Sei sulla pagina 1di 800

 

ALEKSANDR SOLŽENICYN
NEL PRIMO CERCHIO

VOLAND
SÍRIN

 
Aleksandr Solženicyn

Nel primo cerchio


traduzione di Denise Silvestri
postfazione di Anna Zafesova

Voland
Titolo originale: V kruge pervom
© 1968, 1978 Aleksandr Solženicyn

© dell’edizione italiana
Voland s.r.l. Roma 2017

Tutti i diritti riservati

Prima edizione: dicembre 2018

ISBN 978-88-6243-386-0

 
The publication was effected under the auspices
of Mikhail Prokhorov Foundation
TRANSCRIPT Programme to Support Translations of Russian Literature

 
Published with the support of
the Institute for Literary Translation (Russia)

 
Per alcuni termini e acronimi meno conosciuti si rimanda al glossario in fondo al volume
Il destino dei libri russi contemporanei: se e quando riescono a salire in
superficie, vengono fuori spennati. Così è successo di recente al Maestro e
Margherita di Bulgakov: le piume sono galleggiate fino a noi in un secondo
tempo. Così è accaduto a questo mio romanzo: perché godesse almeno di una
flebile vita, per osare mostrarlo e portarlo in redazione, l’ho ridotto e
modificato io stesso, o meglio l’ho smontato e ricomposto di nuovo, e in questa
forma è divenuto celebre.
E anche se ormai non si può tornare indietro e rimediare, eccovi l’originale.
Peraltro, nel ricostruirlo qualcosa ho migliorato: allora avevo quarant’anni, ora
ne ho cinquanta.

scritto: 1955-1958
modificato: 1964
ricostruito: 1968
Agli amici della šaraška
1
IL SILURO

Le lancette traforate segnavano le quattro e cinque.


In quella morente giornata di dicembre, il bronzo dell’orologio sull’étagère
si era già scurito del tutto.
I vetri dell’alta finestra occupavano tutta la parete. Dietro di essi, in basso,
sul Kuzneckij most, si aprivano il frettoloso viavai della strada e l’ostinato
affaccendarsi dei portinai, che spazzavano da sotto i piedi dei passanti la neve
appena caduta ma già pesante e di un bruno sporco.
Vedendo tutto questo senza vederlo affatto, il consigliere di Stato di
secondo rango Innokentij Volodin, appoggiato allo stipite della finestra, non
smetteva di fischiettare un motivetto acuto dalle note lunghe. Con la punta
delle dita sfogliava, senza far caso al contenuto, le pagine patinate e variopinte
di una rivista straniera.
Il consigliere di Stato di secondo rango, tenente colonnello del corpo
diplomatico, alto, stretto non nell’uniforme ma in un completo di stoffa
leggera, sembrava più un giovane sfaccendato benestante che un funzionario
del Ministero degli Affari esteri.
Era già arrivata l’ora di accendere la luce nell’ufficio, ma lui non l’accendeva,
o di tornare a casa, ma lui non si muoveva.
Le quattro passate non rappresentavano la fine di una giornata di lavoro ma
della sua parte diurna, la più breve. Ora sarebbero rientrati tutti a casa a
mangiare, a dormire, ma dalle dieci di sera in poi le finestre dei quarantacinque
ministeri pansovietici e dei venti repubblicani si sarebbero riaccese a migliaia.
Dietro una dozzina di mura fortificate, un uomo soltanto di notte non dormiva
e aveva insegnato alla Mosca di alto rango a vegliare con lui fino alle tre o alle
quattro del mattino. Conoscendo le abitudini notturne del loro signore, una
sessantina di ministri vigilavano come scolaretti in attesa dell’appello. Per non
cedere al sonno, convocavano i loro vice, e i vice importunavano i capiufficio,
gli archivisti sulle scalette spulciavano negli schedari, i segretari volavano per i
corridoi, le stenografe spezzavano la punta delle matite.
Persino quel giorno, alla Vigilia del Natale della Chiesa occidentale (da due
giorni tutte le ambasciate erano come ammutolite, nessuno telefonava), il
lavoro notturno nel loro ministero sarebbe continuato.
Quelli, invece, avrebbero fatto due settimane di vacanza. Che bambocci
ingenui. Che gran somari!
Con dita nervose, il giovane sfogliava le pagine in fretta e senza prestare
attenzione, mentre dentro di lui una strana paura ora si sollevava e si
riscaldava, ora calava e tornava a raffreddarsi.
Innokentij scagliò via la rivista e, con le spalle curve, cominciò a camminare
avanti e indietro per la stanza.
Telefonare o no? Doveva farlo proprio in quel momento? Laggiù non
sarebbe stato troppo tardi? Allora giovedì o venerdì?
Troppo tardi...
Aveva così poco tempo per rifletterci e assolutamente nessuno cui chiedere
consiglio!
Possibile che esistessero mezzi per identificare una persona che chiamava da
un telefono pubblico? E se avesse parlato solo in russo? Se non si fosse
dilungato e si fosse allontanato subito? Era davvero possibile riconoscere al
telefono una voce camuffata? Una tecnica del genere non poteva esistere.
Di lì a tre o quattro giorni ci sarebbe andato di persona in aereo. Era più
logico aspettare. Più saggio.
Ma sarebbe stato troppo tardi.
Per la miseria... un brivido gli percorse le spalle non abituate a simili pesi.
Sarebbe stato meglio non averlo scoperto. Non saperlo. Non avere scoperto
che...
Raccolse tutto ciò che aveva sulla scrivania e lo portò alla cassaforte.
L’agitazione era sempre più intensa. Innokentij chinò la fronte sulla cassa di
ferro verniciata di rosso, chiuse gli occhi e riposò un po’.
All’improvviso, come se si stesse lasciando scappare gli ultimi istanti, senza
nemmeno telefonare al garage per la macchina e tappare il calamaio, si mosse
veloce, chiuse la porta con la chiave, che poi in fondo al corridoio restituì al
sorvegliante di turno, si precipitò quasi giù per le scale, superando i funzionari
locali, immobili nelle cuciture d’oro e nei galloni, si infilò al volo il cappotto e,
calcato il cappello, fuggì fuori nell’umido calar della sera.
Quei movimenti veloci lo fecero star meglio.
I suoi scarponcini francesi, portati secondo la moda senza le soprascarpe,
sprofondavano nella neve sporca ormai quasi sciolta.
Mentre attraversava il cortiletto del ministero chiuso su tre lati, passando
accanto al monumento a Vorovskij, Innokentij alzò lo sguardo e trasalì. Aveva
intuito un nuovo senso nel nuovo edificio della Bol’šaja Lubjanka affacciato sul
vicolo Furkasovskij. Quel bestione grigio scuro di nove piani era una corazzata,
e i diciotto pilastri si ergevano sulla fiancata destra come diciotto torrette
d’artiglieria. Innokentij, solitaria e malsicura barchetta, veniva risucchiato
laggiù, sotto la prua della veloce e pesante nave.
Anzi, no, non veniva attratto come una barchetta, era lui a lanciarsi verso la
corazzata come un siluro!
Resistere era impossibile. Le sfuggì virando verso destra, lungo il Kuzneckij
most. Accanto al marciapiede un taxi era pronto a partire; Innokentij lo prese
al volo, fece cenno di proseguire fino in fondo alla via e ordinò di svoltare a
sinistra, sotto i lampioni da poco accesi di via Petrovka.
Non sapeva ancora da dove telefonare in modo che non gli mettessero fretta,
non gli stessero addosso, non sbirciassero dalla porta. Ma in una cabina
tranquilla e isolata poteva farsi notare di più. Non era forse meglio in mezzo
alla confusione, una cabina che fosse chiusa, nel muro? Mettersi a gironzolare
in taxi, poi, con l’autista come testimone, era davvero da sciocchi. Si frugò in
tasca alla ricerca di quindici copechi, sperando di non trovarli. Poteva essere la
scusa per rimandare.
Di fronte al semaforo dell’Ochotnyj Rjad, si palpò ed estrasse subito due
monete da quindici. Dunque era così che doveva andare.
Sembrò calmarsi. Pericoloso o meno, non c’era altra soluzione.
Ad aver sempre paura di qualcosa, come si fa a restare uomini?
Innokentij smise di pensarci: stavano percorrendo la Mochovaja, proprio
accanto all’ambasciata. Dunque, era destino. Si avvicinò al vetro e allungò il
collo: voleva vedere quali finestre erano accese. Non fece in tempo.
Superarono l’università; Innokentij indicò a destra. Come per fare un giro
sul suo siluro e assestarsi meglio.
Balzarono verso l’Arbat, dove Innokentij consegnò due banconote e si
incamminò per la piazza, cercando di moderare il passo.
Aveva la gola secca e la bocca talmente asciutta che anche bere non gli
sarebbe servito a nulla.
L’Arbat era già tutto illuminato. Davanti al cinema Chudožestvennyj si era
formata una lunga coda per L’amore della ballerina. Una foschia grigio-
azzurrognola aveva quasi inghiottito la M rossa sopra la stazione della
metropolitana. Una donna del sud, con la pelle scura, vendeva fiorellini gialli.
Il condannato a morte ora non scorgeva più la sua corazzata, eppure una
lucida disperazione gli gonfiava il petto.
Doveva tenere a mente una cosa soltanto: non una parola in inglese. Men
che meno in francese. Non poteva lasciare né piume né code ai segugi. Dire
tutto il più in fretta possibile, e riappendere.
Innokentij camminava deciso e senza affrettarsi. Incrociò una ragazza, lei gli
lanciò uno sguardo.
Poi un’altra. Molto carina. Augurami di sopravvivere.
Com’è grande il mondo e quante possibilità offre! A te invece non è rimasto
altro che questo stretto burrone.
Una delle cabine di legno esterne era vuota, ma sembrava avere il vetro
rotto. Innokentij proseguì fino alla metropolitana.
Lì c’erano quattro cabine ricavate nel muro, nessuna libera. Nell’ultima a
sinistra un tizio qualunque, un po’ alticcio, stava riappendendo la cornetta.
Sorrise a Innokentij, sembrava quasi sul punto di dirgli qualcosa. Entrato al
suo posto, Innokentij richiuse con cura la porta di vetro spesso, che poi tenne
ferma con una mano; con l’altra, a causa dei guanti di camoscio, infilò a fatica
una moneta e compose il numero.
Dopo alcuni lunghi squilli, all’altro capo alzarono il ricevitore.
– È la segreteria? – domandò, sforzandosi di camuffare la voce.
– Sì.
– La prego di passarmi in fretta l’ambasciatore.
– Non posso farla parlare con l’ambasciatore – gli rispose qualcuno in un
russo perfetto. – Motivo della telefonata?
– Allora mi passi l’incaricato d’affari! O l’addetto militare! La prego di non
farmi attendere!
All’altro capo ci rifletterono per un attimo. Innokentij si ripromise una cosa:
se si fossero rifiutati, non ci avrebbe riprovato una seconda volta.
– Va bene, la faccio parlare con l’addetto militare.
Gli passarono la linea.
Dietro il vetro a specchio, poco più in là della fila di cabine, le persone
correvano, si affaccendavano, si superavano l’un l’altra. Qualcuno si era
avvicinato e aspettava il suo turno con impazienza di fronte alla cabina di
Innokentij.
Gli rispose una voce sazia, indolente, con un forte accento:
– Pronto. Desidera?
– Parlo con l’addetto militare? – domandò Innokentij in tono brusco.
– Yes, aviation – dissero all’altro capo.
Che altro doveva fare? Schermando la cornetta con la mano, in tono più
basso ma deciso, con autorità Innokentij annunciò:
– Signor addetto militare! La prego di trascrivere quanto sto per dirle e di
passare la notizia all’ambasciatore...
– Aspetti un momento – gli rispose quello senza fretta. – Vado a chiamare
un interprete.
– Non posso aspettare! – ribatté Innokentij, sempre più sulle spine. (Ormai
non si curava più nemmeno di alterare la voce!) – E non intendo parlarne con
un sovietico! Non riattacchi! È in gioco il futuro della vostra nazione! E non
solo! Ascolti, in questi giorni l’agente segreto Georgij Koval’ riceverà in un
negozio di apparecchiature radio all’indirizzo...
– Io non capisco molto bene – ribatté con calma l’addetto militare. Se ne
stava di sicuro comodo su un divano morbido, senza nessuno alle calcagna.
Nella stanza, in sottofondo, si sentiva il ciarlare vivace di una donna. – Telefoni
all’ambasciata of Canada, là capiscono meglio in russo.
Il pavimento della cabina gli scottava sotto i piedi e la cornetta nera con il
pesante filo d’acciaio gli si stava quasi fondendo nella mano. Ma anche una sola
parola straniera poteva rovinarlo!
– Ascolti! Mi ascolti! – esclamò, disperato. – Fra pochi giorni, in un negozio
di apparecchiature radio, l’agente sovietico Koval’ riceverà importanti dettagli
tecnici per fabbricare la bomba atomica...
– Come? In quale strada? – si stupì l’addetto militare, titubante. – Come
faccio a sapere che dice la verità?
– Non si rende conto di cosa rischio? – rispose Innokentij, in tono secco.
Qualcuno bussò al vetro.
L’addetto militare taceva: forse aspirava una boccata dalla sua sigaretta.
– La bomba atomica? – ripeté con diffidenza. – E l-lei chi è? Mi dica suo
cognome.
Nel ricevitore si udì un suono secco, seguito da un silenzio ovattato, senza
né fruscii né squilli.
Avevano staccato la linea.
2
COLPO FALLITO

Ci sono luoghi istituzionali dove, accanto a una porta con la scritta “Ingresso
riservato al personale”, puoi imbatterti in una lucina rosso scuro. Oppure dove,
come usa di questi tempi, un’autorevole targhetta a specchio recita: “Ingresso
assolutamente vietato ai non addetti.” Lì si trova anche un custode dall’aria
minacciosa che, seduto a un tavolino, controlla i lasciapassare. E dietro quella
porta inaccessibile, come per tutto ciò che è proibito, uno finisce per
immaginarsi chissà che.
Là, invece, c’è sempre il solito banale corridoio, forse un po’ più pulito. Al
centro una passatoia di grezza tela rossa statale. Con parsimonia, hanno
lucidato il parquet. Con parsimonia, hanno piazzato un buon numero di
sputacchiere.
Solo che è sempre deserto. Nessuno passa mai da una porta all’altra.
Le porte poi, sono tutte di pelle nera imbottita, con ribattini bianchi e il
numero su un piccolo ovale a specchio.
Chi lavora in una di queste stanze conosce meno i fatti della stanza accanto
che le notizie di mercato dell’isola del Madagascar.
Così in quella sera non troppo fredda e un po’ cupa di dicembre due tenenti
si trovavano in servizio presso l’edificio della stazione telefonica automatica
centrale di Mosca, in uno di quei corridoi proibiti, dentro una di quelle stanze
inaccessibili che il capo del servizio amministrativo militare identificava come
la n. 194, ma che all’XI sezione della Sesta Direzione dell’MGB, il Ministero della
Sicurezza di Stato, figurava come “Postazione A1”. A dire il vero, i due non
indossavano l’uniforme, ma abiti civili: così per loro era più facile entrare e
uscire dall’edificio della stazione telefonica.
Una parete era occupata da quadri elettrici e da un pannello di segnalazione
sul quale prevaleva il nero della plastica e scintillava il metallo delle
apparecchiature acustico-telefoniche. Su un’altra parete, era appeso un foglio
grigio, con l’elenco di numerose istruzioni.
In base a quell’elenco, in cui si prevedevano e si scongiuravano tutti i
possibili casi di violazione e deviazione riscontrabili intercettando e
trascrivendo le conversazioni telefoniche dell’ambasciata americana, era
obbligatorio stare di turno in due: uno doveva ascoltare ininterrottamente,
senza togliersi mai le cuffie, l’altro non poteva mai lasciare la stanza, se non per
recarsi al gabinetto, e si dovevano dare il cambio ogni mezz’ora.
Seguendo le istruzioni alla lettera era impossibile commettere errori.
Tuttavia, a causa della tragica discrepanza fra la perfezione ideale degli
ordinamenti statali e la miserabile imperfezione umana, quella volta le
istruzioni furono violate. Non perché gli agenti di turno fossero dei nuovi
arrivati, ma proprio perché avevano esperienza ed erano convinti che non
potesse accadere nulla di particolare. Soprattutto la Vigilia del Natale della
Chiesa occidentale.
Uno dei due, Tjukin, un tenente dal naso largo, il lunedì successivo, a lezione
di Educazione politica, doveva essere interrogato su Chi sono gli “amici del popolo”
e come lottano contro i socialdemocratici1, sulla ragione per cui al II Congresso
bisognava dividersi, e fosse giusto farlo, e al V riunirsi, e fosse di nuovo giusto,
ma al VI si era reso necessario tornare ognuno per conto proprio, e anche
quello fosse giusto. Non sarebbe stato difficile se Tjukin non avesse cominciato
a leggere solo da sabato e la domenica dopo il turno non si fosse fatto una bella
bevuta con il marito di sua sorella; e lunedì mattina quella roba tanto semplice
non gli stava in testa con i postumi della sbornia, e il segretario di partito già si
lamentava di lui e minacciava di convocarlo nel suo ufficio. L’essenziale poi
non era rispondere alle domande quanto presentare un riassunto. Per tutta la
settimana Tjukin non aveva trovato il tempo e quel giorno non aveva fatto
altro che rimandare; così dopo aver chiesto al compagno di svolgere il turno
senza cambi, si era sistemato in un cantuccio davanti a una lampada da tavolo,
dove stava ricopiando sul quaderno ora un brano, ora un altro dal Breve corso2.
Siccome non avevano ancora acceso la luce in alto, a illuminare la stanza era
solo una lampada vicino ai magnetofoni. Il tenente Kulešov, riccioluto, mento
grassoccio, sedeva con le cuffie in testa e si annoiava. All’ambasciata avevano
fatto acquisti per telefono fin dal mattino, ma dopo pranzo quel luogo si era
come appisolato: nemmeno una chiamata.
Rimasto seduto a lungo, Kulešov pensò di controllarsi gli ascessi che aveva
sulla gamba sinistra. Per ragioni sconosciute ne spuntavano sempre di nuovi, su
cui spalmava una pomata streptocida verdina allo zinco; ma quelli non si
rimarginavano, continuando ad ampliarsi sotto le croste. Dal dolore faceva
fatica a camminare. Alla clinica dell’MGB gli avevano già fissato un consulto da
uno specialista. Kulešov aveva ottenuto da poco un nuovo appartamento e sua
moglie aspettava un bambino: gli ascessi gli stavano rovinando quella vita tanto
bella.
Levatosi le pesanti cuffie che gli premevano sulle orecchie, Kulešov si piazzò
comodo sotto la luce, si rimboccò il pantalone sinistro e la gamba dei
mutandoni e cominciò a tastarsi la pelle e a staccarsi i bordi delle crosticine.
Sotto la loro pressione si accumulava un icore grigio-marrone. Gli facevano
talmente male che il dolore pulsava in testa, togliendogli lucidità. Per la prima
volta fu colpito dal pensiero che non si trattasse di semplici ascessi, ma... ma...
Gli tornò alla mente una parola orribile sentita chissà dove: cancrena, forse?
Oppure...
Così Kulešov non si accorse subito che le bobine del magnetofono erano
entrate in funzione in automatico e stavano girando in silenzio. Con la gamba
nuda sempre lì dove l’aveva appoggiata, si allungò fino alle cuffie, ne accostò
una all’orecchio e sentì:
– Come faccio a sapere che dice la verità?
– Non si rende conto di cosa sto rischiando?
– La bomba atomica? E l-lei chi è? Mi dica suo cognome.
LA BOMBA ATOMICA!!! Spinto da uno slancio istintivo, come uno che per non
cadere si aggrappa al primo sostegno che gli capita, Kulešov staccò lo spinotto
del centralino, scollegando i telefoni. Solo allora si rese conto che, nonostante
le istruzioni, non aveva rilevato il numero dell’utente.
Per prima cosa, si voltò. Tjukin scriveva il suo riassunto e non aveva visto
nulla. Era un amico, ma se a Kulešov avevano assegnato il compito di
controllarlo, il collega doveva aver ricevuto lo stesso ordine nei suoi confronti.
Dopo aver pigiato con dita tremanti il tasto per riavvolgere il nastro e
ricollegato all’ambasciata il magnetofono di fabbricazione occidentale, Kulešov
pensò dapprima di cancellare la registrazione, per coprire la propria
sbadataggine. Gli tornarono però subito in mente le parole del loro capo che,
in più di un’occasione, aveva spiegato come il lavoro di guardia alla postazione
venisse registrato in automatico anche in altro luogo, e accantonò l’idea
assurda. Naturale che facessero un duplicato, e per aver occultato una
conversazione del genere ti fucilavano all’istante!
Il nastro si era riavvolto. Kulešov pigiò il tasto per riascoltare. Il criminale
aveva fretta, era agitato. Da dove stava chiamando? Di certo non da un
appartamento privato. E men che meno dal lavoro. Avevano sempre
l’accortezza di chiamare le ambasciate dalle cabine pubbliche.
Sfogliando l’elenco delle cabine, Kulešov identificò subito un telefono
accanto alla scala d’ingresso della metro Sokol’niki.
– Genka! Genka! – chiamò il collega con voce roca, tirandosi giù la gamba
del pantalone. – Missione urgente! Telefona al gruppo operativo! Forse fanno
ancora in tempo a prenderlo!
1 Articolo del 1894 in cui Lenin criticava aspramente le posizioni dei populisti.
2 Storia del Partito comunista-bolscevico dell’U.R.S.S. Breve corso, pubblicato sulla “Pravda” dal 1938 al 1956, anno
in cui fu criticato al XX Congresso. Rimase lettura obbligatoria per i cittadini sovietici e base ideologica nel
culto della personalità di Stalin.
3
LA ŠARAŠKA

– I nuovi!
– C’è gente fresca!
– Da dove venite, compagni?
– Amici, da dove arrivate?
– E cos’è quella cosa che avete sul petto e sul cappello, quella specie di
macchia?
– C’erano attaccati i nostri numeri. Li avevamo anche sulla schiena e sul
ginocchio. Ce li hanno scuciti prima di spedirci qui dal campo di lavoro.
– Cioè, erano... numeri?!
– Signori, permettetemi di dirlo, ma in quale secolo viviamo? Numeri cuciti
sulle persone? Lev Grigor’ič, mi faccia capire bene, per lei questo è progressista?
– Valentulja, non si scervelli, vada a cena.
– Ma non posso cenare se da qualche parte ci sono persone che girano con
dei numeri sulla fronte!
– Amici! Distribuiscono le Belomor per la seconda metà di dicembre, nove
pacchetti. Avete una possibilità! Fate i bravi!
– Belomor Java o Belomor Dukat?
– Metà e metà.
– Quelle carogne ci soffocano con le Dukat! Mi lamenterò con il ministro,
maledetti.
– E la tuta che portate voi, cos’è? Perché siete tutti vestiti da paracadutisti?
– Hanno introdotto la divisa. Prima ci davano indumenti di lana, cappotti di
panno; ora risparmiano, i vigliacchi.
– Guarda, dei nuovi arrivati!
– C’è gente nuova!
– Ehi, ragazzi! Insomma, non avete mai visto uno zek in carne e ossa? Avete
bloccato tutto il corridoio!
– Oh! Ma guarda chi c’è! Dof-Donskoj!? Dov’è stato, Dof? Nel 1945 l’ho
cercata per tutta Vienna, tutta Vienna!
– Come siete messi male, non vi hanno nemmeno rasati! Da quale campo di
lavoro venite, amici?
– Da diversi. Rečlag...
– ...Dubrovlag...
– Io sono dentro da nove anni ma questi nomi non li ho mai sentiti.
– Sono nuovi, sono campi speciali. Li hanno introdotti nel ’48.
– Mi hanno acciuffato proprio all’entrata del Prater a Vienna e sbattuto su
un corvo.
– Aspetta, Mitëk, fammi sentire i nuovi arrivati...
– Cammina, forza! Fuori all’aria fresca! Ci penserà Lev a fare il terzo grado
ai nuovi, non preoccuparti.
– Secondo turno! A cena!
– Ozërlag, Luglag, Steplag, Kamyšlag3...
– A quanto pare all’MVD c’è un poeta incompreso. Con un poema non si
cimenta, per una composizione non ha le forze, ma dà nomi poetici ai campi di
lavoro.
– Ah, ah, ah! Assurdo, signori, davvero assurdo! Ma in che secolo viviamo?
– Ehi, stai buono, Valentulja!
– Chiedo scusa, lei come si chiama?
– Lev Grigor’ič.
– Anche lei ingegnere?
– No, io sono filologo.
– Filologo? Ci tengono anche i filologi, qui?
– Meglio sarebbe chiedere chi non ci tengono. Abbiamo matematici, fisici,
chimici, ingegneri radio, ingegneri specializzati in telefonia, progettisti,
scenografi, traduttori, rilegatori... ci hanno mandato per sbaglio anche un
geologo.
– E quello che fa?
– Niente, si è sistemato nel laboratorio fotografico. C’è anche un architetto.
E che architetto! Quello personale di Stalin. Gli costruiva tutte le dacie. Ora è
qui con noi.
– Lev! Tu ti spacci per materialista, ma poi rimpinzi la gente di cibo
spirituale. Attenzione, amici! Quando vi condurranno alla mensa, là, sull’ultimo
tavolo, vicino alla finestra, abbiamo tenuto da parte per voi una trentina di
piatti. Mangiate a sazietà, ma senza farvi scoppiare la pancia!
– Grazie mille, ma perché privarvene voi?
– Non ci costa niente. Chi mangia più aringa salata alla Mezen’ e kaša di
miglio! È roba dozzinale.
– Cosa ha detto? Kaša di miglio, dozzinale? Sono cinque anni che non ne
vedo!
– Non sarà stato miglio, più probabile magarà!
– È impazzito, magarà! Che ci provino a darci magarà! Gliela tiriamo dietro!
– E come si mangia adesso nelle prigioni di transito?

Č
– In quella di Čeljabinsk...
– Čeljabinsk nuova o vecchia?
– Dalla sua domanda è chiaro che lei se ne intende. Alla nuova...
– Risparmiano ancora sui gabinetti costringendo gli zek a fare i bisogni nei
buglioli e a portarli giù dal terzo piano?
– Sì, succede ancora.
– Ha detto šaraška. Che significa?
– E quanto pane danno a testa, qui?
– Chi non ha ancora cenato? Secondo turno!
– Quattrocento grammi di pane bianco. Quello nero è sui tavoli.
– Cosa? Come ‘sui tavoli’?
– Sta lì, tagliato. Se vuoi lo prendi, altrimenti lo lasci dove sta.
– Scusate, ma dove siamo qui, in Europa?
– Perché in Europa? Là sui tavoli c’è il pane bianco, mica quello nero.
– Sì, ma per un po’ di burro e di Belomor ci spezziamo la schiena dodici,
quattordici ore al giorno.
– Spezzarvi la schiena? Dietro una scrivania non ci si spezza la schiena!
Quello succede a chi lavora col piccone!
– Porca miseria, stare in questa šaraška è come finire in una palude: si perde
il contatto con la realtà. Avete sentito, signori? Si dice che hanno messo alle
strette la mala: non ti spolpano nemmeno a Krasnaja Presnja4.
– Ai professori danno quaranta grammi di burro, agli ingegneri venti. Da
ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue possibilità.
– Dunque lei lavorava al Dneprostroj5?
– Sì, lavoravo con Vinter. È per la Dneproges che sono dentro.
– Cioè, in che senso?
– Be’, io, vedete, l’ho venduta ai tedeschi.
– La centrale idroelettrica sul Dnepr? Ma se l’hanno fatta saltare!
– E allora? Io gliel’ho venduta quando era già saltata.
– Lo giuro, sento soffiare come un vento di libertà! Prigioni di transito!
Traduzioni di detenuti! Campi di lavoro! Movimento! Eh, quasi quasi mi farei
un giretto fino a Sov-Gavan’6.
– E ritorno, Valentulja, e ritorno!
– Sì! Indietro di corsa, naturalmente!
– Sa, Lev Grigor’ič, mi gira la testa per questa valanga di impressioni, questo
cambio di situazioni. Ho cinquantadue anni, sono guarito da una malattia
mortale, mi sono sposato due volte con due donne graziose, ho avuto figli,
pubblicato in sette lingue, ricevuto premi accademici, eppure non mi sono mai
sentito così beatamente felice come oggi! Dove sono finito? Domani non mi
cacceranno nell’acqua gelata! Quaranta grammi di burro!! Pane nero sui tavoli!
Non ti vietano i libri! Ci si può radere da soli! I secondini non pestano gli zek!
Che giornata grandiosa! Che vetta luminosa! Non sarò mica morto? Non starò
sognando? Mi sembra di essere in paradiso!!
– No, mio caro, lei si trova all’inferno come prima, è soltanto salito nel suo
girone più alto, il migliore: nel primo cerchio. Domandava che cos’è la šaraška?
La šaraška l’ha inventata Dante. Si scervellava su dove mettere i sapienti del
mondo classico. Il suo dovere di cristiano gli imponeva di gettare quei pagani
all’inferno. La sua coscienza di uomo del Rinascimento invece non poteva
rassegnarsi a mischiare uomini dalle menti brillanti con altri peccatori e
condannarli a torture fisiche. E Dante ha trovato per loro un posto particolare
all’inferno. Se permette... suona più o meno così:
Venimmo al piè d’un nobile castello...

Guardi che antiche arcate ci sono qui!

Sette volte cerchiato d’alte mura...


...per sette porte intrai con questi savi...
Voi siete arrivati su un corvo, perciò di porte non ne avete viste...

Genti v’eran con occhi tardi e gravi


di grande autorità ne’ lor sembianti
parlavan rado, con voci soavi...
questi chi son c’hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?...7

– Eh, Lev Grigor’ič, mi lasci spiegare a Herr Professor cos’è la šaraška in modo
molto più semplice. Basta leggere gli editoriali della ‘Pravda’: ‘...è comprovato
che la resa di lana tosata dalle pecore dipende dal loro nutrimento e dalla loro
cura.’

3 Da ozero (lago), lug (prato), step’ (steppa) e kamyš (giunco).


4 Quartiere di Mosca dove ha sede anche una prigione di transito.
5 Grandioso progetto architettonico che prevedeva una centrale idroelettrica (Dneproges), una diga, tre
chiuse per rendere il fiume navigabile dall’Ucraina centrale al Mar Nero e alcuni ponti per lo sviluppo di
una linea ferroviaria. La centrale fu distrutta durante la Seconda guerra mondiale per sottrarla all’avanzata
tedesca e ricostruita dopo il conflitto.
6 Sovetskaja Gavan’, cittadina della Russia siberiana. Sarà la sede del campo di lavoro Stroitel’stvo 508 dal
1950 al 1953, divenuto poi Ul’minlag dal 1953 al 1954.
7 Dante Alighieri, Inferno, Canto IV , in La divina commedia.
4
IL NATALE PROTESTANTE

L’albero di Natale era un rametto di pino conficcato nella fessura di uno


sgabello. Gli girava intorno due volte una treccia di lampadine multicolori a
basso voltaggio, i cui fili elettrici clorovinilici bianco latte penzolavano fino a
una batteria sul pavimento.
Lo sgabello si trovava nel passaggio fra i letti a castello, in un angolo della
stanza, e uno dei materassi superiori faceva ombra su quell’angolino e sul
minuscolo albero di Natale, proteggendolo dalla luce intensa delle lampadine al
soffitto.
Sei uomini in resistenti tute blu da paracadutisti stavano in piedi vicino
all’albero di Natale e ascoltavano a capo chino con attenzione uno di loro,
l’efficiente Max Adam, intento a leggere una preghiera natalizia protestante.
Nella grande stanza, occupata quasi interamente da letti a due piani saldati
fra loro per le gambe, non c’era nessun altro: dopo la cena e una passeggiata di
un’ora, si erano diretti tutti al turno serale.
Max completò la preghiera e i sei si accomodarono. Cinque di loro furono
inondati dalla sensazione dolceamara della patria, la cara Germania, nazione
ordinata e stabile, sotto i cui tetti coperti di tegole la principale festa dell’anno
era così commovente e radiosa. Il sesto, un uomo robusto dalla folta barba
scura, era ebreo e comunista.
Il destino di Lev Rubin si era intrecciato alla Germania con rami di pace e
verghe di guerra.
In tempo di pace, Rubin era stato un filologo germanista, parlava un
impeccabile Hochdeutsch contemporaneo: si rivolgeva all’occorrenza in
medioalto, anticoalto e altotedesco moderno. Ricordava senza sforzo, quasi
fossero suoi conoscenti, tutti i tedeschi che avevano apposto la propria firma su
qualcosa dato alle stampe. Raccontava di piccole cittadine sul Reno come se
avesse percorso più e più volte le loro linde stradine ombreggiate.
Invece era finito soltanto in Prussia, e al fronte.
Era stato maggiore presso la Sezione per la disgregazione delle truppe
nemiche. Pescava dal campo dei prigionieri di guerra quei tedeschi che non
volevano restare dietro il filo spinato e acconsentivano ad aiutarlo. Li toglieva
da lì e li manteneva belli tranquilli in una scuola speciale. Alcuni li spediva
oltre il fronte con trinitrotoluene, marchi del Reich contraffatti, falsi permessi
di congedo e libretti militari. Potevano far saltare in aria ponti, oppure farsi
una gitarella a casa e andarsene a spasso, finché non li prendevano. Con altri
parlava di Goethe e Schiller, si confrontava sui discorsi da pronunciare alle
“macchine-altoparlanti” per convincere i fratelli belligeranti a rivolgere le armi
contro Hitler. Quelli poi più inclini all’ideologia, più ricettivi al comunismo e
ostili al nazismo, venivano spediti in diversi “comitati liberi” tedeschi e là si
preparavano alla futura Germania socialista; mentre con quelli più semplici,
dall’indole più soldatesca, verso la fine della guerra Rubin aveva attraversato di
persona un paio di volte la linea del fronte a brandelli e con la forza della
persuasione aveva conquistato vari punti fortificati, risparmiando i battaglioni
sovietici.
Tuttavia, non era possibile convincere i tedeschi senza immedesimarsi in
loro, senza amarli, e dal giorno in cui la Germania era stata sconfitta,
dispiacersi per loro. Proprio per questo anche Rubin era finito in carcere: i suoi
nemici alla Direzione lo avevano accusato di aver svolto, dopo l’offensiva del
gennaio 1945, propaganda contro lo slogan “sangue per sangue, morte per
morte”.
C’era stato anche quello, Rubin non lo negava, solo che era tutto
immensamente più complicato di quanto potesse riportare il giornale o
avessero scritto sul suo atto d’accusa.
Accanto allo sgabello dove brillava il rametto di pino, due comodini erano
stati accostati a formare una specie di tavolo. Cominciarono a servirsi:
scatolette di pesce (agli zek della šaraška era permesso acquistare nei negozi
della capitale utilizzando i loro conti personali), caffè quasi freddo e una torta
fatta in casa. Si diede il via a una pacata conversazione. Max la guidava verso
argomenti pacifici: antiche usanze popolari e piacevoli storie sulla notte di
Natale. Alfred, l’occhialuto studente viennese che non era riuscito a finire la
facoltà di Fisica, si esprimeva con la sua buffa parlata da austriaco. Non osando
quasi intromettersi nel discorso dei più vecchi, il giovane Gustav della
Hitlerjugend, viso tondo e orecchie rosa e diafane come quelle di un maialino
(era stato fatto prigioniero una settimana dopo la fine della guerra),
strabuzzava gli occhi davanti alle lampadine natalizie.
La conversazione, tuttavia, uscì dai binari. Qualcuno ricordò il Natale del
1944, cinque anni prima, e l’offensiva nelle Ardenne, di cui i tedeschi andavano
fieri all’unanimità, alla stregua di quella antica: i vinti che cacciavano i vincitori.
Tornò loro in mente che in quella Vigilia di Natale la Germania ascoltava
Goebbels.
Tirandosi la punta dell’ispida barba nera con una mano, lo confermò anche
Rubin. Ricordava quel discorso: colpiva nel segno. Goebbels parlava con tale
gravità d’animo, come se portasse dentro di sé il peso di tutte le sofferenze cui
la Germania era stata sottoposta. Probabilmente presagiva già la propria fine.
L’Obersturmbannfürher delle SS Reinhold Ziemmel, il cui lungo corpo faticava
a trovare spazio tra il comodino e il letto, non apprezzò la sottile cortesia di
Rubin. Per lui era intollerabile persino il pensiero che quell’ebreo osasse
giudicare Goebbels. Se solo avesse avuto la forza di rinunciare alla serata
natalizia con i connazionali, non si sarebbe mai abbassato a sedere con lui alla
stessa tavola. Tutti gli altri, però, ci tenevano alla presenza di Rubin. Per la
piccola comunità tedesca finita nella gabbia dorata della šaraška, nel cuore della
selvaggia e disordinata Moscovia, quel maggiore dell’esercito nemico, sebbene
per tutta la guerra avesse seminato in loro divisione e rovina, era l’unica
persona vicina e comprensibile. Solo lui poteva spiegare gli usi e i costumi della
gente di quel luogo, consigliarli su come agire o tradurre dal russo le ultime
notizie internazionali.
Cercando di esprimersi nel modo più irritante possibile per Rubin, Ziemmel
disse che nel Reich c’erano centinaia di oratori fenomenali; chissà perché i
bolscevichi, invece, stabilivano di concordare i testi in anticipo e di leggere i
discorsi sulla carta.
L’accusa risultò tanto offensiva quanto legittima. Non aveva senso spiegare a
un nemico, un assassino, che una simile oratoria era esistita anche da noi, ma
l’avevano distrutta i comitati di partito. Rubin, nei confronti di Ziemmel,
provava disgusto, niente di più. Ricordò il momento in cui, dopo molti anni di
reclusione alla Butyrka, Ziemmel era stato trasferito alla šaraška, nella stessa
scricchiolante giacca di pelle sulla cui manica erano ancora visibili i segni dei
galloni scuciti, simbolo di una SS civile, la peggiore specie di SS. Nemmeno il
carcere era riuscito ad ammorbidire l’espressione di perenne spietatezza sul suo
viso. Proprio per colpa di Ziemmel, Rubin avrebbe preferito non andare a
quella cena. Ma gli altri avevano insistito tanto, e a lui dispiaceva per quegli
uomini rimasti laggiù soli e sperduti: non poteva rovinare loro la festa con un
rifiuto.
Cercando di non perdere la calma, Rubin tradusse in tedesco un consiglio di
Puškin: “Non giudicare, amico, più su dello stivale!”8
Il sempre premuroso Max si affrettò a interrompere l’incombente scontro:
lui, Max, sotto la guida di Lev, già leggeva Puškin compitando in russo. E come
mai Reinhold si era servito una fetta di torta senza la crema? E dov’era Lev la
sera di quel Natale?
Reinhold aggiunse un po’ di crema. Lev ricordò che allora si trovava alla
testa di ponte sul Narew, nei pressi di Różan, nel suo rifugio sotterraneo.
Così, quei cinque tedeschi intenti a rievocare la loro Germania calpestata e
lacera tingendola dei colori più belli dell’anima, fecero riemergere
all’improvviso anche in Rubin prima i ricordi della testa di ponte sul Narew,
poi degli umidi boschi lungo il lago Il’men’.
Le lampadine multicolori si riverberavano in occhi umani infervorati.
Anche quella sera il gruppo chiese a Rubin se c’erano novità. Ma fare il
resoconto di dicembre era per lui imbarazzante: non poteva concedersi il lusso
di apparire un informatore apartitico, frustrare la propria speranza di rieducare
quelle persone; e non poteva nemmeno convincerli che, in un secolo
complicato come il nostro, la verità del socialismo, a volte, poteva prendere una
strada tortuosa e perversa. Così doveva scegliere per loro, e per la Storia (e
senza rendersene conto anche per sé stesso), solo gli avvenimenti che
confermavano la strada maestra prestabilita ed evitare gli argomenti che si
torcevano su sé stessi come in un pantano.
A dicembre, a parte le trattative fra Cina e Unione Sovietica che stavano
andando per le lunghe, e i festeggiamenti per i settant’anni del Padrone, non era
avvenuto nulla di positivo. Il processo a Trajčo Kostov9, la cui messa in scena
giudiziaria appariva così confusamente rozza, con quel falso pentimento che
sarebbe stato scritto da Kostov nella cella dei condannati a morte e presentato
ai giornalisti solo in un secondo tempo, era una cosa di cui vergognarsi, e
raccontarlo a quei tedeschi non avrebbe avuto nessuno scopo educativo.
Così quella sera Rubin si soffermò a lungo sulla storica vittoria mondiale dei
comunisti cinesi.
Il benevolo Max ascoltava Rubin e assentiva. Lo osservava con sguardo
innocente, gli era affezionato, ma dall’assedio di Berlino qualcosa aveva iniziato
a farlo dubitare e nel suo laboratorio delle onde decimetriche, rischiando la
testa – Rubin di quello non era al corrente – ogni tanto montava, ascoltava e
rismontava una piccola radio in miniatura, che a tutto assomigliava tranne che
a una radio. Ed era già riuscito a captare Colonia e a sentire in tedesco dalla
BBC notizie non solo su Kostov e sul modo in cui aveva rinnegato al processo
la propria autoaccusa, estorta durante l’istruttoria, ma anche sul Patto Atlantico
e sullo sviluppo della Germania Occidentale. Naturalmente aveva riportato
tutto agli altri tedeschi, che vivevano ormai con la sola speranza che Adenauer
li salvasse da lì.
Eppure davanti a Rubin annuivano.
Peraltro Rubin avrebbe dovuto andarsene già da un pezzo, non essendo,
quel giorno, dispensato dal lavoro serale. Si complimentò per la torta (il
meccanico Hildmut, lusingato, fece un inchino) e provò a congedarsi.
Trattennero l’ospite ancora un po’, lo ringraziarono per la compagnia e lui
ringraziò loro. Poi i tedeschi si prepararono a cimentarsi a bassa voce nei canti
della notte di Natale.
Così com’era arrivato, tenendo fra le mani un dizionario mongolo-finnico e
un volumetto di Hemingway in inglese, Rubin uscì nel corridoio.
Il corridoio stretto, con il pavimento di legno non verniciato e tutto
scheggiato, senza finestre, illuminato artificialmente giorno e notte, era lo
stesso in cui un’ora prima, nell’animato intervallo per la cena, Rubin e gli altri
amanti delle novità avevano fatto il terzo grado ai nuovi zek giunti dai campi di
lavoro. Su quel corridoio si affacciava una porta che conduceva alla scala
interna della prigione e qualche altra porta per le camere-celle. Camere, perché
le porte non avevano serrature, ma anche celle, perché sul davanti era intagliato
uno spioncino, una finestrella di vetro. Quegli spioncini non venivano mai
usati dai secondini del luogo, ma erano previsti dal regolamento come nelle
vere carceri, essendo la šaraška definita sui documenti “Prigione speciale n. 1
del Ministero della Sicurezza di Stato”.
Oltre uno di quegli spioncini, dentro una delle camere, si svolgeva
un’analoga serata natalizia organizzata dal gruppo dei lettoni, che avevano fatto
richiesta anche loro di essere esentati dal turno.
Gli altri zek si trovavano al lavoro e, passando nel corridoio a quell’ora,
Rubin temeva di essere trattenuto e trascinato dall’oper a scrivere una
giustificazione.
Entrambi i lati del corridoio terminavano con due porte a tutta parete: a un
capo, l’uscio di legno a quattro battenti e ad arco semicircolare conduceva a
quella che era stata la parte superiore dell’altare della chiesa del seminario,
divenuta anch’essa camera-cella; all’altro capo c’era una porta a doppio
pannello chiusa a chiave, rivestita di ferro fino in cima (questa, da cui si
raggiungeva la zona di lavoro, era soprannominata dai prigionieri le “porte
regali”).
Rubin si avvicinò alla porta di ferro e bussò alla finestrella. Dall’altra parte,
il viso di una guardia si accostò al vetro.
La chiave girò piano. Gli era capitato un secondino indifferente.
Rubin uscì sulla scala principale dell’antico edificio, con le rampe che si
disgiungevano, e attraversò il pianerottolo di marmo accanto a due antiche
lanterne arabescate che ora non illuminavano più nulla. Sempre al primo piano,
entrò nel corridoio del laboratorio. Lì, spinse una porta con la scritta
“ACUSTICO”.
8 Il riferimento è alla poesia Il ciabattino (1829) di Aleksandr Puškin: un ciabattino in visita all’atelier del
pittore Apelle nota un difetto in uno stivale dipinto su un quadro e già che c’è si mette a criticare anche altri
punti dell’opera, dimostrando grande presunzione.
9 Trajčo Kostov (1897-1949), ex vicepresidente del Consiglio dei Ministri della Bulgaria e leader del Partito
comunista, fu arrestato nel 1949 e costretto a confessare crimini che durante il processo ritrattò. Fu
condannato a morte e impiccato.
5
BOOGIE-WOOGIE

Il Laboratorio Acustico si trovava in una stanza alta, spaziosa, con alcune


finestre, disordinata e stracolma: c’erano strumenti di fisica su scaffali di assi
sottili e su sostegni in alluminio di un bianco intenso, banchi da montaggio,
tavoli nuovi di zecca, armadi di compensato di fabbricazione moscovita e
comodi scrittoi che avevano vissuto giorni migliori alla Lorenz, fabbrica
berlinese di apparecchi radio.
Grosse lampade con sfere opache distribuivano verso il basso una piacevole
luce diffusa per nulla giallastra.
In un angolo in fondo alla stanza, troneggiava una cabina acustica
insonorizzata che arrivava quasi fino al soffitto. Sembrava non del tutto
rifinita: l’esterno era rivestito di tela grezza, sotto la quale era stata infilata della
paglia. La porta, spessa un aršin ma cava come i pesi dei clown al circo, in quel
momento era aperta, la tenda di lana all’ingresso scostata per far passare l’aria.
Vicino alla cabina, luccicava a intermittenza il quadro verniciato di nero del
commutatore centrale, con le sue file di alloggiamenti di spine elettriche.
Una ragazza esile, molto piccola, con il viso severo e pallido, le strette spalle
imbacuccate nello scialle di lanugine di capra, sedeva a una scrivania dando le
spalle alla cabina.
Il resto dei presenti nella stanza, circa una decina, erano uomini, tutti con
indosso la solita tuta blu. Illuminati dalla luce che proveniva dall’alto e da
quella supplementare, a macchie, delle lampade da tavolo flessibili, anche
queste portate dalla Germania, si affaccendavano, camminavano, battevano,
saldavano, sedevano ai banchi da montaggio e alle scrivanie.
In punti diversi, tre apparecchi artigianali senza rivestimento, assemblati alla
meglio con pannelli di alluminio presi a caso, trasmettevano,
indipendentemente uno dall’altro, musica jazz, un brano al pianoforte e
canzoni dei paesi democratici dell’est.
Rubin attraversò lentamente il laboratorio, diretto al proprio tavolo, con il
dizionario mongolo-finnico e Hemingway in mano. Nella barba nera e ricciuta
gli erano rimaste impigliate alcune bianche briciole di torta.
Sebbene le tute dei detenuti fossero confezionate per tutti alla stessa
maniera, ciascuno indossava la propria a modo suo. Rubin aveva un bottone
strappato, la cintura lenta e la stoffa in eccesso gli pendeva sulla pancia. Lungo
il tragitto incrociò un giovane carcerato che portava da elegantone l’identica
tuta, con la cintura blu di stoffa stretta da fibbie intorno alla vita sottile, e sul
petto, dove la tuta era sbottonata, spuntava una camicia di seta azzurra
scolorita dai numerosi lavaggi ma chiusa da una cravatta vivace. Il giovane
occupava il passaggio laterale che Rubin stava percorrendo. Nella mano destra
agitava appena un saldatore acceso e rovente; il piede sinistro posato su una
sedia, il gomito sul ginocchio, scrutava attentamente un circuito radio su una
rivista inglese aperta sopra il tavolo, canticchiando:

Boogie-Woogie, Boogie-Woogie
Samba! Samba!

Non potendo passare, Rubin rimase in piedi per un minuto, con una finta
espressione mite sul viso. Il giovane quasi non si accorse di lui.
– Valentulja, non potrebbe tirare un pochino indietro la gambina posteriore?
Senza sollevare la testa dallo schema, pronunciando la frase con decisione,
Valentulja rispose:
– Lev Grigor’ič! Sparisca! Giù le zampe! Come mai in giro di sera? Che è
venuto a fare? – E gli piantò addosso i suoi stupefatti occhi chiari di ragazzo. –
A che diamine serviranno qui dei filologi! Ah ah ah! – lo apostrofò forte e
chiaro. – Non è mica un ingegnere, lei!! Vergogna!
Con le labbra carnose protese in una buffa trombetta puerile e sgranando gli
occhi, Rubin farfugliò:
– Bimbo mio! Ci sono ingegneri che vendono acqua frizzante.
– Non è il mio caso! Amico, il sottoscritto è un ingegnere di primo livello,
non se lo dimentichi! – scandì Valentulja in tono brusco, e riposto il saldatore
sul sostegno di metallo, raddrizzò la schiena, scostando di lato i soffici,
ondulati capelli del colore del pezzo di colofonia che aveva sul tavolo.
Aveva una freschezza giovanile, la pelle del viso sembrava rimasta immune ai
segni della vita, i movimenti ancora quelli di un ragazzo: nessuno avrebbe detto
che si era diplomato prima della guerra, era stato prigioniero dei tedeschi,
aveva trascorso un periodo in Europa e si trovava in carcere in patria già da
cinque anni.
Rubin sospirò:
– Senza referenze certificate dal suo capo in Belgio la nostra
amministrazione non può...
– Ma quali referenze?! – Valentin giocava a fare l’offeso in modo del tutto
verosimile. – Lei si è proprio rimbecillito! Io, vedi un po’, amo le donne alla
follia!!
La ragazza minuta e severa si concesse un sorriso.
Accanto alla finestra dove Rubin si stava dirigendo un altro detenuto
abbandonò la propria attività per ascoltare Valentulja con approvazione.
– A quanto pare, solo in teoria – rispose Rubin, masticando annoiato.
– E alla follia amo spendere soldi!
– Ma non ne ha...
– Come potrei essere un cattivo ingegnere? Ci pensi: per amare le donne – e
sempre diverse! – devi avere tanti soldi! E per avere tanti soldi devi guadagnare
molto! E per guadagnare molto, se sei un ingegnere, devi essere brillante ed
eccellere nella tua specializzazione! Ah-ah! Fregato!
Il lungo viso di Valentulja si era sollevato baldanzoso verso Rubin.
– Aha! – esclamò lo zek vicino alla finestra, la cui scrivania si trovava di
fronte a quella della ragazza minuta, praticamente attaccate. – Lëvka, ho capito
com’è la voce di Valentulja! Scampanellante! La catalogo così, eh? Una voce del
genere si riconosce da qualsiasi telefono. Con qualsiasi interferenza.
Aprì un grosso foglio, pieno di colonne di nomi, con un grafico quadrettato
e una classificazione a forma di albero.
– Ah, che scemenza! – Valentulja fece un cenno con la mano e, afferrato il
saldatore, prese a far fumare la colofonia.
Il passaggio fu di nuovo libero e Rubin, raggiunto il proprio posto, si chinò
anche lui sulla classificazione di voci.
I due la esaminarono in silenzio.
– Siamo andati avanti bene, Glebka – disse Rubin. – Assieme al linguaggio
visibile è una buona arma. Molto presto io e te capiremo da cosa può dipendere
una voce al telefono... Cosa stanno trasmettendo?
Nel resto della stanza il jazz era predominante, ma accanto al davanzale ad
avere la meglio era il loro apparecchio artigianale, da cui veniva la fluente
musica di un pianoforte. In essa emergeva con insistenza, per poi sottrarsi
subito, e tornare a emergere e a sottrarsi di nuovo, una stessa melodia. Gleb
rispose:
– La Sonata n. 17 di Beethoven. Chissà perché non l’ho mai... Ascoltala anche
tu.
Si piegarono entrambi verso l’apparecchio.
– Valentine! – disse Gleb. – Su, faccia il bravo. Non sia egoista!
– Non lo sono affatto – rispose quello, in tono brusco – vi ho assemblato io
l’apparecchio. Se vi stacco la bobina, non beccate più niente.
Corrugate le sopracciglia in un cipiglio severo, la ragazza intervenne:
– Valentin Martynyč! È vero, non si possono ascoltare tre radio insieme.
Spenga la sua, glielo stanno chiedendo per favore.
(La radio di Valentin stava trasmettendo uno slow-fox, che alla ragazza
piaceva molto...)
– Serafima Vital’evna! È pazzesco! – Valentin urtò una sedia vuota, che
afferrò al volo prima che cadesse, poi si mise a gesticolare come fosse su una
tribuna. – Come fa un uomo sano e normale a non apprezzare il tonificante ed
energico jazz? Con quella robaccia antiquata lei si rovina! Ma davvero non ha
mai ballato Blue Tango? Possibile che non abbia mai visto gli spettacoli di
varietà di Arkadij Rajkin10? E non è mai stata in Europa! Dove poteva
imparare a vivere? Mi ascolti: lei ha bisogno di innamorarsi di qualcuno! –
arringò attraverso lo schienale della sedia, senza notare la piega amara intorno
alle labbra della ragazza. – Uno qualsiasi, ça dépend! Le luci notturne che
scintillano! Il fruscio degli abiti da sera!
– Di nuovo uno sfasamento! – disse Rubin allarmato. – Bisogna usare la forza!
E spense da solo il jazz alle spalle di Valentulja.
Quello si voltò come se l’avessero morso.
– Lev Grigor’ič! Chi le dà il diritto...?
Aggrottò le sopracciglia e lo guardò con fare minaccioso.
La rapida melodia, ora libera, della Sonata n. 17 cominciò a fluire nella sua
purezza, gareggiando solo con la rozza canzone che giungeva dall’altro capo
della stanza.
Il corpo di Rubin si era rilassato, sul suo viso spiccavano gli arrendevoli
occhi castani e la barba cosparsa di briciole di dolce.
– Ingegner Prjančikov11! Ha presente la Carta atlantica? Ha scritto il
testamento? A chi ha lasciato le sue pantofole da notte?
Il viso di Prjančikov si fece serio. Guardò con calma Rubin negli occhi e
chiese piano:
– Senta, ma cosa vuole? Possibile che un uomo non sia libero nemmeno in
prigione? Dove può esserlo, allora?
Chiamato da uno dei montatori, se ne andò avvilito.
Rubin si lasciò cadere in silenzio sulla sua poltrona, schiena a schiena con
Gleb, e si accinse ad ascoltare; la rasserenante e avvolgente melodia, terminò di
colpo, come un discorso interrotto sul più bello: era il finale modesto e poco
solenne della Sonata n. 17.
Rubin lanciò un’imprecazione, che solo Gleb riuscì a sentire.
– Scandisci le parole, non capisco – rispose quello, continuando a dare le
spalle a Rubin.
– Dicevo che sono sempre sfortunato – ribatté con voce roca Rubin,
evitando anche lui di girarsi. – Mi sono lasciato scappare la sonata...
– Succede perché ti organizzi male, quante volte bisogna dirtelo! – brontolò
l’amico. – È una sonata mooolto bella. Hai notato che finale? Nessun fragore
né sussurro. Si interrompe e basta. Come la vita... Ma dov’eri?
– Con i tedeschi. A festeggiare il Natale – ridacchiò Rubin.
Conversavano così, senza guardarsi, rovesciando quasi la nuca l’uno verso le
spalle dell’altro.
– Bravo. – Gleb si fermò a riflettere. – Mi piace il rapporto che hai con loro.
Insegni il russo a Max per ore. Eppure avresti tutte le ragioni per odiarli.
– Odiarli? No, ma l’affetto che provavo per loro si è guastato. Persino il
mite e apartitico Max non condivide forse in qualche modo la responsabilità
coi carnefici? Dopotutto non si è mai opposto, no?
– Be’, come io e te non ci opponiamo né ad Abakumov12 né a Šiškin-
Myškin...
– Ascolta, Gleb, in fin dei conti, io non sono forse più ebreo di quanto sia
russo? Non sono più russo di quanto sia cittadino del mondo?
– Hai detto bene. Cittadini del mondo! Suona tranquillo, pulito.
– Cioè cosmopoliti. Avevano ragione a sbatterci dentro.
– Certo che avevano ragione. Anche se tu fai di tutto per dimostrare alla
Corte Suprema il contrario.
Dal davanzale, l’annunciatore promise che di lì a trenta secondi sarebbe
cominciato Il diario di competizione socialista.
In quel breve intervallo, con calcolata lentezza, Gleb portò la mano
all’apparecchio e, impedendo alla voce del presentatore di farsi roca, quasi gli
stesse torcendo il collo, girò la manopola e spense. Il viso, che poco prima si
era animato, appariva ora stanco e grigiastro.
Prjančikov, invece, era alle prese con un nuovo problema. Stava calcolando
quale gruppo di amplificazione collegare e intanto, ad alta voce, canticchiava
spensierato:
Boogie-Woogie, Boogie-Woogie
Samba! Samba!

10 Arkadij Isaakovič Rajkin (1911-1987), capocomico, leggenda del teatro e del cinema sovietico. Rimase
miracolosamente indenne agli attacchi del potere nonostante, attraverso la sua arte, puntasse i riflettori sulle
inefficienze della burocrazia comunista e della società sovietica.
11 È il cognome di Valentin Martynyč.
12 Viktor Semënovič Abakumov (1894-1954), funzionario di alto livello degli organi di sicurezza sovietici,
qui ministro, uno dei vice di Stalin; finito a sua volta in disgrazia, sarà fucilato nel 1954.
6
UN’ESISTENZA PACIFICA

Gleb Neržin era coetaneo di Prjančikov ma sembrava più vecchio. I capelli


biondi con la larga scriminatura da un lato erano folti, eppure intorno agli
occhi e alle labbra gli si erano formate ghirlande di rughe e la fronte era segnata
da solchi longitudinali. La pelle del viso, sensibile alla mancanza d’aria fresca,
aveva assunto un colore spento. A far apparire Neržin più vecchio, però, era
soprattutto l’avarizia nei movimenti, una saggia ritrosia con la quale la natura
conserva le forze del detenuto che nel campo si consumano. In verità, nelle
condizioni libere della šaraška, con il vitto a base di carne e senza un lavoro
fisico logorante, quel tipo di avarizia non sarebbe stata necessaria, ma Neržin,
pensando alla durata della condanna, si sforzava di assumere quella parsimonia
nei movimenti e di consolidarla per sempre.
Ora pile di libri e fascicoli formavano barricate sulla sua grande scrivania e
lo spazio vivo che restava nel mezzo era occupato da altri fascicoli, testi battuti
a macchina, libri, riviste straniere e russe, tutto aperto. Avvicinandosi, una
persona non sospettosa avrebbe visto in quell’uragano solidificato il suo
pensiero di ricercatore.
Invece si trattava solo di fumo negli occhi: la sera Neržin si nascondeva così da
un’eventuale visita dei capi.
In realtà, i suoi occhi non erano concentrati su quello che aveva davanti.
Scostava la chiara tendina di seta e guardava attraverso i vetri della finestra
buia. Oltre la profondità dello spazio notturno cominciavano le luci grandi e
multicolori di Mosca, e tutta la città, invisibile dietro la collina, splendeva nel
cielo in un’immensa colonna biancastra di luce diffusa, facendolo diventare
marrone-grigio scuro.
La sedia speciale di Neržin, con lo schienale molleggiato che si adattava a
ogni movimento delle spalle, la scrivania speciale con i pannelli scorrevoli a
nervature, di un tipo che da noi non si produce, e il comodo posto vicino alla
finestra rivolta a sud: tutto questo, per chi fosse a conoscenza della storia della
šaraška di Marfino, rivelava in Neržin uno dei suoi fondatori.
La šaraška prendeva il nome da Marfino, il villaggio che un tempo si trovava
in quel luogo ma che da un pezzo era stato incluso nel confine cittadino. Era
stata fondata circa tre anni prima, una sera di luglio. Nel vecchio edificio di un
seminario nei pressi di Mosca, prima recintato con il filo spinato, erano stati
condotti una quindicina di zek prelevati dai campi di lavoro. Quel periodo, alla
šaraška ora definito “kryloviano”13, si ricordava come un’epoca pastorale. A
quei tempi, negli alloggi della prigione si poteva ascoltare la BBC ad alto volume
(a oscurarla non erano ancora riusciti); la sera di propria iniziativa si poteva
passeggiare nella zona, stare sdraiati sull’erba umida di rugiada che, in mancata
ottemperanza del regolamento, nessuno tagliava (si sarebbe dovuta falciare a
zero in modo che gli zek non strisciassero fino al filo spinato); e osservare le
eterne stelle oppure il caduco e sudato Žvakun, un sergente maggiore dell’MVD,
che durante il turno di notte rubava tronchi dal cantiere dell’edificio, li faceva
rotolare sotto il filo spinato e a casa li usava come legna da ardere.
A quell’epoca la šaraška non sapeva ancora di quali ricerche scientifiche si
sarebbe occupata e si prodigava ad aprire le innumerevoli casse che giungevano
dalla Germania su tre convogli ferroviari; conservava per sé comode sedie e
scrivanie tedesche; smistava l’attrezzatura, obsoleta e in ogni caso giunta
danneggiata, per telefonia, onde radio ultracorte, acustica; scopriva che i
tedeschi avevano fatto in tempo a portare via o a distruggere l’attrezzatura
migliore e la documentazione più aggiornata, mentre il capitano dell’MVD,
mandato a ridislocare la fabbrica Lorenz, esperto di arredamento ma non di
strumenti radio e di lingua tedesca, scovava in giro per Berlino mobili per gli
appartamenti dei suoi capi e per il proprio.
Ormai avevano iniziato da un pezzo a falciare l’erba, le porte per andare a
spasso venivano aperte solo su autorizzazione, la šaraška era passata dalla
direzione di Berija a quella di Abakumov e ci si occupava di telefonia segreta.
Si era sperato di risolvere la questione in sei mesi, ma la cosa si trascinava
ormai da due anni, si espandeva, si ingarbugliava, abbracciava sempre nuovi
problemi collegati, e lì, sulle scrivanie di Rubin e di Neržin, erano arrivati a
identificare le voci al telefono, ad accertare cosa rendesse unica quella di
ciascuno.
A quanto pareva, nessuno prima aveva mai condotto una simile ricerca. In
ogni caso, non si erano mai imbattuti in un’opera che trattasse l’argomento. Per
quel lavoro avevano concesso loro prima sei mesi, poi altri sei, ma non erano
stati fatti molti passi avanti e le scadenze adesso incalzavano.
Sentendosi addosso quella spiacevole pressione, Rubin si lamentò oltre la
spalla:
– Oggi non ho proprio nessuna voglia di lavorare...
– Ma guarda – mormorò Neržin. – Se non sbaglio, hai combattuto quattro
anni, sei dentro già da cinque pieni, e ti senti stanco? Chiedi un buono-vacanze
per la Crimea, allora.
Rimasero in silenzio.
– Stai facendo cose tue? – domandò Rubin, a bassa voce.
– E già.
– E chi si occupa delle voci?
– Io, francamente, contavo su di te.
– Che coincidenza. Io contavo su di te.
– Sei un incosciente. Quanti libri hai preso in prestito dalla biblioteca Lenin
con questa scusa? Discorsi di celebri avvocati. Le memorie di Koni14. Il lavoro
dell’attore su sé stesso15. E alla fine, senza un briciolo di vergogna, uno studio
sulla principessa Turandot. Quale altro zek in un GULAG può vantare una
simile collezione di libri?
Rubin protese le grosse labbra a trombetta, cosa che ogni volta dava al suo
viso un’espressione di ridicola stupidità. – Strano. Tutti questi libri, persino
quello sulla Turandot, con chi li ho letti io durante le ore di lavoro? Non eri
tu?
– Io lavorerei. Avrei lavorato con totale abnegazione, oggi. Ma ci sono due
circostanze che mi portano fuori dai binari. Primo, la storia di un pavimento di
parquet.
– Quale pavimento?
– Alla barriera di Kaluga, l’edificio dell’MVD, quello semicircolare, con la
torretta. L’ha costruito nel 1945 il nostro campo di lavoro, dov’ero parchettista
alle prime armi. Oggi ho saputo che Rojtman, a quanto pare, abita proprio in
quell’edificio. A tormentarmi è la scrupolosità del costruttore o, se preferisci,
una questione di prestigio: scricchioleranno o no i miei pavimenti? Perché se
scricchiolano significa che la posa è stata fatta con i piedi, giusto? E io non ho
possibilità di rimediare!
– Ma, guarda un po’, che bel soggetto drammatico!
– Da realismo socialista. Secondo: non fa proprio schifo lavorare di sabato
sera, sapendo che la domenica è un giorno di festa solo per i liberi?
Rubin sospirò. – E i liberi, già adesso saranno tutti in giro per i vari luoghi
di divertimento. Sì, fa proprio schifo.
– Ma i luoghi di divertimento se li scelgono da soli? Ricevono davvero più
soddisfazione di noi dalla vita? Anche questa è una bella domanda.
Seguendo l’abitudine forzata dei reclusi, chiacchieravano a bassa voce, al
punto che persino Serafima Vital’evna, seduta di fronte a Neržin, non riusciva
a sentirli. Ora si erano girati entrambi per metà, con le spalle al resto della
stanza, il viso rivolto verso la finestra, i lampioni della zona, la torretta di
guardia che si intuiva nel buio, le luci isolate delle lontane serre del Giardino
botanico poco lontano e la colonna di luce biancastra che da Mosca si
innalzava nel cielo.
Sebbene fosse un matematico, Neržin non era poi troppo estraneo alla
linguistica e, dal momento in cui per l’Istituto di Ricerca scientifica di Marfino
la fonetica della lingua russa era diventata oggetto di lavoro, lo avevano messo
in coppia con Rubin, unico filologo del posto. Da due anni sedevano dodici
ore al giorno schiena contro schiena. Dal primo minuto si erano confidati l’un
l’altro di essere ex combattenti, capitati entrambi sia sul fronte nord-
occidentale sia su quello bielorusso, e di avere la medesima “piccola collezione
da gentlemen” di decorazioni; entrambi erano stati arrestati al fronte, lo stesso
mese e dallo stesso SMERŠ, entrambi per lo stesso comma dieci “buono per tutti”,
ed entrambi avevano avuto la stessa decina (la condanna che del resto
prendevano tutti). Tra loro, poi, correvano solo sei anni, mentre in ambito
militare li separava soltanto un grado: Neržin era capitano.
Ad attirare Rubin era il fatto che Neržin non si trovava in carcere dopo un
periodo di prigionia e dunque non era stato contagiato dallo spirito
antisovietico straniero: Neržin era uno dei nostri, un uomo sovietico, ma per
tutta la giovinezza aveva divorato libri fino a rincretinirsi e da quelli
presumibilmente aveva intuito che Stalin stava travisando il leninismo. Non
aveva nemmeno fatto in tempo a scrivere quella conclusione su un pezzetto di
carta, che lo avevano arrestato. Tuttavia, benché stordito dal carcere e dal
campo, rimaneva uno dei nostri, e per questa ragione Rubin aveva la pazienza di
ascoltare le sue assurde e intricate idee momentanee.
Fissarono ancora lontano, nell’oscurità.
Rubin schioccò le labbra. – Comunque, sei intellettualmente limitato. E
questo mi preoccupa.
– Non è la cosa cui aspiro: al mondo le cose intelligenti sono molte, quelle
buone poche.
– Eccoti un buon libro, leggilo.
– Altri poveri tori tormentati?
– No.
– Allora, leoni oppressi?
– Ma no!
– Ascolta, già non riesco a vederci chiaro con le persone, che me ne faccio
dei tori?
– Devi leggerlo!
– Io non devo niente a nessuno, ricordatelo! Come dice Spiridon, ho già
saldato tutti i miei debiti.
– Patetico. Questo è uno dei migliori libri del xx secolo!
– E mi svelerà davvero ciò che tutti dovremmo comprendere? In che cosa si
sono smarriti gli uomini?
– È uno scrittore intelligente, buono e infinitamente onesto, un soldato, un
cacciatore, un pescatore, un ubriacone e un donnaiolo, uno che disprezza
palesemente ogni menzogna, che cerca la semplicità, molto umano, di una
genialità ingenua...
– Ma fammi il piacere – si mise a ridere Neržin. – Stordisci tutti con i tuoi
discorsi. Ho vissuto trent’anni senza Hemingway, posso pure continuare. La
vita me l’hanno già rovinata. Lasciami andare un po’ dove mi pare! Fammi
trovare la mia strada...
Tornò a voltarsi verso la scrivania.
Rubin sospirò. La voglia di lavorare non gli era ancora tornata.
Prese a osservare la mappa della Cina appoggiata a una mensola sulla
scrivania di fronte. Qualche tempo prima l’aveva ritagliata da un giornale e
incollata a un cartone. Per tutto l’anno precedente vi aveva segnato con la
matita rossa l’avanzata dell’esercito comunista e ora, dopo un’indiscutibile
vittoria, se l’era messa davanti per risollevarsi l’umore nei momenti di
depressione e stanchezza.
Oggi, tuttavia, a tormentarlo era una tristezza tenace, e nemmeno la grande
estensione rossa della Cina vittoriosa avrebbe potuto farla sloggiare.
Neržin invece, che di tanto in tanto succhiava pensieroso il retro puntuto
della penna di plastica, con una calligrafia microscopica, come se non scrivesse
a penna ma con la punta di un ago, vergava un minuscolo foglietto che in
mezzo a quell’ufficio mimetizzato non si scorgeva nemmeno.
“Dal punto di vista matematico, nella storia dell’anno 1917 non c’è nulla di
inaspettato. Come una tangente che intorno ai novanta gradi schizza verso
l’infinito, per poi crollare nell’abisso dell’infinito al negativo, così anche la
Russia, decollata per la prima volta verso una libertà senza precedenti, ora è
precipitata nella peggiore delle tirannie. Nessuno ci è mai riuscito al primo
tentativo.”
La grande stanza del Laboratorio Acustico, intanto, portava avanti la sua
pacifica esistenza quotidiana. Il motorino del tornio elettrico ronzava. Si
udivano i comandi: “Accendi!”, “Spegni!”. Alla radio trasmettevano l’ennesima
sciocchezza sentimentale. Qualcuno chiedeva ad alta voce una valvola 6K7.
Sfruttando il momento in cui nessuno la guardava, Serafima Vital’evna stava
osservando attentamente Neržin impegnato a riempire con la sua scrittura ad
ago il pezzetto di carta.
L’oper, maggiore Šikin, l’aveva incaricata di tenere d’occhio quel detenuto.
13 Ivan Andreevič Krylov (1768-1844), celebre favolista russo.
14 Anatolij Fedorovič Koni (1844-1927), avvocato, statista, scrittore.
15 Opera di Konstantin Sergeevič Stanislavskij.
7
UN CUORE DI DONNA

Serafima Vital’evna, il tenente dell’MGB con la camicetta arancione, a tal punto


minuta che era impossibile non chiamarla Simočka, si avvolgeva nel caldo
scialle.
I collaboratori liberi di quell’edificio erano tutti ufficiali dell’MGB.
I collaboratori liberi, in base alla Costituzione, godevano di molteplici
diritti, compreso quello al lavoro. Tuttavia, era un diritto che si limitava alle
otto ore giornaliere e non produceva beni, ma si riduceva alla sorveglianza
degli zek. Privati dei diritti fondamentali, questi ultimi godevano in compenso
del più ampio diritto al lavoro: dodici ore al giorno. Quella differenza andava
compensata dai collaboratori liberi di ciascun laboratorio con turni di
sorveglianza al lavoro degli zek dalle sei del pomeriggio fino alle undici della
sera, compreso l’intervallo per la cena.
Oggi era il turno di Simočka. Nel Laboratorio Acustico la ragazza, minuta
come un uccellino, rappresentava in quel momento l’unica autorità e l’unico
capo.
In base alle disposizioni doveva assicurarsi che i detenuti si dessero da fare e
non oziassero, che non usassero il locale di lavoro per fabbricare armi o per
qualche cospirazione, che non riparassero trasmettitori a onde corte
approfittando dell’abbondanza delle componenti radio. Alle undici meno dieci
doveva farsi riconsegnare tutta la documentazione segreta, riporla in una grossa
cassaforte e sigillare la porta del laboratorio.
Non erano trascorsi neanche sei mesi da quando, completati gli studi
all’Istituto universitario di Ingegneria delle comunicazioni, Simočka era stata,
per via del suo questionario personale cristallino, designata a quel particolare
istituto di ricerca che veniva indicato solo con un numero e che i suoi detenuti,
nel loro gergo irriverente, chiamavano šaraška. I liberi assunti lì erano subito
promossi ufficiali, ricevevano uno stipendio due volte superiore rispetto a
quello di un normale ingegnere (per titolo e come equipaggiamento militare), e
da loro si pretendeva soltanto dedizione e vigilanza; istruzione e competenze
venivano dopo.
Questo andava a tutto vantaggio di Simočka. Non era stata l’unica del suo
istituto a ricevere una preparazione scarsa, era accaduto anche a molte sue
compagne. Le cause erano molteplici. Le ragazze arrivavano dalla scuola senza
possedere nozioni né di fisica né di matematica (già quando frequentavano le
ultime classi avevano capito che al consiglio degli insegnanti il direttore
redarguiva i professori quando assegnavano voti bassi e, anche se non studiavi
per niente, il diploma te lo davano lo stesso). All’università poi, quando
giungeva il momento di mettersi a studiare, le ragazze si addentravano nella
matematica e nella radiotecnica come in una foresta di pini oscura e
impenetrabile, del tutto estranea alla loro indole. Il più delle volte però
mancava proprio il tempo. Ogni autunno, per un mese e più, gli studenti
venivano condotti ai kolchoz a raccogliere le patate, motivo per cui il resto
dell’anno avevano lezione per otto o nove ore al giorno e mancava il tempo per
analizzare gli appunti. Tutti i lunedì c’era Educazione politica; almeno una
volta la settimana, inoltre, era obbligatorio andare a qualche riunione; e di
tanto in tanto era necessario svolgere lavoro sociale, pubblicare giornali murali,
dare concerti patrocinati; ma bisognava anche aiutare in casa, andare a fare
compere, lavarsi e vestirsi. E il cinema? Il teatro? Il club? Se non andavi in giro,
non ballavi un po’ durante gli anni della scuola, quando avresti avuto il tempo
di farlo, poi? La gioventù non ci è data per ammazzarci di fatica! E così, in
occasione delle verifiche, Simočka e le sue compagne si preparavano una gran
quantità di bigliettini, li nascondevano in capi di abbigliamento femminili
preclusi agli uomini e all’esame estraevano quello adatto e, lisciato per benino,
lo presentavano come foglio di brutta. Naturalmente gli esaminatori avrebbero
potuto scoprire senza fatica con domande supplementari l’inconsistenza della
preparazione delle ragazze, ma erano anche loro sovraccarichi di riunioni,
assemblee, molteplici programmi e modelli di rendiconto da presentare alla
presidenza, al rettorato, e far ripetere un esame era faticoso, tanto più che poi,
avvalendosi di una citazione, a quanto pare di Krupskaja, che non esistono
cattivi allievi ma solo cattivi insegnanti, venivano denigrati per il basso profitto,
neanche si trattasse di un difetto di produzione. E dunque gli esaminatori non
cercavano di cogliere in fallo le studentesse, al contrario le aiutavano a
concludere l’esame nel modo più felice e veloce possibile.
Durante gli ultimi anni degli studi universitari Simočka e le sue compagne si
erano rese conto con tristezza di non amare la specializzazione scelta, di non
poterne più, ma ormai era tardi. Simočka tremava all’idea di doverla applicare
alla produzione.
Ed era capitata a Marfino. Qui le era piaciuto subito molto che non le
venissero affidati lavori autonomi. Tuttavia varcare la soglia di quel castello
isolato nei pressi di Mosca, dove guardie scelte e personale di sorveglianza
custodivano eminenti criminali di Stato, faceva paura persino a chi non era
piccolo come lei.
Le avevano addestrate tutte insieme: dieci neolaureate dell’Istituto
universitario di Ingegneria delle comunicazioni. Avevano spiegato loro che era
peggio che in guerra: erano finite nella fossa dei serpenti, dove una sola mossa
incauta si traduceva in una minaccia di morte. Erano state informate che
avrebbero incontrato la feccia del genere umano, individui indegni persino
della lingua russa che purtroppo parlavano. Erano state avvertite che si trattava
di individui pericolosi, soprattutto perché non mostravano apertamente i loro
denti da lupi, ma indossavano di continuo la falsa maschera della cortesia e
della buona educazione; se si facevano domande sui loro crimini (cosa
categoricamente proibita!), quelli si sforzavano con una menzogna contorta di
spacciarsi per innocenti accusati ingiustamente. Alle ragazze era stato ordinato
di non mostrare odio a quei farabutti, ma palesare a loro volta una cortesia
esteriore, senza partecipare a discorsi privi di valore costruttivo, senza accettare
di fare nessuna commissione fuori del campo, e alla prima infrazione, al primo
sospetto di infrazione o possibilità di sospetto di infrazione, rivolgersi di corsa
all’oper, il maggiore Šikin.
Il maggiore Šikin, un uomo borioso, scuro, basso, dalla testa grossa con
capelli a spazzola che incanutivano e piedi piccoli che calzavano scarpe di un
numero da bambini, aveva esternato in proposito il seguente pensiero: che
sebbene a lui e alle altre persone navigate fosse perfettamente chiaro l’istinto da
serpente di quei malfattori, tra le ragazze inesperte arrivate da poco magari ce
n’era qualcuna il cui cuore umano avrebbe potuto vacillare, finendo per
ammettere qualche infrazione, per esempio dare loro in lettura un libro della
biblioteca dei liberi (per non parlare di spedire una lettera, perché una lettera
indirizzata a una qualunque Marija Ivanovna era sicuramente rivolta a un
centro di spionaggio americano). In tono edificante il maggiore Šikin aveva
chiesto alle altre ragazze, nel caso si fossero rese conto del peccato di un’amica,
di dimostrarle il loro sostegno da compagne, comunicando apertamente
l’accaduto a lui.
Alla fine del colloquio poi il maggiore non aveva tenuto nascosto che avere
rapporti con i detenuti era punito dal codice penale, e il codice penale, come
ben si sa, è elastico, e può prevedere persino venticinque anni di lavori forzati.
Impossibile immaginarsi il futuro squallore che le attendeva senza avere un
brivido. Ad alcune di loro erano persino venute le lacrime agli occhi. La
diffidenza nelle compagne comunque era ormai instillata. E uscite dall’incontro
di addestramento non avevano parlato di quanto udito, ma di altro.
Più morta che viva, Simočka aveva seguito l’ingegnere Rojtman nel
Laboratorio Acustico, dove fin dal primo istante avrebbe voluto strizzare forte
gli occhi.
Da allora erano trascorsi sei mesi e in Simočka era accaduto qualcosa di
strano. No, la fermezza delle sue convinzioni riguardo agli oscuri intrighi del
capitalismo non era stata minata. Si era persuasa facilmente che i detenuti al
lavoro in tutte le altre stanze erano malfattori sanguinari. Ma, incontrando ogni
giorno una decina di zek del Laboratorio Acustico, si sforzava invano di vedere
in quelle persone cupamente indifferenti alla libertà, al proprio destino, alla
propria condanna di dieci anni o di un quarto di secolo, in quel candidato in
scienze, negli ingegneri e nei montatori – ogni giorno assillati da un unico
lavoro, un lavoro altrui, di cui non avevano bisogno, che non portava loro né
un soldo di guadagno né un briciolo di gloria – dei furfanti matricolati, come
quelli che al cinema lo spettatore individuava con tanta facilità e il nostro
controspionaggio pescava in modo così abile.
Davanti a loro Simočka non provava terrore. E non riusciva a trovare
dentro di sé nemmeno odio. Quegli uomini, con le loro molteplici conoscenze
e la loro resistenza a una sventura che si protraeva, suscitavano in lei soltanto
un gran rispetto. E sebbene il suo dovere di giovane comunista la richiamasse
all’ordine, sebbene il suo amore per la patria la esortasse a riferire in modo
scrupoloso all’oper tutte le mancanze e le azioni dei detenuti, per qualche
inspiegabile ragione la cosa le appariva vile e impossibile.
E ancora più impossibile nei confronti del suo vicino più prossimo e
compagno di lavoro, Gleb Neržin, seduto di fronte a lei a due scrivanie di
distanza.
Per tutto il tempo Simočka aveva lavorato a stretto contatto con Neržin, cui
era stata assegnata quasi fin dall’inizio per svolgere i test di articolazione. Alla
šaraška di Marfino si doveva valutare il livello di ricezione nei diversi tratti
telefonici. Nonostante la perfezione degli strumenti, non ne era ancora stato
inventato uno che misurasse questa caratteristica con una lancetta. Solo la voce
di uno speaker che leggeva singole sillabe, parole o frasi, e le orecchie di
ascoltatori specializzati che ricevevano il testo alla fine del tratto esaminato
potevano fornire una valutazione entro una determinata percentuale di errore.
Esperimenti di questo genere erano chiamati “di articolazione”.
Neržin si occupava – o secondo le intenzioni dei superiori avrebbe dovuto
occuparsi – di impostare matematicamente nel modo migliore gli esperimenti.
Questi si erano conclusi con successo, e al metodo usato Neržin aveva persino
dedicato una monografia in tre volumi. Quando per lui e Simočka si
accumulava troppo lavoro tutto insieme, Neržin indicava con precisione
l’ordine delle azioni che andavano eseguite subito e quelle che potevano essere
rimandate, impartiva disposizioni con sicurezza, e in quel momento il suo viso
ringiovaniva, allora Simočka, che si raffigurava la guerra grazie al cinema,
immaginava Neržin in uniforme da capitano, in mezzo al fumo delle
esplosioni, i capelli biondi mossi dal vento, che gridava alla sua batteria:
“Fuoco!” (Era la scena che al cinema mostravano più spesso.)
Ma una simile solerzia era necessaria a Neržin per rimanere, una volta
eseguito il lavoro esterno, più a lungo possibile senza doverlo ripetere di
nuovo. Una volta l’aveva persino detto a Simočka: “Sono attivo perché detesto
l’attività.” “E cosa le piace?” gli aveva domandato lei, con timidezza.
“Riflettere” aveva risposto lui. E in effetti, quando il carico di lavoro
rallentava, Neržin sedeva per ore senza quasi cambiare posizione, la pelle del
viso che gli si ingrigiva, invecchiava, si solcava di rughe. Dove finiva allora la
sua sicurezza? Neržin diventava lento e indeciso. Stava lì a riflettere a lungo
prima di trascrivere una frase in quegli appunti minuscoli che anche quel
giorno Simočka aveva notato sulla sua scrivania in mezzo a mucchi di articoli e
manuali tecnici. Si era accorta che lui li nascondeva in uno scomparto di
sinistra della sua scrivania, non nel cassetto. Simočka moriva dalla curiosità di
scoprire che cosa scrivesse e per chi lo facesse. Neržin, senza saperlo, era
diventato per lei il fulcro della sua compassione e della sua ammirazione.
Fino ad allora, la vita di Simočka era stata molto infelice. La giovane non era
bella: le rovinava il viso un naso troppo lungo, e i capelli che erano radi, e
crescevano male, si concentravano sulla nuca in un nodo misero. Simočka non
era solo bassa, era bassa oltremisura, e aveva forme sbrigative come quelle di
una ragazzetta di settima classe piuttosto che quelle di una donna adulta.
Inoltre era rigida, poco incline agli scherzi, al futile divertimento, e anche
questo non attirava i ragazzi. Così, all’età di ventitré anni nessuno l’aveva
ancora corteggiata, nessuno l’aveva né abbracciata né baciata.
Poco tempo prima, non era passato neanche un mese, qualcosa non aveva
funzionato a dovere con il microfono della cabina e Neržin aveva chiesto a
Sima di ripararlo. Lei era entrata con il cacciavite in mano; nel silenzioso buio
soffocante della cabina, dove si stava a fatica in due, si era chinata sul
microfono che Neržin stava già esaminando e senza farlo apposta aveva
sfiorato con la guancia quella di lui. L’aveva sfiorata ed era impietrita dal
terrore – cosa sarebbe successo? Doveva allontanarsi subito – e senza riflettere
aveva continuato a esaminare il microfono. Il minuto più spaventoso della sua
vita si era dilatato: le loro guance unite, ardenti, e lui non si muoveva! Poi
all’improvviso Neržin le aveva preso la testa fra le mani e l’aveva baciata sulle
labbra. Tutto il corpo di Simočka si era lasciato andare a una debolezza gioiosa.
In quell’istante la ragazza non aveva detto nulla né sul Komsomol né sulla
patria, ma solo:
– La porta è aperta...
Una sottile tendina azzurra, ondeggiando, li separava dalla giornata
rumorosa, dalle persone che si muovevano avanti e indietro e chiacchieravano,
che sarebbero potute entrare, scostandola. Il detenuto Neržin non rischiava
nulla, a parte dieci giorni in cella di rigore, mentre la ragazza si stava giocando
la valutazione di servizio, la carriera, forse persino la libertà; eppure, lei non
aveva la forza di strapparsi da quelle mani che le tenevano la testa rovesciata
indietro.
Era la prima volta in vita sua che un uomo la baciava!
Così la catena d’acciaio forgiata con saggezza di serpente si era spezzata
all’altezza dell’anello formato da un cuore di donna.
8
FERMATI, ATTIMO!

– Di chi è la pelata che si strofina qui dietro?


– Figlio mio, sono proprio di umore lirico. Chiacchieriamo un po’?
– In realtà sarei occupato.
– Ma dài, occupato... io, invece, mi sento sottosopra, Glebka. Ero lì davanti
al piccolo abete improvvisato dai tedeschi a parlare del mio rifugio sotterraneo
presso la testa di ponte a nord di Pułtusk, quando eccolo lì, il fronte! Mi ha
preso alla sprovvista! Così reale, così dolce... Anche in guerra si possono
trovare tante cose belle, vero?
– Non sei il primo a dirlo, ho letto la stessa cosa sulle riviste militari
tedesche che ogni tanto ci capitano per le mani: è la purificazione dell’anima, la
Soldatentreue16...
– Che bastardo. Devi ammettere però che un germe di razionalità ce l’ha...
– Non ce lo possiamo permettere. L’etica taoista afferma: ‘Le armi sono
strumenti di sciagura e non di nobiltà. Il saggio vince a malincuore.’
– Cosa sento? Hai già lasciato gli scettici per unirti ai taoisti?
– Non ho ancora deciso.
– Prima mi sono tornati in mente i miei Fritz migliori, il modo in cui
insieme decidevamo cosa mettere sui volantini: una madre che abbracciava i
figli, poi una biondissima Margherita in lacrime... il nostro volantino più
riuscito, con il testo in versi.
– Me lo ricordo, ne ho raccolto uno anch’io.
– È stato allora che mi ha preso alla sprovvista... ti ho mai raccontato di
Milka? Era una studentessa dell’Istituto di Lingue straniere, si era diplomata nel
1941 e l’avevano mandata nel nostro reparto come interprete. Il naso un po’
all’insù, brusca nei movimenti.
– Aspetta, è quella che è venuta con te a negoziare la capitolazione di
Graudenz?
– Sì, sì, lei! Una ragazzetta straordinariamente vanitosa, amava ricevere
complimenti per il suo lavoro (quanto a criticarla, Dio ce ne scampi!), farsi
proporre per una decorazione. Te lo ricordi il bosco sul fronte nord-
occidentale, oltre il Lovat’, tra Rachlicy e Novo-Svinuchovo, a sud di
Podcepoch’e?
– Là di boschi ce ne sono molti. Su questa riva della Red’ja o sull’altra?
– Su questa.
– Sì, me lo ricordo.
– Be’, io e lei vagammo per quel bosco tutto il giorno. Era primavera... O
meglio, marzo: cammini con i piedi nell’acqua, nelle pozzanghere, gli stivali in
similpelle, ma sotto il cappello di pelliccia hai la testa sudata per il caldo, e hai
presente, quell’odore! quell’aria! Vagavamo come ragazzi al primo amore, come
novelli sposi. Perché se una donna per te è nuova, rivivi tutto con lei come se
fosse la prima volta, ti gonfi come un giovanotto... Vero? Era un bosco
sterminato! Di tanto in tanto solo il fumo leggero di un rifugio sotterraneo,
una piccola batteria di cannoni 76 sulla radura. Li evitavamo. Vagabondammo
così fino a sera, una serata umida, rosa. Per tutto il giorno Milka mi aveva fatto
penare. Sopra il punto in cui ci trovavamo iniziò a volare in tondo un bimotore
tedesco. Milka se n’era uscita: non voglio che lo abbattano, non fa alcun male.
Se non lo abbattono, va bene, rimaniamo a dormire nel bosco.
– Ma era per finta! Mai visto un nostro addetto alla contraerea centrare un
bimotore.
– Già... Gli addetti alla contraerea, fino al Lovat’ e oltre, per un’ora buona gli
spararono contro senza beccarlo. Così... trovammo un piccolo rifugio vuoto...
– Di quelli non interrati.
– Te li ricordi? Proprio uno così. Ne avevano costruiti tanti in un anno, da
usare come baracche per le bestie.
– La terra di laggiù è umida, non vanno interrati.
– Esatto. Dentro c’erano rami accatastati, si sentiva odore di resina dei
tronchi d’albero e di fumo dei precedenti falò: niente stufe, si riscaldavano così.
Nel tetto c’era un buco. Di luce, comunque, non ne arrivava... Una volta acceso
il fuoco, danzavano ombre sulle travi... Glebka! Eh, la vita!
– Ho notato una cosa: se nei racconti dei detenuti c’è una ragazza, tutti
quelli che ascoltano, compreso il sottoscritto, desiderano ardentemente che alla
fine della storia la ragazza in questione non sia più tale. E la cosa diventa per
gli zek il principale interesse della narrazione. Che dici? Si tratta forse della
ricerca di una giustizia universale, che ne pensi? Il cieco deve accertarsi presso
chi vede che il cielo continui a essere azzurro e l’erba verde. Lo zek deve
credere, almeno in teoria, che al mondo ci siano ancora ragazze dolci e allegre
pronte a concedersi ai fortunati... Ma guarda un po’ che serata ti è tornata in
mente! Con un’amante in un rifugio che odorava di resina, senza che vi
sparassero. Proprio una bella guerra ti sei trovato! Mentre magari tua moglie,
quella sera, aveva rimediato i buoni-zucchero per un dolcetto ripieno,
schiacciato, tutto appiccicato alla carta, e faceva il conto su come dividerlo tra
le vostre figlie per trenta giorni...
– Be’, rimproverami pure, ma un uomo, Glebka, non può conoscere una
donna soltanto, sarebbe come non conoscerne nessuna. Impoverirebbe il
nostro spirito.
– Addirittura lo spirito? Qualcuno invece ha detto che se conosci bene una
sola donna...
– Sciocchezze.
– E se fossero due?
– Anche due non danno niente. Solo facendo molti confronti si può capire
qualcosa. Non è un nostro vizio e non è un peccato: è il disegno della natura.
– Lo stesso vale per la guerra! Alla Butyrka, nella cella n. 73...
– ...al secondo piano, in un corridoio stretto...
– ...esatto! Il professor Razvodovskij, un giovane storico moscovita da poco
finito in prigione, che ovviamente al fronte non c’era mai stato, ha saputo
dimostrare in modo brillante, preciso e persuasivo, attraverso considerazioni
sociali, storiche ed etiche, che anche nella guerra c’è qualcosa di buono. Nella
cella però erano presenti una decina di ex combattenti, uomini nostri e di
Vlasov17, tutti ragazzi disperati, distrutti, che avevano combattuto un po’
ovunque. Per poco non se lo mangiano vivo, erano inviperiti: nella guerra non
c’è un cavolo di buono! Io li ascoltavo e stavo zitto. Razvodovskij portava
argomenti convincenti, di tanto in tanto mi sembrava avesse ragione, e anche i
ricordi mi suggerivano che qualche volta non era stato male; ma con quei
soldati non ebbi il coraggio di confrontarmi: la cosa che mi spingeva a dare
ragione al professore era la stessa che distingueva me, artigliere addetto a
grandi cannoni, dai fanti. Lev, cerchiamo di capirci: al fronte, a parte nella
conquista di quella fortezza, eri un balordo, ragion per cui non avevi un tuo
ordine di combattimento dal quale non potevi tirarti indietro, pena la testa! Io
sono stato un mezzo balordo, dal momento che non andavo all’attacco e non
stanavo le persone. Così, nella nostra memoria ingannevole, quello che è stato
orribile sprofonda...
– Ma io non sto dicendo che...
– ...mentre emerge solo quello che è stato piacevole. Della giornataccia in cui
gli Junkers in picchiata presso Orël per poco non mi fecero a pezzi, però, non
posso rievocare nulla di piacevole. No, Lëvka, la guerra è bella quando se ne sta
lontana!
– Ma io non dico che è bella, dico che a volte è bello ricordarla.
– Allora anche i campi di lavoro un giorno li ricorderemo con piacere. E le
prigioni di transito.
– Le prigioni di transito? Quella di Gor’kij? Quella di Kirov? No, quelle
no...
– Solo perché l’amministrazione laggiù ti ha confiscato la valigia, e non
riesci a essere obiettivo. Ma ci sarà di sicuro anche là qualcuno, un addetto al
magazzino viveri o un inserviente, che avrà vissuto nella legge con una detenuta
puttana, e magari starà raccontando a tutti che non esiste luogo migliore di una
prigione di transito. In generale il concetto di felicità è una convenzione, una
menzogna.
– La saggia etimologia ha impresso nella parola stessa la transitorietà e
l’irrealtà del concetto. La parola russa sčast’e, felicità, deriva da ‘se-čas’e’, vale a
dire ‘in quest’ora’, ‘in questo momento’!
– No, magister, mi perdoni! Si legga il dizionario di Vladimir Dal’18. Sčast’e
deriva da ‘so-čast’e’, vale a dire quale parte, čast’, quale porzione ci tocca, quale
quota si ottiene dalla vita. La saggia etimologia ci fornisce un’interpretazione
meschina della felicità.
– Aspetta, anche la mia spiegazione si basa sul Dal’.
– Com’è possibile? Anche la mia.
– Sarà il caso di analizzarla in tutte le lingue. Me lo segno!
– Che maniaco!
– Ha parlato il genio! Facciamo un po’ di linguistica comparata.
– Non deriverà tutto da ‘mano’? Come dice Marr19?
– Ma figurati! Senti, hai letto la seconda parte del Faust?
– Perché non mi chiedi se ho letto la prima? Dicono tutti che è geniale, ma
non la legge nessuno. Oppure magari hanno visto a teatro il Faust di Gounod.
– No, la prima parte è accessibile, che c’è di difficile?
Non so dir nulla di soli e di mondi;
vedo soltanto come gli uomini si affannano.20

– Ecco, questa cosa mi tocca!


– Oppure:

Quello che non si sa ci servirebbe


e non ci serve quello che si sa.21
– Fantastico!
– La seconda parte, a dire il vero, è un po’ pesante. Tuttavia, che idee
profonde! Conosci il patto di Faust con Mefistofele. Quest’ultimo potrà
ottenere l’anima di Faust solo quando questi esclamerà: ‘Fermati, attimo! Sei
così bello!’ E non importa cosa Mefistofele gli proponga – il ritorno alla
giovinezza, l’amore di Margherita, una facile vittoria sul rivale, una ricchezza
sconfinata, la conoscenza assoluta dei segreti della vita – nulla strappa dal petto
di Faust quell’esclamazione recondita. Trascorrono lunghi anni, Mefistofele è
sfinito a furia di provare a stare dietro a quell’essere incontentabile, vede che
rendere felice quell’uomo è impossibile e vuole abbandonare l’impresa
infruttuosa. Invecchiato due volte e cieco, Faust ordina di convocare migliaia di
operai e iniziare a scavare canali per prosciugare le paludi. Nel cervello di
Faust, due volte invecchiato, che il cinico Mefistofele ritiene ottenebrato e folle,
comincia a brillare una grande idea: rendere felice l’umanità. A un cenno di
Mefistofole compaiono i lemuri, servitori dell’inferno, che si mettono a scavare
una tomba a Faust. Mefistofele lo vuole sotterrare per sbarazzarsene, avendo
perso ogni speranza riguardo alla sua anima. Faust sente il rumore di numerose
vanghe. ‘Che cos’è?’ domanda. Mefistofele continua a prendersi gioco di lui.
Dipinge a Faust un’immagine ingannevole, dice che stanno prosciugando la
palude. La nostra critica ama interpretare questo momento in senso ottimistico
dal punto di vista sociale; ritiene che Faust, pensando di aver portato vantaggio
all’umanità, provi per questo un’immensa gioia ed esclami:
Fermati attimo, sei così bello!

Ma vediamo di chiarire: Goethe non si è forse preso gioco della felicità umana?
Perché in realtà non c’è nessun vantaggio per nessuna umanità. Dunque,
l’attesissima frase rituale Faust la pronuncia a un passo dalla tomba, ingannato
e, forse, davvero folle? E i lemuri lo spingono subito nella fossa. Cos’è allora,
un inno alla felicità o una beffa nei suoi confronti?
– Ah, Lëvočka, ti adoro quando sei così, quando ragioni col cuore, parlando
con saggezza, senza appiccicare etichette ingiuriose.
– Che patetico seguace di Pirrone! Lo sapevo che ti sarebbe andato a genio.
Senti anche questa. In una delle mie lezioni prima della guerra – e quelle di
allora erano straordinariamente coraggiose! – a proposito di questo brano del
Faust sviluppai l’idea elegiaca che la felicità non esiste, che è o irraggiungibile o
illusoria... All’improvviso mi passarono un foglietto a quadretti strappato da un
minuscolo taccuino, c’era scritto: ‘Eppure, io amo e sono felice! Che cosa ne
dice di questo?’
– E tu cosa dicesti?...
– E cosa si può mai dire?...
16 “La lealtà dei soldati”, in tedesco.
17 Andrej Vlasov (1900-1946), generale sovietico che, caduto prigioniero dei tedeschi durante la Seconda
guerra mondiale, organizzò in funzione anticomunista il cosiddetto Esercito russo di Liberazione. Alla fine
della guerra, lui e i suoi uomini furono catturati, riportati a Mosca, processati per alto tradimento e
giustiziati.
18 Autore di un celebre dizionario della lingua russa viva pubblicato in sette volumi nella seconda metà
dell’Ottocento.
19 Nikolaj Jakovlevič Marr, linguista padre della controversa teoria iafetica sull’origine della lingua.
Secondo lui, la parola russa reč’, “discorso”, derivava da ruka, “mano”.
20 Johann Wolfgang Goethe, Faust, cura di Franco Fortini, Milano, Oscar Mondadori, 1994, vol. I, p. 23.
21 Ivi, p. 83.
9
IL QUINTO ANNO DI RECLUSIONE

Si erano lasciati trascinare al punto da non sentire più i suoni del laboratorio e
la fastidiosa radio nell’angolo opposto. Sulla sua sedia girevole Neržin dava di
nuovo la schiena al laboratorio, Rubin era piegato su un fianco, con la barba
posata sulle braccia incrociate sopra lo schienale della poltrona.
Neržin parlava come quando si confidano pensieri sui quali si è meditato a
lungo.
– Prima, da libero, quando leggevo nei libri l’opinione dei sapienti sul senso
della vita o su cosa fosse la felicità, capivo poco quei brani. Mi fidavo: pensare è
compito dei sapienti. Ma il senso della vita? Viviamo, è questo il senso. La
felicità? Stare davvero bene, è questa la felicità, è risaputo... Sia benedetta la
prigione!!! Mi ha dato il tempo di riflettere. Per capire la natura della felicità,
proviamo prima a comprendere la natura della sazietà. Pensa alla Lubjanka o al
controspionaggio. Pensa a quella poltiglia d’orzo o d’avena poco sostanziosa,
fatta a metà di acqua, senza nemmeno una stellina di grasso! La mangi davvero?
Ti ci nutri sul serio? Ci fai la comunione! Ti ci avvicini con sacra trepidazione,
come al prāna degli yoghin! La mangi lentamente, la mangi con la punta del
cucchiaio di legno, la mangi, immedesimandoti nel processo del mangiare, nel
pensiero del cibo, e come nettare ti scivola nel corpo, fremi per la sua dolcezza
che si rivela in quei chicchi lessati e nel torbido umido che li tiene insieme.
Così, tutto sommato, nutrendoti di niente, vivi sei mesi, poi dodici! È forse
come il rozzo divorare di una braciola?
Rubin non sapeva e non amava ascoltare a lungo. Concepiva ogni
conversazione (e il più delle volte accadeva così) come un modo per
condividere con gli amici il bottino spirituale procurato dalla sua ricettività.
Adesso moriva dalla voglia di interrompere Neržin, ma questi lo aveva
afferrato per la tuta all’altezza del petto con tutte e cinque le dita, lo scuoteva e
non lo lasciava parlare.
– Dunque è sulla nostra povera pellaccia e su quella dei nostri infelici
compagni che abbiamo scoperto la natura della sazietà. La sazietà non dipende
affatto da quanto mangiamo, ma da come mangiamo! Lo stesso vale anche per
la felicità: la felicità, Lëvuška, non dipende affatto dalla quantità di beni
esteriori che abbiamo ottenuto nella vita. Dipende solo dal rapporto che
abbiamo con lei! L’etica taoista dice: ‘Chi sa accontentarsi sarà sempre
contento.’
Rubin ridacchiò:
– Sei eclettico. Strappi una piuma colorata qua e una là e te le infili nella
coda.
Neržin scosse la testa e la mano bruscamente. I capelli gli si arruffarono
sulla fronte. Questa discussione si stava rivelando davvero interessante e lui era
di nuovo un ragazzo di diciotto anni.
– Non ti confondere, Lëvka, non è affatto così! Non traggo conclusioni dalle
filosofie di cui ho letto ma dalle biografie che le persone mi raccontano in
prigione. Quando poi sento il bisogno di formulare conclusioni mie, perché
dovrei scoprire l’America un’altra volta? Sul pianeta della filosofia tutti i
territori sono stati scoperti da tempo! Sfoglio le pagine degli antichi sapienti e
ci trovo già i miei concetti più nuovi. Non mi interrompere! Volevo farti un
esempio: nel campo, e a maggior ragione qui alla šaraška, se avviene un
miracolo – una tranquilla domenica senza lavoro, ecco che l’anima sembra
trovare un po’ di calore e si eleva, e pure se nulla è migliorato nella mia
condizione esteriore, non avverto l’oppressione del giogo del carcere, capita
una conversazione fatta con il cuore o leggi una pagina sincera – e io mi sento
sulla cresta dell’onda! Non ho una vera vita da molti anni ma me lo sono
dimenticato! Non ho un peso, sono sospeso, sono immateriale!!! Sto lì sdraiato
sulla panca superiore, nella mia cella, fisso il vicino soffitto, nudo, intonacato
male, e mi colpisce l’assoluta felicità dell’esistenza! Mi addormento sulle ali
della beatitudine! Non c’è presidente né primo ministro che potrebbe
addormentarsi così contento della domenica appena trascorsa!
Rubin gli rivolse un ghigno bonario. Quel ghigno esprimeva in parte
assenso, in parte indulgenza verso un amico più giovane che aveva perso la
retta via.
– E cosa dicono in proposito i grandi libri dei Veda? – domandò,
protendendo le labbra in una trombetta scherzosa.
– I libri dei Veda, non lo so, – parò il colpo Neržin con convinzione – ma i
libri del Sāmkhya dicono questo: ‘Coloro che sanno discernere associano la
felicità umana alla sofferenza.’
– Te la sei imparata proprio bene – brontolò Rubin nella barba.
– Idealismo? Metafisica? Esiste qualcosa su cui non appiccichi delle
etichette?
– Ti ha traviato Mitjaj?
– No, Mitjaj va in tutt’altra direzione. Barba arruffata, ascoltami! La felicità
per le continue vittorie, per la trionfale realizzazione dei propri desideri e
perché si è totalmente sazi è sofferenza! È la morte spirituale, è una sorta di
reflusso morale continuo! Non i filosofi dei Veda o il Sāmkhya, ma io, io in
persona, Gleb Neržin, detenuto al quinto anno di reclusione, sono giunto al
livello di sviluppo in cui si comincia a considerare il male anche come bene; mi
sono convinto che le persone non sanno a cosa aspirare. Puntano al vuoto
raggiungimento di una manciata di beni materiali e muoiono senza scoprire la
propria ricchezza d’animo. Quando Lev Tolstoj sognava di essere rinchiuso in
prigione, ragionava come un uomo vero, lungimirante, con una vita spirituale
perfetta.
Rubin scoppiò in una risata fragorosa. Nelle discussioni rideva in quel modo
tutte le volte che voleva respingere completamente le idee di un avversario (e
proprio così gli succedeva anche in prigione).
– Ascolta, figliolo! A influenzarti è l’immaturità di una giovane coscienza.
Preferisci la tua esperienza personale a quella collettiva dell’umanità. Sei
intossicato dagli umori del bugliolo della prigione e attraverso quelle esalazioni
vuoi vedere il mondo. Per aver vissuto un disastro, per aver avuto un destino
personale sciagurato, può forse un uomo cambiare, deviare dalle proprie
convinzioni anche solo di poco?
– Mentre tu, sei fiero della tua fermezza?
– Sì! Hier stehe ich und kann nicht anders22.
– Che testone! Questa è metafisica! Invece di imparare, di crearti una nuova
vita qui in prigione...
– Quale vita? La bile velenosa dei falliti?
– ...tu di proposito hai chiuso gli occhi, ti sei tappato le orecchie e hai
assunto una bella posa. Dài prova così della tua intelligenza? Rifiutare lo
sviluppo è una cosa intelligente? Ti sforzi di avere fede nel trionfo del vostro
maledetto comunismo, ma la fede non ce l’hai!
– Non si tratta di fede, ma di sapere scientifico, zuccone! E di imparzialità.
– Tu?! Tu saresti imparziale?
– Certamente! – pronunciò Rubin, con dignità.
– Mai conosciuto in vita mia uomo più parziale di te!
– Sollevati dal tuo ‘monte di vista’23! Dài uno sguardo allo spaccato storico!
Le-git-ti-mi-tà! La conosci questa parola? Una legittimità inevitabilmente
condizionata! Tutto va come deve andare! Il materialismo storico non poteva
smettere di essere verità per il solo fatto che noi due siamo in prigione. E non
c’è niente in cui frugare con il naso, tirare fuori uno scetticismo putrefatto!
– Lev, vedi di capirmi! Non mi sono separato con gioia da questa teoria, ma
con il dolore nel cuore. È stata suono e passione della mia giovinezza, per lei
avevo dimenticato e mandato alla malora tutto il resto! Ora sono come un
picciolo, cresco in una buca dove una bomba ha sradicato l’albero della fede.
Ma da allora, da quando nelle liti in prigione continuavano a picchiarmi...
– Perché non ci arrivavi, scemo!
– ...ho dovuto rigettare per onestà le vostre fragili costruzioni. E cercarne
altre. Ma non è facile. Il mio scetticismo, in fondo, è come una baracca lungo il
tragitto, in cui proteggermi dal maltempo.
– Ah, quante chiacchiere! Scetticismo! Pensi davvero di poterti trasformare
in uno scettico come si deve? Per uno scettico è d’obbligo la sospensione del
giudizio, tu invece sputi sentenze su tutto. Per uno scettico è d’obbligo
l’atarassia, l’imperturbabilità spirituale, tu invece ti scaldi per un nonnulla!
– Sì! Hai ragione! – Gleb si prese la testa fra le mani. – Sogno di essere
calmo, coltivo in me... il proposito di mantenere un certo distacco, ma poi mi
faccio prendere dal vortice delle circostanze e turbino, digrigno i denti e mi
indigno...
– Un certo distacco... Però saresti pronto ad afferrarmi per la gola perché a
Džezkazgan manca l’acqua potabile!
– Dovrebbero mandarti laggiù, vigliacco! Sei l’unico fra tutti noi che
consideri necessari i metodi dell’MGB...
– Sì! Senza un sistema penitenziario duro lo Stato non potrebbe esistere...
– ...Dovrebbero proprio mandarti a Džezkazgan! Chissà se laggiù
continueresti con questa tiritera!
– Idiota patentato! Avrai pur letto che di scetticismo hanno parlato grandi
uomini. Per esempio, Lenin!
– Ah, sì? E cosa avrebbe detto Lenin?
– Lenin diceva: ‘Tra i paladini del vaniloquio liberale russo lo scetticismo è
una forma di transizione dalla democrazia al lurido e servile liberalismo.’
– Come come come? Sei certo di non aver travisato?
– È scritto così. Sta nell’articolo In memoria di Herzen e riguarda...
Neržin, affranto, si prese la testa fra le mani.
– Eh? – addolcì il tono Rubin. – Hai capito?
– Sì. – Neržin cominciò a dondolare con il busto. – Era meglio se non lo
dicevi. E pensare che un tempo lo adoravo...
– Perché?
– Perché?? È questa la lingua del grande filosofo? Quando non hanno
argomenti sproloquiano così. ‘Paladini del vaniloquio’ è una cosa orribile da
dire. Il liberalismo è l’amore per la libertà, così diventa lurido e servile. Mentre
applaudire a comando è un balzo nel regno della libertà, vero?
Nel fervore della discussione i due amici erano stati poco prudenti e le loro
esclamazioni erano giunte fino a Simočka, che da un po’ fissava Neržin con
severa disapprovazione. Era offesa all’idea che il suo turno stesse finendo senza
che lui nemmeno accennasse in qualche modo di voler sfruttare quella serata
favorevole, e non si fosse degnato di voltarsi dalla sua parte.
– No, tu hai un cervello troppo contorto – si rassegnò Rubin. – Su, spiegati
meglio.
– Per esempio, avrebbe un qualche senso dire che lo scetticismo è un modo
per soffocare il fanatismo. Lo scetticismo è un modo per liberare le menti
dogmatiche.
– E qui chi sarebbe il dogmatico? Io, giusto? Sarei io il dogmatico? – I
grandi occhi di Rubin lo fissavano con rimprovero. – Io, un detenuto della leva
del ’45. Quattro anni al fronte, che mi stanno in un fianco come una scheggia, e
cinque di prigione sulla schiena. So vedere le cose quanto te. E se mi
convincessi che è tutto marcio fino in fondo, sarei il primo a dire che
bisognerebbe pubblicare un’altra ‘Kolokol’24! E quella campana andrebbe
suonata a martello! Per mandare tutto all’aria! Non mi nasconderei sotto il
cespuglio di chi sospende il giudizio! Non mi coprirei con la foglia di fico dello
scetticismo... Ma io so che il marcio è in superficie, solo all’esterno, mentre la
radice è sana, il fusto è sano, e quindi vanno salvati, non estirpati.
Sulla scrivania vuota dell’ingegner maggiore Rojtman, il capo dell’Acustico,
suonò il telefono interno. Simočka si alzò e andò a rispondere.
– Mettitelo in testa, devi capire la ferrea legge del nostro secolo: ci sono due
mondi, due sistemi! Non ce n’è un terzo! Non può esistere nessun’altra ‘Kolokol’:
non si può lasciare che il vento ne diffonda il suono! Inammissibile! È
obbligatorio scegliere: con quale delle due forze mondiali stai?
– Ma smettila! Ragionare così va a vantaggio del Capobanda25! Con questa
storia dei ‘due mondi’ ha schiacciato tutti.
– Gleb Vikent’ič!
– Senti un po’ – ora Rubin aveva afferrato con foga Neržin per la tuta. – Lui
è un grandissimo uomo!
– Che sciocco! Sei un pecorone!
– Prima o poi lo capirai che Lui è al contempo il Robespierre e il Napoleone
della nostra Rivoluzione? È saggio! Lo è per davvero! Vede lontano, fin dove il
nostro sguardo limitato non può arrivare...
– E intanto ci considera degli stupidi! E ci rifila la sua solita minestra...
– Gleb Vikent’ič!
– Che c’è? – rispose Neržin, staccandosi da Rubin.
– Non ha sentito? Hanno telefonato! – gli si rivolse Simočka per la terza
volta, in tono molto severo, le sopracciglia aggrottate. Se ne stava in piedi
davanti alla scrivania, con le braccia incrociate, stretta nello scialle marrone di
lanugine di capra. – Anton Nikolaevič la vuole nel suo ufficio.
– Ah sì? – l’impeto della discussione sparì subito dal volto di Neržin, le
rughe scomparse tornarono al proprio posto. – Va bene, grazie, Serafima
Vital’evna. Hai sentito, Lëvka, è Anton. Cosa vorrà?
Una chiamata nell’ufficio del direttore dell’istituto alle dieci della sera di
sabato era un avvenimento fuori dell’ordinario. Sebbene Simočka si sforzasse
di mostrarsi indifferente e fredda, dal suo sguardo Neržin l’aveva capito: era
preoccupata.
L’acceso scambio di vedute fu immediatamente dimenticato. Rubin guardava
l’amico con premura. Quando non erano alterati dalla passione della disputa, i
suoi occhi apparivano di una mitezza quasi femminile.
– Non mi piace quando i capi si interessano a noi – disse.
– E poi perché? – si strinse nelle spalle Neržin. – Il nostro è un lavoruccio
insignificante, figuriamoci, solo delle voci...
– Anton vorrà farci una bella lavata di testa. Finiremo nei guai per i ricordi
di Stanislavskij26 e i discorsi di avvocati famosi – si mise a ridere Rubin. – E se
fosse per le articolazioni del Sette?
– Hanno già messo la firma ai risultati, non c’è nessuna possibilità di tirarsi
indietro. In ogni caso, se non dovessi tornare...
– Non dire idiozie!
– In che senso idiozie? Con la vita che facciamo? Brucia quelle cose, sai dove
sono. – Gleb tirò giù la serrandina della scrivania, mise con calma le chiavi in
mano a Rubin e si incamminò con l’andatura tranquilla di un carcerato al
quinto anno di detenzione, che non va mai di fretta da nessuna parte, perché
dal futuro si attende sempre il peggio.

22 Celebre frase di Lutero: “Qui sto e non posso fare altrimenti.”


23 In un articolo del 1933 intitolato O kočke i o točke (Sul monte e sul punto), Maksim Gor’kij spiega ai
giovani scrittori la differenza fra točka zrenija (punto di vista) e kočka zrenija (monte di vista) per evitare che
descrivessero le cose guardando “dall’alto”, come da una montagna, dove tutto appare lontano e sfocato.
24 “Kolokol” (La campana), rivista politica dell’emigrazione russa, fondata a Londra nel 1857 da A.I.
Herzen.
25 Stalin.
26 Registrati alle prove del Tartuffe di Molière nel 1938.
10
I ROSACROCIANI

Con quell’andatura noncurante, all’ombra delle lampade a parete di rame e


sotto l’alto soffitto di stucchi, Neržin percorse la passatoia rossa dell’ampia
scala, deserta a quell’ora tarda, salì al secondo piano e, superata la scrivania del
sorvegliante di turno libero addetto ai telefoni cittadini, bussò alla porta del
capo dell’istituto, l’ingegner colonnello della Sicurezza di Stato Anton
Nikolaevič Jakonov.
L’ufficio era spazioso, profondo, coperto di tappeti, arredato con poltrone,
divani; nel mezzo spiccava l’azzurro della tovaglia che copriva il lungo tavolo
delle riunioni e nell’angolo in fondo il marrone delle forme tondeggianti della
scrivania e della poltrona di Jakonov. Neržin era capitato in quella
magnificenza solo poche volte, e la maggior parte più per una riunione che da
solo.
L’ingegner colonnello Jakonov, sui cinquant’anni ma nel pieno del vigore,
un’altezza considerevole, sul viso ancora tracce di talco dopo la rasatura, il
pince-nez d’oro, la morbida corpulenza di un Obolenskij o di un Dolgorukov e
i movimenti solenni e sicuri, si distingueva fra tutti gli alti funzionari del suo
ministero.
Con un ampio gesto invitò Neržin:
– Si accomodi, Gleb Vikent’ič! – disse, seduto con un’aria un po’ cupa sulla
poltrona da un posto e mezzo, e intanto giocherellava con una grossa matita
colorata sulla superficie marrone della scrivania.
Chiamare Neržin per nome e patronimico era segno di cortesia e di
benevolenza, che tuttavia non gli costava alcuna fatica, avendo sotto il vetro
della scrivania l’elenco di tutti i detenuti (chi non era a conoscenza di questa
circostanza si stupiva della memoria di Jakonov). Neržin si inchinò in silenzio,
senza tenere le braccia immobili lungo i fianchi, ma nemmeno agitandole
troppo, e si sedette in attesa accanto a un elegante tavolinetto laccato.
La voce di Jakonov risuonava senza sforzo. Sembrava sempre strano che un
gran signore come lui non avesse il vezzo ricercato di una “erre” alla francese.
– Sa, Gleb Vikent’evič, mezz’ora fa, per un’associazione di idee, mi sono
ricordato di lei e ho pensato: qual buon vento, in sostanza, lo avrà portato
all’Acustico fino a... Rojtman?
Jakonov aveva pronunciato quel cognome con palese noncuranza, persino
senza aggiungervi – in presenza di un sottoposto di Rojtman! – il grado di
maggiore. I cattivi rapporti fra il capo dell’istituto e il suo primo vice si erano
spinti talmente in là che non c’era bisogno di tenerli nascosti.
Neržin si irrigidì. La conversazione, intuì, era cominciata male. Con la stessa
ironia sprezzante sulla grossa bocca dalle labbra né sottili né carnose, qualche
giorno prima Jakonov aveva detto a Neržin che lui, Neržin, magari era pure
obiettivo riguardo ai risultati delle articolazioni, tuttavia trattava il Sette non
come un caro estinto, bensì come il cadavere sconosciuto di un ubriacone
trovato sotto il muro di cinta di Marfino. Il Sette era il cavallo su cui aveva
puntato Jakonov, ma stava andando male.
– Io, ovviamente, apprezzo molto i suoi meriti nella scienza delle
articolazioni...
(Prende in giro!)
– ...è davvero un peccato che la sua monografia così originale sia stata
pubblicata in tiratura limitata e in segreto, privandola della fama di un George
Fletcher russo...
(E lo fa in modo sfacciato!)
– ...tuttavia, vorrei ricavare dalla sua attività un maggiore... profit, come
dicono gli anglosassoni. Adoro le scienze astratte, ma sono un uomo concreto.
L’ingegner colonnello Jakonov si trovava in una posizione già piuttosto
elevata, ma non ancora così vicina al Capo dei Popoli, per potersi permettere il
lusso di non nascondere la propria intelligenza e non sospendere i giudizi
originali.
– Comunque, voglio rivolgerle una domanda esplicita... che fa lei adesso
all’Acustico?
Impossibile escogitarne una più implacabile! Jakonov non aveva tempo di
stare dietro a tutto e con quella domanda poteva capire molto.
– Cosa diavolo la spinge a occuparsi di quel lavoro da pappagalli... styr, smyr?
Lei, un matematico? Cos’ha studiato all’università? Guardi alle sue spalle.
Neržin si girò e rimase sorpreso: nell’ufficio non erano in due ma in tre! Un
uomo modesto, in borghese, vestito di nero si alzò dal divano per andargli
incontro. Agli occhi gli scintillavano due occhiali rotondi, lucenti. Alla
generosa luce che cadeva dall’alto, Neržin riconobbe Pëtr Trofimovič Verenëv,
docente presso la sua università prima della guerra. Tuttavia, per un’abitudine
acquisita in prigione, rimase in silenzio, senza fare il minimo movimento,
pensando di trovarsi di fronte a un detenuto come lui che avrebbe potuto
danneggiare con un riconoscimento affrettato. Verenëv sorrise, ma sembrò
anche lui confondersi. Con voce rassicurante, Jakonov pronunciò:
– La setta dei matematici ha un rituale di riservatezza davvero invidiabile.
Per tutta la vita ho visto i matematici come una sorta di rosacrociani, e mi è
sempre dispiaciuto non essere venuto a capo dei loro segreti. Non siate in
imbarazzo. Datevi una bella stretta di mano e mettetevi tranquilli senza fare
tante cerimonie. Vi lascerò soli mezz’ora, così potrete rievocare qualche caro
ricordo e il professor Verenëv potrà informarla dei compiti che la Sesta
Direzione ci ha assegnato.
E Jakonov sollevò dall’ampia poltrona il pesante e imponente corpo
insignito da spalline azzurro-argentate e lo condusse senza fatica fino all’uscita.
Quando Verenëv e Neržin si concessero una stretta di mano, erano ormai soli.
Al detenuto Neržin quell’uomo pallido con gli occhiali lucenti sembrò uno
spettro riapparso abusivamente da un mondo dimenticato. Tra quel mondo e
l’attuale c’erano stati i boschi lungo il lago di Il’men’, le colline e i fossati della
provincia di Orël, le sabbie e le paludi della Bielorussia, le sazie folwarki – le
fattorie polacche, le tegole delle cittadine tedesche. In quel periodo di
alienazione novennale si erano inseriti le celle e i “box” terribilmente nudi della
Bol’šaja Lubjanka. Le prigioni di transito grigie e maleodoranti. Gli asfissianti
vagoni per il trasporto detenuti. Il vento tagliente della steppa che sferzava gli
zek affamati e infreddoliti. Dopo tutto questo, era impossibile rinnovare dentro
di sé le sensazioni che provava nel trascrivere le lettere di una funzione di
variabile reale sul cedevole linoleum di una lavagna.
Si accesero entrambi una sigaretta, Neržin era agitato; si accomodarono
separati dal tavolinetto.
Non era la prima volta che Verenëv incontrava uno dei suoi ex studenti,
dell’università di Mosca o di quella di Rostov, dove era stato inviato prima della
guerra perché adottasse la linea dura in una disputa fra scuole teoriche. Ma
anche per lui c’era qualcosa di inusuale nell’incontro di quel giorno:
l’isolamento di quell’impianto nei pressi di Mosca ammantato da un velo di
tripla segretezza e protetto da diversi strati di filo spinato; la strana tuta blu al
posto del solito abbigliamento civile.
Con chissà quale diritto, accentuando duramente le rughe intorno alle
labbra, il più giovane dei due, il perdente, faceva le domande e il più anziano
rispondeva, timidamente, come se si vergognasse della propria semplice
biografia di studioso: evacuazione, rievacuazione, tre anni di lavoro da K..., tesi
di dottorato in topologia... Distratto fino alla scortesia, Neržin non gli
domandò neppure l’argomento della tesi in quella scienza arida che un tempo
lui stesso aveva scelto per un progetto annuale. D’un tratto gli dispiacque per
Verenëv... Insiemi ordinati, insiemi parzialmente ordinati, insiemi chiusi... La
topologia! Stratosfera del pensiero umano! Nel XXIV secolo, forse, sarebbe
servita a qualcuno, ma adesso... Adesso...
Non so dir nulla di soli e di mondi;
vedo soltanto come gli uomini si affannano...27

Com’era capitato in quel dicastero? Perché aveva lasciato l’università? Ah, lo


avevano destinato lì... E non poteva rifiutarsi? Be’, avrebbe anche potuto, ma...
là gli stipendi erano il doppio... Aveva dei figli? Quattro...
Senza un vero motivo iniziarono a rammentare gli studenti dello stesso
anno di Neržin, l’ultimo esame lo avevano dato il giorno in cui era iniziata la
guerra. I migliori erano stati feriti, oppure erano morti. Sono sempre loro a
gettarsi in avanti, a non risparmiarsi. Quelli da cui non ci si aspettava granché,
invece, o stavano finendo il dottorato di ricerca o erano diventati assistenti. Be’,
e il nostro orgoglio, Dmitrij Dmitrevič!? Gorjainov-Šachovskoj!?
Gorjainov-Šachovskoj! Era un vecchietto ormai trasandato per avanzata
vetustà, o si imbrattava con il gesso la giacca di velluto nero, o si infilava in
tasca, al posto del fazzoletto, lo straccetto della lavagna. Barzelletta vivente in
numerosi aneddoti “sui professori”, anima dell’università imperiale di Varsavia,
nel 1915 era passato, come se andasse al patibolo, nella commerciale Rostov.
Mezzo secolo di lavoro scientifico, un vassoio di telegrammi di congratulazioni
da Milwaukee, Capetown, Yokohama. E negli anni Trenta, quando avevano
trasformato l’università in “Istituto industriale pedagogico” era stato epurato
dalla commissione proletaria come elemento borghese ostile. Se non fosse stato
per l’amicizia personale con Kalinin, non si sarebbe salvato: si diceva che il
padre del professore avesse avuto un tempo il padre di Kalinin come servo
della gleba. Vero o non vero che fosse, Gorjainov si recò a Mosca e tornò con
una disposizione: lui non si tocca!
E non lo toccarono. Non lo toccarono al punto che gli altri cominciarono
ad avere terrore di lui. Ora scriveva uno studio con la prova matematica
dell’esistenza di Dio, ora durante una lezione pubblica sul suo mito Newton
sotto i baffi gialli tuonava:
– Ho ricevuto questo biglietto: ‘Marx ha scritto che Newton era un
materialista e lei dice che è un idealista.’ Ecco la mia risposta: Marx si è
sbagliato. Come ogni eminente scienziato, Newton credeva in Dio.
Trascrivere le sue lezioni era terribile! Le stenografiste erano disperate! Per
via delle gambe deboli, si sedeva proprio accanto alla lavagna, il viso girato
verso di essa e le spalle all’aula, con la mano destra scriveva mentre con la
sinistra subito cancellava; e per tutto il tempo non faceva altro che borbottare
qualcosa tra sé. Assolutamente impossibile capire le sue idee durante la lezione.
Ma quando Neržin e un compagno riuscivano a trascrivere in due, dividendosi
il lavoro, e la sera lo decifravano, l’anima era folgorata come davanti allo
scintillio di un cielo stellato.
E dunque, che fine aveva fatto?... Il vecchio era stato ferito durante un
bombardamento della città, lo avevano portato in Kirgizija mezzo morto. Che
cosa fosse successo durante la guerra ai suoi figli, entrambi docenti, Verenëv
non lo sapeva, ma doveva essere avvenuto qualcosa di losco, un tradimento. Il
più giovane, Stivka, a quanto dicevano, ora faceva lo scaricatore al porto di
New York.
Neržin guardò attentamente Verenëv. Menti erudite che vi lanciate negli
spazi pluridimensionali, perché osservate la vita da angusti corridoi? Un
pensatore sbeffeggiato da porci e cani era una piccola pecca, una deviazione
temporanea. I figli che non perdonavano l’umiliazione di un padre, un losco
tradimento. Chi poteva saperlo se era diventato davvero uno scaricatore di
porto! Erano gli oper a formare l’opinione pubblica...
Ma per cosa... stava in prigione Neržin?
Gleb scoppiò a ridere.
No, davvero, per cosa?
– Per le mie idee, Pëtr Trofimovič. In Giappone esiste una legge che
permette di processare una persona per delle idee inespresse.
– In Giappone! Ma da noi una legge così non c’è, eh?
– Da noi c’è eccome, si chiama Cinquantotto-dieci.
E Neržin si trovò ad ascoltare distrattamente la questione principale, il
motivo per cui Jakonov aveva fatto rincontrare lui e Verenëv. La Sesta
Direzione aveva mandato lì Verenëv ad approfondire e sistematizzare il lavoro
crittografico e di codificazione. Servivano matematici, molti matematici, ed era
contento di vedere tra loro un suo studente, sul quale un tempo si nutrivano
così grandi speranze.
Neržin, attento solo in parte, faceva domande volte a precisare;
accendendosi via via di fervore matematico Pëtr Trofimovič cominciò a
spiegargli il loro compito, a raccontare quali prove avrebbero dovuto eseguire,
quali formule riesaminare. Ma Neržin pensava a quei foglietti che poteva
riempire fitti fitti tanto pacatamente, protetto da oggetti di facciata, sotto lo
sguardo furtivo e amorevole di Simočka e con il bonario borbottio di Lev. Quei
foglietti erano la sua prima maturità a trent’anni.
Naturalmente sarebbe stato preferibile raggiungere la maturità nella propria
materia. A che scopo doveva infilare la testa in fauci dalle quali gli stessi storici
erano scappati a gambe levate per affrontare secoli molto meno pericolosi? Che
cosa lo spingeva a tentare di decifrare quel gigante opprimente ed esagerato cui
sarebbe bastato muovere un ciglio, e la testa di Neržin sarebbe volata via?
Come si suol dire: “di cosa hai bisogno tu più di tutti gli altri?” Più di tutti gli altri,
di cosa hai bisogno tu?
Concedersi dunque ai tentacoli da piovra della crittografia? Quattordici ore
al giorno, senza sosta, anche negli intervalli, la sua testa sarebbe stata occupata
dalla teoria delle probabilità, la teoria dei numeri, la teoria degli errori... Un
cervello morto. Un’anima inaridita. Quanto tempo gli sarebbe rimasto per
meditare? Quanto, per conoscere la vita?
In compenso, la šaraška. Non il campo di lavoro. Carne a pranzo. Burro la
mattina. La pelle delle mani che non si taglia, che non si riempie di solchi. Le
dita che non si congelano. Non cadi sul pancaccio esanime come un tronco
morto nei luridi lapti invernali: ti corichi con piacere in un letto, sotto un
lenzuolo bianco.
Per cosa vivere, allora, tutta la vita? Per sopravvivere? Per mantenere il
benessere del corpo?
Dolce benessere! Che senso hai, se a parte te non c’è nient’altro?
Tutti gli argomenti della ragione dicevano: Sì, sono d’accordo, cittadino
capo!
Tutti gli argomenti del cuore: Vade retro, Satana!
– Pëtr Trofimovič! Ma lei... è in grado di fare un paio di scarpe?
– Come, scusi?
– Dicevo: mi insegnerebbe come si fanno delle scarpe? Potrei averne
bisogno.
– Mi scusi ma non la capisco...
– Pëtr Trofimovič! Lei vive proprio dentro un guscio! Una volta scontata qui
la mia pena, mi manderanno nella taiga deserta, in esilio eterno. Non so fare
nulla con le mani: come riuscirò a sopravvivere? Laggiù ci sono gli orsi bruni.
Laggiù le funzioni di Eulero non serviranno a nessuno prima di tre ere
mesozoiche.
– Ma cosa sta dicendo, Neržin?! Se il suo lavoro come crittografo avrà
successo la libereranno prima dei termini, cancelleranno i suoi precedenti
penali, le assegneranno un appartamento a Mosca...
– Eh, Pëtr Trofimovič, le risponderò con il motto di un bravo ragazzo, mio
amico al campo: ‘Che gli porti un pesce o un gambero, avrai solo un grazie.’ Da
loro, non mi aspetto ringraziamenti, non chiederò scusa, e i pesci da me non li
avranno!
La porta si spalancò. Entrò l’imponente dignitario con il pince-nez d’oro sul
naso carnoso.
– Allora, come va, rosacrociani? Vi siete messi d’accordo?
Senza alzarsi, sostenendo con fermezza lo sguardo di Jakonov, Neržin
rispose:
– A sua disposizione, Anton Nikolaevič, ma io ritengo che il mio compito al
Laboratorio Acustico non sia ancora terminato.
Jakonov, già in piedi dietro la sua scrivania, si appoggiò al vetro con le
nocche dei pugni grassocci. Solo chi lo conosceva bene avrebbe potuto
percepire ira nelle sue parole:
– Matematica! E articolazione... ha rinunciato al nettare degli dèi per un
piatto di lenticchie. Vada pure.
E con la punta a due colori della grossa matita tracciò sul blocco da tavolo:
“Cancellare Neržin.”

27 Faust cit.
11
IL CASTELLO INCANTATO

Già da molti anni, nel corso della guerra e dopo, Jakonov occupava la sicura
carica di ingegnere capo della Sezione di Tecnica speciale dell’MGB. Portava con
dignità le spalline argentate dalla bordatura celeste, con le tre grosse stelle da
ingegnere colonnello che si era meritato grazie alle sue competenze. La carica
che ricopriva era tale da permettergli di svolgere le sue funzioni direttive da
lontano e in termini generali, a volte di presentare una relazione erudita a un
auditorio di funzionari di alto grado, altre volte di parlare in modo intelligente
e forbito con un ingegnere riguardo a un modello già pronto, insomma farsi
passare per un intenditore senza dover rispondere di nulla e percependo
diverse migliaia di rubli al mese. La carica che ricopriva era tale per cui Jakonov
illuminava con la propria eloquenza la nascita di tutte le imprese tecniche della
Sezione; vi si sottraeva nei periodi di difficile maturazione e crisi di crescita e
onorava di nuovo con la propria presenza sia le vasche incavate delle loro bare
nere che l’incoronazione dorata degli eroi.
Anton Nikolaevič non era così giovane e presuntuoso da aspirare
all’illusorio luccichio di una Stella d’Oro o al distintivo del premio Stalin, da
afferrare con le proprie mani ogni obiettivo del ministero o del Padrone stesso.
Anton Nikolaevič era già abbastanza esperto e avanti con gli anni da rifuggire i
voli e le cadute, queste emozioni così strettamente legate.
Attenendosi a simili regole, aveva vissuto senza problemi fino al gennaio del
1948. In quel gennaio qualcuno aveva suggerito al Padre dei popoli d’Oriente e
d’Occidente l’idea di creare uno speciale sistema di telefonia segreta, tale da
non permettere a nessuno di capire le sue conversazioni telefoniche, persino
nel caso che fossero intercettate. Un sistema che gli permettesse di parlare dalla
sua dacia di Kuncevo con Molotov a New York. Puntando l’augusto dito con
una macchia gialla di nicotina accanto all’unghia, il Generalissimo aveva scelto
sulla carta l’impianto di Marfino, sino ad allora occupato a creare trasmettitori
radio portatili per la polizia. Le storiche parole, pronunciate con il solito
accento georgiano, a tal proposito erano state:
– Che me ne faccio io di questi trasmettitori? Ci pesco qualche ladro
d’appartamento?
E aveva fissato una scadenza: 1° gennaio 1949. Poi ci aveva ripensato e aveva
aggiunto:
– D’accordo, il Primo Maggio.
Il compito era impegnativo ed eccezionale, dato il poco tempo a
disposizione. Nel ministero ci avevano riflettuto, poi avevano dato a Jakonov
l’incarico di cavarsela lui a Marfino. Inutile ogni sforzo di dimostrare quanto
fosse occupato, di non poter sovrapporre gli incarichi. Foma Gur’janovič
Oskolupov, il capo della Sezione, lo aveva fissato con i suoi verdognoli occhi
da gatto: Jakonov si era ricordato del proprio questionario personale non più
immacolato (era finito in prigione per sei anni) e aveva taciuto.
Da allora erano trascorsi quasi due anni, e l’ufficio dell’ingegnere capo della
Sezione nella sede del ministero rimaneva spesso vuoto. L’ingegnere capo
passava giorni e notti fuori città, nell’edificio dell’ex seminario coronato da una
torre esagonale sopra la cupola di un altare soppresso.
All’inizio dirigerlo era stato per lui persino gradevole: chiudere stancamente
la portiera della sua “Pobeda” personale, raggiungere Marfino
semiaddormentato; oltrepassare il portone difeso dal filo spinato, e la guardia
che gli faceva il saluto; camminare con maggiori e capitani al seguito sotto i
tigli centenari del boschetto di Marfino. I superiori non pretendevano ancora
niente da Jakonov: solo progetti, progetti, progetti e obblighi socialisti. Come
contropartita sull’istituto si era rovesciato il corno dell’abbondanza dell’MGB:
apparecchiature inglesi e americane acquistate; quelle tedesche sottratte al
nemico; zek nostrani fatti venire dai campi di lavoro; una biblioteca tecnica con
ventimila volumi nuovi; i migliori oper e archivisti, grandi esperti di attività
segreta; infine, guardie dell’alta scuola della Lubjanka. Avevano dovuto
ristrutturare il vecchio edificio del seminario, costruire nuovi fabbricati – per la
direzione della prigione speciale, per i laboratori sperimentali – e, durante il
periodo della fioritura gialla dei tigli, quando addolcivano l’aria con il loro
profumo, all’ombra di quei giganti, si sentivano i discorsi tristi degli indolenti
prigionieri di guerra tedeschi nelle malconce giacche militari color lucertola.
Quei pigri fascisti al quarto anno di prigionia postbellica non avevano proprio
voglia di lavorare. Per un russo era insopportabile vedere in che modo
scaricavano i mattoni dai camion: si passavano ogni mattoncino di mano in
mano, lentamente, con cautela, quasi fosse di cristallo, fino a posarlo e
formarne una pila. Mentre installavano i termosifoni sotto le finestre e
rifacevano i pavimenti marci, i tedeschi si aggiravano per quelle stanze
ultrasegrete e leggevano di sottecchi le scritte sulle apparecchiature ora nella
loro lingua ora in inglese: anche uno scolaretto tedesco avrebbe potuto
indovinare a cosa erano destinati quei laboratori! Il detenuto Rubin lo aveva
denunciato in un rapporto per l’ingegner colonnello, ed erano tutte cose
giustissime, ma per gli oper Šikin e Myšin (nel gergo dei carcerati Šiškin-
Myškin)28 si trattava di un rapporto assai scomodo; come dovevano agire a
quel punto? Il loro errore andava segnalato più in alto? Nel frattempo però
l’attimo era fuggito, i prigionieri di guerra erano già stati rispediti in patria e
chi era andato nella Germania Ovest avrebbe potuto riferire la posizione
dell’intero istituto e dei singoli laboratori, sempre che a qualcuno interessasse.
E quando gli ufficiali di altre direzioni dell’MGB cercavano l’ingegner
colonnello per faccende di servizio, lui non aveva il diritto di indicare
l’indirizzo della sede e, nel rispetto di una segretezza mai scalfita, si recava a
parlare con loro alla Lubjanka.
Avevano lasciato andare i tedeschi e al loro posto, per ristrutturare e
costruire, avevano preso gli zek, uguali a quelli della šaraška, solo in abiti
sporchi e laceri, e non ricevevano pane bianco. Ora, per necessità e senza
alcuna necessità, sotto i tigli risuonavano le sane imprecazioni del campo, che
ricordavano agli zek della šaraška la loro solida patria e il loro ineluttabile
destino; i mattoni venivano strappati dal camion veloci come il vento, al punto
che di intatti quasi non ne rimanevano, finivano tutti spaccati a metà; al grido
“uno-due-su!” gli zek rovesciavano sul cassone del camion una calotta di legno
compensato e poi, per fare meglio la guardia ai mattoni, vi si infilavano sotto,
abbracciando allegramente le ragazze che li ingiuriavano, restavano chiusi lì e
venivano trasportati per le vie di Mosca fino al campo, dove trascorrevano la
notte.
Così, in quel castello magico che un’incantata zona di fuoco separava dalla
capitale e dai suoi abitanti poco informati, lemuri in giubbe nere da marinaio
creavano trasformazioni da fiaba: tubazioni, canalizzazione, riscaldamento
centrale e aiuole.
Intanto la struttura ben organizzata cresceva e si ampliava. Era entrato a far
parte a tutti gli effetti del complesso di Marfino anche un altro istituto di
ricerca, che conduceva un’attività simile. Quell’istituto era arrivato con tavoli,
sedie, armadi, cartelle-raccoglitori, una strumentazione che invecchiava non di
anno in anno ma di mese in mese e con il proprio capo, ingegnere maggiore
Rojtman, che era diventato il vice di Jakonov. Purtroppo il colonnello Jakov
Ivanovič Mamurin, capo delle Comunicazioni Particolari e Speciali dell’MVD,
uno dei più eminenti uomini dello Stato nonché fondatore dell’istituto appena
inglobato, suo ispiratore e protettore, era scomparso in circostanze tragiche
prima di tutto questo.
Una volta il Capo di tutta l’Umanità Progressista conversava con la
provincia cinese di Yunnan ed era rimasto scontento dei rumori e delle
interferenze nella cornetta. Aveva telefonato a Berija e gli aveva detto in
georgiano:
– Lavrentij! Chi è l’idiota a capo delle Comunicazioni? Levalo di mezzo.
Così avevano “levato di mezzo” Mamurin, cioè lo avevano portato alla
Lubjanka. Lo avevano tolto di mezzo, però non sapevano cosa farsene. Non
avevano ricevuto le solite direttive: per cosa processarlo e quanti anni dargli.
Fosse stato un estraneo gli avrebbero affibbiato un quartino e lo avrebbero
sbattuto a Norilsk. Ma conoscendo bene la sacrosanta verità dell’“oggi a te,
domani a me”, i dirigenti dell’MVD avevano prima trattenuto Mamurin e poi,
non appena convinti che Stalin si era dimenticato di lui, lo avevano mandato
senza istruttoria né durata della pena nella dacia fuori città.
Così, una sera d’estate del 1948, alla šaraška di Marfino era stato condotto un
nuovo zek. In quell’arrivo ogni cosa era fuori dell’ordinario: il fatto che non lo
avessero portato su un corvo, ma su un’automobile; che non fosse accompagnato
da un comune secondino ma dal capo della Sezione delle Prigioni dell’MGB; e
infine che gli avessero servito la sua prima cena coperta da un velo di garza
nell’ufficio del capo della prigione speciale.
Si era sentito (gli zek non sono autorizzati a sentire, eppure sentono sempre
tutto) che il nuovo arrivato diceva “non voglio il salame” (?!), e che il capo
della Sezione carceraria lo aveva esortato con un “mangi”. A origliare
attraverso un tramezzo era stato uno zek che si trovava dal medico a farsi dare
un rimedio. Esaminate le inaudite novità, la popolazione originaria della
šaraška era giunta alla conclusione che il nuovo arrivato fosse comunque un
detenuto e, soddisfatta, se n’era andata a dormire.
Dove il nuovo arrivato avesse trascorso la notte, gli storici della šaraška non
lo avevano accertato. Ma il mattino seguente, molto presto, nel grande atrio di
marmo (dove poi ai detenuti non fu più permesso accedere) uno zek rozzo, un
goffo meccanico, si era imbattuto faccia a faccia con il nuovo.
– Allora, fratello, – gli aveva dato una pacca sul petto – da dove vieni? Con
cosa ti sei bruciato? Siediti qui, fumiamo un po’.
Ma il nuovo arrivato si era scostato dal meccanico con orrore e ripugnanza.
Il viso limone pallido si era contorto in una smorfia. Il meccanico aveva fissato
gli occhi bianchi, i radi capelli chiari sul cranio spelacchiato e aveva detto
stizzito:
– Ehi, tu, rettile uscito da una boccia di vetro! Per la miseria, alla ritirata ti
chiuderanno insieme a noi e allora vedrai se parli!
Ma “il rettile uscito da una boccia di vetro” in prigione con gli altri non era
mai stato chiuso. Gli avevano trovato una stanzetta al secondo piano, nel
corridoio del laboratorio, l’ex camera oscura dei fotografi, vi avevano infilato
un letto, un tavolo, un armadio, un vaso di fiori, un fornello elettrico e avevano
strappato il cartone da una finestrella con le inferriate, che non affacciava
nemmeno alla luce del sole, ma su un pianerottolo della scala posteriore, quella
esposta a nord, tanto che la camera del detenuto privilegiato era scarsamente
illuminata anche di giorno. Naturalmente si sarebbe potuta togliere anche la
grata dalla finestra, ma i capi della prigione, dopo qualche titubanza, avevano
deciso di lasciarla. Neppure loro capivano bene quella storia misteriosa e non
riuscivano a stabilire una linea di condotta sicura.
Fu allora che il nuovo arrivato venne battezzato Maschera di Ferro. Per
lungo tempo nessuno aveva saputo il suo nome. Nessuno poteva neppure
parlarci: lo vedevano attraverso la finestra, mentre se ne stava seduto nella sua
cella a testa china, oppure vagava come un’ombra pallida sotto i tigli in ore in
cui ai normali zek non era consentito passeggiare. Maschera di Ferro era giallo
ed emaciato come solo il cadavere ambulante di uno zek dopo una bella
istruttoria di due anni poteva essere, e tuttavia, lo sconsiderato rifiuto del
salame contrastava con quella versione.
Parecchio tempo dopo, quando Maschera di Ferro aveva ormai cominciato a
lavorare al Sette, gli zek avevano scoperto dai liberi che si trattava proprio di
quel colonnello Mamurin che alla Sezione delle Comunicazioni speciali
dell’MVD ordinava di camminare per il corridoio solo in punta di piedi, senza
battere i tacchi, altrimenti furibondo attraversava di corsa la stanza della
segretaria, gridando:
– Vicino all’ufficio di chi pesti i piedi, insolente?? Come fai di cognome?
Parecchio tempo dopo si chiarì pure che la sofferenza di Mamurin era di
origine morale. Il mondo dei liberi lo aveva respinto, mentre a lui quello degli
zek ripugnava. Dapprincipio, in solitudine, aveva letto molti libri – La lotta per
la pace, Il cavaliere della Stella d’oro, I gloriosi figli della Russia, poi i versi di Prokof’ev,
di Gribačëv29, e in lui – uh! – era avvenuta una trasformazione miracolosa:
aveva cominciato a comporre versi! È noto che la disgrazia e i tormenti
dell’anima generano poeti, ma i tormenti di Mamurin erano più acuti di quelli
di qualsiasi altro detenuto. In prigione ormai da due anni senza istruttoria né
processo, viveva come prima in attesa delle ultime direttive del Partito e come
prima adorava il Saggio Capo. Così Mamurin aveva confessato a Rubin di non
soffrire né per la brodaglia della prigione (comunque per lui cucinavano a
parte) né per il distacco dalla famiglia (del resto, una volta al mese veniva
accompagnato di nascosto nel suo appartamento per trascorrervi la notte), e in
generale per nessun animalesco bisogno primario, ma per l’essere stato privato
della fiducia di Iosif Vissarionovič; era un dolore non sentirsi più un
colonnello, ma degradato e disonorato. Ecco perché per i comunisti come lui
sopportare la reclusione era immensamente più gravoso che per le canaglie
senza principi di quel luogo.
Rubin era comunista. Ma dopo aver ascoltato le confessioni di un presunto
compagno di idee e aver letto i suoi versi, ne aveva preso le distanze, aveva
cominciato a evitarlo, si nascondeva persino: passava tutto il suo tempo in
mezzo a persone che lo attaccavano ingiustamente ma con cui almeno
condivideva la medesima sorte.
In Mamurin invece pulsava un’aspirazione inquieta, come un dolore a un
dente: discolparsi davanti al partito e al governo. Purtroppo per lui però, tutta
la sua conoscenza nel campo delle comunicazioni, come ex capo delle
comunicazioni stesse, si esauriva nella capacità di tenere in mano una cornetta
del telefono. Per questo, in sostanza, di lavorare non era in grado: poteva solo
dirigere. Ma anche dirigere un’impresa ritenuta inutile da tutti non gli avrebbe
restituito le simpatie del Miglior Amico degli Addetti alle Comunicazioni.
Bisognava essere a capo di un’impresa considerata promettente.
In quel periodo all’istituto di Marfino erano venute fuori due imprese
promettenti: il Vocoder e il Sette.
Per qualche profondo impulso in grado di annullare tutti gli argomenti
logici, le persone si sentono affini o no a un primo sguardo. Jakonov e il suo
vice Rojtman non si erano trovati. Di mese in mese, erano diventati sempre più
insopportabili l’uno all’altro: attaccati da una mano più pesante allo stesso
carro, non potevano liberarsene, ma soltanto tirare in direzioni opposte.
Quando, dopo studi e prove parallele, aveva cominciato a prendere forma una
telefonia segreta, Rojtman aveva riunito tutti quelli che poteva all’Acustico per
il progetto di un sistema “vocoder”, in inglese voice coder (“codificatore di
voce”), che in russo era stato ribattezzato “apparecchio del linguaggio
artificiale”, nome che però non aveva preso piede. In risposta, Jakonov aveva
eliminato tutti gli altri gruppi e fatto confluire gli ingegneri più svegli e le
apparecchiature importate più costose nel Sette, il laboratorio n. 7. I gracili
germogli dei restanti progetti erano morti in quella lotta impari.
Mamurin aveva optato per il Sette, sia perché non poteva finire subordinato
al suo ex subordinato Rojtman, sia perché anche al ministero ritenevano
ragionevole che alle spalle del corrotto senza partito Jakonov brillasse un
occhio vigile e appassionato.
Da quel momento, fosse Jakonov di notte presente o meno all’istituto, il
colonnello degradato dell’MVD, soffocato in sé l’amore per i versi in favore del
progresso tecnico della patria, prigioniero solitario dai febbrili occhi bianchi e
dalla scandalosa magrezza delle guance incavate poiché rifiutava di mangiare e
di dormire, si consumava a dirigere fino alle due di notte, trasformando il Sette
in una giornata lavorativa di quindici ore. Una giornata lavorativa così
favorevole si poteva avere solo al Sette, dal momento che per Mamurin non
serviva il controllo da parte dei liberi né particolari turni di notte.
Proprio al Sette si era diretto Jakonov quando aveva lasciato Verenëv e
Neržin soli nel suo ufficio.

28 Il soprannome irriverente dei due oper nasce dall’assonanza dei loro cognomi con šiška, “bernoccolo”,
ma anche “pezzo grosso”, e myška, “topolino”.
29 Autori celebri in quell’epoca sovietica.
12
IL SETTE

Come i soldati semplici che, sebbene nessuno comunichi loro le disposizioni


dei generali, hanno sempre la consapevolezza di essere diretti o meno verso un
attacco importante, così anche tra i trecento zek della šaraška di Marfino si era
consolidata la chiara idea che il Sette si trovasse in una fase decisiva.
All’istituto conoscevano tutti la sua vera denominazione, “laboratorio di
linguaggio clippato”, ma si presupponeva che nessuno ne fosse al corrente. La
parola clippato derivava dall’inglese clipping e significava accorciato. A sapere
che quell’impianto si basava sull’utilizzo di modelli americani non erano solo
tutti gli ingegneri e i traduttori dell’istituto, ma anche i montatori, i tornitori, i
fresatori, e forse persino un falegname duro d’orecchi e di cervello, eppure si
dava per accettato che i modelli fossero solo nazionali. E per questo le riviste
radiotecniche con gli schemi e gli articoli teorici sul clipping, che a New York si
vendevano sulle bancarelle, erano qui numerate, legate insieme con un
cordoncino, dichiarate segrete e sigillate in casseforti per sottrarle alle spie
americane.
Clipping, smorzamento, compressione d’ampiezza, differenziazione
elettronica e integrazione del libero linguaggio umano erano modi da ingegneri
per maltrattare quest’ultimo: come se qualcuno frantumasse Novyj Afon o
Gurzuf in blocchetti di materia, li ficcasse in miliardi di scatolette di
fiammiferi, li mischiasse, li trasferisse in aereo a Nerčinsk30, e nel nuovo sito li
rimettesse in ordine, li riassemblasse perfettamente, riproducesse il clima
subtropicale, il rumore della risacca, l’aria del sud e la luce della luna.
La stessa cosa si voleva fare tramite pacchetti-impulsi anche con il
linguaggio, e per di più andava riprodotto non solo in modo che tutto
risultasse comprensibile, ma che il Padrone riconoscesse dalla voce la persona
con cui stava parlando.
Nelle šaraški, questi istituti semivellutati dove il digrignare dei denti nella
lotta per la sopravvivenza nei campi di lavoro non si insinuava, da tempo
immemore era stato lodevolmente stabilito dai capi che, in caso di riuscita del
progetto, gli zek che se n’erano occupati avrebbero ottenuto tutto: libertà,
documenti immacolati, un appartamento a Mosca, mentre gli altri non ne
avrebbero ricavato niente, né un giorno di pena in meno né cento grammi di
vodka in onore dei vincitori.
Non c’erano vie di mezzo.
Per questo i detenuti più tenaci, quelli che maggiormente avevano
introiettato la particolare fermezza con cui gli zek sembrano in grado di tenersi
aggrappati con le unghie a uno specchio verticale, cercavano di finire al Sette,
in modo che da lì potessero spiccare un balzo verso la libertà.
Così ci era finito il brutale ingegner Markušev, il cui viso pustoloso rivelava
di essere pronto a morire per le idee dell’ingegner colonnello Jakonov. E altri
con le medesime aspirazioni.
Ma il sagace Jakonov andava a pescare per il Sette anche fra coloro che non
si proponevano. Come l’ingegner Amantaj Bulatov, un tataro di Kazan’ con
grossi occhiali dalla montatura di corno, schietto, dalla risata fragorosa,
condannato a dieci anni per essere stato prigioniero di guerra e per aver avuto
contatti con il nemico del popolo Musa Džalil’31. (Amantaj veniva considerato
per scherzo il lavoratore più anziano della ditta giacché, diplomatosi all’Istituto
radiotecnico nel giugno del 1941 e finito nel fango della linea di Smolensk, in
quanto tataro era stato tirato fuori dai tedeschi dal campo dei prigionieri di
guerra per iniziare un tirocinio produttivo nei reparti di quella stessa ditta
Lorenz fin dai tempi in cui nelle lettere i suoi dirigenti scrivevano mit Heil
Hitler!) Come pure Andrej Andreevič Potapov, specialista non in correnti a
basso voltaggio ma ad altissimo voltaggio e nella costruzione di centrali
elettriche. Era finito alla šaraška di Marfino per l’errore di un funzionario male
informato, che selezionava le schede nell’archivio del GULAG. Tuttavia, essendo
davvero un ingegnere e un lavoratore indefesso, Potapov si era fatto notare in
fretta a Marfino, rivelandosi indispensabile per le apparecchiature di
misurazione radio più precise e complesse.
Era là anche l’ingegner Chorobrov, grande esperto di radio, assegnato al
gruppo n. 7 fin dall’inizio, quando ancora si trattava di un gruppo come un
altro. Negli ultimi tempi Chorobrov si era stufato del Sette, non riusciva a stare
dietro al suo ritmo pazzesco, e Mamurin si era stufato di lui.
Infine, con un avido e fulmineo ordine speciale, da una squadra a regime
intensificato del campo nei pressi di Salechard era stato portato al Sette il cupo
detenuto Aleksandr Bobynin, un ingegnere geniale, subito piazzato al di sopra
di tutti. Lo avevano strappato direttamente dalle fauci della morte. Bobynin era
il primo candidato alla libertà in caso di successo. Per questo lavorava tirando
anche fin dopo mezzanotte, ma con una dignità talmente sprezzante che
Mamurin lo temeva e solo a lui non osava fare osservazioni.
Il Sette era in una stanza uguale a quella dell’Acustico, solo un piano sopra,
anch’essa ingombra di apparecchiature e mobilio di vario genere, le mancava
solo quel mastodonte della cabina acustica in un angolo.
Jakonov si recava al Sette diverse volte al giorno, per questo il suo arrivo
non veniva considerato come l’arrivo di un vero capo. Si mettevano in mostra e
si affaccendavano ancora più allegri e rapidi solo Markušev e altri ruffiani,
mentre Potapov, per passare inosservato, infilava un altro frequenzimetro nello
spazio libero sullo scaffale degli strumenti a più ripiani e si isolava dal resto del
laboratorio. Svolgeva il proprio lavoro senza slancio, non doveva niente a
nessuno, e ora stava fabbricando in santa pace un portasigarette di plastica
rossa trasparente, che aveva l’intenzione di regalare il mattino successivo.
Mamurin si alzò per andare incontro a Jakonov, da pari a pari. Non
indossava la tuta blu di un normale zek ma un completo di costosa lana, ma
nemmeno l’abito elegante gli abbelliva il viso emaciato e la figura ossuta.
Quanto esprimevano ora la fronte color limone e le labbra esangui da
cadavere vivente era percepito convenzionalmente come gioia, e così fu
percepita da Jakonov.
– Anton Nikolaič! Lo abbiamo reimpostato ogni sedici impulsi e ora va
molto molto meglio. Ecco, ascolti, leggo io.
“Leggere” e “ascoltare” erano la prova necessaria per stabilire la qualità del
segmento telefonico: il segmento veniva modificato più volte al giorno con
l’aggiunta, la rimozione o la sostituzione di qualche elemento, e reimpostare
ogni volta l’articolazione era un lavoro enorme, si faceva fatica a stare dietro
alle idee propositive degli ingegneri, né lo scopo era quello di ottenere risultati
approssimativi da questa scienza ostile che il pupillo di Rojtman, Neržin, aveva
fatto propria.
Condizionati come sempre da un unico pensiero, senza domandare né
spiegare nulla, Mamurin andò nell’angolo in fondo alla stanza, si girò e,
appoggiata la cornetta allo zigomo, cominciò a leggere il giornale al telefono
mentre Jakonov, vicino al quadro con i pannelli, indossò le cuffie collegate
all’altro capo del segmento e si mise in ascolto. Nelle cuffie si produsse
qualcosa di terribile: i suoni venivano interrotti da scoppiettii, fragori, stridii.
Ma come una madre esamina con amore la deformità della propria creatura,
così Jakonov non solo non si strappava il telefono dalle orecchie sofferenti, ma
ascoltava con più attenzione e trovava che quell’orrore fosse già meglio
dell’altro orrore che aveva sentito prima di pranzo. Quella di Mamurin non era
una conversazione da tutti i giorni ma una lettura cadenzata e precisa, e inoltre
Mamurin leggeva un articolo sull’insolenza delle guardie di frontiera jugoslave
e sulla sfrontatezza di Ranković, boia sanguinario della Jugoslavia, che aveva
trasformato una nazione libera in una immensa camera di tortura, ragion per
cui Jakonov intuiva facilmente anche ciò che non sentiva per intero; capiva di
intuire, e poi si dimenticava di avere intuito, e si convinceva sempre più che
rispetto all’ora di pranzo adesso si sentiva meglio.
Gli venne voglia di condividere le proprie impressioni con Bobynin.
Corpulento, spalle larghe e testa provocatoriamente rapata a zero nonostante
alla šaraška fosse permesso di portare i capelli come si voleva, Bobynin era
seduto poco distante. All’arrivo di Jakonov nel laboratorio non si era voltato e,
chino sul lungo nastro del foto-oscillogramma, continuava a misurare con le
punte del suo strumento.
Quel Bobynin era un moscerino nell’universo, uno zek insignificante, un
membro del ceto più basso, con meno diritti di un kolchoziano. Jakonov era un
dignitario.
Eppure, anche se ne aveva una gran voglia, Jakonov non si decideva a
disturbarlo!
Si può costruire l’Empire State Building. Addestrare l’esercito prussiano.
Innalzare la gerarchia di uno Stato totalitario sopra il trono dell’Altissimo.
Ma non si può vincere lo strano senso di inferiorità che alcune persone
hanno nei confronti di altre.
Ci sono soldati temuti dai loro stessi comandanti di compagnia. Manovali
davanti ai quali i capicantiere si intimidiscono. Inquisiti che incutono terrore
agli inquirenti.
Bobynin lo sapeva e si poneva di proposito in questo modo nei confronti dei
capi. Ogni volta che conversava con lui, Jakonov si ritrovava con il vile
desiderio di accontentare quello zek, di non irritarlo; si indignava per il proprio
sentimento, ma aveva notato che anche tutti gli altri parlavano con Bobynin
allo stesso modo.
Jakonov si tolse le cuffie e interruppe Mamurin:
– Meglio, Jakov Ivanyč, decisamente meglio! Vorrei farlo sentire a Rubin, lui
ha un ottimo orecchio.
Una volta qualcuno, soddisfatto di un giudizio di Rubin, aveva detto di lui
che aveva un “ottimo orecchio”. Senza volerlo la cosa si era diffusa, ci avevano
creduto. Rubin era capitato alla šaraška per caso, dove vivacchiava con le
traduzioni. Dall’orecchio sinistro ci sentiva come tutti gli altri, mentre dal
destro l’udito si era affievolito a causa di una ferita al fronte, che dopo l’elogio
aveva dovuto tenere nascosta. Grazie alla fama del suo “ottimo orecchio” era
rimasto ben saldo alla šaraška, finché non ci si era trincerato ancor più
saldamente con la sua opera fondamentale: La lingua russa nella percezione uditivo-
sintetica ed elettro-acustica.
Telefonarono all’Acustico chiedendo di Rubin. Mentre lo aspettavano, si
misero in ascolto per la decima volta. Con le sopracciglia aggrottate con forza e
lo sguardo teso, Markušev prese a malapena in mano la cornetta e dichiarò in
tono brusco che andava meglio, molto meglio (l’idea di reimpostare ogni sedici
impulsi era sua, sapeva che sarebbe andato meglio ancora prima di attuare la
modifica). Bulatov attaccò a strillare per tutto il laboratorio che bisognava
coordinarsi con i decifratori e reimpostare a trentadue impulsi. Ljubimičev e
Siromacha, due elettromontatori servizievoli, dividendosi una cuffia, si misero
ad ascoltare ognuno da un orecchio e subito, con gioia ardente, confermarono
che era davvero più decifrabile.
Bobynin continuava a misurare l’oscillogramma senza alzare la testa.
La lancetta nera del grande orologio elettrico alla parete segnò le dieci e
mezzo. Presto in tutti i laboratori, a parte il Sette, si sarebbe interrotto il
lavoro, le riviste segrete da chiudere in cassaforte sarebbero state riconsegnate,
gli zek se ne sarebbero andati a dormire e i liberi sarebbero corsi alle fermate
degli autobus, sempre meno frequenti a quell’ora tarda.
Con passo pesante, senza farsi vedere dal capo, Il’ja Terent’evič Chorobrov
raggiunse Potapov dietro lo scaffale in fondo al laboratorio. Chorobrov
proveniva dalla regione di Vjatka, dai suoi angoli più sperduti, i dintorni di
Kaj, dove la Terra dei GULAG si estendeva in un regno ininterrotto di migliaia
di verste di paludi e boschi più grande della Francia. Aveva visto tante cose e
capiva molto più di tanti altri, al punto che per lui, a volte, quella condizione
diventava così insopportabile che avrebbe voluto sbattere la testa contro la
colonna di ghisa dell’altoparlante esterno. La necessità di nascondere di
continuo i propri pensieri, di reprimere il proprio senso di giustizia lo
schiacciava, gli conferiva un aspetto sgradevole, gli incideva penose rughe
intorno alle labbra. Finché, alle prime elezioni del dopoguerra, il desiderio
represso di esprimere il proprio parere aveva avuto la meglio e sulla scheda
elettorale, accanto al candidato da lui depennato, Chorobrov aveva scritto
un’imprecazione da contadino. Era il periodo in cui, a causa della scarsità di
manodopera, le abitazioni non venivano ricostruite, i campi non venivano
seminati. Eppure, alcuni geniacci di sbirri avevano analizzato per un mese la
grafia di tutti gli elettori della zona e Chorobrov era stato arrestato. Era partito
per il campo di lavoro con ingenua gioia, sperando di poter parlare
apertamente almeno lì. Ma neanche il campo si era rivelato una repubblica
libera! A causa delle denunce dei delatori gli era toccato stare zitto pure in quel
luogo.
Ora il buonsenso suggeriva che si desse da fare nel lavoro comune al Sette
per assicurarsi, se non la liberazione, almeno una vita comoda. Ma il disgusto
verso le ingiustizie, anche quando non lo riguardavano direttamente, montava
in lui a un livello che raggiunge solo chi non ha più voglia di vivere.
Superato lo scaffale di Potapov, Chorobrov si piegò verso la scrivania del
compagno e gli propose piano:
– Andreič! È ora di svignarcela. È sabato.
Potapov stava attaccando un gancino rosa chiaro al portasigarette rosso
trasparente. Inclinata la testa, lo osservò e chiese:
– Che gliene sembra, Teren’tič? Si abbinano i colori?
Non ottenendo né una risposta di approvazione né di critica, Potapov
guardò Chorobrov, come fanno le vecchine, da sopra gli occhiali con la
semplice montatura di metallo e disse:
– Che senso ha irritare il drago? Si legga l’editoriale sulla ‘Pravda’: il tempo
lavora a nostro favore. Non-ap-pe-na Anton se ne andrà, ce la fileremo anche
noi.
Aveva un suo modo particolare di dividere in sillabe le parole in una frase e
di usare la mimica.
Intanto Rubin era arrivato nel laboratorio. Erano quasi le undici e Rubin,
che per tutta la sera aveva avuto poca voglia di lavorare, avrebbe desiderato
solo tornarsene in fretta nella sua cella a divorarsi ancora un po’ di Hemingway.
Tuttavia assunse un’aria di grande interesse per la nuova qualità del segmento
al Sette e chiese che a leggere fosse Markušev, il quale aveva una voce alta, con
una tonalità di base di 160 Hertz che non si trasmetteva molto bene (un simile
approccio alla questione lo fece apparire subito uno specialista). Indossate le
cuffie, ordinò un paio di volte a Markušev di leggere, ora a un volume più alto
ora più basso, e di ripetere le frasi “Le carpe guizzanti sono scappate sotto
coperta” e “Celebrò, slanciò, stravinse”, due frasi che alla šaraška conoscevano
tutti e che Rubin aveva escogitato per controllare singole combinazioni di
suoni. Alla fine sentenziò una generale tendenza al miglioramento: i suoni
vocalici passavano in modo esemplare, peggioravano un po’ le dentali sorde, la
formante “izz” continuava a disturbare e non andava affatto l’accorpamento di
più consonanti, tanto caratteristico delle lingue slave e sul quale bisognava
ancora lavorare.
Si sollevò subito un coro di voci felici che il segmento, dunque, fosse
migliorato. Bobynin alzò la testa dall’oscillogramma e con voce di basso
profonda, in tono beffardo, espresse il proprio parere:
– Sciocchezze! Sono circondato da ignoranti. Non si può andare a casaccio,
bisogna trovare un metodo.
Davanti al suo sguardo severo e deciso ammutolirono tutti, imbarazzati.
Dietro lo scaffale, intanto, Potapov stava incollando il gancino rosa al
portasigarette con l’acetato di amile. Nei tre anni di prigionia in Germania
Potapov era stato nei campi di lavoro e se l’era cavata soprattutto grazie alla
capacità di fabbricare dagli scarti, senza nessun attrezzo, gradevoli accendini,
portasigarette e filtri.
Nessuno aveva premura di andare via dal lavoro! Ed era pure la vigilia di
una domenica rubata!
Chorobrov raddrizzò la schiena. Appoggiate le carte segrete sulla scrivania
di Potapov perché le riponesse lui nella cassaforte, si diresse verso l’uscita
evitando l’assembramento presso il quadro del clipper.
Mamurin, pallido, gli avvampò alle spalle:
– Il’ja Teren’ič! E lei, come mai non ascolta? E dov’è diretto?
Sempre senza alcuna fretta, Chorobrov si girò e, con un ghigno contorto, in
tono distaccato rispose:
– Preferirei non parlarne ad alta voce. Ma se insiste, la accontenterò: in
questo preciso istante sono diretto alla latrina, vale a dire al cesso. Se là andrà
tutto come si deve, proseguirò fino alla prigione e me ne andrò a dormire.
Nel vile silenzio che ne seguì, Bobynin, la cui risata non si sentiva quasi mai,
scoppiò a ridere di gusto.
Un ammutinamento su una nave da guerra! Mamurin fece un passo verso
Chorobrov, come per prepararsi a colpirlo, e con voce stridula gli domandò:
– Be’, ma come a dormire? Tutti lavorano e lei se ne va a dormire?
Già aggrappato alla maniglia della porta, quasi al limite dell’autocontrollo,
Chorobrov rispose:
– Sì, me ne vado a dormire! Ho lavorato le mie dodici ore come da
Costituzione, ne ho abbastanza! – E, sul punto di esplodere, stava per
aggiungere qualcosa di irreparabile quando si spalancò la porta e il sorvegliante
di turno annunciò:
– Anton Nikolaič! La chiamano subito al telefono, dalla città.
Jakonov si alzò in fretta e uscì dietro a Chorobrov.
Poco dopo anche Potapov spense la lampada da tavolo, mise le sue carte
segrete insieme a quelle di Chorobrov sulla scrivania di Bulatov e, a passo
normale, del tutto innocuo, si diresse zoppicando verso l’uscita. La gamba
destra gli cedeva da quando, prima della guerra, aveva avuto un incidente in
motocicletta.
Al telefono era il viceministro Selivanovskij. Dava appuntamento a Jakonov
al ministero, alla Lubjanka, a mezzanotte.
Che vita la sua!
Jakonov tornò nel suo ufficio da Verenëv e Neržin, congedò il secondo, al
primo propose di aspettarlo in macchina, si vestì, con i guanti già infilati si
avvicinò di nuovo alla scrivania e sotto la scritta “Cancellare Neržin” aggiunse:
“E Chorobrov.”
30 Novyj Afon (Abcasia) e Gurzuf (Crimea), entrambe sulla costa del Mar Nero, sono due famose località
turistiche sovietiche; Nerčinsk, è un centro minerario della Siberia.
31 Musa Džalil’ (1906-1944), poeta tataro morto per mano dei nazisti nel carcere di Berlino. Sotto Stalin fu
considerato un traditore; venne riabilitato in seguito, fino a essere trasformato in un eroe.
13
E BISOGNAVA MENTIRE...

Quando Neržin, conscio che fosse successo l’irreparabile ma senza rendersene


conto fino in fondo, fece ritorno all’Acustico, Rubin non c’era più. Gli altri
erano gli stessi e Valentulja, trafficando in mezzo al passaggio su un pannello a
cui erano fissate decine di valvole, alzò su di lui gli occhi vispi.
– Calma, amico! – bloccò Neržin con le cinque dita spalancate, come davanti
a un’automobile. – Sa dirmi perché da me al terzo componente non c’è
tensione?? – E gli tornò in mente: – Ah, è vero! Per cosa l’hanno chiamata?
Qu’est-ce qui s’est passé?
– Valentine, badi a come parla – si sottrasse Neržin, incupito. Non poteva
confessare, e soprattutto a uno dedito solo alla propria scienza, di aver
rinnegato, appena rinnegato la matematica.
– Se ha qualche problema, le do un consiglio: metta su un po’ di musica da
ballo! Perché dovremmo rattristarci? L’ha mai letto quello... come si chiama...?
Sigaretta fra le labbra, ne fuma un metro, due ne butta32... il badile non sa
maneggiare, agli altri lo fa fare... Ed ecco questa:

Qui la milizia
la guardia mi fa!
Nella zona vietata
tanto bene si sta!33

Ma preso all’improvviso da un nuovo pensiero, Valentulja ordinò:


– Vad’ka! Accendi l’oscillografo!
Neržin si avvicinò alla propria scrivania; non fece nemmeno in tempo a
sedersi che si accorse dell’ansia di Simočka. Lo guardava dritto in faccia, con le
sopracciglia sottili aggrottate.
– Dov’è Barba, Serafima Vital’evna?
– Anton Nikolaič ha chiamato anche lui al Sette – rispose Simočka a voce
alta. E, passando vicino al quadro del commutatore, chiese ancora più forte, in
modo che tutti la sentissero:
– Gleb Vikent’ič! Venga a controllare come leggo le nuove tabelle. C’è
ancora mezz’ora.
Simočka era uno degli speaker dell’articolazione. Bisognava assicurarsi che la
lettura di tutti gli speaker fosse standardizzata al medesimo livello di chiarezza.
– Come faccio a controllare con questo baccano?
– Be’... andiamo nella cabina. – Guardò Neržin con aria significativa, prese le
tabelle scritte a china sulla carta da disegno ed entrò nella cabina.
Neržin la seguì. Prima chiuse alle proprie spalle con il chiavistello la porta
cava spessa un aršin, poi si infilò attraverso la seconda porticina e non fece in
tempo a sganciare le tendine che Simočka gli si gettò al collo e in punta di piedi
lo baciò sulle labbra.
Lui la prese in braccio, era leggera: dentro si stava così stretti che le punte
delle scarpe di lei urtarono contro la parete; si accomodò sull’unico sedile
davanti al microfono da concerto e se la posò sulle ginocchia.
– Perché Anton l’ha mandata a chiamare? Che problemi ci sono?
– L’amplificatore non è acceso, vero? Non ci siamo messi d’accordo di
trasmettere in diretta con l’altoparlante?
– ...che problemi ci sono?
– Perché pensi ci fossero problemi?
– Ho avuto subito questa sensazione appena hanno telefonato. E lei ce l’ha
scritto in faccia.
– Ma quando comincerai a darmi del tu?
– Ora non è il momento... Cos’è successo?
Il calore del corpo sconosciuto di Simočka gli si trasmetteva alle ginocchia,
alle mani e poi per tutta l’altezza. Sconosciuto al punto da apparirgli un
mistero, poiché molte erano le cose sconosciute per quel soldato-detenuto
dopo tanti anni. Anche i ricordi di gioventù non sono abbondanti per tutti allo
stesso modo.
Simočka era incredibilmente leggera: che avesse le ossa riempite d’aria o
fosse fatta di cera, sembrava lieve come un uccellino ingrossato dalle piume.
– Eh sì, piccola quaglia... A quanto pare... me ne andrò presto.
Simočka gli si agitò in grembo e lasciando scivolare lo scialle dalle spalle lo
abbracciò più forte che poteva:
– Do-ve?
– Come dove? Siamo gente degli abissi. Scompariamo là dove siamo risaliti a
galla, nel campo di lavoro – spiegò con prudenza.
– Ma co-o-o-me?! – a Simočka non uscirono parole, ma un lamento.
Gleb guardava da vicino, quasi perplesso, gli occhi di quella ragazza
bruttina, il cui amore aveva ottenuto per caso, senza sforzo. Era più
preoccupata lei per la sua sorte di quanto lo fosse lui stesso.
– Potevo anche rimanere, ma in un altro laboratorio. In ogni caso non
saremmo più stati insieme.
(Lo aveva detto come se fosse quella la ragione per cui nell’ufficio di Anton
aveva rifiutato. Ma aveva pronunciato una combinazione meccanica di suoni,
quasi fosse il vocoder. In effetti, la condizione da detenuto era talmente
estrema che se pure lo avessero spostato in un altro laboratorio, Gleb avrebbe
cercato le medesime cose nella donna accanto alla quale avrebbe lavorato e, se
fosse rimasto all’Acustico, da qualsiasi altra, di qualsiasi aspetto, incaricata di
lavorare al tavolo attiguo al posto di Simočka.)
Lei invece con il suo corpicino si stringeva tutta a lui e lo baciava.
Erano trascorse diverse settimane dal loro primo bacio: perché avrebbe
dovuto risparmiare Simočka, dispiacersi della sua illusoria felicità futura?
Impossibile che trovasse un fidanzato vero, sarebbe comunque andata a
qualcuno, così, senza impegno. Gli si sarebbe gettata fra le braccia, e con la
stessa paura avrebbe battuto forte il cuore a entrambi... Prima di sparire nel
campo, dove tutto quello non ci sarebbe stato più...
– Mi dispiacerà andarmene... perciò... vorrei portare con me il ricordo di...
del tuo... del tuo...
Lei chinò il viso turbato e resistette alle dita di Neržin che tentavano di
rialzarle la testa.
– Piccola quaglia... su, non ti nascondere... solleva la testa. Perché non dici
niente? Non lo vuoi anche tu?
Lei alzò di colpo la testa e con grande intensità disse:
– La aspetterò! Ne mancano solo cinque, vero? La aspetterò per cinque anni!
Quando sarà di nuovo libero, lei tornerà da me?
Questo lui non l’aveva mai detto. Simočka parlava come se lui non avesse
una moglie. Voleva per forza sposarsi, la nasona!
La moglie di Gleb si trovava da quelle parti, chissà dove a Mosca. A Mosca,
ma era come se si trovasse su Marte.
A parte Simočka sulle sue ginocchia e la moglie su Marte, sepolti nella sua
scrivania c’erano gli studi sulla rivoluzione russa cui aveva dedicato tanta fatica,
che contenevano le sue idee migliori. Le prime formulazioni da lui elaborate.
Non gli avrebbero permesso di far uscire dalla šaraška nemmeno un
brandello di appunto. E perquisendolo alla prigione di transito, gli avrebbero
affibbiato una nuova pena.
Doveva mentire subito! Mentire, promettere, come si promette sempre. E
andando via lasciare senza alcun rischio a Simočka quanto aveva scritto.
Ma nemmeno per un simile scopo aveva la forza di mentire a quegli occhi
che lo guardavano colmi di speranza.
Per sfuggire a quegli occhi, a quella domanda, prese a baciarle le piccole
spalle non tornite che le sue mani avevano denudato abbassando la camicetta.
– Una volta mi hai chiesto cosa continuo a scrivere su quei foglietti – disse
lui, a disagio.
– Allora? Cosa scrivi? – domandò Simočka, incuriosita.
Se lei non lo avesse interrotto, non gli avesse fatto quella domanda con tale
bramosia, lui forse, in quel momento, le avrebbe raccontato qualcosa. Ma lei
glielo aveva chiesto con impazienza e lui si era messo sulla difensiva. Viveva da
anni in un mondo in cui erano stesi ovunque fili di mine attaccati a detonatori.
Quegli amorevoli occhi fiduciosi potevano essere al servizio dell’oper.
In effetti, com’era cominciata fra loro? Non era stato lui a cercare un
contatto fra le loro guance, ma lei. Dunque poteva essere tutto combinato!
– Così, roba di storia – rispose lui. – In generale, robe storiche sui tempi di
Pietro il Grande... Però ci tengo. Finché Anton non me le farà buttare via,
continuerò a scriverle. Ma che fine faranno quando dovrò andarmene?
La guardò negli occhi intensamente, in modo quasi provocatorio.
Simočka sorrise tranquilla:
– Ma come dove? Le darai a me. Te le tengo io. Scrivi pure, caro. – E
continuando a guardarlo negli occhi: – Dimmi una cosa, tua moglie è molto
bella?
Squillò il telefono da campo a induzione che collegava la cabina al
laboratorio. Sima afferrò la cornetta, premette il pulsante della comunicazione
in modo che all’altro capo della linea potessero sentirla, ma non si portò la
cornetta alla bocca: rossa in viso, gli abiti in disordine, cominciò a leggere una
tabella d’articolazione con voce imperturbabile e cadenzata:
– d’er... fskop... štap... Sì, vi sento... Che c’è, Valentin Martynyč? Il doppio
diodo-triodo? Il 6G7 non c’è, ma sembra esserci il 6G2. Ora finisco la tabella ed
esco... gven... žan... – Rilasciò il pulsante. E strusciò la testa contro il petto di
Gleb. – Dobbiamo uscire, la cosa comincia a notarsi. Mi lasci andare...
Ma nella voce mancava qualsiasi determinazione.
Lui l’abbracciò ancora più forte e la strinse a sé in alto, in basso, tutta.
– No! Ti ho lasciata andare e non è servito. Adesso, non lo farò!
– Non faccia il pazzo, mi stanno aspettando! Bisogna chiudere il laboratorio!
– Facciamolo adesso! Qui! – pretendeva lui.
E la baciava.
– Non oggi! – ribatté lei, arrendevole.
– E quando?
– Lunedì... Sarò di nuovo io di turno, al posto di Lara... Venga durante
l’intervallo della cena... avremo un’intera ora per noi... sempre che non arrivi
quel matto di Valentulja...
Nel tempo che Gleb aveva aperto e chiuso prima una porta poi l’altra, Sima
si era già riabbottonata, riordinata i capelli, ed era uscita per prima,
imperscrutabile e fredda.

32 Si allude a un detto sulla mancanza cronica di sigarette nei luoghi di reclusione: “Fumiamo papirosy
lunghe un metro, ma gettiamo mozziconi lunghi due.” Nel gergo dei detenuti alla domanda “Come ve la
passate?” si usava rispondere ironicamente: “Alla grande: c’è da fumare quanto vuoi!”
33 Parodia di alcuni versi del poema di Majakovskij, Bene! (1927).
14
LA LUCE BLU

– Un giorno di questi lancio uno stivale e spacco quella lampadina blu, così la
smette di rompere.
– Non la becchi.
– Saranno cinque metri, la prendo di sicuro. Scommettiamo la frutta cotta di
domani?
– Lo stivale te lo togli nella branda di sotto, ci devi aggiungere un metro.
– Va bene, sei metri. Vedi un po’ quelle canaglie cosa si inventano per
mandare in bestia gli zek.
– La luce blu, intendi?
– Eh certo! Pressione luminosa. L’ha scoperta Lebedev. Aristipp Ivanyč, sta
dormendo? Mi faccia un favore, mi passi quassù uno dei miei stivali.
– Lo stivale, Vjačeslav Petrovič, glielo posso anche passare, prima però mi
risponda: cos’è che non le aggrada di quella luce blu?
– Già solo la lunghezza delle onde è troppo corta e i quanti troppo grandi.
Danno fastidio agli occhi.
– Ha una luce soffusa, mi ricorda il lume blu che la mamma mi accendeva di
notte.
– Proprio una mamma! Ma con le spalline celesti! Ehi, pensate sul serio che
alla gente si possa concedere una vera democrazia? Mi sono accorto che in ogni
cella, per ogni minima questione, dal lavare le scodelle al pulire il pavimento,
escono fuori le opinioni più disparate. È la libertà a rovinare le persone.
Purtroppo, solo il bastone può indicarci la verità.
– Be’, un lume qui ci sta anche bene. Un tempo c’era un altare.
– Non un altare, ma la cupola dell’altare. Hanno diviso in due lo spazio
mettendoci un pavimento.
– Dmitrij Aleksandrovič! Che cosa sta facendo? Apre la finestra a dicembre?!
Che le viene in mente?
– Signori! È l’ossigeno a rendere lo zek immortale. Nella stanza siamo in
ventiquattro, in cortile non c’è né gelo né vento. La apro un Erenburg.
– Anche uno e mezzo! Sulle brande superiori non si respira!
– Un Erenburg come lo misura, in larghezza?
– No, signori, per il lungo, il libro si appoggia molto bene al telaio.
– Roba da matti, dov’è la mia giubba da campo?
– Io tutti questi amanti dell’ossigeno li manderei a Ojmjakon ai lavori comuni.
Dopo aver sgobbato dodici ore a sessanta gradi sotto zero, pur di sentire un
po’ di caldo striscerebbero anche in un caprile!
– In linea di principio io non sono contrario all’ossigeno, ma perché
l’ossigeno deve essere sempre freddo? Lo vorrei riscaldato.
– Ma che roba! Perché la stanza è buia? Perché spengono la luce bianca così
presto?
– Valentulja, lei è un vero nottambulo! Fosse per lei, se ne andrebbe in giro
fino all’una! A che le serve la luce a mezzanotte?
– E lei è uno zerbinotto!
Lo zerbinotto in tuta blu
Proprio sopra me è già.
Nella zona del campo
tanto bene si sta!

Avete riempito un’altra volta di fumo? Cosa continuate a fumare? Uffa, che
schifo... Oh, anche la teiera è fredda.
– Valentulja, dov’è Lev?
– Perché, non è sulla sua branda?
– Ci sono due dozzine di libri, ma lui non c’è.
– Sarà accanto al gabinetto.
– A fare che?
– Lì ci hanno messo una lampadina bianca e la parete vicino alla cucina è
calda. Starà a leggere un libro. Io vado a lavarmi. Devo dirgli qualcosa?
– Eh già-à... Quella mi fa dormire sul pavimento, mentre lei si tiene il letto.
Che donna appetitosa, proprio appetitosa...
– Amici, ve lo chiedo per favore, parlate di tutto ma non di donne. Alla
šaraška, con il pasto a base di carne, è un discorso socialmente pericoloso.
– Su, ragazzi, piantatela! Hanno suonato la ritirata.
– Altro che ritirata, si sente suonare l’inno da qualche parte34.
– Quando hai sonno, dormi lo stesso.
– Sono totalmente privi di senso dell’umorismo: suonano tutto l’inno per
intero, dura cinque minuti. Ti fanno attorcigliare le budella: ma quando finisce?
Possibile che non si possa ridurre a una strofa sola?
– E la sigla iniziale35? Una strofa sola in un paese come la Russia?!...
Figuriamoci.
– Ho prestato servizio in Africa. Ai tempi di Rommel. Cosa c’è di brutto
laggiù? Fa molto caldo e manca l’acqua...
– Nel Mar Glaciale Artico c’è un’isola che si chiama Machotkina. Eppure
Machotkin, il pilota polare, è finito in prigione per propaganda antisovietica.
– Michail Kuz’mič, cosa continua a rigirarsi?
– Perché, non posso neanche rigirarmi da un fianco all’altro?
– Può, ma si ricordi che ogni suo giretto lì sotto arriva quassù assai
amplificato.
– Lei, Ivan Ivanyč, in un campo di lavoro non c’è mai stato. Lì le cuccette sono
quadruple: quando uno si gira, ne scuote altri tre. Può anche succedere che in
basso qualcuno appenda uno straccio colorato, ci porti una donna e si dia da
fare. E parte il beccheggio forza dodici! Eppure si dorme lo stesso.
– Grigorij Borisyč, quando è finito lei per la prima volta alla šaraška?
– Pensavo di fissarci il pentodo e un piccolo reostato.
– Era una persona indipendente, precisa. Quando la sera si levava gli stivali,
non li metteva sul pavimento, se li piazzava sotto la testa.
– In quegli anni non potevi lasciare nulla per terra!
– Io sono stato a Oświęcim. Lì era orribile: dalla stazione la gente veniva
mandata dritta ai crematori, con la musica di sottofondo.
– Laggiù innanzitutto la pesca era incredibile, e poi c’era la caccia. In
autunno se camminavi per un’ora, vedevi fagiani ovunque. Entravi in un
canneto, cinghiali, in un campo, lepri...
– Tutte queste šaraški sono sorte dal 1930 in avanti, quando si sono messi a
prendersela con gli ingegneri. La prima fu istituita al vicolo Furkasovskij36:
nacque lì il progetto del canale sul Mar Bianco. Poi ci fu quella di Leonid
Ramzin. L’esperimento piacque. In libertà è impossibile mettere nello stesso
gruppo di progettazione due grandi ingegneri o due grandi scienziati:
cominciano subito a competere per il nome, la gloria, il premio Stalin, e
immancabilmente uno fa fuori l’altro. Per questo in libertà tutti gli uffici
progettazione finiscono per trasformarsi in circoli scialbi attorno a una mente
brillante. In una šaraška invece su nessuno incombe né la gloria né il denaro. A
Nikolaj Nikolaič un mezzo bicchiere di panna acida e a Pëtr Petrovič un altro
mezzo. Una dozzina di orsi vive pacificamente nella stessa tana, perché non ha
altro posto dove rifugiarsi. Giocano un po’ a scacchi, fumano: che noia! E se ci
inventassimo qualcosa? Dài! Nella nostra scienza molte cose sono state
inventate così! È su questo che si basa la šaraška.
– Amici! Una notizia! Hanno portato via Bobynin, non si sa dove.
– Val’ka, non guaire a quel modo o ti do una cuscinata!
– Dove, Valentulja?
– Come lo hanno portato via?
– È venuto il tenente minore e gli ha detto di mettersi il cappotto e il
cappello.
– Con la roba?
– Senza roba.
– Lo avranno portato di sicuro da un pezzo grosso.
– Da Foma?
– Foma sarebbe venuto qui lui, da uno più in alto!
– Il tè si è freddato, fa schifo!...
– Valentulja, dopo che hanno suonato la ritirata lei batte sempre nel
bicchiere con quel cucchiaino, mi dà sui nervi!
– Si calmi, come faccio a mescolare lo zucchero?
– In silenzio.
– In silenzio avvengono solo le catastrofi spaziali, perché nello spazio
cosmico il suono non si propaga. Se alle nostre spalle esplodesse una Stella
Nova, non ce ne accorgeremmo nemmeno. Rus’ka, ti sta cadendo la coperta,
cosa la tieni a fare a penzoloni? Non dormi? Lo sai che il nostro Sole è una
Stella Nova e la Terra è destinata a perire molto presto?
– Non ci voglio pensare. Sono giovane, voglio vivere ancora!
– Ah-ah! Che ingenuo! Com’è freddo questo tè... C’est le mot! Lui vuole
vivere!
– Val’ka! Dove hanno portato Bobynin?
– E come faccio a saperlo? Magari... da Stalin.
– E cosa farebbe lei, Valentulja, se la convocassero da Stalin?
– Io? O-ho! Ragazzi miei! Protesterei punto per punto!
– Be’ per cosa, ad esempio?
– Be’, per ogni cosa. Par exemple, perché ci fanno vivere senza donne? Questa
cosa inibisce le possibilità creative.
– Prjančikov! Chiudi il becco! Dormono tutti da un pezzo, cosa sbraiti!
– E se io non avessi sonno?
– Amici, chi sta fumando metta via, arriva il tenente minore.
– Che vuole quella carogna? Cittadino sottotenente, faccia attenzione a non
inciampare, altrimenti una volta o l’altra si spaccherà il naso.
– Prjančikov!
– Che c’è?
– Dov’è? Ancora non dorme?
– Dormo, dormo.
– Si vesta in fretta.
– Per andare dove? Ho sonno.
– Si vesta, forza, infili cappotto e cappello.
– Con la roba?
– Senza. L’aspetta una macchina, svelto.
– Che succede, vado con Bobynin?
– Lui è già partito, per lei ce n’è un’altra.
– Quale macchina, sottotenente, un corvo?
– Su, svelto, forza. È una Pobeda.
– Chi mi ha mandato a chiamare?
– Be’, Prjančikov, mi devo mettere a spiegarle tutto? Non lo so nemmeno io,
forza.
– Val’ka! Diglielo quando sei là!
– Di’ delle visite! Possibile che quei farabutti concedano ai Cinquantotto una
visita all’anno?
– Racconta delle passeggiate!
– Delle lettere!
– Del corredo!
– Rot front, ragazzi! Ah-ah! Adieu!
– Compagno sottotenente! Allora, dov’è Prjančikov?
– Arriva, arriva, compagno maggiore! Eccolo!
– Racconta tutto, Val’ka, distruggili, non fare complimenti!
– Ma pensa un po’, i cani da guardia che corrono nel cuore della notte!
– Cos’è successo?
– Mai successa una cosa simile...
– Non sarà scoppiata la guerra? Li portano alla fucilazione?
– Ma smettila, scemo! Per fucilarci secondo te ci prendono uno per volta?
Quando scoppierà la guerra, ci ammazzeranno tutti insieme o ci infetteranno di
peste con la kaša, come i tedeschi nei campi di sterminio nel ’45...
– Be’, d’accordo, dormiamo, fratelli! Lo scopriremo domani.
– Succedeva proprio così nel ’39-’40, Berija mandava a chiamare Boris
Sergeevič Stečkin alla šaraška e quello non tornava mai a mani vuote: o
sostituivano il capo della prigione o aumentavano le passeggiate... Stečkin non
tollerava questo sistema di corruzione, i pasti per categorie: panna acida e uova
agli accademici, quaranta grammi di burro ai professori, venti ai detenuti
semplici... Boris Sergeevič era un brav’uomo, che Dio lo abbia in gloria...
– È morto?
– No, lo hanno liberato... ha preso il premio Stalin.
34 Alla šaraška la ritirata era prevista alle dieci di sera. L’inno era trasmesso per radio a mezzanotte, subito
dopo che batteva l’ora alla torre Spasskaja del Cremlino.
35 La sigla iniziale delle trasmissioni radio suonava prima delle sei del mattino ed era un brano del celebre
film Cyrk.
36 Vicolo dove si trova la Lubjanka.
15
UNA RAGAZZA! UNA RAGAZZA!

Poi si spense anche la voce stanca e cadenzata del recidivo Abramson, finito nelle
šaraški già alla prima condanna. Ai due lati opposti andava a morire il sussurro
di storie già iniziate. Qualcuno russava così forte e in modo così orripilante che
in certi momenti pareva sul punto di esplodere.
La pallida lampadina blu sopra la larga porta a quattro battenti incastrati
nell’arco d’ingresso illuminava una dozzina di brande a due piani saldate,
disposte a ventaglio nella grande stanza semicircolare. Quella stanza, forse
l’unica del genere a Mosca, misurava un diametro di dodici ampi passi maschili;
in alto, una spaziosa cupola a vela poggiata alla base di una torre esagonale e,
lungo l’arco, cinque finestre regolari tondeggianti nella parte superiore. Queste
ultime avevano le inferriate ma non le museruole; di giorno, guardandovi
attraverso, dall’altra parte del viale si scorgeva un parco così trascurato da
sembrare un bosco, e nelle sere d’estate giungevano canzoni toccanti di ragazze
da marito del sobborgo di Mosca.
Neržin, sulla branda superiore accanto alla finestra centrale, non dormiva e
nemmeno ci provava. Sotto di lui l’ingegner Potapov si era addormentato da
un pezzo e si godeva il tranquillo sonno del lavoratore. Sulle brande vicine, a
sinistra, oltre il passaggio, se ne stava disteso “Zemelja”37, l’esperto degli
apparati a vuoto spinto, il faccione tondo rilassato che sbuffava con il naso,
(sotto di lui il letto di Prjančikov, al momento libero) mentre a destra, sulla
branda a filo, si agitava insonne Rus’ka Doronin, uno dei più giovani zek della
šaraška.
Ora che poteva ricordare con distacco la conversazione nell’ufficio di
Jakonov, Neržin capiva tutto con maggior chiarezza: rifiutarsi di entrare nel
gruppo criptografico non era stato un incidente di percorso, ma il punto di
svolta di tutta una vita. Avrebbe implicato per lui – e forse molto presto – una
traduzione lunga e pesante da qualche parte in Siberia o sull’Artico. Verso la
morte oppure verso il trionfo sulla morte.
Rifletteva anche su quello stacco nella sua vita. Cosa era riuscito a ottenere
nei tre anni di tregua alla šaraška? Aveva temprato il carattere a sufficienza
prima di ripiombare di nuovo nella voragine del campo di lavoro?
Il giorno successivo, guarda caso, Gleb avrebbe compiuto trentun anni
(ovviamente non si sentiva in vena di ricordare agli amici quella ricorrenza).
Era a metà della sua vita? Quasi alla fine? Solo all’inizio?
I pensieri gli si confondevano. Non riusciva ad avere uno sguardo
sull’eternità. Ora si insinuava la debolezza: forse non era troppo tardi per
rimediare, per acconsentire a dedicarsi alla crittografia. Ora gli tornava in
mente l’offesa subita, che da undici mesi continuavano a negargli un colloquio
con la moglie... chissà se adesso, prima della partenza, glielo avrebbero
concesso?
Infine gli si risvegliava dentro, e si agitava, lo sfacciato, il furbacchione che
non era lui, non era Neržin, ma il tizio saltato fuori per forza di cose da quel
ragazzino indeciso in fila davanti ai negozi del pane durante il primo piano
quinquennale, poi consolidatosi in tutte le situazioni della vita e in particolare
nel campo di lavoro. Quest’altro lui, interiore, tenace, valutava già con lucidità
quali perquisizioni lo aspettavano: alla partenza da Marfino, all’arrivo alla
Butyrka, alla Krasnaja Presnja; e come nascondere nella giubba imbottita i
pezzetti di lapis spezzato; come riuscire a portare fuori dalla šaraška la vecchia
tuta da lavoro (per lo sgobbone ogni pellaccia personale è preziosa); come
dimostrare che il cucchiaio da tè d’alluminio che aveva con sé da tutta la durata
della pena era suo, non l’aveva rubato alla šaraška, dove ce n’erano di molto
simili.
Gli venne la smania, in quel preciso istante, alla luce blu, di alzarsi e iniziare
tutti i preparativi, le cose da portar via, gli annunci di morte.
Nel frattempo di tanto in tanto Rus’ka Doronin cambiava bruscamente
posizione: cadeva bocconi, affondando nel cuscino con tutte le spalle, si tirava
la coperta fin sopra la testa e la rubava ai piedi; poi si girava di schiena,
allontanava la coperta e svelava il lenzuolo superiore bianco e quello inferiore
più scuro (a ogni bagno cambiavano uno dei due lenzuoli, ma adesso, a
dicembre, la prigione speciale aveva esaurito il quantitativo di sapone
disponibile per un anno e il bagno era stato sospeso). All’improvviso si mise a
sedere sul letto e si appoggiò alla spalliera in ferro con il cuscino, scoprendo
all’angolo del materasso il volumetto Storia di Roma Antica di Mommsen.
Accorgendosi che Neržin aveva gli occhi fissi sulla lampadina blu e non
dormiva, in un sussurro roco gli chiese:
– Gleb! Hai a portata di mano le sigarette? Dammene una.
Rus’ka di solito non fumava. Neržin si allungò fino alla tasca della tuta
appesa alla spalliera e vi estrasse due papirosy. Le accesero.
Rus’ka fumava concentrato, senza voltarsi verso Neržin. Il suo viso sempre
mutevole, che assomigliava ora a quello di un ragazzetto ingenuo, ora a quello
di un imbroglione patentato, sotto la massa dei capelli fluenti di un biondo
scuro aveva un aspetto attraente persino alla luce della lampadina blu.
– Tieni. – Neržin gli porse il pacchetto vuoto di Belomor come posacenere.
Cominciarono a scrollare lì la cenere.
Rus’ka si trovava alla šaraška da quell’estate. A Neržin era piaciuto fin dal
primo sguardo e aveva ispirato un desiderio di protezione.
Ma nonostante i suoi ventitré anni (nel campo gliene avevano affibbiati
venticinque), Rus’ka di protezione non sembrava proprio aver bisogno: il
carattere e la concezione del mondo se li era pienamente formati nel corso della
sua vita breve ma burrascosa, nella varietà degli avvenimenti e delle
impressioni: non tanto durante le due settimane di studi all’università di Mosca
e le altre due a quella di Leningrado, quanto nei due anni trascorsi con i
documenti falsi, inseguito dalla polizia investigativa pansovietica (l’aveva
riferito a Neržin in gran segreto) e adesso nei due anni di reclusione. Avendo
appreso con ricettività istantanea, come si suol dire “al volo”, le leggi da lupi
del GULAG, era sempre diffidente, davvero sincero solo con pochi, mentre alla
maggior parte delle persone si mostrava soltanto puerilmente sincero. Inoltre,
era spumeggiante, cercava di incastrare molte cose in poco tempo, e fra le sue
varie occupazioni c’era anche la lettura.
Adesso Gleb, nella stanza avvolta nel silenzio, scontento dei propri pensieri
confusi e meschini, poco incline al sonno, e supponendone ancor meno in
Rus’ka, gli domandò in un sussurro:
– Allora? Come va la teoria dei cicli?
Esaminavano questa teoria da qualche tempo e Rus’ka si era messo a
cercarne conferme in Mommsen.
A quel sussurro Rus’ka si era voltato ma lo guardava come se non capisse.
La pelle del viso, in particolare della fronte, fremeva nello sforzo di
comprendere che cosa gli fosse stato domandato.
– Dicevo, come va con la teoria della ciclicità?
Rus’ka sospirò e dal suo viso scomparvero sia la tensione sia quel pensiero
inquieto. Si accasciò, scivolando sul gomito, gettò nel pacchetto vuoto che
Neržin gli aveva avvicinato la sigaretta ancora accesa che non aveva finito di
fumare, poi disse in tono fiacco:
– Sono stufo di tutto. Dei libri, delle teorie.
Ripiombarono nel silenzio. Neržin stava già per girarsi sull’altro fianco,
quando Rus’ka ridacchiò e si mise a bisbigliare in tono sempre più
appassionato e veloce:
– La storia è così monotona che leggerla fa repulsione. Un po’ come la
‘Pravda’. Più è nobile e sincero l’uomo, più i suoi compatrioti agiranno da
mascalzoni nei suoi confronti. Spurio Cassio voleva ottenere la terra per i
popolani e i popolani gli diedero la morte. Spurio Melio voleva nutrire con il
pane il popolo affamato ed è stato giustiziato come se volesse conquistare il
potere imperiale. Marco Manlio, che si svegliò per lo starnazzare delle celebri
oche e salvò il Campidoglio, fu giustiziato come un traditore dello Stato! Eh?
– Ma che dici!
– A leggere la storia, ti vien voglia di diventare anche tu un mascalzone, è
più conveniente! Senza il grande Annibale non avremmo mai nemmeno
conosciuto Cartagine... e quella stessa miserabile Cartagine lo cacciò, gli
confiscò i beni, gli rase al suolo la casa! Tutto è già accaduto... A quei tempi
misero i ceppi a Gneo Nevio perché smettesse di scrivere opere audaci. Già gli
etoli, molto prima di noi, annunciarono una falsa amnistia per attirare gli
emigrati di nuovo in patria e ucciderli. Già a Roma scoprirono quella verità che
il GULAG dimentica: non conviene lasciare lo schiavo affamato, bisogna
nutrirlo. La storia è tutta un unico perenne... inferno! Chi arraffa, mangia. Non
esiste verità, errore, sviluppo. E non c’è nessuno cui rivolgersi.
In quell’illuminazione senza vita, labbra così giovani che si contraevano
sfiduciate avevano un’aria particolarmente aspra!
Si trattava di pensieri che in Rus’ka erano stati in parte ispirati dallo stesso
Neržin, ma ora che glieli sentiva uscire di bocca suscitavano in Gleb il
desiderio di ribattere. Con i suoi compagni più anziani Neržin aveva preso
l’abitudine di demolire qualsiasi cosa, ma davanti a un detenuto tanto giovane
sentiva una certa responsabilità.
– Voglio metterti in guardia, Rostislav – gli mormorò Neržin, avvicinandosi
quasi all’orecchio del vicino. – Sebbene lo scetticismo, l’agnosticismo o il
pessimismo siano sistemi ingegnosi e implacabili, ricordati che per la loro
stessa natura sono condannati all’abulia. Alla fin fine non possono guidare
l’azione umana perché la gente non può fermarsi, dunque non si può rinunciare
a sistemi che affermino qualcosa, che li esortano a puntare in qualche
direzione.
– Magari verso una palude? Pur di andare da qualche parte? – obiettò
Rus’ka, con rabbia.
– Forse... Chissà! – cominciò a esitare Gleb. – Cerca di capirmi, considero
anch’io lo scetticismo necessario all’umanità. Serve a incrinare le nostre fronti
di pietra, a strozzare le gole dei nostri fanatici. In terra russa è particolarmente
necessario, anche se fa molta fatica ad attecchire. Tuttavia non può diventare
terreno stabile sotto il piede umano. E di un terreno abbiamo bisogno, no?
– Dammi un’altra sigaretta – chiese Rostislav. L’accese, nervoso. – Senti,
meno male che l’MGB mi ha impedito di studiare! Di diventare uno storico! –
mormorò, scandendo le parole a un volume appena più alto. – Se avessi finito
l’università o persino il dottorato, ora sarei un bell’idiota. Uno studioso, magari
uno di quelli incorruttibili, anche se fatico a immaginarmelo. Avrei scritto un
bel tomo. Analizzato dall’ottocentotreesimo punto di vista i Quinti
novgorodesi o la guerra di Cesare contro gli Elvezi. Quanta cultura c’è nel
mondo! Quante lingue! Quante nazioni! E in ogni nazione, quanti uomini
intelligenti, e ancora di più sono i libri intelligenti... quale scemo potrebbe
leggersi tutto?! Come rispondi a questo? ‘Ciò che i maestri hanno inventato
con enorme fatica, ad altri maestri ben più grandi si rivela illusorio’, non è forse
così?
– Eccolo lì – lo rimproverò Neržin. – Stai perdendo ogni sostegno e ogni
obiettivo. Dubitare si può ed è necessario. Ma non è forse necessario anche
amare qualcosa?
– Sì, sì, amare! – intervenne Rus’ka, con un roco bisbiglio trionfante. –
Amare! Ma non la storia, e neppure una teoria: bisogna amare una ra-gaz-za! –
Si sporse dal letto e afferrò Neržin per il gomito. – Cos’è che ci hanno tolto,
eh? Il diritto di andare alle riunioni? Alle lezioni di Educazione politica? Di
sottoscrivere un prestito di Stato? Il Capobanda poteva nuocerci solo in un
modo: levandoci le donne! E lo ha fatto. Per venticinque anni! Quei cani!! Chi
se lo immaginava – si batté il petto con il pugno – cosa può significare una
donna per un detenuto!
– Rus’ka... non diventarci matto! – provò a sottrarsi Neržin, ma al pensiero
di Simočka, della sua promessa per quel lunedì sera fu lui stesso invaso da
un’improvvisa ondata calda... – Togliti quell’idea dalla testa! Ti ottenebra solo il
cervello. – (Oh, lunedì! Quello che le persone felicemente sposate non
apprezzano abbastanza nel tormentato detenuto si solleva con agghiacciante
ferocia!) – Complesso freudiano, o simplesso, come cavolo si chiama... – stava
usando un tono sempre più fiacco, titubante. – Insomma: sublimalo! Sposta le
energie verso altri campi! Occupati di filosofia, lì non servono né il pane né
l’acqua, e nemmeno le carezze di una donna.
(Ma lui stesso fremette nell’immaginarsi nei dettagli come sarebbe andata di
lì a due giorni, e a quel pensiero, per quel dolce terrore, la conversazione aveva
perso senso, e lui non aveva più voglia di continuare.)
– Il mio cervello è già ottenebrato! Mi addormento solo quando è ormai
mattino! Una ragazza! Tutti hanno bisogno di una ragazza! Averla fra le
braccia... per... Uhm, porca miseria! – Senza neanche accorgersene Rus’ka lasciò
cadere la sigaretta ancora accesa, si voltò di scatto e, buttatosi a pancia in giù, si
tirò con uno strattone la coperta fin sopra la testa, sottraendola di nuovo ai
piedi.
Neržin acchiappò per un soffio la sigaretta che stava già rotolando giù in
mezzo ai loro letti su Potapov, e la spense.
Proponeva a Rus’ka di rifugiarsi nella filosofia, ma in quel rifugio lui c’era
già da un pezzo. La polizia investigativa pansovietica aveva dato la caccia a
Rus’ka, che ora si trovava nelle grinfie della prigione. Ma cosa bloccava Gleb a
diciassette o diciannove anni, quando lo sommergevano quelle ardenti folate
che gli ottenebravano la mente, privandolo della ragione? Si attorcigliava in
quella dialettica, ci soffocava, ci ficcava il naso da porcellino, lo ficcava lì
dentro, grugnendo e annusando, con la paura di non fare in tempo. Tutti
quegli anni fino al matrimonio, la gioventù non vissuta a pieno e persa per
sempre, adesso, nella cella di una prigione, li ricordava con maggiore amarezza.
Smarrito, non aveva saputo concedersi quegli istanti di ottenebramento: non
conosceva le parole che portano all’intimità, il tono per far cedere l’altro.
Inoltre, era legato ai secoli passati dal pensiero ben radicato dell’onore
femminile. E nessuna donna più esperta e più saggia gli aveva mai posato una
mano indulgente sulla spalla. No, una l’aveva anche invitato, ma lui allora non
aveva capito! Ci aveva riflettuto e se n’era reso conto soltanto sul pavimento
della prigione, e quell’occasione sfuggita, anni interi sfuggiti, un intero mondo,
lo consumavano dentro.
Be’, adesso non importava, doveva aspettare solo meno di quarantotto ore,
fino alla sera di lunedì.
Gleb si piegò verso l’orecchio del vicino:
– Rus’ka! Ma tu, ce l’hai una ragazza?
– Sì! Ce l’ho! – sussurrò con sofferenza Rostislav, che sdraiato bocconi
stringeva il cuscino. Vi respirava contro e il calore che il guanciale gli restituiva,
insieme a tutto il calore della gioventù che si avvizziva in carcere in modo così
malignamente infruttuoso, arroventava il suo giovane corpo imprigionato, che
chiedeva sfogo e sfogo non conosceva. Aveva detto “ce l’ho”, e voleva credere
di avere sul serio una ragazza, ma tra loro c’era stato solo qualcosa di
impalpabile: non un bacio, e nemmeno una promessa, soltanto il fatto che
quella sera una ragazza lo aveva ascoltato, con sguardo di simpatia e
ammirazione, mentre lui raccontava di sé; e nello sguardo di quella giovane, per
la prima volta, Rus’ka aveva visto sé stesso come un eroe e la propria storia
come fuori del comune. Fra loro non era successo nient’altro, eppure era
successo qualcosa che gli faceva dire di avere una ragazza.
– Ma, senti un po’, chi è? – cercò di strappargli Gleb.
Nel buio, abbassata leggermente la coperta, Rostislav rispose:
– Tsss... è Klara...
– Klara?? La figlia del procuratore?!!
37 Compaesano.
16
UNA TROJKA DI MENTITORI

Il capo della Sezione Incarichi speciali stava completando la sua relazione al


ministro Abakumov. (Riguardava le condanne a morte all’estero per l’anno a
venire, il 1950, con i relativi esecutori materiali; l’implacabile piano degli
omicidi politici era stato approvato da Stalin in persona ancora prima delle
vacanze.)
Alto (ancor di più per via dei tacchi considerevoli), i capelli neri pettinati
all’indietro, le spalline da commissario generale di secondo rango, Abakumov
appoggiava trionfalmente i gomiti sulla sua enorme scrivania. Era robusto ma
non grasso (conosceva l’importanza di un bel fisico e giocava persino un po’ a
tennis). Occhi piuttosto intelligenti, di una vivacità sospettosa e con prontezza
d’ingegno. Dove necessario, correggeva il capo della Sezione, e questi si
affrettava a prendere nota.
L’ufficio di Abakumov non era un salone, ma nemmeno una semplice
stanza. Vi si trovavano anche un camino non funzionante di marmo e un
enorme specchio da parete; dal soffitto alto, ricoperto di stucchi, pendeva un
lampadario e c’erano dipinti putti e ninfe che si rincorrevano (il ministro aveva
deciso di lasciare tutto com’era, aveva soltanto fatto ridipingere di un altro
colore il verde, perché lo detestava). C’era una porta-finestra che dava su un
balcone, bloccata ermeticamente sia d’inverno sia d’estate, e grandi finestre
sulla piazza che non venivano spalancate mai. Inoltre alcuni orologi: uno a
pendolo, con una cassa stupenda; uno da camino, con una figurina e a carica;
uno elettrico, da stazione, a parete. Ogni orologio segnava un orario
abbastanza diverso, eppure Abakumov non sbagliava mai l’ora giacché se ne
portava addosso altri due d’oro: uno sul polso peloso, l’altro (con la suoneria)
in tasca.
In quel palazzo la dimensione degli uffici aumentava con l’aumentare del
grado dei loro occupanti. Aumentava la dimensione delle scrivanie e quella dei
tavoli delle riunioni sotto le tovaglie di panno blu, vermiglio e lampone. Ma ad
aumentare con maggiore scrupolosità era la dimensione dei ritratti
dell’Ispiratore e Regista della Vittoria. Se già negli uffici dei semplici inquirenti
era raffigurato molto più grande della sua altezza naturale, in quello di
Abakumov il Capo dell’Umanità era stato dipinto da un pittore realista del
Cremlino su una tela di cinque metri, a figura intera dagli stivali fino al
berretto da maresciallo, splendente con tutte le sue onorificenze (che lui non
indossava mai), per la maggior parte ricevute da sé stesso, un buon numero da
altri re e presidenti, e solo quelle jugoslave erano state fatte poi diligentemente
sparire dal panno della giacca militare con una mano di colore.
Tuttavia, come rendendosi conto dell’insufficienza di quella immagine di
cinque metri e sentendo la necessità di trarre ispirazione dall’effige del Miglior
Amico degli agenti del Controspionaggio ogni minuto, persino quando gli
occhi non si staccavano dalla scrivania, Abakumov teneva anche sul tavolo un
bassorilievo di Stalin su una piastra di rodonite.
Su una parete poi uno spazio consistente lo occupava un ritratto quadrato
del mellifluo uomo con il pince-nez38 sotto il cui comando diretto si trovava
Abakumov.
Quando il capo della Sezione della morte se ne fu andato, sulla porta
apparvero in fila, e in fila si mossero lungo il disegno del tappeto, il
viceministro Selivanovskij, il generale di divisione Oskolupov, capo della
Sezione di Tecnica speciale, e l’ingegner colonnello Jakonov, ingegnere capo di
quella stessa sezione. Mantenendo il servilismo gerarchico esistente fra loro e
dimostrando particolare ossequio per l’occupante di quell’ufficio,
camminavano in fila indiana, senza allontanarsi dalla striscia centrale del
tappeto, posando il piede dove l’aveva posato chi lo precedeva, in modo che gli
unici passi fossero quelli di Selivanovskij.
Vecchio, magro, con i capelli a spazzola in parte canuti e in parte grigi, in un
completo grigio dal taglio non militare, fra i dieci viceministri Selivanovskij si
trovava in una situazione per così dire non ufficiale: gestiva una direzione
operativa che non era né di controspionaggio né di istruttoria; il suo nucleo
operativo si occupava di comunicazione e di una tecnologia segreta delicata.
Siccome alle riunioni e nelle direttive subiva meno l’ira del ministro, si
muoveva in quell’ufficio in modo più disinvolto e ora si era accomodato sulla
grossa poltrona di pelle davanti alla scrivania.
Con Selivanovskij seduto, era apparso alla vista Oskolupov. Jakonov
rimaneva in piedi dietro di lui, come a nascondere la propria corpulenza.
Abakumov guardò Oskolupov, appena spuntatogli davanti, in vita sua
l’aveva visto sì e no tre volte, e notò in lui un non so che di simpatico.
Oskolupov tendeva alla pinguedine, il collo gli strizzava il colletto della giubba
e il mento, ora servilmente tenuto basso, gli sporgeva un po’ all’infuori. Il viso
di legno, anche più butterato dal vaiolo di quello del Capo, era la faccia
semplice e onesta di un esecutore, non il volto astruso dell’intellettuale che si
crede chissà chi.
Strizzando gli occhi oltre la spalla di Jakonov, Abakumov chiese:
– E tu chi sei?
– Io? – si fece avanti Oskolupov, avvilito di non essere stato riconosciuto.
– Io? – spuntò Jakonov leggermente di lato. Tirò in dentro il più possibile
l’addome molle e prominente che aumentava nonostante i suoi sforzi, e nel
presentarsi impedì a qualsivoglia pensiero di trapelare dai grandi occhi blu.
– Tu, tu – confermò il ministro, sbuffando. – Non è forse tuo l’impianto di
Marfino? Bene, sedetevi.
Si sedettero.
Il ministro afferrò il tagliacarte di plexiglas color rubino, si grattò con quello
dietro l’orecchio e disse:
– E allora... Da quanto tempo mi menate per il naso? Due anni? Il progetto
non prevedeva quindici mesi? Quando saranno pronti i due apparecchi? – E in
tono minaccioso li avvertì: – Non mentite! Detesto le menzogne!
Proprio a quella domanda si erano preparati i tre grandi mentitori, una volta
saputo di essere stati convocati tutti assieme. Come si erano accordati, iniziò
Oskolupov. Quasi balzando in avanti rispetto alle spalle trattenute indietro,
guardò con entusiasmo dritto negli occhi l’onnipotente ministro e annunciò:
– Compagno ministro! Compagno colonnello generale! – (Abakumov
preferiva così piuttosto che “commissario generale”.) – Mi permetta di
assicurarle che il personale della sezione non sta lesinando gli sforzi...
Il viso di Abakumov espresse stupore:
– Dove credete che siamo, a un’assemblea? Che me ne faccio dei vostri
sforzi? Mi ci avvolgo il culo? Allora ce l’avete o no una data?
E afferrò una penna stilografica col pennino d’oro e si approssimò alla
rubrica-calendario.
A quel punto, come deciso, intervenne Jakonov, con il solito tono e la voce
calma, per sottolineare che a parlare non era l’amministratore ma lo specialista.
– Compagno ministro! Con la banda di frequenze fino a 2400 Hertz, con un
livello medio di trasmissione di 0,9 neper...
– Hertz, Hertz! Zero, virgola, Hertz! Solo questo si riesce a ottenere da voi!
Che cacchio me ne faccio del tuo zero? Dammi quegli apparecchi, ne voglio
due! E completi! Allora, quando?! – E avvinghiò tutti e tre con lo sguardo.
A quel punto intervenne Selivanovskij, lentamente, passandosi una mano tra
i capelli a spazzola in parte canuti e in parte grigi:
– Mi permetta di chiederle cosa intende, Viktor Semënovič. Le
conversazioni bilaterali sono ancora prive di codifiche assolute...
– Mi prendi per scemo? Come fanno a essere prive di codifiche? – Il
ministro gli lanciò una rapida occhiata.
Quindici anni prima, quando Abakumov non solo non era ancora ministro,
ma né lui né gli altri avrebbero mai potuto presupporre che lo sarebbe
diventato (era un corriere dell’NKVD, un ragazzo alto, robusto, con gambe e
braccia lunghe), i suoi quattro anni di scuola primaria erano stati più che
sufficienti. Alzava il proprio livello solo grazie al ju-jitsu, disciplina in cui si
allenava esclusivamente nelle palestre della Dinamo.
Quando poi, negli anni di ampliamento e rinnovo dei quadri inquirenti, era
venuto fuori che Abakumov conduceva bene le inchieste raggiungendo
agilmente e in scioltezza il muso altrui con le lunghe braccia, aveva preso il via
la sua grande carriera: di lì a sette anni era diventato il capo del
controspionaggio SMERŠ e adesso era ministro: nemmeno una volta in quella
lunga scalata aveva percepito la propria istruzione come insufficiente. Anche lì,
nelle alte sfere, riusciva a orientarsi abbastanza da non farsi abbindolare dai
sottoposti.
Ora Abakumov iniziava ad arrabbiarsi e aveva sollevato il pugno stretto e
grosso come un sasso sopra il tavolo, quando l’alta porta si spalancò e nella
stanza entrò senza bussare Michail Dmitrievič Rjumin, un cherubino tondo e
piccoletto, con le guance di un bel colore rubizzo, che al ministero tutti
chiamavano Min’ka, ma quasi nessuno in faccia.
Camminava come un gattino, senza far rumore. Avvicinandosi, abbracciò
con lo sguardo di un candore innocente gli uomini seduti, salutò Selivanovskij
stringendogli la mano (quello si alzò in piedi), si accostò a un capo della
scrivania del ministro e, accarezzandone quasi il bordo scanalato con i piccoli
palmi grassocci, la testa di lato, la voce vellutata, pensieroso disse:
– Vede, Viktor Semënyč, secondo me questo sarebbe compito di
Selivanovskij. La Sezione di Tecnica speciale se lo guadagna o no, il pane? Non
sono in grado di riconoscere le voci da un nastro magnetico? Allora cacciamoli.
E fece un sorriso molto dolce, come stesse offrendo la cioccolata a una
bambina. E poi guardò con affetto tutti e tre i rappresentanti della sezione.
Contabile in una cooperativa di consumo nella regione di Archangel’sk,
Rjumin aveva vissuto per molti anni da omuncolo insignificante. Roseo,
paffuto, le labbra perennemente imbronciate, assillava i computisti il più
possibile con osservazioni beffarde, succhiava di continuo caramelle, le offriva
agli addetti alle spedizioni, si rivolgeva agli autisti con diplomazia, ai cocchieri
con superiorità e posava le pratiche sulla scrivania del presidente con cura
meticolosa.
Ma durante la guerra lo avevano chiamato nella flotta e trasformato in un
inquirente della Sezione speciale. Lì Rjumin aveva trovato sé stesso! Aveva
imparato con successo e zelo (si era forse preparato a quel salto per tutta la
vita?) come montare i casi. Uno zelo fin troppo eccessivo, il suo: aveva
abborracciato in modo così grossolano un caso contro un corrispondente della
flotta del Nord che l’ufficio del procuratore, da sempre incline a non
immischiarsi con gli Organi, era dovuto per forza intervenire e... no, non aveva
sospeso l’istruttoria! Tuttavia aveva avuto l’ardire di segnalarlo ad Abakumov.
Il piccolo inquirente dello SMERŠ presso la flotta del Nord era stato chiamato a
rapporto da Abakumov. Era entrato timoroso nell’ufficio, sicuro di rimetterci
la testa. La porta si era chiusa. Quando si era riaperta un’ora dopo Rjumin ne
era uscito baldanzoso: era diventato nuovo capo inquirente per gli affari
speciali presso l’apparato centrale dello SMERŠ. Da allora la sua stella non aveva
fatto che brillare (in modo nefasto per Abakumov, ma nessuno dei due lo
sapeva ancora).
– Li caccio comunque, Michail Dmitrič, puoi starne certo. Li caccio, ne
usciranno con le ossa rotte! – rispose Abakumov e fissò i tre con aria
minacciosa.
I tre abbassarono lo sguardo, colpevoli.
– Però non capisco cosa pretendi. Come si può riconoscere una voce per
telefono? Quella di uno sconosciuto, per esempio, come si fa? Dove va cercata?
– Hanno il nastro, la conversazione è registrata. La ascoltino, la confrontino.
– Perché, hai già arrestato qualcuno?
– E certo! – Gli rivolse un sorriso bonario. – Ne abbiamo presi quattro
davanti alla fermata della metropolitana Sokol’niki.
Ma sul suo viso calò un’ombra. Sapeva che erano stati presi troppo tardi,
non potevano essere loro. Una volta fermati però non era possibile rilasciarli.
Forse qualcuno di loro si poteva accusare comunque, in modo da non lasciare
il caso irrisolto. La voce allusiva di Rjumin stridette di irritazione:
– Potrei anche far registrare sul magnetofono le voci di mezzo Ministero
degli Affari esteri, ma sarebbe superfluo: basterà scegliere fra cinque, sette, che
al ministero potevano sapere.
– Allora arrestali tutti, quei cani, inutile diventar matti! – si innervosì
Abakumov. – Sono solo sette! Il paese è grande, ne faremo a meno!
– Non si può, Viktor Semënyč – obiettò Rjumin, con prudenza. – Non è
mica il Ministero dell’Industria alimentare, così perderemmo tutti i
collegamenti, e ci sarebbero defezioni in altre ambasciate. Bisogna trovare il
vero responsabile. E il più presto possibile.
– Uhm... – rifletté Abakumov. – Però non capisco, con cosa possiamo
confrontare cosa?
– Nastro con nastro.
– Nastro con nastro? Sì, prima o poi dovremo pure perfezionare questa
tecnica. Selivanovskij, pensa di farcela?
– Io, Viktor Semënyč, non capisco ancora di cosa stiamo parlando.
– Cosa c’è da capire? Non c’è niente da capire. Una canaglia, una serpe,
probabilmente un diplomatico, sennò come lo avrebbe saputo?, questa sera ha
chiamato l’ambasciata americana da un telefono pubblico, e ha rivelato i nomi
di tutti gli agenti segreti che abbiamo là. Ha parlato della bomba atomica. Ecco,
trovalo e avrai un bel premio.
Superando Oskolupov, Selivanovskij guardò Jakonov. Questi incrociò il suo
sguardo e sollevò un po’ le sopracciglia, fin quasi a unirle. Con quello voleva
dire che si trattava di una faccenda nuova, per la quale mancavano metodologie
ed esperienza, e che comunque avevano già abbastanza cose cui dare retta, non
era il caso di impegnarsi. Selivanovskij era abbastanza intelligente da capire sia
il movimento delle sopracciglia che tutta la situazione. E si preparò a
trasformare una questione chiara in qualcosa di ingarbugliato.
Ma intanto Foma Gur’janovič Oskolupov ragionava a modo suo. Lui non
voleva affatto essere il cretino messo a capo della sezione. Da quando era stato
promosso a quella carica, traboccava di dignità ed era più che convinto di saper
gestire ogni problema e di cavarsela meglio di tutti. Altrimenti perché avrebbe
avuto la nomina? E sebbene a suo tempo non avesse nemmeno concluso i
primi sette anni di scuola, ora non ammetteva che uno dei suoi sottoposti
potesse capirne di più di lui, a meno che non si parlasse di dettagli o di schemi
dove era proprio necessario mettere le mani. Poco tempo prima, trovandosi in
borghese senza uniforme, in una stazione termale di prim’ordine, si era fatto
passare per professore di elettronica. Là aveva conosciuto il celeberrimo
scrittore Kazakevič, il quale non gli aveva più staccato gli occhi di dosso e
annotava tutto nel suo taccuino, dicendo che voleva ispirarsi a lui per il
personaggio di uno scienziato contemporaneo. Dopo quel periodo alla stazione
termale Foma si era finalmente sentito uno scienziato.
Anche ora comprese subito il problema e mollò il branco:
– Compagno ministro! Noi possiamo di certo!
Selivanovskij si voltò e lo guardò stupito:
– In quale impianto? In quale laboratorio?
– Quello telefonico, a Marfino. Hanno parlato al telefono, perciò...
– No, a Marfino hanno un compito più importante da svolgere.
– Non importa! Troveremo le persone! Là ce ne sono trecento, e non
scoviamo quelle adatte?
E piantò in faccia al ministro lo sguardo di uno pronto a tutto.
Abakumov non sorrise, ma sul viso gli si palesò di nuovo un’espressione di
simpatia verso il generale. Era così anche lui, Abakumov, quando voleva farsi
strada: pronto a ridurre a pezzetti chiunque gli indicassero, senza riserve. Trovi
sempre simpatico uno più giovane che ti assomiglia.
– Bravo! – approvò. – È così che bisogna ragionare! Prima di tutto gli
interessi dello Stato, e poi il resto. Giusto?
– Proprio così, compagno ministro! Proprio così, compagno colonnello
generale!
Rjumin non sembrò né stupirsi né apprezzare in modo particolare
l’abnegazione di quel generale di divisione butterato. Guardò distrattamente
Selivanovskij e disse:
– Allora domani mattina verrò da voi.
Si scambiò un’occhiata con Abakumov e se ne andò con passo silenzioso.
Il ministro si stuzzicò i denti nel punto in cui un pezzetto di carne gli era
rimasto incastrato dalla cena.
– Bene, allora quando? Avete continuato a blandirmi: all’inizio il 1° agosto,
poi le feste d’ottobre, infine l’anno nuovo... quindi?
Inchiodò lo sguardo su Jakonov, obbligando quest’ultimo a rispondere.
Qualcosa nella posizione del collo sembrava impacciare Jakonov. Lui lo
piegò appena a destra, poi appena a sinistra, sollevò sul ministro i suoi gelidi
occhi blu per riabbassarli subito.
Jakonov sapeva di avere un grande talento. Ma sapeva anche che persone di
talento superiore al suo, con il cervello impegnato totalmente nel lavoro,
stavano su quel maledetto impianto quattordici ore su ventiquattro, senza
nemmeno un giorno di riposo in tutto l’anno. Gli sconsiderati e generosi
americani, che pubblicavano le loro invenzioni su riviste accessibili a tutti,
partecipavano a loro volta alla realizzazione di quell’impianto, sia pure
indirettamente. Jakonov conosceva le mille difficoltà, già superate e appena
sorte, in mezzo alle quali i suoi ingegneri si facevano largo come nuotatori in
mezzo al mare. Sì, di lì a sei giorni sarebbe scaduto l’ultimo degli ultimi termini
da loro elemosinati a quell’ammasso di carne stretto nella giacca militare. Ma
avevano dovuto elemosinare e fissare termini assurdi perché fin dall’inizio, per
quel lavoro decennale, il Corifeo delle Scienze aveva concesso loro solo un
anno.
Nell’ufficio di Selivanovskij si erano accordati di chiedere una proroga di
dieci giorni. Promettere due prototipi di impianti telefonici entro il 10 gennaio.
Così aveva insistito il viceministro. Così aveva voluto Oskolupov. Calcolavano
di riuscire a consegnare almeno qualcosa di non finito, purché verniciato di
fresco. Nessuno avrebbe potuto o saputo verificare nell’immediato
l’assolutezza o meno della codifica, e nel tempo che ci voleva a collaudarne la
qualità, a produrli in serie e a dotare di quegli apparecchi le nostre ambasciate
all’estero, sarebbero trascorsi altri sei mesi e loro avrebbero sistemato sia la
codifica sia la qualità del suono.
Ma Jakonov sapeva che gli oggetti inanimati non obbediscono alle scadenze
degli uomini, e che per il 10 gennaio dagli apparecchi non sarebbe uscita una
parlata umana ma un pastone. E inevitabilmente si sarebbe ripetuto con lui
quanto accaduto a Mamurin: il Padrone avrebbe chiamato Berija a rapporto e
gli avrebbe chiesto: chi è l’imbecille che ha creato questa macchina? Toglilo di
mezzo. E anche Jakonov sarebbe diventato nel migliore dei casi una Maschera
di Ferro o, con più probabilità un semplice zek.
E sotto lo sguardo del ministro, sentendo stringere intorno al collo un
cappio impossibile da sciogliere, Jakonov superò il proprio misero terrore e,
senza rendersene conto, come aspirando ossigeno nei polmoni, esclamò:
– Ancora un mese! Ancora uno! Fino al 1° febbraio!
Con aria supplichevole, quasi come un cane, guardò Abakumov.
A volte le persone di talento sono ingiuste verso i meno dotati. Abakumov
era più intelligente di quanto Jakonov non pensasse, solo che a furia di usarlo
poco il cervello al ministro era diventato inutile: per tutta la carriera era
successo che a riflettere ci aveva perduto, mentre a servire con zelo ci aveva
sempre guadagnato. E Abakumov si sforzava di usare la testa il meno possibile.
In cuor suo sapeva che se due anni non erano stati sufficienti, non potevano
essere d’aiuto altri dieci giorni, e nemmeno un mese. Ai suoi occhi, tuttavia, la
colpa era di quella trojka di mentitori, erano loro i colpevoli: Selivanovskij,
Oskolupov e Jakonov. Se era così difficile, perché ventitré mesi prima avevano
accettato quel compito accordandosi per un anno? Perché non esigerne tre? (Si
era già dimenticato che li aveva sollecitati lui stesso senza pietà.) Se si fossero
impuntati allora davanti ad Abakumov, lui si sarebbe impuntato davanti a
Stalin, avrebbero ottenuto due anni, e il terzo lo avrebbero strappato tirando
per le lunghe.
Ma la paura sorta in lunghi anni di subordinazione era così enorme che
nessuno di loro, né prima né dopo, aveva avuto abbastanza coraggio da farsi
valere davanti ai superiori.
Lo stesso Abakumov seguiva il famoso detto volgare secondo cui a tenersi
un po’ di tempo di riserva non la pigli mai in quel posto, e con Stalin
aggiungeva sempre un paio di mesi in più. Anche adesso: aveva promesso a
Iosif Vissarionovič di fargli avere uno degli apparecchi il 1° marzo. Così, nella
peggiore delle ipotesi poteva autorizzare ancora un mese, ma che fosse davvero
un mese.
Prese di nuovo la penna stilografica e, con assoluta semplicità, Abakumov
domandò:
– Un mese come? Un mese vero o tornerete qui a contar balle?
– Un mese! Un mese! – disse Oskolupov, raggiante, rallegrato da quella
svolta fortunata, neanche fosse pronto a precipitarsi direttamente da lì,
dall’ufficio, a Marfino, e imbracciare lui stesso il saldatore.
Così, scarabocchiando con la penna, Abakumov annotò la data sulla rubrica-
calendario.
– D’accordo. Per l’anniversario della morte di Lenin. Riceverete tutti il
premio Stalin. Selivanovskij, sarete pronti?
– Saremo pronti! Certamente!
– Oskolupov! Vi stacco la testa! Sarete pronti?
– Sì, compagno ministro, c’è rimasto solo...
– E tu? Lo sai che cosa stai rischiando? Sarete pronti?
Continuando a farsi coraggio, Jakonov insisté:
– Un mese! Fino al 1° febbraio.
– E se il 1° febbraio non sarete pronti? Colonnello! Valuta bene! Stai
mentendo.
Certo, Jakonov mentiva. E certo, avrebbe dovuto chiedere due mesi. Ma
ormai era fatta.
– Saremo pronti, compagno ministro – promise, in tono mesto.
– Be’, stai attento, non ti ho costretto io a dirlo! Chiedo tanto ma non voglio
bugie! Andate.
Sempre in fila, sollevati, se ne andarono un passo dietro l’altro, chinando lo
sguardo davanti all’immagine di Stalin alta cinque metri.
Ma si erano rallegrati troppo presto. Non sapevano che il ministro aveva
teso loro una trappola.
Si erano appena fatti congedare, che nell’ufficio fu annunciato:
– L’ingegner Prjančikov!

