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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MACERATA

Istituto di Studi Storici

DOTTORATO DI RICERCA IN STORIA DEL DIRITTO


Ciclo XXIV

La verità processuale nel lungo Seicento

Relatori: Ch.mo Prof. M. Meccarelli Candidata: Dott.ssa Valentina Zona


Ch.ma Prof.ssa G. Alessi

2011
Indice

Capitolo I

Dall’arbitrarietà del diritto probatorio alla ferma


credenza.

I.1 «Reputatur haec materia probationum iudici arbitraria»: De Luca e la


tradizione dottrinale del Regno…………………………………………...pp. 8-28

I.2 Prove artificiali e pene arbitrarie: “regole” ed “eccezioni”………….pp. 29-40

I.3 Rimedi straordinari e Decisiones Neapolitanae……………………..pp. 41-53

I.4 Stylus hispanicus e prova indiziaria…………………………………pp. 54-67

I.5 La Prammatica del 1621: due giurisprudenze a confronto…………pp. 68-76

Capitolo II

Francisco Sarmiento e Marcello Marciano: la polemica


contro la poena extraordinaria.

II.1 Due specialisti della prova e due diversi orizzonti culturali: la Spagna e
Napoli……………………………………………………………………pp. 78-87

II.2 Sarmiento: un nuovo rapporto tra prova e pena…………………....pp. 88-98

II.3 Marciano: le novità del De Indiciis delictorum fragmentum……...pp. 99-115

II.4 La nozione di credulitas: un momento genetico…………………pp. 116-121


Capitolo III

Il mutamento di paradigma probatorio attraverso i


nuovi orientamenti del pensiero filosofico moderno.

III.1 Verità processuale e giudizio secondo coscienza nella tarda scolastica


iberica…………………………………………………………………pp. 123-150

III.2 Certezza e probabilità, ragione e dubbio: diritto delle prove e Rivoluzione


scientifica……………………………………………………………...pp. 151-169

III.3 Il ceto togato napoletano e la nuova epistemologia della verità.


L’Accademia degli Investiganti: la disputa degli antichi e dei moderni….pp. 170-
183

III.4 Conclusioni……………………………………………………...pp. 184-191


Premessa:

Questo studio ha lo scopo di illustrare l’evoluzione del concetto di verità


giudiziaria all’interno del processo criminale, analizzando gli elementi che
scandiscono, nella lunga durata, il passaggio dal sistema probatorio legale al
libero convincimento del giudice.
L’intime conviction, o prova morale, trova, com’è noto, la sua primissima
affermazione soltanto nella parabola post-rivoluzionaria1, e tuttavia possiede
innegabilmente radici teoriche assai più risalenti, che si collegano alla “crisi”
della prova legale e alla progressiva emersione della logica indiziaria.
Più che alle riforme processuali illuministiche, che abbattono l’intero edificio
probatorio d’ancien régime, questo studio si rivolge alle dottrine che anticipano
di oltre un secolo quelle stesse riforme: calandosi appieno nell’orizzonte
procedurale di stampo inquisitorio, attraverso comunes opiniones e decisiones -
specie di area napoletana e spagnola - la dissertazione si propone di mostrare
come in quello stesso sistema siano già presenti le premesse del suo futuro
ripensamento, essendo possibile rintracciare sparute ma autorevoli voci di
polemica, capaci di smascherarne efficacemente disfunzioni e incongruenze, e
potendosi altresì individuare significative connessioni tra l’universo giuridico-
processuale secentesco e quello filosofico, teologico ed epistemologico coevo.
In questo quadro, la teoria delle prove criminali mostra tutta la propria
complessità: essa si misura, nei dibattiti dei giuristi, con l’illogicità dei
meccanismi straordinari di arbitramento delle pene; si confronta con i nuovi
contributi dottrinali in materia di giudizio secondo coscienza; si arricchisce con
le conquiste della Rivoluzione scientifica, che propongono un’inedita quanto
suggestiva concezione della verità, della conoscenza e del giudizio, nell’ottica di
un’eccezionale rivalutazione della soggettività e dell’intelletto umano.

1
Com’è noto, a dispetto dei falliti tentativi di retrodatazione dell’avvento del canone del libero
convincimento (J. H. Langbein, Torture and law of proof, Europe and England in the Ancien
Regime, Chicago, 1976), fu solo con la Rivoluzione francese che si verificò l’effettiva rottura
del sistema di prova legale: l’Assemblea Costituente, col decreto 8-9 ottobre del 1789, riformulò
i principi della procedura inquisitoria codificati nelle Grandi Ordinanze francesi, da quella di
Francesco I del 1539 alla Criminelle del 1670. Nel 1791, il decreto 16-19 settembre abolì
definitivamente il vecchio modello, inserendo fin dalla fase istruttoria il rito accusatorio,
istituendo le giurie popolari, affermando il principio dell’oralità e, soprattutto, consacrando la
regola dell’intima convinzione, mediante la formula rivolta ai giurati: «Vous jurez de décider
d’après les charges et les moyens de défense et suivant votre conscience et votre intime
conviction, avec l’impartialité et la fermeté qui conviennent à un homme libre». Sul punto: A.
Padoa Schioppa, La giuria all’Assemblea Costituente francese, in A. Padoa Schioppa ( a cura
di), The Trial Jury in England, France, Germany 1700-1900, Berlin, 1987, pp. 75-175; G.
Alessi, Il Processo penale. Profilo storico, Torino, 2001, pp. 119 e ss.

1
Autorevoli ricerche in materia di prove2 e di arbitrio giurisdizionale3, mi hanno
fornito un irrinunciabile supporto bibliografico; ad esse ho affiancato
indispensabili letture sull’evoluzione dell’epistemologia moderna4.
Fondamentali sono stati gli studi in materia di seconda scolastica5, aequitas
canonica6 e giudizio secondo coscienza7; preziosi i più recenti contributi sulla
regola degli allegata et probata8 e sui modelli di verità nell’ordo iudiciarius9.

2
H. Levy-Bruhl, La preuve judiciaire. Étude de sociologie juridique, Paris, 1964; W.K Nörr,
Zur stellung des Richters im gelehrten Prozeß der Frühzeit: Iudex secundum allegata, non
secundum conscientiam iudicat, Monaco, 1967; G. Alessi, Prova legale e pena. La crisi del
sistema tra evo medio e moderno, Napoli, 1979; P. L. Rovito, Prova legale e indizi nella
criminalistica napoletana del Seicento, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», CII,
1984, pp. 157-187; P. Marchetti, Testis contra se. L’imputato come fonte di prova nel processo
penale d’età moderna, Milano, 1994; I. Rosoni, Quae singula non prosunt collecta iuvant. La
teoria della prova indiziaria in età medievale e moderna, Milano, 1995.
3
M. Meccarelli, Arbitrium. Un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in età di diritto
comune, Milano, 1998.
4
T. Viehweg, Topica e Giurisprudenza, a cura di G. Crifò, Milano, 1962; J. Cohen, The
Probable and The Provable, Oxford, 1977; C . Perelman, Logica giuridica. Nuova retorica,
Milano, 1979; B. Shapiro, Probability and Certainty in Seventeeth-Century England: A Study of
the Relationship between Natural Science, Religion, Law and Literature, Princeton, 1983; R.
Ajello, Continuità e trasformazione dei valori giuridici: dal probabilismo al problematicismo,
in Storia e Diritto, Napoli, 1986; A. Fontana, Il vizio occulto, Ancona, 1989.
5
P. Grossi, (a cura di), La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno,
Milano, 1973; F. Todescan, Lex, natura, beatitudo. Il problema della legge nella scolastica
spagnola del secolo XVI, Padova, 1973; G. Parotto, Iustus ordo: secolarizzazione della ragione
e sacralizzazione del principe nella Seconda Scolastica, Napoli, 1993; A. Robiglio, Dalla prima
alla seconda scolastica: paradigmi e percorsi storiografici, Roma, 2000; J. Belda Plans, La
Escuela de Salamanca, Madrid, 2000.
6
P. Grossi, Aequitas canonica, in «Quaderni Fiorentini», 27, 1998, pp. 379-396; G. Brugnotto,
L'aequitas canonica: studio e analisi del concetto negli scritti di Enrico da Susa (Cardinal
Ostiense), Roma, 1999; C. Fantappiè, Chiesa romana e modernità giuridica, I, Milano, 2008;
U. Petronio, Laboratorio per una ricerca: Iudicare tamquam Deus tra teologia e diritto, in
«Rivista di diritto processuale», LXIV, Gennaio-Febbraio 2009, pp. 105-128.
7
M. G. Baylor, Action and person: conscience in late scholasticism and the young Luther,
Leiden, 1977; P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo
tra coscienza e diritto, Bologna, 2000; A Padoa-Schioppa, Sulla coscienza del giudice in diritto
comune, in Iuris Vincula. Studi in onore di M. Talamanca, Napoli, 2001, pp. 121-162; L.
Gabbi, V. U. Petruio (a cura di), Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, Roma, 2000; A.
Cavanna, La coscienza del giudice nello stylus iudicandi del Senato di Milano, in Scritti (1968-
2002), vol. II, Napoli, 2007, pp. 1037-1078.
8
J. Picò y Junoy, Iudex iudicare debet secundum allegata et probata, non secundum
conscientiam: storia della erronea citazione di un brocardo nella dottrina tedesca e italiana, in
«Rivista di diritto processuale», LXII, 6, Novembre-Dicembre 2007, pp. 1497-1518
9
M. Vallerani, Modelli di verità. Le prove nei processi inquisitori, in L’Enquête au Moyen âge.
Études réunies par Claude Gauvard, École française de Rome, 2008, pp. 123-142.

2
La struttura della tesi si caratterizza per una triplice divisione. Nella prima parte,
l’attenzione è rivolta principalmente a due tradizioni dottrinali e giurisprudenziali
assai vicine eppure profondamente diverse: il Regno di Napoli e la Spagna (con
particolare riguardo alle corti catalane e aragonesi).
Il rapporto tra prova e pena, nelle raccolte di Decisiones, fa emergere una
significativa divaricazione tra la prassi napoletana e lo stylus hispanicus: mentre
la prima appariva caratterizzata dal largo impiego di pene straordinarie in caso
d’insufficienza probatoria, le magistrature spagnole sembravano esercitare più
ampi margini di discrezionalità valutativa in merito alla cognitio facti, con ampio
ricorso a prove di tipo indiretto senza il consueto arbitramento della sanzione.
Questa pratica di adoperare indizi, presunzioni e prove imperfette anche per
comminare pene edittali, un dato su cui le fonti e la stessa bibliografia insistono
notevolmente10, investiva però, il più delle volte, materie già caratterizzate da una
disciplina probatoria “eccezionale”, ammessa, sia pur non pacificamente, dallo
stesso jus commune11; non così presso le corti napoletane, le quali, anche a fronte
di delitti atroci, occulti o difficilis probationis, contrassegnati potenzialmente da
una richiesta “attenuata” di allegazioni ai fini della condanna ordinaria,
esercitavano sistematicamente, in mancanza di verae probationes, ampi margini
di correzione sulla pena. Questo meccanismo, che si concretava in un vistoso
ricorso a sanzioni straordinarie, alimentava l’opposizione di una parte, ancorché
minoritaria, del ceto togato napoletano12, che auspicava, sin dai decenni centrali
del Seicento, una diversa applicazione dell’arbitrium: non più inteso come libera
determinazione della misura della pena - che doveva invece rimanere quella
fissata dalla legge - ma piuttosto come libera cognizione del fatto, con ampia
inclusione di mezzi indiretti (presunzioni e indizi) al vaglio del giudice.

10
Si veda ad esempio il saggio di B. Gonzales Alonso, Jueces, justicia, arbitrio judicial.
Algunas reflexiones sobre la posición de los jueces ante el derecho en la Castilla moderna, in
Vivir el siglo de oro. Poder, cultura e historia en la época moderna, Salamanca, 2003, pp. 223-
241. Nella storiografia italiana, anche P. L. Rovito, in Prova legale e indizi cit., ha
notevolmente insistito sul dato della maggiore discrezionalità spagnola (“sul fatto” e non “sulla
pena”) rispetto alla tradizione giurisprudenziale napoletana e francese.
11
Il contributo di L. Lacchè, «Ordo non servatus». Anomalie processuali e «specialia» in antico
regime, in «Studi storici», XXIX, 1988, pp. 361-384, ha mostrato come particolari categorie di
crimina fossero oggetto di un regime procedurale e sanzionatorio (oltreché probatorio),
differenziato rispetto alle prescrizioni dell’ordo. Si trattava, in linea generale, dei delitti
qualificati come atroci (l’eresia, il parricidio, l’assassinio, il latrocinio, la sodomia, l’incendio e
la lesa maestà); i delitti notturni e quelli di difficile prova (ad esempio la sodomia volontaria,
l’adulterio, la rissa, la cospirazione). In presenza di queste fattispecie, era possibile (ma né
dottrina né prassi, come vedremo, erano concordi in tal senso), far corrispondere la pena
ordinaria anche a prove imperfette o insufficienti (ad esempio presunzioni o testimonianza
singole). Sul punto si veda anche I. Rosoni, Quae singula cit., pp. 193 e ss.
12
Di cui infra, cap. II.
3
Questo tema ci introduce agli argomenti affrontati nel capitolo successivo. La
seconda parte della dissertazione è infatti dedicata alla ricostruzione di una serie
di posizioni dottrinali - ascrivibili anch’esse all’orizzonte spagnolo e napoletano
- che mostrano i primi segnali di insofferenza nei confronti dell’impianto
probatorio inquisitoriale: Francisco Sarmiento de Mendoza, professore a
Salamanca, e Marcello Marciano, magistrato del Sacro Regio Consiglio,
attraverso argomentazioni sorprendentemente innovative e largamente
anticipatrici di alcune delle future istanze settecentesche, denunciano tutta
l’insensatezza e l’iniquità dei meccanismi straordinari di pena, e propongono
un’inedita concezione della funzione giudicante, l’uno rivolgendosi alla
razionalità del giudice e alla sua capacità di collegare logicamente i fatti per
discursum, oltreché richiedendo un’interpretazione rigorosa dei più antichi
precetti di jus commune; l’altro attraverso l’introduzione della fondamentale
nozione di credulitas assertiva, qui interpretata come un momento genetico della
certezza morale. In entrambi è ravvisabile un clamoroso ribaltamento delle
tradizionali corrispondenze “prova piena/pena ordinaria” e “prova indiretta/pena
straordinaria”: nella proposta di elevare anche le prove presuntive ed indiziarie al
rango di strumenti pienamente idonei alla condanna edittale, purché veementi e
convincenti, e a prescindere dalla tipologia del delitto in esame, si intercetta un
chiaro segnale d’inversione del sistema. Di più: una vera e propria eversione dal
sistema medesimo.
La terza ed ultima parte della tesi, analizza il mutamento di paradigma probatorio
(identificato con la progressiva sfiducia nei confronti dei meccanismi
predeterminati in favore del convincimento indiziario) in una chiave
eminentemente epistemologica, ricercando connessioni con gli sviluppi del
pensiero filosofico moderno e con i nuovi contributi teorici in materia di
coscienza, intelletto e soggettività. In particolare, il paragrafo relativo alla tarda
scolastica spagnola, mostra una significativa continuità con i contenuti del
secondo capitolo: anche nelle prolusioni dei dottori di Salamanca è ravvisabile un
sensibile vacillamento dei dogmi tradizionali, e una ricerca, spesso faticosa, di un
equilibrio tra la regola degli allegata et probata, e la riemersione di un elemento
problematico - perché fortemente personalistico - all’interno del giudizio
criminale: la conscientia iudicantis.
Per quanto riguarda la stesura del paragrafo sulle fonti filosofiche (da Bacone a
Locke, da Cartesio a Leibniz), è stato ancor più indispensabile il supporto della
bibliografia13, trattandosi di temi adiacenti ma non sempre perfettamente

13
A. Galasso, Del criterio della verità nella scienza e nella storia secondo G.B. Vico, Milano,
1877; B. Leoni, Probabilità e diritto nel pensiero di Leibniz, in «Rivista di Filosofia», XXXVII,
n. 1-2, Roma, 1947, pp. 65-95; G. Solari, Metafisica e diritto in Leibniz, in «Rivista di
Filosofia», XXXVIII, 1-2, 1947, pp. 35-64; E. Cassirer, Il problema della conoscenza nella
4
corrispondenti alla materia giuridica, con la conseguente necessità di strumenti
d’ausilio che mi aiutassero a gettare, per così dire, un ponte tra le teorie della
prova criminale e le dottrine cognitivistiche secentesche.
Il terzo paragrafo, dedicato all’Accademia degli Investiganti, nasce dalla scoperta
di un’interessante connessione tra il già citato Marcello Marciano e il fondatore
dello studio napoletano: Francesco d’Andrea. Quest’ultimo, infatti, nella sua
opera più nota, gli Avvertimenti ai Nipoti, scelse di celebrare il primo per
dottrina, idee ed erudizione. La continuità intellettuale tra il magistrato filo-
spagnolo e l’avvocato-atomista, mi ha spinta ad interessarmi a una vicenda assai
significativa della cultura napoletana di tardo Seicento, una vicenda che solo
occasionalmente toccò i temi della procedura e della costruzione della verità
giudiziaria (per esempio attraverso le prolusioni di Caravita e Valletta), ma i cui
eredi spirituali furono personaggi del calibro di Gian Battista Vico e Antonio
Genovesi, non a caso due futuri teorizzatori di una nuova dialettica delle prove,
capaci di dimostrare, una volta di più, l’intima connessione tra le dottrine del
processo e il pensiero filosofico.
L’ultimo paragrafo della tesi getta un breve sguardo sulle problematiche
settecentesche del libero convincimento, allo scopo di portare a conclusione il
percorso ricostruttivo sulla genesi della prova morale.
Com’è noto, molti e autorevoli studi hanno attraversato il tema del rapporto tra i
filosofi-giuristi del tardo XVIII secolo e la prova logica14; sulla scorta di questi,
ho ritenuto di dovermi soffermare su un unico, fondamentale aspetto, vale a dire
la difficile sfida dei philosophes di trasporre fedelmente l’eredità intellettuale
secentesca al piano processuale, rinunciando in toto alla legalità della prova, con
la conseguente, faticosa ricerca - non a caso rimasta tutt’ora aperta - di un

filosofia e nella scienza da Bacone a Kant, Torino, 1953; E. Cassirer, Cartesio e Leibniz, Roma-
Bari, 1986; J. Gibson, Locke’s Theory of knowledge and its historical relations, Cambridge,
1968 ; C. Vasoli, Enciclopedismo, pansofia e riforma “metodica” del diritto nella Nova
Methodus di Leibniz, in «Quaderni Fiorentini», 2, 1973, pp. 37-107; B. De Giovanni, R.
Esposito, G. Zarone (a cura di), Divenire della ragione moderna: Cartesio, Spinoza, Vico,
Napoli, 1981; F. Fagiani, Nel crepuscolo della probabilità. Ragione ed esperienza nella
filosofia sociale di John Locke, Napoli, 1983; L. Cataldi Madonna, La filosofia della probabilità
nel pensiero moderno. Dalla Logique di Port-Royal a Kant, Roma, 1988; M.C. Jacob, Il
significato culturale della rivoluzione scientifica, Torino, 1992; Cohen J., Introduzione alla
filosofia dell’induzione e della probabilità, traduzione di P. Garbolino, Milano, 1998; R. Russo,
Ragione e ascolto: l’ermeneutica di John Locke, Napoli, 2001; M. Gallo, Verità e Ragione,
Napoli, 2003; R. Rossi, Francesco Bacone, dalla magia alla scienza, Bologna, 2004.
14
E. Dezza, Tommaso Nani e la dottrina dell’indizio nell’età dei Lumi, Milano, 1992; C.
Cogrossi, La criminalistica italiana del XVIII secolo sulla “certezza morale”, antesignana del
libero convincimento: note, in «Rivista di Storia del Diritto Italiano», LXXIII, 2000, pp. 131-
236; S. Solimano, Paolo Risi e il processo penale (1766), in Studi di Storia del diritto, III,
Milano, 2001, pp.419-519.

5
congruo equilibrio tra discrezionalità del giudice, garanzie difensive
dell’imputato, e attendibilità della verità giudiziaria.

6
«Facti quidem quaestio in arbitrio iudicantis est»
(D. XLVIII, 16,1,5)

7
Capitolo I

Dall’arbitrarietà del diritto probatorio alla ferma credenza.


I.1 «Reputatur haec materia probationum Judici arbitraria»: De Luca e la tradizione dottrinale
del Regno; I.2 Prove artificiali e pene arbitrarie: “regole” ed “eccezioni”; I.3 Rimedi
straordinari e Decisiones Neapolitanae; I.4 Stylus hispanicus e prova indiziaria; I.5 La
Prammatica del 1621: due giurisprudenze a confronto.

I.1 «Reputatur haec materia probationum Judici arbitraria»:


De Luca e la tradizione dottrinale del Regno.
Nel libro XV del Theatrum Veritatis et Justitiae15, precisamente al titolo De
probationibus in genere, tutta la complessità e l’indeterminatezza del diritto
probatorio d’antico regime venivano sintetizzate in un passaggio estremamente
significativo, ove De Luca, esaurito il doveroso tentativo di esporre le molteplici
categorie e sottocategorie dei mezzi istruttori, e conclusa altresì la rassegna delle
oscillanti raccomandazioni dottrinali sul computo degli stessi, terminava
affermando: «reputatur haec materia probationum Judici arbitraria»16.
L’arbitrarietà della materia delle prove, specie di quelle criminali, era nel
Seicento un dato pressoché inoppugnabile17. L’assiomatica legalistica delle
probationes plenae18, della certezza assoluta, della verità incontrovertibile, che
era assurta ad incontrastato canone della dialettica processuale - grazie anche alla
solida sponda offerta dallo sviluppo dell’aristotelismo19 - tra XVI e XVII secolo
aveva visto gravemente compromessa la propria originaria ed indiscussa validità.

15
G.B. De Luca, Theatrum veritatis et justitiae, sive decisivi discursus ad veritatem editi in
forensibus controversiis canonicis et civilibus, in quibus in urbe advocatus pro una partium
scripsit, vel consultus respondit Jo. Baptis. De Luca per materias, sive titulos distincti, Neapoli,
1758.
16
Ibidem, Libro XV, Disc. XXII, pag. 59.
17
Dall’età moderna era maturata una concezione secondo la quale il diritto penale presentasse
un profilo di arbitrarietà necessaria rispetto al diritto civile: ciò, presumibilmente, era avvenuto
a causa del carattere assai frammentario della legislazione, della tacita desuetudine delle leggi
più antiche, e del frequente riferimento alle iuxtae causae quali presupposti – validi anche per i
giudici inferiori – per variare le pene. Sul punto: Alessi G., Prova legale e pena, cit., pag. 22.
18
Sintetizzabile nel noto brocardo «in criminalibus probationes luce meridiana clariores
requiruntur»,
19
Raffaele Ajello ha evidenziato come le dottrine medievali avessero attribuito al diritto un’idea
di oggettività, in quanto espressione di un ordine strutturale, naturale, divino. Il sistema di prova
legale, teso alla ricerca di una verità perfetta e pienamente provabile attraverso categorie e
gerarchie predefinite, acquisiva così i connotati di quella scienza assoluta delineata all’interno
della Metafisica (I, 983 a). Quello che viene descritto come “radicamento ontico”, costituiva,
8
Ciò era avvenuto non soltanto nella prassi - già dedita alla larga comminazione di
pene straordinarie e di molti altri correttivi applicati al sistema di prova legale20 -
ma anche ad opera della dottrina, che quegli stessi correttivi aveva legittimato
attraverso lucide teorizzazioni21, e che, a distanza di poco meno d’un secolo,
contribuiva alla proliferazione di studi intorno alla materia indiziaria, d’ora in poi
non più necessariamente collegata all’inflizione della tortura22, ma dotata
piuttosto di una crescente dignità e autonomia nell’ambito del giudizio.
La ricostruzione della verità processuale nei giudizi criminali, sospesa tra le
prescrizioni legalistiche improntate alla ricerca della prova perfetta da un lato, e
la crescente centralità dell’uso degli indicia dall’altro, rappresentava, tra Cinque
e Seicento, un frequente terreno di scontro tra differenti posizioni23: da una parte

secondo l’autore, una necessità primaria del diritto e del processo d’antico regime. Sul punto:
Continuità e trasformazione dei valori giuridici cit., pag. 23 e ss. Dello stesso autore:
Formalismo medievale e moderno, Napoli, 1990, pag. 15 e ss.
20
I prevedibili margini di inefficienza di un sistema che chiedeva ai fini della condanna prove di
difficile acquisizione, e che dava lievissimo peso, se non vera e propria irrilevanza, ad elementi
puramente indiziari, rappresentò uno dei campi privilegiati di esercizio dell’arbitrium
iudicantis: «Nasce qui – nell’esigenza di offrire all’operato della macchina giudiziaria una
capacità di rapportarsi alle esigenze concrete – la tendenza dottrinale a cercare strumenti
alternativi a quelli ordinari per rendere più dinamico il meccanismo di prova», In: M.
Meccarelli, Arbitrium, cit., pag. 220.
21
«Iudex licet habeat arbitrium, debet tamen servare ius commune, nam arbitrium quod
conceditur officialibus super maleficiis, debet reduci et restringi ad ius commune, nisi quo ad
modum procedendi et circa aliqua levia (…). Et ideo advertere officiales, nec praetextu arbitrii
eis concessi, nimis animose procedant. Nam licet datum sit a lege, vel ab homine arbitrium
procedendi, non tamen propterea censetur remota cognitio, sed remissa subtilitas secundum
omnes Doctores (...)», G. Claro, Volumen, alias Liber Quintus. In quo omnium criminum in
materia sub receptis sententiis copiosissime tractatur, ita ut nil ulterius desiderari possit, quod,
cum ad Reorum persecutionem, tum ad ipsorum defensionem, faciat, Venetiis, 1583, Quaestio
XXXI.
22
Ancora nel Tractatus Universi Juris, (Venetiis, 1584), sia nel libro specificatamente dedicato
alle prove (tomo IV), sia in quello avente ad oggetto i giudizi criminali (tomo XI, parte I), non
v’è alcuna traccia di una trattazione separata della materia indiziaria. Se si eccettuano le lunghe
dissertazioni di Guy Pape ed Andra Alciato relative alle presunzioni – che posseggono
comunque un grado superiore agli indicia nella gerarchia probatoria (“indicium est minus quam
semiplena probatio”) – gli unici altri riferimenti alle prove indirette si rinvengono nei numerosi
titoli De Tortura, più precisamente nel De Tormentis sive indiciis et tortura, di Guido da
Suzara, nel De indiciis et tortura di Francesco Bruno e infine nel De Indiciis et tortura di Marco
Antonio Bianchi. In queste stesse monografie, ove l’indicium è sin dall’intitolazione collegato
direttamente al supplizio, esso viene descritto anche nella sua forma “qualificata”, vale a dire
l’indubitato, che eccezionalmente acquisisce idoneità ai fini della condanna: «Damnari nemo
potest ex indicio semipleno seu dubitato; sed ex indicio indubitato iudicem in viam
condemnationis dirigente potest quis damnari», F. Bruno De indiciis et tortura, t. XI, par. 13.
Costante è, tuttavia, l’invito alla prudenza: quando il magistrato debba decidere avvalendosi di
strumenti inferiori alla prova piena e perfetta, benché ugualmente capaci di indicare la verità,
dovrà necessariamente moderare la misura della pena: «Iudex per praesumptiones procedens,
suam valde temperare debet sententiam», Ibidem, par. 15.
23
Per quanto siano chiaramente riscontrabili, come vedremo, tendenze assai diverse ed
oscillanti nella materia probatoria, soprattutto a proposito delle modalità di inserimento di
9
i fautori della tradizione, che proclamavano la loro adesione alla dottrina degli
allegata et probata salvo autorizzare, all’occorrenza, opportuni contemperamenti
a carattere contingente24; dall’altra gli artefici di studi sempre più rigorosi sulla
rilevanza degli indizi ad condemnandum25, che per avvalorare le loro tesi
potevano attingere persino alle più antiche fonti romanistiche26.
La conclusione del Cardinale De Luca sulla natura arbitraria della materia,
attestante una perdurante ambiguità del diritto probatorio, lungi dal rappresentare
una rassegnata rinuncia ad affrontare il tema spinoso dei limiti insiti nella prova
legale, era piuttosto la chiara dimostrazione di come si tentasse di dirimere le
infinite controversie sui poteri discrezionali del giudice attraverso l’attribuzione
ai magistrati di più ampie facoltà di qualificazione e valutazione.
E’ bene tuttavia precisare che, nonostante la formula prescelta dal giurista
napoletano per la chiusura della prolusione suonasse decisamente “anti-
legalistica”, essa non arrivava comunque a tradursi in una concreta proposta di
rielaborazione dei criteri di prova, ma testimoniava piuttosto come fosse diffusa
l’idea di poter concordare pacificamente una dimensione ordinaria con una,
altrettanto legittima, di tipo straordinario. Eppure, già al tempo di De Luca, la

elementi “soggettivi” nella valutazione dei fatti, non è ancora opportuno parlare di una netta
contrapposizione tra i fautori della prova legale e i sostenitori della“prova morale”: è semmai
possibile intravedere, come lo stesso De Luca ci dimostra, posizioni assai sfumate, affatto
lineari, che registrano una progressiva perdita di aderenza del sistema e ne annunciano una
imminente evoluzione.
24
A questo proposito, va sottolineato come la mitigazione della pena rappresentasse il mezzo
privilegiato non solo per riequilibrare la condanna in caso di insufficienza probatoria, ma anche,
e più in generale, l’unico modo per salvaguardare gli esiti del giudizio nel caso in cui vi fossero
state violazioni all’ordo in procedendo. Sul punto: G. Alessi, Prova legale e pena cit., pp. 20 e
ss.
25
A. Alciato, Tractatus de praesumptionibus, Venetiis 1564; J. Menochio, De praesumptionibus,
coniecturis, signis et indiciis, Augustae Taurinorum, 1543; C. Crusius, Tractatus de indiciis
delictorum ex iure publico et privato. Cum observationibus et notis, Frankfurt, 1682. Riguardo a
quest’ultimo autore, giurista assai insigne ad Hannover, morto nel 1653, vale la pena di
ricordare che, probabilmente per l’avere egli abbracciato la fede protestante, vide finire
all’Indice tutte le sue opere, compresa quella sopra citata. Ne abbiamo notizia dall’Index
Librorum Prohibitorum (1600-1966), edito a Montreal nel 2002, a cura di J. M. De Bujanda.
26
Una delle più citate era contenuta nel Digesto, al titolo De re militari (D. XLIX,16,5), e
contemplava l’ipotesi di soldati accusati di diserzione che sostenessero di essere stati
imprigionati dai barbari e di essere fuggiti:« A barbaris remissos, milites ita restitui oportere
Hadrianus rescripsit. Si probabunt se captivos evasisse, non transfugisse. Sed hoc licet liquido
constare non possit, argumentis tamen cognoscendum est. Et si bonus miles, antea aestimatur
fit, prope est, ut adfirmationem eius credatur: si remansor aut neglegens suorum aut segnis aut
extra conturbernium agens, non credetur ei». In questo caso, essendo la prova difficilis, si
costruiva l’accusa sulla base di elementi meramente presuntivi. Sul punto: G. Pugliese, La
prova nel processo romano classico, in Jus, 11, 1960, pag. 405 e ss. (= La preuve dans le procès
romain de l’époque classique, in Recueils de la Societé Jean Bodin, La preuve, Bruxelles,
1964), anche in Scritti giuridici scelti, I, Napoli, 1985, pag. 321 e ss; G. Polara, La prova nel
processo romano, Milano, 1997.
10
secolare coesistenza di questi due livelli (ordinarium/extraordinarium,
legale/arbitrario)27, veniva messa in discussione da un numero sempre più nutrito
di giuristi, che si contrapponeva ai fautori dell’arbitramento delle pene, e che
proponeva semmai l’utilizzo di più ampi poteri valutativi sul fatto, piuttosto che
sulla misura della sanzione28.
Uno dei nuclei essenziali del dibattito era l’annoso problema del giudizio
secondo coscienza:

«Quae argumenta et ad quem modum cuique probandae rei sufficiant,


nullo certo modo satis definiri potest. (…) Non ad unam probationis
speciem cognitionem statim allegari deberi, sed ex sententia animi tui
te aestimare oportere quid aut credas aut parum probatum tibi
opinaris»29.

Il noto rescritto di Adriano, relativo alla impossibilità di definire le prove


occorrenti, attestava una tradizione radicata nel diritto romano secondo la quale il
risultato definitivo dell’accertamento dei fatti in giudizio, era adagiato su un
principio assimilabile a quello che noi oggi definiremmo della certezza morale.
In altre parole, stando alla famosa citazione, la sentenza del giudice avrebbe
dovuto essere frutto di un soggettivo apprezzamento. Le fonti erano piuttosto
chiare in tal senso: «Facti quaestio in potestate iudicantis est»30.
Questo, come pure altri precetti tipici - «quae argumenta sufficiant nullo modo
definiri potest»31 - nel corso della sedimentazione del processo romano-canonico,
finirono con l’essere travolti dai nuovi principi elaborati in seno al diritto
giudiziario della Chiesa. Quest’ultima, infatti, si sentì chiamata a provvedere più
risolutamente a delineare i confini dell’attività giudicante32, operazione resa

27
Ordinarium ed extraordinarium condividono il medesimo profilo sistematico, e si
configurano quali premesse categoriali della procedura penale sin dal tardo medioevo. Il loro
rapporto è stato analizzato in due importanti saggi, entrambi inseriti in Chiffoleau J., Gauvard
C., Zorzi A., (a cura di ), Pratiques sociales et politiques judiciaires dans les villes de
l’Occident à la fin du Moyen Âge, École française de Rome, 2007. Il primo è di Massimo
Vallerani, dal titolo Procedura e Giustizia nelle città italiane del basso medioevo (XII-XIV sec.),
pp. 439-494; il secondo è di Massimo Meccarelli, Le categorie dottrinali della procedura e
l’effettività della giustizia penale nel tardo medio evo, pp. 573-594. Dello stesso autore si
ricordi anche il più recente studio: Paradigmi dell'eccezione nella parabola della modernità
penale. Una prospettiva storico-giuridica, in «Quaderni Storici», 44, 131, 2009, pp.493-521.
28
Su questi giuristi, si veda infra, cap. II.
29
D. XXII, 5, 3.
30
Il rescritto di Papiniano ( che viene tradotto dal Mommsen e riportato dal Krueger con la
seguente formula: «facti quidem quaestio in arbitrio est iudicantis»), è inserito nel Liber
singularis ad senatus consultum Turpillianum (D. XLVIII, 16, 1, 5).
31
D. XXII, 5, 3, 2.
32
Il pervasivo intervento della Chiesa nel diritto probatorio non deve indurre a ritenere che nel
processo romano fosse lecito giudicare sulla base di mere impressioni, ché anzi esistevano
11
necessaria dal fatto che la competenza dei suoi tribunali investiva affari assai
delicati, implicanti gravi responsabilità morali per il giudice, con una forte
necessità di garanzie per gli imputati contro eventuali eccessi di zelo o errate
interpretazioni.
Ne derivò così uno dei capisaldi del diritto canonico: «bonus Judex nihil ex
arbitrio suo facit: sicut audit, ita iudicat»33.
La dottrina degli allegata et probata aveva dunque trovato i suoi albori: i motus
animi del giudicante avrebbero dovuto corrispondere necessariamente ad uno
stato di consapevolezza formatosi sopra facta probata, indiscussa, certa

svariati strumenti attraverso i quali si circondava l’attività del magistrato di cautele e norme,
volte a favorire la critica minuta e particolareggiata dei singoli elementi probatori. Dunque, pur
non abbandonando mai l’insegnamento secondo cui «quae argumenta sufficiant nullo modo
definiri potest », il diritto romano non mancò di elencare una serie di importanti precetti sul
valore delle prove: basti qui ricordare l’ipotesi della tortura inflitta ai servi, e del suo rapporto
con le presunzioni di colpevolezza («Cum probatio prioris fugae deficit, servi quaestioni
credendum est: in se enim interrogari, non pro domino aut in dominum videtur», (D. XXII, 7,
3); sempre in materia di tormenti, vennero poi dettate una serie di norme sulle modalità di
utilizzo degli stessi nell’apposito titolo del Digesto De Quaestionibus: «Ad tormenta servorum
ita demum venire oportet, cum suspectus est reus et alius argumentis ita probationi admovetur,
ut sola confessione servorum deesse videatur», (D. XLVIII, 1, 18). Esistevano poi regole per
valutare la moralità dei testi: «Testium fides diligenter examinanda est, ideoque in persona
eorum exploranda erunt in primis condicio cuisque, utrum quis decurio an plebeius sit: et an
honestae et inculpatae vitae an vero notatus quis es reprehensibilis: an locuples vel egens sit, ut
lucre causa quid facile admittat: vel an inimicus sit, adversus quem testimonium fert, vel amicus
ei sit, pro quo testimonium dat. Nam si careat suspicion testimonium vel propter personam a qua
fertur (quod honesta sit) vel propter causam (quod neque lucre neque gratiae neque inimicitiae
causae sit) admittendus est», (D. XXII, 3, 5). Nel novero delle prescrizioni rivolte al giudice ai
fini della formulazione della condanna, rientrava il principio secondo il quale non potesse
decidersi se non in presenza di una molteplicità di prove ed indizi (D. XXII, 2, 5), nonchè la
formula in dubio pro reo: «In testimoniis autem dignitas fidei maior gravitas examinanda est: et
ideo testes, qui adversus quem vacillant, audiendum non sunt ». Questa tendenza
all’enumerazione di regole probatorie si accentuò con la legislazione imperiale: si prescrisse che
l’accusa fosse «munita idoneis testibus vel instructa apertissimis documentis, vel indiciis ad
probationem indubitatis et luce clarioribus», (C. IV, 25, 19). Si affermò inoltre la necessità di
avere almeno due testimoni: «Sanximus et ut unius testimonium nemo iudicum in quacumque
causa facile potiatur admitti at nunc manifeste sancimus, ut unius testis responsio non audiatur
etiamsi praeclarae curiae honore praefulgeat», (D. X, 3, 19); di qui, il principio in base al quale
«unus testis, nullus testis». Non mancava, inoltre, una spiccata attitudine definitoria, che
sebbene non fosse ricca e diversificata quanto quella dei futuri proceduristi italiani, legittima il
sospetto di un frequente uso, nella pratica giudiziaria, di criteri anche nominalistici per la
classificazione di prove e indizi: nell’attraversamento delle fonti, è facile imbattersi in
espressioni come probationes incorruptae (C. VII, 1,1); indicia perspiscua (C. II, 6, 21),
probatio manifesta (C. IX, 18,47); indicia ad probationem indubitata ( C. IV, 25, 19); indicia
proxima (D. XXII, 21, 3). Sul punto: U. Vincenti, Duo genera sunt testium. Contributo alla
storia della prova testimoniale nel processo romano, Padova, 1989; B. Santalucia, Diritto e
processo penale nell’antica Roma, Milano, 1998.
33
«Bonus iudex nihil ex arbitrio suo facit et domesticae proposito voluntatis, sed iuxta leges et
iura pronunciat, iuris obtemperet, non indulget propriae voluntati, nihil paratum et meditatum
de domo affert, sed sicut audit, ita iudicat (…) Qui iudicat, non voluntati suae obtemperare
debet, sed tenere quod legum est». (C. III, q.7,c. 4).
12
probatione34. Nel dubbio se la verità processuale dovesse basarsi sul giudizio
secundum conscientiam o invece richiedesse un fondamento obiettivo, la decisiva
soluzione in favore di quest’ultima ipotesi fu rinvenuta nella dottrina tomistica:
San Tommaso aveva infatti insegnato che il giudice dovesse judicare secundum
allegata et probata anche contro la propria coscienza35. Tale principio, destinato
a trionfare nelle collezioni canoniche, nella dottrina e nei tribunali ecclesiastici,
diede inizio, secondo le più accreditate ricostruzioni, alla teoria delle prove
legali36.
Non è un caso che la prolusione di De Luca sulla materia probatoria si apra
proprio con la regola di San Tommaso; il Cardinale ricordava infatti come il
giudizio iuxta acta et probata trovasse la propria giustificazione nella
separazione tra foro interno e foro esterno: competente nel primo doveva essere
sempre e solo Dio, poiché la verità che gli attiene è per sua natura occulta, e
dunque destinata a rimanere sconosciuta a chiunque altro; giudice nel secondo
poteva invece essere l’uomo, che nell’esercitare tale funzione avrebbe dovuto
basarsi su quella sola verità certa, che si palesa attraverso una «extrinseca
justificatio publica in actis».
La conseguenza automatica di tale impostazione era la seguente: qualunque
circostanza che esulasse dalle pubbliche allegazioni era preclusa alla
considerazione del giudice, neppure quando si trattasse di fatti a cui il magistrato
avesse assistito con i propri occhi.
Ciò, spiegava De Luca, aveva dato luogo alla diffusione di un una regola
ampiamente riconosciuta37, secondo la quale:

«Si Iudex oculiis propriis viderit Titium occidisse, vel percussisse


Sempronium, probationes autem factae, in actis et processis,
concludant id gestum esse a Caio, istum, non autem Titium,
condemnare debebit»38.

34
C. III, q.1, c. 20 .
35
T. D’Aquino, Summa Theologiae, Roma, 1967, 2.2 q. 64, art. 6.
36
G. Salvioli, Note per la storia del procedimento criminale, Napoli, 1919, pag. 12 e ss. Sulla
dottrina di S.Tommaso, quale premessa categoriale della cultura giuridica d’età medievale e
moderna: S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, 1973; P. Prodi,
Una Storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto,
cit.; I. Miethke, Ai confini del potere. Il dibattito sulla potestas papale da Tommaso a
Guglielmo d’Ockam, Padova, 2005; D. Quaglioni, Il San Tommaso di Bruno, in C. Longo (a
cura di), I Domenicani e l'Inquisizione romana: Atti del III Seminario internazionale 'I
Domenicani e l'Inquisizione': 15-18 febbraio 2006, Roma, Istituto storico domenicano, 2008,
pp. 527-540.
37
«Unde propterea vulgo illud interdictum circumferri solet», G.B. De Luca, Theatrum cit.,
Libro XV, Disc. XXII, par. 3, pag. 58
38
In alternativa, il giudice avrebbe potuto astenersi dal giudizio e domandare al Principe o ad un
magistrato superiore di nominare un altro soggetto deputato a decidere la causa:«Sive iuxta
13
Queste così rigide prescrizioni, tese - com’è evidente - all’eliminazione di ogni
possibile margine di soggettività valutativa, avevano suscitato nella tarda età
moderna l’opposizione di alcuni autorevolissimi esponenti della dottrina.
Covarruvias39, uno degli autori più influenti in assoluto tra XVI e XVII secolo, si
era interrogato sul problema di dover assolvere taluno pur essendo giunti a
conoscere la sua sicura reità40, semplicemente perché actore non probante: di qui
l’asserto secondo cui «cum Iudici veritas comperta et nota est, non potest iusta
ratione eam omittere»41. Allo stesso modo, laddove fossero state allegate prove
false - circostanza assai frequente, soprattutto nei giudizi criminali - il giudice
avrebbe dovuto senz’altro assolvere l’imputato riconosciuto innocente, andando
anche contro gli allegata et probata, pur di difendere la veritas. In nome di
quest’ultima, il magistrato avrebbe potuto altresì rifiutarsi di dar fede alle
testimonianze, qualora queste venissero messe in dubbio da coniecturiis, indiciis
et praesumptionibus42.
Marcello Calà, celebre processualista napoletano del tardo XVI secolo, nel suo
Tractatus de modo articulandi et probandi, proprio citando Covarruvias, aveva
anch’egli affrontato la non facile questione del giudizio secondo coscienza, ma
era giunto alle medesime conclusioni con argomenti assai diversi, esprimendo
una posizione tipica del magistero napoletano: l’interpretazione della formula
secondo la quale il giudice dovesse pronunciare una sentenza sola facti veritate

aliquorum monitum, abstinere tenebitur a judicando in illa causa, Principem, vel alium
superiorem, ad quem pertinet, rogando ut alium deputet qui in causa iudicet », Ibidem, par. 4,
pag. 58.
39
Allievo del Navarro (Martin de Azpilcueta), Diego Covarruvias y Leyva, il Bartolo di
Spagna, nacque nel 1512 a Toledo; nel 1560 divenne Vescovo di Ciudad Rodrigo, indi gli fu
affidata la diocesi di Segovia, sino alla nomina, nel 1572, di presidente del Consiglio di
Castiglia. Morì nel 1577. Fu, com’è noto, uno dei più illustri maestri di Salamanca, oltreché uno
dei personaggi-chiave della canonistica post-tridentina. Sul punto: J. Melody, Diego
Covarruvias y Leyva (or Covarrubias y Leyva), in The Catholic Enciclopedia, vol. IV, New
York, 1908; A. Arevedo Alves, J. Moreira, The Salamanca School, New York, 2010, pag. 16 e
ss. Sulla più risalente bibliografia relativa al giurista spagnolo, si rinvia all’opera di P. F.
Campa, Emblemata Hispanica: an annotated bibliography of Spanish Emblem literature to the
year 1700, Duke University Press, 1990, pag. 166 e ss. Sul contributo dato dalla Seconda
Scolastica spagnola ai temi del giudizio e della verità processuale: infra, III.1.
40
Covarruvias precisava tuttavia che tale conoscenza non dovesse avvenire privatim, ma «ex
processu perceperit». Non si faceva dunque riferimento alla “privata scienza” del giudice, ma
piuttosto alla consapevolezza cui egli pervenisse, in coscienza, nell’ambito del processo.
41
D. Covarruvias y Leyva, Variarum ex iure pontificio regio et caesareo resolutionum libri
tres, in Opera Omnia, t. II, Venetiis, 1581,cap. I, par. 3, pag. 2.
42
«Ex coniecturis, indiciis et praesumptionibus potest Iudex ipse iustissime non adhibere fidem
testibus», Ibidem, par. 6, pag. 2. Dell’opposto avviso era l’altrettanto autorevole criminalista
italiano Tiberio Deciani che, nel suo celebre Tractatus, in una quaestio intitolata Conscientiae
veritas, escludeva recisamente che si potesse pervenire alla verità con l’ausilio di indizi e
presunzioni: «Iudicandum secundum veritatem est in foro conscientiae, non secundum juris
praesumptiones aut fictiones», in T. Deciani, Tractatus Criminalis, Venetiis, 1590, Lib. II, cap.
XIV, pag. 32.
14
inspecta43, si muoveva nel senso che tale funzione «habetur loco principis»44. E
dunque, in forza di un potere che faceva le veci di quello sovrano, il magistrato
avrebbe potuto senz’altro andare anche contro gli allegata et probata in favore
del proprio convincimento, come del resto confermavano le opinioni di una serie
di auctoritates (ad esempio Guido Papa e Felino Maria Sandeo):

«(…) qui clare determinant quod Iudices in Regno debent iudicare


secundum purissimam conscientiam, et non secundum allegata et
probata»45.

In questo caso non era una questione di giustizia o di logica a sconsigliare di


attenersi saldamente e irriducibilmente alle allegazioni probatorie, ma una pura
affermazione di sovranità, coincidente con la possibilità di azionare livelli
straordinari di giurisdizione riservati teoricamente solo all’arbitrium
“principesco”. Ciò non può certo stupire: è noto come presso le corti supreme46
l’aequitas, all’occorrenza esercitata persino contra legem, costituisse una
irrinunciabile prerogativa discendente dalla loro majestas47. Quella stessa
aequitas, in ogni caso, nella prassi quotidiana dei Grandi Tribunali si traduceva
quasi sempre in una costante correzione delle pene, e in una gradazione delle
stesse in ragione della quantità di prova raggiunta; difficilmente si convertiva in
un pericoloso arbitrium “sul fatto”.
Ciò accadeva perché la controversa regola di San Tommaso sul giudizio secondo
coscienza48, incarnava al meglio lo spirito che aveva guidato la rigida
predeterminazione del valore di prove e indizi da parte della Chiesa; la prova

43
Sul punto: M.N. Miletti., Tra equità e dottrina. Il Sacro Regio Consiglio e le decisiones di V.
De Franchis, Napoli, 1995, pag. 156.
44
«(…) Quare in primis revoco in dubium et congruenter quaero, num iudex, qui potestatem
procedendi habet in causis, sola facti veritate inspecta, valeat iudicare secundum allegata et
probata et non secundum propriam conscientiam? (…). Iudex, qui debet iudicare sola facti
veritate inspecta, habetur loco principis,», M. Calà, Tractatus de modo articulandi et probandi,
Francofurti ad Moenum, 1598, Gloss. IV, par.5, pag. 110
45
Ibidem, pag. 112.
46
E non solo quelle napoletane: secondo la ricostruzione di M.N. Miletti, la decisionistica
meridionale si rifaceva all’insegnamento di Guy Pape, tramandato presso il Consiglio del
Delfinato di Grenoble (Decisiones Grationopolitanae, Genevae, 1622, q. LXVIII, n. 1) e dello
stesso Favre (Codex Fabrianus, Coloniae Allobrogum 1765, l. IV, tit. IV de testibus, defin.
XXIII). La lezione era stata recepita anche presso il Senato modenese e in quello di Milano,
sino a giungere alla giurisprudenza catalana. In M.N. Miletti, Tra equità e dottrina cit., pag.
155.
47
Sul punto: R. Ajello, Formalismo medievale e moderno, cit.; M.N. Miletti, Tra equità e
dottrina cit,; P.L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento,
Napoli, 1982.
48
Di cui ancora infra, III.1, specie riguardo alla sua interpretazione in seno alla dottrina
canonista della tarda scolastica spagnola.
15
legale doveva rappresentare un contrappeso garantistico in favore dell’inquisito,
anche a costo di forzature ed esasperazioni: «quod non est in actis, non dicatur
esse in mundo»49.
Questo dimostra come la verità processuale d’antico regime dovesse essere,
quantomeno sul piano programmatico, il ripudio del raziocinio autonomo, del
computo individuale, della ponderazione soggettiva: era profonda sfiducia nei
confronti della fallibilità umana, del relativo, del probabile. Eppure, il percorso
scrupolosamente predeterminato al fine della sua ricerca, si rivelava il più delle
volte costellato di inevitabili deviazioni: la regola, quasi sempre troppo rigida e
di fatto inapplicabile, trovava nell’arbitrio un necessario e salvifico
contemperamento.
Restavano comunque inviolabili, quantomeno sul piano formale, i principi
astrattamente preposti alla difesa dell’imputato, dai quali erano poi scaturite le
tante classificazioni, gli elenchi rigorosi di prove, semiprove, signa ed
adminicula, sino a giungere a quelle vere e proprie operazioni di algebra
probatoria che caratterizzavano il sistema legale: nella ricostruzione del fatto
penalmente rilevante, non v’era un meccanismo di composizione logica degli
elementi, ma una vera e propria operazione di computo aritmetico cui il giudice,
in maniera quanto più possibile impersonale, era chiamato a provvedere50.

49
G.B. De Luca, Theatrum cit., Libro XV, Disc. XXII, par. 5, pag. 58.
50
E’ frequentissimo, nelle fonti, il tentativo di ridurre le fattispecie a termini “calcolabili” (duo
semiplenae faciunt unam plaenam); si è parlato a tal proposito di «aritmetica sostituita al
ragionamento» (Salvioli), vale a dire una vera e propria matematica delle prove, una centralità
del dato numerico, secondo la quale un testimone singolo non era sufficiente alla condanna
ordinaria, sebbene attendibile e de visu («unus testis, nullus testis»), e per la quale, parimenti,
non bastava un indizio, benché indubitato. Su quest’algebra: Levy-Bruhl H., La preuve
judiciaire. Étude de sociologie juridique, cit. Questo meccanismo aveva origini remotissime: si
condensò dapprima nella letteratura sull’ordo giudiziario (Tancredi, Durante, Bartolo e Baldo),
nei cui testi troviamo già abbozzato un corposo sistema di prove legali, e si stabilizzò poi
nell’opera dei trattatisti quattro-cinquecenteschi e nelle Grandi Ordinanze, dove ancor più
palesemente si appiattiva la nozione di certezza giuridica, e dove venivano a coincidere verità
reale e legalità formale. Illuminante, a tal proposito, è la riflessione di Mittermaier sulla
Constitutio Criminalis Carolina del 1532, che per oltre due secoli rappresentò il codice di diritto
e procedura penale dell’intera Germania, e che notevole influenza esercitò anche in molte parti
d’Italia: «Gli sforzi di Schwarzenberg, l’autore della Costituzione Criminale Carolina, furono
evidentemente diretti a dare al processo penale un carattere di ricerca della verità assoluta; egli
volle sancire in quella legge i principi sulle prove che ai suoi tempi prevalevano, e che egli pure
aveva adottati (…).Volendo impedire ingiuste condanne fondate su mere presunzioni, venne a
dare precise regole sulla prova». In K. Mittermaier, Trattato della pruova in materia penale, ed.
it. a cura di Attanasio, Napoli 1850, Cap. I, pag. 14. La Carolina, che appariva dominata dalla
volontà di «fissare d’autorità il sistema legale di prova, e dall’esigenza di far penetrare in
Germania i frutti della tradizione del commento: ai giudici fu imposto, secondo una
trasposizione puntuale della gerarchia probatoria elaborata dalla dottrina scolastica, di
considerare piena prova, nel processo penale, la sola testimonianza di due o più buoni testimoni
- fatta eccezione per il caso di confessione o notorio». Così in Alessi G., voce Processo penale
(diritto intermedio), Enciclopedia del diritto, XXXVI, pag. 382. La riprova di quanto appena
16
Proprio in merito a questa tendenza catalogante, frutto del più integerrimo
legalismo, in un altro passaggio del Theatrum, sempre relativo al titolo De
probationibus, è possibile rintracciare un postulato estremamente interessante,
corrispondente ad una velata presa di posizione da parte del Cardinale De Luca:
sebbene infatti l’autore dimostrasse di aver pienamente recepito la lezione dei
doctores antiqui sulla gerarchia dei mezzi probatori51, egli non esitava a
contestare la rigida predeterminabilità delle regole di giudizio: «(..) super
probationes certa regula generalis, cuicumque casui applicabilis non cadit, cum
ob eius diversam qualitatem, pro causarum, vel casuum diversitate, diversa sit
regula, vel decisio, quod scilicet»52.
La natura stessa della materia, giocoforza condizionata di volta in volta dalle
circostanze del caso concreto, sconsigliava di eleggere un canone unico di
valutazione, perché a seconda dei casi si sarebbe richiesta una prova ordinaria,
oppure addirittura maggiore, o, al contrario si sarebbe ritenuta sufficiente una
semiprova, convincente ancorché imperfetta53. In ciò risiedeva il carattere
inevitabilmente arbitrario della disciplina: spettava al giudice stabilire quale
dovesse essere la qualificazione di un determinato mezzo istruttorio, ma
soprattutto valutare quando questo potesse costituire il fondamento della sua
decisione, pur non rivestendo eventualmente la qualità di prova piena, assoluta e
perfetta.
Tra le righe si affermava, con le dovute cautele, la necessità di una più ampia
discrezionalità valutativa, pur non arrivandosi comunque a teorizzare un criterio
di prova morale.

riportato, ci è data dall’espresso divieto di prova indiziaria, sancito all’articolo 22;


dall’indicazione puntuale, per ciascun tipo di delitto, del numero sufficiente di indicia ad
torturam, articolo 32 e ss.; e, infine, dalla «definizione autoritativa di semiplena probatio, di cui
all’articolo 29», Ibidem, pag. 384. Sul punto, si veda anche: M. Sbriccoli, Giustizia criminale,
in M. Fioravanti (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Roma-Bari 2002,
pp. 163-205 (ora anche in Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-
2007), Milano, 2009, vol. I, pp. 3-45).
51
«Primo confessio. Secundo rei evidentia. Tertio juramentum. Quarto publicum instrumentum,
vel documentum. Quinto scripturae privatae. Sexto libri. Septimo testes. Octavo aliae
extraordinariae species, nempe inscriptiones, historiae et similia. Nono praesumptiones, et
coniecturae legis vel hominis. Decimo peritorum in arte, vel facultate, relationes ac judicia»,
G.B. De Luca, Theatrum cit., par. 11, pag. 58.
52
Ibidem, par. 9, pag. 58.
53
«In aliquibus, ordinaria et regularis requiritur ac sufficit. In aliis autem, major ac
extraordinaria desideratur. Et in aliis etiam minor ac imperfecta admittitur, et sic in ordinariis ac
indifferentibus causis, duo testes contestes, qui in dicto, vel in persona, vel concludentem
exceptionem non patiantur, ad perfectam et concludentem probationem sufficiunt. In altero
autem casu non, sed magis exacta et solemnis probatio in testium numero, et qualitate
desideratur. Et in altero etiam testis unicus admitti solet», Ibidem, pag. 58.
17
Il concetto sarebbe stato ribadito anche nel Dottor Volgare54: nel capitolo
dedicato all’introduzione del processo, gli indizi ponevano un problema pratico
ricollegato alla materia della carcerazione preventiva. Più precisamente, De Luca
si chiedeva se, alla luce di elementi anche remoti e generali, si potesse procedere
alla detenzione di taluno in attesa di giudizio. Riscontrata a tal proposito la
molteplice varietà delle opinioni, egli stesso non pareva fornire una soluzione:
per sua stessa ammissione, ambo le opzioni - in favore e contro la carcerazione
pregiudiziale - potevano determinare conseguenze positive o negative a seconda
dei casi. Se vi fosse stato pericolo di fuga, per esempio, è chiaro che il giudice
avrebbe dovuto necessariamente assicurare alla giustizia l’imputato; al contrario,
laddove si trattasse di personaggi “qualificati”, si sarebbe dovuto badare a non
recare un pregiudizio irreparabile a quegli individui sui quali non gravassero
sufficienti elementi di colpevolezza55. Addirittura, la carcerazione avrebbe
potuto, talvolta, guastare gli esiti del processo o compromettere la raccolta di
prove nei confronti del vero colpevole56.
E così, De Luca concludeva sostenendo che la materia in questione «si dice
incapace di regole certe e generali, dipendendo il tutto dalle circostanze
particolari di ciascun caso, dalle quali si dovrà regolare il prudente arbitrio del
giudice»57.
Nel capitolo successivo, il Dottor Volgare si addentrava nell’esame del giudizio
criminale, giungendo al momento della decisione del giudice, ed affrontando la
non facile materia dell’efficacia probante dei cosiddetti indizi indubitati58. De

54
De Luca G.B., Il Dottor Volgare, ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica,
feudale e municipale, nelle cose più ricevute in pratica; moralizzato in lingua italiana per
istruzione e comodità maggiore di questa provincia, ed. consultata: Firenze, 1843.
55
«(…) anzi alle volte, secondo le circostanze dè casi, anche prima di cominciare il processo, e
di fare la prova o la recognizione del corpo del delitto, avutosi di questo avviso, si suol venire
all’assicurazione di quelle persone, delle quali, o per denuncia dell’accusatore, o per
ammonizione degli esploratori e ministri, che volgarmente diciamo spie, o per altri argomenti si
possa avere sospetto, per non dargli campo di fuggire o di mettersi in salvo: maggiormente
quando si tratta di persone popolari e di ordinaria condizione, sicché la carcerazione non porti
quel pregiudizio nella reputazione che porta alle persone nobili o qualificate; per il che si deve
camminare con la dovuta circospezione. Ed all’incontro in alcuni casi si suole camminare con la
suddetta circospezione, sicché non si venga alla carcerazione se non quando si abbia più che
buono in mano, perché forse si tratti di personaggi qualificati, ovvero che per altri rispetti la
carcerazione potrebbe cagionare degl’inconveniente o dè danni, o dè pregiudizi irreparabili a
quella persona», Ibidem, cap. II, pp. 323-324.
56
«Oppure alle volte, per non guastare il processo, e per non dare impedimento alle prove e agli
indizj che si possano avere; oppure che essendovi indizj sufficienti, tuttavia si dissimulino, e si
citi soltanto ad informare la curia, senza trasmettergli l’inquisizione, ovvero il monitorio»,
Ibidem, p. 324.
57
Ibidem, cap. II, pag. 323
58
Il tema degli indizi indubitati, come vedremo, costituisce il nucleo essenziale del dibattito
secentesco sulla prova. E’ soprattutto a partire dal XVII secolo che la dottrina comincia a
chiedersi sempre più insistentemente se essi siano sufficienti a comminare condanne non a
18
Luca si mostrava qui ancora più prudente: la questione non veniva sollevata con
riferimento alla possibilità o meno di applicare una pena; si concentrava, invece,
sulla sola opportunità di sperimentare, in virtù di essi, la tortura ai danni
dell’inquisito. A ben guardare però, nel rispondere negativamente al quesito circa
l’esperibilità del tormento nei confronti di un soggetto gravemente indiziato, egli
offriva un’interessantissima chiave di lettura: sosteneva infatti che l’eventuale
resistenza del reo avrebbe purgato ogni elemento di colpevolezza contro di lui
raccolto, e avrebbe così vanificato tutte le ragioni acquistate dall’accusa59.
Quest’escludere recisamente il supplizio per il pericolo di azzeramento delle
prove accumulate - una sorta di principio di conservazione ante litteram - non
stava comunque a significare una esplicita volontà di dare piena efficacia
probante a elementi di tipo indiziario; anzi, nel passaggio successivo, si
sottolineava la netta prevalenza dell’opinione secondo cui in tali casi dovesse
procedersi all’inflizione di una semplice pena straordinaria, possibilmente non
corporale60.
Ancora una volta, dunque, la questione veniva conclusa con la constatazione
della molteplice ed eterogenea varietà delle posizioni dottrinali, degli usi e delle
giurisprudenze; nuovamente si ribadiva l’impossibilità di fornire in merito una
regola certa, e la necessità di rimettersi, di volta in volta, al «prudente arbitrio del
giudice».

carattere commutativo-equitativo, ma vere e proprie pene edittali. La loro più comune


definizione era incentrata sull’effetto da essi prodotto nella mente del giudice; nel XVII secolo
Francesco Broya, criminalista salernitano, così si esprimeva: «indicia indubitata sunt illa, quae
arctant mentem judicis ad firmiter credendum quod res in contrarium esse non potest», F.
Broya, Praxis Criminalis, Neapoli, 1684. Malgrado la suggestiva premessa, la materia veniva
inserita nel titolo De indiciis ad torturam. Questo dimostra che, ancora nel Seicento, vi erano
ancora giuristi convinti che, nonostante la notevole forza persuasiva di siffatti elementi
propinqua et gravia, essi non fossero comunque sufficienti a infliggere una condanna ordinaria,
ma potessero unicamente legittimare l’esperimento della tortura o, al più, la comminazione di
una pena straordinaria.
59
G.B. De Luca, Il Dottor Volgare cit., cap. III, pag. 343. E’ chiaro che siffatta considerazione
discende anche e soprattutto dalla nota contrarietà del Cardinale alla pratica del tormento. De
Luca è infatti, in netto anticipo rispetto alle correnti umanitariste ed utilitariste della
giuspubblicistica settecentesca, uno dei più accesi sostenitori della necessità di abolire la tortura
stante la sua assoluta inefficacia: «Quelli i quali si danno alla mala vita del sicario, ovvero del
ladrone, pensando a quel che gli può occorrere, e che la fortezza delle braccia nel sostenere i
tormenti li possa salvare dalla forca, ovvero dalla mazzuola, o dalla ruota, in campagna e sotto
gli arbori a poco a poco si vanno esercitando in questo tormento della tortura, avezzando in tal
maniera le braccia ed il corpo, in modo che niente o molto poco si patisca (..)», Ibidem, libro
XV, cap. IV, n. 23, pag. 346
60
«Secondo l’opinione più probabile e più comune, con la sola prova, la quale risulta dagli
indizj indubitati, si può ben venire alla condanna d’una pena straordinaria, ma non all’ordinaria:
restando il dubbio se si possa venire a pena afflittiva del corpo, nel che si scorge qualche varietà
d’opinioni, e forse la più comune è la negativa. Tuttavia pare che sopra di ciò non si può dare
una regola certa, convenendo governarsi secondo che portino le circostanze dè casi». Ibidem,
cap. III , pag. 344.
19
E così, in quella teoria che era “legale” per antonomasia - la disciplina delle
prove61 - emergeva sempre più insistentemente il dato dell’incertezza, della
“incalcolabilità”: si trattava di elementi che da sempre erano stati strettamente
connaturati alla materia, ma che la dottrina aveva tentato di eliminare
racchiudendo il procedimento probatorio in schemi, almeno idealmente, rigidi62,
votati a una pienezza dimostrativa che solo la confessione, la testimonianza e
l’evidenza avrebbero potuto fornire.

61
Com’è noto, in base alla più risalente tradizione romano-canonica, il meccanismo di prova
legale nella sua forma più pura prescriveva che soltanto le cosiddette probationes luce
meridiana clariores, almeno in criminalibus, potessero consentire la condanna alla pena
edittale. La dottrina aveva specificato che si trattasse, più precisamente, della confessione del
reo, della doppia testimonianza di due soggetti irreprobabiles, e dell’evidentia facti. Ben più
vario, articolato e problematico il novero delle prove semipiene, che erano anzitutto identificate
con quelle insufficienti, magari perché viziate in qualche elemento formale, o semplicemente
perché prove meramente presuntive o indiziarie. Tanto le presunzioni quanto gli indizi, dei quali
originariamente si escludeva senz’altro la rilevanza ad condemnandum, avevano un’infinità di
gradazioni. Per quanto riguarda questi ultimi, sovente si operava una distinzione tra indicia
necessaria e indicia probabilia: i primi erano da soli sufficienti a fornire una prova piena
dell’accaduto, i secondi invece: «adiuncta caeteris plurimum valent». Tali ultimi argumenta,
non avrebbero mai potuto consentire la condanna di taluno alla pena edittale, ma, solo nel caso
in cui si fosse trattato di molteplici elementi, particolarmente corroboranti, inseriti in una
fattispecie criminosa particolarmente grave, avrebbero consentito, al più, la comminazione di
una pena diminuita. Nella Quaestio XX di Giulio Claro, può rintracciarsi una delle tante
testimonianze di quella rigida gerarchia di strumenti precostituiti che era tipica del sistema; in
essa intercettiamo i molteplici e diversi gradi delle prove, piene o imperfette, in cui il magistrato
si sarebbe potuto imbattere nella determinazione dell’altrui innocenza o colpevolezza: alla base
della scala stava il gradus informationis; immediatamente sopra il gradus hominis
praesumptionis; quindi il gradus praesumptionis legis; ancora più in alto il gradus vehementis
adminiculationis; poi il gradus semiplenae probationis; infine il gradus indubitatae scientiae et
probationis. Troviamo altresì identificati i tre diversi stadi del convincimento che avrebbe
dovuto indurre il giudice a formulare la sua sentenza: «Tres sunt animi Iudicis motus vide licet
impulsivus, sive suspicans, praesumptivus, sive inclinatio vehemens, seu impressivus, et clarus,
sive plaenarie informatus», G Claro, Volumen, alias Liber Quintus cit., q. XX, par. 4.
62
A proposito della cosiddetta rigidità del sistema legale, è interessante ripercorrere le
riflessioni di Isabella Rosoni, la quale ha messo in evidenza come il meccanismo probatorio
elaborato in seno al processo romano-canonico, per come noi spesso lo intendiamo, sia
«un’invenzione dei riformatori del Settecento, i quali, per criticarlo, lo ingabbiano in una
struttura un po’ artificiale, tutta vera nei dettagli, ma non sempre corrispondente a quella (meno
semplificata) che emerge da una più libera analisi storica (…)». Ciò detto, non può comunque
negarsi che, attraverso le regole probatorie legali – norme che imponevano al giudice su quante
e quali prove dovesse poggiare la sentenza – «si ricercava una certezza di tipo legale, che
riguardava l’apparato dimostrativo della decisione, e non la condizione psicologica di chi la
prendesse: la ricerca ed il conseguimento di una simile certezza, seguivano percorsi puramente
formali (procedurali), non psicologici o addirittura d’istinto (…). Questo insieme di regole, per
un verso vincolava il giudice obbligandolo alla condanna quando esistessero le condizioni
legali/formali che la comportassero; per l’altro gli vietava di pronunciarsi quando la certezza
eventualmente acquisita in coscienza non fosse accompagnata dal corredo legalmente necessario
di prove rituali», in Quae Singula non prosunt collecta iuvant. La teoria della prova indiziaria
in età medievale e moderna, cit., pag. 40.
20
Com’è noto, infatti, il congegno procedurale elaborato dai doctores di prima età
moderna era caratterizzato da una netta predilezione verso quelle prove capaci di
rappresentare direttamente il fatto, e da un conseguente disvalore attribuito alle
cosiddette probationes artificiales.
La distinzione tra prove artificiali e inartificiali63, mutuata dalla Rhetorica di
Aristotele e sviluppata dalla tradizione filosofica medievale e dalle dottrine di
diritto comune64, comportava che le prime venissero identificate con strumenti
quasi di “creazione” della verità: si trattava di forme di ragionamento e
composizione di fatti non autoevidenti attraverso l’uso di categorie logiche; le
probationes inartificiales, al contrario, erano le prove per eccellenza, legate alla
deduzione necessaria, discendente da norme giuridiche65. Queste ultime - dette
anche probationes perfectae, manifestae o plenae - data la loro intrinseca forza,
che non era semplicemente “persuasiva” ma era piuttosto vera e propria vis legis,
costringevano la decisione del giudice quale che fosse la sua opinione (e dunque
anche contro la propria coscienza, secondo il già citato insegnamento di S.
Tommaso).
Tali classificazioni avevano disegnato insuperabili equilibri e gerarchie, ed
avevano posto la necessità di un pervasivo e sapiente utilizzo di meccanismi
compensatori; ciò per una ragione piuttosto evidente: data l’impossibilità di
pervenire sempre e comunque alla confessione (in molti si rivelavano infatti in

63
Artificium sta qui per “abilità dialettica”: le prove artificiali dipendono dall’arte oratoria; le
restanti esistono e valgono indipendentemente dalle capacità dell’ orator, come le
testimonianze, le confessioni, l’autografia.
64
Il risultato delle combinazioni tra teorie dialettiche e retoriche fu un approfondimento della
teoria delle positiones, intesa come rifiuto dell’equivalenza delle probabilità e come adesione a
principi predeterminati. Nella rielaborazione medievale del pensiero aristotelico, la dialettica
intesa come idea del probabile, del verosimile, cominciò progressivamente a trasformarsi in
scienza assoluta. Nasce da qui la profonda diffidenza nei confronti di quello strumentario logico
(l’entinema, o sillogismo; l’esempio), che nella costruzione originaria, vale a dire nei Topici,
possiede al contrario una maggiore affidabilità rispetto alle prove non artificiali (testimonianza,
giuramento, prove scritte). Sul punto: A. Abet, Giudizio penale e libero convincimento, Napoli,
2002. Sul processo per positiones: M. Sbriccoli, «Vidi communiter observari». L’emersione di
un ordine penale pubblico nelle città italiane del XIII secolo, in «Quaderni Fiorentini», XXVII,
1998, pp. 231-269; M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, Bologna, 2005.
65
Secondo Franco Cordero, questa distinzione scolastica oppone due concetti non comparabili:
«i dati sensibili (« signum est quod sub sensum aliquem cadit ») e le operazioni mentali eseguite
da chi li usa; ma si tratta di termini rilevabili in entrambe le classi: anche i documenti meno
criptici esigono qualche lavorio combinatorio del lettore, e una materia tota in disputatione
conlocata (formula ciceroniana delle probationes artificiales), quale configurano le
“coniecturae”, presuppone dei segni, ossia dei dati percettibili. Quintiliano se ne accorge:
costituendo un fenomeno fisico indipendente dall’atto oratorio, i signa risultano contigui alle
probationes inartificiales (…); l’argomento lievita dai fatti e il fatto vale in quanto
dialetticamente elaborato. Ogni prova, dunque, è “atecnica” e “tecnica”; tali predicati connotano
i due tempi della stessa operazione: percepisco qualcosa, indi vi ragiono», in F. Cordero,
Procedura penale, Torino, 1986, pag. 568.
21
grado di superare con successo il tormento), e data altresì la difficoltà di ottenere
una doppia testimonianza concorde e valida (il regime delle preclusioni si
rivelava spesso paralizzante), la scelta di intervenire sulla pena e proporzionare la
sanzione al quantum di prova raggiunto, costituiva l’unico espediente per evitare
il pericolo della totale impunità.
Si era instaurata così la già citata dialettica tra legale ed arbitrario, pieno e
semipieno, ordinario e straordinario. Queste dualità avevano resistito per secoli
alla quotidiana amministrazione della giustizia senza che rappresentassero un
elemento di crisi o di contraddizione all’interno del sistema, ma anzi
contribuendo sensibilmente al suo mantenimento66. Al tempo di De Luca,
tuttavia, esse erano giunte a configurarsi come dei veri e propri nodi teorici, al
centro dei quali stava la categoria dell’indicium e la sua concreta operatività ai
fini della condanna.
Come già anticipato, fin dagli anni trenta del Cinquecento, Andrea Alciato67, e
poi nella seconda metà del secolo Jacopo Menochio68, pubblicarono opere
caratterizzate dall’assoluta centralità dell’indizio, trattato separatamente rispetto
al tormentum e alla prova tradizionalmente intesa69. Ciò appare significativo per
almeno due motivi: anzitutto perché testimonia una riconsiderazione del valore
probatorio del materiale indiretto, d’ora in poi in grado di fornire anch’esso un
contributo autonomo e sempre più decisivo nel percorso ricostruttivo della verità
processuale; in secondo luogo perché fa registrare anche una progressiva
contrazione della letteratura de tormentiis (e della relativa pratica): «La
vertiginosa casistica, fatta di circostanze ed intenzioni, di cui questi trattati
cominciano a tener conto, rende la materia criminale più complessa del puro
gioco della verità e della menzogna, implicito nella semplice logica dei supplizi.
L’interesse si sposta: dai sussulti delle coscienze si passa ai meccanismo logici
dei fatti. Per ottenere la verità c’è bisogno di qualcosa di più potente del dolore
(…)»70. In base a queste considerazioni, una parte della storiografia71 ha avanzato
66
«L’extraordinarium nasceva e prolificava affinché sopravvivesse l’ordinarium», in M.
Meccarelli, Arbitrium, cit., pag 252.
67
A. Alciato, Tractatus de praesumptionibus, cit.
68
J. Menochio, De praesumptionibus, coniecturis, signis et indiciis, cit.
69
E’ doveroso citare almeno altre due opere caratterizzate dalla trattazione autonoma e separata
dell’indizio: una, di chiara vocazione civilistica, è il Tractatus de coniecturis ultimarum
voluntarum in libros duodecim distinctus, di F. Mantica, Venetiis, 1619; l’altra è di G.
Mascardi, dal titolo Conclusiones probationum omnium quibusvis in utroque foro versantibus
practicabiles, utiles, necessariae, in quattuor volumina distinctae (1584), Francofurti ad
Moenum, 1684.
70
I. Rosoni, Quae singula cit., pag. 13.
71
Il succitato testo della Rosoni, suggerisce in maniera piuttosto convincente la possibilità di
stabilire una stretta connessione tra i due fenomeni; la tesi è presente anche nel saggio di A.
Fontana, Le piccole verità. L’aurora della razionalità moderna, in «Aut Aut», 1986, 216, pp.
93-122 (poi incluso ne Il vizio occulto cit., pp. 15-48), ed è stata riproposta da M. Schmoeckel,
22
la tesi che possa sussistere una importante connessione tra la faticosa ma decisiva
emersione della prova indiziaria e il tramonto della tortura. In altre parole, la
crescente sfiducia nei confronti di quest’ultima, quale tecnica tipica d’indagine
della verità, potrebbe avere incentivato, nella coscienza dei giuristi, l’esigenza di
tentare nuove strade, nuovi percorsi basati soprattutto sull’arte del congetturare
partendo dai segni.
Non sarebbe, dunque, affatto casuale la trattazione separata della materia degli
indizi; saremmo di fronte, piuttosto, a un primissimo tentativo di
affrancamento72.
A tutto ciò devono aggiungersi almeno altri due elementi, indispensabili alla
completezza della nostra ricostruzione: anzitutto, la cultura di fine
Cinquecento/inizio Seicento si confrontava con un nucleo di idee provenienti
dall’area spagnola della seconda scolastica, che introduceva nella dialettica del
diritto e del processo temi nuovi rispetto alla oramai vetusta impostazione di
stampo aristotelico73; in secondo luogo, all’indomani della Rivoluzione

Humanität und Staatsraison. Die Abschaffung der Folter in Europa und die Entwicklung des
gemeinen Strafprozeß – und Beweisrechts seit dem hohen Mittelalter, Köln, 2000, dove, sin
dalla premessa, è chiaro il collegamento tra tramonto della tortura ed evoluzione del diritto
probatorio. Vero è che il progressivo declino della pratica dei tormenti è stato oggetto di
molteplici e “multilaterali” ricostruzioni. Fondamentali, a questo proposito, i risalenti contributi
di Norbert Elias (Il processo di civilizzazione, 1939), dove l’abolizione della tortura viene
ricondotta ad “un innalzamento della sensibilità collettiva” e dunque ad una graduale presa
d’atto della inaccettabilità di quelle pratiche più o meno “spettacolarizzate” di estorsione della
confessione; diversamente, Michel Foucault (Sorvegliare e punire: La nascita della prigione,
1975), ha sostenuto che il passaggio dal supplizio alla detenzione debba essere descritto come
un’evoluzione del “linguaggio e dell’organizzazione del potere”: il frutto, cioè, di una precisa
strategia politica che, per aumentare la propria efficacia, accantona la ferocia e la visibilità e
adotta nuovi rituali, che non agiscono sul corpo ma sull’anima del delinquente. In parziale
polemica con Foucault, specie per quel che riguarda la periodizzazione, si ricorda inoltre
P.C.Spierenburg, The spectacle of suffering: executions and the evolution of repression: from a
preindustrial metropolis to the European experience, Cambridge, 1984, il quale contesta che la
transizione dalla tortura alla prigione abbia avuto inizio nel Settecento, e l’anticipa di quasi un
secolo, considerandone il progressivo disuso nelle pratiche.
72
Come già detto, è proprio in questo periodo che si registrano i primi attacchi espliciti al
sistema dei tormenti: da Montaigne allo stesso De Luca, si moltiplicano le denunce contro la
tortura, considerata soprattutto uno strumento illogico e inaffidabile, oltre che crudele: «Che
cosa non si direbbe, che cosa non si farebbe per sfuggire a così gravi dolori? Etiam innocentes
cogit mentiri dolor. Da ciò deriva che colui che il giudice ha torturato per non farlo morire
innocente, lo faccia morire innocente e torturato», M. De Montaigne, Saggi, a cura di F.
Garavini, Milano 1966, lib. II, cap. V, pag. 475.
73
La seconda scolastica spagnola, oltre ai più noti apporti teorici alle materie del diritto privato,
del diritto commerciale e del diritto internazionale, fornì anche un contributo esegetico cruciale
nel campo della verità processuale e del giudizio secondo coscienza. Oltre a Francisco Suarez,
che aveva enfatizzato il dato della ragione quale elemento necessariamente complementare alla
rivelazione, molti furono i teologi-giuristi che si occuparono di temi speculari alla prova
criminale. Sul punto: infra III.1.
23
scientifica74, si faceva strada non solo nelle scienze matematiche ma in tutti i
campi del sapere, compresa la cultura giuridica, un nuovo probabilismo
cognitivo, una rinata centralità dell’intelletto umano, una rinnovata fiducia nella
deducibilità di principi razionali75. Tutto ciò non poteva che produrre
ripercussioni notevoli nella gnoseologia processuale, che infatti presenta, per
tutto il secolo XVII, lineamenti teorici nuovi e una fisionomia peculiare:
l’asserita “arbitrarietà” della materia probatoria, cominciava proprio da qui a
suggerire l’inopportunità della predeterminazione legale del valore di prove e
indizi, mostrando al contempo la maggiore utilità di meccanismi soggettivi nella
composizione dei fatti giudiziali .
Va tuttavia aggiunto che le succitate suggestioni razionalistiche e probabilistiche
(o, ancor meglio, probabilioristiche)76, le quali pure cominciavano ad arricchire e
a complicare sensibilmente la visione del procedimento probatorio da parte della
criminalistica, non si dimostrarono effettivamente capaci di determinare una
reale inversione di tendenza; crearono semmai nuovi orientamenti, i germi di
una nuova dottrina che avrebbe però avuto i suoi esiti più felici oltre un secolo
dopo, nella parabola dell’illuminismo maturo e delle riforme: quello che
rintracciamo nelle voci dei giuristi, specie a partire dalla seconda metà del secolo
XVII, è semmai l’inizio di un percorso evolutivo; è proprio qui che possiamo
rinvenire il momento genetico di un mutamento paradigmatico, dove affiorano i
principi di costruzioni teoriche del tutto nuove, aventi ad oggetto la prova e la
verità nel giudizio penale: mentre la riflessione epistemologica tentava di
riabilitare il procedimento induttivo, maturava lentamente, in ambito giudiziale,
74
Il nuovo approccio teoretico di tipo induttivo, inaugurato da Bacone e Cartesio, e poi
culminato con l’Essay concerning Human Understanding di Locke, determinò nella cultura
giuridica continentale un profondo mutamento di prospettiva che investì indirettamente anche la
materia probatoria all’interno del processo, specie di quello penale. I frutti maturi di questo
rivolgimento sarebbero stati raccolti soltanto in una fase successiva a quella da noi esaminata,
ossia durante la parabola dell’Illuminismo maturo e delle riforme. Ciò nonostante, è tra la metà
del XVII e i primi decenni del XVIII secolo che può rintracciarsi il principio di un nuovo
sistema conoscitivo della verità processuale, contrapposto alla prova legale: è qui che si fa
strada il tentativo di elaborare un nuovo impianto probatorio il quale, pur all’interno di
parametri e regole, limiti e garanzie, doveva essere tutto basato sull’attività razionale e
intellettiva dell’organo giusdicente, sulla sua esperienza, sulla sua percezione sensibile. Sul
punto: infra III. 2.
75
Come vedremo più oltre (infra, cap. II), nello strumentario lessicale dei giuristi secenteschi,
espressioni come rationabilis, verisimilis, probabilis, vengono sempre più spesso affiancati alla
prova circostanziale e all’effetto da essa prodotto nella mente del giudice. Marcello Marciano
offre numerose testimonianze in tal senso, come pure – più di mezzo secolo prima - Francisco
Sarmiento de Mendoza. Assente è qualsiasi riferimento alla categoria della veritas, che invece
ricorre spesso nelle dissertazioni di Covarruvias sotto forma di giudizio secondo coscienza:
«iudex iudicare debet secundum veritatem. (…) unde cum iudici veritas comperta et nota est,
non potest iuxta ratione eam omittere», in D. Covarruvias y Leyva, Variarum ex iure pontificio
cit., Cap. I, par. 3.
76
Infra, III.2.
24
una «teoria della certezza morale legata al principio della probabilità, che
legittimava appieno la struttura logica della prova indiziaria»77.
Alla luce di quanto chiarito preliminarmente, può così spiegarsi l’avanzamento
degli studi e delle posizioni dottrinali: dalla costante collocazione degli indizi tra
gli elementi ad torquendum, si assiste via via ad un crescente bisogno
d’interrogarsi sulla loro sufficienza ad probandum78; attraverso lo sviluppo dei
nuclei fertili della vecchia argomentazione, il probabilismo cessava di risiedere
nella dimensione dell’opinio, vale a dire nell’auctoritas, e veniva ricondotto
entro le griglie del calcolo79.
Il conseguente superamento di quell’antico pregiudizio in ordine alle prove
artificiali, che corrispondeva ad un sostanziale disvalore ad esse attribuito
rispetto alle prove dirette, trovò tuttavia a Napoli una fortissima resistenza: far
acquisire vera e propria forza probante ad elementi circostanziali, equivaleva a
negare il limpido legalismo che era il vessillo delle magistrature, specie superiori,
del Regno. La peculiare “impermeabilità” delle supreme corti partenopee è
confermata, oltre che dalle rassegne di Decisiones80 cinque-secentesche, anche da
una radicatissima tradizione dottrinale, costantemente citata nelle sentenze.
Il celebre giurista Pietro Follerio, nella Practica Criminalis composta intorno alla
metà del XVI secolo, aveva sancito il principio cardine secondo cui la pena
edittale potesse seguire unicamente alla confessione o alla doppia testimonianza:

«Debet iudex sua sententia condemnare reos inquisitos ad poenas a


jure statutas, si confessi vel convicti videbuntur»81.

