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ALEKSANDR SOLŽENICYN
NEL PRIMO CERCHIO
VOLAND
SÍRIN
Aleksandr Solženicyn
Voland
Titolo originale: V kruge pervom
© 1968, 1978 Aleksandr Solženicyn
© dell’edizione italiana
Voland s.r.l. Roma 2017
ISBN 978-88-6243-386-0
The publication was effected under the auspices
of Mikhail Prokhorov Foundation
TRANSCRIPT Programme to Support Translations of Russian Literature
Published with the support of
the Institute for Literary Translation (Russia)
Per alcuni termini e acronimi meno conosciuti si rimanda al glossario in fondo al volume
Il destino dei libri russi contemporanei: se e quando riescono a salire in
superficie, vengono fuori spennati. Così è successo di recente al Maestro e
Margherita di Bulgakov: le piume sono galleggiate fino a noi in un secondo
tempo. Così è accaduto a questo mio romanzo: perché godesse almeno di una
flebile vita, per osare mostrarlo e portarlo in redazione, l’ho ridotto e
modificato io stesso, o meglio l’ho smontato e ricomposto di nuovo, e in questa
forma è divenuto celebre.
E anche se ormai non si può tornare indietro e rimediare, eccovi l’originale.
Peraltro, nel ricostruirlo qualcosa ho migliorato: allora avevo quarant’anni, ora
ne ho cinquanta.
scritto: 1955-1958
modificato: 1964
ricostruito: 1968
Agli amici della šaraška
1
IL SILURO
Ci sono luoghi istituzionali dove, accanto a una porta con la scritta “Ingresso
riservato al personale”, puoi imbatterti in una lucina rosso scuro. Oppure dove,
come usa di questi tempi, un’autorevole targhetta a specchio recita: “Ingresso
assolutamente vietato ai non addetti.” Lì si trova anche un custode dall’aria
minacciosa che, seduto a un tavolino, controlla i lasciapassare. E dietro quella
porta inaccessibile, come per tutto ciò che è proibito, uno finisce per
immaginarsi chissà che.
Là, invece, c’è sempre il solito banale corridoio, forse un po’ più pulito. Al
centro una passatoia di grezza tela rossa statale. Con parsimonia, hanno
lucidato il parquet. Con parsimonia, hanno piazzato un buon numero di
sputacchiere.
Solo che è sempre deserto. Nessuno passa mai da una porta all’altra.
Le porte poi, sono tutte di pelle nera imbottita, con ribattini bianchi e il
numero su un piccolo ovale a specchio.
Chi lavora in una di queste stanze conosce meno i fatti della stanza accanto
che le notizie di mercato dell’isola del Madagascar.
Così in quella sera non troppo fredda e un po’ cupa di dicembre due tenenti
si trovavano in servizio presso l’edificio della stazione telefonica automatica
centrale di Mosca, in uno di quei corridoi proibiti, dentro una di quelle stanze
inaccessibili che il capo del servizio amministrativo militare identificava come
la n. 194, ma che all’XI sezione della Sesta Direzione dell’MGB, il Ministero della
Sicurezza di Stato, figurava come “Postazione A1”. A dire il vero, i due non
indossavano l’uniforme, ma abiti civili: così per loro era più facile entrare e
uscire dall’edificio della stazione telefonica.
Una parete era occupata da quadri elettrici e da un pannello di segnalazione
sul quale prevaleva il nero della plastica e scintillava il metallo delle
apparecchiature acustico-telefoniche. Su un’altra parete, era appeso un foglio
grigio, con l’elenco di numerose istruzioni.
In base a quell’elenco, in cui si prevedevano e si scongiuravano tutti i
possibili casi di violazione e deviazione riscontrabili intercettando e
trascrivendo le conversazioni telefoniche dell’ambasciata americana, era
obbligatorio stare di turno in due: uno doveva ascoltare ininterrottamente,
senza togliersi mai le cuffie, l’altro non poteva mai lasciare la stanza, se non per
recarsi al gabinetto, e si dovevano dare il cambio ogni mezz’ora.
Seguendo le istruzioni alla lettera era impossibile commettere errori.
Tuttavia, a causa della tragica discrepanza fra la perfezione ideale degli
ordinamenti statali e la miserabile imperfezione umana, quella volta le
istruzioni furono violate. Non perché gli agenti di turno fossero dei nuovi
arrivati, ma proprio perché avevano esperienza ed erano convinti che non
potesse accadere nulla di particolare. Soprattutto la Vigilia del Natale della
Chiesa occidentale.
Uno dei due, Tjukin, un tenente dal naso largo, il lunedì successivo, a lezione
di Educazione politica, doveva essere interrogato su Chi sono gli “amici del popolo”
e come lottano contro i socialdemocratici1, sulla ragione per cui al II Congresso
bisognava dividersi, e fosse giusto farlo, e al V riunirsi, e fosse di nuovo giusto,
ma al VI si era reso necessario tornare ognuno per conto proprio, e anche
quello fosse giusto. Non sarebbe stato difficile se Tjukin non avesse cominciato
a leggere solo da sabato e la domenica dopo il turno non si fosse fatto una bella
bevuta con il marito di sua sorella; e lunedì mattina quella roba tanto semplice
non gli stava in testa con i postumi della sbornia, e il segretario di partito già si
lamentava di lui e minacciava di convocarlo nel suo ufficio. L’essenziale poi
non era rispondere alle domande quanto presentare un riassunto. Per tutta la
settimana Tjukin non aveva trovato il tempo e quel giorno non aveva fatto
altro che rimandare; così dopo aver chiesto al compagno di svolgere il turno
senza cambi, si era sistemato in un cantuccio davanti a una lampada da tavolo,
dove stava ricopiando sul quaderno ora un brano, ora un altro dal Breve corso2.
Siccome non avevano ancora acceso la luce in alto, a illuminare la stanza era
solo una lampada vicino ai magnetofoni. Il tenente Kulešov, riccioluto, mento
grassoccio, sedeva con le cuffie in testa e si annoiava. All’ambasciata avevano
fatto acquisti per telefono fin dal mattino, ma dopo pranzo quel luogo si era
come appisolato: nemmeno una chiamata.
Rimasto seduto a lungo, Kulešov pensò di controllarsi gli ascessi che aveva
sulla gamba sinistra. Per ragioni sconosciute ne spuntavano sempre di nuovi, su
cui spalmava una pomata streptocida verdina allo zinco; ma quelli non si
rimarginavano, continuando ad ampliarsi sotto le croste. Dal dolore faceva
fatica a camminare. Alla clinica dell’MGB gli avevano già fissato un consulto da
uno specialista. Kulešov aveva ottenuto da poco un nuovo appartamento e sua
moglie aspettava un bambino: gli ascessi gli stavano rovinando quella vita tanto
bella.
Levatosi le pesanti cuffie che gli premevano sulle orecchie, Kulešov si piazzò
comodo sotto la luce, si rimboccò il pantalone sinistro e la gamba dei
mutandoni e cominciò a tastarsi la pelle e a staccarsi i bordi delle crosticine.
Sotto la loro pressione si accumulava un icore grigio-marrone. Gli facevano
talmente male che il dolore pulsava in testa, togliendogli lucidità. Per la prima
volta fu colpito dal pensiero che non si trattasse di semplici ascessi, ma... ma...
Gli tornò alla mente una parola orribile sentita chissà dove: cancrena, forse?
Oppure...
Così Kulešov non si accorse subito che le bobine del magnetofono erano
entrate in funzione in automatico e stavano girando in silenzio. Con la gamba
nuda sempre lì dove l’aveva appoggiata, si allungò fino alle cuffie, ne accostò
una all’orecchio e sentì:
– Come faccio a sapere che dice la verità?
– Non si rende conto di cosa sto rischiando?
– La bomba atomica? E l-lei chi è? Mi dica suo cognome.
LA BOMBA ATOMICA!!! Spinto da uno slancio istintivo, come uno che per non
cadere si aggrappa al primo sostegno che gli capita, Kulešov staccò lo spinotto
del centralino, scollegando i telefoni. Solo allora si rese conto che, nonostante
le istruzioni, non aveva rilevato il numero dell’utente.
Per prima cosa, si voltò. Tjukin scriveva il suo riassunto e non aveva visto
nulla. Era un amico, ma se a Kulešov avevano assegnato il compito di
controllarlo, il collega doveva aver ricevuto lo stesso ordine nei suoi confronti.
Dopo aver pigiato con dita tremanti il tasto per riavvolgere il nastro e
ricollegato all’ambasciata il magnetofono di fabbricazione occidentale, Kulešov
pensò dapprima di cancellare la registrazione, per coprire la propria
sbadataggine. Gli tornarono però subito in mente le parole del loro capo che,
in più di un’occasione, aveva spiegato come il lavoro di guardia alla postazione
venisse registrato in automatico anche in altro luogo, e accantonò l’idea
assurda. Naturale che facessero un duplicato, e per aver occultato una
conversazione del genere ti fucilavano all’istante!
Il nastro si era riavvolto. Kulešov pigiò il tasto per riascoltare. Il criminale
aveva fretta, era agitato. Da dove stava chiamando? Di certo non da un
appartamento privato. E men che meno dal lavoro. Avevano sempre
l’accortezza di chiamare le ambasciate dalle cabine pubbliche.
Sfogliando l’elenco delle cabine, Kulešov identificò subito un telefono
accanto alla scala d’ingresso della metro Sokol’niki.
– Genka! Genka! – chiamò il collega con voce roca, tirandosi giù la gamba
del pantalone. – Missione urgente! Telefona al gruppo operativo! Forse fanno
ancora in tempo a prenderlo!
1 Articolo del 1894 in cui Lenin criticava aspramente le posizioni dei populisti.
2 Storia del Partito comunista-bolscevico dell’U.R.S.S. Breve corso, pubblicato sulla “Pravda” dal 1938 al 1956, anno
in cui fu criticato al XX Congresso. Rimase lettura obbligatoria per i cittadini sovietici e base ideologica nel
culto della personalità di Stalin.
3
LA ŠARAŠKA
– I nuovi!
– C’è gente fresca!
– Da dove venite, compagni?
– Amici, da dove arrivate?
– E cos’è quella cosa che avete sul petto e sul cappello, quella specie di
macchia?
– C’erano attaccati i nostri numeri. Li avevamo anche sulla schiena e sul
ginocchio. Ce li hanno scuciti prima di spedirci qui dal campo di lavoro.
– Cioè, erano... numeri?!
– Signori, permettetemi di dirlo, ma in quale secolo viviamo? Numeri cuciti
sulle persone? Lev Grigor’ič, mi faccia capire bene, per lei questo è progressista?
– Valentulja, non si scervelli, vada a cena.
– Ma non posso cenare se da qualche parte ci sono persone che girano con
dei numeri sulla fronte!
– Amici! Distribuiscono le Belomor per la seconda metà di dicembre, nove
pacchetti. Avete una possibilità! Fate i bravi!
– Belomor Java o Belomor Dukat?
– Metà e metà.
– Quelle carogne ci soffocano con le Dukat! Mi lamenterò con il ministro,
maledetti.
– E la tuta che portate voi, cos’è? Perché siete tutti vestiti da paracadutisti?
– Hanno introdotto la divisa. Prima ci davano indumenti di lana, cappotti di
panno; ora risparmiano, i vigliacchi.
– Guarda, dei nuovi arrivati!
– C’è gente nuova!
– Ehi, ragazzi! Insomma, non avete mai visto uno zek in carne e ossa? Avete
bloccato tutto il corridoio!
– Oh! Ma guarda chi c’è! Dof-Donskoj!? Dov’è stato, Dof? Nel 1945 l’ho
cercata per tutta Vienna, tutta Vienna!
– Come siete messi male, non vi hanno nemmeno rasati! Da quale campo di
lavoro venite, amici?
– Da diversi. Rečlag...
– ...Dubrovlag...
– Io sono dentro da nove anni ma questi nomi non li ho mai sentiti.
– Sono nuovi, sono campi speciali. Li hanno introdotti nel ’48.
– Mi hanno acciuffato proprio all’entrata del Prater a Vienna e sbattuto su
un corvo.
– Aspetta, Mitëk, fammi sentire i nuovi arrivati...
– Cammina, forza! Fuori all’aria fresca! Ci penserà Lev a fare il terzo grado
ai nuovi, non preoccuparti.
– Secondo turno! A cena!
– Ozërlag, Luglag, Steplag, Kamyšlag3...
– A quanto pare all’MVD c’è un poeta incompreso. Con un poema non si
cimenta, per una composizione non ha le forze, ma dà nomi poetici ai campi di
lavoro.
– Ah, ah, ah! Assurdo, signori, davvero assurdo! Ma in che secolo viviamo?
– Ehi, stai buono, Valentulja!
– Chiedo scusa, lei come si chiama?
– Lev Grigor’ič.
– Anche lei ingegnere?
– No, io sono filologo.
– Filologo? Ci tengono anche i filologi, qui?
– Meglio sarebbe chiedere chi non ci tengono. Abbiamo matematici, fisici,
chimici, ingegneri radio, ingegneri specializzati in telefonia, progettisti,
scenografi, traduttori, rilegatori... ci hanno mandato per sbaglio anche un
geologo.
– E quello che fa?
– Niente, si è sistemato nel laboratorio fotografico. C’è anche un architetto.
E che architetto! Quello personale di Stalin. Gli costruiva tutte le dacie. Ora è
qui con noi.
– Lev! Tu ti spacci per materialista, ma poi rimpinzi la gente di cibo
spirituale. Attenzione, amici! Quando vi condurranno alla mensa, là, sull’ultimo
tavolo, vicino alla finestra, abbiamo tenuto da parte per voi una trentina di
piatti. Mangiate a sazietà, ma senza farvi scoppiare la pancia!
– Grazie mille, ma perché privarvene voi?
– Non ci costa niente. Chi mangia più aringa salata alla Mezen’ e kaša di
miglio! È roba dozzinale.
– Cosa ha detto? Kaša di miglio, dozzinale? Sono cinque anni che non ne
vedo!
– Non sarà stato miglio, più probabile magarà!
– È impazzito, magarà! Che ci provino a darci magarà! Gliela tiriamo dietro!
– E come si mangia adesso nelle prigioni di transito?
Č
– In quella di Čeljabinsk...
– Čeljabinsk nuova o vecchia?
– Dalla sua domanda è chiaro che lei se ne intende. Alla nuova...
– Risparmiano ancora sui gabinetti costringendo gli zek a fare i bisogni nei
buglioli e a portarli giù dal terzo piano?
– Sì, succede ancora.
– Ha detto šaraška. Che significa?
– E quanto pane danno a testa, qui?
– Chi non ha ancora cenato? Secondo turno!
– Quattrocento grammi di pane bianco. Quello nero è sui tavoli.
– Cosa? Come ‘sui tavoli’?
– Sta lì, tagliato. Se vuoi lo prendi, altrimenti lo lasci dove sta.
– Scusate, ma dove siamo qui, in Europa?
– Perché in Europa? Là sui tavoli c’è il pane bianco, mica quello nero.
– Sì, ma per un po’ di burro e di Belomor ci spezziamo la schiena dodici,
quattordici ore al giorno.
– Spezzarvi la schiena? Dietro una scrivania non ci si spezza la schiena!
Quello succede a chi lavora col piccone!
– Porca miseria, stare in questa šaraška è come finire in una palude: si perde
il contatto con la realtà. Avete sentito, signori? Si dice che hanno messo alle
strette la mala: non ti spolpano nemmeno a Krasnaja Presnja4.
– Ai professori danno quaranta grammi di burro, agli ingegneri venti. Da
ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue possibilità.
– Dunque lei lavorava al Dneprostroj5?
– Sì, lavoravo con Vinter. È per la Dneproges che sono dentro.
– Cioè, in che senso?
– Be’, io, vedete, l’ho venduta ai tedeschi.
– La centrale idroelettrica sul Dnepr? Ma se l’hanno fatta saltare!
– E allora? Io gliel’ho venduta quando era già saltata.
– Lo giuro, sento soffiare come un vento di libertà! Prigioni di transito!
Traduzioni di detenuti! Campi di lavoro! Movimento! Eh, quasi quasi mi farei
un giretto fino a Sov-Gavan’6.
– E ritorno, Valentulja, e ritorno!
– Sì! Indietro di corsa, naturalmente!
– Sa, Lev Grigor’ič, mi gira la testa per questa valanga di impressioni, questo
cambio di situazioni. Ho cinquantadue anni, sono guarito da una malattia
mortale, mi sono sposato due volte con due donne graziose, ho avuto figli,
pubblicato in sette lingue, ricevuto premi accademici, eppure non mi sono mai
sentito così beatamente felice come oggi! Dove sono finito? Domani non mi
cacceranno nell’acqua gelata! Quaranta grammi di burro!! Pane nero sui tavoli!
Non ti vietano i libri! Ci si può radere da soli! I secondini non pestano gli zek!
Che giornata grandiosa! Che vetta luminosa! Non sarò mica morto? Non starò
sognando? Mi sembra di essere in paradiso!!
– No, mio caro, lei si trova all’inferno come prima, è soltanto salito nel suo
girone più alto, il migliore: nel primo cerchio. Domandava che cos’è la šaraška?
La šaraška l’ha inventata Dante. Si scervellava su dove mettere i sapienti del
mondo classico. Il suo dovere di cristiano gli imponeva di gettare quei pagani
all’inferno. La sua coscienza di uomo del Rinascimento invece non poteva
rassegnarsi a mischiare uomini dalle menti brillanti con altri peccatori e
condannarli a torture fisiche. E Dante ha trovato per loro un posto particolare
all’inferno. Se permette... suona più o meno così:
Venimmo al piè d’un nobile castello...
– Eh, Lev Grigor’ič, mi lasci spiegare a Herr Professor cos’è la šaraška in modo
molto più semplice. Basta leggere gli editoriali della ‘Pravda’: ‘...è comprovato
che la resa di lana tosata dalle pecore dipende dal loro nutrimento e dalla loro
cura.’
Boogie-Woogie, Boogie-Woogie
Samba! Samba!
Non potendo passare, Rubin rimase in piedi per un minuto, con una finta
espressione mite sul viso. Il giovane quasi non si accorse di lui.
– Valentulja, non potrebbe tirare un pochino indietro la gambina posteriore?
Senza sollevare la testa dallo schema, pronunciando la frase con decisione,
Valentulja rispose:
– Lev Grigor’ič! Sparisca! Giù le zampe! Come mai in giro di sera? Che è
venuto a fare? – E gli piantò addosso i suoi stupefatti occhi chiari di ragazzo. –
A che diamine serviranno qui dei filologi! Ah ah ah! – lo apostrofò forte e
chiaro. – Non è mica un ingegnere, lei!! Vergogna!
Con le labbra carnose protese in una buffa trombetta puerile e sgranando gli
occhi, Rubin farfugliò:
– Bimbo mio! Ci sono ingegneri che vendono acqua frizzante.
– Non è il mio caso! Amico, il sottoscritto è un ingegnere di primo livello,
non se lo dimentichi! – scandì Valentulja in tono brusco, e riposto il saldatore
sul sostegno di metallo, raddrizzò la schiena, scostando di lato i soffici,
ondulati capelli del colore del pezzo di colofonia che aveva sul tavolo.
Aveva una freschezza giovanile, la pelle del viso sembrava rimasta immune ai
segni della vita, i movimenti ancora quelli di un ragazzo: nessuno avrebbe detto
che si era diplomato prima della guerra, era stato prigioniero dei tedeschi,
aveva trascorso un periodo in Europa e si trovava in carcere in patria già da
cinque anni.
Rubin sospirò:
– Senza referenze certificate dal suo capo in Belgio la nostra
amministrazione non può...
– Ma quali referenze?! – Valentin giocava a fare l’offeso in modo del tutto
verosimile. – Lei si è proprio rimbecillito! Io, vedi un po’, amo le donne alla
follia!!
La ragazza minuta e severa si concesse un sorriso.
Accanto alla finestra dove Rubin si stava dirigendo un altro detenuto
abbandonò la propria attività per ascoltare Valentulja con approvazione.
– A quanto pare, solo in teoria – rispose Rubin, masticando annoiato.
– E alla follia amo spendere soldi!
– Ma non ne ha...
– Come potrei essere un cattivo ingegnere? Ci pensi: per amare le donne – e
sempre diverse! – devi avere tanti soldi! E per avere tanti soldi devi guadagnare
molto! E per guadagnare molto, se sei un ingegnere, devi essere brillante ed
eccellere nella tua specializzazione! Ah-ah! Fregato!
Il lungo viso di Valentulja si era sollevato baldanzoso verso Rubin.
– Aha! – esclamò lo zek vicino alla finestra, la cui scrivania si trovava di
fronte a quella della ragazza minuta, praticamente attaccate. – Lëvka, ho capito
com’è la voce di Valentulja! Scampanellante! La catalogo così, eh? Una voce del
genere si riconosce da qualsiasi telefono. Con qualsiasi interferenza.
Aprì un grosso foglio, pieno di colonne di nomi, con un grafico quadrettato
e una classificazione a forma di albero.
– Ah, che scemenza! – Valentulja fece un cenno con la mano e, afferrato il
saldatore, prese a far fumare la colofonia.
Il passaggio fu di nuovo libero e Rubin, raggiunto il proprio posto, si chinò
anche lui sulla classificazione di voci.
I due la esaminarono in silenzio.
– Siamo andati avanti bene, Glebka – disse Rubin. – Assieme al linguaggio
visibile è una buona arma. Molto presto io e te capiremo da cosa può dipendere
una voce al telefono... Cosa stanno trasmettendo?
Nel resto della stanza il jazz era predominante, ma accanto al davanzale ad
avere la meglio era il loro apparecchio artigianale, da cui veniva la fluente
musica di un pianoforte. In essa emergeva con insistenza, per poi sottrarsi
subito, e tornare a emergere e a sottrarsi di nuovo, una stessa melodia. Gleb
rispose:
– La Sonata n. 17 di Beethoven. Chissà perché non l’ho mai... Ascoltala anche
tu.
Si piegarono entrambi verso l’apparecchio.
– Valentine! – disse Gleb. – Su, faccia il bravo. Non sia egoista!
– Non lo sono affatto – rispose quello, in tono brusco – vi ho assemblato io
l’apparecchio. Se vi stacco la bobina, non beccate più niente.
Corrugate le sopracciglia in un cipiglio severo, la ragazza intervenne:
– Valentin Martynyč! È vero, non si possono ascoltare tre radio insieme.
Spenga la sua, glielo stanno chiedendo per favore.
(La radio di Valentin stava trasmettendo uno slow-fox, che alla ragazza
piaceva molto...)
– Serafima Vital’evna! È pazzesco! – Valentin urtò una sedia vuota, che
afferrò al volo prima che cadesse, poi si mise a gesticolare come fosse su una
tribuna. – Come fa un uomo sano e normale a non apprezzare il tonificante ed
energico jazz? Con quella robaccia antiquata lei si rovina! Ma davvero non ha
mai ballato Blue Tango? Possibile che non abbia mai visto gli spettacoli di
varietà di Arkadij Rajkin10? E non è mai stata in Europa! Dove poteva
imparare a vivere? Mi ascolti: lei ha bisogno di innamorarsi di qualcuno! –
arringò attraverso lo schienale della sedia, senza notare la piega amara intorno
alle labbra della ragazza. – Uno qualsiasi, ça dépend! Le luci notturne che
scintillano! Il fruscio degli abiti da sera!
– Di nuovo uno sfasamento! – disse Rubin allarmato. – Bisogna usare la forza!
E spense da solo il jazz alle spalle di Valentulja.
Quello si voltò come se l’avessero morso.
– Lev Grigor’ič! Chi le dà il diritto...?
Aggrottò le sopracciglia e lo guardò con fare minaccioso.
La rapida melodia, ora libera, della Sonata n. 17 cominciò a fluire nella sua
purezza, gareggiando solo con la rozza canzone che giungeva dall’altro capo
della stanza.
Il corpo di Rubin si era rilassato, sul suo viso spiccavano gli arrendevoli
occhi castani e la barba cosparsa di briciole di dolce.
– Ingegner Prjančikov11! Ha presente la Carta atlantica? Ha scritto il
testamento? A chi ha lasciato le sue pantofole da notte?
Il viso di Prjančikov si fece serio. Guardò con calma Rubin negli occhi e
chiese piano:
– Senta, ma cosa vuole? Possibile che un uomo non sia libero nemmeno in
prigione? Dove può esserlo, allora?
Chiamato da uno dei montatori, se ne andò avvilito.
Rubin si lasciò cadere in silenzio sulla sua poltrona, schiena a schiena con
Gleb, e si accinse ad ascoltare; la rasserenante e avvolgente melodia, terminò di
colpo, come un discorso interrotto sul più bello: era il finale modesto e poco
solenne della Sonata n. 17.
Rubin lanciò un’imprecazione, che solo Gleb riuscì a sentire.
– Scandisci le parole, non capisco – rispose quello, continuando a dare le
spalle a Rubin.
– Dicevo che sono sempre sfortunato – ribatté con voce roca Rubin,
evitando anche lui di girarsi. – Mi sono lasciato scappare la sonata...
– Succede perché ti organizzi male, quante volte bisogna dirtelo! – brontolò
l’amico. – È una sonata mooolto bella. Hai notato che finale? Nessun fragore
né sussurro. Si interrompe e basta. Come la vita... Ma dov’eri?
– Con i tedeschi. A festeggiare il Natale – ridacchiò Rubin.
Conversavano così, senza guardarsi, rovesciando quasi la nuca l’uno verso le
spalle dell’altro.
– Bravo. – Gleb si fermò a riflettere. – Mi piace il rapporto che hai con loro.
Insegni il russo a Max per ore. Eppure avresti tutte le ragioni per odiarli.
– Odiarli? No, ma l’affetto che provavo per loro si è guastato. Persino il
mite e apartitico Max non condivide forse in qualche modo la responsabilità
coi carnefici? Dopotutto non si è mai opposto, no?
– Be’, come io e te non ci opponiamo né ad Abakumov12 né a Šiškin-
Myškin...
– Ascolta, Gleb, in fin dei conti, io non sono forse più ebreo di quanto sia
russo? Non sono più russo di quanto sia cittadino del mondo?
– Hai detto bene. Cittadini del mondo! Suona tranquillo, pulito.
– Cioè cosmopoliti. Avevano ragione a sbatterci dentro.
– Certo che avevano ragione. Anche se tu fai di tutto per dimostrare alla
Corte Suprema il contrario.
Dal davanzale, l’annunciatore promise che di lì a trenta secondi sarebbe
cominciato Il diario di competizione socialista.
In quel breve intervallo, con calcolata lentezza, Gleb portò la mano
all’apparecchio e, impedendo alla voce del presentatore di farsi roca, quasi gli
stesse torcendo il collo, girò la manopola e spense. Il viso, che poco prima si
era animato, appariva ora stanco e grigiastro.
Prjančikov, invece, era alle prese con un nuovo problema. Stava calcolando
quale gruppo di amplificazione collegare e intanto, ad alta voce, canticchiava
spensierato:
Boogie-Woogie, Boogie-Woogie
Samba! Samba!
10 Arkadij Isaakovič Rajkin (1911-1987), capocomico, leggenda del teatro e del cinema sovietico. Rimase
miracolosamente indenne agli attacchi del potere nonostante, attraverso la sua arte, puntasse i riflettori sulle
inefficienze della burocrazia comunista e della società sovietica.
11 È il cognome di Valentin Martynyč.
12 Viktor Semënovič Abakumov (1894-1954), funzionario di alto livello degli organi di sicurezza sovietici,
qui ministro, uno dei vice di Stalin; finito a sua volta in disgrazia, sarà fucilato nel 1954.
6
UN’ESISTENZA PACIFICA
Ma vediamo di chiarire: Goethe non si è forse preso gioco della felicità umana?
Perché in realtà non c’è nessun vantaggio per nessuna umanità. Dunque,
l’attesissima frase rituale Faust la pronuncia a un passo dalla tomba, ingannato
e, forse, davvero folle? E i lemuri lo spingono subito nella fossa. Cos’è allora,
un inno alla felicità o una beffa nei suoi confronti?
– Ah, Lëvočka, ti adoro quando sei così, quando ragioni col cuore, parlando
con saggezza, senza appiccicare etichette ingiuriose.
– Che patetico seguace di Pirrone! Lo sapevo che ti sarebbe andato a genio.
Senti anche questa. In una delle mie lezioni prima della guerra – e quelle di
allora erano straordinariamente coraggiose! – a proposito di questo brano del
Faust sviluppai l’idea elegiaca che la felicità non esiste, che è o irraggiungibile o
illusoria... All’improvviso mi passarono un foglietto a quadretti strappato da un
minuscolo taccuino, c’era scritto: ‘Eppure, io amo e sono felice! Che cosa ne
dice di questo?’
– E tu cosa dicesti?...
– E cosa si può mai dire?...
16 “La lealtà dei soldati”, in tedesco.
17 Andrej Vlasov (1900-1946), generale sovietico che, caduto prigioniero dei tedeschi durante la Seconda
guerra mondiale, organizzò in funzione anticomunista il cosiddetto Esercito russo di Liberazione. Alla fine
della guerra, lui e i suoi uomini furono catturati, riportati a Mosca, processati per alto tradimento e
giustiziati.
18 Autore di un celebre dizionario della lingua russa viva pubblicato in sette volumi nella seconda metà
dell’Ottocento.
19 Nikolaj Jakovlevič Marr, linguista padre della controversa teoria iafetica sull’origine della lingua.
Secondo lui, la parola russa reč’, “discorso”, derivava da ruka, “mano”.
20 Johann Wolfgang Goethe, Faust, cura di Franco Fortini, Milano, Oscar Mondadori, 1994, vol. I, p. 23.
21 Ivi, p. 83.
9
IL QUINTO ANNO DI RECLUSIONE
Si erano lasciati trascinare al punto da non sentire più i suoni del laboratorio e
la fastidiosa radio nell’angolo opposto. Sulla sua sedia girevole Neržin dava di
nuovo la schiena al laboratorio, Rubin era piegato su un fianco, con la barba
posata sulle braccia incrociate sopra lo schienale della poltrona.
Neržin parlava come quando si confidano pensieri sui quali si è meditato a
lungo.
– Prima, da libero, quando leggevo nei libri l’opinione dei sapienti sul senso
della vita o su cosa fosse la felicità, capivo poco quei brani. Mi fidavo: pensare è
compito dei sapienti. Ma il senso della vita? Viviamo, è questo il senso. La
felicità? Stare davvero bene, è questa la felicità, è risaputo... Sia benedetta la
prigione!!! Mi ha dato il tempo di riflettere. Per capire la natura della felicità,
proviamo prima a comprendere la natura della sazietà. Pensa alla Lubjanka o al
controspionaggio. Pensa a quella poltiglia d’orzo o d’avena poco sostanziosa,
fatta a metà di acqua, senza nemmeno una stellina di grasso! La mangi davvero?
Ti ci nutri sul serio? Ci fai la comunione! Ti ci avvicini con sacra trepidazione,
come al prāna degli yoghin! La mangi lentamente, la mangi con la punta del
cucchiaio di legno, la mangi, immedesimandoti nel processo del mangiare, nel
pensiero del cibo, e come nettare ti scivola nel corpo, fremi per la sua dolcezza
che si rivela in quei chicchi lessati e nel torbido umido che li tiene insieme.
Così, tutto sommato, nutrendoti di niente, vivi sei mesi, poi dodici! È forse
come il rozzo divorare di una braciola?
Rubin non sapeva e non amava ascoltare a lungo. Concepiva ogni
conversazione (e il più delle volte accadeva così) come un modo per
condividere con gli amici il bottino spirituale procurato dalla sua ricettività.
Adesso moriva dalla voglia di interrompere Neržin, ma questi lo aveva
afferrato per la tuta all’altezza del petto con tutte e cinque le dita, lo scuoteva e
non lo lasciava parlare.
– Dunque è sulla nostra povera pellaccia e su quella dei nostri infelici
compagni che abbiamo scoperto la natura della sazietà. La sazietà non dipende
affatto da quanto mangiamo, ma da come mangiamo! Lo stesso vale anche per
la felicità: la felicità, Lëvuška, non dipende affatto dalla quantità di beni
esteriori che abbiamo ottenuto nella vita. Dipende solo dal rapporto che
abbiamo con lei! L’etica taoista dice: ‘Chi sa accontentarsi sarà sempre
contento.’
Rubin ridacchiò:
– Sei eclettico. Strappi una piuma colorata qua e una là e te le infili nella
coda.
Neržin scosse la testa e la mano bruscamente. I capelli gli si arruffarono
sulla fronte. Questa discussione si stava rivelando davvero interessante e lui era
di nuovo un ragazzo di diciotto anni.
– Non ti confondere, Lëvka, non è affatto così! Non traggo conclusioni dalle
filosofie di cui ho letto ma dalle biografie che le persone mi raccontano in
prigione. Quando poi sento il bisogno di formulare conclusioni mie, perché
dovrei scoprire l’America un’altra volta? Sul pianeta della filosofia tutti i
territori sono stati scoperti da tempo! Sfoglio le pagine degli antichi sapienti e
ci trovo già i miei concetti più nuovi. Non mi interrompere! Volevo farti un
esempio: nel campo, e a maggior ragione qui alla šaraška, se avviene un
miracolo – una tranquilla domenica senza lavoro, ecco che l’anima sembra
trovare un po’ di calore e si eleva, e pure se nulla è migliorato nella mia
condizione esteriore, non avverto l’oppressione del giogo del carcere, capita
una conversazione fatta con il cuore o leggi una pagina sincera – e io mi sento
sulla cresta dell’onda! Non ho una vera vita da molti anni ma me lo sono
dimenticato! Non ho un peso, sono sospeso, sono immateriale!!! Sto lì sdraiato
sulla panca superiore, nella mia cella, fisso il vicino soffitto, nudo, intonacato
male, e mi colpisce l’assoluta felicità dell’esistenza! Mi addormento sulle ali
della beatitudine! Non c’è presidente né primo ministro che potrebbe
addormentarsi così contento della domenica appena trascorsa!
Rubin gli rivolse un ghigno bonario. Quel ghigno esprimeva in parte
assenso, in parte indulgenza verso un amico più giovane che aveva perso la
retta via.
– E cosa dicono in proposito i grandi libri dei Veda? – domandò,
protendendo le labbra in una trombetta scherzosa.
– I libri dei Veda, non lo so, – parò il colpo Neržin con convinzione – ma i
libri del Sāmkhya dicono questo: ‘Coloro che sanno discernere associano la
felicità umana alla sofferenza.’
– Te la sei imparata proprio bene – brontolò Rubin nella barba.
– Idealismo? Metafisica? Esiste qualcosa su cui non appiccichi delle
etichette?
– Ti ha traviato Mitjaj?
– No, Mitjaj va in tutt’altra direzione. Barba arruffata, ascoltami! La felicità
per le continue vittorie, per la trionfale realizzazione dei propri desideri e
perché si è totalmente sazi è sofferenza! È la morte spirituale, è una sorta di
reflusso morale continuo! Non i filosofi dei Veda o il Sāmkhya, ma io, io in
persona, Gleb Neržin, detenuto al quinto anno di reclusione, sono giunto al
livello di sviluppo in cui si comincia a considerare il male anche come bene; mi
sono convinto che le persone non sanno a cosa aspirare. Puntano al vuoto
raggiungimento di una manciata di beni materiali e muoiono senza scoprire la
propria ricchezza d’animo. Quando Lev Tolstoj sognava di essere rinchiuso in
prigione, ragionava come un uomo vero, lungimirante, con una vita spirituale
perfetta.
Rubin scoppiò in una risata fragorosa. Nelle discussioni rideva in quel modo
tutte le volte che voleva respingere completamente le idee di un avversario (e
proprio così gli succedeva anche in prigione).
– Ascolta, figliolo! A influenzarti è l’immaturità di una giovane coscienza.
Preferisci la tua esperienza personale a quella collettiva dell’umanità. Sei
intossicato dagli umori del bugliolo della prigione e attraverso quelle esalazioni
vuoi vedere il mondo. Per aver vissuto un disastro, per aver avuto un destino
personale sciagurato, può forse un uomo cambiare, deviare dalle proprie
convinzioni anche solo di poco?
– Mentre tu, sei fiero della tua fermezza?
– Sì! Hier stehe ich und kann nicht anders22.
– Che testone! Questa è metafisica! Invece di imparare, di crearti una nuova
vita qui in prigione...
– Quale vita? La bile velenosa dei falliti?
– ...tu di proposito hai chiuso gli occhi, ti sei tappato le orecchie e hai
assunto una bella posa. Dài prova così della tua intelligenza? Rifiutare lo
sviluppo è una cosa intelligente? Ti sforzi di avere fede nel trionfo del vostro
maledetto comunismo, ma la fede non ce l’hai!
– Non si tratta di fede, ma di sapere scientifico, zuccone! E di imparzialità.
– Tu?! Tu saresti imparziale?
– Certamente! – pronunciò Rubin, con dignità.
– Mai conosciuto in vita mia uomo più parziale di te!
– Sollevati dal tuo ‘monte di vista’23! Dài uno sguardo allo spaccato storico!
Le-git-ti-mi-tà! La conosci questa parola? Una legittimità inevitabilmente
condizionata! Tutto va come deve andare! Il materialismo storico non poteva
smettere di essere verità per il solo fatto che noi due siamo in prigione. E non
c’è niente in cui frugare con il naso, tirare fuori uno scetticismo putrefatto!
– Lev, vedi di capirmi! Non mi sono separato con gioia da questa teoria, ma
con il dolore nel cuore. È stata suono e passione della mia giovinezza, per lei
avevo dimenticato e mandato alla malora tutto il resto! Ora sono come un
picciolo, cresco in una buca dove una bomba ha sradicato l’albero della fede.
Ma da allora, da quando nelle liti in prigione continuavano a picchiarmi...
– Perché non ci arrivavi, scemo!
– ...ho dovuto rigettare per onestà le vostre fragili costruzioni. E cercarne
altre. Ma non è facile. Il mio scetticismo, in fondo, è come una baracca lungo il
tragitto, in cui proteggermi dal maltempo.
– Ah, quante chiacchiere! Scetticismo! Pensi davvero di poterti trasformare
in uno scettico come si deve? Per uno scettico è d’obbligo la sospensione del
giudizio, tu invece sputi sentenze su tutto. Per uno scettico è d’obbligo
l’atarassia, l’imperturbabilità spirituale, tu invece ti scaldi per un nonnulla!
– Sì! Hai ragione! – Gleb si prese la testa fra le mani. – Sogno di essere
calmo, coltivo in me... il proposito di mantenere un certo distacco, ma poi mi
faccio prendere dal vortice delle circostanze e turbino, digrigno i denti e mi
indigno...
– Un certo distacco... Però saresti pronto ad afferrarmi per la gola perché a
Džezkazgan manca l’acqua potabile!
– Dovrebbero mandarti laggiù, vigliacco! Sei l’unico fra tutti noi che
consideri necessari i metodi dell’MGB...
– Sì! Senza un sistema penitenziario duro lo Stato non potrebbe esistere...
– ...Dovrebbero proprio mandarti a Džezkazgan! Chissà se laggiù
continueresti con questa tiritera!
– Idiota patentato! Avrai pur letto che di scetticismo hanno parlato grandi
uomini. Per esempio, Lenin!
– Ah, sì? E cosa avrebbe detto Lenin?
– Lenin diceva: ‘Tra i paladini del vaniloquio liberale russo lo scetticismo è
una forma di transizione dalla democrazia al lurido e servile liberalismo.’
– Come come come? Sei certo di non aver travisato?
– È scritto così. Sta nell’articolo In memoria di Herzen e riguarda...
Neržin, affranto, si prese la testa fra le mani.
– Eh? – addolcì il tono Rubin. – Hai capito?
– Sì. – Neržin cominciò a dondolare con il busto. – Era meglio se non lo
dicevi. E pensare che un tempo lo adoravo...
– Perché?
– Perché?? È questa la lingua del grande filosofo? Quando non hanno
argomenti sproloquiano così. ‘Paladini del vaniloquio’ è una cosa orribile da
dire. Il liberalismo è l’amore per la libertà, così diventa lurido e servile. Mentre
applaudire a comando è un balzo nel regno della libertà, vero?
Nel fervore della discussione i due amici erano stati poco prudenti e le loro
esclamazioni erano giunte fino a Simočka, che da un po’ fissava Neržin con
severa disapprovazione. Era offesa all’idea che il suo turno stesse finendo senza
che lui nemmeno accennasse in qualche modo di voler sfruttare quella serata
favorevole, e non si fosse degnato di voltarsi dalla sua parte.
– No, tu hai un cervello troppo contorto – si rassegnò Rubin. – Su, spiegati
meglio.
– Per esempio, avrebbe un qualche senso dire che lo scetticismo è un modo
per soffocare il fanatismo. Lo scetticismo è un modo per liberare le menti
dogmatiche.
– E qui chi sarebbe il dogmatico? Io, giusto? Sarei io il dogmatico? – I
grandi occhi di Rubin lo fissavano con rimprovero. – Io, un detenuto della leva
del ’45. Quattro anni al fronte, che mi stanno in un fianco come una scheggia, e
cinque di prigione sulla schiena. So vedere le cose quanto te. E se mi
convincessi che è tutto marcio fino in fondo, sarei il primo a dire che
bisognerebbe pubblicare un’altra ‘Kolokol’24! E quella campana andrebbe
suonata a martello! Per mandare tutto all’aria! Non mi nasconderei sotto il
cespuglio di chi sospende il giudizio! Non mi coprirei con la foglia di fico dello
scetticismo... Ma io so che il marcio è in superficie, solo all’esterno, mentre la
radice è sana, il fusto è sano, e quindi vanno salvati, non estirpati.
Sulla scrivania vuota dell’ingegner maggiore Rojtman, il capo dell’Acustico,
suonò il telefono interno. Simočka si alzò e andò a rispondere.
– Mettitelo in testa, devi capire la ferrea legge del nostro secolo: ci sono due
mondi, due sistemi! Non ce n’è un terzo! Non può esistere nessun’altra ‘Kolokol’:
non si può lasciare che il vento ne diffonda il suono! Inammissibile! È
obbligatorio scegliere: con quale delle due forze mondiali stai?
– Ma smettila! Ragionare così va a vantaggio del Capobanda25! Con questa
storia dei ‘due mondi’ ha schiacciato tutti.
– Gleb Vikent’ič!
– Senti un po’ – ora Rubin aveva afferrato con foga Neržin per la tuta. – Lui
è un grandissimo uomo!
– Che sciocco! Sei un pecorone!
– Prima o poi lo capirai che Lui è al contempo il Robespierre e il Napoleone
della nostra Rivoluzione? È saggio! Lo è per davvero! Vede lontano, fin dove il
nostro sguardo limitato non può arrivare...
– E intanto ci considera degli stupidi! E ci rifila la sua solita minestra...
– Gleb Vikent’ič!
– Che c’è? – rispose Neržin, staccandosi da Rubin.
– Non ha sentito? Hanno telefonato! – gli si rivolse Simočka per la terza
volta, in tono molto severo, le sopracciglia aggrottate. Se ne stava in piedi
davanti alla scrivania, con le braccia incrociate, stretta nello scialle marrone di
lanugine di capra. – Anton Nikolaevič la vuole nel suo ufficio.
– Ah sì? – l’impeto della discussione sparì subito dal volto di Neržin, le
rughe scomparse tornarono al proprio posto. – Va bene, grazie, Serafima
Vital’evna. Hai sentito, Lëvka, è Anton. Cosa vorrà?
Una chiamata nell’ufficio del direttore dell’istituto alle dieci della sera di
sabato era un avvenimento fuori dell’ordinario. Sebbene Simočka si sforzasse
di mostrarsi indifferente e fredda, dal suo sguardo Neržin l’aveva capito: era
preoccupata.
L’acceso scambio di vedute fu immediatamente dimenticato. Rubin guardava
l’amico con premura. Quando non erano alterati dalla passione della disputa, i
suoi occhi apparivano di una mitezza quasi femminile.
– Non mi piace quando i capi si interessano a noi – disse.
– E poi perché? – si strinse nelle spalle Neržin. – Il nostro è un lavoruccio
insignificante, figuriamoci, solo delle voci...
– Anton vorrà farci una bella lavata di testa. Finiremo nei guai per i ricordi
di Stanislavskij26 e i discorsi di avvocati famosi – si mise a ridere Rubin. – E se
fosse per le articolazioni del Sette?
– Hanno già messo la firma ai risultati, non c’è nessuna possibilità di tirarsi
indietro. In ogni caso, se non dovessi tornare...
– Non dire idiozie!
– In che senso idiozie? Con la vita che facciamo? Brucia quelle cose, sai dove
sono. – Gleb tirò giù la serrandina della scrivania, mise con calma le chiavi in
mano a Rubin e si incamminò con l’andatura tranquilla di un carcerato al
quinto anno di detenzione, che non va mai di fretta da nessuna parte, perché
dal futuro si attende sempre il peggio.
27 Faust cit.
11
IL CASTELLO INCANTATO
Già da molti anni, nel corso della guerra e dopo, Jakonov occupava la sicura
carica di ingegnere capo della Sezione di Tecnica speciale dell’MGB. Portava con
dignità le spalline argentate dalla bordatura celeste, con le tre grosse stelle da
ingegnere colonnello che si era meritato grazie alle sue competenze. La carica
che ricopriva era tale da permettergli di svolgere le sue funzioni direttive da
lontano e in termini generali, a volte di presentare una relazione erudita a un
auditorio di funzionari di alto grado, altre volte di parlare in modo intelligente
e forbito con un ingegnere riguardo a un modello già pronto, insomma farsi
passare per un intenditore senza dover rispondere di nulla e percependo
diverse migliaia di rubli al mese. La carica che ricopriva era tale per cui Jakonov
illuminava con la propria eloquenza la nascita di tutte le imprese tecniche della
Sezione; vi si sottraeva nei periodi di difficile maturazione e crisi di crescita e
onorava di nuovo con la propria presenza sia le vasche incavate delle loro bare
nere che l’incoronazione dorata degli eroi.
Anton Nikolaevič non era così giovane e presuntuoso da aspirare
all’illusorio luccichio di una Stella d’Oro o al distintivo del premio Stalin, da
afferrare con le proprie mani ogni obiettivo del ministero o del Padrone stesso.
Anton Nikolaevič era già abbastanza esperto e avanti con gli anni da rifuggire i
voli e le cadute, queste emozioni così strettamente legate.
Attenendosi a simili regole, aveva vissuto senza problemi fino al gennaio del
1948. In quel gennaio qualcuno aveva suggerito al Padre dei popoli d’Oriente e
d’Occidente l’idea di creare uno speciale sistema di telefonia segreta, tale da
non permettere a nessuno di capire le sue conversazioni telefoniche, persino
nel caso che fossero intercettate. Un sistema che gli permettesse di parlare dalla
sua dacia di Kuncevo con Molotov a New York. Puntando l’augusto dito con
una macchia gialla di nicotina accanto all’unghia, il Generalissimo aveva scelto
sulla carta l’impianto di Marfino, sino ad allora occupato a creare trasmettitori
radio portatili per la polizia. Le storiche parole, pronunciate con il solito
accento georgiano, a tal proposito erano state:
– Che me ne faccio io di questi trasmettitori? Ci pesco qualche ladro
d’appartamento?
E aveva fissato una scadenza: 1° gennaio 1949. Poi ci aveva ripensato e aveva
aggiunto:
– D’accordo, il Primo Maggio.
Il compito era impegnativo ed eccezionale, dato il poco tempo a
disposizione. Nel ministero ci avevano riflettuto, poi avevano dato a Jakonov
l’incarico di cavarsela lui a Marfino. Inutile ogni sforzo di dimostrare quanto
fosse occupato, di non poter sovrapporre gli incarichi. Foma Gur’janovič
Oskolupov, il capo della Sezione, lo aveva fissato con i suoi verdognoli occhi
da gatto: Jakonov si era ricordato del proprio questionario personale non più
immacolato (era finito in prigione per sei anni) e aveva taciuto.
Da allora erano trascorsi quasi due anni, e l’ufficio dell’ingegnere capo della
Sezione nella sede del ministero rimaneva spesso vuoto. L’ingegnere capo
passava giorni e notti fuori città, nell’edificio dell’ex seminario coronato da una
torre esagonale sopra la cupola di un altare soppresso.
All’inizio dirigerlo era stato per lui persino gradevole: chiudere stancamente
la portiera della sua “Pobeda” personale, raggiungere Marfino
semiaddormentato; oltrepassare il portone difeso dal filo spinato, e la guardia
che gli faceva il saluto; camminare con maggiori e capitani al seguito sotto i
tigli centenari del boschetto di Marfino. I superiori non pretendevano ancora
niente da Jakonov: solo progetti, progetti, progetti e obblighi socialisti. Come
contropartita sull’istituto si era rovesciato il corno dell’abbondanza dell’MGB:
apparecchiature inglesi e americane acquistate; quelle tedesche sottratte al
nemico; zek nostrani fatti venire dai campi di lavoro; una biblioteca tecnica con
ventimila volumi nuovi; i migliori oper e archivisti, grandi esperti di attività
segreta; infine, guardie dell’alta scuola della Lubjanka. Avevano dovuto
ristrutturare il vecchio edificio del seminario, costruire nuovi fabbricati – per la
direzione della prigione speciale, per i laboratori sperimentali – e, durante il
periodo della fioritura gialla dei tigli, quando addolcivano l’aria con il loro
profumo, all’ombra di quei giganti, si sentivano i discorsi tristi degli indolenti
prigionieri di guerra tedeschi nelle malconce giacche militari color lucertola.
Quei pigri fascisti al quarto anno di prigionia postbellica non avevano proprio
voglia di lavorare. Per un russo era insopportabile vedere in che modo
scaricavano i mattoni dai camion: si passavano ogni mattoncino di mano in
mano, lentamente, con cautela, quasi fosse di cristallo, fino a posarlo e
formarne una pila. Mentre installavano i termosifoni sotto le finestre e
rifacevano i pavimenti marci, i tedeschi si aggiravano per quelle stanze
ultrasegrete e leggevano di sottecchi le scritte sulle apparecchiature ora nella
loro lingua ora in inglese: anche uno scolaretto tedesco avrebbe potuto
indovinare a cosa erano destinati quei laboratori! Il detenuto Rubin lo aveva
denunciato in un rapporto per l’ingegner colonnello, ed erano tutte cose
giustissime, ma per gli oper Šikin e Myšin (nel gergo dei carcerati Šiškin-
Myškin)28 si trattava di un rapporto assai scomodo; come dovevano agire a
quel punto? Il loro errore andava segnalato più in alto? Nel frattempo però
l’attimo era fuggito, i prigionieri di guerra erano già stati rispediti in patria e
chi era andato nella Germania Ovest avrebbe potuto riferire la posizione
dell’intero istituto e dei singoli laboratori, sempre che a qualcuno interessasse.
E quando gli ufficiali di altre direzioni dell’MGB cercavano l’ingegner
colonnello per faccende di servizio, lui non aveva il diritto di indicare
l’indirizzo della sede e, nel rispetto di una segretezza mai scalfita, si recava a
parlare con loro alla Lubjanka.
Avevano lasciato andare i tedeschi e al loro posto, per ristrutturare e
costruire, avevano preso gli zek, uguali a quelli della šaraška, solo in abiti
sporchi e laceri, e non ricevevano pane bianco. Ora, per necessità e senza
alcuna necessità, sotto i tigli risuonavano le sane imprecazioni del campo, che
ricordavano agli zek della šaraška la loro solida patria e il loro ineluttabile
destino; i mattoni venivano strappati dal camion veloci come il vento, al punto
che di intatti quasi non ne rimanevano, finivano tutti spaccati a metà; al grido
“uno-due-su!” gli zek rovesciavano sul cassone del camion una calotta di legno
compensato e poi, per fare meglio la guardia ai mattoni, vi si infilavano sotto,
abbracciando allegramente le ragazze che li ingiuriavano, restavano chiusi lì e
venivano trasportati per le vie di Mosca fino al campo, dove trascorrevano la
notte.
Così, in quel castello magico che un’incantata zona di fuoco separava dalla
capitale e dai suoi abitanti poco informati, lemuri in giubbe nere da marinaio
creavano trasformazioni da fiaba: tubazioni, canalizzazione, riscaldamento
centrale e aiuole.
Intanto la struttura ben organizzata cresceva e si ampliava. Era entrato a far
parte a tutti gli effetti del complesso di Marfino anche un altro istituto di
ricerca, che conduceva un’attività simile. Quell’istituto era arrivato con tavoli,
sedie, armadi, cartelle-raccoglitori, una strumentazione che invecchiava non di
anno in anno ma di mese in mese e con il proprio capo, ingegnere maggiore
Rojtman, che era diventato il vice di Jakonov. Purtroppo il colonnello Jakov
Ivanovič Mamurin, capo delle Comunicazioni Particolari e Speciali dell’MVD,
uno dei più eminenti uomini dello Stato nonché fondatore dell’istituto appena
inglobato, suo ispiratore e protettore, era scomparso in circostanze tragiche
prima di tutto questo.
Una volta il Capo di tutta l’Umanità Progressista conversava con la
provincia cinese di Yunnan ed era rimasto scontento dei rumori e delle
interferenze nella cornetta. Aveva telefonato a Berija e gli aveva detto in
georgiano:
– Lavrentij! Chi è l’idiota a capo delle Comunicazioni? Levalo di mezzo.
Così avevano “levato di mezzo” Mamurin, cioè lo avevano portato alla
Lubjanka. Lo avevano tolto di mezzo, però non sapevano cosa farsene. Non
avevano ricevuto le solite direttive: per cosa processarlo e quanti anni dargli.
Fosse stato un estraneo gli avrebbero affibbiato un quartino e lo avrebbero
sbattuto a Norilsk. Ma conoscendo bene la sacrosanta verità dell’“oggi a te,
domani a me”, i dirigenti dell’MVD avevano prima trattenuto Mamurin e poi,
non appena convinti che Stalin si era dimenticato di lui, lo avevano mandato
senza istruttoria né durata della pena nella dacia fuori città.
Così, una sera d’estate del 1948, alla šaraška di Marfino era stato condotto un
nuovo zek. In quell’arrivo ogni cosa era fuori dell’ordinario: il fatto che non lo
avessero portato su un corvo, ma su un’automobile; che non fosse accompagnato
da un comune secondino ma dal capo della Sezione delle Prigioni dell’MGB; e
infine che gli avessero servito la sua prima cena coperta da un velo di garza
nell’ufficio del capo della prigione speciale.
Si era sentito (gli zek non sono autorizzati a sentire, eppure sentono sempre
tutto) che il nuovo arrivato diceva “non voglio il salame” (?!), e che il capo
della Sezione carceraria lo aveva esortato con un “mangi”. A origliare
attraverso un tramezzo era stato uno zek che si trovava dal medico a farsi dare
un rimedio. Esaminate le inaudite novità, la popolazione originaria della
šaraška era giunta alla conclusione che il nuovo arrivato fosse comunque un
detenuto e, soddisfatta, se n’era andata a dormire.
Dove il nuovo arrivato avesse trascorso la notte, gli storici della šaraška non
lo avevano accertato. Ma il mattino seguente, molto presto, nel grande atrio di
marmo (dove poi ai detenuti non fu più permesso accedere) uno zek rozzo, un
goffo meccanico, si era imbattuto faccia a faccia con il nuovo.
– Allora, fratello, – gli aveva dato una pacca sul petto – da dove vieni? Con
cosa ti sei bruciato? Siediti qui, fumiamo un po’.
Ma il nuovo arrivato si era scostato dal meccanico con orrore e ripugnanza.
Il viso limone pallido si era contorto in una smorfia. Il meccanico aveva fissato
gli occhi bianchi, i radi capelli chiari sul cranio spelacchiato e aveva detto
stizzito:
– Ehi, tu, rettile uscito da una boccia di vetro! Per la miseria, alla ritirata ti
chiuderanno insieme a noi e allora vedrai se parli!
Ma “il rettile uscito da una boccia di vetro” in prigione con gli altri non era
mai stato chiuso. Gli avevano trovato una stanzetta al secondo piano, nel
corridoio del laboratorio, l’ex camera oscura dei fotografi, vi avevano infilato
un letto, un tavolo, un armadio, un vaso di fiori, un fornello elettrico e avevano
strappato il cartone da una finestrella con le inferriate, che non affacciava
nemmeno alla luce del sole, ma su un pianerottolo della scala posteriore, quella
esposta a nord, tanto che la camera del detenuto privilegiato era scarsamente
illuminata anche di giorno. Naturalmente si sarebbe potuta togliere anche la
grata dalla finestra, ma i capi della prigione, dopo qualche titubanza, avevano
deciso di lasciarla. Neppure loro capivano bene quella storia misteriosa e non
riuscivano a stabilire una linea di condotta sicura.
Fu allora che il nuovo arrivato venne battezzato Maschera di Ferro. Per
lungo tempo nessuno aveva saputo il suo nome. Nessuno poteva neppure
parlarci: lo vedevano attraverso la finestra, mentre se ne stava seduto nella sua
cella a testa china, oppure vagava come un’ombra pallida sotto i tigli in ore in
cui ai normali zek non era consentito passeggiare. Maschera di Ferro era giallo
ed emaciato come solo il cadavere ambulante di uno zek dopo una bella
istruttoria di due anni poteva essere, e tuttavia, lo sconsiderato rifiuto del
salame contrastava con quella versione.
Parecchio tempo dopo, quando Maschera di Ferro aveva ormai cominciato a
lavorare al Sette, gli zek avevano scoperto dai liberi che si trattava proprio di
quel colonnello Mamurin che alla Sezione delle Comunicazioni speciali
dell’MVD ordinava di camminare per il corridoio solo in punta di piedi, senza
battere i tacchi, altrimenti furibondo attraversava di corsa la stanza della
segretaria, gridando:
– Vicino all’ufficio di chi pesti i piedi, insolente?? Come fai di cognome?
Parecchio tempo dopo si chiarì pure che la sofferenza di Mamurin era di
origine morale. Il mondo dei liberi lo aveva respinto, mentre a lui quello degli
zek ripugnava. Dapprincipio, in solitudine, aveva letto molti libri – La lotta per
la pace, Il cavaliere della Stella d’oro, I gloriosi figli della Russia, poi i versi di Prokof’ev,
di Gribačëv29, e in lui – uh! – era avvenuta una trasformazione miracolosa:
aveva cominciato a comporre versi! È noto che la disgrazia e i tormenti
dell’anima generano poeti, ma i tormenti di Mamurin erano più acuti di quelli
di qualsiasi altro detenuto. In prigione ormai da due anni senza istruttoria né
processo, viveva come prima in attesa delle ultime direttive del Partito e come
prima adorava il Saggio Capo. Così Mamurin aveva confessato a Rubin di non
soffrire né per la brodaglia della prigione (comunque per lui cucinavano a
parte) né per il distacco dalla famiglia (del resto, una volta al mese veniva
accompagnato di nascosto nel suo appartamento per trascorrervi la notte), e in
generale per nessun animalesco bisogno primario, ma per l’essere stato privato
della fiducia di Iosif Vissarionovič; era un dolore non sentirsi più un
colonnello, ma degradato e disonorato. Ecco perché per i comunisti come lui
sopportare la reclusione era immensamente più gravoso che per le canaglie
senza principi di quel luogo.
Rubin era comunista. Ma dopo aver ascoltato le confessioni di un presunto
compagno di idee e aver letto i suoi versi, ne aveva preso le distanze, aveva
cominciato a evitarlo, si nascondeva persino: passava tutto il suo tempo in
mezzo a persone che lo attaccavano ingiustamente ma con cui almeno
condivideva la medesima sorte.
In Mamurin invece pulsava un’aspirazione inquieta, come un dolore a un
dente: discolparsi davanti al partito e al governo. Purtroppo per lui però, tutta
la sua conoscenza nel campo delle comunicazioni, come ex capo delle
comunicazioni stesse, si esauriva nella capacità di tenere in mano una cornetta
del telefono. Per questo, in sostanza, di lavorare non era in grado: poteva solo
dirigere. Ma anche dirigere un’impresa ritenuta inutile da tutti non gli avrebbe
restituito le simpatie del Miglior Amico degli Addetti alle Comunicazioni.
Bisognava essere a capo di un’impresa considerata promettente.
In quel periodo all’istituto di Marfino erano venute fuori due imprese
promettenti: il Vocoder e il Sette.
Per qualche profondo impulso in grado di annullare tutti gli argomenti
logici, le persone si sentono affini o no a un primo sguardo. Jakonov e il suo
vice Rojtman non si erano trovati. Di mese in mese, erano diventati sempre più
insopportabili l’uno all’altro: attaccati da una mano più pesante allo stesso
carro, non potevano liberarsene, ma soltanto tirare in direzioni opposte.
Quando, dopo studi e prove parallele, aveva cominciato a prendere forma una
telefonia segreta, Rojtman aveva riunito tutti quelli che poteva all’Acustico per
il progetto di un sistema “vocoder”, in inglese voice coder (“codificatore di
voce”), che in russo era stato ribattezzato “apparecchio del linguaggio
artificiale”, nome che però non aveva preso piede. In risposta, Jakonov aveva
eliminato tutti gli altri gruppi e fatto confluire gli ingegneri più svegli e le
apparecchiature importate più costose nel Sette, il laboratorio n. 7. I gracili
germogli dei restanti progetti erano morti in quella lotta impari.
Mamurin aveva optato per il Sette, sia perché non poteva finire subordinato
al suo ex subordinato Rojtman, sia perché anche al ministero ritenevano
ragionevole che alle spalle del corrotto senza partito Jakonov brillasse un
occhio vigile e appassionato.
Da quel momento, fosse Jakonov di notte presente o meno all’istituto, il
colonnello degradato dell’MVD, soffocato in sé l’amore per i versi in favore del
progresso tecnico della patria, prigioniero solitario dai febbrili occhi bianchi e
dalla scandalosa magrezza delle guance incavate poiché rifiutava di mangiare e
di dormire, si consumava a dirigere fino alle due di notte, trasformando il Sette
in una giornata lavorativa di quindici ore. Una giornata lavorativa così
favorevole si poteva avere solo al Sette, dal momento che per Mamurin non
serviva il controllo da parte dei liberi né particolari turni di notte.
Proprio al Sette si era diretto Jakonov quando aveva lasciato Verenëv e
Neržin soli nel suo ufficio.
28 Il soprannome irriverente dei due oper nasce dall’assonanza dei loro cognomi con šiška, “bernoccolo”,
ma anche “pezzo grosso”, e myška, “topolino”.
29 Autori celebri in quell’epoca sovietica.
12
IL SETTE
Qui la milizia
la guardia mi fa!
Nella zona vietata
tanto bene si sta!33
32 Si allude a un detto sulla mancanza cronica di sigarette nei luoghi di reclusione: “Fumiamo papirosy
lunghe un metro, ma gettiamo mozziconi lunghi due.” Nel gergo dei detenuti alla domanda “Come ve la
passate?” si usava rispondere ironicamente: “Alla grande: c’è da fumare quanto vuoi!”
33 Parodia di alcuni versi del poema di Majakovskij, Bene! (1927).
14
LA LUCE BLU
– Un giorno di questi lancio uno stivale e spacco quella lampadina blu, così la
smette di rompere.
– Non la becchi.
– Saranno cinque metri, la prendo di sicuro. Scommettiamo la frutta cotta di
domani?
– Lo stivale te lo togli nella branda di sotto, ci devi aggiungere un metro.
– Va bene, sei metri. Vedi un po’ quelle canaglie cosa si inventano per
mandare in bestia gli zek.
– La luce blu, intendi?
– Eh certo! Pressione luminosa. L’ha scoperta Lebedev. Aristipp Ivanyč, sta
dormendo? Mi faccia un favore, mi passi quassù uno dei miei stivali.
– Lo stivale, Vjačeslav Petrovič, glielo posso anche passare, prima però mi
risponda: cos’è che non le aggrada di quella luce blu?
– Già solo la lunghezza delle onde è troppo corta e i quanti troppo grandi.
Danno fastidio agli occhi.
– Ha una luce soffusa, mi ricorda il lume blu che la mamma mi accendeva di
notte.
– Proprio una mamma! Ma con le spalline celesti! Ehi, pensate sul serio che
alla gente si possa concedere una vera democrazia? Mi sono accorto che in ogni
cella, per ogni minima questione, dal lavare le scodelle al pulire il pavimento,
escono fuori le opinioni più disparate. È la libertà a rovinare le persone.
Purtroppo, solo il bastone può indicarci la verità.
– Be’, un lume qui ci sta anche bene. Un tempo c’era un altare.
– Non un altare, ma la cupola dell’altare. Hanno diviso in due lo spazio
mettendoci un pavimento.
– Dmitrij Aleksandrovič! Che cosa sta facendo? Apre la finestra a dicembre?!
Che le viene in mente?
– Signori! È l’ossigeno a rendere lo zek immortale. Nella stanza siamo in
ventiquattro, in cortile non c’è né gelo né vento. La apro un Erenburg.
– Anche uno e mezzo! Sulle brande superiori non si respira!
– Un Erenburg come lo misura, in larghezza?
– No, signori, per il lungo, il libro si appoggia molto bene al telaio.
– Roba da matti, dov’è la mia giubba da campo?
– Io tutti questi amanti dell’ossigeno li manderei a Ojmjakon ai lavori comuni.
Dopo aver sgobbato dodici ore a sessanta gradi sotto zero, pur di sentire un
po’ di caldo striscerebbero anche in un caprile!
– In linea di principio io non sono contrario all’ossigeno, ma perché
l’ossigeno deve essere sempre freddo? Lo vorrei riscaldato.
– Ma che roba! Perché la stanza è buia? Perché spengono la luce bianca così
presto?
– Valentulja, lei è un vero nottambulo! Fosse per lei, se ne andrebbe in giro
fino all’una! A che le serve la luce a mezzanotte?
– E lei è uno zerbinotto!
Lo zerbinotto in tuta blu
Proprio sopra me è già.
Nella zona del campo
tanto bene si sta!
Avete riempito un’altra volta di fumo? Cosa continuate a fumare? Uffa, che
schifo... Oh, anche la teiera è fredda.
– Valentulja, dov’è Lev?
– Perché, non è sulla sua branda?
– Ci sono due dozzine di libri, ma lui non c’è.
– Sarà accanto al gabinetto.
– A fare che?
– Lì ci hanno messo una lampadina bianca e la parete vicino alla cucina è
calda. Starà a leggere un libro. Io vado a lavarmi. Devo dirgli qualcosa?
– Eh già-à... Quella mi fa dormire sul pavimento, mentre lei si tiene il letto.
Che donna appetitosa, proprio appetitosa...
– Amici, ve lo chiedo per favore, parlate di tutto ma non di donne. Alla
šaraška, con il pasto a base di carne, è un discorso socialmente pericoloso.
– Su, ragazzi, piantatela! Hanno suonato la ritirata.
– Altro che ritirata, si sente suonare l’inno da qualche parte34.
– Quando hai sonno, dormi lo stesso.
– Sono totalmente privi di senso dell’umorismo: suonano tutto l’inno per
intero, dura cinque minuti. Ti fanno attorcigliare le budella: ma quando finisce?
Possibile che non si possa ridurre a una strofa sola?
– E la sigla iniziale35? Una strofa sola in un paese come la Russia?!...
Figuriamoci.
– Ho prestato servizio in Africa. Ai tempi di Rommel. Cosa c’è di brutto
laggiù? Fa molto caldo e manca l’acqua...
– Nel Mar Glaciale Artico c’è un’isola che si chiama Machotkina. Eppure
Machotkin, il pilota polare, è finito in prigione per propaganda antisovietica.
– Michail Kuz’mič, cosa continua a rigirarsi?
– Perché, non posso neanche rigirarmi da un fianco all’altro?
– Può, ma si ricordi che ogni suo giretto lì sotto arriva quassù assai
amplificato.
– Lei, Ivan Ivanyč, in un campo di lavoro non c’è mai stato. Lì le cuccette sono
quadruple: quando uno si gira, ne scuote altri tre. Può anche succedere che in
basso qualcuno appenda uno straccio colorato, ci porti una donna e si dia da
fare. E parte il beccheggio forza dodici! Eppure si dorme lo stesso.
– Grigorij Borisyč, quando è finito lei per la prima volta alla šaraška?
– Pensavo di fissarci il pentodo e un piccolo reostato.
– Era una persona indipendente, precisa. Quando la sera si levava gli stivali,
non li metteva sul pavimento, se li piazzava sotto la testa.
– In quegli anni non potevi lasciare nulla per terra!
– Io sono stato a Oświęcim. Lì era orribile: dalla stazione la gente veniva
mandata dritta ai crematori, con la musica di sottofondo.
– Laggiù innanzitutto la pesca era incredibile, e poi c’era la caccia. In
autunno se camminavi per un’ora, vedevi fagiani ovunque. Entravi in un
canneto, cinghiali, in un campo, lepri...
– Tutte queste šaraški sono sorte dal 1930 in avanti, quando si sono messi a
prendersela con gli ingegneri. La prima fu istituita al vicolo Furkasovskij36:
nacque lì il progetto del canale sul Mar Bianco. Poi ci fu quella di Leonid
Ramzin. L’esperimento piacque. In libertà è impossibile mettere nello stesso
gruppo di progettazione due grandi ingegneri o due grandi scienziati:
cominciano subito a competere per il nome, la gloria, il premio Stalin, e
immancabilmente uno fa fuori l’altro. Per questo in libertà tutti gli uffici
progettazione finiscono per trasformarsi in circoli scialbi attorno a una mente
brillante. In una šaraška invece su nessuno incombe né la gloria né il denaro. A
Nikolaj Nikolaič un mezzo bicchiere di panna acida e a Pëtr Petrovič un altro
mezzo. Una dozzina di orsi vive pacificamente nella stessa tana, perché non ha
altro posto dove rifugiarsi. Giocano un po’ a scacchi, fumano: che noia! E se ci
inventassimo qualcosa? Dài! Nella nostra scienza molte cose sono state
inventate così! È su questo che si basa la šaraška.
– Amici! Una notizia! Hanno portato via Bobynin, non si sa dove.
– Val’ka, non guaire a quel modo o ti do una cuscinata!
– Dove, Valentulja?
– Come lo hanno portato via?
– È venuto il tenente minore e gli ha detto di mettersi il cappotto e il
cappello.
– Con la roba?
– Senza roba.
– Lo avranno portato di sicuro da un pezzo grosso.
– Da Foma?
– Foma sarebbe venuto qui lui, da uno più in alto!
– Il tè si è freddato, fa schifo!...
– Valentulja, dopo che hanno suonato la ritirata lei batte sempre nel
bicchiere con quel cucchiaino, mi dà sui nervi!
– Si calmi, come faccio a mescolare lo zucchero?
– In silenzio.
– In silenzio avvengono solo le catastrofi spaziali, perché nello spazio
cosmico il suono non si propaga. Se alle nostre spalle esplodesse una Stella
Nova, non ce ne accorgeremmo nemmeno. Rus’ka, ti sta cadendo la coperta,
cosa la tieni a fare a penzoloni? Non dormi? Lo sai che il nostro Sole è una
Stella Nova e la Terra è destinata a perire molto presto?
– Non ci voglio pensare. Sono giovane, voglio vivere ancora!
– Ah-ah! Che ingenuo! Com’è freddo questo tè... C’est le mot! Lui vuole
vivere!
– Val’ka! Dove hanno portato Bobynin?
– E come faccio a saperlo? Magari... da Stalin.
– E cosa farebbe lei, Valentulja, se la convocassero da Stalin?
– Io? O-ho! Ragazzi miei! Protesterei punto per punto!
– Be’ per cosa, ad esempio?
– Be’, per ogni cosa. Par exemple, perché ci fanno vivere senza donne? Questa
cosa inibisce le possibilità creative.
– Prjančikov! Chiudi il becco! Dormono tutti da un pezzo, cosa sbraiti!
– E se io non avessi sonno?
– Amici, chi sta fumando metta via, arriva il tenente minore.
– Che vuole quella carogna? Cittadino sottotenente, faccia attenzione a non
inciampare, altrimenti una volta o l’altra si spaccherà il naso.
– Prjančikov!
– Che c’è?
– Dov’è? Ancora non dorme?
– Dormo, dormo.
– Si vesta in fretta.
– Per andare dove? Ho sonno.
– Si vesta, forza, infili cappotto e cappello.
– Con la roba?
– Senza. L’aspetta una macchina, svelto.
– Che succede, vado con Bobynin?
– Lui è già partito, per lei ce n’è un’altra.
– Quale macchina, sottotenente, un corvo?
– Su, svelto, forza. È una Pobeda.
– Chi mi ha mandato a chiamare?
– Be’, Prjančikov, mi devo mettere a spiegarle tutto? Non lo so nemmeno io,
forza.
– Val’ka! Diglielo quando sei là!
– Di’ delle visite! Possibile che quei farabutti concedano ai Cinquantotto una
visita all’anno?
– Racconta delle passeggiate!
– Delle lettere!
– Del corredo!
– Rot front, ragazzi! Ah-ah! Adieu!
– Compagno sottotenente! Allora, dov’è Prjančikov?
– Arriva, arriva, compagno maggiore! Eccolo!
– Racconta tutto, Val’ka, distruggili, non fare complimenti!
– Ma pensa un po’, i cani da guardia che corrono nel cuore della notte!
– Cos’è successo?
– Mai successa una cosa simile...
– Non sarà scoppiata la guerra? Li portano alla fucilazione?
– Ma smettila, scemo! Per fucilarci secondo te ci prendono uno per volta?
Quando scoppierà la guerra, ci ammazzeranno tutti insieme o ci infetteranno di
peste con la kaša, come i tedeschi nei campi di sterminio nel ’45...
– Be’, d’accordo, dormiamo, fratelli! Lo scopriremo domani.
– Succedeva proprio così nel ’39-’40, Berija mandava a chiamare Boris
Sergeevič Stečkin alla šaraška e quello non tornava mai a mani vuote: o
sostituivano il capo della prigione o aumentavano le passeggiate... Stečkin non
tollerava questo sistema di corruzione, i pasti per categorie: panna acida e uova
agli accademici, quaranta grammi di burro ai professori, venti ai detenuti
semplici... Boris Sergeevič era un brav’uomo, che Dio lo abbia in gloria...
– È morto?
– No, lo hanno liberato... ha preso il premio Stalin.
34 Alla šaraška la ritirata era prevista alle dieci di sera. L’inno era trasmesso per radio a mezzanotte, subito
dopo che batteva l’ora alla torre Spasskaja del Cremlino.
35 La sigla iniziale delle trasmissioni radio suonava prima delle sei del mattino ed era un brano del celebre
film Cyrk.
36 Vicolo dove si trova la Lubjanka.
15
UNA RAGAZZA! UNA RAGAZZA!
Poi si spense anche la voce stanca e cadenzata del recidivo Abramson, finito nelle
šaraški già alla prima condanna. Ai due lati opposti andava a morire il sussurro
di storie già iniziate. Qualcuno russava così forte e in modo così orripilante che
in certi momenti pareva sul punto di esplodere.
La pallida lampadina blu sopra la larga porta a quattro battenti incastrati
nell’arco d’ingresso illuminava una dozzina di brande a due piani saldate,
disposte a ventaglio nella grande stanza semicircolare. Quella stanza, forse
l’unica del genere a Mosca, misurava un diametro di dodici ampi passi maschili;
in alto, una spaziosa cupola a vela poggiata alla base di una torre esagonale e,
lungo l’arco, cinque finestre regolari tondeggianti nella parte superiore. Queste
ultime avevano le inferriate ma non le museruole; di giorno, guardandovi
attraverso, dall’altra parte del viale si scorgeva un parco così trascurato da
sembrare un bosco, e nelle sere d’estate giungevano canzoni toccanti di ragazze
da marito del sobborgo di Mosca.
Neržin, sulla branda superiore accanto alla finestra centrale, non dormiva e
nemmeno ci provava. Sotto di lui l’ingegner Potapov si era addormentato da
un pezzo e si godeva il tranquillo sonno del lavoratore. Sulle brande vicine, a
sinistra, oltre il passaggio, se ne stava disteso “Zemelja”37, l’esperto degli
apparati a vuoto spinto, il faccione tondo rilassato che sbuffava con il naso,
(sotto di lui il letto di Prjančikov, al momento libero) mentre a destra, sulla
branda a filo, si agitava insonne Rus’ka Doronin, uno dei più giovani zek della
šaraška.
Ora che poteva ricordare con distacco la conversazione nell’ufficio di
Jakonov, Neržin capiva tutto con maggior chiarezza: rifiutarsi di entrare nel
gruppo criptografico non era stato un incidente di percorso, ma il punto di
svolta di tutta una vita. Avrebbe implicato per lui – e forse molto presto – una
traduzione lunga e pesante da qualche parte in Siberia o sull’Artico. Verso la
morte oppure verso il trionfo sulla morte.
Rifletteva anche su quello stacco nella sua vita. Cosa era riuscito a ottenere
nei tre anni di tregua alla šaraška? Aveva temprato il carattere a sufficienza
prima di ripiombare di nuovo nella voragine del campo di lavoro?
Il giorno successivo, guarda caso, Gleb avrebbe compiuto trentun anni
(ovviamente non si sentiva in vena di ricordare agli amici quella ricorrenza).
Era a metà della sua vita? Quasi alla fine? Solo all’inizio?
I pensieri gli si confondevano. Non riusciva ad avere uno sguardo
sull’eternità. Ora si insinuava la debolezza: forse non era troppo tardi per
rimediare, per acconsentire a dedicarsi alla crittografia. Ora gli tornava in
mente l’offesa subita, che da undici mesi continuavano a negargli un colloquio
con la moglie... chissà se adesso, prima della partenza, glielo avrebbero
concesso?
Infine gli si risvegliava dentro, e si agitava, lo sfacciato, il furbacchione che
non era lui, non era Neržin, ma il tizio saltato fuori per forza di cose da quel
ragazzino indeciso in fila davanti ai negozi del pane durante il primo piano
quinquennale, poi consolidatosi in tutte le situazioni della vita e in particolare
nel campo di lavoro. Quest’altro lui, interiore, tenace, valutava già con lucidità
quali perquisizioni lo aspettavano: alla partenza da Marfino, all’arrivo alla
Butyrka, alla Krasnaja Presnja; e come nascondere nella giubba imbottita i
pezzetti di lapis spezzato; come riuscire a portare fuori dalla šaraška la vecchia
tuta da lavoro (per lo sgobbone ogni pellaccia personale è preziosa); come
dimostrare che il cucchiaio da tè d’alluminio che aveva con sé da tutta la durata
della pena era suo, non l’aveva rubato alla šaraška, dove ce n’erano di molto
simili.
Gli venne la smania, in quel preciso istante, alla luce blu, di alzarsi e iniziare
tutti i preparativi, le cose da portar via, gli annunci di morte.
Nel frattempo di tanto in tanto Rus’ka Doronin cambiava bruscamente
posizione: cadeva bocconi, affondando nel cuscino con tutte le spalle, si tirava
la coperta fin sopra la testa e la rubava ai piedi; poi si girava di schiena,
allontanava la coperta e svelava il lenzuolo superiore bianco e quello inferiore
più scuro (a ogni bagno cambiavano uno dei due lenzuoli, ma adesso, a
dicembre, la prigione speciale aveva esaurito il quantitativo di sapone
disponibile per un anno e il bagno era stato sospeso). All’improvviso si mise a
sedere sul letto e si appoggiò alla spalliera in ferro con il cuscino, scoprendo
all’angolo del materasso il volumetto Storia di Roma Antica di Mommsen.
Accorgendosi che Neržin aveva gli occhi fissi sulla lampadina blu e non
dormiva, in un sussurro roco gli chiese:
– Gleb! Hai a portata di mano le sigarette? Dammene una.
Rus’ka di solito non fumava. Neržin si allungò fino alla tasca della tuta
appesa alla spalliera e vi estrasse due papirosy. Le accesero.
Rus’ka fumava concentrato, senza voltarsi verso Neržin. Il suo viso sempre
mutevole, che assomigliava ora a quello di un ragazzetto ingenuo, ora a quello
di un imbroglione patentato, sotto la massa dei capelli fluenti di un biondo
scuro aveva un aspetto attraente persino alla luce della lampadina blu.
– Tieni. – Neržin gli porse il pacchetto vuoto di Belomor come posacenere.
Cominciarono a scrollare lì la cenere.
Rus’ka si trovava alla šaraška da quell’estate. A Neržin era piaciuto fin dal
primo sguardo e aveva ispirato un desiderio di protezione.
Ma nonostante i suoi ventitré anni (nel campo gliene avevano affibbiati
venticinque), Rus’ka di protezione non sembrava proprio aver bisogno: il
carattere e la concezione del mondo se li era pienamente formati nel corso della
sua vita breve ma burrascosa, nella varietà degli avvenimenti e delle
impressioni: non tanto durante le due settimane di studi all’università di Mosca
e le altre due a quella di Leningrado, quanto nei due anni trascorsi con i
documenti falsi, inseguito dalla polizia investigativa pansovietica (l’aveva
riferito a Neržin in gran segreto) e adesso nei due anni di reclusione. Avendo
appreso con ricettività istantanea, come si suol dire “al volo”, le leggi da lupi
del GULAG, era sempre diffidente, davvero sincero solo con pochi, mentre alla
maggior parte delle persone si mostrava soltanto puerilmente sincero. Inoltre,
era spumeggiante, cercava di incastrare molte cose in poco tempo, e fra le sue
varie occupazioni c’era anche la lettura.
Adesso Gleb, nella stanza avvolta nel silenzio, scontento dei propri pensieri
confusi e meschini, poco incline al sonno, e supponendone ancor meno in
Rus’ka, gli domandò in un sussurro:
– Allora? Come va la teoria dei cicli?
Esaminavano questa teoria da qualche tempo e Rus’ka si era messo a
cercarne conferme in Mommsen.
A quel sussurro Rus’ka si era voltato ma lo guardava come se non capisse.
La pelle del viso, in particolare della fronte, fremeva nello sforzo di
comprendere che cosa gli fosse stato domandato.
– Dicevo, come va con la teoria della ciclicità?
Rus’ka sospirò e dal suo viso scomparvero sia la tensione sia quel pensiero
inquieto. Si accasciò, scivolando sul gomito, gettò nel pacchetto vuoto che
Neržin gli aveva avvicinato la sigaretta ancora accesa che non aveva finito di
fumare, poi disse in tono fiacco:
– Sono stufo di tutto. Dei libri, delle teorie.
Ripiombarono nel silenzio. Neržin stava già per girarsi sull’altro fianco,
quando Rus’ka ridacchiò e si mise a bisbigliare in tono sempre più
appassionato e veloce:
– La storia è così monotona che leggerla fa repulsione. Un po’ come la
‘Pravda’. Più è nobile e sincero l’uomo, più i suoi compatrioti agiranno da
mascalzoni nei suoi confronti. Spurio Cassio voleva ottenere la terra per i
popolani e i popolani gli diedero la morte. Spurio Melio voleva nutrire con il
pane il popolo affamato ed è stato giustiziato come se volesse conquistare il
potere imperiale. Marco Manlio, che si svegliò per lo starnazzare delle celebri
oche e salvò il Campidoglio, fu giustiziato come un traditore dello Stato! Eh?
– Ma che dici!
– A leggere la storia, ti vien voglia di diventare anche tu un mascalzone, è
più conveniente! Senza il grande Annibale non avremmo mai nemmeno
conosciuto Cartagine... e quella stessa miserabile Cartagine lo cacciò, gli
confiscò i beni, gli rase al suolo la casa! Tutto è già accaduto... A quei tempi
misero i ceppi a Gneo Nevio perché smettesse di scrivere opere audaci. Già gli
etoli, molto prima di noi, annunciarono una falsa amnistia per attirare gli
emigrati di nuovo in patria e ucciderli. Già a Roma scoprirono quella verità che
il GULAG dimentica: non conviene lasciare lo schiavo affamato, bisogna
nutrirlo. La storia è tutta un unico perenne... inferno! Chi arraffa, mangia. Non
esiste verità, errore, sviluppo. E non c’è nessuno cui rivolgersi.
In quell’illuminazione senza vita, labbra così giovani che si contraevano
sfiduciate avevano un’aria particolarmente aspra!
Si trattava di pensieri che in Rus’ka erano stati in parte ispirati dallo stesso
Neržin, ma ora che glieli sentiva uscire di bocca suscitavano in Gleb il
desiderio di ribattere. Con i suoi compagni più anziani Neržin aveva preso
l’abitudine di demolire qualsiasi cosa, ma davanti a un detenuto tanto giovane
sentiva una certa responsabilità.
– Voglio metterti in guardia, Rostislav – gli mormorò Neržin, avvicinandosi
quasi all’orecchio del vicino. – Sebbene lo scetticismo, l’agnosticismo o il
pessimismo siano sistemi ingegnosi e implacabili, ricordati che per la loro
stessa natura sono condannati all’abulia. Alla fin fine non possono guidare
l’azione umana perché la gente non può fermarsi, dunque non si può rinunciare
a sistemi che affermino qualcosa, che li esortano a puntare in qualche
direzione.
– Magari verso una palude? Pur di andare da qualche parte? – obiettò
Rus’ka, con rabbia.
– Forse... Chissà! – cominciò a esitare Gleb. – Cerca di capirmi, considero
anch’io lo scetticismo necessario all’umanità. Serve a incrinare le nostre fronti
di pietra, a strozzare le gole dei nostri fanatici. In terra russa è particolarmente
necessario, anche se fa molta fatica ad attecchire. Tuttavia non può diventare
terreno stabile sotto il piede umano. E di un terreno abbiamo bisogno, no?
– Dammi un’altra sigaretta – chiese Rostislav. L’accese, nervoso. – Senti,
meno male che l’MGB mi ha impedito di studiare! Di diventare uno storico! –
mormorò, scandendo le parole a un volume appena più alto. – Se avessi finito
l’università o persino il dottorato, ora sarei un bell’idiota. Uno studioso, magari
uno di quelli incorruttibili, anche se fatico a immaginarmelo. Avrei scritto un
bel tomo. Analizzato dall’ottocentotreesimo punto di vista i Quinti
novgorodesi o la guerra di Cesare contro gli Elvezi. Quanta cultura c’è nel
mondo! Quante lingue! Quante nazioni! E in ogni nazione, quanti uomini
intelligenti, e ancora di più sono i libri intelligenti... quale scemo potrebbe
leggersi tutto?! Come rispondi a questo? ‘Ciò che i maestri hanno inventato
con enorme fatica, ad altri maestri ben più grandi si rivela illusorio’, non è forse
così?
– Eccolo lì – lo rimproverò Neržin. – Stai perdendo ogni sostegno e ogni
obiettivo. Dubitare si può ed è necessario. Ma non è forse necessario anche
amare qualcosa?
– Sì, sì, amare! – intervenne Rus’ka, con un roco bisbiglio trionfante. –
Amare! Ma non la storia, e neppure una teoria: bisogna amare una ra-gaz-za! –
Si sporse dal letto e afferrò Neržin per il gomito. – Cos’è che ci hanno tolto,
eh? Il diritto di andare alle riunioni? Alle lezioni di Educazione politica? Di
sottoscrivere un prestito di Stato? Il Capobanda poteva nuocerci solo in un
modo: levandoci le donne! E lo ha fatto. Per venticinque anni! Quei cani!! Chi
se lo immaginava – si batté il petto con il pugno – cosa può significare una
donna per un detenuto!
– Rus’ka... non diventarci matto! – provò a sottrarsi Neržin, ma al pensiero
di Simočka, della sua promessa per quel lunedì sera fu lui stesso invaso da
un’improvvisa ondata calda... – Togliti quell’idea dalla testa! Ti ottenebra solo il
cervello. – (Oh, lunedì! Quello che le persone felicemente sposate non
apprezzano abbastanza nel tormentato detenuto si solleva con agghiacciante
ferocia!) – Complesso freudiano, o simplesso, come cavolo si chiama... – stava
usando un tono sempre più fiacco, titubante. – Insomma: sublimalo! Sposta le
energie verso altri campi! Occupati di filosofia, lì non servono né il pane né
l’acqua, e nemmeno le carezze di una donna.
(Ma lui stesso fremette nell’immaginarsi nei dettagli come sarebbe andata di
lì a due giorni, e a quel pensiero, per quel dolce terrore, la conversazione aveva
perso senso, e lui non aveva più voglia di continuare.)
– Il mio cervello è già ottenebrato! Mi addormento solo quando è ormai
mattino! Una ragazza! Tutti hanno bisogno di una ragazza! Averla fra le
braccia... per... Uhm, porca miseria! – Senza neanche accorgersene Rus’ka lasciò
cadere la sigaretta ancora accesa, si voltò di scatto e, buttatosi a pancia in giù, si
tirò con uno strattone la coperta fin sopra la testa, sottraendola di nuovo ai
piedi.
Neržin acchiappò per un soffio la sigaretta che stava già rotolando giù in
mezzo ai loro letti su Potapov, e la spense.
Proponeva a Rus’ka di rifugiarsi nella filosofia, ma in quel rifugio lui c’era
già da un pezzo. La polizia investigativa pansovietica aveva dato la caccia a
Rus’ka, che ora si trovava nelle grinfie della prigione. Ma cosa bloccava Gleb a
diciassette o diciannove anni, quando lo sommergevano quelle ardenti folate
che gli ottenebravano la mente, privandolo della ragione? Si attorcigliava in
quella dialettica, ci soffocava, ci ficcava il naso da porcellino, lo ficcava lì
dentro, grugnendo e annusando, con la paura di non fare in tempo. Tutti
quegli anni fino al matrimonio, la gioventù non vissuta a pieno e persa per
sempre, adesso, nella cella di una prigione, li ricordava con maggiore amarezza.
Smarrito, non aveva saputo concedersi quegli istanti di ottenebramento: non
conosceva le parole che portano all’intimità, il tono per far cedere l’altro.
Inoltre, era legato ai secoli passati dal pensiero ben radicato dell’onore
femminile. E nessuna donna più esperta e più saggia gli aveva mai posato una
mano indulgente sulla spalla. No, una l’aveva anche invitato, ma lui allora non
aveva capito! Ci aveva riflettuto e se n’era reso conto soltanto sul pavimento
della prigione, e quell’occasione sfuggita, anni interi sfuggiti, un intero mondo,
lo consumavano dentro.
Be’, adesso non importava, doveva aspettare solo meno di quarantotto ore,
fino alla sera di lunedì.
Gleb si piegò verso l’orecchio del vicino:
– Rus’ka! Ma tu, ce l’hai una ragazza?
– Sì! Ce l’ho! – sussurrò con sofferenza Rostislav, che sdraiato bocconi
stringeva il cuscino. Vi respirava contro e il calore che il guanciale gli restituiva,
insieme a tutto il calore della gioventù che si avvizziva in carcere in modo così
malignamente infruttuoso, arroventava il suo giovane corpo imprigionato, che
chiedeva sfogo e sfogo non conosceva. Aveva detto “ce l’ho”, e voleva credere
di avere sul serio una ragazza, ma tra loro c’era stato solo qualcosa di
impalpabile: non un bacio, e nemmeno una promessa, soltanto il fatto che
quella sera una ragazza lo aveva ascoltato, con sguardo di simpatia e
ammirazione, mentre lui raccontava di sé; e nello sguardo di quella giovane, per
la prima volta, Rus’ka aveva visto sé stesso come un eroe e la propria storia
come fuori del comune. Fra loro non era successo nient’altro, eppure era
successo qualcosa che gli faceva dire di avere una ragazza.
– Ma, senti un po’, chi è? – cercò di strappargli Gleb.
Nel buio, abbassata leggermente la coperta, Rostislav rispose:
– Tsss... è Klara...
– Klara?? La figlia del procuratore?!!
37 Compaesano.
16
UNA TROJKA DI MENTITORI
38 Berija.
17
A PROPOSITO DELL’ACQUA CALDA
Con la stessa tuta blu, ma robusto, un pezzo d’uomo, la testa rasata da galeotto,
entrò Bobynin.
Manifestò per l’arredamento dell’ufficio l’interesse che avrebbe avuto se ci
fosse capitato cento volte al giorno, procedé senza soffermarsi e prese posto
senza salutare. Si sedette su una delle comode poltrone poco distanti dalla
scrivania del ministro e si soffiò accuratamente il naso con un fazzoletto non
troppo bianco che lui stesso aveva lavato durante l’ultimo bagno.
Un po’ disorientato da Prjančikov, ma incapace di prendere sul serio quel
giovane spensierato, Abakumov era contento che ora Bobynin fosse più posato.
Così non gli gridò: “In piedi!” ma, ritenendo che quello non se ne intendesse di
spalline e a furia di passare porte non si fosse reso conto di dov’era capitato,
quasi in tono pacato gli domandò:
– Perché si siede senza permesso?
Sbirciando a malapena il ministro e finendo di pulirsi il naso con il
fazzoletto, Bobynin rispose senza tante cerimonie:
– Be’, guardi, esiste un detto cinese: stare in piedi è meglio che camminare,
essere seduti è meglio che stare in piedi, e ancora meglio è stare distesi.
– Ma ha una vaga idea di chi sono io?
Con i gomiti appoggiati comodamente sulla poltrona che si era scelto,
Bobynin osservò Abakumov ed espose la propria ipotesi con indolenza.
– Chi potrebbe essere? Be’, qualcuno di simile al maresciallo Goering?
– Simile a CHI??...
– Al maresciallo Goering. Una volta ha visitato la fabbrica aeronautica nei
dintorni di Halle dove mi è capitato di lavorare all’ufficio progettazione. I
generali di là camminavano in punta di piedi, ma io non mi sono nemmeno
voltato dalla sua parte. Lui ha dato una bella occhiata in giro, poi se n’è andato
in un’altra stanza.
Sul volto di Abakumov passò quello che ricordava vagamente un sorriso, ma
davanti a un detenuto di un’insolenza così inaudita lo sguardo si accigliò
subito. Sbatté le palpebre per la tensione e domandò:
– E allora? Fra noi non vede nessuna differenza?
– Fra voi due? O fra noi due? – La voce di Bobynin rombava come ghisa
maltrattata. – Fra noi due la vedo perfettamente: io le servo, mentre lei a me
non serve!
Anche Abakumov aveva una voce che rombava come un tuono e sapeva
come intimidire. Ma ora si rendeva conto che gridare sarebbe stato inutile,
indecoroso. Aveva capito che quello era un detenuto difficile.
Si limitò a metterlo in guardia:
– Senta, detenuto. Anche se la sto trattando con le buone, non si dimentichi
che...
– Se mi avesse trattato con le cattive, cittadino ministro, non mi sarei
nemmeno messo a parlare con lei. Gridi pure contro i suoi tenenti e generali,
quelli nella vita hanno fin troppo, e fin troppo da perdere.
– Se serve, sapremo convincere anche lei.
– Si sbaglia, cittadino ministro! – E gli intensi occhi di Bobynin si accesero
di un odio sincero. – Io non ho niente, le è chiaro? NIENTE DI NIENTE! Moglie e
figlio non me li può più togliere, se li è presi una bomba. I miei genitori sono
già morti. L’unica cosa che mi appartiene su questa terra è un fazzoletto da
naso; la tuta e la biancheria che c’è sotto, senza bottoni (scoprì il petto e la
mostrò), sono dello Stato. La libertà me l’avete tolta da un pezzo e ridarmela
non è nelle sue possibilità, perché manca pure a lei. Ho quarantadue anni, mi
avete affibbiato una condanna a venticinque, ai lavori forzati ci sono già stato,
sono andato in giro con i numeri cuciti addosso, in manette, con i cani da
guardia, e sono stato anche nella squadra a regime intensificato. In quale altro
modo pensa di minacciarmi? Di cos’altro potrebbe privarmi? Del lavoro di
ingegnere? Ci perderebbe lei. Ora vorrei fumare.
Abakumov aprì un pacchetto di Trojka, produzione del Cremlino, e lo
allungò a Bobynin:
– Ecco, prenda queste.
– Grazie. Non cambio marca. Ho la tosse. – Ed estrasse una Belomor da un
portasigarette di sua fabbricazione. – In generale, cerchi di capire, e lo
comunichi anche a chi di dovere sopra di lei, siete forti solo quando non
togliete tutto alle persone. Se togliete tutto a un uomo, quello non è più in
vostro potere, ma di nuovo libero.
Bobynin tacque e si concentrò sulla sua sigaretta. Era bello starsene mezzo
sdraiato su quella poltrona così comoda a stuzzicare il ministro. Gli spiaceva
solo di aver rifiutato sigarette tanto lussuose per fare colpo.
Il ministro controllò sul suo foglio.
– Ingegner Bobynin! Lei è l’ingegnere capo dell’impianto di ‘linguaggio
clippato’?
– Sì.
– Le chiedo di dirmi con assoluta precisione quando sarà pronto per
l’utilizzo?
Bobynin inarcò le folte sopracciglia scure.
– Che novità è questa? Non ha trovato nessuno sopra di me in grado di
rispondere a una domanda del genere?
– Voglio saperlo da lei. Sarà pronto entro febbraio?
– Entro febbraio? Mi prende in giro? Se è per scriverlo sul rapporto... chi si
marita in fretta, stenta adagio... Comunque, diciamo... fra sei mesi. E una
codifica assoluta? Non ne ho la minima idea. Forse un anno.
Abakumov era sconvolto. Gli tornò in mente il movimento astioso e
impaziente dei baffi del Padrone e tremò al pensiero delle promesse che,
basandosi su Selivanovskij, aveva fatto. Dentro gli crollò tutto, come per un
uomo che va a curarsi un raffreddore e scopre di avere un cancro nasofaringeo.
Il ministro si afferrò la testa con entrambe le mani e con voce soffocata
disse:
– Bobynin! La prego di pesare bene le sue parole. Se esiste la possibilità di
fare più in fretta, mi dica, di cosa avreste bisogno?
– Più in fretta? Impossibile.
– E le cause? Quali sono le cause? Di chi è la colpa? Me lo dica, non abbia
timore! Faccia i nomi dei colpevoli, quali che siano le spalline che portano!
Gliele strappo, le spalline!
Bobynin rovesciò indietro la testa e si mise a osservare il soffitto, dove
giocavano le ninfe della compagnia di assicurazioni Rossija.
– Sono passati due anni e mezzo, quasi tre! – si indignò il ministro. – E vi
era stato dato il termine di un anno!
Bobynin scattò:
– Che significa che ci era stato dato un termine? Cosa crede che sia la
scienza? La fiaba del cavallino magico? Costruiscimi un bel palazzo entro
domani mattina, e quello il giorno dopo è fatto? E se il problema viene
impostato male? Se saltano fuori elementi nuovi? Dato un termine! E lei non
pensa che, oltre a un ordine impartito, debbano anche esserci uomini sereni,
ben nutriti e liberi? E senza questa atmosfera di sospetto. Per esempio,
abbiamo spostato un piccolo tornio e, non so se mentre ci lavoravamo noi o
chi dopo di noi, insomma, il basamento si è incrinato. Lo sa il diavolo perché è
successo! Ma ripararlo è costato a un saldatore un’ora di lavoro. E quel tornio è
già una merda, ha centocinquant’anni, è senza motore, con la puleggia a cinghia
scoperta. E per questa incrinatura sono già due settimane che il maggiore oper
Šikin tormenta tutti, ci fa l’interrogatorio, cerca a chi affibbiare una seconda
condanna per sabotaggio! Lui sul lavoro è un oper, un parassita, e in prigione c’è
un altro oper, parassita pure lui, e ti fanno saltare i nervi, fra protocolli e cavilli...
ma che diamine ve ne fate di tutta questa attività operistica? Continuano a dirci
che stiamo progettando un sistema di telefonia segreta per Stalin, che è lui in
persona a volerlo, e nemmeno in un settore come questo siete in grado di
assicurare le condizioni tecniche necessarie: prima mancano i condensatori, poi
le valvole non sono del tipo giusto, oppure non bastano gli oscillografi
elettronici. Per la miseria! È una vergogna! Di chi è la colpa39! Ma agli uomini ci
avete pensato? Lavorano per voi dodici, alcuni anche sedici ore al giorno, ma la
carne è fornita solo agli ingegneri capo, mentre agli altri cosa resta? Le ossa?
Perché ai Cinquantotto non concedete le visite parentali? È stabilito che siano
una volta al mese, ma le permettete solo una volta all’anno. Questo può
sollevare il loro morale? Mancano forse i corvi per trasportare i carcerati? O i
soldi per pagare gli straordinari ai sorveglianti? Regime carcerario!! Il regime vi
annebbia la mente, presto vi farà uscire di senno! Prima, la domenica si poteva
passeggiare tutto il giorno, adesso lo hanno proibito. Ma perché? Per farci
lavorare di più? Volete cavare sangue dalle rape? Tenendoci chiusi dentro a
soffocare senza un po’ di aria fresca, non ci impiegheremo certo di meno. Ma
che parlo a fare! Non mi ha forse chiamato in piena notte? Il giorno non le
basta? Io domani devo lavorare. Ho bisogno di dormire.
Bobynin raddrizzò la schiena, sdegnato, grande.
Schiacciato contro il bordo della scrivania, Abakumov ansava pesantemente.
Era l’una e venticinque di notte. Di lì a un’ora, alle due e mezzo, Abakumov
si sarebbe dovuto presentare da Stalin con una relazione, alla dacia di Kuncevo.
Se quell’ingegnere aveva ragione, come trovare adesso una via d’uscita?
Stalin non perdonava...
Mentre congedava Bobynin, gli tornò in mente la trojka di mentitori della
Sezione di Tecnica speciale. E negli occhi gli si accese un’oscura rabbia.
Li convocò per telefono.
La stanza non era né grande né alta. Aveva due porte, e la finestra, se anche
c’era, aveva le tende ben serrate e si fondeva nella parete. Eppure l’aria risultava
fresca, piacevole (c’era una persona precisa che si preoccupava dell’entrata e
dell’uscita dell’aria, e della sua innocuità chimica).
Un’ottomana stretta con i cuscini a fiori occupava molto spazio. Sopra a
questa, sulla parete, erano accese delle lampade abbinate, coperte da piccoli
paralumi.
Sull’ottomana era sdraiato un uomo, la cui immagine tante volte era stata
scolpita, dipinta a olio, ad acquarello, a guazzo, a seppia, disegnata a
carboncino, a gessetto, con polvere di mattone, formata da sassolini, da
conchiglie di mare, su piastrella smaltata, con chicchi di grano e di soia,
intagliata nell’avorio, composta con l’erba, intessuta nei tappeti, tracciata dagli
aerei, filmata nelle pellicole cinematografiche, come mai nessun altro nei tre
miliardi di anni di esistenza della crosta terrestre.
Se ne stava lì sdraiato, le gambe leggermente raccolte, nei morbidi stivali
caucasici simili a calze spesse. Indossava una giubba con quattro grandi tasche,
due sul petto, due laterali, che era vecchia, vissuta, una delle tante grigie, grigio-
verdi, nere e bianche che (un po’ imitando Napoleone) aveva imparato a
portare dalla Guerra civile e sostituito con l’uniforme da maresciallo solo dopo
Stalingrado.
Il nome di quell’uomo veniva menzionato spesso sui giornali di tutto il
globo terrestre, mormorato da migliaia di annunciatori in centinaia di lingue,
gridato dai relatori all’inizio e alla fine dei discorsi, cantato dalle voci sottili dei
pionieri, pronunciato con solennità dagli alti dignitari della Chiesa ortodossa,
che brindavano alla sua salute. Il nome di quell’uomo si seccava sulle labbra
morenti dei prigionieri di guerra, sulle gengive gonfie dei detenuti. Con quel
nome era stato ribattezzato un gran numero di città e piazze, strade e viali,
palazzi, università, scuole, stazioni termali, catene montuose, canali marittimi,
fabbriche, miniere, sovchoz, kolchoz, navi di linea, rompighiaccio, pescherecci,
laboratori di calzoleria, nidi d’infanzia, e un gruppo di giornalisti di Mosca
aveva proposto di ribattezzarci pure il Volga e la Luna.
Lui era soltanto un piccolo vecchio dagli occhi gialli, con i capelli biondicci
(nei ritratti li raffiguravano corvini) che si stavano già diradando (li
raffiguravano folti), il viso grigio butterato qua e là dai segni del vaiolo, una
sacca di pelle flaccida sotto il mento (quella non la disegnavano affatto), i denti
scuri e irregolari, una parte dei quali ripiegata all’interno della bocca che
puzzava di tabacco in foglie, le umide dita unte che lasciavano tracce sulle carte
e sui libri.
Inoltre quel giorno non si sentiva bene: era stanco e aveva esagerato con il
cibo durante i festeggiamenti per il suo compleanno, si sentiva nella pancia una
pesantezza di pietra e gli si ripresentava un sapore di marcio; salolo e
belladonna non erano stati di alcun aiuto, ma detestava prendere dei purganti.
Non aveva neanche mangiato e si era coricato presto, verso mezzanotte. In
quell’aria calda sentiva uno strano freddo alla schiena e alle spalle, che teneva
coperte con uno scialle di cammello marroncino.
Un silenzio sordo aveva avvolto la casa, il cortile, tutto il mondo.
In quel silenzio il tempo scorreva a malapena, strisciava piano, andava subìto
come una malattia, un acciacco, escogitando ogni notte un’attività o uno svago.
Non gli era costato granché fatica separarsi dallo spazio del mondo, non
muoversi più al suo interno. Ma dal tempo era impossibile separarsi.
Ora stava sfogliando un libretto dalla copertina rigida marrone. Guardava
con piacere le fotografie e leggeva qua e là il testo che ormai conosceva quasi a
memoria, per poi rimettersi a sfogliare. Quel libretto era così maneggevole da
entrare senza piegarlo nella tasca del cappotto, poteva accompagnare la gente
ovunque nella vita. Le pagine erano circa duecentocinquanta, ma stampate con
un carattere grande e nitido, in modo che anche le persone poco istruite e gli
anziani potessero leggerlo senza affaticarsi. Sulla copertina c’era impresso in
oro: Iosif Vissarionovič Stalin. Breve biografia.