38 Berija.
17
A PROPOSITO DELL’ACQUA CALDA

Quella notte, su ordine di Abakumov, prima era stato chiamato Jakonov


attraverso Selivanovskij e quindi, all’oscuro di tutti loro, con un intervallo di
quindici minuti l’uno dall’altro erano stati inviati all’impianto di Marfino due
fonogrammi: avevano convocato al ministero lo zek Bobynin, e poi lo zek
Prjančikov. Bobynin e Prjančikov erano stati accompagnati in macchine
separate e costretti ad attendere in stanze diverse perché non avessero modo di
mettersi d’accordo.
Ma difficilmente Prjančikov sarebbe riuscito ad accordarsi per via della sua
innaturale sincerità, che molti disincantati figli del secolo consideravano
un’anomalia spirituale. Alla šaraška la chiamavano proprio così: “lo sfasamento
di Valentulja.”
Tanto più adesso non sarebbe stato in grado di giungere a un accordo o a
qualsivoglia premeditazione. Tutta la sua anima era scossa dalle luminose
visioni di Mosca che scorrevano oltre il finestrino della Pobeda. Dopo gli strati
di periferica oscurità che circondavano la zona di Marfino, era stato ancora più
sbalorditivo sbucare sul grande stradone splendente, verso l’allegro viavai della
piazza della stazione, poi verso le vetrine con le luci al neon della Sretenka. Per
Prjančikov non esistevano più né l’autista né i due accompagnatori in abiti
civili, e quella che gli entrava e gli usciva dai polmoni non sembrava più aria
ma fuoco. Impossibile staccarsi dal finestrino. Non lo avevano portato mai a
Mosca di giorno, e in tutta la storia della šaraška nessun detenuto aveva mai
visto nemmeno la città di sera!
Nei pressi della piazza Sretenkie Vorota l’automobile rallentò per la folla che
usciva dal cinema, poi attese al semaforo.
A milioni di detenuti pareva che la vita in libertà senza di loro si fosse
fermata, che non ci fossero più uomini, e le donne si tormentassero per eccesso
di amore non condiviso con nessuno, e che a nessuno servisse quell’amore. Lì,
invece, si muoveva la sazia ed eccitata folla della capitale, balenavano cappelli,
velette, volpi argentate, e attraverso il gelo, attraverso la carrozzeria
impenetrabile dell’automobile, i vibranti sensi di Valentin percepivano folate,
folate e folate di profumi di donne a passeggio. Valentin udiva le risate, il
parlottare inquieto, le frasi solo in parte decifrabili: non desiderava altro che
frantumare il resistente finestrino in vetroresina e gridare a quelle donne che
lui era giovane, sentiva la loro mancanza, si trovava in prigione per una
quisquilia! Dopo l’isolamento monastico della šaraška, quel pezzetto di vita
elegante che non gli era capitato in nessun modo di vivere, a causa prima delle
ristrettezze da studente, poi della prigionia e infine del carcere, gli pareva uno
spettacolo meraviglioso.
Poi, mentre aspettava in una stanza, Prjančikov non distingueva nemmeno
più i tavoli e le sedie lì dentro: i sentimenti e le impressioni che si erano
impossessati di lui faticavano ad abbandonarlo.
Un giovane tenente colonnello tirato a lucido gli chiese di seguirlo. Con il
collo delicato, i polsi sottili, le spalle strette, le gambe magre, Prjančikov non
aveva mai avuto un aspetto tanto esile come nel momento in cui metteva piede
in quel salone-ufficio, sulla soglia del quale il suo accompagnatore lo aveva
lasciato.
Prjančikov non indovinò nemmeno che si trattava di un ufficio (tanto era
spazioso) e che il paio di spalline dorate in fondo al salone erano il suo
occupante. Non notò neppure lo Stalin di cinque metri alle sue spalle. Davanti
agli occhi continuavano a scorrergli le donne della notte e la Mosca notturna.
Valentin si sentiva come ubriaco. Per lui era difficile capire perché si trovasse lì
e cosa fosse quel salone. Non si sarebbe affatto meravigliato se fossero entrate
delle donne in ghingheri per dare inizio alle danze. Gli sembrava folle che, con
la guerra finita cinque anni prima, il suo bicchiere di tè freddo bevuto per metà
fosse rimasto in una stanza semicircolare illuminata da una lampadina blu,
dove un gruppo di uomini girava in mutande.
I piedi avanzavano sul tappeto disteso con prodigalità sul pavimento. Era
morbido, a pelo lungo, veniva voglia di rotolarcisi dentro. Sul lato destro del
salone si disponeva una fila di grandi finestre, e sul sinistro era appeso uno
specchio che arrivava fino al pavimento.
I liberi non conoscono il valore delle cose! Per uno zek, che poteva disporre,
e non sempre, solo di uno specchietto economico più piccolo di un palmo,
guardarsi in uno grande era una festa!
Prjančikov si fermò di fronte allo specchio, come incantato. Si accostò
vicinissimo e si osservò con soddisfazione il viso fresco e pulito. Si aggiustò un
po’ la cravatta e il colletto della camicia azzurra. Poi cominciò ad allontanarsi,
lentamente, continuando a guardarsi di fronte, di tre quarti e di profilo. Si
mosse a quel modo per qualche istante, cimentandosi quasi in un passo di
danza. Poi si accostò di nuovo e si guardò ancora da vicino. Trovandosi,
nonostante la tuta blu, bello asciutto ed elegante, e sentendosi nella miglior
disposizione di spirito, andò avanti, non perché lo attendesse una questione di
lavoro (di questo Prjančikov si era del tutto dimenticato), ma perché voleva
continuare a perlustrare la stanza.
L’uomo che in una metà del mondo poteva far finire in prigione chiunque, e
nell’altra farlo uccidere, un ministro onnipotente davanti al quale generali e
marescialli impallidivano, ora guardava con curiosità quel gracile zek blu. Dopo
aver fatto arrestare e condannare milioni di persone, lui non ne vedeva uno così
da vicino ormai da lungo tempo.
Con l’andatura di un bellimbusto a passeggio, Prjančikov si avvicinò e
guardò con aria interrogativa il ministro, come se non si aspettasse di trovarlo
lì.
– Lei è l’ingegner... – Abakumov controllò su un foglio – ...Prjančikov?
– Sì – confermò distrattamente Valentin. – Sì.
– È l’ingegnere che dirige il gruppo... – consultò di nuovo gli appunti –
...dell’apparecchio del linguaggio artificiale?
– Ma quale apparecchio del linguaggio artificiale! – disse Prjančikov, con un
cenno indispettito. – Che sciocchezze! Da noi nessuno lo chiama più così. Quel
nome gliel’hanno dato durante la campagna per la lotta contro il servilismo
verso l’Occidente. Si chiama vo-co-der. Voice coder.
– Ma lei è l’ingegnere capo?
– In linea di massima, sì. Perché? – si insospettì Prjančikov.
– Si accomodi.
Prjančikov sedette volentieri, tenendosi con eleganza le gambe ben stirate
dei pantaloni della tuta.
– Le chiedo di parlare con assoluta franchezza, senza il timore di
qualsivoglia repressione da parte del suo diretto superiore. Il vocoder, quando
sarà pronto? Sinceramente! Fra un mese? O ne serviranno due? Parli pure, non
abbia paura.
– Il vocoder? Pronto? Ah-ah-ah-ah! – Prjančikov si lasciò andare a una
sonora risata fanciullesca, di un genere mai riecheggiato sotto quelle volte, si
appoggiò al morbido schienale di pelle e agitò le mani. – Ma cosa sta dicendo??!
Che dice?! Lei, a quanto pare, non sa che cos’è il vocoder. Ora glielo spiego.
Balzò in piedi dalla poltrona molleggiata e si lanciò verso la scrivania di
Abakumov.
– Non ha un pezzetto di carta? Ah, eccolo! – Strappò un foglio dal bloc-
notes intonso sulla scrivania del ministro, afferrò la sua penna color della carne
rossa e si mise a disegnare in fretta e con tratto tondeggiante una serie di
sinusoidi.
Abakumov non si spaventò: c’era talmente tanta sincerità e spontaneità
infantile nella voce e nei movimenti di quello strano ingegnere che il ministro
tollerò una simile irruenza e guardò Prjančikov con curiosità, senza ascoltarlo.
– Deve sapere che la voce di una persona è formata da molti armonici. –
Prjančikov si mangiava quasi le parole per il desiderio impellente di esprimere
tutto il più in fretta possibile. – L’idea del vocoder, dunque, si basa sulla
riproduzione artificiale della voce umana... per la miseria! come cavolo fa a
scrivere con questa penna tremenda? ...la riproduzione ottenuta dalla somma se
non di tutti, almeno degli armonici fondamentali, ciascuno dei quali può essere
inviato tramite un singolo sensore di impulsi. Be’, conoscerà di sicuro il sistema
di coordinate ortogonali cartesiane, quello lo conosce ogni scolaro, ma le serie
di Fourier, le conosce?
– Aspetti un attimo – si riebbe Abakumov. – Mi dica solo una cosa: quando
sarà pronto? Quando?
– Pronto? Uhm... Non ci ho mai pensato. – In Prjančikov la forza d’inerzia
della capitale notturna aveva lasciato il posto alla forza d’inerzia del suo amato
lavoro, e ancora una volta gli era difficile fermarsi. – La cosa più interessante è
che il compito sarà più facile se punteremo sulla semplificazione del timbro
vocale. Allora il numero dei fattori...
– Dunque, per quale data? Quale? Il 1° marzo? Il 1° aprile?
– No, ma che dice! Aprile?... Senza crittografi saremmo pronti... be’, in
quattro, cinque mesi, non prima. E cosa mostreranno la codifica e poi la
decodifica degli impulsi? Che la qualità si sarà ulteriormente ridotta! Ma non
tiriamo a indovinare! – Prjančikov si affannava a persuadere Abakumov,
strattonandolo per la manica. – Ora le spiego tutto. Capirà anche lei, e
concorderà con me, che nell’interesse della questione non bisogna avere
fretta!...
Abakumov però, lo sguardo fisso sulle linee curve e senza senso del disegno,
stava già premendo un pulsante sulla scrivania.
Rispuntò il tenente colonnello di prima, quello tirato a lucido, che invitò
Prjančikov verso l’uscita.
Prjančikov obbedì con un’espressione smarrita, la bocca mezza aperta. La
cosa che gli dispiaceva maggiormente era di non aver esposto fino in fondo il
proprio pensiero. Poi, mentre camminava, si irrigidì, rendendosi conto della
persona con cui aveva parlato. Ormai quasi giunto alla porta, si ricordò che i
ragazzi gli avevano chiesto di presentare delle lamentele, di cercare di ottenere
che... Si voltò di scatto e fece per tornare indietro:
– Ehi!! Senta, mi sono dimenticato di chiederle...
Ma il tenente colonnello gli sbarrò la strada, incalzandolo verso la porta, e il
superiore dietro la scrivania non ascoltava: in quel breve momento
imbarazzante tutte le cose illegali, tutte le violazioni subite in carcere
sfuggirono a Prjančikov dalla memoria, da tempo ormai invasa soltanto da
schemi radiotecnici. Gli venne in mente soltanto una cosa, che gridò sulla
porta.
– Per esempio, l’acqua calda! Arrivi la sera tardi dal lavoro e non ce n’è! Non
riesci neanche a berti un tè come si deve...
– L’acqua calda? – si accertò di aver capito bene quel superiore tanto simile
a un generale. – D’accordo. Provvederemo.
18
LA FIABA DEL CAVALLINO MAGICO

Con la stessa tuta blu, ma robusto, un pezzo d’uomo, la testa rasata da galeotto,
entrò Bobynin.
Manifestò per l’arredamento dell’ufficio l’interesse che avrebbe avuto se ci
fosse capitato cento volte al giorno, procedé senza soffermarsi e prese posto
senza salutare. Si sedette su una delle comode poltrone poco distanti dalla
scrivania del ministro e si soffiò accuratamente il naso con un fazzoletto non
troppo bianco che lui stesso aveva lavato durante l’ultimo bagno.
Un po’ disorientato da Prjančikov, ma incapace di prendere sul serio quel
giovane spensierato, Abakumov era contento che ora Bobynin fosse più posato.
Così non gli gridò: “In piedi!” ma, ritenendo che quello non se ne intendesse di
spalline e a furia di passare porte non si fosse reso conto di dov’era capitato,
quasi in tono pacato gli domandò:
– Perché si siede senza permesso?
Sbirciando a malapena il ministro e finendo di pulirsi il naso con il
fazzoletto, Bobynin rispose senza tante cerimonie:
– Be’, guardi, esiste un detto cinese: stare in piedi è meglio che camminare,
essere seduti è meglio che stare in piedi, e ancora meglio è stare distesi.
– Ma ha una vaga idea di chi sono io?
Con i gomiti appoggiati comodamente sulla poltrona che si era scelto,
Bobynin osservò Abakumov ed espose la propria ipotesi con indolenza.
– Chi potrebbe essere? Be’, qualcuno di simile al maresciallo Goering?
– Simile a CHI??...
– Al maresciallo Goering. Una volta ha visitato la fabbrica aeronautica nei
dintorni di Halle dove mi è capitato di lavorare all’ufficio progettazione. I
generali di là camminavano in punta di piedi, ma io non mi sono nemmeno
voltato dalla sua parte. Lui ha dato una bella occhiata in giro, poi se n’è andato
in un’altra stanza.
Sul volto di Abakumov passò quello che ricordava vagamente un sorriso, ma
davanti a un detenuto di un’insolenza così inaudita lo sguardo si accigliò
subito. Sbatté le palpebre per la tensione e domandò:
– E allora? Fra noi non vede nessuna differenza?
– Fra voi due? O fra noi due? – La voce di Bobynin rombava come ghisa
maltrattata. – Fra noi due la vedo perfettamente: io le servo, mentre lei a me
non serve!
Anche Abakumov aveva una voce che rombava come un tuono e sapeva
come intimidire. Ma ora si rendeva conto che gridare sarebbe stato inutile,
indecoroso. Aveva capito che quello era un detenuto difficile.
Si limitò a metterlo in guardia:
– Senta, detenuto. Anche se la sto trattando con le buone, non si dimentichi
che...
– Se mi avesse trattato con le cattive, cittadino ministro, non mi sarei
nemmeno messo a parlare con lei. Gridi pure contro i suoi tenenti e generali,
quelli nella vita hanno fin troppo, e fin troppo da perdere.
– Se serve, sapremo convincere anche lei.
– Si sbaglia, cittadino ministro! – E gli intensi occhi di Bobynin si accesero
di un odio sincero. – Io non ho niente, le è chiaro? NIENTE DI NIENTE! Moglie e
figlio non me li può più togliere, se li è presi una bomba. I miei genitori sono
già morti. L’unica cosa che mi appartiene su questa terra è un fazzoletto da
naso; la tuta e la biancheria che c’è sotto, senza bottoni (scoprì il petto e la
mostrò), sono dello Stato. La libertà me l’avete tolta da un pezzo e ridarmela
non è nelle sue possibilità, perché manca pure a lei. Ho quarantadue anni, mi
avete affibbiato una condanna a venticinque, ai lavori forzati ci sono già stato,
sono andato in giro con i numeri cuciti addosso, in manette, con i cani da
guardia, e sono stato anche nella squadra a regime intensificato. In quale altro
modo pensa di minacciarmi? Di cos’altro potrebbe privarmi? Del lavoro di
ingegnere? Ci perderebbe lei. Ora vorrei fumare.
Abakumov aprì un pacchetto di Trojka, produzione del Cremlino, e lo
allungò a Bobynin:
– Ecco, prenda queste.
– Grazie. Non cambio marca. Ho la tosse. – Ed estrasse una Belomor da un
portasigarette di sua fabbricazione. – In generale, cerchi di capire, e lo
comunichi anche a chi di dovere sopra di lei, siete forti solo quando non
togliete tutto alle persone. Se togliete tutto a un uomo, quello non è più in
vostro potere, ma di nuovo libero.
Bobynin tacque e si concentrò sulla sua sigaretta. Era bello starsene mezzo
sdraiato su quella poltrona così comoda a stuzzicare il ministro. Gli spiaceva
solo di aver rifiutato sigarette tanto lussuose per fare colpo.
Il ministro controllò sul suo foglio.
– Ingegner Bobynin! Lei è l’ingegnere capo dell’impianto di ‘linguaggio
clippato’?
– Sì.
– Le chiedo di dirmi con assoluta precisione quando sarà pronto per
l’utilizzo?
Bobynin inarcò le folte sopracciglia scure.
– Che novità è questa? Non ha trovato nessuno sopra di me in grado di
rispondere a una domanda del genere?
– Voglio saperlo da lei. Sarà pronto entro febbraio?
– Entro febbraio? Mi prende in giro? Se è per scriverlo sul rapporto... chi si
marita in fretta, stenta adagio... Comunque, diciamo... fra sei mesi. E una
codifica assoluta? Non ne ho la minima idea. Forse un anno.
Abakumov era sconvolto. Gli tornò in mente il movimento astioso e
impaziente dei baffi del Padrone e tremò al pensiero delle promesse che,
basandosi su Selivanovskij, aveva fatto. Dentro gli crollò tutto, come per un
uomo che va a curarsi un raffreddore e scopre di avere un cancro nasofaringeo.
Il ministro si afferrò la testa con entrambe le mani e con voce soffocata
disse:
– Bobynin! La prego di pesare bene le sue parole. Se esiste la possibilità di
fare più in fretta, mi dica, di cosa avreste bisogno?
– Più in fretta? Impossibile.
– E le cause? Quali sono le cause? Di chi è la colpa? Me lo dica, non abbia
timore! Faccia i nomi dei colpevoli, quali che siano le spalline che portano!
Gliele strappo, le spalline!
Bobynin rovesciò indietro la testa e si mise a osservare il soffitto, dove
giocavano le ninfe della compagnia di assicurazioni Rossija.
– Sono passati due anni e mezzo, quasi tre! – si indignò il ministro. – E vi
era stato dato il termine di un anno!
Bobynin scattò:
– Che significa che ci era stato dato un termine? Cosa crede che sia la
scienza? La fiaba del cavallino magico? Costruiscimi un bel palazzo entro
domani mattina, e quello il giorno dopo è fatto? E se il problema viene
impostato male? Se saltano fuori elementi nuovi? Dato un termine! E lei non
pensa che, oltre a un ordine impartito, debbano anche esserci uomini sereni,
ben nutriti e liberi? E senza questa atmosfera di sospetto. Per esempio,
abbiamo spostato un piccolo tornio e, non so se mentre ci lavoravamo noi o
chi dopo di noi, insomma, il basamento si è incrinato. Lo sa il diavolo perché è
successo! Ma ripararlo è costato a un saldatore un’ora di lavoro. E quel tornio è
già una merda, ha centocinquant’anni, è senza motore, con la puleggia a cinghia
scoperta. E per questa incrinatura sono già due settimane che il maggiore oper
Šikin tormenta tutti, ci fa l’interrogatorio, cerca a chi affibbiare una seconda
condanna per sabotaggio! Lui sul lavoro è un oper, un parassita, e in prigione c’è
un altro oper, parassita pure lui, e ti fanno saltare i nervi, fra protocolli e cavilli...
ma che diamine ve ne fate di tutta questa attività operistica? Continuano a dirci
che stiamo progettando un sistema di telefonia segreta per Stalin, che è lui in
persona a volerlo, e nemmeno in un settore come questo siete in grado di
assicurare le condizioni tecniche necessarie: prima mancano i condensatori, poi
le valvole non sono del tipo giusto, oppure non bastano gli oscillografi
elettronici. Per la miseria! È una vergogna! Di chi è la colpa39! Ma agli uomini ci
avete pensato? Lavorano per voi dodici, alcuni anche sedici ore al giorno, ma la
carne è fornita solo agli ingegneri capo, mentre agli altri cosa resta? Le ossa?
Perché ai Cinquantotto non concedete le visite parentali? È stabilito che siano
una volta al mese, ma le permettete solo una volta all’anno. Questo può
sollevare il loro morale? Mancano forse i corvi per trasportare i carcerati? O i
soldi per pagare gli straordinari ai sorveglianti? Regime carcerario!! Il regime vi
annebbia la mente, presto vi farà uscire di senno! Prima, la domenica si poteva
passeggiare tutto il giorno, adesso lo hanno proibito. Ma perché? Per farci
lavorare di più? Volete cavare sangue dalle rape? Tenendoci chiusi dentro a
soffocare senza un po’ di aria fresca, non ci impiegheremo certo di meno. Ma
che parlo a fare! Non mi ha forse chiamato in piena notte? Il giorno non le
basta? Io domani devo lavorare. Ho bisogno di dormire.
Bobynin raddrizzò la schiena, sdegnato, grande.
Schiacciato contro il bordo della scrivania, Abakumov ansava pesantemente.
Era l’una e venticinque di notte. Di lì a un’ora, alle due e mezzo, Abakumov
si sarebbe dovuto presentare da Stalin con una relazione, alla dacia di Kuncevo.
Se quell’ingegnere aveva ragione, come trovare adesso una via d’uscita?
Stalin non perdonava...
Mentre congedava Bobynin, gli tornò in mente la trojka di mentitori della
Sezione di Tecnica speciale. E negli occhi gli si accese un’oscura rabbia.
Li convocò per telefono.

39 Celebre romanzo di Aleksandr Herzen (1812-1870), il cui protagonista è un campione d’abulia,


incapace di risolvere le situazioni dovute ai cambiamenti dell’epoca.
19
IL FESTEGGIATO

La stanza non era né grande né alta. Aveva due porte, e la finestra, se anche
c’era, aveva le tende ben serrate e si fondeva nella parete. Eppure l’aria risultava
fresca, piacevole (c’era una persona precisa che si preoccupava dell’entrata e
dell’uscita dell’aria, e della sua innocuità chimica).
Un’ottomana stretta con i cuscini a fiori occupava molto spazio. Sopra a
questa, sulla parete, erano accese delle lampade abbinate, coperte da piccoli
paralumi.
Sull’ottomana era sdraiato un uomo, la cui immagine tante volte era stata
scolpita, dipinta a olio, ad acquarello, a guazzo, a seppia, disegnata a
carboncino, a gessetto, con polvere di mattone, formata da sassolini, da
conchiglie di mare, su piastrella smaltata, con chicchi di grano e di soia,
intagliata nell’avorio, composta con l’erba, intessuta nei tappeti, tracciata dagli
aerei, filmata nelle pellicole cinematografiche, come mai nessun altro nei tre
miliardi di anni di esistenza della crosta terrestre.
Se ne stava lì sdraiato, le gambe leggermente raccolte, nei morbidi stivali
caucasici simili a calze spesse. Indossava una giubba con quattro grandi tasche,
due sul petto, due laterali, che era vecchia, vissuta, una delle tante grigie, grigio-
verdi, nere e bianche che (un po’ imitando Napoleone) aveva imparato a
portare dalla Guerra civile e sostituito con l’uniforme da maresciallo solo dopo
Stalingrado.
Il nome di quell’uomo veniva menzionato spesso sui giornali di tutto il
globo terrestre, mormorato da migliaia di annunciatori in centinaia di lingue,
gridato dai relatori all’inizio e alla fine dei discorsi, cantato dalle voci sottili dei
pionieri, pronunciato con solennità dagli alti dignitari della Chiesa ortodossa,
che brindavano alla sua salute. Il nome di quell’uomo si seccava sulle labbra
morenti dei prigionieri di guerra, sulle gengive gonfie dei detenuti. Con quel
nome era stato ribattezzato un gran numero di città e piazze, strade e viali,
palazzi, università, scuole, stazioni termali, catene montuose, canali marittimi,
fabbriche, miniere, sovchoz, kolchoz, navi di linea, rompighiaccio, pescherecci,
laboratori di calzoleria, nidi d’infanzia, e un gruppo di giornalisti di Mosca
aveva proposto di ribattezzarci pure il Volga e la Luna.
Lui era soltanto un piccolo vecchio dagli occhi gialli, con i capelli biondicci
(nei ritratti li raffiguravano corvini) che si stavano già diradando (li
raffiguravano folti), il viso grigio butterato qua e là dai segni del vaiolo, una
sacca di pelle flaccida sotto il mento (quella non la disegnavano affatto), i denti
scuri e irregolari, una parte dei quali ripiegata all’interno della bocca che
puzzava di tabacco in foglie, le umide dita unte che lasciavano tracce sulle carte
e sui libri.
Inoltre quel giorno non si sentiva bene: era stanco e aveva esagerato con il
cibo durante i festeggiamenti per il suo compleanno, si sentiva nella pancia una
pesantezza di pietra e gli si ripresentava un sapore di marcio; salolo e
belladonna non erano stati di alcun aiuto, ma detestava prendere dei purganti.
Non aveva neanche mangiato e si era coricato presto, verso mezzanotte. In
quell’aria calda sentiva uno strano freddo alla schiena e alle spalle, che teneva
coperte con uno scialle di cammello marroncino.
Un silenzio sordo aveva avvolto la casa, il cortile, tutto il mondo.
In quel silenzio il tempo scorreva a malapena, strisciava piano, andava subìto
come una malattia, un acciacco, escogitando ogni notte un’attività o uno svago.
Non gli era costato granché fatica separarsi dallo spazio del mondo, non
muoversi più al suo interno. Ma dal tempo era impossibile separarsi.
Ora stava sfogliando un libretto dalla copertina rigida marrone. Guardava
con piacere le fotografie e leggeva qua e là il testo che ormai conosceva quasi a
memoria, per poi rimettersi a sfogliare. Quel libretto era così maneggevole da
entrare senza piegarlo nella tasca del cappotto, poteva accompagnare la gente
ovunque nella vita. Le pagine erano circa duecentocinquanta, ma stampate con
un carattere grande e nitido, in modo che anche le persone poco istruite e gli
anziani potessero leggerlo senza affaticarsi. Sulla copertina c’era impresso in
oro: Iosif Vissarionovič Stalin. Breve biografia.
Le parole oneste e semplici di quel libro si posavano sul cuore umano in
modo tranquillo e inevitabile. Genio strategico. La sua saggia perspicacia. La
sua poderosa volontà. La sua ferrea volontà. Era diventato di fatto il vice di
Lenin dal 1918. (Sì, sì, era andata proprio così.) Il condottiero della rivoluzione
aveva trovato al fronte grande confusione, smarrimento. Alla base del piano
operativo di Frunze c’erano le istruzioni di Stalin. (Esatto. Esatto.) È stata una
fortuna per noi che durante i difficili anni della Guerra patriottica40 ci guidasse
il saggio ed esperto Capo, il Grande Stalin. (Sì, il popolo ha avuto fortuna.)
Tutti conoscono la forza devastante della logica staliniana, la chiarezza
cristallina della sua mente. (Senza falsa modestia, è tutto vero.) Il suo amore
per il popolo. La sua sensibilità verso le persone. La sua insofferenza verso le
solennità chiassose. La sua sorprendente modestia. (La modestia, è proprio
vero.)
Una conoscenza infallibile dell’animo umano aveva permesso al festeggiato
di radunare per quella biografia un buon collettivo di autori. Ma per quanto
fossero accurati, o si facessero in quattro, nessuno avrebbe scritto in modo così
intelligente, sentito, attinente ai fatti come lui stesso. Così Stalin aveva dovuto
chiamare a sé uno dopo l’altro gli uomini di quel collettivo, ci aveva conversato
con calma, aveva dato un’occhiata ai loro manoscritti, indicato con indulgenza
le mancanze, suggerito formulazioni.
E il libro aveva avuto un enorme successo. Quella seconda edizione era
uscita con una tiratura di cinque milioni di copie. Per una nazione come
quella? Un po’ pochino. Bisognava che la terza uscisse almeno in dieci, venti
milioni di copie. Che fosse venduto nelle fabbriche, nelle scuole, nei kolchoz. Si
poteva distribuire usando direttamente l’elenco degli impiegati.
Nessuno meglio dello stesso Stalin sapeva fino a che punto era necessario
quel libro al suo popolo. Il popolo non poteva restare senza risposte giuste e
continue. Il popolo non poteva reggere senza certezze. La rivoluzione aveva
trasformato il popolo in un orfano, in un senzadio, cosa davvero pericolosa.
Già da vent’anni Stalin, per quanto in suo potere, correggeva la situazione. A
quello erano serviti milioni di ritratti in tutto il paese (non di certo a Stalin, lui
era modesto), il continuo ripetersi altisonante del suo glorioso nome, il
continuo accenno in ogni articolo. Non era assolutamente il Capo ad averne
bisogno – non ci gioiva affatto, gli era già venuto a noia – serviva ai sudditi,
alla semplice gente sovietica. Il maggior numero possibile di ritratti, il maggior
numero possibile di menzioni, e comparire di rado in carne e ossa, parlare
poco, come se non stesse sempre con loro sulla terra, ma anche da qualche altra
parte. Allora non ci sarebbe stato più limite al culto e alla venerazione.
Non aveva la nausea, ma gli gravava sullo stomaco una sensazione di
pesantezza. Prese un frutto di feijoa da una ciotola con della frutta già
sbucciata.
Tre giorni prima erano stati festeggiati i suoi gloriosi settant’anni.
Per le usanze del Caucaso, raggiunti i settanta, un uomo è ancora un džigit,
un valoroso! Sui monti, a cavallo, con le donne. E anche Stalin era in piena
salute, sarebbe vissuto per forza di cose fino a novant’anni: questo aveva
deciso, questo esigevano i fatti. Anche se un medico lo aveva avvertito che...
(del resto, se non ricordava male, poi l’avevano fucilato). Una vera malattia,
seria, non ce l’aveva. Nessuna iniezione, nessuna cura, conosceva bene la
medicina, sapeva scegliere da sé. “Più frutta!” Dire di mangiare più frutta a un
uomo del Caucaso!
Succhiava la polpa, strizzando gli occhi. Sulla lingua gli restava un leggero
retrogusto di iodio.
Era in piena salute, ma qualcosa con gli anni stava cambiando. Mangiare non
gli dava più la fresca soddisfazione di un tempo, come se tutti i sapori gli
fossero venuti a noia, si fossero attenuati. Non provava più una sensazione
intensa a eccedere con i vini e a mischiarli. L’ebbrezza si trasformava in un
dolore alla testa. E se a un pranzo Stalin restava ancora seduto come prima
fino a notte fonda con i suoi dirigenti non era perché godesse del cibo, ma
perché quel tempo lungo e vuoto si doveva pur trascorrere in qualche modo.
Nemmeno le donne con le quali faceva baldoria, dalla morte di sua moglie
Nadja, gli servivano granché, per loro provava di rado un brivido, restava tutto
abbastanza sul torbido. Ormai anche il sonno non era riposante come da
giovane: si svegliava già debole, con un cerchio alla testa, e non aveva voglia di
alzarsi.
Stabilito che ebbe di vivere fino ai novanta, Stalin pensava con angoscia a
quegli anni che non gli avrebbero portato nessuna gioia personale: doveva
semplicemente resistere altri due decenni perché l’umanità godesse di un
migliore ordine generale.
I settanta li aveva festeggiati così. La sera del 20 era stato torturato a morte
Trajčo Kostov. Solo quando i suoi occhi si erano fatti vitrei come quelli di un
cane, la festa aveva davvero avuto inizio. Il 21 si era tenuta la celebrazione
solenne al teatro Bol’šoj. Erano intervenuti Mao Tse-tung, Dolores41 e altri
compagni. Poi c’era stato un banchetto allargato, subito dopo uno per pochi
intimi. Avevano bevuto vecchi vini di cantine spagnole, ricevuti un tempo in
cambio di armi. Infine, lui e Lavrentij, rimasti soli, si erano bevuti un vino di
Kachezia e avevano intonato canzoni georgiane. Il 22 si era tenuto un grande
ricevimento diplomatico. Il 23 aveva visto la seconda parte della Battaglia di
Stalingrado e L’indimenticabile 1919, che parlavano di lui.
Benché stanchissimo, quelle opere gli erano piaciute molto. Adesso veniva
tratteggiato in modo sempre più veritiero il suo ruolo non solo nella Guerra
patriottica, ma anche in quella civile. Evidentemente era un grand’uomo fin da
allora. Lo schermo e il palcoscenico adesso dimostravano quanto spesso aveva
messo in guardia e corretto un Lenin fin troppo imprudente e superficiale.
Nobilmente il drammaturgo gli aveva messo sulle labbra la frase: “Ogni
lavoratore ha il diritto di manifestare i propri pensieri!” E allo sceneggiatore
era venuta bene quella scena di notte con l’Amico. Sebbene a Stalin non fosse
rimasto nessun grande Amico, per la perenne mancanza di sincerità e la
perfidia degli uomini. Non che avesse mai avuto un Amico così! Era andata in
quel modo: mai avuto! Ma vederlo sullo schermo aveva fatto venire a Stalin un
nodo alla gola (quello è un artista, un grande artista!): come avrebbe voluto
avere un Amico così sincero e disinteressato, dirgli ad alta voce quanto per
notti intere gli passava per la mente.
Tuttavia non gli era possibile avere un Amico del genere, perché avrebbe
dovuto essere grande quanto lui. E dove poteva vivere uno così? Di cosa si
sarebbe occupato?
Tutti quanti, da Vjaceslav “Sedere di pietra” a Nikita il Ballerino42, erano
forse uomini? A tavola con loro crepavi di noia, nessuno che proponesse mai
per primo qualcosa di intelligente, e quando lo faceva lui erano subito
d’accordo. Un tempo Stalin apprezzava abbastanza Vorošilov, per la difesa di
Caricyn, la guerra in Polonia e i fatti della grotta di Kislovodsk (aveva riferito
della riunione dei traditori Kamenev-Zinov’ev con Frunze)43, ma era pure lui
un manichino su cui appendere il cappello e le decorazioni; era forse un uomo
quello?
Non c’era nessuno che potesse menzionare come amico. Nessuno del quale
ricordare più cose positive che negative.
Un amico per lui non c’era e non ci sarebbe mai stato, tuttavia il popolo
semplice amava il suo Capo, era pronto a dare la vita e l’anima per lui. Lo si
vedeva dai giornali, al cinema, con la mostra dei suoi doni. Il compleanno del
Capo si era trasformato nella festa di tutto il popolo, era una gioia rendersene
conto. Quanti auguri erano arrivati! Auguri dalle istituzioni, auguri dalle
organizzazioni, auguri dalle fabbriche, auguri dai singoli cittadini! La “Pravda”
aveva chiesto l’autorizzazione di non pubblicarli tutti insieme, ma su due
colonne per ogni numero. Be’, la cosa sarebbe andata avanti per qualche anno,
non importava, non era un male.
E per i doni, al Museo della Rivoluzione non erano bastate dieci sale44. Per
dare la possibilità ai moscoviti di ammirare quei regali di giorno, Stalin era
andato a vederli di notte. Il lavoro di migliaia e migliaia di artisti, i migliori
doni della terra, ritti, appoggiati, appesi; eppure anche qui era subentrata
l’indifferenza, dentro di lui si era spento ogni interesse. Cosa se ne faceva di
tutti quei regali?... L’avevano annoiato in fretta. E al museo si era affacciato in
lui anche un ricordo negativo, ma come accadeva spesso negli ultimi tempi non
era riuscito a focalizzarlo chiaramente e gli era rimasta solo una sensazione
sgradevole. Stalin aveva percorso tre sale senza scegliere nulla, poi si era
fermato vicino a un enorme televisore con la scritta “Al grande Stalin dagli
agenti della Čeka” (era il più voluminoso televisore sovietico esistente,
fabbricato in un unico esemplare a Marfino), si era voltato ed era uscito.
Comunque era stato un bel compleanno – nessun politico al mondo poteva
vantare un simile orgoglio, simili vittorie e successo! – eppure non poteva dirsi
un pieno trionfo.
Qualcosa gli stringeva il petto, gli si era bloccato lì e bruciava.
Addentò un’altra volta il frutto e lo succhiò.
Il popolo lo amava, questo era certo, ma quello stesso popolo brulicava di
difetti e non andava bene per niente. Bastava ricordare il 1941: per colpa di chi
era avvenuta la ritirata? Chi si era ritirato, se non il popolo?
Ecco perché non poteva festeggiare, starsene lì sdraiato, ma doveva mettersi
al lavoro. Pensare.
Pensare era suo dovere. La sua amara sorte, e anche il suo tormento. Doveva
vivere ancora due decenni alla stregua di un detenuto con una condanna della
medesima durata, e non poteva dormire più di otto ore al giorno, mai più del
necessario. E per le restanti ore, muoversi lentamente, come se camminasse su
pietre appuntite, fare affidamento su un corpo non più giovane, ormai
vulnerabile.
I momenti della giornata più insopportabili per Stalin erano il mattino e il
mezzogiorno: mentre il sole sorgeva, scintillava, si sollevava fino a raggiungere
il culmine, Stalin dormiva al buio, con le tende serrate, chiuso, sbarrato dentro.
Si svegliava quando il sole stava già calando, stemperandosi, portandosi verso il
termine della sua breve vita di un giorno. Intorno alle tre del pomeriggio Stalin
faceva colazione e solo verso sera, al tramonto, cominciava a riprendersi. In
quelle ore il suo cervello funzionava con diffidenza, cupo, tutte le decisioni gli
apparivano proibitive, negative. Dalle dieci della sera iniziava il pranzo, al quale
di solito erano invitati gli uomini a lui più vicini nel Politbjuro e tra i
comunisti stranieri. Fra un gran numero di pietanze, calici, storielle e discorsi si
ammazzavano bene quattro, cinque ore, e intanto si prendeva la rincorsa, si
raccoglievano le idee creative in ambito legislativo per la seconda metà della
notte. Tutti i Decreti più importanti destinati al grande Stato trovavano forma
nella testa di Stalin dopo le due del mattino e solo fino all’alba.
E adesso quel tempo stava proprio per iniziare. E c’era un decreto già
maturato che di fatto ancora mancava fra le leggi. Nel paese erano stati in
grado di fissare in eterno quasi tutto, fermare tutti i movimenti, far ristagnare
tutte le correnti; duecento milioni di persone sapevano stare al proprio posto,
solo i giovani dei kolchoz sfuggivano. Era alquanto strano, dunque, che le
attività dei kolchoz, nel concreto, andassero bene, come risultava dai film e dai
romanzi, e lo stesso Stalin se ne rendeva conto parlando con i kolchoziani ai
presidium di riunioni e congressi. Tuttavia, statista sagace e sempre autocritico,
Stalin si costringeva a guardare ancora più a fondo. Uno dei segretari dei
comitati regionali (in seguito dovevano averlo fucilato) gli aveva rivelato che
c’era una pecca: nei kolchoz a lavorare con sollecitudine erano i vecchi e le
vecchie iscritti dal 1930, mentre una parte irresponsabile di giovani, non appena
terminata la scuola, cercava di ottenere con l’inganno i documenti per
svignarsela in città. Stalin aveva sentito quella cosa e un tarlo aveva cominciato
a rodergli dentro.
L’istruzione!... Che pasticcio era venuto fuori con quelle scuole obbligatorie
di sette anni e dieci anni, con i figli delle cuoche che andavano all’università! Lo
aveva combinato Lenin, che aveva fatto promesse senza la dovuta cautela, e ora
quelle pesavano sulla schiena di Stalin come una gobba storta e incurabile.
Ogni cuoca doveva essere in grado di dirigere lo Stato!... Ma come si
immaginava la cosa in concreto? Il venerdì poteva non cucinare per recarsi alla
riunione del Comitato esecutivo regionale? Una cuoca, in quanto tale, quello fa,
cucina il pranzo. Per dirigere la gente ci vuole grande abilità, è un compito che
si può affidare soltanto a quadri speciali, quadri selezionati con cura, temprati,
disciplinati. E la direzione di quei quadri può essere solamente nelle mani di
una persona, le mani esperte del Capo.
Era necessario stabilire nello statuto delle cooperative agricole che, come la
terra apparteneva loro in eterno, così anche chiunque fosse nato in un dato
villaggio sarebbe stato iscritto automaticamente al kolchoz dal giorno della sua
nascita. Bisognava formalizzarlo come un privilegio. Subito una campagna di
propaganda: “Un nuovo passo verso il comunismo”, “I giovani eredi del
granaio dei kolchoz”... Insomma, gli scrittori avrebbero trovato le frasi giuste.
E i nostri sostenitori in Occidente?
E chi bisognava far lavorare nei kolchoz?
No, qualcosa non andava nelle idee sul lavoro. Non venivano come
dovevano.
Si udirono quattro leggeri colpi alla porta, non dei veri colpi, dei morbidi
sfioramenti, come se un cane vi si stesse grattando contro.
Stalin girò la manopola per l’apertura a distanza che si trovava vicino
all’ottomana, la sicura scattò e la porta si socchiuse. Non essendo protetta da
un tendaggio (a Stalin non piacevano cortine, pieghe, tutto ciò dietro cui ci si
potesse nascondere), si vide la porta nuda aperta quel tanto che bastava a far
passare un cane. Ma ad affacciarsi non nella parte inferiore bensì in quella
superiore fu la testa di Poskrëbyšev, che ancora giovane era già calvo, con una
perenne espressione di sincera fedeltà e piena disponibilità sul viso.
In ansia per il Padrone, Poskrëbyšev lo vide sdraiato e coperto per metà
dallo scialle di cammello, eppure non chiese notizie sulla sua salute (Stalin
detestava simili domande), e quasi in un bisbiglio disse:
– Ës’ Sarionyč45! Oggi ha convocato Abakumov per le due e mezzo.
Pensava di riceverlo? Sì o no?
Iosif Vissarionovič sganciò la patta della tasca superiore della giubba ed
estrasse l’orologio tirandolo fuori per la catenina (come tutte le persone dei
tempi passati detestava gli orologi da polso).
Non erano ancora le due del mattino.
Un grumo pesante gli si era piazzato sullo stomaco. Non aveva voglia di
alzarsi e di cambiarsi. Ma non poteva nemmeno lasciare libero qualcuno:
appena allenti la presa, quelli se ne accorgono.
– Ve-edremo– rispose stancamente Stalin, battendo le palpebre. – Non so.
– Ma sì, che venga pure. Aspetterà! – confermò Poskrëbyšev, e annuì in
modo esagerato almeno tre volte. Poi si bloccò di nuovo, guardando con
attenzione il Padrone: – Altre disposizioni, Ë-Sarionyč?
Stalin fissò Poskrëbyšev con sguardo apatico, abulico, e non gli venne in
mente nessuna disposizione da dargli. Tuttavia alla domanda di Poskrëbyšev
nella sua memoria non più impeccabile si accese all’improvviso una scintilla, e
fece a sua volta una domanda che voleva porgli da tempo e di cui si era
dimenticato:
– Senti, come vanno i cipressi in Crimea? Li tagliano?
– Li tagliano! Li tagliano! – annuì Poskrëbyšev, in tono deciso, quasi si
aspettasse la domanda e avesse appena telefonato in Crimea per averne
conferma. – Intorno a Massandra e a Livadia ne hanno già abbattuti molti, Ë-
Sarionyč!
– Esigi comunque un bollettino. Con le cifre. Nessun sabotaggio? – Gli
occhi gialli malsani dell’Onnipotente erano preoccupati.
Quell’anno un medico gli aveva detto che i cipressi erano dannosi per la sua
salute, era indispensabile che l’aria fosse impregnata di eucalipto. E dunque
Stalin aveva ordinato di abbattere i cipressi della Crimea e inviato qualcuno in
Australia in cerca di giovani eucalipti.
Poskrëbyšev promise con fare sollecito e si offrì di scoprire a che punto
fossero gli eucalipti.
– Va bene – pronunciò Stalin, con soddisfazione. – Ora vai, Saša.
Poskrëbyšev annuì e cominciò a indietreggiare, poi annuì di nuovo, ritrasse
per ultima la testa e chiuse bene la porta. Iosif Vissarionovič usò di nuovo il
comando a distanza e, tenendo fermo lo scialle, si girò sull’altro fianco.
Quindi riprese a sfogliare la sua Biografia.
Ma infiacchito per essere rimasto a lungo sdraiato, per i brividi e per
l’indigestione, senza volerlo si abbandonò a una schiera di pensieri deprimenti.
Non gli si parava dinnanzi l’abbagliante successo finale della sua politica ma
quanto era stato sfortunato nella vita, e quanti ostacoli e nemici, un numero
ingiustamente alto, il destino gli aveva messo davanti.

40 Seconda guerra mondiale.


41 Dolores Ibárruri Gómez (1895-1989), detta la Pasionaria, politica antifascista spagnola.
42 Molotov e Chruščëv.
43 Nel 1923 alcuni membri importanti del Partito, fra cui Zinov’ev, Bucharin e Vorošilov, si riunirono in
una grotta per discutere su come rafforzare la dirigenza. Tutti tranne Vorošilov auspicarono la formazione
di una “segreteria politica” composta da Trockij, Stalin e uno a scelta fra Kamenev, Zinov’ev e Bucharin,
abolendo di fatto la carica di segretario generale. Grazie a una soffiata da parte di Vorošilov, Stalin riuscì a
bloccarli appena in tempo.
44 Servirono tutte le cinquantadue sale.
45 Poskrëbyšev chiama Stalin, invece che Iosif, con il diminutivo Ës’, e trasforma il patronimico
Vissarionovič in Sarionyč, fino a ridurre il tutto al successivo Ë-Sarionyč.
20
SCHIZZO DI UNA VITA GRANDIOSA

Due terzi di secolo: un orizzonte lontano grigio-azzurro, la cui fine all’inizio


nemmeno nei sogni più audaci si sarebbe potuta immaginare, il cui inizio alla
fine era difficile rievocare e considerare vero.
Era una vita nata senza speranza. Figlio illegittimo, ascritto a un ciabattino
ubriaco finito in rovina. Madre incolta. Il sudicio Soso46 non era uscito dalle
pozze accanto alla collina della zarina Tamara47. L’incredibile non era tanto
come fosse diventato il padrone del mondo, ma come aveva fatto quel bambino
a cavarsi da una condizione tanto ignobile, tanto umile.
Tuttavia l’artefice della sua vita si era dato da fare e, aggirando i regolamenti
ecclesiastici, nonostante non provenisse da una famiglia di religiosi, il ragazzo
era stato accettato prima all’istituto religioso, poi in seminario.
Dall’alto dell’iconostasi annerita, il Signore degli eserciti aveva chiamato a sé
il novizio, ben appiattito sulle fredde lastre di pietra. Oh, con quanto zelo il
ragazzo si era messo al servizio di Dio! Come si era affidato a lui! In sei anni di
studi aveva ripetuto all’infinito il Vecchio e Nuovo Testamento, la Vita dei santi e la
storia della Chiesa, durante le liturgie serviva con sollecitudine.
Lì, nella Biografia, c’era quella foto: il diplomando dell’istituto religioso
Džugašvili nella tonaca grigia con il colletto rotondo abbottonato; l’ovale del
viso adolescente spento, come estenuato dalle preghiere; i lunghi capelli
acconciati per la funzione, con la riga in mezzo, spalmati con umiltà di olio da
lampada e appiccicati alle orecchie; solo gli occhi e le sopracciglia inquiete
indicavano che quel novizio avrebbe potuto persino diventare metropolita.
Ma Dio lo aveva ingannato... L’insopportabile cittadina sonnacchiosa in
mezzo alle rotonde colline verdi, fra le anse del Medžuda e del Liachva, era
rimasta indietro: nella rumorosa Tbilisi le persone intelligenti già da tempo
schernivano Dio. E la scala lungo cui Soso si stava arrampicando con tenacia, a
quanto pareva non portava in cielo, ma in soffitta.
L’età esagitata e litigiosa tuttavia reclamava azione! Il tempo fuggiva senza
che lui avesse fatto niente! Non c’erano soldi né per l’università né per un
incarico statale e nemmeno per avviare un commercio; però c’era il socialismo,
che accettava tutti, il socialismo che era avvezzo ai seminaristi. Lui non aveva
attitudine né per le scienze né per le arti, nessuna abilità in un mestiere né
propensione al furto e neppure la possibilità di diventare l’amante di una ricca
signora; però aveva la Rivoluzione, che invitava tutti, che accoglieva a braccia
aperte, a tutti prometteva un posto.
Lì, nella Biografia, Stalin aveva suggerito di inserire anche una foto di quel
periodo, l’immagine che preferiva. Eccolo, di tre quarti. Niente barba, né baffi
né basette (non aveva ancora deciso cosa portare), soltanto non si radeva da un
po’ e gli era cresciuto tutto insieme, in un pittoresco, rigoglioso cespuglio
maschile. Pronto a muoversi, ma non sapeva per andare dove. Che ragazzo
gentile! Il viso aperto, intelligente, deciso, sparita ogni traccia del novizio
fanatico. Liberati dall’olio, i capelli si erano rialzati, gli ornavano la testa di
folte onde che, fluttuando, coprivano la parte in lui forse meno riuscita: la
fronte bassa e sfuggente. Un giovane povero, con la giacchetta comprata già
lisa; un’economica sciarpina a quadretti portata con disinvoltura d’artista gli
copre il collo e gli chiude il petto stretto e malato dove non indossa nemmeno
la camicia. Quel plebeo di Tbilisi non era forse già condannato alla tubercolosi?
Ogni volta che Stalin guardava quella fotografia il cuore gli traboccava di
compassione (poiché non esiste cuore incapace di provarla). Com’è tutto
difficile, com’è tutto avverso per quel caro giovane sistematosi gratis nella
fredda dispensa dell’osservatorio e già espulso dal seminario! (Per scrupolo
aveva provato a far convivere le cose: per quattro anni aveva frequentato i
circoli socialdemocratici e intanto continuava a pregare e ad apprendere il
catechismo. Tuttavia lo avevano espulso.)
Per undici anni si era inchinato e aveva pregato senza costrutto, solo tempo
perso... A quel punto aveva riversato con maggior vigore la sua giovinezza
nella Rivoluzione!
Ma anche la Rivoluzione lo aveva imbrogliato... Che razza di rivoluzione era
quella di Tblisi, un gioco di presunzioni spocchiose nelle cantine per un po’ di
vino? In quel brulicare di nullità, finivi per perderti: nessun giusto
avanzamento per gradi, nessuna anzianità di servizio, importavano solo le
chiacchiere. L’ex seminarista odiava quei cialtroni con più tenacia di quanto
odiasse i governatori e i poliziotti. (Perché prendersela con loro? Servivano con
onestà in cambio dello stipendio e, ovviamente, dovevano difendersi, ma per
quegli arrivisti non c’erano scuse!) La Rivoluzione? Fra i bottegai georgiani?
Impossibile! E il seminario ormai era perso, aveva perso una vita sicura.
Che c’entrava lui con quella rivoluzione, con quei poveracci, con gli operai
che si bevevano la paga, con le vecchie malate e i loro miseri copechi? Perché
mai avrebbe dovuto amare loro e non sé stesso, giovane, intelligente, bello e...
ignorato?
Solo a Batumi, guidando per la prima volta in strada circa duecento persone,
curiosi compresi, Koba (era quello allora il suo nome di battaglia) aveva sentito
in sé la capacità di far germogliare i semi e la forza del potere. La gente lo
seguiva, aveva sperimentato Koba, e il gusto provato era impossibile da
dimenticare. Solo a quello era adatto nella vita, solo quella vita poteva
comprendere: parli e la gente agisce, indichi dove andare e la gente ci va.
Meglio di quello, più in alto di quello non c’è niente. È più in alto persino della
ricchezza.
Di lì a un mese la polizia se n’era resa conto e lo aveva arrestato. A quei
tempi nessuno temeva un arresto, era roba da niente! Ti trattenevano due mesi,
ti rilasciavano, diventavi un martire. Koba aveva retto bene nella cella comune
e incoraggiava gli altri a disprezzare i carcerieri.
Ma non l’avevano rilasciato. I suoi compagni di cella erano cambiati tutti,
mentre lui continuava a restare in prigione. Cosa aveva mai fatto? Per delle
semplici manifestazioni nessuno veniva punito a quel modo.
Era trascorso un anno, dopo il quale lo avevano trasferito al carcere di
Kutaisi, in una cella d’isolamento buia e umida. Lì si era scoraggiato: la vita
passava e lui non solo non si risollevava, ma finiva sempre più in basso. Tossiva
forte per l’umidità della cella. E odiava ancora di più quegli sbruffoni di
professione, viziati dalla vita: perché per loro la rivoluzione si rivelava così
facile, perché loro non li tenevano in prigione così a lungo?
Al carcere di Kutaisi intanto era giunto un ufficiale di gendarmeria già
incontrato a Batumi. Ebbene, Džugašvili, ha riflettuto abbastanza? È solo
l’inizio, Džugašvili. La terremo qui dentro fino a marcire di tisi, se non
correggerà la sua linea di condotta. Vogliamo salvare lei e la sua anima. Le
mancava pochissimo a diventare sacerdote, padre Iosif! Perché è finito con
quelle canaglie? Lei non è uno di loro. Mi dica che è pentito.
Era pentito, eccome se era pentito! Finita la sua seconda primavera in
prigione, ora si trascinava la seconda estate carceraria. Ah, perché mai aveva
gettato via l’umile servizio spirituale? Quanto era stato precipitoso!...
Nemmeno la fantasia più sfrenata poteva immaginarsi la rivoluzione in Russia
prima di cinquant’anni, quando Iosif ne avrebbe avuti settantatré... A cosa gli
sarebbe servita allora la rivoluzione?
E non era solo per quello. Iosif si era studiato e aveva imparato a conoscere
sé stesso, la propria indole pacata, l’indole resistente, l’amore verso la stabilità e
l’ordine. E proprio sulla resistenza, sulla pacatezza, sulla stabilità e sull’ordine
si reggeva l’Impero russo: perché, dunque, minarlo?
L’ufficiale con i baffi paglierini continuava a ripresentarsi. (La sua linda
uniforme da gendarme, con le belle spalline, gli impeccabili bottoni, i filetti, le
fibbie, piaceva molto a Stalin.) In fin dei conti le sto offrendo un incarico
statale. (A un incarico statale Iosif sarebbe stato pronto senza indugi, ma a
Tbilisi e a Batumi si era rovinato con le sue stesse mani.) Provvederemo noi al
suo mantenimento. Per un primo periodo ci aiuterà restando fra i
rivoluzionari. Scelga la corrente più estrema. Si muova in mezzo a loro. La
avvicineremo sempre con discrezione. Potrà comunicarci le sue informazioni
senza gettare ombre su di sé. Che nome in codice scegliamo?... E adesso, per
non farla scoprire, la tradurremo fino a un luogo d’esilio lontano e da lì se ne
andrà subito, come fanno tutti.
Džugašvili si era deciso! Aveva puntato la terza scommessa della sua
gioventù sulla polizia segreta!
A novembre lo avevano spedito nel governatorato di Irkutsk. Là, fra i
deportati, aveva letto una lettera di un certo Lenin, noto per il giornale “Iskra”.
Lenin si era del tutto isolato, cercava sostenitori, spediva lettere.
Evidentemente, era con lui che doveva unirsi.
A Natale Iosif era fuggito dal terribile gelo di Irkutsk ed era rimasto nel
soleggiato Caucaso fino all’inizio della guerra contro il Giappone.
Per lui era iniziato un lungo periodo di impunità: si incontrava con altri
clandestini, redigeva manifesti, organizzava comizi, e arrestavano gli altri
(soprattutto quelli che gli erano poco simpatici), mentre lui non lo scoprivano,
non lo acciuffavano. E non lo avevano chiamato in guerra.
E all’improvviso – nessuno se l’aspettava così in fretta, nessuno l’aveva
preparata, l’aveva organizzata – Lei era arrivata! Folle di persone giravano per
Pietroburgo con petizioni politiche, granduchi e dignitari venivano assassinati,
Ivanovo-Voznesensk aveva scioperato, Łódź era insorta, la corazzata Potëmkin
pure, e ben presto allo zar era stato estorto un manifesto, nonostante il quale le
mitragliatrici avevano continuato a martellare sulla Presnja e le linee ferroviarie
a interrompersi.
Koba era stupito, sconvolto. Aveva davvero sbagliato un’altra volta? Perché
non riusciva a prevedere niente?
La polizia segreta lo aveva imbrogliato!... Stalin aveva perso la sua terza
scommessa! Ah, se avesse potuto riavere indietro la sua libera anima
rivoluzionaria! Cos’era quella situazione senza via d’uscita? Ora dalla Russia
saltava fuori la rivoluzione, così poi dall’archivio della polizia segreta sarebbero
saltati fuori i rapporti su di lui?
La sua volontà, allora, non solo non era d’acciaio, era del tutto
contraddittoria: si era smarrito e non vedeva possibilità di salvezza.
Peraltro si sparava, si faceva rumore, si impiccava, ci si guardava intorno con
sospetto... Dov’era la rivoluzione? Non poteva essere quella!
A quei tempi i bolscevichi avevano appreso la rivoluzionaria pratica
dell’esproprio. Lasciavano a un riccone armeno una lettera in cui gli intimavano
di consegnare dieci, quindici, venticinquemila rubli. E il riccone li consegnava,
purché non gli facessero saltare in aria la bottega e non gli uccidessero i figli.
Quello era il loro metodo di lotta, e che metodo! Nessuna pedanteria, niente
volantini e manifestazioni, solo autentica azione rivoluzionaria. Gli azzimati
menscevichi brontolavano, dicevano che rapina e terrore erano in contrasto
con il marxismo. Oh, come li derideva Koba, oh, li faceva correre come
scarafaggi, per questo Lenin lo chiamava “il meraviglioso georgiano”! Le
espropriazioni erano una rapina. E la rivoluzione forse no? Oh, che ingessati
schizzinosi! Dove si potevano prendere i soldi per il partito, per gli stessi
rivoluzionari? Meglio un uovo oggi che una gallina domani.
Di tutta la rivoluzione Koba amava soprattutto le espropriazioni. E nessuno
più di Koba sapeva trovare persone assolutamente fedeli, come Kamo, che lo
ascoltava, tirava fuori la rivoltella e, rubato un sacco d’oro, lo portava a Koba
nella strada accanto, di sua spontanea volontà. E quando avevano rastrellato
trecentoquarantamila rubli in oro al furgone della banca di Tbilisi era stata una
rivoluzione proletaria su piccola scala. L’altra rivoluzione, quella grande, la
aspettavano gli scemi.
Questo aspetto di Koba la polizia non lo conosceva, dunque veniva
mantenuta una piacevole linea intermedia fra la rivoluzione e la polizia. I soldi
non gli mancavano mai.
La rivoluzione lo conduceva già sui treni d’Europa, sui piroscafi in mare, gli
mostrava isole, canali, castelli medievali. Non era più la maleodorante cella di
Kutaisi! A Tampere, Stoccolma, Londra, Koba aveva guardato con attenzione i
bolscevichi, quel fissato di Lenin. Poi a Baku aveva respirato i vapori di quel
liquido sotterraneo, la rabbia nera che sobbolliva.
Tuttavia, era coperto. Più vecchio e noto diventava nel partito, più vicino era
confinato, non sul Bajkal, ma a Sol’vyčegodsk, e non per tre anni, ma per due.
Tra un confino e l’altro non gli avevano impedito di diffondere la rivoluzione.
Infine, dopo tre fughe dal confino in Siberia e negli Urali, lui, ribelle
intransigente e instancabile, lo avevano sbattuto... nella città di Vologda, dove si
era stabilito nell’appartamento di un agente della polizia, con Pietroburgo
raggiungibile in treno in una sola notte.
Ma una sera di febbraio del 1912 Ordžonikidze, giovane compagno di Baku,
giunto da Praga a Vologda, lo aveva afferrato per le spalle e gli aveva gridato:
“Soso! Soso! Ti hanno cooptato nel Comitato Centrale!”
In quella notte di luna, su cui era calata una gelida foschia, il trentaduenne
Koba, avvolto nella pelliccia, aveva camminato a lungo per il cortile. Esitava di
nuovo. Membro del Comitato Centrale! Malinovskij48 era membro del
Comitato Centrale bolscevico, e anche deputato della Duma di Stato. Be’, certo
Malinovskij era molto apprezzato da Lenin. Ma quelli erano i tempi dello zar!
Mentre chi era un membro del Comitato Centrale oggi, dopo la rivoluzione
sarebbe diventato di sicuro ministro. Anche se, a dir la verità, una rivoluzione
non c’era ancora stata ed era difficile aspettarsela in quella vita. Ma anche senza
rivoluzione un membro del Comitato Centrale era pur sempre un’autorità.
Cosa gli sarebbe accaduto se avesse continuato a lavorare nel servizio segreto
della polizia? Nessun Comitato Centrale, sarebbe rimasto solo un vile spione.
No, doveva congedarsi dalla gendarmeria. Il destino di Azef49 gli oscillava
davanti ogni giorno, ogni notte, come uno spettro gigantesco.
Il mattino seguente erano andati alla stazione ed erano partiti per
Pietroburgo. Laggiù li avevano arrestati. Al giovane e inesperto Ordžonikidze
avevano dato tre anni alla fortezza di Šlissel’burg e in aggiunta anche l’esilio. A
Stalin, come al solito, solo l’esilio, tre anni. In effetti un po’ lontanino, nel
Narymskij Kraj: era una sorta di avvertimento. Ma le vie di comunicazione
dell’Impero russo erano organizzate discretamente e a fine estate Stalin era già
rientrato senza problemi a Pietroburgo.
A quel punto aveva dato priorità al lavoro del partito. Si recava da Lenin a
Cracovia (non era difficile nemmeno per un confinato). Là c’era una superba
tipografia, c’erano stati la riunione per il Primo Maggio, i volantini; e alla Borsa
del grano Kalašnikovskaja a San Pietroburgo, a una festa, lo avevano
denunciato (era stato Malinovskij, ma si era scoperto molto tempo dopo). La
Polizia segreta si era infuriata e lo aveva mandato davvero in esilio, vicino al
Circolo polare, alla stazione di posta di Kurejka. E gli aveva affibbiato – il
potere zarista sì che sapeva infliggere condanne feroci! – terribile a dirsi, quattro
anni.
E Stalin era tornato a esitare: per chi, per cosa aveva rinnegato una vita
piacevole e modesta, la protezione da parte del potere? Per farsi mandare in
quel buco del diavolo? “Membro del Comitato Centrale”: paroline per allocchi.
C’erano alcune centinaia di confinati di tutti i partiti, al solo guardarli Stalin
restava inorridito, quanto erano ripugnanti quei rivoluzionari di professione,
bombaroli, arrochiti, per nulla indipendenti, dei poveracci. Non era quindi il
Circolo polare che il caucasico Stalin considerava terribile, ma trovarsi in
compagnia di quelle persone superficiali, volubili, irresponsabili, negative. E
per distinguersi subito da loro, staccarsi – in mezzo agli orsi sarebbe stato
meglio! – aveva sposato una siberiana, con un corpo da mammut e la voce
pigolante – era comunque preferibile il suo “Hi, hi, hi” e la sua cucina grassa e
puzzolente che finire in mezzo a quelle riunioni, quei dibattiti, quegli impicci e
chiacchiere fra compagni. Stalin aveva fatto capire loro che li riteneva estranei,
aveva tagliato i ponti con tutti, e pure con la rivoluzione. Basta! A trentacinque
anni non era troppo tardi per ricominciare con una vita onesta, bisognava pur
finirla di muoversi in base a come tirava il vento, usando le tasche come vele.
(Si disprezzava per aver trafficato tanti anni con quei pennivendoli.)
Così viveva completamente in disparte, senza sfiorare né i bolscevichi né gli
anarchici, andassero pure a quel paese. Ora non aveva alcuna intenzione di
scappare, voleva sopportare onestamente l’esilio fino alla fine. Inoltre era
iniziata la guerra e solo lì, al confino, poteva salvarsi la vita. Se ne stava con la
sua siberiana, cercando di non dare nell’occhio; era nato loro un figlio. Ma la
guerra non si decideva a finire. Si sarebbe attaccato con le unghie e con i denti
a un altro annetto di esilio: nemmeno condanne decenti sapeva dare quello zar
incapace!
Nulla da fare, la guerra non finiva! Il dicastero della polizia, con il quale
tanto aveva familiarizzato, aveva consegnato la sua scheda e la sua anima
all’ufficiale di reclutamento, e quello, che non capiva niente né di
socialdemocratici né di membri del Comitato Centrale, aveva chiamato Iosif
Džugašvili, anno di nascita 1879, obbligo di leva in precedenza non espletato,
nell’esercito imperiale come soldato semplice. Il futuro gran maresciallo aveva
iniziato così la sua carriera militare. Dopo tre tipi di servizio, stava per
iniziarne un quarto.
Lo avevano spedito su una slitta sonnolenta lungo l’Enisej fino a
Krasnojarsk, da lì alle caserme di Ačinsk. Andava per i trentotto ed era solo un
soldato georgiano stretto nel suo cappottino, rattrappito dal gelo siberiano,
inviato al fronte come carne da cannone. E la sua vita grandiosa si sarebbe
interrotta sotto qualche casa colonica bielorussa o qualche cittadina ebrea.
Non aveva ancora imparato ad arrotolare bene il cappotto sopra lo zaino e a
caricare il fucile (non lo imparò nemmeno in seguito, né da commissario né da
maresciallo, e chiedere era imbarazzante) che da Pietrogrado giunsero alcuni
nastri telegrafici che facevano abbracciare gente sconosciuta per la strada e
gridare con il respiro gelato: “Cristo è risorto!” Lo zar aveva abdicato!
L’impero non c’era più!
Come? Chi ve l’ha detto? Avevano smesso di sperare e di contarci. “Le vie
del Signore sono infinite!” avevano giustamente insegnato a Iosif nell’infanzia.
Non ricordava un’altra occasione in cui l’intera società russa e tutte le
correnti del partito si fossero rallegrate tanto. Tuttavia perché Stalin iniziasse a
esultare c’era bisogno ancora di un altro telegramma, senza il quale lo spettro
di Azef impiccato non avrebbe mai smesso di oscillargli sopra la testa.
Il giorno dopo quel dispaccio arrivò: la sezione della Polizia segreta era stata
incendiata e saccheggiata, tutti i documenti erano andati distrutti!
I rivoluzionari sapevano cosa bisognava bruciare in fretta. Là, aveva
compreso Stalin, dovevano essercene un bel po’ di quelli come lui...
(La Polizia segreta era bruciata, ma Stalin aveva continuato per tutta la vita a
osservare ogni cosa con sospetto e a guardarsi intorno. Sfogliava di propria
mano decine di migliaia di pagine di archivio e gettava nel fuoco intere cartelle,
senza stare a controllare troppo. E tuttavia qualcosa si era lasciato scappare, e
nel 1937 per poco non era venuto fuori. Ogni compagno di partito contro il
quale poi si procedeva legalmente, veniva accusato da Stalin immancabilmente
di spionaggio: aveva provato come fosse facile caderci ed era difficile per lui
immaginare che gli altri fossero rimasti immuni.)
In seguito Stalin si era rifiutato di definire grande la rivoluzione di febbraio,
dimenticando come lui stesso avesse gioito e cantato, in un lampo si fosse
precipitato via da Ačinsk (a quel punto poteva anche disertare!), avesse fatto
delle stupidaggini e spedito da un ufficio postale di provincia un telegramma a
Lenin in Svizzera.
Giunto a Pietrogrado, era stato subito d’accordo con Kamenev: eccolo
quello che sognavamo in clandestinità. La rivoluzione era stata fatta, ora
bisognava consolidare quanto raggiunto. Era arrivato il tempo delle persone
positive (soprattutto se facevi parte del Comitato Centrale). Tutte le forze a
sostegno del governo provvisorio!
Per loro dunque ogni cosa era chiara, almeno finché non arrivò
quell’avventuriero che non conosceva affatto la Russia, cui mancava qualsiasi
esperienza pratica regolare, che mangiandosi le parole, agitato, e pronunciando
male la erre e la elle si era messo in mezzo con le sue tesi di aprile,
complicando tutto definitivamente! Aveva stordito il partito di chiacchiere, lo
aveva trascinato fino al colpo di Stato di luglio! Quell’impresa rischiosa era
fallita, proprio come aveva predetto Stalin, e per poco non era andato distrutto
tutto il partito. Dov’era ora il coraggio da galletto di quell’eroe? Era scappato
nel Golfo di Finlandia per salvarsi la pelle, mentre là i bolscevichi venivano
insultati a sangue. Davvero la sua libertà era più cara del prestigio del partito?
Stalin lo aveva esternato apertamente al VI Congresso, ma la maggioranza non
lo aveva colto.
In generale, il 1917 era stato un anno sgradevole: troppe riunioni, chi
mentiva in modo più ricercato veniva tenuto in palmo di mano; Trockij nel
circo praticamente ci viveva50. Ma da dove spuntavano tutti insieme quei
demagoghi come mosche sul miele? In esilio non si erano visti, alle
espropriazioni nemmeno, chiacchieravano dall’estero, per poi arrivare d’un
tratto lì a sbraitare, a intrufolarsi nelle prime file. E giudicavano tutto, come
pulci scattanti. Una questione non era emersa, non si era ancora nemmeno
posta, che loro già sapevano come rispondere! Ridevano di Stalin, lo
offendevano senza neppure nascondersi. È vero, lui nelle loro dispute non si
immischiava, non saliva in tribuna, per il momento taceva. Non amava quelle
cose, non era capace di fare a gara a chi sbraitava di più. Non era così che si era
immaginato la rivoluzione. Per lui, la rivoluzione era insediarsi nei posti di
comando e agire.
Quelle barbette a punta ridevano di Stalin, ma allora perché decidevano di
scaricare sempre le cose più pesanti, le più ingrate, a lui? Se lo schernivano
tanto, come mai quando si era trattato di occupare il villino della ballerina
Kšesinskaja51 avevano tutti il mal di pancia e alla Petropavlovskaja, quando
bisognava convincere i marinai a consegnare la fortezza a Kerenskij senza
combattere e a ritirarsi a Kronstadt, non avevano mandato uno qualunque ma
proprio Stalin? Perché Griška Zinov’ev i marinai lo avrebbero lapidato. Perché
bisogna saper parlare con il popolo russo.
Era stato un azzardo anche il colpo di Stato di ottobre, ma era riuscito. Era
riuscito. E bene. Si poteva dare a Lenin il massimo dei voti, per quello. Cosa
sarebbe venuto dopo, non era chiaro, per il momento andava bene così. Il
commissariato del popolo per le nazionalità? D’accordo, si facesse pure.
Redigere una costituzione? Va bene. Stalin non si sorprendeva più.
Incredibile, ma sembrava proprio che in un anno la rivoluzione si fosse
realizzata pienamente. Aspettarselo sul serio era impossibile, eppure era
accaduto! Quel pagliaccio di Trockij auspicava anche una rivoluzione mondiale,
non voleva la pace di Brest-Litovsk, e pure Lenin ci credeva... oh, intellettuali
sognatori! Bisognava essere degli asini per credere a una rivoluzione europea;
erano vissuti tanto in Europa, eppure non avevano capito niente. Stalin c’era
stato solo una volta, di passaggio, e aveva capito tutto. Bisognava farsi il segno
della croce se era riuscita la nostra, di rivoluzione. E starsene buoni. A
ragionare.
Stalin si guardava intorno con sguardo disincantato e obiettivo. E rifletteva.
Capiva chiaramente che una rivoluzione importante come quella poteva essere
rovinata da simili parolai. Solo lui, Stalin, l’avrebbe indirizzata nel modo
giusto. In tutta onestà, e in tutta coscienza, era lui l’unica autentica guida. Si
paragonava in modo realistico a quegli smorfiosi, quei farfalloni, e vedeva
chiaramente la propria superiorità nella vita, la loro fragilità, la propria
stabilità. A distinguerlo da tutti loro era la capacità di capire le persone. Le
capiva là dove si congiungevano alla terra, alla base, le capiva in quella parte
senza la quale non potevano reggersi, non potevano stare in piedi, e quello che
c’era più in alto, quello che fingevano di essere, quello che ostentavano, era una
sovrastruttura, non contava nulla.
Lenin, in effetti, volava alto come un’aquila, sapeva stupire: in una notte
aveva tirato fuori lo slogan “Terra ai contadini!” (poi da lì vedremo) e in un
giorno aveva escogitato la pace di Brest-Litovsk (non solo per un russo, persino
per un georgiano sarebbe stato un dolore cedere metà della Russia ai tedeschi,
ma per lui non lo era!). Per non parlare poi della NEP, la politica più scaltra di
tutte: Lenin non aveva vergogna di inventare simili manovre.
La cosa più grande di tutte in Lenin, superstraordinaria, era che teneva saldo
il potere reale solo nelle sue mani. Cambiavano gli slogan, cambiavano i temi di
discussione, cambiavano gli alleati e gli avversari, ma il pieno potere restava
esclusivamente nelle sue mani!
Era un uomo, però, sul quale non si poteva davvero contare, la sua politica
economica gli avrebbe portato un sacco di guai, ci si sarebbe impantanato.
Stalin sentiva perfettamente la fragilità di Lenin, la sua impazienza, cui si
aggiungeva una pessima capacità di comprendere le persone, se non una totale
incapacità. (Ne aveva avuto la prova personalmente: quale che fosse il lato di sé
che Stalin desiderava mostrargli, Lenin solo quello vedeva.) Quell’uomo era
inadatto al losco corpo a corpo della vera politica. Stalin si sentiva più fermo e
saldo di Lenin proprio com’è vero che i 66° di latitudine di Turuchansk sono
maggiori dei 54° di Šušenskoe52. Che cosa aveva sperimentato quell’erudito
teorico nella vita? Non aveva alle spalle un basso ceto, l’umiliazione, la miseria,
la carestia: anche se non ricchissimo, restava pur sempre un possidente. Da
esiliato non era tornato in patria nemmeno una volta, un esule esemplare! Una
prigione vera non l’aveva mai vista, e nemmeno la vera Russia aveva visto: in
quattordici anni di emigrazione si era limitato a bighellonare. Dei suoi scritti
Stalin ne aveva letti non più della metà, era convinto di non poterne ricavare
molto. (Be’, c’erano anche definizioni straordinarie. Per esempio: “Che cos’è
una dittatura? Un governo illimitato non arginato dalle leggi.” Stalin aveva
scritto a margine: “Bene!”) Se Lenin avesse potuto contare su una mente
davvero razionale, fin da subito avrebbe voluto vicino Stalin più di tutti gli
altri, e avrebbe detto: “Aiutami tu! Capisco la politica, le classi, ma le persone in
carne e ossa non le capisco affatto!” Invece lui non aveva trovato niente di
meglio che mandare Stalin a requisire il grano in un angolo sperduto della
Russia. Stalin era l’uomo di cui avrebbe avuto più bisogno a Mosca, e lui lo
mandava a Caricyn53...
E per tutta la Guerra civile Lenin era rimasto al Cremlino, si era risparmiato.
Mentre a Stalin era toccato per tre anni correre in tutto il paese, sobbalzando a
volte in groppa a un cavallo, altre su un carro con una mitragliatrice, gelare e
poi riscaldarsi con un falò. Sì, è vero, Stalin amava il suo sé stesso di quegli
anni: giovane generale senza una nomina formale, composto, slanciato; il
berretto di pelle con le stellette; il cappotto da ufficiale a doppio petto,
morbido, sbottonato, con il taglio da cavalleria; stivaletti su misura, di pelle
trattata al cloro; il viso intelligente, giovane, ben rasato, con i baffi affusolati;
nessuna donna gli resisteva (e la sua terza moglie era bellissima).
Naturalmente non brandiva la sciabola e non si cacciava in mezzo alle
pallottole, lui era necessario alla Rivoluzione, non era un contadino alla
Budënnyj54. Arrivi in un posto nuovo – a Caricyn, Perm’, Pietrogrado –
ascolti, fai domande, ti aggiusti i baffi. Su una lista scrivi “fucilare”, su un’altra
di nuovo “fucilare”, e allora la gente comincia a rispettarti.
E a dire il vero, aveva dimostrato di essere un grande militare, artefice della
vittoria.
Tutta quella cricca che si era infilata in alto, affollandosi intorno a Lenin,
lottava per il potere; si consideravano tutti molto intelligenti, molto perspicaci,
molto complicati. Proprio della loro complicatezza si vantavano. Dove due più
due faceva quattro, quelli starnazzavano tutti in coro che ci andava ancora un
decimo e due centesimi. Ma il peggiore di tutti, il più odioso era Trockij. Un
uomo tanto sgradevole in tutta la sua vita Stalin non lo aveva mai incontrato.
Dotato di una presunzione pazzesca, così convinto della propria eloquenza,
non discuteva mai in modo onesto, mai che un “sì” fosse davvero “sì”, un “no”
davvero “no”, ma era sempre: è così e così, non è così e non è nemmeno così!
La pace non va conclusa, la guerra non va condotta: quale uomo con un po’ di
senno può capire una cosa del genere? E la sua arroganza? Andava in giro su
una carrozza-salone, come fosse lo zar. E come fai a diventare comandante in
capo supremo se ti manca la capacità strategica?
Quel Trockij gli bruciava e rodeva al punto che nei primi tempi,
scontrandosi con lui, Stalin perdeva il controllo e veniva meno alla regola
principale in ogni politica: non mostrare mai chi è il tuo nemico, non far vedere
la tua irritazione. Stalin gli si opponeva apertamente, lo ingiuriava nelle lettere,
anche a voce, e si lamentava con Lenin, non gliene lasciava passare una. Non
appena veniva a sapere un’opinione, una decisione di Trockij su qualsiasi
questione, cambiava la propria, si doveva fare esattamente il contrario. Ma così
non si può vincere. E Trockij l’aveva scalciato via come un bastone capitato in
mezzo ai piedi: lo aveva cacciato da Caricyn, cacciato dall’Ucraina. E una volta
Stalin aveva ricevuto una dura lezione, che in una lotta non tutti i mezzi sono
buoni, che ci sono colpi proibiti: lui e Zinov’ev si erano lamentati al Politbjuro
delle fucilazioni arbitrarie di Trockij. Allora Lenin aveva preso alcuni moduli
in bianco e nella parte inferiore aveva scritto “approvato in anticipo!” e lì, di
fronte a loro, li aveva dati a Trockij da compilare.
Che insegnamento! Che vergogna! Di cosa si era lamentato?! In uno scontro
accanito non ci si appella all’indulgenza. Aveva ragione Lenin, e in via
eccezionale persino Trockij: se non puoi fucilare senza processo, non sei in
grado di fare la storia.
Siamo tutti esseri umani e i sentimenti ci spingono più della ragione. Ogni
uomo ha un proprio odore, l’odore ti dice come muoverti ancor prima della
testa. Naturalmente Stalin aveva sbagliato a esporsi contro Trockij prima del
tempo (non avrebbe più commesso un simile errore). Ma quegli stessi
sentimenti lo avevano fatto agire in modo corretto verso Lenin. A dar retta alla
testa avrebbe dovuto compiacerlo, dirgli: “Ah, è giustissimo! Sono favorevole
anch’io!” Tuttavia il cuore, infallibile, aveva indicato a Stalin un’altra via:
dimostrarsi arrogante nei suoi confronti in maniera sempre più aspra,
impuntarsi come un mulo. Dice una persona incolta, grezza, inselvatichita: vuoi
una cosa prendila, non la vuoi non prenderla. Lui non si era dimostrato solo
arrogante, aveva mancato a Lenin di rispetto (“Posso restare al fronte ancora
due settimane, poi me ne vado in vacanza”: a chi avrebbe mai perdonato Lenin
una frase del genere?), ma proprio chi era inflessibile, poco malleabile, sapeva
guadagnarsi la stima di Lenin. Lenin sentiva che quel meraviglioso georgiano era
una figura forte, il genere di uomo necessario, e in futuro sempre di più. Lenin
ascoltava Trockij in modo frettoloso, mentre a Stalin dava retta. Se obbligava
Stalin a fare un passo indietro, lo faceva anche con Trockij. Quello era
colpevole per Caricyn, l’altro per Astrachan’. “Imparate a collaborare” li
persuadeva, ma accettava anche che non andassero d’accordo. Trockij si era
lamentato che con la legge asciutta55 in vigore in tutta la Repubblica, Stalin si
scolava la cantina dello zar al Cremlino. Se al fronte lo avessero saputo... Stalin
se l’era cavata con un buffetto: Lenin si era fatto una risata e Trockij se n’era
andato tormentandosi la barbetta. A Stalin era stata tolta l’Ucraina e al suo
posto gli era stato dato un altro commissariato del popolo, l’RKI, Ispettorato
operaio e contadino.
Era il marzo del 1919. Stalin aveva raggiunto i quaranta. Nelle mani di
chiunque altro l’RKI sarebbe rimasto un ispettorato di poco conto, ma con
Stalin si era trasformato in un Commissariato del popolo di prim’ordine!
(Lenin a questo mirava. Conosceva il rigore di Stalin, la sua inflessibilità, la sua
incorruttibilità.) Proprio a Stalin Lenin aveva affidato il compito di vegliare
sulla giustizia nella Repubblica, sulla correttezza dei lavoratori del Partito,
perfino dei più importanti. Per la natura stessa di quel lavoro, a volerlo bene
eseguire, pronti a darsi anima e corpo e a trascurare la salute, Stalin avrebbe
dovuto in segreto (ma in piena legalità) raccogliere materiale e prove a carico
su ogni lavoratore con qualche responsabilità, mandare controllori e mettere
insieme relazioni, e poi dirigere le epurazioni. E per questo bisognava creare
un apparato, selezionare in tutto il paese persone altruiste, inflessibili, simili a
lui, pronte a collaborare di nascosto, senza pubblica ricompensa. Un lavoro
meticoloso, un lavoro paziente, un lavoro lungo, ma Stalin era pronto a
compierlo.
Non a torto si dice che la maturità inizi a quarant’anni. Solo allora si capisce
definitivamente come vivere, come comportarsi. Solo allora Stalin aveva
compreso la propria forza primaria: la forza di una decisione inespressa.
Dentro di te la decisione è già presa, ma se da questa dipende la testa di
qualcun altro, non c’è bisogno che costui lo sappia anzitempo. (Lo scoprirà
quando la sua testa comincerà a rotolare.) Seconda forza: non credere mai alle
parole altrui, non dare significato alle tue. Non bisogna tanto dire cosa farai
(potresti non saperlo nemmeno tu finché non accade), ma ciò che può calmare
il tuo interlocutore. Terza forza: se qualcuno ti ha tradito, non lo perdonare, se
tieni qualcuno per la gola, non lasciarlo andare, non mollarlo per nessuna
ragione al mondo, nemmeno se il sole è tornato indietro e gli eventi celesti
sono mutati. Quarta forza: non scommettere su una teoria, non ha ancora
aiutato nessuno (la dirai in un secondo tempo), ma capire sempre con chi
metterti in cammino e fino a dove arrivare.
Così pian piano la situazione tra lui e Trockij si era accomodata, prima con
l’aiuto di Zinov’ev, poi anche di Kamenev. (Con loro due si erano creati
rapporti sinceri.) Stalin si era convinto che fosse inutile agitarsi per Trockij: un
uomo come quello non va mai spinto nella fossa, ci si butterà da solo. Stalin
sapeva il fatto suo, si muoveva in silenzio: aveva selezionato con calma i quadri
dirigenti, messo alla prova gli uomini, ricordava chi era affidabile, attendeva
l’occasione per promuoverli, trasferirli. Era bastato poco tempo, e zac! Trockij
si era gettato lui stesso in una discussione sui sindacati di categoria, aveva
sparato sciocchezze, cercato di arruffianarseli, fatto irritare Lenin – non
rispettava il partito! – e Stalin aveva già pronto con chi sostituire i suoi uomini:
Krestinskij con Zinov’ev, Preobraženskij con Molotov, Serebrjakov con
Jaroslavskij. Si erano avvicinati al Comitato Centrale anche Vorošilov e
Ordžonikidze, tutti uomini suoi. Il celebre comandante in capo aveva
cominciato a vacillare sulle sue gambe da cicogna. E Lenin aveva compreso che
solo Stalin era la roccia per l’unità del partito: e per sé stesso non voleva niente,
non chiedeva niente.
Così l’ingenuo e simpatico georgiano aveva fatto colpo su tutti i dirigenti:
non si metteva in mostra sulla tribuna, non aspirava alla popolarità, alla
pubblicità come tutti loro, non si vantava di conoscere Marx, non lo citava ad
alta voce, ma lavorava con modestia, selezionava l’apparato; un compagno
solitario, molto inflessibile, molto onesto, votato al sacrificio, diligente, forse
un tantino grezzo, rude, non proprio una cima. E quando Il’ič si era ammalato,
avevano scelto Stalin come segretario generale, proprio come un tempo Michail
Romanov era diventato zar perché nessuno lo temeva.
Era il maggio del 1922. Un altro si sarebbe tranquillizzato, si sarebbe seduto,
rallegrato. Non Stalin. Un altro si sarebbe messo a leggere Il capitale, ne avrebbe
ricavato degli estratti. Ma a Stalin era bastata un’annusatina per capire: il
momento era importante, le conquiste della rivoluzione in pericolo, non c’era
neanche un minuto da perdere. Lenin non avrebbe conservato il potere e non
lo avrebbe passato in mani affidabili. La sua salute aveva cominciato a vacillare,
e forse era meglio così. Se si fosse mantenuto al comando, non si sarebbe
potuto discutere con lui per nessuna ragione, non ci sarebbe stato niente di
sicuro: con i nervi a pezzi, irascibile, e adesso anche malato, si sarebbe
dimostrato sempre più irritante, avrebbe impedito loro di lavorare. Ostacolato
il lavoro di tutti! Avrebbe potuto stroncare una persona per niente, richiamarla,
toglierla dalla carica per cui era stata scelta.
La prima idea fu di mandare Lenin nel Caucaso, a curarsi; laggiù c’erano aria
buona, luoghi tranquilli, nessuna telefonata con Mosca, i telegrammi ci
impiegavano parecchio ad arrivare; laggiù, lontano dal lavoro di governo, i suoi
nervi si sarebbero placati. E per vegliare sulla sua salute bisognava mettergli
accanto un compagno affidabile, Kamo, ex espropriatore e rapinatore. Lenin
aveva dato il proprio consenso, stavano già prendendo accordi con Tbilisi, ma
la questione andava per le lunghe. Poi Kamo fu investito da un’automobile
(chiacchierava troppo di espropriazioni).
Allora Stalin, preoccupato per la vita del capo, aveva sollevato la questione
tramite il Commissariato del popolo per la Sanità pubblica e i professori
chirurghi: la pallottola mai estratta stava avvelenando l’organismo di Lenin, era
necessario estrarla con un altro intervento. E aveva convinto i medici. E tutti
ripetevano che andava fatto e Lenin aveva acconsentito, ma di nuovo la
questione andava per le lunghe. Allora lui se n’era andato a Gorki.
“Con Lenin serve rigore!” aveva scritto Stalin a Kamenev. Kamenev e
Zinov’ev, a quei tempi i suoi migliori amici, concordavano pienamente. Rigore
nelle cure, rigore nella dieta, rigore perché si tenesse lontano dal lavoro: doveva
preoccuparsi esclusivamente della sua preziosa vita. E restare lontano da
Trockij. Bisognava anche frenare la Krupskaja, era una compagna di partito
come tutte le altre. Stalin si era autonominato “responsabile della salute del
compagno Lenin”, e per lui non si trattava di un compito gravoso: occuparsi
personalmente dei medici, persino delle infermiere, indicare loro qual era la
dieta più adatta a Lenin; la cosa più utile era proibire, proibire, proibire, anche
se si fosse agitato. Lo stesso nelle questioni politiche. Non gli andava a genio il
progetto di legge sull’Armata Rossa? Bisognava procedere. Non gli andava a
genio quello sul Comitato esecutivo centrale panrusso? Di nuovo procedere. E
non desistere mai, per nessun motivo: era malato, non poteva sapere cos’era
meglio. Se insisteva per far approvare qualcosa in fretta, bisognava farlo con
maggiore calma, rimandare. E magari rispondergli in modo brusco, molto
brusco, il segretario generale è uno schietto, non può certo cambiare il suo
carattere.
Eppure, nonostante tutti gli sforzi di Stalin, Lenin si riprendeva a fatica, la
sua malattia si era protratta fino all’autunno, ma a quel punto la disputa a
proposito del Comitato esecutivo centrale e del Comitato esecutivo centrale
panrusso si era inasprita ulteriormente, con il caro Il’ič non ancora in grado di
reggersi sulle gambe per lungo tempo. Si era alzato solo per ricostruire, nel
dicembre del 1922, un’alleanza sincera con Trockij, contro Stalin, naturalmente.
Dunque, anche per questo non doveva alzarsi, era meglio se tornava a letto.
Adesso la sorveglianza medica era più rigida: Lenin non poteva leggere,
scrivere, doveva restare all’oscuro di certe faccende e mangiare pappa di
semola. Il caro Il’ič aveva escogitato di scrivere, di nascosto dal segretario
generale, un testamento politico, anche questo contro Stalin. Dettava per
cinque minuti al giorno, di più non gli era concesso (non glielo permetteva
Stalin). Ma il segretario generale se la rideva sotto i baffi: la stenografa, con i
suoi tacchetti, tac-tac-tac, gli portava la copia d’obbligo. A quel punto era toccato
richiamare all’ordine anche la Krupskaja, se l’era proprio meritato, il caro Il’ič
si era agitato ed era arrivato il terzo attacco! Così tutti gli sforzi per salvargli la
vita non erano serviti.
Lenin era morto proprio al momento giusto: Trockij si trovava nel Caucaso
e Stalin gli aveva comunicato un’altra data per il funerale, non c’era alcuna
ragione che lui fosse presente. Era di gran lunga più rispettoso, molto più
importante, che il giuramento di fedeltà lo pronunciasse il segretario generale.
Ma Lenin aveva lasciato un testamento. Avrebbe potuto far nascere
disaccordi fra i compagni, creare incomprensioni, magari togliere a Stalin
l’incarico di segretario generale. Così Stalin aveva rinsaldato la sua amicizia con
Zinov’ev sostenendo che ormai il capo del partito sarebbe diventato lui e
invitandolo a presentare un resoconto al Comitato Centrale durante il XIII
Congresso, da futuro capo, mentre Stalin sarebbe rimasto un modesto
segretario generale, lui non aveva bisogno di nulla. Zinov’ev si era
pavoneggiato sulla tribuna, aveva presentato la sua relazione (una relazione
molto semplice, in cui dimostrava che per lui esisteva una sola posizione
possibile, quella di “capo del partito”), e aveva convinto il Comitato Centrale a
non leggere il testamento al congresso e a non sollevare Stalin dall’incarico,
visto che si era già corretto da solo.
Quelli del Politbjuro erano allora tutti molto uniti, tutti uniti contro
Trockij. Respingevano le sue proposte e sollevavano dagli incarichi i suoi
sostenitori. Un altro segretario generale si sarebbe tranquillizzato. Ma
l’instancabile e sempre vigile Stalin sapeva che la tranquillità era ancora
lontana.
Sarebbe stato un bene lasciare che Kamenev prendesse il posto di Lenin
come presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo? (Già quando lui e
Kamenev andavano a trovare Lenin malato, Stalin scriveva sulla “Pravda”,
come se ci fosse andato da solo, senza Kamenev. Per ogni evenienza. Aveva
previsto che nemmeno Kamenev sarebbe stato eterno.) Non era forse meglio
Rykov? Era d’accordo anche lo stesso Kamenev, e pure Zinov’ev: ecco quanto
vivevano da amici!
Ma di lì a breve la loro amicizia avrebbe subìto un duro colpo: saltò fuori
che Zinov’ev e Kamenev erano due ipocriti, dei doppiogiochisti, che puntavano
solo al potere, non avevano care le idee di Lenin. Andavano frenati. Si erano
trasformati nella “nuova opposizione” (era entrata a farne parte anche quella
blaterona della Krupskaja), mentre ora Trockij, a furia di botte, si era fatto
docile. Si era creata una situazione molto favorevole. A quel punto era iniziata
una grande e sincera amicizia tra Stalin e il buon Bucharin, primo teorico del
partito. Bucharin si era fatto avanti, aveva trovato una base e delle motivazioni
(loro dicevano: “Offensiva contro i kulaki!”; io e Bucharin dicevamo: “Alleanza
fra città e campagna!”). Stalin non aspirava affatto alla notorietà, neppure a
guidare il paese, a lui interessavano solo le votazioni e stabilire chi dovesse
ottenere una data carica. Già molti compagni come si deve si trovavano in posti
chiave e votavano in modo corretto. Avevano sollevato Zinov’ev dal
Komintern, tolto agli altri Leningrado.
Sembravano rassegnati, ma non era così: adesso avevano unito le forze a
quelle di Trockij, quel pagliaccio si era svegliato un’ultima volta, proponendo
lo slogan “Industrializzazione”. Io e Bucharin proporremo: unità del partito!
Dovranno uniformarsi tutti in nome dell’unità! Avevano mandato Trockij in
esilio, tappato la bocca a Zinov’ev e Kamenev.
Era stato parecchio d’aiuto il reclutamento di Lenin56: adesso la maggioranza
del partito era formata da gente non contaminata dagli intellettuali, non
contaminata dagli antichi intrighi delle attività clandestine e dell’emigrazione,
gente per la quale l’antica grandezza dei leader del partito non significava
niente, era importante solo la loro faccia di oggi. Dal semplice popolo del
partito era venuta fuori gente sana, gente fedele, che occupava cariche
importanti. Stalin non aveva mai dubitato di poterne trovare di simili,
avrebbero salvaguardato loro le conquiste della rivoluzione.
Ma quale infausta sorpresa: Bucharin, Tomskij e Rykov si erano rivelati
anche loro degli ipocriti, non erano per l’unità del partito, e Bucharin si era
dimostrato un gran pasticcione, altro che teorico. Il suo scaltro slogan
“Alleanza fra città e campagna!” celava in sé un pensiero restauratore, la resa
davanti al kulak e il fallimento dell’industrializzazione!... Ecco dov’erano finiti i
giusti slogan, che solo Stalin sapeva formulare davvero: offensiva contro i
kulaki e industrializzazione forzata! E unità del partito, naturalmente! E anche
quella vile “compagnia di destra” era stata allontanata dalla direzione.
Un tempo Bucharin si vantava dell’intuizione di un saggio: “Le menti
inferiori sono più adatte alle posizioni di comando.” Avete preso un granchio,
Nikolaj Ivanyč, tu e il tuo saggio: non inferiori, assennate. Menti assennate.
E che menti eravate voi, l’avete dimostrato nei processi! Stalin sedeva nel
loggione, in una stanza chiusa, li osservava da dietro una tendina, li scherniva:
che demagoghi erano stati! Come sembravano forti allora! E come si erano
ridotti? Rammolliti.
Proprio la sua conoscenza della natura umana e la sua inflessibilità avevano
sempre aiutato Stalin. Capiva le persone già al primo sguardo. Ma capiva anche
quelle su cui non posava lo sguardo. Quando nel 1931-’32 c’erano state
difficoltà, e nel paese non c’era più niente da mettersi, più niente da mangiare,
per cadere sarebbe bastata una spintarella. E il partito aveva dato l’ordine:
allarme, pericolo d’invasione! Ma lui, Stalin, non ci aveva creduto nemmeno per
un secondo, perché sapeva prevedere in anticipo anche le mosse di quei
cialtroni di occidentali.
Senza contare quante forze, quanta salute, quanta fermezza c’erano volute
per ripulire dai nemici il partito, il paese, e ripulire il leninismo, quella teoria
infallibile che Stalin non aveva mai tradito: faceva esattamente quanto tracciato
da Lenin, solo in maniera un po’ più morbida e senza fretta.
Quanti sforzi! Eppure mai che ci fosse un po’ di pace, mai che la smettessero
di saltar fuori a disturbare. Ora ad aggredirlo è quel poppante boccastorta di
Tuchačevskij, come se fosse colpa di Stalin se lui non aveva preso la Polonia.
Ora con Frunze non si mette bene, il censore non sta abbastanza attento57.
Ora in uno stupido raccontino raffigurano Stalin sul monte come un morto in
piedi, e si sono lasciati scappare anche quello, gli idioti58. Ora l’Ucraina fa
marcire il grano, il Kuban’ spara con fucili a canne mozze, sciopera persino
Ivanovo.
Tuttavia Stalin non aveva perso il controllo neanche una volta, dopo l’errore
con Trockij, mai neanche una. Le macine della storia, come ben sapeva,
triturano lentamente, ma non smettono di girare. Non c’era bisogno di fare
tanto chiasso, tutti i malevoli, tutti gli invidiosi se ne sarebbero andati,
sarebbero morti, si sarebbero trasformati in concime. (Anche se quegli scrittori
lo avevano offeso, Stalin non si vendicava su di loro, non era quella la ragione,
non sarebbe stato istruttivo. Aspettava con pazienza un’altra occasione,
un’occasione capitava sempre.)
E davvero quelli che durante la Guerra civile erano comandanti di
battaglione o anche solo di compagnia, non fedeli a Stalin erano finiti tutti
chissà dove, scomparsi. E i delegati del XII, XIII, XIV, XV, XVI, XVII Congresso,
neanche fossero stati presi dagli elenchi, erano finiti in un luogo dal quale non
avrebbero più potuto né votare né intervenire. Una Leningrado piena di
sobillatori, un posto tanto pericoloso, era stata ripulita due volte. Era toccato
sacrificare persino amici come Sergo59. Ed era capitato di rimuovere
addirittura aiutanti diligenti come Jagoda, come Ežov. Alla fine erano arrivati
fino a Trockij e gli avevano spaccato il cranio.
Non era rimasto sulla terra un solo vero nemico: non si era dunque meritato
una pausa? Ad avvelenarla ci aveva pensato la Finlandia. L’indugiare
disonorevole di Stalin nell’istmo careliano era una vergogna di fronte a Hitler:
quello intanto si era fatto un bel giro in Francia con il suo bastone da
passeggio! Ah, indelebile macchia sul genio del colonnello! Tutti i finlandesi,
fino all’ultimo neonato, una nazione ostile e borghese fino al midollo, li
avrebbe spediti con i convogli a Karakum, per poi sedersi davanti al telefono e
registrare i bollettini: quanti erano stati già fucilati e sotterrati, quanti ne erano
ancora rimasti.
Le disgrazie continuavano a piovergli addosso alla rinfusa. Hitler lo aveva
ingannato, li aveva aggrediti, un’unione tanto bella era stata distrutta per una
follia! E davanti al microfono, nel pronunciare “fratelli e sorelle” gli erano
tremate le labbra e ora dalla storia non si poteva cancellare. Ma quei fratelli e
quelle sorelle correvano come pecoroni, nessuno voleva resistere fino alla
morte, anche se era stato loro ordinato chiaramente. Perché, dunque, non
avevano resistito? Perché non avevano resistito subito?!... Che oltraggio.
Poi quella partenza per Kujbyšev, nei rifugi antiaerei vuoti... Sfruttava
qualsiasi situazione, non si piegava mai, solo una volta si era fatto prendere dal
panico, e senza motivo. Aveva camminato avanti e indietro per le stanze, aveva
telefonato di continuo per una settimana: Mosca si è arresa? L’hanno
consegnata? No, non l’hanno consegnata!! Nessuno credeva si potessero
fermare, ma li avevano fermati! Bravi, naturalmente. Bravi. Ma ne aveva dovuti
eliminare molti: che vittoria sarebbe stata se si fosse sparsa la voce che il
Comandante in capo se n’era temporaneamente andato? (Per questo motivo, si
era reso necessario fotografare una piccola parata il 7 novembre.)
Ma la radio di Berlino sventolava i panni sporchi degli omicidi di Lenin,
Frunze, Dzeržinskij, Kujbyšev, Gor’kij... quante sciocchezze! Un vecchio
nemico, Churchill, un grasso maiale buono solo per il čachochbili60, era arrivato
in volo per gongolare, per fumarsi al Cremlino un paio di sigari. Gli ucraini lo
avevano tradito (aveva un sogno nel 1944, evacuare tutta l’Ucraina in Siberia,
ma non c’era modo di occuparsene, erano troppi); lo avevano tradito i lituani,
gli estoni, i tatari, i kazachi, i calmucchi, i ceceni, gli ingusci, i lettoni – persino
il bastone della rivoluzione, i lettoni! Persino i suoi connazionali georgiani,
risparmiati dalla mobilitazione, sembravano quasi aspettare Hitler! Fedeli al
proprio Padre erano rimasti solo i russi e gli ebrei.
Dunque, in quegli anni difficili, persino la questione nazionale lo irrideva...
Ma, grazie a Dio, anche quei guai erano passati. Stalin aveva rimediato
battendo Churchill e quel santarellino di Roosevelt. Dagli anni Venti non aveva
ottenuto tanto successo quanto con quei due babbei. Quando rispondeva loro
per lettera, o a Jalta se ne tornava nella sua stanza, li prendeva in giro. Uomini
di Stato che si credevano tanto intelligenti ma che erano più sciocchi di
ragazzini. Gli chiedevano tutto: come staremo dopo la guerra, come? Mandate
aerei, mandate cibo in scatola, e allora vedremo come andrà. Butti lì una parola,
la prima che ti viene in mente, e quelli saltellano di gioia, se la scrivono subito
su un foglio. Fingi che l’amore ti abbia ammorbidito, e quelli si fanno due volte
più morbidi. Da costoro per un nonnulla, poco più di una presa di tabacco,
aveva ottenuto: Polonia, Sassonia, Turingia, gli uomini di Vlasov, quelli di
Krasnov, le isole Curili, Sachalin, Port Arthur, metà Corea, e li aveva confusi
col Danubio e con i Balcani. I leader degli “agricoltori”, che avevano trionfato
alle elezioni, ora se ne stavano in prigione. Mikołajczyk61 era stato rimosso in
fretta, a Beneš e a Masaryk aveva ceduto il cuore62; il cardinale Mindszenty63
aveva riconosciuto i suoi misfatti; Dimitrov64, nella clinica di cardiologia del
Cremlino, aveva rinnegato quell’assurda Federazione Balcanica.
Erano stati rinchiusi nei campi di lavoro tutti i sovietici che avevano vissuto
in Europa. E una volta là, ognuno di loro si beccava un secondo giro di dieci
anni.
Insomma, a quanto pareva, ogni cosa stava iniziando ad andare per il verso
giusto!
E quando ormai nemmeno nel fruscio della taiga si sentiva più la benché
minima variante di socialismo, a chiudere ogni prospettiva era strisciato fuori il
dragone nero Tito.
Simile a un fiabesco bogatyr’, Stalin si sfiniva a furia di mozzare teste a
un’idra, ma queste non smettevano mai di ricrescere!...
Come aveva fatto a sbagliarsi su quell’anima di scorpione?! Proprio lui, che era
un conoscitore dell’animo umano! Nel 1936 lo tenevano per la gola – e se
l’erano lasciato scappare!... Ahiaaaahiii!
Stalin con un lamento calò le gambe dall’ottomana e si prese fra le mani la
testa dalla calvizie già incipiente. Gli bruciava una stizza che non si poteva
lenire. Stalin abbatteva le montagne, ma si era bloccato davanti a una malefica
collinetta.
Iosif era inciampato in Iosif65...
Kerenskij, che trascorreva gli ultimi anni della sua vita chissà dove, non dava
nessun fastidio a Stalin. Se pure fosse tornato dalla tomba Nicola II, o Kolčak,
Stalin non nutriva nessun rancore personale nei loro confronti: nemici palesi,
non si barcamenavano per proporre un loro socialismo nuovo e migliore.
Un socialismo migliore! Diverso da quello di Stalin! Che moccioso! Un
socialismo senza di lui era fascismo bell’e buono!
Il problema non era che Tito giungesse a qualcosa, tanto non poteva
riuscirgli niente. Stalin guardava Tito allo stesso modo in cui un vecchio
medico da strapazzo, che ha tagliato una moltitudine di pance, amputato
un’infinità di arti dentro isbe fumose, su ceppi di legno lungo le strade,
guarderebbe una dottoressa alle prime armi con il camice bianco.
Ma da un po’ di tempo Tito agitava ormai dimenticati gingilli per gli stolti:
“controllo operaio”, “terra ai contadini”: tutte bolle di sapone dei primi anni
della rivoluzione.
Già tre volte era stata cambiata l’edizione delle opere di Lenin e due volte
quella dei Padri fondatori66. Tutti quelli che un tempo discutevano, che erano
stati menzionati nelle vecchie note, che pensavano di costruire il socialismo in
modo diverso si erano addormentati da un pezzo. E adesso che era evidente
l’impossibilità di un’altra strada, e non solo il socialismo ma persino il
comunismo si sarebbe costruito da un pezzo:
– se non fosse stato per dignitari pieni di sé, relazioni menzognere, deboli
burocrati, indifferenza verso la questione sociale, debolezza nel lavoro
organizzativo e chiarificatore tra le masse, andamento non spontaneo nella
propagazione della cultura del partito, ritmi di costruzione rallentati;
– fermi tecnici, assenze ingiustificate nelle officine, produzione di qualità
scadente, cattiva pianificazione, indifferenza verso l’adozione di nuove
tecniche, inattività degli istituti di ricerca scientifica, cattiva preparazione dei
giovani specialisti, giovani restii a essere inviati in angoli sperduti, sabotaggio
dei carcerati, perdita di grano nei campi, sprechi dei contabili, appropriazione
delle risorse, frode degli economi e dei direttori di negozio, autisti con
inclinazioni da arraffoni;
– autocompiacimento dei poteri locali! liberalismo e bustarelle della polizia!
abuso di fondi per gli alloggi! spudorati speculatori di Borsa! avide casalinghe!
bambini rovinati! chiacchieroni sui tram! critica intenzionalmente malevola in
letteratura! stramberie nel cinema!... quando era chiaro a tutti che il comunismo
adesso si trovava su una strada sicura, non lontano dal suo compimento, quel
cretino di Tito si era messo in mostra con il suo pedante Kardelj e insisteva che
il comunismo non si costruiva così!!!
A quel punto Stalin si accorse che parlava ad alta voce, tagliava l’aria con la
mano; il cuore gli martellava in petto, aveva la vista annebbiata, un bisogno
fastidioso di contorcersi gli percorreva le membra.
Riprese fiato. Si lisciò con la mano il volto, i baffi. Ancora un altro respiro.
Non poteva arrendersi.
Sì, bisognava ricevere Abakumov.
Voleva alzarsi, ma con occhi di nuovo limpidi scorse un libretto rosso e nero
in edizione economica sul tavolino del telefono. Si protese con piacere verso
quel libro, sistemò i cuscini e di nuovo si sdraiò a metà per alcuni minuti.
Era la copia di prova dell’edizione, che sarebbe stata stampata in diversi
milioni di esemplari in una decina di lingue europee, di Tito, maresciallo dei
traditori di Renaud de Jouvenel (ottimo che l’autore fosse in un certo senso
esterno alla disputa, un francese obiettivo, e in parte addirittura di sangue
nobile). Stalin lo aveva già letto scrupolosamente alcuni giorni prima ma, come
gli succedeva con ogni buon libro, non aveva voglia di staccarsene. A quanti
milioni di persone avrebbe aperto gli occhi su quel tiranno borioso,
presuntuoso, feroce, codardo, ripugnante, ipocrita, vile! Quell’odioso traditore!
Quell’irrimediabile ottuso! Persino i comunisti in Occidente erano confusi, si
erano schierati un po’ di qua e un po’ di là, non sapevano a chi credere. Per
aver preso le difese di Tito si sarebbe dovuto cacciare dal Partito comunista
anche quel vecchio scemo di André Marty67.
Sfogliò il libro. Bene! Così Tito non sarebbe stato incoronato eroe: da
vigliacco qual era, avrebbe voluto arrendersi ai tedeschi due volte, ma il capo di
Stato maggiore Arso Jovanović lo aveva costretto a restare comandante in capo!
Nobile Arso! Era stato ucciso. E Petričević? “Ucciso soltanto perché amava
Stalin.” Nobile Petričević! C’è sempre qualcuno pronto a uccidere gli uomini
migliori, mentre Stalin deve occuparsi dei peggiori.
Lì c’era scritto tutto, proprio tutto: come Tito era stato sicuramente una spia
degli inglesi; come ostentava i mutandoni con lo stemma della corona reale;
com’era brutto fisicamente, somigliava a Goering, le dita piene di anelli con
brillanti, coperto di onorificenze e medaglie (che misera spocchia per un uomo
privo del genio da condottiero!).
Un libro obiettivo, intransigente. Ma Tito non aveva una menomazione
anche dal punto di vista sessuale? Si sarebbe dovuto scrivere anche di quello.
“Il Partito comunista jugoslavo in balia di assassini e spie.” “Tito poté
entrare nella dirigenza soltanto perché avevano garantito per lui Béla Kun e
Trajčo Kostov.”
Kostov!! Stalin fu trafitto. La rabbia gli montò alla testa, assestò un colpo
violento con lo stivale – al muso di Kostov, a quel muso insanguinato! – e le
palpebre grigie sussultarono compiaciute dal senso di giustizia.
Maledetto Kostov! Lurida canaglia!
Incredibile quanto fossero chiari a posteriori gli intrighi di quei mascalzoni!
Tutti quei trockisti sapevano mascherarsi bene! Almeno Kun era stato fucilato
nel ’37, mentre Kostov solo dieci giorni prima aveva vilipeso un tribunale
socialista! Quanti processi riusciti aveva portato avanti Stalin, quali nemici
aveva costretto a rivoltarsi contro sé stessi... poi quel fallimento con il processo
a Kostov! Disonore nel mondo intero! Quanta astuzia! Imbrogliare giudici
istruttori competenti, strisciare ai loro piedi e poi, in seduta pubblica, rinnegare
tutto! Davanti ai corrispondenti stranieri! Dov’era finita l’onestà? Dov’era la
coscienza di partito? Dove, la solidarietà proletaria? Lamentarsi con gli
imperialisti? E va bene, non sei colpevole, ma almeno muori a vantaggio del
comunismo!
Stalin scagliò via il libretto. No, non era possibile starsene lì sdraiato! La
lotta chiamava.
Si sollevò. Si raddrizzò, ma non del tutto. Aprì (e richiuse alle sue spalle)
un’altra porta, non quella alla quale aveva bussato Poskrëbyšev. Poi,
strascicando leggermente i piedi nei morbidi stivali, percorse un corridoio
basso, stretto e storto, anche quello senza finestre, passò l’ingresso di un
cunicolo segreto che portava a un percorso sotterraneo, si fermò davanti a
specchi-spia attraverso i quali si vedeva l’anticamera. Controllò.
Abakumov era già lì. Sedeva con lo sguardo attento e un grosso bloc-notes
fra le mani: aspettava che venissero a chiamarlo.
Con maggior decisione, senza strascicare i piedi, passò nella camera da letto,
anch’essa bassa, angusta, senza finestre, con la ventilazione forzata. Sotto i
pannelli di quercia delle pareti della camera da letto c’erano delle lastre blindate
e, soltanto dopo, la pietra.
Con una chiavetta che teneva attaccata alla cintura Stalin aprì il lucchetto del
coperchio metallico di una caraffa, si versò un bicchiere del suo liquore
tonificante preferito e, dopo aver bevuto, richiuse la caraffa.
Si avvicinò allo specchio. Quegli occhi, il cui sguardo neppure i primi
ministri occidentali riuscivano a sostenere, fissavano diretti, incorruttibili e
severi. Aveva un aspetto austero, semplice, soldatesco.
Suonò affinché l’attendente georgiano venisse a vestirlo.
Anche davanti a un accolito si presentava come di fronte alla Storia.
La sua volontà di ferro... La sua volontà inflessibile.
Senza tregua, senza tregua, essere sempre aquila delle montagne68.

46 Diminutivo in georgiano di Iosif e soprannome di Stalin da piccolo.


47 Tamara Bagration (1160-1212), celebre regina della cosiddetta Età dell’oro della Georgia.
48 Roman Vaclavovič Malinovskij (1876-1918), protetto e amato da Lenin, grazie al quale fece un’enorme
carriera politica fra i bolscevichi, era in realtà un agente al soldo dello zar. Fu poi fucilato nel 1918, quando
emersero documenti inequivocabili a suo carico.
49 Evno Fišelevič Azef, celebre agente segreto della Russia zarista infiltrato nei primi del Novecento tra le
file dei social-rivoluzionari.
50 In quegli anni alcuni bolscevichi tenevano comizi in due circhi di Pietrogrado.
51 Si tratta di uno degli edifici in cui oggi ha sede il Museo della Storia politica russa, a San Pietroburgo.
Costruito in stile Art Nouveau tra il 1904 e il 1906 per Matil’da Kšesinskaja, amante dello zar Nicola II, il
palazzo fu occupato durante la Rivoluzione di febbraio dai bolscevichi che vi stabilirono la sede del partito
e della redazione della “Pravda” e della “Soldatskaja Pravda”. Dal 16 aprile al 17 luglio 1917 vi risiedette
anche Lenin, reduce dalla Svizzera.
52 Luoghi di esilio siberiano, uno dove fu mandato Stalin, l’altro dove fu inviato Lenin.
53 Oggi Volgograd, fu prima Caricyn (dal 1598 al 1925) e poi Stalingrado (dal 1925 al 1961).
54 Semën Michajlovič Budënnyj (1883-1973), prima valoroso militare dell’Esercito imperiale russo, dopo
la Rivoluzione d’Ottobre si unì all’Armata Rossa dove diede prova di grande valore, audacia e coraggio
direttamente sul campo. Fidato seguace di Stalin, divenne maresciallo dell’Unione Sovietica, il grado
militare più elevato. Fu il creatore della cavalleria rossa.
55 Il divieto di produrre privatamente e consumare alcol. Lenin ne varò uno proprio nel 1919 che durò,
con quelle precise caratteristiche, fino a sei mesi dopo la sua morte.
56 Poco dopo la morte di Lenin, nel 1924, il Comitato Centrale prese la decisione di eseguire un
reclutamento politico di massa. In tre mesi entrarono nel partito 240.000 operai.
57 Il riferimento è alla Storia della luna che non fu spenta, un racconto del 1926 di Boris Pil’njak, in cui l’autore
ricrea nella finzione letteraria una delle prime eliminazioni cruente di un possibile rivale, Frunze, da parte di
Stalin, chiamato nell’opera il “Numero Uno”. A causa di quell’opera Pil’njak finì in disgrazia.
58 Qui il riferimento a Stalin è nell’opera di Andrej Platonov, Il dubbioso Makar, del 1929.
59 Grigorij Ordžonikidze (1886-1937), rivoluzionario di origine georgiana, alleato di Stalin e vittima delle
grandi purghe del 1937.
60 Tipico piatto georgiano.
61 Stanisław Mikołajczyk (1901-1966), primo ministro del governo polacco in esilio. Fuggito negli Stati
Uniti nel 1947.
62 Edvard Beneš (1884-1948) e Jan Masaryk (1886-1948) furono ex presidenti e politici di spicco in
Cecoslovacchia.
63 József Mindszenty (1892-1975), cardinale d’Ungheria perseguitato e indotto a confessare crimini contro
il regime mai commessi.
64 Georgi Dimitrov (1882-1949), presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica popolare di
Bulgaria.
65 Nome sia di Stalin sia di Tito.
66 Marx ed Engels.
67 André Marty (1886-1956), leader del Partito comunista francese e presidente dell’Internazionale
comunista fino al 1945.
68 Definizione che Stalin dà di Lenin nel famoso giuramento.
21
CI RIDIA LA PENA DI MORTE!

Non osavano chiamarlo con il diminutivo Saška non solo alle spalle, ma quasi
nemmeno parlando fra sé: lui era esclusivamente Aleksandr Nikolaevič. “Ha
telefonato Poskrëbyšev” voleva dire che aveva telefonato Lui in persona.
“Poskrëbyšev ha ordinato” voleva dire che era stato proprio Lui a ordinarlo.
Poskrëbyšev conservava la carica di capo della segreteria personale di Stalin da
più di quindici anni. Era parecchio tempo, e chi non lo conosceva bene poteva
meravigliarsi che avesse la testa ancora ben salda al proprio posto. Il segreto era
semplice: Poskrëbyšev era un attendente nell’animo, e proprio questo lo
manteneva fermo nel suo ruolo. Anche dopo che lo avevano nominato generale
di brigata, membro del Comitato Centrale e capo della Sezione speciale per il
pedinamento dei membri del Comitato Centrale, davanti al Padrone aveva
continuato a considerarsi meno di una nullità. Con una risata compiaciuta,
brindava con lui alla salute del villaggio natio, Sopljaki. Le infallibili narici di
Stalin non avevano mai fiutato in Poskrëbyšev né dubbi né contrasti. Il suo
cognome era ampiamente giustificato: pareva che, una volta cotto a puntino, gli
avessero “grattato via” a volontà tutte le doti d’intelligenza e di carattere69.
Tuttavia, quando si rivolgeva agli inferiori, quel cortigiano pelato dall’aria
semplice si dava grande importanza. Ai subalterni permetteva a malapena di
udire la sua voce al telefono: bisognava infilarsi con la testa nella cornetta per
sentire che cosa diceva. Ogni tanto, con lui si poteva anche scherzare di
sciocchezze, ma di domandargli “Come va oggi di là”, la lingua si rifiutava.
Quel giorno Poskrëbyšev aveva detto ad Abakumov:
– Iosif Vissarionovič sta lavorando. Potrebbe non riceverla. Ordina di
attendere.
Dopo avergli preso la borsa (prima di recarsi da Lui bisognava consegnarla),
lo aveva accompagnato nell’anticamera e se n’era andato.
Così Abakumov non si era deciso a domandargli quel che più gli interessava:
di che umore fosse il Padrone quel giorno. Era rimasto solo nell’anticamera,
con il cuore che gli batteva forte.
Quell’uomo grande e grosso, vigoroso e determinato, ogni volta che arrivava
lì moriva di terrore non meno dei cittadini che di notte, mentre gli arresti
infuriavano, sentivano dei passi per le scale. Dal terrore le orecchie prima gli si
ghiacciavano, poi rinvenivano e si facevano di fuoco, e ogni volta Abakumov
aveva sempre più paura che quelle orecchie costantemente avvampate
suscitassero sospetti nel Padrone. Stalin aveva sospetti per ogni sciocchezza.
Non gli piaceva, per esempio, che davanti a Lui ci si frugasse nelle tasche
interne. Per questa ragione Abakumov aveva spostato entrambe le stilografiche
pronte per gli appunti dalla tasca interna a quella esterna, sul petto.
Tutti i dirigenti della Sicurezza di Stato passavano ogni giorno da Berija, dal
quale Abakumov riceveva la maggior parte delle istruzioni. Ma una volta al
mese il Monarca assoluto voleva saggiare personalmente la vera indole di
coloro ai quali aveva affidato la tutela dell’ordine più progredito del mondo.
Quelle udienze di un’ora erano un pesante balzello per tutto il potere, tutta
la potenza di Abakumov, che viveva e godeva soltanto fra un’udienza e l’altra.
Giunta la scadenza ogni cosa si fermava, le sue orecchie si ghiacciavano,
Abakumov consegnava la borsa senza sapere se l’avrebbe riavuta indietro e
chinava la testa taurina di fronte allo studio senza sapere se di lì a un’ora
avrebbe perso il collo.
Stalin terrorizzava perché uno sbaglio commesso con Lui era l’unico sbaglio
nella vita con un detonatore impossibile da disinnescare. Stalin terrorizzava
perché non accettava giustificazioni, non accusava nemmeno. La punta di un
baffo che sussultava, e la sentenza era emessa, con il condannato che nemmeno
se ne accorgeva: se ne andava tranquillamente, poi veniva preso di notte e
fucilato il mattino.
La cosa peggiore era quando Stalin taceva e non restava altro che torturarsi
in congetture. Se Stalin ti scagliava contro qualcosa di pesante o di affilato, ti
pestava un piede con lo stivale, ti sputava addosso o ti soffiava in faccia la
cenere ardente della pipa, non si trattava di un’ira definitiva, era solo
passeggera! Quando Stalin offendeva e imprecava, usando anche i termini più
pesanti, Abakumov si rallegrava: significava che il Padrone sperava ancora di
poter correggere il suo ministro e di continuare a lavorare con lui.
Naturalmente Abakumov ora capiva di essere salito, grazie al proprio zelo,
troppo in alto: stare più in basso sarebbe stato meno pericoloso, con quanti si
tenevano lontani Stalin conversava amabilmente, con piacere. Ma una volta che
balzavi fra coloro che gli erano vicini, non c’era modo di tornare indietro.
Non restava che aspettare la morte. La propria. Oppure quella di...
impensabile.
E ogni volta andava così, tanto che quando doveva presentarsi a Stalin
Abakumov temeva fosse venuto a galla qualcosa.
Già in precedenza aveva tremato all’idea che scoprissero la storia del suo
arricchimento in Germania.
...Alla fine della guerra Abakumov si era ritrovato a capo dello SMERŠ di
tutta l’Urss, da lui dipendevano le sezioni di controspionaggio di tutti i fronti
operativi e dell’esercito. Era stato un periodo breve e particolare, di
arricchimento senza controllo. Per assestare un ultimo colpo alla Germania con
maggior sicurezza, Stalin aveva copiato da Hitler il sistema dell’invio di pacchi
dal fronte alle retrovie: combattere per l’onore della patria era una bella cosa,
per Stalin ancora meglio, ma perché si rischiasse la vita nel momento in cui
dispiaceva di più, sul finire della guerra, non era forse più utile offrire un
potente incentivo materiale, vale a dire il diritto di spedire pacchi a casa? Al
soldato cinque chili di bottino al mese, all’ufficiale dieci, e al generale un pud.
(La suddetta ripartizione era giusta: lo zaino non deve appesantire il soldato
durante la marcia, mentre il generale ha sempre la sua macchina personale.) Ma
il controspionaggio dello SMERŠ si trovava in una posizione di gran lunga più
vantaggiosa. I proiettili del nemico non lo raggiungevano. Gli aerei del nemico
non lo bombardavano. Lo SMERŠ si trovava sempre in quella zona vicina al
fronte nella quale il fuoco era già cessato ma non erano ancora arrivati i
revisori dell’erario. I suoi ufficiali restavano avvolti in una nube di mistero.
Nessuno osava controllare cosa sigillassero nei vagoni, cosa portassero via da
una tenuta confiscata, accanto alla quale piazzavano di guardia le sentinelle.
Camion, treni e aerei trasportavano la ricchezza degli ufficiali dello SMERŠ. I
tenenti portavano via roba per migliaia di rubli, i colonnelli per centinaia di
migliaia, e Abakumov ne rastrellava per milioni.
Certo, non riusciva a immaginare circostanze così strane per cui avrebbe
potuto perdere il suo posto di ministro o il regime che li tutelava sarebbe
potuto cadere; comunque l’oro sarebbe venuto in suo soccorso sempre, persino
se fosse finito in una banca svizzera. Era altresì evidente però che nessun
prezioso poteva venire in soccorso di un ministro decapitato. Ma questo
andava al di là delle sue forze: stare a guardare i sottoposti che si arricchivano e
non prendere nulla per sé? Non si poteva pretendere un simile sacrificio da un
uomo in carne e ossa! E continuava a inviare sempre nuove squadre speciali di
ricerca. Non riusciva a rinunciare nemmeno a due valigie di bretelle da uomo.
Saccheggiava tutto in modo ipnotico.
Ma quel tesoro dei Nibelunghi non aveva portato ad Abakumov una
ricchezza libera, era divenuto il motivo del costante terrore di essere
smascherato. Nessuno fra quanti sapevano avrebbe osato denunciare
l’onnipotente ministro, ma poteva affiorare un imprevisto qualsiasi, e fargli
perdere la testa. Aveva arraffato inutilmente, ma non era il caso, ormai, di farlo
sapere al Ministero delle Finanze!...
...Abakumov era giunto alle due e mezzo della notte ma alle tre e dieci
passeggiava ancora nell’anticamera con il grosso bloc-notes intonso in mano e
si tormentava, provando una debolezza interiore dovuta alla paura; le orecchie
avevano già iniziato a tradirlo diventando rosse. La cosa che l’avrebbe reso più
felice in quel momento era che Stalin avesse perso la nozione del tempo
lavorando, e per quel giorno non lo ricevesse: Abakumov temeva rappresaglie
per il sistema di telefonia segreta. Non sapeva a quel punto quali menzogne
inventarsi.
Ma la pesante porta si dischiuse, per metà. In quello spazio uscì quasi in
punta di piedi Poskrëbyšev, che in silenzio gli fece cenno con la mano di
seguirlo. Abakumov si avviò, cercando di non scaricare il peso sulle piante dei
piedi grandi e rozzi. Si infilò con tutta la mole nella porta successiva, anch’essa
socchiusa, trattenendola per la lucida maniglia di bronzo in modo che non si
aprisse ulteriormente. E sulla soglia disse:
– Buona sera, compagno Stalin! Si può?
Aveva fatto una stupidaggine, non si era schiarito la gola per tempo e la voce
gli era uscita rauca, non abbastanza da suddito fedele.
Stalin si trovava alla scrivania, intento a scrivere, indosso la giubba militare
con i bottoni dorati e alcune file di decorazioni, ma senza spalline. Finì di
comporre una frase e soltanto dopo sollevò il capo per guardare con sinistri
occhi da civetta chi fosse entrato.
Non disse nulla.
Bruttissimo segno! Non aveva proferito parola...
Si rimise a scrivere.
Abakumov chiuse la porta dietro di sé, ma non osò avanzare nella stanza
senza un cenno o un gesto d’invito. Se ne stava in piedi, con le lunghe braccia
sui fianchi, leggermente chino in avanti, un sorriso di saluto deferente sulle
labbra carnose. E le orecchie che ardevano.
Come se lui, il ministro della Sicurezza di Stato, non conoscesse, non avesse
mai usato quella semplicissima tecnica da inquirente: accogliere la persona che
entrava in un silenzio ostile. Eppure, quando Stalin lo faceva a lui, Abakumov
si sentiva lacerare dal terrore.
Quel piccolo studio notturno con il soffitto basso non aveva né quadri né
ornamenti, le finestre erano piccole. Le basse pareti erano rivestite di pannelli
di quercia intagliati, su uno dei quali si trovavano piccoli scaffali per i libri.
Accostata al muro, una scrivania. Poi in un angolo un radiogrammofono e
accanto a quello un’étagère con alcuni dischi: di notte Stalin amava ascoltare le
registrazioni dei suoi discorsi.
Abakumov si chinò con aria supplichevole e attese.
Sì, era nelle mani del Capo, ma in un certo senso anche il Capo era nelle
mani sue. Come al fronte, quando da un’avanzata troppo irruenta di una parte
sorge una sovrapposizione e un abbraccio reciproco, e non sempre capisci chi
stia circondando chi, lo stesso accadeva ora; persino Stalin (e tutto il Comitato
Centrale) rientrava nel sistema dell’MGB: quello che indossava, mangiava,
beveva, su cosa si sedeva, su cosa si sdraiava, tutto proveniva dagli uomini
dell’MGB, era l’MGB a proteggerlo. Così, in base a quel pensiero contorto e
ironico, Stalin stesso sarebbe stato un subordinato di Abakumov. Ma
difficilmente Abakumov avrebbe dimostrato per primo di avere un simile
potere.
Quel ministro robusto rimaneva lì in piedi, chinato in avanti, ad aspettare.
Stalin intanto scriveva. Continuava a starsene seduto a scrivere, anche se
Abakumov era entrato. Si poteva pensare che non dormisse mai, e non lasciasse
mai quel posto ma scrivesse costantemente, con quell’imponenza e
quell’importanza, parole che, fluendo dalla penna, si depositavano subito nella
Storia. La lampada da tavolo illuminava le carte, la luce che scendeva dall’alto,
da faretti nascosti, non era molta. Stalin non scriveva senza interruzioni, ogni
tanto si scostava: ora si inclinava da una parte, verso il pavimento, ora gettava
un’occhiata malevola ad Abakumov, come se tendesse l’orecchio verso
qualcosa, sebbene nella stanza non vi fosse alcun rumore.
Da che cosa nasceva quel modo di imperare, quell’imponenza in ogni
piccolo gesto? Il giovane Koba non muoveva forse allo stesso modo le dita, le
mani, le sopracciglia e non gettava forse i medesimi sguardi? Ma a quei tempi
non intimoriva nessuno, nessuno deduceva dai suoi gesti un terribile
significato. Soltanto dopo l’ennesima nuca perforata si era iniziato a vedere nei
piccoli cenni del Capo un’allusione, un avvertimento, una minaccia, un ordine.
E, notato questo negli altri, Stalin aveva iniziato a osservare sé stesso, e anche
Lui aveva visto nei propri gesti e nei propri sguardi quel minaccioso significato
intrinseco e si era messo, ormai consapevolmente, a perfezionarli, tanto che
avevano cominciato a essere percepiti in modo ancora più sinistro e ad agire in
modo ancora più efficace su chi lo circondava.
Infine, Stalin fissò su Abakumov uno sguardo severo e con un cenno della
pipa nell’aria gli indicò dove prendere posto quel giorno.
Abakumov si riscosse con gioia, andò di buon grado a sedersi, ma non su
tutto il sedile, vi si appoggiò soltanto in punta. Non era una posizione comoda
ma almeno poteva alzarsi con maggiore facilità non appena necessario.
– Ebbene? – domandò Stalin, guardando le proprie carte.
Era giunto il momento! Adesso non bisognava lasciarsi sfuggire l’attimo!
Abakumov fece un colpo di tosse e, con la gola schiarita, si affrettò a parlare
quasi con entusiasmo. (Poi si sarebbe maledetto per quel suo servilismo
loquace nello studio di Stalin, per le promesse smodate, ma chissà come
succedeva sempre che più era forte l’ostilità con cui il suo Padrone lo
accoglieva, meno ritegno Abakumov aveva nelle rassicurazioni, e questo lo
trascinava sempre in nuove promesse.)
Il perenne punto di forza dei rapporti notturni di Abakumov, ciò che
principalmente li rendeva attraenti per Stalin, era la costante scoperta di
qualche gruppo ostile molto importante e molto ramificato. Abakumov non si
presentava mai a rapporto senza un simile gruppo (ogni volta nuovo) reso
inoffensivo. Anche quel giorno ne aveva pronto uno del genere, un gruppetto
dell’Accademia Frunze: avrebbe potuto riempire molto tempo con i dettagli.
Tuttavia per prima cosa si mise a raccontare dei progressi (nemmeno lui
sapeva se reali o immaginari) nella preparazione dell’attentato a Tito. Disse che
l’intenzione era di piazzare una bomba ad azione ritardata sullo yacht di Tito,
prima che salpasse per le isole Brioni.
Stalin sollevò la testa, si mise la pipa spenta in bocca e vi soffiò un paio di
volte. Non fece nessun altro movimento, non mostrò alcun interesse, ma
Abakumov, che ormai qualcosa del Capo la capiva, sentì di aver centrato il
bersaglio.
– E Ranković? – domandò Stalin.
Sì, sì! Bisognava cogliere il momento giusto perché anche Ranković, Kardelj
e Moša Pijade, tutta la cricca, saltassero in aria insieme. Secondo i calcoli,
doveva succedere non più tardi di quella primavera! (Nell’esplosione sarebbe
morto anche l’equipaggio dello yacht, ma il ministro non accennò a quella
piccolezza e il suo interlocutore non fece domande.)
Ma a cosa pensava Stalin, mentre soffiava nella pipa spenta e guardava senza
espressione il ministro da sopra il suo adunco naso aquilino?
Di sicuro non al fatto che il partito da lui diretto era nato dalla negazione
del terrore individuale. E nemmeno che lui stesso, per tutta la vita, si era basato
su quel terrore. Soffiando nella pipa e guardando quel giovane pasciuto dalle
guance rosse e le orecchie ardenti, Stalin pensava a ciò cui pensava sempre di
fronte a quei subordinati zelanti, pronti a tutto e adulatori. E non era
nemmeno un pensiero, ma un moto dell’animo: quanto si poteva fidare oggi di
quell’uomo? Poi, un secondo moto: era forse venuta l’ora di sacrificarlo?
Stalin sapeva benissimo che nel ’45 Abakumov si era arricchito. Ma non
aveva fretta di punirlo. A Stalin piaceva che Abakumov fosse così. Gli uomini
come lui erano più facili da gestire. Nella vita Stalin si guardava soprattutto da
quelli “convinti”, come Bucharin. Erano gli oppositori più scaltri, quelli più
difficili da smascherare.
Ma nemmeno di quel prevedibile Abakumov si poteva fidare, come di
nessuno sulla terra.
Non si fidava di sua madre. Né di Dio. E neppure dei rivoluzionari. Non si
fidava dei contadini (non avrebbero seminato e raccolto il grano, se non li
avesse costretti). Degli operai (non avrebbero lavorato, se non avesse fissato
loro delle quote). E tanto meno si fidava degli ingegneri. Non si fidava dei
soldati e dei generali, che avrebbero combattuto senza compagnie di disciplina
e reparti di sbarramento. Non si fidava delle persone a lui vicine. Delle mogli e
delle amanti. Non si fidava nemmeno dei figli. E aveva sempre avuto ragione!
Si era fidato soltanto di un uomo, l’unico in tutta la sua vita infallibilmente
sospettosa. Quell’uomo, davanti a tutto il mondo, si era dimostrato così deciso
nella benevolenza e nell’ostilità, si era staccato dai nemici in modo così
risoluto, tendendogli una mano amica. Non era un cialtrone, era un uomo
d’azione.
E Stalin gli aveva creduto!
Quell’uomo era Adolf Hitler.
Con approvazione e maligna gioia Stalin aveva osservato Hitler strapazzare
la Polonia, la Francia, il Belgio; i suoi aerei offuscare il cielo d’Inghilterra.
Molotov era tornato da Berlino atterrito. Gli agenti del controspionaggio
riferivano che Hitler stava concentrando le truppe a est. Hess era fuggito in
Inghilterra. Churchill aveva avvertito Stalin dell’attacco. Tutte le cornacchie sui
tremoli della Bielorussia e sui pioppi della Galizia starnazzavano di guerra.
Tutte le comari nei mercati del suo stesso paese la profetizzavano da un giorno
all’altro. Soltanto Stalin restava imperturbabile. Mandava in Germania vagoni
di formaggio, non fortificava i confini: aveva paura di offendere il collega.
Credeva in Hitler!...
Per poco quella fiducia non gli era costata la testa.
A maggior ragione adesso, definitivamente, non si fidava più di nessuno!
Abakumov avrebbe potuto rispondere a quella costante mancanza di fiducia
con parole amare, ma non osava dirle. Stalin non si sarebbe dovuto perdere in
giochini, non avrebbe dovuto chiamare quel buffone di Popivoda e discutere
con lui di articoli satirici contro Tito. E quei coraggiosi ragazzi che Abakumov
aveva scelto per essere mandati a uccidere l’orso, che conoscevano la lingua, le
usanze, addirittura Tito in persona, non si sarebbero dovuti scartare per via dei
loro curriculum (è vissuto all’estero, non è uno dei nostri) ma delegarli, dar loro
fiducia. Adesso, naturalmente, solo il diavolo sapeva che cosa sarebbe venuto
fuori da quell’attentato. Quella goffaggine aveva proprio fatto arrabbiare
Abakumov.
Ma lui conosceva il suo Padrone! Andava servito con una buona dose di
forze, più della metà, ma mai per intero. Stalin non sopportava una palese
inadempienza. Ma neppure un’esecuzione troppo perfetta: ci vedeva un’insidia
alla propria unicità. Nessuno, a parte lui, doveva sapere e fare nulla in modo
irreprensibile!
Abakumov – come tutti e quarantacinque i ministri – si sforzava solo in
apparenza di tirare il suo carro ministeriale: in realtà lo faceva per metà.
Come re Mida, che trasformava in oro tutto ciò che toccava, Stalin rendeva
mediocre tutto ciò che sfiorava.
Adesso però, mentre Abakumov presentava il suo rapporto, il viso di Stalin
si rasserenava sempre di più. Dopo aver raccontato fin nei minimi dettagli della
prevista esplosione, il ministro continuò riferendo degli arresti all’Accademia
ecclesiastica, poi, con dovizia di particolari, dell’Accademia Frunze, e ancora
dei servizi segreti nei porti della Corea del Sud, e poi...
Per dovere e per buonsenso, a quel punto avrebbe dovuto riferire della
telefonata di quel giorno all’ambasciata americana. Ma poteva anche non
parlarne: Berija o Vyšinskij forse avevano già fatto rapporto o, ancora meglio, a
lui quella notte potevano non averlo riferito. Era a causa del fatto che Stalin
non si fidava di nessuno che ogni cavallo tirava solo per metà. A quel punto gli
conveniva non uscirsene con la promessa di rintracciare il criminale tramite la
Sezione di Tecnica speciale. Qualsiasi accenno al telefono quel giorno, temeva il
ministro, avrebbe potuto ricordare al Padrone il sistema di telefonia segreta. E
Abakumov si sforzava addirittura di non guardare l’apparecchio sulla scrivania,
per non indicarlo al Capo con gli occhi.
Ma Stalin era sul punto di ricordare! Gli stava proprio tornando in mente
qualcosa! Tutto purché non fosse il sistema di telefonia segreta! Stalin aveva
aggrottato la fronte in pesanti rughe, le cartilagini del suo grande naso erano
tese e lo sguardo puntava fisso su Abakumov (il ministro aveva atteggiato il
viso il più possibile a un sentimento di aperta e onesta franchezza), eppure non
riusciva a ricordare! Il pensiero, a malapena balenato, era precipitato in un
vuoto di memoria. Impotenti, le rughe della fronte grigia si rilassarono.
Stalin sospirò, caricò la pipa e si mise a fumare.
– Sì! – Al primo sbuffo di fumo, si era ricordato al volo un’altra cosa. –
Avete arrestato Gomułka70?
Non molto tempo prima, in Polonia, Gomułka era stato sollevato da ogni
incarico e ora stava precipitando senza indugio nel baratro.
– Arrestato! – confermò con sollievo Abakumov, alzandosi leggermente
sulla sedia. (A Stalin dovevano aver già riferito anche quello.)
Stalin premette un bottone sulla scrivania: accese alcune lampade alle pareti,
convertendo la luce in alto in una luce più diffusa. Si alzò e, sbuffando fumo
dalla pipa, cominciò a camminare. Abakumov capì che il tempo per il suo
rapporto era terminato, ora avrebbe ricevuto le istruzioni. Aprì sulle ginocchia
il grosso bloc-notes, prese una penna stilografica e si preparò a scrivere. (Al
Padrone piaceva che le sue parole fossero trascritte.)
Ma Stalin camminava fino al radiogrammofono e poi tornava indietro,
sbuffava fumo dalla pipa e non diceva una parola, come se si fosse
completamente dimenticato di Abakumov. Il suo viso grigio e butterato si
aggrottava nello sforzo tormentoso di ricordare. Quando Stalin passava di
profilo davanti ad Abakumov, il ministro vedeva che le spalle del Capo avevano
cominciato a incurvarsi, la schiena a piegarsi, facendolo apparire ancora più
basso di statura, davvero piccolo. E Abakumov pensava fra sé (solitamente in
quel luogo si vietava simili pensieri, perché il Capo Supremo non li fiutasse in
qualche modo) che il Paparino non sarebbe vissuto altri dieci anni, sarebbe
morto prima. Forse non era ragionevole, ma desiderava che accadesse al più
presto: gli sembrava che solo così, per tutti loro, quelli vicini a Stalin, potesse
iniziare una vita facile e libera.
Ma Stalin era oppresso da un nuovo vuoto di memoria: la testa si rifiutava di
funzionare! Quella notte, mentre andava dalla camera da letto allo studio, aveva
pensato proprio alle domande da fare ad Abakumov, ed ecco che ora se n’era
dimenticato. In preda all’impotenza, non sapeva più quale parte della pelle
corrugare pur di ricordarlo.
All’improvviso rovesciò indietro la testa, guardò il punto più alto della
parete di fronte a sé e ricordò!! Non ciò che gli serviva in quel momento, ma
quanto non era riuscito a ricordare due notti prima al Museo della
Rivoluzione, e che allora gli era parso tanto sgradevole.
Era accaduto nel ’37. Prima del ventesimo anniversario della rivoluzione,
quando il modo di rappresentarla era molto cambiato, Stalin aveva deciso di
esaminare di persona l’esposizione al museo, per assicurarsi che non avessero
confuso qualche cosa. In una sala, quella in cui ora si trovava l’enorme
televisore, dalla soglia aveva visto di colpo, chiaramente, due grandi ritratti di
Željabov e di Perovskaja nel punto più alto della parete di fronte. I loro visi
aperti, impavidi, i loro sguardi indomabili, esortavano chiunque entrasse:
“Uccidi il tiranno!”
Colpito dagli sguardi dei due narodovol’cy71 come da due frecce alla gola,
Stalin aveva avuto uno spasmo, aveva cominciato a rantolare, a tossire e, nel
pieno della tosse, aveva fatto cenno di no con il dito, indicando i ritratti.
Li avevano tolti immediatamente.
E dal museo di Leningrado era stata tolta anche la prima reliquia della
rivoluzione: i resti della carrozza di Alessandro II.
Da quel giorno Stalin si era fatto costruire rifugi e appartamenti in diversi
luoghi, a volte scavando intere montagne di cunicoli, come a Cholodnaja
Rečka. Perduto il gusto di vivere in una città affollata si era spostato fino a
quella dacia di campagna, fino a quel basso studio notturno vicino alla stanza
di servizio della guardia di sicurezza imperiale.
Più persone riusciva a privare della vita, più lo opprimeva un continuo
assillante terrore per la propria. Il suo cervello aveva escogitato diverse
preziose migliorie nel sistema di protezione, come quello per cui il personale di
guardia riceveva l’avviso soltanto un’ora prima dell’entrata in servizio e ogni
reparto doveva essere formato da militari provenienti da caserme differenti e
lontane l’una dall’altra: entrando di guardia, si incontravano per la prima volta,
stavano insieme solo per ventiquattr’ore, e non potevano congiurare. La dacia
poi se l’era fatta costruire come una trappola-labirinto, con tre recinzioni le cui
porte non si trovavano mai in corrispondenza. Aveva predisposto alcune
camere da letto e stabiliva in quale dormire soltanto poco prima di coricarsi.
Tutte le precauzioni non erano motivate dalla vigliaccheria ma dal
buonsenso. Perché la sua persona era un valore inestimabile per la storia
dell’umanità. Anche se qualcuno poteva non capirlo. Per non distinguersi,
aveva ordinato misure simili per tutti i piccoli capi della capitale e delle regioni:
aveva vietato loro di andare al gabinetto senza scorta, dato disposizione perché
procedessero in fila indiana su tre automobili identiche.
E anche ora, influenzato dal ricordo pungente dei ritratti di quei narodovol’cy,
si fermò in mezzo alla stanza, si voltò verso Abakumov e, agitando
leggermente la pipa nell’aria, disse:
– Cos’hai previsto per mantenere la sicurezza dei quadri del partito?
E, piegando il collo di lato, gli lanciò un’occhiata sinistra, ostile.
Abakumov, con il bloc-notes intonso aperto, si sollevò appena dalla sedia
protendendosi verso il Capo (non si alzò, conscio che a Stalin piaceva che i
suoi interlocutori restassero immobili) e con dono di sintesi (il Padrone
considerava non sincere le lunghe spiegazioni) e assoluta prontezza, si mise a
parlare di qualcosa che non aveva previsto (la costante prontezza era in quel
luogo una qualità fondamentale, Stalin interpretava ogni titubanza come la
conferma di un disegno malvagio).
– Compagno Stalin! – la voce di Abakumov, tremava d’offesa. Con tutta
l’anima, dal profondo del cuore, avrebbe voluto dire “Iosif Vissarionovič” ma
non poteva rivolgersi a lui così, sarebbe stato come rivendicare una vicinanza
con il Capo, mettersi quasi al suo stesso livello. – Noi Organi, tutto il nostro
Ministero, esistiamo anche per questo, perché lei, compagno Stalin, possa
lavorare, riflettere, guidare il paese tranquillamente!
(Stalin parlava di “sicurezza dei quadri del partito” ma si aspettava una
risposta che riguardasse solo lui e Abakumov lo sapeva.)
– E non passa giorno che io non controlli, non arresti qualcuno, non
chiarisca certi fatti!...
Stalin, sempre in quella posa da corvo, con il collo piegato, lo guardava
attentamente.
– Senti, – disse, pensieroso – come va? Continuano ad avvenire fatti di
terrorismo? Non demordono?
Abakumov sospirò amaramente.
– Sarei felice di poterle dire, compagno Stalin, che non ci sono più fatti di
terrorismo. Ma non è così. Li neutralizziamo persino... nei luoghi più
impensati.
Stalin socchiuse un occhio, ma nell’altro si leggeva soddisfazione.
– Molto bene! – annuì. – Vuol dire che lavorate sodo.
– Certo, compagno Stalin! – Abakumov detestava stare seduto davanti al
Capo in piedi; così si sollevò un po’ senza raddrizzare del tutto le ginocchia
(non si presentava mai lì indossando tacchi alti). – Noi non lasciamo mai che
questi fatti maturino fino a una vera e propria preparazione. Li cogliamo nel
loro disegno! Nella progettazione! Con l’articolo 1972!
– Bene, bene. – Con un gesto rassicurante Stalin fece risedere Abakumov (ci
mancava solo che un simile grassone incombesse su di lui). – Dunque, ritieni
che fra il popolo ci siano ancora degli insoddisfatti?
Abakumov sospirò di nuovo.
– Sì, compagno Stalin. Ce n’è ancora una percentuale.
(Figuriamoci se avrebbe detto di no! A che cosa servirebbe allora la sua
attività?...)
– È vero – rispose Stalin, con sincerità. Nella sua voce il tono rauco e
frusciante prevaleva sui suoni squillanti. – Significa che meriti di lavorare nella
Sicurezza di Stato. Continuano a dirmi che non ci sono più insoddisfatti, che
alle elezioni votano tutti ‘a favore’, che sono tutti contenti. Eh? – Stalin
ridacchiò. – Che cecità politica! Il nemico si nasconde, vota ‘a favore’ ma è
insoddisfatto! Un cinque per cento, eh? Forse l’otto?...
(Era proprio questa perspicacia, questa autocritica, questa sua capacità di
non lasciarsi allettare da chi lo incensava, che Stalin apprezzava soprattutto in
sé stesso!)
– Sì, compagno Stalin– confermò Abakumov, con convinzione. – Proprio
così, un cinque per cento. O un sette.
Stalin continuò a camminare per lo studio, girò intorno alla scrivania.
– È un mio difetto, compagno Stalin – prese coraggio Abakumov, le cui
orecchie si erano ormai raffreddate. – Non riesco a sentirmi tranquillo.
Stalin batté leggermente la pipa sul portacenere:
– E l’atteggiamento dei giovani?
Le domande si susseguivano come coltelli e per tagliarsi ne bastava una sola.
Se dicevi “buono”, era cecità politica. Se dicevi “cattivo”, significava che non
credevi nel nostro futuro.
Abakumov spalancò le dita, ma per il momento si trattenne dal proferire
parola.
Senza aspettare una risposta, continuando a battere la pipa, Stalin disse in
tono solenne:
– Bisogna occuparsi di più dei giovani. Essere particolarmente intransigenti
nei confronti dei loro vizi!
Abakumov si ricordò del suo dovere e cominciò a scrivere.
L’idea appassionò Stalin, i cui occhi furono illuminati da un bagliore
tigresco. Caricò di nuovo la pipa e, dopo averla accesa, riprese a passeggiare per
la stanza, in modo molto più vigoroso.
– Bisogna rafforzare la sorveglianza sugli atteggiamenti degli studenti!
Vanno sradicati non individualmente, ma a gruppi! Ed estendere anche a loro
la massima pena prevista per legge: venticinque anni, non dieci! Per dieci anni
si frequenta la scuola, non la prigione! Dieci anni si possono dare agli scolari!
Ma a chi ha già i baffi che spuntano bisogna darne venticinque! Sono giovani!
Sopravvivranno!
Abakumov scriveva in fretta. I primi ingranaggi di una lunga catena si erano
messi a girare.
– E basta con condizioni da stazione termale delle prigioni politiche! L’ho
sentito da Berija: si permettono ancora oggi pacchi di viveri nelle prigioni?
– Li aboliremo! Li vieteremo! – esclamò Abakumov, addolorato,
continuando a scrivere. – È stato un nostro errore, compagno Stalin, ci scusi!!
(Era stata davvero una grave mancanza! Avrebbe dovuto arrivarci anche da
solo!)
Stalin si piantò di fronte ad Abakumov a gambe divaricate.
– Quante volte ve lo devo spiegare?! Poteva esservi chiaro una buona volta
che...
Parlava senza rancore. Nei suoi occhi rabboniti si intuiva quanta fiducia
nutrisse che Abakumov avrebbe imparato, capito. Abakumov non ricordava
un’altra occasione in cui Stalin gli avesse parlato con tanta semplicità e
benevolenza. La paura l’abbandonò completamente, il suo cervello adesso
funzionava come in un uomo normale in condizioni normali. Così una
questione di servizio, che da tempo gli era rimasta ferma come un osso in gola,
trovò il modo di uscire. Con il viso animato, Abakumov disse:
– Noi lo sappiamo, compagno Stalin! Noi... (parlava a nome di tutto il
ministero) ...sappiamo che la lotta di classe si inasprirà! Tanto più allora,
compagno Stalin, si renderà conto come quest’abolizione della pena di morte ci
intralcia nel lavoro! Sono già due anni e mezzo che ci adoperiamo: registrare i
fucilati non si può, quindi bisogna scrivere le sentenze in due versioni. E non si
può nemmeno registrare il compenso degli esecutori in contabilità, fa a pugni col
bilancio. E anche nei campi di lavoro non c’è modo di intimorire i detenuti! Ci
serve, Compagno Stalin! Ci ridia la pena di morte!! – chiese Abakumov in tono
affettuoso, con tutto il cuore, mettendosi una mano sul petto, mentre guardava
speranzoso il viso grigiastro del Capo.
Stalin sembrò quasi sorridere. I suoi ispidi baffi fremettero dolcemente.
– Lo so – disse piano, comprensivo. – Ci stavo già pensando.
Straordinario! Sapeva tutto! Pensava a tutto! prima ancora che glielo
chiedessero. Come una divinità fluttuante, anticipava i pensieri umani.
– A giorni vi ridarò la pena di morte – disse, meditabondo, guardando
lontano davanti a sé, verso gli anni a venire. – Sarà una buona misura
educativa.
Come se non ci avesse già pensato! Nei tre anni precedenti aveva sofferto
più di tutti per aver ceduto all’impulso di fare bella figura con l’Occidente e
aver tradito sé stesso, pensando che le persone non fossero corrotte fino in
fondo.
Ma proprio la pena di morte era da sempre la caratteristica che lo
distingueva come uomo di Stato e condottiero. Umiliazione, persecuzione
generale, manicomio, reclusione a vita, esilio: nessuna di queste misure gli era
mai sembrata sufficiente per una persona considerata pericolosa. Soltanto la
morte poteva rappresentare una resa dei conti sicura, totale. Soltanto la morte
del trasgressore confermava che detenevi il potere completo, reale.
E se la punta del suo baffo fremeva sdegnosa, la sentenza era sempre la
stessa: morte.
Nella sua scala di valori una punizione minore semplicemente non esisteva.
Dai remoti e radiosi orizzonti lontani verso i quali il suo sguardo era
rivolto, Stalin lo spostò su Abakumov. Gli occhi ridotti a due fessure,
domandò:
– E tu? Non hai paura di essere il primo che fucileremo?
Quel “fucileremo” non finì quasi di pronunciarlo, lo disse abbassando la
voce, in un bisbiglio, come una desinenza dolce, come qualcosa che si dovesse
intuire da soli.
Ma in Abakumov quella parola si era trasformata in ghiaccio. Il Più Caro e
Adorato di tutti stava lì in piedi davanti a lui, a una distanza che con il pugno
proteso Abakumov avrebbe quasi potuto raggiungere, e studiava ogni tratto del
ministro, per vedere come avrebbe reagito a quello scherzo.
Non osando né alzarsi né restare seduto, Abakumov si sollevò leggermente
sulle gambe rigide, e per la tensione quelle cominciarono a tremargli all’altezza
delle ginocchia:
– Compagno Stalin!... Se lo merito... Se è necessario...
Stalin lo fissò con aria saggia e sguardo penetrante. Stava mettendo alla
prova quell’intimo collaboratore in silenzio, con il suo affidabile retropensiero.
Ahimè, conosceva l’ineluttabilità umana: con il tempo bisognava per forza
rinunciare agli assistenti più zelanti, disfarsene, si compromettevano tutti.
– Giusto! – disse Stalin, con un sorriso, come se stesse elogiando Abakumov
per la sua prontezza d’ingegno. – Quando te lo meriterai, ti fucileremo.
Con un gesto della mano, indicò ad Abakumov di sedersi. Abakumov si
riaccomodò.
Stalin si fece pensieroso, poi cominciò a parlare in modo così cordiale che al
ministro della Sicurezza di Stato non era ancora capitato di udire.
– Presto avrete molto lavoro, Abakumov. Attueremo ancora una volta i
provvedimenti usati nel ’37. Tutto il mondo è contro di noi. La guerra è
inevitabile, lo è ormai da tempo. Dal ’44. E prima di una grande guerra è
necessaria anche una grande epurazione.
– Ma compagno Stalin! – osò ribattere Abakumov. – Non ne mettiamo già
dentro abbastanza?
– Ti sembrano abbastanza?... – Stalin fece un gesto con la mano e un sorriso
benevolo. – Quando cominceremo a mettere dentro davvero la gente, te ne
accorgerai!... E in tempo di guerra, ci toccherà imprigionare tutta l’Europa!
Rinforza gli organi! Rendili più forti! Aumenta il personale, gli stipendi... non ti
negherò mai nulla!
E lo congedò pacificamente:
– Bene, per ora vai pure.

Andando da Poskrëbyšev a farsi restituire la borsa, Abakumov non sapeva se


nell’anticamera stesse camminando o volando. Avrebbe potuto non solo vivere
ancora un mese intero, ma forse per lui adesso era cominciata anche una nuova
epoca di rapporti con il Padrone.
C’era stata, in verità, anche la minaccia di una fucilazione. Ma era solo uno
scherzo.
69 In russo la radice skreb indica il concetto di “raschiare”, “grattar via”.
70 Władysław Gomułka (1905-1982), segretario generale del Partito operaio polacco.
71 Esponenti di “Narodnaja Volja”, celebre organizzazione terroristica populista dell’Ottocento.
72 Ci si riferisce all’articolo 19 del Codice penale sovietico, secondo il quale tanto il tentativo quanto gli atti
preparatori “si perseguono come il delitto consumato”.
22
L’IMPERATORE DELLA TERRA

Il Sovrano, agitato da enormi pensieri, camminava a grandi passi per lo studio


notturno. Una musica interiore gli cresceva dentro, una gigantesca orchestra di
strumenti a fiato gli offriva la musica per la marcia.
Insoddisfatti? Va bene. C’erano da sempre, e sempre ci sarebbero stati.
Ma, avendo assimilato alcuni elementari concetti di storia mondiale, Stalin
sapeva che con il passare del tempo gli uomini perdonavano tutto il male, lo
dimenticavano persino, e lo ricordavano come un bene. Interi popoli simili alla
regina Anna, la vedova del Riccardo III di Shakespeare – la loro collera non
durava, la loro volontà vacillava, la loro memoria era debole – sempre felici di
abbandonarsi al vincitore.
La folla è la materia di cui è fatta la storia. (Da annotare!) Quanta ne
diminuisce in un posto, tanta ne aumenta in un altro. Dunque, non c’era
motivo di tenerla da conto.
Anche per questo era necessario che lui vivesse fino a novant’anni: la lotta
non era finita, l’edificio non era stato interamente costruito e in tempi così
infidi non c’era nessuno che potesse prendere il suo posto.
Portare avanti e vincere l’ultima guerra mondiale. Sterminare, come
scoiattoli di terra, i socialdemocratici occidentali e tutti quelli sopravvissuti nel
mondo. Poi, naturalmente, aumentare la produttività del lavoro. Risolvere i
vari problemi economici. In una parola, come si suol dire, costruire il
comunismo.
In questo campo si erano rafforzate idee del tutto scorrette e negli ultimi
tempi Stalin ci aveva riflettuto e si era sforzato di vederci chiaro. Persone
miopi e ingenue raffiguravano il comunismo come un regno di sazietà e di
libertà dal bisogno. Ma quella, con tutti lì a pretendere qualcosa, sarebbe stata
una società impossibile: un comunismo del genere era peggiore dell’anarchia
borghese! La prima e fondamentale caratteristica del vero comunismo doveva
essere la disciplina, una rigida sottomissione alla dirigenza e l’esecuzione di
tutte le direttive. (E in modo particolarmente rigido doveva sottomettersi
l’intelligencija.) Seconda caratteristica: la sazietà doveva essere molto misurata,
quasi insufficiente, perché le persone completamente sazie cadevano in una
confusione ideologica, come in Occidente. Se una persona non si deve più
preoccupare per il cibo, si libera della forza materiale della storia, la vita
quotidiana smette di definire la conoscenza, e tutto va a rotoli.
Dunque, a rifletterci bene, con Stalin il vero comunismo si era già costruito.
Tuttavia annunciarlo non si poteva, altrimenti verso cosa avrebbero
puntato? Il tempo scorre, tutto scorre, bisognerà pur andare da qualche parte.
Evidentemente non avrebbero mai dovuto annunciare che si era costruito il
comunismo: sarebbe stato un errore dal punto di vista ideologico.
Bonaparte era stato bravo. Non aveva avuto paura dei latrati che giungevano
dagli androni giacobini, si era dichiarato imperatore e la questione era finita lì.
Non c’è nulla di male nella parola “imperatore”, significa sovrano, capo.
Non contrasta affatto con il comunismo mondiale.
Come suonava bene! Imperatore del Pianeta! Imperatore della Terra!
Stalin continuava a camminare avanti e indietro e l’orchestra a suonare.
Poi si sarebbe trovato un mezzo, una medicina, per procurare l’immortalità,
magari solo a lui... No, non c’era abbastanza tempo.
Come poteva abbandonare l’umanità? A chi lasciarla? Avrebbero fatto
confusione, commesso degli errori.
Va bene. Avrebbe edificato monumenti in proprio onore, sempre più
imponenti, sempre più alti (la tecnica si sarebbe sviluppata). Erigere un
monumento sul Kazbek e uno sull’Elbrus, in modo che la sua testa si trovasse
sempre più in alto delle nuvole. E a quel punto, avrebbe potuto anche morire:
il più Grande di tutti i Grandi, senza eguali, nessuno paragonabile a lui sulla
Terra.

A un tratto si fermò.
Sì, ma... più in alto di chi? Di suoi pari, naturalmente, non ne esistevano, ma
se sollevavi lo sguardo lassù oltre le nuvole, cosa trovavi...?
Riprese a camminare, ma più lentamente.
Quello era l’unico oscuro interrogativo che si insinuava a volte in Stalin.
Da tempo era stato dimostrato quanto si doveva, e quanto era
d’impedimento era stato confutato.
Ma restava comunque qualcosa di non del tutto chiaro.
Soprattutto per chi come lui aveva trascorso l’infanzia nella Chiesa. E aveva
guardato negli occhi le icone. Cantato nel coro. E ancora adesso cantava “Ora
lascia, o Signore, che il tuo servo...” senza impappinarsi.
Quei ricordi, chissà perché, negli ultimi tempi si erano fatti più vividi.
In punto di morte la madre gli aveva detto: “Peccato che tu non sia
diventato sacerdote.” Era il Capo del Proletariato mondiale, l’Unificatore di
tutti gli slavi e a sua madre sembrava un fallito...
In ogni caso Stalin non si era dichiarato mai contro Dio, c’erano già fin
troppi oratori anche senza di lui. Lenin aveva sputato contro la croce, l’aveva
calpestata; Bucharin e Trockij l’avevano derisa. Stalin era rimasto zitto.
Aveva ordinato di non toccare Abakadze, l’ispettore ecclesiastico che lo
aveva espulso dal seminario. Campasse pure.
E quando il 3 luglio del ’41 gli si era seccata la gola e negli occhi gli erano
spuntate le lacrime – non era terrore, ma compassione, compassione verso sé
stesso – dalle labbra, non a caso, gli era uscito quel “fratelli e sorelle”. Né
Lenin né nessun altro dei capi si sarebbe mai lasciato scappare parole simili.
Le sue labbra avevano pronunciato quello a cui erano abituate in gioventù.
Nessuno aveva visto, nessuno sapeva, non l’aveva detto a nessuno: in quei
giorni si era chiuso nella sua stanza a pregare, pregava per davvero, in un
angolo vuoto, in ginocchio, pregava. Mesi più pesanti di quelli in tutta la vita
non ne aveva mai avuti.
In quei giorni aveva fatto un voto a Dio: se il pericolo fosse passato, se lui
avesse conservato la sua posizione, avrebbe ristabilito la Chiesa e il servizio
sacerdotale in Russia, non avrebbe permesso che fossero cacciati, incarcerati.
(Non bisognava permetterlo nemmeno prima, era cominciato tutto ai tempi di
Lenin.) E quando il pericolo era passato per davvero, quando Stalingrado era
passata, Stalin aveva fatto di tutto secondo il proprio voto.
Se Dio esisteva, poteva saperlo solo Lui.
Ma era difficile che esistesse. Perché altrimenti sarebbe stato troppo placido,
in un certo senso indolente. Avere un potere del genere e sopportare tutto?
Non immischiarsi nemmeno una volta nelle questioni terrene? Com’era
possibile?... A parte il salvataggio nel ’41, Stalin non aveva mai notato che, a
parte sé stesso, comandasse qualcun altro. Mai ricevuta da Lui una gomitata,
mai sfiorato nemmeno una volta.
Se tuttavia, Dio esisteva davvero, se amministrava Lui le anime, era
necessario che Stalin ci facesse pace, prima che fosse troppo tardi. Nonostante
tutta la sua grandezza, ne aveva comunque bisogno. Perché intorno a lui c’era il
vuoto, non aveva nessuno, proprio nessuno accanto a sé: tutta l’umanità stava
giù in basso, da qualche parte. Forse, quello che sentiva più vicino di tutti era
Dio. E anche Lui era solo.
Negli ultimi anni per Stalin era stato un piacere sentire che la Chiesa lo
proclamava Capo scelto da Dio nelle sue preghiere. In compenso Stalin aveva
mantenuto il monastero di Lavra a spese del Cremlino. Non accoglieva mai il
primo ministro di una grande potenza allo stesso modo in cui riceveva il suo
docile e decrepito patriarca: usciva fino alla porta più esterna e lo
accompagnava sotto braccio al tavolo. E stava pensando persino di trovargli
una piccola tenuta, un ostello ecclesiastico, e di regalargliela. Come un tempo si
facevano doni per la salvezza dell’anima.
Stalin aveva scoperto che uno scrittore era figlio di un sacerdote, ma teneva
la cosa per sé. “Sei ortodosso?” gli aveva chiesto a quattr’occhi. Quello era
sbiancato ed era rimasto immobile. “Fatti il segno della croce! Sei capace?” Lo
scrittore si era segnato, pensando fosse giunta la sua ora. “Bravo!” aveva detto
Stalin, dandogli una pacca sulla spalla.
Tuttavia, nel corso di quella lotta lunga e difficile, Stalin aveva avuto anche
degli eccessi. Sarebbe stato bello far venire sulla sua tomba uno splendido coro
a cantare “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo...”.
In generale Stalin notava in sé una strana tendenza non solo verso la
religione ortodossa: ad attirarlo una, due, tre volte era stata una sorta di
devozione verso il vecchio mondo, un mondo dal quale era nato lui stesso ma
che come bolscevico distruggeva già da quarant’anni.
Negli anni Trenta, unicamente per ragioni politiche, aveva riesumato la
parola patria che, ormai dimenticata, non si usava da quindici anni: udirla ormai
era quasi una vergogna. Ma con gli anni pronunciare “Russia”, “patria”, era
divenuto per lui un vero piacere. Peraltro il suo potere personale pareva ne
ottenesse grande stabilità. Ci guadagnasse in sacralità.
All’inizio Stalin aveva attuato i provvedimenti del partito senza considerare
quanti russi ne avrebbero pagato le spese. Poi però, per gradi, aveva iniziato ad
accorgersi del popolo russo e a trovarlo simpatico: un popolo che non l’aveva
mai tradito, che aveva sofferto la fame per tutti gli anni che era stato necessario,
che andava tranquillamente in guerra e nei campi di lavoro, che non si ribellava
mai di fronte a nessuna difficoltà. Fedele, sempliciotto. Proprio come
Poskrëbyšev. E dopo la Vittoria Stalin aveva detto con assoluta sincerità che il
popolo russo possedeva mente lucida, carattere fermo e pazienza.
Stalin stesso, con gli anni, desiderava sempre più che lo considerassero
russo.
Trovava piacevole persino quel modo di giocare con le parole che gli
ricordava il vecchio mondo: che non ci fossero “dirigenti scolastici”, ma
“direttori”; non “personale di comando”, ma “ufficiali”; non VCIK73, ma Soviet
Supremo (“supremo” era una bellissima parola); che gli ufficiali avessero
attendenti; che le ginnasiali studiassero separate dai ginnasiali, portassero la
pellegrina e pagassero per l’insegnamento; che ogni dicastero civile avesse la
propria divisa e il proprio segno di riconoscimento; che la gente sovietica si
riposasse la domenica, come tutti i cristiani, e non in qualche anonimo giorno
contrassegnato da un numero; e persino che si riconoscesse soltanto il
matrimonio legittimo, com’era sotto lo zar, anche se lui stesso, a suo tempo,
l’aveva pagata cara per questo... Qualunque cosa ne pensasse Engels, dagli
abissi marini74, e sebbene gli avessero consigliato di fucilare Bulgakov e di
bruciare I giorni dei Turbin sulle guardie bianche, una forza gli aveva toccato il
gomito perché scrivesse: “Da ammettere solo in un teatro moscovita.”
Proprio lì, nello studio notturno, per la prima volta aveva provato davanti
allo specchio le vecchie spalline russe sulla sua giubba militare, ed era stato un
piacere.
In fin dei conti non c’era nulla di sconveniente nemmeno nell’uso della
corona come supremo segno di distinzione. In fin dei conti, veniva da un
mondo collaudato, stabile, che aveva retto per trecento anni; perché allora non
prenderne il meglio?
Sebbene la resa di Port-Arthur ai suoi tempi non potesse che rallegrarlo,
poiché era un rivoluzionario deportato fuggito dalla provincia di Irkutsk, dopo
la disfatta del Giappone evidentemente non aveva mentito nel dire che la resa
di Port-Arthur pesava come una macchia scura sull’amor proprio suo e degli
altri vecchi russi.
Sì, già, i vecchi russi! A volte Stalin pensava che non fosse un caso se si era
imposto alla testa di quel paese e ne aveva conquistato i cuori, proprio lui e
non tutti quei celebri sbruffoni e talmudisti con il pizzetto, senza casato, né
radici né positività.
Eccoli lì tutti quanti, sugli scaffali, senza rilegature, nei fascicoli degli anni
Venti: affogati, fucilati, avvelenati, bruciati, caduti vittime di incidenti d’auto,
suicidi! Sequestrati ovunque, colpiti da anatema, apocrifi: erano tutti lì allineati!
Ogni notte gli offrivano le loro pagine, scuotevano le barbette, si torcevano le
mani, gli sputavano contro, strillavano rauchi, gli gridavano dagli scaffali: “Noi
vi avevamo avvisato!”, “Bisognava fare diversamente!”. Per fare le pulci agli
altri non serve troppo cervello. Anche per questo Stalin li aveva riuniti tutti lì,
per essere più cattivo la notte, quando prendeva le decisioni. (Chissà perché
sembrava sempre che gli avversari umiliati, per certe cose, avessero quasi
ragione. Stalin tendeva l’orecchio con diffidenza alle loro sepolcrali voci
nemiche e a volte qualcosa accettava.)
Il loro vincitore, con la giubba da generalissimo e la fronte da pitecantropo
decisamente protesa in avanti, si trascinava a fatica lungo gli scaffali, e ci si
reggeva con le dita contratte, passando in rassegna i suoi nemici.
L’invisibile orchestra dentro di lui, al cui ritmo procedeva avanti e indietro,
si fermò e tacque.
Presero a dolergli le gambe, che parevano sul punto di staccarsi. Pesanti
ondate gli pulsavano in testa, la tranquillizzante catena di pensieri si
sgretolava... si era dimenticato completamente perché aveva raggiunto quegli
scaffali. A cosa stava pensando un momento prima?
Si lasciò cadere su una sedia lì accanto e si coprì il viso con le mani.
Era una vecchiaia terribile... Una vecchiaia senza amici. Una vecchiaia senza
amore. Una vecchiaia senza fede. Una vecchiaia senza desideri.
Nemmeno della figlia prediletta aveva più bisogno, la sentiva estranea.
La sensazione della memoria che gli veniva a mancare, dell’intelletto che si
offuscava, dell’isolamento dai vivi: tutto lo riempiva di un terrore impotente.
Con lo sguardo velato di lacrime abbracciò la stanza, senza rendersi conto se
le pareti fossero lontane o vicine.
Sul comodino accanto c’era un’altra piccola caraffa sotto chiave. Tastando
Stalin trovò la chiave, da tempo legata alla cintura (nello stato in cui era
avrebbe potuto lasciarla cadere e poi cercarla a lungo), aprì la caraffa e, dopo
essersi riempito un bicchiere di liquore fermentato, lo bevve.
Poi tornò a sedersi con gli occhi chiusi. Fisicamente si sentiva meglio, quasi
bene.
Lo sguardo ora più lucido cadde sul telefono... la cosa che gli era sfuggita
per tutta la sera si insinuò di nuovo nella sua memoria come la punta della
coda di un serpente.
C’era qualcosa che doveva domandare ad Abakumov... avevano arrestato
Gomułka?...
Sì, ecco cosa! Si alzò e, strascicando delicatamente i piedi sul tappeto,
raggiunse la scrivania, dove afferrò una penna e sul calendario scrisse: “Sistema
di telefonia segreta.”
Gli era stato riferito che avevano radunato le forze migliori, che la base
materiale era ottima, entusiasmo, circostanze favorevoli... perché allora non
finivano?! Abakumov, quella faccia da insolente, era rimasto lì seduto, il cane,
per un’ora intera, senza farne parola!
Tutti così, in ogni dicastero: cercavano sempre di ingannare il Capo! Come
faceva a fidarsi? Come poteva non lavorare la notte?
Alla colazione mancavano ancora più di dieci ore.
Chiamò al telefono perché lo aiutassero a indossare la vestaglia.
Il paese, spensierato, poteva dormire; suo Padre no!

73 Comitato esecutivo centrale panrusso.


74 Il corpo di Engels fu cremato e le sue ceneri disperse nel mare, al largo di Eastbourne, una cittadina del
Sussex dove Engels amava trascorrere le vacanze.
23
LA LINGUA È UN MEZZO DI PRODUZIONE

Tutto, a quanto pareva, era già stato fatto per l’immortalità.


Ma a Stalin sembrava che i contemporanei, sebbene lo chiamassero Saggio
dei Saggi, lo ammirassero poco, rispetto ai suoi meriti; erano superficiali nei
propri entusiasmi e non apprezzavano tutta la profondità del suo genio.
Negli ultimi tempi lo assillava un pensiero: non solo vincere la Terza guerra
mondiale ma compiere un’altra impresa scientifica, portando il proprio
brillante contributo a un’altra scienza oltre alle scienze filosofiche e storiche.
Naturalmente un simile contributo avrebbe potuto darlo in biologia, ma in
quel campo aveva affidato il compito a Lysenko, un uomo del popolo onesto ed
energico. E poi Stalin trovava più allettanti la matematica e la fisica. Tutti i
Padri fondatori avevano dato prova delle loro forze in maniera impavida in
quelle scienze. Faceva invidia leggere i vivaci ragionamenti di Engels sullo zero
e su un numero negativo elevato al quadrato. Affascinava anche la
determinazione con cui Lenin, giurista, si era inoltrato nei meandri della fisica,
facendo il pelo e contropelo agli studiosi e dimostrando che la materia non può
trasformarsi in nessuna forma di energia.
Per quanto avesse sfogliato Algebra di Kisilëv e Fisica di Sokolov, manuali per
le classi avanzate, Stalin non riusciva proprio a trovare qualche felice stimolo.
Un’idea felice – a dire il vero in tutt’altro campo, la linguistica – gliel’aveva
ispirata per caso Čikobava, un professore di Tbilisi. Stalin lo ricordava
vagamente, come tutti i georgiani di un certo livello: Čikobava frequentava la
casa di Ignatošvili figlio, avvocato di Tbilisi, nonché menscevico, ed era un
frondista, fatto concepibile solo in Georgia.
Arrivato ormai a un’età veneranda e a quello scetticismo della mente che ti
spinge a fare i conti con le cose terrene, nel suo ultimo articolo Čikobava aveva
trovato il modo di scrivere un’eresia a quanto pare antimarxista, vale a dire che
la lingua non è una sovrastruttura di un qualche tipo, ma semplicemente lingua, e
non ne esiste alcuna che sia borghese o proletaria, ma solo nazionale. Aveva
osato attentare apertamente al nome dello stesso Marr.
Siccome sia l’uno sia l’altro erano georgiani, la reazione aveva avuto seguito
sugli Atti universitari georgiani, il cui grigio numero non rilegato, con la sua
scrittura ornamentale georgiana, si trovava ora davanti a Stalin. Alcuni linguisti
marxisti marristi si erano scagliati contro quella spudoratezza con sonore
condanne, dopo le quali non restava altro che aspettarsi che qualcuno gli
bussasse di notte alla porta a nome dell’MGB. Si era già lasciato intendere che
Čikobava fosse un agente dell’imperialismo americano.
Niente avrebbe potuto salvarlo se Stalin non avesse alzato la cornetta e non
gli avesse permesso di continuare a vivere. Lo aveva graziato, ma a quel punto
era giusto dare alle sue semplicistiche idee provinciali un’esposizione
imperitura e uno sviluppo geniale.
Certo, sarebbe stato più altisonante confutare, per esempio, la teoria
controrivoluzionaria della relatività o della meccanica ondulatoria. Ma le
questioni statali non gliene davano il tempo. La linguistica tuttavia andava a
braccetto con la grammatica, e a Stalin la grammatica pareva da sempre parente
della matematica, vista la sua difficoltà.
Era possibile scrivere in modo brillante, espressivo (si era già seduto a
scrivere): “Qualsiasi lingua delle nazioni sovietiche si prenda – russo, ucraino,
bielorusso, uzbeco, kazaco, georgiano, armeno, estone, lettone, lituano,
moldavo, tataro, azerbaigiano, baškiro, turkmeno... (diavolo, con gli anni
diventava sempre più difficile fermarsi nelle enumerazioni, ma era davvero
necessario? Più si entrava nella testa del lettore, meno avrebbe avuto voglia di
obiettare) è chiaro a tutti che...” E lì doveva scrivere ciò che era chiaro a tutti.
Ma cos’era chiaro? Praticamente niente... L’economia è una struttura, i
fenomeni sociali sono sovrastrutture. Una terza via nel marxismo non esiste.
Ma nella sua esperienza di vita Stalin aveva compreso che senza terza via
non poteva esserci nessun cambiamento. Per esempio esistevano paesi neutrali
(da schiacciare poi separatamente) e partiti neutrali (da noi no di certo). Se
sotto Lenin dicevi la frase: “Chi non è con noi, non è ancora contro di noi”, ti
cacciavano via dai ranghi in un minuto.
Però accade così... è la dialettica.
Anche qui era lo stesso. Davanti all’articolo di Čikobava Stalin si fece
pensieroso, rimase fulminato da un’idea che non lo aveva mai sfiorato: se la
lingua era una sovrastruttura, perché non cambiava in ogni epoca? Ma se non
era una sovrastruttura, allora cos’era? Una struttura? Un modo di produzione?
Ecco come stanno le cose: un modo di produzione consiste di forze
produttive e rapporti produttivi. Chiamare lingua rapporto non si può. Vuol dire
allora che la lingua è una forza produttiva? Ma le forze produttive sono
strumenti di produzione, mezzi di produzione e persone. E sebbene le persone
parlino una lingua, la lingua non è comunque come le persone. Lo sa il diavolo,
un vicolo cieco!
La cosa più onesta sarebbe stata riconoscere che una lingua è un mezzo di
produzione, proprio come le macchine utensili, come le ferrovie, come la posta.
Qui un altro collegamento. Lenin aveva detto: “Senza la posta non può esserci
il socialismo.” Evidentemente anche senza lingua...
Ma se la tesi principale fosse che la lingua è un mezzo di produzione, si
metterebbero a sghignazzare. Non da noi, naturalmente.
E non aveva nessuno con cui consultarsi.
Be’, a farci un po’ di attenzione, poteva funzionare: “In questo rapporto,
distinguendosi in linea di principio da una sovrastruttura, la lingua non si
distingue però da un mezzo di produzione come, per esempio, le macchine,
indifferenti alle classi quanto la lingua.”
“Indifferenti alle classi!” Anche questo, prima, non si sarebbe potuto dire...
Ci mise un punto. Appoggiò le mani dietro la nuca, fece uno sbadiglio e si
stirò. Non aveva pensato poi tanto, eppure era già stanco.
Si alzò e cominciò a camminare per lo studio. Si avvicinò a una finestrella,
che al posto dei vetri aveva due strati di blindatura giallastra trasparente, con in
mezzo uno schermo di aria compressa. Le finestre davano su un giardinetto
separato dove la mattina, sotto il controllo di una guardia, passava un
giardiniere e poi per ventiquattr’ore non veniva più nessuno.
Nel giardinetto, dietro i vetri infrangibili, era calata la nebbia. Non si vedeva
né il paese né la Terra, né l’Universo.
Durante queste ore notturne, senza un suono e senza un’anima viva, Stalin
non poteva essere certo che il resto del paese esistesse.
Dopo la guerra, quando si era recato a sud un paio di volte, lungo il tragitto
non aveva visto altro che uno spazio vuoto e spento, una Russia per nulla viva
nonostante le migliaia di chilometri percorsi via terra (degli aerei non si fidava).
Se andava in automobile, la strada si stendeva deserta per chilometri, senza
persone a costeggiarla. Se andava in treno, le stazioni erano spopolate, alle
fermate sulla banchina si muovevano solo quelli della sua scorta e ferrovieri
fidati (ma più in fretta di tutti camminavano i čekisti). E in lui si era rafforzata
l’idea che la sua solitudine non riguardasse soltanto la dacia di Kuncevo, ma
tutta la Russia, che tutto il paese fosse un’invenzione (pazzesco che gli stranieri
credessero nella sua esistenza). Per fortuna, però, quello spazio in apparenza
privo di vita forniva allo Stato regolarmente pane, verdure, latte, carbone, ghisa
e tutto il resto, in abbondanza e nei tempi prestabiliti. Quello spazio procurava
anche ottimi soldati. (Nemmeno le divisioni Stalin aveva mai visto con i propri
occhi, ma a giudicare dalle città conquistate, pure quelle mai viste, dovevano
esistere senza dubbio.)
Stalin era così solo che gli mancava persino qualcuno con cui verificare sé
stesso, con cui rapportarsi.
Del resto, una metà dell’Universo risiedeva nel suo petto ed era coerente,
chiara. Solo l’altra metà, la realtà oggettiva, si confondeva nella nebbia del
mondo.
Ma da lì, da quello studio notturno fortificato, inviolabile, depurato, di
quella seconda metà Stalin non aveva alcuna paura: sentiva di poterla piegare a
suo piacimento. Solo quando doveva entrare direttamente in quella realtà
oggettiva, per esempio recandosi a un grande banchetto nella Sala delle
Colonne, attraversare con le proprie gambe lo spaventoso spazio dall’auto
all’ingresso, e poi con le stesse gambe salire le scale, attraversare il foyer fin
troppo vasto e vedere ai lati gli ospiti colmi di ammirazione, riverenti, ma pur
sempre troppo numerosi, si sentiva male e non sapeva decidere nemmeno come
usare le proprie mani, da tempo non più idonee a una vera difesa. Le
appoggiava sulla pancia e sorrideva. Gli ospiti pensavano che l’Onnipotente
sorridesse per benevolenza verso di loro, ma lui sorrideva per smarrimento...
Per lui lo spazio era “la condizione fondamentale dell’esistenza della
materia”. Ma, dominandone un arido sesto, iniziò a temerlo. Anche per quella
ragione stava bene nel suo ufficio notturno: lì di spazio non ce n’era.
Stalin chiuse il pannello di metallo e si trascinò di nuovo alla scrivania.
Inghiottita una compressa, tornò a sedersi.
Mai che avesse avuto fortuna nella vita, doveva sempre darsi da fare. Ai
posteri la sentenza.
Com’era accaduto che in linguistica avesse preso piede quel regime alla
Arakčeev? Nessuno osava dire una parola contro Marr. Che gente strana! Che
gente pavida! Insegni loro la democrazia, li fai smuovere, metti loro le parole in
bocca e loro le risputano!
Toccava sempre a lui, anche in quel momento toccava a lui...
E, infervorato, buttò giù qualche frase:
“La sovrastruttura si crea dalla base proprio per...”
“La lingua si crea proprio per...”
Durante la solerte stesura di quelle parole, chinava sul foglio il viso grigio-
marrone con il naso prominente.
Se quel Lafargue è un teorico, posso esserlo anch’io! “Una repentina
rivoluzione linguistica fra il 1789 e il 1794.” (Oppure era d’accordo con il
suocero?...)75
Ma quale rivoluzione! Era lingua francese, e francese rimaneva.
Bisogna finirla con tutti questi discorsi sulle rivoluzioni!
“In generale vanno avvertiti i compagni che si dilettano di scoppi, che la
legge del passaggio da un vecchio stato a un nuovo stato attraverso uno
scoppio non solo non è applicabile alla storia dello sviluppo della lingua, ma è
raramente applicabile anche ad altri fenomeni sociali.”
Stalin si scostò, rilesse. Era venuto bene. I propagandisti politici dovevano
aver chiaro soprattutto questo punto: da un certo momento in poi ogni
rivoluzione finisce, e lo sviluppo segue solo un percorso evolutivo. E forse
persino che la quantità non si trasforma in qualità. Ma di questo, avrebbe
potuto occuparsene un’altra volta.
“Raramente?”... No, per ora non è possibile.
Stalin cancellò “raramente” e scrisse “non sempre”.
Un piccolo esempio?
“Noi siamo passati da un sistema contadino-individualista (ecco un termine
nuovo, un buon termine!) a uno socialista kolchoziano.”
E messo, com’era normale che fosse, un punto, rifletté e prima delle ultime
due parole inserì: “sistema.” Amava quello stile: dare un altro colpo a un
chiodo già conficcato. Se ripetevi tutte le parole in ogni frase, risultava tutto
più comprensibile. La penna appassionata proseguì:
“Tuttavia il rivolgimento non si è realizzato tramite uno scoppio, cioè
tramite un rovesciamento del potere esistente” (bisognerebbe che i
propagandisti politici chiarissero soprattutto questo punto!) “e la creazione di
un nuovo potere” (quanto a questo, che non ci pensassero neanche!!)
A causa della superficialità di Lenin, nelle scienze storiche sovietiche si
riconosceva solo la rivoluzione dal basso e si considerava quella dall’alto un
palliativo, un ibrido, di cattivo gusto. Ma era tempo di chiamare le cose con il
loro nome.
“Siamo riusciti in questa impresa perché era una rivoluzione dall’alto, perché
il rivolgimento era avvenuto per iniziativa del potere esistente...”
Un attimo, così non andava bene. Veniva fuori che l’iniziativa della
collettivizzazione non era nata dai contadini...
Stalin si abbandonò sulla poltrona, sbadigliando, e all’improvviso perse il
filo: tutte le idee che aveva avuto fino a un secondo prima gli sfuggirono. Il
fervore della ricerca che gli avvampava dentro si era spento.
Fortemente ingobbito, incespicando nei lunghi lembi della vestaglia, il
padrone di mezzo mondo passò con andatura strascicante attraverso una
seconda porta stretta che si mimetizzava nella parete, sbucò di nuovo nel
piccolo labirinto angusto e curvo, e dal labirinto entrò nella bassa camera da
letto senza finestre, con i muri in cemento armato.
Mentre si coricava, sbuffò e tentò di corroborarsi con il suo solito
ragionamento: né Napoleone né Hitler avevano conquistato la Gran Bretagna
perché avevano entrambi un nemico nel continente. Lui invece un nemico non
ce l’aveva. Dall’Elba avrebbe subito marciato verso La Manica, riducendo in
briciole la Francia (i comunisti francesi lo avrebbero aiutato) e conquistando i
Pirenei senza fermarsi. Il Blitzkrieg, naturalmente, è un imbroglio. Ma senza
una guerra lampo non te la cavi.
Si potrebbe cominciare una volta pronte le bombe atomiche e dopo aver
ripulito per benino le retrovie.
Con la guancia già affondata nel cuscino, fece scorrere gli ultimi pensieri
sconclusionati: che sarebbe servita una guerra lampo anche in Corea; che con i
nostri carri armati, l’artiglieria e l’aviazione per noi sarebbe finita bene, di
sicuro, anche senza l’Ottobre mondiale.
In generale, la strada verso il comunismo mondiale sarebbe stata più facile
con una Terza guerra mondiale: bisognava prima unire tutto il mondo, poi
instaurare il comunismo. Altrimenti sarebbero sorte troppe complicazioni.
Non servivano altre rivoluzioni! Via, via tutte le rivoluzioni! In futuro
neanche una!
E si addormentò.

75 Paul Lafargue (1842-1911), scrittore francese di ispirazione comunista, sposato con la secondogenita di
Karl Marx.
24
L’ABISSO TI RICHIAMA INDIETRO

Quando l’ingegner colonnello Jakonov uscì dal ministero per un passaggio


laterale che dava su via Dzeržinskij, fece il giro della prua di marmo nero
dell’edificio sotto i pilastri del vicolo Furkasovskij e non riconobbe subito la
sua Pobeda: stava per girare la maniglia e salire su un’altra auto.
Durante la notte appena trascorsa era calata una nebbia fitta. La neve, che
aveva tentato di cadere la sera precedente, dapprima si era sciolta, e poi era
cessata del tutto. Adesso, sul far del mattino, la nebbia si concentrava al suolo e
l’acqua formatasi dalla neve si era raccolta sotto un fragile strato di ghiaccio.
Faceva freddo.
Erano quasi le cinque. Nel cielo la notte nera illuminata dai lampioni non
demordeva.
Uno studente del primo anno (che aveva trascorso tutta la notte con la sua
innamorata in un androne) gli passò accanto, lo osservò con invidia salire in
macchina e sospirò: chissà se sarebbe mai vissuto abbastanza per avere
un’automobile. Non tanto per andarci in giro con la ragazza: anche lui era
salito solo nel cassone di un camion diretto al kolchoz per il raccolto.
Non sapeva, però, chi stava invidiando...
– Andiamo a casa? – domandò l’autista a Jakonov.
Il colonnello teneva assurdamente nel palmo della mano l’orologio da
taschino, senza capire che ora segnasse.
– A casa? – ripeté l’autista.
Jakonov lo guardò con stupore.
– Eh? No.
– A Marfino, allora? – si meravigliò l’autista. Benché fosse rimasto in attesa
con gli stivali di feltro e il pellicciotto, si era gelato e aveva sonno.
– No – rispose l’ingegner colonnello, con una mano posata sul petto, poco
più in alto del cuore.
L’autista osservò il volto del capo nella chiazza di luce torbida del lampione
stradale che filtrava attraverso il parabrezza.
Non lo riconobbe. Le labbra tranquille e morbide di Jakonov, a volte serrate
con fare altezzoso, tremavano impotenti. E continuava a tenere l’orologio nel
palmo della mano senza capire.
Sebbene aspettasse da mezzanotte, imbestialito contro Jakonov, imprecando
nel colletto di pelliccia di montone per tutte le cattive azioni commesse dal
colonnello in due anni, adesso l’autista senza fare altre domande si mise a
girovagare in auto. E la rabbia gli passò.
Era così tardi da essere quasi presto. Nelle vie deserte si incrociava solo
qualche macchina di tanto in tanto. In giro non c’era più nemmeno la polizia,
mancavano sia quelli che derubavano sia quelli da derubare. Presto i filobus
avrebbero ripreso a circolare.
L’autista si girò un paio di volte a guardare il colonnello: bisognava pur
decidere qualcosa. Si era già spinto fino a piazza Mjasnickie Vorota, lungo i
viali era arrivato fino a piazza Trubnaja, aveva svoltato in via Neglinnaja. Non
si poteva vagabondare così fino al mattino!
Jakonov puntava lo sguardo fisso e insensato davanti a sé, verso il nulla.
Abitava in via Bol’šaja Serpuchovka. Nella speranza che vedere i quartieri
vicini alla sua abitazione potesse incoraggiare l’ingegner colonnello a rincasare,
l’autista si diresse a Zamoskvoreč’e. Dall’Ochotnyj Rjad, svoltò nell’austera e
deserta Piazza Rossa.
Le mura merlate e le punte dei vicini abeti erano velate di brina. Il lastricato
era particolarmente scivoloso. La nebbia si rannicchiava sotto le ruote
dell’automobile, verso il suolo.
A duecento metri da loro, oltre le merlature, che i poeti definivano sacre,
oltre gli ingressi, le garitte, le guardie, le sentinelle, le pattuglie e i reparti in
allerta, abitava, secondo quegli stessi poeti, l’Indefesso, ora sul punto di
concludere la sua notte solitaria.
Loro però passarono di lì senza ricordarsi di Lui.
E quando accanto alla cattedrale di San Basilio iniziarono a scendere e
svoltarono a sinistra per il lungofiume, l’autista rallentò e chiese di nuovo:
– Non vuole andare a casa, compagno colonnello?
Proprio a casa avrebbe dovuto andare. Di notti da trascorrere a casa gliene
rimanevano forse meno delle dita di una mano. Ma, come un cane che si
allontana a morire in solitudine, così Jakonov doveva dirigersi da qualche parte,
ma non in famiglia.
Raccolte le falde del cappotto di pelle, scese dalla Pobeda e disse all’autista:
– Tu, amico, vai pure a dormire, proseguo a piedi.
A volte chiamava “amico” l’autista. Ma nella sua voce adesso c’era una tale
afflizione che sembrava quasi volergli dire addio.
La Moscova era ricoperta fino alle rive di una coltre di nebbia fluttuante.
Senza abbottonarsi il cappotto, con il colbacco da colonnello sulle ventitré,
Jakonov si incamminò scivolando per il lungofiume.
L’autista avrebbe voluto richiamarlo, procedere al suo fianco, ma poi pensò
che a quei livelli di sicuro non si annegavano, così fece conversione con l’auto e
se ne andò.
E Jakonov si avviò per l’estesa campata senza incroci sul lungofiume, con
una sorta di interminabile staccionata di legno a sinistra e il fiume a destra.
Camminava sull’asfalto, in mezzo alla strada, guardando fisso le lontane luci
dei lampioni.
Dopo aver percorso un certo tratto, si rese conto che quella camminata
funebre in piena solitudine gli procurava un piacere semplice che non provava
da tempo.
Quando erano stati convocati dal ministro per la seconda volta, era successo
l’irrimediabile. Era come se fossero crollati i soffitti che di solito servivano da
rifugio. Abakumov si agitava come una belva in gabbia. Li incalzava, li
inseguiva per l’ufficio, imprecava, sputava quasi loro addosso e, sferrando un
pugno al viso di Jakonov con l’evidente desiderio di fargli male, non ne aveva
misurato lo slancio e gli aveva ferito il molle naso bianco, facendolo
sanguinare.
Aveva degradato a tenente Selivanovskij, che sarebbe stato spedito in uno
pseudo viaggio di lavoro oltre il Circolo polare artico; Oskolupov l’aveva
rimandato a fare il carceriere alla Butyrka, dove nel 1925 aveva iniziato la
carriera; Jakonov sarebbe stato arrestato per inganno e sabotaggio reiterato e
spedito da Bobynin al Sette, con la stessa tuta blu, perché aggiustasse il
linguaggio clippato con le sue mani.
Alla fine però Abakumov aveva ripreso fiato e concesso loro un’ultima
scadenza: fino all’anniversario della morte di Lenin.
Il grande e pacchiano ufficio galleggiava, oscillava negli occhi di Jakonov,
che cercava di asciugarsi il sangue con un fazzoletto. Se ne stava lì in piedi,
indifeso, davanti ad Abakumov e pensava a coloro con i quali trascorreva
soltanto un’ora su ventiquattro, le uniche persone per cui si dibatteva, lottava e
tiranneggiava gli altri nelle restanti ore di veglia: due bambine di otto e nove
anni e la moglie Varjuša, tanto più cara perché sposata tardi. Si era accasato a
trentasei anni, non appena uscito dal luogo in cui ora il pugno di ferro del
ministro lo spingeva nuovamente.
Poi Selivanovskij aveva condotto Oskolupov e Jakonov nel suo ufficio e
aveva minacciato di gettarli tutt’e due dietro le sbarre, pur di non lasciarsi
degradare a tenente oltre il Circolo polare artico.
Poi Oskolupov aveva condotto Jakonov nel suo ufficio e gli aveva rivelato
esplicitamente di aver collegato una volta per tutte il suo passato carcerario con
il suo presente da sabotatore.
...Jakonov si avvicinò all’alto ponte di cemento armato che a destra
conduceva oltre la Moscova. Non fece però il giro per salirvi, passò sotto, per il
tunnel, dove un poliziotto camminava avanti e indietro.
Il poliziotto lanciò una lunga occhiata sospettosa a quello strano ubriaco
con il pince-nez e il colbacco da colonnello.
Subito dopo Jakonov attraversò un ponticello sopra un fiumiciattolo. Era la
foce della Jauza, ma il colonnello non si sforzò nemmeno di capire dove si
trovasse.
Sì, avevano messo in piedi un gioco pericoloso, che adesso era giunto alla
fine. Jakonov aveva già visto intorno a sé, e provato lui stesso, quella folle,
insopportabile corsa che stava stritolando tutta la nazione: i suoi commissari
del popolo e i comitati regionali, gli scienziati, gli ingegneri, i direttori e i
responsabili di cantiere, i capireparto, i capisquadra, gli operai e le semplici
contadine dei kolchoz. Chiunque si impegnasse in un’impresa qualsiasi veniva
presto stritolato in una morsa, una stretta fatta di scadenze inventate,
impossibili, mutilanti: di più! più in fretta! ancora!!! ancora!!! la quota! oltre la
quota!! la guardia d’onore! tre quote!!! l’obbligo di adempimento anticipato
della quota! prima della scadenza!! ancora prima della scadenza!!! Le case non
stavano in piedi, i ponti non si reggevano, le costruzioni si riempivano di crepe,
il raccolto marciva o non germogliava proprio, e chi finiva in questo turbine,
vale a dire ogni singola persona, non aveva evidentemente altra via d’uscita che
ammalarsi, ferirsi in mezzo a questi ingranaggi, impazzire, subire un incidente,
e soltanto dopo riprendersi all’ospedale, alla stazione termale, farsi dimenticare,
respirare l’aria dei boschi, e poi di nuovo, ancora, sottostare piano a quel giogo.
Nel paese soltanto i malati, nella solitudine della loro malattia (non in
clinica!), potevano vivere senza ansia.
Tuttavia fino a quel momento Jakonov era sempre riuscito a tirarsi fuori da
questioni irrimediabilmente guastate dalla fretta e a buttarsi in altre, più
tranquille o ancora agli esordi.
Questa volta però sentiva che non sarebbe riuscito a tirarsene fuori.
L’impianto del clipper non si poteva salvare tanto in fretta. E non c’era posto
dove lui, Jakonov, potesse trasferirsi.
E anche per ammalarsi ormai era troppo tardi.
Stava in piedi vicino al parapetto del lungofiume a guardare in basso. La
nebbia si era completamente adagiata sul ghiaccio, illuminandolo, e proprio
sotto Jakonov si intravedeva una nera macchia invernale, putrida: acqua
corrente in mezzo al ghiaccio.
Il nero baratro del passato – la prigione – si spalancava di nuovo davanti a
lui, e di nuovo lo chiamava a sé.
Jakonov considerava i sei anni che aveva trascorso dentro come un fiasco
tremendo, una pestilenza, un’infamia, il più grande insuccesso della sua vita.
C’era finito nel ’32, quando era un giovane ingegnere radiotecnico mandato
due volte in missione all’estero (lo avevano messo in carcere proprio per via di
quelle missioni). A quei tempi era capitato nel gruppo dei primi zek che
avevano costruito una delle prime šaraški.
Quanto avrebbe desiderato dimenticare lui stesso il proprio passato da
detenuto! In modo che se ne dimenticassero anche gli altri! Se ne dimenticasse
il destino! Come evitava le persone che gli ricordavano quel periodo sciagurato,
che l’avevano conosciuto da recluso!
Di scatto si allontanò dal parapetto, attraversò il lungofiume e cominciò a
risalire un pendio ripido. Tutto intorno alla lunga staccionata di un altro
cantiere correva un sentiero battuto su cui era rimasto un leggero strato di
ghiaccio appena scivoloso.
Soltanto l’archivio centrale dell’MGB sapeva che a volte sotto le uniformi
dell’MGB si celavano degli ex zek.
All’istituto di Marfino, a parte Jakonov, ce n’erano altri due.
Lui li evitava scrupolosamente, si sforzava di intrattenere con loro soltanto
conversazioni di lavoro e non rimaneva mai nell’ufficio da solo con uno di
loro, in modo che gli altri non pensassero male.
Uno di questi era Knjaženeckij, un professore di chimica settantenne,
studente prediletto di Mendeleev. Aveva scontato i dieci anni stabiliti, dopo i
quali, tenendo conto della lunga lista dei suoi meriti scientifici, era stato
mandato a Marfino come libero, qui aveva lavorato tre anni, finché la frusta
sibilante della Delibera sul Consolidamento delle Retrovie non aveva colpito
anche lui. Era stato chiamato per telefono in pieno giorno al ministero e non
aveva più fatto ritorno. Jakonov ricordava il momento in cui Knjaženeckij era
sceso per la scala rosso sangue dell’istituto, con la testa argentea tremante,
ancora ignaro della ragione per cui l’avevano convocato per mezz’ora, con l’oper
Šikin che alle sue spalle, sul pianerottolo superiore di quella stessa scala,
ritagliava già con un temperino la fotografia del professore dalla “lavagna
d’onore” dell’istituto.
Il secondo, Altynov, non era un famoso uomo di scienza, ma solo un uomo
concreto. Dopo la prima condanna era diventato schivo, sospettoso, perspicace
in quella diffidenza tipica della stirpe dei carcerati. E appena la Delibera sul
Consolidamento aveva cominciato i suoi giri per i raccordi anulari della
capitale, Altynov era ricorso a un espediente: si era fatto ricoverare in una
clinica cardiologica. E l’espediente era stato così naturale e così duraturo che i
dottori adesso non speravano più di salvarlo e gli amici avevano smesso di
bisbigliare, avendo capito che il suo cuore stremato, semplicemente, non aveva
retto allo sforzo di schivare i colpi per trent’anni di fila.
E anche Jakonov, già condannato un anno prima in quanto ex zek, ora
veniva condannato di nuovo come sabotatore.
Il baratro richiamava a sé i propri figli.

Jakonov si inerpicò lungo il sentiero che attraversava un terreno abbandonato,


senza accorgersi dove portasse e quanto salisse. Alla fine, a fermarlo ci pensò il
fiato. Anche le gambe si erano stancate, per la postura innaturale cui erano
sottoposte dall’asprezza del terreno.
Nel punto più elevato che aveva raggiunto, si guardò attorno con occhi di
nuovo lucidi, sforzandosi di capire dove si trovasse.
Nell’ora trascorsa da quando Jakonov era sceso dall’automobile, la notte si
era ritirata facendosi sempre più fredda e trasformandosi in modo
irriconoscibile. La nebbia era diminuita fino a scomparire. La terra sotto i piedi,
cosparsa di frammenti di mattoni, pietrisco e vetri rotti, una piccola e sbilenca
rimessa o una cabina lì vicino, e infine la staccionata giù in basso intorno al
grande spiazzo che delimitava un cantiere ancora inoperoso, tutto si intuiva
imbiancato in parte di neve non ancora disciolta in parte di brina.
Su quella collinetta non lontana dal centro della capitale e vittima di uno
strano abbandono salivano dei gradini bianchi, circa sette, che si
interrompevano per poi ricominciare di nuovo.
Alla vista di quei gradini sull’altura Jakonov fu colto dall’ombra di un
ricordo. Dubbioso, percorse la prima serie e superò il compatto terrapieno di
riporto nel mezzo, poi ancora gli altri gradini. Conducevano a un edificio più
in alto, dalla forma strana, che nell’oscurità si distingueva a fatica: sembrava
diroccato e allo stesso tempo superstite.
Erano state forse le bombe cadute durante la guerra a ridurlo così? A Mosca
però altri luoghi del genere non erano rimasti. Quale forza, dunque, aveva
portato lì quella distruzione?
Uno spiazzo di pietra divideva la prima serie di gradini dalla seconda. Ora,
su quest’ultima, a ostacolare il cammino c’erano dei grossi pezzi di pietra, la
scala saliva verso l’edificio con rampe che ricordavano il sagrato di una chiesa.
Si arrivava a una grossa porta di ferro, ben chiusa e ostruita fino all’altezza
del ginocchio da un cumulo di pietrisco.
Sì! Sì! Un ricordo intenso colpì Jakonov. Il colonnello si guardò intorno. In
basso, distante, si snodava il fiume che, illuminato da file di lampioni, si
allontanava in un’ansa stranamente familiare sotto il ponte e oltre, verso il
Cremlino.
E il campanile? Non c’era. Erano quei cumuli di pietre il campanile?
Jakonov sentì che gli bruciavano gli occhi. Li strizzò.
Poi si sedette in silenzio sui pezzi di pietre crollati sul sagrato.
Ventidue anni prima, in quello stesso luogo, era stato con una ragazza di
nome Agnija.
25
LA CHIESA DI NIKITA MARTIRE

Pronunciò quel nome, Agnija, e un alito di sensazioni ben diverse gli sfiorò il
corpo sazio di beni materiali.
A quei tempi lui aveva ventisei anni, lei ventuno.
Quella ragazza apparteneva a un altro mondo. Per sua sfortuna era raffinata
ed esigente oltre il limite che permette a una persona di vivere. A volte, durante
una conversazione, le ciglia e le narici le fremevano al punto da sembrare quasi
in procinto di farle spiccare il volo. Nessuno aveva mai più rivolto a Jakonov
parole tanto severe, non lo aveva rimproverato a quel modo per azioni che
potevano considerarsi assolutamente normali; mentre lei sorprendentemente
vedeva in quegli atti vigliaccheria, rozzezza. E più trovava difetti in Anton, più
lui le si legava, per quanto possa sembrare strano.
Nel discutere con lei, inoltre, bisognava procedere con cautela. Era di
costituzione debole, si stancava subito quando risaliva una collina, correva, e
persino quando affrontava una conversazione animata. Bastava un nonnulla per
offenderla.
Eppure trovava la forza di passeggiare sola nel bosco per giornate intere.
Molto lontana dalla raffigurazione tipica della ragazza di città che si inoltra in
un bosco, non portava mai con sé dei libri: un libro l’avrebbe disturbata,
distolta da quel luogo. Si limitava a vagare, per poi sedersi a scrutare con la
mente i misteri del bosco. Nel leggere Turgenev, saltava sempre le descrizioni
della natura, che trovava superficiali. Quando Anton l’accompagnava, le sue
osservazioni lo colpivano: Agnija notava vuoi il tronco sottile di una betulla
che si piegava verso terra nel ricordo di una nevicata, vuoi il modo in cui nel
bosco il colore dell’erba di sera cambiava. Anton non si accorgeva mai di nulla
del genere: il bosco era un bosco, aria buona e verde.
“Ruscelletto di bosco” la chiamava Jakonov in quell’estate del ’27 trascorsa
in dacie vicine. Partivano e arrivavano insieme, e tutti li prendevano per
fidanzati.
Ma nella realtà le cose erano ben diverse.
Agnija non era né bella né brutta. Il suo viso si trasfigurava spesso, ora in un
sorriso grazioso, ora in un muso lungo tutt’altro che attraente. Più alta della
media ma esile, fragile, e con un passo così leggero che sembrava non aver
bisogno di calcare la terra. E sebbene Anton fosse già abbastanza smaliziato e
apprezzasse nel corpo femminile un po’ di carne, Agnija lo attirava per
qualcosa di diverso dal corpo e, man mano che si abituava, si convinceva che lei
gli piaceva anche come donna, che sarebbe fiorita in seguito.
Eppure, quando trascorreva con piacere le lunghe giornate estive assieme ad
Anton, e si allontanava con lui per molte verste nelle verdi profondità per poi
giacere fianco a fianco sui prati, Agnija non si lasciava accarezzare la mano
volentieri e domandava: “A che serve?” tentando di liberarsi. Non perché si
vergognasse davanti agli altri: quando tornavano nel villaggio di dacie cedeva
alla suscettibilità di Anton e camminava docilmente con lui a braccetto.
Avendo deciso che l’amava, Anton le si era dichiarato, inginocchiandosi
davanti a lei su un prato nel bosco. Ma una profonda malinconia si era
impossessata di Agnija. “Che cosa triste” aveva detto. “Mi sembra di
ingannarti. Non c’è nulla che io possa risponderti. Non sento nulla. E questo
mi toglie persino la voglia di vivere. Tu sei intelligente e brillante, dovrei
soltanto esserne felice, e invece mi manca la voglia di vivere...”
Diceva così, eppure ogni mattina temeva di vedere un cambiamento sul viso
di Anton, nel suo atteggiamento.
Diceva così, ma diceva anche il contrario: “A Mosca ci sono molte ragazze.
Quest’autunno ne incontrerai una carina e non mi amerai più.”
Si lasciava abbracciare e perfino baciare, ma le sue labbra e le sue mani
restavano senza vita. “Com’è difficile!” soffriva. “Credevo che l’amore fosse la
discesa di un angelo di fuoco in terra. Ora tu mi ami, e io non potrò mai
incontrare un uomo migliore di te, eppure non provo gioia, mi manca
completamente la voglia di vivere.”
In lei c’era qualcosa di infantile che non l’abbandonava. Agnija aveva paura
dei segreti che legano l’uomo e la donna nella vita coniugale, e con voce spenta
gli aveva domandato: “Ma senza non si può fare?” “Non è affatto, affatto la
cosa principale!” le aveva risposto Anton, con fervore. “Sarebbe soltanto
un’aggiunta alla nostra comunione spirituale!” Così per la prima volta le sue
labbra si erano mosse debolmente in un bacio, e gli aveva detto: “Ti ringrazio.
Che senso avrebbe vivere altrimenti? Penso di cominciare già ad amarti. Mi
sforzerò senz’altro di amarti.”
In quello stesso autunno, una sera, camminavano per i vicoli presso piazza
Taganskaja e con la sua sommessa voce silvana, difficile da udire nel rimbombo
della città, Agnija aveva detto: – Vuoi che ti mostri uno dei posti più belli di
Mosca?
L’aveva portato fino al recinto di una chiesetta di mattoni, verniciata di
bianco e di rosso, con l’altare rivolto verso un tortuoso vicolo senza nome.
All’interno del recinto c’era poco spazio: soltanto un piccolo viottolo girava
intorno alla chiesetta, un viottolo che doveva servire per la processione e
consentire al sacerdote e al diacono di procedere affiancati. Dietro le finestrelle
con le inferriate si scorgeva dal profondo la luce fioca delle candele sull’altare e
delle lampade colorate. Lì, inoltre, in un angolo del recinto, sorgeva una grande
quercia antica, più alta della chiesa, e i suoi rami ormai gialli coprivano sia la
cupola sia il vicolo, facendo apparire la chiesa minuscola.
– È la chiesa di Nikita Martire – aveva detto Agnija.
– Però non è il posto più bello di Mosca.
– Aspetta!
L’aveva guidato fra le colonne del cancello. Sulle lastre di pietra del sagrato
erano sparse foglie di quercia gialle e arancioni. Quasi all’ombra di quella stessa
quercia, si ergeva anche un antico piccolo campanile a punta. Il campanile e la
casetta annessa alla chiesa oltre il recinto schermavano il sole ormai basso al
tramonto. Davanti alla porta di ferro a due battenti spalancata della facciata a
settentrione stava curva una misera vecchina, che si faceva il segno della croce
al dorato e luminoso canto del vespro che proveniva dall’interno.
– ‘Et era di molto mirabile detta chiesa, di grazie et di lucore...’76 – aveva
recitato Agnija quasi bisbigliando, mentre si teneva stretta al suo fianco.
– Di che secolo è?
– Ti serve proprio sapere il secolo? Che cambia se non lo sai?
– Be’, graziosa è graziosa, ma non...
– Allora guarda! – Indicando con il braccio teso, Agnija aveva
accompagnato Anton più in là, verso il sagrato principale; era uscita
dall’ombra, entrando nel flusso del tramonto e si era seduta sul basso parapetto
di pietra, dove la recinzione si interrompeva, aprendo uno spazio all’ingresso.
Anton era rimasto a bocca aperta. Sembrava che fossero sfuggiti di colpo
all’angustia della città, sbucando su un’altura ripida con un ampio orizzonte
aperto e lontano. Il sagrato defluiva oltre il parapetto in una lunga scalinata di
pietra bianca, che scendeva per molte rampe avvicendate a spiazzi lungo il
pendio della collina fino alla Moscova. Il fiume brillava al sole. A sinistra, c’era
il quartiere di Zamoskvoreč’e, abbagliante nel giallo scintillio dei vetri; di
fronte, nel cielo al tramonto fumavano le nere ciminiere della centrale
termoelettrica MOGES; quasi sotto ai loro piedi, la Jauza scintillante si
immetteva nella Moscova; a destra, oltre il fiume, si estendeva l’orfanotrofio,
dietro cui torreggiavano le mura merlate del Cremlino; e ancora oltre
risplendevano al sole le cinque cupole d’oro della cattedrale del Cristo
Salvatore.
E in tutto quello splendore dorato Agnija, lo scialle giallo gettato sulle
spalle, sedeva al sole socchiudendo gli occhi, e sembrava anche lei dorata.
– Sì! Questa è Mosca... – aveva detto Anton, rapito.
– Gli antichi russi sapevano scegliere i posti per le chiese e per i monasteri! –
aveva esclamato Agnija con voce rotta. – Ho viaggiato lungo il Volga, lungo
l’Oka, li hanno costruiti sempre nei posti più maestosi.
– Sì, questa è Mosca... – aveva ripetuto Anton.
– Ma se ne sta andando, Anton – aveva mormorato Agnija. – Mosca sta
scomparendo!
– Dove vuoi che se ne vada! Sono fantasticherie!
– Questa chiesa verrà abbattuta, Anton – aveva insistito lei.
– Come fai a sapere che verrà abbattuta? – si era irritato. – È un
monumento artistico, la conserveranno. – E aveva guardato il minuscolo
campanile dalla cui fenditura, all’altezza delle campane, i rami della quercia
davano una sbirciatina.
– La demoliranno – aveva profetizzato con sicurezza Agnija, sempre seduta
immobile nella luce gialla con il suo scialle giallo.
Nella famiglia di Agnija non solo nessuno l’aveva educata alla fede in Dio,
era persino stato fatto il contrario: negli anni in cui era obbligatorio
frequentare la chiesa, sua madre e sua nonna non ci andavano, non osservavano
i digiuni, ridevano dei preti e prendevano in giro in ogni modo la religione, che
tanto pacificamente conviveva con la servitù della gleba. La nonna, la madre e
le zie di Agnija avevano una loro fede ben salda: stare sempre dalla parte di
quelli che il potere incalzava, cacciava, braccava, perseguitava. La nonna dava
ricetto ai narodovol’cy e li aiutava come poteva. Le figlie avevano preso da lei e
nascondevano i clandestini socialrivoluzionari e i socialdemocratici. La piccola
Agnija prendeva sempre le difese di un leprotto, perché non lo uccidessero; di
un cavallo, perché non lo frustassero. Poi era cresciuta e tutto questo,
inaspettatamente per gli adulti, si era trasformato in lei nella difesa della Chiesa
perseguitata.
Insisteva che a quel punto sarebbe stato vile tenersi lontani dalla Chiesa e, con
orrore della madre e della nonna, aveva cominciato a frequentarla, per cui
involontariamente aveva preso gusto alle funzioni.
– Ma in che senso è perseguitata? – si stupiva Anton. – Non impediscono a
nessuno di suonare le campane, di cuocere la prosfora, di svolgere le
processioni; la città e la scuola, però, non sono affari loro.
– Certo che è perseguitata – ribatteva Agnija, come sempre piano, in un
sussurro. – Se dicono e stampano su di lei quello che pare a loro senza darle
modo di giustificarsi, requisiscono i beni degli altari, deportano i sacerdoti,
tutto questo non è forse perseguitare?
– Quando hai visto che li deportavano?
– Sono cose che non si vedono per strada.
– E se anche li deportassero? – incalzava Anton. – Li perseguitano da dieci
anni, la Chiesa per quanto tempo lo ho fatto? Dieci secoli?
– A quei tempi io non c’ero – rispondeva Agnija, muovendo dolcemente le
spalle strette. – Io vivo adesso... Vedo che cosa succede ora nella mia vita.
– Ma bisogna pur conoscere la storia! L’ignoranza non è una giustificazione!
Ti sei mai domandata come ha fatto la nostra Chiesa a sopravvivere a
duecentocinquant’anni di giogo tataro?
– Forse avevano una fede profonda? – ipotizzava lei. – Forse il cristianesimo
ortodosso si sarà dimostrato spiritualmente più forte della fede musulmana?... –
Erano domande, non affermazioni.
Anton sorrideva con indulgenza.
– Queste sono fantasie! Il nostro è stato mai un paese cristiano nell’anima?
In mille anni di esistenza abbiamo mai perdonato davvero i nostri persecutori?
E amato coloro che ci odiavano? La nostra Chiesa è riuscita a resistere solo
perché dopo l’invasione tatara il metropolita Kirill fu il primo fra i russi ad
andare a rendere omaggio al Khan e a chiedere un salvacondotto per il clero.
Con la spada tatara! Ecco con cosa ha difeso il clero russo le sue terre, i suoi
servi e le funzioni religiose! E, se devo dirla tutta, il metropolita Kirill ha fatto
bene, era un uomo politico con i piedi per terra. Così bisogna fare. Soltanto in
questo modo si può avere la meglio.
Quando la mettevano alle strette, Agnija evitava di discutere. Aveva sgranato
gli occhi sotto le ciglia pronte a spiccare il volo e guardato il fidanzato con
rinnovata perplessità.
– Ecco su cosa innalzavano tutte queste belle chiese costruite in luoghi così
felici! – denunciava Anton. – Le innalzavano anche sui vecchi credenti bruciati
vivi! E sui settari frustati a morte! Hai trovato proprio quelli giusti da
compatire! La Chiesa perseguitata...
Si era seduto accanto a lei sulla calda pietra del parapetto.
– E poi, in generale, sei ingiusta verso i bolscevichi. Non ti sei data
nemmeno la pena di leggere i loro grandi libri. Hanno il massimo rispetto per
la cultura mondiale. Non vogliono l’arbitrio di una persona su un’altra, ma che
a dominare sia la ragione. E soprattutto, loro sono per l’eguaglianza! Pensa:
eguaglianza universale, piena e assoluta! Nessuno avrà privilegi rispetto a un
altro, nessuno avrà superiorità né di reddito né di posizione. Esiste forse cosa
più attraente di una società del genere? Non ti pare che valga dei sacrifici?
(A parte il fatto che fosse una società attraente, le origini di Anton lo
costringevano a aderire alla causa al più presto, prima che fosse troppo tardi.)
– E con questa tua affettazione non fai altro che precluderti tutte le strade
da sola, anche quella dell’istituto. Inoltre, credi che la tua protesta significhi
qualcosa? Cosa puoi fare tu?
– Che può fare una donna in generale? – Le trecce sottili (in quegli anni
nessuna portava più le trecce, le tagliavano tutte, mentre lei, malgrado non le
stessero per niente bene, le portava per spirito di contraddizione) le erano
schizzate una sulla schiena, l’altra sul petto. – Una donna è solo capace di
distogliere un uomo da grandi azioni. Persino quelle come Nataša Rostova. Io
quella non la sopporto.
– Perché? – si era stupito Anton.
– Perché non ha permesso a Pierre di andare con i decabristi! – la sua vocina
flebile si era spezzata di nuovo.
Sì, lei era tutta in quelle reazioni improvvise.
Lo scialle giallo trasparente che le copriva le spalle lasciava scoperti i gomiti
quasi abbassati, formando due specie di sottili ali dorate.
Anton le aveva preso con due mani il gomito, come se temesse di romperlo.
– Tu, invece? L’avresti lasciato andare?
– Sì – aveva risposto lei.
Comunque Anton non aveva davanti a sé un atto eroico verso il quale si
potesse lasciarlo andare. La sua vita era in fermento, il suo lavoro interessante,
e lo portava sempre più in alto.
Accanto a loro passavano, segnandosi di fronte alle porte aperte della chiesa,
i devoti arrivati in ritardo dal lungofiume. Gli uomini, entrando nel recinto, si
toglievano il berretto. Del resto, erano in numero nettamente inferiore rispetto
alle donne, e i giovani mancavano.
– Non hai paura che possano vederti vicino a una chiesa? – aveva
domandato Agnija, seria, ma a lui era parsa una provocazione.
In effetti, si trattava già di anni in cui era pericoloso farsi notare da un
collega vicino a una chiesa. E, sì, in quel posto Anton si sentiva troppo esposto,
non a proprio agio.
– Fai attenzione, Agnija– le aveva suggerito, cominciando a irritarsi. –
Bisogna saper distinguere in tempo il nuovo: chi non lo fa, rimane
inesorabilmente indietro. Tu hai cominciato a sentirti attratta dalla Chiesa
perché qui assecondano la tua riluttanza a vivere. Stai attenta. Devi scuoterti.
Costringerti a provare almeno interesse per il processo della vita, se vuoi.
Agnija aveva chinato la testa. La mano con l’anellino d’oro di Anton era
abbandonata, priva di volontà. Il corpo della ragazza appariva ossuto, troppo
magro.
– Sì, sì– aveva confermato lei con voce spenta. – Talvolta mi rendo
perfettamente conto che vivere per me è molto difficile, non lo desidero affatto.
Le persone come me, a questo mondo, sono inutili...
Anton si era sentito lacerare dentro. Lei faceva di tutto per non attrarlo! In
lui, il coraggio di mantenere la promessa di sposarla si affievoliva sempre più.
Agnija, senza sorridere, aveva sollevato su Anton uno sguardo indagatore.
“Comunque non è bella” si trovò a pensare lui.
– Probabilmente, ad attenderti c’è la gloria, il successo, una solida prosperità
– aveva detto lei con tristezza. – Ma sarai felice, Anton?... Fai attenzione anche
tu. Quando cominciamo a interessarci al processo della vita, perdiamo...
perdiamo... be’, come spiegarlo... – In cerca della parola, si sfregava la punta di
tre dita; il viso le si fece dolorosamente inquieto. – Ecco come: la campana
finisce i suoi rintocchi, i suoni melodiosi volano via e non li puoi far tornare,
ma in essi c’è tutta la musica. Capisci?... – Cercava ancora. – E se in punto di
morte tu chiedessi all’improvviso di essere sepolto con il rito ortodosso? Te lo
immagini?...
Poi, aveva insistito per entrare a pregare. Non poteva lasciarla sola. Erano
entrati. Sotto le grosse volte una galleria ad anello con piccole finestre munite
di inferriate in antico stile russo girava tutto intorno alla chiesa. Un arco basso
e largo portava dalla galleria fino all’aula centrale del piccolo tempio.
Il sole penetrava attraverso le finestrelle della cupola e inondava la chiesa di
luce, dissolvendosi in un gioco dorato sulla parte superiore dell’iconostasi e
sull’immagine a mosaico del Signore degli eserciti.
I fedeli erano pochi. Agnija aveva posato una candela sottile sulla grande
colonna di rame e se ne stava in piedi severa, senza quasi farsi il segno di croce,
le mani giunte al petto, guardando con espressione ispirata di fronte a sé. La
luce diffusa del tramonto e i riflessi arancioni delle candele ridavano vita e
calore alle sue gote.
Mancavano due giorni alla Natività della Deipara e stavano recitando la
litania completa in suo onore. Era infinitamente espressiva: lodi ed epiteti alla
Vergine Maria si riversavano come un torrente, e per la prima volta Jakonov
aveva compreso l’estasi e la poesia di quella supplica. La litania non era stata
scritta da un insensibile dogmatico di chiesa, ma da un grande poeta
sconosciuto, prigioniero in un monastero; e a ispirarlo non era stata la rapida
furia maschile verso il corpo femminile, ma quella suprema ammirazione che la
donna è capace di suscitare in noi.
Jakonov si riebbe. Sedeva, sporcando il cappotto di pelle, su una montagnola di
ruvidi detriti nel sagrato della chiesa di Nikita Martire.
Sì, era stato del tutto insensato distruggere il piccolo campanile a punta e
demolire la scalinata che scendeva al fiume. Sembrava davvero impossibile che
quella sera di tanto tempo prima illuminata dal sole e l’odierna alba di
dicembre si fossero svolti sui medesimi metri quadrati di terra moscovita. La
vista dal colle, invece, appariva in egual modo lontana, e uguali erano anche le
anse del fiume, sottolineate dagli ultimi lampioni.
Poco tempo dopo quella sera, era partito in missione per l’estero. Al suo
ritorno gli avevano dato da scrivere, ma in pratica quasi soltanto da firmare, un
articolo di giornale sulla corruzione dell’Occidente, della sua società, della
morale, della cultura, sulla situazione laggiù disastrosa per gli intellettuali,
sull’impossibilità di sviluppo per la scienza. Non era la verità assoluta, ma non
sembrava neppure del tutto una menzogna. Quei fatti erano reali, ma c’era
anche dell’altro. Lui non era iscritto al partito, l’avevano convocato in sezione e
avevano insistito molto. Esitando Jakonov avrebbe potuto attirare sospetti,
macchiare la propria reputazione. Del resto, a chi poteva nuocere un articolo
del genere?
L’articolo era stato pubblicato.
Agnija gli aveva restituito l’anello tramite pacco postale, legandovi con un
filo un foglietto: “Al metropolita Kirill.”
Lui si era sentito sollevato.