Mancando l’una o l’altra, sulla scorta delle consuete auctoritates di diritto


comune (Innocenzo, Baldo, Niccolò Tedeschi), veniva dettato l’altrettanto
fondamentale principio in base al quale:

«Insuper advertendum est, quod quotiescumque quis condemnatur ex

77
I. Rosoni, Quae singula cit., pag. 26.
78
L’utilizzabilità di indizi e presunzioni ad condemnandum non è una novità propriamente
secentesca; il dato veramente interessante è che, a partire dalla fine del XVI secolo, essi
cominciano ad acquisire una rilevanza ad plene probandum, e comportano dunque la
comminazione di pene ordinarie, alla stregua di vere e proprie prove legali. Si tratta di un
elemento caratterizzante gran parte della giurisprudenza spagnola (come documentato infra,
I.3), e che, soprattutto, monopolizza le proposte di un numero ristretto ma autorevole di studiosi
(infra, cap. II).
79
Sul punto: A. Fontana, Le piccole verità, cit., pp. 93-122.
80
Di cui infra, I.3.
81
P. Follerio, Practica Criminalis dialogicae conjecta secundum dispositionum Capitulorum,
Constitutionum, Pragmaticarum, et Rituum Regni Neapolitani, Venetiis, 1590, IV, Poenis
debitis feriantur, pp. 289 e ss.
25
praesumptionibus numquam ei imponitur poena ordinaria et vera
delicti, sed alia mitior»82.

Camillo Borrelli, nella sua poderosa raccolta di Decisiones, si era dedicato alla
trattazione della materia probatoria sia in ambito civilistico che criminalistico, ed
aveva sostanzialmente confermato, sin dalle prime proposizioni, l’indirizzo
tradizionale della sfiducia alle prove indirette. Egli aveva infatti inaugurato la
lunga prolusione de probationibus con uno schema esemplificativo raffigurante
un albero sui cui rami erano riportate, in ordine di importanza, le varie specie di
prove: alla base vi erano testes ed instrumenta; poi la confessione, la rei
evidentia, il giuramento, la res judicata, la communis opinio, la fama. In ultimo,
venivano raffigurati congetture, presunzioni e indizi83.
Il consueto schema secondo cui «in criminalibus iudex non procedit ad
condemnationem sine clarissimis probationibus»84, non veniva contraddetto
nemmeno da circostanze eccezionali quali i delitti occulti, clandestini e le segrete
transazioni, ove si consigliava comunque l’inflizione di una pena corporale o
pecuniaria85. Questa impostazione avrebbe influenzato significativamente tutta la
criminalistica napoletana successiva86: sostanzialmente allineate furono infatti le
posizioni dei più celebri esponenti del ceto togato appartenenti alla generazione
posteriore, Carlo Tapia, Gianfrancesco Sanfelice, Francesco Maradei.
Tutti questi autori, sebbene profondamente consapevoli della possibilità di
riconoscere anche agli indizi e alle presunzioni il rango di prove87, continuarono
ad incoraggiare una prassi improntata ad un esercizio pressoché generalizzato
dell’arbitrium sulla pena ogni qualvolta mancassero le cosiddette verae
probationes88.

82
Ibidem, n. 59.
83
C. Borrelli, Decisionum Universarum et totius Christiani Orbis Rerum Omnium Iudicatarum
Summae, vol. II, Venetiis, 1623, tit. II, pag. 21.
84
Ibidem, n. 210.
85
Ibidem, n. 211-212.
86
E’ opportuno segnalare che P. L. Rovito, in Prova legale e indizi cit., pag. 170, cita
un’importante prolusione di Borrelli, contenuta nella raccolta di Consiliorum sive
controversiarum forensium, Venetiis, 1598, anch’essa destinata a pesare in maniera significativa
su tutta la tradizione processualistica napoletana. Si tratta della controversia n. XCVIII, in cui
l’autore aveva collegato la pena edittale alle sole verae probationes e aveva decretato la
sostanziale inaffidabilità processuale degli indizi.
87
Sulle eccezioni contemplate dallo ius commune in tema di delitti occulti, atroci e di difficile
prova, si veda infra, I.2.
88
Il principio generale delle probationes luce meridiana clariores come unico presupposto per
la condanna edittale ricorre, in ciascuno di questi autori, con una certa frequenza. Il Tapia lo
sancisce nel commento alla Prammatica I, de quaestionibus, all’interno del Commentario allo
Ius Regni Neapolitani, Neapoli, 1611, lib. V, tit. 49; Sanfelice lo afferma nella famosa decisio
XLVII, contenuta nella raccolta delle Supremorum Tribunalium Regni Neapolitani decisiones,
Venetiis, 1644. Più controversa la posizione di Maradei, che pur richiamandosi alla più recente
26
Francesco Merlino Pignatelli, in particolare, pur riportando l’antico
insegnamento di Baldo sull’attitudine degli indubitata a costituire prova piena e
concludente, etiam ad condemnationem capitalem89, non mancò di enfatizzare il
pericolo insito nell’incertezza, e la necessità di evitare giudizi sommari,
semplificazioni o condanne basate su materiali stragiudiziali90.
Addirittura, descrisse come una vera e propria anomalia, una “stranezza”91, la
prassi consolidata del Senato catalano di irrogare pene ordinarie sulla base di
semplici semiplenae probationes92.
Si evidenziava in tal modo l’esistenza di una netta divaricazione tra il Sacro
Regio Consiglio napoletano, fin troppo magnanimo nella diminuzione delle pene
anche a fronte di evidenze schiaccianti (ma formalmente imperfette), e una
giurisprudenza iberica tacciata invece di avere fin troppo attenuato le già di per
sé controverse regole di ius commune in materia di prove artificiali93.
Questa stessa divaricazione sarebbe stata messa in evidenza anche da Francesco
Maradei che, nelle sue celebri Animadversiones, ebbe modo di riferirsi alla
pratica, comune soprattutto presso il Senato della Catalogna, ma ampiamente
invalsa in tutta la Spagna, di ritenere sufficienti, per i delitti difficilis probationis,
indizi indubitati, oppure più indizi dubitati «cum adminiculis»94.
L’orientamento spagnolo, che in parte si mostrava fedele alle prescrizioni di
diritto comune in merito a particolari categorie di delicta, e in parte si muoveva
nella tradizione del giudizio secondo coscienza, appariva incomparabilmente
distante dagli scrupoli formalistici del ceto togato napoletano: come vedremo,

teorica degli indicia indubitata, effettua continue raccomandazioni alla mitezza e alla
temperanza, e rimette al prudente arbitrio del giudice la scelta di comminare o meno la pena
edittale. In F. Maradei, Animadversiones in suis observationibus ad singularia rerum
practicabilium, et judicatarum Philippi sui Patris, Neapoli, 1712, animadversio ad observ.
CCXXXIV, pag. 91 e ss.
89
F. Merlino Pignatelli, Controversiarum Forensium Iuris communis et Regni Neapolitani,
Neapoli, 1634, c. LXIV, n. 18
90
Ibidem, n. 21.
91
«quod mirabile est», dice Merlino, dove l’aggettivo esprime uno stupore in senso
assolutamente negativo, come confermato anche dall’interpretazione di P.L. Rovito, Prova
legale e indizi cit., pag. 164.
92
F. Merlino Pignatelli, Controversiarum Forensium cit., n. 19.
93
Su questa contrapposizione, infra 1.3 e I.4.
94
«Animadvertendum occurrit, quod in Senatu Cathaloniae in delictis difficilis probationis
servatur praxis condemnandi ad poenam ordinariam ex inditiis indubitatis habentibus admixtam
aliquam haesitationem virtualem, quod quoque servatur, quando inditia non sunt omnino
indubitata, sed adsunt plura inditia dubitata cum adminiculis, ex quibus resultat unum
indubitatum», F.Maradei, Animadversiones cit., animadversio ad observ. CCXXXIV, n.3, pag.
92. In realtà, l’abbinamento di indizi, anche dubitati, per la condanna ordinaria dei delitti di
difficile prova, non era affatto un’anomalia spagnola; come vedremo (infra, I.2), esistevano
numerose prescrizioni normative che alleggerivano significativamente il quadro probatorio per i
delitti atroci, occulti o difficilis probationis.
27
questo diverso atteggiamento avrebbe scandito tutto il lungo Seicento,
condizionando pratiche, teorie ed interventi normativi.

28
I.2 Prove artificiali, pene arbitrarie: “regole” ed “eccezioni”

Ancora nella metà del Cinquecento, Ippolito Marsili, a proposito delle


probationes artificiales, così scriveva: «Illud quod clare probari non potest per
rerum naturam, probatur argumentis et indiciis»95.
Tale definizione dimostra quanto fosse sentita la divaricazione tra prove e
argumenta, e come l’utilizzo di tutto ciò che non corrispondesse a sicure
evidenze fattuali, implicasse un lavoro di ricerca e organizzazione logica lontano
anni luce dalle valutazioni in sede di prova orale: la conoscenza tramite indicia
era totalmente congetturale, indiretta, non consisteva nella mera constatazione
del fatto da provare, ma era piuttosto «un’illazione da un fatto probante a un fatto
probando»96.
L’indizio, che nella casistica del tardo diritto comune coincideva spesso,
terminologicamente, con la nozione di praesumptio, quasi che si trattasse di
sinonimi totalmente ambivalenti, atteneva all’argomentazione, e dunque alla
sfuggente probabilità, alla verosimiglianza, alla ricostruzione ipotetica, ad una
certa opinione formatasi nell’animo del giudice. Proprio questa netta distanza
dall’implacabile logica aritmetica di stampo legalistico, faceva sì che le prove
indirette o artificiali - come già detto - restassero relegate ai piedi della scala
gerarchica delle prove, sia pur con gradazioni interne di sensibile rilevanza97.
Menochio, nel già citato De Praesumptionibus, aveva esperito un non facile
tentativo di distinzione tra le categorie della presunzione, dell’indizio, della
coniectura, del signum, del suspicium e dell’adminiculum.
In particolare, nella Quaestio IV, aveva definito la praesumptio iuris98 quale
prova artificiale valida per i giudizi civili, attinente al verosimile e al probabile,

95
I. Marsilii, De probationibus. Solennis et pene diuina V.I. doctoris ac interpretis
profundissimi domini Hippolyti de Marsilijs Bononiensis Repetitio rubrice C. de probationibus.
Cum additionibus per eundem autorem nouiter in lucem ... editis. Una cum summarijs et
repertorio nouissime appositis, Lugduni, 1538.
96
Così in P. Ellero, Della Critica criminale (1860), in Trattati Criminali, Bologna, 1875, pag.
144.
97
In base alla fondamentale ricostruzione operata da G. Alessi, Prova legale e pena cit., pag. 45
e ss.: «Il sentiero che condurrà alla netta contrapposizione tra prova e presunzione può
ripercorrersi attraverso la lettura degli ordines judiciarii, che si succedettero numerosi a partire
dai primi decenni del secolo XIII ed i cui risultati trovarono matura rielaborazione nello
Speculum Judiciale di Guglielmo Durante. (…) La divisione tra prove artificiales e
inartificiales, che non conteneva nelle fonti classiche alcuna valutazione preferenziale delle
seconde rispetto alle prime, tende a divenire (…) una netta contrapposizione tra probationes
verae (testimonianze e documenti) e probationes fictae, con una esplicita maggiore dignità
conferita alle prime».
98
«Vaero quarto, quae dicatur probatio verisimilis artificialis, quam nostri praesumptionem iuris
appellant? Et vere illa esse dicitur, cui aliquibus positis verisimiliter atque ita probabiliter non
29
ma non al necessario. Stessa identica definizione per la praesumptio hominis99,
con l’unica, significativa differenza che nel primo caso v’era un riconoscimento
normativo: la presunzione si diceva approbata ex lege; nel secondo, ciò non
accadeva. E dunque, con la prima categoria si era elaborato un singolare
escamotage, volto a far entrare il ragionamento presuntivo nel novero delle prove
legali; nel secondo tipo, la totale assenza di un qualche supporto normativo ne
rendeva assai più complicato il pratico utilizzo.
Quanto alla praesumptio iuris et de iure, denominata anche violenta o
violentissima, essa, si diceva, «oritur a necessariis»100. Ciò la rendeva
particolarmente determinante nel percorso ricostruttivo, tanto da essere spesso
equiparata alla probatio plena, come nel caso di scuola «si mulierem habere
lactem in mammis, inde artificialis probatio, seu violenta praesumptio orietur
mulierem hanc fuisse corruptam»101.
Per l’indizio, veniva riportata la celebre definizione di Baldo:

«Indicium vero solo nascitur a probabilis (…). Est indicium coniectura


ex probabili sed non necessariis orta, a quibus potest abesse veritas,
sed non verisimilitudo veri, quae quandoque mentem iudicantis ita
perstringunt, ut cogant conscientiam iudicis iudicare secundum ipsa».

Tale enunciazione veniva però tacciata di inesattezza; Menochio riteneva che,


così formulato, l’indizio apparisse del tutto equivalente ad una presunzione di
legge: «Caeterum mihi, videtur hoc loco Baldum sumere indicium pro ipsa
praesumptione iuris; quae interdum cogit iudicem secundum eam iudicare, et ab
ea indicium differre»102. Si contestava altresì l’insegnamento di Giulio Claro103,
secondo il quale l’indizio era «qualcosa di più della semplice presunzione»: il
disvalore attribuito da Menochio a tale affermazione atteneva non solo alla sua
eccessiva genericità, ma anche e soprattutto alla circostanza che, in quella sede,
la presunzione si vedesse riservato un gradino inferiore all’indicium nella scala
delle prove inartificiali104. Passando alla spiegazione etimologica del termine

autem necessario sequitur, quod intendimus», J. Menochio, De praesumptionibus cit., tomo I,


Quaestio IV, par. 2, pag. 4.
99
«Vaero quinto, quae dicatur praesumptio hominis? Haec a Rethoribus non separatur ab illa,
quam superiore questione explicavimus. Nam et in hac ex eorum sententia, ex aliquibus positis
verisimiliter et probabiliter, non autem necessario sequitur quod intendimur», Ibidem, Quaestio
V, par. 1, pag. 4.
100
Ibidem, Quaestio III, par. 1, pag. 2
101
Ibidem, Quaestio III , par. 2, pag. 2
102
Ibidem, Quaestio VII, par. 6, pag. 4.
103
G. Claro, Practica Criminalis cit., q. 20, pag. 19
104
«Absolute vero non est quod scripsit Iulius Clarus (…), cum dixit indicium esse maius ipsa
simplici praesumptione», J. Menochio, De praesumptionibus cit, Quaestio VII , par. 8, pag. 4
30
indizio, il giurista ne metteva in evidenza il carattere argomentativo: «Est
indicium nota quaedam et demonstratio rei gestae»105.
Mentre la presunzione appariva una circostanza fattuale, in qualche modo
attinente alla natura delle cose, e dunque presentava un margine superiore di
attendibilità, l’indizio, con la sua innegabile componente speculativa, aveva un
carattere marcatamente ipotetico, per sua natura incerto e malsicuro.
La tradizione, com’è noto, attesta una pressoché perfetta corrispondenza tra
prova legale e pena ordinaria (così come tra prova presuntiva o indiziaria e pena
straordinaria)106 fino a buona parte del secolo XVI; come già anticipato, a partire
dal Seicento, l’opinione prevalente secondo la quale la condanna ad una pena
edittale dovesse necessariamente scaturire da un sistema di rigida pienezza
probatoria venne dapprima aggirata con una serie di artifizi normativi, ad
esempio il riconoscimento di indicia quae sunt a lege approbata, e poi
esplicitamente contestata dalla criminalistica più autorevole107. Questa
divergenza teorica trovò il suo nucleo centrale nello studio di una particolare
categoria di indizio, l’indubitato:

«Indicium vero plenum est demonstratio rei per signa sufficentia, per
quae animus in aliquo tamquam in existente quiescit, et plus
investigare non curat»108.

Com’è noto, la definizione di Baldo, introduceva una categoria superiore di


signa, al centro della quale stava la claritas, a sua volta collegata spesso
all’approbatio legis. L’assenza di pienezza e il carattere comunque congetturale,
sconsigliavano in ogni caso l’abbinamento dell’indubitato alla sanzione
ordinaria; l’opinione comune si era affermata nel senso di attribuire a tali
argumenta la sola capacità di far irrogare pene corporali o pecuniarie.
Per quel che riguarda la dottrina di area napoletana, che è quella di maggiore
rilevanza nel nostro percorso ricostruttivo, Paride Del Pozzo, alla fine del XV
secolo, aveva messo in evidenza come tutte le prove artificiali fossero incapaci di

105
Ibidem, par. 20, pag. 4.
106
La regola dell’esclusione della pena ordinaria in caso di prova indiziaria o presuntiva è un
principio costante in tutta la trattatistica cinquecentesca; per esempio viene lucidamente
formulato da Egidio Bossi: «Poena ordinaria delicti non imponitur ex praesumptionibus», in
Tractatus Varii qui omnem ferem criminalem materiam…complectuntur, Mediolani, 1562, tit.
De Convictis, par. 40. Nel passaggio immediatamente successivo, si esclude altresì la pena
corporale, e si ammette unicamente la pena pecuniaria, a meno che la prima non sia lieve,
perché in tal caso sono equiparate, Ibidem, par. 41. Discorso a parte valeva per determinate
categorie di delitti che, come vedremo infra, ammettevano ampie eccezioni alla regola succitata.
107
Sul punto: I. Rosoni, Quae singula cit., pag. 89 e ss.
108
Baldo, In VII, VIII, IX, X et XI Codicis libros commentaria, Venetiis 1572, De
accusationibus, n. 8.
31
determinare il superamento dell’incertezza probatoria, con l’ovvia conseguenza
che «nemo ex indiciis potest condemnari»109.
Analogamente si era espresso il già citato Follerio, il quale aveva dettato il
criterio generale secondo cui: «(…) quotiescumque quis condemnatur ex
praesumptionibus numquam ei imponitur poena ordinaria et vera delicti sed alia
mitior»110. La regola sarebbe rimasta invariata nelle teorie e nelle pratiche: la
pena straordinaria come unica alternativa all’insufficienza probatoria avrebbe
resistito tenacemente fino a tutto il Seicento, specie nel Regno di Napoli, ove si
mostrò impermeabile persino alle eccezioni ammesse dallo stesso diritto comune.
Esistevano infatti, come già anticipato, numerosi contemperamenti alla regola
dell’inapplicabilità della pena edittale sulla base di elementi circostanziali; di
alcuni di questi specialia (disciplinati tanto dalla legislazione romanistica quanto
dal diritto canonico) ci offre una significativa testimonianza il giurista napoletano
Giacomo Antonio Marta111.
Nel 1620 egli pubblicò un’opera intitolata Compilatio Totius Iuris, all’interno
della quale, precisamente nella sezione dedicata alla materia delle prove, è
possibile rinvenire una significativa quanto curiosa testimonianza dell’utilizzo di
indizi indubitati anche al fine del conseguimento della piena prova.
Il caso è singolare per un duplice aspetto: anzitutto perché ci troviamo di fronte
ad un autore estremamente controverso112; la grande autorevolezza, testimoniata
dalla frequenza con cui viene citato da tutta la criminalistica, specie tardo-
secentesca e di area napoletana, induce a pensare che si trattasse di un giurista
attestato su posizioni ampiamente maggioritarie e condivise, saldamente ancorate
alla retorica della probationes plenae113. L’acclamato giureconsulto, professore

109
P. Dal Pozzo, Tractatus absolutissimus de syndacatu, Francofurti, 1608, Tortura, n. 3, pag.
914.
110
P. Follerio, Practica Criminalis cit., IV, Poenis debitis feriantur, n. 59, pag. 402.
111
Giurista assai erudito, nacque nella capitale del Regno nel 1559. Abbandonò precocemente il
foro per dedicarsi all’insegnamento universitario: fu lettore a Napoli, Benevento, Roma, Pisa,
Mantova e Padova, dove morì in data incerta (secondo alcuni nel 1623; secondo Giustiniani
senz’altro dopo il 1628). In L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di
Napoli, Napoli, 1787, vol. II, pp. 233-238.
112
Le notizie biografiche che possediamo sul conto di Marta non brillano per coerenza: secondo
qualcuno non conseguì mai la laurea «che di sua propria autorità erasi conferito», (così in N. C.
Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini post ea, quae hactenus de illo scripta sunt, ad haec
nostra tempora plenius…, Venetiis, 1726, t. I, pag. 268). Nonostante ciò, fu lettore a Pisa, a
Roma e in altre celebri Università. Moltissime le opere a lui attribuite; particolarmente
acclamato il Tractatus de clausulis, edito nel 1613. In una raccolta di Lettere a Galileo, edita a
Firenze nel 1851, all’interno della prima edizione completa delle Opere di Galileo Galilei
curata da Vincenzo Viviani, il nome di Marta figura tra i nuovi “lettori” di Padova nell’anno
1611.
113
Ciò è testimoniato dal fatto che, a proposito degli indizi, Marta tenda, in linea generale, a
negare piuttosto recisamente la loro rilevanza ad condemnandum, ed anzi sottolinei la necessità
che siano approvati dalla legge affinché il giudice possa tenerne conto: «indubitata a iure
32
nelle più prestigiose università italiane, dimostrò invece di essere disponibile a
significative aperture in campo probatorio: quelle stesse aperture, benché assai
circoscritte, non erano affatto scontate nell’orizzonte napoletano.
A rendere curioso il brano di seguito esaminato è inoltre l’assoluta peculiarità del
tema in oggetto: la copula carnalis, circostanza di fatto difficilis probationis che
veniva in rilievo per una molteplicità di fattispecie quali l’adulterio, il ratto, la
seduzione, il meretricio.
Nel capitolo LVIII, intitolato Copula carnalis quomodo probatur, egli affermava
che, essendo difficile ottenere in merito la prova diretta, occorresse
necessariamente procedere per congetture o per indizi indubitati, tra i quali
venivano annoverate una serie di circostanze che, sommate tra loro, potevano
senz’altro determinare la comminazione della condanna114. Quanto all’ipotesi
specifica del meretricio, si riteneva circostanza verosimile e pienamente probante
l’andirivieni degli scolari e degli uomini, che «entrano ed escono, notte e giorno,
dalla casa dell’inquisita»115.
L’esempio della copula carnalis ci offre così lo spunto per individuare una
categoria assai più ampia di delitti suscettibili di essere pienamente puniti in
presenza di soli indizi, sia pur indubitati.
La tradizione più risalente, infatti, ammetteva senz’altro tale possibilità, ma
limitatamente a quei delicta contrassegnati da un particolare disvalore (atrocia
vel atrociora) che ne giustificasse un trattamento extra ordinem anche sotto il
profilo della sufficienza probatoria116.
Ad esempio, nel crimine di assassinio117, data l’enormità del fatto criminoso, non
si richiedeva necessariamente la prova piena ai fini della condanna edittale. Tale

approbata esse debent, ut iudex ita declarare possit (…)», in Compilatio Totius Juris controversi
ex omnibus decisionibus Universi Orbis, Venetiis MDCXX, tomo II, Cap. XXIX, pag. 86.
114
«Super carnali copula directa probatio difficilis est, per coniecturas autem, actumque
propinquum, quae inditia indubitata sint, ita fieri potest, ut condemnatio sequi possit, ut pote,
per antecedentia scelus, ut sunt apparatus, colloquia, locus constitutus, basia, tactus, ex quibus
sceleris argumentis inducitur», Ibidem, pag. 386
115
«Meretrix per cincumstantias verisimiles probari consuerit, ut quia scolares, et alii de die, ac
nocte intrant, atque de domo sua exeunt», Ibidem, pag. 386
116
Sul regime di «programmatica straordinarietà, specialità, eccezionalità», che investiva i
crimina atrocia vel atrociora su tutto il piano procedurale (non solo, dunque, su quello
probatorio), si rimanda allo studio di L. Lacchè, «Ordo non servatus». Anomalie processuali,
giustizia militare e «specialia» in antico regime, cit., pag. 362 e ss.
117
Classicamente, l’assassinium è il crimine di colui che «suscepta ab aliquo pecunia, mediante
mandato, alterum occidit», ma col tempo diviene, più in generale, l’omicidio «commissum
causa lucri faciendi». Come il latrociunium, ossia l’uccisione rivolta a spogliare la vittima, è un
crimine mostro, dove la finalità lucrativa rappresenta un pesante elemento aggravante. Sul
punto, M. Sbriccoli, Brigantaggio e ribellismi nella criminalistica dei secoli XVI-XVIII, in
Storia del diritto penale e della giustizia cit., I, pag. 305 e ss.
33
principio, veniva fatto risalire addirittura ad una Costituzione di Innocenzo IV in
base alla quale:

«(…) et postquam probabilius constiterit argumentis aliquem scelus


tam esecrabile commisisse, nullatenus alia excommunicationis vel
depositionis, seu diffidationis adversus eum sententia requiratur»118.

Stesso discorso valeva, in diritto canonico, per il crimine di eresia o di


simonia119, dove, in base al rescritto di Papa Lucio III, per la pena ordinaria era
sufficiente la prova per signa et coniecturas120.
Per quel che riguardava la materia dell’omicidio, un canonista bolognese molto
vicino agli ambienti napoletani, Giovanni Domenico Rinaldi121, in un trattato
intitolato Observationum criminalium civilium et mixtarum liber primus, aveva
compiuto una sottile indagine sull’importanza del momento psicologico ai fini
della configurazione della fattispecie.
Egli aveva spiegato che l’indizio poteva senz’altro determinare la condanna
capitale, purché però vertesse sulla causa occidendi, e dunque sull’animus
necandi: per dimostrare o escludere la premeditazione non bastava, secondo
l’autore, l’indicium riguardante l’ora notturna del delitto122, né quello che
attestasse che il fatto si fosse svolto all’interno di una colluttazione; occorreva
che l’indizio stesso fosse in grado di dimostrare inequivocabilmente la volontà di
commettere omicidio da parte del reo. Siffatta considerazione lo portava ad

118
VI, l. V, tit. IV, c. 1.
119
X, l. V, tit. III, c.6.
120
Il commercio di cariche ecclesiastiche era caratterizzato da una disciplina particolarmente
severa: «Sicut enim simoniaca pestis sui magnitudine alios morbos vincit, ita sine dilatione
mox, ut eius signa per aliquam personam claruerint, de ecclesia Dei debet eliminari atque
repelli. Petrus enim primus pastor eclesiae non alicuius hominis attestatione sed sancti sipitibus
inspiratione Simonis interiora recognescens sine aliqua ausientia terribili eum et repentina morte
mulctavit», (X , l. V, tit. III, c. 6). Il carattere odioso del crimine di simonia, faceva sì che,
eccezionalmente, potessero essere ammessi all’accusa anche servi, prostitute e criminali (X, l.
V, tit. III, c.7)
121
Rinaldi, Uditore del Torrone nei decenni centrali del Seicento, aveva dato prova di essere un
attento conoscitore della letteratura napoletana, e aveva in particolare utilizzato quella
favorevole al potere dei Viceré in materia di deroga ai privilegi, per far intendere a Bologna che
anche i suoi privilegi erano derogabili: « Ideo tu, Bononiensis, qui habet simile privilegium,
pondera eorum dicta» . Sul punto: A. De Benedictis, Da consuetudo a lex: l’irrevocabilità di un
privilegio cittadino, in Das Privileg im europäischen Vergleich, B. Dölemeyer, H. Mohnhaupt
(a cura di), Frankfurt am Main, 1997, pp. 207-233.
122
Sulla notte quale circostanza aggravante per una molteplicità di delitti, si ricordi il saggio di
M. Sbriccoli intitolato “Nox quia nocet”. I giuristi, l’ordine e la normalizzazione
dell’immaginario, che è l’introduzione di un volume da lui stesso curato: La notte. Ordine,
sicurezza e disciplinamento in età moderna, Firenze, 1991 (ora anche in Storia del diritto
penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), cit., I, pp. 261-278).
34
affermare senz’altro che «inditia aequivoca et incerta et non concludentia non
sunt satis ad poenam ordinariam»123:

«(…) At discernendum quod homicidium fuerit animo premeditato, et


asangue freddo commissum, requiritur de necesse, quod constet de
causa occidendi, quia causa solum est illa, quae qualificat, et
individuat tempus, quo homicida potuit determinare inimicum
occidere: alia enim supra relata inditia possunt referri ad
deliberationem occidendi a sangue caldo, et ideo tamquam aequivoca,
ambigua, incerta, et non concludentia non possit attendi ad
imponendam poenam mortis quae non imponitus nisi in casu
homicidii premeditati».124

Questo stava a significare, argomentando a contrariis, che la prova indiziaria,


purché fosse chiara e sicura rivelatrice del dolo, consentisse senz’altro la
condanna alla pena ordinaria.
La conferma di ciò si rinviene agevolmente nella criminalistica più autorevole:
Giulio Claro ammetteva la condanna capitale su base presuntiva (purchè la
presunzione fosse posita a lege, come appunto nel caso di homicidium)125.
Di diverso avviso era la più accreditata dottrina napoletana, come quella che
faceva capo a Francesco Merlino Pignatelli, il quale aveva senz’altro ammesso la
possibilità di condannare sulla base di presunzioni, benché urgenti e indubitate126,
ma aveva precisato che la pena dovesse coincidere, sempre e in ogni caso, con
una sanzione pecuniaria127.
Ciò veniva affermato nonostante l’insegnamento del doctissimus Pietro Caballo,
il quale aveva invece sostenuto, in una famosa risoluzione citata dallo stesso
Merlino, di non avere mai condannato taluno ad una pena straordinaria sulla base

123
G. D. Rinaldi, Observationum criminalium, civilium et mixtarum, Romae, 1698, tit. XXII,
pag. 411, n. 12.
124
Ibidem, n. 16.
125
G. Claro, Practica Criminalis cit., q. XX, n. 7. La sufficienza di prove indirette, e addirittura
di probabilia argumenta ai fini della condanna edittale, in considerazione della immanitas
criminis, è ampiamente documentata da I. Rosoni, Quae singula cit., pag. 199 e ss., dove si
mette in evidenza una certa diffusione del principio anche presso la criminalistica tradizionale:
oltre a Giulio Claro, tra gli autori citati si rinvengono Egidio Bossi (Tractatus varii, cit., De
mandato ad homicidium, n. 14) e Prospero Farinacci (Praxis et Theorica criminalis, Lugduni,
1564, quaest. 52, n. 50 e ss.).
126
«Iudex potest ex praesumptionibus condemnare, si tamen sint urgentes et indubitata», F.
Merlino Pignatelli, Controversiarum Forensium juris communis et Regni Neapolitani, Neapoli,
MDCXXXIV, Caput. XVIII, n. 15.
127
«Mihi tamen videtur verius et aptius responderi posse: quandoquoque praesumptio sit nimis
violenta, indubitata et urgens, quo casu, et non alio potest Iudex ad condemnationem
pecuniariam devenire (…)», Ibidem, n. 20.
35
di elementi indiretti, chiamati mere suspiciones, poiché le prove criminali
dovevano essere obbligatoriamente luce meridiana clariores128.
Era questa la prova legale nella sua forma più antica e pura: o prove piene, o
assoluzione. Ma una logica così irriducibilmente ancorata all’alternativa tra
condanna e proscioglimento non si mostrava affatto funzionale alle irriducibili
esigenze della repressione, e a Napoli non aveva mai trovato terreno fertile.
Stante dunque il netto rifiuto di condannare alla poena ultimi supplicii un
soggetto meramente, benché gravemente indiziato, la pena straordinaria,
pecuniaria o corporale che fosse, costituiva l’espediente obbligato.
Francesco Broya, giurista di origini salernitane attivo nella seconda metà del
XVII secolo, nella sua Praxis Criminalis, pur avendo mirabilmente definito
l’indizio indubitato e l’effetto da esso prodotto nella mente del giudice129, e pur
avendo altresì elencato esempi di scuola piuttosto efficaci in tal senso (la fuga
dalla casa dell’ucciso con la spada sguainata e sporca di sangue, abbinata
all’inimicizia capitale e alla circostanza che nessun altro avesse varcato quella
stessa soglia nel medesimo giorno), aveva concluso la propria dissertazione con
il semplice riconoscimento della possibilità di evitare la tortura e di condannare
direttamente ad una pena straordinaria. Il principio sarebbe stato ribadito anche
altrove: «ex indicis etiam urgentibus possunt rei condemnari ad poenam
extraordinariam»130.
Insomma, la radicata sfiducia nelle prove indirette induceva gran parte della
dottrina napoletana a preferire rimedi extra-ordinem anche laddove lo stesso ius
commune autorizzasse soluzioni ordinarie: persino nei più frequenti delitti
occulti, l’uso di indizi e presunzioni restava senz’altro interdetto, quantomeno ai
fini della condanna edittale131.
Ancora una volta, la controversa materia probatoria rivelava una serie molteplice
di posizioni e di “sfumature” teoriche: il principio generale, ampiamente
condiviso, era la necessità - in criminalibus - di prove piene e perfette. Ove fosse
impossibile per il giudice raggiungere questa pienezza e questa perfezione, si
praticavano comunemente, non senza opposizioni132, significative diminuzioni di
pena rispetto alla previsione edittale. Le pene straordinarie non erano tuttavia
necessarie in presenza di talune fattispecie, fossero esse contrassegnate da un
particolare disvalore (crimina occulta; crimina atrocia vel atrociora), o da

128
Ibidem, n. 15,16,17.
129
«Indicia indubitata sunt illa quae arctant mentem Judicis ad firmiter credendum quod res in
contrarium esse non potest», F. Broya, Praxis Criminalis cit., liber I, cap. IX, n. 10, pag. 118.
130
Ibidem, n. 7.
131
Sulla larga comminazione di pene straordinarie da parte della decisionistica napoletana, si
veda infra, 1.3.
132
Sulla dottrina, specie di area spagnola, contraria alla pratica delle pene arbitrarie, si veda
infra, I.4.
36
un’oggettiva difficoltà di essere provate (difficilis probationis): in questo caso
anche elementi indiretti o imperfetti avrebbero potuto fungere da piena prova.
Ma qui il principio era ancor meno pacifico, e le discussioni tra i doctores
restavano sostanzialmente irrisolte133. Così, nel dominio dell’arbitrium e delle
molte sue forme, nessuna delle regole su esposte poteva dirsi certa: la
decisionistica napoletana, come vedremo più oltre, confutò quasi sempre le
prescrizioni in tema di delitti occulti, e fu dedita ad una larghissima
comminazione di poenae extraordinariae anche in quei casi. All’opposto, una
parte della dottrina, benché minoritaria, proprio partendo dal regime degli
specialia, si oppose recisamente ai consueti meccanismi straordinari e alle
logiche che essi sottendevano, propugnando un più ampio arbitrium “sul fatto” in
merito a qualunque tipo di delitto134.
I motivi per cui permaneva, soprattutto a Napoli135, la massiccia tendenza a
mitigare le sanzioni - anche in quei casi in cui si sarebbe potuta comminare la
133
La logica di aggravamento procedurale, tipica dei delitti atroci o di difficile cognizione,
viene descritta da L. Lacchè in Ordo non servatus cit., pag. 381 e ss.: «La struttura processuale
specializzata nelle ipotesi dei crimini atrociora e atrocissima ha l’obiettivo di porre l’imputato
nella condizione di maggior sfavore. Costruito sull’intelaiatura portante del processo
inquisitorio, il procedimento caratterizzato dalla presenza massiccia dei singularia è tutto contro
il reo. La più che falsa «neutralità» del processo ordinario è qui addirittura negata». Questo
profilo di “inasprimento” persecutorio trovava un’espressione peculiare nelle eccezioni al diritto
delle prove, ampiamente disciplinate dallo stesso diritto comune: «Il principio garantistico
secondo cui probationes luce meridiana clariores requiruntur, subisce continue eccezioni. La
plena probatio può essere soppiantata da praesumptiones e semplici congetture, soprattutto nei
reati occulti, cioè di difficile cognizione (…)». Lo stesso autore spiega, tuttavia, la non uniforme
recezione di questi principi da parte della dottrina e della prassi: «Certamente la materia delle
probationes e delle praesumptiones non si caratterizza per l’assoluta univocità
dell’aggravamento», Ibidem, pag. 382. I. Rosoni, in Quae singula cit., pag. 199 e ss., descrive
invece una dottrina assai più omogenea in tal senso, mentre la giurisprudenza restava
contrassegnata da una vistosissima difformità negli orientamenti: basterà qui ricordare la netta
divaricazione, già accennata, tra tribunali napoletani ed iberici, di cui infra, I.3, I.4, I.5.
134
Infra, cap. II.
135
Non è qui possibile effettuare un’accurata disamina degli orientamenti giurisprudenziali nel
resto della penisola, sebbene i molti e autorevoli studi sul processo criminale precedentemente
ricordati (H. Levy-Bruhl, La preuve judiciaire. Étude de sociologie juridique cit., G. Alessi,
Prova legale e pena cit., M. Meccarelli, Arbitrium. Un aspetto sistematico degli ordinamenti
giuridici in età di diritto comune cit.) dimostrino che le tendenze all’arbitrium sulla pena quale
espediente per colmare l’insufficienza probatoria fossero pressoché generalizzate in tutto il
circuito europeo continentale. Per quel che riguarda il Senato di Milano, è utile richiamarsi agli
studi di Adriano Cavanna sulla coscienza del giudice, ove si mette in evidenza il largo uso di
pene straordinarie, ma dove si sottolinea altresì l’esistenza di più ampi poteri di accertamento
della verità processuale: secondo la criminalistica lombarda del XVII secolo (Ruginelli, Garoni,
Mogni Fossati), il Senato poteva infatti ritenere sufficienti ai fini della pena edittale anche
probationes leviores. Sul punto: A. Cavanna, La coscienza del giudice nello stylus iudicandi del
Senato di Milano, in Scritti (1968-2002), vol. II, cit. In questo principio, affatto trascurabile, è
possibile individuare una netta discontinuità rispetto alla prassi napoletana e una certa contiguità
con lo stylus iberico. Sull’ampiezza della discrezionalità valutativa esercitata dal supremo
organo giurisdizionale del Ducato di Milano, è opportuno ricordare anche i seguenti contributi:
37
condanna ordinaria- sono stati in parte suggeriti dalla storiografia 136: accanto a
un problema di “tenuta” del sistema, vi era presumibilmente una questione
puramente pratica, consistente nella maggiore opportunità di comminare sanzioni
pecuniarie (entrate per il Fisco) o, in caso di insolvenza, utilizzare i condannati
come rematori sulle galere (forza lavoro non retribuita). Ciò doveva apparire ai
supremi magistrati di gran lunga preferibile rispetto alla pronuncia di condanne
capitali su base indiziaria o presuntiva, opzione che per giunta li esponeva al
rischio di mandare a morte inquisiti di cui non fosse stata pienamente dimostrata
la colpevolezza.
Scrupoli formalistici a sfondo “utilitaristico”? Certamente questa spiegazione
non appare sufficiente a motivare una prassi così connaturata alla tradizione
napoletana; occorrerebbe allora aggiungere anche l’ultimo tassello della nostra
ricostruzione, che ha in sé elementi chiaramente “politici”: a Napoli le condanne
capitali venivano emanate così difficilmente137 anche e soprattutto per una
generale “tendenza alla mitezza”, ch’era il vanto delle supreme corti
partenopee138. Questa clemenza così ricorrente - un favor rei che si traduceva in
una sorta di “ipergarantismo arbitrario” - stava a testimoniare una volta di più
l’immenso potere e l’indiscusso privilegio di un ceto139: «Pilastro della scientia
juris medievale, l’aequitas era intesa non solo come criterio integrativo della lex
scritta, ma soprattutto in contrapposizione ad essa, e come epifenomeno dei
poteri “principeschi” del Consiglio (…)»140. La preminenza scientifico-

L. Garlati Giugni, Inseguendo la verità. Processo penale e giustizia nel Ristretto della prattica
criminale per lo Stato di Milano, Milano, 1999; A. Monti, Iudicare tamquam deus. I modi della
giustizia senatoria nel Ducato di Milano tra Cinque e Settecento, Milano, 2003. Un discorso a
sé meriterebbe la Repubblica di Venezia, dove studi assai risalenti intercettano una significativa
anomalia nella procedura criminale: una legge del 1242, pubblicata dal Besta e dal Predelli negli
Statuti civili di Venezia anteriori al 1242, affidava al giudice il compito di stabilire chi avesse
diritto di dare il vadimonium comprobandi; in altre parole, egli poteva decidere di non attenersi
alle allegazioni testimoniali senza necessariamente imputarle di falsità. Semplicemente, avrebbe
stabilito di non “stare” alle deposizioni raccolte. Ciò equivaleva a legittimare un vero e proprio
giudizio di coscienza, totalmente slegato dai meccanismi di prova legale. Così in G. Salvioli,
Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto italiano, a cura di E. Besta e P.
Del Giudice, III, Milano, 1927, pag. 468. I più recenti contributi sulla procedura criminale
veneziana sono stati raccolti in G. Chiodi, C. Povolo (a cura di), L’amministrazione della
giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII), I-II, Verona, 2004.
136
Sul punto: G. Alessi, Pene e remieri a Napoli tra ‘500 e ‘600. Un aspetto singolare
dell’illegalismo d’ancien régime, in «Archivio storico per le province napoletane», 1977, XV,
pag. 235 e ss.
137
Come testimoniato dalle statistiche riportate infra, I.3
138
La prassi giudiziaria delle corti superiori del Regno, era contrassegnata da una sorprendente
“dolcezza delle pene” che sarebbe stata ampiamente documentata, oltre un secolo dopo, anche
dal giurista e storico Vincenzo Cuoco. Così in P.L. Rovito, Prova legale e indizi cit., pag. 165.
139
«Il favor rei non rimaneva un’astratta dichiarazione d’intenti, ma trovava puntuali riscontri
procedurali (…)», in M.N. Miletti, Tra equità e dottrina cit., pag. 345.
140
Ibidem, pag. 153.
38
istituzionale dell’organo e dei suoi componenti, fungeva da corollario alla
continua possibilità di rendere il sistema ancor più duttile, e ciò allo scopo di
rispondere alle ineluttabili esigenze di una giustizia “superiore” e
opportunamente differenziata141. Il risultato di quest’attività era la sintesi di due
elementi: il rispetto ossequioso delle forme rituali e il contemporaneo esercizio di
penetranti poteri equitativi; rispetto a questo meccanismo caratteristico delle più
alte corti napoletane e ampiamente documentato, come vedremo, nelle raccolte di
Vincenzo De Franchis, una parte della storiografia ha espresso una valutazione
piuttosto netta: «L’approccio complessivamente scrupoloso non deve ingannare.
In realtà i tribunali di vertice, promettendo di rispettare evanescenti preclusioni di
propria creazione, simularono uno sforzo di auto-regolazione che mirava
soprattutto a prevenire ogni possibile disciplinamento imposto dall’esterno»142.
Vi era forse, nell’atteggiamento caratteristico delle magistrature napoletane, una
precisa volontà di prendere le distanze dalle corti iberiche - fortemente
controllate dalla Corona - e di rivendicare un’intangibile autonomia nei modi e
nelle forme della repressione criminale143.
E così la scelta delle varie opzioni punitive, e di tutte le possibili combinazioni
tra prova e pena, era di fatto interamente rimessa all’arbitrium iudicis, e
dipendeva in larga misura dallo stylus delle corti, in un clima di inevitabili
discontinuità applicative vissute con disagio da una parte sempre più
considerevole di pratici e studiosi144.
Proprio per questa ragione, nel corso del XVII secolo si sarebbero levate, specie
nella criminalistica influenzata dall’area spagnola145, voci in favore della

141
Il carattere oculatamente “differenziato” della repressione criminale d’antico regime, è stato
ampiamente analizzato da G. Alessi, Prova legale e pena cit., pag. 174 e ss.
142
G. Alessi, Prova legale e pena cit., pag. 152.
143
Questo passaggio potrebbe risultare assai utile per comprendere la vicenda della Prammatica
XII de officio iudicum, di cui infra, I.5.
144
Già nella metà del Cinquecento il celebre commentatore di Claro, Giovan Battista Baiardi,
dopo una lunga esperienza in qualità di uditore criminale in Abruzzo, aveva aspramente
criticato la macchina giudiziaria del Regno, attribuendo le cause dell’aumento della criminalità
alle lungaggini degli appelli, alle minuzie formali, e soprattutto alle interferenze dei tribunali
superiori. I Regi Tribunali, infatti, rallentavano le cause provinciali o ne ribaltavano i risultati,
facendo sì che, in definitiva, delitti anche pubblici restassero impuniti e delinquenti del tutto
meritevoli di pene capitali potessero beneficiare delle più svariate garanzie processuali, per
esempio negando pertinacemente crimini che fossero stati commessi publice. Così in G. Alessi,
Prova legale e pena cit., pag. 189 e ss.
145
M. De Cortiada, nella sua raccolta di Decisiones, sintetizza in una formula assai significativa
lo stylus hispanicus: «Quando iudex iudicat secundum Deum et suam conscientiam leviores
sufficiunt probationes», in Decisiones Cancellarii et S. R. Senatus Cathaloniae sive praxis
contentionum judicialium et competentiarum Regnorum inclitae Coronae Aragonum, Venetiis,
MDCCXXVII, (dec. XXI e XXIV). G. De Sesse attesta invece che nel Sacro Regio Consiglio
d’Aragona si condannava «ad poenam ordinariam indicijs et praesumptionibus», in Decisionum
S. Senatus Regij Regni Aragonum et Curiae d.ni Iustitiae Aragonum, I, Caesaraugustae, 1611
39
condanna alla pena edittale sulla base di soli indubitata, sino al tentativo, rimasto
a lungo infruttuoso, di attribuire a tale pratica una sanzione ufficiale anche a
Napoli, con la Prammatica XII, intitolata De officio judicum146.
Quest’ultima, come vedremo, senza trovare effettivi ed immediati riscontri nella
prassi, avrebbe pesantemente influenzato gran parte della dottrina secentesca in
materia di indizi e, soprattutto, avrebbe introdotto nella dialettica processuale la
nuova, fondamentale variabile della ferma credenza.

(dec. CIII). Anche presso la Magna Curia siciliana questi orientamenti si sarebbero manifestati
attraverso la larga comminazione di sentenze di morte sulla base di mere prove indiziarie. Lo
dimostra la raccolta di G. Basilico, Decisiones criminales Magnae Regiae Curiae Regni
Siciliae, Florentiae, 1691. La storiografia spagnola ha sovente evidenziato una continuità tra lo
stylus iberico e le corti siciliane: «Es posible encontrar una clara influencia en Sicilia del
derecho aragonès y catalán desde los primeros tiempos de la incorporación de la isla a la Corona
aragonesa, la misma fue escasa y bastante puntual», in J.M. Garcia Marin, Monarquia Catolica
en Italia. Burocracia imperial y Privilegios Constitucionales, Madrid, 1992, pag. 219. Queste
tendenze, oramai consolidatesi tra Cinque e Seicento, rivelano uno scarto notevole tra la
giurisprudenza spagnola e i modelli processuali francesi o napoletani. Così in P.L. Rovito,
Prova legale e indizi cit., pag. 159 e ss., dove tra l’altro questa significativa divaricazione
assume un significato integralmente politico, perché viene spiegata alla luce della maggiore
forza esercitata dalla monarchia spagnola sugli apparati di giustizia: attraverso forme di
convincimento arbitrario, che accantonavano l’armamentario probatorio di diritto comune, i
magistrati di fatto divenivano «docili strumenti dei Reyes Catholicos».
146
Di cui infra: I.5.
40
I.3 Rimedi straordinari e Decisiones Neapolitanae

Dall’analisi delle principali raccolte di giurisprudenza dei supremi tribunali del


Regno di Napoli, emerge una costante sfiducia nei confronti delle prove indirette:
come già anticipato, anche laddove i più antichi precetti di ius commune
autorizzassero a contravvenire alla regola delle probationes luce meridiana
clariores, i magistrati napoletani, lungi dal ritenere pacifica la possibilità di
comminare condanne piene, si mostravano comunque più propensi ad arbitrare le
sanzioni.
Di questo possiamo avere numerose testimonianze all’interno delle rassegne
tardo-cinquecentesche, come quelle autorevolissime di De Franchis147, ancora
largamente circolanti nel pieno Seicento, dove per esempio la materia
dell’omicidio costituiva una frequente occasione per evidenziare la discordia tra i
giuristi circa le soluzioni praticabili in caso di insufficienza probatoria.
Nella Decisio CCCLXXII, si raccontava dell’appello di tale Simone Aderisio,
condannato a morte per l’uccisione di Giovanni Domenico Viola sulla base di
soli indicia indubitata148. L’imputato, pur essendo stato sottoposto a tortura,
aveva resistito non confessando il proprio delitto, ma era stato comunque
destinato dalla Vicaria alla poena ultimi supplici (era dunque stata applicata la
tortura con riserva di prova149, per giunta senza il consueto arbitramento della
sanzione, tendenzialmente riservato alle corti supreme). Il condannato aveva
quindi appellato la sentenza, sostenendo di aver eliminato (“purgato”) tutti gli
indizi a proprio carico, e aveva denunziato la violazione del principio cardine
secondo cui «in criminalibus ad finem condemnandi requiruntur probationes
luce meridiana clariores»150.

147
V. De Franchis, Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani, Venetiis, 1675. Sulla figura del
celebre magistrato napoletano, nato a Piedimonte nel 1530, ed entrato nel 1566 nel tribunale
supremo del Regno per nomina del viceré Duca di Alcalà, si rimanda a M. N. Miletti, Tra equità
e dottrina, cit.
148
«Simon Aderisius per magnam Curiam Vicariae pro homicidio in personam quondam Ioan.
Dominici Violae ex indiciis indubitatis (quamvis tortus semel nisi confessus esset) fuit
condemnatus ad poenam ultimi supplicij, appellavit ad sacrum Consilium et dicebat se fuisse
gravatum, quia ultra quod indicia per torturam, vel erant debilitata, vel purgata, in criminalibus
ad finem condemnandi requiruntur probationes luce meridiana clariores», V. De Franchis,
Decisiones, cit., dec. CCCLXXI, pag. 158.
149
Si trattava di un regime probatorio straordinario, in virtù del quale si provvedeva a torturare
il reo con riserva delle prove già acquisite, contravvenendo con ciò a una regola cardine del
sistema legale, ossia il principio secondo cui il torturato non confesso purgasse ogni indizio a
proprio carico. Nella tortura con riserva di prova, al contrario, quand’anche il reo avesse
resistito al tormento e non avesse ammesso la propria colpevolezza, sarebbe andato comunque
incontro ad una sicura condanna, sulla base degli indizi preventivamente raccolti contro di lui.
Sul punto: Alessi G., Il Processo penale cit., pp. 104 e ss.
150
C. IV, 19,5.
41
Nella pendenza dell’impugnazione, l’Aderisio era deceduto e la causa non era
più stata decisa; tuttavia l’incresciosa questione aveva offerto a De Franchis
l’opportunità di elencare minuziosamente le molteplici e oscillanti posizioni di
dottrina e giurisprudenza in merito alla prova dell’omicidio e alla condanna
consequenziale.
Una tesi particolarmente accreditata, peraltro quella invocata dallo stesso
appellante, era la comminazione della pena pecuniaria in alternativa alla pena
ordinaria, ritenuta ingiusta perché basata su meri indicia. Ci racconta De Franchis
che Alberto Gandino, per esempio, aveva sostenuto con forza siffatto principio
commutativo, andando contro l’opinione comune di Bartolo e dello stesso
Tommaso da Piperata, e aveva altresì affermato che:

«(…) omnes sapientes, quos Bononiae vidit, et alibi, et etiam vidisse


de consuetudine observari, quod propter talia et similia non potest in
personam damnari»151.

Tale consuetudine, come attestato dal magistrato napoletano, si era affermata con
successo anche presso il Senato milanese152.
Nell’Observatio allegata in calce alla decisione153, dopo le Additiones di Orazio
Visconti e Flavio Amendola154 - che si limitavano ad allegare citazioni ulteriori -

151
V. De Franchis, Decisiones cit., dec. CCCLXXII.
152
La prassi del Senato milanese in favore della pena straordinaria viene altresì evidenziata
nella decisio DXXXVIII. Referente costante del De Franchis è anche il Senato Piemontese, la
cui prassi viene più volte definita «communis, verior et aequior». Sul punto: M.N. Miletti, Tra
equità e dottrina cit., pag. 137. Quanto alle fonti della decisionistica regnicola in generale, si
rimanda all’ampia ricognizione effettuata dallo stesso autore in Stylus Iudicandi: le raccolte di
Decisiones nel Regno di Napoli in età moderna, Napoli, 1998, pag. 259 e ss., ove si rinviene
una mappa articolata, e suddivisa per aree geografiche, delle decisiones italiane ed europee più
conosciute e citate a Napoli.
153
Quasi tutte le raccolte di decisiones, a partire dalla seconda edizione, venivano corredate da
glosse, note ed osservazioni apportate da giuristi più o meno celebri, spesso allievi dell’autore.
Sebbene la storiografia abbia tentato di tipizzare queste forme d’integrazione della
decisionistica basandosi sulle diverse denominazioni assunte, il criterio prescelto non ha
mostrato sufficienti riscontri: ad esempio M. Ascheri (Rechtsprechungs und
Konsiliensammlungen, in Handbuch der Quellen und Literatur der neuren europaischen
Privatrechtsgeshichte, a cura di H. Coing, Band II, Munchen, 1976, pp. 1113-122), ha sostenuto
che le observationes avessero un rango minore rispetto a quelli che lui chiama report, ma la tesi
viene confutata dalla circostanza che, per esempio, quelle celebri di Carlo Antonio De Luca
svolgevano invece una funzione chiarificatrice ed integratrice di estrema rilevanza, venivano
spesso citate nelle rassegne posteriori e talvolta addirittura parificate alle massime che
commentavano. Sul punto: M.N. Miletti, Stylus Iudicandi, cit., pag. 70 e ss.
154
Dei primi due si trovano scarsissime notizie in L. Giustiniani, Memorie Istoriche cit., pag. 51
vol. I, pag. 281, vol. III. Il biografo li definisce entrambi «buoni dottori dei lor tempi».
42
Carlo Antonio De Luca155 sceglieva di segnalare un primo indirizzo in favore
della comminazione della pena ordinaria, e citava anzitutto la regola secondo cui:

«in causis criminalibus ad finem convincendi praeferantur


apertissimae probationes, vel indicia ad probationem indubitata, et
luce clariora»156.

Gli indizi, dunque, purché indubitati, rientravano pienamente nel novero delle
prove, e ciò senza nemmeno la necessità di operare distinzioni o classificazioni
all’interno dei vari crimina.
De Luca ricordava poi l’insegnamento del Farinaccio, secondo cui «si testes
dicant vidisse duo rixantes, et sedata rixa alium vulneratum aut occisum, etiam
quando non dicant vidisse occidere, delictum dici plene probatum et posse poena
ordinaria imponi».
Al paragrafo immediatamente successivo, tuttavia, ammetteva: «contrariam
sententiam magis commune»; a questo proposito, venivano citate una serie di
autorità favorevoli alla commutazione della pena in una sanzione straordinaria:
anzitutto il celebre Tommaso Grammatico, indi il reggente Carlo Tapia, Jean
Grivel - autore di una raccolta di Decisiones del Senato francese di Dole, spesso
citato da De Franchis157, ed infine il reggente Francesco Sanfelice.
La ragione della maggiore diffusione di quest’ultima regola, risiedeva non solo
nella innegabile autorevolezza dei suoi assertori, quanto soprattutto nel fatto che
la veritas e la scientia insite in una prova indiretta, venivano percepite come
necessariamente inferiori rispetto alla verità racchiusa nelle deposizioni
testimoniali dirette, purché legittime e superiori ad ogni eccezione158.
Sempre nella decisio CCCLXXII, il De Franchis attestava la significativa
equiparazione di presunzioni violente e prove piene, valida per i soli delitti
occulti: «Adde quod in delictis occultis praesumptiones loco probationis

155
Sacerdote, originario di Molfetta, nato nel 1630 e morto molto vecchio in data sconosciuta,
veniva chiamato il Canonico, e fu descritto dal Giustiniani come uno scrittore assai laborioso e
prolifico. Sul punto: L. Giustiniani, Memorie Istoriche cit, lib. II, pag. 184.
156
La regola viene qui definita controversa perché gli indizi indubitati vengono in questo caso
totalmente equiparati a probationes apertissimae.
157
Anche se va sottolineato che Jean Grivel, a differenza dei decisionisti di area napoletana,
ammetteva, in ottemperanza a una tradizione largamente dominante in Europa, la possibilità di
comminare condanne piene anche sulla base di indicia indubitata ove ricorressero fattispecie
quali l’assassinio, l’eresia e la simonia o quando fossero previste presunzioni iuris et de iure
(come nel caso dell’adulterio). In J. Grivel, Decisiones celeberrimi Senatus Dolani, Antuerpiae,
1663, deciso XCIII, n. 3,4,5, pagg. 250-251.
158
«Rationem assigno, quia indicium quodcumque illud sit, facit solum praesumptionem, quae
est quid minus veritate et scientia illa, quae fundatur in veritate cognita testibus legitimis, et
omni exceptione maioribus», in V. De Franchis, Decisiones cit., dec. CCCLXXII (Additio
Caroli Antonii De Luca).
43
habeantur». Tuttavia, nelle Aurae Additiones dell’allievo Flavio Amendola, si
rinveniva un importante monito che sintetizzava mirabilmente l’orientamento
della giurisprudenza napoletana: «debet tamen advertere iudicans, ex
praesumptione violenta, ut iudicet mitiorem poenam imponendo»159. Ancora una
volta, cioè, la discrezionalità magistratuale era chiamata a colmare l’insufficienza
della prova presuntiva, benché violenta, e ciò persino quando venisse in rilievo
un crimen occultum.
Un’ulteriore, clamorosa testimonianza dell’imprevedibilità delle sorti del
giudizio in caso di lacune probatorie, ci viene offerta dalla decisio DXXXVIII,
ove apprendiamo di un tale Federico Zarrillo, accusato di omicidio commesso ai
danni del proprio fratello e nella casa di quest’ultimo. L’inquisito era stato
condannato in primo grado dalla Curia di Capua alla pena di morte; la sentenza,
confermata dalla Magna Curia della Vicarìa, era stata impugnata davanti al Sacro
Regio Consiglio. L’appellante sosteneva di essere stato destinato alla poena
ultimi supplici in assenza di prove piene: egli infatti non aveva confessato, né
tantomeno risultava testibus convictus, dal momento che tutti e tre i testes de visu
interpellati non erano da considerarsi integri. Più precisamente, aveva deposto la
serva del defunto, che, per la sua condizione di domestica, in base al diritto civile
(e a maggior ragione in criminalibus) non avrebbe dovuto ritenersi idonea alla
testimonianza; e avevano inoltre deposto le due figlie dell’ucciso, che in quanto
parenti del reo non avrebbero potuto testimoniare né contro né a favore di lui.
Nel dir questo venivano allegate le prescrizioni contenute nel Codex,
segnatamente al titolo De Testibus160. La difesa di Zarrillo affermava inoltre che
non potevano esser prese in considerazione le argomentazioni dell’accusa, perché
se anche si fossero fatte valere le limitazioni alla prima eccezione di inidoneità
(«testimonium domesticum admitti quando non facile ea quae domi geruntur, per
alios poterunt probari»), restava comunque la seconda incapacità, quella delle
figlie dell’ucciso, insuperabile perché insuscettibile di soffrire limitazione alcuna.
Il Regio Fisco aveva replicato che, quand’anche si fosse fatta valere la non
integrità delle testimonianze provenienti dalle due parenti dell’imputato,
quest’ultimo poteva tranquillamente ritenersi convictus sulla base di formidabili
indicia indubitata (le due donne avevano infatti raccontato dettagliatamente di
averlo visto entrare in casa armato ed uscirne sporco di sangue), e che tali indizi,
uniti alla testimonianza della serva, pienamente valida, potevano senz’altro

159
V. De Franchis, Decisiones cit, dec. CCCLXVII (Additio Flavii Amendolae). Anche
Grammatico aveva dettato il principio secondo cui le condanne basate su presunzioni,
quand’anche ammesse in casi specifici e gravi, richiedessero comunque una particolare cautela
da parte del magistrato.
160
C, IV, 20, 6; C. IV, 20,8.
44
autorizzare l’inflizione di una pena ordinaria, trattandosi per giunta di un delitto
atrocissimo.
Il Sacro Regio Consiglio fu di diverso avviso: ritenne gli elementi insufficienti
alla condanna ed emise un decreto a tortura. Federico Zarrillo non confessò, ma
sulla base di quegli stessi indizi raccolti contro di lui fu condannato ad una poena
extraordinaria tollerabilis.
Quella appena narrata è una vicenda fortemente emblematica, all’interno della
quale, forse ancor più che negli altri esempi, si assiste a un duello feroce tra
ritualità e ragionevolezza, tra aritmetica e arbitrio; quel che rende assai
significativa la pronuncia, è probabilmente il contrasto tra la rilevanza del fatto
oggettivo (narrato da ben tre testes de visu, presenti sul luogo del delitto), e la
norma impeditiva (le preclusioni testimoniali ripescate dal Codex); il primo
fronte, “sostanzialistico”, parve trionfare presso le corti inferiori, che infatti
condannarono a morte Zarrillo nei primi due gradi di giudizio a fronte di
un’evidenza schiacciante; il secondo fronte, quello “iper-formalistico” delle
verae probationes, riportò presso il Sacro Consiglio una vittoria solo apparente,
visto e considerato che quest’ultimo concluse con una pronuncia chiaramente
equitativa che scavalcava le stesse possibilità offerte dall’ordo161.
Anche Tommaso Grammatico, insigne giurista cinquecentesco, ci offre numerose
e significative testimonianze del controverso rapporto tra probationes
imperfectae e condanne consequenziali.
Nella decisio XI, l’autore giunse a configurare la piena prova come il risultato di
molti indizi congiunti: «(…) apparet resultari plenissima probatio ex tot indiciis
iunctis»162. Il principio venne ribadito nella decisio XLII: «Probatio plena
resultat ex multis indicijs simul iunctis, etiam ad quem criminaliter
puniendum»163; la punizione, in ogni caso, non avrebbe mai potuto coincidere
con la pena capitale, come confermato dall’esito della vicenda processuale
descritta.
Ancora una volta, si trattava di un omicidio commesso in ora notturna: un tale
Angelo Pisacane era stato visto uscire, assieme ai due fratelli, con le spade
ancora sguainate, fuori dalla casa in cui era stato poi trovato morente un certo
Cesare. L’unico teste de visu aveva, assieme ad altri testimoni, contribuito a
configurare il movente (l’inimicizia capitale), ma la sua era stata l’unica

161
Il quale autorizzava - nei delitti atrocia come il fratricidio - l’uso di prove imperfette ai fini
della condanna edittale: «Propter enormitatem delicti non concedendo conceduntur, et licitum
est leges transgredi», Baldo, In I, II et III Codicis libros commentaria, cit., l. Liceat servilis, De
precibus Imperatoris offendis, n. 2.
162
T. Grammatico, Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani, cit., dec. XI, p. 16, pag. 63.
163
Ibidem, dec. XLII, n. 4, pag. 225.
45
testimonianza diretta dell’accaduto, abbinata a quella - assai meno rilevante
giuridicamente - della serva della vittima.
La presenza di molteplici indizi e presunzioni, abbinata all’ora notturna del
delitto, determinò, a carico di Pisacane, un quadro probatorio schiacciante. Ciò
nonostante, non poté farsi corrispondere a tali risultanze la pena capitale: «(…)ex
praesumptionibus etiam violentis, numquam imponi potest poena mortis»164.
La regola venne costantemente applicata da Grammatico: in un’altra decisio della
stessa raccolta, ancora una volta ribadì: «Inquisitus, ubi per indicia indubitata
condemnari posset, numquam iudex poterit ei imponere veram et meram poenam
delicti, sed minorem»165.
E dunque, quand’anche dalla legge venisse riconosciuta piena efficacia probante
in capo a prove ritenute artificiali o imperfette, il rango minore che esse
occupavano nella scala gerarchica dei mezzi istruttori impediva la comminazione
di una pena ordinaria e comportava comunque la necessità di mitigare la
sanzione. Ciò persino nei casi eccezionali che lo ius commune aveva ampiamente
enumerato.
In particolare, l’orientamento per i crimina occulta era quello di ammettere una
maggiore facilità d’inflizione della tortura, ma non certo un’attenuazione del
quadro probatorio ai fini della condanna edittale:

«In delictis quae occulta sunt, facilius arbitrari debet iudex esse
procedendum ad torturam quam in caeteris»166

Un’altra pronuncia di Grammatico, confermava pienamente questa tendenza:


Giovanni Antonio Gaboya, nobile di origine spagnola, accusato davanti alla
Magna Curia della Vicaria di esser stato il mandante dell’omicidio di Alessandro
Castiglia a causa di una precedente inimicizia contratta col padre di lui per un
debito di 10 ducati, aveva a suo carico una serie di testimonianze secondo le
quali egli si sarebbe trovato, al momento del ritrovamento del corpo, in
prossimità della porta della casa dell’ucciso, su alcuni gradini ad essa adiacenti.
Essendo state considerate non verosimili le deposizioni raccolte, e potendosi
reputare le dichiarazioni del presunto mandatarius, un mente captus, alla stregua
di una prova semipiena, l’unico strumento per compensare il fin troppo esile
quadro probatorio sarebbe stato il tormentum. La difesa aveva tuttavia insistito
sul principio in base al quale «nobiliis regulariter non torquuntur»167, per cui,
stante l’impossibilità di procedere alla tortura per il rango dell’inquisito, e

164
Ibidem, n. 14, pag. 227.
165
Ibidem, dec. VIII, n. 8, pag. 52.
166
Ibidem, dec. XXXIV, n. 38.
167
Ibidem, dec. XXVIII, n. 37
46
considerando altresì l’assoluta insufficienza delle prove raccolte contro di lui, il
Sacro Regio Consiglio decise per l’esilio della durata di due anni168.
In un’altra pronuncia, si narrava di un tale Giovanni Parente da Capistrano, il
quale, inquisito per molteplici omicidi, furti e altri delitti minori sulla base di
indizi urgentissimi, era stato sottoposto a tortura per ben tre volte senza mai
confessare la propria colpevolezza. Destinato alle triremi dalla Magna Curia in
attesa della condanna definitiva, fu poi punito con la poena ultimii supplicii.
Appellata la sentenza innanzi al Consiglio, prevalse l’orientamento secondo cui,
pur potendosi ammettere la non totale purgazione degli indizi169, e consentendosi
dunque la condanna anche in mancanza di confessione estorta, la pena avrebbe
dovuto comunque essere diminuita170. La minorazione della pena capitale, per
giunta, non poteva risolversi in alcuna pena corporale, ma in una pena pecuniaria
o altra «per quam corpus non affligatur»171.
Anche nelle raccolte più tarde di qualche decennio, si rivengono principi
pressoché immutati: il Sanfelice, per esempio, raccontava di un fallito tentativo
di fuga dal carcere della Vicaria posto in essere da tale Lucio Antonio di
Tropea172. Non essendo quest’ultimo riuscito ad evadere, e non essendo stata
provata la sussistenza di una conspiratio, i giudici del Sacro Regio Consiglio si
erano interrogati su quale pena dovesse essere applicata173. Questo perché,
communiter, una simile condotta avrebbe dovuto comportare la pena capitale,
prevista anche ai danni di coloro che non fossero riusciti a scappare, per il solo
fatto di avere cospirato la fuga (era cioè sufficiente la sussistenza del semplice
aniums effugiendi)174.
L’aggettivo capitalis associato alla pena prevista per gli evasi, poteva significare
perdita della vita, della libertà o della cittadinanza175; come riferisce lo stesso

168
«Ex quibus fuit decisum non posse torqueri, sed ex praemissis probationibus et indicijs ita
mutilatis, condemnatus ad exilium biennale extra Neapolim et in hanc sententiam convenimus
omnes iudices», Ibidem, dec. XXVIII, n. 32, pag. 135.
169
«Inquisitus, si contra se haberet indicia indubitata, et tortum negaret, poterit tamen
condemnari, quia per torturam non dicitur evacuasse», Ibidem, dec. VIII, n. 7.
170
«Inquisitus, ubi per inditia indubitata condemnari potest, numquam iudex poterit ei imponere
veram et meram poenam delicti, sed minorem», Ibidem, dec. VIII, n. 9.
171
«(…) poena minorata non poterit esse capitalis, nec corporis afflictiva», Ibidem, dec. VIII, n.
10.
172
F. A. Sanfelice, Decisionum Supremorum Tribunalium Regni Neapolitani, cit., dec. XLVII,
pag. 74.
173
«In causa Lucii Antonii Lichae de Tropea, fuit dubitatum quae sit poena effragentis carceres
M. Cur. sive conspiratione, non sequuta fuga», Ibidem, dec. XLVII, n. 1.
174
«(…) communiter Scribentes non dubitant, poena capitis esse (…). Et sive effregerint facta
conspiratione cum caeteris, vel quocumque modo, dummodo animo effugiendi fecerint, et si
non evaserunt, nec fugere potuerunt, etiam capite puniuntur», Ibidem dec. XLVII, n. 1.
175
«Sed controversa est, cum poena capitalis in tribus consistat, in perditione vitae, libertatis et
Civitatis», Ibidem, dec. XLVII, n.2.
47
Sanfelice, l’orientamento adottato dalla Magna Curia della Vicaria aveva sposato
la prima delle possibili interpretazioni, e già in altre occasioni aveva comminato
la pena di morte a carico di numerosi soggetti, sorpresi ad organizzare la fuga o
colti nell’atto di evadere dalle segrete176. In particolare, veniva ricordata una
pronuncia esemplare del 1586, dove i soggetti coinvolti avevano semplicemente
tentato la rottura dei cancelli, ma erano stati comunque impiccati177.
Nonostante il famoso precedente, il Sacro Regio Consiglio napoletano, non
ritenendo sufficienti gli elementi che provassero l’animus effugiendi, sottopose il
reo alla tortura. Non avendo questi confessato, lo condannò al remo. Era il 5
novembre del 1618, e ancora una volta il supremo tribunale napoletano aveva
preferito diminuire la pena edittale ed azionare meccanismi straordinari, pur
potendo, in teoria, procedere a una condanna piena.
Ma lo stesso Sanfelice documentava anche un altro episodio, dalle sorti
completamente diverse: nel febbraio del 1630, nove anni dopo la promulgazione
della controversa Prammatica XII de officio judicum178, un tale Scipione
D’Angelo era stato inquisito di omicidio. Essendo stato udito un urlo di donna
proveniente dalla sua casa, alcuni testimoni, sfondata la porta, erano accorsi nella
sua abitazione e l’avevano trovato solo accanto a un cadavere femminile
trucidato, vicino al quale giaceva un coltello. Egli stesso, tutto ricoperto di
sangue e preso da un improvviso panico, aveva confessato il proprio delitto ai
presenti, ma poi non aveva provveduto a confermare l’accaduto dinanzi al
giudice.
In quel caso la suprema corte del Regno, forse anche per il clamore suscitato
dall’orrendo fatto di cronaca sull’impressione popolare, decise di dare
applicazione alla prammatica sugli indizi indubitati, confermando la sanzione
capitale emessa dalla Vicaria sulla base di una confessione stragiudiziale e
testimonianze indirette179. Si trattò, comunque, di un caso isolato: come già detto,
si sarebbe preservata per ancora diversi decenni la prassi delle poena
extraordinariae, anche dopo l’entrata in vigore della legge.
A testimoniarlo, la celebre Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli180,
che attesta il perdurare del dibattito in merito al rapporto tra prova legale e pena
ordinaria, anche svariati decenni dopo la sua promulgazione181.