Le parole oneste e semplici di quel libro si posavano sul cuore umano in
modo tranquillo e inevitabile. Genio strategico. La sua saggia perspicacia. La
sua poderosa volontà. La sua ferrea volontà. Era diventato di fatto il vice di
Lenin dal 1918. (Sì, sì, era andata proprio così.) Il condottiero della rivoluzione
aveva trovato al fronte grande confusione, smarrimento. Alla base del piano
operativo di Frunze c’erano le istruzioni di Stalin. (Esatto. Esatto.) È stata una
fortuna per noi che durante i difficili anni della Guerra patriottica40 ci guidasse
il saggio ed esperto Capo, il Grande Stalin. (Sì, il popolo ha avuto fortuna.)
Tutti conoscono la forza devastante della logica staliniana, la chiarezza
cristallina della sua mente. (Senza falsa modestia, è tutto vero.) Il suo amore
per il popolo. La sua sensibilità verso le persone. La sua insofferenza verso le
solennità chiassose. La sua sorprendente modestia. (La modestia, è proprio
vero.)
Una conoscenza infallibile dell’animo umano aveva permesso al festeggiato
di radunare per quella biografia un buon collettivo di autori. Ma per quanto
fossero accurati, o si facessero in quattro, nessuno avrebbe scritto in modo così
intelligente, sentito, attinente ai fatti come lui stesso. Così Stalin aveva dovuto
chiamare a sé uno dopo l’altro gli uomini di quel collettivo, ci aveva conversato
con calma, aveva dato un’occhiata ai loro manoscritti, indicato con indulgenza
le mancanze, suggerito formulazioni.
E il libro aveva avuto un enorme successo. Quella seconda edizione era
uscita con una tiratura di cinque milioni di copie. Per una nazione come
quella? Un po’ pochino. Bisognava che la terza uscisse almeno in dieci, venti
milioni di copie. Che fosse venduto nelle fabbriche, nelle scuole, nei kolchoz. Si
poteva distribuire usando direttamente l’elenco degli impiegati.
Nessuno meglio dello stesso Stalin sapeva fino a che punto era necessario
quel libro al suo popolo. Il popolo non poteva restare senza risposte giuste e
continue. Il popolo non poteva reggere senza certezze. La rivoluzione aveva
trasformato il popolo in un orfano, in un senzadio, cosa davvero pericolosa.
Già da vent’anni Stalin, per quanto in suo potere, correggeva la situazione. A
quello erano serviti milioni di ritratti in tutto il paese (non di certo a Stalin, lui
era modesto), il continuo ripetersi altisonante del suo glorioso nome, il
continuo accenno in ogni articolo. Non era assolutamente il Capo ad averne
bisogno – non ci gioiva affatto, gli era già venuto a noia – serviva ai sudditi,
alla semplice gente sovietica. Il maggior numero possibile di ritratti, il maggior
numero possibile di menzioni, e comparire di rado in carne e ossa, parlare
poco, come se non stesse sempre con loro sulla terra, ma anche da qualche altra
parte. Allora non ci sarebbe stato più limite al culto e alla venerazione.
Non aveva la nausea, ma gli gravava sullo stomaco una sensazione di
pesantezza. Prese un frutto di feijoa da una ciotola con della frutta già
sbucciata.
Tre giorni prima erano stati festeggiati i suoi gloriosi settant’anni.
Per le usanze del Caucaso, raggiunti i settanta, un uomo è ancora un džigit,
un valoroso! Sui monti, a cavallo, con le donne. E anche Stalin era in piena
salute, sarebbe vissuto per forza di cose fino a novant’anni: questo aveva
deciso, questo esigevano i fatti. Anche se un medico lo aveva avvertito che...
(del resto, se non ricordava male, poi l’avevano fucilato). Una vera malattia,
seria, non ce l’aveva. Nessuna iniezione, nessuna cura, conosceva bene la
medicina, sapeva scegliere da sé. “Più frutta!” Dire di mangiare più frutta a un
uomo del Caucaso!
Succhiava la polpa, strizzando gli occhi. Sulla lingua gli restava un leggero
retrogusto di iodio.
Era in piena salute, ma qualcosa con gli anni stava cambiando. Mangiare non
gli dava più la fresca soddisfazione di un tempo, come se tutti i sapori gli
fossero venuti a noia, si fossero attenuati. Non provava più una sensazione
intensa a eccedere con i vini e a mischiarli. L’ebbrezza si trasformava in un
dolore alla testa. E se a un pranzo Stalin restava ancora seduto come prima
fino a notte fonda con i suoi dirigenti non era perché godesse del cibo, ma
perché quel tempo lungo e vuoto si doveva pur trascorrere in qualche modo.
Nemmeno le donne con le quali faceva baldoria, dalla morte di sua moglie
Nadja, gli servivano granché, per loro provava di rado un brivido, restava tutto
abbastanza sul torbido. Ormai anche il sonno non era riposante come da
giovane: si svegliava già debole, con un cerchio alla testa, e non aveva voglia di
alzarsi.
Stabilito che ebbe di vivere fino ai novanta, Stalin pensava con angoscia a
quegli anni che non gli avrebbero portato nessuna gioia personale: doveva
semplicemente resistere altri due decenni perché l’umanità godesse di un
migliore ordine generale.
I settanta li aveva festeggiati così. La sera del 20 era stato torturato a morte
Trajčo Kostov. Solo quando i suoi occhi si erano fatti vitrei come quelli di un
cane, la festa aveva davvero avuto inizio. Il 21 si era tenuta la celebrazione
solenne al teatro Bol’šoj. Erano intervenuti Mao Tse-tung, Dolores41 e altri
compagni. Poi c’era stato un banchetto allargato, subito dopo uno per pochi
intimi. Avevano bevuto vecchi vini di cantine spagnole, ricevuti un tempo in
cambio di armi. Infine, lui e Lavrentij, rimasti soli, si erano bevuti un vino di
Kachezia e avevano intonato canzoni georgiane. Il 22 si era tenuto un grande
ricevimento diplomatico. Il 23 aveva visto la seconda parte della Battaglia di
Stalingrado e L’indimenticabile 1919, che parlavano di lui.
Benché stanchissimo, quelle opere gli erano piaciute molto. Adesso veniva
tratteggiato in modo sempre più veritiero il suo ruolo non solo nella Guerra
patriottica, ma anche in quella civile. Evidentemente era un grand’uomo fin da
allora. Lo schermo e il palcoscenico adesso dimostravano quanto spesso aveva
messo in guardia e corretto un Lenin fin troppo imprudente e superficiale.
Nobilmente il drammaturgo gli aveva messo sulle labbra la frase: “Ogni
lavoratore ha il diritto di manifestare i propri pensieri!” E allo sceneggiatore
era venuta bene quella scena di notte con l’Amico. Sebbene a Stalin non fosse
rimasto nessun grande Amico, per la perenne mancanza di sincerità e la
perfidia degli uomini. Non che avesse mai avuto un Amico così! Era andata in
quel modo: mai avuto! Ma vederlo sullo schermo aveva fatto venire a Stalin un
nodo alla gola (quello è un artista, un grande artista!): come avrebbe voluto
avere un Amico così sincero e disinteressato, dirgli ad alta voce quanto per
notti intere gli passava per la mente.
Tuttavia non gli era possibile avere un Amico del genere, perché avrebbe
dovuto essere grande quanto lui. E dove poteva vivere uno così? Di cosa si
sarebbe occupato?
Tutti quanti, da Vjaceslav “Sedere di pietra” a Nikita il Ballerino42, erano
forse uomini? A tavola con loro crepavi di noia, nessuno che proponesse mai
per primo qualcosa di intelligente, e quando lo faceva lui erano subito
d’accordo. Un tempo Stalin apprezzava abbastanza Vorošilov, per la difesa di
Caricyn, la guerra in Polonia e i fatti della grotta di Kislovodsk (aveva riferito
della riunione dei traditori Kamenev-Zinov’ev con Frunze)43, ma era pure lui
un manichino su cui appendere il cappello e le decorazioni; era forse un uomo
quello?
Non c’era nessuno che potesse menzionare come amico. Nessuno del quale
ricordare più cose positive che negative.
Un amico per lui non c’era e non ci sarebbe mai stato, tuttavia il popolo
semplice amava il suo Capo, era pronto a dare la vita e l’anima per lui. Lo si
vedeva dai giornali, al cinema, con la mostra dei suoi doni. Il compleanno del
Capo si era trasformato nella festa di tutto il popolo, era una gioia rendersene
conto. Quanti auguri erano arrivati! Auguri dalle istituzioni, auguri dalle
organizzazioni, auguri dalle fabbriche, auguri dai singoli cittadini! La “Pravda”
aveva chiesto l’autorizzazione di non pubblicarli tutti insieme, ma su due
colonne per ogni numero. Be’, la cosa sarebbe andata avanti per qualche anno,
non importava, non era un male.
E per i doni, al Museo della Rivoluzione non erano bastate dieci sale44. Per
dare la possibilità ai moscoviti di ammirare quei regali di giorno, Stalin era
andato a vederli di notte. Il lavoro di migliaia e migliaia di artisti, i migliori
doni della terra, ritti, appoggiati, appesi; eppure anche qui era subentrata
l’indifferenza, dentro di lui si era spento ogni interesse. Cosa se ne faceva di
tutti quei regali?... L’avevano annoiato in fretta. E al museo si era affacciato in
lui anche un ricordo negativo, ma come accadeva spesso negli ultimi tempi non
era riuscito a focalizzarlo chiaramente e gli era rimasta solo una sensazione
sgradevole. Stalin aveva percorso tre sale senza scegliere nulla, poi si era
fermato vicino a un enorme televisore con la scritta “Al grande Stalin dagli
agenti della Čeka” (era il più voluminoso televisore sovietico esistente,
fabbricato in un unico esemplare a Marfino), si era voltato ed era uscito.
Comunque era stato un bel compleanno – nessun politico al mondo poteva
vantare un simile orgoglio, simili vittorie e successo! – eppure non poteva dirsi
un pieno trionfo.
Qualcosa gli stringeva il petto, gli si era bloccato lì e bruciava.
Addentò un’altra volta il frutto e lo succhiò.
Il popolo lo amava, questo era certo, ma quello stesso popolo brulicava di
difetti e non andava bene per niente. Bastava ricordare il 1941: per colpa di chi
era avvenuta la ritirata? Chi si era ritirato, se non il popolo?
Ecco perché non poteva festeggiare, starsene lì sdraiato, ma doveva mettersi
al lavoro. Pensare.
Pensare era suo dovere. La sua amara sorte, e anche il suo tormento. Doveva
vivere ancora due decenni alla stregua di un detenuto con una condanna della
medesima durata, e non poteva dormire più di otto ore al giorno, mai più del
necessario. E per le restanti ore, muoversi lentamente, come se camminasse su
pietre appuntite, fare affidamento su un corpo non più giovane, ormai
vulnerabile.
I momenti della giornata più insopportabili per Stalin erano il mattino e il
mezzogiorno: mentre il sole sorgeva, scintillava, si sollevava fino a raggiungere
il culmine, Stalin dormiva al buio, con le tende serrate, chiuso, sbarrato dentro.
Si svegliava quando il sole stava già calando, stemperandosi, portandosi verso il
termine della sua breve vita di un giorno. Intorno alle tre del pomeriggio Stalin
faceva colazione e solo verso sera, al tramonto, cominciava a riprendersi. In
quelle ore il suo cervello funzionava con diffidenza, cupo, tutte le decisioni gli
apparivano proibitive, negative. Dalle dieci della sera iniziava il pranzo, al quale
di solito erano invitati gli uomini a lui più vicini nel Politbjuro e tra i
comunisti stranieri. Fra un gran numero di pietanze, calici, storielle e discorsi si
ammazzavano bene quattro, cinque ore, e intanto si prendeva la rincorsa, si
raccoglievano le idee creative in ambito legislativo per la seconda metà della
notte. Tutti i Decreti più importanti destinati al grande Stato trovavano forma
nella testa di Stalin dopo le due del mattino e solo fino all’alba.
E adesso quel tempo stava proprio per iniziare. E c’era un decreto già
maturato che di fatto ancora mancava fra le leggi. Nel paese erano stati in
grado di fissare in eterno quasi tutto, fermare tutti i movimenti, far ristagnare
tutte le correnti; duecento milioni di persone sapevano stare al proprio posto,
solo i giovani dei kolchoz sfuggivano. Era alquanto strano, dunque, che le
attività dei kolchoz, nel concreto, andassero bene, come risultava dai film e dai
romanzi, e lo stesso Stalin se ne rendeva conto parlando con i kolchoziani ai
presidium di riunioni e congressi. Tuttavia, statista sagace e sempre autocritico,
Stalin si costringeva a guardare ancora più a fondo. Uno dei segretari dei
comitati regionali (in seguito dovevano averlo fucilato) gli aveva rivelato che
c’era una pecca: nei kolchoz a lavorare con sollecitudine erano i vecchi e le
vecchie iscritti dal 1930, mentre una parte irresponsabile di giovani, non appena
terminata la scuola, cercava di ottenere con l’inganno i documenti per
svignarsela in città. Stalin aveva sentito quella cosa e un tarlo aveva cominciato
a rodergli dentro.
L’istruzione!... Che pasticcio era venuto fuori con quelle scuole obbligatorie
di sette anni e dieci anni, con i figli delle cuoche che andavano all’università! Lo
aveva combinato Lenin, che aveva fatto promesse senza la dovuta cautela, e ora
quelle pesavano sulla schiena di Stalin come una gobba storta e incurabile.
Ogni cuoca doveva essere in grado di dirigere lo Stato!... Ma come si
immaginava la cosa in concreto? Il venerdì poteva non cucinare per recarsi alla
riunione del Comitato esecutivo regionale? Una cuoca, in quanto tale, quello fa,
cucina il pranzo. Per dirigere la gente ci vuole grande abilità, è un compito che
si può affidare soltanto a quadri speciali, quadri selezionati con cura, temprati,
disciplinati. E la direzione di quei quadri può essere solamente nelle mani di
una persona, le mani esperte del Capo.
Era necessario stabilire nello statuto delle cooperative agricole che, come la
terra apparteneva loro in eterno, così anche chiunque fosse nato in un dato
villaggio sarebbe stato iscritto automaticamente al kolchoz dal giorno della sua
nascita. Bisognava formalizzarlo come un privilegio. Subito una campagna di
propaganda: “Un nuovo passo verso il comunismo”, “I giovani eredi del
granaio dei kolchoz”... Insomma, gli scrittori avrebbero trovato le frasi giuste.
E i nostri sostenitori in Occidente?
E chi bisognava far lavorare nei kolchoz?
No, qualcosa non andava nelle idee sul lavoro. Non venivano come
dovevano.
Si udirono quattro leggeri colpi alla porta, non dei veri colpi, dei morbidi
sfioramenti, come se un cane vi si stesse grattando contro.
Stalin girò la manopola per l’apertura a distanza che si trovava vicino
all’ottomana, la sicura scattò e la porta si socchiuse. Non essendo protetta da
un tendaggio (a Stalin non piacevano cortine, pieghe, tutto ciò dietro cui ci si
potesse nascondere), si vide la porta nuda aperta quel tanto che bastava a far
passare un cane. Ma ad affacciarsi non nella parte inferiore bensì in quella
superiore fu la testa di Poskrëbyšev, che ancora giovane era già calvo, con una
perenne espressione di sincera fedeltà e piena disponibilità sul viso.
In ansia per il Padrone, Poskrëbyšev lo vide sdraiato e coperto per metà
dallo scialle di cammello, eppure non chiese notizie sulla sua salute (Stalin
detestava simili domande), e quasi in un bisbiglio disse:
– Ës’ Sarionyč45! Oggi ha convocato Abakumov per le due e mezzo.
Pensava di riceverlo? Sì o no?
Iosif Vissarionovič sganciò la patta della tasca superiore della giubba ed
estrasse l’orologio tirandolo fuori per la catenina (come tutte le persone dei
tempi passati detestava gli orologi da polso).
Non erano ancora le due del mattino.
Un grumo pesante gli si era piazzato sullo stomaco. Non aveva voglia di
alzarsi e di cambiarsi. Ma non poteva nemmeno lasciare libero qualcuno:
appena allenti la presa, quelli se ne accorgono.
– Ve-edremo– rispose stancamente Stalin, battendo le palpebre. – Non so.
– Ma sì, che venga pure. Aspetterà! – confermò Poskrëbyšev, e annuì in
modo esagerato almeno tre volte. Poi si bloccò di nuovo, guardando con
attenzione il Padrone: – Altre disposizioni, Ë-Sarionyč?
Stalin fissò Poskrëbyšev con sguardo apatico, abulico, e non gli venne in
mente nessuna disposizione da dargli. Tuttavia alla domanda di Poskrëbyšev
nella sua memoria non più impeccabile si accese all’improvviso una scintilla, e
fece a sua volta una domanda che voleva porgli da tempo e di cui si era
dimenticato:
– Senti, come vanno i cipressi in Crimea? Li tagliano?
– Li tagliano! Li tagliano! – annuì Poskrëbyšev, in tono deciso, quasi si
aspettasse la domanda e avesse appena telefonato in Crimea per averne
conferma. – Intorno a Massandra e a Livadia ne hanno già abbattuti molti, Ë-
Sarionyč!
– Esigi comunque un bollettino. Con le cifre. Nessun sabotaggio? – Gli
occhi gialli malsani dell’Onnipotente erano preoccupati.
Quell’anno un medico gli aveva detto che i cipressi erano dannosi per la sua
salute, era indispensabile che l’aria fosse impregnata di eucalipto. E dunque
Stalin aveva ordinato di abbattere i cipressi della Crimea e inviato qualcuno in
Australia in cerca di giovani eucalipti.
Poskrëbyšev promise con fare sollecito e si offrì di scoprire a che punto
fossero gli eucalipti.
– Va bene – pronunciò Stalin, con soddisfazione. – Ora vai, Saša.
Poskrëbyšev annuì e cominciò a indietreggiare, poi annuì di nuovo, ritrasse
per ultima la testa e chiuse bene la porta. Iosif Vissarionovič usò di nuovo il
comando a distanza e, tenendo fermo lo scialle, si girò sull’altro fianco.
Quindi riprese a sfogliare la sua Biografia.
Ma infiacchito per essere rimasto a lungo sdraiato, per i brividi e per
l’indigestione, senza volerlo si abbandonò a una schiera di pensieri deprimenti.
Non gli si parava dinnanzi l’abbagliante successo finale della sua politica ma
quanto era stato sfortunato nella vita, e quanti ostacoli e nemici, un numero
ingiustamente alto, il destino gli aveva messo davanti.
Non osavano chiamarlo con il diminutivo Saška non solo alle spalle, ma quasi
nemmeno parlando fra sé: lui era esclusivamente Aleksandr Nikolaevič. “Ha
telefonato Poskrëbyšev” voleva dire che aveva telefonato Lui in persona.
“Poskrëbyšev ha ordinato” voleva dire che era stato proprio Lui a ordinarlo.
Poskrëbyšev conservava la carica di capo della segreteria personale di Stalin da
più di quindici anni. Era parecchio tempo, e chi non lo conosceva bene poteva
meravigliarsi che avesse la testa ancora ben salda al proprio posto. Il segreto era
semplice: Poskrëbyšev era un attendente nell’animo, e proprio questo lo
manteneva fermo nel suo ruolo. Anche dopo che lo avevano nominato generale
di brigata, membro del Comitato Centrale e capo della Sezione speciale per il
pedinamento dei membri del Comitato Centrale, davanti al Padrone aveva
continuato a considerarsi meno di una nullità. Con una risata compiaciuta,
brindava con lui alla salute del villaggio natio, Sopljaki. Le infallibili narici di
Stalin non avevano mai fiutato in Poskrëbyšev né dubbi né contrasti. Il suo
cognome era ampiamente giustificato: pareva che, una volta cotto a puntino, gli
avessero “grattato via” a volontà tutte le doti d’intelligenza e di carattere69.
Tuttavia, quando si rivolgeva agli inferiori, quel cortigiano pelato dall’aria
semplice si dava grande importanza. Ai subalterni permetteva a malapena di
udire la sua voce al telefono: bisognava infilarsi con la testa nella cornetta per
sentire che cosa diceva. Ogni tanto, con lui si poteva anche scherzare di
sciocchezze, ma di domandargli “Come va oggi di là”, la lingua si rifiutava.
Quel giorno Poskrëbyšev aveva detto ad Abakumov:
– Iosif Vissarionovič sta lavorando. Potrebbe non riceverla. Ordina di
attendere.
Dopo avergli preso la borsa (prima di recarsi da Lui bisognava consegnarla),
lo aveva accompagnato nell’anticamera e se n’era andato.
Così Abakumov non si era deciso a domandargli quel che più gli interessava:
di che umore fosse il Padrone quel giorno. Era rimasto solo nell’anticamera,
con il cuore che gli batteva forte.
Quell’uomo grande e grosso, vigoroso e determinato, ogni volta che arrivava
lì moriva di terrore non meno dei cittadini che di notte, mentre gli arresti
infuriavano, sentivano dei passi per le scale. Dal terrore le orecchie prima gli si
ghiacciavano, poi rinvenivano e si facevano di fuoco, e ogni volta Abakumov
aveva sempre più paura che quelle orecchie costantemente avvampate
suscitassero sospetti nel Padrone. Stalin aveva sospetti per ogni sciocchezza.
Non gli piaceva, per esempio, che davanti a Lui ci si frugasse nelle tasche
interne. Per questa ragione Abakumov aveva spostato entrambe le stilografiche
pronte per gli appunti dalla tasca interna a quella esterna, sul petto.
Tutti i dirigenti della Sicurezza di Stato passavano ogni giorno da Berija, dal
quale Abakumov riceveva la maggior parte delle istruzioni. Ma una volta al
mese il Monarca assoluto voleva saggiare personalmente la vera indole di
coloro ai quali aveva affidato la tutela dell’ordine più progredito del mondo.
Quelle udienze di un’ora erano un pesante balzello per tutto il potere, tutta
la potenza di Abakumov, che viveva e godeva soltanto fra un’udienza e l’altra.
Giunta la scadenza ogni cosa si fermava, le sue orecchie si ghiacciavano,
Abakumov consegnava la borsa senza sapere se l’avrebbe riavuta indietro e
chinava la testa taurina di fronte allo studio senza sapere se di lì a un’ora
avrebbe perso il collo.
Stalin terrorizzava perché uno sbaglio commesso con Lui era l’unico sbaglio
nella vita con un detonatore impossibile da disinnescare. Stalin terrorizzava
perché non accettava giustificazioni, non accusava nemmeno. La punta di un
baffo che sussultava, e la sentenza era emessa, con il condannato che nemmeno
se ne accorgeva: se ne andava tranquillamente, poi veniva preso di notte e
fucilato il mattino.
La cosa peggiore era quando Stalin taceva e non restava altro che torturarsi
in congetture. Se Stalin ti scagliava contro qualcosa di pesante o di affilato, ti
pestava un piede con lo stivale, ti sputava addosso o ti soffiava in faccia la
cenere ardente della pipa, non si trattava di un’ira definitiva, era solo
passeggera! Quando Stalin offendeva e imprecava, usando anche i termini più
pesanti, Abakumov si rallegrava: significava che il Padrone sperava ancora di
poter correggere il suo ministro e di continuare a lavorare con lui.
Naturalmente Abakumov ora capiva di essere salito, grazie al proprio zelo,
troppo in alto: stare più in basso sarebbe stato meno pericoloso, con quanti si
tenevano lontani Stalin conversava amabilmente, con piacere. Ma una volta che
balzavi fra coloro che gli erano vicini, non c’era modo di tornare indietro.
Non restava che aspettare la morte. La propria. Oppure quella di...
impensabile.
E ogni volta andava così, tanto che quando doveva presentarsi a Stalin
Abakumov temeva fosse venuto a galla qualcosa.
Già in precedenza aveva tremato all’idea che scoprissero la storia del suo
arricchimento in Germania.
...Alla fine della guerra Abakumov si era ritrovato a capo dello SMERŠ di
tutta l’Urss, da lui dipendevano le sezioni di controspionaggio di tutti i fronti
operativi e dell’esercito. Era stato un periodo breve e particolare, di
arricchimento senza controllo. Per assestare un ultimo colpo alla Germania con
maggior sicurezza, Stalin aveva copiato da Hitler il sistema dell’invio di pacchi
dal fronte alle retrovie: combattere per l’onore della patria era una bella cosa,
per Stalin ancora meglio, ma perché si rischiasse la vita nel momento in cui
dispiaceva di più, sul finire della guerra, non era forse più utile offrire un
potente incentivo materiale, vale a dire il diritto di spedire pacchi a casa? Al
soldato cinque chili di bottino al mese, all’ufficiale dieci, e al generale un pud.
(La suddetta ripartizione era giusta: lo zaino non deve appesantire il soldato
durante la marcia, mentre il generale ha sempre la sua macchina personale.) Ma
il controspionaggio dello SMERŠ si trovava in una posizione di gran lunga più
vantaggiosa. I proiettili del nemico non lo raggiungevano. Gli aerei del nemico
non lo bombardavano. Lo SMERŠ si trovava sempre in quella zona vicina al
fronte nella quale il fuoco era già cessato ma non erano ancora arrivati i
revisori dell’erario. I suoi ufficiali restavano avvolti in una nube di mistero.
Nessuno osava controllare cosa sigillassero nei vagoni, cosa portassero via da
una tenuta confiscata, accanto alla quale piazzavano di guardia le sentinelle.
Camion, treni e aerei trasportavano la ricchezza degli ufficiali dello SMERŠ. I
tenenti portavano via roba per migliaia di rubli, i colonnelli per centinaia di
migliaia, e Abakumov ne rastrellava per milioni.
Certo, non riusciva a immaginare circostanze così strane per cui avrebbe
potuto perdere il suo posto di ministro o il regime che li tutelava sarebbe
potuto cadere; comunque l’oro sarebbe venuto in suo soccorso sempre, persino
se fosse finito in una banca svizzera. Era altresì evidente però che nessun
prezioso poteva venire in soccorso di un ministro decapitato. Ma questo
andava al di là delle sue forze: stare a guardare i sottoposti che si arricchivano e
non prendere nulla per sé? Non si poteva pretendere un simile sacrificio da un
uomo in carne e ossa! E continuava a inviare sempre nuove squadre speciali di
ricerca. Non riusciva a rinunciare nemmeno a due valigie di bretelle da uomo.
Saccheggiava tutto in modo ipnotico.
Ma quel tesoro dei Nibelunghi non aveva portato ad Abakumov una
ricchezza libera, era divenuto il motivo del costante terrore di essere
smascherato. Nessuno fra quanti sapevano avrebbe osato denunciare
l’onnipotente ministro, ma poteva affiorare un imprevisto qualsiasi, e fargli
perdere la testa. Aveva arraffato inutilmente, ma non era il caso, ormai, di farlo
sapere al Ministero delle Finanze!...
...Abakumov era giunto alle due e mezzo della notte ma alle tre e dieci
passeggiava ancora nell’anticamera con il grosso bloc-notes intonso in mano e
si tormentava, provando una debolezza interiore dovuta alla paura; le orecchie
avevano già iniziato a tradirlo diventando rosse. La cosa che l’avrebbe reso più
felice in quel momento era che Stalin avesse perso la nozione del tempo
lavorando, e per quel giorno non lo ricevesse: Abakumov temeva rappresaglie
per il sistema di telefonia segreta. Non sapeva a quel punto quali menzogne
inventarsi.
Ma la pesante porta si dischiuse, per metà. In quello spazio uscì quasi in
punta di piedi Poskrëbyšev, che in silenzio gli fece cenno con la mano di
seguirlo. Abakumov si avviò, cercando di non scaricare il peso sulle piante dei
piedi grandi e rozzi. Si infilò con tutta la mole nella porta successiva, anch’essa
socchiusa, trattenendola per la lucida maniglia di bronzo in modo che non si
aprisse ulteriormente. E sulla soglia disse:
– Buona sera, compagno Stalin! Si può?
Aveva fatto una stupidaggine, non si era schiarito la gola per tempo e la voce
gli era uscita rauca, non abbastanza da suddito fedele.
Stalin si trovava alla scrivania, intento a scrivere, indosso la giubba militare
con i bottoni dorati e alcune file di decorazioni, ma senza spalline. Finì di
comporre una frase e soltanto dopo sollevò il capo per guardare con sinistri
occhi da civetta chi fosse entrato.
Non disse nulla.
Bruttissimo segno! Non aveva proferito parola...
Si rimise a scrivere.
Abakumov chiuse la porta dietro di sé, ma non osò avanzare nella stanza
senza un cenno o un gesto d’invito. Se ne stava in piedi, con le lunghe braccia
sui fianchi, leggermente chino in avanti, un sorriso di saluto deferente sulle
labbra carnose. E le orecchie che ardevano.
Come se lui, il ministro della Sicurezza di Stato, non conoscesse, non avesse
mai usato quella semplicissima tecnica da inquirente: accogliere la persona che
entrava in un silenzio ostile. Eppure, quando Stalin lo faceva a lui, Abakumov
si sentiva lacerare dal terrore.
Quel piccolo studio notturno con il soffitto basso non aveva né quadri né
ornamenti, le finestre erano piccole. Le basse pareti erano rivestite di pannelli
di quercia intagliati, su uno dei quali si trovavano piccoli scaffali per i libri.
Accostata al muro, una scrivania. Poi in un angolo un radiogrammofono e
accanto a quello un’étagère con alcuni dischi: di notte Stalin amava ascoltare le
registrazioni dei suoi discorsi.
Abakumov si chinò con aria supplichevole e attese.
Sì, era nelle mani del Capo, ma in un certo senso anche il Capo era nelle
mani sue. Come al fronte, quando da un’avanzata troppo irruenta di una parte
sorge una sovrapposizione e un abbraccio reciproco, e non sempre capisci chi
stia circondando chi, lo stesso accadeva ora; persino Stalin (e tutto il Comitato
Centrale) rientrava nel sistema dell’MGB: quello che indossava, mangiava,
beveva, su cosa si sedeva, su cosa si sdraiava, tutto proveniva dagli uomini
dell’MGB, era l’MGB a proteggerlo. Così, in base a quel pensiero contorto e
ironico, Stalin stesso sarebbe stato un subordinato di Abakumov. Ma
difficilmente Abakumov avrebbe dimostrato per primo di avere un simile
potere.
Quel ministro robusto rimaneva lì in piedi, chinato in avanti, ad aspettare.
Stalin intanto scriveva. Continuava a starsene seduto a scrivere, anche se
Abakumov era entrato. Si poteva pensare che non dormisse mai, e non lasciasse
mai quel posto ma scrivesse costantemente, con quell’imponenza e
quell’importanza, parole che, fluendo dalla penna, si depositavano subito nella
Storia. La lampada da tavolo illuminava le carte, la luce che scendeva dall’alto,
da faretti nascosti, non era molta. Stalin non scriveva senza interruzioni, ogni
tanto si scostava: ora si inclinava da una parte, verso il pavimento, ora gettava
un’occhiata malevola ad Abakumov, come se tendesse l’orecchio verso
qualcosa, sebbene nella stanza non vi fosse alcun rumore.
Da che cosa nasceva quel modo di imperare, quell’imponenza in ogni
piccolo gesto? Il giovane Koba non muoveva forse allo stesso modo le dita, le
mani, le sopracciglia e non gettava forse i medesimi sguardi? Ma a quei tempi
non intimoriva nessuno, nessuno deduceva dai suoi gesti un terribile
significato. Soltanto dopo l’ennesima nuca perforata si era iniziato a vedere nei
piccoli cenni del Capo un’allusione, un avvertimento, una minaccia, un ordine.
E, notato questo negli altri, Stalin aveva iniziato a osservare sé stesso, e anche
Lui aveva visto nei propri gesti e nei propri sguardi quel minaccioso significato
intrinseco e si era messo, ormai consapevolmente, a perfezionarli, tanto che
avevano cominciato a essere percepiti in modo ancora più sinistro e ad agire in
modo ancora più efficace su chi lo circondava.
Infine, Stalin fissò su Abakumov uno sguardo severo e con un cenno della
pipa nell’aria gli indicò dove prendere posto quel giorno.
Abakumov si riscosse con gioia, andò di buon grado a sedersi, ma non su
tutto il sedile, vi si appoggiò soltanto in punta. Non era una posizione comoda
ma almeno poteva alzarsi con maggiore facilità non appena necessario.
– Ebbene? – domandò Stalin, guardando le proprie carte.
Era giunto il momento! Adesso non bisognava lasciarsi sfuggire l’attimo!
Abakumov fece un colpo di tosse e, con la gola schiarita, si affrettò a parlare
quasi con entusiasmo. (Poi si sarebbe maledetto per quel suo servilismo
loquace nello studio di Stalin, per le promesse smodate, ma chissà come
succedeva sempre che più era forte l’ostilità con cui il suo Padrone lo
accoglieva, meno ritegno Abakumov aveva nelle rassicurazioni, e questo lo
trascinava sempre in nuove promesse.)
Il perenne punto di forza dei rapporti notturni di Abakumov, ciò che
principalmente li rendeva attraenti per Stalin, era la costante scoperta di
qualche gruppo ostile molto importante e molto ramificato. Abakumov non si
presentava mai a rapporto senza un simile gruppo (ogni volta nuovo) reso
inoffensivo. Anche quel giorno ne aveva pronto uno del genere, un gruppetto
dell’Accademia Frunze: avrebbe potuto riempire molto tempo con i dettagli.
Tuttavia per prima cosa si mise a raccontare dei progressi (nemmeno lui
sapeva se reali o immaginari) nella preparazione dell’attentato a Tito. Disse che
l’intenzione era di piazzare una bomba ad azione ritardata sullo yacht di Tito,
prima che salpasse per le isole Brioni.
Stalin sollevò la testa, si mise la pipa spenta in bocca e vi soffiò un paio di
volte. Non fece nessun altro movimento, non mostrò alcun interesse, ma
Abakumov, che ormai qualcosa del Capo la capiva, sentì di aver centrato il
bersaglio.
– E Ranković? – domandò Stalin.
Sì, sì! Bisognava cogliere il momento giusto perché anche Ranković, Kardelj
e Moša Pijade, tutta la cricca, saltassero in aria insieme. Secondo i calcoli,
doveva succedere non più tardi di quella primavera! (Nell’esplosione sarebbe
morto anche l’equipaggio dello yacht, ma il ministro non accennò a quella
piccolezza e il suo interlocutore non fece domande.)
Ma a cosa pensava Stalin, mentre soffiava nella pipa spenta e guardava senza
espressione il ministro da sopra il suo adunco naso aquilino?
Di sicuro non al fatto che il partito da lui diretto era nato dalla negazione
del terrore individuale. E nemmeno che lui stesso, per tutta la vita, si era basato
su quel terrore. Soffiando nella pipa e guardando quel giovane pasciuto dalle
guance rosse e le orecchie ardenti, Stalin pensava a ciò cui pensava sempre di
fronte a quei subordinati zelanti, pronti a tutto e adulatori. E non era
nemmeno un pensiero, ma un moto dell’animo: quanto si poteva fidare oggi di
quell’uomo? Poi, un secondo moto: era forse venuta l’ora di sacrificarlo?
Stalin sapeva benissimo che nel ’45 Abakumov si era arricchito. Ma non
aveva fretta di punirlo. A Stalin piaceva che Abakumov fosse così. Gli uomini
come lui erano più facili da gestire. Nella vita Stalin si guardava soprattutto da
quelli “convinti”, come Bucharin. Erano gli oppositori più scaltri, quelli più
difficili da smascherare.
Ma nemmeno di quel prevedibile Abakumov si poteva fidare, come di
nessuno sulla terra.
Non si fidava di sua madre. Né di Dio. E neppure dei rivoluzionari. Non si
fidava dei contadini (non avrebbero seminato e raccolto il grano, se non li
avesse costretti). Degli operai (non avrebbero lavorato, se non avesse fissato
loro delle quote). E tanto meno si fidava degli ingegneri. Non si fidava dei
soldati e dei generali, che avrebbero combattuto senza compagnie di disciplina
e reparti di sbarramento. Non si fidava delle persone a lui vicine. Delle mogli e
delle amanti. Non si fidava nemmeno dei figli. E aveva sempre avuto ragione!
Si era fidato soltanto di un uomo, l’unico in tutta la sua vita infallibilmente
sospettosa. Quell’uomo, davanti a tutto il mondo, si era dimostrato così deciso
nella benevolenza e nell’ostilità, si era staccato dai nemici in modo così
risoluto, tendendogli una mano amica. Non era un cialtrone, era un uomo
d’azione.
E Stalin gli aveva creduto!
Quell’uomo era Adolf Hitler.
Con approvazione e maligna gioia Stalin aveva osservato Hitler strapazzare
la Polonia, la Francia, il Belgio; i suoi aerei offuscare il cielo d’Inghilterra.
Molotov era tornato da Berlino atterrito. Gli agenti del controspionaggio
riferivano che Hitler stava concentrando le truppe a est. Hess era fuggito in
Inghilterra. Churchill aveva avvertito Stalin dell’attacco. Tutte le cornacchie sui
tremoli della Bielorussia e sui pioppi della Galizia starnazzavano di guerra.
Tutte le comari nei mercati del suo stesso paese la profetizzavano da un giorno
all’altro. Soltanto Stalin restava imperturbabile. Mandava in Germania vagoni
di formaggio, non fortificava i confini: aveva paura di offendere il collega.
Credeva in Hitler!...
Per poco quella fiducia non gli era costata la testa.
A maggior ragione adesso, definitivamente, non si fidava più di nessuno!
Abakumov avrebbe potuto rispondere a quella costante mancanza di fiducia
con parole amare, ma non osava dirle. Stalin non si sarebbe dovuto perdere in
giochini, non avrebbe dovuto chiamare quel buffone di Popivoda e discutere
con lui di articoli satirici contro Tito. E quei coraggiosi ragazzi che Abakumov
aveva scelto per essere mandati a uccidere l’orso, che conoscevano la lingua, le
usanze, addirittura Tito in persona, non si sarebbero dovuti scartare per via dei
loro curriculum (è vissuto all’estero, non è uno dei nostri) ma delegarli, dar loro
fiducia. Adesso, naturalmente, solo il diavolo sapeva che cosa sarebbe venuto
fuori da quell’attentato. Quella goffaggine aveva proprio fatto arrabbiare
Abakumov.
Ma lui conosceva il suo Padrone! Andava servito con una buona dose di
forze, più della metà, ma mai per intero. Stalin non sopportava una palese
inadempienza. Ma neppure un’esecuzione troppo perfetta: ci vedeva un’insidia
alla propria unicità. Nessuno, a parte lui, doveva sapere e fare nulla in modo
irreprensibile!
Abakumov – come tutti e quarantacinque i ministri – si sforzava solo in
apparenza di tirare il suo carro ministeriale: in realtà lo faceva per metà.
Come re Mida, che trasformava in oro tutto ciò che toccava, Stalin rendeva
mediocre tutto ciò che sfiorava.
Adesso però, mentre Abakumov presentava il suo rapporto, il viso di Stalin
si rasserenava sempre di più. Dopo aver raccontato fin nei minimi dettagli della
prevista esplosione, il ministro continuò riferendo degli arresti all’Accademia
ecclesiastica, poi, con dovizia di particolari, dell’Accademia Frunze, e ancora
dei servizi segreti nei porti della Corea del Sud, e poi...
Per dovere e per buonsenso, a quel punto avrebbe dovuto riferire della
telefonata di quel giorno all’ambasciata americana. Ma poteva anche non
parlarne: Berija o Vyšinskij forse avevano già fatto rapporto o, ancora meglio, a
lui quella notte potevano non averlo riferito. Era a causa del fatto che Stalin
non si fidava di nessuno che ogni cavallo tirava solo per metà. A quel punto gli
conveniva non uscirsene con la promessa di rintracciare il criminale tramite la
Sezione di Tecnica speciale. Qualsiasi accenno al telefono quel giorno, temeva il
ministro, avrebbe potuto ricordare al Padrone il sistema di telefonia segreta. E
Abakumov si sforzava addirittura di non guardare l’apparecchio sulla scrivania,
per non indicarlo al Capo con gli occhi.
Ma Stalin era sul punto di ricordare! Gli stava proprio tornando in mente
qualcosa! Tutto purché non fosse il sistema di telefonia segreta! Stalin aveva
aggrottato la fronte in pesanti rughe, le cartilagini del suo grande naso erano
tese e lo sguardo puntava fisso su Abakumov (il ministro aveva atteggiato il
viso il più possibile a un sentimento di aperta e onesta franchezza), eppure non
riusciva a ricordare! Il pensiero, a malapena balenato, era precipitato in un
vuoto di memoria. Impotenti, le rughe della fronte grigia si rilassarono.
Stalin sospirò, caricò la pipa e si mise a fumare.
– Sì! – Al primo sbuffo di fumo, si era ricordato al volo un’altra cosa. –
Avete arrestato Gomułka70?
Non molto tempo prima, in Polonia, Gomułka era stato sollevato da ogni
incarico e ora stava precipitando senza indugio nel baratro.
– Arrestato! – confermò con sollievo Abakumov, alzandosi leggermente
sulla sedia. (A Stalin dovevano aver già riferito anche quello.)
Stalin premette un bottone sulla scrivania: accese alcune lampade alle pareti,
convertendo la luce in alto in una luce più diffusa. Si alzò e, sbuffando fumo
dalla pipa, cominciò a camminare. Abakumov capì che il tempo per il suo
rapporto era terminato, ora avrebbe ricevuto le istruzioni. Aprì sulle ginocchia
il grosso bloc-notes, prese una penna stilografica e si preparò a scrivere. (Al
Padrone piaceva che le sue parole fossero trascritte.)
Ma Stalin camminava fino al radiogrammofono e poi tornava indietro,
sbuffava fumo dalla pipa e non diceva una parola, come se si fosse
completamente dimenticato di Abakumov. Il suo viso grigio e butterato si
aggrottava nello sforzo tormentoso di ricordare. Quando Stalin passava di
profilo davanti ad Abakumov, il ministro vedeva che le spalle del Capo avevano
cominciato a incurvarsi, la schiena a piegarsi, facendolo apparire ancora più
basso di statura, davvero piccolo. E Abakumov pensava fra sé (solitamente in
quel luogo si vietava simili pensieri, perché il Capo Supremo non li fiutasse in
qualche modo) che il Paparino non sarebbe vissuto altri dieci anni, sarebbe
morto prima. Forse non era ragionevole, ma desiderava che accadesse al più
presto: gli sembrava che solo così, per tutti loro, quelli vicini a Stalin, potesse
iniziare una vita facile e libera.
Ma Stalin era oppresso da un nuovo vuoto di memoria: la testa si rifiutava di
funzionare! Quella notte, mentre andava dalla camera da letto allo studio, aveva
pensato proprio alle domande da fare ad Abakumov, ed ecco che ora se n’era
dimenticato. In preda all’impotenza, non sapeva più quale parte della pelle
corrugare pur di ricordarlo.
All’improvviso rovesciò indietro la testa, guardò il punto più alto della
parete di fronte a sé e ricordò!! Non ciò che gli serviva in quel momento, ma
quanto non era riuscito a ricordare due notti prima al Museo della
Rivoluzione, e che allora gli era parso tanto sgradevole.
Era accaduto nel ’37. Prima del ventesimo anniversario della rivoluzione,
quando il modo di rappresentarla era molto cambiato, Stalin aveva deciso di
esaminare di persona l’esposizione al museo, per assicurarsi che non avessero
confuso qualche cosa. In una sala, quella in cui ora si trovava l’enorme
televisore, dalla soglia aveva visto di colpo, chiaramente, due grandi ritratti di
Željabov e di Perovskaja nel punto più alto della parete di fronte. I loro visi
aperti, impavidi, i loro sguardi indomabili, esortavano chiunque entrasse:
“Uccidi il tiranno!”
Colpito dagli sguardi dei due narodovol’cy71 come da due frecce alla gola,
Stalin aveva avuto uno spasmo, aveva cominciato a rantolare, a tossire e, nel
pieno della tosse, aveva fatto cenno di no con il dito, indicando i ritratti.
Li avevano tolti immediatamente.
E dal museo di Leningrado era stata tolta anche la prima reliquia della
rivoluzione: i resti della carrozza di Alessandro II.
Da quel giorno Stalin si era fatto costruire rifugi e appartamenti in diversi
luoghi, a volte scavando intere montagne di cunicoli, come a Cholodnaja
Rečka. Perduto il gusto di vivere in una città affollata si era spostato fino a
quella dacia di campagna, fino a quel basso studio notturno vicino alla stanza
di servizio della guardia di sicurezza imperiale.
Più persone riusciva a privare della vita, più lo opprimeva un continuo
assillante terrore per la propria. Il suo cervello aveva escogitato diverse
preziose migliorie nel sistema di protezione, come quello per cui il personale di
guardia riceveva l’avviso soltanto un’ora prima dell’entrata in servizio e ogni
reparto doveva essere formato da militari provenienti da caserme differenti e
lontane l’una dall’altra: entrando di guardia, si incontravano per la prima volta,
stavano insieme solo per ventiquattr’ore, e non potevano congiurare. La dacia
poi se l’era fatta costruire come una trappola-labirinto, con tre recinzioni le cui
porte non si trovavano mai in corrispondenza. Aveva predisposto alcune
camere da letto e stabiliva in quale dormire soltanto poco prima di coricarsi.
Tutte le precauzioni non erano motivate dalla vigliaccheria ma dal
buonsenso. Perché la sua persona era un valore inestimabile per la storia
dell’umanità. Anche se qualcuno poteva non capirlo. Per non distinguersi,
aveva ordinato misure simili per tutti i piccoli capi della capitale e delle regioni:
aveva vietato loro di andare al gabinetto senza scorta, dato disposizione perché
procedessero in fila indiana su tre automobili identiche.
E anche ora, influenzato dal ricordo pungente dei ritratti di quei narodovol’cy,
si fermò in mezzo alla stanza, si voltò verso Abakumov e, agitando
leggermente la pipa nell’aria, disse:
– Cos’hai previsto per mantenere la sicurezza dei quadri del partito?
E, piegando il collo di lato, gli lanciò un’occhiata sinistra, ostile.
Abakumov, con il bloc-notes intonso aperto, si sollevò appena dalla sedia
protendendosi verso il Capo (non si alzò, conscio che a Stalin piaceva che i
suoi interlocutori restassero immobili) e con dono di sintesi (il Padrone
considerava non sincere le lunghe spiegazioni) e assoluta prontezza, si mise a
parlare di qualcosa che non aveva previsto (la costante prontezza era in quel
luogo una qualità fondamentale, Stalin interpretava ogni titubanza come la
conferma di un disegno malvagio).
– Compagno Stalin! – la voce di Abakumov, tremava d’offesa. Con tutta
l’anima, dal profondo del cuore, avrebbe voluto dire “Iosif Vissarionovič” ma
non poteva rivolgersi a lui così, sarebbe stato come rivendicare una vicinanza
con il Capo, mettersi quasi al suo stesso livello. – Noi Organi, tutto il nostro
Ministero, esistiamo anche per questo, perché lei, compagno Stalin, possa
lavorare, riflettere, guidare il paese tranquillamente!
(Stalin parlava di “sicurezza dei quadri del partito” ma si aspettava una
risposta che riguardasse solo lui e Abakumov lo sapeva.)
– E non passa giorno che io non controlli, non arresti qualcuno, non
chiarisca certi fatti!...
Stalin, sempre in quella posa da corvo, con il collo piegato, lo guardava
attentamente.
– Senti, – disse, pensieroso – come va? Continuano ad avvenire fatti di
terrorismo? Non demordono?
Abakumov sospirò amaramente.
– Sarei felice di poterle dire, compagno Stalin, che non ci sono più fatti di
terrorismo. Ma non è così. Li neutralizziamo persino... nei luoghi più
impensati.
Stalin socchiuse un occhio, ma nell’altro si leggeva soddisfazione.
– Molto bene! – annuì. – Vuol dire che lavorate sodo.
– Certo, compagno Stalin! – Abakumov detestava stare seduto davanti al
Capo in piedi; così si sollevò un po’ senza raddrizzare del tutto le ginocchia
(non si presentava mai lì indossando tacchi alti). – Noi non lasciamo mai che
questi fatti maturino fino a una vera e propria preparazione. Li cogliamo nel
loro disegno! Nella progettazione! Con l’articolo 1972!
– Bene, bene. – Con un gesto rassicurante Stalin fece risedere Abakumov (ci
mancava solo che un simile grassone incombesse su di lui). – Dunque, ritieni
che fra il popolo ci siano ancora degli insoddisfatti?
Abakumov sospirò di nuovo.
– Sì, compagno Stalin. Ce n’è ancora una percentuale.
(Figuriamoci se avrebbe detto di no! A che cosa servirebbe allora la sua
attività?...)
– È vero – rispose Stalin, con sincerità. Nella sua voce il tono rauco e
frusciante prevaleva sui suoni squillanti. – Significa che meriti di lavorare nella
Sicurezza di Stato. Continuano a dirmi che non ci sono più insoddisfatti, che
alle elezioni votano tutti ‘a favore’, che sono tutti contenti. Eh? – Stalin
ridacchiò. – Che cecità politica! Il nemico si nasconde, vota ‘a favore’ ma è
insoddisfatto! Un cinque per cento, eh? Forse l’otto?...
(Era proprio questa perspicacia, questa autocritica, questa sua capacità di
non lasciarsi allettare da chi lo incensava, che Stalin apprezzava soprattutto in
sé stesso!)
– Sì, compagno Stalin– confermò Abakumov, con convinzione. – Proprio
così, un cinque per cento. O un sette.
Stalin continuò a camminare per lo studio, girò intorno alla scrivania.
– È un mio difetto, compagno Stalin – prese coraggio Abakumov, le cui
orecchie si erano ormai raffreddate. – Non riesco a sentirmi tranquillo.
Stalin batté leggermente la pipa sul portacenere:
– E l’atteggiamento dei giovani?
Le domande si susseguivano come coltelli e per tagliarsi ne bastava una sola.
Se dicevi “buono”, era cecità politica. Se dicevi “cattivo”, significava che non
credevi nel nostro futuro.
Abakumov spalancò le dita, ma per il momento si trattenne dal proferire
parola.
Senza aspettare una risposta, continuando a battere la pipa, Stalin disse in
tono solenne:
– Bisogna occuparsi di più dei giovani. Essere particolarmente intransigenti
nei confronti dei loro vizi!
Abakumov si ricordò del suo dovere e cominciò a scrivere.
L’idea appassionò Stalin, i cui occhi furono illuminati da un bagliore
tigresco. Caricò di nuovo la pipa e, dopo averla accesa, riprese a passeggiare per
la stanza, in modo molto più vigoroso.
– Bisogna rafforzare la sorveglianza sugli atteggiamenti degli studenti!
Vanno sradicati non individualmente, ma a gruppi! Ed estendere anche a loro
la massima pena prevista per legge: venticinque anni, non dieci! Per dieci anni
si frequenta la scuola, non la prigione! Dieci anni si possono dare agli scolari!
Ma a chi ha già i baffi che spuntano bisogna darne venticinque! Sono giovani!
Sopravvivranno!
Abakumov scriveva in fretta. I primi ingranaggi di una lunga catena si erano
messi a girare.
– E basta con condizioni da stazione termale delle prigioni politiche! L’ho
sentito da Berija: si permettono ancora oggi pacchi di viveri nelle prigioni?
– Li aboliremo! Li vieteremo! – esclamò Abakumov, addolorato,
continuando a scrivere. – È stato un nostro errore, compagno Stalin, ci scusi!!
(Era stata davvero una grave mancanza! Avrebbe dovuto arrivarci anche da
solo!)
Stalin si piantò di fronte ad Abakumov a gambe divaricate.
– Quante volte ve lo devo spiegare?! Poteva esservi chiaro una buona volta
che...
Parlava senza rancore. Nei suoi occhi rabboniti si intuiva quanta fiducia
nutrisse che Abakumov avrebbe imparato, capito. Abakumov non ricordava
un’altra occasione in cui Stalin gli avesse parlato con tanta semplicità e
benevolenza. La paura l’abbandonò completamente, il suo cervello adesso
funzionava come in un uomo normale in condizioni normali. Così una
questione di servizio, che da tempo gli era rimasta ferma come un osso in gola,
trovò il modo di uscire. Con il viso animato, Abakumov disse:
– Noi lo sappiamo, compagno Stalin! Noi... (parlava a nome di tutto il
ministero) ...sappiamo che la lotta di classe si inasprirà! Tanto più allora,
compagno Stalin, si renderà conto come quest’abolizione della pena di morte ci
intralcia nel lavoro! Sono già due anni e mezzo che ci adoperiamo: registrare i
fucilati non si può, quindi bisogna scrivere le sentenze in due versioni. E non si
può nemmeno registrare il compenso degli esecutori in contabilità, fa a pugni col
bilancio. E anche nei campi di lavoro non c’è modo di intimorire i detenuti! Ci
serve, Compagno Stalin! Ci ridia la pena di morte!! – chiese Abakumov in tono
affettuoso, con tutto il cuore, mettendosi una mano sul petto, mentre guardava
speranzoso il viso grigiastro del Capo.
Stalin sembrò quasi sorridere. I suoi ispidi baffi fremettero dolcemente.
– Lo so – disse piano, comprensivo. – Ci stavo già pensando.
Straordinario! Sapeva tutto! Pensava a tutto! prima ancora che glielo
chiedessero. Come una divinità fluttuante, anticipava i pensieri umani.
– A giorni vi ridarò la pena di morte – disse, meditabondo, guardando
lontano davanti a sé, verso gli anni a venire. – Sarà una buona misura
educativa.
Come se non ci avesse già pensato! Nei tre anni precedenti aveva sofferto
più di tutti per aver ceduto all’impulso di fare bella figura con l’Occidente e
aver tradito sé stesso, pensando che le persone non fossero corrotte fino in
fondo.
Ma proprio la pena di morte era da sempre la caratteristica che lo
distingueva come uomo di Stato e condottiero. Umiliazione, persecuzione
generale, manicomio, reclusione a vita, esilio: nessuna di queste misure gli era
mai sembrata sufficiente per una persona considerata pericolosa. Soltanto la
morte poteva rappresentare una resa dei conti sicura, totale. Soltanto la morte
del trasgressore confermava che detenevi il potere completo, reale.
E se la punta del suo baffo fremeva sdegnosa, la sentenza era sempre la
stessa: morte.
Nella sua scala di valori una punizione minore semplicemente non esisteva.
Dai remoti e radiosi orizzonti lontani verso i quali il suo sguardo era
rivolto, Stalin lo spostò su Abakumov. Gli occhi ridotti a due fessure,
domandò:
– E tu? Non hai paura di essere il primo che fucileremo?
Quel “fucileremo” non finì quasi di pronunciarlo, lo disse abbassando la
voce, in un bisbiglio, come una desinenza dolce, come qualcosa che si dovesse
intuire da soli.
Ma in Abakumov quella parola si era trasformata in ghiaccio. Il Più Caro e
Adorato di tutti stava lì in piedi davanti a lui, a una distanza che con il pugno
proteso Abakumov avrebbe quasi potuto raggiungere, e studiava ogni tratto del
ministro, per vedere come avrebbe reagito a quello scherzo.
Non osando né alzarsi né restare seduto, Abakumov si sollevò leggermente
sulle gambe rigide, e per la tensione quelle cominciarono a tremargli all’altezza
delle ginocchia:
– Compagno Stalin!... Se lo merito... Se è necessario...
Stalin lo fissò con aria saggia e sguardo penetrante. Stava mettendo alla
prova quell’intimo collaboratore in silenzio, con il suo affidabile retropensiero.
Ahimè, conosceva l’ineluttabilità umana: con il tempo bisognava per forza
rinunciare agli assistenti più zelanti, disfarsene, si compromettevano tutti.
– Giusto! – disse Stalin, con un sorriso, come se stesse elogiando Abakumov
per la sua prontezza d’ingegno. – Quando te lo meriterai, ti fucileremo.
Con un gesto della mano, indicò ad Abakumov di sedersi. Abakumov si
riaccomodò.
Stalin si fece pensieroso, poi cominciò a parlare in modo così cordiale che al
ministro della Sicurezza di Stato non era ancora capitato di udire.
– Presto avrete molto lavoro, Abakumov. Attueremo ancora una volta i
provvedimenti usati nel ’37. Tutto il mondo è contro di noi. La guerra è
inevitabile, lo è ormai da tempo. Dal ’44. E prima di una grande guerra è
necessaria anche una grande epurazione.
– Ma compagno Stalin! – osò ribattere Abakumov. – Non ne mettiamo già
dentro abbastanza?
– Ti sembrano abbastanza?... – Stalin fece un gesto con la mano e un sorriso
benevolo. – Quando cominceremo a mettere dentro davvero la gente, te ne
accorgerai!... E in tempo di guerra, ci toccherà imprigionare tutta l’Europa!
Rinforza gli organi! Rendili più forti! Aumenta il personale, gli stipendi... non ti
negherò mai nulla!
E lo congedò pacificamente:
– Bene, per ora vai pure.
A un tratto si fermò.
Sì, ma... più in alto di chi? Di suoi pari, naturalmente, non ne esistevano, ma
se sollevavi lo sguardo lassù oltre le nuvole, cosa trovavi...?
Riprese a camminare, ma più lentamente.
Quello era l’unico oscuro interrogativo che si insinuava a volte in Stalin.
Da tempo era stato dimostrato quanto si doveva, e quanto era
d’impedimento era stato confutato.
Ma restava comunque qualcosa di non del tutto chiaro.
Soprattutto per chi come lui aveva trascorso l’infanzia nella Chiesa. E aveva
guardato negli occhi le icone. Cantato nel coro. E ancora adesso cantava “Ora
lascia, o Signore, che il tuo servo...” senza impappinarsi.
Quei ricordi, chissà perché, negli ultimi tempi si erano fatti più vividi.
In punto di morte la madre gli aveva detto: “Peccato che tu non sia
diventato sacerdote.” Era il Capo del Proletariato mondiale, l’Unificatore di
tutti gli slavi e a sua madre sembrava un fallito...
In ogni caso Stalin non si era dichiarato mai contro Dio, c’erano già fin
troppi oratori anche senza di lui. Lenin aveva sputato contro la croce, l’aveva
calpestata; Bucharin e Trockij l’avevano derisa. Stalin era rimasto zitto.
Aveva ordinato di non toccare Abakadze, l’ispettore ecclesiastico che lo
aveva espulso dal seminario. Campasse pure.
E quando il 3 luglio del ’41 gli si era seccata la gola e negli occhi gli erano
spuntate le lacrime – non era terrore, ma compassione, compassione verso sé
stesso – dalle labbra, non a caso, gli era uscito quel “fratelli e sorelle”. Né
Lenin né nessun altro dei capi si sarebbe mai lasciato scappare parole simili.
Le sue labbra avevano pronunciato quello a cui erano abituate in gioventù.
Nessuno aveva visto, nessuno sapeva, non l’aveva detto a nessuno: in quei
giorni si era chiuso nella sua stanza a pregare, pregava per davvero, in un
angolo vuoto, in ginocchio, pregava. Mesi più pesanti di quelli in tutta la vita
non ne aveva mai avuti.
In quei giorni aveva fatto un voto a Dio: se il pericolo fosse passato, se lui
avesse conservato la sua posizione, avrebbe ristabilito la Chiesa e il servizio
sacerdotale in Russia, non avrebbe permesso che fossero cacciati, incarcerati.
(Non bisognava permetterlo nemmeno prima, era cominciato tutto ai tempi di
Lenin.) E quando il pericolo era passato per davvero, quando Stalingrado era
passata, Stalin aveva fatto di tutto secondo il proprio voto.
Se Dio esisteva, poteva saperlo solo Lui.
Ma era difficile che esistesse. Perché altrimenti sarebbe stato troppo placido,
in un certo senso indolente. Avere un potere del genere e sopportare tutto?
Non immischiarsi nemmeno una volta nelle questioni terrene? Com’era
possibile?... A parte il salvataggio nel ’41, Stalin non aveva mai notato che, a
parte sé stesso, comandasse qualcun altro. Mai ricevuta da Lui una gomitata,
mai sfiorato nemmeno una volta.
Se tuttavia, Dio esisteva davvero, se amministrava Lui le anime, era
necessario che Stalin ci facesse pace, prima che fosse troppo tardi. Nonostante
tutta la sua grandezza, ne aveva comunque bisogno. Perché intorno a lui c’era il
vuoto, non aveva nessuno, proprio nessuno accanto a sé: tutta l’umanità stava
giù in basso, da qualche parte. Forse, quello che sentiva più vicino di tutti era
Dio. E anche Lui era solo.
Negli ultimi anni per Stalin era stato un piacere sentire che la Chiesa lo
proclamava Capo scelto da Dio nelle sue preghiere. In compenso Stalin aveva
mantenuto il monastero di Lavra a spese del Cremlino. Non accoglieva mai il
primo ministro di una grande potenza allo stesso modo in cui riceveva il suo
docile e decrepito patriarca: usciva fino alla porta più esterna e lo
accompagnava sotto braccio al tavolo. E stava pensando persino di trovargli
una piccola tenuta, un ostello ecclesiastico, e di regalargliela. Come un tempo si
facevano doni per la salvezza dell’anima.
Stalin aveva scoperto che uno scrittore era figlio di un sacerdote, ma teneva
la cosa per sé. “Sei ortodosso?” gli aveva chiesto a quattr’occhi. Quello era
sbiancato ed era rimasto immobile. “Fatti il segno della croce! Sei capace?” Lo
scrittore si era segnato, pensando fosse giunta la sua ora. “Bravo!” aveva detto
Stalin, dandogli una pacca sulla spalla.
Tuttavia, nel corso di quella lotta lunga e difficile, Stalin aveva avuto anche
degli eccessi. Sarebbe stato bello far venire sulla sua tomba uno splendido coro
a cantare “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo...”.
In generale Stalin notava in sé una strana tendenza non solo verso la
religione ortodossa: ad attirarlo una, due, tre volte era stata una sorta di
devozione verso il vecchio mondo, un mondo dal quale era nato lui stesso ma
che come bolscevico distruggeva già da quarant’anni.
Negli anni Trenta, unicamente per ragioni politiche, aveva riesumato la
parola patria che, ormai dimenticata, non si usava da quindici anni: udirla ormai
era quasi una vergogna. Ma con gli anni pronunciare “Russia”, “patria”, era
divenuto per lui un vero piacere. Peraltro il suo potere personale pareva ne
ottenesse grande stabilità. Ci guadagnasse in sacralità.
All’inizio Stalin aveva attuato i provvedimenti del partito senza considerare
quanti russi ne avrebbero pagato le spese. Poi però, per gradi, aveva iniziato ad
accorgersi del popolo russo e a trovarlo simpatico: un popolo che non l’aveva
mai tradito, che aveva sofferto la fame per tutti gli anni che era stato necessario,
che andava tranquillamente in guerra e nei campi di lavoro, che non si ribellava
mai di fronte a nessuna difficoltà. Fedele, sempliciotto. Proprio come
Poskrëbyšev. E dopo la Vittoria Stalin aveva detto con assoluta sincerità che il
popolo russo possedeva mente lucida, carattere fermo e pazienza.
Stalin stesso, con gli anni, desiderava sempre più che lo considerassero
russo.
Trovava piacevole persino quel modo di giocare con le parole che gli
ricordava il vecchio mondo: che non ci fossero “dirigenti scolastici”, ma
“direttori”; non “personale di comando”, ma “ufficiali”; non VCIK73, ma Soviet
Supremo (“supremo” era una bellissima parola); che gli ufficiali avessero
attendenti; che le ginnasiali studiassero separate dai ginnasiali, portassero la
pellegrina e pagassero per l’insegnamento; che ogni dicastero civile avesse la
propria divisa e il proprio segno di riconoscimento; che la gente sovietica si
riposasse la domenica, come tutti i cristiani, e non in qualche anonimo giorno
contrassegnato da un numero; e persino che si riconoscesse soltanto il
matrimonio legittimo, com’era sotto lo zar, anche se lui stesso, a suo tempo,
l’aveva pagata cara per questo... Qualunque cosa ne pensasse Engels, dagli
abissi marini74, e sebbene gli avessero consigliato di fucilare Bulgakov e di
bruciare I giorni dei Turbin sulle guardie bianche, una forza gli aveva toccato il
gomito perché scrivesse: “Da ammettere solo in un teatro moscovita.”
Proprio lì, nello studio notturno, per la prima volta aveva provato davanti
allo specchio le vecchie spalline russe sulla sua giubba militare, ed era stato un
piacere.
In fin dei conti non c’era nulla di sconveniente nemmeno nell’uso della
corona come supremo segno di distinzione. In fin dei conti, veniva da un
mondo collaudato, stabile, che aveva retto per trecento anni; perché allora non
prenderne il meglio?
Sebbene la resa di Port-Arthur ai suoi tempi non potesse che rallegrarlo,
poiché era un rivoluzionario deportato fuggito dalla provincia di Irkutsk, dopo
la disfatta del Giappone evidentemente non aveva mentito nel dire che la resa
di Port-Arthur pesava come una macchia scura sull’amor proprio suo e degli
altri vecchi russi.
Sì, già, i vecchi russi! A volte Stalin pensava che non fosse un caso se si era
imposto alla testa di quel paese e ne aveva conquistato i cuori, proprio lui e
non tutti quei celebri sbruffoni e talmudisti con il pizzetto, senza casato, né
radici né positività.
Eccoli lì tutti quanti, sugli scaffali, senza rilegature, nei fascicoli degli anni
Venti: affogati, fucilati, avvelenati, bruciati, caduti vittime di incidenti d’auto,
suicidi! Sequestrati ovunque, colpiti da anatema, apocrifi: erano tutti lì allineati!
Ogni notte gli offrivano le loro pagine, scuotevano le barbette, si torcevano le
mani, gli sputavano contro, strillavano rauchi, gli gridavano dagli scaffali: “Noi
vi avevamo avvisato!”, “Bisognava fare diversamente!”. Per fare le pulci agli
altri non serve troppo cervello. Anche per questo Stalin li aveva riuniti tutti lì,
per essere più cattivo la notte, quando prendeva le decisioni. (Chissà perché
sembrava sempre che gli avversari umiliati, per certe cose, avessero quasi
ragione. Stalin tendeva l’orecchio con diffidenza alle loro sepolcrali voci
nemiche e a volte qualcosa accettava.)
Il loro vincitore, con la giubba da generalissimo e la fronte da pitecantropo
decisamente protesa in avanti, si trascinava a fatica lungo gli scaffali, e ci si
reggeva con le dita contratte, passando in rassegna i suoi nemici.
L’invisibile orchestra dentro di lui, al cui ritmo procedeva avanti e indietro,
si fermò e tacque.
Presero a dolergli le gambe, che parevano sul punto di staccarsi. Pesanti
ondate gli pulsavano in testa, la tranquillizzante catena di pensieri si
sgretolava... si era dimenticato completamente perché aveva raggiunto quegli
scaffali. A cosa stava pensando un momento prima?
Si lasciò cadere su una sedia lì accanto e si coprì il viso con le mani.
Era una vecchiaia terribile... Una vecchiaia senza amici. Una vecchiaia senza
amore. Una vecchiaia senza fede. Una vecchiaia senza desideri.
Nemmeno della figlia prediletta aveva più bisogno, la sentiva estranea.
La sensazione della memoria che gli veniva a mancare, dell’intelletto che si
offuscava, dell’isolamento dai vivi: tutto lo riempiva di un terrore impotente.
Con lo sguardo velato di lacrime abbracciò la stanza, senza rendersi conto se
le pareti fossero lontane o vicine.
Sul comodino accanto c’era un’altra piccola caraffa sotto chiave. Tastando
Stalin trovò la chiave, da tempo legata alla cintura (nello stato in cui era
avrebbe potuto lasciarla cadere e poi cercarla a lungo), aprì la caraffa e, dopo
essersi riempito un bicchiere di liquore fermentato, lo bevve.
Poi tornò a sedersi con gli occhi chiusi. Fisicamente si sentiva meglio, quasi
bene.
Lo sguardo ora più lucido cadde sul telefono... la cosa che gli era sfuggita
per tutta la sera si insinuò di nuovo nella sua memoria come la punta della
coda di un serpente.
C’era qualcosa che doveva domandare ad Abakumov... avevano arrestato
Gomułka?...
Sì, ecco cosa! Si alzò e, strascicando delicatamente i piedi sul tappeto,
raggiunse la scrivania, dove afferrò una penna e sul calendario scrisse: “Sistema
di telefonia segreta.”
Gli era stato riferito che avevano radunato le forze migliori, che la base
materiale era ottima, entusiasmo, circostanze favorevoli... perché allora non
finivano?! Abakumov, quella faccia da insolente, era rimasto lì seduto, il cane,
per un’ora intera, senza farne parola!
Tutti così, in ogni dicastero: cercavano sempre di ingannare il Capo! Come
faceva a fidarsi? Come poteva non lavorare la notte?
Alla colazione mancavano ancora più di dieci ore.
Chiamò al telefono perché lo aiutassero a indossare la vestaglia.
Il paese, spensierato, poteva dormire; suo Padre no!
75 Paul Lafargue (1842-1911), scrittore francese di ispirazione comunista, sposato con la secondogenita di
Karl Marx.
24
L’ABISSO TI RICHIAMA INDIETRO
Pronunciò quel nome, Agnija, e un alito di sensazioni ben diverse gli sfiorò il
corpo sazio di beni materiali.
A quei tempi lui aveva ventisei anni, lei ventuno.
Quella ragazza apparteneva a un altro mondo. Per sua sfortuna era raffinata
ed esigente oltre il limite che permette a una persona di vivere. A volte, durante
una conversazione, le ciglia e le narici le fremevano al punto da sembrare quasi
in procinto di farle spiccare il volo. Nessuno aveva mai più rivolto a Jakonov
parole tanto severe, non lo aveva rimproverato a quel modo per azioni che
potevano considerarsi assolutamente normali; mentre lei sorprendentemente
vedeva in quegli atti vigliaccheria, rozzezza. E più trovava difetti in Anton, più
lui le si legava, per quanto possa sembrare strano.
Nel discutere con lei, inoltre, bisognava procedere con cautela. Era di
costituzione debole, si stancava subito quando risaliva una collina, correva, e
persino quando affrontava una conversazione animata. Bastava un nonnulla per
offenderla.
Eppure trovava la forza di passeggiare sola nel bosco per giornate intere.
Molto lontana dalla raffigurazione tipica della ragazza di città che si inoltra in
un bosco, non portava mai con sé dei libri: un libro l’avrebbe disturbata,
distolta da quel luogo. Si limitava a vagare, per poi sedersi a scrutare con la
mente i misteri del bosco. Nel leggere Turgenev, saltava sempre le descrizioni
della natura, che trovava superficiali. Quando Anton l’accompagnava, le sue
osservazioni lo colpivano: Agnija notava vuoi il tronco sottile di una betulla
che si piegava verso terra nel ricordo di una nevicata, vuoi il modo in cui nel
bosco il colore dell’erba di sera cambiava. Anton non si accorgeva mai di nulla
del genere: il bosco era un bosco, aria buona e verde.
“Ruscelletto di bosco” la chiamava Jakonov in quell’estate del ’27 trascorsa
in dacie vicine. Partivano e arrivavano insieme, e tutti li prendevano per
fidanzati.
Ma nella realtà le cose erano ben diverse.
Agnija non era né bella né brutta. Il suo viso si trasfigurava spesso, ora in un
sorriso grazioso, ora in un muso lungo tutt’altro che attraente. Più alta della
media ma esile, fragile, e con un passo così leggero che sembrava non aver
bisogno di calcare la terra. E sebbene Anton fosse già abbastanza smaliziato e
apprezzasse nel corpo femminile un po’ di carne, Agnija lo attirava per
qualcosa di diverso dal corpo e, man mano che si abituava, si convinceva che lei
gli piaceva anche come donna, che sarebbe fiorita in seguito.
Eppure, quando trascorreva con piacere le lunghe giornate estive assieme ad
Anton, e si allontanava con lui per molte verste nelle verdi profondità per poi
giacere fianco a fianco sui prati, Agnija non si lasciava accarezzare la mano
volentieri e domandava: “A che serve?” tentando di liberarsi. Non perché si
vergognasse davanti agli altri: quando tornavano nel villaggio di dacie cedeva
alla suscettibilità di Anton e camminava docilmente con lui a braccetto.
Avendo deciso che l’amava, Anton le si era dichiarato, inginocchiandosi
davanti a lei su un prato nel bosco. Ma una profonda malinconia si era
impossessata di Agnija. “Che cosa triste” aveva detto. “Mi sembra di
ingannarti. Non c’è nulla che io possa risponderti. Non sento nulla. E questo
mi toglie persino la voglia di vivere. Tu sei intelligente e brillante, dovrei
soltanto esserne felice, e invece mi manca la voglia di vivere...”
Diceva così, eppure ogni mattina temeva di vedere un cambiamento sul viso
di Anton, nel suo atteggiamento.
Diceva così, ma diceva anche il contrario: “A Mosca ci sono molte ragazze.
Quest’autunno ne incontrerai una carina e non mi amerai più.”
Si lasciava abbracciare e perfino baciare, ma le sue labbra e le sue mani
restavano senza vita. “Com’è difficile!” soffriva. “Credevo che l’amore fosse la
discesa di un angelo di fuoco in terra. Ora tu mi ami, e io non potrò mai
incontrare un uomo migliore di te, eppure non provo gioia, mi manca
completamente la voglia di vivere.”
In lei c’era qualcosa di infantile che non l’abbandonava. Agnija aveva paura
dei segreti che legano l’uomo e la donna nella vita coniugale, e con voce spenta
gli aveva domandato: “Ma senza non si può fare?” “Non è affatto, affatto la
cosa principale!” le aveva risposto Anton, con fervore. “Sarebbe soltanto
un’aggiunta alla nostra comunione spirituale!” Così per la prima volta le sue
labbra si erano mosse debolmente in un bacio, e gli aveva detto: “Ti ringrazio.
Che senso avrebbe vivere altrimenti? Penso di cominciare già ad amarti. Mi
sforzerò senz’altro di amarti.”
In quello stesso autunno, una sera, camminavano per i vicoli presso piazza
Taganskaja e con la sua sommessa voce silvana, difficile da udire nel rimbombo
della città, Agnija aveva detto: – Vuoi che ti mostri uno dei posti più belli di
Mosca?
L’aveva portato fino al recinto di una chiesetta di mattoni, verniciata di
bianco e di rosso, con l’altare rivolto verso un tortuoso vicolo senza nome.
All’interno del recinto c’era poco spazio: soltanto un piccolo viottolo girava
intorno alla chiesetta, un viottolo che doveva servire per la processione e
consentire al sacerdote e al diacono di procedere affiancati. Dietro le finestrelle
con le inferriate si scorgeva dal profondo la luce fioca delle candele sull’altare e
delle lampade colorate. Lì, inoltre, in un angolo del recinto, sorgeva una grande
quercia antica, più alta della chiesa, e i suoi rami ormai gialli coprivano sia la
cupola sia il vicolo, facendo apparire la chiesa minuscola.
– È la chiesa di Nikita Martire – aveva detto Agnija.
– Però non è il posto più bello di Mosca.
– Aspetta!
L’aveva guidato fra le colonne del cancello. Sulle lastre di pietra del sagrato
erano sparse foglie di quercia gialle e arancioni. Quasi all’ombra di quella stessa
quercia, si ergeva anche un antico piccolo campanile a punta. Il campanile e la
casetta annessa alla chiesa oltre il recinto schermavano il sole ormai basso al
tramonto. Davanti alla porta di ferro a due battenti spalancata della facciata a
settentrione stava curva una misera vecchina, che si faceva il segno della croce
al dorato e luminoso canto del vespro che proveniva dall’interno.
– ‘Et era di molto mirabile detta chiesa, di grazie et di lucore...’76 – aveva
recitato Agnija quasi bisbigliando, mentre si teneva stretta al suo fianco.
– Di che secolo è?
– Ti serve proprio sapere il secolo? Che cambia se non lo sai?
– Be’, graziosa è graziosa, ma non...
– Allora guarda! – Indicando con il braccio teso, Agnija aveva
accompagnato Anton più in là, verso il sagrato principale; era uscita
dall’ombra, entrando nel flusso del tramonto e si era seduta sul basso parapetto
di pietra, dove la recinzione si interrompeva, aprendo uno spazio all’ingresso.
Anton era rimasto a bocca aperta. Sembrava che fossero sfuggiti di colpo
all’angustia della città, sbucando su un’altura ripida con un ampio orizzonte
aperto e lontano. Il sagrato defluiva oltre il parapetto in una lunga scalinata di
pietra bianca, che scendeva per molte rampe avvicendate a spiazzi lungo il
pendio della collina fino alla Moscova. Il fiume brillava al sole. A sinistra, c’era
il quartiere di Zamoskvoreč’e, abbagliante nel giallo scintillio dei vetri; di
fronte, nel cielo al tramonto fumavano le nere ciminiere della centrale
termoelettrica MOGES; quasi sotto ai loro piedi, la Jauza scintillante si
immetteva nella Moscova; a destra, oltre il fiume, si estendeva l’orfanotrofio,
dietro cui torreggiavano le mura merlate del Cremlino; e ancora oltre
risplendevano al sole le cinque cupole d’oro della cattedrale del Cristo
Salvatore.
E in tutto quello splendore dorato Agnija, lo scialle giallo gettato sulle
spalle, sedeva al sole socchiudendo gli occhi, e sembrava anche lei dorata.
– Sì! Questa è Mosca... – aveva detto Anton, rapito.
– Gli antichi russi sapevano scegliere i posti per le chiese e per i monasteri! –
aveva esclamato Agnija con voce rotta. – Ho viaggiato lungo il Volga, lungo
l’Oka, li hanno costruiti sempre nei posti più maestosi.
– Sì, questa è Mosca... – aveva ripetuto Anton.
– Ma se ne sta andando, Anton – aveva mormorato Agnija. – Mosca sta
scomparendo!
– Dove vuoi che se ne vada! Sono fantasticherie!
– Questa chiesa verrà abbattuta, Anton – aveva insistito lei.
– Come fai a sapere che verrà abbattuta? – si era irritato. – È un
monumento artistico, la conserveranno. – E aveva guardato il minuscolo
campanile dalla cui fenditura, all’altezza delle campane, i rami della quercia
davano una sbirciatina.
– La demoliranno – aveva profetizzato con sicurezza Agnija, sempre seduta
immobile nella luce gialla con il suo scialle giallo.
Nella famiglia di Agnija non solo nessuno l’aveva educata alla fede in Dio,
era persino stato fatto il contrario: negli anni in cui era obbligatorio
frequentare la chiesa, sua madre e sua nonna non ci andavano, non osservavano
i digiuni, ridevano dei preti e prendevano in giro in ogni modo la religione, che
tanto pacificamente conviveva con la servitù della gleba. La nonna, la madre e
le zie di Agnija avevano una loro fede ben salda: stare sempre dalla parte di
quelli che il potere incalzava, cacciava, braccava, perseguitava. La nonna dava
ricetto ai narodovol’cy e li aiutava come poteva. Le figlie avevano preso da lei e
nascondevano i clandestini socialrivoluzionari e i socialdemocratici. La piccola
Agnija prendeva sempre le difese di un leprotto, perché non lo uccidessero; di
un cavallo, perché non lo frustassero. Poi era cresciuta e tutto questo,
inaspettatamente per gli adulti, si era trasformato in lei nella difesa della Chiesa
perseguitata.
Insisteva che a quel punto sarebbe stato vile tenersi lontani dalla Chiesa e, con
orrore della madre e della nonna, aveva cominciato a frequentarla, per cui
involontariamente aveva preso gusto alle funzioni.
– Ma in che senso è perseguitata? – si stupiva Anton. – Non impediscono a
nessuno di suonare le campane, di cuocere la prosfora, di svolgere le
processioni; la città e la scuola, però, non sono affari loro.
– Certo che è perseguitata – ribatteva Agnija, come sempre piano, in un
sussurro. – Se dicono e stampano su di lei quello che pare a loro senza darle
modo di giustificarsi, requisiscono i beni degli altari, deportano i sacerdoti,
tutto questo non è forse perseguitare?
– Quando hai visto che li deportavano?
– Sono cose che non si vedono per strada.
– E se anche li deportassero? – incalzava Anton. – Li perseguitano da dieci
anni, la Chiesa per quanto tempo lo ho fatto? Dieci secoli?
– A quei tempi io non c’ero – rispondeva Agnija, muovendo dolcemente le
spalle strette. – Io vivo adesso... Vedo che cosa succede ora nella mia vita.
– Ma bisogna pur conoscere la storia! L’ignoranza non è una giustificazione!
Ti sei mai domandata come ha fatto la nostra Chiesa a sopravvivere a
duecentocinquant’anni di giogo tataro?
– Forse avevano una fede profonda? – ipotizzava lei. – Forse il cristianesimo
ortodosso si sarà dimostrato spiritualmente più forte della fede musulmana?... –
Erano domande, non affermazioni.
Anton sorrideva con indulgenza.
– Queste sono fantasie! Il nostro è stato mai un paese cristiano nell’anima?
In mille anni di esistenza abbiamo mai perdonato davvero i nostri persecutori?
E amato coloro che ci odiavano? La nostra Chiesa è riuscita a resistere solo
perché dopo l’invasione tatara il metropolita Kirill fu il primo fra i russi ad
andare a rendere omaggio al Khan e a chiedere un salvacondotto per il clero.
Con la spada tatara! Ecco con cosa ha difeso il clero russo le sue terre, i suoi
servi e le funzioni religiose! E, se devo dirla tutta, il metropolita Kirill ha fatto
bene, era un uomo politico con i piedi per terra. Così bisogna fare. Soltanto in
questo modo si può avere la meglio.
Quando la mettevano alle strette, Agnija evitava di discutere. Aveva sgranato
gli occhi sotto le ciglia pronte a spiccare il volo e guardato il fidanzato con
rinnovata perplessità.
– Ecco su cosa innalzavano tutte queste belle chiese costruite in luoghi così
felici! – denunciava Anton. – Le innalzavano anche sui vecchi credenti bruciati
vivi! E sui settari frustati a morte! Hai trovato proprio quelli giusti da
compatire! La Chiesa perseguitata...
Si era seduto accanto a lei sulla calda pietra del parapetto.
– E poi, in generale, sei ingiusta verso i bolscevichi. Non ti sei data
nemmeno la pena di leggere i loro grandi libri. Hanno il massimo rispetto per
la cultura mondiale. Non vogliono l’arbitrio di una persona su un’altra, ma che
a dominare sia la ragione. E soprattutto, loro sono per l’eguaglianza! Pensa:
eguaglianza universale, piena e assoluta! Nessuno avrà privilegi rispetto a un
altro, nessuno avrà superiorità né di reddito né di posizione. Esiste forse cosa
più attraente di una società del genere? Non ti pare che valga dei sacrifici?
(A parte il fatto che fosse una società attraente, le origini di Anton lo
costringevano a aderire alla causa al più presto, prima che fosse troppo tardi.)
– E con questa tua affettazione non fai altro che precluderti tutte le strade
da sola, anche quella dell’istituto. Inoltre, credi che la tua protesta significhi
qualcosa? Cosa puoi fare tu?
– Che può fare una donna in generale? – Le trecce sottili (in quegli anni
nessuna portava più le trecce, le tagliavano tutte, mentre lei, malgrado non le
stessero per niente bene, le portava per spirito di contraddizione) le erano
schizzate una sulla schiena, l’altra sul petto. – Una donna è solo capace di
distogliere un uomo da grandi azioni. Persino quelle come Nataša Rostova. Io
quella non la sopporto.
– Perché? – si era stupito Anton.
– Perché non ha permesso a Pierre di andare con i decabristi! – la sua vocina
flebile si era spezzata di nuovo.
Sì, lei era tutta in quelle reazioni improvvise.
Lo scialle giallo trasparente che le copriva le spalle lasciava scoperti i gomiti
quasi abbassati, formando due specie di sottili ali dorate.
Anton le aveva preso con due mani il gomito, come se temesse di romperlo.
– Tu, invece? L’avresti lasciato andare?
– Sì – aveva risposto lei.
Comunque Anton non aveva davanti a sé un atto eroico verso il quale si
potesse lasciarlo andare. La sua vita era in fermento, il suo lavoro interessante,
e lo portava sempre più in alto.
Accanto a loro passavano, segnandosi di fronte alle porte aperte della chiesa,
i devoti arrivati in ritardo dal lungofiume. Gli uomini, entrando nel recinto, si
toglievano il berretto. Del resto, erano in numero nettamente inferiore rispetto
alle donne, e i giovani mancavano.
– Non hai paura che possano vederti vicino a una chiesa? – aveva
domandato Agnija, seria, ma a lui era parsa una provocazione.
In effetti, si trattava già di anni in cui era pericoloso farsi notare da un
collega vicino a una chiesa. E, sì, in quel posto Anton si sentiva troppo esposto,
non a proprio agio.
– Fai attenzione, Agnija– le aveva suggerito, cominciando a irritarsi. –
Bisogna saper distinguere in tempo il nuovo: chi non lo fa, rimane
inesorabilmente indietro. Tu hai cominciato a sentirti attratta dalla Chiesa
perché qui assecondano la tua riluttanza a vivere. Stai attenta. Devi scuoterti.
Costringerti a provare almeno interesse per il processo della vita, se vuoi.
Agnija aveva chinato la testa. La mano con l’anellino d’oro di Anton era
abbandonata, priva di volontà. Il corpo della ragazza appariva ossuto, troppo
magro.
– Sì, sì– aveva confermato lei con voce spenta. – Talvolta mi rendo
perfettamente conto che vivere per me è molto difficile, non lo desidero affatto.
Le persone come me, a questo mondo, sono inutili...
Anton si era sentito lacerare dentro. Lei faceva di tutto per non attrarlo! In
lui, il coraggio di mantenere la promessa di sposarla si affievoliva sempre più.
Agnija, senza sorridere, aveva sollevato su Anton uno sguardo indagatore.
“Comunque non è bella” si trovò a pensare lui.
– Probabilmente, ad attenderti c’è la gloria, il successo, una solida prosperità
– aveva detto lei con tristezza. – Ma sarai felice, Anton?... Fai attenzione anche
tu. Quando cominciamo a interessarci al processo della vita, perdiamo...
perdiamo... be’, come spiegarlo... – In cerca della parola, si sfregava la punta di
tre dita; il viso le si fece dolorosamente inquieto. – Ecco come: la campana
finisce i suoi rintocchi, i suoni melodiosi volano via e non li puoi far tornare,
ma in essi c’è tutta la musica. Capisci?... – Cercava ancora. – E se in punto di
morte tu chiedessi all’improvviso di essere sepolto con il rito ortodosso? Te lo
immagini?...
Poi, aveva insistito per entrare a pregare. Non poteva lasciarla sola. Erano
entrati. Sotto le grosse volte una galleria ad anello con piccole finestre munite
di inferriate in antico stile russo girava tutto intorno alla chiesa. Un arco basso
e largo portava dalla galleria fino all’aula centrale del piccolo tempio.
Il sole penetrava attraverso le finestrelle della cupola e inondava la chiesa di
luce, dissolvendosi in un gioco dorato sulla parte superiore dell’iconostasi e
sull’immagine a mosaico del Signore degli eserciti.
I fedeli erano pochi. Agnija aveva posato una candela sottile sulla grande
colonna di rame e se ne stava in piedi severa, senza quasi farsi il segno di croce,
le mani giunte al petto, guardando con espressione ispirata di fronte a sé. La
luce diffusa del tramonto e i riflessi arancioni delle candele ridavano vita e
calore alle sue gote.
Mancavano due giorni alla Natività della Deipara e stavano recitando la
litania completa in suo onore. Era infinitamente espressiva: lodi ed epiteti alla
Vergine Maria si riversavano come un torrente, e per la prima volta Jakonov
aveva compreso l’estasi e la poesia di quella supplica. La litania non era stata
scritta da un insensibile dogmatico di chiesa, ma da un grande poeta
sconosciuto, prigioniero in un monastero; e a ispirarlo non era stata la rapida
furia maschile verso il corpo femminile, ma quella suprema ammirazione che la
donna è capace di suscitare in noi.
Jakonov si riebbe. Sedeva, sporcando il cappotto di pelle, su una montagnola di
ruvidi detriti nel sagrato della chiesa di Nikita Martire.
Sì, era stato del tutto insensato distruggere il piccolo campanile a punta e
demolire la scalinata che scendeva al fiume. Sembrava davvero impossibile che
quella sera di tanto tempo prima illuminata dal sole e l’odierna alba di
dicembre si fossero svolti sui medesimi metri quadrati di terra moscovita. La
vista dal colle, invece, appariva in egual modo lontana, e uguali erano anche le
anse del fiume, sottolineate dagli ultimi lampioni.
Poco tempo dopo quella sera, era partito in missione per l’estero. Al suo
ritorno gli avevano dato da scrivere, ma in pratica quasi soltanto da firmare, un
articolo di giornale sulla corruzione dell’Occidente, della sua società, della
morale, della cultura, sulla situazione laggiù disastrosa per gli intellettuali,
sull’impossibilità di sviluppo per la scienza. Non era la verità assoluta, ma non
sembrava neppure del tutto una menzogna. Quei fatti erano reali, ma c’era
anche dell’altro. Lui non era iscritto al partito, l’avevano convocato in sezione e
avevano insistito molto. Esitando Jakonov avrebbe potuto attirare sospetti,
macchiare la propria reputazione. Del resto, a chi poteva nuocere un articolo
del genere?
L’articolo era stato pubblicato.
Agnija gli aveva restituito l’anello tramite pacco postale, legandovi con un
filo un foglietto: “Al metropolita Kirill.”
Lui si era sentito sollevato.
Albeggiava.
Una generosa e solenne brina ricopriva le colonne della zona e dell’antizona, il
filo spinato intrecciato in venti file e piegato in migliaia di asterischi, il tetto
della vedetta inclinato e l’erbaccia non falciata del terreno abbandonato al di là
del filo spinato.
Dmitrij Sologdin ammirava quel miracolo con occhi per nulla velati. Stava
accanto al cavalletto per segare la legna. Sopra la tuta blu indossava una giubba
imbottita del campo di lavoro, la testa, con la prima canizie dei capelli,
scoperta. Era un misero schiavo senza diritti. Aveva già scontato dodici anni,
ma a causa di una seconda condanna non si intravedeva la fine della sua
reclusione. Sua moglie aveva consumato la giovinezza in una sterile attesa. Per
non essere licenziata anche dall’ultimo lavoro, come era già successo per i
precedenti, aveva mentito, dichiarando di non avere marito, e aveva smesso di
scrivergli. Sologdin non aveva mai visto il suo unico figlio: al momento
dell’arresto la moglie era incinta. Aveva attraversato le foreste di Čerdynsk, le
miniere di Vorkuta e due istruttorie – una di sei mesi e l’altra di un anno – in
cui era stato privato del sonno, delle forze e della linfa vitale. Il suo nome e il
suo futuro erano stati calpestati nel fango ormai da tempo. Le sue proprietà –
un paio di pantaloni imbottiti usati e una giacca da lavoro in tela catramata – si
trovavano nel magazzino in attesa di tempi peggiori. Riceveva trenta rubli al
mese, sufficienti per tre chili di zucchero, e mai in contanti. Poteva respirare
aria pura soltanto nelle ore stabilite, quelle autorizzate dalla direzione del
carcere.
E la sua anima godeva di una calma incrollabile. I suoi occhi scintillavano
come quelli di un ragazzo. Il petto, spalancato al gelo, si sollevava nella
pienezza del suo essere.
78 Vecchio indovinello russo: “Mangia in fretta e mastica per bene, non inghiotte e lo dà agli altri. Che
cos’è?”, “La sega!”.
79 Come le nove sfere celesti del Paradiso dantesco.
27
UN PO’ DI METODOLOGIA
Il tenente colonnello Kliment’ev aveva capelli, come si suol dire, color della
pece, di un nero brillante, divisi dalla scriminatura, che gli scendevano lisci,
come colati sulla testa, e che parevano congiungersi ai baffi rotondi. Non aveva
la pancia e a quarantacinque anni sembrava un militare giovane e snello. Inoltre
in servizio non sorrideva mai e questo rafforzava la nera cupezza del suo viso.
Sebbene fosse domenica, era arrivato persino prima del solito. Aveva
attraversato il cortile nel pieno della passeggiata dei detenuti, notandovi le
manchevolezze con mezza occhiata; ma per non compromettere il proprio
grado non si era immischiato ed era entrato nell’edificio del comando della
prigione speciale, ordinando subito a Nadelašin, l’ufficiale di turno, di chiamare
il detenuto Neržin e di presentarsi a rapporto con lui. Mentre attraversava il
cortile il tenente colonnello aveva prestato particolare attenzione al modo in
cui i detenuti, vedendolo, cercassero alcuni di camminare più in fretta, altri di
rallentare, di voltarsi pur di non capitargli davanti e non doverlo salutare.
Kliment’ev l’aveva notato con freddezza, senza offendersi. Sapeva che si
trattava solo in parte di vero disprezzo per la sua carica, quanto piuttosto
imbarazzo davanti ai compagni, paura di apparire servizievoli. Quasi tutti quei
detenuti si comportavano in modo cordiale se convocati singolarmente nel suo
ufficio, alcuni persino con piaggeria. Dietro le sbarre si trovavano persone
differenti, dal valore differente. Kliment’ev lo aveva capito da tempo.
Rispettava il loro diritto di essere fieri, e conservava in modo inflessibile il suo
diritto di essere severo. Soldato nell’anima, aveva introdotto nel carcere, così
riteneva, non una disciplina oppressiva beffardamente ingiuriosa, ma una
disciplina militare ragionevole.
Entrò nell’ufficio. Dentro faceva caldo e i termosifoni emanavano un
pesante, sgradevole odore di vernice. Aperta la finestrella di ventilazione, il
tenente colonnello si tolse il cappotto, stretto nella giubba si accomodò alla
scrivania ed esaminò la superficie libera. Sul calendario, alla pagina non ancora
girata di sabato, c’era un appunto:
“Albero?”
Da quell’ufficio semivuoto, i cui mezzi di produzione erano soltanto un
armadio di ferro con i fascicoli dei detenuti, una mezza dozzina di sedie, un
telefono e i pulsanti dei campanelli, il tenente colonnello Kliment’ev dirigeva
con successo, senza frizioni evidenti, né di trazioni né di ingranaggi, il processo
esteriore di tre centinaia di vite incarcerate e quello di servizio di cinquanta
sorveglianti.
Sebbene fosse arrivato di domenica (poi avrebbe dovuto starsene a riposo in
un giorno feriale) e addirittura mezz’ora prima, Kliment’ev non aveva perso
l’abituale sangue freddo e la compostezza.
Il sottotenente Nadelašin si presentò titubante. Sulle guance gli erano
comparse due tonde macchie scarlatte. Temeva molto il tenente colonnello
Kliment’ev, benché questi non gli avesse mai macchiato le note personali,
nonostante le sue numerose negligenze. Buffo, con il viso tondo, per nulla
militare, Nadelašin si sforzava invano di restare sull’attenti.
Riferì che il turno di guardia della notte si era svolto in perfetto ordine, non
c’erano state irregolarità, solo due fatti insoliti: uno era esposto nel rapporto (lo
posò davanti a Kliment’ev su un angolo della scrivania, ma quello scivolò
subito giù, planando in una tortuosa curva sotto una sedia lontana. Nadelašin si
lanciò a raccoglierlo e lo riposò sulla scrivania); l’altro riguardava la chiamata
dei detenuti Bobynin e Prjančikov da parte del ministro della Sicurezza di
Stato.
Il tenente colonnello aggrottò le sopracciglia, volle sapere di più sulle
circostanze della convocazione e del rientro. La notizia, beninteso, era
spiacevole, persino inquietante. Essere a capo della Prigione speciale n. 1
significava stare seduti su un vulcano, perennemente sotto l’occhio del
ministro. Non si trattava di un qualsiasi campo di lavoro sperduto nella foresta
dove il direttore poteva mettere su un harem, avere giullari e, come un
feudatario, emanare sentenze. Lì bisognava dimostrarsi rispettosi della legge,
seguire alla lettera le disposizioni e non lasciarsi prendere né da un briciolo di
collera personale né da compassione. Ma Kliment’ev non era il tipo. Non
riteneva che quella notte Bobynin e Prjančikov potessero aver trovato nelle sue
azioni qualcosa di illegittimo di cui lamentarsi. La sua lunga esperienza di
servizio non gli faceva temere le calunnie dei detenuti. Erano i colleghi quelli
che potevano calunniare.
Così diede una scorsa al rapporto di Nadelašin e si rese conto che si trattava
solo di stupidaggini. Ecco perché si teneva quel Nadelašin: era un uomo
preparato e intelligente.
Ma quanti difetti aveva! Il tenente colonnello gli fece una lavata di capo.
Rammentò a Nadelašin nel dettaglio tutte le negligenze del turno di guardia
precedente: la chiamata mattutina al lavoro per i reclusi aveva subìto un ritardo
di due minuti; molte brande nelle celle erano state rassettate in modo
approssimativo e Nadelašin non aveva dato prova di fermezza richiamando dal
lavoro i detenuti responsabili e obbligandoli a rifare i letti. Questo gli era già
stato detto, ma parlare a Nadelašin era come parlare al muro. E poco prima,
alla passeggiata del mattino? Il giovane Doronin se ne stava immobile al limite
dell’area per la passeggiata a esaminare attentamente la zona e la distesa oltre la
zona, nella parte dove si trovava la serra: un terreno accidentato, con un piccolo
burrone, davvero molto comodo per un’evasione. Doronin aveva una condanna
a venticinque anni per falsificazione di documenti, e per due anni era stato
ricercato dalla polizia in tutta l’Urss! Nessuna delle guardie aveva intimato a
Doronin di camminare in cerchio, non poteva stare fermo. E Gerasimovič dove
passeggiava? Staccato da tutti, avanzava dietro i grandi tigli in direzione delle
officine meccaniche. E che diceva il fascicolo di Gerasimovič? Stava scontando la
sua seconda condanna, in base al “58.1.a in aggiunta all’articolo 19”, vale a dire
intenzione di tradire la patria. Non aveva tradito, ma non era nemmeno
riuscito a dimostrare di non essersi recato a Leningrado nei primi giorni della
guerra per aspettare i tedeschi. Nadelašin si era forse dimenticato che bisognava
studiare costantemente i detenuti sia per osservazione diretta sia in base ai casi
personali? Infine, come si presentava Nadelašin? La giubba militare non era in
ordine (Nadelašin l’aggiustò), la stelletta sul berretto era storta (Nadelašin la
sistemò), e faceva il saluto come una femminuccia... C’era allora da stupirsi se
durante il turno di guardia di Nadelašin i detenuti non rifacevano a dovere le
brande? Le brande rassettate male rappresentavano una crepa pericolosa nella
disciplina della prigione. Oggi non rifacevano bene le brande, domani si
sarebbero ribellati rifiutandosi di andare al lavoro.
Poi il tenente colonnello passò agli ordini: riunire i sorveglianti assegnati ai
colloqui nella terza stanza per le disposizioni; che il detenuto Neržin sostasse
ancora nel corridoio; Nadelašin poteva andare.
Nadelašin ne uscì cotto. Quando ascoltava i superiori, ogni volta si
affliggeva sinceramente per la fondatezza di tutti i rimproveri e le
raccomandazioni, e si riprometteva di non infrangerli più. Ma non appena
tornava al lavoro, si scontrava di nuovo con le decine di volontà dei reclusi, i
quali tiravano tutti in direzioni diverse, ognuno desideroso di un pezzettino di
libertà; Nadelašin non glielo poteva rifiutare e si augurava: magari nessuno ci fa
caso.
Kliment’ev afferrò la penna e cancellò l’appunto “Albero?” sul calendario.
Aveva preso la decisione il giorno precedente.
Nelle prigioni speciali nessuno aveva mai addobbato un albero per
Capodanno. Alcuni reclusi, reclusi di una certa autorevolezza, avevano chiesto
quell’anno più di una volta con tenacia di poterlo fare. E Kliment’ev aveva
cominciato a domandarsi perché, sul serio, non avrebbe dovuto autorizzarli.
Era chiaro che un albero non avrebbe causato problemi, nessun incendio: lì
dentro erano tutti professori in elettricità. Era invece molto importante creare
un clima più distensivo la sera dell’ultimo dell’anno, quando gli impiegati liberi
dell’istituto se ne andavano a Mosca a divertirsi. Sapeva che le vigilie di festa
erano le più pesanti per i detenuti; qualcuno avrebbe potuto decidersi a
compiere un atto temerario o insensato. E il giorno precedente aveva
telefonato alla Direzione Carceraria da cui dipendeva in modo diretto, per
mettersi d’accordo sull’albero. Nelle disposizioni si leggeva che erano vietati gli
strumenti musicali, ma non avevano trovato nulla a proposito degli alberi di
Capodanno, così non avevano acconsentito, senza però neppure proibirlo
apertamente. Il servizio lungo e irreprensibile del tenente colonnello
Kliment’ev dava solidità e sicurezza alle sue azioni. Aveva già deciso la sera
prima, sulle scale mobili della metropolitana, mentre stava ritornando a casa: va
bene, l’albero si faccia!
E salendo nel vagone della metropolitana aveva pensato con piacere a sé
stesso, che era proprio un uomo intelligente ed esperto, non un imbrattacarte,
una brava persona, ma i detenuti questo non l’avrebbero mai apprezzato, né
avrebbero mai saputo chi non voleva concedere loro l’albero e chi invece glielo
aveva concesso.
In ogni caso Kliment’ev si era sentito bene per la decisione presa. Non si era
affrettato a salire sul vagone con gli altri moscoviti, era entrato per ultimo,
prima che chiudessero le porte, e non aveva cercato di sedersi ma si era
aggrappato a un sostegno e guardava la propria immagine coraggiosa riflessa
indistintamente nel vetro del finestrino, oltre il quale sfrecciavano la nera
oscurità del tunnel e infiniti tubi e cavi. Poi aveva diretto lo sguardo su una
giovane donna seduta lì accanto. Era vestita con cura, ma a buon mercato: una
pelliccia nera di astrakan sintetico e un berrettino uguale. Teneva posata sulle
ginocchia una cartella piena zeppa. Kliment’ev l’aveva guardata e si era
ritrovato a pensare che la donna aveva un viso gradevole ma sfinito, e uno
sguardo insolito per una giovane, che non esprimeva alcun interesse verso
quanto la circondava.
Proprio in quell’istante la donna aveva rivolto lo sguardo dalla sua parte, e si
erano osservati per il tempo in cui di solito si incrociano senza espressione gli
sguardi di compagni di viaggio occasionali. In quella frazione di secondo gli
occhi della donna si erano allarmati, come se dentro vi balenasse una domanda
inquieta e incerta. Kliment’ev, che data la professione aveva buona memoria per
i visi, aveva riconosciuto la donna e non aveva fatto in tempo a nasconderlo; lei
aveva colto la sua titubanza, ottenendo così conferma alla propria intuizione.
Era la moglie del detenuto Neržin, Kliment’ev l’aveva vista ai colloqui nella
prigione della Taganka.
Lei si era incupita, aveva distolto lo sguardo, per poi lanciargli di nuovo
un’occhiata. Lui stava già guardando verso il tunnel, ma con la coda dell’occhio
si era accorto che lei lo fissava. La donna si era alzata con decisione per
avanzare verso di lui, tanto da costringerlo a voltarsi di nuovo dalla sua parte.
Si era alzata con decisione, ma una volta in piedi aveva perso la sua
risolutezza. Aveva perso l’indipendenza di giovane donna autonoma che
viaggia in metropolitana, e con la sua pesante cartella sembrava quasi voler
cedere il posto al tenente colonnello. Su di lei gravava la tragica sorte di tutte le
mogli dei detenuti politici, vale a dire le mogli dei nemici del popolo: a chiunque si
rivolgessero, in qualunque luogo andassero, dove fosse noto il loro sfortunato
matrimonio, si trascinavano dietro l’indelebile infamia dei mariti, agli occhi di
tutti condividevano il peso della colpa del perfido malfattore al quale un tempo
avevano incautamente affidato la propria sorte. E queste donne cominciavano a
sentirsi realmente colpevoli, come non si sentivano nemmeno gli stessi nemici
del popolo, i loro mariti, che tanto avevano subìto.
La donna si avvicinò in modo che la sua voce non venisse coperta dal
fragore del treno, e domandò:
– Compagno tenente colonnello! La prego moltissimo di scusarmi! È lei... il
capo di mio marito? O mi sbaglio?
Nei molti anni del suo servizio come ufficiale carcerario, tante donne di ogni
genere si erano alzate ed erano rimaste in piedi davanti a Kliment’ev, eppure lui
non aveva mai visto nulla di straordinario in quei visi subordinati e timidi. Ma
lì, in metropolitana, sebbene lei avesse posto la sua domanda in modo molto
attento, agli occhi di tutti quella figura implorante pareva indecente.
– Perché si è alzata? Si sieda, si sieda, su – disse lui con imbarazzo,
afferrandola per una manica e cercando di farla riaccomodare.
– No, no, non importa! – si scostava la donna, fissando il tenente colonnello
con uno sguardo tenace, quasi fanatico. – Mi dica, perché per un anno intero
non... perché non posso vederlo? Quando me lo permetterete, me lo dica?
La coincidenza di quell’incontro era fortuita quanto colpire un granello di
sabbia con un altro granello a quaranta passi di distanza. Una settimana prima,
dalla Direzione Carceraria dell’MGB era giunta fra le altre cose anche
l’autorizzazione per lo zek Neržin di recarsi a colloquio con la moglie presso il
carcere di Lefortovo domenica 25 dicembre 1949. Ma a quella era allegata
anche una nota che vietava di spedirne l’avviso alla moglie tramite fermoposta,
come richiesto dal detenuto.