Si alzò e, raggiunta lentamente una finestrella della galleria, sbirciò dentro. Si


avvertiva un odore di mattoni umidi, di freddo e di marcio. Riuscì a scorgere
confusamente cumuli di pietre in frantumi e spazzatura anche all’interno.
Jakonov si staccò dalla finestrella e, sentendo rallentare il battito del suo
cuore, si addossò allo stipite della porta di ferro arrugginita che non veniva
aperta ormai da molti anni.
La minaccia di Abakumov si era insinuata di nuovo dentro di lui sotto
forma di un gelido orrore.
Jakonov si trovava all’apice del potere visibile. Era il più alto in grado di un
ministero potentissimo. Era intelligente, brillante, e famoso per essere
intelligente e brillante. A casa lo attendeva una moglie amorosa. Le sue
bambine dormivano, rosee, nei loro lettini. Il suo incredibile appartamento in
un vecchio edificio di Mosca era formato da ampie stanze con balcone. Lo
stipendio mensile ammontava a migliaia di rubli. Una Pobeda personale
aspettava una sua telefonata.
Ora stava in piedi, appoggiato con i gomiti alle pietre morte, e non aveva più
voglia di vivere. Sentiva nell’anima una disperazione tale che gli mancava
persino la forza per muovere un braccio o una gamba.
Albeggiava.
C’era una solenne purezza nell’aria ghiacciata. Un’abbondante e fitta brina
ricopriva il larghissimo ceppo di una quercia tagliata, i cornicioni della chiesa
semidistrutta, le decorazioni delle inferriate alle finestre, le tubature che
scendevano verso la vicina casetta, e il bordo della palizzata che, in basso,
contornava il cantiere del futuro grattacielo77.

76 Dalle Cronache di Leopoli, 1532 circa.


77 Ci si riferisce a una delle cosiddette “Sette sorelle”, grattacieli identici costruiti in vari punti della città.
26
A SEGARE LA LEGNA

Albeggiava.
Una generosa e solenne brina ricopriva le colonne della zona e dell’antizona, il
filo spinato intrecciato in venti file e piegato in migliaia di asterischi, il tetto
della vedetta inclinato e l’erbaccia non falciata del terreno abbandonato al di là
del filo spinato.
Dmitrij Sologdin ammirava quel miracolo con occhi per nulla velati. Stava
accanto al cavalletto per segare la legna. Sopra la tuta blu indossava una giubba
imbottita del campo di lavoro, la testa, con la prima canizie dei capelli,
scoperta. Era un misero schiavo senza diritti. Aveva già scontato dodici anni,
ma a causa di una seconda condanna non si intravedeva la fine della sua
reclusione. Sua moglie aveva consumato la giovinezza in una sterile attesa. Per
non essere licenziata anche dall’ultimo lavoro, come era già successo per i
precedenti, aveva mentito, dichiarando di non avere marito, e aveva smesso di
scrivergli. Sologdin non aveva mai visto il suo unico figlio: al momento
dell’arresto la moglie era incinta. Aveva attraversato le foreste di Čerdynsk, le
miniere di Vorkuta e due istruttorie – una di sei mesi e l’altra di un anno – in
cui era stato privato del sonno, delle forze e della linfa vitale. Il suo nome e il
suo futuro erano stati calpestati nel fango ormai da tempo. Le sue proprietà –
un paio di pantaloni imbottiti usati e una giacca da lavoro in tela catramata – si
trovavano nel magazzino in attesa di tempi peggiori. Riceveva trenta rubli al
mese, sufficienti per tre chili di zucchero, e mai in contanti. Poteva respirare
aria pura soltanto nelle ore stabilite, quelle autorizzate dalla direzione del
carcere.
E la sua anima godeva di una calma incrollabile. I suoi occhi scintillavano
come quelli di un ragazzo. Il petto, spalancato al gelo, si sollevava nella
pienezza del suo essere.

I muscoli, che durante l’istruttoria si erano trasformati in secche cordicelle,


apparivano di nuovo turgidi, ben sviluppati, esigevano movimento. Per questo
ogni mattina, di buona lena, Sologdin usciva a spaccare e a segare la legna per
la cucina della prigione, senza riceverne alcun compenso.
Tuttavia, essendo l’ascia e la sega armi pericolose nelle mani di uno zek, non
gli erano state affidate subito e con facilità. La direzione del carcere, pagata per
subodorare slealtà nelle azioni più innocenti degli zek, o magari perché
giudicava in base a sé stessa, non era riuscita a credere che un uomo accettasse
volontariamente di lavorare gratis. Per questo sospettavano con insistenza che
Sologdin stesse organizzando la fuga o una rivolta armata, tanto più che nel
suo fascicolo carcerario c’era traccia di entrambe le cose. Era stata stabilita la
seguente disposizione: mettere un secondino a cinque passi da Sologdin
quando questi si trovava al lavoro, perché ne seguisse ogni movimento
mantenendosi però fuori portata dell’ascia. I secondini erano disponibili a
svolgere quel servizio pericoloso, e alla direzione del carcere, educata secondo
le buone usanze del GULAG, non pareva oneroso avere un sorvegliante per ogni
uomo al lavoro. Sologdin, però, si era intestardito (aggravando ulteriormente i
sospetti su di lui): aveva dichiarato senza indugio che in presenza di un
girachiavi non avrebbe lavorato. Per un po’ di tempo, quindi, nessuno aveva più
spaccato legna (il capo della prigione non poteva costringere gli zek a una
simile attività, non si trovavano in un campo di lavoro: gli zek si occupavano di
lavoro intellettuale e non dipendevano dal suo ministero). Il problema vero era
che gli organi di pianificazione e l’ufficio contabilità non avevano previsto la
necessità di quel lavoro per la cucina. Le donne assunte per preparare da
mangiare agli zek non accettavano di spaccare la legna, dato che non ricevevano
un extra per quell’attività. Fu fatto il tentativo di impiegare i secondini per quel
lavoro, strappandoli alle partite di domino nella stanza delle guardie durante il
turno di riposo. Erano tutti dei pezzi di giovanotti, ragazzi scelti rigidamente
in base allo stato di salute. Ma durante gli anni di servizio nel corpo di
sorveglianza avevano come disimparato a lavorare: la schiena aveva cominciato
subito a dolere e il domino li chiamava a sé. Mai che riuscissero a fornire la
quantità di legna necessaria. Così il capo della prigione aveva finito per
arrendersi, autorizzando Sologdin e gli altri reclusi pronti ad aggiungersi a lui
(soprattutto Neržin e Rubin) a segare e a spaccare legna senza sorveglianza
aggiuntiva. Del resto, ai secondini era stato ordinato di non perderli d’occhio e
dalla torretta ce li avevano a portata di mano.
Nell’oscurità che si andava dissolvendo, in cui la luce sempre più pallida dei
lampioni si fondeva con quella del giorno, da dietro l’angolo dell’edificio
apparve la figura tonda dello spazzino Spiridon, in testa il colbacco con i
paraorecchi permesso solo a lui e indosso la giubba imbottita. Anche lo
spazzino era uno zek ma dipendeva dal capo dell’istituto, non dal carcere, e
affilava le seghe e le asce per la prigione soltanto per non dover discutere.
Mentre Spiridon si avvicinava, Sologdin notò che aveva in mano la sega che
non avevano trovato più al suo posto.
Nel cortile difeso dalle mitragliatrici Spiridon Egorov poteva circolare senza
scorta in qualsiasi momento, dalla sveglia alla ritirata. I capi si permettevano un
simile azzardo anche perché Spiridon da un occhio era del tutto cieco, mentre
dall’altro ci vedeva solo per tre decimi. Sebbene alla šaraška, il cui cortile era
formato da vari cortili collegati insieme per una superficie totale di tre ettari,
spettassero di diritto tre spazzini, Spiridon, che di questo era all’oscuro,
affrontava da solo le difficoltà di tutti e tre, eppure non se la passava male.
L’importante era mangiare a sazietà, non meno di un chilo e mezzo di pane
nero, perché di pane ce n’era in abbondanza, e lui in più aveva la kaša che gli
cedevano i ragazzi. Spiridon si era visibilmente arrotondato e ammorbidito
rispetto a quando stava al SevUralLag, dove si era preso cura di molte migliaia
di tronchi: tre inverni al taglio del bosco e tre primavere alla fluitazione del
legname.
– Allora! Spiridon! – lo apostrofò Sologdin con impazienza.
– Che c’è?
Il viso di Spiridon, con i baffi biondo-grigio, le sopracciglia biondo-grigio e
la pelle rossastra, era vispo e aveva la risposta pronta, come in quel momento.
Sologdin non sapeva che in Spiridon quella prontezza esagerata era solo una
presa in giro.
– Come che c’è? La sega non taglia!
– Perché non dovrebbe tagliare? – si stupì Spiridon. – Quante volte ha avuto
da ridire in questo inverno!... E va bene, facciamo una prova!
E porse la sega a Sologdin tenendola per una delle due impugnature.
Si misero a segare. La sega uscì fuori taglio un paio di volte cambiando
posto, come se non si trovasse a proprio agio, per poi assestarsi e riprendere il
via.
– La tiene con troppa forza – commentò Spiridon con cautela. – Provi a
stringere l’impugnatura con tre dita, come se tenesse una penna, e lasci che si
muova da sola, dolcemente... ecco... su-su!... Quando la tira dalla sua parte,
niente strappi...
Entrambi si ritenevano nettamente superiori all’altro: Sologdin per le sue
conoscenze di meccanica teorica, resistenza dei materiali e di molte altre
scienze; Spiridon perché le cose gli obbedivano. Sologdin tuttavia non
nascondeva la propria accondiscendenza verso lo spazzino, mentre Spiridon
celava la propria verso l’ingegnere.
La sega evitò di incepparsi persino quando passò al centro del grosso tronco,
continuando a procedere tintinnando e proiettando sbuffi di trucioli di pino
giallastri sui pantaloni di entrambe le tute.
Sologdin scoppiò a ridere.
– Ma sei un mago, Spiridon! Mi hai imbrogliato. Hai affilato la sega ieri e ora
è a posto.
Soddisfatto, Spiridon rispose a ritmo con la sega.
– Per mangiare mangia, mastica per bene, non inghiotte e lo dà agli altri...78
– E, spingendo in basso con la mano, staccò il ceppo segato in parte. – Non
l’ho affilata affatto – disse, rivolgendo il taglio della sega verso l’ingegnere. –
Guardi i denti: tali e quali a ieri.
Sologdin si chinò verso i denti della sega e in effetti non vi notò limature
fresche. Quel furfante, tuttavia, qualcosa doveva aver fatto.
– Va bene, Spiridon, su, metti un altro ceppo.
– No-o. – Spiridon si portò una mano alla schiena. – Sono sfinito. Mi è
toccato anche quello che non hanno lavorato i miei nonni e i miei bisnonni.
Tanto adesso arriveranno i suoi amici.
Gli amici, però, non si vedevano.
Era già giorno fatto. Cominciava un sontuoso mattino carico di brina. Ne
erano ornate persino le tubature di scolo e la terra intera, e in lontananza, nel
cortiletto per la passeggiata, le sue grigie ciocche decoravano le cime dei tigli.
– Ehi, Spiridon, tu come sei finito alla šaraška? – domandò Sologdin,
fissando lo spazzino.
Era un modo come un altro per passare il tempo. Nei diversi anni trascorsi
nel campo Sologdin aveva bazzicato soltanto detenuti istruiti, senza pensare di
poter ottenere qualcosa di prezioso anche da persone di cultura inferiore.
– Eh già – disse Spiridon, facendo schioccare le labbra. – Nel vostro gruppo
hanno radunato tutte persone colte, eppure sotto il giogo con voi ci sono
anch’io. Sulla mia scheda hanno scritto ‘soffiatore di vetro’. In effetti, nella
nostra fabbrica dalle parti di Brjansk lavoravo davvero come operaio soffiatore.
Ma è accaduto tanto tempo fa, ora non ho più un occhio e un mestiere simile
qui non è adatto: gli sarebbe servito un soffiatore esperto, come Ivan. Un altro
come lui in tutta la nostra vetreria non c’era. Ma in base alla scheda hanno
preso me. Poi però si sono accorti com’ero e volevano rimandarmi indietro.
Devo ringraziare il comandante se m’hanno tenuto come spazzino.
Da dietro l’angolo, dal lato del cortile della passeggiata e dell’edificio isolato
a un piano della “direzione del carcere”, sbucò Neržin. Camminava con la tuta
sbottonata, la giubba imbottita gettata con negligenza sulle spalle, al collo
l’asciugamano in dotazione (così corto da essere quadrato).
– Buon mattino, amici – li salutò, scandendo le parole, e continuando a
camminare si abbassò la tuta fino alla cintura, per poi togliersi la camicia.
– Glebčik, sei impazzito, dov’è che vedi la neve? – lo guardò male Sologdin.
– Quassù – rispose cupo Neržin, arrampicandosi sul tetto della costruzione
adibita a deposito. C’era uno strato di qualcosa di leggermente lanuginoso
rimasto intatto, una via di mezzo fra neve e brina; Neržin ne raccolse un po’ a
manciate per frizionarsi con cura il petto, la schiena e i fianchi. Da tutto
l’inverno si strofinava con la neve sino alla cintura, nonostante i sorveglianti
che gli capitavano vicino glielo vietassero.
– Guarda come sei sudato – scosse la testa Spiridon.
– Ancora niente lettere, Spiridon Danilyč? – ribatté Neržin.
– Come no!
– Perché non me l’hai portata da leggere? Tutto a posto?
– La lettera è arrivata, ma non la posso ritirare. Ce l’ha il Serpente.
– Myšin? Non te la dà? – Neržin smise di frizionarsi.
– Ero nell’elenco che ha appeso, ma poi il comandante mi ha assegnato al
riordino della soffitta. Quando ho finito, il Serpente aveva smesso di ricevere.
Adesso bisogna aspettare lunedì.
– Ma tu guarda che canaglie! – sospirò Neržin, digrignando i denti.
– A giudicare il pope ci pensa il diavolo – rispose Spiridon, con un gesto di
rassegnazione, guardando di sbieco Sologdin, che conosceva poco. – Be’, io
vado.
E con il suo colbacco, i paraorecchi che ricadevano buffamente ai lati come
le orecchie di un cane pastore, Spiridon si avviò in direzione del corpo di
guardia, dove tutti gli altri zek non potevano entrare.
– E l’ascia? Spiridon! Dov’è l’ascia? – gli gridò dietro Sologdin,
ricordandosene all’improvviso.
– La porterà il sorvegliante di turno – rispose Spiridon e scomparve.
– Be’, a quanto pare, – disse Neržin, che si strofinava forte il petto e la
schiena usando la pezzuola a nido d’ape – Anton non è soddisfatto di me. Dice
che tratto il Sette come ‘il cadavere di un ubriacone sotto il muro di cinta di
Marfino’. Proprio ieri sera mi ha offerto di passare al gruppo crittografico, ma
ho rifiutato.
Sologdin scosse la testa con un ghigno di disapprovazione. Tra i baffi
biondo chiaro, appena incanutiti e accuratamente tagliati, e la barba uguale,
scintillavano i denti sani, bianchi come perle, indenni dalla carie ma diradati da
una forza esterna.
– Tu non ti comporti come un calcolatore, ma come un cantore.
Neržin non si stupì: erano le parole che sostituivano “matematico” e
“poeta” nel celebre e stravagante modo di esprimersi di Sologdin, il cosiddetto
Linguaggio dell’Estrema Chiarezza, in cui non si usavano parole “da uccelli”,
ossia di origine straniera.
Così, mezzo nudo, massaggiandosi piano con il piccolo asciugamano,
senz’allegria Neržin disse:
– Sì, non mi si addice. Ma all’improvviso è diventato tutto così nauseante
che mi è passata la voglia. Se deve essere la Siberia, Siberia sia... ammetto con
rammarico che Lëvka ha ragione, non riesco a essere un vero scettico. È
evidente che lo scetticismo non è solo un sistema di idee, c’entra molto il
carattere. Mentre a me viene sempre voglia di immischiarmi nelle cose. E a
volte persino... darle sul muso a qualcuno.
Sologdin si appoggiò al cavalletto più comodamente.
– Questo mi rallegra molto, amico mio. Il tuo dubbio aggravato (che nel
Linguaggio dell’Apparente Chiarezza equivaleva a “scetticismo”) era inevitabile
lungo il percorso dal... veleno satanico (intendeva “marxismo”, non sapeva con
cosa sostituirlo in russo) alla luce della verità. Non sei più un ragazzo
(Sologdin era più vecchio di lui di sei anni) e devi formarti spiritualmente,
capire la relazione fra il bene e il male nella vita umana. Devi scegliere.
Sologdin guardò Neržin con aria solenne, ma questi non aveva intenzione di
vederci chiaro, di scegliere fra il bene e il male proprio in quel momento.
Indossata la camicia che gli stava piccola e rinfilate le braccia nella tuta, Neržin
replicò:
– E perché in una dichiarazione così importante non mi rammenti pure che
la ragione è debole e ciascuno di noi è ‘fonte di errori’? – E, come se fosse la
prima volta, alzò la testa di scatto e guardò l’amico: – Senti, sei... nella ‘luce
della verità’ eppure sostieni che ‘la prostituzione è un bene morale’? Che
Dantès aveva il diritto di sfidare Puškin a duello?
Sologdin scoprì la serie incompleta di denti lunghi e arrotondati in un
sorriso soddisfatto.
– Ma ho difeso bene queste posizioni, no?
– Certo, ma perché rimanessero in una sola scatola cranica, in un solo
petto...
– Così è la vita, fattene una ragione. Lo ammetto, sono un uovo di legno
smontabile. Dentro di me ho nove sfere79.
– Sfera è una parola da uccelli!
– Sono colpevole. Vedi quanta poca inventiva mi è rimasta? Dentro di me
ho nove... globi. È raro che mostri i miei globi interni. Non dimenticare che
viviamo a carte coperte. Tutta la nostra vita è un gioco a carte coperte! Ci
hanno costretto. E comunque le persone, in generale, sono più complicate di
quanto appaiano nei romanzi. Gli scrittori cercano di spiegarcele fino in fondo,
ma nella vita reale non si conoscono mai fino in fondo. Per questo amo
Dostoevskij: Stavrogin! Svidrigajlov! Kirillov! Che tipo di persone sono? Più le
conosci, meno le capisci.
– Stavrogin in che libro è?
– Nei Demoni! Non l’hai letto? – si meravigliò Sologdin. Neržin si mise al
collo a mo’ di sciarpa l’asciugamano a nido d’ape, troppo corto e bagnaticcio, e
in testa si calcò il vecchio berretto da ufficiale con le cuciture sul punto di
cedere.
– I demoni...? La mia generazione...? Ma figurati! E dove potevamo prenderlo?
È letteratura controrivoluzionaria! Troppo pericoloso! – Indossò anche la
giubba. – In generale però non sono d’accordo con te. Quando un nuovo
arrivato varca la soglia della cella e tu dal pancaccio ti pieghi sopra di lui e lo
squadri, in quel momento non lo giudichi forse in modo sommario fin dal
primo istante, non decidi subito se è un nemico o un amico? Io non ho mai
sbagliato, pazzesco! E tu dici che è difficilissimo capire un uomo? Noi, come ci
siamo conosciuti? Tu sei arrivato alla šaraška quando il lavandino era ancora
sulla scala principale, te lo ricordi?
– Be’, sì.
– Quella mattina sono sceso e mi sono messo a fischiettare un motivetto
leggero. Tu eri lì nella penombra ad asciugarti, hai sollevato il viso
dall’asciugamano. Sono rimasto di stucco! Sembrava il viso di un’icona! Poi ti
ho guardato meglio e avevi ben poco del santo, non voglio adularti...
Sologdin scoppiò a ridere.
– ...Il tuo non è un viso mite, ma particolare... ho sentito subito di potermi
fidare, così dopo cinque minuti ero già lì che ti raccontavo tutto...
– La tua temerarietà mi ha colpito.
– Un uomo con occhi come i tuoi non può essere uno spione!
– Brutta cosa se mi si comprende così facilmente. Nel campo di lavoro
bisogna mostrarsi ordinari.
– Quel giorno, dopo aver ascoltato tutte le tue rivelazioni evangeliche, ho
buttato lì una domandina...
– ...alla Karamazov.
– Ah, te lo ricordi! Che fare con quelli della mala? E tu, cosa hai risposto?
Che vanno fucilati! Eh?
Anche adesso Neržin guardava Sologdin come se volesse dargli la possibilità
di ritrattare.
Ma gli occhi azzurri di Dmitrij Sologdin erano limpidi. Incrociate le mani
sul petto in modo pittoresco – una posizione che gli piaceva molto – con fare
solenne disse:
– Amico mio! Trasformano il cristianesimo in una confessione di castrati
solo coloro che lo vogliono rovinare. Ma il cristianesimo è la fede degli spiriti
forti. Noi dobbiamo avere il coraggio di vedere il male nel mondo e sradicarlo.
Aspetta, finirai davanti a Dio anche tu. Il tuo ‘non-credo-a-niente’ non è
terreno fertile per un uomo d’intelletto, è povertà dell’anima.
Neržin sospirò.
– Lo sai, non mi rifiuto affatto di riconoscere un Creatore del Mondo, una
sorta di Somma Ragione dell’universo. E lo sento persino, se vuoi. Ma se
scoprissi sul serio che Dio non esiste, sarei forse meno morale?
– Senz’altro!!
– Non penso. E perché vuoi per forza... perché volete riconoscere sempre,
immancabilmente, non un Dio in generale, ma quello cristiano, la sua essenza
trina, l’immacolata concezione... Vacillerebbe forse la mia fede, il mio deismo
filosofico, se scoprissi che non è accaduto nemmeno uno dei miracoli del
Vangelo? Affatto!
Sologdin sollevò la mano con aria severa, il dito proteso.
– Non c’è altra strada! Se dubiti anche di un solo dogma di fede o di una
sola parola delle Scritture, tutto è perduto!! Diventi un senzadio!
Sferzò l’aria con la mano, come se impugnasse una sciabola.
– È così che vi inimicate la gente! O tutto o nulla! Nessun compromesso,
nessuna indulgenza. E se io non potessi accettare tutto quanto? Cosa potrei
proporre? Con che cosa potrei proteggermi? Te lo ripeto: io so soltanto che
non so niente.
L’apprendista di Socrate prese la sega e porse l’altra impugnatura a Sologdin.
– D’accordo, non sono cose da discutere quando si fa la legna – convenne
quello.
Cominciavano già ad avere freddo, così si misero a segare allegramente. La
sega sprizzava polvere marrone dalla corteccia. Non lavorava così spedito come
con Spiridon, ma era agevole lo stesso. I due amici avevano segato in coppia
per molte mattine e svolgevano quell’attività di buon accordo. Segavano con
quel particolare zelo e quel piacere che solo un lavoro cui non sei costretto e
per il quale non sei mosso dal bisogno sa darti.
Solo al quarto taglio Sologdin, acceso in viso, brontolò:
– Speriamo di non incontrare un nodo...
E dopo il quarto ceppo Neržin borbottò:
– Era pieno di nodi, il maledetto.
A ogni fruscio della sega trucioli odorosi un po’ bianchi un po’ gialli
cadevano sui pantaloni e sugli stivali dei due lavoratori. Quel ritmo cadenzato
infondeva calma e permetteva di riorganizzare i pensieri.
Neržin, che quella mattina si era alzato di cattivo umore, in quel momento
pensava che i campi di lavoro erano riusciti a tramortirlo solo il primo anno,
che adesso lui era di tutt’altro spirito, non si sarebbe dato da fare per diventare
un balordo, non avrebbe avuto paura dei lavori comuni; conscio di cosa era
davvero importante nella vita, al mattino, con la giubba imbottita sporca di
intonaco o di masut, si sarebbe unito piano alla sua squadra allo scopo di tirarla
per le lunghe per tutta la giornata di dodici ore, e così nei cinque anni che gli
rimanevano al termine della condanna. Cinque anni non erano dieci. Per cinque
anni uno poteva sopravvivere. Purché ricordasse di continuo a sé stesso: la
prigione non è solo una maledizione, può essere anche una benedizione.
Così rifletteva, tirando a sé la sega. E non avrebbe mai potuto immaginare
che il suo compagno di fatica, mentre tirava dalla propria parte, vedesse la
prigione solo come a una maledizione, dalla quale era necessario prima o poi
cavarsi fuori.
Sologdin pensava ora al grande successo che gli avrebbe permesso di
ottenere la libertà, un successo raggiunto negli ultimi mesi in gran segreto, con
il suo lavoro per lo Stato. Avrebbe avuto il responso definitivo dopo la
colazione ed era certo che sarebbe stato positivo. Con un impeto d’orgoglio
pensava al proprio cervello impoverito da tanti anni di istruttorie e di fame,
tanti anni privato di fosforo, eppure capace di cavarsela in quell’importante
compito da ingegnere! Com’è evidente negli uomini attorno ai quarant’anni lo
slancio delle energie vitali! Soprattutto quando il surplus delle energie del loro
corpo non è indirizzato alla procreazione ma si trasforma misteriosamente in
idee grandiose.

78 Vecchio indovinello russo: “Mangia in fretta e mastica per bene, non inghiotte e lo dà agli altri. Che
cos’è?”, “La sega!”.
79 Come le nove sfere celesti del Paradiso dantesco.
27
UN PO’ DI METODOLOGIA

E mentre loro continuavano a segare, con i corpi accaldati, i visi roventi, le


giubbe imbottite già buttate sui tronchi, i ceppi che formavano un bel mucchio
accanto al cavalletto, l’ascia non era ancora arrivata.
– Non pensi che basti? – domandò Neržin. – Poi non ce la facciamo a
spaccarla.
– Riposiamoci – acconsentì Sologdin, e mise da parte la sega, con la lama
che oscillava vibrando.
Entrambi si levarono dalla testa i berretti. Dai folti capelli di Neržin e da
quelli sempre più radi di Sologdin si sollevò del vapore. Respiravano
profondamente. L’aria sembrava penetrargli dentro, negli angoli più stantii
delle viscere.
– Ma se adesso ti spediscono al campo, – domandò Sologdin – che ne sarà
del tuo lavoro sulla Nuova Epoca dei Torbidi? (Intendeva la rivoluzione.)
– E perché? Non mi viziano neppure qui. Conservare anche solo una riga mi
fa rischiare la cella sia qui che là. Non ho accesso alla biblioteca pubblica
nemmeno ora. Non mi lasceranno entrare negli archivi finché campo. Quanto
alla carta, troverò corteccia di betulla o abete anche nella taiga. E comunque,
nessuna perquisizione mi potrà mai togliere la mia prerogativa: il dolore che ho
provato sulla mia pelle e che vedo negli altri potrà suggerirmi non poche
intuizioni riguardo alla storia. Eh? Non trovi?
– Me-ra-vi-glio-so!! – disse Sologdin, con un sospiro profondo. – Quindi,
qualcosa lo hai già capito. Quindi, per questo ti sei rifiutato di leggere prima,
per quindici anni, tutti i libri sull’argomento?
– In parte, sì... in parte, dove potevo prenderli?
– Niente ‘in parte’! – esclamò Sologdin, con sollecitudine. – L’importante è
l’idea, capiscilo!! – Sollevò di colpo la testa e le braccia. – Un’idea iniziale forte
determina il successo di ogni obiettivo! Deve essere un’idea tua! Dà frutti, come
un albero, soltanto se cresce in modo naturale. I libri e le opinioni altrui sono
forbici che tagliano la vita al tuo pensiero! Le idee vanno prima trovate da soli
e soltanto dopo controllate sui libri.
Sologdin guardò l’amico con occhio indagatore:
– Sei sempre convinto di metterti a leggere quei trenta volumetti rossi dalla
prima all’ultima riga?
– Sì! Capire Lenin è capire metà rivoluzione. Dove si è espresso meglio se
non nei suoi libri? E si trovano ovunque, in qualsiasi sala di lettura di
campagna.
Sologdin si incupì, indossò il cappello e si sedette in bilico sul cavalletto.
– Tu sei pazzo. Ti riempirai la testa di sciocchezze. E non concluderai mai
niente! È mio dovere metterti in guardia.
Anche Neržin prese il cappello dal cavalletto e si sedette sul mucchio di
ceppi.
– Sii degno della tua... scienza calcolatoria. Adotta il metodo dei punti
nodali. Come si analizza ogni fenomeno sconosciuto? Come si scopre ogni
curva non tracciata? Tutto insieme? O seguendo i vari punti?
– È chiaro! – si affrettò Neržin, non amava dilungarsi troppo. – Si cercano
punti di rottura, punti di ritorno, estremi e infine sotto lo zero. La curva
dipende interamente da noi.
– Allora, perché non adattare questa cosa a un... personaggio esistito?! –
(“Storico”, tradusse per sé Neržin nel Linguaggio dell’Apparente Chiarezza.) –
Dài uno sguardo alla vita di Lenin, individua le principali interruzioni nella
gradualità, i bruschi cambi di direzione, e leggi solo ciò che riguarda quello.
Come si comportò in quei momenti? Guarda l’uomo. Il resto, per te, è del tutto
superfluo.
– Dunque, nel chiederti cosa bisognava fare con quelli della mala, senza
volerlo ho adattato a te il metodo dei punti nodali?
Un ghigno evasivo fece socchiudere a Sologdin le palpebre sugli occhi chiari.
Preoccupato, si gettò la giubba sulle spalle e si sistemò meglio sul cavalletto,
ma sedeva comunque scomodo.
– Glebčik, mi hai fatto venire l’ansia. Una tua partenza potrebbe essere
imminente. Ci separeremo. Uno di noi morirà. Oppure tutti e due. Riusciremo
a vedere il giorno in cui la gente potrà riunirsi e parlare liberamente? Mi
piacerebbe fare in tempo a condividere con te almeno... almeno qualche
conclusione sui modi per creare unità d’intenti, l’esecutore e il suo lavoro.
Potrebbero esserti utili. Ovviamente, mi ostacola molto il pessimo uso della
lingua, mi esprimo in modo davvero goffo...
Tipico di Sologdin! Prima di permettere che il suo pensiero brillasse, si
denigrava sempre.
– E la tua memoria è labile... – lo aiutò a sbrigarsi Neržin. – E sei un ‘otre di
errori’...
– Sì, sì, esatto – confermò Sologdin, con un sorriso fugace. – Dunque,
conoscendo la mia imperfezione, nei lunghi anni di carcere ho stabilito per me
queste regole, che stringono la libertà in un cerchio di ferro. Queste regole
sono una sorta di sguardo generale sul modo in cui accostarsi al lavoro.
“Metodica”, tradusse come al solito Neržin dal Linguaggio dell’Estrema
Chiarezza al Linguaggio della Apparente Chiarezza. Aveva le spalle congelate,
se le coprì anche lui con la giubba.
La luce del giorno sempre più decisa annunciava che di lì a breve avrebbero
dovuto abbandonare la legna e recarsi all’appello del mattino. In lontananza,
davanti al comando della prigione speciale, sotto il folto dei tigli di Marfino
magicamente imbiancati, si intravedevano i detenuti della passeggiata
mattutina. Fra loro spiccavano la figura dritta e magra del pittore cinquantenne
Kondrašëv-Ivanov e quella incurvata, ma pur sempre allampanata, di
Merzanov, ex architetto personale di Stalin, ora dimenticato. Si scorgeva anche
Lev Rubin che, svegliatosi in ritardo, adesso stava cercando di raggiungere il
“taglio della legna”, con il sorvegliante che non lo lasciava più passare: troppo
tardi.
– Guarda Lëvka, con la barba arruffata.
Si misero a ridere.
– Allora, ti va se ogni mattina ti comunico un paio di quelle regole?
– D’accordo, proviamoci!
– Be’, per esempio, come si affrontano le difficoltà?
– Non lasciandosi abbattere?
– Non è sufficiente.
Sologdin guardava oltre Neržin, oltre la zona, verso alcune piccole macchie
fitte ricoperte di brina appena sfiorate dal timido rosa dell’oriente: il sole era in
dubbio se mostrarsi o no. Il viso di Sologdin, concentrato, scarno, con la chiara
barbetta ricciuta e i chiari baffetti corti, ricordava in qualche modo quello di
Aleksandr Nevskij.
– Come affrontare le difficoltà? – sentenziò. – Nel campo dell’ignoto
bisogna guardare alle difficoltà come a un tesoro nascosto! Di solito, più una
cosa è difficile, più è utile. Ha meno valore quando le difficoltà nascono dalla
lotta con sé stessi. Quando invece vengono da un’opposizione sempre
maggiore da parte dell’oggetto, è fantastico!!
Una sorta di alba rosa balenò sul viso infervorato di Aleksandr Nevskij,
portando con sé il riflesso di difficoltà belle come il sole. – La via di analisi più
gratificante ha una resistenza esterna massima e una interna minima. Bisogna
considerare gli insuccessi come la necessità di impiegare un ulteriore sforzo e
concentrare la propria volontà. Se gli sforzi sono stati significativi, gli
insuccessi saranno più felici! Significa che con il piccone abbiamo colpito la
cassa di ferro del tesoro!! E il superamento di sempre maggiori difficoltà ha un
tale valore che gli insuccessi determinano nell’esecutore una crescita
commisurata alle difficoltà che ha incontrato!
– Ottimo! Forte! – commentò Neržin dai ceppi.
– Questo non significa che non dobbiamo mai rifiutarci di compiere altri
sforzi. Con il piccone potremmo aver colpito anche una pietra. Se siamo
convinti di questo, o per mezzi insufficienti o per un ambiente aspramente
ostile, si può rinnegare persino l’obiettivo stesso. L’importante però è motivare
in modo rigoroso il proprio rifiuto!
– Su questo... non mi trovi molto d’accordo – indugiò Neržin. – Esiste forse
un ambiente più ostile della prigione? In quale luogo abbiamo mezzi più
inadeguati? Eppure andiamo avanti. Rifiutarsi ora significherebbe rifiutarsi per
sempre.
Le sfumature dell’alba si erano appena spostate sugli arbusti e già venivano
spente da compatte nuvole grigie.
Come distogliendo gli occhi da tavole della legge che aveva appena letto,
Sologdin li posò distrattamente su Neržin. E di nuovo sembrò leggere, con
lieve cantilena:
– Ora ascolta: regola degli ultimi centimetri! La zona degli ultimi centimetri! Nel
Linguaggio dell’Estrema Chiarezza si capisce subito di cosa si tratta. Il lavoro è
quasi completato, lo scopo quasi raggiunto, tutto sembra compiuto e quasi
superato, ma la qualità non è affatto quella che dovrebbe essere! Servono ancora
correzioni, forse ricerche. In quell’attimo di stanchezza e di soddisfazione è
particolarmente allettante l’idea di abbandonare il lavoro senza aver raggiunto
l’apice della qualità. Il lavoro nella zona degli ultimi centimetri è molto, molto
complesso, ma anche di particolare pregio, giacché eseguito con i mezzi ideali!
La regola degli ultimi centimetri esiste proprio per non farti rinunciare a quel
lavoro! E a non rimandarlo, perché l’ordine di idee dell’esecutore lo spinge a
lasciare l’area degli ultimi centimetri! E non bisogna lesinare il tempo da
dedicargli, perché lo scopo non sta mai nel terminare al più presto, bensì nel
raggiungere la perfezione!!
– Be-ne! – mormorò Neržin.
Poi, con un tono assai diverso, rozzamente beffardo, Sologdin disse:
– Ma che fa, sottotenente? Non la riconosco più. Perché non ci ha portato
prima l’ascia? Ormai non abbiamo più tempo per spaccare la legna.
Con il suo viso di luna, Nadelašin era passato solo di recente da sergente
maggiore a sottotenente; dopo la sua promozione a ufficiale gli zek della
šaraška, riferendosi a lui con benevolenza, lo avevano ribattezzato il tenente
minore.
Sopraggiunto sgambettando e sbuffando in modo ridicolo, consegnò l’ascia,
sorrise con aria colpevole e subito rispose:
– No, Sologdin, la prego, la prego sul serio: continui a spaccare la legna! In
cucina non ce n’è più, non sanno come preparare il pranzo. Non si immagina
quanto lavoro ho anche senza di lei!
– Che co-sa? – scoppiò a ridere Neržin. – Lavoro? Sottotenente! Davvero lei
lavora?
L’ufficiale di turno rivolse il viso di luna a Neržin. Aggrottando la fronte,
recitò a memoria:
– ‘Il lavoro è il superamento di una resistenza.’ Se cammino veloce, supero la
resistenza dell’aria, dunque anch’io lavoro. – E avrebbe voluto restare
impassibile, ma un sorriso gli illuminò il volto quando, nell’aria leggermente
gelata, Sologdin e Neržin scoppiarono a ridere all’unisono. – Perciò spaccate la
legna, vi prego!
E, voltatosi, si avviò sempre sgambettando verso il comando della prigione
speciale, dove proprio in quel momento si stava precipitando in pastrano
l’attillata figura del suo superiore, il tenente colonnello Kliment’ev.
– Glebčik – si meravigliò Sologdin. – Ci vedo bene? È Klimentiadis? (Era
l’anno in cui i giornali avevano scritto molto di quei detenuti greci che dalle
loro celle telegrafavano a tutti i parlamenti e all’ONU raccontando delle
persecuzioni patite. Alla šaraška, dove i carcerati non potevano mandare
cartoline nemmeno alle mogli, figurarsi ai parlamenti stranieri, era diventata
un’abitudine modificare alla greca i nomi dei capi del carcere: Myšinopulo,
Klimentiadis, Šikinidi.) Che ci fa qui Klimentiadis di domenica?
– Come, non lo sai? Sei di noi vanno al parlatorio.
Neržin se ne rammentò e il suo animo, che durante la legna del mattino si
era rasserenato, fu pervaso dall’amarezza. Era trascorso quasi un anno dal suo
ultimo colloquio; otto mesi da quando aveva presentato domanda, eppure non
gli veniva negato né concesso. Fra l’altro, una delle ragioni era che, per non
nuocere al dottorato di ricerca della moglie, Neržin non ne aveva fornito
l’indirizzo al pensionato studentesco ma uno di fermoposta, e il carcere non
voleva spedire lettere fermoposta. Grazie alla sua profonda vita interiore,
Neržin era libero dal sentimento dell’invidia: non lo turbavano né la paga né
l’alimentazione degli altri, gli zek più degni. Ma quell’ingiustizia riguardo ai
colloqui, che alcuni vi si recassero ogni due mesi mentre la sua vulnerabile
moglie si aggirava sospirando sotto le mura della fortezza carceraria, lo
lacerava.
Inoltre quel giorno era il suo compleanno.
– Vanno al parlatorio... Già... – Li invidiò amaramente anche Sologdin. – Gli
spioni vengono portati al colloquio ogni mese. Mentre io non rivedrò la mia
Ninočka mai più...
(Sologdin non usava l’espressione “fino al termine della pena”, perché gli era
stato fatto capire che la sua, probabilmente, non sarebbe mai giunta alla fine.)
Guardò Kliment’ev entrare nel comando dopo essersi trattenuto con
Nadelašin.
E, all’improvviso, d’un fiato disse:
– Gleb! Tua moglie conosce la mia. Se vai a colloquio, cerca di chiedere a
Nadja di rintracciare Ninočka e di riferirle da parte mia soltanto tre cose
(guardò verso il cielo): la amo! la adoro! la venero!
– Ma se me l’hanno rifiutato un’altra volta! Che dici? – si stizzì Neržin,
mentre si ingegnava a spaccare un ceppo.
– Ehi, guarda un po’!
Neržin si voltò. Il tenente minore veniva verso di loro e in lontananza gli
faceva cenno con un dito di avvicinarsi. Gleb abbandonò l’ascia e, dopo aver
urtato con la giubba la sega, che appoggiata al cavalletto cadde con un
tintinnio, si mise a correre come un ragazzino.
Sologdin seguì con lo sguardo il tenente minore che accompagnava Neržin
nel locale del comando; poi sistemò il ceppo in verticale e sferrò un colpo con
un’esasperazione tale che l’ascia non si limitò a spaccare la legna, ma si conficcò
nel terreno.
Del resto, era un’ascia dello Stato.
28
IL LAVORO DEL TENENTE MINORE

Citando la definizione di lavoro del manuale scolastico di fisica, il sottotenente


Nadelašin non aveva mentito. Sebbene lo impegnasse soltanto dodici ore ogni
due giorni, il suo era un lavoro complicato, fatto di corse su e giù per i piani e
impegnativo al massimo grado.
Quella notte gli era capitato un turno di guardia particolarmente difficile.
Aveva fatto giusto in tempo a entrare in servizio alle nove di sera, controllare
che tutti i detenuti, duecentottantuno teste, fossero presenti, assegnare il lavoro
serale e disporre i posti di guardia (sul pianerottolo, nel corridoio del comando
e una pattuglia sotto le finestre della prigione speciale) quando una chiamata
dell’oper maggiore Myšin, che ancora non era andato a casa, l’aveva distolto
dalla distribuzione del pasto al nuovo gruppo di prigionieri e dalla loro
sistemazione.
Nadelašin era un uomo straordinario non soltanto rispetto agli altri
carcerieri (o, come li chiamavano adesso, lavoratori carcerari), ma in generale
anche rispetto ai suoi connazionali. In un paese in cui la parola “vodka” quasi
non si distingue da “acqua”80, Nadelašin non ne beveva nemmeno con il
raffreddore. In un paese in cui un uomo su due aveva frequentato l’accademia
delle imprecazioni del campo di lavoro o del fronte, in cui le bestemmie più
volgari vengono usate senza complimenti non soltanto dagli ubriachi in
presenza di bambini (e dai bambini nei loro giochi d’infanzia), non soltanto
salendo sull’autobus extraurbano, ma anche in conversazioni intime, Nadelašin
non era capace né di imprecare né di usare parole come “diavolo” e “canaglia”.
L’unico detto che utilizzava da arrabbiato era: “Che ti incornasse un toro!”, e
spesso nemmeno ad alta voce.
Così anche in quel momento, dopo essersi detto “Che ti incornasse un
toro!”, era corso subito dal maggiore.
L’oper Myšin, che Bobynin parlando con il ministro definiva ingiustamente
mangiaufo, era un maggiore penosamente obeso, dal volto violaceo, rimasto a
lavorare quella sera di sabato per circostanze straordinarie, e aveva assegnato a
Nadelašin il seguente compito:
– controllare se fossero cominciati i festeggiamenti per il Natale tedesco e
lettone;
– registrare a gruppi tutti quelli che festeggiavano il Natale;
– spiare personalmente, e tramite i sorveglianti semplici, inviati allo scopo
ogni dieci minuti, che i reclusi non bevessero vino, sentire che cosa dicevano e,
soprattutto, che non facessero propaganda antisovietica;
– se possibile, trovare qualche infrazione del regolamento carcerario e
interrompere quell’indecente baldoria religiosa.
Non veniva detto “interrompere”, ma “se possibile interrompere”.
Accogliere in pace il Natale non era un atto apertamente vietato, tuttavia il
cuore di partito del compagno Myšin non riusciva a sopportarlo.
Con la sua imperturbabile faccia da luna invernale, il sottotenente Nadelašin
aveva ricordato al maggiore che né lui né tanto meno i suoi sorveglianti
conoscevano il tedesco e il lettone (conoscevano maluccio pure il russo).
Myšin si era ricordato come persino lui, in quattro anni di servizio da
commissario di una compagnia addetta a un campo di prigionieri di guerra
tedeschi, della loro lingua avesse imparato soltanto tre parole: “Halt!”,
“Zurück!” e “Weg!”, e aveva accorciato le istruzioni.
Ricevuto l’ordine ed eseguito in modo maldestro il saluto militare (ogni
tanto li obbligavano a fare anche formazione militare), Nadelašin si era diretto
a sistemare i nuovi arrivati, cosa per cui aveva ottenuto anche un elenco
dall’oper: a quale stanza ognuno di loro era assegnato, e a quale branda. (Myšin
dava grande importanza alla distribuzione centralizzata e programmata dei
posti nel dormitorio del carcere, dove i suoi informatori erano sparpagliati in
modo uniforme. Sapeva che i discorsi più sinceri non si svolgevano nella fretta
del lavoro diurno, ma prima di dormire; che le dichiarazioni antisovietiche più
cupe capitavano al mattino, ragion per cui era particolarmente importante
spiare le persone vicino ai loro letti.)
Poi Nadelašin era passato almeno una volta in ciascuna delle stanze in cui si
stava festeggiando il Natale, come per calcolare i watt delle lampadine che vi
erano appese. In ciascuna stanza aveva fatto passare una volta anche il
sorvegliante. E registrato tutti in un piccolo elenco.
Poi il maggiore Myšin lo aveva chiamato di nuovo e Nadelašin gli aveva
consegnato il suo elenco. Myšin aveva trovato interessante soprattutto la
presenza di Rubin dai tedeschi. Aveva inserito anche questo fatto nel fascicolo.
Poi era arrivato il momento di dare il cambio alle sentinelle e di
raccapezzarsi nella discussione di due sorveglianti: a chi di loro era toccato il
turno più lungo la volta precedente e a chi toccasse ora.
Poi era giunta l’ora della ritirata, di una disputa con Prjančikov riguardo
all’acqua calda, del giro di tutte le celle, di spegnere la luce bianca e accendere
quella blu. A quel punto era stato chiamato un’altra volta a rapporto dal
maggiore Myšin, il quale non si decideva a tornare a casa (a casa c’era la moglie
malata e non gli andava di ascoltare le sue lamentele per tutta la sera). Il
maggiore Myšin era seduto in poltrona, con Nadelašin costretto a rimanere in
piedi mentre gli domandava con chi, in base a quanto da lui osservato, si
intrattenesse Rubin e se nell’ultima settimana non avesse parlato con aria di
sfida dell’amministrazione carceraria o espresso qualche richiesta a nome della
massa.
Nadelašin occupava una posizione particolare tra i suoi colleghi, gli ufficiali
dell’MGB, i capi dei turni di guardia. Veniva sgridato molto e spesso. La sua
bontà innata gli aveva impedito a lungo di prestare servizio negli Organi. Se
non avesse avuto la capacità di adattarsi, sarebbe stato espulso chissà da quanto
tempo o persino condannato. Cedendo a una naturale inclinazione, non era mai
rude con i detenuti, sorrideva loro con sincera bonarietà e per le piccolezze, se
poteva lasciar correre, lasciava correre. Per questo i detenuti gli volevano bene,
non si lamentavano mai di lui, non gli si opponevano e, in sua presenza, non si
limitavano nei discorsi. Ma lui era vigile, sempre in ascolto e abbastanza
istruito; annotava tutto su un apposito taccuino, pronto a riferirne il contenuto
ai superiori, coprendo così le proprie mancanze nel servizio.
E anche in quel momento prese il suo taccuino e comunicò al maggiore che
il diciassette dicembre i detenuti stavano tornando tutti assieme dalla
passeggiata dell’ora di pranzo per il corridoio del piano inferiore, con
Nadelašin che li seguiva passo passo; brontolavano che il giorno dopo sarebbe
stata domenica, non avrebbero ottenuto dai capi il permesso alla passeggiata,
così Rubin aveva detto: “Ma quando lo capirete, ragazzi, che è impossibile
impietosire quei farabutti?”
– Ha detto proprio ‘farabutti’? – Il viso livido di Myšin si era illuminato.
– Ha detto proprio così – aveva confermato, con un sorriso mite, il viso di
luna di Nadelašin.
Myšin aveva aperto di nuovo il fascicolo, annotato, e ordinato anche di
redigere un resoconto separato.
Il maggiore Myšin odiava Rubin e raccoglieva materiale per diffamarlo.
Assunto l’incarico a Marfino e scoperto che Rubin, un ex comunista, si vantava
dappertutto di essere rimasto tale nell’animo nonostante la prigione, Myšin
l’aveva chiamato a colloquio per parlare della vita in generale e del lavoro
congiunto in particolare. Ma non si erano capiti. Myšin aveva posto la questione a
Rubin esattamente come raccomandato alle riunioni direttive:
– se lei è un uomo sovietico, allora ci aiuterà;
– se lei non ci aiuterà, allora non è un uomo sovietico;
– se lei non è un uomo sovietico, allora è antisovietico e merita una seconda
condanna.
Ma Rubin aveva domandato: “Con che cosa vanno scritte queste delazioni:
con l’inchiostro o con la matita?” “Meglio con l’inchiostro” aveva consigliato
Myšin. “Io la mia fedeltà al potere sovietico l’ho già dimostrata con il sangue,
non ho bisogno di farlo anche con l’inchiostro.”
E così Rubin aveva rivelato al maggiore tutta la sua falsità e la sua
doppiezza.
Il maggiore l’aveva convocato un’altra volta. Allora Rubin, da sfacciato
simulatore qual era, aveva usato come pretesto che se lo avevano chiuso in
prigione significava che non gli davano fiducia politica, e finché era così lui non
poteva svolgere un lavoro congiunto con l’oper.
Da quel momento Myšin se l’era legata al dito e raccoglieva su di lui tutto
ciò che poteva.
La conversazione fra il maggiore e il sottotenente non era ancora terminata
quando all’improvviso dal Ministero della Sicurezza di Stato un’autovettura era
arrivata a prendere Bobynin. Sfruttando una coincidenza tanto fortunata,
Myšin si era precipitato fuori con la sola giubba, si era incollato alla macchina
e, dopo aver invitato l’ufficiale di scorta a entrare nel comando a riscaldarsi e
avergli fatto notare che lui restava lì tutte le notti, aveva cacciato e spintonato
via in fretta Nadelašin; poi a ogni buon conto aveva domandato a Bobynin se si
fosse coperto a dovere (per il viaggio Bobynin si era messo di proposito non il
cappotto buono che gli era stato assegnato alla šaraška, ma la lacera giubba
imbottita del campo).
Partito Bobynin, era stato subito chiamato Prjančikov. A quel punto il
maggiore non avrebbe proprio potuto andare a casa! Aspettandosi nuove
chiamate, e in attesa del ritorno dei convocati, per ingannare il tempo era
andato a controllare come trascorressero il turno di riposo i sorveglianti
(giocavano a domino) e si era messo a interrogarli sulla storia del partito (era
responsabile del loro livello politico). Sebbene in quel momento fossero da
considerarsi al lavoro, i sorveglianti rispondevano alle domande del maggiore
con legittima riluttanza. Davano risposte proprio pietose: non solo quei soldati
non sapevano nominare un’opera qualsiasi di Lenin o di Stalin, ma sostenevano
persino che Plechanov era stato un ministro dello zar e aveva sparato sugli
operai di Pietroburgo il 9 gennaio del 1905. Di tutto questo Myšin
rimproverava Nadelašin, che lasciava troppo libero il suo gruppo.
Poi Bobynin e Prjančikov erano tornati insieme con una sola macchina e,
non volendo raccontare nulla al maggiore, erano filati a dormire. Deluso, ma
ancor più preoccupato, il maggiore aveva utilizzato quella macchina pur di non
tornare a casa a piedi: gli autobus ormai non circolavano.
I sorveglianti liberi dal turno di guardia avevano imprecato alle spalle del
maggiore ed erano sul punto di coricarsi; anche Nadelašin avrebbe voluto
schiacciare un pisolino, ma niente da fare: era arrivata una chiamata dal locale
delle guardie della scorta che prestavano servizio sulle torrette intorno
all’impianto di Marfino. Il capo delle guardie, molto agitato, gli aveva
raccontato della telefonata da parte di una sentinella sulla torretta all’angolo
sud-ovest. Nella nebbia sempre più fitta la guardia aveva visto chiaramente
qualcuno acquattarsi all’angolo della baracca per la legna, tentare di strisciare in
direzione del filo spinato dell’antizona e, spaventato al suo richiamo, scappare
verso il fondo del cortile. Aveva riferito inoltre che intendeva telefonare subito
al comando del suo reggimento e scrivere un rapporto su quel fatto incredibile,
ma intanto pregava l’ufficiale di turno della prigione speciale di organizzare un
rastrellamento nel cortile.
Sebbene Nadelašin avesse la ferma convinzione che la sentinella si fosse
immaginato tutto e che i detenuti fossero al sicuro dietro le nuove porte di
ferro delle solide mura antiche di quattro file di mattoni, il solo fatto che il
capo delle guardie scrivesse un rapporto costringeva anche lui ad agire con
decisione e a presentare un proprio rapporto adeguato. Per questo aveva dato
l’allarme alle guardie del turno di riposo e con le lampade a petrolio le aveva
guidate attraverso il grande cortile avvolto nella nebbia. Poi era passato di
nuovo personalmente in tutte le celle e, guardandosi bene dall’accendere la luce
bianca (perché non ci fossero lamentele inutili), ma vedendoci di conseguenza
non abbastanza con quella blu, tanto da sbattere forte un ginocchio contro
l’angolo di un letto, aveva illuminato con una piccola torcia elettrica le teste dei
detenuti addormentati e li aveva ricontati: duecentottantuno.
Allora si era recato in ufficio e, con una calligrafia tonda e chiara, che
rispecchiava la trasparenza della sua anima, aveva compilato un rapporto
sull’accaduto indirizzato al capo della prigione speciale, il tenente colonnello
Kliment’ev.
E ormai si era fatto giorno, era giunto il momento di controllare la cucina,
procedere a un assaggio e dare la sveglia.
Così era trascorsa la notte del sottotenente Nadelašin, che aveva tutte le
ragioni per dire a Neržin che lui il pane se lo guadagnava.
Nadelašin aveva superato da un pezzo i trenta ma appariva più giovane
grazie alla freschezza del viso senza baffi e senza barba.
Il nonno di Nadelašin e suo padre erano sarti, non di lusso ma capaci,
servivano gente di livello medio, non disdegnavano neppure di rivoltare abiti,
adattare il vestito di una persona più grande a una più piccola o effettuare
riparazioni rapide. A quell’attività avevano avviato anche lui. Era un lavoro
calmo e affabile al quale si era preparato osservando e aiutando gli altri e che
fin da bambino gli era piaciuto. Verso la fine della NEP però, era successa una
cosa. Avevano recapitato l’imposta annuale al padre: l’aveva pagata. Dopo due
giorni gliene era stata recapitata una seconda, sempre annuale: il padre aveva
pagato anche quella. Con totale spudoratezza, a due giorni di distanza gliene
avevano recapitata una terza, triplicata. Il padre allora aveva strappato la
licenza, tolto l’insegna ed era entrato in una cooperativa. Poco dopo il figlio era
stato chiamato nell’esercito, da lì andò a finire nelle truppe dell’MVD e in
seguito fra i sorveglianti.
Nel servizio non si era dimostrato brillante. In quattordici anni di lavoro gli
altri sorveglianti delle tre o quattro ondate successive lo avevano raggiunto e
superato di continuo; alcuni adesso erano già capitani, mentre lui aveva
ricevuto la prima stelletta solo da un mese.
Nadelašin capiva molto più di quanto esprimesse ad alta voce. Capiva
persino che quei detenuti, cui erano negati i diritti umani, gli erano in realtà
spesso superiori. Inoltre, per la caratteristica che ogni uomo ha di immaginare
gli altri simili a sé, Nadelašin non poteva raffigurarsi i carcerati come i
sanguinari malfattori che venivano dipinti, tutti, dal primo all’ultimo, durante
le lezioni di Educazione politica.
Con precisione ancora maggiore rispetto a quando gli era tornata in mente
la definizione di “lavoro” imparata al corso di fisica della scuola serale,
ricordava ogni meandro dei cinque corridoi del carcere della Bolšaja Lubjanka
e l’interno di ognuna delle sue centodieci celle. In base al regolamento della
Lubjanka i sorveglianti venivano cambiati ogni due ore, passando da una parte
del corridoio a un’altra (si faceva per precauzione, in modo che non
familiarizzassero con i detenuti, non fossero da loro persuasi o corrotti; del
resto i sorveglianti venivano pagati più degli insegnanti e degli ingegneri).
Ciascun sorvegliante era obbligato a dare un’occhiata nello spioncino non
meno di una volta ogni tre minuti. Grazie alla sua straordinaria memoria per i
volti, Nadelašin aveva l’impressione di ricordare tutti i detenuti del suo piano
dal 1935 al 1947 (anno in cui dalla Lubjanka era stato trasferito a Marfino), dal
primo all’ultimo, sia i capi famosi come Bucharin sia i semplici ufficiali del
fronte come Neržin. Era convinto che avrebbe potuto riconoscere per strada
chiunque di loro, comunque fosse vestito; ma per strada loro non tornavano
mai. Soltanto lì a Marfino si era imbattuto in alcuni dei suoi vecchi carcerati,
ovviamente senza far capire loro di averli riconosciuti. Li ricordava intontiti
dalla mancanza di sonno forzata, nei box larghi un metro quadrato, con la luce
abbagliante; intenti a tagliare con un filo la razione di pane umido di
quattrocento grammi; immersi nei bei libri antichi dei quali abbondava la
biblioteca del carcere; scortati in fila indiana a fare i bisogni; con le mani dietro
la schiena quando venivano chiamati all’interrogatorio; più allegri nei discorsi
l’ultima mezz’ora prima della ritirata; coricati nelle notti invernali sotto la luce
abbagliante, le braccia fuori dalle coperte avvolte negli asciugamani perché si
riscaldassero un po’ (il regolamento esigeva che si svegliasse chi ficcava le
braccia sotto le coperte per costringerlo a tirarle fuori).
Nadelašin amava soprattutto ascoltare le discussioni e i discorsi degli
accademici con le barbe bianche, dei preti, dei vecchi bolscevichi, dei generali e
dei buffi stranieri. Gli toccava origliare per ragioni di servizio, ma ascoltava
anche per sé stesso. Gli sarebbe piaciuto – ma a causa dei suoi obblighi di
servizio non ci riusciva mai – ascoltare senza interruzioni il racconto di
qualcuno dall’inizio alla fine: come vivesse prima e per quale motivo l’avessero
messo dentro. Era colpito che, nei terribili mesi di brusca trasformazione della
loro vita, nei quali si decideva la loro sorte, quegli uomini trovassero il
coraggio di parlare non delle loro sofferenze, bensì di qualsiasi cosa capitasse:
dei pittori italiani, delle abitudini delle api, della caccia al lupo oppure di come
costruiva le case un certo Corbusier, che tra l’altro non le costruiva per loro.
Una volta a Nadelašin era capitato di ascoltare una conversazione che lo
aveva interessato in modo particolare. Era seduto su un corvo, nella cella
posteriore della scorta, e accompagnava dei carcerati chiusi all’interno. Li
stavano trasportando dalla Bolšaja Lubjanka alla dacia di Suchanovka, una tetra
prigione moscovita che non dava via di scampo, dalla quale molti uscivano solo
per finire nella tomba o al manicomio. Nadelašin non ci lavorava, ma aveva
sentito dire che là davano da mangiare con raffinata crudeltà: ai carcerati non
preparavano come dappertutto cibo rozzo e pesante, ma facevano arrivare dal
vicino centro di riposo un tenero pasto fragrante. La tortura consisteva nelle
porzioni: al recluso portavano mezzo piattino di brodo, un ottavo di polpetta,
due trucioli di patate arrosto. Non lo nutrivano, gli ricordavano ciò che aveva
perso. Era molto più estenuante della scodella di brodaglia senza niente dentro
e anche quello aiutava ad andare fuori di testa.
Durante il trasporto era successo che nel furgone quei due carcerati non
fossero stati divisi, ma lasciati insieme, chissà perché. All’inizio, a causa del
rumore del motore, Nadelašin non aveva sentito che cosa si dicessero. Ma poi il
furgone aveva avuto un guasto, l’autista se n’era andato chissà dove, mentre
l’ufficiale era rimasto seduto nella cabina di guida. Nadelašin aveva sentito la
conversazione a bassa voce fra i due carcerati attraverso l’inferriata dello
sportello posteriore. Criticavano aspramente il governo e lo zar, ma non
l’attuale e Stalin: criticavano... l’imperatore Pietro il Grande. Che male aveva
fatto? Qualunque fosse la ragione, lo stavano conciando per le feste. Uno dei
due, fra l’altro, criticava Pietro per aver storpiato e amputato il costume
popolare russo e reso in tal modo il suo popolo uguale agli altri. Quel detenuto
enumerava nel dettaglio tutti gli abiti di allora, che aspetto avessero, in quali
casi si indossassero. Secondo lui non era troppo tardi per riportare in vita
singole parti di quegli abiti, combinandole in modo comodo e decoroso con i
vestiti contemporanei; e bisognava smetterla di copiare ciecamente Parigi.
L’altro detenuto, scherzando – erano ancora capaci di scherzare! – aveva detto
che per fare una cosa del genere sarebbero servite due persone: un sarto
geniale, capace di combinare quegli abiti, e un tenore alla moda, disposto a
indossarli e a farsi fotografare, dopodiché tutta la Russia si sarebbe adeguata in
fretta.
Quella conversazione aveva interessato Nadelašin in modo particolare: il
lavoro sartoriale era rimasto una sua passione segreta. Dopo turni in corridoi
infuocati di follia, il fruscio della stoffa, l’arrendevolezza delle pieghe, la
bonarietà di quell’attività riuscivano a calmarlo.
Cuciva per i bambini, cuciva abiti alla moglie e completi per sé. Solo che lo
teneva nascosto.
Per un militare, era cosa di cui vergognarsi.

80 In russo “acqua” si dice voda.


29
IL LAVORO DEL TENENTE COLONNELLO

Il tenente colonnello Kliment’ev aveva capelli, come si suol dire, color della
pece, di un nero brillante, divisi dalla scriminatura, che gli scendevano lisci,
come colati sulla testa, e che parevano congiungersi ai baffi rotondi. Non aveva
la pancia e a quarantacinque anni sembrava un militare giovane e snello. Inoltre
in servizio non sorrideva mai e questo rafforzava la nera cupezza del suo viso.
Sebbene fosse domenica, era arrivato persino prima del solito. Aveva
attraversato il cortile nel pieno della passeggiata dei detenuti, notandovi le
manchevolezze con mezza occhiata; ma per non compromettere il proprio
grado non si era immischiato ed era entrato nell’edificio del comando della
prigione speciale, ordinando subito a Nadelašin, l’ufficiale di turno, di chiamare
il detenuto Neržin e di presentarsi a rapporto con lui. Mentre attraversava il
cortile il tenente colonnello aveva prestato particolare attenzione al modo in
cui i detenuti, vedendolo, cercassero alcuni di camminare più in fretta, altri di
rallentare, di voltarsi pur di non capitargli davanti e non doverlo salutare.
Kliment’ev l’aveva notato con freddezza, senza offendersi. Sapeva che si
trattava solo in parte di vero disprezzo per la sua carica, quanto piuttosto
imbarazzo davanti ai compagni, paura di apparire servizievoli. Quasi tutti quei
detenuti si comportavano in modo cordiale se convocati singolarmente nel suo
ufficio, alcuni persino con piaggeria. Dietro le sbarre si trovavano persone
differenti, dal valore differente. Kliment’ev lo aveva capito da tempo.
Rispettava il loro diritto di essere fieri, e conservava in modo inflessibile il suo
diritto di essere severo. Soldato nell’anima, aveva introdotto nel carcere, così
riteneva, non una disciplina oppressiva beffardamente ingiuriosa, ma una
disciplina militare ragionevole.
Entrò nell’ufficio. Dentro faceva caldo e i termosifoni emanavano un
pesante, sgradevole odore di vernice. Aperta la finestrella di ventilazione, il
tenente colonnello si tolse il cappotto, stretto nella giubba si accomodò alla
scrivania ed esaminò la superficie libera. Sul calendario, alla pagina non ancora
girata di sabato, c’era un appunto:
“Albero?”
Da quell’ufficio semivuoto, i cui mezzi di produzione erano soltanto un
armadio di ferro con i fascicoli dei detenuti, una mezza dozzina di sedie, un
telefono e i pulsanti dei campanelli, il tenente colonnello Kliment’ev dirigeva
con successo, senza frizioni evidenti, né di trazioni né di ingranaggi, il processo
esteriore di tre centinaia di vite incarcerate e quello di servizio di cinquanta
sorveglianti.
Sebbene fosse arrivato di domenica (poi avrebbe dovuto starsene a riposo in
un giorno feriale) e addirittura mezz’ora prima, Kliment’ev non aveva perso
l’abituale sangue freddo e la compostezza.
Il sottotenente Nadelašin si presentò titubante. Sulle guance gli erano
comparse due tonde macchie scarlatte. Temeva molto il tenente colonnello
Kliment’ev, benché questi non gli avesse mai macchiato le note personali,
nonostante le sue numerose negligenze. Buffo, con il viso tondo, per nulla
militare, Nadelašin si sforzava invano di restare sull’attenti.
Riferì che il turno di guardia della notte si era svolto in perfetto ordine, non
c’erano state irregolarità, solo due fatti insoliti: uno era esposto nel rapporto (lo
posò davanti a Kliment’ev su un angolo della scrivania, ma quello scivolò
subito giù, planando in una tortuosa curva sotto una sedia lontana. Nadelašin si
lanciò a raccoglierlo e lo riposò sulla scrivania); l’altro riguardava la chiamata
dei detenuti Bobynin e Prjančikov da parte del ministro della Sicurezza di
Stato.
Il tenente colonnello aggrottò le sopracciglia, volle sapere di più sulle
circostanze della convocazione e del rientro. La notizia, beninteso, era
spiacevole, persino inquietante. Essere a capo della Prigione speciale n. 1
significava stare seduti su un vulcano, perennemente sotto l’occhio del
ministro. Non si trattava di un qualsiasi campo di lavoro sperduto nella foresta
dove il direttore poteva mettere su un harem, avere giullari e, come un
feudatario, emanare sentenze. Lì bisognava dimostrarsi rispettosi della legge,
seguire alla lettera le disposizioni e non lasciarsi prendere né da un briciolo di
collera personale né da compassione. Ma Kliment’ev non era il tipo. Non
riteneva che quella notte Bobynin e Prjančikov potessero aver trovato nelle sue
azioni qualcosa di illegittimo di cui lamentarsi. La sua lunga esperienza di
servizio non gli faceva temere le calunnie dei detenuti. Erano i colleghi quelli
che potevano calunniare.
Così diede una scorsa al rapporto di Nadelašin e si rese conto che si trattava
solo di stupidaggini. Ecco perché si teneva quel Nadelašin: era un uomo
preparato e intelligente.
Ma quanti difetti aveva! Il tenente colonnello gli fece una lavata di capo.
Rammentò a Nadelašin nel dettaglio tutte le negligenze del turno di guardia
precedente: la chiamata mattutina al lavoro per i reclusi aveva subìto un ritardo
di due minuti; molte brande nelle celle erano state rassettate in modo
approssimativo e Nadelašin non aveva dato prova di fermezza richiamando dal
lavoro i detenuti responsabili e obbligandoli a rifare i letti. Questo gli era già
stato detto, ma parlare a Nadelašin era come parlare al muro. E poco prima,
alla passeggiata del mattino? Il giovane Doronin se ne stava immobile al limite
dell’area per la passeggiata a esaminare attentamente la zona e la distesa oltre la
zona, nella parte dove si trovava la serra: un terreno accidentato, con un piccolo
burrone, davvero molto comodo per un’evasione. Doronin aveva una condanna
a venticinque anni per falsificazione di documenti, e per due anni era stato
ricercato dalla polizia in tutta l’Urss! Nessuna delle guardie aveva intimato a
Doronin di camminare in cerchio, non poteva stare fermo. E Gerasimovič dove
passeggiava? Staccato da tutti, avanzava dietro i grandi tigli in direzione delle
officine meccaniche. E che diceva il fascicolo di Gerasimovič? Stava scontando la
sua seconda condanna, in base al “58.1.a in aggiunta all’articolo 19”, vale a dire
intenzione di tradire la patria. Non aveva tradito, ma non era nemmeno
riuscito a dimostrare di non essersi recato a Leningrado nei primi giorni della
guerra per aspettare i tedeschi. Nadelašin si era forse dimenticato che bisognava
studiare costantemente i detenuti sia per osservazione diretta sia in base ai casi
personali? Infine, come si presentava Nadelašin? La giubba militare non era in
ordine (Nadelašin l’aggiustò), la stelletta sul berretto era storta (Nadelašin la
sistemò), e faceva il saluto come una femminuccia... C’era allora da stupirsi se
durante il turno di guardia di Nadelašin i detenuti non rifacevano a dovere le
brande? Le brande rassettate male rappresentavano una crepa pericolosa nella
disciplina della prigione. Oggi non rifacevano bene le brande, domani si
sarebbero ribellati rifiutandosi di andare al lavoro.
Poi il tenente colonnello passò agli ordini: riunire i sorveglianti assegnati ai
colloqui nella terza stanza per le disposizioni; che il detenuto Neržin sostasse
ancora nel corridoio; Nadelašin poteva andare.
Nadelašin ne uscì cotto. Quando ascoltava i superiori, ogni volta si
affliggeva sinceramente per la fondatezza di tutti i rimproveri e le
raccomandazioni, e si riprometteva di non infrangerli più. Ma non appena
tornava al lavoro, si scontrava di nuovo con le decine di volontà dei reclusi, i
quali tiravano tutti in direzioni diverse, ognuno desideroso di un pezzettino di
libertà; Nadelašin non glielo poteva rifiutare e si augurava: magari nessuno ci fa
caso.
Kliment’ev afferrò la penna e cancellò l’appunto “Albero?” sul calendario.
Aveva preso la decisione il giorno precedente.
Nelle prigioni speciali nessuno aveva mai addobbato un albero per
Capodanno. Alcuni reclusi, reclusi di una certa autorevolezza, avevano chiesto
quell’anno più di una volta con tenacia di poterlo fare. E Kliment’ev aveva
cominciato a domandarsi perché, sul serio, non avrebbe dovuto autorizzarli.
Era chiaro che un albero non avrebbe causato problemi, nessun incendio: lì
dentro erano tutti professori in elettricità. Era invece molto importante creare
un clima più distensivo la sera dell’ultimo dell’anno, quando gli impiegati liberi
dell’istituto se ne andavano a Mosca a divertirsi. Sapeva che le vigilie di festa
erano le più pesanti per i detenuti; qualcuno avrebbe potuto decidersi a
compiere un atto temerario o insensato. E il giorno precedente aveva
telefonato alla Direzione Carceraria da cui dipendeva in modo diretto, per
mettersi d’accordo sull’albero. Nelle disposizioni si leggeva che erano vietati gli
strumenti musicali, ma non avevano trovato nulla a proposito degli alberi di
Capodanno, così non avevano acconsentito, senza però neppure proibirlo
apertamente. Il servizio lungo e irreprensibile del tenente colonnello
Kliment’ev dava solidità e sicurezza alle sue azioni. Aveva già deciso la sera
prima, sulle scale mobili della metropolitana, mentre stava ritornando a casa: va
bene, l’albero si faccia!
E salendo nel vagone della metropolitana aveva pensato con piacere a sé
stesso, che era proprio un uomo intelligente ed esperto, non un imbrattacarte,
una brava persona, ma i detenuti questo non l’avrebbero mai apprezzato, né
avrebbero mai saputo chi non voleva concedere loro l’albero e chi invece glielo
aveva concesso.
In ogni caso Kliment’ev si era sentito bene per la decisione presa. Non si era
affrettato a salire sul vagone con gli altri moscoviti, era entrato per ultimo,
prima che chiudessero le porte, e non aveva cercato di sedersi ma si era
aggrappato a un sostegno e guardava la propria immagine coraggiosa riflessa
indistintamente nel vetro del finestrino, oltre il quale sfrecciavano la nera
oscurità del tunnel e infiniti tubi e cavi. Poi aveva diretto lo sguardo su una
giovane donna seduta lì accanto. Era vestita con cura, ma a buon mercato: una
pelliccia nera di astrakan sintetico e un berrettino uguale. Teneva posata sulle
ginocchia una cartella piena zeppa. Kliment’ev l’aveva guardata e si era
ritrovato a pensare che la donna aveva un viso gradevole ma sfinito, e uno
sguardo insolito per una giovane, che non esprimeva alcun interesse verso
quanto la circondava.
Proprio in quell’istante la donna aveva rivolto lo sguardo dalla sua parte, e si
erano osservati per il tempo in cui di solito si incrociano senza espressione gli
sguardi di compagni di viaggio occasionali. In quella frazione di secondo gli
occhi della donna si erano allarmati, come se dentro vi balenasse una domanda
inquieta e incerta. Kliment’ev, che data la professione aveva buona memoria per
i visi, aveva riconosciuto la donna e non aveva fatto in tempo a nasconderlo; lei
aveva colto la sua titubanza, ottenendo così conferma alla propria intuizione.
Era la moglie del detenuto Neržin, Kliment’ev l’aveva vista ai colloqui nella
prigione della Taganka.
Lei si era incupita, aveva distolto lo sguardo, per poi lanciargli di nuovo
un’occhiata. Lui stava già guardando verso il tunnel, ma con la coda dell’occhio
si era accorto che lei lo fissava. La donna si era alzata con decisione per
avanzare verso di lui, tanto da costringerlo a voltarsi di nuovo dalla sua parte.
Si era alzata con decisione, ma una volta in piedi aveva perso la sua
risolutezza. Aveva perso l’indipendenza di giovane donna autonoma che
viaggia in metropolitana, e con la sua pesante cartella sembrava quasi voler
cedere il posto al tenente colonnello. Su di lei gravava la tragica sorte di tutte le
mogli dei detenuti politici, vale a dire le mogli dei nemici del popolo: a chiunque si
rivolgessero, in qualunque luogo andassero, dove fosse noto il loro sfortunato
matrimonio, si trascinavano dietro l’indelebile infamia dei mariti, agli occhi di
tutti condividevano il peso della colpa del perfido malfattore al quale un tempo
avevano incautamente affidato la propria sorte. E queste donne cominciavano a
sentirsi realmente colpevoli, come non si sentivano nemmeno gli stessi nemici
del popolo, i loro mariti, che tanto avevano subìto.
La donna si avvicinò in modo che la sua voce non venisse coperta dal
fragore del treno, e domandò:
– Compagno tenente colonnello! La prego moltissimo di scusarmi! È lei... il
capo di mio marito? O mi sbaglio?
Nei molti anni del suo servizio come ufficiale carcerario, tante donne di ogni
genere si erano alzate ed erano rimaste in piedi davanti a Kliment’ev, eppure lui
non aveva mai visto nulla di straordinario in quei visi subordinati e timidi. Ma
lì, in metropolitana, sebbene lei avesse posto la sua domanda in modo molto
attento, agli occhi di tutti quella figura implorante pareva indecente.
– Perché si è alzata? Si sieda, si sieda, su – disse lui con imbarazzo,
afferrandola per una manica e cercando di farla riaccomodare.
– No, no, non importa! – si scostava la donna, fissando il tenente colonnello
con uno sguardo tenace, quasi fanatico. – Mi dica, perché per un anno intero
non... perché non posso vederlo? Quando me lo permetterete, me lo dica?
La coincidenza di quell’incontro era fortuita quanto colpire un granello di
sabbia con un altro granello a quaranta passi di distanza. Una settimana prima,
dalla Direzione Carceraria dell’MGB era giunta fra le altre cose anche
l’autorizzazione per lo zek Neržin di recarsi a colloquio con la moglie presso il
carcere di Lefortovo domenica 25 dicembre 1949. Ma a quella era allegata
anche una nota che vietava di spedirne l’avviso alla moglie tramite fermoposta,
come richiesto dal detenuto.
Neržin allora era stato chiamato e interrogato riguardo all’indirizzo della
moglie. Aveva borbottato che non lo conosceva. Abituato dai regolamenti
carcerari a non rivelare mai la verità ai detenuti, Kliment’ev non presupponeva
sincerità nemmeno da parte loro. Ovviamente Neržin conosceva l’indirizzo, ma
non lo voleva rivelare, ed era chiaro perché non voleva, per la stessa ragione
per cui la Direzione Carceraria non spediva nulla fermoposta: la notifica di un
colloquio concesso veniva mandata tramite cartolina. Con su scritto: “Siete
autorizzata a un colloquio con vostro marito presso la prigione xy.” Non
soltanto l’indirizzo della moglie veniva registrato presso l’MGB, il ministero si
adoperava perché fossero sempre di meno le donne desiderose di ricevere
quelle cartoline, per far sapere a tutti i vicini che erano le mogli di nemici del
popolo, in modo che quelle mogli fossero scoperte, isolate e si creasse intorno a
loro un’opinione pubblica sana. Proprio di questo avevano paura le mogli.
Quella di Neržin usava persino un altro cognome. Era chiaro che si
nascondeva dall’MGB. A quel punto Kliment’ev aveva detto a Neržin che il
colloquio non avrebbe avuto luogo. E non aveva mandato l’avviso.
Ora invece quella donna si era alzata in piedi e se ne stava lì davanti a lui in
modo così umiliante, sotto lo sguardo silenzioso delle persone che li
circondavano.
– Non si può scrivere fermoposta – aveva detto lui alzando la voce quel
tanto da permettere soltanto a lei di sentirlo in quel frastuono. – Bisogna
lasciare l’indirizzo personale.
– Ma io sto per partire! – aveva risposto la donna, con il volto adesso più
animato. – Fra poco partirò e non ho già più un indirizzo stabile. – Era ovvio
che stava mentendo.
L’idea di Kliment’ev era di scendere alla prima fermata, e se lei l’avesse
seguito spiegarle nell’atrio, dove c’era poca gente, che era inammissibile fare
discorsi del genere fuori dal servizio.
La moglie di quel nemico del popolo sembrava essersi persino dimenticata
della propria colpa inespiabile! Fissava negli occhi il tenente colonnello con
uno sguardo asciutto, intenso, supplichevole, fuori di sé. Kliment’ev era
rimasto colpito da quello sguardo: quale forza la incatenava con tanto
accanimento e disperazione a un uomo che non vedeva da anni e che poteva
solo rovinarle la vita?
– Ne ho assolutamente, assolutamente bisogno! – assicurava lei con gli occhi
spiritati, cogliendo un’esitazione sul viso di Kliment’ev.
Il tenente colonnello si era ricordato della carta custodita nella cassaforte
della prigione speciale. Secondo quel documento, in base allo sviluppo della
“Delibera sul Consolidamento delle Retrovie”, bisognava assestare un nuovo
colpo a quei parenti che si rifiutavano di fornire il proprio indirizzo. Il
maggiore Myšin aveva intenzione di dare comunicazione di quella carta ai
detenuti il lunedì successivo. Restava solo l’indomani o quella donna, se non
avesse fornito il proprio indirizzo, non avrebbe mai più rivisto il marito. Se
invece Kliment’ev l’avesse informata subito, formalmente non sarebbe stata
spedita alcuna notifica, nel registro non sarebbe figurato, e lei si sarebbe recata
al carcere di Lefortovo come per caso.
Il treno stava rallentando.
Tutti quei pensieri erano passati veloci nella testa del tenente colonnello
Kliment’ev. Conosceva il principale nemico dei detenuti: i detenuti stessi. E
conosceva il principale nemico di ogni donna: sé stessa. La gente non è capace
di tacere neanche se ne va di mezzo la propria salvezza. Durante la carriera gli
era già successo di dare prova di sciocca mitezza, di consentire qualcosa di non
autorizzato, e nessuno lo sarebbe mai venuto a scoprire se gli stessi che
avevano beneficiato di quell’indulgenza non si fossero ingegnati a spifferarla.
Neppure adesso si poteva manifestare condiscendenza!
Tuttavia, mentre il fragore del treno si attenuava e la stazione dai brillanti
marmi colorati era ormai in vista, Kliment’ev aveva detto alla donna:
– Le è stato concesso un colloquio. Si rechi domani mattina alle dieci... –
Non aveva detto “al carcere di Lefortovo” perché i passeggeri si stavano già
avvicinando alle porte e a loro.
– Conosce via Lefortovskij val?
– La conosco, la conosco – aveva annuito la donna, con gioia.
E i suoi occhi, poco prima asciutti, si erano riempiti di lacrime venute da
chissà dove.
Per proteggersi da quelle lacrime, dalla riconoscenza e da qualsiasi altra
chiacchiera, Kliment’ev era sceso sulla banchina per poi salire sul treno
successivo.
Lui per primo era meravigliato e infastidito di aver parlato così.

Il tenente colonnello aveva lasciato Neržin in attesa per un po’ nel corridoio
del comando del carcere, perché in generale era un detenuto insolente, che si
immischiava nelle leggi.
Il calcolo del colonnello era giusto: dopo una lunga attesa nel corridoio del
comando, Neržin non soltanto aveva perso la speranza di ottenere il colloquio
ma, abituato a ogni sorta di guai, si aspettava qualche brutta notizia.
Rimase oltremodo stupito quando venne a sapere che di lì a un’ora sarebbe
andato a colloquio con la moglie. In base al codice d’alta etica dei detenuti, da
loro stessi introdotto, non avrebbe dovuto manifestare né gioia né tanto meno
soddisfazione, ma con indifferenza farsi specificare per quale ora dovesse
tenersi pronto, e poi andarsene. Si riteneva necessario un simile
comportamento affinché i capi capissero meno l’anima del detenuto e non
riuscissero a valutare la misura delle loro azioni. Ma il passaggio era stato così
brusco, la gioia così grande, che Neržin non riuscì a trattenersi: si illuminò e
ringraziò di cuore il tenente colonnello.
Il tenente colonnello, al contrario, non mosse neanche un muscolo del viso.
E andò subito a istruire i sorveglianti che dovevano accompagnare i detenuti
ai colloqui.
Tra le disposizioni rientrava: ricordare l’importanza e la particolare
segretezza del loro impianto; precisare quanto fossero inveterati i criminali di
Stato che si recavano quel giorno a colloquio; chiarire che il loro unico tenace
disegno era di sfruttare il colloquio di quel giorno per trasmettere, attraverso le
mogli, direttamente agli Stati Uniti d’America, i segreti di Stato a loro
accessibili. (I sorveglianti non conoscevano neppure a grandi linee cosa si
elaborasse fra le mura dei laboratori e in loro si insinuava con facilità il sacro
terrore che un pezzetto di carta fatto uscire di lì potesse rovinare l’intera
nazione.) Seguiva poi l’elenco di tutti i possibili nascondigli nell’abbigliamento
e nelle scarpe, e dei metodi per scoprirli (i vestiti, del resto, venivano
consegnati ai detenuti soltanto un’ora prima del colloquio ed erano speciali, di
facciata). Attraverso un colloquio si appurava quanto saldamente i sorveglianti
avessero appreso le disposizioni circa la perquisizione; infine si esaminavano
nel dettaglio diversi esempi su quale piega avrebbe potuto prendere la
conversazione durante il colloquio, su come prestarvi ascolto e come
interrompere tutti gli argomenti non strettamente personali e familiari.
Il tenente colonnello Kliment’ev conosceva i regolamenti e amava l’ordine.
30
UN ROBOT PERPLESSO

Neržin, che nel buio corridoio del comando per poco non aveva mandato a
gambe all’aria il tenente minore Nadelašin, si precipitò al dormitorio della
prigione. Al collo gli ballonzolava ancora il corto asciugamano a nido d’ape.
Grazie a una sorprendente capacità umana, in Neržin tutto si era
trasformato in un attimo. Cinque minuti prima, quando si trovava ancora nel
corridoio in attesa di essere chiamato, i suoi trent’anni di vita gli erano
sembrati un’assurda e penosa catena di insuccessi dai quali non aveva la forza
di tirarsi fuori. E i principali fra questi errori erano stati: la partenza per la
guerra subito dopo il matrimonio, poi l’arresto e la separazione dalla moglie
per molti anni. Il loro amore gli sembrava chiaramente infausto, condannato a
essere vilipeso.
Ma ecco che gli era stato annunciato il colloquio per quel giorno stesso alle
dodici e i suoi trent’anni di vita gli erano apparsi sotto una luce nuova: una vita
tesa come una corda; una vita di cose piccole e grandi; una vita che passava da
un successo audace all’altro, dove i gradini più inattesi verso la meta erano la
partenza per la guerra, l’arresto e la separazione dalla moglie per molti anni.
All’apparenza infelice, Gleb, in segreto, in questa sua infelicità era felice. Se ne
abbeverava come a una fonte, scopriva persone e fatti che sulla terra in nessun
altro luogo si potevano scoprire, men che meno nella tranquilla e sazia
ristrettezza del focolare domestico. Fin da giovane aveva temuto soprattutto di
impantanarsi nella vita quotidiana. Come dice il proverbio: “Meglio affogare
nel mare che in una pozzanghera.”
E da sua moglie sarebbe tornato! Perché il legame delle loro anime era
indissolubile! Un colloquio! Proprio il giorno del suo compleanno! Proprio
dopo la conversazione del giorno prima con Anton! In seguito non gliene
avrebbero concessi più ma oggi quel colloquio era la cosa più importante di
tutte! I pensieri divampavano e saettavano come frecce infuocate: non
dimenticare questo! dille quest’altro! quello! e quell’altro ancora!
Entrò di corsa nella stanza semicircolare, dove i detenuti andavano avanti e
indietro, facendo chiasso, qualcuno tornava dalla colazione, qualcun altro era
diretto a lavarsi, mentre Valentulja, gettata indietro la coperta, sedeva in maglia
e mutandoni e, agitando le braccia e ridendo, raccontava del colloquio della
notte prima con un capo, che si era rivelato poi il ministro in persona!
Valentulja bisognava pur ascoltarlo! Era quell’attimo meraviglioso della vita in
cui qualcosa ti scoppia dentro la gabbia toracica facendola cantare, in cui
cent’anni ti sembrano pochi per fare tutto. Ma la colazione non si poteva
perdere: il destino del detenuto non regala sempre un evento come la
colazione. Inoltre il racconto di Valentulja stava già arrivando a una fine
ingloriosa: la stanza aveva pronunciato la sua condanna, che lui era un buffone
e un poveraccio perché non aveva parlato ad Abakumov dei bisogni impellenti
dei detenuti. Adesso Valentulja si ribellava, strillava, ma quattro o cinque
carnefici volontari gli stavano già tirando via i mutandoni e, in mezzo alle urla,
agli ululati e alle risate generali, lo facevano scappare per la stanza,
marchiandolo a cinturate e innaffiandolo con cucchiaiate di tè bollente.
Sulla branda inferiore del passaggio a raggiera verso la finestra centrale,
sotto la cuccetta di Neržin e di fronte a quella al momento vuota di Valentulja,
Andrej Andreevič Potapov beveva il suo tè mattutino. Osservava il
divertimento generale, ridendo fino alle lacrime, che si asciugava sotto gli
occhiali. Appena alzato Potapov aveva rifatto il suo letto in forma di rigido
parallelepipedo rettangolare. Adesso spalmava il pane con uno strato
sottilissimo di burro: non comprava nulla allo spaccio del carcere e inviava tutti
i soldi guadagnati alla sua “vecchia”. (Per i livelli della šaraška, lo pagavano
parecchio: centocinquanta rubli al mese, tre volte meno di una cameriera libera,
e soltanto perché era un esperto insostituibile che i capi tenevano in buona
considerazione.)
Neržin si tolse la giubba al volo mentre camminava, la gettò in alto sul suo
letto non ancora rifatto, salutò Potapov e corse a fare colazione senza
ascoltarne la risposta.
Potapov era l’ingegnere che aveva riconosciuto durante l’istruttoria, firmato
nel verbale, ribadito al tribunale di aver venduto personalmente ai tedeschi, e
per giunta a buon mercato, la primogenita dei piani quinquennali staliniani: la
centrale sul Dnepr, anche se questa era già stata fatta saltare in aria. E per quel
misfatto inconcepibile, che non aveva pari, solo grazie alla benevolenza di un
tribunale umano, Potapov era stato condannato in tutto a dieci anni di
reclusione e cinque di conseguente privazione dei diritti, quello che nel gergo
dei detenuti si chiamava “un deca e cinque sulle corna”.
Nessuno di quanti avevano conosciuto Potapov da giovane, tanto meno lui
stesso, si sarebbe mai sognato che, a quarant’anni suonati, sarebbe finito in
prigione per la politica. Gli amici lo definivano giustamente un robot. La vita
di Potapov era solo lavoro; lo infastidivano persino tre giorni di festa, e in tutta
la vita si era preso solo una vacanza, quando si era sposato. Gli altri anni non si
era mai trovato chi potesse sostituirlo e lui rinunciava volentieri alle ferie. Se
c’era penuria di pane, di verdure o di zucchero, quasi non si accorgeva di simili
fatti superficiali: faceva un altro buco nella cintura, stringeva un po’ e
continuava a occuparsi con vigore dell’unica cosa che lo interessasse al mondo,
le trasmissioni ad alta tensione. Scherzi a parte, aveva un’idea assai vaga degli
altri, di quanti non si occupavano di trasmissioni ad alta tensione. Quelli che
con le mani non creavano nulla ma si limitavano a gridare alle riunioni o a
scrivere sui giornali, Potapov non li considerava neppure persone. Aveva
diretto tutti i lavori di misurazione elettrica al Dneprostroj, e in quel cantiere si
era sposato; aveva gettato la vita della moglie, così come la propria,
nell’insaziabile falò del piano quinquennale.
Nel ’41 stavano già costruendo un’altra centrale elettrica. Potapov era ben
protetto dall’esercito. Tuttavia, scoperto che la centrale sul Dnepr, la creazione
della loro gioventù, era stata fatta saltare, aveva detto alla moglie:
– Katja! Bisogna proprio andare.
E lei gli aveva risposto:
– Sì, Andrjuša, vai.
E Potapov ci era andato – gli occhiali con tre diottrie in meno, la cintura
ritorta, la giubba tutta spiegazzata, la fondina vuota nonostante il quadratino
sulla mostrina81 – al secondo anno di una guerra ben organizzata ancora non
erano sufficienti le armi per gli ufficiali. Lo avevano fatto prigioniero intorno a
Kastornaja, in mezzo al fumo della segale che bruciava e alla canicola di luglio.
Era fuggito ma, prima di riuscire a raggiungere i suoi, era stato preso una
seconda volta. Era fuggito ancora, ma un gruppo di paracadutisti era sceso su
un campo aperto e lui era stato catturato per la terza volta.
Era passato attraverso i cannibaleschi lager tedeschi di Novograd-Volynsk e
di Częstochowa, dove mangiavano la corteccia degli alberi, l’erba e i compagni
morti. I tedeschi, all’improvviso, l’avevano tirato fuori da uno di quei lager e
portato a Berlino, dove un uomo (“dai modi gentili, ma una carogna”) che
parlava un ottimo russo gli aveva domandato se era davvero lui quell’ingegner
Potapov della centrale sul Dnepr. Sarebbe stato in grado, come prova, di
disegnare, diciamo, lo schema di collegamento di uno dei suoi generatori?
Lo schema era già stato pubblicato una volta e Potapov lo disegnò senza
esitare. In seguito lo raccontò lui stesso durante l’istruttoria, ma avrebbe fatto
meglio a non farlo.
Nel suo fascicolo figurava così: “Consegna di segreti sulla centrale
idroelettrica del Dnepr.”
Tuttavia nel fascicolo non era stato inserito un altro particolare: quel russo
sconosciuto, che aveva accertato così l’identità di Potapov, gli aveva proposto
di firmare una dichiarazione spontanea in cui si diceva pronto a ricostruire la
centrale del Dnepr, per ottenere subito in cambio la liberazione dal lager,
tessere alimentari, denaro e il lavoro che amava.
Di fronte all’allettante foglio che gli era stato proposto, sul suo viso da robot
pieno di rughe era balenata una pesante riflessione. Senza battersi il petto né
gridare parole fiere e neppure pretendere di diventare da morto un eroe
dell’Unione Sovietica, Potapov aveva risposto con modestia, nella sua parlata
meridionale:
– Deve capire che ho firmato un giuramento. Se firmassi anche qui, sarebbe
una contraddizione, no?
Così, con mitezza, senza gesti teatrali, Potapov aveva preferito la morte alla
prosperità.
– Che dire? Rispetto le sue convinzioni – aveva replicato quel russo
sconosciuto, per poi rispedire Potapov nel lager cannibalesco.
Ma quella cosa il tribunale sovietico non l’aveva tenuta in considerazione, si
era limitato a dargli dieci anni.
L’ingegner Markušev invece aveva firmato una dichiarazione simile ed era
andato a lavorare con i tedeschi. Il tribunale aveva dato anche a lui dieci anni.
Era la regola di Stalin! Una cieca equiparazione di amici e nemici che lo
faceva spiccare in tutta la storia dell’umanità!
E il tribunale non aveva preso in considerazione nemmeno che nel ’45, salito
su un carro armato sovietico come soldato da sbarco, sempre con quei suoi
occhiali leggermente incrinati e tenuti insieme con lo spago, Potapov era
entrato a Berlino, imbracciando il mitra.
E Potapov se l’era cavata con poco, beccandosi soltanto “un deca e cinque
sulle corna”.
Neržin tornò dalla colazione, si tolse le scarpe e si arrampicò in alto, facendo
oscillare insieme a lui anche Potapov. Stava per eseguire il suo quotidiano
esercizio acrobatico, rifare il letto senza pieghe stando ritto sulle gambe. Ma
appena sollevato il cuscino vi scoprì sotto un portasigarette di plastica
trasparente rosso scuro, riempito da uno strato di dodici Belomorkanal e
avvolto in una striscia di carta, sulla quale c’era scritto a mano, in stampatello:

Così, insomma, egli uccise dieci anni,


così perse il fiore più bello della vita.82
Non ci si poteva sbagliare. In tutta la šaraška solo Potapov combinava in sé la
capacità di fabbricare manufatti artistici e ricordare i versi dell’Evgenij Onegin
imparati ai tempi del ginnasio.
– Andreič! – Gleb fece penzolare la testa dalla branda.
Potapov aveva già finito di bere il tè, si era aperto un giornale e lo leggeva
evitando di sdraiarsi per non gualcire la branda.
– Be’, che c’è? – borbottò.
– Questo è opera sua?
– Non lo so. L’ha trovato lei? – Si sforzava di non sorridere.
– Andre-eič! – cantilenò Neržin.
Le rughe gioiosamente gentili del viso di Potapov si fecero più profonde,
aumentarono. Potapov si aggiustò gli occhiali e rispose:
– Quando mi trovavo alla Lubjanka nella stessa cella con il duca Esterházy, e
ovviamente io portavo fuori il bugliolo nei giorni pari e lui in quelli dispari, e
gli insegnavo il russo usando il ‘Regolamento del carcere’ appeso al muro, il
giorno del suo compleanno gli regalai tre bottoni fatti con il pane – glieli
avevano tagliati via tutti – e lui giurò di non aver mai ricevuto, neppure da uno
degli Asburgo, un regalo tanto provvidenziale.
In base alla “Classificazione delle voci” quella di Potapov si poteva definire
“sorda con crepitio”.
Continuando a tenere penzoloni la testa, Neržin guardava con fare
amichevole il viso rudemente scolpito di Potapov. Con gli occhiali non
sembrava più vecchio dei suoi quarantacinque anni e aveva ancora un aspetto
persino grintoso. Ma quando se li levava, gli comparivano profonde occhiaie
scure più simili a quelle di un morto.
– Ma così, Andreič, mi mette in imbarazzo. Io non potrò mai regalarle nulla
di simile, non ho le sue mani... Come ha fatto a ricordarsi del mio compleanno?
– Cucù! – rispose Potapov. – Quali altre date significative sono rimaste nella
nostra vita?
Sospirarono.
– Vuole un po’ di tè? – offrì Potapov. – È un infuso speciale.
– No, Andreič, non ho tempo per il tè, vado a colloquio.
– Grandioso! – si rallegrò Potapov. – Con la sua signora?
– Aha!
– E lei, Valentulja, non mi gridi proprio nelle orecchie!
– Che diritto ha un uomo di prendersi gioco di un altro?...
– Che cosa c’è sul giornale, Andreič? – domandò Neržin.
Socchiudendo gli occhi con furbizia ucraina, Potapov guardò in alto verso
Neržin penzoloni:

– Le favole della musa britannica


turbano il sonno dell’adolescenza.83
Questi sfacciati affermano che...
Erano passati più di tre anni da quando, due anni dopo la fine della guerra,
Neržin e Potapov si erano incontrati nel carcere della Butyrka in una cella
rintronante, irrequieta, zeppa di gente, semibuia persino a luglio. A quei tempi,
in quel luogo si incrociavano vite eterogenee e strade diverse. Il normale flusso
che allora giungeva dall’Europa. Nella cella passavano i nuovi, che
conservavano ancora briciole di libertà europea. Passavano i robusti prigionieri
di guerra russi che avevano appena fatto in tempo a scambiare la prigionia
tedesca con la nostrana. Passavano i pestati, temprati detenuti dei campi di
lavoro, che venivano trasferiti dalle caverne dei GULAG alle oasi delle šaraški.
Entrando nella cella Neržin aveva strisciato attraverso il buco d’ingresso
direttamente sotto le brande (tanto erano basse) e là, sul lurido pavimento
d’asfalto, prima ancora di distinguere qualcosa nel buio, aveva domandato
allegramente:
– Chi è l’ultimo della fila, amici?
Una voce sorda e stridula gli aveva risposto:
– Cucù! Lei viene dopo di me.
Poi, giorno per giorno, man mano che i detenuti venivano tirati fuori per
essere tradotti via, loro si erano spostati sotto le panche “dal bugliolo verso la
finestra”, e la terza settimana erano passati “dalla finestra al bugliolo”, ma
questa volta sopra le panche. E ormai sopra le panche di legno, si erano
spostati di nuovo verso la finestra. Così avevano stretto la loro amicizia,
nonostante la differenza d’età, di esperienze di vita e di gusti.
Laggiù, in una lunga riflessione trascinatasi per molti mesi dopo il processo,
Potapov aveva confessato a Neržin che mai si sarebbe interessato di politica, se
la politica non si fosse messa a strapazzarlo e a colpirlo al fianco.
Laggiù, sotto le panche del carcere della Butyrka, il robot per la prima volta
si era mostrato perplesso, cosa che, si sa, è inadatta ai robot. No, lui continuava
a non pentirsi di aver rifiutato il pane dai tedeschi, non rimpiangeva i tre anni
perduti in prigionia fra morte e fame. E continuava a considerare inconcepibile
sottoporre le nostre dispute interne al giudizio degli stranieri.
Ma la scintilla del dubbio in lui si era instillata e ora covava un fuoco.
Il robot perplesso si era chiesto per la prima volta: ma allora, per che cavolo
avevano costruito la centrale sul Dnepr?

81 Indica il grado di mladšij lejtenant, sottotenente.


82 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 215.
83 Ivi, p. 177.
31
COME RAMMENDARE I CALZINI

L’ispezione dei locali della prigione speciale avveniva alle nove meno cinque.
Questa operazione, che nei campi di lavoro durava ore, con gli zek in piedi al
gelo, fatti spostare da un punto all’altro e contati prima uno per uno, poi per
cinque, per centinaia, per brigate, lì alla šaraška procedeva veloce e senza
intoppi: gli zek bevevano il tè sui loro comodini, i due ufficiali di turno, quello
che stava per staccare e quello di guardia, entravano nella stanza, gli zek si
alzavano (alcuni non si alzavano nemmeno), il nuovo ufficiale contava
concentrato le teste; poi venivano fatti gli annunci e si ascoltavano di
malavoglia le lamentele.
L’ufficiale di turno nel carcere quel giorno era il tenente anziano Šusterman,
alto, i capelli neri, non tanto cupo quanto incapace di esprimere qualsivoglia
sentimento umano, come del resto era uso tra i sorveglianti addestrati alla
Lubjanka. Era stato mandato a Marfino dalla Lubjanka insieme a Nadelašin per
rafforzare la disciplina carceraria. Alcuni zek della šaraška se li ricordavano da
allora, da sergenti maggiori entrambi avevano svolto per un certo periodo il
servizio di scorta: preso in consegna il recluso e piazzatolo con la faccia rivolta
al muro, lo accompagnavano attraverso i celebri gradini consunti fra il quarto e il
quinto piano (lì era stato praticato un passaggio che dalla prigione portava
all’edificio dell’istruttoria, e attraverso quel passaggio erano stati condotti per
un terzo di secolo tutti i detenuti del carcere centrale: monarchici, anarchici,
ottobristi, cadetti, socialisti rivoluzionari, menscevichi, bolscevichi, Savinkov,
Kutepov, Pëtr, il vicario del patriarca, Šul’gin, Bucharin, Rykov, Tuchačevskij, il
professor Pletnëv, l’accademico Vavilov, il feldmaresciallo Paulus, il generale
Krasnov, scienziati celebri in tutto il mondo e poeti di primo pelo, dapprima i
criminali, poi le loro mogli e le loro figlie); lo portavano fino alla donna in
uniforme con la Stella Rossa sul petto, e ogni carcerato che passava di lì
firmava sul grosso libro dei Destini Registrati in una fenditura su un foglio di
latta, senza vedere i nomi che precedevano e seguivano il proprio; lo
conducevano su per la scala, lungo la quale erano tese fitte reti simili a quelle
dei voli acrobatici al circo, per evitare che il detenuto saltasse giù; lo guidavano
per i lunghissimi corridoi del ministero della Lubjanka, dove sotto la luce
elettrica si soffocava, e davanti all’oro delle spalline dei colonnelli si
rabbrividiva.
Ma per quanto fossero sprofondati nel baratro dell’iniziale disperazione, gli
inquisiti notavano subito la differenza: Šusterman (allora ovviamente non
conoscevano il suo cognome) li scrutava da sotto le folte sopracciglia in un
cupo lampo, conficcava le unghie nel gomito del detenuto, per poi trascinarlo
con forza rude su per la scala; Nadelašin, invece, con il suo viso di luna che
ricordava quello di uno skopec84, camminava sempre a una certa distanza, senza
sfiorarli, e indicava in modo gentile dove dovevano svoltare.
Però Šusterman, benché più giovane, adesso aveva già tre stellette.
Nadelašin annunciò che quelli diretti a colloquio dovevano presentarsi al
comando alle dieci del mattino. Alla domanda se quel giorno ci sarebbe stato il
cinema, rispose di no, non era previsto. Si sollevò un leggero brusio di
malcontento e da un angolo Chorobrov commentò:
– Meglio che non ci portate affatto al cinema, se poi ci tocca vedere una
merda come I cosacchi del Kuban.
Šusterman si voltò di scatto per individuare chi avesse parlato, ma così perse
il conto e dovette ripartire da capo.
Nel silenzio, in modo da non essere visto ma sentito bene, qualcuno disse:
– Ormai è fatta, te lo scrivono nel fascicolo.
Contraendo il labbro superiore, Chorobrov rispose:
– Vadano a farsi fottere, lo scrivano pure. Me ne hanno già segnate tante che
nel fascicolo non ce ne stanno più.
Dalla cuccetta superiore, facendo penzolare le lunghe gambe pelose ancora
nude, Dvoetësov, arruffato e in biancheria intima, con voce roca da teppista
gridò:
– Sottotenente! E l’albero? Ce lo date o no?
– Avrete l’albero! – rispose quello, e si vedeva che per lui era un piacere
annunciare una buona notizia. – Lo metteremo qui, in questa stanza
semicircolare.
– Allora possiamo fare degli addobbi? – si mise a gridare Rus’ka, allegro, da
un’altra delle brande superiori. Seduto in alto a gambe incrociate, aveva messo
uno specchio sul cuscino e si annodava la cravatta. Di lì a cinque minuti doveva
incontrare Klara, che aveva già oltrepassato la torretta di guardia e stava
attraversando il cortile; lui la vedeva dalla finestra.
– Lo domanderemo, non ci sono direttive in proposito.
– Di quali direttive avete bisogno?
– Che albero di Capodanno è senza gli addobbi?... Ah! Ah! Ah!...
– Amici! Facciamo gli addobbi!
– Calma, ragazzo! E come la mettiamo con l’acqua calda?
– Il ministro provvederà?
La stanza ronzava allegra, discutendo dell’albero. Gli ufficiali di turno si
erano già voltati per andarsene, ma Chorobrov gridò loro dietro, più alto del
ronzio, con la sua dura pronuncia di Vjatka:
– E riferite a quelli là che ci lascino l’albero fino al Natale ortodosso!
L’albero si fa a Natale, non a Capodanno85!
Gli ufficiali di turno fecero finta di non aver sentito e uscirono. Parlavano
quasi tutti contemporaneamente. Chorobrov non era riuscito a esporre il suo
pensiero all’ufficiale di turno e adesso, in silenzio, lo raccontava in modo
energico a qualcuno di invisibile, muovendo la pelle del viso. Lui non aveva
mai festeggiato né il Natale né la Pasqua, ma in carcere si era messo a
festeggiarli per spirito di contraddizione. Almeno quei giorni non erano segnati
né da una perquisizione approfondita né da un regime intensificato. Per
l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e il Primo Maggio, invece, aveva in
programma di fare il bucato o di cucire.
Dopo aver finito di bere il tè, il vicino, Abramson, si asciugò, pulì gli
occhiali appannati con la grossa montatura di plastica e disse a Chorobrov:
– Il’ja Terent’ič! Dimentichi il secondo comandamento dei detenuti: non
provocare.
Chorobrov si riebbe dalla sua disputa invisibile e, come se avesse ricevuto
un morso, si voltò bruscamente verso Abramson.
– Questo è un vecchio comandamento, il comandamento della vostra
generazione inutile. Ve ne siete stati tranquilli e vi hanno fatto fuori tutti.
Era un’accusa ingiusta. Proprio quelli finiti dentro con Abramson avevano
organizzato a Vorkuta uno sciopero dal lavoro e uno della fame. Ma anche per
loro la conclusione era stata la stessa. Quanto a quel comandamento, si era
diffuso da solo. Per il reale stato delle cose.
– Se ti metti a far scenate, ti cacciano via – si strinse nelle spalle Abramson.
– In qualche campo, ai lavori forzati.
– Ma, Grigorij Borisyč, è proprio quello che voglio! Se devono essere lavori
forzati siano lavori forzati, il diavolo se li porti, almeno sarò in allegra
compagnia. Magari ci sarà libertà di parola, e nessun delatore.
Rubin, che non aveva ancora finito di bere il suo tè, se ne stava con la barba
arruffata vicino alla cuccetta di Potapov e Neržin, e ora si rivolgeva
bonariamente alla branda superiore:
– Mi congratulo con te, mio giovane Montaigne, mio sciocco pirronista...
– Sono commosso, Lëvčik, ma perché...?
Neržin, inginocchiato in alto sulla sua branda, teneva fra le mani un
raccoglitore. Era frutto del lavoro privato del detenuto, ossia del lavoro più
accurato che esista, perché i detenuti non hanno mai fretta. Su quel percalle
bordeaux erano disposti in modo grazioso taschine, fibbie, bottoncini e
pacchetti di eccellente carta tedesca, trofeo di guerra. Il tutto, naturalmente,
veniva fatto durante l’orario di lavoro ufficiale.
– ...E poi alla šaraška, in pratica, non ti permettono di scrivere nulla a parte
le denunce...
– Ti auguro... – Le labbra grandi e grosse di Rubin si protesero in una buffa
trombetta. – ...che le tue cervella scetticamente eclettiche siano illuminate dalla
luce della verità.
– Ah, ma quale verità, vecchio mio? Davvero qualcuno sa che cos’è la
verità?... – Gleb sospirò. Il suo viso, ringiovanito in vista del colloquio, si era
rifatto smunto per rughe color cenere. I capelli gli ricadevano ai due lati della
testa.
Sulla branda superiore accanto, sopra Prjančikov, un ingegnere calvo e
grassoccio di una certa età sfruttava gli ultimi secondi di tempo libero leggendo
un giornale preso a Potapov. Dopo averlo aperto per bene, e tenendolo a una
certa distanza, a volte si accigliava, a volte muoveva le labbra in modo
impercettibile. Quando in corridoio prese a squillare con fragore il campanello
elettrico, lui stizzito ripiegò il giornale come capitava, stropicciandone gli
angoli.
– Ma cos’è che continuano a blaterare sul dominio mondiale? Si
strombazzino la loro madre, quale dominio mondiale!...
E si guardò intorno cercando di capire dove fosse meglio scagliare il
giornale.
L’enorme Dvoetësov, che dall’altra parte della stanza si era già infilato la tuta
sbrindellata e mostrava il suo enorme deretano mentre assestava e sistemava
sotto di sé il letto superiore, ribatté con voce di basso:
– Chi è che continua a blaterare, Zemelja?
– Tutti quelli là.
– Perché? Tu non aspiri al dominio mondiale?
– Io? – si stupì Zemelja, come prendendo la domanda sul serio. – No-o-o –
fece con un largo sorriso. – Che me ne frega a me? Io non ci aspiro. – E,
gemendo piano, cominciò a calarsi giù.
– Bene, allora andiamo a sgobbare! – decise Dvoetësov e saltò
rumorosamente a terra con tutto il suo corpaccione.
Il campanello ora emetteva un suono prolungato. Suonava così per indicare
che l’ispezione era terminata, le porte regali86 sulla scala dell’istituto erano
state aperte, e gli zek si affrettavano a uscire veloci in una densa folla.
La maggior parte degli zek era già uscita. Doronin era corso fuori per primo.
Sologdin, che aveva chiuso la finestra durante la levata e il tè, ora l’aveva aperta
di nuovo un pochino, bloccandola con il volume di Erenburg, e si era
precipitato in corridoio per incappare nel professor Čelnov quando questi
fosse uscito dalla “stanza del professore”. Rubin, incapace come sempre al
mattino di combinare qualcosa, riponeva ora in fretta nel suo comodino
quanto non aveva fatto in tempo a mangiare e a bere (si era rovesciato
qualcosa) e si affaccendava accanto al suo letto gibboso, straziato, impossibile,
sforzandosi inutilmente di sistemarlo in modo da non essere poi richiamato a
rifarlo.
Neržin invece aggiustava il suo travestimento. Una volta, ai vecchi tempi, gli
zek della šaraška indossavano i vestiti e i cappotti buoni ogni giorno; con quelli
andavano anche a colloquio. Ora, per comodità delle guardie, li avevano dotati
di tute blu (in modo che le sentinelle sulle torri distinguessero chiaramente gli
zek dai liberi). Per andare a colloquio invece i capi della prigione li
costringevano a travestirsi, fornendo loro camicie e vestiti non nuovi,
appartenuti ad altri, probabilmente confiscati dai guardaroba privati con il
pignoramento dei beni. Ad alcuni zek piaceva vestirsi bene anche solo per
poche ore, mentre altri avrebbero evitato volentieri quell’odioso travestimento
con gli abiti dei morti, ma con le tute proprio non ti accettavano al colloquio: i
parenti non dovevano pensare del carcere nulla di male. E nessuno aveva un
cuore così inflessibile da rifiutarsi di vedere i parenti. E dunque si travestivano.
La stanza semicircolare si era svuotata. Erano rimaste dodici coppie di
brande a due piani, saldate e rassettate alla maniera degli ospedali: con il
lenzuolo rivoltato sopra la coperta affinché prendesse tutta la polvere e si
sporcasse più in fretta. Una maniera che poteva essere escogitata solo da una
testa di burocrate, di certo un maschio; a casa neanche la moglie del suo
inventore l’avrebbe mai adottata. In ogni caso, quelle erano le disposizioni del
controllo sanitario delle carceri.
Nella stanza adesso era calato un bel silenzio, cosa rara per quel luogo, un
silenzio che nessuno desiderava infrangere.
Erano rimasti in quattro, nella stanza: Neržin che si agghindava, Chorobrov,
Abramson e un progettista calvo.
Il progettista era uno di quegli zek timidi che, pur in prigione da anni, non
riuscivano proprio ad assumere la sfacciataggine tipica del detenuto. A nessun
costo avrebbe mai osato sottrarsi al lavoro di domenica, ma oggi aveva detto di
non sentirsi bene e aveva ottenuto appositamente dal medico del carcere il
permesso per una giornata libera; sulla branda aveva disposto un gran numero
di calzini laceri, dei fili, un fungo di cartone fatto da lui, e con la fronte
corrugata stava decidendo da quale cominciare.
Grigorij Borisovič Abramson, che aveva scontato legalmente già una decina
(senza contare i precedenti sei anni di deportazione) e ora gli avevano
affibbiato una seconda decina, sebbene non sempre riuscisse a saltare il lavoro
domenicale, ci provava comunque. Una volta, ai tempi del Komsomol,
nemmeno a tirarlo per le orecchie si sarebbe potuto strappare dalle domeniche
di lavoro. Ma le domeniche lavorative di allora venivano considerate uno
slancio per riassestare l’economia: un anno o due e ogni cosa sarebbe andata
magnificamente, tutti i giardini avrebbero cominciato a fiorire. Invece erano
passati decenni e le domeniche volontarie erano diventate un tormento e una
corvè, mentre gli alberi piantati non fiorivano affatto, e la maggior parte era
stata spezzata dai cingoli dei trattori. Nelle prigioni in cui aveva trascorso molti
anni, osservando e riflettendo Abramson era giunto a una conclusione opposta:
l’uomo è per natura ostile alla fatica e non lavorerebbe per niente al mondo se
non fosse costretto dal bastone o dal bisogno. E sebbene per le aspettative
generali, in relazione al fine comunista persistente e unico possibile per
l’umanità, tutti questi sforzi e persino le domeniche volontarie fossero
indubbiamente necessari, Abramson stesso aveva perso lo slancio a prendervi
parte. Adesso era fra i pochi in quel luogo ad avere già scontato e riscontato
quei pieni e terrificanti dieci anni e sapeva che non si trattava di un mito, di
un’assurdità del tribunale, di una storiella fino alla prima amnistia generale,
come credevano sempre i nuovi arrivati, ma erano dieci, anche dodici, quindici
anni di vita umana pieni ed estenuanti. Da tempo aveva imparato a risparmiare
i muscoli in ogni movimento, in ogni minuto di riposo. E sapeva che il modo
migliore per passare la domenica era starsene sdraiati immobili nel letto con
indosso solo la biancheria.
Adesso aveva liberato il volumetto con cui Sologdin aveva bloccato la
finestra, l’aveva chiusa, si era tolto senza fretta la tuta, si era sdraiato sotto la
coperta, vi si era avviluppato, aveva strofinato gli occhiali con una speciale
pezzuola di camoscio, si era messo in bocca una caramella, aveva sistemato il
cuscino ed estratto da sotto il materasso un libro bello grosso, ricoperto per
precauzione. Già solo a guardarlo da fuori dava un senso di benessere.
Chorobrov, al contrario, si tormentava. Giaceva vestito, in malinconica
inerzia, sopra la coperta rassettata, calzando gli stivali che appoggiava sulla
spalliera del letto. Il suo carattere lo portava a soffrire tanto e a lungo per cose
che agli altri scivolavano via facilmente. Ogni sabato, in base al noto principio
dell’assoluta volontarietà, tutti i detenuti, senza essere nemmeno consultati,
venivano iscritti nella lista dei volontari per il lavoro domenicale, e la loro
richiesta veniva inviata al carcere. Se l’iscrizione fosse stata realmente
volontaria, Chorobrov si sarebbe sempre fatto registrare e avrebbe trascorso
volentieri le sue giornate libere dietro il tavolo da lavoro. Ma proprio perché
era una palese beffarda presa in giro, Chorobrov era costretto a starsene lì
sdraiato a istupidirsi in quella prigione chiusa.
Lo zek di un campo di lavoro può soltanto fantasticare di rimanersene
sdraiato la domenica al tepore di un locale chiuso, mentre a quello di una
šaraška le reni non fanno male.
Non aveva assolutamente nulla da fare! Tutti i giornali a disposizione li
aveva già letti il giorno prima. Sul comodino, vicino al suo letto, c’era una pila
di libri, alcuni aperti, altri chiusi, della biblioteca della prigione speciale. Uno,
di pubblicistica, era una raccolta di articoli di scrittori autorevoli. Chorobrov
esitò, ma poi lo aprì all’altezza di un articolo di quel Tolstoj87 che, se solo
avesse avuto un po’ d’amor proprio, non avrebbe mai firmato con quel
cognome. L’articolo risaliva al giugno del 1941, e c’era scritto: “I soldati
tedeschi, sospinti dal terrore e dalla follia, trovarono al confine un muro di
ferro e fuoco.” Chorobrov imprecò sottovoce, richiuse di colpo il libro e lo
mise da parte. Qualsiasi fosse il testo cui dava uno sguardo, gli balzava sempre
all’occhio un punto dolente, perché tutto intorno a lui era dolente. Nelle loro
dacie ben fornite nei dintorni di Mosca, quei signori delle menti non facevano
che ascoltare la radio e guardare le loro aiuole. Un kolchoziano semianalfabeta
ne sapeva della vita più di loro.
Gli altri libri della pila erano di genere letterario, ma per Chorobrov leggerli
era altrettanto sgradevole. Uno era il grande successo Lontano da Mosca88, che
in libertà tutti divoravano appassionatamente. Chorobrov ne aveva letto
qualche pagina il giorno prima; provò a continuare, ma si rese conto di trovarlo
nauseante. Il libro era un pasticcio senza ripieno, un uovo svuotato, un uccello
ucciso e impagliato: narrava di costruzioni fatte dagli zek dei campi di lavoro,
ma in nessun punto si nominavano i campi di lavoro né si diceva che si trattava
di zek tenuti a razione e messi in cella di rigore; nel libro gli zek erano stati
sostituiti da giovani membri del Komsomol ben vestiti, con ottime scarpe e
grande fervore. Un lettore esperto però si accorgeva subito che l’autore
conosceva, aveva visto, aveva tastato con mano la verità, poteva persino essere
stato un oper in un campo, e ora mentiva, imperturbabile.
Sulle labbra gli si formarono le solite tre parole della sua solita
imprecazione; gettò da una parte il successo letterario.
Un altro libro erano le Opere scelte del noto scrittore Galachov. Il nome di
Galachov lo conosceva, si aspettava da lui qualcosa di decente, e dunque
Chorobrov aveva già cominciato a leggere il volume ma poi si era interrotto
con la sensazione che lo prendessero in giro, un po’ come quando stilavano
l’elenco dei volontari per la domenica. Persino Galachov, che sapeva scrivere
abbastanza bene le storie d’amore, era scivolato da tempo in quella maniera
ormai diffusa, non per persone normali ma per sciocchi che non avevano mai
visto la vita e che, dementi, erano felici di qualsiasi gingillo. In quei libri
mancava tutto ciò che lacera davvero un cuore umano. Se non fosse iniziata la
guerra, agli autori sarebbe toccato passare agli inni acatisti. La guerra aveva
aperto loro la via verso sentimenti comprensibili a tutti. Ma anche qui hanno
gonfiato dei conflitti irreali, come quello di un giovane membro del Komsomol
che nelle retrovie del nemico lancia giù dalle scarpate decine di convogli carichi
di munizioni, ma si tormenta giorno e notte domandandosi se è o no un vero
komsomolec, dal momento che non ha pagato la quota associativa.
Anche questa volta Chorobrov usò la solita imprecazione.
Sul comodino c’era anche un altro libro, I racconti americani degli scrittori
progressisti. Chorobrov non poteva confrontarli con la vita reale, ma la loro
selezione era straordinaria: in ogni racconto c’era immancabilmente qualche
porcheria sull’America. Raccolti in modo velenoso, formavano un tale incubo
da potersi solo meravigliare che gli americani non si fossero già tutti dati alla
fuga o impiccati.
Non c’era niente da leggere!
Chorobrov pensò di fumare. Tirò fuori una papirosa e cominciò ad
ammorbidirla. Nell’assoluto silenzio della stanza quel tubetto di carta bello
rigonfio gli frusciava tra le dita. Chorobrov avrebbe voluto fumare lì dove si
trovava, senza uscire, senza levare i piedi dalla spalliera del letto. I detenuti
fumatori sanno che l’unica sigaretta a procurare un autentico piacere è quella
che si fuma sdraiati sulla propria striscia di pancaccio, nella propria cuccetta;
una sigaretta lenta, fumata con lo sguardo fisso al soffitto, dove si susseguono
le immagini di un passato che non può tornare e di un futuro che non si
raggiunge mai.
Ma il progettista calvo non fumava e detestava il fumo, mentre Abramson,
benché fosse anche lui fumatore, si atteneva alla fallace teoria che nella stanza
dovesse esserci aria pura. Avendo ben assimilato in carcere il principio secondo
cui la propria libertà comincia dal rispetto dei diritti altrui, con un sospiro
Chorobrov calò le gambe sul pavimento e si diresse verso l’uscita. Nel farlo
notò il grosso libro che Abramson teneva fra le mani e stabilì subito che un
volume del genere nella biblioteca del carcere non c’era, quindi doveva
provenire da fuori, e da là non si faceva arrivare nulla che non valesse la pena
leggere.
Chorobrov però non domandò ad alta voce come un fesso: “Cosa stai
leggendo?” oppure “Dove l’hai preso?” (il progettista o Neržin avrebbero
potuto sentire la risposta di Abramson). Gli si accostò vicinissimo e chiese
piano:
– Grigorij Borisyč, mi fai dare un’occhiata al titolo?
– Toh, guarda – acconsentì Abramson, di malavoglia.
Chorobrov aprì il libro alla pagina del titolo e lesse, turbato: Il Conte di
Montecristo.
Gli uscì solo un fischio.
– Borisyč – domandò poi affettuosamente. – Dopo di te c’è qualcun altro?
Faccio in tempo a leggerlo?
Abramson si tolse gli occhiali e si mise a riflettere.
– Vediamo... E tu oggi mi tagli i capelli?
Gli zek non amavano il barbiere stachanovista che veniva a tagliare i capelli a
ore. I detenuti che erano stati nominati mastri-barbieri tagliavano i capelli con
le forbici soddisfacendo ogni capriccio, e lentamente, giacché avevano tanto
tempo a disposizione.
– E da chi prendiamo le forbici?
– Da Zjablik.
– D’accordo, allora te li taglio.
– Va bene. Qui si può staccare un pezzo, fino a pagina centoventotto, te lo
passo fra poco.
Visto che Abramson aveva già letto fino a pagina centodieci, Chorobrov
uscì in corridoio a fumare in uno stato d’animo allegro, ben diverso da prima.
Gleb provava sempre più una sensazione di festa. Da qualche parte,
probabilmente nel pensionato studentesco di via Stromynka, anche Nadja in
quell’ultima ora prima del loro incontro era emozionata. Durante un colloquio
i pensieri ti sfuggono, dimentichi quello che volevi dire: bisogna scriverlo
subito su un pezzo di carta, impararlo a memoria, distruggerlo (non si poteva
portare la carta con sé) e poi ricordarselo. Otto punti, otto: su una sua possibile
partenza, sulla pena che non sarebbe terminata alla scadenza, sarebbe poi
venuta un’altra deportazione, sul fatto che...
Corse al magazzino, si stirò un po’ il pettino, un’invenzione di Rus’ka
Doronin, che adottavano in molti. Era una pezzuola bianca (ricavata,
all’insaputa del magazziniere, da un lenzuolo diviso in sedici parti) con un
colletto bianco cucito sopra. Quel brandello nella scollatura della tuta bastava a
malapena a coprire la camicia sottostante con il marchio nero: “MGB – Prigione
speciale n. 1.” Aveva anche due stringhe che arrivavano fino alla schiena e lì si
annodavano. Il pettino aiutava a creare l’apparenza di un benessere che tutti
desideravano. Semplice da lavare, serviva fedelmente nei giorni di lavoro come
in quelli di festa, non ti faceva vergognare di fronte ai collaboratori liberi
dell’istituto.
Poi sulla scala, con il lucido quasi secco e sbriciolato di qualcuno, Neržin si
sforzò inutilmente di conferire brillantezza alle sue scarpe logore (per il
colloquio il carcere non ne dava di ricambio giacché sotto il tavolo non si
vedevano).
Quando tornò nella stanza per radersi (i rasoi erano permessi, anche quelli
pericolosi, tale era il gioco delle disposizioni), Chorobrov era già immerso nella
lettura. Il progettista, con tante cose da rammendare, aveva occupato oltre al
letto anche parte del pavimento, dove tagliava e faceva segni con la matita,
mentre dal cuscino, staccata un po’ la testa dal libro, Abramson strizzava gli
occhi e lo istruiva così:
– Il rammendo diventa efficace solo quando è scrupoloso. Dio la salvi da un
approccio formale. Non abbia fretta, faccia punto su punto e ci passi su due
volte. Un errore comune, poi, è quello di utilizzare le parti consumate al
margine di uno strappo. Non faccia economia, non perda tempo con le frange
inutili, ma tagli bene intorno al buco. Ha mai sentito questo cognome,
Berkalov?
– Che cosa? Berkalov? No.
– Ma come! Berkalov è un vecchio ingegnere d’artiglieria, l’inventore di quei
cannoni, ha presente? i BS-3, cannoni straordinari, con una velocità iniziale
assurda. Be’, anche Berkalov se ne stava la domenica come lei alla šaraška a
rammendare i calzini. C’era la radio accesa. Si sente: ‘A Berkalov, generale di
brigata, il premio Stalin di prima classe.’ E lui, prima dell’arresto, era soltanto
generale di divisione. Già. Be’, rammendò le calze e si mise a cuocere qualche
frittella su un fornelletto elettrico. Entrò il sorvegliante, lo sorprese sul fatto,
gli sequestrò il fornello non autorizzato e fece rapporto alla direzione del
carcere per fargli avere tre giorni di cella di rigore. Quando all’improvviso
arrivò correndo come un ragazzino proprio il capo della prigione: ‘Berkalov!
Con la roba! Al Cremlino. La chiama Kalinin!’... Questi sono i destini dei russi...
84 Gli skopcy, detti anche “colombe bianche” o “agnelli di Dio”, erano una setta di “castrati”, diffusa in
Russia nel XVIII secolo.
85 Dopo essere stato proibito in quanto simbolo del Natale e dunque simbolo religioso, l’albero
addobbato fu riammesso nella società sovietica negli anni Trenta ma solo associato ai festeggiamenti del
Capodanno.
86 Sono le due porte centrali dell’iconostasi, al di là delle quali possono andare solo i sacerdoti, che da esse
portano ai fedeli le specie eucaristiche.
87 Aleksej N. Tolstoj (1883-1945), autore di romanzi storici e di fantascienza. Insignito del premio Stalin
nel 1941, fu un suo grande sostenitore.
88 Opera di Vasilij Ažaev (1915-1968), premio Stalin 1949.
32
SULLA STRADA VERSO IL MILIONE

Il vecchio professore di matematica Čelnov famoso in molte šaraški, che alla


voce “nazionalità” non scriveva “russo” ma “zek” e che nel 1950 sarebbe
giunto al diciottesimo anno di reclusione, aveva infilato la punta della sua
matita in molte invenzioni tecniche, dalla caldaia a corrente diretta al motore a
reazione, e in alcune ci aveva messo anche l’anima.
Del resto il professor Čelnov affermava che quell’espressione, “metterci
l’anima”, andava usata con cautela, che solamente gli zek avevano un’anima
immortale, mentre poteva succedere che un libero ne fosse privo per il
trambusto della vita quotidiana. In un’amichevole conversazione con gli altri
detenuti, davanti a una scodella di brodaglia ormai fredda o un bicchiere di
cacao fumante, Čelnov non nascondeva di aver preso in prestito quel
ragionamento da Pierre Bezuchov. Quando il soldato francese non aveva
lasciato passare Pierre, com’è noto Pierre si era fatto una grossa risata: “Ah! Ah!
Il soldato non mi ha lasciato passare. Chi tengono prigioniero? Me? Me – la
mia anima immortale!”89
Alla šaraška di Marfino il professor Čelnov era l’unico zek cui avevano
concesso di non indossare la tuta (per avere il permesso si erano rivolti ad
Abakumov in persona). Il motivo principale di quella agevolazione stava nel
fatto che alla šaraška di Marfino Čelnov non era uno zek permanente, ma di
passaggio: un tempo socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze e
direttore dell’Istituto di Matematica, si trovava a disposizione speciale di Berija
e veniva trasferito ogni volta nella šaraška in cui sorgeva il problema
matematico più urgente. Dopo averlo risolto tracciandone le linee principali e
aver indicato la metodologia di calcolo, Čelnov era trasferito altrove.
Ma il professor Čelnov non approfittava della libertà di scegliersi gli abiti
come fanno le persone vanitose: portava un completo a buon mercato, la giacca
e i pantaloni di due colori che nemmeno stavano bene assieme; ai piedi calzava
dei valenki, i tipici stivali di feltro; sulla testa, dove gli erano rimasti ben pochi
capelli bianchi, si infilava un berrettino di lana fatto a maglia, non si capiva se
da sci o da ragazza; si distingueva soprattutto per un plaid di lana stravagante
che si avvolgeva due volte intorno alle spalle e alla schiena, e che somigliava
anche quello a un caldo scialle da donna.
Tuttavia Čelnov sapeva portare quel plaid e quel berretto in modo che non
rendeva buffa la sua figura, ma imponente. Il lungo ovale del viso, il profilo
appuntito, il modo autoritario che usava parlando con i rappresentanti
dell’amministrazione carceraria e il colore appena azzurrognolo degli occhi
sbiaditi, tipico solo delle menti astratte, tutto faceva somigliare stranamente
Čelnov un po’ a Cartesio, un po’ ad Archimede.
A Marfino era stato mandato per elaborare le basi matematiche del
codificatore assoluto, vale a dire l’apparecchio che, con la sua rotazione
meccanica, avrebbe potuto garantire l’avviamento e l’inversione di un gran
numero di relais usati per imbrogliare l’ordine di invio degli impulsi
rettangolari di un discorso contraffatto, così da impedire a centinaia di persone
che utilizzavano apparecchi simili di decifrare la conversazione che passava
attraverso i fili.
Le ricerche per la soluzione strutturale di un simile codificatore seguivano il
loro corso all’ufficio progettazione. Se ne occupavano tutti i progettisti, tranne
Sologdin.
Appena giunto alla šaraška da Inta, Sologdin si era guardato attorno e aveva
subito annunciato a tutti che la memoria gli si era indebolita a causa della fame
prolungata, le sue capacità si erano affievolite, e comunque erano limitate fin
dalla nascita, e in quella situazione poteva solo occuparsi di un lavoro
ausiliario. Si permetteva di giocare una carta così audace perché a Inta non era
stato ai lavori comuni, aveva un buon incarico da ingegnere e non temeva di
tornarci. (Per la stessa ragione alla šaraška, nelle conversazioni di servizio con i
capi, poteva permettersi di lasciare la gente in attesa mentre cercava surrogati
alle parole di origine straniera, persino quelle come “ingegnere” e “metallo”.
Sarebbe stato impossibile se avesse aspirato a ingraziarseli o anche solo a
ottenere una categoria di pasto superiore.)
Comunque non ce l’avevano rimandato, l’avevano tenuto in prova. In quel
modo Sologdin si era sottratto al principale flusso di lavoro, dove regnavano
tensione, fretta e nervosismo, finendo in uno laterale, tranquillo. Là, senza
infamia e senza lode, veniva controllato poco dai capi, aveva a disposizione
abbastanza tempo libero e, privo di sorveglianza, in segreto, la sera si era messo
a elaborare di propria iniziativa la struttura del codificatore assoluto.
Era convinto che le grandi idee nascevano solo dal lampo di genio di una
mente solitaria.
E davvero negli ultimi sei mesi aveva trovato una soluzione che dieci
ingegneri nominati appositamente, ma sollecitati e sferzati di continuo, non
riuscivano a immaginare. (Le orecchie però le teneva bene aperte, sentiva come
il problema veniva impostato, e capiva da dove derivava il loro insuccesso.)
Due giorni prima aveva chiesto al professor Čelnov di dare un’occhiata al suo
lavoro, sempre in forma non ufficiale. Adesso saliva la scala a fianco del
professore, che sorreggeva rispettosamente per il gomito, in attesa della
sentenza sul proprio lavoro.
Ma Čelnov non mischiava mai lavoro e riposo.
Nel breve tragitto attraverso i corridoi e le scale non disse neanche una
parola sul parere che Sologdin aspettava avidamente, ma continuò a raccontare
spensierato della passeggiata mattutina con Lev Rubin. Dopo che gli era stato
impedito di andare al “taglio della legna”, Rubin aveva letto a Čelnov una sua
poesia di argomento biblico. Nel ritmo c’erano solo uno o due intoppi, le rime
erano nuove – ad esempio “Osiride” con “iride” – e in generale, bisognava
riconoscerlo, la poesia era abbastanza buona. Riguardo al contenuto, si trattava
di una ballata su come Mosè aveva condotto per quarant’anni gli ebrei
attraverso il deserto, fra privazioni, sete, fame, e su come il popolo farneticava e
si ribellava, ma non era nel giusto, nel giusto era Mosè, lui sapeva che alla fine
sarebbero giunti alla Terra Promessa. Rubin in particolare voleva far capire
all’ascoltatore che quarant’anni in fondo non sono niente!
E che cosa aveva risposto Čelnov?
Čelnov aveva fatto notare a Rubin la geografia della traversata di Mosè: dal
Nilo a Gerusalemme gli ebrei non dovevano percorrere più di quattrocento
chilometri, e anche riposando il sabato, sarebbero potuti arrivare comodamente
in tre settimane! Non era possibile dunque supporre che per i restanti
quarant’anni Mosè non li avesse guidati ma portati in giro per il deserto arabo in
modo che pian piano morissero tutti coloro che ricordavano la sazia schiavitù
egizia e gli altri apprezzassero di più il modesto paradiso che lui poteva
offrire?...
Il professore prese la chiave della sua stanza dal sorvegliante di turno
posizionato davanti alla porta dell’ufficio di Jakonov. Una fiducia simile era
concessa solo a Maschera di Ferro e a nessun altro degli zek. Nessuno zek aveva
il diritto di rimanere neanche un secondo nel proprio locale di lavoro senza il
controllo di un libero, giacché la vigilanza supponeva che il detenuto avrebbe
usato immancabilmente quel secondo per scassinare un armadio di ferro con
una matita e fotografare documenti segreti con l’ausilio di un bottone dei
pantaloni.
Ma Čelnov lavorava in una stanza con un armadio senza segreti e due tavoli
nudi. Così si erano risolti (beninteso, previo accordo con il ministero) ad
autorizzare la consegna della chiave personalmente al professore. Da allora la
sua stanza era diventata oggetto di continue ansie per il maggiore Šikin. Nelle
ore in cui i detenuti erano bloccati nel carcere dietro una doppia porta blindata,
questo compagno ben pagato, con una giornata lavorativa senza orario, si
recava personalmente nella stanza del professore, batteva alle pareti, saltellava
sulle assi del pavimento, dava un’occhiata al perineo polveroso dietro l’armadio
e scuoteva la testa con aria cupa.
Del resto, la consegna della chiave non era ancora tutto. Al terzo piano,
dopo quattro o cinque porte lungo il corridoio, si trovava il posto di controllo
della Sezione di massima segretezza. Il posto di controllo consisteva in un
comodino con una sedia accanto; sulla sedia un’addetta alle pulizie, non una di
quelle che doveva solo spazzare il pavimento e far bollire il tè (per questo ce
n’erano altre), ma un’addetta alle pulizie con una mansione speciale: controllare
il lasciapassare a quanti si recavano alla Sezione di massima segretezza.
Stampati nella tipografia centrale del ministero, i lasciapassare erano di tre tipi:
permanenti, validi una sola volta e settimanali, tutte tipologie inventate dal
maggiore Šikin (sua era anche l’idea di rendere di massima segretezza il fondo
cieco del corridoio).
Quello al posto di controllo non era un lavoro leggero: gente ne veniva di
rado, ma fare la calza era assolutamente vietato sia dalle disposizioni appese sia
dalle continue direttive verbali del compagno maggiore Šikin. Le addette alle
pulizie (che si davano il cambio ogni dodici ore) lottavano in modo straziante
contro il sonno per tutta la durata del turno. Il posto di controllo risultava
assai scomodo anche al colonnello Jakonov, che veniva disturbato di continuo
perché firmasse i lasciapassare.
Tuttavia il posto di controllo esisteva. E, per coprire la paga di quelle
addette alle pulizie, invece dei tre spazzini stabiliti di diritto ne tenevano uno
solo, il sunnominato Spiridon.
Sebbene Čelnov sapesse benissimo che la donna seduta in quel momento al
controllo si chiamava Mar’ja Ivanovna, e lei lasciava passare quel vecchio
canuto molte volte al giorno, anche in quell’occasione trasalì e chiese:
– Lasciapassare.
Čelnov mostrò il suo lasciapassare di cartone, mentre Sologdin prese il suo
di carta.
Superato il posto di controllo, dopo un paio di porte, una a vetri tappata e
dipinta di gesso che dava sulla scala di servizio dove si trovava lo studio del
pittore servo della gleba, e un’altra che era quella di Maschera di Ferro,
aprirono la porta di Čelnov.
Era una stanzetta accogliente con una sola finestra,che si affacciava sul
piccolo cortile per la passeggiata dei detenuti e su un boschetto di tigli
centenari, che il destino non aveva risparmiato includendolo nella zona protetta
dal fuoco delle armi automatiche. Le alte, allungate cime dei tigli erano
ricoperte di sontuosa brina.
Un cielo bianco sporco sovrastava la terra.
A sinistra dei tigli, al di là della zona, si scorgeva un’antica casetta di legno a
due piani, con il tetto a forma di barca rovesciata, resa grigia dal tempo ma ora
anch’essa imbiancata, del vescovo che un tempo ci viveva, non lontano dal
seminario, e grazie al quale la strada che arrivava fin lì era detta la
Vladykinskaja, cioè di sua Eccellenza. Ancora oltre si intravedevano i tetti del
piccolo villaggio di Marfino, poi si apriva il campo e dopo, lungo la linea
ferroviaria, nell’opacità si levava il brillante e vistoso vapore argenteo di una
locomotiva diretta a Leningrado.
Ma Sologdin non guardò dalla finestra. Dopo aver declinato l’invito a
sedersi, elastico, sentendo sotto di sé le gambe salde e giovani, appoggiò una
spalla allo stipite e divorò con gli occhi il suo rotolo di fogli sul tavolo di
Čelnov.
Čelnov gli chiese di aprire la finestrella. Si accomodò sulla dura poltrona
dallo schienale alto e diritto, si aggiustò il plaid su una spalla e aprì il foglietto
di un taccuino su cui erano segnati vari punti; poi prese una lunga matita
appuntita simile a un giavellotto e guardò Sologdin con piglio severo: il tono
scherzoso che c’era stato fino a quel momento tra loro parve subito fuori
luogo.
Era come se delle grandi ali si fossero aperte di scatto agitandosi nella
piccola stanza. Čelnov parlò al massimo due minuti e in modo così conciso che
fra un pensiero e un altro non ci fu nemmeno il tempo di tirare un sospiro.
In poche parole, Čelnov aveva fatto più di quanto Sologdin gli avesse
chiesto. Aveva sviluppato il calcolo teorico-probabilistico e teorico-numerico
delle possibilità della struttura proposta da Sologdin. La struttura prometteva
un risultato non molto lontano da quello richiesto, almeno fino a quando non
fosse stato possibile passare agli apparecchi elettronici. Tuttavia era necessario:
– pensare come renderla insensibile a impulsi d’energia ridotta;
– correggere i valori delle maggiori forze d’inerzia del meccanismo per
accertarsi che i momenti teorizzati da Mach fossero sufficienti.
– E poi... – Čelnov irradiò Sologdin con lo scintillio del suo sguardo – ...poi
non se lo dimentichi: la sua codifica si basa sul principio del caos, e va bene. Ma
il caos, una volta scelto, immobilizzato, è già un sistema. Sarebbe più
interessante perfezionare la soluzione in modo che il caos possa mutare
caoticamente.
A quel punto il professore si fece pensieroso, ripiegò il foglio e tacque.
Sologdin serrò le palpebre come davanti a una luce forte e restò lì in piedi,
accecato.
Sin dalle prime parole del professore aveva sentito un’onda calda quasi
investirlo. E adesso si appoggiava forte con la spalla e con il fianco allo stipite
della finestra, in modo da non spiccare il volo verso il soffitto per l’esultanza,
così gli sembrava. La sua vita forse si trovava davanti a un arco circumzenitale.
...Proveniva da un’antica famiglia nobile, già sul punto di consumarsi come
la cera, e che nella brace della rivoluzione era giunta alla fine scoppiettando:
alcuni membri erano stati fucilati, altri erano emigrati, altri ancora si erano
tenuti in disparte, mutando persino pelle. Il giovane Sologdin aveva esitato a
lungo prima di capire il suo rapporto con la rivoluzione. La detestava in
quanto rivolta di una folla eccitata e invidiosa, ma la sentiva vicina nella sua
linearità implacabile ed energia accanita. Con l’antico fervore russo negli occhi,
pregava nelle piccole cappelle moscovite che andavano sparendo. Indossando la
jungsturmovka, la giubba militare che portavano tutti, con il colletto sbottonato
alla proletaria, si univa alla cellula del Komsomol. Chi avrebbe potuto
consigliarlo onestamente? Imbracciare il fucile contro quella banda di criminali
o fare carriera nel Komsomol? Era sinceramente devoto ma tremendamente
vanitoso. Era votato al sacrificio, ma anche smanioso di denaro. Quale giovane
cuore non desidera i beni terreni? Condivideva l’opinione dell’ateo Democrito:
“Felice è colui che ha ricchezza e ragione.” La ragione l’aveva sempre avuta, a
lui mancava la ricchezza.
A diciotto anni (era l’ultimo anno della NEP!) Sologdin si era posto un
obiettivo primario indiscutibile: guadagnare un milione, proprio un milione,
sicuro e preciso, un milione a ogni costo. Non era questione né di ricchezza né
di ampie possibilità; accumulare un milione era una prova da uomo d’affari,
potevi dimostrare di non essere un vuoto sognatore e fissarti ulteriori obiettivi
concreti. Sologdin supponeva di trovare la strada verso il milione tramite
qualche brillante invenzione, ma non disdegnava nemmeno un’altra via
intelligente, anche non da ingegnere, purché fosse più breve. Tuttavia non
esisteva condizione più ostile all’obiettivo di quel milione del piano
quinquennale di Stalin. Il pannello di progettazione forniva a Sologdin appena
la tessera per il pane e un misero stipendio. E se l’indomani avesse offerto allo
Stato un fuoristrada stupendo o un riassetto vantaggioso di tutta l’industria,
questo non gli avrebbe portato né quel milione né la gloria, e forse anche
sfiducia e vessazione.
Tutto si era deciso quando Sologdin era diventato troppo grosso per le
maglie di una rete a strascico e, intrappolato durante una pesca, aveva ottenuto
la prima condanna, e nel campo di lavoro anche una seconda.
Da dodici anni non usciva dal campo. Aveva dovuto mettere da parte e
dimenticare l’obiettivo del milione. Ma ecco che veniva condotto per una via
strana e tortuosa proprio verso quella torre e con mani tremanti sceglieva dal
mazzo la chiave della sua porta d’acciaio!
A chi erano rivolte, a chi?? Possibile che quel Cartesio con il berrettino da
ragazza rivolgesse proprio a lui parole tanto lusinghiere?!...
Čelnov ripiegò prima in quattro, poi in otto, il foglietto con i punti segnati.
– Come vede, di lavoro da fare ce n’è ancora. Ma la struttura risulta ottimale
rispetto a quelle proposte finora. Avrà la libertà e i precedenti cancellati. E se i
capi non la intralceranno, potrebbe ottenere addirittura un pezzetto di premio
Stalin.
Chissà perché, Čelnov sorrise. Aveva un sorriso tagliente e sottile, come la
forma della sua faccia.
Sorrideva a sé stesso. Lui, che nelle diverse šaraški in diverso tempo aveva
fatto molto di più di quanto si accingeva a fare Sologdin, non correva il rischio
né di prendere un premio né di veder cancellati i suoi precedenti e neppure di
ottenere la libertà. Di precedenti penali non ne aveva proprio: si era espresso
una volta sola sul Saggio Padre definendolo un vigliacco schifoso ed erano già
diciotto anni che stava dentro senza condanna, senza una sentenza, senza
speranza.
Sologdin aprì i suoi luccicanti occhi azzurri, si raddrizzò con fare giovanile
e in modo alquanto teatrale disse:
– Vladimir Erastovič! Lei mi dà sostegno e sicurezza! Non trovo le parole
per ringraziarla della sua attenzione. Io le sono debitore!
Ma un sorriso distratto era già comparso sulle sue labbra. Restituendo il
rotolo a Sologdin, il professore gli ricordò:
– Tuttavia, sono colpevole nei suoi confronti. Mi aveva chiesto di non
mostrare ad Anton Nikolaevič questo disegno. Be’, ieri è entrato per caso nella
stanza in mia assenza, ha aperto questo rotolo come fa sempre e naturalmente
ha capito subito di che cosa si trattava. Ho dovuto rivelare la sua identità...
Il sorriso si dileguò dalle labbra di Sologdin, che di colpo si accigliò.
– Ma è così essenziale per lei? Come mai? Tanto prima o poi...
Sologdin era confuso. Che fosse venuto davvero il momento di portare quel
foglio ad Anton?
– Come posso spiegarglielo, Vladimir Erastovič... Non trova che la faccenda
manchi di chiarezza morale? Non è un ponte, una gru, una macchina utensile.
Non è una commessa di tipo industriale, viene da coloro che ci hanno messo
dentro. Finora l’ho fatto solo... per verificare le mie forze. Per me stesso.
Per sé stesso.
Čelnov conosceva bene quella forma di lavoro. In generale, era la forma di
ricerca più alta.
– Ma date le circostanze... non sarebbe un lusso che non si può permettere?
Čelnov lo guardò con occhi pallidi e quieti.
– Mi scusi – si riprese e si corresse Sologdin. – Stavo pensando così, ad alta
voce. Non si rimproveri niente. Io le sono grato, davvero grato!
Strinse la mano debole e delicata di Čelnov con rispetto e uscì con il rotolo
sotto il braccio.
In quella stanza, poco prima, era entrato come libero aspirante.
Ora ne usciva già da vincitore oberato. Ormai non era più padrone del suo
tempo, dei suoi propositi e del suo lavoro.
Čelnov chiuse gli occhi, senza appoggiarsi allo schienale della poltrona, e
rimase a lungo così, dritto, con il viso sottile e il berretto di lana appuntito.

89 Lev Tolstoj, Guerra e pace, trad. di Erme Cadei, Milano, Oscar Mondadori, 1990, vol. II, p. 555.
33
ASTE DI REPRIMENDA

Spalancata la porta con forza eccessiva, Sologdin entrò nell’ufficio


progettazione, ancora in preda all’euforia. Ma invece del gran numero di
persone che si aspettava, in quella grande stanza sempre piena di voci vide
soltanto una figura femminile grassottella vicino alla finestra.
– È sola, Larisa Nikolaevna? – si stupì Sologdin attraversando la stanza a
passo svelto.
La copista Larisa Nikolaevna Emina, una signora sui trent’anni, si voltò dalla
finestra dove si trovava il suo tavolo da disegno e sorrise a Sologdin che si
avvicinava.
– Dmitrij Aleksandrovič? Temevo che sarei rimasta qui tutto il giorno ad
annoiarmi da sola.
Sologdin gettò uno sguardo alla figura abbondante in un completo di lana
verde brillante: la gonna di maglia e il golfino di maglia; senza rispondere, si
diresse con passo deciso alla sua scrivania e subito, prima ancora di sedersi,
tracciò un breve segno verticale su un foglio di carta rosa che stava da una
parte. Poi, dando quasi la schiena a Emina, fissò sul tecnigrafo il disegno che
aveva con sé.
L’ufficio progettazione, una stanza ampia e luminosa al terzo piano, con
grandi finestre rivolte a sud, aveva in dotazione, oltre alle solite scrivanie da
ufficio, una decina di tecnigrafi, alcuni fissati quasi in verticale, altri inclinati,
altri ancora orizzontali. Il tecnigrafo di Sologdin, sistemato vicino all’ultima
finestra, la stessa presso cui sedeva Emina, era aperto e messo a piombo, per
isolare totalmente Sologdin dall’ufficio del capo e dalla porta d’ingresso, ma
anche per ricevere il flusso di luce diurna sui disegni appuntati.
Finalmente Sologdin domandò secco:
– Come mai non c’è nessuno?
– Volevo chiederlo a lei – si sentì rispondere in tono cantilenante.
Con un movimento rapido, Sologdin voltò la testa nella sua direzione e,
beffardo, disse:
– Da me potrà sapere soltanto dove sono i quattro zek senza diritti che
lavorano in questa stanza. Glielo dico: uno è stato chiamato a colloquio; Chugo
Leonardovič sta festeggiando il Natale lettone; io sono qui, mentre Ivan
Ivanovič ha avuto il permesso di assentarsi per rammendare i calzini. A me
invece piacerebbe sapere dove sono i sedici liberi, vale a dire i compagni di
gran lunga più responsabili di noi...
Era di profilo rispetto a Emina, tanto che lei riusciva a vedere bene il suo
sorriso indulgente fra i baffetti curati e la curata barbetta alla francese.
– Come? Davvero non sa che ieri sera il nostro maggiore si è messo
d’accordo con Anton Nikolaevič e oggi l’ufficio progettazione ha un giorno
libero? Io invece, neanche a farlo apposta, sono di turno...
– Un giorno libero? – si accigliò Sologdin. – Per quale occasione?
– Come quale? L’occasione è la domenica.
– Da quando la domenica è un giorno libero da queste parti?
– Il maggiore ha detto che per adesso non abbiamo lavori urgenti.
Sologdin si voltò bruscamente verso Emina.
– Noi non abbiamo lavori urgenti? – esclamò lui quasi con sdegno. – Ma
guarda un po’! Non abbiamo lavori urgenti! – Alle labbra rosee di Sologdin
sfuggì un moto d’impazienza. – Desidera forse che da domani faccia in modo
di avervi tutti e sedici qui a copiare giorno e notte? Lo desidera?
Nonostante la spaventosa prospettiva di copiare giorno e notte, Emina
mantenne la calma, condizione davvero adatta alla sua bellezza tranquilla e
voluminosa. Quel giorno non aveva nemmeno sollevato la carta lucida che
ricopriva il suo tavolo da lavoro leggermente inclinato, tanto che la chiave con
cui aveva aperto la stanza vi era ancora adagiata sopra. Appoggiati
comodamente i gomiti sul tavolo (l’aderente manica di lana conferiva pienezza
al suo avambraccio), Emina si dondolava appena, guardando Sologdin con
grandi occhi benevoli:
– Dio ce ne scampi! E lei sarebbe capace di tale malvagità?
– Perché dice ‘Dio’? È o non è la moglie di un čekista?
– Che importanza ha? – si meravigliò Emina. – Prepariamo anche noi i dolci
di Pasqua, no?
– I dolci di Pasqua?!
– Perché?
Sologdin guardò dalla testa ai piedi Emina, lì seduta. Il verde del suo vestito
di lana era intenso, audace. Sia la gonna sia il golfino, entrambi aderenti,
facevano risaltare un corpo con la tendenza a ingrassare. Dal golfino,
sbottonato sul seno, spuntava il colletto della camicetta bianca leggera.
Sologdin tracciò un segno verticale sul foglietto rosa e in tono ostile disse:
– Non aveva detto che suo marito è tenente colonnello dell’MVD?
– Mio marito, sì!... Io e mia madre invece siamo solo donne! – sorrise Emina,
con fare disarmante. Le grosse trecce bionde arrotolate intorno alla testa
formavano una corona maestosa. Sorrideva, e in effetti sembrava proprio una
donna di campagna, ma nell’interpretazione dell’attrice Emma Cesarskaja90.
Senza rispondere Sologdin si sedette storto al proprio tavolo, in modo da
non vedere Emina, e strizzando gli occhi cominciò a esaminare il disegno
appuntato. Si sentiva addosso i fiori del trionfo, gli sembrava di averne ancora
sulle spalle, sul petto, e non voleva perdere quella sensazione.
A un certo punto bisognava dare il via alla vera Grande Vita.
Proprio adesso.
L’arco circumzenitale...
Anche se un dubbio rimaneva...
Ed era il seguente: l’insensibilità agli impulsi di energia ridotta e la
sufficienza dei momenti di Mach erano cose certe, come il fiuto di Sologdin gli
lasciava presagire, anche se ovunque, ovvio, era necessaria una controprova. Ma
l’ultima osservazione di Čelnov sul caos “immobile” l’aveva confuso. Non
indicava un difetto nel suo lavoro, ma un allontanamento dall’ideale. Eppure
Sologdin sentiva con inquietudine che in qualche punto c’era qualcosa che
nemmeno Čelnov aveva colto, e neppure lui stesso aveva compreso, un “ultimo
passo” non compiuto fino in fondo. Ora, in quel silenzio domenicale calato in
modo così propizio, era importante stabilire in cosa consistesse quel qualcosa e
adoperarsi per portarlo a termine. Solo dopo esserci riuscito avrebbe potuto
mostrare il proprio lavoro ad Anton Jakonov e iniziare ad aprirsi un varco in
quei muri di cemento.
Per questo ora faceva lo sforzo di allontanare il pensiero di Emina e di
restare concentrato sul professor Čelnov. Emina gli sedeva accanto da sei mesi,
ma non era mai capitato che parlassero a lungo. E non era nemmeno mai
accaduto che si trovassero faccia a faccia come oggi. Quando lei si concedeva,
come da regolamento, cinque minuti di riposo, a volte Sologdin la prendeva in
giro. Copista alle sue dipendenze per posizione di servizio, Emina era una
signora del ceto al potere per posizione sociale. In una relazione giusta e
naturale, fra loro avrebbe dovuto esserci ostilità.
Sologdin guardava il disegno ed Emina, sempre dondolandosi leggermente
sul gomito, guardava lui. All’improvviso risuonò una domanda:
– Dmitrij Aleksandrovič! Ma, a lei, chi è che le rammenda i calzini?
Sologdin inarcò le sopracciglia.
– I calzini? – disse senza smettere di guardare il disegno. – Ah-ah. Ivan
Ivanyč porta i calzini, perché è ancora nuovo, non sono neanche tre anni che è
dentro. I calzini sono un residuo del cosiddetto... – (si inceppò, essendo
obbligato a usare una parola “da uccello”) – ...capitalismo. Io, i calzini, non li
porto proprio. – E tracciò un piccolo segno verticale su un foglio bianco.
– E allora... cosa porta?
– Lei sta oltrepassando i limiti della discrezione, Larisa Nikolaevna. –
Sologdin non poté evitare di sorridere. – Porto l’orgoglio del nostro
abbigliamento russo, le pezze da piedi!
E pronunciò quelle ultime parole con gusto, trovando piacere anche solo a
parlarne. I suoi passaggi repentini dalla severità alla beffa spaventavano e
divertivano sempre Emina.
– Ma quelle non le portano... i soldati?
– A parte i soldati, anche altre due categorie: i detenuti e i kolchoziani.
– Ma pure quelle andranno... lavate, rattoppate...
– Lei si sbaglia! Chi lava ancora le pezze da piedi oggigiorno? Si portano
tranquillamente per un anno senza lavarle e poi si buttano quando le autorità ti
passano quelle nuove.
– Davvero? Sul serio? – Emina lo guardava quasi impaurita.
Sologdin scoppiò in una risata giovanile, spensierata.
– Comunque, esiste davvero chi la pensa così. E poi, con quali mezzi potrei
permettermi di comprare dei calzini? Lei, per esempio, che è una traccia-copie
dell’MGU, quanto prende di stipendio al mese?
– Millecinquecento.
– Appu-unto! – esclamò Sologdin, in tono trionfale. – Millecinquecento!
Mentre io che sono un fondatore – (nel Linguaggio dell’Estrema Chiarezza
questa parola significava “ingegnere”) – prendo trenta rubli al mese. Che
faccio, butto i soldi così? Nei calzini?
Gli occhi di Sologdin luccicavano allegri. Non a causa di Emina, ma lei
arrossì.
Il marito di Larisa Nikolaevna era un orso. La famiglia per lui era diventata
da tempo un morbido cuscino, e lui per la moglie un accessorio
dell’appartamento. Quando tornava dal lavoro, pranzava a lungo con piacere e
se ne andava a letto. Poi, appena sveglio, leggeva i giornali e girava la manopola
della radio (di tanto in tanto vendeva le sue vecchie radio e ne comprava altre
di ultimo modello). Solo le partite di calcio, per dovere di servizio tifava
sempre Dinamo, suscitavano in lui entusiasmo, perfino passione. Era così
spento, così monotono in tutto. Anche gli altri uomini della sua cerchia
passavano il tempo libero a vantarsi dei propri meriti, delle proprie
onorificenze, a giocare a carte, a bere fino a farsi paonazzi, e così ubriachi, con
le loro manacce, importunavano e toccavano.
Sologdin fissò di nuovo il disegno. Larisa Nikolaevna continuava a
guardarlo senza staccare gli occhi ora dai baffi, ora dalla barbetta, ora dalle
labbra carnose.
Da quella barbetta avrebbe voluto farsi sfregare e strapazzare.
– Dmitrij Aleksandrovič! – ruppe di nuovo il silenzio Larisa. – Le do tanto
fastidio?
– Be’, un pochino sì... – rispose Sologdin. Gli ultimi passi esigevano una
concentrazione profonda e assoluta. Ma la sua vicina lo disturbava. Sologdin
mise da parte per un po’ il disegno, si voltò verso il tavolo, dunque verso
Emina, e cominciò a esaminare alcune carte di poco conto.
Si sentiva l’orologio che lei portava al braccio ticchettare piano.
Nel corridoio passò, conversando in tono riservato, un gruppo di persone.
Dalla porta del Sette lì accanto riecheggiò la voce un po’ blesa di Mamurin: –
Allora, è pronto questo trasformatore? – e il grido stizzito di Markušev: – Non
bisognava darlo a loro, Jakov Ivanyč!
Larisa Nikolaevna aveva messo le braccia incrociate davanti a sé sul tavolo,
per poi appoggiarci sopra il mento e guardare Sologdin così, dal basso verso
l’alto, con fare languido.
Sologdin stava leggendo.
– Ogni giorno! Ogni ora! – sussurrò quasi lei, con venerazione. – In
prigione a lavorare così!... Lei è un uomo fuori del comune, Dmitrij
Aleksandrovič!
Davanti a quella osservazione Sologdin alzò subito la testa.
– Che c’entra la prigione, Larisa Nikolaevna? Sono finito dentro a
venticinque anni e dicono che ne uscirò a quarantadue. Ma io non ci credo. Mi
aggiungeranno di sicuro altri anni. Passerò nei campi di lavoro la parte migliore
della mia vita, nel pieno delle forze. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalle
circostanze esterne, è umiliante.
– Lei segue sempre un sistema!
– In libertà o in carcere, che differenza fa? L’uomo deve coltivare una
volontà inflessibile da sottomettere alla ragione. Degli anni trascorsi dentro,
sette li ho passati nutrendomi di brodaglia, e portavo avanti il mio lavoro
mentale senza zucchero e senza fosforo. Se solo potessi raccontarglielo...
Ma come farlo capire a chi non l’aveva vissuto?
Il carcere istruttorio interno al campo di lavoro, scavato nella montagna. E il
compare-tenente anziano Kamyšan, che per undici mesi aveva tenuto a battesimo
Sologdin, in attesa della seconda condanna, della successiva decina. Ti colpiva
con un bastone sulla bocca per farti cadere i denti, lasciandoti tutto
sanguinante. Se arrivava a cavallo (stava seduto bene in sella), ti picchiava con il
manico dello scudiscio.
Era tempo di guerra. Non avevano da mangiare nemmeno fuori. E dentro?
Niente... E in quella prigione d’isolamento in montagna?
Dopo l’esperienza della prima istruttoria, Sologdin non aveva firmato nulla.
Eppure aveva avuto lo stesso la decina a lui destinata. Dal tribunale era stato
portato direttamente in ospedale. Era in punto di morte. Il suo corpo non
accettava più né il pane né la kaša, e neppure la brodaglia, era destinato a
consumarsi.
Un giorno lo avevano caricato sulla barella e portato all’obitorio: gli
avrebbero spaccato la testa con un grosso martello di legno prima di spostarlo
al cimitero, se lui non avesse ricominciato a muoversi...
– Me lo racconti!...
– No, Larisa Nikolavna! È assolutamente impossibile da descrivere! –
Sologdin glielo assicurava in modo spensierato, con gioia.
E da laggiù! Da laggiù! Che forza di rinnovamento, la vita! Dopo anni di
prigionia, anni di lavoro! Verso dove aveva spiccato il volo?!
– Lo racconti! – implorò quella donna in carne, guardandolo dal basso verso
l’alto, con le braccia incrociate.
Forse una cosa la poteva capire: in quella storia c’entrava una donna.
Kamyšan aveva scelto in fretta perché era geloso di Sologdin a causa di
un’infermiera, una giovane detenuta. Geloso non a torto. Sologdin ricordava
ancora quell’infermiera con una gratitudine del corpo così nitida che in parte
non gli dispiaceva neppure di aver ricevuto un’ulteriore condanna per lei.
Un po’ si somigliavano anche, l’infermiera e la copista: entrambe floride
come un campo di grano. Per Sologdin le donne minute e magroline erano
mostri, uno scherzo della natura.
Con il dito indice, la pelle ben lavata e l’unghia rotonda dallo smalto color
lampone, Emina lisciava inutilmente, senza motivo, un angolino spiegazzato
del lucido di copertura. Aveva la testa quasi sprofondata tra le braccia
incrociate, la risoluta corona delle sue trecce poderose rivolta verso Sologdin.
– Sono colpevole nei suoi confronti, Dmitrij Aleksandrovič...
– Colpevole di cosa?
– Una volta, mentre stavo in piedi vicino al suo tavolo, ho abbassato lo
sguardo e ho visto che scriveva una lettera... Assolutamente per caso, lo sa
come succede... E un’altra volta...
– Ha di nuovo dato un’occhiatina per caso...
– E ho visto che di nuovo scriveva una lettera, sembrava la stessa...
– Ah... è riuscita persino a distinguere che era la stessa?! E una terza volta?
C’è stata?
– Sì...
– Dunque, Larisa Nikolaevna, se la cosa dovesse continuare, mi costringerà a
rinunciare ai suoi servizi di traccia-copie. Peccato, perché lei non disegna affatto
male.
– Ma è successo tempo fa! Da allora lei non ha più scritto.
– E lei, senza indugio, lo avrà riferito al maggiore Šikinidi.
– Perché Šikinidi?
– Be’, Šikin. Gliel’ha riferito?
– Come può pensare una cosa del genere?
– Non si tratta di pensarlo o non pensarlo. Possibile che il maggiore Šikinidi
non l’abbia incaricata di spiare le mie azioni, le mie parole, persino i miei
pensieri? – Sologdin prese la matita e tracciò un altro segnetto sul foglio
bianco. – Le ha dato questo incarico, vero? Me lo dica onestamente!
– Sì... ho ricevuto questo incarico...
– E quante denunce ha scritto?
– Dmitrij Aleksandrovič! Tutt’altro, sul suo conto ho riferito solo cose belle!
– Uhm... Be’ per ora le credo. Ma il mio avvertimento resta valido. È ovvio
che qui si tratta di un caso, ben poco criminoso, di curiosità prettamente
femminile. La soddisferò. È successo in settembre. Ho scritto quella lettera a
mia moglie non per tre, ma per cinque giorni.
– Era proprio questo che volevo chiederle: lei ha una moglie? La sta
aspettando? Le scrive lettere così lunghe?
– Sì, ho una moglie – rispose Sologdin piano, con fare serio – ma è come se
non ci fosse. Non posso nemmeno scriverle delle lettere. Quando scrivevo... no,
non erano lettere lunghe, ma cercavo di perfezionarle. Quella epistolare, Larisa
Nikolavna, è un’arte molto difficile. Noi scriviamo spesso lettere in modo
troppo trascurato, e poi ci meravigliamo se perdiamo le persone care. Sono
molti anni che mia moglie non mi vede, che non sente più le mie mani su di sé.
Le lettere sono l’unico modo che ho, ormai da dodici anni, per trattenerla a me.
Emina si alzò di scatto. Con i gomiti arrivò a sfiorare il bordo del tavolo di
Sologdin, dove si appoggiò, pressando i palmi sul viso ardito.
– E lei è sicuro di volerla trattenere? A che scopo, Dmitrij Alek- sandrovič,
che senso ha? Sono passati dodici anni, ma ne rimangono altri cinque, e in
tutto fanno diciassette! Le sta portando via la giovinezza! A che scopo? La lasci
vivere!
La voce di Sologdin risuonò solenne:
– Esiste, Larisa Nikolaevna, una particolare categoria di donne. Sono le
compagne dei Vichinghi, le Isolde dal viso luminoso e l’anima di diamante. Lei
non le conosce, è vissuta in uno sciocco benessere.
– La lasci vivere! – insisteva Larisa Nikolaevna.
Impossibile riconoscere in lei la signora imponente che incedeva per i
corridoi e le scale della šaraška. Era lì seduta, premuta contro il tavolo di
Sologdin, che respirava forte e il suo viso accaldato – in ansia per la moglie di
Sologdin che lei nemmeno conosceva – si era fatto quasi contadino.
Sologdin socchiuse gli occhi. Conosceva quel genere di donna: avevano un
sottile fiuto per l’impeto maschile, per il successo, per la vittoria. Tutte
all’improvviso anelavano all’attenzione del vincitore. Emina non poteva
saperne niente della conversazione con Čelnov, della fine del lavoro, eppure
percepiva ogni cosa. E volava, spingendolo nella rete di ferro tesa fra loro dal
regime.
Sologdin sbirciò nelle profondità della sua camicetta leggermente aperta e
tracciò un segno sul foglio rosa.
– Dmitrij Aleksandrovič! Devo chiederle un’altra cosa. Sono già molte
settimane che mi tormento... che cosa sono quei segni che fa... e che, alcuni
giorni dopo, poi cancella? Qual è il loro significato?
– Temo che stia di nuovo palesando inclinazioni da sorvegliante. – Sologdin
prese in mano il foglio bianco. – Dunque, faccio così: traccio un segno verticale
ogni volta che uso senza che ce ne sia estrema necessità una parola forestiera
nella lingua russa. Il conto di questi segni mi dà la misura della mia
imperfezione. Ho tracciato questi due per ‘capitalismo’, che non sono stato
capace di sostituire subito con ‘ricconaggine’, e per ‘spiare’, che d’impulso e per
pigrizia non ho sostituito con ‘scrutare’.
– E sul foglio rosa? – volle sapere lei.
– Ah, ha notato anche quelli sul foglio rosa?
– Li traccia persino più spesso di quelli sul foglio bianco. Servono anche
loro a darle la misura della sua imperfezione?
– Sì – rispose Sologdin, in tono brusco. – Sul foglio rosa traccio delle aste di
reprimenda, nel vostro linguaggio, di ‘ammenda’, e poi mi castigo in base al loro
numero. Compenso con il lavoro. Vado al taglio della legna.
– Ammenda per cosa? – domandò lei a bassa voce. Doveva andare in quel
modo! Una volta tanto che si ritrovava davanti a un arco circumzenitale, il
destino capriccioso con una scusa gli mandava nello stesso istante anche una
donna. O tutto o niente, il destino è così.
– Perché lo vuole sapere? – chiese Sologdin, di nuovo in tono severo.
– Perché?... – ripeté Larisa, piano, con aria ottusa.
Una vendetta contro tutti loro, contro il clan dell’MVD! Vendetta e possesso,
tormento e possesso, convergevano in un’unica cosa.
– Non ha notato quando li faccio?
– Sì – rispose Larisa, quasi in un sussurro.
La chiave della porta, con la placchetta di alluminio e il numero della stanza
inciso, si trovava sul suo lucido di copertura.
Davanti a Sologdin respirava un grosso grumo di calda lana verde.
In attesa di istruzioni.
Sologdin socchiuse gli occhi e le ordinò:
– Vai a chiudere la porta! Svelta!
Larisa spinse indietro la sedia dal tavolo e si alzò bruscamente, facendola
cadere con un tonfo.
Cosa si apprestava a fare quello schiavo presuntuoso? Se ne sarebbe pentita?
Afferrò la chiave e, ondeggiando, andò a chiudere.
Sologdin tracciò in fretta cinque segni di fila sul foglio rosa.
Di più non fece in tempo.

90 Emma Cesarskaja (1909-1990), prima stella del cinema sovietico.


34
I FONOASPETTI

Nessuno voleva lavorare di domenica, nemmeno i liberi. Andavano al lavoro


svogliatamente, senza la solita ressa dei giorni feriali sugli autobus, e si
comportavano come se il loro unico compito fosse quello di restare seduti lì
fino alle sei di sera.
Ma quella domenica si rivelò più preoccupante di un giorno feriale. Verso le
dieci del mattino, all’ingresso principale si avvicinarono tre automobili molto
lunghe e molto aerodinamiche. Le sentinelle alla torretta di guardia fecero il
saluto militare. Superato prima l’ingresso, poi il biondo spazzino Spiridon che,
scopa in mano, socchiuse gli occhi al loro passaggio, le auto percorsero i
viottoli di ghiaia spalati dalla neve fino all’entrata principale dell’istituto. Da
tutt’e tre le macchine cominciarono a scendere, con l’oro delle spalline che
scintillava, alcuni alti funzionari e, senza indugio e senza aspettarsi di essere
accolti, presero a salire al secondo piano, diretti all’ufficio di Jakonov. Nessuno
fece in tempo a osservarli come si deve. In alcuni laboratori girò la voce che
fosse arrivato il ministro Abakumov in persona, con i suoi otto generali. In
altri laboratori continuarono a restare seduti tranquilli, senza accorgersi
dell’imminente tempesta.
La verità stava nel mezzo: era arrivato semplicemente il viceministro
Selivanovskij, con quattro generali.
Tuttavia, succedeva una cosa senza precedenti: l’ingegner colonnello
Jakonov non era ancora al lavoro. Mentre il sorvegliante di turno dell’impianto
(chiuso in fretta il cassetto dentro il quale stava leggendo di nascosto un libro)
telefonava spaventato a casa di Jakonov e poi riferiva al viceministro che il
colonnello era rimasto a letto a causa di una crisi cardiaca ma si stava già
vestendo e sarebbe arrivato presto, il vice di Jakonov, il maggiore Rojtman, un
tizio magrolino, aggiustandosi in vita la cintura che portava goffamente, si
precipitò dal Laboratorio Acustico, inciampando nelle passatoie (era parecchio
miope), e si presentò ai superiori. Era corso non soltanto perché così esigeva il
regolamento, ma anche per avere il tempo di difendere gli interessi
dell’opposizione interna dell’istituto da lui capeggiata: Jakonov lo teneva
sempre lontano dai colloqui con i più alti dirigenti. Già a conoscenza dei
dettagli sulla convocazione notturna di Prjančikov, Rojtman si affrettava a
porre rimedio cercando di convincere l’alta commissione che la situazione del
vocoder non era così irrecuperabile come, magari, quella del clipper.
Nonostante avesse solo trent’anni, Rojtman aveva già ottenuto un premio
Stalin e gettava senza paura il proprio laboratorio nel turbine delle avversità
statali.
Si misero ad ascoltarlo una decina fra quanti erano appena giunti, di cui solo
due capivano i particolari tecnici della questione, mentre gli altri si limitavano a
darsi importanza. Tuttavia Mamurin, giallo e balbettante di rabbia, chiamato da
Oskolupov, fece in tempo ad arrivare subito dopo Rojtman e prese le difese del
clipper, già quasi pronto a vedere la luce. Di lì a breve giunse anche Jakonov, gli
occhi infossati e stravolti, il viso di un pallore quasi azzurrino, che si lasciò
cadere su una sedia vicino alla parete. La conversazione si spezzettò, si confuse,
e ben presto nessuno aveva più idea di come trascinare avanti quell’impresa
disastrata.
Si verificò anche il disgraziato caso che quella domenica il cuore e la
coscienza dell’istituto – il compagno oper Šikin e il compagno segretario di
partito Stepanov – si fossero concessi la naturale debolezza di non presentarsi
in servizio, e non si trovavano alla testa del collettivo che dirigevano nei giorni
feriali. (Gesto tanto più perdonabile giacché, com’è noto, una volta impostato a
livello organizzativo nel modo corretto il lavoro generale, la presenza diretta
dei capi nel processo di lavoro non era affatto obbligatoria.) L’angoscia e la
consapevolezza dell’improvvisa responsabilità sopraffecero il sorvegliante di
turno all’istituto. Rischiando di persona abbandonò i telefoni e corse da un
laboratorio all’altro, comunicando in un bisbiglio ai vari capi l’arrivo degli
ospiti straordinari, affinché potessero raddoppiare l’attenzione. Era così agitato
e aveva così fretta di tornare ai suoi telefoni che non fece caso alla porta chiusa
dell’ufficio progettazione e non riuscì ad arrivare al laboratorio del Vuoto,
dove quel giorno, dei liberi, era di turno solo Klara Makarygina.
I capi dei laboratori, a loro volta, non potendo certo chiedere apertamente a
tutti di assumere un’aria laboriosa per l’arrivo dei superiori, non annunciarono
nulla ad alta voce, fecero il giro dei tavoli e avvertirono ognuno separatamente
con un pudico sussurro.
Così l’intero istituto se ne stava seduto ad aspettare i capi. Dopo aver
conferito, una parte dei capi rimase nell’ufficio di Jakonov, un’altra si recò al
Sette, e soltanto Selivanovskij e il maggiore Rojtman scesero all’Acustico: per
sottrarsi anche a questa nuova preoccupazione, Jakonov aveva consigliato
l’Acustico come base idonea dove eseguire l’incarico di Rjumin.
– E in che modo pensa di smascherare quell’uomo? – domandò
Selivanovskij a Rojtman, lungo il tragitto.
Rojtman non poteva aver pensato qualcosa, avendo saputo di quell’incarico
soltanto cinque minuti prima: al posto suo ci aveva pensato la notte precedente
Oskolupov, che senza rifletterci si era messo a quel lavoro. Eppure, in soli
cinque minuti Rojtman aveva già escogitato qualcosa.
– Senta, – disse, chiamando il viceministro per nome e patronimico, senza
nessun servilismo – abbiamo l’apparecchio del linguaggio visibile, il VIR, che
stampa i cosiddetti fonoaspetti, e un uomo che li legge, un certo Rubin.
– Un detenuto?
– Sì, docente di filologia. Da qualche tempo è impegnato qui da me a
ricercare nei fonoaspetti le peculiarità individuali del discorso. Mi auguro che,
una volta trovati i fonoaspetti di quella conversazione telefonica, si possano
confrontare con quelli dei sospettati...
– Uhm... Bisognerà coordinare anche questo filologo con Abakumov – disse
Sevanovskij, scuotendo la testa.
– Per questioni di segretezza?
– Sì.
All’Acustico intanto, sebbene tutti sapessero dell’arrivo dei capi, nessuno
riusciva a vincere completamente la penosa inerzia dell’inattività,
tergiversavano, frugavano pigramente nei cassetti delle valvole, davano
un’occhiata agli schemi sulle riviste, sbadigliavano alla finestra. Le ragazze
salariate si erano riunite in gruppo e, bisbigliando, spettegolavano; l’aiutante di
Rojtman cercava di farle smettere. Simočka, per sua fortuna, non era al lavoro:
si era presa un giorno libero per compensarne uno di straordinario,
risparmiandosi lo strazio di vedere Neržin in ghingheri, raggiante, in attesa del
colloquio con una donna che aveva su di lui maggiori diritti di quanti ne avesse
lei.
Neržin si sentiva il festeggiato, erano già tre volte che passava all’Acustico
senza una vera ragione, solo per l’attesa snervante del corvo, fin troppo in
ritardo. Non si era seduto al proprio posto ma sul davanzale, aspirava con
piacere il fumo di una papirosa e ascoltava Rubin. E Rubin, non avendo trovato
nel professor Čelnov un degno ascoltatore della sua ballata su Mosè, adesso la
leggeva a Gleb con pacato ardore. Rubin non era un poeta, ma a volte
componeva versi sinceri e intelligenti. Di recente Gleb lo aveva elogiato per
l’ampiezza di sguardo nel suo studio poetico su Alëša Karamazov, descritto sia
nel cappotto da allievo ufficiale zarista che difende l’istmo di Perekop sia in
quello da soldato dell’Armata Rossa che assalta il medesimo istmo di Perekop.
Adesso Rubin aveva una gran voglia che Gleb apprezzasse la sua ballata su
Mosè e deducesse da solo che aspettare e credere per quarant’anni fosse
ragionevole, necessario, inevitabile.
Rubin non sapeva vivere senza amici: si sentiva mancare l’aria. La solitudine
era per lui talmente insopportabile che non permetteva ai pensieri di maturare
nella sua testa e, se trovava anche solo un mezzo pensiero, si affrettava a
condividerlo. Per tutta la vita era stato pieno di amicizie, ma in prigione le cose
si erano messe in modo diverso: i suoi amici non avevano le sue stesse idee,
mentre quelli che la pensavano come lui non erano suoi amici.
Insomma nessuno all’Acustico era ancora impegnato a lavorare, tranne
l’allegro e attivo Prjančikov che, superato dentro di sé il ricordo della Mosca
notturna e del folle viaggio, ragionava su come migliorare ancora uno schema,
canticchiando:
Bendzi-bendzi-bendzi-bà-ar,
bendzi-bendzi-bendzi-bà-ar...

Proprio in quel momento entrarono Selivanovskij e Rojtman. Rojtman stava


dicendo:
– In base a questi fonoaspetti, il linguaggio si può misurare usando tre
criteri: frequenza, attraverso il nastro; tempo, lungo il nastro; amplificazione,
nello spessore del disegno. In questo modo ogni suono si delinea in maniera
così unica, originale che è facile riconoscerlo e persino leggere sul nastro
quanto è stato detto. Ecco... – Accompagnò Selivanovskij attraverso il
laboratorio.
– ...l’apparecchio VIR, costruito nel nostro laboratorio, – (Rojtman si era già
dimenticato che avevano scopiazzato l’apparecchio da una rivista americana) –
ed ecco... – Fece voltare con cautela il viceministro verso la finestra.
– ...il candidato in scienze filologiche Rubin, l’unica persona in Unione
Sovietica capace di leggere il linguaggio visibile. – Rubin si alzò e fece un
inchino in silenzio.
Rubin e Neržin erano già trasaliti poco prima, quando sulla soglia Rojtman
aveva pronunciato la parola “fonoaspetti”: il loro lavoro, di cui tutti fino a quel
momento per lo più ridevano, era stato notato. Nei quarantacinque secondi che
c’erano voluti a Rojtman per condurre Selivanovskij da Rubin, Rubin e Neržin,
con l’acutezza e la rapidità tipiche degli zek, avevano capito che si sarebbe
tenuta una dimostrazione della capacità di Rubin di leggere i fonoaspetti e che
solo uno degli speaker “campione” avrebbe potuto pronunciare la frase al
microfono, e l’unico presente nella stanza era Neržin. Si resero anche conto
che, sebbene Rubin leggesse davvero i fonoaspetti, sotto esame avrebbe potuto
prendere una cantonata, e non doveva succedere, perché avrebbe significato
scivolare di nuovo dalla šaraška nell’inferno di un campo di lavoro.
Non c’era stato bisogno di parole, si erano solo guardati tra loro con aria
d’intesa.
Poi Rubin aveva bisbigliato:
– Se scelgono te e decidi tu la frase, di’: ‘I fonoaspetti permettono ai sordi di
parlare al telefono.’
E Neržin aveva bisbigliato:
– Dovesse scegliere lui, indovina dai fonemi. Se mi liscio i capelli, è giusto;
se mi sistemo la cravatta, è sbagliato.
A quel punto Rubin si era alzato e aveva fatto un inchino in silenzio.
Rojtman continuava con la sua voce discontinua, quasi supplichevole, che
anche ad ascoltarla di spalle poteva appartenere solo a un intellettuale:
– Ecco, adesso Lev Grigor’yč ci mostrerà la sua abilità. Uno degli speaker...
be’, diciamo, Gleb Vikent’ič... leggerà al microfono nella cabina acustica una
frase qualsiasi, il VIR la registrerà e Lev Grigor’yč proverà a decifrarla.
In piedi a un passo dal viceministro, Neržin gli piantò in viso lo sguardo
insolente dei campi di lavoro.
– Vuole scegliere lei una frase? – domandò in tono serio.
– No, no, – rispose gentilmente Selivanovskij, distogliendo lo sguardo –
inventi lei qualcosa.
Neržin obbedì, prese un foglio, rifletté un istante, poi si mise a scrivere
ispirato e, nel silenzio generale, consegnò il foglio a Selivanovskij in modo che
nessuno potesse leggerlo, nemmeno Rojtman.
“I fonoaspetti permettono ai sordi di parlare al telefono.”
– Ed è davvero così? – si meravigliò Selivanovskij.
– Sì.
– Vada a leggere, per favore.
Il VIR prese a ronzare. Neržin entrò nella cabina (ah, che aspetto vergognoso
aveva adesso la tela da sacchi che la foderava!... La solita penuria di materiali in
magazzino!) e si chiuse bene dentro. Il meccanismo emise qualche rumore, poi
al tavolo di Rubin fu consegnato un nastro umido di due metri, coperto da una
quantità di strisce d’inchiostro e macchie di sporco.
Tutto il laboratorio aveva interrotto il lavoro e seguiva con attenzione.
Rojtman era visibilmente agitato. Uscito dalla cabina, Neržin osservava da
lontano Rubin con indifferenza. Gli altri stavano in piedi intorno a Rubin,
l’unico seduto, che li irradiava con la sua luminescente calvizie. Avendo pietà
del suo pubblico impaziente, non fece segreto della sua sapienza ieratica e
tracciò subito un segno sul nastro umido con la matita bicolore rosso-blu,
come sempre poco temperata.
– Ecco, vedete, alcuni suoni si indovinano senza la minima difficoltà: per
esempio, le vocali accentate o le consonanti sorde. Lasciando da parte per il
momento articoli e preposizioni, nella prima parola si distingue due volte in
modo nitido la ‘t’, preceduta da una ‘e’ accentata. Lo stesso insieme ‘ett’, si
ripete anche nella seconda parola, che si conclude con una classica desinenza
verbale del presente plurale, ‘-ono’, un gruppo di suoni che ritroviamo anche
nell’ultima parola e nella prima parte della prima parola, solo preceduto da una
sorda spirante, cioè la ‘f’. Sempre nella prima parola si riconosce una coppia
consonantica formata da altre due sorde, una sibilante e un’occlusiva labiale,
vale a dire ‘sp’. A logica dunque può essere solo ‘fonoaspetti’. Ma torniamo alla
seconda parola, che dunque è un verbo: inizia di sicuro con una delle
consonanti sorde della prima parola, vale a dire la ‘p’, che ritroviamo anche
nell’iniziale della quarta parola. La ‘p’ incontra sicuramente due consonanti
sonore, una vibrante e una nasale, la ‘r’ e la ‘m’, legate con una vocale accentata,
dando origine probabilmente al suono ‘rom/rem’ oppure a ‘orm/erm’. A
questo punto direi che si tratta di ‘promettono’ o di ‘permettono’... volendo
essere più precisi... Antonina Valer’janovna, ha preso lei la lente
d’ingrandimento? Posso chiedergliela per un minuto?
La lente non gli serviva affatto, giacché dal VIR si ottenevano registrazioni
piatte, ma Rubin lo faceva, come si usava dire nel campo di lavoro, “per
sfoggio”, con Neržin che rideva fra sé, accarezzandosi distrattamente i capelli
già lisci. Rubin gli lanciò un’occhiata e prese la lente che gli avevano portato.
La tensione generale aumentava, tanto più che nessuno sapeva se Rubin stesse
indovinando o meno. Selivanovskij bisbigliava, stupito:
– È sorprendente... sorprendente...
Nel frattempo, senza farsi notare da nessuno, era entrato in punta di piedi
nella stanza il tenente anziano Šusterman. Non aveva ragione di trovarsi lì, e si
tenne a una certa distanza. Fece un cenno a Neržin di sbrigarsi ma non uscì
con lui, aspettò il momento opportuno per chiamare Rubin. Voleva rispedirlo a
rifarsi la branda come si deve. Non era la prima volta che accompagnava fuori
Rubin con l’ordine di rassettarla.
Intanto Rubin aveva già intuito la parola “sordi” e cercava di indovinare la
quarta parola. Rojtman era raggiante, non solo perché era parte anche lui di
quel trionfo: si rallegrava sinceramente per ogni successo di lavoro.
Fu a quel punto che, sollevando lo sguardo per caso, Rubin incrociò quello
malevolo e arcigno di Šusterman. Capì perché il tenente anziano si trovava lì.
In risposta, gli rivolse un’occhiata piena di gioia maligna: “Fattelo da solo!”
– L’ultima parte è ‘al telefono’: questa combinazione si incontra così spesso
che ci ho fatto l’abitudine, la riconosco subito. Finito.
– Strabiliante! – rispose Selivanovskij. – Scusi, qual è il suo nome e
patronimico?
– Lev Grigor’ič.
– Bene, Lev Grigor’ič, ma nei fonospetti si possono distinguere le peculiarità
individuali delle voci?
– Noi lo chiamiamo ‘uso individuale del linguaggio’. Sì! Al momento
rappresenta appunto l’oggetto delle nostre ricerche.
– Molto bene! A quanto pare, l’attende un compito interessante.
Šusterman uscì in punta di piedi.
35
VIETATI I BACI

Il motore del corvo che aveva l’ordine di trasportare i detenuti a colloquio si era
rotto e, mentre parlavano al telefono per chiarire come fare, si era accumulato
un certo ritardo. Quando intorno alle undici, mandato a chiamare all’Acustico,
Neržin era giunto alla perquisizione, gli altri sei del colloquio si trovavano già lì.
Alcuni erano stati controllati, altri erano in piena perquisizione, altri ancora
aspettavano il proprio turno in posizioni differenti: chi appoggiato con il petto
al grande tavolo, chi passeggiava per la stanza dietro la linea di perquisizione.
Proprio sulla linea, vicino al muro, si trovava il tenente colonnello Kliment’ev,
tutto scintillante, dritto, regolare come un soldatino di carriera prima di una
parata. I compatti baffi neri e la testa nera emanavano un forte odore di acqua
di colonia.
Se ne stava in piedi, le mani incrociate dietro la schiena, come indifferente a
tutto, ma obbligando in realtà i sorveglianti, con la sua sola presenza, a
perquisire in modo scrupoloso.
Neržin fu accolto, con le braccia protese in avanti, sulla linea della
perquisizione da uno dei sorveglianti più malignamente pignoli,
Krasnoguben’kij, il quale gli domandò subito:
– Che cos’ha nelle tasche?
Neržin aveva perso da un pezzo la servile irrequietezza che provano i nuovi
di fronte ai sorveglianti e alla scorta. Non si diede la briga di rispondere e non
si affrettò a rovesciare le tasche di quel completo di cheviot per lui inusuale.
Rivolse a Krasnoguben’kij uno sguardo assonnato, scostò leggermente le
braccia dai fianchi, lasciando che quello gli frugasse nelle tasche. Dopo cinque
anni di carcere, molti preparativi e molte perquisizioni del genere, Neržin non
pensava più, come invece fa sempre uno nuovo, che stava subendo una rude
violenza, che dita sporche gli rovistassero nel cuore lacerato; no, facessero pure
del suo corpo quel che volevano, nulla avrebbe guastato la sua crescente
radiosità.
Krasnoguben’kij aprì il portasigarette che Potapov aveva appena regalato a
Neržin, esaminò i filtri di tutte le sigarette per assicurarsi che dentro non vi
fosse nascosto nulla, frugò tra i fiammiferi nella scatola per verificare che non
vi fosse qualcosa sotto, controllò gli orli del fazzoletto da naso per accertarsi
che non vi fosse cucito qualcosa dentro, e nelle tasche non trovò altro. Allora
infilò le mani fra la camicia e la giacca aperta e palpeggiò il petto di Neržin per
scoprire se avesse nascosto qualcosa sotto la camicia o fra la camicia e il
pettino. Dopodiché si accovacciò sui talloni e, passò dall’alto verso il basso con
entrambe le mani prima lungo una gamba, poi lungo l’altra. Quando
Krasnoguben’kij si era messo in quella posizione, Neržin aveva potuto vedere
bene l’incisore-decoratore camminare avanti e indietro nervosamente, e intuì
perché fosse tanto agitato: in prigione il tizio aveva scoperto di avere talento
per i racconti e scriveva sulla prigionia tedesca, sugli incontri in cella, sui
tribunali. Aveva già fatto uscire dal carcere uno o due di quei racconti tramite
la moglie, ma anche fuori, a chi poteva mostrarli? Bisognava nasconderli anche
là. E dentro non potevano restare. Non c’era modo di portare con sé un solo
pezzetto di carta scritta. Eppure un vecchio amico di famiglia li aveva letti e
aveva fatto sapere all’autore, tramite la moglie, che era raro incontrare un’arte
così compiuta ed espressiva, persino in Čechov. Un parere che aveva molto
incoraggiato l’incisore.
Così, anche per il colloquio di quel giorno, l’uomo aveva scritto un racconto
e gli sembrava magnifico. Giunto però alla perquisizione, davanti a
Krasnoguben’kij gli era mancato il coraggio e, voltatosi, aveva trangugiato il
pezzetto di carta appallottolato sul quale l’aveva scritto con una calligrafia
microscopica. Ora però era stizzito di averlo inghiottito: magari poteva anche
passare.
Krasnoguben’kij disse a Neržin:
– Si levi le scarpe.
Neržin appoggiò un piede sullo sgabello, si slacciò la scarpa e, con un
movimento simile a un calcio, la scagliò via senza guardare dove volasse,
mettendo in mostra un calzino logoro. Krasnoguben’kij raccolse la scarpa, vi
rovistò dentro con una mano, piegò la suola. Con la stessa faccia
imperturbabile, Neržin scagliò la seconda scarpa, e mise in mostra il secondo
calzino logoro. Forse, per via dei calzini pieni di buchi, Krasnoguben’kij non
sospettò che ci fosse nascosto qualcosa e non gli chiese di toglierli.
Neržin si rinfilò le scarpe. Krasnoguben’kij si accese una sigaretta.
Quando Neržin aveva scagliato via le scarpe il tenente colonnello era
trasalito per lo sdegno. Riteneva il gesto un’offesa intenzionale al suo
sorvegliante. Se non avesse difeso i sorveglianti, i detenuti avrebbero messo i
piedi in testa all’amministrazione carceraria. Kliment’ev si pentì nuovamente
della sua benevolenza e quasi voleva trovare un pretesto per proibire il
colloquio a quello sfacciato che non si vergognava della sua condizione di
criminale, anzi sembrava che se ne beasse.
– Attenzione! – cominciò a dire in tono severo, e i sette detenuti e i sette
sorveglianti si voltarono dalla sua parte. – Conoscete le disposizioni. Ai parenti
non si può passare nulla. E nulla si può ricevere da loro. Qualunque cosa deve
passare tramite me. Nei colloqui è vietato trattare le seguenti tematiche: lavoro,
condizioni di lavoro, condizioni di vita, orario della giornata, collocazione
dell’impianto. Non si possono fare cognomi. Sul vostro conto potete soltanto
dire che tutto va bene e non avete bisogno di niente.
– Di che si può parlare allora? – gridò qualcuno. – Di politica?
Kliment’ev non si scomodò nemmeno a rispondere a quell’assurdità.
– Della nostra colpa – suggerì un altro detenuto, in tono cupo. – Del nostro
pentimento.
– Nemmeno del vostro caso giudiziario si può, è segreto – negò Kliment’ev,
imperturbabile. – Domandate notizie della vostra famiglia, dei figli. Andiamo
avanti. C’è una nuova disposizione: dal colloquio di oggi sono vietati i baci e le
strette di mano.
A Neržin, rimasto del tutto indifferente sia alla perquisizione sia alle ottuse
disposizioni che già sapeva come aggirare, davanti al divieto dei baci, si
annebbiò la vista.
– Ci vediamo una volta all’anno... – gridò con voce roca a Kliment’ev, che si
voltò soddisfatto dalla sua parte in attesa che Gleb continuasse a sbottare.
Neržin ebbe quasi l’impressione di sentire in anticipo Kliment’ev sbraitare:
“Sospendo il colloquio!!”
E gli morì la voce in gola.
Il suo colloquio, annunciato all’ultimo momento, non aveva l’aria di essere
del tutto legale e non ci voleva niente a cancellarlo...
C’è sempre un pensiero come quello a frenare quanti potrebbero gridare la
verità o pretendere giustizia.
Da vecchio detenuto, doveva essere padrone della propria ira.
Non incontrando opposizione, Kliment’ev, impassibile e preciso, aggiunse:
– In caso di baci, strette di mano o qualsiasi altra violazione, il colloquio
verrà interrotto immediatamente.
– Ma mia moglie non lo sa! Lei mi bacerà! – disse l’incisore, stizzito.
– Saranno avvertiti anche i parenti – dichiarò Kliment’ev.
– Non c’è mai stata una disposizione del genere!
– Adesso c’è.
(Stupidi! E stupido il loro sdegno! Come se quella disposizione fosse di
Kliment’ev, e non arrivasse fresca dall’alto!)
– Quanto dura il colloquio?
– E se viene mia madre, non la fate passare?
– Il colloquio dura trenta minuti. Lascerò passare solo la persona a cui è
stato spedito l’avviso.
– E mia figlia che ha cinque anni?
– Bambini e ragazzi fino a quindici anni passano con gli adulti.
– E se uno ne ha sedici?
– Non lo facciamo entrare! Altre domande? Procediamo con il trasbordo.
All’uscita!
Sorprendente! Non li trasportavano su un corvo, come avevano sempre fatto
negli ultimi tempi, ma su un autobus urbano azzurro dalle dimensioni ridotte.
L’autobus era davanti alla porta del comando. I cappelli flosci, le mani nelle
tasche (dove tenevano le pistole), tre sorveglianti in borghese, probabilmente
nuovi, salirono a bordo per primi e si piazzarono in tre angoli: due di loro
avevano l’aria a metà fra il pugilatore a riposo e il gangster. Indossavano
cappotti di ottima fattura.
La brina del mattino stava già svanendo. Non c’era né gelo né disgelo.
I sette detenuti salirono sull’autobus dall’unica porta anteriore e si sedettero.
Poi fu il turno dei quattro sorveglianti in divisa.
L’autista chiuse la porta e avviò il motore.
Il tenente colonnello Kliment’ev salì su una macchina.
36
LA FONOSCOPIA

A mezzogiorno, nel vellutato silenzio e nella levigata comodità dell’ufficio di


Jakonov, il suo occupante non c’era: si trovava al Sette, impegnato nello
“sposalizio” tra il clipper e il vocoder (l’idea di riunire i due impianti in uno
era venuta quella mattina all’avido Markušev ed era stata colta al volo da molti
che avevano un certo interesse nella faccenda; si erano opposti soltanto
Bobynin, Prjančikov e Rojtman, ma nessuno aveva dato loro retta).
Nell’ufficio, però, c’erano Selivanovskij, il generale Bul’banjuk (che
rappresentava Rjumin), il tenente Smolosidov dell’istituto di Marfino e il
detenuto Rubin.
Il tenente Smolosidov era un uomo pesante. Anche a credere che in ogni
creatura ci sia qualcosa di buono, nel suo sguardo di ghisa mai sorridente, nel
suo modo triste e goffo di serrare le grosse labbra, era difficile trovarne. La
mansione da lui ricoperta in uno dei laboratori era davvero modesta: poco più
di un montatore radio, prendeva meno di duemila rubli al mese, come l’ultima
delle ragazzine, anche se a dire il vero all’istituto ne rubava altri mille in
componenti radio di difficile reperibilità che rivendeva al mercato nero; ma era
chiaro a tutti che la posizione e il reddito di Smolosidov non si limitavano a
questo.
I liberi della šaraška lo temevano, persino quelli che giocavano con lui a
pallavolo. A incutere timore era il suo viso, sul quale era impossibile
distinguere anche solo un lampo di sincerità. A far paura era la particolare
fiducia che gli dimostravano i capi supremi. Dove abitava? E, in generale, aveva
una casa? E una famiglia? Non frequentava quelle dei colleghi, con nessuno di
loro trascorreva il tempo libero oltre il recinto dell’istituto. Della sua vita
passata non si conosceva nulla, a parte le tre decorazioni di guerra sul petto e
l’imprudente vanteria sfuggitagli una volta, che in tutta la guerra non c’era stata
parola pronunciata dal maresciallo Rokossovskij che lui, Smolosidov, non
avesse ascoltato. Quando gli avevano chiesto come fosse possibile, aveva
risposto che era stato il radiotelegrafista personale del maresciallo.
Quando si erano domandati a quale dei liberi affidare il registratore con lo
scottante nastro segreto, dalla cancelleria del ministro era giunto subito
l’ordine: a Smolosidov.
Adesso Smolosidov stava sistemando il registratore sul tavolinetto laccato,
mentre il generale Bul’banjuk, la cui testa sembrava una grossa patata cresciuta
oltre misura, con i bitorzoli del naso e delle orecchie, diceva:
– Ora lei è un detenuto, Rubin. Ma un tempo è stato un comunista e, forse,
un giorno potrà tornare a esserlo.
“Sono un comunista anche ora!” avrebbe voluto esclamare Rubin, ma era
umiliante doverlo dimostrare a Bul’banjuk.
– Dunque, il governo sovietico e i nostri organi ritengono possibile
dimostrarle fiducia. Da questo registratore sentirà un segreto di Stato di
portata mondiale. Contiamo sul suo aiuto per catturare questo mascalzone
desideroso di vedere la patria minacciata dalla bomba atomica. Ovviamente, al
minimo tentativo di rivelare questo segreto lei sarà eliminato. Tutto chiaro?
– Sì – tagliò corto Rubin, temendo più d’ogni altra cosa che lo
allontanassero dal nastro. Persa da tempo ogni possibilità di raggiungere un
successo personale, per Rubin le sorti dell’umanità significavano le sorti della
sua famiglia. Quel nastro che non aveva ancora ascoltato lo coinvolgeva già
personalmente.
Smolosidov fece partire il nastro.
Nel silenzio dell’ufficio, tra lievi impurità e fruscii, riecheggiò il dialogo tra
un americano indolente e un russo disperato.
Rubin prese a fissare il drappo variopinto che copriva l’altoparlante quasi
cercasse di scorgervi il volto del suo nemico. Quando guardava in modo così
deciso, il viso gli si contraeva, assumendo un aspetto crudele. Non si poteva
implorare pietà a un uomo con una faccia simile.
Dopo le parole: “E l-lei chi è? Mi dica suo cognome.” Rubin si appoggiò allo
schienale della poltrona, sentendosi un uomo nuovo. Si era dimenticato dei
funzionari presenti, e che sulle sue spalle non scintillavano più da tempo le
stellette da maggiore. Riaccese la sigaretta ormai spenta e ordinò secco: – Bene,
ancora una volta.
Smolosidov schiacciò il pulsante per riavvolgere il nastro.
Erano tutti ammutoliti. Sentivano incombere sopra di loro la ruota di fuoco.
Rubin fumava, masticando e schiacciando il filtro della papirosa. Qualcosa gli
scoppiava dentro. Lui, degradato, disonorato, era di nuovo necessario! Avrebbe
avuto ancora l’occasione di lavorare a favore della vecchia signora, la Storia.
Era di nuovo sulla breccia! Agiva di nuovo in difesa della Rivoluzione
Mondiale!
L’odioso Smolosidov sedeva davanti al registratore come un cane mogio.
Dietro la spaziosa scrivania di Anton, con fare altezzoso, il tronfio Bul’banjuk
teneva su la testa di patata con la mano, e molta della pelle in eccedenza del
collo bovino gli strabordava dal palmo. Come e quando era nata quella razza
imperturbabile e compiaciuta di sé? Aveva avuto origine dal seme della
spocchia? Quant’erano svegli e vivaci i suoi compagni di un tempo! Com’era
accaduto che tutto l’apparato fosse toccato in sorte proprio a questi qui, che
stavano spingendo il resto del paese verso la morte?
Rubin li trovava nauseanti, non aveva voglia nemmeno di guardarli. Li
avrebbe fatti saltare in aria, lì, in quell’ufficio, con una bomba a mano!
Ma a quel punto di svolta della storia, obiettivamente, erano loro a
rappresentarne le forze positive, a incarnare la dittatura del proletariato e la
patria di Rubin.
Bisognava andare oltre i propri sentimenti! Li doveva aiutare!
Proprio maiali come quelli, ma della sezione politica dell’esercito, lo avevano
fatto finire in prigione non sopportando il suo talento e la sua onestà. Maiali
come quelli, ma della Procura militare centrale, avevano rigettato in quattro
anni decine di suoi reclami-denuncia in cui si dichiarava innocente. Era
necessario salvare l’idea. Salvare la bandiera. Servire l’ordine progressista.
Ed era necessario andare oltre la propria sorte sfortunata!
Il nastro giunse al termine.
Rubin schiacciò il mozzicone, affondandolo nel posacenere, si sforzò di
guardare Selivanovskij, che almeno aveva un’aria discreta, e disse:
– Va bene. Proviamoci. Ma se non avete nessun sospetto in mente, come
faremo a trovarlo? Non è possibile registrare le voci di tutti i moscoviti. Con
quale voce la confronteremo?
Bul’banjuk lo tranquillizzò:
– Davanti a quella cabina ne abbiamo catturati quattro. Ma è difficile che sia
stato uno di loro. Al Ministero degli Affari esteri, però, potevano saperlo solo
questi cinque. Ovviamente non ho considerato Gromyko e qualcun altro.
Eccoli qui, non ho indicato il grado e la carica che rivestono, in modo che lei
non abbia timore di incolpare qualcuno.
Gli allungò il foglietto di un taccuino. C’era scritto:

Petrov
Sjagovityj
Volodin
Ščevronok
Zavarzin

Rubin lesse l’elenco e fece per infilarselo in tasca.


– No, no! – lo mise in guardia Selivanovskij, con decisione. – L’elenco deve
rimanere a Smolosidov.
Rubin riconsegnò il foglietto. Non percepì quella precauzione come
un’offesa, la cosa lo fece ridere. I cinque nomi, tanto, gli si erano già piantati
nella memoria: Petrov! Sjagovityj! Volodin! Ščevronok! Zavarzin! I lunghi studi
linguistici si erano a tal punto radicati in lui che in quel breve lasso era riuscito
subito a identificare l’origine di due cognomi: sjagovityj, vale a dire “veloce nella
corsa”; ščevronok, “allodola”.
– Vi prego di registrare almeno una conversazione telefonica di tutti e
cinque – disse con freddezza.
– Domani le avrà.
– Inoltre, vicino a ognuno segnate l’età. – Rubin rifletté. – Ed elencate quali
altre lingue parlano.
– Sì, – concordò Selivanovskij – ci avevo pensato anch’io: perché non si è
messo a parlare in una lingua straniera? Che razza di diplomatico è? Oppure è
particolarmente furbo?
– Potrebbe aver incaricato qualche ingenuo! – disse Bul’banjuk, battendo sul
tavolo la mano flaccida.
– Di chi ti fideresti per un compito simile?
– Bisogna scoprire in fretta se uno di questi cinque è colpevole – chiarì
Bul’banjuk. – E in caso contrario, ne prenderemo altri cinque, e altri
venticinque!
Dopo aver ascoltato, Rubin si chinò sul registratore:
– Ho bisogno di questo nastro a tempo pieno, oggi stesso.
– Lo terrà il tenente Smolosidov. Lui la accompagnerà in una stanza isolata
della Sezione di massima segretezza.
– La stanno già sgomberando – disse Smolosidov.
L’esperienza aveva insegnato a Rubin quanto fosse importante non porre
mai una domanda rischiosa come “per quando?”, in modo che non chiedessero
a lui la stessa cosa. Sapeva che si trattava di un lavoro di una o due settimane,
ma tirando per le lunghe, avrebbe potuto anche farlo durare diversi mesi; se
invece avesse domandato ai capi: “Per quando occorre?” gli avrebbero risposto:
“Domattina.” Così si informò:
– Con chi altro posso parlare di questo lavoro?
Dopo aver scambiato un’occhiata con Bulbanjuk, Selivanovskij rispose:
– Soltanto con il maggiore Rojtman. Con Foma Gurjanovič. E con il
ministro.
Bul’banjuk domandò:
– Si è già dimenticato il mio avvertimento? Devo ripeterglielo?
Rubin si alzò senza permesso e guardò il generale con gli occhi ridotti a due
fessure, quasi stesse osservando qualcosa di piccolo.
– Ci devo riflettere – disse senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Non ci furono obiezioni.
Rubin uscì dall’ufficio con il viso ombroso, passò davanti al sorvegliante di
turno e, senza notare nessuno, cominciò a scendere le scale lungo le passatoie
rosse.
Bisognava trascinare anche Gleb in quel nuovo gruppo. Come poteva
lavorare senza consigliarsi con qualcuno?... Il compito sarebbe stato troppo
difficile. Il lavoro sulle voci era appena iniziato. Erano alla prima
classificazione. Ai primi termini.
In lui si era acceso l’entusiasmo del ricercatore.
In effetti, si trattava di una scienza nuova: scovare un criminale
dall’impronta della sua voce.
Fino a quel momento i criminali si scovavano dalle impronte digitali. La
chiamavano dattiloscopia, osservazione delle dita. C’erano voluti secoli per
elaborarla.
La nuova scienza invece avrebbe potuto chiamarsi “osservazione della voce”
(così l’avrebbe definita Sologdin), “fonoscopia”. E doveva essere creata in
pochi giorni.
Petrov. Sjagovityj. Volodin. Ščevronok. Zavarzin.
37
UNA MUTA CAMPANA A MARTELLO

Neržin prese posto accanto al finestrino sul morbido sedile, appoggiandosi al


morbido schienale, e si abbandonò al primo piacevole dondolio. Accanto a lui
sul divanetto biposto sedeva Illarion Pavlovič Gerasimovič, fisico-ottico, un
uomo piuttosto basso, spalle strette, viso ostentatamente da intellettuale e un
pince-nez come quelli che disegnano alle spie sui nostri manifesti.
– Be’, a quanto pare, mi sono abituato a tutto – gli confidò a bassa voce
Neržin. – Posso posare il deretano nudo sulla neve senza grossi problemi, stare
con altri venticinque in uno scompartimento mentre le guardie spaccano le
valigie: niente ormai mi addolora e mi fa perdere le staffe. Tuttavia c’è ancora
un filo vivo che si dipana dal mio cuore e che non svanirà mai: l’amore per mia
moglie. Se toccano lei, io non resisto. Vedersi una volta all’anno per mezz’ora e
non potersi baciare? Per un colloquio ti sputano nell’anima, maledetti.
Gerasimovič inarcò le sopracciglia sottili. Sembravano tristi persino quando
rifletteva sugli schemi di fisica.
– Probabilmente, – rispose – c’è un solo modo per essere invulnerabili:
uccidere dentro di sé ogni forma di attaccamento e rinunciare a ogni desiderio.
Gerasimovič era alla šaraška di Marfino solo da qualche mese e Neržin non
aveva ancora fatto in tempo a conoscerlo bene. Eppure gli piaceva in modo
indicibile.
Smisero di conversare, tacquero di colpo: il viaggio fino al colloquio è un
evento troppo grande nella vita di un detenuto. È il momento per risvegliare la
propria cara anima dimenticata, addormentata nel sepolcro. Riemergono
ricordi che non trovano spazio in altri giorni. Si raccolgono sentimenti e
pensieri di un anno intero, di molti anni, da fondere in quei brevi minuti di
unione con la persona cara.
L’autobus si fermò davanti alla torretta di guardia. Il sergente di turno salì i
gradini, si affacciò alla porta dell’autobus e contò due volte con lo sguardo i
detenuti in procinto di uscire (prima il sorvegliante capo aveva firmato alla
torretta per sette persone). Poi si infilò sotto l’autobus, controllò che nessuno
si fosse aggrappato alle balestre (neanche un demonio incorporeo avrebbe
potuto reggersi un minuto!), rientrò nella torretta e soltanto allora spalancò i
primi cancelli, e poi i secondi. L’autobus attraversò la linea incantata e,
sussurrando con gli allegri pneumatici, corse per il Vladykinskoe Šosse coperto
di brina, passando accanto al Giardino botanico.
L’estrema segretezza dell’impianto obbligava gli zek di Marfino a quei viaggi:
i parenti che andavano al colloquio non dovevano sapere dove vivessero i loro
cadaveri ambulanti, se provenivano da cento chilometri di distanza o dalle
porte della torre Spasskaja, se giungevano dall’aerodromo o dall’altro mondo. I
parenti vedevano soltanto persone sazie, ben vestite, con le mani bianche, che
avevano perso la loquacità di un tempo, sorridevano tristi e assicuravano di
avere a disposizione tutto e di non avere bisogno di niente.
Quei colloqui erano qualcosa di simile alle stele dell’antica Grecia: lastre di
bassorilievi con raffigurati il defunto e i vivi che gli avevano fatto erigere il
monumento. Ma sulle stele c’era sempre una piccola striscia che separava
questo mondo da quello ultraterreno. I vivi guardavano con affetto il morto,
mentre il morto guardava verso l’Ade, e lo faceva con uno sguardo che non era
né allegro né triste: uno sguardo trasparente, che aveva visto forse troppo.
Neržin si voltò a osservare dalla collinetta quello che non gli era quasi mai
capitato di vedere: l’edificio in cui abitavano e lavoravano, l’edificio di mattoni
scuri del seminario, con la cupola sferica color ruggine scuro sopra quella
meraviglia della loro stanza semicircolare, e ancora più in alto il “sestino”,
come chiamavano le torri esagonali nell’antica Russia. Sulla facciata sud, dietro
la quale si trovavano l’Acustico, il Sette, l’ufficio progettazione e l’ufficio di
Jakonov, le file regolari di finestre che non si aprivano mai avevano un aspetto
uniforme e impassibile, e i moscoviti delle zone periferiche e chi veniva a
passeggiare nel parco di Ostankino non poteva immaginare quante vite
eccezionali, quanti slanci calpestati, quante passioni estirpate e quanti segreti di
Stato si fossero concentrati, serrati, intrecciati e arroventati in quell’antico e
solitario edificio suburbano. Persino al suo interno si insinuavano i segreti. Una
stanza non conosceva l’esistenza di un’altra. Un vicino del suo vicino. Gli oper
invece non sapevano nulla di quelle donne, le ventidue irragionevoli, folli
donne, collaboratrici libere, ammesse nel severo edificio – proprio come quelle
non sapevano, l’una dell’altra, qualcosa che avrebbe potuto conoscere soltanto
il cielo, vale a dire che tutte e ventidue, con una scure sopra la testa, nonostante
le disposizioni ripetute, si erano trovate lì un affetto segreto, amavano e
baciavano di nascosto qualcuno, o gli dispiaceva per qualcun altro e lo
tenevano in contatto con la famiglia.
Gleb aprì il portasigarette rosso scuro e si mise a fumare con il particolare
piacere che sanno dare le sigarette accese nei momenti straordinari della vita.
Sebbene il pensiero di Nadja fosse ora il più elevato, capace di assorbire
tutto, il corpo di Gleb godeva dell’eccezionalità di quel viaggio e desiderava
solo andare, andare e andare... Desiderava che il tempo si fermasse, e l’autobus
andasse, andasse su quella strada coperta di neve, con i neri solchi tracciati
dagli pneumatici, accanto a quel parco bianco immerso nella brina, ai suoi rami
fittamente intrecciati, al guizzare dei ragazzini il cui chiacchiericcio, in effetti,
Neržin non sentiva più dall’inizio della guerra. Non capitava di ascoltare le
voci dei bambini né ai soldati né ai detenuti.
Nadja e Gleb erano vissuti insieme solo un anno. Passato sempre di corsa,
con le borse sotto il braccio. Frequentavano entrambi il quinto anno
d’università, scrivevano le loro tesi di laurea, erano in procinto di dare gli esami
di Stato.
Poi d’un tratto era arrivata la guerra.
E c’era già chi si vedeva correre intorno buffi bimbetti con le gambine corte.
Ma loro niente...
Uno di quei ragazzini fece per attraversare lo stradone di corsa. L’autista
scartò bruscamente per evitarlo. Il piccolo si spaventò, si fermò in mezzo alla
strada e si portò la manina nella manopola blu al viso tutto rosso.
Neržin, che per anni ai bambini non aveva mai pensato, all’improvviso capì
che Stalin aveva derubato lui e Nadja dei loro figli. Anche se la sua condanna
fosse giunta al termine, e loro due fossero tornati insieme, sua moglie avrebbe
avuto trentasei anni, o magari quaranta. Troppo tardi per un bambino...
Lasciato sulla sinistra il palazzo di Ostankino, e a destra il lago con i colorati
ragazzini sui pattini, l’autobus si addentrò in alcune stradine, vibrando
sull’acciottolato.
Nel descrivere le carceri ci si sforza sempre di condensarne l’orrore. Ma non
è forse più orribile quando l’orrore non c’è? Quando consiste nel grigio
ripetersi delle settimane? In cui finisci per dimenticare che l’unica vita che ti è
stata concessa sulla terra è perduta. E sei pronto a scusare anche questo, come
hai già scusato chi è ottuso. Ti preoccupi solo di afferrare dal vassoio del
carcere un pezzo di pane che sia un cantuccio e non un pezzo al centro, di
ricevere per il cambio biancheria che non sia né bucata né troppo piccola.
Tutto questo va vissuto sulla propria pelle. Non si può inventare. Per
scrivere: “Sono dietro le sbarre nell’umida segreta...” oppure: “Apritemi la
cella... datemi una ragazza dagli occhi neri”91, quasi non serve essere stati in
prigione, è facile da immaginare. Si tratta di un’estrema semplificazione. Solo
attraverso anni continui e infiniti si forma l’autentica esperienza del carcere.
In una lettera Nadja scriveva: “Quando tornerai...” Sta in questo l’orrore, un
ritorno non ci sarà. Tornare non si può. Dopo quattordici anni al fronte e poi in
carcere, è probabile che del tuo corpo di prima non resti nemmeno una singola
cellula. Si può solo giungere ex novo. E ad arrivare sarà un uomo nuovo,
sconosciuto, con lo stesso cognome del marito di prima, e la moglie vedrà che
l’altro, il suo primo e unico amore, quello che lei, chiudendosi al mondo, ha
aspettato per quattordici anni, non esiste più, si è volatilizzato, molecola dopo
molecola.
Andrà bene se, nella seconda nuova vita, si ameranno ancora l’un l’altra.
Ma se non accadesse?
E dopo tanti anni, avrai ancora voglia di uscire in quella libertà, quello
sfrenato vortice superficiale, ostile al cuore umano, contrario alla quiete
dell’anima? Ti fermerai sulla soglia della prigione, strizzando gli occhi e
domandandoti se andare o non andare?
Oltre i finestrini sfilavano le strade della periferia di Mosca. Di notte, dal
loro luogo di detenzione, per il chiarore diffuso nel cielo Mosca sembrava
scintillare tutta, era come sfolgorante. Lì invece si alternavano case a uno o due
piani non ristrutturate da tempo, con l’intonaco scrostato e le staccionate di
legno storte. Probabilmente era dalla guerra che nessuno ci metteva mano, gli
sforzi venivano impiegati in altro. E da altre parti, da Rjazan’ a Ruzaevka, dove
agli stranieri non era permesso andare, potevi procedere per trecento verste e
non vedere altro che tetti di paglia marci.
La testa appoggiata al vetro del finestrino vibrante mezzo appannato,
udendo a malapena le proprie parole sopra il rumore del motore, con un filo di
voce Gleb bisbigliò:
– Russia mia... vita mia... dobbiamo penare a lungo?92
L’autobus sbucò nella vasta piazza affollata della stazione Rižskij. In quella
giornata un po’ torbida, nuvolosa e coperta di brina, andavano e venivano tram,
filobus, automobili, persone, eppure un solo colore strideva: il viola-rosso
acceso di uniformi che Neržin non aveva mai visto.
Tra un pensiero e l’altro, anche Gerasimovič notò quelle divise da
pappagallo e, rivolgendosi a tutto l’autobus, le sopracciglia di colpo alzate,
disse: – Guardate! Ecco i gendarmi! Di nuovo i gendarmi.
Oh, sono questi?... A Gleb tornarono in mente le parole di uno dei capi del
Komsomol all’inizio degli anni Trenta:
“A voi, compagni giovani pionieri, non capiterà mai di vedere un gendarme
in carne e ossa.”
– È capitato... – ridacchiò tra sé Gleb.
– Eh? – non capì Gerasimovič.
Neržin si piegò verso il suo orecchio:
– La gente si è talmente istupidita che, se uno si mettesse in mezzo a una
strada a gridare: ‘Abbasso il tiranno! Viva la libertà!’, quella non capirebbe
nemmeno di quale tiranno e di quale libertà stia parlando.
Gerasimovič sospinse le rughe della fronte verso l’alto.
– E lei, per esempio, è sicuro di capire?
– Credo di sì – disse Gleb storcendo la bocca.
– Non ne sia troppo convinto. Le persone non sanno ben figurarsi quale
libertà sia necessaria a una società basata sulla ragione.
– Perché, una società basata sulla ragione sanno forse figurarsela? Lo ritiene
possibile?
– Penso di sì.
– Non saprebbe descrivermela nemmeno a grandi linee. Non c’è ancora
riuscito nessuno.
– Ma qualcuno un giorno ci riuscirà – insisté Gerasimovič, irrigidendosi un
po’.
Si scrutarono per un attimo.
– Lo ascolterei volentieri – affermò Neržin, senza insistere.
– Un giorno, magari... – annuì Gerasimovič con la sua testa piccola e stretta.
E tornarono a sobbalzare entrambi e a divorare la strada con gli occhi,
abbandonandosi ai loro pensieri discontinui.
Incredibile che Nadja lo avesse aspettato tanti anni... Camminare in mezzo a
quella folla irrequieta sempre alla ricerca di qualcosa, sentire su di sé gli sguardi
degli uomini e non vacillare mai nel suo cuore... Gleb immaginò come sarebbe
andata se fosse accaduto il contrario, se fosse stata Nadja in prigione e lui
libero: Neržin forse non avrebbe retto neanche un anno. Come avrebbe potuto
ignorare tutte quelle donne? Mai avrebbe sospettato nella sua debole compagna
una simile granitica determinazione. Il primo, secondo, terzo anno di prigione
era sicuro che Nadja sarebbe cambiata, si sarebbe trasferita, dileguata,
allontanata. Ma non era successo. E ormai Gleb aveva iniziato a considerare la
sua attesa come l’unica cosa possibile. Aveva la sensazione che ormai per Nadja
fosse diventato persino facile aspettare.
Subito, nella prigione di transito di Krasnaja Presnja, dopo sei mesi
d’istruttoria, appena ricevuto per la prima volta il diritto a scrivere una lettera,
su un pezzo di carta da pacchi stropicciato e piegato a triangolo, senza
francobollo, Gleb aveva scritto con un frammento di lapis:
“Mia adorata! Mi hai aspettato per quattro anni durante la guerra; non
maledire di aver atteso inutilmente: ora ce ne saranno altri dieci. Per tutta la
vita ricorderò come il sole la nostra breve felicità. Da oggi considerati libera.
Non c’è bisogno che vada perduta anche la tua vita. Risposati.”
Ma di quella lettera Nadja aveva capito soltanto una cosa:
“Dunque non mi ami più! Come puoi cedermi a un altro?”
Le aveva chiesto di raggiungerlo persino al fronte, alla testa di ponte oltre il
Dnepr, con un tesserino dell’Armata Rossa contraffatto. Era giunta passando
attraverso il controllo dei reparti di sbarramento. Alla testa di ponte, poco
tempo prima mortale ma in quel periodo un punto di difesa tranquillo in
mezzo a prati lievi, avevano strappato brevi giornate alla loro felicità rubata.
Ma gli eserciti si erano risvegliati, erano passati all’offensiva, e Nadja era
dovuta tornare a casa, di nuovo nello stesso sgraziato giubbotto militare, con lo
stesso falso tesserino dell’Armata Rossa. Un grosso camion se l’era portata via
attraverso un varco nel bosco e dal cassone lei aveva salutato a lungo il marito
con la mano.
...Alle fermate si accalcavano file disordinate. Quando si avvicinava il filobus,
alcuni restavano in coda, altri si facevano largo a gomitate. Presso il Sadovoe
Kol’co, dopo aver oltrepassato la normale fermata, il loro seducente autobus
azzurro mezzo vuoto si fermò al semaforo rosso. Un moscovita intontito si
gettò di corsa verso il mezzo e, balzato sul predellino, spinse la porta gridando:
– Va al lungofiume Kotel’ničeskaja? Al Kotel’ničeskaja?!...
– Non si può! Non si può! – gli fece cenno con la mano un sorvegliante.
– Come no! Salta su ragazzo, ti ci portiamo! – gridò Ivan, il soffiatore di
vetro, e rise forte. Ivan era un delinquente comune, a colloquio ci andava ogni
mese.
Anche gli altri zek scoppiarono a ridere. Il moscovita non riusciva a capire
che autobus fosse, perché non si potesse. Ma era abituato ai tanti casi della vita
in cui non si poteva e saltò giù. A quel punto si allontanarono anche altri
cinque passeggeri già accorsi.
L’autobus azzurro svoltò a sinistra sul Sadovoe Kol’co. Dunque non
andavano alla Butyrka come al solito. A quanto pareva, erano diretti alla
Taganka.
...Mentre si spostava verso ovest con il fronte, nelle case distrutte, nei
depositi di libri devastati, in qualche baracca, nei seminterrati e nelle soffitte,
Neržin aveva raccolto libri vietati, maledetti, che in Unione Sovietica venivano
bruciati. Da quei fogli mezzi imputriditi si era levata una campana a martello
muta e invincibile.
In Novantatré di Hugo accade così. Lantenac è seduto su un poggiolo. Vede
tanti campanili in una volta, e tutti sono in subbuglio, le campane battono a
martello, ma un vento d’uragano allontana i suoni, così lui ode soltanto il
silenzio.
Con quello stesso strano udito, fin dall’adolescenza Neržin aveva sentito una
muta campana a martello: tutti i suoni vivi, i gemiti, le urla, le grida, i lamenti
di chi stava morendo venivano portati lontani dalle orecchie delle persone da
un vento costante e tenace.
La vita di Neržin sarebbe trascorsa serenamente nell’integrazione numerica
delle equazioni differenziali, se non fosse nato in Russia e proprio negli anni in
cui avevano appena ucciso e trascinato nel Nulla Universale il grande, caro
corpo.
Ma il posto in cui quel corpo giaceva era ancora caldo. E Neržin si era preso
sulle spalle un fardello che nessuno aveva avuto l’ardire di caricarsi addosso: far
rivivere il morto con le particelle di calore non ancora volate via e mostrarlo a
tutti così com’era; e dissuadere rispetto a come non era.
Gleb era cresciuto senza aver mai letto un libro di Mayne Reid, ma già a
dodici anni aveva sfogliato le enormi pagine delle “Izvestija”, dietro le quali
avrebbe potuto nascondere la testa e su cui aveva letto il resoconto
stenografico del processo agli ingegneri-sabotatori. Il ragazzo fin da subito non
aveva creduto a quel processo. Gleb non avrebbe saputo dire perché, non
poteva spiegarlo in modo razionale, ma distingueva chiaramente che si trattava
di una menzogna, solo menzogna. Conosceva ingegneri di famiglie amiche e
non riusciva a figurarseli come persone impegnate a sabotare invece che a
costruire.
A tredici e a quattordici anni, poi, una volta fatti i compiti, Gleb non
correva fuori, ma si sedeva a leggere i giornali. Conosceva il nome dei nostri
ambasciatori in ogni paese e di quelli stranieri da noi. Leggeva tutti i discorsi
dei congressi. D’altronde anche a scuola spiegavano elementi di economia
politica già in quarta, e in quinta le scienze sociali erano in programma quasi
tutti i giorni, con un po’ di Feuerbach. E poi la storia del partito, che cambiava
ogni anno.
Un’irrefrenabile spinta a smascherare la menzogna storica era nata presto in
lui e si era sviluppata con grande forza. Gleb era solo uno studente di nona
classe, quando una mattina di dicembre si era fatto largo fino a una bacheca
con i giornali e aveva letto dell’assassinio di Kirov. E subito, come folgorato da
una luce improvvisa, gli era sembrato assolutamente chiaro che ad assassinare
Kirov era stato Stalin, nessun altro. E la solitudine l’aveva raggelato: gli adulti
che si affollavano intorno a lui non capivano una cosa così semplice!
Ed ecco che quegli stessi vecchi bolscevichi si presentavano al processo e
inspiegabilmente confessavano, insultavano sé stessi con verbosità, usando le
peggiori ingiurie, e ammettevano di essere al soldo dei servizi segreti stranieri
di tutto il mondo. La cosa era a tal punto esagerata, grottesca, da balzare agli
occhi!
Eppure bastava che dal palo di un altoparlante si riversasse la voce
impostata di uno speaker, che gli abitanti della città si raggruppavano sul
marciapiede come pecore fiduciose.
Gli scrittori russi, che osavano definirsi eredi di Puškin e di Tolstoj,
tessevano le lodi del tiranno con toni sdolcinati e deprimenti. I compositori
russi, educati a Leningrado, nella Casa dei Compositori di via Herzen,
sgomitavano per depositare ai piedi del trono i propri canti servili.
Quella muta campana a martello era risuonata per Gleb durante tutta la
giovinezza!
Così in lui si era radicata una decisione irrevocabile: sapere e capire! scavare
e ricordare!
La sera, sui viali della sua città natale, dove sarebbe stato meglio sospirare
per le ragazze, Gleb sognava di entrare un giorno nella più Grande e
Importante prigione del paese, dove avrebbe trovato le tracce di coloro che vi
erano morti e la chiave del mistero.
Provinciale com’era, non sapeva ancora che quella prigione si chiamava
Bol’šaja Lubjanka.
E che quando desideriamo fortemente qualcosa, questa si realizza di sicuro.
Erano passati gli anni. Nella vita di Gleb Neržin si era avverato e realizzato
tutto, seppure in modo per nulla facile né piacevole. Gleb era stato arrestato e
portato proprio là, e aveva incontrato persone che, sopravvissute, non si
stupivano delle sue congetture e avevano cento volte più cose da raccontare.
Si era avverato e realizzato tutto, ma in compenso a Neržin non erano
rimasti né la scienza né il tempo, né la vita né l’amore verso sua moglie. Gli
sembrava che sulla terra una moglie migliore della sua non potesse capitargli,
ma al contempo non riusciva ad amarla. Una grande passione, una volta che ti
ha conquistato, sostituisce tutto il resto. Dentro di noi per due passioni non c’è
posto.
...L’autobus sul ponte vibrò cigolando, per poi seguire alcune strade tortuose
e sgradevoli.
Neržin trasalì.
– Dunque non ci portano alla Taganka? Dove andiamo allora? Non ci
capisco niente.
Riscuotendosi da pensieri altrettanto poco allegri, Gerasimovič rispose:
– Ci avviciniamo al carcere di Lefortovo.
All’arrivo dell’autobus si aprirono i cancelli. Il veicolo entrò nel cortiletto di
servizio, si fermò di fronte a una costruzione annessa all’alto carcere. Davanti
all’ingresso si trovava già il tenente colonnello Kliment’ev: aveva un’aria
giovanile, senza cappotto e senza berretto.
A dire il vero, il gelo non mordeva molto. Sotto il denso cielo nuvoloso si
dilatava un grigiore invernale senza vento.
A un cenno del tenente colonnello i sorveglianti scesero dall’autobus e si
disposero accanto (soltanto due rimasero seduti agli angoli estremi con le
pistole in tasca), mentre i detenuti, senza nemmeno il tempo di dare
un’occhiata al corpo principale della prigione, seguirono il tenente colonnello
dentro l’annesso.
Percorsero un corridoio lungo e stretto, con sette porte spalancate. Il
tenente colonnello li precedeva e dava ordini con decisione, come in battaglia:
– Gerasimovič, di qua! Lukašenko, in questa! Neržin, la terza!...
I detenuti svoltarono uno alla volta.
Sempre uno alla volta, Kliment’ev assegnò i sette sorveglianti. A Neržin
capitò un gangster travestito.
Le stanzette, tutte identiche, erano uffici per le istruttorie: finestre con le
inferriate che comunque avrebbero lasciato passare poca luce; una poltrona e
un tavolo per l’inquirente vicino alla finestra; un tavolino e uno sgabello per
l’indagato.
Neržin spostò per la moglie la poltrona dell’inquirente più vicino alla porta,
mentre tenne per sé lo sgabello scomodo, con una fessura che minacciava di
pizzicarlo. Un tempo, nei sei mesi di istruttoria, si era seduto su uno sgabello
simile, dietro uno squallido tavolino come quello.
La porta era rimasta aperta. Neržin sentì ticchettare nel corridoio i leggeri
tacchi della moglie, la sua cara voce risuonare.
– In questa?
E lei entrò.