176
«In M.C. prima opinio observatur contra testantes effracturam carcerum M.C. cum
conspiratione, et si non evaserint», Ibidem, dec. XLVII, n. 3.
177
«(…) de anno 1586 fuerunt laqueo suspensi, Olivierus de Criscio et septem alii inquisiti de
tentata fuga et fractura cancellae, quamvis non evaserint», Ibidem, dec. XLVII, n. 3.
178
Infra, I.5.
179
F. A. Sanfelice, Decisionum Supremorum Tribunalium cit., dec. XLVII, n. 8 e ss.
180
G. Grimaldi, Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, X, Napoli, 1772, lib. 35,
pp. 372 e ss.
48
Ma una conferma ancor più significativa ci viene da un importante giurista
napoletano, appartenente alla generazione tardo-secentesca: si tratta di Carlo
Antonio De Rosa, Regio Consigliere nel 1684 e Reggente nel dicembre del 1709.
La sua celebre Criminalis Decretorum Praxis182, contiene infatti
un’interessantissima appendice con le difese degli inquisiti dinanzi al Sacro
Regio Consiglio, probabilmente risalenti alla sua attività giovanile di avvocato.
In una di queste, la IV defensio, il caso prospettato era quello di un tale
Domenico Chianese da Giugliano, accusato di sedizione, torturato e non
confesso. La controversia illustrata nella difesa, ruotava tutta intorno all’antico
quesito circa la possibilità di condannare ad una pena straordinaria a fronte di
indizi indubitati. La posizione minoritaria di alcuni doctores citati (tutti spagnoli:
Lopez, Gomez, Sarmiento, Sanchez)183, aveva accolto la negativam sententiam;
essi avevano insegnato che, a fronte di un fatto di rilevanza penale, o esistevano
prove concludenti, e senz’altro in tal caso si sarebbe potuto condannare taluno
alla pena «a lege indictam», oppure si sarebbe dovuto ritenere l’inquisito «purus
et innocens», senza possibilità di una terza via184. Al più, laddove sussistessero
elementi di colpevolezza non sufficientemente corroboranti, si sarebbe potuto
esperire un nuovo tentativo di tortura al fine di ottenere la confessione185.
Ma quest’orientamento, com’è noto, non aveva mai trovato un particolare seguito
nel Regno: si era sempre preferito scongiurare il pericolo dell’impunità attraverso
pene arbitrarie186; non a caso De Rosa c’informa che Domenico Chianese, alla

181
«Non vi mancarono Dottori i quali scrissero che, per effetto degl’indizi indubitati, il reo
sottopor si dovesse alla tortura per potersi avere la confessione (…) Questa poi ratificata né
tormenti, o fuor di essi, laddove concordi cogli indubitati indizi, potrebbe il reo condannarsi a
morte», Ibidem, pag. 374.
182
Ed. consultata: Neapoli, 1747
183
C.A. De Rosa, Defensiones XXVIII, Olim sejunctum editae nunc primum in hoc volumen
Praxeos Criminalis Conjectae, def. IV, nota 2, pag. 9.
184
«Ii, qui negativam sustinent sententiam, ex eo ducuntur quod in jure id stabilitum non
reperiatur, et huiusmodi fere ratiocinationibus utuntur: nimirum aut probationes concludentes
existunt, et de crimine delatus subire debet poenam sceleri a lege indictam, vel a consuetudine
introductam; aut illae deficiunt, et quaestioni subjiciendus, ut ejus interveniente confessione,
poenae condignae et crimini consonae locus sit», Ibidem, pag. 9.
185
«(…) tum magis, si de crimine delatus tormentum passus sit, quo casu Jura Judicibus
arbitrium deveniendi ad extraordianariam poenam minime tribuerunt, sed tantummodo
tormentum repeti posse voluerunt», Ibidem, pag. 9.
186
«(…) qui vero affirmativam sectati fuere, ad eam stabilendam, argumenta petunt ex eo, quod
quando quis de crimine indiciis urgentibus oneratur, reus ipse potius, quam innocens reputatur,
ut saepissime compertum est: hinc vehemens probatio jure postulat, ut is nonnullae
animadversioni subjaceat. Ducuntur etiam alia ratione; quia si huiusmodi reo tormentum repeti
permittitur non bis, sed tertio, juxta communem D.D. sententiam, potest Judex ad poenam
extraordinariam devenire, quod majorem ille poenam pareret, si crimen in tormento fateretur;
adeoque cum extraordinaria poena periculum compensabit», Ibidem, pag. 9.
49
fine, era stato risparmiato dalla poena ultimi supplicii e condannato a 7 anni di
galera187.
Se il Sacro Regio Consiglio si dimostrava fin troppo clemente nelle condanne
basate su prove indirette, la tendenza opposta delle corti inferiori all’utilizzo di
parametri probatori assai meno benevoli nei confronti dell’imputato, è invece
testimoniata dalle raccolte di Giovanni Maria Novario, che riuniscono le
pronunce delle Regie Udienze Provinciali188, e all’interno delle quali spiccano
principi non esattamente allineati con quelli adoperati dalle più alte corti della
Capitale: «adminicula coadiuvant probationem, quae de per se non est
sufficiens»189; «adminicula et praesumptiones sunt coniugenda ad plenam
probationem faciendam»190; «inditia approbata sunt liquida probationes»191.
L’abitudine delle corti locali di attribuire maggiore rilevanza ad elementi
circostanziali - una tendenza puntualmente frustrata dalle pronunce dei tribunali
superiori192 - è ampiamente documentata anche nelle raccolte di Decisiones del
Sacro Regio Consiglio, dove si rivengono svariate sentenze di condanna a morte
emesse dalle Udienze Provinciali e dalla Vicaria, che finivano con l’essere quasi
sempre commutate in condanne straordinarie per insufficienza di prova.
Se la Magna Curia si mostrava «propensa ad una giustizia rapida e sommaria»193,
il Sacro Regio Consiglio appariva decisamente «ostile ad approssimazioni
procedurali e non disposto, nonostante gl’istinti repressivi dell’opinione
pubblica, ad avallare soluzioni irrituali»194.

187
« (…) Ille fuit per septemnium ad remigandum damnatus», Ibidem, pag. 10
188
Il rinvenimento di decisiones provenienti da corti inferiori si rivela piuttosto problematico,
perché raramente i compilatori sceglievano di curare rassegne ad esse dedicate. Ciò non solo per
la minore rilevanza rispetto alle sentenze del Sacro Regio Consiglio, ma soprattutto per una
generale instabilità degli orientamenti giurisprudenziali (Miletti parla, ad esempio, di vera e
propria “precarietà processuale”), che le vedeva sovente esposte a totali ribaltamenti in appello.
Accanto alla compilazione di Novario, si ricorda anche quella curata dal succitato Carlo
Antonio De Rosa che, come terzo libro della sua Praxis Criminalis, scelse di pubblicare le
Criminales Resolutiones della Magna Curia, selezionando però soltanto quelle confermate dai
giudici di ultima istanza. Sul punto: M. N. Miletti, Stylus iudicandi cit., pag. 197.
189
G. M. Novario, Novissimae Decisiones Civiles, Criminales et Canonicae: tam Regii
Tribunalis Audientiae Provinciarum Capitinatae, Apuleae et Comitatus Mollisij Regni Neapolis,
Colonia, MDCXXXVII, dec. XXV, n. 1.
190
Ibidem, n. 4.
191
Ibidem, dec. LXXI, n. 4.
192
Il fenomeno è ampiamente documentato dalla letteratura: Miletti ha messo in evidenza come
il Sacro Regio Consiglio sconfessasse con frequenza le deliberazioni delle curie provinciali e
della stessa Vicaria. Sul punto: M.N. Miletti, Tra equità e dottrina, cit., pag. 79.
193
Ibidem, pag. 175.
194
L’autore parla, più oltre, di un «evidente dissenso tra i due tribunali napoletani», che andava
ben oltre il rapporto tra prova e pena, ed investiva una miriade di questioni. Ad esempio, si
registra in seno al Consiglio un’applicazione dilatata della legislazione premiale come opzione
di politica criminale per fronteggiare l’urgenza della repressione: «Il sacro Consiglio, in
50
Una testimonianza indiretta di questo singolare fenomeno, ci giunge anche da
interessantissimi documenti, che riportano la lista dei giustiziati nel Regno dal
1556 al 1789195.
L’elenco cui si fa qui riferimento, era custodito presso la Compagnia dei Bianchi
della Giustizia, originariamente chiamata Santa Maria Succurre Miseris, una
confraternita composta di soli ecclesiastici fondata a Napoli nel 1519, con il
compito di svolgere “operosa carità” nei confronti dei condannati a morte,
confortandoli e accompagnandoli sino al patibolo196.
La statistica, che meriterebbe più approfondite ricerche, ci mostra numeri tutto
sommato esigui: se si fa eccezione per il 1584 (che indica 76 condannati a morte)
e per il 1585 (che ne riporta addirittura 82), in tutta la seconda metà del XVI
secolo, la media non oltrepassa i 25-30 giustiziati l’anno.
Per quel che riguarda il Seicento, soltanto il triennio ricompreso fra 1647 e 1649,
per ragioni piuttosto prevedibili, risulta contrassegnato da una notevole incidenza
di condanne a morte (rispettivamente 52, 75 e 55 giustiziati); tutte le altre annate
furono invece caratterizzate da una media bassissima (non oltre 15 condannati
all’anno), destinata a calare ulteriormente nel corso del XVIII secolo (in media 5
condanne a morte annuali)197. Tutto questo testimonia, evidentemente, la scarsa

contrasto col più rigoroso indirizzo della Vicarìa, era disponibile a condonare i reati commessi
nella Capitale o le offese ai pubblici ufficiali», Ibidem, pag. 337.
195
G. De Blasis Le giustizie eseguite in Napoli al tempo dei tumulti di Masaniello, estratto da
«Archivio Storico per le Province Napoletane», Bologna, 1974, pp. 104-154 .
196
I Bianchi, chiamati così per il colore delle loro vesti, si riunivano originariamente presso il
chiostro di S. Pietro ad Aram; in seguito si trasferirono presso S. Maria del Popolo. Essi
avevano anche il compito di registrare il nome dei condannati, la condizione, la famiglia, il
reato commesso e le ultime dichiarazioni prima dell’esecuzione. Tutte le notizie relative alla
congrega, come pure l’elenco dei giustiziati, vennero ricopiate da C. Minieri Riccio da un
manoscritto in suo possesso, intitolato Regole della Compagnia dei Bianchi sotto il titolo di S.
Maria Succurre Miseris riformate nel 1692, pubblicato a Napoli nel 1868.
197
Si riporta qui l’intero elenco, così come ricopiato dal Minieri Riccio e pubblicato da De
Blasis: «anno 1556: 41 condannati a morte; 1557: 40; 1558: 20; 1559: 32; 1560: 40; 1561: 11;
1562-1563-1564: vacat; 1565: 31; 1566: 25; 1567: 39; 1568: 49; 1569: 49; 1570: 26; 1571: 22;
1572: 13; 1573: 14; 1574: 24; 1575: 31; 1576: 32; 1577: 20; 1578: 29; 1579: 27; 1580: 54;
1581: 31; 1582: 17; 1583: 24; 1584: 76; 1585: 82; 1586: 69; 1587: 46; 1588: 35; 1589: 31;
1590: 19; 1591: 58; 1592: 25; 1593: vacat; 1594: 38; 1595: 37; 1596: 28; 1597: 27; 1598: 7;
1599: 14; 1600: vacat; 1601:16; 1602: 34; 1603: 23; 1604: 27; 1605: 36; 1606: 20: 1607: 19;
1608: 13; 1609: 22; 1610:22; 1611: 19; 1612: 18; 1613: 17; 1614: 9; 1615: 9; 1616: 21; 1617:
18; 1618: vacat; 1619: 35; 1620: 22; 1621: 37; 1622: 38; 1623: 23; 1624: 31; 1625: 12; 1626: 5;
1627: 26; 1628: 9; 1629: 37; 1630: 24; 1631: 12; 1632: 20; 1633: 29; 1634: 22; 1635: 10; 1636:
20; 1637: 17; 1638: 30; 1639: 36; 1640: 19; 1641: 24; 1642: 14; 1643: 30; 1644: 28; 1645: 23;
1646: 18; 1647: 52; 1648: 75; 1649: 55; 1650: 32; 1651: 29; 1652: 29; 1653: 22; 1654: 24;
1655: 30; 1656: 13; 1657: 41; 1658: 24; 1659: 26; 1660: 13; 1661: 8; 1662: 19; 1663: 14; 1664:
3; 1665: 15; 1666: 10; 1667: 5; 1668: 7; 1669: 9; 1670: 7; 1671: 8; 1672: 14; 1673: 10; 1674: 5;
1675: 8; 1676: 7; 1677: 13; 1678: 9; 1679: 6; 1680: 10; 1681: 7; 1682: 4; 1683: 28; 1684: 3;
1685: 6; 1686: 10; 1687: 8; 1688: 7; 1689: 3; 1690: 13; 1691: 4; 1692: 6; 1693: 2; 1694: 3;
1695: vacat; 1696: 3;1697: 4; 1698: 2; 1699: 3; 1700: 5; 1701: 5; 1702: 5; 1703: 1; 1704: 4;
51
propensione delle supreme corti napoletane a comminare sentenze capitali o a
confermare quelle emesse dalle corti inferiori, preferendo decisamente strumenti
di repressione di tipo straordinario.
Questa tendenziale mitezza, cui corrispondeva un carattere marcatamente
commutativo/transattivo della giustizia penale napoletana, trova molteplici
conferme, ancora una volta, nella decisionistica: sempre Grammatico, nelle sue
Decisiones198, illustrava una straordinaria molteplicità di casi in cui, anche a
prescindere dalla sufficienza probatoria, le pene venivano comunque
ridimensionate. L’homicidium, per esempio, nella prassi del Consiglio, poteva
essere ricondotto ad un numero notevole di attenuanti: l’ira o l’offesa che altri
avesse suscitato nell’omicida199, il delitto d’impeto, quand’anche non venisse
riconosciuta la iuxta causa200, o anche un grado inferiore di dolo rispetto al puro
animus necandi201.
Ancor più eloquentemente, egli dettava precisi criteri in base ai quali i giudici
erano chiamati ad esercitare poteri d’arbitrio sulla pena: costante il richiamo
all’humanitas e alla mediocritas delle pene, alla mansuetudo, alla clementia, alla
misericordia in iudicando. Addirittura, il giudice non solo poteva ma doveva, in
tutti i casi in cui ricorressero le circostanze opportune, dispensare i condannati
dalle pene previste dalle leggi202; ciò, a maggior ragione, in considerazione
dell’età203 o della qualitas personarum204.
Il peculiare atteggiamento della criminalistica napoletana, improntato a negare le
sanzioni di legge anche a fronte di delitti particolarmente gravi e ampiamente
provati, non è riscontrabile invece presso le magistrature spagnole, dove, come

1705: 7; 1706: 1; 1707: 2; 1708: 3; 1709: 6; 1710: 1; 1711: vacat; 1712: 9; 1713: 8; 1714: 2;
1715: vacat; 1716:4; 1717: 2; 1718: vacat; 1719: 1; 1720: 3; 1721: 1; 1722: 4; 1723: 3; 1724: 2;
1725: vacat; 1726: 1; 1727: vacat; 1728: 1; 1729: 5; 1730: 2; 1731: vacat; 1732: 3; 1733: vacat;
1734: 1; 1735: vacat; 1736: 2; 1737: 2; 1738: 1; 1739: 13; 1740: 1; 1741: 4; 1742: 10; 1743: 1;
1744: 4; 1745: 5; 1746: 7; 1747: 16; 1748: 11; 1749: 15; 1750: 7; 1751: 4; 1752: 13; 1753: 3;
1754: 5; 1755: 6; 1756: 7; 1757: 8; 1758: 6; 1759: 3; 1760: 1; 1761: 1; 1762: 7; 1763:2; 1764: 1;
1765: 6; 1766: 2; 1767: 1; 1768: 1; 1769: 1; 1770: 1; 1771: 2; 1772: 2; 1773: 2; 1774: vacat;
1775: 1; 1776: 1; 1777: 3; 1778: vacat; 1779: 4; 1780: 3; 1781: 3; 1782: 2; 1783: 2; 1784: 1;
1785-1786-1787: vacat; 1788: 2; 1789: vacat», In G. De Blasis Le giustizie eseguite in Napoli
cit, pag. 109 e ss.
198
L’altro esemplare qui consultato porta il consueto titolo Decisiones Sacrii Regii Consilii
Neapolitani, ma è di alcuni decenni più antico rispetto a quello veneziano: si tratta di
un’edizione luganese dell’anno 1555.
199
«Homicida licet puniri debeat poena mortis, tamen est in potestate iudicum ipsum non
condemnare ad mortem, si ex iracundia vel dolore homicidium commisit», dec. IV, n. 20.
200
«Delictum committens, etiam ex iniusta causa motus, non tenetur ad poenam mortis»,
Ibidem, n. 25.
201
«Iudex interdum mitigat poenam statutam a lege, etiam in doloso, quando fuit minor dolus»,
Ibidem, n. 28.
202
Ibidem, n. 34.
203
Ibidem, dec. XXIII, n. 11
204
Ibidem, dec. XXVIII, n. 1.
52
già anticipato, è ravvisabile, sin dalla seconda metà del Cinquecento, un’apertura
significativa verso criteri valutativi decisamente più severi e “discrezionali”.
La tradizione del giudizio secondo coscienza, di cui la tarda scolastica era stata
una finissima teorizzatrice205, e la polemica contro le pene straordinarie
proveniente dall’area culta, aveva forse contribuito a diffondere uno stylus delle
corti spagnole assai controverso e discusso, specie nella parte meridionale della
penisola: uno stylus improntato alla comminazione di condanne piene anche in
mancanza di probationes perfectae.
Questa pratica, è importante sottolinearlo, non veniva percepita affatto dai
giudici spagnoli come una violazione dei precetti cardine dello ius commune,
secondo cui «in criminalibus liquidissimae probationes requiruntur», perché,
tradizionalmente, indizi e presunzioni venivano qui ritenuti elementi
perfettamente ascrivibili al rango di prove.
C’è anzi da aggiungere che, rispetto al formalismo ipertrofico ed inefficiente, se
non addirittura paralizzante, proprio delle corti napoletane, la maggiore
disinvoltura mostrata con la materia indiziaria, era di gran lunga più aderente ai
dettami delle fonti più antiche. A testimoniarlo, come vedremo206, sono
molteplici ed importanti raccolte di area iberica.

205
Sul punto: infra III.1
206
Infra, cap. I.4.
53
I.4 Stylus hispanicus e prova indiziaria

Il famoso reggente del Senato catalano, Miguel De Cortiada, intorno alla seconda
metà del secolo XVI, aveva affermato - in una delle sue più celebri Decisiones -
il principio secondo cui «probationes leviores sufficiunt, quando Judex iudicat
secundum Deum et suam conscientiam»207.
La massima era stata confermata anche da un’altra decisio, la XXIV, dove,
nonostante un lungo elenco di citazioni raccomandasse di attenersi agli allegata
et probata, De Cortiada preferiva richiamarsi al diritto catalano, citando una
Prammatica de contentione jurisdictionis e asserendo che quello stesso principio
era stato recepito anche da una regia Prammatica del Regno di Sardegna «et idem
in Regno Maioricarum»208.
Il reggente non aveva mancato di spiegare accuratamente il significato della
formula, chiarendo, anzitutto, che: «verba secundum Deum et suam conscientiam
non important liberum arbitrium, sed arbitrium boni viri legibus conforme»209;
che «verba secundum Deum et suam conscientiam operantur, ut Cancellarius
possit judicare sola facti veritate inspecta»210; che «operantur, quod Cancellarius
potest judicare ex his quae vidit et audivit»211.
Soprattutto, De Cortiada aveva stabilito che, nonostante quella regola non fosse
da intendersi come assoluta signoria del giudice sul processo e sulla prova, essa
implicava senz’altro la possibilità di «judicare per probationes leviores»212,
rispetto a quei fatti «quae, ab alio quam a Deo, optimo cognosci non possunt»213.
Una parte della letteratura spagnola, anche di recente214, ha posto in evidenza le
origini antichissime - addirittura alto-medievali - della larghissima
discrezionalità dei giudici iberici, specie in alcune regioni, dove un numero

207
M. De Cortiada, Decisiones Cancellarii et Sacri Regi Consilii Senatus Cathaloniae, cit.,
Tomus I, dec. XXI, n. 96, pag. 214. Al contrario, un altro celebre componente del Senato
catalano, Ludovico De Peguera, aveva invece sostenuto che: «Iudex, non secundum
conscientiam et scientiam propriam statuere debet, sed secundum allegata et probata», in L. De
Peguera, Praxis Criminalis et Civilis, Barcinonae, 1649, Cap. X, pag. 376, n. 5.
208
M. De Cortiada, Decisiones cit., dec. XXIV, n. 8.
209
Ibidem, dec. XXIV, n. 10.
210
Ibidem, n. 11.
211
Ibidem, n. 15. La possibilità di giudicare sulla base di ciò cui il giudice avesse personalmente
assistito, anche quando fosse in contrasto con le allegazioni probatorie, era stata ampiamente
dibattuta dalla criminalistica, specie nel corso del Cinquecento. Sul punto: supra, I.1.
212
Ibidem, n. 16
213
Lo stesso principio viene affermato da G.P. Fontanella, Decisiones Sacri Regii Senatus
Cathaloniae, Barcinone, 1639, dec. CCCXIX, n. 12: «(…) supremus Iudex est Cancellarius, ut
communiter dicamus ipsum iudicare secundum conscientiam posse», pag. 52. Tale prerogativa,
tuttavia, veniva esclusa per il Senato.
214
Si veda ad esempio il saggio di B. Gonzales Alonso, Jueces, justicia, arbitrio judicial, cit.,
pp. 223-241.
54
notevole di liti, fin da tempi remotissimi, venivano risolte «por albedrìo», o
anche «de corazón»215.
In età moderna, secondo questa stessa storiografia, fu proprio la materia
probatoria a costituire non solo il campo d’elezione per l’esercizio di un ampio e
generalizzato arbitrio judicial - descritto, del resto, come un aspetto del tutto
strutturale all’apparato giurisdizionale216 - ma addirittura il terreno privilegiato
per un ulteriore e più ampio sviluppo dell’arbitrio stesso.
Con le prove criminali, in altre parole, esso veniva declinato nella sua versione
più estrema: «La doctrina y la práctica forense se encargaron de invertir el
régimen probatorio legal y patrocinaron la adopción de facto del principio
opuesto de íntima convicción del juez»217.
Riguardo alla possibilità di una forzata retrodatazione del principio del libero
convincimento, è nota la posizione della più autorevole storiografia italiana218;
vero è che la giurisprudenza cinque-secentesca di area iberica mostra comunque
(almeno rispetto al Regno di Napoli) significativi avanzamenti nella materia
indiziaria e presuntiva, che denotano una maggiore pervasività dell’analisi e della
ricostruzione giudiziale dei fatti.
La stessa possibilità di ammettere nuove prove in sede di segunda suplicación,
viene identificata dalla letteratura spagnola come una chiara testimonianza delle
«modificaciones que en el régimen probatorio legal introdujo la práctica
judicial»219.
Molteplici conferme in tal senso, ci giungono anche dalle sentenze del Senato
Aragonese, la cui prassi era decisamente orientata nel senso di riconoscere piena

215
Ibidem, pag. 224.
216
Ed in questo l’autore sposa pienamente le tesi di M. Meccarelli espresse nella già citata
monografia Arbitrium, costantemente richiamata nel saggio.
217
Ibidem, pag. 226,
218
Tale tesi, riferita originariamente ai meccanismi di arbitramento delle pene basati su prove
circostanziali, è stata ampiamente discussa e decisamente confutata. L’ha sostenuta J. H.
Langbein, nel celebre saggio Torture and law of proof cit., ove era stato affermato che in quegli
stessi congegni, caratterizzati da un peculiare rapporto tra quantità della prova e qualità della
pena, potesse ravvisarsi un «new law of proof» contrapposto al sistema di prova legale.
Tuttavia, G. Alessi, (Prova legale e pena cit.) e M. Meccarelli (Arbitrium. cit.), hanno chiarito il
carattere assolutamente “endosistemico” dei cosiddetti correttivi al modello legale di prova, e la
conseguente impossibilità di qualificarli come una sorta di “inversione” o addirittura
un’eversione dal modello medesimo. Vero è che in Spagna, più che registrarsi un uso costante
di pene straordinarie, si evidenzia piuttosto un ricorrente uso di pene ordinarie anche a fronte di
prove imperfette. Il fenomeno, spesso collegato a fattispecie eccezionali, se non è in grado di
portarci a teorizzare una precoce elaborazione del canone del libero convincimento del giudice,
denuncia, in ogni caso, una maggiore discrezionalità delle magistrature iberiche, almeno rispetto
a quelle napoletane.
219
Sul punto: L. M. Garcia-Badell Arias, La práctica judicial frente a las leyas. La admisión de
nuevas pruebas en la segunda suplicación, in J. Scholz (a cura di), Fallstudien zur spanischen
und portugiesischen Justiz XV bis XX Jahrhundert, Frankfurt, 1994, pp. 369 e ss.
55
efficacia probante ad elementi altrove ritenuti meramente artificiali o imperfetti,
e che qui invece rivestivano il carattere di mezzi istruttori equiparabili alle
probationes perfectae.
Josè De Sesse, nella sua autorevolissima raccolta di Decisiones - la cui prima
edizione risale al 1610 - aveva spiegato come, in tema di omicidio, la condanna
sulla base di sole presunzioni dovesse essere fatta risalire alla lex Cornelia de
sicariis, secondo la quale l’animus occidendi si presumeva, salvo prova contraria,
e dava luogo ad una pena ordinaria220.
Molti doctores, aggiungeva il giurista, avevano tuttavia ritenuto che fosse più
congruo comminare una pena diversa, senza precisare se dovesse trattarsi di una
sanzione straordinaria o addirittura civilis (nel senso di pecuniaria); Covarruvias
e Pietro da Plaza, avevano invece espressamente parlato di pena ordinaria (e
dunque capitale)221.
Tale ultimo orientamento era stato pienamente recepito nel Regno, ove «licet
indiciis et praesumptionibus iudicetur etiam ad poenam ordinariam»; ma dove,
tuttavia: «illud verum est quando sunt indicia indubitata et multa, quae hic non
reperiuntur,nisi ad concludendum, quod astiterunt, vulnerarunt, quod non
negatur»222.
E dunque, se da un lato si ammetteva senz’altro la possibilità di far corrispondere
pene edittali a prove di natura circostanziale, occorreva necessariamente che
queste ultime fossero dotate di una particolare forza persuasiva, che le rendesse
indubitate.
La possibilità di presumere il dolo, oltre che per l’omicidio, veniva poi
documentata anche in altre ipotesi “straordinarie”: ad esempio nel crimine di
falso223.
In un’altra importante decisione di De Sesse, veniva sancito il principio generale
secondo il quale: «indicia indubitata probant delictum in Aragonia, etiam ad
poenam ordinariam»224.
Il caso descritto merita una sintetica esposizione: un tale Lorenzo Borres,
guardiano di pecore presso la città di Broto, scomparso da giorni, era stato
trovato cadavere nelle vicinanze del pascolo dove spesso si recava con i suoi

220
J. De Sesse, Decisionum Sacri Senatus Regii Regni Aragonum, cit., Tomus I, decisio CIII,
n.3.
221
«Sed an id, quod dicunt, intelligatur de poena homicidij mortis scilicet: an vero de alia poena
extraordinaria, vel civili id non declarant supradicti Doctores, excepto Covarruvias et Petro a
Plaza qui expresse loquuntur de poena ordinaria», Ibidem, n. 8.
222
Ibidem, n. 19.
223
«Praesumptiones sufficiunt ad condemnandum de dolo extraordinarie (…) quando constat de
crimine falsitatis», Ibidem, decisio CIX, pag. 719, n. 23.
224
Ibidem, n. 6.
56
ovini. Il corpo era semi-sepolto, e coperto da pietre e rami225. Non essendo state
trovate prove concludenti dell’omicidio, perché mancavano testimoni diretti
dell’accaduto e perché nessuno, nemmeno stragiudizialmente, aveva confessato
la propria responsabilità226, si era reso necessario «investigare omnia indicia
occurrentia adversus delinquentes»227. Gli indizi avevano condotto a due fratelli,
Monferrato e Francisco de Vergua, i quali calzavano un particolare tipo di scarpe
le cui impronte risultavano compatibili con quelle trovate in prossimità del
cadavere e che, non a caso, arrivavano fino alla casa degli accusati. Quelle stesse
impronte, per diretto esame del giudice, furono effettivamente confrontate con le
calzature dei rei e coincisero perfettamente228. In secondo luogo, i due godevano
di cattiva fama, tanto che «probatum enim fuit in processu esse assuetos similia
delicta homicidii perpetrare»229. Infine, esisteva a loro carico anche una
presunzione violenta, e qui la vicenda si fa veramente interessante, perché De
Sesse, il quale aveva già introdotto la decisione definendola prodigiosa, racconta
che i due indiziati, portati davanti al cadavere, avevano cagionato un’effusione
spontanea di sangue dalle ferite dell’ucciso. Addirittura, il braccio del cadavere si
era miracolosamente sollevato per indicare i propri assassini e poi ricadere senza
vita230.
Il fatto, svoltosi alla presenza di molte persone, attonite di fronte all’accaduto, era
stato registrato da un pubblico notaio assieme alla deposizione di dieci testimoni
presenti, ed era così divenuto un publicum instrumentum231.
De Sesse spiega che l’effusione non poté essere elevata al rango di indizio perché
«indicia debent esse clara in genere suo et non dubia, nec aequivoca». Tuttavia,
225
«Fuit itaque in quodam oppido vallis de Broto huius Regni Aragonum, occisus Laurentius
Borres, custos ovium, et (…) fuit inventum quattuor elapsis iam diebus post eis obitum, eratque
sepultum, copertumque multis lapidibus et ramis», Ibidem, decisio CXI, pag. 730.
226
«(…) quae in hoc Regno aequiparatur testi de visu», Ibidem, n. 5.
227
Ibidem, n. 5.
228
«Primum itaque indicium ortum fuit ex eo, quod in oppido commissi delicti solummodo
accusati utebantur certa forma calciamentorum, et ex eo loco, ubi cadaver invenerunt sepultum,
cum terra esset humida, patebat vestigia pedum usque ad domum accusatorum, quae vestigia
postea cum reorum calceamentis convenire compertum est per ocularem inspectionem factam a
Iudice, quam probationem excellentissimam appellat Alciatus», Ibidem, n. 11.
229
Ibidem, n. 13.
230
«Iudex dictae vallis de Broto eos captos duxit ad plateam villae, ubi cadaver exhumatum
omnibus patebat. Et positus ante eum Ioannes Franciscus de Vergua, unus ex delinquentibus,
illico exiuit sanguis ex vulneribus dicti cadaveris, quousque dictus reus fuit a dicti occisi
conspectu eductus. Et statim aductus fuit ad conspectum dicti occisi Monferratus de Vergua,
alter accusatus, qui cum se culpatum videre tanto scelere, coepit obsecrare Deum et caelum, ut
in testimonium suae veritatis permitteret miraculum ibifieri, quo dicto (o bone Deus) illico
cadaver elevavit brachium dexterum et digito signavit vulnera, ex quibus sanguis illico exivit et
continuo elevando idem brachium eodem digito signavit in dictum accusatum, quofacto
brachium cadaveris reversum fuit ad eundem locum, ubi ante miraculum iacebat», Ibidem, n.
15.
231
Ibidem, n. 16.
57
ciò che si acquisì come presunzione violenta, abbinata al restante quadro
indiziario, comportò per i due accusati la condanna a morte, emessa in data 25
aprile 1607, e confermata in appello dal Regio Criminal Consiglio, il 3 dicembre
dello stesso anno232.
Prescindendo dalle superstizioni e dalle fascinazioni magiche, cui nemmeno
insigni giuristi erano capaci di sottrarsi, arrivando anzi ad attribuirgli rilevanza
giuridica, la pratica di condannare per prove indirette alla pena a legibus condita,
di cui De Sesse rivendicava fortemente l’origine aragonese, è effettivamente
riscontrabile in una molteplicità di decisiones, anche in quelle prive di caratteri
“prodigiosi”233.
Essa veniva fatta risalire ad un’importante pronuncia del Reggente Molina,
secondo cui «si indicia non admitterentur, delicta remanerent impunita»234.
Erano state dunque, almeno originariamente, esigenze di natura spiccatamente
repressiva a giustificare la “larghezza” delle condanne da parte delle corti
aragonesi. Eppure, quella stessa prassi, non era mai stata abbandonata, neanche
una volta venute meno le particolari congiunture emergenziali che,
presumibilmente, ne avevano resa necessaria l’adozione: «Haec Aragonensium
practica condemnandi per indicia ad poenam ordinariam, non destituita est»235.
Al di fuori delle ipotesi di omicidio, di gran lunga le più frequenti, un’altra
fattispecie che ricorreva spesso nelle sentenze capitali su base presuntiva era il
crimen repetundarum. Si trattava di un particolare tipo di delitto, dalle origini
remotissime236, implicante un abuso da parte di pubblici funzionari ai danni di
privati cittadini.
Dato il particolare disvalore del delitto, associato alla qualitas del soggetto attivo,
che ne rendeva ancor più grave la configurazione - si parlava infatti di crimen
atrox - la conseguenza era un inasprimento repressivo tale da rendere sufficienti
anche prove imperfette: «crimen repetundarum probatur per impefectas
probationes»237.
In questo caso è però doverosa una precisazione: qui non era stata la prassi
giurisprudenziale a guadagnare più ampi margini di discrezionalità, ma la stessa
tradizione di ius commune a concederli; delle antiche prescrizioni civilistiche non
v’era però alcuna traccia nelle citazioni: veniva piuttosto ribadito il principio, già

232
Ibidem, n. 5.
233
La consolidata prassi del Regno d’Aragona veniva rimarcata anche nella decisio CVII, dove
si diceva: « in Regno (…) ex indiciis urgentibus et indubitatis potest condemnari, supposito
quod minus requiritur ad capiendum quam condemnandum», Ibidem, dec. CVII, pag. 714, n. 10.
234
Ibidem, n. 7.
235
Ibidem, n. 9.
236
La fattispecie risaliva ad una Lex Calpurnia repetundarum, 149 a.C. La Lex Iulia
repetundarum del 49 a.C. aveva espressamente stabilito per tale crimen la pena capitale.
237
J.B. Larrea, Allegationum Fiscalium, Lugduni, 1665, all. XLVIII, n. 20.
58
fatto proprio da De Cortiada, secondo cui «Iudex Supremus potest attenta veritate
secundum propriam conscientiam iudicare»238.
La ragione di una così ampia attribuzione veniva fatta risalire da De Sesse non
solo ad un chiaro privilegio di rango, ma anche e soprattutto alla natura arbitraria
della materia delle prove: «probationum fides est Iudici arbitraria»239.
Analogamente, Pietro Fontanella, nelle sue celebri Decisiones Sacri Regii
Senatus Cathaloniae, aveva attribuito tutta la materia delle presunzioni
all’arbitrio del giudice, stabilendo che questi dovesse effettuare in merito alla
loro efficacia probante una valutazione soggettiva e discrezionale, stante
l’impossibilità di predeterminare regole di valutazione240.
il carattere “incerto” della disciplina, di cui erano pienamente consapevoli anche
i dottori napoletani, non veniva qui percepito come elemento in grado di
giustificare l’arbitrio sulle pene, ma costituiva piuttosto uno strumento per
ampliare i poteri valutativi in merito alla fattispecie e alla colpevolezza.
Ulteriori testimonianze della prassi spagnola, improntata alla larghissima
comminazione di pene ordinarie anche sulla base di prove imperfectae, ci
vengono da un giurista del tardo XVII secolo, Miguel De Calderò, il quale, nella
raccolta di Decisiones Sacri Regii Criminalis Consilii Cathaloniae241, elencava
una casistica piuttosto cospicua.
Il ruolo del giudice nella ricostruzione della fattispecie, aveva qui un valore
chiaramente suppletivo: egli era chiamato ad intervenire ogni volta che il fatto
fosse controverso, di difficile prova, oppure quando il quadro probatorio non
risultasse pienamente conforme alle richieste dell’ordo, ma fosse comunque
suffragato da pesanti elementi indiziari; in tutti questi casi la valutazione del
giudice avrebbe compensato le eventuali lacune delle allegazioni, e avrebbe
consentito senz’altro l’inflizione della condanna edittale.
Nella decisio VIII, De Calderò dimostrava che anche sulla base di un unico
testimone de visu, benché confortato da indizi che lo rendessero «omni
exceptione majore superans», «condemnatur in hoc Principatum ad poenam
ordinariam delicti, etiam apud Judices ordinarios»242. A confermare questa tesi
venivano citate celebri pronunce di De Peguera243, Fontanella244 e, ovviamente,
De Cortiada245.

238
Ibidem, n. 7.
239
Ibidem, n. 14.
240
J.P.Fontanella, Decisiones Sacri Regii Senatus cit., dec. CCLXIX, n. 6-7.
241
Ed. consultata: Venetiis 1724.
242
Ibidem, dec. VIII, n. 44.
243
Ibidem, dec. XVII.
244
Ibidem, dec. CCLVIII.
245
Ibidem, dec. XCIII.
59
De Calderò provvedeva altresì ad allegare ulteriori esempi di sentenze capitali
emesse dal Supremo Consiglio sulla base di un’unica testimonianza: una,
risalente al 27 novembre del 1682246, aveva ad oggetto un omicidio perpetrato in
una remota zona campestre, fuori dalle mura di Barcellona, lontano dalla città e
dal centro abitato.
In tale circostanza, vista l’oggettiva difficoltà di ottenere riscontri, il Senato
aveva ritenuto di dar credito all’unico testimone presente sul luogo del delitto.
Per le medesime ragioni, un tale, accusato di avere ucciso di notte una prostituta
«cum qua cubabat», e di averla derubata, era stato condannato il 7 novembre del
1684247.
Numerose altre sentenze avevano invece decretato condanne a morte anche sulla
base di indicia indubitata: si trattava prevalentemente di incriminazioni de nece
proditoria248.
La matrice di queste pronunce era la famosissima decisio XVII di De Peguera,
risalente al 2 giugno 1581, attraverso la quale il Senato catalano aveva mandato a
morte un soldato accusato di omicidio proditorio ai danni di un contadino. Il fatto
si era svolto dinanzi agli occhi dello zio materno della vittima, unico testimone.
Questo precedente illustre aveva dato vita ad una prassi ininterrotta, che aveva
caratterizzato tutto il secolo successivo.
A riprova di ciò, De Calderò citava numerosi altri esempi di sentenze di morte
emesse sin dai primi decenni del Seicento, come quella risalente al 27 febbraio

246
M. De Calderò, Decisiones, cit., dec. VIII, n.45
247
Ibidem, dec.VIII, n.46. In questa vicenda, l’ora notturna del delitto aveva comportato un
ulteriore abbassamento della “soglia probatoria” necessaria alla condanna: nel testo non si fa
cenno a testimoni, ma ad una molteplicità di indizi indubitati, che sommati tra loro davano
luogo ad un solo indubitato, abbinati ad altri indizi ed adminicula: «(…) erat calamitosus et
infortunatus reus, sine ullo teste de viso, ex indiciis dubitatis, quae constituunt unum
indubitatum, cum aliis indiciis et adminiculis condemnatur; quia delictum erat necis animo
furandi, commissu noctu (et sic erat difficilis probationis) in personam infaustae meretricis
cubiculo jacentis, cum qua reus cubabat, (non obstante incertitudine diei, in qua fuit commissum
homicidium; quia de illa solum apparebat, ex iudicio peritorium in recognitione cadaveris
adhibitorum, qui quatriduanum judicarunt), et ex repertura rei furtatae, habitationis assiduae
cum occisa, signanter in nocte, qua fuisse commissum scelus praesumebatur, et aliis indiciis, et
probationibus, fuit declaratus reus mortis, et condemnatus».
248
Ibidem, dec. VIII, n. 53-59, dove vengono narrate brevemente una serie di vicende tutte
contrassegnate dal carattere difficilis probationis (non atroce, quindi, ma di difficile prova)
dell’omicidio proditorio; un carattere, questo, in grado di giustificare, di volta in volta, la
sufficienza di testi singoli, di più indizi dubitati, o di sole presunzioni abbinate agli adminicula.
Si tratta di pronunce risalenti agli anni ‘70 e ‘80 del Seicento. Una, in particolare, merita di
essere menzionata: quella del 10 marzo 1683, perché ai due socii criminis spettò un trattamento
differente. A quello più anziano toccò la condanna a morte, sulla base di soli indizi; quello più
giovane, ex indulgentia aetatis, fu condannato «ad Triremes perpetuum, ad fustigandum,
bullandum, et quod duceretur vesticus subtus furcam», Ibidem, n. 59.
60
1633, in cui il reggente Bernardino de Puig aveva condannato a morte un
soggetto pur in mancanza di doppia testimonianza conforme249.
La prassi sarebbe rimasta inalterata per tutto il XVII secolo, e a quanto pare non
faceva discriminazioni di sorta: una condanna capitale, emessa in mancanza di
probationes luce meridiana clariores, toccò anche ad una donna, tale Margarita
N., che in data 19 ottobre 1663 «delatam de nece proditoria in virum, fuit
declarata rea mortis»250. Ancora una volta, però, ci troviamo di fronte ad una
logica ampiamente contemplata dallo stesso ius commune, e tuttavia
dall’applicazione non così scontata: dato il carattere eccezionale di taluni delitti,
che per il luogo o le circostanze in cui fossero stati consumati rendevano
pressoché impossibile pervenire ad una certezza legale, si riteneva opportuno
«recedere ab ordinario juris regulis, et iura ipsa transgredi, et ordo est ordinem
non servare»251.
In questo caso, dunque, l’eversione dall’ordinario non si concretava in una
minorazione della pena, ma in un ampliamento dei poteri valutativi del giudice,
che poteva convincersi della colpevolezza del reo anche senza prove piene.
Addirittura, nei delitti occulti, si sarebbero potuti ammettere indizi lievi e testi
inabili:

«indicia levia in casibus occultis et enormis dicuntur gravissima, testes


inhabiles admittuntur, et probatio minus idonea pro idonea
reputatur»252.

Ciò sorprende se si considera che invece a Napoli, come già anticipato, occorse
una prammatica assai controversa e neanche mai pienamente recepita253 per
collegare i delitti occulti quantomeno agli indizi indubitati.
Tornando al regime spagnolo delle prove imperfette, un discorso pressoché
analogo veniva fatto in caso di assassinio:

«Assassinium propter criminis detestabilitatem, probatur


praesumptionibus, conjecturis et probabilibus argumentis, non solum
ad poena extraordinariam, sed etiam ordinariam»254.

249
Ibidem, dec. VIII, n.64.
250
Ibidem, dec. VIII, n. 65. In questo caso si contesta il carattere proditorio dell’omicidio,
perché l’uomo in questione era il marito. L’espediente della difficoltà di prova veniva dunque
adoperato, piuttosto largamente, per emettere condanne esemplari, anche laddove la
qualificazione della fattispecie fosse in realtà un’altra.
251
Ibidem, dec. XLI, n. 3.
252
Ibidem, dec. XLI, n. 4.
253
Infra, I.5.
254
M. De Calderò, Decisiones, cit., dec. XLIII, n. 2-3.
61
La possibilità di condannare a morte sulla base di prove indirette, o sulla scorta
della deposizione di un testis singularis, veniva riconosciuta da De Calderò in
molti altri capitoli: nella decisio XVI, egli arrivava ad estendere tale principio a
tutti i delitti - e dunque non più solo a quelli atroci o di difficile prova - purché la
testimonianza fosse corredata da indicia indubitata:

«Indistincte haec procedunt in omnibus delictis, in quibus proceditur


ad poenam ordinariam delicti, cum teste de visu, et aliis indiciis, quae
superunt efficaciam unius testis»255.

E’ importante sottolineare che, al fine di ottenere una condanna ordinaria, si


richiedevano specificamente indizi qualificati; per la loro individuazione
venivano utilizzate le stesse parole adoperate da Scipione Rovito256 nella famosa
decisio LXIII, interpretativa della Prammatica napoletana del 1621:

«sunt indicia indubitata illius generis quae inducunt credulitatem ita


firmam, ut neque actualem, neque virtualem habeat Judex
dubitationem»257.

Nel caso in cui si trattasse di delitti occulti o di difficile prova, sarebbero


radicalmente cambiati i parametri di riferimento dello stesso indubitato: non più
un elemento capace di eliminare ogni esitazione, attuale o virtuale, ma piuttosto
la somma di più indicia dubitata, accompagnati da altre risultanze:

«vel sint illius generis, quae inducunt credulitatem absque aliqua


haesitatione actuali, sed cum aliqua haesitatione virtuali: imo etiam in
delictis difficilis probationis, quamvis indicia non sint omnino
indubitata, sufficit quod sint plura indicia dubitata, ex quibus resultat
unum indubitatum, et adsint aliae probationes et adminicula, ut possit
condemnari poena ordinaria delicti»258.

Questo ci mostra, una volta di più, la netta divaricazione tra la prassi spagnola e
quella napoletana: se quest’ultima esercitava, almeno presso le corti supreme,
ampi poteri equitativi in merito alle pene e rifiutava recisamente di accordare
piena rilevanza a prove ritenute insufficienti, in Spagna259, per tutto il secolo

255
Ibidem, dec. XVI, n. 20.
256
Che tuttavia non viene citato.
257
M. De Calderò, Decisiones, cit., dec. XLIII, n. 5.
258
Ibidem, dec. XLIII, n. 6.
259
E non solo: come già visto supra (I.1), la prassi della pena ordinaria in corrispondenza di
prove presuntive è, sia pur in maniera inferiore, documentata anche per la Sicilia (in G Basilico,
62
XVII, e già dalla fine del XVI, la costruzione della verità indiziaria aveva
evidentemente raggiunto, in netto anticipo rispetto a gran parte della penisola,
una maturità tale da consentire l’utilizzo di questi materiali probatori anche nel
livello ordinario della giurisdizione (e quindi non soltanto in sede di poena
extraordinaria).
All’infuori dei casi eccezionalmente ammessi dallo stesso diritto comune (e che
comunque la prassi napoletana non contemplava)260, nelle pronunce esaminate si
registra un atteggiamento decisamente meno improntato al rispetto ossequioso
dei limiti legali: i giudici superiori dei tribunali iberici, com’è evidente,
possedevano veri e propri poteri discrezionali in merito alla ricostruzione del
fatto e all’attribuzione della colpevolezza, senza che a questo corrispondesse una
puntuale tendenza ad arbitrare le pene.
Un altro dato che emerge dalle pronunce esaminate, è strettamente collegato al
primo fenomeno osservato, e coincide con una minore propensione, da parte
delle corti spagnole, a comminare pene straordinarie, un orientamento
corrispondente alla difficoltà di adottare una terza via intermedia tra
colpevolezza e non colpevolezza.
Questa impostazione teorica, decisamente più rigorosa rispetto alla pratica del
Regno di Napoli, muoveva dall’assunto di dover stabilire con certezza se taluno
fosse o non fosse colpevole di un misfatto, senza lasciare margini di dubbio che
giustificassero un’attenuazione del trattamento sanzionatorio: il colpevole andava
punito con la pena edittale; l’innocente andava assolto261.
Contro le pene straordinarie, del resto, esisteva in Spagna una radicatissima
tradizione dottrinale: molti autori quattro-cinquecenteschi, ancor prima che
venisse legittimato il ragionamento indiziario - un fenomeno, questo,
necessariamente più tardo - avevano già gettato le basi per una profonda
evoluzione del rapporto tra prova e pena, affermando il carattere assolutamente
irragionevole delle pene straordinarie e la necessità di scegliere, di volta in volta,

Decisiones Criminales cit., dec. I, n. 7-8) e per il Portogallo (in A. De Gama, Decisiones
Supremi Senatus Lusitaniae, Cremonae, 1597, dec. CCLXXX).
260
Ci si riferisce alla controversa prassi napoletana sui delitti atroci, occulti o di difficile prova,
di cui supra, I.2 e I.3.
261
La dottrina contemplava anche ipotesi di “assoluzione condizionata”, che si concretavano in
una sospensione della causa, stante l’incertezza delle prove dedotte. In tal caso, il procedimento
si sarebbe riaperto quando fossero venute in rilievo più ampie allegazioni sulla colpevolezza o
dell’innocenza del reo. Quest’ultimo veniva provvisoriamente assolto con la garanzia di un
fideiussore. Giulio Claro, aveva affrontato l’argomento nel quinto libro delle Sententiae
Receptae cit., esattamente alle quaestiones LXI e LXIV; analogamente si era espresso Anton
Gomez nei Commentariorum, Variarum Resolutionum Iuris Civilis, Communis et Regii, Tomi
Tres, Francofurti, 1616, Tomo III, cap. XII, n. 26, allegando svariate auctoritaes, tra cui Angelo
da Perugia (fratello di Baldo), Paride del Pozzo, Ippolito Marsili e Alberico Gentili, a
dimostrazione del largo impiego dell’assoluzione condizionata anche nella prassi di area
italiana.
63
se un delitto risultasse pienamente provato, e dunque pienamente punibile; o se,
al contrario, risultasse incerto, con automatica esclusione della condanna.
Gregorio Lopez, celebre commentatore de Las siete Partidas, nella prima metà
del XVI secolo aveva dimostrato come la Partida septima contenesse delle leyes
in grado di escludere recisamente la pratica delle pene straordinarie:

«La persona del home es la mas noble cosa del mundo; e por ende
dezimos, que todo Judgador que quiere à conocer de tal peyto sobre
que pudiesse venir muerte, o perdimiento de miembro, que deve poner
guarda muy asincadamente, que las pruevas que recibiere sobre tal
peyto, que lean leales, e verdaderas, e sin ninguna sospecha: e que los
dichos, e las palabras que dixeren firmando sian ciertas e claras, como
la luz de manera que non puede sobre ellas venir dubia ninguna. Et si
las pruevas que fuessen dadas contra el acusado, non dixessen, e
testificassen claramente el yerto sobre que fue secha la acusacion, e si
acusado fuesse ome de buena fama, deve lo Judgador quitar por
sentencia. E si por aventura, fuesse ome mal enfamado, e orrosi por
las pruevas faliasse algunas presumciones contra el, bien lo puede
estonce fazer atormentar, de manera que puda saber la verdad»262.

Nel passo citato, la teorica delle probationes plenae imponeva al giudice di


pervenire ad un’assoluta sicurezza riguardo alla colpevolezza del reo. Nel suo
commento, Lopez, spiegava come gli stessi indubitati non fossero tali da
eliminare ogni margine di dubbio263; di conseguenza, l’unica decisione concessa
al giudicante qualora fosse in possesso di siffatti indizi o presunzioni, senza
nessun’altra prova, era il solo esperimento della tortura264.
Ciò dimostra come fosse ancora lontana all’orizzonte la proposta di far acquisire
rilevanza probatoria alle prove indirette; tuttavia, era già evidente la profonda
sfiducia nei confronti di soluzioni punitive intermedie, percepite come
irrispettose del fondamentale principio che chiedeva, ai fini della condanna
criminale, allegazioni certe e chiare «como la luz».
Anche Antonio Gomez, professore a Salamanca di diritto civile nella prima metà
del secolo XVI, nella sezione dedicata alle prove della sua raccolta di Variarum
Resolutionum, aveva risposto all’annoso quesito con decisione:

262
G. Lopez, Las Siete Partidas del Rey D. Alfonso el Sabio, Valencia, 1767, Partida Septima,
tit. I, ley XXVII, pag. 32.
263
«(…) non enim talia indicia sunt ita indubitata, quin non possit esse aliquod dubium»,
Ibidem, n. 4
264
«(…) judex, qui non habet aliam probationem, quam indicia quaecumque sint, tutius faciet si
extorqueat confessionem per torturam», Ibidem, n. 4.
64
«Item principaliter quaero in materia, an ex praesumptionibus et
indiciis possit reus accusatus vel inquisitus condemnari? In quo
articulo magistraliter et risolutive dico quod non»265.

Più avanti, veniva chiarito che l’esclusione della condanna valesse non solo per
le pene ordinarie, ma per qualunque punizione di tipo corporale:

«Imo, quod magis est praesumptionibus et indiciis, nedum non potest


iudex condemnare ad poenam mortis, sed nec ad aliquam poenam
corporalem»266.

Qualche decennio più tardi, il gesuita Tommaso Sanchez, nei suoi Opuscula sive
Consilia Moralia, poneva espressamente il dubbio tra pena ordinaria e pena
mitior:
«An quando non est plena et integra probatio alicuis delicti, quia
scilicet non sunt testes oculati, sed tantum praesumptiones et indicia
urgentia, possit iudex mitiori poena, quam ea, quae ordinarie per
legem statuta est, plectere delinquentem, vel debeat poena ordinaria
punire»267.

Come attestato dal giurista, tre erano le risposte possibili. La prima, quella
maggiormente consolidata, era a favore di una maiorem inquisitionem, e dunque
di una più penetrante indagine, con la sola possibilità di esperire la tortura
(magari più volte) e tuttavia con l’obbligo di assoluzione in caso di mancata
confessione, o in presenza di un soggetto non torturabile (per esempio perché
vecchio, minore o nobile)268. La seconda possibilità era quella di condannare,
purché di fronte ad indizi che fossero urgenti e indubitati269. «Tertia sententia est
media», e prevedeva la diminuzione della pena in ragione della minore quantità
di prova raggiunta270.
Sanchez mostrava di aderire alla prima resolutio, eppure si poneva un problema
ulteriore: «(…) si tortus ex indiciis negat delictum, potest ne ultra procedi?». La

265
A. Gomez, Commentariorum, Variarum Resolutionum Iuris Civilis, Communis et Regii cit.,
Tomo III, Cap. XII, De probationibus delictorum, n. 26.
266
Ibidem, n. 26
267
T. Sanchez, Opuscula sive Consilia Moralia, Lugduni, 1634, dubium XII, pag. 412.
268
«Prima docet, quando probatio non est integra, ut quia solum sunt indicia etiam
vehementissima et indubitata, non posse reum aliqua poena damnari, sed torquendum esse, et
faciendam maiorem inquisitionem: si vero nequit iudex ultra inquirere, nec procedere ad
torturam, vel quia persona est senex, vel minor, vel nobilis, absolvendum esse reum, nec aliqua
poena damnandum», Ibidem, n. 1.
269
«Secunda sententia docet ex indiciis urgentibus et indubitatis posse ferri sententiam etiam in
criminalibus (…) ut refert Sarmiento», Ibidem, n. 2.
270
Ibidem, n. 3.
65
prima soluzione coincideva con una sorta di sospensione della causa: il giudice
non poteva né condannare né assolvere, ma avrebbe dovuto attendere che
venissero rinvenute prove verae et legitimae per la condanna definitiva o
defensiones et probationes innocentiae per il proscioglimento271. Altri doctores,
come Sarmiento, suggerivano invece la definitiva assoluzione272.
Nonostante la presenza nel testo citazioni d’autorità in favore della condanna alla
pena straordinaria, «ut triremium»273, quelle stesse autorità non sono quasi mai
spagnole: si tratta, per esempio, di Giulio Claro e di Egidio Bossi274 o, in
rappresentanza della prassi vigente in Neapolitano Senatu, di Tommaso
Grammatico275.
Il dato appare affatto trascurabile, specie perché tutta la restante dottrina
spagnola citata (Anton Gomez, Gregorio Lopez, Francisco Sarmiento), sembrava
invece allinearsi in maniera piuttosto uniforme contro le pene arbitrarie,
ammettendo invece la tortura ai danni dell’inquisito e, in caso di purgazione degli
indizi, la definitiva assoluzione.
Dal quadro di fonti delineato dal Sanchez, il solo Sarmiento aggiungeva un
ulteriore, decisivo tassello per i futuri sviluppi della teoria della prova: egli era
l’unico, tra i doctores citati, ad accettare anche l’eventualità che si potesse
condannare taluno sulla base di presunzioni, purché fossero violente276.
Questo accadeva perché, come vedremo277, nella logica del celebre professore
salmantino, esistevano senz’altro prove indirette capaci anch’esse di far
pervenire ad una piena certezza del delitto. A quella piena certezza doveva però
corrispondere necessariamente una condanna ordinaria:

«Si enim poena media constituatur, quia ex praesumptionibus reus


damnandus sit, et occidisse et non occidisse Iudex iudicasse videbitur.
Quod repugnare certum est. Ergo opinio Doctorum quod ex urgentis
praesumptionibus media poena minor ordinaria sit imponenda, vera
esse non potest»278.

E’ qui che, con ogni probabilità, la prassi sopra descritta dei senati iberici trovò
un suo autorevolissimo fondamento dottrinale: non solo attraverso l’affermazione
271
Ibidem, n. 6.
272
Ibidem, n. 7.
273
Ibidem, n. 9.
274
Ibidem, n. 8.
275
Ibidem, n. 13.
276
Talmente violente da non legittimare nemmeno il previo esperimento della tortura: Ibidem, n.
2.
277
Infra, cap. II.
278
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum Libri Octo, Antuerpiae, 1616, cap. I,
n. 3.
66
della generale insensatezza delle pene straordinarie, ma anche e soprattutto
attraverso l’accorata richiesta al giudice di costruire una ferma credenza in merito
al delitto e al suo autore, avvalendosi di tutti quegli strumenti capaci di «sufficere
ad ordinariam condemnationem».

67
I.5 La Prammatica del 1621: due giurisprudenze a confronto.

Uno degli aspetti più interessanti tra quelli emersi sino a questo punto, è
probabilmente la già accennata tendenza napoletana ad ignorare le pur
controverse prescrizioni di ius commune in materia di delitti occulti, atroci e di
difficile prova, preferendo una larga, pressoché generalizzata comminazione di
pene straordinarie.
La sostanziale mitezza delle supreme corti del Regno, orientata all’esercizio di
un arbitrium sulle sanzioni fin troppo penetrante, aveva tuttavia comportato, nel
corso del secolo XVII, seri problemi di ordine pubblico; Gregorio Grimaldi, nella
sua celebre Istoria, descriveva efficacemente la gravità della situazione,
raccontando di delinquenti oramai istruiti sull’ampia possibilità di commettere i
più atroci misfatti, senza per questo dover soggiacere alle pene per essi stabilite,
essendo sufficiente adottare poche e semplici cautele che rendessero il crimine
non pienamente provabile:

«(…) Difficile riusciva il castigo dè delinquenti, comecchè costoro


con ricercata cautela commettevano gli omicidj, gli assassinj e
simiglianti reati, sull’appoggio che la difficile pruova da farsene,
scampava loro della meritata pena»279.

Questo racconto è a dir poco sorprendente se si considera che in Spagna280, in


quegli stessi decenni, proprio la circostanza della difficile provabilità,
giustificava una più ampia valutazione del materiale indiziario a disposizione del
giudice, con la conseguenza di un allargamento notevole della possibilità di
infliggere condanne piene. Ma alla contiguità politica di Napoli con la Spagna, di
cui era il più importante Viceregno, non corrispondeva alcuna vicinanza nello
stylus dei tribunali; tutt’altro: le due giurisprudenze, come documentato nei
precedenti paragrafi, si caratterizzavano per una netta divaricazione che
interessava proprio la materia delle probationes e il rapporto tra prova e pena.
Una distanza, questa, che i decisionisti napoletani avevano spesso evidenziato,
talvolta anche con accenti severi: si pensi al reggente Merlino Pignatelli, che
descrisse come una vera e propria anomalia, una “stranezza” («quod mirabile

279
G. Grimaldi, Istoria delle Leggi e Magistrati, cit., tomo X, libro XXXV, pag. 371.
280
E non solo: il risalente ma fondamentale scritto di Bernard Durand, Arbitraire du judge et
droit de la torture: l’exemple du Conseil Souverain de Roussillon (1660-1790), in Recueil de
Mémoires et Trauvaux publié par la Société d’histoire du droit et des institutions des anciens
Pays de droit écrit, X, 1979, pagg. 141-179, ha posto in evidenza una radicale svolta di fine
Seicento che condusse la Corte sovrana del Roussillon a procedere a condanne edittali anche
sulla base di semplici indizi, senza più ricorrere alla tortura. Sul punto: A. Padoa Schioppa,
Sulla coscienza del giudice nel diritto comune, cit., pag. 153.
68
est»), la prassi consolidata del Senato catalano di irrogare pene ordinarie sulla
base di semplici semiplenae probationes281.
Erano pochissimi i giuristi del Regno in linea con gli orientamenti iberici:
persino De Luca, indiscusso innovatore della prima metà del suo secolo282, si
mostrava ancora piuttosto cauto circa la concreta utilizzabilità di indizi e
praesumptiones ai fini della condanna.
Questo perché la gran parte del ceto forense napoletano si era attestata su
posizioni largamente conservatrici, lontane anni luce dalla più spregiudicata
prassi spagnola: i giudici del Regno, ancora nel Seicento, continuavano a
rispettare il binomio perfetto “prova piena/pena edittale”, cui corrispondeva
automaticamente il contemperamento di creazione giurisprudenziale: “prova
imperfetta/pena straordinaria”.
E’ dunque facile immaginare con quanta ostilità venne accolto l’importante
provvedimento del vicerè Zapata, pubblicato nel settembre del 1621, che
perseguiva l’obiettivo di sottrarre all’arbitramento dei tribunali il problema delle
pene.
La sua portata effettiva sul sistema processuale del Regno è stata ampiamente
discussa dalla storiografia283; vero è che la particolare congiuntura storico-
politica in cui la prammatica s’inserisce non può che complicare l’interpretazione
del suo significato reale284. Ad ogni modo, va ad essa riconosciuto il merito di

281
F. Merlino Pignatelli, Controversiarum Forensium Iuris communis et Regni Neapolitani, cit.,
controv. LXIV, n.19. L’aggettivo esprime uno stupore in senso assolutamente negativo, come
confermato anche dall’interpretazione di P.L. Rovito, Prova legale e indizi cit., pag. 164.
282
Si pensi alla posizione espressa in merito all’uso della tortura, di cui infra, I.1.
283
Giorgia Alessi ha insistito sul carattere assolutamente contingente della prammatica, il cui
contenuto si ascrive interamente alla necessità di fronteggiare un momento politico assai
travagliato (il Viceregno Zapata), contrassegnato dall’aggravarsi del fenomeno della “cattiva
moneta” tra 1620 e 1622. Sul punto: Prova legale e pena cit., pag. 192 e ss. Anche Massimo
Nobili ridimensiona sensibilmente il significato della legge: egli parla di “sporadici interventi
legislativi “ (citando anche alcuni provvedimenti settecenteschi dello Stato Pontificio e del
Granducato di Toscana), sia pure nella direzione di un maggior peso assegnato alla convinzione
del magistrato giudicante. In Il principio del libero convincimento del giudice, Milano 1974,
pag. 117.
284
L’emergenza della “cattiva moneta”, potrebbe in gran misura ridimensionare la portata del
provvedimento del 1621: più che la volontà di innovare i vetusti meccanismi probatori del
processo criminale napoletano, è rintracciabile semmai l’esigenza di far fronte ad una
congiuntura assai drammatica per il Regno attraverso un forte inasprimento repressivo. In
effetti, grazie al nuovo regime, introdotto sia pur brevemente dalla Prammatica, il semplice
possesso di strumenti atti al conio, avrebbe potuto costituire piena prova per il delitto di
falsificazione. La logica della legge, dunque, più che rappresentare il primo passo verso il libero
convincimento, costituiva l’ennesima attribuzione di prerogative “sovrane” ai tribunali di più
alto grado. Sul punto: G. Alessi, Prova legale e pena cit., pag. 192 e ss.; Si veda anche P.L.
Rovito, Prova legale e indizi cit., pag. 171 e ss., dove invece viene enfatizzato il valore della
legge come «innesto di un mos hispanicus di giudicatura nei Tribunali del Regno», con la
69
avere innescato un accesissimo dibattito sull’opportunità di demandare alla libera
valutazione del giudice il materiale indiziario, e ciò anche ai fini della condanna
edittale, facendo così emergere una questione teorica sino ad allora
sostanzialmente ignorata a Napoli285, e destinata a svilupparsi nei decenni
successivi286.
Altro riconoscimento doveroso nei confronti di questo controverso documento, è
l’attitudine a costituire uno strumento di confronto tra due giurisprudenze: la
prammatica de officio judicum, mostra nella maniera più eloquente come la
prassi napoletana fosse, addirittura intenzionalmente, contrapposta allo stylus
spagnolo; conferma altresì, se ve ne fosse bisogno, quanto i supremi tribunali del
Regno fossero gelosi delle proprie prerogative, prima fra tutte quella di stabilire
equitativamente i confini della certezza giudiziale, confini che invece quella
legge pretendeva di definire d’autorità.
Il testo del provvedimento conteneva una lunga premessa “giustificativa”, tesa a
sottolineare soprattutto le ragioni di opportunità che legittimavano l’intervento
normativo: il tema degli indicia indubitata e della loro attitudine a determinare
condanne capitali, era stato lungamente discusso; ma mentre la giurisprudenza
napoletana aveva ritenuto di dover propendere per la soluzione più benigna, che
consigliava la sola inflizione di pene straordinarie, la criminalità del Regno era
cresciuta in maniera esponenziale, ed aveva affinato le sue tecniche, sì da lasciare
il più delle volte la giustizia delusa e burlata, priva di sufficiente cognizione, e
dunque incapace di reagire con la giusta veemenza:

«(…) Essendo in questo Regno molte volte posto in dubbio se per


gl’indizi indubitati nelle cause criminali né delitti atroci et esemplari,
si può venire ad imporre la pena ordinaria di morte naturale, che
meriterebbe il Reo se fosse convinto; ed essendo stata abbracciata

conseguente emersione di un problema non propriamente tecnico, ma piuttosto di autonomia


costituzionale.
285
Scipione Rovito, nei suoi Commentaria alle Prammatiche napoletane, si era occupato del
tema della prova penale in maniera assai succinta, dando per scontato - stando all’insegnamento
di Claro - che al reo non convinto potesse infliggersi unicamente una pena arbitraria; la
pubblicazione della Prammatica gli impose una più diffusa trattazione dell’argomento nelle sue
Decisiones Tribunalium Regni Neapolitani, la cui prima edizione è del 1633. Sul punto: G.
Alessi, Prova legale e pena, cit., pag. 200.
286
In realtà solo a partire dalla seconda metà del secolo XVII, riaffiorò un notevole interesse
della scientia Juris, non solo napoletana, per le norme contenute all’interno della prammatica:
Salelles, Rinaldi, oltre che Marciano e De Rosa, si occuparono assai diffusamente dell’indicium
plenum e della certitudo assertiva proprio partendo dal provvedimento di Zapata. Negli anni ‘30
e ‘40 del Seicento, invece, l’interpretazione della prammatica da parte di Rovito aveva avuto un
effetto paralizzante: non solo aveva dato luogo ad una vera e propria quiescenza della legge, di
fatto rimasta inapplicata, ma aveva impedito anche lo sviluppo di ulteriori proposte teoriche
circa la sua concreta operatività.
70
l’opinione più benigna ed equa, che non si possa dare detta pena
ordinaria, tuttavolta essendo moltiplicati i delitti in tanto numero, e per
lo più commettendosi con cautela tale, che non se ne può aver
cognizione, sebbene vi sono indizi indubitati di maniera che si viene
quasi a deludere, e burlar la giustizia, ci è paruto, con voto e parere del
Regio Collaterale Consiglio, con la presente prammatica, decidendo
con la potestà regia, qua fungimur (...) Ordiniamo che nelle cause che,
da qua in avanti, si tratteranno ancorchè i delitti si sieno già commessi,
possano i Giudici dè Tribunali Regij seguire l’opinione di dare per
indizi indubitati la pena ordinaria, non ostante qualsivoglia decisione
fatta in contrario per lo S.C. ed altri Tribunali: confidando noi che i
Ministri tanto principali, ed eminenti useranno di questo arbitrio, di
maniera tale che i Rei colpati sieno castigati, e gl’innocenti non
gravati (…)»287.

