Tables, in «Revue
d'histoire du droit», XLIII (1975) 213-221; R.H. HALPIN, The Usage of “iniuria” in the Twelve
Tables, in Irish Jurist 11 (1976) ; J. PLESCIA, The development of “iniuria”, in «LABEO», XXIII
(1977) 279; A. ALBANESE, Una congettura sul significato di “iniuria” in XII tab. 8.4, in «IURA»,
XXXI (1980) 21-36; C. GIOFFREDI, In tema di iniuria, in Nuovi studi di diritto greco e romano,
Roma 1980, 147-172; A. DI FRANCESCO, Autodifesa privata e “iniuria” nelle XII Tavole, in Le XII
Tavole. Dai decemviri agli umanisti, Pavia 2005. In particolare, per il senso di iniuria in Tab 8.4 si
vedano: G. CORNIL, Ancien Droit Romani, Paris 1930, 80-81; B. SCHMIDLIN, Das
rekuperatorenverfahren. Eine studie zum römischen Prozess, Freiburg 1963, 29; U. VON LÜBTOW,
Zum Römischen injurienrecht, in «LABEO», V (1969) 131-167; E. POLAY, Iniuria types in Roman
Law, Budapest 1986, 16-77; secondo questi studiosi l’iniuria comprenderebbe tutte le lesioni
fisiche lievi, non rientranti nelle fattispecie di os fractum e mebrum ruptum. Da ciò essi deducono
un concetto unitario di iniuria derivante dalle XII Tavole, comprensivo delle tre figure. Tuttavia a
tale opinione si contrappone G. PUGLIESE, Studi sull’“iniuria”, Milano 1941, 5, il quale sostiene che
che, dal momento che l’uso del termine iniuria compare solo in Tab. 8.4, le tre figure non davano
luogo a tre diverse forme di iniuria, ma a tre figure indipendenti tra loro.
3
L. FRANCHINI, La desuetudine nelle XII Tavole, Milano 2005, 45-53.
4
La letteratura sul tema è molto ampia: vedi da ultimo B. BISCOTTI, Dal ‘pacere’ ai ‘pacta
conventa’. Aspetti sostanziali e tutela del fenomeno pattizio dall’epoca arcaica all’editto giulianeo,
Milano 2002, 17 ss. (lett. ivi), le cui tesi generalmente non hanno trovato pieno consenso: si veda la
recensione di A. BURDESE, in «Studia et documenta historiae et iuris», LXX (2004) 515 ss.
2

pecuniaria, determinata caso per caso dal giudice5, ed in connessione con ciò

l’unificazione concettuale dei delitti contro la persona fisica diversi dall’omicidio e il

definirsi di un concetto comprensivo di iniuria, con l’estensione della pena variabile,

propria inizialmente del caso del membrum rutpum, a tutte le altre fattispecie.

Il superamento definitivo delle pene decemvirali si ebbe con la concessione, da

parte del pretore, di un’actio iniuriarum formulare per ogni ipotesi di iniuria, volta ad

ottenere dai recuperatores o dal iudex la fissazione di una condanna “in quantum

bonum et aequum videbitur”6, una condanna commisurata alla lesione prodotta e alle

eventuali conseguenze patrimoniali.

Infine, ed è forse questo l’aspetto più controverso, con il tempo l’ambito di

applicazione della figura si modificò in una duplice direzione: da un lato il pretore

fece rientrare nel concetto di iniuria le offese morali, arrecate all’onore e al decoro

della persona, che divennero progressivamente il principale contenuto di questo

delitto7, accogliendo quella che doveva essere, molto probabilmente, una

5
L’evoluzione è descritta da Gellio, Noc. Att. 20.1.37-38: Quod edictum autem praetorum de
aestimandis iniuriis probabilius esse existimas, nolo hoc ignores, hanc quoque ipsam talionem ad
aestimationem iudicis redigi necessario solitam. Nam si reus qui depecisci noluerat iudici talionem
imperanti non parebat, aestimata lite iudex hominem pecuniae damnabat, atque ita, si reo et pactio
gravis at acerba talio visa fuerat, severitas legis ad pecuniae multam redibat.
6
Vedi sul punto D. MANTOVANI, Le formule del processo privato romano, Padova 19992, 76: il
giudizio davanti ad un iudex era quello a cui si arrivava con l’esperimento dell’actio iniuriarum
noxalis, in tutti gli altri casi si aveva, invece, il giudizio davanti ad un collegio di recuperatores. Cfr.
anche P.F. GIRARD, Les jurés de l’action d’injures, in Melanges Gérardin, Paris 1907, 493;
SCHMIDLIN, Das rekuperatorenverfahren. Eine studie zum römischen Prozess cit., 29-44; J. PARICIO,
Estudio sobre las “actiones in aequum conceptae”, Milano 1986.
7
Secondo PUGLIESE, Studi sull’“iniuria” cit., 63-65, l’unificazione dei delitti privati contro la
persona si produsse nel corso dei secoli che precedettero la legalizzazione della procedura
formulare, e fu un’unificazione concettuale, a cui seguì un’unificazione di disciplina. A.D.
MANFREDINI, Contributi allo studio dell’”iniuria” in età Repubblicana, Milano 1977, 65-66, 73-75,
sostiene, invece, che l’unificazione di disciplina, concretizzata con l’estensione della pena variabile
a tutte le ipotesi di lesioni fisiche, sarebbe stata già opera dei pontefici: dal momento che sia l’os
fractum, sia l’iniuria, ponevano una difficoltà di accertamento diagnostico, è probabile che i
3

elaborazione giurisprudenziale8; dall’altro questa tendenza risultò accentuata dalla

emanazione della lex Cornelia de iniuriis9 dell’81 a.C., che sottopose a pena pubblica

le ipotesi più gravi di lesioni fisiche (pulsare, verberare, domum vi introire).

La valutazione e la considerazione dei danni, nell’ambito del iudicium

recuperatorium10, diventò per la giurisprudenza occasione di studio delle ipotesi nelle

quali si individuava ingiuria: si creò, così, un’unica categoria nella quale furono

pontefici suggerissero la procedura estimatoria, nata nell’ambito del membrum ruptum.


8
In particolare, secondo A. SCHIAVONE, Studi sulle logiche dei giuristi romani: nova negotia e
transactio da Labeone a Ulpiano, Napoli 1971, 93-102 e M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei
giuristi romani, Napoli 19822, 184, fu la nozione di contumelia, cioè di sprezzo o di non adeguato
rispetto verso altri soggetti, introdotta da Labeone, a consentire l’ampliamento del delitto alle offese
morali.
9
Le fonti da cui ricaviamo l’esistenza di questa legge sono: D. 47.10.5. pr-11 (Ulp. 56 ad ed.), I.
4.4.8 e Paul. Sent. 5.4.8. Questa lex, probabilmente dell’81 a.C., emanata da Silla stabilì un
procedimento particolare per i casi di pulsare e verberare, ossia fattispecie punite dall’editto
generale de iniuriis, e di domum vi introire, la violazione di domicilio. Relativamente alla lex
Cornelia de iniuriis si vedano: G. ROTONDI, Leges Publicae Populi Romani, Milano 1912, 359;
LAVAGGI, “Iniuria” e “obligatio ex delicto” cit., 159; SCHMIDLIN, Das rekuperatorenverfahren.
Eine studie zum römischen Prozess cit., 36; CENDERELLI, Il carattere non patrimoniale dell’actio
iniuriarum e D. 47.10.1.6-7 cit., 162; G. CRIFÒ, s.v. Diffamazione e ingiuria, a) Diritto romano, in
«Eniclopedia del Diritto», XII (1964) 472-473; O. BEHERENDS, Des Assesor zur Zeit klassischen
Rechts wissenschaft, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», LXXXVI (1969)
210-211; C. GIOFFREDI, I principi del Diritto Penale Romano, Torino 1970, 20; PLESCIA, The
development of “iniuria” cit., 280; MANFREDINI, Contributi allo studio dell’”iniuria” in età
Repubblicana, cit., 230-252; Id., L’iniuria nelle XII Tavole. Intestabilis ex lege (Cornelia de
iniuriis?) (recenti letture in materia di iniuria), in Derecho romano de Obligaciones. Homenaje al
Profesor J. L. Murga Gener cit., 801-817; B. SANTALUCIA, Studi di diritto penale romano, Roma
1994; L. MINIERI, Per la storia dell’iniuria (recensione a Manfredini), in «LABEO», XXVI (1980)
257-260; M. BALZARINI, “De iniuria extra ordinem statui”. Contributo allo studio del diritto penale
romano dell’età classica, Padova 1983, 61, 209-217; Id., Ancora sulla Lex Cornelia de iniuriis e
sulla repressione di talune modalità di diffamazione, in Estudios Iglesias II (Madrid 1988) 586-590;
G. MUCIACCIA, In tema di repressione di opere infamanti, in «Studi Biscardi» V (Milano 1984) 71-
78; A. VÖLK, Zum Verfahren der «actio legis Corneliae de iniuriis», in Sodalitas. Scritti in onore di
Antonio Guarino II, Napoli 1984, 584-608.
10
In Gellio, Noct. Att. 20.1.13 leggiamo il famoso caso di L. Verazio. Sul tema, con punti di vista
divergenti, vedi: G. GALENO, Verazio il cavaliere, in Sodalitas Scritti in onore di Antonio Guarino
IV, Napoli 1984, 1883-1887; A. GUARINO, Labeone e gli schiaffi, in Pagine di diritto romano, V,
Napoli 1994, 125-130. Si veda sul punto anche M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi
romani cit., 185-186, per il quale, invece, il racconto di L. Verazio sarebbe poco più di una
parabola: il nome Veratius avrebbe, per Labeone, un valore simbolico, prossimo a vecordia, è il
nome proprio dell’uomo senza ragione. V. SCARANO USSANI, Gli “scherzi” di Lucio Verazio, in
«Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», XC (1992) 127-135: lo SCARANO USSANI, sulla base
di accorta ricerca prosopografica, ha mostrato la verosimiglianza del racconto gelliano.
4

ricomprese tanto le lesioni corporali, quanto le offese morali. In tutti questi casi il

pretore offrì tutela agli offesi, riconoscendo l’operatività dell’actio iniuriarum, cioè

quella originariamente prevista per le offese fisiche.

L’estensione avvenne attraverso l’emanazione di specifici editti, differenti in

ragione di questo dall’editto generale11, che contemplavano singolarmente diverse

offese morali ed erano accomunati dal medesimo rimedio processuale.

Secondo la ricostruzione di Otto Lenel, si trattava dell’editto de convicio, che

puniva gli insulti o il vociferare proferito da varie persone unite in gruppo o

assemblea davanti al domicilio della persona insultata o in un luogo da lei

frequentato; l’editto de adtemptata pudicitia, che sanzionava gli attentati alla

pudicizia delle donne perbene e dei giovani che indossavano la toga praetexta;

l’editto ne quid infamandi causa fiat, che reprimeva qualunque attività, parole o atti,

posta in essere con lo scopo di infamare un’altra persona; l’editto de iniuriis quae

servis fiunt, che reprimeva l’offesa subita da un dominus attraverso l’iniuria inferta al

servus; l’editto de noxali iniuriarum actione, operante nell’ipotesi in cui fosse stato

un servus o un filius familias a commettere iniuria; l’editto si ei, qui in alterius

11
Ulp. D. 47.10.15.26 (57 ad ed.). La maggior parte degli studiosi è d’accordo con O. LENEL,
Edictum Perpetuum, Leipzig, 1927, § 190, riguardo all’esistenza del generale edictum: P. DE
FRANCISCI, “Iudicia bonae fidei”, Editti e ”formulae in factum”, in «Studi senesi» XXIV, Siena
1907, 366; D. DAUBE, “Ne quid infamandi causa fiat”, in Atti Congr. Internaz. Dir. Rom. e Stor. Dir.
III, Verona 1948, 411-450; A. WATSON, The law of obligations in the later roman Republic, Oxford,
1962, 248; M. BRETONE, Ricerche labeoniane.”Iniuria” e “hybris”, in «Rivista di filologia e di
istruzione classica», CIII (1975) 414; M. MIGLIETTA, Elaborazione di Ulpiano e di Paolo intorno al
«certum dicere» nell’«edictum ‘generale’ de iniuriis», Lecce 2002; non lo sono, invece, altri autori
quali: V. ARANGIO-RUIZ, Le formule con “demonstratio” e la loro origine, Cagliari 1912, 30-37;
PUGLIESE, Studi sull’“iniuria” cit.; MANFREDINI, Contributi allo studio dell’”iniuria” in età
Repubblicana cit, Id. Quod edictum autem praetorum de aestimandis iniuriia, in Illecito e pena
privata in età repubblicana, Napoli, 1992, 192.
5

potestate erit, iniuria facta esse dicetur, per i casi di offesa subita dal pater familas

attraverso l’iniuria patita dal filius; l’editto de contrario iniuriarum iudicio12, che

offriva un’azione contraria per difendersi da un’actio iniuriarum temeraria.

Come si è detto, il tema dell’iniuria è stato ampiamente trattato in

dottrina, ma ai singoli editti sopra elencati si è dedicata attenzione quasi

esclusivamente nel quadro di trattazioni concernenti il tema generale13. Restano così

aperti numerosi problemi, e primo fra tutti quello della loro datazione e, quindi, del

loro rapporto con l’editto generale.

Per quest’ultimo la dottrina è orientata ad indicare la fine del III sec. a.C.14,

mentre per la datazione degli altri editti la dottrina concorda sul fatto che l’editto de

convicio sarebbe stato emanato dal pretore attorno alla fine del II sec. a.C., poiché in

12
Vedi LENEL, EP. cit., §§ 191-197
13
Diversi autori hanno affrontato lo studio dello sviluppo storico-dogmatico dell’iniuria, trattando
con particolare attenzione gli editti speciali de iniuriis: M. MARRONE, Considerazioni in tema di
iniuria, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, 475-485; T. SPAGNUOLO VIGORITA, Actio
iniuriarum noxalis, in «LABEO», XV (1969) 33-76; P.B.H. BIRKS, The early History of iniuria, in
«Revue d'histoire du droit », XXXVII (1969) 163-208; S. DI PAOLA, La genesi storica del delitto di
iniuria, in Annali Catania, Seminario giuridico I, Catania 1947, 268; P. HUVELIN, La notion de
“l’iniuria” dans le tres ancien droit romain, Roma 1971, 93-107; PLESCIA, The development of
“iniuria” cit. 271-289; A.D. MANFREDINI, La diffamazione verbale nel diritto romano, Milano
1979; J. SANTA CRUZ TEIJEIRO - A. D’ORS, A proposito de los edictos especiales “ de iniuriis”, in
«Anuario de Historia del Derecho Español», XLIX (1979) 653-659; BALZARINI, “De iniuria extra
ordinem statui” cit., 61, 209-217; POLAY, Iniuria types in Roman Law cit., 94-115; M. S. DEL
CASTILLO SANTANA, Estudio sobre la casuistica de las lesiones en la jurisprudencia romana,
Madrid 1994, 52-100; E. RUIZ FERNANDEZ, Sancion de las “iniuriae” en el derecho romano
clasico, in Derecho romano de obligacione. Homenaje al Profesor J.L. Murga Gener, Madrid, 1994
, 819-823; J. SANTA CRUZ TEIJEIRO, La iniuria en derecho romano, in Studi Sanfilippo II, Milano
1982, 523-538; M. GUERRERO LEBRON, La injuria indirecta en derecho romano, Madrid 2005, 101-
116.
14
Collocano l’editto generale alla fine del III sec. a.C.: BIRKS, The early History of iniuria, cit.,
195; R. WITTMANN, Die köperverletzung an frein im klassischen römischen Recht, München 1972,
26; A. WATSON, The development of the Praetor’s edict, in «Journal of Roman Studies», LX (1970),
133. Sostengono, invece, una datazione intorno alla prima metà del II sec. a.C.: F. SCHULZ,
Classical roman law, Oxford, 1951, 567; RUIZ FERNANDEZ, Sancion de las “iniuriae” en el derecho
romano clasico, cit., 819-823.
6

alcuni frammenti della Rhetorica ad Herennium, la cui composizione - secondo una

dottrina quasi unanime - risale all’88 a.C.15, il convicium è espressamente indicato

quale fattispecie di iniuria 16, accanto alle pulsationes, e che tutti gli altri sarebbero a

questo successivi17.

In particolare per l’editto de adtemptata pudicitia, secondo Dora de la

Puerta Montoya18, vi è un unico dato certo in proposito: tale editto doveva essere

posteriore alla lex Scatinia, databile approssimativamente attorno al 220 a.C., giacché

il comportamento punito dal pretore era meno grave di quello contemplato dalla lex.

Eva Cantarella19, invece, lo colloca prima del 193 a.C. sulla base di Plaut.

Curc., 35-38, in cui si parla di nuptae, viduae e virgines, in un modo che pare

rimandare alla tripartizione dei soggetti protetti dall’editto de adtemptata pudicitia 20.

2. La pudicitia.

Nell’ambito del delitto di iniuria, così come esso fu ampliato dagli interventi

del pretore cui abbiamo accennato, l’editto de adtemptata pudicitia tutela l’integrità

morale della persona dal punto di vista della sua onorabilità sessuale; protegge, cioè,
15
Rhet. ad Her. 1.15.25. Il problema della datazione della Rhet. Her. è stato riproposto da A.E.
DOUGLAS, Clausulae in the Rhetorica ad Herennium as Evidence of Its Date, in «Classical
Quarterly», LIV (1960) 65 ss., il quale formula una soluzione diversa da quella tradizionale,
indicando gli anni 50 come la data più probabile di composizione dell’opera.
16
Rhet. ad Her. 2.26.41. Cfr. anche Rhet. ad Her. 1.14.24, 2.13.19.
17
HUVELIN, La notion de “l’iniuria” dans le tres ancien droit romain, cit., 32-35, MANFREDINI, La
diffamazione verbale nel diritto romano cit., 76, R. WITTMANN, Die Entwicklungslinien der
klassischen Injurienklage, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», XCI (1974)
312; WATSON, The development of the Praetor’s edict cit., 38.
18
D. DE LA PUERTA MONTOYA, Estudio sobre el “Edictum de adtemptata pudicitia”, Madrid 1992,
52.
19
E. CANTARELLA, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano, 1995, 141-154.
20
Plaut, Curc., 35-38: Nemo ire quemquam publica prohibet via; dum ne per fundum saeptum
facias semitam, dum ted abstineas nupta, vidua, virgine, iuventute et pueris liberis, ama quid
lubet.
7

un valore fondamentale per la società romana, la pudicitia.

La pudicitia, sin dalla fase più antica della storia di Roma, rappresenta uno dei

valori su cui si fonda il modello perfetto ed ideale di donna, ed emerge per la prima

volta in àmbito religioso21. Le fonti ricordano il culto dedicato alla dea Pudicitia, ed

un celebre racconto liviano descrive l'istituzione, nel 296 a.C., del culto della

Pudicitia plebea, distinto da quello della Pudicitia patrizia22 . Dal racconto risulta che

il culto era pienamente integrato nei riti ufficiali della vita civica romana 23: la

narrazione, infatti, parte da un contesto di celebrazioni di rituali pubblici, in un

momento in cui, essendo Roma in guerra con le città vicine, è richiesto dal popolo il

soccorso degli dei.

Il fatto che la dea Pudicitia appartenesse alle divinità da invocare in momenti

di particolare pericolo per la civitas, lascia intendere che tale virtù era così importante

da coinvolgere aspetti della vita dei Romani non direttamente ed esclusivamente

connessi con la sessualità. Ed in effetti la pudicitia non rimase mai relegata alla sfera

etica individuale, ma la sua presenza o assenza presupponeva sempre un

collegamento molto stretto tra morale sessuale soggettiva e vita pubblica.

E’ interessante riflettere sulle caratteristiche che le devote alla dea Pudicitia

dovevano avere: si parla di matronae di spectata pudicitia. L’aggettivo spectata


21
O. KIEFER, La vita sessuale nell’antica Roma, Milano 1988, 109-149; N. BOËLS- JANSEN, La vie
religieuse des matrones dans la Rome archaïque, Roma 1993, 229-251; J. SCHEID, Indispensabili
«straniere», in Storia delle donne in occidente. L’antichità, Bari 1994, 438-440; R. LANGLANDS,
Sexual morality in Ancient Rome, Cambridge 2006, 37-77.
22
Liv., 10.23.3-10
23
Cfr. Plin. Nat. Hist. 2.14.1: Quapropter effigiem dei formamque quaerer inbecillitatis humanae
reor. Quisquis est deus, si modo est alius, et quacumque in parte, totus est sensus, totus visus, totus
auditus, totus animae, totus animi, totus sui. Innumeros quidem credere atque etiam ex vitiis
hominum, ut Pudicitiam, Concordiam, Mentem, Spem, Honorem, Clementiam, Fidem, aut, ut
Democrito placuit, duos omnino, Poenam et Beneficium, maiorem ad socordiam accedit.
8

rinvia immediatamente al singolare aspetto di questa virtù che doveva essere visibile,

ossia percepibile pubblicamente: “specchiata” pudicitia, non solo nel senso di

notevole pudicitia, ma, andando al significato originario del verbo specto24, da cui

deriva l’aggettivo, vista, comprovata, attestata.

Un’altra fonte importante è Valerio Massimo, il quale antepone alla serie degli

aneddoti illustrativi della virtù, a cui dedica il VI libro della sua opera 25,

un’invocazione alla dea, sentita come una presenza forte e reale, attraverso il

linguaggio formale della preghiera26. I vocaboli chiave del passo sono praesidium e

custos27: la dea, dirigendo e condizionando le attività morali degli individui, pone

sotto il suo presidio l’età puerile e custodisce la pudicitia delle matrone, e non solo,

dato che qui la pudicitia appare un elemento non più limitato al mondo femminile:

non si parla di sole matronae, come nel racconto liviano, ma anche di giovani e di

bambini, e si inizia a parlare delle categorie protette dalla dea usando termini

indicanti gli elementi dell’abbigliamento che le contraddistingue.