91 Due versi di due celebri poesie intitolate entrambe Il prigioniero, la prima di Aleksandr Puškin, la seconda
di Michail Lermontov.
92 Ispirato a una poesia di Aleksandr Blok del 1910.
38
TRADISCIMI!

Quando il camion malandato, sobbalzando sulle nude radici dei pini e sulla
sabbia, si era portato via Nadja dal fronte, mentre Gleb rimaneva in lontananza
nel varco nel bosco, finché quel varco, sempre più lontano, sempre più buio, se
l’era inghiottito, chi avrebbe mai detto che la loro separazione non solo non
sarebbe terminata con la guerra, ma era appena cominciata?
Aspettare che un marito torni dalla guerra è sempre pesante, ma lo è di più
negli ultimi mesi prima della fine: schegge e pallottole non riescono a
distinguere da quanto tempo un uomo stia combattendo.
Le lettere di Gleb erano cessate proprio allora.
Nadja correva fuori ad aspettare il postino. Scriveva al marito, scriveva ai
suoi amici, scriveva ai suoi capi: tutti tacevano, come per un incantesimo.
Tuttavia non le giungeva nemmeno un’eventuale notifica di decesso.
Nella primavera del ’45 non c’era sera che non esplodessero nel cielo salve
d’artiglieria, non fossero conquistate sempre nuove città: Königsberg, Breslavia,
Francoforte, Berlino, Praga.
Lettere però non ne arrivavano. La luce si era spenta. Nadja non aveva più
voglia di fare niente. Ma non poteva lasciarsi andare! Se lui fosse stato ancora
vivo e fosse tornato, l’avrebbe rimproverata di aver sprecato il suo tempo! Si
preparava tutti i giorni al dottorato di chimica, studiava le lingue straniere e il
materialismo dialettico, e solo di notte piangeva.
All’improvviso il commissariato di leva smise di pagare a Nadja il sussidio
da ufficiale del marito.
Significava che era stato ucciso?
E d’un tratto quella guerra che durava da quattro anni era finita! La gente,
folle di gioia, correva per le strade impazzite. Qualcuno sparava in aria con la
pistola. E tutti gli altoparlanti dell’Unione Sovietica diffondevano marce
vittoriose per il paese ferito e affamato.
Al commissariato di leva non le avevano detto: ucciso; le avevano detto:
disperso. Audace nell’arrestare, lo Stato si vergognava ad ammetterlo.
Ma il cuore umano, incapace di rassegnarsi all’irreversibile, aveva cominciato
a inventarsi delle frottole: e se l’avevano mandato in ricognizione avanzata?
Forse si trovava in missione speciale? Una generazione educata nella diffidenza e
nella segretezza vedeva segreti anche dove non ce n’erano.
Era una torrida estate meridionale, ma per la giovane vedova nel cielo il sole
non brillava.
Comunque lei continuava a studiare chimica, lingue e materialismo
dialettico per il timore che, una volta tornato, il marito non l’apprezzasse più.
La guerra ormai era finita da quattro mesi. Era giunto il momento di
riconoscere che Gleb non si trovava più su questa terra. Poi però dalla
Krasnaja Presnja era arrivata quella stropicciata lettera a triangolo: “Mia
adorata! Ora ce ne saranno altri dieci!”
Non tutte le persone a lei vicine riuscivano a capirla: aveva saputo che il
marito si trovava in prigione e si era come illuminata, era tornata allegra! Che
felicità! Non erano né venticinque anni né quindici! Solo dalla morte non c’è
ritorno, dalla galera si può tornare! In quella nuova condizione scorgeva
addirittura una nuova levatura romantica, capace di innalzare il loro ordinario
matrimonio di un tempo fra studenti.
Ora che non si trattava più della morte, e nemmeno di un orribile
tradimento interiore, ma solo di un cappio al collo, nuove forze erano affluite
in Nadja. Lui si trovava a Mosca, bisognava quindi andare a Mosca a salvarlo!
(Immaginava che sarebbe bastato stargli accanto per riuscirci.)
Ma come arrivarci? I posteri non immagineranno mai che cosa significasse
allora spostarsi e, in particolare, raggiungere Mosca. Come negli anni Trenta, il
cittadino doveva prima dimostrare con documenti alla mano perché non
volesse restare dov’era, per quale necessità di servizio dovesse gravare sui
trasporti. Solo allora gli concedevano un lasciapassare che dava il diritto di
vagare di fila in fila nelle stazioni, dormendo sul pavimento coperto di sputi
per una settimana, oppure di ficcare una timorosa bustarella in uno sportello
posteriore della cassa.
Nadja aveva escogitato di tentare l’ammissione all’inaccessibile dottorato di
Mosca. E dopo aver pagato tre volte più caro un normale biglietto, aveva preso
un aereo per Mosca, tenendo sulle ginocchia la borsa con i libri di testo e gli
stivali di feltro per la taiga che aspettava suo marito.
Si trovava a quel culmine morale della vita in cui ti sembra che ci siano forze
positive ad aiutarti, che tutto vada bene. Il miglior dottorato del paese aveva
accolto l’ignota provinciale senza un nome, senza soldi, senza appoggi, senza
un numero di telefono...
Era un miracolo, eppure si era rivelato più facile che ottenere un colloquio
alla prigione di transito di Krasnaja Presnja! Il colloquio non glielo
concedevano. Non li concedevano in generale: tutti i canali del GULAG erano
saturi, dall’Europa si stava riversando una fiumana di prigionieri che superava
ogni immaginazione.
Ma accanto alla torretta di guardia fatta di assi, mentre aspettava una
risposta alle sue vane istanze, Nadja era stata testimone di come avevano
condotto fuori dalle porte di legno non verniciato della prigione una colonna
di detenuti diretti al lavoro a un pontile sulla Moscova. E in un pensiero
illuminato e fulmineo, di quelli che portano al successo, aveva intuito: Gleb è
qui!
Avevano condotto fuori circa duecento uomini. Tutti in quello stato
intermedio in cui un uomo si congeda dalla veste di libero e si va adattando alla
logora veste grigio-nera di zek. Ciascuno aveva ancora qualcosa che ne
ricordava il passato: un berretto militare con un fregio colorato ma senza più
cinghietta e stelletta, o un paio di stivali in pelle non ancora venduti in cambio
di pane o portati via dai malavitosi, o una camicia di seta che cominciava a
logorarsi sulla schiena. Erano tutti rapati a zero, si proteggevano alla meglio la
testa dal sole estivo, avevano la barba di più giorni, erano magri, alcuni fino allo
stremo.
Nadja non ebbe bisogno di osservarli, sentì subito Gleb e poi lo vide:
camminava con il colletto della giubba di lana sbottonato, i filetti rossi sui
polsini delle maniche e macchie di stoffa non scolorita sul petto dove prima
c’erano le decorazioni. Teneva le mani dietro la schiena, come tutti. Mentre
scendeva dalla collinetta non guardava né gli ampi spazi soleggiati, che pure
avrebbero dovuto attrarre l’attenzione di un carcerato, né le donne con i pacchi
lì intorno (nelle prigioni di transito non ricevevano lettere e lui non sapeva che
Nadja si trovava a Mosca). Giallo ed emaciato quanto i suoi compagni, lui era
raggiante e ascoltava con approvazione e trasporto il suo vicino, un vecchio
prestante dalla barba grigia.
Nadja era corsa accanto alla colonna e gridava il nome del marito, ma lui
non la sentiva a causa del brusio delle conversazioni e del latrare dei cani della
scorta. Ansando, lei correva, per assorbire ancora e ancora il suo volto. Che
sofferenza che fosse dovuto marcire per mesi in celle buie e maleodoranti! Che
felicità vederlo lì, poco lontano da lei! Che orgoglio che non si fosse lasciato
sopraffare! Che offesa che non fosse per niente addolorato: si era dimenticato
di sua moglie! E per la prima volta percepì il proprio dolore, poiché era stato
Gleb a metterla in quella situazione disperata: la vittima non era lui, era lei.
E tutto era avvenuto in un attimo!... Le guardie della scorta si erano messe a
urlarle contro, le terribili mute di addestrati cani mangia-uomini saltavano, le
sbarravano la strada e latravano con gli occhi iniettati di sangue. Nadja era stata
respinta. La colonna si era infilata in una stretta discesa e non c’era stato verso
di farsi strada e proseguire al suo fianco. Le ultime guardie della scorta, che
avevano il compito di delimitare lo spazio vietato, la seguivano a una certa
distanza e Nadja, dovendo mantenersi dietro di loro, non aveva più potuto
raggiungere la colonna, che ormai era scesa dalla collina, sparendo dietro
un’altra recinzione.
La sera e la notte, quando gli abitanti della Krasnaja Presnja, sobborgo
moscovita celebre per la sua lotta alla libertà, non vedevano, convogli di carri
bestiame venivano fatti arrivare fino alla prigione di transito; fra un agitare di
torce, il fitto latrare dei cani, brusche grida, imprecazioni e percosse, le squadre
delle guardie di scorta facevano sedere quaranta detenuti per vagone e li
trasportavano a migliaia a Pečora, Inta, Vorkuta, Sov-Gavan’, Noril’sk, nei
campi di lavoro delle zone di Irkutsk, Čita, Krasnojarsk, Novosibirsk, dell’Asia
Centrale, di Karaganda, Džezkazgan, del Pribalchaš’e, dell’Irtyš, di Tobol’sk,
degli Urali, di Saratov, Vjatka, Vologda, Perm’, Solvyčegodsk, Rybinsk,
Pot’minsk, Suchobezvodninsk e molti altri piccoli campi senza nome. In
gruppetti di cento, duecento persone, venivano trasportati invece di giorno nei
cassoni dei camion a Serebrjanyj Bor, Novyj Ierusalim, Pavšino, Chovrino,
Beskudnikovo, Chimki, Dmitrov, Solnečnogorsk, e di notte, in molti luoghi
della stessa Mosca dove, dietro file di recinzioni di legno, dietro matasse di filo
spinato, costruivano una capitale rispettabile dalla potenza invincibile...
La sorte aveva mandato a Nadja una ricompensa inattesa ma meritata: non
avevano trasferito Gleb nella zona artica, lo avevano scaricato a Mosca, in un
piccolo campo che aveva il compito di costruire un edificio per i capi dell’MGB
e dell’MVD, una casa semicircolare alla barriera di Kaluga.
Quando Nadja era corsa da lui laggiù al primo colloquio, per lei era stato
come se lo avessero già quasi liberato.
Sulla Bol’šaja Kalužskaja andavano e venivano le limousine, talvolta anche
quelle dei diplomatici; gli autobus e i filobus si fermavano alla fine
dell’inferriata del giardino Neskučnyj, dove si trovava la torretta di guardia del
campo di lavoro, che ricordava la guardiola di un cantiere edile; in alto, sui
muri in costruzione, formicolavano uomini in abiti sporchi e laceri, ma tutti i
lavoratori edili hanno quell’aspetto e nessuno dei passanti o dei passeggeri dei
veicoli indovinava che erano zek.
E chi lo indovinava, taceva.
Era l’epoca del denaro deprezzato e del pane costoso. Le cose si vendevano
in casa e Nadja portava i pacchi al marito. I pacchi li accettavano sempre. I
colloqui invece non li concedevano spesso: Gleb non produceva in base alle
quote stabilite.
Ai colloqui lui era irriconoscibile. Come per tutte le persone arroganti, la
disgrazia sembrava aver avuto un effetto positivo. Si era fatto più dolce, baciava
le mani della moglie e seguiva il luccichio nei suoi occhi. Quella di Gleb non
era una prigione! La vita nel campo di lavoro, la sua spietatezza, che superava
quanto si sa della vita dei cannibali e dei ratti, l’avevano piegato. Tuttavia era
giunto coscientemente a quel limite oltre il quale non si ha più compassione
per sé, e con perseveranza ripeteva:
– Cara! Tu non sai a che cosa stai andando incontro. Mi aspetterai un anno,
anche tre, persino cinque, ma più vicina sarà la fine, più difficile per te sarà
attenderla. Gli ultimi anni saranno i più intollerabili. Non abbiamo figli. Non
distruggere la tua giovinezza, lasciami! Sposati con un altro.
Lui lo proponeva senza crederci veramente. Lei, senza crederci veramente, si
opponeva dicendo:
– Cerchi una scusa per liberarti di me?
I detenuti abitavano nello stesso edificio che stavano costruendo, in un’ala
non ancora completata. Scendendo dal filobus, le donne che portavano i pacchi
vedevano al di sopra della recinzione due o tre finestre del dormitorio maschile
e gli uomini che si affollavano alle finestre. A volte, mischiate agli uomini, si
vedevano anche le puttane dei campi di lavoro. Una di queste abbracciava alla
finestra il marito del campo e si metteva a gridare oltre la palizzata alla moglie
legittima:
– Piantala di venire qui, baldracca! Consegna l’ultimo pacco e vattene alla
malora! Se ti vedo ancora alla torretta di guardia, ti graffio la faccia!
Le prime elezioni postbelliche del Soviet Supremo si avvicinavano. A Mosca
ci si preparava con zelo, come se si potesse davvero non votare per qualcuno.
Si oscillava fra il desiderio di tenere a Mosca quelli dell’articolo cinquantotto
(come lavoratori erano bravi) e la paura (la vigilanza si era indebolita). Per
spaventarli tutti bisognava mandarne via almeno una parte. Nei campi di lavoro
correvano voci minacciose su imminenti traduzioni al Nord. I detenuti
cuocevano le patate per il viaggio. Quelli che le avevano.
Per tutelare l’entusiasmo degli elettori, prima delle elezioni vietarono tutti i
colloqui nei campi di lavoro di Mosca. Nadja fece avere a Gleb un asciugamano
dentro il quale aveva cucito un bigliettino:
“Amore mio! Per quanti anni potranno passare e per quante tempeste
potranno addensarsi sul nostro capo” (a Nadja piaceva esprimersi in modo
nobile) “la tua ragazza ti sarà fedele finché vivrà. Dicono che porteranno via
quelli del vostro ‘articolo’. Andrai in luoghi lontani, strappato per lunghi anni
ai nostri incontri, ai nostri sguardi gettati furtivamente attraverso il filo spinato.
Se in quella vita di una cupezza sterminata ci saranno svaghi in grado di
alleggerire il peso sulla tua anima, io mi rassegnerò; ti autorizzo, caro, e insisto
perfino: tradiscimi, incontra altre donne. Purché tu mantenga il tuo vigore!
Non ho paura: tornerai lo stesso da me, vero?”
39
FACILE DIRE “ANDIAMO NELLA TAIGA”

Prima ancora di conoscere anche solo una decima parte di Mosca, Nadja
conosceva già perfettamente l’ubicazione delle carceri in città, la dolorosa
geografia delle donne russe. A Mosca le prigioni erano numerose ed erano
distribuite nella capitale in modo uniforme, ponderato, tanto che da un punto
qualsiasi di Mosca si era sempre vicini a una di esse. Tra pacchi da portare,
informazioni da chiedere, colloqui cui andare, Nadja aveva pian piano imparato
a distinguere tra la Bol’šaja Lubjanka, pansovietica, e la Malaja, regionale, aveva
appreso che esistevano carceri istruttorie in ogni stazione e si chiamavano KPZ,
celle di detenzione preventiva, era stata più di una volta al carcere della Butyrka
e alla Taganka, sapeva (sebbene non fossero segnate sulle tabelle dei percorsi)
quali tram andassero al carcere di Lefortovo e quali portassero alla Krasnaja
Presnja. Quanto alla prigione Matrosskaja Tišina, chiusa durante la rivoluzione
ma poi ripristinata e consolidata, ci abitava vicino.
Da quando Gleb era stato ricondotto a Mosca da un campo di lavoro
lontano, questa volta non in un altro campo ma in una struttura incredibile,
una prigione speciale, dove i detenuti erano nutriti in modo eccellente e si
occupavano di scienza, Nadja aveva ricominciato a vedere il marito di tanto in
tanto. Ma alle mogli non era concesso sapere dove tenessero di preciso i mariti,
che per i rari colloqui venivano portati in varie prigioni di Mosca.
Gli incontri più spensierati avvenivano alla Taganka. Non era una prigione
per detenuti politici ma per ladri, e le disposizioni erano più leggere. I colloqui
si svolgevano nel locale del dopolavoro dei sorveglianti; i detenuti venivano
condotti lungo la deserta via Kamenščikov in un autobus scoperto, le mogli
stavano di guardia sul marciapiede e, ancora prima dell’inizio del colloquio
ufficiale ciascuno poteva abbracciare la propria consorte, trattenersi con lei,
dirle cose non permesse dal regolamento, potevano persino scambiarsi
qualcosa. E il colloquio si svolgeva in modo rilassato: sedevano vicini e un solo
sorvegliante ascoltava la conversazione di quattro coppie.
Il carcere della Butyrka, che nella sostanza era anch’esso maggiormente
permissivo, spensierato, alle mogli pareva agghiacciante. I detenuti che
arrivavano alla Butyrka dalle due Lubjanki per la generale rilassatezza della
disciplina si sentivano subito sollevati: nei box non c’era nessuna luce
accecante, nei corridoi si poteva camminare senza tenere le mani dietro la
schiena, nella cella era possibile conversare ad alta voce, spiare da dietro le
museruole, di giorno stare sdraiati sui pancacci e sotto i pancacci persino
dormire. Di maggiormente permissivo, alla Butyrka, c’era anche dell’altro: la
notte potevi proteggere le mani sotto il cappotto, non ti sequestravano gli
occhiali, in cella ti lasciavano i fiammiferi, non ti svuotavano ogni sigaretta del
tabacco, mentre il pane arrivato nei pacchi lo tagliavano solo in quattro parti,
non lo riducevano in tanti pezzettini.
Le mogli non erano a conoscenza di tutte queste indulgenze. Vedevano un
muro da fortezza alto quattro uomini, che correva lungo il quartiere per via
Novoslobodskaja. Vedevano un cancello di ferro fra robusti pilastri di cemento
armato; il cancello inoltre era straordinario: scivolava piano, spalancando e
richiudendo meccanicamente la sua bocca ai corvi. Quando le mogli erano
ammesse ai colloqui, venivano condotte attraverso una costruzione di pietra
dello spessore di due metri e si ritrovavano, fra le pareti alte diversi uomini, a
fare il giro della terribile torre di Pugačëv. I colloqui erano concessi nel
seguente modo: agli zek comuni, tra due inferriate, in mezzo alle quali
passeggiava un sorvegliante, che pareva anche lui in gabbia; agli zek del cerchio
superiore, quelli delle šaraški, a un ampio tavolo, sotto il quale un tramezzo
cieco non permetteva di toccarsi con i piedi e di farsi segnali, mentre a
un’estremità c’era il sorvegliante, che ascoltava la conversazione come una
statua vigile. Ma la cosa più deprimente della Butyrka era che i mariti
sembravano comparire dalle profondità del carcere: per una mezz’ora
emergevano da quelle umide mura spesse, sorridevano titubanti, assicuravano
di vivere bene, di non aver bisogno di nulla, per poi scomparire di nuovo in
quelle pareti.
Quel giorno era la prima volta che avevano un colloquio a Lefortovo.
La guardia fece una spunta sull’elenco e indicò a Nadja l’edificio annesso.
In una stanza spoglia, con due lunghe panche e un tavolo spoglio, c’erano
già alcune donne ad aspettare. Sul tavolo erano posati un cestino di vimini e
borse per la spesa in similpelle, visibilmente pieni di generi alimentari. Sebbene
gli zek delle šaraški fossero ben sazi Nadja, che era venuta con delle sottilissime
frittelle in un cartoccio, aveva provato vergogna e dispiacere a non viziare
nemmeno una volta l’anno il marito con qualcosa di buono. Così si era alzata
presto, quando al pensionato dormivano ancora tutti, per friggere un po’ di
farina bianca e zucchero avanzati nel burro, anch’esso avanzato. Non aveva
fatto in tempo a comprare dei dolci o dei pasticcini, e di soldi, fino al giorno di
paga, glien’erano rimasti pochi. Il colloquio era capitato il giorno del
compleanno di suo marito e lei non aveva niente da regalargli! Un bel libro?
Dopo l’ultimo colloquio non poteva più: quella volta Nadja gli aveva portato
un libretto di poesie di Esenin scovato per miracolo. Il marito ne aveva uno
identico al fronte, ma era andato perduto durante l’arresto. Accennando a
quello, sulla pagina del titolo Nadja aveva scritto:

Così tutto ciò che è andato perduto tornerà a te.

Ma il tenente colonnello Kliment’ev aveva strappato davanti a lei la pagina del


frontespizio con quella scritta e gliel’aveva restituita, dicendo che nei pacchi
non poteva esserci nessun testo, il testo doveva passare separatamente,
attraverso la censura. Quando lo aveva saputo Gleb aveva digrignato i denti e
le aveva chiesto di non portargli più libri.
Intorno al tavolo erano sedute quattro donne, fra cui una giovane con un
bambino di tre anni. Nadja non ne conosceva nessuna. Le salutò, loro risposero
al saluto e continuarono a conversare animatamente.
Lungo l’altra parete, su una panchina corta, sedeva in disparte una donna sui
trentacinque, quarant’anni, con una pelliccia non troppo nuova, sulla testa uno
scialle grigio che aveva perso decisamente la lanugine, tanto da mettere a nudo
dovunque la semplice trama del tessuto. La donna aveva le gambe accavallate,
le braccia conserte, e fissava intensamente il pavimento davanti a sé. Tutto nella
sua postura esprimeva l’estremo desiderio di non venire toccata e di non
parlare con nessuno. Non aveva con sé nulla che assomigliasse a un pacco, né
fra le mani né accanto.
La compagnia era pronta ad accogliere Nadja, ma Nadja non lo desiderava:
anche lei cercava di conservare il particolare stato d’animo di quella mattina. Si
avvicinò alla donna seduta da sola e siccome non c’era altro posto dove sedersi,
se non sulla panchina corta, le chiese:
– Permette?
La donna sollevò lo sguardo. Gli occhi erano incolori. Sembravano non
comprendere quanto Nadja aveva chiesto. La guardavano senza vederla.
Nadja si sedette, infilò le dita nelle maniche e, inclinata la testa da una parte,
affondò la guancia nel collo di finto astrakan. E anche lei stette immobile.
Ora non voleva sentir parlare che di Gleb, pensare ad altro che a Gleb, alla
conversazione che ci sarebbe stata fra loro, e a quella cosa lunga che continuava
a insinuarsi all’infinito nella foschia del passato e nella foschia dell’avvenire, che
non era né lui né lei, ma lui e lei insieme, che avevano l’usanza di chiamare con
la logora parola di “amore”.
Eppure non riusciva a isolarsi, a evitare di sentire i discorsi intorno al
tavolo. Le altre raccontavano cosa veniva dato da mangiare ai loro mariti: cosa
gli davano al mattino, cosa la sera, con che frequenza veniva lavata la loro
biancheria in carcere... Come facevano a sapere tutte quelle cose?! Possibile che
consumassero così i preziosi minuti dei colloqui? Elencavano quali prodotti e
in quanti grammi portavano nei pacchi. In tutto questo c’era la tenace premura
femminile che rende famiglia la famiglia, e sostiene il genere umano. Ma Nadja
non la pensava così, lei riteneva offensivo, prosaico, un vero peccato sprecare
simili grandi momenti! Possibile che a quelle donne non passasse per la testa
che avrebbero fatto meglio a riflettere su chi aveva osato incarcerare i loro
mariti? Perché i loro mariti avrebbero anche potuto non trovarsi dietro le
sbarre e non avere bisogno di quel cibo carcerario!
L’attesa fu lunga. Il colloquio era fissato per le dieci, ma alle undici non si
era ancora visto nessuno.
Per ultima, in ritardo e ansante, arrivò la settima donna, una signora già un
po’ ingrigita. Nadja l’aveva conosciuta durante uno dei precedenti colloqui: era
la moglie di un incisore, la sua prima e terza moglie. Raccontava volentieri la
propria storia: aveva sempre venerato il marito e lo considerava un uomo di
grande talento. Un giorno però lui aveva annunciato di non sopportare più i
complessi psicologici della moglie, aveva lasciato lei e il figlio e se n’era andato
con un’altra. Con l’altra, una rossa, era vissuto per tre anni e poi l’avevano
spedito al fronte. In guerra era stato fatto subito prigioniero, ma in Germania
aveva vissuto libero e anche là, ahimè, aveva avuto delle infatuazioni. Tornando
dalla prigionia, l’avevano arrestato alla frontiera e gli avevano dato dieci anni.
Dal carcere della Butyrka aveva fatto sapere alla rossa che si trovava dentro, le
chiedeva qualche pacco, ma quella aveva risposto: “Meglio se avesse tradito me,
piuttosto che la patria! Avrei fatto meno fatica a perdonarlo.” Allora lui aveva
supplicato la prima moglie e lei aveva cominciato a portargli i pacchi, ad andare
ai colloqui, e ora lui la implorava di perdonarlo e le giurava amore eterno.
A Nadja tornò in mente come la moglie dell’incisore, durante quel racconto,
avesse detto con amarezza: “Se i mariti stanno in prigione, forse la cosa
migliore sarebbe tradirli; almeno una volta usciti ci apprezzano. Sennò magari
pensano che in tutto quel periodo nessuno ha avuto bisogno di noi, nessuno ci
ha voluto.” Le era tornato in mente perché lei stessa, Nadja, a volte lo aveva
pensato.
Anche adesso la nuova arrivata aveva mutato il discorso intorno al tavolo. Si
era messa a raccontare del daffare che aveva con gli avvocati della
consultazione giuridica in via Nikol’skaja. Un ufficio da sempre definito
“eccellente”. I suoi legali prendevano ai clienti molte migliaia di rubli e
frequentavano spesso i ristoranti moscoviti, lasciando i loro casi sempre nella
medesima situazione. Alla fine, non ne avevano accontentato uno di troppo.
Erano stati arrestati tutti, si erano presi dieci anni ciascuno, l’insegna con la
scritta “eccellente” era stata tolta, ma anche come consultazione non eccellente
l’ufficio si era riempito di nuovi avvocati, e anche quelli avevano cominciato a
prendere molte migliaia di rubli, lasciando i casi dei clienti nella medesima
situazione. Quando non c’erano occhi indiscreti, gli avvocati si giustificavano
dicendo che bisognava ungere, che non li prendevano solo per sé, che i casi
passavano per molte mani. Davanti al muro di cemento della legge le donne si
trovavano impotenti come davanti al muro della Butyrka alto quattro uomini:
non avendo ali per alzarsi in volo e librarsi dall’altra parte, non restava che
inchinarsi davanti a ogni cancelletto che si apriva. Il decorso di casi giudiziari
oltre quel muro sembrava il frutto delle misteriose destrezze di una macchina
imponente, dalla quale, nonostante l’evidenza della colpa, malgrado la
contrapposizione fra l’imputato e lo Stato, si potevano a volte, come alla
lotteria, far saltar fuori per puro miracolo vincite fortunate. Così le donne
pagavano gli avvocati non per la vincita in sé, ma per il sogno di una vincita.
La moglie dell’incisore credeva fermamente nel successo finale. Dalle sue
parole si capiva che aveva raccolto quarantamila rubli, una parte dalla vendita
della propria stanza, e un’altra parte elargita da parenti, e con quei soldi aveva
strapagato gli avvocati; di avvocati ne aveva già cambiati quattro, erano state
presentate tre domande di grazia e cinque ricorsi; seguiva la dinamica di tutti
quei reclami e in molte occasioni le avevano promesso un esame favorevole.
Conosceva il nome di tutti i procuratori in servizio nelle tre principali procure
e respirava l’atmosfera delle anticamere della Corte Suprema e del Soviet
Supremo. Come tipico di molte persone fiduciose, e in particolare delle donne,
lei sopravvalutava il significato di ogni osservazione incoraggiante e di ogni
sguardo non ostile.
– Bisogna scrivere! Bisogna scrivere a tutti! – ripeteva con piglio energico,
convincendo anche le altre a lanciarsi sulla sua strada. – I nostri mariti
soffrono. La libertà non arriva da sola. Bisogna scrivere!
Quel racconto distrasse Nadja dal suo stato d’animo, ma la ferì anche molto.
La moglie senescente dell’incisore parlava con tale fervore che non si poteva
non crederle: le aveva sorpassate e superate tutte in astuzia, di sicuro avrebbe
tirato fuori di prigione il marito! Nadja rimproverò sé stessa: e io? Perché io
non ci sono riuscita? Perché non sono stata una compagna altrettanto fedele?
Nadja aveva avuto a che fare con la consultazione “eccellente” solo una
volta, aveva redatto con un avvocato solo una domanda, l’aveva pagato solo
duemilacinquecento rubli, probabilmente troppo poco: doveva essersi offeso,
perché non aveva fatto niente.
– Sì, – disse lei a bassa voce, come se stesse parlando quasi fra sé – abbiamo
davvero fatto il possibile? Abbiamo la coscienza a posto?
Prese dal discorso generale, le donne intorno al tavolo non la sentirono. La
sua vicina, invece, voltò di scatto la testa dalla sua parte, come se Nadja l’avesse
urtata oppure offesa.
– Ma che cosa si può fare? – pronunciò quella in modo chiaramente ostile. –
È tutto un’assurdità! Un Cinquantotto significa custodia in eterno! Un
Cinquantotto non si dà a un criminale, si dà a un nemico! Un Cinquantotto non
si riscatta neanche con un milione di rubli!
Il suo viso era pieno di rughe. Nella sua voce riecheggiava una sofferenza
purificata.
Il cuore di Nadja si spalancò davanti a quella donna anziana. Quasi
scusandosi per l’elevatezza di quelle parole, obiettò:
– Intendevo dire che noi non ci diamo da fare fino in fondo... Le mogli dei
decabristi non rimpiangevano niente, lasciavano tutto, li seguivano... Se non la
liberazione, magari si potrebbe ottenere l’esilio? Sarei d’accordo se lo
mandassero in una taiga al Circolo polare, io andrei con lui, lascerei tutto...
La donna, il viso severo di una monaca, nel logoro scialle grigio, guardò
Nadja con stupore e rispetto:
– Avrebbe ancora la forza di andare nella taiga?? Com’è fortunata! A me non
ne è rimasta più per fare niente. Ho l’impressione che se un qualsiasi vecchietto
benestante mi chiedesse di sposarlo, accetterei.
– E lascerebbe suo marito? In prigione?
La donna afferrò Nadja per una manica:
– Cara! Nel XIX secolo era facile amare! Le mogli dei decabristi hanno
davvero compiuto un atto eroico? Le Sezioni dei quadri le convocavano forse
per compilare questionari? Avevano forse bisogno di tenere nascosto il proprio
matrimonio come un’infezione? Perché non le cacciassero dal lavoro, non
levassero loro quegli unici cinquecento rubli al mese? Negli appartamenti
comunitari le boicottavano? Nel cortile, alla fontanella, bisbigliavano contro di
loro che erano nemiche del popolo? Le loro madri e sorelle le spingevano ad
avere buon senso e a chiedere il divorzio? Oh, tutto il contrario! Le
accompagnava il mormorio di ammirazione della migliore società! Fornivano
con indulgenza ai poeti le leggende sui propri atti eroici. Partendo per la
Siberia nelle costose carrozze di loro proprietà non perdevano, assieme al
permesso di soggiorno a Mosca, anche gli sfortunati nove metri quadrati del
loro ultimo angolino e non si crucciavano per le bazzecole che le attendevano,
come il libretto di lavoro “segnato”, un bugigattolo ma niente pentole, e
nemmeno pane nero!... Facile dire: andiamo nella taiga! Si vede che non è da
tanto che aspetta!
La sua voce era sul punto di spezzarsi. Gli appassionati esempi fatti dalla
vicina fecero salire a Nadja le lacrime agli occhi.
– Tra poco saranno cinque anni che mio marito è finito in prigione – si
giustificò Nadja. – E al fronte...
– Quello non conta! – obiettò vivacemente la donna. – Al fronte non era lo
stesso! Allora aspettare era facile! Aspettavano tutti. Allora si poteva parlare
apertamente, si potevano leggere le lettere! Ma aspettare e in più tenerlo
nascosto... eh??
Si fermò lì. Vide che di spiegarlo a Nadja non c’era bisogno.
Erano già le undici e mezzo. Finalmente entrarono il tenente colonnello
Kliment’ev e un grasso sergente ostile. Il sergente cominciò a ritirare i pacchi,
aprendo le confezioni di biscotti acquistate e spezzando a metà ogni pasticcino
fatto in casa. Spezzò persino le frittelle di Nadja, in cerca di un biglietto cotto
dentro, o di soldi o di veleno. Kliment’ev ritirava a tutte gli avvisi di chiamata
al colloquio, segnava le donne su un grande registro, poi si irrigidì militarmente
e annunciò chiaro e tondo:
– Attenzione! Conoscete il regolamento? Il colloquio dura trenta minuti.
Dal detenuto non si può ricevere niente. È vietato fare domande ai detenuti sul
loro lavoro, la loro vita, l’orario della giornata. La violazione di queste regole è
punita dal codice penale. Inoltre dal colloquio di oggi sono vietati i contatti
con le mani e i baci. Alla prima violazione, il colloquio verrà immediatamente
interrotto.
Le donne, fattesi docili, tacevano.
– Gerasimovič Natal’ja Pavlovna! – chiamò la prima Kliment’ev.
La vicina di Nadja si alzò e, battendo forte sul pavimento con gli stivali di
feltro fabbricati prima della guerra, uscì in corridoio.
40
IL COLLOQUIO

E nonostante tutto, sebbene nell’attesa avesse anche pianto un po’, Nadja entrò
al colloquio con una sensazione di festa.
Quando la moglie comparve sulla porta, Gleb si era già alzato per andarle
incontro e sorrideva. Quel sorriso durò il tempo di un passo di lui e uno di lei,
eppure in Nadja tutto gioiva: lui le era ancora vicino! non era cambiato nei suoi
confronti!
Il gangster a riposo, con il collo taurino e un morbido completo grigio, si
avvicinò al tavolinetto e bloccò la stretta stanza, impedendo loro di incontrarsi.
– Lasci che le stringa almeno la mano! – si indignò Neržin.
– Non si può – rispose il sorvegliante, e pronunciò quelle parole abbassando
a malapena la pesante mandibola.
Nadja sorrise con aria smarrita e fece cenno al marito di non discutere. Si
lasciò cadere sulla poltrona preparata per lei, il cui rivestimento di pelle lasciava
spuntare, qua e là della fibra di tiglio. Su quella poltrona si erano sedute
generazioni di inquirenti, che avevano condotto alla tomba centinaia di persone
e c’erano finiti in fretta anche loro.
– Be’, tanti auguri! – disse Nadja, sforzandosi di apparire allegra.
– Grazie.
– Che coincidenza, proprio oggi!
– La mia solita fortuna...
(Si stavano riabituando a parlare.)
Nadja si sforzava di ignorare lo sguardo del sorvegliante e la sua presenza
opprimente. Gleb cercava di stare seduto in modo che lo sgabello sgangherato
non lo pizzicasse.
Il tavolinetto dell’inquisito si frapponeva tra marito e moglie.
– Prima che mi dimentichi, ti ho portato qualcosa da mangiucchiare, delle
frittelle, sai, come quelle che fa mamma. Scusami se ho con me solo questo.
– Sciocchina, non ce n’era bisogno! Abbiamo tutto, noi.
– Be’, frittelle così non le avete, no? E libri non ne avevi chiesti... Esenin, lo
leggi?
Il viso di Neržin si incupì. Era già più di un mese che lo avevano denunciato
a Šikin per Esenin, e quello gli aveva requisito il libro, affermando che Esenin
era vietato.
– Sì, lo leggo.
(Avevano mezz’ora, potevano davvero sprecarla in dettagli?!)
Non faceva per niente caldo, anzi, quasi sicuramente la stanza non era
nemmeno riscaldata, e tuttavia Nadja si era slacciata il colletto e aveva aperto la
pelliccia: desiderava mostrare al marito, oltre alla pelliccia nuova, che si era
fatta cucire proprio quell’anno, e che chissà come mai lui non commentava,
anche la camicetta nuova; e sperava che l’arancione della stoffa le ravvivasse il
viso, di sicuro terreo alla fioca illuminazione del locale.
Gleb avvolse la moglie in uno sguardo continuo, totale: il viso, la gola, il
solco fra i seni. Nadja si agitò sotto quello sguardo, che era la cosa più
importante del colloquio, e sembrò quasi protendersi verso di lui.
– Hai una camicetta nuova. Fa’ vedere.
– E la pelliccia? – Nadja si atteggiò in una smorfia dispiaciuta.
– La pelliccia?
– È nuova.
– Ah, è vero – notò infine Gleb. – La pelliccia è nuova!
Ne osservò i riccioli neri, e non comprese nemmeno che si trattava di
astrakan, vero o finto che fosse. Del resto, lui era l’ultima persona sulla terra in
grado di distinguere tra una pelliccia da cinquecento rubli e una da cinquemila.
Nadja ora se l’era tolta per metà. Lui le vide il collo, ancora tornito come
quello di una ragazza, le spalle deboli e strette, e sotto le pieghe della camicetta
i seni, che in quegli anni si erano fatti cascanti e malinconici.
Il fugace pensiero di rimprovero che lei avesse sfilze di vestiti nuovi e di
nuove conoscenze si trasformò in pietà alla vista di quei seni cascanti e
malinconici: le ruote del corvo grigio della prigione avevano schiacciato anche la
sua vita.
– Ti sei smagrita – disse con compassione. – Mangia meglio. Non riesci?
“Sono brutta?” gli domandarono gli occhi di Nadja.
“Tu sei sempre meravigliosa!” risposero quelli del marito.
(Sebbene parole simili non fossero state vietate dal tenente colonnello, non
si potevano pronunciare davanti a un estraneo.)
– Mangio, mangio – mentì lei. – Però la vita che faccio è inquieta, nervosa.
– In che senso? Racconta.
– No, prima tu.
– Io cosa? – sorrise Gleb. – Io non ho niente da dire.
– È che... – cominciò lei con imbarazzo.
Il sorvegliante tarchiato, con l’aspetto da bulldog, stava a mezzo metro dal
tavolinetto e dall’alto guardava i due coniugi a colloquio, con la stessa
attenzione e lo stesso disprezzo con cui i leoni di pietra guardano i passanti
dagli ingressi.
Era necessario trovare un tono sicuro, a lui inaccessibile, un linguaggio fatto
di modi di dire e mezze allusioni. A suggerire quel tono sarebbe stata la loro
superiorità intellettuale, che si avvertiva in modo palese.
– E quel vestito, è tuo? – cambiò argomento lei.
Neržin strizzò gli occhi e scosse la testa con fare comico.
– Macché mio! È solo uno specchietto per le allodole. Ce l’ho per tre ore.
Non farti imbrogliare dalla Sfinge.
– Non ci riesco. – Nadja protese le labbra con fare civettuolo, imbronciata
come una bambina, convincendosi di piacere ancora al marito.
– Noi siamo abituati a metterla sul ridere.
Nadja ricordò la conversazione con la Gerasimovič ed emise un sospiro.
– Noi no.
Neržin cercò di stringere le ginocchia della moglie fra le proprie, ma
l’inopportuna sbarra sotto il tavolo, messa in modo da impedire all’inquisito di
raddrizzare le gambe, ostacolava anche quel contatto. Il tavolino oscillò. Gleb
si appoggiò sui gomiti, si piegò verso la moglie e disse indispettito:
– Sempre così, ostacoli dappertutto.
“Sei mia? Mia?” domandava il suo sguardo.
“Sono quella che amavi. Non sono peggiorata, credimi!” Gli occhi grigi di
Nadja scintillavano.
– E al lavoro, ti creano problemi? Racconta. Figuri già fra i dottorandi?
– No.
– Hai discusso la tesi di dottorato?
– Nemmeno.
– Com’è possibile?
– Ecco... – E cominciò a parlare sempre più in fretta, nel timore che fosse
già passato parecchio tempo. – Nessuno riesce a discutere la tesi prima di tre
anni. Ti danno proroghe, una scadenza supplementare. Una dottoranda, per
esempio, ha lavorato per due anni a una tesi sui ‘Problemi dell’alimentazione
sociale’ e poi le hanno cambiato l’argomento...
(“Ah, ma che sto dicendo? Non è affatto importante!...”)
– ...Ho la tesi pronta e battuta a macchina, mi ritardano alcune modifiche...
(La lotta contro il servilismo, ma qui come glielo spieghi?...)
– E poi le cianografiche, le fotografie... E con la rilegatura non so ancora
come farò. Ho tantissime cose da sbrigare...
– Ma la borsa di studio te la pagano?
– No.
– E di cosa vivi?!
– Della paga.
– Quindi lavori? Dove?
– Sempre lì, all’università.
– E cosa fai?
– Ho un impiego volante, fuori ruolo, hai presente? Insomma, non sono in
regola un po’ da nessuna parte... Non lo sono neanche al pensionato. Io,
veramente...
Nadja lanciò un’occhiata di sbieco al sorvegliante. Stava per dire che la
polizia avrebbe dovuto già mandarla via dalla Stromynka e che le avevano
prolungato il permesso di sei mesi solo per sbaglio. Potevano scoprirla da un
giorno all’altro! Ma a maggior ragione non era una cosa da dire davanti a un
sergente dell’MVD...
– Be’, anche il colloquio di oggi l’ho ottenuto... è successo che...
(“Ah, in mezz’ora non ce la fai a raccontarlo!”)
– Aspetta, dimmelo dopo. Voglio domandarti una cosa: di ostacoli per colpa
mia ne hai avuti?
– Sì, e anche molto pesanti, caro... Mi daranno... vogliono assegnarmi un
argomento speciale... Sto cercando di evitarlo.
– In che senso un argomento speciale?
Lei sospirò e lanciò un’occhiata al sorvegliante. Era in allerta, sembrava sul
punto di abbaiare o di staccarle la testa con un morso, e si trovava a meno di
un metro dai loro volti.
Nadja allargò le braccia. Avrebbe dovuto spiegargli che ormai nemmeno
all’università offrivano studi che non fossero secretati. Avevano reso segreta
tutta la scienza, dalle forme più alte a quelle più basse. La classificazione di
“segreto” comportava un nuovo questionario ancora più dettagliato sul marito,
sui parenti del marito e sui parenti di quei parenti. Se avesse scritto: “marito
condannato in base all’articolo cinquantotto”, non le avrebbero permesso non
solo di lavorare all’università, ma nemmeno di discutere la tesi. Se avesse
mentito segnando “marito disperso in guerra”, avrebbe comunque dovuto
indicarne il cognome; un controllo nell’archivio dell’MVD, e l’avrebbero
processata per aver fornito false informazioni... Nadja allora aveva scelto la
terza possibilità. Tuttavia in quel momento, sotto lo sguardo attento di Gleb,
evitò di parlarne e cominciò a raccontare animatamente:
– Sai, faccio parte di un gruppo dilettantistico universitario. Ci mandano
tutto il tempo a suonare ai concerti. Di recente ho suonato nella Sala delle
Colonne la stessa sera di Jakov Zak.
Gleb sorrise e scosse la testa come se faticasse a crederci.
– Era una serata dei sindacati, è successo così, per caso, tuttavia... Sapessi che
ridere, hanno bocciato il mio vestito migliore. Dicevano che non era adatto per
salire sul palco. Hanno telefonato al teatro e me ne hanno fatto portare un
altro, stupendo, lungo fino ai piedi.
– Ti hanno filmata mentre suonavi?
– Sì, sì. Le ragazze mi criticano, dicono che con la musica me la spasso. Ma
io rispondo: meglio spassarsela con qualcosa che con qualcuno.
Non lo aveva detto tanto per dire, ma in tono deciso: era un principio nuovo
che aveva felicemente fatto proprio! Sollevò la testa, aspettandosi un elogio.
Neržin guardò la moglie con un misto di gratitudine e agitazione. Elogio e
incoraggiamento non c’era modo di esprimerli.
– Aspetta, riguardo all’argomento speciale?
Nadja abbassò lo sguardo, reclinando la testa.
– Volevo dirti che... tu però non prenderla male, nicht wahr!... un tempo
insistevi per... divorziare... finì la frase in tono sommesso.
(Era quella la terza possibilità, l’unica che le offrisse una via per vivere!...
Non avrebbe scritto nel questionario “divorziata”, perché il questionario
richiedeva comunque il cognome dell’ex marito, il suo indirizzo attuale, i
genitori di lui, e persino il loro anno di nascita, occupazione e indirizzo. No,
avrebbe segnato “non coniugata”. Per questo c’era bisogno di divorziare, e per
di più in segreto, in un’altra città.)
Sì, un tempo aveva insistito... Ora, tuttavia, vacillò. Solo in quel momento
notò che Nadja non aveva al dito l’anello nuziale che non si toglieva mai.
– Sì, naturalmente – confermò lui con grande decisione. Nadja sfregava sul
tavolo quella stessa mano da cui mancava l’anello, come stendesse una focaccia
da una pasta indurita.
– Dunque... tu non saresti contrario... se... capitasse... di doverlo fare?... –
Nadja sollevò la testa. Aveva gli occhi sgranati. Nel grigio arcobaleno
aghiforme dei suoi occhi splendeva una richiesta di perdono e di
comprensione. – Sarebbe per finta – aggiunse tutto d’un fiato, con un filo di
voce.
– Brava! Era ora! – acconsentì Gleb con ferma convinzione, non provando
dentro di sé né convinzione né fermezza, e rimandò a un secondo momento
l’interpretazione di quanto accadeva.
– Magari non ce ne sarà neanche bisogno! – disse lei in tono supplichevole,
risollevando la pelliccia sulle spalle. In quel momento gli parve stanca,
stremata. – Te l’ho detto per ogni evenienza, per metterci d’accordo. Magari
non ce ne sarà bisogno.
– No, perché? Hai fatto bene, brava – ripeteva meccanicamente Gleb.
Intanto l’uomo orientava già i suoi pensieri alla questione principale della lista,
che si era preparato e che adesso era il momento di rovesciarle addosso.
– L’importante, cara, è che tu abbia le idee chiare. Non riporre troppe
speranze sulla fine della mia pena!
Neržin stesso era già pienamente preparato a una seconda condanna e a una
permanenza illimitata in carcere, come già accaduto a molti dei suoi compagni.
Era una cosa che non si poteva scrivere assolutamente in una lettera, doveva
dirla in quel momento.
Sul volto di Nadja, però, comparve un’espressione timorosa.
– Il termine della pena è una convenzione – le spiegò Gleb in tono rigido,
veloce, accentando le parole a casaccio affinché il sorvegliante non riuscisse a
coglierle. – Può ripetersi a spirale. La storia è piena di esempi. E se per
miracolo la mia pena dovesse giungere a una fine, non possiamo pensare che
torneremo alla vita di prima nella nostra città. Comprendi, convinciti, mettitelo
bene in testa: non vendono biglietti per la terra del passato. Io, per esempio, mi
rammarico soprattutto di non saper fare il calzolaio. Quanto sarebbe utile in
un villaggio della taiga, nella taiga di Krasnojarsk, sul basso corso dell’Angara!
Quello è l’unico tipo di vita al quale dovremo prepararci.
Lo scopo era stato raggiunto: davanti a quella raffica di frasi il gangster a
riposo non si muoveva, riusciva solo a sbattere le palpebre.
Ma Gleb si era dimenticato (o meglio, non si era dimenticato, non capiva,
come tutti loro non capivano) che una persona abituata a camminare sulla
tiepida terra grigia non può scalare subito le catene montuose ghiacciate, non
può. Non capiva che in quel momento, la moglie continuava a contare
meticolosamente, in modo metodico, i giorni e le settimane di pena del marito,
come aveva fatto fin dall’inizio. Per lui il termine della condanna era un
luminoso freddo infinito; per lei erano le duecentosessantaquattro settimane, i
sessantuno mesi, i cinque anni e rotti che restavano, di gran lunga meno del
tempo trascorso da quando lui era andato in guerra senza più tornare.
A mano a mano che Gleb parlava, la paura sul viso di Nadja si trasformava
in cinereo terrore.
– No, no! – esclamò lei parlando fitto. – Non dirmi una cosa del genere,
tesoro! – (Si era già dimenticata del sorvegliante, non si vergognava più.) – Non
portarmi via la speranza! Non ci voglio credere! Non ci posso credere! Non è
possibile e basta!... O hai pensato che volessi davvero lasciarti?!
Il labbro superiore le cominciò a tremare, il viso a contorcersi. Gli occhi
esprimevano solo e soltanto devozione.
– Ti credo, ti credo, Nadjušen’ka! – disse Gleb, cambiando tono di voce. –
Lo avevo già capito.
Lei tacque e, in un calo di tensione, si accasciò.
Sulla porta spalancata della stanza comparve il tenente colonnello nero e
giovanile, intento a guardare con attenzione le tre teste che si muovevano
insieme; chiamò il sorvegliante a bassa voce.
Il gangster con il collo da picador si staccò di malavoglia, come se lo
strappassero via da un dolce, e si diresse verso il tenente colonnello. Là, a
quattro passi dalla schiena di Nadja, si scambiarono un paio di frasi. In quel
frangente Gleb fece in tempo a dire con voce soffocata:
– Conosci la moglie di Sologdin?
Allenata a simili stravolgimenti, Nadja riuscì a stargli dietro:
– Sì.
– Sai dove vive?
– Sì, lo so.
– Non gli concedono un colloquio, dille che lui...
Il gangster fece ritorno.
– ...la ama! la adora! la venera! – disse Gleb in modo ben distinto quando il
sorvegliante era ormai vicino. Per una strana ragione, davanti al gangster le
parole di Gleb non parvero poi così animate.
– La ama, la adora, la venera – ripeté Nadja, con un sospiro triste. E scrutò il
marito. Invece dell’uomo che un tempo osservava con cura femminile ancora
immatura per via della giovane età, invece dell’uomo che le sembrava di
conoscere, ne vide uno nuovo, completamente estraneo.
– A te va bene così – accennò lei, triste.
– Va bene cosa?
– In generale. Qui. Tutto questo. Stare qui – disse lei, mascherando la frase
con svariate sfumature della voce, in modo che il sorvegliante non ne capisse il
senso: a quell’uomo andava bene stare in prigione.
Ma vedere suo marito sotto quella luce non glielo rendeva più vicino. Glielo
allontanava. Anche lei lasciò da parte quanto appreso e decise di rifletterci e
interpretarlo in seguito, dopo il colloquio. Non sapeva che cosa ne sarebbe
venuto fuori, ma con il cuore capace di vedere oltre, adesso cercava in lui una
debolezza, una stanchezza, una malattia, una supplica d’aiuto, qualcosa per cui
una donna potesse dare il resto della vita, rimanere ad aspettare anche per altri
dieci anni e raggiungerlo nella taiga.
Ma lui sorrideva! Sorrideva con presunzione, come un tempo alla prigione di
Krasnaja Presnja! Era sempre pieno di sé, non aveva mai bisogno di sostegno
in nulla. Persino su quel nudo e piccolo sgabello sembrava comodo, come se si
stesse guardando intorno con piacere e stesse raccogliendo materiale per la sua
storia. Le era parso in salute, gli occhi scintillavano beffardi verso i carcerieri. A
cosa gli serviva la devozione di una donna?
In ogni caso, Nadja non aveva ancora elaborato un pensiero del genere.
E Gleb non poteva indovinare a quali pensieri lei stesse giungendo.
– Tempo quasi scaduto – disse sulla porta Kliment’ev.
– Di già? – si stupì Nadja.
Gleb corrugò la fronte, sforzandosi di ricordare cos’altro c’era di importante
nella lista delle “cose da dire” che aveva memorizzato prima del colloquio.
– Sì! Non ti stupire se mi porteranno via di qui e mi manderanno lontano, se
le lettere cesseranno del tutto.
– Ma possono farlo? Dove?? – gridò Nadja. Una simile novità, e la diceva
solo adesso!!
– Lo sa Dio – Gleb pronunciò la frase con un tono significativo,
stringendosi nelle spalle.
– Non avrai cominciato a credere in dio??!
(Non avevano parlato di niente!!)
Gleb sorrise:
– Perché no? Pascal, Newton, Einstein...
– Per chi ho parlato io? Niente cognomi! – abbaiò il sorvegliante. – Tempo
scaduto!
Marito e moglie si alzarono contemporaneamente e, non essendoci più il
rischio che il colloquio fosse interrotto, dall’altra parte del tavolinetto Gleb
afferrò Nadja per il collo sottile, glielo baciò e poi bevve dalle sue labbra
morbide, che aveva del tutto dimenticato. Non nutriva speranze di trovarsi a
Mosca di lì a un anno per baciarla ancora una volta. La voce gli tremò di
tenerezza:
– Fai sempre quel che è meglio per te. Io...
Non finì la frase.
Si guardarono negli occhi.
– Be’, cosa succede? Cosa succede? Colloquio sospeso! – ringhiò il
sorvegliante e tirò via Neržin per una spalla.
Neržin si staccò da Nadja.
– Sospendilo pure, ti venga un accidente – borbottò a mezza voce.
Nadja indietreggiò fino alla porta e salutò il marito solo muovendo le dita
della mano alzata, quella senza l’anello.
Poi scomparve dietro lo stipite della porta.
41
ANCORA UNO

I coniugi Gerasimovič si baciarono.


Il marito era basso, ma accanto alla moglie sembrava quasi di statura
normale.
Il sorvegliante capitato loro era un ragazzo semplice e d’indole pacifica. Non
aveva nulla in contrario che si baciassero. Anzi, era quasi imbarazzato all’idea
di dover ostacolare il loro incontro. Si sarebbe voltato verso il muro, restando
così per mezz’ora, se solo il tenente colonnello Kliment’ev non avesse ordinato
di lasciare aperte tutte e sette le porte delle camere dell’istruttoria, in modo da
sorvegliare lui stesso i sorveglianti dal corridoio.
Nemmeno al tenente colonnello importava che durante i colloqui si
baciassero. Un’eventuale fuga di segreti di Stato non poteva avvenire così, ma
doveva guardarsi dai sorveglianti e dai detenuti: alcuni di loro facevano parte
del servizio informativo e avrebbero potuto fare la spia.
I coniugi Gerasimovič si baciarono.
Ma il loro non fu un bacio di quelli che li scuotevano in gioventù. Fu un
bacio rubato alle autorità e al destino, un bacio incolore, insapore, inodore: un
bacio pallido, come quello di un morto che viene a trovarci in sogno.
Si sedettero, separati dal tavolino per gli inquisiti con il piano di compensato
storto.
La storia di quel tavolinetto rozzo era più ricca di tante esistenze umane. Per
molti anni uomini e donne di quel carcere vi si erano seduti davanti, avevano
singhiozzato ed erano rimasti impietriti dal terrore, avevano combattuto
contro la devastante impossibilità di dormire, pronunciato parole d’orgoglio,
oppure firmato misere denunce contro le persone a loro più vicine. Di solito
non venivano lasciate né matite né penne a portata di mano, eccezion fatta,
forse, per le rare deposizioni che dovevano essere scritte di proprio pugno.
Eppure, chi le scriveva faceva in tempo a tracciare sulla superficie storta del
tavolo qualche segno personale, le strane figure ondulate o aghiformi che si
disegnano inconsciamente e che, misteriosamente, custodiscono le recondite
tortuosità dell’anima.
Gerasimovič guardava la moglie.
Il primo pensiero fu che era diventata molto poco attraente: gli occhi bistrati
da cerchi profondi, le rughe intorno agli occhi e alle labbra, la pelle del viso
floscia; praticamente Nataša non si curava più. La pelliccia era ancora quella
che aveva prima della guerra, avrebbe dovuto farla rivoltare già da parecchio; il
pelo del collo si era sfoltito, era caduto, mentre lo scialle era lo stesso da tempo
immemorabile. L’avevano comprato a Komsomol’sk sull’Amur con un buono
d’acquisto, e a Leningrado lei lo indossava per andare a prendere l’acqua alla
Neva.
Tuttavia Gerasimovič represse il pensiero vile che la moglie fosse brutta, un
pensiero interiore, intimo. Aveva davanti l’unica donna al mondo che
rappresentava l’altra metà di sé stesso. Davanti aveva la donna con cui si
intrecciava tutto ciò che era custodito nella sua memoria. Nessuna ragazza
fresca e graziosa, con un’anima a lui estranea e incomprensibile, ricordi recenti
e un’esperienza superficiale avrebbe mai potuto far passare sua moglie in
secondo piano.
Nataša non aveva ancora diciotto anni quando si erano conosciuti alla festa
di Capodanno del 1930, nello stesso edificio in cui abitavano entrambi, in via
Srednjaja Pod’jačeskaja, vicino al ponte dei Leoni. Ancora sei giorni e
sarebbero trascorsi vent’anni. Ripensando adesso a quel tempo, appariva chiaro
cos’erano stati il 1919 o il 1930. Ma ogni Nuovo Anno allora si vedeva sotto
una luce rosea, nessuno s’immaginava cosa avrebbe finito per evocare nella
memoria popolare il suono di quella data. Avevano avuto fiducia allo stesso
modo anche nel 1930.
Gerasimovič era stato arrestato per la prima volta proprio quell’anno. Per
sabotaggio...
Illarion Pavlovič aveva iniziato la sua professione di ingegnere nel periodo
in cui la parola “ingegnere” equivaleva a “nemico”, e la gloria proletaria faceva
apparire ciascuno di loro un sabotatore. Per di più l’educazione spingeva il
giovane Gerasimovič a inchinarsi cortesemente e a dire a chiunque “Mi scusi, la
prego” in tono mite, fosse o no il caso. Alle riunioni, invece, perdeva la voce e
se ne stava lì seduto come un topo. Non si rendeva nemmeno conto fino a che
punto irritasse tutti.
Ma nonostante avessero cercato di incastrarlo in ogni modo, erano riusciti a
fargli avere soltanto cinque anni. Sull’Amur era stato persino esonerato dalla
sorveglianza. E là era giunta anche la fidanzata, colei che sarebbe diventata sua
moglie.
Rare erano allora le notti in cui i due sposi non sognassero Leningrado. Così
nel 1935 si erano decisi a tornare. Ma a quel punto era già cominciato il flusso
contrario, per via di Kirov...93
Anche Natal’ja Pavlovna ora scrutava il marito. Quel viso era cambiato
davanti ai suoi occhi, quelle labbra si erano indurite. Lampi raggelanti, a tratti
anche feroci, si irradiavano sotto il pince-nez. Illarion aveva smesso di
inchinarsi e di dire spesso “Mi scusi”. Gli avevano rinfacciato il passato per
tutto il tempo, a volte licenziandolo, a volte assumendolo per un impiego
inadatto al suo livello d’istruzione; così se n’erano andati da un posto all’altro,
vivendo di stenti, avevano perso prima una figlia, poi un figlio. E, una volta
detto addio a tutto, si erano assunti il rischio di tornare a Leningrado. Ma
quello era accaduto nel giugno del 1941.
Nemmeno lì, a maggior ragione, erano riusciti a sistemarsi bene. Sulla testa
del marito pendeva il suo questionario. Tuttavia, da spettro di laboratorio, lui
non si era fatto più debole, ma più forte. Era sopravvissuto a un autunno
trascorso a scavare fosse. E con la prima neve era diventato becchino.
Quella professione lugubre, in una città sotto assedio, era la più utile e
redditizia. Lui onorava un’ultima volta chi se n’era andato, e in cambio quelli
che rimanevano gli donavano un misero cubetto di pane.
Impossibile mangiarlo senza rabbrividire! Illarion, però, si era costruito una
giustificazione: i nostri concittadini non hanno avuto pietà di noi, nemmeno
noi ne avremo di loro!
I coniugi erano sopravvissuti. Avevano superato tutto questo per poi vedere,
ancor prima della fine dell’assedio, Illarion arrestato per l’intenzione di tradire la
patria. A Leningrado ne avevano portati via parecchi così, per l’intenzione: non
si poteva incolpare di tradimento chi non era nemmeno stato sotto
l’occupazione. E Gerasimovič, ex detenuto di un campo di lavoro, era venuto a
Leningrado all’inizio della guerra, dunque con l’intenzione di arrendersi ai
tedeschi. Avrebbero arrestato anche la moglie se lei in quel momento non si
fosse trovata in fin di vita.
Natal’ja Pavlovna ora scrutava il marito, ma stranamente non vedeva in lui
alcuna traccia degli anni difficili. Gli occhi guardavano con la stessa intelligente
discrezione attraverso il pince-nez scintillante. Le guance non erano infossate,
di rughe non ne aveva, indossava un vestito costoso, la cravatta era annodata
con cura.
Si sarebbe potuto pensare che fosse lei quella che stava in prigione, non lui.
Il primo brutto pensiero della donna fu che lui se la cavasse bene nella
prigione speciale, che lì, naturalmente, non conoscesse persecuzioni, si
occupasse della sua scienza, non pensasse affatto alle sofferenze della moglie.
Scacciò subito quel pensiero cattivo.
E con voce dimessa gli domandò:
– Be’, come va?
Come fossero stati necessari i dodici mesi di attesa per quel colloquio, le
trecentosessanta notti trascorse a ricordare il marito nel suo letto da vedova
che si ricopriva di brina, per domandare:
– Be’, come va?
Trattenendo nel petto misero e angusto una vita intera, che non aveva mai
concesso alle forze della sua mente di correggersi e di fiorire, e un mondo
intero da carcerato che aveva vissuto nella taiga e nel deserto, nelle celle
d’isolamento delle istruttorie e infine nel benessere di un istituto chiuso,
Gerasimovič rispose:
– Abbastanza bene...
Avevano a disposizione mezz’ora. I granelli di sabbia dei secondi
scendevano in un rivolo inarrestabile dentro il collo di vetro del Tempo.
Decine di domande, desideri, lamentele si affollavano cercando di passare per
primi, ma Natal’ja domandò:
– Quando hai saputo del colloquio?
– L’altro ieri. E tu?
– Martedì... Il tenente colonnello mi ha appena chiesto se sono tua sorella.
– Per via del patronimico?
– Sì.
Quando erano fidanzati e si trovavano sull’Amur, li prendevano tutti per
fratello e sorella. In loro c’era quella felice somiglianza esteriore e interiore che
rende marito e moglie più che coniugi.
Illarion Pavlovič domandò:
– Come va al lavoro?
– Perché me lo chiedi? – trasalì lei. – Hai saputo?
– Saputo cosa?
Qualcosa sapeva, ma non sapeva se era quello che sapeva lei.
Sapeva che in libertà le mogli dei detenuti, di solito, venivano perseguitate.
Ma come poteva immaginare che il mercoledì precedente la moglie era stata
licenziata perché sposata con lui? In quei tre giorni Natal’ja, già al corrente del
colloquio, non si era messa in cerca di un altro lavoro. Aveva atteso
quell’incontro quasi potesse compiersi un miracolo e il colloquio inondasse di
luce la sua vita, mostrandole cosa fare.
Ma come poteva darle un buon consiglio suo marito, che si trovava in
prigione da tanti anni e non era più avvezzo alla società civile?
Bisognava prendere una decisione: rinnegarlo o non rinnegarlo...
In quell’ufficio grigio e mal riscaldato, nella luce fioca che penetrava dalla
finestra sbarrata, il colloquio andava avanti e la speranza di un miracolo si
affievoliva.
Natal’ja Pavlovna si rese conto che in quella misera mezz’ora non sarebbe
riuscita a far comprendere al marito la propria solitudine e la propria
sofferenza, che lui procedeva su binari tutti suoi, in una vita già avviata. Non
avrebbe capito nulla in ogni caso, era meglio non turbarlo nemmeno.
Il sorvegliante se ne stava in disparte a esaminare l’intonaco sul muro.
– Su, raccontami di te – disse Illarion Pavlovič, tenendo la mano della
moglie attraverso il tavolo, e dai suoi occhi traspariva quella gentilezza che le
aveva riservato anche nei mesi di maggiore esasperazione dell’assedio.
– Larik! Lì da te... le compensazioni... non sono previste?
Si riferiva agli sconti di pena previsti nei campi di lavoro sull’Amur: una
giornata di lavoro era calcolata come due di normale detenzione, così la pena
finiva prima di quanto stabilito.
Illarion scosse la testa.
– Macché compensazioni! Qui non ne vediamo più da secoli, lo sai. Bisogna
farsi venire in mente qualcosa di grosso, solo così ti liberano prima. Il fatto
però è che le invenzioni di qui... – Guardò di sbieco il sorvegliante che si stava
voltando. – ...sono di un genere... davvero inopportuno...
Non avrebbe potuto esprimersi in modo più chiaro!
Afferrò le mani della moglie e se le strofinò contro le guance.
In una Leningrado congelata, non tremava all’idea di prendere la razione di
pane per i funerali da una persona che forse il giorno seguente avrebbe avuto
bisogno di un funerale a sua volta.
Adesso, invece, non ci riusciva...
– Sei triste a stare da sola? Tanto triste, vero? – le domandò con dolcezza e
strofinò la guancia contro una mano della moglie.
Triste? Le si gelava il sangue all’idea che il colloquio stesse volando, che
presto sarebbe stato interrotto e lei sarebbe uscita a mani vuote sul Lefortovskij
val, nelle strade malinconiche, sola, sola, sola... Un’inutilità che inebetiva ogni
sua azione, in ogni giornata. Né dolce né acre, e neppure amara: la vita come
ovatta grigia.
– Nataločka! – le accarezzò le mani. – Se contiamo quanto tempo è passato
fra le due condanne, ora ne è rimasto poco. Tre anni soltanto. Solo tre...
– Solo tre?! – lo interruppe lei, indignata. Sentì la propria voce tremare,
aveva perso il controllo. – Solo tre?! Dici: solo! Sei l’unico a vedere la
scarcerazione immediata come una ‘possibilità inopportuna’! Vivi fra amici, tu!
Fai il lavoro che ami! Non ti conducono in una stanza dietro a una porta di
pelle nera! Io, invece, sono stata licenziata! Non ho più di che vivere! Non mi
prendono da nessuna parte! Non ce la faccio più! Mi mancano le forze! Non
sopravvivrò un altro mese! Neanche uno! Per me sarebbe meglio morire! I
vicini mi perseguitano come gli pare, mi hanno scaraventato il baule fuori di
casa, hanno strappato il mio scaffale dal muro; sanno che non posso dire una
parola... che potrebbero cacciarmi da Mosca! Ho smesso di andare dalle mie
sorelle, da zia Ženja. Mi deridono tutti, dicono che una più scema di me non
esiste. Mi incoraggiano a divorziare e a risposarmi. Quando finirà tutto questo?
Guarda in cosa mi sono trasformata! Ho trentasette anni! Fra tre anni sarò
vecchia! Vado a casa, non pranzo nemmeno, non sistemo più la stanza, mi dà la
nausea, mi accascio sul divano e resto là sdraiata senza forze. Larik, mio caro,
fai qualcosa perché ti liberino prima! Hai una testa geniale! Inventagli qualcosa
perché ti lascino andare! Dovrai pure avere un’idea in mente! Salvami! Sal-va-
mi!
Non aveva alcuna intenzione di dire quelle cose, povero cuore afflitto!
Scossa dai singhiozzi, baciò la piccola mano del marito e si chinò sul
tavolinetto storto e irregolare che aveva visto tante lacrime come le sue.
– Su, si calmi, cittadina – disse il sorvegliante con aria colpevole, lanciando
un’occhiata alla porta aperta.
Il viso di Gerasimovič era rigido, stravolto, e il pince-nez luccicava forte. I
singhiozzi indecorosi si propagarono per il corridoio. Sulla soglia apparve
minaccioso il tenente colonnello: lanciò un’occhiata fulminante alla donna e
richiuse la porta dietro di lei.
Nel testo delle disposizioni le lacrime non erano espressamente vietate, ma
in una più alta interpretazione, non potevano essere tollerate.

93 L’omicidio nel 1934 di Sergej Kirov, capo del Partito a Leningrado, portò a un’ondata di purghe in
quella città.
42
ANCHE FRA I GIOVANI

– Non è niente di troppo complicato: diluisci il cloruro di calcio e poi – zac, zac
– con il pennello lo passi sul documento d’identità... Basta sapere quanti minuti
lasciarlo, e poi lo togli.
– E poi?
– Poi si asciuga e non rimane traccia. Il documento è pulito, come nuovo; ti
metti lì e con l’inchiostro di china ci scrivi sopra ‘Sidorov’ oppure ‘Petjušin,
nato nel villaggio di Kriuši’.
– E non ti hanno mai beccato?
– Con questo metodo? Klara Petrovna... Oppure... permette che...?
–?
– ...che io la chiami solo Klara quando nessuno ci sente?
– ...Faccia pure...
– Vede, Klara, la prima volta mi presero perché ero un ragazzino indifeso e
innocente. La seconda, invece... eh no! Tenni duro mentre mi ricercavano in
tutta l’Unione Sovietica in anni non semplici, dalla fine del ’45 alla fine del ’47.
Così dovetti falsificare non solo il documento d’identità e il permesso di
residenza, ma anche il certificato del posto di lavoro, quello per le tessere
alimentari, la registrazione al negozio assegnato! Grazie ai certificati falsi
ricevevo anche tessere extra per il pane, le rivendevo e vivevo di quello.
– Ma che brutta cosa!
– E chi dice che sia una bella cosa? Mi ci hanno costretto, non è stata una
mia iniziativa.
– Ma perché non si è messo semplicemente a lavorare!
– Perché uno, ‘semplicemente’, non ci guadagna granché. Con il lavoro
onesto non si costruiscono palazzi di pietra, sa? E che lavoro avrei potuto fare?
Non mi hanno permesso di avere una specializzazione... A beccarmi non mi
feci beccare, ma di errori ne vennero fuori. In Crimea, all’Ufficio documenti
d’identità, c’era una ragazza... non pensi però che fra me e lei ci fosse qualcosa...
era solo ben disposta e mi rivelò un segreto: i numeri di serie del mio
documento d’identità... ha presente quelle ŽŠČ, LCh? Be’, in realtà indicavano
che ero stato sotto l’occupazione.
– Ma lei non c’era stato!
– Certo che non c’ero stato, ma il documento apparteneva a un altro! Così
mi toccò comprarne uno nuovo.
– Dove??
– Klara! Lei ha vissuto a Taškent, è stata al mercato Tezikov, e mi chiede
dove? Volevo comprarmi anche l’onorificenza della Bandiera Rossa. Mi
mancavano duemila rubli, ne avevo in mano diciottomila, ma lui si impuntò:
venti, solo venti ne voleva!
– Ma che cosa se ne faceva di quell’onorificenza?
– Che cosa se ne fa la gente di un’onorificenza? Semplice, volevo darmi un
po’ di arie. Che scemo, eh? Se solo avessi avuto una mente fredda come la sua...
– Da cosa ha dedotto che ho una mente fredda?
– È fredda, sobria, e lo sguardo è così... intelligente.
– Ah, sì?
– Sul serio. È tutta la vita che sogno di incontrare una ragazza con la mente
fredda.
– Perché?
– Perché io sono uno strampalato. Una così mi impedirebbe di fare
stupidaggini.
– Su, continui a raccontare, la prego.
– Dov’ero arrivato?... Ah, già! Quando uscii dalla Lubjanka, mi girava la testa
dalla felicità. Ma da qualche parte, dentro di me, c’era un piccolo custode che
continuava a domandarmi: ‘Come mai questo miracolo? Com’è successo? Non
rilasciano mai nessuno, me l’hanno spiegato in cella: colpevole o no, ne prendi
dieci sui denti, cinque sulle corna, e via al campo di lavoro.’
– Che significa sulle corna?
– Be’, avere una museruola per cinque anni.
– Che significa museruola?
– Dio mio, ma lei non sa proprio niente. Ed è la figlia di un procuratore!
Come mai non si interessa delle cose di suo padre? Con una museruola non si
può mordere. Quindi, privazione dei diritti civili. Non si può né votare né
essere eletti.
– Aspetti, sta arrivando qualcuno...
– Dove? Non abbia timore, è Zemelja. Resti seduta come prima, la prego!
Non si sposti. Apra la cartella. Ecco, la esamini... Allora compresi subito che
mi avevano rilasciato per pedinarmi, per vedere con quale dei ragazzi mi sarei
incontrato, se pensavo di dirigermi di nuovo in dacia dagli americani. Non
avrei avuto più una vita, mi avrebbero rimesso dentro comunque. Io però li ho
fregati! Dissi addio a mia madre, una notte me ne andai di casa e mi diressi da
uno zio. Fu lui a coinvolgermi nelle falsificazioni. E a quelli toccò cercare
Rostislav Doronin in tutta l’Unione Sovietica per due anni! Mentre io, con altri
nomi, me ne andavo in Asia Centrale, sull’Issyk-Kul’, in Crimea, Moldavia,
Armenia, Estremo Oriente... Poi mi venne una grande nostalgia di mia madre.
Ma non potevo assolutamente tornare a casa! Mi recai a Zagorsk, mi presero in
fabbrica come aiutante. Ero una sorta di tuttofare e mia madre veniva a
trovarmi ogni domenica. Lavorai lì per qualche settimana: un giorno non mi
svegliai in tempo, arrivai tardi al lavoro. E via in tribunale! Sotto processo!
– E saltò fuori tutto?!
– Non saltò fuori proprio niente! Fui condannato a tre mesi con un nome
falso. Restai in una colonia penale, con la testa rasata, mentre cercavano in tutta
l’Unione Sovietica Rostislav Doronin! Vaporosi capelli biondi, occhi azzurri,
naso dritto, un neo sulla spalla sinistra. Le ricerche vennero a costare un
occhio! Mi feci i miei tre mesi, ritirai dal cittadino capo il documento d’identità
e mi diressi nel Caucaso!
– Di nuovo in viaggio?
– Uhm! Non so se posso raccontarle tutto...
– Come no!
– Mi sembra molto convinta... Invece no, non è possibile. Lei appartiene a
tutt’altro ambiente, non capirebbe.
– Sì che capirò! La mia non è stata una vita facile, non si preoccupi!
– Da due giorni a questa parte mi guarda in modo così gentile... Sì, voglio
raccontarle tutto... Insomma, volevo svignarmela. Via da questo carrozzone.
– Quale carrozzone?
– Be’, da tutto questo... come si dice... socialismo! Mi aveva già fatto venire il
bruciore di stomaco, non ce la facevo più!
– Dal socialismo?!...
– Se non c’è giustizia, che me ne faccio del socialismo?
– Sì, quello che le è successo è davvero seccante. Ma dove poteva andare?
Laggiù sono tutti reazionari e imperialisti, come farebbe a viverci?!
– Sì, giusto, naturale. Naturale, giusto. Per questo non mi decidevo
seriamente. Uno deve anche sapere come fare.
– E come ha fatto a finire...?
– ...di nuovo dentro? Mi è venuta voglia di studiare!
– Ecco, vede? Lei era attratto da una vita onesta! Studiare è necessario, è una
cosa importante. Una cosa nobile.
– Temo, Klara, che non sia sempre nobile. Solo dopo, nelle prigioni, nei
campi di lavoro, ci ho riflettuto. Cosa possono insegnarci questi professori che
non aprono bocca finché non esce l’ultima edizione del giornale, per timore di
perdere lo stipendio?? E questo in una facoltà umanistica? Non insegnano,
semmai ottenebrano le menti. Lei ha studiato in una facoltà tecnica, vero?
– E anche in una facoltà umanistica...
– L’ha lasciata? Poi me lo racconterà. Avrei dovuto pazientare, cercare un
diploma della decima classe, non era nemmeno difficile comprarselo, ma
l’imprudenza... ecco cos’è che ci rovina! Penso: quale scemo continuerebbe a
cercare un ragazzo come me? Di sicuro mi avranno dimenticato da un pezzo.
Presi il vecchio diploma con il mio vero nome e lo portai all’università, stavolta
a quella di Leningrado, alla facoltà di Geografia.
– Ma non frequentava quella di Storia a Mosca?
– Mi ero affezionato alla geografia per via dei miei vagabondaggi.
Interessante da morire! Macini strada, vedi tante cose... E poi che succede?
Andavo a lezione da una settimana quando... oplà! Di nuovo alla Lubjanka!
Questa volta mi hanno dato venticinque anni! E non sono ancora stato a far
pratica nella tundra!
– E lo racconta ridendo?
– A che mi serve piangere? Se piangi per ogni cosa, Klara, le lacrime non
bastano. Non sono solo. Se mi mandassero a Vorkuta, troverei ragazzi in
gamba pure lì! Scavano il carbone! Tutta Vorkuta si regge sugli zek! Tutto il
Nord! La nazione intera si poggia in parte su di loro. Sa, il sogno di Tommaso
Moro che si è avverato.
– Di chi? A volte mi vergogno della mia ignoranza.
– Tommaso Moro, il nonnetto che scrisse Utopia. Ebbe il fegato di
ammettere che il socialismo avrebbe inevitabilmente previsto diversi lavori
umilianti e particolarmente duri. Nessuno avrebbe voluto farli! A chi
assegnarli, allora? Moro ci rifletté e giunse a una conclusione: anche nel
socialismo ci sarebbero state persone che avrebbero violato l’ordine. Ecco chi
si poteva incaricare! Il campo di lavoro moderno fu inventato in questa forma
da Tommaso Moro, è un’idea molto antica!
– Non riesco nemmeno a immaginare come sarebbe vivere in quella
maniera, ai nostri tempi. Falsificare documenti, andare di città in città, filare
come una vela al vento... In vita mia non ho mai incontrato nessuno come lei.
– Klara, nemmeno io ero così! Le circostanze possono trasformarci in
diavoli! Lei lo sa bene, l’essere sociale determina la coscienza! Io ero un ragazzo
tranquillo, ubbidivo alla mamma, leggevo Un raggio di luce nel regno delle tenebre di
Dobroljubov. Bastava il cenno di un poliziotto e mi mancava il fiato. Tutto
questo ti si radica dentro in modo impercettibile. Cos’altro avrei potuto fare?
Attendere come un coniglio che venissero di nuovo a prendermi?
– Non so che cosa avrebbe potuto fare, ma vivere così?! Immagino sia
davvero difficile trovarsi costantemente ai margini della società! Essere un
uomo inutile, braccato...
– Be’, a volte è difficile. E altre volte, sa, non lo è affatto. Perché quando
cammini per il mercato Tezikov e ti guardi intorno... Se vendono le
onorificenze nuove di zecca con i loro certificati ancora da compilare, dovrà
pur esserci un uomo corrotto che lavora da qualche parte, no? In quale
istituzione sarà? Se lo immagina? Ora, Klara, le dirò una cosa: anch’io sono per
la vita onesta, ma devono farla tutti, capisce? Tutti, fino all’ultima persona!
– Ma se tutti se lo aspetteranno dagli altri non si comincerà mai. Tutti
dovrebbero...
– Tutti dovrebbero, ma non tutti lo fanno! Senta, Klara, glielo dirò in
maniera più semplice. La rivoluzione è stata fatta per lottare contro cosa?
Contro i privilegi! Che cosa nauseava il popolo russo? I privilegi. C’era chi era
vestito di tela ruvida, chi di zibellino; alcuni se ne andavano a piedi, altri in
carrozza; certi si recavano in fabbrica al suono della sirena, altri ingrassavano
nei ristoranti. Giusto?
– Giustissimo.
– Esatto. E perché adesso, la gente non si distacca dai privilegi ma aspira ad
averli? E che dire di me? Sono solo un ragazzo. Deve partire tutto da me?
Osservo quelli più vecchi. Ne ho viste di cose! Abito in una piccola cittadina
del Kazachstan, e cosa vedo? Le mogli dei dirigenti del luogo comprano forse
nei negozi normali? Non sia mai! Una volta, il primo segretario del comitato
rionale in persona mi mandò da loro a consegnare una cassa di pasta. Una cassa
intera. Ancora sigillata. Probabilmente non era l’unica, e non era la prima
consegna...
– Sì, è terribile! È una cosa che ha sempre sconvolto anche me, ci crede?
– Ci credo, naturale. Perché non dovrei credere a una persona in carne e
ossa? Ci credo molto di più che a un libro stampato in un milione di copie...
Questi privilegi contagiano la gente come un’infezione. Se uno può comprare
in un negozio diverso da quello dove vanno tutti, ci compra di sicuro. Se può
farsi curare in una clinica separata, ci si farà curare di sicuro. Se può viaggiare
su un’auto esclusiva, ci viaggerà di sicuro. Se un posto ha una certa attrattiva e
ci si può andare soltanto con un permesso, uno, di sicuro, farà tutto il possibile
per procurarselo.
– Vero! È terribile!
– Se uno può isolarsi dietro un recinto, si isolerà di sicuro. Eppure anche
quel figlio di puttana sarà stato un ragazzino, avrà scavalcato la recinzione di
un mercante, gli avrà rubato le mele, e con buone ragioni! E adesso piazza un
recinto ininterrotto alto due uomini perché nessuno possa guardarci dentro,
così è più comodo! e pensa ancora di avere buone ragioni! Intanto a Orenburg,
al mercato, gli invalidi di guerra, che ricevono solo gli avanzi, giocano a testa o
croce con una medaglia della Vittoria. La lanciano in alto e gridano: ‘Muso o
Vittoria?’
– Come mai gridano così?
– Be’, da un lato c’è scritto ‘vittoria’, dall’altro c’è un’effigie. Guardi quella di
suo padre.
– Rostislav Vadimyč...
– Ma quale Vadimyč! Mi chiami Rusja.
– Mi è difficile chiamarla così...
– Be’, allora mi alzo e me ne vado. Stanno giusto suonando per il pranzo.
Sono Rusja per tutti, e per lei... in particolare... non voglio che sia diverso.
– E va bene... Rusja... Non sono del tutto stupida nemmeno io. Ci ho
pensato a lungo. È contro queste cose che bisogna lottare! Non con il suo
metodo, però, ovviamente.
– Ma io a lottare non ho nemmeno cominciato! Stavo semplicemente
ragionando sulla questione: se c’è uguaglianza deve esserci per tutti, mentre se
non c’è, chi se ne frega... Oh, mi scusi, la prego... Mi scusi, non volevo... Lo
vediamo fin da bambini: a scuola ti riempiono di belle parole, ma senza
raccomandazione non fai un passo, senza bustarelle non vai da nessuna parte,
così veniamo su furbi. Essere sfrontati è una seconda fortuna!
– No! No! Non è possibile! Nella nostra società c’è molto di giusto. Sta
esagerando! Non è possibile! Lei ha visto tante cose, è vero, ne ha superate
tante, ma non può dire che ‘essere sfrontati è una seconda fortuna’! Non è una
filosofia di vita, questa! Non può essere!
– Rus’ka! Hanno chiamato per il pranzo, non hai sentito?
– Tu va’, Zemelja, ti raggiungo... Klara! Glielo dirò in modo tranquillo,
solenne. Accetterei con tutto il cuore di vivere in un altro modo! Ma se avessi
un amico... dalla mente fredda... un’amica... se potessi riflettere con lei, costruire
una vita come si deve. Sono un detenuto condannato a venticinque anni, ma
solo tecnicamente. Io... Oh, se potessi raccontarle su quale lama sono in bilico!
Un uomo normale sarebbe già morto per un collasso cardiaco... Eppure...
Klara! Voglio che lei lo sappia, in me ci sono vulcaniche riserve di energia!
Venticinque anni sono una bazzecola, per me sarebbe uno scherzo tagliare la
corda...
– Cosa intende dire?
– Be’... andarmene. Giusto stamattina controllavo come potrei fuggire da
Marfino. Se un giorno la mia fidanzata (ammesso che io ne abbia una) dicesse:
‘Rusja! Scappa, ti aspetto!’ le giuro, scapperei nel giro di tre mesi, falsificherei i
documenti a regola d’arte! La porterei a Čita, a Odessa, a Velikij Ustjug! E
inizieremmo là una nuova vita, onesta, giudiziosa, libera!
– Una bella vita!
– Ha presente come parlano sempre i protagonisti di Čechov? Fra vent’anni!
Fra trent’anni! Fra duecento anni! Guadagnarsi la giornata in una fabbrica di
mattoni e tornare a casa sfiniti! Pensi un po’ cosa sognavano! No, non sto
scherzando! Dico sul serio! Voglio davvero studiare, sforzarmi! Però non da
solo! Klara! Vede com’è tranquillo, sono usciti tutti. Non vuole venire a Velikij
Ustjug? È un monumento dell’antichità. Non ci sono mai stato.
– Che uomo straordinario è lei.
– Cercavo una come lei all’università di Leningrado. Ma non pensavo di
trovarla in un posto così.
– Chi?
– Klaročka! Le mani di una donna saprebbero ancora tirar fuori dal
sottoscritto chi vogliono: un farabutto, un giocatore di carte geniale, o il
massimo esperto di vasi etruschi e raggi cosmici. Se vuole lo diventerò!
– Si falsificherà una laurea?
– No, lo diventerò davvero! Diventerò chi lei vorrà. Ho solo bisogno di lei!
Ho bisogno della sua testa, che lei volta così lentamente quando entra nel
laboratorio...
43
LA DONNA CHE LAVAVA LE SCALE

Il generale di divisione Pëtr Afanas’evič Makarygin, candidato in scienze


giuridiche, prestava servizio da tempo come procuratore agli affari speciali, vale a
dire quegli affari che era bene non rendere noti all’opinione pubblica, ragion
per cui venivano portati avanti di nascosto. (Erano così tutti i milioni di casi
politici.) In quegli affari bisognava sorvegliare la giustezza dell’istruttoria e di
tutto il procedimento, e sostenere l’imputazione. Non vi erano ammessi tutti i
procuratori: si decideva in base all’istruttoria stessa, revisionata dall’MGB.
Eppure Makarygin vi rientrava sempre: a parte le conoscenze di lungo corso
che poteva vantare, sapeva combinare con grande tatto la propria inflessibile
fedeltà alle leggi con l’attitudine a comprendere la specificità del lavoro degli
Organi.
Aveva tre figlie, nate tutte dalla prima moglie, sua compagna durante la
Guerra civile, morta dando alla luce Klara. A educarle era stata una matrigna,
che d’altra parte era diventata per loro quella che si suol dire una buona madre.
Le figlie si chiamavano: Dinera, Dotnara e Klara. Dinera derivava da DItja
Novoj ERy, Figlia della Nuova Era; Dotnara, da DOČ’ Trudovogo NARodA, Figlia
del Popolo Lavoratore.
Le figlie erano arrivate a due anni di distanza l’una dall’altra. Quella di
mezzo, Dotnara, aveva concluso i primi dieci anni di scuola nel ’40 e,
sorpassando Dinera, si era sposata un mese prima di lei. Il padre non era
contento, riteneva fosse un po’ presto, ma in ogni caso gli era capitato un bravo
genero, laureato alla Scuola Superiore per Diplomatici, un giovane capace e
protettivo, figlio di un padre celebre morto durante la Guerra civile. Il genero
si chiamava Innokentij Volodin.
Mentre la madre si precipitava a scuola a farle togliere i “due” in
matematica, la figlia maggiore, Dinera, se ne stava sul divano a leggere tutta la
letteratura mondiale da Omero a Farrère. Dopo la scuola, non senza l’aiuto del
padre, era riuscita a entrare alla facoltà di Recitazione dell’Istituto di
Cinematografia. Al secondo anno si era sposata con un regista abbastanza
famoso, era stata evacuata con lui ad Alma-Ata e aveva ottenuto il ruolo da
protagonista in uno dei suoi film. In seguito aveva divorziato e aveva sposato
un generale del servizio d’intendenza con già un matrimonio alle spalle, Dinera
se n’era andata con lui al fronte, ma non al fronte normale: erano partiti alla
volta di quel terzo scaglione, la zona migliore della guerra, dove i proiettili del
nemico non arrivavano e non si insinuava nemmeno la durezza delle retrovie.
Là Dinera aveva conosciuto uno scrittore alla moda, il corrispondente dal
fronte Galachov. L’aveva accompagnato a raccogliere materiale sugli atti di
eroismo per i giornali, aveva riconsegnato il generale alla prima moglie ed era
tornata a Mosca con il suo scrittore.
Così già da otto anni l’unica figlia rimasta in casa era Klara.
Le due sorelle maggiori si erano prese tutta la bellezza, senza lasciare a Klara
né il fascino né la grazia. Klara sperava che con gli anni il suo aspetto sarebbe
migliorato... e invece no, non era migliorato. Aveva un viso schietto e pulito,
ma troppo audace. Attorno alla fronte e al mento si concentrava una durezza
che Klara non riusciva a eliminare, così si era rassegnata e ci aveva fatto
l’abitudine. Muoveva le braccia con pesantezza. Era un po’ dura anche la sua
risata, motivo per cui ridere non le piaceva. Non le piaceva nemmeno ballare.
Klara aveva terminato la decima classe proprio quando gli eventi si erano
susseguiti rapidamente: il matrimonio delle due sorelle, l’inizio della guerra, la
partenza sua e della matrigna evacuate a Taškent (il padre le aveva mandate via
già il 25 giugno) e quella del padre per l’esercito come procuratore di una
divisione.
Per tre anni erano vissute a Taškent nella casa di un vecchio amico del padre,
il vice di uno dei procuratori capo del luogo. Né la canicola del sud né il dolore
della città penetravano nel loro tranquillo appartamento, che si trovava accanto
alla casa distrettuale degli ufficiali, al primo piano, con le finestre ben protette
dalle tende. A Taškent erano stati chiamati alle armi molti uomini, ma ne erano
arrivati dieci volte tanti. E sebbene ciascuno di loro potesse dimostrare,
documenti alla mano, che il proprio posto era a casa e non al fronte, Klara
provava la sensazione incontrollabile che a lambirla in quel luogo fosse uno
scolo di immondizia, mentre la purezza di un atto eroico e l’altezza di spirito
erano scappate a cinquemila verste di distanza. Imperava la legge primordiale
della guerra: nonostante le persone non partissero per il fronte di propria
volontà, a finirci erano gli uomini migliori e più appassionati. Una volta arrivati
laggiù, per la medesima selezione, la maggior parte di loro trovava la morte.
Klara aveva concluso la decima classe a Taškent. Erano poi nate discussioni
sulla facoltà a cui avrebbe dovuto iscriversi. Non l’attirava nulla in particolare,
non aveva un’idea chiara di cosa volesse fare. Ma in una famiglia come la sua
bisognava per forza iscriversi da qualche parte! Era stata Dinera a scegliere per
lei: la sorella aveva insistito moltissimo che Klara si iscrivesse alla facoltà di
letteratura, sia scrivendole sia di persona, quando era passata a salutarla prima
di partire per il fronte.
Così Klara c’era andata, pur trovando la letteratura noiosa fin dalla scuola:
giustissimo Gor’kij, ma poco avvincente; giustissimo Majakovskij, ma un po’
lento; molto avanti Saltykov-Ščedrin, ma una volta finito di leggerlo ti eri
slogato la bocca per gli sbadigli; poi Turgenev, limitato nei suoi ideali di nobile;
Gončarov, legato al nascente capitalismo russo; Lev Tolstoj, che era passato a
sostenere la posizione dei contadini patriarcali (l’insegnante sconsigliava di
leggere i suoi romanzi, essendo molto lunghi e utili solo a mettere in dubbio i
chiari articoli critici su di lui); e poi tutta una rassegna di nomi che nessuno
conosceva, come Stepnjak-Kravčinskij, Dostoevskij e Suchovo-Kobylin, i cui
titoli, in effetti, non valeva nemmeno la pena ricordare. In tutta quella serie
pluriennale l’unico a brillare come il sole era Puškin.
A scuola, la letteratura consisteva nello studio approfondito di cosa
volessero esprimere tutti quegli scrittori, e anche i sovietici russi e i popoli
fratelli, delle loro posizioni e del ruolo che ricoprivano all’interno della società.
Così Klara e le sue amiche avevano sempre trovato incomprensibile il motivo
per cui quelle persone erano al centro di tanta attenzione. Non erano i più
intelligenti (i pubblicisti e i critici, e soprattutto gli uomini di partito, erano più
intelligenti di loro), spesso sbagliavano, si perdevano in contraddizioni chiare
persino a uno scolaretto, cadevano sotto influssi estranei; eppure era su di loro
che bisognava scrivere temi, tremare per ogni lettera e ogni virgola sbagliata.
Così, quei vampiri di anime giovanili potevano suscitare solo odio.
Dinera invece percepiva la letteratura in un altro modo: acuta, divertente.
Aveva assicurato alla sorella che all’università la letteratura sarebbe stata
diversa. Ma a Klara non era parsa divertente nemmeno là. A lezione c’erano
antiche lettere slave, leggende di monaci, una corrente mitologica e una storico-
comparativa, e tutto questo non lasciava traccia. Nel frattempo, nei circoli
letterari si conversava di Louis Aragon, di Howard Fast, e di nuovo di Gor’kij e
della sua influenza sulla letteratura uzbeka. Quando seguiva le lezioni e quando
si recò per la prima volta in uno di quei circoli, Klara si aspettava sempre che le
rivelassero qualcosa di molto importante sulla vita, su quella Taškent delle
retrovie, per esempio.
Il fratello di una sua compagna di studi della decima classe era stato
maciullato da un tram adibito al trasporto del pane, mentre lui e altri amici
tentavano di rubarne una cassa... Un giorno, nel corridoio dell’università, Klara
aveva gettato nella spazzatura un panino mezzo smangiucchiato. Uno studente
del suo stesso anno e di quello stesso circolo su Aragon, si era subito
avvicinato alla spazzatura e, cercando inutilmente di nascondere le proprie
intenzioni, aveva tirato fuori il panino e se l’era infilato in tasca... Una
studentessa aveva portato Klara con sé per un consiglio su un acquisto al
celebre mercato Tezikov, il primo mercato delle pulci dell’Asia Centrale e forse
di tutta l’Unione Sovietica. La gente si affollava per due quartieri, in particolare
c’erano molti invalidi dell’ultima guerra che arrancavano sulle stampelle,
agitavano i monconi delle braccia, strisciavano sulle assi perché privi di gambe,
vendevano qualche oggetto, predicevano il futuro, chiedevano, pretendevano;
Klara dava loro qualcosa, con il cuore stretto. L’invalido più spaventoso era
samovar, come lo chiamavano lì: non aveva né braccia né gambe, e la moglie
ubriacona lo trasportava sulla schiena in una cesta in cui la gente gettava i soldi.
Dopo averne raccolti un po’, lui e la moglie ci compravano la vodka, bevevano
e attaccavano a ingiuriare con foga contro tutto quello che c’era nello Stato.
Nel bel mezzo del mercato, dove si concentrava più folla, non riuscivi ad
aprirti un varco da quanti erano i borsaneristi e le borsaneriste insolenti e
corazzati. Nessuno se ne meravigliava, le persone capivano e accettavano i
prezzi da migliaia di rubli, certo non proporzionati alle paghe. I negozi della
città erano vuoti, ma lì si trovava ogni cosa, tutto ciò che si poteva ingerire, o
indossare sulla parte superiore o inferiore del corpo, o che ci si potesse far
venire in mente: dalla gomma americana alle pistole, ai manuali di magia nera e
bianca.
E invece no, alla facoltà di Letteratura, di quella vita non si parlava, quasi
non ne sapessero nulla. Con la letteratura che si studiava, si aveva l’impressione
che al mondo ci fosse tutto tranne quello che uno vedeva con i propri occhi.
Dopo aver compreso con angoscia che nel giro di cinque anni sarebbe finita
anche lei in qualche scuola ad assegnare alle ragazze temi odiosi, e a scovarvi
con pedanteria virgole e lettere sbagliate, Klara si era concentrata sul tennis: in
città c’erano ottimi campi e lei aveva sviluppato un colpo sicuro e forte.
Il tennis si era rivelato un’occupazione felice: infondeva la gioia del
movimento del corpo; la sicurezza del colpo si riverberava su altre azioni; era
uno sport che la distoglieva da tutte le delusioni dell’università e dagli intrecci
delle retrovie, con i chiari limiti del campo e il volo sereno della pallina.
Ma cosa ben più importante, il tennis le aveva portato la gioia di ricevere
attenzioni e lodi da parte degli altri, cose indispensabili per una giovane donna,
soprattutto se brutta. A quanto pareva, era agile! reattiva! aveva occhio! Erano
molte le doti che aveva, mentre lei era sempre stata convinta di non avere nulla
di buono. Riusciva a giocare sul campo per ore senza stancarsi, purché ci
fossero spettatori a osservare i suoi movimenti. E il completo da tennis bianco
con la gonna corta le donava molto.
Ormai decidere come vestirsi era una sofferenza. Doveva cambiarsi più volte
al giorno e ogni volta si trovava davanti a un penoso rompicapo: cosa indossare
su quelle gambe grosse? E quale cappello non la faceva apparire ridicola? E
quale colore le stava bene? E quale disegno della stoffa andava meglio? E quale
colletto poteva permettersi con il suo mento così duro? Klara non era portata
per cose simili e, nonostante avesse i mezzi per vestirsi come si deve, era
sempre abbigliata male.
E poi come si faceva a piacere agli altri? Cosa significava piacere? Perché
non piaceva? Da impazzire, nessuno poteva aiutarla a rispondere, nessuno
poteva darle una mano. In cosa era diversa? Cosa c’era di sbagliato in lei? Uno,
due, tre episodi si potevano spiegare come casualità, mancate coincidenze,
inesperienza, ma alla fine ti ritrovavi sempre in mezzo ai denti quell’invisibile
gambo amaro, a ogni boccone. Come avere la meglio su quell’ingiustizia? Che
colpa ne aveva lei se era venuta fuori così?
Klara inoltre era talmente stufa di chiacchiere letterarie che al secondo anno
aveva lasciato la facoltà. Aveva smesso di andarci e basta.
La primavera successiva il fronte si era già spostato in Bielorussia, e tutti
erano tornati dall’evacuazione. Anche Klara e la sua famiglia erano rientrati a
Mosca.
Anche lì, però, Klara non sapeva proprio decidersi sull’università da
frequentare. Ne cercava una in cui si parlasse poco e si agisse di più, vale a dire
una tecnica. Tutto purché non si usassero macchinari pesanti e luridi. Così era
finita all’Istituto di Ingegneria delle comunicazioni.
Non avendo nessuno che la indirizzasse, aveva commesso di nuovo un
errore. Quest’errore però Klara non lo ammise di fronte a nessuno, e decise
con caparbietà di concludere gli studi e di lavorare non importava dove. Del
resto, fra le sue compagne di corso (i maschi erano pochi) non era la sola a
ritrovarsi lì per caso; all’epoca tutti cercavano di catturare l’uccello azzurro
dell’istruzione superiore. Quanti non riuscivano a entrare all’Istituto di
Aviazione trasferivano i documenti a quello di Veterinaria; chi veniva scartato
dal Chimico-tecnologico diventava paleontologo.
Alla fine della guerra, il padre di Klara aveva avuto parecchio lavoro da
sbrigare nell’Europa dell’Est. Era stato smobilitato nell’autunno del ’45 e aveva
subito ottenuto un appartamento nel nuovo edificio dell’MVD alla barriera di
Kaluga. Pochi giorni dopo il suo ritorno, aveva portato la moglie e la figlia a
vedere l’appartamento.
L’automobile era passata accanto all’ultima cancellata del giardino Neskučnyj
e si era fermata, senza aver raggiunto il ponte sulla ferrovia circolare. Era prima
di mezzogiorno, una mite giornata di ottobre, in un’estate di San Martino che
tardava a finire. Madre e figlia indossavano soprabiti leggeri, il padre un
cappotto da generale aperto sul petto, con onorificenze e medaglie.
L’edificio di forma semicircolare che stavano costruendo alla barriera di
Kaluga aveva due ali, una che dava sulla Bol’šaja Kalužskaja, l’altra sulla
ferrovia circolare. Erano previsti otto piani, più una torre di altri sedici con un
solarium sul tetto e la statua di una kolchoziana, alta all’incirca dodici metri. La
casa era ancora coperta dalle impalcature, dal lato della strada e della piazza
non era stata nemmeno finita la muratura in pietra. Tuttavia, cedendo
all’impazienza del committente (la Sicurezza di Stato), l’ufficio progettazione
aveva consegnato in fretta e furia una seconda porzione: la parte rifinita dal
lato della ferrovia circolare, vale a dire una scala con gli appartamenti annessi.
Come accade sempre nelle strade affollate, l’area in costruzione era
circondata da una palizzata di legno, e in cima alla palizzata si innalzavano
alcune righe di filo spinato e informi torrette di guardia. Dalle auto di
passaggio tutto questo non si vedeva, mentre chi viveva oltre la strada ci si era
abituato e non ci faceva più caso.
La famiglia del procuratore aveva fatto il giro del recinto. Là il filo spinato
era già stato tolto, e la porzione in consegna era stata separata dall’area in
costruzione. Sotto, all’ingresso principale, erano stati accolti da un capocantiere
cortese. Se ne stava lì in piedi anche un soldato, al quale Klara non aveva
prestato attenzione. Avevano già completato tutto: la vernice sulle ringhiere era
asciutta, le maniglie lucidate, i numeri attaccati alle porte degli appartamenti, i
vetri alle finestre strofinati. Era rimasta solo una donna in vesti sudicie che
lavava a capo chino i gradini della scala, e il cui volto rimaneva invisibile.
– Ehi! Sveglia! – l’aveva apostrofata subito il capocantiere. La donna aveva
smesso di lavare, si era fatta da parte e li aveva lasciati passare uno per volta,
senza alzare il viso dal secchio con lo straccio.
Era passato il procuratore.
Era passato il capocantiere.
Era passata anche la moglie del procuratore, facendo frusciare la profumata
gonna tutta pieghe, che aveva quasi colpito il viso della donna delle pulizie.
E la donna, ancora china ma attratta da quelle sete e da quei profumi, aveva
sollevato lo sguardo per vedere quanti ne mancavano.
Lo sguardo tagliente e sdegnoso aveva incenerito Klara. Anche se investito
da spruzzi di acqua sporca, il suo era il tipico volto da intellettuale.
Davanti alla gonna di stracci, alla giubba imbottita di ovatta che fuoriusciva
dappertutto, Klara aveva provato non solo vergogna, la vergogna che si prova
sempre passando davanti a una donna intenta a lavare i pavimenti, ma una di
gran lunga superiore. E paura! Si era fermata, aveva aperto la borsetta, e
avrebbe voluto gettarla via, consegnarla a quella donna, ma non aveva osato.
– Avanti, passi! – aveva detto la donna con cattiveria.
Klara aveva sollevato l’orlo dell’abito alla moda e del soprabito bordeaux, e
quasi afferrandosi alle ringhiere era corsa su per le scale, come una codarda.
Nell’appartamento non avevano lavato i pavimenti, erano tutti di parquet.
L’alloggio era piaciuto. La matrigna di Klara aveva dato indicazioni sulle
rifiniture al capocantiere, ed era rimasta parecchio scontenta che in una stanza
il parquet scricchiolasse. Il capocantiere aveva premuto su due o tre doghe e
aveva promesso di provvedere.
– Chi fa tutto questo? Chi è che costruisce? – aveva domandato Klara
all’improvviso.
Il capocantiere aveva sorriso senza dire niente. Suo padre aveva borbottato:
– I detenuti, chi altro!
Quando erano tornati indietro, la donna non c’era più.
All’esterno era sparito anche il soldato.
Pochi giorni dopo si erano trasferiti.
Erano passati mesi, anni, ma chissà perché Klara non riusciva a dimenticare
quella donna. Ricordava con esattezza il posto in cui stava, il penultimo
gradino della rampa di scale vistosa e oblunga, e ogni volta, se non saliva in
ascensore, in quel punto le tornava in mente la sua figura grigia e china, il volto
sollevato carico d’odio.
E Klara si addossava sempre alla ringhiera, quasi temesse di calpestare la
donna delle pulizie. Un moto di superstizione misterioso e inevitabile.
Tuttavia non aveva mai confidato la cosa né al padre né alla madre, non
glielo aveva rammentato, non poteva. Dopo la guerra, i rapporti fra lei e il
padre si erano fatti alquanto tesi. Lui si arrabbiava e le gridava che era venuta
su con la testa guasta; riflessiva sì, ma nel modo sbagliato. Agli occhi del padre,
i suoi ricordi di Taškent, le sue osservazioni quotidiane su Mosca erano
dannosi e atipici, e scandaloso il modo in cui la figlia ne traeva le conclusioni.
Klara non avrebbe mai potuto confessargli che quella donna delle pulizie si
trovava ancora sulle loro scale. E non poteva dirlo alla sua matrigna. E con chi
poteva parlarne in generale?
Una volta, l’anno precedente, le era successo di scendere le scale con suo
cognato Innokentij. Lì Klara non si era trattenuta e di colpo, senza volerlo,
aveva tirato Innokentij per la manica nel punto in cui si doveva evitare la
donna invisibile. Il cognato le aveva chiesto quale fosse il problema. Klara
aveva esitato, temendo di sembrargli una pazza. Tra l’altro vedeva Innokentij
molto di rado. Lui viveva stabilmente a Parigi, vestiva in modo ricercato ed
elegante, si prendeva sempre un po’ gioco di lei e la trattava con
accondiscendenza, neanche fosse una bambina.
Poi però si era decisa. Si era fermata e aveva finito per raccontarglielo.
Così, senza pomposità, senza quel suo splendore di perenne vita europea, lui
era rimasto su quel gradino dove erano stati colti di sorpresa e l’aveva ascoltata
con grande umiltà, quasi smarrito, e chissà perché, si era tolto il cappello.
Aveva capito tutto!
Da quel momento fra loro era nata un’amicizia.
44
IN LIBERTÀ

Fino a un anno prima, per la famiglia Makarygin Nara94 e il suo Innokentij


erano fiabeschi parenti d’oltremare. Si presentavano a Mosca una settimana
all’anno e mandavano regali per le feste. Klara era abituata a chiamare il
cognato maggiore, il famoso Galachov, con il nome Kolja, e a dargli del tu, ma
con Innokentij si vergognava, entrava in confusione.
L’estate precedente erano rimasti più a lungo, Nara aveva cominciato a far
visita ai parenti più spesso, lamentandosi con la madre adottiva del marito e del
modo in cui la loro vita familiare, fino a quel momento così felice, si stava
logorando e offuscando. Al riguardo faceva lunghi discorsi con Alevtina
Nikanorovna; Klara non si trovava sempre a casa, ma quando c’era ascoltava,
apertamente o di nascosto. Non poteva e non voleva sottrarsi a quelle
conversazioni. Dopotutto, si trattava del principale mistero della vita: perché si
ama o non si ama.
La sorella raccontava vari piccoli dettagli della loro vita: le divergenze, gli
scontri, i sospetti, anche gli errori professionali di Innokentij. Parlava di come
lui fosse cambiato, non ascoltava più il giudizio di persone importanti, cosa che
si ripercuoteva anche sulla loro situazione economica. Nara pertanto era
costretta a limitarsi. Dai discorsi della sorella sembrava che lei avesse sempre
ragione in tutto e il marito sempre torto. Ma Klara era giunta alla conclusione
opposta: Nara non sapeva apprezzare la fortuna che aveva; non amava
Innokentij, ma solo sé stessa; non amava il lavoro del marito ma la posizione
ottenuta grazie al ruolo di lui, non ne amava le opinioni o passioni – potevano
pure essere cambiate – ma il fatto che fosse suo e che la cosa fosse ben visibile
a tutti. Klara si stupiva che la sorella si risentisse in particolare non dei sospetti
tradimenti del marito, ma che in compagnia di altre signore Innokentij non
sottolineasse a sufficienza quanto la moglie fosse importante per lui.
Da sorella minore non sposata, Klara provava a mettersi nei panni della
sorella maggiore, e si era convinta che lei non si sarebbe mai comportata così.
Come faceva la sorella a essere contenta di qualcosa che non rendesse felice
anche lui? E la mancanza di figli ingarbugliava e inaspriva ogni cosa.
Dopo quella lieta confessione sulle scale, i rapporti fra Klara e Innokentij
erano diventati così naturali che lei desiderava vederlo ancora, anzi, doveva
vederlo ancora. E soprattutto, le erano venute in mente tante domande alle
quali Innokentij avrebbe potuto rispondere!
Tuttavia, la presenza di Nara o di un altro membro della famiglia, per
qualche ragione, lo rendeva difficile.
Quando in quei giorni, all’improvviso, Innokentij le aveva proposto di
trascorrere la giornata fuori città, lei aveva accettato subito con slancio, senza
pensarci, senza nemmeno rendersene conto.
– Però niente tenute, musei o rovine celebri – Innokentij le aveva rivolto un
debole sorriso.
– Non piacciono neanche a me! – aveva assicurato Klara in tono deciso.
Siccome Klara conosceva ormai le sue avversità, quel sorriso stento aveva
suscitato in lei un moto di compassione.
– La Svizzera è così piena di monumenti – si era giustificato lui – che in
Russia ho solo voglia di passeggiare. Pensi che troveremo un posto adatto?
– Possiamo provarci! – aveva annuito Klara con piglio energico. – Lo
troveremo!
Tuttavia non avevano specificato se sarebbero stati in due o in tre.
Innokentij però le aveva dato appuntamento alla stazione Kievskij in un
giorno feriale, senza chiamarla a casa o andare a prenderla lì, alla Kalužskaja.
Da quello Klara capì non solo che sarebbero stati in due, ma che era meglio
non farlo sapere ai suoi genitori.
Nei confronti della sorella, Klara si sentiva in pieno diritto di fare quel
viaggio. Se pure loro fossero vissuti d’amore e d’accordo, quello sarebbe stato
un legittimo tributo fra parenti. E del modo in cui vivevano, Nara poteva
incolpare solo sé stessa.
Si prospettava per Klara la giornata forse più incredibile della sua vita, ma
l’attendevano anche i preparativi più strazianti: come doveva vestirsi?! A detta
delle sue amiche, non le donava nessun colore, ma uno andava scelto per forza!
Aveva indossato un vestito marrone e poi optato per un soprabito azzurro. A
impensierirla, però, era soprattutto la veletta: il giorno prima aveva passato due
ore a metterla e toglierla, metterla e toglierla... eppure, esistevano dei fortunati
che sapevano decidersi subito. A Klara le velette piacevano tantissimo,
soprattutto nei film: rendevano la donna enigmatica, la innalzavano oltre gli
sguardi critici. Ma ne aveva fatto a meno: a Innokentij erano ormai venute a
noia le trovate francesi, e oltretutto si preannunciava una giornata di sole. I
guanti neri a rete, invece, li aveva indossati: erano molto belli.
Avevano trovato subito un treno diretto alla lontana Malojaroslavec, una
locomotiva a vapore molto bella; per ogni evenienza avevano preso i biglietti
per la destinazione finale, dal momento che non avevano un piano e non
sapevano a quale stazione scendere.
Non conoscevano bene le fermate, tanto che erano trasaliti nel sentire i loro
vicini nominare la stazione di Nara! Se Innokentij lo avesse saputo, forse
avrebbe scelto un’altra linea... Klara, invece, se l’era del tutto dimenticato.
Lungo il tragitto, Nara fu nominata ancora molte volte. Sembrava
incombere su di loro.
Era una mattina d’agosto un po’ fredda. Si erano incontrati in allegria,
contenti. Avevano iniziato subito una conversazione libera, animata. Qualche
volta si confondevano dandosi del lei, per poi riderne subito e sentirsi ancora
più a proprio agio.
Innokentij indossava abiti occidentali un po’ sportivi, che portava e sgualciva
con la stessa trascuratezza di una tuta da lavoro.
Nonostante avessero tutta la giornata davanti, Klara aveva iniziato subito a
sommergerlo di domande sconclusionate, ora sull’Europa, ora sul modo giusto
di capire la vita. Non sapeva nemmeno lei di preciso cosa volesse, cosa avesse
bisogno di capire. Qualcosa, però, c’era! Desiderava tanto essere più
intelligente! Aveva tanto bisogno di chiarirsi le idee!
Innokentij aveva scosso la testa con fare scherzoso.
– Pensa forse... pensi davvero che io ci capisca qualcosa?
– Ma come? Non siete voi diplomatici a indicare la strada a tutti noi? E
adesso non ci capite niente?
– Eh no, tutti gli altri miei colleghi ci capiscono, solo io non ci capisco
niente. Fino a un anno, un anno e mezzo fa, capivo tutto anch’io.
– E poi cos’è successo?
– Anche questo non mi è chiaro – aveva riso Innokentij. – E poi, Klaročka,
con le spiegazioni non si sa mai da dove cominciare, bisognerebbe ripartire
dall’ABC. Mettiamo che adesso spunti fuori un cavernicolo da sotto la panca, e
chieda che gli venga spiegato in cinque minuti come fa a viaggiare un treno
elettrico. Be’, come glielo spieghi? Prima di tutto dovrebbe imparare a leggere e
a scrivere. Poi verrebbero l’aritmetica, l’algebra, il disegno tecnico,
l’elettrotecnica... che altro ancora?
– Be’, non saprei... il magnetismo...
– Vedi, non lo sai nemmeno tu, e sei all’ultimo anno! Così gli dici, torna tra
quindici anni e ti spiegherò tutto in cinque minuti, ma allora lo saprà da sé.
– Sì, va bene, io sono pronta a imparare, ma dove? E da cosa cominciare?
– Be’... anche dai nostri giornali.
Nel vagone passava un uomo con una borsa di pelle, che vendeva giornali e
riviste. Innokentij aveva acquistato la “Pravda”.
Non appena erano saliti a bordo avevano intuito che tra di loro avrebbe
potuto nascere una conversazione particolare, per cui Klara aveva mandato il
compagno di viaggio a occupare una scomoda panca a due posti vicino alla
porta. Innokentij non lo sapeva, ma solo lì era possibile parlare più
liberamente.
– Su, impariamo a leggere il giornale – Innokentij lo aveva aperto. – Ecco
un titolo: ‘Donne colme di entusiasmo per il lavoro superano le quote.’ Pensaci:
a che gli servono le quote? A casa non hanno niente da fare? Vuol dire che gli
stipendi di marito e moglie messi insieme non bastano a mantenere una
famiglia. Mentre dovrebbe essere sufficiente quello dell’uomo.
– In Francia è così?
– Dappertutto è così. Ecco, guarda anche qui: ‘...in tutte le nazioni
capitalistiche messe insieme non ci sono tanti asili quanti da noi.’ È così? Sì, è
probabile. Solo, non viene spiegato un piccolo particolare: in tutte le nazioni le
madri sono libere, crescono da sole i figli. A loro gli asili non servono.
Cigolavano. Ripartivano. Si fermavano.
Innokentij trovava facilmente un punto, lo indicava con il dito, e quando
ricominciava il rumore le diceva all’orecchio:
– Prendi gli articoli successivi, più insignificanti: ‘Il membro del parlamento
francese tal del tali ha dichiarato...’ e poi qualcosa sull’odio del popolo francese
verso gli americani. È così? Probabile, noi scriviamo la verità! Magari filtrata: di
quale partito è questo membro del parlamento? Se non fosse stato comunista
lo avrebbero scritto di sicuro, e la sua dichiarazione avrebbe avuto più valore!
Dunque è un comunista. Ma non c’è scritto! Tutto qui, Clairette. Scriveranno
di nevicate eccezionali, migliaia di veicoli rimasti sotto la neve, una calamità
nazionale! Ma la furbizia sta nel fatto che le automobili sono così tante da non
costruire per loro nemmeno i garage... Tutto questo è libertà dall’informazione.
Vale lo stesso anche per lo sport, vedi? ‘L’incontro si è concluso con una
vittoria meritata...’, non devi leggere altro, è chiaro: abbiamo vinto noi. ‘Il
collegio arbitrale, del tutto inaspettatamente, ha dichiarato vincitore...’, è chiaro:
hanno vinto loro.
Innokentij aveva cercato un posto dove buttare il giornale. Senza rendersi
conto di quanto fosse da straniero un gesto così! Già li guardavano tutti. Klara
aveva preso il giornale e l’aveva tenuto lei.
– In generale, lo sport è l’oppio del popolo – aveva concluso Innokentij.
Era una frase inaspettata e offensiva. E suonava davvero poco convincente,
detta da una persona così irresoluta.
– Io... gioco parecchio a tennis, è uno sport che amo molto! – aveva scosso la
testa Klara.
– Giocare è una buona cosa – si era corretto subito Innokentij. – Non va
bene quando si pensa solo a dare spettacolo. Da noi gli spettacoli sportivi,
come il calcio e l’hockey, sono praticati dagli stupidi.
Cigolavano. Viaggiavano. Guardavano dal finestrino.
– Quindi, là da loro si sta bene? – aveva domandato Klara. – È meglio?
– Meglio, sì – aveva annuito Innokentij. – Ma non bene.
– Cosa manca?
Innokentij l’aveva fissata con aria seria. In lui non c’era più la vivacità di
prima, la guardava molto calmo.
– Non è semplice. Me lo domando anch’io. Manca qualcosa. Mancano molte
cose.
Ma Klara con lui stava bene, bene a livello umano, non per un gioco di
sfioramenti, o di tono, quello tra loro non c’era, e desiderava ricompensarlo,
affinché anche lui stesse bene, fosse più forte.
– Lei ha... hai un lavoro talmente interessante – lo confortava Klara.
– Io? – si era stupito Innokentij, e non solo era magro, aveva anche le
guance incavate l’aspetto stremato, quasi malnutrito. – Fare il diplomatico per
noi, Klaročka, è come avere due muri nel petto. Due fronti in testa. Due
memorie diverse.
Di più non si era spiegato. Aveva sospirato e si era messo a guardare dal
finestrino.
Sua moglie, quella cosa, la capiva? Riusciva a dargli forza, a confortarlo?
Klara scrutava il viso di Innokentij, vi aveva scoperto una particolarità: la
parte superiore del volto, presa separatamente, aveva un aspetto piuttosto duro,
mentre quella inferiore era dolce. Dalla fronte, che si estendeva libera da
orecchio a orecchio, il volto si restringeva in obliquo, e si ammorbidiva verso la
bocca piccola e tenera. Vicino alle labbra la morbidezza era tale da trasmettere
un senso d’impotenza.
Il giorno adesso risplendeva, i boschi guizzavano allegri, lungo la strada ce
n’erano molti.
Man mano che il treno proseguiva, nel vagone restava sempre meno gente e
loro saltavano sempre più all’occhio: sembravano entrambi agghindati per il
teatro. Klara si era tolta i guanti.
Avevano scelto una stazioncina in mezzo al bosco. Oltre a loro, dal vagone
accanto erano scese alcune donne con le borse piene di prodotti di città; sulla
banchina non c’era nessun altro.
I due giovani si erano diretti verso il bosco. Si estendeva da entrambi i lati
ed era fitto, buio, orrido. Non appena la coda del treno era scomparsa alla vista,
le donne avevano formato un gruppetto compatto e avevano attraversato i
binari tutte insieme, utilizzando il passaggio di legno; dopodiché si erano
addentrate con decisione nella parte destra del bosco. Klara e Innokentij le
avevano seguite.
Subito oltre la ferrovia, l’erba e i fiori arrivavano alle spalle. Poi il sentierino
spariva in mezzo a una macchia di betulle. Più avanti il prato era falciato, si
vedeva un covone di fieno e una capra pensierosa, legata con una lunga corda a
un paletto, brucava di tanto in tanto nel sottobosco di erba. A quel punto il
bosco si spalancava sulla sinistra, ma le donne si erano dirette svelte a destra, in
pieno sole, dove un’ampia distesa si apriva oltre le file di arbusti.
I due giovani avevano deciso di comune accordo che il bosco poteva
aspettare, dovevano assolutamente raggiungere quella distesa splendente.
Una strada di campagna fitta ed erbosa portava in quella direzione. Tra la
strada e la linea ferroviaria luccicava un campo di grano dorato: pesanti spighe
su steli brevi e forti; quale tipo di grano fosse non lo sapevano, ma la sua
bellezza non ne veniva sminuita. All’altro lato della strada, per quasi tutta la
distesa, fin dove l’occhio poteva arrivare, si vedeva la nuda terra arata, smottata
dalla pioggia, alcuni punti più umidi, altri più aridi: in uno spazio così grande
non cresceva nulla.
La stazioncina rimaneva in un angolo, loro erano sbucati in quella distesa
così vasta, impossibile da abbracciare con lo sguardo, se non girando la testa.
Lontano, tutto intorno e oltre la linea ferroviaria, c’era solo il muro continuo
del bosco con il bordo fittamente dentellato.
Senza saperlo, senza nemmeno rendersene conto, avevano trovato il posto
che volevano! Si erano incamminati lentamente, incespicando, lo sguardo
rivolto al cielo. Si erano fermati, voltati. Non si scorgeva più nemmeno la linea
ferroviaria, coperta dagli alberi. Solo di fronte, oltre la distesa su cui
camminavano, si intravedeva la parte superiore di una chiesa marrone scuro
con un campanile, che spuntava da chissà dove. E più le donne li distanziavano,
più su quella distesa non compariva anima viva, casa colonica, cabina di
trattore, macchina falciatrice che fosse: niente e nessuno, solo una passeggiata al
vento e al sole, e uno spazio in cui gli uccellini si rincorrevano.
Due minuti dopo, del loro tono pratico e delle loro preoccupazioni non era
rimasta traccia.
– La Russia è così? È questa la vera Russia? – aveva domandato felice
Innokentij, strizzando gli occhi e osservando la distesa, per poi fermarsi a
guardare Klara. – Senti, io rappresento la Russia, eppure, in realtà, non so
rappresentarmela! – aveva detto, giocando con le parole. – Non l’ho mai girata
in questo modo, sempre su aerei, treni, nelle capitali...
L’aveva presa per mano, intrecciando le dita con le sue, come si prendono
per mano i bambini o le persone intime. Si erano incamminati così, non
badando a dove mettevano i piedi. Dalla mano libera di lui pendeva il cappello,
da quella di lei la borsetta.
– Senti, sorella!– aveva detto lui. – Per fortuna siamo passati di qui invece
che nel bosco. Mi mancava proprio questo nella vita: guardare le cose con
chiarezza e respirare aria fresca!
– Sul serio tu non vedi le cose con chiarezza? – Era turbata da quella
lamentela: se solo gli fosse stato d’aiuto, gli avrebbe offerto i suoi occhi.
– No. – Lui aveva scosso la testa. – Affatto. Un tempo era tutto chiaro, ora è
tutto confuso.
Perché confuso? E se lo era a tal punto, non poteva riguardare solo le sue
convinzioni: senza dubbio si riferiva anche alla famiglia. Se solo Innokentij
avesse aggiunto dell’altro, Klara avrebbe osato immischiarsi, rivelargli che le
dispiaceva per lui, che gli dava ragione e non doveva disperare!
– Se ti va di parlarne... – gli aveva proposto.
Ma per lui la conversazione era chiusa. Era già ammutolito.
Stava arrivando il caldo. Si erano tolti i soprabiti.
All’orizzonte non si vedeva più anima viva, non c’era nessuno da superare.
Oltre gli alberi di tanto in tanto passavano i treni, ronzando appena e
lasciandosi dietro solo un po’ di fumo.
Le donne che precedevano Klara e Innokentij avevano svoltato per quella
strada da un bel pezzo, ora si trovavano a metà della distesa e controluce si
scorgevano a malapena. Erano arrivati alla stessa svolta anche Innokentij e
Klara: il campo soffice era attraversato da un sentierino compatto, più chiaro
alla luce del sole, che si confondeva quasi nei solchi dei trattori. Attraverso le
ampie distese pianeggianti quelle personcine si facevano strada con i loro
insignificanti bisogni.
Il sentiero puntava verso il villaggio con la chiesa ma prima, nel mezzo della
distesa, passava accanto a un gruppo di alberi, straordinariamente fitto. Le
piante si trovavano in pieno campo, lontano da qualunque bosco e parecchio
distanti anche dal villaggio: erano uno strano insieme vigoroso e fresco di
alberi alti e forti. Erano pochi ma abbellivano tutta la distesa, ne erano il fulcro.
Che cosa potevano essere? A che servivano là in mezzo al campo?
Avevano svoltato anche loro in quel punto.
Le loro mani si erano staccate. Sul sentiero si procedeva uno per volta.
Innokentij camminava dietro Klara.
Ti segue e ti guarda da dietro. Ti osserva. Ma è il marito di tua sorella. È tuo
fratello. È...
Ora per parlare Klara doveva fermarsi e girare la testa.
– E come mi chiamerai? Non Clairette.
– No. Non ti chiamerò affatto. In Occidente abbreviano tutto a due o tre
lettere massimo.
– Io ti chiamerò ‘Ink’, d’accordo?
– D’accordo. Benissimo.
– Qualcuno ti ha mai chiamato così?
La distesa non era del tutto piana, pendeva a sinistra in modo impercettibile,
proprio nel punto in cui stavano camminando loro. Il terreno poi scendeva
all’improvviso, ma all’altezza del gruppo di alberi si risollevava di nuovo.
Adesso era chiaro che si trattava di betulle, vecchie, grandi, piantate in modo
uniforme tutte intorno a formare un rettangolo, e all’interno se ne
intravedevano altre. C’era qualcosa di sorprendente in quel gruppo di alberi
che stavano lì per conto proprio, separati da tutto.
– E quella cosa quando ti è cominciata? – aveva domandato Klara.
Quale cosa? Poteva riferirsi a diverse cose.
Ma lui non si era fatto pregare.
– Sai quand’è successo, probabilmente? Quando mi sono messo a svuotare
l’armadio di mia madre. No, forse anche prima, forse anche un anno prima, ma
diciamo quando le ho svuotato l’armadio.
– Dopo la sua morte?
– Dopo, molto dopo. Non troppo tempo fa, però. E io... questo non lo
raccontare a nessuno. Dotty non ci arriverebbe, non lo capirebbe...
(Io lo capisco!... Dimmi di più su Dotty, parliamone adesso! Ti sentirai più
leggero!...)
– Sono stato davvero un pessimo figlio, Klaron’ka. Quando mia madre era
in vita non l’ho amata come si deve. Durante la guerra non sono tornato dalla
Siria nemmeno per il suo funerale... Guarda, ma quello non è un cimitero?
Si erano fermati. Era chiaro che si trattava di un cimitero! Come avevano
fatto a non...? Quel rifugio inviolabile in mezzo ai campi di lavoro non poteva
essere altro.
Eppure non si vedevano né croci né tombe. Avevano attraversato il fondo
della vallata, oltrepassato il terreno fangoso (Innokentij aveva saltato peggio di
Klara, finendo con uno scarpone nella mota, ma lei non gli aveva offerto la
mano, per non offenderlo). Erano saliti di nuovo, e il terreno si era fatto
inaspettatamente ripido.
Nessuna recinzione, né pali, né un fossato, né un terrapieno: non c’era niente
che contornasse il cimitero, solo quelle vecchie betulle di pari altezza, mentre la
terra del campo era piana e aperta, come aria nell’aria, e si trasformava in
un’erba rigogliosa fitta e piacevole, priva di erbacce e non troppo alta, benché
non venisse né rasata né calpestata.
L’erba cresceva come era necessario e gradevole che fosse in un cimitero.
Che bella ombra, che calma! Era il rifugio più vivo e ordinato di tutto
quell’ampio luogo pianificato!
Gli altri cimiteri avevano le tombe recintate, lì c’erano solo monticcioli
d’erba a piramide, e senza nome.
– Quanto spazio! – si era meravigliato Innokentij. – Ci saranno cento tombe
al massimo, e ce ne starebbero comodamente altre cinquanta. Probabilmente
arrivano qui e scavano senza chiedere niente a nessuno. A Mosca, dov’è sepolta
mia madre, per avere il permesso devi darti da fare al Mossovet, ungere il
direttore del cimitero, fra due tombe non si riesce a passare e si vangano quelle
vecchie per fare spazio alle nuove.
Le betulle proteggevano anche la superficie del cimitero dai trattori.
I soprabiti si erano gettati quasi da soli sul terreno, e loro ci si erano
ritrovati sopra, con il viso rivolto verso la piana. Da quel punto, all’ombra e
con il sole alle spalle, si vedeva bene. La casa cantoniera della stazioncina,
ormai lontana, biancheggiava a malapena. Il fumo scorreva sopra la fila di
alberi che costeggiavano la ferrovia.
Guardavano, respiravano, tacevano. Era davvero bello stare lì. Ink aveva
appoggiato la testa sulle ginocchia sollevate, se ne stava così. Klara gli vedeva la
nuca: era fragile come quella di un bambino, ma rasata da un parrucchiere abile
e paziente.
– Che cimitero pulito! – si era meravigliata Klara. – Il bestiame non lo
profana, non ci versano la nafta.
– Già – aveva risposto Innokentij con un sospiro estasiato. – Ecco dove
vorrei essere sepolto! Se non fosse possibile, lascia perdere. Ficcheranno la bara
di piombo su un aereo, poi la spediranno da qualche parte in autobus...
– È un po’ presto per pensarci, Ink!
– Quando ogni cosa è una bugia, Klaron’ka, ti stanchi presto. Molto presto,
due volte più in fretta. – Anche la voce era debole e stanca.
Si riferiva al suo lavoro. O forse a tutta la sua vita. O magari solo alla
moglie.
Klara non poteva approfondire.
– E cosa c’era nell’armadio?
– Nell’armadio? – Il suo sguardo mai spensierato, sempre inquieto, si era
fatto concentrato. – Nell’armadio c’era... – Ma, a quanto pareva, al solo
pensiero di offrirle un racconto dettagliato si sentiva già stanco. – Be’, sì, è una
storia lunga... Un giorno magari...
Se era una storia lunga in un momento come quello, quando avrebbe potuto
raccontarla?... Oppure era una sua caratteristica trovare interessante solo ciò
che era nuovo, che accadeva per la prima volta? Come avrebbe fatto Klara a
cogliere tutto di lui al volo?
– Allora, di parenti non te ne sono rimasti?
– Uno sì. Uno zio, pensa un po’, un fratello di mia madre! E per di più non
sapevo nulla di lui fino all’anno scorso.
– Non l’hai mai visto?
– In effetti l’ho incontrato da piccolo, ma non me lo ricordo per niente.
– Dove vive adesso?
– A Tver’.
– Dove?
– Scusa, a Kalinin. A due ore di distanza, ma non vado mai a trovarlo.
Quando potrei andarci? Non sono mai in Russia... Gli ho scritto e ho fatto
felice il poverino.
– Senti, Ink, devi andare a trovarlo! Altrimenti poi te ne pentirai!
– Penso che ci andrò! Lo penso davvero. Fra qualche giorno ci andrò, ti do
la mia parola.
Dal sole sfibrante, Innokentij si era già spostato all’ombra e sembrava più
allegro.
Dove potevano andare adesso? Il bosco era lontano in ogni caso, e non
c’erano strade che portassero lì, da un lato del cimitero si vedevano i girasoli,
dall’altro le barbabietole. Rimaneva soltanto il sentierino, quello imboccato
prima dalle donne, che portava al villaggio. Prendendo quella strada, da
qualche parte avrebbero trovato il bosco. Vi si erano diretti.
Innokentij si era tolto anche il giubbotto, era rimasto con la camicia bianca
leggera. Sulla schiena, tutt’altro che rotonda e liscia, si vedevano le scapole
decisamente sporgenti. Per proteggersi dal sole, però, si era rimesso il cappello.
– Lo sai a chi somigli? – aveva detto Klara divertita. – A Esenin di ritorno
dall’Europa al paese natio. – Innokentij si era messo a ridere e aveva provato a
citarlo.
– Ah, la patria, cosa ci ho trovato?... Che straniero sono diventato... ho
disimparato a falciare, ad arare...
Si addentrarono in una strada deserta. A separare le file di case c’erano in
tutto dieci metri, e la strada era così irrecuperabile, così piena delle buche di un
secolo, così rovinata dai cingoli e dalle ruote, che passare da un lato all’altro era
come attraversare un fiume. In certi punti la strada appariva rinsecchita in
monticcioli alti fino al ginocchio, in altri cosparsa di fango plumbeo a tal punto
liquido che nemmeno l’estate più lunga sarebbe bastata per asciugarlo. C’erano
solo piccoli sentieri battuti che passavano accanto alle case, e bisognava
scegliere fin da subito il lato su cui procedere.
Sul lato che stavano percorrendo era spuntata una ragazzina, che era andata
subito loro incontro con una sporta di vimini.
– Ragazzina... – stava per dire Innokentij, ma si accorse che era più grande. –
Ragazza! – Lei si era avvicinata di corsa, rivelandosi una donna di poco sotto i
quaranta, stranamente bassa e con albugini su entrambi gli occhi. Sembrava una
presa in giro, ma Innokentij non sapeva più come rivolgersi a lei. – Questo
villaggio... come si chiama?
– Roždestvo95 – aveva risposto la donna, facendo balenare gli occhi malati
su di loro, per poi proseguire con la stessa fretta.
– Roždestvo? – si erano meravigliati i due giovani. – Che nome insolito. –
Le avevano gridato dietro: – Come mai?
– L’hanno chiamato così. Come faccio a sapere perché? – aveva risposto lei,
voltandosi un attimo. Ed era corsa oltre.
Dove erano finite tutte quelle donne svelte che erano scese dal treno? Non
c’era vita né per strada né nei cortili. Dietro le malandate porte sbilenche, simili
a quelle dei pollai, non delle case, dietro le doppie cornici delle piccole finestre,
sigillate, prive di finestrelle di ventilazione, evidentemente non si poteva celare
vita umana. Non si vedevano e non si sentivano né i classici maiali né altri
animali. Soltanto le coperte e i miseri stracci appesi ai fili in cortile provavano
che qualcuno era stato lì la mattina.
Il sole aveva inondato completamente il silenzio.
In fondo a un cortile avevano notato un po’ di movimento. Una vecchia
robusta trascinava le galosce sull’asciutto, guardandosi la mano.
– Nonnina!
Non sentiva.
– Nonnina!
Aveva sollevato la testa.
– Ci sento male – li aveva avvertiti lei, con voce secca e piana. Sembrava che
in quei passanti agghindati non ci fosse nulla in grado di meravigliare i suoi
occhi.
– Ha del latte da venderci? – aveva domandato Klara.
Non avevano bisogno di latte, ma quello era il miglior modo per attaccare
bottone, come aveva imparato nei suoi viaggi al kolchoz.
– Di mucche non ne abbiamo – aveva risposto la vecchia con dignità.
Teneva nella mano un tranquillo pulcino giallo pallido, che non si
divincolava né si dibatteva.
– Nonnina, come si chiamava questa chiesa? – aveva domandato Innokentij.
– In che senso si chiamava? – lo aveva guardato come attraverso un velo. Il
suo viso cadente aveva un’aria di fiduciosa importanza.
– Be’, tutte le chiese... hanno un nome, no?
– Solo il nome le è rimasto... – aveva detto la vecchia. – L’hanno chiusa
secoli fa, saranno vent’anni. Ci tocca fare un’ora di autobus, di chiese più vicine
non ce ne sono. Ce n’era una aperta d’estate, ma l’hanno demolita i prigionieri.
– Quali prigionieri?
– Tedeschi.
– E come mai?
– Per mandare i mattoni a Nara. I miei pulcini stanno crepando. Questo è il
quarto. Come mai?
Klara e Innokentij si erano stretti nelle spalle con compassione.
– Forse li schiaccia lei? – aveva riflettuto la vecchia, strascinando i piedi in
direzione di un’isba con una porticina bassa.
Così, fino al termine della strada, non avevano più visto né movimento né
anima viva; non era spuntato nemmeno un cane ad abbaiare. C’erano soltanto
due o tre galline che razzolavano tranquille. Poi da sotto un cardo, con passo
da predatore, era uscito un gatto, che non pareva neanche più un animale
domestico, non si girava verso le persone, ma annusava il terreno in tutte le
direzioni e procedeva dritto verso la via principale, sempre deserta, che si
incontrava con la sua strada.
All’incrocio, in uno slargo, c’era la chiesa: un tempio basso e robusto in
muratura decorata, con croci di mattoni aggiunte e un campanile a due piani
con fenditure continue per le campane. Là vi crescevano erbe e muschi, e una
moltitudine di foglioline, o addirittura di minuscoli uccellini, si rincorreva in
alto, nelle fenditure, in un silenzioso e incessante turbinio, svolazzando dentro,
fuori, e volteggiando su sé stessa. La cupola del campanile, difficilmente
raggiungibile, era integra, mentre a quella del tempio mancava il rivestimento
in latta: rimanevano solo le nervature dell’intelaiatura. Erano sopravvissute a
due decenni anche entrambe le croci, che si trovavano ancora al loro posto. In
basso, la porta del campanile era spalancata: all’interno una lampada a petrolio
brillava nell’oscurità e si scorgevano dei bidoni per il latte, ma non c’era
nessuno. Era aperta anche la porta del sotterraneo, con dei sacchi sui gradini, e
anche lì non c’era nessuno.
Intorno alla chiesa non si erano conservati né il cortile né le recinzioni – da
una parte e dall’altra, e tra la chiesa e il campanile, il terreno era stato affossato
dai trattori e dalle macchine che, in un tentativo disperato di non incastrarsi,
avevano cercato di tirarsi fuori a fatica, arrivare fino al deposito e andarsene
almeno per quella volta, per l’ultima volta – e la terra ferita, mutilata, malata
era tutta ricoperta di terribili croste grumose e grigie e di ascessi plumbei di
fango liquido.
La chiesa era lì, ma i due giovani avevano cercato a lungo dei punti asciutti
dove attraversare la strada. Erano stati costretti a spostarsi di lato per un bel
pezzo, e da là zigzagare e saltare.
Grossi pezzi di lastre in frantumi coperti di fango ostruivano la strada.
Mentre accanto al muro della chiesa erano posati frammenti e graniglia pulita
di marmo bianco, rosa e giallo.
Innokentij si era scaldato al sole, ma non era diventato rosso, anzi, si era
fatto anche più pallido. Sotto il bordo del cappello i capelli erano umidi.
Si erano avvicinati alla chiesa. Un tanfo pesante si diffondeva da chissà dove
nell’aria torrida e immobile: acqua stagnante, carcasse di animali o immondizia?
Non erano più contenti di trovarsi lì, e lo erano stati anche meno quando
avevano dato un’occhiata all’interno, dove non c’era proprio niente da
guardare. Più in là, oltre la chiesa, iniziava una discesa, e più oltre si scorgevano
tanti enormi salici sferici, un regno intero di salici, e lì, nel verde, si trovava la
loro unica via d’uscita, l’unica via di fuga.
Ma qualcuno li aveva chiamati:
– Cittadini, per caso avete una sigaretta?
Un omino piccoletto, la testa incassata nelle spalle, come scosso dai brividi o
dal terrore, eppure arzillo, era spuntato fuori da chissà dove e aveva incollato
gli occhi su di loro.
Innokentij si era tastato all’altezza delle tasche con dispiacere, quasi sperasse
di trovarci un pacchetto.
– Non fumo, compagno.
– Peccato – si era dispiaciuto l’omino dalla testa incassata, ma non se ne
andava e osservava con occhi svelti quei forestieri singolari. Non aveva visto
con quale macchina fossero arrivati i due giovani, ma aveva riconosciuto in
loro una specie particolare di autorità.
– Questa chiesa come si chiama?
– Della Natività – aveva risposto l’omino senza più deferenza, avendo
indovinato dalla prima domanda chi aveva davanti, ed era schizzato dietro
l’angolo veloce come era apparso.
Ma più in basso, là dove erano diretti, avevano notato un uomo con una
gamba sola, o meglio, con una gamba di legno in bella vista. Indossava una
camicia di calicò azzurro con rappezzi bianchi di tela grezza, e riposava su una
panchina sotto un tiglio.
– Da dove viene quel marmo? – aveva domandato Innokentij.
– Cosa? – aveva risposto l’uomo rattoppato.
– Laggiù, le pietre colorate.
– Aahh... hanno demolito l’altare. – E dopo un attimo di riflessione: –
L’iconostasi.
– E perché?
Attimo di riflessione.
– Per ricoprirci la strada.
– Come mai c’è... questa puzza? – aveva domandato Klara.
– Che cosa? – si era meravigliato l’uomo con una gamba sola. Ci aveva
pensato su. – Aahh, per il bestiame. Lo teniamo qua vicino.
Aveva indicato dove, ma loro non lo guardavano già più, avevano fretta di
liberarsi di lui: via in basso, verso i salici.
– E cosa c’è laggiù? – avevano domandato.
– Laggiù? Niente. – Ci aveva pensato. – Be’, il fiume.
Vi scendeva un sentiero battuto. Klara avrebbe voluto correre da quella
parte, ma si era allarmata per il pallore di Innokentij e aveva continuato a
camminare lentamente accanto a lui.
– Dopo un villaggio così, in effetti, un cimitero come quello è un’attrattiva.
– Si era girata verso di lui. – Zoppichi?
– Sento qualcosa che mi sfrega.
Si erano fermati all’ombra frondosa del primo salice e si erano guardati
intorno. Ora che non sentivano più la puzza, li lambiva un’umida frescura
verde e, con la chiesa rimasta sulla collina, non si vedeva più l’orribile
mutilazione della terra ma si scorgevano solo i puntini degli uccelli che si
gettavano e fluttuavano intorno al campanile.
– Sei molto stanco – si era preoccupata Klara. – Devi riposare. E controllare
il piede.
Lui aveva gettato a terra il soprabito e vi si era seduto sopra, appoggiandosi
a un tronco inclinato. Aveva chiuso gli occhi. Poi, rovesciata indietro la testa, si
era messo a guardare in alto, verso la chiesa.
– Eccoti, Klaročka, due Natali...
– Perché due?
– Il nostro e quello della Chiesa occidentale. Il nostro l’hai appena visto.
Mentre nell’altro il cielo è invaso di pubblicità e le strade dagli ingorghi di auto,
nei negozi si soffoca, tutti fanno regali a tutti. E in qualche decadente vetrinetta
molata si vede una mangiatoia con Giuseppe e l’asinello.
– Chi sono Giuseppe e l’asinello?
A quel punto, nel dirupo vicino alla chiesa, là dove si era conservata una
piccola fila di tigli, avevano notato una tomba con un obelisco.
– Peccato non averla vista.
– Dài, ci faccio un salto io! – si era offerta Klara, e si era messa a correre in
diagonale, senza seguire la strada. Correva allegramente, anche se allegra non
era affatto.
Vi si era fermata davanti, aveva letto l’iscrizione e con altrettanta leggerezza
era tornata indietro, frenando con le gambe forti a ogni buca.
– Allora, secondo te cos’è?
– Un sacerdote?
– ‘Eterna gloria ai guerrieri della Quarta divisione delle milizie irregolari,
morti con coraggio in difesa dell’onore, dell’indipendenza, e così via... il
Ministero delle Finanze.’
– Delle Finanze? – si era stupito lui, e aveva mosso le lunghe orecchie, con
la cartilagine grossa e increspata. – Addirittura le Finanze! Poveri impiegati...
Quanti ce ne sono? Quanti uomini per un solo fucile? Hai detto ‘Quarta
divisione delle milizie irregolari’?
– Sì.
– Una divisione senza armi! La quarta... un’assurdità di questa guerra... le
milizie irregolari...
– Perché un’assurdità? – Klara era perplessa.
Innokentij aveva sospirato e aveva abbassato la testa.
– Stai male?... Ink, vuoi che torniamo? Non dobbiamo per forza proseguire.
Lui aveva sospirato di nuovo.
– No, non è niente. Mi dà un po’ fastidio il caldo. E le mie scarpe sono
scomode, non pensavo che avremmo camminato tanto.
– Ho sbagliato anch’io a non indossarne un paio più larghe. Dov’è che ti
sfrega? Infila un pezzo di giornale sotto il tallone, così sta più libero.
Lo avevano aiutato a metterlo nella scarpa.
Nel cielo erano comparse qua e là nuvole roboanti, che a tratti coprivano e
attenuavano il sole.
– Allora, Ink, proseguiamo o no? Non dovevamo andare nel bosco? Se ti va,
passiamo lungo il fiume, ci sarà ombra anche là.
Lui si era già incamminato e sorrideva:
– Sono deboluccio, vero? Ho trascorso tutta la vita in automobile... tu,
invece, te la cavi bene. Andiamo, andiamo. Su quale sponda?
Sotto di loro, per attraversare il fiume, era stata predisposta una passatoia,
fissata su entrambe le sponde alla parte inferiore dei salici con un grosso filo
metallico, perché resistesse alle inondazioni.
Attraversare? Non attraversare? Sulle due sponde il percorso era diverso,
avrebbe portato a conversazioni diverse, e diversa sarebbe stata tutta la
passeggiata. Attraversare? Non attraversare?...
Avevano attraversato. Lungo la lenta e vasta risalita dal fiume trovarono
un’altra macchia regolare di alberi. A parte i salici idrofili, che avevano scelto
da sé il posto accanto al fiume, erano stati piantati in fila anche alcuni abeti e
betulle. Uno stagno immobile, pieno di rane e foglie cadute, probabilmente era
artificiale, tanto era uniforme. Dove si trovavano? In un podere abbandonato?
Non c’era nessuno a cui chiederlo.
Da lì, tra le sfere dei salici, la chiesa, quasi in cima alla collina, appariva
ancora più bella. Lassù, al suono delle campane, si dirigeva la gente di un altro
villaggio che sorgeva poco lontano.
Ma ne avevano abbastanza dei villaggi, ora camminavano lungo il fiume.
Sarebbe stato bello vivere in quell’isolato mondo umido e ombroso. Nei
punti poco profondi l’acqua gorgogliava e formava chiare increspature. In
quelli profondi, la superficie all’apparenza immobile si scuoteva
inspiegabilmente di tanto in tanto, e si vedeva un turbinio di libellule che
danzavano sull’acqua; di sicuro c’erano anche pesci e gamberi. Sarebbe stato
bello togliersi le scarpe, scoprirsi fino al ginocchio e camminare nel fiume,
come ragazzini in cerca di gamberi. Sulla sponda li ostacolava ora dell’ortica
impraticabile, ora dei cespugli di ontani.
Un salice enorme e bizzarro cresceva sulla loro sponda, e si riversava
sull’altra con il tronco piegato, come un ponte: i suoi rami ricurvi e intrecciati
facevano da corrimano.
– Un baobab! – aveva detto Klara, sollevando le braccia. – Che bello!
Andiamo sull’altra sponda! Di là sembra si cammini meglio.
Innokentij aveva scosso la testa incredulo. Ma Klara aveva già fatto un balzo
deciso sul tronco obliquo e gli aveva teso la mano forte.
– Andiamo!
Era convinta che sarebbe stato bellissimo. Sull’altra sponda sarebbe
accaduto qualcosa oppure si sarebbero detti il perché di tutta quella
passeggiata.
Innokentij, dubbioso, aveva teso la mano morbida.
Il tronco del salice si sollevava leggermente e poi saliva ancora. Innokentij
aveva continuato a procedere, evitando di guardare in basso. A quel punto il
ramo al quale si teneva era d’intralcio, bisognava scavalcarlo. Innokentij si
muoveva con un’espressione concentrata sul viso, in totale silenzio. Avevano
saltato il ramo senza graffiarsi. Tuttavia era evidente che Ink non ricavava alcun
piacere da quella traversata.
Sulla nuova sponda le cose non erano migliorate. Parlavano di sciocchezze.
Avevano sentito il rumore di un trattore da qualche parte, più in alto. Di lì a
breve era diventato impossibile camminare vicino all’acqua. Erano stati
costretti ad abbandonare l’ombra e a risalire il fiume lungo l’unica strada
possibile. Innokentij zoppicava sempre di più.
Erano sbucati in un cortile di brigata in disordine, con un capanno e una
legnaia. Il capanno, probabilmente, era un ufficio: in cima sventolava una
bandiera rosa pallido con i bordi strappati. La legnaia invece era così ampia da
farci stare in una riga uno striscione: “Avanti, verso il trionfo del comunismo!”
Macchine rosso mattone, azzurro scrostato e verde spelacchiato di non
precisato utilizzo con stanghe, bocche di fuoco e griffe, cisterne, una cucina di
campo, rimorchi con stanghe puntellate e ribassate: tutto gettato e
abbandonato nel grande spiazzo, dove il terreno era ridotto così male e pieno
di buche che non ci si poteva quasi poggiare il piede. Solo un uomo con
indosso una tuta imbrattata vagava da una macchina all’altra, si chinava, si
rialzava, osservava qualcosa. Non c’era nessun altro.
Sulla collina andava un trattore.
Altra strada non c’era. Avevano attraversato alla meno peggio il cortile di
brigata nei punti più bassi. Innokentij zoppicava. Era tornato il caldo. Si erano
diretti di nuovo verso il fiume.
L’acqua scorreva sotto un ponte di cemento. Il ponte, robusto e
malinconico, uniformava le due sponde, i due destini. Erano arrivati a uno
stradone.
– Chiediamo un passaggio? – aveva proposto Innokentij. – Senza tornare
alla stazione.
La giornata era giunta a metà, ma la passeggiata era quasi finita.
Com’è che nasce questo impiccio nei rapporti? È quasi visibile, quasi
udibile, l’aiuto che due persone possono darsi a vicenda.
Ma a loro quest’opportunità fu negata. Non si poteva.
Sotto il ponte avevano notato una piccola sorgente. Si erano seduti, avevano
bevuto un po’ d’acqua, si erano anche bagnati i piedi.
Ma in quell’istante, in alto, si era udito un forte rombo. Klara e Innokentij
erano usciti dall’acqua per guardare la strada dal pendio.
Sullo stradone passava una fila di camion nuovi di zecca, con tele catramate
nuove di zecca. Verso una montagna la fila sembrava non avere fine, mentre la
testa della colonna si allontanava sull’altra montagna. Erano veicoli con
antenne, servizi tecnici, botti infiammabili e cucine trainabili. Procedevano a
circa venti metri di distanza l’uno dall’altro. Non si superavano a vicenda, e
viaggiavano in modo così regolare da non permettere al ponte di cemento di
zittirsi. In ogni cabina, oltre a un autista militare, viaggiava anche un sergente o
un ufficiale. E sotto le tele catramate c’erano molti soldati. Accanto ai finestrini
ribaltabili e oltre si vedevano i loro volti, indifferenti al luogo che avevano
lasciato, a quello accanto al quale stavano passando e a quello dove erano
diretti; volti che il servizio aveva reso di marmo.
Dal momento in cui si erano alzati, Klara e Innokentij avevano contato un
centinaio di veicoli; poi erano finiti.
Sotto il ponte con i piloni di legno vecchio sporgenti e segati storti, l’acqua
era tornata a frusciare.
Innokentij si era spostato sulla pietra accanto alla sorgente, e aveva detto
smarrito:
– La vita è andata in frantumi.
– In che senso? Come in frantumi, Ink? – Klara era esplosa in tono
disperato. – Mi avevi promesso di spiegarmi tutto e invece non mi spieghi
niente!
Lui l’aveva guardata con occhi malati. Aveva impugnato un paletto spezzato
come fosse una matita e aveva tracciato un cerchio sulla terra umida.
– Vedi questo cerchio? È la patria. Ed è il primo cerchio. Questo è il
secondo cerchio. – Ne aveva tracciato uno più largo. – Ed è l’umanità. Credi
che il secondo cerchio contenga il primo? Niente affatto! È uno steccato di
preconcetti. Un filo spinato con le mitragliatrici. Che non si può spezzare né
con il corpo né con il cuore. Dunque, non esiste nessuna umanità. Solo tante
patrie, per ciascuno diversa...

Proprio in quei giorni, Klara aveva ricevuto dalla Sezione speciale i questionari
da compilare. Lo aveva fatto con tranquillità: la sua origine era inappuntabile,
la sua vita abbastanza breve, illuminata da una luce costante di prosperità e
libera da atti riprovevoli per una cittadina.
Qualche mese dopo i suoi questionari erano passati, erano stati tutti
approvati. Nel frattempo Klara si era diplomata, e aveva varcato la soglia della
torretta di guardia della zona segreta di Marfino.

94 Diminutivo di Dotnara.
95 Natale, in russo.
45
I CANI DELL’IMPERIALISMO

Klara, assieme alle altre sue amiche laureate in Ingegneria delle comunicazioni,
aveva superato il terribile addestramento di Šikin, il maggiore dal viso scuro.
L’avevano avvertita che si sarebbe trovata in mezzo ad agenti di primo
calibro, cani dell’imperialismo mondiale e dei servizi segreti americani che
vendevano la patria senza problemi.
Era stata assegnata al Vuoto. Così si chiamava il laboratorio che fabbricava
un’infinità di tubi elettronici su ordinazione degli altri laboratori. Prima i tubi
venivano soffiati nella piccola vetreria attigua, poi tre pompe ronzanti ne
aspiravano l’aria nell’apposita camera sottovuoto rivolta a nord, grande e
semibuia. Le pompe sbarravano la stanza come armadi. Le lampadine elettriche
erano accese persino di giorno. Il pavimento, fatto di lastre di pietra,
rimbombava di continuo sotto i passi delle persone e per le sedie che venivano
spostate. Davanti a ogni pompa sedeva o passeggiava l’addetto corrispondente,
un detenuto. Altri zek sedevano ai loro tavolini in due o tre punti. Di liberi,
oltre lei, c’erano solo una ragazza di nome Tamara e il capo del laboratorio, un
capitano.
Al suo capo Klara era stata presentata nell’ufficio di Jakonov. Era un ebreo
grassoccio non troppo giovane, avvolto da una patina di indifferenza. Non
volendo spaventare ulteriormente Klara, le aveva fatto cenno di seguirlo e sulle
scale le aveva detto:
– Lei ovviamente non sa fare nulla e non conosce nulla, vero?
Klara aveva farfugliato qualcosa. Oltre alla paura, ci mancava anche il
disonore, che smascherassero la sua ignoranza e ridessero di lei.
Era entrata in quel laboratorio abitato da mostri in tute blu come in una
gabbia di belve. Aveva paura persino di sollevare lo sguardo.
In effetti, tre addetti al vuoto camminavano accanto alle loro pompe come
belve in prigione: avevano avuto una commessa urgente e da due giorni si
vedevano negato il permesso di andare a dormire. Tuttavia il detenuto alla
pompa di mezzo, un uomo calvo oltre la quarantina con una barba lunga e
trascurata, si era fermato, aveva fatto un gran sorriso e aveva detto:
– Ooh! Ecco i rinforzi!
La paura le era subito passata. Quell’esclamazione era stata così bonaria e
semplice che Klara aveva dovuto fare uno sforzo per non sorridergli.
Si era fermato anche il più giovane degli addetti al vuoto, che aveva la
responsabilità della pompa più piccola. Era ancora un ragazzo, con un viso
allegro da birbante e due grandi occhi ingenui. Lo sguardo che aveva rivolto a
Klara sembrava quello di chi viene colto di sorpresa. Nessun giovanotto aveva
mai guardato Klara a quel modo.
Aveva reagito diversamente il più anziano degli addetti, Dvoetësov, un uomo
alto e goffo, magro ma con la pancia prominente, la cui enorme pompa in
fondo alla stanza ronzava particolarmente forte. L’uomo aveva guardato Klara
da lontano con disprezzo e si era rifugiato dietro l’armadio, come per non
vedere un simile schifo.
In seguito Klara aveva scoperto che non doveva prendersela, lui si
comportava così con tutti i liberi: quando entravano i capi faceva rombare di
proposito la pompa per obbligarli a comunicare gridando. Trascurava
deliberatamente il proprio aspetto, poteva arrivare con un bottone dei
pantaloni sul punto di staccarsi, appeso a un lungo filo, e un buco sulla schiena,
oppure poteva cominciare a grattarsi sotto la tuta davanti alle ragazze. Amava
dire:
– Sono nella mia patria! Devo fare complimenti a casa mia?
L’addetto alla pompa di mezzo veniva chiamato dai detenuti, persino dai più
giovani, semplicemente Zemelja, Compaesano, cosa di cui non si offendeva
affatto. Era una di quelle persone che gli psicologi definiscono “nature solari”,
ma di cui il popolo dice: “Cuor contento, il ciel l’aiuta.” Nelle settimane
successive, Klara l’aveva osservato, notando che non si dispiaceva mai se
qualcosa andava perso, fosse una matita o la sua vita intera, non si arrabbiava
per niente e con nessuno, e di nessuno aveva paura. Era un ingegnere vero,
come si deve, specializzato però in motori d’aviazione, che a Marfino era stato
portato per sbaglio, ma si era ambientato bene e non aspirava ad andare da
nessun’altra parte, ritenendo giustamente che fosse difficile trovare di meglio.
La sera, quando le pompe si zittivano, in quel silenzio, a Zemelja piaceva
ascoltare o raccontare qualcosa.
– Una volta, con cinque copechi andavi e ti compravi quello che volevi, ti
trovavi le mani piene a ogni passo – diceva con quel suo largo sorriso. – Non ti
vendevano merda. Gli stivali erano stivali come si deve, li portavi per dieci anni
senza farli riparare, e quindici con le riparazioni. La pelle sulla punta non la
tagliavano come adesso, la rigiravano in modo che si unisse sotto il piede.
C’erano anche... come si chiamavano? Quelli rossi, con la suola gonfiata con
l’acido... non erano stivali, erano una seconda anima! – Si scioglieva tutto in un
sorriso e strizzava gli occhi, come sotto un sole debole e caldo. – Oppure, nelle
stazioni, per esempio... non c’era mai gente sdraiata sul pavimento, lì a
soffocare giorno e notte per comprare i biglietti. Ci andavi un minuto prima,
compravi il tuo, salivi sul treno e c’erano sempre vagoni liberi. I treni li
facevano correre... non facevano economia... In generale, vivere era semplice,
molto semplice...
A quei racconti, dondolando il corpo appesantito, le mani in tasca, l’addetto
al vuoto più anziano spuntava dall’angoletto buio dove la sua scrivania era al
riparo dai capi. Si fermava in mezzo alla stanza e guardava un po’ tutti di
sbieco, gli occhi sgranati e gli occhiali calati sul naso, e diceva:
– Zemelja! Tu davvero ti ricordi lo zar?
– Un pochino – si giustificava Zemelja, con un sorriso.
– È i-nu-ti-le – scuoteva la testa Dvoetësov. – Dimenticatelo. È il socialismo
che bisogna pompare!
– Però, Kostja, – obiettava timidamente Zemelja – il socialismo dicono di
averlo già costruito.
– Eh? – si stupiva l’addetto al vuoto più anziano.
– Sì-ì. Già dal ’33, più o meno.
– Quando c’era la fame in Ucraina96? Ma, un attimo, un attimo, allora noi
cosa stiamo qui a pompare giorno e notte?
– Adesso? Per il comunismo, probabilmente – spiegava Zemelja.
– Ah, sì?! Ma guarda un po’! – borbottava fra sé l’addetto al vuoto più
anziano e, strascicando i piedi, se ne tornava nel suo angoletto.
Che facessero quei discorsi per loro o per Klara, lei non andava comunque a
riferirlo.
Le mansioni della ragazza non sembravano molto complicate:
avvicendandosi con Tamara, doveva andare un giorno dalla mattina fino alle sei
della sera, e il giorno successivo cominciare dopo pranzo e finire alle undici. Il
capitano arrivava sempre la mattina, perché i superiori potevano chiedere di lui
durante la giornata; di sera non veniva mai, non puntava a un avanzamento di
carriera. Il compito principale delle ragazze era svolgere il loro turno di
guardia, vale a dire spiare i detenuti. Oltre a quello, il capo le incaricava di
piccoli lavoretti non urgenti “per lo sviluppo”. Klara e Tamara si incontravano
in tutto un paio d’ore al giorno. Tamara lavorava all’impianto da più di un
anno ed era disinvolta con i detenuti. Klara aveva perfino l’impressione che
fosse piuttosto intima con uno di loro: gli portava dei libri, che si scambiavano
però di nascosto. Inoltre, all’istituto Tamara frequentava un circolo di lingua
inglese, dove i liberi studiavano e i detenuti insegnavano (naturalmente gratis e
in quello stava il vantaggio). Ben presto, grazie alla collega, a Klara era passata
la paura che quelle persone potessero combinare qualcosa di terribile.
Alla fine anche Klara aveva cominciato a parlare con uno dei detenuti. A dir
la verità non era un criminale di Stato, ma solo un delinquente comune:
detenuti di quel genere a Marfino ce n’erano pochi. Si trattava di Ivan, il
soffiatore di vetro, per sua sfortuna un maestro in quell’arte. La sua vecchia
suocera diceva di lui che era un lavoratore d’oro e un bevitore ancora più
d’oro. Guadagnava molto, beveva molto, e quando era ubriaco picchiava la
moglie e minacciava i vicini. Ma questo sarebbe stato niente se la sua strada
non si fosse incrociata con quella dell’MGB. Un autorevole compagno senza
distintivi di riconoscimento l’aveva fatto chiamare con una citazione, e gli
aveva offerto un lavoro con uno stipendio di tremila rubli al mese. Ivan
lavorava in un posticino dove lo pagavano meno, ma con altri lavori a cottimo
racimolava di più. Dimenticando con chi aveva a che fare, si era azzardato a
chiedere quattromila rubli al mese. L’interlocutore importante ne aveva
aggiunti duecento, ma Ivan era rimasto fermo. L’avevano lasciato andare. Alla
prima paga, però, Ivan si era ubriacato e aveva creato scompiglio in cortile;
allora la polizia, che prima non accorreva nemmeno alle chiamate, era arrivata
subito con una pattuglia numerosa e lo aveva portato via. Il giorno seguente
avevano processato Ivan, gli avevano dato un anno e poi lo avevano condotto
da quello stesso capo senza distintivi: a quel punto, il capo gli aveva spiegato
che sarebbe andato a lavorare nel posto che gli avevano già indicato prima, ma
senza paga. Se quelle condizioni non lo soddisfacevano, poteva benissimo
andarsene a estrarre il carbone al Circolo polare.
Ora Ivan si trovava dentro a soffiare tubi a fascio elettronico, che
prendevano forme sorprendenti e sempre nuove. L’anno da scontare era finito,
ma il precedente penale gli era rimasto e, per non essere espulso da Mosca,
aveva pregato i capi di lasciarlo a quel lavoro da libero, anche solo con una
paga di millecinquecento rubli.
Alla šaraška una storia tanto genuina con un finale così favorevole non
interessava nessuno: là c’erano persone che avevano passato cinquanta giorni e
cinquanta notti nelle celle dei condannati a morte, altre che avevano conosciuto
direttamente il Papa di Roma e Albert Einstein. Klara però ne era rimasta
turbata. Significava, come diceva Ivan, una cosa sola: “Fanno quel che gli pare.”
Klara aveva soggezione dei detenuti politici, cercava in tutti i modi di
mantenere una distanza tra il cauto e il formale. Il racconto del soffiatore, però,
aveva insinuato un dubbio nella sua testa: che fra quelle tute blu ci fossero
anche uomini del tutto innocenti. E in quel caso, era possibile che anche suo
padre avesse condannato qualche innocente?
Tuttavia non esisteva nessuno a cui potesse porre quella domanda: nessuno
in famiglia, nessuno al lavoro. La camminata e l’amicizia con Innokentij non
avevano avuto un seguito, forse perché di lì a breve lui e Nara erano ripartiti
per l’estero.
Eppure quell’anno Klara aveva trovato finalmente un amico: Ernst
Golovanov. Non l’aveva incontrato al lavoro, era un critico letterario che un
giorno Dinera aveva portato a casa. Non che Golovanov fosse un granché
come cavaliere: poco più alto di Klara (quando non le stava accanto, sembrava
addirittura più basso), aveva la fronte e la testa rettangolari, appoggiate su un
torso rettangolare. Solo poco più vecchio di lei, sembrava già un uomo di
mezza età e aveva la pancetta e il fisico di chi non fa sport. (A dire il vero, il
suo cognome sul passaporto era Saun’kin, Golovanov era uno pseudonimo.)
Tuttavia era una persona colta, evoluta, interessante, già membro dell’Unione
degli Scrittori.
Un giorno Klara era andata con lui al Malyj Teatr. Davano un’opera di
Gor’kij, Vassa Železnova. Lo spettacolo lasciava un’impressione triste. Si
svolgeva davanti a una sala piena neanche la metà. Probabilmente era questo a
deprimere gli attori. Si presentavano in scena annoiati, sembravano impiegati
statali, e si rallegravano solo al momento di scendere dal palco. Recitare davanti
a una sala così vuota era quasi una vergogna: sia il trucco sia i ruoli sembravano
uno svago indegno di persone adulte. Era come se da un momento all’altro, nel
silenzio della sala, uno spettatore potesse dire a bassa voce, quasi fosse nella
propria stanza, “Su, cari miei, basta con tutte ’ste moine!”, mandando all’aria lo
spettacolo. L’umiliazione degli attori si trasmetteva anche agli spettatori.
Avevano tutti la sensazione di essere parte di un’impresa disonorevole e si
imbarazzavano a guardarsi l’un l’altro. Per questo anche durante gli intervalli
c’era un silenzio profondo, lo stesso che regnava durante lo spettacolo. Le
coppie conversavano in tono dimesso e camminavano per il foyer senza far
rumore.
Anche Klara ed Ernst si erano comportati così nel primo intervallo. Ernst
scagionava Gor’kij e si indignava per Gor’kij, affermava che era indecoroso
recitarlo così, stroncava l’artista del popolo Zarov, che quel giorno recitava
davvero con i piedi, e con ben più coraggio criticava l’andazzo del Ministero
della Cultura, che minava sia il teatro nazionale, con le sue insigni tradizioni
realistiche, sia la fiducia dello spettatore nei suoi confronti. Ernst non solo
scriveva in modo fluido ma parlava anche in maniera fluida e corretta, senza
mangiarsi le parole e senza lasciare le frasi a metà, nemmeno quando si
scaldava.
Al secondo intervallo Klara gli aveva chiesto di rimanere nel palchetto. E
aveva aggiunto:
– Mi sono stufata sia di Ostrovskij che di Gor’kij: tutti questi
smascheramenti del potere capitalistico, dell’oppressione familiare, i vecchi che
sposano le ragazze... Mi sono stufata di questa lotta contro i fantasmi. Sono
passati già cinquanta, cento anni, e noi stiamo ancora qui a sbracciarci, a
smascherare cose che non ci sono più da un pezzo. Mentre opere su quanto
esiste davvero non se ne vedono.
– In parte è vero. – Incuriosito, Ernst guardava Klara con un sorriso
benevolo. Non si era sbagliato su di lei. Magari non era una gran bellezza, ma
con lei non ti annoiavi mai. – Opere su cosa, per esempio?
Non era rimasto nessuno nei palchetti vicini, né sotto di loro in platea. A
bassa voce, sforzandosi di non tradire troppo un segreto di Stato e il segreto
della sua compassione per quelle persone, Klara aveva raccontato a Ernst del
suo lavoro con i detenuti, che le erano stati dipinti come cani dell’imperialismo,
ma che una volta conosciuti meglio sembravano persone normali. E la
tormentava una domanda... magari Ernst lo sapeva... possibile che in mezzo a
loro ci fossero anche degli innocenti?
Ernst l’aveva ascoltata con grande attenzione e le aveva risposto con
autorevolezza, come se ci avesse riflettuto a lungo:
– Naturale che ci siano. È inevitabile in ogni sistema penitenziario.
Klara non aveva capito qual era il sistema, e di conseguenza non aveva
riflettuto molto sulla risposta, ma le era sembrato giusto concludere con la
deduzione del soffiatore:
– Ma allora, Ernst, significa che fanno quel che gli pare! È una cosa terribile!
E la sua forte mano da tennista si era serrata in un pugno sul velluto rosso
della balaustra. Golovanov aveva posato banalmente la sua mano dalle dita
tozze proprio accanto a quella di Klara, non sopra, perché lui non si prendeva
certe libertà senza rifletterci.
– No, – le aveva spiegato con mitezza ma convinto – non ‘fanno quel che gli
pare’. Chi è che lo ‘fa’? A chi è che ‘pare’? Alla Storia. A noi due, in certi casi,
questo potrà sembrare orribile ma, Klara, è ora di accettare che esiste la legge
dei grandi numeri. Maggiore è la quantità di materiale con cui si svolge un fatto
storico, maggiore, sarà, ovviamente, la probabilità di singoli errori isolati, errori
giudiziari, tattici, ideologici, economici. Noi comprendiamo il processo solo nei
suoi tratti principali e determinanti. L’importante è convincersi che si tratta di
un processo inevitabile e necessario. Sì, a volte qualcuno ne soffre. E non
sempre se lo merita. I caduti al fronte. Chi è morto senza un perché nel
terremoto di Aşgabat. In un incidente d’auto. Aumenta il traffico, aumentano
anche le vittime stradali. Vivere con saggezza significa accettare che la vita ha
uno sviluppo, e a ogni inevitabile gradino ci sono delle vittime.
Be’, quella spiegazione aveva un senso. Klara si mise a riflettere.
Il campanello aveva squillato già due volte e gli spettatori si stavano
radunando in sala. Nel terzo atto li avrebbe risvegliati l’attrice Roek che, nel
ruolo della figlia minore di Vassa, ridava vita a tutto lo spettacolo.

In realtà, Klara non si rendeva conto che a interessarle non era un uomo
innocente qualsiasi, che per la legge dei grandi numeri forse stava già marcendo
da tempo al Circolo polare. No, le interessava quel giovane addetto al vuoto
con gli occhi azzurri e le guance di una sfumatura bruno-dorata, che pareva un
bambino nonostante i suoi ventitré anni. Fin dal loro primo incontro, nello
sguardo del giovane si era conservata un’adorazione gioiosa per Klara, e lei ne
rimaneva sempre frastornata. Non poteva né presumere né collegare che
Rostislav arrivava da un campo di lavoro, in cui non aveva visto una donna per
due anni. Era la prima volta in vita sua che si sentiva oggetto dell’ammirazione
di qualcuno.
Del resto, il vicino di Klara non era preso esclusivamente dalla sua
ammirazione per lei. Nella sua prigionia, trascorsa quasi ininterrottamente alla
luce elettrica di un laboratorio semibuio, quel giovane aveva una vita in un
certo senso carica e precipitosa: di nascosto dai capi, fabbricava oggetti,
studiava furtivamente l’inglese nell’orario di servizio, telefonava ai suoi amici
degli altri laboratori e correva a incontrarsi con loro in corridoio. Si muoveva
sempre con irruenza, e sempre, in ogni momento, e soprattutto in quel
momento, sembrava preso da qualcosa di impetuosamente interessante. Anche
l’ammirazione per Klara era una delle sue attività impetuosamente interessanti.
Oltre a questo, non dimenticava di curare il proprio aspetto: sotto la tuta e
la cravatta variopinta aveva sempre qualcosa di un bianco impeccabile. (Klara
non sapeva che si trattava del pettino, un’invenzione di Rostislav, la sedicesima
parte di un lenzuolo statale.)
I giovani con i quali Klara si incontrava in libertà, e in particolare Ernst
Golovanov, avevano già raggiunto una posizione, si vestivano, si muovevano e
conversavano in modo calcolato, per non danneggiarsi. La vicinanza di
Rostislav faceva sentire Klara più leggera, le faceva venire voglia di scherzare.
Lei lo guardava in segreto con simpatia sempre più forte. Non riusciva a
credere in nessun modo che un tempo lui e il bonario Zemelja fossero stati
quei cani alla catena dell’imperialismo contro i quali il maggiore Šikin metteva
le ragazze in guardia. Aveva una gran voglia di sapere tutto di Rostislav: per
quale misfatto era stato condannato? Doveva restare dentro ancora a lungo?
(Che non fosse sposato era chiaro.) Non si decideva a chiederglielo, temeva che
simili domande potessero traumatizzarlo, far riemergere un passato disgustoso
che lui voleva scrollarsi di dosso, per correggersi.
Erano passati altri due mesi. Klara si era già ambientata bene con tutti, e già
parecchie volte in sua presenza avevano parlato di ogni sorta di sciocchezza
estranea al lavoro. Rostislav aspettava il momento in cui durante il turno serale
Klara rimaneva da sola in laboratorio, all’ora di cena dei detenuti, e aveva
cominciato ad andarla a trovare in quel lasso di tempo: a volte veniva a
prendere delle cose dimenticate, altre lavorava in silenzio.
Durante quelle visite serali, Klara si scordava tutti gli avvertimenti dell’oper...
La sera prima aveva preso il via da sola una di quelle conversazioni irruente
che fanno crollare, come per la furia delle acque, le misere barriere umane.
Quel giovane non aveva nessun passato disgustoso da scrollarsi di dosso.
Aveva solo la giovinezza rovinata, e una grande brama di conoscere e
sperimentare tutto quello che non era riuscito a compiere.
A quanto pareva, un tempo lui viveva con la madre in un villaggio nei
dintorni di Mosca, vicino al canale. Aveva appena concluso il ciclo scolastico di
dieci anni quando alcuni americani dell’ambasciata avevano affittato una dacia
nel loro villaggio. Rus’ka e due suoi compagni avevano avuto l’imprudenza
(be’, anche la curiosità) di andare a pescare con gli americani un paio di volte.
Tutto era andato per il verso giusto, o così sembrava: Rus’ka si era iscritto
all’università di Mosca, ma a settembre lo avevano arrestato di nascosto, per
strada, tanto che per molto tempo la madre non aveva saputo che fine avesse
fatto. (Prima di arrestare le persone, l’MGB si assicurava che non avessero il
tempo di nascondere nulla, e che i loro cari non ricevessero una parola d’ordine
o un segnale.) Era stato rinchiuso alla Lubjanka. (Anche il nome di quella
prigione, Klara lo aveva sentito per la prima volta a Marfino.) Era cominciata
l’istruttoria.
Da Rostislav volevano sapere quale compito avesse ricevuto dai servizi
segreti americani, a quale recapito clandestino dovesse trasmettere le
informazioni. Come aveva detto lui stesso, Rus’ka a quei tempi era ancora un
“vitellino”, non faceva che meravigliarsi e piangere. Poi d’un tratto era successa
una cosa straordinaria: Rus’ka era stato rilasciato dalla Lubjanka, dalla quale
non rilasciavano mai nessuno con le buone.
Quello accadeva nel 1945. Lì si era fermato il racconto della sera prima.
Per quel racconto lasciato a metà, Klara era rimasta in agitazione tutta la
notte. Quel giorno, nel disprezzo delle regole più elementari di sorveglianza e
persino ai limiti del decoro, la giovane si era seduta apertamente accanto a
Rostislav, vicino alla sua pompa che ronzava tranquilla, e la loro conversazione
era ripresa.
Verso la pausa per il pranzo, erano già come due bambini che davano un
morso ciascuno a una grande mela. Trovavano strano non aver conversato per
tanti mesi. Ognuno faceva a malapena in tempo a dire la propria. Quando lui la
interrompeva per l’impazienza, le sfiorava la mano, e lei non ci vedeva nulla di
male. E quando tutti andarono in pausa, trovarsi spalla contro spalla, sfiorarsi
le mani assunse a un tratto un nuovo significato. Klara vide davanti a sé quegli
occhi di un azzurro intenso che la veneravano.
Rostislav parlava con la voce di chi ha perso il controllo.
– Klara! Chissà quando potremo stare ancora così? Per me questo è un
miracolo! Io la adoro! – (Lui le stringeva e le carezzava già la mano.) – Klara!
Forse dovrò marcire tutta la vita passando da una prigione all’altra. Mi renda
felice, cosicché, in qualsiasi momento di solitudine, io possa scaldarmi al
ricordo di questo istante! Permetta che io la baci!!
Klara si sentiva una dea scesa nel sottosuolo di un prigioniero. Rostislav
l’attirò a sé e le stampò sulle labbra un bacio di una forza rovinosa, il bacio di
un detenuto sfinito dall’astinenza. Lei lo ricambiò...
Alla fine, Klara si staccò e lo respinse, sconvolta, con la testa che le girava...
– Vada via... – gli chiese.
Rostislav si alzò e rimase in piedi davanti a lei, dondolando.
– È ora, vada via! – esigeva Klara.
Lui esitò. Poi si arrese. Sulla porta rivolse uno sguardo dispiaciuto,
supplicante a Klara, per poi trascinarsi fuori, oltre la soglia.
Poco dopo rientrarono tutti dalla pausa.
Klara non osava sollevare lo sguardo né su Rostislav né su nessun altro.
Qualcosa le bruciava dentro, e se non era vergogna, era felicità, ma di un genere
inquieto.
Ascoltò i discorsi sul fatto che avevano concesso ai detenuti l’albero di
Natale.
Rimase seduta per tre ore, muovendo solo le dita: con alcuni fili elettrici
clorovinilici di vari colori intrecciava un cestino, un addobbo per l’albero.
Di ritorno dal colloquio, il soffiatore Ivan creò due buffi diavoletti di vetro,
che sembravano imbracciare un fucile. A questi aggiunse una gabbia con le
sbarre di vetro e con un filo d’argento vi appese all’interno una luna di vetro
chiara, che tintinnava tristemente.
96 Il riferimento è a quello che negli anni Novanta gli storici chiameranno Holodomor, la grande carestia
ucraina, conseguenza delle politiche crudeli e sconsiderate di Stalin.
46
IL CASTELLO DEL SANTO GRAAL

Per mezza giornata un cielo basso e nebbioso si era dispiegato su Mosca, e non
aveva fatto troppo freddo. Prima di pranzo tuttavia, quando i sette detenuti
scesero dall’autobus azzurro per passeggiare nel cortiletto della šaraška,
volavano già i primi impazienti fiocchi di neve.
Uno di quei cristalli, una proporzionata stellina esagonale, cadde su una
manica del vecchio e rugginoso cappotto militare di Neržin, che portava già al
fronte. Gleb si fermò in mezzo al cortile e inspirò profondamente l’aria.
Il tenente anziano Šusterman, che si trovava lì, avvisò che non era il
momento della passeggiata, dovevano rientrare nell’edificio.
Un vero peccato. Neržin non voleva, o più semplicemente non poteva
raccontare a nessuno del colloquio, condividerlo, non c’era nessuno da
coinvolgere. Con cui parlare. Ascoltare. Voleva rimanere da solo e prolungare
dentro di sé, poco alla volta, tutto ciò che aveva dentro, che si era portato
dietro, prima che sfumasse, che si trasformasse in un ricordo.
Ma nella šaraška, come in ogni campo di lavoro, quello che mancava era
proprio la solitudine. C’erano sempre e dappertutto celle, scompartimenti di
vagoni per il trasporto detenuti, carri bestiame, baracche nei campi di lavoro, corsie
d’ospedale, e ovunque gente, persone, estranee e vicine, fini e rozze, ma sempre
persone e ancora persone.
Neržin entrò nell’edificio (per i detenuti c’era un ingresso a parte, una
scaletta di legno che portava giù, verso un corridoio sotterraneo) e si fermò a
riflettere: dove poteva andare?
Gli venne in mente.
Cominciò a salire verso il pianerottolo cieco del secondo piano, su una scala
di servizio posteriore che non percorreva quasi mai nessuno, superando le
sedie rotte messe lì a marcire.
Quel pianerottolo era stato assegnato allo zek Kondrašëv-Ivanov, un pittore
che lo usava come studio. Con il lavoro della šaraška lui non aveva nulla a che
fare, si trovava lì a servizio come pittore: l’atrio e le aule della Sezione di
Tecnica speciale erano spaziose, dovevano essere ornate di quadri. Meno
spaziosi, ma più numerosi, erano invece gli alloggi personali del viceministro,
di Foma Gur’janovič e di altri lavoratori a loro vicini, e decorare tutte quelle
stanze con quadri grandi, belli e gratuiti era una necessità ancora più
impellente.
A dir la verità, Kondrašëv-Ivanov soddisfaceva male quelle esigenze: i
quadri che dipingeva, sebbene grandi, sebbene gratuiti, non erano belli. I
colonnelli e i generali che venivano in visita alla sua galleria tentavano invano
di fargli capire come dovesse dipingere, quali colori utilizzare, e poi, con un
sospiro di rassegnazione, prendevano quel che c’era. Del resto, se infilati nelle
cornici dorate, quei quadri non erano poi così male.
Neržin superò una commessa completata per l’atrio della Sezione di Tecnica
speciale – A.S. Popov mostra all’ammiraglio Makarov il primo radiotelegrafo – poi
sbucò sull’ultima rampa di scale e, ancor prima del pittore, vide proprio sotto il
soffitto, sul muro cieco, La quercia mutilata, un quadro alto due metri, anch’esso
finito, che tuttavia nessuno dei committenti voleva ritirare.
Altre tele erano appese alle pareti del vano scale. Qualcuna era poggiata su
cavalletti.
La luce entrava da due finestre: una rivolta a nord, l’altra a ovest. Su quello
stesso pianerottolo si affacciava la finestrella di Maschera di Ferro con la grata
e la tendina rosa, impossibilitata a ricevere la luce di Dio.
Altro non c’era, nemmeno le sedie. Al loro posto due ceppi di legno, uno
più in alto, l’altro più in basso.
Nonostante le scale fossero poco riscaldate e vi si insinuasse un’umidità
fredda e tenace, la giubba imbottita di Kondrašëv-Ivanov era gettata sul
pavimento e lui, con le braccia e le gambe che spuntavano dalla tuta troppo
corta, se ne stava in piedi immobile, lungo com’era, incapace di piegarsi, quasi
congelato. I grandi occhiali, che gli facevano sembrare il viso largo e severo, si
reggevano saldamente alle sue orecchie, abituati ai continui movimenti bruschi.
Kondrašëv fissava un quadro. Le braccia abbandonate lungo i fianchi, con il
pennello e la tavolozza in mano.
Sentendo dei passi furtivi, si voltò.
I loro sguardi si incrociarono, ma ognuno continuò a badare ai propri
pensieri.
Il pittore non era contento di avere visite: in quel momento aveva bisogno di
solitudine e silenzio.
Tuttavia, fu felice che si trattasse di Neržin. Con grande entusiasmo, senza
falsa ipocrisia, esclamò come era sua abitudine:
– Gleb Vikent’ič!! Prego!
E con fare ospitale, spalancò le braccia che reggevano la tavolozza e il
pennello.
La bontà è un tratto ambiguo in un artista: nutre la sua immaginazione, ma
va a minare il suo ordine.
Neržin si bloccò sul penultimo gradino, intimidito. Poi disse quasi in un
sussurro, come se temesse di svegliare una terza persona:
– No, no, Ippolit Michalyč! Sono venuto qui, se si può... per starmene un po’
in silenzio...
– Ah, sì! Sì! Ma certo! – annuì piano il pittore. Dallo sguardo dell’uomo
aveva capito, o forse si era ricordato, che Neržin quel giorno aveva avuto un
colloquio. Si scostò rivolgendogli quasi un inchino, e indicò il ceppo con il
pennello e la tavolozza.
Neržin strinse le falde del cappotto, che nel campo di lavoro lui aveva
salvato dalla mutilazione, si lasciò cadere sul ceppo, si appoggiò alle colonnine
della balaustra e, nonostante ne avesse una gran voglia, non fumò.
Il pittore tornò a fissare lo stesso punto sul quadro.
Calò il silenzio...
Il sentimento per la moglie si era ridestato e tormentava Neržin in modo
piacevolmente sottile. Quelle parti delle dita che nell’addio avevano sfiorato le
mani, il collo, i capelli di lei, sembravano come immerse in un prezioso polline.
Avrebbe dovuto vivere anni senza ciò che viene concesso all’uomo sulla
terra.
Ti lasciano la ragione (se dimora in te). Le convinzioni (se ne hai maturate).
E la preoccupazione per il bene collettivo, che ti serra la gola. Resti un
cittadino ateniese, un ideale di uomo a tutti gli effetti.
Ma il fulcro, no.
Ti privano dell’amore di una donna e quello sembra pesare più di tutto il
resto del mondo.
Le semplici parole:
“Mi ami?”
“Sì, ti amo, e tu?” dette con uno sguardo o a fior di labbra, sanno riempire
l’anima di un tranquillo suono di festa.
Adesso per Gleb era impossibile raffigurarsi o ricordare un qualsiasi difetto
della moglie. Sembrava avere solo pregi. Essere pura fedeltà.
Peccato non si fosse deciso a baciarla già all’inizio del colloquio. Ora in
nessun modo poteva recuperare quel bacio.
Le labbra della moglie erano molli, deboli. E com’era sfinita! Con quale
scoramento aveva parlato di divorzio.
Un divorzio davanti alla legge? Gleb non aveva alcuna difficoltà ad accettare
l’annullamento di quella carta bollata. Che c’entrava lo Stato con l’unione di
due anime? E con quella di due corpi?
Pestato dalla vita a sufficienza, Neržin sapeva però che le cose e gli
avvenimenti hanno una loro logica implacabile. Nel loro agire quotidiano le
persone non immaginano mai quali conseguenze avverse possano scaturire da
quelle azioni. Prendiamo Popov: inventando la radio97 si rendeva conto che
avrebbe dato il via a un pandemonio universale, alla tortura dei pensatori
solitari da parte degli altoparlanti? Oppure i tedeschi: lasciarono passare Lenin
per rovinare la Russia, ma dopo trent’anni ottennero la divisione della
Germania. O l’Alaska. Era già stata una bella stupidaggine venderla per quattro
soldi, ma adesso i carri armati sovietici non potevano raggiungere l’America via
terra! Un fatto da niente può decidere il destino del pianeta.
E prendiamo Nadja. Voleva divorziare per sfuggire alle persecuzioni. E una
volta divorziata, si sarebbe risposata senza neanche accorgersene.
Per qualche motivo davanti a quell’ultimo saluto senza anello al dito, Neržin
aveva avuto una stretta al cuore, si era reso conto che in quel modo si stavano
dicendo addio per sempre...
Rimase seduto a lungo in silenzio, mentre l’ondata di felicità successiva al
colloquio, che in autobus gli scoppiava ancora dentro, colò via gradualmente,
spremuta da cupe considerazioni realistiche. Quelle stesse considerazioni, però,
controbilanciarono i suoi pensieri, riportandolo nei suoi panni di detenuto.
“A te va bene così” aveva detto lei.
Gli andava bene stare in prigione!
Era vero.
In sostanza, i cinque anni da recluso non erano stati affatto male. Anche ora,
senza che avesse bisogno di guardarli con distacco, Neržin li riconosceva come
naturali, necessari per la sua vita.
Da dove era meglio osservare la rivoluzione russa se non attraverso le sbarre
da lei stessa murate?
O dove era meglio conoscere le persone se non lì?
E conoscere sé stessi?
Da quante titubanze di gioventù, da quanti slanci verso possibili sbagli lo
aveva risparmiato il sentiero di ferro, predeterminato e univoco, della prigione!
Come diceva Spiridon, “La nostra libertà è un tesoro custodito da
demoni”98.
Oppure prendete quel sognatore immune alla beffa del secolo: cosa aveva
perso stando in prigione? Be’, non poteva girare nei dintorni di Mosca con una
cassetta di colori. E neanche disporre le nature morte su un tavolo. E le
mostre? Non era capace di organizzarle, in cinquant’anni non aveva esposto in
una sala elegante nemmeno un quadro. Denaro per le sue opere? Non ne
riceveva neppure fuori. Spettatori amichevoli? Qui ne radunava anche di più.
Uno studio? In libertà non aveva nemmeno quel pianerottolo sulle scale. Il suo
alloggio era anche il suo studio, una stanza stretta e lunga, simile a un
corridoio. Per organizzarsi con il lavoro, piazzava una sedia sopra l’altra e
arrotolava il materasso, così i visitatori domandavano: “Vi trasferite?” Avevano
solo un tavolo e, quando c’era una natura morta sopra, lui e la moglie
pranzavano sulle sedie finché il quadro non veniva ultimato.
Durante la guerra mancava l’olio per i colori; lui prendeva l’olio di girasole
della razione e diluiva le tempere così. Per avere la tessera bisognava lavorare:
lo avevano mandato nella divisione chimica a ritrarre le allieve modello dei
corsi militari e politici. Gli era stata commissionata una decina di ritratti, ma su
dieci allieve lui ne aveva scelta una e l’aveva tormentata con lunghe sedute di
lavoro. Tuttavia, non l’aveva disegnata affatto come serviva al comando e
nessuno aveva voluto prendere quel ritratto intitolato Mosca, 1941.
Il 1941, in quel ritratto, in effetti c’era. Raffigurava una ragazza in tuta
antigas. I rigogliosi capelli rosso rame spuntavano da tutte le parti sotto la
bustina e le circondavano il capo in un contorno mosso. La testa era gettata
all’indietro, gli occhi folli vedevano qualcosa di orribile, di imperdonabile. Ma
non era la figura di una ragazza debole! Le mani pronte a combattere
stringevano la cinghia della maschera antigas, mentre la tuta anti-iprite grigio
scuro si rompeva in rigide pieghe affilate, si rifletteva con una striscia d’argento
su una superficie frantumata, ricordando un’armatura d’epoca cavalleresca.
Qualcosa di nobile, e al contempo crudele e vendicativo, si era impresso sul
viso di quella giovane comunista di Kaluga, per niente bella, nella quale
Kondrašëv-Ivanov aveva visto una Pulzella d’Orléans!
Ricordava molto i manifesti con la scritta “Non dimenticheremo! Non
perdoneremo!”99, ma andava oltre, vi era raffigurato qualcosa di
incontrollabile, tanto che di quel quadro avevano avuto paura, non lo avevano
preso, non era mai stato esposto, era rimasto per anni nella stanzetta del
pittore, girato verso il muro, e così era rimasto fino al giorno del suo arresto.
Il figlio di Leonid Andreev, Daniil, aveva scritto un romanzo e aveva
chiamato una ventina di amici ad ascoltarlo. Un giovedì letterario in stile XIX
secolo... Quel romanzo illegale era costato a ogni ascoltatore venticinque anni
in un campo di lavoro correzionale. Uno di quegli ascoltatori era proprio
Kondrašëv-Ivanov, nipote del decabrista Kondrašëv, condannato a vent’anni
per insurrezione e divenuto famoso per il commovente arrivo in Siberia di una
governatrice francese che si era innamorata di lui.
È vero, Kondrašëv-Ivanov in un campo di lavoro non c’era mai finito, ma
subito dopo che l’oso, la Sezione di Informazione operativa, aveva firmato la
sua condanna, era stato condotto a Marfino con l’obbligo di dipingere un
quadro al mese, come stabilito da Foma Gur’janovič. Nei dodici mesi appena
trascorsi Kondrašëv aveva dipinto i quadri che ora si trovavano appesi lì e altri
che erano stati già portati via. E dunque? A cinquant’anni suonati, e con
venticinque davanti a sé, quell’anno placido in prigione non lo aveva vissuto
ma lo aveva trascorso volando, senza sapere se ce ne sarebbe stato uno simile.
Non faceva caso a quello che gli davano da mangiare, a quello che gli facevano
indossare, quando veniva contato assieme a tutti gli altri.
Lì lo avevano privato dell’opportunità di incontrare e conversare con altri
pittori. Di guardare i quadri degli altri. E, tramite gli album con le riproduzioni
che arrivavano dalla dogana, veniva a sapere come andavano le cose e quale
direzione aveva preso la pittura occidentale.
Tuttavia qualunque fosse quella direzione, non poteva in alcun modo
influenzare Kondrašëv-Ivanov e condizionare il suo lavoro, perché nel suo
pentagono magico, dove ogni cosa veniva rivelata e prendeva forma, tutti e
cinque gli angoli erano già occupati definitivamente: due dal disegno e dal
colore, come poteva vederli lui soltanto, altri due dal Bene e dal Male
universali, e il quinto dal pittore stesso.
Kondrašëv-Ivanov non poteva tornare con le sue gambe ai paesaggi di un
tempo, non poteva ricreare con le sue mani le nature morte, ma di tutto questo
aveva cominciato a vedere i colori veri nelle celle rese semibuie dalle museruole;
e ora dipingeva a memoria nature morte e paesaggi mai dipinti prima.
Una di quelle nature morte nelle proporzioni del quadrato egizio, di quattro
quinti (Kondrašëv attribuiva un enorme significato alle proporzioni), era
appesa anche ora accanto alla finestra di Mamurin. Nel mezzo della tela era
dipinto in verticale un vassoio rotondo di rame scintillante, visto di lato. Si
trattava di un semplice vassoio, ma veniva percepito come un valoroso scudo
infuocato! Accanto, una brocca di metallo scuro con sottili incavature brunite,
da usare non per il vino, più probabilmente per l’acqua fresca. Dalla parete
sullo sfondo cadeva un broccato color oro (in quel periodo Kondrašëv si era
invaghito soprattutto delle varie sfumature del giallo), che sembrava il mantello
dell’Uomo Invisibile. Nella combinazione di questi tre oggetti qualcosa
trasmetteva coraggio e invitava a non retrocedere.
(Nessuno dei colonnelli però aveva preso quella natura morta, insistendo
che il catino avrebbe dovuto stare di piatto, con sopra almeno qualche fetta di
melone.)
Kondrašëv dipingeva più tele contemporaneamente, le abbandonava e poi ci
ritornava. Nessuna era stata portata a un livello tale da lasciare nell’artista un
senso di perfezione. Non era neanche certo che un simile grado, per lui,
esistesse. Abbandonava i quadri nel preciso istante in cui smetteva di scorgerci
qualcosa, non appena il suo occhio li trovava familiari. Li abbandonava
quando, tornandoci sopra, riusciva a migliorarli sempre meno, e si accorgeva
che invece di correggerli finiva per rovinarli.
Li abbandonava, li girava contro il muro, li copriva. Si separava da quei
quadri, se ne distaccava, ma quando tornava a osservarli con sguardo fresco,
quando li dava via gratis e per sempre perché fossero appesi in mezzo al
borioso lusso, l’estasi dell’addio lo pervadeva. Poteva pure non vederli più: lui
comunque li aveva dipinti!
Ora Neržin osservava l’ultimo quadro di Kondrašëv con grande attenzione.
Al centro era dipinto un ruscello freddo. Dove quel ruscello scorresse di
preciso non si capiva; in effetti non scorreva, la sua superficie era in procinto di
trasformarsi in ghiaccio. Nel punto più basso si intuivano delle sfumature
marroni, il riflesso delle foglie cadute che coprivano il fondo. La prima neve
chiazzava entrambe le sponde, e fra un cumulo e l’altro spuntava dell’erba
rosso-marrone. Sulla sponda crescevano due arbusti di salice, di un impalpabile
grigio fumo, bagnati dai granelli di neve che vi indugiavano sopra e si
scioglievano. Non era quella però la parte più importante, bensì qualcosa sullo
sfondo: una fitta parete di abeti di un nero olivastro difendeva il bosco, mentre
in prima fila splendeva inerme una betulla solitaria. Alla sua morbida luce
gialla, la guardia di conifere che innalzava le picche al cielo appariva ancora più
cupa e compatta. Il cielo era formato da irrimediabili brandelli pezzati, e in
mezzo a quelle nuvole faceva capolino un sole cordiale che non possedeva la
forza di lacerarle con un raggio diretto. Ma nemmeno quella era la parte più
importante: il fulcro si trovava nell’acqua fredda del ruscello che si schiariva.
Un’acqua turgida, profonda. Di una trasparenza plumbea, gelida. Aveva
assorbito e mantenuto l’equilibrio fra l’autunno e l’inverno. E magari qualche
altro equilibrio.
Adesso anche il pittore fissava lo stesso quadro.
La creazione sottostava a una legge inesorabile; Kondrašëv la conosceva
bene ormai, cercava di opporvisi, ma ogni volta finiva per sottomettersi,
impotente. La legge era questa: nulla di quanto fatto prima aveva peso, contava,
rendeva merito al suo autore. Solo ciò che lui dipingeva oggi, soltanto quello
era il cuore di tutta la sua esperienza di vita, il punto massimo della sua
capacità e del suo ingegno, la prima pietra di paragone del suo talento.
E tuttavia non gli riusciva!
Ogni quadro precedente, anche se sembrava riuscito mentre lo dipingeva,
alla fine non era riuscito, ma la disperazione di prima veniva dimenticata, e il
quadro del momento appariva come il primo e unico in cui lui avesse imparato
a dipingere sul serio! Ma poi anche quello non andava, così tutta la vita
sembrava inutile e il talento assente!
Quell’acqua ad esempio: era fredda, profonda, immobile, ma non serviva a
niente se non riusciva a trasmettere la sintesi suprema della natura. Quella
sintesi – la comprensione, la pacificazione, l’unificazione di tutto – Kondrašëv
non la trovava mai in sé, nei suoi sentimenti estremi, ma la conosceva e
l’ammirava nella natura. Quell’acqua, per esempio, trasmetteva la quiete
suprema oppure no? Lui soffriva e si disperava nel tentativo di comprenderlo:
la trasmetteva oppure no?
– Sa una cosa, Ippolit Michalyč? Comincio a concordare con lei, a quanto
pare. Tutti questi luoghi sono la Russia.
– Non il Caucaso? – si voltò di scatto Kondrašëv-Ivanov. I suoi occhiali non
si mossero, neanche fossero attaccati al naso.
La domanda, lungi dall’essere la prima per rilevanza, aveva comunque un
suo valore. Molti si allontanavano perplessi dai paesaggi di Kondrašëv: non
sembravano russi ma caucasici, cioè troppo maestosi, troppo solenni.
– Possono esserci tranquillamente luoghi simili in Russia – confermò
Neržin, convinto. Si alzò dal ceppo e si mise a passeggiare, osservando Il
mattino di un giorno straordinario e gli altri paesaggi.
– Be’, ovvio! Ovvio! – si agitava il pittore, voltando la testa. – Non è che
possono esserci luoghi simili in Russia: ci sono! La porterei ad ammirarli se non
fosse per le guardie. Vede, il pubblico si è lasciato irretire da Levitan! Dopo di
lui ci siamo abituati a considerare la nostra natura russa misera, offesa, a
malapena gradevole. Ma se la nostra natura fosse solo così, da dove sarebbero
venuti fuori allora i settari che si autoimmolavano? gli strelizzi ribelli? Pietro I?
i decabristi? i narodvol’cy?
– Eh già – convenne Neržin. – È vero. Tuttavia, Ippolit Michalyč, se
permette, io non capisco la sua passione per le immagini estreme. Per esempio,
quella quercia mutilata. Perché deve stare per forza su un dirupo roccioso? E
sotto naturalmente c’è il baratro, non si poteva di certo farne a meno. E il cielo
non è solo temporalesco, sembra non aver mai conosciuto il sole. E gli uragani,
che per duecento anni hanno soffiato da qualche altra parte, sono passati tutti
di lì, le hanno torto i rami, e con le unghie l’hanno strappata dalla roccia. Lo so,
lei è uno shakespeariano, se c’è malvagità, deve essere la più eclatante. Ma è
un’idea ormai obsoleta, dal punto di vista statistico situazioni del genere ci
colpiscono di rado. Non c’è bisogno di descrivere sempre il bene e il male con
la lettera maiuscola...
– Cosa mi tocca sentire!! – si adirò il pittore agitando le braccia lunghissime.
– Che cosa c’è di obsoleto?! La malvagità è obsoleta??? Ha mostrato il suo vero
volto solo nel nostro secolo; quelli dei tempi di Shakespeare erano divertimenti
da poppanti! Per scrivere Bene e Male non basta la lettera maiuscola, ce ne
vuole una alta cinque piani, che illumini come un faro. Ci siamo persi in
sfumature! Statisticamente raro? E noi? Non siamo forse milioni?
– In genere sì... – ribatté Neržin, scuotendo la testa. – Se nel campo di
lavoro ti offrono di vendere i tuoi scampoli di coscienza per duecento grammi
di pane nero... e questo succede senza clamore, con naturalezza...
Kondrašëv-Ivanov si raddrizzò, ergendosi in tutta la sua straordinaria
altezza. Fissava un punto davanti a sé, in alto, come Egmont condotto al
patibolo. – Il campo di lavoro non dovrebbe mai abbattere la forza spirituale di
un uomo!
Neržin scoppiò a ridere con maligna sobrietà.
– Non dovrebbe, eppure la abbatte! Lei non è ancora stato in un campo di
lavoro, non può giudicare. Non sa fino a che punto scricchiolano i nostri
ossicini, laggiù. Le persone ci finiscono dentro in un modo e ne escono, se ne
escono, praticamente irriconoscibili. Del resto è noto, vivere determina la
coscienza.
– Nooo!! – Kondrašëv-Ivanov distese le lunghe braccia, ormai pronte a
scontrarsi con il mondo intero. – No! No! No! Sarebbe umiliante! Che senso
avrebbe allora vivere? Mi dica, perché, esistono innamorati che restano fedeli
anche da lontani? La vita li porterebbe a tradire! Perché persone che vivono in
condizioni identiche nello stesso campo di lavoro si comportano in modo
diverso? Ancora non si sa chi plasma chi: se è la vita a plasmare l’uomo, o
l’uomo forte e nobile a plasmare la vita!
Neržin riponeva una tranquilla fiducia nella superiorità della sua esperienza
rispetto alle rappresentazioni fantastiche di quell’idealista senza età. Ma le sue
obiezioni non si potevano non ammirare.
– Fin dalla nascita l’uomo possiede una qualche Essenza! È il nucleo della
persona, il suo io! Non la può definire nessuna vita esteriore! Ogni uomo porta
dentro di sé l’Immagine della Perfezione, che non è mai oscura e talvolta
appare così chiara! E gli ricorda il suo debito da cavaliere!
– Già, e un’altra cosa. – Neržin tornò a sedersi sul ceppo e si grattò la nuca.
– Come mai lei parla tanto spesso di cavalieri e doti cavalleresche? Ho
l’impressione che esageri; Mitja Sologdin invece lo apprezza. Una giovane
addetta alla contraerea per lei diventa una cavallerizza, un vassoio di rame lo
scudo di un cavaliere...
– Ma come? – si stupì Kondrašëv. – Non le piace? Esagero?! Ah, ah, ah! – Il
pittore scoppiò in una risata fragorosa e l’eco di quella risata si diffuse per tutta
la scala, come in un burrone. E come se brandisse una lancia in sella a un
cavallo, Kondrašëv puntò un dito affilato verso Neržin. ˗ Chi ha scacciato i
cavalieri dalle nostre vite? Gli amanti del denaro e del commercio. Di banchetti
e baccanali! E chi manca nel nostro secolo? I membri di partito? No, caro mio,
mancano i cavalieri! Con loro i campi di concentramento non esistevano! E
nemmeno le camere a gas!
D’un tratto ammutolì, e dall’alto della sua statura equina si accovacciò
delicatamente accanto al suo ospite. Poi un lampo guizzò nei suoi occhiali, e
domandò in un sussurro:
– Posso mostrarle una cosa?
Le discussioni con i pittori finiscono sempre così!
– Certo, faccia pure!
Senza nemmeno alzarsi, Kondrašëv si protese verso un angolo, trascinò
fuori un piccolo quadretto con il sottotelaio imbottito e lo alzò, tenendo il
retro grigio rivolto verso Neržin.
– Ha presente Parsifal? – domandò il pittore con voce rauca.
– Ha qualcosa a che fare con Lohengrin.
– È suo padre. Il custode del calice del Santo Graal. Ho in mente un
momento preciso. Quello in cui qualsiasi uomo potrebbe trovarsi a vedere di
colpo, per la prima volta, l’Immagine della Perfezione...
Kondrašëv chiuse gli occhi, serrò le labbra e poi se le morse. Si stava
preparando.
Neržin, stupito, si domandò come mai intendesse mostrargli un quadro
tanto piccolo.
Il pittore dischiuse le palpebre.
– È solo un abbozzo. Un abbozzo del quadro più importante della mia vita.
Probabilmente non lo dipingerò mai. Rappresenta l’istante in cui Parsifal vide
per la prima volta... il castello! del Santo! Graal!!!
E si voltò per sistemare l’abbozzo sul cavalletto davanti a Neržin. E non
staccava gli occhi da quello schizzo. Sollevò la mano verso le palpebre, come
per schermarsi dalla luce che proveniva da lì. E, continuando a indietreggiare
per avere una visuale migliore, barcollò sul primo gradino della scala,
rischiando di fare un ruzzolone.
Il quadro era stato pensato con un’altezza doppia rispetto alla larghezza.
C’era una fessura a forma di cuneo fra due dirupi di montagna attigui. Su
entrambi i dirupi, a destra e a sinistra, rientravano appena nel disegno gli ultimi
alberi di un bosco fitto, primordiale. Alcune felci rampicanti e alcuni tenaci
arbusti deformi e ostili si attaccavano ai bordi e persino alle pareti a picco dei
dirupi. In alto a sinistra, un cavallo grigio chiaro aveva condotto fuori dal
bosco il suo cavaliere con l’elmo in testa e il mantello scarlatto. Il cavallo non
era spaventato dal baratro, teneva la zampa sollevata nell’ultimo passo rimasto
incompiuto, pronto, su ordine del cavaliere, a indietreggiare o a spiccare il
volo... come se avesse le forze e le ali per spiccare il volo.
Ma il cavaliere non guardava il baratro oltre il cavallo. Sbigottito, stupefatto,
guardava in avanti, in lontananza, dove nell’intero spazio superiore del cielo si
apriva un bagliore di un arancione dorato che poteva diffondersi dal Sole o da
qualcosa di ancora più puro del Sole, che il castello nascondeva alla vista.
Spuntando dalla montagna a gradoni, anch’esso tutto gradoni e torrette, si
ergeva aghiforme, visibile anche dal basso attraverso la fessura a forma di
cuneo e la frattura tra le rocce, le felci, gli alberi, per tutta l’altezza del quadro
fino allo zenit del cielo, non nitidamente reale, ma come intessuto di nuvole, un
po’ oscillante, indistinto, eppure intuibile nei particolari di una perfezione
ultraterrena, il castello grigio-azzurro del Santo Graal.

97 Aleksandr Popov (1859-1906), fisico russo, pioniere delle radiocomunicazioni. Ritenuto dai sovietici il
vero inventore della radio, teoria confutata dopo la caduta dell’Urss.
98 Proverbio popolare russo.
99 Celebre slogan sovietico degli anni della Seconda guerra mondiale.
47
CONVERSAZIONE 000100

La campana dell’intervallo per il pranzo raggiunse tutti gli angoli dell’edificio


della šaraška-seminario, persino il lontano pianerottolo delle scale.
Neržin si precipitò all’aria aperta.
Anche se lo spazio comune per la passeggiata era limitato, lui amava seguire
un tragitto percorso non da molti; come nella cella, tre passi avanti e indietro,
ma da solo. Le passeggiate gli procuravano brevi e piacevoli momenti di
solitudine e riassestamento.
Nascondendo il completo da civile sotto le lunghe falde del suo
indistruttibile cappotto da artigliere (non togliersi il completo in tempo era una
pericolosa violazione del regolamento per la quale potevi essere cacciato, ma
andare a cambiarsi gli avrebbe fatto sprecare il tempo della passeggiata), Neržin
raggiunse a passo svelto il breve tratto da tiglio a tiglio al limite della zona
autorizzata, vicino alla recinzione oltre la quale c’era la casa col tetto a forma di
barca rovesciata dell’alto dignitario della Chiesa, e lo occupò.
Non aveva voglia di perdersi in una conversazione inutile.
I fiocchi di neve continuavano a turbinare, radi, impalpabili. Non formavano
vera neve, eppure nemmeno cadendo si scioglievano.
Neržin, con la testa rivolta verso il cielo, cominciò a procedere quasi alla
cieca. Inspirava a fondo e il corpo si rinfrancava. L’anima si fondeva con la
calma del cielo, nebbioso e carico di neve.
In quell’istante qualcuno lo chiamò:
– Glebka...
Neržin si guardò intorno. Dietro un tiglio si distingueva a malapena Rubin,
anche lui con il vecchio cappotto da ufficiale e il cappello invernale in testa (era
stato pure lui arrestato d’inverno al fronte). Davanti al compagno di sventure
era in imbarazzo, sapeva di compiere un atto sgradito: l’amico sembrava
prolungare nella mente il colloquio con la moglie, e in un momento così sacro
lui lo interrompeva. Rubin palesava questo imbarazzo lasciando intravedere
solo mezza barba, che si muoveva dietro il tiglio.
– Glebka! Se ti disturbo, dimmelo e sparisco. Ma ho davvero bisogno di
parlare un po’.
Neržin guardò gli occhi di Rubin, supplichevoli e miti, poi i rami bianchi del
tiglio, e di nuovo Rubin. Se anche avesse continuato a camminare lì, su quel
sentiero solitario, non sarebbe comunque più riuscito a tirar fuori altro da quel
fuoco di felicità che aveva nell’anima. Il fuoco si stava già raffreddando.
La vita continuava.
– D’accordo, Lëvčik, vieni fuori!
Rubin uscì su quello stesso sentiero. Dal suo viso solenne e per nulla
sorridente, Gleb capì che era successo qualcosa di importante.
Non avrebbero potuto tentare Rubin maggiormente: caricarlo di un segreto
mondiale e pretendere che non lo condividesse con nessuna delle persone a lui
più vicine! Se in quel momento gli imperialisti americani lo avessero
sequestrato dalla šaraška e si fossero messi a farlo a pezzettini, lui non avrebbe
rivelato il suo supercompito! Ma stare in mezzo agli zek della šaraška come
unico custode di un simile folgorante segreto e non poterlo dire nemmeno a
Neržin era una richiesta sovrumana!
Dirlo a Gleb, comunque, era come non dirlo a nessuno, perché Gleb non lo
avrebbe detto a nessuno. E condividerlo con lui sarebbe stato anche molto
naturale, essendo l’unico al corrente della classificazione delle voci e il solo a
poter capire la difficoltà e l’attrattiva di quel compito. Inoltre era assolutamente
necessario parlargli e mettersi d’accordo adesso, mentre c’era tempo, dopo ci
sarebbe stata confusione, non avrebbe potuto staccarsi dai nastri, e la questione
si sarebbe allargata, avrebbero avuto bisogno di un aiutante...
Dunque, una semplice strategia di servizio giustificava in pieno l’apparente
violazione di un segreto di Stato.
I due si misero a camminare lentamente l’uno accanto all’altro, con i berretti
militari spelacchiati, i cappotti logori, le spalle che si urtavano, e i piedi che
annerivano e allargavano il sentiero.
– Figlio mio! Questa conversazione è di tipo 000. Persino nel Consiglio dei
Ministri ne sono a conoscenza un paio di persone al massimo.
– Sarò una tomba. Ma se è un segreto così letale, forse è meglio se non me lo
dici... Meno si sa, più tranquilli si dorme.
– Scemo! Io non parlerei proprio, mi tagliano la testa se mi scoprono, ma mi
serve il tuo aiuto.
– Allora spara.
Controllando a ogni istante che non ci fosse nessuno nei paraggi, Rubin
raccontò a bassa voce della conversazione telefonica registrata e del lavoro che
gli avevano proposto.
Sebbene in prigione fosse diventato meno curioso, Neržin prese ad
ascoltarlo con un certo interesse e lo fermò una o due volte per fargli qualche
domanda.
– Capisci, amico? – concluse Rubin. – Si tratta di una nuova scienza, la
fonoscopia, con i suoi metodi, i suoi orizzonti. Affrontarla da solo per me
sarebbe difficile, e anche noioso. Quanto sarebbe bello se potessimo cogliere
questa occasione insieme! Non trovi lusinghiero essere tra gli iniziatori di una
scienza del tutto nuova?
– Che ci vedi di buono? – farfugliò Neržin. – La chiami scienza, questa? Che
se ne vada pure a quel paese!
– Be’, certo, Arcesilao di Antioco questo non lo approverebbe! Ma una
riduzione di pena non ti fa comodo? In caso di successo, otterresti la
scarcerazione anticipata e il passaporto pulito. Ma anche se questo successo
non ci fosse, potresti consolidare la tua posizione alla šaraška, diventare uno
specialista insostituibile! Nessun Anton potrebbe alzare un dito su di te.
Uno dei due tigli che delimitavano il sentiero aveva il tronco biforcato
all’altezza del petto. Questa volta, arrivato al tronco, Neržin non tornò indietro
ma vi si appoggiò con la schiena, adagiando la nuca nella biforcazione. Con il
berretto tirato giù sulla fronte, assunse un aspetto un po’ da malavitoso e
guardò Rubin.
Era la seconda volta in ventiquattr’ore che gli offrivano la salvezza. E la
seconda volta che quella salvezza non lo rallegrava.
– Ascolta, Lev... Tutte queste bombe atomiche, i razzi FAA e la tua neonata
fonoscopia... – parlava distrattamente, come se non sapesse bene cosa
rispondere – ...sono fauci di drago. Chi sa troppo viene murato nei secoli dei
secoli. Se sono a conoscenza della fonoscopia solo due membri del Consiglio
dei Ministri, dunque Stalin e Berija, e due stupidi come me e te, la scarcerazione
anticipata che ci aspetta è una pallottola alla nuca. A proposito, secondo te come
mai quelli del ČK-GB sparano proprio alla nuca? Io lo trovo da vigliacchi.
Preferirei ricevere un colpo dritto nel petto, con gli occhi aperti! Hanno paura
di guardare le loro vittime negli occhi, ecco perché! Con tutto il lavoro che
hanno, i boia devono conservare i nervi saldi...
Sentendosi in difficoltà, Rubin tacque. Tacque anche Neržin, abbandonato
sul tiglio. Credevano di aver sviscerato migliaia di volte in lungo e in largo
tutto ciò di cui si può parlare al mondo, tutto lo scibile, eppure i loro occhi,
castano scuro e azzurro scuro, si scrutavano a vicenda, indagatori.
Era il caso di andare oltre?
Rubin sospirò:
– Una conversazione telefonica del genere è un punto cruciale nella storia
del mondo. Non abbiamo il diritto morale di far finta di niente.
Neržin si animò:
– Allora vieni al punto! Cosa mi tiri in mezzo? C’è in ballo una nuova
scienza e la scarcerazione anticipata? Hai uno scopo, acciuffare quel
delinquente, no?
Gli occhi di Rubin si strinsero a due fessure, il viso si fece più duro.
– Sì, lo scopo è quello! Un vile stiljaga di Mosca, un arrivista, si è piazzato
sulla strada verso il socialismo, bisogna toglierlo di mezzo.
– Perché pensi che si tratti di uno stiljaga e di un arrivista?
– Perché ho sentito la sua voce. Ha fretta di farsi bello davanti ai capi.
– O sei tu che vuoi darti pace così?
– In che senso?
– È evidente che ha un grado abbastanza elevato: non sarebbe più semplice
per lui tentare di farsi bello davanti a Vyšinskij101? Evitare persino di dire il
proprio nome non è uno strano modo per farsi bello oltre confine?
– È probabile che speri di andarsene via. Se si facesse bello qui, dovrebbe
continuare nel suo posticino grigio e irreprensibile, dopo una ventina d’anni
otterrebbe forse una medaglia, qualche foglia di palma in più sulla manica, lo
so bene. Mentre in Occidente scoppierebbe subito uno scandalo di livello
mondiale, e lui si intascherebbe un bel milione.
– Be’, sì... Tuttavia, giudicare le intenzioni morali di una persona da una
voce su un nastro con una frequenza da trecento a duemila e quattrocento
Hertz... E se avesse detto la verità?
– Su cosa, il negozio di radio?
– Sì.
– In un certo senso, è probabile.
– ‘Un germe di razionalità ce l’ha’? – lo scimmiottò Neržin. – Ahi, ahi,
Lëvka, Lëvka! Dunque sei passato dalla parte dei ladri?
– Non dei ladri, degli agenti segreti!
– C’è differenza? Stiljagi e arrivisti, ma giunti direttamente da New York,
rubano il segreto della bomba atomica per intascarsi dall’Oriente tre milioni! O
non hai sentito le loro voci?
– Stupido! Le esalazioni del bugliolo della prigione ti hanno avvelenato
irrimediabilmente il cervello! Il carcere ha deviato dentro di te tutte le
prospettive del mondo! Come si possono paragonare le persone che ledono il
socialismo con quelle che lo servono? – dal viso di Rubin traspariva sofferenza.
Neržin tirò indietro il berretto caldo e appoggiò nuovamente la testa sulla
biforcazione del tronco:
– Senti, di chi era quella poesia stupenda che ho letto poco tempo fa sui due
Alëša...?
– Erano altri tempi, tempi di concetti non ancora differenziati, di ideali non
ancora chiariti. Allora poteva andare.
– E adesso si sono chiariti? Attraverso il GULAG?
– No! Attraverso gli ideali morali del socialismo! Il capitalismo non ne
possiede, ha solo sete di profitto!
– E dimmi un po’, – Neržin sistemava già le spalle nella biforcazione del
tiglio, predisponendosi a una lunga conversazione – quali sarebbero questi
ideali morali del socialismo? Non solo sulla terra non se ne vede traccia, ma
mettiamo pure che qualcuno abbia rovinato l’esperimento, quando e dove
hanno promesso che ci saranno e in che cosa consistono? Eh? Il socialismo, di
qualunque genere, è una caricatura del Vangelo. Il socialismo ci promette
uguaglianza e sazietà, ma attraverso un percorso di costrizione.
– Ed è poco? In tutta la storia, quale società lo ha mai avuto?
– Uguaglianza e sazietà ci sono anche in un bel porcile! Ecco cosa ci hanno
prestato: uguaglianza e sazietà! Dateci invece una società morale!
– Ve la daremo! Voi però non ci ostacolate! Levatevi di mezzo!
– Non dobbiamo ostacolare il furto di una bomba?
– Ah, che mente contorta! E perché tutte le persone intelligenti e sobrie...
– Chi? Jakov Ivanovič Mamurin? Grigorij Borisovič Abramson? – rise
Neržin.
– Tutte le menti illuminate! I migliori pensatori dell’Occidente! Sartre! Sono
tutti per il socialismo! Tutti contro il capitalismo! È già un truismo! Non è
chiaro solo a te! Scimmione!
Rubin si era piegato verso Neržin con tutto il torso, lo incalzava e scuoteva
le mani con le cinque dita spalancate. Neržin lo teneva a distanza puntandogli
una mano sul petto.
– D’accordo, sarò pure una scimmia, ma non voglio usare la terminologia
che usi tu: ma quale ‘capitalismo’! quale ‘socialismo’! sono parole che non
capisco e non posso utilizzare!
– Perché tu preferisci il Linguaggio dell’Estrema Chiarezza, eh? – si mise a
ridere Rubin, e scattò per la tensione.
– Sì, se permetti!
– E cosa capisci?
– Cosa capisco? La mia famiglia! L’inviolabilità della persona!
– E una libertà illimitata?
– No, il rigore morale.
– Ah, che filosofo delle caverne! Vivi davvero nel XX secolo con questi
insulsi concetti da ameba? Sono tutte idee classiste. Dipendono da...
– Non dipendono da un bel cavolo di niente! – Neržin si sollevò dall’incavo,
staccandosi dall’albero. – La giustizia non può dipendere da niente!
– Classista! È un concetto classista! – gli urlò Rubin, agitandogli le cinque
dita sopra la testa.
– La giustizia è di primaria importanza, è la base dell’universo! – Prese a
dimenare le mani anche Neržin. Da lontano si sarebbe potuto pensare che
stesse per cominciare una rissa. – Siamo nati con la giustizia nell’anima, non
vogliamo né possiamo vivere senza! Ricordi cosa dice Fëdor Ioanyč: io non
sono né intelligente né forte, imbrogliarmi non è difficile, ma so distinguere tra
il bianco e il nero! Dammi le chiavi, Godunov!!102
– Non andrai da nessuna parte, da nessuna parte! – pronunciò in tono
minaccioso Rubin. – Devi rendertene conto: da quale parte della barricata stai?!
– E certo, fanculo, è pieno di fanatici, hanno bloccato tutta la terra con le
loro barricate! – si infuriò Neržin. – Sta in questo l’orrore! Uno vuole essere un
cittadino dell’universo, un angelo dei cieli, ma loro, no, ti tirano per i piedi:
‘Chi non è con noi è contro di noi!’ Lasciatemi un po’ di spazio! Un po’ di
spazio! – si sollevò Neržin.
– Noi te lo lasciamo, sono quelli dall’altra parte che non lo lasciano!
– Aaah, voi lo lasciate? A chi avete lasciato spazio?! Ci sono baionette e carri
armati lungo tutta la strada...
– Ma ragazzo mio, – si rabbonì Rubin – in una prospettiva storica...
– Non me ne frega niente della tua prospettiva! Io vivo ora, non in
prospettiva. So che cosa stai per dire! C’è una distorsione burocratica, è un
periodo temporaneo, un sistema di passaggio... Il vostro sistema di passaggio,
però, mi impedisce di vivere, mi consuma l’anima, e non lo difenderò, non sono
un mentecatto!
– Ho sbagliato a disturbarti dopo il colloquio – disse Rubin, in tono mite.
– Il colloquio non c’entra! – l’esasperazione di Neržin non diminuiva. – La
penso così da sempre! Deridiamo i cristiani, gli diciamo: ‘Aspettate il paradiso,
scemi, e sopportate qualsiasi cosa sulla terra’ e noi cosa aspettiamo? Per chi
sopportiamo tutto questo? Per fantomatici discendenti? Che differenza c’è fra
la felicità per i discendenti e quella nell’altro mondo? Non si vedono né l’una
né l’altra.
– Tu non sei mai stato marxista!
– Purtroppo lo sono stato.
– Che cane! Che farabutto... Abbiamo classificato le voci insieme... adesso
cosa dovrei fare, lavorare da solo?
– Troverai qualcuno.
– Chi?? – si incupì Rubin, ed era strano vedere quell’espressione da bambino
offeso sul suo coraggioso viso da pirata.
– No, zuccone, non ti offendere. Quelli vogliono ricoprirmi di un noto
liquido giallo-marrone e io dovrei procurare loro la bomba atomica? Eh no.
– Non a loro, a noi, stupido!
– A noi chi? A te serve la bomba atomica? A me no. Sono come Zemelja,
non aspiro al dominio mondiale.
– Lascia stare gli scherzi, – riprese Rubin – non impediresti a quel bubbone
di dare la bomba all’Occidente?
– Ti confondi, Lëvočka. – Gleb gli sfiorò dolcemente il risvolto del
cappotto. – La bomba è in Europa, l’hanno scoperta loro, siete voi che la state
rubando.
– Ma sono stati loro a gettarla! – gli occhi castani di Rubin scintillarono. –
Puoi davvero tollerarlo? Asseconderesti quel bubbone?
Neržin rispose con la stessa sollecitudine.
– Lëvočka! Dentro di te la poesia e la vita sono una cosa sola. Per quale
motivo ti arrabbi così con lui? È il tuo Alëša Karamazov che difende Perekop.
Se vuoi, vallo a prendere.
– E tu non vieni? – lo sguardo di Rubin si fece duro. – Vuoi che avvenga
una nuova Hiroshima? In terra russa?
– E per evitarlo, secondo te, bisogna rubare la bomba? Quella va isolata
moralmente, non rubata.
– Come isolata?! La tua è un’assurdità idealistica!
– È facile, basta credere nell’ONU! Vi hanno offerto il piano Baruch, sarebbe
stato meglio firmare! Ma no, il Capobanda vuole la bomba!
Rubin aveva il cortile della passeggiata e il sentiero alle spalle, mentre
Neržin, che li aveva di fronte, notò subito Doronin che si stava avvicinando.
– Zitto, arriva Rus’ka. Non ti voltare – lo avvertì Neržin in un sussurro. E
poi riprese a voce alta e in tono calmo:
– Senti, non è che laggiù per caso ti sei imbattuto nel 689° reggimento
artiglieri?
– C’è qualcuno che conosci? – rispose Rubin controvoglia, senza aver capito
del tutto.
– Il maggiore Kandyba. Il suo è un caso interessante...
– Signori! – disse Rus’ka Doronin, in tono aperto e allegro.
Rubin si girò infastidito e lo fissò accigliato.
– Che c’è, ragazzo?
Rostislav guardò Rubin con occhi sinceri. Dal suo viso traspariva innocenza.
– Lev Grigor’ič! Che pena venire da voi con animo aperto, e scoprire che le
persone di cui ho più fiducia mi guardano di traverso. Cosa posso aspettarmi
dagli altri, allora? Signori! Sono qui per farvi una proposta: domani, durante
l’intervallo per il pranzo, volete che vi venda tutti i traditori nel preciso istante
in cui riceveranno i loro trenta denari?