La legge, per porre fine a quest’annosa controversia, attribuì ai tribunali regi


l’arbitrio di collegare sanzioni ordinarie a pesanti indizi di colpevolezza, i
cosiddetti indubitati, che venivano definiti come quelli che «provati
legittimamente inducono la mente del Giudice a credere fermamente il delitto
essersi commesso dall’inquisito, quietando il suo intelletto in questa ferma
credenza», formula, quest’ultima, quasi di dantesca memoria288.
In tal modo si attribuiva agli indizi una forza probante senza precedenti, sebbene
la prammatica non sancisse l’obbligo, «ma soltanto la possibilità che i giudici,
nel caso di “ferma credenza”, irrogassero la pena edittale»289.
I giuristi reagirono ugualmente con fiera opposizione: non si poteva decretare
pubblicamente l’abbandono della principale regula juris in materia di prove, e
lasciare ai giudici il potere di attribuire valore indubitato ad elementi
circostanziali, per giunta avendo la possibilità di far corrispondere a questi ultimi
la sanzione capitale.
La prammatica rappresentò dunque motivo di sgomento tra gli esponenti della
cultura giuridica napoletana, per i quali le esigenze della giustizia non potevano
essere disgiunte dal bisogno di garantire la legalità290; per questa ragione il
provvedimento voluto da Zapata non poté che avere vita assai breve: dopo soli
quattro mesi fu emanata una nuova direttiva che equivaleva ad una sostanziale

287
D. A. Vario, Pragmaticae, Edicta, Decreta, Interdicta Regiaeque Sanctiones Regni
Neapolitani, Napoli, 1772, t. III, pag. 79.
288
«Nel vero in che si quieta ogni intelletto», Par. XXVIII, 108.
289
G. Alessi, Prova legale e pena cit., pag. 197, dove la precisazione serve a chiarire che la
prammatica «si muoveva all’interno di una politica di sapiente graduazione dei poteri del
giudice a seconda delle circostanze, e non può esser letta come un intervento radicalmente
innovatore dei criteri di prova legale (…)».
290
Intesa come esatta corrispondenza tra probatio plena e pena edittale.
71
abrogazione della prima. La nuova legge poneva numerosi limiti alla
condannabilità per indizi indubitati: pochi i tribunali autorizzati a ricorrervi, e
complicatissimo l’iter che il magistrato delegato avrebbe dovuto espletare291.
Sul fronte giurisprudenziale, Scipione Rovito fornì un’interpretazione assai
rigorosa del campo di operatività della prammatica, e la sua Deciso LXIII fu
adoperata per applicare il regime di parificazione degli indubitati alla probatio
plena solo e unicamente al caso di delitti occulti292.
Nella raccolta Decisiones Tribunalium Regni Neapolitani293, è contenuta la
soluzione con cui egli tentò di dirimere la controversia sul significato letterale
della legge. Anzitutto, egli aveva attestato l’esistenza di alcune opiniones
secondo le quali agli indicia indubitata e le presunzioni violentissime potessero
senz’altro corrispondere pene ordinarie. Le autorità citate erano Diego da
Cantera, celebre giurista ed inquisitore spagnolo della seconda metà del secolo
XVI, ed il forlivese Antonio Merenda, attivo nella prima metà del secolo XVII e
contemporaneo di Rovito.
Il primo, nelle sue Quaestiones Criminales, aveva ritenuto che anche nei delitti
che non fossero difficilis probationis, gli indizi indubitati potessero condurre ad
una sanzione ordinaria, purché fossero equiparabili ad una veemente
presunzione294.
Il secondo, autore di una raccolta di Controversiarum Iuris, aveva accolto la
succitata opinio, aggiungendo che si potesse parlare di indubitata «quando sunt
talia, ut reus ita convictus sit, ut sine calumnia non possit delictum inficiari»295.
Tuttavia, Rovito si era affrettato ad aggiungere che: «maior pars Tribunalium
elegerit potius imponere poenam extraordinariam, quam ordinaria, amplectendo
aequiorem opinionem, ita in hoc Regno semper servatam fuisse»296.
A riprova di ciò venivano citate le consuete auctoritates: Grammatico, Follerio,
De Franchis297; la prassi veniva suffragata anche dal Senato Milanese, quello

291
«L’arbitrio di dare per indizi indubitati la pena ordinaria possano usare il Tribunale della
Vicaria, le Regie Udienze Provinciali, e tutti gli altri Tribunali Regij collegiati tantum e non
altri; et à rispetto delle cause di simili delitti, nelli quali si procedesse ex delegazione, ita che
proferita la sentenza potesse quella in vigore della delegazione eseguirsi, volevo et ordiniamo
che quando in alcune di dette cause parerà alii giudici delegati di seguire tale opinione, e
condannare l’inquisito per indizij indubitati in pena ordinaria (…) farcene relazione nel Regio
Collaterale Consiglio, (…) con riferire puntualmente li meriti della causa e indizij sopra dei
quali sarà fondato l’arbitrio, acciò si possa da noi, intesa tal relazione ordinare, se doverà o non
doverà tal sentenza eseguirsi», Pramm. XIII De officio iudicum, in D.A. Vario, Pragmaticae
cit., pag. 81.
292
Sul punto: Alessi G., Prova legale e pena cit., pagg. 198 e ss.
293
Ed. consultata: Napoli, 1634.
294
D. da Cantera, Quaestiones Criminales tangentes Iudicem,accusatore, punitionemque
Delictorum, Salmanticae, 1589, c. 2, quaestio III.
295
A. Merenda, Controversiarum Juris Libri Sex, Venetiis, 1625, l. V, cap. 25, n. 3.
296
S. Rovito, Decisiones Tribunalium Regni Neapolitani, cit., dec. LXIII, n. 7, pag. 311.
72
Piemontese e quello francese di Dole298. Veniva altresì segnalata, come di
consueto, la prassi contraria del Regno d’Aragona299.
Si passava quindi ad analizzare il contenuto della Prammatica XII de officio
judicum, specie alla luce degli aggiustamenti introdotti dal provvedimento
omonimo, emanato il 28 gennaio del 1622, per chiarire (e limitare) la portata del
primo. Esso prevedeva, in sostanza, che la possibilità di condannare per indizi
indubitati venisse ora attribuita ai soli tribunali collegiati, previa comunicazione
al Consiglio del Collaterale300.
Nella spiegazione della formula-chiave «firmiter credere», che sola autorizzava
l’esercizio di quel particolare arbitrium riconosciuto dalla legge, Rovito provvide
a distinguere due differenti categorie di credulitas: nella prima residuavano
margini di haesitatio, che consigliavano di circoscrivere il più possibile
l’ampiezza della discrezionalità valutativa; nella seconda non v’era alcuna
esitazione, né attuale, né virtuale, e la credenza acquisiva quella fermezza in
grado di comminare con sicurezza la pena edittale301.
Nel porsi l’interrogativo della concreta operatività di quelle distinzioni, egli
concludeva nel senso che soltanto nei delicta quae occulto committuntur avrebbe
dovuto ritenersi sufficiente alla pena ordinaria la certezza actualis tantum (che
cioè non escludesse prova contraria), tipica conseguenza della prova
circostanziale, per sua natura imperfetta.
In tutti gli altri casi, ai fini della comminazione della pena edittale, sarebbe
occorsa una «credulitas actualis et virtualis, absque aliqua haesitatione»302.

297
Ibidem, n. 7.
298
Come già visto, (supra, I.3), si trattava di fonti costantemente citate dalla decisionistica
napoletana.
299
«(… ) contrarium servatur in Regno Aragoniae (…)», Ibidem, n. 8.
300
«(..) per aliam Pragmaticam editam die 28 Ianuar. 1622, quae est Pragm. XIII eodem titulo,
fuit declaratum, tale arbitrium non competere alijs Iudicibus Regijs, praeter Tribunalia
Collegiata, prout sunt Magna Curia Vicariae, Regiae Audientiae Provinciales et alia
quaecumque; Collegiata, quo vero ad Iudices Delegatos fuit ordinatum quod non procedant ad
executionem sententiarum per eos proferendarum ex inditijs indubitatis, nisi facta prius per eos
relatione in Collaterali Consilio (…)», Ibidem, n. 8.
301
«Sed adhuc remanet aliquid agendum, nam credere aliquid firmiter potest duobus modis
contingere; uno, quando credi, quod ita sit absque aliqua haesitatione actuali, sed cum aliqua
haesitatione virtuali, ita ut si quis me interroget utrum illud factum habeam pro indubitato
omnino, vel potius existimem posse non esse verum, verisimiliter responderem forte non est
verum; sed pro nunc credo firmiter verum esse; altero vero, quando credulitas est ita firma ut
neque actualem, neque virtualem habeam haesitationem, ut cuilibet interroganti responderem
illud esse verissimum, nec alicui dubitationi locum esse relictum», Ibidem, n. 9.
302
« (…) si sumus in delctis occultis, quae occulto committuntur, potest procedi ad poenam
ordinariam, etiam ex prima specie credulitatis, actualis tantum (…). At ex secunda specie
credulitatis, quae excludit omnem haesitationem actualem et virtualem in omnibus delictis,
etiam non occultis, potest procedi ad poenam ordinariam», Ibidem, n. 10.
73
Secondo questa ricostruzione, esisteva dunque una convinzione attuale, che però
non eliminava del tutto il suo contrario, ma anzi lo riteneva comunque
verosimile; e una convinzione non solo presente, ma anche futura, talmente
ferma da potersi escludere che un fatto ritenuto vero potesse, per l’avvenire,
risultare falso.
Nel primo caso, nonostante la presenza di un’esitazione, il giudice avrebbe
potuto condannare alla pena ordinaria ove si trattasse di delitti occulti, dato il
particolare disvalore che giustificava senz’altro una più severa reazione da parte
dell’ordinamento303; in tutte le altre ipotesi, sarebbe stata necessaria una piena
convinzione, che escludesse ogni possibile dubbio.
Scipione Rovito, a ben guardare, aveva ammesso la possibilità che attraverso
degli indizi si potesse formare un fermo convincimento, ma quella ostica
distinzione tra credulitas virtualis ed actualis aveva offerto l’occasione per
circoscrivere oltre ogni misura l’operatività della legge, impedendone di fatto
l’applicazione.
In particolare, il secondo tipo di certezza, capace di escludere ogni dubbio,
possedeva un campo di utilizzo limitatissimo: in base alla perdurante diffidenza
nei confronti delle prove indirette, essa non aveva alcun margine di effettività.
Le interpretazioni restrittive, i limiti attuativi, il vero e proprio boicottaggio posto
in essere dal ministero napoletano per scoraggiare o ostacolare il funzionamento
di quel poco che rimaneva della Prammatica, furono inequivocabili segnali
dell’incapacità di abbandonare i principi tramandati dalle autorità più antiche.
Ciò che in un primo momento era parso come un vertiginoso strappo alla
tradizione, fu ben presto ricucito: ricomposto l’ordine e scongiurato il pericolo di
fratture troppo vistose, la Prammatica continuò a far parlare di sé304, e seguitò a
dividere dottrina e giurisprudenza, senza che però in concreto si realizzasse
alcuna effettiva inversione nella pratica; tutt’altro: la legge entrò in una vera e
propria fase di quiescenza normativa305. Gran parte della criminalistica
successiva, perseverò infatti nel rifiutare l’utilizzo di presunzioni, ancorché
violente, o di indizi, benché indubitati, alla stregua di vere e proprie prove legali
capaci di far irrogare pene ordinarie: tanto i manuali, quanto le stesse raccolte di
Decisiones, attestano ancora per il XVII secolo una diffusa tendenza ad esercitare

303
E nel dire ciò, citava Barbosa, di cui infra, II.3.
304
Ne è una riprova la circostanza che la decisio di Rovito continui ad essere citata da tutte le
pratiche criminali, anche tardo-seicentesche. La stessa opera di Marcello Marciano, dedicata alla
trattazione degli indizi, pur essendo stata pubblicata quasi settant’anni dopo la Prammatica,
riserva ad essa una lunga trattazione. Sul punto: infra II.3.
305
Così in P.L. Rovito, Prova legale e indizi cit., pag. 171 e ss.
74
l’arbitrium sulla pena in tutte le ipotesi di formale insufficienza probatoria, salvo
casi sparuti ed occasionali306.
Ciò nonostante, qualcosa era accaduto: non era più tanto scontato l’asserto
secondo il quale i signa e gli argumenta fossero del tutto irrilevanti;
l’interpretazione di Rovito, per quanto utilizzata nel senso di restringere il più
possibile l’operatività della prammatica, aveva introdotto nella dialettica
processuale un nuovo e problematico concetto: la ferma credenza («credulitas
absque ulla haesitatione»).
Gregorio Grimaldi, tentò di interpretare con queste parole il disorientamento che
attanagliò tutta la criminalistica successiva:

«Ecco che germogliano tanti altri dubbi intorno alla qualità degli
indizi indubitati, i quali essendo ad formam recipientium, cioè ad
formam della natura del talento e del raziocinio, di cui dovrebbero
esser forniti coloro i quali giudicano, perciò mai potrà esservi legge
che atta sia a ridurre a una certa meta il diverso opinare degli uomini
(…) laddove si tratta di rischiarare i fatti occulti, è impossibile di
averne una certezza fisica, che conchiuda ex necessario, ma ne basterà
la morale, che conchiude ex probabili»307.

Il campo della certezza legale, corrispondente a sicure evidenze fattuali ottenute


con prove perfette, piene, luce clariores, veniva ora invaso da una nuova,
sconosciuta categoria: la certezza morale. Un inedito metodo di composizione dei
fatti penalmente rilevanti, era stato, seppur brevemente, ufficializzato.

306
Una di queste rarissime testimonianze è narrata da Ettore Capecelatro, autore di una raccolta
di Decisionum Novissimarum Sacri Regi Consilii Neapolitani ac Supremi Collateralis Consilii,
Neapoli, 1650, dove è riportata una sentenza di morte del 1642 pronunciata dalla Magna Curia
della Vicaria su decreto di autorizzazione del Collaterale nei confronti di un tale, Carlo Tropea,
accusato di stupro e sodomia ai danni di un dodicenne. Nonostante due testimonianze (entrambe
ritenute invalide perché provenienti da una meretrix e da un minore), e nonostante un quadro
indiziario feroce (il minore era stato trovato in casa con lui, «fere denudatus», disteso su un
giaciglio che, successivamente analizzato, mostrava tracce di feci e seme umano), si era
ampiamente discusso del carattere meramente “dubitato” degli indizi raccolti (tra cui una perizia
che aveva acclarato la violenza subita), e si era addirittura ipotizzata l’inapplicabilità della
Prammatica XII, perché questa richiedeva espressamente «plures indicia indubitata», mentre più
dubitati davano luogo ad un solo indubitatum. Al contrario, vi era stato chi aveva fatto osservare
che trattandosi di sodomia, si sarebbe potuto condannare anche per praesumptiones o
probationes leviores. Alla fine, la Magna Curia si rivolse al Collaterale, il quale rispose che in
quel caso non si fosse nemmeno in presenza di indicia indubitata, ma di una plenissima
probatio (dec. CLXIII). Sebbene la vicenda narrata costituisca un’eccezione nel suo epilogo,
essa mostra una volta di più l’atteggiamento iperformalistico di molta parte del ceto togato
napoletano, e un’eccessiva prudenza a comminare sentenze piene anche quando si fosse in
presenza di delitti atroci.
307
G. Grimaldi, Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, 1774-1786, Vol. X, Libro
XXXV, pp. 372-373.
75
La prassi napoletana, a differenza di quella spagnola, si sarebbe mostrata ancora
a lungo impermeabile ad esso; ma nella dottrina cominciavano a levarsi voci
assai autorevoli che abbracciavano nuove teorie e soluzioni: non solo Marcello
Marciano308, ma anche Carlo Antonio De Rosa309, forse il più importante
criminalista di fine secolo all’interno del Regno, ebbero modo di soffermarsi con
estrema lucidità sul tema della certitudo di origine “indiziaria”.
Nella sua Criminalis Decretorum Praxis, ripercorrendo l’interpretazione di
Scipione Rovito310, De Rosa spiegò mirabilmente che «in humanis actionibus,
super quibus constituntur judicia et exiguntur testimonia, cum sunt circa
contingentia, et variabilia, certitudo demonstrativa, sive metaphysica non
potest»311. Si escludeva così la possibilità che potesse esistere una certezza
absque ulla haesitatione, e s’individuava l’unica certezza possibile nei fatti
terreni: la moralis certitudo312.
La sorprendente conclusione in senso “relativistico” circa la conoscenza
giudiziale delle azioni umane, mostrava un nuovo volto della riflessione
gnoseologica in tema di prova: la firma credulitas rappresentava l’ultima
frontiera del giudizio criminale, in grado di mettere in discussione non solo la
perfetta calcolabilità della colpa, ma anche, e soprattutto, la frazionabilità della
pena.

308
Di cui infra, II.3.
309
Originario dell’Aquila, divenne Regio Consigliere nel 1684 e Reggente della Regia
Cancelleria nel 1709. Ricordato dal Giustiniani per la sua prudenza, scrisse opere dalla chiara
vocazione pratica, molto usate anche durante il XVIII secolo: «Son queste le due pratiche, l’una
criminale, l’altra civile, ripiene di buon senso, e veramente tratte dallo spirito delle leggi, e
piene ancor veggonsi di esempi, e specialmente la prima, d’aversi sempre presenti i giudicanti
nelle decisioni delle cause criminali, onde farsi più che mai accorti e vigilanti», L. Giustiniani,
Memorie Istoriche cit. vol. III, pag. 124.
310
«Firmiter credere, duplici modo contingere potest, uno sine actuali dubitatione, et cum
virtuali tantum, ut si interrogatus an Titius commisit crimen, de quo inquiritur? Responderem ad
praesens firmiter credo, quod commisit, sed forte esse potest, quod non, et quod haec
credulitatis species sufficiat in delictis occultis; altero modo sine actuali et virtuali dubitatione,
ut si interrogats responderem, quod credo et est verissimum nec alicui dubitationi locus esse
potest, et quod in aliis delictis non occultis haec credulitatis species requirantur. Tamen ego in
istis quoque delictis dico, quod sufficiunt ea indicia quae delinquentem demonstrent morali
certitudine», in C. A. De Rosa, Criminalis Decretorum Praxis cit., liber I, cap. I, n. 31.
311
Ibidem, liber I, cap. I, n. 32.
312
Infra, II.4.
76
«Si medium in factum, vel in delicto non est,
nec in poena esse debet»
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum Libri Octo, cit., lib. I, cap. I, n.4

77
Capitolo II

Francisco Sarmiento e Marcello Marciano: la polemica contro


la poena extraordinaria.
II.1 Due specialisti della prova e due diversi orizzonti culturali: la Spagna e Napoli; II.2
Sarmiento: un nuovo rapporto tra prova e pena; II.3 Marciano: le novità del De indiciis
delictorum fragmentum; II.4 La nozione di credulitas: un momento genetico.

I.1 Due specialisti della prova e due diversi orizzonti culturali:


la Spagna e Napoli.

La prova penale ed il suo rapporto con la misura della sanzione, posero, per tutto
il secolo XVII, incresciosi problemi: l’utilizzabilità di elementi circostanziali non
più solo ad torquendum, la definizione e la individuazione dei cosiddetti indizi
indubitati, la possibilità di far corrispondere ad essi la pena edittale o altra
diminuita arbitrio iudicis, imponevano la risoluzione di complesse questioni
dottrinali, ma anche e soprattutto pratiche.
Se, nell’orizzonte inquisitorio, esisteva una verità oggettiva e perfetta, misurabile
con criteri predeterminati, rispondenti ad una rigida contabilità probatoria il cui
risultato finale era la certezza assoluta313, come avrebbe dovuto comportarsi il
giudice in mancanza di quella stessa certezza?
Come abbiamo visto, la pratica delle pene straordinarie, per quanto largamente
invalsa presso i Grandi Tribunali europei di area continentale, aveva alimentato i
dubbi e le perplessità di un nucleo di giuristi sempre più attenti a studiare
l’efficacia probante delle prove imperfette e la loro concreta operatività,
quantomeno in determinate categorie di crimina piuttosto controverse.
Già dal XVI secolo, un illustre cattedratico di Salamanca, in netto anticipo
rispetto a molti altri giuristi suoi contemporanei, aveva non solo individuato i
nuclei fondamentali della questione, ma aveva altresì proposto soluzioni
straordinariamente innovative, tanto da innescare una vivace polemica con uno
dei più grandi trattatisti cinquecenteschi, Jacopo Menochio314.

313
La definizione è, con una più ampia formulazione, adoperata da M. Vallerani ne I fatti nella
logica del processo medievale, cit., pag. 668 e ss.
314
Sulla polemica tra Menochio e Sarmiento, si veda G. Alessi, Prove legale e pena cit., pag.
119 e ss., dove si evidenzia l’eccezionale limpidezza e la superiore lucidità delle argomentazioni
di Sarmiento rispetto all’autore del Tractatus de praesumptionibus, ma anche e soprattutto la
spregiudicatezza dello spagnolo nella critica di auctoritates anche assai autorevoli.
78
Francisco Sarmiento de Mendoza, nacque nel 1525 nella regione della Castiglia,
precisamente a Burgos, da Don Luis Sarmiento de Mendoza, Ambasciatore di
Portogallo, e da Donna Juana Pesquera y Castillo315.
Professore di diritto canonico presso l’Accademia salmantina, fu poi uditore della
Sacra Rota romana, vescovo di Astorga nel 1574 ed infine uditore presso la
Regia Cancelleria di Valladolid316.
I suoi studi nella materia canonistica furono raccolti nei Selectarum
Interpretationum Libri Octo, pubblicati per la prima volta a Roma nel 1571317. In
essi ebbe modo di dimostrare anche un’approfondita conoscenza della tradizione
dottrinale romanistica. Ancor prima, scrisse il De Redditibus Ecclesiasticis, edito
a Roma nel 1569. Morì a Jaén nel 1595.
La sua opera fondamentale si presenta divisa in otto libri, in ciascuno dei quali
emerge una spiccata e prevalente vocazione privatistica: le materie
maggiormente attraversate sono infatti quella testamentaria e quella contrattuale.
Lo stesso diritto di famiglia, viene affrontato limitatamente alle questioni
patrimoniali318.
Il primo libro, dopo un breve preludio criminalistico piuttosto slegato dal restante
contesto319, si sviluppa nella trattazione del tema della filiazione: vengono
effettuate le distinzioni tra quella naturale e quella legittima, vengono esposte le
procedure di legittimazione susseguenti al matrimonio ed enucleati i diritti del
figlio in caso di seconde nozze della madre. Trova spazio anche la trattazione
dell’incesto e della relativa dispensa matrimoniale.
Nel secondo libro si affronta il tema delle condizioni apposte alle disposizioni
testamentarie e quelle contenute nei contratti; nel terzo si parla di donazioni,
enfiteusi ed usufrutto. Il quarto e il quinto libro sono interamente dedicati alla
materia testamentaria, mentre il sesto si occupa di quella contrattuale.
Il settimo libro tratta di censi, cambi, monti di pietà ed escussioni in clericum;
l’ultimo è tutto sui legati.
315
Così in H. Florez, España Sagrada. Theatro geographico-historico de la Iglesia de España,
tomo XVI, Madrid, 1762, trat. 56, cap. 6, pag. 288.
316
M. Salvá, P. Sainz de Baranda, Coleccion de documentos inéditos para la historia de
España, tomo IX, Madrid, 1846, pag. 65.
317
Così in M. Ott, “Francisco Sarmiento de Mendoza”, in The Catholic Encyclopedia, vol X,
New York, 1911, in cui vengono elencate anche le edizioni successive dei Selectarum: Burgos,
1573, 1575; Anversa, 1616.
318
Nell’impianto dell’opera, Sarmiento appare assai più “scolastico” che nella trattazione della
materia probatoria: la centralità del dominium e di tutta la sfera inviolabile degli atti dispositivi,
dimostra una solida appartenenza alla tradizione manualistica salmantina. Sul luogo discorsivo
del dominium quale punto di partenza della trattatistica tardo-scolastica, si rinvia alle riflessioni
di G. Alessi, Il soggetto e l’ordine. Percorsi dell’individualismo nell’Europa moderna, Torino,
2006, pag. 55 e ss.
319
Il primo capitolo è infatti dedicato al rapporto tra prova presuntiva e pena ordinaria; il
secondo alla disciplina della diffamazione.
79
Come si vede, si tratta di un’opera dove il diritto penale trova pochissimo spazio;
eppure, nei rari capitoli dedicati alla materia criminale320, emerge un mirabile
rigore scientifico da parte del Sarmiento, che si traduce in una sorprendente
padronanza delle fonti classiche e delle autorità più antiche, abbinata alla
capacità di assumere posizioni assolutamente trasversali rispetto alla dommatica
tradizionale.
Per esempio, nella complessa materia delle presunzioni, mentre i doctores suoi
contemporanei si limitavano ad attribuire alle prove indirette la sola attitudine a
giustificare un più ampio e ripetuto esperimento della tortura321, egli arrivava a
ridiscutere, nei loro stessi fondamenti, tanto la logica legalistica delle
probationes plenae, quanto la stessa possibilità di frazionare le pene in ragione
della quantità delle prove.
Nel capitolo che inaugura il primo libro, dal titolo «Utrum convictus ex
praesumptionibus poena ordinaria criminis sit plectendus», il discorso sulla
prova e sulla pena, come vedremo, possiede, sin dalle sue premesse, elementi di
assoluta originalità, non solo rispetto alla dottrina spagnola immediatamente
precedente o coeva, ma addirittura rispetto a tutto il più ampio panorama
europeo. La prolusione di Sarmiento in materia di praesumptiones, ma
soprattutto il reciso rifiuto di comminare pene intermedie, ebbero il merito, con
tutta probabilità, di influenzare significativamente molta parte della
giurisprudenza iberica tra Cinque e Seicento322. Senza alcun dubbio, le sue tesi
“di rottura” rispetto alla disciplina della pena e della prova, espressione anche di
una diretta conoscenza dello ius civile, dovettero essere fonte d’ispirazione per
illustri autori del secolo successivo: si pensi ad Anton Matthes, che molti dei
principi affermati dal Sarmiento fece propri nell’interpretare i libri terribiles del
Digesto323; si pensi altresì al celebre magistrato napoletano Marcello

320
Sono presenti nella raccolta altri due capi aventi ad oggetto materie di rilevanza penale: uno,
anch’esso racchiuso nel primo libro, tratta di competenza del giudice in criminalibus; l’altro,
incluso nel terzo, si occupa della confessione del delitto da parte del minore.
321
Sulla dottrina spagnola in tema di prove presuntive e circostanziali, si veda supra, I.4.
322
Si può ipotizzare, anche se occorrerebbero a tal proposito ben più ampie ricerche, che le
teorie di Francisco Sarmiento de Mendoza, spesso citato nelle raccolte di decisiones castigliane,
abbiano costituito un importante fondamento teorico per la larga discrezionalità valutativa dei
magistrati iberici, documentata supra, I.4. Sicuramente, Sarmiento non fu l’unico giurista
spagnolo a raccomandare un più largo uso del convincimento “per discursum”: Pier Luigi
Rovito, in Prova legale e indizi cit., pag. 162, fa riferimento ad un altro esponente della tarda
scolastica, Juan Marquez, autore di uno scritto religioso-politico, El governador christiano
deducido de las vidas de Moysen y Iosue, principes del Pueblo de Dio, Salamanca, 1619. Egli,
prendendo pretesto da un episodio biblico, aveva negato ogni attendibilità alla prova legale,
poiché i testimoni potevano essere subornati, e le confessioni provocate dal «miedo de los
tormientos».
323
A. Matthaeus, Commentarius ad Lib. XLVII et XLVIII De Criminibus, Coloniae, 1715.
L’opera fu edita per la prima volta ad Amsterdam nel 1644. All’interno di essa si esplicita un
80
Marciano324, che fu uno dei pochissimi togati del Regno a battersi aspramente
contro la pratica delle pene straordinarie, e che nella sua opera interamente
dedicata alla materia degli indizi, adoperò come spunto moltissime delle
argomentazioni già esposte dal suo predecessore spagnolo.
Il parallelismo tra Sarmiento e Marciano è interessante per un duplice aspetto:
non solo perché il secondo è un chiaro continuatore delle tesi del primo, ma
soprattutto perché quelle stesse tesi vengono affermate in un orizzonte culturale
quanto mai distante dalla Spagna; come abbiamo visto, infatti, non solo la
giurisprudenza, ma la stessa tradizione dottrinale napoletana, si mostrava
ostinatamente refrattaria ad accogliere gli orientamenti prevalenti in terra iberica,
e ciò avveniva soprattutto sotto il profilo penalistico del rapporto tra prove e
pene.
E’ innegabile poi che tra Sarmiento e Marciano esista un’impossibile continuità:
l’uno è pienamente ascrivibile all’orizzonte cinquecentesco, l’altro opera nel
Seicento maturo; il primo era un vescovo gesuita di formazione culta, professore
a Salamanca e poi giudice alla Sacra Rota; il secondo un nobile della Capitale,
discendente da un’antichissima famiglia di supremi magistrati, prontamente
avviato ad una brillante carriera forense prima, e di giudice poi325. Diversi anche
gli interessi: Sarmiento mostrò una maggiore attitudine alla trattazione della
materia privatistica e patrimoniale, sebbene rivelasse al contempo un’assoluta
padronanza anche in ambito probatorio e criminale; Marciano, come attestato dai
suoi biografi, si dedicò alle «più difficili ed oscure leggi»326: scrisse il De
Incendiariis Liber Singularis e il De praejudiciis et concurrentibus actionibus
libri duo, opere che, assieme al De indiciis delictorum fragmentum, attestavano
una profonda competenza nella materia processualistica, sia civile che penale;

vero e proprio attacco alle concezioni forensi della prova, della pena e del processo: contro la
communis schola a lui contemporanea, che escludeva la condanna sulla base di indizi e
presunzioni, o tutt’al più ammetteva la comminazione di una pena straordinaria, Matthes
opponeva una conclusione distante anni luce da ambo le opinioni: «Nos utique relictis,
adhaerebimus paucioribus, qui existimant indiciis et argumentis convictum non minus ordinaria
poena adfici posse, atque si testibus convictus esset», Ibidem, tit. XV De probationibus, cap. VI,
De argumentis et indiciis, t. II, pag. 84. In un altro passaggio, ancor più chiaramente, veniva
integralmente riproposta la tesi di Sarmiento sull’impossibilità di una terza via tra innocenza e
colpevolezza: «aut crimen probatum est argumentis, aut non est. Si probatum est, nulla causa
est, cur ordinaria poena infligi non debeat; si probatum non est, nullus puniendi locus
relinquitur, sed aut it reum amplius inquirendum, aut sententia iudicis absolvendum est»,
Ibidem, pag. 87.
324
Di cui infra, II.3.
325
L. Giustiniani, Memorie istoriche, cit., vol III, pag. 221.
326
Ibidem, pag. 222.
81
compose inoltre due opere dalla chiara vocazione pratica: gli Excerpta fiscalium
exercitationum e gli Excerpta forensium exercitationum327.
Nonostante le molteplici distanze tra i due autori (cronologiche, geografiche, di
interessi e di carriera), è proprio nella materia probatoria che s’individua un
solido terreno comune; Marciano prima cita, e poi addirittura sviluppa le tesi
Sarmiento, e in materia di indicia indubitata, come vedremo, offre spunti che
nemmeno il Vescovo di Astorga era giunto a formulare.
Il De indiciis delictorum fragmentum, opera monografica interamente dedicata
alla prova indiziaria, dimostra l’assoluta centralità dell’indubitato
nell’epistemologia giuridica secentesca, e la sua insuperata problematicità
rispetto all’inflizione della pena.
Il breve saggio, come pure il suo autore, rivelano molteplici profili di estremo
interesse. Anzitutto, vale la pena di sottolineare che Marciano, pur essendo un
giurista poco studiato dalla storiografia tradizionale, non fu certo un personaggio
di scarso rilievo nel ceto forense della Capitale, ma godette piuttosto di
autorevolezza ed influenza notevolissime presso il magistero napoletano, come
dimostra il cursus honorum da lui intrapreso a partire dalla seconda metà del
Seicento e culminato con i più alti uffici, prima a Napoli e poi in Spagna:

«Il Conte di Castrillo lo creò Giudice di Vicaria Civile, ed indi a poco


fe passaggio nella criminale colla stessa carica, la quale veniva da lui
adempita col vero carattere di un abile e giusto Magistrato. Quindi il
suo merito richiamavalo a gradi migliori, e fatto Regio Consigliere
(trovandosi la prima commessa il dì 9 gennaio 1663), passò poscia ad
Avvocato fiscale del Real Patrimonio il dì 30 agosto dello stesso anno;
e sul principio del governo di Pietrantonio d’Aragona, creato
Reggente del Supremo Consiglio d’Italia, dove portavasi nelle
Spagne»328

Stimatissimo dai suoi contemporanei329, Marcello Marciano non può essere


propriamente descritto come un giurista “controcorrente”: la personalità di

327
Tutti i suoi scritti, alcuni dei quali rimasti parzialmente incompiuti, furono pubblicati, dopo
la sua morte, a cura del figlio Francesco, in una edizione complessiva del 1680 denominata
Opera Legalia Posthuma, introdotta da un’Epistola al leggitore redatta da Gennaro d’Andrea.
328
Ibidem, pag. 221.
329
«Non v’ha dubbio che fosse divenuto uno dè più celebri professori, che potea l’età sua
vantare, accoppiando al suo sapere anche una brillante eloquenza, ed una meravigliosa condotta
nel maneggio del foro»; e ancora: «Egli fu nella più alta stima presso la Corte di Madrid, non
solo per l’esatto adempimento della sua carica, ma anche per le sue cognizioni letterarie
dandone tuttogiorno delle indubitate ripruove», Ibidem, pag. 223.
82
illustre magistrato (erudito, potente, rispettato)330, che è il profilo che emerge
dalle notizie biografiche che possediamo331, mal si concilia con una posizione di
aperta polemica contro il suo stesso ceto.
Eppure, nello scritto avente ad oggetto gli indizi, egli si fa, suo malgrado,
portatore di istanze assolutamente nuove nel campo del metodo e del diritto
probatorio, assumendo, come vedremo, posizioni in larga misura contrastanti con
la tradizione napoletana, e coincidenti piuttosto con orientamenti tipicamente
iberici.
Da questo punto di vista, potrebbe non essere affatto casuale la circostanza che
egli abbia concluso la propria carriera e la propria esistenza lontano dalla terra
natia, presso la corte d’Aragona; certamente nel De indiciis Marciano mostra più
di un’affinità con il mos hispanicus di giudicatura: frequentissime sono le
citazioni di autori spagnoli, e ancor più evidenti le suggestioni tardo-scolastiche,
di chiara matrice salmantina.
A dispetto del titolo che porta, il frammento non si occupa unicamente della
materia indiziaria, ma dedica una buona parte della trattazione anche,
ovviamente, al tema più generale della prova e del suo rapporto con la pena
nell’ambito dei processi criminali. E’ chiaro tuttavia che, nel quadro
complessivo, il ruolo degli indicia e della loro efficacia probante assuma una
rilevanza centrale.
L’opera si presenta divisa in quattro capi, il primo dei quali provvede ad
effettuare una divisione delle varie categorie di indizi, distinti in base al loro

330
«Non gli mancò alcuna di quelle parti che ricercansi per riuscire grande in tal professione:
gran capacità, gran dottrina, grande erudizione, petto, ed in età assai giovanile gran maturità di
giudizio mostrò mai sempre nel disimpegno degli affari». Queste le parole spese per lui da
Francesco d’Andrea, indiscusso protagonista della rivoluzione intellettuale napoletana
nell’ultima fase del XVII secolo, anche e soprattutto attraverso la fondazione dell’Accademia
degli Investiganti, di cui infra, III.3. La citazione riportata è tratta dagli Avvertimenti ai Nipoti, a
cura di I. Ascione, Napoli, 1980, capitolo XXV, pag. 211.
331
Notizie che, purtroppo, sono scarse e talvolta contraddittorie. Ad esempio, negli Annali Civili
del Regno delle Due Sicilie, Marcello Marciano viene inserito tra gli avvocati e professori
succeduti a d’Andrea nel «novello cammino aperto da costui agli studi del diritto»: di lui si dice
che «avvegnachè non fosse di egual valore del d’Andrea, pure può dirsi, per lo genere di studi a
cui si rivolse e per i nuovi saggi fatti nelle dottrine forensi, che egli fece quasi avvanzare di un
altro passo la novella giurisprudenza. Il Marciano aveva una perspicacia d’ingegno ed una
cotale arditezza di speculazione, che lo avrebbe forse condotto a felici sperimenti di
giurisprudenza filosofica, se fossegli accaduto di nascere alquanto più tardi. (…) Nelle sue
conosciutissime opere dimostra non solamente una vera erudizione, soda, vera ed efficacemente
adoperata nelle dispute forensi, ma lascia eziandio trasparire alcuni raggi di non spregevole
filosofia», In Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, Vol. XVI, Napoli, 1838, cap. IV, pag.
21. Il riferimento alle «conosciutissime opere», c’induce a ritenere che si parli del “nostro”
Marciano, poiché non possediamo notizie di un omonimo successivo che abbia ottenuto uguale
popolarità e dignità letteraria; tuttavia, lo stesso giurista viene descritto anche come una sorta si
“successore” di Francesco d’Andrea, e qui esiste un’incongruenza, poiché Marcello Marciano
morì nel 1670, ben 25 anni prima del fondatore degli Investiganti.
83
grado di probabilità. Il secondo inserisce gli indicia in una più ampia
classificazione avente ad oggetto le prove criminali. Il terzo si occupa del
rapporto tra indizi e pene, mentre l’ultimo affronta il tema della certezza morale,
la famosa credulitas absque aliqua haesitatione introdotta per la prima volta da
Scipione Rovito negli anni trenta del Seicento332.
Come si vede, c’è qui una più specifica, e, se possibile, più ampia trattazione
della materia indiziaria: mentre in Sarmiento il tema dell’efficacia probante delle
prove indirette veniva trattato in un unico capitolo, e soltanto attraverso la
categoria delle praesumptiones, con Marciano l’indizio assurgeva ad assoluto
protagonista di un’intera prolusione. Da entrambi gli autori, tuttavia, veniva
posto in primo piano il tema dell’arbitrio sulle pene e il reciso rifiuto opposto alla
pratica delle condanne straordinarie, descritte come un’inaccettabile terza via tra
la colpevolezza e l’innocenza.
La consolidatissima teorica delle poenae extraordinarie, aveva infatti
determinato una sorta di “corto circuito” nell’idea stessa della responsabilità
penale: i “pragmatici” avevano creato, di fatto, una forma diminuita di punizione
che non corrispondeva soltanto alla presenza di attenuanti, alla sussistenza di
cause giustificative, o all’assenza di dolo, ma che veniva collegata il più delle
volte alla pura e semplice insufficienza delle prove reperite a carico del reo.
Un’impostazione di questo tipo, era tutta protesa alla ragion pratica
dell’efficienza della repressione: «Interest rei publicae ne crimina remaneant
impunita». Ma un carattere così palesemente compromissorio, non poteva che
ripugnare il limpido rigorismo culto di Sarmiento che, non a caso, contestava
apertamente siffatta giurisprudenza, tacciandola di non avere alcun fondamento
normativo che la suffragasse. Un secolo dopo, essa veniva ripudiata, a maggior
ragione, da una dottrina giuridica - di cui Marciano fu precursore - che
cominciava ad essere irreversibilmente condizionata dalle nuove categorie del
pensiero filosofico, matematico e scientifico. Ecco dunque un’altra chiave
interpretativa che ci consente di comprendere appieno la portata effettiva dei
contributi dottrinali dei due autori in esame. Il primo, infatti, matura il proprio
pensiero nell’orizzonte umanistico, teso al pieno recupero filologico dei testi e
alla ricerca del loro significato autentico, all’interno di un’ambiziosa missione di
ripensamento del sistema. Nella prolusione del giurista spagnolo, è evidente lo
sforzo di ricostruzione e ricomposizione dei testi, la volontà di epurarli dalle
contaminazioni, dalle errate interpretazioni, dalle vere e proprie manipolazioni di
cui essi erano stati oggetto. Se si eccettuano le sparute citazioni della dottrina

332
Supra, I.5.
84
moderna, utilizzate per lo più a scopo di confutazione333, tutto il capitolo sulle
prove presuntive è dedicato alla riscoperta di leggi dimenticate o male
interpretate, sia di diritto civile che di diritto canonico; frequente è il richiamo ad
antichissimi padri della Chiesa334, abbinato al costante coinvolgimento delle fonti
classiche335.
Ad esempio, il principio cardine della costruzione del Sarmiento, secondo il
quale «medium in delictum non est», oltre ad essere suggerito dalla logica,
veniva riferito ad una serie di canoni e leggi, in base ai quali:

«si medium in factum, vel in delicto non est, nec in poena esse debet,
quae propter illud factum vel delictum est imponenda, (…) ex
delictum enim argumentamur ad poenam»336.

Il percorso conoscitivo dei fatti giudiziali, come denunciato dal giurista, si


arrestava ancor prima di acquisire una sicura conoscenza degli stessi, ma
culminava comunque con la comminazione di una pena. Egli invece, in base ad
un accurato studio dei capitoli De Accusationibus, contenuti nelle Decretali di
Gregorio IX337, e dei titoli De Probationibus, De Testibus e De Poenis contenuti
nel Codex e nel Digesto338, suggeriva un diverso procedimento logico di
ricostruzione: anzitutto, proponeva di pervenire ad una sicura contezza del delitto
e del suo autore, e solo da lì di procedere all’applicazione della sanzione edittale.
Così, del resto, imponevano le fonti.
Anche il testo biblico del giudizio di Salomone, come vedremo339, veniva riletto
senza le interpolazioni che lo avevano fatto assurgere a costante fonte di

333
Ad esempio Felino Maria Sandeo, autore, tra l’altro, dei Commentaria super titulis de
probationibus, de testibus, de testibus cogendis, de praesumptionibus, Pavia, 1495; Nicola
Boerio, di cui viene ricordata la decisio 164 nell’ambito delle Decisiones Supremi Senatus
Burdegalensis, Francoforte, 1599; infine, tutte le auctoritates allegate da Tiraqueau nel suo
Tractatus de poenis temperandis, di cui infra, II.2.
334
Come San Giovanni Crisostomo (soprannominato così per la sua eloquenza, da χρυσόστοµος,
«bocca d'oro»), secondo Patriarca di Costantinopoli, vissuto nel IV secolo.
335
Vengono citate, ad esempio, le orazioni In Verrem di Cicerone, svariati principi ulpianei e lo
stesso De Legibus di Platone. A proposito di Ulpiano, l’operazione di sottile falsificazione da
parte della dottrina tradizionale risultava particolarmente evidente: il suo insegnamento era stato
infatti adoperato per negare la condannabilità dell’imputato sulla base di presunzioni. Vero è
che, tuttavia, lo stesso giurista, aveva affermato un principio sostanzialmente dimenticato, o
opportunamente occultato, perché di fatto incompatibile con la pratica dell’arbitramento delle
pene, lo stesso principio che anche Marciano ripeterà ossessivamente nella sua trattazione:
«satius est impunitum relinqui facinus nocentis, quam innocentem damnari» .
336
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum Libri Octo, cit., lib. I, cap. I, n. 4,
pag. 3.
337
X. l.V, tit. I, c.14.
338
C. IV, 19; C. IV,20, C. IX, 47; D. XXI, 5; D. XLVIII,19.
339
Infra, II.2.
85
riferimento per la regola della pena straordinaria su base presuntiva; in realtà
quello stesso testo, contestualizzato opportunamente nell’orizzonte accusatorio
che gli era proprio, era del tutto insuscettibile di costituire un qualche precedente:
la decisione di Salomone non accreditava la poena extratraordinaria, ma
dimostrava semplicemente che, ai tempi del re d’Israele, il giudice non avrebbe
mai potuto autonomamente incriminare taluno né tantomeno punirlo sine
accusatore.
Con Marcello Marciano, più che ad un atteggiamento “purista”, più che ad una
rigorosa lettura dei testi, si assiste soprattutto ad un approccio razionalista, che
denuncia le illogicità, le contraddizioni e le disfunzioni del meccanismo
probatorio. Vero è che questa polemica era già presente nella prolusione di
Sarmiento340, ma nel De indiciis si fa più esplicita, ed attraversa l’intera
trattazione, assieme allo sviluppo di temi del tutto assenti dallo studio del
vescovo spagnolo: la certezza, la probabilità, la credulitas.
Questo si spiega anche e soprattutto alla luce del paradigma culturale in cui
s’inserisce il giurista napoletano, il quale dimostra chiaramente una penetrazione
di nuovi contributi epistemologici nel discorso giuridico-processuale: parlare di
indizi nella seconda metà del Seicento, non significava più limitarsi ad esporre le
forme e i limiti dell’arbitrium iudicantis, ma voleva dire soprattutto discorrere di
probabilitas, di composizione logica dei fatti, di rationabilis discursus.
La crisi delle tradizionali categorie nominalistiche, che per secoli avevano
irrigidito i modi di ricerca della verità processuale, si palesava anche attraverso la
messa in discussione dei più elementari dogmi del diritto probatorio: per
esempio, la confessione e l’evidenza non erano più probationes, perché provare
voleva dire cercare, problematizzare, prestar fede ad un fatto controverso:

«Excluduntur itaque a probationum generibus confessio iudicialis,


delatio iuramenti, et ea quae Iudici fit per rei evidentiam et ex aspectu,
quae etsi sufficiant ad condemnationem, a propria probatione
secernunt, et vix clementia Interpretum abusivas appellant. Ne vero in
confessione iudiciali, cum certum sit Reo non inficiante, sed
confitente in iudicio, nulla esse opus probatione; probatur enim, quae
controversae sunt, et incerta, in quibus non possit Iudex pronunciare:
confessus autem habetur pro iudicato et condemnato. Optime Paulus
(…) dixit: confessus pro iudicato est, qui quodammodo sua sententia
damnatur. Non igitur probat, qui confessus est, sed exoneratur illius

340
Per esempio quando il sistema di prova legale veniva duramente criticato perché trattava i
giudici alla stregua di animali irrazionali, e riteneva che questi ultimi, per poter decidere,
necessitassero sempre e comunque di soli elementi “autoevidenti”. Sul punto: infra II.2.
86
confessione adversarius probandi necessitate; ideoque non est
probatio, quae probationem excludit»341

Nella ricostruzione di Marciano, era evidente il compiersi di un profondo


rivolgimento teorico: la probatio probatissima, o regina probationum, non era
neanche più una prova, ma l’esonero dall’altrui onere di provare. L’evidenza,
ugualmente, escludeva qualsiasi procedimento probatorio, identificato, al
contrario, con l’atto di rendere certo un fatto controverso attribuendogli fede e
adoperando, all’occorrenza, tutto l’armamentario indiretto della logica e
dell’interpretazione dei segni.
Tutte queste argomentazioni avevano, sì, anche radici cultae: Marciano citava
infatti Ugo Donello342; ma quella diffusa insofferenza nei confronti delle
convenzionali distinzioni elaborate dalla giurisprudenza (praesumptiones juris et
de jure, praesumptiones juris, praesumptiones hominis; e ancora: probationes
perfectae, probationes imperfectae; probationes verae e fictae) si accompagnava
ad un costante richiamo al dato della razionalità del discorso logico, come a voler
esprimere l’intento di una più profonda riscrittura del sistema343.
Soprattutto, l’uso inedito della formula «moraliter credere», come vedremo,
dimostrava inequivocabilmente uno scatto in avanti, un tipo di avanzamento non
meramente lessicale: posta l’impossibilità di immaginare una certezza assoluta
(absque aliqua haesitatione), si teorizzava un’idea di affidamento
intrinsecamente relativo e fallibile, cioè umano, eppure capace di costituire
pienamente il fondamento di una decisione.

341
M. Marciano, De Indiciis cit., Caput II, par. IV, pag. 18.
342
«Donellus (...) inter legitimas probationes non agnosceret, nisi testes et instrumenta; indicia
vero manifesta, quae et argumenta necessaria sint, desumpta ex re ipsa non facile posse
excludere, cum pro legitimis probationibus admittantur», Ibidem, Caput II, par. IX, p. 21.
343
«Si enim lex quasdam praesumptiones approbavit tamquam rationabiles et sufficientes ad
condemnationem, no alia de causa, quam quia huiusmodi coniecturis animus iudicantis
acquiescat ut moraliter credat delictum a reo fuisse perpetratum, cur non etiam in aliis
criminibus, et iudiciis idem dicendum erit? Ridicula enim est allegata differentia praesumptionis
hominis et legis (…). Quando enim praesumptiones legis et hominis non ex notorietate, sed ex
rationabili discursu oriuntur, eadem vim obtinere debent (…)», Ibidem, Cap. III, par. VI, pag.
25.
87
II.2 Sarmiento: un nuovo rapporto tra prova e pena

Sebbene l’opera principale di Francisco Sarmiento de Mendoza presentasse,


come già anticipato, una chiara vocazione civilistica, essa veniva inaugurata da
una questione puramente processual-criminalistica, per giunta assai complessa ed
ampiamente dibattuta dai doctores: «Utrum ex indubitatis argumentis, indicijs
vel praesumptionibus, possit quis condemnari»344.
Fin dai primi enunciati, Sarmiento provvedeva ad esplicitare la propria posizione:
contro l’opinio diffusissima secondo la quale «ubi probatio non est vera, sed
praesuntiva, reus arbitrio iudicis puniatur, non autem poena ordinaria sit
imponenda (…)», egli opponeva una lapidaria considerazione:

«Haec opinio semper mihi suspecta visa est, atque legibus et


rationibus, et sensui communi repugnans»345.

In sostanza, si contestava il fondamento normativo della pratica delle pene


straordinarie, e se ne metteva contemporaneamente in evidenza il carattere
assolutamente irragionevole e contrario allo stesso senso comune.
Le argomentazioni addotte da Sarmiento partivano da lontano: l’arbitrio
giurisdizionale veniva contestato non solo in merito alla diminuzione delle pene,
ma anche rispetto alla diffusa pratica di conservare gli indizi raccolti contro il
torturato persino quando questi restasse non confesso, la cosiddetta “tortura con
riserva di prova”346, ampiamente documentata nella prassi dei più importanti
tribunali europei.
L’autore escludeva, anzitutto, che il giudice potesse addivenire alla quaestio se
ritenesse di possedere già elementi certi contro il reo:

«(...) hoc certissimum est, ad quaestionem numquam esse


deveniendum, ubi de veritate facti potest iudex sine quaestione reddi
certus (…)»347.

344
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum cit., lib. I, cap. I, n. 1. Nel titolo del
capitolo, tuttavia, la questione era posta in maniera differente: «Utrum convictus ex
praesumptionibus poena ordinaria delicti sit plectendus». Tre erano le posizioni classiche della
dottrina: «Sunt enim qui contendant, numquam ex indiciis etiam indubitatis, vel
praesumptionibus violentis posse quemquam condemnare, et ad quaestionem deveniendum
esse: alii vero e contrario volunt posse ex violentis praesumptionibus reum condemnari. Tertia
vero media est opinio, quod ubi probatio non est vera, sed praesumptiva, reus arbitrio iudicis
puniatur, non autem poena ordinaria sit imponenda, estiamsi maximae reum praesumptiones
urgeant et convincant», Ibidem, n. 1.
345
Ibidem, pag. 2.
346
Di cui supra, I.1.
347
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum cit., lib. I, cap. I, pag.2.
88
Perché, cioè, sottoporre qualcuno ad un supplizio quando fosse già possibile
conoscere la veritas facti? Il ricorso alla tortura equivaleva dunque al possesso,
da parte del giudice, di prove incomplete. Ma allora, aggiungeva Sarmiento, in
caso di mancata confessione, e dunque una volta esaurito senza successo il
tentativo di corroborare un quadro probatorio di per sé inadeguato alla condanna,
appariva del tutto illogico adoperare quello stesso quadro probatorio, affatto
accresciuto, ma semmai indebolito, per infliggere una pena, benché inferiore a
quella edittale:

«Ideo animadvertere iudex debet ne legum ordinationem subvertat: si


enim ad quaestionem procedat, iam constituere videtur probationem
non sufficere ad condemnationem, (…) ideoque si reus in tormentis
neget, illa probatione ad condemnationem uti non poterit (…)»348.

Il discorso valeva, allo stesso identico modo, nel caso di inflizione di pene
arbitrarie per la insussistenza di prove plenae, dove la prassi di temperare e
moderare la sanzione corrispondeva ad un’incapacità di stabilire se il delitto
fosse stato effettivamente consumato oppure no da parte del reo. Permanendo un
margine di dubbio, dovuto al carattere formalmente (o sostanzialmente)
imperfetto delle prove dedotte, i giudici solevano chiamare in causa l’arbitrium,
e ciò, secondo l’autore, in spregio del diritto e della natura:

«Natura autem hoc certum est, Titius qui reus mortis postulatur, quod
Sempronium occidisse dicatur, aut occidisse, vel non occidisse, nec in
hoc negotio tertium constitui potest. Si enim poena media constituatur,
quia ex praesumptionibus reus damnandus sit, et occidisse, et non
occidisse iudex iudicasse videbitur. Quod repugnare certum est»349.

Nel pronunciarsi contro le sanzioni straordinarie, Sarmiento non mancava di


sottolineare quanto fosse diseducativa la pratica della divisione delle pene, specie
quando venissero in rilievo delitti gravi: «Certe mali exempli res esset, si pro
gravissimi delictis videret populus leviorem poenam imponi, ideo verius est
poenam non esse dividendam»350.
Uno dei destinatari privilegiati della polemica di Sarmiento era il celebre giurista
francese Andrè Tiraqueau, che aveva dedicato un’intera opera al tema della

348
Ibidem, n. 2
349
Ibidem, n. 3.
350
Ibidem, n. 3.
89
mitigazione delle pene, il De poenis temperandis aut remittendis351, e che aveva
significativamente avvalorato la tesi dell’arbitrio sulle sanzioni criminali in caso
di prova presuntiva, allegando innumerevoli argomenti e citazioni.
Nella celebre causa ventisettesima, egli aveva affermato il principio secondo cui:
«Cum iudex procedit super delicto ex praesumptione, multum temperate debet
iudicare»352. La regola veniva fatta risalire ad un passo biblico frequentemente
citato dalla dottrina, il cosiddetto “giudizio di Salomone”353, che gioverà qui
ricordare brevemente:

«Vennero due prostitute verso il re e stettero in piedi davanti a lui»354.

Com’è noto, in base al racconto della prima donna, l’altra aveva soffocato per
sbaglio il proprio figlio, e di notte, mentre lei dormiva, aveva sostituito sul suo
seno il bambino vivo con quello morto; la seconda, parlando assai brevemente355,
si era limitata ad affermare che il bambino vivo fosse il suo. Niente permetteva di
distinguere le due madri l’una dall’altra: Salomone, per poter giudicare chi stesse
mentendo, non poteva basarsi su quello che fosse stato dichiarato in sua
presenza; per di più, l’assenza di testimoni rendeva vana qualunque inchiesta.
Appariva evidente che, per giungere alla verità, egli potesse ricorrere unicamente
all’«interpretazione dei segni»: per raggiungere questo obiettivo, il re domandò
una spada, la celebre formula tradotta poi con l’espressione «afferte mihi
gladium»356.

351
L’edizione qui consultata è contenuta in una raccolta di Tractatus Varii edita a Lugano nel
1574.
352
Ibidem, causa XXVII, n. 1, pag. 378.
353
(I Re, 3, 16-28). La parabola viene adoperata, nelle Decretali di Gregorio IX (Liber Extra),
come introduzione al titolo De Praesumptionibus (X. l. II, tit. XXIII, c. 1-2).
354
(I Re, 3, 16) I verbi utilizzati, qualificano il loro gesto come un atto di tipo giuridico: in
questo modo, il re viene immediatamente considerato come un giudice al quale le donne si
appellano affinché regoli il loro litigio. Sul punto: P. Bovati, Ristabilire la giustizia. Procedure,
vocabolario, orientamenti, Roma, 2000, pp. 198 e 212-214. Le due donne vengono descritte
come prostitute perché madri non sposate, e i figli di cui si parla sono dunque bambini senza
padre. Esse affermano di vivere nella stessa casa, ma non c’è nessun testimone che possa
suffragare le loro dichiarazioni o smentirle: né un vicino, né un domestico, né un parente; si
realizzano così le condizioni di una situazione in cui nessuno possa confermare i fatti addotti, né
tantomeno la loro stessa condizione: «Ascoltami Signore! Io e questa donna abitiamo nella
stessa casa; io ho partorito mentre essa sola era in casa. Tre giorni dopo il mio parto, anche
questa donna ha partorito; noi stiamo insieme e non c’è nessun estraneo in casa fuori di noi due.
Il figlio di questa donna è morto durante la notte, poiché essa gli si era coricata sopra. Si è alzata
nel cuore della notte, ha preso mio figlio dal mio fianco – la tua schiava dormiva – e sul mio
seno ha messo il figlio morto. Al mattino mi sono alzata per allattare mio figlio, ma ecco, era
morto. L’ho osservato bene, ecco, non era il figlio che avevo partorito io», (I Re, 3, 17-21).
355
«Non è vero! Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto». (I Re, 3, 22).
356
«Allora il re ordinò: «Prendetemi una spada». Portarono una spada alla presenza del re.
Quindi egli aggiunse: «Tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all’una e una metà
90
L’ordine del sovrano provocò nelle due donne reazioni diametralmente opposte:
quella che aveva parlato per seconda, abbandonò il linguaggio del possesso
esclusivo, e, piuttosto che rivendicare per se stessa il bambino vivo, si mostrava
ora disposta a rinunciarvi, donandolo all’altra357.
La sua concorrente, invece, ribatté freddamente: «Non sia né mio né tuo»358.
Traditasi quest’ultima con la glaciale indifferenza all’ imminente e atroce fine del
bambino, Salomone le comandò di restituirlo, senza però destinarla ad alcuna
pena corporale359.
Il passo biblico, che per ragioni di opportunità si è qui solo sinteticamente
esposto, era stato recepito anche nelle Decretali di Gregorio IX, ed era stato
interpretato, secondo quanto riferito da Tiraqueau, nel senso che: «Ubi Salomon,
quoniam non evidenter, sed ex praesumptione compertum habuit delictum
meretricis, eam ad filii restitutionem solum, non etiam ad aliquam poenam
corporalem condemnavit»360. Pur avendo, cioè, Salomone scoperto il delitto
commesso dalla meretrice, poiché l’aveva smascherata sulla base di una prova
presuntiva e non certa, le aveva attenuato la punizione, intimandole la mera
restituzione dell’infante, senza condannarla alla pena prevista per il rapimento
del bambino.
In realtà si trattava di una lettura piuttosto controversa, che era stata adoperata da
taluni doctores per ritenere che, al contrario, la prova presuntiva non implicasse
alcuna possibilità di condanna: la mera restitutio non veniva infatti ritenuta
equiparabile ad una pena361. Lo stesso Sarmiento aveva sostenuto che il giudizio
di Salomone fosse tutt’altro che un precedente biblico di pena straordinaria :

all’altra». (I Re, 3, 24-25). Il passo viene così riportato nel Liber Extra: «Afferte mihi gladium.
Quumque attulissent (gladium coram rege) ait: Dividite infantem vivum (in duas partes), et date
dimidiam partem alteri. Dixit autem mulier, cuius filius erat vivus, ad regem (commota sunt
quippe viscera eius super filio suo): Obsecro domine, date illi infantem vivum, et non occidatur.
E contrario alia dicebat: Nec mihi nec tibi sit, sed dividatur. Respondit rex et ait: Date huic
infantem vivum, et non occidatur. Haec est enim mater eius» (X, l. II, tit. XXIII, c. 2).
357
«La madre del bimbo vivo si rivolse a re, poiché le sue viscere si erano commosse per il suo
figlio, e disse: Signore, date a lei il bambino vivo, non uccidetelo», (I Re, 3, 26).
358
(I Re, 3, 26).
359
G. Frazer, Folklore in the Old Testament, Londra, 1918, paragona questa pagina ad alcuni
testi della tradizione indiana, mentre H. Gressman, Die älteste Geschichtsschreibung und
Prophetie Israels, Göttingen, 1921, recensisce almeno una ventina di versioni del tema presenti
nella letteratura folcloristica universale. Sul punto: D. Scaiola, Il giudizio di Salomone, in
«Parole di vita. Rivista bimestrale dell’associazione biblica italiana», n. 4, luglio-agosto 2001,
pag. 16.
360
A. Tiraqueau, Tractatus de poenis cit., c. 27, n. 1.
361
Così attesta T. Sanchez: « (…) enim Salomon licet violentissima existerit praesumptio, quod
illa mulier puerum alterius rapuisset, cui poena mortis ex lege debebatur, nulla poena damnavit
mulierem, sed ad rei restitutionem coegit», in Opuscula sive Consilia Moralia cit., dubium XII,
n. 1, pag. 412.
91
«Nec his obstat textus in caput Afferte mihi gladium (…) quia primo in
illo textus potius probatur contrarium, ut poena media non eligitur, ibi
enim Salomon nullam mediam poenam plagii, cui poena mortis ex
lege debebatur»362.

Tuttavia, egli aveva prontamente aggiunto che la decisione del buon sovrano non
dimostrasse neanche l’impossibilità di condannare in presenza di presunzioni, ma
attestasse unicamente la scelta, da parte del re, di non punire taluno ex officio
suo, senza un accusatore: «mulier enim rem suam persequebatur, non de crimine
agebat»363.
L’acuta decostruzione di una delle più accreditate fonti di riferimento per i
giuristi in favore della pena straordinaria, faceva sì che Sarmiento potesse, di
questo passo, contestare le più celebri e indiscusse auctoritates: per esempio
Paolo di Castro, che in un suo celebre consilium aveva risparmiato dalla
condanna capitale un soggetto che era stato visto uscire «cum gladio evaginato»
dallo stesso campo in cui era stato poi trovato ucciso un tale, per giunta suo
inimicus364.
Tale orientamento, attribuito anche ad Oldrado e a Baldo, rispondeva alla regola
secondo cui: «ex praesumptionibus et indiciis quantumque violentis
urgentibusque atque etiam indubitatis non proceditur ad condemnationem poenae
corporalis»365. Secondo quello stesso filone dottrinale, persino la confessione del
reo, qualificata ma «non adeo evidens et indubitata», non avrebbe potuto
condurre alla pena capitale366.
Sarmiento non esitava ad utilizzare parole di spregio nei confronti di questi
insegnamenti; primo fra tutti quello sulla necessità di utilizzare l’arbitrio sulle
pene in caso di prove insufficienti, qualificato senza mezzi termini come una
electio rusticana.
L’attacco alle auctoritates, tuttavia, si svolgeva non solo e non tanto sul terreno
logico dell’evidenza, quanto piuttosto sull’attitudine culta a ricercare il vero
significato dei testi più antichi. Sarmiento, in altre parole, perseguiva l’ambizioso
obiettivo di dimostrare non solo l’insensatezza delle più accreditate tesi in
materia di prova e pena, ma intendeva altresì suffragare le proprie affermazioni
col supporto dei più risalenti ed autorevoli precetti di ius commune. E dunque, lo
scontro con la communis opinio avveniva sullo stesso terreno che i suoi
predecessori avevano incautamente attraversato.
362
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum cit., n.8.
363
Ibidem, n.8.
364
Il consilium in questione è citato dallo stesso Sarmiento, Interpretationum Selectarum cit., n.
12, ed è riportato anche da A. Tiraqueau, Tractatus de poenis cit., n. 2, pag. 378.
365
A. Tiraqueau, Tractatus de poenis cit., n. 2, pag. 379.
366
Ibidem, n. 7, pag. 380.
92
Tanto per cominciare, Sarmiento ricordava che, stando alle più antiche fonti
classiche: «Facti quidem quaestio in arbitrio iudicantis est, poena vero
persecutio, non eius voluntati mandatur, sed legis auctoritate reservatur»367. Il
celebre rescritto di Papiniano, imponeva al giudice di stabilire unicamente se
Tizio avesse o non avesse ucciso, non anche quale fosse la pena da infliggergli,
perché quello era compito della legge368.
Sempre nel Digesto, al titolo De verborum significatione, era stata chiarita
l’insussistenza di un qualche potere del giudice di aumentare o diminuire le pene
in base alle prove, ma piuttosto la necessità di attenersi alla verità dei fatti369.
D’altronde, il comminare una sanzione diminuita, avrebbe significato decretare
che Tizio avesse contemporaneamente ucciso e non ucciso Sempronio;
circostanza, questa, a dir poco paradossale, che si traduceva sempre in una
sostanziale ingiustizia perché o si condannava un innocente, o s’infliggeva una
pena troppo mite a carico di un assassino: «sententia intermedia semper iniqua
est»370.
La posizione di Sarmiento, è bene sottolinearlo, non implicava tuttavia
un’assoluta esclusione della mitigazione delle pene; semplicemente, egli riteneva
che il temperamento delle stesse non dovesse avvenire sulla base della
insufficienza probatoria, ma potesse intervenire solo ratione culpae, in
considerazione della maggiore o minore gravità del reato:

«Temperantur poenae ratione culpae, ut minor culpa non puniatur


maiori poena, culpa enim habere potest maius et minus, sed ex
probatione culpa nec minuitur, nec crescit»371.

Nel dire ciò, egli si mostrava particolarmente attento alla sussistenza di una serie
di condizioni di fatto in grado, esse sì, di incidere sulla quantitas e qualitas del
delitto, e dunque sulla pena372.

367
D. XLVIII,16,1.
368
Il riferimento all’arbitrium cognoscentis è presente sin dai primi versi della citazione:
«Accusatorum temeritas tribus modicis detegitur et tribus poenis subicitur: aut enim
calumniantur aut praevaricantur aut tergiversantur. Calumniari est falsa crimina intendere,
praevaricari vera crimina abscondere, tergiversari in universum ab accusatione desistere.
Calumniatoribus poena lege Remmia irrogatur. Sed non utique qui non probat quod intendit
protinus calumniari videtur: nam eius rei inquisitio arbitrio cognoscentis committitur», (D. VIII,
16,1).
369
D. L, 16, 37, v. 30.
370
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum cit., n.3.
371
Ibidem, n. 5
372
« (…) aetas, scientia, sexus atque conditio delinquentis sunt attendenda et non solum
secundum praedicta, sed secundum locum et tempus, quo delictum committitur, unicuique
poenitentia debet indici cum idem excessus magis sit in uno, quam in alio puniendus», Ibidem,n.
6.
93
Sarmiento invitava altresì a tenere conto di possibili eccezioni giustificative,
come l’assenza di dolo, che toglieva rilevanza penale all’homicidium
quand’anche fosse stato oggetto di una confessione in tormentis.
Com’è noto, infatti, tale reato prevedeva, in base a prescrizioni antichissime, una
preasumptio doli, secondo cui: «omne male factum, semper praesumitur malo
animo factum». Accolta in linea generale la norma, Sarmiento aggiungeva
tuttavia che la praesumptio in questione fosse juris e non anche de jure, e dunque
pienamente superabile tramite prova contraria373.
La prassi era largamente orientata, in questi casi, a diminuire la pena a carico
dell’inquisito qualora non venissero rinvenute prove plenae dell’assenza di dolo.
Ma il giurista spagnolo si ribellava anche a questa regola giurisprudenziale,
mostrandone, ancora una volta, l’assurdità; il caso descritto era quello della
legittima difesa: quand’anche l’omicida avesse confessato, aggiungendo tuttavia
la circostanza di avere agito ad suam defensionem, appariva irragionevole ed
iniquo destinarlo ad una pena, ancorché diminuita, quando questi fosse un uomo
probo, di buona fama, con nessuna inimicizia nei confronti dell’ucciso, che
invece era notoriamente uomo rissoso, spesso ubriaco, ingiurioso. In questo caso,
la praesumptio juris sarebbe stata ampiamente superabile «cum aliis
praesumptionibus et verosimilitudinibus»374, e avrebbe fatto venire meno il dolo
e la stessa fattispecie di omicidio, decretando così l’assoluzione del reo.
Secondo Sarmiento, la pratica di arbitrare le pene per insufficienza probatoria,
era frutto di una distorsione delle prescrizioni contenute nei testi: le sole ipotesi
contemplate dal Digesto, in cui effettivamente si perveniva ad una condanna in
mancanza di piena prova del delitto, erano quelle in cui un soggetto, assolto dal
reato principale, venisse giudicato responsabile di una fattispecie minore:

«Item finge Titium accusari, quod adulterium cum Seia commisit,


inducitur probatio, quod eius domo fenestra delapsus est, vel
ingressus. Si iudici satis non videtur, ut de adulterio condemnetur, non
eo minus, de adulterio in totum absoluto, puniri debet, quod domum
alienam furtim ingressus est; quod gravius animadvertere potest, quod
non ianua, sed fenestra ingressus est, quod scandalum vicinorum est
ortum: item quod domum mulieris marito absente ingressus est,
iniuraque ei et marito illata sit (…)»375

373
Contro la distinzione tra praesumptio juris e de jure, si vedano infra II.3 le critiche di
Marciano.
374
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum cit., n. 11.
375
Ibidem, n. 12.
94
Nel caso descritto veniva configurato un reato di iniuria che era ben altro rispetto
all’ipotesi di adulterio: di questo delitto non v’era alcuna prova, e non poteva
dunque esservi condanna; del primo reato v’era invece certezza, e poteva così
procedersi alla sanzione contemplata dall’ordinamento. Con straordinaria
raffinatezza e impeccabile perizia tecnica, Sarmiento mostrava come il quadro
probatorio potesse senz’altro influenzare la costruzione della fattispecie, ma mai
incidere sul trattamento sanzionatorio376.
Esclusa dunque la possibilità di arbitrare le pene per insufficienza di prove, e
mostrato il carattere aberrante delle pene straordinarie, Sarmiento giungeva così
al nucleo centrale della sua dissertazione, affermando che:

«Verius igitur est non immutandam poenam ordinariam delicti quod


ex praesumptionibus sit iudicandum, sed considerandum esse qualis
praesumptio sit, ut si non vehemens sit, nulla reus poena affici debeat,
sed omnino absolvendus sit (…), si vero vehemens et certa sit, nulla
poenae ordinariae deprecatio admittatur»377.

Egli invitava a valutare unicamente la “consistenza” degli elementi addotti, quale


che fosse la loro catalogazione: se lievi, avrebbero dovuto condurre al
proscioglimento; se certi, non avrebbero potuto ammettere alcuna diminuzione di
pena.
In questo passaggio risiede uno dei più importanti momenti teorici di una
dialettica delle prove del tutto nuova, che scardina i presupposti fondamentali del
sistema legale e ne ridiscute i fondamenti; in questo ragionamento, dotato di una
logica insopprimibile, non solo non esisteva più la possibilità di maneggiare
arbitrariamente il rapporto tra prova e pena, offrendosi al giudice un’unica
alternativa tra innocenza e colpevolezza, ma quella stessa alternativa diventava
esercitabile a prescindere dalla distinzione tra prove vere e prove presuntive, ma
in considerazione della sola “veemenza” delle allegazioni, fossero anche di tipo
indiretto.
Era dunque irrilevante la circostanza che taluno venisse condannato sulla base di
presunzioni; si richiedeva unicamente che esse possedessero quella forza
dimostrativa capace di conferire ad esse il valore di prova. Al contrario,
mancando “l’evidenza logica”, che sola autorizzava l’inflizione di una pena,

376
L’argomento ricorre con una certa frequenza nella trattazione: «Nec umquam alicui
iurisconsultorum hoc in mentem venit, quod ex probationis diversitate poena diversa esset
constituenda, nec aliqua lex est ex qua hoc, vel per argumentum colligi possit», Ibidem, n. 5. E
ancora: «(…) haec poenae divisio fieri non possit, ex probationis qualitate, quae certe verissima
est, et reipublicae necessaria (nihil enim adeo perniciosum esse reipublicae constat, quam ut
iudices omnia, etiam quae constituta sunt, et certa, arbitraria efficiant (…)», Ibidem, n. 3.
377
Ibidem, n. 6.
95
necessariamente edittale, il giudice avrebbe dovuto ignorare in toto gli elementi
indiziari qualificati come “lievi”, e ritenere il delitto non provato, con
conseguente assoluzione dell’inquisito.
Questo annullare le categorie probatorie tradizionali, cancellando la stessa
distinzione tra probationes verae e praesumptiones, era anch’essa il frutto di un
accurato studio delle fonti classiche: il già citato rescritto imperiale, indirizzato
da Adriano ad Valerium de excutienda fide testium, sintetizzava perfettamente le
regole romanistiche di conoscenza giudiziale dei fatti:

«(…) sicut non semper, ita saepe sine publicis monumentis cuiusque
rei veritas deprehenditur, alias numerus testium, alias dignitas et
auctoritas, alias veluti confitiens fama confirmat rei, de qua quaeritur
fidem. Hoc ergo solum tibi scribere possum summatim, non utique ad
unam probationis speciem cognitionem statim allegare debere, sed ex
sententia animi tui te existimare oportere, quod aut credas, aut parum
probatum tibi opinaris»378.

Questo principio, che implicava per il giudice la possibilità di non credere alle
deposizioni testimoniali, quando pure fossero qualificabili come verae
probationes, era stato confermato anche da Ippolito Marsili, giurista bolognese
della seconda metà del XV secolo, il quale lo aveva formulato in uno dei suoi più
celebri consilia379.
L’impossibilità di predeterminare legalmente gli strumenti del convincimento,
come anticipato dalle citazioni romanistiche, implicava necessariamente il
superamento di quelle distinzioni e classificazioni di cui la dottrina tradizionale si
era alimentata ininterrottamente per secoli; nel momento in cui si rimetteva

378
Ibidem, n. 8. Il rescritto, riportato da Callistrato (D. XXII, 5,3,2) era stato addirittura incluso
nel Decreto di Graziano (C. IV, q. 2-3, c. 3, §8), ed era stato adoperato da numerosi decretisti,
già dal primo Duecento, per affermare l’impossibilità per il giudice di iudicare contra
conscientiam. Sul punto: infra III.1.
379
H. Marsilii, Consiliorum Criminalium volumina duo, Lugduni, 1545, cons. I, n. 72. Anche
Paolo di Castro aveva ammesso questa possibilità, riconoscendo al giudice la facoltà di decidere
una causa con argomentazioni e allegazioni di diritto diverse da quelle presentate dalla parte, in
In Primam Codicis partem, Augustae Taurinorum, 1576, ad Cod. 2.10.1, l. non dubitandum,
pag. 66. Sul punto: A. Padoa Schioppa, Sulla coscienza del giudice nel diritto comune, cit. pag.
146. Di Ippolito Marsili (o de Marsiliis), vale la pena di ricordare anche un’altra opera, la
celebre Practica Criminalis (Colonia, 1551), al cui interno si rinvengono numerosi principi in
sostanziale discontinuità con le tesi di Sarmiento. Ad esempio, il criminalista italiano aveva
senz’altro escluso che da una molteplicità di indizi potesse aver luogo una piena prova: ciò era
possibile «solum in civilibus tantum, non autem in criminalibus» (§ Diligenter, n. 12, pag. 12).
Allo stesso modo, «circa vehementia, quae sunt magni effectus», egli aveva chiarito che, tutt’al
più, «vehemens adminiculum supplet semiplenam probationem» (§ Diligenter, n.20, pag. 132).
La stessa violenta praesumptio, «quae in civilibus habet vim plenae probationis, in criminalibus
non sufficit ad condemnandum» (§ Diligenter, n. 22, pag. 132).
96
all’intelletto del giudice (il cosiddetto arbitrium sul fatto), la facoltà di stabilire
se una fattispecie sussistesse o non sussistesse, se il delitto fosse stato provato o
meno, se l’inquisito fosse colpevole o innocente, la stessa distanza formale tra
prova e presunzione non aveva più ragion d’essere:

«Probatio vera est, quae sensu corporeo immediate percepitur, ut si


testes hominem occidere videant: praesumptio vero, quae non sensu
corporeo immediate, sed per discursum colligitur. Prima adeo sensibus
capitur, ut animalia irrationabilia si loqui scirent, possent probationem
priorem facere, non secundam; sed homini rationali adeo potest res
evidenter ostendi ex secunda, ex prima»380

Come si vede, la critica al sistema era piuttosto esplicita: secondo la descrizione


che ne faceva il Sarmiento, esso, con la sua teorica delle verae probationes,
chiedeva al giudice di comportarsi come un animale irrazionale, quasi che, per
pronunciare la sua sentenza, necessitasse di quei soli elementi percepibili
immediatamente tramite i sensi, dotati di un’autoevidenza tale da escludere ogni
possibile implicazione soggettiva; l’autore faceva invece appello all’uomo,
dotato d’intelletto e raziocinio, che pur non facendo esperienza diretta dei fatti,
può senz’altro comporli logicamente per discursum.
In questo passaggio risiede, innegabilmente, un elemento di assoluta modernità,
che anticipa di oltre un secolo gli spunti offerti alla cultura giuridica dalla
rivoluzione epistemologica secentesca: Sarmiento, che pure proveniva dalla
Scuola di Salamanca - prima come studente e poi come docente di diritto
canonico - costituisce, da questo punto di vista, un caso unico anche nel
panorama dei giuristi tardo-scolastici. Questi ultimi, come vedremo381,
sollevarono un’incresciosa problematica teorica collegata al rapporto tra prova e
verità; ma lo fecero prendendo in considerazione non tanto argomentazioni
cultae o appelli alla ragione, quanto piuttosto analizzando la possibile
divaricazione tra allegazioni e conscientia del giudice. Si trattava, d’altronde, di
una quaestio antichissima, che preoccupava non solo la dottrina canonista, ma la
stessa giurisprudenza di ius civile: nello Speculum iuris canonici di Pietro di
Blois, scritto intorno al 1180, la risoluzione dell’annoso quesito circa la scelta
praticabile fra giudizio secundum allegata et probata e quello secundum

380
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum cit., n. 13, pag. 8.
381
Infra, III.1.
97
conscientiam, veniva attribuita addirittura al caposcuola dei Glossatori, Irnerio, il
quale avrebbe risposto in favore dell’ultima opzione382.
Sarmiento, dal canto suo, non sfiorava neppure il problema, altrove
dibattutissimo, del giudizio di coscienza; egli utilizzava piuttosto l’argomento
della corretta interpretazione dei testi invocando, contemporaneamente, l’uso
dell’intelletto da parte del giudice.
A ben vedere, le implicazioni della questione erano sostanzialmente analoghe: in
entrambi i casi veniva chiamata in causa una soggettività dell’organo giudicante
che contrastasse con le prescrizioni formalistiche in tema di prove. Il nostro
autore, tuttavia, evitava il diretto coinvolgimento della coscienza perché fin
troppo consapevole della rigidità delle norme canoniche in materia; preferiva
aggirare l’ostacolo discutendo dell’efficacia dimostrativa delle presunzioni,
avvalendosi di numerose citazioni di jus civile da affiancare alla disciplina del
Corpus Juris Canonici.
Vero è che la sua proposta teorica, non a caso largamente minoritaria, presentava
dei problemi pratici di non scarso rilievo.
Anzitutto, egli chiedeva ai giudici di emanciparsi da una radicatissima tradizione
dottrinale che negava valore probatorio ad una molteplicità di signa e argumenta,
e alle stesse praesumptiones.
Ma, ancor più significativamente, quella ostilità feroce nei confronti delle poenae
mediae, estendeva pericolosamente i margini di impunità nei confronti di soggetti
pericolosi o semplicemente marginali.
La diminuzione delle condanne straordinarie significava anche, in un’ottica di
“calcolo utilitaristico”, meno entrate per il fisco e meno rematori per le galere.
Soprattutto, equivaleva a rinunciare ad una politica delle pene duttile e non
controllabile, quella “repressione differenziata”383 che era l’elemento-chiave
della macchina giudiziaria d’ancien régime.
Ma Sarmiento non pareva badare ai risvolti pratici della sua logica delle prove: a
chi gli opponeva il pericolo di estendere l’impunità, attraverso la rinuncia
all’arbitrio sulle pene, egli rispondeva anzitutto con il famoso principio ulpianeo:
«satius est nocentem impunitum relinquere, quam innocentem damnare»384;
dopodiché, ricordando Platone, concludeva laconicamente: «impossibile est mala
penitus extirpare»385.