Neržin allora era stato chiamato e interrogato riguardo all’indirizzo della
moglie. Aveva borbottato che non lo conosceva. Abituato dai regolamenti
carcerari a non rivelare mai la verità ai detenuti, Kliment’ev non presupponeva
sincerità nemmeno da parte loro. Ovviamente Neržin conosceva l’indirizzo, ma
non lo voleva rivelare, ed era chiaro perché non voleva, per la stessa ragione
per cui la Direzione Carceraria non spediva nulla fermoposta: la notifica di un
colloquio concesso veniva mandata tramite cartolina. Con su scritto: “Siete
autorizzata a un colloquio con vostro marito presso la prigione xy.” Non
soltanto l’indirizzo della moglie veniva registrato presso l’MGB, il ministero si
adoperava perché fossero sempre di meno le donne desiderose di ricevere
quelle cartoline, per far sapere a tutti i vicini che erano le mogli di nemici del
popolo, in modo che quelle mogli fossero scoperte, isolate e si creasse intorno a
loro un’opinione pubblica sana. Proprio di questo avevano paura le mogli.
Quella di Neržin usava persino un altro cognome. Era chiaro che si
nascondeva dall’MGB. A quel punto Kliment’ev aveva detto a Neržin che il
colloquio non avrebbe avuto luogo. E non aveva mandato l’avviso.
Ora invece quella donna si era alzata in piedi e se ne stava lì davanti a lui in
modo così umiliante, sotto lo sguardo silenzioso delle persone che li
circondavano.
– Non si può scrivere fermoposta – aveva detto lui alzando la voce quel
tanto da permettere soltanto a lei di sentirlo in quel frastuono. – Bisogna
lasciare l’indirizzo personale.
– Ma io sto per partire! – aveva risposto la donna, con il volto adesso più
animato. – Fra poco partirò e non ho già più un indirizzo stabile. – Era ovvio
che stava mentendo.
L’idea di Kliment’ev era di scendere alla prima fermata, e se lei l’avesse
seguito spiegarle nell’atrio, dove c’era poca gente, che era inammissibile fare
discorsi del genere fuori dal servizio.
La moglie di quel nemico del popolo sembrava essersi persino dimenticata
della propria colpa inespiabile! Fissava negli occhi il tenente colonnello con
uno sguardo asciutto, intenso, supplichevole, fuori di sé. Kliment’ev era
rimasto colpito da quello sguardo: quale forza la incatenava con tanto
accanimento e disperazione a un uomo che non vedeva da anni e che poteva
solo rovinarle la vita?
– Ne ho assolutamente, assolutamente bisogno! – assicurava lei con gli occhi
spiritati, cogliendo un’esitazione sul viso di Kliment’ev.
Il tenente colonnello si era ricordato della carta custodita nella cassaforte
della prigione speciale. Secondo quel documento, in base allo sviluppo della
“Delibera sul Consolidamento delle Retrovie”, bisognava assestare un nuovo
colpo a quei parenti che si rifiutavano di fornire il proprio indirizzo. Il
maggiore Myšin aveva intenzione di dare comunicazione di quella carta ai
detenuti il lunedì successivo. Restava solo l’indomani o quella donna, se non
avesse fornito il proprio indirizzo, non avrebbe mai più rivisto il marito. Se
invece Kliment’ev l’avesse informata subito, formalmente non sarebbe stata
spedita alcuna notifica, nel registro non sarebbe figurato, e lei si sarebbe recata
al carcere di Lefortovo come per caso.
Il treno stava rallentando.
Tutti quei pensieri erano passati veloci nella testa del tenente colonnello
Kliment’ev. Conosceva il principale nemico dei detenuti: i detenuti stessi. E
conosceva il principale nemico di ogni donna: sé stessa. La gente non è capace
di tacere neanche se ne va di mezzo la propria salvezza. Durante la carriera gli
era già successo di dare prova di sciocca mitezza, di consentire qualcosa di non
autorizzato, e nessuno lo sarebbe mai venuto a scoprire se gli stessi che
avevano beneficiato di quell’indulgenza non si fossero ingegnati a spifferarla.
Neppure adesso si poteva manifestare condiscendenza!
Tuttavia, mentre il fragore del treno si attenuava e la stazione dai brillanti
marmi colorati era ormai in vista, Kliment’ev aveva detto alla donna:
– Le è stato concesso un colloquio. Si rechi domani mattina alle dieci... –
Non aveva detto “al carcere di Lefortovo” perché i passeggeri si stavano già
avvicinando alle porte e a loro.
– Conosce via Lefortovskij val?
– La conosco, la conosco – aveva annuito la donna, con gioia.
E i suoi occhi, poco prima asciutti, si erano riempiti di lacrime venute da
chissà dove.
Per proteggersi da quelle lacrime, dalla riconoscenza e da qualsiasi altra
chiacchiera, Kliment’ev era sceso sulla banchina per poi salire sul treno
successivo.
Lui per primo era meravigliato e infastidito di aver parlato così.
Il tenente colonnello aveva lasciato Neržin in attesa per un po’ nel corridoio
del comando del carcere, perché in generale era un detenuto insolente, che si
immischiava nelle leggi.
Il calcolo del colonnello era giusto: dopo una lunga attesa nel corridoio del
comando, Neržin non soltanto aveva perso la speranza di ottenere il colloquio
ma, abituato a ogni sorta di guai, si aspettava qualche brutta notizia.
Rimase oltremodo stupito quando venne a sapere che di lì a un’ora sarebbe
andato a colloquio con la moglie. In base al codice d’alta etica dei detenuti, da
loro stessi introdotto, non avrebbe dovuto manifestare né gioia né tanto meno
soddisfazione, ma con indifferenza farsi specificare per quale ora dovesse
tenersi pronto, e poi andarsene. Si riteneva necessario un simile
comportamento affinché i capi capissero meno l’anima del detenuto e non
riuscissero a valutare la misura delle loro azioni. Ma il passaggio era stato così
brusco, la gioia così grande, che Neržin non riuscì a trattenersi: si illuminò e
ringraziò di cuore il tenente colonnello.
Il tenente colonnello, al contrario, non mosse neanche un muscolo del viso.
E andò subito a istruire i sorveglianti che dovevano accompagnare i detenuti
ai colloqui.
Tra le disposizioni rientrava: ricordare l’importanza e la particolare
segretezza del loro impianto; precisare quanto fossero inveterati i criminali di
Stato che si recavano quel giorno a colloquio; chiarire che il loro unico tenace
disegno era di sfruttare il colloquio di quel giorno per trasmettere, attraverso le
mogli, direttamente agli Stati Uniti d’America, i segreti di Stato a loro
accessibili. (I sorveglianti non conoscevano neppure a grandi linee cosa si
elaborasse fra le mura dei laboratori e in loro si insinuava con facilità il sacro
terrore che un pezzetto di carta fatto uscire di lì potesse rovinare l’intera
nazione.) Seguiva poi l’elenco di tutti i possibili nascondigli nell’abbigliamento
e nelle scarpe, e dei metodi per scoprirli (i vestiti, del resto, venivano
consegnati ai detenuti soltanto un’ora prima del colloquio ed erano speciali, di
facciata). Attraverso un colloquio si appurava quanto saldamente i sorveglianti
avessero appreso le disposizioni circa la perquisizione; infine si esaminavano
nel dettaglio diversi esempi su quale piega avrebbe potuto prendere la
conversazione durante il colloquio, su come prestarvi ascolto e come
interrompere tutti gli argomenti non strettamente personali e familiari.
Il tenente colonnello Kliment’ev conosceva i regolamenti e amava l’ordine.
30
UN ROBOT PERPLESSO
Neržin, che nel buio corridoio del comando per poco non aveva mandato a
gambe all’aria il tenente minore Nadelašin, si precipitò al dormitorio della
prigione. Al collo gli ballonzolava ancora il corto asciugamano a nido d’ape.
Grazie a una sorprendente capacità umana, in Neržin tutto si era
trasformato in un attimo. Cinque minuti prima, quando si trovava ancora nel
corridoio in attesa di essere chiamato, i suoi trent’anni di vita gli erano
sembrati un’assurda e penosa catena di insuccessi dai quali non aveva la forza
di tirarsi fuori. E i principali fra questi errori erano stati: la partenza per la
guerra subito dopo il matrimonio, poi l’arresto e la separazione dalla moglie
per molti anni. Il loro amore gli sembrava chiaramente infausto, condannato a
essere vilipeso.
Ma ecco che gli era stato annunciato il colloquio per quel giorno stesso alle
dodici e i suoi trent’anni di vita gli erano apparsi sotto una luce nuova: una vita
tesa come una corda; una vita di cose piccole e grandi; una vita che passava da
un successo audace all’altro, dove i gradini più inattesi verso la meta erano la
partenza per la guerra, l’arresto e la separazione dalla moglie per molti anni.
All’apparenza infelice, Gleb, in segreto, in questa sua infelicità era felice. Se ne
abbeverava come a una fonte, scopriva persone e fatti che sulla terra in nessun
altro luogo si potevano scoprire, men che meno nella tranquilla e sazia
ristrettezza del focolare domestico. Fin da giovane aveva temuto soprattutto di
impantanarsi nella vita quotidiana. Come dice il proverbio: “Meglio affogare
nel mare che in una pozzanghera.”
E da sua moglie sarebbe tornato! Perché il legame delle loro anime era
indissolubile! Un colloquio! Proprio il giorno del suo compleanno! Proprio
dopo la conversazione del giorno prima con Anton! In seguito non gliene
avrebbero concessi più ma oggi quel colloquio era la cosa più importante di
tutte! I pensieri divampavano e saettavano come frecce infuocate: non
dimenticare questo! dille quest’altro! quello! e quell’altro ancora!
Entrò di corsa nella stanza semicircolare, dove i detenuti andavano avanti e
indietro, facendo chiasso, qualcuno tornava dalla colazione, qualcun altro era
diretto a lavarsi, mentre Valentulja, gettata indietro la coperta, sedeva in maglia
e mutandoni e, agitando le braccia e ridendo, raccontava del colloquio della
notte prima con un capo, che si era rivelato poi il ministro in persona!
Valentulja bisognava pur ascoltarlo! Era quell’attimo meraviglioso della vita in
cui qualcosa ti scoppia dentro la gabbia toracica facendola cantare, in cui
cent’anni ti sembrano pochi per fare tutto. Ma la colazione non si poteva
perdere: il destino del detenuto non regala sempre un evento come la
colazione. Inoltre il racconto di Valentulja stava già arrivando a una fine
ingloriosa: la stanza aveva pronunciato la sua condanna, che lui era un buffone
e un poveraccio perché non aveva parlato ad Abakumov dei bisogni impellenti
dei detenuti. Adesso Valentulja si ribellava, strillava, ma quattro o cinque
carnefici volontari gli stavano già tirando via i mutandoni e, in mezzo alle urla,
agli ululati e alle risate generali, lo facevano scappare per la stanza,
marchiandolo a cinturate e innaffiandolo con cucchiaiate di tè bollente.
Sulla branda inferiore del passaggio a raggiera verso la finestra centrale,
sotto la cuccetta di Neržin e di fronte a quella al momento vuota di Valentulja,
Andrej Andreevič Potapov beveva il suo tè mattutino. Osservava il
divertimento generale, ridendo fino alle lacrime, che si asciugava sotto gli
occhiali. Appena alzato Potapov aveva rifatto il suo letto in forma di rigido
parallelepipedo rettangolare. Adesso spalmava il pane con uno strato
sottilissimo di burro: non comprava nulla allo spaccio del carcere e inviava tutti
i soldi guadagnati alla sua “vecchia”. (Per i livelli della šaraška, lo pagavano
parecchio: centocinquanta rubli al mese, tre volte meno di una cameriera libera,
e soltanto perché era un esperto insostituibile che i capi tenevano in buona
considerazione.)
Neržin si tolse la giubba al volo mentre camminava, la gettò in alto sul suo
letto non ancora rifatto, salutò Potapov e corse a fare colazione senza
ascoltarne la risposta.
Potapov era l’ingegnere che aveva riconosciuto durante l’istruttoria, firmato
nel verbale, ribadito al tribunale di aver venduto personalmente ai tedeschi, e
per giunta a buon mercato, la primogenita dei piani quinquennali staliniani: la
centrale sul Dnepr, anche se questa era già stata fatta saltare in aria. E per quel
misfatto inconcepibile, che non aveva pari, solo grazie alla benevolenza di un
tribunale umano, Potapov era stato condannato in tutto a dieci anni di
reclusione e cinque di conseguente privazione dei diritti, quello che nel gergo
dei detenuti si chiamava “un deca e cinque sulle corna”.
Nessuno di quanti avevano conosciuto Potapov da giovane, tanto meno lui
stesso, si sarebbe mai sognato che, a quarant’anni suonati, sarebbe finito in
prigione per la politica. Gli amici lo definivano giustamente un robot. La vita
di Potapov era solo lavoro; lo infastidivano persino tre giorni di festa, e in tutta
la vita si era preso solo una vacanza, quando si era sposato. Gli altri anni non si
era mai trovato chi potesse sostituirlo e lui rinunciava volentieri alle ferie. Se
c’era penuria di pane, di verdure o di zucchero, quasi non si accorgeva di simili
fatti superficiali: faceva un altro buco nella cintura, stringeva un po’ e
continuava a occuparsi con vigore dell’unica cosa che lo interessasse al mondo,
le trasmissioni ad alta tensione. Scherzi a parte, aveva un’idea assai vaga degli
altri, di quanti non si occupavano di trasmissioni ad alta tensione. Quelli che
con le mani non creavano nulla ma si limitavano a gridare alle riunioni o a
scrivere sui giornali, Potapov non li considerava neppure persone. Aveva
diretto tutti i lavori di misurazione elettrica al Dneprostroj, e in quel cantiere si
era sposato; aveva gettato la vita della moglie, così come la propria,
nell’insaziabile falò del piano quinquennale.
Nel ’41 stavano già costruendo un’altra centrale elettrica. Potapov era ben
protetto dall’esercito. Tuttavia, scoperto che la centrale sul Dnepr, la creazione
della loro gioventù, era stata fatta saltare, aveva detto alla moglie:
– Katja! Bisogna proprio andare.
E lei gli aveva risposto:
– Sì, Andrjuša, vai.
E Potapov ci era andato – gli occhiali con tre diottrie in meno, la cintura
ritorta, la giubba tutta spiegazzata, la fondina vuota nonostante il quadratino
sulla mostrina81 – al secondo anno di una guerra ben organizzata ancora non
erano sufficienti le armi per gli ufficiali. Lo avevano fatto prigioniero intorno a
Kastornaja, in mezzo al fumo della segale che bruciava e alla canicola di luglio.
Era fuggito ma, prima di riuscire a raggiungere i suoi, era stato preso una
seconda volta. Era fuggito ancora, ma un gruppo di paracadutisti era sceso su
un campo aperto e lui era stato catturato per la terza volta.
Era passato attraverso i cannibaleschi lager tedeschi di Novograd-Volynsk e
di Częstochowa, dove mangiavano la corteccia degli alberi, l’erba e i compagni
morti. I tedeschi, all’improvviso, l’avevano tirato fuori da uno di quei lager e
portato a Berlino, dove un uomo (“dai modi gentili, ma una carogna”) che
parlava un ottimo russo gli aveva domandato se era davvero lui quell’ingegner
Potapov della centrale sul Dnepr. Sarebbe stato in grado, come prova, di
disegnare, diciamo, lo schema di collegamento di uno dei suoi generatori?
Lo schema era già stato pubblicato una volta e Potapov lo disegnò senza
esitare. In seguito lo raccontò lui stesso durante l’istruttoria, ma avrebbe fatto
meglio a non farlo.
Nel suo fascicolo figurava così: “Consegna di segreti sulla centrale
idroelettrica del Dnepr.”
Tuttavia nel fascicolo non era stato inserito un altro particolare: quel russo
sconosciuto, che aveva accertato così l’identità di Potapov, gli aveva proposto
di firmare una dichiarazione spontanea in cui si diceva pronto a ricostruire la
centrale del Dnepr, per ottenere subito in cambio la liberazione dal lager,
tessere alimentari, denaro e il lavoro che amava.
Di fronte all’allettante foglio che gli era stato proposto, sul suo viso da robot
pieno di rughe era balenata una pesante riflessione. Senza battersi il petto né
gridare parole fiere e neppure pretendere di diventare da morto un eroe
dell’Unione Sovietica, Potapov aveva risposto con modestia, nella sua parlata
meridionale:
– Deve capire che ho firmato un giuramento. Se firmassi anche qui, sarebbe
una contraddizione, no?
Così, con mitezza, senza gesti teatrali, Potapov aveva preferito la morte alla
prosperità.
– Che dire? Rispetto le sue convinzioni – aveva replicato quel russo
sconosciuto, per poi rispedire Potapov nel lager cannibalesco.
Ma quella cosa il tribunale sovietico non l’aveva tenuta in considerazione, si
era limitato a dargli dieci anni.
L’ingegner Markušev invece aveva firmato una dichiarazione simile ed era
andato a lavorare con i tedeschi. Il tribunale aveva dato anche a lui dieci anni.
Era la regola di Stalin! Una cieca equiparazione di amici e nemici che lo
faceva spiccare in tutta la storia dell’umanità!
E il tribunale non aveva preso in considerazione nemmeno che nel ’45, salito
su un carro armato sovietico come soldato da sbarco, sempre con quei suoi
occhiali leggermente incrinati e tenuti insieme con lo spago, Potapov era
entrato a Berlino, imbracciando il mitra.
E Potapov se l’era cavata con poco, beccandosi soltanto “un deca e cinque
sulle corna”.
Neržin tornò dalla colazione, si tolse le scarpe e si arrampicò in alto, facendo
oscillare insieme a lui anche Potapov. Stava per eseguire il suo quotidiano
esercizio acrobatico, rifare il letto senza pieghe stando ritto sulle gambe. Ma
appena sollevato il cuscino vi scoprì sotto un portasigarette di plastica
trasparente rosso scuro, riempito da uno strato di dodici Belomorkanal e
avvolto in una striscia di carta, sulla quale c’era scritto a mano, in stampatello:
L’ispezione dei locali della prigione speciale avveniva alle nove meno cinque.
Questa operazione, che nei campi di lavoro durava ore, con gli zek in piedi al
gelo, fatti spostare da un punto all’altro e contati prima uno per uno, poi per
cinque, per centinaia, per brigate, lì alla šaraška procedeva veloce e senza
intoppi: gli zek bevevano il tè sui loro comodini, i due ufficiali di turno, quello
che stava per staccare e quello di guardia, entravano nella stanza, gli zek si
alzavano (alcuni non si alzavano nemmeno), il nuovo ufficiale contava
concentrato le teste; poi venivano fatti gli annunci e si ascoltavano di
malavoglia le lamentele.
L’ufficiale di turno nel carcere quel giorno era il tenente anziano Šusterman,
alto, i capelli neri, non tanto cupo quanto incapace di esprimere qualsivoglia
sentimento umano, come del resto era uso tra i sorveglianti addestrati alla
Lubjanka. Era stato mandato a Marfino dalla Lubjanka insieme a Nadelašin per
rafforzare la disciplina carceraria. Alcuni zek della šaraška se li ricordavano da
allora, da sergenti maggiori entrambi avevano svolto per un certo periodo il
servizio di scorta: preso in consegna il recluso e piazzatolo con la faccia rivolta
al muro, lo accompagnavano attraverso i celebri gradini consunti fra il quarto e il
quinto piano (lì era stato praticato un passaggio che dalla prigione portava
all’edificio dell’istruttoria, e attraverso quel passaggio erano stati condotti per
un terzo di secolo tutti i detenuti del carcere centrale: monarchici, anarchici,
ottobristi, cadetti, socialisti rivoluzionari, menscevichi, bolscevichi, Savinkov,
Kutepov, Pëtr, il vicario del patriarca, Šul’gin, Bucharin, Rykov, Tuchačevskij, il
professor Pletnëv, l’accademico Vavilov, il feldmaresciallo Paulus, il generale
Krasnov, scienziati celebri in tutto il mondo e poeti di primo pelo, dapprima i
criminali, poi le loro mogli e le loro figlie); lo portavano fino alla donna in
uniforme con la Stella Rossa sul petto, e ogni carcerato che passava di lì
firmava sul grosso libro dei Destini Registrati in una fenditura su un foglio di
latta, senza vedere i nomi che precedevano e seguivano il proprio; lo
conducevano su per la scala, lungo la quale erano tese fitte reti simili a quelle
dei voli acrobatici al circo, per evitare che il detenuto saltasse giù; lo guidavano
per i lunghissimi corridoi del ministero della Lubjanka, dove sotto la luce
elettrica si soffocava, e davanti all’oro delle spalline dei colonnelli si
rabbrividiva.
Ma per quanto fossero sprofondati nel baratro dell’iniziale disperazione, gli
inquisiti notavano subito la differenza: Šusterman (allora ovviamente non
conoscevano il suo cognome) li scrutava da sotto le folte sopracciglia in un
cupo lampo, conficcava le unghie nel gomito del detenuto, per poi trascinarlo
con forza rude su per la scala; Nadelašin, invece, con il suo viso di luna che
ricordava quello di uno skopec84, camminava sempre a una certa distanza, senza
sfiorarli, e indicava in modo gentile dove dovevano svoltare.
Però Šusterman, benché più giovane, adesso aveva già tre stellette.
Nadelašin annunciò che quelli diretti a colloquio dovevano presentarsi al
comando alle dieci del mattino. Alla domanda se quel giorno ci sarebbe stato il
cinema, rispose di no, non era previsto. Si sollevò un leggero brusio di
malcontento e da un angolo Chorobrov commentò:
– Meglio che non ci portate affatto al cinema, se poi ci tocca vedere una
merda come I cosacchi del Kuban.
Šusterman si voltò di scatto per individuare chi avesse parlato, ma così perse
il conto e dovette ripartire da capo.
Nel silenzio, in modo da non essere visto ma sentito bene, qualcuno disse:
– Ormai è fatta, te lo scrivono nel fascicolo.
Contraendo il labbro superiore, Chorobrov rispose:
– Vadano a farsi fottere, lo scrivano pure. Me ne hanno già segnate tante che
nel fascicolo non ce ne stanno più.
Dalla cuccetta superiore, facendo penzolare le lunghe gambe pelose ancora
nude, Dvoetësov, arruffato e in biancheria intima, con voce roca da teppista
gridò:
– Sottotenente! E l’albero? Ce lo date o no?
– Avrete l’albero! – rispose quello, e si vedeva che per lui era un piacere
annunciare una buona notizia. – Lo metteremo qui, in questa stanza
semicircolare.
– Allora possiamo fare degli addobbi? – si mise a gridare Rus’ka, allegro, da
un’altra delle brande superiori. Seduto in alto a gambe incrociate, aveva messo
uno specchio sul cuscino e si annodava la cravatta. Di lì a cinque minuti doveva
incontrare Klara, che aveva già oltrepassato la torretta di guardia e stava
attraversando il cortile; lui la vedeva dalla finestra.
– Lo domanderemo, non ci sono direttive in proposito.
– Di quali direttive avete bisogno?
– Che albero di Capodanno è senza gli addobbi?... Ah! Ah! Ah!...
– Amici! Facciamo gli addobbi!
– Calma, ragazzo! E come la mettiamo con l’acqua calda?
– Il ministro provvederà?
La stanza ronzava allegra, discutendo dell’albero. Gli ufficiali di turno si
erano già voltati per andarsene, ma Chorobrov gridò loro dietro, più alto del
ronzio, con la sua dura pronuncia di Vjatka:
– E riferite a quelli là che ci lascino l’albero fino al Natale ortodosso!
L’albero si fa a Natale, non a Capodanno85!
Gli ufficiali di turno fecero finta di non aver sentito e uscirono. Parlavano
quasi tutti contemporaneamente. Chorobrov non era riuscito a esporre il suo
pensiero all’ufficiale di turno e adesso, in silenzio, lo raccontava in modo
energico a qualcuno di invisibile, muovendo la pelle del viso. Lui non aveva
mai festeggiato né il Natale né la Pasqua, ma in carcere si era messo a
festeggiarli per spirito di contraddizione. Almeno quei giorni non erano segnati
né da una perquisizione approfondita né da un regime intensificato. Per
l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e il Primo Maggio, invece, aveva in
programma di fare il bucato o di cucire.
Dopo aver finito di bere il tè, il vicino, Abramson, si asciugò, pulì gli
occhiali appannati con la grossa montatura di plastica e disse a Chorobrov:
– Il’ja Terent’ič! Dimentichi il secondo comandamento dei detenuti: non
provocare.
Chorobrov si riebbe dalla sua disputa invisibile e, come se avesse ricevuto
un morso, si voltò bruscamente verso Abramson.
– Questo è un vecchio comandamento, il comandamento della vostra
generazione inutile. Ve ne siete stati tranquilli e vi hanno fatto fuori tutti.
Era un’accusa ingiusta. Proprio quelli finiti dentro con Abramson avevano
organizzato a Vorkuta uno sciopero dal lavoro e uno della fame. Ma anche per
loro la conclusione era stata la stessa. Quanto a quel comandamento, si era
diffuso da solo. Per il reale stato delle cose.
– Se ti metti a far scenate, ti cacciano via – si strinse nelle spalle Abramson.
– In qualche campo, ai lavori forzati.
– Ma, Grigorij Borisyč, è proprio quello che voglio! Se devono essere lavori
forzati siano lavori forzati, il diavolo se li porti, almeno sarò in allegra
compagnia. Magari ci sarà libertà di parola, e nessun delatore.
Rubin, che non aveva ancora finito di bere il suo tè, se ne stava con la barba
arruffata vicino alla cuccetta di Potapov e Neržin, e ora si rivolgeva
bonariamente alla branda superiore:
– Mi congratulo con te, mio giovane Montaigne, mio sciocco pirronista...
– Sono commosso, Lëvčik, ma perché...?
Neržin, inginocchiato in alto sulla sua branda, teneva fra le mani un
raccoglitore. Era frutto del lavoro privato del detenuto, ossia del lavoro più
accurato che esista, perché i detenuti non hanno mai fretta. Su quel percalle
bordeaux erano disposti in modo grazioso taschine, fibbie, bottoncini e
pacchetti di eccellente carta tedesca, trofeo di guerra. Il tutto, naturalmente,
veniva fatto durante l’orario di lavoro ufficiale.
– ...E poi alla šaraška, in pratica, non ti permettono di scrivere nulla a parte
le denunce...
– Ti auguro... – Le labbra grandi e grosse di Rubin si protesero in una buffa
trombetta. – ...che le tue cervella scetticamente eclettiche siano illuminate dalla
luce della verità.
– Ah, ma quale verità, vecchio mio? Davvero qualcuno sa che cos’è la
verità?... – Gleb sospirò. Il suo viso, ringiovanito in vista del colloquio, si era
rifatto smunto per rughe color cenere. I capelli gli ricadevano ai due lati della
testa.
Sulla branda superiore accanto, sopra Prjančikov, un ingegnere calvo e
grassoccio di una certa età sfruttava gli ultimi secondi di tempo libero leggendo
un giornale preso a Potapov. Dopo averlo aperto per bene, e tenendolo a una
certa distanza, a volte si accigliava, a volte muoveva le labbra in modo
impercettibile. Quando in corridoio prese a squillare con fragore il campanello
elettrico, lui stizzito ripiegò il giornale come capitava, stropicciandone gli
angoli.
– Ma cos’è che continuano a blaterare sul dominio mondiale? Si
strombazzino la loro madre, quale dominio mondiale!...
E si guardò intorno cercando di capire dove fosse meglio scagliare il
giornale.
L’enorme Dvoetësov, che dall’altra parte della stanza si era già infilato la tuta
sbrindellata e mostrava il suo enorme deretano mentre assestava e sistemava
sotto di sé il letto superiore, ribatté con voce di basso:
– Chi è che continua a blaterare, Zemelja?
– Tutti quelli là.
– Perché? Tu non aspiri al dominio mondiale?
– Io? – si stupì Zemelja, come prendendo la domanda sul serio. – No-o-o –
fece con un largo sorriso. – Che me ne frega a me? Io non ci aspiro. – E,
gemendo piano, cominciò a calarsi giù.
– Bene, allora andiamo a sgobbare! – decise Dvoetësov e saltò
rumorosamente a terra con tutto il suo corpaccione.
Il campanello ora emetteva un suono prolungato. Suonava così per indicare
che l’ispezione era terminata, le porte regali86 sulla scala dell’istituto erano
state aperte, e gli zek si affrettavano a uscire veloci in una densa folla.
La maggior parte degli zek era già uscita. Doronin era corso fuori per primo.
Sologdin, che aveva chiuso la finestra durante la levata e il tè, ora l’aveva aperta
di nuovo un pochino, bloccandola con il volume di Erenburg, e si era
precipitato in corridoio per incappare nel professor Čelnov quando questi
fosse uscito dalla “stanza del professore”. Rubin, incapace come sempre al
mattino di combinare qualcosa, riponeva ora in fretta nel suo comodino
quanto non aveva fatto in tempo a mangiare e a bere (si era rovesciato
qualcosa) e si affaccendava accanto al suo letto gibboso, straziato, impossibile,
sforzandosi inutilmente di sistemarlo in modo da non essere poi richiamato a
rifarlo.
Neržin invece aggiustava il suo travestimento. Una volta, ai vecchi tempi, gli
zek della šaraška indossavano i vestiti e i cappotti buoni ogni giorno; con quelli
andavano anche a colloquio. Ora, per comodità delle guardie, li avevano dotati
di tute blu (in modo che le sentinelle sulle torri distinguessero chiaramente gli
zek dai liberi). Per andare a colloquio invece i capi della prigione li
costringevano a travestirsi, fornendo loro camicie e vestiti non nuovi,
appartenuti ad altri, probabilmente confiscati dai guardaroba privati con il
pignoramento dei beni. Ad alcuni zek piaceva vestirsi bene anche solo per
poche ore, mentre altri avrebbero evitato volentieri quell’odioso travestimento
con gli abiti dei morti, ma con le tute proprio non ti accettavano al colloquio: i
parenti non dovevano pensare del carcere nulla di male. E nessuno aveva un
cuore così inflessibile da rifiutarsi di vedere i parenti. E dunque si travestivano.
La stanza semicircolare si era svuotata. Erano rimaste dodici coppie di
brande a due piani, saldate e rassettate alla maniera degli ospedali: con il
lenzuolo rivoltato sopra la coperta affinché prendesse tutta la polvere e si
sporcasse più in fretta. Una maniera che poteva essere escogitata solo da una
testa di burocrate, di certo un maschio; a casa neanche la moglie del suo
inventore l’avrebbe mai adottata. In ogni caso, quelle erano le disposizioni del
controllo sanitario delle carceri.
Nella stanza adesso era calato un bel silenzio, cosa rara per quel luogo, un
silenzio che nessuno desiderava infrangere.
Erano rimasti in quattro, nella stanza: Neržin che si agghindava, Chorobrov,
Abramson e un progettista calvo.
Il progettista era uno di quegli zek timidi che, pur in prigione da anni, non
riuscivano proprio ad assumere la sfacciataggine tipica del detenuto. A nessun
costo avrebbe mai osato sottrarsi al lavoro di domenica, ma oggi aveva detto di
non sentirsi bene e aveva ottenuto appositamente dal medico del carcere il
permesso per una giornata libera; sulla branda aveva disposto un gran numero
di calzini laceri, dei fili, un fungo di cartone fatto da lui, e con la fronte
corrugata stava decidendo da quale cominciare.
Grigorij Borisovič Abramson, che aveva scontato legalmente già una decina
(senza contare i precedenti sei anni di deportazione) e ora gli avevano
affibbiato una seconda decina, sebbene non sempre riuscisse a saltare il lavoro
domenicale, ci provava comunque. Una volta, ai tempi del Komsomol,
nemmeno a tirarlo per le orecchie si sarebbe potuto strappare dalle domeniche
di lavoro. Ma le domeniche lavorative di allora venivano considerate uno
slancio per riassestare l’economia: un anno o due e ogni cosa sarebbe andata
magnificamente, tutti i giardini avrebbero cominciato a fiorire. Invece erano
passati decenni e le domeniche volontarie erano diventate un tormento e una
corvè, mentre gli alberi piantati non fiorivano affatto, e la maggior parte era
stata spezzata dai cingoli dei trattori. Nelle prigioni in cui aveva trascorso molti
anni, osservando e riflettendo Abramson era giunto a una conclusione opposta:
l’uomo è per natura ostile alla fatica e non lavorerebbe per niente al mondo se
non fosse costretto dal bastone o dal bisogno. E sebbene per le aspettative
generali, in relazione al fine comunista persistente e unico possibile per
l’umanità, tutti questi sforzi e persino le domeniche volontarie fossero
indubbiamente necessari, Abramson stesso aveva perso lo slancio a prendervi
parte. Adesso era fra i pochi in quel luogo ad avere già scontato e riscontato
quei pieni e terrificanti dieci anni e sapeva che non si trattava di un mito, di
un’assurdità del tribunale, di una storiella fino alla prima amnistia generale,
come credevano sempre i nuovi arrivati, ma erano dieci, anche dodici, quindici
anni di vita umana pieni ed estenuanti. Da tempo aveva imparato a risparmiare
i muscoli in ogni movimento, in ogni minuto di riposo. E sapeva che il modo
migliore per passare la domenica era starsene sdraiati immobili nel letto con
indosso solo la biancheria.
Adesso aveva liberato il volumetto con cui Sologdin aveva bloccato la
finestra, l’aveva chiusa, si era tolto senza fretta la tuta, si era sdraiato sotto la
coperta, vi si era avviluppato, aveva strofinato gli occhiali con una speciale
pezzuola di camoscio, si era messo in bocca una caramella, aveva sistemato il
cuscino ed estratto da sotto il materasso un libro bello grosso, ricoperto per
precauzione. Già solo a guardarlo da fuori dava un senso di benessere.
Chorobrov, al contrario, si tormentava. Giaceva vestito, in malinconica
inerzia, sopra la coperta rassettata, calzando gli stivali che appoggiava sulla
spalliera del letto. Il suo carattere lo portava a soffrire tanto e a lungo per cose
che agli altri scivolavano via facilmente. Ogni sabato, in base al noto principio
dell’assoluta volontarietà, tutti i detenuti, senza essere nemmeno consultati,
venivano iscritti nella lista dei volontari per il lavoro domenicale, e la loro
richiesta veniva inviata al carcere. Se l’iscrizione fosse stata realmente
volontaria, Chorobrov si sarebbe sempre fatto registrare e avrebbe trascorso
volentieri le sue giornate libere dietro il tavolo da lavoro. Ma proprio perché
era una palese beffarda presa in giro, Chorobrov era costretto a starsene lì
sdraiato a istupidirsi in quella prigione chiusa.
Lo zek di un campo di lavoro può soltanto fantasticare di rimanersene
sdraiato la domenica al tepore di un locale chiuso, mentre a quello di una
šaraška le reni non fanno male.
Non aveva assolutamente nulla da fare! Tutti i giornali a disposizione li
aveva già letti il giorno prima. Sul comodino, vicino al suo letto, c’era una pila
di libri, alcuni aperti, altri chiusi, della biblioteca della prigione speciale. Uno,
di pubblicistica, era una raccolta di articoli di scrittori autorevoli. Chorobrov
esitò, ma poi lo aprì all’altezza di un articolo di quel Tolstoj87 che, se solo
avesse avuto un po’ d’amor proprio, non avrebbe mai firmato con quel
cognome. L’articolo risaliva al giugno del 1941, e c’era scritto: “I soldati
tedeschi, sospinti dal terrore e dalla follia, trovarono al confine un muro di
ferro e fuoco.” Chorobrov imprecò sottovoce, richiuse di colpo il libro e lo
mise da parte. Qualsiasi fosse il testo cui dava uno sguardo, gli balzava sempre
all’occhio un punto dolente, perché tutto intorno a lui era dolente. Nelle loro
dacie ben fornite nei dintorni di Mosca, quei signori delle menti non facevano
che ascoltare la radio e guardare le loro aiuole. Un kolchoziano semianalfabeta
ne sapeva della vita più di loro.
Gli altri libri della pila erano di genere letterario, ma per Chorobrov leggerli
era altrettanto sgradevole. Uno era il grande successo Lontano da Mosca88, che
in libertà tutti divoravano appassionatamente. Chorobrov ne aveva letto
qualche pagina il giorno prima; provò a continuare, ma si rese conto di trovarlo
nauseante. Il libro era un pasticcio senza ripieno, un uovo svuotato, un uccello
ucciso e impagliato: narrava di costruzioni fatte dagli zek dei campi di lavoro,
ma in nessun punto si nominavano i campi di lavoro né si diceva che si trattava
di zek tenuti a razione e messi in cella di rigore; nel libro gli zek erano stati
sostituiti da giovani membri del Komsomol ben vestiti, con ottime scarpe e
grande fervore. Un lettore esperto però si accorgeva subito che l’autore
conosceva, aveva visto, aveva tastato con mano la verità, poteva persino essere
stato un oper in un campo, e ora mentiva, imperturbabile.
Sulle labbra gli si formarono le solite tre parole della sua solita
imprecazione; gettò da una parte il successo letterario.
Un altro libro erano le Opere scelte del noto scrittore Galachov. Il nome di
Galachov lo conosceva, si aspettava da lui qualcosa di decente, e dunque
Chorobrov aveva già cominciato a leggere il volume ma poi si era interrotto
con la sensazione che lo prendessero in giro, un po’ come quando stilavano
l’elenco dei volontari per la domenica. Persino Galachov, che sapeva scrivere
abbastanza bene le storie d’amore, era scivolato da tempo in quella maniera
ormai diffusa, non per persone normali ma per sciocchi che non avevano mai
visto la vita e che, dementi, erano felici di qualsiasi gingillo. In quei libri
mancava tutto ciò che lacera davvero un cuore umano. Se non fosse iniziata la
guerra, agli autori sarebbe toccato passare agli inni acatisti. La guerra aveva
aperto loro la via verso sentimenti comprensibili a tutti. Ma anche qui hanno
gonfiato dei conflitti irreali, come quello di un giovane membro del Komsomol
che nelle retrovie del nemico lancia giù dalle scarpate decine di convogli carichi
di munizioni, ma si tormenta giorno e notte domandandosi se è o no un vero
komsomolec, dal momento che non ha pagato la quota associativa.
Anche questa volta Chorobrov usò la solita imprecazione.
Sul comodino c’era anche un altro libro, I racconti americani degli scrittori
progressisti. Chorobrov non poteva confrontarli con la vita reale, ma la loro
selezione era straordinaria: in ogni racconto c’era immancabilmente qualche
porcheria sull’America. Raccolti in modo velenoso, formavano un tale incubo
da potersi solo meravigliare che gli americani non si fossero già tutti dati alla
fuga o impiccati.
Non c’era niente da leggere!
Chorobrov pensò di fumare. Tirò fuori una papirosa e cominciò ad
ammorbidirla. Nell’assoluto silenzio della stanza quel tubetto di carta bello
rigonfio gli frusciava tra le dita. Chorobrov avrebbe voluto fumare lì dove si
trovava, senza uscire, senza levare i piedi dalla spalliera del letto. I detenuti
fumatori sanno che l’unica sigaretta a procurare un autentico piacere è quella
che si fuma sdraiati sulla propria striscia di pancaccio, nella propria cuccetta;
una sigaretta lenta, fumata con lo sguardo fisso al soffitto, dove si susseguono
le immagini di un passato che non può tornare e di un futuro che non si
raggiunge mai.
Ma il progettista calvo non fumava e detestava il fumo, mentre Abramson,
benché fosse anche lui fumatore, si atteneva alla fallace teoria che nella stanza
dovesse esserci aria pura. Avendo ben assimilato in carcere il principio secondo
cui la propria libertà comincia dal rispetto dei diritti altrui, con un sospiro
Chorobrov calò le gambe sul pavimento e si diresse verso l’uscita. Nel farlo
notò il grosso libro che Abramson teneva fra le mani e stabilì subito che un
volume del genere nella biblioteca del carcere non c’era, quindi doveva
provenire da fuori, e da là non si faceva arrivare nulla che non valesse la pena
leggere.
Chorobrov però non domandò ad alta voce come un fesso: “Cosa stai
leggendo?” oppure “Dove l’hai preso?” (il progettista o Neržin avrebbero
potuto sentire la risposta di Abramson). Gli si accostò vicinissimo e chiese
piano:
– Grigorij Borisyč, mi fai dare un’occhiata al titolo?
– Toh, guarda – acconsentì Abramson, di malavoglia.
Chorobrov aprì il libro alla pagina del titolo e lesse, turbato: Il Conte di
Montecristo.
Gli uscì solo un fischio.
– Borisyč – domandò poi affettuosamente. – Dopo di te c’è qualcun altro?
Faccio in tempo a leggerlo?
Abramson si tolse gli occhiali e si mise a riflettere.
– Vediamo... E tu oggi mi tagli i capelli?
Gli zek non amavano il barbiere stachanovista che veniva a tagliare i capelli a
ore. I detenuti che erano stati nominati mastri-barbieri tagliavano i capelli con
le forbici soddisfacendo ogni capriccio, e lentamente, giacché avevano tanto
tempo a disposizione.
– E da chi prendiamo le forbici?
– Da Zjablik.
– D’accordo, allora te li taglio.
– Va bene. Qui si può staccare un pezzo, fino a pagina centoventotto, te lo
passo fra poco.
Visto che Abramson aveva già letto fino a pagina centodieci, Chorobrov
uscì in corridoio a fumare in uno stato d’animo allegro, ben diverso da prima.
Gleb provava sempre più una sensazione di festa. Da qualche parte,
probabilmente nel pensionato studentesco di via Stromynka, anche Nadja in
quell’ultima ora prima del loro incontro era emozionata. Durante un colloquio
i pensieri ti sfuggono, dimentichi quello che volevi dire: bisogna scriverlo
subito su un pezzo di carta, impararlo a memoria, distruggerlo (non si poteva
portare la carta con sé) e poi ricordarselo. Otto punti, otto: su una sua possibile
partenza, sulla pena che non sarebbe terminata alla scadenza, sarebbe poi
venuta un’altra deportazione, sul fatto che...
Corse al magazzino, si stirò un po’ il pettino, un’invenzione di Rus’ka
Doronin, che adottavano in molti. Era una pezzuola bianca (ricavata,
all’insaputa del magazziniere, da un lenzuolo diviso in sedici parti) con un
colletto bianco cucito sopra. Quel brandello nella scollatura della tuta bastava a
malapena a coprire la camicia sottostante con il marchio nero: “MGB – Prigione
speciale n. 1.” Aveva anche due stringhe che arrivavano fino alla schiena e lì si
annodavano. Il pettino aiutava a creare l’apparenza di un benessere che tutti
desideravano. Semplice da lavare, serviva fedelmente nei giorni di lavoro come
in quelli di festa, non ti faceva vergognare di fronte ai collaboratori liberi
dell’istituto.
Poi sulla scala, con il lucido quasi secco e sbriciolato di qualcuno, Neržin si
sforzò inutilmente di conferire brillantezza alle sue scarpe logore (per il
colloquio il carcere non ne dava di ricambio giacché sotto il tavolo non si
vedevano).
Quando tornò nella stanza per radersi (i rasoi erano permessi, anche quelli
pericolosi, tale era il gioco delle disposizioni), Chorobrov era già immerso nella
lettura. Il progettista, con tante cose da rammendare, aveva occupato oltre al
letto anche parte del pavimento, dove tagliava e faceva segni con la matita,
mentre dal cuscino, staccata un po’ la testa dal libro, Abramson strizzava gli
occhi e lo istruiva così:
– Il rammendo diventa efficace solo quando è scrupoloso. Dio la salvi da un
approccio formale. Non abbia fretta, faccia punto su punto e ci passi su due
volte. Un errore comune, poi, è quello di utilizzare le parti consumate al
margine di uno strappo. Non faccia economia, non perda tempo con le frange
inutili, ma tagli bene intorno al buco. Ha mai sentito questo cognome,
Berkalov?
– Che cosa? Berkalov? No.
– Ma come! Berkalov è un vecchio ingegnere d’artiglieria, l’inventore di quei
cannoni, ha presente? i BS-3, cannoni straordinari, con una velocità iniziale
assurda. Be’, anche Berkalov se ne stava la domenica come lei alla šaraška a
rammendare i calzini. C’era la radio accesa. Si sente: ‘A Berkalov, generale di
brigata, il premio Stalin di prima classe.’ E lui, prima dell’arresto, era soltanto
generale di divisione. Già. Be’, rammendò le calze e si mise a cuocere qualche
frittella su un fornelletto elettrico. Entrò il sorvegliante, lo sorprese sul fatto,
gli sequestrò il fornello non autorizzato e fece rapporto alla direzione del
carcere per fargli avere tre giorni di cella di rigore. Quando all’improvviso
arrivò correndo come un ragazzino proprio il capo della prigione: ‘Berkalov!
Con la roba! Al Cremlino. La chiama Kalinin!’... Questi sono i destini dei russi...
84 Gli skopcy, detti anche “colombe bianche” o “agnelli di Dio”, erano una setta di “castrati”, diffusa in
Russia nel XVIII secolo.
85 Dopo essere stato proibito in quanto simbolo del Natale e dunque simbolo religioso, l’albero
addobbato fu riammesso nella società sovietica negli anni Trenta ma solo associato ai festeggiamenti del
Capodanno.
86 Sono le due porte centrali dell’iconostasi, al di là delle quali possono andare solo i sacerdoti, che da esse
portano ai fedeli le specie eucaristiche.
87 Aleksej N. Tolstoj (1883-1945), autore di romanzi storici e di fantascienza. Insignito del premio Stalin
nel 1941, fu un suo grande sostenitore.
88 Opera di Vasilij Ažaev (1915-1968), premio Stalin 1949.
32
SULLA STRADA VERSO IL MILIONE
89 Lev Tolstoj, Guerra e pace, trad. di Erme Cadei, Milano, Oscar Mondadori, 1990, vol. II, p. 555.
33
ASTE DI REPRIMENDA
Il motore del corvo che aveva l’ordine di trasportare i detenuti a colloquio si era
rotto e, mentre parlavano al telefono per chiarire come fare, si era accumulato
un certo ritardo. Quando intorno alle undici, mandato a chiamare all’Acustico,
Neržin era giunto alla perquisizione, gli altri sei del colloquio si trovavano già lì.
Alcuni erano stati controllati, altri erano in piena perquisizione, altri ancora
aspettavano il proprio turno in posizioni differenti: chi appoggiato con il petto
al grande tavolo, chi passeggiava per la stanza dietro la linea di perquisizione.
Proprio sulla linea, vicino al muro, si trovava il tenente colonnello Kliment’ev,
tutto scintillante, dritto, regolare come un soldatino di carriera prima di una
parata. I compatti baffi neri e la testa nera emanavano un forte odore di acqua
di colonia.
Se ne stava in piedi, le mani incrociate dietro la schiena, come indifferente a
tutto, ma obbligando in realtà i sorveglianti, con la sua sola presenza, a
perquisire in modo scrupoloso.
Neržin fu accolto, con le braccia protese in avanti, sulla linea della
perquisizione da uno dei sorveglianti più malignamente pignoli,
Krasnoguben’kij, il quale gli domandò subito:
– Che cos’ha nelle tasche?
Neržin aveva perso da un pezzo la servile irrequietezza che provano i nuovi
di fronte ai sorveglianti e alla scorta. Non si diede la briga di rispondere e non
si affrettò a rovesciare le tasche di quel completo di cheviot per lui inusuale.
Rivolse a Krasnoguben’kij uno sguardo assonnato, scostò leggermente le
braccia dai fianchi, lasciando che quello gli frugasse nelle tasche. Dopo cinque
anni di carcere, molti preparativi e molte perquisizioni del genere, Neržin non
pensava più, come invece fa sempre uno nuovo, che stava subendo una rude
violenza, che dita sporche gli rovistassero nel cuore lacerato; no, facessero pure
del suo corpo quel che volevano, nulla avrebbe guastato la sua crescente
radiosità.
Krasnoguben’kij aprì il portasigarette che Potapov aveva appena regalato a
Neržin, esaminò i filtri di tutte le sigarette per assicurarsi che dentro non vi
fosse nascosto nulla, frugò tra i fiammiferi nella scatola per verificare che non
vi fosse qualcosa sotto, controllò gli orli del fazzoletto da naso per accertarsi
che non vi fosse cucito qualcosa dentro, e nelle tasche non trovò altro. Allora
infilò le mani fra la camicia e la giacca aperta e palpeggiò il petto di Neržin per
scoprire se avesse nascosto qualcosa sotto la camicia o fra la camicia e il
pettino. Dopodiché si accovacciò sui talloni e, passò dall’alto verso il basso con
entrambe le mani prima lungo una gamba, poi lungo l’altra. Quando
Krasnoguben’kij si era messo in quella posizione, Neržin aveva potuto vedere
bene l’incisore-decoratore camminare avanti e indietro nervosamente, e intuì
perché fosse tanto agitato: in prigione il tizio aveva scoperto di avere talento
per i racconti e scriveva sulla prigionia tedesca, sugli incontri in cella, sui
tribunali. Aveva già fatto uscire dal carcere uno o due di quei racconti tramite
la moglie, ma anche fuori, a chi poteva mostrarli? Bisognava nasconderli anche
là. E dentro non potevano restare. Non c’era modo di portare con sé un solo
pezzetto di carta scritta. Eppure un vecchio amico di famiglia li aveva letti e
aveva fatto sapere all’autore, tramite la moglie, che era raro incontrare un’arte
così compiuta ed espressiva, persino in Čechov. Un parere che aveva molto
incoraggiato l’incisore.
Così, anche per il colloquio di quel giorno, l’uomo aveva scritto un racconto
e gli sembrava magnifico. Giunto però alla perquisizione, davanti a
Krasnoguben’kij gli era mancato il coraggio e, voltatosi, aveva trangugiato il
pezzetto di carta appallottolato sul quale l’aveva scritto con una calligrafia
microscopica. Ora però era stizzito di averlo inghiottito: magari poteva anche
passare.
Krasnoguben’kij disse a Neržin:
– Si levi le scarpe.
Neržin appoggiò un piede sullo sgabello, si slacciò la scarpa e, con un
movimento simile a un calcio, la scagliò via senza guardare dove volasse,
mettendo in mostra un calzino logoro. Krasnoguben’kij raccolse la scarpa, vi
rovistò dentro con una mano, piegò la suola. Con la stessa faccia
imperturbabile, Neržin scagliò la seconda scarpa, e mise in mostra il secondo
calzino logoro. Forse, per via dei calzini pieni di buchi, Krasnoguben’kij non
sospettò che ci fosse nascosto qualcosa e non gli chiese di toglierli.
Neržin si rinfilò le scarpe. Krasnoguben’kij si accese una sigaretta.
Quando Neržin aveva scagliato via le scarpe il tenente colonnello era
trasalito per lo sdegno. Riteneva il gesto un’offesa intenzionale al suo
sorvegliante. Se non avesse difeso i sorveglianti, i detenuti avrebbero messo i
piedi in testa all’amministrazione carceraria. Kliment’ev si pentì nuovamente
della sua benevolenza e quasi voleva trovare un pretesto per proibire il
colloquio a quello sfacciato che non si vergognava della sua condizione di
criminale, anzi sembrava che se ne beasse.
– Attenzione! – cominciò a dire in tono severo, e i sette detenuti e i sette
sorveglianti si voltarono dalla sua parte. – Conoscete le disposizioni. Ai parenti
non si può passare nulla. E nulla si può ricevere da loro. Qualunque cosa deve
passare tramite me. Nei colloqui è vietato trattare le seguenti tematiche: lavoro,
condizioni di lavoro, condizioni di vita, orario della giornata, collocazione
dell’impianto. Non si possono fare cognomi. Sul vostro conto potete soltanto
dire che tutto va bene e non avete bisogno di niente.
– Di che si può parlare allora? – gridò qualcuno. – Di politica?
Kliment’ev non si scomodò nemmeno a rispondere a quell’assurdità.
– Della nostra colpa – suggerì un altro detenuto, in tono cupo. – Del nostro
pentimento.
– Nemmeno del vostro caso giudiziario si può, è segreto – negò Kliment’ev,
imperturbabile. – Domandate notizie della vostra famiglia, dei figli. Andiamo
avanti. C’è una nuova disposizione: dal colloquio di oggi sono vietati i baci e le
strette di mano.
A Neržin, rimasto del tutto indifferente sia alla perquisizione sia alle ottuse
disposizioni che già sapeva come aggirare, davanti al divieto dei baci, si
annebbiò la vista.
– Ci vediamo una volta all’anno... – gridò con voce roca a Kliment’ev, che si
voltò soddisfatto dalla sua parte in attesa che Gleb continuasse a sbottare.
Neržin ebbe quasi l’impressione di sentire in anticipo Kliment’ev sbraitare:
“Sospendo il colloquio!!”
E gli morì la voce in gola.
Il suo colloquio, annunciato all’ultimo momento, non aveva l’aria di essere
del tutto legale e non ci voleva niente a cancellarlo...
C’è sempre un pensiero come quello a frenare quanti potrebbero gridare la
verità o pretendere giustizia.
Da vecchio detenuto, doveva essere padrone della propria ira.
Non incontrando opposizione, Kliment’ev, impassibile e preciso, aggiunse:
– In caso di baci, strette di mano o qualsiasi altra violazione, il colloquio
verrà interrotto immediatamente.
– Ma mia moglie non lo sa! Lei mi bacerà! – disse l’incisore, stizzito.
– Saranno avvertiti anche i parenti – dichiarò Kliment’ev.
– Non c’è mai stata una disposizione del genere!
– Adesso c’è.
(Stupidi! E stupido il loro sdegno! Come se quella disposizione fosse di
Kliment’ev, e non arrivasse fresca dall’alto!)
– Quanto dura il colloquio?
– E se viene mia madre, non la fate passare?
– Il colloquio dura trenta minuti. Lascerò passare solo la persona a cui è
stato spedito l’avviso.
– E mia figlia che ha cinque anni?
– Bambini e ragazzi fino a quindici anni passano con gli adulti.
– E se uno ne ha sedici?
– Non lo facciamo entrare! Altre domande? Procediamo con il trasbordo.
All’uscita!
Sorprendente! Non li trasportavano su un corvo, come avevano sempre fatto
negli ultimi tempi, ma su un autobus urbano azzurro dalle dimensioni ridotte.
L’autobus era davanti alla porta del comando. I cappelli flosci, le mani nelle
tasche (dove tenevano le pistole), tre sorveglianti in borghese, probabilmente
nuovi, salirono a bordo per primi e si piazzarono in tre angoli: due di loro
avevano l’aria a metà fra il pugilatore a riposo e il gangster. Indossavano
cappotti di ottima fattura.
La brina del mattino stava già svanendo. Non c’era né gelo né disgelo.
I sette detenuti salirono sull’autobus dall’unica porta anteriore e si sedettero.
Poi fu il turno dei quattro sorveglianti in divisa.
L’autista chiuse la porta e avviò il motore.
Il tenente colonnello Kliment’ev salì su una macchina.
36
LA FONOSCOPIA
Petrov
Sjagovityj
Volodin
Ščevronok
Zavarzin
91 Due versi di due celebri poesie intitolate entrambe Il prigioniero, la prima di Aleksandr Puškin, la seconda
di Michail Lermontov.
92 Ispirato a una poesia di Aleksandr Blok del 1910.
38
TRADISCIMI!
Quando il camion malandato, sobbalzando sulle nude radici dei pini e sulla
sabbia, si era portato via Nadja dal fronte, mentre Gleb rimaneva in lontananza
nel varco nel bosco, finché quel varco, sempre più lontano, sempre più buio, se
l’era inghiottito, chi avrebbe mai detto che la loro separazione non solo non
sarebbe terminata con la guerra, ma era appena cominciata?
Aspettare che un marito torni dalla guerra è sempre pesante, ma lo è di più
negli ultimi mesi prima della fine: schegge e pallottole non riescono a
distinguere da quanto tempo un uomo stia combattendo.
Le lettere di Gleb erano cessate proprio allora.
Nadja correva fuori ad aspettare il postino. Scriveva al marito, scriveva ai
suoi amici, scriveva ai suoi capi: tutti tacevano, come per un incantesimo.
Tuttavia non le giungeva nemmeno un’eventuale notifica di decesso.
Nella primavera del ’45 non c’era sera che non esplodessero nel cielo salve
d’artiglieria, non fossero conquistate sempre nuove città: Königsberg, Breslavia,
Francoforte, Berlino, Praga.
Lettere però non ne arrivavano. La luce si era spenta. Nadja non aveva più
voglia di fare niente. Ma non poteva lasciarsi andare! Se lui fosse stato ancora
vivo e fosse tornato, l’avrebbe rimproverata di aver sprecato il suo tempo! Si
preparava tutti i giorni al dottorato di chimica, studiava le lingue straniere e il
materialismo dialettico, e solo di notte piangeva.
All’improvviso il commissariato di leva smise di pagare a Nadja il sussidio
da ufficiale del marito.
Significava che era stato ucciso?
E d’un tratto quella guerra che durava da quattro anni era finita! La gente,
folle di gioia, correva per le strade impazzite. Qualcuno sparava in aria con la
pistola. E tutti gli altoparlanti dell’Unione Sovietica diffondevano marce
vittoriose per il paese ferito e affamato.
Al commissariato di leva non le avevano detto: ucciso; le avevano detto:
disperso. Audace nell’arrestare, lo Stato si vergognava ad ammetterlo.
Ma il cuore umano, incapace di rassegnarsi all’irreversibile, aveva cominciato
a inventarsi delle frottole: e se l’avevano mandato in ricognizione avanzata?
Forse si trovava in missione speciale? Una generazione educata nella diffidenza e
nella segretezza vedeva segreti anche dove non ce n’erano.
Era una torrida estate meridionale, ma per la giovane vedova nel cielo il sole
non brillava.
Comunque lei continuava a studiare chimica, lingue e materialismo
dialettico per il timore che, una volta tornato, il marito non l’apprezzasse più.
La guerra ormai era finita da quattro mesi. Era giunto il momento di
riconoscere che Gleb non si trovava più su questa terra. Poi però dalla
Krasnaja Presnja era arrivata quella stropicciata lettera a triangolo: “Mia
adorata! Ora ce ne saranno altri dieci!”
Non tutte le persone a lei vicine riuscivano a capirla: aveva saputo che il
marito si trovava in prigione e si era come illuminata, era tornata allegra! Che
felicità! Non erano né venticinque anni né quindici! Solo dalla morte non c’è
ritorno, dalla galera si può tornare! In quella nuova condizione scorgeva
addirittura una nuova levatura romantica, capace di innalzare il loro ordinario
matrimonio di un tempo fra studenti.
Ora che non si trattava più della morte, e nemmeno di un orribile
tradimento interiore, ma solo di un cappio al collo, nuove forze erano affluite
in Nadja. Lui si trovava a Mosca, bisognava quindi andare a Mosca a salvarlo!
(Immaginava che sarebbe bastato stargli accanto per riuscirci.)
Ma come arrivarci? I posteri non immagineranno mai che cosa significasse
allora spostarsi e, in particolare, raggiungere Mosca. Come negli anni Trenta, il
cittadino doveva prima dimostrare con documenti alla mano perché non
volesse restare dov’era, per quale necessità di servizio dovesse gravare sui
trasporti. Solo allora gli concedevano un lasciapassare che dava il diritto di
vagare di fila in fila nelle stazioni, dormendo sul pavimento coperto di sputi
per una settimana, oppure di ficcare una timorosa bustarella in uno sportello
posteriore della cassa.
Nadja aveva escogitato di tentare l’ammissione all’inaccessibile dottorato di
Mosca. E dopo aver pagato tre volte più caro un normale biglietto, aveva preso
un aereo per Mosca, tenendo sulle ginocchia la borsa con i libri di testo e gli
stivali di feltro per la taiga che aspettava suo marito.
Si trovava a quel culmine morale della vita in cui ti sembra che ci siano forze
positive ad aiutarti, che tutto vada bene. Il miglior dottorato del paese aveva
accolto l’ignota provinciale senza un nome, senza soldi, senza appoggi, senza
un numero di telefono...
Era un miracolo, eppure si era rivelato più facile che ottenere un colloquio
alla prigione di transito di Krasnaja Presnja! Il colloquio non glielo
concedevano. Non li concedevano in generale: tutti i canali del GULAG erano
saturi, dall’Europa si stava riversando una fiumana di prigionieri che superava
ogni immaginazione.
Ma accanto alla torretta di guardia fatta di assi, mentre aspettava una
risposta alle sue vane istanze, Nadja era stata testimone di come avevano
condotto fuori dalle porte di legno non verniciato della prigione una colonna
di detenuti diretti al lavoro a un pontile sulla Moscova. E in un pensiero
illuminato e fulmineo, di quelli che portano al successo, aveva intuito: Gleb è
qui!
Avevano condotto fuori circa duecento uomini. Tutti in quello stato
intermedio in cui un uomo si congeda dalla veste di libero e si va adattando alla
logora veste grigio-nera di zek. Ciascuno aveva ancora qualcosa che ne
ricordava il passato: un berretto militare con un fregio colorato ma senza più
cinghietta e stelletta, o un paio di stivali in pelle non ancora venduti in cambio
di pane o portati via dai malavitosi, o una camicia di seta che cominciava a
logorarsi sulla schiena. Erano tutti rapati a zero, si proteggevano alla meglio la
testa dal sole estivo, avevano la barba di più giorni, erano magri, alcuni fino allo
stremo.
Nadja non ebbe bisogno di osservarli, sentì subito Gleb e poi lo vide:
camminava con il colletto della giubba di lana sbottonato, i filetti rossi sui
polsini delle maniche e macchie di stoffa non scolorita sul petto dove prima
c’erano le decorazioni. Teneva le mani dietro la schiena, come tutti. Mentre
scendeva dalla collinetta non guardava né gli ampi spazi soleggiati, che pure
avrebbero dovuto attrarre l’attenzione di un carcerato, né le donne con i pacchi
lì intorno (nelle prigioni di transito non ricevevano lettere e lui non sapeva che
Nadja si trovava a Mosca). Giallo ed emaciato quanto i suoi compagni, lui era
raggiante e ascoltava con approvazione e trasporto il suo vicino, un vecchio
prestante dalla barba grigia.
Nadja era corsa accanto alla colonna e gridava il nome del marito, ma lui
non la sentiva a causa del brusio delle conversazioni e del latrare dei cani della
scorta. Ansando, lei correva, per assorbire ancora e ancora il suo volto. Che
sofferenza che fosse dovuto marcire per mesi in celle buie e maleodoranti! Che
felicità vederlo lì, poco lontano da lei! Che orgoglio che non si fosse lasciato
sopraffare! Che offesa che non fosse per niente addolorato: si era dimenticato
di sua moglie! E per la prima volta percepì il proprio dolore, poiché era stato
Gleb a metterla in quella situazione disperata: la vittima non era lui, era lei.
E tutto era avvenuto in un attimo!... Le guardie della scorta si erano messe a
urlarle contro, le terribili mute di addestrati cani mangia-uomini saltavano, le
sbarravano la strada e latravano con gli occhi iniettati di sangue. Nadja era stata
respinta. La colonna si era infilata in una stretta discesa e non c’era stato verso
di farsi strada e proseguire al suo fianco. Le ultime guardie della scorta, che
avevano il compito di delimitare lo spazio vietato, la seguivano a una certa
distanza e Nadja, dovendo mantenersi dietro di loro, non aveva più potuto
raggiungere la colonna, che ormai era scesa dalla collina, sparendo dietro
un’altra recinzione.
La sera e la notte, quando gli abitanti della Krasnaja Presnja, sobborgo
moscovita celebre per la sua lotta alla libertà, non vedevano, convogli di carri
bestiame venivano fatti arrivare fino alla prigione di transito; fra un agitare di
torce, il fitto latrare dei cani, brusche grida, imprecazioni e percosse, le squadre
delle guardie di scorta facevano sedere quaranta detenuti per vagone e li
trasportavano a migliaia a Pečora, Inta, Vorkuta, Sov-Gavan’, Noril’sk, nei
campi di lavoro delle zone di Irkutsk, Čita, Krasnojarsk, Novosibirsk, dell’Asia
Centrale, di Karaganda, Džezkazgan, del Pribalchaš’e, dell’Irtyš, di Tobol’sk,
degli Urali, di Saratov, Vjatka, Vologda, Perm’, Solvyčegodsk, Rybinsk,
Pot’minsk, Suchobezvodninsk e molti altri piccoli campi senza nome. In
gruppetti di cento, duecento persone, venivano trasportati invece di giorno nei
cassoni dei camion a Serebrjanyj Bor, Novyj Ierusalim, Pavšino, Chovrino,
Beskudnikovo, Chimki, Dmitrov, Solnečnogorsk, e di notte, in molti luoghi
della stessa Mosca dove, dietro file di recinzioni di legno, dietro matasse di filo
spinato, costruivano una capitale rispettabile dalla potenza invincibile...
La sorte aveva mandato a Nadja una ricompensa inattesa ma meritata: non
avevano trasferito Gleb nella zona artica, lo avevano scaricato a Mosca, in un
piccolo campo che aveva il compito di costruire un edificio per i capi dell’MGB
e dell’MVD, una casa semicircolare alla barriera di Kaluga.
Quando Nadja era corsa da lui laggiù al primo colloquio, per lei era stato
come se lo avessero già quasi liberato.
Sulla Bol’šaja Kalužskaja andavano e venivano le limousine, talvolta anche
quelle dei diplomatici; gli autobus e i filobus si fermavano alla fine
dell’inferriata del giardino Neskučnyj, dove si trovava la torretta di guardia del
campo di lavoro, che ricordava la guardiola di un cantiere edile; in alto, sui
muri in costruzione, formicolavano uomini in abiti sporchi e laceri, ma tutti i
lavoratori edili hanno quell’aspetto e nessuno dei passanti o dei passeggeri dei
veicoli indovinava che erano zek.
E chi lo indovinava, taceva.
Era l’epoca del denaro deprezzato e del pane costoso. Le cose si vendevano
in casa e Nadja portava i pacchi al marito. I pacchi li accettavano sempre. I
colloqui invece non li concedevano spesso: Gleb non produceva in base alle
quote stabilite.
Ai colloqui lui era irriconoscibile. Come per tutte le persone arroganti, la
disgrazia sembrava aver avuto un effetto positivo. Si era fatto più dolce, baciava
le mani della moglie e seguiva il luccichio nei suoi occhi. Quella di Gleb non
era una prigione! La vita nel campo di lavoro, la sua spietatezza, che superava
quanto si sa della vita dei cannibali e dei ratti, l’avevano piegato. Tuttavia era
giunto coscientemente a quel limite oltre il quale non si ha più compassione
per sé, e con perseveranza ripeteva:
– Cara! Tu non sai a che cosa stai andando incontro. Mi aspetterai un anno,
anche tre, persino cinque, ma più vicina sarà la fine, più difficile per te sarà
attenderla. Gli ultimi anni saranno i più intollerabili. Non abbiamo figli. Non
distruggere la tua giovinezza, lasciami! Sposati con un altro.
Lui lo proponeva senza crederci veramente. Lei, senza crederci veramente, si
opponeva dicendo:
– Cerchi una scusa per liberarti di me?
I detenuti abitavano nello stesso edificio che stavano costruendo, in un’ala
non ancora completata. Scendendo dal filobus, le donne che portavano i pacchi
vedevano al di sopra della recinzione due o tre finestre del dormitorio maschile
e gli uomini che si affollavano alle finestre. A volte, mischiate agli uomini, si
vedevano anche le puttane dei campi di lavoro. Una di queste abbracciava alla
finestra il marito del campo e si metteva a gridare oltre la palizzata alla moglie
legittima:
– Piantala di venire qui, baldracca! Consegna l’ultimo pacco e vattene alla
malora! Se ti vedo ancora alla torretta di guardia, ti graffio la faccia!
Le prime elezioni postbelliche del Soviet Supremo si avvicinavano. A Mosca
ci si preparava con zelo, come se si potesse davvero non votare per qualcuno.
Si oscillava fra il desiderio di tenere a Mosca quelli dell’articolo cinquantotto
(come lavoratori erano bravi) e la paura (la vigilanza si era indebolita). Per
spaventarli tutti bisognava mandarne via almeno una parte. Nei campi di lavoro
correvano voci minacciose su imminenti traduzioni al Nord. I detenuti
cuocevano le patate per il viaggio. Quelli che le avevano.
Per tutelare l’entusiasmo degli elettori, prima delle elezioni vietarono tutti i
colloqui nei campi di lavoro di Mosca. Nadja fece avere a Gleb un asciugamano
dentro il quale aveva cucito un bigliettino:
“Amore mio! Per quanti anni potranno passare e per quante tempeste
potranno addensarsi sul nostro capo” (a Nadja piaceva esprimersi in modo
nobile) “la tua ragazza ti sarà fedele finché vivrà. Dicono che porteranno via
quelli del vostro ‘articolo’. Andrai in luoghi lontani, strappato per lunghi anni
ai nostri incontri, ai nostri sguardi gettati furtivamente attraverso il filo spinato.
Se in quella vita di una cupezza sterminata ci saranno svaghi in grado di
alleggerire il peso sulla tua anima, io mi rassegnerò; ti autorizzo, caro, e insisto
perfino: tradiscimi, incontra altre donne. Purché tu mantenga il tuo vigore!
Non ho paura: tornerai lo stesso da me, vero?”
39
FACILE DIRE “ANDIAMO NELLA TAIGA”
Prima ancora di conoscere anche solo una decima parte di Mosca, Nadja
conosceva già perfettamente l’ubicazione delle carceri in città, la dolorosa
geografia delle donne russe. A Mosca le prigioni erano numerose ed erano
distribuite nella capitale in modo uniforme, ponderato, tanto che da un punto
qualsiasi di Mosca si era sempre vicini a una di esse. Tra pacchi da portare,
informazioni da chiedere, colloqui cui andare, Nadja aveva pian piano imparato
a distinguere tra la Bol’šaja Lubjanka, pansovietica, e la Malaja, regionale, aveva
appreso che esistevano carceri istruttorie in ogni stazione e si chiamavano KPZ,
celle di detenzione preventiva, era stata più di una volta al carcere della Butyrka
e alla Taganka, sapeva (sebbene non fossero segnate sulle tabelle dei percorsi)
quali tram andassero al carcere di Lefortovo e quali portassero alla Krasnaja
Presnja. Quanto alla prigione Matrosskaja Tišina, chiusa durante la rivoluzione
ma poi ripristinata e consolidata, ci abitava vicino.
Da quando Gleb era stato ricondotto a Mosca da un campo di lavoro
lontano, questa volta non in un altro campo ma in una struttura incredibile,
una prigione speciale, dove i detenuti erano nutriti in modo eccellente e si
occupavano di scienza, Nadja aveva ricominciato a vedere il marito di tanto in
tanto. Ma alle mogli non era concesso sapere dove tenessero di preciso i mariti,
che per i rari colloqui venivano portati in varie prigioni di Mosca.
Gli incontri più spensierati avvenivano alla Taganka. Non era una prigione
per detenuti politici ma per ladri, e le disposizioni erano più leggere. I colloqui
si svolgevano nel locale del dopolavoro dei sorveglianti; i detenuti venivano
condotti lungo la deserta via Kamenščikov in un autobus scoperto, le mogli
stavano di guardia sul marciapiede e, ancora prima dell’inizio del colloquio
ufficiale ciascuno poteva abbracciare la propria consorte, trattenersi con lei,
dirle cose non permesse dal regolamento, potevano persino scambiarsi
qualcosa. E il colloquio si svolgeva in modo rilassato: sedevano vicini e un solo
sorvegliante ascoltava la conversazione di quattro coppie.
Il carcere della Butyrka, che nella sostanza era anch’esso maggiormente
permissivo, spensierato, alle mogli pareva agghiacciante. I detenuti che
arrivavano alla Butyrka dalle due Lubjanki per la generale rilassatezza della
disciplina si sentivano subito sollevati: nei box non c’era nessuna luce
accecante, nei corridoi si poteva camminare senza tenere le mani dietro la
schiena, nella cella era possibile conversare ad alta voce, spiare da dietro le
museruole, di giorno stare sdraiati sui pancacci e sotto i pancacci persino
dormire. Di maggiormente permissivo, alla Butyrka, c’era anche dell’altro: la
notte potevi proteggere le mani sotto il cappotto, non ti sequestravano gli
occhiali, in cella ti lasciavano i fiammiferi, non ti svuotavano ogni sigaretta del
tabacco, mentre il pane arrivato nei pacchi lo tagliavano solo in quattro parti,
non lo riducevano in tanti pezzettini.
Le mogli non erano a conoscenza di tutte queste indulgenze. Vedevano un
muro da fortezza alto quattro uomini, che correva lungo il quartiere per via
Novoslobodskaja. Vedevano un cancello di ferro fra robusti pilastri di cemento
armato; il cancello inoltre era straordinario: scivolava piano, spalancando e
richiudendo meccanicamente la sua bocca ai corvi. Quando le mogli erano
ammesse ai colloqui, venivano condotte attraverso una costruzione di pietra
dello spessore di due metri e si ritrovavano, fra le pareti alte diversi uomini, a
fare il giro della terribile torre di Pugačëv. I colloqui erano concessi nel
seguente modo: agli zek comuni, tra due inferriate, in mezzo alle quali
passeggiava un sorvegliante, che pareva anche lui in gabbia; agli zek del cerchio
superiore, quelli delle šaraški, a un ampio tavolo, sotto il quale un tramezzo
cieco non permetteva di toccarsi con i piedi e di farsi segnali, mentre a
un’estremità c’era il sorvegliante, che ascoltava la conversazione come una
statua vigile. Ma la cosa più deprimente della Butyrka era che i mariti
sembravano comparire dalle profondità del carcere: per una mezz’ora
emergevano da quelle umide mura spesse, sorridevano titubanti, assicuravano
di vivere bene, di non aver bisogno di nulla, per poi scomparire di nuovo in
quelle pareti.
Quel giorno era la prima volta che avevano un colloquio a Lefortovo.
La guardia fece una spunta sull’elenco e indicò a Nadja l’edificio annesso.
In una stanza spoglia, con due lunghe panche e un tavolo spoglio, c’erano
già alcune donne ad aspettare. Sul tavolo erano posati un cestino di vimini e
borse per la spesa in similpelle, visibilmente pieni di generi alimentari. Sebbene
gli zek delle šaraški fossero ben sazi Nadja, che era venuta con delle sottilissime
frittelle in un cartoccio, aveva provato vergogna e dispiacere a non viziare
nemmeno una volta l’anno il marito con qualcosa di buono. Così si era alzata
presto, quando al pensionato dormivano ancora tutti, per friggere un po’ di
farina bianca e zucchero avanzati nel burro, anch’esso avanzato. Non aveva
fatto in tempo a comprare dei dolci o dei pasticcini, e di soldi, fino al giorno di
paga, glien’erano rimasti pochi. Il colloquio era capitato il giorno del
compleanno di suo marito e lei non aveva niente da regalargli! Un bel libro?
Dopo l’ultimo colloquio non poteva più: quella volta Nadja gli aveva portato
un libretto di poesie di Esenin scovato per miracolo. Il marito ne aveva uno
identico al fronte, ma era andato perduto durante l’arresto. Accennando a
quello, sulla pagina del titolo Nadja aveva scritto:
E nonostante tutto, sebbene nell’attesa avesse anche pianto un po’, Nadja entrò
al colloquio con una sensazione di festa.
Quando la moglie comparve sulla porta, Gleb si era già alzato per andarle
incontro e sorrideva. Quel sorriso durò il tempo di un passo di lui e uno di lei,
eppure in Nadja tutto gioiva: lui le era ancora vicino! non era cambiato nei suoi
confronti!
Il gangster a riposo, con il collo taurino e un morbido completo grigio, si
avvicinò al tavolinetto e bloccò la stretta stanza, impedendo loro di incontrarsi.
– Lasci che le stringa almeno la mano! – si indignò Neržin.
– Non si può – rispose il sorvegliante, e pronunciò quelle parole abbassando
a malapena la pesante mandibola.
Nadja sorrise con aria smarrita e fece cenno al marito di non discutere. Si
lasciò cadere sulla poltrona preparata per lei, il cui rivestimento di pelle lasciava
spuntare, qua e là della fibra di tiglio. Su quella poltrona si erano sedute
generazioni di inquirenti, che avevano condotto alla tomba centinaia di persone
e c’erano finiti in fretta anche loro.
– Be’, tanti auguri! – disse Nadja, sforzandosi di apparire allegra.
– Grazie.
– Che coincidenza, proprio oggi!
– La mia solita fortuna...
(Si stavano riabituando a parlare.)
Nadja si sforzava di ignorare lo sguardo del sorvegliante e la sua presenza
opprimente. Gleb cercava di stare seduto in modo che lo sgabello sgangherato
non lo pizzicasse.
Il tavolinetto dell’inquisito si frapponeva tra marito e moglie.
– Prima che mi dimentichi, ti ho portato qualcosa da mangiucchiare, delle
frittelle, sai, come quelle che fa mamma. Scusami se ho con me solo questo.
– Sciocchina, non ce n’era bisogno! Abbiamo tutto, noi.
– Be’, frittelle così non le avete, no? E libri non ne avevi chiesti... Esenin, lo
leggi?
Il viso di Neržin si incupì. Era già più di un mese che lo avevano denunciato
a Šikin per Esenin, e quello gli aveva requisito il libro, affermando che Esenin
era vietato.
– Sì, lo leggo.
(Avevano mezz’ora, potevano davvero sprecarla in dettagli?!)
Non faceva per niente caldo, anzi, quasi sicuramente la stanza non era
nemmeno riscaldata, e tuttavia Nadja si era slacciata il colletto e aveva aperto la
pelliccia: desiderava mostrare al marito, oltre alla pelliccia nuova, che si era
fatta cucire proprio quell’anno, e che chissà come mai lui non commentava,
anche la camicetta nuova; e sperava che l’arancione della stoffa le ravvivasse il
viso, di sicuro terreo alla fioca illuminazione del locale.
Gleb avvolse la moglie in uno sguardo continuo, totale: il viso, la gola, il
solco fra i seni. Nadja si agitò sotto quello sguardo, che era la cosa più
importante del colloquio, e sembrò quasi protendersi verso di lui.
– Hai una camicetta nuova. Fa’ vedere.
– E la pelliccia? – Nadja si atteggiò in una smorfia dispiaciuta.
– La pelliccia?
– È nuova.
– Ah, è vero – notò infine Gleb. – La pelliccia è nuova!
Ne osservò i riccioli neri, e non comprese nemmeno che si trattava di
astrakan, vero o finto che fosse. Del resto, lui era l’ultima persona sulla terra in
grado di distinguere tra una pelliccia da cinquecento rubli e una da cinquemila.
Nadja ora se l’era tolta per metà. Lui le vide il collo, ancora tornito come
quello di una ragazza, le spalle deboli e strette, e sotto le pieghe della camicetta
i seni, che in quegli anni si erano fatti cascanti e malinconici.
Il fugace pensiero di rimprovero che lei avesse sfilze di vestiti nuovi e di
nuove conoscenze si trasformò in pietà alla vista di quei seni cascanti e
malinconici: le ruote del corvo grigio della prigione avevano schiacciato anche la
sua vita.
– Ti sei smagrita – disse con compassione. – Mangia meglio. Non riesci?
“Sono brutta?” gli domandarono gli occhi di Nadja.
“Tu sei sempre meravigliosa!” risposero quelli del marito.
(Sebbene parole simili non fossero state vietate dal tenente colonnello, non
si potevano pronunciare davanti a un estraneo.)
– Mangio, mangio – mentì lei. – Però la vita che faccio è inquieta, nervosa.
– In che senso? Racconta.
– No, prima tu.
– Io cosa? – sorrise Gleb. – Io non ho niente da dire.
– È che... – cominciò lei con imbarazzo.
Il sorvegliante tarchiato, con l’aspetto da bulldog, stava a mezzo metro dal
tavolinetto e dall’alto guardava i due coniugi a colloquio, con la stessa
attenzione e lo stesso disprezzo con cui i leoni di pietra guardano i passanti
dagli ingressi.
Era necessario trovare un tono sicuro, a lui inaccessibile, un linguaggio fatto
di modi di dire e mezze allusioni. A suggerire quel tono sarebbe stata la loro
superiorità intellettuale, che si avvertiva in modo palese.
– E quel vestito, è tuo? – cambiò argomento lei.
Neržin strizzò gli occhi e scosse la testa con fare comico.
– Macché mio! È solo uno specchietto per le allodole. Ce l’ho per tre ore.
Non farti imbrogliare dalla Sfinge.
– Non ci riesco. – Nadja protese le labbra con fare civettuolo, imbronciata
come una bambina, convincendosi di piacere ancora al marito.
– Noi siamo abituati a metterla sul ridere.
Nadja ricordò la conversazione con la Gerasimovič ed emise un sospiro.
– Noi no.
Neržin cercò di stringere le ginocchia della moglie fra le proprie, ma
l’inopportuna sbarra sotto il tavolo, messa in modo da impedire all’inquisito di
raddrizzare le gambe, ostacolava anche quel contatto. Il tavolino oscillò. Gleb
si appoggiò sui gomiti, si piegò verso la moglie e disse indispettito:
– Sempre così, ostacoli dappertutto.
“Sei mia? Mia?” domandava il suo sguardo.
“Sono quella che amavi. Non sono peggiorata, credimi!” Gli occhi grigi di
Nadja scintillavano.
– E al lavoro, ti creano problemi? Racconta. Figuri già fra i dottorandi?
– No.
– Hai discusso la tesi di dottorato?
– Nemmeno.
– Com’è possibile?
– Ecco... – E cominciò a parlare sempre più in fretta, nel timore che fosse
già passato parecchio tempo. – Nessuno riesce a discutere la tesi prima di tre
anni. Ti danno proroghe, una scadenza supplementare. Una dottoranda, per
esempio, ha lavorato per due anni a una tesi sui ‘Problemi dell’alimentazione
sociale’ e poi le hanno cambiato l’argomento...
(“Ah, ma che sto dicendo? Non è affatto importante!...”)
– ...Ho la tesi pronta e battuta a macchina, mi ritardano alcune modifiche...
(La lotta contro il servilismo, ma qui come glielo spieghi?...)
– E poi le cianografiche, le fotografie... E con la rilegatura non so ancora
come farò. Ho tantissime cose da sbrigare...
– Ma la borsa di studio te la pagano?
– No.
– E di cosa vivi?!
– Della paga.
– Quindi lavori? Dove?
– Sempre lì, all’università.
– E cosa fai?
– Ho un impiego volante, fuori ruolo, hai presente? Insomma, non sono in
regola un po’ da nessuna parte... Non lo sono neanche al pensionato. Io,
veramente...
Nadja lanciò un’occhiata di sbieco al sorvegliante. Stava per dire che la
polizia avrebbe dovuto già mandarla via dalla Stromynka e che le avevano
prolungato il permesso di sei mesi solo per sbaglio. Potevano scoprirla da un
giorno all’altro! Ma a maggior ragione non era una cosa da dire davanti a un
sergente dell’MVD...
– Be’, anche il colloquio di oggi l’ho ottenuto... è successo che...
(“Ah, in mezz’ora non ce la fai a raccontarlo!”)
– Aspetta, dimmelo dopo. Voglio domandarti una cosa: di ostacoli per colpa
mia ne hai avuti?
– Sì, e anche molto pesanti, caro... Mi daranno... vogliono assegnarmi un
argomento speciale... Sto cercando di evitarlo.
– In che senso un argomento speciale?
Lei sospirò e lanciò un’occhiata al sorvegliante. Era in allerta, sembrava sul
punto di abbaiare o di staccarle la testa con un morso, e si trovava a meno di
un metro dai loro volti.
Nadja allargò le braccia. Avrebbe dovuto spiegargli che ormai nemmeno
all’università offrivano studi che non fossero secretati. Avevano reso segreta
tutta la scienza, dalle forme più alte a quelle più basse. La classificazione di
“segreto” comportava un nuovo questionario ancora più dettagliato sul marito,
sui parenti del marito e sui parenti di quei parenti. Se avesse scritto: “marito
condannato in base all’articolo cinquantotto”, non le avrebbero permesso non
solo di lavorare all’università, ma nemmeno di discutere la tesi. Se avesse
mentito segnando “marito disperso in guerra”, avrebbe comunque dovuto
indicarne il cognome; un controllo nell’archivio dell’MVD, e l’avrebbero
processata per aver fornito false informazioni... Nadja allora aveva scelto la
terza possibilità. Tuttavia in quel momento, sotto lo sguardo attento di Gleb,
evitò di parlarne e cominciò a raccontare animatamente:
– Sai, faccio parte di un gruppo dilettantistico universitario. Ci mandano
tutto il tempo a suonare ai concerti. Di recente ho suonato nella Sala delle
Colonne la stessa sera di Jakov Zak.
Gleb sorrise e scosse la testa come se faticasse a crederci.
– Era una serata dei sindacati, è successo così, per caso, tuttavia... Sapessi che
ridere, hanno bocciato il mio vestito migliore. Dicevano che non era adatto per
salire sul palco. Hanno telefonato al teatro e me ne hanno fatto portare un
altro, stupendo, lungo fino ai piedi.
– Ti hanno filmata mentre suonavi?
– Sì, sì. Le ragazze mi criticano, dicono che con la musica me la spasso. Ma
io rispondo: meglio spassarsela con qualcosa che con qualcuno.
Non lo aveva detto tanto per dire, ma in tono deciso: era un principio nuovo
che aveva felicemente fatto proprio! Sollevò la testa, aspettandosi un elogio.
Neržin guardò la moglie con un misto di gratitudine e agitazione. Elogio e
incoraggiamento non c’era modo di esprimerli.
– Aspetta, riguardo all’argomento speciale?
Nadja abbassò lo sguardo, reclinando la testa.
– Volevo dirti che... tu però non prenderla male, nicht wahr!... un tempo
insistevi per... divorziare... finì la frase in tono sommesso.
(Era quella la terza possibilità, l’unica che le offrisse una via per vivere!...
Non avrebbe scritto nel questionario “divorziata”, perché il questionario
richiedeva comunque il cognome dell’ex marito, il suo indirizzo attuale, i
genitori di lui, e persino il loro anno di nascita, occupazione e indirizzo. No,
avrebbe segnato “non coniugata”. Per questo c’era bisogno di divorziare, e per
di più in segreto, in un’altra città.)
Sì, un tempo aveva insistito... Ora, tuttavia, vacillò. Solo in quel momento
notò che Nadja non aveva al dito l’anello nuziale che non si toglieva mai.
– Sì, naturalmente – confermò lui con grande decisione. Nadja sfregava sul
tavolo quella stessa mano da cui mancava l’anello, come stendesse una focaccia
da una pasta indurita.
– Dunque... tu non saresti contrario... se... capitasse... di doverlo fare?... –
Nadja sollevò la testa. Aveva gli occhi sgranati. Nel grigio arcobaleno
aghiforme dei suoi occhi splendeva una richiesta di perdono e di
comprensione. – Sarebbe per finta – aggiunse tutto d’un fiato, con un filo di
voce.
– Brava! Era ora! – acconsentì Gleb con ferma convinzione, non provando
dentro di sé né convinzione né fermezza, e rimandò a un secondo momento
l’interpretazione di quanto accadeva.
– Magari non ce ne sarà neanche bisogno! – disse lei in tono supplichevole,
risollevando la pelliccia sulle spalle. In quel momento gli parve stanca,
stremata. – Te l’ho detto per ogni evenienza, per metterci d’accordo. Magari
non ce ne sarà bisogno.
– No, perché? Hai fatto bene, brava – ripeteva meccanicamente Gleb.
Intanto l’uomo orientava già i suoi pensieri alla questione principale della lista,
che si era preparato e che adesso era il momento di rovesciarle addosso.
– L’importante, cara, è che tu abbia le idee chiare. Non riporre troppe
speranze sulla fine della mia pena!
Neržin stesso era già pienamente preparato a una seconda condanna e a una
permanenza illimitata in carcere, come già accaduto a molti dei suoi compagni.
Era una cosa che non si poteva scrivere assolutamente in una lettera, doveva
dirla in quel momento.
Sul volto di Nadja, però, comparve un’espressione timorosa.
– Il termine della pena è una convenzione – le spiegò Gleb in tono rigido,
veloce, accentando le parole a casaccio affinché il sorvegliante non riuscisse a
coglierle. – Può ripetersi a spirale. La storia è piena di esempi. E se per
miracolo la mia pena dovesse giungere a una fine, non possiamo pensare che
torneremo alla vita di prima nella nostra città. Comprendi, convinciti, mettitelo
bene in testa: non vendono biglietti per la terra del passato. Io, per esempio, mi
rammarico soprattutto di non saper fare il calzolaio. Quanto sarebbe utile in
un villaggio della taiga, nella taiga di Krasnojarsk, sul basso corso dell’Angara!
Quello è l’unico tipo di vita al quale dovremo prepararci.
Lo scopo era stato raggiunto: davanti a quella raffica di frasi il gangster a
riposo non si muoveva, riusciva solo a sbattere le palpebre.
Ma Gleb si era dimenticato (o meglio, non si era dimenticato, non capiva,
come tutti loro non capivano) che una persona abituata a camminare sulla
tiepida terra grigia non può scalare subito le catene montuose ghiacciate, non
può. Non capiva che in quel momento, la moglie continuava a contare
meticolosamente, in modo metodico, i giorni e le settimane di pena del marito,
come aveva fatto fin dall’inizio. Per lui il termine della condanna era un
luminoso freddo infinito; per lei erano le duecentosessantaquattro settimane, i
sessantuno mesi, i cinque anni e rotti che restavano, di gran lunga meno del
tempo trascorso da quando lui era andato in guerra senza più tornare.
A mano a mano che Gleb parlava, la paura sul viso di Nadja si trasformava
in cinereo terrore.
– No, no! – esclamò lei parlando fitto. – Non dirmi una cosa del genere,
tesoro! – (Si era già dimenticata del sorvegliante, non si vergognava più.) – Non
portarmi via la speranza! Non ci voglio credere! Non ci posso credere! Non è
possibile e basta!... O hai pensato che volessi davvero lasciarti?!
Il labbro superiore le cominciò a tremare, il viso a contorcersi. Gli occhi
esprimevano solo e soltanto devozione.
– Ti credo, ti credo, Nadjušen’ka! – disse Gleb, cambiando tono di voce. –
Lo avevo già capito.
Lei tacque e, in un calo di tensione, si accasciò.
Sulla porta spalancata della stanza comparve il tenente colonnello nero e
giovanile, intento a guardare con attenzione le tre teste che si muovevano
insieme; chiamò il sorvegliante a bassa voce.
Il gangster con il collo da picador si staccò di malavoglia, come se lo
strappassero via da un dolce, e si diresse verso il tenente colonnello. Là, a
quattro passi dalla schiena di Nadja, si scambiarono un paio di frasi. In quel
frangente Gleb fece in tempo a dire con voce soffocata:
– Conosci la moglie di Sologdin?
Allenata a simili stravolgimenti, Nadja riuscì a stargli dietro:
– Sì.
– Sai dove vive?
– Sì, lo so.
– Non gli concedono un colloquio, dille che lui...
Il gangster fece ritorno.
– ...la ama! la adora! la venera! – disse Gleb in modo ben distinto quando il
sorvegliante era ormai vicino. Per una strana ragione, davanti al gangster le
parole di Gleb non parvero poi così animate.
– La ama, la adora, la venera – ripeté Nadja, con un sospiro triste. E scrutò il
marito. Invece dell’uomo che un tempo osservava con cura femminile ancora
immatura per via della giovane età, invece dell’uomo che le sembrava di
conoscere, ne vide uno nuovo, completamente estraneo.
– A te va bene così – accennò lei, triste.
– Va bene cosa?
– In generale. Qui. Tutto questo. Stare qui – disse lei, mascherando la frase
con svariate sfumature della voce, in modo che il sorvegliante non ne capisse il
senso: a quell’uomo andava bene stare in prigione.
Ma vedere suo marito sotto quella luce non glielo rendeva più vicino. Glielo
allontanava. Anche lei lasciò da parte quanto appreso e decise di rifletterci e
interpretarlo in seguito, dopo il colloquio. Non sapeva che cosa ne sarebbe
venuto fuori, ma con il cuore capace di vedere oltre, adesso cercava in lui una
debolezza, una stanchezza, una malattia, una supplica d’aiuto, qualcosa per cui
una donna potesse dare il resto della vita, rimanere ad aspettare anche per altri
dieci anni e raggiungerlo nella taiga.
Ma lui sorrideva! Sorrideva con presunzione, come un tempo alla prigione di
Krasnaja Presnja! Era sempre pieno di sé, non aveva mai bisogno di sostegno
in nulla. Persino su quel nudo e piccolo sgabello sembrava comodo, come se si
stesse guardando intorno con piacere e stesse raccogliendo materiale per la sua
storia. Le era parso in salute, gli occhi scintillavano beffardi verso i carcerieri. A
cosa gli serviva la devozione di una donna?
In ogni caso, Nadja non aveva ancora elaborato un pensiero del genere.
E Gleb non poteva indovinare a quali pensieri lei stesse giungendo.
– Tempo quasi scaduto – disse sulla porta Kliment’ev.
– Di già? – si stupì Nadja.
Gleb corrugò la fronte, sforzandosi di ricordare cos’altro c’era di importante
nella lista delle “cose da dire” che aveva memorizzato prima del colloquio.
– Sì! Non ti stupire se mi porteranno via di qui e mi manderanno lontano, se
le lettere cesseranno del tutto.
– Ma possono farlo? Dove?? – gridò Nadja. Una simile novità, e la diceva
solo adesso!!
– Lo sa Dio – Gleb pronunciò la frase con un tono significativo,
stringendosi nelle spalle.
– Non avrai cominciato a credere in dio??!
(Non avevano parlato di niente!!)
Gleb sorrise:
– Perché no? Pascal, Newton, Einstein...
– Per chi ho parlato io? Niente cognomi! – abbaiò il sorvegliante. – Tempo
scaduto!
Marito e moglie si alzarono contemporaneamente e, non essendoci più il
rischio che il colloquio fosse interrotto, dall’altra parte del tavolinetto Gleb
afferrò Nadja per il collo sottile, glielo baciò e poi bevve dalle sue labbra
morbide, che aveva del tutto dimenticato. Non nutriva speranze di trovarsi a
Mosca di lì a un anno per baciarla ancora una volta. La voce gli tremò di
tenerezza:
– Fai sempre quel che è meglio per te. Io...
Non finì la frase.
Si guardarono negli occhi.
– Be’, cosa succede? Cosa succede? Colloquio sospeso! – ringhiò il
sorvegliante e tirò via Neržin per una spalla.
Neržin si staccò da Nadja.
– Sospendilo pure, ti venga un accidente – borbottò a mezza voce.
Nadja indietreggiò fino alla porta e salutò il marito solo muovendo le dita
della mano alzata, quella senza l’anello.
Poi scomparve dietro lo stipite della porta.
41
ANCORA UNO
93 L’omicidio nel 1934 di Sergej Kirov, capo del Partito a Leningrado, portò a un’ondata di purghe in
quella città.
42
ANCHE FRA I GIOVANI
– Non è niente di troppo complicato: diluisci il cloruro di calcio e poi – zac, zac
– con il pennello lo passi sul documento d’identità... Basta sapere quanti minuti
lasciarlo, e poi lo togli.
– E poi?
– Poi si asciuga e non rimane traccia. Il documento è pulito, come nuovo; ti
metti lì e con l’inchiostro di china ci scrivi sopra ‘Sidorov’ oppure ‘Petjušin,
nato nel villaggio di Kriuši’.
– E non ti hanno mai beccato?
– Con questo metodo? Klara Petrovna... Oppure... permette che...?
–?
– ...che io la chiami solo Klara quando nessuno ci sente?
– ...Faccia pure...
– Vede, Klara, la prima volta mi presero perché ero un ragazzino indifeso e
innocente. La seconda, invece... eh no! Tenni duro mentre mi ricercavano in
tutta l’Unione Sovietica in anni non semplici, dalla fine del ’45 alla fine del ’47.
Così dovetti falsificare non solo il documento d’identità e il permesso di
residenza, ma anche il certificato del posto di lavoro, quello per le tessere
alimentari, la registrazione al negozio assegnato! Grazie ai certificati falsi
ricevevo anche tessere extra per il pane, le rivendevo e vivevo di quello.
– Ma che brutta cosa!
– E chi dice che sia una bella cosa? Mi ci hanno costretto, non è stata una
mia iniziativa.
– Ma perché non si è messo semplicemente a lavorare!
– Perché uno, ‘semplicemente’, non ci guadagna granché. Con il lavoro
onesto non si costruiscono palazzi di pietra, sa? E che lavoro avrei potuto fare?
Non mi hanno permesso di avere una specializzazione... A beccarmi non mi
feci beccare, ma di errori ne vennero fuori. In Crimea, all’Ufficio documenti
d’identità, c’era una ragazza... non pensi però che fra me e lei ci fosse qualcosa...
era solo ben disposta e mi rivelò un segreto: i numeri di serie del mio
documento d’identità... ha presente quelle ŽŠČ, LCh? Be’, in realtà indicavano
che ero stato sotto l’occupazione.
– Ma lei non c’era stato!
– Certo che non c’ero stato, ma il documento apparteneva a un altro! Così
mi toccò comprarne uno nuovo.
– Dove??
– Klara! Lei ha vissuto a Taškent, è stata al mercato Tezikov, e mi chiede
dove? Volevo comprarmi anche l’onorificenza della Bandiera Rossa. Mi
mancavano duemila rubli, ne avevo in mano diciottomila, ma lui si impuntò:
venti, solo venti ne voleva!
– Ma che cosa se ne faceva di quell’onorificenza?
– Che cosa se ne fa la gente di un’onorificenza? Semplice, volevo darmi un
po’ di arie. Che scemo, eh? Se solo avessi avuto una mente fredda come la sua...
– Da cosa ha dedotto che ho una mente fredda?
– È fredda, sobria, e lo sguardo è così... intelligente.
– Ah, sì?
– Sul serio. È tutta la vita che sogno di incontrare una ragazza con la mente
fredda.
– Perché?
– Perché io sono uno strampalato. Una così mi impedirebbe di fare
stupidaggini.
– Su, continui a raccontare, la prego.
– Dov’ero arrivato?... Ah, già! Quando uscii dalla Lubjanka, mi girava la testa
dalla felicità. Ma da qualche parte, dentro di me, c’era un piccolo custode che
continuava a domandarmi: ‘Come mai questo miracolo? Com’è successo? Non
rilasciano mai nessuno, me l’hanno spiegato in cella: colpevole o no, ne prendi
dieci sui denti, cinque sulle corna, e via al campo di lavoro.’
– Che significa sulle corna?
– Be’, avere una museruola per cinque anni.
– Che significa museruola?
– Dio mio, ma lei non sa proprio niente. Ed è la figlia di un procuratore!
Come mai non si interessa delle cose di suo padre? Con una museruola non si
può mordere. Quindi, privazione dei diritti civili. Non si può né votare né
essere eletti.
– Aspetti, sta arrivando qualcuno...
– Dove? Non abbia timore, è Zemelja. Resti seduta come prima, la prego!
Non si sposti. Apra la cartella. Ecco, la esamini... Allora compresi subito che
mi avevano rilasciato per pedinarmi, per vedere con quale dei ragazzi mi sarei
incontrato, se pensavo di dirigermi di nuovo in dacia dagli americani. Non
avrei avuto più una vita, mi avrebbero rimesso dentro comunque. Io però li ho
fregati! Dissi addio a mia madre, una notte me ne andai di casa e mi diressi da
uno zio. Fu lui a coinvolgermi nelle falsificazioni. E a quelli toccò cercare
Rostislav Doronin in tutta l’Unione Sovietica per due anni! Mentre io, con altri
nomi, me ne andavo in Asia Centrale, sull’Issyk-Kul’, in Crimea, Moldavia,
Armenia, Estremo Oriente... Poi mi venne una grande nostalgia di mia madre.
Ma non potevo assolutamente tornare a casa! Mi recai a Zagorsk, mi presero in
fabbrica come aiutante. Ero una sorta di tuttofare e mia madre veniva a
trovarmi ogni domenica. Lavorai lì per qualche settimana: un giorno non mi
svegliai in tempo, arrivai tardi al lavoro. E via in tribunale! Sotto processo!
– E saltò fuori tutto?!
– Non saltò fuori proprio niente! Fui condannato a tre mesi con un nome
falso. Restai in una colonia penale, con la testa rasata, mentre cercavano in tutta
l’Unione Sovietica Rostislav Doronin! Vaporosi capelli biondi, occhi azzurri,
naso dritto, un neo sulla spalla sinistra. Le ricerche vennero a costare un
occhio! Mi feci i miei tre mesi, ritirai dal cittadino capo il documento d’identità
e mi diressi nel Caucaso!
– Di nuovo in viaggio?
– Uhm! Non so se posso raccontarle tutto...
– Come no!
– Mi sembra molto convinta... Invece no, non è possibile. Lei appartiene a
tutt’altro ambiente, non capirebbe.
– Sì che capirò! La mia non è stata una vita facile, non si preoccupi!
– Da due giorni a questa parte mi guarda in modo così gentile... Sì, voglio
raccontarle tutto... Insomma, volevo svignarmela. Via da questo carrozzone.
– Quale carrozzone?
– Be’, da tutto questo... come si dice... socialismo! Mi aveva già fatto venire il
bruciore di stomaco, non ce la facevo più!
– Dal socialismo?!...
– Se non c’è giustizia, che me ne faccio del socialismo?
– Sì, quello che le è successo è davvero seccante. Ma dove poteva andare?
Laggiù sono tutti reazionari e imperialisti, come farebbe a viverci?!
– Sì, giusto, naturale. Naturale, giusto. Per questo non mi decidevo
seriamente. Uno deve anche sapere come fare.
– E come ha fatto a finire...?
– ...di nuovo dentro? Mi è venuta voglia di studiare!
– Ecco, vede? Lei era attratto da una vita onesta! Studiare è necessario, è una
cosa importante. Una cosa nobile.
– Temo, Klara, che non sia sempre nobile. Solo dopo, nelle prigioni, nei
campi di lavoro, ci ho riflettuto. Cosa possono insegnarci questi professori che
non aprono bocca finché non esce l’ultima edizione del giornale, per timore di
perdere lo stipendio?? E questo in una facoltà umanistica? Non insegnano,
semmai ottenebrano le menti. Lei ha studiato in una facoltà tecnica, vero?
– E anche in una facoltà umanistica...
– L’ha lasciata? Poi me lo racconterà. Avrei dovuto pazientare, cercare un
diploma della decima classe, non era nemmeno difficile comprarselo, ma
l’imprudenza... ecco cos’è che ci rovina! Penso: quale scemo continuerebbe a
cercare un ragazzo come me? Di sicuro mi avranno dimenticato da un pezzo.
Presi il vecchio diploma con il mio vero nome e lo portai all’università, stavolta
a quella di Leningrado, alla facoltà di Geografia.
– Ma non frequentava quella di Storia a Mosca?
– Mi ero affezionato alla geografia per via dei miei vagabondaggi.
Interessante da morire! Macini strada, vedi tante cose... E poi che succede?
Andavo a lezione da una settimana quando... oplà! Di nuovo alla Lubjanka!
Questa volta mi hanno dato venticinque anni! E non sono ancora stato a far
pratica nella tundra!
– E lo racconta ridendo?
– A che mi serve piangere? Se piangi per ogni cosa, Klara, le lacrime non
bastano. Non sono solo. Se mi mandassero a Vorkuta, troverei ragazzi in
gamba pure lì! Scavano il carbone! Tutta Vorkuta si regge sugli zek! Tutto il
Nord! La nazione intera si poggia in parte su di loro. Sa, il sogno di Tommaso
Moro che si è avverato.
– Di chi? A volte mi vergogno della mia ignoranza.
– Tommaso Moro, il nonnetto che scrisse Utopia. Ebbe il fegato di
ammettere che il socialismo avrebbe inevitabilmente previsto diversi lavori
umilianti e particolarmente duri. Nessuno avrebbe voluto farli! A chi
assegnarli, allora? Moro ci rifletté e giunse a una conclusione: anche nel
socialismo ci sarebbero state persone che avrebbero violato l’ordine. Ecco chi
si poteva incaricare! Il campo di lavoro moderno fu inventato in questa forma
da Tommaso Moro, è un’idea molto antica!
– Non riesco nemmeno a immaginare come sarebbe vivere in quella
maniera, ai nostri tempi. Falsificare documenti, andare di città in città, filare
come una vela al vento... In vita mia non ho mai incontrato nessuno come lei.
– Klara, nemmeno io ero così! Le circostanze possono trasformarci in
diavoli! Lei lo sa bene, l’essere sociale determina la coscienza! Io ero un ragazzo
tranquillo, ubbidivo alla mamma, leggevo Un raggio di luce nel regno delle tenebre di
Dobroljubov. Bastava il cenno di un poliziotto e mi mancava il fiato. Tutto
questo ti si radica dentro in modo impercettibile. Cos’altro avrei potuto fare?
Attendere come un coniglio che venissero di nuovo a prendermi?
– Non so che cosa avrebbe potuto fare, ma vivere così?! Immagino sia
davvero difficile trovarsi costantemente ai margini della società! Essere un
uomo inutile, braccato...
– Be’, a volte è difficile. E altre volte, sa, non lo è affatto. Perché quando
cammini per il mercato Tezikov e ti guardi intorno... Se vendono le
onorificenze nuove di zecca con i loro certificati ancora da compilare, dovrà
pur esserci un uomo corrotto che lavora da qualche parte, no? In quale
istituzione sarà? Se lo immagina? Ora, Klara, le dirò una cosa: anch’io sono per
la vita onesta, ma devono farla tutti, capisce? Tutti, fino all’ultima persona!
– Ma se tutti se lo aspetteranno dagli altri non si comincerà mai. Tutti
dovrebbero...
– Tutti dovrebbero, ma non tutti lo fanno! Senta, Klara, glielo dirò in
maniera più semplice. La rivoluzione è stata fatta per lottare contro cosa?