Alla luce di questo il discorso si definisce ancor meglio un ulteriore aspetto di

24
A. ERNOUT – A. MEILLET, s.v. Specto, -as, -avi, -atum, -are, da Specio, -is, -spexi, - spectum, -ĕre,
in Dictionnaire ètymologique de la langue latine, Parigi 1979, 639-641.
25
Dicta e facta memorabilia, Lib. VI, de pudicitia.
26
Val. Max., Dicta e fact. 6.1.1: Unde te virorum pariter ac feminarum praecipuum firmamentum,
Pudicitia, invocem? Tu enim prisca religione consecratos Vestae focos incolis, tu Capitolinae
Iunonis pulvinaribus incubas, tu Palatii columen augustos penates sanctissimumque Iuliae
genialem torum adsidua statione celebras, tuo praesidio puerilis aetatis insignia munita sunt, tui
numinis respectu sincerus iuventae flos permanet, te custode matronalis stola censetur: ades igitur
et < re> cognosce quae fieri ipsa voluisti.
27
Anche in Plauto, Amph. 925-934, la dea Pudicitia è vista in termini di custode della pudicitia
matronale: ALC. Ego istaec feci verba virtute irrita; nunc, quando factis me impudicis abstini, ab
impudicis dictis avorti volo. Valeas, tibi habeas res tuas, reddas meas. Iuben mi ire comites? IVPP.
Sanan es? ALC. Si non iubes, ibo egomet; comitem mihi Pudicitiam duxero. IVPP. Mane. Arbitratu
tuo ius iurandum dabo, me meam pudicam esse uxorem arbitrarier. Id ego si fallo, tum te, summe
Iuppiter, quaeso, Amphitruoni ut semper iratus sies.
9

Pudicitia: essa non funge solo da impulso all’inseguimento dell’eccellenza morale,

ma inizia ad esprimere la necessità della protezione della pudicitia di determinate

categorie di persone28.

Altre fonti invece, ed in particolare Properzio e Giovenale, utilizzano il

riferimento al culto per porre in evidenza il decadimento morale delle donne e la

corruzione dei costumi sessuali del loro tempo, riagganciandosi in qualche modo

all’originario collegamento tra il culto religioso e il comportamento personale.

Properzio rammenta questo culto nell’elegia 2.6.25, chiedendosi: templa

Pudicitiae quid opus statuisse puellis, si cuivis nuptae quidlibet esse licet?

Nella domanda implicitamente si depreca lo stato morale delle donne del

tempo: il che serve al poeta quale sfondo della descrizione di Cynthia, la donna

amata, ritratta come una cortigiana dalla vita depravata, immersa nella promiscuità

dell’epoca.

Giovenale, infine, apre la famosa VI Satira dicendo che la dea Pudicitia ha

abbandonato da tempo il mondo reale, lasciandolo nella totale immoralità sessuale 29.

La denuncia di Giovenale è forte: non solo il tempio di Pudicitia è stato abbandonato,

ma viene addirittura profanato. Si ripropone qui il consueto legame tra culto religioso

e comportamento morale, spinto al limite nella descrizione di donne che pongono in

essere sacrilegi nel tempio e contro la statua della dea, rappresentando, con il loro

28
N. LORAUX, Che cos’è una dea?, in Storia delle donne in Occidente cit., 15-55.
29
(vv. 1-8): I nunc et dubita qua sorbeat aera sanna / Tullia, quid dicat: notae collactea Maurae /
Maura, / Pudicitiae veterem cum praeterit aram / noctibus hic ponunt lecticas, micturiunt hic /
effigiemque deae longis siphonibus implent / inque vices equitant ac Luna teste moventur, / inde
domos abeunt: tu calcas luce reversa / coniugis urinam magnos visurus amicos.
10

comportamento, il massimo della perversione.

Per quanto non numerose, le notizie sul culto della dea Pudicitia consentono di

percepirne il rilievo nel corso dei secoli: lo statuto etico delle donne ne è stato

profondamente influenzato. Una virtù come la pudicitia, da manifestare

inderogabilmente anche in pubblico30, meritava di essere, proprio per questo, tutelata,

con specifici rimedi, sul piano giurisdizionale.

3. I soggetti offesi e l’importanza dell’abito.

Il testo dell’editto de adtemptata pudicitia non ci è pervenuto, ma - rifacendoci

all’opera di Otto Lenel31 - possiamo ricostruirne il contenuto grazie a Gai. 3.220 e I.

4.4.1 , a Paul. D. 47.10.10 (55 ad ed.) e soprattutto al Commento all’Editto di

Ulpiano, D. 47.10.15.15-24 (57 ad ed.), con altri significativi e importanti riferimenti

in D. 47.10.1.2 (Ulp. 57 ad ed.); D. 47.10.9 pr (Ulp. 57 ad ed.); D. 47.10.9.4 (Ulp. 57

ad ed.); D. 47.11.1.2 (Ulp. 4 opin.)32 e infine in Coll. 2.5.4.

30
E’ necessario tenere distinto il concetto di pudicizia da quello di pudore. In italiano i due termini
hanno significati vicini, tanto che sovente, nel linguaggio comune, vengono sentiti come
intercambiabili. E tuttavia una sfumatura di differenza esiste: nel Lessico Universale Italiano (vol.
XVIII, Roma 1977, 101) la pudicizia viene definita come “La virtù di chi preserva coscientemente i
suoi pensieri e le sue azioni da ogni impurità sessuale, ispirando la sua condotta a modestia e
verecondia”, mentre il pudore consiste nel “Senso di riserbo o d’avversione per quanto riguarda il
sesso, che provoca istintive reazioni di disagio o di difesa”. Questo è indicato come significato
primo del termine, che per estensione assume anche il senso di “Ritegno, vergogna, anche in
relazione a cose che non riguardano il sesso”. Infine viene considerato sinonimo di pudicizia, in
particolare “Con rifermento alle norme di pudicizia esteriore che devono essere osservate in
pubblico: pubblico p.; offesa al p.” La differenza fra i due termini è più accentuata nella lingua
latina, avendo la pudicitia riguardo all’atteggiamento esteriore, il pudor al sentimento interiore, e
tale è la differenza che, come esiste una dea Pudicitia, così esiste un dio Pudor: su tutto ciò vedi G.
RADKE, in «Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft», XII (1980), col. 1942-1947,
s.v. Pudicitia, e dello stesso A., ibid., col. 1947-1948, s.v. Pudor.
31
LENEL, EP, cit., § 192.
32
Uguale a Paul. Sent. 5.4.14.
11

Secondo la ricostruzione di Lenel, il testo sarebbe stato il seguente:

Si quis matrifamilias33 aut praetextato34 praetextataeve comitem35 abduxisse36

sive quis eum eamve adversus bonos mores37 appellasse adsectatusve38 esse dicetur.

E’ opinione di Lenel che le parole adtemptata pudicitia non figurassero in

questo specifico editto, ma solamente nella sua rubrica39, la cui citazione, nella

trascrizione letterale dell’editto, così come l’ha trasmessa il passo di Ulpiano

(tramandato in D. 47.10.15.15-24, 57 ad ed.) e fondamentale per il nostro lavoro,

sarebbe stata omessa dai compilatori.

Passando ora ad esaminare il contenuto dell’editto, in primo luogo va posto in

evidenza che la fattispecie del delitto di adtemptata pudicitia contemplava l’oltraggio

alla pudicizia di determinate categorie di soggetti, attraverso il compimento di tre

diverse azioni, che configuravano tre distinte fattispecie: la prima, secondo l’ordine

proposto dal Lenel, qualificata dall’espressione comitem abducere, la seconda dal

termine appellare, la terza, infine, dal verbo adsectari.

Nella ricostruzione del Lenel, quindi, il pretore avrebbe sanzionato in primo

33
D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.).
34
Gai. 3.220; D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.).
35
D. 47.10.15.16 (Ulp. 57 ad ed.).
36
D. 47.10.15.17- 18 (Ulp. 57 ad ed); Coll. 2.5.4.
37
D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.).
38
D. 47.10.15.19- 22 (Ulp. 57 ad ed.).
39
LENEL, EP cit., 400, sostiene questo sulla base di D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.) e D. 47.10.10
(Paul. 55 ad ed.). In senso contrario si veda A. GUARINO, Le matrone e pappagalli, in Inezie di
giureconsulti, Napoli, 1978, 171-172, secondo il quale il fatto che i commentatori usassero, al fine
di abbreviare, la dizione adtemptata puditicia come unificante le varie fattispecie previste
dall’editto, non significa che questa fosse la rubrica edittale. Sul punto si veda, infine, POLAY,
Iniuria types in Roman Law, cit., 113-114, che, pur essendo in accordo con LENEL relativamente
alla rubrica edittale, ritiene che il testo dell’editto fosse generico, e che furono i giuristi ad
individuare le fattispecie illustrate da Ulpiano, fissando modi tipici di offesa alla buona reputazione
delle persone protette dallo stesso editto.
12

luogo l’ipotesi più grave, quella del comitem abducere, che configurava di per sé il

delitto, e poi quelle in cui vi era delitto se il comportamento dell’agente risultava

contrario ai boni mores. Il commento di Ulpiano segue tuttavia un ordine diverso,

dato che il giurista tratta in primo luogo dell’appellare, poi del comitem abducere e

infine dell'adsectari40. Si preferisce qui seguire l’ordine di Ulpiano poiché il giurista,

trattando dell’appellare, affronta il tema dell’abito dei soggetti offesi, tema che, come

si vedrà, risulta rilevante per ciascuna delle ipotesi di adtemptata pudicitia:

D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.) Si quis virgines appellasset, si tamen ancillari

veste vestitas, minus peccare videtur, multo minus si meretricia veste feminae, non

matrumfamiliarum vestitae fuissent; si igitur non matronali habitu femina fuerit, et

quis eam appellavit, vel ei comitem abduxit, iniuriarum tenetur.

Nella prima parte del passo ulpianeo, prezioso per la ricostruzione dell’editto,

si considera l’appellare rivolto alle virgines41 vestite da schiave, sostenendo che chi

avesse indirizzato loro parole di richiamo, avrebbe “peccato” di meno. Sembrerebbe

che, con l’uso del comparativo minus, Ulpiano non inauguri un nuovo discorso, ma

ne continui uno già iniziato in precedenza, il cui punto di partenza sarebbe stato,

probabilmente, il caso di appellatio rivolta a virgines vestite in modo adeguato alla

loro condizione.

40
LENEL, Palingenesia iuris civilis II, Liepzig 1889, 766-778. Va osservato che Gaio tratta solo
dell’adsectari (Gai 3.220: vedi infra p. 28, nt. 82; p. 41, nt. 105), e altrettanto avviene nelle
Istituzioni di Giustiniano (I 4.4.1: vedi infra p. 28, nt. 83; p. 41, nt. 106).
41
Si intendono con questo termine le donne giovani. Virgo era una nozione molto ampia, come è
confermato dal fatto che nelle frasi successive Ulpiano usa il termine feminae come sinonimo di
virgines. Cio è confermato anche dalla lettura di ERNOUT - MEILLET, s.v. virgo- inis, in Dictionnaire
ètymologique de la langue latine, cit., 739-740.
13

Nella seconda parte si prende in esame il medesimo comportamento, ma nei

confronti di una donna vestita da prostituta: in tal caso l’offensore avrebbe posto in

essere un illecito ancor meno grave.

Nella terza parte, infine, il giurista sostiene che l’actio iniuriarum viene

concessa anche contro chi ha fatto oggetto di appellatio una donna non vestita da

matrona, oppure la ha allontanata dal suo accompagnatore.

Le problematiche che questo passo solleva hanno portato vari romanisti a

confrontarsi tra loro: è fondamentale comprendere perché Ulpiano consideri la

legittimazione passiva all’actio iniuriarum come conseguenza (tale è il significato di

igitur) delle ipotesi in cui l’offensore delinque meno. Da una parte, egli pare offrirci

una graduazione discendente del peccare, dall’altra propone lo stesso rimedio

processuale per tutte le ipotesi.

In generale, la maggior parte degli studiosi propende per la non genuinità del

frammento, cercando di ricomporlo in vario modo. Non mancano, tuttavia, anche

quanti ne affermano la genuinità sulla base di una peculiare visione dell’editto

speciale de adtemptata pudicitia e delle sue connessioni con il generale edictum.

Il Raber42 ha compiuto un’accurata analisi del nostro passo, e delle tesi in

proposito43, considerandolo genuino nella sostanza, e semplicemente raccorciato.

42
F. RABER, Frauentracht und “iniuria“ durch “appellare“, in Studi in onore di Edoardo Volterra,
III, Milano 1971, 633-646.
43
C. VAN BYNKERSHOEK, Observationum iuris romani libri quattor, lib. VI, cap. 25, Lugduni
Batavorum, 1710, 444; J. VOET, Commentarius ad Pandectas, sub. tit. de iniuriis et fam. libellis, §
13, Coloniae Allobrogorum 1778, 827; R. J. POTHIER, Pandectae, III4, Parisiis 1821, 345. In
particolare, il primo studioso propone alternativamente l’inserimento del non tra la parola
iniuriarum e la parola tenetur, come sostenevano gli umanisiti HALOANDER e H. BRENKMANN, o
14

Lo studioso traduce appellare con il termine unzuchtig ansprechen, che

significa rivolgere la parola, abbordare in modo non costumato, cercando di capire,

inoltre, su che cosa si fondi, in generale, la legittimazione passiva, per l’appellare, del

presunto offensore.

La risposta a questa domanda, sostiene l'A., potrebbe desumersi dalla

contestuale lettura di D. 47.10.15.2044, secondo il quale appellare equivale ad

attentare alla castità di un’altra persona con discorsi lusinghieri, e di D. 47.10.15.23 45

(ma in parallelo con D. 47.10.15.6 che affronta il tema del convicium46), nel quale si

legge che sarebbe stata necessaria una violazione dei buoni costumi.

Lo studioso, partendo da questi due dati, delinea due presupposti per la

punibilità dell’appellare: l’obiettivo ferimento della pudicitia e l’obiettiva infrazione

al buon costume. Sulla base di questo presupposto egli si chiede, di conseguenza, se

l’eliminazione del non precedente alle parole matronali habitu. Sostiene, infine, che Ulpiano avesse
semplicemente posto il discorso in forma interrogativa e che il punto di domanda fosse, poi,
scomparso. Secondo VOET, invece, la ratio della legge suggerisce di leggere iniuriarum vix tenetur,
poiché una donna in abiti da schiava o meretrice non avrebbe potuto vedere attentato il suo onore
con l’appellare. Infine POTHIER, rifacendosi alla ratio contextus, sostiene che la cosa più logica
fosse negare l’actio iniuriarum, e quindi aggiunge un non che appunto la escludesse. Segue tale
linea J.G. FUCHS, Stellung und Aufgabe des Richters im modernen Strafrecht, in «Schweizerische
Zeitschrift für Strafrecht», LXXV (Mélanges A. German) 1959, 33, secondo cui senza l’inclusione
del non l’argomentazione ulpianea sarebbe senza conclusione. A sostegno della ricostruzione di
iniuriarum non tenetur si veda anche G. BESELER, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen,
in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», LXVI (1948) 346-347, secondo il quale
va eliminata dal testo la parte iniziale, da si quis a fuissent, sulla base della irrilevanza giuridica del
verbo peccare, usato esclusivamente in riferimento a comportamenti riprovevoli dal punto di vista
morale. Secondo lo studioso il discorso di Ulpiano sarebbe stato: Si non matronali habitu femina
fuerit, qui eam appellavit vel ei comitem abduxit iniuriarum non tenetur. L’inserimento del non
trova, infine, d’accordo G. L. FALCHI, Diritto penale romano (I singoli reati), Padova 1932, 62-96.
44
Appellare est blanda oratione alterius pudicitiam adtemptare: hoc enim non est convicium, sed
adversus bonos mores adtemptare.
45
Meminisse autem oportebit, non omnem, qui assectatus est, nec omnem, qui appellavit, hoc edicto
conveniri posse; neque enim si quis colludendi, si quis officii honeste faciendi gratia id facit, statim
in edictum incidit, sed qui contra bonos mores hoc facit.
46
Idem ait: “adversus bonos mores” sic accipiendum, non eius, qui fecit, sed generaliter
accipiendum adversus bonos mores huius civitatis.
15

apostrofare in questo modo una donna onorabile, ma in abito da prostituta o da

schiava, rientri o non nell’appellare, ritenendo fondamentale capire se l’abito che trae

in inganno escluda l’illecito o lo diminuisca.

Dal momento che i giuristi attribuivano grande importanza all’abito.

sembrerebbe che esso fosse un presupposto di fatto obiettivo per la punibilità

dell’appellare, quale segno visibile di discriminazione tra appartenenti a differenti

classi sociali.

Tuttavia, nota il Raber, procedendo dall’esame di un passo di Tertulliano 47, da

un certo periodo in poi le differenze si sarebbero molto attenuate, sì che, per tal

motivo, poteva accadere che una matrona indossasse abiti da meretrice. In

conseguenza rivolgere le proprie attenzioni a chi fosse abbigliata da prostituta non

garantiva più l’impunità. In ogni caso, tuttavia, la minor gravità di questo

comportamento sarebbe stata presa in considerazione nell’aestimatio del giudice: si

spiegherebbero così le espressioni minus e multo minus. Il Raber, inoltre, ritiene

punibile l’offesa nei confronti della schiava, sebbene il suo onore fosse tutelato in

misura minore rispetto a quello di una materfamilias o di una virgo.

L’A., in conseguenza, solleva l’ipotesi che tra il secondo e terzo paragrafo si

47
Tert., Apolog. 6.3: Video et inter matronas atque prostibulas nullum de habitu discrimen relictum;
De pallio 4.9: Converte et ad feminas. Habes spectare, quod Caecina Severus graviter senatui
impressit, matronas sine stola in publico. Denique, Lentuli auguris consultis, quae ita sese
exauctorasset, pro stupro erat poena; quoniam quidem indices custodesque dignitatis habitus, ut
lenocinii factitandi impedimenta, sedulo quaedam desuefecerant. At nunc in semetipsas
lenocinando, quo planius adeantur, et stolam et supparum et crepidulum et caliendrum, ipsas
quoque iam lecticas et sellas, quis in publico quoque domestice ac secrete habebantur, eieravere.
Sed alius extinguit sua lumina, alius non sua accendit. Aspice lupas, popularium libidinum
nundinas, ipsas quoque frictrices, et si praestat oculos abducere ab eiusmodi propudiis occisae in
publico castitatis, aspice tamen vel sublimis, iam matronas videbis.
16

siano perse alcune linee nelle quali Ulpiano parlava della non conformità al loro

rango e alla loro dignità dell’abbigliamento di alcune donne48.

Antonio Guarino49 suppone che Ulpiano proseguisse un discorso già iniziato

con un ait praetor a cui, probabilmente, seguiva il testo letterale dell’editto con il

quale si prometteva l’actio iniuriarum contro chi avesse compiuto le azioni di

appellare e adsectari contro i buoni costumi, e di comitem abducere. Tali azioni

erano punite non in quanto lesive della moralità soggettiva dei soggetti offesi, ma in

quanto eccedenti i limiti del comune senso del pudore.

Quel che rilevava, infatti, era la dignità sociale dei soggetti tutelati dall’editto,

dignità immancabilmente manifestata del loro modo di vestirsi: secondo lo studioso

colui che avesse “appellato” la passante ancillari veste vestita, facilmente

distinguibile dalla matrona, avrebbe “peccato di meno” non perché fosse concessa

maggior licenza con le schiave, ma perché, in tal caso, l’iniuria recata ad una familia,

nella persona di una schiava, aveva un peso minore rispetto all’iniuria fatta a danno

di un capofamiglia o di un altro componente libero.

Il Guarino ritiene che in tal caso avrebbe operato un altro editto speciale de

iniuriis: il dominus offeso avrebbe chiamato in causa il “pappagallo di strada” con

l’actio iniuriarum derivante dall’editto de iniuriis quae servis fiunt50. Tale actio era

concessa, nei casi di iniuria servi non grave, solo previa causae cognitio del pretore:

48
Sottolineano queste conclusioni di RABER: L. DE SARLO, Recensione a F. Raber, Grundlagen
klassischer Injurienanspruche, in «Studia et documenta historiae et iuris», XXXVI (1970) 486-491,
486; M. MARRONE, Recensione a F. Raber, Grundlagen klassischer Injurienanspruche, in «IURA»,
XXII (1971) 154-161, 156.
49
GUARINO, Le matrone e pappagalli, in Inezie di giureconsulti cit., 165- 188.
50
LENEL, EP cit., §194.
17

il minus peccat, di cui si parla nel passo, sarebbe, dunque, un elemento che il

magistrato avrebbe preso in considerazione in quella sede.

Alla luce di tutto questo anche in difesa di una donna non matronali habitu

vestita - presumibilmente, secondo il Guarino, la donna popolana, non vestita da

matrona, né da schiava o da meretrice - si sarebbe potuta esercitare, seppure per una

condanna più limitata, l’actio iniuriarum derivante dall’editto de adtemptata

pudicitia, risolvendo così la tanto discussa questione sul termine igitur del

frammento.

Secondo l’opinione dell’A. l’interpolazione concernerebbe l’ipotesi della

meretrice; dato che è meretrice colei che eccita impudicamente i passanti e si veste in

modo da attirare clienti per il suo lavoro, chi le rivolge attenzioni e richiami non la

offende, ma sta semplicemente al suo gioco. E’ impensabile, a suo avviso, che le

matrone, per quanto audaci e provocanti volessero apparire, andassero vestite come

prostitute: perciò egli sostiene che Ulpiano non potrebbe aver scritto: multo minus si

meretricia veste feminae non matrum familiarum vestitae fuissent.

In realtà, come apprendiamo dalla ricostruzione del senatoconsulto de

matronarum lenocinio coercendo, non solo poteva accadere che le matrone

indossassero abiti di una meretrice, ma le più impudiche potevano spingersi ben

oltre51.