382
Sulla dubbia attribuzione del responso e, più in generale, sulla più antica costruzione teorica
del giudizio secondo coscienza, si rimanda allo scritto di A. Padoa Schioppa, Sulla coscienza
del giudice nel diritto comune cit., pag. 123 e ss.
383
La formula è di G. Alessi, Prova legale e pena cit., pag. 174.
384
D, XLVIII,19, 5, 10.
385
F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum Selectarum cit, n. 13, pag. 9.
98
II.3 Marciano: le novità del De indiciis delictorum fragmentum

Nell’opera di Marcello Marciano, sin dal titolo e dall’introduzione, appare da


subito evidente l’assoluta centralità dell’indizio, oramai del tutto svincolato dalla
disciplina della tortura, cui non si fa alcuna rilevante menzione.
Non è possibile datare con esattezza il frammento, trattandosi di una
pubblicazione postuma; ciò pregiudica non poco una corretta ricostruzione delle
influenze esercitate sul giurista napoletano: innegabili sono le contaminazioni
cultae e tardo-scolastiche, cui però dovrebbero aggiungersi ulteriori elementi
“spuri”, provenienti, cioè, da una cultura non propriamente giuridica, capaci
tuttavia di condizionare in maniera significativa il discorso del magistrato, specie
in merito al ragionamento indiziario.
Nella presentazione, la materia de indiciis viene definita come quella parte del
diritto pubblico che si sviluppò «pro communi Reipublicae bono», e per l’intento
di indagare i crimini e non lasciarli impuniti386. Esistevano, infatti, secondo
l’autore, due diverse categorie di delicta: quelli che si presentano al giudice con
una intrinseca malitia, che rende più facilmente individuabile il colpevole; ed
altri, la cui responsabilità non è necessariamente provabile, cosicché il conoscerla
non è tanto ufficio del giudice quanto «boni viri proprium»387.
Il richiamo al buon senso e alla prudenza, forniscono il primo importante
elemento della riflessione di Marciano: occorrevano cioè, secondo il giurista
napoletano, elementi cognitivi del fatto non necessariamente ancorati alla scienza
del diritto; altrimenti, qualora per la prova del crimine non esistessero
testimonianze o confessioni, ma soltanto segni, indizi, argomenti e congetture, il
giudice, stante l’impotenza della scientia juris, sarebbe rimasto sospeso tra le
dispute dell’eloquenza (vale a dire le varie e diverse opinioni dei dottori), finendo
col pronunciare una sentenza incerta, non del tutto rispondente al proprio animo,
e quindi ingiusta388.
Nell’illustrare l’opera e la collocazione delle diverse materie, Marciano
effettuava una precisazione metodologica, premettendo che la brevità della

386
«Eam tractaturus Iuris publici partem, quae communi Reipublicae bono, omniumque
Regionum consensu ulciscendis criminibus coaluit», M. Marciano, De indiciis delictorum
fragmentum, cit., Ad Lectorem, pag. 11.
387
«Cum igitur criminum sit duplex differentia: prima, quibus intrinseca malitia est (…); alia
quorum malitia nonnisi a probatione sequi necesse est, ut ea noscere, non tam Iudicis officium,
quam boni viri sit proprium», Ibidem, pag. 11.
388
«Cum tamen plerumque in criminum notione Reorum calliditate, non testibus, vel
confessione agenda causa sit, sed signis, indicijs, argumentis, animi coniectura sumenda, vel
probationum: ni iuris scientia pollet, haerebit inter certamina eloquentiae suspensus Iudex, et
dubio calculo suum cum dabit, improbabit iudicium, cum anceps mentis non ex animi sui
sententia iudicaret», Ibidem pag. 12.
99
trattazione si spiegasse alla luce della inopportunità di procedere per singula,
attraverso le consuete classificazioni e distinzioni, non essendo peraltro possibile
fornire definizioni generali rispetto ad elementi diversi ogni volta in relazione al
singolo caso e, di fatto, interamente rimessi all’affidamento del giudice389.
Il primo capitolo, intitolato «De indiciorum divisione et eorum probabilitate», si
apriva con una prolusione avente ad oggetto le molte cautele richieste al
magistrato qualora fosse chiamato a valutare materiale indiziario all’interno del
giudizio: la frequenza e l’atrocità dei crimini, che lacerano i Regni e sfiniscono i
Legislatori, non potevano e non dovevano - avvertiva Marciano - autorizzare un
inasprimento della repressione tale da legittimare finanche condanne basate su
meri sospetti390: «fallunt saepe indicia et praesumptiones, ni sententiae
sufficerent»391.
Si trattava, evidentemente, di riflessioni introduttive che fungevano da premessa
necessaria, perché servivano a chiarire, sin dalle prime proposizioni, l’assoluta
prudenza richiesta ai giudici quando si trovassero a maneggiare prove indirette,
vale a dire strumenti non riferibili alla certezza o all’evidenza, ma appartenenti
piuttosto alla dimensione del probabile392.
Esistevano infatti, spiegava l’autore, i cosiddetti indizi “necessari”, quelli cioè in
grado di dimostrare una circostanza di fatto con un elevatissimo grado di
sicurezza - ad esempio una cicatrice, che prova l’avvenuto ferimento di taluno
con una determinata arma393; ed esistevano poi gli indicia probabilia, «quae
quamvis ad tollendam dubietatem sola non sufficiant, tamen adiuncta caeteris
plurimum valent».

389
«Longissimam tamen tractationem in arcto contraham, et brevitatem, sed non mancam aut
debilem usurpabo; nimirum enim esset et inutilis cunctationis ire per singula: cum illorum nec
generalis definitio sit, et in quacumque causa, ut plurimum varient, ut nisi fidem Iudicum
committantur (…)», Ibidem, pag. 12.
390
«Immanium criminum frequentia, quae sescente iam aevo Civitates, Regna, Imperia
funestissime laceravit; et non tam Legislatorum mentes poenis imponendis exhausti, quam
Iudicum suffragia extorsit, ut saepius innocentes, ne sua criminibus poenam deest, summo iure
damnarent, ac ubi clariora non suppeterent indicia, sola suspicione moverentur; rari publicam
Regnorum quietem everti, si delictorum poenam evasissent, quibus natalium dignitas sceleribus
famam, nomenque colligeret, pactorumque atrocitatem facientis auctoritas enervaret», Ibidem,
Cap. I, p. I, pag. 13.
391
Ibidem, Cap. I, p. II.
392
«Ut necessariam terminorum declarationem praeponamus, illud iuris explorati esse arbitror,
quod cum de indiciis loquimur, intellegimus de probabilis, quae Greacis “σεµεια”, non de
necessariis, quae “τεκµερια” dicuntur, a quibus emanat “αποδεξισ”, idest evidens probatio,
quae cum aliter se habere non possit, vix pertinere ad Artis praecepta videtur, et ubi signum,
sive indicium est indissolubile, ibi ne lis quidem est», Ibidem, Cap. I, p. V, pag. 14.
393
«(…) Non fuisse ferro vulneratum, qui sine cicatrice est, et similia (…) Ex his igitur
necessariis indiciis plenam probationem resultare, nemo est, qui dubitet», Ibidem, Cap. I, p. IV,
pag. 14.
100
Questi ultimi, chiamati anche signa o vestigia, erano le prove artificiali per
antonomasia, poiché, sommati tra loro, consentivano di ricostruire un
determinato fatto partendo da fatti diversi: «signum enim, sive indicium, aut
vestigium vocamus per quod alia res intelligitur (…)»394.
Gli indizi probabilia, erano quelli che richiedevano al giudice un vero e proprio
sforzo ricostruttivo, perché gli imponevano di mettere insieme una pluralità di
elementi al fine di realizzare un convincente quadro di colpevolezza: chi ha la
veste sporca di sangue, spiegava Marciano, non è necessariamente l’assassino;
ma se quello stesso soggetto sia stato visto sul luogo del delitto, se si tratti di un
noto nemico dell’ucciso, e magari lo abbia precedentemente minacciato, è chiaro
che la somma degli elementi a conoscenza del giudice, tramuterà il sospetto in
certezza:

«At quia sanguis ex hostia repersisse vestem potest, vel e naribus


profluxisse: non utique qui vestem cruentam habuerit, homicidium
fecerit, sed, ut per se non sufficit, ita caeteris adiunctum testimonii
loci ducitur, ut si inimicus, si minatus ante, si eodem loco fuit, quibus
signum cum accessit, efficit, ut quae suspecta erant, certa
videantur»395.

Attraverso la somma di una serie di circostanze indirette coincidenti, era dunque


pienamente possibile raggiungere un elevato grado di sicurezza riguardo
all’attribuibilità di un fatto.
Secondo un insegnamento piuttosto risalente, più indicia probabilia facevano un
indubitatum. Ebbene, Marciano partiva esattamente da questo punto per
individuare il nodo cruciale della dissertazione: «An scilicet per indubitata inditia
resultet in criminalibus plena criminum probatio, quae ad ordinariam delicti
poenam infligendam sufficiat»396.
Prima di fornire una soluzione all’annoso quesito, l’autore si concedeva una
digressione su un tema più generale: il secondo capitolo veniva dedicato infatti
alla classificazione e alla descrizione delle prove criminali, finalizzata a stabilire
primariamente se fossero suscettibili di rientrarvi anche la confessione giudiziale,
il giuramento e l’evidentia facti, oltre alle varie categorie di indicia, signa,
suspiciones, argumenta, praesumptiones, coniecturae397.

394
Ibidem, Cap. I, p. V, pag. 15.
395
Ibidem, Cap. I, p. V, pag. 15
396
Ibidem, Cap. I, p. IV, pag. 14
397
Ibidem, Cap. II, «Quid sit probatio, et an illa compraehendantur confessio iudicialis,
iusiurandum, rei evidentia».
101
Anzitutto, secondo Marciano, la prova consisteva nel dar fede ad un fatto
controverso: laddove, cioè, esistesse un dubbio, il giudice avrebbe dovuto, fra
tutte le soluzioni possibili, eleggerne una e prestarvi fede nella ricostruzione della
verità processuale. Tale procedimento era chiamato in greco κρινοµενον398.
Secondo l’autore, risultava quanto mai improprio includere nel novero delle
prove anche la confessione giudiziale, poiché questa, più che provare un fatto
incerto, esonerava l’avversario dalla necessità di farlo, rendendo quello stesso
fatto definitivamente certo, e dunque acquisito399.
Stesso discorso per il notorio: questo tipo di strumenti, dotati del requisito
dell’autoevidenza, in base alla ricostruzione di Marciano non comportavano per
il magistrato alcuna attività di ricerca, e quindi di giudizio in senso proprio; in
presenza di essi, il giudice avrebbe potuto condannare automaticamente il reo,
limitandosi a riportare i fatti, ormai noti, negli atti: «opus est redigi in acta»400.
Le vere prove erano dunque quelle che richiedessero un qualche giudizio di
verosimiglianza; di qui l’unica classificazione che avesse un senso: non,
evidentemente, quella tra prove perfette ed imperfette (ed infatti non v’è traccia
nel testo di siffatta, diffusissima terminologia), ma piuttosto la distinzione tra
quelle prove che non richiedessero un’attività propriamente valutativa da parte
del giudice, quali la confessione o la rei evidentia - e che dunque non
imponessero la ricerca di verifiche ulteriori - e quelle che invece, del tutto prive
di automatismi di sorta, necessitassero di un vaglio della loro attendibilità da
parte dell’organo giudicante, come ad esempio la testimonianza.
Marciano ricordava che lo stesso Ugo Donello aveva identificato come uniche
prove legittime i testimoni e gli instrumenta, nonché gli indizi:

«Donellus (...) inter legitimas probationes non agnosceret, nisi testes


et instrumenta; indicia vero manifesta, quae et argumenta necessaria

398
Ibidem, Cap. II, p. II.
399
«Excluduntur itaque a probationum generibus confessio iudicialis, delatio iuramenti, et ea
quae Iudici fit per rei evidentiam et ex aspectu, quae etsi sufficiant ad condemnationem, a
propria probatione secernunt, et vix clementia Interpretum abusivas appellant. Ne vero in
confessione iudiciali, cum certum sit Reo non inficiante, sed confitente in iudicio, nulla esse
opus probatione; probatur enim, quae controversae sunt, et incerta, in quibus non possit Iudex
pronunciare: confessus autem habetur pro iudicato et condemnato. Optime Paulus (…) dixit:
confessus pro iudicato est, qui quodammodo sua sententia damnatur. Non igitur probat, qui
confessus, sed exoneratur illius confessione adversarius probandi necessitate; ideoque non est
probatio, quae probationem excludit», Ibidem, Caput II, par. IV, pag. 18. Tuttavia, in
criminalibus, Marciano appariva assai più perplesso sulla possibilità di prestar fede
aprioristicamente ad una confessione estorta tra i tormenti: «Quid, in criminalibus, in quibus
tormentis extorqueatur confessio, et ad doloris fidem confugiendum sit?», Ibidem, pag. 21.
400
Ibidem, Caput II, par. V, pag. 19
102
sint, desumpta ex re ipsa non facile posse excludere, cum pro legitimis
probationibus admittantur»401.

Anche gli argumenta potevano dunque rientrare nel novero delle prove:
esattamente come per le testimonianze, essi richiedevano da parte del giudice il
rispetto delle ritualità necessarie ed un riscontro della loro affidabilità. Se
conformi a tali requisiti, avrebbero fatto plena probatio. La loro mancata
enumerazione da parte del diritto, corrispondeva solo ad una sostanziale
impossibilità di catalogazione; ciò non faceva tuttavia venire meno la loro piena
utilizzabilità in giudizio:

«Argumenta itaque, quae summuntur ex ipsa re et facto, quia


plenissimae probationes sunt, nec admittunt exceptiones, iure
praetermittuntur, cum nihil de his constituat, dubium an possit; et
proprie inter iuridicas et legitimas probationes non numerantur, quia
nihil habent a lege»402.

Nel capitolo terzo dell’opera, rinveniamo il fondamentale quesito che pareva


assillare i processualisti secenteschi: «An ex concursu probabilium indiciorum
possit iudex poenam ordinariam imponere»403.
A siffatto interrogativo, Sarmiento aveva risposto senza alcuna esitazione che,
essendosi in presenza di violente presunzioni, tali da poter essere equiparate ad
una liquidissima probatio, non solo si sarebbe potuto condannare l’inquisito, ma
si sarebbe dovuta comminare necessariamente una pena ordinaria: in caso di
poena media, infatti, il giudice avrebbe decretato contemporaneamente che il reo
«et occidisse, et non occidisse». Nel dire ciò, Sarmiento aveva adoperato le
semplici e lucide argomentazioni che troviamo poi riprodotte nell’opera di
Marciano404: un soggetto è colpevole o innocente, non possono esistere termini
intermedi; nel caso in cui vengano rinvenuti elementi capaci di provare
convincentemente la sua colpevolezza agli occhi del giudice (si parla
significativamente di una «certitudo quae ex illis indiciis, Iudicis mentem
moveat, aut verius urgeat ad condemnationem»405), egli dovrà essere condannato

401
Ibidem, Caput II, par. IX, p. 21
402
Ibidem, Caput II, par. IX, p. 22.
403
Ibidem, Caput. III, par. I, pag. 23.
404
«(…) cum factum sit individuum, vel Reus occidit, vel non occidit; si occidit poena ordinaria
puniendus est; si secus, absolvendus. Ergo non poena media constituenda est, quia potius de iure
constitionis, quam litigatore pronunciaret, et idem occidisse, et non occidisse videretur, cum nec
poenam habeat, ut homicida, nec ut innocens absolvatur. Si igitur medio in facto non est, nec
debet esse in poena, ad quam a delicto argumentari licet», M. Marciano, De indiciis cit., Caput
IV, par.VI, pag. 29.
405
Ibidem, Cap. III, par. I, pag. 23.
103
alla poena ultimi supplici; qualora invece il magistrato ritenga la prova
insufficiente, non potrà affatto diminuire la pena edittale, ma dovrà procedere
senz’altro all’assoluzione406.
Marciano, come già Sarmiento, si riportava all’insegnamento di Bartolo, che a
sua volta aveva tramandato il contenuto di un rescritto attribuito a Graziano,
Valentiniano e Teodosio, in base al quale:

«Sciant cuncti, accusatores eam se rem deferre in publicam notionem


debere, quae munita sit idoneis testibus, vel instructa apertissimis
documentis, vel indiciis ad probationem indubitatis et luce clarioribus
expedita»407.

In questa legge gli indizi venivano, di fatto, accostati alle testimonianze e ai


documenti. La tradizione, continuata dalle Costituzioni di Diocleziano e
Massimiano, in cui gli indicia erano equiparati a dei publica instrumenta408,
autorizzava l’inflizione della pena ordinaria, e legittimava, quando fossero
indubitati, un’eccezione alla regola ulpianea409 (che, al contrario, vietava la
condanna per soli indizi)410.
Marciano attestava inoltre, per l’omicidio, la parificazione della presunzione alla
prova piena, fermo restando per l’imputato l’onere della prova contraria: vale a
dire l’assenza dell’animus occidendi. In particolare, veniva riportata la citazione
di un rescritto di Antonino411 in base al quale il dolo si sarebbe dovuto
presumere, salvo che il reo riuscisse a fornire la prova contraria. Laddove non
l’avesse prodotta, «ex praesumptione condemnabitur»412.

406
«Si probatio non est sufficiens ut Titus occidatur, ergo nec ad triremes condemnetur, quia in
poenis requiritur liquidissima probatio», F. Sarmiento de Mendoza, Interpretationum
selectarum cit., Cap. I, Libro I par. 5.
407
C. IV,19, 25.
408
D. VI,1; C. III,32.
409
D. XLVIII,19,5; C,IX,47,12.
410
«Si igitur accusatoribus sat est, in publicam notionem huiusmodi indicia deferre, necessario
sequitur ad ordinariam delicti poenam infligendam sola sufficere; ac quando sunt indubitata,
excipi a regula ab Ulpiano proposita, quae cavetur ex solis indiciis reum nequaquam
condemnari posse, ut idem Bartolus advertit», M. Marciano, De indiciis cit., Cap. III, par. II, p.
23.
411
D. XLVIII,8,1.
412
«Secundo probatur ex sola praesumptione posse reum condemnari, ex Antonini rescripto, ubi
constituto de occisione, tunc demum Reus potest homicidi poenam evitare si probaverit non
animo occidendi a se fuisse percussum; in vero probaverit homicidi poena puniri; idque nonnisi
ex praesumptione, quia licet lege Cornelia teneatur, qui dolo tantum occidisset, dolo
praesumitur occidisse, quando contrarium aperte non probetur; cum omne malum factum
praesumatur. Igitur ex praesumptione condemnabitur», M. Marciano, De indiciis cit., Cap. III,
par. II, p. 23.
104
La tesi era dunque quella di una piena “dignità probatoria” dell’indizio, e di una
sua ampia utilizzabilità in tutti quei crimini ove fosse difficile ottenere riscontri
diretti; il principio, oltre ad avere un solido fondamento razionale, possedeva
anche illustri precedenti normativi, che avrebbero dovuto incoraggiare anche la
più prudente dottrina a più larghi margini di “convincimento indiziario”.
Contrari a questo indirizzo, tuttavia, erano stati molteplici giuristi tra i più
autorevoli: Maranta, Grammatico, D’Afflitto, avevano manifestato notevoli
perplessità specie sotto il profilo della violenta presunzione, che poteva
senz’altro fungere da prova nei giudizi civili, ma non in quelli criminali413.
Tutti questi giuristi, ascrivibili alla più tenace tradizione napoletana, come già
visto, avevano concordemente stabilito che fosse molto più opportuno arbitrare la
sanzione ogni volta che si fosse in presenza di prove imperfectae.
A questo proposito, Marciano ricordava come Alessandro III avesse ammesso la
possibilità di adoperare indizi in luogo della prova piena414, ma un’altra
costituzione di Innocenzo III aveva recisamente escluso, nella materia dei delitti,
la possibilità d’infliggere una pena ordinaria415.
Tale insegnamento era stato recepito anche da Claro416, il quale aveva sostenuto
che in presenza di indizi indubitati si potesse - regulariter - esperire unicamente
il tormento417 o arbitrare la pena418.

413
«Contrariam tamen negativam sententiam tamquam aequiorem videretur approbare Maranta,
Grammaticus, Afflictus, et alii. Imo Angelus reprehendit contrariae opinionis assertores,
praecipue ex regula quod violenta praesumptio, quae in civilibus habet vim plenae probationis,
non sufficit in criminalibus», Ibidem, Cap. III, par. IV, p. 23. Anche De Luca aveva fatto
riferimento a questa discrepanza tra civile e criminale: «Super conjunctione quoque plurium
imperfectarum probationum ad faciendum unam perfectam, quaestiones in praxim frequenter
cadunt. In civilibus regula est affirmativa, quodque interest regula ut singula, quae non prosunt,
unita juvent. Dummodo tamen imperfectae sint in suo genere perfectae, et non alias, quoniam
centum nihil facerent unum nihil, sive centum fili corrupti non ligarent», De Luca G.B.,
Theatrum cit., Pars. I, De Judiciis, Disc. XXII, par. 14.
414
Nella specie, la prova testimoniale: «Quia verisimile non est, quod H. presbyter personatum
ecclesiae R. capellano concesserit, et ab eo eiusdem ecclesiae acceperit vicariam, provideas
attentius, ne memorati W. Super hoc probationem recipias, nisi communis loci fama id habeat,
vel tales personae appareant, de quibus verisimile non sit, quod debeant deierare; quoniam saepe
contingit, quod testes corrupti pretio facile inducantur ad falsum testimonium proferendum»,
(X., l. II, tit. XXIII, c. 10). Tale possibilità veniva contemplata anche per la copula carnalis:
«(…) Respondemus, quod tum ex confessione, tum ex huiusmodi violenta et certa suspicione
fornicationis, praesertim, si quod de partu et machinatione mortis dictum est probari valet, non
immerito potest sententia divortii promulgari, ita quidem ut vir licentiam habeat mortua illa
ducendi aliam, muliere sine spe coniugii remanente», (X., l. II. tit. XXIII, c. 12).
415
«Propter praesumptionem etiam vehementem non debet quis de gravi crimine condemnari»,
(X. L. II, tit. XXIII, c. 14).
416
Sententiae Receptae cit., Lib. V, q. 20.
417
«Unde quamvis Innocentius dicat huiusmodi iudicia facere plenam probationem, limitat ut ex
iis non possit imponi poena ordinaria delicti. Sequitur Iulius Clarus qui audacter existentibus
indubitatis indiciis pro tortura subscribit», M. Marciano, De indiciis cit., Cap. III, par. IV, p. 24.
418
Sententiae Receptae cit., Lib. V, q. 21
105
Tra gli assertori di tale principio, veniva citato da Marciano anche il forlivese
Fachinei, che nella raccolta di Controversiarum Iuris419, aveva dichiarato che le
allegazioni prodotte dai giuristi in favore della pena ordinaria su prova presuntiva
fossero decisamente insufficienti420. Fachinei era tuttavia contrario anche alla
comminazione della pena straordinaria, preferendo l’esperimento del tormentum
ai danni dell’indiziato421.
Dello stesso parere era pure il Gomez, celebre professore di diritto civile presso
la Scuola di Salamanca nel secolo XVI, secondo cui, in presenza di soli indizi,
non fosse esperibile né la poena delicti, né altra forma di sanzione, ma si sarebbe
potuto emettere unicamente un decreto a tortura422. Nel suo autorevole
Commentarium, il giurista spagnolo, dopo aver provveduto a fornire una
definizione puntuale dell’indizio («Indicium seu praesumptio est rationabilis vel
verisimilis coniectura facti vel delicti, et quaedam animi applicatio ex aliquibus
circumstantibus, ad aliquid credendum»)423, aveva formulato il principio secondo
il quale «indicium est minus quam semiplena probatio, et minorem habet
effectum, sed bene sufficit ad torturam»424.
Sempre Gomez, nel porsi la domanda circa l’esperibilità della condanna in forza
di prove artificiali, aveva concluso che «in criminalibus requiruntur probationes
luce clariores. Infero quod licet praesumptiones sint violentissimae et tales quae
negari non possint, non plene probant»425.
Nel descrivere l’evoluzione del dibattito su prove indirette e pene straordinarie,
Marciano proponeva un diverso rapporto tra prova e pena che non implicasse
automaticamente la comminazione di sanzioni arbitrarie in caso di prove
incomplete o artificiali, ma che piuttosto facesse corrispondere ad evidenze
fattuali, magari anche dedotte presuntivamente, una colpevolezza piena, e
419
Ed. consultata, Lugduni, 1604, libro I, capitolo XXIX: «Utrum ex praesumptionibus aliquis
damnari possit in iudicis criminalibus», pag. 45.
420
A. Fachinei, Controversiarum Juris Liber Quintus cit., libro I, capitolo XXIX, pag. 46. I
richiami di Fachinei avevano ad oggetto un combinato disposto delle prescrizioni codicistiche
sugli indicia ad probationes indubitata (C. IV, 19, 25) e delle norme in materia di pene
criminali (C. IX, 47,15).
421
«Ad argumentum contrariae sententiae, quae extraordinaria poena coercendum docet,
respondeo, Canones ad id probandum allegatos, de personis Ecclesiasticis accipiendos esse,
quae si infamia laboraverint, purgare se debent, aut certe suspendi ab officio, sive aliter puniri,
ne videlicet qui sacra Dei administrant, occasionem ullam scandali caeteris pariant. Igitur in
consequentiam dicti Canones trahendi non videntur ita generaliter ad omnes casus, praesertim
cum in causis et personis laicis, quibus est iam disputatio praecipua, iure civili sit constitutum,
questionibus reum esse subiciendum», Ibidem, pag. 46.
422
«Tradit Gomez (…) quod quamvis sint certa indicia, poena ordinaria rei non puniuntur, sed
torquentur», M. Marciano, De indiciis cit., Cap. III, par. IV, p. 24.
423
A. Gomez, Commentarium Variarumque resolutionum cit., Tomo III, Cap. XII, De
probatione delictorum, par. 2.
424
Ibidem, par. 3.
425
Ibidem, par. 24.
106
dunque una condanna edittale. Sebbene ciò fosse apparentemente in contrasto
con la teorica delle probationes luce meridiana clariores, quest’ultima non
veniva affatto contestata, ma anzi si tentava di confermarla allegando citazioni
antichissime, soprattutto provenienti dal Codex, che testimoniavano l’assoluta
legittimità del ragionamento presuntivo, basato cioè su indizi ed argomenti.
A questo proposito, Marciano mostrava come la regola delle probationes plenae
ai fini della pena criminale ordinaria, lungi dall’essere un principio assoluto ed
inviolabile, soffrisse invece di una molteplicità di limitazioni e contemperamenti.
Il primo argomento adoperato si riferiva alla distinzione esistente in seno alla
categoria degli indizi indubitati, la stessa già descritta da Menochio426; venivano
così individuate ben tre classi, alle quali corrispondeva una diversa gradazione di
efficacia probatoria: indicia iuris et de iure, approvati dalle leggi criminali;
indicia iuris, approvati dalle leggi civili e non utilizzabili in sede penale; indicia
hominis, nascenti dai fatti degli uomini e dai segni427. I primi consentivano
senz’altro la condanna a pena ordinaria; i restanti avrebbero autorizzato, secondo
la dottrina prevalente, un pena più mite428. Tuttavia, ciascuno di essi acquisiva
pari dignità ai fini della condanna a pena ordinaria ogni qualvolta venissero in
rilievo delitti come l’assassinio, l’eresia, la simonia429. Ancora una volta,
riecheggiavano le più antiche e controverse fonti canonistiche, che alteravano il
consolidato equilibrio tra prova piena e pena ordinaria: veniva riportata la già
citata Costituzione di Innocenzo IV430 e il rescritto di Papa Lucio431.

426
Supra, I.2.
427
«Hanc tamen negativam opinionem multas pati limitationes plerisque visum est. Prima, quia
cum Indicia indubitata sint in triplici differentia; alia iuris et de iure, super quibus lex statuit,
aeque approbat etiam in criminalibus. Alia juris, quae lex in civilibus approbat. Alia hominis
quae ex factis hominum, et signis oriuntur», M. Marciano, De indiciis cit., Cap. III, par. V, p.
24.
428
«Tradit Brunus (…), quod ex praesumptionibus a lege in criminalibus approbata, rei
ordinaria delicti poena puniuntur, in reliquis mitiori», M. Marciano, De indiciis cit., Cap. III,
par. V, p. 24.
429
«Secundo limitant in crimine assassinii, ubi propter delicti enormitatem sufficiunt indubitatae
praesumptiones, nec plena probatio requiritur (…). Tertio limitant in crimine haeresis, vel
simoniae, ex Lucii Papae rescripto, ubi sufficit probatio quae sit per signa, et coniecturas, si sit
evidentia et convincentia», Ibidem, p. 27.
430
«Sacri approbatione concilii statuimus, ut, quicunque princeps, praelatus sue quaevis alia
ecclesiastica saecularisve persona quempiam Christianorum per dictos assassinos interfici
fecerit vel etiam mandaverit (quanquam mors ex hoc forsitan non sequatur) aut eos receptaverit
vel defendit seu occultaverit, excommunicationis et depositionis a dignitate, honore, ordine,
officio et beneficio incurrat sententias ipso facto, et illas libere aliis per illos, ad quos eorum
collatio pertinet, conferantur. Sit etiam cum suis bonis mundanis omnibus tanquam Christianae
religionis aemulus a toto Christiano populo perpetuo diffidatus, et postquam probabilius
consisterit argumentis aliquem scelus tam esecrabile commisisse, nullatenus alia
excommunicationis vel depositionis, seu diffidationis adversus eum sententia requiratur», (VI, l.
V, tit. IV, c. 1).
107
Ulteriore ipotesi che avvalorava l’inflizione della pena ordinaria, era quella degli
indizi urgentissimi accompagnati dalla confessione stragiudiziale432, o da quella,
ratificata, di uno dei complici433. Queste limitazioni, ricordava Marciano, furono
fatte proprie ed approvate anche dal Senato di Dole434.
La lunga premessa descrittiva, ricchissima di citazioni dal Corpus Juris Civilis e
dal Corpus Juris Canonici, serviva evidentemente a decostruire la logica
tradizionale delle probationes plenae e la secolare sfiducia nei confronti di quelle
indirette, dimostrando come lo schema valutativo adoperato soprattutto dalle
corti napoletane, non avesse alcun precedente nelle norme di ius commune, ma
anzi fosse ad esse sostanzialmente contrario.
Detto questo, egli giungeva finalmente a proclamare la propria posizione.
Anzitutto, facendo un passo ulteriore rispetto alla sua stessa premessa, dichiarava
insussistente la differenza elaborata in seno alle presunzioni, ammessa anche da
Sarmiento:

«Si enim lex quasdam praesumptiones approbavit tamquam


rationabiles et sufficientes ad condemnationem, no alia de causa,
quam quia huiusmodi coniecturis animus iudicantis acquiescat ut
moraliter credat delictum a reo fuisse perpetratum, cur non etiam in
aliis criminibus, et iudiciis idem dicendum erit? Ridicula enim est
allegata differentia praesumptionis hominis et legis (…). Quando enim
praesumptiones legis et hominis non ex notorietate, sed ex rationabili
discursu oriuntur, eadem vim obtinere debent (…)»435.

Veniva così affermata la necessità di eliminare l’irragionevole classificazione, ed


abbandonare la diversa scala di valori assegnata alle praesumptiones, attribuendo

431
« Sicut enim simoniaca pestis sui magnitudine alios morbos vincit, ita sine dilatione mox, ut
eius signa per aliquam personam claruerint, de Ecclesia Dei debet eliminari atque repelli», (X, l.
V, tit. III, c. 6).
432
«Limitat quarto, quando cum urgentissimis indiciis concurruit extraiudicialis confessio», M.
Marciano, De indiciis cit., Cap. III, par. V, p. 24.
433
«Et quando huiusmodi indiciis concurrat confessio unius ex sociis criminis, quae in tormentis
et extra tormentiis ratificata sit, ita ut cum indubitatis indiciis consentiat, posse etiam illum ad
mortem condemnari, qui tormenta gravissima et saepius passus constantissime negavit, refert
decisum doctissimus Faber», Ibidem, Cap. III, par. V, p. 24.
434
«Quas limitationes in propria specie approbavit Senatus Dolanus in dec. 93», Ibidem, Cap.
III, par. V, p. 24. Probabilmente, il riferimento al distretto di Dole non è affatto casuale. E’
curioso notare che, sebbene i decisionisti cinquecenteschi, specie Vincenzo De Franchis,
citassero spesso le sentenze del Senato francese ed uno dei suoi principali compilatori, Jean
Grivel, questo particolare profilo della disciplina probatoria, messo in evidenza da Marciano,
non era mai stato assorbito dai Grandi Tribunali del Regno.
435
Ibidem, Cap. III, par. VI, pag. 25.
108
invece a queste ultime uguale forza persuasiva ogni qualvolta avessero un sicuro
fondamento razionale436.
Il passaggio citato risulta essere estremamente significativo, perché in esso
Marciano testimoniava anzitutto la penetrazione, nel lessico giuridico-
processuale, di una terminologia assolutamente nuova: da un lato si parlava
esplicitamente di credenza morale, che veniva opportunamente distinta da una
diversa credenza di tipo istintuale, passionale, la cosiddetta certezza “fisica”;
dall’altro si insisteva sul modo di formazione di tal tipo di convincimento, che
non aveva nulla di impulsivo, ma «ex rationabilis discursu oritur». Al di là del
linguaggio tecnico del giurista, va sottolineato anche e soprattutto un aspetto
assai innovativo dei contenuti: Marciano, proponendo l’eliminazione di ogni
inutile classificazione in seno alle presunzioni, offriva piuttosto, come unico
parametro per valutarne la legittimità e l’utilizzabilità in giudizio, il dato della
razionalità. Una razionalità in grado di persuadere il giudice «nec physice, sed
moraliter»437.A tal proposito, Marciano citava il Caietano (Tommaso de Vio) e il
Navarro (Martin de Azpilcueta)438. Quest’ultimo, in particolare, famosissimo
professore di Salamanca e maestro di Covarruvias, in un consilium inserito nella
rubrica De Praesumptionibus, egli aveva significativamente ricollegato la
presunzione al verisimile, e il verisimile al probabiliter credere439.
Queste categorie venivano ora applicate da Marciano per dimostrare l’astratta
utilizzabilità di qualunque prova indiretta, purchè veemente e convincente.
Riguardo alla Prammatica XII de officio judicum sul regime sanzionatorio
ricollegato agli indubitata, il giurista ricordava la nota interpretazione di Rovito,
che, in sostanza, aveva ammesso per i soli delitti occulti una credulitas cum
aliqua haesitatione, mentre per tutti gli altri crimina aveva richiesto una
certitudo perfetta, senza alcun margine di errore.
La distinzione non pareva avere molto senso per l’autore del De Indiciis, il quale
ricordava come le prescrizioni romanistiche e canonistiche ammettessero già, per
particolari categorie di delitti, una disciplina probatoria “attenuata”, mentre «si

436
«Igitur ubi in aliis casibus evidens coniectura et indubitata indicia Iudici crimen approbarent,
potest ad poenam delicti devenire, etsi expresse huiusmodi praesumptiones a jure approbatae
non essent», Ibidem, pag. 25.
437
In questo passaggio veniva ribadito l’insegnamento di De Sesse «qui refert semper in Regno
Aragoniae ex indubitatiis indiciis fuisse inflictam poenam delicti ordinariam (…)». Sul punto:
supra, I.4. Tuttavia, lo stesso De Sesse, aveva avvalorato, attraverso la famosa decisio CIII, una
forma di credenza irrazionale, basata anche su indicia supernaturalia, come l’effusione di
sangue dal cadavere in presenza dell’accusato.
438
«Quae credulitas, ut Scholarum verbis, dicit assertiva secundum Caietanum et Navarrum»,
M. Marciano, De indiciis cit, Cap III, par. VIII, pag. 26
439
M. De Azpilcueta, Consiliorum sive Responsorum Tomi duo, Venetiis, 1603, Liber II, De
Fide instrumentorum, rubr. De Praesumptionibus, Cons. I, pag. 160.
109
vero credulitatem habeat absque ulla haesitatione, in omnibus criminibus
sufficiet»440.
Lo stesso Agostino Barbosa, essendosi occupato diffusamente di delitti occulti441,
aveva avuto modo di trattare spesso la materia della credulitas, chiamata
assertiva, e dell’indubitato, qualificando quest’ultimo come quello strumento
che, «in tutti i casi in cui non è data prova liquida, forma la coscienza del giudice
con una veemente opinione»442.
Va detto tuttavia che il celebre canonista portoghese, pur avendo contribuito
sensibilmente alla configurazione della categoria della credulitas assertiva nella
materia dei delitti occulti, non aveva comunque riconosciuto, nei restanti
crimina, la possibilità di comminare condanne edittali sulla base di quella stessa
“veemente opinione” così precisamente delineata, ma anzi aveva chiarito
l’assoluta necessità di mitigare la pena in favore di una punizione più mite443.
In particolare, in un’altra sua importantissima opera, le Selectae Juris Canonici
Interpretationes444, precisamente al titolo XXIII, De Praesumptionibus, aveva
messo in guardia i giudici che volessero mandare a morte un reo sulla base di
sole presunzioni, descrivendo orribili rimorsi dovuti all’insolubile dubbio tra
l’innocenza e la colpevolezza; un dubbio che avrebbero potuto dirimere
efficacemente solo un teste de visu (curiosamente non due), o una confessione
giudiziale:

«Caveant ergo Iudices (…) sententias huiusmodi temere proferre, si


conscientiae tuae bene consultum volunt: nam aliter diu noctuque
conscientiae stimulis agitabuntur, eoque furiae, ut dicebant poetae,
terrificis somniis et tedis ardentibus perterrebunt: nihil enim est animi
tranquillizati magis contrarium, quam non posse ob aliquam erroris
admissi suspicionem quiescere, in quam ut incidant necesse est illi,
qui sententias ordinariam poenam delicto imponendo absque teste

440
M. Marciano, De indiciis cit, Cap III, par. VIII, pag. 26
441
Possiamo qui ricordare, ad esempio, una lunga dissertazione, intitolata Occultum quid
dicatur, et qui sint casus occulti, in quibus Episcopus dispensare valet, contenuta nell’opera
Pastoralis Solicitudinis, sive De Officio et Potestate Episcopi Tripartita Descriptio, Lugduni,
MDCL, pars II, Alleg. XXXIX, pag. 423.
442
«In casibus in quibus liquida probatio dari non potest, sufficit Iudicem ex vehementi opinione
conscientiam suam formare, ex regula quod in his quae sunt difficilis probationis urgentes
praesumptiones habeantur pro vera probatione», M. Marciano, De Indiciis cit., Cap. III, par.
VIII, pag. 28.
443
Anche Marciano lo precisa: «Probat hanc distinctionem erudite pro more subtilissimus
Barbosa, ea praecipue ratione, quia in delictis occultis attenta materia habentis pro indiciis
indubitatis, quam vis in aliis talia non censerentur», Ibidem, Cap III, par. VIII, pag. 26.
444
Ed. consultata: Lugduni, MDCXLVIII.
110
oculato, vel rei confessione ferunt, solis praesumptionibus et indiciis
adducti»445.

Marciano ricorreva tuttavia ad un’ulteriore argomentazione, citando un’antica


norma che autorizzava l’equiparazione generalizzata della presunzione alla prova
ogni qualvolta quest’ultima fosse difficilis, senza ulteriori distinzioni di sorta446.
Tenendo conto di quella norma, il giudice avrebbe dovuto dismettere ogni
esitazione, laddove ne avesse, e condannare in presenza di una violenta
praesumptio come se si trattasse di una prova legale447.
Infine, egli ricordava l’insegnamento di Tommaso de Vio, il quale aveva
affermato che «in rebus humanis probandis non requiritur certitudo evidentiae,
quia etsi adsit Testium probatio, vel propria hominis confessio, non propterea
evidens sit intellectui, delictum per accusatum perpetratum fuisse; cum possint
testes et confessus mentiri; sed sufficit certitudo fidei (…)»448.
La certezza, in conclusione, se relative alle cose umane, non poteva mai essere
assoluta o priva d’errore, e tuttavia poteva avere, se applicata al diritto, un
fondamento sufficiente per giustificare condanne piene: ciò doveva avvenire,
secondo la ricostruzione di Marciano, attraverso una ricostruzione razionale degli
elementi indiretti a disposizione del giudice, e attraverso una ferma credenza
nella loro “assertività”.
Il giureconsulto napoletano, che abbiamo visto così risoluto nell’accogliere
condanne edittali quand’anche gli elementi a disposizione del giudice fossero
puramente indiretti, non si mostrava altrettanto propenso ad accettare pene
straordinarie basate su indizi insufficienti: nel capitolo IV del frammento449,

445
A. Barbosa, Selectae Juris Canonici Interpretationes cit., tit. XXIII, De Praesumptionibus,
pag. 121.
446
L’ipotesi descritta era quella contemplata dal Digesto al titolo De re militari, ove, stante la
difficoltà di stabilire se dei soldati fossero dei disertori o fossero invece stati catturati dai nemici
e poi rilasciati o fuggiti dalla prigionia, s’invitava ad applicare il rescritto di Adriano, e a
valutare una serie di elementi indiretti, ossia a ragionare per argumentis: « (…) A barbaris
remissos milites ita restitui oportere Hadrianus rescripsit, si probabunt se captos evasisse, non
transfugisse. Sed hoc licet liquido constare non possit, argumentis tamen cognoscendum est. Et
si bonus miles antea aestimatus fuit, prope est, ut adfirmationi eius credatur: si remansor aut
neglegens suorum aut segnis aut extra contubernum agens, non credatur ei. Si post multum
temporis redit qui ab hostibus caputs est et captum eum, non transfugisse constiterit: ut
veteranus erit restituendus et praemia et emeritum capit. Qui transfugit et postea multos latrones
adprehendit et transfugas demonstravit, posse ei parci divus Hadrianus rescripsit: ei tamen
pollicenti nihil permitti oportere», (D. XLIX, 16,5,7).
447
«Quamvis enim in huiusmodi flagitiis habeat credulitatem cum aliqua haesitatione, debet
virtualem illam deponere se confirmando juris dispositiones», M. Marciano, De Indiciis cit.,
Cap. III, par. VIII, pag. 26.
448
Ibidem, Cap. III, par. VIII, pag. 27
449
Intitolato significativamente «An si solum indicia urgeant, licite super illis trasigatur
extraordinaria coercitione».
111
l’ultimo, pur attestando la larga diffusione di una prassi orientata in senso
affermativo, negava recisamente che il principio fosse meritevole di
accoglimento.
Il lungo elenco di citazioni riportate, testimoniava quanti autorevolissimi
esponenti della criminalistica, specie di area napoletana, avessero sostenuto
alacremente la necessità di punire i rei con pene straordinarie, addirittura in
presenza di pesanti indizi o violente presunzioni450. Eppure, ancora una volta, a
guidare le argomentazioni di Marciano non era la tradizione comunemente
osservata dal ceto togato, ma solo ed unicamente una logica ineccepibile:
l’impossibilità di una terza opzione tra l’innocenza e la colpevolezza451:

«Quia cum factum sit individuum, vel Reus occidit, vel non occidit; si
occidit poena ordinaria puninedus est; si secus absolvendus. Ergo non
poena media constituenda est (…) Si igitur medium in facto non est,
nec debet esse in poena, ad quam a delicto argumentari licet»452.

Se il magistrato non fosse stato pienamente convinto, dunque, non avrebbe


dovuto emettere una sentenza che non fosse pienamente rispondente al proprio
animo, perché quella stessa sentenza sarebbe risultata iniqua: «Cum autem non
determinatur, non potest ferre sententiam, quae esset, si ferretur, iniusta, quod
non ex animi sui sententia pronunciaret»453.
Uno degli asserti più interessanti, riguardava l’esercizio dell’arbitrio da parte del
giudice; esso non avrebbe dovuto rivolgersi alla misura o alla tipologia di
sanzione, ma solo e unicamente alla questione di fatto:

450
«Communem dubium an veriorem sententiam ut possit Reus ex praesumptionibus violentis
extraordinaria poena puniri audacter defendunt Afflictus, Sanfelicius et Caballus», Ibidem, Cap.
IV, par. I, p. 28. Vengono citati altresì Tiraqueau, Salas e Suarez, che si erano conformati
all’insegnamento di Baldo: «Et quampluri, os huius assertores refert, et sequitur Tiraquellus.
Etenim potest, ex iuxta causa, etiam a Iudice inferiore minui et remitti poena, et multum etiam
refert modus probationis: nam si reus non est omnino convictus, temperanda est poena, prout
voluit Salas et Suarez, cui etiam opinioni favet Baldi doctrina, quod quando Iudici non plene
liquet de falsitate testis, sed de ipsius depositione dubitat, temperare debet sententiam, quia
procedit ex sola suspicione et potest haec assertio probare ex pluribus», Ibidem, Cap. IV, par. I,
pag. 28.
451
«Ridiculum fane commentum illud fuit Menochii, (…), qui ut Sarmienti rationibus
occurreret, afferuit, non semel Legislatoribus viam mediam placuisse, quae tamen vere factum
mutabat; igitur, et Iudici, ut cum dubitat de viribus praesumptionum, nec ex toto condamnet, nec
absolvat, at licet medium re vera dari non possit inter occidisse et non occidisse, detur tamen
hoc modo, scilicet dubium inter occidisse et non occidisse, ut puta probabilis dubitationis (…)
Nam medium dari non potest inter innocentiam et delictum», Ibidem, Cap. IV, p. XV, pag. 32.
452
Ibidem, Cap. IV, par. VI, pag. 30.
453
Ibidem, Cap. IV, par. XV, pag. 32.
112
«nec Iudici arbitrium ullum esse temperandi poenas, si velit. Certum
enim est Iudicem obligari ut puniat reum sufficienter de crimine
convictum»454.

Il magistrato doveva, cioè, stabilire soltanto se Tizio avesse ucciso o meno, non
anche quale fosse la pena con cui punirlo: l’arbitrio era in facto, non nella misura
della condanna. A ben guardare, quello che Marciano enunciava era un principio
cardine della dottrina canonista, presente anche nell’insegnamento di San
Tommaso, sintetizzabile nella formula: «non licet Iudici de legibus iudicare, sed
secundum ipsas»455.
Secondo l’autore, arbitrando le pene nei confronti di rei non sufficientemente
convinti, si rischiava di condannare degli innocenti; allo stesso modo,
diminuendo le pene anche in presenza di violentissime presunzioni, si accettava
il rischio di lasciare sostanzialmente impuniti gli autori dei più atroci delitti456.
La conclusione di Marciano si muoveva ancora una volta in perfetta continuità
con le argomentazioni già formulate da Sarmiento, dunque nel senso di rifiutare
recisamente la diminuzione della pena: se gli indizi fossero stati lievi, il giudice
avrebbe dovuto assolvere; se fossero stati urgenti avrebbe, tutt’al più, potuto
torturare; se indubitati e convincenti egli sarebbe stato costretto, senza
compromissorie alternative, a condannare457.
Come già anticipato, tuttavia, Marciano presentava, rispetto al suo predecessore
spagnolo, un elemento di assoluta originalità: alla polemica contro la pena
straordinaria, egli abbinava un accurato studio della nozione di credulitas,
formula di creazione tardo-scolastica, che veniva da lui associata alla conoscenza
indiretta, anche quella su base indiziaria.
Questo dimostra, una volta di più, che l’orizzonte culturale di Marcello Marciano
fosse già dominato dal problema della conoscenza; un tema suscettibile, come
vedremo458, di investire intere sezioni disciplinari, compresa, ovviamente, la
teoria della prova.

454
Ibidem, Cap. IV, par. V, pag. 29.
455
Summa: 2.2 q. 60 art. 5; q. 63 art. 4. Tale norma era stata confermata da Papa Gregorio, il
quale aveva stabilito che «Divina et humana lex revolvatur, et secundum quod ibi definitum est,
ferantur sententia», M. Marciano, De Indiciis cit, Cap. IV, par. V, pag. 28.
456
«Ergo pronunciare debet vel occidisse, non autem qua poena sit puninedus; nec boni exempli
est, Populum audire: pro delicto homicidi puniri, sed non poena homicidiae, cum defectus
probationis possit arguere innocentem, non autem minuere poenam, si nocens existimetur»,
Ibidem, Cap. IV, par. VII, pag. 30.
457
«Non igitur nostrae sententiae adversatur dicta Ulpiani dispositio scilicet ex indiciis non
possit Iudex mitiori poena punire, sed si levia absolvere, si urgentia torquere, si indubitata et
convincentia condemnare», Ibidem, Cap. IV, par. XIV, pp. 31-32.
458
Infra, cap. III.
113
Sebbene le sue tesi fossero inserite nella piena attualità della parabola inquisitoria
- è evidente il perdurare di certi retaggi interpretativi della criminalistica
tradizionale, come il riferimento agli indicia urgentia ai fini della tortura -
possiamo comunque scorgere tra le sue pagine la testimonianza forte di una
strisciante rivoluzione intellettuale: è lecito infatti sospettare che le nuove idee
sulla materia circostanziale, abbinate ad un ricorso sempre più largo e
consapevole alle categorie della verosimilitudo e della probabilitas in luogo della
più impegnativa veritas459, abbiano contribuito ad aprire la strada ad un vero e
proprio mutamento di paradigma in campo probatorio, ed abbiano in qualche
modo facilitato il radicamento di alcune conquiste gnoseologiche in materia di
certezza e di calcolo che, come vedremo460, proprio nel corso del Seicento
investirono tutti i campi del sapere e finirono col penetrare anche nella
dimensione del diritto e del processo criminale.
Come già detto, l’interesse per l’opera di Marciano trova la sua ragion d’essere in
molteplici elementi: essa dimostra non soltanto il condizionamento operato da
moltissimi autori culti e della tarda scolastica persino in territori, come Napoli,
attestati su posizioni ampiamente conservatrici461; testimonia altresì una

459
Nello scritto di Marciano si assiste per certi versi ad una sorta di inversione delle categorie
tradizionali: la confessione, per esempio, che tradizionalmente coincideva con la regina
probationum, o probatio probatissima, in grado cioè di fornire quella verità perfetta ed
incontrovertibile che sola avrebbe legittimato l’inflizione della poena delicti, viene qui
identificata come una non-prova: essa semmai esonera dalla prova l’avversario, perché rende
acquisito un fatto dubbio. Ciò peraltro non implica che la confessione medesima coincida con la
verità: essa, semplicemente, innesca un automatismo processuale per cui alla confessione
corrisponde la condanna. Ciò accade, tuttavia, senza bisogno che il giudice compia un’attività
valutativa, di apprezzamento; in ciò risiede, per Marciano, l’impossibilità di configurarla come
prova a tutti gli effetti. La vera prova, per l’autore, consiste nel dar fede ad un fatto incerto
attraverso un vaglio di verosimiglianza compiuto dal magistrato che, tra tutte le ipotesi possibili,
elegge la ricostruzione più probabile, più attendibile, e vi presta fede nell’accertamento
giudiziale. A proposito della veritas, è interessante analizzare un passaggio estremamente
significativo, in cui Marciano spiega come i Greci, assai prudentemente, distinguessero tra la
verità “latente” del fatto (chiamata ευσοχιασ), e il risultato delle prove (ευδιχιασ): «Latentem
facti veritatem assequi ευσοχιασ; probationum merita prudenter ευδιχιασ . Ideque si sine ulla
fraudis, aut odii suspiciones damnaverit, boni viri officio functus est; Reumque alterius, si non
huius criminis probabile est, Dei, non Iudicis manu puniri», M. Marciano, De Indiciis cit., Cap.
I, par. IV, pag. 14.
460
Infra cap. III.
461
Una parte della storiografia ha messo in evidenza come a Napoli il sistema penale
conservasse solidissimi legami con la tradizione, che si traducevano in una fiera opposizione
contro tutti gli interventi della Corona che potessero in qualche modo alterare gli antichi schemi
di legalità (si pensi alla già citata vicenda della Prammatica XII De officio iudicum). Mediante
l’ossequio - tutto formale - ai meccanismi di prova legale, opportunamente mediati dai
molteplici correttivi giurisprudenziali, l’obiettivo che le magistrature perseguivano era quello di
annullare ogni aspirazione del potere centrale finalizzata ad influire sulle regole processuali. In
tal modo i giudici conservavano intatto il loro ruolo di “sacerdotes juris”, indispensabile per la
mediazione giuridica, politica e sociale. Sul punto: R. Ajello, Arcana Juris. Diritto e politica nel
114
sorprendente centralità di quei nuovi contributi dottrinali - impregnati di
razionalismo, relativismo cognitivo e problematicismo - anche nel campo del
metodo e del diritto probatorio.
Il nostro giurista, come abbiamo visto, giunse a contestare apertamente due dei
più inflazionati strumenti dell’armamentario inquisitorio: la pena straordinaria
(irragionevole perché non può esistere un termine intermedio nella colpevolezza,
e dunque neanche nella pena), e la controversa praesumptio iuris et de iure, della
quale si criticava la maggiore rilevanza rispetto alle altre presunzioni: ciascuna di
esse, sosteneva Marciano, senza inutili distinzioni, doveva essere ammessa al
giudizio ogni qualvolta fosse razionale, logica, e fosse soprattutto in grado di
produrre una convinzione morale462.
Come pochissimi altri giuristi suoi conterranei463, egli assimilava alla sfera
umana, subiettiva (e non unicamente alla dimensione legalistica e
predeterminata) un fondamento razionale, una capacità di ragionevole auto-
persuasione che si basava su un discorso logico, anche se ipotetico, anche se
fallibile: ricordando un celebre principio ulpianeo, già citato da Sarmiento in
materia d’errore nel giudizio, egli giungeva ad affermare: «Satius est impunitum
relinqui facinus nocentis, quam innocentem damnare»464.
Meglio dunque lasciare che la credulitas assertiva, formatasi sopra tutti gli
elementi dimostrativi ed argomentativi a disposizione del magistrato, guidasse
quest’ultimo nella piena convinzione dell’altrui reità o innocenza, piuttosto che
ricorrere ad inique quanto irragionevoli diminuzioni di pena, le quali non erano
comunque in grado di colmare il vuoto probatorio, ma che in compenso
accettavano temerariamente (ed arbitrariamente) l’eventualità di condannare un
incolpevole.

Settecento italiano, Napoli, 1983; Id. , Il collasso di Astrea. Ambiguità della storiografia
giuridica italiana medievale e moderna, Napoli, 2002.
462
«Ut ne physice, sed moraliter credat delictum a reo fuisse perpetratum», M. Marciano, De
Indiciis cit., Caput. III, par. VI, pag. 29.
463
Un altro autore decisivo in tal senso è il già citato Carlo Antonio De Rosa, di cui infra II.4.
464
D. XLVIII, 19,5,10.
115
II.4 La nozione di credulitas: un momento genetico.
Con la prolusione di Marcello Marciano, le intuizioni di Sarmiento avevano
trovato, nel Regno di Napoli, un’autorevolissima conferma e un ulteriore
sviluppo teorico: tutta la tematica degli indicia indubitata, che il vescovo
spagnolo aveva omesso discorrendo genericamente di praesumptiones
vehementes, nel De Indiciis risultava addirittura preminente.
Questo perché la vicenda della Prammatica XII de officio judicum prima, e la
controversa interpretazione di Scipione Rovito poi, avevano innescato un acceso
dibattito non solo sull’opportunità di arbitrare le sanzioni in caso di prove
imperfette, ma, più in generale, sui modi stessi della conoscenza giudiziale, e
sugli strumenti a disposizione del giudice per pervenire alla certezza.
Sebbene il commento alla legge da parte del celebre magistrato napoletano
avesse prodotto la conseguenza di una sua sostanziale disapplicazione, esso
aveva anche, suo malgrado, contribuito alla teorizzazione di un nuovo metodo di
costruzione della verità giudiziaria che, per quanto sofisticato e cavilloso - si
pensi solo alla sottile distinzione tra credulitas actualis tantum e credulitas
actualis et virtualis465- ammetteva un diretto coinvolgimento soggettivo,
corrispondente ad una primordiale forma di intima convinzione.
Attraverso la formula contenuta nel testo della legge, in particolare l’espressione
«credere fermamente»466, e il tentativo effettuato poi da Rovito di dare un preciso
contenuto a quel firmiter credere, di fatto la dialettica processuale aveva
dichiaratamente chiamato in causa un meccanismo di persuasione non più
necessariamente connesso alla “pienezza probatoria”, e corrispondente dunque
ad un’evidenza “legale”, ma ricollegato piuttosto al grado di plausibilità (e
dunque di probabilità e di verosimiglianza) racchiuse in un’ipotesi ricostruttiva.
Ciò implicava, inevitabilmente, l’uso di operazioni logiche e argomentative
senz’altro superiori rispetto alla mera ratifica di una confessione, magari estorta,
o alla registrazione di allegazioni testimoniali dirette: la valutazione del materiale
465
«Sed adhuc remanet aliquid agendum, nam credere aliquid firmiter potest duobus modis
contingere; uno, quando credi, quod ita sit absque aliqua haesitatione actuali, sed cum aliqua
haesitatione virtuali, ita ut si quis me interroget utrum illud factum habeam pro indubitato
omnino, vel potius existimem posse non esse verum, verisimiliter responderem forte non est
verum; sed pro nunc credo firmiter verum esse; altero vero, quando credulitas est ita firma ut
neque actualem, neque virtualem habeam haesitationem, ut cuilibet interroganti responderem
illud esse verissimum, nec alicui dubitationi locum esse relictum», S. Rovito, Decisiones
Tribunalium Regni Neapolitani, cit., dec. LXIII, n. 9.
466
«Ordiniamo che nelle cause che, da qua in avanti, si tratteranno ancorché i delitti si sieno già
commessi, possano i Giudici dè Tribunali Regij seguire l’opinione di dare per indizi indubitati
la pena ordinaria, non ostante qualsivoglia decisione fatta in contrario per lo S.C. ed altri
Tribunali: confidando noi che i Ministri tanto principali, ed eminenti useranno di questo arbitrio,
di maniera tale che i Rei colpati sieno castigati, e gl’innocenti non gravati (…)»,D. A. Vario,
Pragmaticae, Edicta, Decreta cit., t. III, pag. 79.
116
probatorio si arricchiva ora, almeno teoricamente, di più ampie possibilità di
stima, vaglio ed affidamento.
Quelle stesse possibilità, incatenate da Rovito a dei difficili distinguo e, di
conseguenza, ad una serie infinita di limitazioni, venivano ora riscoperte da
Marciano, il quale formulava, nel suo De Indiciis, una critica serratissima alle
categorie nominalistiche che sino ad allora avevano impedito un’apertura in
senso razionale e soggettivo del giudizio criminale.
Come abbiamo visto, egli contestava anzitutto la gerarchizzazione avvenuta in
seno alle presunzioni, che le voleva distinte in praesumptiones hominis,
praesumptiones iuris e praesumptiones iuris et de iure; si diceva poi contrario
alla circoscrizione della regola della credulitas ai soli delitti occulti - come di
fatto aveva suggerito Rovito467 - e propugnava, semmai, un’estensione di quel
criterio a tutti i crimina, ogni qualvolta il giudice pervenisse alla certezza del
reato e del suo autore. Una certezza, si badi bene, che non poteva mai essere
assoluta; tutt’altro: essa, in quanto riferita ad azioni umane, possedeva una
componente fortemente relativa ed intimistica; più che l’evidenza, si richiedeva
una credenza ch’era come un atto di fede, una personale adesione ad un’ipotesi:

«in rebus humanis probandis non requiritur certitudo evidentiae (…)


ad nostrum intellectum sufficit certitudo fidei»468.

Ciò non deve tuttavia indurci a ritenere che Marciano intendesse avallare una
qualche soggettività incontrollata nella valutazione del fatto: al contrario, le sue
riflessioni sulla certitudo corrispondevano sempre ad un pieno coinvolgimento
della razionalità, del calcolo probabilistico, dell’intelletto.
Se da un lato, infatti, si parlava esplicitamente di credenza morale (attraverso la
formula moraliter credere, opportunamente distinta da una diversa credenza di
tipo istintuale, passionale, la cosiddetta certezza “fisica”); dall’altro si insisteva
sul modo di formazione di tal tipo di convincimento, che non aveva nulla di
impulsivo ma «ex rationabilis discursu oritur»469.

467
« (…) si sumus in delctis occultis, quae occulto committuntur, potest procedi ad poenam
ordinariam, etiam ex prima specie credulitatis, actualis tantum (…). At ex secunda specie
credulitatis, quae excludit omnem haesitationem actualem et virtualem in omnibus delictis,
etiam non occultis, potest procedi ad poenam ordinariam», S. Rovito, Decisiones Tribunalium
Regni Neapolitani, cit., dec. LXIII, n. 10.
468
M. Marciano, De indiciis cit., cap. III, p. VIII, pag. 26.
469
«Si enim lex quasdam praesumptiones approbavit tamquam rationabiles et sufficientes ad
condemnationem, no alia de causa, quam quia huiusmodi coniecturis animus iudicantis
acquiescat ut moraliter credat delictum a reo fuisse perpetratum, cur non etiam in aliis
criminibus, et iudiciis idem dicendum erit? Ridicula enim est allegata differentia praesumptionis
hominis et legis (…). Quando enim praesumptiones legis et hominis non ex notorietate, sed ex
117
Quello stesso convincimento equivaleva ad una conformità tra quanto il giudice
“sentisse” e quello a cui decidesse di credere, e diventava imprescindibile per la
formulazione di una giusta sentenza: se il magistrato non fosse stato pienamente
convinto, non avrebbe mai dovuto emettere una pronuncia che fosse in qualche
modo contraria al suo animo: «Cum autem non determinatur, non potest ferre
sententiam, quae esset, si ferretur, iniusta, si non ex animi sui pronunciaret»470.
Il richiamo alla sententia animi del giudice, riportava alla luce l’antico
insegnamento di Adriano, già ricordato dal Sarmiento:

«Quae argumenta ad quem modum probandae cuique rei sufficiant,


nullo certo modo satis definire potest sicut non semper, ita saepe sine
publicis monumentis cuiusque rei veritas deprehenditur, alias numerus
testium, alias dignitas et auctoritas, alias veluti confitiens fama
confirmat rei, de qua queritur fidem. Hoc ergo solum tibi scribere
possum summatim, non utique ad unam probationis speciem
cognitionem statim allegare debere, sed ex sententia animi tui te
existimare oportere, quod aut credas, aut parum probatum tibi
opinaris»471.

Esso stava a indicare un parametro chiaramente personale dell’attività valutativa,


spogliato di ogni pretesa oggettivistica, del tutto privo di elementi di “assolutezza
legale”: era questo un chiaro riferimento ad una forma di “intima” convinzione.
Un altro giurista napoletano del XVII secolo, Carlo Antonio De Rosa472, qualche
decennio più tardi, avrebbe portato a compimento il percorso inaugurato dal suo
predecessore, e contribuito ancor più incisivamente a delineare il concetto di
certitudo moralis.
Nella sua Criminalis Decretorum Praxis, criticando anch’egli l’interpretazione
fornita da Rovito in merito alla Prammatica de officio judicum, asserì che in tutti
i delitti (non solo quelli quae occulte committuntur), fosse opportuno adoperare il
parametro del convincimento morale, non potendosi di fatto mai configurare
un’assoluta certezza delle azioni umane473, perché all’interno di esse sempre
residua un margine di dubbio risolvibile con il solo giudizio di
verosimiglianza474.

rationabili discursu oriuntur, eadem vim obtinere debent (…)», Ibidem, Cap. III, par. VI, pag.
25.
470
Ibidem, Cap. IV, par. XV, pag. 32.
471
Supra, II.2.
472
Supra I.5.
473
vale a dire quella credulitas actualis et virtualis teorizzata da Rovito nella decisio LXIII.
474
«Tamen ego in istis quoque delictis dico, quod sufficiunt ea indicia, quae delinquentem
demonstret morali certitudine, et ratio est, quia in humanis actionibus, super quibus constituntur
judicia, et exiguntur testimonia, cum sint circa contingentia et variabilia, certitudo
118
A questo proposito, De Rosa poneva l’esempio di scuola di Tizio che fosse stato
visto uscire da casa di Caio - trovato poi ucciso - col viso pallido e la spada
sguainata.
Tale ipotesi, rientrante senz’altro nel novero degli indicia indubitata, non offriva
comunque la sicura conferma della colpevolezza dell’accusato, e si prestava al
rischio che venisse condannato un innocente: poteva darsi che Tizio avesse solo
ferito Caio con quella spada e un altro l’avesse finito475; poteva darsi altresì che
Tizio, impugnata la spada, abbandonata dal vero assassino di Caio, lo stesse
inseguendo per vendicare l’ucciso476 - ipotesi, questa, contemplata da Casoni nel
suo Tractatus de indiciis et tortura477. O, infine, poteva anche darsi che Caio si
fosse ucciso da solo e Tizio avesse semplicemente estratto la spada come Ulisse
con Aiace, vicenda questa riportata anche da Menochio478. Tuttavia, concludeva
De Rosa, ciascuno dei casi esposti appariva piuttosto improbabile, mentre era di
gran lunga più verosimile che un indizio così grave e veemente identificasse
senz’altro l’assassino479.
Veniva inoltre ricordata la riflessione del gesuita Juan de Lugo480, il quale, a
proposito degli indubitata, aveva chiarito che, non potendo gli uomini avere
assoluta certezza dei delitti, se si fosse subordinata la condanna a quell’unico tipo
di certezza, i delitti stessi sarebbero rimasti in larga misura impuniti481.
La conclusione di De Rosa segnava una cesura netta rispetto alla molte (troppe)
cautele che avevano contrassegnato sino ad allora la dottrina e la giurisprudenza
napoletana: le sue argomentazioni muovevano nel senso di attribuire agli
indubitata l’attitudine a rivelare l’autore di qualunque crimine; nei delitti occulti,

demonstrativa sive metaphysica haberi non potest (…)», C.A. De Rosa, Crminalis Decretorum
Praxis, cit., lib I, cap. I, n. 32.
475
« (…) communi declaratur exemplo, ut si in domo unum aditum habente reperiatur Cajus
occisus, et ab eo visus est Titius exire pallidus, et gladio evaginato, quod exemplum Doctores
ponunt pro indicio indubitato: nam quamvis fallere possit, et innocentis sequi punitio, cum
contingere possit, quod Titius tantum vulneravit, et alius Cajum exanimavit», Ibidem, pag. 9.
476
« (…) aut quod alius ense occidit, quo relicto fugit, occisorem sequens, ut occidat», Ibidem,
pag. 9.
477
F. Casonus, De indiciis et tormentis Tractatus Duo, Coloniae, 1594, cap.11.
478
« (…) vel quod Cajus se ipsum occidit, et quod Titius tantum ensem a corpore abstulit, sicut
fecit Ulysses ad Aiacem, ut notat Menochius», C. A. De Rosa, Criminalis Decretorum Praxis
cit., n. 32.
479
«Attamen quia in pluribus contingit, quod qui visus est a tali domo exire pallidus et cum
gladio, ubi occisus reperitur, ille sit delinquens, et de raro evenire potest casus Ulyssis, et alius a
Casone relatus, et per accidens ad condemnandum hoc indicium sufficiens est», Ibidem, n. 33.
480
Nato a Madrid nel 1583, si formò a Salamanca ma non v’insegnò mai. Divenne professore di
teologia prima a Valladolid e poi a Roma, dove morì nel 1660. Sul punto: J. Ghellinck, Juan de
Lugo, in The Catholic Encyclopedia, vol. IX, New York, 1910.
481
J. De Lugo, Disputationum de iustitia et Iure, Lugduni, 1652, t. II, disp. XXXVII, sect. 12,
n. 146.
119
sarebbero stati invece sufficienti «etiam plura dubitata, dummodo unita Judicis
mentem commoveant»482.
E’ interessante scomporre questa tesi per individuare al suo interno una
molteplicità di componenti: anzitutto, la totale sfiducia nel carattere “assoluto”
dell’umana cognizione, principio ricavato dalla dottrina tomistica483, che portava
il De Rosa ad abbandonare l’obiettivo del raggiungimento, in giudizio, di una
certezza “dimostrativa” o “metafisica”, dovendosi il giudice arrestare all’unica
tappa per così dire realistica della ricostruzione processuale, ossia la certezza
morale:

«Ideoque haec probatio, quem delinquentem demonstrat, morali


certitudine sufficiens est, et moralis dicitur, quae ex communiter
accidentibus, et propriis circumstantiis, et rationibus rei in pluribus
verificatur; et raro juxta hominum mores a veritate deviat; (…) in qua
utique probatione virtualis inest dubitatio»484.

Nonostante il dubbio permanesse, quello stato di fisiologica sospensione poteva


essere agevolmente superato secondo l’idquod plerumque accidit, un giudizio di
verosimiglianza esplicitamente chiamato in causa da De Rosa per evitare l’effetto
paralizzante del presupposto relativismo cognitivo: non è un caso che la stessa
certitudo moralis venisse alternativamente denominata certitudo probabilis485.
Riguardo alle modalità con le quali il giudice dovesse formare dentro di sé la
convinzione dell’innocenza o della colpevolezza di taluno, De Rosa suggeriva un
penetrante percorso “indiretto”, teso all’accumulazione di quanti più dati
possibili mediante i quali ricostruire la vicenda:

«Puta in homicidio investiget, quis occiso erat inimicus? a quo minis


affectus sit? quis jactavit se de crimine? Quis locum patrati criminis
frequentavit? quis post crimen a Civitate aufugit, vel ad Ecclesiam
confugit, sive ante crimen arma preparavit, bona occultavit, contra
quem est populi opinio? quis ex illius mortem commodum adeptus
sit?»486

Raccomandare la ricerca di tutti gli indicia possibili sul luogo, sul tempo,
sull’elemento psicologico, sulla persona, in modo tale da ricomporli entro un
quadro logico attendibile, equivaleva ad una piena consapevolezza di poter

482
C. A. De Rosa, Criminalis Decretorum Praxis cit., n. 34.
483
Summa, 2.2, q. 70.
484
C. A. De Rosa, Criminalis Decretorum Praxis cit., n. 32.
485
Ibidem, n. 37.
486
Ibidem, n. 38.
120
giungere alla verità processuale, di poterla letteralmente costruire, attraverso
strumenti non più necessariamente predeterminati, ma avvalendosi piuttosto di
elementi attinenti al singolo caso concreto, e capaci di essere raggruppati,
razionalmente e verosimilmente, dal giudice chiamato a valutare il singolo fatto.
Quest’impostazione, così attenta a cogliere ciascun dato dello specifico caso in
esame, mostrava già una chiara vocazione metodologica di tipo induttivo;
rivelava poi un nuovo volto della probabilitas: non più prevalenza “quantitativa”,
ma piuttosto “selezione qualitativa”.
Soprattutto, introduceva nella dialettica processuale una variabile assolutamente
nuova, la certezza morale, alla quale si chiedeva una formazione rigorosa senza
però nessuna pretesa “metafisica”.
Quella stessa variabile, ancora così necessariamente indefinita, sarebbe stata
l’oggetto privilegiato dei dibattiti e delle riforme di quel secolo ormai alle porte,
ma è in questa fase ancora così nebulosa, ancora così dentro l’antico regime, che
essa può acquisire un valore ed un significato straordinari, poiché è qui che
troviamo il momento genetico delle future istanze soggettivistiche del giudizio,
di quello che sarà poi l’intime conviction o libero convincimento: in questa
primissima rivendicazione dell’intelletto contro il compromesso dell’arbitrio; in
questa invocazione all’uso della ragione contro un formalismo disumanizzante.

121
«La scienza umana sarà sempre limitata per la limitatezza del
nostro intelletto, al quale Dio permette solo la conoscenza
delle cause materiali ed efficienti, e di alcune parziali leggi di
qualche data natura. La gloria di Dio, dice Salomone, è di
nascondere il suo segreto».
F. Bacon, Nuovo Organo delle scienze di Francesco Bacone di Verulamio, trad. it. a cura di A.
Pellizzari, Venezia, 1788, pag. 167.

122
Capitolo III

Il mutamento di paradigma probatorio attraverso i nuovi


orientamenti del pensiero filosofico moderno.
III.1 Verità processuale e giudizio secondo coscienza nella tarda scolastica iberica; III.2
Certezza e probabilità, ragione e dubbio: diritto delle prove e Rivoluzione scientifica; III.3 Il
ceto togato napoletano e la nuova epistemologia della verità. L’Accademia degli Investiganti: la
disputa degli antichi e dei moderni.

III.1 Verità processuale e giudizio secondo coscienza nella


tarda scolastica iberica.