Contro i privilegi! Che cosa nauseava il popolo russo? I privilegi. C’era chi era
vestito di tela ruvida, chi di zibellino; alcuni se ne andavano a piedi, altri in
carrozza; certi si recavano in fabbrica al suono della sirena, altri ingrassavano
nei ristoranti. Giusto?
– Giustissimo.
– Esatto. E perché adesso, la gente non si distacca dai privilegi ma aspira ad
averli? E che dire di me? Sono solo un ragazzo. Deve partire tutto da me?
Osservo quelli più vecchi. Ne ho viste di cose! Abito in una piccola cittadina
del Kazachstan, e cosa vedo? Le mogli dei dirigenti del luogo comprano forse
nei negozi normali? Non sia mai! Una volta, il primo segretario del comitato
rionale in persona mi mandò da loro a consegnare una cassa di pasta. Una cassa
intera. Ancora sigillata. Probabilmente non era l’unica, e non era la prima
consegna...
– Sì, è terribile! È una cosa che ha sempre sconvolto anche me, ci crede?
– Ci credo, naturale. Perché non dovrei credere a una persona in carne e
ossa? Ci credo molto di più che a un libro stampato in un milione di copie...
Questi privilegi contagiano la gente come un’infezione. Se uno può comprare
in un negozio diverso da quello dove vanno tutti, ci compra di sicuro. Se può
farsi curare in una clinica separata, ci si farà curare di sicuro. Se può viaggiare
su un’auto esclusiva, ci viaggerà di sicuro. Se un posto ha una certa attrattiva e
ci si può andare soltanto con un permesso, uno, di sicuro, farà tutto il possibile
per procurarselo.
– Vero! È terribile!
– Se uno può isolarsi dietro un recinto, si isolerà di sicuro. Eppure anche
quel figlio di puttana sarà stato un ragazzino, avrà scavalcato la recinzione di
un mercante, gli avrà rubato le mele, e con buone ragioni! E adesso piazza un
recinto ininterrotto alto due uomini perché nessuno possa guardarci dentro,
così è più comodo! e pensa ancora di avere buone ragioni! Intanto a Orenburg,
al mercato, gli invalidi di guerra, che ricevono solo gli avanzi, giocano a testa o
croce con una medaglia della Vittoria. La lanciano in alto e gridano: ‘Muso o
Vittoria?’
– Come mai gridano così?
– Be’, da un lato c’è scritto ‘vittoria’, dall’altro c’è un’effigie. Guardi quella di
suo padre.
– Rostislav Vadimyč...
– Ma quale Vadimyč! Mi chiami Rusja.
– Mi è difficile chiamarla così...
– Be’, allora mi alzo e me ne vado. Stanno giusto suonando per il pranzo.
Sono Rusja per tutti, e per lei... in particolare... non voglio che sia diverso.
– E va bene... Rusja... Non sono del tutto stupida nemmeno io. Ci ho
pensato a lungo. È contro queste cose che bisogna lottare! Non con il suo
metodo, però, ovviamente.
– Ma io a lottare non ho nemmeno cominciato! Stavo semplicemente
ragionando sulla questione: se c’è uguaglianza deve esserci per tutti, mentre se
non c’è, chi se ne frega... Oh, mi scusi, la prego... Mi scusi, non volevo... Lo
vediamo fin da bambini: a scuola ti riempiono di belle parole, ma senza
raccomandazione non fai un passo, senza bustarelle non vai da nessuna parte,
così veniamo su furbi. Essere sfrontati è una seconda fortuna!
– No! No! Non è possibile! Nella nostra società c’è molto di giusto. Sta
esagerando! Non è possibile! Lei ha visto tante cose, è vero, ne ha superate
tante, ma non può dire che ‘essere sfrontati è una seconda fortuna’! Non è una
filosofia di vita, questa! Non può essere!
– Rus’ka! Hanno chiamato per il pranzo, non hai sentito?
– Tu va’, Zemelja, ti raggiungo... Klara! Glielo dirò in modo tranquillo,
solenne. Accetterei con tutto il cuore di vivere in un altro modo! Ma se avessi
un amico... dalla mente fredda... un’amica... se potessi riflettere con lei, costruire
una vita come si deve. Sono un detenuto condannato a venticinque anni, ma
solo tecnicamente. Io... Oh, se potessi raccontarle su quale lama sono in bilico!
Un uomo normale sarebbe già morto per un collasso cardiaco... Eppure...
Klara! Voglio che lei lo sappia, in me ci sono vulcaniche riserve di energia!
Venticinque anni sono una bazzecola, per me sarebbe uno scherzo tagliare la
corda...
– Cosa intende dire?
– Be’... andarmene. Giusto stamattina controllavo come potrei fuggire da
Marfino. Se un giorno la mia fidanzata (ammesso che io ne abbia una) dicesse:
‘Rusja! Scappa, ti aspetto!’ le giuro, scapperei nel giro di tre mesi, falsificherei i
documenti a regola d’arte! La porterei a Čita, a Odessa, a Velikij Ustjug! E
inizieremmo là una nuova vita, onesta, giudiziosa, libera!
– Una bella vita!
– Ha presente come parlano sempre i protagonisti di Čechov? Fra vent’anni!
Fra trent’anni! Fra duecento anni! Guadagnarsi la giornata in una fabbrica di
mattoni e tornare a casa sfiniti! Pensi un po’ cosa sognavano! No, non sto
scherzando! Dico sul serio! Voglio davvero studiare, sforzarmi! Però non da
solo! Klara! Vede com’è tranquillo, sono usciti tutti. Non vuole venire a Velikij
Ustjug? È un monumento dell’antichità. Non ci sono mai stato.
– Che uomo straordinario è lei.
– Cercavo una come lei all’università di Leningrado. Ma non pensavo di
trovarla in un posto così.
– Chi?
– Klaročka! Le mani di una donna saprebbero ancora tirar fuori dal
sottoscritto chi vogliono: un farabutto, un giocatore di carte geniale, o il
massimo esperto di vasi etruschi e raggi cosmici. Se vuole lo diventerò!
– Si falsificherà una laurea?
– No, lo diventerò davvero! Diventerò chi lei vorrà. Ho solo bisogno di lei!
Ho bisogno della sua testa, che lei volta così lentamente quando entra nel
laboratorio...
43
LA DONNA CHE LAVAVA LE SCALE
Proprio in quei giorni, Klara aveva ricevuto dalla Sezione speciale i questionari
da compilare. Lo aveva fatto con tranquillità: la sua origine era inappuntabile,
la sua vita abbastanza breve, illuminata da una luce costante di prosperità e
libera da atti riprovevoli per una cittadina.
Qualche mese dopo i suoi questionari erano passati, erano stati tutti
approvati. Nel frattempo Klara si era diplomata, e aveva varcato la soglia della
torretta di guardia della zona segreta di Marfino.
94 Diminutivo di Dotnara.
95 Natale, in russo.
45
I CANI DELL’IMPERIALISMO
Klara, assieme alle altre sue amiche laureate in Ingegneria delle comunicazioni,
aveva superato il terribile addestramento di Šikin, il maggiore dal viso scuro.
L’avevano avvertita che si sarebbe trovata in mezzo ad agenti di primo
calibro, cani dell’imperialismo mondiale e dei servizi segreti americani che
vendevano la patria senza problemi.
Era stata assegnata al Vuoto. Così si chiamava il laboratorio che fabbricava
un’infinità di tubi elettronici su ordinazione degli altri laboratori. Prima i tubi
venivano soffiati nella piccola vetreria attigua, poi tre pompe ronzanti ne
aspiravano l’aria nell’apposita camera sottovuoto rivolta a nord, grande e
semibuia. Le pompe sbarravano la stanza come armadi. Le lampadine elettriche
erano accese persino di giorno. Il pavimento, fatto di lastre di pietra,
rimbombava di continuo sotto i passi delle persone e per le sedie che venivano
spostate. Davanti a ogni pompa sedeva o passeggiava l’addetto corrispondente,
un detenuto. Altri zek sedevano ai loro tavolini in due o tre punti. Di liberi,
oltre lei, c’erano solo una ragazza di nome Tamara e il capo del laboratorio, un
capitano.
Al suo capo Klara era stata presentata nell’ufficio di Jakonov. Era un ebreo
grassoccio non troppo giovane, avvolto da una patina di indifferenza. Non
volendo spaventare ulteriormente Klara, le aveva fatto cenno di seguirlo e sulle
scale le aveva detto:
– Lei ovviamente non sa fare nulla e non conosce nulla, vero?
Klara aveva farfugliato qualcosa. Oltre alla paura, ci mancava anche il
disonore, che smascherassero la sua ignoranza e ridessero di lei.
Era entrata in quel laboratorio abitato da mostri in tute blu come in una
gabbia di belve. Aveva paura persino di sollevare lo sguardo.
In effetti, tre addetti al vuoto camminavano accanto alle loro pompe come
belve in prigione: avevano avuto una commessa urgente e da due giorni si
vedevano negato il permesso di andare a dormire. Tuttavia il detenuto alla
pompa di mezzo, un uomo calvo oltre la quarantina con una barba lunga e
trascurata, si era fermato, aveva fatto un gran sorriso e aveva detto:
– Ooh! Ecco i rinforzi!
La paura le era subito passata. Quell’esclamazione era stata così bonaria e
semplice che Klara aveva dovuto fare uno sforzo per non sorridergli.
Si era fermato anche il più giovane degli addetti al vuoto, che aveva la
responsabilità della pompa più piccola. Era ancora un ragazzo, con un viso
allegro da birbante e due grandi occhi ingenui. Lo sguardo che aveva rivolto a
Klara sembrava quello di chi viene colto di sorpresa. Nessun giovanotto aveva
mai guardato Klara a quel modo.
Aveva reagito diversamente il più anziano degli addetti, Dvoetësov, un uomo
alto e goffo, magro ma con la pancia prominente, la cui enorme pompa in
fondo alla stanza ronzava particolarmente forte. L’uomo aveva guardato Klara
da lontano con disprezzo e si era rifugiato dietro l’armadio, come per non
vedere un simile schifo.
In seguito Klara aveva scoperto che non doveva prendersela, lui si
comportava così con tutti i liberi: quando entravano i capi faceva rombare di
proposito la pompa per obbligarli a comunicare gridando. Trascurava
deliberatamente il proprio aspetto, poteva arrivare con un bottone dei
pantaloni sul punto di staccarsi, appeso a un lungo filo, e un buco sulla schiena,
oppure poteva cominciare a grattarsi sotto la tuta davanti alle ragazze. Amava
dire:
– Sono nella mia patria! Devo fare complimenti a casa mia?
L’addetto alla pompa di mezzo veniva chiamato dai detenuti, persino dai più
giovani, semplicemente Zemelja, Compaesano, cosa di cui non si offendeva
affatto. Era una di quelle persone che gli psicologi definiscono “nature solari”,
ma di cui il popolo dice: “Cuor contento, il ciel l’aiuta.” Nelle settimane
successive, Klara l’aveva osservato, notando che non si dispiaceva mai se
qualcosa andava perso, fosse una matita o la sua vita intera, non si arrabbiava
per niente e con nessuno, e di nessuno aveva paura. Era un ingegnere vero,
come si deve, specializzato però in motori d’aviazione, che a Marfino era stato
portato per sbaglio, ma si era ambientato bene e non aspirava ad andare da
nessun’altra parte, ritenendo giustamente che fosse difficile trovare di meglio.
La sera, quando le pompe si zittivano, in quel silenzio, a Zemelja piaceva
ascoltare o raccontare qualcosa.
– Una volta, con cinque copechi andavi e ti compravi quello che volevi, ti
trovavi le mani piene a ogni passo – diceva con quel suo largo sorriso. – Non ti
vendevano merda. Gli stivali erano stivali come si deve, li portavi per dieci anni
senza farli riparare, e quindici con le riparazioni. La pelle sulla punta non la
tagliavano come adesso, la rigiravano in modo che si unisse sotto il piede.
C’erano anche... come si chiamavano? Quelli rossi, con la suola gonfiata con
l’acido... non erano stivali, erano una seconda anima! – Si scioglieva tutto in un
sorriso e strizzava gli occhi, come sotto un sole debole e caldo. – Oppure, nelle
stazioni, per esempio... non c’era mai gente sdraiata sul pavimento, lì a
soffocare giorno e notte per comprare i biglietti. Ci andavi un minuto prima,
compravi il tuo, salivi sul treno e c’erano sempre vagoni liberi. I treni li
facevano correre... non facevano economia... In generale, vivere era semplice,
molto semplice...
A quei racconti, dondolando il corpo appesantito, le mani in tasca, l’addetto
al vuoto più anziano spuntava dall’angoletto buio dove la sua scrivania era al
riparo dai capi. Si fermava in mezzo alla stanza e guardava un po’ tutti di
sbieco, gli occhi sgranati e gli occhiali calati sul naso, e diceva:
– Zemelja! Tu davvero ti ricordi lo zar?
– Un pochino – si giustificava Zemelja, con un sorriso.
– È i-nu-ti-le – scuoteva la testa Dvoetësov. – Dimenticatelo. È il socialismo
che bisogna pompare!
– Però, Kostja, – obiettava timidamente Zemelja – il socialismo dicono di
averlo già costruito.
– Eh? – si stupiva l’addetto al vuoto più anziano.
– Sì-ì. Già dal ’33, più o meno.
– Quando c’era la fame in Ucraina96? Ma, un attimo, un attimo, allora noi
cosa stiamo qui a pompare giorno e notte?
– Adesso? Per il comunismo, probabilmente – spiegava Zemelja.
– Ah, sì?! Ma guarda un po’! – borbottava fra sé l’addetto al vuoto più
anziano e, strascicando i piedi, se ne tornava nel suo angoletto.
Che facessero quei discorsi per loro o per Klara, lei non andava comunque a
riferirlo.
Le mansioni della ragazza non sembravano molto complicate:
avvicendandosi con Tamara, doveva andare un giorno dalla mattina fino alle sei
della sera, e il giorno successivo cominciare dopo pranzo e finire alle undici. Il
capitano arrivava sempre la mattina, perché i superiori potevano chiedere di lui
durante la giornata; di sera non veniva mai, non puntava a un avanzamento di
carriera. Il compito principale delle ragazze era svolgere il loro turno di
guardia, vale a dire spiare i detenuti. Oltre a quello, il capo le incaricava di
piccoli lavoretti non urgenti “per lo sviluppo”. Klara e Tamara si incontravano
in tutto un paio d’ore al giorno. Tamara lavorava all’impianto da più di un
anno ed era disinvolta con i detenuti. Klara aveva perfino l’impressione che
fosse piuttosto intima con uno di loro: gli portava dei libri, che si scambiavano
però di nascosto. Inoltre, all’istituto Tamara frequentava un circolo di lingua
inglese, dove i liberi studiavano e i detenuti insegnavano (naturalmente gratis e
in quello stava il vantaggio). Ben presto, grazie alla collega, a Klara era passata
la paura che quelle persone potessero combinare qualcosa di terribile.
Alla fine anche Klara aveva cominciato a parlare con uno dei detenuti. A dir
la verità non era un criminale di Stato, ma solo un delinquente comune:
detenuti di quel genere a Marfino ce n’erano pochi. Si trattava di Ivan, il
soffiatore di vetro, per sua sfortuna un maestro in quell’arte. La sua vecchia
suocera diceva di lui che era un lavoratore d’oro e un bevitore ancora più
d’oro. Guadagnava molto, beveva molto, e quando era ubriaco picchiava la
moglie e minacciava i vicini. Ma questo sarebbe stato niente se la sua strada
non si fosse incrociata con quella dell’MGB. Un autorevole compagno senza
distintivi di riconoscimento l’aveva fatto chiamare con una citazione, e gli
aveva offerto un lavoro con uno stipendio di tremila rubli al mese. Ivan
lavorava in un posticino dove lo pagavano meno, ma con altri lavori a cottimo
racimolava di più. Dimenticando con chi aveva a che fare, si era azzardato a
chiedere quattromila rubli al mese. L’interlocutore importante ne aveva
aggiunti duecento, ma Ivan era rimasto fermo. L’avevano lasciato andare. Alla
prima paga, però, Ivan si era ubriacato e aveva creato scompiglio in cortile;
allora la polizia, che prima non accorreva nemmeno alle chiamate, era arrivata
subito con una pattuglia numerosa e lo aveva portato via. Il giorno seguente
avevano processato Ivan, gli avevano dato un anno e poi lo avevano condotto
da quello stesso capo senza distintivi: a quel punto, il capo gli aveva spiegato
che sarebbe andato a lavorare nel posto che gli avevano già indicato prima, ma
senza paga. Se quelle condizioni non lo soddisfacevano, poteva benissimo
andarsene a estrarre il carbone al Circolo polare.
Ora Ivan si trovava dentro a soffiare tubi a fascio elettronico, che
prendevano forme sorprendenti e sempre nuove. L’anno da scontare era finito,
ma il precedente penale gli era rimasto e, per non essere espulso da Mosca,
aveva pregato i capi di lasciarlo a quel lavoro da libero, anche solo con una
paga di millecinquecento rubli.
Alla šaraška una storia tanto genuina con un finale così favorevole non
interessava nessuno: là c’erano persone che avevano passato cinquanta giorni e
cinquanta notti nelle celle dei condannati a morte, altre che avevano conosciuto
direttamente il Papa di Roma e Albert Einstein. Klara però ne era rimasta
turbata. Significava, come diceva Ivan, una cosa sola: “Fanno quel che gli pare.”
Klara aveva soggezione dei detenuti politici, cercava in tutti i modi di
mantenere una distanza tra il cauto e il formale. Il racconto del soffiatore, però,
aveva insinuato un dubbio nella sua testa: che fra quelle tute blu ci fossero
anche uomini del tutto innocenti. E in quel caso, era possibile che anche suo
padre avesse condannato qualche innocente?
Tuttavia non esisteva nessuno a cui potesse porre quella domanda: nessuno
in famiglia, nessuno al lavoro. La camminata e l’amicizia con Innokentij non
avevano avuto un seguito, forse perché di lì a breve lui e Nara erano ripartiti
per l’estero.
Eppure quell’anno Klara aveva trovato finalmente un amico: Ernst
Golovanov. Non l’aveva incontrato al lavoro, era un critico letterario che un
giorno Dinera aveva portato a casa. Non che Golovanov fosse un granché
come cavaliere: poco più alto di Klara (quando non le stava accanto, sembrava
addirittura più basso), aveva la fronte e la testa rettangolari, appoggiate su un
torso rettangolare. Solo poco più vecchio di lei, sembrava già un uomo di
mezza età e aveva la pancetta e il fisico di chi non fa sport. (A dire il vero, il
suo cognome sul passaporto era Saun’kin, Golovanov era uno pseudonimo.)
Tuttavia era una persona colta, evoluta, interessante, già membro dell’Unione
degli Scrittori.
Un giorno Klara era andata con lui al Malyj Teatr. Davano un’opera di
Gor’kij, Vassa Železnova. Lo spettacolo lasciava un’impressione triste. Si
svolgeva davanti a una sala piena neanche la metà. Probabilmente era questo a
deprimere gli attori. Si presentavano in scena annoiati, sembravano impiegati
statali, e si rallegravano solo al momento di scendere dal palco. Recitare davanti
a una sala così vuota era quasi una vergogna: sia il trucco sia i ruoli sembravano
uno svago indegno di persone adulte. Era come se da un momento all’altro, nel
silenzio della sala, uno spettatore potesse dire a bassa voce, quasi fosse nella
propria stanza, “Su, cari miei, basta con tutte ’ste moine!”, mandando all’aria lo
spettacolo. L’umiliazione degli attori si trasmetteva anche agli spettatori.
Avevano tutti la sensazione di essere parte di un’impresa disonorevole e si
imbarazzavano a guardarsi l’un l’altro. Per questo anche durante gli intervalli
c’era un silenzio profondo, lo stesso che regnava durante lo spettacolo. Le
coppie conversavano in tono dimesso e camminavano per il foyer senza far
rumore.
Anche Klara ed Ernst si erano comportati così nel primo intervallo. Ernst
scagionava Gor’kij e si indignava per Gor’kij, affermava che era indecoroso
recitarlo così, stroncava l’artista del popolo Zarov, che quel giorno recitava
davvero con i piedi, e con ben più coraggio criticava l’andazzo del Ministero
della Cultura, che minava sia il teatro nazionale, con le sue insigni tradizioni
realistiche, sia la fiducia dello spettatore nei suoi confronti. Ernst non solo
scriveva in modo fluido ma parlava anche in maniera fluida e corretta, senza
mangiarsi le parole e senza lasciare le frasi a metà, nemmeno quando si
scaldava.
Al secondo intervallo Klara gli aveva chiesto di rimanere nel palchetto. E
aveva aggiunto:
– Mi sono stufata sia di Ostrovskij che di Gor’kij: tutti questi
smascheramenti del potere capitalistico, dell’oppressione familiare, i vecchi che
sposano le ragazze... Mi sono stufata di questa lotta contro i fantasmi. Sono
passati già cinquanta, cento anni, e noi stiamo ancora qui a sbracciarci, a
smascherare cose che non ci sono più da un pezzo. Mentre opere su quanto
esiste davvero non se ne vedono.
– In parte è vero. – Incuriosito, Ernst guardava Klara con un sorriso
benevolo. Non si era sbagliato su di lei. Magari non era una gran bellezza, ma
con lei non ti annoiavi mai. – Opere su cosa, per esempio?
Non era rimasto nessuno nei palchetti vicini, né sotto di loro in platea. A
bassa voce, sforzandosi di non tradire troppo un segreto di Stato e il segreto
della sua compassione per quelle persone, Klara aveva raccontato a Ernst del
suo lavoro con i detenuti, che le erano stati dipinti come cani dell’imperialismo,
ma che una volta conosciuti meglio sembravano persone normali. E la
tormentava una domanda... magari Ernst lo sapeva... possibile che in mezzo a
loro ci fossero anche degli innocenti?
Ernst l’aveva ascoltata con grande attenzione e le aveva risposto con
autorevolezza, come se ci avesse riflettuto a lungo:
– Naturale che ci siano. È inevitabile in ogni sistema penitenziario.
Klara non aveva capito qual era il sistema, e di conseguenza non aveva
riflettuto molto sulla risposta, ma le era sembrato giusto concludere con la
deduzione del soffiatore:
– Ma allora, Ernst, significa che fanno quel che gli pare! È una cosa terribile!
E la sua forte mano da tennista si era serrata in un pugno sul velluto rosso
della balaustra. Golovanov aveva posato banalmente la sua mano dalle dita
tozze proprio accanto a quella di Klara, non sopra, perché lui non si prendeva
certe libertà senza rifletterci.
– No, – le aveva spiegato con mitezza ma convinto – non ‘fanno quel che gli
pare’. Chi è che lo ‘fa’? A chi è che ‘pare’? Alla Storia. A noi due, in certi casi,
questo potrà sembrare orribile ma, Klara, è ora di accettare che esiste la legge
dei grandi numeri. Maggiore è la quantità di materiale con cui si svolge un fatto
storico, maggiore, sarà, ovviamente, la probabilità di singoli errori isolati, errori
giudiziari, tattici, ideologici, economici. Noi comprendiamo il processo solo nei
suoi tratti principali e determinanti. L’importante è convincersi che si tratta di
un processo inevitabile e necessario. Sì, a volte qualcuno ne soffre. E non
sempre se lo merita. I caduti al fronte. Chi è morto senza un perché nel
terremoto di Aşgabat. In un incidente d’auto. Aumenta il traffico, aumentano
anche le vittime stradali. Vivere con saggezza significa accettare che la vita ha
uno sviluppo, e a ogni inevitabile gradino ci sono delle vittime.
Be’, quella spiegazione aveva un senso. Klara si mise a riflettere.
Il campanello aveva squillato già due volte e gli spettatori si stavano
radunando in sala. Nel terzo atto li avrebbe risvegliati l’attrice Roek che, nel
ruolo della figlia minore di Vassa, ridava vita a tutto lo spettacolo.
In realtà, Klara non si rendeva conto che a interessarle non era un uomo
innocente qualsiasi, che per la legge dei grandi numeri forse stava già marcendo
da tempo al Circolo polare. No, le interessava quel giovane addetto al vuoto
con gli occhi azzurri e le guance di una sfumatura bruno-dorata, che pareva un
bambino nonostante i suoi ventitré anni. Fin dal loro primo incontro, nello
sguardo del giovane si era conservata un’adorazione gioiosa per Klara, e lei ne
rimaneva sempre frastornata. Non poteva né presumere né collegare che
Rostislav arrivava da un campo di lavoro, in cui non aveva visto una donna per
due anni. Era la prima volta in vita sua che si sentiva oggetto dell’ammirazione
di qualcuno.
Del resto, il vicino di Klara non era preso esclusivamente dalla sua
ammirazione per lei. Nella sua prigionia, trascorsa quasi ininterrottamente alla
luce elettrica di un laboratorio semibuio, quel giovane aveva una vita in un
certo senso carica e precipitosa: di nascosto dai capi, fabbricava oggetti,
studiava furtivamente l’inglese nell’orario di servizio, telefonava ai suoi amici
degli altri laboratori e correva a incontrarsi con loro in corridoio. Si muoveva
sempre con irruenza, e sempre, in ogni momento, e soprattutto in quel
momento, sembrava preso da qualcosa di impetuosamente interessante. Anche
l’ammirazione per Klara era una delle sue attività impetuosamente interessanti.
Oltre a questo, non dimenticava di curare il proprio aspetto: sotto la tuta e
la cravatta variopinta aveva sempre qualcosa di un bianco impeccabile. (Klara
non sapeva che si trattava del pettino, un’invenzione di Rostislav, la sedicesima
parte di un lenzuolo statale.)
I giovani con i quali Klara si incontrava in libertà, e in particolare Ernst
Golovanov, avevano già raggiunto una posizione, si vestivano, si muovevano e
conversavano in modo calcolato, per non danneggiarsi. La vicinanza di
Rostislav faceva sentire Klara più leggera, le faceva venire voglia di scherzare.
Lei lo guardava in segreto con simpatia sempre più forte. Non riusciva a
credere in nessun modo che un tempo lui e il bonario Zemelja fossero stati
quei cani alla catena dell’imperialismo contro i quali il maggiore Šikin metteva
le ragazze in guardia. Aveva una gran voglia di sapere tutto di Rostislav: per
quale misfatto era stato condannato? Doveva restare dentro ancora a lungo?
(Che non fosse sposato era chiaro.) Non si decideva a chiederglielo, temeva che
simili domande potessero traumatizzarlo, far riemergere un passato disgustoso
che lui voleva scrollarsi di dosso, per correggersi.
Erano passati altri due mesi. Klara si era già ambientata bene con tutti, e già
parecchie volte in sua presenza avevano parlato di ogni sorta di sciocchezza
estranea al lavoro. Rostislav aspettava il momento in cui durante il turno serale
Klara rimaneva da sola in laboratorio, all’ora di cena dei detenuti, e aveva
cominciato ad andarla a trovare in quel lasso di tempo: a volte veniva a
prendere delle cose dimenticate, altre lavorava in silenzio.
Durante quelle visite serali, Klara si scordava tutti gli avvertimenti dell’oper...
La sera prima aveva preso il via da sola una di quelle conversazioni irruente
che fanno crollare, come per la furia delle acque, le misere barriere umane.
Quel giovane non aveva nessun passato disgustoso da scrollarsi di dosso.
Aveva solo la giovinezza rovinata, e una grande brama di conoscere e
sperimentare tutto quello che non era riuscito a compiere.
A quanto pareva, un tempo lui viveva con la madre in un villaggio nei
dintorni di Mosca, vicino al canale. Aveva appena concluso il ciclo scolastico di
dieci anni quando alcuni americani dell’ambasciata avevano affittato una dacia
nel loro villaggio. Rus’ka e due suoi compagni avevano avuto l’imprudenza
(be’, anche la curiosità) di andare a pescare con gli americani un paio di volte.
Tutto era andato per il verso giusto, o così sembrava: Rus’ka si era iscritto
all’università di Mosca, ma a settembre lo avevano arrestato di nascosto, per
strada, tanto che per molto tempo la madre non aveva saputo che fine avesse
fatto. (Prima di arrestare le persone, l’MGB si assicurava che non avessero il
tempo di nascondere nulla, e che i loro cari non ricevessero una parola d’ordine
o un segnale.) Era stato rinchiuso alla Lubjanka. (Anche il nome di quella
prigione, Klara lo aveva sentito per la prima volta a Marfino.) Era cominciata
l’istruttoria.
Da Rostislav volevano sapere quale compito avesse ricevuto dai servizi
segreti americani, a quale recapito clandestino dovesse trasmettere le
informazioni. Come aveva detto lui stesso, Rus’ka a quei tempi era ancora un
“vitellino”, non faceva che meravigliarsi e piangere. Poi d’un tratto era successa
una cosa straordinaria: Rus’ka era stato rilasciato dalla Lubjanka, dalla quale
non rilasciavano mai nessuno con le buone.
Quello accadeva nel 1945. Lì si era fermato il racconto della sera prima.
Per quel racconto lasciato a metà, Klara era rimasta in agitazione tutta la
notte. Quel giorno, nel disprezzo delle regole più elementari di sorveglianza e
persino ai limiti del decoro, la giovane si era seduta apertamente accanto a
Rostislav, vicino alla sua pompa che ronzava tranquilla, e la loro conversazione
era ripresa.
Verso la pausa per il pranzo, erano già come due bambini che davano un
morso ciascuno a una grande mela. Trovavano strano non aver conversato per
tanti mesi. Ognuno faceva a malapena in tempo a dire la propria. Quando lui la
interrompeva per l’impazienza, le sfiorava la mano, e lei non ci vedeva nulla di
male. E quando tutti andarono in pausa, trovarsi spalla contro spalla, sfiorarsi
le mani assunse a un tratto un nuovo significato. Klara vide davanti a sé quegli
occhi di un azzurro intenso che la veneravano.
Rostislav parlava con la voce di chi ha perso il controllo.
– Klara! Chissà quando potremo stare ancora così? Per me questo è un
miracolo! Io la adoro! – (Lui le stringeva e le carezzava già la mano.) – Klara!
Forse dovrò marcire tutta la vita passando da una prigione all’altra. Mi renda
felice, cosicché, in qualsiasi momento di solitudine, io possa scaldarmi al
ricordo di questo istante! Permetta che io la baci!!
Klara si sentiva una dea scesa nel sottosuolo di un prigioniero. Rostislav
l’attirò a sé e le stampò sulle labbra un bacio di una forza rovinosa, il bacio di
un detenuto sfinito dall’astinenza. Lei lo ricambiò...
Alla fine, Klara si staccò e lo respinse, sconvolta, con la testa che le girava...
– Vada via... – gli chiese.
Rostislav si alzò e rimase in piedi davanti a lei, dondolando.
– È ora, vada via! – esigeva Klara.
Lui esitò. Poi si arrese. Sulla porta rivolse uno sguardo dispiaciuto,
supplicante a Klara, per poi trascinarsi fuori, oltre la soglia.
Poco dopo rientrarono tutti dalla pausa.
Klara non osava sollevare lo sguardo né su Rostislav né su nessun altro.
Qualcosa le bruciava dentro, e se non era vergogna, era felicità, ma di un genere
inquieto.
Ascoltò i discorsi sul fatto che avevano concesso ai detenuti l’albero di
Natale.
Rimase seduta per tre ore, muovendo solo le dita: con alcuni fili elettrici
clorovinilici di vari colori intrecciava un cestino, un addobbo per l’albero.
Di ritorno dal colloquio, il soffiatore Ivan creò due buffi diavoletti di vetro,
che sembravano imbracciare un fucile. A questi aggiunse una gabbia con le
sbarre di vetro e con un filo d’argento vi appese all’interno una luna di vetro
chiara, che tintinnava tristemente.
96 Il riferimento è a quello che negli anni Novanta gli storici chiameranno Holodomor, la grande carestia
ucraina, conseguenza delle politiche crudeli e sconsiderate di Stalin.
46
IL CASTELLO DEL SANTO GRAAL
Per mezza giornata un cielo basso e nebbioso si era dispiegato su Mosca, e non
aveva fatto troppo freddo. Prima di pranzo tuttavia, quando i sette detenuti
scesero dall’autobus azzurro per passeggiare nel cortiletto della šaraška,
volavano già i primi impazienti fiocchi di neve.
Uno di quei cristalli, una proporzionata stellina esagonale, cadde su una
manica del vecchio e rugginoso cappotto militare di Neržin, che portava già al
fronte. Gleb si fermò in mezzo al cortile e inspirò profondamente l’aria.
Il tenente anziano Šusterman, che si trovava lì, avvisò che non era il
momento della passeggiata, dovevano rientrare nell’edificio.
Un vero peccato. Neržin non voleva, o più semplicemente non poteva
raccontare a nessuno del colloquio, condividerlo, non c’era nessuno da
coinvolgere. Con cui parlare. Ascoltare. Voleva rimanere da solo e prolungare
dentro di sé, poco alla volta, tutto ciò che aveva dentro, che si era portato
dietro, prima che sfumasse, che si trasformasse in un ricordo.
Ma nella šaraška, come in ogni campo di lavoro, quello che mancava era
proprio la solitudine. C’erano sempre e dappertutto celle, scompartimenti di
vagoni per il trasporto detenuti, carri bestiame, baracche nei campi di lavoro, corsie
d’ospedale, e ovunque gente, persone, estranee e vicine, fini e rozze, ma sempre
persone e ancora persone.
Neržin entrò nell’edificio (per i detenuti c’era un ingresso a parte, una
scaletta di legno che portava giù, verso un corridoio sotterraneo) e si fermò a
riflettere: dove poteva andare?
Gli venne in mente.
Cominciò a salire verso il pianerottolo cieco del secondo piano, su una scala
di servizio posteriore che non percorreva quasi mai nessuno, superando le
sedie rotte messe lì a marcire.
Quel pianerottolo era stato assegnato allo zek Kondrašëv-Ivanov, un pittore
che lo usava come studio. Con il lavoro della šaraška lui non aveva nulla a che
fare, si trovava lì a servizio come pittore: l’atrio e le aule della Sezione di
Tecnica speciale erano spaziose, dovevano essere ornate di quadri. Meno
spaziosi, ma più numerosi, erano invece gli alloggi personali del viceministro,
di Foma Gur’janovič e di altri lavoratori a loro vicini, e decorare tutte quelle
stanze con quadri grandi, belli e gratuiti era una necessità ancora più
impellente.
A dir la verità, Kondrašëv-Ivanov soddisfaceva male quelle esigenze: i
quadri che dipingeva, sebbene grandi, sebbene gratuiti, non erano belli. I
colonnelli e i generali che venivano in visita alla sua galleria tentavano invano
di fargli capire come dovesse dipingere, quali colori utilizzare, e poi, con un
sospiro di rassegnazione, prendevano quel che c’era. Del resto, se infilati nelle
cornici dorate, quei quadri non erano poi così male.
Neržin superò una commessa completata per l’atrio della Sezione di Tecnica
speciale – A.S. Popov mostra all’ammiraglio Makarov il primo radiotelegrafo – poi
sbucò sull’ultima rampa di scale e, ancor prima del pittore, vide proprio sotto il
soffitto, sul muro cieco, La quercia mutilata, un quadro alto due metri, anch’esso
finito, che tuttavia nessuno dei committenti voleva ritirare.
Altre tele erano appese alle pareti del vano scale. Qualcuna era poggiata su
cavalletti.
La luce entrava da due finestre: una rivolta a nord, l’altra a ovest. Su quello
stesso pianerottolo si affacciava la finestrella di Maschera di Ferro con la grata
e la tendina rosa, impossibilitata a ricevere la luce di Dio.
Altro non c’era, nemmeno le sedie. Al loro posto due ceppi di legno, uno
più in alto, l’altro più in basso.
Nonostante le scale fossero poco riscaldate e vi si insinuasse un’umidità
fredda e tenace, la giubba imbottita di Kondrašëv-Ivanov era gettata sul
pavimento e lui, con le braccia e le gambe che spuntavano dalla tuta troppo
corta, se ne stava in piedi immobile, lungo com’era, incapace di piegarsi, quasi
congelato. I grandi occhiali, che gli facevano sembrare il viso largo e severo, si
reggevano saldamente alle sue orecchie, abituati ai continui movimenti bruschi.
Kondrašëv fissava un quadro. Le braccia abbandonate lungo i fianchi, con il
pennello e la tavolozza in mano.
Sentendo dei passi furtivi, si voltò.
I loro sguardi si incrociarono, ma ognuno continuò a badare ai propri
pensieri.
Il pittore non era contento di avere visite: in quel momento aveva bisogno di
solitudine e silenzio.
Tuttavia, fu felice che si trattasse di Neržin. Con grande entusiasmo, senza
falsa ipocrisia, esclamò come era sua abitudine:
– Gleb Vikent’ič!! Prego!
E con fare ospitale, spalancò le braccia che reggevano la tavolozza e il
pennello.
La bontà è un tratto ambiguo in un artista: nutre la sua immaginazione, ma
va a minare il suo ordine.
Neržin si bloccò sul penultimo gradino, intimidito. Poi disse quasi in un
sussurro, come se temesse di svegliare una terza persona:
– No, no, Ippolit Michalyč! Sono venuto qui, se si può... per starmene un po’
in silenzio...
– Ah, sì! Sì! Ma certo! – annuì piano il pittore. Dallo sguardo dell’uomo
aveva capito, o forse si era ricordato, che Neržin quel giorno aveva avuto un
colloquio. Si scostò rivolgendogli quasi un inchino, e indicò il ceppo con il
pennello e la tavolozza.
Neržin strinse le falde del cappotto, che nel campo di lavoro lui aveva
salvato dalla mutilazione, si lasciò cadere sul ceppo, si appoggiò alle colonnine
della balaustra e, nonostante ne avesse una gran voglia, non fumò.
Il pittore tornò a fissare lo stesso punto sul quadro.
Calò il silenzio...
Il sentimento per la moglie si era ridestato e tormentava Neržin in modo
piacevolmente sottile. Quelle parti delle dita che nell’addio avevano sfiorato le
mani, il collo, i capelli di lei, sembravano come immerse in un prezioso polline.
Avrebbe dovuto vivere anni senza ciò che viene concesso all’uomo sulla
terra.
Ti lasciano la ragione (se dimora in te). Le convinzioni (se ne hai maturate).
E la preoccupazione per il bene collettivo, che ti serra la gola. Resti un
cittadino ateniese, un ideale di uomo a tutti gli effetti.
Ma il fulcro, no.
Ti privano dell’amore di una donna e quello sembra pesare più di tutto il
resto del mondo.
Le semplici parole:
“Mi ami?”
“Sì, ti amo, e tu?” dette con uno sguardo o a fior di labbra, sanno riempire
l’anima di un tranquillo suono di festa.
Adesso per Gleb era impossibile raffigurarsi o ricordare un qualsiasi difetto
della moglie. Sembrava avere solo pregi. Essere pura fedeltà.
Peccato non si fosse deciso a baciarla già all’inizio del colloquio. Ora in
nessun modo poteva recuperare quel bacio.
Le labbra della moglie erano molli, deboli. E com’era sfinita! Con quale
scoramento aveva parlato di divorzio.
Un divorzio davanti alla legge? Gleb non aveva alcuna difficoltà ad accettare
l’annullamento di quella carta bollata. Che c’entrava lo Stato con l’unione di
due anime? E con quella di due corpi?
Pestato dalla vita a sufficienza, Neržin sapeva però che le cose e gli
avvenimenti hanno una loro logica implacabile. Nel loro agire quotidiano le
persone non immaginano mai quali conseguenze avverse possano scaturire da
quelle azioni. Prendiamo Popov: inventando la radio97 si rendeva conto che
avrebbe dato il via a un pandemonio universale, alla tortura dei pensatori
solitari da parte degli altoparlanti? Oppure i tedeschi: lasciarono passare Lenin
per rovinare la Russia, ma dopo trent’anni ottennero la divisione della
Germania. O l’Alaska. Era già stata una bella stupidaggine venderla per quattro
soldi, ma adesso i carri armati sovietici non potevano raggiungere l’America via
terra! Un fatto da niente può decidere il destino del pianeta.
E prendiamo Nadja. Voleva divorziare per sfuggire alle persecuzioni. E una
volta divorziata, si sarebbe risposata senza neanche accorgersene.
Per qualche motivo davanti a quell’ultimo saluto senza anello al dito, Neržin
aveva avuto una stretta al cuore, si era reso conto che in quel modo si stavano
dicendo addio per sempre...
Rimase seduto a lungo in silenzio, mentre l’ondata di felicità successiva al
colloquio, che in autobus gli scoppiava ancora dentro, colò via gradualmente,
spremuta da cupe considerazioni realistiche. Quelle stesse considerazioni, però,
controbilanciarono i suoi pensieri, riportandolo nei suoi panni di detenuto.
“A te va bene così” aveva detto lei.
Gli andava bene stare in prigione!
Era vero.
In sostanza, i cinque anni da recluso non erano stati affatto male. Anche ora,
senza che avesse bisogno di guardarli con distacco, Neržin li riconosceva come
naturali, necessari per la sua vita.
Da dove era meglio osservare la rivoluzione russa se non attraverso le sbarre
da lei stessa murate?
O dove era meglio conoscere le persone se non lì?
E conoscere sé stessi?
Da quante titubanze di gioventù, da quanti slanci verso possibili sbagli lo
aveva risparmiato il sentiero di ferro, predeterminato e univoco, della prigione!
Come diceva Spiridon, “La nostra libertà è un tesoro custodito da
demoni”98.
Oppure prendete quel sognatore immune alla beffa del secolo: cosa aveva
perso stando in prigione? Be’, non poteva girare nei dintorni di Mosca con una
cassetta di colori. E neanche disporre le nature morte su un tavolo. E le
mostre? Non era capace di organizzarle, in cinquant’anni non aveva esposto in
una sala elegante nemmeno un quadro. Denaro per le sue opere? Non ne
riceveva neppure fuori. Spettatori amichevoli? Qui ne radunava anche di più.
Uno studio? In libertà non aveva nemmeno quel pianerottolo sulle scale. Il suo
alloggio era anche il suo studio, una stanza stretta e lunga, simile a un
corridoio. Per organizzarsi con il lavoro, piazzava una sedia sopra l’altra e
arrotolava il materasso, così i visitatori domandavano: “Vi trasferite?” Avevano
solo un tavolo e, quando c’era una natura morta sopra, lui e la moglie
pranzavano sulle sedie finché il quadro non veniva ultimato.
Durante la guerra mancava l’olio per i colori; lui prendeva l’olio di girasole
della razione e diluiva le tempere così. Per avere la tessera bisognava lavorare:
lo avevano mandato nella divisione chimica a ritrarre le allieve modello dei
corsi militari e politici. Gli era stata commissionata una decina di ritratti, ma su
dieci allieve lui ne aveva scelta una e l’aveva tormentata con lunghe sedute di
lavoro. Tuttavia, non l’aveva disegnata affatto come serviva al comando e
nessuno aveva voluto prendere quel ritratto intitolato Mosca, 1941.
Il 1941, in quel ritratto, in effetti c’era. Raffigurava una ragazza in tuta
antigas. I rigogliosi capelli rosso rame spuntavano da tutte le parti sotto la
bustina e le circondavano il capo in un contorno mosso. La testa era gettata
all’indietro, gli occhi folli vedevano qualcosa di orribile, di imperdonabile. Ma
non era la figura di una ragazza debole! Le mani pronte a combattere
stringevano la cinghia della maschera antigas, mentre la tuta anti-iprite grigio
scuro si rompeva in rigide pieghe affilate, si rifletteva con una striscia d’argento
su una superficie frantumata, ricordando un’armatura d’epoca cavalleresca.
Qualcosa di nobile, e al contempo crudele e vendicativo, si era impresso sul
viso di quella giovane comunista di Kaluga, per niente bella, nella quale
Kondrašëv-Ivanov aveva visto una Pulzella d’Orléans!
Ricordava molto i manifesti con la scritta “Non dimenticheremo! Non
perdoneremo!”99, ma andava oltre, vi era raffigurato qualcosa di
incontrollabile, tanto che di quel quadro avevano avuto paura, non lo avevano
preso, non era mai stato esposto, era rimasto per anni nella stanzetta del
pittore, girato verso il muro, e così era rimasto fino al giorno del suo arresto.
Il figlio di Leonid Andreev, Daniil, aveva scritto un romanzo e aveva
chiamato una ventina di amici ad ascoltarlo. Un giovedì letterario in stile XIX
secolo... Quel romanzo illegale era costato a ogni ascoltatore venticinque anni
in un campo di lavoro correzionale. Uno di quegli ascoltatori era proprio
Kondrašëv-Ivanov, nipote del decabrista Kondrašëv, condannato a vent’anni
per insurrezione e divenuto famoso per il commovente arrivo in Siberia di una
governatrice francese che si era innamorata di lui.
È vero, Kondrašëv-Ivanov in un campo di lavoro non c’era mai finito, ma
subito dopo che l’oso, la Sezione di Informazione operativa, aveva firmato la
sua condanna, era stato condotto a Marfino con l’obbligo di dipingere un
quadro al mese, come stabilito da Foma Gur’janovič. Nei dodici mesi appena
trascorsi Kondrašëv aveva dipinto i quadri che ora si trovavano appesi lì e altri
che erano stati già portati via. E dunque? A cinquant’anni suonati, e con
venticinque davanti a sé, quell’anno placido in prigione non lo aveva vissuto
ma lo aveva trascorso volando, senza sapere se ce ne sarebbe stato uno simile.
Non faceva caso a quello che gli davano da mangiare, a quello che gli facevano
indossare, quando veniva contato assieme a tutti gli altri.
Lì lo avevano privato dell’opportunità di incontrare e conversare con altri
pittori. Di guardare i quadri degli altri. E, tramite gli album con le riproduzioni
che arrivavano dalla dogana, veniva a sapere come andavano le cose e quale
direzione aveva preso la pittura occidentale.
Tuttavia qualunque fosse quella direzione, non poteva in alcun modo
influenzare Kondrašëv-Ivanov e condizionare il suo lavoro, perché nel suo
pentagono magico, dove ogni cosa veniva rivelata e prendeva forma, tutti e
cinque gli angoli erano già occupati definitivamente: due dal disegno e dal
colore, come poteva vederli lui soltanto, altri due dal Bene e dal Male
universali, e il quinto dal pittore stesso.
Kondrašëv-Ivanov non poteva tornare con le sue gambe ai paesaggi di un
tempo, non poteva ricreare con le sue mani le nature morte, ma di tutto questo
aveva cominciato a vedere i colori veri nelle celle rese semibuie dalle museruole;
e ora dipingeva a memoria nature morte e paesaggi mai dipinti prima.
Una di quelle nature morte nelle proporzioni del quadrato egizio, di quattro
quinti (Kondrašëv attribuiva un enorme significato alle proporzioni), era
appesa anche ora accanto alla finestra di Mamurin. Nel mezzo della tela era
dipinto in verticale un vassoio rotondo di rame scintillante, visto di lato. Si
trattava di un semplice vassoio, ma veniva percepito come un valoroso scudo
infuocato! Accanto, una brocca di metallo scuro con sottili incavature brunite,
da usare non per il vino, più probabilmente per l’acqua fresca. Dalla parete
sullo sfondo cadeva un broccato color oro (in quel periodo Kondrašëv si era
invaghito soprattutto delle varie sfumature del giallo), che sembrava il mantello
dell’Uomo Invisibile. Nella combinazione di questi tre oggetti qualcosa
trasmetteva coraggio e invitava a non retrocedere.
(Nessuno dei colonnelli però aveva preso quella natura morta, insistendo
che il catino avrebbe dovuto stare di piatto, con sopra almeno qualche fetta di
melone.)
Kondrašëv dipingeva più tele contemporaneamente, le abbandonava e poi ci
ritornava. Nessuna era stata portata a un livello tale da lasciare nell’artista un
senso di perfezione. Non era neanche certo che un simile grado, per lui,
esistesse. Abbandonava i quadri nel preciso istante in cui smetteva di scorgerci
qualcosa, non appena il suo occhio li trovava familiari. Li abbandonava
quando, tornandoci sopra, riusciva a migliorarli sempre meno, e si accorgeva
che invece di correggerli finiva per rovinarli.
Li abbandonava, li girava contro il muro, li copriva. Si separava da quei
quadri, se ne distaccava, ma quando tornava a osservarli con sguardo fresco,
quando li dava via gratis e per sempre perché fossero appesi in mezzo al
borioso lusso, l’estasi dell’addio lo pervadeva. Poteva pure non vederli più: lui
comunque li aveva dipinti!
Ora Neržin osservava l’ultimo quadro di Kondrašëv con grande attenzione.
Al centro era dipinto un ruscello freddo. Dove quel ruscello scorresse di
preciso non si capiva; in effetti non scorreva, la sua superficie era in procinto di
trasformarsi in ghiaccio. Nel punto più basso si intuivano delle sfumature
marroni, il riflesso delle foglie cadute che coprivano il fondo. La prima neve
chiazzava entrambe le sponde, e fra un cumulo e l’altro spuntava dell’erba
rosso-marrone. Sulla sponda crescevano due arbusti di salice, di un impalpabile
grigio fumo, bagnati dai granelli di neve che vi indugiavano sopra e si
scioglievano. Non era quella però la parte più importante, bensì qualcosa sullo
sfondo: una fitta parete di abeti di un nero olivastro difendeva il bosco, mentre
in prima fila splendeva inerme una betulla solitaria. Alla sua morbida luce
gialla, la guardia di conifere che innalzava le picche al cielo appariva ancora più
cupa e compatta. Il cielo era formato da irrimediabili brandelli pezzati, e in
mezzo a quelle nuvole faceva capolino un sole cordiale che non possedeva la
forza di lacerarle con un raggio diretto. Ma nemmeno quella era la parte più
importante: il fulcro si trovava nell’acqua fredda del ruscello che si schiariva.
Un’acqua turgida, profonda. Di una trasparenza plumbea, gelida. Aveva
assorbito e mantenuto l’equilibrio fra l’autunno e l’inverno. E magari qualche
altro equilibrio.
Adesso anche il pittore fissava lo stesso quadro.
La creazione sottostava a una legge inesorabile; Kondrašëv la conosceva
bene ormai, cercava di opporvisi, ma ogni volta finiva per sottomettersi,
impotente. La legge era questa: nulla di quanto fatto prima aveva peso, contava,
rendeva merito al suo autore. Solo ciò che lui dipingeva oggi, soltanto quello
era il cuore di tutta la sua esperienza di vita, il punto massimo della sua
capacità e del suo ingegno, la prima pietra di paragone del suo talento.
E tuttavia non gli riusciva!
Ogni quadro precedente, anche se sembrava riuscito mentre lo dipingeva,
alla fine non era riuscito, ma la disperazione di prima veniva dimenticata, e il
quadro del momento appariva come il primo e unico in cui lui avesse imparato
a dipingere sul serio! Ma poi anche quello non andava, così tutta la vita
sembrava inutile e il talento assente!
Quell’acqua ad esempio: era fredda, profonda, immobile, ma non serviva a
niente se non riusciva a trasmettere la sintesi suprema della natura. Quella
sintesi – la comprensione, la pacificazione, l’unificazione di tutto – Kondrašëv
non la trovava mai in sé, nei suoi sentimenti estremi, ma la conosceva e
l’ammirava nella natura. Quell’acqua, per esempio, trasmetteva la quiete
suprema oppure no? Lui soffriva e si disperava nel tentativo di comprenderlo:
la trasmetteva oppure no?
– Sa una cosa, Ippolit Michalyč? Comincio a concordare con lei, a quanto
pare. Tutti questi luoghi sono la Russia.
– Non il Caucaso? – si voltò di scatto Kondrašëv-Ivanov. I suoi occhiali non
si mossero, neanche fossero attaccati al naso.
La domanda, lungi dall’essere la prima per rilevanza, aveva comunque un
suo valore. Molti si allontanavano perplessi dai paesaggi di Kondrašëv: non
sembravano russi ma caucasici, cioè troppo maestosi, troppo solenni.
– Possono esserci tranquillamente luoghi simili in Russia – confermò
Neržin, convinto. Si alzò dal ceppo e si mise a passeggiare, osservando Il
mattino di un giorno straordinario e gli altri paesaggi.
– Be’, ovvio! Ovvio! – si agitava il pittore, voltando la testa. – Non è che
possono esserci luoghi simili in Russia: ci sono! La porterei ad ammirarli se non
fosse per le guardie. Vede, il pubblico si è lasciato irretire da Levitan! Dopo di
lui ci siamo abituati a considerare la nostra natura russa misera, offesa, a
malapena gradevole. Ma se la nostra natura fosse solo così, da dove sarebbero
venuti fuori allora i settari che si autoimmolavano? gli strelizzi ribelli? Pietro I?
i decabristi? i narodvol’cy?
– Eh già – convenne Neržin. – È vero. Tuttavia, Ippolit Michalyč, se
permette, io non capisco la sua passione per le immagini estreme. Per esempio,
quella quercia mutilata. Perché deve stare per forza su un dirupo roccioso? E
sotto naturalmente c’è il baratro, non si poteva di certo farne a meno. E il cielo
non è solo temporalesco, sembra non aver mai conosciuto il sole. E gli uragani,
che per duecento anni hanno soffiato da qualche altra parte, sono passati tutti
di lì, le hanno torto i rami, e con le unghie l’hanno strappata dalla roccia. Lo so,
lei è uno shakespeariano, se c’è malvagità, deve essere la più eclatante. Ma è
un’idea ormai obsoleta, dal punto di vista statistico situazioni del genere ci
colpiscono di rado. Non c’è bisogno di descrivere sempre il bene e il male con
la lettera maiuscola...
– Cosa mi tocca sentire!! – si adirò il pittore agitando le braccia lunghissime.
– Che cosa c’è di obsoleto?! La malvagità è obsoleta??? Ha mostrato il suo vero
volto solo nel nostro secolo; quelli dei tempi di Shakespeare erano divertimenti
da poppanti! Per scrivere Bene e Male non basta la lettera maiuscola, ce ne
vuole una alta cinque piani, che illumini come un faro. Ci siamo persi in
sfumature! Statisticamente raro? E noi? Non siamo forse milioni?
– In genere sì... – ribatté Neržin, scuotendo la testa. – Se nel campo di
lavoro ti offrono di vendere i tuoi scampoli di coscienza per duecento grammi
di pane nero... e questo succede senza clamore, con naturalezza...
Kondrašëv-Ivanov si raddrizzò, ergendosi in tutta la sua straordinaria
altezza. Fissava un punto davanti a sé, in alto, come Egmont condotto al
patibolo. – Il campo di lavoro non dovrebbe mai abbattere la forza spirituale di
un uomo!
Neržin scoppiò a ridere con maligna sobrietà.
– Non dovrebbe, eppure la abbatte! Lei non è ancora stato in un campo di
lavoro, non può giudicare. Non sa fino a che punto scricchiolano i nostri
ossicini, laggiù. Le persone ci finiscono dentro in un modo e ne escono, se ne
escono, praticamente irriconoscibili. Del resto è noto, vivere determina la
coscienza.
– Nooo!! – Kondrašëv-Ivanov distese le lunghe braccia, ormai pronte a
scontrarsi con il mondo intero. – No! No! No! Sarebbe umiliante! Che senso
avrebbe allora vivere? Mi dica, perché, esistono innamorati che restano fedeli
anche da lontani? La vita li porterebbe a tradire! Perché persone che vivono in
condizioni identiche nello stesso campo di lavoro si comportano in modo
diverso? Ancora non si sa chi plasma chi: se è la vita a plasmare l’uomo, o
l’uomo forte e nobile a plasmare la vita!
Neržin riponeva una tranquilla fiducia nella superiorità della sua esperienza
rispetto alle rappresentazioni fantastiche di quell’idealista senza età. Ma le sue
obiezioni non si potevano non ammirare.
– Fin dalla nascita l’uomo possiede una qualche Essenza! È il nucleo della
persona, il suo io! Non la può definire nessuna vita esteriore! Ogni uomo porta
dentro di sé l’Immagine della Perfezione, che non è mai oscura e talvolta
appare così chiara! E gli ricorda il suo debito da cavaliere!
– Già, e un’altra cosa. – Neržin tornò a sedersi sul ceppo e si grattò la nuca.
– Come mai lei parla tanto spesso di cavalieri e doti cavalleresche? Ho
l’impressione che esageri; Mitja Sologdin invece lo apprezza. Una giovane
addetta alla contraerea per lei diventa una cavallerizza, un vassoio di rame lo
scudo di un cavaliere...
– Ma come? – si stupì Kondrašëv. – Non le piace? Esagero?! Ah, ah, ah! – Il
pittore scoppiò in una risata fragorosa e l’eco di quella risata si diffuse per tutta
la scala, come in un burrone. E come se brandisse una lancia in sella a un
cavallo, Kondrašëv puntò un dito affilato verso Neržin. ˗ Chi ha scacciato i
cavalieri dalle nostre vite? Gli amanti del denaro e del commercio. Di banchetti
e baccanali! E chi manca nel nostro secolo? I membri di partito? No, caro mio,
mancano i cavalieri! Con loro i campi di concentramento non esistevano! E
nemmeno le camere a gas!
D’un tratto ammutolì, e dall’alto della sua statura equina si accovacciò
delicatamente accanto al suo ospite. Poi un lampo guizzò nei suoi occhiali, e
domandò in un sussurro:
– Posso mostrarle una cosa?
Le discussioni con i pittori finiscono sempre così!
– Certo, faccia pure!
Senza nemmeno alzarsi, Kondrašëv si protese verso un angolo, trascinò
fuori un piccolo quadretto con il sottotelaio imbottito e lo alzò, tenendo il
retro grigio rivolto verso Neržin.
– Ha presente Parsifal? – domandò il pittore con voce rauca.
– Ha qualcosa a che fare con Lohengrin.
– È suo padre. Il custode del calice del Santo Graal. Ho in mente un
momento preciso. Quello in cui qualsiasi uomo potrebbe trovarsi a vedere di
colpo, per la prima volta, l’Immagine della Perfezione...
Kondrašëv chiuse gli occhi, serrò le labbra e poi se le morse. Si stava
preparando.
Neržin, stupito, si domandò come mai intendesse mostrargli un quadro
tanto piccolo.
Il pittore dischiuse le palpebre.
– È solo un abbozzo. Un abbozzo del quadro più importante della mia vita.
Probabilmente non lo dipingerò mai. Rappresenta l’istante in cui Parsifal vide
per la prima volta... il castello! del Santo! Graal!!!
E si voltò per sistemare l’abbozzo sul cavalletto davanti a Neržin. E non
staccava gli occhi da quello schizzo. Sollevò la mano verso le palpebre, come
per schermarsi dalla luce che proveniva da lì. E, continuando a indietreggiare
per avere una visuale migliore, barcollò sul primo gradino della scala,
rischiando di fare un ruzzolone.
Il quadro era stato pensato con un’altezza doppia rispetto alla larghezza.
C’era una fessura a forma di cuneo fra due dirupi di montagna attigui. Su
entrambi i dirupi, a destra e a sinistra, rientravano appena nel disegno gli ultimi
alberi di un bosco fitto, primordiale. Alcune felci rampicanti e alcuni tenaci
arbusti deformi e ostili si attaccavano ai bordi e persino alle pareti a picco dei
dirupi. In alto a sinistra, un cavallo grigio chiaro aveva condotto fuori dal
bosco il suo cavaliere con l’elmo in testa e il mantello scarlatto. Il cavallo non
era spaventato dal baratro, teneva la zampa sollevata nell’ultimo passo rimasto
incompiuto, pronto, su ordine del cavaliere, a indietreggiare o a spiccare il
volo... come se avesse le forze e le ali per spiccare il volo.
Ma il cavaliere non guardava il baratro oltre il cavallo. Sbigottito, stupefatto,
guardava in avanti, in lontananza, dove nell’intero spazio superiore del cielo si
apriva un bagliore di un arancione dorato che poteva diffondersi dal Sole o da
qualcosa di ancora più puro del Sole, che il castello nascondeva alla vista.
Spuntando dalla montagna a gradoni, anch’esso tutto gradoni e torrette, si
ergeva aghiforme, visibile anche dal basso attraverso la fessura a forma di
cuneo e la frattura tra le rocce, le felci, gli alberi, per tutta l’altezza del quadro
fino allo zenit del cielo, non nitidamente reale, ma come intessuto di nuvole, un
po’ oscillante, indistinto, eppure intuibile nei particolari di una perfezione
ultraterrena, il castello grigio-azzurro del Santo Graal.
97 Aleksandr Popov (1859-1906), fisico russo, pioniere delle radiocomunicazioni. Ritenuto dai sovietici il
vero inventore della radio, teoria confutata dopo la caduta dell’Urss.
98 Proverbio popolare russo.
99 Celebre slogan sovietico degli anni della Seconda guerra mondiale.
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CONVERSAZIONE 000100
A parte Gustav, il ciccione dalle orecchie rosa, Doronin era il più giovane zek
della šaraška. Aveva conquistato il cuore di tutti con la sua indole poco
suscettibile, la malleabilità e la prontezza. Nei pochi minuti che la direzione
concedeva per giocare a pallavolo, Rostislav si donava completamente: quando
quelli davanti alla rete lasciavano passare la palla, lui si gettava a “volo
d’angelo” dalla linea posteriore, la colpiva e cadeva a terra, sbucciandosi
ginocchia e gomiti fino a farli sanguinare. Era un’attrattiva anche il suo nome
insolito, Rus’ka103, che aveva avuto ragion d’essere due mesi dopo l’arrivo,
quando sulla testa rasata nel campo di lavoro gli era spuntata una peluria
biondo chiaro.
Era stato condotto lì dal campo di Vorkuta per via della sua scheda su cui,
fin dalla registrazione nel GULAG, figurava come “fresatore”; ma all’atto pratico
Rus’ka si era rivelato un fresatore fittizio, ed era stato sostituito ben presto da
uno vero. Era riuscito a evitare di tornare nel campo di lavoro grazie a
Dvoetësov, che lo aveva assegnato alla più piccola delle pompe. Il ricettivo
Rus’ka aveva imparato in fretta. Si aggrappava alla šaraška come a un centro di
riposo; nei campi di lavoro gli erano capitate varie sventure, che ora raccontava
con piglio allegro: in una miniera umida stava quasi per tirare le cuoia, allora
aveva iniziato a darsi malato, si faceva alzare la temperatura ogni giorno
riscaldando entrambe le ascelle con due sassi di identica grandezza, in modo
che i due termometri (con cui cercavano di smascherarlo) non segnassero mai
più di un decimo di grado di differenza.
Quando ricordava ridendo il suo passato, che con venticinque anni di
condanna era destinato immancabilmente a ripetersi anche in futuro, Rus’ka
rivelava a pochi, e sempre in gran segreto, il suo pregio principale: era un
fuggitivo, capace per due anni di menare per il naso l’apparato investigativo
dell’mgb. Degno figlioccio di quell’istituzione, come lei non era mai andato in
cerca di notorietà.
Così, nella folla variopinta degli abitanti della šaraška, Rus’ka non si era fatto
notare granché, fino a un certo giorno di settembre. Quel giorno, con aria
misteriosa, era girato intorno ad almeno venti zek fra i più influenti della
šaraška, quelli che formavano la sua opinione pubblica; e ritrovatosi a
quattr’occhi con ognuno di loro, li aveva informati in tono agitato che quella
Š
mattina l’avevano reclutato fra i delatori dell’oper Šikin e che lui, Rus’ka, aveva
acconsentito pensando di sfruttare quel compito da spia per il bene comune.
Nonostante il fascicolo personale di Rostislav Doronin fosse costellato da
cinque diversi cognomi, segni di spunta, lettere e cifre sulla sua pericolosità,
inclinazione alla fuga, necessità di trasportarlo solo in manette, il maggiore
Šikin, che stava cercando di incrementare il numero dei suoi informatori,
riteneva che Doronin, giovane e dunque volubile, avesse cara la sua posizione
nella šaraška, e per questo avrebbe potuto dimostrarsi fedele all’oper.
Chiamato in segreto nell’ufficio di Šikin (per esempio, ti convocavano in
segreteria e lì ti dicevano: “Sì, sì, passi dal maggiore Šikin”), Rostislav era
rimasto da lui tre ore. In quel lasso di tempo, mentre ascoltava le noiose
istruzioni e spiegazioni del compare, Rus’ka, con i suoi grandi occhi acuti, aveva
non solo studiato la grossa testa del maggiore, che a furia di inserire delazioni e
cavilli si faceva sempre più canuta, il viso nerastro, le mani minuscole, i piedi
nelle scarpe da bambino, il set da scrittoio di marmo e le tendine di seta alle
finestre, ma rovesciando mentalmente le lettere, nonostante fosse seduto a oltre
mezzo metro dal bordo, aveva anche letto le intestazioni sulle cartelle e sui
fogli disposti sotto il vetro e fatto in tempo a calcolare quali documenti Šikin
conservasse nella cassaforte e quali tenesse sotto chiave nella scrivania.
Ogni tanto, con aria ingenua, Doronin piantava i suoi occhi azzurri in quelli
del maggiore e annuiva conciliante. Dietro quell’azzurra ingenuità fremevano le
intenzioni più temerarie, ma l’oper, abituato alla grigia monotonia della docilità
umana, non era in grado di intuirlo.
Rus’ka sapeva bene che Šikin avrebbe potuto rimandarlo sul serio a Vorkuta,
se si fosse rifiutato di diventare un delatore.
Non soltanto Rus’ka, ma tutta la generazione di Rus’ka era stata addestrata a
considerare la “compassione” un sentimento umiliante, la “bontà” un
sentimento ridicolo, la “coscienza” un’espressione da pope. Invece veniva
inculcato loro che denunciare era un dovere patriottico e il migliore degli aiuti
per chi veniva denunciato, e contribuiva al risanamento della società. Non che
tutto questo avesse fatto breccia in Rus’ka, ma non era nemmeno rimasto
lettera morta. La questione principale per lui adesso non era quanto fosse male
o tollerabile diventare un delatore, ma cosa se ne potesse ricavare. Già
arricchito da un’esperienza di vita burrascosa, da un gran numero di incontri in
prigione, e dalle numerose dispute sferzanti che aveva sentito nel carcere, quel
giovane non poteva non prendere in considerazione anche cosa avrebbe potuto
verificarsi quando tutti gli archivi dell’MGB fossero stati scoperti e tutti i
collaboratori segreti sottoposti a processo.
Per questo acconsentire di collaborare con il compare era in prospettiva tanto
pericoloso quanto rifiutarsi di farlo in quel momento.
Ma a parte tutti quei calcoli, Rus’ka era un artista dell’avventurismo.
Leggendo al contrario le interessanti carte sotto il vetro della scrivania di Šikin,
aveva cominciato a fremere al presentimento di quel sottile gioco. L’inerzia
dell’angusta comodità della šaraška lo annoiava!
E una volta concordato, per maggiore verosimiglianza, quale sarebbe stato il
suo guadagno, Rus’ka aveva accettato con ardore. Una volta andato via Rus’ka,
Šikin, soddisfatto della propria sagacia psicologica, si era messo a passeggiare
per l’ufficio, sfregandosi una mano minuscola contro l’altra: un informatore
entusiasta prometteva un raccolto di denunce abbondante. Ma in quello stesso
momento, un Rus’ka altrettanto soddisfatto faceva il giro dei suoi zek di
fiducia, confessando loro che aveva accettato di fare la spia per amore dello
sport, per il desiderio di imparare i metodi dell’MGB e di individuare i veri
spioni.
Gli zek non ricordavano nessun’altra confessione del genere, nemmeno i più
vecchi. Sospettosi, gli domandavano perché si vantasse così, rischiando la testa.
E lui rispondeva:
– Quando ci sarà un processo di Norimberga anche per questi cani, potrete
intervenire come testimoni in mia difesa.
Ciascuno dei venti zek informati da Rus’ka aveva a sua volta raccontato tutto
a uno o due persone e nessuno era andato a denunciarlo al compare! Già solo per
questo una cinquantina di persone si era rivelata al di sopra di ogni sospetto.
Il fatto di Rus’ka aveva a lungo messo in subbuglio la šaraška. Avevano avuto
fiducia nel ragazzo. Gli avevano creduto anche in seguito. Ma i fatti, come
sempre, seguono un loro andamento interno. Šikin esigeva del materiale. Rus’ka
doveva dargli qualcosa. Così aveva fatto il giro dei suoi confidenti a lamentarsi.
– Signori! Chissà quanto denunciano gli altri, se a me che sono a suo
servizio da nemmeno un mese Šikin sta già così addosso! Su, mettetevi nei miei
panni, datemi qualcosina!
Alcuni facevano finta di niente, altri gli passavano qualcosa. Fu deciso
all’unanimità di rovinare una tizia che, spinta dall’avidità, lavorava per
moltiplicare i migliaia di rubli portati a casa dal marito. Trattava gli zek con
disprezzo, era convinta che bisognasse fucilarli tutti (lo diceva alle ragazze
libere, ma gli zek erano venuti a saperlo in fretta) e già solo lei ne aveva fatti
saltare due, uno per la relazione con una ragazza, l’altro per essersi fabbricato
una valigia con materiali statali. Rus’ka l’aveva calunniata spudoratamente,
dicendo che portava le lettere degli zek alla posta e rubava i condensatori
dall’armadio. E, sebbene non avesse presentato nessuna prova, e il marito della
donna, un colonnello dell’mvd, avesse protestato con veemenza, per la forza
inarrestabile di una delazione segreta la tizia era stata licenziata e se n’era
andata in lacrime.
A volte Rus’ka denunciava anche gli zek per qualche sciocchezza non
intenzionale, avvertendoli in anticipo. Poi aveva smesso di avvertirli, se ne stava
zitto. E loro non gli domandarono nulla. Avevano capito tutti di propria
iniziativa che continuava a denunciare, ma su cose che non osava confessare.
Così Rus’ka aveva fatto proprio il destino dei doppiogiochisti. Per quel
gioco, come prima, nessuno osava denunciarlo, ma avevano cominciato a
evitarlo. I dettagli da lui riferiti, e cioè che Šikin tenesse sotto il vetro un orario
speciale che dovevano osservare le spie per presentarsi nel suo ufficio senza
essere convocate, e in base a quello le si potesse beccare, compensavano poco la
sua appartenenza allo stuolo dei delatori.
Nemmeno Neržin, che amava Rus’ka e tutti i suoi imbrogli, sospettava che
fosse stato lui a denunciarlo per Esenin. Nel perdere quel libro, Gleb aveva
provato un dolore che Rus’ka non poteva prevedere. Secondo Rus’ka si sarebbe
chiarito subito che il volumetto era di Neržin, e nessuno glielo avrebbe
sequestrato, ma si poteva ottenere molto da Šikin denunciando che Neržin
teneva nascosto nella valigia un libro portatogli da una ragazza libera.
Rus’ka era uscito in cortile con il gusto del bacio di Klara ancora sulle labbra.
Il niveo biancore dei tigli gli appariva una fioritura, mentre l’aria sembrava mite
come in primavera. Nei suoi due anni di vagabondaggi e dissimulazioni, con i
suoi pensieri di ragazzo tesi a imbrogliare gli agenti investigativi, aveva
rinunciato a cercarsi l’amore di una donna. Era finito in prigione vergine e le
sere per lui erano inconsolabilmente penose.
Ma uscendo in cortile, alla vista del comando lungo e stretto della prigione
speciale, si era ricordato della sua intenzione di dare spettacolo il giorno
seguente a pranzo. Era davvero giunto il momento di annunciare la cosa
(prima non si poteva, per non mandare a monte tutto). Intriso dell’estasi per
Klara, grazie alla quale si sentiva tre volte più fortunato e intelligente, si era
guardato intorno, aveva visto Rubin e Neržin al limite del cortile per la
passeggiata, e si era diretto deciso verso di loro. Portava il berretto storto di
lato e indietro, tanto che la fronte e un angolino della tempia con una ciocca di
capelli si esponevano fiduciosi alla giornata non troppo fredda.
Dal viso severo di Neržin, come notò Rus’ka avvicinandosi, e poi da quello
cupo di Rubin che non si era voltato, si intuiva che stessero parlando di
qualcosa di serio. Ma di certo avevano accolto Rus’ka con una frase finta e
insignificante.
Mandata giù l’offesa, Rus’ka spiegò loro:
– Conoscerete di certo il principio generale di una società giusta, secondo
cui ogni lavoro deve essere retribuito. Ebbene, domani i nostri Giuda
riceveranno i loro denari per il terzo trimestre di quest’anno.
– Che burocrati! – si indignò Neržin. – Quelli si sono già guadagnati il
quarto trimestre e gli pagano solo il terzo? Come mai un simile ritardo?
– La notula di pagamento va controfirmata in troppi posti – spiegò Rus’ka,
in tono di scuse. – Li riceverò anch’io domani.
– Pagano il terzo trimestre pure a te? – si meravigliò Rubin. – Non sei al
loro servizio solo da mezzo trimestre?
– Be’, che c’entra, io ho saputo distinguermi! – disse Rus’ka, guardando
entrambi con un sorriso aperto e affabile.
– E pagano in contanti?
– Dio ce ne scampi! Con un finto trasferimento di denaro per posta,
accreditando la somma su un conto personale. Mi hanno chiesto: che nome
utilizziamo come mittente? Va bene ‘Ivan Iva-novič Ivanov’? Una simile
banalità mi ha irritato. Ho chiesto se era possibile mandarli da parte di Klava
Kudrjavceva. Non è male pensare che c’è una donna che provvede a te.
– E quanto sarebbe per trimestre?
– È questa la cosa più geniale! A ogni informatore dell’elenco assegnano
centocinquanta rubli a trimestre. Ma per decenza bisogna mandarli per posta e
quella, implacabile, se ne prende tre di tasse postali. I compari sono tutti
talmente avidi che non vogliono aggiungere soldi di tasca propria, e talmente
pigri che non fanno domanda per un aumento di tre rubli sul compenso degli
informatori. Per questo i vaglia sono di 147 rubli. Siccome una persona
normale non manderebbe mai un vaglia del genere, le trenta monete da dieci
copechi che mancano sono il marchio di Giuda. Domani a pranzo radunatevi
accanto al comando e controllate tutti i vaglia di quelli che escono dall’oper. La
patria ha il diritto di sapere chi sono le sue spie, non credete, signori?
Nel preciso istante in cui singoli rari fiocchi cominciavano a scendere dal cielo
e a cadere sulla via Matrosskaja Tišina buia e lastricata, dove le ruote delle
automobili avevano leccato via dai ciottoli gli ultimi residui di neve dei giorni
precedenti, nella stanza n. 318 della cittadina studentesca di Stromynka alcune
giovani dottorande trascorrevano una tipica serata domenicale.
La stanza n. 318, al secondo piano, con la sua larga finestra quadrata, dava
proprio sulla Matrosskaja Tišina e dalla finestra alla porta aveva una forma
allungata; a destra e a sinistra, lungo le pareti, erano accostati in fila tre letti di
ferro e torreggiavano traballanti étagère di vimini piene di libri. Nella striscia
centrale, lasciando accanto ai letti soltanto dei passaggi angusti, si susseguivano
due tavoli: uno vicino alla finestra, detto “delle tesi di dottorato”, ingombro di
libri, quaderni, disegni e pile di testi dattiloscritti, e uno comune, sul quale ora
Olen’ka stirava, Muza scriveva una lettera e Ljuda si toglieva i bigodini davanti
a uno specchio. Sulla parete della porta era rimasto lo spazio per un lavabo da
camera con una tendina divisoria (per lavarsi bisognava andare in fondo al
corridoio, ma per le ragazze era scomodo, freddo e lontano).
Sul letto vicino al lavabo era sdraiata a leggere Eržika. Indossava una
vestaglia che nella stanza tutte chiamavano “la bandiera brasiliana”. Aveva
anche altre vestaglie bizzarre, che affascinavano le compagne, ma quando
usciva si vestiva in modo molto sobrio, come se cercasse di non attirare
l’attenzione. Un’abitudine cha aveva preso anni prima, da clandestina
comunista in Ungheria.
Il letto successivo della fila, quello di Ljuda, era sfatto (Ljuda non si era
alzata da molto), la coperta e le lenzuola sfioravano il pavimento, ma sul
cuscino e sulla spalliera erano stati adagiati con cura un vestito azzurro di seta
già stirato e le calze. Sopra il letto era appeso un tappeto persiano. Ljuda,
seduta al tavolo, stava raccontando ad alta voce di un poeta spagnolo, strappato
dalla patria ancora bambino, che le faceva la corte. Descriveva nei dettagli
l’arredamento del ristorante, l’orchestra, i piatti, i contorni, cosa avevano
bevuto.
Il ferro da stiro di Olen’ka era attaccato a un portalampada “ladro” sospeso
sul tavolo, con il cavo penzoloni. (Per non consumare elettricità, alla
Stromynka ferri da stiro e fornelletti erano severamente vietati, non c’erano
prese e tutto il pensionato andava a caccia di “ladri”.) Olen’ka ascoltava Ljuda
ridacchiando, ma continuava a stirare tutta concentrata. La camicia e la gonna
coordinate erano tutto ciò che possedeva. Per lei sarebbe stato meno doloroso
ustionarsi con il ferro piuttosto che bruciare quel completo. Olen’ka viveva con
la borsa di studio da dottoranda, tirava avanti a patate e kaša, se le riusciva non
pagava il biglietto di venti copechi sull’autobus, alla parete sopra il suo letto era
appesa una carta geografica, ma quell’abito da sera era bellissimo, non aveva
nulla di cui vergognarsi.
Bella pienotta, i tratti del viso grossolani, Muza, che quando portava gli
occhiali dimostrava più dei suoi trent’anni, stava cercando di scrivere una
lettera su quel tavolo che oscillava per via del ferro da stiro, con quel fastidioso
racconto sfrontato in sottofondo. Già chiedere a un’altra persona di tacere le
sembrava indelicato. Fermare Ljuda poi avrebbe significato solo farla
infervorare, vederla diventare più insolente. Ljuda, una nuova arrivata, non era
una dottoranda, aveva appena finito l’Istituto finanziario ed era passata ai corsi
di economia politica, dove era giunta più che altro per diletto. Suo padre, un
generale in pensione, le mandava parecchio denaro da Voronež.
Ljuda aveva la convinzione primitiva che l’unico pensiero nella vita di una
donna fossero gli appuntamenti e, in generale, le relazioni con gli uomini. Ma il
racconto di quel giorno aveva un tocco speciale. Dopo un matrimonio durato
tre mesi a Voronež e diverse relazioni con altri uomini, Ljuda si rammaricava
che la sua gioventù fosse passata troppo in fretta. Così fin dalle prime parole
con il poeta spagnolo si era finta una ragazza con poche esperienze, sussultava
e si intimidiva al minimo contatto di una spalla o di un gomito, e quando il
poeta, infervorato, a furia di suppliche, aveva ottenuto il primo bacio che lei
avesse mai dato in vita sua, Ljuda aveva tremato, era passata dall’estasi alla
disperazione, ispirando al poeta una poesia di ventiquattro versi, purtroppo
non in russo.
Muza stava scrivendo una lettera ai suoi genitori, molto anziani, di una
lontana città di provincia. Suo padre e sua madre si amavano ancora come due
sposi novelli, e ogni mattina suo padre, andando al lavoro, non smetteva di
voltarsi a fare ciao con la mano a sua madre fino all’angolo, mentre lei
rispondeva al saluto da dietro la finestra. Erano altrettanto amati anche dalla
figlia, che aveva preso l’abitudine di scrivere loro spesso, e nei dettagli, ogni suo
tormento.
Adesso però Muza non riusciva a concentrarsi. Quarantotto ore prima, la
sera del venerdì precedente, le era successa una cosa in grado di oscurare il suo
indefesso lavoro quotidiano su Turgenev, un lavoro che aveva rimpiazzato
tutto il resto della vita, tutti gli aspetti della vita. Provava una sensazione
davvero disgustosa, come se si fosse invischiata in qualcosa di sporco, di
vergognoso, impossibile da lavare via, da nascondere o mostrare, ma con cui
era impossibile convivere.
Era successo che quel venerdì sera, di ritorno dalla biblioteca, mentre si
stava preparando ad andare a letto, l’avevano convocata alla segreteria del
pensionato e là le avevano detto: “Sì, sì, prego, entri in quella stanza.” Dentro
c’erano due uomini, Nikolaj Ivanyč e Sergej Ivanyč. Ben poco imbarazzati per
l’ora tarda, l’avevano trattenuta uno, due, tre ore. Avevano esordito con
domande del tipo con chi fosse in camera, chi ci fosse nel suo stesso
dipartimento (sebbene, naturalmente, lo sapessero meglio di lei). Avevano
conversato tranquillamente di patriottismo, del dovere collettivo che aveva
ogni lavoratore scientifico di non isolarsi nella propria specializzazione, ma di
servire il popolo con tutti i mezzi, con tutte le possibilità. Muza non aveva
nulla da obiettare, era assolutamente giusto. Allora i fratelli Ivanyč le avevano
chiesto di aiutarli, vale a dire di incontrarsi in momenti prestabiliti con uno di
loro in quella stessa segreteria, o al centro di propaganda, o nelle stanze del
club, o anche nella stessa università, in base agli accordi, e di rispondere a
determinate domande o consegnare le proprie osservazioni in forma scritta.
Da quel momento in poi era iniziato un lungo incubo! Si rivolgevano a lei in
modo sempre più rude, gridavano, le davano del tu: “Perché sei titubante? Non
ti stanno reclutando i servizi segreti stranieri!”, “Questa serve ai servizi segreti
stranieri quanto una quinta zampa a una giumenta...” Poi le annunciarono
apertamente che non le avrebbero permesso di discutere la tesi di dottorato
(per lei erano gli ultimi mesi e la tesi era quasi pronta), le avrebbero rovinato la
carriera scientifica, perché di studiosi mezzecalzette come lei la patria non
aveva bisogno. Lei si era molto spaventata: sarebbe stato davvero così facile per
loro cacciarla dal dottorato? Ma a quel punto avevano estratto la pistola, se
l’erano passata l’un l’altro e come se niente fosse l’avevano puntata contro
Muza. Davanti a una pistola il suo terrore era svanito. In fin dei conti, era
peggio restare viva ma essere cacciata con una macchia sul suo curriculum.
All’una di notte gli Ivanyč l’avevano lasciata andare a riflettere fino a martedì, il
martedì successivo, 27 dicembre, e le avevano fatto compilare un impegno di
non divulgazione.
Le avevano assicurato che loro venivano a sapere tutto, e che se avesse
raccontato a qualcuno della loro conversazione, in base a quell’impegno scritto
sarebbe stata immediatamente arrestata e condannata.
Quale disgraziata scelta li aveva fatti soffermare proprio su di lei? Adesso
Muza attendeva irrimediabilmente che giungesse martedì e, senza più la forza
di studiare, ricordava i giorni appena passati, in cui il suo unico pensiero era
Turgenev, non c’era nulla a opprimerle l’anima e lei, sciocca, non comprendeva
quale fortuna avesse.
Olen’ka ascoltava con un sorriso; una volta, scoppiando a ridere, finì per
sputare un po’ d’acqua. Sebbene in ritardo a causa della guerra, a ventotto anni
Olen’ka era finalmente felice-felice-felice e perdonava tutto a tutti: che ognuno
raggiungesse la felicità come poteva. Aveva un amante, anche lui dottorando,
che quella sera sarebbe passato a prenderla.
– Io gli dico: voi spagnoli considerate tanto importante l’onore di una
persona, ma lei baciandomi sulle labbra mi ha disonorata!
Il viso attraente, forse un po’ duro, della bionda Ljuda esprimeva la
disperazione di una ragazza disonorata.
Per tutto quel tempo l’esile Eržika era rimasta sdraiata a leggere Le opere scelte
di Galachov. Il libro le aveva spalancato un mondo di figure elevate e radiose,
la cui perfezione la sbalordiva. I personaggi di Galachov non erano mai scossi
dal dubbio: servire la patria o non servirla, sacrificarsi o non sacrificarsi. Per via
della sua debole conoscenza della lingua e delle abitudini del paese, di persone
simili Eržika non ne aveva ancora mai incontrate, e diventava tanto più
importante conoscerle attraverso i libri.
Tuttavia abbandonò la lettura e, girandosi su un fianco, prese anche lei ad
ascoltare Ljuda. Lì, nella stanza n. 318, le era capitato di scoprire cose
contraddittorie e sorprendenti: che un ingegnere si era rifiutato di partire per
un interessante cantiere edile siberiano e se n’era rimasto a Mosca a vendere
birra; che qualcuno aveva discusso la tesi di dottorato e ora non lavorava (“In
Unione Sovietica esistevano davvero i disoccupati?”); che, a quanto pareva, per
registrarsi a Mosca bisognava dare alla polizia una grossa bustarella. “Ma si
tratta di un fenomeno istantaneo, vero?” domandava Eržika. (Intendeva
“temporaneo”.)
Ljuda stava finendo di raccontare del poeta, se lo avesse sposato non ci
sarebbe stata per lei altra via d’uscita: avrebbe dovuto fingersi vergine. E si
mise a confidare loro come intendeva mettere in scena la cosa la prima notte di
nozze.
Un serpente di sofferenza passò sulla fronte di Muza. Tapparsi apertamente
le orecchie con le mani sarebbe stato indelicato. Trovò un pretesto per tornare
sul suo letto.
Olen’ka esclamò tutta allegra:
– Ma allora le eroine della letteratura hanno fatto male a confessare i propri
errori davanti ai fidanzati e a farla finita!
– Certo, sono state delle stupide! – rise Ljuda. – È talmente semplice!
Ljuda era in dubbio se sposare o no il poeta:
– Non è membro dell’Unione degli Scrittori sovietici, scrive solo in
spagnolo, come farà a ottenere i diritti d’autore? Non ha nulla di stabile.
Eržika rimase così colpita che tirò giù i piedi sul pavimento.
– Cosa? – domandò. – Tu... anche in Unione Sovietica ci si sposa per
calcolo?
– Quando ti sarai abituata a stare qui, capirai. – Ljuda scrollò la testa davanti
allo specchio. Si era già tolta tutti i bigodini e una moltitudine di riccioli chiari
inanellati le tremolò sul capo. Era bastato uno solo di quegli anellini per
avvinghiare il giovane poeta.
– Ragazze, sono arrivata alla rimozione che... – cominciò Eržika, ma poi si
accorse dello sguardo strano di Muza fisso sul pavimento ed emise uno strillo,
ritirando i piedi sul letto.
– Che c’è? Ne è passato uno?! – gridò con il viso alterato.
Le ragazze scoppiarono a ridere. Non era passato un bel niente. Lì nella
stanza n. 318, a volte persino di giorno, ma di notte in modo spudorato, orribili
topi russi passavano sul pavimento, squittendo e zampettando distintamente.
Nei tanti anni di lotta clandestina contro Horthy, niente aveva fatto così paura
a Eržika come l’idea che quei ratti potessero balzarle sul letto e correrle
addosso. Di giorno, di fronte alle risate delle amiche, il terrore le passava, ma di
notte Eržika si avvolgeva completamente nella coperta, testa compresa, e
giurava che se fosse sopravvissuta fino al mattino se ne sarebbe andata dalla
Stromynka. Nadja, che studiava chimica, si era procurata del veleno che aveva
sparso in tutti gli angoli: i ratti per un po’ si calmavano, ma poi ricominciavano.
Due settimane prima le indecisioni di Eržika erano giunte a un punto di svolta:
non una qualsiasi delle ragazze, proprio lei una mattina, andando ad attingere
l’acqua dal secchio si era ritrovata nel mestolo un topolino annegato.
Tremando dal ribrezzo al ricordo di quel musino aguzzo terribilmente
rassegnato, lo stesso giorno Eržika si era diretta all’ambasciata ungherese e
aveva chiesto di essere trasferita in un appartamento privato. L’ambasciata
aveva fatto richiesta al Ministero degli Affari esteri dell’Urss, il Ministero degli
Affari esteri al Ministero dell’Istruzione superiore, il Ministero dell’Istruzione
superiore al rettore dell’università, il rettore alla sua Sezione di
Amministrazione economica, e la Sezione economica aveva risposto che
appartamenti privati al momento non erano disponibili, che era la prima volta
che sentivano lamentele sulla presenza di topi alla Stromynka. La
corrispondenza fece il giro inverso e poi ripartì da capo. L’ambasciata aveva
assicurato a Eržika che le sarebbe stata assegnata una stanza.
Stringendosi le ginocchia al petto, ora Eržika sedeva nella sua bandiera
brasiliana come un uccello esotico.
– Ragazze, ragazze – diceva lei in una cantilena lamentosa. – Voi mi piacete
tutte tanto! Non me ne andrei per niente al mondo se non fosse per i topi.
Era vero e allo stesso tempo non lo era. Le ragazze le piacevano, ma a
nessuna di loro avrebbe mai raccontato delle sue enormi angosce, del destino
dell’Ungheria, unico nel continente europeo. Dopo il processo a László Rajk
nella sua patria era avvenuto qualcosa di incomprensibile. Giungevano voci che
avessero arrestato quegli stessi comunisti con i quali lei era stata in
clandestinità. Il nipote di Rajk, anche lui studente all’MGU, era stato richiamato
in Ungheria insieme ad altri studenti ungheresi, ma da allora non era giunta da
loro nemmeno una lettera.
Qualcuno bussò alla porta chiusa a chiave con il segnale prestabilito (“Non
nascondete il ferro, siamo dei vostri!”). Muza si alzò e, zoppicando un po’ (le
doleva un ginocchio per un precoce reumatismo), andò ad aprire il gancetto
della sicura. Dentro si precipitò Daša, una ragazza dura, con una grande bocca
un po’ storta.
– Ragazze! Ragazze! – ridacchiò, ricordandosi di rimettere il gancetto alle
sue spalle. – Mi sono sbarazzata di un cavaliere! Indovinate di chi?
– Ne hai così tanti? – si stupì Ljuda, rovistando nella valigia.
In effetti, l’università si stava riprendendo dalla guerra come da uno
svenimento. I maschi al dottorato erano pochi, e per di più non troppo
affidabili.
– Aspetta un attimo! – Olen’ka aveva sollevato una mano e guardava Daša
con fare ipnotico. – Del Mascella?
Il Mascella era un dottorando respinto tre volte di fila in materialismo
dialettico e storico che, in quanto irrimediabilmente tonto, era stato espulso dal
dottorato.
– Del banconiere! – esclamò Daša; si tolse il berretto con i paraorecchi dai
capelli scuri raccolti stretti e lo appese a un gancio. Non sapeva se levarsi il
cappotto con il colletto di agnellino rasato, preso tre anni prima con un buono
dal distributore dell’università, e restava in piedi davanti alla porta.
– Ahhh... quello??!
– Sono sul tram, lui si avvicina – ride Daša. – Mi ha riconosciuta subito. ‘A
quale fermata scende?’ Che potevo fare? Siamo scesi insieme. Mi dice: ‘Non
lavora più in quella banja? Ci sono passato un paio di volte, non l’ho trovata.’
– Gli potevi dire... – Da Daša la risata era passata a Olen’ka e l’aveva avvolta
come una fiamma. – Gli potevi dire... Gli potevi dire...! – Ma non riusciva in
nessun modo a finire la frase e, ridendo di gusto, si lasciò cadere sul letto,
facendo attenzione, però, a non sgualcire il completo adagiato sopra.
– Quale banconiere? Quale banja? – cercò di capire Eržika.
– Gli potevi dire... – si sforzava Olen’ka, ma era scossa dalle risa. Allungò le
mani e cercò di comunicare con le dita ciò che non passava per la gola.
Si misero a ridere anche Ljuda ed Eržika, che non capiva niente; il viso
bruttino e cupo di Muza si sciolse in un sorriso. Muza si levò gli occhiali e li
pulì.
– Mi fa, dove sta andando? Chi va a trovare nella città degli studenti? – Daša
soffocava dalle risa. – Gli dico... conosco una che sta di guardia! Fa delle
manopole!... a maglia...
– Delle ma-no-po-le?
– ...a maglia!!!
– Fatemi capire! Quale servitore? – supplicava Eržika.
Diedero una pacca sulla schiena a Olen’ka. Smisero di ridere. Daša si tolse il
cappotto. Il maglioncino attillato e la gonna semplice con la cinturina stretta
mettevano in risalto la sua figura snella, ben fatta, capace di svolgere ogni tipo
di lavoro per una giornata intera senza stancarsi. Dopo aver ripiegato la
coperta a fiori, si sedette con attenzione sul bordo del suo letto, rifatto con
cura quasi religiosa: cuscini e cuscinetti ben sprimacciati, un rivestimento in
merletto, teli ricamati al muro. Poi raccontò a Eržika:
– Era autunno, faceva ancora caldo, è successo prima che arrivassi tu...
Penso, dove posso trovarmi un fidanzato? Chi poteva presentarmi qualcuno?
Ljuda mi consiglia: vai a passeggiare a Sokol’niki, però da sola! Le ragazze
rovinano tutto andandoci in due.
– Così si va a colpo sicuro! – commentò Ljuda. Si stava togliendo con cura
una macchiolina dalla punta di una scarpa.
– Ci sono andata – proseguì Daša, senza più la stessa allegria nella voce. –
Cammino per un po’, mi siedo e guardo gli alberi. In effetti, quasi subito mi si
siede accanto uno niente male. Chi è? A quanto pare lavora alla mensa, serve in
una tavola calda. Io, invece, dove lavoro? Mi sono vergognata al punto che non
sono riuscita a dirgli che sono una dottoranda. Gli uomini hanno paura di una
donna istruita...
– Dài, non dire così! Altrimenti lo sa il diavolo dove andremo a finire! –
obiettò Olen’ka, con aria scontenta.
In un mondo così diradato e spopolato, una volta estirpato il tronco di ferro
della guerra, in cui si spalancavano solo fosse nere laddove avrebbero dovuto
muoversi e sorridere i loro coetanei e quelli di cinque, dieci, quindici anni in
più, le parole “donna istruita”, che non si sapeva nemmeno chi le avesse
inventate, un’espressione rozza, senza alcun senso, non potevano chiudere la
porta al radioso raggio di luce della scienza, l’unica cosa rimasta alla loro
infausta generazione di donne in barba a qualsiasi fallimento personale.
– ...Gli ho detto che facevo la cassiera in una banja. E lui insisteva: in quale
banja, che turno fa? Me la sono squagliata a fatica...
Tutta l’allegria di Daša si era spenta. I suoi occhi scuri guardavano con aria
malinconica.
Aveva studiato alla biblioteca Lenin per tutto il giorno, poi aveva pranzato
poco e male alla mensa ed era tornata a casa triste all’idea della vuota serata di
festa che l’attendeva e che non prometteva niente.
Un tempo, nelle classi medie della spaziosa scuola in tronchi di legno del
suo paesino, le piaceva tanto studiare. Poi era stata felice che, con il pretesto di
entrare in un istituto superiore, le fosse riuscito di sganciarsi dal kolchoz e
iscriversi in città. Ma ora di anni ne aveva parecchi, ne aveva passati diciotto a
studiare, e si era stancata di studiare fino ad avere mal di testa. Perché studiava?
La gioia più semplice di una donna era avere un bambino, e non c’era nessuno
da cui averlo, per cui averlo.
Dondolandosi meditabonda, nella stanza ora silenziosa, Daša pronunciò il
suo detto preferito:
– No, ragazze, la vita non è un romanzo...
Alla loro Sezione macchine e trattori c’era un agronomo. Scriveva a Daša, la
supplicava. Ma lei stava per diventare una candidata in scienze e tutto il
villaggio avrebbe detto: “Che cosa ha studiato a fare, se poi si sposa con un
agronomo? Poteva essere una caposquadra qualsiasi...” D’altra parte, però,
Daša sentiva che sarebbe stata una candidata in scienze fasulla, scapestrata,
impacciata, che il lavoro accademico sarebbe stato per lei un agognato e
irraggiungibile tassello, che da candidata non avrebbe osato e non avrebbe
saputo introdursi in quei sommi e liberi circoli di scienza.
Le donne di scienza venivano lodate, lodate per tutta la vita, ma era una
presa in giro; promettevano loro così tanto, che poi era più dura quando
andavano a sbattere contro un muro.
Dopo aver osservato con gelosia la vicina fortunata e disinvolta, Daša disse:
– Ljudka! Secondo me dovresti lavarti i piedi.
Ljuda si guardò intorno:
– Dici?
Nell’indecisione tirò fuori il fornellino elettrico che tenevano nascosto e lo
attaccò al “ladro” al posto del ferro.
L’energica Daša aveva voglia di scacciare l’afflizione con un lavoro qualsiasi.
Si ricordò di avere a disposizione un nuovo capo di biancheria, non della sua
taglia: prendevi quello che agli altri non serviva. Ora, dopo averlo tirato fuori,
si mise a ricucirlo.
Così tutte si quietarono, e per Muza sarebbe stato finalmente possibile
concentrarsi per bene sulla sua lettera. Eppure non le veniva! Muza rilesse le
ultime frasi, cambiò una parola, scrisse meglio alcune lettere poco chiare...
niente, non le riusciva! La lettera raccontava delle bugie, sua madre e suo padre
se ne sarebbero subito accorti. Avrebbero capito che la figlia non stava bene,
che era successo qualcosa di brutto. Perché Muza non glielo scriveva e basta?
Perché mentiva per la prima volta?
Se in quel momento la stanza fosse stata vuota, Muza si sarebbe messa a
gemere. A gridare forte, e magari si sarebbe sentita meglio. Ma a quel punto
poteva solo buttare via la penna e appoggiare il viso sui palmi, nascondendolo a
tutti. Ecco come vanno le cose! Davanti alla scelta più importante della tua vita
non puoi chiedere consiglio a nessuno! Non c’è nessuno che ti può dare una
mano! Aveva firmato un impegno di non divulgazione! E martedì si sarebbe
ritrovata davanti quei due, sicuri di sé, che sapevano usare le frasi giuste, i
giusti giri di parole. Com’era bella la vita fino a due giorni prima! Mentre
adesso era tutto finito. Perché loro non desisteranno. E nemmeno tu lo farai.
Come puoi ragionare su un principio amletico o donchisciottesco dell’essere
umano e ricordarti per tutto il tempo di essere una delatrice, con un nome in
codice tipo Romaška o Trezorka, e di dover raccogliere materiale magari su
queste ragazze o sul tuo professore?
Muza cercò di asciugarsi le lacrime dagli occhi socchiusi senza farsi notare.
– Ma dov’è Nadjuška? – domandò Daša.
Nessuno rispose. Non lo sapeva nessuno.
Ma a Daša, intenta a cucire, venne l’idea di parlare di Nadja.
– Secondo voi, ragazze, quanto si può aspettare? Sì, è disperso. Ma dalla
guerra sono passati cinque anni. Potrebbe anche darci un taglio, no?
– Ma cosa dici! Cosa dici! – esclamò Muza sofferente, e sollevò le braccia
sopra la testa. Le maniche ampie dell’abito grigio a quadretti le scivolarono
verso i gomiti, lasciando affiorare i teneri avambracci bianchi. – Solo così si
ama davvero! Il vero amore va oltre la pietra tombale!
Le labbra carnose, quasi turgide, di Olen’ka si aprirono in una piega storta.
– Oltre la pietra tombale? Muza, questa è trascendenza. Ti resta la memoria,
teneri ricordi, ma l’amore?
– Proprio così: se la persona non c’è più, come puoi amarla? – commentò
Daša.
– Se solo avessi potuto, parola d’onore, le avrei mandato io stessa un
annuncio funebre con scritto che è stato ucciso, ucciso, ucciso ed è sepolto
sotto terra! – esclamò Olen’ka, infervorata. – Quella maledetta guerra è passata
da cinque anni eppure continua ad alitarci addosso!
– Durante la guerra – intervenne Eržika – moltissimi sono finiti lontano,
oltre oceano. Forse è laggiù anche lui, vivo.
– Be’, può anche essere – concordò Olja. – In questo caso potrebbe ancora
sperare. Ma Nadjuša ha sempre una faccia così tetra, ama crogiolarsi nel dolore.
Soltanto nel suo. Senza il dolore, nella vita le mancherebbe qualcosa.
Daša attese che tutte dicessero la loro; intanto accompagnava lentamente la
punta dell’ago lungo l’orlo, quasi l’affilasse. Sapeva che le sue parole avrebbero
stupito tutte.
– Be’, ragazze, sentite, – disse infine con piglio autorevole – Nadjuška,
secondo me, ci sta ingannando, mente. Non pensa affatto che il marito sia
morto, non spera che stia per tornare disperso da chissà dove. Sa che il marito
è vivo. E sa persino dove si trova.
Tutte si agitarono.
– E come fai a esserne sicura?
Daša le guardava con aria trionfante. Già da un po’, per via delle sue
intuizioni, nella stanza l’avevano soprannominata l’inquirente.
– Bisogna saper ascoltare, ragazze! Si è mai riferita a lui come se fosse
morto? Mai. Si sforza persino di non dire ‘era’, anzi, fa in modo di non usare né
‘era’ né ‘è’. Ma se fosse davvero disperso, si sarebbe potuta sbagliare almeno
una volta, parlandone come se fosse morto...
– Ma allora cosa gli è successo?
– Possibile che non capiate? – esclamò Daša, mettendo da parte il cucito. Ma
loro non capivano.
– È vivo e l’ha lasciata! Lei si vergogna di ammetterlo! Così ha pensato di
dire che era disperso.
– Ah, io ci credo! Ci credo, eccome! – l’appoggiò Ljuda, battendo le mani da
dietro la tendina.
– Quindi, lei si sacrifica in nome della sua felicità! – esclamò Muza. – Ecco
perché taceva e non si risposava!
– Ma che aspetta? – Olen’ka non capiva.
– Sì, tutto giusto, brava Daška! – Ljuda balzò fuori da dietro la tendina
senza la vestaglia, con indosso solo la camicia, le gambe nude, sembrando
ancora più slanciata e alta. – Si sente ferita, per questo si è inventata di essere
una santa fedele a un morto. Non si sacrifica affatto, freme che qualcuno la
accarezzi, mentre nessuno la vuole! Tu cammini per strada e tutti ti guardano,
mentre lei, anche se si butta fra le loro braccia, non la vuole nessuno.
E ritornò dietro la tendina.
– Ščagov, però, viene a trovarla – disse Eržika, pronunciando a fatica il
cognome.
– Che viene a trovarla non vuol dire niente! – replicò con sicurezza Ljuda,
ora invisibile. – Bisogna che abbocchi!
– Che cosa significa ‘abbocchi’? – non capiva Eržika.
Le altre scoppiarono a ridere.
– Be’, diciamo piuttosto – insisté Daša – che forse spera ancora di
riprendersi il marito da quell’altra...
Qualcuno bussò alla porta con il solito segnale prestabilito: “Non
nascondete il ferro, siamo dei vostri!”
Tutte ammutolirono. Daša tolse il gancetto.
Era Nadja, che entrò trascinando le gambe, il viso lungo e invecchiato, quasi
a confermare con il suo aspetto tutte le peggiori beffe di Ljuda. Stranamente,
non rivolse alle presenti neanche una parola di convenienza, non disse né
“eccomi qui” né “novità, ragazze?”. Appese la pelliccia e si diresse in silenzio
verso il suo letto.
Eržika si rimise a leggere. Muza si nascose di nuovo il viso tra le mani.
Olen’ka rinforzò i bottoni rosa della sua camicetta color crema.
Nessuno trovò niente da dire. Per attenuare l’imbarazzo di quel silenzio,
come a concludere il discorso, Daša canticchiò:
– E già, ragazze, la vita non è un romanzo...
50
LA VECCHIA ZITELLA
Ad avvicinare Nadja e Ščagov era stato il fatto che nessuno dei due fosse di
Mosca. I moscoviti che Nadja incontrava tra i dottorandi e nei laboratori
celavano dentro di sé il veleno della propria superiorità inesistente, del
“patriottismo moscovita”, come lo definivano. Nadja si aggirava in mezzo a
loro come un essere di seconda categoria, quali che fossero i successi ottenuti
di fronte al professore.
Come avrebbe dovuto comportarsi con Ščagov, anche lui un provinciale, che
tagliava quell’ambiente come una rompighiaccio attraversa con noncuranza
l’acqua morbida? Una volta nella sala di lettura un giovane candidato in
scienze, con l’intento di umiliare Ščagov, gli aveva chiesto davanti a lei, girando
altezzoso la testa di serpente:
– Lei, di preciso... da quale località viene?
Ščagov, ben più alto di quell’interlocutore, lo aveva guardato con pigra
commiserazione, dondolandosi leggermente avanti e indietro.
– Non le sarà capitato di certo di passarci. È una località del fronte. Vengo
da Trinceask.
Si è notato da tempo che la vita che viviamo non si fa spazio nella nostra
biografia in modo uniforme per tutti gli anni. Ogni persona ha un periodo
particolare in cui si realizza maggiormente, ha una percezione più profonda ed
esercita una maggiore influenza sugli altri e su sé stessa. Qualsiasi cosa succeda
poi a quella persona, anche di esteriormente rilevante, è spesso solo l’effetto del
declino o dell’inerzia di quello slancio: ricordiamo, ci deliziamo, riprendiamo
in molti modi quanto è risuonato in noi una sola volta. Per alcuni quel periodo
sembra essere l’infanzia, tanto che rimangono bambini per tutta la vita. Per altri
è il primo amore, e sono state proprio queste persone a diffondere il mito che
si ama una volta sola. Per altri ancora si tratta del periodo di maggior
ricchezza, di maggiore stima, di maggior potere, e biascicherà della propria
grandezza perduta finché non avrà più denti attaccati alle gengive. Per Neržin
quel periodo era stato la prigione. Per Ščagov, il fronte.