51
S(enatus) c(onsultum) [...|...] in Palatio, in porticu quae est ad Apollinis. Scr(ibundo) adf(uerunt)
C(aius) Ateius L(ucii) f(ilius) Ani(ensi tribu) Capito, Sex(tus) Pom[eius Sex(ti) f(ilius)? ...|...]
Octavius C(aii) f(ilius) Ste(llatina tribu) Fronto, M(arcus) Asinius Curti f(ilius) Arn(ensi tribu)
Mamilianus, C(aius) Gaius C(aii) f(ilius) Pob(lilia tribu) Macer q(uaestor), Aulus)
Did[ius...q(uaestor)? | Quod M(arcus) Silan]us, L(ucius) Norbanus Balbo con()s(ules) v(erba)
f(ecerunt) commentarium ipsos composuisse sic uti negotium iis [datum de rebus ad libidinem |
18

Il contenuto normativo di questo senatoconsulto, emanato al tempo di

Tiberio, ci è stato restituito da una tavola di bronzo rinvenuta a Larino 52, ma esso è

ricordato anche nelle testimonianze di Tacito53, Svetonio54 e Papiniano55: il decreto

senatorio, emanato nel 19 d.C., si proponeva l’obiettivo di reprimere alcune frodi alla

normativa moralizzatrice di età augustea.

femina]rum pertinentibus aut ad eos qui contra dignitatem ordinis sui in scaenam ludumu[e
prodirent operasve suas loca|rent u(ti) s(ancitur) s(enatus) c(onsultis) quae d(e) e(a) r(e) facta
essent superioribus annis adhibita fraude qua maiestatem senat[us minuerent q(uid) d(e) e(a) r(e)
f(ieri) p(laceret), d(e) e(a) r(e) i(ta) c(ensuere) | pla]cere ne quis senatoris filium filiam nepotem
neptem pronepotem proneptem neve que[m cuius parti aut avo |v]el paterno vel materno aut fratri
neve quam cuius viro aut patri aut avo paterno v[el materno aut fratri ius] | fuisset unquam
spectandi in equestribus locis in scaenam produceret auctoramentove ro[garet ut cum bestiis
depugna] | ret aut ut pinnas gladiatorum raperet aut ut rudem tolleret aliove quod eius rei simile
min[istraret; neve, si quis se] | praeberet, conduceret; neve quis eorum se locaret, idque ea de
causa diligentius caveri dum[ne d(olo) m(alo) perseverent qui] | eludendae auctoritatis eius ordinis
gratia quibus sedendi in equestribus locis ius erat aut p[ublicam ignominiam] | ut acciperent aut ut
famoso iudicio condemnaretur dederant operam et postea quam ei des[civerant sua sponte ex |
equ]estribus, auctoraverant se aut in scaenam prodierant; neve quis eorum de quibus [s(upra)
s(criptum) e(st) si id contra dignitatem ordi|nis su]i faceret libitinam haberet, praeterquam si quis
iam prodesset (sic) in scaenam operave [suas ad harenam locasset si|ve na]tus natave esset ex
histrione aut gladiatore aut lanista aut lenone. | [Utique s(enatus)] c(onsulto) quod M(anio)
Lepido, T(ito) Statilio Tauro co(n)s(ulibus) referentibus factum esset scriptum compen[.....: ne cui
ingenuae quae | minor qua] m an(norum) XX neve cui ingenuo qui minor quam an(norum) XXV
esse auctorare se operaesve suas ad harenam scaenamve spurcos|ve quaestu]s locare permitteretur,
nisi qui eorum a divo Augusto aut ab Ti(berio) Caesare Aug(usto) in ludum scaenam spurcosve |
quaestus co]niectus esset; < qui eorum> is qui ita coniecisset auctorare se operasve suas [locare, si
eum divus Augustus aut Ti(berius) | Caesar Aug(ustus) ad l[arem redducendum esse statuissent, id
servari placere praeterquam [.....]. M. MALAVOLTA, A proposito del nuovo S.C. da Larino, in Sesta
Miscellanea Greca e Romana, Studi pubblicati dall’Istituto Italiano per la Storia Antica 27 (1978),
347-382; V. GIUFFRÉ, Un Senato senatoconsulto ritrovato: il “S.C. de matronarum lenocinio
coercendo”, in Atti dell’accademia di scienze Morali e politiche della Società nazionale di Scienze,
Lettere ed Arti di Napoli 91 (1980) 7-40; B. BIONDO, “Tagliacarte”, in «LABEO», XXVI (1980)
277-278; B. LEVICK, Il senatus consultum di Larinum, in «Journal of Roman Studies», LXXIII
(1983) 97-115; V. GIUFFRÉ, Altre notazioni esegetiche sul senatoconsulto c.d. di Larino, in «Studia
et documenta historiae et iuris», LXI (1995) 795-801. Contro l’ipotesi della rubrica de lenocinio
matronarum coercendo si veda: M.A. LEVI, Un senatoconsulto del 19 d.C., in Studi in onore di
Arnaldo Biscardi I (1982) 69-74. Per una diversa ricostruzione del senatoconsulto della tavola di
Larino vedi: T.A.J. MC GINN, Il senatus consultum di Larinum e la repressione dell’adulterio a
Roma, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», XCIII (1992) 273-295. Vd. anche C. RICCI,
Gladiatori e attori nella Roma giulio-claudia, Milano 2006.
52
N. STELLUTI, Il Senatus Consultum di Larino “La storia infinita”, in V Settimana Beni culturali,
Tutela, Matrice 1989, 14.
53
Tac., Ann. 2.85.1-3.
54
Svet., Tib. 35.2.
55
D. 48.5.11 (10) 2 (Pap. 2 de adult.).
19

La lex Iulia de adulteriis coercendis elencava una serie di persone di cattiva

reputazione nei cui confronti non si commetteva stupro, in quas stuprum non

committitur, ed in primo luogo le donne che praticavano il meretricio 56. Tale

esenzione fu utilizzata come espediente da quelle donne che volessero intrattenere

relazioni extramatrimoniali senza subire le pene previste dalla legge: bastava, infatti,

che esse manifestassero pubblicamente l’intenzione di darsi al meretricio. Mediante

quest’espressa dichiarazione compiuta innanzi agli edili curuli57, esse si liberavano

dai vincoli imposti loro dal matrimonio e dall’appartenenza al loro ceto.

Il senatoconsulto di Larino si collocava nel quadro di disposizioni

normative volte a limitare questa fraus legis e a frenare la rilassatezza dei costumi

femminili. Si ricorda, a tal riguardo, il proposito di Tiberio di correggere, restaurando

l’austerità di un tempo, gli aspetti che in publicis moribus desidia aut mala

consuetudine labarent58 .

Ritornando a D. 47.10.15.15, vi sono alcuni Autori, viceversa, che ne

sostengono la genuinità: tra i più recenti59, il Wittmann, il Santa Cruz, il D’Ors e la De

la Puerta Montoya. Essi ricostruiscono il nostro testo guardando alla differente

operatività dell’editto de adtemptata pudicitia rispetto a quello generale de iniuriis, e

56
Per una discussione sulla categoria di persone in quas stuprum non committitur si veda: C. FAYER,
La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, Roma 1994, 130-135; G. RIZZELLI, Lex Iulia de
adulteriis, Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, in «Bullettino dell'Istituto di
Diritto romano», XXIX (1987), 196-197; 235-237; R. ASTOLFI, Lex Iulia et Papia, Padova 1996,
49-57.
57
E’ il testo di Tacito che riporta questa notizia, la quale concorda con il fatto che gli edili curuli
esercitavano il controllo sui lupanaria.
58
Svet., Tib. 35.2.
59
La genuinità del passo è sostenuta, tra gli studiosi più risalenti, da: A. D. WEBER, Über Injurien
und Schmähschriften I, Schwerin-Wisma 1797, 86 1797) 86 ss.; A. PERNICE, Labeo II, Halle 1895,
31.
20

sostengono che il disturbatore di una passante vestita da schiava o da meretrice non

sarebbe stato responsabile in forza del primo editto: tuttavia se la passante si fosse

rivelata una matrona, costui sarebbe stato tenuto in base al generale edictum. In

particolare, il Wittmann60 distingue tra responsabilità in forza dell’editto de

adtemptata pudicitia e responsabilità in forza dell’editto generale de iniuriis,

sostenendo che il disturbatore di una passante vestita da schiava o da meretrice non

era tenuto in base al primo editto, ma se poi la passante si fosse rivelata realmente

una matrona, sarebbe stato considerato responsabile sulla base del generale edictum.

Lo studioso interpreta minus e multo minus peccare videtur come negazioni

di un peccatum ai sensi dell’editto de adtemptata pudicitia, espresse da Ulpiano in

comparativer Sprachweise, neganti, cioè, l’esistenza delle circostanze comprese nel

nostro editto.

Secondo il Wittmann il vestito era un elemento importante, un presupposto

oggettivo per l’applicazione dell’editto de adtemptata pudicitia: in conseguenza egli

ritiene che, sebbene l’editto non stabilisse che la matrona dovesse vestire un certo

abito, per Ulpiano il concetto di habitus matronalis fosse inerente alla materfamilias.

In questo modo non solo l’igitur troverebbe una sua ragione logica, ma apparirebbe

necessario, perché l’editto de adtemptata pudicitia non avrebbe avuto luogo in quel

caso.

Anche Jose Santa Cruz e Alvaro D’Ors61 ritengono che, per commettere il

delitto di attentato alla pudicizia tramite appellatio, l’abito fosse elemento obiettivo

60
Die Entwicklungslinien der klassischen Injurienklage, cit., 258-302.
61
SANTA CRUZ TEIJEIRO - D’ORS, A proposito de los edictos especiales “de iniuriis”, cit., 653-659;
SANTA CRUZ TEIJEIRO, La iniuria en derecho romano, cit., 525-538.
21

della onorabilità della persona che lo indossava. Nel caso in cui, invece, la matrona

non indossasse l’abito da donna onesta, veniva garantita una forma minore di tutela in

forza dell’azione concessa per il delitto di iniuria generale, e non di iniuria speciale,

quale era l’attentato alla pudicitia (ritenuto più grave).

Secondo questi studiosi le “proposte indecenti” rivolte a una meretrice non

avrebbero costituito appellatio, ma venivano accettate più o meno volentieri al pari

degli altri inconvenienti di questo triste lavoro. Non ponevano in essere, pertanto,

alcun attentato alla alterius pudicitia.

Questi studiosi si rifanno, in particolare, ad un passo del Codex di

Giustiniano in cui si parla, appunto, delle meretrici e della foedissima earum nequitia

di coloro che pudorem suum alienis libidinibus prosternunt62. La meretrice fa

guadagno del suo corpo, palam quaestum facere, non solo nei lupanari o nelle

taverne, ma anche in ogni altro posto in cui pudori suo non parcit.

Non si può quindi parlare di appellare in riferimento a una meretrice poiché

essa è, in principio, priva di pudicizia. Tuttavia colei che indossi l’abito proprio di

una meretrice non concede, per ciò stesso, piena libertà, a chiunque la veda, di

rivolgerle una appellatio. Infatti, se non è realmente una prostituta, ella è tutelata

dall’actio iniuriarum, sebbene, in casi come questi, il giudice, nell’aestimatio,

dovesse attenuare la pena.

Secondo questi studiosi per il discorso sulla schiava, rileva il

62
C. 9.9.20 (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Didymo): Foedissimam earum nequitiam, quae
pudorem suum alienis libidinibus prosternunt, non etiam earum, quae per vim stupro comprehensae
sunt, inreprehensam voluntatem leges ulciscuntur, quando etiam inviolatae existimationis esse nec
nuptiis earum aliis interdici merito placuit.
22

riconoscimento di una certa sua dignità, che consente l’esercizio dell’actio iniuriarum

nel caso di attentato alla sua pudicitia, in riferimento a D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.)63.

Il Santa Cruz e il D’Ors credono che solamente ipotizzando un’actio

iniuriarum speciale, derivante dall’editto de adtemptata pudicitia e distinta da

un’actio iniuriarum generale derivante dall’editto generale (de iniuriis aestumandis),

si risolva la contraddizione che emerge dal passo ulpianeo, nel quale si contemplano

le ipotesi di una donna non vestita da donna onesta. Costei, non potendo essere

tutelata in forza dell’azione di ingiuria per attentato alla pudicizia, che presuppone

necessariamente una dignità di matrona esteriorizzata attraverso un abito adeguato al

proprio rango, può tuttavia giovarsi dell’azione generale, che comportava, per

l’offensore, una condanna inferiore a quella che sarebbe stata comminata per l’ipotesi

più grave.

Dora De la Puerta Montoya, infine, che ha dedicato al nostro editto

un’interessante monografia64, riprende sostanzialmente la tesi di Santa Cruz e di

D’Ors e sostiene che l’intenzione di Ulpiano in D. 47.10.15.15 era quella di supplire

ad una lacuna dell’editto de adtemptata pudicitia, ricorrendo in via sussidiaria

all’azione generale di ingiurie per una serie di casi nei quali non era possibile

l’applicazione del nostro editto, rivolto a soggetti determinati, caratterizzati

oggettivamente dal modo di vestire.

Questa conclusione sarebbe confermata dal fatto che, come si precisa in D.

63
D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.): Si quis tam feminam quam masculum, sive ingenuos sive libertinos,
impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. sed et si servi pudicitia adtemptata sit,
iniuriarum locum habet.
DE LA PUERTA MONTOYA, Estudio sobre el “Edictum de adtemptata pudicitia”, cit., 77-111.
64
23

47.10.15.2165, chi usa un linguaggio turpe non offende la pudicitia, ma è tenuto con

l’actio iniuriarum: secondo la studiosa è evidente la relazione tra l’azione speciale de

adtemptata pudicitia e l’actio iniuriarum generale; ella sostiene che Ulpiano opta per

una interpretazione restrittiva dell’editto, sulla base della quale se i soggetti protetti,

matronae e praetextati, non avessero indossato l’habitus matronali e la toga

praetexta, non avrebbe avuto luogo l’azione speciale, ma quella generale.

Cercando di cogliere i dati più rilevanti della discussione sul passo,

emergono due punti chiave: il primo riguarda l’incidenza dell’abito matronale nella

configurazione del delitto di attentata pudicizia; il secondo, invece, il rapporto tra

editto generale ed editti speciali.

In forza di un’enorme quantità di fonti66, appare indubitabile che l’abito fosse

considerato nella società e nella cultura romana un segno distintivo di una certa

identità sociale, un simbolo evidente di appartenenza a un ceto piuttosto che ad un

altro67.

Per le donne tutto ciò era ancora più vero: molto forte appariva la

corrispondenza tra identità formale, data dall’abito, e identità sostanziale: esistevano,

infatti, una serie di usi e costumi che imponevano o vietavano, a seconda del tipo di

donna, l’uso di certi indumenti fortemente caratterizzanti.

65
Qui turpibus verbis utitur, non tentat pudicitia, sed iniuriarum tenetur.
66
Hor., Sat. 1.2.29; 1.2.93-94; 1.2.99; 1.2.101-103; Mart. Epig., 1.35.8; 6.66; 3.93; Ter., Eun.,
2.3.22; Apul., Met., 8.9; Tib., El., 1.6.68, solo per citarne alcune. Di Ovidio, i cui passi dell’Ars
amatoria si vedranno più avanti, si veda anche: Am., 3.1.51; Ep. ex Pont., 3.3.52.
67
Riferiscono dell’identità sociale rappresentata dall’habitus: R. ASTOLFI, Abiti maschili e
femminili, in «LABEO», XVII (1971), 33-39; J. MARQUARDT, Das privatleben der Romer,
Darmstad 1980, 572-606; J. ANDERSON BLACK, M. GARLAND, Storia della moda, Novara 1988, 60-
69; KIEFER, La vita sessuale nell’antica Roma, cit., 150-158; A. ROUSSELLE, La politica dei corpi,
in Storia delle donne in occidente, cit., 341; R. PISTOLESE, La moda nella storia del costume,
Bologna 1991, 61-69.
24

Le fonti descrivono i differenti abbigliamenti di matrone, schiave o prostitute 68,

secondo la tripartizione che emerge dal nostro editto: la tunica era il vestito base di

uomini e donne. Quella femminile, tuttavia, era più ampia e più larga: in tempi più

antichi essa non aveva maniche, ma successivamente si affermò l’uso delle maniche

fino al gomito e, in seguito, fino alle mani. In alcune occasioni si indossavano due

tuniche, sovrapposte.

La stola era l’indumento tipico delle matrone: di maggiore ampiezza e

lunghezza rispetto alla tunica, essa arrivava fino a terra formando pieghe, e si

bloccava sul fianco con una cintura. Quando uscivano, sulla stola le matrone

ponevano il pallium, una mantellina quadrata che copriva il capo e le spalle69.

In linea di massima possiamo dire che quando le matrone si mostravano in

pubblico, cosa abbastanza rara, esse erano totalmente coperte: anche il loro viso,

infatti, era nascosto dalla stessa stola o dal velo che scendeva dal capo.

L’abito della donna rispettabile tendeva, quindi, come anche gli scrittori satirici

mettono in evidenza, ad avere una funzione protettiva e ad evitare di attirare

68
D. 34.2.23.2. (Ulp. 44 ad Sab.): Vestimenta omnia aut virilia sunt, aut puerilia, aut muliebria, aut
communia, aut familiarica. Virilia sunt, quae ipsius patrisfamiliae causa parata sunt, veluti togae,
tunicae, palliola, vestimenta, stragula, amphitapa, et saga, reliquaque similia. Puerilia sunt, quae
ad nullum alium usum pertinent, nisi puerilem, veluti togae praetextae, aliculae, chlamydes, pallia,
quae filiis nostris comparamus. Muliebria sunt, quae matrisfamiliae causa sunt comparata, quibus
vir non facile uti potest sine vituperatione, veluti stolae, pallia, tunicae, capitia, zonae, mitrae, quae
magis capitis tegendi, quam ornandi causa sunt comparata, plagulae, penulae. Communia sunt,
quibus promiscue utitur mulier cum viro, veluti si eiusmodi penula palliumve est, et reliqua
huiusmodi, quibus sine reprehensione vel vir, vel uxor utatur. Familiarica sunt, quae ad familiam
vestiendam parata sunt, sicuti saga, tunicae, penulae, lintea, vestimenta stragula, et consimilia.
Inoltre si veda Festo, p. 122 L., s.v. materfamiliae, appelabant eas fere, quibus stolas habendi ius
erat.
69
Ov., Am. 3.13.26: et tegit auratos palla superba pedes; Tib. 3.4.35-36, Iam videbatur talis
inludere palla: namque haec in nitido corpore vestis erat.
25

l’attenzione altrui: era, evidentemente, un segno di onore e di riserbo sessuale70.

Orazio ironizza sull’ansia di colui che avesse ricercato le donne per bene, il

quale non solo sarebbe incorso nelle leggi di Augusto contro l’adulterio, ma anche nel

possibile inganno sulla “mercanzia” che si nascondeva sotto il manto e le lunghe vesti

di una donna coperta da capo a piedi; al contrario, le cortigiane non lasciavano spazio

al dubbio, poiché mettevano in bella mostra le loro fattezze71.

Le schiave indossavano vestiti quali sai, tuniche, soprabiti e pezze: sebbene

andassero in pubblico coperte al pari delle matrone, il loro abbigliamento, di solito,

era molto più dimesso.

Alcune testimonianze letterarie, inoltre, definiscono diverse categorie di donne

adoperando un termine che indicava un tipico indumento del loro abbigliamento: le

matrone erano chiamate stolatae72; per le prostitute, viceversa, almeno in certi casi si

impiegava il termine togatae73. Esse, infatti, indossavano - sopra una corta tunica, di

70
ROUSSELLE, La politica dei corpi, in Storia delle donne in occidente, cit., 340-341. La studiosa
mette in evidenza (ricordando che in età repubblicana gli uomini potessero divorziare dalla moglie
che fosse uscita a capo scoperto, in base a Plaut., Merc., 817 ss. e Val. Max., Dicta e fact., 6.3.10-
12) la funzione di avvertimento adempiuta dal velo o dal mantello che copriva le matrone. Questo,
infatti, le identificava come donne rispettabili alle quali non bisognava avvicinarsi: per tale ragione,
secondo la studiosa, gli uomini avrebbero potuto, prestando attenzione all’abito che proteggeva le
matrone, evitare di esporsi alle pene previste per l’adulterio e alle sanzioni previste dal nostro
editto. Confermano la sostanziale funzione protettiva dell’abbigliamento matronale: E. FANTHAM, F.
P. HOLEY, Women in the Classical World, New York- Oxford, 1994, 122. Vedi ancora sul punto Ov.,
Epist. ex Pont. 3.3.51: Scripsimus heac illis quarum nec vitta pudicos contingit crines nec stola
longa pedes; Mart., Epigr. 1.35.6-9: Quid si me iubeas thalassionem verbis dicere non thalassionis?
Quis Floralia vestiti et stolatum permittit meretricibus pudorem.
71
Hor., Sat. 1.2.80-81, 93, 131; 2.7.46-71. Si veda, inoltre: KIEFER, La vita sessuale nell’antica
Roma, cit., 154; A. LA PENNA, Saggi e studi su Orazio, Firenze 1993, 65; 243.
72
CIL, X, N.5918; Petr., Satyr., 44.23. Sul punto anche: L. CICU, Donne petroniane: personaggi
femminili e tecniche di racconto nel Satyricon di Petronio, Sassari 1992, 163-175; Id., Cynthia
Properti, Sassari 2003, 21-35.
73
In proposito si veda: T.A.J. MCGINN, Prostitution, Sexuality, and the Law in Ancient Rome, New
York- Oxford 1998, 165-171. In generale: Iuv. Sat. 4.121-125: Belua sic pugnas Cilicis laudabat et
26

un colore caratteristico, il galbinus, di seta o tessuto trasparente - un indumento

tipicamente maschile, la toga, solitamente di colore scuro. Portavano, inoltre, un

manto di lino, detto amiculum74, imposto, in séguito, anche alle donne colpevoli di

adulterio.