Come abbiamo visto nel precedente capitolo, una delle primissime testimonianze
dottrinali che evidenziano l’evoluzione del dibattito intorno alla prova, quella di
Francisco Sarmiento de Mendoza, proveniva da un orizzonte culturale molto
vicino alla tarda scolastica, e tuttavia si distingueva assai nettamente dalla gran
parte dei contributi teorici salmantini per un diverso approccio alla materia della
verità giudiziaria: mentre a Sarmiento appariva prioritario restituire alle fonti più
antiche il loro esatto significato ed una più corretta connotazione nel diritto
probatorio, con il risultato finale di un ampliamento dell’armamentario
conoscitivo del giudice, la maggior parte dei giuristi di Salamanca si occupò con
ben più fervore delle prescrizioni tomistiche in materia di coscienza. Le due
questioni, a ben guardare, avevano implicazioni pressoché analoghe, perché
entrambe supponevano una distanza tra quanto formalmente allegato e quanto dal
giudice ritenuto; quel che mutava era l’impostazione del problema.
Come vedremo, il dilemma della conscientia iudicantis, e della sua possibile
confliggenza con le prove prodotte, un tema che Sarmiento non affrontò mai
esplicitamente nella sua prolusione in materia di presunzioni, rappresentò una
delle più dibattute e complesse tematiche che attanagliarono la giurisprudenza
canonista tra Cinque e Seicento.
In realtà la questione era stata affrontata, sin dai primordi della tradizione di jus
commune, anche dai civilisti487: i primi glossatori l’avevano risolta in favore del
giudizio secondo coscienza, salvo poi mutare orientamento a partire da Azzone;
sul fronte canonista, i decretisti del Duecento avevano anch’essi abbracciato
l’opzione secundum conscientiam: Riccardo Anglico, ammettendo che

487
Sul punto, è fondamentale il contributo di K.W.Nörr, Zur Stellung des Richters in gelehrten
Prozess der Frühzeit, cit.
123
l’assoluzione potesse andare anche contro la coscienza del giudice, aveva tuttavia
precisato che, al contrario, la condanna richiedesse una perfetta aderenza tra la
pronuncia del magistrato e la sua coscienza: «contra conscientiam nemo est
condemnandus»488.
Anche qui, tuttavia, l’orientamento maggioritario si era poi ribaltato, dapprima
attraverso l’insegnamento del Cardinal Ostiense Enrico da Susa, e poi con
Tommaso d’Aquino, il quale, com’è noto, aveva inaugurato la tradizione più
rigorista degli allegata et probata489.
La riscoperta della dottrina tomistica ad opera dei teologi spagnoli del XVI
secolo, aveva fatto sì che insigni studiosi si confrontassero nuovamente con
problematiche e temi assai complessi, tra cui, i modi e i limiti del giudizio
penale.
Com’è noto, la tradizione manualistica della Scuola di Salamanca490 è stata
ampiamente attraversata dalla storiografia italiana più autorevole, che ha
mostrato l’incomparabile contributo fornito dai suoi teologi anche al di fuori dei
confini del diritto canonico, nel campo del diritto privato, del diritto naturale e
del diritto internazionale491.
488
Ibidem, pag. 55.
489
Supra, I.1.
490
«¿Qué es la Escuela de Salamanca?». Con questo interrogativo, Juan Belda Plans, teologo
dell’Università di Navarra e autore di una recente storia dell’Accademia, si propone di fornire
una ricostruzione critica della riforma teologica del XVI secolo attraverso le voci dei suoi più
illustri esponenti: Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, Melchor Cano. La risposta al quesito
iniziale muove nel senso di definirla primariamente una scuola teologica, non, dunque, una
scuola di diritto, di filosofia o di economia. Il termine “Scuola” sta a significare «un
movimiento o grupo formado por intelectuales que son ante todo teólogos de profesión
(profesores universitarios de la Facultad de Teología), los cuales dedican su actividad científica
esencialmente al estudio y la docencia de La Teología». Nonostante la forte sottolineatura della
formazione originaria e primaria di questi doctores, l’autore non manca tuttavia di riconoscere
che «Es cierto que tienen una noción amplia y abarcante de lo que sea la Teología y su objecto,
lo cual les lleva a veces a estudiar muchos temas socioplíticos, jurídicos, económicos, que
parecen proprios de la ciudad temporal; sin embargo ellos los estudian desde la formalidad
teólogica, aplicando la luz de los principios revelados a las realidades humanas y terrenas». Si
ribadisce, tuttavia: «en todo caso la Teología es como la base de partida o el núcleo impulsor de
los estudios en otros campos. Así pues, originariamente hay que afirmar que es una Escuela
Teologíca, y sólo derivadamente (o secundariamente) se la puede calificar de jurídica, filosófica
o económica, al estudiarla en enas perspectivas derivadas». Sul punto: J. Belda Plans, La
Escuela de Salamanca, cit., pag. 156. Diversamente, Paolo Prodi ha invece parlato
espressamente di «una letteratura mista teologico-giuridica», con esplicito riferimento a tutta la
dottrina, specie tardo-scolastica, connessa all’esercizio della confessione, contrapponendosi così
a quanti hanno invece messo in discussione il “giuridicismo” della letteratura sulla coscienza.
Sul punto: P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra
coscienza e diritto, cit.
491
Fondamentale, da questo punto di vista, la raccolta di scritti curata da Paolo Grossi, intitolata
La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno, cit., e, dello stesso anno, lo
studio di F. Todescan, Lex, natura, beatitudo. Il problema della legge nella scolastica spagnola
del secolo XVI, cit. Di più recente pubblicazione si ricordano inoltre: L. Nuzzo, Dal
124
Per quel che concerne la materia probatoria, raramente la letteratura ha
sottolineato l’importanza che la nuova impostazione teorica dei doctores
salmantini492 abbia rivestito nel campo specifico della verità e della sua
dimensione processuale493.
E’ stata piuttosto la storiografia di origine anglosassone ad enfatizzare questo
dato, proponendo per giunta un’inedita quanto suggestiva connessione tra i
teologi del secolo XVII ed il razionalismo scientifico secentesco494.

colonialismo al postcolonialismo: tempi e avventure del soggetto indigeno, in «Quaderni


Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 33-34 (2004-2005), pp. 468-476; I.
Birocchi, La formazione dei diritti patri nell’Europa moderna, tra politica dei sovrani e
pensiero giuspolitico, prassi e insegnamento, in Il diritto patrio tra diritto comune e
codificazione (secoli XVI-XIX), a cura di I. Birocchi e A. Mattone, Roma, 2006. Fondamentali
anche i contributi di F. Migliorino, Rileggendo F. Suarez, in Amicitiae Pignus. Studi in ricordo
di Adriano Cavanna, Milano 2005 e di M. Meccarelli, La nuova dimensione geopolitica e gli
strumenti giuridici della tradizione: approcci al tema del ius belli e del ius communicationis
nella seconda scolastica, in “Ius gentium ius communicationis ius belli”. Alberico Gentili e gli
orizzonti della modernità, a cura di L. Lacchè, Milano, 2009, scritti alla cui copiosissima
bibliografia qui si rimanda.
492
La nuova impostazione teorica cui si allude, è anzitutto identificata con quel progressivo
superamento della scolastica tradizionale, che è il principale elemento di comunione fra tutti i
teologi-giuristi convenzionalmente raggruppati sotto il nome di seconda scolastica. A proposito
della «cuestión de los membros de la Escuela de Salamanca», J. Belda Plans ha chiarito che il
primo e principale fattore di “appartenenza” risiede nella «vinculación con el espíritu de Vitoria
(…) y la innovación vitoriana, introducida en Salamanca, de explicár la Suma de Santo Tomás
como guía de los estudios universitarios (…)», La Escuela, cit., pag. 163. La lettura e la
rielaborazione del pensiero di San Tommaso, che è la risposta ad una «situación socioreligiosa
enrarecida y tensa», si traduce nell’abbandono della morale “teorico-pratica”, in favore di una
morale “casuistica”. Sulle contrapposizioni interne tra le diverse correnti della casuistica -
probabilismo e probabiliorismo, lassismo e rigorismo - di cui è qui impossibile approfondire gli
aspetti, si veda: L. Kolakowsky, Chrétiens sans Église. La conscience religiueuse et le lien
confessionnel au XVII siècle, Paris, 1969; R. Taveneaux, Jansénisme et Réforme catholique,
Nancy, 1992; P. Valdier, Elogio della coscienza, Torino, 1995; M. Turrini, Ordine politico e
coscienze nel Seicento in area cattolica, in «Annali dell'Istituto storico italo-germanico in
Trento», XXVII, 2001, pp. 391-415. Sul fondamentale ruolo di Blaise Pascal nella frattura
probabiliorista: P. Cariou, Pascal et la casuistique, Paris, 1993.
493
Assai prezioso, a tal proposito, è il saggio di G. Otte, Der Probabilismus: eine Theorie auf
der Grenze zwischen Theologie und Jurisprudenz, in La Seconda Scolastica nella formazione
del diritto privato moderno cit., pp. 283-302.
494
Quanto alle già accennate connessioni con il razionalismo di matrice giusnaturalistica, che
secondo un’importante tradizione storiografica (Wundt, Welzel, Villey) si concretano in veri e
propri diritti di primogenitura vantati dai tardo-scolastici, si rimanda anzitutto a F. Todescan, Le
radici teologiche del giusnaturalismo laico, Torino, 1983, e allo scritto di Giuliana Parrotto dal
titolo Iustus Ordo. Secolarizzazione della ragione e sacralizzazione del principe nella Seconda
Scolastica,cit. Fondamentali anche i contribuiti di C. Alvarez Alonso, Lecciones de historia del
constituctonalismo, Madrid, 1999, il quale ha fortemente enfatizzato il “paradigma
antropocentrico” entro il quale la seconda scolastica tende ad inscrivere il proprio orizzonte
teorico. Sulle continuità e le discontinuità del giusnaturalismo laico rispetto ai contributi dei
dottori di Salamanca, si veda I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura nella cultura
giuridica moderna, Torino, 2002, pp. 159 e ss.
125
Barbara Shapiro, in particolare, ha messo in evidenza un carattere fondante
dell’epistemologia di quest’epoca: ha sostenuto, infatti, che una parte rilevante
della teologia sviluppatasi a cavallo tra XVI e XVII secolo, abbia contribuito
significativamente alla costruzione di un nuovo concetto di probabilità, attraverso
l’elaborazione di un livello intermedio di conoscenza riservato agli “affari
umani”, inferiore alla certezza assoluta di tipo metafisico, ma nettamente
superiore alla mera opinione.
In altre parole, sarebbero stati proprio i più avveduti teologi cinque-secenteschi,
preoccupati di far sopravvivere al relativismo imperante le intoccabili verità di
fede, assolute ed indimostrabili, a relegare queste ultime in una dimensione altra,
che sfuggisse ad ogni terrena comprensione, e ad effettuare poi una distinzione
apposita per le cose umane: conoscenza (o scienza) da un lato, probabilità
dall’altro:

«The revival of skepticism was philosophically more serious because


it might entail a repudation not only of scholasticism but also of
religious doctrine (…). Although terminology varied, theologians and
naturalists distinguished between “knowledge” or science on the one
hand, and probability on the other»495.

E’ chiaro che anche la prova penale, quale ricostruzione storica di un accaduto


giuridicamente rilevante, dovesse rientrare necessariamente in questo secondo
ambito di verità, proprio di tutti quei fenomeni esclusi dalla esatta calcolabilità.
Nella nuova versione della probabilitas496, incomparabilmente distante da quella
di stampo aristotelico perché estranea alla mera opinio, il grado di affidabilità

495
B. Shapiro, “Beyond the reasonable doubt” and “Probable Cause”. Historical Perspectives
on the Anglo-American law of evidence, University of California, 1991, pag. 7.
496
La probabilitas dei primi scolastici, in quanto fallibile, precaria, contingente, veniva
considerata all’interno di un rapporto necessariamente dualistico (e antagonista) con la veritas.
In questo rapporto rientrava pienamente il discorso giuridico, che necessitava di un
“radicamento ontico” che ne salvaguardasse i caratteri di autorità e sacralità. A questo
proposito, Ajello spiega lo slittamento verificatosi in seno al cosiddetto “nuovo probabilismo”:
«Nell’ideologia della prima scolastica, il rapporto tra verità e probabilità configurava due piani
sui quali si realizzava l’acrobazia dei custodi del verum. La duplicità dei livelli consentiva di
spostare su quello della probabilità (e per i giuristi della prudentia) tutto ciò la cui supposta
universalità ed eternità non resisteva alla critica. A partire dalla rivoluzione intellettuale
secentesca, quel livello – la verità oggettiva o assoluta – non esiste più e non c’è più alcuna rete
in cui le acrobazie logicistiche con pretese essenzialistiche - nomina sunt res - possano salvarsi.
(…) Il dualismo viene negato dal pensiero moderno, che impone una nuova coerenza tra teoresi
e prassi, volendo che l’una tenga conto dell’altra e la comprenda in sé come due aspetti di
un’unica realtà vivente in questo mondo, e non in un altro». Ajello R., Origini e condizioni
dell’attualità giuridica: ideologie dei magistrati e poteri dei legali nella dialettica
dell’esperienza storica, cit., pp.71 e 157.
126
dipendeva dalla quantità e, ancor di più, dalla qualità delle evidenze
riscontrate497.
In siffatto paradigma gnoseologico, spiega la studiosa, venivano rifiutati i
risultati puramente emotivi o intuitivi; si chiamava in causa piuttosto la
coscienza, con l’ovvio coinvolgimento dell’intelletto e l’altrettanto banale
esclusione della volontà: il giudizio di coscienza diventava dunque totalmente
razionale, e aveva a che fare principalmente con il dato della comprensione,
senza l’inferenza delle passioni soggettive498.
Questo, evidentemente, consentiva di non entrare in collisione con
l’insegnamento di San Tommaso499, e di elaborare un criterio conoscitivo che
potesse essere coerente con la tradizione tomista, pur rappresentandone una
chiara evoluzione500. La posizione della Shapiro501, è bene precisarlo, non si

497
«For the new scientists and philosophers, natural phenomena and processes were to be
verified by experiment, observation, and the testimony of the observers. Depending on the
quality and quantity of the evidence produced by these methods, one might reach findings of
fact and sometimes even conclusions that no reasonable person could doubt», B.
Shapiro,“Beyond the reasonable doubt”, cit., pag. 169. Lo studio, come già anticipato, analizza
l’evoluzione del processo anglo-americano e le sue importanti connessioni con la tradizione
romano-canonica, oltre che le innumerevoli influenze da esso esercitate nel passaggio
continentale dall’ontologismo scolastico, caratterizzato dalla concezione deduttiva delle
evidenze, alla prova per argumentum.
498
E’ importante sottolineare che l’autrice, proprio in merito all’evoluzione di queste
costruzioni teoriche, parla esplicitamente di prestiti che la tradizione continentale accordò al
sistema inglese nell’ambito dello sviluppo di nozioni quali circumstancial evidence e
presumptions of fact, dirette emanazioni delle dottrine indiziarie di ius commune e concetti-
chiave nella storia della law of evidence inglese.
499
La controversa regola di S. Tommaso (Summa 2.2, q. 64, art. 6, di cui supra, I.1) e le sue
estremizzazioni da parte degli interpreti posteriori («quod non est in actis non dicatur esse in
mundo»), esprimeva, com’è noto, la volontà della Chiesa di ridurre il più possibile i margini di
soggettività nell’attività valutativa; una soggettività percepita come un elemento fortemente
inquinante per il giudizio, e ulteriormente sperequativo tra le parti processuali all’interno di uno
schema, quello dell’inquisitio, già fortemente contrassegnato da un carattere di accentuata
offensività. Sul punto: G. Salvioli, Note per la storia del procedimento criminale, Napoli, 1918,
pag. 19 e ss.
500
Lo sforzo di conciliazione tra modernità e tradizione, di cui la seconda scolastica si rende
protagonista tra XVI e XVII secolo, è stato ben descritto da Giuliana Parotto in Iustus Ordo,
cit., ove si mette in evidenza la sussunzione, negli schemi teologici e morali tramandati dalla
dottrina tomista, della realtà imposta dai fatti e dagli eventi della storia, vale a dire l’affermarsi
della Riforma, gli sviluppi dell’umanesimo e delle concezioni fondate sulla doppia verità, il
consolidarsi dell’idea di sovranità dei singoli stati e delle singole comunità, lo sfaldarsi della
compagine giuridico-ecclesiastica e delle istituzioni universalistiche tipicamente medievali,
l’allargarsi degli orizzonti a nuovi popoli e a nuove terre: «Salvare i principi dell’universalità
tradizionale e nel contempo trovare il modo di adattarli alle circostanze: ecco l’impegno non da
poco, ove si gioca tutto per contemperare universalità e particolarità, unità e differenze,
tradizione e ragione», Ibidem, pag. 16.
501
Che è possibile ricostruire in maniera più completa con l’ausilio di un’opera anteriore della
medesima autrice, intitolata Probability and Certainty in Seventeenth Century. A study of the
relationship between natural science, religion, history, law and literature, cit.. Di tutt’altro
127
riferisce unicamente all’area continentale, ma guarda anche alla cosiddetta
“teologia razionale” di matrice inglese502. Si tratta di un elemento affatto
trascurabile, perché nella probabilitas di stampo casuistico, che nel primo
Seicento ancora permeava massicciamente la cultura al di qua della Manica503, il
dato della razionalità e della ragionevolezza non era ancora pregnante quanto
l’argumentum ab auctoritate e il consueto suffragio delle opiniones.
Non è certo il caso di affrontare in questa sede il complicatissimo percorso che
dal probabilismo gesuita conduce al probabiliorismo di matrice giansenista504,
essendo peraltro impossibile approfondire qui le singole posizioni e cercare di
individuare, oltre ai punti di forte contrasto, anche i molteplici elementi di
continuità505. Tuttavia, uno degli aspetti più interessanti di questa controversia
filosofica, che è anche quello che più ci riguarda da vicino, è la circostanza che:
«(…) ci troviamo di fronte, tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del
Seicento, a un pullulare di modelli (in cui le radici culturali sono molteplici, da
quelle aristotelico-tomistiche a quelle neo-stoiche, sino a quelle che affondano
nel linguaggio mistico), tutti indirizzati a definire in qualche modo “un’anatomia
dell’anima” come esigenza del nuovo individuo, la definizione di un territorio
interiore di fronte all’avanzata della legge positiva»506.
Il felicissimo passaggio citato, c’introduce alla necessaria riflessione su un tema
suscettibile di avere ricadute straordinariamente significative nel dibattito sulla

avviso è la posizione espressa da G. Galasso, che individua nell’età moderna: «il progressivo
estraniarsi, destinato a farsi via via più forte e a durare assai a lungo, della Chiesa rispetto agli
sviluppi razionalistici e scientifici del mondo moderno (…)», G. Galasso, Scienza, filosofia e
tradizione galileiana in Europa e nel Mezzogiorno d’Italia, in Galileo e Napoli, a cura di F.
Lomonaco e M. Torrini, Napoli, 1987, pag. X.
502
La cosiddetta “teologia razionale” fa capo ai platonici di Cambridge, un gruppo di filosofi
appartenenti alla seconda metà del XVII secolo, che tentò di ricostruire le verità di fede alla luce
dei contenuti della rivoluzione intellettuale secentesca, tentando di giustificarne la validità
contro le minacce dei nuovi insegnamenti. I cosiddetti razionalizzatori «adottarono i principi
secenteschi del reale per la riaffermazione delle convinzioni religiose». Sul punto: B. Willey, La
cultura inglese del Seicento e Settecento, Bologna 1975, pag. 132 e ss.
503
Non è questa la sede per affrontare un’esauriente trattazione relativa al concetto di
probabilità e alla sua evoluzione in età moderna; da questo punto di vista, risultano
fondamentali i pur risalenti studi di T. Viehweg, Topica e Giurisprudenza, cit., e di C.
Perelman, Logica giuridica. Nuova retorica, cit. Essi hanno dimostrato come la nascita del
“pensiero critico” sia segnata dal passaggio dal probabilismo statico, di matrice aristotelica, ad
un probabilismo dinamico, di carattere eminentemente problematico. Sul punto: Infra, III.2.
504
Sul punto: supra nota 489.
505
A questo proposito, Paolo Prodi ha sostenuto che tra l’una e l’altra corrente esistano le
soluzioni e i compromessi più variegati. E tuttavia entrambe testimoniano l’esistenza di un
unico problema: «è possibile costruire un ordine giuridico-morale che possa costituire l’ossatura
di una società cristiana dopo la disgregazione dell’ordine medievale?». Sul punto: P. Prodi, Una
storia della giustizia cit., pag. 372.
506
Ibidem, pag. 329.
128
prova; un tema che, come vedremo, domina tutto il XVII secolo, definito non a
caso “il secolo della coscienza”507.
Come anticipato, la questione era assai più risalente: dopo i dibattiti medievali, il
primo a sollevarla agli albori dell’età moderna fu, nel XV secolo, il cancelliere
dell’Università di Parigi, Jean Gerson508, con la teoria secondo la quale la legge
umana non potesse obbligare sotto pena di peccato mortale se non in quanto
connessa con la legge divina («pertinens ad legem divinam»)509. Ciò, in
definitiva, equivaleva a negare per la prima volta l’obbligatorietà “in coscienza”
della legge umana medesima.
Qualche decennio più tardi, esattamente nel 1441, Giovanni da Capistrano510,
componeva il suo Speculum conscientiae, inserito nel Tractatus Universi Juris,

507
E della sua crisi, volendo citare un risalente e discusso lavoro di P. Hazard, La crisi della
coscienza europea, Milano, 1968.
508
Jean de Charlier nacque a Gerson il 14 dicembre del 1363 e morì a Lione nel 1429. Studiò
nel Collegio di Navarra e si laureò in teologia nel 1393. Due anni dopo, Bendetto XIII lo volle
Cancelliere dell’Università parigina, facendolo succedere a Pierre d’Ailly. Ebbe parte attiva nei
Concili di Pisa e di Costanza: proprio in occasione di questo contribuì significativamente alla
condanna di Jan Hus e di Girolamo da Praga. Dopo due anni di esilio in Baviera, tornò a Lione e
si ritirò nel convento dei Celestini, dove scrisse ed insegnò sino agli ultimi giorni di vita. In L.
Salembier, "Jean de Charlier de Gerson" , in The Catholic Encyclopedia, Vol. 6, New
York, 1909. Dal punto di vista teorico, tentò di opporsi alla scolastica tradizionale attraverso
una “teologia mistica” che era uno studio sistematico delle esperienze contemplative, così in V.
Lazzeri, Teologia mistica e teologia scolastica: l’esperienza spirituale come problema teologico
in Giovanni Gerson, Roma-Milano, 1994. Tra le sue opere ricordiamo: Cinquante-Cinq
Sermons et Discours (composti tra 1389 e 1413), Seize Sermons prêchés devant la cour (1389-
1397); La Montagne de contemplation (1397); De restitutione obedientiae (1400); Trente
Sermons prêchés en paroisse (1401-1404); Contra vanam curiositatem in negotio fidei (1402);
Neuf Discours ou Sermons de doctrine (1404-1413); Vivax Rex, Veniat Pax (prima del 1413);
Consolatio theologiae (1414-1419); De auferibilitate papae ab Ecclesia (1417).
509
Sul punto: L. Vereecke, Droit et morale chez Jean Gerson, in De Guillaume d’Ockham à
saint Alphonse de Liguori, Roma, 1986, pp. 205-220.
510
Giovanni Giantedesco nacque il 24 giugno 1386 a Capestrano, una cittadina dell’Abruzzo
poco distante da L’Aquila. Tra il 1405 e il 1406 si recò all'università di Perugia, detta Casa di S.
Gregorio o Sapienza e vi scelse la facoltà giuridica. Finiti brillantemente gli studi, del
Giantedesco non si trovano più notizie negli archivi perugini per circa due anni. È probabile che
nel frattempo sia tornato a Capestrano per concludere il matrimonio (mai consumato) con la
figlia del conte di San Valentino, promesso fin dal 1403; oppure, come molti ritengono, che,
invitato dal re Ladislao, sia andato a far parte della giuria nella Grande Vicaria di Napoli. Il 14
aprile 1413 venne nominato nuovo podestà di Perugia Coluccio dei Grifi da Chieti. Nel luglio
1415, Braccio da Montone con ribelli e fuorusciti, nemici del governo popolare di Perugia che
parteggiava per Napoli, riuscì ad occupare la città. Vi furono stragi vendicative e retate di
prigionieri, rinchiusi nel castello di Torgiano. Tra essi figurava anche il Capestrano.
Convertitosi durante la prigionia, a seguito di una visione di S. Francesco, prese i voti nel 1417.
Il 14 novembre 1418, essendo già diacono, dovette ottenere da Martino V, in Mantova, la
dispensa per ascendere al sacerdozio, poiché da giudice aveva comminate talvolta delle pene
corporali che avevano portato al decesso. Nella stessa circostanza, il papa lo nominò inquisitore
dei Fraticelli, ribelli ed anarchici contro l'ordine morale e sociale. Combatté nella Crociata
contro i Turchi del 1453, e prese parte alla battaglia di Belgrado. Morì nel 1456 nel convento da
lui fondato ad Ilok (Villaco). Scrisse nove trattati di dogmatica, quattordici di morale, sei di
129
fornendo il modello teorico per tutti i trattati di filosofia morale dei secoli
successivi, e all’interno del quale la coscienza diveniva, nel suo senso più
moderno, il tribunale interno dell’uomo, naturale iudicatorium511.
Sebbene l’universo quattrocentesco fosse ancora e pienamente quello in cui
«iudex secundum allegata, non secundum conscientiam iudicat», questa
crescente attenzione verso il foro interno, eventualmente confliggente con quello
esterno, inaugurava un atteggiamento nuovo nei confronti della soggettività
dell’organo giudicante e della sua coscienza individuale; un’attenzione che
raggiunse presumibilmente la sua più compiuta espressione negli scritti tardo-
cinquecenteschi della seconda scolastica spagnola512. E’ qui che la personale
valutazione del giudice, la percezione soggettiva della verità o falsità delle
allegazioni, la credenza, la convinzione, la possibilità di contravvenire alla regola
probatoria, trovarono il primo spiraglio per una progressiva affermazione
all’interno del meccanismo di acquisizione dei fatti, e diventarono altresì il
sostrato culturale per i futuri dibattiti secenteschi sulla prova e sulla pena513.
Paolo Prodi ha parlato efficacemente di una “giuridicizzazione” della coscienza
(la Verrechtlichung della storiografia tedesca), per esprimere «la reazione delle
Chiese e degli individui di fronte alla concentrazione del potere dello Stato»514;
più in generale, a partire dal Cinquecento, si assiste alla progressiva formazione
di un nuovo dualismo che non riguarda più le tipologie di ordinamenti, quanto
piuttosto il rapporto tra legge positiva e norma morale, e il necessario
coinvolgimento di quest’ultima nell’alveo della prima.

diritto canonico, dieci di carattere francescano, compresa la Vita di S. Bernardino, molte lettere
ed innumerevoli sermoni. In A. Chiappini, Giovanni da Capestrano, in Bibliotheca Sanctorum,
VI, Roma 1965, pp. 645-652.
511
Sul punto: A. Poppi, «Veritas et Iustitia» nello «Speculum conscientiae» di Giovanni da
Capestrano, in S. Giovanni da Capestrano e il suo tempo, a cura di E. e L. Pasztor, L’Aquila,
1989, pp. 141-163; D. Quaglioni, Un giurista sul pulpito. Giovanni da Capestrano predicatore
e canonista, in S. Giovanni da Capestrano cit., pp. 125-139; L. Favino, Giovanni da Capestrano
e il diritto civile, in «Studi Medievali», 36, 1995, pp. 255-284.
512
«L’agostiniano Azpilcueta nel suo Enchiridion, apparso nel 1549 (…), si muove in questa
direzione introducendo argomentazioni teologiche nel quadro della pratica confessionale:
nessuna trasgressione delle leggi umane comporta peccato se non nella misura in cui implichi
una violazione delle leggi naturali e divine ( …); nessuna legge penale può obbligare di per se
stessa in coscienza», in P. Prodi, Una storia della giustizia cit., pag. 206, dove tuttavia si mette
in evidenza un parziale mutamento di prospettiva nei commenti posteriori del Navarro, ove,
seguendo il maestro Alfonso de Castro e in polemica con Gerson, egli giunge ad affermare che
anche la legge umana può obbligare:«quod non solum lex divina et naturalis, sed etiam pure
humana potest obligare subditum ad eius observantiam sub poena peccati mortalis: et sancte
quidam», Ibidem, pag. 206.
513
Marcello Marciano, il già citato giurista in polemica con i meccanismi straordinari di prova e
di pena, costruisce l’intera sua teoria richiamandosi a moltissimi doctores di Salamanca, citati
con sorprendente frequenza in tutti i passaggi-chiave del suo De Indiciis. Supra, II.3.
514
P. Prodi, Una storia della giustizia cit., pag. 327.
130
E’ stato detto, a questo proposito, che nella teologia del XVI secolo si tenta di
costruire un “diritto della coscienza” derivato dalla legge naturale-divina515.
Ebbene, fu probabilmente la frattura tra lex humana e conscientia, abbinata al
postulato della non vincolatività della lex iniusta, a costituire un lieve ma
fondamentale spiraglio attraverso cui l’elemento specifico della verità
processuale potè penetrare e manifestarsi in una nuova veste, non più
formalmente predeterminata e strettamente correlata al tipo e al numero di
allegazioni, ma finalmente “elaborata”, “costruita”, attraverso un processo di
formazione tutto interno, che non poteva più prescindere dalla logica e dalla
soggettività.
A dimostrazione di ciò, basterà analizzare una serie di autorevolissime
testimonianze, tutte di provenienza salmantina, all’interno delle quali la funzione
giudicante appare letteralmente dominata dal problema della coscienza.

«Conscientia (…) importat ordinem scientiae ad aliquid: nam


conscientia dicitur cum alio scientia»516

L’antica indagine compiuta da San Tommaso nella Summa sul significato esatto
dell’espressione, partiva da un’analisi etimologica: conscientia stava per cum
alio scientia, e indicava la conoscenza applicata al singolo caso517. Coscienza era
dunque un atto: l’atto di applicare la conoscenza518.
Identificare la conscientia nella categoria metafisica di actus comportava
anzitutto collocarla tra le facoltà e abilità della natura umana. Significava, in
secondo luogo, ammettere che quel principio intellettivo, in quanto applicazione
della personale scientia, potesse essere giusto o sbagliato, utile o dannoso,
vincolante o “non obbligante”. Di qui l’esigenza di una serie di classificazioni519,
e una sorta di “delimitazione” della sua concreta operatività; al giudice, per

515
Ibidem, pag. 373.
516
Summa Theologiae, I, q. 79, art. 13.
517
Nella traduzione del Nuovo Testamento dal greco al latino, San Girolamo aveva sostituito la
parola greca syneidesis (o syntheresis), esprimente un concetto identificabile con una
“consapevolezza derivante dalla conoscenza”, con il termine latino conscientia, che assommava
in sé i significati di “privata conoscenza”, “percezione sensoriale”, “esperienza”, “convinzione”.
Sul punto: M. G. Baylor, Action and Person. Conscience in Late Scholasticism and the Young
Luther, cit., pag. 24.
518
La coscienza in S. Tommaso non è né abito (una disposizione, o inclinazione), né potenza
(una facoltà), ma un’azione che realizza una potenzialità, e un’attività che esprime un habitus.
Sul punto: A. Ghisalberti, Figure della coscienza nel pensiero medievale: Abelardo, Tommaso
d’Aquino, Meister Eckhart, in Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, a cura di L. Gabbi e
U. Petruio, cit., pp. 29- 43.
519
Prima fra tutte, la distinzione tra coscienza retta e coscienza erronea, Summa Theologicae, I,
q. 78, art. 1.
131
esempio, ne veniva senz’altro interdetto l’uso, seguendo l’insegnamento
attribuito a S. Agostino, ma in realtà risalente a Sant’Ambrogio:

«Bonus iudex nihil ex arbitrio suo facit, sed secundum leges et iura
pronuntiat»520.
Francisco Suarez521, in una nota Disputatio intitolata De proxima regula bonitatis
et malitiae humanorum actuum quae est recta ratio, seu conscientia522, ci
consente di ricostruire una sorta di “genealogia nominalistica” del termine
conscientia in seno alla filosofia tardo-scolastica:

«Quid sit conscientia? Prima opinio est esse aliquid ad voluntatem


pertinens, scilicet aut bonam inclinationem voluntatis, aut
operationem voluntatis, huic inclinationi conformem, vel difformem.
(…) Secunda opinio, et communior theologorum, ponit illam in
intellectu, et in hoc est magna varietas, nam Scotus dicit esse habitum,
vel synderesis, vel scientiae, vel prudentiae; Divus Thomas vero dicit
esse actum (…)»523.

L’incertezza sulla vera “natura” della coscienza veniva ribadita in maniera assai
più esplicita: «Dicendum conscientiae nomen aequivocum esse, et interdum
habitum, et interdum actum intellectus significare: frequentius tamen, et magis
proprie actum significare»524.

520
Ibidem, II, q. 67, art. 2. L’inesattezza dell’attribuzione a Sant’Agostino (presente in tutti i
manoscritti), viene corretta nella versione della Summa tradotta dall’edizione leonina e
commentata a cura dei domenicani italiani, Roma, 1967. La formula citata, è stata peraltro
oggetto di numerose manipolazioni e falsificazioni, come dimostrano gli studi di J. Picó Junoy,
in particolare il saggio dal titolo Iudex iudicare debet secundum allegata et probata, non
secundum conscientiam: storia della erronea citazione di un brocardo nella dottrina tedesca e
italiana, cit., dove si registra una pesante alterazione della formulazione originaria, recepita in
gran parte della letteratura otto-novecentesca, in base alla quale il principio diventa: «iudex
iudicare debet secundum allegata et probata partium», con ciò stando ad indicare i limiti
dell’iniziativa probatoria del giudice.
521
Francisco Suárez, uno degli ultimi esponenti della tarda scolastica iberica, nacque a Granada
il 5 gennaio del 1548. All'età di sedici anni entrò nella Compagnia di Gesù a Salamanca, ove
studiò filosofia e teologia per cinque anni, dal 1565 al 1570. Divenne professore
di filosofia ad Ávila e Segovia. Ricevette l’ordine nel 1572 e insegnò teologia anche a
Valladolid (1576), a Roma (1580-85), Alcalá (1585-92), Salamanca (1592-97), ed
a Coimbra (1597-1616). Morì a Lisbona il 25 settembre 1617. In A. Pérez Goyena, "Francisco
Suárez", In The Catholic Encyclopedia, Vol. 14. New York, 1912.
522
In Opera Omnia, Editio Nova A.D. M. Andrè Canonico Repellensi…,Iuxta Editionem
Venetianam XXIII Tomos Continentem, Accurate Recognita, Parisiis, 1856.
523
Ibidem, Sectio I, n.1-2, pag. 437.
524
Ibidem, Sectio I, n.4, pag. 438.
132
La pertinenza all’intelletto, che era il carattere più “accreditato” della coscienza
nella tradizione tomistica525, comportava a sua volta una molteplicità di
determinazioni: la coscienza diveniva così il «naturale judicatorium animae»,
«legem intellectus nostri», «spiritum correctorem, pedagogum animae»526.
Agire contro coscienza, secondo Suarez, richiedeva senz’altro la piena
consapevolezza del se male agere; laddove dunque l’atto si fosse concretato
nell’andar contro una coscienza presente ed attuale527, esso sarebbe stato
intrinsecamente un male.
Riguardo al “conflitto di coscienza” del giudice nell’esperimento della sua
funzione, un problema particolarmente avvertito dalla teologia cinquecentesca
riguardava la dimensione inquisitoriale: l’ipotesi era quella di una convinzione, o
anche solo di un dubbio “rationabilis”, che fossero nettamente in contrasto con i
risultati delle prove dedotte in giudizio.
La questione della divergenza tra allegazioni probatorie e coscienza del giudice
ricorre con una notevole frequenza nelle dissertazioni dei tardo-scolastici
spagnoli, ove, a fronte del precetto che imponeva la ferrea osservanza degli
allegata et probata, i giuristi-teologi si ponevano invece l’annoso interrogativo di
una possibile confliggenza tra quanto legittimamente provato e quanto,
intimamente, ritenuto.
Domingo de Soto528, nel De Iustitia et Iure, formulò un quesito piuttosto chiaro
in tal senso: «Utrum iuidici liceat contra veritatem iudicare, quando legitime
probatur contrarium».529

525
E che l’ascriveva all’anima razionale, distinta da quella sensibile. Summa Theologiae, I, q.
78, a.1.
526
F. Suarez, Opera Omnia cit. Sectio I, n.3, pag.437.
527
La conscientia praesentium, era una particolare tipologia appartenente alla prima distinzione
tra la coscienza delle azioni passate, quella delle azioni attuali e quella delle azioni future. La
seconda divisio aveva oggetto la coscienza vera e quella falsa. La terza includeva la coscienza
certa, la dubbia, la probabile e la scrupolosa. La coscienza delle azioni attuali, in particolare:«(..)
dicitur esse de praesentanea actione, ut quando homo operatur actu judicando actionem suam, et
hoc modo dicitur propriissime homo agere contra conscientiam, vel obedire conscientiae, et sic
etiam prope conscientia mordet, vel reprehendit, et fere eadem ratione», Ibidem, Sectio II, n.1,
pag.439.
528
Domenicano spagnolo, nato a Segovia nel 1494 e morto nel 1570, fu professore di teologia a
Salamanca dal 1525. Tra le sue opere principali ricordiamo anche: In causa pauperum
deliberatio, 1547; In Epistolam Divi Pauli ad Romanos commentarii, 1550 ; Summa de la
doctrina christiana, 1554; In quartum Sententiarum commentarii, 1569 ; In Porphyrii Isagogen
ac Aristotelis Categorias absolutissima commentarii, 1573 ; In Dialecticam Aristotelis
commentaria, 1574 ; Super octo libros Physicorum Aristotelis commentaria, 1582, pubblicato
postumo. J. Belda Plans, lo definisce «confudador y divulgador de la Escuela de Salamanca»,
in La Escuela cit., pag. 123.
529
D. De Soto, De Iustitia et Iure Libri Decem, Salmanticae, 1559, lib. V, quaestio IV, art. III,
pag. 423.
133
Attraverso il consueto iter retorico, percorso dalla rassegna di argumenta,
documenta, conclusiones, opiniones, rationes, replicae, sino alla responsio
finale, egli giunse ad una soluzione piuttosto severa:

«Veritatem enim nullatenus abnegare licet: iudex autem dum morti


addicit innocentem, nihil afferit falsi: nam pro toto mundo non deberet
affirmare illum esse in culpa (…), quia testimonia illum morti
offerunt»530.

In sostanza, il giudice restava senz’altro obbligato ad attenersi alle allegazioni


probatorie; qualora in virtù di questo impersonale e rigorosissimo procedimento
di acquisizione venisse malauguratamente condannato un innocente, non sarebbe
stato certo il magistrato ad avere commesso il falso, bensì i testimoni, colpevoli
di avere reso l’accusato ingiustamente colpevole.
In questo responso veniva integralmente riprodotta la conclusione già formulata
dall’Aquinate, posta peraltro a fondamento della questione sulla liceità
dell’uccisione di un innocente:

«Iudex, si scit aliquem esse innocentem, qui falsis testibus


convincitur, debet diligentius examinare testes, ut inveniat occasionem
liberandi innoxium (…). Si autem hoc non potest, debet eum ad
superiorem remittere iudicandum. Si autem nec hoc potest, non peccat
secundum allegata sententiam ferens: quia non ipse occidit
innocentem, sed illi qui eum asserunt nocentem»531.

Stante dunque la non piena originalità del principio enunciato, quel che più ci
interessa è, evidentemente, lo sviluppo del ragionamento di De Soto.
Egli adduceva, anzitutto, gli argomenti pro parte negativa, vale a dire una serie
di principi che avrebbero consigliato di propendere per l’opzione contra allegata
et probata: “i testimoni non devono ostacolare il raggiungimento della verità”532;
“l’uomo deve imitare Dio nel suo giudizio”533;“se il fatto è manifesto non

530
Ibidem, pag. 428.
531
Summa Theologiae, II, q. 64, art. 6.
532
«Primo. Falsa testimonia non debet veritatem deserere», D. De Soto, De Iustitia et Iure cit.,
quaestio IV, art. III, pag. 423.
533
«Secundo arguitur. Homo debet iudicio suo divinum imitari: divinum autem semper fit
secundum veritatem», Ibidem, art. III, pag. 423.
134
occorrono testimoni”534; “quando il giudice condanna un innocente contro la
propria scienza e coscienza commette peccato”535.
Successivamente, però, De Soto si affrettava ad introdurre una serie di elementi
di approfondimento della quaestio, evidenziando la complessità (la vera e
propria ambiguità, come lui stesso la chiamava) del dibattito tra i dottori, sia di
diritto che di teologia536.
Da un lato il giudice agiva non ex privata, ma ex publica authoritate, ed era
dunque tenuto ad amministrare il proprio ufficio non suo privato iudicio, sed
communi et publico, dall’altro, aggiungeva l’autore, egli era però obbligato ad
utilizzare una duplex scientia, una doppia cognizione: quella del diritto
universale e quella del fatto particolare537. Di conseguenza, in base alla prima
conclusione:

«Scientiam universalem iuris tenetur iudex sic sancte sequi, ut neque


suum proprium arbitrium, si contrarium est, audire possit, neque ullas
in contrarium probationes admittere»538.

La ratio di tale precetto risiedeva nel fatto che il magistrato non fosse tenuto a
giudicare la legge, ma unicamente ad esserne il custode. Tuttavia, tenendo conto
delle particolari circostanze del singolo caso:

«(…) Potest nihilominus iudex suo se ingenio et prudentia iuvare:


scilicet in examinandis tam instrumentis quam testibus. Idque tunc
maxime debet quando sibi constat innocentem calumniarum falsitate
premi»539.

In questo seppur breve spiraglio, l’uso dell’aequitas costituiva presumibilmente


l’unica via percorribile per attenuare l’apparente rigidità del postulato iniziale.
La successiva rassegna di opiniones, mostrava tuttavia la già anticipata
complessità della questione.

534
«Tertio (…) autem res est manifesta, nullius opus est testimoniis», Ibidem, pag. 423.
535
«Quarto. Iudex condemnando innocentem facit contra scientiam; et conscientia nihil aliud est
quam scientia applicata ad opus: ergo facit contra conscientiam quod procul dubio semper
peccatum est», Ibidem, art. III, pag. 423.
536
«Quaestio hac inter Doctores tam Iuris quam Theologiae magna ambiguitate controvertitur»,
Ibidem, art. III, pag. 423.
537
«Iudex non ex privata sed publica authoritate fungi dum iudicat. Ex quo fit, non suo privato
iudicio, sed communi et publico debet informari. Huic autem subnectitur documentum alterum:
videlicet duplici ipsum scientia uti: ut puta universali iuris, et particulari facti (…) Habet enim
iudicij quaestio duo membra», Ibidem, art. III, pag. 423.
538
Ibidem, art. III, pag. 424.
539
Ibidem, art. III, pag. 424.
135
I primi quattro autori citati (Ugo di San Caro, il Calderino, il Panormitano e
Nicola de Lyra540),venivano identificati come portatori di un’opinione nettamente
contraria a quella di San Tommaso, secondo cui in nessuna causa, né civile, né
criminale, fosse lecito al giudice condannare taluno di cui conoscesse
chiaramente l’innocenza, anche se fosse stata legittimamente provata la sua
reità541. Un secondo, più sparuto gruppo di doctores (Giovanni di Imola e Giovan
Battista Trovamala con la sua Summa Rosella)542, proponeva invece una
distinzione secondo la quale il giudice non potesse mai condannare un innocente
nelle cause criminali, anche quando si attenesse strettamente alle allegazioni
probatorie, mentre gli era lecito nei giudizi civili, data la minore entità delle
fattispecie e le meno gravi conseguenze dell’errore543.
L’ultima opinione era quella classica della Summa tommasiana, secondo cui il
giudice, tanto nei giudizi criminali che in quelli civili, avesse il compito di

540
Hugh di St-Cher fu un cardinale dominicano del XIII secolo, nato in un’antica regione della
Francia denominata Dauphiné intorno al 1200, e morto ad Orvieto nel 1263. Studiò filosofia,
teologia e giurisprudenza a Parigi, e fu consigliere di Gregorio IX a Costantinopoli. In F.
Gigot, Hugh of St-Cher, in The Catholic Encyclopedia, Vol. VII, New York, 1910. Il
Calderinus di cui fa menzione De Soto è probabilmente Giovanni Calderino, vissuto tra il 1300
e il 1365, allievo di Giovanni d’Andrea e suo figlio adottivo, autore di un’opera monumentale:
Bibliae auctoritatum et sententiarum quae in decretorum et decretalium compilationibus solent
induci tabula, la cui prima copia a stampa risale al 1481. In Glossarium Mediae Et Infimae
Latinitatis, Volume VII, a cura di C. Du Fresne Du Cange, L. Henschel, P. Carpentier, Paris,
1850, pag. 399. Il Panormitano è Niccolò dè Tedeschi, canonista benedettino nato a Catania nel
1386 e morto a Palermo nel 1445, autore di numerose ed autorevoli raccolte di Consilia,
Quaestiones, Repetitiones, Disputationes, disceptationes et allegationes, e di Flores utriusque
juris. Sul punto: J. Von Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des kanonischen
Rechtes, Stuttgart, 1877, vol. II, pp. 312-313. Il francese Nicola da Lyra nacque nella regione
francese della Normandia intorno al 1270 e morì a Parigi nel 1340. Professore di teologia alla
Sorbonne, fu autorevolissimo interprete e commentatore dell’insegnamento di Sant’Agostino.
Così in T. Plassmann, “Nicholas of Lyra” in The Catholic Enciclopedia, vol. XI, New York,
1911.
541
«In nullo casu scilicet: neque in causa civili, neque in criminali, licet iudici condemnare eum
quem evidenter scit esse innocentem, quantumvis legitime probetur reus», D. De Soto, De
Iustitia et Iure cit., quaestio IV, art. III, pag. 424.
542
Professore di diritto presso le Università di Ferrara, Padova e Bologna, nacque ad Imola
intorno al 1367, e morì a Bologna nel 1436. Scrisse i Commentaria in tres libros Decretalium.
In: G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Tomo I, Bologna 1781, pag. 34. Il francescano
Giovan Battista Trovamala, morto nel 1496, originario di Salo in Liguria e conosciuto anche
con il nome di Baptista de Salis, scrisse uno dei manuali di morale più diffusi nel Quattrocento,
la Summa Rosella. Il suo nome deriva dal fatto che al suo interno erano contenuti, a modo di
corona, numerosi casi pratici. Così in S. Zvolensky, “Error qualitatis dans causam” e “Error
qualitatis directe et principaliter intentae”. Studio storico della distinzione, Roma, 1998, pag.
95.
543
«Secunda opinio utitur distinctione. Neque in causa criminalis, sive capitalis sive ullius
mutilationis, nequit iudex condemnare innocentem secundum alligata et probata. Secus autem in
civilibus: puta de pecunia agitur, aut de aliarum rerum possessione», D. De Soto, De Iustitia et
Iure cit., quaestio IV, art. III, pag. 425.
136
pronunciare la sentenza contro quella verità che pure gli fosse nota, in favore
degli allegata et probata544.
La ratio di quest’ultima posizione, che lo stesso De Soto pareva far propria,
risiedeva essenzialmente in tre ragioni che venivano brevemente esplicate. La
prima e la seconda erano speculari: il giudizio, spiegava l’autore, è un’attività
esercitata pubblicamente che in nessun caso ammette l’uso di una privata autorità
e, dunque, di una privata scienza545.
Tale postulato non veniva contraddetto nemmeno dalla vicenda di Ponzio Pilato:
costui, si chiedeva De Soto, fu dunque innocente perché condannò Cristo
secondo gli allegata et probata? Certo che no, perché nel caso di Cristo
l’innocenza era pubblicamente nota, pubblicamente evidente, così come aperta
era la falsitas testium. Si trattava, in altre parole, di circostanze che Pilato
avrebbe potuto facilmente smascherare546.
Il terzo ed ultimo fondamento del principio enunciato si ricollegava a tutt’altre
ragioni, che potremmo definire “di ordine pubblico”: i giudizi, spiegava De Soto,
perseguono la finalità di assicurare la sicurezza e la tranquillità della società. Se
le regole che presiedono questi giudizi non fossero più improntate al rispetto di
ciò che è legittimamente provato, si rischierebbe di compromettere seriamente la
pace pubblica547.
Le conclusioni cui perveniva il canonista, si risolvevano dunque in una convinta
adesione alla tradizione tomistica più risalente: sfiducia nella “privata scienza”,
coincidente con la mera opinio, abbinata all’argomento “istituzionale” della
pubblica autorità e della missione del giudice di mantenere l’ordine e la pace
pubblica attraverso il rispetto delle leggi.

544
«Tertia ergo opinio est secundum quam Iudex (…) debet in omni causa, et criminali et civili,
contra veritatem sibi notam secundum allegata et probata sententiam pronuntiare», Ibidem, pag.
425.
545
«Nemo ius habet quempiam condemnandi authoritate privata (…) debet uti publica, non
privata: sicut in scientia iuris non debet sequi sua opinione, sed auscultare debet leges: ita neque
in cognitione facti sequi potest privata suam scientiam: sed stare tenetur testium publica fidei,
quam leges probant. Secundo arguitur. Per suam scientiam iudex neminem condemnare potest:
ut supra dictum est, quantumlibet eum evidenter noverit esse reum: ergo neque potest
quempiam absolvere», Ibidem, pag. 425.
546
«Sed obvias: ergo innocens fuit Pilatus qui secundum allegata Christum iudicavit. Nulla fane
est consequentia: quoniam adeo erat Christi innocentia: non modo ei, verum et publicitus
cunctis evidens, adeoque subinde aperta testimoniorum falsitas, ut neque Pilatum ipsum
celatetur eorum iniquitas, sed posset eos facile falsitatis revincere», Ibidem, pag. 426.
547
Tertio arguitur ex fine publicae authoritatis. Publica iudicia ob tranquillitatem et quietum
statum rei publicae constituta sunt (…). Si autem non teneretur secundum alligata iudicare, pax
illico reipublicae turbaretur», Ibidem, pag. 426.
137
Martin de Azpilcueta, il Navarro548, che nella maggior parte delle sue opere
aveva fatto costanti riferimenti alla regola di San Tommaso549, nella raccolta di
Consilia e Responsa non aveva mancato di affrontare il problema della
coscienza, e del suo complesso rapporto con la giustizia.
Anzitutto, aveva chiarito, essa non è una facoltà, né una disposizione: «dicimus
conscientiam non esse potentiam, neque habitum; sed actum»550. Precisava poi
che essa fosse suscettibile di essere distinta in una serie di categorie:
testificantem, accusantem vel scusantem, dirigentem551. L’ultimo genus, la
coscienza “dirigente”, era a sua volta catalogata in più species: certam, dubiam e
scrupulosam. Ebbene, secondo il Navarro, le prime due - la certa e la dubbia -
«obligant». Più precisamente:

«(…) Si retinet praefatam domum contra conscientiam suam


dirigentem certam, et dictamen in specie contra iustitiam retinere se
illam domum, peccare mortaliter, immo, etiamsi retineret contra
conscientiam dirigentem dubiam, quae dictaret ei probabiliter dubitare
debere, an retineat contra iustitiam: non autem si retineret eam contra
conscientiam scrupulosam (…)»552.

In sostanza, egli riteneva che peccasse solo chi agisse contro una coscienza certa,
o anche solo legittimamente dubbiosa.
Chi, invece, andasse contro un mero scrupolo, identificato con una semplice
debolezza dell’animo, non avrebbe commesso alcun peccato, ma anzi,
presumibilmente, avrebbe avuto il merito di non cedere ad un’umana esitazione:
«Qui faciens contra scrupulum conscientiae non peccat, ut supra dictum est,
immo frequenter multum proficit»553.

548
Il soprannome deriva dal luogo che gli diede i natali nel 1491, il Regno di Navarra. A
Salamanca occupò per quattordici anni la cattedra di diritto canonico; nei 7 anni successivi
insegnò in Portogallo, a Coimbra. Le sue opere, specie l’Enchiridion, furono a lungo dei testi
fondamentali nelle scuole e nelle pratiche ecclesiastiche. L’edizione completa dei suoi lavori fu
pubblicata prima a Roma nel 1590, e poi a Lione nello stesso anno; indi a Venezia (1602) e
Colonia (1615). Sul punto: T. Shahan, “Martin de Azpilcueta”, in The Catholic Encyclopedia,
vol. 1, New York, 1907.
549
Ad esempio nella rassegna di Consiliorum seu Responsorum cit., al titolo De officio iudicis,
il primissimo consilium sancisce, al paragrafo II, il principio cardine della prova legale: «Iudex
debet iudicare secundum allegata et probata, et non secundum suam propriam suspitionem, nec
secundum suam privatam scientiam»; la stessa regola viene affermata nel consilium VI, De
temporibus ordinatio, par. XI, dove si fa espresso comando di attenersi alle allegazioni
probatorie e dove però, forse significativamente, ancora una volta il divieto non concerne la
sfera della coscienza, ma quella del mero sospetto.
550
M. De Azpilcueta, Consiliorum sive Responsorum, cit., lib. III, consilium V, n. 2, pag. 463.
551
Ibidem, n. 3.
552
Ibidem, n. 4.
553
Ibidem, n. 11.
138
Il tema, riferito specificamente all’attività dell’organo giudicante, veniva ripreso
anche in una dissertazione contenuta nel Compendium554, precisamente al
capitolo XXVII, intitolato De opinione eligenda et duobus remedijs pro
scrupulos.
Il brano seguiva una prolusione relativa a una serie di concetti ritenuti dall’autore
fondamentali in qualunque tipo di giudizio: la conoscenza, l’opinione, il dubbio,
lo scrupolo e, appunto, la coscienza.
Qui egli tentava di fornire una serie di suggerimenti volti a contrastare gli
scrupulos generati dal dubbio e i mali che ne derivassero:

«Remedia contra scrupulos sunt per pulchra et multa, ut Deus,


pharmacum, aversio cogitatus a re scrupolosa, se submittere alieno
iudicio, contravenire scrupulis, credere quod non peccet, si adimplet
legem secundum mentem auctoris, quamvis non secundum verba: si in
sensu benignore, vel si non servat quia valde difficilis, vel ne pro
stulto habeatur, vel in dubiis servet communem visum bonorum, vel
recte intelligendo illud: in dubio tutior pars est eligenda, id est, in vere
dubio, non quando altera pars est sufficienter firmata, vel pro vera
eligitur item illud esse bonae mentis agnoscere culpam, ubi non est,
intelligitur in genere, non specialiter: et tamdem quod scrupulus sit
defectus scientiae judicij recti»555.

Nella parte espressamente dedicata al giudice che dovesse emettere una sentenza
e che si trovasse in uno stato di dubbio, il principio affermato muoveva nel senso
della assoluta necessità di eliminare, prima di pronunciarsi, qualunque incertezza.
Questo perché, qualora egli giudicasse pur dubitando dentro di sé della
colpevolezza o dell’innocenza del reo, avrebbe agito contro coscienza e
commesso peccato556. Per evitare ciò, egli avrebbe dovuto, dunque, eleggere
l’opinione che apparisse più idonea secondo la propria scienza e coscienza557.
E’ interessante notare come, nonostante le significative aperture “soggettive”, il
Navarro non fosse comunque giunto a postulare un nuovo canone di giudizio, ma
anzi, come già detto, non mancasse di ribadire l’assoluta necessità di
conformarsi, in linea tendenziale, all’insegnamento tomistico:

554
M. De Azpilcueta, Compendium Manualis Navarri ad commodiorem usum, tum
confessariorum, tum poenitentium, compilatum, Lugduni, 1593.
555
Ibidem, pag. 464, n. 281.
556
«In conscientia Iudex, consultor aut agens, quando debet iudicare in re dubia, antequam id
faciat, ex animo debet expellere dubietatem, et certo opinari opinionem electam esse veram et
idem, etiam debet iuidcare in eo casu: quia si dubiosus iudicat, peccat contra conscientiam»,
Ibidem, pag. 466, n. 288.
557
«In foro conscientiae sufficit iudicare secundum opinionem quem putamus esse idonea
scientia et conscientia», Ibidem, pag. 466, n. 288.
139
«Iudex debet iudicare secundum allegata et probata, et non secundum
suam propriam suspitionem, nec secundum suam privatam scientiam
(…). Bonus iudex nihil ex arbitrio suo facit, et proposito domestica
voluntatis: sed iuxta leges et iura pronuntiat, statutis iuris obtemperat,
non indulget propria voluntati»558.

Il celebre allievo del Navarro, Diego Covarruvias y Leyva, ebbe modo di


occuparsi della medesima questione in una famosa prolusione contenuta nella
raccolta di Variarum ex iure pontificio regio et caesareo resolutionum559. Nel
famoso brano, citato dalla più autorevole criminalistica cinque-secentesca560, si
assiste ad un iniziale rovesciamento dell’impostazione tomistica originaria: se
nella Summa il compito del giudice era stato fissato nel iudicare iuxta allegata et
probata, senza alcuna possibilità di assecondare la propria coscienza, nella prima
parte della risoluzione del vescovo spagnolo, la questione veniva posta in termini
completamente diversi, in base ai quali agire contra conscientiam equivalesse
all’agire contra veritatem, e dunque si concretasse nella commissione di un
peccato.
Il principio, di per sé affatto nuovo, veniva affermato senza nemmeno ricorrere
alle prudenti distinzioni incontrate nelle prolusioni del Navarro: ad una lettura
iniziale parrebbe quasi che Covarruvias ipotizzasse un canone di convincimento
affatto ancorato al sistema di prova legale, ma anzi capace di ridiscuterlo
profondamente, nelle sue stesse basi di funzionamento.
La premessa introduttiva della dissertazione, infatti, attestava l’esistenza di
giudici i quali, assai ragionevolmente, ritenevano di dover proferire la propria
sentenza seguendo coscienza e verità, anche contro le allegazioni attoree:

558
M. De Azpilcueta, Consiliorum seu Responsorum cit., tit. De officio iudicis, consilium I par.
2, pag. 203.
559
Si tratta di una risoluzione di diritto canonico intitolata Qualiter iudex ex actis ius dicere
debeat adversus ea, quae privatim cognoverit, contenuta nell’Opera Omnia ed. cit.
560
E’ opportuno sottolineare che l’assoluta complessità del testo, dotato di una pars construens
e di una pars destruens straordinariamente equilibrate, e di una conclusione tutt’altro che
immediata, ha fatto sì che Covarruvias venisse citato in maniera anche contraddittoria rispetto al
tema del giudizio secondo coscienza. Ad esempio, Marcello Calà, nel suo Tractatus de modo
articulandi et probandi, cit., Gloss. IV, “Facti veritati inspecta”, par.5, lo annovera tra coloro
che sostengono la possibilità per il giudice di giudicare etiam contra conscientiam; lo stesso
Marciano, fautore di un giudizio assai più vicino al moderno concetto di certezza morale che
alla certezza di tipo legale, lo cita ripetutamente, specie per la contrarietà da lui espressa in
merito alle pene straordinarie. Altri autori, come ad esempio Josè de Sesse, lo fanno invece
assurgere a paladino degli allegata et probata, orientamento, questo, abbracciato anche dalla
storiografia tradizionale. Si veda ad esempio, M. Paz Alonso Romero, Orden procesal y
garantìas entre Antiguo Régimen y constitutionalismo gaditano, Madrid, 2008, pag. 81, dove
tuttavia si sottolinea la centralità del problema della coscienza nella tarda scolastica e la faticosa
presa d’atto di una possibile divaricazione tra quanto “sentito” dal giudice e quanto provato
dalle parti.
140
«Sunt, sane, qui existiment iudicem debere omnino sequi in
proferenda sententia propriam conscientiam et veritatem sibi
compertam adversus actorum probationes (…)»561.

Successivamente, venivano illustrati una serie di principi in base ai quali la


regola del giudizio secondo coscienza sembrasse meritevole di accoglimento:

«Primo, omne quod non est ex fide, peccatum est (…) ex fide,
inquam, id est ex conscientia (…)»562.

Ancor più eloquentemente, l’autore così proseguiva:

«(…) Iudex, qui scit verum esse quod actor asseverat, tametsi iudicio
non probatum, contra conscientiam et propriae credulitatis iudicium
reum absolvens, peccabit: atque itidem ipsum reum innocentem pravo
iudicio damnabit ex actorum probationibus, quibus ipse iudex certo
scit veritatem oppositam esse»563.

Nel primo argomento, dunque, andare contro la propria coscienza equivaleva ad


andare contro la fede. Di più: nella seconda proposizione, il peccato del giudice
si concretava nell’andar contro la stessa verità, commettendo un mendacio564.
Agere contra veritatem, secondo la ricostruzione di Covarruvias, non si risolveva
unicamente nell’omettere la realtà di cui si fosse a conoscenza in favore delle
allegazioni probatorie, ma si concretava altresì quando il giudice desse fede a
prove ritenute false:

«Tertio, eadem assertio probatur ex eo quod iudex iudicare debet


secundum veritatem (…) et tamen in iudiciis multa proponuntur et
probantur contra veritatem, ergo iudex, omissa falsa actorum
oppositione, veritatem sequi tenetur. Et hoc ipsum ulterius patet,
plerumque enim solet iudex ignorare factum in iudicium deductum: et
ideo sequitur probationum adminicula (…) per hoc tamen
praeiudicium non sit veritati, quae vitiari nequit erroribus gestorum, et

561
D. Covarruvias, Variarum ex iure pontificio cit., liber I, Caput I, n. 1 “Agere contra propria
conscientiae dictamen peccatum est”.
562
«(…) nam sicut fides est iudicium, quod credimus aliquid: ita conscientia est iudicium, quo
iudicamus particulariter de nostris actibus moralibus: et praeterea conscientia credulitas
quaedam est: unde fides a Paulo appellatur», Ibidem, c. II, n.1.
563
Ibidem, c. II, n.1.
564
«Secundo, eandem opinionem illud plurimum comprobat, quod iudex sententiam dicens
contra veritatem sibi etiam privatim compertam, plane mentitur in laesionem alterius: id enim
dicit, quam scias, mendacium (…)», Ibidem, c. II, n. 2.
141
semper est praeferenda, cum elucit, unde cum iudici veritas comperta,
et nota est, non potest iuxta ratione eam omittere, ut sequatur vel
sordes falsorum testium erroremve aliorum instrumentorum565».

Il quarto argomento era un brocardo assai citato anche nelle fonti non canoniste,
secondo il quale «melius esse nocentem impunitum relinquere quam innocentem
damnare»566. Si trattava, evidentemente, del noto principio in dubio pro reo567,
sovente espresso anche nella formula: «in dubio pars benignor est amplectenda et
credenda»568.
Nel quinto argomento a sostegno della sua tesi, Covarruvias ricordava come gli
oppositori del giudizio secondo coscienza avessero spesso ribadito la preminenza
della pubblica autorità; ma quest’ultima, aggiungeva l’autore, è suscettibile di
essere legittimamente violata, come nelle ipotesi di errore in materia
matrimoniale569.
Nel sesto argomento, particolarmente interessante sotto il profilo dell’elemento
circostanziale, veniva sottolineata l’importanza delle congetture, degli indizi e
delle presunzioni, vale a dire di tutte quelle prove indirette le quali, secondo il
giurista, potevano senz’altro servire al giudice per smascherare il falso testimonio
e negargli credibilità:

«Sexto, ex coniecturis, indicijs et praesumptionibus, iudex potest


iustissime non adhibere fidem testibus (…) Ergo potest de certa
scientia testium fidem omittere, quos certo scit falsum testimonium
aixisse»570.

565
Ibidem, c. I., n. 3, p. 2,
566
Ibidem, c. I, n. 4, p. 2,.
567
Rinveniamo la medesima citazione in Agostino Barbosa, nelle Selectae Iuris
Interpretationes, cit., precisamente al titolo De Praesumptionibus, ove la regola ulpianea
«sanctius et securius est impunitum relinqui facinus nocentis quam innocentem damnari», viene
adoperata per giustificare la diminuzione delle pene in caso di prove indiziarie o presuntive.
Curiosamente, lo stesso identico principio verrà usato da Francisco Sarmiento de Mendoza
(supra, II.2) e Marcello Marciano (II.3), per contestare apertamente la pratica della pena
straordinaria.
568
M. De Azpilcueta, Consiliorum sive responsorum, cit., lib. I, consilium V, n. 11, pag. 93.
569
«(…) maiorem ex publico iure auctoritatem habebit iudicis sententia, quam ipsius acta iudicij
nondum per sententiam diffiniti et tamen condemnatus, ut debitum coniugale reddat foeminae,
quam ipse certo scit eius uxorem non esse: nequaquam tenetur eius sententiae stare: imo nec
protest, si canonicum impedimentum obstet; immo potius propriam conscientiam, quam iudicis
publicam authoritatem sequi debet (…) Sic iudex maiori ratione omissa publica authoritate
actorum causae, sententiam dicet ex his, quae certa sibi sunt, et ita nota ut vera esse manifesto
faciat»D. Covarruvias, Variarum ex iure pontificio cit., c. I, n. 5, p. 2.
570
Ibidem, c.I, n. 6, p. 2.
142
Il settimo sviluppava le precedenti argomentazioni: il giudice non doveva
accordare fede a testimoni o instrumenta che, anziché esser destinati a dimostrare
la verità, fossero invece finalizzati a persuadere il giudice del falso571. L’ultimo
argomento conteneva un copioso elenco di citazioni d’autorità, tutte concordi nel
formulare «ea resolutio, ut iudex minime debeat, nec possit sententiam dicere
secundum allegata et probata, contra propriam conscientiam»572.
Come si vede, il Vescovo di Toledo sembrava schierarsi apertamente in favore
del giudizio di coscienza, legittimando finanche un’eversione dalla publica
authoritas in nome della veritas. In realtà, questa posizione veniva ulteriormente
chiarita ed in gran parte ridimensionata nei successivi sviluppi argomentativi,
dove le authoritates più celebri, Sant’Ambrogio e San Tommaso, inducevano
l’autore a decostruire molte delle tesi formulate nella pars construens della
prolusione573.
Il pericolo dell’arbitrio incontrollato e della contaminazione tra conoscenza
giudiziale e privata scienza, come pure il rischio di una sovrapposizione tra
forum internum e forum externum574, consigliavano senz’altro di attenersi alle
allegazioni, sempre che si dimostrassero vere e degne di fede: «(…) sententia a
iudice ferenda esse (…) ex veris probationibus, ex fide eorum quae vere gesta
sunt, non ex falsis aut simulatis instrumentis»575. Ne ricaviamo il principio
secondo cui, in linea tendenziale, il giudice fosse obbligato a seguire le prove
attoree, le quali peraltro dovevano presumersi come vere. Egli avrebbe dunque
potuto condannare qualcuno la cui colpevolezza fosse stata pienamente provata,
anche se ciò contrastasse con la propria privata scienza, perché quest’ultima non
poteva mai prevalere su ciò che fosse stato legittimamente dedotto in giudizio.
Qualora però quelle stesse allegazioni non avessero l’attitudine a prevalere sulla
571
«Falsi autem testes, falsave instrumenta non ad veritatem, sed ad falsitatem persuadendam
iudici destinantur, igitur his testibus et instrumentis, quae falsa esse iudex scit, non debet, nec
tenetur fidem publicam accomodare», Ibidem, c. I, n. 7, p. 2.
572
Ibidem, c. I, n. 8, p. 2.
573
«(…) Bonus Iudex, inquit Ambrosius, nihil ex arbitrio suo facit, et domesticae proposito
voluntatis: sed iuxta leges et iura pronunciat, scitis iuris obtemperat: non indulget propriae
voluntati: nihil paratum et meditatum domo defert: sed sicut audit, ita iudicat. Quibus profecto
verbis nihil aliud Ambrosius significare vult, quod iudex ex se ipso nihil iudicet: id ex auditis,
visisque apud acta iudiciorum», Ibidem, c. I, n. 6.
574
Sul punto: A. Padoa Schioppa, Sulla coscienza del giudice cit., pag. 128, dove si spiega
l’assoluta peculiarità del problema nel caso di sovrapposizione tra funzione sacerdotale e
funzione giudiziaria, che dovevano necessariamente corrispondere a due sfere totalmente
distinte: quella religiosa e quella laica. La questione, tuttavia, era suscettibile di essere trasposta
a qualunque altro giudice, al quale si chiedesse di tenere separata la sfera pubblica da quella
privata (la carica dalla persona). Il comando, di per sé pienamente condivisibile, si traduceva
tuttavia in un invito a spersonalizzare totalmente l’attività giudicante, rinunciando persino a
contestare la veridicità o l’affidabilità delle allegazioni, attività questa interpretata come una
inaccettabile “supplenza nel fatto”.
575
D. Covarruvias, Variarum resolutionum cit., c. I, n. 4.
143
scientia del giudice e facessero insorgere la credenza o anche il solo dubbio di
non poter pronunciare una sentenza di condanna, questi non avrebbe potuto agire
contra propriae conscientiae dictamen, perché in quel caso, sì, avrebbe
commesso un peccato mortale:

«Advertamus aliud esse iudicem sententiam ferre ex his quae ut iudex


scit, etiam si ut privatus contrarium cognoverit (…) aliud est iudicem
sententiam dicere contra conscientiam: (..) quod si iudex ipse credat,
existimet, aut dubitet, se non posse ferre sententiam ex probationibus
contra privatam eius scientiam, nequaquam poterit ita pronunciare,
imò peccabit mortaliter»576.

Ecco dunque chiarita la portata del giudizio secundum allegata et probata: la


convinzione del giudice non poteva mai travolgere i limiti del processo e le
regole del giudizio; per cui quando le allegazioni fossero state tali da prevalere
sulla coscienza, nulla quaestio. Ma quando, al contrario, le prove non fossero
sufficienti ad eliminare ogni dubium circa la reale colpevolezza dell’imputato, il
magistrato non avrebbe potuto emettere alcuna condanna.
Questo perché, in base alla ricostruzione di Covarruvias, un conto era assolvere o
condannare taluno sulla base di quello che il giudice “ritenesse” in qualità di
privato; ben altra cosa era il giudicare contro la propria coscienza “giudiziaria”,
permanendo, cioè, uno stato di incertezza sulla reale attribuibilità del fatto.
In sostanza, il giurista riproponeva un’antichissima concezione, ricollegabile a
Piacentino, Sicardo e Uguccio, in base alla quale era senz’altro configurabile una
supplenza giudiziaria de facto, ma senza il coinvolgimento di un sapere
extragiudiziale577.
Si trattava di un ragionamento estremamente complesso, in cui appariva evidente
lo sforzo di conciliare la teorica tradizionale col moderno problema di una nuova
idea di soggettività: mentre veniva progressivamente meno la concezione
pessimistica della Chiesa in merito alla debolezza della condizione umana, e si
attenuava la consequenziale sfiducia nei confronti dell’attività giudicante578, si

576
Ibidem, c. I, n. 6.
577
Sul punto: W.K. Nörr, Zur stellung des Richters cit., pag. 100.
578
Da questo punto di vista, appare significativo che, proprio nel diritto canonico, si sviluppò, a
partire dai primi decenni del XVII secolo, una florida letteratura sulla moralis certitudo, che
annovera tra i suoi più autorevoli esponenti il gesuita Sebastiano Salelles, il quale effettuò nel
De materiis Tribunalium S. Inquisitionis, uno studio rigorosissimo sugli indicia plena atti alla
condanna, definiti come quelli «quae arctat mentem iudicis, ut omnino credat non possit in
aliam partem inclinare». Sul punto: P.L. Rovito, Prova legale e indizi cit., pag. 180. G. D.
Rinaldi, altro insigne canonista, qualche decennio più tardi avrebbe ritenuto che il
convincimento soggettivo tramite indizi, eventualmente capaci di contraddire le allegazioni
144
poneva contemporaneamente il problema di non travalicare i limiti posti dai padri
del diritto canonico.
Nella prospettiva teorica che ci offre Covarruvias, s’intravede la possibilità di
risolvere la divergenza tra norma probatoria e coscienza in favore di
quest’ultima, attraverso una profonda e significativa rivalutazione della
soggettività dell’organo giudicante (non nella sua veste di uomo, ma di
indagatore della verità): egli era posto nella condizione di decidere se credere o
meno alla confessione piuttosto che alla doppia testimonianza, a prescindere
quindi dal carattere “legale” delle allegazioni; questa possibilità non veniva più
percepita come un elemento corruttivo del giudizio, ma era anzi valorizzata nelle
sue componenti “intimistiche” (da intendersi non in senso emotivo ma
razionalistico, perché la coscienza attiene all’intelletto, è qualcosa che non torna
all’umana intelligenza, non mero motus animi); la conscientia assurgeva così a
strumento indispensabile per cogliere nella sua pienezza il dato concreto, il caso
specifico.
Il segno di una rinata “sensibilità soggettivistica” in seno alla dottrina canonista
del processo, percepibile proprio nella progressiva rivalutazione della conscientia
iudicantis, si abbinava, in quella stessa tradizione teorica, alla risalente
prospettiva oggettivistica dell’aequitas579.
Quest’ultima, che di fatto ammetteva ampi spazi di libera determinazione per il
giudice, si configurava - secondo un principio già presente nella legislazione
romana e poi sviluppato dai primi canonisti - quale dimensione “naturale” di
giustizia, capace di riequilibrare situazioni concrete ove l’enunciazione del diritto
fosse incapace di determinare un risultato equo tra le parti:

«Articolato nella perenne dialettica fra una norma suprema, il diritto


divino, (…) e una multiformità di norme situate ad un livello inferiore,
il diritto umano, il diritto canonico è tutto percorso dalla tensione che
avvicina questo a quello, ponendosi come traguardo massimo la
corrispondenza perfetta, la più perfetta possibile, di questo a quello.
Mentre per il diritto divino si può ipotizzare soltanto una
interpretazione-comprensione del magistero che arrivi (…) ad una più
profonda penetrazione della mens Legislatoris, il diritto umano è
contrassegnato dalla elasticità della regola giuridica, elasticità che è da
considerarsi unicamente come sforzo di rendere concreta una siffatta

principali, fosse pienamente utilizzabile dal giudice ai fini dell’assoluzione o della condanna
«tanquam dicunt alicui Classici Doctores», Ibidem, pp. 180-181.
579
Sul punto: P. Grossi, Aequitas canonica, cit.; M. E. Pompedda, L’equità nell’ordinamento
canonico, in Studi sul primo libro del Codex iuris canonici, a cura di S. Gherro, Padova, 1993,
pp. 3-33; S. Berlingo, Giustizia e carità nell’economia della Chiesa – Contributi per una teoria
generale del diritto canonico, Torino, 1991.
145
corrispondenza. Qui è la collocazione primaria dell’equità canonica,
ma anche la cifra semplicissima per afferrarne il suo tratto
distintivo»580.