Ščagov era stato in guerra con il caldo torrido e con il gelo. Lo avevano
chiamato nell’esercito dal primo mese di guerra e congedato alla vita civile solo
nel 1946. Nei quattro anni al fronte aveva avuto di rado una giornata in cui dal
mattino fosse certo di sopravvivere fino a sera: non era impiegato nell’alto
comando, e nelle retrovie c’era finito solo all’ospedale. Si era ritirato da Kiev
nel 1941 e dal Don nel 1942. E anche quando la guerra si metteva al meglio, a
Ščagov era toccato filare via di corsa, come nel 1943 e persino nel 1944 a
Kovel’.
Nei canaloni lungo la strada, nelle trincee dilavate e in mezzo ai ruderi delle
case carbonizzate aveva imparato il valore di una gavetta di minestra, di un’ora
di calma, il senso della vera amicizia e della vita in generale.
Le sofferenze del capitano del genio Ščagov non si sarebbero cicatrizzate né
adesso né in dieci anni. Ormai divideva le persone in un solo modo: i soldati da
una parte, e poi gli altri. Persino nelle strade di Mosca, dove tutto si dimentica,
la parola “soldato” era per lui garanzia di sincerità e benevolenza. L’esperienza
gli aveva insegnato a non credere a chi non aveva provato il fuoco del fronte.
Dopo la guerra a Ščagov non erano rimasti parenti e la casetta in cui prima
viveva la sua famiglia era stata completamente spazzata via da una bomba. Gli
unici beni di Ščagov erano le cose che aveva indosso e una valigia di trofei presi
in Germania. A onor del vero però, per addolcire negli ufficiali congedati
l’impressione della vita da civili, dopo dodici mesi dal ritorno a casa ricevevano
ancora uno “stipendio per il grado militare”, un salario per non fare niente.
Tornato dalla guerra Ščagov, come molti altri reduci, non aveva più
riconosciuto il paese che aveva difeso per quattro anni: vi si disperdevano le
ultime nuvole rosa d’uguaglianza rimaste nei ricordi di gioventù. Il paese si era
inferocito, si era fatto totalmente disonesto, e voragini separavano una gracile
miseria da una ricchezza che ingrassava spudorata. Inoltre i reduci, purificati
dalla vicinanza della morte, erano tornati per breve tempo migliori di come
erano partiti, e per loro era sbalorditivo il cambiamento avvenuto in patria e
maturato nelle lontane retrovie.
Quegli ex soldati adesso erano tutti lì, camminavano per le strade e
andavano in metropolitana, ma vestiti ognuno alla propria maniera, tanto che
non si riconoscevano l’un l’altro. E accettavano come ordine superiore non il
loro del fronte, ma quello che avevano trovato lì.
C’era da prendersi la testa fra le mani e pensare: per cosa ho combattuto?
Quella domanda se la ponevano in molti, ma ben presto erano finiti in
prigione.
Ščagov evitava di porsela. Non era una di quelle creature incontenibili che si
dibattono costantemente alla ricerca di una giustizia universale. Aveva capito
che il mondo va come va, fermarlo non si può, si può solo saltare o non saltare
su un predellino. È chiaro che la figlia di un membro del comitato esecutivo,
già solo per nascita, sarà destinata a un’esistenza pulita e non le toccherà
lavorare in fabbrica. Impossibile concepire che il segretario degradato di un
comitato distrettuale accetti di mettersi al tornio. Le quote delle fabbriche non
vengono realizzate da quelli che le concepiscono, così come ad andare
all’attacco non sono quelli che danno l’ordine.
Insomma, non si trattava di una cosa nuova per il nostro pianeta, era nuova
solo per un paese rivoluzionario. Ed era una vergogna che al capitano Ščagov
non riconoscessero i diritti del suo onorevole servizio, il diritto di entrare a far
parte della vita civile che lui avevano conquistato per loro. Doveva dimostrare
di meritarselo per l’ennesima volta: doveva far passare il proprio diritto
attraverso l’amministrazione, fissarlo con un timbro statale, in uno scontro
all’ultimo sangue, senza colpi d’arma da fuoco, senza lanci di granate.
E in più, sorridere.
Nel 1941 Ščagov era andato talmente di fretta al fronte da non preoccuparsi
nemmeno di finire il quinto anno e prendere la laurea. Ora, a guerra conclusa,
doveva recuperare e puntare al titolo di candidato delle scienze. La sua
specializzazione era in meccanica teorica, e prima ancora della guerra voleva
dedicarsi a questo. Allora era più facile. Dopo la guerra poi, con l’aumento
degli stipendi in quel campo, aveva provato un vero e proprio slancio d’amore
per la scienza in generale, per ogni scienza, tutte le scienze.
Così aveva misurato di nuovo le proprie forze in un’altra lunga campagna. I
trofei della Germania se li era venduti un po’ per volta al mercato. Non seguiva
la mutevole moda degli abiti e delle scarpe, continuava a portare
provocatoriamente le cose con cui l’avevano congedato: gli scarponi, i
pantaloni in tessuto diagonale, la giubba di lana inglese con i quattro nastrini
delle decorazioni e due galloni per le ferite riportate. Era stato proprio il sacro
fascino del fronte ad avvicinare Ščagov al capitano Neržin agli occhi di Nadja.
Vulnerabile a ogni insuccesso e offesa, Nadja si sentiva una bambina davanti
alla quotidiana saggezza corazzata di Ščagov e gli chiedeva consigli. (Ma anche
a lui mentiva con la stessa tenacia, dicendo che il suo Gleb era disperso.)
Nadja stessa non si era resa conto di come e quando si fosse lasciata
prendere la mano: il biglietto “in più” per il cinema, lo scontro scherzoso per il
taccuino. E ora, non appena Ščagov era entrato nella stanza e aveva discusso
con Daša, Nadja aveva subito capito che lui era venuto per lei e che sarebbe
inevitabilmente successo qualcosa.
E sebbene poco prima piangesse, inconsolabile, per la propria vita spezzata,
dopo aver strappato la banconota da dieci rubli si era sentita come rigenerata,
matura, pronta a una vita nuova, subito.
E il suo cuore non ci sentiva contraddizione.
Ma una volta placata l’eccitazione per quel breve gioco con lei, Ščagov era
tornato al suo solito comportamento cauto.
Ora voleva farle capire chiaramente che non poteva sperare di sposarsi con
lui.
Dopo aver sentito della sua fidanzata, Nadja prese a camminare per la stanza
con passo mesto, si fermò davanti alla finestra e con il dito disegnò qualcosa
sul vetro in silenzio.
Gli dispiaceva per lei. Avrebbe voluto spezzare quel silenzio e spiegarle con
grande semplicità e una franchezza dimenticata da tempo: una povera piccola
dottoranda senza legami e senza futuro, che cosa avrebbe potuto offrirgli? E
lui aveva il diritto legittimo di ottenere una fetta di torta (l’avrebbe conquistata
in altro modo se soltanto le persone di talento da noi non venissero sbranate
lungo la strada). Avrebbe voluto raccontarle che, sebbene la sua fidanzata
vivesse nell’ozio, non era poi troppo corrotta. Aveva un bell’appartamento in
un edificio ricco e riservato, dove alloggiava solo chi contava. All’ingresso un
portiere e la scala coperta di tappeti: dove trovare ora un posto del genere in
Unione Sovietica? E, cosa principale, i suoi problemi si sarebbero risolti tutti in
una volta. Che ci poteva essere di meglio?
Ma tutto questo l’aveva solo pensato, non l’aveva detto.
Con la tempia appoggiata al vetro, gli occhi fissi nella notte, Nadja rispose
malinconica:
– Va bene. Lei ha una fidanzata. E io ho un marito.
– Disperso in guerra?
– No, non è disperso – sussurrò Nadja. (In che modo sconsiderato si stava
tradendo!)
– C’è una speranza che sia vivo?
– L’ho visto... Oggi...
(Nadja si stava tradendo, ma almeno lui non l’avrebbe considerata una che
gli si aggrappava al collo!)
Ščagov non ci mise molto a capire di che cosa si trattava. Non ragionava da
donna, non poteva pensare che Nadja fosse stata lasciata. Sapeva che “disperso
in guerra” significava quasi sempre “persona trasferita”, e quando in Unione
Sovietica ti trasferivano, era solo perché stavi dietro le sbarre.
Si avvicinò a Nadja e la afferrò per il gomito.
– Gleb?
– Sì – rispose lei, con un filo di voce, quasi indifferente.
– Che fa? È dentro?
– Sì.
– Ah ecco! – disse Ščagov in tono liberatorio. Ci pensò un attimo e poi uscì
di corsa dalla stanza.
Nadja era così tramortita dalla vergogna e dalla disperazione che non colse
una nota nuova nella voce di Ščagov.
Scappasse pure. Lei era contenta di averglielo detto. Era di nuovo sola con la
propria onesta gravità.
Il filetto della lampadina bruciava ancora incandescente.
Trascinando come un fardello le gambe sul pavimento, Nadja si diresse
dall’altra parte della stanza, nella tasca della pelliccia trovò la seconda sigaretta
e, dopo essersi allungata a prendere i fiammiferi, la accese. Trovò conforto nel
gusto nauseante della sigaretta.
Non abituata a fumare, le venne un accesso di tosse.
Passando vicino alle sedie, notò su una di esse il cappotto informe di Ščagov.
Come se n’era andato in fretta! Si era a tal punto spaventato da dimenticare
il cappotto.
Il silenzio era tale che dalla stanza accanto si sentiva... uno studio di Liszt in
fa minore trasmesso per radio.
Ah, un tempo, da giovane, lo suonava anche lei, ma lo comprendeva
davvero? Le dita lo eseguivano senza tuttavia capire quella parola: disperato...
Appoggiata la fronte contro l’infisso centrale della finestra, spalancò le
braccia e appoggiò i palmi sui vetri freddi.
Rimase lì come crocifissa agli infissi neri della finestra.
Nella sua vita c’era stato un piccolo punto caldo, che ora non c’era più.
Del resto, in pochi minuti si era già rassegnata a quella perdita.
Era tornata a essere la moglie di suo marito.
Guardava nel buio, sforzandosi di scorgervi il comignolo della prigione della
Matrosskaja Tišina.
Disperato! La sua era una disperazione impotente, come provare ad alzarsi di
scatto quando si è inginocchiati e subito ricadere! Era un re bemolle alto e
tenace, un lacerante grido di donna! Un grido che non trovava fine!
La fila di lampioni portava lontano, verso la nera oscurità di un futuro che
lei non aveva alcuna voglia di raggiungere...
Dopo lo studio di Liszt, fu annunciata l’ora di Mosca: erano le sei di sera.
Nadja si era completamente dimenticata di Ščagov, quando lui rientrò senza
bussare.
Aveva con sé due bicchierini e una bottiglia.
– Allora, moglie del soldato! – disse, con fare allegro e grossolano. – Non
essere triste. Tieni il bicchiere. Dove c’è la testa, c’è la felicità. Brindiamo alla
risurrezione dei morti!
53
L’ARCA
Alle sei della domenica sera cominciava il riposo generale persino alla šaraška, e
durava fino al mattino. Quella spiacevole interruzione del lavoro da parte dei
detenuti non si poteva proprio evitare, giacché i liberi erano in servizio di
domenica per un solo turno. Si trattava di una tradizione deplorevole, che
nemmeno i maggiori e i tenenti colonnelli potevano combattere, non essendo a
loro volta disposti a lavorare di domenica sera. Solo Mamurin, Maschera di
Ferro, aveva timore di quelle notti vuote, con i liberi che se ne andavano, con
gli zek, che venivano ammassati e tenuti sotto chiave, pur essendo anche loro in
un certo senso persone, e a lui toccava passeggiare da solo per i corridoi vuoti
dell’istituto passando accanto a porte sigillate e piombate, o languire nella sua
cella tra il lavabo, l’armadio e il letto. Mamurin cercava di ottenere che al Sette
si continuasse a lavorare anche la domenica sera, ma non riusciva ad abbattere
il conservatorismo della direzione della prigione speciale, contraria a
raddoppiare le guardie in servizio all’interno della zona.
E in conclusione ventotto decine di detenuti, in disprezzo a tutte le
argomentazioni ragionevoli e ai codici sul loro lavoro, la domenica sera
riposavano spudoratamente.
Quel riposo era di un genere che a una persona non avvezza sarebbe
sembrato una tortura inventata dal diavolo. Il buio fuori e la vigilanza limitata
della domenica non consentivano alla direzione carceraria di organizzare in
quelle ore passeggiate in cortile o la proiezione di un film nella baracca. Dopo
una corrispondenza di un anno con le più alte autorità, strumenti musicali
come “fisarmonica”, “chitarra”, “balalaika” e “armonica”, e a maggior ragione
quelli di formato più grosso, erano stati dichiarati inammissibili alla šaraška in
quanto i loro suoni congiunti avrebbero potuto minarne le fondamenta di
pietra. (Gli oper cercavano di scoprire di continuo dai loro informatori se i
detenuti nascondessero pifferi o flauti improvvisati, e se avevi suonato un
pettinino ti convocavano nel loro ufficio e redigevano uno specifico verbale.)
Ovviamente che negli alloggi della prigione fossero ammessi apparecchi radio e
grammofoni più malconci, neanche a parlarne.
In verità ai detenuti era consentito utilizzare la biblioteca del carcere. La
prigione speciale, tuttavia, non aveva i fondi per acquistare libri e scaffali per
contenerli. Si erano limitati a nominare Rubin bibliotecario della prigione
(l’aveva chiesto lui stesso, pensando di arraffare qualche bel libro), a
consegnargli un centinaio di volumi logori e scompagnati come Mumù di
Turgenev, Lettere di Stasov, Storia di Roma di Mommsen, e a ordinargli di farli
circolare tra i detenuti. I prigionieri li avevano letti già da tempo, oppure non
volevano affatto leggerli, e pregavano i liberi di procurare loro altra roba,
fornendo agli oper un ricco terreno di attività investigativa.
Per il riposo i detenuti avevano a disposizione dieci stanze su due piani, due
corridoi, uno superiore e l’altro inferiore, una stretta scala di legno che
collegava i piani, e un gabinetto sotto la scala. Il riposo consisteva nello stare
sdraiati senza alcuna restrizione nei propri letti (e persino dormire, se
riuscivano a addormentarsi con quel baccano), sedervisi sopra (le sedie non
c’erano), camminare per la stanza e spostarsi da un locale all’altro addirittura in
mutande, fumare a volontà nei corridoi, discutere di politica davanti ai delatori
e usare il gabinetto senza nessun imbarazzo e restrizione. (Del resto, chi è
rimasto a lungo in prigione ed è stato costretto ad andare “a espletare i
bisogni” due volte al giorno a comando, sa apprezzare il valore di quel tipo di
libertà immortale.) Il colmo del riposo era che si trattava di tempo proprio, non
statale. Ragion per cui veniva percepito come autentico riposo.
Il riposo dei detenuti si basava sul fatto che le pesanti porte di ferro
venivano chiuse dall’esterno, nessuno le apriva più, nessuno le varcava, nessuno
veniva chiamato a rapporto e trattenuto. In quelle brevi ore, per il mondo
esterno era impossibile insinuarsi dentro con un suono, una parola,
un’immagine, impossibile turbare l’anima di chicchessia. Anche in quello
consisteva il riposo, che il mondo esterno – l’universo e le sue stelle, il pianeta e
i suoi continenti, le capitali e il loro splendore, lo Stato intero, con le feste di
alcuni e i turni di guardia alla produzione di altri – sprofondava nell’oscurità, si
trasformava in un oceano nero, quasi indistinguibile attraverso le finestre con
le inferriate, sotto l’illuminazione giallastra della zona.
Inondata all’interno dall’elettricità sempre presente dell’MGB, l’arca a due
piani dell’ex seminario, con le sponde spesse quattro mattoni e mezzo, navigava
spensierata e senza meta attraverso quel nero oceano di destini ed errori umani,
lasciando fluttuare rivoli di luce dagli oblò.
In quella notte fra domenica e lunedì, se anche si fosse spaccata la Luna, si
fossero innalzate nuove Alpi in Ucraina, l’oceano avesse inghiottito il
Giappone o fosse cominciato un diluvio universale, i detenuti rinchiusi
nell’arca non ne avrebbero saputo nulla fino all’appello del mattino. A
disturbarli in quelle ore non c’erano né telegrammi da parenti né telefonate
moleste, né un figlio con un attacco di difterite né un arresto notturno.
Quelli che navigavano sull’arca erano imponderabili e avevano pensieri
imponderabili. Non erano né affamati né sazi. Non possedevano la felicità e
dunque non avevano l’ansia di perderla. La loro testa non era invasa da
meschini calcoli di servizio, intrighi e promozioni, le spalle non erano gravate
da preoccupazioni per la casa, il carburante, il pane e i vestiti dei bambini.
L’amore, da tempo immemore piacere e dolore dell’umanità, era incapace di
insinuare il proprio fremito o la propria agonia. Le pene detentive erano così
lunghe che nessuno pensava più a quando sarebbe tornato in libertà. Uomini
eccezionali per intelligenza, istruzione ed esperienza di vita, da sempre troppo
devoti alla famiglia per dare qualcosa di sé agli amici, lì solo agli amici erano
legati.
La forte luce delle lampadine riverberava sui soffitti bianchi, sulle pareti
intonacate a calce, e con migliaia di raggi penetrava in teste rasserenate.
Da lì, dall’arca che si apriva un varco attraverso il buio con decisione, era
facile guardare il torrente tortuoso, a perdita d’occhio, della maledetta Storia;
guardarlo tutto in una volta, come da un’enorme altezza, e nel dettaglio, fino a
un sassolino sul fondo, come tuffandosi dentro.
In quelle ore della domenica sera, materia e corpo non esistevano. Uno
spirito di amicizia maschile e di filosofia si librava sul soffitto dalla volta a vela.
Che fosse quella la felicità che i filosofi dei tempi antichi si sforzavano
invano di definire e indicare?
54
DIVERTIMENTI OZIOSI
Nella stanza semicircolare del primo piano, sotto l’alto soffitto a volta
dell’altare, c’era un grande spazio speciale per i pensieri e l’allegria.
I venticinque uomini di quella camera si riunivano in amicizia verso le sei di
sera. Alcuni si spogliavano più in fretta possibile restando in biancheria intima,
nel tentativo di sbarazzarsi della fastidiosa pelle di prigionieri, e si lasciavano
cadere di peso sulla branda (oppure si arrampicavano in alto come scimmie),
altri si lasciavano a loro volta cadere, ma senza togliersi la tuta; qualcuno si
trovava già in alto e, agitando le braccia, da lassù gridava a un amico qualcosa
attraverso la stanza; qualcun altro non si era ancora cimentato in niente, ma si
era fatto più riflessivo e si guardava intorno pregustando la dolcezza delle ore
di libertà che lo attendevano e perdendosi a pensare come cominciarle nel
modo più piacevole.
Fra questi c’era Isaak Kagan, il bassotto “capo della stanza degli
accumulatori”, come veniva chiamato, dai capelli neri e arruffati. Si trovava in
uno stato d’animo particolarmente positivo, quando arrivò in quel luogo ampio
e radioso dal locale degli accumulatori, un laboratorio buio, seminterrato, con
una cattiva aerazione, dove frugava come una talpa per quattordici ore al
giorno. Del resto lui era contento anche del lavoro nel seminterrato, convinto
com’era che in un campo di lavoro avrebbe già da tempo tirato le cuoia (non
faceva mai come quegli spacconi che si davano tante arie dicendo che nel
campo “vivevano meglio che in libertà”).
Da libero Isaak Kagan, un ingegnere che non aveva terminato gli studi e
faceva il magazziniere ai rifornimenti tecnico-materiali, si era sforzato di vivere
una vita modesta, lasciando che l’epoca delle grandi realizzazioni gli scivolasse
accanto. Per lui, restare un magazziniere mite era la cosa più tranquilla e
redditizia. Riservato, celava però una passione ardente per il profitto e per
ottenerlo si dava da fare. La politica non lo attraeva. Tuttavia, per quanto
poteva, osservava le leggi del sabato anche al magazzino. Ma la Sicurezza di
Stato, chissà perché, aveva deciso di aggiogare Kagan al suo carro e aveva
cominciato a trascinarlo in stanze segrete e dentro innocui luoghi di recapito
clandestino, insistendo affinché diventasse un informatore segreto. Per lui era
davvero una cosa terribile. Non era abbastanza schietto e coraggioso (chi lo
era?) per sbattere loro in faccia che la considerava una cosa schifosa, ma con
inesauribile pazienza taceva, farfugliava qualcosa, la tirava per le lunghe, si
sottraeva, si agitava sulla sedia e in quel modo non firmava mai nessun
impegno. Non che fosse assolutamente incapace di denunciare. Avrebbe
denunciato senza remore chiunque gli causasse del male o un’umiliazione. Ma
gli si spezzava il cuore all’idea di farlo con persone che si erano dimostrate
buone con lui o anche solo indifferenti.
Per quella sua ostinazione, alla Sicurezza di Stato lo avevano preso di mira.
E non è che ti puoi proteggere da ogni cosa al mondo. Al deposito era stata
intavolata una discussione: chi malediceva uno strumento, chi il rifornimento,
chi la programmazione. Isaak non aveva aperto bocca, aveva continuato a
compilare le sue bolle d’accompagnamento con la matita copiativa. Il fatto però
era venuto a conoscenza di qualcuno (di sicuro l’avevano costruito ad arte),
così tutti si erano segnalati a vicenda, riferendo chi aveva detto cosa, e per via
del decimo comma dell’articolo 58 si erano beccati dieci anni a testa. Anche
Kagan aveva subìto cinque confronti, ma nessuno aveva dimostrato che da lui
fosse uscita una sola parola. Se l’articolo 58 fosse stato più rigido avrebbero
dovuto lasciarlo andare. L’inquirente però aveva a disposizione una mossa di
riserva, il dodicesimo comma: omessa denuncia di reato. Per quell’omissione
avevano affibbiato a Kagan gli stessi astronomici dieci anni.
Kagan era passato dal campo di lavoro alla šaraška grazie a un’eccezionale
prontezza di spirito. In un momento difficile, in cui era stato cacciato dal posto
di “vice capobaracca” per essere mandato al taglio del bosco e al trasporto dei
tronchi, aveva scritto una lettera indirizzata al presidente del Consiglio dei
Ministri, il compagno Stalin, in cui affermava che se il governo gli avesse
concesso una possibilità, lui, Isaak Kagan, sarebbe riuscito a realizzare un
radiocomando per motosiluranti.
Aveva fatto bene i suoi calcoli. Nessun membro del governo si sarebbe
intenerito se Kagan con il cuore in mano avesse raccontato di stare tanto male
e avesse chiesto di essere salvato. Un’invenzione militare di grande livello
invece meritava che il suo autore fosse portato subito a Mosca. Kagan era stato
trasferito a Marfino e diversi funzionari con le mostrine azzurre e blu si erano
presentati da lui per incoraggiarlo a trasformare un’audace invenzione tecnica
in qualcosa di concreto. Ma siccome lì gli davano pane bianco e burro, Kagan
non aveva alcuna fretta. Con grande sangue freddo aveva risposto che lui non
era un esperto di siluri e, ovviamente, ce ne voleva uno. Due mesi più tardi gli
avevano mandato un esperto di siluri (uno zek). Ma a quel punto Kagan aveva
obiettato, non a torto, che lui non era un meccanico navale e, ovviamente, ce ne
voleva uno. Due mesi più tardi era arrivato anche un meccanico navale (uno
zek). Con un sospiro, Kagan aveva detto che non era specializzato in radio. Di
ingegneri radio a Marfino ce n’erano molti e uno gli era stato subito assegnato.
Dopo averli riuniti tutti, imperturbabile, in modo che nessuno sospettasse la
sua beffa, Kagan aveva annunciato loro: “Ebbene, amici, ora che vi hanno
riuniti qui, sarete ben capaci, con il vostro impegno collettivo, di inventare dei
motosiluranti radiocomandati. Non è il caso quindi che io mi intrometta
consigliando a voi, che siete degli specialisti, come fare.” Così, i tre erano stati
mandati in una šaraška navale e Kagan, grazie al tempo guadagnato, si era
sistemato nella stanza degli accumulatori e tutti ci avevano fatto l’abitudine.
Adesso stava provocando Rubin, che era sdraiato sul letto, ma lo faceva a
distanza, in modo che Lev non potesse raggiungerlo con una pedata.
– Lev Grigor’ič – disse con la sua parlata vischiosa, non sempre
comprensibile, ma senza fretta. – In lei la consapevolezza del dovere sociale si è
visibilmente affievolita. La massa attende un po’ di svago. Lei è l’unico che può
fornirlo, e invece se ne sta lì immerso nella lettura.
– Isaak, vada a... – rispose Rubin, e fece un gesto con la mano. Si era appena
sdraiato con la giubba imbottita del campo di lavoro gettata sulle spalle, la tuta
sotto (la finestra fra lui e Sologdin, aperta con un Majakovskij, lasciava entrare
una piacevole aria di neve), e ora leggeva.
– No, davvero, Lev Grigor’ič! – L’appiccicoso Kagan non lo lasciava in pace.
– Hanno tutti voglia di sentire di nuovo la sua versione geniale della Volpe e la
cornacchia.
– Chi ha fatto la spia su di me? Non sarà stato lei? – rispose Rubin,
bruscamente.
La domenica sera precedente, per rallegrare il pubblico, Rubin si era
inventato una parodia della celebre favola di Krylov La volpe e la cornacchia,
infarcendola di termini da campo di lavoro e di giochi di parole inadatti a un
orecchio femminile, cosa per la quale gli era stato chiesto cinque volte il bis ed
era stato lanciato per aria. Il lunedì successivo però il maggiore Myšin lo aveva
convocato e interrogato sul decadimento morale; allo scopo erano state
raccolte le deposizioni di alcuni testimoni e da Rubin avevano preteso
l’originale della parodia e un rapporto giustificativo.
Quel pomeriggio Rubin aveva già lavorato due ore nella nuova stanza
assegnatagli, aveva individuato i passaggi tipici dell’“uso del linguaggio” e delle
“formanti” del criminale ricercato, li aveva sottoposti all’analisi
dell’apparecchio del linguaggio visibile, aveva appeso ad asciugare i nastri
umidi e, giunto alle prime congetture e ai primi sospetti, pur senza entusiasmo
per quel nuovo lavoro, aveva guardato Smolosidov sigillare la stanza con la
ceralacca. Dopodiché, nella fiumana di zek che ricordava una mandria di
ritorno al villaggio, era rientrato in prigione.
Sotto il cuscino, il materasso, il letto e nel comodino, in mezzo al cibo era
nascosta come sempre una quindicina di libri interessantissimi (solo per lui,
dato che non circolavano) ricevuti nei pacchi: un dizionario sino-francese, uno
lettone-ungherese e uno russo-sanscrito (Rubin lavorava già da due anni a un
progetto ambizioso, nello spirito di Engels e di Marr: far derivare l’origine di
tutte le parole in tutte le lingue dai concetti di “mano” e “lavoro manuale”;
non sospettava in alcun modo che la notte precedente il Corifeo della
Linguistica aveva dato un bel taglio a Marr); poi c’erano La guerra delle
salamandre di Čapek, una raccolta di racconti di autori giapponesi molto
progressisti (vale a dire simpatizzanti del comunismo), Per chi suona la campana
in inglese (siccome Hemingway aveva smesso di essere progressista, non lo
traducevano più), un romanzo di Upton Sinclair mai tradotto in russo e le
memorie del colonnello Lawrence in tedesco, finite in mezzo ai trofei della
ditta Lorenz.
Al mondo c’era un’infinità di libri più necessari, più urgenti, e la gran fame
di leggerli tutti non aveva mai concesso a Rubin la possibilità di scriverne uno
suo. Adesso Rubin si era ripromesso di leggere e soltanto leggere fin oltre la
mezzanotte, senza pensare alla giornata di lavoro successiva. Ma verso sera
l’inventiva, la sete di discussione e l’oratoria di Rubin erano particolarmente
sciolte e bastava davvero poco per richiamarle a servizio degli altri. Alla šaraška
c’era chi non credeva a Rubin, lo considerava uno spione (per le opinioni
troppo marxiste che non nascondeva), ma non c’era persona che non si
entusiasmasse per le sue trovate.
Il ricordo della fiaba La volpe e la cornacchia, infarcita del gergo ben assimilato
della malavita, era così vivo che anche in quel momento, sulle orme di Kagan,
molti nella stanza reclamavano a gran voce qualche nuova burla. Quando
Rubin, cupo, barbuto, si alzò e sbucò fuori da sotto il riparo della branda
superiore come da una grotta, tutti lasciarono le loro attività e si prepararono
ad ascoltare. Solo Dvoetësov, sulla branda in alto, continuò a tagliarsi le unghie
dei piedi facendole schizzare lontano e Abramson, sotto la coperta, a leggere,
senza voltarsi. Alle porte si erano affollati curiosi delle altre stanze, in mezzo ai
quali si udì il tataro Bulatov, con gli occhiali dalla montatura di corno, gridare
all’improvviso:
– Forza, Lëva! Forza!
Rubin non aveva voglia di far divertire la gente, in particolare quelli che
odiavano e calpestavano quanto aveva di più caro; inoltre sapeva che un nuovo
scherzo avrebbe significato inevitabilmente lunedì nuove seccature,
logoramento di nervi, interrogatori da “Šiškin-Myškin”.
Ma siccome Rubin era come il personaggio di quel detto che pur di farsi
bello non avrebbe pietà nemmeno di suo padre, aggrottò in modo teatrale la
fronte, si guardò intorno solerte e nel silenzio che era calato disse:
– Compagni! La vostra mancanza di serietà mi stupisce. Come si può parlare
di burle quando in mezzo a noi girano dei criminali insolenti non ancora
identificati? Senza un sistema giudiziario equo nessuna società può prosperare.
Ritengo necessario, dunque, iniziare la serata odierna con un piccolo processo.
Tanto per riscaldarci.
– Giusto!
– Un processo a chi?
– Non importa a chi! Tanto è uguale! – risposero in coro.
– Divertente! Molto divertente! – lo incoraggiò Sologdin, sedendosi
comodo. Oggi più che mai si era meritato il suo riposo e voleva trascorrerlo
con inventiva.
L’accorto Kagan, rendendosi conto che l’impresa da lui invocata minacciava
di trascendere i confini del buonsenso, si allontanò senza farsi notare e tornò a
sedersi sulla sua branda.
– Chi sarà processato lo scoprirete nel corso del procedimento – annunciò
Rubin (non ci aveva ancora pensato nemmeno lui). – Io sarò il pubblico
ministero, una carica che ha sempre suscitato in me un’emozione particolare. –
(Alla šaraška sapevano tutti che Rubin aveva nemici personali tra i pubblici
ministeri e già da cinque anni combatteva da solo contro la Procura generale e
contro la Procura militare centrale.)
– Gleb! Tu sarai il presidente del tribunale. Forma al volo una commissione
di tre elementi imparziale, obiettiva: in poche parole prona alla tua volontà.
Neržin, lasciate cadere in basso le scarpe, sedeva sulla sua branda. Ogni ora
trascorsa di quella domenica lo allontanava sempre più dal colloquio del
mattino e lo ricongiungeva al mondo dei carcerati. L’appello di Rubin trovò in
lui un sostegno. Si accostò alla ringhiera del letto e calò le gambe tra le sbarre:
ora sembrava seduto su uno scranno sospeso sopra la camera.
– Allora, chi altro vuol fare il giurato? Si accomodi!
La sala era affollata di detenuti che volevano ascoltare il processo, ma
nessuno si offriva come giurato, per prudenza o per paura di apparire ridicolo.
Accanto a Neržin, da un lato c’era l’addetto al vuoto Zemelja, anche lui
sdraiato sulla branda superiore, che leggeva di nuovo il giornale del mattino.
Neržin lo strattonò forte per il giornale.
– Raggio di sole! Forza, ti sei informato abbastanza! Attento che poi finisci
per aver voglia di dominare il mondo. Infila lì le gambe e fai il giurato!
In basso, si levò uno scroscio di applausi.
– Forza, Zemelja, forza!
Zemelja, che era un’anima buona, non poté tirarsi indietro. Si aprì in un
sorriso e, con la testa calva a penzoloni tra le sbarre, disse:
– Sono stato eletto dal popolo, che grande onore! Come mai, amici? Io non
ho studiato, non sono capace di...
Una risata generale (“Nessuno di noi è capace! Nessuno ha studiato!”) era
stata la risposta alla sua nomina di giurato.
Sempre accanto a Neržin ma dall’altra parte, era sdraiato Rus’ka Doronin. Si
era spogliato e infilato sotto la coperta dalla testa ai piedi, un cuscino in alto gli
nascondeva anche il viso ebbro e felice. Non aveva voglia di sentire o di vedere
niente, e neppure che gli altri vedessero lui. Solo il suo corpo era lì, i pensieri e
l’anima avevano seguito Klara, che adesso stava tornando a casa. Poco prima di
andarsene, lei aveva finito di intrecciare il suo cestino per l’albero e senza dare
nell’occhio lo aveva regalato a Rus’ka. Ora lui lo teneva sotto la coperta e lo
baciava.
Vedendo che era inutile cercare di tirare in mezzo Rus’ka, Neržin si guardò
intorno in cerca di un secondo giurato.
– Amantaj! Amantaj! – fu chiamato Bulatov. – Vieni a fare il giurato.
Gli occhiali di Bulatov scintillarono allegri.
– Ci verrei, ma non c’è posto lassù! Resto qui davanti alla porta, sarò il
custode!
Chorobrov (già aveva tagliato i capelli ad Abramson e ad altri due, e ora li
stava tagliando a un nuovo cliente seduto di fronte a lui in mezzo alla stanza a
torso nudo, per evitare la fatica di togliersi i capelli dalla biancheria) gridò:
– A che ci servono due giurati? Il verdetto non è già scritto? Va bene anche
uno solo!
– In effetti è vero – convenne Neržin. – Perché tenerci uno scroccone in
più? Ma dov’è l’imputato? Custode! Faccia entrare l’imputato! Silenzio, prego!
E batté sulla cuccetta con il grosso filtro della sigaretta. Le conversazioni si
smorzarono.
– Processo! Processo! – chiamavano a gran voce. C’era pubblico seduto e in
piedi.
– Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti – recitò
malinconico Potapov in basso, sotto il presidente del tribunale. – Anche
all’estremità del mare, mi guida la tua mano.106 (Potapov aveva appreso la
legge di Dio al ginnasio e nella sua mente precisa da ingegnere si erano
conservati testi del catechismo.)
Sempre in basso, sotto il giurato, si sentì il suono nitido di un cucchiaino
che mescolava lo zucchero in un bicchiere.
– Valentulja! – gridò con rabbia Neržin. – Quante volte le è stato detto di
non picchiare con il cucchiaino!
– Mandiamolo a fare l’imputato! – urlò Bulatov, e alcune mani servizievoli
trascinarono subito Prjančikov dalla penombra della branda inferiore fino al
centro della stanza.
– Basta! – si dibatteva Prjančikov, esasperato. – Ne ho abbastanza dei
pubblici ministeri! Ne ho abbastanza dei vostri processi! Che diritto ha un
uomo di giudicarne un altro? Ah-ah! È ridicolo! Io la disprezzo, amico! – gridò
al presidente del tribunale. – Io la...
Mentre Neržin organizzava un tribunale, Rubin aveva già pensato a tutto. I
suoi occhi marrone scuro scintillavano per il guizzo della trovata. Con un
ampio gesto risparmiò Prjančikov.
– Lasciate quel pivello! Con il suo amore per la giustizia universale,
Valentulja potrebbe essere solo l’avvocato statale. Dategli una sedia!
In ogni burla c’è un impercettibile momento in cui ogni cosa può diventare
volgare e offensiva o seguire all’improvviso l’ispirazione. Rubin, gettata una
coperta a mo’ di mantello sulle spalle, si arrampicò in calzini sul comodino e si
rivolse al presidente.
– Consigliere di Stato di giustizia! L’imputato ha rifiutato di comparire
davanti alla corte, lo giudicheremo in contumacia. Si prega di cominciare!
Tra la folla davanti alle porte c’era anche Spiridon, lo spazzino coi baffi
biondicci. Il volto dalle guance cadenti era coperto di numerose rughe e in quel
reticolo si combinavano in modo strano severità e allegria. Guardò storto il
tribunale.
Alle spalle di Spiridon, spuntò il lungo viso cereo e delicato del professor
Čelnov, con in testa il berretto di lana.
In tono stridulo, Neržin dichiarò:
– Attenzione, compagni! Dichiaro aperta la seduta del tribunale militare
della šaraška di Marfino. Viene esaminato il caso di...?
– Ol’govič Igor’ Svjatoslavič107... – suggerì il pubblico ministero.
Cogliendo al volo l’idea, con voce monotona e nasale Neržin lesse:
– Si esamina il caso di Ol’govič Igor’ Svjatoslavič, principe di Novgorod-
Seversk e Putivl’, anno di nascita... all’incirca... Ma che diavolo, segretario,
perché all’incirca? Attenzione! Vista la mancanza presso il tribunale di un testo
scritto, l’atto d’accusa sarà letto dal pubblico ministero.
106 Salmi, 138, 8-10.
107 Igor’ Svjatoslavič (1151-1201/1202), principe di Novgorod-Severskij, la cui spedizione contro i
Polovcy nel 1185 è al centro del Canto dell’impresa di Igor’. Non riconoscendo un’eclisse come segno di
sventura, Igor’ mandò il proprio esercito in battaglia fino alla disfatta.
55
IL PRINCIPE IGOR’
Rubin cominciò a parlare con tale leggerezza e facilità che i suoi occhi
sembravano davvero leggere qualcosa sulla carta (lui stesso era stato processato
e giudicato quattro volte, e le formule giudiziarie gli si erano impresse nella
memoria).
– Atto d’accusa del fascicolo investigativo numero cinque milioni barra tre
milioni seicentocinquantunomilanovecentosettantaquattro contro Ol’govič
Igor’ Svjatoslavič.
Gli organi della Sicurezza di Stato hanno condotto Ol’govič I.S. in qualità
di imputato per il seguente caso. Dall’indagine è emerso che Ol’govič, valoroso
comandante dell’esercito russo con il rango di principe e la carica di
comandante della guardia armata, si è dimostrato un vile traditore della patria.
La sua opera di traditore si è manifestata quando si è arreso volontariamente
all’acerrimo nemico del nostro popolo ora smascherato, il khan Končak,
consegnandogli anche il figlio Vladimir Igorevič, il fratello, il nipote e il suo
esercito al completo, con le armi e i beni materiali inventariati.
La sua opera di traditore inoltre si è manifestata quando, abboccando fin
dall’inizio all’amo di una provocatoria eclisse solare costruita ad arte dal clero
reazionario, non ha guidato in un massiccio lavoro politico-esplorativo la sua
guardia armata, mandandolo invece a ‘bere con l’elmo l’acqua del Don’108; per
non parlare delle condizioni antigieniche in cui il fiume versava in quegli anni,
prima dell’introduzione della doppia clorazione. Al contrario, l’imputato, con i
Polovcy già in vista, si è limitato a rivolgere un appello assolutamente
irresponsabile alle truppe:
che tattiche:
e più avanti:
Da un’indagine più rigorosa è stato messo in luce che questi cinici rapporti
esistevano già molto tempo prima della battaglia sul fiume Kajaly:
e persino:
108 Il canto dell’Impresa di Igor’, tr. it. di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1991, p. 43. Nell’Antica Rus’, bere
con l’elmo da un fiume in terra nemica era simbolo di vittoria in battaglia.
109 Codice Ipaziano.
110 Codice Ipaziano.
111 Aleksandr Borodin (1833-1887), compositore russo, la cui unica opera teatrale, Il principe Igor’, narra le
stesse vicende del Canto dell’impresa di Igor’.
112 Il canto dell’Impresa di Igor’, cit., p. 51.
113 Ibid.
114 Dal libretto originale russo dell’opera Il principe Igor’ di Aleksandr Borodin.
115 Ivi.
116 Ivi.
117 Ivi.
118 Ivi.
119 Ivi.
120 Ivi.
121 Il canto dell’impresa di Igor’, tr. it. di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1991, p. 45.
122 Articolo 58-1.b, tradimento da parte di personale militare: pena di morte con confisca dei beni.
56
FINENDO IL VENTESIMO
Neržin andò ad aiutare Potapov a preparare la crema. Negli anni di fame della
prigionia tedesca e delle carceri sovietiche, Potapov aveva appurato che nella
vita il processo di masticazione non soltanto non era spregevole, una cosa di
cui vergognarsi, ma molto dilettevole, e rivelava in noi l’essenza dell’essere.
...Mi piace precisare l’ora
dicendo “pranzo”, “tè”,
“cena”...125
Sette uomini avevano preso posto alla tavola dei festeggiamenti, formata da tre
comodini di diversa altezza accostati e coperti con un pezzo di carta di un
verde acceso, giunto anch’esso come trofeo dalla fabbrica Lorenz. Sologdin e
Rubin si erano accomodati sul letto di Potapov, Abramson e Kondrašëv su
quello di Prjančikov, mentre il festeggiato si era seduto a capotavola, sul largo
davanzale. Sopra di loro Zemelja già sonnecchiava; gli altri vicini non erano lì.
Il gruppetto fra i letti a castello pareva separato dal resto della stanza.
In mezzo al tavolo, in una scodella di plastica erano state disposte le frittelle
di Nadja, un prodotto mai visto prima alla šaraška. Per quelle sette bocche
maschili sembravano ridicolmente poche. Poi c’erano biscotti semplici e
biscotti spalmati di crema che perciò venivano chiamati pasticcini. Erano
presenti anche dei dolcetti con del caramello ottenuto facendo bollire un
barattolo sigillato di latte condensato. E alle spalle di Neržin, in uno scuro
barattolo da un litro, era racchiuso qualcosa di invitante per cui servivano i
bicchieri: un po’ di alcol che gli zek avevano barattato con un pezzo di
“superbo” cartone bachelizzato. L’alcol veniva diluito con l’acqua in
proporzioni uno a quattro e poi colorato con del cacao condensato. Si trattava
di un liquido marrone leggermente alcolico, che però tutti aspettavano con
impazienza.
– Allora, signori? – li esortò Sologdin, appoggiato in modo pittoresco, gli
occhi che gli scintillavano nella penombra della cuccetta. – Chi di noi e quando
si è seduto per l’ultima volta a un banchetto simile?
– Io ieri, con i tedeschi – borbottò Rubin, senza troppa enfasi.
Che Sologdin, a volte, chiamasse quella compagnia signori, Rubin lo
comprendeva come il risultato del trauma di dodici anni di prigione. Era da
non credere che a trentatré anni dalla rivoluzione un uomo potesse
pronunciare seriamente una parola del genere. Quel trauma aveva travisato
anche molte idee di Sologdin: Rubin si sforzava di ricordarlo sempre e di non
arrabbiarsi quando gli capitava di sentire da lui cose bizzarre.
(Per Abramson, invece, era bizzarro che Rubin banchettasse con i tedeschi.
C’è un limite ragionevole a ogni internazionalismo!)
– No-o – insisté Sologdin. – Intendo una tavola vera, signori! – Era felice di
usare quell’espressione altezzosa con ogni scusa. Riteneva che sulla terra ci
fossero ampi spazi per i “compagni”, mentre nello stretto pezzo di quella
carceraria potessero mandar giù “signori” anche coloro cui non piaceva. – Con
una tovaglia spessa di colore tenue, il vino in caraffe di cristallo e, be’, sì, le
donne vestite a festa, naturalmente!
Gli sarebbe piaciuto star lì a crogiolarsi in quella cosa e rimandare l’inizio
del banchetto, ma Potapov, con un geloso sguardo scrutatore da padrone di
casa, fissò la tavola e, con il solito fare brusco, lo interruppe:
– Voi capite, ragazzi, vero? Bisogna passare alla parte ufficiale prima che
129 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 389.
130 Ivi, p. 458.
131 Giovanni, 15:13.
132 Deriva da merzljak, persona freddolosa.
133 Termine gergale per indicare gli agenti dell’MGB.
134 Celebre pittore ritrattista russo della seconda metà del XIX secolo.
135 Gruppo di pittori realisti russi che nel 1870, per protesta contro le rigidità accademiche, formò una
cooperativa, e poi una società, di mostre itineranti.
136 Carcere della Butyrka.
137 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 75.
59
IL SORRISO DI BUDDHA
L’azione del nostro incredibile racconto risale a quella gloriosa estate di caldo
eccezionale del 194... in cui i detenuti, in perizoma e talmente numerosi da
superare di gran lunga i leggendari pesci nei quaranta barili138, pativano l’afa
immobile dietro le museruole e i vetri opachi come occhi di pesce del carcere
della Butyrka, celebre nel mondo.
Che cosa dire di questa istituzione utile e ben organizzata? La sua genealogia
risale fino alle caserme di Caterina. Nel feroce secolo dell’Imperatrice, per
costruire le mura della sua fortezza e le sue volte ad arco non avevano
risparmiato mattoni.
138 Qui il gioco di parole è legato al modo di dire sorok boček arestantov, “quaranta barili di pesce
essiccato”, che sta indicare una grossa quantità di qualcosa, dove il termine antico arestant, “piccolo pesce
essiccato”, è identico a quello nel russo corrente che significa “detenuto”.
139 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 129.
140 Celebre giornale di politica, economia e letteratura di Pietroburgo, con posizioni moderatamente
liberali, chiuso nell’ottobre del 1917.
141 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 173.
142 Iniziativa politica con cui gli Stati Uniti fornivano a vari paesi alleati grandi quantità di materiale durante
la Seconda guerra mondiale, tra il 1941 e il 1945.
143 L’Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione (United Nations Relief and
Rehabilitation Administration), era un’organizzazione internazionale costituita nel 1943 per assistere le
popolazioni delle Nazioni Unite danneggiate dalla guerra e successivamente anche i paesi ex nemici.
60
ANCHE LA COSCIENZA CI VIENE DATA UNA VOLTA SOLA
Mentre quella novella veniva raccontata, Ščagov, che aveva lucidato gli scarponi
di vitello non più nuovi ma ancora belli e si era infilato nel suo ex corredo
militare di gala ben stirato, con le decorazioni pulite a dovere e il distintivo per
il ferimento cucito sopra (ahimè, a Mosca, la moda di portare le uniformi
militari era diventata catastroficamente antiquata e presto gli sarebbe toccato
mettersi in difficile competizione con abiti e scarpe), era diretto dall’altra parte
della città, alla barriera di Kaluga, dove Erik Saun’kin-Golovanov, un amico del
fronte, lo aveva invitato a una serata solenne a casa della famiglia del
procuratore Makarygin.
Quella in onore del procuratore, che aveva ricevuto l’ordine della Bandiera
Rossa del Lavoro, era una festa per i giovani e per la famiglia. I giovani capitati
lì, in verità, erano tutt’altro che vicini alla famiglia, ma il paparino aveva
sganciato lo stesso la grana. Doveva essere presente anche la ragazza che
Ščagov aveva indicato a Nadja come sua fidanzata, ma con la quale non c’era
ancora niente di deciso e bisognava spingere un po’. Così aveva telefonato a
Erik per farsi procurare un invito alla festa.
Ora, con qualche frase d’esordio preparata in anticipo, stava salendo per la
stessa rampa di scale su cui Klara aveva visto la donna intenta a lavare i
pavimenti, diretto all’appartamento nel quale quattro anni prima, strisciando
sulle ginocchia con i laceri pantaloni imbottiti, posava il parquet lo stesso
uomo cui per poco, prima, non aveva portato via la moglie.
Anche le case hanno un loro destino.
A parte tenersi stretta la fidanzata che si era designato, quella sera la
speranza e il desiderio principali di Ščagov erano di farsi una bella scorpacciata,
abbondante e varia. Sapeva che avrebbero preparato e sistemato il meglio in
quantità illimitate, anche se per una sorta di incantesimo gli invitati di un
banchetto non si prefiggono mai di mangiare con cura e piacere, ma di
intrattenersi a vicenda, mescolarsi, trattare il cibo con falsa sufficienza. Ščagov
doveva essere in grado di far compagnia alla persona che aveva accanto,
conservando un’espressione equilibrata e cortese, riuscire a scherzare, a
rispondere alle battute, e allo stesso tempo soddisfare di continuo il suo
stomaco rattrappito dalla mensa studentesca.
Là, a quella serata, era sicuro che non avrebbe incontrato nessun ex
combattente vero, nessun fratello finito su un sentiero di mine, nessuno che
avesse sperimentato lo stesso odioso arrancare stanco, meschino, su un campo
arato, in quello che veniva definito trionfalmente un attacco. Lì, in quel caldo
mondo felice, dei compagni dispersi, dimenticati e uccisi nei cortili di canapa,
accanto alle pareti di una baracca, sulle rocce d’assalto, c’era solo lui, pronto a
mettere da parte la domanda “Canaglie! Voi dov’eravate?”, e a unirsi a loro,
riempendosi la pancia.
Ma dividere le persone fra soldati e non soldati non era una cosa superata?
La gente adesso si vergognava persino di portare le decorazioni militari così
scintillanti, che un tempo le erano costate tanto. Non potevi scuoterli tutti
dicendo: “E tu, dov’eri?” C’erano quelli che avevano combattuto e quelli che si
erano nascosti: ogni cosa si mescolava, si livellava. Esiste un tempo per
ricordare e un tempo per dimenticare. Ai morti la gloria, ai vivi la vita.
Ščagov suonò il campanello. Gli venne ad aprire Klara, come Ščagov intuì.
Nel piccolo e stretto corridoio era già appeso un buon numero di cappotti
da uomo e da donna. Lo spirito mite di quella riunione giungeva fin lì in un
tuonare di voci allegre, il radiofonografo, il tintinnio delle stoviglie e un misto
di pimpanti odori di cucina.
Klara non fece in tempo a invitare l’ospite a spogliarsi che sentì squillare il
telefono appeso lì accanto. Sollevò la cornetta, rispose e con la mano sinistra
fece un cenno deciso a Ščagov di levarsi il cappotto.
– Ink? Salve... Cosa? Non sei ancora uscito? Sbrigati! Ink, papà si offenderà...
Sì, hai anche la voce stanca... Che pretendi, continui a dire ‘Non posso’! Allora
aspetta, ti chiamo Nara... Nara! – gridò verso la stanza. – C’è la tua dolce metà
al telefono, vieni! Si spogli pure! (Ščagov si era già levato il cappotto.) Si tolga
le soprascarpe! (Era venuto senza.) Senti, non vuole venire.
Nel corridoio spuntò, diffondendo profumi lontani dalla nostra volta
celeste, la sorella di Klara, Dotnara, moglie di un diplomatico, come
Golovanov aveva anticipato a Ščagov. Non faceva colpo per la bellezza ma per
quell’imponenza che vibrava nell’aria, capace di rendere gloria al genere
femminile russo. Non era né grassa né corpulenta, ma nemmeno una piccoletta
titubante, sempre in mezzo ai piedi, che si avvicinava furtiva, insicura di sé.
Quella donna camminava come indifferente al fatto se le spettassero o meno la
porzione di pavimento che aveva sotto i piedi e la successiva o il volume di
spazio che la sua figura occupava e il successivo.
Afferrò la cornetta e cominciò a parlare al marito con dolcezza. Stava
impedendo in parte il passaggio a Ščagov, ma lui non aveva fretta di superare
quell’ostacolo profumato, preso com’era a osservarla. Il fatto che non
indossasse le rozze finte spalline aggiuntive che usavano tutte rendeva Dotnara
particolarmente femminile: le spalle si univano alle braccia in una linea naturale
che meglio non si sarebbe potuto disegnare. C’era qualcosa di particolare anche
nel suo abbigliamento: sopra il vestito sbracciato aveva una specie di mezza
mantellina orlata di pelliccia, con le maniche che si chiudevano ai polsi ma
aperte in alto.
E a nessuno dei tre che affollavano il tappeto dell’angusto corridoio sarebbe
mai venuto in mente che dentro quell’innocua e lucida cornetta nera, in quella
conversazione di poco conto sull’arrivo o meno a una festa, si celasse il genere
di misteriosa rovina che è capace di attenderci persino in mezzo alle ossa di un
cavallo morto144.
147 Aleksej Kaledin (1861-1918), generale che sarà a capo dell’Armata bianca durante la Guerra civile.
148 Socialista rivoluzionario.
62
DUE GENERI
La prima moglie del procuratore, quella defunta, che aveva vissuto la Guerra
civile con il marito, che sparava bene con la mitragliatrice e viveva secondo le
ultime delibere della prima cellula del partito, non solo non sarebbe stata
capace di portare la casa di Makarygin fino all’odierna abbondanza, ma se non
fosse morta partorendo Klara sarebbe stato difficile anche solo immaginarsi
come si sarebbe adattata alle complesse tortuosità del periodo.
Al contrario, Alevtina Nikanorovna, l’attuale moglie di Makarygin, colmava
le precedenti ristrettezze familiari, inondando di linfa l’arsura di un tempo.
Non aveva un’idea molto precisa delle strutture di classe e nella vita aveva
frequentato poco i circoli di Educazione politica. Tuttavia, era incrollabilmente
convinta che una bella famiglia non possa sbocciare senza una buona cucina e
abbondante biancheria da tavola e da letto di ottima fattura. E a mano a mano
che la vita andava avanti, come importante segno esteriore di benessere, in casa
dovevano trovare spazio argento, cristalli e tappeti. Il più grande talento di
Alevtina Nikanorovna era la capacità di procacciarsi tutto questo a poco
prezzo, di non lasciarsi mai sfuggire acquisti vantaggiosi: alle aste chiuse, dai
distributori riservati ai responsabili delle istruttorie giudiziarie, nei negozi con
merce in conto vendita e ai mercati delle pulci delle regioni da poco annesse.
Andava appositamente a L’vov e a Riga sia quando c’era ancora bisogno del
lasciapassare sia dopo la guerra, quando le vecchie-lettoni erano ben felici di
vendere tovaglie e servizi massicci in pratica per un tozzo di pane. Era
diventata un’esperta in fatto di cristalli, aveva imparato a orientarsi tra quelli
opacizzati, iridati, di rubino dorato, “rame” e “al selenio”, verde cadmio, blu
cobalto. Non prendeva nessun cristallo di produzione odierna della
GlavPasuda, la fabbrica di Stato, perché storti, passati alla catena di montaggio
attraverso mani indifferenti, mentre nella cristalleria antica si celava la scintilla
del maestro, la peculiarità del suo creatore; negli anni Venti e Trenta, con
sentenze giudiziarie, ne avevano confiscata molta e ora se la rivendevano fra
loro.
Così anche quel giorno la tavola era perfettamente apparecchiata e
imbandita, e si sarebbero occupate del cambio delle portate due serve baškire:
una di Alevtina, l’altra avuta in prestito dai vicini per la serata. Entrambe le
baškire erano pressoché delle bambine, venivano dallo stesso villaggio,
Čekmaguš, e l’estate precedente avevano finito insieme il primo ciclo di studi.
Dai volti tesi delle due ragazze, rubizzi per via del lavoro in cucina, traspariva
serietà e diligenza. Erano soddisfatte del loro impiego e speravano di
guadagnare, non entro quella primavera, ma la successiva, abbastanza da
vestirsi bene, trovare marito in città e non tornare più al kolchoz. Alevtina
Nikanorovna, attraente, ancora giovane, seguiva le serve con approvazione.
A suscitare particolare ansia nella padrona di casa era stato un cambio di
programma dell’ultima ora: la cena era stata organizzata per i giovani, e gli
unici vecchi presenti avrebbero dovuto essere alcuni membri della famiglia,
visto che due giorni prima era già stato dato un banchetto per i colleghi di
Makarygin. Per questo gli unici invitati erano un vecchio amico del procuratore
fin dai tempi della Guerra civile, il serbo Dušan Radović, ex professore
revocato da tempo dall’Istituto del Professorato Rosso, e la moglie di un
istruttore del comitato provinciale di Zarečensk, amica sempliciotta della
giovane padrona di casa, venuta a Mosca per acquisti. Ma all’improvviso,
dall’Estremo Oriente (dal clamoroso processo agli ufficiali giapponesi accusati
di preparare una guerra batteriologica) era tornato il generale di divisione
Slovuta, anche lui procuratore, e uomo molto importante per la carica che
ricopriva, ed era stato necessario invitare anche lui. Con Slovuta presente, però,
era una vergogna che ci fossero solo quegli ospiti mezzi imbucati – uno che
non era quasi neanche più un amico, una che non era quasi neanche più
un’amica; Slovuta avrebbe potuto pensare che dai Makarygin si accoglievano
degli straccioni. Era una cosa alquanto fastidiosa, che guastava la serata ad
Alevtina Nikanorovna. L’amica infelice per via del marito fu fatta sedere
lontana da Slovuta e obbligata a parlare a bassa voce, a non mangiare con
ingordigia; d’altra parte, però, alla padrona di casa faceva piacere che lei stesse
assaggiando ogni piatto, domandando le ricette e ammirando ogni cosa – la
tavola apparecchiata, gli ospiti.
Innokentij era stato chiamato con tale insistenza proprio per via di Slovuta:
doveva venire subito con l’uniforme diplomatica ricamata d’oro per formare
insieme all’altro genero, il famoso scrittore Nikolaj Galachov, una compagnia
degna di nota. Ma con dispetto del suocero il cognato diplomatico era arrivato
in ritardo, quando la cena era ormai conclusa e i giovani si divertivano a
ballare.
Innokentij si era arreso e aveva indossato quella maledetta uniforme. C’era
andato ma sentendosi a disagio; d’altro canto, non gli era nemmeno possibile
rimanere a casa, stava male ovunque. Quando, però, con l’aria dimessa era
entrato in quell’appartamento pieno di gente, rimbombante di vita, risate,
colori, si era reso conto che lì non lo avrebbero mai arrestato! Così, non solo
gli era sembrato di tornare alla normalità, ma provava anche una sottile
leggerezza. Beveva con piacere tutto ciò che gli veniva versato, e con piacere si
serviva una pietanza dopo l’altra; era un giorno intero che non mandava giù
praticamente nulla, mentre adesso si sentiva gioiosamente affamato.
La sua sincera ripresa aveva sollevato anche il suocero dalla stizza e
alleggerito la conversazione al loro stimato capo del tavolo, dove Makarygin
faceva attenzione che a Radović non sfuggisse qualche espressione brusca,
Slovuta trascorresse il tempo in modo gradevole e Galachov non si annoiasse.
A quel punto, frenando la voce profonda, Makarygin cominciò a incolpare per
scherzo Innokentij di non avergli ancora dato dei nipoti che gli allietassero la
vecchiaia.
– Sapete come sono lui e la moglie? – si lamentava. – Il pecorone e la
pecorella hanno formato una bella coppietta, vivono pensando solo a loro
stessi, ingrassano senza darsi pensiero. Si sono sistemati! Si godono la vita!
Chiedeteglielo un po’, a questo figlio di buona donna, se è un epicureo o no.
Eh? Innokentij, ammettilo, sei un seguace di Epicuro?
Non era possibile definire nemmeno per scherzo un membro del Partito
comunista pansovietico un giovane hegeliano, un neokantiano, un soggettivista,
un agnostico oppure, dio ce ne scampi, un revisionista. “Epicureo”, invece,
suonava così inoffensivo che non ostacolava un uomo in nessun modo
dall’essere marxista.
Allora Radović, che amorevolmente conosceva ogni dettaglio della vita dei
Padri fondatori, non mancò di intervenire dicendo:
– Be’, Epicuro è un brav’uomo, un materialista. Scrisse una tesi su di lui
anche Karl Marx.
Radović indossava una logora giubba paramilitare e aveva la pelle del viso di
pergamena scura che gli avvolgeva la forma del cranio. (Per uscire di casa, fino
a poco tempo prima, si metteva sempre in testa la sua budënovka149 ma di
recente la polizia aveva cominciato a trattenerlo.)
Innokentij si infervorò e guardò spavaldo quelle persone all’oscuro di tutto.
Che passo audace intervenire in quella lotta tra titani! Ora gli sembrava di
essere baciato dagli dèi. Makarygin e addirittura Slovuta, che in un altro
momento gli avrebbe suscitato disprezzo, li sentiva umanamente cari,
collaboravano alla sua sicurezza.
– Epicuro? – colse l’invito con occhi scintillanti. – Sono un suo seguace, non
lo nego. Ma probabilmente vi stupireste se vi dicessi che ‘epicureo’ è una di
quelle parole tutt’altro che comuni. Quando si vuole intendere che un uomo è
eccessivamente avido verso la vita, lascivo, libidinoso, per farla breve un porco,
dicono che è un ‘epicureo’. No, aspettate, parlo sul serio! – Non permise loro di
replicare, dondolando vivacemente il flûte dorato nelle solerti dita sottili. –
Epicuro, invece, è proprio il contrario della rappresentazione generale che
danno di lui. Non ci spinge a fare orge. Fra i tre mali principali che ostacolano
la felicità dell’uomo, annovera i desideri insaziabili! Non è così? Dice: in realtà
l’uomo ha bisogno di poco, ragion per cui la felicità non dipende dal destino!
Epicuro libera l’uomo dal terrore di ricevere brutti tiri dal destino ed è dunque
un grande ottimista!
– Ma pensa un po’! – si stupì Galachov ed estrasse il taccuino di pelle con la
matita di osso bianco. Nonostante la sua grande fama, Galachov si comportava
come una persona alla mano: ti strizzava l’occhio, ti dava una pacca sulla spalla.
Intorno al viso leggermente olivastro e un po’ ingrassato i suoi capelli bianchi
spiccavano in modo pittoresco.
– Gliene versi dell’altro! – disse Slovuta a Makarygin, indicando il flûte
vuoto di Innokentij. – Altrimenti non la smette più.
Il suocero gli riempì il bicchiere e Innokentij lo svuotò di nuovo con
piacere. In quel momento ebbe anche lui l’impressione che la filosofia di
Epicuro fosse una fede degna.
Slovuta, con il viso paffuto e non ancora invecchiato, si comportava quasi
con alterigia nei confronti di Makarygin (Slovuta aveva già ricevuto la seconda
stelletta da generale), ma era particolarmente soddisfatto di aver conosciuto
Galachov e si immaginava come quella sera stessa, nella casa in cui aveva
intenzione di andare poi, avrebbe riportato senza tanti complimenti che un’ora
prima aveva bevuto con Kol’ka Galachov e quello gli aveva raccontato che...
Ma anche Galachov era arrivato da poco, aveva fatto tardi pure lui, e non stava
raccontando proprio niente: che stesse pensando alla trama di un nuovo
romanzo? Persuaso che da quella celebrità non avrebbe ricavato nulla, Slovuta
decise di andarsene.
Makarygin cercò di convincerlo a restare, insistendo che dovevano ancora
inchinarsi davanti al suo “altare del tabacco”, la collezione che teneva nello
studio. Makarygin consumava tabacco bulgaro, che si procurava tramite
conoscenze, e la sera fumava dei sigari. Ma amava stupire i suoi ospiti, offrendo
una dopo l’altra ogni genere di varietà per fumare.
La porta dello studio era lì vicina; il padrone di casa la aprì e invitò Slovuta e
i due generi ad accomodarsi. Questi ultimi, però, declinarono la compagnia dei
vecchi con una scusa. Temendo a quel punto che a Dušan scappasse qualcosa di
inappropriato, sulla soglia dello studio, lasciando prima passare Slovuta,
Makarygin minacciò Radović con il dito.
I cognati rimasero da soli al capo ormai vuoto del tavolo. Erano in quell’età
felice (Galachov era maggiore di Innokentij solo di un paio d’anni) in cui ci si
può ancora considerare giovani, ma siccome a ballare non li trascinava più
nessuno, potevano concedersi il piacere di una conversazione fra uomini
davanti a una bottiglia ancora da finire, con la musica lontana, in sottofondo.
In realtà, la settimana prima Galachov si era messo in testa di scrivere
qualcosa sul complotto degli imperialisti e sulla battaglia dei nostri diplomatici
per la pace, ma questa volta non sarebbe stato un romanzo bensì un’opera
teatrale, perché era più facile evitare dettagli sull’arredo e sull’abbigliamento a
lui sconosciuti. Ora gli capitava proprio a pennello l’occasione di intervistare il
cognato, per cercare in lui i tratti tipici del diplomatico sovietico ed estrapolare
le caratteristiche peculiari della vita in Occidente, dove si sarebbero svolte tutte
le azioni dell’opera teatrale, ma dove Galachov era stato solo di sfuggita, a uno
dei suoi congressi progressisti. Questi si rendeva conto che non era per niente
giusto scrivere di una vita che non conosceva, ma negli ultimi anni gli era parso
che la permanenza all’estero, o una storia antica, o persino un racconto
fantastico sugli abitanti della luna, fossero più facili da trattare rispetto alla vita
reale che li circondava, disseminata di divieti, indipendentemente da quale
strada uno prendesse.
Una domestica si era messa a sparecchiare rumorosamente e a sistemare la
tavola per il tè. La padrona di casa la controllava e, ora che Slovuta si era
allontanato, non frenava più la voce dell’amica, la quale stava finendo di
raccontare che anche nella provincia di Zarečensk ci si poteva curare bene,
c’erano bravi medici, ma i bambini degli attivisti del partito si distinguevano
dagli altri fin dall’età di un anno: per loro il latte e le iniezioni di penicillina
non mancavano mai.
Nella stanza accanto si levava una voce dal radiogrammofono, mentre dalla
successiva giungeva il brusio metallico della televisione.
– Domandare è un privilegio degli scrittori – annuiva Innokentij,
conservando lo stesso fortunato scintillio negli occhi con cui aveva difeso
Epicuro. – Come gli inquirenti. Fanno sempre domande sui crimini.
– In una persona noi non cerchiamo i suoi crimini, ma i suoi pregi, i suoi
tratti luminosi.
– Allora il vostro lavoro è opposto a quello della coscienza. Quindi, hai
intenzione di scrivere un libro sui diplomatici?
Galachov sorrise.
– Intenzione o meno, Ink, queste cose non si risolvono facilmente come in
un’intervista di Capodanno. Devi raccogliere in anticipo il materiale... Non tutti
i diplomatici si lasciano intervistare. Per fortuna ho te come parente.
– E ad avermi scelto dimostri sagacia. Un diplomatico che non ti conosce,
come prima cosa, ti avrebbe raccontato un sacco di frottole. Ne abbiamo di
roba da nascondere.
Si guardarono dritto negli occhi.
– Capisco. Comunque... quel lato della vostra attività... non c’è bisogno di
raccontarlo, tanto che io...
– Ah. Quindi, ti interessa in generale la quotidianità dell’ambasciata, una
tipica giornata di lavoro, come si svolgono i ricevimenti, si conferiscono le
credenziali diplomatiche...
– No, voglio andare più a fondo! Mostrare come certe cose si rielaborano
nell’animo di un diplomatico sovietico...
– Come si rielaborano... Va bene, sono pronto! Ho capito. Per la fine della
serata ti avrò raccontato tutto. Prima però... spiegami tu una cosa... Il tema
della guerra l’hai abbandonato? L’hai esaurito?
– Esaurirlo è impossibile – scosse la testa Galachov.
– Sì, è vero, questa guerra vi ha offerto molte cose. Scontri, tragedie...
altrimenti da dove le avreste prese?
Innokentij lo guardava con un’aria allegra.
Sulla fronte dello scrittore calò un velo di inquietudine. Galachanov sospirò.
– Il tema della guerra mi si è piantato nel cuore.
– Be’, ne hai tratto dei capolavori!
– Certo, per me è un tema inesauribile. Ci ritornerò finché avrò vita.
– Ma è ancora necessario?
– Certo! Perché la guerra eleva l’uomo nell’anima...
– Nell’anima? Sono d’accordo! Eppure, guarda di cosa trabocca la vostra
letteratura di guerra e militare. Le idee più elevate: come occupare le posizioni
in battaglia, come condurre il fuoco di annientamento, ‘Non dimenticheremo,
non perdoneremo’, l’ordine di un comandante è legge per i sottoposti. Queste
cose sono espresse di gran lunga meglio nei regolamenti militari. Mostrate fin
troppo bene quant’è gravoso per quei poveri comandanti passare la mano su
una cartina.
Galachov si incupì. I comandanti erano i suoi personaggi militari preferiti.
– Ti riferisci al mio ultimo romanzo?
– No, Nikolaj! Ma è possibile che la letteratura debba ripetere regolamenti
militari? Frasi dei quotidiani? Slogan? Majakovskij, per esempio, considerava
un onore prendere come epigrafe di una poesia il brano di un quotidiano. Cioè,
considerava un onore non elevarsi più in alto di un giornale! Ma allora a che
serve la letteratura? Uno scrittore è uno che educa le altre persone, non è
sempre stato così?
I due cognati si incontravano di rado, si conoscevano poco tra loro.
Galachov rispose con cautela.
– Ciò che dici è giusto solo in un regime borghese.
– Be’, naturale, naturale – convenne facilmente Innokentij. – Noi abbiamo
tutt’altre leggi... Ma non mi riferivo a quello... – Ruotò il palmo della mano. –
Kolja, credimi, tu mi piaci molto... per questo mi sento di chiederti... da
parente... Ti sei mai domandato... quale sia il tuo posto nella letteratura russa?
Le tue opere potrebbero già essere pubblicate in sei volumi. Hai trentasette
anni, Puškin alla tua età lo avevano già fatto fuori. Nel tuo caso questo pericolo
non c’è. Ma da una domanda così non puoi fuggire lo stesso: chi sei? Con quali
idee hai arricchito il nostro secolo travagliato? A parte, naturalmente, quelle
inconfutabili offerte dal realismo socialista. In generale, dimmi, Kolja, – gli
domandò Innokentij, senza prenderlo in giro, penando – non ti vergogni della
nostra generazione?
Delle piccole pieghe intermittenti, come degli spasmi, passarono a Galachov
sulla fronte, sulla guancia.
– Tu... tocchi un tasto dolente... – rispose, fissando la tovaglia. – Non c’è
scrittore russo che non abbia provato a indossare in segreto la marsina di
Puškin... la camicia di Tolstoj... – rigirò di piatto due volte la matita sulla
tovaglia e guardò Innokentij con occhi che non tenevano più nascosto nulla.
Era venuta voglia anche a lui di dire apertamente ciò che nei circoli letterari
non era possibile dire. – Quand’ero ragazzino, all’inizio dei piani quinquennali,
pensavo che sarei morto dalla felicità se avessi visto il mio cognome stampato
sotto una poesia. Pensavo che quello fosse l’inizio dell’immortalità... Ma poi... –
Dotnara si diresse verso di loro, aggirando e spostando le sedie vuote.
– Ini! Kolja! Posso avvicinarmi? Non sarete nel pieno di una conversazione
troppo intelligente per me?
Era spuntata del tutto a sproposito.
Era sempre più vicina, e la sua immagine e la sua ineluttabilità nella vita di
Innokentij gli ricordarono all’improvviso la terribile verità, ciò che lo attendeva
dopo, mentre quella serata mondana, quegli scherzi intorno a un tavolo erano
solo cose futili. Gli si strinse il cuore. Un’arsura rovente gli invase la gola.
Dotty era lì in piedi che giocherellava coi bordi della camicetta con le
maniche a raglan in attesa di una risposta. Sullo stretto colletto foderato di
pelliccia scendevano liberi i soliti riccioli biondi sempre uguali da dieci anni a
quella parte, mai cambiati nemmeno per scimmiottare le mode: se aveva una
cosa bella Dotty sapeva conservarla. Era tutta rossa, forse per via della
camicetta color ciliegia. Le si contraeva leggermente il labbro superiore, un
vezzo da cerbiatta che lui conosceva e amava tanto, una cosa che le veniva
quando sentiva un complimento o sapeva di piacere. Ma perché ora?
Dotty si era sforzata tanto di sottolineare la sua indipendenza da lui, la
diversità delle loro opinioni riguardo alla vita. Cos’era cambiato in lei
all’improvviso? Oppure nel suo cuore si era insinuato il presentimento del
distacco? Come mai si era fatta così docile e amorevole? E quel vezzo da
cerbiatta sulle labbra...
Innokentij non riusciva a perdonarla, non ci pensava neanche a scusare la
lunga serie di incomprensioni, indifferenza e tradimenti. Si rendeva conto che
non era possibile che fosse davvero cambiata tutto d’un tratto. Quella sua
docilità, tuttavia, donò calore all’anima oppressa di Innokentij; così lui prese la
moglie per mano e la fece accomodare accanto a sé, un gesto che per tutto
l’autunno fra loro non c’era mai stato, che era impossibile avvenisse.
E con delicatezza, flessuosità, mitezza, Dotty si sedette subito accanto al
marito, si strinse a lui senza esagerare, per mantenere la cosa su un piano
decoroso, ma abbastanza perché fosse evidente che lo amava e stavano bene
insieme. A Innokentij, a dire il vero, balzò alla mente che per il futuro di Dotty
sarebbe stato meglio non dimostrare quell’intimità irreale. Tuttavia, le
accarezzò dolcemente il braccio nella manica color ciliegia.
La matita bianca d’osso dello scrittore giaceva inoperosa.
Galachov, i gomiti appoggiati sul tavolo, fissava oltre i coniugi la grande
finestra illuminata dalle luci della barriera di Kaluga. Parlare apertamente in
presenza di donne non era possibile. Non lo era nemmeno senza di loro.
...Ma ecco che... avevano cominciato a stampargli poemi interi; centinaia di
palcoscenici in tutto il paese, dopo quelli della capitale, mettevano in scena le
sue opere teatrali; le ragazze trascrivevano e imparavano i suoi versi; durante la
guerra i quotidiani principali gli concedevano volentieri le loro pagine e lui si
metteva alla prova anche nel saggio letterario, nella novella, nell’articolo di
critica; infine, era uscito un suo romanzo. Era stato insignito del premio Stalin
una prima volta, poi una seconda e una terza. E cos’era successo? Stranamente,
aveva raggiunto la gloria ma non l’immortalità.
Non si era reso conto di quando e come aveva sovraccaricato l’uccello della
propria immortalità tanto da impedirgli di spiccare il volo. Forse, per battere le
ali gli sarebbero bastati quei pochi versi che le ragazze imparavano a memoria.
Mentre le sue opere teatrali, i suoi racconti e il suo romanzo erano morti
davanti ai suoi occhi ancora prima che lui arrivasse a compiere trentasette anni.
Ma perché bisognava per forza aspirare all’immortalità? La maggior parte dei
compagni di Galachov non vi aspirava affatto, considerava più importante la
propria condizione di vita. Che se ne andassero alla malora, lui e l’immortalità,
dicevano, non era più importante incidere sul corso della vita odierna? E ci
riuscivano. I libri che scrivevano erano a servizio del popolo, si pubblicavano
in tirature con cifre a molti zeri, venivano distribuiti in tutte le biblioteche
grazie a fondi stanziati appositamente, promossi anche in speciali presentazioni
mensili. Naturalmente, non si potevano scrivere troppe verità. Quelli, però, si
consolavano dicendosi che un giorno le circostanze sarebbero cambiate, e loro
sarebbero tornati senz’altro su quei fatti un’altra volta, li avrebbero messi in
luce veramente, avrebbero ristampato, corretto i vecchi libri. Ma ora conveniva
scrivere quel quarto, ottavo, sedicesimo, dannazione!, quel trentaduesimo di
verità che era permesso, scrivere dei baci e della natura, qualsiasi cosa piuttosto
che niente.
Ma a opprimere Galachov era il fatto che stava diventando sempre più
difficile scrivere bene ogni nuova pagina. Lui si costringeva a lavorare seguendo
una tabella oraria, lottava contro gli sbadigli, contro il suo cervello pigro,
contro i pensieri che lo distraevano, contro l’orecchio che sentiva l’arrivo del
postino e il desiderio di precipitarsi a dare un’occhiata ai giornali. Si
preoccupava che lo studio fosse ben areato, ci fossero diciotto gradi Celsius e la
scrivania fosse oltremodo pulita, altrimenti non avrebbe potuto assolutamente
scrivere.
Ogni volta che iniziava qualcosa di grande, si infervorava, giurava a sé stesso
e agli amici che nessuno lo avrebbe fermato, che avrebbe scritto un libro vero.
Così si sedeva con entusiasmo a creare le prime pagine. Ma di lì a breve si
rendeva conto di non scrivere da solo, che davanti a lui, sempre più chiara,
aleggiava, l’immagine di colui per il quale stava scrivendo, rileggeva ogni
paragrafo appena scritto usandone gli occhi. E non si trattava del Lettore, un
fratello, un amico e un lettore coetaneo, ma di un critico, non uno in generale:
chissà perché, era sempre e solo il celebre e rinomato critico Ermilov.
Dunque Galachov si immaginava Ermilov, con il doppio mento appoggiato
sul petto, leggere quella nuova cosa e scatenarsi contro di lui in un articolo
enorme (già accadeva) di una colonna intera sulla “Literaturnaja Gazeta”. Lo
avrebbe intitolato: “Da quali androni arrivano certe correnti?” oppure “Ancora
una volta riguardo ad alcune tendenze di moda nel nostro cammino affidabile”.
Avrebbe esordito non in modo diretto, bensì usando le parole di Belinskij o di
Nekrasov più sacrosante, con le quali solo un disgraziato avrebbe potuto non
convenire. A quel punto avrebbe rigirato quelle stesse parole, portandole verso
un’idea completamente diversa, e avrebbe chiarito che Belinskij o Herzen
dimostravano con fervore che il nuovo libro di Galachov ci rivelava il suo
autore come una figura antisociale, antiumana, con una dubbia base filosofica.
E così, di paragrafo in paragrafo, sforzandosi di intuire le obiezioni di
Ermilov e adattarsi a esse, Galachov si ammansiva sempre di più, smussava gli
angoli, e il libro si arrotolava con viltà deponendosi in cedevoli anelli. E,
arrivato già a metà, Galachov si rendeva conto che il libro era tutto diverso,
non gli era venuto nemmeno quella volta.
– Le caratteristiche di un nostro diplomatico? – finì ugualmente il discorso
Innokentij, ma in tono smarrito, con un sorriso storto e scontento, mentre
l’espressione sul suo volto si faceva sempre più distante. – Le puoi immaginare
anche da solo. Grande impegno. Grande saldezza di principi. Devozione
assoluta alla nostra causa. Profondo attaccamento personale al compagno
Stalin. Attenersi in modo rigoroso alle disposizioni di Mosca. Conoscere, chi
più chi meno, le lingue straniere. Be’, e anche grande propensione verso i
piaceri della carne. Perché, come si suol dire, si vive una volta sola...
149 “Elmo di panno” con visiera, paraorecchi e stella rossa sul davanti, tipico della divisa comunista della
Guerra civile.
63
IL CONSERVATORE
Radović era un fallito impenitente di lunga data. Già negli anni Trenta le sue
lezioni erano state abolite, i suoi libri non venivano più stampati e lo
tormentavano una serie di acciacchi: si portava dietro la scheggia di un
proiettile di Kolčak nella gabbia toracica, da quindici anni si trascinava
un’ulcera duodenale e da svariati altri, ogni mattina, si praticava la dolorosa
procedura del lavaggio dello stomaco attraverso l’esofago, senza la quale non
poteva né mangiare né bere.
Ma il destino, che conosce il limite delle proprie grazie e delle proprie
azioni, con quegli stessi fallimenti lo aveva salvato: negli anni più critici
Radović, volto noto nella cerchia del Komintern, era sopravvissuto grazie al
fatto che finiva sempre in ospedale.
Si era fatto scudo con i suoi malanni anche l’anno precedente, quando tutti i
serbi rimasti in Unione Sovietica erano stati ficcati a forza nel movimento anti-
Tito o scaraventati in prigione.
Avendo ben chiaro quanta diffidenza circondava la sua situazione, con uno
sforzo indicibile Radović si tratteneva, non si azzardava a parlare, a lasciarsi
trascinare in discorsi fanatici, ma cercava di vivere un’incolore vita da invalido.
Adesso si trattenne grazie all’aiuto di un tavolino da tabacco. Quel tavolino,
ovale, di legno nero, si trovava nello studio insieme ai tubetti, a una macchina
per riempirli, a un assortimento di pipe su un cavalletto e un posacenere di
madreperla. Accanto al tavolino c’era un armadietto per tabacco in betulla di
Karelja con numerosi cassettini estraibili, in ciascuno dei quali alloggiava un
particolare tipo di papirosy, sigarette, sigari, tabacco da pipa e persino da fiuto.
Mentre ascoltava in silenzio Slovuta impegnato a snocciolare i dettagli dei
preparativi di una guerra batteriologica e dei più orribili delitti commessi dagli
ufficiali giapponesi contro l’umanità, Radović passava in rassegna con voluttà i
cassettini pieni di tabacco annusandone il contenuto, in dubbio su quale
fermarsi. Fumare per lui era un suicidio, gli era stato categoricamente vietato
da tutti i medici, ma siccome gli avevano proibito anche di bere e mangiare
(oggi alla cena non aveva quasi toccato cibo), il suo olfatto e il suo gusto erano
particolarmente sensibili alle sfumature del tabacco. La vita senza fumare gli
sembrava priva di ispirazione, si arrotolava molto spesso le sigarette usando i
fogli di giornale e la machorka del mercato, preferibile nelle sue difficili
condizioni economiche. Durante l’evacuazione, a Sterlitamak, andava dai
vecchi negli orti, comprava una foglia, l’essiccava da solo e la tagliava. Nelle ore
libere lavorare a quel tabacco lo aiutava a riflettere.
In sostanza, anche se Radović si fosse immischiato in quel discorso, non
avrebbe detto nulla di terribile, visto che anche le cose che pensava lui non
erano poi così distanti da quello che era necessario pensare pubblicamente.
Tuttavia, il partito di Stalin, più implacabile verso ogni sfumatura minima che
verso i colori opposti, poteva tagliargli la testa proprio per quel poco in cui si
differenziava.
Così rimase in silenzio, felicemente, e il discorso passò dai giapponesi alle
diverse qualità di sigari di cui Slovuta non capiva nulla, al punto che per poco
non si soffocò per una tirata imprudente. Poi, discussero sul fatto che anche se
aumentava il numero dei procuratori il loro carico di lavoro di anni non solo
non diminuiva, ma cresceva persino.
– E cosa dice la statistica dei delitti? – domandò con apparente indifferenza
Radović, bloccato nella corazza della sua pelle di pergamena.
La statistica non diceva niente: era muta, invisibile, nessuno sapeva se
esisteva ancora.
Ma Slovuta rispose:
– Le statistiche dicono che da noi il numero dei delitti sta diminuendo.
Non le aveva lette direttamente, così scrivevano i giornali.
E altrettanto sinceramente aggiunse:
– Comunque, ce ne sono ancora parecchi. È un retaggio del vecchio regime.
Il popolo è molto corrotto. Corrotto dall’ideologia borghese.
I tre quarti di coloro che finivano sotto giudizio erano cresciuti dopo il
1917, ma a Slovuta quello non entrava in testa: non lo aveva letto da nessuna
parte.
Makarygin scosse la testa: non era certo lui che doveva convincere!
– Quando Vladimir Il’ič ci diceva che la rivoluzione culturale sarebbe stata
molto più difficile di quella d’Ottobre, non riuscivamo a immaginarcelo! Solo
adesso capiamo quanto vedesse lontano.
Makarygin aveva la testa squadrata e le orecchie sporgenti.
Fumavano riempiendo tutti insieme lo studio di fumo.
Metà del piccolo scrittoio lucidato di Makarygin era occupato dal grosso set
per inchiostro con una riproduzione alta quasi mezzo metro della torre
Spasskaja, munita di orologio e stella. I due massicci calamai (che sembravano
torrette sulle mura del Cremlino) erano asciutti: a Makarygin non capitava da
tempo di scrivere qualcosa a casa, lo faceva già abbastanza nell’orario d’ufficio,
e per le lettere usava la penna stilografica. Dietro i vetri delle librerie comprate
a Riga conservava codici, raccolte di leggi, numeri di molti anni della rivista
“Stato e diritto sovietico”, la Grande vecchia enciclopedia sovietica (sbagliata, con i
nemici del popolo), la Grande nuova enciclopedia sovietica (ancora con i nemici del
popolo) e la Piccola enciclopedia (anche quella sbagliata e con i nemici del popolo).
Makarygin non apriva nulla di tutto quello da tempo, giacché ogni cosa,
compreso il codice penale del 1926, oggi vigente ma già rimasto
irrimediabilmente indietro rispetto alla vita, veniva sostituito con successo da
una serie di direttive più importanti, per la maggior parte segrete, ciascuna delle
quali conosceva per numero: 083 0 005 virgola 2742. Quelle disposizioni, che
concentravano in sé tutta la saggezza della procedura giudiziaria, erano
raccolte in un’unica cartella non molto grande che custodiva al lavoro. Mentre
lì, nello studio, i libri non venivano tenuti per la lettura, ma per deferenza. La
sola letteratura che Makarygin leggesse – di notte, ma anche in treno e alle
stazioni termali – erano gialli che nascondeva in un armadio opaco.
Sopra la scrivania del procuratore era appeso un grosso ritratto di Stalin in
uniforme da generalissimo, mentre sull’étagère era posizionato un piccolo
busto di Lenin.
Panciuto, con il ventre che sporgeva dalla divisa e il collo che strabordava
dal colletto dritto, Slovuta osservò lo studio e, con approvazione, disse:
– Te la cavi bene, Makarygin!
– Sì, più o meno... Pensavo di passare a livello regionale.
– Regionale? – rifletté Slovuta. Il viso grasso, con la mascella accentuata,
non era quello di un pensatore, ma l’essenziale lo afferrava facilmente. – Sì,
direi che ha senso.
Per loro due la ragione era evidente e non c’era bisogno che Radović lo
sapesse: un procuratore regionale, oltre allo stipendio, riceveva dei rimborsi,
mentre alla Procura militare centrale, per arrivare ad averli, bisognava
raggiungere un grado alto.
– Tuo genero, il maggiore, ha ottenuto il premio Stalin tre volte, vero?
– Sì – rispose il procuratore con orgoglio.
– E il minore non è forse consigliere di primo rango?
– Al momento solo di secondo.
– Ma è in gamba, diavolo, diventerà presto ambasciatore! E la più piccola,
con chi pensi di farla sposare?
– È una ragazza cocciuta, Slovuta, ci ho già provato, non vuole farsi
sistemare.
– Ha studiato? Cerca un ingegnere? – quando rideva, Slovuta protendeva in
avanti la pancia e tutto il tronco. – Che guadagni almeno ottocento rubli al
mese? Ma no, un čekista, falle sposare un čekista, così vai sul sicuro.
Come se Makarygin non lo sapesse! Si considerava sfortunato per non essere
finito fra i čekisti. L’ultimo sudicio oper del buco più schifoso della terra aveva
più potere e prendeva uno stipendio più alto di qualsiasi illustre procuratore
della capitale. La Procura era solo chiacchiere, la nutrivi con poco. La ferita
segreta di Makarygin era quella: non essere entrato nelle file dei čekisti...
– Be’, grazie, Makarygin, di aver pensato a me, ora devo proprio andare, mi
aspettano. E tu, professore, stammi bene, non ti ammalare.
– Tante belle cose, compagno generale.
Radović si alzò per salutare, ma Slovuta non gli allungò la mano. Con
sguardo offeso, Radović seguì la voluminosa schiena tonda dell’ospite che
Makarygin stava accompagnando alla macchina. Rimasto solo con i libri, si
protese subito verso di loro. Passò la mano sulla mensola, estrasse un
volumetto esitando e se lo portò in poltrona, dove sul tavolo notò anche un
altro libretto con una variopinta rilegatura rossa e nera; afferrò pure quello.
Quest’ultimo, però, gli scottava fra le mani di pergamena prive di vita. Era
una novità pubblicata da poco (e subito in un milione di copie): Tito, maresciallo
dei traditori, di un certo Renaud de Jouvenel.
Negli ultimi dodici anni erano capitate in mano a Radović caterve e caterve
di libri impudenti, servili, del tutto menzogneri, ma nulla era paragonabile a
quell’abominio. Scorrendo con occhio esperto da vecchio bibliofilo le pagine di
quella novità, in due minuti si rese conto a chi e a quale scopo servisse un libro
del genere, che razza di carogna fosse il suo autore, quanto nuovo rancore
sollevasse nell’animo umano contro l’innocente Jugoslavia. Poi una frase che gli
rimase negli occhi: “Non è importante soffermarsi nel dettaglio sui motivi che
hanno indotto Laszlo Rajk a confessare; se ha confessato vuol dire che era
colpevole.” Radović con repulsione rimise il libro là dove lo aveva trovato.
Naturale! Non è importante soffermarsi sui motivi! Non è importante
chiarire il modo in cui gli inquirenti e i boia picchiavano Rajk, lo privavano del
cibo, del sonno, e forse, disteso sul pavimento, con la punta dello stivale, gli
schiacciavano gli organi genitali (a Sterlitamak il vecchio detenuto Abramson,
che fin dalle prime parole era parso a Radović cupamente vicino, gli raccontava
dei graziosi metodi dell’NKVD). Se confessava, voleva dire che era colpevole!
Summa summarum della giustizia staliniana!
Ma la Jugoslavia era un punto troppo doloroso da affrontare ora in un
discorso con Pëtr. E quando quello fece ritorno, e gettò casualmente uno
sguardo amorevole alla nuova decorazione accanto alle precedenti ormai meno
lucide, Dušan sedeva nascosto dalla poltrona a leggere un volume
dell’enciclopedia.
– Noi della Procura non veniamo sommersi di decorazioni – sospirò
Makarygin. – Le dispensavano al trentesimo anniversario della rivoluzione,
altrimenti è raro che le diano.
Gli sarebbe piaciuto continuare a parlare delle sue decorazioni e del motivo
per cui ora ne aveva ricevuta una, ma Radović era chino in avanti e leggeva.
Makarygin estrasse un sigaro nuovo e si lasciò cadere sul divano.
– Be’, grazie, Dušan, non sei intervenuto a sproposito. Avevo qualche
timore.
– Perché? Che cosa avrei potuto dire di inappropriato? – si meravigliò
Radović.
– Cosa avresti potuto dire? – Il procuratore tagliò il sigaro. – Un sacco di
cose! Finisci sempre per sputare qualche sentenza. – Lo accese. – Lui
raccontava dei giapponesi e tu avevi talmente voglia di intervenire che ti
tremavano le labbra.
Radović raddrizzò la schiena.
– Perché si sentiva puzza di vile provocazione poliziesca a diecimila
chilometri di distanza!
– Dušan, ma sei impazzito! Come osi dire questa cosa davanti a me? Come
puoi parlare così del nostro partito?
– Non mi riferivo al partito! – si difese Radović. – Ma ai vari Slovuta. Come
mai proprio adesso, nel ’49, abbiamo scoperto che i giapponesi preparavano
quelle cose dal ’39? Sono nostri prigionieri già da quattro anni. E il coleottero
della patata ce lo gettano davvero gli americani dagli aerei? È sul serio così?
Le orecchie a sventola di Makarygin avvamparono.
– E perché no? E se anche così non fosse, vuol dire che lo esige la politica
statale.
Un Radović di pergamena prese a sfogliare nervosamente il suo volume.
Makarygin fumava in silenzio. Non avrebbe dovuto invitarlo, davanti a
Slovuta lo aveva solo fatto sfigurare. Tutte le sue vecchie amicizie non valevano
niente, erano buone solo nei ricordi.
Quell’uomo non sapeva nemmeno mostrare un po’ di gentilezza verso i suoi
ospiti, cercare di capire cosa rendeva felice il padrone di casa, cosa lo
preoccupa.
Makarygin fumava. Gli vennero in mente i litigi spiacevoli fra lui e la figlia
minore. Negli ultimi mesi, stare insieme a tavola loro tre, senza ospiti, non era
più un momento di riposo, di comfort familiare, si trasformava in una rissa fra
cani. Alcuni giorni prima Klara si batteva un chiodo in una scarpa e intanto
canticchiava parole senza senso, eppure quel motivetto era parso al padre fin
troppo conosciuto. Sforzandosi di mantenere la calma, le aveva fatto notare:
– Per un lavoro come questo, Klara, va scelta un’altra canzone. Con Di
lacrime è inondato il mondo infinito la gente moriva, se ne andava ai lavori forzati.
Per cocciutaggine, o sa il diavolo cosa, si era rivoltata:
– Oh, certo, quelle erano brave persone! Ai lavori forzati! La gente ci finisce
anche adesso!
Davanti a tanta sfacciataggine e a quel paragone indegno, il procuratore era
rimasto di stucco. Fino a che punto si poteva perdere ogni comprensione della
prospettiva storica? Trattenutosi a stento dal colpire la figlia, le aveva strappato
la scarpa di mano e l’aveva gettata a terra:
– Come puoi paragonarli! Il partito della classe operaia con la feccia
fascista?!
Cocciuta, il pugno premuto sulla fronte, Klara cercava di non piangere!
Stava lì così, un piede in una scarpa e l’altro, nella calza, appoggiato al
parquet.
– Smettila di recitare, papà! Ma quale classe operaia! Sei stato operaio per
due anni chissà quando e procuratore per trenta! Sei un operaio, ma in casa
non hai il martello! L’essere determina la coscienza, ce l’hai insegnato tu.
– Sì, l’essere sociale, però, scema! Anche la coscienza è sociale!
– Ma quale sociale? Alcuni vivono nelle regge, altri nelle baracche; alcuni
hanno automobili, altri scarpe di legno. Cosa c’è di sociale in questo?
Al padre quell’eterna impossibilità di trasmettere in modo rapido e
facilmente comprensibile la saggezza della vecchia generazione alle sciocche
giovani creature toglieva il fiato.
– Sei una sciocca!... Non capisci niente... e non impari niente!
– Insegnami tu! Forza! Dimmi, con quali soldi vivi? Per cosa ti pagano
migliaia di rubli visto che non crei nulla?
A quel punto al procuratore erano mancate le parole: era chiarissimo, ma
non gli veniva. Così si era limitato a gridare:
– E a te, nel tuo istituto, milleottocento rubli, per cosa te li danno?
– Dušan, Dušan – sospirava mollemente Makarygin. – Che devo fare con
mia figlia?
Le grosse orecchie che sporgevano dal volto di Makarygin parevano ali su
una sfinge.
Quel viso, stranamente, aveva assunto un’espressione smarrita.
– Com’è potuto accadere, Dušan? Quando cacciammo Kolčak, ci saremmo
mai aspettati di ricevere questa gratitudine dai nostri figli? Se capita loro di
giurare qualcosa da una tribuna davanti al partito, quei figli di buona donna
farfugliano il giuramento a razzo, come se si vergognassero.
Gli raccontò la scena della scarpa.
– Come avrei dovuto risponderle, eh?
Radović tirò fuori dalla tasca una pezza di camoscio un po’ sporca, con cui
si pulì le lenti degli occhiali. C’era un tempo in cui Makarygin tutto quello lo
conosceva bene, ma ora si era fatto davvero ignorante.
– Come avresti dovuto rispondere? Che si tratta di lavoro accumulato.
Istruzione e specializzazione sono lavoro accumulato, per questo ti pagano di
più. – Indossò gli occhiali. E guardò il procuratore con aria decisa: – In
generale, però, la ragazza ha ragione! Ci avevano avvertiti.
– Chi? – si meravigliò il procuratore.
– Che bisognava imparare anche dai nemici! – Dušan sollevò la mano con il
dito ossuto. – Di lacrime è inondato il mondo infinito? Prendi molte migliaia di
rubli? Una donna delle pulizie ne prende duecentocinquanta.
Una guancia di Makarygin si contrasse. Dušan si era fatto maligno, per
l’invidia di non avere niente.
– A te, a furia di startene nella tua caverna, ha dato di volta il cervello! Hai
perso ogni legame con la realtà! Non ci stai proprio con la testa! Cosa dovrei
fare? Chiedere da domani di essere pagato duecentocinquanta rubli? E come
vivrei? Mi caccerebbero via dandomi del matto! Gli altri mica rinunciano!
Con la mano Dušan indicò il busto di Lenin.
– E come fece allora Il’ič durante la Guerra civile a rifiutare il burro? Il pane
bianco? Lo considerarono forse un matto?
Dalla voce si capiva che Dušan era sul punto di piangere.
Makarygin parò il colpo con la mano aperta.
– Sì-ì-ì, come no! E c’hai creduto? Lenin senza burro non ci stava, puoi star
tranquillo. Già allora al Cremlino c’era una mensa mica male.
Radović si alzò e con la gamba intorpidita arrancò verso la mensola, dove
afferrò la fotografia in cornice di una giovane con un giubbotto di pelle e un
fucile.
– E Lena non era forse d’accordo con Šljapnikov? Te lo ricordi? E
l’opposizione operaia cosa diceva, eh?
– Non ci provare! – ordinò Makrygin. Stava impallidendo. – Non disturbare
la sua memoria! Sei un conservatore, un conservatore!
– No, io non sono un conservatore! Voglio la purezza leninista! – Abbassò
la voce. – Qui da noi non lo scrivono. In Jugoslavia c’è il controllo operaio
sulla produzione. Là...
Makarygin scoppiò in una risata maligna.
– Ovvio, tu sei serbo, per un serbo è difficile essere obiettivo. Lo capisco e ti
perdono. Ma...
Ma... oltre avrebbero superato il limite. Radović tacque, si spense, tornando
a ridursi a un ometto di pergamena.
– Continua, continua, conservatore! – lo incalzava con ostilità Makarygin. –
Ebbene, in Jugoslavia il regime parafascista è socialismo? Mentre da noi è
degenerazione? Sono parole vecchie! Si sentivano tanto tempo fa e chi le
pronunciava è già finito all’altro mondo da un pezzo. Ti manca solo di
aggiungere che nello scontro con il mondo capitalista siamo destinati a perire.
Eh?
– No! No! – si agitò di nuovo Radović, persuaso e illuminato da raggi di
preveggenza. – Non succederà! Il mondo capitalista si consumerà nelle sue
contraddizioni peggiori! E, come prevedeva con genialità Vladimir I’lič, noi
saremo presto testimoni di un conflitto armato tra Stati Uniti e Inghilterra per
il potere sui mercati!
64
PER PRIMI NELLE CITTÀ
Da Mosca a Brest
Al fronte a ovest arrivando da est...
Quell’espressione, “entra per primo nelle città!”, si riferiva a due o tre storielle
su alcuni corrispondenti che, raccapezzandosi poco delle carte topografiche,
percorrevano le strade buone (su quelle cattive una “Emka”, una Gaz-M-1, non
andava), entravano in città “di nessuno” per primi e, come scottati dal vapore,
filavano subito indietro.
Innokentij, invece, lì fermo ad ascoltare con la testa ciondoloni, capiva la
canzone a modo proprio. Lui che la guerra non la conosceva affatto, conosceva
la situazione dei nostri corrispondenti. Non erano come il reporter disgraziato
descritto in quei versi. Non perdeva il lavoro se arrivava tardi a una notizia che
faceva scalpore. Non appena mostrava il tesserino, il corrispondente veniva
subito preso per un superiore importante, che aveva il diritto di stabilire una
direttiva. Poteva trovare notizie affidabili, ma anche non affidabili, poteva
comunicarle al giornale in tempo o anche in ritardo: la sua carriera non
dipendeva da quello, ma da una giusta visione del mondo. Se aveva quella, non
gli serviva infilarsi nella testa di ponte o in una bolgia simile: poteva scrivere la
sua corrispondenza anche dalle retrovie.
Dotty sedeva accanto al marito giocherellando con la sua mano, senza
parlare né capire le questioni intellettuali: era il modo più gentile che aveva.
Desiderava soltanto starsene lì seduta da moglie ubbidiente, per mostrare a
tutti come andavano d’accordo.
Non sapeva quanto presto l’avrebbero fatta preoccupare, quanto spaventare,
sia se fossero venuti a prendere Innokentij qui sia se fosse scappato e fosse
rimasto laggiù.
Quando lei si preoccupava solo di sé stessa, era brusca, autoritaria, cercava
di farlo crollare, di imporgli i suoi giudizi meschini, Innokentij pensava: bene,
che soffra pure, imparerà la lezione, le sarà utile.
Ma Dotty era tornata dolce e Innokentij era dispiaciuto per lei. Turbato.
Era tutto così angosciante, non era affatto una bella cosa, dovevano
andarsene da quella stupida serata, anche se a casa forse ad attenderli c’era di
peggio.
Klara si staccò dal piccolo televisore con l’immagine confusa e storta,
sistemato da lei in qualche modo per gli ospiti, poi uscì dalla stanza semibuia,
si diresse verso il salotto e rimase lì in piedi sulla soglia. Quando vide
Innokentij e Nara seduti vicini, sereni, si meravigliò e capì per l’ennesima volta
che il matrimonio ha segreti inviolabili e incomprensibili.
Di quella serata, organizzata in pratica per lei, non sembrava affatto felice,
ma ferita, abbattuta. Si era lanciata ad accogliere tutti e a intrattenerli, ma
dentro si sentiva come svuotata. Non c’era nulla che trovasse divertente,
nessuno degli ospiti interessante. E il suo vestito nuovo di crêpe satin verde
opaco, con scintillanti decori di merletti sul colletto, sul petto e sui polsi, forse
non le donava neppure, proprio come gli abiti precedenti.
L’amicizia instaurata per forza, senza cordialità, senza delicatezza, con quel
critico dalla testa quadrata non le pareva affatto autentica: in un certo senso,
era quasi contro natura. Lui era rimasto seduto sul divano come un orso per
mezz’ora, la successiva aveva discusso con Dinera di cose futili, poi si era
messo a bere con altri ex combattenti: Klara non aveva avuto l’istinto di
afferrarlo e trascinarlo a divertirsi.
Le era sembrato che quella fosse la sua ultima occasione, il suo momento
giusto, di massima fioritura, e se ora se lo fosse lasciato scappare, le sarebbe
toccato uno più vecchio, peggiore, oppure nessuno.
E quella cosa era davvero successa quella mattina? Proprio quella mattina! Lì
a Mosca! C’erano stati davvero quella conversazione emozionante, lo sguardo
entusiasta di quel ragazzo con gli occhi azzurri, un bacio capace di rivoltare
l’anima e il giuramento di aspettare? Era successo quella mattina che aveva
intrecciato per tre ore un piccolo cestino per un albero di Natale?
Quello sulla terra non c’era. In carne e ossa non esisteva. Non bastava un
quarto di secolo per realizzarlo. Doveva averlo sognato.
Sulla branda superiore, ora a tu per tu con il soffitto a volta, rotondo come la
cupola del cielo che si dispiegava sopra di esso, ora con il viso affondato nel
cuscino caldo che immaginava essere il ventre di Klara, Rostislav si struggeva
dalla felicità.
Da quel bacio che gli aveva preso persino le gambe era già trascorsa mezza
giornata eppure gli dispiaceva ancora di profanarsi le labbra con un discorso
vuoto o con del cibo avido.
“Lei però non potrebbe aspettarmi!” le aveva detto.
E Klara aveva risposto:
“Perché non potrei? Potrei...”
– ...gli antidiluviani come te si reggono solo sulla fede. – Da sotto gli giunse
una voce giovane ed espressiva, soffocata per non farsi sentire lontano. – Una
fede per di più falsa! Mai che si trovi in voi un briciolo di scienza!
– Be’, sai che ti dico? Questa discussione sta diventando troppo astratta. Se il
marxismo non è scienza, allora cosa lo è? Il Libro della Rivelazione di san
Giovanni? Oppure Chomjakov154 che indaga i tratti dell’anima slava?
– Voi non sapete cos’è la vera scienza! Non siete dei creatori! Non la
conoscete proprio! Alla base dei vostri ragionamenti ci sono solo miraggi, non
realtà! Nella vera scienza ogni posizione deriva da un punto di partenza
stabilito con estrema rigidità!
– Che tesoro... il Signor ‘So tutto io’... è lo stesso anche da noi: tutta la
nostra teoria economica deriva da una cellula commerciale. Tutta la filosofia,
dalle tre leggi della dialettica.
– La conoscenza pratica si ottiene dalla capacità di trasformare le deduzioni
in fatti.
– Per la miseria! Cosa mi tocca sentire! Il criterio della pratica nella
gnoseologia? Sei un materialista... – Rubin protese le grosse labbra a trombetta
e in tono volutamente infantile aggiunse: – ...fatto e finito! Anche se un po’
primitivo.
– Ci risiamo, cerchi sempre di sfuggire a un’onesta discussione fra uomini!
Preferisci sommergere l’interlocutore con parole da uccelli!
– Tu invece non parli nemmeno, te ne stai lì a fare scongiuri! Sei proprio
una pizia! La pizia di Marfino! Pensi che il sottoscritto muoia dalla voglia di
discutere con te? Per me è quasi noioso quanto cercare di ficcare in testa a un
vecchio zoticone che il Sole non gira intorno alla Terra. Creda pure quel che gli
pare!
– Non ti va di discutere con me perché non ne sei capace! Nessuno di voi è
capace di sostenere una discussione, fuggite tutti da chi è eterodosso, per non
violare l’armonia della vostra concezione del mondo! State fra voi e vi
sbizzarrite a interpretare i padri della dottrina. Raccogliete gli uni dagli altri
idee che si ripetono crescendo a dismisura... In libertà... – (piano) – ...in
presenza della Čeka, oserebbe forse qualcuno discutere con voi? Invece,
quando finite in prigione, come qui... – (forte) – ...e incontrate veri appassionati
di discussioni, sembrate pesci fuor d’acqua! Così potete solo abbaiargli contro e
imprecare.
– Mi sa che finora hai abbaiato più tu contro di me che non il contrario.
Sologdin e Rubin se ne stavano seduti al tavolo della festa ormai deserto
come stregati dalle loro eterne divergenze. Abramson era tornato da un pezzo
a leggere Il conte di Montecristo; Kondrašëv-Ivanov si era messo a riflettere sul
grande Shakespeare; Prjančikov era corso via a sfogliare una copia di “Ogonëk”
dell’anno precedente che qualcuno gli aveva prestato; Neržin si era diretto
dallo spazzino Spiridon; Potapov, adempiendo fino in fondo ai suoi doveri di
casalinga, aveva lavato le stoviglie, rimesso a posto gli sgabelli e si era sdraiato,
schermandosi con il cuscino dalla luce e dal rumore. Nella stanza molti
dormivano, altri leggevano tranquilli oppure conversavano, ed era giunta l’ora
in cui ci si domandava già se il sorvegliante di turno si fosse dimenticato di
spegnare la luce, per passare a quella blu. Sologdin e Rubin se ne stavano seduti
sul letto di Prjančikov, vuoto, in un cantuccio vicino all’ultimo sgabello
rimasto.