In poesia, in modo metonimico, un indumento diviene talvolta il simbolo di

una determinata categoria di donne: in alcuni passi la matrona è definita instita 75,

dall’ornamento della stola, un volante o una frangia color porpora applicati sul suo

orlo inferiore76.

ictus et pegma et pueros inde ad velaria raptos. Non cedit Veiiento, sed ut fanaticus oestro
percussus, Bellona, tuo divinat et ingens omen habes “inquit” magni clarique triumphi; Hor., Sat.
1.2.62-63: Quid inter est in matrona, ancilla, peccesne togata?; Tib. 4.10.3-4: Sed tibi cuta togae
potior pressumque quasillo, Scortum quam Servi filia Suplicia; Iuv., Sat. 2.69-76: damnetur, si vis,
etiam Carfinia: talem non sumet damnata togam. Sed Iulius ardet, aestuo. Nudus agas: minus et
insania turpis. En habitum quo te leges ac iura ferentem vulneribus crudis populus modo victor et
illud quid non proclames, in corpore iudicis ista si videas? Quaero an deceant multicia testem; Ov.,
Fast. 4.134-135: Rite deam colitis, Latiae matresque nurusque et vos, quis vittae longaque vestis
abest; Sen. Phil., Nat. Quaest. 7.31: Quando ergo ista in notitiam nostram perducentur? Tarde
magna proveniunt, utique si labor cessat. Id quod unum toto agimus animo, nondum perfecimus, ut
pessimi essemus: adhuc in processu vitia sunt; invenit luxuria aliquid novi, in quod insaniat,
invertit impudicitia novam contumeliam sibi, invertit deliciarum dissolutio et tabes aliquid adhuc
tenerius molliusque, quo pereat. Nondum satis robur omne proiecimus: adhuc quicquid est boni
moris extinguimus. Levitate et politura corporum muliebres munditias antecessimus, colores
meretricios matronis quidem non induendos viri sumimus, tenero et molli ingressu suspendimus
gradum (non ambulamus sed incedimus, exornamus anulis digitos, in omni articulo gemma
disponitur, cotidie comminiscimur per quae virilitati fiat iniuria, ut traducatur, quia non potest exui:
alius genitalia excidit, alius in obscenam ludi partem fugit et locatus ad mortem infame armaturae
genus, in quo morbum suum exerceat, legit; Mart., Epigr. 1.96.4-9: Amator ille tristium lacernarum
et baeticatus atque leucophaeatus, qui coccinatos non putata viros esse amethystinasque mulierum
vocat vestes, nativa laudet, habeat et licet semper fuscos colores, galbinos habet mores; Hor., Sat.
1.2.101-103: Cois tibi paene videre est, ut nudam, ne crure malo, ne sit pede turpi; metiri posses
oculos latus; Mart., Epigr. 1.35.8-9: quis Floralia vestit et stolatum permittit meretricibus
pudorem?; Tib. 1.6.67-68: Quicquid agit, sanguis est tamen illa tuos. Sit modo casta, doce, quamvis
non vitta ligatos impediat crines nec stola longa pedes.
74
Isid., Etymol. 19.25.5: Amiculum est meretricum pallium lineum. Hunc apud veteres matronae in
adulterio deprehensae induebantur, ut in tali amiculo potius quam in stola polluerunt pudicitiam.
75
Vedi anche Ov. Trist., 2.248: quaeque tegis medios instita longa pedes!; Hor., Sat., 1.2.28-29: Nil
medium est. Sunt qui nolint tetigisse nisi illas, quarum subsuta talos tegat instita veste.
76
Ov. Ars Am. I, 31-34: Este procul, vittae tenues, insigne pudoris, / quaeque tegis medios instita
longa pedes: / non Venerem tutam concessaque furta canemus / inque meo nullum carmine crimen
27

Ciò che si può dire, allo stato attuale delle fonti, è che l’idea che la prima

manifestazione esterna della pudicitia fosse l’abbigliamento era radicata nel contesto

sociale in cui l’editto operava, tuttavia non si può affermare che l’editto facesse

espressa menzione dell’abito matronale: probabilmente nell’apprestare tutela alla

pudicizia delle donne onorate, appartenenti alle classi sociali elevate, il concetto di

un abbigliamento consono al proprio rango era ritenuto implicito.

Il fatto che l’editto assuma dal contesto sociale l’identificazione tra abito e

appartenenza ad una classe sociale è confermato dal riferimento agli altri soggetti da

esso tutelati: oltre alle matrone, i praetextati e le praetextatae.

Il praetextatus era colui che indossava la toga praetexta: praetexta appunto

perchè orlata di rosso77. Pare che questo capo di vestiario fosse stato adottato dai

Romani a imitazione di usanze etrusche78. La toga praetexta era usata dai magistrati

curuli, dai senatori, dai sacerdoti e dai giovani e dalle giovani appartenenti alle

famiglie aristocratiche. I giovani dei ceti inferiori indossavano la semplice toga non

orlata di rosso. Nel contesto del nostro editto i praetextati sono, appunto, i giovani

appartenenti ad un determinato rango sociale, i quali indossavano la toga praetexta

fino al momento dell’età adulta79. Le giovani la abbandonavano nel momento in cui

contraevano matrimonio: i giovani quando indossavano la toga virile, ossia al

erit. In questi versi si parla espressamente di precisi elementi dell’abbigliamento, definiti dal poeta
simboli della pudicizia: le bende che circondavano la fronte (vittae) e la balza (instita) che scendeva
fino ai piedi, rifinendo la stola.
77
R. HUNZIKER, s.v. Toga, in Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines 5 (1875-1912),
352, A. BERGER, s.v. toga, in Encyclopedic Dictionary of Roman Law, Philadelphia 1953, 738;
MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, cit., 124.
78
Liv., 1.8.3; Plin., Nat. hist. 9.39.63; Macr., Saturn. 1.6.
79
Liv., 34.7.2.
28

compimento dei 17 anni durante la Repubblica e dei 14 anni in età imperiale80.

Il riferimento ai praetextati non si legge in Ulpiano: tuttavia quando egli

riassume la formula dicendo “si quis eorum quem appellavisset adsectatusve est”,

lascia intendere che si possa riferirlo anche a persone di sesso maschile, cosa

estremamente probabile considerando la diffusione, a Roma, della bisessualità81. Il

riferimento esplicito a persone di sesso maschile è però riscontrabile in altre fonti,

80
Macr., Saturn. 1.6: Libertinis vero nullo iure uti praetextis licebat ac multo minus peregrinis,
quibus nulla esset cum Romanis necessitudo. Sed postea libertinorum quoque filiis praetexta
concessa est ex causa tali, quam M. Laelius augur refert; qui bello punico secundo duumviros dicit
ex senatus consulto propter multa prodigia libros Sibyllinos adisse et inspectis his nuntiasse in
Capitolio supplicandum lectisterniumque ex collata stipe faciendum, ita ut libertinae quoque, quae
longa veste uterentur, in eam rem pecuniam subministrarent. Acta igitur obsecratio est pueris
ingenuis itemque libertinis, sed et virginibus patrimis matrimisque pronuntiantibus carmen: ex quo
concessum ut libertinorum quoque filii, qui ex iusta dumtaxat matre familias nati fuissent, togam
praetextam et lorum in collo pro bullae decore gestarent; Liv., 22.57.9: Dilectu edicto iuniores ab
annis septedecim et quosdam praetextatos scribunt; Tac., Ann. 12.41: Ti. Claudio quintum Servio
Cornelio Orfito consulibus virilis toga Neroni maturata quo capessendae rei publicae habilis
videretur; Britannicus in praetexta, Nero triumphali veste travecti sunt: spectare populus hunc
decore imperatorio, illum puerili habitu; 13.15: Turbatus his Nero et propinquo die quo quartum
decimum aetatis annum Britannicus explebat. Vedi anche: J. GUILLEN CABANERO, Vida y
costumbres de los romanos I. Vida provada, Salamanca 1988, 275.
81
In tal senso Iuv., 10.306-309: tanta in muneribus fiducia. Nullus ephebum deformem saeva
castravit in arce tyrannus, nec praetextatum rapuit Nero loripedem nec strumosum atque utero
pariter gibboque tumentem; Sen. Phil., Contr. 4.10: hoc exempto nemo erat scholasticis nec aptior
nec similior, sed, dum nihil vult nisi culte, nisi splendide dicere, saepe incidebat in ea, quae derisum
effugere non possent. Memini illum, cum libertinum reum defenderet, cui obiciebatur, quod patroni
concubinus fuisset, dixisse: 'impudicitia in ingenuo crimen est, in servo necessitas, in liberto
officium.' Res in iocos abiit: 'non facis mihi officium' et 'multum ille huic in officiis versatur'. Ex eo
impudici et obsceni aliquamdiu officiosi vocitati sunt. E’, tuttavia, necessario precisare che la
concezione e la visione dei rapporti omosessuali cambia a seconda del periodo storico a cui ci si
riferisce, in particolare, nel periodo repubblicano antecedente alla conquista della Grecia i rapporti
omosessuali erano visti con ostilità ed osteggiati, mentre, solo dopo la conquista della Grecia, anche
i Romani iniziarono a praticare l’omosessualità solamente con gli schiavi e i liberti. In ogni caso,
era deprecabile che un cittadino romano assumesse un ruolo passivo in un rapporto omosessuale,
poiché sarebbe stato in conflitto con l’ideologia del dominio e della virilità caratterizzante la società
romana. Si vedano: M. FOUCAULT, L'uso dei piaceri. Storia della sessualità, vol. 2), Milano 1984;
D. DALLA, “Ubi venus mutatur”. Omosessualità e diritto nel mondo romano, Milano 1987; C.
WILLIAMS: Roman Homosexuality, Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity, Oxford 1999;
T.K. HUBBARD: Homosexuality in Greece and Rome, a Sourcebook of Basic Documents. Los
Angeles, London 2003; CANTARELLA, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano
1995.
29

utili per la ricostruzione dell'editto: Gaio 3.22082 parla espressamente di mater

familias aut praetextatus; in I. 4.4.183 più dettagliatamente si adopera l’espressione

mater familias aut praetextatus aut praetextata; Coll. 2.5.484 si riferisce, invece, a

matronae vel praetextatae.

Dal momento che l’editto accoglieva solo implicitamente l’identificazione tra

habitus e soggetto protetto, l’ipotesi più probabile, in relazione al nostro passo85, è che

il problema dell’abito sia stato sollevato da Ulpiano86 sulla base di una casistica che

prendeva forma in una realtà in cui le differenziazioni nel modo di vestire non erano

sempre così nette, in cui la categoria delle matresfamilias risultava piuttosto ampia87 e

82
Gai. 3.220: Iniuria autem committitur non solum, cum quis pugno puta aut fuste percussus vel
etiam verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive quis bona alicuius quasi
debitoris sciens eum nihil sibi debere proscripserit sive quis ad infamiam alicuius libellum aut
carmen scripserit sive quis matrem familias aut praetextatum adsectatus fuerit et denique aliis
pluribus modis.
83
I. 4.4.1: Iniuria autem committitur non solum cum quis pugno puta aut fustibus caesus vel etiam
verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive cuius bona, quasi debitoris, possessa
fuerint ab eo qui intellegebat nihil eum sibi debere, vel si quis ad infamiam alicuius libellum aut
carmen scripserit, composuerit, ediderit, dolove malo fecerit quo quid eorum fieret; sive quis
matremfamilias aut praetextatum praetextatamve adsectatus fuerit, sive cuius pudicitia attentata
esse dicetur: et denique aliis pluribus modis admitti iniuriam manifestum est.
84
Coll. 2.5.4: Fit autem iniuria vel in corpore, dum caedimur, vel verbis, dum convicium patimur,
vel cum dignitas laeditur, ut cum matronae vel praetextatae comites abducuntur. Iniuriarum actio
aut legitima est aut honoraria.
85
D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.), supra, p. 12: Si quis virgines appellasset, si tamen ancillari veste
vestitas, minus peccare videtur, multo minus si meretricia veste feminae, non matrumfamiliarum
vestitae fuissent; si igitur non matronali habitu femina fuerit, et quis eam appellavit, vel ei comitem
abduxit, iniuriarum tenetur.
86
Dato che non si ha un riferimento esplicito alla formula derivante dal nostro editto e considerando
che all’actio iniuriarum mancava l’intentio, VON LÜBTOW, Zum römischen Injurienrecht, cit., 154-
155, ha ricostruito la prima parte della formula nell’ipotesi del comitem abducere, applicabile anche
alle altre due fattispecie, in questo modo: Titius iudex esto, quod Ns. Ns. Aae. Aae. comitem abduxit,
qua de re agitur, quantum pecunia iudici bonum aequum videbitur ob eam rem Nm. Nm. Ao. Ao.
condemnari, dumtaxat sestertium tot. Questa ricostruzione, pur lasciando qualche perplessità a
causa del richiamo al iudex invece che ai recuperatores, giustificato peraltro dallo studioso sulla
base dell’esitenza di un significato generico di iudex comprensivo anche della figura del collegio
dei recuperatores, pone in evidenza - sia pure in via ipotetica - il fatto che la demonstratio era qui
limitata alla descrizione dei verba edicti, rafforzando l’idea che nel testo edittale non vi fossero i
riferimenti all’abbigliamento, ma che queste riflessioni appertenessero ad Ulpiano.
87
Come si vede in D. 50.16.46.1 (Ulp. 59 ad ed.: Matremfamilias accipere debemus eam, quae non
30

non necessariamente collegata all’elemento formale dell’abito, e che poneva una

questione eminentemente giuridica, quella dell’animus iniuriandi, quale elemento

soggettivo necessario per la punizione di ogni tipo di iniuria.

Nell’ipotesi, diciamo “pura”, di una materfamilias in abito matronale, o di una

inhoneste vixit; matrem enim familias a ceteris feminis mores discernunt, atque separant; proinde
nihil intererit, nupta sit, an vidua, ingenua sit, an libertina; nam neque nuptiae, neque natales
faciunt matremfamilias, sed boni mores) e in altri testi non giuridici (Naev. Danae Fragm. 6; Sen.
Rhet., Contr. 2.7.3), la categoria comprendeva non solo le donne non sottomesse alla patria
potestas, ma anche le figlie di famiglia unite in matrimonio. Quello che rileva è, in effetti, il
significato consuetudinario del “vivere onestamente” come caratteristica della donna modello. A
proposito dell’ampiezza della nozione di materfamilias si veda. R. FIORI, Materfamilias, in
«Bullettino dell'Istituto di Diritto romano», XCVI-XCVII (1993-1994), 455-498, il quale individua
diverse accezioni del termine: donna in manu, donna sui iuris, donna che vive non inhoneste, ossia
secondo i boni mores, uxor. Questi diversi significati secondo la dottrina più risalente sono
spiegabili nel senso di una evoluzione storica del concetto. W. KUNKEL, s.v. Mater familias, in
«Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft», XIV/2 (1930), col. 2183-2184, vede il
passaggio dal primo al secondo significato in età classica, mentre il terzo e il quarto avrebbero
attraversato l’intera storia di Roma, trovandosi tanto nelle commedie di Terenzio quanto negli editti
di Adriano. A. CARCATERRA, Mater familias, in Archivio giuridico “Filippo Serafini” CXXIII
(1940), 3-54, ritiene il concetto di donna sui iuris post classico, mentre fino al IV sec. avrebbe
conservato il senso di uxor in manu. W. WOLODKIEWICZ, Attorno al significato della nozione di
materfamilias, in Studi in onore di C. Sanfilippo III, Milano 1983, 734-756, parla di donna sui iuris
per il periodo classico, quando scompare la conventio in manu e e si afferma l’idea della mater
familias come donna honesta, estesa a tutte le donne. Il significato che il termine ha nel nostro
editto coincide molto probabilmente con il significato più ampio di vivere honeste, esteso a tutte le
donne, indicando più un modo di essere che uno preciso status giuridico. Questo perché, come
sostiene FIORI, donna onesta ha nell’accezione latina un significato ben più pregnante di quello che
diamo nella lingua italiana all’aggettivo onesta: la donna onesta è colei che ha honos e che deve
comportarsi in maniera conforme a quest’honos. L’honos di un soggetto definisce, in senso
assoluto, ciò che la sua maiestas definisce in senso relativo, cioè la sua posizione nella società. Alla
materfamilias spettava una particolare maiestas rispetto alle altre donne, e ad essa corrisponde un
honos che la qualifica e la distingue nella società, ma che richiede da parte della donna un
comportamento conforme alla sua condizione. Ella dovrà essere honesta e, poiché virtù somma
della donna romana è la pudicitia, la sua honestas sarà commisurata al rispetto dei boni mores:
l’honestas è per la donna quello che per l’uomo è la gravitas, ossia il vivere in conformità della
propria maiestas. E tuttavia - anche se la donna incarna l’ideale della mulier romana, così come il
pater del vir - poiché la necessità del vivere secondo pudicitia non è esclusiva della materfamilias,
ma di tutte le matronae, questa caratterizzazione, da un lato, rende meno netti i confini che la
separano dalle altre uxores, dall’altra ne disegna di diversi che separano la donna honesta dalla
inhonesta. In accordo con questa concezione di materfamilias in conformità con il ruolo sociale vi
sono S. DIXON, The Roman Mother, London, New York 1990, 71 e A. CASTRESANA HERRERO,
Catálogo de virtudes femeninas, Madrid 1993, 44. Al contrario, Y. THOMAS, La divisione dei sessi
nel diritto romano, in Storia delle donne in occidente, cit., 142-174, offre una nozione più ristretta
del termine: questo indicherebbe la donna sposata, sottolineando che lo status di materfamilias di
una donna si realizzava solo per il fatto di essere unita ad un pater familias.
31

virgo adeguatamente vestita, l’offensore che avesse attentato alla sua pudicitia

sarebbe incorso nel nostro editto senza alcun dubbio, dato che, in tal caso, la volontà

di offendere, l’animus iniuriandi diretto al ferimento della pudicitia di una matrona,

con un comportamento contrario ai bon mores nei casi in cui ciò era rilevante, era

evidentemente presente, poiché l’offensore già a colpo d’occhio sapeva con chi

avesse a che fare.

Se la nostra matrona non fosse stata vestita in modo adeguato al suo status, ma

si fosse mostrata in pubblico meno coperta rispetto alle solite usanze, con un

abbigliamento più vicino a quello di un schiava o di una meretrice, chiaramente

sarebbe stato più difficile dimostrare l’esistenza della volontà di offendere una

matrona, poiché l’abito poteva far pensare ad una donna di altro genere o rango.

In tal caso l’offensore, in ragione di un abito non conforme alla dignità e al

decoro di una matrona, avrebbe potuto ignorare di aver rivolto le proprie attenzioni a

una donna per bene, e il fatto di non sapere di offendere una matrona, ma una donna

qualsiasi, limitava, comunque, l’animus iniuriandi necessario per l’applicazione del

nostro editto destinato alla protezione delle matrone.

Laddove, in ragione di un modo di abbigliarsi meno consono al rango di

matrona, l’offensore non sapesse chi avesse innanzi, l’intenzione offensiva era

limitata anche se punita, poiché di fatto si traduceva, in ogni caso, in un obiettivo

ferimento della pudicitia di una donna. Tutto questo è confermato da D. 47.10.9.4

(Ulp. 57 ad ed.):

Si quis tam feminam, quam masculum, sive ingenuos, sive libertinos, impudicos
32

facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. Sed et si servi pudicitia adtemptata sit,

iniuriarum locum habet.

In questo caso, cioè si igitur non matronali habitu femina fuerit, Ulpiano

ritiene che avrebbe avuto luogo l’actio iniuriarum, ossia l’azione generale, che

avrebbe portato ad una pena inferiore, dal momento che si parla di minus e multo

minus peccare.

Questa soluzione apparirebbe coerente con la logica dello sviluppo del delitto

di iniuria e la dialettica tra editto generale ed editti speciali: considerando, infatti, che

il rimedio processuale del generale edictum e degli editti speciali era in ogni caso

l’actio iniuriarum88, l’igitur su cui si è tanto discusso ha ragione di esistere. L’igitur

appare del tutto pertinente, qualora esclusivamente l’appellatio (e le altre due

condotte che verranno analizzate più avanti) di un soggetto vestito in modo consono

al suo rango, integrasse l’adtemptata pudicitia in modo pieno. Al contrario, il

medesimo comportamento, rivolto ad una donna per bene non vestita da matrona, ma

da schiava o da prostituta, comportava una semplice ingiuria, in conseguenza

dell’errore indotto nell’offensore da un abbigliamento non consono al rango.

L’errore, in questo caso, escludeva l’animus di offendere la pudicitia di una

matrona, ma non quello di attentare all’onorabilità di una donna, integrando, in

conseguenza, come rileva Ulpiano, un’iniuria meno grave (minus peccare videtur e

multo minus).

Di questo errore, e dunque del fatto di aver posto in essere un’ingiuria

88
Confermato questo da D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.).
33

“semplice”, si sarebbe tenuto conto in sede di aestimatio, alla quale davano luogo sia

l’actio iniuriarum predisposta dal generale edictum, sia quella derivante dall’editto

analizzato.

Si deve, inoltre, tenere presente un’altra fonte, D. 47.10.3.2-4 (Ulp. 56 ad

ed.)89. Essa, per quanto relativa all’iniuria in generale, svela i meccanismi di

funzionamento di quello che potremmo definire l’error in personam nel contesto in

esame, confermando la necessaria presenza dell’animus iniuriandi nel soggetto

attivo90.

Nel testo si esclude la responsabilità da iniuria per chi non sappia di compierla

e ignori a chi la stia arrecando: infatti si propone l’esempio di chi per errore percuote

un uomo libero credendolo un proprio servo91. In questo caso, dice Ulpiano,

l’offensore non è tenuto in forza dell’actio iniuriarum. Il dato che a noi interessa è

che l’error in personam esclude la responsabilità da iniuria nella misura in cui

89
Itaque pati quis iniuriam, etiam si non sentiat, potest, facere nemo, nisi qui scit, se iniuriam
facere, etiamsi nesciat, cui faciat. Quare si quis per iocum, aut dum certam, iniuriarum non
tenetrur. Si quis homnine liberum caeci derit, dum putat servum suum, in ea causa est, ne
iniuriarum tenetur.
90
A. WACKE, Accidentes en deporte y juego segun el derecho romano y el vigente derecho aleman,
in «Anuario de Historia del Derecho Español», LIX (1989) 569-570; F. RABER Grundlagen
Klassischer Injurienansprüchen, Wien-Köln-Graz, 1969, 10-22; WITTMANN, Die Koerperverletzung
an freien im Klassischen Roemischen Recht, cit., 231; A. WACKE, Incidenti nello sport e nel gioco in
diritto romano e moderno, in «INDEX», XIX (1991) 378; A. RODGER, Introducing iniuria, in «The
Legal History Review», LIX (1991) 5-8; E. HOEBENREICH, Ueberlegungen verfolgung
unbeabsichtigter toetungen von Sulla bis Hadrian, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte», CXX (1990) 274-278.
91
M .TALAMANCA, Estudios en homenaje al Profesor Juan Iglesias con motivo de sus bodas de oro
con la ensenanza, in «Bullettino dell'Istituto di Diritto romano», XCI (1988) 807; MARRONE,
Recensione a F. Raber, Grundlagen klassischer Injurienanspruche, cit., 231; M. MORABITO, Les
esclaves privilegies a’travers le Digeste temoins et acteurs d’une societe’ en crise, in Index 13
(1985) 489-490; PLESCIA, The development of iniuria, cit., 272; RODGER, Introducing iniuria, cit.,
5-8; A. WACKE, Notwehr und Notstand bei der Aquilischen Haftung, in «Zeitschrift der Savigny-
Stiftung für Rechtsgeschichte», CXIX (1989) 483-484.
34

elimina completamente l’animus iniuriandi. L’error in personam, nel nostro caso,

può certamente escludere l’animus di offendere una matrona, ma non quello di

attentare alla pudicitia di altri individui, come emerge da D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad

ed.).