Secondo l’interpretazione di Paolo Grossi, tal tipo di aequitas non andrebbe


confusa né con la naturalis aequitas, né con l’aequitas-charitas, che ne
costituirebbero “forme attenuate”, alla stregua dei ricorrenti inviti alla humanitas,
alla misericordia, alla mansuetudo e alla benignitas quali atteggiamenti da
contrapporre al rigor juris e al meccanico ossequio alle forme giuridiche. Questo
perché la cifra autentica dell’equità canonica starebbe tutta nella «necessità di dar
prevalenza al caso concreto quando sia in gioco il bene supremo della ratio
peccati vitandi»581.
Ebbene, se la stretta osservanza degli allegata et probata poteva talvolta
concretarsi nell’agire contro coscienza, e dunque risolversi nella commissione di
un peccatum, l’aequitas canonica diveniva presumibilmente uno strumento utile
e legittimo per sottrarsi alla rigida applicazione della norma probatoria: il rispetto
delle forme processuali e delle regole ad esse preposte, ivi comprese quelle
relative alla formazione del convincimento, trovavano anche in questo terreno
specifico la possibilità di un notevole contemperamento.
L’operatività del meccanismo era assicurata da un postulato fondamentale: il
rispetto della legge, com’è noto, implicava la perfetta corrispondenza tra lex
scripta e lex naturalis; la prima, se confliggente con la seconda, «nullam habet
vim».
Domingo de Soto l’aveva detto chiaramente: nel rispondere al quesito Utrum
semper sit secundum leges scriptas iudicandum, aveva offerto due diverse
soluzioni. La prima era in senso nettamente affermativo:«Respondetur quod sicut
lex scripta nihil roboris praestat naturali iuri, imo ab illo ipsa vim accipit»582. La
seconda, tenendo conto di un’eventuale discrasia tra diritto scritto e legge
naturale, muoveva nel senso che: «Quandocumque lex iuri repugnat naturae, non
est servanda»583.
Era evidentemente questo principio, largamente dominante in quella tradizione
dottrinale, a suggerire la possibilità di discostarsi dalla norma, eventualmente
anche da quella probatoria, in favore di una soluzione a carattere “equitativo”.
Questa operazione non autorizzava, in ogni caso, un totale ed arbitrario
sovvertimento del rigor juris, e dunque richiedeva che la coscienza del
magistrato fosse informata dal diritto. Prevedeva altresì, imprescindibilmente,

580
P. Grossi, Aequitas canonica, cit., pag. 385.
581
Ibidem, pag. 387
582
D. De Soto, De Iustitia et Iure, cit., lib. III, q. IV, art. V, pag. 230.
583
Ibidem, p. 230.
146
imparzialità (e dunque diligente scrupolo nel raccogliere e nel valutare ogni
singolo elemento utile), raziocinio, e carità584.
Nonostante gli avanzamenti teorici in tema di coscienza giudiziaria, e le notevoli
implicazioni dell’aequitas nella materia delle prove penali, l’asserto secondo il
quale il giudice potesse sentirsi autorizzato a valutare l’innocenza o la
colpevolezza di taluno secondo il proprio intimo convincimento, non fu mai
pacifico tra i doctores salmantini.
Fernando Vásquez De Menchaca585, nella sua raccolta di Controversiae, affrontò
anch’egli il tema del giudizio iuxta acta et probata, e della sua possibile
confliggenza con scienza e coscienza dell’organo giudicante: l’ipotesi era di
scuola, quella cioè in cui venisse chiamata in causa la privata scientia del
magistrato, il quale si trovasse a dover statuire l’innocenza o la colpevolezza di
qualcuno in merito a fatti di cui lui stesso fosse a conoscenza586.
In particolare, s’ipotizzava un’accusa rivolta a tale Mevio, relativa a un delitto
commesso nella medesima notte in cui il reo e lo stesso giudice si trovavano
casualmente assieme e «pernoctaverant insomnes ad pictas chartas, vel ad aleam
ludendo, quod non raro accidit»587.
La fattispecie era dunque quella in cui il magistrato conoscesse perfettamente
l’innocenza dell’inquisito che, però, avesse a suo carico le testimonianze
contrarie di due o addirittura tre testimoni d’accusa: in questo caso il tema era
quello della coscienza non giudiziaria (o sapere extragiudiziale), rispetto a cui già
Covarruvias aveva fornito una decisiva soluzione in senso negativo. Tuttavia,

584
Sul punto: G. Brugnotto, L'aequitas canonica: studio e analisi del concetto negli scritti di
Enrico da Susa (Cardinal Ostiense), cit..
585
Nato a Valladolid nel 1512 e morto a Siviglia nel 1569, studiò dapprima nella città natale e
poi a Salamanca, dove ottenne il grado di dottore in diritto canonico. Partecipò al Concilio di
Trento, su richiesta di Filippo II. Tra le sue opere si ricordano le Controversiarum illustrium
aliarumque usu frequentium, citate anche da Grozio, con un elogio nel suo De iure belli ac
pacis; il De successionum creatione, progressu et resolutione Tractatus, Salamanca, 1559, e il
De Successionibus et ultimis voluntatibus, Libri IX, in tres tomos divisi, Colonia, 1612. Sul
punto: F. Carpintero Benítez, Del derecho natural medieval al derecho natural moderno:
Fernando Vasquez de Menchaca, Salamanca, 1977.
586
«L’eventualità di una conoscenza diretta dei fatti da parte del giudice – un’eventualità che
può sorprendere fosse tanto attentamente considerata – era in effetti tutt’altro che remota nella
società medievale, per almeno due ordini di ragioni: perché la piccola cerchia delle comunità
urbane e rurali rendeva non improbabile che un console o un vescovo fossero al corrente dei
fatti concernenti un concittadino (…) e perché, nei riguardi del clero, la conoscenza dei fatti
poteva scaturire dalla confessione del peccato», A. Padoa Schioppa, Sulla coscienza del giudice
cit., pag. 127. Sebbene con De Menchaca ci troviamo di fronte ad un orizzonte che non è più
quello medievale, la possibilità di un giudice/testimone era ancora avvertita come una
problematica impellente, che sollevava difficilissimi e variamente risolti conflitti di coscienza.
587
F. Vasquez de Menchaca, Illustrium controversiarum Aliarumque Usu Frequentium Libri
Sex in Duas Partes Divisi, Francofurti, 1668, Lib. I, Cap. XIV, De judicio secundum acta et
probata, pag. 67.
147
quel che rende interessante la prolusione di de Menchaca è il piano non teorico,
ma squisitamente pratico, sul quale veniva sviluppata la questione.
La massiccia presenza di testimonianze dirette e concordi, che affermassero di
aver visto Mevio consumare il delitto, faceva sì che, qualora il giudice dovesse
attenersi strettamente alle allegazioni probatorie, avrebbe dovuto senz’altro
mandare a morte un innocente, rendendosi colpevole innanzi a Dio.
Ove tuttavia lo avesse assolto, avrebbe rischiato di essere lui stesso accusato per
avere concesso illegittimamente una grazia, o addirittura avrebbe potuto subire
l’accusa di corruzione, data la schiacciante evidenza dei fatti588.
Le soluzioni che si prospettavano, stante l’impossibilità per il giudice di
pronunciarsi in base alla sua privata scientia, erano molteplici. Anzitutto,
avrebbe potuto deferire la causa ad un sostituto, ma - si aggiungeva - la scelta
non sarebbe stata poi così opportuna, perché avrebbe comportato un’inutile
rinuncia al proprio ufficio e una sicura condanna per Mevio589. Avrebbe potuto,
allora, chiedere l’intervento di un giudice superiore, e offrirsi lui stesso come
testimone dell’innocenza dell’accusato, ma anche questa soluzione presentava
due ordini di problemi: uno era legato alla logica quantitativa delle prove legali,
perché un solo testimonio non sarebbe stato comunque sufficiente a demolire due
o addirittura tre deposizioni contrarie590. Un altro ostacolo sarebbe stato poi
rappresentato dall’eventualità che il giudice in questione fosse egli stesso il
giudice supremo della causa, e non vi fosse un organo superiore cui deferirla591.
In questo caso il suggerimento fornito dal giurista, poggiava tutto sull’intrinseca
duttilità del sistema, e chiamava in causa l’arbitrio sulla pena. Più precisamente,
De Menchaca formulava una regola “cautelativa” per il giudice, che sottolineava
il carattere incerto e fallace della materia probatoria, e il necessario arbitrio
occorrente al suo contemperamento:

«Denique ad huius rei investigationem praefari oportet: “nullum esse


genus probationis quod iudicem ex toto certum reddat ea de re, quae

588
«Quid judici faciendum est? Nam sive sententiam fera iuxta alligata et probata, innocens ille
peribit, ipseque iudex apud Deum inquiratis reus erit, sive illum sententia absolutum reliquerit,
tenebitur, punieturque in syndacatu, quasi ob gratiam fecerit, vel pecunia turpiter corruptus»,
Ibidem, n. 1, pag. 67.
589
«Has angustias ut judex ille evadere possit, prodita sun varia remedia: primum, ut ad eam
causam definendam, alium (si ei liceat) substimat, quod remedium lugubre est, quia innocens
ille, sub judice substituto eius innocentiae inscio, verosimiliter peribit», Ibidem, n. 1, pag. 67.
590
«Alterum remedium est ut causam reserat ad superiorem, necessariemque, consilii sui
exponat, ut ipse sit testis innocentiae illius, quod remedium, quando multi essent testes qui enim
damnarent, non videretur sufficiens ad enervandam fidem et probationem tot testium, et
praeterea incertum est an superior huius rei consensum sit daturus», Ibidem, n. 1, pag. 67.
591
«Et quid si ipsemet judex tam sit supremus, ut non sit superior, ad quam causam possit
remittere?», Ibidem, n. 1, pag. 67.
148
in controversiam vertitur, nam ut lex noluit integram fidem adhibet
uni testi, quia potest mentiri, ita quoque duo, et tres, et etiam mille
testes mentiri possunt: sed tamen duobus vel tribus fidem adhiberi
jubet, eo quod verisimile sit (ut legi visum est) duos vel tres verum
dicturos, sicque huic coniecturae et verosimilitudini fidem adhibemus,
quam fallere non posse, ignoramus; sede humana cognitio et peritia
ulterius sese non extendit»592.

Il principio enunciato era quello secondo il quale, nel dominio dell’incertezza,


occorresse accordare maggior fede a ciò che apparisse più verosimile (perché
provato). Tuttavia, si aggiungeva, poiché della nostra verisimilitudo sempre
ignoriamo la totale infallibilità, il giudice avrebbe potuto alterare la pena, qualora
permanesse in lui un’incertezza sulla piena reità dell’accusato593.
Siamo di fronte al classico meccanismo di arbitramento delle pene, che però
trovava qui un’applicazione peculiare: rappresentava, cioè, uno strumento
correttivo il cui utilizzo era reso necessario dalla “legale” inoperatività di scientia
e conscientia del giudice. In altre parole, non potendo il magistrato esprimere la
la propria convinzione, che era qui piena consapevolezza dell’innocenza del reo,
discendente però da una coscienza “non giudiziaria”, egli veniva messo in
condizione di riequilibrare la situazione intervendo sulla misura della pena,
attraverso una chiara operazione a carattere equitativo che non necessitava
nemmeno di una qualche estrinseca giustificazione: «quando Iudex voluerit ex
causa ob merita poenam alterare, vel minuere, non teneatur causam etiam
exprimere»594.
E’ interessante notare come l’uso di meccanismi straordinari di pena,
delegittimati da autori come De Mendoza595 e dallo stesso Covarruvias,
trovassero qui un ampio spazio, e acquisissero un ruolo di fatto risolutivo rispetto
al problema della coscienza del giudice: non si arrivava a postulare l’uso di un
qualche “intimo convincimento”, ma si forniva piuttosto un agevole rimedio
pratico. Qui la dimensione oggettivistica dell’equità, incideva sulla misura della
pena nella forma più classica dell’arbitrium.
La prolusione di De Menchaca, assai distante dalle tesi di Covarruvias e dello
stesso Navarro, come pure dal concetto di aequitas-ratio legis propugnato da De
Soto, mostra una volta di più l’assoluta eterogeneità dei contributi dottrinali
forniti in materia di giudizio di coscienza, eppure non fa venir meno il postulato

592
Ibidem, n.2.
593
«Judex ex causa possit facere transgressionem legum (si modo transgressionem nominare
eam, quae sit ex causa, fas est), et ipsarum legum atque statutorum poenas etiam
consuetudinarias minuere atque alterare, ut notant communiter»Ibidem, n.4.
594
Ibidem, n.5.
595
Supra, II.2
149
di fondo: nella variegata molteplicità delle impostazioni e delle posizioni
espresse da alcuni tra i più illustri doctores di Salamanca, emerge un dato
comune e significativo, vale a dire l’impellente urgenza di risolvere una
questione teorica e pratica percepita nella sua intrinseca complessità.
A prescindere dalle diverse soluzioni suggerite, e dalle gradazioni di
“soggettività” ammesse al giudizio, quel che conta ai fini della nostra
ricostruzione è la piena emersione di un profondo dissidio teorico, all’interno del
quale la regola degli allegata et probata non appariva più tanto scontata nella sua
applicazione, perché poteva porre, talvolta, un gravissimo problema di natura
morale.
Questo problema, e gli strumenti suggeriti di volta in volta per la sua risoluzione
(in primis l’uso della coscienza, e dunque dell’intelletto, e dunque dell’anima
“razionale”)596, possono essere considerati dei preziosissimi elementi nella
ricostruzione delle dottrine probatorie sviluppatesi tra XVI e XVII secolo, e
possono fornire altresì una spiegazione validissima, ancorché parziale, del
progressivo abbandono dei meccanismi “legali” di prova in favore di criteri
soggettivi, “intimi”, di valutazione dei fatti giudiziali.
Ciò che si può ipotizzare, è che il problema della moralis certitudo, quale criterio
contrapposto alla meccanica legalistica delle prove, si sia fatto strada anche a
partire dalla consapevolezza di un necessario coinvolgimento di elementi
ulteriori rispetto al mero computo degli instrumenta: la coscienza, la ragione,
l’esperienza, cominciarono da qui ad essere identificati quali supporti necessari e
imprescindibili all’attività giudicante.
E così, un nuovo orizzonte, fortemente “personalistico”, cominciava a contrastare
la piattaforma probatoria di vocazione squisitamente formalistica: la teologia
morale e tutta la letteratura sulla coscienza del giudice, ebbero dunque il merito
di far emergere un elemento del giudizio assolutamente nuovo e problematico,
vale a dire la “soggettività valutativa” nella ricerca della verità giudiziale; un
elemento destinato ad operare un lenta ma decisiva decostruzione della logica
delle prove legali.

596
Nella Summa (I, q.78, art.1), San Tommaso distingue, attraverso i loro oggetti, cinque
facoltà (o caratteri) dell’anima: vegetativum, sensitivum, appetitivum, motivum secundum locum,
intellectivum. Quest’ultimo, assieme all’appetito (o volontà), attiene all’anima razionale. La
coscienza, a sua volta, più che rientrare nella sede “volontaristica”, viene collocata nel lato
cognitivo dell’anima, la ragione o intelletto. Sul punto: M. G. Baylor, Action and Person cit,
pag. 32.
150
III.2 Certezza e probabilità, ragione e dubbio: diritto delle
prove e Rivoluzione scientifica.
Se, come ha scritto Diego Quaglioni, «il superamento dell’autosufficienza del
pensiero giuridico costituisce un momento tipico nel processo di emersione della
modernità»597, allora un’esatta ricostruzione del mutamento di paradigma
probatorio esige senz’altro il confronto, oltre che con gli sviluppi della teologia
morale in materia di giudizio secondo coscienza, anche, più in generale, con i
progressi di tutta l’epistemologia secentesca rispetto al tema della verità e della
sua ricerca598.
Si tratta di un aspetto che la più autorevole letteratura di vocazione giusfilosofica
ha fortemente evidenziato: nel pieno svolgimento della Rivoluzione
scientifica599, la crescente attenzione della cultura giuridica verso le regole della
conoscenza umana, determinò una nuova polarità gnoseologica; l’interesse per i
rivalutati parametri della verosimiglianza e dell’opinione probabile, costruiti per
essere applicati a tutti i campi d’indagine nei quali fosse escluso il piano della
certezza assoluta - proprio delle scienze matematiche - comportò un significativo
slittamento nella teoria della verità processuale600: dalla soggettività intesa come
arbitrium si passò ad una riqualificazione della stessa, identificata ora con la
logica e l’intelletto; dal generico convincimento, ancorato a rigidi automatismi e
a formalismi spesso impraticabili, si tentò di pervenire al nuovo canone della

597
D. Quaglioni, La giustizia nel Medioevo e nella prima età moderna, Bologna, 2004, pag. 93
e ss.
598
M. Schmoeckel, nel già citato saggio Humanität und Staatsraison, ha sottolineato
l’impossibilità di studiare l’evoluzione del diritto processuale-probatorio prescindendo dalle reti
culturali entro cui si inscrive. Citando Mittermaier, egli ricorda che il diritto delle prove si
costruisce «in the charities of religion, in the philosophy of nature, in the truth of history and in
the experience of common life», pag. 5. A. M. Hespanha ha ampiamente richiamato l’attenzione
sulla parentela tra storia del diritto e storia della cultura e dell’epistemologia: il contributo della
“nouvelle histoire” sta proprio nel sottolineare la varietà dei problemi storici e la loro
interdipendenza. La sua proposta consiste nella definizione di un nuovo oggetto di ricerca della
storia del diritto, coincidente con un contesto storico-sociologico nelle sue molteplici e variegate
determinazioni. Sul punto: A. M. Hespanha, Une nouvelle histoire” du droit?, in P. Grossi (a
cura di), Storia sociale e dimensione giuridica. Strumenti d’indagine e ipotesi di lavoro. Atti
dell’incontro di studio, Firenze 26-27 aprile 1985, Milano, 1986, pp. 315-340.
599
Sulle molteplici ripercussioni della Rivoluzione scientifica sui paradigmi culturali
secenteschi: F. Bottin, La scienza tardomedievale dalle origini del paradigma nominalista alla
Rivoluzione scientifica, Rimini 1982, F. Abbri ( a cura di), Dalla Rivoluzione scientifica all’età
dei lumi, Torino 1988; M.C. Jacob, Il significato culturale della Rivoluzione scientifica, cit.; S.
Shapin, La Rivoluzione scientifica, trad. it. di M. Visentini, Torino, 2003.
600
In realtà si verificò uno slittamento di “intere sezioni disciplinari”, secondo l’interessante
ricostruzione di F. Fagiani, proposta nel saggio intitolato Nel crepuscolo della probabilità.
Ragione ed esperienza nella filosofia sociale di John Locke, cit.
151
ragionevolezza, «tappa obbligata di un’esperienza umana che non può attingere
la verità assoluta, ma che non rinuncia a regole condivise e controllabili»601.
Il venir meno della fiducia in una «leggibilità immediata» della verità, la
consapevolezza che l’uomo e il mondo non si possono mai conoscere fino in
fondo, perché sempre qualcosa si sottrarrà a quel conoscere, è ciò che
caratterizza i saperi moderni da quelli antichi602.
La necessità di un itinerario di conoscenza soggettivo, personale, è la nuova
rivendicazione dell’epistemologia cinque-secentesca: non più formule o
authoritates, ma ricerca, dubbio, e utilizzo di strumenti validi per il suo
superamento.
Il motivo per cui la prova penale appare così saldamente ancorata alle conquiste
epistemologiche del XVII secolo, risiede soprattutto nel fatto che furono proprio
queste ultime a determinare la crisi e la profonda ridiscussione dell’aristotelismo,
metodo e sistema che aveva dominato incontrastatamente tutto l’universo
medievale e di prima età moderna, specie sotto il profilo giuridico e processuale.
Era stato Aristotele, nel primo libro della Rethorica, ad operare la fondamentale
distinzione tra prove tecniche ed extratecniche, rispettivamente τεχνοι ed
ατεχνοι, indicando fra le prime tutti quei mezzi di persuasione che, privi di
autonomia propria, devono essere “inventati”, e rappresentano dunque il frutto di
una creazione “artificiale” - come l’esempio e l’εντινεµα; tra le seconde aveva
invece collocato le leggi, le testimonianze, i contratti, la tortura e i giuramenti603.
Questo schema, com’è noto, in età di diritto comune aveva dato luogo ad un
paradigma probatorio in virtù del quale tutti gli strumenti che richiedessero una
qualche attività intellettiva, ricostruttiva e critica da parte del magistrato,
dovessero essere guardati con diffidenza e non potessero assurgere al rango di
prove; al contrario, quei mezzi che escludessero un qualunque margine di
soggettività da parte dell’organo giudicante, venivano invece ad acquisire la
massima forza probante, tale che il giudice si sarebbe dovuto limitare a registrare
le allegazioni e far corrispondere ad esse la pena prevista dall’ordinamento,
nell’alveo di un solido impianto legalistico che, grazie soprattutto alla
giurisprudenza canonista604, aveva conosciuto un tenace consolidamento. La

601
G. Alessi, Le contraddizioni del processo misto, in La costruzione della verità giudiziaria, a
cura di M. Marmo e L. Musella, Napoli, 2003, pag. 25.
602
A. Fontana, Il vizio occulto, cit., pag. 18.
603
Sul punto: C. Ginzburg, Aristotele, la storia, la prova, in «Quaderni Storici», 85, 29, I, 1994,
pp. 5-17.
604
Come già detto (supra I.1), la dottrina di S. Tommaso sugli allegata et probata aveva
sostanzialmente dato avvio ad una tradizione giurisprudenziale tutta tesa alla enumerazione
rigorosa della quantità e qualità delle prove necessarie ai fini della condanna edittale. Tale
tradizione poté svilupparsi ben oltre i confini dello ius canonicum: anche nella dottrina di ius
civile i lunghissimi cataloghi di prove, semiprove, indizi e presunzioni ebbero una larghissima
152
verità processuale così statuita era di tipo assoluto e inconfutabile, poiché
derivante sempre da un meccanismo predeterminato e, almeno teoricamente,
impersonale: la conoscenza cui il giudice perveniva sull’innocenza o la
colpevolezza del reo, non era mai dettata dalla propria convinzione, né era frutto
di un’operazione logica, insomma non si fondava su di una probabilitas, del resto
coincidente con l’incerta ed inaffidabile opinio, ma si concretava piuttosto
nell’ottenimento di una sicura pienezza probatoria attraverso l’evidenza, la
confessione giudiziale o la doppia testimonianza605. Mancando questa pienezza,
il ruolo del giudice veniva degradato a mere operazioni di computo aritmetico,
anch’esse in gran parte prestabilite, all’interno delle quali si graduava la pena in
funzione della quantità o qualità degli indizi raccolti, mentre residuavano spazi
per l’esercizio di considerevoli margini di arbitrio606. La materia delle prove
appariva particolarmente sensibile a quella “illusione teologale” di cui ha parlato
Eugenio Garin607, vale a dire quel particolare tipo di «procedimento intellettuale
che porta ad ipostatizzare ed a materializzare (e quindi a fissare in un’immagine
statica) un valore di per sé dinamico»; procedimento, questo, che «determinava
gravissime conseguenze di disorientamento nella ricerca dei mezzi per

diffusione sin dal XIII secolo, come testimoniato dal Tractatus de maleficiis di Alberto
Gandino. Sul punto: F. Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Bari, 1985, pp. 182-
226; F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico
dei secoli XI e XII, Catania, 1985, pp. 60-66; D. Quaglioni, Civilis Sapientia. Dottrine
giuridiche e dottrine politiche fra Medio Evo ed Età moderna, Rimini, 1989, pp. 211-218; M.
Ascheri, Diritto medievale e moderno. Problemi del processo, della cultura e delle fonti
giuridiche, Rimini, 1991, pp. 183-238; E. Cortese, Il rinascimento giuridico medievale, Roma,
1992, pp. 69-71; M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna, 1994, pp.
511-514.
605
Soprattutto il tema della confessione, e dello strumento adoperato per il suo sicuro
ottenimento – la tortura giudiziaria – rappresentano il terreno fertile della discussione intorno
all’inopportunità dello schema probatorio tradizionale: già a partire dal XVI secolo comincia a
sorgere un dubbio non tanto sulla validità giuridica, quanto sull’efficacia strumentale della
tortura come tecnica d’indagine della verità. Alessandro Fontana ricorda in proposito A.
Nicolas, autore di una dissertazione del 1697 An quaestione per tormenta criminum veritas
elucescat, e Fr. Keller con il suo Paradoxon del 1688: in entrambi i testi si mette in dubbio la
reale utilità dello strumento inquisitorio e si conclude nel senso di una piena bastevolezza d’una
verità probabile, «chè tanto il giudice non arriverà mai a possedere, nemmeno tramite il
tormentum, una certezza giuridica assoluta», in Il vizio occulto cit., pag. 24.
606
Proprio l’arbitrio sulla pena, consistente nella già citata commisurazione della stessa al
quantum di prova raggiunto, è oggetto, com’è noto, di una feroce polemica secentesca che
prende le mosse dalla prassi giurisprudenziale iberica (supra I.3), e che ha precise radici
dottrinali nella costruzione teorica del giudizio secondo coscienza. Francisco Sarmiento de
Mendoza, come già detto (supra II.2), nei suoi Interpretationum Selectarum Libri Octo,
denuncerà apertamente il paradosso della pena straordinaria adoperando per la prima volta
argomentazioni non già tipo esclusivamente giuridico o teologico, ma di natura puramente
logica.
607
E. Garin, La filosofia come sapere storico, Bari, 1959.
153
attuarlo»608. Il rifiuto opposto a questo tipo di ontologismo, supponeva la previa
demolizione di un intero sistema speculativo, che era anche un apparato
ideologico e politico: l’essenzialismo scolastico.
Abbiamo già visto come Aristotele, o meglio, i suoi interpreti posteriori, avessero
profondamente influenzato la materia delle prove. Più in generale, tutto
l’universo del diritto aveva risentito di quella fondamentale distinzione, operata
dal filosofo nei Topici, tra le due sfere di ricerca dell’uomo: la scienza
dimostrativa, attinente alle verità apodittiche - ossia elementi veri e primi, che
traggono la loro credibilità non da altri elementi ma da se stessi - e la dialettica,
fondata sull’opinione609. Nei Secondi Analitici, ancor più nettamente, si diceva :

«L’oggetto della scienza e la scienza, differiscono dall’oggetto


dell’opinione e dall’opinione, in quanto la scienza è universale e si
sviluppa attraverso premesse necessarie (…); l’opinione invece si
rivolge al vero oppure al falso (…) manca di saldezza (…) e la natura
del suo contenuto risulta instabile (…)»610

La conclusione non lasciava margini d’equivoco: «Non è possibile avere al


tempo stesso opinione e scienza del medesimo oggetto»611.
Secondo questa impostazione, a fronte della certezza assoluta stava il suo
contrario, la probabilitas, coincidente con un piano instabile e malsicuro,
discutibile, costantemente minacciato dal dubbio: l’opinio.
Nella costruzione aristotelica, l’opinio rappresentava dunque l’opposto della
veritas: la soggettività, necessariamente “arbitraria” e inaffidabile, possedeva
così un disvalore intrinseco ed ineliminabile.
Com’è noto, l’argumentum ab auctoritate aveva rappresentato per molti secoli lo
strumento atto ad eliminare quel pericoloso margine d’incertezza della
conoscenza umana, ma restava, nel campo specificamente probatorio, un
incolmabile divario tra l’oggettività (coincidente con le prove dirette, luce
meridiana clariores, prima fra tutte la confessione) e la probabilità (identificata
con l’indizio, la presunzione, la prova imperfetta). Questa contrapposizione, con
l’ovvio corollario della netta preferenza accordata alla prima categoria e la decisa
esclusione della seconda dal vaglio del giudice, aveva ostacolato ogni possibile

608
R. Ajello, Epistemologia moderna e storia delle scienze giuridiche, Napoli, 1986, pag. 14.
609
Aristotele, Topici, in Organon a cura di M. Zanatta, Torino 1996, vol II: I, 1, 24 a 10-30.
610
Ibidem, I, 30, 88, b , 30-31; 89 a 2-5.
611
Un principio del tutto analogo si rinviene nei Commentaria di De Soto, ove, precisamente
alla quaestio octava, si propone una distinzione tra opinione e scienza, e si esclude recisamente
che esse possano avere il medesimo oggetto, poiché la scienza è evidente, l’opinione incerta. In
D. Soto, In libros Posteriorum Aristotelis, sive De Demonstratione, Absolutissima
Commentaria, Venetiis, 1574.
154
sviluppo nella teoria del processo, comportando la rinuncia a sperimentare nuovi
orizzonti di ricerca, ed eliminando aprioristicamente un approccio critico alle
molte problematiche sollevate dalla prassi giudiziaria, risolte di volta in volta con
soluzioni di tipo arbitrario e compromissorio. Questa complessa giustapposizione
di prescrizioni normative ed uso di poteri discrezionali, particolarmente avvertita
nella materia delle prove, nel Seicento cominciava, come abbiamo già visto, a
mostrare chiari segni di cedimento. Ciò accadeva presumibilmente perché
vacillava, sul piano dottrinale, l’assunto secondo cui fosse possibile ottenere una
verità “affidabile” senza l’intervento della soggettività; dato che quest’ultima,
attraverso le molte forme dell’arbitrium, era comunque chiamata in causa, con
buona pace degli allegata et probata, tanto valeva esercitare una diversa e più
razionale forma di apprezzamento: dalla “signoria sulla pena” si propugnava ora
una “signoria sul fatto”612.
La premessa necessaria per il superamento dell’ impostazione dogmatica della
verità processuale era, anzitutto, l’abbattimento del vecchio concetto di
probabilitas, implicante il pregiudizio di un’insuperabile e spaventosa incertezza:
occorreva cioè demolire la tesi secondo cui l’opinio fosse la base della
probabilità, ed ancorare quest’ultima ad un fondamento di matrice totalmente
razionale, attribuendole i requisiti della certezza e dell’affidabilità.
La reazione contro l’aristotelismo, contro il metodo sillogistico e deduttivo che
sino ad allora aveva scandito la storia del diritto e del processo nel Continente,
comportava dunque l’adozione di un nuovo approccio al problema della
conoscenza e della verità.
Autorevoli studi in materia - Viehweg e Perelman costituiscono forse gli esempi
più noti613 - hanno dimostrato come la nascita del “pensiero critico” sia segnata
dal passaggio dal probabilismo statico, di matrice aristotelica, ad un probabilismo
dinamico, di carattere eminentemente problematico. Il primo, conviveva
perfettamente col carattere assiomatico delle dottrine di diritto comune:
potremmo dire che esso era quell’extraordinarium in grado di soccorrere
l’ordinarium attarverso l’interpretazione, la communis opinio, l’arbitrium. Il
secondo, tutto fondato sul carattere ipotetico delle premesse, era invece

612
Sul punto: supra II.2 e II.3.
613
Del giurista e filosofo tedesco Theodor Viehweg, l’opera fondamentale resta Topik und
Jurisprudenz, pubblicata per la prima volta nel 1953 e tradotta anche in Italia col titolo Topica e
Giurisprudenza, cit; Chaïm Perelman, filosofo del diritto di origine polacca, ha affrontato i temi
della logica e della retorica giuridica in molteplici opere, tradotte anche in Italia, tra le quali
citiamo: Diritto, morale, filosofia, edito a Napoli nel 1973 e Logica giuridica. Nuova retorica,
cit. Egli è stato uno dei principali teorici dell’argomentazione del secolo scorso: è del 1958 il
saggio Traité de l'argumentation: La nouvelle rhétorique, tradotto recentemente sotto forma di
raccolta col seguente titolo: Teoria e pratica dell’argomentazione. Antologia degli scritti (a cura
di G. Furnari Luvarà), Soveria Mannelli, 2005.
155
improntato «alla ricerca incessante del giusto relativo, commisurato alle
particolarità umane»614.
La messa in crisi del probabilismo scolastico e del suo opposto complementare e
necessario, il dogmatismo, assume dunque proporzioni di enorme rilievo nel
nostro percorso ricostruttivo; da questo punto di vista, non possono escludersi
dalla presente trattazione i profondi rivolgimenti culturali e metodologici
collegati al mutamento dei paradigmi conoscitivi, che con Bacone, Galileo,
Cartesio e Locke, anticipano di parecchi decenni la riforma dei modelli
processuali: la logica quantitativa delle prove legali, il formalismo esasperato, gli
impossibili automatismi tramandati dai doctores, non potevano certo uscire
indenni dall’affermazione di un nuovo metodo di ricerca ch’era tutto basato
sull’intelletto e sul senso, sull’induzione e sull’esperienza, sulla serena
accettazione della limitatezza e della fallacia del sapere umano; un metodo che
pur tuttavia non rinunciava a pervenire al più alto grado di credibilità
razionale615.
E’ proprio alla luce di questi sforzi speculativi che può spiegarsi la comparsa del
criterio della certezza morale quale alternativa alla matematica delle prove: il
nuovo canone della preponderanza relativa, che si faceva strada nel Seicento
attraverso disquisizioni teologiche e diatribe scientifiche, fungeva da innovativo
parametro conoscitivo per gli affari umani, e si traduceva in un netto rifiuto della
vecchia metafisica e dell’ontologismo imperante.
Uno dei primi pensatori a decostruire gli schemi tradizionali della conoscenza fu
Francis Bacon616, il quale giunse a riscrivere la Logica di Aristotele, l’Organum,
aggiungendovi l’attributo Novum. Questo perché Aristotele, proprio
nell’Οργανον, aveva già riconosciuto il compito dell’induzione, fondata
sull’enunciazione rigorosa di tutti i particolari possibili; ciò che tuttavia era
mancato alla ricostruzione del filosofo di Stagira, era la possibilità di pervenire
attraverso di essa «all’ipotesi scientifica, forma e legge della natura»617. Bacone
invece propugnava un’induzione necessariamente imperfetta, in ciò consistendo
il suo valore, data l’impossibilità di enumerare tutti gli infiniti casi d’una
fattispecie o di un fenomeno:
614
T.Viehweg, Topica e Giurisprudenza cit., pag. 67.
615
E’ importante sottolineare che la svolta concettuale secentesca in tema di conoscenza e
probabilità non fu omogenea: mentre il razionalismo cartesiano mantenne significativi legami
con la tradizione aristotelica, non così il probabilismo empirico dei filosofi maggiormente legati
all’esperienza. Sul punto: F. Duchesneau, L’empirisme de Locke, La Haye, 1973.
616
Sulla portata rivoluzionaria del pensiero di Bacon rispetto ai temi della verità e
dell’induzione: G. Tinivella, Bacone e Locke: dottrina e critica, Milano, 1939; E. Cassirer, Il
problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza da Bacone a Kant, cit.; V. Fazio
Allmayer, Saggio su Francesco Bacone, Firenze, 1979; P. Rossi, Francesco Bacone, dalla
magia alla scienza, cit.
617
G. Tinivella, Bacone cit., pag. 56.
156
«la scienza umana sarà sempre limitata per la limitatezza del nostro
intelletto, al quale Dio permette solo la conoscenza delle cause
materiali ed efficienti, e di alcune parziali leggi di qualche data natura.
La gloria di Dio, dice Salomone, è di nascondere il suo segreto»618.

In Bacon, ancor prima della verità delle cose, l’oggetto dell’indagine era il
metodo adoperato dall’indagatore, allo scopo di rintracciare l’origine degli errori
e delle patologie delle argomentazioni; da questo punto di vista la dottrina degli
idola rappresentava il supporto teorico preminente.
Secondo una parte rilevante della storiografia giuridica, la critica baconiana al
sistema scolastico non aveva aggiunto molto alla polemica cinquecentesca di
Pierre de la Rameé619, «ma fu piuttosto la tassonomia degli errori elaborata da
Bacone a fondare quella che può essere considerata l’epistemologia moderna»620.
Nel Nuovo Organo, egli identificava infatti svariate tipologie tipiche di idola: gli
idola tribus, gli idola specus, gli idola theatri e, soprattutto, gli idola fori. Questi
ultimi, i più pregiudizievoli in assoluto, offrivano lo spunto per l’effettuazione di
una critica feroce contro tutto il nominalismo aristotelico e le sue ricadute in
campo giuridico:

«(…) I più dannosi di tutti sono gli idoli del foro, insinuatisi
nell’intelletto per connubio di parole e di nomi. Infatti gli uomini
credono che la loro ragione governi le formule, ed invece avviene
anche che le formule ritorcano ed esercitino la propria forza
sull’intelletto, la qual cosa ha reso la filosofia e le scienze sofistiche
inattive. Le formule, poi, plasmate secondo la capacità comune,
dividono le cose per mezzo di linee grossolane, più facilmente visibili
all’intelletto volgare. Quando poi un intelletto più acuto o
un’osservazione più diligente vuole modificare quelle linee, perché
siano più conformi alla Natura, le formule si ribellano. Avviene
dunque spesso che le grandi e solenni dispute dei dotti finiscano in
controversie sui nomi e le parole: e sarebbe più saggio cominciar
proprio da queste (come fanno prudentemente i matematici), dando
loro un ordine mediante definizioni. Però nemmeno le definizioni,
trattandosi di cose naturali e materiali, possono rimediare a questo
male: giacché anche le definizioni constano di parole e le parole

618
F. Bacon, Nuovo Organo delle scienze di Francesco Bacone di Verulamio, trad. it. a cura di
A. Pellizzari, cit., pag. 167.
619
Sul punto: V. Piano Mortari, Diritto, logica, metodo nel secolo XVI, Napoli 1979, pp. 115 e
ss; A. Giuliani, voce Prova (Filosofia), in Enciclopedia del diritto, Milano, 1988, vol.
XXXVIII, pag. 555.
620
I. Rosoni, Quae singula cit., pag. 23
157
generano formule. E’ necessario dunque ricorrere all’osservazione dei
casi particolari, delle loro serie e dei loro ordini (…)»621.

Il metodo di ricerca baconiano, lungi dal poggiare su assiomi incontrovertibili,


era tutto fondato sul senso e sull’intelletto. Entrambi questi elementi venivano
considerati imprescindibili l’uno all’altro: il senso, fondamentale ausilio della
percezione soggettiva, inganna, e contro l’inganno occorrono strumenti che lo
correggano622. Ma l’intelletto, a sua volta, lasciato a sé (sibi permissus), rischia di
dar luogo ad una conoscenza parimenti arbitraria, immaginosa, fallace: perciò
«mediante il senso ben guidato, l’intelletto deve riferirsi alla natura, con un
altrettanto bene guidato procedimento, che è la vera induzione, diversa da quella
falsa aristotelica. La vera induzione si avvale dunque di due fondamentali
operazioni: la purificazione dell’intelletto e l’ordinamento dell’esperienza»623.
La serena accettazione della fallibilità della conoscenza, abbinata alla piena
possibilità di correggerla opportunamente mediante l’uso della ragione,
consentiva, secondo Bacon, di pervenire al più elevato grado di vicinanza alla
verità: erano questi i nuclei di pensiero destinati a scuotere irreversibilmente la
storia dell’epistemologia moderna.
La cultura che egli mirava ad instaurare era infatti scevra da qualunque elemento
“autoritativo”, “magico” o “contemplativo” del sapere: era necessario, per
l’autore, introdurre una nuova filosofia che sostituisse tutte quelle precedenti,
non certo muovendosi sul loro stesso terreno, accettandone principi,
argomentazioni e dimostrazioni, ma assumendo piuttosto un atteggiamento
nuovo dell’uomo di fronte alla natura, implicante diversi principi, diverse
argomentazioni, diverse dimostrazioni. Occorreva, in definitiva, «un nuovo
concetto di verità, una nuova moralità, una nuova logica»624.
Anche Galileo625 tentò di elaborare un ridimensionamento del concetto di verità,
effettuando anzitutto una separazione tra le verità di fede, cui la ragione
rinunciasse a pervenire stante la loro assoluta impenetrabilità, e le verità della
natura, rispetto alle quali il ragionamento scientifico fosse pienamente
esercitabile. Tale divisione, per quanto prudente e rispettosissima dei dogmi

621
F. Bacon, Nuovo Organo cit., LIX, pp. 65-66.
622
«(…) Impressiones sensus ipsius vitiosae sunt; sensum enim et destituit et fallit. At
destitutionibus substitutiones, fallaciis rectificationes debentur», F. Bacon, Novum Organum or
True suggestions for the interpretation of Nature, London, 1844, l. I, aphorisumus 69, pag. 179.
623
G. Tinivella, Bacone cit., pag. 60.
624
P. Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza cit., pag. 141.
625
Sull’influenza di Galileo sul mutamento dei paradigmi culturali secenteschi esiste una
bibliografia pressoché sconfinata. Si ricordi tuttavia in particolare un’antologia di scritti curata
da F. Lomonaco e M. Torrini, con un’importante introduzione di G. Galasso, intitolata Galileo e
Napoli, cit., nella quale si evidenziano i collegamenti tra lo scienziato pisano e gli ambienti
intellettuali della Capitale del Regno, di cui infra, III.3.
158
religiosi, non bastò, com’è noto, ad impedire reazioni violente ed espresse prese
di posizione; questo perché la distinzione tra i due piani faceva venire meno la
saldatura tra teologia e filosofia naturale, che da secoli sembrava garantire alla
Chiesa la sua funzione di guida delle coscienze e, in maniera del tutto
complementare, di guida della cultura dominante. Quest’ultimo ruolo, tuttavia,
appariva sempre più discutibile: lo slancio fideistico verso la ragione umana, la
riscoperta delle molteplici ed inespresse potenzialità dell’intelletto, confermate
da clamorose scoperte scientifiche, erano ormai un fenomeno inarrestabile.
René Descartes, nelle sue Regulae626, avrebbe provveduto ad una sorprendente
valorizzazione della spontanea creatività dell’ingegno umano, elaborando una
moderna teoria del lavoro intellettuale in quanto attività razionale
teleologicamente orientata all’accumulazione accrescitiva: «all’ideale di
conoscenza astratto e formale della scolastica tradizionale, Cartesio ne opponeva
uno produttivo e costruttivo»627. La ragione diveniva così parte attiva di un
processo, appunto, di costruzione, dove la verità non era più data, ma andava
piuttosto ricercata: era, in altre parole, il risultato di un’attività umana di
composizione, di elaborazione e di comprensione628.
E’ del tutto evidente che simili assunti non potevano che esercitare un’influenza
irresistibile nella teorica delle prove giudiziali: in un orizzonte di verità
precostituite, che chiedeva al giudice di accontentarsi delle sole formali evidenze,
questi nuovi principi mostravano la possibilità di conoscere seguendo percorsi
logici e argomentativi differenti.
In un fondamentale compendio del XVIII secolo629, il più efficace divulgatore del
sensismo italiano, Francesco Soave630, illustrò le numerose ripercussioni della

626
L’opera cui si fa riferimento sono le Reguale ad diretionem ingenii, a cura di A. Buchenau,
Paris, 1966. Sulla rivoluzione metodologica di Descartes: G. Bontadini, Studi sulla filosofia
dell’età cartesiana, Brescia, 1947; A. Bruno, Cartesio e l’illuminismo, Bari, 1949; E.P. La
Manna, Da Cartesio a Kant, Firenze 1967; B. De Giovanni, R. Esposito, G. Zarone (a cura di),
Divenire della ragione moderna: Cartesio, Spinoza, Vico, cit.; E. Cassirer, Cartesio e Leibniz,
cit.; G. Brianese (a cura di), Il Discorso sul metodo di Cartesio e il problema del metodo nel
XVII Secolo, Torino, 1988; C. Ciancio, U. Perone, Cartesio o Pascal? Un dialogo sulla
modernità, Torino, 1995; A. Del Prete (a cura di), Il Seicento e Descartes. Dibattiti cartesiani,
Firenze, 2004.
627
G. Zarone, Cogito o della volontà di distinguere cit., pag. 68.
628
Quando Descartes morì a Stoccolma, l’11 febbraio del 1650, si trovò tra i suoi scritti inediti,
di cui immediatamente dopo la sua morte venne redatto un minuzioso inventario, anche un
frammento di dialogo che porta il titolo: La ricerca della verità mediante il lume naturale, il
quale nella sua purezza, e senza valersi dell’aiuto della religione né di quello della filosofia,
determina le opinioni che deve avere un uomo dabbene, riguardo a tutto ciò che può occupare
la sua mente e penetra fino ai segreti delle scienze più curiose, pubblicato negli Opuscula
Posthuma, Pysica et Mathematica, Amsterdam, 1701. Sul punto: A. d’Atri, Cassirer e la
ricerca della verità di Cartesio, Catanzaro, 1998.
629
F. Soave, Del modo di ricercare e conoscere la verità, Napoli, 1791.
159
“novella filosofia” secentesca sul modo di ricercare e conoscere la verità: scopo
ultimo di tale arte, spiegava il filosofo, consisteva «nell’insegnare la maniera di
togliere la ignoranza ed il dubbio; nell’assegnare i caratteri, che distinguono la
semplice opinione dalla vera certezza; nell’additare i mezzi con cui all’opinione
probabile, o alla certezza può arrivarsi, e nell’indicare le cause degli errori, onde
saperli fuggire»631. Così proseguiva: «A tutto questo la mente non può arrivare,
se non con l’uso delle facoltà e delle operazioni, e con l’acquisto delle necessarie
nozioni ed idee»632. Le facoltà, o potenze della mente venivano identificate con
l’intelletto, la memoria e la volontà. Tra le molteplici operazioni di cui la mente è
capace (sentire, ricordare, volere, agire), quella che maggiormente occupava
Soave era la facoltà di riflettere. Esisteva infatti un tipo di riflessione dell’anima
su se stessa, che coincideva con la coscienza, ed un tipo di riflessione generale,
che era «il trasporto dell’attenzione da una cosa ad un’altra»633. Da essa derivava
il confronto delle nozioni, e dunque la cognizione, il discernimento, il giudizio
(che a sua volta sottintendeva il raziocinio, l’atto di astrarre, l’atto di
generalizzare, l’atto di comporre e la stessa scomposizione). Secondo la
costruzione di Soave, dal confronto tra nozioni nasceva il paragone, vale a dire la
scoperta delle relazioni intercorrenti e della misura in cui esse fra loro
«convengano o disconvengano».

630
Nato a Lugano nel 1743, entrò giovanissimo (1759) nella congregazione dei padri somaschi;
fu professore a Milano, poi a Parma all'Accademia dei paggi e, nel 1768 ebbe una breve
esperienza di insegnamento universitario, salvo poi tornare di nuovo a Milano, nel 1772, nel
liceo di Brera; tra il 1786 e il 1789 fu direttore generale delle scuole elementari di Lombardia, in
cui fece applicare i metodi di J. I. Felbiger, rivelandosi buon organizzatore. Nel 1796, alla
venuta dei Francesi, temendo rappresaglie per l'opuscolo Vera idea della rivoluzione di Francia
(1795), si rifugiò a Lugano, nel collegio dei somaschi, dove ebbe come discepolo un giovane
Alessandro Manzoni. Passò quindi (settembre 1798) a Napoli, chiamatovi dal principe d'Angri
per l'educazione del figlio; nel 1799, riconquistata la Lombardia dagli Austriaci, ritornò a
Milano, ad occupare nuovamente il posto di professore al liceo di Brera; nel 1802 fu destinato
al rettorato del Collegio nazionale di Modena e l'anno seguente alla cattedra di "analisi delle
idee" (ideologia) dell’Università di Pavia. Tradusse opere letterarie e filosofiche dal greco, dal
latino, dall'inglese e scritti didattici dal tedesco. Ebbe grande fama per la sua attività di
divulgatore in Italia dell'empirismo lockiano e del sensismo di Condillac. Accurate e diligenti le
sue pubblicazioni destinate all'insegnamento, dall'Antologia latina (1771) alle Istituzioni di
logica, di metafisica, di etica (1791), adottate in quasi tutte le scuole d'Italia fino alla metà del
sec. XIX. Nel trattato intitolato Del modo di ricercare e conoscere la verità, sempre del 1791,
l’influenza di Locke appare particolarmente significativa. Ma la fortuna maggiore arrise alle
sue Novelle morali (più di 100 edizioni dal 1782 al 1909), uno dei primi e più considerevoli
saggi di letteratura per l'infanzia. Morì a Pavia nel 1806. Le sue Opere complete, composte da
19 volumi, apparvero postume, tra il 1815 e il 1817. In A. Grossi, L. Gianella, Francesco
Soave: vita e scritti scelti, pubblicati in occasione del secondo centenario della nascita,
Bellinzona, 1944.
631
F. Soave, Del modo di ricercare,cit., pag. 54.
632
Ibidem, pag. 56
633
Ibidem, pag. 65
160
L’atto con cui si scopre la coerenza o la discordanza tra le nozioni veniva
definito cognizione; quella particolare specie di cognizione che serve ad
evidenziare le differenze veniva chiamata discernimento. L’esito finale di questo
procedimento era, per Soave, il giudizio, ossia l’affermazione o la negazione
della «convenienza o disconvenienza tra loro delle cose paragonate»634.
Com’è evidente, egli tentava di identificare uno strumento che consentisse di
riconoscere la verità fattuale con una elevata percentuale di sicurezza. Per far
questo, egli distingueva tre piani entro i quali ricondurre le cognizioni umane: la
certezza, l’opinione (non arbitraria, ma ragionevole), il dubbio. Ciascuno di
questi livelli era raggiungibile “indirettamente”, attraverso la logica indiziaria
che, pur mancando dell’immediatezza e dell’autoevidenza, non escludeva né la
certezza, né la massima probabilità:

«Ciò che chiamasi criterio della verità, che vale discernimento della
stessa, consiste nel saper distinguere il grado d’assenso che merita
ciascun indizio, quali indizi cioè debbano escludere ogni dubbio, e
portare nell’animo la piena certezza; quali lasciarvi alcun dubbio, ma
far chè l’animo pieghi a una parte piuttosto che all’altra e produrre
l’opinione; e quali vi debbano lasciare il dubbio intorno e far che
l’animo sospenda ogni assenso, ogni giudizio. Quelli che sono atti a
portar nell’animo la vera certezza, si chiamano indizi certi; quelli che
possono produrre soltanto l’opinione si chiaman probabili; e quelli che
lasciano l’intero dubbio si chiamano dubbiosi»635.

In siffatto procedimento logico, l’elemento artificiale (l’indicium), quantomeno


nelle sue due forme più qualificate, acquisiva una rilevanza enorme: non più
strumento di second’ordine nella ricostruzione della verità, ma ausilio primario
dell’intelletto e della convinzione.
Era chiaro, dunque, il rovesciamento dell’impostazione originaria, reso possibile
dalla messa in discussione dei dogmi principali dell’aristotelismo: superato «il
giogo dell’autorità e dè pregiudizi», era ora possibile «far uso della propria
ragione, dubitare prudentemente ed esaminare le cose colla dovuta maturità e
certezza»636. Questo poteva accadere perché oggetto dell’indagine non era né una
verità di tipo metafisico, né una verità di tipo morale (da intendersi come
risultato “emotivo”), bensì una verità logica. Essa coincideva, per l’autore, con

634
Ibidem, pag. 66
635
Ibidem, pag. 82.
636
Ibidem, pag. XL
161
«la conformità delle nostre idee e dei nostri giudizi colle cose alle quali si
riferiscono»637.
La dissertazione di Soave in materia indiziaria, non è l’unico esempio
dell’utilizzo massiccio, da parte dei filosofi, di un gergo chiaramente processuale.
Anche John Locke, svariati decenni prima, nel Saggio sull’Intelletto Umano,
aveva effettuato un’analisi della conoscenza che sfociava inevitabilmente in una
dimensione giuridica638. Più precisamente, nel IV libro, il tema della conoscenza
probabile, identificata come conoscenza razionale639, offriva lo spunto per la
elaborazione di un metodo suscettibile di trovare i propri esiti nei più disparati
campi della prassi politica, religiosa e, soprattutto, giurisprudenziale.
In tema di testimonianze, per esempio, si diceva che queste dovessero
necessariamente essere vagliate in base ad un aspetto qualitativo, vale a dire una
somma di considerazioni, ch’era la maggiore o minore probabilità, e non secondo
un mero criterio numerico:

«The grounds of probability are two: conformity with our own


experience, and the testimony of other’s experience - Probability,
then, being to supply the defect of our knowledge, and to guide us
where that fails, is always conversant about propositions whereof we
have no certainty, but only some inducements to receive them for true.
The grounds of it are, in short, these two following:
-first: the conformity of any thing with our own knowledge,
observation and experience.
-secondly: the testimony of others, vouching their observation and
experience.
In the testimony of others, is to be considered: the number; the
integrity; the skill of the witnesses; the design of the author, when it is
a testimony out of a book cited; the consistency of the parts and
circumstances of the relation; contrary testimonies»640.

I sei punti indicati possono essere considerati come una succinta visione delle
principali regole ermeneutiche dell’intelletto e del giudizio; anche in questo caso,

637
Ibidem, pag. 53.
638
Sul punto: C.A. Viano, John Locke: dal razionalismo all’illuminismo, Torino, 1960; J.
Gibson, Locke’s Theory of knowledge and its historical relations, cit.; A. Pacchi, Introduzione
alla lettura del Saggio sull’intelletto umano di Locke, cit.; R. Russo, Ragione e ascolto:
l’ermeneutica di John Locke, cit.
639
In Locke il verosimile non contamina l’ambito del razionale, ma è piuttosto il razionale che
investe l’ambito del verosimile. Attributi della conoscenza probabile sono la credenza,
l’opinione e l’assenso. Sul punto: A. Pacchi, Introduzione cit., pag. 10.
640
J. Locke, An Essay concerning human understanding: in four books, London, 1721, Cap.
XV, Of Probability, par. IV, pag. 500.
162
assistiamo ad un clamoroso rovesciamento dell’impostazione teorica cui il
processo continentale ci aveva abituati; una logica, cioè, secondo cui un
testimone, per quanto attendibile e de visu, non fosse sufficiente a fare piena
prova, mentre due testimoni idonei avrebbero fatto scattare automaticamente la
pena edittale, quale che fosse l’effetto prodotto “nella mente del giudice” dalle
loro deposizioni.
E’ pur vero che il dato numerico (la quantità dei testi) veniva ovviamente inserito
dal filosofo inglese tra gli elementi al vaglio del magistrato, ma esso era solo uno
tra i molti occorrenti a determinare la maggiore o minore affidabilità della
ricostruzione.
L’aspetto più interessante di questa visione è tuttavia un altro: ancor prima della
dichiarazione testimoniale e della sua maggiore o minore attendibilità, Locke
inseriva in cima alla scala delle “variabili probabilistiche”, il confronto della
realtà fenomenica con la propria conoscenza, con la propria osservazione, con la
propria esperienza. Questo significava collocare in primo piano la soggettività
del giudicante, in un’ottica di “personalizzazione” dell’attività valutativa a dir
poco inedita, quantomeno per i paradigmi continentali.
Si trattava, peraltro, di una valutazione aprioristicamente limitata e fallibile;
questo perché secondo Locke la nostra conoscenza del mondo fisico non può che
arrestarsi ai fenomeni: ragion per cui, ogni spiegazione che forniamo degli stessi
non può che essere di tipo ipotetico, nel senso che non abbiamo un rapporto
diretto con l’oggetto, ma con la sua sola manifestazione641. Il che equivaleva a
chiarire la distanza, che può talvolta essere incolmabile, tra verità processuale e
verità fattuale.
Eppure, a questa necessaria limitatezza, non mancava di corrispondere una
profonda fiducia nel raggiungimento di un elevato grado di certezza e
affidabilità:

«Per manchevole che sia la conoscenza degli uomini rispetto ad una


comprensione universale o perfetta di tutto ciò che esiste, essa tuttavia
assicura loro cose di grande importanza, cioè che hanno lumi
sufficienti a condurli alla conoscenza del loro Creatore e alla visione
dei loro doveri»642.

Il concetto fondamentale che stava alla base della teoria lockiana del giudizio e
del suo tentativo di razionalizzare l’opinione, era, com’è noto, la probabilità:

641
Anche in questo caso è palese la perfetta applicabilità del procedimento descritto al
ragionamento indiziario.
642
Citazione da A. Pacchi, Introduzione cit., pag. 15
163
«Poiché la nostra conoscenza, come si è dimostrato, è strettissima, e
non abbiamo la fortuna di trovare la verità certa in tutto quello che
abbiamo l’occasione di considerare, la maggior parte delle
proposizioni che noi pensiamo, di cui ragioniamo o discorriamo - anzi,
in base alle quali operiamo, è tale che, della loro verità, non possiamo
avere una conoscenza indubbia, tuttavia, alcune di esse rasentano così
da vicino la certezza, che sul conto loro non abbiamo assolutamente
alcun dubbio; bensì vi diamo il nostro assenso con tanta fermezza, e in
conformità di tale assenso operiamo con tanta risoluzione, come se
fossero infallibilmente dimostrate, e come se la conoscenza che ne
abbiamo fosse perfetta e certa»643.

Con queste argomentazioni, si schermava preventivamente la probabilitas dal


pericolo dello scetticismo, e le si conferiva il crisma di una certezza “possibile”.
A proposito dell’attività di giudizio, e della straordinaria “personalizzazione” cui
si è accennato poco sopra, un risalente ma fondamentale saggio sul cognitivismo
secentesco644, ha messo in evidenza come il belief lockiano fosse frutto di un
puro soggettivismo empirico: le idee, per Locke, nascevano dalla sensazione e
dalla riflessione; i sensi convogliavano nella mente res externae, che
producevano in essa percezioni. Questo avveniva perché la probabilità
possedeva, in questa teorizzazione, una declinazione necessariamente soggettiva:
essa dipendeva dal grado attuale della conoscenza, e dai suoi stessi limiti, che
sono i limiti dell’intelletto umano sommati ai limiti del singolo giudicante645.
L’attività di giudizio appariva dunque dominata dalla probabilità, «correlativa
alla dimostrazione, perché necessaria a supplire alla conoscenza certa che non
sempre riusciamo a possedere»646.
Vero è che John Locke riferiva presumibilmente il suo discorso ad un sistema,
quello inglese, la cui law of proof si presentava fortemente differenziata rispetto
al resto d’Europa: basti pensare all’assenza di prove legali e alla presenza delle
giurie647; ciò non comporta comunque un ridimensionamento della portata della

643
J. Locke, An Essay cit., IV, XV, citazione da L. Cataldi Madonna, La filosofia della
probabilità nel pensiero moderno, cit., pag. 70.
644
G. Bianca, La credenza come fondamento dell’attività pratica in Locke ed Hume, Catania,
1948.
645
Analogamente si esprimerà C. Thomasius nell’ Introductio ad philosophiam aulicam,
Munchen, 1688, e nell’ Einleitung zur Vernunftlehre, Magdeburg, 1699. Sul punto: A. Cattaneo,
Delitto e pena nel pensiero di C. Thomasius, Milano, 1979.
646
J. Locke, An Essay cit., IV, XV, 2.
647
Com’è noto, questo discorso valeva senz’altro per le corti di common law, ma non del tutto
per le corti di prerogativa, espressione diretta della giustizia ritenuta del re d’Inghilterra, nonché
«cavalli di troia della tradizione romano-canonica nella libera Albione» (G. Alessi, Processo
penale cit., pag. 95). Questo perché, sia nella Court of Chancery che nella stessa Star Chamber,
competente per la repressione del reato politico, la presenza di ecclesiastici di formazione
164
sua costruzione teorica, che resta la più innovativa dottrina secentesca della
conoscenza e della probabilità, e che dimostra di trovare infinite altre
applicazioni, ben oltre i confini della Manica: non è un caso che l’Essay abbia
conosciuto in Italia una straordinaria diffusione e abbia suscitato accesi dibattiti
tra i più illustri esponenti del pre-illuminismo giuridico.
L’opera in questione, com’è noto, raccolse infatti intorno a sé ammirate adesioni
e feroci polemiche, destinate a protrarsi sino ai primi decenni del XVIII
secolo648. Ciò accadde perché con il saggio di Locke, il metodo della conoscenza
umana veniva profondamente ridiscusso, e proprio il frequente riferimento alla
cognizione in ambito processuale, portò molti giuristi ad ipotizzare un diverso
approccio alla ricostruzione della verità giudiziaria649, anzitutto mediante
l’utilizzo di strumenti sino ad allora ritenuti inadeguati e inaffidabili, come
l’indizio e la presunzione (la cosiddetta analisi circostanziale).
La riflessione epistemologica del XVII secolo, che trovò nel filosofo di
Wrington uno dei suoi più audaci esponenti, operò dunque un pervasivo processo
di legittimazione del “convincimento induttivo”650, facendo maturare, in campo
giudiziale, una teoria della certezza morale legata al principio della probabilità,
teoria che si coniugava perfettamente con la logica della prova indiretta. Come ha

romano-canonica escludeva la presenza di giurati e comportava l’adozione di forme più


marcatamente inquisitoriali. Sul punto: T.A. Green, Verdict According to Conscience.
Perspectives on the English Criminal Trial Jury, 1200-1800, University of Chicago Press,
Chicago-London, 1985.
648
Ci si riferisce qui anzitutto alla polemica tra Ludovico Antonio Muratori e Francesco Rapolla
avente ad oggetto i metodi e gli errori della giurisprudenza, una sorta di duello letterario che si
svolse negli anni ‘40 del Settecento attraverso la pubblicazione delle rispettive opere: Dei difetti
della giurisprudenza, Napoli, 1742 e Difesa della giurisprudenza, edita anch’essa a Napoli nel
1744. Sempre Muratori scrisse un’appassionata difesa dell’opera di Locke, Delle forze
dell’intendimento umano o il Pirronismo confutato, pubblicata a Venezia nel 1756, che sin dal
titolo era una risposta polemica al Trattato filosofico della debolezza dello spirito humano, di
tale Monisgnor Pierre Daniel Huet, pubblicata a Padova nel 1724. Contro Locke si era invece
espresso Paolo Mattia Doria, che negli anni ‘30 del Settecento scrisse una Difesa della
Metafisica degli antichi filosofi contro il Signor Giovanni Locke ed alcuni altri autori, Venezia,
1732-1733. Dieci anni prima lo stesso Doria aveva pubblicato anche uno scritto contro Cartesio:
Discorsi critici filosofici intorno alla filosofia degli antichi e dei moderni ed in particolare
intorno alla filosofia di R. des Cartes, Venezia, 1724.
649
«Negli articoli legali non si dà verità certa e determinata, e massimamente in materie
conjetturali o arbitrarie», così scriveva Muratori nelle pagine introduttive dell’opera Dei difetti
della giurisprudenza, esprimendo profonda sfiducia nel sistema della predeterminazione; ancor
più specificamente, al capo VII, Dè giudici e dè lor difetti, denunciava l’assenza di scientificità
nella valutazione giudiziale, requisito ritenuto indispensabile per poter rettamente sentenziare:
«Il giudizio scientifico consiste in una penetrazion di mente che sa argomentare rettamente dai
particolari agli universali, e ravvisare le differenze che passano fra l’un caso e l’altro; che può
conoscere la forza delle circostanze, capaci di far mutare l’aspetto delle cose; indagare e scoprir
le intenzioni degli uomini; ed è capace di ben distinguere ciò che è ragione o sofisma, superfluo
o utile, per fondare un retto giudizio», in L. A. Muratori, Dei difetti cit., pag. 105.
650
Sul punto: L. Cataldi Madonna, La filosofia della probabilità cit., pag. 68.
165
spiegato A. Tarsky651, infatti, il ragionamento indiziario, tipicamente
inferenziale, è tutto basato sul principio della causalità. Quest’ultima, fino a tutto
il Cinquecento, esisteva come “verità assiomatica”, poiché non si concepiva il
rapporto causa-effetto come un binomio, ma come un continuum necessario nel
quale venivano considerati isolabili singoli momenti. Con la Rivoluzione
scientifica, i fenomeni cominciarono ad essere presentati e spiegati come una
successione logica, dove ogni evento era giustificato da un altro che si
configurava come sua causa efficiente. Ne discendeva la necessità di una loro
enumerazione e catalogazione, che dava luogo a quella “catena induttiva di
ipotesi” che sola consentiva il raggiungimento del più alto grado di probabilità652.
Allo stesso modo, la presunzione trovava nel ragionamento probabilistico la sua
perfetta declinazione, dal momento che si concretava in un procedimento logico
che da un fatto di base deduceva l’esistenza di un fatto sconosciuto, basandosi,
appunto, sulla probabilità. Anche in questo caso la conclusione era dunque
un’ipotesi, che spiegava il nesso causale tra la fattispecie di reato e l’insieme dei
dati probatori raccolti.
Le costruzioni teoriche dei filosofi-scienziati e dei filosofi-giuristi tardo
secenteschi, cui per ovvie ragioni si è qui potuto solo brevemente accennare,
mostrano una straordinaria contiguità tra l’indagine epistemologica e la teoria del
diritto, segnatamente di quello probatorio. Questa corrispondenza è ancor più
evidente in G. W. Leibniz, altro personaggio-chiave nel processo di
delimitazione dei confini della “certezza morale”, il quale così scriveva oramai
agli inizi del Settecento:

«Tutta la forma delle procedure legali, non è altro che una specie di
logica applicata alle questioni di diritto»653.
651
A. Tarsky, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica, in L. Linsky
(a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, Milano, 1969.
652
Così in I. Rosoni, Quae singula, cit., pag. 26.
653
G.W. Leibniz, Nouveaux essais sur l’entendement humain, tr. it. a cura di E. Cecchi, Nuovi
saggi sull’intelletto umano, Bari, 1988, lib. IV, c. 16, §9, pag. 496. L’opera fu composta nel
1704, e rappresenta il momento conclusivo di un processo di graduale avvicinamento tra le
dottrine giuridiche di Leibniz e quelle filosofico-cognitive: in realtà i frutti delle sue ricerche
metodologiche e le loro applicazioni all’universo giurisprudenziale, apparvero già dagli anni
sessanta del Seicento: nel 1665 fu pubblicato lo Specimen certitudinis seu demonstrationum in
jure, exhibitum in doctrina conditionum; l’anno dopo fu presentata la dissertazione intitolata De
casibus perplexis in iure, ove Leibniz dimostrava che i casi dubbi possono essere risolti con un
calcolo razionale e secondo principi “ex mero iure”. Sempre nel 1666, la Dissertio de arte
combinatoria, fu pensata come una teoria delle combinazioni e delle permutazioni a partire dai
fondamenti dell’aritmetica: si gettavano così i semi dell’arte di meditare, ossia della logica della
scoperta. Nel 1669 veniva dato alle stampe lo Specimen demonstrationum politicarum, dove
persino le proposizioni politiche venivano dimostrate more geometrico: qui egli si rivolgeva, tra
l’altro, a Luigi XIV, raccomandandogli la conquista dell’Egitto con l’ausilio di rigorosissimi di
ragionamenti logici. In G. Solari, Metafisica e diritto in Leibniz, cit., pag. 37 e ss
166
Egli, com’è noto, si occupò diffusamente del concetto di probabilità e della sua
connessione con l’universo giuridico e processuale: oltre ai Nuovi Saggi
sull’Intelletto Umano, ne trattò anche in un frammento senza data pubblicato dal
Trendelenburg col titolo Definitio iustitiae universalis, oltreché in un’opera
giovanile rimasta incompiuta, intitolata Ad stateram juris, de gradibus
probationum et probabilitatum654.
L’Opera Omnia655 di Leibniz, presenta un’intera sezione dedicata alla materia
giurisprudenziale, all’interno della quale troviamo molteplici esempi di pratica
applicazione delle teorie cognitive e probabilistiche alle questioni di diritto: la
Dissertatio de casibus perplexis; lo Specimen difficultatis in jure, conosciuto
anche come Quaestiones philosophicae amoeniores ex jura collecta; lo Specimen
certitudinis seu de conditionibus e, ovviamente, il Nova Methodus discendae
docendaeque Jurisprudentiae656.
Nel primo frammento, scritto nel 1666, Leibniz suggeriva l’applicazione della
scienza probabilistica per la risoluzione di casus e dispositiones juris che fossero
controverse o dubbie657; nel secondo, più o meno dello stesso periodo, venivano
formulate una serie di quaestiones corrispondenti ad altrettanti problemi
giurisprudenziali, tra i quali spiccava quello dedicato al tema dell’onus
probandi658.
L’anno prima, nello Specimen certitudinis, egli aveva affrontato ancor più da
vicino l’argomento della probabilitas attraverso la disciplina delle conditiones,
«pars Logicae Juridicae»659, sottoponendo queste ultime a regole di tipo morale,
commune ratione, o proprie e singolari, secondo uno schema suscettibile di avere
piena applicazione anche nel contingente probatorio dei signa e della loro
demonstratio660.
Queste opere dimostrano come avanzasse, in quei decenni, una concezione
straordinariamente versatile della matematica e delle scienze in generale, che le
rendeva suscettibili di essere applicate alle ricerche e alle discipline più disparate,
compreso l’universo giuridico661. Per questo, Leibniz propose nel già citato Nova

654
Ibidem, pag. 43.
655
Ed. Consultata: Ginevra, 1788.
656
Ibidem, t. IV, pars III, pp. 159-229.
657
Ibidem, t. IV, pars III, pp. 45-67.
658
Ibidem, t. IV, pars III, pp. 68-91. La quaestio cui si fa riferimento è la II, pag. 72, dove si
discute del rapporto tra la formula affirmanti incumbit probatio e quella quod opponens,
teneatur ad probationem.
659
Ibidem, t. IV, pars III, pag. 94, “Praeliminaria”.
660
Ibidem, t. IV, pars III, pag. 103
661
Sfondo ideologico di questa nuova concezione, fu la critica al probabilismo scolastico posta
in essere da Pascal nella sesta delle Lettere Provinciali (10 aprile 1656) e da Arnaud e Nicole
nella Logique de Port-Royal, uscita anonima nel 1662. Sul punto: L. Marin, La critique du
discourse. Sur la «Logique de Port-Royal» et les «Pensées» de Pascal, Paris, 1973.
167
Methodus discendae docendaeque Jurisprudentiae, una nuova metodologia di
formazione e apprendimento del diritto che avesse come proprio baluardo un uso
rigoroso della logica contro i metodi incerti e dubbi propugnati dai sostenitori di
un «diritto positivo e arbitrario»662: all’opposto egli celebrava la libertà critica e
un radicale rinnovamento delle conoscenze; un sapere enciclopedico che potesse
degnamente supportare l’ars inveniendi e la stessa analitica, ossia l’arte di
giudicare:

«Topicae, seu artis inventivae fundamentum sunt loci, id est,


relationes trascendentes, ut totum, causa, materia, simile, dissimile. Et
ex rebus tali aliqua relatione nexis fiunt propositiones per artem
combinatoriam (…). Analytica seu ars judicandi, mihi quidem videtur
duabus fere tota absolvi: ut nulla vox admittatur, nisi explicata; ut
nulla propositio, nisi probata (…)»663.

In tutte le succitate opere di Leibniz, si rintraccia l’intento di costruire una nuova


logica del probabile che differisse irreversibilmente dalla logica classica, perché
voleva essere scienza del reale: non delle verità eterne ed immanenti, ma delle
verità temporali e contingenti. Da questo punto di vista, non è affatto casuale la
circostanza che l’idea di questa costruzione gli fosse venuta proprio nel corso dei
suoi studi giuridici in materia di prova664; la storiografia tradizionale è pressoché
concorde, anzi, nel ritenere che proprio da quegli studi egli trasse l’impulso alla
riforma della logica665: «Il problema per Leibniz doveva porsi non nel senso di
disconoscere il valore e la necessità della logica formale, ma piuttosto nel senso
di integrarla con una nuova logica che servisse all’incremento delle conoscenze,
alla scoperta e allo svolgimento di nuove verità, fossero esse razionalmente
fondate, o fossero fondate sull’esperienza naturale e storica»666.
La visione razionale del contingente, la possibilità di un calcolus ratiocinator
applicabile a qualunque scienza, la concezione intellettualistica dell’uomo e della
realtà, la convergenza tra razionalismo ed empirismo, furono tutti contributi a dir
poco decisivi all’elaborazione di un nuovo concetto di conoscenza e di giudizio.
Ma fu nel campo specifico della probabilità che Leibniz mostrò di poter influire
ancor più significativamente nella materia delle prove.
662
C. Vasoli, Enciclopedismo, pansofia e riforma “metodica” del diritto nella Nova Methodus
di Leibniz, cit., pag. 41.
663
G. W. Leibniz, Nova Methodus discendae docendaeque Jurisprudentiae, in Opera Omnia
cit., pag. 174, n. 24- 25.
664
Sul punto: C. Vasoli, Enciclopedismo, pansofia e riforma “metodica” del diritto nella Nova
Methodum di Leibniz, cit., pag. 37 e ss., alla cui copiosa bibliografia sulle dottrine giuridiche di
Leibniz si rimanda.
665
G. Solari, Metafisica e diritto in Leibniz, cit., pag. 35 e ss.
666
Ibidem, pag. 38.
168
Com’è noto, anche Jacopo Bernoulli667, aveva già vagheggiato l’applicazione del
calcolo della probabilità (l’arte di congetturare) al dominio morale, giuridico e
politico. Ma quello stesso calcolo era di tipo metrico, basato su numeri, e quindi
effettuabile solo entro uno specifico ambito matematico. In Leibniz invece - e
questo rende, evidentemente, il suo contributo di pensiero a dir poco
determinante nel campo che qui ci occupa - l’orizzonte non era quello delle
formule e dei segni aritmetici, ma piuttosto quello del “grado di verosimiglianza”
delle conclusioni possibili: la sua era un’analisi logica dell’id quod plerumque
accidit, che chiamava in causa la ragione, il buon senso, la certezza morale668.
Lo stesso processo, fosse esso di tipo civile o criminale, doveva essere, per
Leibniz, il tentativo di razionalizzare le controversie nelle materie opinabili,
stabilendo criteri in base ai quali si potesse raggiungere la verità cercata «fra i
meandri della contingenza»669.
E’ chiaro, dunque, che il più significativo contributo del filosofo di Lipsia
nell’epistemologia giuridica risieda proprio nella proposta di applicare alle prove
il criterio della probabilità, intesa come “maggiore possibilità” percepita dalla
ragionevolezza: ciò offriva un’altra decisiva chiave di volta al dibattito sulla
conoscenza, sulla verità, sul giudizio, e arricchiva teoricamente i futuri sviluppi
del diritto probatorio.
Dal punto di vista dell’elaborazione dottrinale della disciplina delle prove - non
ancora, è bene ribadirlo, nella prassi giudiziaria - questi nuovi fermenti
intellettuali legati al metodo della conoscenza e al discernimento della realtà
fenomenica, finivano dunque col soggettivizzare tutta l’attività di valutazione
connessa al processo: da un lato i giuristi venivano posti di fronte ad un nuovo
metodo di ricostruzione e composizione dei fatti; dall’altro si mostrava loro la
maggiore attendibilità di percorsi razionali rispetto ai classici automatismi di
stampo legalistico.
Sebbene, come già detto, la svolta secentesca sul tema della probabilitas non fu
affatto omogenea, e nonostante le molteplici discontinuità che contrassegnarono
le varie teorie cognitivistiche citate, l’aspetto che più ci riguarda da vicino è la
circostanza che, grazie a quella svolta e a quelle teorie, l’universo del diritto, e,
segnatamente, quello processuale, poterono poggiare su nuove basi teoriche i
loro futuri sviluppi: nel giro di pochi decenni, su quelle stesse basi, si sarebbero
formate nuove generazioni di giuristi-filosofi che avrebbero ridiscusso
profondamente, e irreversibilmente, le forme e le procedure d’antico regime.

667
J. Bernoulli, Ars Conjectandi. Opus Posthumum, Basiliae, 1713. Sul punto: C. Borghero, La
certezza e la storia: cartesianesimo, pirronismo e conoscenza storica, Milano, 1983.
668
In B. Leoni, Probabilità e diritto nel pensiero di Leibniz, cit., pag. 67.
669
Ibidem, pag. 93.
169
III.3 Il ceto togato napoletano e la nuova epistemologia della
verità. L’Accademia degli Investiganti: la disputa degli
antichi e dei moderni.