Tuttavia, solo Sologdin era in vena di discutere: per lui quello era un giorno
di vittorie che gli ribollivano dentro e non si placavano. In generale, in base al
suo programma, ogni domenica sera bisognava divertirsi. E quale divertimento
poteva essere più allegro di svergognare e spingere all’angolo un tutore della
grettezza mentale dominante?
Per Rubin quello era un giorno penoso e assurdo per discutere. Non aveva
solo un lavoro da concludere, a gravarlo ci si era messo anche un nuovo
compito immane: creare una scienza intera, di cui occuparsi l’indomani sin dal
mattino, e per questo era necessario risparmiare le forze già dalla sera prima.
Inoltre, due lettere reclamavano la sua attenzione: una della moglie, l’altra
dell’amante. Era l’unico momento in cui avrebbe potuto rispondere! La moglie
attendeva importanti suggerimenti sull’educazione dei figli; l’amante, tenere
conferme. Richiedevano attenzione anche i dizionari mongolo-finnico, ispano-
arabo e di qualche altra lingua, Čapek, Hemingway, Lawrence. Inoltre, un po’
per lo spettacolo comico del processo, un po’ per le frecciatine dei vicini e un
po’ per la festa d’onomastico, non era riuscito a elaborare in modo definitivo
quell’importante progetto di portata mondiale.
Ma le leggi del carcere riguardo le discussioni non lo mollavano. Giacché
alla šaraška rappresentava l’ideologia progressista, Rubin non si lasciava
superare in nessuna disputa. Così se ne stava lì come legato, costretto per forza
a sedere con Sologdin, al quale cercava di ficcare in testa concetti basilari che
avrebbe capito facilmente anche un bambino.
Sologdin lo esortava piano e con gentilezza:
– Una discussione come si deve, lo dico in base all’esperienza nel campo di
lavoro, deve svolgersi come un duello. Scegliamo un mediatore che vada bene a
entrambi: chiamiamo Gleb, per esempio. Prendiamo un foglio di carta, lo
dividiamo a metà con una riga. In alto scriviamo l’argomento di discussione.
Poi, ciascuno nella propria metà esprime nel modo il più possibile conciso e
chiaro il proprio punto di vista sulla questione. Per evitare di scegliere parole
sbagliate, non ci sono limiti di tempo.
– Ma mi prendi per scemo? – obiettò assonnato Rubin, abbassando le
palpebre rugose. Il viso sotto la barba restituiva un’immagine di profonda
stanchezza. – Che facciamo, stiamo qui a discutere fino a domattina?
– Ma no! – esclamò Sologdin, allegramente, gli occhi che gli luccicavano. – È
questa la parte migliore di una vera discussione fra uomini! Vuote logomachie
e aria fritta possono trascinarsi per settimane. Mentre una discussione su carta
può anche concludersi in dieci minuti: diventa subito evidente che gli avversari
parlano di cose completamente diverse oppure si allontanano poco fra loro.
Quando poi ha senso continuare la discussione, basta scrivere a turno ciascuno
le proprie ragioni in una metà del foglio. Come in un duello: colpo! risposta!
sparo! sparo! E diventa impossibile sfuggire, rinnegare le espressioni usate,
sostituire le parole con altre: bastano due o tre annotazioni per assegnare in
modo definitivo la vittoria a uno e la sconfitta all’altro.
– E si fa senza limiti di tempo?
– In nome del rispetto della verità: nessun limite!
– E quando si inforcano le spade?
Il viso tutto rosso di Sologdin si incupì:
– Ecco, lo sapevo che avresti cominciato...
– Secondo me, hai cominciato tu!...
– ...mi appiccichi addosso ogni sorta di nomignolo, ne hai una riserva:
oscurantista! ritiratista! (rifuggiva “reazionario”, un’incomprensibile parola
forestiera ), valletto incoronato (intendeva “leccapiedi patentato”)
dell’oscurantismo clericale! Voi avete in testa più parole ingiuriose che
definizioni scientifiche. Quando ti sto addosso e ti propongo di discutere
onestamente, non hai tempo, non hai voglia, sei stanco! Però, il tempo e la
voglia di mettere in subbuglio l’intero paese li avete trovati!
– Metà del mondo! – lo corresse Rubin, con cortesia. – Per la causa c’è
sempre tempo e forza. Non per stare lì a cianciare, però... Di cosa dovremmo
discutere io e te? Ci siamo già detti tutto.
– Di cosa? Lascio a te la scelta! – rispose Sologdin, con un ampio gesto
galante. (Sul tipo di arma! sul luogo del duello!)
– E io scelgo di non parlare di niente!
– Così non giochi secondo le regole!
Rubin cominciò a tirarsi la punta della barba nera.
– Non gioco secondo le regole? Ma quali regole! Che razza di inquisizione è
questa! Mettitelo in testa: per discutere in modo proficuo bisogna disporre di
una base comune, avere qualche tratto generale su cui ci si trova d’accordo...
– Ecco, appunto! Lo dicevo io: dovremmo riconoscere entrambi il
plusvalore e il dominio dei lavoratori! (Che nella Lingua dell’Estrema
Chiarezza indicava la ‘dittatura del proletariato’.) Così discuteremmo solo per
decidere se certi svolazzi furono aggiunti da Marx ed Engels a stomaco vuoto o
pieno.
No, era impossibile liberarsi di quel beffeggiatore! Rubin si infuriò:
– Ma non lo capisci che è una cosa stupida? Di che potremmo parlare? Gira
che ti rigira è sempre lo stesso: io e te siamo su due pianeti diversi. Per te, ad
esempio, i duelli sono ancora oggi il miglior modo per risolvere un’offesa!
– Prova a dimostrarmi il contrario! – Sologdin si abbandonò indietro,
soddisfatto. – Se ci fossero i duelli, credi che qualcuno si azzarderebbe mai a
diffamare qualcun altro? A cacciare via i deboli a gomitate?
– Ah, che attaccabrighe i tuoi cavalieri! Per te, il buio del Medioevo, l’ottusa
e superba cavalleria, le crociate sono stati il culmine della Storia!
– L’apice dello Spirito umano! – lo corresse Sologdin, minacciandolo con il
dito. – Rappresentano il sommo trionfo dello spirito sulla carne!
Un’incontenibile tendenza al sacro, ma con la spada in mano!
– E tutti i beni che si sono depredati? Che hidalgo fastidioso!
– E tu sei un fanatico biblico! cioè un invasato! – parò il colpo Sologdin.
– Per te Belinskij, Černyševkij, tutti i nostri migliori illuministi sono figli di
preti!
– Seminaristi con la gonna lunga! – precisò Sologdin, raggiante.
– A centocinquant’anni di distanza, consideri ancora la rivoluzione francese,
non dico la nostra, come un’ottusa sommossa di straccioni, la follia di istinti
diabolici, lo sterminio delle nazioni. Non è forse vero?
– Certo che è vero!! Prova a dimostrare il contrario! Tutta la grandezza della
Francia finisce nel XVIII secolo! Poi parte una girandola di governi utili a
divertire solo il resto del mondo! Impotenza! Mancanza di volontà! Squallore!!
Vanità!!!
Sologdin si lasciò andare a una risata demoniaca.
– Sei un selvaggio! Un troglodita! – si indignò Rubin.
– La Francia non si risolleverà mai più! Potrebbe farlo forse solo con l’aiuto
della Chiesa di Roma!
– Eh già, secondo te la Riforma non è stato un modo naturale per la ragione
umana di affrancarsi dalle catene della Chiesa, ma...
– Folle ottenebramento! Satanismo luterano! L’indebolimento dell’Europa!
L’autodistruzione degli europei! È stato peggio delle due guerre mondiali!
– Ecco... infatti!... mi sembrava!... – intervenne Rubin. – Sei proprio un
fossile! Un ittiosauro! Di cosa possiamo discutere io e te? Lo vedi da solo che ti
sei ingarbugliato. Non è meglio se ci lasciamo in pace a vicenda?
Sologdin notò che Rubin era sul punto di alzarsi e andarsene. Non poteva
assolutamente permetterlo: il suo divertimento sarebbe finito ancor prima di
cominciare. Sologdin si tranquillizzò, si ammansì in modo irriconoscibile.
– Scusami, Lëvuška, mi sono lasciato trascinare. Siccome è già tardi, non
dobbiamo per forza scegliere un argomento di quelli importanti. Proviamo,
però, almeno il metodo del duello-discussione con un soggetto leggero e
grazioso qualsiasi. Ti faccio scegliere fra qualche titolo (significava argomento).
Vuoi discutere di filologia? Quello è terreno tuo, non mio.
– Ma va’...
Era il momento di andarsene senza subire infamia. Rubin si alzò, ma
Sologdin, premuroso, si affrettò a dire:
– Va bene! Facciamo un titolo morale: il significato della dignità nella vita
dell’uomo!
Rubin si mise a masticare, annoiato.
– Siamo scolarette?
E si alzò, in mezzo ai letti.
– Va bene, allora un titolo... – disse Sologdin, afferrandolo per un braccio.
– Ma per favore... – si liberò dalla presa Rubin, ridendo. – In testa hai tutto
alla rovescia! Sei l’unico sulla Terra che non ammette ancora le tre leggi della
dialettica. Da cui deriva tutto!
Sologdin ricacciò l’accusa con un gesto della mano rosa chiaro.
– Come, non le ammetto? Le ammetto, certo.
– Cosa? Ammetti la dialettica? – Rubin protese le labbra a trombetta. –
Amore mio! Fatti dare un bacio! La ammetti?
– Non solo la ammetto. Ci ho pure riflettuto! L’ho fatto per due mesi, tutte le
mattine! Tu invece no!
– Ci hai riflettuto sul serio? Diventi più ragionevole di giorno in giorno! Ma
allora non abbiamo niente di cui discutere?
– Che cosa?! – si indignò Sologdin. – Di nuovo? Prima dici che senza una
base comune non c’è niente di cui discutere; poi troviamo una base ed è
comunque la stessa cosa: non c’è niente di cui discutere! Adesso discutiamo,
non esiste!
– Che violenza! Di cosa vuoi discutere?
Sologdin si alzò a propria volta, agitando le mani.
– Forza! Accetto le condizioni a me più sfavorevoli. Vi batterò con l’arma
che ho strappato alle vostre zampacce luride! Discuteremo sul fatto che voi non
capite le vostre tre leggi! Ballate come cannibali intorno al fuoco, ma cosa sia
quel fuoco non vi è chiaro. Posso smascherarti sulle tre leggi quanto mi pare!
– Dài, smascherami! – gridò Rubin, senza trattenersi. Era furioso con sé
stesso per essersi lasciato incastrare di nuovo.
– Prego. – Sologdin si riaccomodò. – Siediti.
Rubin rimase in piedi.
– Bene da dove cominciamo? – disse Sologdin, soddisfatto. – Sono leggi che
ci mostrano la direzione dello sviluppo? Oppure no?
– La direzione?
– Sì! Verso cosa... si svilupperà... ehm... – si schiarì la voce. – ...il progresso?
– Certo.
– Da cosa lo vedi? Dove di preciso? – lo incalzò Sologdin, con freddezza.
– Be’, nelle leggi stesse. Ne riflettono il movimento.
Anche Rubin riprese posto. Si misero a parlare piano, in tono serio.
– Di preciso quale legge indica la direzione?
– Be’, di certo non la prima... La seconda. Anche la terza.
– Uhm. La terza, dici? E come la determiniamo?
– Cosa?
– La direzione, no?
Rubin si accigliò.
– Ascolta, che senso ha tutta questa scolastica?
– Secondo te questa è scolastica? Non ci capisci proprio un cavolo di scienze
esatte. Se una legge non ci fornisce proporzioni numeriche, e non conosciamo
nemmeno la direzione del suo sviluppo, vuol dire che non ne sappiamo un bel
niente. Bene. Ora guardiamo la cosa da un altro punto di vista. Tu ripeti spesso
e volentieri l’espressione ‘negazione della negazione’. Ma cosa intendi con
quelle parole? Per esempio, si può rispondere che la negazione della negazione
accade sempre durante lo sviluppo, oppure solo ogni tanto?
Rubin ci pensò per un attimo. Era una domanda che non si aspettava, di
solito non la vedeva in quel modo. Ma, come d’obbligo nelle discussioni, si
affrettò a rispondere senza lasciare intravedere difficoltà.
– Di base, sì... Per la maggior parte.
– Eccolo lì!! – esclamò Sologdin, con soddisfazione. – Di espressioni come
‘di base’, ‘per la maggior parte’, ne avete un gergo intero! Per non dire le cose
come stanno avete elaborato migliaia di espressioni simili. Vi dicono
‘negazione della negazione’ e quello in testa vi si stampa: un chicco di grano, il
grano ha lo stelo, uno stelo produce dieci chicchi di grano. Ne ho fin sopra i
capelli! Sono stufo! Dammi una risposta diretta: quando avviene la ‘negazione
della negazione’ e quando non avviene? Quando bisogna aspettarsela, quando è
impossibile?
Rubin, in cui ogni traccia della sonnolenza di prima era scomparsa, si fece
forza e riordinò i pensieri ormai allo sbando per via di quella discussione non
utile a nessuno, ma comunque importante.
– Be’, che significato pratico ha capire ‘quando avviene’ o ‘quando non
avviene’?!
– Caspita! Che significato concreto ha una delle tre leggi fondamentali dalle
quali deducete tutto?! Ma che ci parlo a fare con voi?!
– Hai messo il carro davanti ai buoi! – si indignò Rubin.
– Di nuovo quel gergo! Quel gergo! Cioè codice...
– Il carro davanti ai buoi! – insisté Rubin. – Per noi marxisti sarebbe un
disonore trarre un’analisi concreta dei fatti dalle leggi pronte della dialettica.
Ecco perché sapere ‘quando avviene’ o ‘quando non avviene’ non ci serve
affatto...
– Ti rispondo al volo! Ma mi dirai subito che lo sapevi, che è chiaro, si
capisce... Perciò, ascoltami bene: se è possibile ottenere la stessa qualità delle cose
che si aveva in precedenza procedendo in direzione opposta, allora la
negazione della negazione non avviene! Per esempio, se hai un dado avvitato
stretto e vuoi svitarlo, puoi farlo. C’è il procedimento inverso, il passaggio dalla
quantità alla qualità, e nessuna negazione della negazione! Se invece,
procedendo in direzione opposta non è possibile riprodurre la stessa qualità
delle cose che si aveva prima, allora lo sviluppo può passare attraverso la
negazione, purché siano consentite le ripetizioni. In altre parole, i cambiamenti
irreversibili saranno negazioni solo dove è possibile negare le negazioni stesse!
– Ivan è una persona; chi non è Ivan, non è una persona, – borbottò Rubin
– così si procede come su parallele...
– Torniamo al dado. Se, avvitandolo, ne rovini il filetto, non ti basta svitarlo
per tornare alla sua qualità precedente, al filetto integro. Si può riprodurre
quella qualità solo in un modo: bisogna gettare il dado in rifusione, laminare
un tondino esagonale, passarlo al tornio e filettare infine un nuovo dado.
– Senti, Mitjaj, – lo interruppe Rubin, in tono pacifico – non si può
affrontare la dialettica parlando di dadi.
– E perché no? Cos’ha un dado meno di un chicco di grano? Se non ci
fossero i dadi le macchine non starebbero in piedi. Ora, ciascuna delle
situazioni elencate è irreversibile, nega ciò che c’era prima, mentre un nuovo
dado, rispetto al vecchio dado rovinato, è la negazione della negazione. Facile,
no? – e si lisciò la barbetta tagliata alla francese.
– Un attimo! – Rubin lo fissò. – E in cosa mi avresti smentito? Da quel che
dici è la terza legge a dare la direzione dello sviluppo.
Sologdin si portò la mano al petto e fece un inchino.
– Caro Lëvčik, se tu non possedessi un’innata velocità di ragionamento, mi
concederei difficilmente l’onore di conversare con te! Sì, dà la direzione! Ma ciò
che la legge dà, bisogna imparare a prenderselo! Ne siete capaci? Riuscite a non
adorare la legge, ma ad agire con lei? Hai dedotto che dà la direzione. Ma
rispondi a questo: accade sempre? Nella natura morta? in quella viva? nella
società? Eh?
– Be’, che dire... – fece Rubin, titubante. – Forse in tutto questo c’è anche un
germe di razionalità. Ma in generale, è vaniloquio, mio caro signore.
– I vaniloquenti siete voi! – tagliò corto Sologdin, dando un colpo
impetuoso con la mano. – Tre leggi! Tre leggi vostre! – era come un saraceno
che agitava la spada tra la folla. – Non ne capite nessuna, eppure deducete da
esse.
– Te l’ho già detto: non deduciamo!
– Non deducete da quelle leggi? – si stupì Sologdin, guardandolo dall’alto in
basso.
– No!
– Dunque cosa sono? Una messa in scena? Come avete capito, allora, da
quale parte si svilupperà la società?
– Senti un po’! – Rubin cercava di ficcarglielo in testa. – Sei un pezzo di
legno o una persona? Noi risolviamo le questioni con l’analisi concreta del ma-
te-ria-le, ti è chiaro? Qualsiasi questione sociale, con l’analisi della condizione
di classe.
– Allora, a che cavolo vi servono tre leggi? – imprecò Sologdin, non
conformandosi al silenzio nella stanza. – Non ve ne fate niente!
– Perché? Ci servono eccome – affermò Rubin.
– A cosa?! Se da esse non si deduce niente, se non c’è nemmeno bisogno di
ottenerne la direzione dello sviluppo, come fanno a non essere vaniloquio? Se
mi si chiede solo di ripetere a pappagallo ‘negazione della negazione’, le leggi a
che diavolo mi servono?
Potapov, che con il cuscino stava cercando invano di proteggersi da tutto
quel frastuono crescente, alla fine si strappò via il guanciale dalle orecchie e si
tirò su a sedere sul letto:
– Sentite, amici! Anche se voi non avete sonno, rispettate almeno quello
degli altri... – e indicò con il dito in alto, di lato, dove giaceva Rus’ka. – O
trovatevi un posto più adatto.
L’arrabbiatura di Potapov, che amava un certo ordine, il silenzio che era
calato in tutta la stanza semicircolare e che in quel momento si notava in modo
particolare, nonché la presenza di delatori (anche se Rubin poteva gridare le
sue convinzioni senza timore) avrebbero indotto a contenersi qualsiasi persona
dotata di senso pratico.
Ma quei due si contennero a malapena. La lunga discussione, che nel loro
caso non era né la prima né la decima, aveva appena preso il via. Capivano che
era necessario uscire dalla stanza, ma non riuscivano né a tacere né a staccarsi.
Se ne andarono, parlandosi addosso finché la porta del corridoio non li
inghiottì.
Non appena uscirono, la luce bianca si spense e si accese quella blu notturna.
Rus’ka Doronin, il cui orecchio era stato il più vicino di tutti alla loro
discussione, era però il più lontano dall’esigenza di raccogliere “materiale” su
di loro. Aveva sentito il mezzo accenno di Potapov, l’aveva compreso, anche
senza vedere il dito che lo indicava, e aveva provato quella vampata di offesa
insicura che ci assale quando a rimproverarci sono le persone di cui ci interessa
l’opinione.
Nell’imbastire quel sottile doppio gioco con gli oper, aveva previsto tutto, si
era sottratto alla vigilanza dei nemici, e adesso, con il caso dei “147 rubli”, si
trovava alla vigilia di un trionfo evidente, eppure davanti al sospetto degli amici
si sentiva indifeso! Il suo disegno solitario, tale proprio perché così insolito e
segreto, lo aveva esposto al disprezzo e all’infamia. Si meravigliava che quelle
persone mature, intelligenti, esperte non possedessero un’ampiezza d’animo
tale da comprenderlo, da credere che non era un traditore.
Come accade sempre quando perdiamo la simpatia delle persone, ci diventa
tre volte più caro chi continua ad amarci.
E se si trattava di una donna?
Klara! Lei avrebbe capito! L’indomani l’avrebbe messa al corrente della sua
impresa rischiosa, e lei avrebbe capito.
Senza speranza né desiderio di addormentarsi, si rigirava nel letto infuocato,
ora ricordando gli occhi indagatori di Klara, ora pregustando il piano di fuga
sotto il filo spinato attraverso un piccolo burrone fino allo stradone, e da lì con
l’autobus subito verso il centro della città.
E una volta là Klara lo avrebbe aiutato.
Era più difficile trovare qualcuno a Mosca, con i suoi sette milioni di
abitanti, che in tutta la spoglia regione di Vorkuta. Mosca era il luogo ideale per
fuggire!
154 Aleksej Chomjakov (1804-1860), uno dei massimi rappresentanti del movimento slavofilo.
66
L’ANDATA AL POPOLO
Il biondo Spiridon, la testa rotonda e il viso sul quale, se non si era abituati,
non si riusciva a distinguere in alcun modo la deferenza dalla beffa, aveva
attratto l’attenzione di Neržin fin dal suo arrivo alla šaraška. Sebbene ci fossero
già carpentieri, falegnami, tornitori, in Spiridon si distingueva palesemente
qualcosa di forte, tanto che non c’erano dubbi che fosse proprio lui quel
rappresentante del Popolo dal quale poter attingere.
Eppure, Neržin aveva incontrato qualche difficoltà: non riusciva a trovare
un pretesto per approfondire la loro amicizia, non c’era nulla di cui potessero
parlare, non si incontravano per motivi di lavoro e vivevano ognuno per conto
proprio. Un gruppetto di sgobboni abitava alla šaraška in una stanza separata,
organizzava il proprio tempo libero separatamente, e quando Neržin aveva
cominciato ad avvicinarsi a Spiridon, lui e i suoi amici di branda avevano visto
in Gleb un lupo in cerca di una preda per un compare.
Questo nonostante lo stesso Spiridon considerasse la propria posizione alla
šaraška di nessuna importanza e non riuscisse a immaginare per quale ragione
gli oper volessero assediarlo, ma siccome quelli non disdegnavano nessuna
carogna, bisognava stare all’erta. Ogni volta che Neržin entrava nella stanza,
Spiridon si fingeva entusiasta, gli faceva posto sulla branda e con aria da ebete
cominciava a raccontargli cose lontane anni luce dalla politica: come colpire un
pesce in fregola con una fiocina, che in acque calme lo si aggancia sotto le
branchie con un ramo di vite a forma di fionda, e lo si pesca anche con la rete;
oppure che andava per “alci e orsi bruni” (ma meglio stare alla larga dall’orso
nero con il colletto bianco!); come si tengono lontani i serpenti con l’erba
polmonaria, che il trifoglio è ottimo come fieno. Poi un lungo racconto su
come aveva corteggiato la sua Marfa Ustinovna negli anni Venti, quando lei
recitava al circolo filodrammatico del villaggio; era stata promessa in sposa al
ricco mugnaio, ma aveva accettato di scappare con Spiridon per amore e il
giorno di san Pietro lui se l’era sposata di nascosto.
A quel punto, sotto le folte sopracciglia biondastre, gli occhi malati e quasi
inespressivi di Spiridon aggiungevano: “Che ci vieni a fare qui, lupo? Tanto
non becchi niente, non lo capisci?”
In effetti, qualsiasi spione si sarebbe defilato da tempo e avrebbe lasciato in
pace la tenace vittima. Non c’era curiosità che potesse condurre un delatore da
Spiridon ogni domenica sera ad ascoltare le sue confessioni di caccia. Ma
Neržin, che all’inizio ci andava con timidezza, proprio lui che lì, in prigione,
desiderava avidamente vederci chiaro in tutte quelle cose su cui non aveva
potuto riflettere fino in fondo da libero, mese dopo mese non si scoraggiava e
non solo non si lasciava sfinire dai suoi racconti, ma se ne sentiva ristorato:
soffiavano su di lui come un’aurora umida su un fiume, come un pomeridiano
venticello di campo, lo riportavano a quei sette anni unici per la vita della
Russia, il settennio della Nep, e nella Rus’ rurale non c’era nulla di simile o di
paragonabile a quello, dai primi antichi villaggi nella foresta impenetrabile,
ancor prima dei Rjurik, fino all’ultimo frazionamento dei kolchoz. Neržin
aveva vissuto quel settennio nell’età spensierata dell’infanzia, gli dispiaceva
molto di non essere nato prima.
Cullato dalla calda voce cigolante di Spiridon, Neržin non aveva tentato di
far scivolare il discorso in politica con una domanda maliziosa neanche una
volta. E, gradualmente, Spiridon aveva iniziato ad avere fiducia in lui,
prontamente si tuffava nel passato: la costante morsa di diffidenza si allentava, i
piccoli solchi profondi sulla fronte si spianavano, il viso rossastro si schiariva
in una leggera luminescenza.
Solo la vista perduta impediva a Spiridon di leggere libri alla šaraška.
Adattandosi a Neržin, infilava di tanto in tanto (sovente a sproposito) parole
come “principio”, “periodo” e “analogamente”. Ai tempi in cui Marfa
Ustinovna recitava nel circolo filodrammatico del loro villaggio, aveva sentito
citare sul palcoscenico il nome di Esenin e gli era rimasto in mente.
– Esenin? – non se l’aspettava Neržin. – Ma è fantastico! Ce l’ho qui, alla
šaraška. Adesso è una vera rarità. – E aveva portato il libretto con la
sovraccoperta cosparsa di foglie d’acero autunnali tagliuzzate. La cosa lo
incuriosiva molto: possibile che si stesse per compiere un miracolo, che il
mezzo analfabeta Spiridon capisse e apprezzasse Esenin?
Il miracolo non era avvenuto, Spiridon non si era ricordato nessuno dei
versi sentiti in precedenza, ma aveva apprezzato vivamente Carina era Tanjuša e
La trebbiatura.
Tuttavia, due giorni dopo il maggiore Šikin aveva mandato a chiamare
Neržin e gli aveva ordinato di consegnare l’Esenin al controllo della censura.
Chi avesse fatto la spia Neržin non lo sapeva. Chiaramente vittima del compare,
perso l’Esenin forse per colpa di Spiridon, Gleb conquistò definitivamente la
sua fiducia. Spiridon cominciò a dargli del “tu”, e adesso non conversavano più
in stanza ma sotto il vano della scala interna della prigione, dove nessuno
poteva sentirli.
Da allora, nelle ultime cinque o sei domeniche, i racconti di Spiridon
avevano cominciato a brillare di una profondità ambita da tempo. Sera dopo
sera, si snodava davanti a Neržin l’esistenza di un solo granello di sabbia, un
semplice contadino russo, che all’epoca della rivoluzione aveva diciassette anni
e quando era cominciata la guerra contro Hitler aveva già superato i quaranta.
Quali cascate non gli erano piombate addosso! Quali ondate non avevano
levigato i sassolini biondi della testa di Spiridon! A quattordici anni era dovuto
diventare il padrone di casa (il padre, mandato a combattere, era morto in
Germania) ed era andato con i vecchi alla falciatura (“Ho imparato a falciare in
mezza giornata”). A sedici anni lavorava in una vetreria e andava ai comizi
sotto le bandiere rosse. Non appena era stata annunciata la terra ai contadini, si
era precipitato in campagna e aveva preso un appezzamento. Quell’anno con la
madre, i fratellini e le sorelline si era spaccato la schiena per bene e
all’Intercessione era spuntato il grano. Solo dopo Natale avevano cominciato a
sottrarglielo per la città con la forza, sempre di più. Dopo la Pasqua, Spiridon,
con i suoi diciott’anni compiuti, andava ormai per i diciannove, aveva iniziato a
ricevere pressioni perché entrasse nell’Armata Rossa. Non vedeva nessun
vantaggio nel passare dalla dolce terra all’esercito, così lui e altri ragazzi si
erano rifugiati nel bosco ed erano diventati dei verdi (“non ci toccare e noi non
toccheremo te”). Ma nel bosco si stava stretti e si erano imbattuti nei bianchi (lì
i bianchi c’erano rimasti poco). Questi ultimi li avevano interrogati per sapere
se fra loro ci fosse un commissario; un commissario non c’era, ma per
rappresaglia avevano colpito il loro capo, agli altri intimato di indossare
coccarde tricolore e consegnare i fucili. In generale, però, le modalità fra i
bianchi erano vecchie, come con gli zar. Dopo aver combattuto un po’ per i
bianchi, erano stati fatti prigionieri dai rossi (non si erano battuti con grande
convinzione, si erano arresi subito). A quel punto i rossi avevano fucilato gli
ufficiali, mentre ai soldati avevano ordinato di togliersi le coccarde dai berretti
e di indossare i fiocchetti. Spiridon si era consolidato fra i rossi fino alla fine
della Guerra civile. Si era spinto fino in Polonia, e dopo la Polonia la loro era
diventata un’armata del lavoro e a casa non li lasciavano più tornare; poi a
Carnevale erano stati mandati a Pietroburgo e la prima settimana di Quaresima
avevano marciato direttamente sul mare ghiacciato, per conquistare una certa
fortezza156. Solo dopo tutto quello Spiridon aveva fatto ritorno a casa.
Rientrato al villaggio in primavera, si era buttato sulla terra natia
riconquistata. Non era tornato dalla guerra come altri, viziato, battuto dai
venti. Aveva ritrovato le forze in fretta (“Se sei un buon padrone, vai per il
cortile e ci trovi un soldone”), si era sposato, aveva comprato dei cavalli.
A quei tempi le autorità avevano un bel grattacapo: si appoggiavano ai
poveri, ma la gente non desiderava esserlo, voleva arricchirsi; i poveri
aspiravano a una vita benestante, quelli che amavano lavorare, naturalmente.
Così era stata buttata là una parola, intensivnik, “intensivo”. Indicava chi voleva
fare agricoltura in modo deciso, ma senza braccianti, secondo la scienza, con
intelligenza. Spiridon Egorov, aiutato della moglie, era diventato un intensivo.
“Chi incontra buona moglie ha gran fortuna” diceva sempre Spiridon. Marfa
Ustinovna era la principale fortuna e il principale successo della sua vita.
Grazie a lei Spiridon non beveva e si teneva alla larga dalle compagnie inutili.
Marfa gli aveva dato una nidiata di bambini, uno all’anno: due figli maschi, poi
una femmina, ma la loro nascita non l’aveva allontanata di un palmo dal marito.
Tirava anche lei il carro, portava avanti la casa! Sapeva leggere e scrivere,
leggeva la rivista “Fai di te un agronomo”: Spiridon era diventato un intensivo
grazie a quella.
Gli intensivi venivano coccolati, ricevevano prestiti, sementi. Successo porta
successo, denaro porta denaro, lui e Marfa progettavano già di costruirsi una
casa di mattoni e non immaginavano che una simile prosperità fosse sul punto
di finire. Spiridon era molto stimato; eroe della Guerra civile e comunista,
veniva fatto sedere nei posti d’onore.
Era stato proprio allora che lui e Marfa avevano subìto un incendio,
strappato a malapena i figli dal fuoco. Ed erano diventati dei poveracci, delle
nullità.
Ma non poterono affliggersi a lungo. Stavano ancora cercando di tirarsi
fuori dallo stato in cui erano precipitati, quando da Mosca era giunta la
dekulakizzazione. Tutti gli intensivi, incentivati da Mosca senza una ragione, di
nuovo senza una ragione venivano additati come kulaki e fatti fuori. Marfa e
Spiridon si rallegrarono di non aver fatto in tempo a tirar su una casa di
mattoni.
Per l’ennesima volta il destino umano si rivelava enigmatico e una disgrazia
si trasformava in un vantaggio.
Invece di andarsene a morire scortato dalla GPU nella tundra, Spiridon
Egorov era stato nominato “commissario alla collettivizzazione”, con il
compito di spostare il popolo nei kolchoz. Con una spaventosa rivoltella sul
fianco, li tirava fuori dalle case e li spediva con la polizia senza i loro stracci,
kulaki o non kulaki, chiunque fosse necessario in base agli ordini.
In quello, come in tutti gli altri repentini cambi di sorte, Spiridon non si
prestava a una facile interpretazione, a un’analisi di classe. Neržin non accusava
Spiridon, non lo punzecchiava, era chiaro che ne era rimasto turbato, tanto da
cominciare a bere, e lo faceva come se il villaggio fosse suo e se lo giocasse.
Aveva accettato il grado di commissario ma non aveva svolto il compito come
si deve. Non aveva evitato che i contadini trucidassero il bestiame e arrivassero
al kolchoz senza un solo corno, un solo zoccolo vivo.
A quel punto era stato cacciato dal posto di commissario, ma non si erano
solo limitati a quello, gli avevano subito ordinato di incrociare le mani dietro la
schiena, e impugnando le pistole, con un poliziotto che lo seguiva e un altro
che lo precedeva, lo avevano condotto in prigione. Processato in fretta (“da noi
in quella fase nessuno ci impiegava tanto a essere processato”), si era beccato
dieci anni per “controrivoluzione economica”, era stato spedito sul canale del
Mar Bianco e, una volta che lì il progetto era stato completato, sul canale
Mosca-Volga. Sui canali Spiridon era stato un po’ sterratore un po’ carpentiere,
riceveva una grossa razione di cibo e si struggeva per Marfa, rimasta sola con
tre figli.
Poi avevano riconsiderato il caso di Spiridon. “Controrivoluzione
economica” era stato modificato in “abuso”, così da socialmente-lontano Spiridon
era diventato socialmente-vicino. Era stato chiamato a rapporto e gli avevano
annunciato che da quel momento in poi gli avrebbero affidato un fucile e
sarebbe entrato nell’autosorveglianza. (E sebbene fino al giorno prima, da leale
zek, Spiridon lanciasse ogni sorta di impropero contro i soldati di scorta,
riservando il peggio proprio a quelli dell’autosorveglianza, aveva imbracciato il
fucile e iniziato a condurre sotto scorta coloro che fino al giorno prima erano
stati i suoi stessi compagni, perché quello gli avrebbe ridotto la pena di
reclusione e gli avrebbe procurato quaranta rubli al mese da spedire a casa.)
Di lì a breve il capo del campo di lavoro, con le sue due losanghe, si era
congratulato con lui per l’imminente liberazione. Spiridon aveva firmato i
documenti non per finire in un kolchoz, ma in fabbrica, aveva portato via
Marfa e i bambini e in breve si era ritrovato nell’albo rosso della fabbrica, uno
dei migliori vetrai soffiatori. Faceva gli straordinari per riguadagnare tutto ciò
che era andato perduto dal giorno dell’incendio. Già pensava a come tirar su
una casetta di campagna con un orto e far studiare i figli, quando la guerra era
tornata a tuonare. I figli a quel punto avevano compiuto quindici, quattordici e
tredici anni. Il fronte si era avvicinato al loro paesino molto in fretta. Le
autorità spostavano a oriente tutti quelli che riuscivano e volevano mandarci il
loro paesino al completo.
A ogni svolta del destino di Spiridon, Neržin si metteva comodo e aspettava
di sapere cosa aveva combinato l’amico. Era convinto che Spiridon fosse
rimasto ad aspettare i tedeschi, tale era la rabbia verso il campo di lavoro.
Macché! All’inizio si era comportato come nei migliori romanzi patriottici:
aveva sotterrato ciò che di buono gli era rimasto e, non appena le attrezzature
della fabbrica erano state spedite sui vagoni e agli operai erano stati assegnati
dei carri, aveva fatto salire sul suo i tre figli e la moglie, e “Con il cavallo di
altri e la frusta non mia è ancora meglio darci sotto e scappar via!”: da Počep
era arretrato fino a Kaluga, come molte altre migliaia di persone.
Ma verso Kaluga qualcosa non era andato per il verso giusto, da qualche
parte la loro fiumana si era divisa, non erano più migliaia ma solo centinaia di
persone, e già nel primo commissariato di leva programmavano di mandare gli
uomini nell’esercito e di far proseguire le famiglie da sole.
A quel punto, capendo che lo stavano per separare di nuovo dalla famiglia,
pienamente convinto di essere nel giusto, Spiridon si era nascosto nel bosco in
attesa che la linea del fronte si spostasse, e su quello stesso carro, su quello
stesso cavallo, che non essendo più statale, non gli era già più indifferente ma
caro, come fosse suo, aveva ricondotto la famiglia indietro, da Kaluga a Počep
ed era tornato nel suo vecchio villaggio, dove si era stabilito nella casetta libera
di qualcuno. A quel punto gli avevano detto: dell’ex terra del kolchoz prendine
quanta ne puoi lavorare e lavorala. Così Spiridon se l’era presa e s’era messo ad
ararla e a seminarla senza rimorsi di coscienza e senza seguire i bollettini di
guerra; lavorava con fiducia e regolarità, quasi fossero trascorsi moltissimi anni
da quando c’erano i kolchoz e la guerra.
I partigiani andavano da lui e gli dicevano: “Preparati, Spiridon, bisogna
combattere, smettila di arare.” “Qualcuno dovrà pur farlo” rispondeva lui. E
dalla terra non si staccava. La gente veniva arruolata con la forza fra i
partigiani, spiegava adesso, non gli bastava che giovani e vecchi, non avendo un
pezzo di pane da mettere sotto i denti, si sarebbero presto mossi contro i
tedeschi brandendo i coltelli , ma avevano fatto venire degli istruttori da
Mosca, che erano atterrati con i paracadute, e quelli cacciavano via i contadini
con le minacce o li lasciavano senza una via di scampo.
I partigiani erano riusciti a uccidere un motociclista tedesco, non fuori dal
loro villaggio, in pieno centro. Conoscevano bene le regole del nemico. I
tedeschi erano arrivati subito, avevano tirato fuori tutti dalle case e incendiato
il villaggio da cima a fondo.
Anche quella volta Spiridon non aveva avuto dubbi che fosse giunto il
momento di fare i conti con i tedeschi. Aveva condotto Marfa e i ragazzi dalla
madre di lei e si era unito ai partigiani nel bosco. Loro gli avevano consegnato
un fucile e delle granate. Spiridon con la stessa coscienza, la stessa prontezza di
ingegno con cui lavorava in fabbrica o arava la terra, abbatteva le pattuglie
tedesche vicino alla ferrovia, colpiva i convogli, aiutava a far saltare i ponti, per
poi trascorrere le feste con la famiglia. Non era facile, ma almeno gli erano
rimasti i suoi cari.
Il fronte però stava tornando. Gli avevano addirittura promesso che una
volta ricomparsi i nostri, Spiridon avrebbe ricevuto una medaglia. Infine
avevano annunciato che erano entrati a far parte dell’esercito sovietico: la vita
nei boschi era finita.
Nel villaggio in cui si trovava Marfa, però, i tedeschi avevano rastrellato tutti
gli abitanti; si era precipitato lì un ragazzo a raccontarlo.
Così, senza aspettare i nostri e tutto il resto, e senza dirlo a nessuno, Spiridon
aveva lasciato all’istante il fucile e due dischi di cartucce ed era corso a cercare la
famiglia. Si era infilato in mezzo alla fiumana di gente da civile e di nuovo
accanto al solito carro e frustando il solito cavallo, rassegnatosi alla giustezza
inconfutabile di quella nuova decisione, si era incamminato lungo la strada
ingombra che portava da Počep a Sluck.
A quel punto Neržin si era afferrato la testa fra le mani e la scuoteva.
– Ahiahi! Quante cose incredibili ti sono capitate, Spiridon Danilyč! Non
riesco nemmeno a ricordarle tutte... Sei andato a Kronštadt passando sul
ghiaccio, hai insediato questo nostro potere sovietico, cacciavi a forza la gente
nei kolchoz...
– Perché, non l’hai insediato pure tu?
Neržin era confuso. Si dava per scontato che a insediare il potere sovietico
fosse stata la generazione di suo padre, cosa che allora, nel ’17-’18, era motivo
di grande orgoglio e che tutti tenevano in particolare considerazione.
Sulle labbra di Spiridon era comparso un ghigno più evidente.
– Anche tu l’hai insediato, non te ne sei reso conto? – lo punzecchiava.
– No, non me ne sono reso conto – aveva sussurrato Neržin, scorrendo
nella memoria i tre anni di comando al fronte.
– A volte può accadere... Uno semina segale, ma gli cresce bietolone...
Tuttavia, era necessario proseguire quell’esperimento sociale, così Neržin si
era limitato a chiedere:
– E poi, Danilyč, come continua?
Come continuava!? Naturalmente, avrebbe potuto fuggire un’altra volta nel
bosco, e così aveva fatto, ma d’un tratto si erano imbattuti nei banditi, e lui
aveva salvato la figlia per un pelo. Così si erano uniti di nuovo alla fiumana.
Poi aveva cominciato a pensare che i nostri non gli avrebbero creduto, si
sarebbero ricordati che non era entrato subito nei partigiani ed era fuggito;
come la giravi ne venivano fuori solo guai, così era arrivato fino a Sluck. Là ti
piazzavano su un treno fino alla regione del Reno e ti assegnavano un
tagliando per il pasto. All’inizio girava voce che non prendevano nessuno
assieme ai figli e Spiridon stava già escogitando come fare marcia indietro, ma
erano stati accettati tutti, così avevano abbandonato carro e cavallo ed erano
partiti. Nei dintorni di Magonza lui e i figli maschi erano stati assegnati a una
fabbrica, mentre la moglie e la figlia erano finite al lavoro in mezzo ai
Bauern157.
In quella fabbrica, una volta, un caposquadra tedesco aveva colpito il figlio
minore di Spiridon. Il padre non era stato lì a pensarci troppo, era corso da lui
con un’ascia e l’aveva agitata contro il caposquadra. In base alle leggi del Reich
tedesco, e quelle erano sufficienti, agitare un’arma a quel modo significava per
Spiridon la fucilazione. Ma il caposquadra si era calmato e avvicinatosi al
rivoltoso, in base a quanto raccontava Spiridon, aveva detto:
– Sono anch’io Vater. Io ti verstehe158.
E non gli aveva fatto rapporto! Poco tempo dopo Spiridon aveva saputo che
quella stessa mattina al caposquadra era giunta la notizia della morte del figlio
in Russia.
Mezzo cieco, con i fianchi spezzati, al ricordo di quel caposquadra renano,
Spiridon si asciugava le lacrime con la manica senza vergogna.
– Dopo questa cosa non ce l’ho più con i tedeschi. Quel Vater ha cancellato
la casa incendiata e tutto il resto. Quell’uomo aveva un cuore! Ed era tedesco...
Ma quella era stata una delle rare, rarissime volte in cui qualcosa aveva
minato la convinzione di avere sempre ragione di quel cocciuto contadino
biondo. In tutti gli anni difficili, in tutto quel brutale tuffarsi e riemergere,
nessun ripensamento lo aveva mai indebolito nel momento della scelta. Con la
sua prassi quotidiana, Spiridon smentiva le pagine migliori di Montaigne e di
Charron.
Nonostante Spiridon Egorov fosse terribilmente ignorante e incapace di
comprendere i frutti dello spirito umano e della società, le sue azioni e
decisioni si distinguevano per la costante ragionevolezza. Per esempio, sapendo
che tutti i cani del villaggio erano stati fucilati dai tedeschi, e non lo sapeva
perché glielo avevano riferito, ma perché c’era anche lui, aveva piazzato senza
timore la testa mozzata di una mucca nella neve fresca, cosa che non aveva mai
fatto in nessun altro periodo. E sebbene non avesse mai studiato né la geografia
né il tedesco, nelle trincee in Alsazia la situazione per loro si era fatta pessima
(li tempestavano di bombe anche gli americani dagli aerei), lui e il figlio
maggiore erano scappati e, senza chiedere niente a nessuno, senza capire le
scritte in tedesco, nascondendosi di giorno e muovendosi solo di notte, su una
terra sconosciuta, passando lontani delle strade, senza toccarle direttamente
come corvi in volo, avevano percorso novanta chilometri e di casa in casa erano
giunti furtivi dal Bauer nei dintorni di Magonza presso cui lavorava la moglie.
Là erano rimasti nel rifugio in giardino fino all’arrivo degli americani.
Nessuna delle maledette eterne questioni sul criterio di autenticità della
percezione sensoriale, sull’adeguatezza della nostra conoscenza delle cose
tormentava Spiridon. Lui era certo che avrebbe visto, sentito, odorato e
compreso tutto in modo infallibile.
Proprio come nella dottrina delle virtù: anche lì per Spiridon tutte le cose
erano perfettamente chiare e collegate fra loro. Non calunniava nessuno. Non
spergiurava mai. Ricorreva al turpiloquio solo se strettamente necessario.
Uccideva soltanto in guerra. Faceva a botte esclusivamente per l’amata. Non
riusciva a rubare a nessuno né uno straccetto né una briciola di pane, ma con
piena convinzione derubava lo Stato ogni volta che si presentava l’occasione. E
riguardo al fatto che, come lui stesso raccontava, prima di sposarsi “correva
dietro alle sottane”, anche il nostro maître à penser Aleksandr Puškin
riconosceva che il comandamento “non desiderare la donna d’altri” gli era
particolarmente gravoso.
Adesso Spiridon, detenuto cinquantenne quasi cieco, evidentemente
condannato a spegnersi, a morire lì in carcere, non mostrava nessuna
propensione alla santità, o allo sconforto, o al ravvedimento, o tanto meno alla
correzione (come espresso nella denominazione dei campi di lavoro
“correttivi”), ma con la sua fidata ramazza spazzava ogni giorno il cortile
dall’alba al tramonto e con quello si salvaguardava davanti al comandante e agli
oper.
Quali che fossero le autorità, Spiridon vi si opponeva sempre.
Quello che Spiridon amava era la terra.
Quello che Spiridon aveva era la famiglia.
I concetti di “patria”, “religione” e “socialismo”, che non venivano usati nei
normali discorsi quotidiani, a Spiridon erano completamente estranei, come se
a quelle parole le sue orecchie si ostruissero e la lingua non trovasse il modo di
utilizzarle.
La famiglia era la sua patria.
La famiglia era la sua religione.
La famiglia era anche il suo socialismo.
E a tutti coloro che seminavano il razionale-bene-eterno, agli scrittori e agli
oratori che definivano Spiridon teoforo (anche se lui non lo sapeva), ai
sacerdoti, ai socialdemocratici, agli agitatori liberi e ai propagandisti a tempo
pieno, ai proprietari terrieri bianchi e ai presidenti rossi, con i quali nel corso
della vita Spiridon aveva avuto a che fare, per forza di cose in silenzio, in cuor
suo diceva:
“Ma perché non ve ne andate a...?!”
156 Trattasi di Kronštadt, dove nel 1921 ci fu una rivolta antibolscevica di marinai e soldati repressa nel
sangue. Per raggiungere la fortezza i Rossi passarono sul golfo ghiacciato.
157 “Contadini” in tedesco.
158 In tedesco “padre” e “capisco”.
68
IL CRITERIO DI SPIRIDON
Sopra le loro teste i gradini della scala di legno tuonavano e scricchiolavano per
il passaggio e lo scalpiccio dei piedi. A volte polvere e pezzetti di spazzatura
ricadevano dall’alto, ma Spiridon e Neržin non se ne accorgevano quasi.
Stavano seduti sul pavimento non spazzato con indosso le tute blu da
paracadutisti sporche e malconce, il posteriore indurito, abbracciandosi le
ginocchia. Starsene lì così, senza un pezzetto di legno sotto, non era molto
comodo, risultava poco stabile, per questo puntavano le spalle e la schiena
contro le assi inchiodate alla scala, di traverso. Gli occhi fissavano dritto in
avanti, puntati anche loro, ma alla scalcinata parete laterale del gabinetto.
Neržin, come faceva sempre quando aveva bisogno di rendersi conto di
qualcosa, di abbracciarla con la mente, fumava di continuo e piazzava i
mozziconi avanzati accanto al battiscopa mezzo imputridito, dal quale saliva
fino alla scala un triangolo di parete imbiancata ma sudicia. Sebbene ricevesse
come tutti papirosy Belomorkanal, il pacchetto che non smetteva mai di
ricordargli il lavoro malefico svolto in quella malefica regione dove per poco
non ci aveva lasciato le penne, Spiridon non fumava più, sottostando al divieto
dei medici tedeschi che gli avevano restituito tre decimi di vista da un occhio e
ridato la luce.
Provava gratitudine e un profondo rispetto per i medici tedeschi. Già cieco
senza speranza, gli avevano conficcato un grosso ago nella spina dorsale, tenuto
a lungo gli occhi bendati con un unguento e, una volta tolte le bende in una
stanza semibuia, ordinato: “Ora guarda!” Sul mondo era tornata l’alba! Alla
luce di una fioca lampada da notte, che per Spiridon era come un vivido sole,
con un occhio soltanto aveva scorto il profilo scuro della testa del suo salvatore
e, caduto in ginocchio, gli aveva baciato la mano.
Neržin si raffigurò il viso sempre concentrato, ma in quel momento bonario,
dell’oculista della Renania. Il medico osservava quel selvaggio biondo delle
steppe orientali liberato dalle bende, la cui voce calda e la cui gratitudine
dicevano ampiamente che, forse, era destinato a una vita migliore e che se era
così lo era diventato non per colpa sua.
Ma dal punto di vista dei tedeschi il suo atto era stato molto più che
selvaggio.
Già dalla fine della guerra Spiridon aveva vissuto con tutta la famiglia in un
campo di prigionia americano per ex deportati. Si era imbattuto in un
compaesano, un parente della moglie, un “parente-serpente” che mettendo in
piedi il kolchoz si era organizzato alcuni affari. Con quel parente-serpente
erano arrivati fino a Sluck, ma in Germania li avevano separati. Dovevano
brindare al felice incontro, il parente aveva con sé una bottiglia di alcool, di
meglio non c’era. La bottiglia era aperta e l’etichetta, tedesca, non l’avevano
capita, però era gratis. Nemmeno il cauto e diffidente Spiridon, sfuggito a
migliaia di pericoli, era immune al fatalismo russo: d’accordo, stappa, parente!
Spiridon ne aveva buttato giù un bicchiere pieno, mentre il resto se l’era
tracannato tutto il parente-serpente. Meno male che i figli non c’erano,
altrimenti sarebbe toccato anche a loro un bicchierino a testa. Spiridon si era
risvegliato dopo mezzogiorno; preoccupato per la precoce oscurità nella
stanza, aveva sbirciato dalla finestra, ma la luce era poca anche lì, e per un bel
po’ non era riuscito a capire come mai vedesse solo la metà inferiore e non
quella superiore del comando americano oltre la strada e delle sentinelle.
Avrebbe continuato a nascondere la sua disgrazia a Marfa, se solo verso sera un
velo di totale cecità non avesse coperto anche la parte inferiore del suo occhio.
Il parente-serpente era morto.
Dopo la prima operazione i medici oculisti gli avevano spiegato che
bisognava lasciar passare un bell’annetto prima del secondo intervento, così
l’occhio sinistro sarebbe tornato a vederci del tutto e il destro per metà.
L’avevano promesso espressamente, bisognava solo aspettare, ma...
– I nostri, quelle carogne, hanno mentito, ti infarcivano le orecchie. I
kolchoz non ci sono più, vi sarà perdonato tutto, i fratelli e le sorelle vi
aspettano, suoneranno le campane a festa: da levarsi al volo le scarpe americane
e correre fin laggiù scalzi.
No! Non ci poteva credere.
– Danilyč! – lo dissuadeva espressamente Neržin, neanche fosse ancora in
tempo per ripensarci. – Non eri tu che dicevi quella cosa sul bietolone? Che
hanno fatto, per la miseria, ti hanno trascinato per il garrese? Possibile che c’hai
creduto?
Intorno agli occhi di Spiridon – le palpebre, le tempie, le occhiaie – tutto era
un fitto reticolo rugoso. Si mise a ridacchiare.
– Io, dici?... Io, Gleb, lo sapevo che ci avrebbero attaccati alla cinghia. Dagli
americani me la spassavo, di mia spontanea volontà non ci sarei tornato.
– Ma come riuscivano a far abboccare la gente? Gli altri venivano qui dalla
famiglia. Tu, invece, li avevi tutti con te. Che cosa ti ha attirato in Unione
Sovietica?
Un sospiro
– A Marfa Ustinovna lo dissi subito: tesoro, ti promettono l’acqua pulita di
un laghetto, ma poi ti fan bere quella sporca di una pozzanghera... Marfa
rispose, accarezzandomi la testa: amore mio, prima vengono i tuoi occhi, a
tornare ci penseremo poi. Aspettiamo la seconda operazione. Ma tutti e tre i
figli non stavano più nella pelle, smaniavano: babbino! mammina! andiamo a
casa! torniamo in patria! Credete forse che da noi in Russia di oculisti non ce
ne siano? Abbiamo sconfitto i tedeschi, i feriti chi li curava?! I nostri medici
sono anche più bravi! Dicevano di voler finire la scuola in Russia, al più grande
mancavano solo due anni. Mia figlia Vera singhiozzava a più non posso: mi
farete sposare un tedesco! Di russi per lei in Renania ce n’erano pochi, tutto le
faceva presagire che si stava lasciando scappare un buon fidanzato... Eh, io
invece dubitavo: ragazzi miei, ci sono medici anche in Russia, ma vivere là è un
massacro, vostro padre si è tirato fuori appena in tempo, perché ci tenete tanto?
No, niente da fare, dovevano scottarsi da soli.
Spiridon non era stato il primo a finire in rovina a causa dei figli.
I suoi baffi corti e duri, biondi e brizzolati, tremolavano al solo ricordo.
– Ai loro volantini non credevo neanche un briciolo, sapevo che mi
attendeva la prigione. Ma pensavo che avrebbero rovesciato tutta la colpa su di
me, i ragazzi non avevano fatto niente... Sarei stato sbattuto dentro, mentre i
miei figli avrebbero continuato a vivere. Ma i bastardi ragionavano in un altro
modo: si sono presi la mia testa e quella dei ragazzi.
Alla stazione di frontiera gli uomini e le donne erano stati divisi e fatti salire
su treni diversi. La famiglia Egorov era rimasta insieme tutta la guerra e ora si
disgregava. Nessuno domandava se uno era di Briansk o di Saratov. La moglie e
la figlia erano state spedite senza processo nella regione di Perm’, dove la figlia
lavorava ancora nella selvicoltura, come addetta alla sega elettrica. Spiridon e i
figli maschi erano finiti dietro il filo spinato, erano stati processati e, sia ai
ragazzi sia al padre, era stata appioppata una decina a testa per tradimento della
patria. Spiridon e il figlio minore erano capitati in un campo di lavoro di
Solikamsk e là, almeno, Spiridon aveva potuto occuparsi del figlio ancora per
due anni. L’altro era stato scaraventato alla Kolyma.
C’era stato quello al posto della casa. Quello al posto del fidanzato della
figlia e della scuola dei figli.
Per l’agitazione durante l’istruttoria, e poi per la malnutrizione nel campo di
lavoro (Spiridon lasciava al figlio ogni giorno metà della sua razione), non solo
i suoi occhi non erano tornati a vedere, ma gli si era offuscato anche il sinistro.
In mezzo a quel digrignar di lupi in una remota sottoassegnazione nel bosco,
chiedere ai medici di ridargli la vista era quasi come pregare per far ascendere
al cielo i vivi. Il grigio ospedaletto del campo di lavoro non solo non era in
grado di curare gli occhi di Spiridon, ma non sapeva nemmeno giudicare se ne
fossero in grado a Mosca.
Con la testa fra le mani, Neržin rifletteva sull’enigma che il suo amico
rappresentava. Non guardava quel contadino sopraffatto dagli eventi né
dall’alto né dal basso, ma spalla contro spalla, gli occhi allo stesso livello. Tutti i
loro discorsi già da tempo – e più si andava avanti più la cosa si acutizzava –
spingevano Neržin verso un quesito. Tutta la trama della vita di Spiridon
portava a quella domanda. Forse era giunto il momento di fargliela.
La complicata vita di Spiridon, i suoi continui passaggi da una parte in lotta
a un’altra, non erano forse altro che semplice autoconservazione? Non
coincidevano con la verità tolstojana secondo cui nel mondo non esistono né
giusti né colpevoli? Che alcuni nodi della storia mondiale non vanno districati
con una spada troppo presuntuosa? Negli atti quasi istintivi di quel contadino
dai capelli biondicci non si manifestava forse il sistema universale dello
scetticismo filosofico?
L’esperimento sociale portato avanti da Neržin prometteva di offrire quel
giorno, in quel posto sotto la scala, un risultato inatteso e brillante!
– Sono angosciato, Gleb – diceva intanto Spiridon, e con il calloso palmo
indurito si strofinava forte la guancia non rasata, come se volesse scorticarsi la
pelle. – Sono quattro mesi che non ricevo lettere da casa.
– Non dicevi che il Serpente ne aveva una?
Spiridon lo guardò con rimprovero (i suoi occhi erano spenti, ma non
apparivano mai vitrei come quelli di chi è cieco dalla nascita, e per questo la
loro espressione si intuiva).
– Quattro mesi! Cosa ci sarà mai scritto in quella lettera!?
– Domani non appena te la danno, vieni che te la leggo.
– Sì, ci vengo di corsa.
– Forse è successo qualcosa alla posta. Forse i compari le hanno bloccate.
Non ti agitare, Danilyč, tanto è inutile.
– Come è inutile? Se ho il cuore a pezzi! Ho paura per Vera. Ha ventun anni,
è senza il padre, senza i fratelli, nemmeno la madre ha vicino.
Neržin aveva visto Vera Egorova in una fotografia della primavera
precedente. Era una ragazzona soda, con grandi occhi fiduciosi. Per tutta la
guerra mondiale il padre l’aveva tenuta con sé e protetta. Con una granata a
mano, l’aveva strappata nei boschi di Minsk a uomini malvagi che avevano
intenzione di violentare una quindicenne. Ma cosa poteva fare ora dalla
prigione?
Neržin si immaginava l’impenetrabile bosco di Perm’, il fuoco da
mitragliatrice della sega a motore, l’orribile rombo dei trattori che trascinavano
i tronchi; i camion che sprofondavano con il retro nella palude e sollevavano al
cielo i radiatori quasi stessero supplicando, neri trattoristi furenti che non
sapevano più la differenza fra una parola normale e un’imprecazione; e lì in
mezzo una ragazza in tuta da lavoro, con i pantaloni che ne sottolineavano in
modo provocante i tratti femminili. Dormiva con loro vicino al fuoco, quando
passava nessuno perdeva l’occasione di palpeggiarla. In effetti, c’era una ragione
se il cuore di Spiridon soffriva.
Ma consolarlo sembrava pietosamente inutile. Era meglio distrarlo e trovare
in lui ciò che Neržin stava cercando: una trasposizione, un contraltare ai suoi
amici eruditi. Gleb stava forse per ascoltare, ora, in quel luogo, la cruda
motivazione popolare allo scetticismo, avendone così conferma?
Con una mano posata sulla spalla di Spiridon e la schiena puntata contro la
storta struttura della scala, Neržin, imbarazzato, cominciò a porre la sua
domanda alla lontana:
– È tanto che vorrei chiederti una cosa, Spiridon Danilyč, ma non vorrei che
fraintendessi. Ho ascoltato a lungo i tuoi vagabondaggi. La tua è una vita
contorta, non che capiti solo a te, l’hanno così in molti... davvero molti. Ti
agitavi sempre per qualcosa, sembravi cercare il quinto angolo di un
rettangolo... per una ragione? Cioè, con quale... – stava per dire “criterio” –
...con quale metro, secondo te, dovremmo comprendere la vita? Be’, per
esempio, ci sono davvero al mondo persone che vogliono il male per il
prossimo di proposito? Che pensano ‘faccio questo così faccio del male agli
altri’? ‘Li schiaccio così non vivono più’? Poco probabile, no? Lo dicevi tu
stesso che uno semina segale, ma poi gli cresce bietolone. Potrebbero aver
seminato segale, oppure aver pensato che lo fosse? Magari le persone vogliono
tutte il bene, pensano di volerlo, ma nessuno è senza peccato, esente da errori, e
chi esagera nelle sue convinzioni riversa sugli altri solo il male. Si convince di
compiere il bene, ma in realtà ne esce solo il peggio.
Neržin forse non era riuscito a spiegarsi bene. Spiridon lo guardava di
traverso, accigliato, cercando di capire dove stesse la trappola.
– Ora, mettiamo che tu sia palesemente in errore e che io voglia correggerti,
te lo dico a parole, ma tu non mi ascolti, mi tappi persino la bocca, mi getti in
prigione. Cosa dovrei fare? Darti una botta in testa? Va bene se ho ragione, ma
se mi sembra soltanto di averla, se me lo sono ficcato io nella zucca? Se ti butto
giù e mi siedo al posto tuo, e poi non va come pensavo, non finirò anch’io per
ammucchiare cadaveri? Be’, in poche parole, io la vedo così: se non puoi essere
certo di avere sempre ragione, è giusto intervenire o no? In ogni guerra ci
sembra sempre di avere ragione, ma anche agli altri sembra di averla. È davvero
possibile per l’uomo sulla terra capire chi ha ragione? Chi è colpevole? Chi può
dirlo?
– Te lo posso dire io! – rispose Spiridon, come rasserenato, con la stessa
prontezza che avrebbe avuto se gli avessero chiesto quale sorvegliante era di
turno il mattino seguente. – Il cane lupo ha ragione, il cannibale no!
– Come-come-come? – la semplicità e la forza di quella risposta lasciarono
Neržin senza fiato.
– È così – ripeté Spiridon, con brutale sicurezza, completamente girato
verso Neržin: – Il cane lupo ha ragione, il cannibale no!
E chinatosi soffiò da sotto i baffi il suo alito caldo sul viso di Neržin.
– Se ora, Gleb, mi dicessero: su quell’aereo che sta passando in cielo c’è una
bomba atomica. Ti va di morire come un cane sotto questa scala, che la tua
famiglia venga colpita, e così milioni di persone, purché fra voi ci sia anche il
Padre Baffuto e tutta la sua combriccola fino alle radici, in modo che non stia
più lì a far soffrire il popolo nei campi di lavoro, nei kolchoz, nei leschoz159? –
Spiridon si era puntato con le spalle rotonde con tutte le forze, come se la scala
stesse davvero per crollargli addosso, e insieme a lei il tetto e tutta Mosca. – Io,
Gleb, mi credi?, non ce la faccio più! Ne ho abbastanza! – sollevò la testa verso
l’aereo. – Gli risponderei: Sì, dài! Forza! Buttatela giù!!
Spiridon aveva il volto schiacciato dalla stanchezza e dalla pena.
Da ciascuna delle rossastre palpebre inferiori di quegli occhi ormai incapaci
di vedere scese una lacrima.
Non si vede, ma molti di quelli che cantano, fra cui anche Lëvka, per
l’esaltazione, hanno le lacrime agli occhi.
La prigione ronza come un alveare in allerta. Il gruppetto di carcerieri se ne
sta fermo sulle scale con le chiavi in mano, scioccato dall’immortale inno
proletario...
Che dolore alla nuca! Che pressione al fianco destro!
Rubin bussò di nuovo alla finestrella. Al secondo colpo riapparve il viso
assonnato dello stesso sorvegliante. La guardia aprì l’anta con il vetro e
farfugliò:
– Ho chiamato. Non rispondono.
E stava per richiudere, ma Rubin non glielo permise, bloccò l’anta con la
mano.
– E allora ci vada di persona! – gridò, con dolorosa stizza. – Sto male, ha
capito? Non riesco a dormire! Chiami l’infermiera!
– Va bene – acconsentì il secondino.
E richiuse la finestrella.
Rubin riprese a camminare, misurando disperatamente lo spazio sporco
coperto di sputi del corridoio impregnato di fumo; essendo notte non si
allontanava troppo.
Dopo l’immagine del carcere interno di Char’kov, che lui ricordava sempre
con orgoglio, nonostante quelle due settimane in cella d’isolamento fossero
rimaste a incombere su tutti i suoi questionari e su tutta la sua vita, e ne
avessero aggravato la condanna, adesso riemersero dalla memoria ricordi a
lungo celati, cocenti.
...Una volta era stato convocato nell’ufficio del Comitato del partito presso
la sua fabbrica di trattori. Lëva si considerava uno dei fondatori della fabbrica:
lavorava nella redazione del giornale. Girava per i reparti, infervorava i giovani,
infondeva forza negli operai avanti con gli anni, appendeva “edizioni
istantanee” sulle imprese delle brigate d’assalto, sui ritardi e le trascuratezze.
Ventenne in kosovorotka, la camicia con la tipica abbottonatura laterale, era
entrato nell’ufficio con la stessa spontaneità con cui si era presentato al
cospetto del segretario del Comitato Centrale dell’Ucraina. Allora aveva detto
soltanto: “Salve, compagno Postyšev!” e gli aveva porto la mano per primo.
Così, anche lì, alla donna sui quarant’anni con i capelli tagliati corti avvolti in
un fazzoletto rosso aveva detto:
– Salve, compagna Pachtina! Mi hai chiamato?
– Salve, compagno Rubin. – Gli aveva stretto la mano. – Siediti pure.
Si era seduto.
Nell’ufficio era presente anche un altro uomo, non operaio, con la cravatta,
un completo e scarponcini gialli. Sedeva in disparte a controllare dei fogli,
senza mostrare interesse per il nuovo arrivato.
L’ufficio del Comitato del partito era austero come un confessionale,
compassato nei toni del rosso ardente e del nero concreto.
Parlando delle questioni della fabbrica, di cui discutevano sempre con
solerzia, la donna aveva usato con Lëva un tono imbarazzato, quasi spento. Ma
poi, appoggiandosi indietro, all’improvviso e con fermezza aveva detto:
– Compagno Rubin! Devi cedere le armi davanti al partito!
Lëva era rimasto di stucco. Ma come? Non dedicava già tutte le forze, la
salute al partito, senza nemmeno badare più se fosse giorno oppure notte?
No! Non era abbastanza.
Ma che altro poteva fare??!
A quel punto, in tono gentile, era intervenuto quel tizio. Gli si rivolgeva
dandogli del “lei”, cosa che a un orecchio proletario strideva. Aveva detto a
Rubin di raccontare con onestà, fino in fondo, tutto ciò che sapeva di suo
cugino, quello sposato: non era forse vero che in passato era stato membro
attivo di un’organizzazione trockista segreta e adesso lo teneva nascosto al
partito?
Bisognava subito dire qualcosa, lo stavano fissando entrambi.
Lëva aveva imparato a guardare la rivoluzione proprio attraverso gli occhi di
quel cugino. E proprio da lui aveva scoperto che non era tutto così festoso e
spensierato come alle manifestazioni del Primo Maggio. Sì, la Rivoluzione era
proprio la primavera: anche lì di fango ce n’era molto e il partito camminava
sguazzandoci dentro in cerca di un sentiero battuto nascosto.
Ma erano passati quattro anni. Le discussioni all’interno del partito erano
cessate. Avevano già iniziato a dimenticarsi dei trockisti, persino dei
bucharinisti. Tutto ciò che il fautore della scissione aveva proposto e per cui
era stato espulso dall’Unione, Stalin lo ripeteva ora in modo ingegnoso e
pedissequo. Con le migliaia di fragili “barche” delle imprese contadine, bene o
male, si era dato vita al “transatlantico” della collettivizzazione. Fumavano già
gli altoforni di Magnitogorsk e i trattori delle quattro fabbriche-primogenite
rivoltavano la terra nei kolchoz. Il noto e diffuso slogan di quei tempi, “518
cantieri edili nel primo piano quinquennale e 1.040 nuove stazioni di macchine
agricole e trattori”, era già quasi superato. Se tutto, obiettivamente, si
realizzava per la gloria della Rivoluzione mondiale, valeva la pena bisticciare
per il nome della persona cui sarebbero state attribuite tutte quelle grandi cose?
(E Lëvka si era costretto ad amare persino quel nuovo nome. Sì, Lo amava già!)
A che scopo arrestare, vendicarsi di chi prima si opponeva?
– Non lo so. Non è mai stato un trockista – rispondeva la lingua di Lëvka,
ma la ragione, parlando fra persone adulte, senza il puerile romanticismo da
soffitta, gli diceva che ostinarsi a negare era già inutile.
I gesti della segretaria del Comitato di partito erano concisi ed energici. Il
Partito! Non è la cosa più alta che abbiamo? Come si fa a ostinarsi a negare...
davanti al Partito?! Come si fa a non aprirsi... al Partito?! Il Partito non punisce,
è la nostra coscienza. Ricordati cosa diceva Lenin...
Dieci canne di pistola puntate contro il viso non avrebbero spaventato tanto
Lëvka Rubin. Non gli avrebbero strappato la verità né il freddo carcere né il
confino alle Solovki. Ma davanti al Partito?! Non poteva nascondersi e mentire
in quel confessionale rosso e nero.
Rubin si era aperto, aveva rivelato di cosa aveva fatto parte il cugino, di che
si occupava e quando.
La donna-confessore era ammutolita.
Il gentile ospite con gli scarponcini gialli invece aveva detto:
– Quindi, se ho ben capito...– e si era messo a rileggere cosa aveva scritto sul
foglio.
– Ora firmi. Tenga.
Lëvka era indietreggiato.
– Chi è lei?? Lei non rappresenta il Partito!
– Perché no? – si era offeso l’ospite. – Sono un membro anch’io del partito.
Sono un inquirente della GPU.
Rubin bussò di nuovo alla finestrella. Il sorvegliante, evidentemente strappato
al sonno, disse sbuffando: – Che cavolo bussi! Ho telefonato un sacco di volte,
non rispondono.
Gli occhi di Rubin si accesero di indignazione.
– Le ho chiesto di andarci direttamente, non di chiamare! Ho un dolore al
cuore!! Potrei anche morire!
– Non mo-ri-rai – disse strascicando la voce il secondino in tono conciliante,
persino solidale. – Tira fino a domattina. Pensaci, su, come faccio ad andarci
direttamente? Lascio il posto?
– C’è qualche idiota che può soffiarglielo?! – gridò Rubin.
– Non è un problema se qualcuno me lo soffia, è vietato dal regolamento.
Non è mai stato nell’esercito?
A Rubin pulsava così forte la testa che si convinse davvero di essere sul
punto di morire. Vedendogli il viso alterato, il sorvegliante si decise.
– Va bene, ora allontanati, non bussare più. Ci vado di corsa.
E se ne andò sul serio. Rubin ebbe l’impressione che il dolore diminuisse.
Riprese a muoversi a passo ritmato nel corridoio.
Attraverso la memoria riaffioravano ricordi che non avrebbe proprio voluto
ridestare. Dimenticarli significava guarire.
Subito dopo la prigione, per espiare la colpa davanti al Komsomol e
affrettarsi a dimostrare a sé stesso e all’unica classe veramente rivoluzionaria la
propria utilità, Rubin era andato con la pistola sul fianco a collettivizzare un
villaggio.
Quando fuggiva a piedi nudi per tre verste e rispondeva al fuoco dei
contadini montati su tutte le furie, che cosa aveva pensato? “Ecco, sono finito
anch’io nella Guerra civile.” Soltanto.
Era comprensibile! Bisognava distruggere le fosse in cui avevano sotterrato
il grano, impedire ai padroni di macinare la farina e cuocere il pane, di attingere
acqua dal pozzo. E se il bimbo di un padrone moriva – crepassero pure, quei
cani, insieme ai figli –, il pane non si poteva cuocere, bisognava impedirlo. E un
carro solitario con un cavallo macilento, che attraversava all’alba un solitario
villaggio morto, non suscitava pietà, era diventato un’abitudine, come un tram
in città. Un colpo di frusta su un’imposta: – Ci sono defunti? Portateli fuori.
E all’imposta successiva:
– Defunti? Portateli fuori.
E ben presto anche così:
– Ehi! C’è rimasto qualcuno vivo?
Adesso ce l’aveva piantato dentro la testa. Marchiato a fuoco. Bruciava. E a
volte gli sembrava che le sue ferite dipendessero da quello! La prigione fosse
per quello! Le malattie per quello!
Va bene. Era giusto. Ma se aveva capito che era stata una cosa orribile, da
non fare mai più, se per quello aveva già pagato, come poteva liberarsene?
Avrebbe potuto dire: “Oh, ma non c’è mai stato! Adesso facciamo in modo
che non sia mai successo! Fai come se non sia mai accaduto!”
Com’è sfibrante una notte insonne per un’anima triste che ha commesso
tanti errori!
Questa volta fu il sorvegliante a scostare la finestrella. Si era deciso ad
abbandonare il posto di guardia e a fare un salto al comando. A quanto pareva
là dormivano tutti, nessuno aveva alzato la cornetta al suono del telefono.
Il sergente maggiore, appena sveglio, ascoltò il suo rapporto, lo sgridò per
aver lasciato la postazione e, sapendo che l’infermiera stava dormendo con il
tenente, non osò svegliarli.
– Non si può – disse il sorvegliante alla finestrella. – Ci sono andato
direttamente, l’ho riferito. Dicono che non si può. Si deve rinviare a domattina.
– Sto morendo! Muoio! – rantolò Rubin alla finestrella. – Ve la spacco
questa finestrella! Chiami subito il sorvegliante di turno! O faccio lo sciopero
della fame!
– Cosa? Lo sciopero della fame? E chi ti vuole dare da mangiare! – obiettò il
secondino, non a torto. – Fallo domani mattina quando c’è la colazione... Su,
cammina, forza. Chiamo di nuovo il sergente maggiore.
A quei sergenti, tenenti, colonnelli e generali che, sazi, lavoravano con lui e
prendevano lo stipendio non interessava né il destino della bomba atomica né
quello di un detenuto sul punto di crepare.
Ma un detenuto sul punto di crepare doveva essere superiore a tutto questo!
Cercando di non pensare alla nausea e al dolore, Rubin si sforzava di
camminare nel corridoio con il solito passo ritmato. Gli tornò in mente la
favola La spada di Damasco di Krylov. In libertà quella fiaba non aveva attirato
granché la sua attenzione, mentre in prigione ne era rimasto colpito.
Rubin cominciò a sentire una strana debolezza alle gambe, così si sedette al
tavolo e si appoggiò con il petto al bordo.
Più respingeva le ragioni di Sologdin con accanimento, più gli risultava
doloroso rendersi conto che in esse c’era una parte di verità. Sì, c’erano membri
del Komsomol che valevano meno del cartone della loro tessera. E soprattutto
fra le nuove generazioni i principi di virtù erano vacillati, la gente stava
perdendo il senso di ciò che era morale e il senso del bello. I pesci e la società
marcivano dalla testa: da chi avrebbero preso esempio i giovani?
Nelle società antiche sapevano che per ottenere moralità c’era bisogno della
chiesa e di un sacerdote autorevole. Una contadina polacca anche oggi
compierebbe mai un passo serio nella vita senza il consiglio di un prete
cattolico?
Forse ora, per la terra sovietica, più che il canale Volga-Don o la diga
sull’Angara, era importante salvare la moralità della gente!
Come farlo? A quello serviva il Progetto dei Templi civili che Rubin aveva già
abbozzato in prima stesura. Doveva ultimarlo quella notte stessa, finché era in
preda all’insonnia, e poi cercare di farlo uscire dal carcere durante un colloquio.
Fuori lo avrebbero battuto a macchina e mandato al Comitato Centrale del
partito. Mandarlo con la sua firma non si poteva: al Comitato Centrale si
sarebbero offesi di ricevere consigli da un detenuto politico. Ma non si poteva
neanche farlo in modo anonimo. Che lo firmasse pure uno dei suoi amici del
fronte: Rubin sacrificava volentieri la propria gloria per una buona causa.
Sopportando ondate di dolore alla testa, caricò la pipa con tabacco Zolotoe
Runo, ma lo fece solo per abitudine; adesso non soltanto non aveva voglia di
fumare, lo trovava anche disgustoso; accese la pipa e si mise a riesaminare il
progetto.
Con il cappotto direttamente sulla biancheria intima, seduto al tavolo grezzo
e mal piallato cosparso di briciole di pane e di cenere di tabacco, nell’aria
pesante del corridoio non spazzato, lungo il quale ogni tanto frettolosi zek
insonnoliti correvano avanti e indietro per i bisogni notturni, l’autore senza
nome esaminava il progetto altruista da lui abbozzato su vari fogli con una
grafia larga e frettolosa.
Nel preambolo si spiegava la necessità di elevare ancora di più la moralità,
già di per sé alta, della popolazione, di conferire maggiore importanza agli
anniversari rivoluzionari e civili e alle occasioni familiari, attraverso la solennità
rituale degli atti. E per farlo era necessario fondare ovunque dei Templi civili,
grandiosi dal punto di vista architettonico e in grado di dominare il territorio.
Poi, non facendo troppo affidamento sul cervello delle autorità, si formulava
la parte organizzativa in capitoli, suddivisi a loro volta in paragrafi: in centri
abitati di quale dimensione o in quale unità territoriale costruire Templi civili;
in quali date precise officiare; qual era la durata dei singoli riti. Per i giovani
che compivano la maggiore età era previsto uno speciale giuramento di gruppo
davanti al partito, alla patria e ai genitori, con il popolo che affluiva in massa al
tempio.
Nel progetto, in particolare, si insisteva sulle vesti dei servitori dei templi,
che dovevano essere fuori del comune, in quanto espressione della nivea
purezza di chi le indossava. Che le formule rituali fossero studiate in modo da
avere un certo ritmo. Che non si trascurasse nessuno degli organi sensoriali dei
frequentatori del tempio: da un particolare aroma nell’aria a musica e canto
melodiosi, dall’utilizzo di vetri colorati e riflettori ad affreschi alle pareti capaci
di indirizzare i gusti estetici della popolazione, fino all’insieme architettonico
del tempio nella sua interezza.
Ogni parola del progetto andava scelta dolorosamente fra sinonimi, con
raffinatezza. Da una qualsiasi parola incauta persone con vedute ristrette e
superficiali, avrebbero potuto dedurre che l’autore proponeva semplicemente
di ricostruire templi cristiani senza Cristo, ma non era affatto così! Gli amanti
delle analogie storiche avrebbero potuto accusare l’autore di ripetere il culto
dell’Essere Supremo di Robespierre, ma non si trattava affatto di quello, per
niente!
La cosa del Progetto che l’autore considerava più originale era il capitolo sui
nuovi... non sacerdoti, quanto piuttosto, “servitori dei templi”. Riteneva che la
chiave del successo di tutto il progetto dipendesse da quanto si riuscisse o
meno a creare nel paese un corpo di servitori dalla vita irreprensibile e
generosa, che godeva per questa ragione dell’amore e della fiducia del popolo.
Si invitavano i capi del partito a effettuare una selezione di candidati da inviare
ad appositi corsi per servitori di templi, esentandoli da qualsiasi attività in cui
fossero impiegati prima. Una volta superata l’iniziale penuria di servitori, quei
corsi, negli anni sempre più lunghi e approfonditi, avrebbero diffuso un’ampia
cultura e, soprattutto, una grande capacità oratoria. (Il progetto affermava
impavidamente che l’arte oratoria nel nostro paese era arrivata al declino, forse
perché non serviva più convincere nessuno, in quanto tutta la popolazione
appoggiava già senza riserve il proprio Stato.)
Che nessuno accorresse da un detenuto sul punto di morire fuori dell’orario
di lavoro non era per Rubin motivo di stupore. Di casi del genere ne aveva visti
abbastanza al controspionaggio e nelle prigioni di transito. Per questo, quando
alla porta riecheggiò il rumore della chiave, in un primo momento Rubin si
spaventò al pensiero di farsi sorprendere nel pieno della notte impegnato in
un’occupazione non ammessa, cui sarebbe seguita una punizione seccante e
fastidiosa; così raccolse le carte, il libro, il tabacco, e avrebbe voluto
nascondersi in una stanza, ma ormai era tardi: il tarchiato sergente maggiore
con la sua faccia volgare lo aveva visto e lo chiamò dalla soglia spalancata.
Rubin si riprese. E provò subito di nuovo una sensazione di abbandono,
una dolorosa impotenza, sentiva la propria dignità oltraggiata.
– Sergente maggiore – disse, avvicinandosi lentamente al vice del
sorvegliante di turno – sono tre ore che tento di far venire un infermiere.
Presenterò reclamo alla Direzione Carceraria dell’MGB contro l’infermiere di
turno e contro di lei.
Ma il sergente maggiore gli diede una risposta conciliante: – Rubin, prima
era assolutamente impossibile, non dipendeva da me. Andiamo.
Da lui, in effetti, una volta accertato che a smaniare non era un detenuto
qualsiasi, ma uno degli zek più pestiferi, era dipesa soltanto la decisione di
avvisare il tenente. Per un bel pezzo non aveva ricevuto risposta, poi si era
affacciata l’infermiera, che si era subito rintanata dentro. Infine, dal reparto
sanitario era uscito accigliato il tenente che aveva autorizzato il sergente
maggiore a condurre lì Rubin.
A quel punto Rubin si infilò per bene il cappotto e lo abbottonò per coprire
la biancheria. Il sergente maggiore lo condusse attraverso il corridoio
sotterraneo della šaraška, per poi salire con lui fino al cortile della prigione
lungo una scala su cui cadeva fitta una neve farinosa.
In quella notte tranquilla come in un quadro, in cui cadevano incessanti
grossi fiocchi bianchi, tanto che punti confusi e oscuri nella profondità
notturna e nella volta del cielo sembravano decorati da una moltitudine di
colonne candide, il sergente maggiore e Rubin attraversarono il cortile,
lasciando orme profonde nella neve leggera e friabile.
Lì, sotto quel caro cielo nuvoloso di un grigio fumo a causa delle luci
notturne, sentendo sulla barba sollevata e sul viso caldo il contatto infantile e
innocente delle fredde stelline esagonali, Rubin si fermò e chiuse gli occhi. Fu
trafitto dal piacere della quiete tanto più acuto perché breve; da tutta la forza
dell’essere, tutta la felicità di non andare da nessuna parte, di non chiedere
niente, di non volere niente, ma restare soltanto così per un’intera notte,
immobile, beato, benedetto, come gli alberi, e accogliere, accogliere su di sé i
fiocchi di neve.
In quello stesso istante, dalla ferrovia, a meno di un chilometro da Marfino,
giunse il fischio lungo e invadente di una locomotiva, quel particolare fischio
notturno solitario che ti prende l’anima e che allo zenit degli anni ti rammenta
l’infanzia, giacché nell’infanzia prometteva tanto per lo zenit degli anni.
Avesse potuto starsene lì anche solo una mezz’ora, tutto sarebbe sparito,
l’anima e il corpo sarebbero guariti e lui avrebbe composto una tenera poesia
sui fischi delle locomotive nella notte.
Ah, se solo avesse potuto evitare di seguire il soldato di scorta!
Ma il soldato lo stava già squadrando con sospetto: non è che stava
progettando un’evasione notturna?
I piedi di Rubin si diressero là dove era previsto che andassero.
Dopo il sonno ristoratore l’infermiera si era fatta rosea, il sangue le brillava
nelle guance. Sotto il camice bianco che portava slacciato, non indossava la
giubba militare e la gonna, bensì qualcosa di più leggero. Qualunque detenuto
l’avrebbe subito notato, e in un altro momento sarebbe successo anche a
Rubin, ma ora i suoi pensieri non volevano abbassarsi al livello di quella donna
volgare a causa della quale aveva sofferto tutta la notte.
– Mi serve un analgesico e qualcosa contro l’insonnia, però non il Luminal,
ho bisogno di addormentarmi subito.
– Contro l’insonnia non ho niente – fu la risposta automatica e categorica
dell’infermiera.
– Mi serve! – ripeté Rubin con convinzione. – Domani mattina devo
svolgere un lavoro per il ministro e non riesco a addormentarmi.
L’accenno al ministro e la certezza che Rubin sarebbe rimasto lì in piedi a
insistere per quella medicina (mentre il tenente, quasi di sicuro, stava per
tornare da lei) spinsero l’infermiera ad agire come non avrebbe mai fatto: gli
diede il medicinale.
Estrasse da un armadietto una polverina e obbligò Rubin a bere tutto
subito, senza allontanarsi (in base al regolamento medico del carcere, essendo
ogni polverina considerata un’arma, non si poteva dare in mano ai detenuti, ma
soltanto in bocca).
Rubin domandò le ore e, saputo che erano già le tre e mezzo, se ne andò.
Passando di nuovo per il cortile, si voltò a guardare i tigli nella notte, illuminati
in basso dal riflesso delle lampade da cinquecento e da duecento watt della
zona, inspirò profondamente l’aria odorosa di neve, si chinò, attinse a piene
mani un paio di volte dal morbido strato stellato e con quello, leggero,
incorporeo, ghiacciato, si strofinò il viso, il collo, e si riempì la bocca.
La sua anima si unì alla freschezza del mondo.
73
UN CIRCOLO DI OFFESE
La porta tra la camera da letto e la sala da pranzo era aperta, così in mezzo ad
altri suoni secondari riecheggiò chiaramente un forte colpo dell’orologio a
muro.
L’orologio segnava la mezza, ma di quale ora? Adam Rojtman avrebbe
voluto sbirciare quello da polso che ticchettava amichevolmente sul comodino,
ma aveva paura di disturbare la moglie accendendo la luce. Lei dormiva un po’
su un fianco, un po’ distesa sul ventre, con il viso appoggiato contro la spalla
del marito.
Erano sposati già da cinque anni, eppure anche in quello stato di
semincoscienza si sentiva invadere dalla dolcezza di averla accanto, di vederla
dormire in quel modo così buffo, con i piedini sempre ghiacciati, che lui
riscaldava fra le gambe.
Adam si era appena svegliato da un brutto sogno. Avrebbe voluto
riaddormentarsi, ma gli erano venute in mente prima le ultime notizie della
sera precedente, poi i grattacapi al lavoro; lo inondavano pensieri su pensieri,
gli occhi non volevano chiudersi e si era fatta strada in lui quella lucidità
notturna davanti alla quale è inutile tentare di addormentarsi.
Il rumore di passi e di mobili spostati, che la sera prima avevano sentito a
lungo sopra la testa nell’appartamento dei Makarygin, erano finiti da un pezzo.
Dallo spiraglio fra le tendine della finestra, filtrava il debole chiarore
grigiastro della notte.
Disteso in pigiama, privato del sonno, Adam Veniaminovič Rojtman non
sentiva quella solidità di posizione e quella superiorità sulle persone che gli
trasmettevano di giorno le spalline da maggiore dell’MGB e il distintivo del
premio Stalin. Giaceva supino e, come ogni semplice mortale, sentiva che il
mondo era affollato, crudele, e che viverci non era facile.
La sera prima, mentre dai Makarygin regnava l’allegria, era venuto a trovare
Rojtman un suo vecchio amico, pure lui ebreo. Era arrivato senza la moglie, in
ansia, e aveva annunciato nuovi casi di angherie, restrizioni, radiazioni dal
lavoro e persino espulsioni.
Nulla di nuovo. Era cominciato tutto la primavera precedente, dapprincipio
nella critica teatrale, dove era sembrato solo un’innocua indicazione di
cognomi ebrei fra parentesi. Poi era passato alla letteratura. In un giornale
pettegolo, di marchette, che si occupava di tutto fuorché di quello di sua
competenza, la letteratura, qualcuno aveva sussurrato una parolina velenosa:
cosmopolita. L’avevano trovata! Una parola stupenda e fiera, che univa il mondo,
con la quale un tempo si incoronavano geni fuori del comune – Dante, Goethe,
Byron – in quel giornaletto appariva opaca, si era raggrinzita, veniva sibilata e
aveva assunto il significato di giudeo.
Poi la cosa si era spinta oltre, quella parola aveva cominciato a insinuarsi con
pudore nelle cartelle, dietro a porte chiuse.
Ma ora quell’alito freddo stava già toccando i circoli tecnici. Rojtman, che
marciava inflessibile, brillante, verso la gloria, proprio nel corso dell’ultimo
mese aveva sentito la sua posizione vacillare.
Possibile che la memoria lo tradisse? Durante la rivoluzione, e per molto
tempo ancora, in qualche modo la parola “ebreo” aveva suscitato molta più
fiducia di “russo”. Un russo veniva controllato ulteriormente: chi erano i suoi
genitori? con quali redditi vivevano prima del 1917? Un ebreo non aveva
bisogno di nessun controllo: gli ebrei erano tutti in massa per la rivoluzione.
Finché poi... senza farsi notare, nascondendosi dietro personaggi secondari,
aveva raccolto la frusta del persecutore degli israeliti Iosif Stalin.
Quando un gruppo viene perseguitato perché formato da persone che prima
erano state persecutori o membri d’una casta, o per le opinioni politiche o per
la cerchia di conoscenze, si trova sempre una giustificazione ragionevole (o
pseudo-ragionevole?). Hai scelto il tuo destino, potevi anche non stare in quel
gruppo. Ma la nazionalità?
(Il suo interlocutore notturno, a quel punto, replicò dentro di lui:
“Nemmeno l’origine sociale si può scegliere. Eppure ti perseguitano anche per
quello.”)
No, la principale offesa per Rojtman era che tu volevi essere con tutto il
cuore uno dei nostri, come chiunque altro, mentre loro non ti volevano, ti
respingevano, ti dicevano: sei un estraneo. Sei un dannato. Sei un giudeo.
L’orologio a muro della sala da pranzo cominciò a battere con grande
dignità, senza alcuna fretta, ma dopo quattro colpi tacque. Rojtman se ne
aspettava un quinto e si rallegrò che fossero solo le quattro. Faceva ancora in
tempo a addormentarsi.
Si mosse. La moglie mormorò nel sonno, si girò sull’altro fianco, e con la
schiena si appoggiò istintivamente al marito.
Nella sala da pranzo, tranquillo tranquillo, dormiva il figlio. Non strillava,
non chiamava.
Il loro bambino di tre anni, tanto intelligente, era l’orgoglio dei suoi giovani
genitori. Adam Veniaminovič raccontava con entusiasmo le abitudini e le
birichinate del piccolo persino ai detenuti dell’Acustico, non comprendendo,
con la tipica insensibilità delle persone felici, che ascoltarlo per loro che erano
stati privati della paternità rappresentava un dolore. (Per lui era un argomento
comodo, con cui avvicinarsi, ma anche neutrale.) Il figlio parlottava senza sosta,
ma aveva ancora una pronuncia imprecisa: di giorno imitava la madre
(originaria della regione del Volga e pronunciava nettamente le “o” toniche)
mentre di sera il padre, di ritorno dal lavoro. (Adam non aveva soltanto la erre
moscia, ma anche altri spiacevoli difetti di pronuncia.)
Come spesso accade nella vita, quando la felicità arriva, non ha limiti.
L’amore e il matrimonio, poi la nascita del figlio, erano giunti per Rojtman
assieme alla fine della guerra e al premio Stalin. Del resto, anche la guerra era
trascorsa senza grossi problemi: nella tranquilla Baškirija, con le razioni
abbondanti dell’NKVD, Rojtman e i suoi attuali amici dell’istituto di Marfino
avevano messo assieme il primo sistema di codificazione telefonica. Adesso
quel sistema sembrava primitivo, ma allora aveva fatto ottenere loro il premio
Stalin.
Con quanto fervore l’avevano creato! Dov’erano finiti quell’impeto, quelle
ricerche, quegli slanci?
Con la perspicacia di una buia veglia notturna, in cui la vista non si lascia
distrarre da niente e si rivolge al nostro interno, Rojtman d’un tratto capì cosa
gli era mancato negli ultimi anni. Di sicuro il fatto che, adesso, tutto ciò che
faceva non lo faceva lui stesso.
Rojtman non si era nemmeno accorto quando e come fosse scivolato dal
ruolo di creatore a quello di capo dei creatori.
Come scottato, staccò la mano dalla moglie e spostò il cuscino un po’ più in
alto.
Sì! Sì! Sì! Era allettante, facile, il sabato sera, prima di andarsene a trascorrere
a casa una giornata e mezza, quando era già invaso dalla sensazione
dell’intimità domestica e dai progetti domenicali della famiglia, dire: “Allora,
Valentin Martynyč, domani pensi a come possiamo eliminare le distorsioni non
lineari. Lev Grigor’evič! Lei dia un’occhiata a quell’articolo del ‘Proceedings’.
Butti giù i concetti fondamentali.” Il lunedì mattina, ristorato, tornava al lavoro
e, come nelle favole, sulla scrivania trovava un riassunto in russo dell’articolo
del “Proceedings”, mentre Prjančikov gli faceva rapporto sul modo per
eliminare le distorsioni non lineari o addirittura le aveva già eliminate durante
la domenica.
Molto comodo!
I detenuti non se la prendevano con Rojtman, anzi, gli volevano bene.
Perché con loro lui non si comportava come un carceriere, ma soltanto da
brava persona.
Tuttavia la creazione, la gioia di congetture brillanti e l’amarezza delle
sconfitte inaspettate l’avevano abbandonato!
Liberatosi della coperta, si tirò su a sedere, strinse le ginocchia al petto e vi
appoggiò il mento.
Di che cosa si era occupato in tutti quegli anni? Di intrighi. Della lotta per la
supremazia all’istituto. Con un gruppo di amici aveva fatto di tutto per
screditare Jakonov e farlo cadere: ritenevano che lui li mettesse in secondo
piano con la sua autorevolezza, con il suo aplomb, e che avrebbe ricevuto il
premio Stalin da solo. Approfittando di qualche macchia nel passato di
Jakonov che, nonostante lui non smettesse di insistere, gli impediva di essere
accettato nel partito, i “giovani” guidavano ogni volta l’assalto durante le
assemblee, dove gli chiedevano conto di qualcosa, per poi pregarlo di uscire o
discutere subito davanti a lui (“votano solo i membri del partito”), ed
emettevano una risoluzione. Ogni volta Jakonov appariva colpevole. In certi
momenti, a Rojtman dispiaceva quasi per lui. Ma non c’era altra scelta.
Come si era rivoltato tutto in modo così ostile! Nel linciare Jakonov i
“giovani” si erano dimenticati che, su cinque, quattro di loro erano ebrei. E
adesso lui da ogni tribuna non si stancava di ricordare che il cosmopolitismo
era un acerrimo nemico per la patria socialista.
Il giorno prima, dopo l’ira del ministro, in una giornata infausta per l’istituto
di Marfino, il detenuto Markušev aveva avanzato l’idea che i due sistemi, il
clipper e il vocoder, potessero fondersi. Era una sciocchezza, ma si poteva
vendere ai capi come una riforma radicale, e Jakonov aveva subito dato
disposizione di trasferire l’unità del vocoder al Sette e spostarci anche
Prjančikov. Alla presenza di Selivanovskij, Rojtman si era affrettato a
dichiararsi contrario, a opporsi, ma Jakonov gli aveva dato una pacca sulla
spalla con indulgenza, come si fa con un amico troppo irruente.
– Adam Veniaminovič! Non vorrà far credere al viceministro che mette i
suoi interessi personali al di sopra di quelli della Sezione di Tecnica speciale?
Stava proprio in quello l’aspetto tragico della situazione: ti pestavano sul
muso e non potevi piangere! Ti strangolavano in pieno giorno ed esigevano gli
applausi!
All’improvviso l’orologio batté le cinque: Rojtman non aveva sentito
indicare la mezza.
Non solo non aveva voglia di dormire, cominciava a trovare scomodo anche
il letto.
Con estrema cautela, un piede dopo l’altro, scivolò giù dal letto e infilò le
pantofole. Evitando in silenzio una sedia sul suo cammino, si avvicinò alla
finestra e scostò ulteriormente le tendine di seta.
Ooh, quanta neve era caduta!
Proprio al di là del cortile, si trovava l’angolo più remoto e abbandonato del
giardino Neskučnyj, un burrone con i suoi ripidi versanti ricoperti di neve, i
solenni abeti anch’essi innevati. E lungo gli infissi delle finestre, sulla parte
esterna, si erano attaccati al vetro piccoli pendii di neve soffice.
La nevicata, però, si stava esaurendo.
Rojtman sentì le ginocchia appoggiate al radiatore sotto il davanzale scottare
leggermente.
C’era un altro motivo per cui negli ultimi anni non aveva fatto progressi
nella scienza: era sommerso a non finire di riunioni e carte. Ogni lunedì, c’era
Educazione politica; ogni venerdì, Educazione tecnica; due volte al mese, le
assemblee del partito; altre due volte, le riunioni dell’ufficio del partito, e altre
due o tre sere ogni mese, veniva convocato al ministero; una volta al mese,
organizzavano una conferenza speciale sulla vigilanza; ogni mese, doveva
compilare il piano di lavoro scientifico; ogni mese, mandare il rendiconto; tre
volte al mese, chissà perché, compilare le schede di valutazione di tutti i
detenuti (un lavoro che durava una giornata intera). E ogni mezz’ora
arrivavano subordinati con richieste: ogni condensatore grande come una
caramella, ogni metro di cavo, ogni valvola doveva ottenere il visto del capo del
laboratorio, altrimenti il magazzino non li consegnava.
Ah, avrebbe dovuto mandare alla malora le lungaggini burocratiche, la lotta
per la supremazia! Dedicarsi di persona agli schemi, afferrare il saldatore e
captare nella finestrella verde dell’oscillografo elettronico la curva che sperava:
allora sì che avrebbe potuto cantare spensierato il boogie-woogie come
Prjančikov! A trentun anni, quanto sarebbe stato felice di non sentirsi addosso
quelle spalline opprimenti, dimenticare la sobrietà esteriore, essere come un
ragazzino che costruisce qualcosa e ci fantastica sopra. Disse quelle parole,
“come un ragazzino”, e per un capriccio della memoria in lui riaffiorò un
ricordo di quei tempi: con la spietata chiarezza di cui è capace la mente di
notte, ricordò un episodio a lungo dimenticato, che per molti anni non era più
emerso.
Il dodicenne Adam, con la cravatta da pioniere, nobilmente offeso, stava di
fronte all’assemblea dei pionieri di tutta la scuola, e con la voce tremante
accusava, esigeva di cacciare dai giovani pionieri e dalla scuola sovietica un
agente del nemico di classe. Prima di lui erano intervenuti Mit’ka Stitel’man e
Miška Ljuksemburg, e tutti avevano denunciato il loro compagno Oleg
Roždestvenskij di antisemitismo, dicevano che frequentava la chiesa, che aveva
un’origine di classe estranea, e lanciavano sul ragazzino tremante appena
accusato sguardi annientatori.
Era la fine degli anni Venti e i ragazzi vivevano ancora di politica, giornali
murali, autogoverno, dibattiti. Abitavano in una città del sud e gli ebrei
rappresentavano circa la metà della popolazione. Sebbene i ragazzi fossero figli
di avvocati e dentisti, e talvolta anche di piccoli commercianti, si consideravano
tutti, con accanimento e convinzione, dei proletari. Oleg, invece, evitava ogni
discorso di politica, cantava piano nel coro l’Internazionale ed era entrato
chiaramente controvoglia nei pionieri. I piccoli entusiasti sospettavano da
tempo in lui un controrivoluzionario. L’avevano tenuto d’occhio e beccato.
Non potevano dimostrarne le origini, ma una volta Oleg c’era cascato, aveva
detto: “Ogni uomo ha il diritto di dire ciò che pensa.” “Come, tutto?” gli era
saltato addosso Stitel’man. “Nikola mi ha chiamato ‘muso giudeo’, può dire
anche questo?”
Era nato da lì tutto il caso contro Oleg! Si erano trovati due amici-delatori,
Šurik Burikov e Šurik Vorožbit, che avevano visto il colpevole entrare con la
madre in chiesa e venire a scuola con la crocetta al collo. Erano cominciate le
riunioni, le assemblee del comitato degli allievi, del comitato di gruppo, gli
incontri dei pionieri, le adunate, e dappertutto intervenivano dodicenni
Robespierre che stigmatizzavano di fronte alla massa di scolari il complice
degli antisemiti, promotore dell’oppio religioso, che già da due settimane non
mangiava per il terrore, nascondeva a casa di essere stato espulso dai pionieri e
presto lo sarebbe stato anche da scuola.
Adam Rojtman non era il fautore di quella cosa, lo avevano tirato dentro,
ma per l’odiosa vergogna le guance gli avvampavano ancora adesso.
Un circolo di offese! Un circolo di offese! E non c’era via d’uscita, come non
ce n’era dalla lite con Jakonov.
Da chi bisognava cominciare a correggere il mondo? Dagli altri? O da sé
stessi?
Gli erano già montati nella testa quella pesantezza e nel petto quel senso di
vuoto utili a addormentarsi.
Tornò in camera e si sdraiò piano sotto la coperta. Doveva assolutamente
prendere sonno prima che l’orologio battesse le sei.
Bisognava darci dentro con la fonoscopia già dalla mattina dopo! Un
colossale asso nella manica! In caso di successo quell’impresa poteva crescere
fino a dar vita a un istituto scientifico distaccato...
74
L’ALBA DEL LUNEDÌ
Š
Il diavolo ci aveva messo lo zampino e Šikin, un padre di famiglia fino ad
allora esemplare, aveva perso la testa per quella segretaria con i suoi trentotto
anni trascurati e le volgari gambe grosse, alla quale lui arrivava soltanto alle
spalle. Con lei aveva scoperto qualcosa che non aveva mai provato. Aspettava
con ansia il giorno in cui lei arrivava e aveva trascurato a tal punto ogni cautela,
che durante i lavori di ristrutturazione dell’ufficio, in un locale provvisorio,
non si era trattenuto: erano stati sentiti e persino visti attraverso una fessura da
due detenuti – un carpentiere e un intonachista. La cosa si era venuta a sapere,
gli zek se la ridevano del loro “pastore spirituale” e avrebbero voluto scrivere
una lettera alla moglie, ma non conoscevano l’indirizzo. Così lo avevano
riferito ai capi.
Tuttavia, di rovesciare l’oper non c’era stato modo. Il generale di divisione
Oskolupov si era limitato a rimproverare Šikin, non tanto per la relazione con
la segretaria (quello riguardava esclusivamente i princìpi morali della
segretaria), né perché i rapporti avvenivano durante l’orario di lavoro (la
giornata lavorativa di Šikin non aveva orari prestabiliti), quanto per essersi
fatto beccare dai detenuti.
Lunedì 26 dicembre il maggiore Šikin era giunto al lavoro poco dopo le nove
del mattino, ma anche se vi fosse arrivato all’ora di pranzo, nessuno avrebbe
potuto fargli un’osservazione.
Al secondo piano, di fronte all’ufficio di Jakonov, nel muro, c’era
un’incavatura o una rientranza che non era mai stata illuminata da una
lampadina elettrica; vi si aprivano due porte: una dava sull’ufficio di Šikin,
l’altra sul locale del Comitato di partito. Entrambe erano rivestite di pelle nera
e prive di scritte. La loro vicinanza nella buia incavatura era per Šikin assai
propizia: impediva di vedere in quale delle due si infilassero le persone.
Quel giorno, mentre si avvicinava al proprio ufficio, Šikin incontrò il
segretario del Comitato di partito, Stepanov, un uomo magro ed emaciato, con
gli occhiali dai riflessi plumbei. Si scambiarono una stretta di mano. A bassa
voce Stepanov gli propose:
– Compagno Šikin! – Non si rivolgeva mai a nessuno con il nome e il
patronimico. – Vieni a tirare di stecca?
L’invito alludeva al biliardo che si trovava nella stanza del Comitato di
partito. Šikin a volte si fermava lì a tirare un po’ di stecca, ma quel giorno lo
attendevano affari molto importanti, così scosse con dignità la testa inargentata.
Stepanov sospirò e se ne andò a giocare da solo.
Entrato nell’ufficio, Šikin posò con cura la borsa sulla scrivania. (Le carte di
Šikin, tutte confidenziali e di massima segretezza, venivano custodite in
cassaforte e non si potevano portare fuori dall’ufficio, ma siccome andare in
giro senza borsa sulla gente non faceva un grande effetto, Šikin ci infilava
“Ogonëk”, “Krokodil” e “Intorno al mondo” e se la portava a casa;
l’abbonamento gli sarebbe costato almeno un copeco per ciascuna rivista.)
Quindi, attraversò il tappeto e si avvicinò alla finestra, dove rimase un istante,
per poi tornare alla porta. Era come se i pensieri lo avessero atteso là,
nascondendosi nell’ufficio, dietro la cassaforte, l’armadio, il divano, e adesso lo
accerchiassero tutti insieme e reclamassero la sua attenzione.
Ce n’erano di cose da fare! Ce n’erano tante!
Si strofinò con le mani i corti capelli a spazzola sempre più grigi. Prima di
tutto, bisognava controllare un’importante iniziativa da lui ponderata per molti
mesi, approvata di recente da Jakonov, adottata dalla direzione, spiegata ai
laboratori, ma non ancora ben avviata. Si trattava del nuovo ordine di gestione
dei registri segreti. Analizzando in modo scrupoloso l’organizzazione della
vigilanza all’istituto di Marfino, il maggiore Šikin aveva appurato, e ne andava
molto fiero, che in sostanza una vera segretezza non c’era ancora! Vero, ogni
locale era dotato di alcuni armadi ignifughi di acciaio alti quanto una persona,
in numero di cinquanta pezzi totali, portati via come trofei dalla ditta Lorenz;
vero, tutti i documenti segreti, parzialmente segreti e vicini a quelli segreti
venivano chiusi negli armadi alla presenza di speciali sorveglianti durante
l’intervallo del pranzo, quello della cena e la notte; ma la tragica negligenza
stava nel fatto che venivano custoditi soltanto i lavori ultimati e quelli in corso.
Dentro gli armadi non avevano ancora trovato posto i primi barlumi, le prime
intuizioni, le ipotesi non chiare, tutto ciò da cui nascevano i lavori dell’anno a
venire, vale a dire le cose più promettenti. Perché lo spionaggio americano
potesse cogliere l’indirizzo del nostro lavoro, a un’abile spia che si intendesse
di tecnica era sufficiente entrare nella zona superando il filo spinato, trovare da
qualche parte nel secchio dei rifiuti un pezzo di carta assorbente con un certo
disegno o uno schema, e riuscire dalla zona. Essendo un uomo coscienzioso,
una volta il maggiore Šikin aveva obbligato lo spazzino Egorov a controllare in
sua presenza il bidone dell’immondizia nel cortile. Erano stati rinvenuti due
pezzetti di carta assorbente incrostati di neve e di cenere, sui quali erano stati
chiaramente tracciati degli schemi. Šikin non aveva avuto affatto schifo a
prendere quella porcheria per gli angoli e portarla sulla scrivania del colonello
Jakonov. E per Jakonov non c’era stata via d’uscita! Così il progetto di Šikin
sull’istituzione di registri segreti individuali e nominativi era stato accettato.