Per avere un quadro più generale potremmo immaginare altri casi, procedendo

dalla lettura dei passi ulpianei e della testimonianza tertullianea. Quest’ultima, però,

mentre descrive i modi di vestire delle donne, enfatizza, così come in altri contesti

dell’Apologeticum, le depravazioni del mondo pagano92, amplificandole, in alcuni

casi, oltre il verosimile.

Sarebbe potuto accadere, forse, che una meretrice, magari facoltosa, si

abbigliasse come una matrona: ci si può chiedere come si sarebbe comportato, in tal

caso, il pretore. E’ probabile che, in questa circostanza, per assenza di una pudicitia

meritevole di essere difesa, la prostituta non avrebbe ottenuto tutela né attraverso

l’editto de adtemptata pudicitia, né attraverso il generale edictum.

Un’ipotesi ulteriore è quella dell’attentato alla pudicitia di una schiava, di cui

parla Ulpiano (57 ad ed.):

D. 47.10.9.4: Si quis tam feminam quam masculum, sive ingenuos sive

libertinos, impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. Sed et si servi

pudicitia adtemptata sit, iniuriarum locum habet93.

92
A proposito dell’etica sessuale del primo periodo cristiano si veda: P. BROWN, Il corpo e la
società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Torino 1988, 371- 388.
93
Vi sono riferimenti alla pudicitia della schiava, oltre che in Sen. Rhet., Controv. 4.10, anche in
Hor., Sat. 1.2.114-119: Num, tibi cum fauces urit sitis, aurea quadri, pocula? Num esuriens fastidis
35

Questo caso appare più complesso, dal momento che solo in presenza di

determinate condizioni, valutate dal pretore, era concessa tutela per offese arrecate

agli schiavi. L’editto de iniuriis quae servis fiunt si applicava senz’altro per ipotesi di

lesioni fisiche particolarmente gravi, mentre tutti gli altri casi di iniuria erano tutelati

solo a seguito di causae cognitio pretoria: il pretore doveva tener conto sia delle

caratteristiche dello schiavo offeso, sia dell’eventuale circostanza che l’offesa si fosse

riverberata direttamente sul dominus, in base all’animus iniuriandi del soggetto

attivo, oppure se essa lo coinvolgesse solo in via mediata94. Riteniamo che nel caso di

attentata pudicizia di una schiava il dominus sarebbe stato tutelato attraverso l’editto

de iniuriis quae servis fiunt, previa causae cognitio del pretore, in considerazione

della possibile diminuzione del valore della schiava in questione, ed in

considerazione anche della collocazione del passo di Ulpiano nel contesto di

osservazioni di carattere generale sul delitto di iniuria 95.

omnia praeter, pavonem rhombumque? Tumen tibi cum inguina, num, si, ancilla aut verna est
praesto puer, impetus in quem, continuo fiat, malis tentigine rumpi? Non ego, namque parabilem
amo venerem facilemque; Mart., Epig. 14.205: Sit nobis aetate puer, non pumice levis, propter quem
placeat nulla puella mihi.
94
Vedi. LENEL, EP. cit., §§ 194; DALLA, “Ubi Venus mutatur”, omosessualità e diritto nel mondo
romano cit., 44-46; F. REDUZZI MEROLA, “Servi ordinarii” e schiavi vicari nei “responsa” di
Servio, in «INDEX», XVII (1989) 185-189, Servus parere. Studi sulla condizione giuridica degli
schiavi vicari e dei sottoposti a schiavi nelle esperienze greca e romana, Napoli 1990; F. BOTTA,
ECL. 17.21: alle origini dell’obbligo giuridico di fedeltà reciproca tra coniugi, in Studi per
Giovanni Nicosia, Vol. II, 2007, 78-85; M. MIGLIETTA, “Actio de iniuriis quae servis fiunt”, in
Handworterbuch der antiken Sklaverei, a cura di H. Heinen, Stuttgart, 2007, vol. 5.
95
Così GUARINO, Le matrone e i pappagalli, cit., 175. Sulla stessa linea anche SANTA CRUZ
TEIJEIRO, La iniuria en Derecho Romano, cit., 535. Diversamente RABER, il quale ritiene che
l’applicabilità dell’editto de adtemptata pudicitia agli schiavi si desumerebbe dal passo di Ulpiano
sopra citato. Lo stesso passo viene ritenuto non genuino da MARRONE, Considerazioni in tema di
iniuria, cit., 480, il quale sostiene che i servi non potessero essere tutelati dall’editto de adtemptata
pudicitia, dato l’uso dei proprietari di prostituire i propri schiavi.
36

4. I comportamenti puniti dall’editto

La modalità di attentato alla pudicitia consistente nell’appellare è delineata dal

frammento che abbiamo avuto già modo di analizzare in riferimento ai soggetti offesi

dal delitto:

D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.) Si quis virgines appellasset, si tamen ancillari

veste vestitas, minus peccare videtur, multo minus si meretricia veste feminae, non

matrum familiarum vestitae fuissent; si igitur non matronali habitu femina fuerit, et

quis eam appellavit, vel ei comitem abduxit, iniuriarum [non] tenetur.

Il comportamento punito, l’appellare appunto, consiste nell’indirizzare a

qualcuno parole che lo incitino a compiere qualcosa di immorale, attentando in tal

modo alla sua pudicitia. Il verbo appellare96, in generale, significa rivolgersi a

qualcuno, richiamare l’attenzione di una persona: in questo specifico contesto,

tuttavia, esso indica una forma di corteggiamento, di richiamo insinuante e

carezzevole. Infatti nel prosieguo del passo, D. 47.10.15.20-22 (57 ad ed.), lo stesso

Ulpiano precisa che non si tratta di tentare di sedurre usando parole oscene o un

linguaggio turpe, ma utilizzando discorsi lusinghieri:

Appellare est blanda oratione alterius pudicitiam adtemptare: hoc enim non est

convicium facere, se adversus bonos mores adtemptare. Qui turpibus verbis utitur,

non temptat pudicitiam, sed iniuriarum tenetur. (...) appellat enim, qui sermone

pudicitiam adtemptat (...)

Ciò che è punito non è, dunque, l’abbordare in modo volgare, comportamento


96
ERNOUT - MEILLET, s.v. Appello, -as, -avi, -atum, -are, in Dictionnaire ètymologique de la langue
latine, cit., 40; H. HEUMANN-E. SECKEL, Handlexicon zu den Quellen des römischen Rechts, Jena
1958, s.v. Appellare.
37

che configura, invece, l’ipotesi di convicium facere97 o, se non ve ne sono gli

elementi, di iniuria, ma l’uso di un linguaggio volto a lusingare ed allettare, e quindi

ad attrarre e invitare98, con lo scopo di corrompere99 l’altrui pudicizia.

La seconda ipotesi di adtemptata pudicitia consiste nel comitem abducere, i cui

elementi caratterizzanti sono ancora una volta indicati da Ulpiano:

D. 47.10.15.16-18 (Ulp. 57 ad ed.) Comitem accipere debemus eum, qui

comitetur et sequatur, et, ut ait Labeo, sive liberum, sive servum, sive masculum, sive

feminam. Et ita comitem Labeo definit, qui frequentandi cuiusque causa, ut

sequeretur destinatus, in publico privatove abductus fuerit; inter comites utique et

paedagogi erunt. Abduxisse videtur, ut Labeo ait, non qui abducere comitem coepit,

sed qui perfecit, ut comes cum eo non esset. Abduxisse autem non tantum is videtur,

qui per vim abduxit, verum is quoque, qui persuasit comiti, ut eam desereret.

Si delinea qui un altro modo con cui si offende la pudicitia: il comitem

abducere. Queste parole, letteralmente, significano allontanare l’accompagnatore

dalla donna o dal praetextatus/a.

E’ importante, per capire la natura dell’offesa di questo comportamento,

ricordare come fosse costume degli esponenti dei ceti elevati che donne e giovani non

uscissero per strada se non accompagnati da un servo o da un familiare: il comes per

97
LENEL, EP, cit., § 191.
98
ERNOUT, MEILLET, s.v. Blandus, -a, -um, in Dictionnaire ètymologique de la langue latine, cit.,
71.
99
ERNOUT, MEILLET, s.v. Adtempto, -as, -avi, -atum, -are, composto di Tempto, -as, -avi, -atum, -
are, in Dictionnaire ètymologique de la langue latine, cit., 681. Evidenziando il fine del corrompere
l’altrui pudicitia, E. POLAY, Der Schutz der Ehre und Des Guten Rufes im Roemischen Recht, in
«Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», CXIX (1989), 502-534.
38

l’appunto, vero e proprio scudo protettivo del loro onore100. Pertanto colui il quale

facesse sì che l’accompagnatore lasciasse la donna (o il giovane) da sola (o da solo),

la esponeva (o lo esponeva), inevitabilmente, alla vergogna e al ridicolo, e,

soprattutto, ad una cattiva reputazione, poiché in tal modo sussisteva il pericolo che la

persona in questione venisse confusa con una prostituta o con un individuo di

condizione servile. E, cosa ancora più probabile, come sostiene ad esempio il

100
S. F. BONNER, Educations in Ancien Rome, London 1977, 46-74; E. CANTARELLA, La vita delle
donne, in Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, Roma 1989, 557- 608; DIXON, The Roman
Mother, cit., 142; K. R. BRADLEY, Child care at Rome: the role of men, in Historical reflections/
Reflexions historiques 12 (1985), 485-523. Testimonianze importanti sono: Quint., Instit. 1.1.12: A
sermone Graeco puerum incipere malo, quia Latinum, qui pluribus in usu est, vel nobis nolentibus
perbibet, simul quia disciplinis quoque Graecis prius instituendus est, unde et nostrae fluxerunt;
Cic., de amic. 74: Omnino amicitiae corroboratis iam confirmatisque et ingeniis et aetatibus
iudicandae sunt, nec si qui ineunte aetate venandi aut pilae studiosi fuerunt, eos habere necessarios
quos tum eodem studio praeditos dilexerunt. Isto enim modo nutrices et paedagogi iure vetustatis
plurimum benevolentiae postulabunt; qui neglegendi quidem non sunt sed alio quodam modo
aestimandi. Aliter amicitiae stabiles permanere non possunt. Dispares enim mores disparia studia
sequuntur, quorum dissimilitudo dissociat amicitias; nec ob aliam causam ullam boni improbis,
improbi bonis amici esse non possunt, nisi quod tanta est inter eos, quanta maxima potest esse,
morum studiorumque distantia; Svet., Aug. 44.: Spectandi confusissimum ac solutissimum morem
correxit ordinavitque, motus iniuria senatoris, quem Puteolis per celeberrimos ludos consessu
frequenti nemo receperat. Facto igitur decreto patrum ut, quotiens quid spectaculi usquam publice
ederetur, primus subselliorum ordo vacaret senatoribus, Romae legatos liberarum sociarumque
gentium vetuit in orchestra sedere, cum quosdam etiam libertini generis mitti deprendisset. Militem
secrevit a polpulo. Maritis e plebe proprios ordines assignavit, praetextatis cuneum suum, et
proximum paedagogis, sanxitque ne quis pullatorum media cavea sederet. Feminis ne gladiatores
quidem, quos promiscue spectari sollemne olim erat, nisi ex superiore loco spectare concessit. Solis
virginibus Vestalibus locum in theatro separatim et contra praetoris tribunal dedit. Athletarum vero
spectaculo muliebre secus omne adeo summovit, ut pontificalibus ludis pugilum par postulatum
distulerit in insequentis diei matutinum tempus edixeritque mulieres ante horam quintam venire in
theatrum non placere.; Svet., Claud. 2: Claudius natus est Iulo Antonio Fabio Africano conss. Kal.
Aug. Luguduni eo ipso die quo primum ara ibi Augusto dedicata est, appellatusque Tiberius
Claudius Drusus. Mox fratre maiore in Iuliam familiam adoptato Germanici cognomen assumpsit.
Infans autem relictus a patre ac per omne fere pueritiae atque adulescentiae tempus variis et
tenacibus morbis conflictatus est, adeo ut animo simul et corpore hebetato ne progressa quidem
aetate ulli publico privatoque muneri habilis existimaretur. Diu atque etiam post tutelam receptam
alieni arbitrii et sub paedagogo fuit; quem barbarum et olim superiumentarium ex industria sibi
appositum, ut se quibuscumque de causis quam saevissime coerceret, ipse quodam libello
conqueritur. Ob hanc eandem valitudinem et gladiatorio munere, quod simul cum fratre memoriae
patris edebat, palliolatus novo more praesedit; et togae virilis die circa mediam noctem sine
sollemni officio lectica in Capitolium latus est.
39

Raber101, in tal modo, di fatto, si sarebbe consentito ai malintenzionati di corteggiare

con maggiore libertà la matrona o il praetextatus/a.

La punibilità di questa condotta, in quanto oltraggiosa della pudicizia, è altresì

confermata da Ulp. D. 47.10.9 pr. ( 57 ad ed.):

Sed est quaestionis, quod dicimus re iniuriam atrocem fieri, utrum, si

corpori inferatur, atrox sit, an et si non corpori, ut puta vestimentis scissis, comite

abducto vel convicio dicto.

e da Ulp D. 47.10.1.2 (56 ad ed.):

Omnemque iniuriam aut corpus inferri aut dignitatem aut ad infamiam

pertinere: in corpus fit, cum quis pulsatur: ad dignitatem, cum comes matronae

abducitur ad infamiam, cum pudicitia adtemptatur.

E’ un brano, quest’ultimo, di difficile comprensione, ma non necessariamente

contraddittorio con quanto emerge da altre testimonianze immediatamente riferibili al

commento al nostro editto: quest’ultimo, come è noto, prendeva in esame più ipotesi,

ma il giurista, nel passo in questione, che appartiene ad un’altra parte del suo

commentario, si pone in un’ottica diversa. Egli non analizza qui le diverse ipotesi di

adtemptata pudicitia, ma tratta dell’iniuria in generale, sottolineando che, mentre

l’allontanare il comes lede la dignitas della matrona (e della sua familia), altre e

ulteriori azioni, colpendo la sua pudicitia, potrebbero intaccarne – noi diremmo – la

buona reputazione (cui conseguirebbe l’infamia).

L’unico modo per superare l’incongruenza è quello di ritenere che in esso non

venga qualificato il comportamento in relazione all’editto, ma si abbia in vista il bene


101
RABER, Frauentracht und “iniuria“ durch “appellare“, cit., 365- 366.
40

tutelato: il corpus, la dignitas, il buon nome.

Il primo frammento, poi, è significativo anche sotto un altro profilo, perché

lascia intendere la particolare gravità del comitem abducere, tanto da far discutere se

fosse iniuria atrox. Essendo poi l’allontanamento unito in un unico editto speciale

con le altre ipotesi di attentato alla pudicitia, consente di supporre che anche le altre

due, pur non essendo probabilmente considerate atroci, erano tuttavia ipotesi di

iniuria grave.

A proposito dell’allontanamento dell’accompagnatore, dobbiamo notare

l’assenza nell’editto del limite dei boni mores, evidentemente perché di per sé tale

comportamento integrava una violazione del buon costume. Il raffronto con testi

letterari102, ed in particolare con alcuni passi dell’Ars amatoria di Ovidio103, consente

però di ipotizzare che non solo le matrone andassero accompagnate dal comes, ma

anche donne di altro genere.

Questo apre problematiche che si riagganciano alla questione legata all’abito: è

ipotizzabile, infatti, che anche una prostituta facoltosa potesse uscire con un

accompagnatore, atteggiandosi a donna per bene, e che una schiava, particolarmente

apprezzata dal suo dominus, fosse protetta con un accompagnatore.

La prostituta non avrebbe naturalmente avuto tutela giacché si parla

espressamente di matronae, praetextati e praetextatae, mentre la schiava l’avrebbe

‘ricevuta’, nell’ambito dell’editto de iniuriis quae servis fiunt, se, a seguito della

valutazione dell’accaduto e delle varie condizioni, in sede di causae cognitio il

102
Petr., Satyr. 9; 12.
103
Ars Amatoria I. 385.
41

pretore lo avesse ritenuto opportuno104.

Alla luce di questa eventualità possiamo inoltre ipotizzare che una matrona,

vestita con un abito non consono al suo rango, procedesse comunque per la via

pubblica accompagnata dal suo comes: ai fini della valutazione dell’elemento

soggettivo è da considerare quanto avrebbe inciso la presenza del comes nel creare

nell’offensore la consapevolezza di avere a che fare con una donna per bene, sebbene

non vestita adeguatamente.

Probabilmente vale, anche in questo caso, il medesimo discorso che è già stato

svolto a proposito dell’abito: infatti, non essendovi una chiara e completa

manifestazione del rango proprio di una matrona, il dolo non poteva essere pieno, ma

limitato, e quindi l’azione consentita sarebbe stata quella per l’iniuria semplice, e, di

conseguenza, inferiore la pena eventualmente comminata. Non si sarebbe potuto in

tal caso imputare all’offensore il dolo specifico necessario per l’esistenza del delitto

di adtemptata pudicitia, cioè la volontà di corrompere la pudicitia di donne e

fanciulli per bene.

Ritornando al nostro editto, il passo di Ulpiano (D. 47.10.15.22, 57 ad ed.)

prosegue delineando la terza modalità di attentato alla pudicitia, l’adsectari, ipotesi

attestata anche da Gaio105 e dalle Istituzioni di Giustiniano106.

104
LENEL, EP, cit., §194; D. 47.10.15.38-44 (Ulp. 57 ad ed.).
105
Gai. 3.220: Iniuriam autem committitur non solum, cum quis pugno aut puta aut fuste percussus
vel etiam verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive quis bona alicuis quasi
debitoris sciens eum nihil sibi debere proscripserit, sive quis ad infamiam alicuius libellum aut
carmen scripserit, sive quis matrem familias aut praetextatum adsectatus fuerit, et denique aliis
pluribus modis.
106
I. 4.4.1: Iniuria autem committitur non solum, cum quis pugno puta aut fustibus caesus vel etiam
verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive cuius bona quasi debitoris possessa
42

D. 47.10.15.19 (Ulp. 57 ad ed.): Tenetur hoc edicto non tantum qui comitem

abduxit, verum etiam si quis eorum quem appellavisset, adsectatusve est.

Il verbo adsectari in generale significa seguire qualcuno, essergli sempre

accanto ad ogni passo107: in questo caso, quindi, l’inseguimento deve essere non solo

silenzioso, ma anche frequente e insistente. Un unico inseguimento non apparirebbe

sufficiente per integrare il comportamento punito dall’editto, poiché l’onore della

persona può essere compromesso solamente se costei è seguita frequentemente e in

modo indiscreto, come precisa la stesso Ulpiano:

D. 47.10.15.22 (Ulp. 57 ad ed.): Aliud est appellare, aliud adsectari; (...)

adsectatur, qui tacitus frequenter sequitur: adsiduo108 enim frequentia quasi praebet

nonnullam infamiam.

Il passo appare di grande importanza poiché spiega il motivo per cui

l’adsectari configura un illecito: il seguire assiduamente genera di per sé una qualche

infamia poichè tale condotta, il seguire nella pubblica via una donna, in silenzio e

insistentemente, si soleva tenere con donne di malaffare.

E’ da notare che, come nel caso dell’appellare, anche l’adsectari è punito solo

se compiuto contra bonos mores, come risulta da D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.):

fuerint ab eo, qui intellegebat nihil eum sibi debere, vel si quis ad infamiam alicuius libellum aut
carmen scripseri , composuerit, ediderit, dolove malo fecerit, quo quid eorum fieret, sive quis
matremfamilias aut praetextatum praetextatamve assectatus fuerit, sive cuius pudicitia attentata
esse dicetur; et denique aliis pluribus modis admitti iniuriam, manifestum est.
107
ERNOUT - MEILLET, s.v. Adsequor, - eris, - adsecutus sum, adsequi, composto di Sequor, -eris, -
secutus sum, -sequi, in Dictionnaire ètymologique de la langue latine, cit.,616.
108
Nell’edizione del MOMMSEN-KRUEGER, Digesta Justiniani, II Berlin 1870, 778, è riportato
l’avverbio adsiduo, mentre in nota si propone adsidua. Nel contesto la differenza non sarebbe
rilevante, tuttavia è possibile notare come, a differenza dell’avverbio adsiduo, l’aggettivo adsidua
consentirebbe di cogliere anche una sfumatura spaziale, oltre che temporale.
43

Meminisse autem oportebit, non omnem, qui adsectatus est, nec omnem, qui

appellavit, hoc edicto conveniri posse; neque enim si quis colludendi, si quis officii

honeste faciendi gratia id facit, statim in edictum incidit, sed qui contra bonos mores

hoc facit.

5. I boni mores.

Emerge quindi dalla parte finale di D.47.10.15.23 che non basta, per quanto

riguarda l’appellare, rivolgere parole dolci e insinuanti, ad una donna o a un fanciullo

e, per quanto riguarda l’adsectari, seguirli con insistenza, ma è necessario che ciò

avvenga contro i buoni costumi: … sed qui contra bonos mores hoc facit.

Sulla base del testo in esame non si comprende se l’espressione si riferisca alla

peculiare sensibilità e moralità dei soggetti offesi. In tema di convicium facere,

tuttavia, Ulpiano afferma:

D. 47.10.15.6 (Ulp. 57 ad ed.): Idem ait: “adversus bonos mores” sic

accipiendum, non eius, qui fecit, sed generaliter accipiendum adversus bonos mores

huius civitatis109.

La natura dei boni mores rilevanti per l’editto de convicio assume quindi

109
Secondo H.R. MEZGER, Stipulation und letztwillige Verügung „contra bonos mores“, in
Klassischen-römischen und nachklassischen Recht, Göttingen 1930, 18-25, la parte da non eius a
generaliter accipiendum sarebbe da espungere dal testo, poiché, rappresentando una ripetizione, la
sua eliminazione renderebbe il testo maggiormente comprensibile. In realtà, come la maggior parte
degli studiosi sostiene al riguardo, il testo risulta perfettamente comprensibile senza ricorrere ad
alcuna ipotesi di interpolazione. Si vedano sul punto: DAUBE, Ne quid infamandi causa fiat. The law
of defamation, cit., 415; MARRONE, Considerazioni in tema di iniuria, cit., 479; HUVELIN, La notion
de “l’iniuria” dans les tres ancien droit romain, cit., 99; RABER, Grundlagen Klassischer
Injurienansprüchen, cit., 26; MANFREDINI, La diffamazione verbale nel diritto romano, cit., 80.
44

contorni più netti: quel che conta non è se l’autore del delitto contravvenga alla

propria concezione di buoni costumi. Non si tratta di un concetto soggettivo, ma di

una nozione che assume un valore oggettivo e concreto, rappresentato dai buoni

costumi della civitas, nel loro significato obiettivo di norme sociali comunemente

accettate.