100 Codice sovietico riservato ai documenti di massima segretezza.


101 Ministro degli Esteri dell’Urss dal 1949 al 1953.
102 Dalla tragedia Lo zar Fëdor Ioannovič (1868) di Aleksej K. Tolstoj.
48
IL DOPPIOGIOCHISTA

A parte Gustav, il ciccione dalle orecchie rosa, Doronin era il più giovane zek
della šaraška. Aveva conquistato il cuore di tutti con la sua indole poco
suscettibile, la malleabilità e la prontezza. Nei pochi minuti che la direzione
concedeva per giocare a pallavolo, Rostislav si donava completamente: quando
quelli davanti alla rete lasciavano passare la palla, lui si gettava a “volo
d’angelo” dalla linea posteriore, la colpiva e cadeva a terra, sbucciandosi
ginocchia e gomiti fino a farli sanguinare. Era un’attrattiva anche il suo nome
insolito, Rus’ka103, che aveva avuto ragion d’essere due mesi dopo l’arrivo,
quando sulla testa rasata nel campo di lavoro gli era spuntata una peluria
biondo chiaro.
Era stato condotto lì dal campo di Vorkuta per via della sua scheda su cui,
fin dalla registrazione nel GULAG, figurava come “fresatore”; ma all’atto pratico
Rus’ka si era rivelato un fresatore fittizio, ed era stato sostituito ben presto da
uno vero. Era riuscito a evitare di tornare nel campo di lavoro grazie a
Dvoetësov, che lo aveva assegnato alla più piccola delle pompe. Il ricettivo
Rus’ka aveva imparato in fretta. Si aggrappava alla šaraška come a un centro di
riposo; nei campi di lavoro gli erano capitate varie sventure, che ora raccontava
con piglio allegro: in una miniera umida stava quasi per tirare le cuoia, allora
aveva iniziato a darsi malato, si faceva alzare la temperatura ogni giorno
riscaldando entrambe le ascelle con due sassi di identica grandezza, in modo
che i due termometri (con cui cercavano di smascherarlo) non segnassero mai
più di un decimo di grado di differenza.
Quando ricordava ridendo il suo passato, che con venticinque anni di
condanna era destinato immancabilmente a ripetersi anche in futuro, Rus’ka
rivelava a pochi, e sempre in gran segreto, il suo pregio principale: era un
fuggitivo, capace per due anni di menare per il naso l’apparato investigativo
dell’mgb. Degno figlioccio di quell’istituzione, come lei non era mai andato in
cerca di notorietà.
Così, nella folla variopinta degli abitanti della šaraška, Rus’ka non si era fatto
notare granché, fino a un certo giorno di settembre. Quel giorno, con aria
misteriosa, era girato intorno ad almeno venti zek fra i più influenti della
šaraška, quelli che formavano la sua opinione pubblica; e ritrovatosi a
quattr’occhi con ognuno di loro, li aveva informati in tono agitato che quella

Š
mattina l’avevano reclutato fra i delatori dell’oper Šikin e che lui, Rus’ka, aveva
acconsentito pensando di sfruttare quel compito da spia per il bene comune.
Nonostante il fascicolo personale di Rostislav Doronin fosse costellato da
cinque diversi cognomi, segni di spunta, lettere e cifre sulla sua pericolosità,
inclinazione alla fuga, necessità di trasportarlo solo in manette, il maggiore
Šikin, che stava cercando di incrementare il numero dei suoi informatori,
riteneva che Doronin, giovane e dunque volubile, avesse cara la sua posizione
nella šaraška, e per questo avrebbe potuto dimostrarsi fedele all’oper.
Chiamato in segreto nell’ufficio di Šikin (per esempio, ti convocavano in
segreteria e lì ti dicevano: “Sì, sì, passi dal maggiore Šikin”), Rostislav era
rimasto da lui tre ore. In quel lasso di tempo, mentre ascoltava le noiose
istruzioni e spiegazioni del compare, Rus’ka, con i suoi grandi occhi acuti, aveva
non solo studiato la grossa testa del maggiore, che a furia di inserire delazioni e
cavilli si faceva sempre più canuta, il viso nerastro, le mani minuscole, i piedi
nelle scarpe da bambino, il set da scrittoio di marmo e le tendine di seta alle
finestre, ma rovesciando mentalmente le lettere, nonostante fosse seduto a oltre
mezzo metro dal bordo, aveva anche letto le intestazioni sulle cartelle e sui
fogli disposti sotto il vetro e fatto in tempo a calcolare quali documenti Šikin
conservasse nella cassaforte e quali tenesse sotto chiave nella scrivania.
Ogni tanto, con aria ingenua, Doronin piantava i suoi occhi azzurri in quelli
del maggiore e annuiva conciliante. Dietro quell’azzurra ingenuità fremevano le
intenzioni più temerarie, ma l’oper, abituato alla grigia monotonia della docilità
umana, non era in grado di intuirlo.
Rus’ka sapeva bene che Šikin avrebbe potuto rimandarlo sul serio a Vorkuta,
se si fosse rifiutato di diventare un delatore.
Non soltanto Rus’ka, ma tutta la generazione di Rus’ka era stata addestrata a
considerare la “compassione” un sentimento umiliante, la “bontà” un
sentimento ridicolo, la “coscienza” un’espressione da pope. Invece veniva
inculcato loro che denunciare era un dovere patriottico e il migliore degli aiuti
per chi veniva denunciato, e contribuiva al risanamento della società. Non che
tutto questo avesse fatto breccia in Rus’ka, ma non era nemmeno rimasto
lettera morta. La questione principale per lui adesso non era quanto fosse male
o tollerabile diventare un delatore, ma cosa se ne potesse ricavare. Già
arricchito da un’esperienza di vita burrascosa, da un gran numero di incontri in
prigione, e dalle numerose dispute sferzanti che aveva sentito nel carcere, quel
giovane non poteva non prendere in considerazione anche cosa avrebbe potuto
verificarsi quando tutti gli archivi dell’MGB fossero stati scoperti e tutti i
collaboratori segreti sottoposti a processo.
Per questo acconsentire di collaborare con il compare era in prospettiva tanto
pericoloso quanto rifiutarsi di farlo in quel momento.
Ma a parte tutti quei calcoli, Rus’ka era un artista dell’avventurismo.
Leggendo al contrario le interessanti carte sotto il vetro della scrivania di Šikin,
aveva cominciato a fremere al presentimento di quel sottile gioco. L’inerzia
dell’angusta comodità della šaraška lo annoiava!
E una volta concordato, per maggiore verosimiglianza, quale sarebbe stato il
suo guadagno, Rus’ka aveva accettato con ardore. Una volta andato via Rus’ka,
Šikin, soddisfatto della propria sagacia psicologica, si era messo a passeggiare
per l’ufficio, sfregandosi una mano minuscola contro l’altra: un informatore
entusiasta prometteva un raccolto di denunce abbondante. Ma in quello stesso
momento, un Rus’ka altrettanto soddisfatto faceva il giro dei suoi zek di
fiducia, confessando loro che aveva accettato di fare la spia per amore dello
sport, per il desiderio di imparare i metodi dell’MGB e di individuare i veri
spioni.
Gli zek non ricordavano nessun’altra confessione del genere, nemmeno i più
vecchi. Sospettosi, gli domandavano perché si vantasse così, rischiando la testa.
E lui rispondeva:
– Quando ci sarà un processo di Norimberga anche per questi cani, potrete
intervenire come testimoni in mia difesa.
Ciascuno dei venti zek informati da Rus’ka aveva a sua volta raccontato tutto
a uno o due persone e nessuno era andato a denunciarlo al compare! Già solo per
questo una cinquantina di persone si era rivelata al di sopra di ogni sospetto.
Il fatto di Rus’ka aveva a lungo messo in subbuglio la šaraška. Avevano avuto
fiducia nel ragazzo. Gli avevano creduto anche in seguito. Ma i fatti, come
sempre, seguono un loro andamento interno. Šikin esigeva del materiale. Rus’ka
doveva dargli qualcosa. Così aveva fatto il giro dei suoi confidenti a lamentarsi.
– Signori! Chissà quanto denunciano gli altri, se a me che sono a suo
servizio da nemmeno un mese Šikin sta già così addosso! Su, mettetevi nei miei
panni, datemi qualcosina!
Alcuni facevano finta di niente, altri gli passavano qualcosa. Fu deciso
all’unanimità di rovinare una tizia che, spinta dall’avidità, lavorava per
moltiplicare i migliaia di rubli portati a casa dal marito. Trattava gli zek con
disprezzo, era convinta che bisognasse fucilarli tutti (lo diceva alle ragazze
libere, ma gli zek erano venuti a saperlo in fretta) e già solo lei ne aveva fatti
saltare due, uno per la relazione con una ragazza, l’altro per essersi fabbricato
una valigia con materiali statali. Rus’ka l’aveva calunniata spudoratamente,
dicendo che portava le lettere degli zek alla posta e rubava i condensatori
dall’armadio. E, sebbene non avesse presentato nessuna prova, e il marito della
donna, un colonnello dell’mvd, avesse protestato con veemenza, per la forza
inarrestabile di una delazione segreta la tizia era stata licenziata e se n’era
andata in lacrime.
A volte Rus’ka denunciava anche gli zek per qualche sciocchezza non
intenzionale, avvertendoli in anticipo. Poi aveva smesso di avvertirli, se ne stava
zitto. E loro non gli domandarono nulla. Avevano capito tutti di propria
iniziativa che continuava a denunciare, ma su cose che non osava confessare.
Così Rus’ka aveva fatto proprio il destino dei doppiogiochisti. Per quel
gioco, come prima, nessuno osava denunciarlo, ma avevano cominciato a
evitarlo. I dettagli da lui riferiti, e cioè che Šikin tenesse sotto il vetro un orario
speciale che dovevano osservare le spie per presentarsi nel suo ufficio senza
essere convocate, e in base a quello le si potesse beccare, compensavano poco la
sua appartenenza allo stuolo dei delatori.
Nemmeno Neržin, che amava Rus’ka e tutti i suoi imbrogli, sospettava che
fosse stato lui a denunciarlo per Esenin. Nel perdere quel libro, Gleb aveva
provato un dolore che Rus’ka non poteva prevedere. Secondo Rus’ka si sarebbe
chiarito subito che il volumetto era di Neržin, e nessuno glielo avrebbe
sequestrato, ma si poteva ottenere molto da Šikin denunciando che Neržin
teneva nascosto nella valigia un libro portatogli da una ragazza libera.
Rus’ka era uscito in cortile con il gusto del bacio di Klara ancora sulle labbra.
Il niveo biancore dei tigli gli appariva una fioritura, mentre l’aria sembrava mite
come in primavera. Nei suoi due anni di vagabondaggi e dissimulazioni, con i
suoi pensieri di ragazzo tesi a imbrogliare gli agenti investigativi, aveva
rinunciato a cercarsi l’amore di una donna. Era finito in prigione vergine e le
sere per lui erano inconsolabilmente penose.
Ma uscendo in cortile, alla vista del comando lungo e stretto della prigione
speciale, si era ricordato della sua intenzione di dare spettacolo il giorno
seguente a pranzo. Era davvero giunto il momento di annunciare la cosa
(prima non si poteva, per non mandare a monte tutto). Intriso dell’estasi per
Klara, grazie alla quale si sentiva tre volte più fortunato e intelligente, si era
guardato intorno, aveva visto Rubin e Neržin al limite del cortile per la
passeggiata, e si era diretto deciso verso di loro. Portava il berretto storto di
lato e indietro, tanto che la fronte e un angolino della tempia con una ciocca di
capelli si esponevano fiduciosi alla giornata non troppo fredda.
Dal viso severo di Neržin, come notò Rus’ka avvicinandosi, e poi da quello
cupo di Rubin che non si era voltato, si intuiva che stessero parlando di
qualcosa di serio. Ma di certo avevano accolto Rus’ka con una frase finta e
insignificante.
Mandata giù l’offesa, Rus’ka spiegò loro:
– Conoscerete di certo il principio generale di una società giusta, secondo
cui ogni lavoro deve essere retribuito. Ebbene, domani i nostri Giuda
riceveranno i loro denari per il terzo trimestre di quest’anno.
– Che burocrati! – si indignò Neržin. – Quelli si sono già guadagnati il
quarto trimestre e gli pagano solo il terzo? Come mai un simile ritardo?
– La notula di pagamento va controfirmata in troppi posti – spiegò Rus’ka,
in tono di scuse. – Li riceverò anch’io domani.
– Pagano il terzo trimestre pure a te? – si meravigliò Rubin. – Non sei al
loro servizio solo da mezzo trimestre?
– Be’, che c’entra, io ho saputo distinguermi! – disse Rus’ka, guardando
entrambi con un sorriso aperto e affabile.
– E pagano in contanti?
– Dio ce ne scampi! Con un finto trasferimento di denaro per posta,
accreditando la somma su un conto personale. Mi hanno chiesto: che nome
utilizziamo come mittente? Va bene ‘Ivan Iva-novič Ivanov’? Una simile
banalità mi ha irritato. Ho chiesto se era possibile mandarli da parte di Klava
Kudrjavceva. Non è male pensare che c’è una donna che provvede a te.
– E quanto sarebbe per trimestre?
– È questa la cosa più geniale! A ogni informatore dell’elenco assegnano
centocinquanta rubli a trimestre. Ma per decenza bisogna mandarli per posta e
quella, implacabile, se ne prende tre di tasse postali. I compari sono tutti
talmente avidi che non vogliono aggiungere soldi di tasca propria, e talmente
pigri che non fanno domanda per un aumento di tre rubli sul compenso degli
informatori. Per questo i vaglia sono di 147 rubli. Siccome una persona
normale non manderebbe mai un vaglia del genere, le trenta monete da dieci
copechi che mancano sono il marchio di Giuda. Domani a pranzo radunatevi
accanto al comando e controllate tutti i vaglia di quelli che escono dall’oper. La
patria ha il diritto di sapere chi sono le sue spie, non credete, signori?

103 Diminutivo che richiama anche l’aggettivo rusyj, “biondo chiaro”.


49
LA VITA NON È UN ROMANZO

Nel preciso istante in cui singoli rari fiocchi cominciavano a scendere dal cielo
e a cadere sulla via Matrosskaja Tišina buia e lastricata, dove le ruote delle
automobili avevano leccato via dai ciottoli gli ultimi residui di neve dei giorni
precedenti, nella stanza n. 318 della cittadina studentesca di Stromynka alcune
giovani dottorande trascorrevano una tipica serata domenicale.
La stanza n. 318, al secondo piano, con la sua larga finestra quadrata, dava
proprio sulla Matrosskaja Tišina e dalla finestra alla porta aveva una forma
allungata; a destra e a sinistra, lungo le pareti, erano accostati in fila tre letti di
ferro e torreggiavano traballanti étagère di vimini piene di libri. Nella striscia
centrale, lasciando accanto ai letti soltanto dei passaggi angusti, si susseguivano
due tavoli: uno vicino alla finestra, detto “delle tesi di dottorato”, ingombro di
libri, quaderni, disegni e pile di testi dattiloscritti, e uno comune, sul quale ora
Olen’ka stirava, Muza scriveva una lettera e Ljuda si toglieva i bigodini davanti
a uno specchio. Sulla parete della porta era rimasto lo spazio per un lavabo da
camera con una tendina divisoria (per lavarsi bisognava andare in fondo al
corridoio, ma per le ragazze era scomodo, freddo e lontano).
Sul letto vicino al lavabo era sdraiata a leggere Eržika. Indossava una
vestaglia che nella stanza tutte chiamavano “la bandiera brasiliana”. Aveva
anche altre vestaglie bizzarre, che affascinavano le compagne, ma quando
usciva si vestiva in modo molto sobrio, come se cercasse di non attirare
l’attenzione. Un’abitudine cha aveva preso anni prima, da clandestina
comunista in Ungheria.
Il letto successivo della fila, quello di Ljuda, era sfatto (Ljuda non si era
alzata da molto), la coperta e le lenzuola sfioravano il pavimento, ma sul
cuscino e sulla spalliera erano stati adagiati con cura un vestito azzurro di seta
già stirato e le calze. Sopra il letto era appeso un tappeto persiano. Ljuda,
seduta al tavolo, stava raccontando ad alta voce di un poeta spagnolo, strappato
dalla patria ancora bambino, che le faceva la corte. Descriveva nei dettagli
l’arredamento del ristorante, l’orchestra, i piatti, i contorni, cosa avevano
bevuto.
Il ferro da stiro di Olen’ka era attaccato a un portalampada “ladro” sospeso
sul tavolo, con il cavo penzoloni. (Per non consumare elettricità, alla
Stromynka ferri da stiro e fornelletti erano severamente vietati, non c’erano
prese e tutto il pensionato andava a caccia di “ladri”.) Olen’ka ascoltava Ljuda
ridacchiando, ma continuava a stirare tutta concentrata. La camicia e la gonna
coordinate erano tutto ciò che possedeva. Per lei sarebbe stato meno doloroso
ustionarsi con il ferro piuttosto che bruciare quel completo. Olen’ka viveva con
la borsa di studio da dottoranda, tirava avanti a patate e kaša, se le riusciva non
pagava il biglietto di venti copechi sull’autobus, alla parete sopra il suo letto era
appesa una carta geografica, ma quell’abito da sera era bellissimo, non aveva
nulla di cui vergognarsi.
Bella pienotta, i tratti del viso grossolani, Muza, che quando portava gli
occhiali dimostrava più dei suoi trent’anni, stava cercando di scrivere una
lettera su quel tavolo che oscillava per via del ferro da stiro, con quel fastidioso
racconto sfrontato in sottofondo. Già chiedere a un’altra persona di tacere le
sembrava indelicato. Fermare Ljuda poi avrebbe significato solo farla
infervorare, vederla diventare più insolente. Ljuda, una nuova arrivata, non era
una dottoranda, aveva appena finito l’Istituto finanziario ed era passata ai corsi
di economia politica, dove era giunta più che altro per diletto. Suo padre, un
generale in pensione, le mandava parecchio denaro da Voronež.
Ljuda aveva la convinzione primitiva che l’unico pensiero nella vita di una
donna fossero gli appuntamenti e, in generale, le relazioni con gli uomini. Ma il
racconto di quel giorno aveva un tocco speciale. Dopo un matrimonio durato
tre mesi a Voronež e diverse relazioni con altri uomini, Ljuda si rammaricava
che la sua gioventù fosse passata troppo in fretta. Così fin dalle prime parole
con il poeta spagnolo si era finta una ragazza con poche esperienze, sussultava
e si intimidiva al minimo contatto di una spalla o di un gomito, e quando il
poeta, infervorato, a furia di suppliche, aveva ottenuto il primo bacio che lei
avesse mai dato in vita sua, Ljuda aveva tremato, era passata dall’estasi alla
disperazione, ispirando al poeta una poesia di ventiquattro versi, purtroppo
non in russo.
Muza stava scrivendo una lettera ai suoi genitori, molto anziani, di una
lontana città di provincia. Suo padre e sua madre si amavano ancora come due
sposi novelli, e ogni mattina suo padre, andando al lavoro, non smetteva di
voltarsi a fare ciao con la mano a sua madre fino all’angolo, mentre lei
rispondeva al saluto da dietro la finestra. Erano altrettanto amati anche dalla
figlia, che aveva preso l’abitudine di scrivere loro spesso, e nei dettagli, ogni suo
tormento.
Adesso però Muza non riusciva a concentrarsi. Quarantotto ore prima, la
sera del venerdì precedente, le era successa una cosa in grado di oscurare il suo
indefesso lavoro quotidiano su Turgenev, un lavoro che aveva rimpiazzato
tutto il resto della vita, tutti gli aspetti della vita. Provava una sensazione
davvero disgustosa, come se si fosse invischiata in qualcosa di sporco, di
vergognoso, impossibile da lavare via, da nascondere o mostrare, ma con cui
era impossibile convivere.
Era successo che quel venerdì sera, di ritorno dalla biblioteca, mentre si
stava preparando ad andare a letto, l’avevano convocata alla segreteria del
pensionato e là le avevano detto: “Sì, sì, prego, entri in quella stanza.” Dentro
c’erano due uomini, Nikolaj Ivanyč e Sergej Ivanyč. Ben poco imbarazzati per
l’ora tarda, l’avevano trattenuta uno, due, tre ore. Avevano esordito con
domande del tipo con chi fosse in camera, chi ci fosse nel suo stesso
dipartimento (sebbene, naturalmente, lo sapessero meglio di lei). Avevano
conversato tranquillamente di patriottismo, del dovere collettivo che aveva
ogni lavoratore scientifico di non isolarsi nella propria specializzazione, ma di
servire il popolo con tutti i mezzi, con tutte le possibilità. Muza non aveva
nulla da obiettare, era assolutamente giusto. Allora i fratelli Ivanyč le avevano
chiesto di aiutarli, vale a dire di incontrarsi in momenti prestabiliti con uno di
loro in quella stessa segreteria, o al centro di propaganda, o nelle stanze del
club, o anche nella stessa università, in base agli accordi, e di rispondere a
determinate domande o consegnare le proprie osservazioni in forma scritta.
Da quel momento in poi era iniziato un lungo incubo! Si rivolgevano a lei in
modo sempre più rude, gridavano, le davano del tu: “Perché sei titubante? Non
ti stanno reclutando i servizi segreti stranieri!”, “Questa serve ai servizi segreti
stranieri quanto una quinta zampa a una giumenta...” Poi le annunciarono
apertamente che non le avrebbero permesso di discutere la tesi di dottorato
(per lei erano gli ultimi mesi e la tesi era quasi pronta), le avrebbero rovinato la
carriera scientifica, perché di studiosi mezzecalzette come lei la patria non
aveva bisogno. Lei si era molto spaventata: sarebbe stato davvero così facile per
loro cacciarla dal dottorato? Ma a quel punto avevano estratto la pistola, se
l’erano passata l’un l’altro e come se niente fosse l’avevano puntata contro
Muza. Davanti a una pistola il suo terrore era svanito. In fin dei conti, era
peggio restare viva ma essere cacciata con una macchia sul suo curriculum.
All’una di notte gli Ivanyč l’avevano lasciata andare a riflettere fino a martedì, il
martedì successivo, 27 dicembre, e le avevano fatto compilare un impegno di
non divulgazione.
Le avevano assicurato che loro venivano a sapere tutto, e che se avesse
raccontato a qualcuno della loro conversazione, in base a quell’impegno scritto
sarebbe stata immediatamente arrestata e condannata.
Quale disgraziata scelta li aveva fatti soffermare proprio su di lei? Adesso
Muza attendeva irrimediabilmente che giungesse martedì e, senza più la forza
di studiare, ricordava i giorni appena passati, in cui il suo unico pensiero era
Turgenev, non c’era nulla a opprimerle l’anima e lei, sciocca, non comprendeva
quale fortuna avesse.
Olen’ka ascoltava con un sorriso; una volta, scoppiando a ridere, finì per
sputare un po’ d’acqua. Sebbene in ritardo a causa della guerra, a ventotto anni
Olen’ka era finalmente felice-felice-felice e perdonava tutto a tutti: che ognuno
raggiungesse la felicità come poteva. Aveva un amante, anche lui dottorando,
che quella sera sarebbe passato a prenderla.
– Io gli dico: voi spagnoli considerate tanto importante l’onore di una
persona, ma lei baciandomi sulle labbra mi ha disonorata!
Il viso attraente, forse un po’ duro, della bionda Ljuda esprimeva la
disperazione di una ragazza disonorata.
Per tutto quel tempo l’esile Eržika era rimasta sdraiata a leggere Le opere scelte
di Galachov. Il libro le aveva spalancato un mondo di figure elevate e radiose,
la cui perfezione la sbalordiva. I personaggi di Galachov non erano mai scossi
dal dubbio: servire la patria o non servirla, sacrificarsi o non sacrificarsi. Per via
della sua debole conoscenza della lingua e delle abitudini del paese, di persone
simili Eržika non ne aveva ancora mai incontrate, e diventava tanto più
importante conoscerle attraverso i libri.
Tuttavia abbandonò la lettura e, girandosi su un fianco, prese anche lei ad
ascoltare Ljuda. Lì, nella stanza n. 318, le era capitato di scoprire cose
contraddittorie e sorprendenti: che un ingegnere si era rifiutato di partire per
un interessante cantiere edile siberiano e se n’era rimasto a Mosca a vendere
birra; che qualcuno aveva discusso la tesi di dottorato e ora non lavorava (“In
Unione Sovietica esistevano davvero i disoccupati?”); che, a quanto pareva, per
registrarsi a Mosca bisognava dare alla polizia una grossa bustarella. “Ma si
tratta di un fenomeno istantaneo, vero?” domandava Eržika. (Intendeva
“temporaneo”.)
Ljuda stava finendo di raccontare del poeta, se lo avesse sposato non ci
sarebbe stata per lei altra via d’uscita: avrebbe dovuto fingersi vergine. E si
mise a confidare loro come intendeva mettere in scena la cosa la prima notte di
nozze.
Un serpente di sofferenza passò sulla fronte di Muza. Tapparsi apertamente
le orecchie con le mani sarebbe stato indelicato. Trovò un pretesto per tornare
sul suo letto.
Olen’ka esclamò tutta allegra:
– Ma allora le eroine della letteratura hanno fatto male a confessare i propri
errori davanti ai fidanzati e a farla finita!
– Certo, sono state delle stupide! – rise Ljuda. – È talmente semplice!
Ljuda era in dubbio se sposare o no il poeta:
– Non è membro dell’Unione degli Scrittori sovietici, scrive solo in
spagnolo, come farà a ottenere i diritti d’autore? Non ha nulla di stabile.
Eržika rimase così colpita che tirò giù i piedi sul pavimento.
– Cosa? – domandò. – Tu... anche in Unione Sovietica ci si sposa per
calcolo?
– Quando ti sarai abituata a stare qui, capirai. – Ljuda scrollò la testa davanti
allo specchio. Si era già tolta tutti i bigodini e una moltitudine di riccioli chiari
inanellati le tremolò sul capo. Era bastato uno solo di quegli anellini per
avvinghiare il giovane poeta.
– Ragazze, sono arrivata alla rimozione che... – cominciò Eržika, ma poi si
accorse dello sguardo strano di Muza fisso sul pavimento ed emise uno strillo,
ritirando i piedi sul letto.
– Che c’è? Ne è passato uno?! – gridò con il viso alterato.
Le ragazze scoppiarono a ridere. Non era passato un bel niente. Lì nella
stanza n. 318, a volte persino di giorno, ma di notte in modo spudorato, orribili
topi russi passavano sul pavimento, squittendo e zampettando distintamente.
Nei tanti anni di lotta clandestina contro Horthy, niente aveva fatto così paura
a Eržika come l’idea che quei ratti potessero balzarle sul letto e correrle
addosso. Di giorno, di fronte alle risate delle amiche, il terrore le passava, ma di
notte Eržika si avvolgeva completamente nella coperta, testa compresa, e
giurava che se fosse sopravvissuta fino al mattino se ne sarebbe andata dalla
Stromynka. Nadja, che studiava chimica, si era procurata del veleno che aveva
sparso in tutti gli angoli: i ratti per un po’ si calmavano, ma poi ricominciavano.
Due settimane prima le indecisioni di Eržika erano giunte a un punto di svolta:
non una qualsiasi delle ragazze, proprio lei una mattina, andando ad attingere
l’acqua dal secchio si era ritrovata nel mestolo un topolino annegato.
Tremando dal ribrezzo al ricordo di quel musino aguzzo terribilmente
rassegnato, lo stesso giorno Eržika si era diretta all’ambasciata ungherese e
aveva chiesto di essere trasferita in un appartamento privato. L’ambasciata
aveva fatto richiesta al Ministero degli Affari esteri dell’Urss, il Ministero degli
Affari esteri al Ministero dell’Istruzione superiore, il Ministero dell’Istruzione
superiore al rettore dell’università, il rettore alla sua Sezione di
Amministrazione economica, e la Sezione economica aveva risposto che
appartamenti privati al momento non erano disponibili, che era la prima volta
che sentivano lamentele sulla presenza di topi alla Stromynka. La
corrispondenza fece il giro inverso e poi ripartì da capo. L’ambasciata aveva
assicurato a Eržika che le sarebbe stata assegnata una stanza.
Stringendosi le ginocchia al petto, ora Eržika sedeva nella sua bandiera
brasiliana come un uccello esotico.
– Ragazze, ragazze – diceva lei in una cantilena lamentosa. – Voi mi piacete
tutte tanto! Non me ne andrei per niente al mondo se non fosse per i topi.
Era vero e allo stesso tempo non lo era. Le ragazze le piacevano, ma a
nessuna di loro avrebbe mai raccontato delle sue enormi angosce, del destino
dell’Ungheria, unico nel continente europeo. Dopo il processo a László Rajk
nella sua patria era avvenuto qualcosa di incomprensibile. Giungevano voci che
avessero arrestato quegli stessi comunisti con i quali lei era stata in
clandestinità. Il nipote di Rajk, anche lui studente all’MGU, era stato richiamato
in Ungheria insieme ad altri studenti ungheresi, ma da allora non era giunta da
loro nemmeno una lettera.
Qualcuno bussò alla porta chiusa a chiave con il segnale prestabilito (“Non
nascondete il ferro, siamo dei vostri!”). Muza si alzò e, zoppicando un po’ (le
doleva un ginocchio per un precoce reumatismo), andò ad aprire il gancetto
della sicura. Dentro si precipitò Daša, una ragazza dura, con una grande bocca
un po’ storta.
– Ragazze! Ragazze! – ridacchiò, ricordandosi di rimettere il gancetto alle
sue spalle. – Mi sono sbarazzata di un cavaliere! Indovinate di chi?
– Ne hai così tanti? – si stupì Ljuda, rovistando nella valigia.
In effetti, l’università si stava riprendendo dalla guerra come da uno
svenimento. I maschi al dottorato erano pochi, e per di più non troppo
affidabili.
– Aspetta un attimo! – Olen’ka aveva sollevato una mano e guardava Daša
con fare ipnotico. – Del Mascella?
Il Mascella era un dottorando respinto tre volte di fila in materialismo
dialettico e storico che, in quanto irrimediabilmente tonto, era stato espulso dal
dottorato.
– Del banconiere! – esclamò Daša; si tolse il berretto con i paraorecchi dai
capelli scuri raccolti stretti e lo appese a un gancio. Non sapeva se levarsi il
cappotto con il colletto di agnellino rasato, preso tre anni prima con un buono
dal distributore dell’università, e restava in piedi davanti alla porta.
– Ahhh... quello??!
– Sono sul tram, lui si avvicina – ride Daša. – Mi ha riconosciuta subito. ‘A
quale fermata scende?’ Che potevo fare? Siamo scesi insieme. Mi dice: ‘Non
lavora più in quella banja? Ci sono passato un paio di volte, non l’ho trovata.’
– Gli potevi dire... – Da Daša la risata era passata a Olen’ka e l’aveva avvolta
come una fiamma. – Gli potevi dire... Gli potevi dire...! – Ma non riusciva in
nessun modo a finire la frase e, ridendo di gusto, si lasciò cadere sul letto,
facendo attenzione, però, a non sgualcire il completo adagiato sopra.
– Quale banconiere? Quale banja? – cercò di capire Eržika.
– Gli potevi dire... – si sforzava Olen’ka, ma era scossa dalle risa. Allungò le
mani e cercò di comunicare con le dita ciò che non passava per la gola.
Si misero a ridere anche Ljuda ed Eržika, che non capiva niente; il viso
bruttino e cupo di Muza si sciolse in un sorriso. Muza si levò gli occhiali e li
pulì.
– Mi fa, dove sta andando? Chi va a trovare nella città degli studenti? – Daša
soffocava dalle risa. – Gli dico... conosco una che sta di guardia! Fa delle
manopole!... a maglia...
– Delle ma-no-po-le?
– ...a maglia!!!
– Fatemi capire! Quale servitore? – supplicava Eržika.
Diedero una pacca sulla schiena a Olen’ka. Smisero di ridere. Daša si tolse il
cappotto. Il maglioncino attillato e la gonna semplice con la cinturina stretta
mettevano in risalto la sua figura snella, ben fatta, capace di svolgere ogni tipo
di lavoro per una giornata intera senza stancarsi. Dopo aver ripiegato la
coperta a fiori, si sedette con attenzione sul bordo del suo letto, rifatto con
cura quasi religiosa: cuscini e cuscinetti ben sprimacciati, un rivestimento in
merletto, teli ricamati al muro. Poi raccontò a Eržika:
– Era autunno, faceva ancora caldo, è successo prima che arrivassi tu...
Penso, dove posso trovarmi un fidanzato? Chi poteva presentarmi qualcuno?
Ljuda mi consiglia: vai a passeggiare a Sokol’niki, però da sola! Le ragazze
rovinano tutto andandoci in due.
– Così si va a colpo sicuro! – commentò Ljuda. Si stava togliendo con cura
una macchiolina dalla punta di una scarpa.
– Ci sono andata – proseguì Daša, senza più la stessa allegria nella voce. –
Cammino per un po’, mi siedo e guardo gli alberi. In effetti, quasi subito mi si
siede accanto uno niente male. Chi è? A quanto pare lavora alla mensa, serve in
una tavola calda. Io, invece, dove lavoro? Mi sono vergognata al punto che non
sono riuscita a dirgli che sono una dottoranda. Gli uomini hanno paura di una
donna istruita...
– Dài, non dire così! Altrimenti lo sa il diavolo dove andremo a finire! –
obiettò Olen’ka, con aria scontenta.
In un mondo così diradato e spopolato, una volta estirpato il tronco di ferro
della guerra, in cui si spalancavano solo fosse nere laddove avrebbero dovuto
muoversi e sorridere i loro coetanei e quelli di cinque, dieci, quindici anni in
più, le parole “donna istruita”, che non si sapeva nemmeno chi le avesse
inventate, un’espressione rozza, senza alcun senso, non potevano chiudere la
porta al radioso raggio di luce della scienza, l’unica cosa rimasta alla loro
infausta generazione di donne in barba a qualsiasi fallimento personale.
– ...Gli ho detto che facevo la cassiera in una banja. E lui insisteva: in quale
banja, che turno fa? Me la sono squagliata a fatica...
Tutta l’allegria di Daša si era spenta. I suoi occhi scuri guardavano con aria
malinconica.
Aveva studiato alla biblioteca Lenin per tutto il giorno, poi aveva pranzato
poco e male alla mensa ed era tornata a casa triste all’idea della vuota serata di
festa che l’attendeva e che non prometteva niente.
Un tempo, nelle classi medie della spaziosa scuola in tronchi di legno del
suo paesino, le piaceva tanto studiare. Poi era stata felice che, con il pretesto di
entrare in un istituto superiore, le fosse riuscito di sganciarsi dal kolchoz e
iscriversi in città. Ma ora di anni ne aveva parecchi, ne aveva passati diciotto a
studiare, e si era stancata di studiare fino ad avere mal di testa. Perché studiava?
La gioia più semplice di una donna era avere un bambino, e non c’era nessuno
da cui averlo, per cui averlo.
Dondolandosi meditabonda, nella stanza ora silenziosa, Daša pronunciò il
suo detto preferito:
– No, ragazze, la vita non è un romanzo...
Alla loro Sezione macchine e trattori c’era un agronomo. Scriveva a Daša, la
supplicava. Ma lei stava per diventare una candidata in scienze e tutto il
villaggio avrebbe detto: “Che cosa ha studiato a fare, se poi si sposa con un
agronomo? Poteva essere una caposquadra qualsiasi...” D’altra parte, però,
Daša sentiva che sarebbe stata una candidata in scienze fasulla, scapestrata,
impacciata, che il lavoro accademico sarebbe stato per lei un agognato e
irraggiungibile tassello, che da candidata non avrebbe osato e non avrebbe
saputo introdursi in quei sommi e liberi circoli di scienza.
Le donne di scienza venivano lodate, lodate per tutta la vita, ma era una
presa in giro; promettevano loro così tanto, che poi era più dura quando
andavano a sbattere contro un muro.
Dopo aver osservato con gelosia la vicina fortunata e disinvolta, Daša disse:
– Ljudka! Secondo me dovresti lavarti i piedi.
Ljuda si guardò intorno:
– Dici?
Nell’indecisione tirò fuori il fornellino elettrico che tenevano nascosto e lo
attaccò al “ladro” al posto del ferro.
L’energica Daša aveva voglia di scacciare l’afflizione con un lavoro qualsiasi.
Si ricordò di avere a disposizione un nuovo capo di biancheria, non della sua
taglia: prendevi quello che agli altri non serviva. Ora, dopo averlo tirato fuori,
si mise a ricucirlo.
Così tutte si quietarono, e per Muza sarebbe stato finalmente possibile
concentrarsi per bene sulla sua lettera. Eppure non le veniva! Muza rilesse le
ultime frasi, cambiò una parola, scrisse meglio alcune lettere poco chiare...
niente, non le riusciva! La lettera raccontava delle bugie, sua madre e suo padre
se ne sarebbero subito accorti. Avrebbero capito che la figlia non stava bene,
che era successo qualcosa di brutto. Perché Muza non glielo scriveva e basta?
Perché mentiva per la prima volta?
Se in quel momento la stanza fosse stata vuota, Muza si sarebbe messa a
gemere. A gridare forte, e magari si sarebbe sentita meglio. Ma a quel punto
poteva solo buttare via la penna e appoggiare il viso sui palmi, nascondendolo a
tutti. Ecco come vanno le cose! Davanti alla scelta più importante della tua vita
non puoi chiedere consiglio a nessuno! Non c’è nessuno che ti può dare una
mano! Aveva firmato un impegno di non divulgazione! E martedì si sarebbe
ritrovata davanti quei due, sicuri di sé, che sapevano usare le frasi giuste, i
giusti giri di parole. Com’era bella la vita fino a due giorni prima! Mentre
adesso era tutto finito. Perché loro non desisteranno. E nemmeno tu lo farai.
Come puoi ragionare su un principio amletico o donchisciottesco dell’essere
umano e ricordarti per tutto il tempo di essere una delatrice, con un nome in
codice tipo Romaška o Trezorka, e di dover raccogliere materiale magari su
queste ragazze o sul tuo professore?
Muza cercò di asciugarsi le lacrime dagli occhi socchiusi senza farsi notare.
– Ma dov’è Nadjuška? – domandò Daša.
Nessuno rispose. Non lo sapeva nessuno.
Ma a Daša, intenta a cucire, venne l’idea di parlare di Nadja.
– Secondo voi, ragazze, quanto si può aspettare? Sì, è disperso. Ma dalla
guerra sono passati cinque anni. Potrebbe anche darci un taglio, no?
– Ma cosa dici! Cosa dici! – esclamò Muza sofferente, e sollevò le braccia
sopra la testa. Le maniche ampie dell’abito grigio a quadretti le scivolarono
verso i gomiti, lasciando affiorare i teneri avambracci bianchi. – Solo così si
ama davvero! Il vero amore va oltre la pietra tombale!
Le labbra carnose, quasi turgide, di Olen’ka si aprirono in una piega storta.
– Oltre la pietra tombale? Muza, questa è trascendenza. Ti resta la memoria,
teneri ricordi, ma l’amore?
– Proprio così: se la persona non c’è più, come puoi amarla? – commentò
Daša.
– Se solo avessi potuto, parola d’onore, le avrei mandato io stessa un
annuncio funebre con scritto che è stato ucciso, ucciso, ucciso ed è sepolto
sotto terra! – esclamò Olen’ka, infervorata. – Quella maledetta guerra è passata
da cinque anni eppure continua ad alitarci addosso!
– Durante la guerra – intervenne Eržika – moltissimi sono finiti lontano,
oltre oceano. Forse è laggiù anche lui, vivo.
– Be’, può anche essere – concordò Olja. – In questo caso potrebbe ancora
sperare. Ma Nadjuša ha sempre una faccia così tetra, ama crogiolarsi nel dolore.
Soltanto nel suo. Senza il dolore, nella vita le mancherebbe qualcosa.
Daša attese che tutte dicessero la loro; intanto accompagnava lentamente la
punta dell’ago lungo l’orlo, quasi l’affilasse. Sapeva che le sue parole avrebbero
stupito tutte.
– Be’, ragazze, sentite, – disse infine con piglio autorevole – Nadjuška,
secondo me, ci sta ingannando, mente. Non pensa affatto che il marito sia
morto, non spera che stia per tornare disperso da chissà dove. Sa che il marito
è vivo. E sa persino dove si trova.
Tutte si agitarono.
– E come fai a esserne sicura?
Daša le guardava con aria trionfante. Già da un po’, per via delle sue
intuizioni, nella stanza l’avevano soprannominata l’inquirente.
– Bisogna saper ascoltare, ragazze! Si è mai riferita a lui come se fosse
morto? Mai. Si sforza persino di non dire ‘era’, anzi, fa in modo di non usare né
‘era’ né ‘è’. Ma se fosse davvero disperso, si sarebbe potuta sbagliare almeno
una volta, parlandone come se fosse morto...
– Ma allora cosa gli è successo?
– Possibile che non capiate? – esclamò Daša, mettendo da parte il cucito. Ma
loro non capivano.
– È vivo e l’ha lasciata! Lei si vergogna di ammetterlo! Così ha pensato di
dire che era disperso.
– Ah, io ci credo! Ci credo, eccome! – l’appoggiò Ljuda, battendo le mani da
dietro la tendina.
– Quindi, lei si sacrifica in nome della sua felicità! – esclamò Muza. – Ecco
perché taceva e non si risposava!
– Ma che aspetta? – Olen’ka non capiva.
– Sì, tutto giusto, brava Daška! – Ljuda balzò fuori da dietro la tendina
senza la vestaglia, con indosso solo la camicia, le gambe nude, sembrando
ancora più slanciata e alta. – Si sente ferita, per questo si è inventata di essere
una santa fedele a un morto. Non si sacrifica affatto, freme che qualcuno la
accarezzi, mentre nessuno la vuole! Tu cammini per strada e tutti ti guardano,
mentre lei, anche se si butta fra le loro braccia, non la vuole nessuno.
E ritornò dietro la tendina.
– Ščagov, però, viene a trovarla – disse Eržika, pronunciando a fatica il
cognome.
– Che viene a trovarla non vuol dire niente! – replicò con sicurezza Ljuda,
ora invisibile. – Bisogna che abbocchi!
– Che cosa significa ‘abbocchi’? – non capiva Eržika.
Le altre scoppiarono a ridere.
– Be’, diciamo piuttosto – insisté Daša – che forse spera ancora di
riprendersi il marito da quell’altra...
Qualcuno bussò alla porta con il solito segnale prestabilito: “Non
nascondete il ferro, siamo dei vostri!”
Tutte ammutolirono. Daša tolse il gancetto.
Era Nadja, che entrò trascinando le gambe, il viso lungo e invecchiato, quasi
a confermare con il suo aspetto tutte le peggiori beffe di Ljuda. Stranamente,
non rivolse alle presenti neanche una parola di convenienza, non disse né
“eccomi qui” né “novità, ragazze?”. Appese la pelliccia e si diresse in silenzio
verso il suo letto.
Eržika si rimise a leggere. Muza si nascose di nuovo il viso tra le mani.
Olen’ka rinforzò i bottoni rosa della sua camicetta color crema.
Nessuno trovò niente da dire. Per attenuare l’imbarazzo di quel silenzio,
come a concludere il discorso, Daša canticchiò:
– E già, ragazze, la vita non è un romanzo...
50
LA VECCHIA ZITELLA

Dopo il colloquio Nadja avrebbe voluto incontrarsi solo con condannati a


morte come lei e parlare solo di chi stava dietro le sbarre. Da Lefortovo aveva
attraversato tutta Mosca diretta alla Krasnaja Presnja, dalla moglie di Sologdin,
per riferirle le tre parole intime del marito.
Ma a casa non l’aveva trovata (era quasi impossibile trovarla lì, con tutte le
incombenze della settimana, per il figlio e per sé stessa, che le si accumulavano
la domenica). Consegnarle quel messaggio tramite i vicini, poi, era impensabile:
dalle parole della moglie di Sologdin, Nadja aveva capito, ed era facile da
immaginare, che i vicini le erano nemici e facevano le spie.
E se Nadja era salita per la ripida scala, di giorno completamente buia,
pregustando l’intensa gioia di una conversazione con una donna gentile con cui
condivideva un dolore segreto, nel ridiscendere non era tanto contrariata,
quanto abbattuta. E come su una carta fotografica messa nel liquido di
sviluppo incolore e dall’aspetto inoffensivo cominciano inesorabilmente ad
apparire contorni già presenti ma fino a quel momento impliciti, così dopo la
mancata visita alla moglie di Sologdin nell’animo di Nadja avevano iniziato a
insinuarsi quei pensieri cupi e quei cattivi presagi che erano sorti già al
colloquio, ma non si erano ancora manifestati.
Gleb aveva detto: “Non ti stupire se mi porteranno via di qui e mi
manderanno lontano, se le lettere cesseranno del tutto.” Poteva andarsene! E
persino quei colloqui una volta l’anno sarebbero cessati... Come avrebbe fatto
allora Nadja?
E aveva detto qualcosa sull’alto corso dell’Angara...
E poi... davvero aveva cominciato a credere in dio? C’era stata quella frase...
la prigione lo avrebbe rovinato spiritualmente, trascinato nel misticismo,
nell’idealismo, reso avvezzo all’obbedienza. Il suo carattere sarebbe cambiato e
lui sarebbe tornato un uomo del tutto diverso, uno sconosciuto...
Ma, cosa principale, in tono minaccioso aveva detto: “Non riporre troppe
speranze sulla fine della mia pena”, “Il termine della pena è una convenzione”.
Al colloquio Nadja aveva esclamato che non ci credeva, non poteva essere! Ma
le ore passavano. Persa nei suoi pensieri, aveva attraversato di nuovo tutta
Mosca, dalla Krasnaja Presnja a Sokol’niki, e adesso quei pensieri la
punzecchiavano con insistenza, e non c’era modo di difendersi.
Se la condanna carceraria di Gleb non sarebbe finita mai, che senso aveva
aspettare? Era giusto trasformare la propria vita in accordo con quella del
marito? Sacrificare invano la propria esistenza in attesa del nulla?
E meno male che là da loro non c’erano donne!
Nel colloquio di quel giorno era avvenuto qualcosa di indefinito, non
chiaro, e irreparabile...
E Nadja aveva anche fatto tardi alla mensa studentesca. Ci mancava pure
quella piccola sfortuna a completare la sua disperazione! Le tornò subito in
mente che due giorni prima le avevano fatto una multa di dieci rubli perché era
scesa dal tram dalle porte posteriori. Dieci rubli adesso erano una cifra
considerevole, equivalevano a cento rubli di prima della riforma.
Alla Stromynka sotto un nevischio piacevole si imbatté in un ragazzino con
un berretto a visiera calcato in testa che vendeva sigarette Kazbek sciolte.
Nadja gli si avvicinò e gliene comprò due.
– Dove ho messo i fiammiferi? – disse fra sé ad alta voce.
– Tieni, usane uno! – le offrì volentieri il ragazzino, porgendole una
scatoletta. – Per accendere non chiediamo niente!
Senza pensare all’impressione che poteva dare ai passanti, Nadja ne accese
una lì per strada: la sigaretta prese a bruciare storta, da un lato, al secondo
fiammifero; restituì la scatoletta e fece quattro passi prima di entrare
nell’edificio. Fumare non era ancora per lei un’abitudine, ma quella non era
nemmeno la sua prima sigaretta. Il fumo caldo le faceva male e la nauseava, ma
le risucchiava anche un po’ del peso che aveva sul cuore.
Fumata metà sigaretta, Nadja la gettò via e salì nella stanza n. 318.
Evitato con ribrezzo il letto sfatto di Ljuda, si lasciò cadere pesantemente
sul suo, desiderando più di ogni altra cosa che nessuno le chiedesse nulla di
nulla.
Se ne stava lì seduta, gli occhi puntati sulle quattro risme della sua tesi di
dottorato adagiate sul tavolo, quattro copie battute a macchina. Senza volere,
Nadja ricordò le infinite traversie di quella tesi: come era stato difficile fare le
fotocopie dei disegni, la prima revisione, la seconda, ed ecco che la tesi le
tornava indietro per una terza revisione.
Le venne in mente che le avevano fatto ritardare la tesi senza rimedio, in
modo abusivo, ricordò anche il suo speciale lavoro segreto, il solo che al
momento era in grado di assicurarle un’entrata e un po’ di tranquillità. Ma si
era messo di mezzo un terribile questionario di otto pagine. Doveva restituirlo
alla sezione quadri entro martedì.
Scrivere come stavano le cose significava essere cacciata entro la fine della
settimana dall’università, dal pensionato e da Mosca.
Oppure poteva divorziare subito...
Come in ogni caso aveva deciso di fare.
Ma era doloroso e ci voleva una grande furbizia.
Eržika rifece il letto come meglio poteva (non le veniva ancora molto bene;
aveva imparato a stendere, lavare, stirare per la prima volta alla Stromynka,
nella sua vita precedente lo faceva per lei una domestica), si truccò davanti allo
specchio non le labbra, ma le guance, e uscì per andare alla biblioteca Lenin.
Muza tentava di leggere ma non ci riusciva. Aveva notato la cupa immobilità
di Nadja e la osservava con inquietudine, in dubbio se domandarle qualcosa.
– Ehi! – tornò in mente a Daša. – Oggi ho sentito dire che ‘per i libri’
quest’anno ci daranno il doppio dei soldi.
Olen’ka trasalì:
– Scherzi?
– L’ha detto il nostro decano alle ragazze.
– Aspetta, quanto sarebbe? – Il viso di Olja si era accesso dell’entusiasmo
che i soldi sanno dare solo alle persone non avvezze ad averne e niente affatto
avide. – Trecento più trecento fa seicento, settanta più settanta fa
centoquaranta, cinque più cinque... Oh-oh! – esclamò, battendo le mani. –
Settecentocinquanta!! Caspita!
E si mise a canticchiare. Aveva una voce niente male.
– Ora potrai comprarti tutto il Solov’ëv104!
– Ma figuriamoci! – rise Olen’ka. – Con quei soldi mi faccio cucire un
vestito granata, di crêpe georgette, hai presente? – afferrò l’orlo della gonna con
la punta delle dita. – Con doppi volant!
Olen’ka non aveva molto più del necessario. L’interesse per cose del genere
le era tornato da poco, nell’ultimo anno. La madre era stata malata per lungo
tempo e da due anni era morta. Ol’ja era rimasta sola. Gli avvisi di morte del
padre e del fratello erano giunti nel 1942, nella stessa settimana. La madre
allora si era messa a letto gravemente malata e Olen’ka aveva dovuto lasciare il
primo corso, perdere un anno intero di studi e lavorare, poi passare al corso
per corrispondenza.
Ma nulla traspariva ora dal viso dolce e pienotto di quella ventottenne. Anzi,
la infastidiva l’aspetto di immobile sofferenza con cui, deprimendo tutte, Nadja
sedeva di fronte a lei sulla branda.
Olja le domandò:
– Come va, Nadjuša? Eri uscita allegra stamattina. – Erano parole
compassionevoli che in verità esprimevano fastidio. Impossibile sapere da quali
mezzi toni la nostra voce lasci trapelare un sentimento.
Nadja non aveva solo riconosciuto il fastidio nella voce dell’amica. Davanti
agli occhi aveva anche Olen’ka che si vestiva, si attaccava una spilla, un
fiorellino color rubino, al colletto della camicia, si profumava.
E proprio quel profumo che circondava Olja, un’invisibile nuvoletta di
felicità, raggiunse le narici di Nadja come il rivolo etereo di qualcosa di ormai
perso.
Con il viso ancora teso, pronunciando le parole come se le costassero una
fatica enorme, Nadja rispose:
– Ti do fastidio? Ti rovino l’umore?
Si fissarono attraverso il tavolo ingombro di tesi. Olen’ka raddrizzò la
schiena e il mento pienotto riprese una forma rigida. In modo ben chiaro disse:
– Ascolta, Nadja. Io non ti volevo offendere, ma come diceva il nostro
comune amico Aristotele, l’uomo è un animale sociale. Per cui, intorno a noi
dobbiamo trasmettere allegria, non abbiamo il diritto di diffondere cupezza.
Nadja sedeva ingobbita, in posizione per nulla giovanile.
– Ma tu non puoi capire – pronunciò piano, esausta – che peso ho sul
cuore?
– Invece lo capisco benissimo! Per te è difficile, lo so, ma non puoi pensare
solo a te stessa! Non puoi comportarti come se fossi l’unica a soffrire a questo
mondo. Magari qualcuno ha penato molto più di te. Pensaci.
Non lo aveva detto chiaramente, ma in sostanza per quale ragione un marito
disperso, che si poteva ancora sostituire – perché un marito è sostituibile –
dovrebbe significare più di un padre ucciso, un fratello ucciso, una madre
morta? La natura questi ultimi non te li lascia sostituire.
Dopo quelle parole Olja era rimasta lì in piedi a fissare Nadja con sguardo
severo.
Nadja aveva capito perfettamente che la compagna si riferiva alle persone
care che uno perde, che lei aveva perso. Nadja aveva capito ma non le
importava. Lei la vedeva in un altro modo: la morte è irreparabile ma accade,
comunque, una volta sola. Ti sconvolge, ma una volta soltanto. Poi pian
pianino, con movimenti impercettibili, si allontana nel passato. E tu
gradualmente ti liberi dal dolore. Indossi una spilla color rubino, ti profumi,
vai a un appuntamento.
Il dolore di Nadja invece era implacabile, le restava appiccicato addosso, la
teneva in pugno, nel passato, nel presente e nel futuro. Inutile agitarsi per non
farsi prendere: alle sue fauci non sfuggivi.
Ma per rispondere con dignità bisognava aprirsi. E il suo era un segreto
troppo pericoloso.
Nadja si arrese, si rassegnò, mentì, indicò con un cenno la tesi.
– Su, ragazze, scusatemi, sono esausta. Non ho più la forza di cambiarla.
Quante volte mi toccherà farlo ancora?
Quando fu chiaro che Nadja non metteva affatto il proprio dolore al di
sopra di quello degli altri, la diffidenza di Olen’ka nei suoi confronti si sgonfiò
subito e le disse in tono conciliante:
– Devi tirare fuori gli stranieri? Non è successo mica solo a te, non stare lì a
rimuginare!
Tirare fuori gli stranieri significava sostituire nel testo “Laue dimostra che”
con “gli scienziati sono riusciti a dimostrare che”, oppure “come ha dimostrato
in modo convincente Langmuir” con “come è stato dimostrato”. Invece se un
tedesco o un danese al servizio dei russi si era distinto anche solo un pochino,
bisognava senz’altro indicarne per intero il nome e il cognome, e rimarcare il
suo irriducibile patriottismo e i suoi meriti imperituri davanti alla scienza.
– Non sono gli stranieri, quelli li ho già tirati fuori da un pezzo. Ora mi
tocca escludere l’accademico Balandin...
– Uno dei nostri, un sovietico?
– ...e tutta la sua teoria. Ci avevo basato ogni cosa. Ma è risultato che lui...
che gli...
In quella stessa voragine, nello stesso mondo sotterraneo in cui il marito di
Nadja languiva alle catene, era caduto all’improvviso anche l’accademico
Balandin.
– Be’, uno non può prendersela così a cuore! – insisteva Olen’ka. Aveva
anche lei qualcosa da ridire: – Pensa cos’è successo a me con l’Azerbajdžan...
Niente avrebbe mai fatto presagire a quella ragazza della Russia centrale che
sarebbe diventata un’esperta di Iran. Scegliendo storia, quell’idea non l’aveva
nemmeno sfiorata. Ma il suo giovane (e sposato) relatore per cui stava
scrivendo una tesina sulla Rus’ kieviana aveva cominciato a starle addosso e
insisteva molto perché anche al dottorato lei si specializzasse nella Rus’
kieviana. Allora Olen’ka era passata con entusiasmo al Rinascimento italiano,
ma nemmeno il relatore di Rinascimento italiano era vecchio e, restando solo
con lei, pure lo spirito gli rinasceva. Così Olen’ka per la disperazione aveva
chiesto di spostarsi con il decrepito professore esperto di Iran, con lui si era
messa a scrivere la tesi di dottorato e l’avrebbe anche felicemente finita se sui
giornali non fosse emersa la questione dell’Azerbajdžan iraniano. Siccome lei
non aveva esaminato con il filo rosso la primordiale tendenza di quella
provincia verso l’Azerbajdžan e la sua estraneità con l’Iran, la tesi era stata
respinta, volevano che la riscrivesse.
– Ringrazia che te la fanno risistemare. Succede anche di peggio. Muza dice
che...
Ma Muza non le stava ascoltando. Per sua fortuna era immersa in un libro e
la camera intorno a lei aveva smesso di esistere.
– ...alla facoltà di Letteratura quattro anni fa una aveva discusso la tesi di
dottorato su Zweig e insegnava già da un pezzo. All’improvviso si sono accorti
che nella tesi c’era scritto ‘Zweig è un cosmopolita’ per tre volte e che la sua
autrice lo approvava. Così l’hanno convocata alla Suprema Commissione
Accademica e le hanno tolto la laurea. Una cosa terribile!
– Per la miseria, rovinarsi anche in chimica! – intervenne Daša. – E cosa
dovremmo fare noi di Economia politica? Impiccarci? No, respiriamo. Per
fortuna nostra c’è Stužajla-Oljabyškin ad aiutarci!
In effetti, si sapeva che Daša era già al terzo argomento di tesi. C’era stato I
problemi dell’alimentazione collettiva nel socialismo. Questo era un argomento
chiarissimo vent’anni prima, quando tutti i pionieri, compresa Daša, erano
sicuri che le cucine domestiche da lì a breve sarebbero sparite, si sarebbero
spenti i focolari e le donne emancipate avrebbero fatto colazione e pranzato
nelle fabbriche-cucine; con gli anni però si era fatto incerto, quasi pericoloso.
Evidentemente se c’era ancora chi, come Daša, pranzava alla mensa, avveniva
per una maledetta necessità. Prosperavano solo due forme di ristorazione
collettiva: i ristoranti, ma qui i principi socialisti non venivano osservati in
maniera sufficientemente forte, e le bettole più infime, che vendevano in pratica
solo vodka. Le fabbriche-cucine continuavano a esistere solo in teoria, giacché
il Capo dei Lavoratori, in quei vent’anni, non aveva avuto tempo di esprimere
un’opinione sull’alimentazione. Ragion per cui era pericoloso rischiare di dire
qualcosa di testa propria. Daša aveva continuato a tormentarsi finché il suo
relatore non le aveva cambiato argomento, pescando però in modo
sconsiderato pure il successivo dallo stesso elenco: Il commercio degli oggetti di largo
consumo nel socialismo. Anche il materiale per quell’argomento sembrava poco.
Sebbene in tutti i discorsi e le direttive si dicesse che gli oggetti di largo
consumo si potessero produrre e diffondere, e fosse persino necessario farlo,
nella pratica quegli oggetti cominciavano ad assumere una certa aura di
rimprovero in confronto al laminato d’acciaio e ai prodotti del petrolio. E se
l’industria leggera fosse destinata a svilupparsi sempre più o a crollare non lo
sapeva nemmeno il consiglio scientifico, che aveva tempestivamente rifiutato
l’argomento.
Così a un certo punto delle brave persone le avevano suggerito un’idea e
Daša aveva implorato di avere: L’economia politica del XIX secolo in Stužajla-
Oljabyškin.
– Hai poi trovato da qualche parte il suo ritratto, il ritratto del tuo
benefattore? – chiese Olen’ka con una risata.
– Non riesco proprio a trovarlo!
– Sei davvero un’ingrata! – Ora Olen’ka si sforzava di far sorridere Nadja,
ma in realtà le stava solo riversando addosso la sua agitazione pre-
appuntamento. – Io lo avrei trovato e lo avrei appeso sopra il letto. Me lo
immagino benissimo: un vecchio e venerando possidente dai bisogni spirituali
insoddisfatti. Dopo una colazione sostanziosa si metteva seduto in vestaglia da
camera accanto alla finestra, laggiù, nella tipica provincia dei tempi di Puškin,
hai presente? di fronte alla quale le tempeste della storia sono impotenti, e
guardando la giovane Palaška che dava da mangiare ai porcellini, ragionava
senza fretta:
Come lo Stato si arricchisca
e di che cosa viva...105

Un vero tesoro! E la sera giocava a carte... – Olen’ka scoppiò a ridere. Poi


arrossì. Era sempre più raggiante.
Ljuda si era infilata nell’abito azzurro cielo e aveva lasciato così il suo letto
privo della copertura a ventaglio (Nadja sbirciava dalla sua parte con uno
spasmo di sofferenza). Davanti allo specchio prima si rinfrescò il trucco di
ciglia e sopracciglia, poi con grande accuratezza si dipinse le labbra a bocciolo.
– Fateci caso, ragazze – disse Muza all’improvviso, nel suo modo tipico, con
naturalezza, come se tutte non aspettassero altro che le sue osservazioni. – Che
cosa differenzia i personaggi della letteratura russa da quelli dell’Europa
Occidentale? I personaggi prediletti dagli scrittori occidentali perseguono
sempre la carriera, la gloria, il denaro. Mentre un personaggio russo, anche se
non gli dài né da mangiare né da bere, cerca sempre la giustizia e il bene.
E sprofondò di nuovo nella lettura.
– E tu potevi almeno chiedere un po’ di luce – ebbe pietà di lei Daša. Gliela
accese.
Ljuda, che si era già infilata le soprascarpe, si allungò a prendere la pelliccia.
Fu allora che Nadja accennò con il capo al suo letto e con ribrezzo disse:
– Ci lasci di nuovo quella schifezza da sistemare?
– E tu non la sistemare! – scattò Ljuda e la fulminò con uno sguardo
eloquente. – Non toccare più il mio letto!! – La voce si impennò fino a gridare.
– E non farmi la morale!!
– Ma lo vuoi capire? – Nadja aveva perso il controllo e le sputava contro
quello che non le aveva ancora detto. – In questo modo ci offendi! Potremmo
anche avere altro per la testa che non i tuoi svaghi serali!
– Sei invidiosa? Perché a te non ti vogliono?
Avevano entrambe il volto deformato, sgradevole, come accade alle donne in
preda all’esasperazione.
Olen’ka aveva aperto la bocca, stava per attaccare anche lei Ljuda, quando
avvertì un’allusione offensiva in “svaghi serali”. E si fermò.
– Non c’è niente di cui essere invidiosi! – gridò Nadja a denti stretti, la voce
rotta.
– Se ti sei persa e invece che in un convento sei finita al dottorato, – urlava a
pieni polmoni Ljuda, subodorando il suo trionfo – stattene in un angolo e
smettila di fare la suocera. Ci hai stufato! Vecchia zitella!
– Ljudka! Non esagerare! – si mise a gridare Daša.
– Perché questa non si fa gli affari suoi? Vecchia zitella! Vecchia zitella!
Fallita!
Muza si riebbe e, agitando il libro con fare minaccioso verso Ljuda, attaccò
anche lei a gridare:
– Qui la meschineria piccolo borghese vive, regna e prospera!
Gridavano in cinque senza ascoltare le altre e senza trovare un accordo.
Nadja, con la testa pesante, incapace di ragionare, si buttò giù sul letto
com’era, col suo miglior vestito, quello indossato per il colloquio, e
vergognandosi delle parole usate e dei singhiozzi, si coprì la testa con il
cuscino.
Ljuda si incipriò, sistemò le bionde ciocche ricciute sopra la pelliccia di
scoiattolo, calò ancora un po’ la veletta sugli occhi e uscì, senza rifare il letto,
su cui però aveva steso la coperta come compromesso.
Le altre si rivolsero a Nadja, ma lei non si muoveva. Daša le tolse le scarpe e
le avvolse i piedi con i lembi della coperta.
Un altro colpo riecheggiò alla porta, che fece precipitare Olen’ka nel
corridoio; poi la ragazza rientrò come il vento, si sistemò i ricci sotto il
cappellino, guizzò nella mantellina con il colletto giallo e con andatura
rinnovata andò alla porta.
(Era un’andatura di gioia, ma anche di lotta...)
Così la stanza n. 318 aveva spedito nel mondo, una dopo l’altra, due graziose
creature seducenti vestite in modo grazioso.
Ma con loro se n’erano andate anche la vitalità e le risate e la stanza era
ripiombata nella malinconia.
Mosca era una città enorme, eppure non si sapeva dove andare...
Muza si staccò un’altra volta dal libro, si tolse gli occhiali e si nascose il viso
dietro i palmi grandi.
Daša commentò:
– Che stupida, Ol’ga! Quello ora se la spassa, poi la molla. Dicono che ne ha
un’altra da qualche parte. E forse pure un figlio.
Muza sbirciò attraverso le dita:
– Ma Ol’ga non gli è legata in nessun modo. Se lui si rivelerà quello che dici
tu, lo potrà lasciare.
– Come non gli è legata? – ridacchiò Daša. – Si può essere più legati di così?
– Oh, sai sempre tutto tu! Come fai a esserne sicura? – si indignò Muza.
– Che altro c’è da sapere, non passa la notte a casa sua?
– Oh! Ma non significa niente! Non dimostra proprio un bel niente! –
obiettò Muza.
– Adesso si fa solo così. Altrimenti ti lascia.
Le ragazze ammutolirono, immerse nei propri pensieri.
La neve dietro la finestra si stava infittendo. Era già buio.
L’acqua scorreva piano nel radiatore sotto la finestra.
L’idea di passare la serata domenicale in quel buco era insopportabile.
A Daša tornò in mente il banconiere che lei aveva scartato, un uomo forte e
sano. Perché lo aveva respinto? Avrebbe potuto portarla nel buio di qualche
club di periferia, dove gli universitari non vanno. Stringerla a sé da qualche
parte, vicino a uno steccato.
– Muzočka, andiamo al cinema! – propose Daša.
– Che danno?
– Il sepolcro indiano.
– È un film idiota! Una scemenza commerciale!
– Dài, è qui vicino, nell’edificio!
Muza non rispondeva.
– Su, stare qui è una noia!
– Non vengo. Trovati qualcosa da fare.
D’un tratto andò via l’elettricità: era rimasto solo il filo arroventato,
leggermente purpureo, della lampadina.
– Be’, ci mancava questa! – disse Daša, in un gemito. – È saltata la corrente.
Roba da impiccarsi.
Muza se ne stava seduta come una statua.
Nadja sul letto non si muoveva.
– Muzočka, andiamo al cinema!
Qualcuno bussò alla porta.
Daša andò a vedere, poi tornò.
– Nadjuša! C’è Ščagov. Ti alzi?
104 Sergej Solov’ëv (1820-1879), autore dell’opera in ventinove volumi Storia della Russia dei tempi antichi.
105 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, I, VII, tr. it. di Giovanni Giudici, in Opere, a cura di Eridano
Bazzarelli e Giovanna Spendel, Milano, Mondadori, 2012, p. 346.
51
FUOCO E FIENO

Nadja singhiozzò a lungo, serrando fra i denti la coperta per smettere di


piangere. Sotto, il cuscino che si teneva premuto sulla testa era bagnato.
Sarebbe stata felice di allontanarsi da quella stanza fino a tarda notte. Ma
nell’enorme città di Mosca non c’era un posto dove lei potesse andare.
Non era la prima volta che al pensionato l’attaccavano con simili parole:
suocera! musona! monaca! vecchia zitella! La cosa più offensiva era l’ingiustizia
di quelle accuse. Come era allegra un tempo!
Ma è forse facile vivere cinque anni nella menzogna, con indosso una
maschera che ti tira il viso e te lo trasforma, ti indurisce la voce, rende il tuo
giudizio insensibile? Forse era diventata sul serio una vecchia zitella
insopportabile! È talmente difficile giudicarsi da soli. Al pensionato non puoi
pestare i piedi davanti alla mamma, come faresti a casa tua. Al pensionato, in
mezzo ai tuoi pari, apprendi solo a riconoscere in te il male.
A parte Gleb, assolutamente nessuno era in grado di capirla.
E nemmeno Gleb la capiva...
Non le aveva detto niente, su come essere, come vivere.
Solo che la pena non sarebbe finita...
Sotto i colpi rapidi e sicuri del marito tutto ciò che ogni giorno la
rafforzava, la sosteneva nella fede, nell’attesa, nell’inaccessibilità agli altri si era
spezzato ed era crollato.
La pena non sarebbe finita!
Dunque lei non gli serviva... E dunque lei si stava solo rovinando...
Nadja giaceva bocconi. Con gli occhi immobili guardava nello spiraglio fra il
cuscino e la coperta la porzione di parete che aveva davanti – non riusciva a
capire, né si sforzava di farlo – cosa fosse quella luce. Sembrava davvero molto
buio, eppure sulla familiare parete si distinguevano i brufoli di un intonaco
grossolano.
All’improvviso attraverso il cuscino Nadja udì un noto tamburellare di dita
sul pannello di legno della porta. E prima ancora che Daša chiedesse “C’è
Ščagov. Ti alzi?”, Nadja si era già strappata il cuscino dalla testa, era saltata sul
pavimento con le calze, si era sistemata la gonna tutta storta, si era aggiustata i
capelli con il pettine e aveva trovato a tentoni con i piedi le scarpe.
Nella luce spenta e senza vita di quella mezza incandescenza, Muza vide la
sua fretta e si scansò.
Daša invece si precipitò verso il letto di Ljuda, rincalzò velocemente la
coperta e lo rimise in ordine.
Fecero accomodare l’ospite.
Ščagov entrò con un vecchio cappotto militare gettato sulle spalle. Aveva
ancora un portamento da soldato: poteva inchinarsi, ma non incurvarsi. I
movimenti erano ponderati.
– Salve, rispettabili signore. Sono venuto a vedere come ve la cavavate senza
luce, per imparare da voi. Qui si muore di noia!
(Che sollievo! Nella penombra gialla gli occhi gonfi per il pianto non si
vedevano.)
– Dunque, se non fosse mancata la luce, lei non sarebbe venuto? – gli
rispose a tono Daša.
– Neanche per sogno. I visi delle donne perdono il loro fascino con la luce
viva. Si vedono le espressioni cattive, gli sguardi invidiosi (se soltanto fosse
stato lì poco prima!), le rughe, il trucco esagerato. Se fossi una donna
pretenderei per legge di avere sempre la luce soffusa. Così si sposerebbero tutte
in fretta.
Daša guardava Ščagov con severità. Lui parlava sempre così, e a lei certe
espressioni studiate non piacevano.
– Posso sedermi?
– Prego – rispose Nadja con il tono tranquillo della padrona di casa, in cui
non era rimasta traccia della stanchezza di prima, dell’amarezza, delle lacrime.
A Nadja invece piacevano la sua sicurezza, i modi accondiscendenti, la voce
bassa e ferma. Ščagov emanava calma. E le sue battute di spirito le sembravano
piacevoli.
– Un secondo invito da un pubblico simile potrebbe anche non arrivarmi.
Mi siedo subito. Allora, cosa facevate, giovani dottorande?
Nadja era silenziosa. Con lui non riusciva a parlare granché: due giorni
prima avevano discusso e Nadja lo aveva colpito sulla schiena con la cartella,
un gesto istintivo improvviso, con un grado di intimità che tra loro non c’era;
poi era fuggita. Una reazione stupida, infantile, e adesso la presenza di altre
persone le rendeva la cosa meno pesante.
Rispose Daša:
– Vorremmo andare al cinema. Non sappiamo da chi farci accompagnare.
– Che film danno?
– Il sepolcro indiano.
– Ohh, andateci senz’altro. Un’infermiera mi ha detto ‘sparano molto,
uccidono molto, è un film eccezionale!’
Ščagov si accomodò al tavolo comune:
– Ma scusate, rispettabili signore, pensavo di venire qui per un girotondo,
invece trovo un mortorio. Avete problemi con i vostri genitori? Siete avvilite
per l’ultima decisione del Comitato di partito? Ma non riguarda i dottorandi.
– Quale decisione? – domandò Nadja in un sussurro.
– Quale decisione? Sul controllo dell’estrazione sociale degli studenti da
parte delle forze pubbliche, se dichiarano il vero riguardo ai propri genitori. Le
possibilità sono numerose, magari qualcuno si è fidato di qualcun altro, oppure
ha parlato nel sonno, oppure ha letto una lettera non sua, cose del genere...
(Cercheranno, frugheranno ancora! Oh, non ne posso più! Come sfuggirvi?)
– Eh, Muza Georgievna? Lei non ha nascosto niente?
– Che bassezza! – esclamò Muza.
– Ma come, nemmeno questo vi rallegra? Be’, se vi va, potrei raccontarvi una
storia divertentissima, sulla votazione segreta di ieri al consiglio di Ingegneria e
Matematica...
Ščagov parlava a tutte, ma guardava Nadja. Si domandava da tempo che cosa
volesse da lui la ragazza. Ogni nuova circostanza ne rivelava sempre più
chiaramente le intenzioni.
Quando lui giocava a scacchi con qualcuno, lei gli si affiancava per imparare
i primi rudimenti.
(Dio mio, gli scacchi aiutano davvero a dimenticare il tempo!)
Quando lei suonava a un concerto, lo invitava sempre ad andare a sentirla.
(Ma è naturale desiderare che un ascoltatore non proprio indifferente ti
faccia i complimenti per come suoni!)
Una volta gli era capitato un biglietto “in più” per il cinema e lo aveva
invitato.
(Ah, voleva solo illudersi per una sera, farsi vedere in giro in coppia...
Appoggiarsi al braccio di qualcuno.)
Il giorno del suo compleanno gli aveva regalato un taccuino, ma lo aveva
fatto in modo goffo: dopo averglielo ficcato in una tasca della giacca, voleva
scappare. Ma che maniere! Perché fuggiva?
(Ah, per l’imbarazzo, solo per l’imbarazzo!)
Lui l’aveva raggiunta nel corridoio, si era messo a lottare con lei per
restituirle il regalo, e con quella scusa l’aveva abbracciata, e lei non aveva
cercato subito di liberarsi, si era lasciata trattenere.
(Da talmente tanto tempo non provava una cosa del genere che braccia e
gambe le si erano inchiodate.)
E adesso questo colpo giocoso con la cartella!
Come con tutte, proprio tutte, anche con lei Ščagov aveva un controllo
ferreo su sé stesso. Sapeva com’erano invischianti quelle storie con le donne,
com’era difficile poi liberarsi. Ma se una ragazza sola chiedeva aiuto, e chiedeva
solo quello, chi poteva essere tanto insensibile da negarglielo?
E adesso Ščagov era uscito dalla sua stanza ed era entrato nella n. 318 non
solo convinto che vi avrebbe trovato Nadja, ma anche un po’ agitato.
...Risero del curioso caso della votazione, ma lo fecero soprattutto per
cortesia.
– Allora, torna la luce o no? – esclamò Muza, con impazienza.
– Notavo che i miei racconti non vi fanno affatto ridere. In particolare
Nadežda Il’inična. Ogni volta che ci vediamo, lei mi sembra sempre più cupa.
E so perché. L’altro ieri le hanno dato una multa di dieci rubli, sono quei soldi
che la fanno soffrire, è tanto dispiaciuta.
Non appena sentì quello scherzo, Nadja si infuriò. Afferrò la borsa, l’aprì
con uno strattone, tirò fuori una cosa e la strappò in modo isterico, per poi
gettarne i pezzi sul tavolo comune davanti a Ščagov.
– Muza! Per l’ultima volta, vieni?! – esclamò Daša, insofferente, afferrando il
cappotto.
– Arrivo! – rispose Muza in tono vago e si diresse all’attaccapanni,
zoppicando leggermente.
Ščagov e Nadja non degnarono di uno sguardo le due in procinto di uscire.
Quando però la porta alle loro spalle si richiuse, a Nadja venne un po’ di
paura.
Ščagov si portò agli occhi i pezzetti strappati. Erano i brandelli fruscianti di
una banconota da dieci rubli...
Si alzò dal cappotto (era adagiato sulla sedia) e, fatto il giro del tavolo, si
avvicinò a Nadja; era molto più alto di lei. Prese nelle sue grandi mani quelle
piccole della ragazza.
– Nadja! – Per la prima volta la chiamò solo per nome.
Lei rimase immobile, debolissima. La foga con cui aveva strappato i dieci
rubli se n’era andata in fretta come era comparsa. Fu colta da uno strano
pensiero: non c’era nessun sorvegliante a piegare di sbieco la testa taurina verso
di loro. Potevano parlare di quello che volevano. E decidere da soli quando
congedarsi.
Vide da vicino il viso forte e regolare di lui, in cui la parte sinistra e quella
destra erano assolutamente identiche. Le piaceva la regolarità di quel volto.
Lui aprì le dita, e le fece scivolare lungo i gomiti, sulla seta della camicetta.
– N-nadja!...
– Mi la-sci! – rispose lei, con la voce carica di stanco rammarico.
– Mi aiuti a capire? – insisté lui, facendo scivolare le dita dai gomiti alle
spalle.
– Capire cosa? – domandò Nadja, confusa.
Ma non cercava di liberarsi...
Allora lui la strinse per le spalle e la attirò a sé.
La gialla penombra nascose la vampata di sangue sul viso di Nadja.
Si puntò con le braccia contro il petto di lui, per poi staccarsi con una
spinta.
– Non penserà che...??
– Chi la capisce è bravo! – brontolò lui, lasciandola andare e si avvicinò alla
finestra.
L’acqua scorreva piano nel radiatore.
Nadja si sistemò i capelli con le mani tremanti.
Con le mani tremanti lui si accese una sigaretta.
– Lo... sa... vero – disse lui, scandendo le parole – come... brucia... il... fieno...
secco?
– Sì, con una fiammata fino al cielo, ma poi lascia un mucchietto di cenere.
– Fino al cielo! – confermò lui.
– E lascia un mucchietto di cenere – ripeté lei.
– Perché allora lei sul fieno secco continua a gettare fuoco?
(Era quello che stava facendo? Perché lui non la capiva? A volte si ha
semplicemente voglia di piacere, anche solo un po’. Di sentire per un minuto
che ti hanno preferita alle altre, che non hai smesso di essere la migliore.)
– Andiamo da qualche parte! – gli propose.
– Non andiamo da nessuna parte, restiamo qui.
Lui stava per ricominciare a fumare nella sua solita maniera tranquilla, con le
labbra autoritarie che serravano il filtro un po’ di sbieco, un gesto che a Nadja
piaceva molto.
– No, la prego, andiamo da qualche parte! – insisté lei.
– O qui o da nessun’altra parte – tagliò corto lui. – Devo avvertirla, ho una
fidanzata.
52
ALLA RESURREZIONE DEI MORTI!

Ad avvicinare Nadja e Ščagov era stato il fatto che nessuno dei due fosse di
Mosca. I moscoviti che Nadja incontrava tra i dottorandi e nei laboratori
celavano dentro di sé il veleno della propria superiorità inesistente, del
“patriottismo moscovita”, come lo definivano. Nadja si aggirava in mezzo a
loro come un essere di seconda categoria, quali che fossero i successi ottenuti
di fronte al professore.
Come avrebbe dovuto comportarsi con Ščagov, anche lui un provinciale, che
tagliava quell’ambiente come una rompighiaccio attraversa con noncuranza
l’acqua morbida? Una volta nella sala di lettura un giovane candidato in
scienze, con l’intento di umiliare Ščagov, gli aveva chiesto davanti a lei, girando
altezzoso la testa di serpente:
– Lei, di preciso... da quale località viene?
Ščagov, ben più alto di quell’interlocutore, lo aveva guardato con pigra
commiserazione, dondolandosi leggermente avanti e indietro.
– Non le sarà capitato di certo di passarci. È una località del fronte. Vengo
da Trinceask.
Si è notato da tempo che la vita che viviamo non si fa spazio nella nostra
biografia in modo uniforme per tutti gli anni. Ogni persona ha un periodo
particolare in cui si realizza maggiormente, ha una percezione più profonda ed
esercita una maggiore influenza sugli altri e su sé stessa. Qualsiasi cosa succeda
poi a quella persona, anche di esteriormente rilevante, è spesso solo l’effetto del
declino o dell’inerzia di quello slancio: ricordiamo, ci deliziamo, riprendiamo
in molti modi quanto è risuonato in noi una sola volta. Per alcuni quel periodo
sembra essere l’infanzia, tanto che rimangono bambini per tutta la vita. Per altri
è il primo amore, e sono state proprio queste persone a diffondere il mito che
si ama una volta sola. Per altri ancora si tratta del periodo di maggior
ricchezza, di maggiore stima, di maggior potere, e biascicherà della propria
grandezza perduta finché non avrà più denti attaccati alle gengive. Per Neržin
quel periodo era stato la prigione. Per Ščagov, il fronte.
Ščagov era stato in guerra con il caldo torrido e con il gelo. Lo avevano
chiamato nell’esercito dal primo mese di guerra e congedato alla vita civile solo
nel 1946. Nei quattro anni al fronte aveva avuto di rado una giornata in cui dal
mattino fosse certo di sopravvivere fino a sera: non era impiegato nell’alto
comando, e nelle retrovie c’era finito solo all’ospedale. Si era ritirato da Kiev
nel 1941 e dal Don nel 1942. E anche quando la guerra si metteva al meglio, a
Ščagov era toccato filare via di corsa, come nel 1943 e persino nel 1944 a
Kovel’.
Nei canaloni lungo la strada, nelle trincee dilavate e in mezzo ai ruderi delle
case carbonizzate aveva imparato il valore di una gavetta di minestra, di un’ora
di calma, il senso della vera amicizia e della vita in generale.
Le sofferenze del capitano del genio Ščagov non si sarebbero cicatrizzate né
adesso né in dieci anni. Ormai divideva le persone in un solo modo: i soldati da
una parte, e poi gli altri. Persino nelle strade di Mosca, dove tutto si dimentica,
la parola “soldato” era per lui garanzia di sincerità e benevolenza. L’esperienza
gli aveva insegnato a non credere a chi non aveva provato il fuoco del fronte.
Dopo la guerra a Ščagov non erano rimasti parenti e la casetta in cui prima
viveva la sua famiglia era stata completamente spazzata via da una bomba. Gli
unici beni di Ščagov erano le cose che aveva indosso e una valigia di trofei presi
in Germania. A onor del vero però, per addolcire negli ufficiali congedati
l’impressione della vita da civili, dopo dodici mesi dal ritorno a casa ricevevano
ancora uno “stipendio per il grado militare”, un salario per non fare niente.
Tornato dalla guerra Ščagov, come molti altri reduci, non aveva più
riconosciuto il paese che aveva difeso per quattro anni: vi si disperdevano le
ultime nuvole rosa d’uguaglianza rimaste nei ricordi di gioventù. Il paese si era
inferocito, si era fatto totalmente disonesto, e voragini separavano una gracile
miseria da una ricchezza che ingrassava spudorata. Inoltre i reduci, purificati
dalla vicinanza della morte, erano tornati per breve tempo migliori di come
erano partiti, e per loro era sbalorditivo il cambiamento avvenuto in patria e
maturato nelle lontane retrovie.
Quegli ex soldati adesso erano tutti lì, camminavano per le strade e
andavano in metropolitana, ma vestiti ognuno alla propria maniera, tanto che
non si riconoscevano l’un l’altro. E accettavano come ordine superiore non il
loro del fronte, ma quello che avevano trovato lì.
C’era da prendersi la testa fra le mani e pensare: per cosa ho combattuto?
Quella domanda se la ponevano in molti, ma ben presto erano finiti in
prigione.
Ščagov evitava di porsela. Non era una di quelle creature incontenibili che si
dibattono costantemente alla ricerca di una giustizia universale. Aveva capito
che il mondo va come va, fermarlo non si può, si può solo saltare o non saltare
su un predellino. È chiaro che la figlia di un membro del comitato esecutivo,
già solo per nascita, sarà destinata a un’esistenza pulita e non le toccherà
lavorare in fabbrica. Impossibile concepire che il segretario degradato di un
comitato distrettuale accetti di mettersi al tornio. Le quote delle fabbriche non
vengono realizzate da quelli che le concepiscono, così come ad andare
all’attacco non sono quelli che danno l’ordine.
Insomma, non si trattava di una cosa nuova per il nostro pianeta, era nuova
solo per un paese rivoluzionario. Ed era una vergogna che al capitano Ščagov
non riconoscessero i diritti del suo onorevole servizio, il diritto di entrare a far
parte della vita civile che lui avevano conquistato per loro. Doveva dimostrare
di meritarselo per l’ennesima volta: doveva far passare il proprio diritto
attraverso l’amministrazione, fissarlo con un timbro statale, in uno scontro
all’ultimo sangue, senza colpi d’arma da fuoco, senza lanci di granate.
E in più, sorridere.
Nel 1941 Ščagov era andato talmente di fretta al fronte da non preoccuparsi
nemmeno di finire il quinto anno e prendere la laurea. Ora, a guerra conclusa,
doveva recuperare e puntare al titolo di candidato delle scienze. La sua
specializzazione era in meccanica teorica, e prima ancora della guerra voleva
dedicarsi a questo. Allora era più facile. Dopo la guerra poi, con l’aumento
degli stipendi in quel campo, aveva provato un vero e proprio slancio d’amore
per la scienza in generale, per ogni scienza, tutte le scienze.
Così aveva misurato di nuovo le proprie forze in un’altra lunga campagna. I
trofei della Germania se li era venduti un po’ per volta al mercato. Non seguiva
la mutevole moda degli abiti e delle scarpe, continuava a portare
provocatoriamente le cose con cui l’avevano congedato: gli scarponi, i
pantaloni in tessuto diagonale, la giubba di lana inglese con i quattro nastrini
delle decorazioni e due galloni per le ferite riportate. Era stato proprio il sacro
fascino del fronte ad avvicinare Ščagov al capitano Neržin agli occhi di Nadja.
Vulnerabile a ogni insuccesso e offesa, Nadja si sentiva una bambina davanti
alla quotidiana saggezza corazzata di Ščagov e gli chiedeva consigli. (Ma anche
a lui mentiva con la stessa tenacia, dicendo che il suo Gleb era disperso.)
Nadja stessa non si era resa conto di come e quando si fosse lasciata
prendere la mano: il biglietto “in più” per il cinema, lo scontro scherzoso per il
taccuino. E ora, non appena Ščagov era entrato nella stanza e aveva discusso
con Daša, Nadja aveva subito capito che lui era venuto per lei e che sarebbe
inevitabilmente successo qualcosa.
E sebbene poco prima piangesse, inconsolabile, per la propria vita spezzata,
dopo aver strappato la banconota da dieci rubli si era sentita come rigenerata,
matura, pronta a una vita nuova, subito.
E il suo cuore non ci sentiva contraddizione.
Ma una volta placata l’eccitazione per quel breve gioco con lei, Ščagov era
tornato al suo solito comportamento cauto.
Ora voleva farle capire chiaramente che non poteva sperare di sposarsi con
lui.
Dopo aver sentito della sua fidanzata, Nadja prese a camminare per la stanza
con passo mesto, si fermò davanti alla finestra e con il dito disegnò qualcosa
sul vetro in silenzio.
Gli dispiaceva per lei. Avrebbe voluto spezzare quel silenzio e spiegarle con
grande semplicità e una franchezza dimenticata da tempo: una povera piccola
dottoranda senza legami e senza futuro, che cosa avrebbe potuto offrirgli? E
lui aveva il diritto legittimo di ottenere una fetta di torta (l’avrebbe conquistata
in altro modo se soltanto le persone di talento da noi non venissero sbranate
lungo la strada). Avrebbe voluto raccontarle che, sebbene la sua fidanzata
vivesse nell’ozio, non era poi troppo corrotta. Aveva un bell’appartamento in
un edificio ricco e riservato, dove alloggiava solo chi contava. All’ingresso un
portiere e la scala coperta di tappeti: dove trovare ora un posto del genere in
Unione Sovietica? E, cosa principale, i suoi problemi si sarebbero risolti tutti in
una volta. Che ci poteva essere di meglio?
Ma tutto questo l’aveva solo pensato, non l’aveva detto.
Con la tempia appoggiata al vetro, gli occhi fissi nella notte, Nadja rispose
malinconica:
– Va bene. Lei ha una fidanzata. E io ho un marito.
– Disperso in guerra?
– No, non è disperso – sussurrò Nadja. (In che modo sconsiderato si stava
tradendo!)
– C’è una speranza che sia vivo?
– L’ho visto... Oggi...
(Nadja si stava tradendo, ma almeno lui non l’avrebbe considerata una che
gli si aggrappava al collo!)
Ščagov non ci mise molto a capire di che cosa si trattava. Non ragionava da
donna, non poteva pensare che Nadja fosse stata lasciata. Sapeva che “disperso
in guerra” significava quasi sempre “persona trasferita”, e quando in Unione
Sovietica ti trasferivano, era solo perché stavi dietro le sbarre.
Si avvicinò a Nadja e la afferrò per il gomito.
– Gleb?
– Sì – rispose lei, con un filo di voce, quasi indifferente.
– Che fa? È dentro?
– Sì.
– Ah ecco! – disse Ščagov in tono liberatorio. Ci pensò un attimo e poi uscì
di corsa dalla stanza.
Nadja era così tramortita dalla vergogna e dalla disperazione che non colse
una nota nuova nella voce di Ščagov.
Scappasse pure. Lei era contenta di averglielo detto. Era di nuovo sola con la
propria onesta gravità.
Il filetto della lampadina bruciava ancora incandescente.
Trascinando come un fardello le gambe sul pavimento, Nadja si diresse
dall’altra parte della stanza, nella tasca della pelliccia trovò la seconda sigaretta
e, dopo essersi allungata a prendere i fiammiferi, la accese. Trovò conforto nel
gusto nauseante della sigaretta.
Non abituata a fumare, le venne un accesso di tosse.
Passando vicino alle sedie, notò su una di esse il cappotto informe di Ščagov.
Come se n’era andato in fretta! Si era a tal punto spaventato da dimenticare
il cappotto.
Il silenzio era tale che dalla stanza accanto si sentiva... uno studio di Liszt in
fa minore trasmesso per radio.
Ah, un tempo, da giovane, lo suonava anche lei, ma lo comprendeva
davvero? Le dita lo eseguivano senza tuttavia capire quella parola: disperato...
Appoggiata la fronte contro l’infisso centrale della finestra, spalancò le
braccia e appoggiò i palmi sui vetri freddi.
Rimase lì come crocifissa agli infissi neri della finestra.
Nella sua vita c’era stato un piccolo punto caldo, che ora non c’era più.
Del resto, in pochi minuti si era già rassegnata a quella perdita.
Era tornata a essere la moglie di suo marito.
Guardava nel buio, sforzandosi di scorgervi il comignolo della prigione della
Matrosskaja Tišina.
Disperato! La sua era una disperazione impotente, come provare ad alzarsi di
scatto quando si è inginocchiati e subito ricadere! Era un re bemolle alto e
tenace, un lacerante grido di donna! Un grido che non trovava fine!
La fila di lampioni portava lontano, verso la nera oscurità di un futuro che
lei non aveva alcuna voglia di raggiungere...
Dopo lo studio di Liszt, fu annunciata l’ora di Mosca: erano le sei di sera.
Nadja si era completamente dimenticata di Ščagov, quando lui rientrò senza
bussare.
Aveva con sé due bicchierini e una bottiglia.
– Allora, moglie del soldato! – disse, con fare allegro e grossolano. – Non
essere triste. Tieni il bicchiere. Dove c’è la testa, c’è la felicità. Brindiamo alla
risurrezione dei morti!
53
L’ARCA

Alle sei della domenica sera cominciava il riposo generale persino alla šaraška, e
durava fino al mattino. Quella spiacevole interruzione del lavoro da parte dei
detenuti non si poteva proprio evitare, giacché i liberi erano in servizio di
domenica per un solo turno. Si trattava di una tradizione deplorevole, che
nemmeno i maggiori e i tenenti colonnelli potevano combattere, non essendo a
loro volta disposti a lavorare di domenica sera. Solo Mamurin, Maschera di
Ferro, aveva timore di quelle notti vuote, con i liberi che se ne andavano, con
gli zek, che venivano ammassati e tenuti sotto chiave, pur essendo anche loro in
un certo senso persone, e a lui toccava passeggiare da solo per i corridoi vuoti
dell’istituto passando accanto a porte sigillate e piombate, o languire nella sua
cella tra il lavabo, l’armadio e il letto. Mamurin cercava di ottenere che al Sette
si continuasse a lavorare anche la domenica sera, ma non riusciva ad abbattere
il conservatorismo della direzione della prigione speciale, contraria a
raddoppiare le guardie in servizio all’interno della zona.
E in conclusione ventotto decine di detenuti, in disprezzo a tutte le
argomentazioni ragionevoli e ai codici sul loro lavoro, la domenica sera
riposavano spudoratamente.
Quel riposo era di un genere che a una persona non avvezza sarebbe
sembrato una tortura inventata dal diavolo. Il buio fuori e la vigilanza limitata
della domenica non consentivano alla direzione carceraria di organizzare in
quelle ore passeggiate in cortile o la proiezione di un film nella baracca. Dopo
una corrispondenza di un anno con le più alte autorità, strumenti musicali
come “fisarmonica”, “chitarra”, “balalaika” e “armonica”, e a maggior ragione
quelli di formato più grosso, erano stati dichiarati inammissibili alla šaraška in
quanto i loro suoni congiunti avrebbero potuto minarne le fondamenta di
pietra. (Gli oper cercavano di scoprire di continuo dai loro informatori se i
detenuti nascondessero pifferi o flauti improvvisati, e se avevi suonato un
pettinino ti convocavano nel loro ufficio e redigevano uno specifico verbale.)
Ovviamente che negli alloggi della prigione fossero ammessi apparecchi radio e
grammofoni più malconci, neanche a parlarne.
In verità ai detenuti era consentito utilizzare la biblioteca del carcere. La
prigione speciale, tuttavia, non aveva i fondi per acquistare libri e scaffali per
contenerli. Si erano limitati a nominare Rubin bibliotecario della prigione
(l’aveva chiesto lui stesso, pensando di arraffare qualche bel libro), a
consegnargli un centinaio di volumi logori e scompagnati come Mumù di
Turgenev, Lettere di Stasov, Storia di Roma di Mommsen, e a ordinargli di farli
circolare tra i detenuti. I prigionieri li avevano letti già da tempo, oppure non
volevano affatto leggerli, e pregavano i liberi di procurare loro altra roba,
fornendo agli oper un ricco terreno di attività investigativa.
Per il riposo i detenuti avevano a disposizione dieci stanze su due piani, due
corridoi, uno superiore e l’altro inferiore, una stretta scala di legno che
collegava i piani, e un gabinetto sotto la scala. Il riposo consisteva nello stare
sdraiati senza alcuna restrizione nei propri letti (e persino dormire, se
riuscivano a addormentarsi con quel baccano), sedervisi sopra (le sedie non
c’erano), camminare per la stanza e spostarsi da un locale all’altro addirittura in
mutande, fumare a volontà nei corridoi, discutere di politica davanti ai delatori
e usare il gabinetto senza nessun imbarazzo e restrizione. (Del resto, chi è
rimasto a lungo in prigione ed è stato costretto ad andare “a espletare i
bisogni” due volte al giorno a comando, sa apprezzare il valore di quel tipo di
libertà immortale.) Il colmo del riposo era che si trattava di tempo proprio, non
statale. Ragion per cui veniva percepito come autentico riposo.
Il riposo dei detenuti si basava sul fatto che le pesanti porte di ferro
venivano chiuse dall’esterno, nessuno le apriva più, nessuno le varcava, nessuno
veniva chiamato a rapporto e trattenuto. In quelle brevi ore, per il mondo
esterno era impossibile insinuarsi dentro con un suono, una parola,
un’immagine, impossibile turbare l’anima di chicchessia. Anche in quello
consisteva il riposo, che il mondo esterno – l’universo e le sue stelle, il pianeta e
i suoi continenti, le capitali e il loro splendore, lo Stato intero, con le feste di
alcuni e i turni di guardia alla produzione di altri – sprofondava nell’oscurità, si
trasformava in un oceano nero, quasi indistinguibile attraverso le finestre con
le inferriate, sotto l’illuminazione giallastra della zona.
Inondata all’interno dall’elettricità sempre presente dell’MGB, l’arca a due
piani dell’ex seminario, con le sponde spesse quattro mattoni e mezzo, navigava
spensierata e senza meta attraverso quel nero oceano di destini ed errori umani,
lasciando fluttuare rivoli di luce dagli oblò.
In quella notte fra domenica e lunedì, se anche si fosse spaccata la Luna, si
fossero innalzate nuove Alpi in Ucraina, l’oceano avesse inghiottito il
Giappone o fosse cominciato un diluvio universale, i detenuti rinchiusi
nell’arca non ne avrebbero saputo nulla fino all’appello del mattino. A
disturbarli in quelle ore non c’erano né telegrammi da parenti né telefonate
moleste, né un figlio con un attacco di difterite né un arresto notturno.
Quelli che navigavano sull’arca erano imponderabili e avevano pensieri
imponderabili. Non erano né affamati né sazi. Non possedevano la felicità e
dunque non avevano l’ansia di perderla. La loro testa non era invasa da
meschini calcoli di servizio, intrighi e promozioni, le spalle non erano gravate
da preoccupazioni per la casa, il carburante, il pane e i vestiti dei bambini.
L’amore, da tempo immemore piacere e dolore dell’umanità, era incapace di
insinuare il proprio fremito o la propria agonia. Le pene detentive erano così
lunghe che nessuno pensava più a quando sarebbe tornato in libertà. Uomini
eccezionali per intelligenza, istruzione ed esperienza di vita, da sempre troppo
devoti alla famiglia per dare qualcosa di sé agli amici, lì solo agli amici erano
legati.
La forte luce delle lampadine riverberava sui soffitti bianchi, sulle pareti
intonacate a calce, e con migliaia di raggi penetrava in teste rasserenate.
Da lì, dall’arca che si apriva un varco attraverso il buio con decisione, era
facile guardare il torrente tortuoso, a perdita d’occhio, della maledetta Storia;
guardarlo tutto in una volta, come da un’enorme altezza, e nel dettaglio, fino a
un sassolino sul fondo, come tuffandosi dentro.
In quelle ore della domenica sera, materia e corpo non esistevano. Uno
spirito di amicizia maschile e di filosofia si librava sul soffitto dalla volta a vela.
Che fosse quella la felicità che i filosofi dei tempi antichi si sforzavano
invano di definire e indicare?
54
DIVERTIMENTI OZIOSI

Nella stanza semicircolare del primo piano, sotto l’alto soffitto a volta
dell’altare, c’era un grande spazio speciale per i pensieri e l’allegria.
I venticinque uomini di quella camera si riunivano in amicizia verso le sei di
sera. Alcuni si spogliavano più in fretta possibile restando in biancheria intima,
nel tentativo di sbarazzarsi della fastidiosa pelle di prigionieri, e si lasciavano
cadere di peso sulla branda (oppure si arrampicavano in alto come scimmie),
altri si lasciavano a loro volta cadere, ma senza togliersi la tuta; qualcuno si
trovava già in alto e, agitando le braccia, da lassù gridava a un amico qualcosa
attraverso la stanza; qualcun altro non si era ancora cimentato in niente, ma si
era fatto più riflessivo e si guardava intorno pregustando la dolcezza delle ore
di libertà che lo attendevano e perdendosi a pensare come cominciarle nel
modo più piacevole.
Fra questi c’era Isaak Kagan, il bassotto “capo della stanza degli
accumulatori”, come veniva chiamato, dai capelli neri e arruffati. Si trovava in
uno stato d’animo particolarmente positivo, quando arrivò in quel luogo ampio
e radioso dal locale degli accumulatori, un laboratorio buio, seminterrato, con
una cattiva aerazione, dove frugava come una talpa per quattordici ore al
giorno. Del resto lui era contento anche del lavoro nel seminterrato, convinto
com’era che in un campo di lavoro avrebbe già da tempo tirato le cuoia (non
faceva mai come quegli spacconi che si davano tante arie dicendo che nel
campo “vivevano meglio che in libertà”).
Da libero Isaak Kagan, un ingegnere che non aveva terminato gli studi e
faceva il magazziniere ai rifornimenti tecnico-materiali, si era sforzato di vivere
una vita modesta, lasciando che l’epoca delle grandi realizzazioni gli scivolasse
accanto. Per lui, restare un magazziniere mite era la cosa più tranquilla e
redditizia. Riservato, celava però una passione ardente per il profitto e per
ottenerlo si dava da fare. La politica non lo attraeva. Tuttavia, per quanto
poteva, osservava le leggi del sabato anche al magazzino. Ma la Sicurezza di
Stato, chissà perché, aveva deciso di aggiogare Kagan al suo carro e aveva
cominciato a trascinarlo in stanze segrete e dentro innocui luoghi di recapito
clandestino, insistendo affinché diventasse un informatore segreto. Per lui era
davvero una cosa terribile. Non era abbastanza schietto e coraggioso (chi lo
era?) per sbattere loro in faccia che la considerava una cosa schifosa, ma con
inesauribile pazienza taceva, farfugliava qualcosa, la tirava per le lunghe, si
sottraeva, si agitava sulla sedia e in quel modo non firmava mai nessun
impegno. Non che fosse assolutamente incapace di denunciare. Avrebbe
denunciato senza remore chiunque gli causasse del male o un’umiliazione. Ma
gli si spezzava il cuore all’idea di farlo con persone che si erano dimostrate
buone con lui o anche solo indifferenti.
Per quella sua ostinazione, alla Sicurezza di Stato lo avevano preso di mira.
E non è che ti puoi proteggere da ogni cosa al mondo. Al deposito era stata
intavolata una discussione: chi malediceva uno strumento, chi il rifornimento,
chi la programmazione. Isaak non aveva aperto bocca, aveva continuato a
compilare le sue bolle d’accompagnamento con la matita copiativa. Il fatto però
era venuto a conoscenza di qualcuno (di sicuro l’avevano costruito ad arte),
così tutti si erano segnalati a vicenda, riferendo chi aveva detto cosa, e per via
del decimo comma dell’articolo 58 si erano beccati dieci anni a testa. Anche
Kagan aveva subìto cinque confronti, ma nessuno aveva dimostrato che da lui
fosse uscita una sola parola. Se l’articolo 58 fosse stato più rigido avrebbero
dovuto lasciarlo andare. L’inquirente però aveva a disposizione una mossa di
riserva, il dodicesimo comma: omessa denuncia di reato. Per quell’omissione
avevano affibbiato a Kagan gli stessi astronomici dieci anni.
Kagan era passato dal campo di lavoro alla šaraška grazie a un’eccezionale
prontezza di spirito. In un momento difficile, in cui era stato cacciato dal posto
di “vice capobaracca” per essere mandato al taglio del bosco e al trasporto dei
tronchi, aveva scritto una lettera indirizzata al presidente del Consiglio dei
Ministri, il compagno Stalin, in cui affermava che se il governo gli avesse
concesso una possibilità, lui, Isaak Kagan, sarebbe riuscito a realizzare un
radiocomando per motosiluranti.
Aveva fatto bene i suoi calcoli. Nessun membro del governo si sarebbe
intenerito se Kagan con il cuore in mano avesse raccontato di stare tanto male
e avesse chiesto di essere salvato. Un’invenzione militare di grande livello
invece meritava che il suo autore fosse portato subito a Mosca. Kagan era stato
trasferito a Marfino e diversi funzionari con le mostrine azzurre e blu si erano
presentati da lui per incoraggiarlo a trasformare un’audace invenzione tecnica
in qualcosa di concreto. Ma siccome lì gli davano pane bianco e burro, Kagan
non aveva alcuna fretta. Con grande sangue freddo aveva risposto che lui non
era un esperto di siluri e, ovviamente, ce ne voleva uno. Due mesi più tardi gli
avevano mandato un esperto di siluri (uno zek). Ma a quel punto Kagan aveva
obiettato, non a torto, che lui non era un meccanico navale e, ovviamente, ce ne
voleva uno. Due mesi più tardi era arrivato anche un meccanico navale (uno
zek). Con un sospiro, Kagan aveva detto che non era specializzato in radio. Di
ingegneri radio a Marfino ce n’erano molti e uno gli era stato subito assegnato.
Dopo averli riuniti tutti, imperturbabile, in modo che nessuno sospettasse la
sua beffa, Kagan aveva annunciato loro: “Ebbene, amici, ora che vi hanno
riuniti qui, sarete ben capaci, con il vostro impegno collettivo, di inventare dei
motosiluranti radiocomandati. Non è il caso quindi che io mi intrometta
consigliando a voi, che siete degli specialisti, come fare.” Così, i tre erano stati
mandati in una šaraška navale e Kagan, grazie al tempo guadagnato, si era
sistemato nella stanza degli accumulatori e tutti ci avevano fatto l’abitudine.
Adesso stava provocando Rubin, che era sdraiato sul letto, ma lo faceva a
distanza, in modo che Lev non potesse raggiungerlo con una pedata.
– Lev Grigor’ič – disse con la sua parlata vischiosa, non sempre
comprensibile, ma senza fretta. – In lei la consapevolezza del dovere sociale si è
visibilmente affievolita. La massa attende un po’ di svago. Lei è l’unico che può
fornirlo, e invece se ne sta lì immerso nella lettura.
– Isaak, vada a... – rispose Rubin, e fece un gesto con la mano. Si era appena
sdraiato con la giubba imbottita del campo di lavoro gettata sulle spalle, la tuta
sotto (la finestra fra lui e Sologdin, aperta con un Majakovskij, lasciava entrare
una piacevole aria di neve), e ora leggeva.
– No, davvero, Lev Grigor’ič! – L’appiccicoso Kagan non lo lasciava in pace.
– Hanno tutti voglia di sentire di nuovo la sua versione geniale della Volpe e la
cornacchia.
– Chi ha fatto la spia su di me? Non sarà stato lei? – rispose Rubin,
bruscamente.
La domenica sera precedente, per rallegrare il pubblico, Rubin si era
inventato una parodia della celebre favola di Krylov La volpe e la cornacchia,
infarcendola di termini da campo di lavoro e di giochi di parole inadatti a un
orecchio femminile, cosa per la quale gli era stato chiesto cinque volte il bis ed
era stato lanciato per aria. Il lunedì successivo però il maggiore Myšin lo aveva
convocato e interrogato sul decadimento morale; allo scopo erano state
raccolte le deposizioni di alcuni testimoni e da Rubin avevano preteso
l’originale della parodia e un rapporto giustificativo.
Quel pomeriggio Rubin aveva già lavorato due ore nella nuova stanza
assegnatagli, aveva individuato i passaggi tipici dell’“uso del linguaggio” e delle
“formanti” del criminale ricercato, li aveva sottoposti all’analisi
dell’apparecchio del linguaggio visibile, aveva appeso ad asciugare i nastri
umidi e, giunto alle prime congetture e ai primi sospetti, pur senza entusiasmo
per quel nuovo lavoro, aveva guardato Smolosidov sigillare la stanza con la
ceralacca. Dopodiché, nella fiumana di zek che ricordava una mandria di
ritorno al villaggio, era rientrato in prigione.
Sotto il cuscino, il materasso, il letto e nel comodino, in mezzo al cibo era
nascosta come sempre una quindicina di libri interessantissimi (solo per lui,
dato che non circolavano) ricevuti nei pacchi: un dizionario sino-francese, uno
lettone-ungherese e uno russo-sanscrito (Rubin lavorava già da due anni a un
progetto ambizioso, nello spirito di Engels e di Marr: far derivare l’origine di
tutte le parole in tutte le lingue dai concetti di “mano” e “lavoro manuale”;
non sospettava in alcun modo che la notte precedente il Corifeo della
Linguistica aveva dato un bel taglio a Marr); poi c’erano La guerra delle
salamandre di Čapek, una raccolta di racconti di autori giapponesi molto
progressisti (vale a dire simpatizzanti del comunismo), Per chi suona la campana
in inglese (siccome Hemingway aveva smesso di essere progressista, non lo
traducevano più), un romanzo di Upton Sinclair mai tradotto in russo e le
memorie del colonnello Lawrence in tedesco, finite in mezzo ai trofei della
ditta Lorenz.
Al mondo c’era un’infinità di libri più necessari, più urgenti, e la gran fame
di leggerli tutti non aveva mai concesso a Rubin la possibilità di scriverne uno
suo. Adesso Rubin si era ripromesso di leggere e soltanto leggere fin oltre la
mezzanotte, senza pensare alla giornata di lavoro successiva. Ma verso sera
l’inventiva, la sete di discussione e l’oratoria di Rubin erano particolarmente
sciolte e bastava davvero poco per richiamarle a servizio degli altri. Alla šaraška
c’era chi non credeva a Rubin, lo considerava uno spione (per le opinioni
troppo marxiste che non nascondeva), ma non c’era persona che non si
entusiasmasse per le sue trovate.
Il ricordo della fiaba La volpe e la cornacchia, infarcita del gergo ben assimilato
della malavita, era così vivo che anche in quel momento, sulle orme di Kagan,
molti nella stanza reclamavano a gran voce qualche nuova burla. Quando
Rubin, cupo, barbuto, si alzò e sbucò fuori da sotto il riparo della branda
superiore come da una grotta, tutti lasciarono le loro attività e si prepararono
ad ascoltare. Solo Dvoetësov, sulla branda in alto, continuò a tagliarsi le unghie
dei piedi facendole schizzare lontano e Abramson, sotto la coperta, a leggere,
senza voltarsi. Alle porte si erano affollati curiosi delle altre stanze, in mezzo ai
quali si udì il tataro Bulatov, con gli occhiali dalla montatura di corno, gridare
all’improvviso:
– Forza, Lëva! Forza!
Rubin non aveva voglia di far divertire la gente, in particolare quelli che
odiavano e calpestavano quanto aveva di più caro; inoltre sapeva che un nuovo
scherzo avrebbe significato inevitabilmente lunedì nuove seccature,
logoramento di nervi, interrogatori da “Šiškin-Myškin”.
Ma siccome Rubin era come il personaggio di quel detto che pur di farsi
bello non avrebbe pietà nemmeno di suo padre, aggrottò in modo teatrale la
fronte, si guardò intorno solerte e nel silenzio che era calato disse:
– Compagni! La vostra mancanza di serietà mi stupisce. Come si può parlare
di burle quando in mezzo a noi girano dei criminali insolenti non ancora
identificati? Senza un sistema giudiziario equo nessuna società può prosperare.
Ritengo necessario, dunque, iniziare la serata odierna con un piccolo processo.
Tanto per riscaldarci.
– Giusto!
– Un processo a chi?
– Non importa a chi! Tanto è uguale! – risposero in coro.
– Divertente! Molto divertente! – lo incoraggiò Sologdin, sedendosi
comodo. Oggi più che mai si era meritato il suo riposo e voleva trascorrerlo
con inventiva.
L’accorto Kagan, rendendosi conto che l’impresa da lui invocata minacciava
di trascendere i confini del buonsenso, si allontanò senza farsi notare e tornò a
sedersi sulla sua branda.
– Chi sarà processato lo scoprirete nel corso del procedimento – annunciò
Rubin (non ci aveva ancora pensato nemmeno lui). – Io sarò il pubblico
ministero, una carica che ha sempre suscitato in me un’emozione particolare. –
(Alla šaraška sapevano tutti che Rubin aveva nemici personali tra i pubblici
ministeri e già da cinque anni combatteva da solo contro la Procura generale e
contro la Procura militare centrale.)
– Gleb! Tu sarai il presidente del tribunale. Forma al volo una commissione
di tre elementi imparziale, obiettiva: in poche parole prona alla tua volontà.
Neržin, lasciate cadere in basso le scarpe, sedeva sulla sua branda. Ogni ora
trascorsa di quella domenica lo allontanava sempre più dal colloquio del
mattino e lo ricongiungeva al mondo dei carcerati. L’appello di Rubin trovò in
lui un sostegno. Si accostò alla ringhiera del letto e calò le gambe tra le sbarre:
ora sembrava seduto su uno scranno sospeso sopra la camera.
– Allora, chi altro vuol fare il giurato? Si accomodi!
La sala era affollata di detenuti che volevano ascoltare il processo, ma
nessuno si offriva come giurato, per prudenza o per paura di apparire ridicolo.
Accanto a Neržin, da un lato c’era l’addetto al vuoto Zemelja, anche lui
sdraiato sulla branda superiore, che leggeva di nuovo il giornale del mattino.
Neržin lo strattonò forte per il giornale.
– Raggio di sole! Forza, ti sei informato abbastanza! Attento che poi finisci
per aver voglia di dominare il mondo. Infila lì le gambe e fai il giurato!
In basso, si levò uno scroscio di applausi.
– Forza, Zemelja, forza!
Zemelja, che era un’anima buona, non poté tirarsi indietro. Si aprì in un
sorriso e, con la testa calva a penzoloni tra le sbarre, disse:
– Sono stato eletto dal popolo, che grande onore! Come mai, amici? Io non
ho studiato, non sono capace di...
Una risata generale (“Nessuno di noi è capace! Nessuno ha studiato!”) era
stata la risposta alla sua nomina di giurato.
Sempre accanto a Neržin ma dall’altra parte, era sdraiato Rus’ka Doronin. Si
era spogliato e infilato sotto la coperta dalla testa ai piedi, un cuscino in alto gli
nascondeva anche il viso ebbro e felice. Non aveva voglia di sentire o di vedere
niente, e neppure che gli altri vedessero lui. Solo il suo corpo era lì, i pensieri e
l’anima avevano seguito Klara, che adesso stava tornando a casa. Poco prima di
andarsene, lei aveva finito di intrecciare il suo cestino per l’albero e senza dare
nell’occhio lo aveva regalato a Rus’ka. Ora lui lo teneva sotto la coperta e lo
baciava.
Vedendo che era inutile cercare di tirare in mezzo Rus’ka, Neržin si guardò
intorno in cerca di un secondo giurato.
– Amantaj! Amantaj! – fu chiamato Bulatov. – Vieni a fare il giurato.
Gli occhiali di Bulatov scintillarono allegri.
– Ci verrei, ma non c’è posto lassù! Resto qui davanti alla porta, sarò il
custode!
Chorobrov (già aveva tagliato i capelli ad Abramson e ad altri due, e ora li
stava tagliando a un nuovo cliente seduto di fronte a lui in mezzo alla stanza a
torso nudo, per evitare la fatica di togliersi i capelli dalla biancheria) gridò:
– A che ci servono due giurati? Il verdetto non è già scritto? Va bene anche
uno solo!
– In effetti è vero – convenne Neržin. – Perché tenerci uno scroccone in
più? Ma dov’è l’imputato? Custode! Faccia entrare l’imputato! Silenzio, prego!
E batté sulla cuccetta con il grosso filtro della sigaretta. Le conversazioni si
smorzarono.
– Processo! Processo! – chiamavano a gran voce. C’era pubblico seduto e in
piedi.
– Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti – recitò
malinconico Potapov in basso, sotto il presidente del tribunale. – Anche
all’estremità del mare, mi guida la tua mano.106 (Potapov aveva appreso la
legge di Dio al ginnasio e nella sua mente precisa da ingegnere si erano
conservati testi del catechismo.)
Sempre in basso, sotto il giurato, si sentì il suono nitido di un cucchiaino
che mescolava lo zucchero in un bicchiere.
– Valentulja! – gridò con rabbia Neržin. – Quante volte le è stato detto di
non picchiare con il cucchiaino!
– Mandiamolo a fare l’imputato! – urlò Bulatov, e alcune mani servizievoli
trascinarono subito Prjančikov dalla penombra della branda inferiore fino al
centro della stanza.
– Basta! – si dibatteva Prjančikov, esasperato. – Ne ho abbastanza dei
pubblici ministeri! Ne ho abbastanza dei vostri processi! Che diritto ha un
uomo di giudicarne un altro? Ah-ah! È ridicolo! Io la disprezzo, amico! – gridò
al presidente del tribunale. – Io la...
Mentre Neržin organizzava un tribunale, Rubin aveva già pensato a tutto. I
suoi occhi marrone scuro scintillavano per il guizzo della trovata. Con un
ampio gesto risparmiò Prjančikov.
– Lasciate quel pivello! Con il suo amore per la giustizia universale,
Valentulja potrebbe essere solo l’avvocato statale. Dategli una sedia!
In ogni burla c’è un impercettibile momento in cui ogni cosa può diventare
volgare e offensiva o seguire all’improvviso l’ispirazione. Rubin, gettata una
coperta a mo’ di mantello sulle spalle, si arrampicò in calzini sul comodino e si
rivolse al presidente.
– Consigliere di Stato di giustizia! L’imputato ha rifiutato di comparire
davanti alla corte, lo giudicheremo in contumacia. Si prega di cominciare!
Tra la folla davanti alle porte c’era anche Spiridon, lo spazzino coi baffi
biondicci. Il volto dalle guance cadenti era coperto di numerose rughe e in quel
reticolo si combinavano in modo strano severità e allegria. Guardò storto il
tribunale.
Alle spalle di Spiridon, spuntò il lungo viso cereo e delicato del professor
Čelnov, con in testa il berretto di lana.
In tono stridulo, Neržin dichiarò:
– Attenzione, compagni! Dichiaro aperta la seduta del tribunale militare
della šaraška di Marfino. Viene esaminato il caso di...?
– Ol’govič Igor’ Svjatoslavič107... – suggerì il pubblico ministero.
Cogliendo al volo l’idea, con voce monotona e nasale Neržin lesse:
– Si esamina il caso di Ol’govič Igor’ Svjatoslavič, principe di Novgorod-
Seversk e Putivl’, anno di nascita... all’incirca... Ma che diavolo, segretario,
perché all’incirca? Attenzione! Vista la mancanza presso il tribunale di un testo
scritto, l’atto d’accusa sarà letto dal pubblico ministero.
106 Salmi, 138, 8-10.
107 Igor’ Svjatoslavič (1151-1201/1202), principe di Novgorod-Severskij, la cui spedizione contro i
Polovcy nel 1185 è al centro del Canto dell’impresa di Igor’. Non riconoscendo un’eclisse come segno di
sventura, Igor’ mandò il proprio esercito in battaglia fino alla disfatta.
55
IL PRINCIPE IGOR’

Rubin cominciò a parlare con tale leggerezza e facilità che i suoi occhi
sembravano davvero leggere qualcosa sulla carta (lui stesso era stato processato
e giudicato quattro volte, e le formule giudiziarie gli si erano impresse nella
memoria).
– Atto d’accusa del fascicolo investigativo numero cinque milioni barra tre
milioni seicentocinquantunomilanovecentosettantaquattro contro Ol’govič
Igor’ Svjatoslavič.
Gli organi della Sicurezza di Stato hanno condotto Ol’govič I.S. in qualità
di imputato per il seguente caso. Dall’indagine è emerso che Ol’govič, valoroso
comandante dell’esercito russo con il rango di principe e la carica di
comandante della guardia armata, si è dimostrato un vile traditore della patria.
La sua opera di traditore si è manifestata quando si è arreso volontariamente
all’acerrimo nemico del nostro popolo ora smascherato, il khan Končak,
consegnandogli anche il figlio Vladimir Igorevič, il fratello, il nipote e il suo
esercito al completo, con le armi e i beni materiali inventariati.
La sua opera di traditore inoltre si è manifestata quando, abboccando fin
dall’inizio all’amo di una provocatoria eclisse solare costruita ad arte dal clero
reazionario, non ha guidato in un massiccio lavoro politico-esplorativo la sua
guardia armata, mandandolo invece a ‘bere con l’elmo l’acqua del Don’108; per
non parlare delle condizioni antigieniche in cui il fiume versava in quegli anni,
prima dell’introduzione della doppia clorazione. Al contrario, l’imputato, con i
Polovcy già in vista, si è limitato a rivolgere un appello assolutamente
irresponsabile alle truppe:

Fratelli, questo cercavamo e ora combattiamo!109


(fascicolo investigativo, volume 1, foglio 36)
Il significato della sconfitta della guardia armata di Novgorod-Seversk, Kursk,
Putivl’ e Ryl’sk, deleterio per la nostra patria, si caratterizza meglio di ogni altra
cosa nelle parole di Svjatoslav, gran principe di Kiev:

Dio mi ha dato di battere i pagani,


ma voi non avete fermato
l’entusiasmo della gioventudine.110
(fascicolo investigativo, volume 1, foglio 88)
L’errore dell’ingenuo Svjatoslav (dovuto alla sua cecità classista) consiste nel
fatto che egli attribuisce la cattiva organizzazione dell’intera campagna e il
disgregarsi dello sforzo bellico russo alla “gioventudine”, vale a dire la
giovinezza, dell’imputato, non rendendosi conto che qui si tratta di un
tradimento calcolato da lungo tempo.
Il criminale è riuscito a sottrarsi all’istruttoria e al processo, ma Borodin
Aleksandr Porfir’evič111 e un secondo testimone che ha voluto rimanere
anonimo, ma che successivamente sarà indicato come l’Autore del Canto, con
deposizioni inconfutabili hanno smascherato il ruolo spregevole del principe
I.S. Ol’govič, non soltanto nello svolgersi della battaglia, accettata in condizioni
sfavorevoli per il comando russo, sia meteorologiche:

Sono i venti [...] che soffiano le frecce [...],


contro la schiera valorosa di Igor’112

che tattiche:

[I Polovcy] vengono da tutte le parti,


hanno circondato le schiere russe.113
(Ibidem, volume 1, fogli 123, 124,
deposizioni dell’Autore del Canto)

ma anche la sua spregevole condotta, e quella del suo rampollo principesco,


mentre erano prigionieri. Le condizioni di vita in cui venivano tenuti entrambi
nella loro cosiddetta prigionia dimostrano che si trovavano in grande favore
presso il khan Končak e che dovevano per forza aver ottenuto dal comando dei
Polovcy una ricompensa per l’infida resa della guardia armata. Per esempio,
dalle deposizioni del testimone Borodin si è stabilito che in prigionia il
principe Igor’ aveva il suo cavallo, e non solo quello:

Se vuoi, prendi qualsiasi cavallo!114


(Ibidem, volume 1, foglio 233)

Oltre a questo, il khan Končak diceva al principe Igor’:


Tu ora qui ti consideri un prigioniero,
ma davvero vivi da prigioniero e non da ospite mio?115
(Ibidem, volume 1, foglio 281)

e più avanti:

Riconoscilo, vivono forse così i prigionieri?116


(Ibidem, volume 1, foglio 300)
Il khan dei Polovcy mette in luce il cinismo dei suoi rapporti con il principe
traditore:

Per il tuo coraggio, per il tuo ardire,


tu mi sei piaciuto, principe...117
(fascicolo investigativo, volume 2, foglio 5)

Da un’indagine più rigorosa è stato messo in luce che questi cinici rapporti
esistevano già molto tempo prima della battaglia sul fiume Kajaly:

Sempre tu mi sei stato caro.118


(Ibidem, foglio 14, deposizioni del testimone Borodin)

e persino:

Non tuo nemico ma alleato fedele,


Amico fidato, fratello tuo
Avrei voluto essere...119
(Ibidem)
Tutto questo, in pratica, rende l’imputato un complice attivo del khan Končak,
nonché un agente-spia di lungo corso dei Polovcy.
Sulla base di quanto detto si accusa Ol’govič Igor’ Svjatoslavič, anno di
nascita 1151, originario di Kiev, russo, senza partito, mai processato in
precedenza, cittadino dell’Urss, specializzazione condottiero, in servizio come
comandante della guardia armata con il rango di principe, insignito degli
Ordini di Varjag di primo grado e di Sole Rosso, oltre che della medaglia dello
Scudo d’Oro, per aver:
– commesso vile tradimento della patria, unito a sabotaggio, spionaggio e
pluriennale collaborazione criminosa con il khanato dei Polovcy;
– vale a dire per i crimini di cui agli articoli 58-1.b, 58-6 e 58-9 e 58-11 del
Codice penale della RSFSR.
Smascherato dalle deposizioni dei testimoni in poesia e opera, Ol’govič si è
riconosciuto colpevole delle accuse presentate.
In base all’articolo 208 del Codice di procedura penale della RSFSR il presente
caso è stato inviato al pubblico ministero perché l’imputato sia sottoposto a
giudizio.
Rubin riprese fiato e, trionfante, guardò gli zek intorno. Rapito dall’onda della
fantasia, non riusciva più a smettere. A incitarlo erano le risate che correvano
per le brande e vicino alle porte. Aveva detto già più cose, e più taglienti, di
quanto avrebbe dovuto in presenza di alcuni informatori o di gente astiosa
verso le autorità.
Spiridon, con i ruvidi capelli grigio-biondi a spazzola che gli crescevano
disordinati e senza cura sulla fronte, intorno alle orecchie e sulla nuca, non rise
neanche una volta. Assisteva accigliato al processo. Lui, un russo cinquantenne,
era la prima volta che sentiva parlare di quel principe dei tempi antichi fatto
prigioniero, ma nella familiare situazione di un processo e nell’indubbia
presunzione del pubblico ministero riviveva per l’ennesima volta quanto era
capitato anche a lui e intuiva tutta l’ingiustizia degli argomenti del pubblico
ministero e tutta l’afflizione di quello sfortunato principe.
– Data l’assenza dell’imputato e mancando la necessità di interrogare i
testimoni, – continuò Neržin con lo stesso tono nasale e cadenzato di prima –
passiamo al dibattito delle parti. Passo la parola di nuovo al pubblico
ministero.
E lanciò un’occhiata a Zemelja.
– Ma certo, certo – annuì il giurato, sempre d’accordo.
– Compagni giudici! – esclamò Rubin, con aria cupa. – Mi resta poco da
aggiungere alla catena di accuse terribili, al turpe groviglio di delitti che si è
disvelato davanti ai vostri occhi. In primo luogo vorrei respingere con
decisione l’idea corrotta e diffusa secondo la quale un ferito abbia il diritto
morale di arrendersi. Noi, compagni, non la condividiamo assolutamente!
Tanto più se riferita al principe Igor’. Si dice che egli sia stato ferito sul campo
di battaglia. Ma chi può dimostrarlo ora, dopo settecentosessantacinque anni?
Del suo ferimento si è forse conservato un certificato del medico militare della
divisione? In ogni caso nel fascicolo investigativo un certificato simile,
compagni giudici, non c’è!
Amantaj Bulatov si tolse gli occhiali e senza il loro bagliore vivace e
appassionato i suoi occhi avevano un aspetto davvero triste.
Lui, Prjančikov, Potapov e molti altri detenuti che si affollavano in quella
stanza erano finiti dentro per il medesimo “tradimento della patria”, per resa
volontaria al nemico.
– Più avanti – tuonò il pubblico ministero – metterò in evidenza soprattutto
il comportamento ripugnante dell’imputato all’accampamento dei Polovcy. Il
principe Igor’ non pensava affatto alla patria, ma alla moglie:
Tu sei sola, mia colomba,
Tu sei sola120

Dal punto di vista analitico, questo è per noi assolutamente comprensibile,


giacché Jaroslavna, la sua seconda moglie, era giovane, una donna sulla quale
non si poteva fare troppo affidamento, ma da quello pratico il principe Igor’ ci
appare un arrivista! Per chi danzavano i Polovcy? vi domando. Sempre per lui! E
il suo vile rampollo ha intrecciato subito un legame sessuale con Končakovna,
la figlia del khan, anche se il matrimonio con le straniere è severamente vietato
ai nostri cittadini dai relativi organi competenti! E questo nel momento di
massima tensione delle relazioni sovietico-poloviciane in cui...
– Mi scusi! – intervenne Kagan dalla sua branda, con i capelli arruffati. – Ma
il pubblico ministero da cosa deduce che nella Rus’ c’era già il potere sovietico?
– Custode! Cacci fuori questo agente corrotto! – gridò Neržin assestando un
colpo. Ma Bulatov non fece in tempo a muoversi che Rubin, con leggerezza,
era già passato all’attacco.
– D’accordo, risponderò! Ci persuade di questo l’analisi dialettica dei testi.
Leggete l’Autore del Canto:

Si alzano a Putivl gli stendardi... scarlatti121


Mi pare chiaro. Mentre il nobile principe Vladimir Galickij, capo dell’ufficio di
arruolamento militare di Putivl, metteva i giullari Skula e Broška a guardia
della città natale, il principe Igor’ non se ne stava forse lì a contemplare le
gambe nude delle poloviciane? Ci tengo a precisare che simpatizziamo tutti per
questo tipo di attività, ma se Končak gli aveva offerto di scegliere ‘qualunque
bellezza’, allora perché lui, disgraziato, non ne sceglieva una? Chi fra i presenti
crede davvero che un uomo possa rinunciare da solo alle donne? È a questo
punto che il colmo del cinismo si è manifestato, smascherando completamente
l’imputato: la cosiddetta fuga dalla prigionia e il suo ritorno ‘volontario’ in
patria! C’è davvero qualcuno convinto che un uomo al quale hanno offerto
‘qualsiasi cavallo e oro’ possa tornare volontariamente in patria, gettando al
vento tutto questo? Com’è possibile?...
Quella domanda, che i prigionieri di ritorno in patria sentivano durante
l’istruttoria, era stata rivolta anche a Spiridon: quale ragione ti ha spinto a
tornare, se non il fatto che sei al soldo del nemico?!
– Esiste solo un’interpretazione: il principe Igor’ è stato reclutato dai servizi
segreti dei Polovcy e rimandato indietro perché corrompesse lo Stato di Kiev!
Compagni giudici! Sento ribollire in me, come in voi, una nobile indignazione.
Umanamente vi chiederei di impiccarlo, quel figlio di puttana! Ma siccome la
pena di morte è stata abolita, dategli venticinque anni e cinque sulle corna!
Inoltre, per speciale ordinanza del tribunale, l’opera Il principe Igor’, in quanto
totalmente immorale e divulgatrice tra i nostri giovani di comportamenti
proditori, va tolta dalle scene! Sia chiamato a risponderne penalmente anche il
testimone Borodin A.P., scegliendo come misura repressiva l’arresto. E siano
chiamati a risponderne anche gli aristocratici: 1) Rimskij 2) Korsakov, se non
l’avessero scritta, quest’opera disgraziata non sarebbe mai stata rappresentata.
Io ho terminato! – Rubin saltò giù pesantemente dal comodino. Il discorso
aveva preso una piega greve.
Nessuno rideva.
Prjančikov, che nessuno aveva invitato a parlare, si alzò dalla sedia e nel
silenzio profondo, con aria smarrita ma calmo, disse:
– Tant pis, signori! Tant pis! Questa è l’epoca delle caverne o il XX secolo?
Che significa tradimento? Siamo nell’era della fissione nucleare! dei
semiconduttori! del cervello elettronico! Chi ha il diritto, signori, di giudicare
un’altra persona? Chi ha il diritto di privarla della sua libertà?
– Scusate, siamo già arrivati alla difesa? – intervenne educatamente il
professor Čelnov, e tutti si girarono dalla sua parte. – Per prima cosa, in merito
all’esame del pubblico ministero, vorrei aggiungere alcuni fatti omessi dal mio
esimio collega e...
– Ma certo, Vladimir Erastovič, certo! – lo esortò Neržin. – Noi siamo
sempre a favore dell’accusa, sempre contro la difesa e pronti a infrangere
qualsiasi regola giudiziaria. Prego!
Le labbra del professor Čelnov erano incurvate in un sorriso trattenuto.
Parlava in tono molto basso e gli altri lo udivano solo perché gli prestavano
ascolto con rispetto. I suoi occhi sbiaditi scrutavano oltre i presenti, quasi
sfogliassero le antiche cronache. Il pompon sul berretto di lana gli rendeva il
viso più aguzzo e gli conferiva un aspetto diffidente.
– Vorrei far notare – disse il professore di matematica – che il principe Igor’
sarebbe stato smascherato ancor prima della sua nomina a comandante, se
avesse compilato il nostro questionario speciale. Sua madre era una
poloviciana, la figlia di un principe dei Polovcy. Il principe Igor’ quindi aveva
sangue per metà poloviciano ed era stato alleato dei Polovcy per molti anni.
Era ‘alleato fedele e amico affidabile’ di Končak già prima della campagna! Nel
1180, sconfitto dai figli del Monomaco, fuggì da loro su una barca con il khan
Končak! In seguito Svjatoslav e Rjurik Rostislavič chiamarono Igor’ alle grandi
campagne panrusse contro i Polovcy, ma Igor’ si sottrasse con il pretesto di un
‘grande e feroce’ gelo. Forse perché già allora Svoboda Končakovna era
promessa sposa di Vladimir Igorevič? Nel 1185 in oggetto, alla fine, chi aiutò
Igor’ a fuggire? Uno dei Polovcy! Il poloviciano Ovlur, che in seguito Igor’
‘fece dignitario’. Fu poi Končakovna a condurre il nipote da Igor’... Per aver
coperto questi fatti, proporrei di chiamare a risponderne anche l’Autore del
Canto, e poi il critico musicale Stasov, che non si accorse delle tendenze
proditorie dell’opera di Borodin, e infine il conte Musin-Puškin, perché è
impossibile che non avesse nulla a che fare con l’incenerimento dell’unico
manoscritto del Canto. È chiaro che qualcuno, cui la cosa portava vantaggio,
fece sparire le tracce.
E Čelnov arretrò, dando a intendere di aver finito.
Sulle labbra continuava ad avere lo stesso vago sorriso.
Ammutolirono.
– Non c’è nessuno a difendere l’imputato? Un uomo ha pur diritto a una
difesa! – si indignò Isaak Kagan.
– Quel serpente non ha ragione di essere difeso! – gridò Dvoetësov. –
‘1.b.’122 e via al muro!
Sologdin aggrottò la fronte. Rubin aveva detto cose molto divertenti e le
conoscenze di Čelnov erano da ammirare, ma il principe Igor’ rappresentava il
periodo cavalleresco, cioè il più glorioso della storia russa, dunque non andava
usato per una burla nemmeno indirettamente. Sologdin sentiva come una
sgradevole punta di amaro in bocca.
– Va bene, come volete, intervengo io in sua difesa! – disse Isaak, una volta
preso coraggio, gettando uno sguardo malizioso al pubblico. – Compagni
giudici! Come nobile avvocato statale sottoscrivo in pieno gli argomenti del
pubblico ministero. – Strascicava le parole e farfugliava un po’. – La coscienza
mi dice che il principe Igor’ non andrebbe solo impiccato, ma anche squartato.
È vero, nella nostra umana legislazione è già il terzo anno che non esiste più la
pena di morte, e noi siamo costretti a trovare delle alternative. Tuttavia, non
capisco come mai il pubblico ministero abbia un cuore così sospettosamente
tenero. (A questo punto bisogna controllare anche il pubblico ministero!)
Come mai scende direttamente di due gradini nella scala delle punizioni e si
ferma a venticinque anni di lavori forzati? Nel nostro codice penale c’è una
punizione che è appena più morbida della pena di morte, una punizione molto
più terribile di venticinque anni di lavori forzati.
Isaak fece una pausa per dare alle sue parole maggiore effetto.
– Qual è, Isaak? – gli gridavano con impazienza. E lui, tanto più lentamente,
e in modo ancora più ingenuo, rispose:
– L’articolo 20, comma ‘a’.
Sebbene lì dentro tutti potessero vantare una ricca esperienza carceraria,
nessuno aveva mai sentito parlare di quell’articolo. Chissà dove l’aveva scovato,
quel pignolo!
– Be’, e che cosa dice? – Da ogni parte cominciarono a volare ipotesi
indecenti. – Di tagliargli le p...?
– Quasi, quasi – confermò Isaak, imperturbabile. – È la castrazione
spirituale. Con l’articolo 20 comma ‘a’ vieni dichiarato nemico dei lavoratori ed
espulso dall’Urss! Fuori, a morire laggiù in Occidente! Ho finito.
Poi, piccolo, umile, con la testa ricciuta reclinata da una parte, si diresse
verso il suo letto.
La stanza fu inondata da uno scoppio di risate.
– Come? Come? – ruggì Chorobrov, quasi soffocando, e il suo cliente
sussultò per lo scatto della macchinetta. – Ti possono espellere? C’è davvero un
punto così?
– Chiedi di inasprire la pena! Chiedi di inasprirla! – gli gridavano.
Il contadino Spiridon fece un sorriso sornione.
Parlavano tutti insieme e cominciarono a disperdersi.
Rubin si era di nuovo sdraiato bocconi e cercava di immergersi in un
dizionario mongolo-finlandese. Stava maledicendo il modo stupido in cui si
esponeva sempre, si vergognava della parte che aveva recitato.
Con la sua ironia avrebbe voluto colpire solo l’ingiustizia dei giudici; gli altri
invece non sapevano quando fermarsi e si facevano beffe della cosa più
preziosa: il socialismo.

108 Il canto dell’Impresa di Igor’, tr. it. di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1991, p. 43. Nell’Antica Rus’, bere
con l’elmo da un fiume in terra nemica era simbolo di vittoria in battaglia.
109 Codice Ipaziano.
110 Codice Ipaziano.
111 Aleksandr Borodin (1833-1887), compositore russo, la cui unica opera teatrale, Il principe Igor’, narra le
stesse vicende del Canto dell’impresa di Igor’.
112 Il canto dell’Impresa di Igor’, cit., p. 51.
113 Ibid.
114 Dal libretto originale russo dell’opera Il principe Igor’ di Aleksandr Borodin.
115 Ivi.
116 Ivi.
117 Ivi.
118 Ivi.
119 Ivi.
120 Ivi.
121 Il canto dell’impresa di Igor’, tr. it. di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1991, p. 45.
122 Articolo 58-1.b, tradimento da parte di personale militare: pena di morte con confisca dei beni.
56
FINENDO IL VENTESIMO

Intanto Abramson, con la spalla e la guancia premute contro il cuscino


sprimacciato, continuava a divorare Il conte di Montecristo. Stava sdraiato e dava
le spalle a quanto accadeva nella stanza. Non c’era finto processo che potesse
catturare la sua attenzione. Aveva solo voltato leggermente la testa quando a
parlare era stato Čelnov, perché quei particolari gli risultavano nuovi.
In vent’anni di deportazioni, prigioni di transito, carceri istruttorie, isolatòri,
campi di lavoro e šaraški, Abramson, un tempo un oratore dalla voce tonante
che si esaltava facilmente, era diventato insensibile, estraneo alle sofferenze
proprie e di chi lo circondava.
Il processo giudiziario or ora rappresentato nella stanza riguardava il
destino della fiumana di prigionieri degli anni ’45-’46. Abramson poteva, in
teoria, riconoscere il loro tragico destino, ma si trattava di una fiumana come
tante altre e neanche fra le più significative. Erano prigionieri che destavano
curiosità perché avevano visto molti paesi stranieri (“falsi testimoni viventi”,
scherzava Potapov), ma restava comunque una fiumana grigia, erano vittime
indifese della guerra, e non persone che nella vita avevano scelto
volontariamente la lotta politica.
Ogni fiumana di zek dell’NKVD, come ogni generazione di persone sulla
Terra, aveva la propria storia, i propri eroi.
Ed era difficile per una generazione capirne un’altra.
Ad Abramson sembrava che quelle persone non potessero essere paragonate
ad altre, a quei colossi che come lui, alla fine degli anni Venti, avevano scelto
volontariamente la deportazione sullo Enisej invece di ritrattare le parole
pronunciate alle riunioni di partito e rimanere nel benessere: una simile scelta
era toccata a ciascuno di loro. Quelle persone non potevano sopportare le
distorsioni e il discredito cui veniva sottoposta la rivoluzione ed erano pronti a
immolarsi per purificarla. Ma trent’anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre questa
“giovane sconosciuta progenie”123 entrava in cella e con imprecazioni da
contadino, senza troppi complimenti, ripeteva la stessa cosa per la quale
durante la Guerra civile i combattenti delle Unità a Destinazione speciale124
fucilavano, incendiavano e affogavano.
E perciò Abramson, che personalmente non era ostile e non discuteva mai
con nessuno dei prigionieri singolarmente, in generale non accettava questa
specie.
E in genere (come cercava di convincersi da solo) non soffriva più da un
pezzo per ogni lite fra prigionieri, confessione e racconto di fatti che la gente
aveva visto coi propri occhi. La curiosità per quanto dicevano all’altro angolo
della cella, se l’aveva avuta da giovane, ora era persa da tempo. Anche vivere
per la produzione era uno slancio spento da tempo. Vivere per la famiglia non
poteva, visto che era lontano dalla sua città, non gli concedevano mai colloqui e
le lettere censurate che arrivavano alla šaraška venivano già impoverite
involontariamente e prosciugate della linfa di esseri viventi da chi le scriveva.
Non riservava grande attenzione nemmeno ai giornali: il senso gli appariva
chiaro già solo scorrendo i titoli. Poteva ascoltare le trasmissioni musicali non
più di un’ora al giorno, ma non reggeva quelle in cui si parlava, come pure i
libri stracolmi di menzogne. E sebbene dentro di sé, da qualche parte, nei suoi
più reconditi recessi, avesse conservato un interesse non solo vivo ma
straordinario per i destini del mondo e per la sorte della dottrina cui aveva
consacrato la vita, esteriormente aveva addestrato sé stesso al totale disprezzo
di chi gli stava intorno. Così il trockista Abramson, non fucilato a tempo
debito, né fatto morire di stenti o avvelenato, non amava i libri che ardevano di
verità ma quelli che lo divertivano e lo aiutavano a far passare gli anni infiniti
della sua pena carceraria.
...Sì, nel ’29 nella taiga dello Enisej, nessuno leggeva Il conte di Montecristo... Si
erano riuniti sull’Angara, nel lontano e solitario villaggio di Doščany, per
raggiungere il quale bisognava attraversare la taiga su una pista per slitte di
trecento verste; provenivano tutti da luoghi ancora più lontani di un centinaio
di verste e si erano raccolti lì con la scusa di festeggiare il Nuovo Anno, per un
convegno fra deportati, con lo scopo di discutere della situazione
internazionale e nazionale. Il gelo era sceso fino a meno cinquanta. La stufa di
ferro in un angolo non riusciva a riscaldare in nessun modo la spaziosa isba
siberiana che aveva la stufa russa rotta (per questa ragione il luogo era stato
concesso ai deportati). Le pareti dell’isba erano ghiacciate. Nel silenzio della
notte, di tanto in tanto, i tronchi di cui erano formate emettevano un forte
scoppio, che ricordava il colpo di un fucile.
Aveva aperto il convegno Satanevič, con una relazione sulla politica del
partito in campagna. Si era tolto il berretto, liberando il fluttuante ciuffo nero,
ma era rimasto con indosso il pellicciotto e dalla tasca gli spuntava sempre un
volumetto di frasi idiomatiche inglesi (“bisogna conoscere il nemico”). A
Satanevič, in genere, piaceva il ruolo del leader. In seguito lo avevano ucciso a
Vorkuta, pare durante uno sciopero.
In quella relazione Satanevič riconosceva che c’era un germe di razionalità
nel frenare la classe conservatrice dei contadini attraverso draconiani metodi
stalinisti: non lo avessero fatto, l’onda reazionaria si sarebbe riversata in città,
affondando la rivoluzione. (Oggi possiamo dire che, nonostante quel freno, i
contadini si sono riversati comunque in città, l’hanno affondata con la piccola
borghesia, hanno affondato persino l’apparato stesso del partito, reso debole
dalle epurazioni, e portato così la rivoluzione alla rovina.)
Ma, ahimè, maggiore era la passione con cui si esaminavano le relazioni, più
si guastava l’unità del misero gruppetto di deportati: emergevano non due o tre
opinioni diverse, ma tante quanti erano i partecipanti. Verso il mattino, stanchi,
avevano sospeso ufficialmente la conferenza senza giungere a una risoluzione.
Poi avevano mangiato e bevuto da stoviglie statali, usando rami di abete
come decorazioni per coprire rozzi buchi e fibre sfilacciate sulla tavola. I rami,
scongelandosi, odoravano di neve e resina, pungevano le mani. Si beveva vodka
fatta in casa. Alzando i calici, avevano giurato che nessuno dei presenti avrebbe
mai firmato una ritrattazione capitolarda.
In Unione Sovietica si attendeva da un mese all’altro una tempesta politica!
Poi avevano cantato i gloriosi canti rivoluzionari: La Varsaviana, Sul mondo
sventola la nostra bandiera, Il barone nero.
Avevano discusso anche di quel che capitava, cose futili.
Rosa, un’operaia della Fabbrica Tabacchi di Char’kov, stava seduta su un
materasso di piume (se l’era portato in Siberia dall’Ucraina e ne era molto
orgogliosa), fumava una papirosa dietro l’altra, scuotendo con aria sprezzante i
riccioli tagliati corti, e diceva: “Detesto gli intellettuali! Le loro ‘finezze’ e
‘complessità’ sono nauseanti. La psicologia umana è di gran lunga più semplice
di come la vorrebbero dipingere gli scrittori prerivoluzionari. Il nostro
compito è liberare l’umanità dal sovraccarico spirituale!”
E chissà come erano arrivati a parlare di ornamenti femminili. Uno dei
deportati, Patrušev, un ex pubblico ministero di Crimea, la cui fidanzata lo
aveva raggiunto dalla Russia di recente, in tono provocatorio aveva esclamato:
“Perché volete impoverire la futura società? Perché non dovrei sognare
un’epoca in cui ogni ragazza potrà indossare le perle? In cui ogni uomo sarà in
grado di ornare la testa della sua eletta con un diadema?”
Che chiasso si era sollevato! Con quale furia lo avevano sommerso di
citazioni di Marx, Plechanov, Campanella e Feuerbach!
La futura società! Con quanta facilità ne parlavano!
Era spuntato il sole del nuovo anno, il 1930, tutti erano usciti ad ammirarlo.
Era una vigorosa, gelida mattina, colonne di fumo rosa si sollevavano in un
cielo anch’esso rosa. Sul bianco e largo fiume Angara alcune donne portavano
il bestiame a bere vicino agli abeti, in un buco sulla superficie ghiacciata.
Uomini e cavalli non c’erano, li avevano mandati al taglio del bosco.
Da allora erano trascorsi due decenni... L’attualità dei brindisi di allora era
sfiorita e decaduta. Avevano fucilato sia quelli che si erano dimostrati
irremovibili fino alla fine sia quelli che si erano arresi. Solo nella testa solitaria
di Abramson, rimasta intatta sotto la campana da serra della šaraška, crescevano
come alberi invisibili la comprensione e la memoria di quegli anni...
Così gli occhi di Abramson fissavano il libro senza leggerlo.
Fu allora che Neržin si sedette sul bordo della sua branda.
Lui e Abramson si erano conosciuti tre anni prima in una cella alla Butyrka,
la stessa in cui era rinchiuso anche Potapov. Abramson, che allora stava per
finire di scontare la sua prima decina, lasciava sbigottiti i compagni di cella per
la gelida autorevolezza da condannato, per lo scetticismo incallito sui fatti della
prigione, mentre in segreto aveva la folle speranza di tornare presto dalla
famiglia.
Si erano separati. Abramson era stato liberato poco dopo per una svista, il
tempo necessario alla famiglia per partire e trasferirsi a Sterlitamak, dove la
polizia aveva accettato di registrare Abramson. Non appena la famiglia si era
trasferita, lo avevano rimesso dentro, dopo un solo interrogatorio: era stato
davvero in esilio dal ’29 al ’34 e di lì in poi in prigione? E appurato che sì,
aveva già scontato la pena interamente ed era uscito, e c’era rimasto anche
molto di più di quanto stabilito dal tribunale, l’OSO gli aveva dato altri dieci
anni. La direzione delle šaraški aveva appreso dell’ammaraggio del suo ex
lavoratore dall’archivio pansovietico dei detenuti e lo aveva ripreso con piacere
in una delle sue strutture. Abramson era stato portato a Marfino e lì, come
capitava ovunque nel mondo dei detenuti, aveva rincontrato subito i vecchi
conoscenti, tra i quali Neržin e Potapov. E quando dopo essersi rivisti si erano
fermati a fumare in piedi sulle scale, ad Abramson era sembrato di non aver
mai avuto un anno in libertà, non aver riabbracciato la famiglia, gratificato la
moglie con un’altra figlia, era stato un sogno spietato per il cuore di un
detenuto, l’unica realtà esistente al mondo era la prigione.
Ora Neržin si era seduto sul letto per invitare Abramson a una tavolata di
festa: avevano deciso di festeggiare il suo compleanno. Abramson fece gli
auguri a Neržin in ritardo e, guardandolo in tralice da dietro gli occhiali, si
informò su chi ci sarebbe stato. Abramson non provò la minima soddisfazione
all’idea di rinfilarsi la tuta, rovinandosi la domenica trascorsa in modo così
meraviglioso, coerente, in mutande, e lasciare un libro divertente per andare a
un compleanno. Ma soprattutto, non aveva alcuna speranza di trascorrere là del
tempo piacevole; al contrario, era quasi certo che si sarebbe svolta qualche
discussione politica, pronta a rivelarsi come sempre sterile, incapace di
arricchire, e sarebbe stato impossibile non lasciarsi coinvolgere, anche se non se
lo poteva permettere, perché i pensieri sottoposti alle tante offese che lui
conservava nel profondo non si potevano svelare a detenuti “giovani”, sarebbe
stato come mostrare la propria moglie nuda.
Neržin gli elencò gli invitati. Rubin era l’unico alla šaraška davvero vicino ad
Abramson, anche se quest’ultimo avrebbe voluto rimproverarlo per la farsa di
quel giorno, per niente degna di un vero comunista. Sologdin e Prjančikov
invece ad Abramson non piacevano. Eppure Rubin e Sologdin si
consideravano amici per essere stati insieme sui pancacci della Butyrka. Anche
l’amministrazione li distingueva poco e in occasione dei festeggiamenti di
novembre li spediva insieme al “gioioso isolamento” di Lefortovo.
Niente da fare, Abramson dovette acconsentire. Gli fu annunciato che il
banchetto era previsto tra i letti di Potapov e Prjančikov di lì a mezz’ora, non
appena Andreič avesse finito di preparare la crema.
Mentre conversavano Neržin aveva notato il libro che stava leggendo
Abramson, e gli disse:
– È capitato anche a me di leggere in prigione Il conte di Montecristo, però non
l’ho finito. Ho notato che sebbene Dumas si sia sforzato di creare un senso
d’orrore, descrive Château d’If come una prigione assolutamente patriarcale.
Per non parlare della mancanza di dettagli affascinanti come la rimozione
quotidiana del bugliolo dalla cella, su cui Dumas tace, giacché da ‘libero’ non
può conoscerlo. Lei ha capito come ha fatto Dantès a fuggire? Perché erano
anni che non perquisivano le celle, mentre le perquisizioni vanno fatte ogni
settimana; ecco il motivo per cui il cunicolo non è stato scoperto. Inoltre le
guardie non si davano il cambio, mentre dall’esperienza della Lubjanka noi
sappiamo che dovrebbero farlo ogni due ore, in modo che un sorvegliante
frughi lì dove può essere sfuggito a un altro. A Chateau d’If invece non
entravano nella cella per giorni. Non avevano nemmeno gli spioncini: Chateau
d’If non era una prigione ma una casa di villeggiatura al mare! Nella cella ti
lasciavano una pentola di metallo e con quella Dantès aveva potuto fare un
buco nel pavimento. Infine, il morto era stato cucito senza sospetti in un sacco,
invece di bruciarne il corpo all’obitorio con un ferro rovente e infilzarlo con la
baionetta al posto di guardia. Dumas avrebbe dovuto accentuarne non la
cupezza ma la metodica elementare.
Neržin non leggeva mai i libri solo per divertimento. Nei libri cercava degli
alleati o dei nemici, per ogni libro elaborava con precisione un giudizio e
amava imporlo agli altri.
Abramson conosceva questa sua pesante abitudine. Lo ascoltava, senza
alzare la testa dal cuscino, guardandolo tranquillo attraverso gli occhiali
quadrati.
– Allora vengo – rispose e, sistematosi meglio, riprese a leggere.

123 Aleksandr Puškin, Sono tornato a vedere (1935).


124 Create nel 1919 in difesa della rivoluzione, erano formate da membri del Partito e del Komsomol e
partecipavano alla repressione delle rivolte popolari. Furono sciolte nel 1924.
57
BAZZECOLE DA DETENUTI

Neržin andò ad aiutare Potapov a preparare la crema. Negli anni di fame della
prigionia tedesca e delle carceri sovietiche, Potapov aveva appurato che nella
vita il processo di masticazione non soltanto non era spregevole, una cosa di
cui vergognarsi, ma molto dilettevole, e rivelava in noi l’essenza dell’essere.
...Mi piace precisare l’ora
dicendo “pranzo”, “tè”,
“cena”...125

così citava il poeta quell’incredibile specialista russo dell’alta tensione, che


aveva dedicato la vita alla trasformazione di migliaia e migliaia di kilowatt.
E poiché Potapov era uno di quegli ingegneri le cui mani stavano al passo
con la testa, si era trasformato in fretta in un cuoco eccellente: nel
Kriegsgefangenenlager126 sapeva preparare una torta all’arancio usando solo bucce
di patate, e nelle šaraški si era concentrato e specializzato nei dolci.
Adesso trafficava su due comodini piazzati nel passaggio in penombra fra il
suo letto e quello di Prjančikov; grazie ai materassi in alto che proteggevano
dalla luce delle lampadine, si era creata una piacevole penombra. Per via della
forma semicircolare della stanza (i letti erano disposti a raggiera), il passaggio
era stretto all’inizio e si allargava verso la finestra. Potapov aveva usato anche
l’enorme davanzale largo quattro mattoni e mezzo: vi erano sparsi barattoli di
conserve, scatole e ciotole di plastica. Potapov officiava, sbattendo latte
condensato, cacao condensato e due uova (una parte di questi doni gliel’aveva
passata Rubin, che riceveva costantemente pacchi da casa e li divideva sempre
con gli altri), e creava cose che non avevano un nome nel linguaggio umano. Si
rivolse brontolando a Neržin, che era lì a gironzolare, e gli ordinò di inventarsi
una soluzione per i bicchieri che mancavano (uno era il tappo di un thermos,
due dei becher di un laboratorio chimico, altri due li aveva fatti Potapov
incollando un po’ di carta oleata). Per gli ultimi due Neržin propose di usare
dei bicchieri da barba e si incaricò di lavarli accuratamente con l’acqua calda.
Nella stanza semicircolare il placido riposo domenicale aveva preso piede.
Alcuni sedevano sui letti a chiacchierare con i loro compagni coricati, altri
leggevano e scambiavano osservazioni con i vicini, altri ancora erano sdraiati a
fare niente, le mani appoggiate sotto la nuca e lo sguardo impassibile rivolto al
soffitto bianco.
Tutto si fondeva in un’unica generale dissonanza di voci.
L’addetto al vuoto Zemelja era sdraiato a poltrire sulla sua branda superiore,
nudo fino ai mutandoni (lassù in alto faceva troppo caldo); si accarezzava il
petto villoso e, sorridendo con uno dei suoi invariabili sorrisi gentili,
raccontava al mordvino Miška, attraverso due campate aeree:
– Se vuoi saperlo, è iniziato tutto con il mezzo copeco.
– Come con il mezzo copeco?
– Prima, fra il ’26 e ’28, tu eri ancora un bambino, sopra ogni cassa c’era
appesa una targhetta: ‘Esigete il mezzo copeco di resto!’ Esisteva sul serio una
moneta del genere, il mezzo copeco. Le cassiere te lo davano senza batter
ciglio. Eravamo in piena NEP, vale a dire in tempo di pace.
– Non c’era la guerra?
– Ma quale guerra, sciocco! Era prima del potere sovietico, dunque in tempo
di pace. Già... Nelle istituzioni, durante la NEP, si lavorava sei ore, non come
adesso. E se la cavavano. Ma se venivi trattenuto quindici minuti in più, ti
segnavano subito lo straordinario. Cosa credi sia scomparso per primo? Il
mezzo copeco. È cominciato tutto da lì. Poi è scomparso il rame. Nel ’30
l’argento, e non si trovavano più gli spiccioli. Non ti davano il resto, potevi
strillare quanto volevi. Da allora non ha funzionato più nulla. Mancavano gli
spiccioli, così si sono messi a contare in rubli. Un mendicante non ti chiedeva
più un copeco per amore di Cristo, insisteva: ‘Cittadino, mi dia un rublo!’ Nelle
istituzioni, quando ricevevi lo stipendio, se chiedevi i copechi segnati in busta
paga, ti ridevano in faccia, ti davano dello spilorcio! Gli scemi erano loro! Il
mezzo copeco significava rispetto per le persone, mentre tenersi sessanta
copechi di resto era come cagarti in testa. Non hanno difeso il mezzo copeco e
hanno finito per perdersi mezza vita.
Dalla parte opposta, sempre in alto, un detenuto si staccò dal proprio libro e
disse al vicino:
– Senti quanto erano stupidi quelli del governo zarista! Sašen’ka, una
rivoluzionaria, fece uno sciopero della fame di otto giorni per obbligare il capo
della prigione a chiederle scusa; e quel cretino si scusò. Prova un po’ a
pretendere che il direttore della Krasnaja Presnja si scusi!
– Da noi quella scema verrebbe nutrita a forza con un tubo già il terzo
giorno, e due giorni dopo si beccherebbe pure una seconda condanna per
provocazione. Dove l’hai letto?
– Lo scrive Gor’kij.
Dvoetësov, sdraiato poco lontano, trasalì:
– Chi di voi sta leggendo Gor’kij? – domandò con minacciosa voce di basso.
– Io.
– Perché?
– Che altro si può leggere qui?
– Meglio se ti fai un giro al gabinetto! Ora qui sono diventati tutti letterati e
umanisti, ma andate a quel paese!
In basso, sotto di loro, si svolgeva un tipico dibattito da cella: su quando è
meglio finire dentro. Già dal modo in cui il quesito era formulato si presupponeva
fatalmente che nessuno potesse sottrarsi al carcere. (In prigione, in genere, si ha
la tendenza a esagerare il numero dei detenuti: nella realtà stavano dentro non
più di dodici, quindici milioni di persone, ma gli zek erano convinti che ve ne
fossero almeno venti o trenta milioni. Pensavano che in libertà non fosse
rimasto quasi nessuno, a parte le autorità e quelli dell’MVD.) Dunque, quando
era meglio finire dentro, in gioventù o in là con gli anni? Alcuni (di solito i
giovani) sostenevano allegramente che fosse meglio finire in prigione da
giovani: così uno faceva in tempo a capire che cosa significava vivere, cos’era
prezioso nella vita e cosa una merda, mentre dai trentacinque anni in su, dopo
aver sistemato le cose per un decennio, l’uomo poteva costruire la vita su basi
ragionevoli. Chi si trovava dentro durante la vecchiaia, dicevano, non faceva
che strapparsi i capelli perché non aveva vissuto al meglio, la vita che aveva
trascorso era stata una catena di errori ormai impossibile da correggere. Altri
(di solito i vecchi) dimostravano con non meno entusiasmo il contrario, che
stare in prigione da vecchi era come vivere tranquillamente in pensione o in un
monastero, tanto dalla vita avevi già preso tutto negli anni migliori (nei ricordi
dei detenuti quel “tutto” si riduceva al possesso del corpo femminile, ai bei
vestiti, al cibo nutriente e al vino) e nel campo di lavoro un vecchio non lo
spellano poi troppo. Un giovane, dicevano, qui lo sfiniscono e lo rovinano al
punto che dopo “non gli viene neanche più voglia di una donna”.
Così discutevano sempre i detenuti, come quel giorno nella sala
semicircolare, chi consolandosi, chi tormentandosi, ma la verità non veniva mai
fuori dalle loro ragioni e dai loro esempi diretti. La domenica sera risultava che
stare dentro è sempre un bene, ma quando ci si alzava il lunedì mattina era
chiaro che era sempre un male.
Eppure, nemmeno questo era del tutto vero...
La discussione su quando fosse meglio finire dentro era prerogativa di quelli
che non cercavano di irritare gli altri contendenti ma di riappacificarsi, che lo
ammantavano di filosofica tristezza. Quella discussione non conduceva mai a
scoppi violenti.
Una volta Thomas Hobbes ha detto che se una verità come “la somma degli
angoli di un triangolo è uguale a centottanta gradi” ledesse gli interessi di
qualcuno, scorrerebbe del sangue.
Ma Hobbes non conosceva la natura dei prigionieri.
Sull’ultima branda accanto alla porta si stava svolgendo esattamente il tipo
di dibattito che avrebbe potuto innescare una rissa e, anche senza ledere gli
interessi di nessuno, condurre a uno spargimento di sangue: un tornitore era
venuto a trascorrere la serata da un amico elettricista, all’inizio chissà perché si
erano messi a parlare di Sestroreck127, passando poi alle stufe che riscaldavano
le case di quel posto. Il tornitore aveva trascorso un inverno a Sestroreck e
ricordava bene com’erano le stufe. L’elettricista invece non c’era mai stato di
persona, ma suo cognato era fumista di primo livello, installava le stufe proprio
a Sestroreck e raccontava esattamente il contrario di quello che ricordava il
tornitore. La loro diatriba, cominciata da un semplice diverbio, era giunta al
punto in cui le voci tremano e si lanciano insulti personali, salendo a un
volume tale da sovrastare tutti i discorsi nella stanza: i contendenti soffrivano
per la dolorosa incapacità di dimostrare l’ovvietà della propria ragione, si
sforzavano inutilmente di trovare un giudice terzo tra i presenti, quando
all’improvviso si ricordarono che lo spazzino Spiridon se ne intendeva di stufe
e al massimo avrebbe detto loro una terza cosa, che a Sestroreck di stufe tanto
infernali non ce n’erano né ci sarebbero mai state in nessun altro luogo. E per
la gioia dell’intera stanza, se ne andarono a passo veloce dallo spazzino.
Ma per la foga si dimenticarono di chiudersi la porta alle spalle e dal
corridoio giungeva un altro dibattito non meno straziante, quando fosse più
corretto salutare l’inizio della seconda metà del XX secolo: il 1° gennaio 1950 o
il 1° gennaio 1951? La disputa doveva essere cominciata da un pezzo e si era
bloccata su una questione: il 25 dicembre di quale anno era nato Gesù Cristo?
La porta venne chiusa con un tonfo. Il chiasso, da far scoppiare la testa, si
placò; nella stanza scese la calma, si udiva solo Chorobrov raccontare al
progettista calvo, in alto:
– Quando i nostri si prepareranno a volare per primi sulla Luna, alla
partenza, accanto al razzo, faranno un bel comizio. L’equipaggio del razzo si
assumerà l’impegno di economizzare il carburante, raggiungere durante il volo
la massima velocità cosmica, non fermare la navicella interplanetaria in volo per
riparazioni e compiere l’atterraggio solo con standard ‘buoni’ o ‘ottimi’. Uno
dei tre membri dell’equipaggio sarà un istruttore politico128. Durante il
tragitto, condurrà ininterrottamente sul pilota e sul navigatore un lavoro di
chiarificazione di massa a proposito dell’utilità dei viaggi cosmici ed esigerà da
loro articoli per il giornale murale.
Questo sentì Prjančikov, mentre con asciugamano e sapone attraversava di
corsa la stanza. Si avvicinò a passo di danza a Chorobrov e, con sguardo
misteriosamente accigliato, disse:
– Il’ja Terent’ič! Stia tranquillo. Non avverrà così.
– E come, allora?
Come in un film giallo, Prjančikov si accostò un dito alle labbra:
– Primi sulla Luna arriveranno gli americani!
E scoppiò in una scampanellante risata fanciullesca.
E scappò via.
L’incisore era seduto sul letto di Sologdin. I due erano impegnati in una
trascinante conversazione sulle donne. L’incisore aveva quarant’anni, ma il viso
ancora giovane era incoronato da capelli quasi completamente biondo chiaro:
lo facevano piuttosto bello.
Oggi si sentiva su di giri. Era vero, quella mattina aveva commesso uno
sbaglio ad appallottolare il suo racconto e mangiarselo, visto che,
probabilmente, avrebbe potuto superare la perquisizione e finire nelle mani di
sua moglie. Al colloquio infatti l’incisore aveva saputo che la moglie in quei
mesi era riuscita a mostrare i suoi racconti precedenti ad alcune persone fidate:
ne erano rimaste entusiaste. Naturalmente gli elogi da parte di amici e parenti
potevano essere esagerati e in parte immeritati, ma – accidenti! – dove trovarne
di sinceri? Bene o male che lo facesse, l’incisore cercava di tramandare in eterno
la verità, le grida dell’anima su quanto Stalin aveva fatto a milioni di prigionieri
russi. E adesso ne era orgoglioso, felice, soddisfatto, e aveva preso la ferma
decisione di proseguire a scrivere! Anche il colloquio era andato benissimo: la
sua devotissima moglie lo aspettava, si adoperava per farlo liberare e i frutti del
suo impegno si sarebbero visti presto.
Cercando di dare sfogo al proprio giubilo, lo raccontava a quel mediocre di
Sologdin, che non avrebbe mai e poi mai avuto nulla di altrettanto luminoso.
Sologdin se ne stava sdraiato sulla schiena, con il libro aperto rovesciato sul
petto, riservando al narratore un po’ del luccichio del suo sguardo. Con la
barba biondissima, gli occhi chiari, la fronte alta, i tratti schietti di un paladino
dell’antica Rus’, Sologdin era bello in modo innaturale, quasi sconveniente.
Oggi anche lui era su di giri. Sentiva dentro di sé il canto della vittoria
universale, la propria vittoria contro il mondo intero, la propria onnipotenza.
La liberazione era ormai questione di un anno. Dopodiché, lo attendeva una
carriera sfolgorante. Inoltre, quel giorno, il suo corpo non languiva per le
donne come gli accadeva sempre, ma era tranquillo, quasi esente dal torbido.
E cercando di dare sfogo al proprio giubilo, per divertimento, scivolava
pigramente per le anse della storia, a lui estranea e indifferente, che gli
raccontava quell’uomo non stupido ma assolutamente mediocre, al quale non
poteva accadere nulla di paragonabile a quanto avveniva a Sologdin.
Ascoltava spesso le persone quasi per proteggerle, tentando per gentilezza di
non darlo a vedere.
Dapprima l’incisore aveva raccontato delle sue due mogli in Russia, poi era
passato a ricordare la vita trascorsa in Germania e le deliziose tedesche con cui
era stato in intimità. Si era messo a paragonare le donne russe a quelle tedesche,
una cosa nuova per Sologdin. Avendo vissuto sia con le une sia con le altre,
preferiva le tedesche; le russe erano troppo indipendenti e autonome, troppo
attente in amore: con i loro occhi vigili, scrutavano l’amato di continuo,
scoprivano i suoi lati deboli, notavano in lui ora poca generosità ora poco
coraggio, e di continuo lui sentiva l’amata russa al proprio livello, una cosa
imbarazzante; al contrario, la donna tedesca si piegava fra le braccia dell’amato
come un giunco, per lei era come un dio, il primo e migliore sulla terra, gli si
concedeva con tutta sé stessa, non sognando altro che soddisfarlo, ragion per
cui con le tedesche l’incisore si sentiva più uomo, più padrone.
Rubin aveva avuto l’imprudenza di uscire nel corridoio a fumare. Ma come
tutti quelli che attraversano un campo inciampano in una pianta di piselli
selvatici, così tutti alla šaraška lo infastidivano. Stanco della disputa nel
corridoio, entrò nella stanza e si affrettò a raggiungere i suoi libri, ma qualcuno
da una branda in basso lo afferrò per i pantaloni e gli chiese:
– Lev Grigor’ič! È vero che in Cina le lettere delle spie arrivano senza
francobolli? Un bel progresso!
Rubin si liberò con uno strattone e proseguì. Ma, penzolando da una branda
in alto, l’ingegnere energetico lo acchiappò per il colletto della tuta e con grinta
si mise a spiegargli la parte finale della loro precedente discussione:
– Lev Grigor’ič! Va ricostruita la coscienza umana affinché la gente sia
orgogliosa solo del lavoro delle proprie mani e si vergogni di fare il
sorvegliante, il ‘dirigente’, il capo del partito. Uno dovrebbe arrivare a tenere
nascosta la propria carica di ministro quasi fosse un addetto allo spurgo delle
fognature: il lavoro di ministro, anche quello necessario, dovrebbe essere cosa
di cui vergognarsi. Il fatto, poi, che una ragazza si sposi con un funzionario
statale dovrebbe diventare un’onta per l’intera famiglia! È quello il socialismo
in cui vorrei vivere!
Rubin si liberò dalla presa, corse verso il suo letto e si buttò a pancia in giù,
tornando in compagnia dei suoi dizionari.
125 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 287.
126 Campo per prigionieri di guerra (in tedesco).
127 Cittadina sul Golfo di Finlandia, vicina a San Pietroburgo.
128 Politruk (politiceskij rukovaditel’) fu a partire dal 1942 la nuova denominazione del commissario politico,
che nell’Armata Rossa aveva l’incarico di condizionare dal punto di vista ideologico le decisioni del
comandante di una determinata unità.
58
UNA TAVOLA DI LICEALI

Sette uomini avevano preso posto alla tavola dei festeggiamenti, formata da tre
comodini di diversa altezza accostati e coperti con un pezzo di carta di un
verde acceso, giunto anch’esso come trofeo dalla fabbrica Lorenz. Sologdin e
Rubin si erano accomodati sul letto di Potapov, Abramson e Kondrašëv su
quello di Prjančikov, mentre il festeggiato si era seduto a capotavola, sul largo
davanzale. Sopra di loro Zemelja già sonnecchiava; gli altri vicini non erano lì.
Il gruppetto fra i letti a castello pareva separato dal resto della stanza.
In mezzo al tavolo, in una scodella di plastica erano state disposte le frittelle
di Nadja, un prodotto mai visto prima alla šaraška. Per quelle sette bocche
maschili sembravano ridicolmente poche. Poi c’erano biscotti semplici e
biscotti spalmati di crema che perciò venivano chiamati pasticcini. Erano
presenti anche dei dolcetti con del caramello ottenuto facendo bollire un
barattolo sigillato di latte condensato. E alle spalle di Neržin, in uno scuro
barattolo da un litro, era racchiuso qualcosa di invitante per cui servivano i
bicchieri: un po’ di alcol che gli zek avevano barattato con un pezzo di
“superbo” cartone bachelizzato. L’alcol veniva diluito con l’acqua in
proporzioni uno a quattro e poi colorato con del cacao condensato. Si trattava
di un liquido marrone leggermente alcolico, che però tutti aspettavano con
impazienza.
– Allora, signori? – li esortò Sologdin, appoggiato in modo pittoresco, gli
occhi che gli scintillavano nella penombra della cuccetta. – Chi di noi e quando
si è seduto per l’ultima volta a un banchetto simile?
– Io ieri, con i tedeschi – borbottò Rubin, senza troppa enfasi.
Che Sologdin, a volte, chiamasse quella compagnia signori, Rubin lo
comprendeva come il risultato del trauma di dodici anni di prigione. Era da
non credere che a trentatré anni dalla rivoluzione un uomo potesse
pronunciare seriamente una parola del genere. Quel trauma aveva travisato
anche molte idee di Sologdin: Rubin si sforzava di ricordarlo sempre e di non
arrabbiarsi quando gli capitava di sentire da lui cose bizzarre.
(Per Abramson, invece, era bizzarro che Rubin banchettasse con i tedeschi.
C’è un limite ragionevole a ogni internazionalismo!)
– No-o – insisté Sologdin. – Intendo una tavola vera, signori! – Era felice di
usare quell’espressione altezzosa con ogni scusa. Riteneva che sulla terra ci
fossero ampi spazi per i “compagni”, mentre nello stretto pezzo di quella
carceraria potessero mandar giù “signori” anche coloro cui non piaceva. – Con
una tovaglia spessa di colore tenue, il vino in caraffe di cristallo e, be’, sì, le
donne vestite a festa, naturalmente!
Gli sarebbe piaciuto star lì a crogiolarsi in quella cosa e rimandare l’inizio
del banchetto, ma Potapov, con un geloso sguardo scrutatore da padrone di
casa, fissò la tavola e, con il solito fare brusco, lo interruppe:
– Voi capite, ragazzi, vero? Bisogna passare alla parte ufficiale prima che

il ‘terrore delle ronde di mezzanotte’129

ci colga con questa pozione.


Fece cenno a Neržin di versare. Mentre il vino veniva distribuito, calò il
silenzio e ognuno, senza volerlo, ripensò alla sua ultima volta.
– È stato un sacco di tempo fa – sospirò Neržin.
– Io non-me-lo-ri-cor-do! – tagliò corto Potapov. Si ricordava vagamente il
matrimonio di qualcuno, prima della guerra, nel vortice del lavoro, non sapeva
dire di preciso se fosse il suo o quello di altri cui erano stati invitati.
– No, e come mai? – si animò Prjančikov. – Avec plaisir! Ora ve lo racconto.
A Parigi nel ’45 io...
– Aspetti, Valentulja – lo frenò Potapov. – E dunque...?
– All’artefice della nostra riunione! – pronunciò più forte del dovuto
Kondrašëv-Ivanov, e raddrizzò ancora di più la schiena, nonostante sedesse già
abbastanza composto. – Che sia...
Ma gli ospiti non avevano ancora allungato la mano verso i bicchieri, che
Neržin si alzò – disponeva ancora di un po’ di spazio vicino alla finestra – e li
ammonì piano:
– Amici miei! Scusate se rovinerò la tradizione! Io...
Sentendo che stava cominciando ad agitarsi, fece un respiro profondo. Il
calore di sette paia di occhi avevano saldato qualcosa dentro di lui.
– ...siamo onesti! Non è tutto così nero nella nostra vita! Per esempio, questo
tipo di felicità, una tavolata maschile da liceali, lo scambio di pensieri liberi
senza timore, senza nascondersi nulla; questa felicità ce l’avevamo forse da
liberi?
– Già, la stessa libertà, in effetti, non è che ci fosse spesso – scoppiò a ridere
Abramson. Se si escludeva l’infanzia, anche lui aveva passato in libertà meno
tempo che in prigione.
– Amici! – si animò Neržin. – Ho trentun anni. La vita a volte mi ha viziato,
a volte mi ha scaraventato a terra. In base alla legge sinusoidale mi aspettano
forse ancora sprazzi di vuoto successo e di falsa grandezza. Ma, ve lo giuro,
non dimenticherò mai la sincera grandezza umana che ho conosciuto in
prigione! Sono fiero che il mio modesto compleanno di oggi abbia riunito una
compagnia così selezionata. Mettiamo da parte le solennità. Brindiamo
all’amicizia che fiorisce nelle tombe delle prigioni!
I bicchieri di carta si toccarono con quelli di vetro e di plastica senza fare
rumore. Potapov scoppiò a ridere con aria colpevole, si aggiustò gli occhiali
semplici e, scandendo bene ogni sillaba, disse:
Celebri per la loro tagliente oratoria,
si radunavano i membri di questa famiglia
presso Ni-ki-ta senza pace,
e presso il cauto I-l’ja.130

Bevettero quel vino marrone lentamente, sforzandosi di assaporarne l’aroma.


– La gradazione, però, c’è – approvò Rubin. – Bravo, Andreič!
– Eccome se c’è – ribadì Sologdin. Oggi era in vena di elogiare tutto.
Neržin scoppiò a ridere.
– Caso più unico che raro: Lev e Mitja della stessa opinione! Mai successo.
– No, perché, Glebčik? Ricordi quella volta che a Capodanno io e Lev
fummo d’accordo che il tradimento di una moglie non si può perdonare
mentre quello di un marito sì?
Abramson fece una risata stanca.
– Bah! Quale uomo non sarebbe d’accordo?
– Eccone un esemplare – disse Rubin, indicando Neržin. – Allora sosteneva
che si può perdonare anche la donna, non c’è differenza.
– Ha detto così? – domandò subito Kondrašëv.
– Ma che spaccone! – commentò Prjančikov, con una grossa risata. – Come
si possono paragonare?
– La struttura stessa del corpo e il modo di accoppiarsi dimostrano che la
differenza è enorme! – esclamò Sologdin.
– No, è una questione più profonda – protestò Rubin. – Qui c’è di mezzo il
disegno della natura. L’uomo è indifferente alla qualità delle donne, aspira
inspiegabilmente alla quantità. Dunque sono poche le donne che vengono
messe da parte.
– Ecco in cosa consiste il nobile ruolo del dongiovanni! – alzò il braccio
Sologdin, in un elegante gesto di benvenuto.
– Se la mettete così, allora le donne aspirano alla qualità! – scosse il lungo
dito Kondrašëv. – Il loro tradimento avviene perché cercano la qualità! Per
migliorare la discendenza!
– Non prendetevela con me, amici, – tentò di giustificarsi Neržin – quando
ero ragazzo ci facevano agitare sopra la testa striscioni con sopra scritto a
lettere dorate Uguaglianza! Da allora, però...
– Ci risiamo, di nuovo con questa uguaglianza! – brontolò Sologdin.
– Cos’è che non le va dell’uguaglianza? – si irrigidì Abramson.
– Che nella natura non ve n’è traccia! Quegli stupidi... quei sapientoni (uno
doveva intuire che si riferiva agli enciclopedisti) si sono inventati che niente e
nessuno nasce diverso. Quelli non ci capivano un tubo di ereditarietà! Le
persone nascono con disuguaglianza nello spirito, disuguaglianza nella forza di
volontà, disuguaglianza nelle capacità...
– Disuguaglianza nel patrimonio, disuguaglianza nel ceto... – gli fece il verso
Abramson.
– L’ha mai vista lei un’uguaglianza nel patrimonio? Sono forse riusciti a
crearla da qualche parte? – Sologdin si stava scaldando. – Non ci sarà mai! La
possono raggiungere solo i poveracci e i santi!
– La vita, naturalmente, da allora – insisté Neržin, impedendo alla
discussione di trascendere – mi ha dato un sacco di botte in testa, ma a quei
tempi sembrava che se erano uguali le nazioni, se era uguale la gente, allora
dovevano esserlo anche l’uomo e la donna. In tutto.
– Nessuno se la prende con lei! – ribatté Kondrašëv a parole e con lo
sguardo. – Non si arrenda subito così!
– Ti si può perdonare questa assurdità solo perché sei giovane – lo
condannò Sologdin. (Lui era più vecchio di sei anni.)
– A livello teorico Glebka ha ragione – disse Rubin, un po’ imbarazzato. –
Sarei pronto anch’io a spezzare centomila lance in favore dell’uguaglianza fra
uomo e donna. Ma come si fa a prendere tra le braccia la propria moglie dopo
che è stata in quelle di un altro? Brrr! Non potrei biologicamente!
– Sì, signori, fa ridere anche solo discuterne! – esclamò Prjan-čikov, ma come
al solito non lo lasciarono finire.
– Lev Grigor’ič, la soluzione è semplice – obiettò Potapov. – Non abbracci
nemmeno lei nessun’altra donna che non sia sua moglie!
– Be’, sa... – Rubin allargò le braccia, confuso, lasciando affondare un largo
sorriso nella barba da pirata.
La porta si aprì con un gran tonfo, entrò qualcuno. Potapov e Abramson si
girarono. No, non era il sorvegliante.
– Distruggiamo Cartagine? – domandò Abramson, indicando il barattolo da
un litro.
– Prima è, meglio è. Qualcuno di voi ha voglia di finire in cella di rigore?
Vikent’ič, su, versi!
Neržin versò quel che ne restava, assicurandosi scrupolosamente di dividerlo
in modo equo.
– Questa volta, però, brindiamo al festeggiato? – chiese Abramson.
– No, fratelli. Essendo io il festeggiato, mi arrogo il diritto di rompere la
tradizione. Oggi... ho visto mia moglie. E in lei... ho visto tutte le nostre mogli,
tormentate, spaventate, tartassate. Noi sopportiamo perché non possiamo
andare da nessuna parte, ma loro? Brindiamo alle mogli, che si sono incatenate
al...
– Sì! Che nobile impresa! – esclamò Potapov.
Bevvero.
E per un po’ non dissero altro.
– La neve! – osservò Potapov.
Tutti si voltarono. Alle spalle di Neržin, oltre i vetri appannati, quella che si
vedeva non era la neve: balenavano tanti fiocchi neri, le ombre di quelli veri
proiettate sulla prigione dai lampioni e dai riflettori della zona.
Da qualche parte oltre la cortina di quella nevicata generosa c’era anche la
Nadja di Neržin.
– Persino la neve ci tocca vedere nera invece che bianca! – esclamò
Kondrašëv.
– Abbiamo brindato all’amicizia, abbiamo brindato all’amore. Sono cose
buone e immortali – lodò Rubin.
– Dell’amore non ho mai dubitato. Ma prima del fronte e della prigione non
credevo nell’amicizia, specialmente in quella... che spinge a ‘dare la vita per i
propri amici’131. Nella vita normale devi pensare alla famiglia, per l’amicizia
non c’è posto, no?
– È un’opinione diffusa – rispose Abramson. – Alla radio fanno sentire
spesso la canzone Nelle valli pianeggianti. Ascoltatevi il testo! È un vile
piagnucolio, il lamento di un’anima meschina:
Tutti amici, tutti compagni
Solo fino ai giorni neri.

– Scandaloso!! – si tirò indietro il pittore. – Come si può vivere anche solo un


giorno con pensieri del genere? Roba da impiccarsi!
–Sarebbe giusto dire il contrario: solo dai giorni neri si comincia a essere
amici.
– Chi l’ha scritta?
– Merzljakov.
– Che razza di cognome132! Lëvka, chi è questo Merzljakov?
– Un poeta. Di vent’anni più vecchio di Puškin.
– Conosci la sua biografia, vero?
– Fu professore all’università di Mosca. Tradusse la Gerusalemme liberata.
– Cos’è che non sa Lëvka? Solo la matematica avanzata.
– E anche quella di base.
– Eppure, non si trattiene dal dire: ‘mettiamo fra parentesi’, ‘queste
insufficienze al quadrato’, ritenendo che meno al quadrato dia sempre un
negativo...
– Signori! Devo farvi un esempio che dà ragione a Merzljakov! – intervenne
Prjančikov, in fretta e furia, mangiandosi le parole, come un bambino alla
tavola dei grandi. Non era per nulla inferiore ai suoi interlocutori: capiva al
volo, era arguto e attirava per la sua sincerità. Ma gli mancava l’autocontrollo di
un uomo, la dignità esteriore, tanto che sembrava quindici anni più giovane e
veniva trattato come un adolescente. – È comprovato: ci tradisce proprio chi
mangia dalla nostra stessa gavetta! Avevo un amico carissimo, con cui ero
fuggito da un campo di concentramento hitleriano, c’eravamo nascosti insieme
dalla polizia... Io poi entrai nella famiglia di un importante uomo d’affari,
mentre lui conobbe una contessa francese...
– Ah sì-ì-ì? – rimase colpito Sologdin. I titoli di conti e principi esercitavano
su di lui un fascino irresistibile.
– Che c’è da meravigliarsi! I prigionieri russi hanno sposato anche delle
marchese.
– Dav-ve-ro?
– Quando il colonnello generale Golikov si mise a rimpatriare la gente con
l’inganno, e io non solo non ci andai, ma dissuadevo gli altri scemi, d’un tratto
rincontrai quel mio migliore amico. E figuratevi un po’: fu proprio lui a
tradirmi! Mi fece cadere nelle mani dei gebisty133!
– Che malvagità! – esclamò il pittore.
– La cosa andò così...
Quasi tutti avevano già sentito quella storia di Prjančikov, ma Sologdin si era
messo a domandargli come facevano i prigionieri a sposare le contesse.
Per Rubin era chiaro che il simpatico e allegro Valentulja, con il quale alla
šaraška si poteva ben fare amicizia, nel ’45 in Europa era stato una figura
oggettivamente reazionaria, e quello che lui chiamava un tradimento da parte
di un amico (cioè il fatto che l’amico avesse aiutato Prjančikov in modo
involontario a tornare in patria) non era stato un tradimento ma un dovere
patriottico.
Quella storia se ne tirò dietro un’altra. A Potapov tornò in mente il
libriccino che consegnavano a ogni rimpatriato.
La patria ti ha perdonato, la patria ti chiama. C’era scritto nero su bianco che
esisteva una disposizione del presidium del Soviet Supremo per cui non si
potevano sottoporre ad azione giudiziaria nemmeno quei rimpatriati che
avevano servito nella polizia tedesca. Quei libriccini, eleganti, pieni di
illustrazioni e di accenni fumosi a qualche riforma del sistema dei kolchoz e
dell’ordinamento sociale, venivano sottratti poi alla frontiera durante la
perquisizione e rispediti al controspionaggio. Potapov ne aveva letto uno con i
suoi occhi, e sebbene lui fosse ritornato indipendentemente dai libretti, quella
truffa schifosa da parte di un grande Stato non gli andava proprio giù.
Abramson sonnecchiava dietro gli occhiali immobili. Per lui erano
chiacchiere a vanvera. In qualche modo quella massa di gente andava fatta
tornare indietro.
L’anno successivo alla fine della guerra Rubin e Neržin erano rimasti a
marcire a tal punto nella fiumana di prigionieri giunta dall’Europa che
sembrava loro di aver bighellonato in prigionia per quattro anni, e adesso
erano ben poco interessati ai racconti sul rimpatrio. Alla loro estremità della
tavola spinsero di comune accordo Kondrašëv a parlare di arte. In genere
Rubin considerava Kondrašëv un pittore di poco conto, un uomo non troppo
serio, le cui affermazioni erano ben lontane dall’essere osservazioni
economiche e storiche, ma quando conversava con lui, attingeva senza
accorgersene a una fonte d’acqua fresca.
Per Kondrašëv l’arte non era né un’occupazione né una branca della
conoscenza. Era l’unico modo per vivere. Tutto ciò che vedeva intorno – un
paesaggio, un oggetto, il carattere di una persona o una sfumatura – si
manifestava in una delle ventiquattro tonalità che Kondrašëv sapeva indicare
senza esitazione (a Rubin attribuì una tonalità in “do minore”). Tutto ciò che
sentiva intorno – una voce umana, uno stato d’animo momentaneo, un
romanzo o quella stessa tonalità – aveva un colore, che Kondrašëv indicava
senza esitazione (un “fa diesis maggiore” era azzurro e oro).
Solo uno stato d’animo non aveva sperimentato: l’indifferenza. In compenso
gli erano noti parzialità e imparzialità, i giudizi più inconciliabili. Ammirava
Rembrandt e contestava Raffaello. Adorava Valentin Serov134 ed era nemico
giurato degli Itineranti135! Non c’era niente che sapesse concepire per metà,
sapeva solo ammirare o indignarsi immensamente. Di Čechov non voleva
nemmeno sentir parlare, rifiutava Čajkovskij trasalendo (“Mi soffoca! Mi toglie
la speranza e la voglia di vivere!”), ma i corali di Bach e i concerti di Beethoven
li sentiva così affini che aveva l’impressione di averli composti lui stesso.
Adesso Kondrašëv era stato trascinato in una conversazione sulla necessità
nei quadri di seguire o meno la natura.
– Per esempio, mettiamo che vogliate raffigurare una finestra aperta su un
giardino una mattina d’estate – spiegava Kondrašëv. Aveva una voce giovanile,
che vibrava per l’emozione, e se chiudevi gli occhi potevi immaginarti che a
discutere fosse un ragazzo. – Se, sforzandovi di seguire onestamente la natura,
raffiguraste tutto ciò che vedete, sarebbe davvero tutto? E il canto degli
uccellini? Il fresco mattutino? Quell’invisibile sensazione di purezza che vi
invade? Mentre disegnate li cogliete, entrano nella vostra percezione di una
mattina d’estate. Com’è possibile conservarli anche nel quadro? Come evitare
di negarli allo spettatore? È evidente che vanno integrati in qualche modo!
Nella composizione, nel colore, altre possibilità non ce ne sono.
– Vuol dire che non si può soltanto copiare?
– Ovvio che no! – Kondrašëv cominciava ad appassionarsi. – In generale,
ogni paesaggio (e ogni ritratto) prende forma perché ne ammiri la natura e
pensi: Ah, che bello! Ah, che meraviglia! Se solo riuscissi a riprodurlo così
com’è! Ma ti basta avanzare nel lavoro per notare d’un tratto: Un attimo! Un
attimo! Questa roba assurda in natura non c’è, non è affatto così! In questo
punto, e in quest’altro! Deve essere così! Ecco come!! Devi dipingere così! –
Kondrašëv guardava i suoi interlocutori con aria allegra e trionfante.
– Ma, vecchio mio, ‘Deve essere così’ porta su una strada pericolosa! –
protestò Rubin. – Comincerà a trasformare persone vive in angeli e demoni,
cosa che in effetti già fa. Se dipingi un ritratto di Andrej Andreevič Potapov,
deve essere Potapov.
– E mostrarlo così com’è cosa significa? – si ribellò il pittore. – Sì, deve
essere somigliante dal punto di vista esteriore, cioè nelle proporzioni del viso,
nel taglio degli occhi, nel colore dei capelli. Ma non è avventato pensare che si
possa conoscere e vedere la realtà davvero com’è? E la realtà spirituale? Quella,
chi la conosce e la vede?... Se guardando il soggetto che sto ritraendo intuisco
in lui possibilità interiori più alte di quelle che finora ha dimostrato nella vita,
perché non dovrei osare raffigurarle? Aiutare quella persona a trovare sé stessa
e a elevarsi?
– Sì, lei è proprio un esponente del realismo socialista al cento percento! –
batté le mani Neržin. – Foma Oskolupov in realtà non sa con chi ha a che fare!
– Perché dovrei sminuire la sua anima?! – Gli occhiali di Kondrašëv, ben
incollati al naso, scintillavano minacciosi. – E vi dirò di più: a questo scopo, la
comunicazione con le persone può essere persino più importante che ritrarle:
quello che vedi e designi in un altro, in costui viene chiamato alla vita!! Eh?
– In parole povere, – disse Rubin, accompagnando le sue con un gesto
infastidito della mano – il concetto di oggettività per lei, qui come in ogni altro
luogo, non esiste.
– Esatto!! Io non sono oggettivo e me ne vanto! – tuonò Kondrašëv-Ivanov.
– Cosa-a?? Mi scusi, ma come fa? – disse Rubin, sconvolto.
– È così! Proprio così! Sono fiero della mia mancanza di oggettività! – disse
Kondrašëv, come se assestasse dei colpi ai quali la branda superiore avrebbe
impedito la giusta ampiezza. – E lei, Lev Grigor’ič? Nemmeno lei è oggettivo,
eppure crede di esserlo, e questo è di gran lunga peggio! Il mio vantaggio
rispetto a lei è che non sono oggettivo, e lo so! Me ne prendo il merito! Per
questo dicevo ‘io’!
– Io non sono oggettivo? – si stupì Rubin. – Se non lo sono io, allora chi lo
è?
– Ma nessuno!! – esultò il pittore. – Nessuno!! Nessuno lo è mai stato né mai
lo sarà! Ha una sfumatura emotiva persino ogni atto di conoscenza, non è forse
così? La verità, che dovrebbe essere l’esito ultimo di lunghe ricerche, non
aleggia confusa davanti a noi ancor prima della ricerca stessa? Prendiamo in
mano un libro, l’autore chissà perché ci sembra antipatico e già dalla prima
pagina prevediamo che il libro non ci piacerà, e poi succede davvero! Per
esempio, lei si occupa della comparazione di cento lingue mondiali, si è
circondato di dizionari, ha ancora lavoro per quarant’anni, eppure è sicuro già
da ora di essere in grado di dimostrare l’origine di tutte le parole da ‘mano’. Le
sembra oggettività, questa?
Pensando a Rubin, Neržin scoppiò in una risata fragorosa, allegra. Anche
Rubin si mise a ridere: come faceva ad arrabbiarsi con un uomo tanto puro!
Kondrašëv non tirava in ballo la politica, così si affrettò a farlo Neržin.
– Faccia un passo in più, Ippolit Michalyč! La supplico, un passo in più! Che
dice di Marx? Sono sicuro che non aveva ancora iniziato alcuna analisi
economica, non aveva preparato alcuna tabella statistica, e già sapeva in anticipo
che con il capitalismo la classe operaia si sarebbe impoverita, e che è la parte
migliore dell’umanità, quindi, il futuro le appartiene. Mettiti una mano sul
cuore, Lëvka, non è forse così?
– Ragazzo mio – sospirò Rubin. – Se non fosse possibile prevedere in
anticipo il risultato...
– Ippolit Michalyč! E su questo costruiscono il loro progresso! Detesto questa
parola senza senso: ‘progresso’!
– Ma nell’arte non c’è nessun ‘progresso’! E non può esserci!
– Infatti! Infatti, è così! – si rallegrò Neržin. – Rembrandt viveva nel XVII
secolo, oggi è rimasto e vallo a superare! La tecnologia del XVII secolo, invece?
Ora ci sembra da selvaggi. Oppure, quali erano le novità tecniche degli anni
Settanta dello scorso secolo? Per noi sono bazzecole. Eppure in quegli anni fu
scritto Anna Karenina. E che cosa si può offrire di più alto?
– Scusi tanto, maestro – ne approfittò Rubin. – Ma almeno in ingegneria ce
lo vorrà lasciare il progresso, no? Neanche lì ha senso?
– Che furbastro! – si mise a ridere Gleb. – Questo è un colpo basso.
– Il suo argomento, Gleb Vikent’ič, – intervenne Abramson – si può anche
rovesciare. Vuol dire che tutti gli scienziati e gli ingegneri di questo secolo
hanno fatto grandi cose e sono progrediti. Mentre gli snob dell’arte, a quanto
pare, sono stati solo dei buffoni. Degli scrocconi...
– Si sono venduti – esclamò Sologdin, chissà perché con gioia.
E due poli opposti come lui e Abramson si unirono in un unico pensiero!
– Bravo! Bravo! – gridava anche Prjančikov. – Sono dei bambocci! Dei
fanfaroni! Era proprio quello che vi stavo dicendo ieri all’Acustico! – (Il giorno
prima parlava della superiorità del jazz, ma ora gli sembrava che Abramson
esprimesse proprio i suoi stessi pensieri.)
– A quanto pare toccherà a me farvi riappacificare! – ridacchiò
maliziosamente Potapov. – In questo secolo c’è stato un caso storico e
documentato in cui un ingegnere e un matematico, sentendo il forte richiamo
della prosa nostrana, composero insieme una novella. Ahimè, non fu mai
scritta. Non avevano la matita.
– Andreič! – esclamò Neržin. – E lei potrebbe ricostruirla?
– Sì, con uno sforzo, se lei mi aiutasse... Sarebbe l’unica opera artistica della
mia vita. Verrebbe una cosa memorabile.
– Interessante, signori, davvero interessante! – si rianimò Sologdin,
mettendosi più comodo. Amava molto quel genere di trovate in carcere.
– Ma come capirete, ce lo insegna Lev Grigor’ič, nessuna opera artistica si
può comprendere senza conoscere la storia della sua creazione e del suo
impegno sociale.
– Sta facendo progressi, Andreič.
– E voi, cari ospiti, finite i pasticcini, abbiate rispetto della persona che li ha
preparati! La storia della sua creazione è la seguente: nell’estate del 1946, nella
cella stracolma fino all’inverosimile del centro di cura di Bu-Tjur
(l’amministrazione aveva stampato quella scritta sulle scodelle e significava:
BUtyrskaja TJUR’ma136), io e Vikent’ič eravamo sdraiati l’uno accanto all’altro,
prima sotto i pancacci, poi sopra, soffocavamo per la mancanza d’aria,
pativamo la fame e non avevamo altra occupazione se non quella di discutere e
osservare le diverse usanze. Quando uno dei due disse per primo: ‘E se...’
– È stato lei, Andreič, a dire per primo ‘E se...’. L’idea di base per il titolo, in
ogni caso, è sua.
– ‘E se...’ dicemmo io e Gleb Vikent’ič ‘all’improvviso nella nostra cella...’
– Non ci tormentate! Che titolo gli avete dato?
– Ebbene,

Non penso di divertire il mondo superbo137

se provassimo a ricordarlo in due questo vecchio racconto, che ne dite? – La


voce sordamente stridula di Potapov risuonava come quella di un lettore
accanito di tomi polverosi. – Il titolo era: Il sorriso di Buddha.

129 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 389.
130 Ivi, p. 458.
131 Giovanni, 15:13.
132 Deriva da merzljak, persona freddolosa.
133 Termine gergale per indicare gli agenti dell’MGB.
134 Celebre pittore ritrattista russo della seconda metà del XIX secolo.
135 Gruppo di pittori realisti russi che nel 1870, per protesta contro le rigidità accademiche, formò una
cooperativa, e poi una società, di mostre itineranti.
136 Carcere della Butyrka.
137 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 75.
59
IL SORRISO DI BUDDHA

L’azione del nostro incredibile racconto risale a quella gloriosa estate di caldo
eccezionale del 194... in cui i detenuti, in perizoma e talmente numerosi da
superare di gran lunga i leggendari pesci nei quaranta barili138, pativano l’afa
immobile dietro le museruole e i vetri opachi come occhi di pesce del carcere
della Butyrka, celebre nel mondo.
Che cosa dire di questa istituzione utile e ben organizzata? La sua genealogia
risale fino alle caserme di Caterina. Nel feroce secolo dell’Imperatrice, per
costruire le mura della sua fortezza e le sue volte ad arco non avevano
risparmiato mattoni.

Il rispettabile castello era costruito


come devono essere costruiti i castelli.139

Dopo la morte di colei che fu illuminata corrispondente di Voltaire, quei locali


rimbombanti, in cui un tempo riecheggiava il rude scalpiccio degli stivali dei
carabinieri, erano rimasti per lunghi anni in stato di abbandono. Man mano
però che nella nostra patria si avvicinava il progresso da tutti desiderato, i
discendenti reali della summenzionata dama autoritaria avevano ritenuto un
bene sistemare laggiù anche gli eretici, che facevano vacillare il trono
ortodosso, e gli oscurantisti, che si opponevano al progresso.
La cazzuola del muratore e il frattazzo dell’intonacatore avevano aiutato a
dividere l’infilata in centinaia di celle comode e spaziose, e l’arte senza pari dei
fabbri nazionali aveva forgiato inferriate impossibili da piegare alle finestre e
archi tubolari per i letti, che venivano abbassati di notte e risollevati di giorno.
Avevano dato il loro prezioso contributo alla gloria imperitura del castello
della Butyrka gli artigiani migliori, fra i tanti nostri talentuosi servi della gleba: i
tessitori avevano intessuto sacchi di tela per gli archi delle brande; gli idraulici,
costruito un sapiente sistema di scolo per gli scarichi; i lattonieri, inchiodato
capienti buglioli da quattro e sei secchi munendoli della maniglia e persino del
coperchio; i carpentieri, intagliato le mangiatoie nelle porte; i vetrai ci avevano
inserito gli spioncini; i fabbri, piazzato le serrature; e particolari mastri
cementisti-vetrai, nell’era ultramoderna del commissario del popolo Ežov,
avevano versato un impasto torbido di vetro su un reticolato di fil di ferro e
innalzato museruole uniche nel loro genere, che impedivano ai malvagi detenuti
di vedere l’ultimo angoletto del cortile carcerario, l’edificio della chiesa della
fortezza, anch’essa adattata a prigione, e un brandello di cielo blu.
Motivi di necessità – la maggior parte dei sorveglianti era priva di istruzione
superiore – avevano costretto i tutori del centro di cura della Buryrka a murare
nelle pareti delle celle venticinque archi per le brandine, impostando un calcolo
matematico facile: quattro celle, cento teste; un corridoio, duecento.
E così, per lunghi decenni, quell’istituto di cura prosperò senza provocare
né lamentele da parte dell’opinione pubblica né reclami da parte dei detenuti.
(Che non ci fossero né lamentele né reclami lo intuiamo da quanto fossero rari
sulle pagine del “Bollettino della borsa”140 e del tutto assenti sulle “Notizie
dei deputati operai e contadini”.)
Ma il tempo non giocava a favore del generale di divisione a capo della
prigione della Butyrka. Già nel primo periodo della Grande guerra patriottica
capitò di dover infrangere la legittima quota di venticinque teste per cella,
facendocene alloggiare un numero eccessivo, per il quale le brande non
bastavano. Quando l’eccedenza assunse dimensioni terrificanti, le brande non
vennero più risollevate, i sacchi di tela furono eliminati, sopra vennero piazzati
dei pannelli di legno e il trionfante generale di divisione e i suoi compagni vi
infilarono prima cinquanta persone e, dopo la storica vittoria mondiale sugli
hitleriani, anche settantacinque, cosa che di nuovo non mise in difficoltà i
sorveglianti, i quali sapevano ora che nel corridoio ci stavano seicento teste,
cosa che faceva guadagnare loro un supplemento di paga.
Con una simile densità non aveva senso fornire libri, scacchi e domino, non
sarebbero comunque bastati. Con il tempo, ai nemici del popolo fu diminuita
la razione di pane, il pesce fu sostituito con carne di anfibi e di imenotteri, e il
cavolo e le ortiche con il foraggio. La terribile torre Pugačëv, dove l’imperatrice
aveva tenuto in catene quell’eroe popolare, ora aveva assunto la pacifica
funzione di silo.
Le persone fluivano, ne giungevano sempre di nuove, la tradizione orale dei
detenuti si offuscava e si deformava, le persone non ricordavano né sapevano
che i loro predecessori si accomodavano su sacchi di tela grossa e leggevano
libri proibiti (si erano dimenticati di toglierli dalle biblioteche delle prigioni).
In cella ti portavano brodo di ittiosauro o minestra di foraggio in una vaschetta
fumante: i detenuti raccoglievano le gambe sui pancacci, sollevavano le
ginocchia al petto per via del poco spazio e, appoggiate le zampe anteriori
accanto alle posteriori, in quella posizione canina, mostrando con ferocia i
denti come cani bastardi, controllavano l’equità del travaso della brodaglia nelle
scodelle. Le scodelle toccavano a sorte, passando “dal bugliolo alla finestra” e
“dalla finestra al radiatore”, dopodiché gli abitanti dei pancacci e del buco
sottostante, settantacinque fauci, quasi rovesciandosi l’un l’altro le scodelle con
la coda e le zampe, ingurgitavano la brodaglia vivificante e solo quel rumore
disturbava il silenzio filosofico della cella.
Tutti erano soddisfatti. Di lamentele su “Lavoro”, il giornale del sindacato, e
sul “Messaggero del Patriarcato di Mosca” non se ne leggevano.
La cella n. 72 non aveva nulla che la facesse spiccare in mezzo alle altre. Era
già spacciata, ma i detenuti che sonnecchiavano pacificamente sotto i pancacci e
vi bestemmiavano sopra non avevano idea degli orrori che li attendevano. Alla
vigilia di quel giorno fatale, come al solito, si erano sistemati sul pavimento di
cemento vicino ai buglioli, se ne stavano sdraiati in perizoma sulle lastre,
facendosi aria per il caldo stagnante (non avrebbero arieggiato la cella fino
all’inverno successivo), uccidevano le mosche e si raccontavano a vicenda
quanto fosse bello durante la guerra in Norvegia, in Spagna, in Groenlandia.
Con il senso del tempo interno che si forma dopo un lungo allenamento, gli
zek sapevano che da lì a cinque minuti il secondino di turno avrebbe
borbottato loro dalla mangiatoia: – Su, coricatevi, è suonata la ritirata!
Ma d’un tratto i detenuti sentirono girare i chiavistelli e i loro cuori
sobbalzarono! Si spalancò la porta e sulla soglia comparve un capitano snello e
molleggiato in guanti bianchi, stra-or-di-na-ria-men-te agitato. Alle sue spalle
ronzava un seguito di tenenti e sergenti. In sepolcrale silenzio condussero gli
zek nel corridoio con la roba. (Gli zek, in un sussurro, si fecero subito venire
l’idea malsana che li stessero portando alla fucilazione.) Nel corridoio furono
contati cinque gruppi da dieci, e poi spinti nelle celle vicine, giusto in tempo
perché riuscissero a occupare un pezzettino di letto. Questi fortunati erano
sfuggiti alla terribile sorte dei venticinque restanti. L’ultima cosa che videro
quelli rimasti vicino alla loro cara cella n. 72 fu una macchina infernale munita
di nebulizzatore che varcava la soglia. Poi li fecero girare fronte-destr e, con il
tintinnio delle chiavi dei sorveglianti contro la fibbia della cintura e le dita che
schioccavano in sottofondo (erano quelli i piacevoli segnali con cui alla Butyrka
i sorveglianti annunciavano “Porto uno zek!”), li condussero attraverso
numerose porte d’acciaio interne, scendendo per numerose scale fino a un
salone,che non era né uno scantinato per le fucilazioni né un seminterrato per
le torture, ma lo spogliatoio dei celebri bagni della Butyrka, che il popolo degli
zek ben conosceva. Lo spogliatoio aveva un aspetto ordinario e perfidamente
innocuo: le pareti, le panche e il pavimento erano rivestiti di piastrelle di
maiolica color cioccolato, rosse e verdi, e dalla “cottura”, la stanza di
disinfezione a temperature elevate, con i ganci infernali per appendere i
pidocchiosi indumenti dei detenuti, giungevano su binari dei vagoncini,
facendo un gran frastuono. Urtandosi l’un l’altro sugli zigomi e sui denti (il
terzo comandamento dei detenuti è “Arraffa quel che puoi!”), gli zek si
gettarono sui ganci arroventati, vi appesero le vesti da martiri, scolorite,
arrugginite e in alcuni punti bruciacchiate per via della disinfezione che
subivano ogni dieci giorni, e due accalorate addette all’inferno, due donne
anziane disgustate dall’odiosa nudità dei detenuti, spinsero via rumorosamente
i vagoncini nel Tartaro e si richiusero le porte di ferro alle spalle.
I venticinque detenuti rimasero chiusi nello spogliatoio da entrambe le parti.
Tenevano in mano solo i fazzoletti da naso o pezzetti di camicie con la
medesima funzione. I fortunati che nonostante la magrezza avevano ancora
uno strato sottile di carne indurita in quella parte del corpo di poche pretese su
cui la natura ci permette di sederci si erano sistemati sulle calde panche di
pietra rivestite di mattonelle smaltate color smeraldo e di un marrone lampone.
(Per il lusso della loro forma estetica, i bagni della Butyrka superano di gran
lunga i bagni Sandunovskie, e si dice che alcuni stranieri curiosi si siano
consegnati di proposito alla Čeka pur di lavarsi là.)
Gli altri detenuti, smagriti al punto da riuscire a sedersi solo sul morbido,
camminavano da un capo all’altro dello spogliatoio senza coprirsi le pudende e,
lanciandosi in discussioni accese, cercavano di svelare il mistero che si
nascondeva dietro quanto stava succedendo.
Da tempo la loro fantasia
Bramava il nutrimento fatale.141

Tuttavia li tennero nello spogliatoio così tante ore che le discussioni si


quietarono, i corpi per il freddo si coprirono di brufoletti e gli stomaci, abituati
alle dieci di sera a prepararsi al sonno, chiedevano angosciati di essere riempiti.
Fra i detenuti vinse il partito dei pessimisti, convinti che, attraverso le grate alle
pareti e sul pavimento, stesse già penetrando un gas velenoso e che presto
sarebbero morti. Alcuni cominciavano già a percepirne l’odore.
Ma di colpo si spalancò la porta, e tutto cambiò! A entrare non furono come
sempre due sorveglianti in camici sporchi con luride macchinette per rasare le
pecore, che scagliavano loro un paio di forbici senza punta perché si tagliassero
le unghie, ma quattro garzoni del barbiere, che spinsero dentro quattro
postazioni su rotelle con specchiera, acqua di colonia, fissatore, smalto per
unghie e persino delle parrucche da teatro. Furono seguiti da quattro
rispettabili maestri corpulenti, di cui due armeni. E subito, dietro quella porta,
in quella bottega da barbiere, ai detenuti non rasarono solo il pube premendo
con forza le superfici radenti sui punti delicati, ma spolverarono anche la pelle
di cipria rosa. Con un leggerissimo volo di rasoio, sfiorarono le gote emaciate
dei detenuti, cui domandarono all’orecchio, in un sussurro: “Dà fastidio?” Non
solo non rasavano la testa a zero ma offrivano loro persino delle parrucche.
Non solo non scolpivano loro il mento, ma in base al desiderio dei clienti
lasciavano rudimenti di future barbe e basette. Intanto i garzoni dei barbieri,
chini, tagliavano loro le unghie dei piedi. Alla fine sulla soglia del bagno, invece
di versare a ciascuno in mano venti grammi di sapone maleodorante a testa, un
sergente fornì su ricevuta una spugna figlia delle isole coralline e un grosso
pezzo di sapone da toilette “Fata dei lillà”.
Dopodiché, come sempre, li chiusero nel bagno e concessero loro di lavarsi
a volontà. Ma ai detenuti lavarsi non interessava. Le discussioni che facevano
erano più scottanti dell’acqua bollente della Butyrka. Ora in mezzo a loro
trionfava il partito degli ottimisti, i quali erano convinti che Stalin e Berija
fossero fuggiti in Cina, Molotov e Kaganovič si fossero dati al cattolicesimo, in
Russia ci fosse un governo socialdemocratico provvisorio e si stessero persino
tenendo le elezioni per l’Assemblea Costituente.
In quell’istante, con canonico fragore, si aprì la nota porta dell’uscita dal
bagno e nel vestibolo violetto li attesero fatti davvero incredibili: a ognuno fu
consegnato un asciugamano di spugna e... una scodella piena di kaša d’avena,
l’equivalente di sei giorni di porzione per un lavoratore di un campo di lavoro!
I detenuti gettarono gli asciugamani sul pavimento e a velocità straordinaria,
senza cucchiaio né altro strumento, divorarono la kaša. Rimase stupito anche il
vecchio maggiore della prigione lì presente, che ordinò di portarne un’altra
scodella a testa. Mangiarono tutti anche la seconda. Cosa avvenne dopo
nessuno lo indovinerebbe mai. Portarono delle patate, né ghiacciate né marcite
e neppure nere: semplicemente commestibili, direi.
– Impossibile! – protestarono gli ascoltatori. – Questa è una cosa
inverosimile!
Invece avvenne proprio così! È vero, erano del tipo che si danno ai maiali,
piccole e con i germogli, e gli zek forse, già sfamati, non si sarebbero nemmeno
messi a mangiarle se con diabolica perfidia non le avessero portate in un solo
secchio invece che divise in porzioni. Con un grido inferocito, provocandosi a
vicenda contusioni gravi e salendosi l’un l’altro sulla schiena nuda, gli zek si
buttarono sul secchio, e quello in un minuto, già vuoto, rotolò sul pavimento
di pietra con gran fracasso. Solo a quel punto portarono il sale, che però ormai
non serviva più a niente.
Nel frattempo i corpi nudi si erano asciugati. Il vecchio maggiore ordinò agli
zek di raccogliere dal pavimento gli asciugamani di spugna e rivolse loro un
discorso.
“Cari fratelli!” disse. “Voi siete cittadini sovietici onesti, isolati dalla società
solo temporaneamente per piccole mancanze, chi per dieci, chi per venticinque
anni. Finora, nonostante l’alto spirito umanitario della teoria marxista-leninista,
nonostante la volontà chiaramente espressa dal partito e dal governo,
nonostante le ripetute disposizioni del compagno Stalin in persona, sono stati
commessi gravi errori e deviazioni dalla direzione del carcere della Butyrka.
Correremo ai rimedi. (‘Ci rimandano a casa!’ decisero spudoratamente i
detenuti.) D’ora in poi vi terremo qui come in villeggiatura. (‘Restiamo dentro!’
si avvilirono.) In aggiunta a quanto già permesso prima, si permette di:
pregare il proprio dio;
restare sdraiati sulle brande di giorno e di notte;
uscire dalla cella liberamente per recarsi alle latrine;
scrivere memorie.

In aggiunta a quanto già vietato prima, si vieta di:

soffiarsi il naso su lenzuola e tende statali;


chiedere un secondo piatto di cibo;
in caso di entrata nella cella di visitatori importanti contraddire i capi della
prigione o lamentarsi di loro;
prendere dal tavolo sigarette Kazbek senza permesso.
Chiunque violerà una di queste regole sarà sottoposto a quindici giorni di
rigore al freddo e spedito in campi di lavoro remoti senza diritto alla
corrispondenza. Chiaro?”
E non appena il maggiore concluse il discorso, i vagoncini rimbombanti
portarono forse fuori la biancheria e le giubbe logore dei detenuti dalla
“cottura”? Macché! L’inferno che aveva inghiottito quei cenci non li restituiva!
Entrarono invece quattro giovani addette alla biancheria con lo sguardo basso
che, arrossendo e invitando con dolci sorrisi i detenuti a credere che per loro
come uomini non fosse ancora tutto finito, si misero a distribuire biancheria
azzurra di seta. Poi diedero agli zek camicie di tessuto artificiale, cravatte dalle
tinte sobrie, scarpe americane di un giallo acceso ottenute tramite il programma
Lend-lease142, e completi di pannolano sintetico.
Ammutoliti per il terrore e l’entusiasmo i detenuti, in fila per due, furono
ricondotti alla cella n. 72. Ma, Signore, come si era trasformata!
Già in corridoio i loro piedi si posarono su una passatoia a pelo lungo che,
allettante, conduceva alle latrine. Sulla soglia furono investiti da folate di aria
fresca, e un sole immortale brillò loro direttamente negli occhi (dopo tutto
quel daffare, la notte era finita e il mattino già sorgeva). A quanto pareva
durante le ore notturne le inferriate erano state ridipinte di azzurro, le museruole
tolte dalle finestre e sulla ex chiesa della Butyrka, situata nel cortile, era stato
issato uno specchio girevole riverberante, e una guardia messa lì accanto a bella
posta lo regolava in modo che il riflesso del sole cadesse sempre sulla finestra
della cella n. 72. Le pareti della cella, che solo la sera prima erano verde-oliva
scuro, adesso erano state ridipinte con una vernice a olio chiara, sulla quale
alcuni artisti avevano raffigurato in vari punti colombe e nastrini, con le scritte:
“Vogliamo la pace!” e “Pace al mondo!”.
I pancacci di legno pieni di cimici erano solo un ricordo. Sopra i letti erano
stati stesi dei teli sui quali avevano posato materassi di piume e cuscini di
piume, e da sotto il bordo della coperta risvoltato in modo civettuolo luccicava
il biancore del lenzuolo superiore e di quello inferiore. Accanto a ognuna delle
venti brande c’erano sgabelli, sulle pareti erano appese mensole con libri di
Marx, Engels, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino, in mezzo alla cella si
trovava un tavolo su cui era stesa una tovaglia inamidata e sopra un vaso con
dei fiori, un posacenere e un pacchetto sigillato di Kazbek. (Erano riusciti a
registrare in contabilità tutto il lusso di quella notte magica; solo le sigarette
Kazbek non rientravano sotto alcuna voce. Così il capo della prigione aveva
deciso di pagarle di tasca propria, ragion per cui era stata fissata una punizione
severa per chi se ne fosse appropriato.)
Ma completamente trasformato appariva l’angolo in cui prima si trovava il
bugliolo. La parete era stata lavata fino a farsi candida e poi verniciata, in alto
ardeva una grande lampada davanti a un’icona della Madre di Dio con il
bambino, scintillava con i paramenti san Nikolaj taumaturgo, su una piccola
étagère si innalzava la bianca statua di una madonna cattolica, e nella nicchia
poco profonda lasciata dai costruttori, c’erano la Bibbia, il Corano, il Talmud e
un busto, una piccola statuetta del Buddha. Aveva gli occhi leggermente
socchiusi, gli angoli della bocca piegati all’insù, e nel bronzo annerito il Buddha
sembrava sorridere.
Sazi di kaša e di patate e scossi da un’insostenibile abbondanza di
impressioni, gli zek si spogliarono e si addormentarono subito. Un lieve Eolo
muoveva alle finestre le tendine di pizzo, che non lasciavano entrare le mosche.
Il sorvegliante stava in piedi accanto alla porta socchiusa e controllava che
nessuno sgraffignasse le sigarette Kazbek.
Così se la godettero in pace fino a mezzogiorno, quando entrò di corsa, stra-
or-di-na-ria-men-te accalorato, il capitano in guanti bianchi e annunciò la
sveglia. Gli zek si vestirono con destrezza e rifecero le brande. Dentro la cella
fu spinto in fretta e furia anche un tavolinetto rotondo con una fodera bianca,
sopra cui vennero appoggiati “Ogonëk”, “Costruire l’Urss” e la rivista
“America”; poi furono portate dentro due vecchie poltrone con le rotelle,
anche queste ricoperte da fodere, e calò un silenzio insopportabile e funesto. Il
capitano camminava in mezzo ai letti in punta di piedi e con un bella bacchetta
bianca picchiava sulle dita quelli che allungavano la mano verso “America”.
In quel silenzio estenuante i detenuti rimasero in ascolto. Come ben saprete
per esperienza personale, l’udito è il senso più importante di un detenuto. La
vista di solito viene limitata dalle pareti e dalle museruole, l’olfatto è saturo di
olezzi infami, al tatto mancano nuovi oggetti. L’udito invece si sviluppa in
modo incredibile. Ogni suono, anche quelli che provengono dall’angolo più
remoto del corridoio, si riconosce subito, spiega i fatti che accadono in
prigione e dà il senso del tempo: ora portano l’acqua calda, ora accompagnano
alla passeggiata o consegnano a qualcuno un pacco.
Fu dunque l’udito a svelare quell’arcano: in direzione della cella n. 75 si udì
il rumore di una paratia d’acciaio e nel corridoio entrarono diverse persone.
Giunsero le loro chiacchiere tranquille, i passi attutiti dai tappeti, poi si fecero
più distinte alcune voci femminili, il fruscio delle gonne, e davanti alla porta
della cella n. 72, in tono affabile, il capo della prigione della Butyrka disse:
“E ora presumo che la signora Roosevelt sarà interessata a visitare qualche
cella. Dunque, quale scegliamo? Be’, la prima che capita. Per esempio, la n. 72.
Sergente, apra pure.”
Nella cella entrò la signora Roosevelt, accompagnata da un segretario, un
interprete, due rispettabili matrone di origine quacchera, il capo della prigione
e qualche altro personaggio in abiti civili e con l’uniforme dell’MVD. Il capitano
in guanti bianchi si fece da parte. La signora Roosevelt, la vedova del
presidente, donna anche lei progressista e perspicace, molto impegnata nella
difesa dei diritti umani, si era data lo scopo di visitare il valoroso paese alleato
dell’America e di vedere con i propri occhi come veniva distribuito l’aiuto
dell’UNRRA143 (in America erano giunte voci maligne secondo cui i prodotti
dell’UNRRA non arrivavano alla gente comune), e se era vero che in Unione
Sovietica si limitava la libertà di pensiero. Le avevano già mostrato alcuni
semplici cittadini sovietici (impiegati di partito e funzionari dell’MGB travestiti)
che nelle loro rozze tute da operai avevano ringraziato gli Stati Uniti per il
generoso aiuto. Adesso la signora Roosevelt aveva insistito perché le facessero
visitare una prigione. Il suo desiderio era stato esaudito. Si sedette su una delle
poltrone, il seguito sistematosi intorno, e avviò una conversazione tramite
l’interprete.
I raggi di sole che provenivano dallo specchio girevole continuavano a
battere sulla cella. Il soffio di Eolo muoveva le tendine.
Alla signora Roosevelt piacque molto che nella cella scelta a caso e colta alla
sprovvista ci fosse un biancore così sorprendente, un’assenza totale di mosche
e, nonostante fosse pieno giorno, nell’angolo sacro ardesse una lampada.
All’inizio i detenuti erano timidi e non si muovevano, ma quando
l’interprete tradusse la domanda dell’ospite importante, se vista la pulizia
dell’aria nessuno dei detenuti fumasse, uno di loro con fare disinvolto si alzò,
aprì il pacchetto di Kazbek, si accese una sigaretta e ne allungò un’altra a un
compagno.
Il viso del generale di divisione si rabbuiò.
– Noi lottiamo contro il fumo – disse in modo eloquente. – Il tabacco è
veleno.
Un altro detenuto si sedette al tavolo e si mise a sfogliare la rivista
“America”, chissà perché di gran premura.
– Per cosa vengono punite queste persone? Ad esempio, quel signore che sta
leggendo una rivista? – domandò l’ospite importante.
(“Quel signore” si era preso dieci anni per aver familiarizzato con un turista
americano.)
Il generale di divisione rispose:
– Quell’uomo è un hitleriano attivo, è stato a servizio della Gestapo, ha
incendiato personalmente un villaggio russo e, mi perdoni, violentato tre
contadine russe. Il numero di bambini uccisi da lui non si conta nemmeno.
– Non l’avete condannato all’impiccagione? – domandò la signora
Roosevelt.
– No, ci auguriamo che possa correggersi. È stato condannato a dieci anni di
onesto lavoro.
Dal viso del detenuto traspariva sofferenza, ma lui non si intromise,
proseguì a leggere la rivista con fretta febbrile.
Nella cella in quel momento entrò per caso un sacerdote ortodosso con una
grossa croce di madreperla sul petto: evidentemente stava facendo il suo solito
giro e rimase molto imbarazzato nel trovare lì dentro i superiori e ospiti
stranieri.
Avrebbe voluto scappar via, ma la sua modestia piacque alla signora
Roosevelt, che lo invitò a adempiere ai suoi doveri. Il sacerdote rifilò subito a
uno dei detenuti smarriti un Vangelo tascabile, si sedette sul letto di un altro e
disse a quest’ultimo impietrito dallo stupore:
“Dunque, figlio mio, l’ultima volta lei mi aveva chiesto di raccontarle delle
sofferenze del Signore nostro Gesù Cristo.”
La signora Roosevelt chiese al generale di divisione di domandare ai detenuti
subito, lì davanti a lei, se qualcuno di loro avesse qualche lamentela da fare
all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Il generale di divisione, in tono minaccioso, domandò:
“Attenzione, detenuti! Cosa avevamo detto sulle Kazbek? Volete finire in
cella di rigore?”
I detenuti che, presi da ammirazione, fino a quel momento erano rimasti in
silenzio, ora si misero a schiamazzare a più voci, indignati:
“Cittadino capo, non abbiamo più niente da fumare!”
“Moriamo dalla voglia!”
“La machorka è rimasta negli altri pantaloni!”
“Non lo sapevamo!”
La celebre dama vide lo sdegno autentico dei detenuti, sentì le loro
esclamazioni sincere e ascoltò la traduzione con grande interesse:
“Stanno protestando all’unanimità contro la grave situazione dei neri in
America e chiedono che si esamini la questione all’ONU.”
Trascorsero a quel modo quasi quindici minuti di piacevole conversazione.
Finché il sorvegliante di turno nel corridoio non annunciò al capo della
prigione che stavano per portare il pranzo. L’ospite disse di non preoccuparsi
per lei e di distribuirlo pure in sua presenza. La porta si spalancò e alcune
cameriere giovani e carine (vale a dire le stesse vestite prima da addette alla
biancheria) portarono dentro su comuni portavivande dei tagliolini in brodo di
pollo, che distribuirono nei piatti. In un secondo fu come se l’impeto di un
istinto primordiale trasfigurasse quei detenuti dignitosi: saltarono con gli
scarponi sui loro letti, sollevarono le ginocchia al petto, appoggiarono le mani
accanto ai piedi e in quella posizione canina, mostrando i denti con ferocia,
controllarono l’equità nella distribuzione dei tagliolini. Le matrone erano
scioccate, ma l’interprete spiegò loro che quella era un’usanza nazionale russa.
Convincere i detenuti a sedersi a tavola e a mangiare con i cucchiai di
alpacca si rivelò impossibile. Avevano già tirato fuori da chissà dove i loro
cucchiai di legno scrostati e, non appena il sacerdote ebbe benedetto il pasto e
le cameriere distribuito le porzioni, informandoli che a tavola c’era un piatto
per gettare le ossa, si produssero all’unisono in un terribile risucchio, poi un
compatto sgranocchiare di ossa di pollo, e quanto era stato versato nei piatti
scomparve per sempre. Il piatto per gettare le ossa non era servito.
“Che abbiano fame?” fece quell’assurda ipotesi l’ospite, inquieta. “Ne
vorranno ancora?”
“Volete l’aggiunta?” chiese in tono rauco il generale.
Ma, conoscendo la saggia espressione dei campi di lavoro “Te la dà il
procuratore l’aggiunta”, nessuno gradiva.
Comunque, alla stessa velocità incredibile, gli zek divorarono le polpette con
il riso.
Essendo un giorno feriale, la frutta cotta non era prevista.
Convinta che le insinuazioni delle malelingue del mondo occidentale fossero
falsità, Mrs Roosevelt uscì nel corridoio con il suo seguito e disse:
“Ma che maniere rozze e che livello basso hanno questi infelici! In ogni caso
c’è da sperare che in dieci anni si abitueranno alla civiltà. Avete un carcere
eccellente!”
Prima che lo chiudessero dentro, il sacerdote scappò fuori unendosi al
seguito.
Quando gli ospiti lasciarono il corridoio, nella cella rientrò di corsa il
capitano in guanti bianchi:
“In pie-e-di!” gridò. “In fila per due! Fuori in corridoio!”
E resosi conto che le sue parole non erano state ben comprese da tutti, usò
la suola dello scarpone per spiegarsi ulteriormente con quelli rimasti indietro.
Solo a quel punto si scoprì che uno zek scaltro aveva colto al volo
l’occasione di scrivere le sue memorie e, mentre gli altri dormivano, dal mattino
aveva buttato giù due capitoli: “Come mi torturavano” e “I miei colloqui a
Lefortovo”.
Le memorie furono subito stracciate e lo scrittore cuor di leone si procurò
l’ennesimo capo d’imputazione: calunnia verso gli organi di Sicurezza di Stato.
Poi di nuovo, con lo schioccare di dita e il tintinnare di chiavi alla “Porto
uno zek!” in sottofondo, i detenuti furono ricondotti attraverso innumerevoli
porte d’acciaio fino allo spogliatoio, scintillante nella sua eterna bellezza di
malachite e rubino. Là vennero privati di tutto, fino alla biancheria di seta
azzurra e sottoposti a una perquisizione particolarmente scrupolosa durante la
quale a uno zek fu rinvenuto sotto una guancia un Discorso della Montagna
strappato dal Vangelo. Ragion per cui fu subito pestato prima sulla guancia
destra, poi sulla sinistra. Sequestrarono anche le spugne di corallo e il sapone
“Fata dei lillà”, per i quali toccò loro firmare una restituzione.
Poi entrarono due sorveglianti con i camici sporchi, che con le macchinette
intasate e poco affilate si misero a radere ai detenuti il pube; usando le stesse
macchinette, passarono le guance e la sommità del cranio. Infine, in mano a
ciascun detenuto versarono venti grammi di puzzolente surrogato liquido di
sapone e li chiusero dentro al bagno. Non c’era altro da fare, i detenuti si
lavarono una seconda volta.
Poi con canonico fragore si aprì la porta d’uscita del bagno e gli zek
sbucarono nel vestibolo violetto. Le due anziane addette all’inferno spinsero
rumorosamente fuori dalla stanza di disinfezione i vagoncini con i cenci
familiari ai nostri eroi appesi sui gancetti arroventati.
I detenuti ritornarono a testa bassa nella cella n. 72, dove sui pancacci pieni
di cimici erano di nuovo sdraiati cinquanta loro compagni, che morivano dalla
curiosità di sapere cosa fosse successo. Le finestre erano di nuovo bloccate
dalle museruole, le colombe erano state coperte con la vernice verde-oliva scuro
e in un angolo era ricomparso un bugliolo della capienza di quattro secchi.
Solo nella nicchia, con fare sibillino, sorrideva dimenticato il piccolo
Buddha di bronzo...