Registri appositi erano stati subito acquistati ai magazzini di cancelleria
dell’MGB: ciascuno era formato da duecento pagine grandi, numerato,
impuntito con un cordoncino e sigillato. Si prevedeva di distribuirne a tutti,
tranne ai carpentieri, ai tornitori e allo spazzino. Era obbligatorio che ciascuno
scrivesse esclusivamente sulle pagine del proprio registro. Oltre all’abolizione
delle pericolose brutte copie, stava prendendo forma anche una seconda
iniziativa: il controllo del pensiero! Poiché ogni giorno sul registro andava
inserita la data, il maggiore Šikin avrebbe potuto controllare ogni recluso:
quanto avesse pensato il mercoledì e che cosa avesse escogitato di nuovo il
venerdì. Duecentocinquanta registri del genere sarebbero stati altrettanti Šikin
che incombevano con insistenza sulla testa di ogni detenuto. I reclusi sono
furbi e pigri, cercano sempre, non appena possibile, di non lavorare. Un
operaio si controlla in base alla produzione. Ecco in che cosa consisteva
l’invenzione del maggiore Šikin: si potevano controllare gli ingegneri,
controllare gli scienziati! (Peccato che agli operčekisti non assegnavano il premio
Stalin!) Quel giorno Šikin doveva proprio verificare che fossero stati distribuiti
i registri e tutti avessero cominciato a usarli.
Un’altra preoccupazione odierna di Šikin era quella di compilare
definitivamente l’elenco dei detenuti da tradurre in altro luogo, il cui
spostamento era stato previsto dalla Direzione carceraria in quei giorni, e
accertarsi quando fissare di preciso il trasporto.
Impegnava ancora Šikin un caso partito da lui in pompa magna, ma che per
il momento non si era sviluppato granché: l’“affare del tornio rotto”. Dieci
detenuti avevano trascinato un tornio dal laboratorio n. 3 fino alle officine
meccaniche, e adesso quello aveva un’incrinatura sul basamento. Dopo una
settimana di indagini erano già state scritte più di ottanta pagine di protocolli,
ma la verità non saltava fuori in nessun modo: i detenuti implicati non erano
più dei novellini.
Bisognava anche svolgere un’indagine per capire da dove provenisse il libro
di Dickens di cui parlava Doronin in una sua denuncia, letto nella stanza
semicircolare soprattutto da Abramson. Convocare per un interrogatorio
Abramson, il recidivo, sarebbe stata una perdita di tempo. Bisognava convocare
i liberi della sua cerchia e spaventarli subito dicendo che era venuto fuori tutto,
che lui aveva confessato.
Quante cose aveva da fare oggi Šikin! (E non sapeva ancora quali novità gli
avrebbero riferito gli informatori! Non sapeva che avrebbe dovuto vederci
chiaro nel dileggio alla giustizia perpetrato con lo spettacolo del “Processo
contro il principe Igor”!). Šikin si strofinò disperato le tempie e la fronte in
modo che tutta quella massa di pensieri trovasse posto e si sistemasse.
Non sapendo da dove cominciare, decise di “uscire fra le masse”, cioè andò
a fare due passi in corridoio nella speranza di incontrare qualche informatore
che, con una mossa di sopracciglia, gli facesse capire di avere una denuncia così
urgente che non poteva attendere di essere riferita il giorno prefissato.
Era appena arrivato al tavolo del sorvegliante di turno, quando lo udì
parlare di un nuovo gruppo al telefono.
Cosa? Quanta fretta! Era bastata una domenica di assenza perché
all’impianto formassero un nuovo gruppo?
Il sorvegliante di turno gli raccontò ogni cosa.
Fu un colpo tremendo! All’impianto c’erano stati il viceministro e dei
generali, e Šikin non era presente! La stizza si impadronì del maggiore. Aveva
dato al viceministro motivo di pensare che non si preoccupava della vigilanza!
E non aveva potuto metterli in guardia, consigliarli per tempo: non si doveva
assolutamente includere in un gruppo di tale responsabilità quel maledetto
Rubin, un doppiogiochista, un uomo falso fin nel midollo. Giurava di credere
nella vittoria del comunismo, ma poi si rifiutava di diventare informatore! E il
mascalzone portava anche quella barba provocatoria! Bisognava radergliela!
Affrettandosi con lentezza, i passetti cauti nei piedini dalle scarpe infantili,
quel testone di Šikin si diresse verso la stanza n. 21.
La possibilità di contrastare Rubin, comunque, esisteva: in quei giorni Lev
aveva presentato alla Corte Suprema l’ennesima domanda di revisione del suo
caso. Dipendeva da Šikin accompagnare la domanda con note personali
favorevoli o nettamente sfavorevoli (come le volte precedenti).
La porta n. 21 era liscia, senza pannelli di vetro. Il maggiore le diede una
spinta per entrare, ma la trovò chiusa. Bussò. Non si udirono passi, eppure
all’improvviso la porta si aprì. Sulla soglia c’era Smolosidov con il suo
malevolo ciuffo nero. Vedendo Šikin, non si mosse e non aprì ulteriormente la
porta.
– Buongiorno – disse Šikin, titubante; non era abituato a una simile
accoglienza. Smolosidov era addirittura più operčekista dello stesso Šikin. Il nero
Smolosidov, con le braccia storte leggermente staccate dal corpo, aveva assunto
una posizione da pugile. E taceva.
– Io... A me... – si confuse Šikin. – Mi faccia entrare, devo controllare il
vostro gruppo.
Smolosidov indietreggiò di mezzo passo e, continuando a ostruire l’ingresso,
gli indicò qualcosa con la mano. Šikin si infilò a fatica nello stretto spiraglio e
si voltò a guardare ciò che il dito di Smolosidov indicava. Sull’altro battente
della porta, all’interno, era attaccato un foglio:
Elenco delle persone ammesse nella stanza n. 21:
1. Il viceministro dell’MGB: Selivanovskij;
2. Il caposezione: generale di divisione Bul’banjuk;
3. Il caposezione: generale di divisione Oskolupov;
4. Il capogruppo: ingegner maggiore Rojtman;
5. Il tenente Smolosidov;
6. Il detenuto Rubin.
Approvato dal ministro della Sicurezza di Stato Abakumov
Con reverenziale trepidazione Šikin riuscì nel corridoio. – Io dovrei... mi
chiami Rubin... – bisbigliò.
– Non si può! – si oppose Smolosidov, anche lui bisbigliando. E chiuse la
porta a chiave.
77
DECISIONE PRESA
All’inizio, nella vita dei liberi di Marfino il sindacato aveva avuto un ruolo
basilare.
Chi non conosce quella leva della produzione socialista? Chi sa essere tanto
generoso da chiedere al governo di allungare giornata e settimana lavorative?
Di alzare la quota di lavoro e abbassare la paga? I cittadini non avevano da
mangiare o dove vivere (spesso né l’uno né l’altro): chi correva loro in aiuto se
non il sindacato, autorizzando i suoi membri a scavare orti collettivi nei giorni
liberi e a costruire case statali a tempo perso? Tutte le conquiste della
rivoluzione e la solida posizione della dirigenza si basavano sui sindacati.
Nessuno meglio di un’assemblea sindacale poteva esigere dall’amministrazione
la cacciata di un collega querelante in cerca di giustizia che l’amministrazione
non era in grado di licenziare in altro modo. Non c’era firma su atti di
dismissione di beni inadatti all’uso statale, ma ancora adatti alla vita domestica
del direttore, tanto candida e cristallina quanto quella del presidente del
comitato sindacale di zona. Inoltre, i sindacati vivevano di mezzi propri, grazie
a quel trentesimo punto percentuale della paga dei lavoratori che lo Stato non
poteva aggiungere al ventinove percento di ritenute fra prestito e tasse.
In piccolo e in grande, i sindacati effettivamente erano diventati una
quotidiana scuola di comunismo.
Eppure, a Marfino, il sindacato era stato abolito. Era andata così: un
eminente compagno del comitato cittadino moscovita del partito aveva saputo
della sua esistenza e, stupito, aveva detto: – Ma che fate? – senza nemmeno
aggiungere “compagni”. – Sento puzza di trockijsmo! Marfino è un’unità
militare, che c’entra il sindacato?
Il giorno stesso il sindacato a Marfino era stato abrogato. Tuttavia, la vita
all’istituto non era rimasta sconvolta minimamente! L’unica che continuava a
crescere era l’importanza dell’organizzazione di partito, già notevole anche
prima. Il comitato regionale del partito aveva ritenuto necessario avere a
Marfino un segretario esentato da altri compiti. Dopo la consultazione di
alcuni questionari presentati dall’ufficio del personale, il comitato regionale
aveva stabilito di raccomandare per quell’incarico
Boris Sergeevič Stepanov, anno di nascita 1900, originario del
villaggio di Lupači, distretto di Bobrov; estrazione sociale,
figlio di braccianti; dopo la rivoluzione, poliziotto rurale; privo
di qualifica professionale; stato sociale, impiegato; istruzione,
quarta classe e scuola di partito biennale; membro del partito
dal 1921; funzionario di partito dal 1923; ligio alla linea di
partito; mai all’opposizione; mai nelle truppe e nelle istituzioni
dei governi bianchi; mai parte del movimento rivoluzionario e
partigiano; mai sotto occupazione; mai all’estero; lingue
straniere conosciute, nessuna; lingue dei popoli dell’Urss
conosciute, nessuna; trauma da bombardamento alla testa;
ordine della “Bandiera Rossa” e medaglia “Per la vittoria sulla
Germania nella Guerra patriottica”.
I giorni in cui era stato raccomandato dal comitato regionale, Stepanov si
trovava nella provincia di Volokolamsk in veste di agitatore per il raccolto.
Approfittando di ogni minuto di riposo dei kolchoziani, si sedessero questi a
pranzare o solo a fumare un po’, li radunava in fretta sul campo (la sera li
riuniva anche in direzione) e spiegava loro instancabilmente, alla luce di una
trionfante lettura di Marx-Engels-Lenin-Stalin, l’importanza di seminare ogni
anno la terra e, per giunta, con grano di ottima qualità; affinché il grano
crescesse in quantità auspicabilmente maggiore di quanto ne fosse stato
seminato; affinché in seguito fosse raccolto senza perdite e ruberie e
consegnato il più in fretta possibile allo Stato. Non conoscendo riposo, passava
subito ai trattoristi e spiegava loro, alla luce della stessa immortale lettura,
l’importanza di fare economia di combustibile, avere un occhio di riguardo per
i mezzi materiali, cancellare completamente i tempi morti, e anche se
malvolentieri rispondeva alle loro domande sulla pessima qualità delle
riparazioni e sulla penuria di indumenti da lavoro.
Nel frattempo, a Marfino, la riunione generale del partito accettava con
passione la raccomandazione del comitato regionale ed eleggeva all’unanimità
Stepanov come segretario esentato, senza nemmeno averlo visto. In quegli
stessi giorni, nella provincia di Volokolamsk in veste di propagandista era stato
mandato un lavoratore di una cooperativa della provincia di Egor’evsk rimosso
per furto, mentre a Marfino si preparava per Stepanov un ufficio vicino a
quello dell’oper, e lui si apprestava a entrare in servizio.
Aveva cominciato prendendo le consegne dal suo predecessore, il tenente
Klykačëv, un segretario non esentato. Klykačëv era tutt’ossa, una specie di
levriero vivace e instancabile. Riusciva a dirigere il laboratorio di
decodificazione, controllare i gruppi crittografico e statistico, tenere il
seminario del Komsomol, essere l’anima del “gruppo dei giovani” e, oltre a
tutto questo, avere il ruolo di segretario del Comitato del partito. Sebbene i
superiori definissero Klykačëv esigente, e i subalterni pedante, il nuovo
segretario aveva sospettato fin da subito che all’istituto di Marfino le questioni
di partito venissero trascurate. Perché il lavoro di partito esigeva l’uomo nella
sua interezza.
Era così a quanto pareva. Le consegne erano durate una settimana. Senza
uscire neanche una volta dall’ufficio, Stepanov aveva esaminato fino all’ultima
carta tutto ciò che riguardava ogni iscritto al partito, che aveva voluto
conoscere prima attraverso il loro fascicolo personale, e solo dopo di persona.
Klykačëv si era sentito addosso la mano per nulla leggera del nuovo segretario.
Ogni errore ne metteva in luce un altro. Per non parlare dell’incompletezza
dei dati contenuti nei questionari, dell’insieme di informazioni dei fascicoli
personali, della mancanza di note distintive su ogni membro e candidato. In
tutte quelle iniziative si evidenziava un vizio generale: venivano realizzate, ma
non registrate in modo documentato, tanto da apparire quasi illusorie.
– Ma chi ci crede? Chi può credere che queste iniziative siano state davvero
realizzate? – esclamava Stepanov, la mano con la papirosa fumante sopra la testa
calva.
E spiegava con pazienza a Klykačëv che tutto quello era stato fatto sulla carta
(poiché affermato solo a parole) e non nella realtà (cioè sotto forma di
protocolli).
Per esempio, che senso aveva che gli sportivi dell’istituto (il discorso,
naturalmente, non riguardava i detenuti) giocassero a pallavolo ogni pausa
pranzo (avendo persino modo di intaccare parte del tempo del lavoro)? Forse
era così. Forse giocavano davvero. Ma né lui né Klykačëv né qualsiasi altra
persona credendoci sarebbe uscita nel cortile a controllare che vi rimbalzasse la
palla. Perché dunque limitare l’esperienza del loro gioco solo a quei
pallavolisti? Perché non condividerla su un giornale da parete specializzato in
cultura fisica intitolato “La palla rossa” o, che so, “L’onore dell’atleta
Dinamo”? Se poi Klykačëv avesse staccato con cura quel giornale dalla parete e
l’avesse inserito nella documentazione del partito, in qualsivoglia ispezione non
sarebbe mai sorto il dubbio che l’iniziativa del “gioco della pallavolo” non
fosse stata realizzata e diretta dal loro partito. Di quei tempi, chi poteva
credere a Klykačëv sulla parola?
E così in tutto, proprio in tutto. “Le parole non fanno fatti!” diceva
Stepanov e svolgeva il proprio dovere basandosi su quel proverbio perspicace.
Come un prete polacco convinto che mentire in confessione non sia
possibile, Stepanov non si sognava proprio che si potesse fornire una
documentazione falsa.
Il pelle e ossa Klykačëv, però, sempre di corsa, non si metteva a discutere
con lui, ma anzi, gli dava pienamente ragione, con gratitudine, e da lui
imparava. Così Stepanov si era addolcito in fretta nei suoi confronti,
dimostrando di non essere poi tanto cattivo. Aveva ascoltato con attenzione i
timori di Klykačëv sul fatto che a capo di quell’importante istituto segreto ci
fosse l’ingegnere colonnello Jakonov, un uomo dalla biografia dubbia, in parole
povere non uno dei nostri. E si era messo sul chi vive. Aveva scelto Klykačëv
come suo braccio destro, gli aveva ordinato di passare al Comitato di partito
un po’ più spesso e gli faceva prediche con indulgenza dall’alto della sua
esperienza.
Così Klykačëv aveva imparato a conoscere il segretario prima di tutti, e da
vicino. Prendendo spunto dalla sua lingua velenosa, i “giovani” avevano
cominciato a chiamare il segretario di partito il “Pastore”. Ma era stato proprio
grazie a Klykačëv se i rapporti fra il Pastore e i “giovani” si erano fatti
abbastanza buoni. Questi ultimi avevano capito in fretta che era di gran lunga
più comodo avere un segretario di partito che non fosse apertamente dei loro,
un uomo di legge estraneo e imparziale.
E Stepanov era davvero un uomo di legge! Se qualcuno gli diceva che
bisognava dispiacersi per qualcun altro, che non era il caso di essere troppo
rigidi, ma dimostrare indulgenza, un solco addolorato gli tagliava la fronte, resa
più alta dall’assenza di capelli all’attaccatura, e le spalle si ingobbivano come
sotto un nuovo peso. Ma, infiammato da una convinzione di fuoco, Stepanov
trovava in sé la forza di raddrizzarsi, girarsi bruscamente verso il suo
interlocutore e con i riflessi delle finestre che gli guizzavano come quadratini
bianchi sul vetro plumbeo degli occhiali, replicava:
– Compagni! Compagni! Che mi tocca sentire! Come osate dire certe cose!
Ricordate: bisogna sostenere sempre la legge! Sostenerla anche se può pesare!!
Sostenerla fino allo stremo delle forze! Solo così, solo in questo modo potrete
aiutare davvero colui per il quale avevate intenzione di violarla! Perché la legge
è stabilita proprio per servire la società e l’uomo, e noi spesso questo non lo
capiamo e ciechi vogliamo aggirarla!
Dal canto suo anche Stepanov era soddisfatto dei “giovani”, così propensi
alle riunioni di partito e alla critica di partito. In loro vedeva il nucleo di quel
collettivo sano che lui si sforzava di formare in ogni luogo in cui andava a
lavorare. Se il collettivo non rivelava alla direzione chi al suo interno
trasgrediva la legge, se alle riunioni taceva, Stepanov aveva ben ragione di
considerarlo malsano. Se si scagliava tutto insieme contro un solo membro
segnalato proprio dal Comitato di partito, allora per Stepanov, e per persone
anche più importanti di lui, quello era un collettivo sano.
Stepanov aveva molte idee solide, dalle quali non gli era possibile staccarsi.
Per esempio, secondo lui ogni riunione doveva approvare sempre alla fine una
risoluzione stentorea che sferzasse singoli membri del collettivo e mobilitasse il
collettivo stesso verso nuove vittorie nella produzione. Amava in particolare le
riunioni di partito “aperte”, alle quali presenziavano su base “volontariamente
obbligatoria” anche tutti i senza partito e dove era possibile farli a pezzi, non
avendo essi il diritto di difendersi e di votare. Se prima di una votazione si
levavano voci risentite e persino indignate del tipo “Cos’è questa? Una riunione
o un processo?”, lui rispondeva:
– Permettete, compagni, permettete! – interrompendo, imperioso, chiunque
si fosse fatto avanti, persino il presidente della riunione. Ficcata in bocca la
polverina con la mano tremante (dopo il trauma da bombardamento che aveva
subito la testa gli doleva con violenza ogni volta che si agitava, e lui si agitava
sempre se attaccavano la verità del partito), si piazzava al centro della stanza
sotto la luce delle lampade in alto, tanto che le tonde gocce di sudore gli
spiccavano sull’alta fronte calva, e diceva: – Allora, a quanto pare, voi siete
contro la critica e l’autocritica? – E sventolando con decisione il pugno, come a
conficcare le proprie idee nella testa degli ascoltatori, spiegava: – L’autocritica è
la suprema legge propulsiva della società sovietica, il principale motore del suo
progresso! È il momento di capire che quando critichiamo i membri del nostro
collettivo, non è per metterli sotto processo ma per tenere ogni lavoratore ogni
minuto in perenne tensione creativa! Qui non possono esserci due opinioni,
compagni! Comunque, non tutte le critiche sono utili, questo è certo! A noi
serve una critica concreta, cioè che non leda i collaudati quadri dirigenti! Non
confondiamo la libertà di critica con la libertà dell’anarchismo piccolo
borghese!
E avvicinatosi alla caraffa dell’acqua, ingoiava dell’altra polverina.
Così trionfava la linea generale del partito. E accadeva sempre che tutto il
collettivo sano, compresi i membri sferzati e distrutti dalla risoluzione in
questione (“atteggiamento negligente e criminale verso il lavoro”,
“inadempimento delle scadenze al limite del sabotaggio”), votasse all’unanimità
per la risoluzione stessa.
A volte accadeva persino che Stepanov, appassionato di risoluzioni
elaborate, ricche di spiegazioni, intuendo sempre felicemente in anticipo il
senso degli interventi che stavano per giungere e l’opinione finale
dell’assemblea, non riuscisse però a compilare in fretta la risoluzione prima
della riunione nella sua interezza. Così, dopo l’annuncio del presidente di
turno, “Ha la parola il compagno Stepanov per comunicare la risoluzione!”, il
segretario esentato si asciugava il sudore dal labbro e dalla pelata e diceva:
– Compagni! Ero molto occupato, così nel progetto della risoluzione non
ho fatto in tempo a precisare alcune circostanze, alcuni cognomi e fatti.
Oppure:
– Compagni! Sono stato chiamato dalla Direzione, così oggi non ho ancora
scritto il progetto della risoluzione.
E in entrambi i casi:
– Chiedo per questo di votarla per intero e domani nelle ore libere la elaborerò.
Il collettivo di Marfino si dimostrava a tal punto sano che alzava la mano
senza mormorii, e senza sapere (né scoprire) chi di preciso sarebbe stato
colpito in quella risoluzione, chi esaltato.
Consolidava molto la posizione del nuovo segretario del partito anche il
fatto che non conoscesse le debolezze tipiche dei rapporti intimi. Tutti, con
rispetto, lo chiamavano “Boris Sergeič”. Lui, invece, considerandolo un dovere,
non chiamava nessuno in tutto l’impianto per nome e patronimico, e persino
quando giocava d’azzardo al tavolo da biliardo, il verde del panno che spiccava
nella stanza del Comitato di partito, esclamava:
– Piazza la palla, compagno Šikin!
– Dal bordo, compagno Klykačëv!
In generale, Stepanov non amava che le persone si appellassero ai suoi più
alti e migliori istinti. D’altra parte nemmeno lui si appellava negli altri a simili
istinti.
Perciò, non appena percepiva in un collettivo un po’ di malcontento o
resistenza verso i suoi provvedimenti, non perdeva tempo, non cercava di
persuaderli, si limitava a prendere un bel foglio di carta e in alto a grandi lettere
ci scriveva: “Si assegnano i compagni qui indicati a eseguire questo e quello nel
seguente lasso di tempo”, poi tracciava delle righe per inserire il numero di
disposizione, cognome, ricevuta di notifica, e lo dava alla segretaria perché lo
facesse girare. I compagni indicati leggevano, spargevano a proprio piacimento
la loro esasperazione sull’indifferente foglio bianco, ma non potevano non
firmare, e una volta firmato, non potevano non eseguire.
Stepanov era un segretario esentato anche dal dubbio e dal brancolare nel
buio. Bastava che per radio annunciassero che non esisteva più l’eroica
Jugoslavia, ma solo la cricca di Tito, e tempo cinque minuti Stepanov spiegava
la decisione del Kominform con tale insistenza, tale convinzione, neanche ci
avesse meditato lui stesso per anni. Se qualcuno, con timore, richiamava la sua
attenzione sul contrasto fra le idee di oggi e quelle di ieri, sul pessimo
equipaggiamento dell’istituto, sulla bassa qualità delle apparecchiature
nazionali o sui disagi degli alloggi, il segretario esentato sorrideva, e i suoi
occhiali scintillavano, per le paroline che stava per dire:
– Be’, che si può fare, compagni. È il disordine ministeriale. Ma il progresso
resta comunque indubbio, non state lì a polemizzare!
Tuttavia, alcune debolezze umane erano anche sue caratteristiche, seppur
limitate. Gli piaceva essere elogiato da un superiore e che i semplici militanti di
partito si entusiasmassero davanti alla sua esperienza. Gli piaceva perché era
giusto.
Beveva vodka solo se gli veniva offerta o se gliela piazzavano sul tavolo, e
continuava a lamentarsi che era mortalmente nociva per la sua salute. Ragion
per cui non la comprava mai e nemmeno la offriva. Aveva solo questo difetto.
I “giovani” a volte bisticciavano fra loro riguardo al Pastore, su come fosse.
Rojtman diceva:
– Amici miei! Lui è il profeta del calamaio senza fondo. È l’anima del
documento stampato. In un periodo di transizione persone come lui sono
inevitabili.
Ma Klykačëv sorrideva a denti stretti.
– Sbarbatelli! Se gli capitassimo sotto i denti, finiremmo nella cacca. Non
consideratelo uno stupido. Ha imparato a vivere per cinquant’anni. Secondo
voi, è un caso che a ogni riunione salta fuori una risoluzione stroncante? Sta
scrivendo la storia di Marfino! È pre-vi-den-te, mette via un pezzettino per
volta: nel caso di un cambio, di un’ispezione qualsiasi, dimostreranno che il
segretario esentato faceva segnalazioni, attirava l’attenzione dell’opinione
pubblica.
Nell’interpretazione non troppo scrupolosa di Klykačëv, Stepanov figurava
come un uomo capzioso, riservato, pronto a tirare su i tre figli con ogni mezzo,
lecito e illecito.
I tre figli di Stepanov esistevano davvero e spillavano al padre soldi di
continuo. Li aveva sistemati tutti e tre alla facoltà di Storia, conscio che quella
materia per un marxista non era poi così complicata. Il calcolo si era rivelato in
qualche modo esatto, ma lui non aveva tenuto conto (al pari dell’unico piano
statale sull’istruzione) che di colpo si sarebbe giunti alla piena saturazione degli
storici-marxisti in tutte le scuole, gli istituti tecnici e i corsi brevi, prima di
Mosca, poi della regione di Mosca, e fino agli Urali. Il primogenito si era
laureato e non era rimasto a sostenere i genitori: era partito per Chanty-
Mansijsk. Al secondo avevano proposto un’assegnazione a Ulan-Ude; per il
tempo che avrebbe finito il terzo, era tanto se si fosse trovato qualcosa vicino
all’isola del Borneo.
A maggior ragione, dunque, il padre si aggrappava con tenacia al proprio
lavoro e alla casetta di famiglia nella periferia di Mosca, con un orto di dodici
centesimi di ettaro, botti piene di cavolo acido e due o tre maiali all’ingrasso.
La moglie di Stepanov, una donna sobria, forse un po’ antiquata, vedeva
nell’allevamento di maiali la propria ragione di vita e di sostegno al budget
familiare. Quella domenica aveva programmato di andare in provincia con il
marito a comprare un porcellino. A causa di quell’operazione (riuscita),
Stepanov non si era recato al lavoro il giorno prima, di domenica, anche se
dopo la conversazione avuta sabato non era tranquillo e smaniava di tornare a
Marfino.
Sabato alla Direzione politica Stepanov aveva ricevuto un bel colpo. Un
impiegato molto responsabile, che malgrado le ansie di una certa responsabilità
era anche molto ben pasciuto, pesava sui sei o sette pud, aveva guardato il naso
magro, strapazzato dagli occhiali di Stepanov e con pigra voce di baritono gli
aveva chiesto:
– Stepanov, come te la cavi con i giudei?
– Con i giu... chi? – aveva teso l’orecchio Stepanov per sentire meglio.
– Con i giudei. – E vedendo che l’interlocutore non capiva: – Gli ebrei...
Colto alla sprovvista, e temendo di ripetere quella parola a doppio taglio a
causa della quale poco tempo prima davano dieci anni come per agitazione
antisovietica, e un tempo ti mettevano anche al muro, Stepanov, stando sul
vago, aveva farfugliato:
– Ce ne sono...
– Be’, che pensi di farne?
Ma era squillato il telefono, il compagno responsabile aveva tirato su la
cornetta e con Stepanov non ne aveva più parlato.
Con sgomento Stepanov si era riletto alla Direzione politica tutto il pacco di
direttive, istruzioni e disposizioni: le lettere nere su carta bianca giravano
maliziosamente intorno alla questione giudaica.
Per tutta la domenica, mentre andava a prendere il porcellino, ci aveva
pensato e ripensato, grattandosi il petto con desolazione. Evidentemente, con
la vecchiaia aveva perso perspicacia! Che vergogna! L’impiegato esperto
Stepanov non aveva colto una nuova campagna importante e si ritrovava
persino implicato negli intrighi dei nemici, perché tutto il gruppo di Rojtman-
Klykačëv...
Lunedì mattina Stepanov era andato al lavoro, un po’ smarrito. Dopo il
rifiuto di Šikin di giocare a biliardo (Stepanov voleva farsi dire qualcosa da lui),
il segretario esentato, che boccheggiava per la mancanza di istruzioni, si era
chiuso nella stanza del Comitato di partito e per due ore di fila aveva colpito le
palle metalliche da solo, scagliandole fuori dal bordo alcune volte. L’enorme
bassorilievo a muro di bronzo con le quattro teste dei Padri fondatori era stato
felice testimone di alcuni colpi brillanti, con due o tre palle per volta finite in
buca. Ma le sagome sul bassorilievo restavano impassibili nel bronzo. I geni si
fissavano l’un l’altro nella nuca e non suggerivano a Stepanov che decisione
prendere per non rovinare un collettivo sano e per rafforzarlo nella nuova
condizione.
Alla fine esausto, aveva sentito squillare il telefono e aveva sollevato la
cornetta.
Lo chiamavano, primo, per dirgli che quella sera non si sarebbe tenuto il
solito incontro di Educazione politica del Komsomol e del partito, ma
bisognava riunire tutti per la lezione “Il materialismo dialettico: una
concezione del mondo avanzata”, che avrebbe tenuto un relatore del comitato
regionale. Secondo, a Marfino stava arrivando un’auto con due compagni che
avrebbero fornito adeguate disposizioni sul problema della lotta al servilismo
nei confronti dei paesi stranieri.
Il segretario esentato si era ripreso, rallegrato, aveva spedito una doppietta in
buca e rimesso il biliardo dietro l’armadio.
Aveva risollevato il suo umore anche il fatto che il porcellino dalle orecchie
rosa comprato il giorno prima mangiava la sua poltiglia molto volentieri, la
sera e la mattina, senza fare lo schizzinoso.
C’era speranza di farlo ingrassare bene, spendendo poco.
79
SPIEGATA LA DECISIONE
In confronto al lavoro del maggiore Šikin quello del maggiore Myšin aveva una
sua specificità, suoi vantaggi e svantaggi. Il vantaggio principale era poter
leggere le lettere, decidere il loro invio o non invio. Gli svantaggi, che la
traduzione dei detenuti, la decisione di non pagare un lavoro, l’assegnazione a
una data categoria di alimentazione, la durata degli incontri con i parenti e
diversi cavilli di servizio non dipendevano da lui. Invidiando in molte cose
l’organizzazione concorrente, vale a dire il maggiore Šikin, che sapeva per
primo persino le notizie interne alla prigione, il maggiore Myšin poteva contare
sull’osservazione attraverso le tendine trasparenti di quanto accadeva nel cortile
della passeggiata. (Šikin, per la sfortunata posizione della sua finestra al
secondo piano, non aveva quella possibilità.) Sorvegliare i reclusi nella loro vita
quotidiana forniva a Myšin anche un po’ di materiale. Dalla sua posizione
defilata completava le notizie che riceveva dagli informatori: vedeva chi girava
con chi, chi parlava animatamente o con indifferenza. Poi, quando consegnava
o ritirava una lettera, gli piaceva stupirli all’improvviso con:
– A proposito, di cosa parlava ieri con Petrov durante l’intervallo del
pranzo?
In quel modo, a volte, otteneva dal detenuto disorientato notizie di una
certa utilità.
Quel giorno, durante l’intervallo del pranzo, allo zek che stava per essere
ricevuto, Myšin aveva ordinato di attendere e si era messo a osservare il cortile.
(La caccia ai delatori, però, non l’aveva vista perché si svolgeva dalla parte
opposta dell’edificio.)
Alle tre del pomeriggio, quando l’intervallo del pranzo era finito e lo
smanioso sergente maggiore disperdeva tutti quelli che non avevano fatto in
tempo a farsi ricevere, giunse l’ordine di richiamare Dyrsin.
La natura aveva dotato Ivan Feofanovič Dyrsin di una faccia incavata con gli
zigomi prominenti, una parlata indecifrabile e un cognome che derivando dalla
parola dyra, “buco”, sembrava assegnatogli per scherzo. Era giunto dalla fabbrica
all’istituto di Marfino, passando attraverso una facoltà operaia, dove aveva
studiato con modestia e ostinazione. Possedeva le capacità, ma non sapeva
metterle in luce, e per tutta la vita era stato insultato e tenuto in disparte. Al
Sette ora non si approfittava di lui solo chi non voleva. Siccome la sua decina,
un po’ alleggerita dagli sconti di pena, stava per finire, davanti ai capi si trovava
particolarmente in soggezione. Temeva soprattutto di ricevere una seconda
condanna, come aveva visto accadere diverse volte negli anni della guerra.
Anche la prima condanna se l’era beccata in modo goffo. All’inizio della
guerra era finito dentro per “agitazione antisovietica”, denunciato da vicini che
bramavano il suo appartamento (e poi lo avevano ottenuto). Vero, si era
chiarito che lui una simile agitazione non l’aveva fatta, ma avrebbe potuto,
visto che ascoltava la radio tedesca. Vero, la radio tedesca lui non la ascoltava,
ma avrebbe potuto, visto che aveva in casa un’apparecchiatura radio proibita.
Vero, una simile apparecchiatura lui non l’aveva nemmeno, ma avrebbe potuto,
visto che era un ingegnere radio e dopo la denuncia in una scatoletta gli
avevano trovato due valvole.
Di campi di lavoro, negli anni della guerra, Dyrsin se n’era fatti in
abbondanza: quelli dove la gente mangiava grano umido rubandolo ai cavalli e
quelli dove mischiavano la neve alla farina sotto un’assicella con la scritta
“Filiale di campo di lavoro” inchiodata al primo pino della taiga. Durante gli
otto anni trascorsi nel paese dei GULAG, gli erano morti due figli e la moglie si
era trasformata in una vecchia ossuta; solo a quel punto si erano ricordati che
Dyrsin era un ingegnere, lo avevano condotto lì, avevano cominciato a
concedergli il burro e lui spediva pure alla moglie cento rubli al mese.
E adesso la moglie, inspiegabilmente, non gli scriveva più. Poteva anche
essere morta.
Il maggiore Myšin sedeva con le mani appoggiate sulla scrivania. La
superficie che aveva davanti era libera dalle carte, il calamaio chiuso, la penna
asciutta, e il suo turgido viso rosso-violaceo non aveva (mai l’aveva avuta)
alcuna espressione. La fronte era così turgida che la pelle non veniva solcata né
da rughe di vecchiaia né da rughe di riflessione. Anche le guance erano turgide.
Il viso di Myšin ricordava quello di un idolo di terracotta, cui era stata aggiunta
un po’ di vernice rosa e viola. Gli occhi, invece, erano inespressivi in modo
professionale, privi di vita, con quel vuoto arrogante che si conserva in una
certa categoria di persone anche quando se ne vanno in pensione.
Una cosa inaudita! Myšin lo invitò a sedersi (Dyrsin si era già messo a
valutare quale guaio gli stesse per capitare e quale protocollo avrebbero
seguito). Poi il maggiore (come da istruzioni) rimase in silenzio e, infine, disse:
– Vi lamentate sempre di tutto. Venite qui e vi lamentate. Lei non riceve una
lettera da due mesi.
– Più di tre, cittadino capo! – gli ricordò Dyrsin, timidamente.
– Be’, se sono tre, fa qualche differenza? Ha mai considerato che razza di
persona è sua moglie?
Myšin parlava piano, scandendo bene le parole, una bella pausa tra una frase
e l’altra.
– Che razza di persona è sua moglie? Eh?
– Perché... non capisco... – farfugliò Dyrsin.
– Be’, che c’è da capire? Che tendenza politica ha?
Dyrsin impallidì. Si vede che quello non se lo aspettava. La moglie doveva
aver scritto qualcosa in una lettera, proprio adesso, alla vigilia della sua
liberazione...
Pregò fra sé in segreto per la moglie. (Nel campo di lavoro aveva imparato a
pregare.)
– È una piagnona, e i piagnoni a noi non servono – spiegò il maggiore,
inflessibile. – Soffre di una strana cecità: della vita non nota mai il bello,
sottolinea solo il brutto.
– Per amor di Dio! Che cosa le è successo?! – esclamò Dyrsin, in tono
supplichevole, dondolando la testa.
– A lei? – Myšin parlava ancora intervallato da lunghe pause. – A lei?
Niente. – (Dyrsin fece un sospiro.) – Per ora.
Con tutta calma, estrasse dal cassetto una lettera e la porse a Dyrsin.
– La ringrazio! – disse Dyrsin, respirando con affanno. – Posso andare?
– No. La legga qui. Una lettera così non posso lasciargliela portare negli
alloggi. Che penserebbero i detenuti di quello che succede in libertà con lettere
del genere? Legga.
E si pietrificò come un idolo viola, pronto a sopportare tutti i pesi del
proprio dovere.
Dyrsin estrasse il foglio dalla busta. Lui non ci fece caso, ma un occhio
estraneo sarebbe rimasto colpito negativamente da quella lettera, in pratica lo
specchio della donna che l’aveva spedita: era scritta su una carta da pacchi
butterata e non c’era riga che andasse dritta da un margine all’altro, si
incurvavano tutte a destra e cadevano apatiche giù, sempre più giù. La lettera
era datata 18 settembre.
Caro Vanja!
Mi sono seduta qui a scrivere, ho sonno ma non riesco a dormire. Torno
dal lavoro e vado subito nell’orto a raccogliere le patate con Manjuška.
Sono venute su piccole. In vacanza non sono andata da nessuna parte,
non avevo niente da mettermi, sono tutta conciata. Volevo tenere da parte
i soldi per venire da te, ma niente. Allora ha fatto un salto Nika, ma le
hanno detto che lì non c’è nessuno con quel nome. Sua madre e suo padre
l’hanno sgridata: perché ci sei andata? Adesso hanno segnato pure te, ti
seguiranno. In generale fra noi i rapporti sono tesi, ma con L.V. non
parlano neanche.
Ce la passiamo male. La nonna è inferma già da tre anni, non si alza
più, è dimagrita tanto, morire non muore ma non guarisce nemmeno, e ci
tormenta tutti. Manda un odore tremendo e litighiamo di continuo, con
L.V. non parlo più, Manjuška si è separata del tutto dal marito, ha
problemi di salute, i figli non le danno retta, quando torniamo dal lavoro
è terribile, volano solo maledizioni. Dove possiamo scappare, quando
finirà tutto questo? Comunque, ti mando un grosso bacio. Stammi bene.
Non c’era né una firma né un “tua”.
Dopo aver aspettato con pazienza che Dyrsin leggesse e rileggesse quella
lettera, il maggiore Myšin mosse le sopracciglia bianche e le labbra viola e disse:
– Non le ho consegnato questa lettera quando è arrivata perché capivo che si
trattava di uno stato d’animo momentaneo e lei deve lavorare con vigore.
Aspettavo che sua moglie scrivesse una bella lettera, ma ecco quella che ha
spedito il mese scorso.
Dyrsin lanciò un’occhiata silenziosa al maggiore, ma il suo viso goffo non
esprimeva nemmeno rimprovero, solo dolore. Con dita tremanti aprì la
seconda busta già aperta e tirò fuori una lettera con le stesse righe frammentate,
sperse, questa volta scritte su una pagina di quaderno.
30 ottobre
Caro Vanja!
Ti sei offeso perché non ti scrivo spesso, ma arrivo tardi dal lavoro e quasi
tutti i giorni vado a raccogliere la legna nel bosco. Poi viene subito sera e
sono così stanca che quasi crollo, di notte dormo male, la nonna non me lo
permette. Mi alzo presto, alle cinque del mattino, e devo essere al lavoro
per le otto. Grazie a Dio, l’autunno è ancora mite, ma si sta avvicinando
l’inverno! Al deposito il carbone non te lo danno, è solo per i capi o per chi
ha conoscenze. Di recente una fascina mi è caduta dalla schiena, me la
sono trascinata dietro per terra, non avevo più la forza di risollevarla, così
ho pensato: “Sono una vecchia che si tira appresso le sterpaglie!” Mi è
venuta l’ernia all’inguine da quanto era pesante. Nika è tornata per le
vacanze, si è fatta una bella ragazza, e da noi non è neanche passata a
salutare. Non riesco a ricordarmi di te senza soffrire. Non ho più
nessuno in cui sperare. Lavorerò finché avrò forza, temo solo di finire a
letto per sempre come la nonna. Ha le gambe completamente paralizzate,
è gonfia, non può né sdraiarsi da sola né alzarsi. All’ospedale i malati
così gravi non li prendono, non gli conviene. Tocca a me e a L.V.
sollevarla ogni volta, lei se la fa addosso e c’è in casa una puzza tremenda.
Questa non è vita, è una galera. Naturalmente non è colpa sua, ma io
non ce la faccio più a sopportare. Nonostante i tuoi consigli di non
imprecare, lo facciamo tutti i giorni, da L.V. non senti che carogna e
vacca. Mentre Manjuška ce l’ha coi figli. Chissà se anche i nostri
sarebbero cresciuti così? Sai, a volte sono contenta che non ci sono più.
Valerik quest’anno ha cominciato ad andare a scuola, ha bisogno di tante
cose, ma mancano i soldi. Anche se, è vero, da Pavel, tramite il tribunale,
arrivano a Manjuška gli alimenti. Be’, non ho più niente da scriverti.
Stammi bene. Ti mando un bacio.
Potessi dormire almeno nei giorni di festa, ma bisogna trascinarsi ai
cortei...
Davanti a quella lettera Dyrsin si irrigidì. Si portò le mani al viso come se
volesse lavarlo, ma senza lavarlo.
– Allora? Ha letto? Non sembra stia leggendo. Ebbene, lei è un uomo
adulto. Istruito. È stato in carcere, vede che razza di lettera è. Per lettere così
durante la guerra ti condannavano. Un corteo è gioia per tutti, mentre lei ci si
deve ‘trascinare’? E il carbone! Il carbone non è per i capi ma per tutti i
cittadini, bisogna fare la fila, ovvio. A quel punto non sapevo se consegnarle o
no la lettera, ma poi ne è arrivata una terza, di nuovo dello stesso tipo. Ci ho
pensato su, bisogna darci un taglio. Deve farla smettere. Gliene scriva una dal
tono ottimistico, vigorosa, sostenga lei quella donna. Le faccia capire che
lamentarsi non serve, che tutto si aggiusta. Guardi, sono diventati ricchi, hanno
ricevuto un’eredità. Legga.
Le lettere erano in ordine cronologico. La terza era datata 8 dicembre.
Caro Vanja!
Devo comunicarti una notizia triste: il 26 novembre del 1949 alle 12 e 5
è morta la nonna. Lei è morta e noi non avevamo neanche un copeco,
ringrazio Miša per averci dato 200 rubli, c’è costato poco, ma il funerale è
stato misero, senza né prete né musica, hanno solo portato la bara sul
carro al cimitero e l’hanno scaricata nella fossa.
Adesso la situazione a casa si è calmata un po’, ma si sente come un
vuoto. Non sto bene nemmeno io, di notte sudo terribilmente, mi si
bagnano il cuscino e le lenzuola. Una zingara mi ha predetto che morirò
in inverno, sarei felice di liberarmi di questa vita. L.V., probabilmente,
ha la tubercolosi, tossisce e sputa sangue dalla gola non appena arriva dal
lavoro, così impreca, cattiva come una strega. Lei e Manjuška mi
sfiniscono. Sono davvero sfortunata: avevo quattro denti guastati, due
sono caduti, dovrei rimetterli, ma nemmeno per quello ci sono soldi e poi
bisogna fare la coda.
I trecento rubli del tuo stipendio di tre mesi sono arrivati proprio al
momento giusto, stavamo congelando, si avvicinava il nostro turno al
deposito del carbone (ero la 4.576esima), ma mi davano solo polvere, che
senso aveva prenderla? Manjuška ne ha aggiunti duecento ai tuoi
trecento, così abbiamo pagato un autista che ci ha portato del carbone
grosso. Mentre le patate fino a primavera non basteranno. Da due orti, te
lo immagini? Non abbiamo raccolto niente, ha piovuto poco, è stata una
cattiva annata.
Con i bambini ci sono grane di continuo. Valerij prende solo voti bassi,
dopo la scuola gironzola chissà dove. Il preside ha mandato a chiamare
Manjuška, le ha chiesto che razza di madre è visto che non sa controllare
i figli. Ženka ha sei anni, imprecano tutti e due, in poche parole sono dei
teppisti. Do tutti i soldi per loro e Valerij poco tempo fa mi ha chiamata
puttana. Senti certe schifezze già ora che sono bambini, figurarsi quando
cresceranno. A maggio dovremo occuparci dell’eredità, dicono che ci
vogliono duemila rubli, ma dove li troviamo? Elena e Miša faranno causa
a L.V., vogliono toglierle la stanza. Quand’era in vita la nonna,
gliel’abbiamo detto un sacco di volte, non ha voluto stabilire a chi andava
cosa. Anche Miša ed Elena sono malati.
Lo scorso autunno ti ho scritto, secondo me addirittura due volte, possibile
che non ricevi le mie lettere? Dove finiscono?
Ti mando un francobollo da 40 copechi. Allora, che dicono lì, ti liberano o
no?
Al negozio vendono delle stoviglie molto belle, di alluminio, pentolini,
scodelle.
Ti mando un grosso bacio. Stammi bene.
Una macchiolina umida si era espansa sulla carta, sciogliendo l’inchiostro.
Era di nuovo impossibile capire se Dyrsin stesse ancora leggendo o avesse
già finito.
– Ebbene? – domandò Myšin. – Tutto chiaro?
Dyrsin non si mosse.
– Le mandi una risposta. Una risposta vigorosa. Le autorizzo almeno
quattro pagine. Una volta le ha scritto di credere in dio. Be’, sarebbe già meglio,
in effetti... Questa roba che è? Dove vuole andare a parare? La tranquillizzi, le
dica che tornerà presto. Che riceverà un grosso stipendio.
– Mi lasceranno sul serio tornare a casa? Non mi manderanno via?
– Dipende se le autorità avranno bisogno. Sostenere sua moglie, però, è suo
dovere. Dopotutto, è la sua compagna di vita. – Il maggiore tacque. – O, forse,
adesso ne vuole una più giovane? – suppose con compassione.
Non sarebbe rimasto lì seduto così tranquillo se avesse saputo che nel
corridoio, impaziente fino allo stremo, fremeva di entrare Siromacha, il suo
informatore preferito.
83
IL PRINCIPE DEI DELATORI
Nei rari istanti in cui Artur Siromacha non era occupato a lottare per la vita,
quando non si sforzava di piacere ai capi o di lavorare, quando allentava la
costante tensione da leopardo, sembrava un giovane indolente con un fisico
slanciato, il viso da artista affaticato dagli ingaggi e gli occhi di un indefinibile
azzurro grigio come inumiditi di tristezza.
Due, dando in escandescenza, gli avevano detto in faccia che era un delatore
e poco dopo erano stati tradotti via entrambi. Nessuno osava più ripeterlo ad
alta voce. Siromacha era temuto. Al confronto diretto con una spia non ti
chiamavano. Uno zek poteva essere accusato di organizzare una fuga, una
rivolta, di terrorismo, la ragione non la dicevano, gli ordinavano solo di
radunare le sue cose. L’avrebbero mandato semplicemente in un campo di
lavoro? o condotto in un carcere istruttorio?
Così è la natura umana e tiranni e carcerieri sanno come sfruttarla: finché
uno può ancora smascherare dei traditori o incitare la folla alla rivolta, o con la
propria morte ottenere la salvezza degli altri, la speranza non muore, lui
crederà ancora in un esito positivo, si aggrapperà a quei pochi residui di bene,
perciò non parlerà, sarà docile. Mentre quando uno è finito, abbattuto, quando
non ha più nulla da perdere, ed è pronto a un atto eroico, solo la scatola di
pietra di una cella di isolamento può accogliere la sua ultima furia. Oppure
l’alito della pena annunciata lo rende già indifferente alle questioni terrene.
Anche senza averlo smascherato direttamente né colto a denunciare, ma non
dubitando comunque che fosse un delatore, alcuni evitavano Siromacha, altri
consideravano meno pericoloso fare amicizia con lui, giocarci a pallavolo,
parlare di donne. Così si viveva anche con gli altri delatori. Così la vita alla
šaraška sembrava trascorrere pacifica, mentre sotto covava una guerra mortale.
Con Artur, tuttavia, si poteva parlare non solo di donne. La saga dei Forsyte
era uno dei suoi libri preferiti e lui ne discuteva con sufficiente arguzia. (A dire
il vero, alternava senza difficoltà Galsworthy a gialli banali.) Aveva anche un
buon orecchio musicale, gli piacevano i temi spagnoli e italiani, sapeva
fischiettare con precisione brani di Verdi e di Rossini, e in libertà, per colmare
il vuoto della vita, una volta all’anno se ne andava al Conservatorio.
La stirpe dei Siromacha era nobile, anche se povera. All’inizio del secolo un
Siromacha era stato un compositore, un altro per un atto criminale era finito ai
lavori forzati. Un altro ancora aveva aderito a pieno alla rivoluzione e serviva
nella Čeka.
Quando aveva raggiunto la maggiore età, per sue inclinazioni ed esigenze
Artur aveva sentito il bisogno di usufruire di mezzi continuativi indipendenti.
Una misera vita regolare e monotona, sgobbando “dall’ora X all’ora Y”,
contando due volte al mese uno stipendio intaccato dalle trattenute di tasse e
titoli di debito, non faceva in nessun modo al caso suo. Quando andava al
cinema, lui si immaginava davvero accanto a tutte le attrici cinematografiche, di
scappare con Deanna Durbin in Argentina.
Naturalmente, né andare all’università né avere un’istruzione erano la strada
giusta per quella vita. Artur cercava un altro tipo di impiego, che lo facesse
saltare qua e là, svolazzare, e quell’impiego cercava lui. Così si erano trovati.
Anche se non gli aveva fornito quanti mezzi avrebbe voluto, in tempo di
guerra gli aveva evitato la chiamata alle armi, dunque gli aveva salvato la vita. E
mentre laggiù, quegli scemi marcivano in argillose trincee, Artur frequentava
con disinvoltura il ristorante Savoy, le guance crema piacevolmente lisce sul
viso allungato. (Oh, che momento quando varchi la soglia del ristorante e l’aria
calda, intrisa degli odori della cucina, e la musica di colpo ti invadono, e tu devi
scegliere un tavolo!)
Tutto suggeriva ad Artur di aver preso la strada giusta. Lo infastidiva solo
che la gente considerasse abietto quell’impiego. Succedeva perché non capivano
o perché erano invidiosi!
Il suo era un lavoro per persone di talento, che esigeva spirito di
osservazione, memoria, ingegnosità, capacità di simulare e di recitare: era un
impiego artistico. Sì, bisognava tenerlo nascosto, senza mistero non
funzionava, ma solo per ragioni tecniche, come al saldatore elettrico è
indispensabile avere un vetro protettivo. Altrimenti Artur non si sarebbe mai
nascosto: in quel lavoro non c’era nulla di eticamente abietto!
Una volta, non riuscendo a vivere delle sue possibilità, si era unito a un
gruppo che si era lasciato tentare da beni statali. Lo avevano messo dentro.
Non se l’era presa per nulla: era colpa sua, non doveva abboccare. Fin dai primi
giorni dietro il filo spinato si era ritrovato, però, in modo del tutto naturale a
svolgere il suo precedente impiego: la permanenza stessa in quel luogo ne
rappresentava una nuova forma.
Non era stato abbandonato nemmeno dagli oper: non lo avevano mandato né
al taglio del bosco né alle miniere, lo avevano impiegato nel Settore Cultura e
Educazione. Quello era nel campo di lavoro l’unico focolare, l’unico angoletto
dove si potesse fare un salto per una mezz’ora prima della ritirata e sentirsi di
nuovo una persona: sfogliare un quotidiano, prendere in mano una chitarra,
declamare dei versi o ricordare la propria vita precedente. Vi si trascinavano i
vari aneto-pomodorovič dei campi di lavoro (i ladri chiamavano così gli intellettuali
incorreggibili) e Artur, con la sua anima artistica, lo sguardo comprensivo, i
ricordi della capitale e la capacità di discutere di qualsiasi argomento, lì ci stava
proprio a pennello.
Così aveva fatto saltare in fretta alcuni agitatori; un gruppo predisposto in
senso antisovietico; due fughe non ancora preparate ma già escogitate; e l’affare
dei medici delle filiali dei campi di lavoro, che sabotavano la cura dei detenuti
tirandola per le lunghe e permettendo loro di riposarsi in ospedale. Tutti quei
conigli avevano ricevuto una seconda condanna, mentre ad Artur la Terza
Sezione aveva tolto due anni.
Capitato a Marfino, non aveva trascurato nemmeno lì il suo collaudato
impiego. Era diventato il favorito, l’anima di entrambi i maggiori-compari e il
delatore più temibile della šaraška.
Pur sfruttando le sue denunce, i due maggiori non gli rivelavano i propri
segreti, e adesso Siromacha non sapeva per quale dei due fosse più importante
venire a conoscenza di Doronin, per chi facesse il delatore.
Si è scritto molto su come la gente si stupisca dell’ingratitudine e della
slealtà. Ma può succedere anche il contrario! Con folle imprudenza, con
spregiudicata sconsideratezza, Rus’ka Doronin aveva confidato il proprio
progetto di doppiogiochista non a uno, non a tre, bensì a venti e passa zek.
Ognuno di quelli che lo sapeva lo aveva raccontato a qualcun altro, così il
segreto di Doronin era diventato patrimonio di quasi metà degli abitanti della
šaraška, ci mancava poco che nelle stanze non ne parlassero ad alta voce.
Eppure, anche se uno su cinque, uno su sei, alla šaraška era un delatore,
nessuno di loro sapeva niente, o forse, anche sapendolo, non lo aveva
denunciato! Il più sveglio, quello con maggior naso, il principe dei delatori,
Artur Siromacha non aveva scoperto niente fino a quello giorno stesso!
Adesso era rimasto ferito anche nell’onore di informatore: gli oper nei loro
uffici potevano anche lasciarselo sfuggire, ma lui?? Ed era in gioco la sua stessa
sicurezza: come erano riusciti a beccare gli altri con il vaglia, potevano beccare
anche lui. Il tradimento di Doronin era per Siromacha come uno sparo che gli
aveva mancato la testa di pochissimo. Doronin si era rivelato un nemico
solerte, dunque con solerzia andava colpito! (Del resto, non rendendosi ancora
conto dell’entità del guaio, Artur riteneva che Doronin si fosse svelato da poco,
quel giorno o il precedente.)
Ma Siromacha non poteva irrompere nell’ufficio! Non poteva perdere la
testa, sfondare la porta di Šikin chiusa a chiave o accorrervi troppo spesso. E
davanti a quella di Myšin c’era la coda! Al campanello delle tre mandarono via
tutti, ma mentre gli zek più molesti e caparbi bisticciavano nel corridoio del
comando con il sorvegliante di turno (Siromacha, tenendosi la pancia con aria
sofferente, si era avvicinato all’infermeria ed era rimasto lì in attesa che il
gruppo si disperdesse), da Myšin era entrato Dyrsin. In base ai calcoli di
Siromacha, Dyrsin non avrebbe dovuto intrattenersi dal compare molto a lungo,
eppure non usciva, non usciva proprio. Rischiando di scatenare il malcontento
di Mamurin con la sua assenza di un’ora dal Sette, dove già si sollevava il fumo
dai saldatori, dalla colofonia e dai progetti, Siromacha aspettava invano che
Myšin lasciasse andare Dyrsin.
Ma non poteva lasciarsi scoprire nemmeno dagli altri sorveglianti che
curiosavano nel corridoio! Così, persa la pazienza, se ne andò al secondo piano
da Šikin, tornò nel corridoio del comando da Myšin, risalì da Šikin. L’ultima
volta, nell’andito buio della porta di Šikin, ebbe fortuna: dall’uscio gli giunse
l’inconfondibile voce scricchiolante dello spazzino, unica nel suo genere alla
šaraška.
Così bussò subito nel modo convenuto. La porta si aprì e nello stretto
spiraglio comparve Šikin.
– È davvero urgente! – disse Siromacha in un sussurro.
– Un minuto – rispose Šikin.
E con passo leggero, per non imbattersi nello spazzino che usciva,
Siromacha si allontanò lungo il corridoio, tornò subito indietro con aria seria e
senza bussare aprì con una spinta la porta di Šikin.
84
QUANTO A FUCILARE...
Era dal mattino che Rubin si trovava alla straziante mercé della discussione del
giorno prima. Gli si ripresentavano sempre nuovi argomenti, venuti a mancare
durante la notte. Con il virare del giorno, però, aveva avuto la fortuna di
liberarsi da quella morsa.
Era accaduto nella tranquilla stanza della Sezione di massima segretezza al
secondo piano, con le tende pesanti ai lati della finestra e della porta, il divano
non più nuovo e un misero tappetino. L’imbottitura attutiva i suoni, ma di
suoni non ce n’erano quasi, perché Rubin stava ascoltando i nastri magnetici
con le cuffie e Smolosidov, con il viso malamente butterato, se ne stava in
silenzio tutto il giorno, aggrottando la fronte verso Rubin, quasi fosse un
nemico e non un compagno di lavoro. Dal canto suo Rubin considerava
Smolosidov poco più che un automa impiegato nel cambio delle bobine.
Con le cuffie calcate in testa, Rubin continuava a riascoltare l’infausta
conversazione con l’ambasciata, e poi i cinque nastri con le cinque
conversazioni dei sospettati che gli erano stati forniti. Ora si fidava delle
proprie orecchie, ora perdeva ogni speranza di potersene fidare, e si spostava
sui guizzi viola dei fonoaspetti, stampati da tutte le conversazioni. I nastri di
carta lunghi svariati metri, sulla grande scrivania, non ci stavano nemmeno,
scendevano a cascata, bianchi, attorcigliandosi sul pavimento a destra e a
sinistra. Rubin afferrava di scatto il suo album con i modelli dei fonoaspetti
classificati un po’ in base a “suoni-fonemi”, un po’ al “tono di base” di diverse
voci maschili. Con la matita colorata rossa e blu, già consumata fino ad avere le
due estremità stondate e senza punta (temperare una matita per Rubin era un
lavoro da rimandare sempre), segnava sui nastri i punti che lo colpivano di più.
Rubin era immerso nel lavoro. I suoi occhi castano scuro sembravano accesi.
La grande barba nera arruffata era divisa a ciocche e la cenere grigia della pipa
e delle papirosy fumate ininterrottamente gli riempiva la barba, la manica della
tuta bisunta con un bottone del risvolto strappato, il tavolo, i nastri, la
poltrona, l’album con i modelli.
Ora Rubin era in preda a quel misterioso entusiasmo che i fisiologi non
sanno ancora spiegare: dimenticati il fegato e i dolori dovuti all’ipertensione,
superata la notte estenuante, ristorato, senza sentire la fame, sebbene l’ultima
cosa che avesse mangiato era un biscotto preso dalla tavola del compleanno
della sera prima, Rubin si trovava in quello stato di acme spirituale in cui la
vista, acuta, coglie ogni granellino di sabbia, la memoria restituisce
prontamente tutto quello che le si è depositato negli anni.
Non aveva chiesto neanche una volta che ore fossero. Solo in un’occasione,
appena arrivato, aveva provato ad aprire la finestrella laterale, per risarcire sé
stesso della mancanza di aria fresca, ma Smolosidov, accigliato, aveva detto
“Non si può! Ho il raffreddore”, e Rubin vi si era dovuto assoggettare.
Nemmeno una volta poi in tutto il giorno si era alzato, avvicinato alla finestra a
guardare la neve che al vento umido proveniente da ovest si faceva soffice e
grigia. Non aveva neppure sentito Šikin bussare e Smolosidov impedirgli di
entrare. Come avvolto nella nebbia, aveva visto Rojtman arrivare e andarsene,
gli aveva sibilato qualcosa fra i denti senza voltarsi. La coscienza non aveva
nemmeno percepito che era suonato l’intervallo del pranzo, poi di nuovo
quello del ritorno al lavoro. L’istinto da zek, per cui il rituale del pasto è sacro,
era stato risvegliato in lui a malapena da Rojtman che, scrollandolo per le
spalle, gli aveva indicato delle uova fritte, vareniki con la smetana e composta di
frutta su un tavolino a parte. Le narici di Rubin erano sussultate. Lo stupore gli
aveva allungato la faccia, ma la coscienza non si era manifestata in lui nemmeno
allora. Mentre osservava dubbioso quel cibo degli dèi, cercando di capirne di
preciso lo scopo, si era seduto laggiù e aveva cominciato a mangiare in fretta e
furia, senza sentirne il gusto, smanioso di tornare al lavoro il prima possibile.
Rubin non aveva apprezzato il cibo, eppure a Rojtman era costato più caro
che se l’avesse pagato di tasca propria: era “rimasto al telefono” per ben due
ore, concordando quella razione prima con la Sezione di Tecnica speciale, poi
con il generale Bul’banjuk, e ancora con la Direzione carceraria, con la Sezione
di Approvvigionamento e, infine, con il tenente colonnello Kliment’ev. Quelli
cui aveva telefonato, a propria volta, avevano discusso la questione con gli
uffici di contabilità e altri personaggi. Il problema era che Rubin riceveva il
pasto in base alla “terza” categoria dei detenuti, mentre per qualche giorno
Rojtman, visto l’incarico statale particolarmente importante, voleva fargli avere
la “prima” categoria, e per di più dietetica. Dopo gli accordi presi, la prigione
aveva mosso obiezioni organizzative: mancanza di prodotti richiesti al deposito
del carcere, mancanza di un ordine di pagamento al cuoco per la preparazione
del menù individuale.
Adesso Rojtman era seduto di fronte a Rubin e lo guardava, non come un
datore di lavoro in attesa dei frutti dell’opera del suo schiavo, ma con un
sorrisetto affettuoso, come se osservasse un bambinone, ammirandolo,
invidiandone lo slancio, cercando il momento adatto per cogliere il senso del
suo lavoro di mezza giornata e inserirsi anche in quello.
Rubin, invece, continuava a mangiare, e sul viso ammansito gli era tornata
un po’ di lucidità. Per la prima volta da quel mattino sorrise.
– Mi ha dato da mangiare per niente, Adam Veniaminovič. Satur venter non
studet libenter.168 Il viandante deve percorrere gran parte del viaggio prima della
sosta per il pranzo.
– Guardi l’orologio, Lev Grigor’ič! Sono le tre e un quarto!
– Cosa? Pensavo non fosse neanche mezzogiorno.
– Lev Grigor’ič! Sto morendo dalla curiosità, che cosa ha riscontrato?
Quella non solo non era la richiesta di un capo, ma era stata pronunciata in
tono supplichevole, come se Rojtman temesse che Rubin si rifiutasse di
informarlo. Quando Rojtman apriva l’anima, era molto gentile, e questo
malgrado la goffa apparenza, le labbra grasse sempre dischiuse a causa dei
polipi al naso.
– Sono solo all’inizio! Solo alle prime conclusioni, Adam Ve-niaminovič!
– E quali sarebbero?
– Su alcune si può discutere, ma una è indubbia: nella scienza della
fonoscopia, che è nata soltanto oggi, nonostante tutto c’è un germe di
razionalità!!
– Non si starà infervorando troppo, Lev Grigor’ič? – lo placò Rojtman.
Desiderava tanto quanto Rubin che le sue parole fossero corrette, ma da allievo
delle scienze esatte sapeva che in un umanitarista come lui l’entusiasmo poteva
prevalere sulla scrupolosità scientifica.
– E quand’è che mi sarei infervorato? – Rubin si era quasi offeso; si lisciò la
barba scarmigliata. – Il nostro lavoro di raccolta dati di due anni, tutte le analisi
sonore e sillabiche del linguaggio russo, lo studio dei fonoaspetti, la
classificazione delle voci, la teoria sull’uso nazionale, di gruppo e individuale
del linguaggio, ogni cosa che Anton Nikolaič considerava un mero
passatempo... e perché nasconderlo, a volte anche in lei si è insinuato il dubbio!
Tutto dà ora i frutti in una volta sola. Non sarà il caso di far venire anche
Neržin, eh?
– Se l’impresa dovesse allargarsi, nulla in contrario. Ma per il momento
dobbiamo dimostrare la nostra vitalità e completare il primo incarico.
– Il primo incarico! Quello è già metà di tutta la scienza! Non si può
svolgere in fretta.
– Ma... che dice, Lev Grigor’ič! Possibile che non vede con quanta urgenza
bisogna farlo?
Oh, altroché se lo vedeva! Il membro del Komsomol Lev Rubin era
cresciuto accompagnato da quelle parole: “bisogna” e “urgenza”. Erano gli
slogan supremi degli anni Trenta. Mancavano l’acciaio, la corrente, il pane, le
stoffe, ma bisognava fare tutto e farlo con urgenza, così si erigevano altiforni,
spuntavano laminatoi. Prima della guerra, poi, quando Rubin si era immerso
nel lento XVIII secolo, concedendosi bonarie ricerche erudite, l’appello del
“bisogna con urgenza!” non lo aveva abbandonato mai e lo intralciava
nell’abitudine di rifinire un lavoro fino in fondo.
In effetti, come si poteva non fare con urgenza, con il più grande traditore
dello Stato pronto a svignarsela?
Dalla finestra, ormai, stava entrando già poca luce diurna. Accesero la
lampada in alto, si sedettero al tavolo da lavoro, esaminarono i modelli segnati
sui nastri dei fonoaspetti con la matita rossa e blu, i suoni caratteristici, i giunti
consonantici, le linee di intonazione. Fecero tutto questo in due, senza prestare
attenzione a Smolosidov, che per tutto il giorno non era uscito dalla stanza
neanche un minuto, sedeva accanto al nastro magnetico a fargli la guardia come
un cupo cane nero e fissava loro la nuca, con uno sguardo pesante e
implacabile che premeva loro sul cranio e sul cervello. Smolosidov li privava di
un elemento minimo ma davvero importante: la spontaneità. Era stato
testimone di ogni loro esitazione e lo sarebbe stato anche del loro vivace
resoconto ai capi...
Rojtman e Rubin incappavano a turno uno nel dubbio, l’altro nella certezza,
e poi viceversa. A frenare Rojtman era il suo senso matematico, mentre a
trascinarlo oltre era la sua posizione ufficiale. A limitare Rubin era il desiderio
disinteressato di generare un’autentica nuova scienza, mentre a spingerlo in
avanti erano la pratica dei piani quinquennali e un senso del dovere legato al
partito.
Finì che entrambi ritennero sufficiente l’elenco di cinque sospettati. Non
esternarono ipotesi inutili sul fatto che avrebbero dovuto registrare al
magnetofono i quattro fermati alla stazione del metro Sokol’niki (del resto
erano stati fermati troppo tardi), e anche quelli tirati fuori dall’MGB e promessi,
in caso estremo, da Bul’banjuk. Respinsero poi da un punto di vista psicologico
l’ipotesi che a telefonare non fosse stata una persona informata dei fatti, ma
qualcuno per suo incarico.
Era già difficile occuparsi anche solo di quei cinque! Confrontarono a
orecchio le cinque voci con quella del criminale. Confrontarono i cinque nastri
dei fonoaspetti con quello del criminale.
– Vede quante cose ci fa capire l’analisi dei fonoaspetti? – gli mostrava
Rubin con foga. – Sente che all’inizio il criminale non parla con la stessa voce,
cerca di alterarla. Ma cos’è cambiato nel fonoaspetto? Si è spostata solo
l’intensità delle frequenze: l’uso individuale del linguaggio non è cambiato per
niente! Ecco la nostra principale scoperta: l’uso del linguaggio! Anche se il
criminale parlasse fino alla fine con la voce alterata, non potrebbe nascondere il
suo aspetto caratteristico!
– Ma noi sappiamo ancora poco riguardo ai limiti dell’alterazione delle voci
– si impuntava Rojtman. – Forse nelle micro-intonazioni ci sono margini più
ampi.
Se a orecchio era facile avere dubbi sui punti in cui la voce era somigliante o
differente, con i fonoaspetti il disegno si modificava in base all’ampiezza delle
frequenze e la disparità appariva più netta. (A dire il vero, il problema era la
grossolanità del loro apparecchio del linguaggio visibile: distingueva pochi
canali di frequenze e trasmetteva il valore dell’ampiezza usando tratti
indecifrabili. Aveva una scusante, però: non era stato concepito per quel lavoro
di responsabilità.)
Dei cinque sospettati si potevano escludere con assoluta certezza Zavarzin e
Sjagovityj (sempre che la futura scienza permettesse di trarre conclusioni da
una singola conversazione). Con qualche titubanza si poteva escludere anche
Petrov (l’esagitato Rubin lo escludeva con certezza). La voce di Volodin e
quella di Ševronok, invece, assomigliavano a quella del criminale per frequenza
del tono di base e coincidevano fonemi come: o, r, l, š, simili anche nell’uso
individuale del linguaggio.
Quelle voci potevano rappresentare la base per lo sviluppo della scienza
della fonoscopia e la ridefinizione dei suoi metodi. Solo analizzando le sottili
differenze fra loro si poteva elaborare un futuro apparecchio sensibile. Con
l’entusiasmo dei creatori, Rubin e Rojtman si abbandonarono contro lo
schienale. Con l’occhio della mente cominciarono a immaginare che un giorno
si sarebbe dato vita a un’organizzazione simile alla dattiloscopia, con un’unica
fonoteca dell’Urss, e fonoaspetti derivati dalle voci di tutti i sospettati.
Qualsiasi conversazione criminale sarebbe stata registrata, confrontata, e il
malfattore catturato senza esitazione, come un ladro che lasci le impronte sullo
sportello di una cassaforte.
In quel momento, però, dallo spiraglio della porta l’aiutante di Oskolupov
comunicò l’imminente arrivo del suo padrone.
Si ripresero entrambi. La scienza era scienza, ma per ora bisognava elaborare
un metodo generale e difenderlo amichevolmente davanti al capo della Sezione.
In sostanza, Rojtman considerava quanto ottenuto già molto. Sapendo che il
capo detestava le ipotesi e amava le certezze, la diede vinta a Rubin: fu
d’accordo a considerare la voce di Petrov libera da ogni sospetto e a riferire
con fermezza al generale di divisione che fra i sospettati erano rimasti solo
Š
Ševronok e Volodin, sui quali nei due giorni successivi andava condotta
un’indagine supplementare.
C’era però una circostanza che complicava le cose: dai dati ricevuti, proprio
due dei tre scartati, Sjagovityj e Petrov, non ne sapevano un fico secco di lingue
straniere; Ševronok conosceva l’inglese e l’olandese, Volodin il francese come
un madrelingua, l’inglese correntemente e un po’ d’italiano. Era poco probabile
che in un momento come quello, in cui la conversazione poteva interrompersi
a causa di un’incomprensione, a una persona non scappasse un’esclamazione in
una lingua a lei nota.
– Comunque, Lev Grigor’ič – disse Rojtman, con aria sognante – io e lei
non dobbiamo trascurare nemmeno l’aspetto psicologico. Bisogna immaginarsi
che tipo di uomo sia uno che decide di fare una telefonata del genere? Che cosa
può averlo spinto? E poi confrontarlo con i modelli concreti dei sospettati.
Bisognerà fare una richiesta perché d’ora in avanti forniscano a noi
fonoscopisti non solo la voce di un sospettato e il suo cognome, ma anche
brevi informazioni sulla sua posizione, la professione, lo stile di vita, magari
pure l’intera biografia. Già adesso potrei costruire un bello schizzo psicologico
sul nostro criminale...
Ma Rubin, che la sera prima aveva ribattuto al pittore che la conoscenza
oggettiva è libera da ogni sfumatura emotiva, adesso preferiva già uno dei due
sospettati e si espresse così:
– Adam Veniaminovič, io le considerazioni psicologiche, ovviamente, le
calcolavo già, e farebbero pendere il piatto della bilancia verso Volodin: nella
conversazione con la moglie... – (quella conversazione, senza che se ne rendesse
conto, aveva sviato e confuso Rubin: la voce della moglie di Volodin era così
melodiosa che l’aveva turbato e se ci fosse stata la possibilità di allegare
qualcosa al nastro, Lev avrebbe chiesto di ricevere una fotografia di quella
donna) – ...è davvero fiacco, sopraffatto, quasi apatico, cosa assolutamente
tipica in un criminale che ha il timore di essere braccato, mentre non c’è nulla
di simile nell’allegro cinguettare domenicale di Ševronok, in questo sono
d’accordo. Ma non saremmo affatto bravi se fin dai primi passi ci abituassimo
ad appoggiarci su considerazioni aliene invece che sui dati oggettivi della
nostra scienza. Ho già abbastanza esperienza di lavoro con i fonoaspetti, e mi
deve credere, da molti indizi impercettibili sono assolutamente certo che il
criminale è Ševronok. Solo per mancanza di tempo non ho potuto misurare
quegli indizi sul nastro con uno strumento e tradurli in cifre. – (Per quella cosa
a un filologo non sarebbe mai bastato il tempo!) – Ma se adesso mi afferrassero
per la gola e mi dicessero: fai un nome, solo uno e assicuraci che è lui,
indicherei quasi sicuramente Ševronok!
– Ma noi non faremo così, Lev Grigor’ič – obiettò con indulgenza Rojtman.
– Usiamo il misuratore, traduciamolo in cifre, e poi ne riparliamo.
– Ma in questo modo, quanto tempo perderemo?! Bisogna davvero agire con
urgenza!
– Non lo esige la verità?
– Ma guardi lei stesso, guardi! – ed esaminando di nuovo i nastri dei
fonoaspetti, scrollandoci sopra ancora e ancora della cenere, Rubin cominciò a
dimostrare con fare spavaldo la colpevolezza di Ševronok.
Il generale di divisione Oskolupov, che era appena entrato a passi lenti e
autoritari con le sue gambette corte, li trovò impegnati in quella cosa. Lo
conoscevano tutti bene e, già dal colbacco calcato in testa e dal labbro
superiore storto, si resero conto che era arrivato scontento.
Balzarono in piedi non appena lui si sedette su un angolo del divano, ficcò le
mani nelle tasche e, come fosse un ordine, borbottò:
– Ebbene!
Rubin per correttezza taceva, lasciando a Rojtman la possibilità di fare
rapporto.
Durante la relazione di Rojtman, la faccia dalle guance flosce di Oskolupov
fu travolta da pensieri profondi, le palpebre assonnate calarono un po’ e lui
non si alzò nemmeno a guardare sui nastri i modelli che gli venivano proposti.
Durante la relazione di Rojtman, Rubin si annoiava: nelle parole precise di
quell’uomo intelligente vedeva perdersi quella cura, quell’intuizione che lo
avevano guidato nell’indagine. Rojtman concluse che sospettavano di Ševronok
e Volodin, ma per un giudizio definitivo erano necessarie altre registrazioni
delle loro conversazioni. Dopodiché guardò Rubin e disse:
– Ma, forse, Lev Grigor’ič vuole aggiungere e correggere qualcosa...
Per Rubin Foma Oskolupov era un allocco, un allocco fatto e finito. Ma in
quel momento simboleggiava anche l’occhio dello Stato, era un rappresentante
del potere sovietico e un rappresentante involontario di tutte quelle forze
progressiste per le quali Rubin dava tutto sé stesso. Per questo, mentre parlava,
scrollando i nastri e gli album dei fonoaspetti, Lev si lasciò prendere
dall’agitazione. Chiese al generale di capire che, sebbene la conclusione fornita
al momento fosse duplice, nella scienza della fonoscopia una tale duplicità non
poteva esistere, era stato soltanto troppo breve il tempo concesso per emettere
un giudizio definitivo, servivano ancora altre registrazioni magnetiche, ma se si
parlava di un’intuizione personale, allora lui, Rubin...
Il capo non ascoltava più con aria assonnata, si era accigliato, era infastidito.
Lo interruppe senza attendere la fine della spiegazione.
– Il futuro lo predice una vecchia coi fagioli! Sai che me ne faccio della
vostra ‘scienza’! Ho un criminale da catturare. Fate rapporto in modo
responsabile: il criminale è qui, sul tavolo, giusto? Non è uno che se ne va in
giro libero? È uno di questi cinque?
Li guardò in tralice. Se ne stavano lì davanti a lui, senza appoggiarsi a niente.
I nastri di carta scivolarono dalle mani abbassate di Rubin, cadendo sul
pavimento. Come un drago nero, Smolosidov si era accovacciato vicino al
magnetofono alle loro spalle.
Rubin esitò. Non si aspettava di dover parlare da quel punto di vista.
Rojtman, più abituato alle maniere del capo, disse nel modo più audace
possibile:
– Sì, Foma Gur’janovič. Io veramente... noi veramente... Siamo sicuri che sia
fra questi cinque.
(E che altro poteva dire?)
Foma socchiuse ulteriormente un occhio.
– Vi prendete la responsabilità di queste parole?
– Sì, noi... Sì... ce la prendiamo...
Oskolupov si alzò, pesante, dal divano.
– Badate bene, non vi ho cavato io le parole di bocca. Adesso andrò dal
ministro a riferire. Arresteremo entrambi quei figli di cane!
(Lo disse guardandoli con aria ostile, come se stessero per arrestare anche
loro due.)
– Aspetti – ribatté Rubin. – Ci conceda ancora ventiquattr’ore! Ci dia la
possibilità di fornire le basi di una prova completa!
– Quando l’istruttoria avrà inizio, potrete piazzare un microfono sul tavolo
dell’inquirente e registrarli anche per tre ore.
– Ma uno dei due sarà innocente! – esclamò Rubin.
– Come innocente? – si meravigliò Oskolupov, sgranando gli occhi verdi. –
Innocente in tutto? Gli organi troveranno senz’altro qualcosa, sapranno
intervenire.
E uscì, senza rivolgere neanche una parola gentile agli addetti della nuova
scienza.
Lo stile di comando di Oskolupov era quello: non lodare mai nessuno dei
suoi sottoposti in modo che si sforzassero di più. Non era uno stile suo
personale, gli arrivava da Lui.
Tuttavia, era un peccato.
Si sedettero sulle stesse sedie su cui poco prima sognavano un grande futuro
per quella scienza in procinto di nascere. E tacquero.
Era come se qualcuno avesse calpestato tutto ciò che avevano costruito in
modo tanto sottile e fragile. Come se la fonoscopia fosse assolutamente inutile.
Se al posto di uno se ne potevano arrestare due, allora perché, per sicurezza,
non li arrestavano tutti e cinque?
Rojtman sentì forte e chiaro quanto il nuovo gruppo fosse precario, si
ricordò che metà dell’Acustico era stato cacciato e la sensazione di squallore e
solitudine provata quella notte tornò a fargli visita.
In Rubin, invece, tutto l’impeto carico di abnegazione di ore e ore si era
spento. Gli tornò in mente che gli faceva male il fegato, perdeva i capelli, la
moglie stava invecchiando, a lui sarebbe toccato rimanere dentro ancora più di
cinque anni, e ogni anno che passava quei maledetti funzionari di partito
affondavano la rivoluzione sempre di più in una palude, e adesso avevano
screditato pure la Jugoslavia.
Ma non si dicevano quello che stavano pensando, rimanevano solo lì seduti,
in silenzio.
Anche Smolosidov, dietro le loro nuche, taceva.
Sul muro era appesa la cartina della Cina che Rubin aveva appuntato, il
territorio comunista colorato con la matita rossa.
Solo quella cartina gli ridava coraggio. Nonostante tutto, nonostante tutto
vinceremo.
Qualcuno bussò alla porta e chiamò Rojtman. Stava per cominciare la
lezione di Educazione politica per quelli del partito e del Komsomol,
bisognava spingere i sottoposti a partecipare e doveva presenziare anche lui.
Il lunedì era il giorno riservato dal Comitato Centrale del partito alle lezioni di
Educazione politica non solo alla šaraška di Marfino, ma in tutta l’Unione
Sovietica. In quella giornata anche gli allievi delle ultime classi, le casalinghe
delle cooperative per la locazione, i veterani della rivoluzione e gli accademici
canuti sedevano dietro i banchi dalle sei alle otto della sera e sfogliavano i loro
appunti preparati la domenica (su desiderio irrevocabile del Capo si esigevano
dai cittadini non solo risposte imparate a memoria, ma anche appunti scritti
obbligatoriamente di proprio pugno).
Veniva analizzata in modo molto approfondito la Storia del Partito di
Nuovo Tipo. Ogni anno, dal 1° ottobre, si studiavano gli errori dei populisti,
gli errori di Plechanov e la lotta di Lenin e Stalin contro l’economicismo, il
marxismo legale, l’opportunismo, il codismo, il revisionismo, l’anarchismo,
l’otzovismo, il liquidatorismo, la “ricerca di dio” e la mancanza di spina dorsale
degli intellettuali. Senza lesinare sul tempo, si spiegavano paragrafi dello
statuto del partito adottati cinquant’anni prima (e cambiati da un pezzo), e la
differenza fra la vecchia “Iskra” e la nuova “Iskra”169, un passo avanti, due
indietro170, la Domenica di sangue, finché non si arrivava al celebre Quarto
Capitolo del Breve corso, in cui si stabilivano le basi filosofiche dell’ideologia
comunista, e chissà perché lì tutti i circoli si impantanavano ingloriosamente.
Siccome non si poteva dare la colpa a difetti o confusioni nel materialismo
dialettico o incertezze nell’esposizione dell’autore (il capitolo era stato scritto
dal miglior Allievo e Amico di Lenin), le uniche motivazioni dovevano essere
la difficoltà del pensiero dialettico per le oscure e arretrate masse e l’inevitabile
arrivo della primavera. A maggio, nel pieno dello studio del Quarto Capitolo, i
lavoratori si facevano esentare con il fatto che andavano a sottoscrivere il
prestito di Stato, e le lezioni di Educazione politica si interrompevano.
Quando a ottobre i circoli si riunivano di nuovo, bisognava tener presente
che, nonostante l’intrepido desiderio esplicito del Grande Timoniere che si
passasse al più presto alla scottante contemporaneità, alle sue mancanze e
contraddizioni propulsive, durante l’estate i lavoratori avevano dimenticato
completamente il materiale, il Quarto Capitolo non era finito, e i propagandisti
erano costretti a ricominciare con gli errori dei populisti, quelli di Plechanov, la
lotta all’economicismo e al marxismo legale.
Così succedeva dappertutto ogni anno, anno dopo anno. La lezione di quel
giorno a Marfino, intitolata “Il materialismo dialettico: una concezione del
mondo avanzata”, doveva essere particolarmente significativa, davvero
interessante, perché sviscerava il Quarto Capitolo, toccava la tanto geniale
opera di Lenin Materialismo ed empiriocriticismo e, interrompendo quel circolo
vizioso, lanciava finalmente i circoli del partito e del Komsomol di Marfino
sulla strada maestra della contemporaneità: lavoro e lotta del nostro partito nel
periodo della prima guerra imperialistica e preparativi della rivoluzione di
febbraio.
Ad allettare i liberi di Marfino era anche il fatto che a quella lezione non
servivano gli appunti (chi li aveva già scritti, poteva rimandarli al lunedì
successivo, chi li doveva ancora ricopiare poteva farlo anche in seguito). A
tenere la lezione, poi, non sarebbe stato un propagandista qualunque, ma
Rachmankul Šamsetdinov, un relatore del comitato regionale del partito.
Girando per i laboratori prima di pranzo, Stepanov aveva avvertito tutti che il
relatore, a quanto dicevano, era uno che leggeva con passione. (Una circostanza
sul relatore, però, non la conosceva nemmeno Stepanov: Šamsetdinov era un
caro amico di Mamulov, non il Mamulov della segreteria di Berija, un altro, suo
fratello, il capo del campo di lavoro di Chovrino presso la fabbrica d’armi.
Quel Mamulov aveva messo in piedi per sé un teatrino di servi formato da ex
artisti moscoviti ora detenuti, che intrattenevano lui e i suoi compagni di svago
assieme a ragazze prelevate di proposito dalla prigione di transito di Krasnaja
Presnja. La vicinanza ai due Mamulov era anche il motivo del rispetto che il
comitato regionale del partito di Mosca nutriva nei confronti di Šamsetdinov,
ragion per cui quel relatore si permetteva anche l’audacia di non leggere parola
per parola da testi preparati in anticipo, ma di abbandonarsi all’ispirazione
dell’arte oratoria.)
Eppure, nonostante lo scrupoloso annuncio della lezione, e malgrado tutta
la sua attrattiva, i liberi di Marfino vi si trascinavano pigri e con le scuse più
disparate cercavano di trattenersi nei laboratori. Siccome doveva restare
almeno un libero per ciascun laboratorio – non si potevano lasciare gli zek
senza sorveglianza! – il capo del Vuoto, che di solito non faceva mai niente,
all’improvviso aveva annunciato di avere questioni urgenti che esigevano la sua
presenza al laboratorio e aveva mandato a lezione le sue ragazze, Tamara e
Klara. Lo stesso aveva fatto il vice di Rojtman all’Acustico: nel laboratorio
c’era rimasto lui e aveva ordinato a Simočka di andare ad assistere alla lezione.
Nemmeno il maggiore Šikin era venuto, ma la sua attività era così avvolta nel
mistero che nemmeno il partito avrebbe potuto controllare.
Alla fine quelli che c’erano andati avevano fatto tardi e per un falso senso di
autoconservazione avevano cercato di occupare le ultime file.
Per le riunioni e le lezioni l’istituto aveva predisposto una stanza speciale.
Un buon numero di sedie, poi unite e incollate per sempre su uno staggio a
gruppi di otto, era stato trasferito lì in via definitiva. (Il comandante aveva
adottato quella misura per evitare che le sedie venissero portate in giro per
tutto l’impianto.) Le file erano posizionate vicine a causa delle dimensioni
ridotte della stanza, al punto che le ginocchia di quelli seduti dietro premevano
dolorosamente contro lo staggio della fila davanti. Per questo chi arrivava
prima cercava di spostare la propria fila indietro in modo da avere più spazio
per le gambe. Quello era motivo di opposizione, scherzo e risate fra i giovani
seduti in file diverse. Grazie agli sforzi di Stepanov e dei messi da lui inviati,
verso le sei e un quarto le file, dall’ultima fino a quella davanti, si erano
riempite tutte tranne la seconda e la terza, così schiacciate alla prima da rendere
impossibile a chiunque di prendervi posto.
– Compagni! Compagni! È una vergogna! – spronava Stepanov quelli che si
erano attardati, luccicando attraverso i plumbei occhiali. – State facendo
aspettare il relatore del comitato regionale del partito! – (Il relatore, per non
screditarsi, attendeva nell’ufficio di Stepanov.)
Rojtman entrò nella saletta per penultimo. Non trovando altro posto – le
sedie erano tutte occupate da giubbe verdi, con qualche abito da donna
disseminato qua e là – si diresse alla prima fila e si sedette al margine sinistro,
con le ginocchia che sfioravano quasi il tavolo dei relatori. Poi Stepanov andò a
prendere Jakonov: anche se non era un membro del partito, a una lezione tanto
importante doveva assistere, era suo interesse presenziare. Jakonov trotterellò
vicino alla parete, trascinando un po’ ingobbito il corpo corpulento accanto alle
persone che in quell’istante non erano più suoi subordinati ma un collettivo del
partito e del Komsomol. Non trovando posto libero in fondo, si diresse verso
la prima fila, dove si sedette al margine destro, anche lì in opposizione a
Rojtman.
Dopodiché Stepanov fece entrare il relatore. Si trattava di un omone con le
spalle larghe, la testa grossa e un rigoglioso cespuglio ribelle di capelli scuri
spruzzati di cenere. Si muoveva in modo estremamente naturale, come se
avesse fatto un salto in quella stanza solo per bersi un boccale di birra con
Stepanov. Indossava un completo di lana chiaro, sgualcito qua e là e portato
con straordinaria semplicità, e una cravatta variopinta, con un nodo grosso
quanto un pugno. In mano non aveva né un quaderno né il testo del discorso
preparato; andò direttamente al punto:
– Compagni! A ciascuno di noi interessa capire il mondo che ci circonda.
Rivolto verso l’uditorio, si piegò con decisione sopra il tavolo dei relatori, su
cui era stesa una tela di cotone rosso piena di slogan; poi tacque. Gli altri
rimasero tutti in attesa. Il relatore sembrava sul punto di spiegare in due parole
il mondo circostante. Ma si tirò indietro bruscamente, quasi gli avessero dato
da annusare una soluzione d’ammoniaca, e indignato esclamò:
– Molti filosofi hanno cercato di rispondere a questa domanda! Ma nessuno
prima di Marx c’è riuscito! Perché la metafisica non riconosce i cambiamenti
qualitativi! Naturalmente, – con due dita estrasse dalla tasca un orologio d’oro
– esporvi tutto questo in un’ora e mezza non sarà facile, ma – nascose
l’orologio – ci proverò.
Stepanov, che si trovava seduto a un’estremità del tavolo dei relatori, con il
viso rivolto al pubblico, intervenne:
– Potrebbe durare anche di più. Ne saremmo molto felici.
Alcune ragazze sentirono un peso sul cuore (quel giorno dovevano correre
al cinema).
Ma il relatore, allargando le braccia con aria nobile, fece capire che sopra
aveva anche lui un capo.
– Il tempo è prefissato! – disse, zittendo Stepanov. – Che cosa ha aiutato,
dunque, Marx ed Engels a fornire un giusto quadro della natura e della società?
Quel sistema filosofico da loro elaborato in modo geniale, e proseguito da
Lenin e Stalin, che prende il nome di materialismo dialettico. La prima parte
del materialismo dialettico è la dialettica materialista. Definirò in poche parole i
suoi principi di base. È d’uso ricollegarsi al filosofo prussiano Hegel come se
sia stato lui a formulare i tratti distintivi della dialettica. Ma questo, compagni,
non è vero, non è assolutamente vero! La dialettica, Hegel ce l’ha fra le nuvole,
questo è indubbio! Marx ed Engels, invece, ce l’hanno ben piantata a terra, ne
hanno estratto un germe di razionalità e hanno buttato via la buccia ideologica!
Il metodo dialettico marxista è il nemico! Il nemico di ogni stagnazione, ogni
metafisica e ogni oscurantismo clericale! La dialettica possiede in tutto quattro
tratti distintivi. Il primo è ciò che... è la correlazione! La correlazione, e non si
tratta di un insieme di oggetti isolati. La natura e la società non sono... come
dirlo in modo più chiaro?... non sono un negozio di mobili dove questo si
mette qua, quello là, e di collegamenti non ce ne sono. Nella natura è tutto
collegato, tutto, e questo, ricordatelo bene, vi sarà di grande aiuto nelle vostre
ricerche scientifiche!
In particolare, si trovavano in posizione vantaggiosa quelli che non si erano
presi dieci minuti extra, erano venuti prima e adesso sedevano dietro. Stepanov,
gli occhiali che luccicavano severi, non arrivava con lo sguardo fino alle file
posteriori. Laggiù un tenente alto e prestante aveva scritto un biglietto e lo
aveva fatto passare fino a Tonja, la giovane tatara dell’Acustico, anche lei
tenente, che sopra a un abito scuro indossava un golfino di lana importato
color vermiglio. Tonja si rigirò il biglietto sulle ginocchia e si nascose dietro il
tizio che gli sedeva davanti. Una ciocca nera le cadde sugli occhi, rendendola
ancora più affascinante. Nel leggere il biglietto, arrossì appena, poi chiese ai
vicini se avevano una matita o una stilografica.
– ...Be’, anche il numero degli esempi si può ampliare... Il secondo tratto
distintivo della dialettica è che tutto si muove. Tutto. La calma non esiste, non
c’è mai stata, questo è un fatto! La scienza deve studiare ogni cosa in
movimento, nel suo sviluppo, ma dobbiamo anche stamparci bene in testa che
non si tratta di un movimento dentro un circolo chiuso, altrimenti la somma
vita contemporanea non sarebbe comparsa. Procede lungo una scala a
chiocciola, non serve che ve lo dimostri, va su, su in questo modo...
Mostrò come procedeva, agitando liberamente le mani. Non si imbarazzava
né della scelta delle parole né dei movimenti del corpo. Spostando le sedie
vuote del tavolo dei relatori, si era creato tre metri quadrati di spazio, ci
camminava avanti e indietro, sbattendo i piedi, si dondolava appoggiato allo
schienale di una sedia, fragile sotto il suo tronco robusto. Pronunciava le parole
“indubbio” e “non serve che ve lo dimostri” con voce particolarmente tonante,
categorica, come uno che inciti all’ammutinamento da un ponte di comando, e
le diceva non in punti a caso, ma là dove serviva rinforzare in modo particolare
prove già di per sé chiare.
– Il terzo tratto distintivo della dialettica è il passaggio dalla quantità alla
qualità. È un tratto molto importante che ci aiuta a capire che cos’è lo
sviluppo. Non pensate che lo sviluppo sia un semplice accrescimento. Qui
prima di tutto bisogna fare riferimento a Darwin. Engels ci spiega questo tratto
con esempi scientifici. Prendete un po’ d’acqua, mettiamo pure quella
contenuta in questa caraffa, sarà sui diciotto gradi: è semplice acqua. Ora
riscaldatela fino a trenta gradi, continuerà comunque a essere acqua. Arrivate
fino a ottanta gradi, sarà ancora acqua. E se raggiungeste cento gradi? Che cosa
diventerebbe allora? Vapore!!
A quel grido trionfante del relatore, gli altri sussultarono.
– Vapore! Ma si può creare anche il ghiaccio! Cosa rappresenta tutto questo?
Il passaggio dalla quantità alla qualità! Leggetevi La dialettica della natura di
Engels, è piena di altri esempi del genere. E adesso, a quanto dicono, la nostra
scienza sovietica ha scoperto che si può trasformare in liquido anche l’aria.
Come mai cento anni fa non c’erano arrivati? Perché non conoscevano la legge
sul passaggio dalla quantità alla qualità! E così in tutto, compagni! Vi farò
esempi sullo sviluppo della società...
Con o senza relatori, Adam Rojtman sapeva bene che il diamat171 a uno
studioso serviva come l’aria, che senza, tra i fenomeni della vita, non ci si
poteva orientare. Ma quando si sedeva alle riunioni, ai seminari e alle lezioni
come quel giorno, sentiva quasi fisicamente il cervello girare piano, caricarsi
male. Cercava di resistere ma finiva per arrendersi a quelle spire serranti, come
una persona spossata che cede al sonno. Avrebbe voluto distrarsi. Avrebbe
potuto tirar fuori mirabolanti esempi dalla struttura dell’atomo, dalla
meccanica delle onde. Ma non avrebbe mai osato prendersi la responsabilità di
interrompere o dare consigli a un compagno del comitato regionale. Guardava
solo, disapprovando, con i suoi occhi a mandorla attraverso gli occhiali
anastigmatici, il relatore, che agitava le mani non lontano dalla sua testa.
La voce del relatore tuonava:
– Dunque, il passaggio dalla quantità alla qualità può avvenire con
un’esplosione, ma anche con un’evoluzione, questo è un fatto! Perché avvenga
uno sviluppo non è obbligatoria per forza un’esplosione. La nostra società
socialista si sta sviluppando e si svilupperà anche senza esplosioni, questo è
indubbio! Ma gli apostati del socialismo, i suoi traditori, i socialisti di destra di
ogni fattispecie imbrogliano il popolo senza vergogna, quando dicono che si
può passare anche dal capitalismo al socialismo senza uno scoppio. Com’è
possibile senza uno scoppio?! Quindi senza una rivoluzione? Senza uno
stravolgimento della macchina statale? Con un percorso parlamentare? Certe
favole le raccontino pure ai bambini, ma non ai marxisti adulti! Lenin ci ha
insegnato, e il geniale teorico compagno Stalin ci insegna ancora, che la
borghesia non rinuncerà mai al potere senza la lotta armata!!
Quando il relatore sollevava di colpo la testa, i capelli arruffati gli
ballonzolavano. Si soffiò il naso con un grosso fazzoletto orlato d’azzurro e
controllò l’orologio, ma non aveva lo sguardo supplichevole di un
conferenziere che non sta nei tempi, era perplesso; dopodiché se lo portò
all’orecchio.
– Il quarto tratto distintivo della dialettica – gridò al punto che alcuni
sussultarono di nuovo – è... la contraddizione! La contrapposizione! L’obsoleto
e il nuovo, il negativo e il positivo! È dappertutto, compagni, non è un segreto!
Si possono trarre esempi scientifici anche dall’elettricità! Se si strofina il vetro
contro la seta, quello sarà positivo, ma se lo si strofina contro la pelliccia,
diventerà negativo! Solo la loro unione, la loro sintesi darà energia alla nostra
industria. E per avere altri esempi non serve andare lontano, compagni, ce n’è
dappertutto: il caldo è positivo, il freddo negativo, e nella vita pubblica notiamo
quello stesso irriducibile assortimento di positivi e negativi. Come vedete, il
diamat ha assorbito tutto il meglio raggiunto dalla branca della scienza. Le
contraddizioni interne allo sviluppo scoperte dai padri del marxismo non erano
solo presenti nella natura morta, ma rappresentavano anche la forza motrice
fondamentale di tutte le formazioni, dalla fase primitiva del comunismo
all’imperialismo, che imputridisce davanti ai nostri occhi! Solo nella nostra
società senza classi, indubbiamente, sono forza motrice non le contraddizioni
interne, ma la critica e l’autocritica, e non guardano in faccia a nessuno.
Il relatore sbadigliò senza riuscire a coprirsi la bocca in tempo.
All’improvviso si incupì, sul viso gli comparve qualche ruga verticale e la
mandibola gli tremò in una convulsione repressa. Con un tono di grande
stanchezza del tutto nuovo, lì in piedi, si sforzò di dire:
– Oppositori e capitolardi di tendenza bucharinista ci diffamavamo
spudoratamente dicendo che abbiamo attriti di classe ma...
Fu sopraffatto dalla stanchezza, batté le palpebre, si lasciò cadere sulla sedia
e finì la frase con grande indolenza, piano:
– ...il nostro Comitato Centrale vi si è opposto strenuamente.
E per l’altra metà della lezione proseguì allo stesso modo. Sembrava che un
dolore interno, all’improvviso, gli avesse sottratto le forze o fatto perdere ogni
speranza che quella maledetta ora e mezza di lezione finisse una buona volta.
Parlava con voce lugubre, arrivando fin quasi a sussurrare, come se tutto si
fosse messo contro di lui e contro chi lo stava ascoltando. Neanche si fosse
cacciato in un labirinto e non ne vedesse l’uscita:
– Solo la materia è assoluta, mentre tutte le leggi della scienza sono relative...
Solo la materia è assoluta, mentre ogni singolo aspetto della materia è relativo...
Non esiste ni-en-te di assoluto a parte la materia, e il movimento è il suo
attributo eterno... Il movimento è assoluto, la calma è relativa... Di verità
assolute non ce ne sono, ogni verità è relativa... Il concetto di bellezza è
relativo... I concetti di bene e male sono relativi...
Ascoltasse la lezione o meno, in Stepanov, che se ne stava seduto rigido sulla
sedia a mandare occhiate luccicanti al pubblico, tutto esprimeva la
consapevolezza dell’importanza dell’iniziativa politica realizzata e la posata
solennità che un fatto culturale di tale portata stesse avendo luogo fra le mura
di Marfino.
Jakonov e Rojtman ascoltavano il relatore per forza, essendo seduti così
vicino. C’era anche una ragazza in quarta fila tutta sporta in avanti, con un
abito di spugna e le guance un po’ arrossate. Le era venuto il desiderio
ambizioso di porre al relatore una domanda, ma non riusciva a farsene venire
in mente una.
Guardava con attenzione il relatore anche Klykačëv, la cui testa stretta e
oblunga sporgeva dal folto delle uniformi lì sedute. Ma nemmeno lui ascoltava:
teneva a sua volta lezioni di Educazione politica e sapeva farlo anche meglio di
così, conosceva bene i materiali didattici con cui era stato preparato
l’intervento di quel giorno. Klykačëv stava studiando il relatore semplicemente
per noia: prima si era messo a calcolare quanto quello doveva intascarsi al
mese, poi aveva cercato di stabilire la sua età e il suo stile di vita. Doveva essere
sulla quarantina, ma per i capelli brizzolati, l’irregolarità del viso, il naso pieno
e violaceo, gli davano più di cinquant’anni o dicevano di lui che dalla vita si era
preso troppo e quella ora gli mandava il conto.
Tutti gli altri non ascoltavano proprio. Tonja e il tenente alto si mandavano
bigliettini e avevano già usato quattro fogli di taccuino, mentre un altro tenente
e Tamara erano impegnati in un gioco avvincente: lui le prendeva prima un
dito, poi un altro e infine tutta la mano, con l’altra lei gli mollava una sberla e
se la liberava. Poi tutto ripartiva da capo. Erano rapiti da quel gioco, ma con
una furbizia da scolaretti si sforzavano di mantenere un’espressione seria sul
viso, l’unica cosa visibile a Stepanov. Il capo del Quarto gruppo stava
disegnando per il capo del Primo gruppo (sempre sulle ginocchia,
nascondendosi da Stepanov) un pezzo che pensava di aggiungere al circuito su
cui stava lavorando.
La voce del relatore, però, giungeva a tratti comunque a tutti: Klara
Makarygina, con un abito tinta unita di un blu acceso, si era appoggiata
comodamente allo schienale della sedia davanti e nascondeva il viso fra le
braccia incrociate. Se ne stava lì seduta cieca e sorda a tutto ciò che accadeva in
quella stanza, vagava nella nebbia rosa scuro che compare dietro le palpebre
serrate con forza. Un misto di gioia, confusione e ansia non la abbandonava dal
bacio di Rus’ka della sera prima. Tutto si era inestricabilmente ingarbugliato.
Perché Erik era entrato nella sua vita? Doveva metterlo da parte? Come poteva
ora non aspettare Rus’ka? E come aspettarlo? Come restare nel suo stesso
gruppo, incontrare il suo sguardo e parlare di nuovo con lui? Doveva farsi
spostare in un altro gruppo? E se l’ingegner colonnello aveva deciso di
trasferire Rostislav? Aveva chiamato Rus’ka due ore prima e lui non era ancora
tornato. Per Klara era stato più semplice non vederlo prima di Educazione
politica, così era corsa di buon grado a lezione rimandando il loro incontro.
Tuttavia, quella sera una spiegazione tra loro era inevitabile. Quando se n’era
andato, si era girato sulla soglia e le aveva rivolto uno sguardo d’accusa
insostenibile. In effetti, quanto doveva essergli sembrato vigliacco ieri fargli
promesse e oggi...
(Non sapeva che non si sarebbero mai più incontrati in vita loro: Rus’ka era
stato arrestato e condotto in un box piccolo e stretto al comando del carcere.
Intanto, al Vuoto, in quello stesso istante, il maggiore Šikin stava forzando e
perquisendo la scrivania di Rus’ka alla presenza del capo del laboratorio.)
Al relatore tornarono le forze. Si riebbe, si rialzò in piedi e, agitando il
grosso pugno, sferzò senza difficoltà la misera logica formale, frutto di
Aristotele e della scolastica medievale, che cadeva sotto l’assalto della dialettica
marxista.
Proprio a Marfino arrivavano le riviste americane più recenti, da poco Rubin
le aveva tradotte a tutto l’Acustico e oltre a Rojtman anche altri ufficiali
avevano letto della nuova scienza della cibernetica. Si basava interamente sulla
tanto bistrattata logica formale: “sì” è sì, “no” è no, una terza risposta non c’è
data. L’“algebra a due valori” di George Boole è dello stesso anno del Manifesto
comunista, solo che nessuno l’aveva notata.
– La seconda parte del materialismo dialettico è il materialismo filosofico –
rombò il relatore. – Il materialismo è cresciuto nella lotta alla filosofia
reazionaria dell’idealismo, il cui fondatore è Platone e successivamente ha
avuto fra i suoi esponenti più rappresentativi il vescovo Berkeley, Mach,
Avenarius, Juškevič e Valentinov172.
Jakonov gemette forte, tanto che tutti si girarono dalla sua parte. Allora fece
una smorfia di dolore e si toccò un fianco. L’unico lì cui avrebbe potuto
confidare i suoi pensieri era Rojtman, con il quale tuttavia non era proprio
possibile parlare. Rimase seduto con il viso remissivamente attento. Proprio
con quello doveva sprecare l’ultimo mese concesso!
– Non c’è bisogno di dimostrare che la materia è la sostanza di tutto ciò che
esiste! – tuonava il relatore. – La materia è ineliminabile, questo è indubbio! E
si può dimostrare scientificamente. Per esempio, piantiamo un chicco nella
terra: è davvero scomparso? No! Si è trasformato in una pianta, in decine di
chicchi come quello. Ho un po’ d’acqua, evapora al sole. Dunque è scomparsa?
Naturalmente no!!
L’acqua si è trasformata in nube, in vapore! Eh già! Solo un vile servo della
borghesia, un principe dei leccapiedi dell’oscurantismo clericale come il fisico
Ostwald poteva avere l’insolenza di dichiarare “la materia è scomparsa”. Ma è
ridicolo, lo sanno tutti! Il geniale Lenin nella sua opera immortale Materialismo
ed empiriocriticismo, basandosi su una concezione del mondo avanzata, confutò
Ostwald e lo cacciò in un vicolo cieco dal quale non ebbe più via d’uscita!
Jakonov pensò: sarebbe bello ficcare un centinaio di relatori così su queste
sedie strette, obbligarli ad assistere a una lezione sulla teoria di Einstein e
lasciarli senza cena finché le loro pigre teste ottuse non saranno in grado di
scoprire dove vanno a finire quattro milioni di tonnellate di materia solare in
un secondo!
Ma intanto stavano lasciando lui senza cena. Che tormento! Gli dava forza
solo una speranza, che presto sarebbe finita.
Quella speranza dava forza a tutti, perché erano arrivati lì da casa in tram, in
autobus, con l’električka, chi alle otto, chi alle sette del mattino, e ora non si
aspettavano di rientrare prima delle otto e mezza.