Per le ipotesi dell’adsectare e dell’appellare il giurista non specifica in che

modo vada inteso il riferimento ai boni mores, ma proprio il suo silenzio consente di

ritenere, almeno sulla base delle fonti a noi pervenute, che anche nelle due ipotesi

elencate di adtemptata pudicitia si debbano assumere tali parole nel loro significato

obiettivo di norme sociali comunemente accettate.

Si pone tuttavia il problema di dare una sostanza ai boni mores ai quali fa

riferimento l’editto, in modo che sia possibile verificare quando, contravvenendo ad

essi, si realizza la condotta repressa dal pretore.

Mos è un termine antico, ma non sembra esprimere la realtà giuridica, bensì la

conformità di un comportamento a una tradizione, e perciò ha riferimento a fatti più

ampiamente sociali, quali i riti religiosi, e il costume morale del singolo. Notevole

una definizione che si ritrova in Festo (p. 46 L., s.v. mos):

mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad

religiones caerimoniasque antiquorum.

Il riferimento al costume è invece evidente nella locuzione, e nel relativo

istituto, della cura morum affidata ai censori. E’ infatti nell’istituto del regimen
45

morum, annoverabile tra le competenze dei censori110, che si precisa il concetto di

mores, inteso come complesso di comportamenti cui il civis è tenuto sul piano morale

e sociale, cioè il concetto di boni mores.

La grande importanza del costume sociale, nel suo conformarsi a valori

permanenti di moralità e di giustizia, è bene avvertita dai Romani dell’età

repubblicana che vedevano in esso uno dei pilastri della solidità della civitas. E’

significativo che, al chiudersi del regime repubblicano, Augusto, il restauratore dei

valori tradizionali, ricordi nelle sue Res Gestae111 la cura legum et morum offertagli

come strumento essenziale per il rinnovamento della compagine sociale.

Un diretto riferimento ai boni mores è fatto da quelle norme che considerano

invalido un negozio giuridico che persegua finalità antigiuridiche o immorali o non

conformi alla convenienza sociale. Qui il valore dell’espressione è assai generico,

talvolta sono contemplati atti delittuosi o giuridicamente illeciti: sicché al concetto si

adegua di più l’espressione turpis con cui talvolta vengono qualificati il negozio o la

sua causa112.

Nella maggior parte dei passi del Digesto in cui si parla di boni mores, il

110
E. DE RUGGIERO, s.v. censor, in Dizionario epigrafico di antichità romane, Roma 1961, 164; E.
BALTRUSCH, Regimen morum: Die Reglementierung des Privatlebens der Senatoren und Ritter in
der römischenRepublik und frühen Kaiserzeit, in Vestigia 41 (1989) München; M. HUMM, Appius
Claudius Caecus: la République accomplie, Rome 2005.
111
Res Gest. I.6: Ma Augusto volle precisare che, rifiutata la cura morum et legum, in quest’ambito
portò a compimento il compito affidatogli sulla base della sua tribunicia potestas.
112
E’ in testi giustinianei che si trova la enunciazione di carattere generale della invalidità di quei
negozi. Da testi classici o anche rimaneggiati risultano numerosi casi particolari: o il negozio
persegue direttamente un fine giuridicamente illecito o immorale. La sanzione è l’invalidità, che
nelle enunciazioni giustinianee sembra apparire decisamente come nullità. Sul piano pratico il
pretore negava l’azione o concedeva contro la pretesa l’exceptio doli. Vedi sul tema PLESCIA, The
development of the Doctrine of Boni Mores in Roman Law, cit., 300-310; R. ZIMMERMAN, The Law
of obligations: Roman foundation of the civilian tradition, Oxford, 1996, 707-712.
46

termine rappresenta un limite all’autonomia privata113, mentre il ricorso a questo

termine nell’ambito dell’iniuria 114 ha una portata differente: in determinati casi una

condotta comunemente accettata, come dice esplicitamente Ulpiano, realizza il

delitto in quanto contraria ad essi115.

Secondo Theo Mayer-Maly116 il concetto di boni mores aveva un contenuto

etico, e, in particolare, fu grazie alla disciplina del delitto di iniuria che esso entrò nel

linguaggio edittale.

Lo studioso, dopo aver analizzato il contenuto etico dei boni mores nell’ambito

della reverentia dovuta ai parentes e ai patroni117, passando in rassegna le fonti

giuridiche deduce che i boni mores erano in stretto rapporto con la pacifica

convivenza del popolo.

113
Si vedano in questo senso i passi in tema di deposito, mandato e stipulatio: D. 16.3.1.7 (Ulp. 30
ad ed.), Illud non probabis, dolum non esse praestandum si convenerit: nam haec conventio contra
bonam fidem contraque bonos mores est et ideo nec sequenda est; D. 17.1.7 (Pap. 3 resp.), Salarium
procuratori constitutum si extra ordinem peti coeperit, considerandum erit, laborem dominus
remunerare voluerit atque ideo fidem adhiberi placitis oporteat an eventum litium maioris pecuniae
praemio contra bonos mores procurator redemerit; D. 45.1.61 (Iul. 2 ad Urs. Ferocem.), Stipulatio
hoc modo concepta: " si heredem me non feceris, tantum dare spondes?" inutilis est, quia contra
bonos mores est haec stipulatio; D. 45.1.134 pr. (Paul. 15 resp.), Titia, quae ex alio filium habebat,
in matrimonium coit Gaio Seio habente familiam: et tempore matrimonii consenserunt, ut filia Gaii
Seii filio Titiae desponderetur, et interpositum est instrumentum et adiecta poena, si quis eorum
nuptiis impedimento fuisset: postea Gaius Seius constante matrimonio diem suum obiit et filia eius
noluit nubere: quaero, an Gaii Seii heredes teneantur ex stipulatione. Respondit ex stipulatione,
quae proponeretur, cum non secundum bonos mores interposita sit, agenti exceptionem doli mali
obstaturam, quia inhonestum visum est vinculo poenae matrimonia obstringi sive futura sive iam
contracta. Riguardano, invece, l’usufrutto, lo scioglimento del matrimonio e la cura furiosi, i boni
mores contemplati in: D. 22.1.5 (Pap. 28 quaest.), D. 24.3.14 (Ulp. 34 ad Sab.), D. 27.10.1 pr. (Ulp.
1 ad Sab.). Notevole è la rilevanza in materia di testamento e donazioni: D. 28.7.9 (Paul. 45 ad ed.),
D. 28.7.14 (Marc. 4 inst.), D. 28.7.15 (Pap. 16 quaest.), D. 30.112.3 (Marc. 6 inst.), D. 39.5.29.2
(Pap. 10 resp.). Infine in D. 43.16.1.28 (Ulp. 69 ad ed.) i boni mores vengono in considerazione in
tema di interdetti a tutela del possesso.
114
D. 47.10.15.20 (Ulp. 57 ad ed.), D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.), D. 47.10.15.34 (Ulp. 57 ad
ed.), D. 47.10.15.38-39 (Ulp. 57 ad ed.), D.47.10.33 (Paul. 10 ad Sab.).
115
D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.).
116
T. MAYER-MALY, Contra bonos mores, in Iuris professio, Festgabe für Max Kaser zum 80.
Geburtsag, Wien, Köln, Graz, 1986, 151-167.
117
D. 44.4.4.16 (Ulp. 76 ad ed.); D. 28.7.9 (Paul. ad ed).; Paul. Sent. 3.4b.2; C. 2.2.1 (Sev. Alex).
47

L’A. ritiene che la loro considerazione, quale limite alla libertà di

determinazione negoziale, sia più recente rispetto all’originario contenuto etico, dato

che le prime testimonianze relative a contratti frequentemente utilizzati (mandatum e

stipulatio) risalgono a Gaio118 .

Il Mayer-Maly osserva poi che fra i giuristi tardo-classici particolarmente

frequente risulta il richiamo ai boni mores da parte di Papiniano119, mentre una

intensificazione dell’interesse verso i boni mores, quale criterio, di contenuto etico,

cui commisurare non contratti, ma pacta e condiciones in termini generali e astratti, si

riscontra nelle Pauli Sententiae120 e in rescritti di Caracalla121, Gordiano122 e

Diocleziano123, dove i boni mores vengono citati accanto a fonti giuridiche come le

leggi, i senatoconsulti e le costituzioni imperiali, e intesi quali regole sociali di

comportamento.

In particolare, nell’ambito dell’iniuria, lo studioso sostiene che i boni mores

rappresentavano, senza dubbio, un concetto ben definito, non vago: diversamente non

avrebbero potuto essere assunti nel testo edittale124; in particolare secondo l’A. essi

118
Gai. 3.157.
119
D. 28.7.15.
120
Paul. Sent 1.1.4: Neque contra leges neque contra bonos mores pacisci possumus; Cons. 4.7:
Item eodem liber et titulus: Neque contra leges neque contra bonos mores pacisci possumus. De
criminibus propter infamiam nemo cum adversario pacisci potest; Cons. 4.8: Idem liber III titulus
De institu. hered.: Pacta vel condiciones contra leges vel decreta principum vel bonos mores nullius
sunt momenti; Paul. Sent. 3.4b.2: Condiciones contra leges et decreta principum vel bonos mores
adscriptae nullius sunt momenti: veluti si uxorem non duxeris, si filios non susceperis, si
homicidium feceris, si larvali habituprocesseris et his similia.
121
C. 2.3.6 (Imp. Antoninus A. Iuliae Basiliae): Pacta, quae contra leges constitutionesque vel
contra bonos mores fiunt, nullam vim habere indubitati iuris est.
122
Cons. 9.10: Pacta, quae contra bonos mores interponuntur, iuris ratio non tuetur.
123
Cons. 4.9: Neque ex nudo nascitur pacto actio, neque si contra bonos mores verborum
intercessit obligatio, ex his actionem dari convenit et reliqua; Cons. 4.10: Inter cetera et ad locum:
pactum neque contra bonos mores neque contra leges emissum valet ei reliqua.
124
Coll. 2.5.2: Commune omnibus iniuriis est, quod semper adversus bonos mores fit idque non fieri
48

appaiono menzionati nei tre editti de convicio, de adtemptata pudicitia, de iniuriis

quae servis fiunt con la funzione di delimitare l’ambito di applicazione dell’actio

iniuriarum.

Secondo Elmer Polay125, i boni mores sarebbero estremamente rilevanti per il

delitto di iniuria perché essi rappresenterebbero, nell’ideologia dei ceti dominanti, un

valore essenziale che rafforza la loro coesione interna, e, in conseguenza, la loro

capacità di egemonizzare, anche dal punto di vista culturale e dei valori condivisi, le

classi subalterne.

L’egemonia dei ceti dominanti sarebbe stata collegata anche alla circostanza

che le classi subordinate partecipassero, condividendoli, dei valori che si

identificavano con i boni mores, e quindi con l’ideologia della classe dominante

stessa.

Secondo questo studioso, in particolare, il ricorso all’elemento dei boni mores

farebbe del delitto di iniuria, con le varie fattispecie ad esso collegate, un mezzo di

mantenimento dell’ordine pubblico, attraverso la funzione economico-sociale della

sua repressione126.

Un aspetto dei mores che pare essere importante per il nostro studio, anche se il

collegamento non è immediato, è rappresentato dal processo di formazione e sviluppo

alicuius interest; Paul. Sent. 5.4.13: Fit iniuria contra bonos mores, veluti si quis fimo corrupto
aliquem, coeno, luto oblinierit, aquas spurcaverit, fustulas, lacus, quidue aliud in iniuriam
publicam contaminaverit, in quos graviter animadverti solet.
125
POLAY, Iniuria types in Roman Law, cit., 94-115.
126
A tal proposito, tuttavia, Talamanca invita a non dimenticare che l’essenza del delitto di iniuria e
delle sue varie fattispecie, sta nell’offesa personale, anche quando la sua tutela appare mediata da
altri aspetti, come nel caso dell’iniuria servi in cui viene in rilevanza la dignità del proprietario: M.
TALAMANCA, Recensione a E. Polay, Iniuria Types in Roman Law, in «Bullettino dell'Istituto di
Diritto romano», LXXXIX (1986), 562-568.
49

di questo modello sociale e culturale127, dal modo in cui i boni mores della civitas, a

cui Ulpiano fa riferimento, si formavano e si affermavano.

Riprendendo la famosa definizione di Festo a cui si è già accennato 128, e

affiancandola a quella, senza dubbio molto tarda, di Isidoro129, si vede che gli elementi

dei mores erano essenzialmente due: l’antichità e la consuetudine. Anche la

spiegazione di mos di Varrone130 segue tale direzione, tuttavia egli aggiunge un altro

elemento: affinché il mos si potesse definire tale era necessario non solo che si fosse

consolidato nel tempo, ma anche che fosse condiviso da una comunità di persone, le

quali su questo mos consentivano. Al consensus si fa frequente ricorso per affermare

il fondamento o la legittimità di un giudizio, di un atteggiamento, di un

comportamento, e a questo elemento fondamentale del mos si collega una fonte

riferita allo stesso Ulpiano quando in Tit. ex corp. Ulp. 1.4 si afferma: Mores sunt

tacitus consensus populi longa consuetudine inveteratus.

I mores sono costituiti dal tacito consenso del popolo, che si è affermato nel

tempo per lunga consuetudine.

127
M. BETTINI, Le orecchie di Hermes, Torino 2000, 242-292. Lo studio è una raccolta di saggi di
antropologia del mondo antico che si articola in tre sezioni: l’obiettivo è ricostruire i luoghi e i
simboli della comunicazione nel mondo antico. In questo percorso lo studioso analizza il
meccanismo antropologico secondo cui la cultura romana utilizza termini come mos e mores e
grazie al quale si avrebbe la trasformazione dei mores maiorum da modello di comportamento a
funzione pragmatica della comunicazione.
128
Supra, p. 44.
129
Isid., Etymol. 5.3.2: Mos est vetustate probata consuetudo, sive lex non scripta. Nam lex a
legendo vocata, quia scripta est. Mos autem longa consuetudo est de moribus tracta tantundem.
130
Varr., De ling. lat. 9.2: Alia enim consuetudo populi universi, alia singulorum, et de ieis non
eadem oratoris et poetae, quod eorum non idem ius. Itaque populus universus debet in omnibus
verbis uti analogia et, si perperam est consuetus, corrigere se ipsum, cum orator non debeat in
omnibus uti, quod sine offensione non potest facere, cum poeta transilire lineas impune possit.
Populus enim in sua potestate, singuli in illius: itaque ut suam quisque consuetudinem, si mala est,
corrigere debet, sic populus suam. Ego populi consuetudinis non sum ut dominus, at ille meae est.
50

Varrone continua dicendo che il mos è un iudicium animi131, una disposizione

interiore che si afferma come mos vero e proprio solo al momento in cui essa viene

recepita come consuetudo e come tale si afferma. Il mos da solo è una disposizione

che dipende da un iudicium animi: possiamo cogliere allora la necessità di Ulpiano,

in D 47.10.15.6132, di precisare che i boni mores non sono i buoni costumi riferibili

all’agente: perché il mos possa realizzarsi come prassi collettiva, occorre infatti

l’accettazione sociale che lo renda consuetudo.

La distinzione, quindi, fra il mos inteso come disposizione interiore e la sua

accettazione in forma di consuetudo, attraverso il consensus collettivo, è un passaggio

importante: il mos presenta due dimensioni culturali molto diverse fra loro, quella

personale e quella collettiva.

Da questa precisazione si configura il mos collettivo come una decisione presa

da un gruppo, il quale raggiunge un consensus su un certo comportamento; dopo di

ché il medesimo gruppo ha la capacità nel tempo di affermare questo comportamento,

ma anche di mutarlo, e ciò spiega perché i mores non sono concepiti come qualcosa

di assoluto.

Pur rappresentando un dato oggettivo della realtà, essi sono per natura fluidi e

molteplici, fluidi perché non rappresentano un modello definito, bensì un nucleo

generativo di comportamenti, molteplici perché la loro definizione avviene in realtà

attraverso un gioco di contrapposizioni fra gruppi interni ad una stessa comunità.

In questa ottica è allora plausibile un collegamento che quasi nessuno degli

131
Varr., Logist., fr. 74, Ed. Bolisani,: Morem esse in iudicio animi, quem sequi debeat consuetudo.
132
D. 47.10.15.6 (Ulp. 57 ad ed.): Idem ait: “adversus bonos mores” sic accipiendum, non eius, qui
fecit, sed generaliter accipiendum adversus bonos mores huius civitatis.
51

studiosi che ha affrontato l’argomento ha tenuto in considerazione: nella Palingenesia

di Otto Lenel133 si considera riferito ai boni mores in tema di convicium il frammento

di Ulpiano contenuto in D. 50.16.42 , in cui leggiamo: Probrum et obprobrium idem

est. Probra quaedam natura turpia sunt, quaedam civiliter et quasi more civitatis. Ut

puta furtum, adulterium natura turpe est.

Il legame tra i boni mores e il concetto di probrum134, termine tecnico che

designa l’illecito morale punito dai censori, ci fa pensare che comportamenti

normalmente tollerati dal diritto, ma disapprovati dall’opinione pubblica e passibili di

nota censoria, potessero, in presenza dei requisiti previsti, essere puniti anche dal

pretore.

D’altra parte non dobbiamo trascurare un ulteriore legame attestato dalle fonti,

che può risultare interessante per il nostro discorso: quello tra i boni mores e il ius

publicum135, e che nell’ambito dell’iniuria pare rafforzarsi136. In tal senso, dalla lettura

di D. 47.10.13.1 (Ulp. 57 ad ed.)137 e D. 47.10.33 (Paul. 10 ad Sab.)138, appare un

133
O. LENEL, Palingenesia iuris civilis II, cit., col. 777 n.2.
134
R. ASTOLFI, Femina probosa, concubina, mater solitaria, in «Studia et documenta historiae et
iuris», XXXI (1965), 24; A.D. MANFREDINI, Qui commutant cum feminis vestem, in «Revue
internationale des droits de l'Antiquité», XXXII (1985) 266.
135
Come evidenzia P. LEUREGANS, in Testamenti factio non privati sed publici iuris est, in «Revue
d'histoire du droit », LIII (1975) 249, a proposito di D. 30.112.3 (Marc. 6 inst.), in cui si legge:
Quod contra ius est vel bonos mores, a cui l’A. collega D. 2.14.27.4 (Paul. 3 ad ed.); D. 44.4.4.16
(Ulp. 76 ad ed).
136
Un più intenso legame tra mores e diritto appare confermato da Quint., Instit. 12.3.6-7 Namque
omne ius, quod est certum, aut scripto aut moribus constat, dubium aequitatis regula examinandum
est; quae scripta sunt aut posita in more civitatis, nullam habent difficultatem, cognitionis sunt
enim, non inventionis: at quae consultorum responsis explicantur, aut in verborum interpretatione
sunt posita aut in recti pravi que discrimine. Vim cuiusque vocis intellegere aut commune
prudentium est aut proprium oratoris, aequitas optimo cuique notissima.
137
D. 47.10.13.1 (Ulp. 57 ad ed.): Is, qui, iure publico utitur non videtur iniuriae faciendae causa
hoc facere: iuris enim executio non habet iniuriam.
138
D. 47.10.33 (Paul. 10 ad sab.): Quod rei publicae venerandae causa secundum bonos mores fit,
etiamsi ad contumeliam alicuius pertinet, quia tamen non ea mente magistratus facit, ut iniuriam
52

elemento, a contrario, per cui si considerano compiuti adversus bonos mores gli atti

contrari al ius publicum.

Appare chiaro che anche di questi ulteriori aspetti dei boni mores si debba tener

conto, allora, nel nostro tentativo di superare la difficoltà insita nella valutazione di

un atto non illegale prima facie.

Raccogliendo quanto sino ad ora è emerso dalle fonti e dall’interpretazione che

di esse hanno dato i diversi Autori che si sono occupati del tema, possiamo dire che

per boni mores dobbiamo intendere non un sistema speculativo e astratto, ma

l’insieme di quei valori, derivanti dall’esperienza e dalla tradizione etico-sociale della

civitas, il cui rispetto garantiva la dignità, la buona reputazione e il decoro dei singoli

cittadini.

Il requisito della contrarietà ai boni mores previsto nell’edictum de adtemptata

pudicitia attesta quindi da un lato la rilevanza politica dei costumi privati,

confermando, dall’altro, l’importanza fondamentale dell’animus: proprio come nel

caso del delitto di iniuria punito dall’edictum generale, infatti, non è colpito dalle

sanzioni previste dall’edictum de ademptata pudicitia chi metta in atto tali

comportamenti con l’intento di scherzare o di adempiere un proprio dovere, ma solo

chi agisce con il preciso intento di offendere il soggetto passivo, lederne il buon nome

e l’onorabilità.

Era quindi necessario che l’offesa alla pudicitia, perpetrata attraverso

l’appellare o l’adsectari, fosse, oltre che voluta, oggettivamente contraria al comune

faciat, sed ad vindictam maiestatis publicae respiciat, actione iniuriarum non tenetur.
53

senso del pudore139.

Tutto ciò è confermato dal fatto che per l’ipotesi di allontanamento del comes

non vi è il limite dei boni mores, giacché l’allontanamento dello “chaperon” dalla

matrona, dalla fanciulla o dal ragazzo, integrava, di per sé, un atto illecito, contrario

ai buoni costumi140, per la regola sociale alla quale si è già accennato in sede di analisi

dei comportamenti puniti.

In ogni caso, come già si è osservato, poiché si tratta dei boni mores della

civitas141, ci troviamo davanti all’impossibilità di rifarci ad un parametro assoluto, e

quindi alla necessità di tenere conto della mutevolezza, nel tempo, della sensibilità

sociale.