138 Qui il gioco di parole è legato al modo di dire sorok boček arestantov, “quaranta barili di pesce
essiccato”, che sta indicare una grossa quantità di qualcosa, dove il termine antico arestant, “piccolo pesce
essiccato”, è identico a quello nel russo corrente che significa “detenuto”.
139 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 129.
140 Celebre giornale di politica, economia e letteratura di Pietroburgo, con posizioni moderatamente
liberali, chiuso nell’ottobre del 1917.
141 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 173.
142 Iniziativa politica con cui gli Stati Uniti fornivano a vari paesi alleati grandi quantità di materiale durante
la Seconda guerra mondiale, tra il 1941 e il 1945.
143 L’Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione (United Nations Relief and
Rehabilitation Administration), era un’organizzazione internazionale costituita nel 1943 per assistere le
popolazioni delle Nazioni Unite danneggiate dalla guerra e successivamente anche i paesi ex nemici.
60
ANCHE LA COSCIENZA CI VIENE DATA UNA VOLTA SOLA

Mentre quella novella veniva raccontata, Ščagov, che aveva lucidato gli scarponi
di vitello non più nuovi ma ancora belli e si era infilato nel suo ex corredo
militare di gala ben stirato, con le decorazioni pulite a dovere e il distintivo per
il ferimento cucito sopra (ahimè, a Mosca, la moda di portare le uniformi
militari era diventata catastroficamente antiquata e presto gli sarebbe toccato
mettersi in difficile competizione con abiti e scarpe), era diretto dall’altra parte
della città, alla barriera di Kaluga, dove Erik Saun’kin-Golovanov, un amico del
fronte, lo aveva invitato a una serata solenne a casa della famiglia del
procuratore Makarygin.
Quella in onore del procuratore, che aveva ricevuto l’ordine della Bandiera
Rossa del Lavoro, era una festa per i giovani e per la famiglia. I giovani capitati
lì, in verità, erano tutt’altro che vicini alla famiglia, ma il paparino aveva
sganciato lo stesso la grana. Doveva essere presente anche la ragazza che
Ščagov aveva indicato a Nadja come sua fidanzata, ma con la quale non c’era
ancora niente di deciso e bisognava spingere un po’. Così aveva telefonato a
Erik per farsi procurare un invito alla festa.
Ora, con qualche frase d’esordio preparata in anticipo, stava salendo per la
stessa rampa di scale su cui Klara aveva visto la donna intenta a lavare i
pavimenti, diretto all’appartamento nel quale quattro anni prima, strisciando
sulle ginocchia con i laceri pantaloni imbottiti, posava il parquet lo stesso
uomo cui per poco, prima, non aveva portato via la moglie.
Anche le case hanno un loro destino.
A parte tenersi stretta la fidanzata che si era designato, quella sera la
speranza e il desiderio principali di Ščagov erano di farsi una bella scorpacciata,
abbondante e varia. Sapeva che avrebbero preparato e sistemato il meglio in
quantità illimitate, anche se per una sorta di incantesimo gli invitati di un
banchetto non si prefiggono mai di mangiare con cura e piacere, ma di
intrattenersi a vicenda, mescolarsi, trattare il cibo con falsa sufficienza. Ščagov
doveva essere in grado di far compagnia alla persona che aveva accanto,
conservando un’espressione equilibrata e cortese, riuscire a scherzare, a
rispondere alle battute, e allo stesso tempo soddisfare di continuo il suo
stomaco rattrappito dalla mensa studentesca.
Là, a quella serata, era sicuro che non avrebbe incontrato nessun ex
combattente vero, nessun fratello finito su un sentiero di mine, nessuno che
avesse sperimentato lo stesso odioso arrancare stanco, meschino, su un campo
arato, in quello che veniva definito trionfalmente un attacco. Lì, in quel caldo
mondo felice, dei compagni dispersi, dimenticati e uccisi nei cortili di canapa,
accanto alle pareti di una baracca, sulle rocce d’assalto, c’era solo lui, pronto a
mettere da parte la domanda “Canaglie! Voi dov’eravate?”, e a unirsi a loro,
riempendosi la pancia.
Ma dividere le persone fra soldati e non soldati non era una cosa superata?
La gente adesso si vergognava persino di portare le decorazioni militari così
scintillanti, che un tempo le erano costate tanto. Non potevi scuoterli tutti
dicendo: “E tu, dov’eri?” C’erano quelli che avevano combattuto e quelli che si
erano nascosti: ogni cosa si mescolava, si livellava. Esiste un tempo per
ricordare e un tempo per dimenticare. Ai morti la gloria, ai vivi la vita.
Ščagov suonò il campanello. Gli venne ad aprire Klara, come Ščagov intuì.
Nel piccolo e stretto corridoio era già appeso un buon numero di cappotti
da uomo e da donna. Lo spirito mite di quella riunione giungeva fin lì in un
tuonare di voci allegre, il radiofonografo, il tintinnio delle stoviglie e un misto
di pimpanti odori di cucina.
Klara non fece in tempo a invitare l’ospite a spogliarsi che sentì squillare il
telefono appeso lì accanto. Sollevò la cornetta, rispose e con la mano sinistra
fece un cenno deciso a Ščagov di levarsi il cappotto.
– Ink? Salve... Cosa? Non sei ancora uscito? Sbrigati! Ink, papà si offenderà...
Sì, hai anche la voce stanca... Che pretendi, continui a dire ‘Non posso’! Allora
aspetta, ti chiamo Nara... Nara! – gridò verso la stanza. – C’è la tua dolce metà
al telefono, vieni! Si spogli pure! (Ščagov si era già levato il cappotto.) Si tolga
le soprascarpe! (Era venuto senza.) Senti, non vuole venire.
Nel corridoio spuntò, diffondendo profumi lontani dalla nostra volta
celeste, la sorella di Klara, Dotnara, moglie di un diplomatico, come
Golovanov aveva anticipato a Ščagov. Non faceva colpo per la bellezza ma per
quell’imponenza che vibrava nell’aria, capace di rendere gloria al genere
femminile russo. Non era né grassa né corpulenta, ma nemmeno una piccoletta
titubante, sempre in mezzo ai piedi, che si avvicinava furtiva, insicura di sé.
Quella donna camminava come indifferente al fatto se le spettassero o meno la
porzione di pavimento che aveva sotto i piedi e la successiva o il volume di
spazio che la sua figura occupava e il successivo.
Afferrò la cornetta e cominciò a parlare al marito con dolcezza. Stava
impedendo in parte il passaggio a Ščagov, ma lui non aveva fretta di superare
quell’ostacolo profumato, preso com’era a osservarla. Il fatto che non
indossasse le rozze finte spalline aggiuntive che usavano tutte rendeva Dotnara
particolarmente femminile: le spalle si univano alle braccia in una linea naturale
che meglio non si sarebbe potuto disegnare. C’era qualcosa di particolare anche
nel suo abbigliamento: sopra il vestito sbracciato aveva una specie di mezza
mantellina orlata di pelliccia, con le maniche che si chiudevano ai polsi ma
aperte in alto.
E a nessuno dei tre che affollavano il tappeto dell’angusto corridoio sarebbe
mai venuto in mente che dentro quell’innocua e lucida cornetta nera, in quella
conversazione di poco conto sull’arrivo o meno a una festa, si celasse il genere
di misteriosa rovina che è capace di attenderci persino in mezzo alle ossa di un
cavallo morto144.

Da quando, quello stesso giorno, Rubin aveva ordinato di registrare qualche


altra conversazione telefonica di ciascun sospettato, era la prima volta che la
cornetta del telefono nell’appartamento di Innokentij Volodin veniva alzata da
lui personalmente; così all’unità centrale delle comunicazioni presso il
Ministero della Sicurezza di Stato il nastro del magnetofono, sfrusciando, si era
messo a registrare la sua voce.
Vero, la prudenza avrebbe dovuto suggerire a Innokentij di non telefonare
in quei giorni, ma la moglie era uscita di casa senza di lui e aveva lasciato un
messaggio in cui scriveva che quella sera il marito doveva assolutamente farsi
trovare a casa del suocero.
Lui aveva telefonato per disdire.
Il giorno prima – era stato davvero il giorno prima? Sembrava trascorso un
secolo... – dopo la telefonata all’ambasciata aveva cominciato a tormentarsi
all’infinito. Non si aspettava di agitarsi tanto, non pensava che avrebbe avuto
così paura per sé stesso. Di notte si era sentito invadere dal terrore di un
arresto sicuro e non vedeva l’ora che arrivasse il mattino per avere un posto
dove andare, fuori casa. Aveva trascorso la giornata in preda all’ansia, senza
ascoltare né capire davvero le persone con cui parlava. In lui si alternavano una
stizza per quel colpo di testa e uno schifoso terrore che lo indeboliva, ma verso
sera erano degenerati entrambi in una sorta di indifferenza: sarebbe andata
come doveva andare.
Per Innokentij, probabilmente, sarebbe stato più facile se quella giornata
senza fine non fosse stata una domenica ma un giorno feriale. In servizio,
avrebbe potuto intuire qualcosa da diversi segnali, come il fatto che spostassero
o cancellassero la sua spedizione a New York, al quartier generale dell’ONU. Ma
da cosa si poteva capire, di domenica, se l’immobilità di quel giorno di festa
nascondeva quiete o minaccia?
Nelle ventiquattr’ore precedenti gli era sembrato, con quella telefonata, di
aver compiuto un atto sconsiderato, suicida, che non avrebbe portato nulla di
utile a nessuno. E a giudicare da quell’addetto militare così sbadato, non erano
nemmeno degni di essere difesi.
Nulla faceva pensare a Innokentij che l’avessero identificato, eppure lo
angosciava quel genere di presagio che alberga in noi in modo del tutto
misterioso; il presentimento di una disgrazia gli era montato dentro al punto
che non aveva voglia di andare in nessun luogo in cui la gente si stesse
divertendo.
Ora si sforzava di convincere la moglie, biascicava come quando si deve dire
qualcosa di spiacevole; lei insisteva e le nitide “formanti” dell’“uso individuale
del linguaggio” di Innokentij si riversavano sullo stretto nastro magnetico
marrone per poi tramutarsi al mattino in fonoaspetti e spiegarsi davanti a
Rubin sotto forma di un nastro umido.
Dotty non usò il tono categorico che aveva fatto proprio negli ultimi mesi, ma
toccata dalla voce stanca del marito gli chiese se non potesse fare un salto
almeno per un’oretta.
Innokentij si rassegnò ad accontentarla.
Eppure, una volta riagganciato, non risollevò subito la mano dalla cornetta,
ma restò immobile, come se avesse le dita incollate sopra, immobile, come se
non avesse detto tutto.
Non gli dispiaceva per la moglie con cui adesso viveva e non viveva, che di lì
a qualche giorno aveva intenzione di lasciare per sempre, ma per la studentessa
bionda della decima classe, con i riccioli fino alle spalle, che un tempo portava
a ballare al Metropol’ in mezzo ai tavolini, la ragazza con cui aveva cominciato
a conoscere la vita. Fra loro era nata una passione incontenibile, che non voleva
sentire ragioni, per cui era insopportabile anche solo l’idea di aspettare un anno
per sposarsi. Con l’istinto che ci guida in mezzo alle apparenze ingannevoli e ai
richiami mendaci, si erano capiti l’un l’altra sul serio e non volevano perdersi.
A quel matrimonio si erano opposti sia la madre di Innokentij, ai tempi già
malata gravemente (quale madre non si opporrebbe al matrimonio del figlio?)
sia il procuratore (quale padre darebbe in sposa a cuor leggero l’adorabile figlia
diciottenne?). Ebbene, si erano dovuti rassegnare tutti! I due giovani si erano
sposati ugualmente ed erano stati a tal punto felici da trasformarsi in un mito
agli occhi dei conoscenti.
La loro vita coniugale era cominciata sotto i migliori auspici. Appartenevano
a quella cerchia sociale che non sa cosa significa andare a piedi o in
metropolitana, che prima della guerra a un vagone letto su un treno senza
fermate preferiva l’aereo, che non ha nemmeno il problema di dover arredare
un appartamento: in ogni nuovo posto – vicino a Mosca, a Teheran, sulla costa
siriana o in Svizzera – li attendeva una dacia ammobiliata, una villa, un
appartamento. Il loro modo di vedere la vita coincideva. Erano convinti che fra
i desideri che provavano e la loro realizzazione non esistevano né divieti né
ostacoli. “Siamo persone normali” diceva Dotnara. “Non fingiamo e non ci
nascondiamo: quello che vogliamo ce lo prendiamo!” La loro idea, che “la vita
ci viene data una volta sola!”. Dalla vita, dunque, bisognava avere tutto, a parte
mettere al mondo un figlio, perché un bambino è un idolo che ti risucchia ogni
linfa vitale e non ti ricompensa né con il sacrificio né tanto meno con la
gratitudine.
Con simili considerazioni, i due giovani si adattavano perfettamente
all’ambiente in cui vivevano, e l’ambiente si adattava a loro. Cercavano di
assaggiare ogni nuovo frutto selvatico. Scoprire il gusto di ogni cognac da
collezione e la differenza fra i vini del Rodano e quelli della Corsica, e tutti gli
altri pigiati nelle vigne della Terra. Indossare ogni tipo di vestito. Provare ogni
genere di ballo. Fare il bagno in tutte le località di villeggiatura. Assistere a due
atti di ogni spettacolo insolito. Sfogliare qualsiasi libro che avesse fatto
scalpore. Nei sei anni migliori per un uomo e una donna si erano concessi l’un
l’altro tutto ciò che desideravano. Quei sei anni erano coincisi quasi per intero
con quelli in cui l’umanità singhiozzava per le separazioni e moriva al fronte e
sotto i crolli di città dove adulti impazziti rubavano briciole di pane ai
bambini. Il dolore del mondo, invece, non aveva lasciato alcun segno sui volti
di Innokentij e Dotnara.
Sì, la vita ci viene data una volta sola!
Tuttavia, al sesto anno della loro vita coniugale, quando i caccia bombardieri
erano atterrati e i cannoni si erano ammutoliti, quando l’erba ricoperta di
fuliggine nera aveva ricominciato a crescere e ovunque la gente si era ricordata
che la vita ci viene data una volta sola, in quei mesi Innokentij aveva provato
un senso di sazietà nauseante e insapore verso tutti i frutti materiali della terra
che si potessero annusare, tastare, bere, mangiare e maneggiare.
Quella sensazione lo aveva spaventato, così lui l’aveva nascosta dentro di sé
come una malattia, in attesa che passasse; ma quella non passava. In particolare,
non riusciva a comprenderla: perché gli era venuta? Ogni cosa gli era
accessibile, eppure gli mancava comunque qualcosa. A ventotto anni, in
perfetta salute, Innokentij percepiva la propria vita e quella di chi gli stava
accanto come a un punto morto.
E gli allegri amici con cui era tanto affiatato avevano cominciato a non
andargli più a genio: uno gli pareva sciocco, un altro rozzo, un terzo troppo
concentrato su sé stesso.
Ma non solo dagli amici, anche dalla bionda Dotty – da un po’ di tempo
chiamava Dotnara all’europea – da sua moglie, con la quale era abituato a
sentirsi unito, ora si sentiva diverso, lontano.
In quella donna, un tempo parte di lui, che non gli bastava mai, le cui labbra
non potevano stancarlo nemmeno quando era d’umore più nero – non aveva
conosciuto né incontrato le labbra di nessun’altra e per questo Dotty era l’unica
fra le donne belle e intelligenti – si erano manifestati mancanza di sensibilità e
incapacità di giudizio.
In particolare, le sue osservazioni sulla letteratura, sulla pittura, sul teatro gli
sembravano fuori luogo, gli squarciavano le orecchie per grossolanità, livello
d’incomprensione, eppure venivano pronunciate con sicurezza. Solo restare in
silenzio con lei era rimasto bello come prima, mentre parlarle diventava sempre
più difficile.
La loro vita lussuosa così ben consolidata aveva cominciato a mettere in
imbarazzo Innokentij, ma Dotty non voleva sentirne neanche di cambiare
qualcosa. Per di più, se prima passava attraverso le cose e senza pietà ne
abbandonava alcune per altre migliori, adesso in lei era sorta un’ingordigia che
la spingeva a tenere in possesso perenne tutti gli oggetti di tutti gli
appartamenti. Nei due anni trascorsi a Parigi, Dotty non aveva fatto altro che
spedire a Mosca scatoloni di stoffe, scarpe, abiti e cappelli. A Innokentij quella
cosa non piaceva, glielo aveva detto, ma più le loro intenzioni divergevano in
modo esplicito più lei era convinta testardamente di essere dalla parte della
ragione. E quella sua maniera sgradevole di masticare, quel rumore leggero che
faceva quando mangiava un frutto? Era comparso in lei solo ora o c’era sempre
stato e lui non l’aveva mai notato?
Il problema, comunque, non erano gli amici, non era la moglie, era lui
stesso. C’era qualcosa che gli mancava, qualcosa però che non sapeva
identificare.
Da tempo si era conquistato la nomea di epicureo: lo chiamavano a quel
modo e lui lo aveva accettato di buon grado, sebbene non sapesse con
precisione cosa significasse. Poi una volta, a casa a Mosca, non avendo niente
da fare, gli era venuta l’idea bizzarra di leggere che cosa predicasse di preciso il
suo maestro. E si era messo a cercare negli armadi lasciati dalla defunta madre
un libro su Epicuro di cui si ricordava fin dall’infanzia. L’aveva trovato.
Innokentij aveva iniziato quell’attività, guardare nei vecchi armadi, con una
bruttissima sensazione di rigidità nei movimenti, pigrizia all’idea di chinarsi,
sistemare cose pesanti, respirare la polvere. Non era proprio abituato a un
simile lavoro, lo trovava stancante. Tuttavia, era riuscito a superare quel limite,
e un venticello ristoratore era soffiato su di lui dal profondo di quei vecchi
armadi con il loro particolare odore di stantio. Fra le altre cose, aveva trovato
anche il libro su Epicuro, e in seguito, in qualche modo, l’avrebbe pure letto,
ma non consisteva in quello la cosa per lui principale, bensì nelle lettere e nella
vita della sua defunta madre, che lui non aveva mai capito e alla quale si era
sentito legato solo da bambino. Persino la sua morte era stata vissuta da
Innokentij quasi con indifferenza.
Dentro di lui i primi anni dell’infanzia, le trombe d’argento rivolte verso il
soffitto di stucchi, il verso “Innalzatevi con i falò, notti blu!”145 si mischiavano
alla prima immagine di suo padre. Siccome era morto a ventun anni nel
governatorato di Tambov durante la repressione della rivolta146, non se lo
ricordava nemmeno, eppure nessuno si stancava mai di parlargli del padre, un
eroe famoso, un condottiero della Marina divenuto celebre durante la Guerra
civile. Poiché arrivavano lodi da ogni parte e da chiunque, Innokentij si era
abituato a essere orgoglioso del padre, della sua lotta per la gente semplice
contro quei ricconi sprofondati nel lusso. Verso la madre, invece, che era
eternamente preoccupata, sempre triste per qualcosa, circondata da libri e borse
dell’acqua calda, mostrava quasi un atteggiamento di superiorità e, come sono
convinti sempre i figli, non pensava che lei avesse in mente altro che lui, la sua
infanzia e i suoi bisogni, mentre aveva anche una vita propria, aveva sofferto
per la malattia ed era morta a soli quarantasette anni.
I suoi genitori non erano riusciti quasi a vivere insieme. Ma da bambino non
c’era stato motivo di riflettere nemmeno su questo, né gli era venuto in mente
di farle qualche domanda.
Adesso, invece, ogni cosa gli si era svelata nelle lettere e nei diari della
madre. Il loro non era stato un matrimonio, ma una sorta di vortice, come
tutto in quegli anni. Si erano imbattuti l’uno nell’altro in circostanze
improvvise; le circostanze avevano concesso loro di vedersi poco, le circostanze
li avevano costretti a separarsi. In quei diari, però, la madre sembrava tutt’altro
che un’appendice del padre, come era abituato a considerarla il figlio, aveva un
mondo suo. Innokentij adesso aveva scoperto che per tutta la vita era stata
innamorata di un altro uomo, con il quale non era mai riuscita a stare insieme.
E forse, solo per la carriera del figlio, aveva portato fino alla morte un
cognome che non sentiva suo.
Negli armadi si erano conservati fasci di lettere legati con cordoncini di
tessuto morbido di tanti colori: lettere da amiche della madre, amici,
conoscenti, artisti, pittori e poeti, i cui nomi erano già finiti nel dimenticatoio o
venivano ricordati con toni ingiuriosi.
Su vecchi quaderni con la copertina di marocchino azzurro si susseguivano
appunti di diario scritti in russo e in francese nella calligrafia strana di sua
madre: era come se un uccellino ferito si fosse gettato su un foglio di carta e
avesse trascinato in malo modo l’artiglio lasciandoci un’orma bizzarra. A
riempire diverse pagine erano i ricordi di serate letterarie e spettacoli teatrali.
Stringeva il cuore il modo in cui descriveva una notte bianca di giugno nella
quale sua madre, a quei tempi una ragazza entusiasta in una folla di ammiratori
felici fino alle lacrime, aveva accolto una compagnia del Teatro dell’Arte alla
stazione di Pietroburgo. Quelle pagine erano un tripudio all’arte generosa.
Innokentij non sapeva di quale compagnia si trattasse ma non riusciva a
immaginare che qualcuno, a parte gente mandata della Sezione Cultura con
mazzi di fiori pagati dall’amministrazione, non avesse dormito la notte per
andare ad accoglierla.
Quei diari, invece, lo portavano sempre più in là. C’erano alcune pagine
intitolate: “Annotazioni di etica.”
Si leggeva: “La compassione è il primo slancio di un’anima buona.”
Innokentij aveva corrugato la fronte. La compassione? Quello era un
sentimento di cui vergognarsi, umiliante per chi lo provava e per chi veniva
compatito. Così gli avevano insegnato a scuola, così aveva appreso dalla vita.
“Non considerarti mai nel giusto più degli altri. Rispetta le opinioni altrui,
persino quelle che ti sono ostili.”
Anche quello era abbastanza antiquato. Se possiedi una visione giusta del
mondo, puoi davvero rispettare chi si oppone?
Al figlio non sembrava più di leggere, aveva la sensazione di udire la madre
pronunciare con la sua esile voce:
“Qual è la cosa più preziosa al mondo? Rendersi conto di non partecipare
alle ingiustizie. Sono più forti di te, lo sono state e sempre lo saranno, ma
almeno non agiscono con il tuo tramite.”
Se soltanto Innokentij avesse aperto quei diari sei anni prima, quelle frasi
non le avrebbe nemmeno notate. Ora invece le leggeva lentamente e si stupiva.
Non c’era scritto nulla di così recondito, e alcune cose non erano nemmeno
tanto vere, eppure lo avevano meravigliato. Obsolete erano anche le parole
stesse con cui si esprimevano la madre e le sue amiche. Scrivevano sul serio con
la lettera maiuscola: Verità, Bene e Bellezza; Bene e Male; un imperativo
estetico. Nel linguaggio che usavano Innokentij e le persone che lo
circondavano, le parole erano più concrete e chiare: impegno, umanità,
dedizione, perseveranza.
Ma sebbene Innokentij fosse un uomo indubbiamente impegnato, umano,
fedele e perseverante (era soprattutto la perseveranza che i suoi coetanei
riconoscevano dentro di sé e coltivavano), seduto su una bassa panca vicino
agli armadi, si sentiva come invadere da qualcosa che non riusciva a cogliere.
Poi c’erano gli album delle foto, con la chiarezza nitida dei vecchi scatti.
Alcuni pacchetti separati erano composti da programmi teatrali di Pietroburgo
e di Mosca. Il quotidiano teatrale “Lo spettatore”. E “Il messaggero
cinematografico” ...cosa? c’era già allora? E pile e pile di riviste, i titoli di alcune
che balzavano agli occhi: “Apollon”, “Il vello d’oro”, “Iperborea”, “Pegaso”,
“Il mondo dell’arte”. Poi riproduzioni di quadri e di sculture sconosciuti (mai
visti alla Galleria Tretjakov!); di scenografie teatrali. Poesie di poeti sconosciuti.
Innumerevoli libriccini allegati alle riviste, con decine di nomi di scrittori
europei, di cui Innokentij non aveva mai sentito parlare. E non solo singoli
scrittori! Lì c’erano intere case editrici che nessuno conosceva, come mandate
all’inferno: Il Grifo, La Rosa selvatica, Lo Scorpione, Il Musagete, Alcione,
Sirin, L’Aurora Boreale, Logos.
Era rimasto così su quella panca accanto agli armadi spalancati per qualche
giorno, continuando a respirare quell’aria, avvelenandosi con essa, con quel
piccolo mondo di sua madre in cui un giorno suo padre, nell’impermeabile
nero, le bombe a mano legate alla cintura, era entrato con un ordine di
perquisizione della Čeka.
A guardare Innokentij dalle sue pagine ingiallite era la Russia degli anni
Dieci, l’ultimo decennio prerivoluzionario, con la sua varietà di correnti, lo
scontro di idee, la libertà di immaginazione e l’ansia di un presentimento, un
periodo che a scuola e all’università il giovane aveva imparato a considerare il
più vergognoso, il più mediocre della storia del paese, talmente privo di
speranze che, se i bolscevichi non le avessero teso una mano, la nazione
sarebbe marcita e crollata.
E quel decennio, in parte troppo disinvolto e in parte troppo debole, era
anche fin troppo ciarliero. Quanti steli disseminati! Quante idee pronte a
spigare!
Innokentij aveva capito che fino ad allora era stato derubato.
Dotnara era venuta a chiamare il marito: dovevano andare a una serata nei
dintorni del Cremlino. Innokentij l’aveva guardata come se fosse pazza e,
corrugando la fronte, si era immaginato quella pomposa riunione dove tutti
sarebbero stati perfettamente d’accordo, si sarebbero alzati in piedi per il primo
brindisi al compagno Stalin e poi, anche senza il compagno Stalin, avrebbero
mangiato, bevuto molto e giocato a carte come degli stupidi, degli stupidi.
Riemerso da chissà quale punto lontano, aveva guardato la moglie e le aveva
chiesto di andarci da sola. Dotnara trovava assurdo che all’allegro divertimento
di una serata fra ospiti si potesse preferire sfogliare vecchi album. Essendo
legati a vaghi ricordi d’infanzia di Innokentij mai del tutto dimenticati, quei
ritrovamenti negli armadi parlavano alla sua anima, mentre alla moglie non
dicevano niente.
Sua madre ce l’aveva fatta: si era risollevata dalla tomba e aveva tolto il figlio
alla nuora.
Una volta partito per quel viaggio, Innokentij non era più riuscito a
fermarsi. Se lo avevano imbrogliato su una cosa, chissà quante altre ce n’erano
ancora!
Impigritosi per molti anni, disabituato a studiare (la facilità che aveva con il
francese, utile per la carriera, l’aveva acquisita fin da piccolo dalla madre),
Innokentij adesso si era buttato nella lettura. Le passioni ormai affievolite, di
cui era sazio, erano state rimpiazzate da una soltanto: leggere e leggere!
Ma evidentemente anche quello richiedeva abilità, non bastava solo scorrere
le righe con gli occhi. Innokentij si era reso conto di essere un selvaggio
cresciuto nelle caverne della sociologia con indosso le pelli della lotta di classe.
Durante la sua formazione, gli era stato insegnato a credere solo a certi libri,
senza verificare, rigettando gli altri senza leggerli. Fin da ragazzo l’avevano
protetto dai libri sbagliati, leggeva solo quelli giusti a priori, ragion per cui si
era instillata in lui un’abitudine: credere a ogni parola dell’autore, affidarsi
totalmente alla sua volontà. Adesso che invece leggeva autori che si
contraddicevano fra loro, per lungo tempo non aveva saputo come opporsi; né
riusciva a evitare di lasciarsi prendere prima da un autore, poi da un altro, e
infine da un terzo. La cosa più difficile era imparare, una volta messo giù un
libro, a rifletterci da solo.
...Come mai era stata tolta dai calendari sovietici l’altra rivoluzione, quella di
febbraio, che si vergognavano persino a nominare, che consideravano un
dettaglio irrilevante per il Diciassette? Forse perché non c’era stato lavoro per
la ghigliottina? Era caduto lo zar, e con lui nella stessa scossa un regime durato
seicento anni, e nessuno si era gettato a raccogliere la corona, tutti cantavano,
ridevano, si congratulavano a vicenda; e in un calendario dove erano indicati
con cura i compleanni di quei grassi maiali di Ždanov e Ščerbakov, per quel
giorno non c’era spazio?
Quella d’Ottobre, invece, che era stata elevata a somma rivoluzione
dell’umanità, già negli anni Venti, in tutti i nostri libri, era definita un punto di
svolta. Eppure, nell’ottobre del Diciassette, di cosa furono accusati Kamenev e
Zinov’ev? Di aver tradito il segreto della rivoluzione in favore della borghesia! Ma
davvero si può fermare l’eruzione di un vulcano fissandone il cratere? Davvero
si può bloccare un uragano procurandosi un bollettino meteorologico? Si può
tradire un segreto? Solo il segreto di un complotto ristretto! Nell’Ottobre era
mancata proprio la spontaneità dell’impeto del popolo, i cospiratori si erano
raccolti a un certo segnale...
Di lì a breve avevano designato Innokentij a Parigi. Lì era entrato in
contatto con le opinioni di tutto il mondo, nelle loro varie sfumature, e con la
letteratura russa d’emigrazione (bastava anche solo guardare un po’ i chioschi
dei giornali). Poteva leggere, leggere, leggere! se non avesse dovuto prima
prestare servizio.
Il suo servizio, il suo lavoro, che fino a quel momento aveva considerato la
sorte migliore e più fortunata della vita, per la prima volta cominciava ad
apparirgli come qualcosa di ripugnante.
Prestare servizio come diplomatico sovietico significava non solo declamare
ogni giorno cose misere che persone con un po’ di cervello avrebbero deriso,
ma anche avere due muri nel petto e due fronti in testa, come aveva detto a
Klara. Il suo compito principale era un altro, segreto: incontrare persone sotto
copertura, raccogliere informazioni, consegnare istruzioni e pagare somme di
denaro.
Durante l’allegra giovinezza, fino alla sua crisi, Innokentij non aveva mai
considerato quell’attività nascosta come deplorevole, la trovava persino
divertente, facile da svolgere. Adesso, invece, la sentiva pesante per l’anima,
odiosa.
Prima, per Innokentij, la verità era che la vita ci veniva data una volta sola.
Adesso, maturato in lui quel nuovo sentimento, riconosceva dentro di sé e
nel mondo una nuova legge: che anche la coscienza ci veniva data una volta
sola.
E come non ti ridavano una seconda vita, non ti ridavano nemmeno la
coscienza rovinata.
Ma non c’era nessuno, nessuno intorno a Innokentij al quale lui potesse
raccontare quel che aveva pensato, non poteva confessarlo nemmeno alla
moglie. Dotty, come non aveva compreso e non condivideva la rinnovata
tenerezza del marito verso la defunta madre, non poteva nemmeno
comprendere perché c’era bisogno di interessarsi di fatti che, successi una volta,
non si sarebbero più ripetuti. E l’idea che lui avesse cominciato a disprezzare il
suo lavoro l’avrebbe gettata nel panico: era proprio su quel lavoro che si basava
la loro brillante vita di successo.
La freddezza fra lui e la moglie, già l’anno precedente, era arrivata al punto
in cui aprirsi poteva farsi pericoloso.
Ma nemmeno in Unione Sovietica, in vacanza, c’erano persone vicine a
Innokentij. Toccato dall’ingenuo racconto di Klara su quella donna che lavava
le scale, aveva sperato per un attimo di poter parlare almeno con lei. Tuttavia,
fin dalle prime frasi e dai primi passi di quella passeggiata, Innokentij aveva
capito che non era possibile, c’era un bosco troppo fitto da liberare, da
strappare via. E malgrado fosse più che naturale cosa poteva avvicinarli, vale a
dire lamentarsi della moglie con la cognata, lui chissà perché non se la sentiva.
La ragione? Il manifestarsi di una legge bizzarra: è sterile cercare di
approfondire la conoscenza con una donna che non ti piace fisicamente; per
qualche strana ragione, all’idea di parlare, esprimere qualsiasi cosa, ti prende
una tale spossatezza che le labbra si sigillano, ti mancano le parole più aperte e
sincere.
E dallo zio non c’era andato nemmeno quella volta, non si era deciso. Che
senso aveva? Era solo una perdita di tempo. Lo zio gli avrebbe rivolto soltanto
domande inutili e inopportune sull’estero, sospiri sognanti.
Era trascorso un altro anno, a Parigi e a Roma. In Italia era riuscito ad
andare senza la moglie, lei era rimasta a Mosca. Una volta tornato, però, aveva
scoperto di averla divisa con un ufficiale dello Stato maggiore della Difesa. Con
caparbio convincimento, lei non si era nemmeno detta pentita, aveva dato
invece la colpa a Innokentij: perché l’aveva lasciata da sola?
Ma Innokentij non aveva provato il dolore della perdita, il suo era stato più
che altro sollievo. Da allora erano quattro mesi che lavorava al ministero,
stabile a Mosca, e loro vivevano come due estranei. Tuttavia, di divorzio
neanche a parlarne: per un diplomatico un divorzio rappresentava uno
svantaggio. Adesso era previsto un suo trasferimento tra i collaboratori
dell’ONU a New York.
La nuova assegnazione gli piaceva, ma lo spaventava anche. Innokentij
amava l’idea dell’ONU: non la sua Carta, ma come l’ONU avrebbe potuto essere
grazie a un compromesso generale e una critica benevola. Era anche totalmente
favorevole a un governo mondiale. Cos’altro poteva salvare il pianeta? Era così
che gli svedesi, i birmani o gli etiopi andavano all’ONU. Lui, invece, veniva
spinto laggiù da un pugno di ferro. Lo mandavano con un compito segreto, un
proposito nascosto, una seconda memoria, una disposizione interna velenosa.
Durante quei mesi a Mosca aveva anche trovato il tempo di fare visita allo
zio a Tver’.

144 Il richiamo è al poema Il canto del saggio Oleg di Puškin.


145 Primo verso della Marcia dei giovani pionieri (1922).
146 Nel 1920 a Tambov si svolse un’insurrezione contadina anticomunista che durò per ben undici mesi.
61
LO ZIO DI TVER’

Non a caso il numero dell’appartamento sull’indirizzo non era segnato, cosa


che stupì Innokentij: non dovette cercare. Si trattava di una casetta di legno
carina a un piano, in mezzo ad altre simili, in un vicolo lastricato senza né
alberi né giardinetti. Quello che si apriva sul davanti, e aveva ben poco di
antico, doveva essere un cancelletto messo prima della porta oppure un uscio
sbilenco con i pannelli rabescati; Innokentij non riuscì a capire subito dove
bussare, se sopra o sotto. Nessuno veniva ad aprire né rispondeva. Provò a
scuotere il cancelletto: era chiuso; spinse la porta: non cedeva. Nessuno si
decideva a uscire.
L’aspetto misero di quella casa lo convinse ancor di più che venire era stato
inutile.
Si voltò nel vicolo, in cerca di qualcuno cui chiedere, ma sotto il sole di
mezzogiorno il quartiere era completamente deserto. Poi, da dietro l’angolo,
sbucò un vecchio con due secchi. Li trasportava con molta cautela; inciampò
una volta senza fermarsi. Aveva una spalla più alta dell’altra.
Sembrava seguire la sua stessa ombra, procedeva in diagonale verso
Innokentij, come se lo avesse visto, malgrado lo sguardo fisso sui piedi.
Innokentij si scostò dalla valigia con un passo, poi ne fece un altro:
– Zio Avenir?
Evitando di curvarsi con la schiena, ma piegando solo le gambe, lo zio posò
i secchi con cura, senza versarne una goccia. Si raddrizzò. Si tolse dalla grigia
testa rasata la frittella sporca e giallastra che usava come berretto e con il pugno
si asciugò il sudore. Stava per dire qualcosa, ma non gli uscì niente; aprì le
braccia, e subito Innokentij, chinandosi (lo zio era alto la metà di lui), si punse
la guancia liscia con la barba e i baffi trascurati dello zio, mentre la mano si
posava su una scapola spigolosamente appuntita, dietro la quale anche la spalla
era storta.
In un gesto di protezione, lo zio accarezzò dal basso verso l’alto le spalle di
Innokentij con entrambe le mani e si mise a osservarlo.
Si preparò a dire qualcosa di solenne.
Ma gli uscì:
– Sei... un po’ magretto...
– Anche tu...
Lo zio non era solo magro, aveva probabilmente anche tanti acciacchi e
malesseri, eppure se lo guardava al sole Innokentij non gli vedeva gli occhi
velati di una patina senile e di rinuncia. Lo zio ridacchiò, soprattutto con la
parte destra delle labbra.
– Io, di sicuro! Di banchetti qui non se ne fanno. Tu, invece, come mai sei
magro?
Innokentij si rallegrò di aver comprato, su consiglio di Klara, un po’ di
salame e di pesce affumicato, cose che a Tver’ non si trovavano nemmeno a
pagarle. Sospirò:
– Le preoccupazioni, zio...
Lo zio lo scrutò con occhi vivi, ancora pieni di forza.
– Magari è così. O magari le vedi tu a quel modo.
– Devi camminare tanto per andare a prendere l’acqua?
– Passo un rione, un altro, e poi ancora mezzo. Ma non sono tanto grandi.
Innokentij si chinò per raccogliere i secchi e portarli lui: sembravano pesanti,
neanche avessero il fondo di ghisa.
– Eh-eh-eh... – lo zio gli camminava dietro. – Che lavoratore sei diventato!
Non ci sei abituato...
Lo superò, aprì la porta. Nel corridoietto afferrò i manici e lo aiutò a issare i
secchi su una panca. Una valigia blu elegante si posò su un pavimento storto
con le assi malferme sollevate. A quel punto la porta d’ingresso era stata
richiusa con un catenaccio, come se lo zio temesse che qualcuno potesse fare
irruzione.
Nel corridoietto c’erano un soffitto basso, una misera finestrella che dava sul
recinto, due porte per i ripostigli e due per le persone. Innokentij cominciò a
rattristarsi. In un posto così non c’era mai finito. Gli dava fastidio esserci
venuto e stava cercando di inventarsi una bugia per non trascorrere lì la notte,
per andarsene via prima di sera.
Oltre, tutte le porte delle camere e fra una camera e l’altra erano storte,
alcune rivestite di feltro, altre a due battenti, con un’antica intagliatura a rilievo.
Per passare attraverso ogni porta bisognava chinarsi e aggirare le lampade che
pendevano dal soffitto. Nelle tre stanze non molto grandi che davano tutte
sulla strada l’aria era pesante, giacché i secondi infissi delle finestre erano
completamente bloccati da ovatta, bicchierini e carta colorata; le finestrelle di
ventilazione, invece, un po’ si aprivano, ma al loro interno si muovevano anche
pezzi di giornali ridotti a tagliolini: il movimento continuo di quelle fitte
striscioline penzolanti spaventava le mosche.
Innokentij non si era mai ritrovato in una vecchia costruzione tutta storta e
schiacciata come quella, con poca luce e poca aria, dove nessun mobile stava
dritto, in una triste povertà del genere, lo aveva solo letto sui libri. La casa non
aveva nemmeno tutte le pareti intonacate: quelle verniciate erano state passate
con una tintura per il legno, mentre al posto dei “tappeti da muro” erano
appesi vecchi quotidiani ingialliti e polverosi a più strati, che si trovavano
dappertutto, chissà a quale scopo; ricoprivano i vetri degli armadi, la nicchia
della credenza, la parte superiore delle finestre, lo spazio dietro la stufa.
Innokentij si sentì come in trappola. Doveva andarsene oggi!
Ma lo zio, senza vergognarsi neanche un po’, quasi con orgoglio, lo
accompagnò a visitare la proprietà e gli mostrò: la latrina domestica, estiva e
invernale, il lavandino artigianale, e come si raccoglieva l’acqua piovana.
Inoltre, le bucce delle verdure non andavano sprecate.
Chissà che moglie stava per arrivare! E si poteva già intuire che lenzuola
avessero sui letti!
Ma d’altro canto era pur sempre il fratello di sua madre, conosceva la vita
che lei aveva vissuto fin dall’infanzia, era in generale l’unico consanguineo di
Innokentij e staccarsi ora avrebbe significato non sapere tutto fino in fondo,
non pensare fino in fondo nemmeno a sé stesso.
La semplicità dello zio e il suo sorriso che pendeva a destra, poi, attiravano
Innokentij. Fin dalle prime parole aveva intuito che c’era in lui qualcosa in più
rispetto a quanto scritto nelle due brevi lettere.
In anni di generale diffidenza e tradimento, la parentela di sangue ti dava
una prima sicurezza che non ti avevano mandato quell’uomo con uno scopo
segreto, non te l’avevano messo vicino di proposito, la sua strada portava a te
in modo naturale. A persone illuminate e giudiziose non diresti mai quello che
diresti a un consanguineo, anche se incolto.
Lo zio non era tanto magro quanto secco; il poco che gli era rimasto sulle
ossa era il minimo che poteva esserci. Quelli come lui, tuttavia, vivevano a
lungo.
– Tu, zio, quanti anni hai di preciso?
(Innokentij non lo sapeva con precisione.)
Lo zio lo guardò e gli diede una risposta sibillina:
– Sono un coetaneo.
E lo guardava, senza spiegarsi.
– Di chi?
– Di Lui.
E guardava.
Innokentij sorrise liberamente; era una cosa che conosceva bene: persino in
anni di entusiasmi condivisi, Lui, con i suoi toni rozzi, i discorsi rozzi, la
lampante ottusità, risultava a Volodin di cattivo gusto. Non incontrando né
imbarazzo deferente né un nobile divieto, lo zio si illuminò e provò a
scherzare:
– Se permetti, sarebbe indelicato da parte mia morire per primo. Mi tengo
pure il secondo posto.
Si misero a ridere. Così tra loro passò apertamente una prima scintilla.
Dopodiché fu tutto più facile.
Lo zio era vestito in modo orribile: la camicia sotto la giacca era
inguardabile; il colletto, il bavero e i risvolti delle maniche della giacca erano
stati scuciti e ricuciti per essere riusati; sui pantaloni c’erano più rattoppi che
tessuto originale e i colori non si distinguevano, era tutto grigio, a quadretti e a
righe; gli scarponi erano stati rattoppati, sistemati e ricuciti tante di quelle volte
da sembrare un paio di scarpacce da galeotto. Del resto, spiegò lo zio, quel
completo era la sua tenuta da lavoro, e a parte quando andava alla colonna
dell’acqua e al negozio del pane con quello non usciva. Comunque, non è che si
affrettasse a cambiarsi.
Lo zio evitò di soffermarsi sulle stanze e accompagnò Innokentij a vedere il
cortile. Faceva ancora caldo, era sereno e non c’era vento.
Il cortile era di trenta metri per dieci circa, ma tutto dello zio. Lo separavano
dai vicini alcune piccole baracche malandate e delle staccionate con i buchi,
cosa tutt’altro che da poco. In quel cortile avevano trovato posto uno spiazzo
lastricato, un viottolo lastricato, un serbatoio per l’acqua piovana, una vasca per
il bucato, uno spazio per la legna, una stufa per cucinare all’aperto e persino un
po’ di giardino. Lo zio accompagnava il nipote e gli mostrava tronchi e radici
di piante rimaste già senza fiori e frutti, con le sole foglie, che Innokentij non
avrebbe mai riconosciuto. Là c’era un cespuglio di rose cinesi, uno di
gelsomino, un altro di lillà, poi un’aiuola di nasturzi, papaveri e astri della Cina.
Lo zio gli indicò due rigogliosi cespugli fronzuti di ribes nero e si lamentò che
quell’anno erano fioriti in abbondanza, ma senza quasi dare frutti, perché
colpiti dal freddo nel periodo dell’impollinazione. C’erano un ciliegio e un
melo, con i rami puntellati da paletti perché troppo pesanti. Dappertutto erano
state strappate via le erbacce ed era cresciuto solo ciò che lui voleva che ci
fosse. In quel luogo, strisciando sulle ginocchia e usando le dita, era stato fatto
molto più di quanto Innokentij potesse anche solo immaginare. Tuttavia, una
cosa l’aveva capita:
– Dev’essere faticoso per te, zio! Piegarti, vangare, strappare?
– Non mi fa paura, Innokentij. Portare l’acqua, spaccare la legna, frugare
nella terra: se fatto con misura per un uomo è vita normale. A furia di vivere in
quelle gabbiette a cinque piani con la classe progredita, solo in un
appartamento, ti vien voglia di impiccarti.
– E quale sarebbe questa classe?
– Il proletariato. – Il vecchio lo scrutò un’altra volta con circospezione. –
Chi butta giù le tessere del domino quasi stesse piantando chiodi, tiene sempre
la radio accesa dal primo all’ultimo inno. Si concede cinque ore e cinquanta
minuti per dormire. Spacca le bottiglie sotto i piedi dei passanti, svuota la
pattumiera direttamente in mezzo alla strada. Perché sia la classe progredita, te
lo sei mai chiesto?
– Già-à-à... – disse Innokentij, scuotendo la testa. – Non l’ho mai capito
nemmeno io.
– È la più rozza! – si arrabbiò lo zio. – I contadini sono a contatto con la
terra, comunicano con la natura, che forma la loro morale. Gli intellettuali, con
la suprema opera del pensiero. Ma fanno cose morte con macchine morte fra
pareti morte. Come fa a venirgli fuori qualcosa?
Proseguirono, poi si sedettero per un po’, si guardarono intorno.
– Non è pesante. Tutti le cose che faccio qui le faccio secondo coscienza.
Butto la pattumiera secondo coscienza. Strofino il pavimento secondo
coscienza. Tolgo la cenere, accendo la stufa, e non c’è niente di male in questo.
In un ufficio, invece, dentro a un ufficio non resisti. Là ti devi piegare, devi far
carognate. Io mi sono tirato fuori da tutto. Per non parlare dell’insegnante, del
bibliotecario, nemmeno loro possono evitarlo.
– E perché sarebbe difficile fare il bibliotecario?
– Dài, provaci. Devi stroncare i bei libri ed elogiare quelli brutti.
Imbrogliare le menti immature. Quale altro lavoro, secondo te, si potrebbe fare
secondo coscienza?
Innokentij conosceva troppo poco i mestieri altrui. L’unico che conosceva
bene era il suo, e andava contro coscienza.
Quella casa apparteneva a Raisa Timofeevna, da parecchio tempo. Lavorava
solo lei, faceva l’infermiera. Aveva i figli già grandi, che se n’erano andati. Aveva
raccattato lo zio quando le cose per lui si erano messe molto male, sia
nell’animo sia nel corpo, ed era caduto in miseria. Lei lo aveva rimesso in sesto,
e lui gliene sarebbe stato per sempre grato. Raisa lavorava per due. Lo zio non
si vergognava affatto di cucinare, pulire il pavimento e occuparsi di tutti i
lavori domestici tipici di una donna. Non era una cosa pesante.
Oltre i cespugli, vicino alla staccionata, in disparte come in un vero giardino,
c’era una panchina, fissata nel terreno; zio e nipote si accomodarono.
Non era pesante, insisteva lo zio con la caparbietà iperrealistica della
vecchiaia. Era naturale, non bisognava vivere in mezzo all’asfalto, ma su un
fazzoletto di terra con il badile in mano, anche se quel fazzoletto misurava solo
tre badili per due. Lui viveva così già da dieci anni ed era felice, una sorte
migliore non gli serviva. Steccati come quelli erano fragili e pieni di fessure, ma
erano la sua fortezza, la sua difesa. Dall’esterno arrivavano solo cose nocive: la
radio o un avviso delle imposte o un obbligo di tributo. Ogni volta che
bussavano alla porta, era sempre per qualcosa di spiacevole, non venivano mai
con cose positive.
No, non era pesante. C’erano cose di gran lunga più pesanti.
Per esempio?
Lo zio, tutto rattoppato, il berretto a frittella, guardò in tralice Innokentij
con fermezza e un ultimo briciolo di diffidenza. Certi argomenti, con uno
sconosciuto, non si potevano toccare dopo due anni, figurarsi dopo due ore.
Ma quel ragazzo qualcosina ne capiva, ed era uno dei suoi, perciò... su, avanti,
ragazzo, andiamo avanti!
– La cosa più pesante – concluse lo zio, spinto da un sentimento ardente che
lo consumava – è appendere la bandiera per le feste. I proprietari di casa
devono appendere fuori la bandiera. (Ora o mai più!) Una devozione forzata a
un governo che magari... non stimi nemmeno.
Incredibile! Quello che gli balbettava davanti con quell’aspetto deperito e
straziato o era un pazzo o un saggio. Fosse stato un po’ più grasso, con la
mantella accademica, e avesse parlato con più calma, allora sarebbero stati tutti
d’accordo nel definirlo un saggio.
Innokentij non si lasciò andare, non si azzardò a ribattere. Lo zio, intanto, si
era già rifugiato in un porto sicuro.
– Hai mai letto qualcosa di Herzen? Sul serio?
– Sì, qualcosina... in generale... sì.
Lo zio gli si buttò addosso, era tutto riverso con la sua spalla storta (la
colonna vertebrale gli si era incurvata sui libri già in gioventù). – Herzen... si
domandava quali fossero i limiti del patriottismo, perché l’amore verso la patria
dovesse estendersi anche a ogni suo governo, perché pur di favorirlo si
arrivasse persino a uccidere la gente.
Semplice e forte. Innokentij lo ripeté, quasi volesse assicurarsi di aver capito
bene:
– Perché l’amore verso la patria deve esten...
Ma a quel punto si trovavano già nei pressi del recinto di qualcun altro; lo
zio si guardava intorno, temendo che i vicini potessero sentirli.
Zio e nipote avevano iniziato una bella conversazione e, una volta rientrati
in casa, Innokentij non si sentiva più soffocare e non pensava più di andarsene.
Stranamente le ore trascorsero in fretta, senza che se ne accorgesse: era tutto
così interessante. Lo zio correva avanti e indietro tutto allegro: prima in cucina,
e indietro, di nuovo in cucina, e indietro. Ricordarono alla madre di Innokentij
e guardarono alcune vecchie foto, che lo zio gli regalò. Ma essendo lui molto
più grande di sua madre, non avevano trascorso la giovinezza insieme.
Raisa Timofeevna, una donna forte sui cinquant’anni, rientrò dal lavoro e li
salutò con freddezza. Lo zio trasmise un senso di smarrimento a Innokentij,
che a propria volta provò una strana ritrosia, come se la presenza di Raisa
potesse rovinare tutto. Si sedettero intorno a un tavolo su cui era stesa una tela
cerata, per quello che non era né un pranzo né una cena. Chissà cosa avrebbero
mangiato se Innokentij non avesse portato con sé mezza valigia di roba e non
avesse mandato lo zio a prendere la vodka. Loro avevano tagliato solo un po’ di
pomodori. E servito delle patate.
Ma la ricchezza di quel parente e il cibo eccezionale che aveva portato fecero
sprizzare di felicità gli occhi di Raisa Timofeevna e liberarono Innokentij dal
senso di colpa, per tutte le volte che non era venuto, per essersi presentato solo
ora. Bevvero un bicchierino, poi un secondo. Raisa Timofeevna cominciò a
esternare rancore per il modo in cui viveva il suo buono a nulla: non solo non
riusciva ad andare d’accordo con nessuna istituzione per via del suo pessimo
carattere, ma che almeno se ne stesse a casa tranquillo! Lui invece no, con gli
ultimi due soldi che gli rimanevano si trascinava a comprare dei giornali, ora
“Novoe Vremija”, ora qualche altro, e non per svagarsi, leggendoli si
imbestialiva e di notte rimaneva sveglio a buttare giù in fretta una risposta a
qualche articolo, ma poi alle redazioni non mandava niente, e dopo alcuni
giorni bruciava quelle lettere, perché era impensabile anche solo conservarle. Il
suo insulso scribacchiare lo teneva occupato per mezza giornata. Andava anche
a sentire qualche conferenziere di passaggio sulla situazione internazionale e
ogni volta Raisa era terrorizzata di non vederlo tornare più indietro, temendo
che si alzasse a porre qualche domanda. Ma lui non le faceva e tornava a casa
intero.
Alla giovane moglie lo zio non ribatteva quasi, si limitava a ridacchiare
colpevole. Ma la sua risata tutta piegata verso destra non dava comunque
speranza che si sarebbe corretto. Raisa Timofeevna, poi, non si lamentava
neanche troppo seriamente, ci aveva perso da un pezzo le speranze. E quelle
ultime monete non gliele negava.
La loro casa cupa, con le pareti disadorne, nuda e povera si fece più
confortevole quando chiusero le imposte: divenne un luogo rasserenante
separato dal mondo, sperso nel nostro secolo. Ogni imposta era tenuta ferma
da una striscia di ferro, con una barra che si infilava nella casa attraverso una
fessura, poi bloccata con un gancetto da muro. Non serviva per tenere lontani i
ladri, che anche con le finestre spalancate non avrebbero trovato nulla da cui
trarre profitto, ma per tranquillizzare lo spirito. In altro modo non si poteva
fare: il marciapiede si trovava proprio sotto le finestre e ogni volta era come se
i passanti, con il loro calpestio, i discorsi e le imprecazioni, entrassero nella
stanza.
Raisa Timofeevna se ne andò a dormire presto, e lo zio nella stanza centrale,
muovendosi piano e parlando piano (sentiva anche alla perfezione), svelò al
nipote un altro suo segreto: tutti quegli strati di quotidiani ingialliti, che
sembravano appesi lì a proteggerli dal sole e dalla polvere, erano un modo non
criminale per conservare le vecchie informazioni più interessanti. (“Perché ha
conservato proprio questo giornale, cittadino?” “Io non lo conservo, è lì per
caso!”) Non ci poteva lasciare sopra delle annotazioni, ma sapeva a memoria
cosa cercare in ciascuno di essi. E cosa comoda, erano appesi, così non c’era
bisogno di spostare la pila di giornali ogni volta.
Seduti su due sedie vicine – lo zio con gli occhiali – lessero di Stalin su un
quotidiano del 1940 attaccato sopra la stufa: “So quanto il popolo tedesco ami
il suo Führer, per questo brindo alla sua salute!” Mentre in un altro del 1924
attaccato alla finestra, Stalin difendeva “gli autentici leninisti Kamenev e
Zinov’ev” dall’accusa di sabotaggio del golpe di ottobre.
Innokentij si fece prendere, si impratichì in quella caccia, e avrebbero
frugato e fatto frusciare le pagine a lungo alla luce debole della lampadina da
quaranta watt, esaminando le righe sbiadite e mezze consumate, se non fossero
giunti i colpi di tosse di disapprovazione della moglie oltre la parete. Lo zio,
imbarazzato, disse:
– Rimandiamo a domani, non vai via subito, vero? Ora però bisogna
spegnere, costa troppo. Di’ un po’, come mai l’elettricità è così cara?
Continuiamo a costruire centrali eppure il costo non diminuisce.
Spensero la luce. Ma di dormire non avevano voglia. E nella terza stanzetta
dove Innokentij era stato sistemato, con lo zio seduto sul bordo del suo letto,
bisbigliarono ancora per due ore come due innamorati cui non serve la luce per
tubare.
– È solo un imbroglio, soltanto un imbroglio! – insisteva lo zio. Al buio la
sua voce decisa non sembrava affatto quella di un vecchio. – Un governo che
non mantiene la parola... ‘Pace ai popoli, baionette nella terra!’, ma dopo un
anno il ‘Gubdezertir’, il Servizio ricerca disertori del governatorato, trascinava
già gli uomini nei boschi e li fucilava apertamente! Sotto lo zar non succedeva...
‘Controllo operaio alla produzione’: è tanto se è durato un mese! È stato
bloccato tutto dal governo centrale. Se nel Diciassette avessero detto che ci
sarebbero state le quote di produzione e ogni anno sarebbero aumentate,
qualcuno li avrebbe seguiti? ‘Fine della diplomazia segreta, delle nomine
segrete’, ma poi si sono messi subito a stampigliare ‘Confidenziale’ e ‘Massima
segretezza’. In quale paese la gente conosce il proprio governo meno di noi?
Al buio decenni e tematiche si susseguivano con particolare scioltezza; lo
zio ora stava spiegando che, per tutta la guerra del ’41, in ogni città della
regione erano rimaste grosse guarnigioni dell’NKVD che non venivano spedite
al fronte. Mentre lo zar ai suoi tempi, non avendo truppe interne contro la
rivoluzione, mandò la guardia nella macina del fronte. E lo strampalato
governo temporaneo di truppe non ne aveva proprio.
E ancora, riguardo all’ultima guerra, quella sovietico-tedesca, il nipote, come
la pensava?
Quanto era facile parlare con lui! Anche questa volta Innokentij espresse
liberamente ciò che senza quel dialogo non avrebbe mai avuto modo di dire.
– Io la vedo così: è stata una guerra tragica. Abbiamo difeso la patria per poi
perderla. Alla fine si è trasformata nel feudo del Baffone.
– Abbiamo perso molto di più che sette milioni di persone! – si affrettò a
confermare lo zio. – E a cosa è servito? A legarci al collo un cappio ancora più
stretto. È la guerra più sfortunata di tutta la storia russa...
E di nuovo sul Secondo congresso dei Soviet: c’erano trecento deputati su
novecento, non era plenipotenziario, non avrebbe potuto ratificare
assolutamente il Consiglio dei Commissari del Popolo.
– Ah, sì?
Si erano già augurati la “buonanotte” due volte e lo zio gli stava
domandando se doveva lasciare la porta aperta, se faceva troppo caldo, quando
chissà come, saltò fuori la bomba atomica, così ritornò indietro, e in preda
all’ira sibilò:
– Non la costruiranno mai!
– Potrebbero riuscirci – disse Innokentij. – Ho sentito addirittura che il
collaudo della prima bomba sarà fra pochi giorni.
– Balle! – disse lo zio, convinto. – Lo annunceranno soltanto, e nessuno
andrà a controllare... Una tecnologia del genere non ce l’hanno, gli
occorrerebbero altri vent’anni.
Se ne andava e ritornava:
– Se la costruissero, però, sarebbe la fine, Inok. Non vedremmo più la
libertà.
Innokentij era sdraiato supino ad assorbire con gli occhi la densa oscurità.
– Sarebbe una cosa orribile... Con quelli non resterebbe lì a marcire...
Mentre, se non l’avessero, non oserebbero dichiarare guerra.
– Nessun tipo di guerra può rappresentare una soluzione. – Lo zio era
tornato indietro. – La guerra è morte. La guerra è una cosa orribile, non tanto
per l’avanzata delle truppe, né per gli incendi e i bombardamenti. Lo è
soprattutto perché consegna gli esseri pensanti a un potere ottuso stabilito per
legge... Ma, del resto, anche senza la guerra da noi sarebbe così lo stesso. Su,
dormi.
I lavori domestici non ammettono trascuratezze: quelli dell’indomani si
sarebbero aggiunti a quanto saltato oggi. Il mattino seguente, prima di andare
al mercato, lo zio staccò due pacchi di quotidiani e Innokentij, sapendo già che
di sera non si potevano leggere, si sbrigò a sfogliarli alla luce del giorno.
Toccare i fogli ingialliti e impregnati di polvere non era piacevole, lasciavano
sui polpastrelli una patina disgustosa. All’inizio Innokentij li lavava, li sfregava,
poi aveva smesso di notare quella patina, così come aveva smesso di accorgersi
di tutti i difetti della casa, dei pavimenti storti, della poca luce che filtrava dalle
finestre e dell’aspetto trasandato dello zio. Più andava indietro nel tempo, più
leggere si rivelava sorprendente. Sapeva già che nemmeno oggi se ne sarebbe
andato.
Più tardi, verso sera, cenarono di nuovo in tre: lo zio si rabbonì, si fece più
allegro, cominciò a ricordare gli anni da studente alla facoltà di Filosofia,
l’atteggiamento rivoluzionario, divertito e chiassoso di allora, quando non
esisteva luogo più interessante di una prigione. Non aveva mai aderito al
partito, perché in ogni suo programma riscontrava violenza contro le libertà
individuali e non riconosceva ai dirigenti del partito alcuna profetica
supremazia sull’umanità.
Interrompendo i ricordi del marito, Raisa Timofeevna si mise a raccontare
del suo ospedale, di come la vita in generale era veloce, crudele.
Chiusero di nuovo le imposte e misero i catenacci. A quel punto lo zio aprì
il baule nello sgabuzzino e alla luce di una lampada al cherosene – lì dentro
l’impianto elettrico non c’era – tirò fuori un po’ di indumenti caldi che
puzzavano di naftalina, o semplicemente degli stracci. Sollevata la lampada,
mostrò al nipote il suo tesoro: copriva il fondo del baule liscio e verniciato una
“Pravda” del secondo giorno della svolta di Ottobre. Il titolo d’apertura era:
“Compagni! Con il vostro sangue avete assicurato in tempo la convocazione
della padrona della terra russa, l’Assemblea Costituente!”
– Allora non c’era stata ancora nessuna votazione, capisci? Non sapevano
ancora che li avrebbero votati in pochi.
Richiuse il baule di nuovo lentamente, con cautela.
All’Assemblea Costituente si erano incrociati i destini dei parenti di
Innokentij: suo padre Artëm era uno dei principali marinai di terraferma che
avevano disperso quella maledetta assemblea, mentre lo zio Avenir era un
manifestante in sostegno della tanto desiderata Costituente.
Quella manifestazione, con lo zio nel corteo, si era raccolta vicino al ponte
Troickij. Era un mite e nuvoloso giorno d’inverno senza vento né neve, tanto
che molti avevano la pelliccia aperta e il petto scoperto. Moltissimi studenti,
ginnasiali, signorine. Dipendenti delle poste, telegrafisti, impiegati. O
semplicemente singole persone diverse tra loro, come lo zio. Bandiere rosse,
bandiere dei socialisti e della rivoluzione, una o due bianche e verdi dei cadetti.
Mentre un’altra manifestazione, dalle fabbriche sul lato della Neva, era tutta
socialdemocratica e anche quella aveva le bandiere rosse.
Quel racconto era giunto nuovamente a tarda sera, ancora al buio, per non
irritare Raisa Timofeevna. La casa era chiusa e immersa in un buio inquietante,
come tutte le case di Russia dell’epoca cupa e perduta delle discordie e degli
omicidi, quando si tendeva l’orecchio al rumore di passi in strada e, se c’era la
luna, si sbirciava fuori attraverso le fessure delle imposte.
Ma in quel momento la luna non c’era, il lampione in strada era lontano, le
assi delle imposte serrate, e dentro regnava un’oscurità così densa che
attraverso la porta spalancata giungeva dal corridoio soltanto un debole riflesso
laterale della finestra non sbarrata che dava sul cortile, permettendo di
distinguere dalla notte non solo il contorno della testa dello zio, ma di tanto in
tanto anche i suoi movimenti. Non sostenuta dal luccichio degli occhi, né dal
tormento delle pieghe del viso, la voce dello zio si insinuava tanto più senza età
e convinta.
– Camminavamo mesti, in silenzio, senza cantare. Comprendevamo
l’importanza di quella data, senza capirlo fino in fondo: non sapevamo che
sarebbe stato l’unico giorno dell’unico parlamento russo libero, dopo
cinquant’anni e ancora per cento. A chi serviva quel parlamento? In quanti ci
eravamo riuniti da tutta la Russia? Cinquemila circa... Cominciarono a spararci
contro, dal portone, dai tetti, anche dai marciapiedi, e non sparavano in aria,
miravano direttamente al petto... Ne cadevano due o tre, gli altri continuavano
a camminare... Nessuno di noi rispondeva al fuoco, nessuno aveva un’arma con
sé... Non ci permisero di arrivare nemmeno al palazzo di Tauride, là era pieno
di marinai e di fucilieri lettoni. I lettoni che deviavano il nostro destino: non
immaginavano cosa ne sarebbe stato della Lettonia... Sul Litenyj le guardie
rosse ci sbarrarono la strada: ‘Disperdetevi! Sul marciapiede!’ E si misero a
sparare a raffica. Le guardie rosse strapparono una bandiera rossa... sapessi cosa
ti potrei raccontare su quelle guardie... spaccarono l’asta, calpestarono la
bandiera... Qualcuno si dileguò, qualcun altro scappò indietro. Così
ricominciarono a spararci alle spalle, ad ammazzarci. Era facile per quelle
guardie rosse fucilare – alle spalle, gente pacifica, capisci? – non era ancora
cominciata la Guerra civile ma gli usi erano già quelli.
Lo zio fece un sospiro rumoroso.
– ...E adesso sul calendario il 9 gennaio è una data nera e rossa. E del 5 non
si può nemmeno bisbigliare.
Un altro sospiro.
– Già allora ci fu una vile ammissione: la nostra, dicevano, era una
manifestazione organizzata dai sostenitori di Kaledin147! Cosa c’entravamo
noi con Kaledin? Un oppositore interno non si nota: cammina in mezzo a noi,
parla la nostra stessa lingua, chiede qualche forma di libertà. Va separato per
forza, collegato con il nemico esterno, e allora sarà facile, giusto sparargli.
Nel buio calò un silenzio attento, particolarmente significativo.
Innokentij si sollevò verso la testiera, facendo scricchiolare la vecchia rete
del letto.
– E al palazzo di Tauride?
– La notte dell’Epifania? – lo zio fece un sospiro. – Cosa c’era al palazzo di
Tauride? Ochlos, il popolo. Un fischio con tre dita può stordire... Il turpiloquio
era più alto e più fitto degli oratori. I calci dei fucili rimbombavano contro il
pavimento, con o senza una ragione. C’erano le guardie! Ma a chi facevano la
guardia e contro cosa? Marinaretti e soldatucoli, per metà ubriachi, che
vomitavano sulle credenze, ronfavano sui divani, sgranocchiavano semi di
girasole nel foyer... Prova a metterti nei panni di un deputato qualunque, un
intellettuale: che ne avresti fatto di quelle carogne? Nemmeno toccarle appena
una su una spalla, parlargli gentilmente si poteva: veniva considerato un atto
controrivoluzionario impudente e sfacciato! Un oltraggio alla sacra oclocrazia!
Avevano nastri per mitragliatrici incrociati sul petto. Cinture di granate e
rivoltelle. Nella sala per l’assemblea della Costituente, con i fucili stavano anche
seduti in mezzo al pubblico, oltre che in piedi nei corridoi, li puntavano contro
gli oratori, miravano come per esercitarsi. Uno parlava di pace democratica, di
nazionalizzazione della terra, e aveva venti bocche di fucile puntate contro, il
mirino con l’alzo della tacca allineato. Potevano ammazzarlo, non gli costava
nulla, non chiedevano neanche scusa: via uno, avanti il prossimo! È questo che
bisogna capire: ogni oratore aveva il fucile in bocca! Il succo era questo! Erano
così quando presero la Russia, così sono sempre stati e lo saranno fino alla
morte! Ci sarà anche qualcosa di diverso in loro, ma in quello non cambiano
mai... E Sverdlov, che strappava il campanello al deputato più anziano, lo
spingeva via, gli impediva di dichiarare aperta la seduta? Nella loggia del
governo, Lenin ridacchiava, se la spassava, mentre il commissario del popolo
Karelin, eser148 di sinistra, se la rideva!! Non arrivava a capire che quell’inizio
gli sarebbe costato caro: di lì a sei mesi avrebbero soffocato anche i suoi... Be’,
il resto lo conosci, l’hai visto al cinema... Quel commissario testa di rapa di
Dybenko fece chiudere l’inutile seduta. I marinai, con addosso le pistole e i
nastri di munizioni, si sollevarono contro il presidente...
– Anche mio padre?!
– Anche lui. Il grande eroe della Guerra civile. Più o meno in quei giorni tua
madre... gli si concedeva... Adoravano gustarsi le signorine di buona famiglia.
Anche per quello trovavano dolce la rivoluzione...
Innokentij sentiva la fronte, le orecchie, le guance e il collo bruciare.
Era avvolto dal fuoco, come se avesse preso anche lui parte a quella
bassezza.
Lo zio gli appoggiò una mano sul ginocchio e vicinissimo gli domandò:
– Hai mai provato quant’è vero il detto che i peccati dei genitori ricadono
sui figli? E che è loro compito lavarli via?

147 Aleksej Kaledin (1861-1918), generale che sarà a capo dell’Armata bianca durante la Guerra civile.
148 Socialista rivoluzionario.
62
DUE GENERI

La prima moglie del procuratore, quella defunta, che aveva vissuto la Guerra
civile con il marito, che sparava bene con la mitragliatrice e viveva secondo le
ultime delibere della prima cellula del partito, non solo non sarebbe stata
capace di portare la casa di Makarygin fino all’odierna abbondanza, ma se non
fosse morta partorendo Klara sarebbe stato difficile anche solo immaginarsi
come si sarebbe adattata alle complesse tortuosità del periodo.
Al contrario, Alevtina Nikanorovna, l’attuale moglie di Makarygin, colmava
le precedenti ristrettezze familiari, inondando di linfa l’arsura di un tempo.
Non aveva un’idea molto precisa delle strutture di classe e nella vita aveva
frequentato poco i circoli di Educazione politica. Tuttavia, era incrollabilmente
convinta che una bella famiglia non possa sbocciare senza una buona cucina e
abbondante biancheria da tavola e da letto di ottima fattura. E a mano a mano
che la vita andava avanti, come importante segno esteriore di benessere, in casa
dovevano trovare spazio argento, cristalli e tappeti. Il più grande talento di
Alevtina Nikanorovna era la capacità di procacciarsi tutto questo a poco
prezzo, di non lasciarsi mai sfuggire acquisti vantaggiosi: alle aste chiuse, dai
distributori riservati ai responsabili delle istruttorie giudiziarie, nei negozi con
merce in conto vendita e ai mercati delle pulci delle regioni da poco annesse.
Andava appositamente a L’vov e a Riga sia quando c’era ancora bisogno del
lasciapassare sia dopo la guerra, quando le vecchie-lettoni erano ben felici di
vendere tovaglie e servizi massicci in pratica per un tozzo di pane. Era
diventata un’esperta in fatto di cristalli, aveva imparato a orientarsi tra quelli
opacizzati, iridati, di rubino dorato, “rame” e “al selenio”, verde cadmio, blu
cobalto. Non prendeva nessun cristallo di produzione odierna della
GlavPasuda, la fabbrica di Stato, perché storti, passati alla catena di montaggio
attraverso mani indifferenti, mentre nella cristalleria antica si celava la scintilla
del maestro, la peculiarità del suo creatore; negli anni Venti e Trenta, con
sentenze giudiziarie, ne avevano confiscata molta e ora se la rivendevano fra
loro.
Così anche quel giorno la tavola era perfettamente apparecchiata e
imbandita, e si sarebbero occupate del cambio delle portate due serve baškire:
una di Alevtina, l’altra avuta in prestito dai vicini per la serata. Entrambe le
baškire erano pressoché delle bambine, venivano dallo stesso villaggio,
Čekmaguš, e l’estate precedente avevano finito insieme il primo ciclo di studi.
Dai volti tesi delle due ragazze, rubizzi per via del lavoro in cucina, traspariva
serietà e diligenza. Erano soddisfatte del loro impiego e speravano di
guadagnare, non entro quella primavera, ma la successiva, abbastanza da
vestirsi bene, trovare marito in città e non tornare più al kolchoz. Alevtina
Nikanorovna, attraente, ancora giovane, seguiva le serve con approvazione.
A suscitare particolare ansia nella padrona di casa era stato un cambio di
programma dell’ultima ora: la cena era stata organizzata per i giovani, e gli
unici vecchi presenti avrebbero dovuto essere alcuni membri della famiglia,
visto che due giorni prima era già stato dato un banchetto per i colleghi di
Makarygin. Per questo gli unici invitati erano un vecchio amico del procuratore
fin dai tempi della Guerra civile, il serbo Dušan Radović, ex professore
revocato da tempo dall’Istituto del Professorato Rosso, e la moglie di un
istruttore del comitato provinciale di Zarečensk, amica sempliciotta della
giovane padrona di casa, venuta a Mosca per acquisti. Ma all’improvviso,
dall’Estremo Oriente (dal clamoroso processo agli ufficiali giapponesi accusati
di preparare una guerra batteriologica) era tornato il generale di divisione
Slovuta, anche lui procuratore, e uomo molto importante per la carica che
ricopriva, ed era stato necessario invitare anche lui. Con Slovuta presente, però,
era una vergogna che ci fossero solo quegli ospiti mezzi imbucati – uno che
non era quasi neanche più un amico, una che non era quasi neanche più
un’amica; Slovuta avrebbe potuto pensare che dai Makarygin si accoglievano
degli straccioni. Era una cosa alquanto fastidiosa, che guastava la serata ad
Alevtina Nikanorovna. L’amica infelice per via del marito fu fatta sedere
lontana da Slovuta e obbligata a parlare a bassa voce, a non mangiare con
ingordigia; d’altra parte, però, alla padrona di casa faceva piacere che lei stesse
assaggiando ogni piatto, domandando le ricette e ammirando ogni cosa – la
tavola apparecchiata, gli ospiti.
Innokentij era stato chiamato con tale insistenza proprio per via di Slovuta:
doveva venire subito con l’uniforme diplomatica ricamata d’oro per formare
insieme all’altro genero, il famoso scrittore Nikolaj Galachov, una compagnia
degna di nota. Ma con dispetto del suocero il cognato diplomatico era arrivato
in ritardo, quando la cena era ormai conclusa e i giovani si divertivano a
ballare.
Innokentij si era arreso e aveva indossato quella maledetta uniforme. C’era
andato ma sentendosi a disagio; d’altro canto, non gli era nemmeno possibile
rimanere a casa, stava male ovunque. Quando, però, con l’aria dimessa era
entrato in quell’appartamento pieno di gente, rimbombante di vita, risate,
colori, si era reso conto che lì non lo avrebbero mai arrestato! Così, non solo
gli era sembrato di tornare alla normalità, ma provava anche una sottile
leggerezza. Beveva con piacere tutto ciò che gli veniva versato, e con piacere si
serviva una pietanza dopo l’altra; era un giorno intero che non mandava giù
praticamente nulla, mentre adesso si sentiva gioiosamente affamato.
La sua sincera ripresa aveva sollevato anche il suocero dalla stizza e
alleggerito la conversazione al loro stimato capo del tavolo, dove Makarygin
faceva attenzione che a Radović non sfuggisse qualche espressione brusca,
Slovuta trascorresse il tempo in modo gradevole e Galachov non si annoiasse.
A quel punto, frenando la voce profonda, Makarygin cominciò a incolpare per
scherzo Innokentij di non avergli ancora dato dei nipoti che gli allietassero la
vecchiaia.
– Sapete come sono lui e la moglie? – si lamentava. – Il pecorone e la
pecorella hanno formato una bella coppietta, vivono pensando solo a loro
stessi, ingrassano senza darsi pensiero. Si sono sistemati! Si godono la vita!
Chiedeteglielo un po’, a questo figlio di buona donna, se è un epicureo o no.
Eh? Innokentij, ammettilo, sei un seguace di Epicuro?
Non era possibile definire nemmeno per scherzo un membro del Partito
comunista pansovietico un giovane hegeliano, un neokantiano, un soggettivista,
un agnostico oppure, dio ce ne scampi, un revisionista. “Epicureo”, invece,
suonava così inoffensivo che non ostacolava un uomo in nessun modo
dall’essere marxista.
Allora Radović, che amorevolmente conosceva ogni dettaglio della vita dei
Padri fondatori, non mancò di intervenire dicendo:
– Be’, Epicuro è un brav’uomo, un materialista. Scrisse una tesi su di lui
anche Karl Marx.
Radović indossava una logora giubba paramilitare e aveva la pelle del viso di
pergamena scura che gli avvolgeva la forma del cranio. (Per uscire di casa, fino
a poco tempo prima, si metteva sempre in testa la sua budënovka149 ma di
recente la polizia aveva cominciato a trattenerlo.)
Innokentij si infervorò e guardò spavaldo quelle persone all’oscuro di tutto.
Che passo audace intervenire in quella lotta tra titani! Ora gli sembrava di
essere baciato dagli dèi. Makarygin e addirittura Slovuta, che in un altro
momento gli avrebbe suscitato disprezzo, li sentiva umanamente cari,
collaboravano alla sua sicurezza.
– Epicuro? – colse l’invito con occhi scintillanti. – Sono un suo seguace, non
lo nego. Ma probabilmente vi stupireste se vi dicessi che ‘epicureo’ è una di
quelle parole tutt’altro che comuni. Quando si vuole intendere che un uomo è
eccessivamente avido verso la vita, lascivo, libidinoso, per farla breve un porco,
dicono che è un ‘epicureo’. No, aspettate, parlo sul serio! – Non permise loro di
replicare, dondolando vivacemente il flûte dorato nelle solerti dita sottili. –
Epicuro, invece, è proprio il contrario della rappresentazione generale che
danno di lui. Non ci spinge a fare orge. Fra i tre mali principali che ostacolano
la felicità dell’uomo, annovera i desideri insaziabili! Non è così? Dice: in realtà
l’uomo ha bisogno di poco, ragion per cui la felicità non dipende dal destino!
Epicuro libera l’uomo dal terrore di ricevere brutti tiri dal destino ed è dunque
un grande ottimista!
– Ma pensa un po’! – si stupì Galachov ed estrasse il taccuino di pelle con la
matita di osso bianco. Nonostante la sua grande fama, Galachov si comportava
come una persona alla mano: ti strizzava l’occhio, ti dava una pacca sulla spalla.
Intorno al viso leggermente olivastro e un po’ ingrassato i suoi capelli bianchi
spiccavano in modo pittoresco.
– Gliene versi dell’altro! – disse Slovuta a Makarygin, indicando il flûte
vuoto di Innokentij. – Altrimenti non la smette più.
Il suocero gli riempì il bicchiere e Innokentij lo svuotò di nuovo con
piacere. In quel momento ebbe anche lui l’impressione che la filosofia di
Epicuro fosse una fede degna.
Slovuta, con il viso paffuto e non ancora invecchiato, si comportava quasi
con alterigia nei confronti di Makarygin (Slovuta aveva già ricevuto la seconda
stelletta da generale), ma era particolarmente soddisfatto di aver conosciuto
Galachov e si immaginava come quella sera stessa, nella casa in cui aveva
intenzione di andare poi, avrebbe riportato senza tanti complimenti che un’ora
prima aveva bevuto con Kol’ka Galachov e quello gli aveva raccontato che...
Ma anche Galachov era arrivato da poco, aveva fatto tardi pure lui, e non stava
raccontando proprio niente: che stesse pensando alla trama di un nuovo
romanzo? Persuaso che da quella celebrità non avrebbe ricavato nulla, Slovuta
decise di andarsene.
Makarygin cercò di convincerlo a restare, insistendo che dovevano ancora
inchinarsi davanti al suo “altare del tabacco”, la collezione che teneva nello
studio. Makarygin consumava tabacco bulgaro, che si procurava tramite
conoscenze, e la sera fumava dei sigari. Ma amava stupire i suoi ospiti, offrendo
una dopo l’altra ogni genere di varietà per fumare.
La porta dello studio era lì vicina; il padrone di casa la aprì e invitò Slovuta e
i due generi ad accomodarsi. Questi ultimi, però, declinarono la compagnia dei
vecchi con una scusa. Temendo a quel punto che a Dušan scappasse qualcosa di
inappropriato, sulla soglia dello studio, lasciando prima passare Slovuta,
Makarygin minacciò Radović con il dito.
I cognati rimasero da soli al capo ormai vuoto del tavolo. Erano in quell’età
felice (Galachov era maggiore di Innokentij solo di un paio d’anni) in cui ci si
può ancora considerare giovani, ma siccome a ballare non li trascinava più
nessuno, potevano concedersi il piacere di una conversazione fra uomini
davanti a una bottiglia ancora da finire, con la musica lontana, in sottofondo.
In realtà, la settimana prima Galachov si era messo in testa di scrivere
qualcosa sul complotto degli imperialisti e sulla battaglia dei nostri diplomatici
per la pace, ma questa volta non sarebbe stato un romanzo bensì un’opera
teatrale, perché era più facile evitare dettagli sull’arredo e sull’abbigliamento a
lui sconosciuti. Ora gli capitava proprio a pennello l’occasione di intervistare il
cognato, per cercare in lui i tratti tipici del diplomatico sovietico ed estrapolare
le caratteristiche peculiari della vita in Occidente, dove si sarebbero svolte tutte
le azioni dell’opera teatrale, ma dove Galachov era stato solo di sfuggita, a uno
dei suoi congressi progressisti. Questi si rendeva conto che non era per niente
giusto scrivere di una vita che non conosceva, ma negli ultimi anni gli era parso
che la permanenza all’estero, o una storia antica, o persino un racconto
fantastico sugli abitanti della luna, fossero più facili da trattare rispetto alla vita
reale che li circondava, disseminata di divieti, indipendentemente da quale
strada uno prendesse.
Una domestica si era messa a sparecchiare rumorosamente e a sistemare la
tavola per il tè. La padrona di casa la controllava e, ora che Slovuta si era
allontanato, non frenava più la voce dell’amica, la quale stava finendo di
raccontare che anche nella provincia di Zarečensk ci si poteva curare bene,
c’erano bravi medici, ma i bambini degli attivisti del partito si distinguevano
dagli altri fin dall’età di un anno: per loro il latte e le iniezioni di penicillina
non mancavano mai.
Nella stanza accanto si levava una voce dal radiogrammofono, mentre dalla
successiva giungeva il brusio metallico della televisione.
– Domandare è un privilegio degli scrittori – annuiva Innokentij,
conservando lo stesso fortunato scintillio negli occhi con cui aveva difeso
Epicuro. – Come gli inquirenti. Fanno sempre domande sui crimini.
– In una persona noi non cerchiamo i suoi crimini, ma i suoi pregi, i suoi
tratti luminosi.
– Allora il vostro lavoro è opposto a quello della coscienza. Quindi, hai
intenzione di scrivere un libro sui diplomatici?
Galachov sorrise.
– Intenzione o meno, Ink, queste cose non si risolvono facilmente come in
un’intervista di Capodanno. Devi raccogliere in anticipo il materiale... Non tutti
i diplomatici si lasciano intervistare. Per fortuna ho te come parente.
– E ad avermi scelto dimostri sagacia. Un diplomatico che non ti conosce,
come prima cosa, ti avrebbe raccontato un sacco di frottole. Ne abbiamo di
roba da nascondere.
Si guardarono dritto negli occhi.
– Capisco. Comunque... quel lato della vostra attività... non c’è bisogno di
raccontarlo, tanto che io...
– Ah. Quindi, ti interessa in generale la quotidianità dell’ambasciata, una
tipica giornata di lavoro, come si svolgono i ricevimenti, si conferiscono le
credenziali diplomatiche...
– No, voglio andare più a fondo! Mostrare come certe cose si rielaborano
nell’animo di un diplomatico sovietico...
– Come si rielaborano... Va bene, sono pronto! Ho capito. Per la fine della
serata ti avrò raccontato tutto. Prima però... spiegami tu una cosa... Il tema
della guerra l’hai abbandonato? L’hai esaurito?
– Esaurirlo è impossibile – scosse la testa Galachov.
– Sì, è vero, questa guerra vi ha offerto molte cose. Scontri, tragedie...
altrimenti da dove le avreste prese?
Innokentij lo guardava con un’aria allegra.
Sulla fronte dello scrittore calò un velo di inquietudine. Galachanov sospirò.
– Il tema della guerra mi si è piantato nel cuore.
– Be’, ne hai tratto dei capolavori!
– Certo, per me è un tema inesauribile. Ci ritornerò finché avrò vita.
– Ma è ancora necessario?
– Certo! Perché la guerra eleva l’uomo nell’anima...
– Nell’anima? Sono d’accordo! Eppure, guarda di cosa trabocca la vostra
letteratura di guerra e militare. Le idee più elevate: come occupare le posizioni
in battaglia, come condurre il fuoco di annientamento, ‘Non dimenticheremo,
non perdoneremo’, l’ordine di un comandante è legge per i sottoposti. Queste
cose sono espresse di gran lunga meglio nei regolamenti militari. Mostrate fin
troppo bene quant’è gravoso per quei poveri comandanti passare la mano su
una cartina.
Galachov si incupì. I comandanti erano i suoi personaggi militari preferiti.
– Ti riferisci al mio ultimo romanzo?
– No, Nikolaj! Ma è possibile che la letteratura debba ripetere regolamenti
militari? Frasi dei quotidiani? Slogan? Majakovskij, per esempio, considerava
un onore prendere come epigrafe di una poesia il brano di un quotidiano. Cioè,
considerava un onore non elevarsi più in alto di un giornale! Ma allora a che
serve la letteratura? Uno scrittore è uno che educa le altre persone, non è
sempre stato così?
I due cognati si incontravano di rado, si conoscevano poco tra loro.
Galachov rispose con cautela.
– Ciò che dici è giusto solo in un regime borghese.
– Be’, naturale, naturale – convenne facilmente Innokentij. – Noi abbiamo
tutt’altre leggi... Ma non mi riferivo a quello... – Ruotò il palmo della mano. –
Kolja, credimi, tu mi piaci molto... per questo mi sento di chiederti... da
parente... Ti sei mai domandato... quale sia il tuo posto nella letteratura russa?
Le tue opere potrebbero già essere pubblicate in sei volumi. Hai trentasette
anni, Puškin alla tua età lo avevano già fatto fuori. Nel tuo caso questo pericolo
non c’è. Ma da una domanda così non puoi fuggire lo stesso: chi sei? Con quali
idee hai arricchito il nostro secolo travagliato? A parte, naturalmente, quelle
inconfutabili offerte dal realismo socialista. In generale, dimmi, Kolja, – gli
domandò Innokentij, senza prenderlo in giro, penando – non ti vergogni della
nostra generazione?
Delle piccole pieghe intermittenti, come degli spasmi, passarono a Galachov
sulla fronte, sulla guancia.
– Tu... tocchi un tasto dolente... – rispose, fissando la tovaglia. – Non c’è
scrittore russo che non abbia provato a indossare in segreto la marsina di
Puškin... la camicia di Tolstoj... – rigirò di piatto due volte la matita sulla
tovaglia e guardò Innokentij con occhi che non tenevano più nascosto nulla.
Era venuta voglia anche a lui di dire apertamente ciò che nei circoli letterari
non era possibile dire. – Quand’ero ragazzino, all’inizio dei piani quinquennali,
pensavo che sarei morto dalla felicità se avessi visto il mio cognome stampato
sotto una poesia. Pensavo che quello fosse l’inizio dell’immortalità... Ma poi... –
Dotnara si diresse verso di loro, aggirando e spostando le sedie vuote.
– Ini! Kolja! Posso avvicinarmi? Non sarete nel pieno di una conversazione
troppo intelligente per me?
Era spuntata del tutto a sproposito.
Era sempre più vicina, e la sua immagine e la sua ineluttabilità nella vita di
Innokentij gli ricordarono all’improvviso la terribile verità, ciò che lo attendeva
dopo, mentre quella serata mondana, quegli scherzi intorno a un tavolo erano
solo cose futili. Gli si strinse il cuore. Un’arsura rovente gli invase la gola.
Dotty era lì in piedi che giocherellava coi bordi della camicetta con le
maniche a raglan in attesa di una risposta. Sullo stretto colletto foderato di
pelliccia scendevano liberi i soliti riccioli biondi sempre uguali da dieci anni a
quella parte, mai cambiati nemmeno per scimmiottare le mode: se aveva una
cosa bella Dotty sapeva conservarla. Era tutta rossa, forse per via della
camicetta color ciliegia. Le si contraeva leggermente il labbro superiore, un
vezzo da cerbiatta che lui conosceva e amava tanto, una cosa che le veniva
quando sentiva un complimento o sapeva di piacere. Ma perché ora?
Dotty si era sforzata tanto di sottolineare la sua indipendenza da lui, la
diversità delle loro opinioni riguardo alla vita. Cos’era cambiato in lei
all’improvviso? Oppure nel suo cuore si era insinuato il presentimento del
distacco? Come mai si era fatta così docile e amorevole? E quel vezzo da
cerbiatta sulle labbra...
Innokentij non riusciva a perdonarla, non ci pensava neanche a scusare la
lunga serie di incomprensioni, indifferenza e tradimenti. Si rendeva conto che
non era possibile che fosse davvero cambiata tutto d’un tratto. Quella sua
docilità, tuttavia, donò calore all’anima oppressa di Innokentij; così lui prese la
moglie per mano e la fece accomodare accanto a sé, un gesto che per tutto
l’autunno fra loro non c’era mai stato, che era impossibile avvenisse.
E con delicatezza, flessuosità, mitezza, Dotty si sedette subito accanto al
marito, si strinse a lui senza esagerare, per mantenere la cosa su un piano
decoroso, ma abbastanza perché fosse evidente che lo amava e stavano bene
insieme. A Innokentij, a dire il vero, balzò alla mente che per il futuro di Dotty
sarebbe stato meglio non dimostrare quell’intimità irreale. Tuttavia, le
accarezzò dolcemente il braccio nella manica color ciliegia.
La matita bianca d’osso dello scrittore giaceva inoperosa.
Galachov, i gomiti appoggiati sul tavolo, fissava oltre i coniugi la grande
finestra illuminata dalle luci della barriera di Kaluga. Parlare apertamente in
presenza di donne non era possibile. Non lo era nemmeno senza di loro.
...Ma ecco che... avevano cominciato a stampargli poemi interi; centinaia di
palcoscenici in tutto il paese, dopo quelli della capitale, mettevano in scena le
sue opere teatrali; le ragazze trascrivevano e imparavano i suoi versi; durante la
guerra i quotidiani principali gli concedevano volentieri le loro pagine e lui si
metteva alla prova anche nel saggio letterario, nella novella, nell’articolo di
critica; infine, era uscito un suo romanzo. Era stato insignito del premio Stalin
una prima volta, poi una seconda e una terza. E cos’era successo? Stranamente,
aveva raggiunto la gloria ma non l’immortalità.
Non si era reso conto di quando e come aveva sovraccaricato l’uccello della
propria immortalità tanto da impedirgli di spiccare il volo. Forse, per battere le
ali gli sarebbero bastati quei pochi versi che le ragazze imparavano a memoria.
Mentre le sue opere teatrali, i suoi racconti e il suo romanzo erano morti
davanti ai suoi occhi ancora prima che lui arrivasse a compiere trentasette anni.
Ma perché bisognava per forza aspirare all’immortalità? La maggior parte dei
compagni di Galachov non vi aspirava affatto, considerava più importante la
propria condizione di vita. Che se ne andassero alla malora, lui e l’immortalità,
dicevano, non era più importante incidere sul corso della vita odierna? E ci
riuscivano. I libri che scrivevano erano a servizio del popolo, si pubblicavano
in tirature con cifre a molti zeri, venivano distribuiti in tutte le biblioteche
grazie a fondi stanziati appositamente, promossi anche in speciali presentazioni
mensili. Naturalmente, non si potevano scrivere troppe verità. Quelli, però, si
consolavano dicendosi che un giorno le circostanze sarebbero cambiate, e loro
sarebbero tornati senz’altro su quei fatti un’altra volta, li avrebbero messi in
luce veramente, avrebbero ristampato, corretto i vecchi libri. Ma ora conveniva
scrivere quel quarto, ottavo, sedicesimo, dannazione!, quel trentaduesimo di
verità che era permesso, scrivere dei baci e della natura, qualsiasi cosa piuttosto
che niente.
Ma a opprimere Galachov era il fatto che stava diventando sempre più
difficile scrivere bene ogni nuova pagina. Lui si costringeva a lavorare seguendo
una tabella oraria, lottava contro gli sbadigli, contro il suo cervello pigro,
contro i pensieri che lo distraevano, contro l’orecchio che sentiva l’arrivo del
postino e il desiderio di precipitarsi a dare un’occhiata ai giornali. Si
preoccupava che lo studio fosse ben areato, ci fossero diciotto gradi Celsius e la
scrivania fosse oltremodo pulita, altrimenti non avrebbe potuto assolutamente
scrivere.
Ogni volta che iniziava qualcosa di grande, si infervorava, giurava a sé stesso
e agli amici che nessuno lo avrebbe fermato, che avrebbe scritto un libro vero.
Così si sedeva con entusiasmo a creare le prime pagine. Ma di lì a breve si
rendeva conto di non scrivere da solo, che davanti a lui, sempre più chiara,
aleggiava, l’immagine di colui per il quale stava scrivendo, rileggeva ogni
paragrafo appena scritto usandone gli occhi. E non si trattava del Lettore, un
fratello, un amico e un lettore coetaneo, ma di un critico, non uno in generale:
chissà perché, era sempre e solo il celebre e rinomato critico Ermilov.
Dunque Galachov si immaginava Ermilov, con il doppio mento appoggiato
sul petto, leggere quella nuova cosa e scatenarsi contro di lui in un articolo
enorme (già accadeva) di una colonna intera sulla “Literaturnaja Gazeta”. Lo
avrebbe intitolato: “Da quali androni arrivano certe correnti?” oppure “Ancora
una volta riguardo ad alcune tendenze di moda nel nostro cammino affidabile”.
Avrebbe esordito non in modo diretto, bensì usando le parole di Belinskij o di
Nekrasov più sacrosante, con le quali solo un disgraziato avrebbe potuto non
convenire. A quel punto avrebbe rigirato quelle stesse parole, portandole verso
un’idea completamente diversa, e avrebbe chiarito che Belinskij o Herzen
dimostravano con fervore che il nuovo libro di Galachov ci rivelava il suo
autore come una figura antisociale, antiumana, con una dubbia base filosofica.
E così, di paragrafo in paragrafo, sforzandosi di intuire le obiezioni di
Ermilov e adattarsi a esse, Galachov si ammansiva sempre di più, smussava gli
angoli, e il libro si arrotolava con viltà deponendosi in cedevoli anelli. E,
arrivato già a metà, Galachov si rendeva conto che il libro era tutto diverso,
non gli era venuto nemmeno quella volta.
– Le caratteristiche di un nostro diplomatico? – finì ugualmente il discorso
Innokentij, ma in tono smarrito, con un sorriso storto e scontento, mentre
l’espressione sul suo volto si faceva sempre più distante. – Le puoi immaginare
anche da solo. Grande impegno. Grande saldezza di principi. Devozione
assoluta alla nostra causa. Profondo attaccamento personale al compagno
Stalin. Attenersi in modo rigoroso alle disposizioni di Mosca. Conoscere, chi
più chi meno, le lingue straniere. Be’, e anche grande propensione verso i
piaceri della carne. Perché, come si suol dire, si vive una volta sola...

149 “Elmo di panno” con visiera, paraorecchi e stella rossa sul davanti, tipico della divisa comunista della
Guerra civile.
63
IL CONSERVATORE

Radović era un fallito impenitente di lunga data. Già negli anni Trenta le sue
lezioni erano state abolite, i suoi libri non venivano più stampati e lo
tormentavano una serie di acciacchi: si portava dietro la scheggia di un
proiettile di Kolčak nella gabbia toracica, da quindici anni si trascinava
un’ulcera duodenale e da svariati altri, ogni mattina, si praticava la dolorosa
procedura del lavaggio dello stomaco attraverso l’esofago, senza la quale non
poteva né mangiare né bere.
Ma il destino, che conosce il limite delle proprie grazie e delle proprie
azioni, con quegli stessi fallimenti lo aveva salvato: negli anni più critici
Radović, volto noto nella cerchia del Komintern, era sopravvissuto grazie al
fatto che finiva sempre in ospedale.
Si era fatto scudo con i suoi malanni anche l’anno precedente, quando tutti i
serbi rimasti in Unione Sovietica erano stati ficcati a forza nel movimento anti-
Tito o scaraventati in prigione.
Avendo ben chiaro quanta diffidenza circondava la sua situazione, con uno
sforzo indicibile Radović si tratteneva, non si azzardava a parlare, a lasciarsi
trascinare in discorsi fanatici, ma cercava di vivere un’incolore vita da invalido.
Adesso si trattenne grazie all’aiuto di un tavolino da tabacco. Quel tavolino,
ovale, di legno nero, si trovava nello studio insieme ai tubetti, a una macchina
per riempirli, a un assortimento di pipe su un cavalletto e un posacenere di
madreperla. Accanto al tavolino c’era un armadietto per tabacco in betulla di
Karelja con numerosi cassettini estraibili, in ciascuno dei quali alloggiava un
particolare tipo di papirosy, sigarette, sigari, tabacco da pipa e persino da fiuto.
Mentre ascoltava in silenzio Slovuta impegnato a snocciolare i dettagli dei
preparativi di una guerra batteriologica e dei più orribili delitti commessi dagli
ufficiali giapponesi contro l’umanità, Radović passava in rassegna con voluttà i
cassettini pieni di tabacco annusandone il contenuto, in dubbio su quale
fermarsi. Fumare per lui era un suicidio, gli era stato categoricamente vietato
da tutti i medici, ma siccome gli avevano proibito anche di bere e mangiare
(oggi alla cena non aveva quasi toccato cibo), il suo olfatto e il suo gusto erano
particolarmente sensibili alle sfumature del tabacco. La vita senza fumare gli
sembrava priva di ispirazione, si arrotolava molto spesso le sigarette usando i
fogli di giornale e la machorka del mercato, preferibile nelle sue difficili
condizioni economiche. Durante l’evacuazione, a Sterlitamak, andava dai
vecchi negli orti, comprava una foglia, l’essiccava da solo e la tagliava. Nelle ore
libere lavorare a quel tabacco lo aiutava a riflettere.
In sostanza, anche se Radović si fosse immischiato in quel discorso, non
avrebbe detto nulla di terribile, visto che anche le cose che pensava lui non
erano poi così distanti da quello che era necessario pensare pubblicamente.
Tuttavia, il partito di Stalin, più implacabile verso ogni sfumatura minima che
verso i colori opposti, poteva tagliargli la testa proprio per quel poco in cui si
differenziava.
Così rimase in silenzio, felicemente, e il discorso passò dai giapponesi alle
diverse qualità di sigari di cui Slovuta non capiva nulla, al punto che per poco
non si soffocò per una tirata imprudente. Poi, discussero sul fatto che anche se
aumentava il numero dei procuratori il loro carico di lavoro di anni non solo
non diminuiva, ma cresceva persino.
– E cosa dice la statistica dei delitti? – domandò con apparente indifferenza
Radović, bloccato nella corazza della sua pelle di pergamena.
La statistica non diceva niente: era muta, invisibile, nessuno sapeva se
esisteva ancora.
Ma Slovuta rispose:
– Le statistiche dicono che da noi il numero dei delitti sta diminuendo.
Non le aveva lette direttamente, così scrivevano i giornali.
E altrettanto sinceramente aggiunse:
– Comunque, ce ne sono ancora parecchi. È un retaggio del vecchio regime.
Il popolo è molto corrotto. Corrotto dall’ideologia borghese.
I tre quarti di coloro che finivano sotto giudizio erano cresciuti dopo il
1917, ma a Slovuta quello non entrava in testa: non lo aveva letto da nessuna
parte.
Makarygin scosse la testa: non era certo lui che doveva convincere!
– Quando Vladimir Il’ič ci diceva che la rivoluzione culturale sarebbe stata
molto più difficile di quella d’Ottobre, non riuscivamo a immaginarcelo! Solo
adesso capiamo quanto vedesse lontano.
Makarygin aveva la testa squadrata e le orecchie sporgenti.
Fumavano riempiendo tutti insieme lo studio di fumo.
Metà del piccolo scrittoio lucidato di Makarygin era occupato dal grosso set
per inchiostro con una riproduzione alta quasi mezzo metro della torre
Spasskaja, munita di orologio e stella. I due massicci calamai (che sembravano
torrette sulle mura del Cremlino) erano asciutti: a Makarygin non capitava da
tempo di scrivere qualcosa a casa, lo faceva già abbastanza nell’orario d’ufficio,
e per le lettere usava la penna stilografica. Dietro i vetri delle librerie comprate
a Riga conservava codici, raccolte di leggi, numeri di molti anni della rivista
“Stato e diritto sovietico”, la Grande vecchia enciclopedia sovietica (sbagliata, con i
nemici del popolo), la Grande nuova enciclopedia sovietica (ancora con i nemici del
popolo) e la Piccola enciclopedia (anche quella sbagliata e con i nemici del popolo).
Makarygin non apriva nulla di tutto quello da tempo, giacché ogni cosa,
compreso il codice penale del 1926, oggi vigente ma già rimasto
irrimediabilmente indietro rispetto alla vita, veniva sostituito con successo da
una serie di direttive più importanti, per la maggior parte segrete, ciascuna delle
quali conosceva per numero: 083 0 005 virgola 2742. Quelle disposizioni, che
concentravano in sé tutta la saggezza della procedura giudiziaria, erano
raccolte in un’unica cartella non molto grande che custodiva al lavoro. Mentre
lì, nello studio, i libri non venivano tenuti per la lettura, ma per deferenza. La
sola letteratura che Makarygin leggesse – di notte, ma anche in treno e alle
stazioni termali – erano gialli che nascondeva in un armadio opaco.
Sopra la scrivania del procuratore era appeso un grosso ritratto di Stalin in
uniforme da generalissimo, mentre sull’étagère era posizionato un piccolo
busto di Lenin.
Panciuto, con il ventre che sporgeva dalla divisa e il collo che strabordava
dal colletto dritto, Slovuta osservò lo studio e, con approvazione, disse:
– Te la cavi bene, Makarygin!
– Sì, più o meno... Pensavo di passare a livello regionale.
– Regionale? – rifletté Slovuta. Il viso grasso, con la mascella accentuata,
non era quello di un pensatore, ma l’essenziale lo afferrava facilmente. – Sì,
direi che ha senso.
Per loro due la ragione era evidente e non c’era bisogno che Radović lo
sapesse: un procuratore regionale, oltre allo stipendio, riceveva dei rimborsi,
mentre alla Procura militare centrale, per arrivare ad averli, bisognava
raggiungere un grado alto.
– Tuo genero, il maggiore, ha ottenuto il premio Stalin tre volte, vero?
– Sì – rispose il procuratore con orgoglio.
– E il minore non è forse consigliere di primo rango?
– Al momento solo di secondo.
– Ma è in gamba, diavolo, diventerà presto ambasciatore! E la più piccola,
con chi pensi di farla sposare?
– È una ragazza cocciuta, Slovuta, ci ho già provato, non vuole farsi
sistemare.
– Ha studiato? Cerca un ingegnere? – quando rideva, Slovuta protendeva in
avanti la pancia e tutto il tronco. – Che guadagni almeno ottocento rubli al
mese? Ma no, un čekista, falle sposare un čekista, così vai sul sicuro.
Come se Makarygin non lo sapesse! Si considerava sfortunato per non essere
finito fra i čekisti. L’ultimo sudicio oper del buco più schifoso della terra aveva
più potere e prendeva uno stipendio più alto di qualsiasi illustre procuratore
della capitale. La Procura era solo chiacchiere, la nutrivi con poco. La ferita
segreta di Makarygin era quella: non essere entrato nelle file dei čekisti...
– Be’, grazie, Makarygin, di aver pensato a me, ora devo proprio andare, mi
aspettano. E tu, professore, stammi bene, non ti ammalare.
– Tante belle cose, compagno generale.
Radović si alzò per salutare, ma Slovuta non gli allungò la mano. Con
sguardo offeso, Radović seguì la voluminosa schiena tonda dell’ospite che
Makarygin stava accompagnando alla macchina. Rimasto solo con i libri, si
protese subito verso di loro. Passò la mano sulla mensola, estrasse un
volumetto esitando e se lo portò in poltrona, dove sul tavolo notò anche un
altro libretto con una variopinta rilegatura rossa e nera; afferrò pure quello.
Quest’ultimo, però, gli scottava fra le mani di pergamena prive di vita. Era
una novità pubblicata da poco (e subito in un milione di copie): Tito, maresciallo
dei traditori, di un certo Renaud de Jouvenel.
Negli ultimi dodici anni erano capitate in mano a Radović caterve e caterve
di libri impudenti, servili, del tutto menzogneri, ma nulla era paragonabile a
quell’abominio. Scorrendo con occhio esperto da vecchio bibliofilo le pagine di
quella novità, in due minuti si rese conto a chi e a quale scopo servisse un libro
del genere, che razza di carogna fosse il suo autore, quanto nuovo rancore
sollevasse nell’animo umano contro l’innocente Jugoslavia. Poi una frase che gli
rimase negli occhi: “Non è importante soffermarsi nel dettaglio sui motivi che
hanno indotto Laszlo Rajk a confessare; se ha confessato vuol dire che era
colpevole.” Radović con repulsione rimise il libro là dove lo aveva trovato.
Naturale! Non è importante soffermarsi sui motivi! Non è importante
chiarire il modo in cui gli inquirenti e i boia picchiavano Rajk, lo privavano del
cibo, del sonno, e forse, disteso sul pavimento, con la punta dello stivale, gli
schiacciavano gli organi genitali (a Sterlitamak il vecchio detenuto Abramson,
che fin dalle prime parole era parso a Radović cupamente vicino, gli raccontava
dei graziosi metodi dell’NKVD). Se confessava, voleva dire che era colpevole!
Summa summarum della giustizia staliniana!
Ma la Jugoslavia era un punto troppo doloroso da affrontare ora in un
discorso con Pëtr. E quando quello fece ritorno, e gettò casualmente uno
sguardo amorevole alla nuova decorazione accanto alle precedenti ormai meno
lucide, Dušan sedeva nascosto dalla poltrona a leggere un volume
dell’enciclopedia.
– Noi della Procura non veniamo sommersi di decorazioni – sospirò
Makarygin. – Le dispensavano al trentesimo anniversario della rivoluzione,
altrimenti è raro che le diano.
Gli sarebbe piaciuto continuare a parlare delle sue decorazioni e del motivo
per cui ora ne aveva ricevuta una, ma Radović era chino in avanti e leggeva.
Makarygin estrasse un sigaro nuovo e si lasciò cadere sul divano.
– Be’, grazie, Dušan, non sei intervenuto a sproposito. Avevo qualche
timore.
– Perché? Che cosa avrei potuto dire di inappropriato? – si meravigliò
Radović.
– Cosa avresti potuto dire? – Il procuratore tagliò il sigaro. – Un sacco di
cose! Finisci sempre per sputare qualche sentenza. – Lo accese. – Lui
raccontava dei giapponesi e tu avevi talmente voglia di intervenire che ti
tremavano le labbra.
Radović raddrizzò la schiena.
– Perché si sentiva puzza di vile provocazione poliziesca a diecimila
chilometri di distanza!
– Dušan, ma sei impazzito! Come osi dire questa cosa davanti a me? Come
puoi parlare così del nostro partito?
– Non mi riferivo al partito! – si difese Radović. – Ma ai vari Slovuta. Come
mai proprio adesso, nel ’49, abbiamo scoperto che i giapponesi preparavano
quelle cose dal ’39? Sono nostri prigionieri già da quattro anni. E il coleottero
della patata ce lo gettano davvero gli americani dagli aerei? È sul serio così?
Le orecchie a sventola di Makarygin avvamparono.
– E perché no? E se anche così non fosse, vuol dire che lo esige la politica
statale.
Un Radović di pergamena prese a sfogliare nervosamente il suo volume.
Makarygin fumava in silenzio. Non avrebbe dovuto invitarlo, davanti a
Slovuta lo aveva solo fatto sfigurare. Tutte le sue vecchie amicizie non valevano
niente, erano buone solo nei ricordi.
Quell’uomo non sapeva nemmeno mostrare un po’ di gentilezza verso i suoi
ospiti, cercare di capire cosa rendeva felice il padrone di casa, cosa lo
preoccupa.
Makarygin fumava. Gli vennero in mente i litigi spiacevoli fra lui e la figlia
minore. Negli ultimi mesi, stare insieme a tavola loro tre, senza ospiti, non era
più un momento di riposo, di comfort familiare, si trasformava in una rissa fra
cani. Alcuni giorni prima Klara si batteva un chiodo in una scarpa e intanto
canticchiava parole senza senso, eppure quel motivetto era parso al padre fin
troppo conosciuto. Sforzandosi di mantenere la calma, le aveva fatto notare:
– Per un lavoro come questo, Klara, va scelta un’altra canzone. Con Di
lacrime è inondato il mondo infinito la gente moriva, se ne andava ai lavori forzati.
Per cocciutaggine, o sa il diavolo cosa, si era rivoltata:
– Oh, certo, quelle erano brave persone! Ai lavori forzati! La gente ci finisce
anche adesso!
Davanti a tanta sfacciataggine e a quel paragone indegno, il procuratore era
rimasto di stucco. Fino a che punto si poteva perdere ogni comprensione della
prospettiva storica? Trattenutosi a stento dal colpire la figlia, le aveva strappato
la scarpa di mano e l’aveva gettata a terra:
– Come puoi paragonarli! Il partito della classe operaia con la feccia
fascista?!
Cocciuta, il pugno premuto sulla fronte, Klara cercava di non piangere!
Stava lì così, un piede in una scarpa e l’altro, nella calza, appoggiato al
parquet.
– Smettila di recitare, papà! Ma quale classe operaia! Sei stato operaio per
due anni chissà quando e procuratore per trenta! Sei un operaio, ma in casa
non hai il martello! L’essere determina la coscienza, ce l’hai insegnato tu.
– Sì, l’essere sociale, però, scema! Anche la coscienza è sociale!
– Ma quale sociale? Alcuni vivono nelle regge, altri nelle baracche; alcuni
hanno automobili, altri scarpe di legno. Cosa c’è di sociale in questo?
Al padre quell’eterna impossibilità di trasmettere in modo rapido e
facilmente comprensibile la saggezza della vecchia generazione alle sciocche
giovani creature toglieva il fiato.
– Sei una sciocca!... Non capisci niente... e non impari niente!
– Insegnami tu! Forza! Dimmi, con quali soldi vivi? Per cosa ti pagano
migliaia di rubli visto che non crei nulla?
A quel punto al procuratore erano mancate le parole: era chiarissimo, ma
non gli veniva. Così si era limitato a gridare:
– E a te, nel tuo istituto, milleottocento rubli, per cosa te li danno?
– Dušan, Dušan – sospirava mollemente Makarygin. – Che devo fare con
mia figlia?
Le grosse orecchie che sporgevano dal volto di Makarygin parevano ali su
una sfinge.
Quel viso, stranamente, aveva assunto un’espressione smarrita.
– Com’è potuto accadere, Dušan? Quando cacciammo Kolčak, ci saremmo
mai aspettati di ricevere questa gratitudine dai nostri figli? Se capita loro di
giurare qualcosa da una tribuna davanti al partito, quei figli di buona donna
farfugliano il giuramento a razzo, come se si vergognassero.
Gli raccontò la scena della scarpa.
– Come avrei dovuto risponderle, eh?
Radović tirò fuori dalla tasca una pezza di camoscio un po’ sporca, con cui
si pulì le lenti degli occhiali. C’era un tempo in cui Makarygin tutto quello lo
conosceva bene, ma ora si era fatto davvero ignorante.
– Come avresti dovuto rispondere? Che si tratta di lavoro accumulato.
Istruzione e specializzazione sono lavoro accumulato, per questo ti pagano di
più. – Indossò gli occhiali. E guardò il procuratore con aria decisa: – In
generale, però, la ragazza ha ragione! Ci avevano avvertiti.
– Chi? – si meravigliò il procuratore.
– Che bisognava imparare anche dai nemici! – Dušan sollevò la mano con il
dito ossuto. – Di lacrime è inondato il mondo infinito? Prendi molte migliaia di
rubli? Una donna delle pulizie ne prende duecentocinquanta.
Una guancia di Makarygin si contrasse. Dušan si era fatto maligno, per
l’invidia di non avere niente.
– A te, a furia di startene nella tua caverna, ha dato di volta il cervello! Hai
perso ogni legame con la realtà! Non ci stai proprio con la testa! Cosa dovrei
fare? Chiedere da domani di essere pagato duecentocinquanta rubli? E come
vivrei? Mi caccerebbero via dandomi del matto! Gli altri mica rinunciano!
Con la mano Dušan indicò il busto di Lenin.
– E come fece allora Il’ič durante la Guerra civile a rifiutare il burro? Il pane
bianco? Lo considerarono forse un matto?
Dalla voce si capiva che Dušan era sul punto di piangere.
Makarygin parò il colpo con la mano aperta.
– Sì-ì-ì, come no! E c’hai creduto? Lenin senza burro non ci stava, puoi star
tranquillo. Già allora al Cremlino c’era una mensa mica male.
Radović si alzò e con la gamba intorpidita arrancò verso la mensola, dove
afferrò la fotografia in cornice di una giovane con un giubbotto di pelle e un
fucile.
– E Lena non era forse d’accordo con Šljapnikov? Te lo ricordi? E
l’opposizione operaia cosa diceva, eh?
– Non ci provare! – ordinò Makrygin. Stava impallidendo. – Non disturbare
la sua memoria! Sei un conservatore, un conservatore!
– No, io non sono un conservatore! Voglio la purezza leninista! – Abbassò
la voce. – Qui da noi non lo scrivono. In Jugoslavia c’è il controllo operaio
sulla produzione. Là...
Makarygin scoppiò in una risata maligna.
– Ovvio, tu sei serbo, per un serbo è difficile essere obiettivo. Lo capisco e ti
perdono. Ma...
Ma... oltre avrebbero superato il limite. Radović tacque, si spense, tornando
a ridursi a un ometto di pergamena.
– Continua, continua, conservatore! – lo incalzava con ostilità Makarygin. –
Ebbene, in Jugoslavia il regime parafascista è socialismo? Mentre da noi è
degenerazione? Sono parole vecchie! Si sentivano tanto tempo fa e chi le
pronunciava è già finito all’altro mondo da un pezzo. Ti manca solo di
aggiungere che nello scontro con il mondo capitalista siamo destinati a perire.
Eh?
– No! No! – si agitò di nuovo Radović, persuaso e illuminato da raggi di
preveggenza. – Non succederà! Il mondo capitalista si consumerà nelle sue
contraddizioni peggiori! E, come prevedeva con genialità Vladimir I’lič, noi
saremo presto testimoni di un conflitto armato tra Stati Uniti e Inghilterra per
il potere sui mercati!
64
PER PRIMI NELLE CITTÀ

Nella sala, intanto, si ballava al suono di un tipo nuovo di radiogrammofono,


grosso come un mobile. I Makarygin avevano un armadietto pieno di dischi:
conteneva sia le registrazioni del Padre e Amico con la sua parlata strascicata, i
mugugni e il tipico accento (erano lì come in tutte le case benintenzionate, ma
come tutte le persone normali, i Makarygin non le ascoltavano mai), sia canzoni
tipo Il più caro e il più amato150, un’altra sugli aerei, che sono la “prima cosa”,
mentre “le ragazze vengono dopo” (ma ascoltarli lì sarebbe stato fuori luogo
quanto discutere seriamente di miracoli biblici in dimore di antichi nobili). Sul
radiogrammofono quella sera giravano dischi importati, che in vendita non si
trovavano e alla radio non venivano passati; tra loro c’erano persino quelli
d’emigrazione di Pëtr Leščenko151.
I mobili rubavano spazio, tutte le coppie insieme non ci stavano, così si
ballava a turni. Tra i giovani erano presenti: le ex compagne di corso di Klara;
un compagno di corso che uscito dall’istituto ora lavorava al blocco delle
trasmissioni radio straniere; la ragazza parente del procuratore per cui si
trovava lì Ščagov; un nipote della moglie del procuratore, che era tenente degli
Affari interni e tutti chiamavano “guardia di frontiera” per via della bordatura
verde dell’uniforme (la loro compagnia, però, era acquartierata alla stazione
Belorusskij e inviava pattuglie a controllare i documenti sui treni e ad arrestare
la gente lungo il tragitto); in particolare, si distingueva un giovane statale con il
nastrino dell’ordine di Lenin messo di traverso, quasi con negligenza, senza la
medaglia, e i capelli laccati e già radi.
Quel giovane aveva ventiquattro anni, ma si sforzava di comportarsi come se
ne avesse almeno trenta, muoveva le mani con grande ritegno e stringeva il
labbro inferiore con dignità. Era uno degli stimati assistenti del segretariato del
Presidium del Soviet Supremo; il suo lavoro consisteva nel preparare i testi
preliminari dei discorsi dei deputati per le future sessioni. Si trattava di
un’attività che il giovane trovava molto noiosa, ma la posizione era davvero
promettente. Per Alevtina Nikanorovna già solo averlo a quella serata era un
successo; farlo sposare a Klara, un sogno irraggiungibile.
Per il giovane l’unica cosa interessante di quella serata era la presenza di
Galachov e di sua moglie. Aveva già invitato Dinera tre volte a ballare; lei era
tutta avvolta in un vestito nero importato di seta “laccata”, le braccia
d’alabastro al di sotto dei gomiti libere da quel tessuto luccicante che sembrava
pelle. Godendo dell’attenzione lusinghiera di quella celebre donna, l’assistente
la corteggiava dandosi grande importanza e alla fine di un ballo cercò persino
di restare in sua compagnia.
Ma Dinera aveva visto Saun’kin-Golovanov seduto da solo in un angolo del
divano: in un posto diverso dalla sua redazione non sapeva né ballare né
muoversi, così lei si era diretta verso quella testa quadrata su un tronco
quadrato. L’assistente la seguì di soppiatto.
– E-rik! – lo salutò in modo allegro, sollevando la mano di alabastro. –
Come mai non l’ho vista alla prima di 1919?
– Ci sono stato ieri – rispose Golovanov, rianimandosi. E si spostò ancora
più in là sul divano rettangolare, dove già sedeva sul bordo.
Dinera si accomodò. Prese posto anche l’assistente.
Sottrarsi a una discussione con Dinera era impossibile, ti andava già bene se
ti permetteva di esprimerti. Nell’ambiente letterario di Mosca girava un
epigramma:

Stare in silenzio con lei è per forza un piacere,


tanto di aprire la bocca lei non ti concede.

Non legata ad alcun tipo di incarico letterario e a nessun dovere di partito,


Dinera attaccava audacemente (ma sempre nei limiti) drammaturghi,
sceneggiatori e registi, non risparmiando nemmeno il marito. L’audacia delle
sue opinioni, combinata a quella degli abiti e della biografia nota a tutti, le si
confaceva a meraviglia e vivacizzava i giudizi insapori di chi subordinava il
proprio pensiero ai doveri di ufficio. In generale, attaccava anche i critici
letterari e, in particolare, gli articoli di Ernst Golovanov, che non si stancava
mai di evidenziare alla ragazza i suoi errori anarchici e le sue stramberie
piccolo borghesi. Golovanov manteneva volentieri quel rapporto scherzoso di
ostilità e vicinanza con Dinera anche perché da Galachov dipendeva il suo
stesso destino letterario.
– Si ricorda... – Dinera si appoggiò con aria trasognante allo schienale del
luminoso divano, troppo dritto e scomodo – ...in Tragedia ottimistica, sempre di
Višnevskij, il coro dei due marinai? Uno dice: ‘Non ci sarà troppo sangue in
questa tragedia?’ e l’altro: ‘Non più di quanto ce ne sia in Shakespeare.’
Davvero arguto, una bella trovata! Così uno va a vedere un’altra opera di
Višnevskij e si aspetta ancora quell’arguzia! E che ci trova? Ovviamente una
cosa realistica, con una straordinaria raffigurazione del Capo, e poi?... Poi
nient’altro.
– Perché dice così? – ci rimase male l’assistente. – Le sembra poco? Non
ricordo una raffigurazione di Iosif Vissarionovič tanto toccante. In sala
piangevano in molti.
– Anch’io avevo le lacrime agli occhi! – lo assalì Dinera. – Non parlavo di
questo. – E proseguì: – Nell’opera sono quasi tutti senza nome! Vengono
indicati in base al loro ruolo: tre segretari di una cellula del partito, sette
comandanti, quattro commissari, tutto secondo il protocollo! E poi ci sono i
soliti ‘fratelli’ marinai, che passano da un autore all’altro, da Belocerkovskij a
Lavrenëv, da Lavrenëv a Višnevskij, da Višnevskij a Sobolev. – Dinera
ciondolava la testa, gli occhi socchiusi, citando un cognome dopo l’altro. – Sai
già in anticipo chi è bravo, chi cattivo e come andrà a finire...
– E come mai non le piace? – si meravigliò Golovanov. Quando parlava di
lavoro si infervorava, assumeva un’espressione concentrata, quasi stesse
fiutando una traccia. – Perché sente il bisogno di un’attrattiva finta, esteriore?
Succede forse così nella vita? I nostri padri avevano dubbi su come sarebbe
andata la Guerra civile? Oppure noi, ne avevamo su come sarebbe finita la
Guerra patriottica, persino con il nemico alle porte di Mosca?
– Oppure il drammaturgo: ha mai dubbi su come verrà accolta la sua opera?
Me lo spieghi, Erik: come mai le nostre prime non sono mai un fiasco? Perché
a una prima i drammaturghi non hanno mai il terrore di fallire? Può starne
certo, una volta di sicuro non riuscirò a trattenermi, mi caccerò due dita in
bocca e lancerò un bel fischio!!
Mostrò con grazia come intendeva fare: a quel modo non le sarebbe uscito
neanche mezzo fischio.
– Ora glielo spiego – disse Golovanov, che non solo non si era confuso, ma
seguiva la traccia con sempre maggiore sicurezza. – Le opere da noi non
falliscono mai, non possono fallire, perché fra il drammaturgo e il suo pubblico
si crea coesione sia sul piano artistico sia su quello della comune percezione del
mondo...
La cosa cominciava a farsi noiosa. L’assistente si aggiustò la cravatta giallo-
azzurra una volta, una seconda, poi si alzò e si allontanò. Una delle compagne
di corso di Klara, una ragazza magra e simpatica, non gli aveva tolto gli occhi
di dosso per tutta la serata, così decise di ballare con lei. Capitò un two-step.
Dopodiché, una delle due baškire cominciò a servire il gelato. L’assistente
condusse la ragazza in uno spazio ristretto davanti alla porta del balcone dove
erano state infilate due poltrone, si accomodò e la elogiò per come ballava.
Lei non smetteva di sorridergli: puntava a qualcosa.
Non era la prima volta che il giovane statale incontrava la disponibilità di
una donna, ma quella disponibilità non aveva ancora fatto in tempo ad
annoiarlo. Sarebbe bastato dire a questa ragazza l’ora e il posto dove
presentarsi. Osservò il suo collo nervoso, il petto non ancora alto, e
approfittando del fatto che le tende li nascondessero in parte della stanza, le
prese la mano appoggiata sul ginocchio.
La ragazza, emozionata, cominciò a dire:
– Vitalij Evgen’evič! Che caso fortunato averla incontrata qui! Mi scusi se
oso disturbarla in un’occasione di libertà. Ma al ricevimento del Soviet
Supremo non potevo proprio venire. – (Vitalij staccò la mano da quella della
giovane.) – Da lei al segretariato si trovano già da sei mesi una verbalizzazione
per mio padre – è stato colpito da paralisi – e una mia domanda di grazia. –
(Vitalij si accasciò sulla poltrona e con il cucchiaino prese a tormentare una
pallina di gelato. La ragazza si era completamente dimenticata del suo: ci aveva
conficcato malamente il cucchiaino, che facendo una capriola le aveva lasciato
una macchia sul vestito, per poi cadere vicino alla porta del balcone, dove era
rimasto.) – Ha la parte destra del corpo tutta bloccata! Un altro attacco e
morirà. È destinato a morte certa, a che vi serve la sua detenzione?
L’assistente storse la bocca.
– Sa una cosa? ...Non mi pare una grande mossa da parte sua rivolgersi a me
qui. Il numero del centralino del nostro ufficio non è segreto, lo chiami, le
fisserò un appuntamento. Tra l’altro, suo padre per quale articolo è dentro? Il
Cinquantotto?
– No, no, che dice! – esclamò la ragazza quasi sollevata. – Avrei l’ardire di
chiederglielo, se fosse un detenuto politico? È dentro per la legge del Sette
Agosto!152
– Fa lo stesso, la verbalizzazione è stata abrogata anche per il Sette Agosto.
– Ma è una cosa terribile! Morirà nel campo di lavoro! A che scopo tenere in
prigione uno destinato a morte certa?
L’assistente guardò la ragazza negli occhi pieni di lacrime.
– Se ragionassimo così, che fine farebbe la legislazione? – Ridacchiò. – È
stato giudicato da un tribunale! Ci rifletta! Cosa significa ‘morirà nel campo di
lavoro’? Qualcuno dovrà pur morire anche lì. Se per lui si è avvicinata l’ora
della morte, che importanza ha dove gli capiterà?
Si alzò infastidito e si allontanò.
Dietro la porta a vetri del balcone, la barriera di Kaluga era in pieno
fermento: fanali, frenate, semafori rossi, gialli e verdi sotto la neve che
continuava a cadere.
La ragazza indelicata raccolse il cucchiaino e, dopo aver appoggiato la tazza,
attraversò la stanza in silenzio, senza notare né Klara né la padrona di casa; poi
passò per la sala da pranzo, dove stavano servendo il tè e le torte, si mise il
cappotto e se ne andò.
Galachov, Innokentij e Dotnara lasciarono passare la ragazza incupita, poi
uscirono anche loro dalla sala da pranzo. Golovanov, rianimato da Dinera, con
ritrovata prontezza di spirito, fermò il suo benefattore:
– Nikolaj Arkad’evič! Halt! Confessi! Nel profondo della sua anima lei non è
uno scrittore, ma... – (Fu come risentire la domanda di Innokentij; Galachov si
smarrì.) – ...un soldato!
– Certo, un soldato! – sorrise Galachov, con coraggio.
E, ridotti gli occhi a due fessure, sembrò perdersi in lontananza. Non c’era
stato giorno della sua gloria da scrittore che gli avesse lasciato nel cuore tanto
orgoglio e soprattutto una sensazione di purezza quanto quello in cui, in un
colpo di testa, aveva raggiunto lo Stato maggiore di un battaglione isolato, era
finito sotto una raffica di artiglieria e un fuoco di missili, per poi trovare riparo
in un piccolo rifugio semidistrutto da una bomba, cenare a tarda sera in
quattro dalla stessa gavetta e sentirsi allo stesso livello di quei combattenti
mezzi bruciacchiati.
– Dunque, mi permetta di presentarle un amico di quando ero sotto le armi,
il capitano Ščagov!
Ščagov se ne stava lì dritto in piedi, cercando di non umiliarsi con
un’espressione deferente da sottoposto. Aveva bevuto parecchio, abbastanza da
non sentire già quasi più il peso del corpo sul pavimento. E non appena quel
pavimento si era fatto arrendevole, era diventata più arrendevole, facile da
vivere, anche quella calda luminosa realtà, con la sua ricchezza radicata, piena e
fissata tutta intorno, in cui lui, con le sue ferite tormentose, con la sua
secchezza di stomaco, era entrato da infiltrato, sperando di farla diventare il
suo futuro.
In un ambiente in cui uno sbarbatello portava storto, con noncuranza, il
nastro dell’Ordine di Lenin, Ščagov si era già vergognato delle sue minuscole
decorazioncine. Il celebre scrittore, invece, viste le decorazioni militari di
Ščagov, una medaglia e due galloni da ferimento, si allungò di slancio in avanti
per offrirgli una stretta di mano.
– Maggiore Galachov! – sorrise. – Dove ha combattuto? Ma sediamoci, mi
racconti.
Si accomodarono su un’ottomana rivestita di tappeto, facendo spostare
Innokentij e Dotty. Volevano far sedere anche Ernst, ma lui fece cenno di
aspettare e sparì. In effetti, l’incontro tra i due soldati non poteva avvenire
all’asciutto! Ščagov raccontò che lui e Golovanov avevano fatto amicizia in
Polonia in una giornata folle, il 5 settembre 1944, quando i nostri si erano
aperti verso il Narev, buttandosi in quel fiume che avevano attraversato per lo
più su tronchi d’albero, consapevoli che il primo giorno è facile, ma poi non lo
conquisti più neanche stringendo i denti. Erano passati con sfrontatezza in
mezzo ai tedeschi nello stretto corridoio di un chilometro, mentre i nemici si
affrettavano a chiuderlo e da nord avevano richiamato trecento carri armati e
da sud duecento.
Ogni volta che ricordavano il fronte, Ščagov metteva da parte il linguaggio
con cui ogni giorno conversava all’università, mentre Galachov quello di
redazione e di sezione, oltre a quello ponderato, studiato, autoriale che usava
per scrivere libri. Quei linguaggi puliti e levigati erano inadatti a restituire la
vita fumosa e piena di colori del fronte. Alla decima parola si erano già rese
indispensabili imprecazioni inconcepibili in un contesto come quello.
Golovanov ricomparve con tre bicchierini e una bottiglia di cognac aperta.
Accostò una sedia per averli entrambi di fronte e cominciò a versare il cognac
nei bicchieri che tenevano in mano.
– All’amicizia fra soldati! – brindò Galachov, socchiudendo gli occhi.
– A chi non è tornato! – sollevò il bicchierino Ščagov.
Bevvero. La bottiglia vuota finì dietro l’ottomana.
Golovanov raccontò la propria esperienza: quel giorno, nei suoi ricordi, lui,
corrispondente militare di fresca nomina laureatosi da due mesi, si dirigeva per
la prima volta al fronte, era passato indenne su un camioncino (lo stesso che
portava a Ščagov le mine anticarro) in mezzo ai mortai tedeschi da
Długosiodło a Kabat nel piccolo corridoio tanto stretto dove i tedeschi “a
nord” bombardavano la posizione dei tedeschi “a sud”, e proprio in quel posto
quel giorno un nostro generale che tornava da una licenza con la famiglia al
fronte su una jeep era finito direttamente in bocca ai tedeschi. Ed era
scomparso.
Innokentij ascoltò con attenzione e domandò cosa si provi ad aver paura di
morire. Golovanov, incontenibile, si affrettò a rispondere che in quei minuti
disperati la morte non fa paura, te ne dimentichi. Ščagov sollevò un
sopracciglio e lo corresse:
– La morte non fa paura finché non ti dà una bella scrollata. Io non avevo
paura di niente, finché non l’ho provato. Sono finito sotto una bomba e ho
cominciato ad avere paura solo e soltanto di quelle. Sono rimasto ferito in un
cannoneggiamento: ho cominciato ad avere paura anche dei cannoneggiamenti.
In generale, “non puoi aver paura di una pallottola che fischia”, se l’hai sentita
vuol dire che non ti è finita addosso. L’unica pallottola che ti ucciderà, non la
sentirai. È come se la morte non abbia a che fare con te: ci sei tu, lei non c’è;
quando arriva, tu non ci sei più.
Sul radiogrammofono fu messo Torna, piccina mia!.
Per Galachov i ricordi di Ščagov e di Golovanov non erano di alcun
interesse, da un lato perché lui non era stato testimone di quell’operazione e
non conosceva Długosiodło e Kabat, dall’altro perché nel suo caso non si
trattava dell’esperienza di un piccolo corrispondente come Golovanov, ma di
un corrispondente strategico. Non vedeva le battaglie vicino a un ponticello di
legno marcescente o a una colonnina d’acqua distrutta, ma da una prospettiva
più ampia, cercando di comprendere le opportunità di generali e marescialli.
Galachov sviò il discorso:
– Sì. La guerra, la guerra! Ci finiamo da cittadini goffi e torniamo con il
cuore di bronzo... Erik! Nel vostro riparo cantavate la Canzone dei corrispondenti
di guerra?
– Sì, certo!
– Nera153! Nera! – chiamò Galachov. – Vieni qui! Cantiamo la Canzone dei
corrispondenti di guerra, aiutami!
Dinera si avvicinò.
– Se permettete, amici! Sono stata anch’io una ex combattente!
Spensero il radiogrammofono e si misero a cantare in tre, compensando le
imperfezioni musicali con la sincerità.

Da Mosca a Brest
Al fronte a ovest arrivando da est...

Si avvicinarono tutti per ascoltarli. I giovani, incuriositi, guardavano a bocca


aperta quella celebrità che non capitava tutti i giorni di incontrare.
Per la vodka e il vento
le gole in doloroso tormento,
parleremo a chi ci accuserà...

Non appena era iniziata la canzone, nonostante avesse lo stesso sorriso di


prima, Ščagov si era come raffreddato dentro, aveva cominciato a provare
vergogna nei confronti di quelli che lì naturalmente non c’erano, che
inghiottivano l’onda del Dnepr già nel ’41 e masticavano rami di conifere a
Novgorod nel ’42. Quegli scribacchini conoscevano poco il fronte che ora
trasformavano in una cosa sacra. Anche i corrispondenti più coraggiosi erano
comunque un’altra cosa rispetto ai militari veri; fra loro c’era lo stesso divario
che c’è fra un conte che ara la terra e un contadino-aratore: non erano legati
all’ordine militare tramite disposizioni e comandi, e per questo nessuno
proibiva loro niente né trasformava in tradimento la paura, il desiderio di
salvarsi la vita, la fuga dalla testa di ponte. C’era un baratro tra la psicologia del
vero soldato, con i piedi sprofondati nella terra della prima linea, che non aveva
altro posto dove andare e lì forse sarebbe morto, e il corrispondente con le
alucce, che dopo due giorni se ne tornava nel suo appartamento di Mosca. E
ancora: da dove veniva la vodka che riduceva “le gole in doloroso tormento”?
Dalla razione del comandante d’armata? A un soldato prima di un’offensiva ne
concedevano al massimo centocinquanta, duecento grammi...
Là dove stiamo,
di carri armati non ne abbiamo,
muore un reporter, non è un problema,
sta su una “Emka”, non ci fa pena
la fondina vuota soltanto lui ha
entra per primo nelle città!

Quell’espressione, “entra per primo nelle città!”, si riferiva a due o tre storielle
su alcuni corrispondenti che, raccapezzandosi poco delle carte topografiche,
percorrevano le strade buone (su quelle cattive una “Emka”, una Gaz-M-1, non
andava), entravano in città “di nessuno” per primi e, come scottati dal vapore,
filavano subito indietro.
Innokentij, invece, lì fermo ad ascoltare con la testa ciondoloni, capiva la
canzone a modo proprio. Lui che la guerra non la conosceva affatto, conosceva
la situazione dei nostri corrispondenti. Non erano come il reporter disgraziato
descritto in quei versi. Non perdeva il lavoro se arrivava tardi a una notizia che
faceva scalpore. Non appena mostrava il tesserino, il corrispondente veniva
subito preso per un superiore importante, che aveva il diritto di stabilire una
direttiva. Poteva trovare notizie affidabili, ma anche non affidabili, poteva
comunicarle al giornale in tempo o anche in ritardo: la sua carriera non
dipendeva da quello, ma da una giusta visione del mondo. Se aveva quella, non
gli serviva infilarsi nella testa di ponte o in una bolgia simile: poteva scrivere la
sua corrispondenza anche dalle retrovie.
Dotty sedeva accanto al marito giocherellando con la sua mano, senza
parlare né capire le questioni intellettuali: era il modo più gentile che aveva.
Desiderava soltanto starsene lì seduta da moglie ubbidiente, per mostrare a
tutti come andavano d’accordo.
Non sapeva quanto presto l’avrebbero fatta preoccupare, quanto spaventare,
sia se fossero venuti a prendere Innokentij qui sia se fosse scappato e fosse
rimasto laggiù.
Quando lei si preoccupava solo di sé stessa, era brusca, autoritaria, cercava
di farlo crollare, di imporgli i suoi giudizi meschini, Innokentij pensava: bene,
che soffra pure, imparerà la lezione, le sarà utile.
Ma Dotty era tornata dolce e Innokentij era dispiaciuto per lei. Turbato.
Era tutto così angosciante, non era affatto una bella cosa, dovevano
andarsene da quella stupida serata, anche se a casa forse ad attenderli c’era di
peggio.
Klara si staccò dal piccolo televisore con l’immagine confusa e storta,
sistemato da lei in qualche modo per gli ospiti, poi uscì dalla stanza semibuia,
si diresse verso il salotto e rimase lì in piedi sulla soglia. Quando vide
Innokentij e Nara seduti vicini, sereni, si meravigliò e capì per l’ennesima volta
che il matrimonio ha segreti inviolabili e incomprensibili.
Di quella serata, organizzata in pratica per lei, non sembrava affatto felice,
ma ferita, abbattuta. Si era lanciata ad accogliere tutti e a intrattenerli, ma
dentro si sentiva come svuotata. Non c’era nulla che trovasse divertente,
nessuno degli ospiti interessante. E il suo vestito nuovo di crêpe satin verde
opaco, con scintillanti decori di merletti sul colletto, sul petto e sui polsi, forse
non le donava neppure, proprio come gli abiti precedenti.
L’amicizia instaurata per forza, senza cordialità, senza delicatezza, con quel
critico dalla testa quadrata non le pareva affatto autentica: in un certo senso,
era quasi contro natura. Lui era rimasto seduto sul divano come un orso per
mezz’ora, la successiva aveva discusso con Dinera di cose futili, poi si era
messo a bere con altri ex combattenti: Klara non aveva avuto l’istinto di
afferrarlo e trascinarlo a divertirsi.
Le era sembrato che quella fosse la sua ultima occasione, il suo momento
giusto, di massima fioritura, e se ora se lo fosse lasciato scappare, le sarebbe
toccato uno più vecchio, peggiore, oppure nessuno.
E quella cosa era davvero successa quella mattina? Proprio quella mattina! Lì
a Mosca! C’erano stati davvero quella conversazione emozionante, lo sguardo
entusiasta di quel ragazzo con gli occhi azzurri, un bacio capace di rivoltare
l’anima e il giuramento di aspettare? Era successo quella mattina che aveva
intrecciato per tre ore un piccolo cestino per un albero di Natale?
Quello sulla terra non c’era. In carne e ossa non esisteva. Non bastava un
quarto di secolo per realizzarlo. Doveva averlo sognato.

150 Celebra canzone su Stalin del 1941.


151 Pëtr Leščenko (1898-1954), il “re del tango russo”, che nel 1949 viveva in Romania. In quegli anni la
sua musica in Unione Sovietica veniva considerata “controrivoluzionaria”.
152 Decreto istituito il 7 agosto 1932, detto anche “Legge delle spighe”, perché riguardava persino chi si
tratteneva anche solo una manciata di grano o, appunto, qualche spiga, puniva come sabotaggio il furto dei
beni di fabbriche, kolchozy e sovchozy.
153 Diminutivo di Ditnera.
65
UN DUELLO FUORI DALLE REGOLE

Sulla branda superiore, ora a tu per tu con il soffitto a volta, rotondo come la
cupola del cielo che si dispiegava sopra di esso, ora con il viso affondato nel
cuscino caldo che immaginava essere il ventre di Klara, Rostislav si struggeva
dalla felicità.
Da quel bacio che gli aveva preso persino le gambe era già trascorsa mezza
giornata eppure gli dispiaceva ancora di profanarsi le labbra con un discorso
vuoto o con del cibo avido.
“Lei però non potrebbe aspettarmi!” le aveva detto.
E Klara aveva risposto:
“Perché non potrei? Potrei...”
– ...gli antidiluviani come te si reggono solo sulla fede. – Da sotto gli giunse
una voce giovane ed espressiva, soffocata per non farsi sentire lontano. – Una
fede per di più falsa! Mai che si trovi in voi un briciolo di scienza!
– Be’, sai che ti dico? Questa discussione sta diventando troppo astratta. Se il
marxismo non è scienza, allora cosa lo è? Il Libro della Rivelazione di san
Giovanni? Oppure Chomjakov154 che indaga i tratti dell’anima slava?
– Voi non sapete cos’è la vera scienza! Non siete dei creatori! Non la
conoscete proprio! Alla base dei vostri ragionamenti ci sono solo miraggi, non
realtà! Nella vera scienza ogni posizione deriva da un punto di partenza
stabilito con estrema rigidità!
– Che tesoro... il Signor ‘So tutto io’... è lo stesso anche da noi: tutta la
nostra teoria economica deriva da una cellula commerciale. Tutta la filosofia,
dalle tre leggi della dialettica.
– La conoscenza pratica si ottiene dalla capacità di trasformare le deduzioni
in fatti.
– Per la miseria! Cosa mi tocca sentire! Il criterio della pratica nella
gnoseologia? Sei un materialista... – Rubin protese le grosse labbra a trombetta
e in tono volutamente infantile aggiunse: – ...fatto e finito! Anche se un po’
primitivo.
– Ci risiamo, cerchi sempre di sfuggire a un’onesta discussione fra uomini!
Preferisci sommergere l’interlocutore con parole da uccelli!
– Tu invece non parli nemmeno, te ne stai lì a fare scongiuri! Sei proprio
una pizia! La pizia di Marfino! Pensi che il sottoscritto muoia dalla voglia di
discutere con te? Per me è quasi noioso quanto cercare di ficcare in testa a un
vecchio zoticone che il Sole non gira intorno alla Terra. Creda pure quel che gli
pare!
– Non ti va di discutere con me perché non ne sei capace! Nessuno di voi è
capace di sostenere una discussione, fuggite tutti da chi è eterodosso, per non
violare l’armonia della vostra concezione del mondo! State fra voi e vi
sbizzarrite a interpretare i padri della dottrina. Raccogliete gli uni dagli altri
idee che si ripetono crescendo a dismisura... In libertà... – (piano) – ...in
presenza della Čeka, oserebbe forse qualcuno discutere con voi? Invece,
quando finite in prigione, come qui... – (forte) – ...e incontrate veri appassionati
di discussioni, sembrate pesci fuor d’acqua! Così potete solo abbaiargli contro e
imprecare.
– Mi sa che finora hai abbaiato più tu contro di me che non il contrario.
Sologdin e Rubin se ne stavano seduti al tavolo della festa ormai deserto
come stregati dalle loro eterne divergenze. Abramson era tornato da un pezzo
a leggere Il conte di Montecristo; Kondrašëv-Ivanov si era messo a riflettere sul
grande Shakespeare; Prjančikov era corso via a sfogliare una copia di “Ogonëk”
dell’anno precedente che qualcuno gli aveva prestato; Neržin si era diretto
dallo spazzino Spiridon; Potapov, adempiendo fino in fondo ai suoi doveri di
casalinga, aveva lavato le stoviglie, rimesso a posto gli sgabelli e si era sdraiato,
schermandosi con il cuscino dalla luce e dal rumore. Nella stanza molti
dormivano, altri leggevano tranquilli oppure conversavano, ed era giunta l’ora
in cui ci si domandava già se il sorvegliante di turno si fosse dimenticato di
spegnare la luce, per passare a quella blu. Sologdin e Rubin se ne stavano seduti
sul letto di Prjančikov, vuoto, in un cantuccio vicino all’ultimo sgabello
rimasto.
Tuttavia, solo Sologdin era in vena di discutere: per lui quello era un giorno
di vittorie che gli ribollivano dentro e non si placavano. In generale, in base al
suo programma, ogni domenica sera bisognava divertirsi. E quale divertimento
poteva essere più allegro di svergognare e spingere all’angolo un tutore della
grettezza mentale dominante?
Per Rubin quello era un giorno penoso e assurdo per discutere. Non aveva
solo un lavoro da concludere, a gravarlo ci si era messo anche un nuovo
compito immane: creare una scienza intera, di cui occuparsi l’indomani sin dal
mattino, e per questo era necessario risparmiare le forze già dalla sera prima.
Inoltre, due lettere reclamavano la sua attenzione: una della moglie, l’altra
dell’amante. Era l’unico momento in cui avrebbe potuto rispondere! La moglie
attendeva importanti suggerimenti sull’educazione dei figli; l’amante, tenere
conferme. Richiedevano attenzione anche i dizionari mongolo-finnico, ispano-
arabo e di qualche altra lingua, Čapek, Hemingway, Lawrence. Inoltre, un po’
per lo spettacolo comico del processo, un po’ per le frecciatine dei vicini e un
po’ per la festa d’onomastico, non era riuscito a elaborare in modo definitivo
quell’importante progetto di portata mondiale.
Ma le leggi del carcere riguardo le discussioni non lo mollavano. Giacché
alla šaraška rappresentava l’ideologia progressista, Rubin non si lasciava
superare in nessuna disputa. Così se ne stava lì come legato, costretto per forza
a sedere con Sologdin, al quale cercava di ficcare in testa concetti basilari che
avrebbe capito facilmente anche un bambino.
Sologdin lo esortava piano e con gentilezza:
– Una discussione come si deve, lo dico in base all’esperienza nel campo di
lavoro, deve svolgersi come un duello. Scegliamo un mediatore che vada bene a
entrambi: chiamiamo Gleb, per esempio. Prendiamo un foglio di carta, lo
dividiamo a metà con una riga. In alto scriviamo l’argomento di discussione.
Poi, ciascuno nella propria metà esprime nel modo il più possibile conciso e
chiaro il proprio punto di vista sulla questione. Per evitare di scegliere parole
sbagliate, non ci sono limiti di tempo.
– Ma mi prendi per scemo? – obiettò assonnato Rubin, abbassando le
palpebre rugose. Il viso sotto la barba restituiva un’immagine di profonda
stanchezza. – Che facciamo, stiamo qui a discutere fino a domattina?
– Ma no! – esclamò Sologdin, allegramente, gli occhi che gli luccicavano. – È
questa la parte migliore di una vera discussione fra uomini! Vuote logomachie
e aria fritta possono trascinarsi per settimane. Mentre una discussione su carta
può anche concludersi in dieci minuti: diventa subito evidente che gli avversari
parlano di cose completamente diverse oppure si allontanano poco fra loro.
Quando poi ha senso continuare la discussione, basta scrivere a turno ciascuno
le proprie ragioni in una metà del foglio. Come in un duello: colpo! risposta!
sparo! sparo! E diventa impossibile sfuggire, rinnegare le espressioni usate,
sostituire le parole con altre: bastano due o tre annotazioni per assegnare in
modo definitivo la vittoria a uno e la sconfitta all’altro.
– E si fa senza limiti di tempo?
– In nome del rispetto della verità: nessun limite!
– E quando si inforcano le spade?
Il viso tutto rosso di Sologdin si incupì:
– Ecco, lo sapevo che avresti cominciato...
– Secondo me, hai cominciato tu!...
– ...mi appiccichi addosso ogni sorta di nomignolo, ne hai una riserva:
oscurantista! ritiratista! (rifuggiva “reazionario”, un’incomprensibile parola
forestiera ), valletto incoronato (intendeva “leccapiedi patentato”)
dell’oscurantismo clericale! Voi avete in testa più parole ingiuriose che
definizioni scientifiche. Quando ti sto addosso e ti propongo di discutere
onestamente, non hai tempo, non hai voglia, sei stanco! Però, il tempo e la
voglia di mettere in subbuglio l’intero paese li avete trovati!
– Metà del mondo! – lo corresse Rubin, con cortesia. – Per la causa c’è
sempre tempo e forza. Non per stare lì a cianciare, però... Di cosa dovremmo
discutere io e te? Ci siamo già detti tutto.
– Di cosa? Lascio a te la scelta! – rispose Sologdin, con un ampio gesto
galante. (Sul tipo di arma! sul luogo del duello!)
– E io scelgo di non parlare di niente!
– Così non giochi secondo le regole!
Rubin cominciò a tirarsi la punta della barba nera.
– Non gioco secondo le regole? Ma quali regole! Che razza di inquisizione è
questa! Mettitelo in testa: per discutere in modo proficuo bisogna disporre di
una base comune, avere qualche tratto generale su cui ci si trova d’accordo...
– Ecco, appunto! Lo dicevo io: dovremmo riconoscere entrambi il
plusvalore e il dominio dei lavoratori! (Che nella Lingua dell’Estrema
Chiarezza indicava la ‘dittatura del proletariato’.) Così discuteremmo solo per
decidere se certi svolazzi furono aggiunti da Marx ed Engels a stomaco vuoto o
pieno.
No, era impossibile liberarsi di quel beffeggiatore! Rubin si infuriò:
– Ma non lo capisci che è una cosa stupida? Di che potremmo parlare? Gira
che ti rigira è sempre lo stesso: io e te siamo su due pianeti diversi. Per te, ad
esempio, i duelli sono ancora oggi il miglior modo per risolvere un’offesa!
– Prova a dimostrarmi il contrario! – Sologdin si abbandonò indietro,
soddisfatto. – Se ci fossero i duelli, credi che qualcuno si azzarderebbe mai a
diffamare qualcun altro? A cacciare via i deboli a gomitate?
– Ah, che attaccabrighe i tuoi cavalieri! Per te, il buio del Medioevo, l’ottusa
e superba cavalleria, le crociate sono stati il culmine della Storia!
– L’apice dello Spirito umano! – lo corresse Sologdin, minacciandolo con il
dito. – Rappresentano il sommo trionfo dello spirito sulla carne!
Un’incontenibile tendenza al sacro, ma con la spada in mano!
– E tutti i beni che si sono depredati? Che hidalgo fastidioso!
– E tu sei un fanatico biblico! cioè un invasato! – parò il colpo Sologdin.
– Per te Belinskij, Černyševkij, tutti i nostri migliori illuministi sono figli di
preti!
– Seminaristi con la gonna lunga! – precisò Sologdin, raggiante.
– A centocinquant’anni di distanza, consideri ancora la rivoluzione francese,
non dico la nostra, come un’ottusa sommossa di straccioni, la follia di istinti
diabolici, lo sterminio delle nazioni. Non è forse vero?
– Certo che è vero!! Prova a dimostrare il contrario! Tutta la grandezza della
Francia finisce nel XVIII secolo! Poi parte una girandola di governi utili a
divertire solo il resto del mondo! Impotenza! Mancanza di volontà! Squallore!!
Vanità!!!
Sologdin si lasciò andare a una risata demoniaca.
– Sei un selvaggio! Un troglodita! – si indignò Rubin.
– La Francia non si risolleverà mai più! Potrebbe farlo forse solo con l’aiuto
della Chiesa di Roma!
– Eh già, secondo te la Riforma non è stato un modo naturale per la ragione
umana di affrancarsi dalle catene della Chiesa, ma...
– Folle ottenebramento! Satanismo luterano! L’indebolimento dell’Europa!
L’autodistruzione degli europei! È stato peggio delle due guerre mondiali!
– Ecco... infatti!... mi sembrava!... – intervenne Rubin. – Sei proprio un
fossile! Un ittiosauro! Di cosa possiamo discutere io e te? Lo vedi da solo che ti
sei ingarbugliato. Non è meglio se ci lasciamo in pace a vicenda?
Sologdin notò che Rubin era sul punto di alzarsi e andarsene. Non poteva
assolutamente permetterlo: il suo divertimento sarebbe finito ancor prima di
cominciare. Sologdin si tranquillizzò, si ammansì in modo irriconoscibile.
– Scusami, Lëvuška, mi sono lasciato trascinare. Siccome è già tardi, non
dobbiamo per forza scegliere un argomento di quelli importanti. Proviamo,
però, almeno il metodo del duello-discussione con un soggetto leggero e
grazioso qualsiasi. Ti faccio scegliere fra qualche titolo (significava argomento).
Vuoi discutere di filologia? Quello è terreno tuo, non mio.
– Ma va’...
Era il momento di andarsene senza subire infamia. Rubin si alzò, ma
Sologdin, premuroso, si affrettò a dire:
– Va bene! Facciamo un titolo morale: il significato della dignità nella vita
dell’uomo!
Rubin si mise a masticare, annoiato.
– Siamo scolarette?
E si alzò, in mezzo ai letti.
– Va bene, allora un titolo... – disse Sologdin, afferrandolo per un braccio.
– Ma per favore... – si liberò dalla presa Rubin, ridendo. – In testa hai tutto
alla rovescia! Sei l’unico sulla Terra che non ammette ancora le tre leggi della
dialettica. Da cui deriva tutto!
Sologdin ricacciò l’accusa con un gesto della mano rosa chiaro.
– Come, non le ammetto? Le ammetto, certo.
– Cosa? Ammetti la dialettica? – Rubin protese le labbra a trombetta. –
Amore mio! Fatti dare un bacio! La ammetti?
– Non solo la ammetto. Ci ho pure riflettuto! L’ho fatto per due mesi, tutte le
mattine! Tu invece no!
– Ci hai riflettuto sul serio? Diventi più ragionevole di giorno in giorno! Ma
allora non abbiamo niente di cui discutere?
– Che cosa?! – si indignò Sologdin. – Di nuovo? Prima dici che senza una
base comune non c’è niente di cui discutere; poi troviamo una base ed è
comunque la stessa cosa: non c’è niente di cui discutere! Adesso discutiamo,
non esiste!
– Che violenza! Di cosa vuoi discutere?
Sologdin si alzò a propria volta, agitando le mani.
– Forza! Accetto le condizioni a me più sfavorevoli. Vi batterò con l’arma
che ho strappato alle vostre zampacce luride! Discuteremo sul fatto che voi non
capite le vostre tre leggi! Ballate come cannibali intorno al fuoco, ma cosa sia
quel fuoco non vi è chiaro. Posso smascherarti sulle tre leggi quanto mi pare!
– Dài, smascherami! – gridò Rubin, senza trattenersi. Era furioso con sé
stesso per essersi lasciato incastrare di nuovo.
– Prego. – Sologdin si riaccomodò. – Siediti.
Rubin rimase in piedi.
– Bene da dove cominciamo? – disse Sologdin, soddisfatto. – Sono leggi che
ci mostrano la direzione dello sviluppo? Oppure no?
– La direzione?
– Sì! Verso cosa... si svilupperà... ehm... – si schiarì la voce. – ...il progresso?
– Certo.
– Da cosa lo vedi? Dove di preciso? – lo incalzò Sologdin, con freddezza.
– Be’, nelle leggi stesse. Ne riflettono il movimento.
Anche Rubin riprese posto. Si misero a parlare piano, in tono serio.
– Di preciso quale legge indica la direzione?
– Be’, di certo non la prima... La seconda. Anche la terza.
– Uhm. La terza, dici? E come la determiniamo?
– Cosa?
– La direzione, no?
Rubin si accigliò.
– Ascolta, che senso ha tutta questa scolastica?
– Secondo te questa è scolastica? Non ci capisci proprio un cavolo di scienze
esatte. Se una legge non ci fornisce proporzioni numeriche, e non conosciamo
nemmeno la direzione del suo sviluppo, vuol dire che non ne sappiamo un bel
niente. Bene. Ora guardiamo la cosa da un altro punto di vista. Tu ripeti spesso
e volentieri l’espressione ‘negazione della negazione’. Ma cosa intendi con
quelle parole? Per esempio, si può rispondere che la negazione della negazione
accade sempre durante lo sviluppo, oppure solo ogni tanto?
Rubin ci pensò per un attimo. Era una domanda che non si aspettava, di
solito non la vedeva in quel modo. Ma, come d’obbligo nelle discussioni, si
affrettò a rispondere senza lasciare intravedere difficoltà.
– Di base, sì... Per la maggior parte.
– Eccolo lì!! – esclamò Sologdin, con soddisfazione. – Di espressioni come
‘di base’, ‘per la maggior parte’, ne avete un gergo intero! Per non dire le cose
come stanno avete elaborato migliaia di espressioni simili. Vi dicono
‘negazione della negazione’ e quello in testa vi si stampa: un chicco di grano, il
grano ha lo stelo, uno stelo produce dieci chicchi di grano. Ne ho fin sopra i
capelli! Sono stufo! Dammi una risposta diretta: quando avviene la ‘negazione
della negazione’ e quando non avviene? Quando bisogna aspettarsela, quando è
impossibile?
Rubin, in cui ogni traccia della sonnolenza di prima era scomparsa, si fece
forza e riordinò i pensieri ormai allo sbando per via di quella discussione non
utile a nessuno, ma comunque importante.
– Be’, che significato pratico ha capire ‘quando avviene’ o ‘quando non
avviene’?!
– Caspita! Che significato concreto ha una delle tre leggi fondamentali dalle
quali deducete tutto?! Ma che ci parlo a fare con voi?!
– Hai messo il carro davanti ai buoi! – si indignò Rubin.
– Di nuovo quel gergo! Quel gergo! Cioè codice...
– Il carro davanti ai buoi! – insisté Rubin. – Per noi marxisti sarebbe un
disonore trarre un’analisi concreta dei fatti dalle leggi pronte della dialettica.
Ecco perché sapere ‘quando avviene’ o ‘quando non avviene’ non ci serve
affatto...
– Ti rispondo al volo! Ma mi dirai subito che lo sapevi, che è chiaro, si
capisce... Perciò, ascoltami bene: se è possibile ottenere la stessa qualità delle cose
che si aveva in precedenza procedendo in direzione opposta, allora la
negazione della negazione non avviene! Per esempio, se hai un dado avvitato
stretto e vuoi svitarlo, puoi farlo. C’è il procedimento inverso, il passaggio dalla
quantità alla qualità, e nessuna negazione della negazione! Se invece,
procedendo in direzione opposta non è possibile riprodurre la stessa qualità
delle cose che si aveva prima, allora lo sviluppo può passare attraverso la
negazione, purché siano consentite le ripetizioni. In altre parole, i cambiamenti
irreversibili saranno negazioni solo dove è possibile negare le negazioni stesse!
– Ivan è una persona; chi non è Ivan, non è una persona, – borbottò Rubin
– così si procede come su parallele...
– Torniamo al dado. Se, avvitandolo, ne rovini il filetto, non ti basta svitarlo
per tornare alla sua qualità precedente, al filetto integro. Si può riprodurre
quella qualità solo in un modo: bisogna gettare il dado in rifusione, laminare
un tondino esagonale, passarlo al tornio e filettare infine un nuovo dado.
– Senti, Mitjaj, – lo interruppe Rubin, in tono pacifico – non si può
affrontare la dialettica parlando di dadi.
– E perché no? Cos’ha un dado meno di un chicco di grano? Se non ci
fossero i dadi le macchine non starebbero in piedi. Ora, ciascuna delle
situazioni elencate è irreversibile, nega ciò che c’era prima, mentre un nuovo
dado, rispetto al vecchio dado rovinato, è la negazione della negazione. Facile,
no? – e si lisciò la barbetta tagliata alla francese.
– Un attimo! – Rubin lo fissò. – E in cosa mi avresti smentito? Da quel che
dici è la terza legge a dare la direzione dello sviluppo.
Sologdin si portò la mano al petto e fece un inchino.
– Caro Lëvčik, se tu non possedessi un’innata velocità di ragionamento, mi
concederei difficilmente l’onore di conversare con te! Sì, dà la direzione! Ma ciò
che la legge dà, bisogna imparare a prenderselo! Ne siete capaci? Riuscite a non
adorare la legge, ma ad agire con lei? Hai dedotto che dà la direzione. Ma
rispondi a questo: accade sempre? Nella natura morta? in quella viva? nella
società? Eh?
– Be’, che dire... – fece Rubin, titubante. – Forse in tutto questo c’è anche un
germe di razionalità. Ma in generale, è vaniloquio, mio caro signore.
– I vaniloquenti siete voi! – tagliò corto Sologdin, dando un colpo
impetuoso con la mano. – Tre leggi! Tre leggi vostre! – era come un saraceno
che agitava la spada tra la folla. – Non ne capite nessuna, eppure deducete da
esse.
– Te l’ho già detto: non deduciamo!
– Non deducete da quelle leggi? – si stupì Sologdin, guardandolo dall’alto in
basso.
– No!
– Dunque cosa sono? Una messa in scena? Come avete capito, allora, da
quale parte si svilupperà la società?
– Senti un po’! – Rubin cercava di ficcarglielo in testa. – Sei un pezzo di
legno o una persona? Noi risolviamo le questioni con l’analisi concreta del ma-
te-ria-le, ti è chiaro? Qualsiasi questione sociale, con l’analisi della condizione
di classe.
– Allora, a che cavolo vi servono tre leggi? – imprecò Sologdin, non
conformandosi al silenzio nella stanza. – Non ve ne fate niente!
– Perché? Ci servono eccome – affermò Rubin.
– A cosa?! Se da esse non si deduce niente, se non c’è nemmeno bisogno di
ottenerne la direzione dello sviluppo, come fanno a non essere vaniloquio? Se
mi si chiede solo di ripetere a pappagallo ‘negazione della negazione’, le leggi a
che diavolo mi servono?
Potapov, che con il cuscino stava cercando invano di proteggersi da tutto
quel frastuono crescente, alla fine si strappò via il guanciale dalle orecchie e si
tirò su a sedere sul letto:
– Sentite, amici! Anche se voi non avete sonno, rispettate almeno quello
degli altri... – e indicò con il dito in alto, di lato, dove giaceva Rus’ka. – O
trovatevi un posto più adatto.
L’arrabbiatura di Potapov, che amava un certo ordine, il silenzio che era
calato in tutta la stanza semicircolare e che in quel momento si notava in modo
particolare, nonché la presenza di delatori (anche se Rubin poteva gridare le
sue convinzioni senza timore) avrebbero indotto a contenersi qualsiasi persona
dotata di senso pratico.
Ma quei due si contennero a malapena. La lunga discussione, che nel loro
caso non era né la prima né la decima, aveva appena preso il via. Capivano che
era necessario uscire dalla stanza, ma non riuscivano né a tacere né a staccarsi.
Se ne andarono, parlandosi addosso finché la porta del corridoio non li
inghiottì.
Non appena uscirono, la luce bianca si spense e si accese quella blu notturna.
Rus’ka Doronin, il cui orecchio era stato il più vicino di tutti alla loro
discussione, era però il più lontano dall’esigenza di raccogliere “materiale” su
di loro. Aveva sentito il mezzo accenno di Potapov, l’aveva compreso, anche
senza vedere il dito che lo indicava, e aveva provato quella vampata di offesa
insicura che ci assale quando a rimproverarci sono le persone di cui ci interessa
l’opinione.
Nell’imbastire quel sottile doppio gioco con gli oper, aveva previsto tutto, si
era sottratto alla vigilanza dei nemici, e adesso, con il caso dei “147 rubli”, si
trovava alla vigilia di un trionfo evidente, eppure davanti al sospetto degli amici
si sentiva indifeso! Il suo disegno solitario, tale proprio perché così insolito e
segreto, lo aveva esposto al disprezzo e all’infamia. Si meravigliava che quelle
persone mature, intelligenti, esperte non possedessero un’ampiezza d’animo
tale da comprenderlo, da credere che non era un traditore.
Come accade sempre quando perdiamo la simpatia delle persone, ci diventa
tre volte più caro chi continua ad amarci.
E se si trattava di una donna?
Klara! Lei avrebbe capito! L’indomani l’avrebbe messa al corrente della sua
impresa rischiosa, e lei avrebbe capito.
Senza speranza né desiderio di addormentarsi, si rigirava nel letto infuocato,
ora ricordando gli occhi indagatori di Klara, ora pregustando il piano di fuga
sotto il filo spinato attraverso un piccolo burrone fino allo stradone, e da lì con
l’autobus subito verso il centro della città.
E una volta là Klara lo avrebbe aiutato.
Era più difficile trovare qualcuno a Mosca, con i suoi sette milioni di
abitanti, che in tutta la spoglia regione di Vorkuta. Mosca era il luogo ideale per
fuggire!

154 Aleksej Chomjakov (1804-1860), uno dei massimi rappresentanti del movimento slavofilo.
66
L’ANDATA AL POPOLO

L’amicizia di Neržin con lo spazzino Spiridon era vista bonariamente da Rubin


e da Sologdin, che la consideravano come un’“andata al popolo”, la ricerca di
quella stessa grande sacrosanta verità che già prima di lui avevano cercato
invano Gogol’, Nekrasov, Herzen, gli slavofili, i narodniki, Dostoevskij, Lev
Tolstoj e, infine, il calunniato Vasisualij Lochankin155.
Quella verità sacrosanta Rubin e Sologdin non la cercavano: la loro era già
un’Assoluta realtà cristallina.
Rubin sapeva bene che quello di “popolo” è un concetto fittizio, una
generalizzazione illecita, che ogni popolo è suddiviso in classi, e con il tempo
persino quelle cambiano. Cercare la somma comprensione della vita nella classe
contadina era un’occupazione misera, infruttuosa, giacché solo il proletariato è
coerente e rivoluzionario fino in fondo, il futuro gli appartiene, e soltanto
attraverso il suo collettivismo e il suo disinteresse si può attingere a una somma
comprensione della vita.
Altrettanto bene sapeva Sologdin che il “popolo” è un incurante impasto
della storia, da cui si plasmano le gambe rozze, grasse ma indispensabili del
Colosso dello Spirito. Con “popolo” si indica, in generale, l’insieme di esseri
grigi e rozzi attaccati dalla nascita a un giogo che essi tirano disperatamente e
dal quale si libereranno solo con la morte. Portatrici di somma comprensione
sono solo alcune luminose personalità solitarie, vibranti stelle sparse nel buio
cielo del vivere.
Entrambi sapevano che Neržin sarebbe maturato, sarebbe guarito da quella
malattia, si sarebbe ravveduto.
E, in effetti, Neržin bazzicava e bighellonava già per molti estremi.
Straziata dal dolore per il fratello sofferente, la letteratura russa del secolo
precedente evocava in lui, come in tutti coloro che la leggevano per la prima
volta, l’immagine con l’aureola, in cornice d’argento, di un Popolo raffigurato
come un uomo con i capelli grigi, capace di riunire in sé saggezza, purezza
morale e grandezza spirituale.
Ma non erano la stessa cosa: una stava sullo scaffale dei libri, l’altra da
qualche parte laggiù, nelle campagne, nei campi, nei crocevia del XIX secolo. Si
era aperto il cielo del XX secolo, e quei luoghi sotto il cielo in Rus’ non
esistevano più da lungo tempo.
Non esisteva nemmeno più la Rus’, c’era solo l’Unione Sovietica, e in essa la
grande città. In città era cresciuto il giovane Gleb, su di lui si erano riversati
successi dalla cornucopia delle scienze; Gleb aveva notato che afferrava le cose
velocemente, eppure c’era chi le afferrava ancora più velocemente di lui e lo
schiacciava con una pletora di conoscenze. Il Popolo continuava a stare sullo
scaffale, e il concetto era questo: sono importanti soltanto le persone che nella
loro testa portano il peso della cultura mondiale, gli enciclopedisti, gli esperti
di antichità, gli estimatori del bello, gli uomini iperistruiti e poliedrici. Bisogna
appartenere agli eletti. I falliti piangano pure.
Ma era cominciata la guerra, e all’inizio Neržin si era ritrovato conducente
di carreggio: soffocato dal rancore, goffo, rincorreva i cavalli al pascolo per
imbrigliarli o saltar loro in groppa. Non sapeva cavalcare, non sapeva mettere
le briglie, non sapeva raccogliere il fieno con il forcone, e sotto il suo martello
ogni chiodo immancabilmente si piegava, come se ridesse di quel mastro
inesperto. E più le cose per Neržin si facevano amare, più il Popolo intorno, la
barba incolta, bestemmiatore, spietato e sgradevole, si sbellicava.
Poi Neržin aveva trovato posto tra gli ufficiali d’artiglieria. Era di nuovo
ringiovanito, si era fatto un po’ più furbo e se ne andava in giro stretto nel
cinturone, agitando con eleganza un ramoscello, senza nessun altro peso. Si
avvicinava baldanzoso al predellino del camion, imprecava allegro nelle
traversate, era pronto a marciare a mezzanotte e sotto la pioggia e si trascinava
dietro il Popolo docile, fedele, assiduo e per questo assai gradevole. Quel suo
particolare popolo modesto, molto verosimilmente, ascoltava i suoi discorsi
politici sul grande Popolo che si sollevava in un sol petto.
Infine, Neržin fu arrestato. Nelle prime carceri istruttorie e prigioni di
transito, nei primi campi di lavoro, in grado di assestargli un colpo fatale, era
rimasto inorridito dall’altra faccia di alcuni “eletti”: in condizioni in cui
fermezza, volontà e fedeltà agli amici erano l’essenza di un detenuto e
risultavano decisive, gli estimatori del bello iperistruiti si rivelavano spesso dei
vigliacchi, facili alla resa e, con tutta la loro istruzione, orribilmente raffinati
nel giustificare le bassezze compiute; quelli degeneravano in fretta in traditori e
mendicanti. Anche Neržin per poco non era finito come loro. Così si era
allontanato da quelli cui prima si onorava di appartenere. Adesso derideva con
astio ciò che prima ammirava. Aspirava a tornare ad abitudini più umili, a
eliminare da sé gli ultimi tratti di esagerazione e cortesia intellettuale. Ai tempi
dei suoi insuccessi più neri, con il destino ormai in frantumi, Neržin
considerava di valore e importanti solo quelle persone che con le proprie mani
piallavano il legno, tagliavano il metallo, aravano la terra e fondevano il ferro.
Adesso cercava di assimilare da chi aveva un lavoro semplice tutta la saggezza
delle sue mani esperte e la sua filosofia di vita. Per Neržin il cerchio si era
chiuso, era giunto alla moda del secolo precedente: andare, scendere in mezzo
al popolo.
Tuttavia, non si trattava di un cerchio chiuso, si lasciava dietro la codina di
una spirale incomprensibile ai nostri antenati. All’istruito Neržin, a differenza
dei signori colti del XIX secolo, per scendere in mezzo al popolo non serviva
mascherarsi e scovare una scaletta: laggiù ce l’avevano cacciato, con i pantaloni
imbottiti laceri, la giubba imbrattata, e gli ordinavano di produrre la sua quota.
Neržin non condivideva il destino della gente semplice come avrebbe fatto un
signorotto supponente, vale a dire considerandosi per tutto il tempo diverso,
estraneo, ma come tutti gli altri, indistinguibile da loro, da pari a pari.
Aveva dovuto imparare a piantare un chiodo nel punto giusto, a piallare
un’asse dopo l’altra, non per conformarsi ai bifolchi, ma per guadagnarsi ogni
giorno un misero tozzo di pane. Dopo il brutale apprendistato del campo di
lavoro, in lui era svanita anche un’altra illusione. Aveva capito che non c’era
ragione di scendere più in basso, tanto sotto non c’era più nessuno. Il Popolo
che aveva davanti sembrava privo di qualsiasi rozzo privilegio. Sedendo con
loro nella neve, nascondendosi insieme nei bui anfratti del cantiere dal
capomastro, trascinando le barelle nel gelo e mettendo ad asciugare le pezze da
piedi nella baracca, Neržin aveva visto chiaramente che quelle persone non
erano superiori a lui. Non sopportavano la fame e la sete con più tenacia. Non
affrontavano il muro di pietra di una condanna a dieci anni con maggior
durezza d’animo. Non erano più previdenti, più scaltri nei difficili momenti
delle traduzioni e delle perquisizioni. Erano, invece, più ciechi e fiduciosi nei
confronti dei delatori. Più avidi davanti ai rudi raggiri dei capi. Aspettavano
un’amnistia che Stalin, piuttosto che concederla, avrebbe preferito morire. Se
qualche sbirro del campo di lavoro sorrideva perché di buon umore, si
affrettavano a rispondere al suo sorriso. Ed erano anche molto avari nelle
piccole cose: una frittella inacidita di miglio “supplementare” da cento grammi,
pantaloni da campo di lavoro mostruosi, purché fossero anche solo un po’ più
nuovi o un po’ meno stinti.
Alla maggior parte di loro mancava quel punto di vista che diventa più caro
della vita stessa.
Restava solo essere sé stessi.
Guarito per l’ennesima volta – definitivamente o meno – da una di quelle
infatuazioni, Neržin aveva compreso il Popolo in modo nuovo, un modo che
nessuno aveva considerato prima: un Popolo non è formato da quelli che
parlano la stessa lingua, e neppure da privilegiati, segnati dall’ardente marchio
del genio. Le persone non si uniscono in un popolo né per nascita né in base al
lavoro delle loro mani, e nemmeno sotto le ali del loro grado di istruzione.
Ma con l’anima.
Ognuno se la forgia da solo anno dopo anno.
Bisogna sforzarsi di temprare quell’anima da soli, darle forma, per diventare
persone. E un granello del proprio popolo.
Con l’anima, di solito, una persona non ottiene successi, non migliora le
proprie mansioni, non diventa ricca. Ed ecco la ragione per cui il popolo,
principalmente, non si trova ai vertici della società.

155 Personaggio del romanzo Il vitello d’oro di Il’if e Petrov.


67
SPIRIDON

Il biondo Spiridon, la testa rotonda e il viso sul quale, se non si era abituati,
non si riusciva a distinguere in alcun modo la deferenza dalla beffa, aveva
attratto l’attenzione di Neržin fin dal suo arrivo alla šaraška. Sebbene ci fossero
già carpentieri, falegnami, tornitori, in Spiridon si distingueva palesemente
qualcosa di forte, tanto che non c’erano dubbi che fosse proprio lui quel
rappresentante del Popolo dal quale poter attingere.
Eppure, Neržin aveva incontrato qualche difficoltà: non riusciva a trovare
un pretesto per approfondire la loro amicizia, non c’era nulla di cui potessero
parlare, non si incontravano per motivi di lavoro e vivevano ognuno per conto
proprio. Un gruppetto di sgobboni abitava alla šaraška in una stanza separata,
organizzava il proprio tempo libero separatamente, e quando Neržin aveva
cominciato ad avvicinarsi a Spiridon, lui e i suoi amici di branda avevano visto
in Gleb un lupo in cerca di una preda per un compare.
Questo nonostante lo stesso Spiridon considerasse la propria posizione alla
šaraška di nessuna importanza e non riuscisse a immaginare per quale ragione
gli oper volessero assediarlo, ma siccome quelli non disdegnavano nessuna
carogna, bisognava stare all’erta. Ogni volta che Neržin entrava nella stanza,
Spiridon si fingeva entusiasta, gli faceva posto sulla branda e con aria da ebete
cominciava a raccontargli cose lontane anni luce dalla politica: come colpire un
pesce in fregola con una fiocina, che in acque calme lo si aggancia sotto le
branchie con un ramo di vite a forma di fionda, e lo si pesca anche con la rete;
oppure che andava per “alci e orsi bruni” (ma meglio stare alla larga dall’orso
nero con il colletto bianco!); come si tengono lontani i serpenti con l’erba
polmonaria, che il trifoglio è ottimo come fieno. Poi un lungo racconto su
come aveva corteggiato la sua Marfa Ustinovna negli anni Venti, quando lei
recitava al circolo filodrammatico del villaggio; era stata promessa in sposa al
ricco mugnaio, ma aveva accettato di scappare con Spiridon per amore e il
giorno di san Pietro lui se l’era sposata di nascosto.
A quel punto, sotto le folte sopracciglia biondastre, gli occhi malati e quasi
inespressivi di Spiridon aggiungevano: “Che ci vieni a fare qui, lupo? Tanto
non becchi niente, non lo capisci?”
In effetti, qualsiasi spione si sarebbe defilato da tempo e avrebbe lasciato in
pace la tenace vittima. Non c’era curiosità che potesse condurre un delatore da
Spiridon ogni domenica sera ad ascoltare le sue confessioni di caccia. Ma
Neržin, che all’inizio ci andava con timidezza, proprio lui che lì, in prigione,
desiderava avidamente vederci chiaro in tutte quelle cose su cui non aveva
potuto riflettere fino in fondo da libero, mese dopo mese non si scoraggiava e
non solo non si lasciava sfinire dai suoi racconti, ma se ne sentiva ristorato:
soffiavano su di lui come un’aurora umida su un fiume, come un pomeridiano
venticello di campo, lo riportavano a quei sette anni unici per la vita della
Russia, il settennio della Nep, e nella Rus’ rurale non c’era nulla di simile o di
paragonabile a quello, dai primi antichi villaggi nella foresta impenetrabile,
ancor prima dei Rjurik, fino all’ultimo frazionamento dei kolchoz. Neržin
aveva vissuto quel settennio nell’età spensierata dell’infanzia, gli dispiaceva
molto di non essere nato prima.
Cullato dalla calda voce cigolante di Spiridon, Neržin non aveva tentato di
far scivolare il discorso in politica con una domanda maliziosa neanche una
volta. E, gradualmente, Spiridon aveva iniziato ad avere fiducia in lui,
prontamente si tuffava nel passato: la costante morsa di diffidenza si allentava, i
piccoli solchi profondi sulla fronte si spianavano, il viso rossastro si schiariva
in una leggera luminescenza.
Solo la vista perduta impediva a Spiridon di leggere libri alla šaraška.
Adattandosi a Neržin, infilava di tanto in tanto (sovente a sproposito) parole
come “principio”, “periodo” e “analogamente”. Ai tempi in cui Marfa
Ustinovna recitava nel circolo filodrammatico del loro villaggio, aveva sentito
citare sul palcoscenico il nome di Esenin e gli era rimasto in mente.
– Esenin? – non se l’aspettava Neržin. – Ma è fantastico! Ce l’ho qui, alla
šaraška. Adesso è una vera rarità. – E aveva portato il libretto con la
sovraccoperta cosparsa di foglie d’acero autunnali tagliuzzate. La cosa lo
incuriosiva molto: possibile che si stesse per compiere un miracolo, che il
mezzo analfabeta Spiridon capisse e apprezzasse Esenin?
Il miracolo non era avvenuto, Spiridon non si era ricordato nessuno dei
versi sentiti in precedenza, ma aveva apprezzato vivamente Carina era Tanjuša e
La trebbiatura.
Tuttavia, due giorni dopo il maggiore Šikin aveva mandato a chiamare
Neržin e gli aveva ordinato di consegnare l’Esenin al controllo della censura.
Chi avesse fatto la spia Neržin non lo sapeva. Chiaramente vittima del compare,
perso l’Esenin forse per colpa di Spiridon, Gleb conquistò definitivamente la
sua fiducia. Spiridon cominciò a dargli del “tu”, e adesso non conversavano più
in stanza ma sotto il vano della scala interna della prigione, dove nessuno
poteva sentirli.
Da allora, nelle ultime cinque o sei domeniche, i racconti di Spiridon
avevano cominciato a brillare di una profondità ambita da tempo. Sera dopo
sera, si snodava davanti a Neržin l’esistenza di un solo granello di sabbia, un
semplice contadino russo, che all’epoca della rivoluzione aveva diciassette anni
e quando era cominciata la guerra contro Hitler aveva già superato i quaranta.
Quali cascate non gli erano piombate addosso! Quali ondate non avevano
levigato i sassolini biondi della testa di Spiridon! A quattordici anni era dovuto
diventare il padrone di casa (il padre, mandato a combattere, era morto in
Germania) ed era andato con i vecchi alla falciatura (“Ho imparato a falciare in
mezza giornata”). A sedici anni lavorava in una vetreria e andava ai comizi
sotto le bandiere rosse. Non appena era stata annunciata la terra ai contadini, si
era precipitato in campagna e aveva preso un appezzamento. Quell’anno con la
madre, i fratellini e le sorelline si era spaccato la schiena per bene e
all’Intercessione era spuntato il grano. Solo dopo Natale avevano cominciato a
sottrarglielo per la città con la forza, sempre di più. Dopo la Pasqua, Spiridon,
con i suoi diciott’anni compiuti, andava ormai per i diciannove, aveva iniziato a
ricevere pressioni perché entrasse nell’Armata Rossa. Non vedeva nessun
vantaggio nel passare dalla dolce terra all’esercito, così lui e altri ragazzi si
erano rifugiati nel bosco ed erano diventati dei verdi (“non ci toccare e noi non
toccheremo te”). Ma nel bosco si stava stretti e si erano imbattuti nei bianchi (lì
i bianchi c’erano rimasti poco). Questi ultimi li avevano interrogati per sapere
se fra loro ci fosse un commissario; un commissario non c’era, ma per
rappresaglia avevano colpito il loro capo, agli altri intimato di indossare
coccarde tricolore e consegnare i fucili. In generale, però, le modalità fra i
bianchi erano vecchie, come con gli zar. Dopo aver combattuto un po’ per i
bianchi, erano stati fatti prigionieri dai rossi (non si erano battuti con grande
convinzione, si erano arresi subito). A quel punto i rossi avevano fucilato gli
ufficiali, mentre ai soldati avevano ordinato di togliersi le coccarde dai berretti
e di indossare i fiocchetti. Spiridon si era consolidato fra i rossi fino alla fine
della Guerra civile. Si era spinto fino in Polonia, e dopo la Polonia la loro era
diventata un’armata del lavoro e a casa non li lasciavano più tornare; poi a
Carnevale erano stati mandati a Pietroburgo e la prima settimana di Quaresima
avevano marciato direttamente sul mare ghiacciato, per conquistare una certa
fortezza156. Solo dopo tutto quello Spiridon aveva fatto ritorno a casa.
Rientrato al villaggio in primavera, si era buttato sulla terra natia
riconquistata. Non era tornato dalla guerra come altri, viziato, battuto dai
venti. Aveva ritrovato le forze in fretta (“Se sei un buon padrone, vai per il
cortile e ci trovi un soldone”), si era sposato, aveva comprato dei cavalli.
A quei tempi le autorità avevano un bel grattacapo: si appoggiavano ai
poveri, ma la gente non desiderava esserlo, voleva arricchirsi; i poveri
aspiravano a una vita benestante, quelli che amavano lavorare, naturalmente.
Così era stata buttata là una parola, intensivnik, “intensivo”. Indicava chi voleva
fare agricoltura in modo deciso, ma senza braccianti, secondo la scienza, con
intelligenza. Spiridon Egorov, aiutato della moglie, era diventato un intensivo.
“Chi incontra buona moglie ha gran fortuna” diceva sempre Spiridon. Marfa
Ustinovna era la principale fortuna e il principale successo della sua vita.
Grazie a lei Spiridon non beveva e si teneva alla larga dalle compagnie inutili.
Marfa gli aveva dato una nidiata di bambini, uno all’anno: due figli maschi, poi
una femmina, ma la loro nascita non l’aveva allontanata di un palmo dal marito.
Tirava anche lei il carro, portava avanti la casa! Sapeva leggere e scrivere,
leggeva la rivista “Fai di te un agronomo”: Spiridon era diventato un intensivo
grazie a quella.
Gli intensivi venivano coccolati, ricevevano prestiti, sementi. Successo porta
successo, denaro porta denaro, lui e Marfa progettavano già di costruirsi una
casa di mattoni e non immaginavano che una simile prosperità fosse sul punto
di finire. Spiridon era molto stimato; eroe della Guerra civile e comunista,
veniva fatto sedere nei posti d’onore.
Era stato proprio allora che lui e Marfa avevano subìto un incendio,
strappato a malapena i figli dal fuoco. Ed erano diventati dei poveracci, delle
nullità.
Ma non poterono affliggersi a lungo. Stavano ancora cercando di tirarsi
fuori dallo stato in cui erano precipitati, quando da Mosca era giunta la
dekulakizzazione. Tutti gli intensivi, incentivati da Mosca senza una ragione, di
nuovo senza una ragione venivano additati come kulaki e fatti fuori. Marfa e
Spiridon si rallegrarono di non aver fatto in tempo a tirar su una casa di
mattoni.
Per l’ennesima volta il destino umano si rivelava enigmatico e una disgrazia
si trasformava in un vantaggio.
Invece di andarsene a morire scortato dalla GPU nella tundra, Spiridon
Egorov era stato nominato “commissario alla collettivizzazione”, con il
compito di spostare il popolo nei kolchoz. Con una spaventosa rivoltella sul
fianco, li tirava fuori dalle case e li spediva con la polizia senza i loro stracci,
kulaki o non kulaki, chiunque fosse necessario in base agli ordini.
In quello, come in tutti gli altri repentini cambi di sorte, Spiridon non si
prestava a una facile interpretazione, a un’analisi di classe. Neržin non accusava
Spiridon, non lo punzecchiava, era chiaro che ne era rimasto turbato, tanto da
cominciare a bere, e lo faceva come se il villaggio fosse suo e se lo giocasse.
Aveva accettato il grado di commissario ma non aveva svolto il compito come
si deve. Non aveva evitato che i contadini trucidassero il bestiame e arrivassero
al kolchoz senza un solo corno, un solo zoccolo vivo.
A quel punto era stato cacciato dal posto di commissario, ma non si erano
solo limitati a quello, gli avevano subito ordinato di incrociare le mani dietro la
schiena, e impugnando le pistole, con un poliziotto che lo seguiva e un altro
che lo precedeva, lo avevano condotto in prigione. Processato in fretta (“da noi
in quella fase nessuno ci impiegava tanto a essere processato”), si era beccato
dieci anni per “controrivoluzione economica”, era stato spedito sul canale del
Mar Bianco e, una volta che lì il progetto era stato completato, sul canale
Mosca-Volga. Sui canali Spiridon era stato un po’ sterratore un po’ carpentiere,
riceveva una grossa razione di cibo e si struggeva per Marfa, rimasta sola con
tre figli.
Poi avevano riconsiderato il caso di Spiridon. “Controrivoluzione
economica” era stato modificato in “abuso”, così da socialmente-lontano Spiridon
era diventato socialmente-vicino. Era stato chiamato a rapporto e gli avevano
annunciato che da quel momento in poi gli avrebbero affidato un fucile e
sarebbe entrato nell’autosorveglianza. (E sebbene fino al giorno prima, da leale
zek, Spiridon lanciasse ogni sorta di impropero contro i soldati di scorta,
riservando il peggio proprio a quelli dell’autosorveglianza, aveva imbracciato il
fucile e iniziato a condurre sotto scorta coloro che fino al giorno prima erano
stati i suoi stessi compagni, perché quello gli avrebbe ridotto la pena di
reclusione e gli avrebbe procurato quaranta rubli al mese da spedire a casa.)
Di lì a breve il capo del campo di lavoro, con le sue due losanghe, si era
congratulato con lui per l’imminente liberazione. Spiridon aveva firmato i
documenti non per finire in un kolchoz, ma in fabbrica, aveva portato via
Marfa e i bambini e in breve si era ritrovato nell’albo rosso della fabbrica, uno
dei migliori vetrai soffiatori. Faceva gli straordinari per riguadagnare tutto ciò
che era andato perduto dal giorno dell’incendio. Già pensava a come tirar su
una casetta di campagna con un orto e far studiare i figli, quando la guerra era
tornata a tuonare. I figli a quel punto avevano compiuto quindici, quattordici e
tredici anni. Il fronte si era avvicinato al loro paesino molto in fretta. Le
autorità spostavano a oriente tutti quelli che riuscivano e volevano mandarci il
loro paesino al completo.
A ogni svolta del destino di Spiridon, Neržin si metteva comodo e aspettava
di sapere cosa aveva combinato l’amico. Era convinto che Spiridon fosse
rimasto ad aspettare i tedeschi, tale era la rabbia verso il campo di lavoro.
Macché! All’inizio si era comportato come nei migliori romanzi patriottici:
aveva sotterrato ciò che di buono gli era rimasto e, non appena le attrezzature
della fabbrica erano state spedite sui vagoni e agli operai erano stati assegnati
dei carri, aveva fatto salire sul suo i tre figli e la moglie, e “Con il cavallo di
altri e la frusta non mia è ancora meglio darci sotto e scappar via!”: da Počep
era arretrato fino a Kaluga, come molte altre migliaia di persone.
Ma verso Kaluga qualcosa non era andato per il verso giusto, da qualche
parte la loro fiumana si era divisa, non erano più migliaia ma solo centinaia di
persone, e già nel primo commissariato di leva programmavano di mandare gli
uomini nell’esercito e di far proseguire le famiglie da sole.
A quel punto, capendo che lo stavano per separare di nuovo dalla famiglia,
pienamente convinto di essere nel giusto, Spiridon si era nascosto nel bosco in
attesa che la linea del fronte si spostasse, e su quello stesso carro, su quello
stesso cavallo, che non essendo più statale, non gli era già più indifferente ma
caro, come fosse suo, aveva ricondotto la famiglia indietro, da Kaluga a Počep
ed era tornato nel suo vecchio villaggio, dove si era stabilito nella casetta libera
di qualcuno. A quel punto gli avevano detto: dell’ex terra del kolchoz prendine
quanta ne puoi lavorare e lavorala. Così Spiridon se l’era presa e s’era messo ad
ararla e a seminarla senza rimorsi di coscienza e senza seguire i bollettini di
guerra; lavorava con fiducia e regolarità, quasi fossero trascorsi moltissimi anni
da quando c’erano i kolchoz e la guerra.
I partigiani andavano da lui e gli dicevano: “Preparati, Spiridon, bisogna
combattere, smettila di arare.” “Qualcuno dovrà pur farlo” rispondeva lui. E
dalla terra non si staccava. La gente veniva arruolata con la forza fra i
partigiani, spiegava adesso, non gli bastava che giovani e vecchi, non avendo un
pezzo di pane da mettere sotto i denti, si sarebbero presto mossi contro i
tedeschi brandendo i coltelli , ma avevano fatto venire degli istruttori da
Mosca, che erano atterrati con i paracadute, e quelli cacciavano via i contadini
con le minacce o li lasciavano senza una via di scampo.
I partigiani erano riusciti a uccidere un motociclista tedesco, non fuori dal
loro villaggio, in pieno centro. Conoscevano bene le regole del nemico. I
tedeschi erano arrivati subito, avevano tirato fuori tutti dalle case e incendiato
il villaggio da cima a fondo.
Anche quella volta Spiridon non aveva avuto dubbi che fosse giunto il
momento di fare i conti con i tedeschi. Aveva condotto Marfa e i ragazzi dalla
madre di lei e si era unito ai partigiani nel bosco. Loro gli avevano consegnato
un fucile e delle granate. Spiridon con la stessa coscienza, la stessa prontezza di
ingegno con cui lavorava in fabbrica o arava la terra, abbatteva le pattuglie
tedesche vicino alla ferrovia, colpiva i convogli, aiutava a far saltare i ponti, per
poi trascorrere le feste con la famiglia. Non era facile, ma almeno gli erano
rimasti i suoi cari.
Il fronte però stava tornando. Gli avevano addirittura promesso che una
volta ricomparsi i nostri, Spiridon avrebbe ricevuto una medaglia. Infine
avevano annunciato che erano entrati a far parte dell’esercito sovietico: la vita
nei boschi era finita.
Nel villaggio in cui si trovava Marfa, però, i tedeschi avevano rastrellato tutti
gli abitanti; si era precipitato lì un ragazzo a raccontarlo.
Così, senza aspettare i nostri e tutto il resto, e senza dirlo a nessuno, Spiridon
aveva lasciato all’istante il fucile e due dischi di cartucce ed era corso a cercare la
famiglia. Si era infilato in mezzo alla fiumana di gente da civile e di nuovo
accanto al solito carro e frustando il solito cavallo, rassegnatosi alla giustezza
inconfutabile di quella nuova decisione, si era incamminato lungo la strada
ingombra che portava da Počep a Sluck.
A quel punto Neržin si era afferrato la testa fra le mani e la scuoteva.
– Ahiahi! Quante cose incredibili ti sono capitate, Spiridon Danilyč! Non
riesco nemmeno a ricordarle tutte... Sei andato a Kronštadt passando sul
ghiaccio, hai insediato questo nostro potere sovietico, cacciavi a forza la gente
nei kolchoz...
– Perché, non l’hai insediato pure tu?
Neržin era confuso. Si dava per scontato che a insediare il potere sovietico
fosse stata la generazione di suo padre, cosa che allora, nel ’17-’18, era motivo
di grande orgoglio e che tutti tenevano in particolare considerazione.
Sulle labbra di Spiridon era comparso un ghigno più evidente.
– Anche tu l’hai insediato, non te ne sei reso conto? – lo punzecchiava.
– No, non me ne sono reso conto – aveva sussurrato Neržin, scorrendo
nella memoria i tre anni di comando al fronte.
– A volte può accadere... Uno semina segale, ma gli cresce bietolone...
Tuttavia, era necessario proseguire quell’esperimento sociale, così Neržin si
era limitato a chiedere:
– E poi, Danilyč, come continua?
Come continuava!? Naturalmente, avrebbe potuto fuggire un’altra volta nel
bosco, e così aveva fatto, ma d’un tratto si erano imbattuti nei banditi, e lui
aveva salvato la figlia per un pelo. Così si erano uniti di nuovo alla fiumana.
Poi aveva cominciato a pensare che i nostri non gli avrebbero creduto, si
sarebbero ricordati che non era entrato subito nei partigiani ed era fuggito;
come la giravi ne venivano fuori solo guai, così era arrivato fino a Sluck. Là ti
piazzavano su un treno fino alla regione del Reno e ti assegnavano un
tagliando per il pasto. All’inizio girava voce che non prendevano nessuno
assieme ai figli e Spiridon stava già escogitando come fare marcia indietro, ma
erano stati accettati tutti, così avevano abbandonato carro e cavallo ed erano
partiti. Nei dintorni di Magonza lui e i figli maschi erano stati assegnati a una
fabbrica, mentre la moglie e la figlia erano finite al lavoro in mezzo ai
Bauern157.
In quella fabbrica, una volta, un caposquadra tedesco aveva colpito il figlio
minore di Spiridon. Il padre non era stato lì a pensarci troppo, era corso da lui
con un’ascia e l’aveva agitata contro il caposquadra. In base alle leggi del Reich
tedesco, e quelle erano sufficienti, agitare un’arma a quel modo significava per
Spiridon la fucilazione. Ma il caposquadra si era calmato e avvicinatosi al
rivoltoso, in base a quanto raccontava Spiridon, aveva detto:
– Sono anch’io Vater. Io ti verstehe158.
E non gli aveva fatto rapporto! Poco tempo dopo Spiridon aveva saputo che
quella stessa mattina al caposquadra era giunta la notizia della morte del figlio
in Russia.
Mezzo cieco, con i fianchi spezzati, al ricordo di quel caposquadra renano,
Spiridon si asciugava le lacrime con la manica senza vergogna.
– Dopo questa cosa non ce l’ho più con i tedeschi. Quel Vater ha cancellato
la casa incendiata e tutto il resto. Quell’uomo aveva un cuore! Ed era tedesco...
Ma quella era stata una delle rare, rarissime volte in cui qualcosa aveva
minato la convinzione di avere sempre ragione di quel cocciuto contadino
biondo. In tutti gli anni difficili, in tutto quel brutale tuffarsi e riemergere,
nessun ripensamento lo aveva mai indebolito nel momento della scelta. Con la
sua prassi quotidiana, Spiridon smentiva le pagine migliori di Montaigne e di
Charron.
Nonostante Spiridon Egorov fosse terribilmente ignorante e incapace di
comprendere i frutti dello spirito umano e della società, le sue azioni e
decisioni si distinguevano per la costante ragionevolezza. Per esempio, sapendo
che tutti i cani del villaggio erano stati fucilati dai tedeschi, e non lo sapeva
perché glielo avevano riferito, ma perché c’era anche lui, aveva piazzato senza
timore la testa mozzata di una mucca nella neve fresca, cosa che non aveva mai
fatto in nessun altro periodo. E sebbene non avesse mai studiato né la geografia
né il tedesco, nelle trincee in Alsazia la situazione per loro si era fatta pessima
(li tempestavano di bombe anche gli americani dagli aerei), lui e il figlio
maggiore erano scappati e, senza chiedere niente a nessuno, senza capire le
scritte in tedesco, nascondendosi di giorno e muovendosi solo di notte, su una
terra sconosciuta, passando lontani delle strade, senza toccarle direttamente
come corvi in volo, avevano percorso novanta chilometri e di casa in casa erano
giunti furtivi dal Bauer nei dintorni di Magonza presso cui lavorava la moglie.
Là erano rimasti nel rifugio in giardino fino all’arrivo degli americani.
Nessuna delle maledette eterne questioni sul criterio di autenticità della
percezione sensoriale, sull’adeguatezza della nostra conoscenza delle cose
tormentava Spiridon. Lui era certo che avrebbe visto, sentito, odorato e
compreso tutto in modo infallibile.
Proprio come nella dottrina delle virtù: anche lì per Spiridon tutte le cose
erano perfettamente chiare e collegate fra loro. Non calunniava nessuno. Non
spergiurava mai. Ricorreva al turpiloquio solo se strettamente necessario.
Uccideva soltanto in guerra. Faceva a botte esclusivamente per l’amata. Non
riusciva a rubare a nessuno né uno straccetto né una briciola di pane, ma con
piena convinzione derubava lo Stato ogni volta che si presentava l’occasione. E
riguardo al fatto che, come lui stesso raccontava, prima di sposarsi “correva
dietro alle sottane”, anche il nostro maître à penser Aleksandr Puškin
riconosceva che il comandamento “non desiderare la donna d’altri” gli era
particolarmente gravoso.
Adesso Spiridon, detenuto cinquantenne quasi cieco, evidentemente
condannato a spegnersi, a morire lì in carcere, non mostrava nessuna
propensione alla santità, o allo sconforto, o al ravvedimento, o tanto meno alla
correzione (come espresso nella denominazione dei campi di lavoro
“correttivi”), ma con la sua fidata ramazza spazzava ogni giorno il cortile
dall’alba al tramonto e con quello si salvaguardava davanti al comandante e agli
oper.
Quali che fossero le autorità, Spiridon vi si opponeva sempre.
Quello che Spiridon amava era la terra.
Quello che Spiridon aveva era la famiglia.
I concetti di “patria”, “religione” e “socialismo”, che non venivano usati nei
normali discorsi quotidiani, a Spiridon erano completamente estranei, come se
a quelle parole le sue orecchie si ostruissero e la lingua non trovasse il modo di
utilizzarle.
La famiglia era la sua patria.
La famiglia era la sua religione.
La famiglia era anche il suo socialismo.
E a tutti coloro che seminavano il razionale-bene-eterno, agli scrittori e agli
oratori che definivano Spiridon teoforo (anche se lui non lo sapeva), ai
sacerdoti, ai socialdemocratici, agli agitatori liberi e ai propagandisti a tempo
pieno, ai proprietari terrieri bianchi e ai presidenti rossi, con i quali nel corso
della vita Spiridon aveva avuto a che fare, per forza di cose in silenzio, in cuor
suo diceva:
“Ma perché non ve ne andate a...?!”
156 Trattasi di Kronštadt, dove nel 1921 ci fu una rivolta antibolscevica di marinai e soldati repressa nel
sangue. Per raggiungere la fortezza i Rossi passarono sul golfo ghiacciato.
157 “Contadini” in tedesco.
158 In tedesco “padre” e “capisco”.
68
IL CRITERIO DI SPIRIDON

Sopra le loro teste i gradini della scala di legno tuonavano e scricchiolavano per
il passaggio e lo scalpiccio dei piedi. A volte polvere e pezzetti di spazzatura
ricadevano dall’alto, ma Spiridon e Neržin non se ne accorgevano quasi.
Stavano seduti sul pavimento non spazzato con indosso le tute blu da
paracadutisti sporche e malconce, il posteriore indurito, abbracciandosi le
ginocchia. Starsene lì così, senza un pezzetto di legno sotto, non era molto
comodo, risultava poco stabile, per questo puntavano le spalle e la schiena
contro le assi inchiodate alla scala, di traverso. Gli occhi fissavano dritto in
avanti, puntati anche loro, ma alla scalcinata parete laterale del gabinetto.
Neržin, come faceva sempre quando aveva bisogno di rendersi conto di
qualcosa, di abbracciarla con la mente, fumava di continuo e piazzava i
mozziconi avanzati accanto al battiscopa mezzo imputridito, dal quale saliva
fino alla scala un triangolo di parete imbiancata ma sudicia. Sebbene ricevesse
come tutti papirosy Belomorkanal, il pacchetto che non smetteva mai di
ricordargli il lavoro malefico svolto in quella malefica regione dove per poco
non ci aveva lasciato le penne, Spiridon non fumava più, sottostando al divieto
dei medici tedeschi che gli avevano restituito tre decimi di vista da un occhio e
ridato la luce.
Provava gratitudine e un profondo rispetto per i medici tedeschi. Già cieco
senza speranza, gli avevano conficcato un grosso ago nella spina dorsale, tenuto
a lungo gli occhi bendati con un unguento e, una volta tolte le bende in una
stanza semibuia, ordinato: “Ora guarda!” Sul mondo era tornata l’alba! Alla
luce di una fioca lampada da notte, che per Spiridon era come un vivido sole,
con un occhio soltanto aveva scorto il profilo scuro della testa del suo salvatore
e, caduto in ginocchio, gli aveva baciato la mano.
Neržin si raffigurò il viso sempre concentrato, ma in quel momento bonario,
dell’oculista della Renania. Il medico osservava quel selvaggio biondo delle
steppe orientali liberato dalle bende, la cui voce calda e la cui gratitudine
dicevano ampiamente che, forse, era destinato a una vita migliore e che se era
così lo era diventato non per colpa sua.
Ma dal punto di vista dei tedeschi il suo atto era stato molto più che
selvaggio.
Già dalla fine della guerra Spiridon aveva vissuto con tutta la famiglia in un
campo di prigionia americano per ex deportati. Si era imbattuto in un
compaesano, un parente della moglie, un “parente-serpente” che mettendo in
piedi il kolchoz si era organizzato alcuni affari. Con quel parente-serpente
erano arrivati fino a Sluck, ma in Germania li avevano separati. Dovevano
brindare al felice incontro, il parente aveva con sé una bottiglia di alcool, di
meglio non c’era. La bottiglia era aperta e l’etichetta, tedesca, non l’avevano
capita, però era gratis. Nemmeno il cauto e diffidente Spiridon, sfuggito a
migliaia di pericoli, era immune al fatalismo russo: d’accordo, stappa, parente!
Spiridon ne aveva buttato giù un bicchiere pieno, mentre il resto se l’era
tracannato tutto il parente-serpente. Meno male che i figli non c’erano,
altrimenti sarebbe toccato anche a loro un bicchierino a testa. Spiridon si era
risvegliato dopo mezzogiorno; preoccupato per la precoce oscurità nella
stanza, aveva sbirciato dalla finestra, ma la luce era poca anche lì, e per un bel
po’ non era riuscito a capire come mai vedesse solo la metà inferiore e non
quella superiore del comando americano oltre la strada e delle sentinelle.
Avrebbe continuato a nascondere la sua disgrazia a Marfa, se solo verso sera un
velo di totale cecità non avesse coperto anche la parte inferiore del suo occhio.
Il parente-serpente era morto.
Dopo la prima operazione i medici oculisti gli avevano spiegato che
bisognava lasciar passare un bell’annetto prima del secondo intervento, così
l’occhio sinistro sarebbe tornato a vederci del tutto e il destro per metà.
L’avevano promesso espressamente, bisognava solo aspettare, ma...
– I nostri, quelle carogne, hanno mentito, ti infarcivano le orecchie. I
kolchoz non ci sono più, vi sarà perdonato tutto, i fratelli e le sorelle vi
aspettano, suoneranno le campane a festa: da levarsi al volo le scarpe americane
e correre fin laggiù scalzi.
No! Non ci poteva credere.
– Danilyč! – lo dissuadeva espressamente Neržin, neanche fosse ancora in
tempo per ripensarci. – Non eri tu che dicevi quella cosa sul bietolone? Che
hanno fatto, per la miseria, ti hanno trascinato per il garrese? Possibile che c’hai
creduto?
Intorno agli occhi di Spiridon – le palpebre, le tempie, le occhiaie – tutto era
un fitto reticolo rugoso. Si mise a ridacchiare.
– Io, dici?... Io, Gleb, lo sapevo che ci avrebbero attaccati alla cinghia. Dagli
americani me la spassavo, di mia spontanea volontà non ci sarei tornato.
– Ma come riuscivano a far abboccare la gente? Gli altri venivano qui dalla
famiglia. Tu, invece, li avevi tutti con te. Che cosa ti ha attirato in Unione
Sovietica?
Un sospiro
– A Marfa Ustinovna lo dissi subito: tesoro, ti promettono l’acqua pulita di
un laghetto, ma poi ti fan bere quella sporca di una pozzanghera... Marfa
rispose, accarezzandomi la testa: amore mio, prima vengono i tuoi occhi, a
tornare ci penseremo poi. Aspettiamo la seconda operazione. Ma tutti e tre i
figli non stavano più nella pelle, smaniavano: babbino! mammina! andiamo a
casa! torniamo in patria! Credete forse che da noi in Russia di oculisti non ce
ne siano? Abbiamo sconfitto i tedeschi, i feriti chi li curava?! I nostri medici
sono anche più bravi! Dicevano di voler finire la scuola in Russia, al più grande
mancavano solo due anni. Mia figlia Vera singhiozzava a più non posso: mi
farete sposare un tedesco! Di russi per lei in Renania ce n’erano pochi, tutto le
faceva presagire che si stava lasciando scappare un buon fidanzato... Eh, io
invece dubitavo: ragazzi miei, ci sono medici anche in Russia, ma vivere là è un
massacro, vostro padre si è tirato fuori appena in tempo, perché ci tenete tanto?
No, niente da fare, dovevano scottarsi da soli.
Spiridon non era stato il primo a finire in rovina a causa dei figli.
I suoi baffi corti e duri, biondi e brizzolati, tremolavano al solo ricordo.
– Ai loro volantini non credevo neanche un briciolo, sapevo che mi
attendeva la prigione. Ma pensavo che avrebbero rovesciato tutta la colpa su di
me, i ragazzi non avevano fatto niente... Sarei stato sbattuto dentro, mentre i
miei figli avrebbero continuato a vivere. Ma i bastardi ragionavano in un altro
modo: si sono presi la mia testa e quella dei ragazzi.
Alla stazione di frontiera gli uomini e le donne erano stati divisi e fatti salire
su treni diversi. La famiglia Egorov era rimasta insieme tutta la guerra e ora si
disgregava. Nessuno domandava se uno era di Briansk o di Saratov. La moglie e
la figlia erano state spedite senza processo nella regione di Perm’, dove la figlia
lavorava ancora nella selvicoltura, come addetta alla sega elettrica. Spiridon e i
figli maschi erano finiti dietro il filo spinato, erano stati processati e, sia ai
ragazzi sia al padre, era stata appioppata una decina a testa per tradimento della
patria. Spiridon e il figlio minore erano capitati in un campo di lavoro di
Solikamsk e là, almeno, Spiridon aveva potuto occuparsi del figlio ancora per
due anni. L’altro era stato scaraventato alla Kolyma.
C’era stato quello al posto della casa. Quello al posto del fidanzato della
figlia e della scuola dei figli.
Per l’agitazione durante l’istruttoria, e poi per la malnutrizione nel campo di
lavoro (Spiridon lasciava al figlio ogni giorno metà della sua razione), non solo
i suoi occhi non erano tornati a vedere, ma gli si era offuscato anche il sinistro.
In mezzo a quel digrignar di lupi in una remota sottoassegnazione nel bosco,
chiedere ai medici di ridargli la vista era quasi come pregare per far ascendere
al cielo i vivi. Il grigio ospedaletto del campo di lavoro non solo non era in
grado di curare gli occhi di Spiridon, ma non sapeva nemmeno giudicare se ne
fossero in grado a Mosca.
Con la testa fra le mani, Neržin rifletteva sull’enigma che il suo amico
rappresentava. Non guardava quel contadino sopraffatto dagli eventi né
dall’alto né dal basso, ma spalla contro spalla, gli occhi allo stesso livello. Tutti i
loro discorsi già da tempo – e più si andava avanti più la cosa si acutizzava –
spingevano Neržin verso un quesito. Tutta la trama della vita di Spiridon
portava a quella domanda. Forse era giunto il momento di fargliela.
La complicata vita di Spiridon, i suoi continui passaggi da una parte in lotta
a un’altra, non erano forse altro che semplice autoconservazione? Non
coincidevano con la verità tolstojana secondo cui nel mondo non esistono né
giusti né colpevoli? Che alcuni nodi della storia mondiale non vanno districati
con una spada troppo presuntuosa? Negli atti quasi istintivi di quel contadino
dai capelli biondicci non si manifestava forse il sistema universale dello
scetticismo filosofico?
L’esperimento sociale portato avanti da Neržin prometteva di offrire quel
giorno, in quel posto sotto la scala, un risultato inatteso e brillante!
– Sono angosciato, Gleb – diceva intanto Spiridon, e con il calloso palmo
indurito si strofinava forte la guancia non rasata, come se volesse scorticarsi la
pelle. – Sono quattro mesi che non ricevo lettere da casa.
– Non dicevi che il Serpente ne aveva una?
Spiridon lo guardò con rimprovero (i suoi occhi erano spenti, ma non
apparivano mai vitrei come quelli di chi è cieco dalla nascita, e per questo la
loro espressione si intuiva).
– Quattro mesi! Cosa ci sarà mai scritto in quella lettera!?
– Domani non appena te la danno, vieni che te la leggo.
– Sì, ci vengo di corsa.
– Forse è successo qualcosa alla posta. Forse i compari le hanno bloccate.
Non ti agitare, Danilyč, tanto è inutile.
– Come è inutile? Se ho il cuore a pezzi! Ho paura per Vera. Ha ventun anni,
è senza il padre, senza i fratelli, nemmeno la madre ha vicino.
Neržin aveva visto Vera Egorova in una fotografia della primavera
precedente. Era una ragazzona soda, con grandi occhi fiduciosi. Per tutta la
guerra mondiale il padre l’aveva tenuta con sé e protetta. Con una granata a
mano, l’aveva strappata nei boschi di Minsk a uomini malvagi che avevano
intenzione di violentare una quindicenne. Ma cosa poteva fare ora dalla
prigione?
Neržin si immaginava l’impenetrabile bosco di Perm’, il fuoco da
mitragliatrice della sega a motore, l’orribile rombo dei trattori che trascinavano
i tronchi; i camion che sprofondavano con il retro nella palude e sollevavano al
cielo i radiatori quasi stessero supplicando, neri trattoristi furenti che non
sapevano più la differenza fra una parola normale e un’imprecazione; e lì in
mezzo una ragazza in tuta da lavoro, con i pantaloni che ne sottolineavano in
modo provocante i tratti femminili. Dormiva con loro vicino al fuoco, quando
passava nessuno perdeva l’occasione di palpeggiarla. In effetti, c’era una ragione
se il cuore di Spiridon soffriva.
Ma consolarlo sembrava pietosamente inutile. Era meglio distrarlo e trovare
in lui ciò che Neržin stava cercando: una trasposizione, un contraltare ai suoi
amici eruditi. Gleb stava forse per ascoltare, ora, in quel luogo, la cruda
motivazione popolare allo scetticismo, avendone così conferma?
Con una mano posata sulla spalla di Spiridon e la schiena puntata contro la
storta struttura della scala, Neržin, imbarazzato, cominciò a porre la sua
domanda alla lontana:
– È tanto che vorrei chiederti una cosa, Spiridon Danilyč, ma non vorrei che
fraintendessi. Ho ascoltato a lungo i tuoi vagabondaggi. La tua è una vita
contorta, non che capiti solo a te, l’hanno così in molti... davvero molti. Ti
agitavi sempre per qualcosa, sembravi cercare il quinto angolo di un
rettangolo... per una ragione? Cioè, con quale... – stava per dire “criterio” –
...con quale metro, secondo te, dovremmo comprendere la vita? Be’, per
esempio, ci sono davvero al mondo persone che vogliono il male per il
prossimo di proposito? Che pensano ‘faccio questo così faccio del male agli
altri’? ‘Li schiaccio così non vivono più’? Poco probabile, no? Lo dicevi tu
stesso che uno semina segale, ma poi gli cresce bietolone. Potrebbero aver
seminato segale, oppure aver pensato che lo fosse? Magari le persone vogliono
tutte il bene, pensano di volerlo, ma nessuno è senza peccato, esente da errori, e
chi esagera nelle sue convinzioni riversa sugli altri solo il male. Si convince di
compiere il bene, ma in realtà ne esce solo il peggio.
Neržin forse non era riuscito a spiegarsi bene. Spiridon lo guardava di
traverso, accigliato, cercando di capire dove stesse la trappola.
– Ora, mettiamo che tu sia palesemente in errore e che io voglia correggerti,
te lo dico a parole, ma tu non mi ascolti, mi tappi persino la bocca, mi getti in
prigione. Cosa dovrei fare? Darti una botta in testa? Va bene se ho ragione, ma
se mi sembra soltanto di averla, se me lo sono ficcato io nella zucca? Se ti butto
giù e mi siedo al posto tuo, e poi non va come pensavo, non finirò anch’io per
ammucchiare cadaveri? Be’, in poche parole, io la vedo così: se non puoi essere
certo di avere sempre ragione, è giusto intervenire o no? In ogni guerra ci
sembra sempre di avere ragione, ma anche agli altri sembra di averla. È davvero
possibile per l’uomo sulla terra capire chi ha ragione? Chi è colpevole? Chi può
dirlo?
– Te lo posso dire io! – rispose Spiridon, come rasserenato, con la stessa
prontezza che avrebbe avuto se gli avessero chiesto quale sorvegliante era di
turno il mattino seguente. – Il cane lupo ha ragione, il cannibale no!
– Come-come-come? – la semplicità e la forza di quella risposta lasciarono
Neržin senza fiato.
– È così – ripeté Spiridon, con brutale sicurezza, completamente girato
verso Neržin: – Il cane lupo ha ragione, il cannibale no!
E chinatosi soffiò da sotto i baffi il suo alito caldo sul viso di Neržin.
– Se ora, Gleb, mi dicessero: su quell’aereo che sta passando in cielo c’è una
bomba atomica. Ti va di morire come un cane sotto questa scala, che la tua
famiglia venga colpita, e così milioni di persone, purché fra voi ci sia anche il
Padre Baffuto e tutta la sua combriccola fino alle radici, in modo che non stia
più lì a far soffrire il popolo nei campi di lavoro, nei kolchoz, nei leschoz159? –
Spiridon si era puntato con le spalle rotonde con tutte le forze, come se la scala
stesse davvero per crollargli addosso, e insieme a lei il tetto e tutta Mosca. – Io,
Gleb, mi credi?, non ce la faccio più! Ne ho abbastanza! – sollevò la testa verso
l’aereo. – Gli risponderei: Sì, dài! Forza! Buttatela giù!!
Spiridon aveva il volto schiacciato dalla stanchezza e dalla pena.
Da ciascuna delle rossastre palpebre inferiori di quegli occhi ormai incapaci
di vedere scese una lacrima.