Ma più intensamente di loro aspettava la fine della lezione Simočka, anche se
sarebbe rimasta di turno e non doveva correre a casa. Timore e attesa
montavano e calavano in lei come onde calde, le gambe erano paralizzate come
sotto l’effetto dello champagne. Era la sera del lunedì, quella promessa a Gleb.
Non poteva permettere che quel momento di vita importante e solenne
avvenisse all’improvviso, in fretta e furia, ragion per cui due giorni prima non
si era sentita pronta. Per tutta la giornata di ieri e mezza di oggi, invece, si era
comportata come prima di una festa importante. Era andata dalla sarta a farle
premura perché le finisse un vestito nuovo che a Simočka stava molto bene. A
casa si era lavata con grande cura nella tinozza stretta nello spazio angusto
della stanza di Mosca. Prima di coricarsi si era arricciata a lungo i capelli, per
poi guardarsi allo specchio girando la testa in varie posizioni, cercando di
convincersi che poteva piacere davvero.
Avrebbe dovuto vedere Neržin alle tre del pomeriggio, subito dopo
l’intervallo del pranzo, ma Gleb, violando apertamente le regole dei detenuti
(l’avrebbe rimproverato oggi per quello! Doveva badare di più a sé stesso!) si
era attardato. Nel frattempo Simocka era stata mandata a lungo in un altro
gruppo a trascrivere e prendere in consegna apparecchi e componenti, era
tornata all’Acustico poco prima delle sei e lo aveva mancato di nuovo,
nonostante la sua scrivania fosse stracolma di riviste e fascicoli, e la lampada
accesa. Così se n’era andata a lezione senza né vederlo né sospettare la terribile
notizia che il giorno prima, dopo un anno di pausa, inaspettatamente, Gleb era
stato a colloquio con la moglie.
Adesso, con le guance arrossate e il vestito nuovo, era seduta a lezione e
fissava con terrore le lancette del grande orologio elettrico. Poco dopo le otto
lei e Gleb probabilmente sarebbero rimasti da soli... Era così minuta che in
quelle file strette sedeva comoda e per colpa dei vicini che la nascondevano la
sua sedia da lontano sembrava quasi vuota.
Il ritmo del discorso del relatore accelerò sensibilmente, come quando
un’orchestra esegue le ultime battute di un valzer o di una polka. Se ne
accorsero tutti e si rianimarono. Pensieri alati, avvicendandosi fra loro in fretta
e furia, sfrecciavano sopra la testa degli ascoltatori mischiati a schiumosi
schizzi di saliva.
– La teoria diventa la forza materiale... Tre caratteristiche del materialismo...
Due particolarità della produzione... Cinque tipi di rapporti produttivi... Il
passaggio al socialismo non è possibile senza la dittatura del proletariato... Un
balzo nel regno della libertà... I sociologi borghesi lo capiscono bene... La forza
e la vitalità del marxismo-leninismo... Il compagno Stalin ha portato il
materialismo dialettico a un nuovo livello ancora più elevato!... Di quella teoria,
ciò che Lenin non ha fatto in tempo a fare l’ha fatto il compagno Stalin!... Il
trionfo della Grande guerra patriottica... Risultati incoraggianti... Prospettive
sconfinate... Il nostro saggio, geniale... il nostro grande... il nostro caro...
E sotto uno scroscio di applausi guardò l’orologio da tasca. Erano le otto
meno un quarto. Del tempo previsto per l’intervento restava una piccola coda.
– Per caso, ci sono domande? – domandò il relatore in tono un po’
minaccioso.
– Sì, se posso... – disse la ragazza con l’abito di spugna della quarta fila,
arrossendo. Si alzò e, agitata perché tutti la stavano guardando e ascoltando,
domandò:
– Lei ha detto che i sociologi borghesi questo lo capiscono. E in effetti è
tutto così chiaro, così convincente... Ma allora perché sui loro libri scrivono il
contrario? Vuol dire che imbrogliano la gente di proposito?
– Perché non gli conviene dire altrimenti! Li pagano un sacco di soldi! Li
comprano con i profitti extra spremuti alle colonie! Il loro studio si chiama
pragmatismo, che in russo si traduce in: ciò che conviene è anche logico. Sono
tutti truffatori, sgualdrine politiche!
– Tutti tutti? – chiese la ragazza, inorridita, con voce stridula.
– Fino all’ultimo!! – concluse il relatore, risoluto, scuotendo la testa arruffata
color cenere.
169 La vecchia “Iskra” era quella di Lenin, dei bolscevichi; la nuova “Iskra” quella dei menscevichi, che a
partire dal 1903, anno in cui Lenin abbandonò il comitato di redazione, la trasformarono nel loro organo
di stampa.
170 Opera di Lenin del 1904.
171 Materialismo dialettico.
172 Trattasi proprio di figure che Lenin stronca in Materialismo ed empiriocriticismo.
89
UNA PICCOLA QUAGLIA
L’abito marrone nuovo di Simočka era stato confezionato tenendo conto dei
pregi e dei difetti della sua figura: la parte superiore era una specie di
giacchettina aderente sul vitino da vespa, che non scendeva morbida sul petto
ma si raccoglieva in pieghe indefinite. Nel passaggio alla gonna, per ampliare
con arte la figura, l’abito finiva con due volant circolari, che si sollevavano
quando lei camminava, uno opaco, l’altro lucido. Le braccia impalpabilmente
sottili di Simočka erano coperte dalle maniche, che dalle spalle partivano libere
e ondeggianti. Il colletto aveva un guizzo ingenuamente dolce: era formato da
una lunga striscia della stessa stoffa e le punte pendenti si annodavano sul petto
in un fiocco, che ricordava le ali di una farfalla marrone argentata.
Questi e altri dettagli osservavano e giudicavano le amiche di Simočka sulla
scala, vicino al guardaroba, dove lei le aveva accompagnate dopo la lezione.
C’era chiasso, un po’ di ressa: gli uomini si infilavano i cappotti e i paltò in
fretta e furia, accendevano una sigaretta prima di incamminarsi; le ragazze si
appoggiavano alle pareti per infilarsi le soprascarpe.
In quel mondo di diffidenza poteva sembrare strano che per il turno di
sorveglianza serale Simočka inaugurasse un vestito confezionato per il
Capodanno.
Ma Simočka stava spiegando alle ragazze che dopo il turno sarebbe andata a
festeggiare un onomastico a casa di uno zio, dove ci sarebbero stati diversi
giovani.
Le amiche approvavano l’abito, dicevano che con quello era “tanto carina” e
le domandavano dove avesse comprato quel crêpe satin.
La sicurezza aveva abbandonato Simočka, che tardava a dirigersi al
laboratorio.
Anche se rinvigorita dalle lodi, entrò all’Acustico solo due minuti prima
delle otto, con il cuore che le martellava forte. I detenuti avevano già
consegnato i materiali segreti da chiudere nell’armadio d’acciaio. Dall’altra
parte della stanza spoglia dopo il trasferimento del vocoder al Sette vide la
scrivania di Neržin.
Lui non c’era già più. (Non poteva aspettare?...) La lampada da tavolo era
spenta, i pannelli scorrevoli a nervature della scrivania erano chiusi, i materiali
segreti erano stati già consegnati. Tuttavia, c’era qualcosa di strano: il centro
della scrivania non era completamente sgombro, come era solito lasciarlo Gleb
all’intervallo, ma aveva una grossa rivista americana e un dizionario aperti.
Poteva essere un segnale segreto per lei: “Torno presto!”
Il vice di Rojtman affidò a Simočka le chiavi dell’armadio segreto, quelle
della stanza e il sigillo (il laboratorio veniva sigillato ogni notte). Simočka
temeva che Rojtman volesse fare di nuovo un salto da Rubin, e allora avrebbe
potuto tornare all’Acustico in qualsiasi momento, ma no, anche Rojtman si era
già messo il cappotto, il cappello e, infilati i guanti di pelle, faceva premura al
vice perché si vestisse.
Non era affatto contento.
– Bene, allora, Serafima Vital’evna, a lei il comando. Buone cose! – le augurò
infine.
Il lungo suono del campanello elettrico si diffuse per i corridoi e le stanze
dell’istituto. I detenuti si diressero tutti insieme a cena. Senza sorridere, mentre
osservava gli ultimi che se ne andavano, Simočka cominciò a passeggiare per il
laboratorio. Quando non sorrideva, il suo viso aveva un’aria molto severa, per
via soprattutto del naso lungo con una gobbetta appuntita, che le toglieva
fascino.
Rimase sola.
Lui stava per arrivare!
Continuò a camminare per il laboratorio stropicciandosi le dita.
Doveva proprio succedere quella sfortuna! Le tendine di seta sempre appese
alle finestre quel giorno erano state tolte per essere lavate. Le tre finestre erano
rimaste nude e indifese e dal buio del cortile si poteva spiare dentro senza farsi
notare.
A dire il vero, il fondo della stanza non si vedeva: l’Acustico si trovava al
piano nobile. Ma la recinzione non era lontana e direttamente di fronte alla
finestra sua e di Gleb si innalzava la torre con la sentinella. Dalla quale si
vedeva tutto.
E se avessero spento la luce? Trovando la porta chiusa avrebbero pensato
tutti che la sorvegliante di turno se n’era andata.
E se si fossero messi a scassinare la porta, a cercare altre chiavi?
Simočka si diresse verso la cabina acustica. Lo fece d’istinto, senza pensare
alla sentinella, il cui sguardo lì non poteva entrare. Si appoggiò alla grossa
porta cava di quel bugigattolo stretto e chiuse gli occhi. Senza di lui non aveva
nemmeno voglia di entrarci. Avrebbe voluto essere trascinata dentro, che ce la
portasse lui.
Sapeva dai racconti delle amiche come succedeva, ma se lo immaginava in
modo confuso, continuava a salirle l’agitazione e le guance le si facevano
sempre più calde.
Quello che in gioventù bisognava conservare più di ogni altra cosa si era già
trasformato in un peso!
Sì! Desiderava tanto avere un figlio da crescere in attesa che Gleb tornasse
libero! Gli mancavano solo cinque annetti!
Si avvicinò alla sedia girevole gialla e molleggiata di Gleb e abbracciò lo
schienale come fosse una persona viva.
Diede un’occhiata alla finestra. Nel buio lì vicino si percepiva la torretta e su
di essa un nero concentrato di ostilità verso l’amore: la sentinella con il fucile.
Dal corridoio giunsero i passi di Gleb, più leggeri del solito. Simočka
svolazzò verso la scrivania, si sedette, si accostò all’amplificatore a tre stadi in
cascata, fissato al fianco della scrivania, con le lampade nude, e si mise ad
esaminarlo tenendo in mano un piccolo cacciavite. Sentiva il cuore pulsarle in
testa.
Neržin accostò piano la porta in modo che il rumore non si diffondesse
troppo nel corridoio silenzioso. Attraverso lo spazio ormai lasciato vuoto dai
sostegni del vocoder, vide da lontano Simočka rintanarsi dietro la scrivania,
come una piccola quaglia dietro un enorme dosso.
L’aveva chiamata proprio lui così.
Simočka accolse Gleb con uno sguardo scintillante, ma rimase di stucco
quando notò la sua faccia turbata, quasi lugubre.
Prima di vederlo entrare, era convinta che come prima cosa lui sarebbe
venuto a baciarla, e lei lo avrebbe fermato, perché mancavano le tende, la
sentinella poteva vederli.
Ma lui non si era gettato in mezzo alle scrivanie. Si era fermato accanto alla
propria e aveva subito spiegato:
– Mancano le tende, non mi avvicino, Simočka. Salve! – Con le braccia
abbassate si appoggiò alla scrivania e lì in piedi la guardò dall’alto in basso. –
Se non ci disturbano, adesso dovremmo... parlare.
Parlare?
Par-la-re...
Gleb aprì la scrivania. I pannelli scorrevoli si abbassarono sbattendo forte
uno dopo l’altro. Senza guardare Simočka, con movimenti esperti, Neržin
cominciò a tirare fuori e a rivoltare diversi libri, riviste, fascicoli, tutto
l’occultamento a lei ben noto.
Simočka si bloccò con il cacciavite in mano e appuntò lo sguardo sulla faccia
dagli occhi fuggevoli di Gleb. Il pensiero fu che sabato la convocazione di
Gleb da Jakonov avesse portato brutte notizie, che lo avessero torchiato o
presto lo avrebbero mandato via. Ma perché prima non si avvicinava? Perché
non la baciava?
– Che è successo? È successo qualcosa? – domandò con la voce rotta;
deglutì a fatica.
Gleb si sedette. Schiacciando le riviste con i gomiti, si cinse la testa con le
dita aperte a destra e a sinistra e fissò la ragazza. Ma di sincerità nel suo
sguardo non ce n’era.
Era calato un silenzio sordo. Non si sentiva neanche un rumore. Li
dividevano due scrivanie illuminate da quattro lampade appese e due da tavolo,
sotto lo sguardo della sentinella dalla torretta.
E lo sguardo di quella sentinella era come una cortina di ferro che si
abbassava lentamente fra loro.
Gleb disse:
– Simočka! Mi sentirei un mascalzone se oggi... se io... non ti confessassi
che...
–?
– Io... con te ho agito un po’ con leggerezza, senza rifletterci...
– ??
– Ieri... ho rivisto mia moglie... Abbiamo avuto un colloquio.
Simočka sprofondò, si fece ancora più piccola. Le ali del fiocco sul colletto
caddero inermi sul pannello d’alluminio dell’apparecchio. Il cacciavite tintinnò
sulla scrivania.
– E perché... non l’ha detto... sabato? – lo colpì con la voce rotta.
– Ma dài, Simočka! – inorridì Gleb. – Potevo davvero tenertelo nascosto?
(Perché no?)
– L’ho scoperto ieri mattina. È stata una cosa inaspettata... Non ci vedevamo
da un anno, lo sai... Ora ci siamo rivisti e...
La voce di Gleb era sofferente. Sapeva che cosa significava per lei sentire
quelle cose, ma anche dirle era... Tante sfumature che non sarebbero servite a
niente non le avrebbe pronunciate. Non le capiva nemmeno lui. Quanto aveva
sognato quella sera, quel momento! Sabato ardeva rigirandosi nel letto! Adesso
era arrivata l’ora e di ostacoli non ce n’erano! Le tende non importavano, la
stanza era tutta loro, si trovavano lì entrambi, c’era tutto! Tutto a parte...
L’anima. Quella era rimasta al colloquio. L’anima era come un aquilone: era
sfuggita, sventolava da qualche parte e il filo lo teneva sua moglie.
Magari qui non serviva?!
E invece no, serviva.
Non poteva dirlo a Simočka, tuttavia qualcosa andava detto. E, per dovere,
qualcosa Gleb provò a dire, cercò delle scuse appropriate con cui girarci
intorno.
– Sai... lei mi aspetta da tanto... cinque anni di prigione, e quanti di guerra?
Altre non lo avrebbero fatto. Poi al campo di lavoro mi sosteneva... mi portava
altre cose da mangiare... Tu volevi aspettarmi, ma questo non... non... non
sopporterei di... farle del male...
All’altra! E a lei? Gleb avrebbe dovuto fermarsi lì! Con un leggero colpo
della voce burbera aveva centrato il bersaglio. La piccola quaglia era stata
uccisa. Si era afflosciata, con la testa nella fitta serie di valvole e condensatori
dell’amplificatore a tre stadi in cascata.
Poi un singhiozzare leggero come un respiro.
– Simočka, non piangere! Non piangere, non devi! – si corresse Gleb.
Ma rimase a due scrivanie di distanza, non le andò vicino.
Lei piangeva senza quasi emettere suono, mostrando la scriminatura dritta
dei capelli divisi in due.
Davanti alla fragilità di Simočka Gleb fu travolto dal pentimento.
– Piccola quaglia! – mormorò lui, chinandosi in avanti. – Dài, non piangere.
Ti chiedo scusa... è colpa mia...
Lei piangeva, ed era doloroso. Ma se avesse pianto l’altra? Sarebbe stato
insopportabile!
– Be’, non capisco nemmeno io quello che provo...
Non gli sarebbe costato niente andare da lei, attirarla a sé, baciarla, ma
nemmeno quello era possibile, perché dopo il colloquio del giorno prima le
labbra e le mani erano pure.
Una salvezza che avessero tolto le tende alle finestre.
Così, senza scattare in avanti e superare le scrivanie, dal proprio posto Gleb
le ripeteva quelle misere suppliche di non piangere.
Ma lei piangeva.
– Piccola quaglia, basta... Potremmo ancora avere qualcosa... Lascia passare
un po’ di tempo...
Lei sollevò la testa e in una pausa dalle lacrime lo fissò in modo strano.
Lui non capì la sua espressione e abbassò lo sguardo sul dizionario.
La testa di Simočka si stancò di reggersi e ricadde sull’amplificatore.
Poteva essere una cosa pazzesca... perché quel colloquio proprio ora? Perché
tutte quelle donne fuori in libertà e lui dentro, in prigione? Oggi non si può,
ma se lasci passare qualche giorno, l’anima si rimetterà a posto e probabilmente
tutto ritornerà possibile.
Perché non dovresti? Se solo lo raccontassi ti prenderebbero in giro. Devi
tornare in te, risentire la pelle del campo di lavoro! Poi, ti costringerebbero
forse a sposarla?
La ragazza ti aspetta, vai!
E soprattutto, non dirlo a voce alta: è proprio lei che hai scelto? Oppure un
posto a due scrivanie di distanza, dove potrebbe esserci chiunque? Vai!
Ma quel giorno non si poteva...
Gleb si girò, si appoggiò al davanzale. Premette la fronte e il naso contro il
vetro, guardò verso la sentinella. Con gli occhi accecati dalle vicine lampade, il
fondo della torretta non si vedeva, ma singole luci qua e là in lontananza si
spandevano in stelle indefinite, e dietro e sopra di esse la luminescenza
biancastra riflessa dalla vicina capitale abbracciava un terzo del cielo.
Sotto la finestra la neve si stava sciogliendo.
Simočka sollevò di nuovo il viso.
Gleb si girò subito verso di lei.
Dagli occhi scintillanti le scendevano rivoli bagnati lungo le guance che lei
non si asciugava. Il luccichio degli occhi, la luce e la volubilità dei volti
femminili adesso l’avevano resa quasi attraente.
Magari puoi lo stesso...
Simočka guardava Gleb con tenacia.
Tuttavia, non pronunciava neanche una parola.
Che imbarazzo. Qualcosa bisognava dire. Allora parlò lui:
– Anche adesso, in effetti, mi concede la sua vita. Chi lo farebbe? Sei sicura
che tu ci riusciresti?
Le lacrime le restavano lì, bagnate, sulle guance insensibili.
– Non ha chiesto il divorzio? – domandò piano Simočka, ma in modo ben
distinto.
Caspita, subito al punto! Beccato in pieno. Ma di ammettere con lei la
notizia del giorno prima non gli andava. Era molto più complicato di così.
– No.
Che domanda precisa. Se non fosse stata così precisa, così perentoria, se i
bordi fossero stati tanto sfocati da rendere impossibile chiamare le cose con il
loro nome, se fosse stato possibile solo guardare, guardare, guardare, forse
avrebbe potuto alzarsi, andare verso l’interruttore... Ma domande così
esigevano risposte logiche.
– È bella?
– Sì. Per me sì – si difese Gleb.
Simočka sospirò rumorosamente. Annuì alla propria immagine riflessa sulle
superfici a specchio delle valvole.
– Allora non la aspetterà.
Simočka non riusciva a riconoscere a quella donna invisibile nessun
privilegio da moglie legittima. Un tempo aveva vissuto per un po’ con Gleb, ma
erano trascorsi otto anni. Da allora lui era stato in guerra, in prigione, mentre
lei, se era davvero bella, giovane e senza figli, possibile che si comportasse
come una monaca? Gleb a quel colloquio non le apparteneva, né le sarebbe
appartenuto di lì a un anno, di lì a due: lui era di Simočka. Avrebbe potuto
diventare sua moglie quel giorno stesso! Perché quella donna, che ormai non
era più un miraggio, un nome vuoto, si faceva dare un colloquio? Per quale
avidità insaziabile allungava una mano verso un uomo che non sarebbe mai
stato suo?!
– Non la aspetterà! – ripeteva Simočka come un giocattolino rotto.
Ma più lei colpiva con tenacia e precisione, più Gleb si offendeva.
– Ha già aspettato otto anni! – obiettò lui. Poi ci ragionò su e precisò: –
Anche se verso la fine sarà più difficile.
– Non la aspetterà! – ripeté ancora Simočka, in un sussurro.
E con la mano portò via le lacrime già sul punto di asciugarsi.
Neržin si strinse nelle spalle. In effetti, era vero. Per allora avrebbero preso
strade diverse, fatto esperienze di vita differenti. Lo suggeriva sempre anche lui
alla moglie: dovevano divorziare. Ma perché in modo così ostinato, con quale
diritto Simočka batteva su quel tasto?
– Be’, mettiamo pure che non mi aspetti. Almeno non avrà nulla da
rimproverarmi. – Si era aperto uno spiraglio per ragionare. – Simočka, non mi
ritengo un uomo buono. Sono molto cattivo. Ricordi cosa facevo in Germania?
Cosa facevamo al fronte? E adesso anche con te... Ma credimi, sono cose che mi
sono permesso in libertà, in un mondo superficiale, fortunato. Ho ceduto alla
suggestione di un male che appariva lecito. Ma più in basso cadevo più...
stranamente... Non mi aspetterà? Lo faccia. Purché io non abbia nulla da
rimproverarmi...
Si era imbattuto in uno dei suoi concetti preferiti. Avrebbe potuto dilungarsi
per un bel pezzo su quell’argomento, soprattutto visto che non c’era altro da
dire.
Ma quella predica Simočka non la stava ascoltando. Lui parlava solo di sé.
Mentre lei, che poteva fare? Si immaginava con orrore quando sarebbe tornata
a casa, avrebbe farfugliato qualcosa a denti stretti alla madre inopportuna, per
poi buttarsi nel letto. Lì dove per mesi era rimasta sdraiata a pensare a lui. Che
vergogna umiliante! Come si era preparata per quella sera! Quanto si era lavata,
profumata!
Ma se un’ora di colloquio carcerario impacciato aveva avuto la meglio su
una vicinanza di molti mesi, che altro poteva fare?
La conversazione, naturalmente, era finita. Tutto era stato detto
all’improvviso, senza attenuare niente. Simočka voleva scappare nella cabina,
piangere là ancora un po’ e rimettersi in ordine.
Ma non aveva le forze né di cacciarlo via né di andarsene lei. Quella era
l’ultima occasione in cui fra loro poteva tendersi qualche filo!
Resosi conto che Simočka non lo ascoltava, che le sue importanti
conclusioni non le servivano a niente, Gleb ora taceva.
Si accese una sigaretta! Un espediente. Tornò a guardare dalla finestra le
isolate luci giallastre.
Rimasero seduti in silenzio.
Cominciava già a dispiacergli un po’ meno per Simočka. Cos’era quello per
lei, davanti a tutta una vita? Un episodio, un evento superficiale. Le sarebbe
passato.
Avrebbe trovato qualcun altro...
La moglie no.
Sedevano zitti e l’aria si stava già facendo pesante.
Gleb viveva da anni in mezzo a uomini cui servivano solo spiegazioni brevi.
Se tutto era stato detto, tutto era finito, che senso aveva restarsene lì seduti
zitti? Che insensata vischiosità femminile.
Senza muovere la testa, in modo che Simočka non se ne accorgesse, guardò
l’orologio a pendolo elettrico, solo con gli occhi, di traverso. Ancora venti
minuti prima dell’appello, venti minuti di passeggiata serale! Ma alzarsi e
andarsene sarebbe stato offensivo. Gli toccava rimanere.
Chi arrivava di servizio quella sera? Forse, Šusterman. E l’indomani mattina,
il tenente minore.
Simočka sedeva ricurva sull’amplificatore e tirava fuori esitante le valvole
dalla loro sede nel pannello, per poi reinserirle di nuovo, senza un perché.
Di quell’amplificatore non ci aveva capito praticamente nulla. E continuava
a non capirci niente neanche ora.
Ma la mente di Neržin, tanto attiva, aveva bisogno di tenersi occupata, di
muoversi. Su una stretta striscia di carta ripiegata sotto il calamaio, dove ogni
giorno fin dalla mattina appuntava i programmi alla radio, lesse:
Ma guarda un po’, che sfortuna! Gleb cercò di spegnere senza farsi notare.
Simočka crollò sull’amplificatore, le mani a cerchietto sulla testa, e riattaccò
a piangere, piangere.
Al punto che in quei brevi istanti insieme Gleb non seppe trovare parole
amare.– Scusami! – disse Gleb inaspettatamente. – Scusami! Scusami!!
Così non cercò nemmeno più di spegnere. Fu preso da un caldo impeto:
senza badare alla sentinella, si gettò oltre le scrivanie, afferrò la testa di
Simočka e le baciò i capelli sulla fronte.
Simočka piangeva senza singhiozzi né sussulti, a profusione, liberamente.
90
SULLE SCALE POSTERIORI
Nessuna fila.
Suonarono il campanello, di un genere antico, con la manovella girevole. Un
sorvegliante imperturbabile, con il viso oblungo, spalline azzurro cielo e strisce
bianche da sergente di traverso, sbirciò scostando appena le tendine, per poi
spalancare la porta. L’“autista” prese dal “meccanico” il foglio rosa intestato e
lo mostrò al sorvegliante.
Quello lo scorse, annoiato, come un farmacista insonnolito risvegliato a
forza legge una ricetta; rientrarono in due.
Innokentij e il “meccanico” rimasero in profondo silenzio davanti alla porta
appena sbattuta.
“Anticamera dei detenuti” diceva la scritta, che equivaleva a “Obitorio”.
Innokentij non ebbe nemmeno il tempo di osservare quel bellimbusto stretto
nel cappotto, che recitava assieme a lui quella commedia. Forse, avrebbe
dovuto protestare, gridare, esigere giustizia, ma si era dimenticato persino di
avere le mani dietro la schiena, le teneva così e basta. In lui ogni pensiero si era
bloccato: fissava la scritta “Anticamera dei detenuti” come ipnotizzato.
Dalla porta giunse il suono morbido di una serratura all’inglese. Il
sorvegliante con il viso oblungo fece loro cenno di entrare e si incamminò per
primo, emettendo lo stesso schiocco con la lingua, il richiamo per cani.
Ma non c’era nessun cane nemmeno lì.
Anche il corridoio era inondato di luce e lindo come un ospedale.
Nel muro c’erano due porte verniciate verde oliva. Il sergente ne spalancò
una e ordinò:
– Dentro.
Innokentij obbedì. Fece a malapena in tempo a capire che si trattava di una
stanza vuota con un grande tavolo grezzo, un paio di sgabelli e senza finestre,
che l’“autista”, da un lato, e il “meccanico”, da dietro, si lanciarono su di lui:
quattro mani lo afferrarono e gli perquisirono prontamente tutte le tasche.
– Che razza di banditismo è questo – disse Innokentij, in tono esausto. –
Chi vi dà il diritto? – Si divincolò un po’, ma la consapevolezza interiore che
non si trattava affatto di banditismo, che stavano soltanto eseguendo il proprio
dovere, aveva tolto ai suoi movimenti energia e alla sua voce sicurezza.
Gli sfilarono l’orologio da polso e gli sequestrarono due taccuini, una penna
stilografica e un fazzoletto da naso. Innokentij vide loro in mano un paio di
strette spalline argentate e si stupì della coincidenza che fossero anch’esse da
diplomatici, con lo stesso numero di stellette delle sue. I bruschi abbracci si
interruppero. Il “meccanico” gli porse il fazzoletto:
– Prenda.
– Dopo che l’ha toccato con quelle mani sporche? – esclamò Innokentij con
la voce stridula, e indietreggiò. Il fazzoletto cadde sul pavimento.
– Per i valori le faremo avere la ricevuta – disse l’“autista”, e uscirono
entrambi frettolosamente.
Il sergente con il viso oblungo, invece, non aveva fretta. Lanciò un’occhiata
sul pavimento e consigliò:
– Prenda quel fazzoletto.
Innokentij non si chinò.
– Ma che cosa avete fatto? Mi avete strappato via le spalline? – Se n’era
accorto soltanto in quel momento, sentendo a tastoni sulle spalle, sotto il
cappotto, che quelle non c’erano più, e si era infuriato.
– Mani dietro la schiena! – disse allora il sergente, con indifferenza. – Fuori!
E prese a far schioccare la lingua.
Ma di cani non ce n’erano.
Dopo una svolta brusca si ritrovarono in un altro corridoio, dove su
entrambi i lati si susseguiva una sfilza di piccole porte verde oliva con i numeri
sugli ovali a specchio. Vicino a quelle porte c’era una donna anziana dall’aria
sciupata, con una gonna militare e una giubba con le stesse spalline azzurro
cielo e le stesse strisce bianche da sergente. Quando erano spuntati oltre la
curva, la donna aveva osservato dentro il buco di una delle porte. Mentre si
avvicinavano, aveva riappoggiato tranquillamente lo sportello e guardato
Innokentij come se fosse passato di lì quel giorno già centinaia di volte e lei
non trovasse nulla di strano che fosse ricomparso di nuovo. Era scura in viso.
Infilò una lunga chiave nella serratura sulla scatoletta d’acciaio pensile della
porta numero 8, l’aprì con un gran fracasso e gli fece cenno con la testa:
– Dentro.
Innokentij varcò la soglia e non fece in tempo a voltarsi per chiedere
spiegazioni che la porta si richiuse alle sue spalle, la serratura che girava
rumorosamente.
Ecco dove gli sarebbe toccato vivere ora! Per un giorno? o un mese? oppure
un anno? Quel locale non poteva definirsi una stanza, e nemmeno una cella,
visto che, come la letteratura ci ha insegnato, quella deve avere almeno una
finestrella, anche piccola, e lo spazio per camminare. Mentre lì, non solo non si
poteva camminare e non ci si poteva sdraiare, non era possibile nemmeno
sedersi liberamente. C’erano un comodino e uno sgabello che occupavano
quasi tutto lo spazio del pavimento. Se ti sedevi sullo sgabello non potevi
nemmeno allungare le gambe comodamente.
In quel bugigattolo non c’era altro. Un pannello verde oliva verniciato a olio
arrivava all’altezza del petto, oltre il quale la parete e il soffitto erano intonacati
di un bianco acceso che rifletteva la luce accecante di una grossa lampadina da
duecento watt appesa al soffitto e racchiusa in una gabbia di fil di ferro.
Innokentij si sedette. Venti minuti prima stava pensando a quando sarebbe
volato in America e là, ovviamente, avrebbe ricordato loro della sua telefonata
all’ambasciata. Venti minuti prima tutta la sua vita passata gli era parsa un
unico insieme armonioso, ogni evento che illuminava con la sua serena luce di
ragionevolezza e si fondeva con gli altri eventi in bianchi lampi di successo. Ma
erano trascorsi venti minuti e lì, in quella trappola piccola e stretta, tutta la sua
vita passata gli sembrava ora, con la stessa forza di persuasione, un susseguirsi
di errori, un ammasso di frammenti neri.
Dal corridoio non giungevano suoni; solo un paio di volte, da qualche parte
lì vicino, si era aperta e richiusa una porta. Ogni minuto lo sportello si scostava
e attraverso lo spioncino di vetro un solitario occhio indagatore osservava
Innokentij.
La porta era spessa quattro dita e il cono del foro d’osservazione si
estendeva dallo spioncino per tutto il suo spessore. Innokentij intuì che era
fatto in modo che non ci fosse nessun punto in quella gattabuia dove il
detenuto potesse celarsi dallo sguardo del sorvegliante.
Era un luogo angusto e afoso. Innokentij si tolse il caldo cappotto invernale
e lanciò un’occhiata alla “carne” sotto le spalline strappate dall’uniforme. Non
trovando sulle pareti né un chiodo né la minima sporgenza, appoggiò il
cappotto e il colbacco sullo sgabello.
Era strano, ma ora che nella sua vita il fulmine dell’arresto era caduto,
Innokentij non provava più terrore. Al contrario, la sua mente bloccata si era
rimessa in moto e valutava gli errori commessi.
Perché non aveva letto il mandato per intero? Era stato formulato in modo
corretto? C’era il sigillo? La ratifica del procuratore? Si cominciava da una
ratifica del procuratore. Quale numero c’era scritto sul mandato? Quale accusa
riportava? Il capo ne era al corrente quando lo aveva chiamato? Certo che ne
era al corrente. Dunque, la chiamata era una trappola? Ma perché quel metodo
strano, quel teatrino con l’“autista” e il “meccanico”?
In una tasca sentì qualcosa di piccolo e duro. Lo estrasse. Era una matitina
graziosa e sottile, scivolata dall’elastico di un taccuino. Innokentij fu molto
felice di averla trovata: avrebbe potuto fargli davvero comodo! Che cialtroni!
Cialtroni anche lì, alla Lubjanka! Non sanno nemmeno perquisire! Pensando a
dove fosse meglio nasconderla, Innokentij la spaccò in due, ficcò il primo
pezzo in una scarpa, il secondo nell’altra, e vi fece scivolare sopra i piedi.
Ah, che errore! Non leggere nemmeno di che cosa lo accusavano! Magari
l’arresto non era neppure collegato a quella telefonata? Forse si trattava di uno
sbaglio, di una coincidenza? Qual era il giusto comportamento che avrebbe
dovuto tenere ora?
O non c’era nemmeno scritto di che cosa lo accusavano? Ovvio che non
c’era. Ti arrestavano e basta.
Era trascorso poco tempo, ma già svariate volte aveva sentito il ronzio
uniforme di una macchina dietro la parete di fronte, oltre il corridoio. Quel
ronzio ora aumentava, ora si quietava. All’improvviso, a quel semplice
pensiero, Innokentij si sentì a disagio: che tipo di macchina poteva esserci? Era
una prigione, non una fabbrica... a che serviva quella macchina? La sua mente
degli anni Quaranta, che aveva sentito parlare di mezzi meccanici per
sterminare le persone, andò subito a qualcosa di spiacevole. Gli balenò il
pensiero assurdo e insieme, in qualche modo, del tutto probabile, che fosse una
macchina per macinare le ossa dei detenuti già uccisi. Ebbe paura.
“Sì,” nel frattempo un pensiero lo tormentava nel profondo “che razza di
sbaglio! Non ho neanche letto il mandato fino in fondo, non ho protestato,
detto che ero innocente.” Si era sottomesso all’arresto così docilmente da aver
confermato la sua colpevolezza! Come aveva fatto a non protestare? Perché
non protestava? Era evidente che si aspettava un arresto, che si era preparato!
Quello sbaglio fatale lo trafisse! Il primo pensiero fu di balzare in piedi,
battere con le mani, con i piedi, gridare a squarciagola che era innocente, che
dovevano aprirgli, ma quell’idea fu coperta da un’altra idea, più ponderata: che,
probabilmente, non sarebbero rimasti sorpresi, lì forse battevano e gridavano
in molti; il silenzio dei primi minuti, in ogni caso, doveva già aver
compromesso tutto.
Ah, come aveva fatto a consegnarsi così tranquillamente nelle loro mani!
Senza opporsi né fare rumore, aveva permesso che un diplomatico d’alto rango
venisse portato via dal suo appartamento, dalle strade di Mosca, e poi chiuso a
chiave in quel bugigattolo.
Da lì non si scappava! Oh, non si scappava!
E se il suo capo, invece, lo stava ancora aspettando? C’era un modo, anche
sotto scorta, di arrivare da lui? Come poteva scoprirlo?
No, nella testa non gli si era chiarito nulla, si era fatto solo più complicato e
ingarbugliato.
La macchina dietro la parete ora tornava a ronzare, ora si zittiva.
Gli occhi di Innokentij, accecati dalla luce eccessivamente forte per un locale
alto e stretto di tre metri cubi, cercavano da un pezzo un po’ di riposo
nell’unico quadratino nero che ravvivava il soffitto. Quel quadratino protetto
da sbarre metalliche doveva essere uno sfiatatoio, anche se non si sapeva dove
portasse né da dove partisse.
All’improvviso gli venne l’idea che quello non fosse uno sfiatatoio, da lì
immettessero lentamente del gas velenoso, preparato forse proprio dalla
misteriosa macchina ronzante, avessero cominciato a far entrare il gas
nell’attimo stesso in cui lo avevano chiuso lì dentro e quel bugigattolo cieco,
con la porta ben sigillata alla cornice, non potesse servire ad altro che a quello!
Anche per questo lo controllavano dallo spioncino, per capire se fosse
ancora cosciente o già avvelenato.
Ecco la ragione di quei pensieri così confusi: stava perdendo conoscenza!
Ecco perché si sentiva soffocare già da un bel pezzo! Perché gli pulsava la testa
a quel modo!
All’interno si stava riversando del gas! incolore! inodore!!
Che terrore! un eterno terrore animale! Come quello che unisce predatori e
prede in un’unico branco in fuga dall’incendio di un bosco. Il terrore avvolse
Innokentij, che, messo da parte ogni calcolo e ogni altro pensiero, cominciò a
colpire a calci e pugni la porta, chiamando qualcuno di vivo.
– Aprite! Aprite! Soffoco! Aria!!
Ecco per quale ragione lo spioncino aveva una forma a cono, era fatto in
modo che il vetro non si rompesse con un pugno!
Un frenetico occhio spalancato si accostò al vetro dall’altra parte per
assistere con malignità alla morte di Innokentij.
ОOh, che spettacolo! Un occhio strappato via, un occhio senza volto, un
occhio che raccoglieva in sé ogni espressione! E ti guardava morire!
Non c’era via di scampo!
Innokentij si lasciò cadere sullo sgabello.
Il gas lo stava soffocando...
173 Il riferimento è alla Città del Diavolo Giallo di Maksim Gor’kij, opera in cui lo scrittore racconta un suo
viaggio a New York. Il “diavolo giallo” era l’oro.
92
CUSTODIRE IN ETERNO
CUSTODIRE IN ETERNO!
CUSTODIRE IN ETERNO!
93
IL SECONDO RESPIRO
Una notte tanto lenta e interminabile nella vita di Innokentij non c’era mai
stata. L’aveva trascorsa completamente in bianco e nella testa, in un sol colpo,
gli si erano affollati così tanti pensieri diversi come neanche in un mese di vita
normale e tranquilla. Aveva avuto modo di riflettere sia durante la lunga
procedura in cui gli avevano strappato le cuciture dorate dalla sua uniforme da
diplomatico sia durante l’attesa nel bagno, seduto mezzo nudo, e nei molti box
cambiati quella notte.
Lo sbalordiva l’eternità dell’epitaffio: “Custodire in eterno.”
In effetti, dimostrassero o meno che al telefono era proprio lui, una volta
arrestato da lì non ti rilasciavano. Conosceva la mano di Stalin: quella non
faceva tornare alla vita nessuno. Davanti c’era la fucilazione o una solitaria
detenzione a vita. Una cosa da gelare il sangue tipo il monastero di
Suchanovo174, sul quale giravano molte voci. Non era un rifugio per anziani a
Šlissel’burg – ti vietavano di sederti di giorno, ti vietavano di parlare per anni –
e nessuno avrebbe saputo più nulla di lui, e lui non avrebbe saputo più nulla
del resto del mondo, nemmeno se interi continenti avessero cambiato bandiera
o l’uomo fosse sbarcato sulla luna. E l’ultimo giorno, con la cricca di Stalin
catturata in una seconda Norinberga, Innokentij e i suoi vicini senza voce
sarebbero stati fucilati nel corridoio del monastero, da soli, come già era
accaduto nel ’41 ai comunisti durante la ritirata e nel ’45 ai nazisti.
Ma era davvero la morte che temeva?
La sera prima Innokentij era stato felice di ogni minimo avvenimento, di
ogni volta che la porta si era aperta, interrompendo la sua solitudine, il suo
essere in trappola, una cosa cui non era abituato. Ora al contrario desiderava
farsi venire in mente una cosa importante, un pensiero che continuava a
sfuggirgli – ed era contento che lo avessero accompagnato nel box precedente e
da molto non lo disturbassero, anche se lo osservavano dallo spioncino
ininterrottamente.
D’un tratto, come se dal cervello gli fosse scivolato giù un velo sottile, gli
apparve distintamente ciò che aveva pensato e letto quel giorno:
“La fede nell’immortalità è nata dalla sete di persone insaziabili. Il saggio
troverà la durata della nostra vita sufficiente per percorrere tutto il giro di
piaceri raggiungibili...”
Ah, il discorso sui piaceri! Aveva avuto soldi, vestiti, rispetto, donne, vino,
viaggi, ma avrebbe mandato ogni cosa alla malora per un’unica giustizia! Vivere
per vedere la fine di quella cricca e sentire il loro penoso balbettio in tribunale!
Sì, aveva avuto tante cose buone! Ma mai il bene più inestimabile: la libertà
di dire ciò che pensava, la libertà di unirsi a quelli con le sue stesse idee. Visi e
nomi sconosciuti, quanti ce n’erano lì, oltre le pareti divisorie di mattoni di
quell’edificio! E che peccato morire senza poter condividere ragione e anima!
Bello scrivere di filosofia sotto rami frondosi in epoche immobili, stagnanti
e felici!
Ora senza né matita né taccuino, tutto ciò che riemergeva dal buio della
memoria lo sentiva più caro. In modo ben distinto ricordò:
“Non si devono temere le sofferenze del corpo. Una sofferenza prolungata è
di poco conto, quella acuta non è prolungata.”
Per esempio, stare seduto in quel box dove non si potevano stendere le
gambe, senza dormire, senza aria, per ventiquattr’ore, era una sofferenza
prolungata o non prolungata? Di poco conto o acuta? E dieci anni di solitudine
senza poter dire una parola ad alta voce?
Nella stanza della fotografia e della dattiloscopia, Innokentij aveva notato
che erano le due di notte. A quel punto forse erano già le tre. Gli venne in
mente un pensiero assurdo, che scacciò quelli più seri: il suo orologio, finito
nella stanza di custodia, avrebbe continuato a funzionare fino al termine della
carica, poi si sarebbe fermato, nessuno l’avrebbe più caricato e con le lancette
in quella posizione avrebbe atteso o la morte del suo proprietario o la confisca
con il resto dei beni. Chissà a quel punto che ora avrebbe segnato?
Dotty, invece, lo aveva aspettato per andare all’operetta? Sì... Aveva
telefonato al ministero? Probabilmente no: dovevano subito essere spuntati da
lei per una perquisizione. Era un appartamento enorme! Ci volevano cinque
uomini per rivoltarlo in una notte. E quegli idioti che cosa avrebbero trovato?
Dotty non sarebbe finita dentro, l’ultimo anno da separati avrebbe
rappresentato per lei la salvezza.
Una volta ottenuto il divorzio, si sarebbe risposata.
O forse sarebbe finita dentro. Da noi tutto è possibile.
La carriera del suocero avrebbe subìto un arresto: che onta! Lui l’avrebbe
rinnegato, si sarebbe dissociato!
Tutti quelli che conoscevano il consigliere Volodin, come sudditi fedeli,
l’avrebbero cancellato dalla memoria.
Una massa insensibile lo avrebbe schiacciato, e sulla Terra nessuno sarebbe
mai venuto a sapere come l’esile e bianchiccio Innokentij avesse cercato di
salvare la civiltà!
Voleva vivere abbastanza da scoprire come tutto questo sarebbe andato a
finire.
Nella storia c’è sempre una parte che vince, ma non vincono mai solo le idee
di una parte. Quelle confluiscono, vivono di vita propria.
Il vincitore prende sempre qualcosa dal vinto, poco, tanto, o addirittura
tutto.
Si fonderà ogni cosa... “Passerà l’inimicizia delle stirpi.”175 Scompariranno i
confini degli stati, gli eserciti. Convocheranno un parlamento mondiale.
Eleggeranno il presidente del pianeta. Questi inchinerà la testa davanti
all’umanità e dirà...
– Con la roba!
– Eh?
– Con la roba!
– Quale roba?
– La tua porcheria.
Innokentij si alzò, con in mano il cappotto e il cappello, ora particolarmente
cari non essendosi rovinati durante la “cottura”. Sulla soglia, deviando dal
corridoio, spuntò un baldanzoso sergente maggiore olivastro con le spalline
azzurre (dove li prendevano quei soldati di guardia? Per quali lavori pesanti?).
Controllando su un pezzo di carta, domandò:
– Cognome?
– Volodin.
– Nome e patronimico?
– Quante volte me lo chiederete ancora?
– Nome e patronimico?
– Innokentij Artem’evič.
– Anno di nascita?
– Millenovecentodiciannove.
– Luogo di nascita?
– Leningrado.
– Con la roba. Venga!
E si incamminò per primo, schioccando la lingua come previsto.
Questa volta uscirono in cortile e al buio di una parte coperta scesero ancora
di qualche gradino. Fu colto da un pensiero: che lo stessero portando alla
fucilazione? Si diceva che avvenissero sempre negli scantinati e sempre di notte.
In quel minuto difficile gli giunse un’obiezione salvifica: perché dargli allora tre
ricevute? No, per il momento non lo avrebbero fucilato!
(Innokentij credeva ancora nella saggia coordinazione fra tutti i tentacoli
dell’MGB.)
Continuando a schioccare la lingua, il sergente maggiore baldanzoso lo
condusse nell’edificio e per un andito buio verso un ascensore. Una donna con
una pila di biancheria grigio-giallastra appena stirata se ne stava da una parte;
guardò Innokentij salire sull’ascensore. E anche se quella giovane lavandaia
tutt’altro che carina era inferiore per posizione sociale e lo guardava con lo
stesso impenetrabile sguardo di pietra indifferente di tutte le persone-bambole
meccaniche della Lubjanka, Innokentij davanti a lei, come davanti alle ragazze
della stanza di custodia che gli avevano portato le ricevute rosa, azzurra e
bianca, si sentì in imbarazzo all’idea di essere visto in quelle condizioni
strazianti e penose, ricordato con compassione poco lusinghiera.
Del resto, anche quel pensiero scomparve così in fretta come si era
presentato. Che differenza faceva con quel “custodire in eterno”?
Il sergente maggiore chiuse l’ascensore e premette un pulsante; i numeri dei
piani non erano indicati.
I motori dell’ascensore si misero a ronzare piano: Innokentij riconobbe
subito il ronzio della misteriosa macchina macina-ossa dietro la parete del suo
box.
E si concesse un sorriso mesto.
Quel piacevole errore gli infuse un po’ di coraggio.
L’ascensore si fermò. Il sergente maggiore fece scendere Innokentij sul
pianerottolo e lo condusse subito in un ampio corridoio dove comparvero
diversi sorveglianti con le spalline celesti e le strisce bianche. Uno di loro
chiuse Innokentij in un box senza numero, questa volta spazioso, di una decina
di metri quadrati, la luce abbastanza soffusa e le pareti dipinte con una vernice
a olio verde oliva. Quel box, o cella, era completamente vuoto, non sembrava
granché pulito, e aveva un logoro pavimento di cemento; faceva anche
freddino, cosa che ne aumentava lo squallore generale. Anche lì c’era uno
spioncino.
Da fuori giungeva lo strisciare trattenuto di molti stivali. Evidentemente i
sorveglianti andavano e venivano senza sosta. Il Carcere Interno viveva
un’intensa vita notturna.
Prima Innokentij pensava che sarebbe rimasto per sempre nello stretto,
abbagliante e afoso box n. 8 e si tormentava all’idea che non ci fosse spazio per
stendere le gambe, la luce gli ferisse gli occhi e lui respirasse a fatica. Ora
capiva quanto si sbagliava: avrebbe vissuto in quello squallido box spazioso, e
soffriva al pensiero che le gambe si sarebbero congelate per via del pavimento
di cemento, lui si sarebbe innervosito dal continuo andirivieni e dallo strisciare
degli stivali dietro la porta, e depresso per la luce insufficiente. Ci voleva per
forza una finestra! Anche una piccolissima, tipo quelle delle prigioni
sotterranee nelle scenografie dell’opera. Lì però non c’era.
Dalle memorie dell’emigrazione era impossibile immaginarsi tutto questo: i
corridoi, le scale, la gran quantità di porte; ufficiali, sergenti, inservienti che
passavano; la Bol’šaja Lubjanka con il suo andirivieni in piena notte, in cui non
si mostrava mai un detenuto, non si potevano incontrare i propri simili, non si
potevano sentire parole che non fossero di servizio, e anche quelle di servizio
non venivano pronunciate quasi mai. Sembrava che quella notte l’enorme
ministero non dormisse solo per colpa sua, per occuparsi di lui e del suo
delitto.
L’idea distruttrice delle prime ore del carcere consiste nell’isolare il novellino
dagli altri detenuti, affinché nessuno gli faccia coraggio, affinché il peso
sostenuto da tutto un apparato ramificato di molte migliaia di persone schiacci
solo lui.
I pensieri di Innokentij presero la via del tormento. La sua telefonata non gli
sembrava più un grande atto che sarebbe rimasto scritto nella storia del XX
secolo, ma un suicidio sconsiderato e soprattutto inutile. Così gli tornava in
mente anche la voce altezzosa e sprezzante dell’addetto militare americano, la
sua pronuncia imprecisa: “E l-lei chi è?” Stupido, stupido! Probabilmente
l’americano non lo aveva nemmeno riferito all’ambasciatore. Tutto inutile. Che
razza di stupidi cresce la sazietà!
Ora nel box c’era spazio per camminare, ma Innokentij, estenuato, sfinito
dalle procedure, non ne aveva le forze. Fece un giretto un paio di volte, si
sedette sulla panca e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
Quante grandi intenzioni rimaste ignote ai posteri venivano seppellite dietro
quelle pareti, chiuse dentro quei box!
Maledetto, maledetto paese! Tutto l’amaro che ingoia si rivela una medicina,
ma per gli altri. Per lui niente!
Fortunata, per esempio, l’Australia! Sta a casa del diavolo e vive per conto
suo senza bombardamenti, senza piani quinquennali, senza disciplina.
Ma perché si era messo in caccia dei ladri della bomba atomica? Avrebbe
dovuto andarsene in Australia e restarci da privato cittadino!
Oggi o domani sarebbe volato a Parigi e da là a New York!
Ma quando non si immaginava più in quel viaggio all’estero, ma nelle
ventiquattr’ore successive, gli mancava il respiro per quanto la libertà era
inaccessibile. Pur di dare sfogo alla frustrazione avrebbe graffiato con le unghie
le pareti della cella!
A salvarlo da quella violazione delle norme carcerarie ci pensò la porta, che
si aprì. Verificarono di nuovo i suoi “dati identificativi”: Innokentij rispose
come nel sonno; gli ordinarono di uscire “con la roba”. Poiché nel box sentiva
freddo, aveva il cappello in testa e il cappotto gettato sulle spalle. Sarebbe
voluto uscire così, ma portare il cappotto a quel modo gli dava la possibilità di
nascondervi sotto due pistole cariche o due pugnali. Gli ordinarono di
indossarlo infilando le maniche e di mettere poi le mani dietro la schiena.
Schioccarono di nuovo la lingua, lo condussero fino alle scale vicino
all’ascensore e giù per quelle. Nella condizione di Innokentij la cosa più
interessante sarebbe stata memorizzare quante svolte, quanti passi aveva fatto,
per capire nei momenti di pausa la disposizione del carcere. Ma nella sua
percezione del mondo si era compiuto un tale slittamento che Innokentij
procedeva nel torpore senza notare se si fossero allontanati di molto, quando
all’improvviso da un altro corridoio venne loro incontro un sorvegliante
grande e grosso, che schioccava la lingua con la stessa attenzione di quello che
camminava davanti a Innokentij. Il sorvegliante che conduceva Innokentij
spalancò con irruenza la porta di una cabina verde di compensato che
occupava già da sola quasi tutto lo stretto pianerottolo, vi spinse dentro
Innokentij e chiuse la porta alle sue spalle. Dentro si stava in piedi a malapena e
dal soffitto giungeva una luce diffusa: la cabina, evidentemente, non aveva il
tetto e vi entrava la luce della tromba delle scale.
Il naturale istinto umano sarebbe stato di protestare con forza, ma abituato
già ai soprusi incomprensibili, ormai avvezzo al silenzio della Lubjanka,
Innokentij era docilmente remissivo, faceva dunque esattamente quello che la
prigione esigeva da lui.
Già, ecco perché alla Lubjanka tutti schioccavano la lingua: con quello
avvertivano gli altri che stavano conducendo un detenuto. Un detenuto non
doveva incontrarne un altro! Non doveva ricavare dai suoi occhi un sostegno!
L’altro detenuto passò oltre e Innokentij fu tirato fuori dalla cabina e fatto
proseguire.
E lì, sull’ultima rampa di scale, Innokentij notò una cosa: gli scalini,
quant’erano consumati! Non aveva mai visto nulla di simile da nessuna parte in
tutta la vita. Erano consumati dal bordo verso il centro fino a metà dello
spessore, dove si erano formate delle buche ovali.
Trasalì: quanti piedi in trent’anni! quante volte! dovevano aver strisciato lì
per consumare così la pietra! E ogni due che ci passavano, uno era un
sorvegliante e l’altro un detenuto.
Su un pianerottolo c’era una porta chiusa con una finestrella munita di una
grata ben sigillata. A Innokentij toccò lì una nuova sorte: fu piazzato con la
faccia contro il muro. Con la coda dell’occhio vide il sorvegliante suonare un
campanello elettronico, la finestrella prima aprirsi con diffidenza, poi
richiudersi. Alla fine, dopo un giro di chiavi rumoroso, la porta si aprì e un
tale, che Innokentij non vedeva, uscì e gli chiese:
– Cognome?
Innokentij si voltò per istinto, com’è d’uso fare tra due persone che si
guardano durante una conversazione, e fece in tempo a notare un volto né
maschile né femminile, paffuto, molle, con una grande macchia da ustione, e
sotto il viso, le spalline dorate di un tenente. Ma quello gli gridò subito:
– Non si giri! – e proseguì con le solite domande identiche; Innokentij
rispose rivolto al pezzo di intonaco bianco davanti a sé.
Persuaso che il detenuto continuava a identificarsi con il tizio indicato sulla
scheda e a ricordare il suo anno e luogo di nascita, il tenente con il viso molle
suonò alla porta, che per sicurezza si era richiuso alle spalle. Lo sportello della
finestrella si scostò di nuovo con diffidenza: qualcuno gettò un’occhiata fuori,
la finestrella si richiuse subito e dopo qualche rumoroso giro di chiave la porta
si riaprì.
– Entrate! – disse il tenente con il viso molle e la macchia rossa, in tono
brusco.
Obbedirono e la porta si richiuse alle loro spalle con un rumoroso giro di
chiavi.
Innokentij riuscì a malapena a notare un corridoio semibuio con molte porte
che si apriva in tre direzioni, dritto, destra e sinistra; a sinistra dell’ingresso
c’erano una scrivania, un casellario e altri nuovi sorveglianti, e nel silenzio un
tenente, piano ma in tono ben distinto, gli ordinò:
– Faccia al muro! Senza muoversi!
Una situazione davvero assurda: guardare da vicino il bordo fra il
rivestimento oliva e l’intonaco bianco, sentendo sulla nuca alcune paia di occhi
ostili.
Evidentemente, stavano cercando di capire qualcosa nella sua scheda; poi
quasi in un sussurro, chiaro nel silenzio profondo, il tenente ordinò:
– Nel terzo box!
Un sorvegliante si staccò dalla scrivania e, senza nemmeno far tintinnare le
chiavi, salì sulla passatoia di tela grezza del corridoio di destra.
– Mani dietro. Camminare! – gli uscì pianissimo.
Da un lato del loro percorso si estendeva la solita fredda parete oliva, che
svoltava tre volte; dall’altro lato oltrepassarono alcune porte sulle quali erano
appesi ovali a specchio con i numeri:
“47” “48” “49”,
e sotto di essi, gli spioncini, con i loro sportelli. All’idea di avere degli amici a
così breve distanza, Innokentij sentì il desiderio di aprirne uno, accostarsi per
un istante allo spioncino, guardare la vita isolata della cella, ma il sorvegliante
lo trascinava avanti in fretta e, soprattutto, Innokentij aveva già fatto in tempo
a lasciarsi compenetrare dalla sottomissione del carcere, anche se... che cosa
poteva temere ancora un uomo che si era lanciato nella lotta contro la bomba
atomica?
In modo sfortunato per le persone, e fortunato per i governi, l’uomo è fatto
per avere sempre qualcosa che gli si può togliere, finché vive. Persino un
recluso a vita, privato della libertà di muoversi, del cielo, della famiglia e delle
proprietà, può ancora, per esempio, essere trasferito in un’umida cella di rigore,
senza pasti caldi, pestato con i bastoni, e questi ulteriori piccoli castighi
vengono sentiti alla stessa maniera della precedente perdita della libertà e del
successo. Per sfuggire a queste ultime spiacevoli punizioni, il detenuto adempie
in modo regolare all’umiliante e odioso regime carcerario, che uccide
lentamente l’uomo che è in lui.
Svoltato l’angolo, le porte successive avevano gli ovali a specchio con i
numeri:
174 La Suchanovka era la prigione più terribile dell’MGB: ne uscivi pazzo o non ne uscivi proprio.
Specializzata in torture, era ubicata nei locali di un ex monastero.
175 Sergej Esenin, Rus’ (1924).
176 Il riferimento è alla statua di Vera Muchina, L’operaio e la kolchoziana, che nel 1947 fu scelta come logo
della casa di produzione cinematografia Mosfil’m; si vede girare nei titoli di testa di molti film sovietici.
94
SEMPRE ALLA SPROVVISTA
177 Sergej Esenin, L’ultima messa, in Il fiore del verso russo. Da Puškin a Pasternak, un secolo di poesia, a cura di
Renato Poggioli, Milano, Oscar Mondadori, 1970, p. 558.
178 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 165.
96
CARNE
Man mano che i detenuti da tradurre venivano radunati al comando del carcere,
li perquisivano, e man mano che li perquisivano, venivano fatti entrare in una
stanza vuota, di riserva, del comando, dove c’erano due tavoli spogli e una
panca grezza. Alla perquisizione presenziava immancabilmente il maggiore
Myšin e di tanto in tanto vi faceva un salto anche il tenente colonnello
Kliment’ev. Per il maggiore, negli abiti stretti, violaceo, era scomodo chinarsi
sui sacchi e le valigie (e non si confaceva al suo grado), ma la sua presenza
serviva a infervorare i secondini. Slacciavano con zelo tutti gli stracci dei
detenuti, i loro fagotti, i cenci, e soprattutto se la prendevano con qualsiasi cosa
scritta. In base a una direttiva, tutti coloro che uscivano dalla prigione speciale
non avevano il diritto di portare con sé neanche un foglietto scritto, disegnato
o stampato. Per questo la maggior parte degli zek aveva bruciato in anticipo
tutte le lettere, distrutto i quaderni degli appunti delle proprie specializzazioni
e dato via i libri.
Un detenuto, l’ingegner Romašov, al quale mancavano sei mesi al termine
della pena (aveva già scontato diciannove anni e mezzo) si era portato dietro in
bella vista una grossa cartella di ritagli, annotazioni e calcoli di molti anni sul
montaggio di una centrale idroelettrica (si aspettava di finire nella regione di
Krasnojarsk e là contava di poter lavorare alla sua specializzazione).
Nonostante l’ingegner colonnello Jakonov l’avesse già controllata
personalmente e vi avesse apposto il proprio lasciapassare, e il maggiore Šikin
l’avesse già spedita alla Sezione, e anche lì avessero messo un altro timbro, tutta
la frenetica accortezza di molti mesi e la perseveranza di Romašov si dimostrò
inutile: il maggiore Myšin dichiarò che lui di quella cartella non ne sapeva
niente e ordinò di sequestrarla. Fu presa e portata via, e l’ingegner Romašov la
guardò allontanarsi con occhi vitrei, ormai abituati a tutto. Tempo addietro era
sopravvissuto sia a una condanna a morte sia alla traduzione nei carri bestiame
da Mosca a SovGavan, e alla Kolyma, in un pozzo, aveva infilato di proposito
una gamba sotto una secchia per farsi spaccare la tibia, e giacendo a letto in
ospedale era scampato all’implacabile morte dei lavori comuni artici. Ora non
valeva proprio la pena mettersi a singhiozzare per aver perso il lavoro di dieci
anni.
Un altro detenuto, il piccolo progettista calvo Sëmuškin, che la domenica
rammendava le calze con tanto zelo, al contrario, era un novellino, stava dentro
da circa due anni, trascorsi per intero nelle prigioni e alla šaraška, e adesso
aveva un gran terrore del campo di lavoro. Ma nonostante la strizza e la
disperazione perché li stavano per tradurre, cercava di non farsi sottrarre un
volumetto di Lermontov, che per lui e la moglie rappresentava una reliquia di
famiglia. Implorava il maggiore Myšin di ridarglielo, si torceva le mani con fare
puerile, turbando i sentimenti degli zek più navigati, e tentava di entrare
nell’ufficio del tenente colonnello (non lo lasciarono passare); d’un tratto tolse
di mano il Lermontov al compare (questi dal terrore balzò indietro verso la
porta), con una forza in lui impensabile strappò le copertine verdi stampate, le
scagliò da una parte, per poi sventrare le pagine del libro a gruppetti,
piangendo e gridando convulsamente:
– Ecco! Mangiatevele! Ingozzatevi!
E le lanciava per la stanza.
La perquisizione proseguì.
I detenuti, una volta usciti da lì, si riconoscevano a fatica: dopo aver gettato
a comando in un mucchio le tute blu, in un altro la biancheria statale
marchiata, nel terzo i cappotti, sempre che il proprio non fosse ancora logoro,
indossavano di nuovo la roba di un tempo, o qualcosa di cambio. Dopo anni di
servizio alla šaraška, non si meritavano i suoi vestiti. E non si trattava di
cattiveria o spilorceria dei superiori. I capi dovevano rendere conto all’occhio
statale della contabilità.
Per questo alcuni, sebbene in pieno inverno, si erano ritrovati senza
biancheria e lisciavano mutande e maglie rimaste per molti anni ad ammuffire
nei sacchi al deposito, non lavate, com’erano il giorno del loro arrivo dal
campo di lavoro; altri si erano infilati ai piedi le scarpe goffe del campo (chi
aveva ritrovato nei sacchi quelle calzature subiva ora il sequestro delle scarpe
basse da liberi, unite alle soprascarpe); altri ancora indossavano stivali ferrati in
similpelle; i più fortunati portavano valenki.
I valenki! Lo zek, l’essere con meno diritti sulla terra e meno consapevole del
proprio futuro di una rana, di una talpa o di un topo di campagna, è indifeso
davanti alle vicissitudini del destino. Neanche in una tana calda e profonda lo
zek può essere sicuro che quella notte sarà protetto dagli orrori dell’inverno,
che un braccio con il risvolto della manica bordato di celeste non lo tirerà fuori
e non lo trascinerà al Polo Nord. Che guaio sarebbe a quel punto per le
estremità che non calzano valenki! Giunti alla Kolyma, tirerebbe giù dal cassone
del camion due ghiaccioli assiderati. Uno zek senza valenki propri vive tutto
l’inverno rintanato, mente, si comporta da ipocrita, si lascia insultare da chi è
meschino, oppure opprime anche lui gli altri pur di non essere tradotto via
d’inverno. Lo zek che indossa valenki propri, invece, è intrepido! Guarda negli
occhi i capi con aria di sfida e accetta la tabella di marcia con un sorriso alla
Marco Aurelio.
Nonostante il disgelo all’esterno, tutti quelli che possedevano dei valenki, fra
cui Chorobrov e Neržin, in parte per trasportare una cosa in meno, ma
soprattutto per sentire il loro tepore rasserenante e rinvigorente, vi avevano
infilato i piedi e camminavano con orgoglio per la stanza vuota. L’avevano
fatto anche se quel giorno erano diretti solo al carcere della Butyrka e là non
faceva affatto più freddo che alla šaraška. Solo l’impavido Gerasimovič non
aveva più niente di proprio, così il furiere gli consegnò una giubba “per il
cambio” troppo larga “già usata”, le maniche esageratamente lunghe arrotolate,
e un paio di scarpe in similpelle con la punta quadrata, anch’esse già usate.
Un abbigliamento simile dava a lui con il pince-nez un’aria assai buffa.
Neržin era contento di aver passato la perquisizione. Già il giorno prima,
aspettandosi una traduzione imminente, si era preparato due foglietti scritti
fitto a matita, che agli altri risultassero incomprensibili: aveva omesso un po’ le
vocali, usato qualche lettera greca, mescolato parole in russo, inglese, tedesco,
latino, e per giunta abbreviate. Perché passassero alla perquisizione, Neržin
aveva strappato, sgualcito, spiegazzato quei foglietti come si fa con la carta
quando ha uno scopo diverso, e li aveva infilati nella tasca dei pantaloni del
campo di lavoro. Durante la perquisizione il sorvegliante li aveva visti ma, non
capendoci nulla, glieli aveva lasciati. Se ora, alla Butyrka, non avesse ricevuto il
permesso di portarli in cella, ma gli fossero rimasti nella roba, sarebbero durati
anche di più.
Su quei foglietti erano riassunti in breve alcuni fatti e pensieri fra quelli
bruciati quel giorno.
A perquisizione conclusa, tutti e venti gli zek erano stati spinti in una sala
d’aspetto vuota assieme alla roba autorizzata al trasporto, l’uscio si era richiuso
alle loro spalle e, in attesa che arrivasse il corvo, davanti alla porta era stata
piazzata una sentinella. Un altro sorvegliante era stato incaricato di fare avanti
e indietro sotto le finestre, dove il ghiaccio appena formatosi era scivoloso, e di
cacciare, nel caso fosse comparso qualcuno durante l’intervallo del pranzo, chi
veniva a far loro visita.
Dunque, tutti i legami fra i venti detenuti in partenza e i duecentosessantuno
rimasti erano stati spezzati.
Chi era in procinto di partire si trovava ancora lì, ma non c’era già più.
Sulle prime, occupati i posti come capitava, un po’ sulla propria roba un po’
sulle panche, erano sprofondati tutti nel silenzio.
Pensavano ognuno alla propria perquisizione: che cosa gli era stato tolto e
che cosa erano riusciti a tenere con sé.
E pensavano alla šaraška: quanti beni andavano persi, quanta parte della
condanna vi avevano trascorso, e quanta ne rimaneva.
I detenuti amavano calcolare il tempo: quello già perso e quello destinato a
perdersi di lì in avanti.
Pensavano anche ai parenti, con i quali non si poteva stabilire subito un
contatto. Toccava chiedere loro di nuovo aiuto, perché il Gulag è un paese
strano in cui un uomo adulto che lavora dodici ore al giorno non è in grado di
procurarsi da mangiare.
Pensavano alle occasioni mancate o alle decisioni consapevoli, che li avevano
portati a essere tradotti via.
Dove li avrebbero mandati? Che cosa li aspettava in quel posto nuovo? E
come si sarebbero sistemati?
Avevano ognuno i propri pensieri, ma erano tutti pensieri non troppo
allegri.
Bramavano un po’ di conforto e di speranza.
Per questo, quando qualcuno insinuò che forse non sarebbero stati mandati
in un campo di lavoro ma in un’altra šaraška, persino quelli che non ci
credevano prestarono ascolto.
Perché anche Cristo nell’Orto degli Ulivi, seppur conscio della propria scelta
amara, non smise di pregare e di sperare.
Mentre aggiustava la maniglia della valigia, che continuava a staccarsi dal
supporto, Chorobrov prese a sbraitare forte:
– Che cani! Che vermi! Da noi non sanno fare neanche una semplice valigia!
Hai un turno di sei mesi in onore del Primo Maggio e un altro di sei per la
Rivoluzione d’Ottobre. Come fai, a quel punto, a non lavorare in fretta e furia?
Guarda quelle canaglie che cosa si sono inventati: curvano una stanghetta alle
due estremità e la infilano al posto della maniglia. Finché la valigia è vuota,
regge, ma se la carichi... Hanno sviluppato l’industria pesante, ’sti stronzi, ma
fanno vergognare l’ultimo artigiano di Nicola.
E con alcuni pezzi di mattone staccatosi da una stufa messa insieme con lo
stesso metodo sbrigativo, Chorobrov batteva incattivito le estremità della
stanghetta nell’occhiello.
Neržin lo capiva bene. Ogni volta che si scontrava con la mortificazione, il
disprezzo, lo scherno, il menefreghismo, Chorobrov si infuriava, ma era
possibile ragionare tranquillamente di quella cosa? L’urlo di un umiliato si
poteva davvero rendere con parole gentili? E ora che aveva di nuovo indosso
gli abiti del campo di lavoro, e nel campo di lavoro era diretto, Neržin sentiva
riaffiorare in sé un elemento essenziale della libertà maschile: il bisogno di
infilare un’imprecazione ogni cinque parole.
Romašov raccontava a bassa voce ai novellini su quali strade di solito si
trasportavano i detenuti in Siberia e, paragonando la prigione di transito di
Kujbyšev con quelle di Gor’kij e di Kirov, lodava di gran lunga la prima.
Chorobrov smise di battere e in preda all’ira scagliò a terra il mattone, che si
frantumò in una graniglia rossa.
– Ma che dici! – gridò contro Romašov, e sul suo viso scarno e duro affiorò
il dolore. – Gor’kij non è finito in una prigione di transito, e nemmeno
Kujbyšev, altrimenti li avrebbero seppelliti vent’anni prima. Di’ le cose come
stanno: sono le prigioni di transito di Samara, Nižnij Novgorod, Vjatka! Sei
dentro già da vent’anni, che te li lisci a fare!
La foga di Chorobrov si trasmise a Neržin che si alzò, fece chiamare
Nadelašin tramite la sentinella e con voce stentorea denunciò:
– Sottotenente! Dalla finestra abbiamo visto che il pranzo è già cominciato
da mezz’ora. Perché a noi non lo portate?
Il tenente minore si smarrì, imbarazzato, e con compassione rispose:
– Voi oggi... siete esonerati dal rifornimento...
– Cioè, in che senso esonerati? – E, sentendo alle spalle un brusio di
malcontento a suo sostegno, cominciò a dire apertamente:
– Riferisca al capo della prigione che senza pranzo non andremo da nessuna
parte! E non gli permetteremo di portarci via con la forza!
– Va bene, glielo riferisco! – si arrese il tenente minore. E con aria colpevole
se ne andò di corsa dal capo.
Nella stanza nessuno ebbe il dubbio se valesse la pena o meno spalleggiare la
protesta. Agli zek la schizzinosa magnanimità da elemosina dei liberi benestanti
dava sui nervi.
– Giusto!
– Stagli addosso!
– Quei vermi ci schiacciano!
– Taccagni! Dopo tre anni di servizio, che gli costava un pranzo?!
– Non partiamo! Molto semplice! Tanto che ci possono fare?
Persino quelli che si erano sempre dimostrati miti e tranquilli con i capi,
adesso si erano fatti coraggio. Sferzava loro il viso il vento libero delle prigioni
di transito. Quell’ultimo pranzo a base di carne non era soltanto l’ultima
occasione per saziarsi in vista di mesi e anni di brodaglia, rappresentava la loro
dignità umana. Persino quelli cui si era seccata la gola per la preoccupazione,
che non sarebbero nemmeno riusciti a mangiare, persino loro, dimenticata
l’ansia, aspettavano e pretendevano il pranzo.
Dalla finestra era visibile il viottolo che univa il comando alla cucina. Si
accorsero che al punto del taglio della legna si stava avvicinando in retro un
camion, con un grosso abete adagiato comodamente sul cassone: sporgeva dalla
sponda con i rami e la cima. Dalla cabina scese l’economo della prigione e dal
cassone saltò giù il sorvegliante.
Sì, il tenente colonnello aveva mantenuto la parola. L’indomani e il giorno
seguente avrebbero sistemato l’abete nella stanza semicircolare, i detenuti-
padri, che rimasti senza figli si erano trasformati loro stessi in bambini, ci
avrebbero appeso degli addobbi (senza lesinare tempo statale per prepararli) –
il cestino fatto da Klara, la luna chiara nella gabbietta di vetro – dopo essersi
presi per mano in cerchio, baffuti, barbuti, con una risata amara si sarebbero
messi a girare, continuando a ripetere l’urlo lupesco del proprio destino:
Nel bosco spuntò un abete,
nel bosco l’abete cresceva...
Videro il sorvegliante fermo sotto le finestre cacciare via Prjančikov, che aveva
cercato di fare breccia fino a loro e gridava qualcosa, alzando le braccia al cielo.
Videro il tenente minore, preoccupato, dirigersi a passo veloce verso la
cucina, poi al comando, di nuovo alla cucina e ancora al comando.
Videro anche che avevano mandato Spiridon a scaricare l’abete dal camion,
senza lasciarlo finire di mangiare. Mentre si incamminava, si asciugava i baffi e
si aggiustava la cintura.
Il tenente minore, alla fine, non si diresse più a passo normale verso la
cucina, si mise quasi a correre, e da lì a breve vi uscì in compagnia di due
cuoche impegnate a trasportare insieme un bidone e un mestolo. Una terza
aveva una pila di piatti fondi. Temendo di scivolare e spaccarli, la donna si
fermò. Il tenente minore tornò indietro e gliene prese una parte.
Nella stanza si sollevò un boato di vittoria.
Alle porte comparve il pranzo. Le cuoche posarono la zuppa su un tavolo e
si misero a versarla; gli zek prendevano i piatti e se li portavano con sé negli
angoli, sui davanzali e sui bagagli. Alcuni si adattarono a mangiare in piedi, con
il petto appoggiato al tavolo rimasto senza panche.
Il tenente minore se ne andò assieme alle cuoche. Nella stanza calò il
silenzio, di un genere che dovrebbe sempre accompagnare un pasto. Stavano
pensando: ecco la zuppa con il grasso, un po’ liquida, ma con un evidente
sapore di carne; ecco un cucchiaio, un altro, e un altro ancora, con le stelline di
grasso e le fibre bianche lessate, lo mando giù; passa umido, caldo per l’esofago,
scende nello stomaco, e il sangue e i muscoli esultano in anticipo supponendo
nuova forza e un nuovo ricostituente.
Neržin ricordò il proverbio: “Per la carne ci si ammoglia, per la minestra ci
si marita.” Per lui, quel proverbio significava che il marito procurava la carne,
mentre la moglie la metteva a cuocere nella minestra. Il popolo nei proverbi
non faceva il furbo, non tirava fuori per forza grandi aneliti. In tutta la marea
dei suoi proverbi, il popolo era più sincero riguardo a sé stesso persino di
Tolstoj e Dostoevskij nelle loro confessioni.
Con la zuppa arrivata quasi alla fine, i cucchiai d’alluminio cominciarono a
sbattere contro i piatti e in tono evasivo qualcuno si concesse un: – Sì-ì-ì...
Da un angolo giunse poi:
– Approfittatene, fratelli!
Si intromise un guastafeste:
– Ci hanno dato il fondo, non è densa. E la carne se la sono pescata loro.
Qualcun altro, malinconico, esclamò:
– Chissà quando potremo rimangiare un’altra cosa così!
A quel punto Chorobrov batté con il cucchiaio sul piatto vuoto e, in modo
chiaro, con crescente rimostranza nella gola, disse:
– No, amici! Vale più un buon giorno con un uovo che un mal anno con un
bue!
Nessuno gli rispose.
Neržin cominciò a battere e a reclamare il secondo.
Riapparve subito il tenente minore.
– Avete mangiato? – chiese, osservando con un sorriso affabile i detenuti in
partenza. E, convinto che la sazietà avesse portato sui loro visi un po’ di
bonomia, annunciò un fatto che l’esperienza della prigione gli aveva suggerito
di non dire prima: – Di secondo non ne è rimasto. Stanno già lavando le
pentole. Mi spiace.
Neržin guardò gli zek, valutando se reagire con forza. Ma, con la capacità
che hanno i russi di sbollire presto, tutti si erano già ammansiti.
– Che cosa c’era di secondo? – domandò qualcuno, con voce di basso.
– Spezzatino – rispose il tenente minore, con un sorriso timido.
Sospirarono.
Della terza portata, chissà perché, non si ricordarono.
Oltre la parete si udì lo scoppiettio del motore di un’automobile. Il tenente
minore venne chiamato a rapporto e si salvò. Nel corridoio giunse la voce forte
del tenente colonnello Kliment’ev.
Cominciarono a portarli fuori uno per volta.
Di appelli con i fascicoli personali non ce ne furono, giacché la scorta della
šaraška doveva accompagnare gli zek alla Butyrka e consegnarli solo lì. Ma li
contarono. La scorta contava non appena il detenuto compiva il passo tanto
familiare e sempre fatale dalla terra all’alto predellino del corvo, piegando a
fondo la testa per non sbattere contro l’architrave di ferro, curvo sotto il peso
della propria roba che cozzava goffamente contro le pareti laterali dell’ingresso.
Non c’era nessuno a salutarli: l’intervallo per il pranzo era già finito, gli zek
erano stati condotti dal cortile della passeggiata ai locali interni.
Il retro del corvo era accostato alla soglia del comando. Durante la salita sul
veicolo, sebbene non ci fosse nemmeno lo straziante abbaiare dei cani lupo,
regnavano quell’angustia, quella pressa e tesa irruenza tipica della scorta, da cui
solo quest’ultima trae vantaggio, ma che involontariamente contagiano anche
gli zek, impedendo loro di guardarsi intorno e di comprendere la propria
posizione.
Così, su diciotto che salirono, nemmeno uno sollevò la testa per
accomiatarsi dai tigli alti e slanciati che avevano riversato la loro ombra per
lunghi anni, in momenti di difficoltà e di gioia.
Gli unici due che riuscirono a vedere qualcosa, Chorobrov e Neržin,
sbirciarono non i tigli ma il fianco del veicolo, con lo scopo specifico di capire
di quale colore fosse verniciato.
Le loro aspettative non furono deluse.
I corvi grigio piombo e neri, che scorrazzavano per le strade delle città
causando terrore nei cittadini, appartenevano al passato. C’era un’epoca in cui
erano stati anche necessari. Ma, essendo giunti da un bel pezzo gli anni della
prosperità, anche i corvi dovevano manifestare quella piacevole caratteristica dei
tempi. Nella mente geniale di qualcuno, dunque, era sorta un’intuizione:
fabbricare corvi che avessero il medesimo aspetto dei furgoncini dei prodotti
alimentari. Verniciati esteriormente con le stesse righe arancioni e azzurre,
avevano scritte in quattro lingue:
Pane
Pain
Brot
Bread
oppure
Carne
Viande
Fleisch
Meat
Mentre saliva su quel corvo, Neržin trovò il modo di spostarsi di lato e leggere:
Meat
Si infilò anche lui a fatica nel vano della prima stretta portiera, poi passò
attraverso il secondo vano, ancora più stretto, calpestò i piedi di qualcuno e,
dopo aver trascinato la valigia e il sacco contro le ginocchia di qualcun altro,
prese posto.
L’interno di quel corvo di tre tonnellate non era diviso in box, non era formato
da dieci scomparti di ferro in ciascuno dei quali veniva ficcato a forza un solo
detenuto. No, quel corvo era del tipo “comune”, cioè destinato non al trasporto
degli inquisiti ma dei condannati, cosa che aumentava di colpo la sua capacità
di portata viva. Nella parte posteriore, fra le due porte di ferro con le piccole
inferriate-sfiatatoio, il corvo era dotato di uno stretto vestibolo per il personale
di scorta, dove, chiusa la portiera interna dall’esterno, e l’esterna dall’interno, e
tenendosi in contatto con l’autista e con il capo della scorta attraverso uno
speciale tubo acustico impiantato nel telaio del cassone, ci stavano a malapena
due guardie, e solo tenendo le gambe ripiegate sotto di sé. A spese del vestibolo
posteriore era stato ricavato un piccolo box di scorta nel caso qualcuno si
ribellasse. Il resto del cassone rinchiuso in una bassa scatola di metallo era una
comune trappola per topi, dove in base al regolamento andavano spinte dentro
anche venti persone. (Se si riusciva a far scattare la serratura dello sportello di
ferro puntandoci contro quattro scarponi, c’era modo di schiacciarne dentro
anche di più.)
Lungo tre pareti di quella comune trappola per topi c’erano piazzate delle
panche, che riducevano lo spazio al centro. Chi riusciva si sedeva, ma non era
tra i più fortunati: una volta stipato il corvo, sulle ginocchia incastrate, sulle
gambe piegate e rattrappite, finivano cose altrui e persone, e in quel pastone
non aveva senso offendersi, scusarsi, mentre non ci si poteva muovere né si
poteva cambiare posizione per un’altra ora. I sorveglianti premevano contro lo
sportello e, spinto dentro l’ultimo detenuto, fecero scattare la serratura.
Con la portiera esterna del vestibolo ancora aperta, qualcuno salì sul
predellino posteriore. Dal vestibolo un’ombra nuova oscurò l’inferriata-
sfiatatoio.
– Amici! – risuonò la voce di Rus’ka. – Vado alla Butyrka per un’istruttoria!
Chi siete? Chi stanno portando via?
Si levò subito uno scroscio di voci: per rispondergli si erano messi a gridare
tutti insieme venti zek, ai quali per zittire Rus’ka si erano aggiunti entrambi i
sorveglianti, e dalla soglia del comando anche Kliment’ev, perché le guardie
non dormissero e non permettessero ai detenuti di parlare fra loro.
– State zitti! – imprecò qualcuno nel corvo. Calò il silenzio e si udì lo
scalpiccio dei piedi dei sorveglianti nel vestibolo: stavano spingendo Rus’ka nel
box in fretta e furia.
– Chi ti ha venduto, Rus’ka? – gridò Neržin.
– Siromacha!
– Che ve-e-erme! – si sollevò un brusio di voci.
– E voi quanti siete? – gridò Rus’ka.
– Venti.
– Chi c’è lì?
Ma lo avevano già infilato nel box e chiuso dentro.
– Non temere, Rus’ka! – gli gridarono. – Ci rivediamo al campo di lavoro!
Finché rimase aperta la portiera esterna dentro il corvo filtrò ancora un po’ di
luce, ma anche quello sportello venne presto sbattuto e a sbarrare il passaggio
all’ultimo incerto spiraglio luminoso che proveniva dalle inferriate delle due
porte ci pensarono le teste delle guardie di scorta; il motore cominciò a
strepitare, il corvo si mise in marcia e, fra sussulti e dondolii, sul viso degli zek
prese a correre di tanto in tanto solo qualche riflesso tremolante.
È il gridare breve da una cella all’altra, una calda scintilla che talvolta balza
fra le pietre e il ferro, ad agitare sempre immensamente i detenuti.
– E cosa dovrebbe fare l’élite nel campo di lavoro? – barrì Neržin
direttamente nell’orecchio di Gerasimovič, in modo che solo lui potesse sentire.
– Lo stesso degli altri, ma con il doppio dello sforzo! – gli barrì Gerasimovič
in risposta.
Viaggiarono per un po’, dopodiché il corvo si fermò. Erano giunti a un posto
di guardia.
– Rus’ka! – gridò uno zek. – Ti stanno pestando?
La risposta giunse attutita e non immediata:
– Sì...
– Maledetti tutti i Šiškin-Myškin! – gridò Neržin. – Non mollare, Rus’ka!
E di nuovo numerose voci si misero a gridare e tutto si confuse.
Ripartirono, superando il posto di guardia, poi tutti vennero sballottati a
destra, il che voleva dire che avevano girato a sinistra sullo stradone.
Durante la svolta, le spalle di Gerasimovič e di Neržin si ritrovarono
appiccicate. I due si guardarono, cercando di scorgersi nella penombra. Li
univa già qualcosa di più grande dello spazio angusto del corvo.
Nel buio sovraffollato, annuendo leggermente, Il’ja Chorobrov cominciò a
dire:
– A me, ragazzi, non dispiace di andarmene. Che vita è quella della šaraška?
Cammini per il corridoio e ti becchi Siromacha. Ogni cinque detenuti c’è una
spia, non fai in tempo a scoreggiare in bagno, che il compare già lo sa. Sono due
anni che quei bastardi ci levano la domenica. Una giornata di lavoro di dodici
ore! Ti consumi il cervello per venti grammi di burro. Ti vietano la
corrispondenza con la famiglia, vadano a farsi fottere. Lavoro e basta! È un
inferno, altroché!
Chorobrov tacque, colmo di risentimento. Nel silenzio che ne seguì, con il
motore in sottofondo che procedeva regolare sull’asfalto, giunse la risposta di
Neržin:
– No, Il’ja Terent’ič, questo non è l’inferno. Non lo è affatto! All’inferno ci
stiamo andando ora. Ci stiamo tornando. La šaraška, al contrario, è il primo
cerchio dell’inferno, il più alto, il migliore. È quasi il paradiso.
Non aggiunse altro, non serviva. Sapevano tutti fin troppo bene che li
attendeva qualcosa di infinitamente peggiore della šaraška. Sapevano tutti che
nel campo di lavoro avrebbero ricordato la šaraška come un sogno dorato. Ma
ora, per conservare le forze e un senso di giustizia, bisognava imprecarle
contro, perché nessuno avesse rimpianti, nessuno si rimproverasse un passo
avventato.
Gerasimovič trovò l’argomento che a Chorobrov era mancato:
– Quando saremo in guerra, siccome gli zek della šaraška sapranno troppo, li
spediranno all’altro mondo con un po’ di pane avvelenato, come facevano gli
hitleriani.
– È quello che dico anch’io, – ribatté Chorobrov – vale più un buon giorno
con un uovo che un mal anno con un bue!
Gli zek ammutolirono, concentrati ad ascoltare l’andatura del veicolo. Sì, li
attendevano la taiga e la tundra, il freddo polo di Oj-Mja-kon e le miniere di
rame di Džezkazgan. Li attendevano di nuovo il piccone e la carriola, le razioni
da fame di pane crudo, l’ospedale, la morte.
Li attendeva solo il peggio.
Nell’anima, però, erano in pace con sé stessi.
Si era impossessata di loro l’audacia di chi ha perso davvero tutto,
un’audacia che si raggiunge con difficoltà, ma saldamente.
L’allegro veicolo arancione e azzurro, che percorreva già le strade della città
scuotendo i corpi stipati al suo interno, oltrepassò una delle stazioni e si fermò
a un incrocio. Lì si era fermata anche l’automobile bordeaux scuro del
corrispondente del giornale “Liberation”, diretto allo stadio Dinamo per una
partita di hockey. Su quel furgoncino il corrispondente lesse:
Carne
Viande
Fleisch
Meat
Si ricordò di aver visto quel giorno più di un veicolo come quello in varie parti
di Mosca. Estrasse il taccuino e con la penna bordeaux scuro annotò:
“Nelle strade di Mosca si incontrano di continuo autofurgoni di prodotti
alimentari molto puliti, impeccabili dal punto di vista sanitario. Impossibile
non notare che l’approvvigionamento della capitale è eccellente.”
Solženicyn iniziò a scrivere questo romanzo in esilio, a Kok-Terek (Kazachstan
meridionale), nel 1955. La prima redazione, formata da 96 capitoli, fu
completata nel villaggio di Mil’cevo (regione di Vladimir) nel 1957; la seconda e
la terza, a Rjazan’ nel 1958 (tutte distrutte in seguito per ragioni di
cospirazione). Nel 1962 prese forma una quarta redazione, che l’autore
considerò definitiva. Tuttavia, nel 1963, dopo l’uscita di Una giornata di Ivan
Denisovič su “Novyj Mir”, a Solženicyn venne l’idea di una possibile
pubblicazione parziale e furono scelti alcuni capitoli da proporre ad A.T.
Tvardovskij. Quell’idea portò poi a una riprogettazione totale del romanzo con
una suddivisione in capitoli, all’eliminazione di parti completamente
improponibili, all’attenuazione politica della parte restante e alla stesura di una
nuova versione del romanzo (la quinta edizione, di 87 capitoli), in cui era stata
modificata la linea narrativa principale: al posto di quella “atomica”, com’era in
origine, fu inserito un argomento sovietico ben noto in quegli anni, il
“tradimento” da parte di un medico reo di passare una medicina all’Occidente.
Il romanzo fu esaminato e accettato in quella forma da “Novyj Mir” nel giugno
del 1964, ma il tentativo di pubblicazione non riuscì. Nell’estate del 1964 fu
portato avanti il tentativo opposto (sesta redazione): approfondire e affinare
nei dettagli la versione di 87 capitoli. Nell’autunno dello stesso anno una
pellicola fotografica con quella versione fu inviata in Occidente. Nel settembre
del 1965 alcune copie di una versione “pubblica” (quinta redazione) finirono
nelle mani del KGB, ragion per cui la pubblicazione definitiva del romanzo in
Urss venne bloccata. Nel 1967 questa versione si diffuse ampiamente in
samizdat. Nel 1968 il romanzo (sesta redazione) fu pubblicato in russo dalla
casa editrice americana Harper and Row. (Su quella redazione si basarono
anche tutte le traduzioni straniere.)
Nell’estate del 1968 prese forma una nuova redazione (la settima): il testo
completo e definitivo del romanzo (96 capitoli). Questa versione non è mai
stata né diffusa in samizdat né pubblicata in libro singolo. Ha trovato spazio per
la prima volta in una raccolta delle Opere complete.
La “šaraška di Marfino” e quasi tutti i suoi abitanti sono ritratti dal vero.
GLOSSARIO
BALORDO (pridurok) nel gergo del gulag i balordi erano zek che riuscivano a
evitare i lavori manuali.
BOBINA (katuška) massimo della pena detentiva prevista per un determinato
articolo.
CARCERE INTERNO (vnutrjanka) carcere giudiziario situato all’interno della sede
della Sicurezza di Stato.
CINQUANTOTTO (pjat’desjat vos’maja) articolo del codice penale della RSFSR che
elencava i “reati controrivoluzionari”. È anche il detenuto politico condannato
in base a uno o più commi di quell’articolo.
COMPARE (kum) modo in cui gli oper vengono chiamati dagli zek.
MANGIATOIA (kormuška) sportello sulla porta della cella che ribaltandosi mette
a disposizione una mensola su cui posare il pasto o altre cose da passare al
detenuto. Il meccanismo si aziona solo dall’esterno.
MGB (Ministerstvo Gosudarstvennoj Bezopasnosti) Ministero della Sicurezza di Stato.
Assunse il controllo degli Organi di polizia politica dal 1946 al 1953.
MVD (Ministerstvo Vnutrennich Del) Ministero degli Affari interni. Dal 1953
assorbì i compiti dell’MGB.
Anni fa, durante una lunga discussione notturna, di quelle che l’intelligencija, non
solo russa, conduce ancora per cercare di capire la tragedia del comunismo
sovietico, dissi a mio marito che per comprendere i meccanismi della dittatura
doveva leggere i capitoli dedicati a Stalin di Nel primo cerchio di Aleksandr
Solženicyn. Il mattino dopo – Amazon non era ancora sbarcato in Italia –
eravamo in una grande libreria del centro di Milano, convinti di trovare uno
dei più grandi romanzi del Novecento in cinque minuti, un po’ come si entra al
supermercato sicuri di trovare il latte o il pane. Ma il romanzo non c’era negli
scaffali della narrativa straniera e nemmeno in altri reparti. Il gentile giovane
commesso, dopo aver consultato i cataloghi, ci disse che era ormai fuori
stampa, guardandoci con educato stupore: a me era sembrato di chiedere il
pane, qualcosa di ovvio, un classico che non poteva non esserci, a lui eravamo
apparsi come due personaggi bizzarri, in cerca di una rarità stravagante.
Non sapevo in quella mattina che, se avessimo scovato il libro, la delusione
sarebbe stata ancora maggiore: dalla prima traduzione, uscita con la Mondadori
nel 1968, in poi in Italia veniva pubblicata la versione “light” del romanzo,
quella “spennata”, come la definisce lo stesso Solženicyn nella prefazione, che
lo scrittore cercò di rendere adatta a superare la censura sovietica, “perché
godesse almeno di una flebile vita”. Non ci riuscì, ma fu proprio questa stesura
a finire nel tamizdat e nel samizdat, a venire pubblicata in Occidente, a circolare
clandestinamente in Unione Sovietica, e a meritare allo scrittore il Nobel. A
venire sacrificati per primi furono, ovviamente, proprio i capitoli su Stalin, e
altri passaggi cruciali ma troppo taglienti, per un totale di nove capitoli. Inoltre,
la molla stessa del plot, la motivazione della telefonata di Volodin
all’ambasciata americana, venne resa più innocente: invece di cercare di
impedire ai sovietici di ottenere la bomba atomica, voleva soltanto mettere in
guardia un medico che ebbe in cura sua madre dai contatti con i colleghi
stranieri, quindi invece di salvare il mondo – e tradire il suo paese – desiderava
solo proteggere un innocente verso il quale aveva un debito di gratitudine. Una
trama più “privata”, che rendeva Volodin più vittima – è evidente che la sua
azione sarebbe stata considerata un tradimento sotto qualunque regime – ma
toglieva drammaticità al dilemma morale dei principali protagonisti del
romanzo, rendendone sfasati e sfocati i tormenti. È stata però questa versione a
entrare nella memoria di una generazione di lettori russi e occidentali: la
stesura integrale, “ricostruita” dall’autore nel 1968 e tornata ad avere 96
capitoli invece di 87, venne pubblicata in russo solo nel 1990, nella prima
edizione legale in patria, e in inglese nel 2009. Quando nel 2006 la televisione
russa trasmise una fiction tratta dalla versione integrale del romanzo, milioni di
russi provarono delusione e rabbia: “Da un brav’uomo il protagonista diventa
traditore!”, era il leit-motiv di numerose proteste di critici e spettatori, che pure
avevano rischiato se non la vita, la libertà e la carriera, per leggere illegalmente
il romanzo mutilato trent’anni prima.
Romanzo corale nei personaggi e nei luoghi, la cui azione è invece pressata in
meno di tre giorni, con però decine di flashback che vanno indietro di decenni,
e lontano migliaia di chilometri dalla Mosca del Natale 1949, descritta in
maniera quasi palpabile, negli odori, colori e rumori di una grande metropoli
indifferente, spaziando dai corridoi delle prigioni alle stanzette dei convitti
studenteschi, dalla metropolitana alla dacia di Stalin, con continui e improvvisi
cambiamenti di ritmo, in un mosaico dove voragini filosofiche si alternano a
intermezzi quasi comici, serrati dialoghi carichi di messaggi a tenui descrizioni
introspettive, momenti di alta tensione a improvvise deviazioni dal plot, in un
incastro che sa di perfezione matematica, ma anche di musica, con le voci dei
vari protagonisti perfettamente udibili e distinguibili, in un coro polifonico.
Tutti i dettagli sono al loro posto, il fucile appeso nel primo atto spara nel
terzo, come raccomandava Čechov, l’infinito puzzle di dettagli, sfumature,
oggetti, suoni, odori e frasi si compone senza lasciare fessure, è tutto visibile,
quasi come fosse una sceneggiatura pronta, uno dei panorami più ampi e
realistici della Russia del Novecento.
Un giorno, forse, questo capolavoro si leggerà “soltanto” come un grande
romanzo. Ma oggi, un secolo dopo la nascita dello scrittore e cinquant’anni
dopo la prima pubblicazione “spennata”, è ancora impossibile distinguere
questo imponente affresco dal suo soggetto: lo stalinismo. L’enigma di un
paese enorme totalmente soggiogato dal suo sovrano, un’intera nazione che
resta sveglia perché “un uomo soltanto di notte non dormiva [...] Per non
cedere al sonno, convocavano i loro vice, e i vice importunavano i capiufficio,
gli archivisti sulle scalette spulciavano negli schedari, i segretari volavano per i
corridoi, le stenografe spezzavano la punta delle matite”. Un paese stretto dalla
paura, “la paura sorta in lunghi anni di subordinazione era così enorme che
nessuno di loro, né prima né dopo, aveva avuto abbastanza coraggio da farsi
valere davanti ai superiori”, i delatori sono ovunque e il minimo gesto o frase
possono costare la vita e la libertà. Un paese preso da una “folle, insopportabile
corsa che stava stritolando tutta la nazione”, la corsa impossibile verso l’utopia,
mentre “le case non stavano in piedi, i ponti non si reggevano, le costruzioni si
riempivano di crepe, il raccolto marciva o non germogliava proprio”, in
un’autodistruzione che nessuno aveva il coraggio di fermare, e che veniva
spacciata per l’approssimarsi della nuova era. Un paese avvolto nella bugia, che
della menzogna aveva fatto strumento di lavoro e sopravvivenza, dove la verità
e lo sguardo disincantato sulla realtà erano punibili con la prigione, e solo nella
prigione diventavano possibili. Tutti mentono a tutti – i mariti alle mogli, i
genitori ai figli, i superiori ai sottoposti, i giornali ai lettori, i ministri a Stalin e
Stalin a sé stesso – in un meccanismo psicologico quanto politico, dove le fake
news diventano strumento di governo e necessità quotidiana, di cui Solženicyn
descrive il funzionamento in intuizioni che sembrano tratte da studi di
comportamentalistica moderna.
Quando scrisse – e poi tolse – quei capitoli nella prima stesura di Nel primo
cerchio, Solženicyn si sentì obiettare da Aleksandr Tvardovskij – il poeta
direttore della rivista “Novij Mir”, che ebbe il coraggio di pubblicare Una
giornata di Ivan Denisovič – di non poter inventarsi “dettagli così precisi e certi
della vita del monarca” senza conoscerli. Lo scrittore rispose che “Stalin
doveva mietere la semina della sua segretezza. Visse in segreto, e dunque oggi
chiunque ha diritto a scriverne qualunque cosa secondo la propria
immaginazione. Questo è il diritto e il compito dell’artista, dipingere un
quadro e contagiarne il lettore”. Il prodigio, come si è scoperto decenni dopo
da numerose e svariate testimonianze, è che l’artista colse quello che ignorava,
ricostruendo lo scheletro del dinosauro dalla mandibola. Anche perché il
meccanismo inesorabile della mente del dittatore, che plasma la realtà fino a
crederci lui stesso, non poteva essere dissimile da quello dei suoi “lemuri”. Ma
può essere letta anche come la psicoanalisi perfetta del narcisista, che distrugge
tutto quello che lo può oscurare, per poi annoiarsi con i mediocri che egli
stesso ha selezionato: “Come re Mida, che trasformava in oro tutto ciò che
toccava, Stalin rendeva mediocre tutto ciò che sfiorava.”
Solženicyn aveva dedicato la sua opera, il suo scontro del vitello che voleva
incornare la quercia, come recita il titolo della sua prima autobiografia, ad
abbattere quello che gli sembrava un mito che avvelenava la Russia e il mondo:
la bontà del comunismo, nonostante i suoi crimini. Voleva dimostrare che
Stalin non fosse una tragica “deviazione”, ma il prodotto inevitabile e logico
dell’ideologia comunista (i pochi marxisti convinti nel suo romanzo, anche loro
ovviamente detenuti, vengono trattati con benevola compassione), non
un’eccezione, ma la sua massima espressione. Molti russi della sua generazione
sono convinti di essere stati colpiti da un male eccezionale, senza confronti, che
in un certo senso rende grandi anche le vittime (a differenza degli ebrei però,
oltre che vittime ne furono pure perpetratori). Ma lo Stalin di Solženicyn
appare all’improvviso banale, già visto, replicato altre volte in tutte le sue
manifestazioni – dai monumenti del “culto della personalità” all’eliminazione
metodica di tutti i nemici più brillanti, i Trockij di turno. I paragoni con molti
tratti della Russia contemporanea – emblematico il passaggio della limousine di
Vladimir Putin diretto alla cerimonia della sua terza investitura al Cremlino,
attraverso una Mosca svuotata di abitanti – sono involontari quanto
sintomatici di un sistema ancora radicato. Riletto cinquant’anni dopo, il
romanzo colpisce però un bersaglio molto più ampio, non circoscritto né nello
spazio, né nel tempo. Come l’unicità del male degli anni Trenta viene ora messa
in discussione dalla risorgenza di discorsi e odi che sembravano banditi per
sempre, così quella che doveva essere una denuncia di fuoco contro il mostro
della dittatura comunista oggi si può rileggere come un manuale di psicologia
del dittatore, e del funzionamento della macchina totalitaria – paura, paranoia,
bugia, manipolazione, violenza, corruzione, risentimento, autarchia e
mediocrità – in nome di un potere da concentrare in poche, pochissime mani.
Da Mao alla dinastia dei Kim, dai peronisti latinoamericani a quelli birmani,
dai satrapi africani ai rais mediorientali, fino ai sovranisti e populisti europei e
americani, in quella triste farsa che, secondo Marx, è sempre la ripetizione della
storia, inneggiano al popolo per trasformarlo in plebe. Il dittatore ideale, come
lo Stalin di Solženicyn, proclama la mediocrità come modello, disprezza la
scienza e deride gli intellettuali, con la loro attitudine a dubitare, esitare e
sottilizzare. Per lui l’unico metodo per superare un ostacolo è eliminarlo: il
confronto, il dialogo, la persuasione, la competizione gli sono sconosciuti,
anche perché sa che in questi campi non può che essere un perdente. Lo stesso
Stalin di Solženicyn sa, intuisce, di non essere l’unico: il solo essere umano
verso il quale avesse mai nutrito una fiducia e una complicità tra pari è Adolf
Hitler, e risponde a chi voleva eliminarlo esclamando: “Un socialismo senza di
lui era fascismo bell’e buono!”
Nel primo cerchio racconta anche come va a finire l’inevitabile stratificazione che
nasce da ogni sogno rivoluzionario, descrivendo senza elusioni una società
sovietica violenta, cinica, corrotta e classista, cogliendo, dalle segrete gelate del
gulag più remoto alla camera da letto di Stalin, quella sensazione di squallore
che disgusta in misura eguale comunisti e anticomunisti, con la nuova
borghesia rossa che ha dimenticato qualunque ideale, perfino sanguinario, per
darsi alla sfrenata caccia a tappeti, cristalli e mobili, iniziata con il saccheggio
della Germania sconfitta: “Il paese si era inferocito, si era fatto totalmente
disonesto, e voragini separavano una gracile miseria da una ricchezza che
ingrassava spudorata.” Qualunque giustificazione, ideale, economica, sociale,
estetica, della rivoluzione, sparisce in una certificazione senza appello del
fallimento, che oggi non riguarda più solo l’illusione del comunismo, ma tante
altre che sono venute, e che verranno, secondo la regola, dimostrata da
Solženicyn con la precisione del matematico, che un potere sorto con la
violenza e l’inganno non può non essere cinico e inefficiente. La distinzione
elitista, e l’assenza di dialogo, tra chi è istruito e il “popolo”, così tradizionale
dei dilemmi della letteratura russa, oggi si rilegge in un’ottica tornata di
attualità, e Stalin – il leader che disprezza l’élite e capisce il popolo,
manipolando entrambi – potrebbe sembrare l’unica, per quanto ripugnante,
soluzione per tenerli insieme. Con l’inevitabile conclusione che gli unici a
volere e potere comportarsi come cittadini e farsi guidare dalla ragione e dalla
morale, in una sorta di società ideale di filosofi che contrasta la dittatura
dell’imbecillità, siano i detenuti.
INDICE
1 Il siluro
2 Colpo fallito
3 La šaraška
4 Il Natale protestante
5 Boogie-Woogie
6 Un’esistenza pacifica
7 Un cuore di donna
8 Fermati, attimo!
9 Il quinto anno di reclusione
10 I rosacrociani
11 Il castello incantato
12 Il Sette
13 E bisognava mentire…
14 La luce blu
15 Una ragazza! Una ragazza!
16 Una trojka di mentitori
17 A proposito dell’acqua calda
18 La fiaba del cavallino magico
19 Il festeggiato
20 Schizzo di una vita grandiosa
21 Ci ridia la pena di morte!
22 L’imperatore della terra
23 La lingua è un mezzo di produzione
24 L’abisso ti richiama indietro
25 La chiesa di Nikita Martire
26 A segare la legna
27 Un po’ di metodologia
28 Il lavoro del tenente minore
29 Il lavoro del tenente colonnello
30 Un robot perplesso
31 Come rammendare i calzini
32 Sulla strada verso il milione
33 Aste di reprimenda
34 I fonoaspetti
35 Vietati i baci
36 La fonoscopia
37 Una muta campana a martello
38 Tradiscimi!
39 Facile dire “andiamo nella taiga”
40 Il colloquio
41 Ancora uno
42 Anche fra i giovani
43 La donna che lavava le scale
44 In libertà
45 I cani dell’imperialismo
46 Il castello del Santo Graal
47 Conversazione 000
48 Il doppiogiochista
49 La vita non è un romanzo
50 La vecchia zitella
51 Fuoco e fieno
52 Alla resurrezione dei morti!
53 L’arca
54 Divertimenti oziosi
55 Il principe Igor’
56 Finendo il ventesimo
57 Bazzecole da detenuti
58 Una tavola di liceali
59 Il sorriso di Buddha
60 Anche la coscienza ci viene data una volta sola
61 Lo zio di Tver’
62 Due generi
63 Il conservatore
64 Per primi nelle città
65 Un duello fuori dalle regole
66 L’andata al popolo
67 Spiridon
68 Il criterio di Spiridon
69 A carte coperte
70 Dotty
71 Facciamo che non sia mai successo
72 I Templi civili
73 Un circolo di offese
74 L’alba del lunedì
75 Quattro chiodi
76 L’adorata professione
77 Decisione presa
78 Il segretario esentato
79 Spiegata la decisione
80 Centoquarantasette rubli
81 La tecno-élite
82 Educazione all’ottimismo
83 Il principe dei delatori
84 Quanto a fucilare…
85 Il principe Kurbskij
86 Non sono un pescatore di uomini
87 Alle origini della scienza
88 Il materialismo dialettico: una concezione del mondo avanzata
89 Una piccola quaglia
90 Sulle scale posteriori
91 Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate
92 Custodire in eterno
93 Il secondo respiro
94 Sempre alla sprovvista
95 Addio, šaraška!
96 Carne
Glossario
Voland e-book
e.klassika
in redazione
Daniela Di Sora
Progetto grafico
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