Va sottolineato, però, che pure nel variare delle convinzioni sociali e dei

comportamenti comunemente tenuti, alcuni valori continuarono ad essere avvertiti,

almeno dal punto di vista formale, come irrinunciabili. Come ricorda Francesco

Grelle in un contributo sulla correctio morum nella legislazione flavia142, «la rilevanza

politica dei costumi privati, lo stretto nesso intercorrente fra atteggiamenti individuali

139
La contrarietà ai boni mores, intesa quale contraddizione al comune senso del pudore diffuso
nella civitas, è ribadita da M. KASER, Rechtswidrigkeit und Sittenwidrigkeit in klassischen
römischen Recht, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», LX (1940) 131; Id.,
Das Römische Privatrecht, I. Das altrömische, das vorklassische Recht, II, Die nachklassische
Entwicklungen, München 1971 -1975, 195-196.
140
Ulp. D. 47.10.9 pr ( 57 ad ed.): Sed est quaestionis, quod dicimus re iniuriam atrocem fieri,
utrum, si corpori inferatur, atrox sit, an et si non corpori, ut puta vestimentis scissis, comite abduco
vel convicio dicto; Ulp D. 47.10.1.2 (56 ad ed.), Omnemque iniuriam aut corpus inferri aut
dignitatem aut ad infamiam pertinere: in corpus fit, cum quis pulsatur: ad dignitatem, cum comes
matronae abducitur. Ad infamiam, cum pudicitia adtemptatur.
141
Come sottolinea MARRONE, Considerazioni in tema di iniuria, cit., 480; Id., Recensione a F.
Raber, Grundlagen klassischer Injurienanspruche, cit., 155.
142
F. GRELLE, La “correctio morum” nella legislazione flavia, in «Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt», Principat II, 340-365.
54

e prosperità comune erano stati d’altra parte motivi ricorrenti già nella fase

repubblicana, sin dall’età delle guerre puniche. Più tardi il moralismo augusteo aveva

sottolineato gli elementi di stabilità e continuità che ad un assetto politico fondato sul

predominio dei ceti abbienti romano-italici avrebbero dovuto offrire la famiglia, il

matrimonio, la procreazione».

In modo altrettanto perspicuo Giunio Rizzelli143 descrive il noto collegamento

tra il mantenimento dell’assetto costituzionale della comunità romana e il controllo

dei comportamenti sessuali (per esempio attraverso il ricorso ai tradizionali modelli

di Lucrezia e Virginia) ed esplicita, inoltre, come spesso l’interesse dei giuristi

romani a tale legame più che essere motivato soltanto da preoccupazioni di natura

morale o dall’evoluzione dei costumi nel senso di una eccessiva rilassatezza, era

giustificato da problemi di natura squisitamente patrimoniale (ad esempio la legge

augustea contro gli adulteri prevedendo ingenti sanzioni patrimoniali a carico dei

colpevoli implicava lo spostamento, attraverso un processo, di notevoli masse

patrimoniali). Dobbiamo ritenere pertanto che, seppure da una parte risulta certo che

le tre attività represse dall’editto - e a maggior ragione i due comportamenti la cui

repressione era subordinata alla violazione dei boni mores - avevano in sé, e nelle

loro modalità di attuazione qualcosa di equivoco, di incerto, di approssimativo, per

cui non potevano essere identificate a colpo d’occhio e come sicuramente ingiuriose

per il soggetto passivo, la pudicitia protetta dall’editto aveva sempre e comunque un

senso oggettivo e va intesa come onorabilità.

143
G. RIZZELLI, Le donne nell’esperienza giuridica romana, Il controllo dei comportamenti
sessuali, Lecce 1997, 22-39, 52-55, 60-62.
55

6. L’edictum de adtemptata pudicitia e l’Ars amatoria di Ovidio.

A conclusione dell’esame dell’edictum de adtemptata pudicitia sarebbe

certamente interessante confrontare i comportamenti puniti dal pretore con quelli che

dovevano essere i modi usuali del corteggiamento: è punito l’appellare, che, come

abbiamo detto, non consisteva nel rivolgere complimenti pesanti e volgari, poiché in

questo caso si sarebbe usciti dall’ambito dell’editto speciale, per ricadere nell’iniuria

generale; è punito l’atteggiamento di chi con insistenza silenziosa segue l’oggetto dei

propri desideri, ma in ambedue i casi il delitto si perfeziona solo se il comportamento

del “corteggiatore” è posto in essere in modo contrario ai boni mores, e, non va

dimenticato, con la volontà e la consapevolezza di offendere la pudicitia di un

soggetto tutelato. L’allontanamento dell’accompagnatore, poi, qualora sia compiuto

con la volontà di offendere, è sempre considerato contra bonos mores. Evidentemente

invaghirsi di qualcuno e tentare di comunicare i propri sentimenti e di suscitarne di

equivalenti richiedeva degli autentici equilibrismi.

Si tenterà, pertanto, di contestualizzare i precetti normativi dell’editto facendo

ricorso alla poesia amorosa latina, ed in particolare all’Ars amatoria di Ovidio che,

per la sua specifica attinenza ai temi delle relazioni sessuali, consente di cogliere, per

certi aspetti, la reale portata dell’editto.

Come è noto, da Catullo144 in poi la poesia latina celebrò l’amore in tutti i suoi

Con questo poeta, esponente della posia neoterica, all’eros non è più riservato lo spazio
144

marginale che gli accordava la morale tradizionale, ma diventa centro dell’esistenza e valore
56

aspetti. Dopo l’elegia erotica145 del I sec. a.C., Ovidio propose un’autentica

precettistica della seduzione: la poesia elegiaca era una poesia di corteggiamento,

che, per certi aspetti, celebra proprio alcuni comportamenti puniti dal nostro editto.

Ovidio vive in un’epoca in cui l’esaurirsi della lotta politica aveva creato un

solco fra letteratura e realtà: alla cultura ufficiale, della cui organizzazione era ormai

l’imperatore ad occuparsi, faceva riscontro l’esercizio letterario coltivato sovente

all’ombra delle scuole di retorica146.. Le opere ovidiane di argomento erotico, nelle

quali si rispecchia la vita mondana della capitale, non apparivano conformi ai principi

fondamentali del programma augusteo, spiritualmente lontane, com’erano, al di là di

qualche riferimento d’occasione, dai progetti di restaurazione perseguiti

dall’imperatore147. Stridevano fortemente con la linea politica augustea, volta a

primario, il solo in grado di risarcire la fugacità della vita umana. Sulla figura di Catullo vedi da
ultimo P. FEDELI, Donne e amore nella poesia di Catullo, in Atti del convegno su “La donna
romana nel mondo antico”, Torino 1986; V. CIAFFI, Il mondo di Gaio Valerio Catullo e la sua
poesia, Bologna 1987; P. FEDELI, Introduzione a Catullo, Bari 1998; W. MENICHELLI, Catullo: eros
e amore, Milano 1995; A. GHISELLI, Catullo, il Passer di Lesbia e altri scritti catulliani, Bologna
2005.
145
Nella poesia elegiaca, in particolare in Properzio, l’amore è l’esperienza unica e assoluta, ed è
esso stesso un mezzo di corteggiamento, che deve cooperare a sedurre l’amata. Questo modo di
concepire l’esistenza costituisce un consapevole sovvertimento dei valori morali del civis romano:
ai valori positivi su cui si fondava la vita civilmente impegnata, il poeta d’amore sostituisce,
facendone la propria aspirazione, una serie di disvalori: dalla desidia all’ignavia, dall’inerzia
all’infamia, alla nequitia. Su questi temi vedi P. VEYNE, La poesia, l’amore, l’occidente. L’elegia
erotica romana, Bologna 1985, 113-145; S. ALFONSO, Il poeta elegiaco e il viaggio d’amore:
dall’innamoramento alla crisi, Bari 1990; G. CAVALLO, P. FEDELI, A. GIARDINA, Lo spazio letterario
di Roma antica, Roma.-Bari 1991; P. PINOTTI, L’elegia latina storia di una forma poetica, Roma
2002; D. CORVINO, Nuove proposte letterarie latine, Napoli 2004.
146
Si veda a tal proposito: E. MIGLIARIO, Contesti cronologici e riflessioni storiche nelle suasoriae
senecane, in La cultura storica nei primi due secoli dell’Impero romano, a cura di L. Troiani, G.
Zecchini, Roma 2005, 99-110; Id., Cultura politica e scuole di retorica a Roma in età augustea, in
Retorica ed educazione delle élites nell'antica Roma, a cura di F. Gasti F., E. Romano, Como-Pavia
2008.
147
Sul punto vd.: M. TROZZI, Ovidio e i suoi tempi amori fasti e scandali di Roma imperiale,
Catania 1930; R. ABBOT, Ovid- Poet of Immorality and Non-Conformity, in Pegasus 5 (1966), 3-9;
M. LABATE, Poetica ovidiana dell’elegia: la retorica della città, in «Materiali e discussioni per
l'analisi dei testi classici», III (1979), 9-67; A. BARCHIESI, Il poeta e il principe. Ovidio e il discorso
57

ripristinare gli antichi costumi, quelle parti dell’opera ovidiana che illustravano le

tecniche della seduzione amorosa. E’ addirittura probabile che proprio l’Ars amatoria

e la sua pubblicazione abbiano indotto Augusto a non recedere dalla decisione di

infliggere a Ovidio l’esilio perpetuo148.

L’Ars amatoria è un vero e proprio trattato in tre libri, nel quale vengono

appunto esposte le tecniche della conquista amorosa alla maniera delle opere

didascaliche149.

Nel proemio Ovidio definisce subito la materia dell’opera, secondo le norme

compositive proprie del poema didascalico: si rivolge al popolo romano che ancora

ignora l’arte di amare, e per legittimare l’assunzione dell’amore come argomento di

un “manuale” che ne sveli la tecnica, essa è paragonata ad attività materiali come la

navigazione e la guida dei carri, mestieri dominati dalla ragione e dalla volontà

dell’uomo, e regolati da un insieme di norme codificate che, pertanto, si possono

augusteo, Bari 1994; E.M. ARIEMMA, Gli dei garanti dell’impunità. Ovidio e il giuramento d’amore
in Ars I, 361-646, in Ovidio: da Roma all’Europa, a cura di I. GALLO e P. ESPOSITO, Napoli 1998,
131-158; P. J. DAVIS, Ovid and Augustus: a political reading of Ovid’s erotic poems, London 2008.
148
Nell’ 8 d.C. il poeta venne colpito inaspettatamente da Augusto con la relegatio a Tomi
(l’odierna Costanza), sulle coste del Mar Nero. I motivi restano ignoti: il poeta stesso accenna in
modo volutamente vago ad un carmen e ad un error. Poiché l’Ars amatoria venne ritirata dalle
biblioteche pubbliche, non si sarà lontani dal vero nel ritenere questo il carmen a cui allude Ovidio.
A tal proposito vedi: L. DESIATO, Sulle rive del mar nero, Milano 1992; A. LUISI, N. F. BERRINO,
Culpa silenda: le elegie dell’error ovidiano, Bari 2002; G. M. MASSELLI, Il rancore dell’esule:
Ovidio, l’ibis e i modi di un’invettiva, Bari 2002; I. CICCARELLI, Commento al II libro dei Tristia di
Ovidio, Bari 2003. D’altra parte, va ricordato che la data della legislazione augustea è ancora un
tema molto dibattuto, ed anche per tale ragione non possiamo affermare con certezza che sia stata
l’opera in questione il motivo di scontro tra il poeta e il princeps. In particolare sul tema vd.: V.
ARANGIO-RUIZ, La legislazione, in Augustus. Studi in occasione del Bimillenario, Roma 1938
(=Studi di diritto romano III, 1977) 264; F. DELLA CORTE, Le leges Iuliae e l’elegia romana, in
«Aufstieg und Niedergang der römischen Welt», II, 30.1, (1982), 539-558.
149
Ars Amatoria, I. 1-4: Si quis in hoc artem populo non novit amandi/ hoc legat et lecto carmine
doctus amet/ Arte citae veloque rates remoque moventur/ arte leves currus: arte regendus Amor; I.
265-270: Nunc tibi/ quae placuit/ quas sit capienda per artes/ Dicere praecipuae molior artis opus/
Quisquis ubique, viri, dociles advertite mentes/ Pollicitisque favens, vulgus, adeste meis.
58

apprendere150.

Segue poi una chiara delimitazione dei suoi destinatari: l’Ars non si rivolge alle

matronae dell’Urbe, ma alle etere151, cui era concessa maggiore libertà e, in

conseguenza, spregiudicatezza. A questa affermazione, in seguito, farà riferimento il

poeta per respingere le accuse di immoralità, pur non riuscendo a riconquistare

l’indulgenza di Augusto. In realtà, come il principe ben capì, l’Ars era un affresco

minuzioso della vita galante di Roma e dei costumi dei ceti abbienti, che, proprio in

quegli anni, Augusto aveva tentato di moralizzare, riconducendoli alla supposta

antica semplicità e all'austerità delle origini della repubblica.

L’Ars è descrizione dei luoghi di incontro e degli ambienti del bel mondo

dell’Urbe, in cui si possono utilizzare in modo proficuo le tecniche della seduzione.

Le occasioni più favorevoli sono costituite dai momenti di aggregazione ufficiale

della comunità, come le feste e le cerimonie sacre. Ovidio non basa la sua opera su

una vicenda amorosa, ma su una serie di situazioni esemplari grazie alle quali può

sviluppare un’efficace azione precettistica. Inoltre, la scelta di un punto di

osservazione esterno da parte del poeta produce non più i complici ammiccamenti di

150
B. OTIS, Ovid as an epic poet, Cambridge 1970; A.S. HOLLIS, The Ars Amatoria and Remedia
Amoris, in Ovid, ed. by J.W. BINNS, London 1973, 86-115; G. ROSATI, L’esistenza letteraria. Ovidio
e l’autocoscienza della poesia, in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», II (1979),
101-136; E. ROMANO, Amores 1,8: l’elegia didattica e il genere dell’Ars Amatoria, in Orpheus n.s.
1 (1980), 269-292; R. DIMUNDO, L’arte della seduzione e il doctus amator ovidiano (Ov. Ars 1, 1-
34), in Bollettino di studi latini 30 (2000), 19-36; G. SISSA, Eros tiranno. Sessualità e sensualità nel
mondo antico, Roma- Bari 2003, 173-212.
151
Sebbene la figura dell’etera sia tipica del mondo greco, anche a Roma si fa ad essa riferimento,
sin dalle commedie di Plauto. Si veda sul punto: M. JOHNSON, T. RYAN, Sexuality in Greek and
Roman literature and society, New York- London 2004; J. M. NIETO IBANEZ, Estudios sobre la
mujer en la cultura grieca y latina, XIII Jornadas de filologia clasica, Leon 2005; E. D’AMBRA,
Roman Women, Cambridge 2007.
59

chi si collocava all’interno del genere per scomporlo e definirlo in modo diverso,

come i poeti elegiaci precedenti, ma la chiara enunciazione di modi di

comportamento della vita mondana e del mondo galante.

Il primo libro si intrattiene sui modi per conquistare la donna: dove incontrarla,

come sceglierla, quale tattica seguire per attirare la sua attenzione e carpirne la

benevolenza, quali stratagemmi usare, infine, per far breccia nel suo cuore. Nel

secondo si forniscono ammaestramenti sulla maniera migliore di mantenere viva la

fiamma d’amore, mentre nel terzo ci si rivolge alle donne, indirizzando loro idonei

precetti, proprio come il poeta aveva fatto, in precedenza, rivolgendosi ai giovani

dell’altro sesso.

Dal momento che si tratta di un’opera letteraria, non si può certamente sperare

che essa permetta davvero di cogliere la reale portata dell’edictum de ademptata

pudicitia: e tuttavia, consentendoci di comprendere quali concrete strategie si

utilizzassero nel corteggiamento amoroso, l’Ars amatoria fornisce qualche indizio

utile per mettere a fuoco i comportamenti contemplati dal pretore152.

D’altra parte Ovidio sembra ben consapevole di addentrarsi in un campo

minato, tanto che propone una serie di avvertenze, in primo luogo nella dichiarazione

di intenti nell’esordio dell’opera, in cui si afferma che le donne a cui era riservato

l’ornamento della stola, le matronae, e le ragazze per bene, non dovevano (este

152
Per un’analisi dello sfondo sociale su cui si staglia l’Ars Amatoria di Ovidio vedi.: I. GALLO, L.
NICASTRI, Cultura, poesia e ideologia nell’opera di Ovidio, Napoli 1991, 41-99; 287-293; G. LETO,
Publio Ovidio Nasone, versi e precetti d’amore, Torino 1998.
60

procul) accostarsi all’opera di Ovidio153, e lo stesso avvertimento il poeta ripete

nell’apertura dei libri II154 e III155.

Queste affermazioni – che pur intendendo fugare ogni sospetto di immoralità,

non lo salvarono dall’esilio – contrastano non poco con le minuziose descrizioni

sparse nell’opera che descrivono con precisione la vita galante dei ceti abbienti di

Roma.

In ogni caso, al di là di quello che poteva essere il più sincero e recondito

intento di Ovidio, quello che a noi interessa è il fatto di rinvenire, in un’opera

programmaticamente indirizzata al corteggiamento, l’idea che, come si è visto, fa da

sfondo del nostro editto: la pudicitia si manifesta esteriormente, in primo luogo

attraverso l’abbigliamento.

Ulteriore corrispondenza si rinviene tra i comportamenti contemplati dall’editto

e le tecniche insegnate da Ovidio per avvicinarsi con successo a feminae e puellae. In

queste tattiche la dolce eloquenza s’impone in ogni corteggiamento vittorioso.

Per una scelta oculata dell’oggetto del corteggiamento il poeta consiglia la

frequentazione di luoghi di incontro pubblici e di spettacoli, nei quali si potevano

porre in essere le condotte punite dal nostro editto: infatti in esso si contemplano le

ipotesi di donne e giovani che passeggiano al di fuori delle mura domestiche, in uno

153
Nell’Ars Amatoria (I, 31-34), vedi retro, p. 26, nt. 76.
154
Ars amatoria, vv. 599-600: En iterum testor: nihil hic nisi lege remissum / luditur; in nostris
instita nulla iocis.
155
Ars amatoria, vv. 485-488: Sed quoniam, quamvis vittae careatis honore, / est vobis vestros
fallere cura viros, / ancillae puerique manu perarate tabellas,/ pignora nec iuveni credite vestra
novo.
61

di quei luoghi che il poeta giudica pericolosi per la pudicitia 156.

Una volta individuata la donna da conquistare il poeta insegna che è importante

impadronirsi dell’arte della parola convincente, la stessa che permette all’oratore di

dominare assemblee e tribunali, e delle blanditiae, i complimenti che irretiscono la

donna, in un modo molto delicato e mai volgare:

Ars Amatoria, I, 459-468: Disce bonas artes, moneo, Romana iuventus, / non

tantum trepidos ut tueare reos; / quam populus iudexque gravis lectusque senatus, /

tam dabit eloquio victa puella manus. / Sed lateant vires, nec sis in fronte disertus; /

effugiant voces verba molesta tuae. / Quis, nisi mentis inops, tenerae declamat

amicae? / Saepe valens odii littera causa fuit./ Sit tibi credibilis sermo consuetaque

verba,/ blanda tamen, praesens ut videare loqui157.

Con un movimento di impronta didascalica, esaltato dalla parola tematica

iniziale e dal tono elevato, il maestro158 fa un elogio, in ambito generale, degli studi

che portano i giovani al possesso della parola e dell’eloquenza. Parla in generale di

156
Ars Amatoria, I, 41-44: Dum licet et loris passim potes ire solutis, elige cui dicas «tu mihi sola
places» / Haec tibi non tenues veniet delapsa per auras / querenda est oculis apta puella tuis. I, 97-
100: Sic ruit ad celebres cultissima femina ludos / copia iudicium saepe morata meum est. /
Spectatum veniunt spectentur ut ipsa / ille locus casti damna pudoris habet.
157
Tr. G. LETO, Publio Ovidio Nasone. Versi e precetti d’amore, cit., 234-237: Nobili arti impara,
romana gioventù, e non soltanto affinché tu difenda trepidanti imputati: come il popolo, il gidice,
benchè severo, e il senato eletto, si arrenderà la donna, vinta alla tua parola. Ma nascondi i tuoi
mezzi, non esibire l’eloquenza, ogni tuo accento da parole eccessive rifugga. Chi, se non uno
sciocco, fa un’arringa alla sua tenera amica? Forte avversione nacque da una lettera spesso. Usa
invece una lingua vera e parole usuali, seducenti, tuttavia, quasi stando presso di lei parlassi.
158
S. MARIOTTI, La carriera poetica di Ovidio, in «Belfagor», XII (1957), 609-635; G. SOMMARIVA,
La parodia di Lucrezio nell’Ars e nei Remedia amoris, in «Atene e Roma: rassegna trimestrale
dell'Associazione Italiana di Cultura classica», XXV (1980), 123-148; M. LABATE; L’arte di farsi
amare. Modelli culturali e progetto didascalico nell’elegia ovidiana, Pisa 1984, 135; P. J. DAVIS,
Praeceptor amoris: Ovid’s Ars Amatoria and the Augustan idea of Rome, in Ramus 24 (1995), 181-
195; E. PIANEZZOLA, Ovidio modelli retorici e forma narrativa, Bologna 1999; V. RIMEL, Ovid's
lovers desire, difference and the poetic imagination, Cambridge 2006.
62

bonae artes, cioè del complesso delle discipline che concorrono a formare l’oratore,

ma tra queste spicca, come massima e compiuta realizzazione, l’eloquenza. Il potere

della parola è quindi immenso ed è, indiscutibilmente, il supremo strumento di

seduzione, è per tale ragione devono essere ben chiare le caratteristiche delle parole

del corteggiamento: queste non devono tradursi in verba molesta, cioè parole

sgradevoli, ma devono essere blanda, dolci e seducenti159.

In questa ottica, infatti, ogni volta in cui il poeta ricorre, soprattutto a proposito

dei primi approcci con la donna, al mezzo della parola, si riferisce sempre alle blande

parole o al blando discorso:

Ars Amatoria, I, 569-578: Hic tibi multa licet sermone latentia tecto / dicere,

quae dici sentiat illa sibi: / blanditiasque leves tenui perscribere vino, / ut dominam

in mensa se legat illa tuam: / atque oculos oculis spectare fatentibus ignem: / saepe

tacens vocem verbaque vultus habet. / Fac primus rapias illius tacta labelli / pocula,

quaque bibet parte puella, bibas: / et quemcumque cibum digitis libaverit illa, / tu

pete, dumque petis, sit tibi tacta manus160.

Questo passo riunisce tutti gli elementi della tradizione elegiaca: il linguaggio

criptico delle parole, dei segni, dei gesti e degli sguardi sono tutti strumenti necessari

159
R. DIMUNDO, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, Bari
2003, 15-23- 27-29.
160
Tr. cit., 242-243: Allora potrai dire cose nascoste in criptico linguaggio che lei avverta come a se
stessa rivolte lievi dolcezze scrivere in poco vino di modo che quella sulla tavola legga di possederti
ormai e guardala negli occhi, con occhi rivelanti passione: un volto silenzioso spesso ha voce e
parole. Cerca poi di afferrare per primo quel bicchiere dove ha bevuto e qualunque pietanza abbia
sfiorato lei con le sue mani tu prendila, e nel prenderla tocca anche la sua mano.
63

ad istituire una forma di contatto con la donna161.