159 Cooperativa forestale.


69
A CARTE COPERTE

Il tenente giovane e slanciato in servizio da domenica sera, con due macchiette


di baffi quadrati sotto il naso, passò personalmente dopo la ritirata per i
corridoi superiori e inferiori della prigione speciale, cacciando i detenuti a
dormire nelle loro stanze (di domenica si coricavano sempre malvolentieri).
Sarebbe anche passato una seconda volta, ma non riusciva a staccarsi dalla
giovane infermiera bella e soda del reparto sanitario. L’infermiera aveva il
marito a Mosca e nelle ventiquattr’ore del turno lui non poteva raggiungerla
nella zona proibita, così il tenente contava di carpirle qualcosa quella notte, ma
la giovane gli sfuggiva con un sorriso, e ripeteva sempre la stessa frase:
– La smetta di fare l’impertinente!
Per questo il tenente aveva dato al suo aiutante, il sergente maggiore, il
compito di cacciare i detenuti a letto una seconda volta. Per il sergente
maggiore era chiaro che il tenente non si sarebbe allontanato dal reparto
sanitario prima del mattino, non lo avrebbe controllato, così non si sforzò
nemmeno di mandare tutti a letto, stufo com’era di fare il cane da guardia da
diversi anni e convinto che uomini adulti obbligati il giorno dopo a lavorare
non si sarebbero dimenticati di andare a dormire.
Spegnere la luce nel corridoio e sulle scale della prigione speciale, poi, non
era permesso, giacché poteva favorire la fuga o le rivolte.
Così, per la seconda volta, nessuno cacciò Rubin e Sologdin, che si
trovavano ancora nel grande corridoio principale, appoggiati a una parete. Era
già l’una, ma loro si erano dimenticati di andare a dormire.
Avevano intavolato una di quelle incontenibili discussioni estreme con cui si
conclude un rito conviviale russo, sempre che non finisca in rissa.
Ma si trattava anche di una di quelle particolari e feroci discussioni
carcerarie che in libertà non si potevano affrontare, per via dell’unica opinione
di potere dominante.
La discussione-duello sulla carta non aveva funzionato. In quell’ora e più,
Rubin e Sologdin avevano affrontato anche le altre due leggi della normale
dialettica, ma non trovando alcun appiglio cui aggrapparsi, e non potendo
sostare su nessuna piazzola di salvataggio, la discussione continuava a sbattere
loro contro il petto, per poi precipitare nel cratere di un vulcano.
– Dunque, se non c’è contrapposizione, non c’è nemmeno unità?
– E allora?
– Come ‘allora’? Voi avete paura della vostra stessa ombra! È vero o no?
– Certo che è vero.
Sologdin si illuminò. Davanti a quel punto debole appena trovato, raddrizzò
la schiena e i tratti del viso si fecero più aguzzi.
– Dunque, se non esiste contrapposizione, a che scopo promettere una
società senza classi?
– ‘Classe’ è una parola da uccelli!
– Non sviare il problema! Sapevate che una società senza contrapposizione
non era possibile, ma l’avete promessa lo stesso? Voi...
Nel Diciassette avevano entrambi cinque anni, eppure l’uno di fronte
all’altro non rinunciavano a farsi carico di tutta la storia umana.
– Vi siete fatti in quattro per cancellare l’oppressione, ma poi ci avete rifilato
oppressori peggiori, più crudeli! Era davvero necessario far morire milioni di
persone per questo?
– Da quando stai lì a roderti il fegato, sei diventato cieco! – gridò Rubin,
dimenticandosi di parlare piano per non cacciare nei guai il suo antagonista,
che scalpitava dalla voglia di strozzarlo. (Parlare a voce alta di simili argomenti,
per lui che sosteneva il potere, non era una minaccia.)
– Quando ti ritroverai in una società senza classi, sarai così pieno di odio da
non riconoscerla!
– Ma la società senza classi adesso esiste? Per una volta dammi una risposta
diretta! Non tergiversare! Esiste o non esiste una nuova classe, la classe
dirigente?
Ah, com’era difficile per Rubin rispondere a quella domanda! Vedeva anche
lui quella classe. E una volta radicata avrebbe tolto alla rivoluzione ogni senso.
Eppure nessun’ombra di debolezza, nessun briciolo di titubanza balenò su
quel viso con la fronte alta da ortodosso.
– Ma si può delineare dal punto di vista sociale? – gridava Rubin. – Si può
davvero indicare con precisione chi dirige e chi è sottomesso?
– Certo! – ribatté Sologdin, anche lui a piena voce. – Foma, Anton, Šiškin-
Myškin dirigono, mentre noi...
– Ma ci sono davvero confini stabili? C’è un retaggio d’immobilismo?
Dipende tutto dal grado di servizio! Oggi hai un rango, domani sei nel fango,
non è forse così?
– Così è anche peggio! Se ogni membro può essere rovesciato, in che modo
ci si può tutelare? Solo eseguendo gli ordini! Un nobile poteva imprecare
contro il potere quanto gli pareva, la sua nascita non si poteva cancellare!
– Ah, i tuoi adorati nobili! Come Siromacha!
(Alla šaraška Siromacha era il principe dei delatori.)
– Oppure i mercanti. Il mercato li costringeva a ragionare, a cambiare in
fretta! Non come i vostri! Sono proprio una bella nidiata! Gli manca il senso
dell’onore, l’educazione, non hanno né istruzione né inventiva, odiano la
libertà, possono tutelarsi solo con bassezze a livello personale...
– Non ci vuole un gran cervello per capire che si tratta di un gruppo di
servizio temporaneo, che quando lo Stato sparirà...
– Sparire? – strillò Sologdin. – Quelli? Non ne hanno alcuna intenzione!
Volontariamente? Se ne andranno solo quando li prenderemo per il collo! Il
vostro stato non ha avuto origini a causa della cerchia dei ricconi! Ma per
suggellare la propria perversità attraverso la violenza! Se sulla Terra restaste
soltanto voi, continuereste a rafforzare il vostro Stato all’infinito!
Sologdin aveva alle spalle parecchi anni di avvilimento, di silenzio forzato. Il
senso di liberazione che stava provando nello sbandierare apertamente le
proprie opinioni all’accessibile vicino, ancora bolscevico convinto e, quindi,
responsabile di tutto, era tanto più forte.
Dalla prima cella del controspionaggio al fronte, e per tutta la sfilza di celle
a seguire, Rubin aveva sempre attirato su di sé in modo intrepido la furia di
tutti dichiarando con orgoglio che lui era un marxista e non rinnegava le
proprie opinioni nemmeno in carcere.
Era abituato a fare il cane pastore in un branco di lupi, a difendersi uno
contro quaranta o cinquanta. Gli si screpolavano le labbra per l’infruttuosità di
quelle dispute, ma era obbligato, obbligato a spiegare ai ciechi la loro cecità, a
lottare contro i nemici di cella per salvarli, visto che per la maggior parte non si
trattava di nemici, ma di semplici cittadini sovietici, vittime del Progresso e
dell’imprecisione del sistema penitenziario.
Il rancore personale aveva annebbiato loro la coscienza, ma se l’indomani
fosse scoppiata una guerra contro l’America e si fossero distribuite le armi a
quelle persone, praticamente tutte avrebbero dimenticato le loro vite spezzate,
perdonato i loro tormenti, trascurato le amarezze delle famiglie rigettate, e
sarebbero corse a difendere con abnegazione il socialismo, proprio come
Rubin. E ovviamente, nell’ora del bisogno, l’avrebbe fatto pure Sologdin. Non
poteva essere altrimenti. Solo i cani e i traditori potevano tirarsi indietro.
La loro discussione, di frammento in frammento, era saltata da una pietra
tagliente e aguzza a un’altra fino a quel punto.
– Che differenza c’è?! Qual è la differenza?! Se un ex zek, finito dentro per
un niente, che per quello stesso niente si è fatto dieci anni, imbraccia le armi
contro i suoi carcerieri, è un traditore della patria! Mentre un tedesco che ti sei
coltivato e hai rispedito oltre la linea del fronte, un tedesco che tradisce la sua
di patria e il proprio giuramento è un progressista!
– Ma come puoi paragonarlo?! – si stupì Rubin. – Il mio tedesco è per il
socialismo, mentre il tuo zek è contro il socialismo! Sono due cose davvero
paragonabili?
Se la sostanza dei nostri occhi si potesse fondere per il calore dei sentimenti
che esprimono, quelli di Dmitrij Sologdin sarebbero colati fuori in rivoli
azzurri. Con grande ardore, rispose a Rubin:
– Con voi non si può parlare! Sono trent’anni che vivete e respirate con lo
stesso motto. – D’impulso gli era scappata una parola straniera, ma era bella e
nobile. – ‘Il fine giustifica i mezzi!’ Ma se ve lo chiedessero a brutto muso, lo
riconoscereste come vero? Sono sicuro che lo rinneghereste! Lo rinneghereste!
– No, perché? – rispose Rubin, d’un tratto con una freddezza rasserenante. –
Personalmente, riguardo a me stesso, non lo riconoscerei, ma parlando in
generale... Nella storia dell’umanità, il nostro fine primario è a tal punto alto da
giustificare, direi, i mezzi usati per il suo raggiungimento.
– Ah, questa poi! – Intravisto un punto vulnerabile per il suo fioretto,
Sologdin gli assestò un sonoro colpo istantaneo. – Tienilo a mente: più alto è il
fine, più alti devono essere i mezzi! Usare mezzi sleali annienta anche il fine
stesso!
– E quali sarebbero questi mezzi sleali? A chi apparterrebbero? Non starai
rinnegando quelli della rivoluzione?
– Perché, la vostra era una rivoluzione? È stata solo scelleratezza, una
mannaia insanguinata! Se si mettesse qualcuno a stendere l’elenco dei vostri
morti ammazzati e fucilati, il mondo ne rimarrebbe inorridito!
Senza indugiare, come un rapido notturno che passa accanto a stazioncine e
lampioni, attraversando ora la steppa deserta, ora la città luccicante, la loro
discussione sfrecciava per i luoghi bui e luminosi della memoria, e quello che
emergeva gettava subito una falsa luce o un rombo indistinto sullo scorrere
irrefrenabile dei loro pensieri intrecciati.
– Per giudicare un paese bisogna almeno conoscerlo un po’! ˗ si adirava
Rubin. – Tu invece sono dodici anni che marcisci nei campi di lavoro! Prima
che cosa avevi visto? Gli stagni Patriaršie? O la domenica te ne andavi in gita a
Kolomenskoe?
– Il paese? Tu vuoi giudicare il paese? – gridava Sologdin, cercando di
trattenersi al punto che gli usciva un suono soffocato, come se qualcuno lo
stesse strozzando. – Vergognati! Dovresti proprio vergognarti! Quante persone
sono passate per la Butyrka, te lo ricordi? Gromov, Ivanteev, Jašin, Blochin,
raccontavano cose sensate, tutte prese dalla loro vita, li hai ascoltati? E qui?
Vartapetov, poi quell’altro... come si chiamava...
– Chi? Perché dovrei starli a sentire? È gente ormai cieca! Ululano come
belve cui viene schiacciata la coda. Interpretano il fallimento della loro vita
come il crollo del socialismo. Il loro osservatorio è il bugliolo della cella, la
loro aria gli effluvi del bugliolo; hanno un punto di vista che non è nemmeno
un punto di vista!
– Ma allora chi? Chi, chi sei capace di ascoltare?
– I giovani! I giovani sono dalla nostra parte! Rappresentano il futuro!
– I giovani?! Ve lo sognate! Quelli se ne fregano dei vostri... modi luminosi! –
(Significava ideali.)
– Come fai a giudicare i giovani?! Io ho combattuto al fronte con loro,
siamo stati insieme in ricognizione, mentre tu ne hai sentito parlare da qualche
emigrante da strapazzo in un carcere di transito? Come fanno a esserci giovani
senza ideali, con dieci milioni di Komsomol nel paese?
– Il Kom-so-mol?? Ma ti sei rimbambito?! Il vostro Komsomol è solo un
modo per trasformare carta compatta in libretti associativi!
– Non ci provare! Sono un vecchio membro del Komsomol anch’io! Il
Komsomol era la nostra bandiera! la nostra coscienza! la nostra passione! e la
nostra generosità! Ecco cos’era!
– Cos’era... perché ora non lo è più!
– Ma per chi parlo io? In quegli anni eri un membro del Komsomol anche
tu!
– E l’ho pagata cara! Sono stato punito! Un inizio da Mefistofele! Chiunque
lo tocchi... Margherita160! l’onore perso! la morte del fratello! la morte del
figlio! follia! rovina!
– No, aspetta! Lascia stare Margherita! Non è possibile che gli anni di
Komsomol non ti abbiano lasciato niente nell’anima!
– Voi che parlate di anima? Come sono cambiati i vostri discorsi in
vent’anni! Avete una ‘coscienza’, un’‘anima’ e ‘luoghi sacri oltraggiati’... pensa se
queste belle paroline le avessi pronunciate nel tuo nobile Komsomol nel ’27!
Eh? Avete corrotto una generazione intera di giovani russi.
– A guardare te, ci credo!
– E poi siete passati ai tedeschi, ai polacchi...
Ed erano andati avanti così, saltando da un argomento all’altro, perdendo il
nesso fra i pensieri precedenti e quelli successivi, senza più vedere né sentire il
corridoio dove insieme a loro erano rimasti soltanto due scacchisti fanatici di
fronte a una scacchiera e il vecchio fabbro-fumatore che tossiva indomito, e
spiccavano le loro mani che si muovevano agitate, i loro visi infervorati e sotto
l’angolo, rivolte l’una verso l’altra, la grossa barba nera e quella bionda ben
tagliata.
– Gleb!
– Gleb! – gridarono accavallandosi, notando Spiridon e Neržin che
arrivavano dalle scale e dal gabinetto.
Chiamavano Gleb, impazienti di raddoppiare la propria forza. Ma lui era già
diretto da quella parte, in ansia per le loro esclamazioni e i gesti convulsi. Uno
scemo qualsiasi, anche senza udire una parola, avrebbe intuito che si stavano
accapigliando per grosse questioni di politica.
Neržin si avvicinò in fretta e, prima ancora che gli chiedessero da che parte
stava, assestò a entrambi un pugno sul fianco.
– Buonsenso! Buonsenso!
Era la parola in codice che avevano stabilito per fermare gli altri due, nel
caso di una discussione accesa, davanti alla minaccia di delatori; un codice cui
erano obbligati a sottomettersi.
– Siete impazziti? Vi siete già beccati una bobina a testa! Vi sembra poco?
Dmitrij! Pensa alla famiglia!
Ma non solo non era possibile separarli pacificamente, non lo sarebbe stato
nemmeno se si fosse frapposto tra loro il getto di una canna antincendio.
– Senti un po’! – Sologdin lo afferrò per una spalla. – Lui le nostre
sofferenze non le considera, per lui sono naturali! Le uniche che riconosce sono
quelle dei negri delle piantagioni!
– A Lëvka l’ho già detto: ‘Zia Fedosevna aiuta in paese, ma in casa sua non si
abbian pretese.’
– Che pensiero meschino! Tu non sei proprio un internazionalista! –
esclamò Rubin, guardando Neržin neanche fosse un borseggiatore appena
colto sul fatto. – Avresti dovuto sentire che sciocchezze gli sono uscite: il
potere imperialista è stato un bene per la Russia! Tutte le conquiste, tutte le
porcherie, gli stretti, la Polonia, l’Asia Centrale...
– Secondo me, avremmo dovuto liberare da tempo tutte le colonie! Bisogna
indirizzare gli sforzi del nostro popolo solo verso uno sviluppo interno!
– Che pivello! – esclamò stizzito Sologdin. – Se vi si desse questa libertà,
distruggereste tutta la terra dei padri... diglielo un po’: vale mezza moneta il
loro amore per il Komsomol? Hanno insegnato ai figli dei contadini a
denunciare i propri genitori! Non distribuivano nemmeno le briciole del pane
fatto con il grano che loro stessi coltivavano! E osa parlare a me di virtù?!
– Uh, come sei magnanimo! E ti consideri un cristiano? Be’, non lo sei
affatto!
– Non essere blasfemo! Non tirare in ballo cose che non capisci!
– Pensi che siccome non sei né un ladro né un delatore questo basti per
essere un cristiano, ma dov’è il tuo amore per il prossimo? C’è un detto che vi
calza a pennello: la stessa mano che tocca la croce affila anche il coltello. Ecco
perché ti affascinano tanto quei banditi del Medioevo! Sei un tipico conquistador!
– Così mi lusinghi! – si gettò indietro Sologdin, pavoneggiandosi.
– Ti lusingo? Che orrore! Mamma mia! – Rubin si passò le mani fra i capelli
sempre più radi. – Gleb, lo senti? Diglielo che la sua è solo ipocrisia! Ne ho
abbastanza del suo atteggiamento! Si comporta come se fosse Aleksandr
Nevskij!
– Ah, questo per me non è affatto lusinghiero!
– E perché?
– Non considero Aleksandr Nevskij un eroe. E nemmeno un santo. Dunque,
non è un complimento.
Rubin ammutolì e scambiò un’occhiata perplessa con Neržin.
– Cosa c’è che non ti va di Aleksandr Nevskij? – chiese Gleb.
– Ha impedito ai cavalieri di giungere in Asia e al Cattolicesimo in Russia!
Era contro l’Europa! – Sologdin aveva ancora il respiro affannato, non si
calmava.
– Questa è bella! Proprio bella! – commentò Rubin, con la speranza di
assestargli un colpo.
– E perché avresti voluto il Cattolicesimo in Russia? – domandò Neržin con
espressione indagatrice.
– Te lo dico io perché!! – guizzò come un fulmine Sologdin. – Perché tutti i
popoli che hanno la sfortuna di essere ortodossi si sono beccati diversi secoli di
schiavitù! Perché la chiesa ortodossa non ha saputo opporsi allo Stato! Un
popolo di senzadio era indifeso! E ne è venuto fuori un paese bifolco! Un paese
di schiavi!
Neržin sgranò gli occhi.
– Non ci capisco niente. Non eri tu che mi rimproveravi di non essere
abbastanza patriota? Che stavamo distruggendo la terra dei padri?
Ma Rubin si era già accorto che l’avversario aveva lasciato scoperto un
punto vulnerabile.
– Che ne è stato della Sacra Rus’? – si affrettò a dire. – E del Linguaggio
dell’Estrema Chiarezza? E della difesa contro le parole da uccelli?
– Già, è vero, che senso ha il Linguaggio dell’Estrema Chiarezza in un paese
bifolco?
Sologdin si illuminò. Allungò le braccia e roteò i polsi.
– Il nostro è un gioco, signori! Un gioco!! Un esercizio a carte coperte!
Bisogna esercitarsi! Siamo obbligati di continuo a vincere la resistenza. Ci
troviamo perennemente in prigione, bisogna dare l’impressione di essere il più
lontano possibile dalle proprie reali opinioni. Una delle nove sfere, te l’ho
detto, è...
– Globo...
– No, sfera!
– Quindi anche in quello sei ipocrita – si scaldò di nuovo Rubin. – Il paese
per voi è terribile! Ma non siete forse stati voi, pellegrini e fannulloni, a
condurre il paese fino al campo di Chodynka161, a Tsushima162, alla foresta di
Augustów163?
– Ah, ora voi assassini vi disperate per la Russia? – trasalì Sologdin. – Nel
Diciassette non l’avete forse trucidata?
– Buonsenso! Buonsenso! – Gleb assestò a entrambi un pugno nel fianco.
Ma i disputanti non solo non si ripresero, non se ne accorsero nemmeno, e
attraverso il velo rosso della rabbia non facevano più caso a lui.
– Cosa ti fa pensare che un giorno la collettivizzazione ti verrà perdonata?
– Ricordati quello che ci hai raccontato alla Bytyrka! Che vivevi con il solo
scopo di arrivare a un milione! Ti serve un milione per il Regno dei Cieli?
Si conoscevano già da due anni. E tutto quello che erano venuti a sapere
l’uno dell’altro in conversazioni confidenziali cercavano ora di ributtarselo
addosso, in terribili offese, per ferirsi a vicenda. Ogni cosa che tornava loro in
mente, se la scagliavano contro come un’accusa.
– Be’, non capite più quando uno vi parla? Fate marcia indietro, marcia
indietro! – gridò Neržin.
E dopo un gesto insofferente della mano se ne andò via. Si consolò vedendo
che nel corridoio non c’era nessuno, erano tutti nelle stanze a dormire.
– Vergognati! Sei un corruttore di anime! I tuoi pupilli sono a capo della
Germania dell’Est!
– Meschino di un ambizioso! Sei patetico a essere orgoglioso del tuo sangue
nobile versato!
– Visto che Šiškin-Myškin stanno dalla parte giusta, perché non li aiuti,
perché non fai la spia, eh? Šikin ti scriverebbe una bella referenza! Rivedrebbero
il tuo caso...
– Per parole come queste potrei spaccarti il muso!
– No, perché? Parliamone! Se noi siamo tutti dentro per un motivo, mentre
tu, ingiustamente, i carcerieri hanno ragione... È più che logico!
Bisticciavano in modo sconnesso, senza quasi più ascoltarsi a vicenda.
Ciascuno perseguiva soltanto uno scopo: trovare il punto in cui colpire facendo
più male.
– Ma guarda che bugiardo! Le tue sono tutte menzogne! Eppure ti comporti
sempre come se stringessi in mano il crocifisso!
– Non ti va di discutere della dignità umana... be’, dovresti fartene prestare
un po’. Fai domanda di grazia due volte l’anno...
– Bugiardo, non è una domanda di grazia, è un riesame!
– Te la rifiutano e tu continui a mendicare. Sei come un cane alla catena: chi
l’afferra ti ha in suo potere.
– Be’, tu non mendichi solo perché non hai alcuna possibilità di ottenere la
libertà. Altrimenti strisceresti come un verme!
– Mai! – si agitò Sologdin.
– Invece sì! È che non riesci a farti notare!
Si torturavano l’un l’altro fino allo stremo. Innokentij Volodin non poteva
immaginare che in un isolato edificio alla periferia di Mosca una fastidiosa
discussione notturna fra due detenuti sul punto di degenerare, avrebbe avuto
ripercussioni sul suo destino.
In quella disputa, in cui volevano entrambi essere boia, mentre erano solo
vittime, a contrastarsi non erano già più due uomini che avevano perso la
bussola, ma potenziali distruttivi ed eteropolari.
Proprio questi potenziali vedevano l’uno nell’altro, con chiarezza, in modo
inequivocabile, dei trionfatori folli e ciechi di ieri o di domani, implacabilmente
insensibili verso le ragioni altrui, come quelle mura carcerarie.
– No, dimmelo: se l’hai sempre pensata così, come hai fatto a entrare nel
Komsomol? – Rubin si strappava quasi i capelli.
Terribilmente infastidito, per la seconda volta in mezz’ora Sologdin si aprì
senza che ce ne fosse bisogno.
– Come facevo a non entrarci? Lasciavate davvero la possibilità di non farlo?
Se non fossi stato membro del Komsomol, col cavolo che avrei potuto
iscrivermi a un istituto! Sarebbe stato come scavare nell’argilla!
– Allora fingevi? Strisciavi come un serpente!
– No! Sono solo venuto da voi a carte coperte!
– Quindi, se ci fosse una guerra – davanti a quell’ultima supposizione, sentì
una stretta al cuore – e ti dessero le armi...
Sologdin raddrizzò la schiena, incrociò le braccia e si tirò indietro come
davanti a un lebbroso.
– Pensi davvero che vi difenderei?
– Sta per scorrere il sangue! – Rubin strinse i pugni dalle dita pelose.
Dire altro o addirittura strozzarsi a vicenda, prendersi a pugni, non sarebbe
stato sufficiente. Dopo quelle parole l’unica cosa che potevano fare era
imbracciare i fucili e spararsi, perché l’altro solo quella lingua poteva
comprendere.
Ma di fucili non ce n’erano.
Così si separarono, a corto di fiato, Rubin a testa china, Sologdin a testa alta.
Se prima Sologdin esitava, ora si preparava ad assestare con piacere un colpo
a quella cricca: niente più codificatore! Basta! Non tirerai più il loro maledetto
carro! Altrimenti non potrai dimostrare quanto sono deboli e incapaci!
Sbraitano, strillano, ci infarciscono le orecchie che dipende tutto dalla legge, in
altro modo non si può fare. Scrivono la storia come gli torna utile, non si
lasciano scappare niente! La rivoltano sotto sopra.
Rubin si allontanò in un angolo e si prese la testa pulsante fra le mani. Si
consolava solo all’idea del colpo distruttivo che contava di sferrare a Sologdin e
a tutta la sua cricca. Non c’era altro modo per far rinsavire quegli ottusi!
Nessun argomento concreto, nessuna giustificazione storica poteva far capir
loro che lui aveva ragione! La bomba atomica! Solo quello avrebbero
compreso. Doveva vincere la malattia, la debolezza, la malavoglia e l’indomani
mattina presto stargli addosso, fiutare la traccia di quel mascalzone anonimo e
salvare la bomba atomica per la Rivoluzione.
Petrov! Sjagovityj! Volodin! Ščevronok! Zavarzin!

160 L’innamorata di Faust.


161 Tragedia avvenuta nel 1896 durante i festeggiamenti per l’incoronazione di Nicola II. Più di mille e
trecento persone morirono calpestate dalla folla.
162 Ultima battaglia della guerra russo-giapponese del 1904-1905, in cui furono distrutti due terzi della
flotta russa.
163 Battaglia del 1914, in cui l’armata russa venne respinta dall’esercito prussiano.
70
DOTTY

Passata la mezzanotte Innokentij e Dotnara stavano tornando a casa in taxi.


Per le strade sempre più deserte, la neve cadeva fitta e stendeva un velo
bianco sugli edifici.
Il calore verso la moglie, che l’improvvisa docilità di Dotnara aveva suscitato
in lui quel giorno a casa del suocero, persisteva anche in quel momento che si
trovavano lontani dallo sguardo della gente. Dotty chiacchierava con
disinvoltura dei presenti alla festa, di quanto accaduto in quella circostanza,
delle difficoltà e speranze di un futuro matrimonio di Klara, e Innokentij la
ascoltava amabilmente.
Si riposava. Si riposava dall’intollerabile tensione delle ultime
ventiquattr’ore, e chissà perché non c’era altra persona in quel momento con
cui potesse farlo tanto bene; lei, amata, odiata, maledetta, trascurata e traditrice,
eppure imprescindibile, eppure compagna di vita.
La serrò per le spalle senza una ragione.
Viaggiavano così.
Il contatto con quella donna da lui stesso rifiutata ora tornava a stringergli il
cuore.
La sbirciò di sottecchi. Sbirciò le sue labbra. Con quelle non avrebbe mai
voluto smettere di fondersi, fondersi senza saziarsi mai. Innokentij sapeva bene
che quella cosa accadeva di rado, non succedeva quasi mai. Sapeva bene che in
una sola donna non si combina mai tutto come vorremmo. Labbra, capelli,
spalle, pelle e molto altro ancora si possono prendere singolarmente da diverse
donne per farne una sola che la natura non è stata in grado di comporre. Cui
aggiungere i moti del cuore, il temperamento, l’ingegno, le abitudini.
Si poteva ben scusare Dotty per non avere tutto. Nessuno aveva tutto. In lei
c’era già molto.
D’un tratto gli balenò alla mente un pensiero: se Dotty non fosse stata né
sua moglie né la sua amante, ma la donna di un altro, e lui lì in quella vettura
l’avesse abbracciata e lei ubbidiente l’avesse seguito a casa sua, lui come
l’avrebbe considerata?
Perché in quel caso non l’avrebbe accusata di buttarsi fra le braccia di altri,
di molti altri? Perché lo riteneva oltraggioso solo se era sua moglie?
Innokentij, tuttavia, trovava incivile e deprecabile che quella donna ormai
traviata lo attirasse in modo ancora così micidiale. Adesso era ciò che sentiva.
Spostò il braccio.
Naturalmente, pensare a quello era molto più facile che pensare che gli
stavano dando la caccia. Che a casa, forse, lo attendeva un agguato. Sulla
tromba delle scale. Oppure direttamente nell’appartamento, per loro non era
difficile aprire, entrare.
Se lo raffigurava in modo chiaro, sì, li vedeva già nascosti nell’appartamento
ad aspettare. E non appena avesse aperto, sarebbero piombati nel corridoio da
una camera per afferrarlo.
Forse gli ultimi minuti della sua vita da libero erano quelli che stava
trascorrendo ora sul sedile posteriore, abbracciato tranquillamente a Dotty,
ignara di tutto.
Che fosse giunto il momento di dirle qualcosa?
La guardò con pietà, quasi con tenerezza, e Dotty se ne accorse subito, il
labbro superiore ebbe un fremito, quel suo vezzo da cerbiatta...
Ma cosa poteva dirle in tre parole, anche una volta pagato il taxista, non più
alla sua presenza? Che non bisognava confondere la patria con il governo? Che
era un crimine lasciare un’arma subumana nelle mani di un regime folle? Che
alla nostra Nazione non serviva affatto il potere militare, che solo senza
saremmo tornati a vivere?
Nelle alte sfere non lo avrebbe capito praticamente nessuno. Nemmeno gli
accademici! Soprattutto coloro che cercavano di mettere insieme in qualche
modo quella bomba. Che cosa poteva capirne la moglie di un diplomatico, ben
vestita e tanto attaccata alle cose materiali?
Rammentò a sé stesso in che modo sgraziato Dotty fosse capace di rovinare
il piacere di una conversazione cordiale con qualche osservazione falsa,
inopportuna e maleducata. Mai che dimostrasse un briciolo di sensibilità,
proprio mai: come si poteva insegnare a qualcuno ad avere qualcosa che non
aveva mai avuto?
In ascensore non la guardò nemmeno in faccia. Sul pianerottolo non disse
niente. Aprì con la prima chiave, inserì la seconda nella serratura all’inglese e
subito si scostò da una parte per lasciarla passare. Cadesse lei in trappola! Era
meglio se passava per prima, tanto non aveva niente da temere, così lui se ne
sarebbe accorto e... no, non sarebbe scappato, ma almeno avrebbe avuto altri
cinque secondi per pensare!
Dotty entrò, accese la luce.
Nessuno si gettò loro addosso. Non c’era appeso alcun cappotto estraneo.
Nessuna trascurata impronta sul pavimento.
Del resto, nemmeno quello dimostrava nulla. Era necessario controllare
anche nelle altre stanze.
Ma il cuore già credeva che non ci fosse nessuno! Ora bisognava inserire il
primo chiavistello, poi il secondo! E non dovevano aprire più per niente al
mondo! Stavano dormendo, non c’era nessuno...
Cominciò a invaderlo una calda sensazione di sicurezza.
E di quella sicurezza e felicità era complice Dotty.
Riconoscente, l’aiutò a togliersi il cappotto.
Lei chinò la testa; Innokentij le vedeva la nuca, con quel particolare disegno
dei capelli. All’improvviso, con intenzione espiatoria Dotty gli disse:
– Picchiami. Picchiami come farebbe un contadino con la sua donna... Per
bene.
E lo guardò, con gli occhi spalancati. Non stava scherzando. Non c’era
nemmeno un’ombra di pianto: lei era così, non versava mai fiumi di lacrime
come le altre donne, gli occhi le si riempivano per un istante, poi si asciugavano
subito, oltremisura, fino ad apparire cupi e vuoti.
Ma Innokentij non era un contadino. Non era pronto a picchiare la moglie.
Il pensiero non l’aveva mai nemmeno sfiorato.
Le posò le mani sulle spalle.
– Che bisogno c’è di essere così brusca?
– Sono brusca quando soffro tanto. Faccio del male al prossimo e mi
nascondo dietro a questa cosa. Picchiami.
Se ne stavano lì, impotenti.
– Ieri e oggi sono stato male, ma così male... – si lamentò Innokentij.
– Lo so – sussurrò Dotty con le sue labbra succose, succose, tanto succose,
sollevandosi già dal pentimento per spostarsi verso la ragione. – Adesso ci
penso io a calmarti.
– Impossibile – disse lui, con un sorriso pietoso. – Non puoi.
– Io posso tutto – lo rassicurò lei, con voce profonda, e Innokentij cominciò
a crederci. – Che senso avrebbe il mio amore, se non fossi in grado di calmarti?
Innokentij si tuffò fra le sue labbra, tornando a un passato d’amore.
La persistente stretta minacciosa che aveva intorno all’anima si allentò,
formando un’altra stretta, una stretta di dolcezza.
Attraversarono la stanza senza staccarsi e senza cercare gli uomini in
agguato.
Immerso in un caldo universo materno Innokentij non sentiva più freddo.
C’era Dotty ad avvolgerlo.
71
FACCIAMO CHE NON SIA MAI SUCCESSO

Finalmente la šaraška dormiva.


Sotto le lampadine blu ronfavano duecentottanta zek con il viso affondato
nel cuscino o appoggiati sulla nuca, respirando silenziosi, russando in modo
disgustoso o gridando frasi sconnesse, raggomitolati per riscaldarsi o a gambe e
braccia spalancate per il caldo soffocante.
Dormivano su due piani dell’edificio, oltre che su brande a due piani,
sognando: i vecchi, i loro cari; i giovani, le donne; chi le cose perdute, chi un
treno, chi la chiesa, chi il tribunale. Erano sogni diversi, ma tutti i sognatori
ricordavano penosamente di essere dei detenuti, e se vagavano nell’erba verde o
per la città, allora voleva dire che erano evasi, avevano imbrogliato, era
accaduto un malinteso e ora li inseguivano. Il fortunato distacco totale dai
ceppi immaginato da Longfellow nel Sogno d’uno schiavo a loro non era concesso.
Il trauma di un arresto ingiusto e di una sentenza di dieci o venticinque
anni, il latrato dei cani, il passo delle guardie di scorta, il suono lacerante della
sveglia nel campo di lavoro, tutto era penetrato nelle loro ossa attraverso le
stratificazioni della vita, gli istinti secondari e persino quelli principali, tanto
che il detenuto addormentato prima si ricordava di essere in prigione, e solo
dopo sentiva il bruciore o il fumo e si alzava per scappare da un incendio.
Dormiva il degradato Mamurin nella sua cella d’isolamento. Dormivano i
sorveglianti di riposo. Dormivano anche i sorveglianti di guardia. L’infermiera
di turno al reparto sanitario, che per tutta la sera aveva opposto resistenza al
tenente con i baffi quadrati, aveva ceduto da poco e ora anche loro due
dormivano sullo stretto divano del reparto. E infine il piccolo sorvegliante
grigio, piazzato di guardia sulla tromba principale delle scale, presso il portone
di ferro della prigione, vedendo che non venivano a controllarlo, dopo aver
chiamato invano al telefono da campo, si era a sua volta addormentato seduto,
con la testa posata sul tavolino, e non dava nemmeno più un’occhiata dalla
finestrella nel corridoio della prigione speciale, come avrebbe dovuto.
Aspettata di nascosto l’ora profonda in cui le procedure carcerarie di
Marfino smettevano di funzionare, il duecentottantunesimo detenuto uscì
piano dalla stanza semicircolare, strizzando gli occhi alla luce forte e
calpestando con gli stivali i numerosi mozziconi disseminati sul pavimento. Si
era infilato in qualche modo gli stivali senza le pezze e aveva indossato il
logoro cappotto militare sopra la sola biancheria. Aveva la cupa barba nera
arruffata, i capelli sempre più radi sulle tempie che ricadevano da tutte le parti,
il viso sofferente.
Quanto aveva tentato di addormentarsi! Ora si era alzato a camminare un
po’ nel corridoio. Non era la prima volta che ricorreva a quell’espediente: così
la sua irritazione spariva, si attenuavano il dolore acuto alla nuca e quello
insopportabile vicino al fegato.
Ma sebbene fosse uscito a camminare, si era portato dietro come d’abitudine
anche un paio di libri, in uno dei quali era infilata la brutta copia scritta a mano
del suo Progetto dei Templi civili e una matita non troppo acuminata. Posato il
tutto sul lungo tavolo sporco, assieme a una scatoletta di tabacco leggero e alla
pipa, Rubin prese a camminare avanti e indietro nel corridoio a passo regolare,
le braccia che tenevano il cappotto.
Sapeva che tutti i detenuti stavano male, sia quelli che erano finiti dentro per
un niente sia quelli che erano nemici e si meritavano il carcere. Eppure,
considerava la sua posizione lì (e anche quella di Abramson) tragica in senso
aristotelico. Aveva ricevuto un colpo da quelle stesse mani che amava più di
ogni altra cosa. Era stato messo dentro da persone insensibili, burocrati,
proprio perché amava la causa comune così profondamente da rasentare
l’indecenza. E per una tragica contraddizione, ogni giorno doveva opporsi
proprio a quegli ufficiali e sorveglianti carcerari che con le loro azioni
rappresentavano in pieno una legge giusta, progressista. Mentre i compagni di
prigione, al contrario, non erano per lui compagni e in tutte le celle lo
accusavano, lo ingiuriavano, ci mancava che lo azzannassero, giacché vedevano
solo la propria disgrazia e non la grande Legge. Lo provocavano non in nome
della verità, ma per vendicarsi su di lui, non potendo farlo sui carcerieri. Lo
perseguitavano, preoccupandosi ben poco che a ogni scontro lui si lacerasse
dentro. Ma in ogni cella, a ogni nuovo incontro, a ogni nuova discussione con
forza inesauribile, e disprezzandone le ingiurie, era costretto a dimostrare loro
che nei grandi numeri e nel corso principale della storia andava tutto come
doveva, l’industria prosperava, l’agricoltura produceva in abbondanza, la
scienza era in fermento, la cultura tutto un arcobaleno. Ogni cella e ogni
discussione costituivano un fronte in cui Rubin era l’unico a difendere il
socialismo.
Spesso i suoi avversari cercavano di convincerlo che, essendo in tanti, nelle
celle rappresentavano loro il popolo, mentre Rubin era solo. Ma lui sapeva che
si trattava di una menzogna, se lo sentiva dentro! Il popolo si trovava fuori
dalla prigione, oltre il filo spinato. Il popolo aveva preso Berlino, si era
incontrato con gli americani sull’Elba, defluiva con i treni degli smobilitati
verso est, andava a riedificare la Dneproges, a ridare vita al Donbass, a
ricostruire da capo Stalingrado. La sensazione di unità con milioni di persone
rafforzava Rubin nella stantia lotta solitaria contro decine di persone dentro le
celle.
Rubin bussò alla finestrella di vetro del portone di ferro, una volta, poi due,
la terza forte. Al terzo colpo il viso del grigio secondino insonnolito si alzò
fino alla finestrella.
– Non mi sento bene – disse Rubin. – Mi serve una medicina. Mi porti
dall’infermiera.
Il sorvegliante ci pensò un attimo.
– D’accordo, ora chiamo.
Rubin riprese a camminare.
Lev era una figura tutto sommato tragica.
Aveva varcato la soglia del carcere prima di chiunque vi si trovasse ora.
Un suo cugino adulto, che Lëvka a sedici anni venerava, gli aveva affidato
dei caratteri tipografici da nascondere. Lëvka aveva accettato il compito con
entusiasmo. Ma non era stato attento a un ragazzino del vicinato. Quello se
n’era accorto e l’aveva denunciato. Lëvka non aveva tradito il cugino: si era
inventato la storia che aveva trovato i caratteri nel sottoscala.
La cella d’isolamento del carcere interno di Char’kov gli tornò in mente
vent’anni dopo, mentre camminava avanti e indietro per il corridoio con lo
stesso passo ritmato.
Il carcere interno era stato costruito su modello americano: era un pozzo
aperto a più piani con camminamenti e scalette di ferro; sul fondo del pozzo
c’era una guardia che regolava il traffico con delle bandierine. Nella prigione
ogni suono rimbombava. Lëvka aveva sentito il rumore di qualcuno che veniva
trascinato per le scale e un lamento improvviso così lacerante da scuotere
l’edificio.
– Compagni! Saluti dalla gelida cella di rigore! Abbasso gli aguzzini di
Stalin!
Lo picchiano (è quel particolare rumore di colpi sul morbido!), gli tappano
la bocca; il lamento si fa discontinuo e si spegne, ma trecento prigionieri in
trecento celle d’isolamento si gettano verso le loro porte, battono e gridano in
modo straziante:
– Abbasso i cani sanguinari!
– Volete il sangue degli operai?!
– Un altro zar sul groppone!
– Evviva il leninismo!
E all’improvviso da quelle celle con voci veementi cominciano a intonare:
Alzati, tu che sei segnato dalla maledizione...

E già tutta la folla invisibile di detenuti tuona fino all’abnegazione:

È questa la nostra ultima


e decisiva battaglia!...164

Non si vede, ma molti di quelli che cantano, fra cui anche Lëvka, per
l’esaltazione, hanno le lacrime agli occhi.
La prigione ronza come un alveare in allerta. Il gruppetto di carcerieri se ne
sta fermo sulle scale con le chiavi in mano, scioccato dall’immortale inno
proletario...
Che dolore alla nuca! Che pressione al fianco destro!
Rubin bussò di nuovo alla finestrella. Al secondo colpo riapparve il viso
assonnato dello stesso sorvegliante. La guardia aprì l’anta con il vetro e
farfugliò:
– Ho chiamato. Non rispondono.
E stava per richiudere, ma Rubin non glielo permise, bloccò l’anta con la
mano.
– E allora ci vada di persona! – gridò, con dolorosa stizza. – Sto male, ha
capito? Non riesco a dormire! Chiami l’infermiera!
– Va bene – acconsentì il secondino.
E richiuse la finestrella.
Rubin riprese a camminare, misurando disperatamente lo spazio sporco
coperto di sputi del corridoio impregnato di fumo; essendo notte non si
allontanava troppo.
Dopo l’immagine del carcere interno di Char’kov, che lui ricordava sempre
con orgoglio, nonostante quelle due settimane in cella d’isolamento fossero
rimaste a incombere su tutti i suoi questionari e su tutta la sua vita, e ne
avessero aggravato la condanna, adesso riemersero dalla memoria ricordi a
lungo celati, cocenti.
...Una volta era stato convocato nell’ufficio del Comitato del partito presso
la sua fabbrica di trattori. Lëva si considerava uno dei fondatori della fabbrica:
lavorava nella redazione del giornale. Girava per i reparti, infervorava i giovani,
infondeva forza negli operai avanti con gli anni, appendeva “edizioni
istantanee” sulle imprese delle brigate d’assalto, sui ritardi e le trascuratezze.
Ventenne in kosovorotka, la camicia con la tipica abbottonatura laterale, era
entrato nell’ufficio con la stessa spontaneità con cui si era presentato al
cospetto del segretario del Comitato Centrale dell’Ucraina. Allora aveva detto
soltanto: “Salve, compagno Postyšev!” e gli aveva porto la mano per primo.
Così, anche lì, alla donna sui quarant’anni con i capelli tagliati corti avvolti in
un fazzoletto rosso aveva detto:
– Salve, compagna Pachtina! Mi hai chiamato?
– Salve, compagno Rubin. – Gli aveva stretto la mano. – Siediti pure.
Si era seduto.
Nell’ufficio era presente anche un altro uomo, non operaio, con la cravatta,
un completo e scarponcini gialli. Sedeva in disparte a controllare dei fogli,
senza mostrare interesse per il nuovo arrivato.
L’ufficio del Comitato del partito era austero come un confessionale,
compassato nei toni del rosso ardente e del nero concreto.
Parlando delle questioni della fabbrica, di cui discutevano sempre con
solerzia, la donna aveva usato con Lëva un tono imbarazzato, quasi spento. Ma
poi, appoggiandosi indietro, all’improvviso e con fermezza aveva detto:
– Compagno Rubin! Devi cedere le armi davanti al partito!
Lëva era rimasto di stucco. Ma come? Non dedicava già tutte le forze, la
salute al partito, senza nemmeno badare più se fosse giorno oppure notte?
No! Non era abbastanza.
Ma che altro poteva fare??!
A quel punto, in tono gentile, era intervenuto quel tizio. Gli si rivolgeva
dandogli del “lei”, cosa che a un orecchio proletario strideva. Aveva detto a
Rubin di raccontare con onestà, fino in fondo, tutto ciò che sapeva di suo
cugino, quello sposato: non era forse vero che in passato era stato membro
attivo di un’organizzazione trockista segreta e adesso lo teneva nascosto al
partito?
Bisognava subito dire qualcosa, lo stavano fissando entrambi.
Lëva aveva imparato a guardare la rivoluzione proprio attraverso gli occhi di
quel cugino. E proprio da lui aveva scoperto che non era tutto così festoso e
spensierato come alle manifestazioni del Primo Maggio. Sì, la Rivoluzione era
proprio la primavera: anche lì di fango ce n’era molto e il partito camminava
sguazzandoci dentro in cerca di un sentiero battuto nascosto.
Ma erano passati quattro anni. Le discussioni all’interno del partito erano
cessate. Avevano già iniziato a dimenticarsi dei trockisti, persino dei
bucharinisti. Tutto ciò che il fautore della scissione aveva proposto e per cui
era stato espulso dall’Unione, Stalin lo ripeteva ora in modo ingegnoso e
pedissequo. Con le migliaia di fragili “barche” delle imprese contadine, bene o
male, si era dato vita al “transatlantico” della collettivizzazione. Fumavano già
gli altoforni di Magnitogorsk e i trattori delle quattro fabbriche-primogenite
rivoltavano la terra nei kolchoz. Il noto e diffuso slogan di quei tempi, “518
cantieri edili nel primo piano quinquennale e 1.040 nuove stazioni di macchine
agricole e trattori”, era già quasi superato. Se tutto, obiettivamente, si
realizzava per la gloria della Rivoluzione mondiale, valeva la pena bisticciare
per il nome della persona cui sarebbero state attribuite tutte quelle grandi cose?
(E Lëvka si era costretto ad amare persino quel nuovo nome. Sì, Lo amava già!)
A che scopo arrestare, vendicarsi di chi prima si opponeva?
– Non lo so. Non è mai stato un trockista – rispondeva la lingua di Lëvka,
ma la ragione, parlando fra persone adulte, senza il puerile romanticismo da
soffitta, gli diceva che ostinarsi a negare era già inutile.
I gesti della segretaria del Comitato di partito erano concisi ed energici. Il
Partito! Non è la cosa più alta che abbiamo? Come si fa a ostinarsi a negare...
davanti al Partito?! Come si fa a non aprirsi... al Partito?! Il Partito non punisce,
è la nostra coscienza. Ricordati cosa diceva Lenin...
Dieci canne di pistola puntate contro il viso non avrebbero spaventato tanto
Lëvka Rubin. Non gli avrebbero strappato la verità né il freddo carcere né il
confino alle Solovki. Ma davanti al Partito?! Non poteva nascondersi e mentire
in quel confessionale rosso e nero.
Rubin si era aperto, aveva rivelato di cosa aveva fatto parte il cugino, di che
si occupava e quando.
La donna-confessore era ammutolita.
Il gentile ospite con gli scarponcini gialli invece aveva detto:
– Quindi, se ho ben capito...– e si era messo a rileggere cosa aveva scritto sul
foglio.
– Ora firmi. Tenga.
Lëvka era indietreggiato.
– Chi è lei?? Lei non rappresenta il Partito!
– Perché no? – si era offeso l’ospite. – Sono un membro anch’io del partito.
Sono un inquirente della GPU.
Rubin bussò di nuovo alla finestrella. Il sorvegliante, evidentemente strappato
al sonno, disse sbuffando: – Che cavolo bussi! Ho telefonato un sacco di volte,
non rispondono.
Gli occhi di Rubin si accesero di indignazione.
– Le ho chiesto di andarci direttamente, non di chiamare! Ho un dolore al
cuore!! Potrei anche morire!
– Non mo-ri-rai – disse strascicando la voce il secondino in tono conciliante,
persino solidale. – Tira fino a domattina. Pensaci, su, come faccio ad andarci
direttamente? Lascio il posto?
– C’è qualche idiota che può soffiarglielo?! – gridò Rubin.
– Non è un problema se qualcuno me lo soffia, è vietato dal regolamento.
Non è mai stato nell’esercito?
A Rubin pulsava così forte la testa che si convinse davvero di essere sul
punto di morire. Vedendogli il viso alterato, il sorvegliante si decise.
– Va bene, ora allontanati, non bussare più. Ci vado di corsa.
E se ne andò sul serio. Rubin ebbe l’impressione che il dolore diminuisse.
Riprese a muoversi a passo ritmato nel corridoio.
Attraverso la memoria riaffioravano ricordi che non avrebbe proprio voluto
ridestare. Dimenticarli significava guarire.
Subito dopo la prigione, per espiare la colpa davanti al Komsomol e
affrettarsi a dimostrare a sé stesso e all’unica classe veramente rivoluzionaria la
propria utilità, Rubin era andato con la pistola sul fianco a collettivizzare un
villaggio.
Quando fuggiva a piedi nudi per tre verste e rispondeva al fuoco dei
contadini montati su tutte le furie, che cosa aveva pensato? “Ecco, sono finito
anch’io nella Guerra civile.” Soltanto.
Era comprensibile! Bisognava distruggere le fosse in cui avevano sotterrato
il grano, impedire ai padroni di macinare la farina e cuocere il pane, di attingere
acqua dal pozzo. E se il bimbo di un padrone moriva – crepassero pure, quei
cani, insieme ai figli –, il pane non si poteva cuocere, bisognava impedirlo. E un
carro solitario con un cavallo macilento, che attraversava all’alba un solitario
villaggio morto, non suscitava pietà, era diventato un’abitudine, come un tram
in città. Un colpo di frusta su un’imposta: – Ci sono defunti? Portateli fuori.
E all’imposta successiva:
– Defunti? Portateli fuori.
E ben presto anche così:
– Ehi! C’è rimasto qualcuno vivo?
Adesso ce l’aveva piantato dentro la testa. Marchiato a fuoco. Bruciava. E a
volte gli sembrava che le sue ferite dipendessero da quello! La prigione fosse
per quello! Le malattie per quello!
Va bene. Era giusto. Ma se aveva capito che era stata una cosa orribile, da
non fare mai più, se per quello aveva già pagato, come poteva liberarsene?
Avrebbe potuto dire: “Oh, ma non c’è mai stato! Adesso facciamo in modo
che non sia mai successo! Fai come se non sia mai accaduto!”
Com’è sfibrante una notte insonne per un’anima triste che ha commesso
tanti errori!
Questa volta fu il sorvegliante a scostare la finestrella. Si era deciso ad
abbandonare il posto di guardia e a fare un salto al comando. A quanto pareva
là dormivano tutti, nessuno aveva alzato la cornetta al suono del telefono.
Il sergente maggiore, appena sveglio, ascoltò il suo rapporto, lo sgridò per
aver lasciato la postazione e, sapendo che l’infermiera stava dormendo con il
tenente, non osò svegliarli.
– Non si può – disse il sorvegliante alla finestrella. – Ci sono andato
direttamente, l’ho riferito. Dicono che non si può. Si deve rinviare a domattina.
– Sto morendo! Muoio! – rantolò Rubin alla finestrella. – Ve la spacco
questa finestrella! Chiami subito il sorvegliante di turno! O faccio lo sciopero
della fame!
– Cosa? Lo sciopero della fame? E chi ti vuole dare da mangiare! – obiettò il
secondino, non a torto. – Fallo domani mattina quando c’è la colazione... Su,
cammina, forza. Chiamo di nuovo il sergente maggiore.
A quei sergenti, tenenti, colonnelli e generali che, sazi, lavoravano con lui e
prendevano lo stipendio non interessava né il destino della bomba atomica né
quello di un detenuto sul punto di crepare.
Ma un detenuto sul punto di crepare doveva essere superiore a tutto questo!
Cercando di non pensare alla nausea e al dolore, Rubin si sforzava di
camminare nel corridoio con il solito passo ritmato. Gli tornò in mente la
favola La spada di Damasco di Krylov. In libertà quella fiaba non aveva attirato
granché la sua attenzione, mentre in prigione ne era rimasto colpito.

Una spada di Damasco con la lama affilata


fra un ammasso di ferraglie qualcuno gettò!
Con quelle al mercato la lama fu portata
E per un niente un contadino l’acquistò.

Con la spada di Damasco il contadino tagliava il tiglio, preparava le sverze. La


spada si fece tutta seghettata e si riempì di ruggine. Un giorno, il Riccio
domandò alla Spada gettata nell’isba sotto una panca se non si vergognasse e
quella gli rispose proprio come Rubin cento volte aveva risposto mentalmente
a sé stesso:
No, non mi devo vergognare io, deve farlo
chi non ha saputo capire a che cosa servivo!
164 Sono versi dell’Internazionale.
72
I TEMPLI CIVILI

Rubin cominciò a sentire una strana debolezza alle gambe, così si sedette al
tavolo e si appoggiò con il petto al bordo.
Più respingeva le ragioni di Sologdin con accanimento, più gli risultava
doloroso rendersi conto che in esse c’era una parte di verità. Sì, c’erano membri
del Komsomol che valevano meno del cartone della loro tessera. E soprattutto
fra le nuove generazioni i principi di virtù erano vacillati, la gente stava
perdendo il senso di ciò che era morale e il senso del bello. I pesci e la società
marcivano dalla testa: da chi avrebbero preso esempio i giovani?
Nelle società antiche sapevano che per ottenere moralità c’era bisogno della
chiesa e di un sacerdote autorevole. Una contadina polacca anche oggi
compierebbe mai un passo serio nella vita senza il consiglio di un prete
cattolico?
Forse ora, per la terra sovietica, più che il canale Volga-Don o la diga
sull’Angara, era importante salvare la moralità della gente!
Come farlo? A quello serviva il Progetto dei Templi civili che Rubin aveva già
abbozzato in prima stesura. Doveva ultimarlo quella notte stessa, finché era in
preda all’insonnia, e poi cercare di farlo uscire dal carcere durante un colloquio.
Fuori lo avrebbero battuto a macchina e mandato al Comitato Centrale del
partito. Mandarlo con la sua firma non si poteva: al Comitato Centrale si
sarebbero offesi di ricevere consigli da un detenuto politico. Ma non si poteva
neanche farlo in modo anonimo. Che lo firmasse pure uno dei suoi amici del
fronte: Rubin sacrificava volentieri la propria gloria per una buona causa.
Sopportando ondate di dolore alla testa, caricò la pipa con tabacco Zolotoe
Runo, ma lo fece solo per abitudine; adesso non soltanto non aveva voglia di
fumare, lo trovava anche disgustoso; accese la pipa e si mise a riesaminare il
progetto.
Con il cappotto direttamente sulla biancheria intima, seduto al tavolo grezzo
e mal piallato cosparso di briciole di pane e di cenere di tabacco, nell’aria
pesante del corridoio non spazzato, lungo il quale ogni tanto frettolosi zek
insonnoliti correvano avanti e indietro per i bisogni notturni, l’autore senza
nome esaminava il progetto altruista da lui abbozzato su vari fogli con una
grafia larga e frettolosa.
Nel preambolo si spiegava la necessità di elevare ancora di più la moralità,
già di per sé alta, della popolazione, di conferire maggiore importanza agli
anniversari rivoluzionari e civili e alle occasioni familiari, attraverso la solennità
rituale degli atti. E per farlo era necessario fondare ovunque dei Templi civili,
grandiosi dal punto di vista architettonico e in grado di dominare il territorio.
Poi, non facendo troppo affidamento sul cervello delle autorità, si formulava
la parte organizzativa in capitoli, suddivisi a loro volta in paragrafi: in centri
abitati di quale dimensione o in quale unità territoriale costruire Templi civili;
in quali date precise officiare; qual era la durata dei singoli riti. Per i giovani
che compivano la maggiore età era previsto uno speciale giuramento di gruppo
davanti al partito, alla patria e ai genitori, con il popolo che affluiva in massa al
tempio.
Nel progetto, in particolare, si insisteva sulle vesti dei servitori dei templi,
che dovevano essere fuori del comune, in quanto espressione della nivea
purezza di chi le indossava. Che le formule rituali fossero studiate in modo da
avere un certo ritmo. Che non si trascurasse nessuno degli organi sensoriali dei
frequentatori del tempio: da un particolare aroma nell’aria a musica e canto
melodiosi, dall’utilizzo di vetri colorati e riflettori ad affreschi alle pareti capaci
di indirizzare i gusti estetici della popolazione, fino all’insieme architettonico
del tempio nella sua interezza.
Ogni parola del progetto andava scelta dolorosamente fra sinonimi, con
raffinatezza. Da una qualsiasi parola incauta persone con vedute ristrette e
superficiali, avrebbero potuto dedurre che l’autore proponeva semplicemente
di ricostruire templi cristiani senza Cristo, ma non era affatto così! Gli amanti
delle analogie storiche avrebbero potuto accusare l’autore di ripetere il culto
dell’Essere Supremo di Robespierre, ma non si trattava affatto di quello, per
niente!
La cosa del Progetto che l’autore considerava più originale era il capitolo sui
nuovi... non sacerdoti, quanto piuttosto, “servitori dei templi”. Riteneva che la
chiave del successo di tutto il progetto dipendesse da quanto si riuscisse o
meno a creare nel paese un corpo di servitori dalla vita irreprensibile e
generosa, che godeva per questa ragione dell’amore e della fiducia del popolo.
Si invitavano i capi del partito a effettuare una selezione di candidati da inviare
ad appositi corsi per servitori di templi, esentandoli da qualsiasi attività in cui
fossero impiegati prima. Una volta superata l’iniziale penuria di servitori, quei
corsi, negli anni sempre più lunghi e approfonditi, avrebbero diffuso un’ampia
cultura e, soprattutto, una grande capacità oratoria. (Il progetto affermava
impavidamente che l’arte oratoria nel nostro paese era arrivata al declino, forse
perché non serviva più convincere nessuno, in quanto tutta la popolazione
appoggiava già senza riserve il proprio Stato.)
Che nessuno accorresse da un detenuto sul punto di morire fuori dell’orario
di lavoro non era per Rubin motivo di stupore. Di casi del genere ne aveva visti
abbastanza al controspionaggio e nelle prigioni di transito. Per questo, quando
alla porta riecheggiò il rumore della chiave, in un primo momento Rubin si
spaventò al pensiero di farsi sorprendere nel pieno della notte impegnato in
un’occupazione non ammessa, cui sarebbe seguita una punizione seccante e
fastidiosa; così raccolse le carte, il libro, il tabacco, e avrebbe voluto
nascondersi in una stanza, ma ormai era tardi: il tarchiato sergente maggiore
con la sua faccia volgare lo aveva visto e lo chiamò dalla soglia spalancata.
Rubin si riprese. E provò subito di nuovo una sensazione di abbandono,
una dolorosa impotenza, sentiva la propria dignità oltraggiata.
– Sergente maggiore – disse, avvicinandosi lentamente al vice del
sorvegliante di turno – sono tre ore che tento di far venire un infermiere.
Presenterò reclamo alla Direzione Carceraria dell’MGB contro l’infermiere di
turno e contro di lei.
Ma il sergente maggiore gli diede una risposta conciliante: – Rubin, prima
era assolutamente impossibile, non dipendeva da me. Andiamo.
Da lui, in effetti, una volta accertato che a smaniare non era un detenuto
qualsiasi, ma uno degli zek più pestiferi, era dipesa soltanto la decisione di
avvisare il tenente. Per un bel pezzo non aveva ricevuto risposta, poi si era
affacciata l’infermiera, che si era subito rintanata dentro. Infine, dal reparto
sanitario era uscito accigliato il tenente che aveva autorizzato il sergente
maggiore a condurre lì Rubin.
A quel punto Rubin si infilò per bene il cappotto e lo abbottonò per coprire
la biancheria. Il sergente maggiore lo condusse attraverso il corridoio
sotterraneo della šaraška, per poi salire con lui fino al cortile della prigione
lungo una scala su cui cadeva fitta una neve farinosa.
In quella notte tranquilla come in un quadro, in cui cadevano incessanti
grossi fiocchi bianchi, tanto che punti confusi e oscuri nella profondità
notturna e nella volta del cielo sembravano decorati da una moltitudine di
colonne candide, il sergente maggiore e Rubin attraversarono il cortile,
lasciando orme profonde nella neve leggera e friabile.
Lì, sotto quel caro cielo nuvoloso di un grigio fumo a causa delle luci
notturne, sentendo sulla barba sollevata e sul viso caldo il contatto infantile e
innocente delle fredde stelline esagonali, Rubin si fermò e chiuse gli occhi. Fu
trafitto dal piacere della quiete tanto più acuto perché breve; da tutta la forza
dell’essere, tutta la felicità di non andare da nessuna parte, di non chiedere
niente, di non volere niente, ma restare soltanto così per un’intera notte,
immobile, beato, benedetto, come gli alberi, e accogliere, accogliere su di sé i
fiocchi di neve.
In quello stesso istante, dalla ferrovia, a meno di un chilometro da Marfino,
giunse il fischio lungo e invadente di una locomotiva, quel particolare fischio
notturno solitario che ti prende l’anima e che allo zenit degli anni ti rammenta
l’infanzia, giacché nell’infanzia prometteva tanto per lo zenit degli anni.
Avesse potuto starsene lì anche solo una mezz’ora, tutto sarebbe sparito,
l’anima e il corpo sarebbero guariti e lui avrebbe composto una tenera poesia
sui fischi delle locomotive nella notte.
Ah, se solo avesse potuto evitare di seguire il soldato di scorta!
Ma il soldato lo stava già squadrando con sospetto: non è che stava
progettando un’evasione notturna?
I piedi di Rubin si diressero là dove era previsto che andassero.
Dopo il sonno ristoratore l’infermiera si era fatta rosea, il sangue le brillava
nelle guance. Sotto il camice bianco che portava slacciato, non indossava la
giubba militare e la gonna, bensì qualcosa di più leggero. Qualunque detenuto
l’avrebbe subito notato, e in un altro momento sarebbe successo anche a
Rubin, ma ora i suoi pensieri non volevano abbassarsi al livello di quella donna
volgare a causa della quale aveva sofferto tutta la notte.
– Mi serve un analgesico e qualcosa contro l’insonnia, però non il Luminal,
ho bisogno di addormentarmi subito.
– Contro l’insonnia non ho niente – fu la risposta automatica e categorica
dell’infermiera.
– Mi serve! – ripeté Rubin con convinzione. – Domani mattina devo
svolgere un lavoro per il ministro e non riesco a addormentarmi.
L’accenno al ministro e la certezza che Rubin sarebbe rimasto lì in piedi a
insistere per quella medicina (mentre il tenente, quasi di sicuro, stava per
tornare da lei) spinsero l’infermiera ad agire come non avrebbe mai fatto: gli
diede il medicinale.
Estrasse da un armadietto una polverina e obbligò Rubin a bere tutto
subito, senza allontanarsi (in base al regolamento medico del carcere, essendo
ogni polverina considerata un’arma, non si poteva dare in mano ai detenuti, ma
soltanto in bocca).
Rubin domandò le ore e, saputo che erano già le tre e mezzo, se ne andò.
Passando di nuovo per il cortile, si voltò a guardare i tigli nella notte, illuminati
in basso dal riflesso delle lampade da cinquecento e da duecento watt della
zona, inspirò profondamente l’aria odorosa di neve, si chinò, attinse a piene
mani un paio di volte dal morbido strato stellato e con quello, leggero,
incorporeo, ghiacciato, si strofinò il viso, il collo, e si riempì la bocca.
La sua anima si unì alla freschezza del mondo.
73
UN CIRCOLO DI OFFESE

La porta tra la camera da letto e la sala da pranzo era aperta, così in mezzo ad
altri suoni secondari riecheggiò chiaramente un forte colpo dell’orologio a
muro.
L’orologio segnava la mezza, ma di quale ora? Adam Rojtman avrebbe
voluto sbirciare quello da polso che ticchettava amichevolmente sul comodino,
ma aveva paura di disturbare la moglie accendendo la luce. Lei dormiva un po’
su un fianco, un po’ distesa sul ventre, con il viso appoggiato contro la spalla
del marito.
Erano sposati già da cinque anni, eppure anche in quello stato di
semincoscienza si sentiva invadere dalla dolcezza di averla accanto, di vederla
dormire in quel modo così buffo, con i piedini sempre ghiacciati, che lui
riscaldava fra le gambe.
Adam si era appena svegliato da un brutto sogno. Avrebbe voluto
riaddormentarsi, ma gli erano venute in mente prima le ultime notizie della
sera precedente, poi i grattacapi al lavoro; lo inondavano pensieri su pensieri,
gli occhi non volevano chiudersi e si era fatta strada in lui quella lucidità
notturna davanti alla quale è inutile tentare di addormentarsi.
Il rumore di passi e di mobili spostati, che la sera prima avevano sentito a
lungo sopra la testa nell’appartamento dei Makarygin, erano finiti da un pezzo.
Dallo spiraglio fra le tendine della finestra, filtrava il debole chiarore
grigiastro della notte.
Disteso in pigiama, privato del sonno, Adam Veniaminovič Rojtman non
sentiva quella solidità di posizione e quella superiorità sulle persone che gli
trasmettevano di giorno le spalline da maggiore dell’MGB e il distintivo del
premio Stalin. Giaceva supino e, come ogni semplice mortale, sentiva che il
mondo era affollato, crudele, e che viverci non era facile.
La sera prima, mentre dai Makarygin regnava l’allegria, era venuto a trovare
Rojtman un suo vecchio amico, pure lui ebreo. Era arrivato senza la moglie, in
ansia, e aveva annunciato nuovi casi di angherie, restrizioni, radiazioni dal
lavoro e persino espulsioni.
Nulla di nuovo. Era cominciato tutto la primavera precedente, dapprincipio
nella critica teatrale, dove era sembrato solo un’innocua indicazione di
cognomi ebrei fra parentesi. Poi era passato alla letteratura. In un giornale
pettegolo, di marchette, che si occupava di tutto fuorché di quello di sua
competenza, la letteratura, qualcuno aveva sussurrato una parolina velenosa:
cosmopolita. L’avevano trovata! Una parola stupenda e fiera, che univa il mondo,
con la quale un tempo si incoronavano geni fuori del comune – Dante, Goethe,
Byron – in quel giornaletto appariva opaca, si era raggrinzita, veniva sibilata e
aveva assunto il significato di giudeo.
Poi la cosa si era spinta oltre, quella parola aveva cominciato a insinuarsi con
pudore nelle cartelle, dietro a porte chiuse.
Ma ora quell’alito freddo stava già toccando i circoli tecnici. Rojtman, che
marciava inflessibile, brillante, verso la gloria, proprio nel corso dell’ultimo
mese aveva sentito la sua posizione vacillare.
Possibile che la memoria lo tradisse? Durante la rivoluzione, e per molto
tempo ancora, in qualche modo la parola “ebreo” aveva suscitato molta più
fiducia di “russo”. Un russo veniva controllato ulteriormente: chi erano i suoi
genitori? con quali redditi vivevano prima del 1917? Un ebreo non aveva
bisogno di nessun controllo: gli ebrei erano tutti in massa per la rivoluzione.
Finché poi... senza farsi notare, nascondendosi dietro personaggi secondari,
aveva raccolto la frusta del persecutore degli israeliti Iosif Stalin.
Quando un gruppo viene perseguitato perché formato da persone che prima
erano state persecutori o membri d’una casta, o per le opinioni politiche o per
la cerchia di conoscenze, si trova sempre una giustificazione ragionevole (o
pseudo-ragionevole?). Hai scelto il tuo destino, potevi anche non stare in quel
gruppo. Ma la nazionalità?
(Il suo interlocutore notturno, a quel punto, replicò dentro di lui:
“Nemmeno l’origine sociale si può scegliere. Eppure ti perseguitano anche per
quello.”)
No, la principale offesa per Rojtman era che tu volevi essere con tutto il
cuore uno dei nostri, come chiunque altro, mentre loro non ti volevano, ti
respingevano, ti dicevano: sei un estraneo. Sei un dannato. Sei un giudeo.
L’orologio a muro della sala da pranzo cominciò a battere con grande
dignità, senza alcuna fretta, ma dopo quattro colpi tacque. Rojtman se ne
aspettava un quinto e si rallegrò che fossero solo le quattro. Faceva ancora in
tempo a addormentarsi.
Si mosse. La moglie mormorò nel sonno, si girò sull’altro fianco, e con la
schiena si appoggiò istintivamente al marito.
Nella sala da pranzo, tranquillo tranquillo, dormiva il figlio. Non strillava,
non chiamava.
Il loro bambino di tre anni, tanto intelligente, era l’orgoglio dei suoi giovani
genitori. Adam Veniaminovič raccontava con entusiasmo le abitudini e le
birichinate del piccolo persino ai detenuti dell’Acustico, non comprendendo,
con la tipica insensibilità delle persone felici, che ascoltarlo per loro che erano
stati privati della paternità rappresentava un dolore. (Per lui era un argomento
comodo, con cui avvicinarsi, ma anche neutrale.) Il figlio parlottava senza sosta,
ma aveva ancora una pronuncia imprecisa: di giorno imitava la madre
(originaria della regione del Volga e pronunciava nettamente le “o” toniche)
mentre di sera il padre, di ritorno dal lavoro. (Adam non aveva soltanto la erre
moscia, ma anche altri spiacevoli difetti di pronuncia.)
Come spesso accade nella vita, quando la felicità arriva, non ha limiti.
L’amore e il matrimonio, poi la nascita del figlio, erano giunti per Rojtman
assieme alla fine della guerra e al premio Stalin. Del resto, anche la guerra era
trascorsa senza grossi problemi: nella tranquilla Baškirija, con le razioni
abbondanti dell’NKVD, Rojtman e i suoi attuali amici dell’istituto di Marfino
avevano messo assieme il primo sistema di codificazione telefonica. Adesso
quel sistema sembrava primitivo, ma allora aveva fatto ottenere loro il premio
Stalin.
Con quanto fervore l’avevano creato! Dov’erano finiti quell’impeto, quelle
ricerche, quegli slanci?
Con la perspicacia di una buia veglia notturna, in cui la vista non si lascia
distrarre da niente e si rivolge al nostro interno, Rojtman d’un tratto capì cosa
gli era mancato negli ultimi anni. Di sicuro il fatto che, adesso, tutto ciò che
faceva non lo faceva lui stesso.
Rojtman non si era nemmeno accorto quando e come fosse scivolato dal
ruolo di creatore a quello di capo dei creatori.
Come scottato, staccò la mano dalla moglie e spostò il cuscino un po’ più in
alto.
Sì! Sì! Sì! Era allettante, facile, il sabato sera, prima di andarsene a trascorrere
a casa una giornata e mezza, quando era già invaso dalla sensazione
dell’intimità domestica e dai progetti domenicali della famiglia, dire: “Allora,
Valentin Martynyč, domani pensi a come possiamo eliminare le distorsioni non
lineari. Lev Grigor’evič! Lei dia un’occhiata a quell’articolo del ‘Proceedings’.
Butti giù i concetti fondamentali.” Il lunedì mattina, ristorato, tornava al lavoro
e, come nelle favole, sulla scrivania trovava un riassunto in russo dell’articolo
del “Proceedings”, mentre Prjančikov gli faceva rapporto sul modo per
eliminare le distorsioni non lineari o addirittura le aveva già eliminate durante
la domenica.
Molto comodo!
I detenuti non se la prendevano con Rojtman, anzi, gli volevano bene.
Perché con loro lui non si comportava come un carceriere, ma soltanto da
brava persona.
Tuttavia la creazione, la gioia di congetture brillanti e l’amarezza delle
sconfitte inaspettate l’avevano abbandonato!
Liberatosi della coperta, si tirò su a sedere, strinse le ginocchia al petto e vi
appoggiò il mento.
Di che cosa si era occupato in tutti quegli anni? Di intrighi. Della lotta per la
supremazia all’istituto. Con un gruppo di amici aveva fatto di tutto per
screditare Jakonov e farlo cadere: ritenevano che lui li mettesse in secondo
piano con la sua autorevolezza, con il suo aplomb, e che avrebbe ricevuto il
premio Stalin da solo. Approfittando di qualche macchia nel passato di
Jakonov che, nonostante lui non smettesse di insistere, gli impediva di essere
accettato nel partito, i “giovani” guidavano ogni volta l’assalto durante le
assemblee, dove gli chiedevano conto di qualcosa, per poi pregarlo di uscire o
discutere subito davanti a lui (“votano solo i membri del partito”), ed
emettevano una risoluzione. Ogni volta Jakonov appariva colpevole. In certi
momenti, a Rojtman dispiaceva quasi per lui. Ma non c’era altra scelta.
Come si era rivoltato tutto in modo così ostile! Nel linciare Jakonov i
“giovani” si erano dimenticati che, su cinque, quattro di loro erano ebrei. E
adesso lui da ogni tribuna non si stancava di ricordare che il cosmopolitismo
era un acerrimo nemico per la patria socialista.
Il giorno prima, dopo l’ira del ministro, in una giornata infausta per l’istituto
di Marfino, il detenuto Markušev aveva avanzato l’idea che i due sistemi, il
clipper e il vocoder, potessero fondersi. Era una sciocchezza, ma si poteva
vendere ai capi come una riforma radicale, e Jakonov aveva subito dato
disposizione di trasferire l’unità del vocoder al Sette e spostarci anche
Prjančikov. Alla presenza di Selivanovskij, Rojtman si era affrettato a
dichiararsi contrario, a opporsi, ma Jakonov gli aveva dato una pacca sulla
spalla con indulgenza, come si fa con un amico troppo irruente.
– Adam Veniaminovič! Non vorrà far credere al viceministro che mette i
suoi interessi personali al di sopra di quelli della Sezione di Tecnica speciale?
Stava proprio in quello l’aspetto tragico della situazione: ti pestavano sul
muso e non potevi piangere! Ti strangolavano in pieno giorno ed esigevano gli
applausi!
All’improvviso l’orologio batté le cinque: Rojtman non aveva sentito
indicare la mezza.
Non solo non aveva voglia di dormire, cominciava a trovare scomodo anche
il letto.
Con estrema cautela, un piede dopo l’altro, scivolò giù dal letto e infilò le
pantofole. Evitando in silenzio una sedia sul suo cammino, si avvicinò alla
finestra e scostò ulteriormente le tendine di seta.
Ooh, quanta neve era caduta!
Proprio al di là del cortile, si trovava l’angolo più remoto e abbandonato del
giardino Neskučnyj, un burrone con i suoi ripidi versanti ricoperti di neve, i
solenni abeti anch’essi innevati. E lungo gli infissi delle finestre, sulla parte
esterna, si erano attaccati al vetro piccoli pendii di neve soffice.
La nevicata, però, si stava esaurendo.
Rojtman sentì le ginocchia appoggiate al radiatore sotto il davanzale scottare
leggermente.
C’era un altro motivo per cui negli ultimi anni non aveva fatto progressi
nella scienza: era sommerso a non finire di riunioni e carte. Ogni lunedì, c’era
Educazione politica; ogni venerdì, Educazione tecnica; due volte al mese, le
assemblee del partito; altre due volte, le riunioni dell’ufficio del partito, e altre
due o tre sere ogni mese, veniva convocato al ministero; una volta al mese,
organizzavano una conferenza speciale sulla vigilanza; ogni mese, doveva
compilare il piano di lavoro scientifico; ogni mese, mandare il rendiconto; tre
volte al mese, chissà perché, compilare le schede di valutazione di tutti i
detenuti (un lavoro che durava una giornata intera). E ogni mezz’ora
arrivavano subordinati con richieste: ogni condensatore grande come una
caramella, ogni metro di cavo, ogni valvola doveva ottenere il visto del capo del
laboratorio, altrimenti il magazzino non li consegnava.
Ah, avrebbe dovuto mandare alla malora le lungaggini burocratiche, la lotta
per la supremazia! Dedicarsi di persona agli schemi, afferrare il saldatore e
captare nella finestrella verde dell’oscillografo elettronico la curva che sperava:
allora sì che avrebbe potuto cantare spensierato il boogie-woogie come
Prjančikov! A trentun anni, quanto sarebbe stato felice di non sentirsi addosso
quelle spalline opprimenti, dimenticare la sobrietà esteriore, essere come un
ragazzino che costruisce qualcosa e ci fantastica sopra. Disse quelle parole,
“come un ragazzino”, e per un capriccio della memoria in lui riaffiorò un
ricordo di quei tempi: con la spietata chiarezza di cui è capace la mente di
notte, ricordò un episodio a lungo dimenticato, che per molti anni non era più
emerso.
Il dodicenne Adam, con la cravatta da pioniere, nobilmente offeso, stava di
fronte all’assemblea dei pionieri di tutta la scuola, e con la voce tremante
accusava, esigeva di cacciare dai giovani pionieri e dalla scuola sovietica un
agente del nemico di classe. Prima di lui erano intervenuti Mit’ka Stitel’man e
Miška Ljuksemburg, e tutti avevano denunciato il loro compagno Oleg
Roždestvenskij di antisemitismo, dicevano che frequentava la chiesa, che aveva
un’origine di classe estranea, e lanciavano sul ragazzino tremante appena
accusato sguardi annientatori.
Era la fine degli anni Venti e i ragazzi vivevano ancora di politica, giornali
murali, autogoverno, dibattiti. Abitavano in una città del sud e gli ebrei
rappresentavano circa la metà della popolazione. Sebbene i ragazzi fossero figli
di avvocati e dentisti, e talvolta anche di piccoli commercianti, si consideravano
tutti, con accanimento e convinzione, dei proletari. Oleg, invece, evitava ogni
discorso di politica, cantava piano nel coro l’Internazionale ed era entrato
chiaramente controvoglia nei pionieri. I piccoli entusiasti sospettavano da
tempo in lui un controrivoluzionario. L’avevano tenuto d’occhio e beccato.
Non potevano dimostrarne le origini, ma una volta Oleg c’era cascato, aveva
detto: “Ogni uomo ha il diritto di dire ciò che pensa.” “Come, tutto?” gli era
saltato addosso Stitel’man. “Nikola mi ha chiamato ‘muso giudeo’, può dire
anche questo?”
Era nato da lì tutto il caso contro Oleg! Si erano trovati due amici-delatori,
Šurik Burikov e Šurik Vorožbit, che avevano visto il colpevole entrare con la
madre in chiesa e venire a scuola con la crocetta al collo. Erano cominciate le
riunioni, le assemblee del comitato degli allievi, del comitato di gruppo, gli
incontri dei pionieri, le adunate, e dappertutto intervenivano dodicenni
Robespierre che stigmatizzavano di fronte alla massa di scolari il complice
degli antisemiti, promotore dell’oppio religioso, che già da due settimane non
mangiava per il terrore, nascondeva a casa di essere stato espulso dai pionieri e
presto lo sarebbe stato anche da scuola.
Adam Rojtman non era il fautore di quella cosa, lo avevano tirato dentro,
ma per l’odiosa vergogna le guance gli avvampavano ancora adesso.
Un circolo di offese! Un circolo di offese! E non c’era via d’uscita, come non
ce n’era dalla lite con Jakonov.
Da chi bisognava cominciare a correggere il mondo? Dagli altri? O da sé
stessi?
Gli erano già montati nella testa quella pesantezza e nel petto quel senso di
vuoto utili a addormentarsi.
Tornò in camera e si sdraiò piano sotto la coperta. Doveva assolutamente
prendere sonno prima che l’orologio battesse le sei.
Bisognava darci dentro con la fonoscopia già dalla mattina dopo! Un
colossale asso nella manica! In caso di successo quell’impresa poteva crescere
fino a dar vita a un istituto scientifico distaccato...
74
L’ALBA DEL LUNEDÌ

La sveglia alla šaraška era alle sette.


Ma il lunedì, assai prima della sveglia, nella stanza in cui dormivano gli
operai, entrò un sorvegliante, afferrò lo spazzino per una spalla e lo scrollò.
Spiridon si svegliò con una russata sonora e guardò il sorvegliante alla luce
della lampadina blu.
– Vestiti, Egorov. Il tenente ti vuole – disse il sorvegliante a bassa voce.
Ma Egorov rimaneva sdraiato con gli occhi aperti.
– Hai sentito cosa ti ho detto? Il tenente ti vuole vedere.
– Ma che gli è preso? Si sono ammattiti... – domandò Spiridon, sempre
immobile.
– Alzati, forza – insistette il sorvegliante. – Non so che cosa vuole.
– E-e-eh! – si stiracchiò a lungo Spiridon, piazzandosi le mani dal pelo
biondastro dietro la testa e sbadigliando a lungo. – Chissà quando arriverà il
giorno in cui non dovrò più alzarmi dalla panca! Che ore sono?
– È presto, non sono neanche le sei.
– Neanchelesei?! Be’, ma allora vattene.
E rimase sdraiato.
Il sorvegliante gli lanciò un’occhiataccia e uscì.
La lampadina blu gettava luce su un angolo del cuscino di Spiridon, fino
all’obliqua ala d’ombra proiettata dalla branda superiore. Spiridon giaceva così,
nella luce e nell’ombra, con le mani dietro la testa.
Gli dispiaceva che il suo sogno fosse finito.
Viaggiava su un carro carico di ramaglia (sotto la quale, nascosta alla guardia
forestale, c’era legna più grossa), come se dal bosco fosse diretto a casa al
villaggio, ma la strada non la conoscesse. Era una strada ignota, eppure in
sogno Spiridon ne vedeva con chiarezza ogni particolare, con tutt’e due gli
occhi (come se li avesse entrambi sani!): radici sollevate di traverso, la crepa di
un vecchio fulmine, pini giovani e sabbia profonda in cui affondavano le ruote.
In sogno gli arrivavano anche tutti i molteplici profumi preautunnali del bosco
e lui li respirava con ardore. Li respirava a quel modo, perché ricordava con
chiarezza di essere uno zek, di avere una condanna a dieci anni e a cinque di
museruola, doveva essere fuggito dalla šaraška, e loro essersene già accorti, per
cui, prima che venisse inseguito dai cani, era necessario che portasse alla moglie
e alla figlia un po’ di legna.
Ma la felicità del sogno derivava principalmente dal fatto che il cavallo non
era un cavallo qualsiasi, ma il più amato fra quelli che Spiridon aveva avuto,
Grivna, una puledra rosa di tre anni, la prima comprata per la sua azienda
agricola dopo la Guerra civile. Era tutta grigia con una sfumatura rossiccia
uniforme, per la quale definivano il suo manto “rosa”. Grazie a quella cavalla si
era rimesso in piedi, l’aveva attaccata al tiro per portare via di nascosto la
fidanzata Marfa Ustinovna e sposarla. Adesso Spiridon procedeva con lei e,
felice, si meravigliava che Grivna fosse ancora viva e per di più giovane, tirasse
il carro su per le salite senza fermarsi e lo trascinasse con fervore nella sabbia.
Tutta l’intelligenza di Grivna era racchiusa nelle sue orecchie, orecchie alte,
grigie, reattive, i cui piccoli movimenti dicevano al padrone, senza voltarsi, che
lei capiva cosa le si chiedeva e ci sarebbe riuscita. Mostrare la frusta a Grivna
anche da lontano, di sfuggita, significava offenderla. Quando usciva con lei,
Spiridon non portava mai la frusta.
Nel sogno avrebbe voluto smontare e baciarla sul muso tanto era felice di
vederla ancora giovane, ed era probabile che attendesse la fine della propria
condanna, quando, all’improvviso, nella discesa verso un ruscello, si era accorto
che il carico pendeva da una parte e la ramaglia scivolava, minacciando di far
crollare tutto nel guado.
Uno scossone, poi, l’aveva scaraventato giù dal carro: era il sorvegliante che
lo scuoteva.
Spiridon se ne stava lì sdraiato a ricordare non solo la sua Grivna, ma le
decine di cavalli con i quali aveva dovuto viaggiare e lavorare durante la vita
(ognuno gli era rimasto impresso come una persona), e anche le migliaia di
cavalli altrui che aveva visto. E trovava sfiancante che per un nonnulla, senza
una ragione, si mandassero a morte i principali aiutanti degli uomini, alcuni
stremati senz’avena e senza fieno, altri stroncati dal lavoro, altri ancora venduti
ai tartari come carne. Se una cosa si faceva per una ragione Spiridon riusciva a
comprenderla. Ma perché annientassero i cavalli non lo capiva proprio. Allora
andavano raccontando che il trattore avrebbe sostituito il cavallo. Tutto,
invece, era ricaduto sulle spalle delle donne.
Ma il problema erano davvero solo i cavalli? Non aveva forse anche lui
tagliato i frutteti delle fattorie in modo che la gente non avesse più nulla da
perdere e accettasse di unirsi a loro?
– Egorov! – gridò ora forte dalla porta il sorvegliante, svegliando altri due
che dormivano.
– Vengo, per la miseria! – rispose subito Spiridon, calando i piedi scalzi sul
pavimento. E si trascinò verso il termosifone per togliervi le pezze da piedi
asciutte.
La porta si chiuse alle spalle della guardia. Il fabbro, suo vicino di branda, gli
domandò:
– Dove vai, Spiridon?
– Lor signori mi chiamano. Vado a guadagnarmi il rancio – disse lo
spazzino, arrabbiato.
Spiridon, che a casa era stato un contadino diligente, in prigione non amava
alzarsi con il buio. Tirarsi su dalla branda prima dell’alba è la cosa peggiore per
un carcerato.
Ma nel sistema del SevUralLag facevano alzare alle cinque del mattino.
Dunque, alla šaraška, conveniva piegarsi.
Avvolte con le lunghe fasce da soldato le estremità dei pantaloni imbottiti e
gli scarponi da soldato, Spiridon si infilò già vestito e calzato nella tuta blu, la
sua seconda pelle, si gettò addosso la giubba nera da marinaio, il cappello di
pelliccia con i paraorecchi, e si incamminò, stretto in una malconcia cintura di
tela cerata. Lo fecero passare attraverso la porta ferrata del carcere, senza
scortarlo oltre. Spiridon percorse il corridoio sotterraneo, strascicando i tacchi
ferrati sul cemento, e salì per la scala fino al cortile.
Non vedeva nulla nel buio innevato, ma sentiva con i piedi – impossibile
sbagliarsi – che era caduta una trentina di centimetri di neve. Dunque, aveva
nevicato fitto tutta la notte. Si incamminò arrancando verso il lumicino della
porta del comando.
Sulla soglia del comando del carcere, proprio in quel momento, uscì il
sorvegliante di turno, il tenente dai baffetti miseri. Lasciata da poco
l’infermiera, si era subito accorto della situazione irregolare: era caduta molta
neve, ragion per cui aveva fatto chiamare lo spazzino. Con entrambe le mani
sul cinturone, il tenente disse:
– Dài, Spiridon, dài! Devi spalare dall’ingresso principale alla torretta di
guardia, poi dal comando alla cucina. E anche qui... nel cortile della
passeggiata... Dài!
– Dài, dài... se la dài a tutti, al marito poi che resta? – brontolò Spiridon,
avviandosi in mezzo alla distesa di neve vergine verso la pala.
– Cosa? Che cosa hai detto? – domandò minaccioso il tenente.
– Dico Jawohl, capo, Jawohl! – (Anche i tedeschi alzavano la voce e Spiridon
gli rispondeva sempre Jawohl.) – Chiedi in cucina che mi tengano via le patate.
– D’accordo, spala.
Spiridon si comportava sempre con cautela, non litigava mai con i capi, ma
oggi era di un umore particolarmente nero: perché era lunedì mattina, doveva
piegare di nuovo la schiena senza essersi nemmeno svegliato del tutto e quella
lettera arrivata da casa non presagiva nulla di buono. Tutta l’amarezza dei suoi
cinquant’anni su questa terra si era concentrata insieme e gli bruciava nel petto.
Di neve non ne cadeva più. I tigli avevano smesso di frusciare. Ora erano
tutti bianchi. Non per la brina del giorno precedente, sparita già verso l’ora di
pranzo, ma per la neve caduta durante la notte. Spiridon intuì dal cielo scuro e
dalla bonaccia che non si sarebbe conservata a lungo.
Prese a lavorare con aria cupa, ma dopo una certa soglia, bastavano
cinquanta spalate, fu tutto più facile, divenne quasi un piacere. Spiridon e la
moglie in questo erano uguali: nel lavoro trovavano uno sfogo a tutto quello
che si accumulava sul cuore. E l’umore nero si stava attenuando.
Spiridon non cominciò dalla strada della torretta di guardia, per i capi, come
gli era stato ordinato, ma fece di testa propria: si occupò prima del viottolo
verso la cucina, poi, con tre spalate della larga pala di legno, di quello circolare
nel cortile della passeggiata, per i suoi fratelli zek.
Ma in testa aveva solo la figlia. Lui e la moglie era vissuti abbastanza. I figli
maschi, sebbene dietro il filo spinato, restavano pur sempre uomini. Un
giovane così si irrobustisce, poi gli torna buono. Ma la figlia?
Sebbene da un occhio non ci vedesse niente, e dall’altro soltanto per tre
decimi, Spiridon contornò tutto il cortile della passeggiata formando un
oblungo cerchio regolare ancor prima che facesse giorno, verso le sette, quando
dalla scala salirono in cortile i primi zek desiderosi di camminare. Si trattava di
Potapov e Chorobrov, che a tale scopo si erano alzati in anticipo e lavati prima
della sveglia.
L’aria era razionata, quindi preziosa.
– Che fai, Danilyč? – domandò Chorobrov, sollevando il colletto del logoro
cappotto borghese con cui era stato arrestato tempo addietro. – Non sei andato
a dormire?
– Te lo lasciano fare, quei serpenti? – rispose Spiridon. Ma la stizza che
aveva prima era svanita. Durante quell’ora di taciturno lavoro tutti i pensieri
tristi sui carcerieri l’avevano abbandonato. Senza bisogno di dirselo a parole,
Spiridon aveva deciso con il cuore che se davvero la figlia era nei guai e non se
la passava bene, lui faceva meglio a rispondere con dolcezza e a non maledirli.
Ma anche quel pensiero sulla figlia, per lui il più importante, ispirato dagli
immobili tigli antelucani, cominciava a farsi ricacciare indietro dalle piccole
incombenze della giornata: le due assi sepolte dalla neve chissà dove, la
ramazza che andava fissata un po’ più stretta al manico.
Intanto doveva ancora andare a pulire la strada che partiva dalla torretta di
guardia, per le automobili e per i liberi. Spiridon si gettò la pala sulla spalla,
fece il giro dell’edificio della šaraška e scomparve.
Sologdin, leggero, slanciato, con la giubba imbottita buttata sulle spalle che
non gelavano mai, passò diretto al taglio della legna. (Quando camminava così,
immaginava di sentire una voce annunciare: “Ecco che arriva il conte
Sologdin.”) Dopo lo scontro sconclusionato della sera precedente con Rubin,
dopo le sue irritanti accuse, per la prima volta in due anni alla šaraška aveva
dormito male e quella mattina era in cerca di aria, solitudine e spazio per
riflettere. Aveva un po’ di legna già segata, doveva solo spaccarla.
Con indosso il cappotto dell’Armata Rossa ricevuto durante la presa di
Berlino, quando era stato assegnato a un carro armato delle truppe da sbarco
(prima della prigionia era ufficiale, ma se venivi preso prigioniero non ti
riconoscevano più i gradi), Potapov passeggiava piano con Chorobrov,
gettando la gamba leggermente di lato nel camminare.
Chorobrov aveva appena fatto in tempo a scuotersi dalla sonnolenza e a
lavarsi, che la sua attenzione eternamente vigile e pronta all’odio gli aveva
invaso subito i pensieri. Le parole gli uscivano di bocca ma era come se, al pari
di un boomerang, disegnassero un cerchio sterile nell’aria buia e tornassero
indietro a dilaniargli il petto.
– Quanto tempo è passato da quando scrivevano che la catena di montaggio
fordista trasforma l’operaio in una macchina e rappresenta l’espressione più
disumana dello sfruttamento capitalistico? Quindici anni, eppure quella stessa
catena di montaggio ora viene esaltata con il nome di flusso come la più
moderna e suprema forma di produzione! Nel 1945 Chiang Kai-shek era un
nostro alleato, nel 1949 riuscirono a farlo cadere, così divenne una canaglia e i
suoi una cricca. Adesso stanno cercando di rovesciare Nehru, scrivono che in
India il suo regime usa il pugno di ferro. Se riusciranno a farlo cadere,
scriveranno “la cricca di Nehru, fuggita sull’isola di Ceylon”. Se non ci
riusciranno, sarà “il nostro nobile amico Nehru”. I bolscevichi si adattano in
modo così spudorato alla situazione del momento che se oggi fosse necessario
giungere a un nuovo battesimo di tutta la Rus’, quelli pescherebbero
un’indicazione appropriata in Marx e lo collegherebbero sia all’ateismo sia
all’internazionalismo.
Al mattino Potapov era sempre di umore malinconico. Il mattino era l’unico
momento della giornata in cui poteva pensare alla propria vita distrutta, al
figlio che cresceva senza di lui, alla moglie che senza di lui si consumava. Poi la
frenesia del lavoro lo travolgeva e di pensare non c’era più tempo.
In un certo senso Chorobrov aveva ragione ma Potapov avvertiva in lui
troppo fastidio e troppa disponibilità a esortare l’Occidente a farsi giudice degli
affari nostri. Per Potapov la disputa fra il popolo e il potere andava risolta nello
stesso modo (a lui ignoto) in cui si risolveva una disputa in famiglia. Perciò,
gettando di lato goffamente la sua gamba lesa, camminava in silenzio e si
sforzava di respirare in modo più profondo e più regolare.
Fecero una serie di giri.
Si aggiunsero altri zek. Camminavano da soli, in due, ma anche in tre.
Nascondendo i loro discorsi per ragioni diverse, cercavano di non accalcarsi e
di non superarsi se non strettamente necessario.
Albeggiava. Il cielo chiuso da nuvole nevose tardava a lasciar passare i
riflessi del mattino. I lampioni proiettavano ancora cerchi gialli sulla coltre
bianca.
Si sentiva la tipica aria frizzante che si diffonde quando è appena nevicato.
Sotto i piedi la neve non scricchiolava, si compattava morbidamente.
L’alto e dritto Kondrašëv, con il cappello di feltro in testa, camminava
assieme al bassino e gracile Gerasimovič, suo vicino di branda, che portava un
berrettino con la visiera e non gli arrivava nemmeno alla spalla.
Distrutto dal colloquio con la moglie, Gerasimovič era rimasto a letto come
malato per il resto della domenica. Il grido d’addio della moglie lo aveva
sconvolto.
Ebbene, non poteva lasciar trascorrere la pena come prima. Doveva darsi da
fare: Nataša non avrebbe retto altri tre anni. “Dovrai pure avere un’idea in
mente!” lo aveva rimproverato lei, conoscendo la testa del marito.
E lui qualcosa l’aveva davvero, ma era troppo inestimabile per consegnarla a
loro e ricevere in cambio un’elemosina da pezzenti.
Se solo gli fosse venuto in mente qualcosa di più piccolo, un gingillo per la
scarcerazione anticipata. Ma non accadeva mai così. La scienza e la vita non
concedono mai niente gratis.
Gerasimovič non si era ripreso nemmeno il mattino successivo. Intirizzito,
imbacuccato, era uscito per la passeggiata di malavoglia e avrebbe voluto
rientrare immediatamente. Ma si era imbattuto in Kondrašëv-Ivanov, aveva
fatto un giro con lui e si era lasciato prendere dalla passeggiata.
– Come?! Davvero non conosce Pavel Dmitrievič Korin? – si stupì
Kondrašëv, quasi fosse un pittore noto a qualunque scolaro. – Oh-oh-oh!
Dicono che sia suo... ma nessuno l’ha mai visto... un quadro meraviglioso
intitolato La Rus’ che scompare! Secondo alcuni è lungo sei metri; per altri,
dodici. Lo hanno perseguitato, non gli permettono di fare mostre, così sta
dipingendo in segreto questo quadro, al quale, dopo la morte, a quanto pare,
metteranno i sigilli...
– Che cosa raffigura?
– Non l’ho visto direttamente, perciò non garantisco. Dovrebbe esserci una
semplice strada della Russia Centrale, in mezzo alle colline, ai boschetti. Con
una fiumana di gente dall’espressione pensierosa. Ogni singolo viso è studiato
nei dettagli. Visi che si possono ancora vedere sulle vecchie fotografie di
famiglia, ma che intorno a noi non ci sono più. Visi luminosi di contadini,
aratori, artigiani della vecchia Russia: la fronte decisa, la barba da profeta, pelle,
sguardo e pensieri freschi fino a ottant’anni. Visi di ragazze con oro invisibile a
proteggere le orecchie da parole ingiuriose, impossibili da immaginare nella
bolgia infernale della pista da ballo. E vecchie seriose. Camminano su quella
strada anche sacerdoti dai capelli d’argento, con indosso la loro pianeta. E
monaci. Deputati della Duma Statale. Studenti già maturi nelle giubbe.
Ginnasiali in cerca di verità universali. Dame belle e altezzose in abiti cittadini
di inizio secolo. E uno che assomiglia a Korolenko. Poi contadini, altri
contadini... La cosa pazzesca è che queste persone sono tutte mischiate. Il
tempo è fuori squadra! Non parlano fra loro. Non si guardano fra loro, forse
non si vedono neanche. Non hanno carichi da viaggiatori sulla schiena. Vanno,
non per quella particolare strada, se ne vanno. Vanno via... li vediamo per
l’ultima volta...
Gerasimovič si fermò di colpo.
– Mi scusi, vorrei restare da solo!
Si girò di scatto e, lasciato il pittore con la mano sollevata, proseguì in
direzione opposta.
Fremeva. Non solo aveva visto il quadro in modo nitido, come se lo avesse
dipinto lui stesso, ma aveva pensato che...
Il mattino era arrivato.
Un sorvegliante stava attraversando il cortile e gridava che la passeggiata era
finita.
Al ritorno, lungo il corridoio sotterraneo, i detenuti rinfrescati urtavano
senza volerlo Rubin, dolorosamente pallido nella barba scura, che si faceva
largo in direzione opposta. Quella mattina, aveva fatto tardi non soltanto per la
legna (era assurdo andarci dopo la lite con Sologdin), ma anche per la
passeggiata. Il breve sonno artificiale gli aveva reso il corpo pesante, di
un’insensibilità ovattata. Rubin, inoltre, aveva fame d’ossigeno, una cosa che chi
può respirare quando vuole non conosce. Adesso tentava di uscire nel cortile
per prendere anche solo una boccata d’aria fresca e una manciata di neve con
cui strofinarsi.
Ma il sorvegliante, in piedi in cima alla scala, non lo lasciò passare.
Rubin si trovava in fondo alla scala, nella buca di cemento, dove la neve era
caduta ugualmente e arrivava aria fresca. Lì, in basso, fece tre lente
circonduzioni delle braccia, respirando deciso, dopodiché raccolse un po’ di
neve dal fondo della buca, si strofinò la faccia e arrancò di nuovo dentro la
prigione.
Si aggiunse anche Spiridon, forte e affamato, che aveva già pulito la strada
per le macchine fino alla torretta di guardia.
Al comando della prigione i due tenenti, quello con i baffetti quadrati sul
punto di smontare e Žvakun, che stava per prendere servizio, aprirono un plico
e vennero a conoscenza dell’ordine lasciato per loro dal maggiore Myšin.
Il tenente Žvakun, un ragazzo rude, con il muso largo e impenetrabile,
durante la guerra aveva prestato servizio in una divisione come boia (si
chiamava “esecutore presso il tribunale militare”) con il grado di sergente
maggiore, e da lì aveva fatto carriera. Ci teneva molto al suo posto alla Prigione
speciale n. 1 e per non sbagliare niente, non brillando per livello d’istruzione,
rilesse due volte l’ordine di Myšin.
Alle nove meno dieci si recarono a fare l’appello nelle stanze e annunciarono
ovunque le disposizioni ricevute.
– Tutti i detenuti dovranno consegnare al maggiore Myšin entro tre giorni
l’elenco dei propri parenti diretti compilandolo nel seguente modo: numero
progressivo, cognome, nome, patronimico del parente, grado di parentela,
luogo di lavoro e domicilio.
– Si considerano parenti diretti: la madre, il padre, la moglie da matrimonio
registrato, figli e figlie da matrimonio registrato. Tutti gli altri – fratelli, sorelle,
zie, nipoti, nonne – sono parenti indiretti.
– Dal 1° gennaio la corrispondenza e i colloqui saranno consentiti solo ai
parenti diretti che il detenuto indicherà nell’elenco.
– Inoltre, dal 1° gennaio la lunghezza massima stabilita per ogni lettera
mensile equivarrà a non più di un foglio aperto di quaderno.
Quanto annunciato era così malvagio e implacabile che la ragione non era in
grado di coglierlo. Così, ad accompagnare Žvakun non ci furono né
disperazione né sdegno, ma soltanto grida astiosamente beffarde.
– Buon anno a voi!
– Tanta felicità!
– Cucù!
– Ci fate scrivere denunce contro i parenti!
– Ma gli sbirri non sono capaci di trovarseli da soli?
– E la misura dei caratteri, non la stabilite? Di che grandezza li volete?
Mentre contava gli zek, Žvakun cercava al contempo di fissarsi in testa chi
stava gridando, per poi riferirlo al maggiore.
Del resto, i detenuti sono sempre scontenti, che tu faccia loro del bene o
no...
75
QUATTRO CHIODI

Avviliti, gli zek se ne andarono al lavoro.


Persino quelli che si trovavano in carcere da parecchio tempo erano rimasti
stupiti dalla crudeltà di quel nuovo provvedimento. Una crudeltà doppia in un
luogo simile. Primo, perché di lì in avanti si poteva mantenere un sottile filo
d’unione vivifico con i parenti solo al costo di denunciarli alla polizia. Molti di
loro, infatti, fino a quel momento, erano riusciti a nascondere di avere
congiunti dietro le sbarre, unica cosa che assicurava loro un lavoro e un
alloggio. Secondo, si ripudiavano le mogli e i figli di matrimoni non registrati,
si ripudiavano i fratelli e le sorelle, e tanto più i cugini. Ma dopo la guerra, i
bombardamenti, le evacuazioni e la fame, a molti zek di parenti non ne erano
rimasti. E, siccome a un arresto non ti preparano, prima non ti confessi, non fai
la comunione, non tiri le somme finali della tua vita, molti avevano lasciato in
libertà amiche fedeli ma senza lo sporco timbro dello ZAGS, il registro degli
atti civili, sul documento d’identità. E adesso quelle amiche erano considerate
delle estranee... Al di qua dell’ampia Cortina di Ferro che circondava il
perimetro del paese, intorno a Marfino ne stava calando un’altra, angusta, cupa,
d’acciaio.
Caddero le braccia persino ai più accaniti entusiasti del lavoro statale. Al
suono del campanello, gli zek ci impiegarono parecchio a uscire: si affollavano
nei corridoi, fumavano, discutevano. Seduti ai loro tavoli da lavoro,
continuarono a fumare e a discutere, e la domanda principale che tutti si
facevano era: possibile che all’archivio centrale dell’MGB non avessero ancora
raccolto e catalogato informazioni su tutti i parenti degli zek? I novellini e gli
ingenui ritenevano il GB onnipotente, onnisciente, tanto da non aver bisogno
di elenchi-denuncia. Ma i vecchi zek, esperti, scrollavano la testa convinti: per
loro la Sicurezza di Stato era un enorme ingranaggio sconclusionato, così come
tutta la macchina statale; spiegavano che al GB l’archivio dei parenti era
sottosopra; dietro le porte di cuoio nero gli uffici del personale e le sezioni
speciali “non sapevano che pesci pigliare” (si accontentavano delle razioni da
ufficiali); le segreterie delle prigioni non traevano le informazioni dai registri
delle visite e dei pacchi con tempestività; l’elenco dei parenti richiesto da
Kliment’ev e da Myšin, dunque, era il colpo mortale più preciso che uno zek
potesse infliggere ai propri cari.
Gli zek discutevano a quel modo e di lavorare nessuno aveva più voglia.
Ma quella mattina era cominciata l’ultima settimana dell’anno, durante la
quale, nelle intenzioni della direzione dell’istituto, bisognava fare uno scatto
eroico per realizzare il piano annuale del 1949 e il piano di dicembre, nonché
elaborare e approvare il piano annuale per il 1950, il piano trimestrale gennaio-
marzo e, separatamente, il piano di gennaio e quello per la prima decade del
mese. Alla direzione toccava l’incombenza delle carte. Agli zek, quella del
lavoro. Perciò l’entusiasmo dei detenuti quel giorno era particolarmente
importante.
I responsabili dell’istituto erano all’oscuro del distruttivo annuncio
mattutino escogitato dal comando del carcere per il proprio piano annuale.
Nessuno avrebbe mai accusato il Ministero della Sicurezza di Stato di avere
uno stile di vita evangelico! Ma una caratteristica evangelica la possedeva
davvero: la mano destra non sapeva cosa faceva la sinistra.
Il maggiore Rojtman, sul cui viso fresco di rasatura non era rimasta traccia
dei dubbi della notte, convocò una riunione di produzione con tutti gli zek e
tutti i liberi del Laboratorio Acustico per dare istruzioni sui piani. Aveva
sporgenti labbra da negro su un volto intelligente e allungato. Sul petto magro,
sopra la giubba larga, portava un’inutile bandoliera, messa lì piuttosto a
sproposito. Desiderava fare coraggio a sé stesso e rincuorare i sottoposti, ma il
soffio della rovina era già penetrato sotto le volte della stanza: con il quadro
del vocoder portato via, una metà del locale aveva un aspetto squallido e
inospitale; mancava Prjančikov, perla della corona dell’Acustico; mancava
Rubin, chiuso a chiave in una stanza al secondo piano assieme a Smolosidov;
infine, lo stesso Rojtman aveva fretta di finire e di raggiungerlo.
Fra i liberi mancava Simočka, capitata di nuovo in turno dopo pranzo per
sostituire qualcuno. Meno male che non c’era! Così dava un po’ di tregua a
Neržin! Non avrebbe dovuto comunicare con lei a gesti e con dei bigliettini.
Neržin sedeva appoggiato allo schienale cedevole e imbottito della sua sedia
fra i presenti alla riunione, i piedi sul traversino di un’altra. Per lo più, sbirciava
dalla finestra.
Fuori si era alzato un vento umido che proveniva da ovest. Aveva reso
plumbeo il cielo nuvoloso e schiacciato la neve caduta. Era in arrivo un altro
disgelo inutile e putrido.
Neržin sedeva lì fiacco, con l’aria di chi non ha dormito a sufficienza e rughe
profonde evidenziate dalla luce grigia. La sua era la tipica sensazione del lunedì
mattina che molti detenuti conoscevano, quando sembrano mancarti le forze
per muoverti e vivere.
Che senso aveva una visita all’anno? Ne aveva avuta una soltanto il giorno
prima. Pensava di aver detto alla moglie tutte le cose più urgenti e necessarie,
che per lungo tempo non ne avrebbe avuto bisogno! E già oggi...
Quando glielo avrebbe detto? Doveva scriverle? Ma come scrivere una roba
del genere? Poteva indicare il posto dove lavorava? Dopo quanto accaduto il
giorno prima, era evidente che non poteva.
Doveva spiegarle che siccome non poteva fornire informazioni sul suo
conto, era necessario interrompere la loro corrispondenza? Ma l’indirizzo sulla
busta era già una denuncia!
O non doveva scriverle proprio? Ma che avrebbe pensato di lui? Il giorno
prima era lì che le sorrideva e quello dopo non si faceva più sentire?
Gli mancava il fiato, si sentiva stretto in una morsa; non una poetica,
figurata, una enorme da officina con i denti zigrinati, le fauci pronte a serrare
un collo umano; la sensazione di una morsa che si stringeva intorno al suo
petto.
Trovare una via d’uscita era impossibile! Era una cosa orrenda e basta.
Il miope e educato Rojtman guardava con occhi miti dai suoi occhiali
anastigmatici e, con voce velata di stanchezza e supplica non adatta a un capo,
parlava di piani, piani e ancora piani.
Tuttavia, seminava sulla pietra.
Stretto fra le sedie e i tavoli, senza aria e senza spazio per muoversi, serrato
da ganasce meccaniche, Neržin sedeva avvilito, gli angoli delle labbra cascanti.
Strizzando gli occhi, fissava con indifferenza la recinzione scura, la torretta con
il girachiavi, piazzata proprio davanti alla sua finestra.
Ma dietro il viso immobile e inoffensivo, gli montava la collera.
Di lì a qualche anno le persone che avevano ascoltato con lui l’annuncio di
quella mattina, che ora si intristivano, si indignavano, con l’umore a terra, che
ribollivano di rabbia, sdegnate, alcune sarebbero finite nella tomba, altre si
sarebbero rabbonite, intiepidite, altre ancora avrebbero dimenticato, rinnegato
tutto, calpestato con sollievo il proprio trascorso carcerario, e le restanti
avrebbero travisato ogni cosa, detto persino che si trattava di un
provvedimento ragionevole, non crudele, e forse nessuno di loro si sarebbe
deciso a rinfacciare agli aguzzini di oggi come avevano trattato un cuore
umano!
La montagna è ripida e ti sa ingannare, la disgrazia è rapida e si fa
dimenticare.
Dimenticare è una caratteristica sorprendente degli esseri umani!
Dimenticare cosa giurarono nel Diciassette. Dimenticare cosa promisero nel
Ventotto. Anno dopo anno, ottusi, rassegnati, scendere di gradino in gradino
nella dignità, nella libertà, nel vestiario, nel vitto, con la memoria che si fa
sempre più corta, e più docile diventa il desiderio di battersi nella fossa, nel
burrone, nella crepa, e sopravvivere laggiù in qualche modo.
Ma Neržin più forte di quello sentiva il dovere e la vocazione per tutti loro.
Vedeva in sé una pignola capacità di non smarrirsi, non placarsi, non
dimenticare mai.
Per tutto, tutto, proprio tutto, per le inchieste strazianti, per i cadaveri
ambulanti che morivano nei campi di lavoro e per l’annuncio di quella mattina,
aveva quattro chiodi con cui fissare il loro ricordo! Quattro chiodi per ognuna
delle loro panzane, nei palmi e negli stinchi, e possa la loro menzogna restare
appesa a marcire finché non si spenga il Sole, finché sul pianeta Terra non
impietrisca la vita.
E se anche non fosse rimasto più nessuno, a piantare quei chiodi avrebbe
provveduto Neržin stesso.
No, chi è stretto in una morsa meccanica non ha il sorriso scettico di
Pirrone.
Le orecchie di Neržin udivano, senza ascoltare, ciò che Rojtman stava
dicendo. Gleb sussultò per il ribrezzo solo quando gli sentì ripetere più volte
“obblighi socialisti”. Con i piani in qualche modo si era riconciliato. Li
organizzava con destrezza. Si era dato da fare affinché dietro alle decine di
massicci punti del piano annuale non si celasse troppo lavoro: o era in parte già
fatto o non richiedeva un grande sforzo o si trattava di un miraggio. Ma ogni
volta che presentava loro un piano limato e lisciato perfettamente per
l’approvazione, e quello veniva approvato in quanto considerato al limite delle
possibilità, subito in contrasto con quel limite riconosciuto e in spregio dei
sentimenti del detenuto politico, a Neržin si proponeva ogni mese di apportare
al piano un ulteriore obbligo socialista scientifico.
Dopo Rojtman disse la propria un libero, poi uno zek. Infine Adam
Veniaminovič domandò:
– E lei che ne dice, Gleb Vikent’ič?
Quattro chiodi!!! Che cosa poteva dire loro?
A quella domanda Neržin non era trasalito. Non aveva lasciato cadere nella
parte scura del cervello quei chiodi di ferro piantati in segreto. La loro brutale
inesorabilità celava un’astuzia a propria volta brutale! Come se si aspettasse
quell’invito, Neržin si alzò di scatto, con un bonario interesse sul viso.
– Il gruppo di articolazione ha realizzato pienamente il piano del 1949
secondo tutti i parametri e in anticipo. Al momento sto elaborando, dal punto
di vista matematico, le basi teorico-probabilistiche dell’articolazione della frase
interrogativa, cosa che conto di finire verso marzo e che darà la possibilità di
articolare le frasi in modo scientifico. Inoltre, nel primo trimestre, anche nel
caso in cui mancasse Lev Grigor’ič, ho intenzione di svolgere una
classificazione delle voci umane oggettiva, per gli strumenti utilizzati, e
soggettiva, nella descrizione.
– Sì-sì-sì, le voci! Sono molto importanti! – intervenne Rojtman, pensando ai
propri progetti sulla fonoscopia.
Il severo pallore di Neržin e i capelli che gli si diradavano erano la prova
della sua vita da martire della scienza: la scienza dell’articolazione.
– E bisognerebbe ravvivare la competizione... sì, aiuterebbe – concluse,
convinto. – Entro il 1° gennaio realizzeremo anche gli obblighi socialisti.
Ritengo, inoltre, che il nostro dovere per l’anno a venire sia di lavorare più e
meglio dell’anno passato. – (Anche se nell’anno passato lui non aveva fatto
niente.)
Intervennero altri due zek. E anche se per loro la cosa più naturale sarebbe
stata confessare davanti a Rojtman e agli altri presenti alla riunione che non
riuscivano a pensare ai piani, le braccia non potevano darsi da fare nel lavoro
quando stavano perdendo l’ultimo miraggio della famiglia, non era quello che i
capi si aspettavano, tesi com’erano verso lo slancio lavorativo. Se anche
qualcuno avesse osato dirlo, Rojtman si sarebbe confuso, avrebbe sbattuto le
palpebre offeso, e la riunione sarebbe comunque continuata come da
programma.
La riunione si concluse e Rojtman, con slancio giovanile, salì di corsa al
secondo piano, due gradini per volta, e bussò alla stanza segreta di Rubin.
Lì fioccavano già le congetture. Stavano confrontando i nastri magnetici.
76
L’ADORATA PROFESSIONE

A dividersi il reparto degli operčekisti dell’impianto di Marfino erano il maggiore


Myšin, compare della prigione, e il maggiore Šikin, compare della produzione.
Siccome dipendevano da enti diversi, e ricevevano lo stipendio da casse diverse,
non erano in competizione tra loro. Tuttavia, non collaboravano nemmeno, per
via di una certa pigrizia: i loro uffici si trovavano su piani diversi, in edifici
diversi; per telefono di questioni riguardanti il reparto degli operčekisti non
discutevano; essendo pari grado, ritenevano offensivo andare per primi l’uno
dall’altro, neanche fosse una riverenza, un modo per rendere omaggio. Così i
due lavoravano, occupandosi l’uno delle anime notturne, l’altro di quelle
diurne, senza vedersi per mesi, sebbene nei rendiconti e nei piani trimestrali
scrivessero entrambi che all’impianto di Marfino era necessaria una stretta
coordinazione di tutto il lavoro operativo. Un giorno, leggendo la “Pravda”, il
maggiore Šikin si era messo a riflettere sul titolo di un articolo: “L’amata
professione.” (Parlava di un agitatore che amava soprattutto spiegare le cose agli
altri: agli operai, l’importanza di aumentare la produttività; ai soldati, la
necessità di sacrificarsi; agli elettori, quanto fosse giusta la politica della
coalizione di comunisti e senza partito.) A Šikin quel titolo era piaciuto molto.
Era giunto alla conclusione che nemmeno lui nella vita si era sbagliato: fin dalla
nascita era stato attratto solo da quella professione. L’amava molto ed era
ricambiato.
A suo tempo, Šikin si era diplomato all’istituto della GPU, poi ai corsi di
perfezionamento per inquirenti, ma siccome al lavoro l’attività da inquirente in
senso stretto l’aveva svolta poco, non poteva definirsi tale. Aveva prestato
servizio come agente operativo presso i trasporti della GPU e come controllore
speciale dell’NKVD alla verifica delle schede elettorali ostili durante le elezioni
segrete del Soviet Supremo; in tempo di guerra era stato dirigente in una
sezione della censura militare; aveva poi fatto parte della commissione di
rimpatrio, prestato servizio in un campo di lavoro di “controllo e filtraggio”;
era stato istruttore speciale per la deportazione dei greci dal Kuban’ al
Kazachstan; e infine, oper all’istituto scientifico di Marfino. Tutti quei compiti
lo portavano verso un’unica definizione: operčekista.
Quella di operčekista, in verità, era l’amata professione anche di Šikin. Chi fra
i suoi colleghi non l’amava!
Era una professione priva di pericoli, in cui si garantiva una superiorità di
forze per ogni operazione: due o tre operčekisti armati contro un nemico inerme
colto di sorpresa, a volte appena sveglio.
Inoltre, era ben retribuita, dava accesso ai migliori “distributori chiusi al
pubblico”, ai migliori appartamenti confiscati ai reclusi, a pensioni più alte di
quelle dei militari e a stazioni termali di prim’ordine.
Non logorava le forze: non prevedeva quote di produzione. Vero, gli amici
raccontavano a Šikin che nel ’37 e nel ’45 gli inquirenti tiravano come cavalli,
ma lui non era capitato in quel vortice e non ci credeva granché. Nei periodi
buoni si poteva sonnecchiare dietro la scrivania per mesi. Alla base del metodo
di lavoro dell’MVD-MGB c’era una totale mancanza di fretta. Alla naturale
flemma di qualsiasi persona sazia se ne aggiungeva una intenzionale, per agire
meglio sulla psiche del detenuto e ottenere da lui informazioni: temperare le
matite lentamente, selezionare le penne, scegliere la carta, annotare con
pazienza ogni sciocchezza protocollare e ogni dato di identificazione. Quella
penetrante mancanza di fretta nel lavoro incideva in senso molto positivo sui
nervi dei čekisti e garantiva ai lavoratori una certa longevità.
Non meno cara a Šikin era la modalità stessa del lavoro di operčekista. In
sostanza, consisteva nella pura e semplice registrazione, una registrazione
pervadente (attraverso quello si esprimeva il tratto caratteristico del
socialismo). Non c’era conversazione che finisse come tale; si concludeva
immancabilmente con la compilazione di una denuncia o con la firma di un
protocollo o con la trascrizione dell’impegno a non fornire testimonianze
mendaci, a mantenere il segreto, a non allontanarsi da una località, di
informazioni, di affidamento. Erano necessarie proprio quell’attenzione
paziente e quella diligenza tipiche del carattere di Šikin, per non creare caos
nelle carte, ma suddividerle, raccoglierle e trovare sempre ciò che serviva.
(Šikin, in quanto ufficiale, non poteva svolgere il lavoro materiale di archiviare
le carte personalmente, così se ne occupava una fanciulla allampanata e
parecchio miope, vincolata al segreto e mandata dalla segreteria generale.)
Ma a Šikin il lavoro di operčekista piaceva soprattutto perché dava potere sulle
persone, un senso di onnipotenza, e agli occhi del prossimo circondava chi
faceva quel mestiere di un alone misterioso.
Šikin si sentiva gratificato dal rispetto, persino dal timore che gli
dimostravano i colleghi, anche loro čekisti ma non operčekisti. Tutti, compreso
l’ingegner colonnello Jakonov, alla prima richiesta di Šikin dovevano rendergli
conto della propria attività, mentre Šikin non doveva rendere conto a nessuno
di loro. Quando, con il viso scuro, la testa con i capelli a spazzola mezzi
incanutiti, la grande borsa sotto l’ascella, saliva lungo il tappeto della larga scala
e le giovani tenenti dell’MGB si facevano con timidezza da parte persino in
quella rampa spaziosa, cercando di salutarlo per prime, Šikin si rendeva conto
con orgoglio della propria importanza e particolarità.
Se gli avessero detto – ma nessuno l’aveva mai fatto – che si era meritato
l’odio del prossimo, che era un torturatore, Šikin si sarebbe sinceramente
indignato. Mai la sofferenza degli altri era stata per lui un piacere o un fine.
Vero, persone così esistevano sul serio, le aveva viste a teatro, al cinema, ma si
trattava di sadici, grandi appassionati di torture, che non avevano nulla di
umano, ed erano sempre guardie bianche o fascisti. Šikin, invece, eseguiva solo
il proprio dovere, e l’unico fine che aveva era che nessuno facesse e pensasse
niente di dannoso.
Una volta, sulle scale principali della šaraška, dove passavano sia i liberi sia
gli zek, era stato ritrovato un pacchetto con centocinquanta rubli. I due tecnici
tenenti che l’avevano notato non avevano potuto occultarlo né cercare il
possessore di nascosto proprio perché in due. Così lo avevano consegnato al
maggiore Šikin.
Soldi sulle scale dove transitavano i detenuti, soldi persi da qualcuno cui era
severamente vietato averne: un evento eccezionale! Ma Šikin non ci aveva
montato un caso, aveva preferito far appendere sulle scale l’annuncio:
“Chi avesse perso centocinquanta rubli sulle scale, può ritirarli presso il
maggiore Šikin in qualsiasi momento.”
Non si trattava di pochi soldi. Eppure, il profondo rispetto e il timore che
tutti nutrivano nei confronti di Šikin erano tali che dopo giorni, settimane,
nessuno si era ancora presentato a ritirare quel maledetto bene smarrito; il
cartello si era sbiadito, coperto di polvere, gli si era staccato un angolo, e alla
fine qualcuno, con la matita blu, vi aveva scritto in stampatello: PAPPATELI TU,
CANE!
Il sorvegliante di turno aveva strappato il cartello e lo aveva portato al
maggiore. Šikin, per lungo tempo, si era aggirato per i laboratori a controllare
la tonalità di tutte le matite blu. Era stato oltraggiato da quella volgare ingiuria
immeritatamente. L’ultima cosa che lui pensava era di appropriarsi di soldi
altrui. Desiderava molto di più che la persona che li aveva smarriti si facesse
avanti, in modo che lui potesse istruire un caso esemplare, criticare aspramente
in tutte le riunioni quella mancata vigilanza; ma, quanto ai soldi, se li
prendessero pure.
Comunque, buttarli via sarebbe stato un peccato! Due mesi dopo li aveva
regalati alla segretaria allampanata affetta da albugine che veniva ad archiviare
le sue carte una volta alla settimana.

Š
Il diavolo ci aveva messo lo zampino e Šikin, un padre di famiglia fino ad
allora esemplare, aveva perso la testa per quella segretaria con i suoi trentotto
anni trascurati e le volgari gambe grosse, alla quale lui arrivava soltanto alle
spalle. Con lei aveva scoperto qualcosa che non aveva mai provato. Aspettava
con ansia il giorno in cui lei arrivava e aveva trascurato a tal punto ogni cautela,
che durante i lavori di ristrutturazione dell’ufficio, in un locale provvisorio,
non si era trattenuto: erano stati sentiti e persino visti attraverso una fessura da
due detenuti – un carpentiere e un intonachista. La cosa si era venuta a sapere,
gli zek se la ridevano del loro “pastore spirituale” e avrebbero voluto scrivere
una lettera alla moglie, ma non conoscevano l’indirizzo. Così lo avevano
riferito ai capi.
Tuttavia, di rovesciare l’oper non c’era stato modo. Il generale di divisione
Oskolupov si era limitato a rimproverare Šikin, non tanto per la relazione con
la segretaria (quello riguardava esclusivamente i princìpi morali della
segretaria), né perché i rapporti avvenivano durante l’orario di lavoro (la
giornata lavorativa di Šikin non aveva orari prestabiliti), quanto per essersi
fatto beccare dai detenuti.
Lunedì 26 dicembre il maggiore Šikin era giunto al lavoro poco dopo le nove
del mattino, ma anche se vi fosse arrivato all’ora di pranzo, nessuno avrebbe
potuto fargli un’osservazione.
Al secondo piano, di fronte all’ufficio di Jakonov, nel muro, c’era
un’incavatura o una rientranza che non era mai stata illuminata da una
lampadina elettrica; vi si aprivano due porte: una dava sull’ufficio di Šikin,
l’altra sul locale del Comitato di partito. Entrambe erano rivestite di pelle nera
e prive di scritte. La loro vicinanza nella buia incavatura era per Šikin assai
propizia: impediva di vedere in quale delle due si infilassero le persone.
Quel giorno, mentre si avvicinava al proprio ufficio, Šikin incontrò il
segretario del Comitato di partito, Stepanov, un uomo magro ed emaciato, con
gli occhiali dai riflessi plumbei. Si scambiarono una stretta di mano. A bassa
voce Stepanov gli propose:
– Compagno Šikin! – Non si rivolgeva mai a nessuno con il nome e il
patronimico. – Vieni a tirare di stecca?
L’invito alludeva al biliardo che si trovava nella stanza del Comitato di
partito. Šikin a volte si fermava lì a tirare un po’ di stecca, ma quel giorno lo
attendevano affari molto importanti, così scosse con dignità la testa inargentata.
Stepanov sospirò e se ne andò a giocare da solo.
Entrato nell’ufficio, Šikin posò con cura la borsa sulla scrivania. (Le carte di
Šikin, tutte confidenziali e di massima segretezza, venivano custodite in
cassaforte e non si potevano portare fuori dall’ufficio, ma siccome andare in
giro senza borsa sulla gente non faceva un grande effetto, Šikin ci infilava
“Ogonëk”, “Krokodil” e “Intorno al mondo” e se la portava a casa;
l’abbonamento gli sarebbe costato almeno un copeco per ciascuna rivista.)
Quindi, attraversò il tappeto e si avvicinò alla finestra, dove rimase un istante,
per poi tornare alla porta. Era come se i pensieri lo avessero atteso là,
nascondendosi nell’ufficio, dietro la cassaforte, l’armadio, il divano, e adesso lo
accerchiassero tutti insieme e reclamassero la sua attenzione.
Ce n’erano di cose da fare! Ce n’erano tante!
Si strofinò con le mani i corti capelli a spazzola sempre più grigi. Prima di
tutto, bisognava controllare un’importante iniziativa da lui ponderata per molti
mesi, approvata di recente da Jakonov, adottata dalla direzione, spiegata ai
laboratori, ma non ancora ben avviata. Si trattava del nuovo ordine di gestione
dei registri segreti. Analizzando in modo scrupoloso l’organizzazione della
vigilanza all’istituto di Marfino, il maggiore Šikin aveva appurato, e ne andava
molto fiero, che in sostanza una vera segretezza non c’era ancora! Vero, ogni
locale era dotato di alcuni armadi ignifughi di acciaio alti quanto una persona,
in numero di cinquanta pezzi totali, portati via come trofei dalla ditta Lorenz;
vero, tutti i documenti segreti, parzialmente segreti e vicini a quelli segreti
venivano chiusi negli armadi alla presenza di speciali sorveglianti durante
l’intervallo del pranzo, quello della cena e la notte; ma la tragica negligenza
stava nel fatto che venivano custoditi soltanto i lavori ultimati e quelli in corso.
Dentro gli armadi non avevano ancora trovato posto i primi barlumi, le prime
intuizioni, le ipotesi non chiare, tutto ciò da cui nascevano i lavori dell’anno a
venire, vale a dire le cose più promettenti. Perché lo spionaggio americano
potesse cogliere l’indirizzo del nostro lavoro, a un’abile spia che si intendesse
di tecnica era sufficiente entrare nella zona superando il filo spinato, trovare da
qualche parte nel secchio dei rifiuti un pezzo di carta assorbente con un certo
disegno o uno schema, e riuscire dalla zona. Essendo un uomo coscienzioso,
una volta il maggiore Šikin aveva obbligato lo spazzino Egorov a controllare in
sua presenza il bidone dell’immondizia nel cortile. Erano stati rinvenuti due
pezzetti di carta assorbente incrostati di neve e di cenere, sui quali erano stati
chiaramente tracciati degli schemi. Šikin non aveva avuto affatto schifo a
prendere quella porcheria per gli angoli e portarla sulla scrivania del colonello
Jakonov. E per Jakonov non c’era stata via d’uscita! Così il progetto di Šikin
sull’istituzione di registri segreti individuali e nominativi era stato accettato.
Registri appositi erano stati subito acquistati ai magazzini di cancelleria
dell’MGB: ciascuno era formato da duecento pagine grandi, numerato,
impuntito con un cordoncino e sigillato. Si prevedeva di distribuirne a tutti,
tranne ai carpentieri, ai tornitori e allo spazzino. Era obbligatorio che ciascuno
scrivesse esclusivamente sulle pagine del proprio registro. Oltre all’abolizione
delle pericolose brutte copie, stava prendendo forma anche una seconda
iniziativa: il controllo del pensiero! Poiché ogni giorno sul registro andava
inserita la data, il maggiore Šikin avrebbe potuto controllare ogni recluso:
quanto avesse pensato il mercoledì e che cosa avesse escogitato di nuovo il
venerdì. Duecentocinquanta registri del genere sarebbero stati altrettanti Šikin
che incombevano con insistenza sulla testa di ogni detenuto. I reclusi sono
furbi e pigri, cercano sempre, non appena possibile, di non lavorare. Un
operaio si controlla in base alla produzione. Ecco in che cosa consisteva
l’invenzione del maggiore Šikin: si potevano controllare gli ingegneri,
controllare gli scienziati! (Peccato che agli operčekisti non assegnavano il premio
Stalin!) Quel giorno Šikin doveva proprio verificare che fossero stati distribuiti
i registri e tutti avessero cominciato a usarli.
Un’altra preoccupazione odierna di Šikin era quella di compilare
definitivamente l’elenco dei detenuti da tradurre in altro luogo, il cui
spostamento era stato previsto dalla Direzione carceraria in quei giorni, e
accertarsi quando fissare di preciso il trasporto.
Impegnava ancora Šikin un caso partito da lui in pompa magna, ma che per
il momento non si era sviluppato granché: l’“affare del tornio rotto”. Dieci
detenuti avevano trascinato un tornio dal laboratorio n. 3 fino alle officine
meccaniche, e adesso quello aveva un’incrinatura sul basamento. Dopo una
settimana di indagini erano già state scritte più di ottanta pagine di protocolli,
ma la verità non saltava fuori in nessun modo: i detenuti implicati non erano
più dei novellini.
Bisognava anche svolgere un’indagine per capire da dove provenisse il libro
di Dickens di cui parlava Doronin in una sua denuncia, letto nella stanza
semicircolare soprattutto da Abramson. Convocare per un interrogatorio
Abramson, il recidivo, sarebbe stata una perdita di tempo. Bisognava convocare
i liberi della sua cerchia e spaventarli subito dicendo che era venuto fuori tutto,
che lui aveva confessato.
Quante cose aveva da fare oggi Šikin! (E non sapeva ancora quali novità gli
avrebbero riferito gli informatori! Non sapeva che avrebbe dovuto vederci
chiaro nel dileggio alla giustizia perpetrato con lo spettacolo del “Processo
contro il principe Igor”!). Šikin si strofinò disperato le tempie e la fronte in
modo che tutta quella massa di pensieri trovasse posto e si sistemasse.
Non sapendo da dove cominciare, decise di “uscire fra le masse”, cioè andò
a fare due passi in corridoio nella speranza di incontrare qualche informatore
che, con una mossa di sopracciglia, gli facesse capire di avere una denuncia così
urgente che non poteva attendere di essere riferita il giorno prefissato.
Era appena arrivato al tavolo del sorvegliante di turno, quando lo udì
parlare di un nuovo gruppo al telefono.
Cosa? Quanta fretta! Era bastata una domenica di assenza perché
all’impianto formassero un nuovo gruppo?
Il sorvegliante di turno gli raccontò ogni cosa.
Fu un colpo tremendo! All’impianto c’erano stati il viceministro e dei
generali, e Šikin non era presente! La stizza si impadronì del maggiore. Aveva
dato al viceministro motivo di pensare che non si preoccupava della vigilanza!
E non aveva potuto metterli in guardia, consigliarli per tempo: non si doveva
assolutamente includere in un gruppo di tale responsabilità quel maledetto
Rubin, un doppiogiochista, un uomo falso fin nel midollo. Giurava di credere
nella vittoria del comunismo, ma poi si rifiutava di diventare informatore! E il
mascalzone portava anche quella barba provocatoria! Bisognava radergliela!
Affrettandosi con lentezza, i passetti cauti nei piedini dalle scarpe infantili,
quel testone di Šikin si diresse verso la stanza n. 21.
La possibilità di contrastare Rubin, comunque, esisteva: in quei giorni Lev
aveva presentato alla Corte Suprema l’ennesima domanda di revisione del suo
caso. Dipendeva da Šikin accompagnare la domanda con note personali
favorevoli o nettamente sfavorevoli (come le volte precedenti).
La porta n. 21 era liscia, senza pannelli di vetro. Il maggiore le diede una
spinta per entrare, ma la trovò chiusa. Bussò. Non si udirono passi, eppure
all’improvviso la porta si aprì. Sulla soglia c’era Smolosidov con il suo
malevolo ciuffo nero. Vedendo Šikin, non si mosse e non aprì ulteriormente la
porta.
– Buongiorno – disse Šikin, titubante; non era abituato a una simile
accoglienza. Smolosidov era addirittura più operčekista dello stesso Šikin. Il nero
Smolosidov, con le braccia storte leggermente staccate dal corpo, aveva assunto
una posizione da pugile. E taceva.
– Io... A me... – si confuse Šikin. – Mi faccia entrare, devo controllare il
vostro gruppo.
Smolosidov indietreggiò di mezzo passo e, continuando a ostruire l’ingresso,
gli indicò qualcosa con la mano. Šikin si infilò a fatica nello stretto spiraglio e
si voltò a guardare ciò che il dito di Smolosidov indicava. Sull’altro battente
della porta, all’interno, era attaccato un foglio:
Elenco delle persone ammesse nella stanza n. 21:
1. Il viceministro dell’MGB: Selivanovskij;
2. Il caposezione: generale di divisione Bul’banjuk;
3. Il caposezione: generale di divisione Oskolupov;
4. Il capogruppo: ingegner maggiore Rojtman;
5. Il tenente Smolosidov;
6. Il detenuto Rubin.
Approvato dal ministro della Sicurezza di Stato Abakumov
Con reverenziale trepidazione Šikin riuscì nel corridoio. – Io dovrei... mi
chiami Rubin... – bisbigliò.
– Non si può! – si oppose Smolosidov, anche lui bisbigliando. E chiuse la
porta a chiave.
77
DECISIONE PRESA

La mattina, mentre tagliava la legna all’aria fresca, Sologdin stava


riconsiderando fra sé la decisione presa durante la notte. Capita che pensieri
indiscutibili di notte, tra la veglia e il sonno, si rivelino infondati alla luce del
giorno.
Non gli restava in mente nessun ceppo di legno, nessun colpo sferrato: stava
pensando.
Ma la disputa inconcludente che aveva avuto con Rubin gli impediva di
riflettere con chiarezza. Gli giungevano, ormai tardi, sempre nuovi argomenti
sferzanti, che il giorno prima non gli erano venuti in mente.
Persistevano soprattutto la stizza e l’amarezza per l’assurda piega che la
discussione aveva preso: era come se Rubin si fosse arrogato il diritto di essere
giudice dei comportamenti di Sologdin, proprio adesso che lui stava per
prendere quella decisione. Poteva cancellare Lëvka Rubin dal libro d’oro degli
amici, ma non la sfida che lui gli aveva lanciato. Quella rimaneva e lo
sbeffeggiava. Toglieva a Sologdin il diritto sulla sua invenzione.
La discussione, però, in generale, era stata molto utile, come qualsiasi
scontro. L’elogio è una valvola di sfogo che riduce la tensione interna, ragion
per cui è sempre dannoso. Al contrario, gli insulti, persino i più scorretti, sono
la fornace della nostra caldaia, sono molto utili.
Naturalmente, ciò che sboccia ha voglia di vivere. Con le sue eccezionali
capacità mentali e fisiche, Dmitrij Sologdin aveva diritto al proprio raccolto, a
gustarsi la crema.
Eppure il giorno prima aveva detto che a portare a un fine alto erano solo
mezzi altrettanto alti.
Sologdin aveva accolto le nuove disposizioni della prigione con un sorriso
luminoso. Era l’ennesima dimostrazione della sua preveggenza. Aveva
interrotto in tempo la corrispondenza con la moglie, lei non si sarebbe agitata
nell’incertezza.
Ma in generale l’irrigidirsi del regime carcerario preannunciava ancora una
volta che tutta la situazione stava prendendo una piega ben più seria e al
cosiddetto “fine pena” non avrebbe corrisposto l’uscita di prigione.
Potevi solo ottenere la scarcerazione anticipata.
O trovavi un’invenzione che ti dava il diritto a quel tipo di scarcerazione o
non saresti più tornato a vivere.
Alle nove Sologdin fu tra i primi a passare sulle scale in mezzo alla folla di
detenuti e a salire fino all’ufficio progettazione: era gagliardo, straripante di
giovinezza, si inanellava sul dito la barba bionda (“Ecco che arriva il conte
Sologdin”).
Scintillando trionfanti, i suoi occhi incontrarono lo sguardo bramoso di
Larisa Emina.
Quanto lo aveva desiderato, Emina, quella notte! Quanto era felice adesso di
avere il diritto di sedergli accanto e ammirarlo! Magari, di scambiare un
bigliettino con lui.
Ma quello non era il momento. Sologdin rivolse a Emina un inchino di
cortesia, evitando il suo sguardo, e le assegnò subito un compito: fare un salto
ai laboratori meccanici e scoprire quante barrette di fissaggio, su un ordine di
centoquattordici, erano già state tornite. La esortò a sbrigarsi.
Larisa lo guardò con ansia e imbarazzo. Poi uscì.
Il mattino grigio concedeva così poca luce che erano state accese sia le
lampadine in alto sia quelle sui tecnigrafi.
Sologdin staccò il foglio di copertura sporco dal suo tecnigrafo e si vide
davanti l’unità principale del codificatore.
Aveva speso due anni di vita su quel lavoro. Due anni di rigido ordine per la
mente. Delle migliori ore del mattino, perché durante il giorno non si crea ad
alti livelli.
Era avvenuto tutto inutilmente?
Ecco la banalità che si palesava: era possibile amare un paese così stupido?
Amare quel popolo di senzadio, che commetteva così tanti delitti senza
nemmeno pentirsene, un popolo di schiavi degni di essere vittime, teste
brillanti finite sotto la scure nell’anonimato? Per altri cento, duecento anni,
quel popolo sarebbe stato contento del proprio truogolo: per chi stava
sacrificando la fiaccola del pensiero?
Non era essenziale, invece, preservarla? Avrebbe potuto assestare un colpo
più forte in un secondo tempo.
Si fermò ad abbeverarsi alla sua creazione.
Aveva solo qualche ora o qualche minuto per decidere senza errori il
compito di tutta una vita.
Con un suono sciabordante simile a quello della vela di una fregata, staccò il
foglio principale.
Una delle disegnatrici tecniche, come sempre il lunedì, girava fra i progettisti
a ritirare i vecchi fogli da buttare. Non si potevano strappare e gettare nella
pattumiera, andava redatto un verbale prima di bruciarli nel cortile.
(In generale, avere così fiducia nel fuoco era una mancanza del maggiore
Šikin. Come mai accanto all’ufficio progettazione non era stato creato un
ufficio di Sicurezza dei progetti con il compito di vagliare i disegni eliminati
dal primo ufficio?)
Sologdin afferrò una matita con la mina grossa e morbida e tracciò con
noncuranza qualche linea sul suo schema, insudiciandolo.
Poi prese il foglio, lo strappò da una parte, vi mise sopra quello sporco di
copertura, ne infilò sotto un altro inutile, legò il tutto insieme e lo allungò alla
disegnatrice:
– Tre fogli, per favore.
Poi si sedette e finse di consultare il manuale, mentre in realtà osservava che
nessuno dei progettisti si avvicinasse a guardare i fogli.
Fu a quel punto che venne convocata una riunione. Tutti si avvicinarono e
presero posto.
Il colonnello a capo dell’ufficio, senza alzarsi dalla sedia e senza insistere più
di tanto, cominciò a parlare della realizzazione dei piani, dei piani a venire e dei
conseguenti obblighi socialisti. Aveva inserito nel piano, senza crederci
nemmeno lui, la consegna alla fine dell’anno del progetto tecnico di un
codificatore assoluto, e adesso ne parlava in modo da lasciare ai progettisti
qualche scappatoia per ritirarsi.
Sologdin sedeva nella fila posteriore e con sguardo sereno fissava oltre le
teste la parete. Aveva la pelle del viso liscia, fresca, non si intuiva che avesse
qualche pensiero o fosse preoccupato, sembrava sfruttare la riunione come
momento di riposo.
In realtà era concentrato. Come poliedri di specchi che ruotano nei
dispositivi ottici, ricevendo e riflettendo alternativamente i raggi con le loro
diverse facce, così in lui i pensieri turbinavano su assi non paralleli spargendo
schizzi che non si intersecavano.
All’improvviso, il sospetto più semplice di tutti gli giunse in volo come un
sassolino: e se da quando Anton, due giorni prima, aveva visto quel foglio lo
stavano controllando? Le ragazze, uscite da quella porta con il suo codificatore,
avrebbero potuto consegnarlo a qualcuno.
Si fece insofferente, come un ferito. Aspettò che la riunione giungesse alla
fine, poi si avvicinò alle disegnatrici. Quelle stavano già stendendo il verbale.
– Vi ho consegnato un foglio per sbaglio... Scusate... Eccolo, è questo qui.
Lo riportò alla sua postazione. Lo adagiò sulla scrivania a faccia in giù. Si
guardò intorno. Larisa non c’era, nessuno lo osservava. Con un grosso paio di
forbici lo tagliò senza troppa cura prima in due parti, poi in altre due, e ogni
quartino in altre quattro.
Š
Così andava meglio. Altra nota di demerito per il maggiore Šikin: non c’era
l’obbligo di eseguire i disegni su registri numerati e sigillati con la ceralacca!
Dando le spalle alla stanza, rivolto verso un angolo, Sologdin si infilò tutti e
sedici i pezzi di foglio nel petto, sotto la tuta floscia.
Teneva sempre sul tavolo una scatoletta di fiammiferi, per bruciare le cose
più piccole.
Con piglio indaffarato uscì dall’ufficio progettazione. Dal corridoio
principale svoltò in quello laterale, verso i gabinetti.
Nel locale anteriore, lo zek Tjunjukin, celebre delatore, si stava lavando le
mani sotto il rubinetto. In quello posteriore, oltre i vespasiani si susseguivano,
uno dopo l’altro, quattro scomparti. Il primo era sbarrato (Sologdin se ne
accorse tirando la porta), i due centrali erano socchiusi, e dunque vuoti, il
quarto, anche quello chiuso, cedette. Aveva un bel chiavistello. Sologdin vi
entrò, si chiuse dentro e rimase immobile.
Poi estrasse da sotto la camicia due pezzi di foglio, prese i fiammiferi
Pobeda e attese. Non si decideva ad accenderli, temeva che dai bagliori sul
soffitto si notasse la fiamma e un odore di bruciato si diffondesse velocemente
per i gabinetti.
Sentì arrivare qualcun altro, che poco dopo se ne andò; lo stesso fece quello
del primo scomparto. Sologdin accese un fiammifero. Lo zolfo avvampò e gli
schizzò sul petto. Dal secondo fiammifero lo zolfo non si staccò, ma il
fuocherello era così debole che si limitò ad avvolgere l’inerme corpo brunastro
del fiammifero. Dopo una fiammata, si spense lasciando un rivolo di fumo
mortificato.
Sologdin lanciò fra sé uno di quegli improperi tanto gettonati nei campi di
lavoro. Maledetti fiammiferi ignifughi e incombustibili! In quale altro paese ne
esistevano a quel modo? Non li facevi così neanche per scherzo! Pobeda:
“vittoria”! Come si poteva arrivare con quelli alla vittoria?
Il terzo fiammifero si ruppe per la pressione. Il quarto giaceva rotto nella
scatola. Alla testa del quinto mancava lo zolfo su tre lati.
Per la rabbia Sologdin cavò fuori alcuni fiammiferi e li sfregò tutti insieme.
Si accesero. Vi mise sotto la carta da disegno: prese fuoco a fatica. Poi la piegò
verso il basso e il fuoco divampò, cominciando a scottargli le dita.
Sologdin adagiò con cautela i pezzi che bruciavano nel water, vicino al
bordo dell’acqua. Estrasse un’altra serie di pezzi e cominciò ad accenderli sui
primi, piazzandoli in modo che quelli precedenti bruciassero fino in fondo. La
cenere nera che si formava si accartocciò e prese a navigare sull’acqua come una
barchetta di carta.
Anche la seconda serie divampò. Sologdin vi piazzò sopra un pezzo di
foglio dopo l’altro. La carta soffocava la fiamma e l’acre fumo della lenta
combustione si sollevava verso l’alto.
A quel punto entrò qualcuno: si chiuse dentro lo scomparto accanto a
quello di Sologdin. Il fumo non si placava!
Poteva essere un amico.
O un nemico.
Magari il fumo non gli arrivava nemmeno. Oppure l’uomo aveva già notato
la puzza di bruciato ed era pronto a dare l’allarme.
La tosse gli premeva in gola, ma Sologdin riuscì a trattenerla.
All’improvviso la carta fu avvolta per intero dalle fiamme e il soffitto fu
investito da una colonna di luce gialla. Il fuoco bruciava rabbioso, asciugando
le pareti del water, che per il calore sarebbe anche potuto scoppiare.
Erano rimasti altri due pezzi, ma Sologdin non li aggiunse. Il fuoco smise di
bruciare. Sologdin tirò lo scarico: l’acqua scese premendo sull’ammasso di
cenere nera e si portò via tutto.
Sologdin rimase immobile, in attesa.
Arrivarono altri due uomini, chiacchieravano:
– Lui sta solo cercando un modo per metterlo... in quel posto agli altri e
avvantaggiarsi.
– E tu controlla sull’oscillografo e fregatene, non collaborare!
Se ne andarono. Ma arrivò subito qualcun altro, che si chiuse dentro.
Sologdin se ne stava lì nascosto, umiliato. D’un tratto pensò di mettersi a
guardare quali pezzi gli erano rimasti. Uno era un frammento d’angolo,
raffigurava solo un’estremità del disegno. Mancandogli la parte chiave, finì nel
cestino. Il secondo ritaglio era proprio il cuore del disegno. Sologdin si armò di
pazienza e cominciò a frantumarlo in pezzetti piccolissimi, che gli si
incastravano nelle unghie.
Tirò l’acqua e al muggito dello scarico si precipitò fuori nel corridoio.
Nessuno lo aveva notato.
Giunto nel corridoio principale, si incamminò lentamente. Solo allora pensò:
ma come? Bruci la tua fregata della speranza e ti preoccupi soltanto che non
scoppi il water e non notino il fuoco?
Rientrò nell’ufficio, ascoltò distrattamente Emina che gli raccontava
qualcosa sui bulloni di fissaggio e le chiese di sbrigarsi a copiare.
Lei non capiva.
Non avrebbe mai potuto capire.
Non lo capiva nemmeno lui. Molte cose non gli erano ancora chiare.
Senza preoccuparsi di apparire “indaffarato”, né di aprire un set di
compassi, un libro o un disegno, Sologdin appoggiò la testa sulla scrivania, gli
occhi fissi nel vuoto.
Da un momento all’altro sarebbero venuti a chiamarlo a rapporto
dall’ingegnere colonnello.
Vennero davvero, ma dal tenente colonnello.
Quelli del laboratorio filtri si erano lamentati di non avere ancora ricevuto i
disegni di due supporti. Il tenente colonnello, un uomo tutt’altro che rude,
storcendo il naso, si limitò a dire:
– Dmitrij Aleksanyč, è davvero così complicato? Li hanno ordinati giovedì.
Sologdin si alzò in piedi.
– È colpa mia. Mi manca poco. Saranno pronti fra un’ora.
Non li aveva nemmeno cominciati, ma non poteva confessare che per farli
bastava un’ora.
78
IL SEGRETARIO ESENTATO

All’inizio, nella vita dei liberi di Marfino il sindacato aveva avuto un ruolo
basilare.
Chi non conosce quella leva della produzione socialista? Chi sa essere tanto
generoso da chiedere al governo di allungare giornata e settimana lavorative?
Di alzare la quota di lavoro e abbassare la paga? I cittadini non avevano da
mangiare o dove vivere (spesso né l’uno né l’altro): chi correva loro in aiuto se
non il sindacato, autorizzando i suoi membri a scavare orti collettivi nei giorni
liberi e a costruire case statali a tempo perso? Tutte le conquiste della
rivoluzione e la solida posizione della dirigenza si basavano sui sindacati.
Nessuno meglio di un’assemblea sindacale poteva esigere dall’amministrazione
la cacciata di un collega querelante in cerca di giustizia che l’amministrazione
non era in grado di licenziare in altro modo. Non c’era firma su atti di
dismissione di beni inadatti all’uso statale, ma ancora adatti alla vita domestica
del direttore, tanto candida e cristallina quanto quella del presidente del
comitato sindacale di zona. Inoltre, i sindacati vivevano di mezzi propri, grazie
a quel trentesimo punto percentuale della paga dei lavoratori che lo Stato non
poteva aggiungere al ventinove percento di ritenute fra prestito e tasse.
In piccolo e in grande, i sindacati effettivamente erano diventati una
quotidiana scuola di comunismo.
Eppure, a Marfino, il sindacato era stato abolito. Era andata così: un
eminente compagno del comitato cittadino moscovita del partito aveva saputo
della sua esistenza e, stupito, aveva detto: – Ma che fate? – senza nemmeno
aggiungere “compagni”. – Sento puzza di trockijsmo! Marfino è un’unità
militare, che c’entra il sindacato?
Il giorno stesso il sindacato a Marfino era stato abrogato. Tuttavia, la vita
all’istituto non era rimasta sconvolta minimamente! L’unica che continuava a
crescere era l’importanza dell’organizzazione di partito, già notevole anche
prima. Il comitato regionale del partito aveva ritenuto necessario avere a
Marfino un segretario esentato da altri compiti. Dopo la consultazione di
alcuni questionari presentati dall’ufficio del personale, il comitato regionale
aveva stabilito di raccomandare per quell’incarico
Boris Sergeevič Stepanov, anno di nascita 1900, originario del
villaggio di Lupači, distretto di Bobrov; estrazione sociale,
figlio di braccianti; dopo la rivoluzione, poliziotto rurale; privo
di qualifica professionale; stato sociale, impiegato; istruzione,
quarta classe e scuola di partito biennale; membro del partito
dal 1921; funzionario di partito dal 1923; ligio alla linea di
partito; mai all’opposizione; mai nelle truppe e nelle istituzioni
dei governi bianchi; mai parte del movimento rivoluzionario e
partigiano; mai sotto occupazione; mai all’estero; lingue
straniere conosciute, nessuna; lingue dei popoli dell’Urss
conosciute, nessuna; trauma da bombardamento alla testa;
ordine della “Bandiera Rossa” e medaglia “Per la vittoria sulla
Germania nella Guerra patriottica”.
I giorni in cui era stato raccomandato dal comitato regionale, Stepanov si
trovava nella provincia di Volokolamsk in veste di agitatore per il raccolto.
Approfittando di ogni minuto di riposo dei kolchoziani, si sedessero questi a
pranzare o solo a fumare un po’, li radunava in fretta sul campo (la sera li
riuniva anche in direzione) e spiegava loro instancabilmente, alla luce di una
trionfante lettura di Marx-Engels-Lenin-Stalin, l’importanza di seminare ogni
anno la terra e, per giunta, con grano di ottima qualità; affinché il grano
crescesse in quantità auspicabilmente maggiore di quanto ne fosse stato
seminato; affinché in seguito fosse raccolto senza perdite e ruberie e
consegnato il più in fretta possibile allo Stato. Non conoscendo riposo, passava
subito ai trattoristi e spiegava loro, alla luce della stessa immortale lettura,
l’importanza di fare economia di combustibile, avere un occhio di riguardo per
i mezzi materiali, cancellare completamente i tempi morti, e anche se
malvolentieri rispondeva alle loro domande sulla pessima qualità delle
riparazioni e sulla penuria di indumenti da lavoro.
Nel frattempo, a Marfino, la riunione generale del partito accettava con
passione la raccomandazione del comitato regionale ed eleggeva all’unanimità
Stepanov come segretario esentato, senza nemmeno averlo visto. In quegli
stessi giorni, nella provincia di Volokolamsk in veste di propagandista era stato
mandato un lavoratore di una cooperativa della provincia di Egor’evsk rimosso
per furto, mentre a Marfino si preparava per Stepanov un ufficio vicino a
quello dell’oper, e lui si apprestava a entrare in servizio.
Aveva cominciato prendendo le consegne dal suo predecessore, il tenente
Klykačëv, un segretario non esentato. Klykačëv era tutt’ossa, una specie di
levriero vivace e instancabile. Riusciva a dirigere il laboratorio di
decodificazione, controllare i gruppi crittografico e statistico, tenere il
seminario del Komsomol, essere l’anima del “gruppo dei giovani” e, oltre a
tutto questo, avere il ruolo di segretario del Comitato del partito. Sebbene i
superiori definissero Klykačëv esigente, e i subalterni pedante, il nuovo
segretario aveva sospettato fin da subito che all’istituto di Marfino le questioni
di partito venissero trascurate. Perché il lavoro di partito esigeva l’uomo nella
sua interezza.
Era così a quanto pareva. Le consegne erano durate una settimana. Senza
uscire neanche una volta dall’ufficio, Stepanov aveva esaminato fino all’ultima
carta tutto ciò che riguardava ogni iscritto al partito, che aveva voluto
conoscere prima attraverso il loro fascicolo personale, e solo dopo di persona.
Klykačëv si era sentito addosso la mano per nulla leggera del nuovo segretario.
Ogni errore ne metteva in luce un altro. Per non parlare dell’incompletezza
dei dati contenuti nei questionari, dell’insieme di informazioni dei fascicoli
personali, della mancanza di note distintive su ogni membro e candidato. In
tutte quelle iniziative si evidenziava un vizio generale: venivano realizzate, ma
non registrate in modo documentato, tanto da apparire quasi illusorie.
– Ma chi ci crede? Chi può credere che queste iniziative siano state davvero
realizzate? – esclamava Stepanov, la mano con la papirosa fumante sopra la testa
calva.
E spiegava con pazienza a Klykačëv che tutto quello era stato fatto sulla carta
(poiché affermato solo a parole) e non nella realtà (cioè sotto forma di
protocolli).
Per esempio, che senso aveva che gli sportivi dell’istituto (il discorso,
naturalmente, non riguardava i detenuti) giocassero a pallavolo ogni pausa
pranzo (avendo persino modo di intaccare parte del tempo del lavoro)? Forse
era così. Forse giocavano davvero. Ma né lui né Klykačëv né qualsiasi altra
persona credendoci sarebbe uscita nel cortile a controllare che vi rimbalzasse la
palla. Perché dunque limitare l’esperienza del loro gioco solo a quei
pallavolisti? Perché non condividerla su un giornale da parete specializzato in
cultura fisica intitolato “La palla rossa” o, che so, “L’onore dell’atleta
Dinamo”? Se poi Klykačëv avesse staccato con cura quel giornale dalla parete e
l’avesse inserito nella documentazione del partito, in qualsivoglia ispezione non
sarebbe mai sorto il dubbio che l’iniziativa del “gioco della pallavolo” non
fosse stata realizzata e diretta dal loro partito. Di quei tempi, chi poteva
credere a Klykačëv sulla parola?
E così in tutto, proprio in tutto. “Le parole non fanno fatti!” diceva
Stepanov e svolgeva il proprio dovere basandosi su quel proverbio perspicace.
Come un prete polacco convinto che mentire in confessione non sia
possibile, Stepanov non si sognava proprio che si potesse fornire una
documentazione falsa.
Il pelle e ossa Klykačëv, però, sempre di corsa, non si metteva a discutere
con lui, ma anzi, gli dava pienamente ragione, con gratitudine, e da lui
imparava. Così Stepanov si era addolcito in fretta nei suoi confronti,
dimostrando di non essere poi tanto cattivo. Aveva ascoltato con attenzione i
timori di Klykačëv sul fatto che a capo di quell’importante istituto segreto ci
fosse l’ingegnere colonnello Jakonov, un uomo dalla biografia dubbia, in parole
povere non uno dei nostri. E si era messo sul chi vive. Aveva scelto Klykačëv
come suo braccio destro, gli aveva ordinato di passare al Comitato di partito
un po’ più spesso e gli faceva prediche con indulgenza dall’alto della sua
esperienza.
Così Klykačëv aveva imparato a conoscere il segretario prima di tutti, e da
vicino. Prendendo spunto dalla sua lingua velenosa, i “giovani” avevano
cominciato a chiamare il segretario di partito il “Pastore”. Ma era stato proprio
grazie a Klykačëv se i rapporti fra il Pastore e i “giovani” si erano fatti
abbastanza buoni. Questi ultimi avevano capito in fretta che era di gran lunga
più comodo avere un segretario di partito che non fosse apertamente dei loro,
un uomo di legge estraneo e imparziale.
E Stepanov era davvero un uomo di legge! Se qualcuno gli diceva che
bisognava dispiacersi per qualcun altro, che non era il caso di essere troppo
rigidi, ma dimostrare indulgenza, un solco addolorato gli tagliava la fronte, resa
più alta dall’assenza di capelli all’attaccatura, e le spalle si ingobbivano come
sotto un nuovo peso. Ma, infiammato da una convinzione di fuoco, Stepanov
trovava in sé la forza di raddrizzarsi, girarsi bruscamente verso il suo
interlocutore e con i riflessi delle finestre che gli guizzavano come quadratini
bianchi sul vetro plumbeo degli occhiali, replicava:
– Compagni! Compagni! Che mi tocca sentire! Come osate dire certe cose!
Ricordate: bisogna sostenere sempre la legge! Sostenerla anche se può pesare!!
Sostenerla fino allo stremo delle forze! Solo così, solo in questo modo potrete
aiutare davvero colui per il quale avevate intenzione di violarla! Perché la legge
è stabilita proprio per servire la società e l’uomo, e noi spesso questo non lo
capiamo e ciechi vogliamo aggirarla!
Dal canto suo anche Stepanov era soddisfatto dei “giovani”, così propensi
alle riunioni di partito e alla critica di partito. In loro vedeva il nucleo di quel
collettivo sano che lui si sforzava di formare in ogni luogo in cui andava a
lavorare. Se il collettivo non rivelava alla direzione chi al suo interno
trasgrediva la legge, se alle riunioni taceva, Stepanov aveva ben ragione di
considerarlo malsano. Se si scagliava tutto insieme contro un solo membro
segnalato proprio dal Comitato di partito, allora per Stepanov, e per persone
anche più importanti di lui, quello era un collettivo sano.
Stepanov aveva molte idee solide, dalle quali non gli era possibile staccarsi.
Per esempio, secondo lui ogni riunione doveva approvare sempre alla fine una
risoluzione stentorea che sferzasse singoli membri del collettivo e mobilitasse il
collettivo stesso verso nuove vittorie nella produzione. Amava in particolare le
riunioni di partito “aperte”, alle quali presenziavano su base “volontariamente
obbligatoria” anche tutti i senza partito e dove era possibile farli a pezzi, non
avendo essi il diritto di difendersi e di votare. Se prima di una votazione si
levavano voci risentite e persino indignate del tipo “Cos’è questa? Una riunione
o un processo?”, lui rispondeva:
– Permettete, compagni, permettete! – interrompendo, imperioso, chiunque
si fosse fatto avanti, persino il presidente della riunione. Ficcata in bocca la
polverina con la mano tremante (dopo il trauma da bombardamento che aveva
subito la testa gli doleva con violenza ogni volta che si agitava, e lui si agitava
sempre se attaccavano la verità del partito), si piazzava al centro della stanza
sotto la luce delle lampade in alto, tanto che le tonde gocce di sudore gli
spiccavano sull’alta fronte calva, e diceva: – Allora, a quanto pare, voi siete
contro la critica e l’autocritica? – E sventolando con decisione il pugno, come a
conficcare le proprie idee nella testa degli ascoltatori, spiegava: – L’autocritica è
la suprema legge propulsiva della società sovietica, il principale motore del suo
progresso! È il momento di capire che quando critichiamo i membri del nostro
collettivo, non è per metterli sotto processo ma per tenere ogni lavoratore ogni
minuto in perenne tensione creativa! Qui non possono esserci due opinioni,
compagni! Comunque, non tutte le critiche sono utili, questo è certo! A noi
serve una critica concreta, cioè che non leda i collaudati quadri dirigenti! Non
confondiamo la libertà di critica con la libertà dell’anarchismo piccolo
borghese!
E avvicinatosi alla caraffa dell’acqua, ingoiava dell’altra polverina.
Così trionfava la linea generale del partito. E accadeva sempre che tutto il
collettivo sano, compresi i membri sferzati e distrutti dalla risoluzione in
questione (“atteggiamento negligente e criminale verso il lavoro”,
“inadempimento delle scadenze al limite del sabotaggio”), votasse all’unanimità
per la risoluzione stessa.
A volte accadeva persino che Stepanov, appassionato di risoluzioni
elaborate, ricche di spiegazioni, intuendo sempre felicemente in anticipo il
senso degli interventi che stavano per giungere e l’opinione finale
dell’assemblea, non riuscisse però a compilare in fretta la risoluzione prima
della riunione nella sua interezza. Così, dopo l’annuncio del presidente di
turno, “Ha la parola il compagno Stepanov per comunicare la risoluzione!”, il
segretario esentato si asciugava il sudore dal labbro e dalla pelata e diceva:
– Compagni! Ero molto occupato, così nel progetto della risoluzione non
ho fatto in tempo a precisare alcune circostanze, alcuni cognomi e fatti.
Oppure:
– Compagni! Sono stato chiamato dalla Direzione, così oggi non ho ancora
scritto il progetto della risoluzione.
E in entrambi i casi:
– Chiedo per questo di votarla per intero e domani nelle ore libere la elaborerò.
Il collettivo di Marfino si dimostrava a tal punto sano che alzava la mano
senza mormorii, e senza sapere (né scoprire) chi di preciso sarebbe stato
colpito in quella risoluzione, chi esaltato.
Consolidava molto la posizione del nuovo segretario del partito anche il
fatto che non conoscesse le debolezze tipiche dei rapporti intimi. Tutti, con
rispetto, lo chiamavano “Boris Sergeič”. Lui, invece, considerandolo un dovere,
non chiamava nessuno in tutto l’impianto per nome e patronimico, e persino
quando giocava d’azzardo al tavolo da biliardo, il verde del panno che spiccava
nella stanza del Comitato di partito, esclamava:
– Piazza la palla, compagno Šikin!
– Dal bordo, compagno Klykačëv!
In generale, Stepanov non amava che le persone si appellassero ai suoi più
alti e migliori istinti. D’altra parte nemmeno lui si appellava negli altri a simili
istinti.
Perciò, non appena percepiva in un collettivo un po’ di malcontento o
resistenza verso i suoi provvedimenti, non perdeva tempo, non cercava di
persuaderli, si limitava a prendere un bel foglio di carta e in alto a grandi lettere
ci scriveva: “Si assegnano i compagni qui indicati a eseguire questo e quello nel
seguente lasso di tempo”, poi tracciava delle righe per inserire il numero di
disposizione, cognome, ricevuta di notifica, e lo dava alla segretaria perché lo
facesse girare. I compagni indicati leggevano, spargevano a proprio piacimento
la loro esasperazione sull’indifferente foglio bianco, ma non potevano non
firmare, e una volta firmato, non potevano non eseguire.
Stepanov era un segretario esentato anche dal dubbio e dal brancolare nel
buio. Bastava che per radio annunciassero che non esisteva più l’eroica
Jugoslavia, ma solo la cricca di Tito, e tempo cinque minuti Stepanov spiegava
la decisione del Kominform con tale insistenza, tale convinzione, neanche ci
avesse meditato lui stesso per anni. Se qualcuno, con timore, richiamava la sua
attenzione sul contrasto fra le idee di oggi e quelle di ieri, sul pessimo
equipaggiamento dell’istituto, sulla bassa qualità delle apparecchiature
nazionali o sui disagi degli alloggi, il segretario esentato sorrideva, e i suoi
occhiali scintillavano, per le paroline che stava per dire:
– Be’, che si può fare, compagni. È il disordine ministeriale. Ma il progresso
resta comunque indubbio, non state lì a polemizzare!
Tuttavia, alcune debolezze umane erano anche sue caratteristiche, seppur
limitate. Gli piaceva essere elogiato da un superiore e che i semplici militanti di
partito si entusiasmassero davanti alla sua esperienza. Gli piaceva perché era
giusto.
Beveva vodka solo se gli veniva offerta o se gliela piazzavano sul tavolo, e
continuava a lamentarsi che era mortalmente nociva per la sua salute. Ragion
per cui non la comprava mai e nemmeno la offriva. Aveva solo questo difetto.
I “giovani” a volte bisticciavano fra loro riguardo al Pastore, su come fosse.
Rojtman diceva:
– Amici miei! Lui è il profeta del calamaio senza fondo. È l’anima del
documento stampato. In un periodo di transizione persone come lui sono
inevitabili.
Ma Klykačëv sorrideva a denti stretti.
– Sbarbatelli! Se gli capitassimo sotto i denti, finiremmo nella cacca. Non
consideratelo uno stupido. Ha imparato a vivere per cinquant’anni. Secondo
voi, è un caso che a ogni riunione salta fuori una risoluzione stroncante? Sta
scrivendo la storia di Marfino! È pre-vi-den-te, mette via un pezzettino per
volta: nel caso di un cambio, di un’ispezione qualsiasi, dimostreranno che il
segretario esentato faceva segnalazioni, attirava l’attenzione dell’opinione
pubblica.
Nell’interpretazione non troppo scrupolosa di Klykačëv, Stepanov figurava
come un uomo capzioso, riservato, pronto a tirare su i tre figli con ogni mezzo,
lecito e illecito.
I tre figli di Stepanov esistevano davvero e spillavano al padre soldi di
continuo. Li aveva sistemati tutti e tre alla facoltà di Storia, conscio che quella
materia per un marxista non era poi così complicata. Il calcolo si era rivelato in
qualche modo esatto, ma lui non aveva tenuto conto (al pari dell’unico piano
statale sull’istruzione) che di colpo si sarebbe giunti alla piena saturazione degli
storici-marxisti in tutte le scuole, gli istituti tecnici e i corsi brevi, prima di
Mosca, poi della regione di Mosca, e fino agli Urali. Il primogenito si era
laureato e non era rimasto a sostenere i genitori: era partito per Chanty-
Mansijsk. Al secondo avevano proposto un’assegnazione a Ulan-Ude; per il
tempo che avrebbe finito il terzo, era tanto se si fosse trovato qualcosa vicino
all’isola del Borneo.
A maggior ragione, dunque, il padre si aggrappava con tenacia al proprio
lavoro e alla casetta di famiglia nella periferia di Mosca, con un orto di dodici
centesimi di ettaro, botti piene di cavolo acido e due o tre maiali all’ingrasso.
La moglie di Stepanov, una donna sobria, forse un po’ antiquata, vedeva
nell’allevamento di maiali la propria ragione di vita e di sostegno al budget
familiare. Quella domenica aveva programmato di andare in provincia con il
marito a comprare un porcellino. A causa di quell’operazione (riuscita),
Stepanov non si era recato al lavoro il giorno prima, di domenica, anche se
dopo la conversazione avuta sabato non era tranquillo e smaniava di tornare a
Marfino.
Sabato alla Direzione politica Stepanov aveva ricevuto un bel colpo. Un
impiegato molto responsabile, che malgrado le ansie di una certa responsabilità
era anche molto ben pasciuto, pesava sui sei o sette pud, aveva guardato il naso
magro, strapazzato dagli occhiali di Stepanov e con pigra voce di baritono gli
aveva chiesto:
– Stepanov, come te la cavi con i giudei?
– Con i giu... chi? – aveva teso l’orecchio Stepanov per sentire meglio.
– Con i giudei. – E vedendo che l’interlocutore non capiva: – Gli ebrei...
Colto alla sprovvista, e temendo di ripetere quella parola a doppio taglio a
causa della quale poco tempo prima davano dieci anni come per agitazione
antisovietica, e un tempo ti mettevano anche al muro, Stepanov, stando sul
vago, aveva farfugliato:
– Ce ne sono...
– Be’, che pensi di farne?
Ma era squillato il telefono, il compagno responsabile aveva tirato su la
cornetta e con Stepanov non ne aveva più parlato.
Con sgomento Stepanov si era riletto alla Direzione politica tutto il pacco di
direttive, istruzioni e disposizioni: le lettere nere su carta bianca giravano
maliziosamente intorno alla questione giudaica.
Per tutta la domenica, mentre andava a prendere il porcellino, ci aveva
pensato e ripensato, grattandosi il petto con desolazione. Evidentemente, con
la vecchiaia aveva perso perspicacia! Che vergogna! L’impiegato esperto
Stepanov non aveva colto una nuova campagna importante e si ritrovava
persino implicato negli intrighi dei nemici, perché tutto il gruppo di Rojtman-
Klykačëv...
Lunedì mattina Stepanov era andato al lavoro, un po’ smarrito. Dopo il
rifiuto di Šikin di giocare a biliardo (Stepanov voleva farsi dire qualcosa da lui),
il segretario esentato, che boccheggiava per la mancanza di istruzioni, si era
chiuso nella stanza del Comitato di partito e per due ore di fila aveva colpito le
palle metalliche da solo, scagliandole fuori dal bordo alcune volte. L’enorme
bassorilievo a muro di bronzo con le quattro teste dei Padri fondatori era stato
felice testimone di alcuni colpi brillanti, con due o tre palle per volta finite in
buca. Ma le sagome sul bassorilievo restavano impassibili nel bronzo. I geni si
fissavano l’un l’altro nella nuca e non suggerivano a Stepanov che decisione
prendere per non rovinare un collettivo sano e per rafforzarlo nella nuova
condizione.
Alla fine esausto, aveva sentito squillare il telefono e aveva sollevato la
cornetta.
Lo chiamavano, primo, per dirgli che quella sera non si sarebbe tenuto il
solito incontro di Educazione politica del Komsomol e del partito, ma
bisognava riunire tutti per la lezione “Il materialismo dialettico: una
concezione del mondo avanzata”, che avrebbe tenuto un relatore del comitato
regionale. Secondo, a Marfino stava arrivando un’auto con due compagni che
avrebbero fornito adeguate disposizioni sul problema della lotta al servilismo
nei confronti dei paesi stranieri.
Il segretario esentato si era ripreso, rallegrato, aveva spedito una doppietta in
buca e rimesso il biliardo dietro l’armadio.
Aveva risollevato il suo umore anche il fatto che il porcellino dalle orecchie
rosa comprato il giorno prima mangiava la sua poltiglia molto volentieri, la
sera e la mattina, senza fare lo schizzinoso.
C’era speranza di farlo ingrassare bene, spendendo poco.
79
SPIEGATA LA DECISIONE

Il maggiore Šikin si trovava nell’ufficio dell’ingegner colonnello Jakonov.


Erano seduti a conversare da pari a pari, del tutto amabilmente, anche se
entrambi si disprezzavano e non riuscivano a sopportarsi.
Alle riunioni Jakonov amava dire: “Noi čekisti”, ma per Šikin lui restava
sempre quello di prima: un nemico del popolo che era stato all’estero, aveva
scontato una condanna, era stato graziato, persino accolto in seno alla
Sicurezza di Stato, ma mai innocente! Doveva arrivare senz’altro, per forza, il
giorno in cui gli Organi lo avrebbero smascherato e arrestato di nuovo. Allora,
Šikin gli avrebbe strappato lui stesso le spalline con piacere! A urtare lo zelante
maggiore tappetto con la testa grossa era la supponenza sfarzosa dell’ingegner
colonnello, quella baldanza spocchiosa con cui portava il peso del potere. Per
questo Šikin si sforzava di sottolineare sempre la propria importanza e quella
del proprio lavoro operativo, che l’ingegner colonnello sottovalutava.
Ora gli proponeva di presentare all’imminente riunione sulla sorveglianza il
rapporto di Jakonov riguardo alla situazione della sicurezza all’istituto, con una
feroce critica di tutte le mancanze. Era utile collegare una simile riunione al
trasferimento nei campi di lavoro degli zek negligenti e all’introduzione della
nuova modalità dei registri segreti.
L’ingegner colonnello Jakonov, tormentato, con le borse blu sotto gli occhi
dopo l’attacco del giorno prima, ma conservando la gradevole rotondità dei
tratti del viso, annuiva alle parole del maggiore, ma nel profondo, dietro le
mura e i fossati dove nessuno sguardo penetrava, a parte forse quello della
moglie, pensava che lurido pidocchio grigio, incanutito dalle analisi delle
denunce, fosse quel maggiore Šikin, quanto stupidamente insignificanti fossero
le sue occupazioni, quanta idiozia si celasse dietro le sue proposte.
A Jakonov era stato concesso soltanto un mese. Trascorso quello, la sua
testa sarebbe finita sotto la mannaia. Doveva tirarsi fuori dall’armatura del
comando, dalla corteccia della sua posizione elevata, sedersi lui stesso davanti
agli schemi, pensare in silenzio.
Ma la poltrona da un posto e mezzo sulla quale sedeva rappresentava già
una negazione: il colonnello, responsabile di tutto, non poteva toccare niente
direttamente, poteva solo alzare la cornetta del telefono e firmare carte.
Inoltre, quella meschina guerra fra comari con il gruppo di Rojtman gli
prosciugava forze spirituali. Era uno scontro che portava avanti per necessità.
Non era nelle condizioni di cacciarli dall’istituto, voleva solo costringerli a una
sottomissione incondizionata. Loro, invece, volevano cacciarlo ed erano in
grado di rovinarlo.
Šikin parlava. Jakonov aveva lo sguardo puntato poco oltre Šikin.
Fisicamente non chiudeva gli occhi, ma spiritualmente sì, e aveva abbandonato
il corpo flaccido nella giacca dell’uniforme per trasferirsi a casa.
Casa dolce casa! Casa, mia fortezza! Come sono saggi gli inglesi, che per
primi hanno capito quella verità. Nel tuo piccolo territorio esistono solo le tue
leggi. Quattro mura e un tetto ti separano incrollabilmente dal caro paese natio.
Occhi attenti, di uno splendore calmo, gli occhi di tua moglie, ti vengono
incontro sulla soglia di casa. Allegre bambine cinguettanti (ahimè, la scuola sta
già ingoiando anche loro con il suo plagiante servizio burocratico) ti rallegrano
e rinfrancano quando sei stanco di inseguire, di tirare. Tua moglie ha già
insegnato a entrambe a cicalare in inglese. Si siede al piano e suona un
piacevole valzer di Waldteufel. Nelle brevi ore del pranzo, e poi a tarda sera,
quasi sul far della notte, nella tua casa non ci sono né stupidi boriosi altolocati
né giovani maligni e appiccicosi.
Il lavoro dell’ingegner colonnello, per sua natura, implicava numerosi
tormenti, posizioni umilianti, soprusi, baraonde amministrative, e Jakonov si
sentiva così vecchio che avrebbe voluto rinunciarvi, se solo avesse potuto, e
sarebbe rimasto lì nel suo piccolo mondo comodo, nella sua casa.
No, non significava che il mondo esterno non gli interessasse: gli interessava,
e anche molto. Nella storia mondiale era difficile trovare un periodo più
allettante del nostro. Per lui la politica mondiale era una partita a scacchi:
scacchi all’ennesima potenza. Solo che Jakonov non aspirava a giocarci o,
ancora peggio, a essere una pedina, la testa o la base di una pedina. Jakonov
ambiva a osservare il gioco in disparte, gustarselo, tranquillo in pigiama su una
vecchia sedia a dondolo, in mezzo a tanti scaffali di libri.
Jakonov aveva tutte le caratteristiche per occuparsi di quei compiti.
Conosceva due lingue e la radio straniera gli offriva informazioni di continuo.
L’MGB riceveva per primo le riviste straniere e quelle tecniche e militari
giravano per gli istituti senza censura. Amavano tutte pubblicare articoletti di
politica, su un’imminente guerra globale, sul futuro assetto politico del pianeta.
Stando in mezzo ai pezzi grossi della Sicurezza di Stato, Jakonov riusciva
persino a sentire dettagli che non figuravano sulla stampa. Non disdegnava
nemmeno i libri tradotti su diplomazia e spionaggio. Inoltre, aveva la testa
piena di pensieri sottili. Il gioco degli scacchi, per lui, era seguire dalla sedia a
dondolo la partita Est-Ovest e in base alle loro mosse cercare di predire il
futuro.
Ma lui, per chi tifava? Con l’anima, per l’Ovest. Ma sapeva con certezza chi
era il vincitore e non vi avrebbe puntato contro nemmeno una fiche: il
vincitore era l’Unione Sovietica. Jakonov lo aveva capito fin da quel viaggio in
Europa nel 1927. L’Occidente era spacciato proprio perché faceva la bella vita e
non osava metterla a rischio per difenderla. Gli esimi pensatori e statisti
d’Occidente, giustificando davanti a sé quell’esitazione, quella sete di
procrastinare la lotta, si autoingannavano con la fede nelle vuote promesse
dell’Oriente sulla sua capacità di migliorarsi da solo, sulla sua luminosa
coerenza di principi. Tutto ciò che non rientrava in quello schema veniva
rigettato come calunnia o come caratteristica momentanea.
C’era in ballo una legge mondiale: a vincere era sempre il più crudele. Su
questo, purtroppo, si basavano la Storia e tutti i profeti.
Da giovane Anton aveva compreso e fatto propria fin da subito la frase
comune: “Tutti gli uomini sono canaglie.” Più viveva, più quella verità gli si
confermava. E più metteva radici solide, più ne trovava le prove ed era facile
per lui vivere. Perché se gli uomini erano canaglie, nulla andava fatto per
“loro”, ma solo per sé stessi. Non esisteva nessun “altare sociale” e nessuno
poteva chiederci di sacrificarci. Tutto quello era stato espresso in modo
semplice, molto tempo prima, dal popolo con il detto: “La camicia è la cosa più
vicina al corpo.”165
Ecco perché i custodi di questionari personali e di anime non avevano
motivo di temere il suo passato.
Riflettendo sulla vita, Jakonov si era reso conto che in prigione finiva solo
chi per qualche istante non aveva usato il cervello. Le persone davvero
intelligenti prevedono le cose, si traggono d’impiccio e restano sempre in
libertà. Perché trascorrere dietro le sbarre l’esistenza, quando ci è data solo per
il tempo che respiriamo? No! Jakonov non aveva rinnegato il mondo degli zek
solo in apparenza, lo aveva ripudiato anche dentro di sé. Altrimenti non
avrebbe ricevuto quattro stanze spaziose con il balcone e settemila rubli al mesi
da mani altrui, o almeno non così in fretta. Il potere faceva del male, era
bizzarro, mediocre, crudele, ma la sua forza, la sua più autentica
manifestazione stava proprio in quella crudeltà!
Non avendo possibilità di lasciare il servizio, Jakonov si preparava a entrare
nel Partito comunista, non appena (e se) lo avessero accettato.
Intanto Šikin gli porgeva l’elenco degli zek condannati a essere tradotti il
giorno successivo. Le candidature concordate in precedenza erano sedici, e
adesso Šikin ci aveva aggiunto, compiaciuto, altri due nomi presi dal taccuino
di Jakonov. Si erano accordati con la Direzione carceraria per venti. Bisognava
“rimediare” i due nomi mancanti con urgenza e comunicarli, non più tardi
delle cinque di quella sera, al tenente colonnello Kliment’ev.
Tuttavia, le ultime candidature non saltavano fuori. Chissà come, succedeva
sempre che gli specialisti e i lavoratori migliori fossero anche i più infidi per il
servizio operativo, mentre i preferiti dell’oper erano fannulloni e lavativi. Per
questo era difficile mettersi d’accordo su chi far tradurre.
Jakonov fece scorrere le dita sull’elenco.
– Me lo lasci. Ci rifletterò ancora. Lei faccia lo stesso. Troveremo un
accordo per telefono.
Šikin si alzò senza alcuna fretta e (avrebbe dovuto trattenersi, ma non lo
fece) si lamentò con quell’uomo indegno della decisione del ministro: nella
stanza numero 21 lasciavano entrare il detenuto Rubin e Rojtman, ma
l’ingresso era precluso a lui, Šikin, e al colonnello Jakonov, nel loro stesso
impianto... Assurdo!
Jakonov inarcò le sopracciglia e abbassò le palpebre, tanto che il suo viso per
un istante sembrò quello di un cieco. Fu come se, senza parlare, dicesse:
“Sì, maggiore, sì, amico mio, mi duole, mi duole molto, ma alzare gli occhi
verso il sole io non posso.”
In effetti, il rapporto di Jakonov con la stanza n. 21 era complicato. Quando
domenica sera, nell’ufficio di Abakumov, aveva sentito da Rjumin di quella
telefonata, Jakonov era stato colpito dall’arguzia di quelle due nuove mosse
sullo Scacchiere mondiale. Poi la bufera personale gli aveva fatto dimenticare
tutto. La mattina del giorno precedente, mentre si riprendeva da quell’attacco al
cuore, aveva appoggiato volentieri Selivanovskij nel proposito di affidare tutto
a Rojtman (era un’impresa debole, con un tizio impetuoso che avrebbe potuto
anche rompersi l’osso del collo da solo). Ma la curiosità verso quella telefonata
temeraria gli era rimasta: per lui era una vergogna che non gli permettessero di
entrare nella stanza n. 21.
Šikin se ne andò e Jakonov si ricordò che in giornata lo attendeva una
questione più piacevole che non aveva fatto in tempo a seguire il giorno prima.
Ma intanto, se avesse spinto avanti con decisione il codificatore assoluto, quello
di lì a un mese l’avrebbe salvato davanti ad Abakumov.
Dopo aver telefonato all’ufficio progettazione, ordinò a Sologdin di
portargli il suo nuovo progetto.
Di lì a due minuti bussò Sologdin: slanciato, con la barba riccioluta e la tuta
bisunta, entrò a mani vuote.
Jakonov e Sologdin, prima di quel momento, non avevano mai parlato: di
chiamare Sologdin in quell’ufficio non c’era mai stato bisogno e, quando si
trovavano in quello di progettazione o si incontravano nel corridoio, un
personaggio così insignificante come Sologdin l’ingegner colonnello non lo
notava nemmeno. Ma adesso (mentre sbirciava sulla lista dei nomi e
patronimici nascosta sotto il vetro) Jakonov, tutta la cordialità di un nobile
ospitale, guardò con approvazione colui che entrava e lo invitò con un ampio
gesto della mano ad accomodarsi.
– Si sieda, Dmitrij Aleksandrovič, sono davvero felice di vederla.
Sologdin, le braccia incollate al corpo, si avvicinò, si inchinò in silenzio, e
poi rimase lì in piedi dritto e immobile.
– Lei, dunque, ci ha preparato di nascosto una sorpresa! – tuonò Jakonov. –
Pochi giorni fa, mi sembra sabato, Vladimir Erastovič mi ha mostrato il suo
schema del blocco centrale del codificatore assoluto... Ma perché non si siede?
Gli ho dato un’occhiata di sfuggita, non vedo l’ora di parlarne più nel dettaglio.
Senza abbassare lo sguardo davanti a quello di Jakonov cordiale, girato per
metà, immobile come in un duello, in attesa dei colpi dell’avversario, Sologdin
rispose in modo secco:
– Si sbaglia, Anton Nikolaevič. In effetti, ho lavorato come potevo al
codificatore. Ma quello che mi è uscito e che lei ha visto è qualcosa di
mostruosamente lacunoso, per colpa delle mie capacità davvero mediocri.
Jakonov si gettò indietro sulla poltrona e protestò con benevolenza:
– Ma no, caro amico, su, non faccia il modesto! Anche se ho guardato di
sfuggita il suo progetto, mi sono fatto a tal proposito un’idea assai riguardosa.
E Vladimir Erastovič, che per entrambi è un giudice supremo, si è espresso in
un chiaro elogio. Adesso ordino di non lasciar passare nessuno, lei mi porta il
suo foglio, le sue considerazioni e ci ragioniamo insieme. Vuole che chiamiamo
anche Vladimir Erastovič?
Jakonov non era un capo ottuso, cui interessava solo il risultato e il
rendimento. Era un ingegnere, un tempo anche appassionato, che ora
pregustava il sottile piacere che poteva derivare da un’idea umana elaborata per
lungo tempo. L’unico piacere che il lavoro poteva ancora offrirgli. Guardava
Sologdin quasi supplichevole, gli sorrideva bramoso.
Anche Sologdin era un ingegnere, già da quattordici anni. E un detenuto, da
dodici.
Fu percorso da un sottile brivido e con voce chiara disse:
– E tuttavia, Anton Nikolaevič, lei si sbaglia. Era un abbozzo per nulla
meritevole della sua attenzione.
Jakonov si accigliò e, un po’ arrabbiato, ribatté:
– Va bene, vedremo, vedremo, porti qui il foglio.
Ma sulle sue spalline dorate con i bordi azzurri c’erano tre stelle. Tre grandi
stelle voluminose, disposte a triangolo. Al tenente anziano Kamyšan, oper di
Gornaja Zakrytka, nei mesi in cui malmenava Sologdin, erano comparse uguali
al posto di quelle con i cubetti: dorate, i bordi azzurri e tre stelle a triangolo,
solo più piccole.
– Non era niente di più che un abbozzo – disse Sologdin, con la voce
incrinata. – Trovandoci degli errori gravi, irrimediabili, l’ho... bruciato.
(Aveva affondato la spada per poi rigirarla due volte.)
Il colonnello impallidì. Nel tetro silenzio spiccava il suo respiro affannoso.
Sologdin cercò di respirare senza far rumore.
– Cioè... Come?... Con le sue mani?
– No, come avrei potuto. L’ho consegnato per farlo bruciare. Seguendo la
procedura. Da noi li bruciavano oggi.
Parlava con la voce smorzata, non chiara. Non c’era traccia della sua solita
sicurezza squillante.
– Oggi? Dunque può essere ancora intatto? – proseguì Jakonov, con viva
speranza.
– L’hanno bruciato. L’ho visto dalla finestra – rispose Sologdin, come se gli
mollasse uno schiaffo in faccia.
Aggrappandosi con una mano al bracciolo della poltrona, e afferrando con
l’altra il fermacarte di marmo come se volesse usarlo per schiacciare la testa di
Sologdin, il colonnello sollevò a fatica il corpaccione e si piegò in avanti, sopra
il tavolo.
Sologdin rimase immobile come una statua blu, con la testa rovesciata
leggermente indietro.
I due ingegneri non ebbero più bisogno né di domande né di chiarimenti.
Tra i loro sguardi passavano terribili scariche elettriche.
“Io ti distruggo!” emanavano gli occhi del colonnello.
“Dammi pure una terza condanna!” gridavano quelli del detenuto.
Stava per scatenarsi una tempesta.
Ma Jakonov, afferrati con una mano la fronte e gli occhi, come per
schermarli dalla luce, si voltò e si diresse alla finestra.
Sologdin si tenne forte allo schienale della sedia accanto e abbassò lo
sguardo, tormentato.
“Un mese. Un mese soltanto. Possibile che io sia finito?” si proiettò nella
mente del colonnello nel modo più nitido possibile.
“Una terza condanna. No, a quella non sopravvivrò” pensò Sologdin,
sconvolto.
Jakonov si girò di nuovo verso Sologdin.
“Un ingegnere è un ingegnere! Come hai potuto?!” chiedeva il suo sguardo.
Ma gli occhi di Sologdin scintillarono:
“Un detenuto è un detenuto! Ti sei dimenticato com’è?”
Con sguardi di un odio ipnotico, in cui l’uno vedeva nell’altro il sé stesso
che non era diventato, si fissarono senza staccarsi.
Il fantasma di Agnija con le sue ali gialle balenò davanti ad Anton per la
seconda volta in quei giorni.
Ora Jakonov avrebbe potuto gridare, denunciarlo, fare una telefonata,
metterlo in prigione: Sologdin era pronto anche a quello.
Ma Jakonov tirò fuori un fazzoletto pulito, morbido e bianco e si asciugò gli
occhi.
Poi guardò dritto verso Sologdin.
In quei minuti Sologdin cercò di resistere ancora.
Con una mano l’ingegner colonnello si appoggiò al davanzale e con l’altra
fece cenno al detenuto di avvicinarsi.
Con tre passi rigidi Sologdin gli si accostò.
Curvo come un vecchio, Jakonov domandò:
– Sologdin, lei è di Mosca?
– Sì.
– Ecco, guardi – gli disse. – Vede sullo stradone la fermata dell’autobus?
Si vedeva bene dalla finestra.
Sologdin la guardò.
– Da qui al centro di Mosca ci vuole mezz’ora – raccontò piano Jakonov. –
Lei avrebbe potuto salire su quell’autobus a giugno, luglio di quest’anno. Ma
non l’ha voluto. Scommetto che ad agosto avrebbe fatto già la prima vacanza e
se ne sarebbe andato sul Mar Nero. A fare il bagno! Quanti anni sono che non
entra più in acqua, Sologdin? Ai detenuti non viene concesso!
– Come no? C’è la fluitazione del legname – obiettò Sologdin.
– Proprio un gran bel bagno! Finirà tanto a Nord, dove i fiumi non si
sciolgono mai...
Dunque è così? Sacrifichi il futuro, sacrifichi il tuo nome, ma non basta.
Devi dargli il pane, il sangue, strapparti la pelle di dosso, finire ai lavori
forzati...
– Sologdi-in! – gemette Jakonov in una cantilena straziante, e come sul
punto di cadere, posò entrambe le mani sulle spalle del detenuto. – Lei può
senz’altro ricostruire tutto! Senta, al mondo non può esistere un uomo che non
desideri il bene per sé stesso. Perché rovinarsi? Me lo spieghi: perché ha fatto
bruciare quel disegno??
Dmitrij Sologdin aveva gli occhi di un azzurro limpido, cristallino,
incontaminato. Nella loro pupilla nera, però, Jakonov vedeva riflessa la propria
testa massiccia.
Un cerchietto azzurro, un puntino nero nel mezzo, e dietro tutto il mondo
inatteso di un uomo unico.
È bello avere una testa lucida. Trovare un espediente fino all’ultimo minuto.
Tutte le strade degli eventi dipendono da te. Perché uno dovrebbe rovinarsi?
Per chi? Per un popolo folle, smarrito e corrotto?
– Secondo lei? – gli rispose Sologdin con una domanda. Le labbra rosa tra i
baffi e la barba si piegarono leggermente, quasi beffarde.
– Non la capisco. – Jakonov abbassò le mani e si allontanò. – Non capisco
chi si suicida.
E alle sue spalle giunse una voce sonora, decisa:
– Cittadino colonnello! Sono una nullità, non mi conosce nessuno. Non
volevo dar via la mia libertà per niente...
Jakonov si voltò di scatto.
– ...se non avessi bruciato quel disegno, ma ve lo avessi messo davanti bell’e
pronto, il nostro tenente colonnello, lei, Foma Gur’janovič, o chi le pare,
avreste potuto farmi portare via domani e piazzare sotto il disegno il nome di
qualcun altro. Ce ne sono stati di casi così. Una volta che ti trasferiscono, le
dirò, non è così facile lamentarsi: ti levano le matite, non ti danno la carta, le
tue dichiarazioni non arrivano a chi di dovere... il detenuto, spedito in
traduzione, non può mai avere ragione di niente.
Jakonov ascoltava Sologdin quasi con ammirazione. (Quell’uomo gli era
piaciuto subito, sin da quando era arrivato!)
– Dunque lei... si impegna a ridisegnarlo?! – a chiederlo non era l’ingegner
colonnello, ma un uomo disperato, sfinito, senza potere.
– Quello che c’era sul foglio, in tre giorni! – gli occhi di Sologdin
scintillarono. – Ma in cinque settimane potrà avere l’abbozzo di un progetto
completo con calcoli e specifiche tecniche. Che ne dice?
– Un mese! Un mese!! Ci serve in un mese!! – Jakonov si girò ad affrontare
quell’ingegnere diabolico, non con tutto il corpo, solo con il busto, tenendo le
mani appoggiate sul tavolo.
– Va bene, lo avrà in un mese – confermò Sologdin, glaciale.
Ma subito Jakonov si fece sospettoso.
– Aspetti – si bloccò. – Ha appena detto che si trattava di un abbozzo non
meritevole, che vi aveva trovato degli errori gravi, irrimediabili...
– Aha! – scoppiò a ridere di cuore Sologdin. – A volte la mancanza di
forforo, ossigeno ed esperienze di vita gioca brutti scherzi, mi viene una sorta
di buco nero. Ora mi affiancherò al professor Čelnov e sarà tutto corretto!
Anche Jakonov sorrise, sbadigliò per il sollievo e si sedette sulla poltrona.
Ammirava la sicurezza che Sologdin dimostrava in quella conversazione.
– Ha portato avanti un gioco rischioso, caro mio. Avrebbe potuto finire in
tutt’altra maniera.
Sologdin aprì le dita leggermente.
– Difficile, Anton Nikolaič. Avevo valutato bene la posizione dell’istituto e...
la sua. Lei conoscerà di certo quest’espressione francese? Le hasard est roi! Sua
maestà il Caso. Ci capita davanti così di rado che bisogna saltargli in groppa in
fretta, dritto sulla schiena!
Sologdin parlava e si comportava tranquillamente, come se si fosse trovato
con Neržin al taglio della legna.
Adesso si era seduto anche lui e continuava a guardare Jakonov
allegramente.
– Dunque, come facciamo? – domandò l’ingegner colonnello, in tono
amichevole.
Sologdin rispose come se leggesse da un testo stampato e fosse una cosa
decisa da tempo:
– Foma Gur’janovič vorrei evitarlo fin da subito. È proprio il tipo di
personaggio che ama essere un coautore. Da parte sua, invece, non mi aspetto
trucchetti simili. Non mi sbaglio, vero?
Jakonov annuì con gioia. Oh, era già tanto sollevato anche senza quello!
– Inoltre, le ricordo che il foglio è andato bruciato. Adesso, se lei ci tiene al
mio progetto, trovi il modo di parlare di me direttamente al ministro. O al
limite al viceministro. E faccia sì che l’ordine sulla mia nomina a capo progetto
venga firmato proprio da lui. Sarà per me una garanzia e io mi metterò al
lavoro. Formeremo un gruppo speciale.
D’un tratto si spalancò la porta. Il calvo e magro Stepanov, con gli smorti
occhiali luccicanti, entrò senza bussare.
– Allora, Anton Nikolaevič – disse con aria seria. – Abbiamo qualcosa di
importante di cui discutere.
Stepanov gli si rivolgeva con nome e patronimico! Una cosa incredibile.
– Quindi, attendo quell’ordine? – Sologdin si alzò.
L’ingegner colonnello annuì. Sologdin uscì, con passo leggero e deciso.
Jakonov non capì subito a cosa si riferisse il partorg, così animatamente.
– Compagno Jakonov! Sono appena stati da me i compagni della Direzione
politica e mi hanno fatto una grossa lavata di capo. Ho commesso degli errori
enormi e gravi. Ho permesso che nella nostra organizzazione di partito covasse
un gruppo, che potremmo definire di cosmopoliti senza radici. Ho dato prova
di miopia politica, non l’ho sostenuta quando hanno cercato di darle addosso.
Ma noi non dobbiamo avere paura di riconoscere i nostri errori! Adesso io e lei
elaboreremo una risoluzione, poi convocheremo un’assemblea aperta del
partito e colpiremo duro contro quel servilismo.
La situazione di Jakonov, tanto disperata fino al giorno prima, era
decisamente migliorata.

165 Bisogna prima pensare a sé stessi, poi agli altri.


80
CENTOQUARANTASETTE RUBLI

Prima di pranzo il sorvegliante di turno Žvakun affisse nel corridoio della


prigione speciale un elenco di persone chiamate a rapporto dal maggiore Myšin
durante la pausa. Con quel tipo di elenco si chiamavano ufficialmente gli zek a
ritirare lettere e notifiche di trasferimenti su conti personali.
Nelle prigioni centrali, la procedura di distribuzione delle lettere ai detenuti
veniva organizzata in segreto. Non poteva avvenire come in libertà con un
postino girovago. Dietro una porta cieca, per parlarsi a quattr’occhi, un padre
spirituale, un compare, che aveva lui stesso letto quella lettera e si era assicurato
che non contenesse torbidi pensieri peccaminosi, la consegnava al detenuto,
accompagnandola con una ramanzina. Si vedeva palesemente che la lettera era
stata aperta, che vi avevano estirpato quell’ultima intimità da caro a caro. Era
passata per molte mani, ne avevano attinto citazioni per il fascicolo e al suo
interno si notava il nero timbro sbavato della censura, che toglieva alla lettera il
suo misero significato personale, conferendogli quello importante, di
documento statale. (Nelle altre šaraški lo capivano così bene che le lettere non
venivano nemmeno consegnate, i detenuti potevano al massimo leggerle una
volta, di rado due volte, nell’ufficio del compare, che strappava loro, in fondo a
ciascuna missiva, una firma a conferma della lettura; se leggendo una lettera
della moglie o della madre, uno zek cercava di farne una copia per ricordo,
questo destava sospetti neanche avesse tentato di copiare documenti dello Stato
maggiore. Lo zek in quei luoghi doveva firmare anche di aver visionato le
fotografie speditegli da casa, che poi finivano allegate al suo fascicolo di
prigioniero.)
Dunque, l’elenco era stato appeso e ora si trovavano tutti in fila per le
lettere. Erano in coda anche quelli che non dovevano ricevere nulla, ma
volevano spedire l’unica lettera permessa a dicembre: andava anch’essa
consegnata di persona nelle mani del compare. Con la scusa di tutte queste
operazioni, il maggiore Myšin poteva conversare liberamente con i delatori,
chiamandoli a rapporto a sorpresa. Ma affinché non fosse palese con chi
conversasse a lungo, il compare della prigione, a volte, tratteneva nel suo ufficio
anche gli zek onesti, per trarre in inganno gli altri.
Così, tutti in fila, si sospettavano l’un l’altro e a volte sapevano persino con
esattezza chi voleva rovinare loro la vita con una denuncia, eppure gli
sorridevano sornioni per non indispettirlo.
Anche se non si basava direttamente sull’esperienza di Catone Maggiore, la
prigionia sovietica ne seguiva l’insegnamento in modo fedele: mai tollerare che
gli schiavi fossero troppo amichevoli tra loro.
Al suono del campanello del pranzo, gli zek salivano di corsa dal
sotterraneo, attraversavano il cortile in balia del vento umido ma non freddo,
senza né cappotto né berretto, e si infilavano nella porta del comando del
carcere. Siccome quella mattina era stato annunciato un nuovo regolamento
relativo alla corrispondenza, si era formata una fila particolarmente lunga, di
una quarantina di persone, che nel corridoio non ci stava. Il vice del
sorvegliante di turno, uno smanioso sergente maggiore scoppiettante di salute,
spadroneggiava a tutto spiano. Contò venticinque zek e agli altri ordinò di farsi
un giro e di tornare durante l’intervallo della cena; sistemò lungo le pareti del
corridoio, a dovuta distanza dagli uffici della direzione, quelli rimasti e per
tutto il tempo continuò a fare avanti e indietro per il passaggio, mantenendo
l’ordine. Giunto il proprio turno, lo zek superava alcune porte, bussava
all’ufficio del maggiore Myšin e, ricevuto il permesso, entrava. Quando quello
usciva, partiva il successivo. Era tutta la pausa pranzo che lo smanioso sergente
maggiore dirigeva il traffico.
Anche se Spiridon aveva insistito per avere la sua lettera fin dal mattino,
Myšin gli aveva risposto con fermezza che gliel’avrebbe consegnata durante
l’intervallo, assieme a tutti gli altri. Mezz’ora prima del pranzo, invece, Spiridon
era stato chiamato all’interrogatorio dal maggiore Šikin. Se solo avesse reso le
deposizioni richieste, se avesse ammesso tutto, magari, avrebbe fatto in tempo a
ricevere la sua lettera. Ma Spiridon si era chiuso in sé stesso, si era incaponito, e
il maggiore Šikin non poteva lasciarlo andare in quella posizione ostinata. Così,
sacrificando la propria pausa (nella mensa dei liberi non andava comunque
durante l’intervallo, per non finire in mezzo alla calca), Šikin aveva continuato
a interrogarlo.
Il primo in coda per le lettere era Dyrsin, un ingegnere emaciato del Sette,
uno dei suoi lavoratori principali. Non riceveva lettere da più di tre mesi. Si
informava invano da Myšin, che gli rispondeva sempre: “No”, “Non ti hanno
scritto”. Allora, invano, chiedeva a Mamurin che investigassero: non succedeva.
E poi quel giorno aveva visto il suo cognome nell’elenco e con una fitta al
petto era riuscito a correre lì per primo. Della famiglia gli era rimasta solo la
moglie, consumata come lui da dieci anni di attesa.
Il sergente maggiore fece cenno a Dyrsin di passare e in cima alla coda
apparve Rus’ka Doronin, perfidamente raggiante, con l’ondulata montata
tremula dei capelli chiari. Visto in fila lì vicino il lettone Hugo, uno per lui di
fiducia, scosse la testa e, strizzandogli l’occhio, bisbigliò:
– Vado a prendere i miei soldi. Me li son sudati.
– Avanti! – ordinò il sergente maggiore.
Doronin andò incontro a Dyrsin, che stava tornando indietro a testa china.
– Allora? – domandò a Dyrsin nel cortile Amantaj Bulatov, suo compagno
di lavoro.
Il viso perennemente non rasato e perennemente tetro di Dyrsin aveva
un’espressione delusa.
– Non lo so. Dice che c’è una lettera, ma che devo fare un salto dopo
l’intervallo, così ne parliamo.
– ...che stronzi! – concluse Bulatov, in tono deciso, e si infiammò dietro gli
occhiali con la montatura di corno. – Io te lo dico da un pezzo, quelli si
intascano le lettere. Rifiutati di lavorare!
– Così mi affibbiano una seconda condanna – sospirò Dyrsin. Era sempre
curvo, con la testa incassata fra le spalle, come se gli avessero assestato un colpo
da dietro con un bell’arnese una volta per tutte.
Anche Bulatov sospirò. Lui era così battagliero perché aveva ancora
parecchio tempo da passare dentro. La determinazione di uno zek, invece,
calava man mano che si avvicinava la sua liberazione. Dyrsin stava scontando il
suo ultimo anno.
Il cielo era di un grigio uniforme, senza né punti densi né aperture. Non
aveva né l’altezza né la forma di una cupola: era un tetto sporco di tela
catramata stesa sopra la terra. Per via di un brusco vento umido, la neve si era
depositata, fatta porosa, il suo biancore mattutino era sbiadito a poco a poco.
Dopodiché si era compattata sotto i piedi dei passanti in scivolose collinette
brunastre.
La passeggiata, invece, si stava svolgendo come sempre. Non esisteva tempo
schifoso che si potesse escogitare per convincere i detenuti della šaraška a
rinunciarci. Senz’aria avvizzivano. Erano abituati a restare a lungo chiusi nelle
stanze e quelle brusche folate di vento umido si rivelavano un piacere:
soffiavano via l’aria e i pensieri stagnanti.
L’incisore-decoratore correva un po’ qua un po’ là fra i detenuti a passeggio.
Prendeva sotto braccio ora uno zek, ora un altro, ci faceva uno o due giri,
chiedeva consiglio. A quanto diceva, la sua situazione era davvero terribile:
trovandosi in carcere, non era riuscito a formalizzare il matrimonio con la
prima moglie, che ora risultava illegittima; non aveva più il diritto di scriverle e
non poteva nemmeno avvertirla delle nuove disposizioni sulla corrispondenza,
avendo esaurito il tetto massimo di lettere per il mese di dicembre. La sua, in
effetti, era una situazione assurda. Ma ognuno di loro considerava il proprio
dolore maggiore di quello degli altri.
Incline alle sensazioni estreme e dritto come una pertica ben piantata,
Kondrašëv-Ivanov camminava lentamente, con lo sguardo perso oltre le teste
degli altri a passeggio, e in uno stato di cupa ebbrezza dichiarava al professor
Čelnov che, quando la dignità umana è a tal punto calpestata, continuare a
vivere vuol dire svilire sé stessi. All’uomo coraggioso resta una sola via per
uscire da questa catena di irrisioni.
Il professor Čelnov, con il solito berretto fatto a maglia e il plaid avvolto
intorno alle spalle, citava al pittore con ritegno le “consolazioni carcerarie” di
Boezio166.
Presso la porta della direzione si era riunito un gruppo di volontari a caccia
di delatori: Bulatov, la cui voce riecheggiava in tutto il cortile; Chorobrov;
Zemelja, bonario addetto al vuoto; Dvoetësov, addetto al vuoto anziano, che
indossava per principio la giubba di panno del campo di lavoro; quello svelto
di Prjančikov, che si immischiava sempre in tutto; Max, il capo dei tedeschi; e
un lettone.
– La nazione deve sapere chi sono i suoi delatori! – ripeteva Bulatov,
incoraggiandoli a non allontanarsi da quel proposito.
– Ma noi di base li conosciamo – rispondeva Chorobrov, che fermo sulla
soglia scorreva con gli occhi la gente in fila. Di alcuni poteva dire con
probabilità che erano lì per ricevere la loro paga da Giuda. Ma, ovviamente,
erano sospettati i meno furbi.
Rus’ka tornò allegro dai suoi compagni, trattenendosi a stento dallo
sventolare il suo vaglia. Gli altri, con le teste raggruppate, guardarono subito la
cedola: 147 rubli a Rostislav Doronin dalla mitica Klavdija Kudrjavceva!
Giunto alla fila di ritorno dal pranzo, Artur Siromacha, super-delatore, anzi
principe dei delatori, osservò il gruppo con il suo sguardo intorbidito. Li
squadrò come d’abitudine per notare ogni cosa, ma non diede loro troppa
importanza.
Rus’ka prese il suo vaglia e come concordato si allontanò dal gruppo.
Il terzo a recarsi dal compare fu un ingegnere energetico, un uomo sulla
quarantina, che la sera prima, nell’arca chiusa, paragonava i ministri a addetti
agli spurghi, ma poi come un bambino si era messo a fare a cuscinate sulle
cuccette superiori.
Il quarto a passare spedito e leggero fu Viktor Ljubimičev, un ragazzo “alla
buona”. Quando sorrideva mostrava i denti grossi e dritti sia ai detenuti
giovani sia a quelli vecchi, che con modi affabili chiamava tutti “amici”. Da
quel comportamento cordiale trapelava la purezza della sua anima.
L’ingegnere energetico uscì sulla soglia con una missiva aperta. Immerso
nella lettura, per poco non mancò il gradino. Sempre senza guardare, si diresse
in disparte e nessuno del gruppo dei “volontari” andò a disturbarlo. Vestito
leggero, senza cappello, sotto il vento che gli agitava i capelli ancora giovani
nonostante tutto quello che aveva vissuto, dopo otto anni di separazione stava
leggendo la prima lettera della figlia Ariadna, che lui, andandosene nel 1941 al
fronte (e da lì in prigionia, e dalla prigionia in carcere), aveva lasciato che era
solo una raggiante bimbetta di sei anni sempre appesa al collo. E quando nella
baracca dei prigionieri di guerra camminava schiacciando uno strato di
pidocchi portatori di tifo, e se ne stava in coda quattro ore per un mestolo di
brodaglia torbida e puzzolente, quel caro gomitolino raggiante era per lui come
il filo di Arianna, cui attaccarsi per sopravvivere in qualche modo e fare
ritorno.
Una volta tornato in patria, però, essendo subito finito in carcere, non
l’aveva vista comunque: lei e la madre erano rimaste a Čeljabinsk, dov’erano
state evacuate. La madre di Ariadna, che evidentemente si era già messa con un
altro, per lungo tempo non aveva voluto dire alla figlia che il padre era ancora
vivo.
Con una calligrafia inclinata, senza cancellature, da studentessa scrupolosa,
la figlia ora gli scriveva:
Salve, caro papà!
Non ti ho risposto subito perché non sapevo da dove cominciare e cosa
scrivere.
Devi scusarmi, ma non ti vedo da tanto tempo e mi ero abituata all’idea
che fossi morto. È strano per me avere all’improvviso un padre.
Mi domandi come sto. Sto come stanno tutti. Puoi farmi le
congratulazioni: sono entrata nel Komsomol. Mi chiedi di scriverti se ho
bisogno di qualcosa. Naturalmente, mi piacerebbe avere un sacco di cose.
Ora sto mettendo da parte un po’ di soldi per un paio di soprascarpe e
per farmi cucire un soprabito da mezza stagione. Papà! Mi chiedi di
venirti a trovare. Ma è davvero così urgente? Venire a cercarti così
lontano, ne converrai, non è molto piacevole. Quando sarai in grado,
verrai tu. Ti auguro tanti successi nel tuo lavoro. Per ora arrivederci.
Baci,
Ariadna

Papà, hai visto Il primo guanto? È un film fantastico! Non me ne


perdo mai neanche uno.
– Controlliamo Ljubimičev? – chiese Chorobrov in attesa che uscisse.
– Ma che dici, Terent’ič! Ljubimičev è uno dei nostri! – fu la risposta.
Ma Chorobrov aveva una strana sensazione riguardo a quell’uomo
trattenuto ora dal compare.
Viktor Ljubimičev aveva grandi occhi perennemente spalancati. La natura gli
aveva donato un fisico da sportivo, soldato e amatore. La vita lo aveva
catapultato subito dalle piste da corsa di uno stadio della gioventù a un campo
di concentramento in Baviera. In quell’angusto spazio di morte, dove i nemici
spedivano i soldati russi e il potere sovietico non lasciava entrare la Croce
Rossa internazionale167, in quello spazio di terrore piccolo e compatto
sopravviveva solo chi metteva più da parte i propri concetti relativi, limitati e
classisti di bene e coscienza; chi era capace di vendere i compagni diventando
interprete e traduttore; chi riusciva a colpire con un bastone in faccia i
connazionali diventando sorvegliante di campo; chi riusciva a mangiare il pane
degli affamati diventando affettapane o cuoco. C’erano poi altre due possibilità
per sopravvivere: fare il becchino e il bottinaio. Se scavavi le tombe e pulivi le
latrine i nazisti ti davano un mestolo in più di brodaglia. Alle latrine, bastavano
due incaricati. Alle tombe, invece, di incaricati ogni giorno ne servivano
almeno cinquanta. Un giorno sì e l’altro pure, una decina di carri trasportava
morti da scaricare. Verso l’estate del 1942 si avvicinava l’ora anche dei becchini.
Con tutta la brama di un corpo che ancora non aveva vissuto abbastanza
Viktor Ljubimičev voleva vivere. Aveva deciso che se doveva morire, voleva
essere l’ultimo e si stava già mettendo d’accordo per fare il sorvegliante. Ma era
capitata un’occasione fortunata: al campo era giunto un ex capo politico con la
voce nasale, che cercava di convincerli ad andare a combattere contro i
comunisti. Avevano firmato. Persino alcuni membri del Komsomol... Oltre
quelle porte c’era una cucina di campo tedesca, dove avevano nutrito i
volontari con polenta “a volontà”. Subito dopo, Ljubimičev aveva combattuto
in Francia: lì aveva dato la caccia ai partigiani del “movimento di resistenza”
sui Vosgi e respinto gli Alleati sul Vallo Atlantico. Durante la grande pesca del
1945, era filtrato in qualche modo attraverso il setaccio, arrivando a casa, aveva
sposato una ragazza con i suoi stessi occhi chiari, con il suo stesso corpo
giovane e flessuoso, e l’aveva lasciata dopo neanche un mese, quando era stato
arrestato per via dei suoi trascorsi.
Nelle carceri, proprio in quel periodo, incontrò dei russi membri di quello
stesso “movimento di resistenza” che lui aveva cacciato sui Vosgi. Alla Butyrka
giocavano a domino, ricordavano i giorni trascorsi in Francia e i combattimenti
e aspettavano di ricevere pacchi da casa. Poi era stata data a tutti la stessa
condanna: dieci anni. Così, a Ljubimičev era stato insegnato una volta per
sempre che nessuno, dal semplice ragazzo al membro del Politbjuro, aveva e
avrebbe mai avuto una vera “convinzione”, compresi quelli che li giudicavano.
Non sospetto di nulla, con gli occhi ingenui e in mano un foglietto che
sembrava proprio un vaglia postale, Viktor non solo non cercò di evitare il
gruppo dei “cacciatori”, ma avvicinatosi lui stesso domandò:
– Amici! Chi ha pranzato? Che cosa c’è di secondo? Vale la pena andare?
Accennando alla ricevuta del vaglia che Viktor teneva nella mano abbassata,
Chorobrov gli domandò:
– Allora? Ti hanno dato così tanti soldi che non ti serve andare a pranzo?
– Mica tanti! – ribatté Ljubimičev, con un gesto di diniego della mano, e
provò a ficcarsi la ricevuta in tasca. Non si era scomodato a nasconderla prima
perché tutti temevano la sua forza e nessuno avrebbe osato chiedergliene
conto. Ma mentre lui parlava con Chorobrov, come per scherzo Bulatov si era
chinato e, tutto storto, gli aveva chiesto:
– Ehi! Millequattrocentosettanta rubli! Te ne puoi infischiare davvero della
pappa di Klimentiadis!
L’avesse fatto un altro zek qualunque, Viktor scherzando gli avrebbe dato
una pacca sulla fronte, senza mostrargli la ricevuta. Ma non era il caso che
Amantaj pensasse che il suo sottoposto avesse denaro in abbondanza, era una
regola generale dei campi di lavoro. Così Ljubimičev lo corresse:
– Dove sarebbe il mille, guarda!
E tutti videro che si trattava di 147 rubli e 0 copechi.
– Ma che strano! Non potevano mandartene centocinquanta? – fece notare
Amantaj, impassibile. – Su, vai, di secondo c’è la cotoletta.
Ma Ljubimičev non fece in tempo a zittire Bulatov e ad andarsene che
Chorobrov già tremava. Aveva smesso di recitare la parte. Si era dimenticato
che avrebbe dovuto trattenersi, sorridere e preoccuparsi d’altro. Si era
dimenticato la questione più importante: bisognava scoprire i delatori, ma
annientarli non era possibile. Lui che a causa dei delatori aveva sofferto e aveva
visto morire molte persone, odiava quei traditori dissimulatori più dei boia
dichiarati. Giovane, di un’età che avrebbe potuto essere il figlio di Chorobrov,
il modello perfetto per una statua, Ljubimičev si era rivelato un verme per
libera scelta!
– Canaglia! – disse Chorobrov con le labbra tremanti. – Cerchi di avere uno
sconto di pena sulla nostra pelle? Che ti mancava, eh?
Ljubimičev, un soldato sempre pronto a combattere, si tirò indietro e si
preparò a sferrargli un colpo da pugile.
– Che vuoi, carogna di Vjatka! – lo avvisò.
– Cosa fai, Terent’ic! – Bulatov si era già fiondato a portare via Chorobrov.
Dvoetësov, enorme e sgraziato nella giubba da campo, intercettò con il
braccio sinistro quello pronto al colpo di Ljubimičev e gli si avvinghiò.
– Ragazzo, ragazzo! – disse con un sorrisetto sprezzante e una calma quasi
affettuosa, prodotta dalla tensione di tutto il corpo. – Che facciamo, ci
mettiamo a parlare come tra militanti di partito?
Ljubimičev si girò bruscamente, gli occhi chiari sgranati si toccarono quasi
con quelli miopi e sporgenti di Dvoetësov.
Non preparò un secondo colpo. In quegli occhi da civetta e nella presa di
quel braccio da contadino lesse chiaramente che uno dei due non si sarebbe
limitato a crollare a terra, sarebbe proprio morto.
– Ragazzo, ragazzo! – ripeté Dvoetësov. – Di secondo c’è la cotoletta. Vai a
mangiarla.
Ljubimičev si liberò dalla presa e, sollevata la testa con orgoglio, si avviò
verso la scala. Aveva le guance lisce come seta tutte avvampate. Pensava a come
regolare i conti con Chorobrov. Non si era reso conto fino a che punto
quell’accusa l’avesse segnato. Pronto a litigare con chiunque perché convinto di
aver capito com’era la vita, in realtà non sembrava averla capita ancora.
Chi l’avrebbe mai immaginato? Da cosa si poteva intuire?
Bulatov lo accompagnò con lo sguardo e si prese la testa fra le mani.
– Mamma mia bella! Di chi ci si può fidare, ormai?
Tutta quella scena si era svolta in poche mosse e nel cortile non l’avevano
notata né gli zek impegnati a passeggiare né i due sorveglianti fermi ai bordi
dello spiazzo per la passeggiata. Solo Siromacha, dalla fila, strizzando gli occhi
stancamente immobili, aveva visto tutto oltre la soglia e, ricordandosi di
Rus’ka, aveva capito ogni cosa!
Cominciò ad agitarsi.
– Ragazzi! – si rivolse ai primi della fila. – Ho dimenticato uno schema sotto
tensione. Mi lasciate passare? Faccio in fretta.
– Ce l’abbiamo tutti uno schema sotto tensione!
– E abbiamo tutti un figlio! – gli risposero e si misero a ridere.
Non lo lasciavano passare.
– Vado a spegnerlo! – annunciò Siromacha con aria preoccupata e, dopo
essere corso via schivando il gruppetto di cacciatori, sparì nell’edifico
principale. Salì al secondo piano senza fiatare. L’ufficio del maggiore Šikin,
però, era chiuso dall’interno, con la chiave infilata nella toppa. Doveva trovarsi
nel pieno di un interrogatorio. Oppure di un incontro con quella spilungona
della segretaria.
Siromacha arretrò impotente.
Ogni minuto che passava cadeva un delatore dopo l’altro, e non si poteva
fare niente!
Doveva rimettersi in fila, ma l’istinto della bestia braccata è più forte del
desiderio di fare il leccapiedi: l’idea di riavvicinarsi a quella cricca infervorata e
maligna gli faceva paura. Avrebbero potuto rifarsi su Siromacha anche senza
nessun motivo. Lo conoscevano fin troppo bene alla šaraška.
Nel frattempo nel cortile il dottore in chimica Orobincev, appena uscito
dall’ufficio di Myšin, piccolo, gli occhiali, una pelliccia costosa e il cappello, con
i quali andava in giro anche in libertà (non era mai stato nelle prigioni di
transito e non avevano ancora fatto in tempo a rubarglieli), aveva raccolto
intorno a sé alcuni sempliciotti come lui, fra i quali il progettista calvo, e si era
dichiarato disponibile a rispondere alle loro domande. Si sa che l’uomo crede
principalmente a ciò cui vuole credere, così intorno a lui si erano radunati
quelli convinti che fornire l’elenco dei parenti non fosse delazione, ma una
misura ragionevole. Orobincev aveva già portato la sua lista con i nomi
accuratamente tracciati in colonne, l’aveva consegnata, ne aveva parlato lui
stesso con il maggiore Myšin e ripeteva le spiegazioni dell’oper con
autorevolezza: dove inserire i figli minorenni e come doveva fare uno se non
era il padre naturale. In una cosa sola il maggiore Myšin aveva offeso la sua
buona educazione. Orobincev si dispiaceva di non ricordare il luogo di nascita
preciso della moglie. Myšin aveva spalancato le fauci ed era scoppiato a ridere:
– Che ha fatto, l’ha forse pescata in un bordello?
Adesso quei conigli creduloni lo ascoltavano senza unirsi all’altra compagnia
raccolta attorno ad Abramson, al riparo dal vento vicino ai tronchi di tre tigli.
Abramson, che sazio del pranzo era intento a fumare pigramente, stava
raccontando ai suoi ascoltatori che tutti quei divieti di corrispondenza non
erano nuovi, ne erano capitati anche di peggiori, quel divieto non sarebbe
durato per sempre, ma fino al successivo ministro o generale, ragion per cui
non bisognava perdersi d’animo, ma astenersi per il momento, se possibile, dal
consegnare la propria lista, perché anche quella cosa sarebbe passata.
Abramson aveva fin dalla nascita occhi dal taglio stretto e allungato, che senza
gli occhiali davano ancora più l’impressione di guardare annoiati il mondo dei
detenuti: tutto si ripeteva, l’Arcipelago Gulag non riusciva a stupirlo con nulla
di nuovo. Abramson era dentro da così tanto tempo che sembrava aver
disimparato a provare qualcosa, e quella che per gli altri era una tragedia, lui la
prendeva come niente di più che una piccola novità quotidiana.
Nel frattempo i cacciatori, aumentati di numero, avevano acciuffato un altro
delatore: con qualche scherzo avevano tirato fuori dalla tasca di Isaak Kagan la
sua ricevuta di 147 rubli. Prima di riuscirci, alla domanda su cosa avesse
ottenuto lui dal compare, Kagan aveva risposto di non aver ricevuto niente, si
era meravigliato lui stesso di quella chiamata per sbaglio.
Quando poi erano riusciti a cavargliela fuori e avevano cominciato a
svergognarlo, lui non solo non era arrossito, non aveva nemmeno tentato di
darsela a gambe e a tutti i suoi smascheratori, prendendoli uno a uno per i
vestiti, giurava con insistenza e molestia che si trattava di un semplice
malinteso, che avrebbe mostrato a tutti una lettera della moglie, in cui lei gli
scriveva che alla posta le erano venuti a mancare tre rubli ed era stata costretta
a spedirgliene solo 147. Cercava persino di convincerli ad andare con lui subito
nella sala accumulatori, così da poterla mostrare. E ancora, scuotendo la testa
arruffata, senza notare che la sciarpa gli stava scivolando giù dal collo e gli
strisciava quasi a terra, continuava a spiegare in modo del tutto verosimile
perché all’inizio avesse tenuto nascosto quel vaglia. Kagan aveva una dote
innata: era tenace. Se iniziavi a parlare con lui, non potevi in nessun modo
sganciarti senza aver riconosciuto in toto che aveva ragione e senza concedergli
l’ultima parola. Non avendo la forza di arrabbiarsi con lui come si deve,
Chorobrov, il suo vicino di cuccetta, che conosceva la storia del suo
imprigionamento a causa di un rifiuto di fare il delatore, si limitò a dire:
– Ah, Isaak, Isaak, che carogna che sei! In libertà non hai ceduto per mille e
qui ti sei lasciato tentare per cento!
O lo avevano minacciato con il campo di lavoro, spaventandolo fino a quel
punto?
Ma Isaak, senza confondersi, continuava a giustificarsi e li avrebbe convinti
tutti se non avessero beccato ancora qualcun altro, questa volta un lettone.
L’attenzione si spostò altrove e Kagan se la svignò.
Fu chiamato a pranzo il secondo turno e il primo uscì per la passeggiata.
Neržin stava risalendo la passerella in cappotto. Vide subito Rus’ka Doronin al
confine del cortile della passeggiata. Rus’ka, con uno sguardo luminoso e
trionfante, stava sorvegliando la caccia che lui stesso aveva messo in piedi, e
ogni tanto lanciava un’occhiata verso il viottolo lungo il cortile dei liberi e
verso lo spiraglio da cui era visibile lo stradone dove Klara sarebbe dovuta
scendere dall’autobus per venire al turno serale.
– Oh... – si mise a ridere rivolto a Neržin e indicò con un cenno la caccia. –
Sentito di Ljubimičev?
Neržin gli si accostò e lo abbracciò appena.
– Bisognerebbe darti un premio, un premio! Ma ho paura per te.
– Oh, ho appena cominciato! Aspetta e vedrai, il meglio deve ancora venire!
Neržin scosse la testa, fece un sorrisetto, proseguì. Incontrò Prjančikov
raggiante, che se ne andava di corsa a pranzo dopo aver strillato a lungo contro
i delatori con la sua voce sottile.
– Ah-ah, amico! – lo salutò quello. – Vi siete persi tutto lo spettacolo! E Lev,
dov’è?
– Ha un lavoro urgente. Non è uscito per la pausa.
– Cosa? Più urgente del Sette? Ah-ah! Impossibile.
Scappò via.
Evitando di mischiarsi con gli altri e di fare conversazione, il grosso
Bobynin, la testa rasata sempre senza cappello, qualsiasi tempo ci fosse, e il
piccolo Gerasimovič, il berretto sporco calato sugli occhi e il cappottino corto
con il colletto sollevato, tracciavano ognuno il proprio giro. Bobynin si sarebbe
potuto ingoiare Gerasimovič in un sol boccone e tenerselo dentro.
Gerasimovič, con le mani nelle tasche, si rattrappiva al vento: mingherlino,
ricordava un passero.
Il passero del detto popolare, con un cuore di gatto.

166 La consolazione della filosofia di Anicio Manlio Severino Boezio.


167 Molotov, il ministro degli Esteri allora in carica, si rifiutò di firmare la Convenzione di Ginevra sui
prigionieri di guerra e di dare fondi alla Croce Rossa internazionale, lasciando i prigionieri sovietici a
morire di fame nei campi tedeschi.
81
LA TECNO-ÉLITE

Bobynin percorreva da solo il giro principale della passeggiata senza notare né


dare importanza alla confusione creatasi con i delatori, quando il piccolo
Gerasimovič, avvicinando la rotta e curvando, come un motoscafo veloce
diretto verso una grossa nave, gli si accostò, tagliandogli la strada.
– Aleksandr Evdokimyč!
Fra gli abitanti della šaraška avvicinarsi a qualcuno e disturbarlo durante la
passeggiata era considerata una cosa non molto gentile.
Per di più si conoscevano poco, quasi per niente.
Tuttavia, Bobynin si fermò:
– Mi dica.
– Vorrei farle una domanda sulla ricerca scientifica.
– Prego.
Ripartirono a una velocità media.
Per mezzo giro Gerasimovič rimase in silenzio. Solo a quel punto riuscì a
formulare:
– Prova mai vergogna?
Per lo stupore Bobynin girò la testa massiccia e guardò il compagno di
strada (intanto camminavano). Poi tornò a fissare davanti a sé la passeggiata, i
tigli, la baracca, le persone, l’edificio principale.
Rifletté per tre quarti di giro buoni, poi rispose:
– Come no!
Un quarto di giro.
– Che senso ha, allora?
Mezzo giro.
– Per la miseria, voglio continuare a vivere...
Un quarto di giro.
– ...Sono perplesso anch’io.
Ancora un quarto.
– ...Dipende dal momento... Ieri ho detto al ministro che non mi era rimasto
niente. Ma mentivo: la salute? La speranza? Sarei un buon candidato per...
tornare in libertà non troppo vecchio e incontrare proprio la donna che... con
cui avere figli... E quella cosa maledetta sarebbe interessante, torna a esserlo...
Naturalmente mi disprezzo per questa sensazione... a tratti... Il ministro voleva
darmi addosso, l’ho beccato. Ma così ti scavi la fossa da solo... Certo che provo
vergogna...
Tacquero.
– Dunque, secondo lei non è sbagliato il sistema. Siamo noi i colpevoli.
Un giro completo.
– Aleksandr Evdokimyč! E se per scarcerarla in anticipo le proponessero di
costruire la bomba atomica?
– Lei lo farebbe? – Bobynin lo guardò con interesse.
– Mai.
– Sicuro?
– Mai.
Un giro. Ma leggermente diverso.
– A volte penso: chissà che gente è quella che costruisce la bomba atomica?!
Ma poi basta che uno si guardi più da vicino... probabilmente sono uguali a
noi... Magari vanno pure a Educazione politica...
– Ma no!
– E perché no? Si sentirebbero più sicuri.
Un ottavo di giro.
– Io la penso così – proseguì il piccoletto. – Uno scienziato deve sapere
tutto di politica, sia le informazioni diffuse sia quelle segrete, ed essere
convinto che in futuro avrà in mano lui il potere! Cosa impossibile... Oppure
non valutarla proprio, come fosse nebbia, una scatola nera. E ragionare da un
punto di vista puramente etico: posso lasciare io simili forze della natura nelle
mani di persone tanto indegne, persino insignificanti? Chi dice che ‘L’America
rappresenta per noi una minaccia’ si muove ingenuamente su un terreno
paludoso... il suo sarebbe un lapsus infantile, non il ragionamento di uno
scienziato.
– Ma – obiettò il gigante – come la penseranno oltre oceano? Che ne dici di
quel presidente americano?
– Non lo so, forse da loro succede lo stesso. Forse non hanno nessuno con
cui... Noi scienziati non possiamo riunirci ai forum mondiali e metterci
d’accordo. Tuttavia, grazie alla superiorità del nostro intelletto rispetto a quello
di tutti i politici del mondo possiamo trovare una soluzione corretta comune
anche nella solitudine della prigione e agire in base a quella.
Un giro.
– Sì...
Un altro giro.
– Sì, forse...
Un quarto di giro.
– Continuiamo questo discorso domani a pranzo. Lei è... Illarion...?
– Pavlovič.
Ancora un giro incompleto, a ferro di cavallo.
– E un’altra cosa, riguardo alla Russia. Oggi mi hanno raccontato di un
quadro, La Rus’ che scompare. Ne ha mai sentito parlare?
– No.
– Magari al momento non è stato nemmeno dipinto. Non c’è ancora. È solo
un titolo, un’idea. Nella Rus’ c’erano conservatori, riformatori, amministratori
pubblici; ora non ci sono più. Nella Rus’ c’erano sacerdoti, predicatori, teologi
fatti in casa e autoproclamatisi tali, eretici, scismatici; ora non ci sono più. Nella
Rus’ c’erano scrittori, filosofi, storici, sociologi, economisti; ora non ci sono
più. Infine, c’erano rivoluzionari, cospiratori, bombaroli, ribelli; ora non ci
sono più neanche loro. C’erano artigiani con fasce nei capelli, seminatori con la
barba lunga fino alla cintura, contadini su trojke, kazaki impavidi, vagabondi
liberi; nessuno, nessuno di loro c’è più! Una nera zampa pelosa li ha afferrati
tutti nei primi dieci anni. Ma in tutta quella peste una fonte è filtrata: noi, la
tecno-élite. Di ingegneri e studiosi ne hanno arrestati e fucilati, ma sempre
meno degli altri. Perché qualsiasi farabutto può scribacchiare un’ideologia,
mentre la fisica obbedisce solo alla voce del padrone. Noi ci occupavamo della
natura, i nostri fratelli, della società. Noi siamo rimasti, i nostri fratelli no. Chi
può ereditare il mancato destino dell’élite umanistica, a parte noi? Se non
interverremo noi, chi lo farà? E perché non dovremmo riuscirci? Abbiamo
misurato il peso di Sirius B e il salto degli elettroni senza tenerli in mano.
Perché dovremmo smarrirci con la società? E cosa facciamo, invece? Nelle
šaraški regaliamo loro motori a reazione! missili V! telefonia segreta! E magari
pure la bomba atomica! Tutto pur di starcene tranquilli a fare qualcosa che ci
interessa. Che razza di élite siamo se ci possono comprare così facilmente?
– È una questione davvero seria – disse Bobynin, soffiando come un
mantice. – Continuiamo domani, d’accordo?
Era già suonata la campana che richiamava al lavoro.
Gerasimovič vide Neržin e si mise d’accordo con lui per incontrarsi dopo le
nove di sera sulle scale posteriori, nello studio del pittore.
Gli aveva promesso di parlargli di una società costruita sulla ragione.
82
EDUCAZIONE ALL’OTTIMISMO

In confronto al lavoro del maggiore Šikin quello del maggiore Myšin aveva una
sua specificità, suoi vantaggi e svantaggi. Il vantaggio principale era poter
leggere le lettere, decidere il loro invio o non invio. Gli svantaggi, che la
traduzione dei detenuti, la decisione di non pagare un lavoro, l’assegnazione a
una data categoria di alimentazione, la durata degli incontri con i parenti e
diversi cavilli di servizio non dipendevano da lui. Invidiando in molte cose
l’organizzazione concorrente, vale a dire il maggiore Šikin, che sapeva per
primo persino le notizie interne alla prigione, il maggiore Myšin poteva contare
sull’osservazione attraverso le tendine trasparenti di quanto accadeva nel cortile
della passeggiata. (Šikin, per la sfortunata posizione della sua finestra al
secondo piano, non aveva quella possibilità.) Sorvegliare i reclusi nella loro vita
quotidiana forniva a Myšin anche un po’ di materiale. Dalla sua posizione
defilata completava le notizie che riceveva dagli informatori: vedeva chi girava
con chi, chi parlava animatamente o con indifferenza. Poi, quando consegnava
o ritirava una lettera, gli piaceva stupirli all’improvviso con:
– A proposito, di cosa parlava ieri con Petrov durante l’intervallo del
pranzo?
In quel modo, a volte, otteneva dal detenuto disorientato notizie di una
certa utilità.
Quel giorno, durante l’intervallo del pranzo, allo zek che stava per essere
ricevuto, Myšin aveva ordinato di attendere e si era messo a osservare il cortile.
(La caccia ai delatori, però, non l’aveva vista perché si svolgeva dalla parte
opposta dell’edificio.)
Alle tre del pomeriggio, quando l’intervallo del pranzo era finito e lo
smanioso sergente maggiore disperdeva tutti quelli che non avevano fatto in
tempo a farsi ricevere, giunse l’ordine di richiamare Dyrsin.
La natura aveva dotato Ivan Feofanovič Dyrsin di una faccia incavata con gli
zigomi prominenti, una parlata indecifrabile e un cognome che derivando dalla
parola dyra, “buco”, sembrava assegnatogli per scherzo. Era giunto dalla fabbrica
all’istituto di Marfino, passando attraverso una facoltà operaia, dove aveva
studiato con modestia e ostinazione. Possedeva le capacità, ma non sapeva
metterle in luce, e per tutta la vita era stato insultato e tenuto in disparte. Al
Sette ora non si approfittava di lui solo chi non voleva. Siccome la sua decina,
un po’ alleggerita dagli sconti di pena, stava per finire, davanti ai capi si trovava
particolarmente in soggezione. Temeva soprattutto di ricevere una seconda
condanna, come aveva visto accadere diverse volte negli anni della guerra.
Anche la prima condanna se l’era beccata in modo goffo. All’inizio della
guerra era finito dentro per “agitazione antisovietica”, denunciato da vicini che
bramavano il suo appartamento (e poi lo avevano ottenuto). Vero, si era
chiarito che lui una simile agitazione non l’aveva fatta, ma avrebbe potuto,
visto che ascoltava la radio tedesca. Vero, la radio tedesca lui non la ascoltava,
ma avrebbe potuto, visto che aveva in casa un’apparecchiatura radio proibita.
Vero, una simile apparecchiatura lui non l’aveva nemmeno, ma avrebbe potuto,
visto che era un ingegnere radio e dopo la denuncia in una scatoletta gli
avevano trovato due valvole.
Di campi di lavoro, negli anni della guerra, Dyrsin se n’era fatti in
abbondanza: quelli dove la gente mangiava grano umido rubandolo ai cavalli e
quelli dove mischiavano la neve alla farina sotto un’assicella con la scritta
“Filiale di campo di lavoro” inchiodata al primo pino della taiga. Durante gli
otto anni trascorsi nel paese dei GULAG, gli erano morti due figli e la moglie si
era trasformata in una vecchia ossuta; solo a quel punto si erano ricordati che
Dyrsin era un ingegnere, lo avevano condotto lì, avevano cominciato a
concedergli il burro e lui spediva pure alla moglie cento rubli al mese.
E adesso la moglie, inspiegabilmente, non gli scriveva più. Poteva anche
essere morta.
Il maggiore Myšin sedeva con le mani appoggiate sulla scrivania. La
superficie che aveva davanti era libera dalle carte, il calamaio chiuso, la penna
asciutta, e il suo turgido viso rosso-violaceo non aveva (mai l’aveva avuta)
alcuna espressione. La fronte era così turgida che la pelle non veniva solcata né
da rughe di vecchiaia né da rughe di riflessione. Anche le guance erano turgide.
Il viso di Myšin ricordava quello di un idolo di terracotta, cui era stata aggiunta
un po’ di vernice rosa e viola. Gli occhi, invece, erano inespressivi in modo
professionale, privi di vita, con quel vuoto arrogante che si conserva in una
certa categoria di persone anche quando se ne vanno in pensione.
Una cosa inaudita! Myšin lo invitò a sedersi (Dyrsin si era già messo a
valutare quale guaio gli stesse per capitare e quale protocollo avrebbero
seguito). Poi il maggiore (come da istruzioni) rimase in silenzio e, infine, disse:
– Vi lamentate sempre di tutto. Venite qui e vi lamentate. Lei non riceve una
lettera da due mesi.
– Più di tre, cittadino capo! – gli ricordò Dyrsin, timidamente.
– Be’, se sono tre, fa qualche differenza? Ha mai considerato che razza di
persona è sua moglie?
Myšin parlava piano, scandendo bene le parole, una bella pausa tra una frase
e l’altra.
– Che razza di persona è sua moglie? Eh?
– Perché... non capisco... – farfugliò Dyrsin.
– Be’, che c’è da capire? Che tendenza politica ha?
Dyrsin impallidì. Si vede che quello non se lo aspettava. La moglie doveva
aver scritto qualcosa in una lettera, proprio adesso, alla vigilia della sua
liberazione...
Pregò fra sé in segreto per la moglie. (Nel campo di lavoro aveva imparato a
pregare.)
– È una piagnona, e i piagnoni a noi non servono – spiegò il maggiore,
inflessibile. – Soffre di una strana cecità: della vita non nota mai il bello,
sottolinea solo il brutto.
– Per amor di Dio! Che cosa le è successo?! – esclamò Dyrsin, in tono
supplichevole, dondolando la testa.
– A lei? – Myšin parlava ancora intervallato da lunghe pause. – A lei?
Niente. – (Dyrsin fece un sospiro.) – Per ora.
Con tutta calma, estrasse dal cassetto una lettera e la porse a Dyrsin.
– La ringrazio! – disse Dyrsin, respirando con affanno. – Posso andare?
– No. La legga qui. Una lettera così non posso lasciargliela portare negli
alloggi. Che penserebbero i detenuti di quello che succede in libertà con lettere
del genere? Legga.
E si pietrificò come un idolo viola, pronto a sopportare tutti i pesi del
proprio dovere.
Dyrsin estrasse il foglio dalla busta. Lui non ci fece caso, ma un occhio
estraneo sarebbe rimasto colpito negativamente da quella lettera, in pratica lo
specchio della donna che l’aveva spedita: era scritta su una carta da pacchi
butterata e non c’era riga che andasse dritta da un margine all’altro, si
incurvavano tutte a destra e cadevano apatiche giù, sempre più giù. La lettera
era datata 18 settembre.