A testimonianza della sorprendente convergenza tardo-secentesca di correnti di


pensiero, solo apparentemente distanti dalla cultura giuridica, ma che di fatto
contribuirono ad un sostanziale mutamento della sua prospettiva metodologica,
l’esperienza napoletana appare particolarmente felice: il XVII secolo, specie
dalla seconda metà, fu, per la capitale del Regno, un momento di fermenti
straordinari.
La ricostruzione degli ambienti intellettuali (giuridici e non) che in quei decenni
ne animarono la vita politica e culturale, ci porta a conoscenza di un’intera
generazione di uomini di legge, scienziati, filosofi e persino uomini di Chiesa,
che tentarono di elaborare un diverso approccio - insieme pratico e sapienziale -
ai temi del diritto, della scienza e della teoresi.
Giuseppe Galasso, in un importante saggio dedicato all’influenza di Galileo in
Europa e nel Mezzogiorno d’Italia670, ha messo in evidenza come la rivoluzione
epistemologica secentesca sia stata la conseguenza di uno scontro frontale tra gli
elementi culturali dominanti, e gli elementi di critica e polemica che si
affacciarono in quei decenni non solo nel dibattito filosofico e scientifico ma
anche in altri settori, a cominciare dal pensiero giuridico.
Questa collisione tra le dottrine in continuità con la tradizione e quelle che invece
segnarono una netta cesura rispetto ad essa, assunse nel Regno proporzioni di
enorme rilievo, e sfociò in esperienze culturali di grande interesse.
A tal proposito vale la pena di soffermarsi sulla importante ancorché breve
parabola dell’Accademia degli Investiganti, che ebbe tra i suoi principali
esponenti un giurista, il celebre avvocato Francesco D’Andrea, personaggio-
chiave della rivoluzione intellettuale napoletana671.
670
G. Galasso, Scienze, filosofia e tradizione galileiana in Europa e nel Mezzogiorno d’Italia, in
Galileo e Napoli, cit., pp. IX-LVI.
671
Nato a Ravello nel 1625, fu uno dei più vivaci propulsori della novella maniera di filosofare
diffusasi a Napoli dalla seconda metà del Seicento. Il più celebre dei suoi scritti è un memoriale
biografico, gli Avvertimenti ai Nipoti, la cui più recente edizione è stata pubblicata, a cura di I.
Ascione, op. cit., all’interno della quale si rintracciano anche importanti notizie autobiografiche
utili a ricostruire le tappe fondative dell’Accademia: «Venuto in Napoli l’anno 1649 il nostro
signor Tomaso Cornelio, a cui la nostra città deve tutto ciò oggi si sa di più verisimile nella
filosofia e nella medicina, io fui il primo che abbracciassi quella maniera da lui propostaci di
filosofare con far venire in Napoli l’opere di Renato delle Carte, di cui sino a quel tempo n’era
stato a noi incognito il nome», F. D’Andrea, Avvertimenti cit., pag. 203. L’importante
contributo intellettuale fornito dal D’Andrea, che testimonia il significato della svolta
verificatasi a Napoli a seguito della diffusione delle opere di Bacone, Cartesio, Gassendi e
Descartes, si esprime soprattutto attraverso i suoi tre manoscritti filosofici: l’Apologia in difesa
170
«L’Accademia istituita in Napoli sotto il nome di Investiganti, della
quale se ne dichiarò protettore il Marchese d’Arena, tolse la servitù
infin allora comunemente sofferta di giurare in verba Magistri, e
rendette più liberi coloro che vi si arrolavano di filosofare, postergata
la Scolastica, secondo il dettame della ragione. Gli accademici ivi
aggregati erano tutti uomini dottissimi, ed i più insigni letterati della
città, onde s’acquistarono molto credito presso gli intendenti, e sopra
tutto presso i giovani, a’ quali non bisognò penar molto, per far loro
conoscere gli errori, ed i sogni, della filosofia dè Chiostri»672.

Un primo approccio con questi studiosi (giurisperiti, medici, matematici, persino


teologi di formazione gesuita673) fornisce una possibile chiave di lettura utile a
comprendere la connessione esistente tra l’evoluzione del concetto di prova nel
corso del Seicento e i nuovi fermenti culturali relativi al pensiero critico che, in
quegli stessi decenni, si dimostrarono capaci di mutare radicalmente il volto
dell’epistemologia giuridica napoletana: proprio D’Andrea, uno dei precursori
del movimento, avvertì per primo con estrema lucidità che era giunto il momento
di scardinare dalle fondamenta il vecchio edificio aristotelico-scolastico,
mettendone in discussione nello stesso tempo l’impianto filosofico-scientifico,
l’insegnamento metodologico, e la stessa ideologia che ne derivava.
Nel circuito investigante, il concetto di verità appariva più che mai condizionato
dal metodo sperimentale: essa si ricercava nel suo “farsi”, senza la

degli atomisti, 1685, custodita a Napoli, presso la Biblioteca Oratoriana dei gerolamini, ms.
XXVIII.4.1; la Risposta a favore del Signor Lionardo di Capoa contro le lettere apologetiche
del p. De Benedictis gesuita, 1697, conservata a Napoli presso la Biblioteca Nazionale, ms.
I.D.4; ed infine una seconda stesura della Risposta, collocabile tra il 1697 ed il 1698, custodita
anch’essa in due esemplari presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, (rispettivamente ms.
IX.A.66 e ms. Brancacc. I.C.8). Si tratta di «Scritti di replica o di polemica contro il profilarsi,
in momenti di acuto conflitto, anche politico, di una rivincita della “cultura dei chiostri” sulle
istanze del sapere moderno (…); essi riaffermavano, contro il dogmatismo ed il verbalismo
scolastico imperversante, il metodo sperimentale, l’intuizione della materia e l’ipotesi
atomistica, l’indagine storica come criterio di verifica delle autorità». In A. Mazzacane, F.
D’Andrea, Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma, 1986. Sull’autore e l’opera: N.
Cortese, Gli «Avvertimenti ai nepoti» di Francesco D’Andrea per la prima volta pubblicati da
N.C., in «Studio giuridico napoletano», 1917; N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano
del Seicento: Francesco D’Andrea, Napoli, 1923; B. De Giovanni, Filosofia e diritto in
Francesco d’Andrea. Contributo alla storia del previchismo, Milano 1958; S. Mastellone,
Francesco D’Andrea politico e giurista (1648-1698). L’ascesa del ceto civile, Firenze, 1969; R.
Colapietra, L’amabile fierezza di F. D’Andrea. Il Seicento napoletano nel carteggio con G.A.
Doria, Milano, 1990; A. Mazzacane, I misteri dè Prencipi. Lettere e scritti politici di F.
D’Andrea, Napoli, 1986; I. Ascione (a cura di), Avvertimenti cit.
672
P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli cit., pag. 120
673
Come Juan Caramuel, professore di Salamanca e vescovo della Campania, di cui infra, pag.
176. Sul celebre teologo e matematico: D. Pastine, Juan Caramuel. Probabilismo ed
Enciclopedia, Firenze, 1975; P. Pissavino (a cura di), Le meraviglie del probabile. Juan
Caramuel 1602-1682. Atti del Convegno internazionale di studi, Vigevano, 1990.
171
predisposizione di schemi astratti di interpretazione; questo perché nuovi metodi,
nuove scoperte, avrebbero potuto perfezionare o addirittura modificare le verità
acquisite: erudizione ed esperimento, scienza e uso libero della ragione, verifica
costante dei dati concreti, interesse per il particolare, erano questi i nuovi nuclei
teorici attorno ai quali si muoveva la richiesta di un rinnovamento culturale,
sociale ed istituzionale674.
Non è un caso che il già citato Marcello Marciano675, uno dei pochissimi
magistrati del Regno a scagliarsi apertamente contro la tradizione della pena
straordinaria e contro le illogiche rigidità della prova legale, venga citato dal
D’Andrea come indiscusso esempio per tutto il ceto forense: quest’ultimo, come
già anticipato, scelse infatti di celebrarne dottrina ed erudizione nella sua opera
più nota, gli Avvertimenti ai nipoti676. Scopriamo così che esiste un legame pieno
di significato tra un criminalista d’antico regime portatore di contributi dottrinali
fortemente innovativi nel diritto delle prove, ed il principale artefice della
rinascita culturale del Regno, grazie al quale il cartesianesimo e l’induzione
sperimentale diventarono nuovi terreni d’esplorazione anche per il metodo ed il
sapere giuridico677.
Sebbene Marciano non avesse esplicitamente adoperato per la sua teoria
indiziaria i contributi della rivoluzione scientifica, la sua invocazione all’uso
della ragione contro l’insensato arbitrio sulle pene era stata largamente
anticipatrice di quegli stessi contributi, e finì con lo sposare appieno le
prerogative della cultura, giuridica e non, degli ambienti intellettuali tardo-
secenteschi..
Com’è noto, il fenomeno delle più celebri Accademie italiane è stato ampiamente
attraversato dalla storiografia, quale tangibile testimonianza della vivacità
intellettuale del Seicento678. Basterà qui citare la romana Accademia dei Lincei,

674
Sul punto: A. Borrelli, D’Andrea atomista. L’Apologia e altri inediti nella polemica
filosofica della Napoli di fine Seicento, Napoli, 1995.
675
Supra, I.2.
676
Supra, nota 671.
677
L’accentuato interesse di D’Andrea per gli studi scientifici e filosofici, lungi dall’avere
carattere meramente velleitario, esprimeva piuttosto la convinzione che «per esser perfetto
giuriconsulto bisogna aver anco notizia di tutte l’altre scienze (…)», F. D’Andrea, Avvertimenti
cit., pag. 203.
678
In realtà la primissima accademia scientifica fu cinquecentesca e nacque a Napoli.
L’Accademia dei Segreti, fu fondata infatti da Giovanbattista Della Porta intorno al 1560,
quando il passaggio dall’alchimia alla scienza moderna era ancora in corso. Ne parla Gassendi
descrivendo il soggiorno napoletano di Peiresc: «Neapolim quam primum accessit, tenere se
non potuit, quin Portaeos illos fratres conveniret (…) neque spectavit modo quaecumque
asservabant in Musaeis, pretiosisque armariis; sed etiam omigenispene illorum experimentis,
prout sibi in votis esse insinuavit, interfuit», P. Gassendi, Viri Illustris Nicolai Claudii Fabricii
de Peiresc, senatoris Aquisextiensis Vita, Parigi, 1641. Dopo pochi anni di vita, fu sciolta per
ordine della corte papale. Della Porta fu anche il presidente della prima (e unica) colonia lincea,
172
fondata nel 1603 da Federico Cesi, della quale era membro lo stesso Galileo, e
quella del Cimento, fondata a Firenze da Torricelli e Viviani nel 1657, entrambe
oggetto di molteplici studi, alcuni dei quali anche piuttosto recenti679.
La più scarsa letteratura che si è invece specificamente occupata dell’altrettanto
autorevole e fruttuosa esperienza napoletana680, si è tuttavia soffermata su
almeno due dati peculiari, meritevoli di un ulteriore approfondimento: in primo
luogo si è insistito sulla formazione assai composita degli Investiganti, uomini
dagli interessi e dalle competenze diversissime, accomunati però da una “unità
spirituale” e dall’amore incondizionato per la “novella filosofia”681; l’altro
aspetto fortemente evidenziato è stato, come vedremo, l’atteggiamento assai
ostile da parte della censura e dell’Inquisizione.
Per quel che concerne il primo fronte, la “multidisciplinarietà” dei dottori raccolti
intorno allo studio napoletano non deve affatto stupire: P. Hazard, in un lavoro
assai discusso682, ha sostenuto che la complessa interazione tra arte, letteratura,
filosofia, scienza, diritto, religione e politica, offra la dimensione più congrua a
percepire la dinamica degli sviluppi della vita morale e culturale in cui si
concreta la crisi della coscienza europea, vale a dire il passaggio dai valori della
tradizione (scolastica e tomistica) a quelli laici, razionalisti ed empiristi.

aperta a Napoli nel 1604: il piano di Federico Cesi, era infatti quello di aprire sedi della lince in
tutti i principali centri culturali italiani; il progetto venne attuato solo a Napoli. Sul punto: G.
Gabrieli, Giovanni Battista Della Porta Linceo, in «Giornale della filosofia italiana», 1927,
VIII, pp. 360-397; G. Olmi, La colonia lincea di Napoli, in Galileo e Napoli cit., pp. 23-58.
Sempre relativamente a Napoli, è bene ricordare anche l’Accademia degli Oziosi, fondata da
Giovanni Battista Manso il 3 maggio del 1611, alle cui riunioni partecipò, in almeno due
occasioni, lo stesso D’Andrea, e che ebbe tra i suoi principali esponenti Tommaso Campanella.
Sul punto: V.I. Comparato, Società civile e società letteraria nel primo Seicento: l'Accademia
degli Oziosi, in «Quaderni Storici», 1973, n. 23, pp. 359-389; G. De Miranda, Una quiete
operosa. Forme e pratiche dell'Accademia napoletana degli Oziosi, Napoli, 2000.
679
Sull’Accademia dei Lincei: G . Gabrieli, Contributi alla storia della Accademia dei Lincei,
Roma, 1989 e, dello stesso autore, Il carteggio linceo, Roma, 1996; G. Sapori, C. Vinti, L.
Conti, Il Palazzo Cesi di Acquasparta e la rivoluzione scientifica lincea, Perugia 1992.
Sull’Accademia del Cimento: M.C. Cantù, M.L. Righini Bonelli, Accademia del Cimento,
Firenze, 1976; P. Galluzzi, Scienziati a corte: l'arte della sperimentazione nell'Accademia
Galileiana del Cimento:1657-1667, Firenze, 2001; M. Beretta, A. Clericuzio, L.M. Principe,
The Accademia del Cimento and Its European Context, Sagamore Beach, Massachussets, 2009.
Impossibile non citare la risalente ma fondamentale Storia delle Accademie d’Italia di M.
Maylender, voll. I-IV, Bologna, 1926-1930.
680
M. H. Fisch, L’Accademia degli investiganti, in «De Homine», XVI, 1968, pp. 17-78;
Maurizio Torrini, L’Accademia degli Investiganti. Napoli 1663-1670, in «Quaderni Storici», n.
48, Anno XVI, III, dicembre 1981, pp. 845-883, alla cui bibliografia qui si rinvia.
681
Con questa formula s’intendeva l’aspirazione ad un rinnovamento culturale e il bisogno di
rottura con la tradizione: una «decisa e continuata vocazione a investire la società civile del
proprio messaggio e pertanto consapevole contrasto con la cultura dominante». Così in M.
Torrini, L’Accademia degli Investiganti cit., pag. 846.
682
P. Hazard, La crisi della coscienza europea, cit.
173
Questa vocazione enciclopedica degli studiosi secenteschi è dunque la cifra
perfetta di un’aspirazione “globale” al disgregamento dell’ordinamento
gerarchico tradizionale, nell’ambito di una feroce contrapposizione tra “vecchio”
e “nuovo”.
Per quanto riguarda l’altro aspetto peculiare nella storia dell’Accademia, vale a
dire l’inimicizia con Roma e l’Inquisizione, è la stessa cornice ideologica della
rivoluzione investigante a suggerirne le ragioni: la superiorità dei moderni sugli
antichi, la concezione temporale ed evolutiva della natura e della verità,
l’opposizione alle forme processuali inquisitoriali, l’aspirazione all’unicità e alla
laicità della giurisdizione, sono tutte ragioni più che valide a spiegare la
persecuzione di cui molti di questi studiosi, come vedremo, furono vittime683.
La congrega investigante nacque intorno al 1649, quando il medico e scienziato
Tommaso Cornelio684, tornato da un periodo di studi nell’Italia settentrionale,
portò con sé a Napoli le opere di Galileo, Gassendi, Cartesio, Bacone, Harvey e
Boyle. Con gli amici D’Andrea e Di Capua685, si mise a capo di un gruppo di
giovani studiosi, che s’incontravano nella casa di lui per leggere e discutere
questi nuovi, rivoluzionari scritti. Gli anni ’50 e ‘60 furono densi di eventi che
misero in primo piano i protagonisti e le attività dell’Accademia: si pensi al
processo contro Marco Aurelio Severino686, il più anziano del gruppo, e alla sua
morte prematura - per la grande peste del 1656; l’ascesa di Francesco D’Andrea,
che divenne «il più dotto, eloquente ed influente giurista dei seguenti
quarant’anni»687. E poi ancora: la sfortunata vicenda di Sebastiano Bartoli, uno
dei più giovani adepti, che, a causa di una severissima censura ecclesiastica, si
683
E’ bene ricordare, tuttavia, che gli Investiganti ebbero tra i propri adepti anche molti
ecclesiastici: oltre al già citato vescovo Juan Caramuel, teorico del nuovo probabilismo, può
citarsi un giovane sacerdote, Barone, e, soprattutto, Luca Rinaldi, canonico della cattedrale di
Capua, indicato come uno degli elementi più brillanti del gruppo da Gilbert Burnett, membro
della Royal Society, in visita a Napoli nell’autunno del 1865. Sul punto: M.H. Fisch,
L’Accademia degli Investiganti cit., pag. 50.
684
Cornelio nacque a Roma nel 1614; studiò presso i gesuiti, indi si dedicò alla medicina,
esattamente tra il 1637 e il 1643. La sua opera principale sono i Progymnasmata phyisica,
pubblicati, dopo molte traversie, nel 1663 a Venezia. Lo scritto è diviso in sette sezioni: De
ratione philosophandi; De Rerum initiis; De universitate; De sole; De generatione hominis; De
nutritione; De vita; De sensibus, pubblicato postumo nel 1688. I Progymnasmata, impregnati di
razionalismo, relativismo ed empirismo e con una chiara vocazione enciclopedica,
rappresentano l’attuazione di un vero e proprio «programma di fondazione epistemologica». Sul
punto: V.I. Comparato, voce T. Cornelio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma,
1983.
685
Sulla figura di Leonardo di Capua, ed il contributo fornito allo sviluppo dell’Accademia
degli Investiganti, si veda infra, nota 698.
686
Professore di anatomia e chirurgia, scrisse negli anni ‘50 il primo ampio trattato di anatomia
comparata ed il primo testo di anatomia chirurgica. I volumi finirono immediatamente
all’Indice, ed egli, accusato di blasfemia dall’Inquisizione, fu difeso dal D’Andrea. Sul punto:
M. H. Fisch, L’Accademia degli investiganti cit., pag.19.
687
Ibidem, pag. 21
174
vide negata la possibilità di far conoscere gli esiti delle proprie ricerche e
divulgarne i risultati688; il tentativo del collegio dei medici di Napoli di
sopprimere lo studio privato della chimica, contro cui i nostri studiosi si
batterono ferocemente689; l’inizio di un’annosa controversia con le autorità
cittadine avente ad oggetto la tossicità delle acque del Lago d’Agnano690.
Alcuni di questi episodi, che fecero balzare agli onori della cronaca le iniziative
sempre più audaci e polemiche dei suoi protagonisti, si collocano già nel periodo
centrale dell’Accademia, quello compreso tra il 1663 e il 1670, in cui essa si
organizzò formalmente e assunse il nome che oggi conosciamo.
La scelta di chiamarsi Investiganti, da quel che rivela uno scritto del vescovo
Juan Caramuel, nacque per denotare l’intento di ricercare la verità nelle cose

688
Anch’egli medico, convinto militante del metodo di studio dei moderni, nel 1663 decise di
pubblicare alcune sue esercitazioni che attaccavano frontalmente molte delle credenze dei
medici “regolari”. Ottenuti gli imprimatur ecclesiastici e civili, stampò il libro a Napoli, ma la
sua uscita fu bloccata dal vice-cancelliere del collegio dei medici del Regno di Napoli, Carlo
Pignataro, che riuscì a farlo condannare dalle autorità ecclesiastiche come blasfemo. Tutte le
copie stampate furono confiscate e distrutte. Sul punto: M. H. Fisch, L’Accademia degli
investiganti cit., pag.22.
689
All’epoca descritta, l’insegnamento della chimica era escluso dalle università, comprese
quelle di medicina. Siccome tuttavia i “moderni” reputavano tale materia imprescindibile, essi
offrivano un insegnamento privato della stessa (Leonardo di Capua ne era il maestro
indiscusso). A Napoli, il già citato protomedico Pignataro, acerrimo nemico degli Investiganti,
riuscì ad ottenere un regio decreto che ne proibisse finanche lo studio privato. La legalità di tale
proibizione fu contestata attraverso uno scritto rimasto anonimo, ma quasi unanimemente
attribuito a Francesco d’Andrea, intitolato Discorso per difesa dell’arte chimica e de’ professori
di essa nel quale si dimostra, che il legger privatamente la chimica in tempo di vacanze, così
per li statuti degli Studi pubblici come per legge comune, non possa esser cosa prohibita, e che
essendo essa utilissima alla repubblica per la cura de’ mali, e non solo utile, ma etiandio
necessaria, per la perfetta cognizione della Philosophia naturale, e della medicina rationale,
utilissimo debbe anche stimarsi l’ufficio di quei Professori, che l’insegnano, Napoli, 1663.
690
Anche in questo interessante episodio compare il famigerato Carlo Pignataro, vero e proprio
emblema della medicina tradizionale e oscurantista. Tra l’ottobre ed il novembre del 1663, si
diffuse una grave epidemia di febbri, che ebbe uno spaventoso tasso di mortalità. Sebbene
queste febbri non fossero affatto circoscritte alla regione, i medici del luogo vi attribuirono una
causa locale: la macerazione di grandi quantità di lino e canapa nel Lago d’Agnano. Si riteneva
cioè che la macerazione, essendo un tipo di putrefazione, avesse corrotto l’aria e l’acqua e fosse
responsabile dell’epidemia. La conseguenza fu l’adozione di una raccomandazione che proibiva
per quell’anno la lavorazione del lino. Gli Investiganti, tuttavia, mostrarono le loro perplessità a
riguardo, sostenendo che occorresse effettuare delle verifiche e delle analisi accurate prima di
colpire un’industria così importante per la sussistenza degli abitanti della regione. La
controversia durò per oltre due anni a suon di riunioni infuocate e scritti polemici; alla fine,
forse anche grazie all’intervento dei gesuiti, che erano proprietari di gran parte delle terre
intorno al Lago e che avevano tutto l’interesse affinché l’industria venisse riavviata, si ottenne
che la macerazione riprendesse, e proseguì indisturbata per altri due secoli, sino a quando, nel
1865, cominciò il prosciugamento del lago. Sul punto M. H. Fisch, L’Accademia degli
investiganti cit., pp. 30-36.
175
della natura, e allo stesso tempo «per esprimere la modestia nel non far mostra di
averla già trovata»691.
Essi si posero sotto la protezione di Andrea Conclubet, marchese di Arena, il cui
nonno era stato protettore del filosofo Telesio, e presso il cui palazzo si tenevano
le riunioni di studio. L’Accademia ottenne anche una notevole visibilità
internazionale, come dimostrato dai costanti contatti con la Royal Society di
Londra692.
Nonostante l’ autorevolezza dei suoi esponenti e la grande diffusione dei suoi
scritti, essa non riuscì ad avere lunga vita: dopo soli 7 anni dalla costituzione
ufficiale, precisamente nel 1670, il Vicerè ed il Consiglio Collaterale ne
ordinarono lo scioglimento693. Seguì un periodo d’interludio, di circa dieci anni,
durante i quali continuarono ad intermittenza le riunioni informali, mentre
«restava costante il mutuo incoraggiamento dei soci»; nel 1683 l’Accademia fu
segretamente rifondata, su iniziativa di Giuseppe Valletta694 e Nicolò Caravita695,
ed è quasi certo che alle ultime riunioni prese parte anche un giovanissimo Vico.

691
«Academia Indagatrix (..) dissimulatis veterum, juniorumque Philosophorum Placitis,
latentem Veritatem in libro Naturae investigat», J. Caramuel, Mathesis Biceps, Campagna,
1670, vol. I, pag. 678.
692
I contatti con Londra ebbero come intermediari dapprima Sir John Finch e Thomas Baine,
dal 1663 soci fondatori della Royal Society e inviati a Napoli come visitatori nello stesso anno.
Nel 1664, invece, Francis Willughby, altro socio fondatore, si recò a Napoli con John Ray e
Filippo Skippon, che sarebbero divenuti soci solo nel 1667. Ciascuno di essi prese nota delle
proprie impressioni. Di tali resoconti è possibile prendere visione in Royal Society of London,
Philosophical Transactions, London, 1665.
693
Secondo la ricostruzione di Fisch, il clima polemico s’era fatto intollerabile: dal 1666 Carlo
Pignataro aveva fondata un’Accademia rivale, i Discordanti. Quando il marchese d’Arena gli
inviò una pubblica riprensione per aver parlato male degli Investiganti in pubblico, la decisione
delle autorità cittadine, rivolta ad entrambe le Accademie, parve l’unica soluzione per porre fine
a quella contrapposizione, percepita come nociva alla comunità. Sul punto: M. H. Fisch,
L’Accademia degli investiganti cit., pag. 41.
694
Nato a Napoli nel 1636, figlio di un povero sarto poi arricchitosi, fornì un contributo
immortale alla cultura della sua città, oltre che con l'istituzione, a sue spese, di una cattedra di
greco presso l'università, con la raccolta nella propria casa della più ricca biblioteca privata
esistente allora in Italia. Aperta a tutti gli studiosi cittadini, tra i quali gli stessi Giannone e Vico,
la biblioteca fu frequentata anche da molti stranieri (Mabillon, Germain, D'Orville, Burnet,
Shaftesbury, ecc.). Dopo la sua morte, essa fu acquistata nel 1726 dai padri dell'Oratorio e
costituisce ora il fondo più importante della Biblioteca oratoriana dei Gerolamini. Come
giurista, Valletta fu incaricato dalla Deputazione napoletana di scrivere sul problema dei
tribunali dell'Inquisizione e ne nacque il trattato, in forma di lettera al papa Innocenzo
XII, Intorno al procedimento ordinario e canonico nelle cause che si trattano nel Tribunale del
santo Officio nella città e nel Regno di Napoli (degli anni 1691-94). Inserendosi in un dibattito
europeo sui metodi dei tribunali dell'Inquisizione, Valletta, da un lato, nettamente distingueva la
società civile dalla società ecclesiastica, la prima retta da una "ragione di stato" tutta "profana",
la seconda da una finalità spirituale da perseguire con la persuasione, l'amore e la pace;
dall'altro, indicava essere contrari al "diritto di natura" i metodi dei tribunali ecclesiastici che
non rispettavano la pubblicità dei processi e i diritti della difesa. Di questa lettera, il giurista ha
lasciato varie stesure; ma in tutte è presente, dietro la polemica giuridica, la difesa della "libertà
176
Gli anni 1688-93 furono un periodo di intensa attività per l’Inquisizione romana
a Napoli696, tesa soprattutto allo scopo di estirpare l’atomismo e le dottrine
relativistiche diffuse proprio da Tommaso Cornelio e dai suoi allievi, tanto che,
tra il 1691 e il 1694, Valletta scrisse un’arringa lunghissima a Papa Innocenzo
XII, affinché l’Inquisizione Romana fosse rimossa e le cose di fede e e di dottrina
venissero lasciate nelle mani dell’inquisizione diocesana amministrata dai vicari
dei vescovi. Tale scritto non fu mai pubblicato, ma circolò ampiamente in copie
manoscritte, e fu tradotto in latino e in francese697.
La fine dell’Accademia restaurata viene convenzionalmente fissata nel 1695,
anno della morte di uno dei suoi uomini più celebri: Leonardo Di Capua698.

filosofica" contro le censure ecclesiastiche, e della "filosofia moderna" contro l'aristotelismo


antico e scolastico. Questo tema costituisce il nucleo della sua opera maggiore, l'Istoria
filosofica, in cui Valletta vuole mostrare come la filosofia "moderna", con la sua fisica
corpuscolare e con la sua polemica antiaristotelica, sia in realtà la ripresa di un'antichissima
tradizione che risale a Mosè dal quale è poi passata alle varie "sapienze" orientali, quindi a
Pitagora, Democrito, Platone ed Epicuro; tradizione filosofica questa, sostanzialmente
omogenea, rispetto alla quale l'aristotelismo si pone come radicale deviazione e come causa, nel
cristianesimo, di tutte le eresie. Nella stessa prospettiva Valletta aveva già scritto la Lettera in
difesa della moderna filosofia e de' coltivatori di essa (nel 1693-97, edita nel 1732) che può
considerarsi una prima stesura dell'Istoria. Sul punto: V. I. Comparato, Giuseppe Valletta: un
intellettuale napoletano della fine del Seicento, Napoli, 1970.
695
N. Caravita nacque a Napoli il 24 maggio del 1647 da una famiglia originaria della Spagna.
Acerrimo nemico dell’Inquisizione, fu, tra l’altro, autore delle Ragioni a prò della fedelissima
città e Regno di Napoli, contr’al procedimento straordinario nelle cause del Sant’Officio, in cui
si afferma l’inefficacia dell’editto pontificio per mancanza dell’aexequatur regio, in cui
sostenne l’incompatibilità del procedimento inquisitorio sia con i principi di carità del
cristianesimo, sia con il diritto naturale dell’individuo alla pienezza della propria difesa. Alla
fine degli anni ’90, Vico entrò sotto la sua protezione; dopo la sua morte, avvenuta nel 1717,
protettore del Vico divenne suo figlio Domenico. In S. Fodale, N. Caravita, Dizionario
Biografico degli italiani, XIX, Roma, 1976.
696
L’Inquisizione romana fu acerrima nemica degli Investiganti: S. Scialabrella ricorda, tra le
moltissime iniziative ostruzionistiche poste in essere dal Sant’Uffizio, una lettera inviata al
Cardinale Caracciolo, arcivescovo di Napoli, per metterlo in guardia dai pericoli derivanti dalla
propagazione delle idee di Cartesio. Questa missiva fu, secondo la sua ricostruzione, una delle
principali cause della dispersione degli Investiganti negli anni successivi allo scioglimento
dell’Accademia. Sul punto: S. Scialabrella, L. Di Capua, Dizionario Biografico degli Italiani,
XXXIX, Roma 1991
697
Sono indirizzati ad Innocenzo XII due scritti di Valletta: il primo è intitolato Al Nostro SS.mo
Innocenzo XII, Intorno al procedimento ordinario e canonico nelle cause che si trattano nel
Tribunale del S. Ufficio, databile intorno al 1693, custodito in due esemplari presso la Biblioteca
Nazionale di Napoli ( in ms Branc. III E 5 e ms XV B 4). L’ultimo esemplare contiene anche il
Discorso Filosofico in materia d’Inquisizione, et intorno al correggimento della filosofia di
Aristotile, datato 1697.
698
Nato nella provincia di Avellino nel 1617, frequentò la scuola dei Padri della Compagnia di
Gesù, dove per sette anni apprese la filosofia e la teologia. A 18 anni si dedicò agli studi
giuridici, e quindi alla medicina. L’«eruditissimo Di Capua», definito così da Vico nella sua
Autobiografia, (Napoli, 1818, p. 21), fu senza dubbio uno dei membri più attivi della scuola:
assieme con Cornelio contribuì sensibilmente alla diffusione dell’atomismo, e si batté
177
Al di là dei molti contributi letterari e scientifici prodotti dagli accademici
investiganti - nessuno dei quali, giova chiarirlo, assunse ad oggetto specifico la
prova criminale699 - quel che più rileva ai fini della nostra ricostruzione è un dato
di natura culturale, suscettibile di rientrare appieno in un discorso avente ad
oggetto il mutamento di paradigma probatorio: se la rivoluzione cartesiana si
accingeva a demolire il «fondamento teorico dell’antico regime, vale a dire il
vecchio concetto di verità, l’ontologismo scolastico»700, cominciava allora, per il
ceto togato, un mutamento profondo di prospettiva, che dalla sostanza della
metodologia giuridica si rifletteva sull’assetto esterno delle istituzioni e della
società.
Quel che si osserva attraverso la narrazione dell’avventura investigante, è che nei
decenni centrali del Seicento il “dettame della ragione” attrasse dalla parte dei
moderni uomini dalle più svariate formazioni e professioni, e riunì persino laici e
religiosi.
Come ha messo in evidenza Maurizio Torrini, per questi studiosi «il legame tra
scienza, rinnovamento della filosofia, esercizio professionale, società civile, non
era separabile. L’idea del progresso del sapere non rinviava solo all’esperienze
ed ai suoi interpreti, ma anche alle leggi e agli istituti civili»701.
Ciò dimostra come l’Accademia napoletana non avesse preso avvio, come per
esempio quella del Cimento, da un intento puramente scientifico, ma si fosse
concentrata assai più in un’accesa battaglia per un radicale rinnovamento,
culturale, politico, istituzionale.
Il già citato vescovo Juan Caramuel, membro del gruppo sin dalla sua
fondazione, in una lettera datata il 12 settembre 1664702 dedicata proprio
all’«Accademia Indagatrice», rievocando il suo ingresso nella società napoletana,
ne ricordava gli abituali frequentatori, citando anche alti prelati, abati, oltre che
principi, duchi, marchesi e conti, insieme a medici, filosofi e giuristi; spiegava
che in essa non si trattava «de Rethorica, ut in Italia plurimis, sed de Philosophia,
ut in Europa paucis».

alacremente contro la medicina «degli antichi». Sul punto: V. I. Comparato, Giuseppe Valletta
cit., pag. 130.
699
Si occupano tuttavia, come vedremo infra, pag. 183 e ss., delle forme e dei difetti del
processo dell’Inquisizione lo scritto di Caravita intitolato Ragioni a prò della fedelissima città e
Regno di Napoli, contr’al procedimento straordinario nelle cause del Sant’Officio, in cui si
afferma l’inefficacia dell’editto pontificio per mancanza dell’aexequatur regio, custodito presso
la Biblioteca Nazionale di Napoli (in ms I AA 30 e ms XV B 2), e quello già citato di G.
Valletta Intorno al procedimento ordinario e canonico nelle cause che si trattano nel Tribunale
del santo Officio nella città e nel Regno di Napoli.
700
R. Ajello, Continuità e trasformazione cit., pag. 907.
701
M. Torrini, L’Accademia degli Investiganti cit. pag. 847.
702
Ibidem, pp. 851-852.
178
Ogni affermazione, precisava Caramuel, doveva esser confermata «experimento
oculari»; così che la «mens», libera da qualsivoglia pregiudizio, «per
experimenta Physica ad indagationem veritatis contendit». Il raggiungimento
della verità era affidato ad un costante esercizio sperimentale, così che essa
potesse essere ricercata e scoperta «sine passione aut praejudicio».
L’approccio appena descritto consentiva di prediligere il momento della
sensibilità - intesa come percezione sensoriale - pur nella consapevolezza delle
sue stesse limitazioni, ed anzi correggendo quei dati di “conoscenza ingenua”
attraverso il controllo sperimentale, concepito come vaglio razionale della
validità delle ipotesi formulate; tale procedimento permetteva di addivenire al
massimo grado di verosimiglianza, l’unico raggiungibile dall’uomo il quale, non
potendo sperimentare tutta la realtà, può approdare solo a qualche «verisimile
contezza delle cose»703.
Quest’impostazione teorica, secondo la ricostruzione di Torrini, porta ad
identificare il cemento comune dell’ideologia investigante: il principio secondo
cui verosimiglianza, probabilità, «ragionevol giudicar», costituiscano i limiti
invalicabili della conoscenza704. A questo proposito appare utilissima la citazione
di un documento ufficiale dell’Accademia rimasto anonimo:

«Noi non potremo havere alcuna certezza della verità delle cose, e
benchè di esse ne sieno noti gli effetti, per mezzo dè sensi, le cause ne
sono occulte, e di esse non può ragionarsene se non secondo la
maggior o minor verosimilitudine»705.

Il significato della novella filosofia e della nuova scienza, acquisivano così un


senso fortemente ideologizzato, tutto votato alla sconfitta dell’aristotelismo:
l’appello al probabilismo filosofico, così come rifondato dai moderni, diventava
il comune denominatore delle posizioni culturali contrapposte al tradizionalismo
scolastico; isolato Aristotele, veniva rivendicata la libertà del filosofare e la
riapertura del dibattito gnoseologico, come pure l’utilizzo di un metodo di
conoscenza che, muovendo dagli effetti e non dalle cause (e dunque,
induttivamente, dal particolare all’universale), facesse uso del controllo
dell’esperienza sensibile, sì da ottenere dati di elevata verosimiglianza.

703
L. di Capua, Parere divisato in otto Ragionamenti, ne’quali partitamente narrandosi
l’origine, e ‘l progresso della medicina, chiaramente l’incertezza della medesima si fa
manifesta, accresciuta di tre Ragionamenti intorno all’incertezza de’ medicamenti, Colonia,
1714, II, pag. 203.
704
M. Torrini, L’Accademia degli Investiganti, cit. pag. 857.
705
Copia di una lettera scritta da un Accademico Investigante ad un Cavaliero suo Amico,
intorno ad una scrittura stampata in risposta di un’altra fatta prima, circa la difesa del Lago
d’Agnano, Napoli, 1665, pag. 18.
179
Se la probabilitas pre-critica, come ha spiegato Raffaele Ajello, tendeva ad
annullarsi nella communis opinio, assumendo caratteri sostanzialmente
assiomatici, il nuovo probabilismo acquisiva il compito «di colmare il divario tra
i fatti ed i valori e di realizzare una nuova esperienza giuridica attenta a
distinguerli e capace di garantire in modo diverso, non dogmatico, la
corrispondenza tra i primi ed i secondi»706.
L’inedito quadro relativistico entro cui veniva così ricondotta la conoscenza
umana non sembra poi così distante dall’universo della verità processuale
all’indomani della Rivoluzione scientifica; esso è anzi suscettibile di trasporsi
analogicamente anche al campo della fenomenologia della prova: la crisi della
“coscienza magistratuale”, quale quella rintracciabile, ad esempio, negli scritti
già analizzati di Marciano e De Rosa707, non può trovare altra spiegazione se non
in questi stessi sommovimenti ideologici, rivolti a contrastare la cultura
dominante, certo, ma sovente indirizzati specificatamente all’autorità sconfinata
dei giudici, all’arbitrio, e soprattutto alla falsa credenza in una verità perfetta, per
giunta dominabile con lo strumentario tradizionale.
Da questo punto di vista, la già citata opera di Francesco D’Andrea, una raccolta
di pensieri e memorie biografiche della Napoli secentesca, si rivela fondamentale
per comprendere gli accadimenti verificatisi in seno al ceto forense, specie dalla
seconda metà del secolo XVII, e che determinarono, in quegli stessi decenni, un
mutamento radicale del clima culturale in merito al diritto, al processo e al ruolo
del giudice:

«Non vi è parte del mondo donde i ministri tengono maggior autorità


che in Napoli, poiché, come non tengono obligazione di render conto
delle loro azzioni che al Re nostro signore il quale è lontano, né i
signori vicerè tengono sopra di loro alcuna giurisdittione, la loro
potestà si riconosce tanto maggiore quanto è independente, talmente
che ne tempi addietro eran chiamati comunemente dij terreni, né vi
mancan quei che, non men superbi, scioccamente dal titolo se
l’arrogavan come dovuto; onde nacque poi il dicerio presso le male
lingue che erano dij terreni, cioè diavoli, perché non altri che i diavoli
eran li dij della terra»708.

La messa in ridicolo di quella concezione, irrimediabilmente tramontata, che


collocava il diritto ed i suoi rappresentanti nella sfera dell’assoluto,
dell’intangibile, del sovrumano, comportava la necessità di sostituire

706
R. Ajello, Continuità e trasformazione cit., pag. 931.
707
Supra, II.3- II.4.
708
F. D’Andrea, Avvertimenti cit., cap. III, p. 154.
180
quell’immagine di maestà sacerdotale con un diverso assetto: politico,
ideologico, tecnico e comportamentale; un’operazione del genere, com’è
evidente, non poteva che richiedere un lunghissimo periodo di gestazione.
Da questo punto di vista, gli Avvertimenti contengono, com’è stato ben messo in
evidenza da Imma Ascione «l’idea di un universo in fieri, un ambiente in
evoluzione colto nel suo divenire benché ancora incapace di indirizzare il proprio
futuro»709.
Francesco D’Andrea effettuava un’analisi del sistema formidabile, perché interna
al sistema medesimo e condotta da uno dei suoi indiscussi protagonisti. Il
racconto che ne viene fuori è quello di una profonda crisi gnoseologica, dovuta
principalmente alla dissoluzione del metodo e del nominalismo aristotelico, che
modifica le strutture dell’establishment e sovverte un intero quadro di valori sino
ad allora ritenuto come dato. Non a caso, la storiografia rintraccia unanimemente,
in questa e molte altre opere del periodo, un clima di fondo caratterizzato da
un’ambiguità latente: da un lato c’è l’esigenza di proporre nuovi modelli e nuove
formule in grado di sostituire quelle vecchie, ormai screditate dal pensiero
critico; dall’altro vi è anche, però, un sottile timore di compromettere
definitivamente il sistema: mentre la pars destruens del pensiero scientifico
operava con impegno a scardinare i presupposti dell’ontologismo scolastico, non
altrettanta solidità mostrava la pars construens, almeno sul piano giuridico ed
istituzionale. «Al ceto togato di secondo Seicento veniva a mancare quella
sicurezza del proprio ruolo e della propria funzione che aveva caratterizzato i
giuristi precedenti (…)»710.
Nelle dissertazioni “anticurialiste” circolate nell’ultimo decennio, aventi ad
oggetto le forme e il processo dell’Inquisizione, l’attacco al sistema si faceva
decisamente più convinto e scoperto: nei già citati manoscritti di Valletta e
Caravita rintracciamo elementi di aspra contestazione, sia con riguardo a
considerazioni di opportunità pratica (ad esempio la critica della tortura come
strumento inumano e inattendibile), sia con riferimento a valutazioni di natura
politica (l’unicità della giurisdizione come presupposto imprescindibile
dell’«utile comun del Regno»).
Giuseppe Valletta appariva assai più proiettato verso un umanitarismo ante
litteram, che contestava l’eccessiva severità e durezza delle pene, come pure
l’accentuata rigidità delle forme, arrivando a citare fonti canoniste per dimostrare
che :«In Veteri Testamento terror fuit et timor, et poena corporalis statuita fuit; in
Novo vero Testamento mansuetudo et misericordia»711. Venivano contestati

709
Ibidem, pag. 62.
710
Ibidem, pag. 51
711
G. Valletta, Al Nostro SS.mo Innocenzo XII, Intorno al procedimento ordinario e canonico
cit., fol.VI.
181
altresì certi automatismi tipici della procedura, legati alla fama e alle
testimonianze, poiché «vi sono assai più spesse e facili le calunnie e le falsità
degli uomini»712.
Il discorso era tuttavia finalizzato ad ottenere un risultato puramente politico,
come dimostra ancor più chiaramente lo scritto di Caravita.
La divisione della sua dissertazione è, in tal senso, piuttosto eloquente: nel primo
capitolo l’argomento trattato era il «pregiudizio che alla Real Giurisdizione fa
l’introdurre in questo Regno l’Editto o altro ordinamento di Roma senza il Regio
Exequatur», per dimostrare «che tal pregiudizio non si scompagna da quello del
Regno»713. Nel secondo si dimostrava la nocività delle procedure straordinarie:
«Che per alcune parole ed ordinamenti che si contengono nell’Editto di Roma, ci
si fanno spezial torto intorno all’ordinaria maniera di giudizio, che sola nel
Regno tener si dee»714. Nell’ultimo «Si considerano partitamente le parole
dell’Editto, per le quali si comprende quanto le maniere del Tribunale
dell’Inquisizione, che nell’editto si stabiliscono, sarebbero contrarie al bene del
Regno et alla Real Giurisdizione, la quale è molto diminuita per l’Editto, secondo
il quale i Ministri dell’Inquisizione proceder dovrebbero in quei misfatti né quali
solamente i Real Ministri procedere deono»715.
Caravita giunse a criticare apertamente l’offensività del procedimento: «I giudici
non posson giudicar del reo senza sentirlo in preferenza dei suoi accusatori»716,
sino al punto di rivendicare una piena laicità della giurisdizione: «Giudicar
dell’animo è cosa assai pericolosa»717, contestando così i presupposti essenziali
dell’istituzione romana.
Tutte quelle istanze, com’è evidente, avevano un’ineliminabile componente
ideologica, tant’è che parevano guardare unicamente alle forme e alle procedure
del Sant’Uffizio; e tuttavia esse risultano comunque in grado di testimoniare una
lenta ma decisiva elaborazione di quegli stessi principi, di quelle stesse proposte
che, a distanza di pochi decenni, avrebbero portato alle conquiste dei “lumi”: la
polemica sull’Inquisizione, nella Napoli secentesca, aveva sollevato nella cultura
giuridica meridionale «il problema della giustizia naturale del processo»718.
Secondo la fondamentale ricostruzione di Vittor Ivo Comparato, Caravita e
Valletta, le menti più illuminate della seconda generazione degli Investiganti,
avevano colto, nel processo inquisitorio, la violazione dei più basilari principi di

712
Ibidem, fol. IX.
713
N. Caravita, Ragioni a prò della fedelissima città e Regno di Napoli, contr’al procedimento
straordinario nelle cause del Sant’Officio cit., fol. III.
714
Ibidem, fol. LVI.
715
Ibidem, fol. CLIX.
716
Ibidem, fol. XXXII.
717
Ibidem, fol. XXXIV.
718
A. Giuliani, voce Prova (filosofia) cit., pag. 545.
182
giustizia: si trattava di un procedimento sommario, straordinario, senza difese,
fondato su testimonianze extraprocessuali, condotto in assenza dell’imputato e
senza citazione719.
Queste rivendicazioni dimostrano una volta di più che fosse pienamente in atto,
nei decenni descritti, una forte crisi di ripensamento e di profonda riflessione su
ruoli e sulle strutture del giudizio: prendeva corpo una rivoluzione intellettuale
senza precedenti, capace di mettere in discussione i fondamenti logici ed etici del
processo, e che si mostrava ormai matura ad affrontare più risolutamente anche
lo specifico problema della verità di fatto nelle prove giudiziali.
Tutti questi fermenti, che per l’acerbità dei tempi non potevano ancora mutarsi in
concrete iniziative di riforma, restavano su di un piano intellettuale, speculativo,
fungendo tuttavia da humus, da retroterra cultural-filosofico per i futuri Vico,
Genovesi, e per ciascuna di quelle menti riformatrici che, anche in pieno
Settecento, si sarebbero ritrovate tutte, indistintamente, eredi spirituali di
D’Andrea e della sua Accademia.

719
V.I. Comparato, Giuseppe Valletta, cit., pag. 191.
183
III.4 Conclusioni
In un recente saggio sui modelli di verità720, Massimo Vallerani ha messo in
evidenza come il carattere della veritas muti radicalmente in funzione del tipo e
della forma processuale analizzata.
Nell’orizzonte inquisitorio, per quanto vastissimo e diversificato721, è
rintracciabile un elemento di sintesi che possiamo identificare con la ricerca
quasi “ossessiva” di una verità perfetta, una vocazione forzatamente e
inattendibilmente “sostanzialistica” del processo, espressa attraverso il binomio
tortura/confessione, in ossequio alla retorica delle probationes luce meridiana
clariores, cui faceva da contraltare il ben noto dispositivo giurisprudenziale
dell’arbitrium sulle pene. Quest’ultimo aspetto, risultava assolutamente coerente
con il principio della inaccettabilità della prova imperfetta (per esempio quella
artificiale), ai fini della condanna piena, e si traduceva in una sorta di algebra
probatoria di segni e divisioni, che Giuseppe Salvioli definì efficacemente
“l’aritmetica sostituita al ragionamento”722.
I paragrafi precedenti hanno cercato di illustrare i percorsi teorici più eterogenei
attraverso i quali si rese possibile la messa in discussione dei solidissimi
parametri processuali forniti dagli allegata et probata: le dottrine, i problemi e le
intuizioni del secolo XVII, furono, da questo punto di vista, artefici di una lenta
decostruzione del sistema legale, il cui risultato finale fu la comparsa del criterio
della certezza morale come più ragionevole alternativa all’arbitraria matematica
delle prove e delle pene.
Secondo Alessandro Giuliani723, il ripensamento organico dei principi del
processo e della prova, reso effettivo soltanto a partire dagli ultimi decenni del
secolo XVIII, poggiò quasi integralmente sulla filosofia retorica di Giambattista
Vico, mediata dall’ars logica di Antonio Genovesi724, intesa come «arte di
pensare, ragionare e disputare»725.

720
M. Vallerani, Modelli di verità. Le prove nei processi inquisitori, cit.
721
E’ lo stesso Vallerani ad affermare l’irriducibilità delle varie forme processuali ad un unico
tipo di inquisitio; e tuttavia, gli elementi della tortura e dell’arbitrio sulle pene danno luogo,
almeno per l’età moderna, ad un modello di verità piuttosto uniforme, caratterizzato dal binomio
“prova piena (e dunque verità perfetta)/pena ordinaria”; “prova indiretta/pena straordinaria”. La
messa in crisi secentesca di queste corrispondenze, determina un mutamento paradigmatico in
seno al concetto di prova e di verità criminale.
722
G. Salvioli, Note per la storia del procedimento criminale, cit., pag. 11.
723
A. Giuliani, voce Prova (filosofia), cit., pag. 545.
724
Sulla figura dell’Abate Genovesi: P. Zabelli, La formazione filosofica di A. Genovesi,
Napoli, 1972; F. Arata, Antonio Genovesi: una proposta di morale illuminista, Padova, 1978
725
Si fa qui riferimento al proemio degli Elementarum artis logico-criticae Libri V, Neapoli,
1745. L’opera in questione, «esercitò nella nostra cultura un influsso corrispondente a quello
esercitato in Francia dall’art de bien penser dei maestri di Port-Royal (…)», A. Giuliani, voce
Prova (filosofia), cit., pag. 546.
184
Vico, diretto erede della rivoluzione intellettuale investigante, aveva contribuito
ad un pieno recupero della topica726 abbinato all’identificazione della Giustizia
con «la forza del vero (…) ossia l’umana ragione che s’indirizza a regolare e ad
equiparare le utilità (…)»727. La sua definizione di certezza morale, aveva in sé
tutti gli elementi della trascorsa riflessione filosofico-giurdica inerenti al tema
della verità processuale: la ragione, la coscienza, il verosimile:

«Il vero procede dal conformarsi della mente all’ordine delle cose: il
certo poi da quella sicurezza della coscienza che non ammette punto
dubbio alcuno. Quel conformarsi della mente all’ordine delle cose, è e
dicesi ragione; nell’ordine dè fatti è il verisimile (…)»728.

Quanto ad Antonio Genovesi, la sua ampia trattazione delle patologie


dell’argomentazione, per molti versi ripercorrente la tassonomia degli errori
baconiana, la definizione della moralis certitudo come «massima probabilità»,
l’identificazione della procedura come analisi giudiziaria729, aggiungono ulteriori
tasselli alla ricostruzione dell’epistemologia razionalistica post-secentesca e
dimostrano, una volta di più, l’eterogeneità e la lunga durata dei contributi
dottrinali forniti ai temi del giudizio e della verità processuale.
Ma accanto alle connotazioni “filosofiche” dei nuovi modelli conoscitivi sei-
settecenteschi, molti altri furono i fattori che determinarono il lento ed
inesorabile declino della certezza legale: la progressiva decadenza della
tortura730, il rifiuto di una dimensione straordinaria e non regolata della giustizia
criminale731, le implicazioni teologiche della coscienza dubbiosa732:

726
«Dalla scientia alla prudentia», ha scritto Raffaele Ruggiero in un articolo sul De nostri
temporis studiorum ratione vichiano, mettendo in evidenza come l’opuscolo possegga «un
nucleo di pensiero topico-retorico che non rifiuta una originaria affinità d’ispirazione con la
trattatistica del barocco, anzi la connette felicemente in una metodologia probabilistica di
origine investigante. Compito della retorica, diviene così un’operazione schiettamente logica:
l’invenzione del termine medio», in «..et leges incidere ligno». Spunti giurisprudenziali nel De
Ratione, in Momenti vichiani di primo Settecento, Napoli, 2001, pag. 78.
727
G.B. Vico, Dell’unico principio ed unico fine del diritto universale, trad. it. a cura di
F.S.Pomodoro, Napoli, 1858, XLIII, Della Giustizia, pag. 30.
728
Ibidem, proemio, n. 7, pp. 13-14.
729
A. Genovesi, Della Diocesina o sia Della filosofia del giusto e dell’onesto, t. II, Venezia,
1780, cap. XX Dè giudizi; Temi analoghi vengono affrontati in La Logica per i Giovanetti,
Napoli, 1818, l. IV, cap. V, Dei sofismi. Sul punto: A. Giuliani, voce Prova (filosofia) cit., pp.
546-547;
730
Si veda, a tal proposito, la significativa rassegna di fonti illustrata da A. Fontana in Il vizio
occulto cit., pag. 24, dove vengono citati numerosi autori secenteschi (F. Spee, A. Nicolas, Fr.
Keller, P. Zacchia), in larga misura anticipatori delle critiche illuministiche all’istituto.
731
In riferimento alla polemica contro le poenae extraordinarie, che è un momento essenziale
nella ricostruzione del mutamento di paradigma probatorio, si veda supra, cap. II.
732
Sullo scarto tra la coscienza e le leggi nella tarda scolastica: supra III.1.
185
« (…) Di qui una nuova razionalità, come lettura e decifrazione del
mondo attraverso un’ermeneutica indiretta di segni (…). A partire dal
XVII secolo, non ci sono più né corrispondenze, né simmetrie lineari
nel mondo: resta ciò che si vede per chi ha imparato a vedere, con
metodi e tecniche che non garantiscono comunque mai la certezza dei
risultati, e con uno spostamento cardinale dalla “lingua” come veicolo
al “corpo” come teatro della verità, con i suoi luoghi deputati che sono
ora le condotte, i movimenti, i gesti, i segni»733.

Il rifiuto del sistema legalistico di prova, inefficiente, contraddittorio e sprezzante


l’umano intelletto, portò ad una serie di fondamentali acquisizioni, la più
importante delle quali fu il riconoscimento del carattere probabile di ogni verità
empirica, vale a dire la frattura logica che separa i dati probatori dai fatti provati,
e la conseguente impossibilità di connotare in senso oggettivo la certezza della
verità giudiziaria.
Accanto alla nuova nozione di verità, vi era poi una nuova centralità assunta
dall’osservatore nella ricostruzione di ogni esperienza storica: se, per ciò che
riguardava la metafisica o le scienze matematiche, ogni dimostrazione poteva
pretendere di indicare una verità definitiva, non altrettanto era possibile sostenere
per gli accadimenti umani. Eppure, questi ultimi, con l’ausilio dell’ingegno,
potevano comunque ottenere una lettura altamente attendibile.
La nuova verità giudiziaria, non più ricercata in un contesto onnivoro734 chiuso e
autoritario che la voleva perfetta e incontrovertibile, ma piuttosto rielaborata in
chiave ipotetica, fallibile, intima e soggettiva, rischiava tuttavia di sfociare in
forme di irrazionalismo incontrollato, totalmente istintuali, o in uno scetticismo
completamente relativistico. Era questa l’ardua sfida cui era chiamata la
generazione settecentesca dei giuristi-filosofi: ripensare un sistema probatorio
che riuscisse ad equilibrare soggettività valutativa del giudice, garanzie
formalistiche per gli imputati e attendibilità dei risultati processuali.
Ma i nuovi elementi e i nuovi metodi della conoscenza giudiziale dei fatti, così
come teorizzati nel lungo Seicento, piuttosto che pacificare il dibattito
settecentesco sulla prova, alimentarono, come già anticipato, nuove
problematiche, e rivelarono altrettante complessità: una volta spezzato
l’equilibrio tra ordo e arbitrio, come risolvere in maniera coerente ed efficace il
problema della ricerca della verità nel processo?
La predeterminazione legale del valore di prove e indizi, aveva mostrato la sua
palese inopportunità, quantomeno nella sua versione ottusamente aritmetica e

733
A. Fontana, Il vizio occulto cit., pag. 32.
734
La definizione è di Cordero, che chiama l’inquisitio «ricerca onnivora dell’accaduto», in
Guida alla procedura penale, Torino, 1986, pag. 601.
186
pluri-classificatoria, poiché entrava in contraddizione con le dottrine della
ragione, del calcolo probabilistico, dell’analisi, del senso comune,
dell’esperienza, della ragionevole valutazione (o prudente apprezzamento)735:
tutte articolazioni inevitabili del nascente parametro della certezza morale quale
nuova frontiera del diritto probatorio.
Il quadro tralaticio che ci viene tradizionalmente offerto è quello di un
Illuminismo uniformemente orientato all’intima convinzione; a testimoniarlo vi
sarebbe, d’altronde, un nucleo rilevantissimo e assai noto di riforme del diritto
processuale che interessarono, ad esempio, l’Italia e la Francia negli ultimi due
decenni del Settecento. Ma l’approdo francese all’intime conviction, o
l’esautoramento della confessione - un tempo regina probationum - nel caso
leopoldino736, non devono affatto ritenersi l’esito più scontato del dibattito sul
tema della verità giudiziaria: la fine dell’inquisitio e dei suoi odiosi congegni,
primo fra tutti il rigoroso quanto inapplicabile calcolo “autoritativo” di prove e
indizi, non rese certo più agevole l’affermazione di quel nuovo criterio di
valutazione della responsabilità penale che la dottrina secentesca aveva così
faticosamente costruito. Tutt’altro: numerose furono le difficoltà nel ridisegnare
il ruolo del giudice nell’attività di accertamento della colpevolezza, vista
l’esperienza processuale precedente, ch’era stata tutta all’insegna di un’aritmetica
probatoria pretesa certa, e di fatto arbitraria.
Una possibile via d’uscita fu percorsa attraverso la risalente dicotomia quaestio
iuris/quaestio facti737, e l’affidamento della seconda alla valutazione delle giurie.
Ma questa versione del libero convincimento, semplicisticamente affidata al
buon senso dei boni homines, nulla aveva a che fare col giudizio secundum
conscientiam, vero e proprio dogma del processo comune europeo, nonché punto
di fusione con la tradizione probatoria di common law, ove la formula beyond the
reasonable doubt, equivaleva ad una perfetta soddisfazione della coscienza,
intesa come intelletto, ragione, non mera volontà: un’evidenza così forte da poter
determinare una ferma credenza (strong belief; satisfated conscience)738. Eppure
proprio la giuria divenne un elemento polarizzatore delle proposte di riforma,

735
Sul tema si rinvia a un interessante saggio di F. Mazzarella, Riflessioni sulle radici storiche
del principio di ragionevolezza, apparso in «Rivista Storica di diritto italiano», 2003, pp. 91-
133, ove l’autore tenta di attraversare le tappe della «ricerca di giustizia sostanziale oltre il testo
formale» dall’aequitas romana ad oggi.
736
Sulle novità introdotte dalla riforma criminale nel Granducato di Toscana, si rinvia alla
collana dedicata a La Leopoldina. Criminalità è giustizia criminale nel Settecento europeo, a
cura di L. Berlinguer e F. Colao, in particolare il volume quinto: La Leopoldina nel diritto e
nella giustizia in Toscana, Milano, 1989.
737
Sulla costruzione di questo rapporto nelle dottrine del XII e del XIII secolo, si rinvia a
M.Vallerani, I fatti nella logica del processo medievale cit., pp. 665 e ss.
738
B. J. Shapiro, Beyond the reasonable doubt and the probable cause cit., pag. 200.
187
rimedio taumaturgico ai disordini della giustizia, «simbolo della superiorità della
tradizione anglosassone»739.
Nell’area italiana, una parte assai autorevole della dottrina preferì insistere sulle
caratteristiche intrinseche del nuovo canone della moral certezza740 e sulla
necessità di circondarlo di cautele, garanzie, ad esempio contemperandolo con un
non meglio precisato “criterio legale”741 poco chiaro nelle sue implicazioni:

«Se per condannare un uomo ad una pena vi è bisogno di una certezza


morale ch’egli abbia violata la legge; privo di questa moral certezza, il
giudice (…) non può dunque, senza violare i doveri del suo ministero,
senza offendere la giustizia, senza tradire la sua coscienza, condannare
come reo l’accusato. Ma questa moral certezza del giudice deve essa
bastare? Se questa, come si è dimostrato, non è nella proposizione, ma
nell’animo di colui ch’è certo; se questa dipende dalle disposizioni di
colui che giudica; se quello che basta per render certo uno della verità
di un fatto non basta per un altro; se una buona e una cattiva
digestione può rendere un uomo più o meno credulo; se una
prevenzione favorevole può rendere infallibile per un giudice
l’assertiva di un uomo, della quale un altro non farebbe alcun conto;
se la civile libertà non dee permettere che un giudice possa
impunemente condannare un innocente e se questo sarebbe il mezzo
più efficace per lasciargli un illimitato ed impunibile arbitrio sulla
vita, l’onore e la libertà del cittadino; se il legislatore dee cercare che
‘l voto pubblico accompagni, quanto si può, il giudizio dè giudici; se
tutto questo, in una parola, renderebbe perniciosissima l’autorità del
giudice quando la sola sua moral certezza potesse bastare per
determinare la verità di un fatto, è dunque necessario che la scienza
della legislazione trovi un temperamento a quest’autorità, atto a
prevenire sì pericolosi disordini. Il temperamento che io propongo mi
pare il più semplice: questo sarebbe il combinare la certezza morale
739
Sul punto: A. Padoa Schioppa, La giuria all’Assemblea Costituente francese, cit., pp. 60 e ss.
Dello stesso autore si ricorda anche: I philosophes e la giuria penale, in «Nuova rivista storica»,
70, 1986, pp. 107-146.
740
Molti furono gli autori del Settecento maturo che si occuparono del convincimento su base
indiziaria: T.Nani, Degl’indizi e dell’uso dei moderni per conoscere i delitti, Milano, 1834 ; P.
Risi, Animadversiones ad criminalem jurisprudentiam pertinentes, Milano 1766 ; F. M. Pagano,
Principi del Codice Penale e Logica dè probabili applicata ai giudizi criminali per servire di
teoria alle pruove nei giudizi criminali, Napoli, 1828 ; F.M. Renazzi, Elementa Juris
Criminalis, Roma, 1773-1781 ; M. T. Richeri, Universa civilis et criminalis jurisprudentia,
Torino, 1774. La storiografia italiana ha dedicato al tema ampi ed autorevoli studi: E. Dezza,
Tommaso Nani e la dottrina dell’indizio nell’età dei Lumi, cit; S. Solimano, Paolo Risi e il
processo penale, in Studi di Storia del diritto, cit.; C. Cogrossi, La criminalistica italiana del
XVIII secolo sulla “certezza morale”, antesignana del libero convincimento: note, cit.
741
G. Filangieri, La Scienza della Legislazione, ed. a cura di F. Toschi Vespasiani, Venezia,
2003, vol. III, capo XIV, pag. 123.
188
del giudice colla norma prescritta dal legislatore, cioè a dire, col
criterio legale»

Si registra così, proprio nella materia della verità giudiziaria, una palese difficoltà
di azzeramento dell’esperienza processuale precedente, un’incapacità di
abbandonare in toto i rassicuranti crismi dell’antico legalismo formale; alla
necessità di riformulare i parametri della prova criminale, non fece riscontro
un’agevole elaborazione di criteri precisi e metodi più sicuri: i philosophes
apparvero spesso divisi, combattuti tra opzioni di segno diverso742, non sempre
capaci di fornire soluzioni effettivamente praticabili nella quotidiana
amministrazione dei processi743.

742
Il già citato Filangieri, registrava la palese difficoltà nello scegliere tra un’opzione
integralmente garantista ed una di vocazione “efficientista”: «Far dipendere la vostra vita, la
vostra libertà, il vostro onore all’assertiva di due testimoni idonei, che dicono di aver veduto
commettere il delitto, sembrerebbe agli occhi miei un attentato contro quella sicurezza e quella
tranquillità che dev’essere il primo scopo delle leggi e il primo beneficio della società. Io non
crederei di poter fare abuso maggiore dell’autorità che mi avete affidata, che impiegandola a
dettare leggi così funeste. Ma rivolgete ora la medaglia ed osservatene il rovescio. Che ne
sarebbe della società se i delitti rimanessero impuniti?», in La Scienza della Legislazione, cit.,
III, capo XV, pp. 127-128. Il giurista Paolo Risi, sebbene non propriamente ascrivibile
all’orizzonte illuministico, fornì dei contributi in materia di prove criminali che si allinearono
sostanzialmente a quelli dei philosophes coevi, ed espressero le medesime difficoltà: nelle sue
Animadversiones cit., si rinviene una critica esplicita alle classificazioni probatorie di antico
regime: «Plura quidem hac super re, et praegrandia volumina sunt vulgata; sed quae ad
peculiares probationum classes enumerandas, multiplicesque, ac varias hypotheses
confingendas perverse, ac praepostere delapsa nulla certa principia universim statuerint, neque
porro docuerint, qua ratione ea essent principia adhibenda, quae statuissent; ut siqua quaestio
paulo impeditio occorra, neque cuiusquam earum simillima, quarum ab iurisperitis mentio facta
est, expediri vix possit», Ibidem, pp. 5-6. E tuttavia, lo stesso Risi parrebbe abbracciare una
chiara opzione legalistica (quella della predeterminazione normativa) quando si rivolge al
legislatore, rimproverandogli di non aver fissato ex lege il «discrimen utriusque probationis». In
realtà, esattamente come Filangieri, egli proponeva un sistema probatorio intermedio, dove la
coscienza del giudice trovasse nel criterio legale il proprio sicuro contemperamento. Sul punto:
S. Solimano, Paolo Risi e il processo penale cit., pp. 477 e ss.
743
Cesare Beccaria, che pure contestava apertamente le rigide classificazioni “legalistiche” («le
quasi-prove, le semi-prove (quasi che uno potesse essere semi-innocente o semi-reo, cioè semi-
punibile e semi-assolvibile)», in Dei delitti e delle pene cit., § XXXI), non offriva soluzioni
tecniche praticabili, ma anzi in qualche modo riproponeva vecchie terminologie e logiche
antiche: «Possono distinguersi le prove di un reato in perfette ed imperfette. Chiamo perfette
quelle che escludono la possibilità che un tale non sia reo, chiamo imperfette quelle che non la
escludono. Delle prime anche una sola è sufficiente per la condanna, delle seconde tante son
necessarie quante bastino a formarne una perfetta, vale a dire che se per ciascuna di queste in
particolare è possibile che uno non sia reo, per l’unione loro nel medesimo soggetto è
impossibile che non lo sia. Notisi che le prove imperfette delle quali il reo può giustificarsi e
non lo faccia a dovere divengono perfette». A tutto ciò si aggiungeva la rinuncia a definire con
esattezza i contorni e i limiti dei nuovi parametri suggeriti: «Ma questa morale certezza di prove
è più facile il sentirla che l’esattamente definirla», Ibidem, § XIV.
189
In realtà essi intuivano, nonostante il fermento e l’entusiasmo che aveva
inizialmente circondato le rivalutate capacità umane di giudizio e discernimento,
i pericoli insiti in un giudizio “morale” e “di coscienza”: capivano, cioè, che
quella libertà di statuire l’altrui innocenza o colpevolezza sulla base di elementi
altri rispetto ai rigidi dettami di un codice, poteva sì tradursi in un più efficiente e
razionale strumento di scoperta dei fatti, ma poteva anche trasformarsi in un
ausilio ancor più terribile dell’arbitrio incontrollato. Si trattava di un terreno
pericolosamente sconnesso: non è un caso che, a distanza di oltre due secoli, il
tema del libero convincimento del giudice e delle sue possibili insidie rappresenti
tutt’oggi un problema sostanzialmente aperto744.
Quello che però è importante sottolineare, a conclusione di questo percorso di
ricerca, è che grazie ad una parte rilevante della cultura giuridica, filosofica e
scientifica del XVII secolo (di cui l’esperienza settecentesca fu largamente
debitrice), il mutamento paradigmatico avvenuto in seno al concetto di verità
giudiziaria fece sì che questa si trasformasse lentamente in un τελοσ tendenziale
del processo, implicante l’accettazione di risultati empirici, e consistente nella
«massima approssimazione alla realtà fattuale»745, racchiusa entro coordinate
spazio-temporali limitate e regolate.
Questo significò, in concreto, una graduale dismissione dei mezzi e dei metodi di
ricerca tipici dell’armamentario inquisitorio, e un approccio, almeno
astrattamente, più adeguato a soddisfare le esigenze di accertamento del singolo
caso specifico. Un approccio che, invece di poggiare interamente su una
normazione quanto più possibile dettagliata ed esaustiva (condizione, questa,
puntualmente inarrivabile), mirava piuttosto all’obiettivo della ragionevolezza,
intesa come equilibrio tra “certezza” e “concretezza”.
Nelle splendide pagine dedicate da Giuseppe Capograssi al tema della verità
giudiziaria, si legge una pregnante definizione di certezza morale, identificata
con la «fiducia nel normale andamento della vita, in cui nessuno si cura di avere

744
Severissima la denuncia di Cordero: «Il libero convincimento, diventa un grimaldello in
mano al giudice soi-pensant onnisciente (…); “prova a valutazione libera” non significa che
siano valutabili anche le inammissibili o male acquisite, ma così avviene spesso; e “libero
convincimento” diventa così la formula d’una gnosi onnivora in perfetto stile inquisitorio», in
Procedura penale cit., pp. 602-603. Vero è che la critica di Cordero è anteriore alle modifiche
introdotte all’art 111 della Costituzione sul principio della formazione dibattimentale della
prova, che lasciano comunque irrisolte numerose altre problematiche. Sul punto: A. Balsamo,
L’istruttoria dibattimentale e l’attuazione dei principi costituzionali: efficienza, garanzie e
ricerca della verità, in «Cassazione Penale», XVIII, 2002; S. Moccia, Verità sostanziale e
verità processuale, in R. De Giorgi (a cura di), Il diritto e la differenza. Scritti in onore di A.
Baratta, Lecce, 2002; M. Donini, Alla ricerca di un disegno. Scritti sulle riforme penali in
Italia, Padova, 2003; J. Ferrér Beltràn, Prova e verità nel diritto, Bologna, 2004.
745
M. Taruffo, Note per una riforma del diritto delle prove, in «Rivista di diritto processuale»,
XLI, 1986, pag. 249.
190
l’assoluta certezza, ma tutti si fidano in quella specie di sicurezza sintetica e
complessiva, che danno la normale natura umana, le normali apparenze
dell’azione e la vivente aspettativa che quelle apparenze non deluderanno (…).
La verità legale non significa una verità finta e presunta per necessità pratica, ma
è in sostanza la verità che si trova seguendo la via dell’obiettività»746.
Se, dunque «libertà e verità coincidono»747, quella stessa libertà non va intesa
come assenza di limiti o forme, poiché «è la purezza dei mezzi a garantire la
verità del fine»748.
Questa possibilità di conciliare i limiti formali con il convincimento, era già
stata teorizzata, secoli innanzi, dai giuristi contrari alla meccanica delle prove
legali, e fu poi dimostrata dai teorici della conoscenza induttiva e della logica
applicata alle questioni di diritto.
Essi, in definitiva, elaborarono quei nuovi metodi di cognizione e quei nuovi
parametri di apprezzamento dai quali poté nascere una diversa espressione di
iurisdictio:

«La giurisdizione è (o almeno aspira ad essere) ius dicere, e non ius


dare: è cioè attività normativa che si distingue da ogni altra in quanto
è motivata da asserzioni supposte vere e non solo da prescrizioni, e
non è quindi meramente potestativa, e neppure totalmente
discrezionale, ma vincolata all’applicazione della legge ai fatti
giudicati, tramite ricognizione della prima e cognizione dei
secondi»749.

Stretta ricognizione della legge e libera cognizione dei fatti: attraverso questo
difficile binomio si è costruito un modello di processo penale che tuttora
faticosamente s’insegue, ma che menti brillanti seppero già intravedere e
suggerire nella piena attualità della parabola inquisitoria, della verità assoluta e
dell’arbitrarietà della materia probationum.

746
G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità cit., pag. 66.
747
Ibidem, pag. 65.
748
Ibidem, pag. 66.
749
L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, pag. 9.
191
Fonti di diritto comune:

Corpus Juris Civilis:

D. XXII, 5, 3 (Callistratus, Libro quarto de cognitionibus);

D. XXII, 5, 12 (Ulpianus, Libro trigesimo septimo ad edictum);

D. XLVIII, 8,1 (Marcianus, Libro quarto decimo de institutionum);

D. XLVIII, 16, 1 (Marcianus, Libro singulari ad senatus consultum


Turpillianum);

D. XLVIII, 19, 5 (Ulpianus, Libro septimo de officio proconsulis);

D. XLIX, 16, 4 (Arrius Menander, Libro secundo de re militari);

D. L, 16, 37 (Paulus, Libro vicesimo sexto ad edictum);

C. IV, 19, 25 (Impp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Floro pp.);

C. IV, 20, 2 (Imp. Alexander A. Carpo.)

C. IV, 21, 13 (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Alexandriae et CC.


Leontio).

Corpus Juris Canonici:

C. III, q. VII, c. 4 (Ille de vita alterius.., Ambrosius super “Beati Immaculati”);

C. VI, q. II, c. II (Episcopus non proferat.., Gratianus ex Concilio Vasensi);

VI. lib. V, tit. IV, c. 1 (Per assassinos faciens.., Innocentius IV in Concilio


Lugdunensi);

X, l. II, tit. XXIII, c. 1 ( Sicut manifeste nocens est.., Salomon in Parabolis);

X., l. II, tit. XXIII, c.10 (Efficacior probatio.., Alexander III. Decano Cassiensi);

X, l. II, tit. XXIII, c.12 (Per violentam praesumptionem probatur carnalis


copula, Alexander III. Genuensi Archiepiscopo);

X. l. V, tit. III, c. 6 (Simoniacus est deponendus, Lucius Papa);

X. l. V, tit. III, c. 7 (Simoniacum accusare potest servus, meretrix et criminosi,


Dedodatus);
192
Fonti dottrinarie:

Alciato A., Tractatus de praesumptionibus, Venetiis, 1564;

Aristotele, Topici, in Organon a cura di M. Zanatta, Torino, 1996;

Bacon F., Novum Organum or True suggestions for the interpretation of Nature,
London, 1844;

Bacon F., Nuovo Organo delle scienze di Francesco Bacone di Verulamio, trad.
it. a cura di A. Pellizzari, Venezia, 1788;

Barbosa A., Selectae Juris Canonici Interpretationes, Lugduni, 1647;

Barbosa A., Pastoralis Solicitudinis, sive De Officio et Potestate Episcopi


Tripartita Descriptio, Lugduni, 1650;

Bernoulli J., Ars Conjectandi. Opus Posthumum, Basiliae, 1713;

Borrelli C., Consiliorum sive controversiarum forensium Centuria Prima,


Venetiis, 1598;

Bossi E., Tractatus varii, qui omnem ferem criminalem


materiam…complectuntur, Mediolani, 1562;

Broya F., Praxis Criminalis, Neapoli, 1684;

Calà M., Tractatus de modo articulandi et probandi, Frankfurt, 1598;

193
Caravita N., Ragioni a prò della fedelissima città e Regno di Napoli, contr’al
procedimento straordinario nelle cause del Sant’Officio, Neapoli, 1692;

Casoni F., De indiciis et tormentis Tractatus Duo, Coloniae, 1594;

Claro G., Volumen, alias Liber Quintus. In quo omnium criminum in materia sub
receptis sententiis copiosissime tractatur, ita ut nihil ulterius desiderari possit,
quod, cum ad Reorum persecutionem, tum ad ipsorum defensionem, faciat,
Venetiis, 1583;

Covarruvias y Leyva D., Variarum ex iure pontificio regio et caesareo


resolutionum libri tres, in Opera Omnia, t. II, Venetiis, 1581;

Crusius C., Tractatus de indiciis delictorum ex iure publico et privato. Cum


observationibus et notis, Frankfurt, 1682;

D’Andrea F., Avvertimenti ai Nipoti, a cura di I. Ascione, Napoli, 1980;

D’Aquino T., Summa Theologiae, Roma, 1967;

Da Cantera D., Quaestiones Criminales tangentes Iudicem,accusatore,


punitionemque Delictorum, Salmanticae, 1589;

Dal Pozzo P., Tractatus absolutissimus de syndacatu, Francofurti, 1608;

Da Suzara G. De Tormentis sive indiciis et tortura, in Tractatus Universi Juris, t.


XI De criminalis Judiciis, Venetiis, 1563;

194
De Azpilcueta M., Compendium Manualis Navarri ad commodiorem usum, tum
confessariorum, tum poenitentium, compilatum, Lugduni, 1593;

De Azpilcueta M., Consiliriorum sive Responsorum Tomi duo, Venetiis, 1603;

Deciani T., Tractatus Criminalis, Venetiis, 1590;

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