Il necessario ricorso alla blanditia, in modo particolare nella prima fase del

corteggiamento, è confermato da I, 605-624, in cui è posto in evidenza come questa

debba anche necessariamente essere nutrita di lodi e complimenti per la donna a cui

ci si rivolge:

Ars Amatoria, I, 605-624: Insere te turbae, leviterque admotus eunti / velle

latus digitis, et pede tange pedem. / Conloquii iam tempus adest; fuge rustice longe /

hinc pudor; audentem Forsque Venusque iuvat. / Non tua sub nostras veniat facundia

leges: / fac tantum cupias, sponte disertus eris. / Est tibi agendus amans, imitandaque

vulnera verbis; / haec tibi quaeratur qualibet arte fides. / Nec credi labor est: sibi

quaeque videtur amanda, / pessima sit, nulli non sua forma placet. / Saepe tamen

vere coepit simulator amare, / saepe, quod incipiens finxerat esse, fuit. / Quo magis,

o, faciles imitantibus este, puellae: / fiet amor verus, qui modo falsus erat. / Blanditiis

animum furtim deprendere nunc sit, / ut pendens liquida ripa subestur aqua. / Nec

faciem, nec te pigeat laudare capillos. / Et teretes digitos exiguumque pedem: /

delectant etiam castas praeconia formae; / virginibus curae grataque forma sua est162.

161
DIMUNDO, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, cit., 55; G.
GIANGRANDE, Topoi ellenistici nell’Ars Amatoria, in Cultura poesia ideologia nell’opera di Ovidio
cit., 61-98.
162
Tr. cit., 244-245: Inserisciti, e leggermente accostato a lei, toccale il piede col piede di parlarle è
ora. Fuggi via, rozzo Pudore, Venere e la fortuna aiutano chi osa. Ma non sarà soggetta alle mie
leggi l’eloquenza tua: bramandola soltanto diventerai facondo. Fingiti innamorato, le ferite a parole
simulando: convincila di questo, con qualsiasi arte. Per essere creduti non serve sforzo: di ispirare
amore ognuna crede, e pur se brutta a se stessa piace. Ma accade che il simulatore poi s’innamori
per davvero e ciò che aveva finto di essere, egli sia. Voi, pertanto, ragazze disponibili siate con chi
finge: ciò che or ora è falso diverrà vero amore. Tempo di impadronirsi delle lusinghe di lei,
furtivamente, come una riva incline limpida acqua erode, e non essere pigro nell’ammirare il suo
volto, i capelli le sue dita bel fatte e il suo piccolo piede. Piace altresì alle oneste che la bellezza
64

Gli approcci, preparati durante il banchetto e poi all’uscita, tra la folla dei

convitati, si manifestano in forma più diretta con i primi scambi di battute disinibite e

accattivanti: parole apparentemente spontanee e appassionate, piene di lusinghe e

complimenti. In questo ritmo di approcci, il pudor, cioè l’aspetto soggettivo della

pudicitia, la riservatezza e l’imbarazzo, è personificato e definito rusticus,

campagnolo e rozzo, inadatto alle regole della mondanità cittadina163.

Sempre in tale direzione ci ritroviamo leggendo I, 663-664 e I, 709-720:

Ars Amatoria, I, 662-663 Quis sapiens blandis non misceat oscula verbis? /

Illa licet non det, non data sume tamen164;

Ars Amatoria, I, 709-720 Vir prior accedat, vir verba precantia dicat: / excipiet

blandas comiter illa preces. / Ut potiare, roga: tantum cupit illa rogari; / da causam

voti principiumque tui. / Iuppiter ad veteres supplex heroidas ibat: / corrupit magnum

nulla puella Iovem. / Si tamen a precibus tumidos accedere fastus / senseris, incepto

parce referque pedem. / Quod refugit, multae cupiunt: odere quod instat; / lenius

instando taedia tolle tui. / Nec semper veneris spes est profitenda roganti: / intret

amicitiae nomine tectus amor 165.

riceva elogi le vergini hanno a cuore quella loro bellezza.


163
DIMUNDO, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, cit. 66-83;
C.M.C. GREEN, Terms of Venery: Ars Amatoria I, in «TaPha», CXXVI (1996), 221-263.
164
Tr. cit., 248-249: Baci e dolci parole insieme metterebbe un uomo esperto. Se lei darli non vuole,
prenditeli ugualmente.
165
Tr. cit., 250-253: L’uomo si faccia avanti, e pronunci parole di preghiera, imploranti richieste che
lei con grazia accetti. Per conquistarla, chiede, che tu la preghi è quello che lei vuole: dai al tuo
desiderio un inizio e uno scopo. Giove si rivolgeva alle antiche eroine supplicando; ma donna
alcuna, mai corruppe il grande Giove. Se avvertirai che l’alto tuo prestigio rifiuta le preghiere
abbandona l’impresa e inverti il tuo cammino. Sono in molte a bramare ciò che fugge e ciò che le
incalza a odiare, sii cauto nell’insistere e non sarai tedioso. Non sempre il seduttore dichiari
l’intenzione del possesso, l’amore entri coperto dal nome di amicizia.
65

E’ qui illustrato il gioco delle parti nel corteggiamento: l’iniziativa è presa

normalmente dall’uomo, che non può pretendere avances dalle ragazze, ma in certi

casi quando le reazioni della donna sono di orgoglio e di disdegno, meglio tirarsi

indietro e farsi desiderare. In altri casi, per vincere forti resistenze psicologiche,

l’iniziativa deve assumere forme di diplomatica cautela, per arrivare all’amore

attraverso l’amicizia: da ciò noi apprendiamo che il pudore femminile è la norma 166.

Altri versi, tratti dal II libro dell’Ars, confermano la blanda natura della parola

che caratterizza il sermo amoroso, non solo nella fase iniziale del corteggiamento, ma

anche in quella successiva, allo scopo, però, di conservare l’amore della donna

conquistata167.

Le parole utilizzate per l’appellare represso dal nostro editto168 hanno la stessa

blanda natura del sermo ovidiano: in entrambi i casi si tratta, nella sostanza, di parole

seducenti, di una serie di complimenti e dolcezze. Tuttavia, mentre nella blanda

oratio punita dal nostro editto l’obiettivo è quello di corrompere la pudicizia, cioè

una consapevole volontà di nuocere a un valore fondamentale169, nelle blanditiae

ovidiane quest’intenzione non è mai esplicitamente rilevabile.

Al contrario il poeta, sin dall’inizio dell’opera, afferma di non voler trattare

della corte fatta a matrone o illibate fanciulle, ma a donne di stampo e fama diversa:

166
DIMUNDO, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, cit., 123-
128; J.F. MILLER, Apostrophe, aside and the didactic adressee. Poetic strategies in Ars Amatoria, in
«Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», XXXI (1994), 231-242.
167
Ars Amatoria, II, 152: Dulcibus est verbis mollis alendus amor; II, 159-160: Blanditias molles
auremque iuvantia verba / adfer ut adventu laeta sit illa tuo; II, 333-334: Nec tamen officiis odium
quaeratur ab aegra / sit suus in blanda sedulitate modus.
168
D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.); D. 47.10.15.20-22 (57 ad ed.).
169
Supra, p. 36, nt. 99.
66

se poi il lettore farà un uso diverso dei suoi consigli la responsabilità non sarà del

poeta, per quanto, indubbiamente, Ovidio non appaia esente da ogni malizia.

Questo raffronto fa capire come il limite dei boni mores, oltrepassato il quale

opera l’editto, fosse tenuto ben presente da Ovidio: egli incoraggia comportamenti

che nella sostanza non si discostano da quelli puniti dall’editto, ma essendo privi

della volontà di offendere la pudicitia, devono rimanere entro il confine segnato dai

boni mores.

Altrettanto possiamo dire per il comitem abducere170:: anche l’allontanamento

dell’accompagnatore della donna figura come tappa fondamentale della tattica

amorosa predisposta da Ovidio nell’Ars, per superare gli ostacoli che l’uomo avrebbe

incontrato nel procedere alla sua “conquista”.

Il corteggiatore deve cercare, in qualche modo, di convincere il custos della

donna a lasciargli campo libero, conquistando, eventualmente, la complicità

dell’ancella171.

L’ancella è il personaggio chiave nei rapporti fra il corteggiatore e la donna

prescelta: la funzione dell’ancella è quella dell’aiutante, nel favorire l’approccio,

nella scelta del momento adatto, nel suggerire alla padrona il nome del pretendente 172.

Si propone questo suggerimento anche in un’altra opera di Ovidio: gli Amores,

una raccolta di poesie il cui nucleo centrale è rappresentato dal racconto dell’amore
170
Supra, pp. 36-41.
171
Ars Amatoria, I, 351-366 Sed prius ancillam captandae nosse puellae / cura sit: accessus molliet
illa tuos. / Proxima consiliis dominae sit ut illa, videto / neve parum tacitis conscia fida iocis. /
Hanc tu pollicitis, hanc tu corrumpe rogando: / quod petis, ex facili, si volet illa, feres. / Illa leget
tempus (medici quoque tempora servant) / quo facilis dominae mens sit et apta capi; II, 251-252
Nec pudor ancillas, ut quaeque erit ordine prima / nec tibi sit servos demeruisse pudor.
172
DIMUNDO, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, cit., 46-50.
67

fra il poeta e una donna (Corinna) in cui, in nuce, si rinvengono spesso consigli che il

poeta, in seguito, definirà più esaurientemente nell’Ars:

Amores, II, 2.1-10: Quem penes est dominam servandi cura, Bagoa, / dum

perago tecum pauca, sed apta, vaca. / Hesterna vidi spatiantem luce puellam / illa,

quae Danai porticus agmen habet. / Protinus, ut placuit, misi scriptoque rogavi. /

Rescripsit trepida 'non licet!' illa manu; / et, cur non liceat, quaerenti reddita causa

est, / quod nimium dominae cura molesta tua est. / Si sapis, o custos, odium, mihi

crede, mereri / desine; quem metuit quisque, perisse cupi173.

Come per gli altri comportamenti con cui si realizza il delitto di adtemptata

pudicitia, non vi è un’eccezione per l’adsectari174, che rientra anche esso nel novero

delle strategie di seduzione illustrate da Ovidio, il quale consiglia di seguire l’amata,

si sposti essa a piedi o in lettiga, di sedersi non lontano da lei a teatro, di guardarla

con insistenza ed ammiccando, di imitare i suoi gesti:

Ars Amatoria, I, 485-504: Quod rogat illa, timet / quod non rogat, optat, ut

instes; / insequere, et voti postmodo compos eris. / Interea, sive illa toro resupina

feretur / lecticam dominae dissimulanter adi, / neve aliquis verbis odiosas offerat

auris, / qua potes ambiguis callidus abde notis. / Seu pedibus vacuis illi spatiosa

teretur / porticus, hic socias tu quoque iunge moras: / et modo praecedas facito,

173
Tr. L. CANALI, Ovidio. Amori, Milano, 2000, 132-135: Tu che devi fare la guardia alla tua
padrona, Bagoo, ascoltami mentre ti dico poche parole, ma opportune. Ieri vidi la fanciulla a
passeggio nel portico che contiene le statue di tutta la prole di Danao. Subito, poiché mi piacque, le
inviai un messo, e la invitai con un biglietto. Con trepida mano mi rispose: “Non è possibile”. E a
me che ne chiedevo il perchè, fu addotta questa ragione: la tua custodia della padrona è troppo
serrata. Se sei saggio, custode, credimi, smetti di meritare odio; chi ti teme, finisce col desiderare la
tua morte.
174
Supra, pp. 41-42.
68

modo terga sequaris, / et modo festines, et modo lentus eas: / nec tibi de mediis

aliquot transire columnas / sit pudor, aut lateri continuasse latus; / nec sine te curvo

sedeat speciosa theatro: / quod spectes, umeris adferet illa suis. / Illam respicias,

illam mirere licebit: / multa supercilio, multa loquare notis. / Et plaudas, aliquam

mimo saltante puellam: / et faveas illi, quisquis agatur amans. / Cum surgit, surges;

donec sedet illa, sedebis; / arbitrio dominae tempora perde tuae175.

In questo passo il poeta illustra tre circostanze: il passaggio della donna in

lettiga, l’ora del passeggio, l’incontro a teatro. Sono tutte opportunità di approccio

diretto con la donna: avvicinarsi alla lettiga e intrattenere conversazione con la donna

stesa sui cuscini, sfruttare l’abitudine del passeggio tra i colonnati del grande Portico

di Pompeo e approfittare dello spettacolo teatrale, che consentiva un muto dialogo a

distanza, poiché le donne occupavano a teatro le file più alte, trovandosi perciò dietro

alle file riservate agli uomini176.

La condotta repressa dall’editto, l’adsectari, sembra essere sostanzialmente

incoraggiata da Ovidio, ma poiché anche in tal caso, come per l’appellare,

l’operatività dell’editto è legata al superamento del limite dei boni mores, il poeta non
175
Tr. cit., 236-239: Ma ciò che chiede, teme, ciò che vuole, non chiede: che tu insista. Inseguila,
ben presto avrai quello che brami. Frattanto se sdraiata sui cuscini verrà condotta in giro,
noncurante avvicinati alla sua lettiga e così che nessuno porga alle tue parole odiose orecchie queste
se puoi confondi accorto a cenni ambigui. E se poi va a piedi per l’ampio portico, indolentemente,
unisciti a lei nel suo passo svagato e ora di precederla cerca, oppure seguila da presso, ora affrettati
e ora cammina a passo lento. E non ti vergognare di spostarti dalla corsia centrale di non poche
colonne per metterti al suo fianco. Senza di te non sieda splendida nella curva del teatro: reggerà lo
spettacolo per te sulle sue spalle. Tu voltati a guardarla, avrai modo di contemplarla a lungo, di dirle
molte cose coi sopraccigli, o a cenni. Applaudi quando il mimo saltella nella parte di una donna e
sostieni chiunque sia nel ruolo di amante. Se si alza, ti alzerai, finché è seduta resterai seduto: perdi
tempo, al capriccio di colei che ti piace.
176
U. PAOLI, Vita romana, Firenze 1968; W. BEARE, I Romani a teatro, trad. a cura di M. DE
NONNO, Bari 1986; DIMUNDO, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars
amatoria, cit., 232-235.
69

giungeva sino al punto di consigliare un comportamento contrario ai boni mores: esso

poteva al più risultare fastidioso se alla corteggiata il corteggiatore non fosse stato

gradito.

L’Ars Amatoria conferma a gran voce quello che implicitamente l’editto

presupponeva: nella società romana esistevano categorie umane e sociali

incompatibili e inassociabili, la donne per bene da un lato, le libertine e le meretrici

dall’altro; per questo motivo il poeta che si rivolgeva all’una non poteva rivolgersi

anche all’altra, anzi, sentiva il bisogno di escludere espressamente l’altra dal raggio

d’azione della sua voce poetica177.

Questo rende chiaro un dato per noi decisivo: i comportamenti presi in

considerazione dall’editto erano puniti nella misura in cui determinavano una

possibile associazione tra queste categorie, tra queste sfere distinte178.

L’Ars conferma che la pudicitia 179 protetta dal nostro editto va intesa in senso

oggettivo come onorabilità di matrone e giovani appartenenti a famiglie

aristocratiche, testimoniando come la tutela relativa ad un valore individuale sia

anche strettamente funzionale al mantenimento dell’ordine sociale180.

177
E.J. KENNEY, Chassez la femme, in «Classical Quarterly», XLII (1992) 551-552; R. MAYER, La
femme retrouvée?, in «Classical Quarterly», XLIII (1993) 503; M. LABATE, Passato remoto. Età
mitiche e identità augustea in Ovidio, Pisa 2010, 214-231.
178
A. LA PENNA, Fra teatro, poesia e politica romana, Torino 1979, 181-205; A. R. SHARROCK,
Ovid and the politics of reading, in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», XXXII
(1994), 97-122.
179
T. HABINEK, The invention of sexuality in the world-city of Rome, in The Roman Cultural
Revolution, Cambridge 1997, 23-43; R. GIBSON, S. GREEN, A. SHARROCK, The Art of Love:
Bimillenial essays on Ovid’s Ars amatoria and Remedia amoris, Oxford 2006.
180
Per l’importanza del controllo dei comportamenti sessuali nell’ottica della protezione della
familia e dell’ordine sociale vd. G. FRANCIOSI, Clan gentilizio e strutture monogamiche, Napoli
1983, 23-53; RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis, Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium,
70

Alla luce di tutto questo, quindi, non possiamo ritenere che l’offesa alla

persona derivante dall’adtemptata pudicitia fosse l’unico aspetto preso in

considerazione dalla tutela edittale: il bene giuridico protetto dall’editto era il buon

nome, la buona reputazione della donna o dei fanciulli: ma la violazione di questo

bene giuridico avrebbe offeso non solo la persona colpita, ma anche la fama della sua

familia 181.

Le condotte punite dall’editto, di per sé, non concretavano una violazione della

castità o della pudicizia della persona colpita, e, come nel caso dell’appellare, erano

molto spesso accompagnati da complimenti e parole di lode nei confronti della

donna, tuttavia risultavano sconvenienti per l’immagine di donne e fanciulli onorati e

rispettati, quali esponenti di famiglie di alto rango sociale182, nell’ottica di quella netta

divisione sociale che emerge dall’opera ovidiana183.

7. L’animus iniuriandi nell’adtemptata pudicitia.

Una riflessione in più merita l’animus iniuriandi nel contesto di questo editto:

ogni forma di iniuria implicava da parte dell’attore del delitto l’esistenza del dolo

specifico, l’animus iniuriandi, detto talvolta anche affectus184, consistente nella

stuprum, cit., 9.
181
A proposito del riflesso delle vicende relative alle donne sulla familia di appartenenza si veda
FAYER, La familia romana, Aspetti giuridici ed antiquari, cit., 154-155; 159; 164-165; 278-279.
182
POLAY, Iniuria types in Roman Law, cit., 158-159.
183
E. PIANEZZOLA, Conformismo e anticonformismo politico nell’Ars amatoria di Ovidio, in
Quaderni dell’Istituto di Filologia Latina 2 (1972), 37-58.
184
Per l’uso di affectus come sinonimo di animus iniuriandi vedi anche: D. 44.7.34 pr. (Paul. l. s. de
concurr. action.), D.47.10.18.4 (Paul. 55 ad ed.). Sulla tematica più generale del dolo nei delitti
privati: S. PEROZZI, Istituzioni di diritto romano, II vol. Roma 1928, rist. 1963, 338; SCHULZ,
71

volontà di offendere185 una determinata persona (anche se non precisamente

identificata186), e l’adtemptata pudicita, quale forma di iniuria, rispondeva a questa

regola generale, senza fare eccezione.

Rimane ora da chiarire se per l’applicazione di questo editto speciale bastasse

nell’offensore la semplice volontà di offesa, il semplice animus iniuriandi, comune a

tutte le forme di iniuria, oppure era necessaria una precisa volontà di adtemptare alla

pudicitia.

Come abbiamo potuto rilevare dalle fonti, l’importanza dell’abito nella società

romana ci ha portato a credere che anche l’abito delle persone tutelate dall’editto

fosse un elemento rilevante. In particolare, si è avuto modo di verificare che un abito

consono al proprio rango era necessario affinché l’autore del delitto potesse avere

coscienza di offendere una persona la cui pudicizia andava protetta.

D’altra parte, il confronto con l’opera ovidiana, che lo stesso autore afferma

non essere diretta alle matronae, la cui pudicizia andava salvaguardata, mette in luce

come determinate attenzioni, molto vicine ai comportamenti puniti dall’editto, erano

di per sè potenzialmente lesive della pudicizia della persona a cui venivano riservate.

Classical roman law, cit., 571; C. SANFILIPPO, Gli atti illeciti, Catania 1959, 19 ss; M. KASER,
Typisierter „dolus“ im altrömische Recht, in «Bullettino dell'Istituto di Diritto romano», LXV
(1962), 79-104; J. GARCIA-CAMIÑAS, La problemática del dolo en el Derecho Romano Clásico, in
Derecho de Obligaciones. Homenaje al Profesor J.L. Murga Gener, cit., 971-973.
185
D. 47.10.3 pr.-3 (Ulp. 56 ad ed.): Illud relatum peraquae est, eos, qui iniuriam pati possunt, et
facere posse. Sane sunt quidam, qui facere non possunt, ut puta furiosus et impubes, qui doli capax
non est: namque hi pati iniuriam solent, non facere. Cum enim iniuria ex affectu facientis consistat,
consequens erit dicere hos, sive pulsent sive convicium dicant, iniuriam fecisse non videri. Itaque
pati quis iniuriam, etiamsi non sentiat, potest, facere nemo, nisi qui scit se iniuriam facere, etiamsi
nesciat cui faciat. Quare si quis per iocum percutiat aut dum certat, iniuriarum non tenetur. Per il
dolo nel delitto di iniuria vedi supra, p. 36, nt. 99.
186
D. 47.10.18.3 (Paul. 55 ad ed.): Si iniuria mihi fiat ab eo, cui sim ignotus, aut si qui putet, me
Lucium Titium esse, cum sim Caius Seius, praevalet quod principale est, iniuriam eum mihi facere
velle, nam certus ego sum, licet ille putat me alium esse quam sum, ed ideo iniuriarum habeo.
72

Tutto ciò ci porta a pensare che il dolo richiesto in questo editto avesse un

profilo meno generico del puro animus iniuriandi, della semplice volontà di offesa,

ma che fosse invece necessaria la volontà di mettere in pericolo la pudicizia di una

persona onorata. Ciò per altro è confermato da due affermazioni, l’una di Ulpiano e

l’altra di Paolo, i quali anticipano, nell’ambito di frammenti che trattano dell’iniuria

in generale, la concessione dell’actio iniuriarum nei casi di attentato alla pudicitia di

una persona, precisando che nel concetto di attentato alla pudicitia rientrano tutti quei

comportamenti, senza peraltro indicarne alcuno, volti a far diventare una persona

impudica:

In D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.) si legge:

Si quis tam feminam quam masculum, sive ingenuos sive libertinos, impudicos

facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. Sed et si servi pudicitia adtemptata sit,

iniuriarum locum habet.

In D.47.10.10 Paolo (55 ad ed.) afferma:

Adtemptari pudicitia dicitur, cum id agitur, ut ex pudico impudicus fiat.

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