Caro Vanja!
Mi sono seduta qui a scrivere, ho sonno ma non riesco a dormire. Torno
dal lavoro e vado subito nell’orto a raccogliere le patate con Manjuška.
Sono venute su piccole. In vacanza non sono andata da nessuna parte,
non avevo niente da mettermi, sono tutta conciata. Volevo tenere da parte
i soldi per venire da te, ma niente. Allora ha fatto un salto Nika, ma le
hanno detto che lì non c’è nessuno con quel nome. Sua madre e suo padre
l’hanno sgridata: perché ci sei andata? Adesso hanno segnato pure te, ti
seguiranno. In generale fra noi i rapporti sono tesi, ma con L.V. non
parlano neanche.
Ce la passiamo male. La nonna è inferma già da tre anni, non si alza
più, è dimagrita tanto, morire non muore ma non guarisce nemmeno, e ci
tormenta tutti. Manda un odore tremendo e litighiamo di continuo, con
L.V. non parlo più, Manjuška si è separata del tutto dal marito, ha
problemi di salute, i figli non le danno retta, quando torniamo dal lavoro
è terribile, volano solo maledizioni. Dove possiamo scappare, quando
finirà tutto questo? Comunque, ti mando un grosso bacio. Stammi bene.
Non c’era né una firma né un “tua”.
Dopo aver aspettato con pazienza che Dyrsin leggesse e rileggesse quella
lettera, il maggiore Myšin mosse le sopracciglia bianche e le labbra viola e disse:
– Non le ho consegnato questa lettera quando è arrivata perché capivo che si
trattava di uno stato d’animo momentaneo e lei deve lavorare con vigore.
Aspettavo che sua moglie scrivesse una bella lettera, ma ecco quella che ha
spedito il mese scorso.
Dyrsin lanciò un’occhiata silenziosa al maggiore, ma il suo viso goffo non
esprimeva nemmeno rimprovero, solo dolore. Con dita tremanti aprì la
seconda busta già aperta e tirò fuori una lettera con le stesse righe frammentate,
sperse, questa volta scritte su una pagina di quaderno.

30 ottobre
Caro Vanja!
Ti sei offeso perché non ti scrivo spesso, ma arrivo tardi dal lavoro e quasi
tutti i giorni vado a raccogliere la legna nel bosco. Poi viene subito sera e
sono così stanca che quasi crollo, di notte dormo male, la nonna non me lo
permette. Mi alzo presto, alle cinque del mattino, e devo essere al lavoro
per le otto. Grazie a Dio, l’autunno è ancora mite, ma si sta avvicinando
l’inverno! Al deposito il carbone non te lo danno, è solo per i capi o per chi
ha conoscenze. Di recente una fascina mi è caduta dalla schiena, me la
sono trascinata dietro per terra, non avevo più la forza di risollevarla, così
ho pensato: “Sono una vecchia che si tira appresso le sterpaglie!” Mi è
venuta l’ernia all’inguine da quanto era pesante. Nika è tornata per le
vacanze, si è fatta una bella ragazza, e da noi non è neanche passata a
salutare. Non riesco a ricordarmi di te senza soffrire. Non ho più
nessuno in cui sperare. Lavorerò finché avrò forza, temo solo di finire a
letto per sempre come la nonna. Ha le gambe completamente paralizzate,
è gonfia, non può né sdraiarsi da sola né alzarsi. All’ospedale i malati
così gravi non li prendono, non gli conviene. Tocca a me e a L.V.
sollevarla ogni volta, lei se la fa addosso e c’è in casa una puzza tremenda.
Questa non è vita, è una galera. Naturalmente non è colpa sua, ma io
non ce la faccio più a sopportare. Nonostante i tuoi consigli di non
imprecare, lo facciamo tutti i giorni, da L.V. non senti che carogna e
vacca. Mentre Manjuška ce l’ha coi figli. Chissà se anche i nostri
sarebbero cresciuti così? Sai, a volte sono contenta che non ci sono più.
Valerik quest’anno ha cominciato ad andare a scuola, ha bisogno di tante
cose, ma mancano i soldi. Anche se, è vero, da Pavel, tramite il tribunale,
arrivano a Manjuška gli alimenti. Be’, non ho più niente da scriverti.
Stammi bene. Ti mando un bacio.
Potessi dormire almeno nei giorni di festa, ma bisogna trascinarsi ai
cortei...
Davanti a quella lettera Dyrsin si irrigidì. Si portò le mani al viso come se
volesse lavarlo, ma senza lavarlo.
– Allora? Ha letto? Non sembra stia leggendo. Ebbene, lei è un uomo
adulto. Istruito. È stato in carcere, vede che razza di lettera è. Per lettere così
durante la guerra ti condannavano. Un corteo è gioia per tutti, mentre lei ci si
deve ‘trascinare’? E il carbone! Il carbone non è per i capi ma per tutti i
cittadini, bisogna fare la fila, ovvio. A quel punto non sapevo se consegnarle o
no la lettera, ma poi ne è arrivata una terza, di nuovo dello stesso tipo. Ci ho
pensato su, bisogna darci un taglio. Deve farla smettere. Gliene scriva una dal
tono ottimistico, vigorosa, sostenga lei quella donna. Le faccia capire che
lamentarsi non serve, che tutto si aggiusta. Guardi, sono diventati ricchi, hanno
ricevuto un’eredità. Legga.
Le lettere erano in ordine cronologico. La terza era datata 8 dicembre.

Caro Vanja!
Devo comunicarti una notizia triste: il 26 novembre del 1949 alle 12 e 5
è morta la nonna. Lei è morta e noi non avevamo neanche un copeco,
ringrazio Miša per averci dato 200 rubli, c’è costato poco, ma il funerale è
stato misero, senza né prete né musica, hanno solo portato la bara sul
carro al cimitero e l’hanno scaricata nella fossa.
Adesso la situazione a casa si è calmata un po’, ma si sente come un
vuoto. Non sto bene nemmeno io, di notte sudo terribilmente, mi si
bagnano il cuscino e le lenzuola. Una zingara mi ha predetto che morirò
in inverno, sarei felice di liberarmi di questa vita. L.V., probabilmente,
ha la tubercolosi, tossisce e sputa sangue dalla gola non appena arriva dal
lavoro, così impreca, cattiva come una strega. Lei e Manjuška mi
sfiniscono. Sono davvero sfortunata: avevo quattro denti guastati, due
sono caduti, dovrei rimetterli, ma nemmeno per quello ci sono soldi e poi
bisogna fare la coda.
I trecento rubli del tuo stipendio di tre mesi sono arrivati proprio al
momento giusto, stavamo congelando, si avvicinava il nostro turno al
deposito del carbone (ero la 4.576esima), ma mi davano solo polvere, che
senso aveva prenderla? Manjuška ne ha aggiunti duecento ai tuoi
trecento, così abbiamo pagato un autista che ci ha portato del carbone
grosso. Mentre le patate fino a primavera non basteranno. Da due orti, te
lo immagini? Non abbiamo raccolto niente, ha piovuto poco, è stata una
cattiva annata.
Con i bambini ci sono grane di continuo. Valerij prende solo voti bassi,
dopo la scuola gironzola chissà dove. Il preside ha mandato a chiamare
Manjuška, le ha chiesto che razza di madre è visto che non sa controllare
i figli. Ženka ha sei anni, imprecano tutti e due, in poche parole sono dei
teppisti. Do tutti i soldi per loro e Valerij poco tempo fa mi ha chiamata
puttana. Senti certe schifezze già ora che sono bambini, figurarsi quando
cresceranno. A maggio dovremo occuparci dell’eredità, dicono che ci
vogliono duemila rubli, ma dove li troviamo? Elena e Miša faranno causa
a L.V., vogliono toglierle la stanza. Quand’era in vita la nonna,
gliel’abbiamo detto un sacco di volte, non ha voluto stabilire a chi andava
cosa. Anche Miša ed Elena sono malati.
Lo scorso autunno ti ho scritto, secondo me addirittura due volte, possibile
che non ricevi le mie lettere? Dove finiscono?
Ti mando un francobollo da 40 copechi. Allora, che dicono lì, ti liberano o
no?
Al negozio vendono delle stoviglie molto belle, di alluminio, pentolini,
scodelle.
Ti mando un grosso bacio. Stammi bene.
Una macchiolina umida si era espansa sulla carta, sciogliendo l’inchiostro.
Era di nuovo impossibile capire se Dyrsin stesse ancora leggendo o avesse
già finito.
– Ebbene? – domandò Myšin. – Tutto chiaro?
Dyrsin non si mosse.
– Le mandi una risposta. Una risposta vigorosa. Le autorizzo almeno
quattro pagine. Una volta le ha scritto di credere in dio. Be’, sarebbe già meglio,
in effetti... Questa roba che è? Dove vuole andare a parare? La tranquillizzi, le
dica che tornerà presto. Che riceverà un grosso stipendio.
– Mi lasceranno sul serio tornare a casa? Non mi manderanno via?
– Dipende se le autorità avranno bisogno. Sostenere sua moglie, però, è suo
dovere. Dopotutto, è la sua compagna di vita. – Il maggiore tacque. – O, forse,
adesso ne vuole una più giovane? – suppose con compassione.
Non sarebbe rimasto lì seduto così tranquillo se avesse saputo che nel
corridoio, impaziente fino allo stremo, fremeva di entrare Siromacha, il suo
informatore preferito.
83
IL PRINCIPE DEI DELATORI

Nei rari istanti in cui Artur Siromacha non era occupato a lottare per la vita,
quando non si sforzava di piacere ai capi o di lavorare, quando allentava la
costante tensione da leopardo, sembrava un giovane indolente con un fisico
slanciato, il viso da artista affaticato dagli ingaggi e gli occhi di un indefinibile
azzurro grigio come inumiditi di tristezza.
Due, dando in escandescenza, gli avevano detto in faccia che era un delatore
e poco dopo erano stati tradotti via entrambi. Nessuno osava più ripeterlo ad
alta voce. Siromacha era temuto. Al confronto diretto con una spia non ti
chiamavano. Uno zek poteva essere accusato di organizzare una fuga, una
rivolta, di terrorismo, la ragione non la dicevano, gli ordinavano solo di
radunare le sue cose. L’avrebbero mandato semplicemente in un campo di
lavoro? o condotto in un carcere istruttorio?
Così è la natura umana e tiranni e carcerieri sanno come sfruttarla: finché
uno può ancora smascherare dei traditori o incitare la folla alla rivolta, o con la
propria morte ottenere la salvezza degli altri, la speranza non muore, lui
crederà ancora in un esito positivo, si aggrapperà a quei pochi residui di bene,
perciò non parlerà, sarà docile. Mentre quando uno è finito, abbattuto, quando
non ha più nulla da perdere, ed è pronto a un atto eroico, solo la scatola di
pietra di una cella di isolamento può accogliere la sua ultima furia. Oppure
l’alito della pena annunciata lo rende già indifferente alle questioni terrene.
Anche senza averlo smascherato direttamente né colto a denunciare, ma non
dubitando comunque che fosse un delatore, alcuni evitavano Siromacha, altri
consideravano meno pericoloso fare amicizia con lui, giocarci a pallavolo,
parlare di donne. Così si viveva anche con gli altri delatori. Così la vita alla
šaraška sembrava trascorrere pacifica, mentre sotto covava una guerra mortale.
Con Artur, tuttavia, si poteva parlare non solo di donne. La saga dei Forsyte
era uno dei suoi libri preferiti e lui ne discuteva con sufficiente arguzia. (A dire
il vero, alternava senza difficoltà Galsworthy a gialli banali.) Aveva anche un
buon orecchio musicale, gli piacevano i temi spagnoli e italiani, sapeva
fischiettare con precisione brani di Verdi e di Rossini, e in libertà, per colmare
il vuoto della vita, una volta all’anno se ne andava al Conservatorio.
La stirpe dei Siromacha era nobile, anche se povera. All’inizio del secolo un
Siromacha era stato un compositore, un altro per un atto criminale era finito ai
lavori forzati. Un altro ancora aveva aderito a pieno alla rivoluzione e serviva
nella Čeka.
Quando aveva raggiunto la maggiore età, per sue inclinazioni ed esigenze
Artur aveva sentito il bisogno di usufruire di mezzi continuativi indipendenti.
Una misera vita regolare e monotona, sgobbando “dall’ora X all’ora Y”,
contando due volte al mese uno stipendio intaccato dalle trattenute di tasse e
titoli di debito, non faceva in nessun modo al caso suo. Quando andava al
cinema, lui si immaginava davvero accanto a tutte le attrici cinematografiche, di
scappare con Deanna Durbin in Argentina.
Naturalmente, né andare all’università né avere un’istruzione erano la strada
giusta per quella vita. Artur cercava un altro tipo di impiego, che lo facesse
saltare qua e là, svolazzare, e quell’impiego cercava lui. Così si erano trovati.
Anche se non gli aveva fornito quanti mezzi avrebbe voluto, in tempo di
guerra gli aveva evitato la chiamata alle armi, dunque gli aveva salvato la vita. E
mentre laggiù, quegli scemi marcivano in argillose trincee, Artur frequentava
con disinvoltura il ristorante Savoy, le guance crema piacevolmente lisce sul
viso allungato. (Oh, che momento quando varchi la soglia del ristorante e l’aria
calda, intrisa degli odori della cucina, e la musica di colpo ti invadono, e tu devi
scegliere un tavolo!)
Tutto suggeriva ad Artur di aver preso la strada giusta. Lo infastidiva solo
che la gente considerasse abietto quell’impiego. Succedeva perché non capivano
o perché erano invidiosi!
Il suo era un lavoro per persone di talento, che esigeva spirito di
osservazione, memoria, ingegnosità, capacità di simulare e di recitare: era un
impiego artistico. Sì, bisognava tenerlo nascosto, senza mistero non
funzionava, ma solo per ragioni tecniche, come al saldatore elettrico è
indispensabile avere un vetro protettivo. Altrimenti Artur non si sarebbe mai
nascosto: in quel lavoro non c’era nulla di eticamente abietto!
Una volta, non riuscendo a vivere delle sue possibilità, si era unito a un
gruppo che si era lasciato tentare da beni statali. Lo avevano messo dentro.
Non se l’era presa per nulla: era colpa sua, non doveva abboccare. Fin dai primi
giorni dietro il filo spinato si era ritrovato, però, in modo del tutto naturale a
svolgere il suo precedente impiego: la permanenza stessa in quel luogo ne
rappresentava una nuova forma.
Non era stato abbandonato nemmeno dagli oper: non lo avevano mandato né
al taglio del bosco né alle miniere, lo avevano impiegato nel Settore Cultura e
Educazione. Quello era nel campo di lavoro l’unico focolare, l’unico angoletto
dove si potesse fare un salto per una mezz’ora prima della ritirata e sentirsi di
nuovo una persona: sfogliare un quotidiano, prendere in mano una chitarra,
declamare dei versi o ricordare la propria vita precedente. Vi si trascinavano i
vari aneto-pomodorovič dei campi di lavoro (i ladri chiamavano così gli intellettuali
incorreggibili) e Artur, con la sua anima artistica, lo sguardo comprensivo, i
ricordi della capitale e la capacità di discutere di qualsiasi argomento, lì ci stava
proprio a pennello.
Così aveva fatto saltare in fretta alcuni agitatori; un gruppo predisposto in
senso antisovietico; due fughe non ancora preparate ma già escogitate; e l’affare
dei medici delle filiali dei campi di lavoro, che sabotavano la cura dei detenuti
tirandola per le lunghe e permettendo loro di riposarsi in ospedale. Tutti quei
conigli avevano ricevuto una seconda condanna, mentre ad Artur la Terza
Sezione aveva tolto due anni.
Capitato a Marfino, non aveva trascurato nemmeno lì il suo collaudato
impiego. Era diventato il favorito, l’anima di entrambi i maggiori-compari e il
delatore più temibile della šaraška.
Pur sfruttando le sue denunce, i due maggiori non gli rivelavano i propri
segreti, e adesso Siromacha non sapeva per quale dei due fosse più importante
venire a conoscenza di Doronin, per chi facesse il delatore.
Si è scritto molto su come la gente si stupisca dell’ingratitudine e della
slealtà. Ma può succedere anche il contrario! Con folle imprudenza, con
spregiudicata sconsideratezza, Rus’ka Doronin aveva confidato il proprio
progetto di doppiogiochista non a uno, non a tre, bensì a venti e passa zek.
Ognuno di quelli che lo sapeva lo aveva raccontato a qualcun altro, così il
segreto di Doronin era diventato patrimonio di quasi metà degli abitanti della
šaraška, ci mancava poco che nelle stanze non ne parlassero ad alta voce.
Eppure, anche se uno su cinque, uno su sei, alla šaraška era un delatore,
nessuno di loro sapeva niente, o forse, anche sapendolo, non lo aveva
denunciato! Il più sveglio, quello con maggior naso, il principe dei delatori,
Artur Siromacha non aveva scoperto niente fino a quello giorno stesso!
Adesso era rimasto ferito anche nell’onore di informatore: gli oper nei loro
uffici potevano anche lasciarselo sfuggire, ma lui?? Ed era in gioco la sua stessa
sicurezza: come erano riusciti a beccare gli altri con il vaglia, potevano beccare
anche lui. Il tradimento di Doronin era per Siromacha come uno sparo che gli
aveva mancato la testa di pochissimo. Doronin si era rivelato un nemico
solerte, dunque con solerzia andava colpito! (Del resto, non rendendosi ancora
conto dell’entità del guaio, Artur riteneva che Doronin si fosse svelato da poco,
quel giorno o il precedente.)
Ma Siromacha non poteva irrompere nell’ufficio! Non poteva perdere la
testa, sfondare la porta di Šikin chiusa a chiave o accorrervi troppo spesso. E
davanti a quella di Myšin c’era la coda! Al campanello delle tre mandarono via
tutti, ma mentre gli zek più molesti e caparbi bisticciavano nel corridoio del
comando con il sorvegliante di turno (Siromacha, tenendosi la pancia con aria
sofferente, si era avvicinato all’infermeria ed era rimasto lì in attesa che il
gruppo si disperdesse), da Myšin era entrato Dyrsin. In base ai calcoli di
Siromacha, Dyrsin non avrebbe dovuto intrattenersi dal compare molto a lungo,
eppure non usciva, non usciva proprio. Rischiando di scatenare il malcontento
di Mamurin con la sua assenza di un’ora dal Sette, dove già si sollevava il fumo
dai saldatori, dalla colofonia e dai progetti, Siromacha aspettava invano che
Myšin lasciasse andare Dyrsin.
Ma non poteva lasciarsi scoprire nemmeno dagli altri sorveglianti che
curiosavano nel corridoio! Così, persa la pazienza, se ne andò al secondo piano
da Šikin, tornò nel corridoio del comando da Myšin, risalì da Šikin. L’ultima
volta, nell’andito buio della porta di Šikin, ebbe fortuna: dall’uscio gli giunse
l’inconfondibile voce scricchiolante dello spazzino, unica nel suo genere alla
šaraška.
Così bussò subito nel modo convenuto. La porta si aprì e nello stretto
spiraglio comparve Šikin.
– È davvero urgente! – disse Siromacha in un sussurro.
– Un minuto – rispose Šikin.
E con passo leggero, per non imbattersi nello spazzino che usciva,
Siromacha si allontanò lungo il corridoio, tornò subito indietro con aria seria e
senza bussare aprì con una spinta la porta di Šikin.
84
QUANTO A FUCILARE...

Dopo un’indagine di una settimana sull’“affare del tornio rotto” il nocciolo


della questione continuava a rimanere per il maggiore Šikin un mistero. Era
stato stabilito solo che quel tornio con la puleggia a gradini scoperta,
l’alimentazione del toppo posteriore manuale, ma quella del supporto sia
manuale sia azionata dal comando principale, un tornio prodotto dall’industria
nazionale nel 1916, in piena Prima guerra mondiale, su ordine di Jakonov era
stato staccato dal motore elettrico e trasportato in quel modo dal laboratorio n.
3 alle officine meccaniche. Ancor prima, siccome le parti non riuscivano ad
accordarsi sul trasporto, era giunto l’ordine che gli uomini del laboratorio
portassero il tornio nel corridoio sotterraneo e da lì quelli delle officine lo
facessero salire a mano per la scaletta e attraverso il cortile fino all’edificio delle
officine (esisteva un tragitto più breve, senza passare per lo scantinato, ma si
sarebbe dovuto permettere agli zek di uscire nel cortile principale, visibile dallo
stradone e dal parco, cosa naturalmente inammissibile per la vigilanza).
Naturalmente, adesso che l’irreparabile era già accaduto, Šikin poteva
rimproverare anche sé stesso: non avendo dato importanza a quell’operazione
produttiva rilevantissima, non l’aveva seguita personalmente. Da una
prospettiva storica gli errori delle figure importanti sono sempre i più evidenti,
eppure, tutti sbagliano!
Era accaduto che il laboratorio n. 3, essendo formato da un capo, un uomo,
un invalido e una ragazza, non aveva potuto trasferire il tornio con le proprie
forze. Per questo, in modo del tutto irresponsabile, erano stati radunati a caso
da diverse stanze dieci detenuti (non si era nemmeno fatto un elenco di chi
fossero! Al maggiore Šikin era toccato non poco lavoro per ricostruire la lista
completa dei sospettati con un mese e mezzo di ritardo, confrontando le
deposizioni) e quei dieci zek avevano spostato un tornio così pesante per le
scale dal piano nobile allo scantinato. Tuttavia, le officine (il loro capo, per
chissà quali considerazioni tecniche, non bramava di avere quel tornio) non
solo non avevano schierato la loro forza lavoro al punto d’incontro, ma non
avevano nemmeno mandato qualcuno a controllare e verificare. I dieci zek
mobilitati, una volta portato giù il tornio nello scantinato, se n’erano andati
ognuno per la propria strada. Il tornio, invece, era rimasto nel corridoio
sotterraneo a ingombrare il passaggio ancora per qualche giorno (ci aveva
inciampato persino Šikin). Alla fine, dalle officine meccaniche erano venuti a
prenderlo, ma avevano notato l’incrinatura sul basamento e colto l’occasione;
così per altri tre giorni non se l’erano portato via, ma poi alla fine erano stati
costretti.
L’incrinatura sul basamento era stata anche la scusa per montare un “caso”.
Magari non era nemmeno quella la ragione per cui ora il tornio non funzionava
(Šikin aveva ascoltato anche chi la pensava così), ma quell’imperfezione
rappresentava molto di più di una semplice incrinatura. Voleva dire che
all’istituto operavano forze nemiche non ancora smascherate. Significava che la
direzione dell’istituto era ciecamente fiduciosa e criminosamente sbadata. Se si
fosse portato a compimento con successo quel caso istruttorio, svelando il
criminale e le ragioni del crimine, si sarebbe potuto non solo punire qualcuno e
anticipare qualcun altro, ma anche organizzare intorno a quell’incrinatura un
grande lavoro di rieducazione collettiva. Infine, l’onore professionale del
maggiore Šikin esigeva che in quel groviglio minaccioso lui ci vedesse chiaro!
Non era però cosa facile. Si era perso del tempo. Tra i detenuti che avevano
trasportato il tornio strisciava l’omertà, si era attuata un’intesa criminosa.
Durante il trasferimento non era presente nessun libero (che errore tremendo!).
Tra i dieci che lo avevano trasportato risultava solo un informatore, ma si
trattava di uno scemo che aveva denunciato al massimo un lenzuolo diviso in
pezzi per farne dei pettini. Era stato capace solo di ricostruire l’elenco
completo dei dieci presenti. Tutti gli altri, contando sfacciatamente di restare
impuniti, sostenevano di aver trasportato il tornio ancora integro fino allo
scantinato, di non aver fatto strisciare il basamento sulle scale, di non aver
sbattuto contro i gradini. E dalle deposizioni risultava anche che nessuno di
loro aveva tenuto il tornio nel punto in cui poi era comparsa l’incrinatura, il
basamento sotto il toppo posteriore, ma che si erano aggrappati tutti sotto le
pulegge e sotto il mandrino. Alla ricerca della verità, il maggiore aveva persino
disegnato lo schema del tornio un paio di volte, posizionandovi intorno i
trasportatori. Ma con quegli interrogatori sarebbe stato più facile far propria
l’arte del tornire, che trovare il colpevole di quell’incrinatura. L’unico che si
poteva incolpare, tuttavia non di sabotaggio, ma di intenzione di sabotare, era
l’ingegnere Potapov. Questi, infuriato per un interrogatorio di tre ore, si era
lasciato scappare:
– Se avessi voluto rovinare quel catorcio, mi sarebbe bastato spargere una
manciata di sabbia nei cuscinetti! Che senso ha rompere il basamento?!
Il maggiore Šikin aveva inserito subito nel fascicolo quella frase da
sabotatore accanito, ma Potapov si era rifiutato di firmare.
La difficoltà di quell’inchiesta stava proprio nel fatto che Šikin non aveva a
disposizione i soliti mezzi per raggiungere la verità – celle di isolamento, celle
di rigore, percosse, passaggio alla razione da cella di rigore, interrogatori
notturni – e nemmeno la basilare separazione degli indagati in celle diverse. Lì
era necessario che continuassero a lavorare al meglio, e per farlo dovevano
nutrirsi e dormire normalmente.
Tuttavia, già sabato Šikin era riuscito a cavare fuori a uno zek la confessione
che, scendendo gli ultimi gradini, si erano incastrati nella porta stretta; lo
spazzino Spiridon era venuto loro incontro gridando: “Fermi, amici,
solleviamolo!”, e afferrato il tornio da undicesimo, lo aveva trasportato con
loro fino al punto di appoggio. Dallo schema risultava che doveva per forza
essere stato lui a prenderlo dal basamento sotto il toppo posteriore.
Per sbrogliare la matassa quel giorno stesso, lunedì, Šikin aveva deciso di
attaccarsi a quel nuovo ricco bandolo, trascurando due denunce arrivate quella
mattina sul “processo al principe Igor’“. Prima di pranzo aveva convocato lo
spazzino biondiccio e questi era arrivato così com’era dal cortile, con indosso
la giubba stretta in vita da una malconcia cintura di tela cerata, si era tolto il
cappello con i paraorecchi e con aria colpevole se lo stropicciava fra le mani,
quasi fosse un contadino giunto a chiedere un pezzetto di terra a un nobile.
Inoltre, non si spostava dal tappeto di gomma per non sporcare il pavimento.
Šikin, che era seduto sulla poltrona a visionare diverse carte, l’aveva tenuto lì in
piedi, sbirciando serio di traverso, con disapprovazione, i suoi scarponi bagnati.
Di tanto in tanto, quasi che leggendo si meravigliasse della criminosità di
Egorov, gli gettava uno sguardo stupito, come a una bestia sanguinaria caduta
finalmente in trappola (la loro scienza prevedeva tutto questo per agire in
modo distruttivo sulla psiche del detenuto). Nell’ufficio chiuso a chiave era
trascorsa così una mezz’ora di silenzio inviolabile; poi era suonato
distintamente il campanello del pranzo e Spiridon aveva sperato di ricevere la
sua lettera, ma Šikin non aveva dato segno di aver sentito: il maggiore
continuava a spostare in silenzio dei grossi faldoni, prendeva qualcosa da alcuni
cassetti, li piazzava in altri, rileggeva accigliato diverse carte e con stupore
lanciava brevi occhiate a uno Spiridon avvilito, abbattuto, colpevole.
L’acqua aveva smesso di scendere sul tappeto, gli scarponi di Spiridon si
erano asciugati, così Šikin disse:
– Allora, vieni più vicino! – (Spiridon si avvicinò.) – Stop. La vedi questa?
Lui lo conosci? – E, continuando a tenerla in mano, gli porse la fotografia di
un tizio senza cappello con l’uniforme tedesca.
Spiridon si piegò, strizzò gli occhi per osservare la foto con attenzione, e si
scusò:
– Cittadino maggiore, mi spiace, son diventato un po’ orbo. Me la faccia
vedere più da vicino.
Š
Šikin glielo concesse. Continuando a tenere il cappello di pelo con una
mano, Spiridon afferrò il cartoncino con l’altra circondandolo con le cinque
dita tutto intorno al bordo e, inclinandolo in varie direzioni verso la luce della
finestra, se lo portò vicino all’occhio sinistro, come se lo guardasse un pezzetto
per volta.
– No – sospirò sollevato. – Mai visto.
Šikin si fece riconsegnare la fotografia.
– Molto male, Egorov – disse con aria desolata. – Ostinarsi a negare
peggiora solo la sua situazione. Va bene, si sieda. – Gli indicò una sedia poco
distante. – Faremo un discorso lungo, meglio che non rimanga in piedi.
E ammutolì di nuovo, sprofondando nelle carte.
Spiridon indietreggiò fino alla sedia e vi si accomodò. Posando il cappello su
quella accanto, notò il lindore della pelle morbida e imbottita della seduta, così
se lo riportò sulle ginocchia. Risucchiata la testa rotonda nelle spalle, la piegò
in avanti, rappresentando in tutto e per tutto l’immagine del pentimento e della
rassegnazione.
Tranquillo, pensava fra sé:
“Ah, che serpente! Che cane! Me la dài o no questa lettera? Esisterà
davvero?”
A Spiridon, che aveva già vissuto due istruttorie e una re-istruttoria, e visto
migliaia di detenuti passare attraverso le loro, il gioco di Šikin appariva più
trasparente di un pezzetto di vetro. Tuttavia, sapeva che bisognava fingere di
crederci.
– Dunque, è arrivato materiale nuovo su di lei – sospirò Šikin con aria
greve. – In Germania, a quanto pare, ne combinava delle belle!...
– Non sono io! – lo ammansì Spiridon. – Mi creda, cittadino maggiore, di
Egorov in Germania ce n’erano come mosche. Dicevano persino che esisteva
un Egorov generale!
– Ma come non è lei! Certo che è lei! Spiridon Danilovič, per favore – disse
Šikin, puntando il dito sul fascicolo. – Anche l’anno di nascita è lo stesso.
– L’anno di nascita? Allora non sono proprio io! – disse Spiridon, con
convinzione. – Perché dai tedeschi, per stare tranquillo, io mi sono aggiunto tre
anni.
– Già! – si ricordò Šikin, il viso gli si illuminò e dalla voce sparì quel
bisogno gravoso di condurre un’istruttoria; scostò tutte le carte. – Prima che
mi dimentichi. Tu, Egorov, una decina di giorni fa, te lo ricordi, hai trascinato
un tornio? Dalle scale nello scantinato.
– Sì, certo – disse Spiridon.
– Dove l’hai pestato? Sulle scale o già nel corridoio?
– Chi? – si stupì Spiridon. – Non ho fatto a botte con nessuno.
– Il tornio! Chi!?
– Per l’amor di Dio, cittadino maggiore, a che scopo pestare un tornio? Che
ha fatto, dava fastidio a qualcuno?
– Mi stupisco anch’io, perché farlo sbattere? Vi è forse scappato di mano?
– Come scappato di mano?! Lo abbiamo preso per le manine, con cautela,
come un bel bimbetto.
– E tu, di preciso, da dove lo tenevi?
– Io? Da qui, così.
– Da dove?
– Be’, dalla mia parte.
– Cioè dove, da sotto il toppo posteriore o da sotto il mandrino?
– Cittadino maggiore, io ’sti toppi non so nemmeno che sono, le faccio
vedere! – Sbattuto il cappello sulla sedia accanto, si alzò e si voltò, come se
stesse trascinando il tornio nell’ufficio attraverso la porta. – Io, dunque,
scendevo così... Da dietro. Loro, invece, in due, erano rimasti bloccati nella
porta, no?
– Chi erano quei due?
– E che ne so, chi li conosce. Già smaniavo. Fermi! gli grido, aspettate che
l’afferro meglio! Era un bel tocco!
– Quale tocco?
– Che c’è che non capisce? – disse Spiridon, arrabbiato, girando la testa. –
Quello che portavamo.
– Il tornio?
– Sì, il tornio! L’ho acchiappato tutto d’un colpo! Così. – Per mostrarglielo,
si irrigidì, abbassandosi. – Uno s’è infilato di fianco, l’altro ha spinto, e in tre
non riesci a tenerlo? Figuriamoci! – Si raddrizzò. – Da noi ai tempi del
kolchoz, altro che questo peso trascinavamo. Sei donne con un tornio ci
andavano a nozze, lo trasportavano per una versta. Dov’è ’sto tornio? Proviamo
ad andare a tirarlo su!
– Quindi non vi è caduto? – domandò il maggiore con aria minacciosa.
– Glielo sto dicendo!
– Allora chi l’ha spaccato?
– Si è rovinato davvero? – si stupì Spiridon. – Già-à-à... – Smise di mostrare
come lo avevano trasportato e tornò a sedersi sulla sua sedia, concentrato.
– Quando l’hanno preso per portarlo via, era integro?
– Be’, come faccio a saperlo, forse era già rotto.
– Allora com’era, quando l’hanno messo giù?
– Lì era integro!
– E l’incrinatura sul basamento, c’era?
– Non c’era nessuna incrinatura – rispose Spiridon, convinto.
– E come hai fatto a notarlo, diavolaccio orbo? Non sei orbo, tu?
– Io, cittadino maggiore, se guardo le cose sulla carta, lo sono eccome, ma
nel lavoro mio vedo tutto. Lei e gli altri ufficiali, quando passate per il cortile,
gettate i mozziconi ovunque, e io raccolgo tutto, anche dalla neve bianca, tutto.
Lo chieda al comandante.
– Quindi, che avete fatto? Avete appoggiato il tornio e poi l’avete controllato
bene?
– E certo! Dopo il lavoro, ci spettava una sigaretta, no? Gli abbiamo dato
una bottarella.
– Una bottarella? In che senso?
– Così, con la mano, su un fianco, come a un cavallo sudato. Un ingegnere
ha anche detto: ‘Che bel tornio! Mio nonno faceva il tornitore, usava uno di
questi.’
Šikin sospirò e prese un foglio bianco.
– Molto male che non confessi, Egorov. Stenderemo un verbale. È chiaro
che il tornio lo hai rotto tu. Altrimenti, avresti indicato il colpevole.
L’aveva detto in tono sicuro, ma dentro di lui la sicurezza era svanita.
Sebbene fosse padrone della situazione, conducesse lui l’interrogatorio, e lo
spazzino rispondesse con prontezza e grandi dettagli, le prime ore di
quell’istruttoria erano andate perdute, c’erano stati un lungo silenzio, la
fotografia, il gioco con la voce e la conversazione animata sul tornio, e se quel
detenuto biondiccio con le spalle incassate, al cui viso non scappava mai un
sorriso servizievole non aveva ceduto subito, era difficile che lo facesse poi.
Quanto a Spiridon, già quando aveva fatto riferimento a un Egorev generale,
sapeva bene di essere stato convocato non per una cosa successa in Germania –
la fotografia era un imbroglio, il compare tergiversava – ma proprio per il tornio;
si sarebbe stupito se non lo avessero convocato: ne avevano strapazzati dieci
come peri per una settimana. Abituato da una vita a ingannare le autorità,
anche adesso si era concesso senza fatica quell’amaro svago. Tutti quei discorsi
vuoti, però, avevano su di lui l’effetto di una grattugia sulla pelle. A
indispettirlo era il fatto che la sua lettera restasse bloccata lì e, anche se
nell’ufficio di Šikin era seduto al caldo e all’asciutto, non c’era nessuno a
occuparsi del lavoro nel cortile al posto suo e tutto si sarebbe accumulato per
l’indomani.
Così il tempo passava, il campanello dell’intervallo era suonato da un pezzo,
ma Šikin insisteva perché Spiridon firmasse la propria responsabilità in base
all’articolo 95 sul rilascio di falsa testimonianza, registrava le domande e nella
trascrizione alterava come poteva le risposte.
Fu allora che bussarono forte alla porta.
Accompagnato fuori Egorov, della cui inconcludenza ne aveva abbastanza,
Šikin aprì a un viscido Siromacha indaffarato, che era sempre capace di dire
l’essenziale in due parole.
Siromacha entrò con passo felpato e veloce. La notizia incredibile che gli
portava e la posizione particolare di Siromacha fra i delatori della šaraška lo
poneva allo stesso livello del maggiore. Si chiuse la porta alle spalle e, per
impedire a Šikin di afferrare la chiave, vi posò sopra la mano con fare
drammatico. Stava recitando. Con chiarezza, ma piano, cosicché nessuno
potesse origliare dalla porta, annunciò:
– Doronin mostra in giro il suo vaglia di 147 rubli. Ha fatto saltare
Ljubimičev, Kagan e altri cinque. Si è formato un gruppetto che dà loro la
caccia nel cortile. Doronin è uno dei suoi?
Šikin si portò la mano al colletto e lo sbottonò, lasciando libero il collo. Gli
occhi erano come schizzati dalle orbite. Il grosso collo si fece scuro. Il
maggiore si gettò sul telefono. Il viso, da sempre esageratamente pieno di sé,
era in preda alla follia.
Siromacha, non con semplici passi, ma con morbidi balzi, anticipò Šikin e gli
impedì di afferrare la cornetta.
– Compagno maggiore! – gli ricordò (un detenuto non avrebbe potuto dire
“compagno”, ma doveva parlargli da amico!). – Non lo faccia direttamente!
Non lasci che si prepari!
Era una verità carceraria elementare! Eppure doveva ricordargli anche
quello!
Indietreggiò di schiena, scartando i mobili alle sue spalle come se li vedesse,
e raggiunse la porta. Aveva gli occhi piantati sul maggiore.
Šikin bevve un sorso d’acqua.
– Vado, compagno maggiore? – disse Siromacha quasi senza chiedere. – Se
scopro altro, passo stasera o domani mattina.
Negli occhi sbarrati di Šikin stava ritornando lentamente la ragione.
– Si beccherà nove grammi di piombo, quel vigliacco! – furono le prime parole
che pronunciò, con voce roca. – Lo incastro io!
Siromacha uscì in silenzio come dalla stanza di un malato. Aveva fatto
quello che richiedevano le sue convinzioni e non si era affrettato a pretendere
una ricompensa.
Non era nemmeno sicuro che Šikin sarebbe rimasto maggiore dell’MGB.
Quello era un caso straordinario non solo per la šaraška di Marfino, ma per
tutta la storia degli Organi. I conigli avevano il diritto di morire, ma non di
lottare.
A chiamare il capo del laboratorio del Vuoto e ordinare a Doronin di
comparire subito dall’ingegner colonnello Jakonov non fu direttamente Šikin,
ma il sorvegliante di turno dell’istituto, il cui tavolo si trovava nel corridoio.
Benché fossero le quattro del pomeriggio, al Vuoto, da sempre buio, era
stata accesa da un pezzo la luce in alto. Il capo del laboratorio non c’era e a
sollevare la cornetta toccò a Klara, arrivata al turno serale solo in quel
momento, più tardi del solito. Stava chiacchierando con Tamara e non aveva
degnato Rus’ka nemmeno di uno sguardo, mentre lui non le toglieva gli occhi
infuocati di dosso. La ragazza alzò la cornetta con la mano ancora avvolta nel
guanto scarlatto e rispose abbassando lo sguardo, con Rus’ka davanti alla
pompa, a tre passi da lei, che le divorava il viso con gli occhi. Il giovane stava
pensando a come quella sera, una volta usciti tutti, lui le avrebbe preso la testa
fra le mani e l’avrebbe baciata. Stare vicino a Klara gli faceva perdere il senso di
ciò che accadeva intorno.
Klara sollevò lo sguardo (non l’aveva cercato, sentiva che era lì!) e disse:
– Rostislav Vadimovič! È convocato da Anton Nikolaevič con urgenza.
Gli altri li vedevano e li sentivano, Klara non avrebbe potuto esprimersi in
modo diverso, ma gli occhi non erano già più quelli di prima! Erano cambiati!
Erano come ricoperti da una patina senza vita...
Obbedendo in automatico, senza pensare a cosa potesse significare una
convocazione inaspettata dall’ingegner colonnello, Rus’ka si incamminò con
l’immagine di Klara nella mente. Giunto sulla soglia, si girò dalla sua parte e
vide che lei l’aveva seguito con lo sguardo, per poi distoglierlo subito.
Erano occhi incerti. Guardavano da un’altra parte, spaventati.
Cosa poteva esserle successo?
Con lei soltanto nei suoi pensieri, salì dal sorvegliante di turno,
abbandonando del tutto la propria diffidenza abituale e scordandosi
completamente di prepararsi a ricevere domande inaspettate, un assalto, come
esigeva l’astuzia del detenuto; ma il sorvegliante, sbarrandogli la porta di
Jakonov, gli indicò l’andito nero della porta del maggiore Šikin.
Non fosse stato per il consiglio di Siromacha, Šikin avrebbe telefonato lui
stesso al Vuoto e Rus’ka si sarebbe aspettato subito il peggio, sarebbe corso da
una decina di amici, li avrebbe avvisati, infine avrebbe fatto in modo di parlare
con Klara, di sapere che cosa avesse, per portare con sé un’entusiastica fede in
lei o liberarsi di quella devozione; ma adesso che si trovava di fronte alla porta
del compare, era tardi per fare congetture. Davanti al sorvegliante di turno non
poteva più agitarsi, tornare indietro, per non suscitare sospetti, sempre che non
ce ne fossero già, eppure si voltò ed era sul punto di scappare per le scale,
quando vide salire il tenente Žvakun, l’ex boia.
Rus’ka entrò da Šikin.
Bastarono pochi passi perché riacquistasse fiducia in sé, il viso mutato.
Grazie a un allenamento di due anni da ricercato e alla particolare genialità
avventurosa della sua natura, placò senza alcuna inerzia la bufera che aveva
dentro, si concentrò con irruenza su un circolo di nuovi pensieri e pericoli e
con un’espressione di serenità fanciullesca, di prontezza spensierata, annunciò:
– Permesso? Agli ordini, cittadino maggiore.
Šikin era seduto in modo strano, il torace appoggiato alla scrivania e un
braccio penzoloni che agitava come una frusta. Si alzò, andò incontro a
Doronin e con quel braccio-frusta lo colpì in faccia dal basso verso l’alto.
E stava per usare anche l’altro! Ma Doronin scappò verso la porta e si mise
in posizione di difesa. Gli usciva sangue dalla bocca, la montata di capelli
biondo chiaro gli ricadeva su un occhio.
Non riuscendo a quel punto ad arrivargli alla faccia, il piccoletto e
digrignante Šikin gli si parò di fronte, minaccioso, sprizzando saliva:
– Brutta carogna! Ci hai venduti? Di’ addio alla vita, Giuda! Ti fuciliamo
come un cane! Ti fuciliamo nello scantinato.
Erano già due anni e mezzo che nel paese più umano di tutti era stata
abolita per sempre la pena di morte. Ma né il maggiore né il suo informatore
smascherato si facevano illusioni: con un indesiderabile cosa si poteva fare, a
parte fucilarlo?
Rus’ka aveva un’aria selvaggia, arruffata, sul mento dal labbro che si stava
gonfiando a vista d’occhio gli colava del sangue.
Tuttavia, si raddrizzò e con insolenza rispose:
– Quanto a fucilare, bisogna vedere, cittadino maggiore. Sbatteranno dentro
anche lei. Farà ridere i polli per quattro mesi... le danno pure lo stipendio? Le
strapperanno via le spalline! Quanto a fucilare, bisogna vedere...
85
IL PRINCIPE KURBSKIJ

La nostra capacità di compiere un’impresa, vale a dire un gesto straordinario


per le forze di una singola persona, in parte è creata dalla nostra volontà, in
parte, evidentemente, è già insita o meno in noi fin dalla nascita. L’impresa ci
risulta più difficile se ottenuta dallo sforzo impreparato della nostra volontà.
Più facile, se è la conseguenza di uno sforzo di molti anni, orientato in modo
regolare. E di una facilità meravigliosa, se l’impresa è per noi innata: allora
succede e basta, come inspirare ed espirare.
Così viveva Rus’ka Doronin, ricercato in tutta l’Unione Sovietica, con la
semplicità e il sorriso di un bambino. Nel suo sangue, fin dalla nascita, doveva
pulsare il rischio, il fuoco dell’avventura.
Per un damerino felice come Innokentij, invece, sarebbe stato impensabile
nascondersi sotto un altro nome, scappare per il paese. Non gli passava
neanche per la testa l’idea di opporsi al suo arresto, sempre che un arresto fosse
previsto.
Aveva chiamato l’ambasciata in un impeto, senza rifletterci bene. Aveva
capito tutto di colpo, ed era tardi per rinviare la cosa di lì a pochi giorni,
quando sarebbe partito per New York. Aveva telefonato in preda all’ossessione,
pur sapendo che tutti i telefoni erano sotto controllo e solo in pochi al
ministero conoscevano il segreto di Georgij Koval’.
Si era gettato nel baratro perché trovava insopportabile che rubassero una
bomba in modo così plateale e poi, di lì a un anno, gliela piazzassero in faccia.
Si era gettato nel baratro in un veloce balzo emotivo, senza immaginarsi il
doloroso fondo di pietra contro cui sarebbe andato a sbattere. Forse dentro
covava ancora l’ardita speranza di volare via, fuggire dalle responsabilità,
volteggiare oltre l’oceano, riprendere fiato, raccontarlo ai corrispondenti.
Ma senza aver nemmeno raggiunto ancora il fondo, era già caduto nella
devastazione, nella prostrazione dello spirito. La tensione di quella breve
risolutezza si era spezzata e lui ora veniva arso e devastato dal terrore.
Il terrore, in particolare, si era palesato fin dalla mattina di lunedì, quando
avrebbe dovuto farsi forza e ricominciare a vivere, andare al lavoro, capire in
fretta se gli sguardi e le voci che aveva intorno erano cambiati, celavano una
minaccia.
Innokentij si controllava il più possibile, con dignità, ma dentro era già a
pezzi, aveva perso ogni capacità di opporsi, di cercare una via d’uscita, di
salvarsi.
Non erano ancora le undici del mattino quando la segretaria, che non aveva
lasciato entrare Innokentij dal capo, disse di aver sentito che il viceministro
aveva sospeso la nuova nomina di Volodin.
Innokentij rimase scosso a tal punto da quella notizia, seppur non provata
fino in fondo, che non ebbe più la forza di insistere di essere ricevuto per
accertarsi della verità. Non c’era altro motivo per cui avrebbero potuto
sospendere la sua partenza già autorizzata! Eppure la sua nomina all’ONU, un
posto riservato fuori dall’Unione Sovietica, aveva già ricevuto il visto di
Vyšinskij... Dunque era stato scoperto...
Vedendo tutto nero e sentendo sulle spalle come il peso di secchi stracolmi,
tornò nel suo ufficio, dove gli restava solo una cosa da fare: chiudere la porta
con la chiave e poi toglierla (perché pensassero che fosse uscito). Poteva farlo
perché il suo vicino di scrivania non era ancora rientrato dalla trasferta.
Dentro si sentiva depresso in modo ripugnante. Si aspettava di udire un
colpo alla porta da un momento all’altro. Aveva una paura, una paura
tremenda, che stessero per entrare ad arrestarlo. Gli balenò l’idea di non aprire.
Che la sfondassero pure.
Oppure di impiccarsi prima che entrassero.
O di buttarsi dalla finestra. Del secondo piano. Direttamente sulla strada.
Due secondi di volo e tutto sarebbe finito. La coscienza si sarebbe placata.
Sulla scrivania era posato il voluminoso rendiconto dei periti: il debito di
Innokentij. Prima di partire bisognava far approvare quel rapporto. Ma gli
veniva la nausea anche solo a guardarlo.
Nell’ufficio riscaldato sentiva freddo, aveva i brividi.
Che sgradevole debolezza interiore! Aspettare la propria morte così,
nell’inazione...
Innokentij si sdraiò sul divano di pelle, a pancia in giù. Soltanto in quel
modo, con il corpo disteso in tutta la sua lunghezza, riceveva dal divano una
sorta di sostegno, di calma.
I pensieri in lui si mescolavano.
Possibile che l’avesse fatto? Lui! Aveva davvero osato telefonare
all’ambasciata?! E per cosa? “Telefoni a... of Canada... E l-lei chi è? Come faccio a
sapere che sta dicendo la verità?” Oh, che arroganti, gli americani! Quando
vedranno la collettivizzazione anche di tutti i loro farmer, se lo saranno
meritato!...
Non avrebbe dovuto telefonare. Gli dispiaceva per sé. Smettere di vivere a
trent’anni. Magari sotto tortura.
No, non gli dispiaceva di aver telefonato. Evidentemente doveva andare così.
Era come se qualcuno lo avesse guidato e lui non avesse avuto paura.
Non è che non gli dispiacesse, gli mancava proprio la volontà di dispiacersi
o non dispiacersi. Giaceva esanime sotto quella minaccia che lo infiacchiva,
schiacciato sul divano, e voleva solo che tutto finisse in fretta, che lo
prendessero in fretta.
Ma per un caso fortunato nessuno bussava, nessuno provava ad aprire la
porta. E il telefono non aveva squillato neppure una volta.
Si appisolò. Sconclusionati sogni opprimenti si sovrapponevano gli uni agli
altri, gli gonfiavano la testa per svegliarlo. Così non si destava riposato, ma
ancora più sfinito e abulico di quando si era assopito, vittima del tormento di
quei sogni in cui, già qualche volta, avevano tentato di arrestarlo o c’erano
proprio riusciti. Tuttavia, di alzarsi dal divano, scrollarsi via quegli incubi,
persino muoversi, non aveva la forza. E si lasciava avvolgere di nuovo da
un’odiosa e sonnolenta debolezza. Alla fine, si addormentò pesantemente e si
svegliò soltanto durante la pausa, sentendo il viavai nel corridoio, un rivolo di
saliva che gli colava sul divano dalla bocca aperta e priva di sensi.
Si alzò, aprì la porta, andò a lavarsi. Portarono il tè e i tramezzini.
Nessuno stava venendo ad arrestarlo. I colleghi nel corridoio e nella sala
comune lo guardavano normalmente, nessuno aveva cambiato atteggiamento
nei suoi confronti.
Del resto, quella non era una prova. Poteva non saperlo nessuno.
Ma dagli sguardi abituali e dal suono delle voci di altre persone attinse
vigore. Chiese a una ragazza di portargli un tè un po’ più caldo e un po’ più
forte e ne bevve due tazze con gran piacere. Anche quello lo rinvigorì.
Eppure non aveva la forza di presentarsi dal capo per sapere...
Togliersi la vita sarebbe stata una semplice misura di buonsenso, un istinto
di autoconservazione, pietà verso sé stessi. Ma solo se avesse saputo per certo
che lo stavano per arrestare.
E se invece non era così?
D’un tratto squillò il telefono. Innokentij trasalì: il cuore gli si fermò un
istante e poi ricominciò a battere forte.
Era Dotty, con la sua voce che al telefono suonava incredibilmente musicale.
Gli parlava con riacquisiti diritti di moglie. Gli domandava come stava e gli
proponeva di andare da qualche parte quella sera.
Innokentij provò di nuovo calore e gratitudine nei suoi confronti. Cattiva o
non cattiva moglie che fosse, era la persona a lui più vicina!
Della sospensione della nomina non disse nulla. Tuttavia, si immaginò in
piena sicurezza di sera a teatro: non arrestavano mai nessuno davanti a tutti, in
una sala piena di spettatori!
– Va bene, prendi i biglietti per qualcosa di allegro – le rispose Innokentij.
– Un’operetta? – domandò Dotty. – Danno solo una cosa che si intitola
Akulina. Altrimenti, al Teatro dell’Armata Rossa sul palco piccolo danno La
legge di Licurgo, una prima, mentre su quello grande, La voce dell’America. Al
Teatro dell’Arte c’è Indimenticabile.
– La legge di Licurgo suona molto invitante. I bei titoli li danno sempre alle
opere peggiori. Prendi i biglietti per Akulina, d’accordo? Poi andiamo al
ristorante.
– Okay! Okay! – rideva e si rallegrava Dotty al telefono.
(Doveva trascorrere là tutta la notte, per non farsi trovare a casa! Quelli
arrivano di notte!)
Moti di volontà stavano riaffiorando gradualmente dentro Innokentij. Sì, va
bene, poteva pure esserci un sospetto su di lui. Ševronok e Zavarzin, però,
erano legati più direttamente ai dettagli di quella vicenda, i sospetti dovevano
ricadere prima su di loro. Un sospetto non era ancora una prova!
Va bene, magari esisteva davvero una minaccia d’arresto. Ma c’era modo di
impedirlo? Poteva nascondersi? No. E allora perché preoccuparsene?
Gli era già tornata la forza di camminare e riflettere.
E poi, se anche l’avessero arrestato? Magari non sarebbe nemmeno successo
quel giorno o quella settimana. Doveva forse smettere di vivere? O, al
contrario, in quegli ultimi giorni, godersela alla grande?
Perché era tanto spaventato? Al diavolo, la sera prima aveva difeso Epicuro
in modo così arguto, perché allora non lo metteva in pratica? Quelle di
Epicuro non erano idee strampalate.
Pensando fosse meglio controllare sui suoi taccuini se c’era qualcosa da
distruggere, e ricordandosi allo stesso tempo che, su uno di quelli vecchi una
volta aveva scritto un pensiero su Epicuro, si mise a sfogliarlo, mettendo da
parte il rapporto dei periti. Vi trovò: “Le sensazioni interiori del piacere e del
dispiacere sono i criteri supremi del bene e del male.”
La mente distratta di Innokentij non colse quel pensiero. Lesse ancora:
“Bisogna sapere che l’immortalità non esiste. Se la morte per noi non esiste,
non è un male, semplicemente non ci riguarda: quando ci siamo noi non c’è la
morte, e quando c’è la morte noi non ci siamo più.”
“Questa mi piace” pensò rovesciandosi indietro Innokentij. “Chi ha detto di
recente la stessa cosa? Ah, sì, quel giovane veterano, ieri sera alla festa.”
Innokentij si immaginò nel Giardino di Atene, con il settantenne olivastro
Epicuro nella tunica che elargiva consigli dai gradini di marmo, e lui davanti in
abiti moderni, seduto su un piedistallo in una sguaiata posa all’americana.
“La fede nell’immortalità è nata dalla sete di persone insaziabili, che usano in
modo scriteriato il tempo che la natura ci ha donato. Il saggio, invece, troverà
quel tempo sufficiente per percorrere tutto il giro di piaceri raggiungibili e,
quando arriverà il momento della morte, si allontanerà sazio dalla tavola della
vita, lasciando il posto ad altri ospiti. Per il saggio è sufficiente una vita umana,
mentre lo stupido non saprebbe che farsene nemmeno dell’eternità.”
Che cosa brillante! Ma qui veniva il guaio: e se non è la natura ad
allontanarti dalla tavola a settant’anni, ma l’MGB, e a trent’anni?
“Non si devono temere le sofferenze del corpo. Chi conosce il limite della
sofferenza è immune alla paura. Una sofferenza prolungata è di poco conto,
quella acuta non è prolungata. Il saggio non si priverà della tranquillità
dell’animo nemmeno durante una tortura. La memoria gli restituirà i
precedenti piaceri dei sensi e le gioie dello spirito e, nonostante l’attuale
sofferenza del corpo, ristabilirà l’equilibrio dell’anima.”
Innokentij, incupito, prese a camminare avanti e indietro per l’ufficio.
Ecco che cosa temeva, non la morte. Ma che dopo l’arresto lo tormentassero
nel corpo.
Epicuro dice che si può sconfiggere la tortura? Oh, avesse avuto lui una tale
fermezza!
Dentro di sé non la trovava.
E morire? Non gli sarebbe dispiaciuto morire se solo la gente avesse saputo
che cittadino del mondo era stato, come aveva salvato tutti dalla guerra
nucleare.
Se la bomba atomica fosse arrivata ai comunisti, il pianeta non avrebbe
avuto scampo.
Stava per essere fucilato in un sotterraneo come un cane e il suo “caso”
l’avrebbero chiuso dietro migliaia di serrature.
Innokentij gettò indietro la testa, come un uccello che fa scorrere l’acqua
dalla gola tesa nel petto.
E no, se la notizia si fosse saputa, non gli sarebbe andata meglio, sarebbe
stato anche peggio: si trovavano già in quella fase oscura in cui i traditori non
si distinguevano dagli amici. Chi era il principe Kurbskij? Un traditore. Chi
Ivan il Terribile? Un padre premuroso.
Solo che Kurbskij da Ivan il Terribile era scappato, mentre Innokentij non
aveva fatto in tempo.
Se si fosse saputo, i suoi compatrioti lo avrebbero lapidato con piacere!
Qualcuno lo avrebbe capito? Un migliaio di persone su duecento milioni, ad
andar bene. Chi si sarebbe ricordato che avevano respinto il Piano Baruch, vale
a dire rinunciato alla bomba atomica, mentre gli americani la chiudevano a
chiave sotto il controllo internazionale? E cosa più importante: come aveva
osato lui decidere per la patria, se quel diritto era solo di chi sedeva sulla
poltrona più alta, e di nessun altro?
Non hai permesso al Riformatore del Mondo, a Colui che plasma la nostra
Felicità, di rubare la bomba? Dunque non l’hai permesso alla patria!
Ma che se ne faceva della bomba atomica la patria? Che se ne faceva il
villaggio di Roždestvo? quella nana mezza cieca? quella vecchia con un pulcino
strozzato? quel contadino rattoppato con una gamba sola?
C’era qualcuno in tutto il villaggio che lo avrebbe condannato per quella
telefonata? Presi singolarmente non avrebbero nemmeno capito il problema.
Riuniti in assemblea, invece, lo avrebbero condannato all’unanimità...
Servivano strade, stoffe, assi, vetri, riavere latte, pane, forse anche il suono
delle campane: che se ne facevano della bomba atomica?
Ma la cosa peggiore era che, forse, con la sua telefonata, Innokentij non ne
aveva nemmeno impedito il furto.
Le lancette traforate dell’orologio di bronzo segnavano le quattro meno cinque.
Imbruniva.
86
NON SONO UN PESCATORE DI UOMINI

All’imbrunire, passando attraverso le porte della torretta di guardia spalancate


per lei, la lunga Zim nera accelerò sulle anse d’asfalto del cortile di Marfino
ripulite dalla larga pala di Spiridon e tornate asciutte e nere; poi superò la
Pobeda di Jakonov parcheggiata vicino all’edificio e si fermò di colpo, come di
stucco, presso le scale dell’ingresso principale.
L’aiutante del generale di divisione balzò fuori dalla portiera anteriore e aprì
subito quella posteriore. Il pingue Foma Oskolupov, con un cappotto grigio-
azzurro troppo stretto e un colbacco d’astrakan da generale, scese dall’auto,
drizzò la schiena e, dopo che l’aiutante gli ebbe spalancato davanti una prima
porta dell’edificio, poi una seconda, salì per le scale con aria preoccupata. Sul
primo pianerottolo, oltre le lampade antiche si trovava un guardaroba. La
guardarobiera corse fuori, pronta a prendere il cappotto del generale (pur
sapendo che lui non gliel’avrebbe dato). Oskolupov non si tolse né il cappotto
né il colbacco e proseguì su per una delle rampe della scala doppia. Alcuni zek
e alcuni liberi insignificanti, che passavano in quel momento in vari punti della
scala, si affrettarono a dileguarsi. Il generale con il colbacco d’astrakan saliva
con maestosità, ma andare veloce come esigevano le circostanze gli richiedeva
un certo sforzo. L’aiutante si spogliò nel guardaroba e lo raggiunse.
– Vai a cercare Rojtman, – gli disse Oskolupov, girando la testa verso di lui
per un attimo – avvisalo che tra mezz’ora farò un salto dal nuovo gruppo a
chiedere notizie sui risultati.
Giunto al secondo piano non svoltò verso l’ufficio di Jakonov, ma si diresse
dalla parte opposta, verso il Sette. Il sorvegliante di turno dell’impianto, che lo
aveva visto di schiena, si piazzò al telefono in cerca di Jakonov, per avvisarlo.
Il Sette era allo sbando. Non serviva uno specialista (Oskolupov non lo era
nemmeno) per capire che non avevano in ballo niente: dopo lunghi mesi di
messa a punto, tutti i sistemi erano dissaldati, interrotti e spezzati. Il
matrimonio fra il clipper e il vocoder era cominciato con entrambi i novelli
sposi smontati pannello per pannello, blocco per blocco, quasi condensatore
per condensatore. Qua e là si innalzava fumo di colofonia e di papirosy;
giungevano il ronzio del trapano a mano, i battibecchi di chi si dava da fare e le
urla strazianti di Mamurin al telefono.
Tuttavia, anche in mezzo a quel fumo e al rumore, due di loro notarono il
generale di divisione che stava entrando: erano Ljubimičev e Siromacha
(perennemente in allerta, buttavano sempre un occhio alla porta). Non erano
due persone distinte, ma un instancabile tiro abnegante, di una dedizione
continua, rapido, pronto a lavorare ventiquattr’ore al giorno e a prestare
ascolto a tutte le ragioni dei capi. Quando gli ingegneri del Sette si
consultavano, Ljubimičev e Siromacha partecipavano da pari. Vero, nel tran
tran del Sette avevano imparato molto.
Notando Oskolupov, abbandonarono entrambi il saldatore sul sostegno:
Siromacha si fiondò ad avvertire Mamurin, in piedi, che gridava al telefono, e
Ljubimičev, con bonarietà, afferrò la sua sedia leggermente imbottita e la
avvicinò, con zelo, al generale, cogliendo l’indicazione su dove piazzarla. A un
altro sarebbe parsa piaggeria, ma Ljubimičev, alto, con le spalle larghe, il viso
aperto e piacente, pensava fosse un gesto generoso da parte di un giovane a una
persona anziana e rispettabile. Mentre sistemava la sedia, proteggendola con il
proprio corpo da tutti tranne Oskolupov, senza farsi notare dagli altri, ma ben
visibile al generale di divisione, spazzò via con le mani la polvere invisibile
dalla seduta in un’altra mossa da garzone, poi balzò da una parte e, insieme a
Siromacha, si bloccò nella felice attesa di domande e istruzioni.
Foma Gur’janovič si accomodò senza levarsi il colbacco, si sbottonò solo
appena il cappotto.
Nel laboratorio tutto tacque: il trapano non forava più, le papirosy erano state
spente, le voci si quietarono; solo Bobynin, senza uscire dal suo bugigattolo,
dava istruzioni con voce di basso ai montatori elettrici, e Prjančikov, fuori di sé,
continuava a gironzolare con il saldatore rovente intorno al quadro
saccheggiato del suo vocoder. Gli altri guardavano il superiore, pronti ad
ascoltare ciò che stava per dire.
Asciugandosi il sudore dopo una telefonata difficile (aveva discusso con il
capo delle officine meccaniche, colpevoli di aver rovinato i pannelli del telaio),
Mamurin si avvicinò ed esausto salutò quello che un tempo era un compagno
di lavoro, ora capo di livello inarrivabile (Foma gli porse tre dita). Mamurin
aveva già raggiunto quel grado di pallore e agonia per cui è un delitto far
scendere una persona dal letto. Molto più malato dei suoi colleghi di alto
rango, aveva dovuto sopportare i duri colpi dei giorni precedenti: la collera del
ministro e la rottura del clipper. Se era possibile che i legamenti muscolari si
assottigliassero ulteriormente sotto lo strato della pelle, i suoi si erano
assottigliati. Se le ossa di una persona erano in grado di perdere peso, le sue lo
avevano perso. Da più di un anno Mamurin viveva per il clipper, convinto che
quello, come il Cavallino gobbo della fiaba, l’avrebbe tolto dai guai. Nessun
tentativo di indorare la pillola, come l’arrivo di Prjančikov con il vocoder sotto
il tetto del Sette, poteva nascondergli la catastrofe.
Foma Gur’janovič sapeva dirigere un’impresa senza possedere le conoscenze
che a quell’impresa servivano. Aveva capito da tempo che bastava spingere le
opinioni dei sottoposti l’una contro l’altra. Come in quel momento. Li guardò
accigliato e domandò:
– Ebbene? Come va? – E in quel modo costrinse i sottoposti a pronunciarsi.
Prese il via una conversazione noiosa, che non era utile a nessuno, li
distoglieva soltanto dal lavoro. Parlavano di malavoglia, sospirando, e se due
intervenivano insieme, entrambi rinunciavano.
Il discorso era solo di due tenori: “bisogna” ed “è difficile”. Portava avanti
la linea del “bisogna” il frenetico Markušev, con il sostegno della coppia
Ljubimičev-Siromacha. Markušev, piccolo, un po’ brufoloso ed energico,
escogitava febbrilmente giorno e notte come farsi onore e ottenere la libertà in
anticipo. Aveva proposto l’unione del clipper e del vocoder non perché, da
ingegnere, fosse certo di una sua buona riuscita, ma perché con quell’unione,
sicuramente, l’importanza individuale di Bobynin e di Prjančikov sarebbe
diminuita, mentre la sua sarebbe aumentata. E sebbene anche lui non amasse
un granché lavorare per gli altri, vale a dire senza l’aspettativa di potersi giovare
dei frutti del proprio lavoro, adesso si indignava perché i suoi compagni del
Sette si erano davvero persi d’animo. Alla presenza di Oskolupov, si lamentava
indirettamente della negligenza degli ingegneri.
Era umano, cioè apparteneva a quella specie comune da cui vengono fuori
gli oppressori dei propri simili.
Dal viso di Ljubimičev e di Siromacha trasparivano sofferenza e fede.
Con la faccia di un limone trasparente abbandonata fra i palmi inconsistenti,
Mamurin, per la prima volta da quando era al comando del Sette, taceva.
Chorobrov celava a fatica un luccichio di gioia maligna negli occhi. Essere
testimone del funerale cui erano andati incontro gli sforzi di due anni del
Ministero della Sicurezza di Stato gli procurava una gioia immensa. Lui più di
tutti muoveva obiezioni a Markušev ed esagerava le difficoltà.
Per qualche ragione Oskolupov rimproverava soprattutto Dyrsin,
accusandolo di mancanza di entusiasmo. Quando Dyrsin si agitava o soffriva
per un’ingiustizia, perdeva quasi del tutto la voce. A causa di quella
caratteristica avversa appariva sempre colpevole.
A metà del discorso arrivò Jakonov e per gentilezza si mise a sostenere una
conversazione assurda alla presenza di Oskolupov. Poi chiamò Markušev e con
lui, su un pezzetto di carta che teneva posato sulle ginocchia, cominciò a buttar
giù la variante di un circuito.
Foma Gur’janovič si sarebbe lanciato molto più volentieri sul sentiero a lui
ben noto delle strigliate e dello scompiglio, preparato in anni di comando fin
nei dettagli dell’intonazione. Era la cosa che gli riusciva meglio, ma capiva che
strigliarli in quel frangente non sarebbe stato di nessun aiuto.
Che Foma Gur’janovič si fosse reso conto o meno che il suo discorso non
era utile alla questione, o volesse cambiare aria prima della fine del fatale
termine di favore di un mese, fatto sta che nel mezzo della discussione, senza
finire di ascoltare Bulatov, si alzò e con aria cupa si diresse verso l’uscita,
lasciando tutto il personale del Sette a domandarsi con angoscia fin dove fosse
stato spinto il capo della Sezione di Tecnica speciale dalla loro negligenza.
Ligio alla procedura, anche Jakonov fu costretto ad alzarsi e a trascinare il
grosso corpo ingombrante dietro a quel colbacco che gli arrivava alla spalla.
In silenzio, già uno a fianco all’altro, passarono per il corridoio. Al capo
della Sezione non piaceva anche per quello che il suo ingegnere capo gli
camminasse accanto: Jakonov era più alto di lui di una testa, una grossa testa
oblunga.
Adesso per Jakonov non era soltanto un dovere raccontare al generale di
divisione del sorprendente successo inaspettato con il codificatore, ma
rappresentava anche un vantaggio. Avrebbe subito stemperato l’ostilità bovina
con cui Foma lo guardava da quella visita notturna nell’ufficio di Abakumov.
Ma il disegno non era nelle sue mani. La notevole capacità di Sologdin di
dominarsi e il modo in cui era pronto ad andare a morire pur di non cedere
inutilmente il suo disegno convinsero Jakonov a mantenere la parola data e
riferirlo a Selivanovskij quella notte stessa, saltando Foma. Naturalmente Foma
sarebbe andato su tutte le furie, ma avrebbe dovuto farsela passare in fretta.
E non c’era solo quello. Jakonov vedeva che Foma si era incupito, era
preoccupato per il proprio destino, e lo lasciò con piacere a tormentarsi ancora
per qualche giorno. Da ingegnere Anton Nikolaevič si sentiva anche un po’
suscettibile riguardo al progetto, come se lo avesse messo insieme lui. Sologdin
temeva giustamente che Foma si facesse passare per un coautore. Se adesso lo
avesse saputo, anche senza dare uno sguardo al disegno dell’unità principale,
avrebbe ordinato immediatamente di piazzare Sologdin in una stanza separata
e reso difficile l’accesso a chi gli doveva dare una mano; avrebbe convocato
Sologdin per minacciarlo e assegnargli delle scadenze assurde; poi ogni due ore
avrebbe chiamato dal ministero e messo fretta a Jakonov; infine, si sarebbe
vantato che solo grazie al suo controllo si era dato il giusto funzionamento al
codificatore.
E questa cosa era così palese e disgustosa che per Jakonov aspettare a
dirglielo era un piacere.
Eppure, una volta giunti nell’ufficio, aiutò Oskolupov a sfilarsi il cappotto,
cosa che mai avrebbe fatto in presenza di estranei.
– Gerasimovič è uno dei tuoi, che sta facendo? – domandò Foma
Gur’janovič e si sedette sulla poltrona di Anton, senza neanche togliersi il
colbacco.
Jakonov si accomodò su una sedia in disparte.
– Gerasimovič? Di preciso quand’è tornato dalla Spiridonovka? A ottobre,
mi sembra. Be’, da allora si sta occupando del televisore per il compagno Stalin.
Quello con la piastra di bronzo ‘Al grande Stalin dagli agenti della Čeka’.
– Chiamalo un po’ qui.
Jakonov telefonò.
La “Spiridonovka” era un’altra delle šaraški di Mosca. Negli ultimi tempi,
laggiù, sotto la direzione dell’ingegner Bobr avevano approntato un dispositivo
assai ingegnoso e utile: un adattatore per i comuni telefoni urbani.
L’ingegnosità stava nel fatto che il dispositivo entrava in funzione proprio
quando il telefono non veniva usato, con la cornetta adagiata tranquilla sulla
leva: tutto ciò che veniva detto nella stanza si sentiva nello stesso istante anche
al centro di controllo della Sicurezza di Stato. Il dispositivo era piaciuto,
l’avevano mandato in produzione. Quando si profilava un utente utile, gli
tagliavano la linea, la vittima faceva richiesta di un tecnico, quello arrivava e
con la scusa di una riparazione gli installava il congegno d’intercettazione nel
telefono.
Il pensiero anticipatore dei capi (il pensiero dei capi deve sempre anticipare)
era concentrato ora su altri dispositivi.
Sulla porta spuntò il sorvegliante di turno.
– È arrivato il detenuto Gerasimovič.
– Lo faccia entrare – annuì Jakonov. Era seduto, fiacco, lontano dalla sua
scrivania, su una piccola sedia dalla quale straripava un po’ a sinistra e un po’ a
destra.
Gerasimovič entrò, aggiustandosi il pince-nez sul naso, e inciampò nella
passatoia. In confronto a quei due grassi funzionari, appariva tanto piccolo,
con le spalle strette.
– Mi ha mandato a chiamare? – disse in breve, avvicinandosi con lo sguardo
fisso sulla parete fra Oskolupov e Jakonov.
– Uhm – rispose Oskolupov. – Si sieda.
Gerasimovič si accomodò. Occupava metà seduta.
– Lei è... – si ricordò Foma Gur’janovič. – Un ottico, Gera-simovič?
Dunque, non si occupa di orecchie, ma di occhi, giusto?
– Sì.
– E per questo... – Foma fece ruotare la lingua, come per pulirsi i denti. – La
elogiano. Già.
Tacque e guardò Gerasimovič con un occhio solo, l’altro socchiuso.
– Conosce l’ultimo lavoro di Bobr?
– Ne ho sentito parlare.
– Uhm. E che abbiamo proposto Bobr per la scarcerazione anticipata?
– Non lo sapevo.
– Adesso lo sa. Lei quanto deve stare ancora dentro?
– Tre anni.
– Un bel po’! – si stupì Oskolupov, come se i suoi detenuti avessero tutti
condanne di pochi mesi. – Davvero un bel po’! – (Di recente, per incoraggiare
un novellino, aveva detto: “Dieci anni? Una bazzecola! C’è gente che sta dentro
venticinque anni!”) – Non sarebbe male se si guadagnasse anche lei l’anticipata,
no?
Strano come quella cosa coincidesse con la supplica di Nataša del giorno
prima!
Controllandosi (giacché nelle conversazioni con i capi non concedeva loro
né un sorriso né accondiscendenza), Gerasimovič abbozzò un mezzo sorriso.
– E dove si trova? In giro nei corridoi non ne vedo.
Foma Gur’janovič si agitò.
– Uhm! Con i televisori, ovviamente, una scarcerazione anticipata non
l’otterrà mai! Fra qualche giorno la sposterò alla Spiridonovka e la nominerò
capo progetto. Lei ce lo farà in sei mesi e per l’autunno sarà già a casa.
– Per quale lavoro, posso saperlo?
– Là ce n’è molto in programma, basta scegliere. Per esempio, è venuta
questa idea: incastrare dei microfoni nelle panchine dei giardini, nei parchi si
chiacchiera liberamente, ne senti delle belle. Non è questa, però, la sua
specialità, giusto?
– No, infatti.
– Ce n’è anche per lei, non si preoccupi. Due lavori, uno importante e uno
urgente. E tutti e due proprio della sua specialità, vero, Anton Nikolaič? –
(Jakonov fece cenno di sì con la testa.) – Uno è un apparecchio fotografico
notturno a... come si chiamano... raggi infrarossi. Per fotografare una persona
di notte all’aperto, scoprire con chi cammina, e quella non lo saprebbe mai
finché campa. All’estero esistono già dei progetti preliminari, qui bisogna solo...
riadattarli in modo creativo. Be’, e fare in modo che l’apparecchio risulti più
facile da maneggiare. I nostri agenti non sono così intelligenti come lei. Poi c’è
l’altro. Per lei, sicuramente, sarà una bazzecola, ma a noi serve con urgenza.
Una semplice macchina fotografica, tanto piccolina da incastrarsi in uno stipite.
Che si azioni automaticamente non appena la porta si apre, fotografando chi ci
passa attraverso. Con la luce del giorno e quella elettrica. Al buio non serve,
per fortuna. Va prodotta in serie anche una macchinetta del genere. Be’, allora?
Accetta?
Gerasimovič aveva girato il viso stretto e scarno verso le finestre, non
guardava il generale di divisione.
Nel vocabolario di Foma Gur’janovič l’aggettivo “afflitto” non esisteva. Per
questo non sapeva definire l’espressione che dominava il viso di Gerasimovič.
E non ci pensava neanche a farlo. Aspettava solo una risposta da lui.
Quella era la risposta alla supplica di Nataša!
Illarion aveva davanti il viso consumato della moglie, con le lacrime
solidificate come vetro.
Per la prima volta dopo molti anni l’idea di tornare a casa, con la sua
accessibilità, la sua vicinanza, il suo calore, gli avvolgeva il cuore.
Bisognava solo fare come Bobr: mandare dietro le sbarre al posto proprio
cento, duecento sempliciotti liberi.
Titubante, parlando a scatti, Gerasimovič domandò:
– Ma... al televisore... non posso restare?
– Sta rifiutando?! – si stupì Oskolupov, accigliandosi. Il suo viso assumeva
un’espressione stizzita con gran facilità. – Per quale ragione?
Tutte le leggi della brutale terra degli zek dicevano a Gerasimovič che
dispiacersi per i liberi affermati, miopi, non esperti, non pestati sarebbe stato
strano quanto non ricavare il lardo dai maiali. I liberi non avevano l’anima
immortale che gli zek ricavavano dalle loro condanne infinite; i liberi godevano
avidamente e in modo maldestro della libertà concessa, si erano impantanati in
piccoli progetti, in azioni vane.
Nataša, invece, era la compagna di tutta una vita. Nataša aspettava la fine
della sua seconda condanna. Batuffolo indifeso, era sul punto di spegnersi, e
con lei si sarebbe spenta anche la vita di Illarion.
– Perché? Per quale ragione? Non posso. Non ci riuscirei – rispose
Gerasimovič pianissimo, con grande fiacchezza.
Jakonov, fino a quel momento distratto, osservò Gerasimovič con curiosità e
attenzione. A quanto pareva, c’era un altro caso che puntava all’irrazionalità.
Ma la legge universale per cui “la camicia è la cosa più vicina al corpo” non
poteva non funzionare anche lì.
– Lei si è solo disabituato agli incarichi seri, per questo è timoroso – lo
persuadeva Oskolupov. – Chi può riuscirci, se non lei? Va bene, ci rifletta.
Gerasimovič si appoggiò la piccola mano sulla fronte e tacque.
Ovviamente, non si trattava della bomba atomica. Per la vita del mondo
quella era una cosa microscopica che non si notava neanche.
– Ma su cosa dovrebbe riflettere? Si tratta proprio della sua specialità!
Ah, poteva tacere! Poteva tergiversare. Com’era d’uso fra gli zek, accettare
l’incarico e poi tirarla per le lunghe, non farlo. Ma Gerasimovič si alzò e guardò
con disprezzo quel bastardo con il ventre grosso, le guance flosce, il grugno
camuso e il colbacco da generale, un tipo che, purtroppo, su uno stradone della
Russia centrale non era affatto scomparso.
– No! Non è questa la mia specialità! – disse in tono squillante. – Far
mettere la gente dentro non è la mia specialità! Non sono un pescatore di
uomini, io! È già abbastanza che dentro abbiano messo noi...
87
ALLE ORIGINI DELLA SCIENZA

Era dal mattino che Rubin si trovava alla straziante mercé della discussione del
giorno prima. Gli si ripresentavano sempre nuovi argomenti, venuti a mancare
durante la notte. Con il virare del giorno, però, aveva avuto la fortuna di
liberarsi da quella morsa.
Era accaduto nella tranquilla stanza della Sezione di massima segretezza al
secondo piano, con le tende pesanti ai lati della finestra e della porta, il divano
non più nuovo e un misero tappetino. L’imbottitura attutiva i suoni, ma di
suoni non ce n’erano quasi, perché Rubin stava ascoltando i nastri magnetici
con le cuffie e Smolosidov, con il viso malamente butterato, se ne stava in
silenzio tutto il giorno, aggrottando la fronte verso Rubin, quasi fosse un
nemico e non un compagno di lavoro. Dal canto suo Rubin considerava
Smolosidov poco più che un automa impiegato nel cambio delle bobine.
Con le cuffie calcate in testa, Rubin continuava a riascoltare l’infausta
conversazione con l’ambasciata, e poi i cinque nastri con le cinque
conversazioni dei sospettati che gli erano stati forniti. Ora si fidava delle
proprie orecchie, ora perdeva ogni speranza di potersene fidare, e si spostava
sui guizzi viola dei fonoaspetti, stampati da tutte le conversazioni. I nastri di
carta lunghi svariati metri, sulla grande scrivania, non ci stavano nemmeno,
scendevano a cascata, bianchi, attorcigliandosi sul pavimento a destra e a
sinistra. Rubin afferrava di scatto il suo album con i modelli dei fonoaspetti
classificati un po’ in base a “suoni-fonemi”, un po’ al “tono di base” di diverse
voci maschili. Con la matita colorata rossa e blu, già consumata fino ad avere le
due estremità stondate e senza punta (temperare una matita per Rubin era un
lavoro da rimandare sempre), segnava sui nastri i punti che lo colpivano di più.
Rubin era immerso nel lavoro. I suoi occhi castano scuro sembravano accesi.
La grande barba nera arruffata era divisa a ciocche e la cenere grigia della pipa
e delle papirosy fumate ininterrottamente gli riempiva la barba, la manica della
tuta bisunta con un bottone del risvolto strappato, il tavolo, i nastri, la
poltrona, l’album con i modelli.
Ora Rubin era in preda a quel misterioso entusiasmo che i fisiologi non
sanno ancora spiegare: dimenticati il fegato e i dolori dovuti all’ipertensione,
superata la notte estenuante, ristorato, senza sentire la fame, sebbene l’ultima
cosa che avesse mangiato era un biscotto preso dalla tavola del compleanno
della sera prima, Rubin si trovava in quello stato di acme spirituale in cui la
vista, acuta, coglie ogni granellino di sabbia, la memoria restituisce
prontamente tutto quello che le si è depositato negli anni.
Non aveva chiesto neanche una volta che ore fossero. Solo in un’occasione,
appena arrivato, aveva provato ad aprire la finestrella laterale, per risarcire sé
stesso della mancanza di aria fresca, ma Smolosidov, accigliato, aveva detto
“Non si può! Ho il raffreddore”, e Rubin vi si era dovuto assoggettare.
Nemmeno una volta poi in tutto il giorno si era alzato, avvicinato alla finestra a
guardare la neve che al vento umido proveniente da ovest si faceva soffice e
grigia. Non aveva neppure sentito Šikin bussare e Smolosidov impedirgli di
entrare. Come avvolto nella nebbia, aveva visto Rojtman arrivare e andarsene,
gli aveva sibilato qualcosa fra i denti senza voltarsi. La coscienza non aveva
nemmeno percepito che era suonato l’intervallo del pranzo, poi di nuovo
quello del ritorno al lavoro. L’istinto da zek, per cui il rituale del pasto è sacro,
era stato risvegliato in lui a malapena da Rojtman che, scrollandolo per le
spalle, gli aveva indicato delle uova fritte, vareniki con la smetana e composta di
frutta su un tavolino a parte. Le narici di Rubin erano sussultate. Lo stupore gli
aveva allungato la faccia, ma la coscienza non si era manifestata in lui nemmeno
allora. Mentre osservava dubbioso quel cibo degli dèi, cercando di capirne di
preciso lo scopo, si era seduto laggiù e aveva cominciato a mangiare in fretta e
furia, senza sentirne il gusto, smanioso di tornare al lavoro il prima possibile.
Rubin non aveva apprezzato il cibo, eppure a Rojtman era costato più caro
che se l’avesse pagato di tasca propria: era “rimasto al telefono” per ben due
ore, concordando quella razione prima con la Sezione di Tecnica speciale, poi
con il generale Bul’banjuk, e ancora con la Direzione carceraria, con la Sezione
di Approvvigionamento e, infine, con il tenente colonnello Kliment’ev. Quelli
cui aveva telefonato, a propria volta, avevano discusso la questione con gli
uffici di contabilità e altri personaggi. Il problema era che Rubin riceveva il
pasto in base alla “terza” categoria dei detenuti, mentre per qualche giorno
Rojtman, visto l’incarico statale particolarmente importante, voleva fargli avere
la “prima” categoria, e per di più dietetica. Dopo gli accordi presi, la prigione
aveva mosso obiezioni organizzative: mancanza di prodotti richiesti al deposito
del carcere, mancanza di un ordine di pagamento al cuoco per la preparazione
del menù individuale.
Adesso Rojtman era seduto di fronte a Rubin e lo guardava, non come un
datore di lavoro in attesa dei frutti dell’opera del suo schiavo, ma con un
sorrisetto affettuoso, come se osservasse un bambinone, ammirandolo,
invidiandone lo slancio, cercando il momento adatto per cogliere il senso del
suo lavoro di mezza giornata e inserirsi anche in quello.
Rubin, invece, continuava a mangiare, e sul viso ammansito gli era tornata
un po’ di lucidità. Per la prima volta da quel mattino sorrise.
– Mi ha dato da mangiare per niente, Adam Veniaminovič. Satur venter non
studet libenter.168 Il viandante deve percorrere gran parte del viaggio prima della
sosta per il pranzo.
– Guardi l’orologio, Lev Grigor’ič! Sono le tre e un quarto!
– Cosa? Pensavo non fosse neanche mezzogiorno.
– Lev Grigor’ič! Sto morendo dalla curiosità, che cosa ha riscontrato?
Quella non solo non era la richiesta di un capo, ma era stata pronunciata in
tono supplichevole, come se Rojtman temesse che Rubin si rifiutasse di
informarlo. Quando Rojtman apriva l’anima, era molto gentile, e questo
malgrado la goffa apparenza, le labbra grasse sempre dischiuse a causa dei
polipi al naso.
– Sono solo all’inizio! Solo alle prime conclusioni, Adam Ve-niaminovič!
– E quali sarebbero?
– Su alcune si può discutere, ma una è indubbia: nella scienza della
fonoscopia, che è nata soltanto oggi, nonostante tutto c’è un germe di
razionalità!!
– Non si starà infervorando troppo, Lev Grigor’ič? – lo placò Rojtman.
Desiderava tanto quanto Rubin che le sue parole fossero corrette, ma da allievo
delle scienze esatte sapeva che in un umanitarista come lui l’entusiasmo poteva
prevalere sulla scrupolosità scientifica.
– E quand’è che mi sarei infervorato? – Rubin si era quasi offeso; si lisciò la
barba scarmigliata. – Il nostro lavoro di raccolta dati di due anni, tutte le analisi
sonore e sillabiche del linguaggio russo, lo studio dei fonoaspetti, la
classificazione delle voci, la teoria sull’uso nazionale, di gruppo e individuale
del linguaggio, ogni cosa che Anton Nikolaič considerava un mero
passatempo... e perché nasconderlo, a volte anche in lei si è insinuato il dubbio!
Tutto dà ora i frutti in una volta sola. Non sarà il caso di far venire anche
Neržin, eh?
– Se l’impresa dovesse allargarsi, nulla in contrario. Ma per il momento
dobbiamo dimostrare la nostra vitalità e completare il primo incarico.
– Il primo incarico! Quello è già metà di tutta la scienza! Non si può
svolgere in fretta.
– Ma... che dice, Lev Grigor’ič! Possibile che non vede con quanta urgenza
bisogna farlo?
Oh, altroché se lo vedeva! Il membro del Komsomol Lev Rubin era
cresciuto accompagnato da quelle parole: “bisogna” e “urgenza”. Erano gli
slogan supremi degli anni Trenta. Mancavano l’acciaio, la corrente, il pane, le
stoffe, ma bisognava fare tutto e farlo con urgenza, così si erigevano altiforni,
spuntavano laminatoi. Prima della guerra, poi, quando Rubin si era immerso
nel lento XVIII secolo, concedendosi bonarie ricerche erudite, l’appello del
“bisogna con urgenza!” non lo aveva abbandonato mai e lo intralciava
nell’abitudine di rifinire un lavoro fino in fondo.
In effetti, come si poteva non fare con urgenza, con il più grande traditore
dello Stato pronto a svignarsela?
Dalla finestra, ormai, stava entrando già poca luce diurna. Accesero la
lampada in alto, si sedettero al tavolo da lavoro, esaminarono i modelli segnati
sui nastri dei fonoaspetti con la matita rossa e blu, i suoni caratteristici, i giunti
consonantici, le linee di intonazione. Fecero tutto questo in due, senza prestare
attenzione a Smolosidov, che per tutto il giorno non era uscito dalla stanza
neanche un minuto, sedeva accanto al nastro magnetico a fargli la guardia come
un cupo cane nero e fissava loro la nuca, con uno sguardo pesante e
implacabile che premeva loro sul cranio e sul cervello. Smolosidov li privava di
un elemento minimo ma davvero importante: la spontaneità. Era stato
testimone di ogni loro esitazione e lo sarebbe stato anche del loro vivace
resoconto ai capi...
Rojtman e Rubin incappavano a turno uno nel dubbio, l’altro nella certezza,
e poi viceversa. A frenare Rojtman era il suo senso matematico, mentre a
trascinarlo oltre era la sua posizione ufficiale. A limitare Rubin era il desiderio
disinteressato di generare un’autentica nuova scienza, mentre a spingerlo in
avanti erano la pratica dei piani quinquennali e un senso del dovere legato al
partito.
Finì che entrambi ritennero sufficiente l’elenco di cinque sospettati. Non
esternarono ipotesi inutili sul fatto che avrebbero dovuto registrare al
magnetofono i quattro fermati alla stazione del metro Sokol’niki (del resto
erano stati fermati troppo tardi), e anche quelli tirati fuori dall’MGB e promessi,
in caso estremo, da Bul’banjuk. Respinsero poi da un punto di vista psicologico
l’ipotesi che a telefonare non fosse stata una persona informata dei fatti, ma
qualcuno per suo incarico.
Era già difficile occuparsi anche solo di quei cinque! Confrontarono a
orecchio le cinque voci con quella del criminale. Confrontarono i cinque nastri
dei fonoaspetti con quello del criminale.
– Vede quante cose ci fa capire l’analisi dei fonoaspetti? – gli mostrava
Rubin con foga. – Sente che all’inizio il criminale non parla con la stessa voce,
cerca di alterarla. Ma cos’è cambiato nel fonoaspetto? Si è spostata solo
l’intensità delle frequenze: l’uso individuale del linguaggio non è cambiato per
niente! Ecco la nostra principale scoperta: l’uso del linguaggio! Anche se il
criminale parlasse fino alla fine con la voce alterata, non potrebbe nascondere il
suo aspetto caratteristico!
– Ma noi sappiamo ancora poco riguardo ai limiti dell’alterazione delle voci
– si impuntava Rojtman. – Forse nelle micro-intonazioni ci sono margini più
ampi.
Se a orecchio era facile avere dubbi sui punti in cui la voce era somigliante o
differente, con i fonoaspetti il disegno si modificava in base all’ampiezza delle
frequenze e la disparità appariva più netta. (A dire il vero, il problema era la
grossolanità del loro apparecchio del linguaggio visibile: distingueva pochi
canali di frequenze e trasmetteva il valore dell’ampiezza usando tratti
indecifrabili. Aveva una scusante, però: non era stato concepito per quel lavoro
di responsabilità.)
Dei cinque sospettati si potevano escludere con assoluta certezza Zavarzin e
Sjagovityj (sempre che la futura scienza permettesse di trarre conclusioni da
una singola conversazione). Con qualche titubanza si poteva escludere anche
Petrov (l’esagitato Rubin lo escludeva con certezza). La voce di Volodin e
quella di Ševronok, invece, assomigliavano a quella del criminale per frequenza
del tono di base e coincidevano fonemi come: o, r, l, š, simili anche nell’uso
individuale del linguaggio.
Quelle voci potevano rappresentare la base per lo sviluppo della scienza
della fonoscopia e la ridefinizione dei suoi metodi. Solo analizzando le sottili
differenze fra loro si poteva elaborare un futuro apparecchio sensibile. Con
l’entusiasmo dei creatori, Rubin e Rojtman si abbandonarono contro lo
schienale. Con l’occhio della mente cominciarono a immaginare che un giorno
si sarebbe dato vita a un’organizzazione simile alla dattiloscopia, con un’unica
fonoteca dell’Urss, e fonoaspetti derivati dalle voci di tutti i sospettati.
Qualsiasi conversazione criminale sarebbe stata registrata, confrontata, e il
malfattore catturato senza esitazione, come un ladro che lasci le impronte sullo
sportello di una cassaforte.
In quel momento, però, dallo spiraglio della porta l’aiutante di Oskolupov
comunicò l’imminente arrivo del suo padrone.
Si ripresero entrambi. La scienza era scienza, ma per ora bisognava elaborare
un metodo generale e difenderlo amichevolmente davanti al capo della Sezione.
In sostanza, Rojtman considerava quanto ottenuto già molto. Sapendo che il
capo detestava le ipotesi e amava le certezze, la diede vinta a Rubin: fu
d’accordo a considerare la voce di Petrov libera da ogni sospetto e a riferire
con fermezza al generale di divisione che fra i sospettati erano rimasti solo

Š
Ševronok e Volodin, sui quali nei due giorni successivi andava condotta
un’indagine supplementare.
C’era però una circostanza che complicava le cose: dai dati ricevuti, proprio
due dei tre scartati, Sjagovityj e Petrov, non ne sapevano un fico secco di lingue
straniere; Ševronok conosceva l’inglese e l’olandese, Volodin il francese come
un madrelingua, l’inglese correntemente e un po’ d’italiano. Era poco probabile
che in un momento come quello, in cui la conversazione poteva interrompersi
a causa di un’incomprensione, a una persona non scappasse un’esclamazione in
una lingua a lei nota.
– Comunque, Lev Grigor’ič – disse Rojtman, con aria sognante – io e lei
non dobbiamo trascurare nemmeno l’aspetto psicologico. Bisogna immaginarsi
che tipo di uomo sia uno che decide di fare una telefonata del genere? Che cosa
può averlo spinto? E poi confrontarlo con i modelli concreti dei sospettati.
Bisognerà fare una richiesta perché d’ora in avanti forniscano a noi
fonoscopisti non solo la voce di un sospettato e il suo cognome, ma anche
brevi informazioni sulla sua posizione, la professione, lo stile di vita, magari
pure l’intera biografia. Già adesso potrei costruire un bello schizzo psicologico
sul nostro criminale...
Ma Rubin, che la sera prima aveva ribattuto al pittore che la conoscenza
oggettiva è libera da ogni sfumatura emotiva, adesso preferiva già uno dei due
sospettati e si espresse così:
– Adam Veniaminovič, io le considerazioni psicologiche, ovviamente, le
calcolavo già, e farebbero pendere il piatto della bilancia verso Volodin: nella
conversazione con la moglie... – (quella conversazione, senza che se ne rendesse
conto, aveva sviato e confuso Rubin: la voce della moglie di Volodin era così
melodiosa che l’aveva turbato e se ci fosse stata la possibilità di allegare
qualcosa al nastro, Lev avrebbe chiesto di ricevere una fotografia di quella
donna) – ...è davvero fiacco, sopraffatto, quasi apatico, cosa assolutamente
tipica in un criminale che ha il timore di essere braccato, mentre non c’è nulla
di simile nell’allegro cinguettare domenicale di Ševronok, in questo sono
d’accordo. Ma non saremmo affatto bravi se fin dai primi passi ci abituassimo
ad appoggiarci su considerazioni aliene invece che sui dati oggettivi della
nostra scienza. Ho già abbastanza esperienza di lavoro con i fonoaspetti, e mi
deve credere, da molti indizi impercettibili sono assolutamente certo che il
criminale è Ševronok. Solo per mancanza di tempo non ho potuto misurare
quegli indizi sul nastro con uno strumento e tradurli in cifre. – (Per quella cosa
a un filologo non sarebbe mai bastato il tempo!) – Ma se adesso mi afferrassero
per la gola e mi dicessero: fai un nome, solo uno e assicuraci che è lui,
indicherei quasi sicuramente Ševronok!
– Ma noi non faremo così, Lev Grigor’ič – obiettò con indulgenza Rojtman.
– Usiamo il misuratore, traduciamolo in cifre, e poi ne riparliamo.
– Ma in questo modo, quanto tempo perderemo?! Bisogna davvero agire con
urgenza!
– Non lo esige la verità?
– Ma guardi lei stesso, guardi! – ed esaminando di nuovo i nastri dei
fonoaspetti, scrollandoci sopra ancora e ancora della cenere, Rubin cominciò a
dimostrare con fare spavaldo la colpevolezza di Ševronok.
Il generale di divisione Oskolupov, che era appena entrato a passi lenti e
autoritari con le sue gambette corte, li trovò impegnati in quella cosa. Lo
conoscevano tutti bene e, già dal colbacco calcato in testa e dal labbro
superiore storto, si resero conto che era arrivato scontento.
Balzarono in piedi non appena lui si sedette su un angolo del divano, ficcò le
mani nelle tasche e, come fosse un ordine, borbottò:
– Ebbene!
Rubin per correttezza taceva, lasciando a Rojtman la possibilità di fare
rapporto.
Durante la relazione di Rojtman, la faccia dalle guance flosce di Oskolupov
fu travolta da pensieri profondi, le palpebre assonnate calarono un po’ e lui
non si alzò nemmeno a guardare sui nastri i modelli che gli venivano proposti.
Durante la relazione di Rojtman, Rubin si annoiava: nelle parole precise di
quell’uomo intelligente vedeva perdersi quella cura, quell’intuizione che lo
avevano guidato nell’indagine. Rojtman concluse che sospettavano di Ševronok
e Volodin, ma per un giudizio definitivo erano necessarie altre registrazioni
delle loro conversazioni. Dopodiché guardò Rubin e disse:
– Ma, forse, Lev Grigor’ič vuole aggiungere e correggere qualcosa...
Per Rubin Foma Oskolupov era un allocco, un allocco fatto e finito. Ma in
quel momento simboleggiava anche l’occhio dello Stato, era un rappresentante
del potere sovietico e un rappresentante involontario di tutte quelle forze
progressiste per le quali Rubin dava tutto sé stesso. Per questo, mentre parlava,
scrollando i nastri e gli album dei fonoaspetti, Lev si lasciò prendere
dall’agitazione. Chiese al generale di capire che, sebbene la conclusione fornita
al momento fosse duplice, nella scienza della fonoscopia una tale duplicità non
poteva esistere, era stato soltanto troppo breve il tempo concesso per emettere
un giudizio definitivo, servivano ancora altre registrazioni magnetiche, ma se si
parlava di un’intuizione personale, allora lui, Rubin...
Il capo non ascoltava più con aria assonnata, si era accigliato, era infastidito.
Lo interruppe senza attendere la fine della spiegazione.
– Il futuro lo predice una vecchia coi fagioli! Sai che me ne faccio della
vostra ‘scienza’! Ho un criminale da catturare. Fate rapporto in modo
responsabile: il criminale è qui, sul tavolo, giusto? Non è uno che se ne va in
giro libero? È uno di questi cinque?
Li guardò in tralice. Se ne stavano lì davanti a lui, senza appoggiarsi a niente.
I nastri di carta scivolarono dalle mani abbassate di Rubin, cadendo sul
pavimento. Come un drago nero, Smolosidov si era accovacciato vicino al
magnetofono alle loro spalle.
Rubin esitò. Non si aspettava di dover parlare da quel punto di vista.
Rojtman, più abituato alle maniere del capo, disse nel modo più audace
possibile:
– Sì, Foma Gur’janovič. Io veramente... noi veramente... Siamo sicuri che sia
fra questi cinque.
(E che altro poteva dire?)
Foma socchiuse ulteriormente un occhio.
– Vi prendete la responsabilità di queste parole?
– Sì, noi... Sì... ce la prendiamo...
Oskolupov si alzò, pesante, dal divano.
– Badate bene, non vi ho cavato io le parole di bocca. Adesso andrò dal
ministro a riferire. Arresteremo entrambi quei figli di cane!
(Lo disse guardandoli con aria ostile, come se stessero per arrestare anche
loro due.)
– Aspetti – ribatté Rubin. – Ci conceda ancora ventiquattr’ore! Ci dia la
possibilità di fornire le basi di una prova completa!
– Quando l’istruttoria avrà inizio, potrete piazzare un microfono sul tavolo
dell’inquirente e registrarli anche per tre ore.
– Ma uno dei due sarà innocente! – esclamò Rubin.
– Come innocente? – si meravigliò Oskolupov, sgranando gli occhi verdi. –
Innocente in tutto? Gli organi troveranno senz’altro qualcosa, sapranno
intervenire.
E uscì, senza rivolgere neanche una parola gentile agli addetti della nuova
scienza.
Lo stile di comando di Oskolupov era quello: non lodare mai nessuno dei
suoi sottoposti in modo che si sforzassero di più. Non era uno stile suo
personale, gli arrivava da Lui.
Tuttavia, era un peccato.
Si sedettero sulle stesse sedie su cui poco prima sognavano un grande futuro
per quella scienza in procinto di nascere. E tacquero.
Era come se qualcuno avesse calpestato tutto ciò che avevano costruito in
modo tanto sottile e fragile. Come se la fonoscopia fosse assolutamente inutile.
Se al posto di uno se ne potevano arrestare due, allora perché, per sicurezza,
non li arrestavano tutti e cinque?
Rojtman sentì forte e chiaro quanto il nuovo gruppo fosse precario, si
ricordò che metà dell’Acustico era stato cacciato e la sensazione di squallore e
solitudine provata quella notte tornò a fargli visita.
In Rubin, invece, tutto l’impeto carico di abnegazione di ore e ore si era
spento. Gli tornò in mente che gli faceva male il fegato, perdeva i capelli, la
moglie stava invecchiando, a lui sarebbe toccato rimanere dentro ancora più di
cinque anni, e ogni anno che passava quei maledetti funzionari di partito
affondavano la rivoluzione sempre di più in una palude, e adesso avevano
screditato pure la Jugoslavia.
Ma non si dicevano quello che stavano pensando, rimanevano solo lì seduti,
in silenzio.
Anche Smolosidov, dietro le loro nuche, taceva.
Sul muro era appesa la cartina della Cina che Rubin aveva appuntato, il
territorio comunista colorato con la matita rossa.
Solo quella cartina gli ridava coraggio. Nonostante tutto, nonostante tutto
vinceremo.
Qualcuno bussò alla porta e chiamò Rojtman. Stava per cominciare la
lezione di Educazione politica per quelli del partito e del Komsomol,
bisognava spingere i sottoposti a partecipare e doveva presenziare anche lui.

168 Il ventre pieno fa la testa vuota (latino).


88
IL MATERIALISMO DIALETTICO:
UNA CONCEZIONE DEL MONDO AVANZATA

Il lunedì era il giorno riservato dal Comitato Centrale del partito alle lezioni di
Educazione politica non solo alla šaraška di Marfino, ma in tutta l’Unione
Sovietica. In quella giornata anche gli allievi delle ultime classi, le casalinghe
delle cooperative per la locazione, i veterani della rivoluzione e gli accademici
canuti sedevano dietro i banchi dalle sei alle otto della sera e sfogliavano i loro
appunti preparati la domenica (su desiderio irrevocabile del Capo si esigevano
dai cittadini non solo risposte imparate a memoria, ma anche appunti scritti
obbligatoriamente di proprio pugno).
Veniva analizzata in modo molto approfondito la Storia del Partito di
Nuovo Tipo. Ogni anno, dal 1° ottobre, si studiavano gli errori dei populisti,
gli errori di Plechanov e la lotta di Lenin e Stalin contro l’economicismo, il
marxismo legale, l’opportunismo, il codismo, il revisionismo, l’anarchismo,
l’otzovismo, il liquidatorismo, la “ricerca di dio” e la mancanza di spina dorsale
degli intellettuali. Senza lesinare sul tempo, si spiegavano paragrafi dello
statuto del partito adottati cinquant’anni prima (e cambiati da un pezzo), e la
differenza fra la vecchia “Iskra” e la nuova “Iskra”169, un passo avanti, due
indietro170, la Domenica di sangue, finché non si arrivava al celebre Quarto
Capitolo del Breve corso, in cui si stabilivano le basi filosofiche dell’ideologia
comunista, e chissà perché lì tutti i circoli si impantanavano ingloriosamente.
Siccome non si poteva dare la colpa a difetti o confusioni nel materialismo
dialettico o incertezze nell’esposizione dell’autore (il capitolo era stato scritto
dal miglior Allievo e Amico di Lenin), le uniche motivazioni dovevano essere
la difficoltà del pensiero dialettico per le oscure e arretrate masse e l’inevitabile
arrivo della primavera. A maggio, nel pieno dello studio del Quarto Capitolo, i
lavoratori si facevano esentare con il fatto che andavano a sottoscrivere il
prestito di Stato, e le lezioni di Educazione politica si interrompevano.
Quando a ottobre i circoli si riunivano di nuovo, bisognava tener presente
che, nonostante l’intrepido desiderio esplicito del Grande Timoniere che si
passasse al più presto alla scottante contemporaneità, alle sue mancanze e
contraddizioni propulsive, durante l’estate i lavoratori avevano dimenticato
completamente il materiale, il Quarto Capitolo non era finito, e i propagandisti
erano costretti a ricominciare con gli errori dei populisti, quelli di Plechanov, la
lotta all’economicismo e al marxismo legale.
Così succedeva dappertutto ogni anno, anno dopo anno. La lezione di quel
giorno a Marfino, intitolata “Il materialismo dialettico: una concezione del
mondo avanzata”, doveva essere particolarmente significativa, davvero
interessante, perché sviscerava il Quarto Capitolo, toccava la tanto geniale
opera di Lenin Materialismo ed empiriocriticismo e, interrompendo quel circolo
vizioso, lanciava finalmente i circoli del partito e del Komsomol di Marfino
sulla strada maestra della contemporaneità: lavoro e lotta del nostro partito nel
periodo della prima guerra imperialistica e preparativi della rivoluzione di
febbraio.
Ad allettare i liberi di Marfino era anche il fatto che a quella lezione non
servivano gli appunti (chi li aveva già scritti, poteva rimandarli al lunedì
successivo, chi li doveva ancora ricopiare poteva farlo anche in seguito). A
tenere la lezione, poi, non sarebbe stato un propagandista qualunque, ma
Rachmankul Šamsetdinov, un relatore del comitato regionale del partito.
Girando per i laboratori prima di pranzo, Stepanov aveva avvertito tutti che il
relatore, a quanto dicevano, era uno che leggeva con passione. (Una circostanza
sul relatore, però, non la conosceva nemmeno Stepanov: Šamsetdinov era un
caro amico di Mamulov, non il Mamulov della segreteria di Berija, un altro, suo
fratello, il capo del campo di lavoro di Chovrino presso la fabbrica d’armi.
Quel Mamulov aveva messo in piedi per sé un teatrino di servi formato da ex
artisti moscoviti ora detenuti, che intrattenevano lui e i suoi compagni di svago
assieme a ragazze prelevate di proposito dalla prigione di transito di Krasnaja
Presnja. La vicinanza ai due Mamulov era anche il motivo del rispetto che il
comitato regionale del partito di Mosca nutriva nei confronti di Šamsetdinov,
ragion per cui quel relatore si permetteva anche l’audacia di non leggere parola
per parola da testi preparati in anticipo, ma di abbandonarsi all’ispirazione
dell’arte oratoria.)
Eppure, nonostante lo scrupoloso annuncio della lezione, e malgrado tutta
la sua attrattiva, i liberi di Marfino vi si trascinavano pigri e con le scuse più
disparate cercavano di trattenersi nei laboratori. Siccome doveva restare
almeno un libero per ciascun laboratorio – non si potevano lasciare gli zek
senza sorveglianza! – il capo del Vuoto, che di solito non faceva mai niente,
all’improvviso aveva annunciato di avere questioni urgenti che esigevano la sua
presenza al laboratorio e aveva mandato a lezione le sue ragazze, Tamara e
Klara. Lo stesso aveva fatto il vice di Rojtman all’Acustico: nel laboratorio
c’era rimasto lui e aveva ordinato a Simočka di andare ad assistere alla lezione.
Nemmeno il maggiore Šikin era venuto, ma la sua attività era così avvolta nel
mistero che nemmeno il partito avrebbe potuto controllare.
Alla fine quelli che c’erano andati avevano fatto tardi e per un falso senso di
autoconservazione avevano cercato di occupare le ultime file.
Per le riunioni e le lezioni l’istituto aveva predisposto una stanza speciale.
Un buon numero di sedie, poi unite e incollate per sempre su uno staggio a
gruppi di otto, era stato trasferito lì in via definitiva. (Il comandante aveva
adottato quella misura per evitare che le sedie venissero portate in giro per
tutto l’impianto.) Le file erano posizionate vicine a causa delle dimensioni
ridotte della stanza, al punto che le ginocchia di quelli seduti dietro premevano
dolorosamente contro lo staggio della fila davanti. Per questo chi arrivava
prima cercava di spostare la propria fila indietro in modo da avere più spazio
per le gambe. Quello era motivo di opposizione, scherzo e risate fra i giovani
seduti in file diverse. Grazie agli sforzi di Stepanov e dei messi da lui inviati,
verso le sei e un quarto le file, dall’ultima fino a quella davanti, si erano
riempite tutte tranne la seconda e la terza, così schiacciate alla prima da rendere
impossibile a chiunque di prendervi posto.
– Compagni! Compagni! È una vergogna! – spronava Stepanov quelli che si
erano attardati, luccicando attraverso i plumbei occhiali. – State facendo
aspettare il relatore del comitato regionale del partito! – (Il relatore, per non
screditarsi, attendeva nell’ufficio di Stepanov.)
Rojtman entrò nella saletta per penultimo. Non trovando altro posto – le
sedie erano tutte occupate da giubbe verdi, con qualche abito da donna
disseminato qua e là – si diresse alla prima fila e si sedette al margine sinistro,
con le ginocchia che sfioravano quasi il tavolo dei relatori. Poi Stepanov andò a
prendere Jakonov: anche se non era un membro del partito, a una lezione tanto
importante doveva assistere, era suo interesse presenziare. Jakonov trotterellò
vicino alla parete, trascinando un po’ ingobbito il corpo corpulento accanto alle
persone che in quell’istante non erano più suoi subordinati ma un collettivo del
partito e del Komsomol. Non trovando posto libero in fondo, si diresse verso
la prima fila, dove si sedette al margine destro, anche lì in opposizione a
Rojtman.
Dopodiché Stepanov fece entrare il relatore. Si trattava di un omone con le
spalle larghe, la testa grossa e un rigoglioso cespuglio ribelle di capelli scuri
spruzzati di cenere. Si muoveva in modo estremamente naturale, come se
avesse fatto un salto in quella stanza solo per bersi un boccale di birra con
Stepanov. Indossava un completo di lana chiaro, sgualcito qua e là e portato
con straordinaria semplicità, e una cravatta variopinta, con un nodo grosso
quanto un pugno. In mano non aveva né un quaderno né il testo del discorso
preparato; andò direttamente al punto:
– Compagni! A ciascuno di noi interessa capire il mondo che ci circonda.
Rivolto verso l’uditorio, si piegò con decisione sopra il tavolo dei relatori, su
cui era stesa una tela di cotone rosso piena di slogan; poi tacque. Gli altri
rimasero tutti in attesa. Il relatore sembrava sul punto di spiegare in due parole
il mondo circostante. Ma si tirò indietro bruscamente, quasi gli avessero dato
da annusare una soluzione d’ammoniaca, e indignato esclamò:
– Molti filosofi hanno cercato di rispondere a questa domanda! Ma nessuno
prima di Marx c’è riuscito! Perché la metafisica non riconosce i cambiamenti
qualitativi! Naturalmente, – con due dita estrasse dalla tasca un orologio d’oro
– esporvi tutto questo in un’ora e mezza non sarà facile, ma – nascose
l’orologio – ci proverò.
Stepanov, che si trovava seduto a un’estremità del tavolo dei relatori, con il
viso rivolto al pubblico, intervenne:
– Potrebbe durare anche di più. Ne saremmo molto felici.
Alcune ragazze sentirono un peso sul cuore (quel giorno dovevano correre
al cinema).
Ma il relatore, allargando le braccia con aria nobile, fece capire che sopra
aveva anche lui un capo.
– Il tempo è prefissato! – disse, zittendo Stepanov. – Che cosa ha aiutato,
dunque, Marx ed Engels a fornire un giusto quadro della natura e della società?
Quel sistema filosofico da loro elaborato in modo geniale, e proseguito da
Lenin e Stalin, che prende il nome di materialismo dialettico. La prima parte
del materialismo dialettico è la dialettica materialista. Definirò in poche parole i
suoi principi di base. È d’uso ricollegarsi al filosofo prussiano Hegel come se
sia stato lui a formulare i tratti distintivi della dialettica. Ma questo, compagni,
non è vero, non è assolutamente vero! La dialettica, Hegel ce l’ha fra le nuvole,
questo è indubbio! Marx ed Engels, invece, ce l’hanno ben piantata a terra, ne
hanno estratto un germe di razionalità e hanno buttato via la buccia ideologica!
Il metodo dialettico marxista è il nemico! Il nemico di ogni stagnazione, ogni
metafisica e ogni oscurantismo clericale! La dialettica possiede in tutto quattro
tratti distintivi. Il primo è ciò che... è la correlazione! La correlazione, e non si
tratta di un insieme di oggetti isolati. La natura e la società non sono... come
dirlo in modo più chiaro?... non sono un negozio di mobili dove questo si
mette qua, quello là, e di collegamenti non ce ne sono. Nella natura è tutto
collegato, tutto, e questo, ricordatelo bene, vi sarà di grande aiuto nelle vostre
ricerche scientifiche!
In particolare, si trovavano in posizione vantaggiosa quelli che non si erano
presi dieci minuti extra, erano venuti prima e adesso sedevano dietro. Stepanov,
gli occhiali che luccicavano severi, non arrivava con lo sguardo fino alle file
posteriori. Laggiù un tenente alto e prestante aveva scritto un biglietto e lo
aveva fatto passare fino a Tonja, la giovane tatara dell’Acustico, anche lei
tenente, che sopra a un abito scuro indossava un golfino di lana importato
color vermiglio. Tonja si rigirò il biglietto sulle ginocchia e si nascose dietro il
tizio che gli sedeva davanti. Una ciocca nera le cadde sugli occhi, rendendola
ancora più affascinante. Nel leggere il biglietto, arrossì appena, poi chiese ai
vicini se avevano una matita o una stilografica.
– ...Be’, anche il numero degli esempi si può ampliare... Il secondo tratto
distintivo della dialettica è che tutto si muove. Tutto. La calma non esiste, non
c’è mai stata, questo è un fatto! La scienza deve studiare ogni cosa in
movimento, nel suo sviluppo, ma dobbiamo anche stamparci bene in testa che
non si tratta di un movimento dentro un circolo chiuso, altrimenti la somma
vita contemporanea non sarebbe comparsa. Procede lungo una scala a
chiocciola, non serve che ve lo dimostri, va su, su in questo modo...
Mostrò come procedeva, agitando liberamente le mani. Non si imbarazzava
né della scelta delle parole né dei movimenti del corpo. Spostando le sedie
vuote del tavolo dei relatori, si era creato tre metri quadrati di spazio, ci
camminava avanti e indietro, sbattendo i piedi, si dondolava appoggiato allo
schienale di una sedia, fragile sotto il suo tronco robusto. Pronunciava le parole
“indubbio” e “non serve che ve lo dimostri” con voce particolarmente tonante,
categorica, come uno che inciti all’ammutinamento da un ponte di comando, e
le diceva non in punti a caso, ma là dove serviva rinforzare in modo particolare
prove già di per sé chiare.
– Il terzo tratto distintivo della dialettica è il passaggio dalla quantità alla
qualità. È un tratto molto importante che ci aiuta a capire che cos’è lo
sviluppo. Non pensate che lo sviluppo sia un semplice accrescimento. Qui
prima di tutto bisogna fare riferimento a Darwin. Engels ci spiega questo tratto
con esempi scientifici. Prendete un po’ d’acqua, mettiamo pure quella
contenuta in questa caraffa, sarà sui diciotto gradi: è semplice acqua. Ora
riscaldatela fino a trenta gradi, continuerà comunque a essere acqua. Arrivate
fino a ottanta gradi, sarà ancora acqua. E se raggiungeste cento gradi? Che cosa
diventerebbe allora? Vapore!!
A quel grido trionfante del relatore, gli altri sussultarono.
– Vapore! Ma si può creare anche il ghiaccio! Cosa rappresenta tutto questo?
Il passaggio dalla quantità alla qualità! Leggetevi La dialettica della natura di
Engels, è piena di altri esempi del genere. E adesso, a quanto dicono, la nostra
scienza sovietica ha scoperto che si può trasformare in liquido anche l’aria.
Come mai cento anni fa non c’erano arrivati? Perché non conoscevano la legge
sul passaggio dalla quantità alla qualità! E così in tutto, compagni! Vi farò
esempi sullo sviluppo della società...
Con o senza relatori, Adam Rojtman sapeva bene che il diamat171 a uno
studioso serviva come l’aria, che senza, tra i fenomeni della vita, non ci si
poteva orientare. Ma quando si sedeva alle riunioni, ai seminari e alle lezioni
come quel giorno, sentiva quasi fisicamente il cervello girare piano, caricarsi
male. Cercava di resistere ma finiva per arrendersi a quelle spire serranti, come
una persona spossata che cede al sonno. Avrebbe voluto distrarsi. Avrebbe
potuto tirar fuori mirabolanti esempi dalla struttura dell’atomo, dalla
meccanica delle onde. Ma non avrebbe mai osato prendersi la responsabilità di
interrompere o dare consigli a un compagno del comitato regionale. Guardava
solo, disapprovando, con i suoi occhi a mandorla attraverso gli occhiali
anastigmatici, il relatore, che agitava le mani non lontano dalla sua testa.
La voce del relatore tuonava:
– Dunque, il passaggio dalla quantità alla qualità può avvenire con
un’esplosione, ma anche con un’evoluzione, questo è un fatto! Perché avvenga
uno sviluppo non è obbligatoria per forza un’esplosione. La nostra società
socialista si sta sviluppando e si svilupperà anche senza esplosioni, questo è
indubbio! Ma gli apostati del socialismo, i suoi traditori, i socialisti di destra di
ogni fattispecie imbrogliano il popolo senza vergogna, quando dicono che si
può passare anche dal capitalismo al socialismo senza uno scoppio. Com’è
possibile senza uno scoppio?! Quindi senza una rivoluzione? Senza uno
stravolgimento della macchina statale? Con un percorso parlamentare? Certe
favole le raccontino pure ai bambini, ma non ai marxisti adulti! Lenin ci ha
insegnato, e il geniale teorico compagno Stalin ci insegna ancora, che la
borghesia non rinuncerà mai al potere senza la lotta armata!!
Quando il relatore sollevava di colpo la testa, i capelli arruffati gli
ballonzolavano. Si soffiò il naso con un grosso fazzoletto orlato d’azzurro e
controllò l’orologio, ma non aveva lo sguardo supplichevole di un
conferenziere che non sta nei tempi, era perplesso; dopodiché se lo portò
all’orecchio.
– Il quarto tratto distintivo della dialettica – gridò al punto che alcuni
sussultarono di nuovo – è... la contraddizione! La contrapposizione! L’obsoleto
e il nuovo, il negativo e il positivo! È dappertutto, compagni, non è un segreto!
Si possono trarre esempi scientifici anche dall’elettricità! Se si strofina il vetro
contro la seta, quello sarà positivo, ma se lo si strofina contro la pelliccia,
diventerà negativo! Solo la loro unione, la loro sintesi darà energia alla nostra
industria. E per avere altri esempi non serve andare lontano, compagni, ce n’è
dappertutto: il caldo è positivo, il freddo negativo, e nella vita pubblica notiamo
quello stesso irriducibile assortimento di positivi e negativi. Come vedete, il
diamat ha assorbito tutto il meglio raggiunto dalla branca della scienza. Le
contraddizioni interne allo sviluppo scoperte dai padri del marxismo non erano
solo presenti nella natura morta, ma rappresentavano anche la forza motrice
fondamentale di tutte le formazioni, dalla fase primitiva del comunismo
all’imperialismo, che imputridisce davanti ai nostri occhi! Solo nella nostra
società senza classi, indubbiamente, sono forza motrice non le contraddizioni
interne, ma la critica e l’autocritica, e non guardano in faccia a nessuno.
Il relatore sbadigliò senza riuscire a coprirsi la bocca in tempo.
All’improvviso si incupì, sul viso gli comparve qualche ruga verticale e la
mandibola gli tremò in una convulsione repressa. Con un tono di grande
stanchezza del tutto nuovo, lì in piedi, si sforzò di dire:
– Oppositori e capitolardi di tendenza bucharinista ci diffamavamo
spudoratamente dicendo che abbiamo attriti di classe ma...
Fu sopraffatto dalla stanchezza, batté le palpebre, si lasciò cadere sulla sedia
e finì la frase con grande indolenza, piano:
– ...il nostro Comitato Centrale vi si è opposto strenuamente.
E per l’altra metà della lezione proseguì allo stesso modo. Sembrava che un
dolore interno, all’improvviso, gli avesse sottratto le forze o fatto perdere ogni
speranza che quella maledetta ora e mezza di lezione finisse una buona volta.
Parlava con voce lugubre, arrivando fin quasi a sussurrare, come se tutto si
fosse messo contro di lui e contro chi lo stava ascoltando. Neanche si fosse
cacciato in un labirinto e non ne vedesse l’uscita:
– Solo la materia è assoluta, mentre tutte le leggi della scienza sono relative...
Solo la materia è assoluta, mentre ogni singolo aspetto della materia è relativo...
Non esiste ni-en-te di assoluto a parte la materia, e il movimento è il suo
attributo eterno... Il movimento è assoluto, la calma è relativa... Di verità
assolute non ce ne sono, ogni verità è relativa... Il concetto di bellezza è
relativo... I concetti di bene e male sono relativi...
Ascoltasse la lezione o meno, in Stepanov, che se ne stava seduto rigido sulla
sedia a mandare occhiate luccicanti al pubblico, tutto esprimeva la
consapevolezza dell’importanza dell’iniziativa politica realizzata e la posata
solennità che un fatto culturale di tale portata stesse avendo luogo fra le mura
di Marfino.
Jakonov e Rojtman ascoltavano il relatore per forza, essendo seduti così
vicino. C’era anche una ragazza in quarta fila tutta sporta in avanti, con un
abito di spugna e le guance un po’ arrossate. Le era venuto il desiderio
ambizioso di porre al relatore una domanda, ma non riusciva a farsene venire
in mente una.
Guardava con attenzione il relatore anche Klykačëv, la cui testa stretta e
oblunga sporgeva dal folto delle uniformi lì sedute. Ma nemmeno lui ascoltava:
teneva a sua volta lezioni di Educazione politica e sapeva farlo anche meglio di
così, conosceva bene i materiali didattici con cui era stato preparato
l’intervento di quel giorno. Klykačëv stava studiando il relatore semplicemente
per noia: prima si era messo a calcolare quanto quello doveva intascarsi al
mese, poi aveva cercato di stabilire la sua età e il suo stile di vita. Doveva essere
sulla quarantina, ma per i capelli brizzolati, l’irregolarità del viso, il naso pieno
e violaceo, gli davano più di cinquant’anni o dicevano di lui che dalla vita si era
preso troppo e quella ora gli mandava il conto.
Tutti gli altri non ascoltavano proprio. Tonja e il tenente alto si mandavano
bigliettini e avevano già usato quattro fogli di taccuino, mentre un altro tenente
e Tamara erano impegnati in un gioco avvincente: lui le prendeva prima un
dito, poi un altro e infine tutta la mano, con l’altra lei gli mollava una sberla e
se la liberava. Poi tutto ripartiva da capo. Erano rapiti da quel gioco, ma con
una furbizia da scolaretti si sforzavano di mantenere un’espressione seria sul
viso, l’unica cosa visibile a Stepanov. Il capo del Quarto gruppo stava
disegnando per il capo del Primo gruppo (sempre sulle ginocchia,
nascondendosi da Stepanov) un pezzo che pensava di aggiungere al circuito su
cui stava lavorando.
La voce del relatore, però, giungeva a tratti comunque a tutti: Klara
Makarygina, con un abito tinta unita di un blu acceso, si era appoggiata
comodamente allo schienale della sedia davanti e nascondeva il viso fra le
braccia incrociate. Se ne stava lì seduta cieca e sorda a tutto ciò che accadeva in
quella stanza, vagava nella nebbia rosa scuro che compare dietro le palpebre
serrate con forza. Un misto di gioia, confusione e ansia non la abbandonava dal
bacio di Rus’ka della sera prima. Tutto si era inestricabilmente ingarbugliato.
Perché Erik era entrato nella sua vita? Doveva metterlo da parte? Come poteva
ora non aspettare Rus’ka? E come aspettarlo? Come restare nel suo stesso
gruppo, incontrare il suo sguardo e parlare di nuovo con lui? Doveva farsi
spostare in un altro gruppo? E se l’ingegner colonnello aveva deciso di
trasferire Rostislav? Aveva chiamato Rus’ka due ore prima e lui non era ancora
tornato. Per Klara era stato più semplice non vederlo prima di Educazione
politica, così era corsa di buon grado a lezione rimandando il loro incontro.
Tuttavia, quella sera una spiegazione tra loro era inevitabile. Quando se n’era
andato, si era girato sulla soglia e le aveva rivolto uno sguardo d’accusa
insostenibile. In effetti, quanto doveva essergli sembrato vigliacco ieri fargli
promesse e oggi...
(Non sapeva che non si sarebbero mai più incontrati in vita loro: Rus’ka era
stato arrestato e condotto in un box piccolo e stretto al comando del carcere.
Intanto, al Vuoto, in quello stesso istante, il maggiore Šikin stava forzando e
perquisendo la scrivania di Rus’ka alla presenza del capo del laboratorio.)
Al relatore tornarono le forze. Si riebbe, si rialzò in piedi e, agitando il
grosso pugno, sferzò senza difficoltà la misera logica formale, frutto di
Aristotele e della scolastica medievale, che cadeva sotto l’assalto della dialettica
marxista.
Proprio a Marfino arrivavano le riviste americane più recenti, da poco Rubin
le aveva tradotte a tutto l’Acustico e oltre a Rojtman anche altri ufficiali
avevano letto della nuova scienza della cibernetica. Si basava interamente sulla
tanto bistrattata logica formale: “sì” è sì, “no” è no, una terza risposta non c’è
data. L’“algebra a due valori” di George Boole è dello stesso anno del Manifesto
comunista, solo che nessuno l’aveva notata.
– La seconda parte del materialismo dialettico è il materialismo filosofico –
rombò il relatore. – Il materialismo è cresciuto nella lotta alla filosofia
reazionaria dell’idealismo, il cui fondatore è Platone e successivamente ha
avuto fra i suoi esponenti più rappresentativi il vescovo Berkeley, Mach,
Avenarius, Juškevič e Valentinov172.
Jakonov gemette forte, tanto che tutti si girarono dalla sua parte. Allora fece
una smorfia di dolore e si toccò un fianco. L’unico lì cui avrebbe potuto
confidare i suoi pensieri era Rojtman, con il quale tuttavia non era proprio
possibile parlare. Rimase seduto con il viso remissivamente attento. Proprio
con quello doveva sprecare l’ultimo mese concesso!
– Non c’è bisogno di dimostrare che la materia è la sostanza di tutto ciò che
esiste! – tuonava il relatore. – La materia è ineliminabile, questo è indubbio! E
si può dimostrare scientificamente. Per esempio, piantiamo un chicco nella
terra: è davvero scomparso? No! Si è trasformato in una pianta, in decine di
chicchi come quello. Ho un po’ d’acqua, evapora al sole. Dunque è scomparsa?
Naturalmente no!!
L’acqua si è trasformata in nube, in vapore! Eh già! Solo un vile servo della
borghesia, un principe dei leccapiedi dell’oscurantismo clericale come il fisico
Ostwald poteva avere l’insolenza di dichiarare “la materia è scomparsa”. Ma è
ridicolo, lo sanno tutti! Il geniale Lenin nella sua opera immortale Materialismo
ed empiriocriticismo, basandosi su una concezione del mondo avanzata, confutò
Ostwald e lo cacciò in un vicolo cieco dal quale non ebbe più via d’uscita!
Jakonov pensò: sarebbe bello ficcare un centinaio di relatori così su queste
sedie strette, obbligarli ad assistere a una lezione sulla teoria di Einstein e
lasciarli senza cena finché le loro pigre teste ottuse non saranno in grado di
scoprire dove vanno a finire quattro milioni di tonnellate di materia solare in
un secondo!
Ma intanto stavano lasciando lui senza cena. Che tormento! Gli dava forza
solo una speranza, che presto sarebbe finita.
Quella speranza dava forza a tutti, perché erano arrivati lì da casa in tram, in
autobus, con l’električka, chi alle otto, chi alle sette del mattino, e ora non si
aspettavano di rientrare prima delle otto e mezza.
Ma più intensamente di loro aspettava la fine della lezione Simočka, anche se
sarebbe rimasta di turno e non doveva correre a casa. Timore e attesa
montavano e calavano in lei come onde calde, le gambe erano paralizzate come
sotto l’effetto dello champagne. Era la sera del lunedì, quella promessa a Gleb.
Non poteva permettere che quel momento di vita importante e solenne
avvenisse all’improvviso, in fretta e furia, ragion per cui due giorni prima non
si era sentita pronta. Per tutta la giornata di ieri e mezza di oggi, invece, si era
comportata come prima di una festa importante. Era andata dalla sarta a farle
premura perché le finisse un vestito nuovo che a Simočka stava molto bene. A
casa si era lavata con grande cura nella tinozza stretta nello spazio angusto
della stanza di Mosca. Prima di coricarsi si era arricciata a lungo i capelli, per
poi guardarsi allo specchio girando la testa in varie posizioni, cercando di
convincersi che poteva piacere davvero.
Avrebbe dovuto vedere Neržin alle tre del pomeriggio, subito dopo
l’intervallo del pranzo, ma Gleb, violando apertamente le regole dei detenuti
(l’avrebbe rimproverato oggi per quello! Doveva badare di più a sé stesso!) si
era attardato. Nel frattempo Simocka era stata mandata a lungo in un altro
gruppo a trascrivere e prendere in consegna apparecchi e componenti, era
tornata all’Acustico poco prima delle sei e lo aveva mancato di nuovo,
nonostante la sua scrivania fosse stracolma di riviste e fascicoli, e la lampada
accesa. Così se n’era andata a lezione senza né vederlo né sospettare la terribile
notizia che il giorno prima, dopo un anno di pausa, inaspettatamente, Gleb era
stato a colloquio con la moglie.
Adesso, con le guance arrossate e il vestito nuovo, era seduta a lezione e
fissava con terrore le lancette del grande orologio elettrico. Poco dopo le otto
lei e Gleb probabilmente sarebbero rimasti da soli... Era così minuta che in
quelle file strette sedeva comoda e per colpa dei vicini che la nascondevano la
sua sedia da lontano sembrava quasi vuota.
Il ritmo del discorso del relatore accelerò sensibilmente, come quando
un’orchestra esegue le ultime battute di un valzer o di una polka. Se ne
accorsero tutti e si rianimarono. Pensieri alati, avvicendandosi fra loro in fretta
e furia, sfrecciavano sopra la testa degli ascoltatori mischiati a schiumosi
schizzi di saliva.
– La teoria diventa la forza materiale... Tre caratteristiche del materialismo...
Due particolarità della produzione... Cinque tipi di rapporti produttivi... Il
passaggio al socialismo non è possibile senza la dittatura del proletariato... Un
balzo nel regno della libertà... I sociologi borghesi lo capiscono bene... La forza
e la vitalità del marxismo-leninismo... Il compagno Stalin ha portato il
materialismo dialettico a un nuovo livello ancora più elevato!... Di quella teoria,
ciò che Lenin non ha fatto in tempo a fare l’ha fatto il compagno Stalin!... Il
trionfo della Grande guerra patriottica... Risultati incoraggianti... Prospettive
sconfinate... Il nostro saggio, geniale... il nostro grande... il nostro caro...
E sotto uno scroscio di applausi guardò l’orologio da tasca. Erano le otto
meno un quarto. Del tempo previsto per l’intervento restava una piccola coda.
– Per caso, ci sono domande? – domandò il relatore in tono un po’
minaccioso.
– Sì, se posso... – disse la ragazza con l’abito di spugna della quarta fila,
arrossendo. Si alzò e, agitata perché tutti la stavano guardando e ascoltando,
domandò:
– Lei ha detto che i sociologi borghesi questo lo capiscono. E in effetti è
tutto così chiaro, così convincente... Ma allora perché sui loro libri scrivono il
contrario? Vuol dire che imbrogliano la gente di proposito?
– Perché non gli conviene dire altrimenti! Li pagano un sacco di soldi! Li
comprano con i profitti extra spremuti alle colonie! Il loro studio si chiama
pragmatismo, che in russo si traduce in: ciò che conviene è anche logico. Sono
tutti truffatori, sgualdrine politiche!
– Tutti tutti? – chiese la ragazza, inorridita, con voce stridula.
– Fino all’ultimo!! – concluse il relatore, risoluto, scuotendo la testa arruffata
color cenere.

169 La vecchia “Iskra” era quella di Lenin, dei bolscevichi; la nuova “Iskra” quella dei menscevichi, che a
partire dal 1903, anno in cui Lenin abbandonò il comitato di redazione, la trasformarono nel loro organo
di stampa.
170 Opera di Lenin del 1904.
171 Materialismo dialettico.
172 Trattasi proprio di figure che Lenin stronca in Materialismo ed empiriocriticismo.
89
UNA PICCOLA QUAGLIA

L’abito marrone nuovo di Simočka era stato confezionato tenendo conto dei
pregi e dei difetti della sua figura: la parte superiore era una specie di
giacchettina aderente sul vitino da vespa, che non scendeva morbida sul petto
ma si raccoglieva in pieghe indefinite. Nel passaggio alla gonna, per ampliare
con arte la figura, l’abito finiva con due volant circolari, che si sollevavano
quando lei camminava, uno opaco, l’altro lucido. Le braccia impalpabilmente
sottili di Simočka erano coperte dalle maniche, che dalle spalle partivano libere
e ondeggianti. Il colletto aveva un guizzo ingenuamente dolce: era formato da
una lunga striscia della stessa stoffa e le punte pendenti si annodavano sul petto
in un fiocco, che ricordava le ali di una farfalla marrone argentata.
Questi e altri dettagli osservavano e giudicavano le amiche di Simočka sulla
scala, vicino al guardaroba, dove lei le aveva accompagnate dopo la lezione.
C’era chiasso, un po’ di ressa: gli uomini si infilavano i cappotti e i paltò in
fretta e furia, accendevano una sigaretta prima di incamminarsi; le ragazze si
appoggiavano alle pareti per infilarsi le soprascarpe.
In quel mondo di diffidenza poteva sembrare strano che per il turno di
sorveglianza serale Simočka inaugurasse un vestito confezionato per il
Capodanno.
Ma Simočka stava spiegando alle ragazze che dopo il turno sarebbe andata a
festeggiare un onomastico a casa di uno zio, dove ci sarebbero stati diversi
giovani.
Le amiche approvavano l’abito, dicevano che con quello era “tanto carina” e
le domandavano dove avesse comprato quel crêpe satin.
La sicurezza aveva abbandonato Simočka, che tardava a dirigersi al
laboratorio.
Anche se rinvigorita dalle lodi, entrò all’Acustico solo due minuti prima
delle otto, con il cuore che le martellava forte. I detenuti avevano già
consegnato i materiali segreti da chiudere nell’armadio d’acciaio. Dall’altra
parte della stanza spoglia dopo il trasferimento del vocoder al Sette vide la
scrivania di Neržin.
Lui non c’era già più. (Non poteva aspettare?...) La lampada da tavolo era
spenta, i pannelli scorrevoli a nervature della scrivania erano chiusi, i materiali
segreti erano stati già consegnati. Tuttavia, c’era qualcosa di strano: il centro
della scrivania non era completamente sgombro, come era solito lasciarlo Gleb
all’intervallo, ma aveva una grossa rivista americana e un dizionario aperti.
Poteva essere un segnale segreto per lei: “Torno presto!”
Il vice di Rojtman affidò a Simočka le chiavi dell’armadio segreto, quelle
della stanza e il sigillo (il laboratorio veniva sigillato ogni notte). Simočka
temeva che Rojtman volesse fare di nuovo un salto da Rubin, e allora avrebbe
potuto tornare all’Acustico in qualsiasi momento, ma no, anche Rojtman si era
già messo il cappotto, il cappello e, infilati i guanti di pelle, faceva premura al
vice perché si vestisse.
Non era affatto contento.
– Bene, allora, Serafima Vital’evna, a lei il comando. Buone cose! – le augurò
infine.
Il lungo suono del campanello elettrico si diffuse per i corridoi e le stanze
dell’istituto. I detenuti si diressero tutti insieme a cena. Senza sorridere, mentre
osservava gli ultimi che se ne andavano, Simočka cominciò a passeggiare per il
laboratorio. Quando non sorrideva, il suo viso aveva un’aria molto severa, per
via soprattutto del naso lungo con una gobbetta appuntita, che le toglieva
fascino.
Rimase sola.
Lui stava per arrivare!
Continuò a camminare per il laboratorio stropicciandosi le dita.
Doveva proprio succedere quella sfortuna! Le tendine di seta sempre appese
alle finestre quel giorno erano state tolte per essere lavate. Le tre finestre erano
rimaste nude e indifese e dal buio del cortile si poteva spiare dentro senza farsi
notare.
A dire il vero, il fondo della stanza non si vedeva: l’Acustico si trovava al
piano nobile. Ma la recinzione non era lontana e direttamente di fronte alla
finestra sua e di Gleb si innalzava la torre con la sentinella. Dalla quale si
vedeva tutto.
E se avessero spento la luce? Trovando la porta chiusa avrebbero pensato
tutti che la sorvegliante di turno se n’era andata.
E se si fossero messi a scassinare la porta, a cercare altre chiavi?
Simočka si diresse verso la cabina acustica. Lo fece d’istinto, senza pensare
alla sentinella, il cui sguardo lì non poteva entrare. Si appoggiò alla grossa
porta cava di quel bugigattolo stretto e chiuse gli occhi. Senza di lui non aveva
nemmeno voglia di entrarci. Avrebbe voluto essere trascinata dentro, che ce la
portasse lui.
Sapeva dai racconti delle amiche come succedeva, ma se lo immaginava in
modo confuso, continuava a salirle l’agitazione e le guance le si facevano
sempre più calde.
Quello che in gioventù bisognava conservare più di ogni altra cosa si era già
trasformato in un peso!
Sì! Desiderava tanto avere un figlio da crescere in attesa che Gleb tornasse
libero! Gli mancavano solo cinque annetti!
Si avvicinò alla sedia girevole gialla e molleggiata di Gleb e abbracciò lo
schienale come fosse una persona viva.
Diede un’occhiata alla finestra. Nel buio lì vicino si percepiva la torretta e su
di essa un nero concentrato di ostilità verso l’amore: la sentinella con il fucile.
Dal corridoio giunsero i passi di Gleb, più leggeri del solito. Simočka
svolazzò verso la scrivania, si sedette, si accostò all’amplificatore a tre stadi in
cascata, fissato al fianco della scrivania, con le lampade nude, e si mise ad
esaminarlo tenendo in mano un piccolo cacciavite. Sentiva il cuore pulsarle in
testa.
Neržin accostò piano la porta in modo che il rumore non si diffondesse
troppo nel corridoio silenzioso. Attraverso lo spazio ormai lasciato vuoto dai
sostegni del vocoder, vide da lontano Simočka rintanarsi dietro la scrivania,
come una piccola quaglia dietro un enorme dosso.
L’aveva chiamata proprio lui così.
Simočka accolse Gleb con uno sguardo scintillante, ma rimase di stucco
quando notò la sua faccia turbata, quasi lugubre.
Prima di vederlo entrare, era convinta che come prima cosa lui sarebbe
venuto a baciarla, e lei lo avrebbe fermato, perché mancavano le tende, la
sentinella poteva vederli.
Ma lui non si era gettato in mezzo alle scrivanie. Si era fermato accanto alla
propria e aveva subito spiegato:
– Mancano le tende, non mi avvicino, Simočka. Salve! – Con le braccia
abbassate si appoggiò alla scrivania e lì in piedi la guardò dall’alto in basso. –
Se non ci disturbano, adesso dovremmo... parlare.
Parlare?
Par-la-re...
Gleb aprì la scrivania. I pannelli scorrevoli si abbassarono sbattendo forte
uno dopo l’altro. Senza guardare Simočka, con movimenti esperti, Neržin
cominciò a tirare fuori e a rivoltare diversi libri, riviste, fascicoli, tutto
l’occultamento a lei ben noto.
Simočka si bloccò con il cacciavite in mano e appuntò lo sguardo sulla faccia
dagli occhi fuggevoli di Gleb. Il pensiero fu che sabato la convocazione di
Gleb da Jakonov avesse portato brutte notizie, che lo avessero torchiato o
presto lo avrebbero mandato via. Ma perché prima non si avvicinava? Perché
non la baciava?
– Che è successo? È successo qualcosa? – domandò con la voce rotta;
deglutì a fatica.
Gleb si sedette. Schiacciando le riviste con i gomiti, si cinse la testa con le
dita aperte a destra e a sinistra e fissò la ragazza. Ma di sincerità nel suo
sguardo non ce n’era.
Era calato un silenzio sordo. Non si sentiva neanche un rumore. Li
dividevano due scrivanie illuminate da quattro lampade appese e due da tavolo,
sotto lo sguardo della sentinella dalla torretta.
E lo sguardo di quella sentinella era come una cortina di ferro che si
abbassava lentamente fra loro.
Gleb disse:
– Simočka! Mi sentirei un mascalzone se oggi... se io... non ti confessassi
che...
–?
– Io... con te ho agito un po’ con leggerezza, senza rifletterci...
– ??
– Ieri... ho rivisto mia moglie... Abbiamo avuto un colloquio.
Simočka sprofondò, si fece ancora più piccola. Le ali del fiocco sul colletto
caddero inermi sul pannello d’alluminio dell’apparecchio. Il cacciavite tintinnò
sulla scrivania.
– E perché... non l’ha detto... sabato? – lo colpì con la voce rotta.
– Ma dài, Simočka! – inorridì Gleb. – Potevo davvero tenertelo nascosto?
(Perché no?)
– L’ho scoperto ieri mattina. È stata una cosa inaspettata... Non ci vedevamo
da un anno, lo sai... Ora ci siamo rivisti e...
La voce di Gleb era sofferente. Sapeva che cosa significava per lei sentire
quelle cose, ma anche dirle era... Tante sfumature che non sarebbero servite a
niente non le avrebbe pronunciate. Non le capiva nemmeno lui. Quanto aveva
sognato quella sera, quel momento! Sabato ardeva rigirandosi nel letto! Adesso
era arrivata l’ora e di ostacoli non ce n’erano! Le tende non importavano, la
stanza era tutta loro, si trovavano lì entrambi, c’era tutto! Tutto a parte...
L’anima. Quella era rimasta al colloquio. L’anima era come un aquilone: era
sfuggita, sventolava da qualche parte e il filo lo teneva sua moglie.
Magari qui non serviva?!
E invece no, serviva.
Non poteva dirlo a Simočka, tuttavia qualcosa andava detto. E, per dovere,
qualcosa Gleb provò a dire, cercò delle scuse appropriate con cui girarci
intorno.
– Sai... lei mi aspetta da tanto... cinque anni di prigione, e quanti di guerra?
Altre non lo avrebbero fatto. Poi al campo di lavoro mi sosteneva... mi portava
altre cose da mangiare... Tu volevi aspettarmi, ma questo non... non... non
sopporterei di... farle del male...
All’altra! E a lei? Gleb avrebbe dovuto fermarsi lì! Con un leggero colpo
della voce burbera aveva centrato il bersaglio. La piccola quaglia era stata
uccisa. Si era afflosciata, con la testa nella fitta serie di valvole e condensatori
dell’amplificatore a tre stadi in cascata.
Poi un singhiozzare leggero come un respiro.
– Simočka, non piangere! Non piangere, non devi! – si corresse Gleb.
Ma rimase a due scrivanie di distanza, non le andò vicino.
Lei piangeva senza quasi emettere suono, mostrando la scriminatura dritta
dei capelli divisi in due.
Davanti alla fragilità di Simočka Gleb fu travolto dal pentimento.
– Piccola quaglia! – mormorò lui, chinandosi in avanti. – Dài, non piangere.
Ti chiedo scusa... è colpa mia...
Lei piangeva, ed era doloroso. Ma se avesse pianto l’altra? Sarebbe stato
insopportabile!
– Be’, non capisco nemmeno io quello che provo...
Non gli sarebbe costato niente andare da lei, attirarla a sé, baciarla, ma
nemmeno quello era possibile, perché dopo il colloquio del giorno prima le
labbra e le mani erano pure.
Una salvezza che avessero tolto le tende alle finestre.
Così, senza scattare in avanti e superare le scrivanie, dal proprio posto Gleb
le ripeteva quelle misere suppliche di non piangere.
Ma lei piangeva.
– Piccola quaglia, basta... Potremmo ancora avere qualcosa... Lascia passare
un po’ di tempo...
Lei sollevò la testa e in una pausa dalle lacrime lo fissò in modo strano.
Lui non capì la sua espressione e abbassò lo sguardo sul dizionario.
La testa di Simočka si stancò di reggersi e ricadde sull’amplificatore.
Poteva essere una cosa pazzesca... perché quel colloquio proprio ora? Perché
tutte quelle donne fuori in libertà e lui dentro, in prigione? Oggi non si può,
ma se lasci passare qualche giorno, l’anima si rimetterà a posto e probabilmente
tutto ritornerà possibile.
Perché non dovresti? Se solo lo raccontassi ti prenderebbero in giro. Devi
tornare in te, risentire la pelle del campo di lavoro! Poi, ti costringerebbero
forse a sposarla?
La ragazza ti aspetta, vai!
E soprattutto, non dirlo a voce alta: è proprio lei che hai scelto? Oppure un
posto a due scrivanie di distanza, dove potrebbe esserci chiunque? Vai!
Ma quel giorno non si poteva...
Gleb si girò, si appoggiò al davanzale. Premette la fronte e il naso contro il
vetro, guardò verso la sentinella. Con gli occhi accecati dalle vicine lampade, il
fondo della torretta non si vedeva, ma singole luci qua e là in lontananza si
spandevano in stelle indefinite, e dietro e sopra di esse la luminescenza
biancastra riflessa dalla vicina capitale abbracciava un terzo del cielo.
Sotto la finestra la neve si stava sciogliendo.
Simočka sollevò di nuovo il viso.
Gleb si girò subito verso di lei.
Dagli occhi scintillanti le scendevano rivoli bagnati lungo le guance che lei
non si asciugava. Il luccichio degli occhi, la luce e la volubilità dei volti
femminili adesso l’avevano resa quasi attraente.
Magari puoi lo stesso...
Simočka guardava Gleb con tenacia.
Tuttavia, non pronunciava neanche una parola.
Che imbarazzo. Qualcosa bisognava dire. Allora parlò lui:
– Anche adesso, in effetti, mi concede la sua vita. Chi lo farebbe? Sei sicura
che tu ci riusciresti?
Le lacrime le restavano lì, bagnate, sulle guance insensibili.
– Non ha chiesto il divorzio? – domandò piano Simočka, ma in modo ben
distinto.
Caspita, subito al punto! Beccato in pieno. Ma di ammettere con lei la
notizia del giorno prima non gli andava. Era molto più complicato di così.
– No.
Che domanda precisa. Se non fosse stata così precisa, così perentoria, se i
bordi fossero stati tanto sfocati da rendere impossibile chiamare le cose con il
loro nome, se fosse stato possibile solo guardare, guardare, guardare, forse
avrebbe potuto alzarsi, andare verso l’interruttore... Ma domande così
esigevano risposte logiche.
– È bella?
– Sì. Per me sì – si difese Gleb.
Simočka sospirò rumorosamente. Annuì alla propria immagine riflessa sulle
superfici a specchio delle valvole.
– Allora non la aspetterà.
Simočka non riusciva a riconoscere a quella donna invisibile nessun
privilegio da moglie legittima. Un tempo aveva vissuto per un po’ con Gleb, ma
erano trascorsi otto anni. Da allora lui era stato in guerra, in prigione, mentre
lei, se era davvero bella, giovane e senza figli, possibile che si comportasse
come una monaca? Gleb a quel colloquio non le apparteneva, né le sarebbe
appartenuto di lì a un anno, di lì a due: lui era di Simočka. Avrebbe potuto
diventare sua moglie quel giorno stesso! Perché quella donna, che ormai non
era più un miraggio, un nome vuoto, si faceva dare un colloquio? Per quale
avidità insaziabile allungava una mano verso un uomo che non sarebbe mai
stato suo?!
– Non la aspetterà! – ripeteva Simočka come un giocattolino rotto.
Ma più lei colpiva con tenacia e precisione, più Gleb si offendeva.
– Ha già aspettato otto anni! – obiettò lui. Poi ci ragionò su e precisò: –
Anche se verso la fine sarà più difficile.
– Non la aspetterà! – ripeté ancora Simočka, in un sussurro.
E con la mano portò via le lacrime già sul punto di asciugarsi.
Neržin si strinse nelle spalle. In effetti, era vero. Per allora avrebbero preso
strade diverse, fatto esperienze di vita differenti. Lo suggeriva sempre anche lui
alla moglie: dovevano divorziare. Ma perché in modo così ostinato, con quale
diritto Simočka batteva su quel tasto?
– Be’, mettiamo pure che non mi aspetti. Almeno non avrà nulla da
rimproverarmi. – Si era aperto uno spiraglio per ragionare. – Simočka, non mi
ritengo un uomo buono. Sono molto cattivo. Ricordi cosa facevo in Germania?
Cosa facevamo al fronte? E adesso anche con te... Ma credimi, sono cose che mi
sono permesso in libertà, in un mondo superficiale, fortunato. Ho ceduto alla
suggestione di un male che appariva lecito. Ma più in basso cadevo più...
stranamente... Non mi aspetterà? Lo faccia. Purché io non abbia nulla da
rimproverarmi...
Si era imbattuto in uno dei suoi concetti preferiti. Avrebbe potuto dilungarsi
per un bel pezzo su quell’argomento, soprattutto visto che non c’era altro da
dire.
Ma quella predica Simočka non la stava ascoltando. Lui parlava solo di sé.
Mentre lei, che poteva fare? Si immaginava con orrore quando sarebbe tornata
a casa, avrebbe farfugliato qualcosa a denti stretti alla madre inopportuna, per
poi buttarsi nel letto. Lì dove per mesi era rimasta sdraiata a pensare a lui. Che
vergogna umiliante! Come si era preparata per quella sera! Quanto si era lavata,
profumata!
Ma se un’ora di colloquio carcerario impacciato aveva avuto la meglio su
una vicinanza di molti mesi, che altro poteva fare?
La conversazione, naturalmente, era finita. Tutto era stato detto
all’improvviso, senza attenuare niente. Simočka voleva scappare nella cabina,
piangere là ancora un po’ e rimettersi in ordine.
Ma non aveva le forze né di cacciarlo via né di andarsene lei. Quella era
l’ultima occasione in cui fra loro poteva tendersi qualche filo!
Resosi conto che Simočka non lo ascoltava, che le sue importanti
conclusioni non le servivano a niente, Gleb ora taceva.
Si accese una sigaretta! Un espediente. Tornò a guardare dalla finestra le
isolate luci giallastre.
Rimasero seduti in silenzio.
Cominciava già a dispiacergli un po’ meno per Simočka. Cos’era quello per
lei, davanti a tutta una vita? Un episodio, un evento superficiale. Le sarebbe
passato.
Avrebbe trovato qualcun altro...
La moglie no.
Sedevano zitti e l’aria si stava già facendo pesante.
Gleb viveva da anni in mezzo a uomini cui servivano solo spiegazioni brevi.
Se tutto era stato detto, tutto era finito, che senso aveva restarsene lì seduti
zitti? Che insensata vischiosità femminile.
Senza muovere la testa, in modo che Simočka non se ne accorgesse, guardò
l’orologio a pendolo elettrico, solo con gli occhi, di traverso. Ancora venti
minuti prima dell’appello, venti minuti di passeggiata serale! Ma alzarsi e
andarsene sarebbe stato offensivo. Gli toccava rimanere.
Chi arrivava di servizio quella sera? Forse, Šusterman. E l’indomani mattina,
il tenente minore.
Simočka sedeva ricurva sull’amplificatore e tirava fuori esitante le valvole
dalla loro sede nel pannello, per poi reinserirle di nuovo, senza un perché.
Di quell’amplificatore non ci aveva capito praticamente nulla. E continuava
a non capirci niente neanche ora.
Ma la mente di Neržin, tanto attiva, aveva bisogno di tenersi occupata, di
muoversi. Su una stretta striscia di carta ripiegata sotto il calamaio, dove ogni
giorno fin dalla mattina appuntava i programmi alla radio, lesse:

20,30. – C. e rm. rus. (Obuch.)

Significava: “Canzoni e romanze russe nell’interpretazione di Obuchova.”


Una rarità! E nell’ora tranquilla dell’intervallo. Il concerto era già
cominciato. Ma era il caso di accendere?
Sul davanzale, a portata di braccio, vide l’apparecchietto sintonizzato sui tre
canali moscoviti, un regalo di Valentulja. Neržin lanciò un’occhiata di sbieco a
Simočka, ancora immobile, e con una mossa furtiva accese la radio tenendo il
volume al minimo.
Non appena le valvole si accesero, in tutta la stanza si diffuse un
accompagnamento di violini e poi la voce bassa, duramente appassionata,
diversa da tutte le altre, di Obuchova.
Simočka trasalì. Guardò l’apparecchio. Poi Gleb.
Abuchova cantava qualcosa che li toccava da vicino, da vicino in modo
doloroso:

No, non sei tu che amo con tanto ardore...

Ma guarda un po’, che sfortuna! Gleb cercò di spegnere senza farsi notare.
Simočka crollò sull’amplificatore, le mani a cerchietto sulla testa, e riattaccò
a piangere, piangere.
Al punto che in quei brevi istanti insieme Gleb non seppe trovare parole
amare.– Scusami! – disse Gleb inaspettatamente. – Scusami! Scusami!!
Così non cercò nemmeno più di spegnere. Fu preso da un caldo impeto:
senza badare alla sentinella, si gettò oltre le scrivanie, afferrò la testa di
Simočka e le baciò i capelli sulla fronte.
Simočka piangeva senza singhiozzi né sussulti, a profusione, liberamente.
90
SULLE SCALE POSTERIORI

Tormentato da pensieri e ancora scosso dalla notizia dell’arresto di Rus’ka (una


voce a tal proposito era giunta due ore prima, dopo che Šikin aveva forzato la
sua scrivania, ed era stata confermata dall’assenza di Rus’ka all’appello serale,
cosa che i sorveglianti di turno avevano finto di non notare), Neržin per poco
non si era dimenticato dell’appuntamento con Gerasimovič.
Quindici minuti dopo, il regolamento, implacabile, li aveva riportati a quelle
stesse due scrivanie, alle riviste spalancate e all’amplificatore rovesciato ancora
inondato dalle lacrime di Simočka. Adesso Gleb e Simočka erano condannati a
sedere due ore l’uno di fronte all’altra (così l’indomani, il giorno dopo, ogni
giorno, per giorni) e a nascondere gli occhi fra le carte, evitando di incrociare
gli sguardi.
Quando però sul grande orologio elettrico la lancetta dei minuti si avvicinò
alle nove e un quarto, Neržin se ne ricordò. Adesso non era molto in vena di
discutere di società razionale, ma in effetti quello poteva persino essere un
buon momento. Chiuse a chiave lo scomparto di sinistra dove conservava i
suoi appunti tanto importanti e, senza arrotolare niente né spegnere la lampada
da tavolo, uscì nel corridoio con una papirosa fra i denti.
Procedé con un’andatura tranquilla fino alla porta di vetro che conduceva
alle scale posteriori e provò ad aprirla con una spinta. Come c’era da aspettarsi
non l’avevano chiusa a chiave.
Neržin si guardò intorno pigramente. Nel corridoio non c’era nessuno.
Allora con un movimento brusco varcò la soglia, passando dal pavimento di
legno a quello di cemento, e abbandonato così il lato del corridoio, tenendosi
alla maniglia, chiuse dietro di sé la porta senza far rumore. Cominciò a salire le
scale nel buio sempre più denso, sbuffando dalla papirosa che lo rischiarava
appena.
La finestra di Maschera di Ferro non era illuminata. Una striscia di luce fioca
e debole si riversava sul pianerottolo superiore da una delle finestre esterne.
Incespicando due volte nelle cianfrusaglie ammassate sulle scale, dai gradini
superiori Neržin, con voce smorzata, domandò:
– C’è qualcuno?
– Chi è là? – rispose nel buio una voce anch’essa smorzata, che un po’
pareva quella di Gerasimovič, un po’ no.
– Sono io – pronunciò piano Neržin, per farsi riconoscere, e tirò con più
forza dalla papirosa, illuminandosi.
Gerasimovič accese una piccola torcia tascabile, puntò il raggio tagliente
verso lo stesso ceppo sul quale il giorno prima, dopo il colloquio, Neržin si era
rifugiato, e poi la spense. Anche lui si era sistemato su un ceppo identico.
Su tutte le pareti si raggruppava la nidiata di quadri invisibili del pittore-
servo.
– Quanto a cospirare, come vede, siamo ancora dei poppanti, anche dopo
essere stati in prigione tanto a lungo – disse Gera-simovič. – Non abbiamo
previsto una cosa semplice: chi arriva non è compromesso in nessun modo,
mentre chi aspetta nel buio, non può attirare l’attenzione. Dobbiamo inventarci
una frase in codice per quando saliamo le scale.
– Eh già – disse Neržin, accomodandosi. – Dobbiamo essere uomini dalle
mille risorse. Guadagnare in fretta il pane, salvarci l’anima e combattere contro
l’apparato ben pasciuto della Sicurezza di Stato... quanti saranno loro? Almeno
due milioni? Quante vite bisognerebbe vivere! Si meraviglia che non ce la
facciamo? Che dice, Mamurin sarà già sdraiato al buio nel suo letto? A questo
punto, potremmo parlare direttamente nell’ufficio di Šikin.
– Ho controllato prima di venire qui: è al Sette. Se torna, ce ne accorgiamo
subito. Ebbene, vado al dunque.
Lo diceva con piglio pratico, eppure dalla voce trapelava stanchezza e
rinuncia.
– A dir la verità, volevo chiederle di rimandare la nostra discussione... Ma c’è
il problema che fra pochi giorni me ne andrò da qui.
– Lo sa per certo?
– Sì.
– Anche io me ne andrò, ma non così presto. Non mi sono dimostrato
disponibile...
– Se solo fossimo certi di finire nella stessa prigione di transito, ne
parleremmo là, avremmo tutto il tempo. Ma la storia carceraria insegna a non
rimandare mai le discussioni.
– Sì. Sono giunto alla stessa conclusione.
– Dunque, lei dubita che si possa costruire la società in modo razionale?
– Esatto. Ne dubito fino alla totale incredulità.
– Eppure, non è per niente complicato. Solo che a costruirla deve essere
un’élite, non una massa di asini. Un’élite di intellettuali, di tecnici. E non va
costruita né ‘democratica’ né ‘socialista’, quelli sono tutti segni di tutt’altro
genere. La società da costruire è quella intellettuale. Poi sarà per forza anche
razionale.
– Ma tu guarda – sospirò Neržin, disincantato. – Pensa un po’ che schema
ha messo giù. In tre frasi... poi però servono tre sere per capirci qualcosa.
Primo, che differenza c’è fra intellettuale e razionale? Una società così la
conosciamo già, i razionalisti francesi ci hanno basato una grande rivoluzione.
Meglio evitare.
– Quelli erano dei chiacchieroni, non dei razionalisti. Gli intellettuali una
rivoluzione non l’hanno ancora fatta.
– Né la faranno. Sono solo dei testoni... La società intellettuale, secondo lei,
come dovrebbe essere? Senza etica e senza religione?
– Non per forza. Quello si può stabilire.
– Stabilire! Ma non si stabilisce affatto. La società intellettuale come
immagina sé stessa? Piena di ingegneri, ma senza sacerdoti. Tutto funziona alla
perfezione, l’economia più assennata, ognuno al posto giusto... e un rapido
accumulo di beni. Ma non è abbastanza, lo capisce? Gli scopi della società non
devono essere solamente materiali!
– Si può correggere in un secondo tempo. Per il momento, nella maggior
parte dei paesi del mondo...
– Oh, per il momento io non ne vorrei proprio discutere! Ma poi sarà tardi! Lei
parla di una struttura sociale razionale. Poi, dice che non deve essere
“socialista”. Be’, di questo non me ne importa un fico secco, la forma di
proprietà ha un’importanza minima, nessuno sa quale sia meglio. Che non sia
“democratica”, però, mi spaventa. Che roba sarebbe? Che significa?
Gerasimovič rispondeva dal buio fitto usando parole utili e precise, quelle
con cui si scrivono i bei libri, che scegli se rifletti prima di parlare, senza
perderti in parole spazzatura.
– Ci hanno affamati di libertà e ora ci sembra necessario averne una
illimitata. Ma in realtà ci serve una libertà che abbia limiti, altrimenti non
avremmo una società ben ordinata. Tuttavia, per darle dei limiti non servono
rapporti in grado di reprimerci. Stabilirlo con onestà in anticipo non è
imbrogliare. La democrazia ci sembra un sole che non tramonta mai. Ma che
cos’è la democrazia? Un modo per accontentare la rozza maggioranza.
Accontentarla significa uniformarsi alla mediocrità, al livello più basso, falciare
via gli steli più alti e sottili. Cento, mille babbei che con il loro voto indicano la
strada a una testa illuminata.
– Uhm... – borbottò Neržin, perplesso. – Questa è nuova... Non saprei... non
capisco... Dovrei pensarci... Sono abituato alla democrazia... E cosa ci
metterebbe al suo posto?
– Una disuguaglianza equa! Che si basi su doti reali – naturali e coltivate. Lo
chiami pure uno Stato autoritario o potere dell’élite spirituale. Il potere a
persone cariche di abnegazione, completamente disinteressate e brillanti.
– Accipicchia! A livello ideale, ben venga! Ma come si fa a scegliere questa
élite? E, soprattutto, come convincere gli altri che è proprio quella giusta?
L’intelligenza non è scritta sulla fronte, l’onestà non si illumina con il fuoco...
Anche riguardo al socialismo ci hanno giurato che avrebbero governato da
angioletti, invece guardi che farabutti son diventati! Mi vengono in mente un
sacco di domande... Come farebbe coi partiti? O meglio: come sarebbe senza
partiti del vecchio tipo e, Dio ce ne scampi, del Nuovo Tipo? L’umanità
attende un profeta che le insegni come vivere senza partiti! Stare in un partito
significa anche sottomettersi alla maggioranza, alla disciplina, dire anche ciò
che non pensi. I partiti rovinano sia l’individuo sia la giustizia. Se il leader
dell’opposizione non critica il governo quando ha realmente sbagliato qualcosa,
allora che senso ha un’opposizione?
– Visto? Si sta spostando anche lei dalla democrazia verso il mio sistema.
– Non ancora! Forse un pochino... E l’autoritarismo? Nello Stato,
ovviamente, c’è bisogno di autorità, ma di che tipo? Di tipo etico! Non serve un
potere in punta di spada, ma che susciti amore e rispetto. Che dica:
compatrioti, non lo fate, non va bene!, e tutti ne abbiano subito piena
coscienza: giusto, non va bene! lo rifiutiamo! non lo faremo! Dove si va a
prendere un potere così? Si parla di “autoritarismo”, ma poi finisce per
spuntare fuori il totalitarismo. Secondo me ci vuole qualcosa di svizzero,
presente Herzen? Più il potere è forte, più deve stare in basso: il potere
maggiore va al consiglio del villaggio e l’uomo con meno potere è il
presidente... Su, sto scherzando... Io e lei non ne stiamo parlando un po’
presto? È una concezione razionale! Non sarebbe più utile discutere su come
tirarsi fuori dall’irrazionale? Nemmeno questo sappiamo fare, anche se è molto
più alla nostra portata.
– Per noi è un argomento cruciale anche questo – disse la voce tranquilla nel
buio. Con tanta semplicità, quasi parlasse del cambio di una valvola bruciata in
un circuito.
– Penso sia venuto il nostro tempo, dell’intelligencija tecnica russa, di provare
a cambiare la forma di governo in Russia.
Neržin trasalì. Non tanto per l’incredulità: anche se fino a quel momento
non gli era mai capitato di conversare con lui, sentiva già a pelle affinità con
Gerasimovič.
La voce nel buio, armoniosa e calma, parlava con ritegno, quasi con
solennità, e faceva venire a Neržin i brividi lungo la schiena.
– Ahimè, una rivoluzione spontanea nel nostro paese non è possibile.
Persino nella Russia di prima, in cui la libertà di traviare il popolo era quasi
illimitata, ci vollero tre anni di guerra per farlo vacillare, e che guerra! Mentre
ora una barzelletta davanti a un tè può costarti la testa, altro che rivoluzione!
– Però non dica ‘ahimè’! – ribatté Neržin. – Al diavolo la rivoluzione: la sua
élite sarebbe la prima a essere scannata. Eliminerebbero tutto ciò che c’è di
istruito e bello, rovinerebbero ogni cosa buona.
– Va bene, niente ‘ahimè’. Ma è da lì che molti di noi hanno cominciato a
riporre speranze in un aiuto esterno. Un errore grave e dannoso. L’Internazionale
dice una cosa per nulla stupida: ‘Nessuno ci darà la redenzione! Con le nostre
mani otterremo la liberazione!’ Bisogna capire che più la vita in Occidente sarà
benestante e libera, meno l’uomo occidentale avrà voglia di battersi per coloro
che sono stati così scemi da permettere ad altri di vivere alle loro spalle. E
avrebbe ragione: siamo stati noi ad aprire le porte ai banditi. Ci siamo meritati
questo regime e questi capi; ora è compito nostro tirarcene fuori.
– Arriverà anche il loro turno.
– Certo che arriverà. Il benessere ha una forza distruttrice. Per prolungarlo
un anno, un giorno, una persona sacrifica non solo ciò che le è estraneo, anche
ciò che è sacro, persino il normale buonsenso. Così hanno covato Hitler, e pure
Stalin, hanno concesso loro mezza Europa a testa, e adesso la Cina.
Sacrificheranno volentieri la Turchia, se con quello rimanderanno la
mobilitazione generale anche solo di una settimana. Poi, ovvio, moriranno. Ma
noi prima di loro.
– Già.
– Il guaio è che sperare negli americani ci libera la coscienza e indebolisce la
nostra volontà: ne riceviamo il diritto di non lottare, di sottometterci, di vivere
trasportati dalla corrente, degenerando a poco a poco. Non sono d’accordo con
chi sostiene che con gli anni il nostro popolo sta cominciando ad aprire gli
occhi, che qualcosa in lui sta germogliando... Dicono: non si può reprimere
all’infinito un intero popolo. È una menzogna! Si può eccome! Già vediamo il
nostro popolo svuotato dentro, inzotichito, come si è insinuata in lui non solo
l’indifferenza verso i destini del paese o verso quelli del prossimo, ma persino
verso il proprio destino personale e quello dei propri figli. L’indifferenza,
l’ultima salutare reazione dell’organismo, è diventata la nostra caratteristica
dominante. Da cui anche la diffusione della vodka, senza precedenti persino
rispetto ai canoni russi. È la terribile indifferenza che nasce quando una
persona vede la propria vita non soltanto leggermente incrinata, con un
angolino sbeccato, ma così irrimediabilmente in frantumi, così rovinata da cima
a fondo, che vale ancora la pena vivere solo obnubilati dall’alcol. Se vietassero
la vodka, allora sì che da noi scoppierebbe la rivoluzione. Ma siccome lo
Shylock comunista prende quarantaquattro rubli al litro, con un costo di
produzione di dieci copechi, da una legge proibizionista non si lascia tentare.
Neržin non si pronunciava né si muoveva. Gerasimovič distingueva il suo
viso sotto le luci deboli e indistinte dei lampioni della zona, che ovviamente si
riverberavano sul soffitto. Benché non conoscesse affatto quell’uomo, Illarion
si decise a dirgli una cosa che in quel paese non si osava sussurrare all’orecchio
nemmeno agli amici intimi.
– Per rovinare il nostro popolo sono bastati trent’anni. Per correggerlo,
basteranno trecento? Ecco perché dobbiamo sbrigarci. Siccome una
rivoluzione di tutto il popolo è irrealizzabile e un aiuto esterno può rivelarsi
dannoso, ci resta soltanto una soluzione: una banalissima congiura di palazzo.
Lenin diceva: dateci un’organizzazione di rivoluzionari e rivolteremo la Russia!
L’organizzazione l’hanno messa insieme, la Russia l’hanno rivoltata!
– Oh, Dio ce ne scampi!
– Non faremmo fatica a creare un’organizzazione simile con le conoscenze
che ci siamo fatti in prigione e con la nostra capacità di individuare un
traditore al primo sguardo... cosa che ci permette di fidarci l’uno dell’altro già
dopo le prime parole. Servirebbero in tutto da tre a cinquemila persone
temerarie, intraprendenti e capaci di maneggiare le armi, più qualcuno
dell’intelligencija tecnica...
– Per fabbricare la bomba atomica?
– ...stabilire un legame con i vertici militari...
– Cioè con le vecchie cariatidi dell’esercito!
– ...per assicurarsi la loro benevola neutralità. Vanno eliminati solo Stalin,
Molotov, Berija, e qualcun altro. E annunciare subito per radio che tutti i ceti,
alto, medio e basso, rimarranno dove sono.
– Dove sono?! È questa la sua élite?
– Per il momento! Solo per ora. Consiste in questo la particolarità dei paesi
totalitari: realizzare un colpo di Stato è difficile, ma poi governare, una
bazzecola. Machiavelli diceva che, scacciato il sultano, già il giorno dopo si può
celebrare Cristo in tutte le moschee.
– Oh, non cada in errore! Ancora non si sa chi comanda chi: il sultano loro,
o loro, senza rendersene conto, il sultano. E la neutralità dei generali-porci che
mandano intere divisioni su campi minati al solo scopo di evitare il battaglione
disciplinare? Pur di proteggere il loro porcile farebbero a pezzi chiunque!
Stalin fuggirebbe dal suo passaggio sotterraneo! I suoi cinquemila
intraprendenti, se non li prendessero con le spie, li farebbero fuori con le
mitragliatrici, dalle pattuglie nascoste... e poi... – disse Neržin, agitato –
...cinquemila come lei in Russia non ci sono! Un uomo è così libero nei
pensieri, slegato nelle azioni e volto al sacrificio solo in prigione, non in libertà
con la famiglia! Dal carcere, tuttavia, non si combina niente! Voleva che trovassi
dei difetti al suo progetto? Ci sono solo quelli!! Un brutto colpo per la boria di
noi fisici e matematici: ammettere che anche per l’attività sociale serve una
specializzazione, e che specializzazione! Non si può descrivere con una
funzione di Bessel! Ma il punto non è soltanto questo! Non è solo questo! –
aveva già cominciato a parlare a un volume troppo alto per quelle scale buie e
tranquille. – Ha scelto la persona sbagliata per farsi consigliare! Perché io non
credo proprio che sulla Terra si possa costruire qualcosa di buono e duraturo.
Come faccio a consigliare gli altri, se io stesso non so risolvere i miei dubbi?
Con una monotonia glaciale Gerasimovič ricordò: – Poco prima che fosse
inventata l’analisi spettrale, Auguste Comte sosteneva che l’umanità non
avrebbe mai scoperto la composizione chimica delle stelle. E subito dopo fu
scoperta! Lo sa che quando cammina alla passeggiata, con il cappotto militare
che le svolazza, lei sembra molto diverso?
Neržin esitò. Si ricordò la frase di Spiridon del giorno prima, “il cane lupo
ha ragione, il cannibale no”, e il modo in cui Spiridon aveva chiesto a
quell’aereo di scaraventargli la bomba atomica in testa. Era di una semplicità
disarmante, ma Neržin lo respinse come meglio poté.
– Sì, a volte mi lascio un po’ trascinare. Il suo progetto, tuttavia, è troppo
serio per rispondere d’istinto. Ricorda la vecchia di Siracusa di Anatole France?
Pregava affinché gli dèi concedessero lunga vita all’odiato tiranno dell’isola:
l’esperienza le aveva insegnato che ogni successivo tiranno si sarebbe rivelato
più feroce del precedente. Sì, il nostro regime è ributtante, ma come fa a essere
sicuro che il suo sarà migliore? E se fosse peggiore? Sarà migliore solo perché
lei vuole che lo sia? Magari anche quelli prima di lei lo volevano. Hanno
seminato segale, ma gli è cresciuto bietolone! Ecco com’è la nostra rivoluzione!
Si guardi indietro... di ventisette secoli! Guardi tutte quelle svolte su una strada
insensata, dalla collina dove la lupa nutriva i gemelli, dalla valle di ulivi dove il
miracoloso sognatore passava su un asinello, fino alle nostre affascinanti alture,
fino alle nostre scure gole dove sferragliano solo i cingoli dei cannoni
semoventi, fino ai nostri valichi ricoperti di ghiaccio dove il vento di Ojmjakon
si insinua sotto le giubbe del campo di lavoro! Non capisco, perché ci siamo
arrampicati? Per cosa ci siamo spinti l’un l’altro nel precipizio? Da centinaia
d’anni poeti e profeti cantano le lodi delle scintillanti cime del Futuro! Che
fanatici! Non si ricordano che sulle cime ululano gli uragani, la vegetazione è
scarsa, non c’è acqua, che se cadi da lassù puoi romperti la testa? Qui, per
esempio... faccia un po’ di luce... c’è il Castello del Santo Graal...
– L’ho visto.
– Sembra quasi esservi giunto al galoppo un cavaliere, che da lì abbia
assistito a tutto... che sciocchezze! Non arriverà a cavallo nessuno, non assisterà
a niente! Datemi piuttosto una piccola valle modesta, con erba e acqua.
– Vuol tornare indietro? – scandì bene Gerasimovič, senza un’ombra di
espressione.
– Magari si possa credere che nella storia dell’umanità esista un avanti e un
indietro!! Questa piovra non ha né un dietro né un davanti. Secondo me non
esiste parola più svuotata di significato di “progresso”. Quale progresso,
Illarion Palyč? Si progredisce da cosa? E verso cosa? In ventisette secoli le
persone sono forse diventate migliori? Più buone? O quantomeno più felici?
No, peggiori, più cattive e infelici! E tutto questo si è raggiunto con idee
meravigliose!
– Niente progresso? Non ce n’è? – chiese Gerasimovič, con la voce
ringiovanita, mettendo anche lui da parte la prudenza. – Per un uomo che ha a
che fare con la fisica, questa cosa è imperdonabile. Secondo lei non c’è nessuna
differenza tra velocità meccaniche ed elettromagnetiche?
– A che mi servono gli aerei? Spostarsi così non è salutare come andare a
piedi o a cavallo! E la sua radio? Serve a sentire distorti i grandi pianisti? O a
trasmettere più in fretta in Siberia l’ordine di un arresto? Lo mandino pure coi
cavalli di posta.
– Come si fa a non capire che ci troviamo alla vigilia di un’energia quasi
gratuita, di un’abbondanza di beni materiali. Scioglieremo l’Artico,
riscalderemo la Siberia, renderemo verdi i deserti. Tra venti o trent’anni
potremo fare la spesa senza pagare, i prodotti saranno gratis come l’aria. Non è
forse progresso, questo?
– L’abbondanza non è progresso! Piuttosto che nell’abbondanza materiale,
vedrei progresso nell’essere pronti tutti insieme a dividerci quel poco che c’è!
Ma non otterreste comunque nulla! Non riscaldereste la Siberia! Non
rendereste verdi i deserti! Con le bombe atomiche, fan...o, mi perdoni, si
distruggerà tutto! Con gli aerei a reazione, fan...o, verrà raso tutto al suolo!
– Ma provi a guardare quelle svolte in modo obiettivo! Non abbiamo fatto
solo errori, ci siamo anche arrampicati in alto. Siamo pieni di sangue per aver
strisciato il muso contro frammenti di rocce e nonostante tutto siamo già sul
valico...
– A Ojmjakon!
– Nonostante tutto non ci bruciamo l’un l’altro sul rogo...
– Perché darsi da fare con la legna, quando ci sono le camere a gas!
– Nonostante tutto, la veče, dove si argomentava coi bastoni, ha lasciato il
posto al parlamento, dove trionfa la ragione! Dai popoli preistorici siamo
arrivati all’habeas corpus act! E nessuno la prima notte di nozze ci ordina più di
mandare nostra moglie al sovrano. Bisogna essere ciechi per non vedere che i
costumi, nonostante tutto, si sono ammorbiditi, che la ragione, nonostante
tutto, vince sulla follia...
– Io non lo vedo!
– Che la figura umana, nonostante tutto, ha assunto un significato!
Per tutto l’edificio risuonò il lungo suono del campanello elettrico.
Significava che erano le undici meno un quarto, bisognava riporre la
documentazione segreta nella cassaforte e sigillare il laboratorio.
Sollevarono entrambi la testa alla debole luce dei lampioni della zona.
Il pince-nez di Gerasimovič mandava bagliori come da due diamanti.
– Ebbene? La conclusione, quale sarebbe? Consegnare il pianeta alla rovina?
Non le dispiace?
– Mi dispiace – ammise Neržin in un sussurro debole, ormai inutile. – Mi
dispiace per il pianeta. Meglio morire che sopravvivere e arrivare a quello.
– Meglio evitarlo che morire! – disse con dignità Gerasimovič. – Ma in
questi anni estremi di morte generale o di generale correzione degli errori, che
altra via d’uscita proporrebbe? Ufficiale al fronte! Vecchio detenuto!
– Non lo so... non lo so proprio. – Nel quarto di luce si vedeva Neržin che
si tormentava. – Finché non c’era la bomba atomica, il sistema sovietico, con la
sua struttura debole, goffo, mangiato dai parassiti, era destinato a cedere alla
prova del tempo. Ma ora, se i nostri avranno quella bomba, sarà un guaio. Ora
c’è solo...
– Cosa?! – lo incalzò Gerasimovič.
– Forse... il nuovo secolo... con le informazioni dirette...
– E meno male che non le serviva la radio!
– La metteranno a tacere... Nel senso che forse, nel nuovo secolo, potrebbe
aprirsi un’altra possibilità: la parola distruggerà il cemento?
– Troppo in contrasto con la legge sulla resistenza dei materiali.
– Anche con il diamat! Eppure... Si ricordi che in principio era il Verbo.
Dunque il Verbo è più antico del cemento. Il Verbo non è cosa da niente.
Mentre un colpo militare... è impossibile...
– Ma come se lo immagina in concreto?
– Non lo so. Ripeto, non lo so. È un mistero. Sono come i funghi, che per
qualche strano motivo non si vedono né alla prima né alla seconda pioggia, ma
poi all’improvviso spuntano dappertutto. Ieri nessuno credeva che questi
mostri sarebbero cresciuti, mentre oggi sono ovunque! Allo stesso modo
cominceranno a crescere anche le persone per bene e la loro parola distruggerà
il cemento.
– Prima che accada, le sue persone per bene verranno portate via in ceste e
cestini: strappate, recise, mozzate...
91
LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CH’ENTRATE

Malgrado i presentimenti e le paure, la giornata di lunedì stava procedendo


bene. Innokentij continuava a essere inquieto, ma dentro aveva trovato una sua
forma di equilibrio, cui era giunto dopo mezzogiorno. Ora doveva andarsene a
teatro, così avrebbe smesso di avere paura ogni volta che suonavano alla porta.
Squillò il telefono. Mancava poco all’ora in cui sarebbero usciti per andare a
teatro, quando Dotty sbucò dal bagno.
Innokentij se ne stava lì immobile a fissare il telefono come un cane fissa un
riccio.
– Dotty, rispondi tu! Io non ci sono, e non sai quando tornerò. Che se ne
vadano al diavolo, non voglio che mi rovinino la serata.
Dotty si era fatta persino più bella del giorno prima. Quando piaceva agli
altri, si faceva più bella, così piaceva di più, e si faceva ancora più bella.
Tenendosi le falde della vestaglia, si avvicinò con passo felpato al telefono e,
delicata ma decisa, sollevò la cornetta.
– Sì... Non c’è... Chi è? Chi? – e d’un tratto assunse un’espressione cordiale,
stringendosi nelle spalle in un gesto di piacere per lei tipico. – Salve, compagno
generale! Sì, ora guardo... – Coprì in fretta con la mano la parte con il
microfono e sussurrò: – Il capo! È molto gentile.
Innokentij esitò. Il capo in persona, gentile, che gli telefonava di sera... La
moglie notò la sua titubanza.
– Un minuto, si sta aprendo la porta, magari è lui. Sì, è lui! Ini! Non ti
spogliare, corri qui, c’è il generale al telefono!
Non importava quanto nella persona all’altro capo del telefono fosse
radicato il sospetto, dal tono di Dotty uno poteva davvereo vedere Innokentij
pulirsi i piedi sulla soglia in fretta e furia, passare sul tappeto e afferrare la
cornetta.
Il capo era di buonumore. Annunciava che la nomina di Innokentij era
appena stata confermata in via definitiva. Il volo con il cambio a Parigi era
previsto per lunedì, l’indomani avrebbe dovuto passare le ultime consegne, ma
adesso era il caso che facesse un salto per mezz’oretta a concordare alcuni
dettagli. Era già stata mandata una macchina a prenderlo.
Innokentij si sollevò dal telefono che era un altro uomo. Inspirò così
profondamente e con tale gioia che l’aria fece in tempo a diffondersi in tutto il
corpo. Espirò lentamente, e assieme all’aria scacciò fuori i dubbi e le paure.
Non riusciva a credere che si potesse camminare su una fune con il vento di
traverso e non cadere giù.
– Te lo immagini, Dotty? Mercoledì ho l’aereo! Ora però...
Ma Dotty, con l’orecchio appoggiato alla cornetta, aveva sentito tutto già da
sola. Eppure una volta raddrizzatasi, non era sembrata contenta: la partenza di
Innokentij da solo, comprensibile e tollerabile due giorni prima, oggi
rappresentava per lei un’offesa e una ferita.
– Che ne pensi? – Sporse le labbra in un broncio. – Tra quei ‘dettagli’ potrei
esserci anch’io?
– Sì... be’, forse...
– Ma gli hai detto qualcosa di me?
Una cosa l’aveva detta. Una che ora non le poteva ripetere, che era tardi per
rimangiarsi.
Ma la sicurezza conquistata il giorno prima permise a Dotty di parlare
liberamente:
– Ini, noi due abbiamo scoperto tutto insieme! Ogni cosa nuova l’abbiamo
vista insieme! Vuoi andare a vedere il Diavolo giallo173 senza di me? No, non
sono per niente d’accordo, devi pensare a entrambi!
E quello non era nulla rispetto a quanto le sarebbe uscito dopo. Davanti agli
stranieri avrebbe ripetuto le banalità statali più stupide, facendo avvampare le
orecchie di Innokentij. Avrebbe insultato l’America e poi comprato tutto ciò
che le fosse capitato per le mani. Ma no, dimenticava, sarebbe andata
diversamente: laggiù lui era pronto a uscire allo scoperto; e lei che cosa avrebbe
capito di tutto quello?
– Si aggiusterà ogni cosa, Dotty, solo non subito. Intanto io vado, mi
presento, preparo i documenti e mi ambiento...
– Ma io voglio venire subito! Adesso! Come faccio a restare qui?
Non sapeva cosa gli stava chiedendo... Non sapeva che si trattava di una fune
tonda e attorcigliata sotto suole scivolose. E adesso bisognava staccarsi di
nuovo con una spinta e volare un po’, senza rete di protezione sotto. Non era il
caso che un secondo corpo, pieno, morbido, non avvezzo al sacrificio, gli
volasse accanto.
Innokentij fece un sorriso gentile, afferrò la moglie per le spalle e la tirò a sé.
– Va bene, ci proverò. Eravamo d’accordo in un altro modo, ma vedremo
come fare. In ogni caso, tu non ti preoccupare, ti verrò a prendere tra
pochissimo...
La baciò sulla guancia distaccata. Dotty non era affatto convinta. L’intesa del
giorno prima sembrava non esserci mai stata.
– Ora preparati con comodo. Perderemo il primo atto, ma non tutto
Akulina... Arriveremo in tempo per il secondo atto... Ti faccio uno squillo dal
ministero...
Fece appena in tempo a indossare l’uniforme che alla porta
dell’appartamento suonò l’autista. Non era né Viktor, che di solito lo
accompagnava, né Kostja. Si trattava di un tizio smilzo, vispo, con una faccia
buona e intelligente. Scese le scale con fare allegro, stando abbastanza al passo
con Innokentij, e intanto faceva roteare la chiave dell’auto appesa a una
cordicina.
– Non mi ricordo di lei – disse Innokentij, abbottonandosi il cappotto lungo
il tragitto.
– Io mi ricordo persino le sue scale, sono venuto da lei due volte. – L’autista
aveva un sorriso aperto e un po’ scaltro. Era bello avere un tipo così sveglio
alla guida dell’auto.
Partirono. Innokentij era seduto dietro. Quando lungo la strada l’autista si
girò un paio di volte a scherzare con lui, Innokentij non lo ascoltò nemmeno.
Poi d’un tratto la macchina virò bruscamente e si accostò al marciapiede. Un
giovane con un cappello floscio e un cappotto sciancrato si trovava sul bordo
del marciapiede con un dito alzato.
– È il nostro meccanico, dell’autorimessa – spiegò il simpatico autista e
provò ad aprire la portiera del passeggero accanto a lui. Quella però non
cedeva, aveva la serratura bloccata.
L’autista imprecò nei limiti della decenza e chiese:
– Compagno consigliere! Può sedersi accanto a lei? È il mio capo, mi trovo
in imbarazzo.
– Va bene – acconsentì volentieri Innokentij, e si spostò. Viveva in uno stato
di ebbrezza, di euforia, si immaginava con la nomina e il visto in mano, di lì a
due giorni su un aereo a Vnukovo, ma finché non avesse raggiunto Varsavia
non si sarebbe tranquillizzato, perché persino là un telegramma avrebbe potuto
trattenerlo.
Il meccanico, con una lunga papirosa fumante in un angolo della bocca, si
avvicinò subito, salì in macchina e in tono freddo e sfacciato disse:
– Non le dispiace... vero?
– Abbassi il finestrino! – lo richiamò all’ordine Innokentij, inarcando
leggermente il sopracciglio destro.
Ma il meccanico non colse l’ironia e non obbedì; al contrario, si stravaccò
ancora di più sul sedile e dalla tasca interna estrasse un foglio, che aprì e porse
a Innokentij.
– Compagno direttore! Me lo leggerebbe? Le faccio luce.
L’automobile svoltò in una strada buia e in pendenza, come la Pušečnaja. Il
meccanico accese una torcetta tascabile e con un piccolo raggio illuminò il
foglio rosa. Innokentij si strinse nelle spalle, prese il foglio con ripugnanza e
cominciò a leggere disinteressato, quasi fra sé:
“Si autorizza il viceprocuratore generale dell’Urss...”
Ancora avvolto nei suoi pensieri, non riusciva a tornare coi piedi per terra:
non gli era chiaro se il meccanico fosse analfabeta e non comprendesse il senso
di quanto scritto sul foglio, oppure ubriaco e volesse confidarsi con qualcuno.
“... al mandato di arresto...”
proseguì, senza capire ancora ciò che stava leggendo
“... di Volodin Innokentij Artem’evič, anno 1919...”
Solo quando sentì il corpo come trafitto da parte a parte da un grosso ago e
un calore espandersi all’improvviso, Innokentij spalancò la bocca, ma non gli
era ancora uscito un suono, non aveva ancora lasciato cadere sul ginocchio la
mano con il foglietto rosa, che il “meccanico” lo afferrò per una spalla e, in
tono minaccioso, gli sibilò:
– Su, calmo, calmo, non muoverti o ti strangolo subito!
Abbagliò Volodin con la torcetta e gli soffiò in faccia il fumo della papirosa.
Poi gli strappò via il foglio.
Sebbene Innokentij avesse letto che si trovava in arresto – e quella era una
voragine e la fine della vita, per un breve istante trovò insopportabili solo
quell’impudenza, le dita che lo afferravano, il fumo e la luce sulla faccia.
– Mi lasci – esclamò, cercando con le dita deboli di liberarsi. Adesso era
cosciente che si trattava di un mandato, per il suo arresto, ma che si trovasse in
quella macchina e avesse lasciato salire il “meccanico” gli appariva una
sfortunata coincidenza: doveva liberarsi e scappare dal capo al ministero, per
far annullare l’arresto.
Si attaccò convulsamente alla maniglia della portiera sinistra, ma anche
quella non cedeva, non si apriva.
– Autista! Mi risponda! Cos’è questa provocazione?! – esclamò Innokentij
con rabbia.
– Sono al servizio dell’Unione Sovietica, consigliere! – scandì l’autista con
scherno, voltando la testa per un attimo.
Piegandosi alle regole della circolazione stradale, l’automobile percorse tutto
il perimetro della scintillante piazza della Lubjanka, come in un giro d’addio,
dando a Innokentij la possibilità di vedere per l’ultima volta quel mondo e gli
edifici fusi insieme alti cinque piani della Vecchia e della Nuova Lubjanka, dove
la sua vita stava per finire.
Sotto i semafori si affollavano e ripartivano gruppi di automobili, passavano
filobus mansueti, ronzavano autobus, passeggiavano folle di persone, ma
nessuno conosceva e notava quella vittima che veniva trascinata al massacro
sotto i loro occhi.
Sopra l’edificio della Grande Vecchia Lubjanka, al centro del tetto, garriva
una bandierina rossa illuminata da un faro attraverso un intaglio nella torretta
con le colonne. Era come il fiore rosso di Garšin, in grado di assorbire il male
del mondo. Due insensibili naiadi di pietra, semisdraiate, guardavano in basso
con disprezzo i piccoli cittadini trotterellanti.
L’automobile passò lungo la facciata dell’edificio, ormai celebre in tutto il
mondo, che raccoglieva tributi di anime da ogni continente, e svoltò sulla
Grande Lubjanka.
– Mi lasci! – Innokentij cercava di scrollarsi di dosso le dita del “meccanico”
conficcate nella spalla, vicino al collo.
I portoni di ferro nero si spalancarono all’istante non appena l’automobile vi
puntò contro il radiatore, e all’istante si richiusero non appena la macchina li
oltrepassò.
L’auto scivolò sotto l’arco nero all’interno del cortile.
Giunti all’arco la mano del “meccanico” mollò la presa. Si staccò del tutto
dal collo di Innokentij solo nel cortile. Mentre scivolava fuori dall’auto, in tono
serio l’uomo disse: – Si scende!
Era evidente ormai che non era affatto ubriaco.
Attraverso la portiera anteriore non bloccata scese anche l’autista.
– Giù! Mani dietro la schiena! – gli intimò. In quell’ordine glaciale chi
avrebbe potuto scovare il simpaticone di poco prima?
Innokentij scese dall’automobile-trappola, raddrizzò la schiena e, sebbene la
ragione per cui obbedire gli risultasse incomprensibile, obbedì: mise le mani
dietro.
L’arresto era avvenuto in modo brusco, ma non così spaventoso come uno
lo immagina quando se lo aspetta. Aveva addirittura ridotto Innokentij a uno
stato di calma: non avrebbe più avuto paura, non doveva più combattere,
escogitare qualcosa. Era la calma muta e piacevole che pervade il corpo di un
ferito.
Innokentij si guardò intorno nel cortiletto illuminato a tratti da uno o due
lampioni e da finestre isolate ai vari piani. Ricordava il fondo di un pozzo, con
le quattro mura degli edifici che salivano.
– Guardi dritto davanti! – alzò la voce “l’autista”. – Marsh!
Così uno dietro l’altro, con Innokentij nel mezzo, passando accanto a figure
indifferenti con l’uniforme dell’MGB, superarono tutti e tre un arco basso,
scesero dei gradini fino a un altro cortiletto inferiore, coperto, buio, da quello
presero a sinistra ed entrarono in un portone immacolato, simile all’entrata
dell’anticamera di un famoso medico.
Dietro il portone proseguiva un piccolo corridoio oltremodo pulito,
inondato di luce elettrica. I pavimenti verniciati di fresco, su cui era stesa una
passatoia, erano stati lavati da poco.
L’“autista” prese a far schioccare la lingua in modo strano, quasi chiamasse
un cane. Ma di cani non ce n’erano.
Il corridoio era interrotto da una porta di vetro con tende scolorite
all’interno. La porta era rinforzata da un’inferriata con le barre storte, come
quelle dei recinti dei giardinetti pubblici vicini alle stazioni. Al posto di una
targhetta da medico, c’era appesa la scritta:
ANTICAMERA DEI DETENUTI

Nessuna fila.
Suonarono il campanello, di un genere antico, con la manovella girevole. Un
sorvegliante imperturbabile, con il viso oblungo, spalline azzurro cielo e strisce
bianche da sergente di traverso, sbirciò scostando appena le tendine, per poi
spalancare la porta. L’“autista” prese dal “meccanico” il foglio rosa intestato e
lo mostrò al sorvegliante.
Quello lo scorse, annoiato, come un farmacista insonnolito risvegliato a
forza legge una ricetta; rientrarono in due.
Innokentij e il “meccanico” rimasero in profondo silenzio davanti alla porta
appena sbattuta.
“Anticamera dei detenuti” diceva la scritta, che equivaleva a “Obitorio”.
Innokentij non ebbe nemmeno il tempo di osservare quel bellimbusto stretto
nel cappotto, che recitava assieme a lui quella commedia. Forse, avrebbe
dovuto protestare, gridare, esigere giustizia, ma si era dimenticato persino di
avere le mani dietro la schiena, le teneva così e basta. In lui ogni pensiero si era
bloccato: fissava la scritta “Anticamera dei detenuti” come ipnotizzato.
Dalla porta giunse il suono morbido di una serratura all’inglese. Il
sorvegliante con il viso oblungo fece loro cenno di entrare e si incamminò per
primo, emettendo lo stesso schiocco con la lingua, il richiamo per cani.
Ma non c’era nessun cane nemmeno lì.
Anche il corridoio era inondato di luce e lindo come un ospedale.
Nel muro c’erano due porte verniciate verde oliva. Il sergente ne spalancò
una e ordinò:
– Dentro.
Innokentij obbedì. Fece a malapena in tempo a capire che si trattava di una
stanza vuota con un grande tavolo grezzo, un paio di sgabelli e senza finestre,
che l’“autista”, da un lato, e il “meccanico”, da dietro, si lanciarono su di lui:
quattro mani lo afferrarono e gli perquisirono prontamente tutte le tasche.
– Che razza di banditismo è questo – disse Innokentij, in tono esausto. –
Chi vi dà il diritto? – Si divincolò un po’, ma la consapevolezza interiore che
non si trattava affatto di banditismo, che stavano soltanto eseguendo il proprio
dovere, aveva tolto ai suoi movimenti energia e alla sua voce sicurezza.
Gli sfilarono l’orologio da polso e gli sequestrarono due taccuini, una penna
stilografica e un fazzoletto da naso. Innokentij vide loro in mano un paio di
strette spalline argentate e si stupì della coincidenza che fossero anch’esse da
diplomatici, con lo stesso numero di stellette delle sue. I bruschi abbracci si
interruppero. Il “meccanico” gli porse il fazzoletto:
– Prenda.
– Dopo che l’ha toccato con quelle mani sporche? – esclamò Innokentij con
la voce stridula, e indietreggiò. Il fazzoletto cadde sul pavimento.
– Per i valori le faremo avere la ricevuta – disse l’“autista”, e uscirono
entrambi frettolosamente.
Il sergente con il viso oblungo, invece, non aveva fretta. Lanciò un’occhiata
sul pavimento e consigliò:
– Prenda quel fazzoletto.
Innokentij non si chinò.
– Ma che cosa avete fatto? Mi avete strappato via le spalline? – Se n’era
accorto soltanto in quel momento, sentendo a tastoni sulle spalle, sotto il
cappotto, che quelle non c’erano più, e si era infuriato.
– Mani dietro la schiena! – disse allora il sergente, con indifferenza. – Fuori!
E prese a far schioccare la lingua.
Ma di cani non ce n’erano.
Dopo una svolta brusca si ritrovarono in un altro corridoio, dove su
entrambi i lati si susseguiva una sfilza di piccole porte verde oliva con i numeri
sugli ovali a specchio. Vicino a quelle porte c’era una donna anziana dall’aria
sciupata, con una gonna militare e una giubba con le stesse spalline azzurro
cielo e le stesse strisce bianche da sergente. Quando erano spuntati oltre la
curva, la donna aveva osservato dentro il buco di una delle porte. Mentre si
avvicinavano, aveva riappoggiato tranquillamente lo sportello e guardato
Innokentij come se fosse passato di lì quel giorno già centinaia di volte e lei
non trovasse nulla di strano che fosse ricomparso di nuovo. Era scura in viso.
Infilò una lunga chiave nella serratura sulla scatoletta d’acciaio pensile della
porta numero 8, l’aprì con un gran fracasso e gli fece cenno con la testa:
– Dentro.
Innokentij varcò la soglia e non fece in tempo a voltarsi per chiedere
spiegazioni che la porta si richiuse alle sue spalle, la serratura che girava
rumorosamente.
Ecco dove gli sarebbe toccato vivere ora! Per un giorno? o un mese? oppure
un anno? Quel locale non poteva definirsi una stanza, e nemmeno una cella,
visto che, come la letteratura ci ha insegnato, quella deve avere almeno una
finestrella, anche piccola, e lo spazio per camminare. Mentre lì, non solo non si
poteva camminare e non ci si poteva sdraiare, non era possibile nemmeno
sedersi liberamente. C’erano un comodino e uno sgabello che occupavano
quasi tutto lo spazio del pavimento. Se ti sedevi sullo sgabello non potevi
nemmeno allungare le gambe comodamente.
In quel bugigattolo non c’era altro. Un pannello verde oliva verniciato a olio
arrivava all’altezza del petto, oltre il quale la parete e il soffitto erano intonacati
di un bianco acceso che rifletteva la luce accecante di una grossa lampadina da
duecento watt appesa al soffitto e racchiusa in una gabbia di fil di ferro.
Innokentij si sedette. Venti minuti prima stava pensando a quando sarebbe
volato in America e là, ovviamente, avrebbe ricordato loro della sua telefonata
all’ambasciata. Venti minuti prima tutta la sua vita passata gli era parsa un
unico insieme armonioso, ogni evento che illuminava con la sua serena luce di
ragionevolezza e si fondeva con gli altri eventi in bianchi lampi di successo. Ma
erano trascorsi venti minuti e lì, in quella trappola piccola e stretta, tutta la sua
vita passata gli sembrava ora, con la stessa forza di persuasione, un susseguirsi
di errori, un ammasso di frammenti neri.
Dal corridoio non giungevano suoni; solo un paio di volte, da qualche parte
lì vicino, si era aperta e richiusa una porta. Ogni minuto lo sportello si scostava
e attraverso lo spioncino di vetro un solitario occhio indagatore osservava
Innokentij.
La porta era spessa quattro dita e il cono del foro d’osservazione si
estendeva dallo spioncino per tutto il suo spessore. Innokentij intuì che era
fatto in modo che non ci fosse nessun punto in quella gattabuia dove il
detenuto potesse celarsi dallo sguardo del sorvegliante.
Era un luogo angusto e afoso. Innokentij si tolse il caldo cappotto invernale
e lanciò un’occhiata alla “carne” sotto le spalline strappate dall’uniforme. Non
trovando sulle pareti né un chiodo né la minima sporgenza, appoggiò il
cappotto e il colbacco sullo sgabello.
Era strano, ma ora che nella sua vita il fulmine dell’arresto era caduto,
Innokentij non provava più terrore. Al contrario, la sua mente bloccata si era
rimessa in moto e valutava gli errori commessi.
Perché non aveva letto il mandato per intero? Era stato formulato in modo
corretto? C’era il sigillo? La ratifica del procuratore? Si cominciava da una
ratifica del procuratore. Quale numero c’era scritto sul mandato? Quale accusa
riportava? Il capo ne era al corrente quando lo aveva chiamato? Certo che ne
era al corrente. Dunque, la chiamata era una trappola? Ma perché quel metodo
strano, quel teatrino con l’“autista” e il “meccanico”?
In una tasca sentì qualcosa di piccolo e duro. Lo estrasse. Era una matitina
graziosa e sottile, scivolata dall’elastico di un taccuino. Innokentij fu molto
felice di averla trovata: avrebbe potuto fargli davvero comodo! Che cialtroni!
Cialtroni anche lì, alla Lubjanka! Non sanno nemmeno perquisire! Pensando a
dove fosse meglio nasconderla, Innokentij la spaccò in due, ficcò il primo
pezzo in una scarpa, il secondo nell’altra, e vi fece scivolare sopra i piedi.
Ah, che errore! Non leggere nemmeno di che cosa lo accusavano! Magari
l’arresto non era neppure collegato a quella telefonata? Forse si trattava di uno
sbaglio, di una coincidenza? Qual era il giusto comportamento che avrebbe
dovuto tenere ora?
O non c’era nemmeno scritto di che cosa lo accusavano? Ovvio che non
c’era. Ti arrestavano e basta.
Era trascorso poco tempo, ma già svariate volte aveva sentito il ronzio
uniforme di una macchina dietro la parete di fronte, oltre il corridoio. Quel
ronzio ora aumentava, ora si quietava. All’improvviso, a quel semplice
pensiero, Innokentij si sentì a disagio: che tipo di macchina poteva esserci? Era
una prigione, non una fabbrica... a che serviva quella macchina? La sua mente
degli anni Quaranta, che aveva sentito parlare di mezzi meccanici per
sterminare le persone, andò subito a qualcosa di spiacevole. Gli balenò il
pensiero assurdo e insieme, in qualche modo, del tutto probabile, che fosse una
macchina per macinare le ossa dei detenuti già uccisi. Ebbe paura.
“Sì,” nel frattempo un pensiero lo tormentava nel profondo “che razza di
sbaglio! Non ho neanche letto il mandato fino in fondo, non ho protestato,
detto che ero innocente.” Si era sottomesso all’arresto così docilmente da aver
confermato la sua colpevolezza! Come aveva fatto a non protestare? Perché
non protestava? Era evidente che si aspettava un arresto, che si era preparato!
Quello sbaglio fatale lo trafisse! Il primo pensiero fu di balzare in piedi,
battere con le mani, con i piedi, gridare a squarciagola che era innocente, che
dovevano aprirgli, ma quell’idea fu coperta da un’altra idea, più ponderata: che,
probabilmente, non sarebbero rimasti sorpresi, lì forse battevano e gridavano
in molti; il silenzio dei primi minuti, in ogni caso, doveva già aver
compromesso tutto.
Ah, come aveva fatto a consegnarsi così tranquillamente nelle loro mani!
Senza opporsi né fare rumore, aveva permesso che un diplomatico d’alto rango
venisse portato via dal suo appartamento, dalle strade di Mosca, e poi chiuso a
chiave in quel bugigattolo.
Da lì non si scappava! Oh, non si scappava!
E se il suo capo, invece, lo stava ancora aspettando? C’era un modo, anche
sotto scorta, di arrivare da lui? Come poteva scoprirlo?
No, nella testa non gli si era chiarito nulla, si era fatto solo più complicato e
ingarbugliato.
La macchina dietro la parete ora tornava a ronzare, ora si zittiva.
Gli occhi di Innokentij, accecati dalla luce eccessivamente forte per un locale
alto e stretto di tre metri cubi, cercavano da un pezzo un po’ di riposo
nell’unico quadratino nero che ravvivava il soffitto. Quel quadratino protetto
da sbarre metalliche doveva essere uno sfiatatoio, anche se non si sapeva dove
portasse né da dove partisse.
All’improvviso gli venne l’idea che quello non fosse uno sfiatatoio, da lì
immettessero lentamente del gas velenoso, preparato forse proprio dalla
misteriosa macchina ronzante, avessero cominciato a far entrare il gas
nell’attimo stesso in cui lo avevano chiuso lì dentro e quel bugigattolo cieco,
con la porta ben sigillata alla cornice, non potesse servire ad altro che a quello!
Anche per questo lo controllavano dallo spioncino, per capire se fosse
ancora cosciente o già avvelenato.
Ecco la ragione di quei pensieri così confusi: stava perdendo conoscenza!
Ecco perché si sentiva soffocare già da un bel pezzo! Perché gli pulsava la testa
a quel modo!
All’interno si stava riversando del gas! incolore! inodore!!
Che terrore! un eterno terrore animale! Come quello che unisce predatori e
prede in un’unico branco in fuga dall’incendio di un bosco. Il terrore avvolse
Innokentij, che, messo da parte ogni calcolo e ogni altro pensiero, cominciò a
colpire a calci e pugni la porta, chiamando qualcuno di vivo.
– Aprite! Aprite! Soffoco! Aria!!
Ecco per quale ragione lo spioncino aveva una forma a cono, era fatto in
modo che il vetro non si rompesse con un pugno!
Un frenetico occhio spalancato si accostò al vetro dall’altra parte per
assistere con malignità alla morte di Innokentij.
ОOh, che spettacolo! Un occhio strappato via, un occhio senza volto, un
occhio che raccoglieva in sé ogni espressione! E ti guardava morire!
Non c’era via di scampo!
Innokentij si lasciò cadere sullo sgabello.
Il gas lo stava soffocando...

173 Il riferimento è alla Città del Diavolo Giallo di Maksim Gor’kij, opera in cui lo scrittore racconta un suo
viaggio a New York. Il “diavolo giallo” era l’oro.
92
CUSTODIRE IN ETERNO

All’improvviso (sebbene si fosse chiusa con fracasso) la porta si spalancò


silenziosa.
Il sorvegliante con il viso oblungo oltrepassò la soglia stretta e nel
bugigattolo, non dal corridoio, a bassa voce, domandò minaccioso: – Cosa
batte a fare?
Innokentij si sentì sollevato. Se il sorvegliante non aveva avuto paura ed era
entrato significava che ancora non lo stavano avvelenando.
– Mi sento male! – disse in tono già meno sicuro. – Mi dia un po’ d’acqua!
– Se lo metta in testa! – gli suggerì il sorvegliante, in tono severo. – Non
può battere in nessun caso, altrimenti verrà punito.
– Ma se stessi male? Se avessi bisogno di chiamarvi?
– E non si parla ad alta voce! Se deve chiamare – spiegò il sorvegliante con
la stessa imperturbabilità monotona e arcigna – aspetti che si apra lo spioncino
e alzi il dito in silenzio.
Uscì e richiuse la porta.
La macchina oltre la parete ripartì per poi ammutolirsi.
La porta si riaprì, di nuovo con un gran baccano. Innokentij cominciò a
capire: li avevano addestrati ad aprire sia in modo rumoroso sia silenzioso, in
base alle esigenze.
Il sorvegliante porse a Innokentij una tazza d’acqua.
– Senta, – disse Innokentij, prendendo la tazza. – Sto male, ho bisogno di
sdraiarmi!
– Nel box non si può.
– Dove? Dov’è che non si può? – (Aveva voglia di parlare, persino con
quello zuccone!)
Ma il sorvegliante era già uscito e stava chiudendo la porta.
– Senta, mi chiami il capo! Per cosa mi hanno arrestato? – prese coraggio
Innokentij.
La porta si richiuse.
Aveva detto “box”? “Box” in inglese significava scatola. Con cinismo
chiamavano quel bugigattolo “scatola”? Be’, in effetti, era azzeccato.
Innokentij fece un sorso. Gli passò subito la sete. Era una tazza da trecento
grammi, smaltata, verdastra, con un disegno strano: una gattina con gli occhiali
faceva finta di leggere un libro e intanto con la coda dell’occhio puntava un
uccellino impertinente che le saltellava accanto.
Era impossibile che avessero scelto quel disegno di proposito per la
Lubjanka. Ma come si adattava bene! La gattina era il potere sovietico, il libro la
costituzione staliniana e il passerotto l’io pensante.
A Innokentij venne quasi da sorridere, e all’improvviso da quel sorriso
sghembo riaffiorò in tutto il suo abisso quanto gli era accaduto. E riaffiorò
anche una strana gioia, la gioia per un briciolo di vita che gli stava tornando.
Prima non pensava fosse possibile sorridere già dopo mezz’ora nelle camere
di tortura della Lubjanka.
(Ščevronok, nel box accanto, era messo peggio: nemmeno una gattina gli
avrebbe fatto allegria.)
Innokentij spostò il cappotto per liberare spazio sul comodino e vi appoggiò
la tazza.
La serratura rintronò. Si aprì la porta ed entrò un tenente con un foglio in
mano. Dietro la sua spalla si scorgeva il viso magro del sergente.
Innokentij si alzò con disinvoltura nell’uniforme diplomatica grigio-azzurra
con le palme d’oro ricamate e gli andò incontro.
– Senta, tenente, che succede? Cos’è questo malinteso? Mi dia il mandato,
non l’ho letto.
– Cognome? – domandò il tenente, impassibile, fissando Innokentij con
sguardo vitreo.
– Volodin – rispose Innokentij, facendosi avanti, pronto a chiarire la
situazione.
– Nome e patronimico?
– Innokentij Artem’evič.
– Anno di nascita? – Il tenente verificava ogni risposta sulla carta.
– Millenovecentodiciannove.
– Luogo di nascita?
– Leningrado.
E proprio quando non restava che chiarirsi con il consigliere di secondo
rango in attesa di una spiegazione, il tenente se ne andò, chiudendosi la porta
alle spalle e schiacciando quasi il consigliere.
Innokentij si sedette e chiuse gli occhi. Cominciava a sentire la forza di
quelle tenaglie meccaniche.
La macchina riprese a ronzare.
Poi ammutolì.
Gli vennero in mente questioni grandi e piccole, talmente urgenti un’ora
prima che le gambe gli fremevano: doveva alzarsi e correre a portarle a termine.
Ma dal box non soltanto non si poteva scappare, non c’era nemmeno lo
spazio per fare un singolo passo.
Lo sportello dello spioncino si scostò. Innokentij alzò il dito. Gli aprì la
porta quella donna con le spalline celesti e la faccia pesante e ottusa.
– Ho bisogno di fare... quella cosa... – disse lui, con aria significativa.
– Mani dietro! Fuori! – gli ordinò la donna in tono imperioso, e obbedendo
a un cenno della testa di lei, Innokentij uscì nel corridoio, che dopo l’afa del
box gli parve di un fresco piacevole.
Una volta accompagnato Innokentij a breve distanza, la donna indicò una
porta:
– È qui!
Innokentij entrò. La porta si richiuse alle sue spalle.
A parte un buco nel pavimento e due bitorzoluti poggiapiedi di ferro, la
restante superficie misera del pavimento e delle pareti del piccolo bugigattolo
era rivestita di rossicce piastrelle di ceramica. Nel buco gorgogliava rinfrescante
l’acqua.
Contento di potersi sottrarre almeno lì alla continua sorveglianza,
Innokentij si accovacciò.
Ma dietro la porta udì uno scalpiccio. Sollevò la testa e notò anche lì il solito
spioncino con la svasatura conica: l’incalzante occhio attento lo seguiva
ininterrottamente, senza più intervalli.
Con spiacevole imbarazzo, Innokentij si rialzò. Non appena sollevò il dito a
indicare che era pronto, la porta si aprì.
– Mani dietro. Fuori! – disse la donna, imperturbabile.
Tornato nel box, Innokentij sentì il desiderio di scoprire che ore fossero.
Sovrappensiero, scostò il risvolto della manica, ma il tempo lì non c’era più.
Sospirò e si mise a osservare la gattina sulla tazza. Non poté addentrarsi nei
suoi pensieri: la porta si aprì. Un tizio nuovo, la faccia grossa e le spalle larghe,
con indosso un camice grigio sopra la giubba, domandò:
– Cognome?
– Ho già risposto! – si indispettì Innokentij.
– Cognome? – ripeté il nuovo arrivato in tono piatto, come una voce
registrata che annunci una stazione.
– Va bene: Volodin.
– Prenda la roba e venga – disse camice grigio, imperturbabile.
Innokentij afferrò il cappotto e il cappello dal comodino e uscì. Gli
ordinarono di entrare nella stessa prima stanza in cui gli avevano strappato via
le spalline, tolto l’orologio e i taccuini.
Il fazzoletto sul pavimento non c’era più.
– Senta, hanno preso le mie cose! – si lamentò Innokentij.
– Si spogli! – rispose il sorvegliante con il camice grigio.
– Perché? – si stupì Innokentij.
Il sorvegliante lo trafisse con uno sguardo semplice e duro. – Lei è russo? –
domandò in tono severo.
– Sì. – Di solito tanto arguto, Innokentij non trovò altro da dire.
– Si spogli!
– Perché? Chi non è russo non è obbligato? – si concesse una battuta, con
aria malinconica.
Il sorvegliante rimase in attesa, muto come una pietra.
Dopo un sorrisetto sprezzante e un’alzata di spalle, Innokentij si sedette
sullo sgabello, si sfilò le scarpe e, tolta l’uniforme, la porse al sorvegliante. Non
che venerasse la sua uniforme, ma rispettava quel completo con le cuciture
dorate.
– La butti lì! – disse camice grigio, indicando il pavimento. Innokentij non si
decideva. Il sorvegliante gli strappò l’uniforme grigio-azzurra dalle mani, la
gettò a terra e, scandendo bene, aggiunse:
– Nu-do!
– Cioè, come nudo?
– Nudo!
– Non posso assolutamente, compagno! Qui fa freddo, mi capisca!
– Verrà spogliato con la forza – lo avvertì il sorvegliante.
Innokentij ci pensò. Gli si erano già gettati addosso ed era probabile che
l’avrebbero fatto ancora. Rattrappendo per il freddo e per il ribrezzo, si tolse la
biancheria di seta e la gettò docilmente sullo stesso mucchio.
– Anche le calze!
Tolte quelle, Innokentij si trovava ora in piedi sul pavimento di legno con le
gambe nude, glabre, di un bianco candido, come il resto del suo corpo
arrendevole.
– Apra la bocca. Di più. Dica ‘a’. Di nuovo, più lungo: ‘a-a-a!’ Ora sollevi la
lingua.
Tirate a Innokentij con le mani sporche, come a un cavallo da acquistare,
prima una guancia, poi l’altra, la pelle sotto un occhio, poi quella sotto l’altro, e
accertato che da nessuna parte, né sotto la lingua, né dentro le guance e gli
occhi, ci fosse nascosto qualcosa, il sorvegliante con un movimento brusco
rivoltò indietro la testa a Innokentij per far cadere la luce nelle narici, poi
controllò entrambe le orecchie, tirandole per i lobi, gli ordinò di aprire bene le
dita e si accertò che non ci fosse niente neanche lì, gli fece scrollare le braccia e
si assicurò che nemmeno sotto le ascelle ci fosse qualcosa. Allora, sempre con
la stessa voce implacabile da automa, ordinò:
– Si prenda in mano il membro. Tiri su la pelle. Ancora. Così è sufficiente.
Lo sposti in alto a destra. In alto a sinistra. Bene, lo lasci. Si giri di schiena.
Allarghi le gambe. Di più. Si chini fino a terra. Le gambe più larghe. Con le
mani si apra le natiche. Così. Bene. Adesso si accucci. Veloce! Di nuovo!
Prima, pensando all’arresto, Innokentij si raffigurava un duello spirituale
accanito con il Leviatano statale. Era concentrato, pronto alla somma difesa del
proprio destino e delle proprie convinzioni. Tuttavia, non si immaginava in
alcun modo che sarebbe stato tutto così banale e ottuso, così inevitabile. Le
persone che lo avevano accolto alla Lubjanka erano di basso livello, limitate,
indifferenti alla sua persona e all’atto che lo aveva condotto lì, ma attente in
modo acuto a piccolezze cui Innokentij non era preparato né poteva ribellarsi.
Che senso aveva una sua opposizione e quale vantaggio poteva portargli? Ogni
volta che esigevano da lui qualcosa di insignificante rispetto alla sua grande
imminente battaglia, non valeva la pena di impuntarsi, ma tutta la tortuosità
metodica della procedura era in grado di spezzare completamente la volontà di
un detenuto.
Così, avvilito, sottostava a ogni umiliazione, in silenzio.
L’addetto alla perquisizione ordinò a Innokentij di spostarsi più vicino alla
porta e di sedersi sullo sgabello. Sembrava impossibile toccare con una parte
nuda quell’ennesimo oggetto freddo. Ma Innokentij si sedette e ben presto
scoprì con piacere che lo sgabello di legno cominciava a riscaldarlo.
Nella vita Innokentij aveva provato molti piaceri forti, ma quella cosa nuova
non l’aveva mai sperimentata. Con i gomiti stretti al petto e le ginocchia
sollevate più in alto, sentì ancora più tepore.
Rimase seduto così, mentre l’addetto alla perquisizione, in piedi vicino al
mucchio dei suoi vestiti, li scuoteva, li tastava e li guardava in controluce.
Dando prova di umanità, non trattenne a lungo i mutandoni e le calze. I
mutandoni, si limitò a schiacciarli con cura, tastata dopo tastata, in tutte le
cuciture e le impunture, per poi gettarli ai piedi di Innokentij. Le calze, le
staccò dai reggicalze elastici, le rovesciò e gliele gettò. Premute le impunture e
le pieghe della maglia intima, lanciò verso la porta anche quella, in modo che
Innokentij potesse vestirsi, facendo tornare a poco a poco il corpo a un calore
beato.
Poi l’addetto alla perquisizione estrasse un grosso coltello pieghevole con un
rozzo manico di legno, lo aprì e si occupò delle scarpe. Vi estrasse con
disprezzo i due pezzetti di matitina e con la faccia concentrata prese a piegare
ripetutamente le suole, cercandovi all’interno qualcosa di duro. Tagliata con il
coltello la soletta, in effetti, vi trovò il pezzetto di una strisciolina d’acciaio e lo
posò sul tavolo. Poi afferrò un punteruolo e con quello perforò un tacco.
Innokentij seguiva il suo lavoro con lo sguardo immobile ed ebbe la forza di
pensare che forse quell’uomo ne aveva abbastanza di maneggiare la biancheria
intima degli altri, tagliare scarpe e gettare un occhio in orifizi posteriori, anno
dopo anno. Il viso dell’addetto alla perquisizione doveva essere impassibile e
ostile anche per quello.
A furia di osservare in angosciosa attesa, però, quegli sfolgoranti pensieri
ironici si spensero. L’addetto alla perquisizione cominciò a strappare via
dall’uniforme tutte le cuciture dorate, i bottoni, le mostrine. Poi squarciò la
fodera e vi frugò dentro. Non dedicò minor tempo a trafficare con le pieghe e
le cuciture dei pantaloni. Il cappotto invernale gli diede ancora più da fare – là,
nel profondo dell’ovatta, il sorvegliante, probabilmente, sentiva un fruscio
strano (un biglietto cucito dentro? un indirizzo? una fiala di veleno?) – e,
scucita la fodera, cercò a lungo nell’ovatta, con un’espressione tanto
concentrata e impensierita, neanche stesse eseguendo un intervento a cuore
aperto.
La perquisizione durò parecchio tempo, forse più di un’ora. Infine, l’addetto
incaricato cominciò a raccogliere i vari trofei: le bretelle, i reggicalze elastici
(aveva annunciato a Innokentij fin da subito che non era permesso tenere in
prigione né gli uni né gli altri), la cravatta, il fermaglio della cravatta, i gemelli,
la strisciolina di acciaio, i due pezzetti di matita, il filo dorato, tutte le
onorificenze militari e una gran quantità di bottoni. Solo allora Innokentij ne
comprese e valutò l’opera distruttiva. Non le crepe nella suola, non la fodera
scucita, e neanche l’ovatta che sporgeva dall’imbocco ascellare delle maniche
del cappotto – ma la mancanza di quasi tutti i bottoni proprio quando gli
proibivano anche le bretelle, chissà perché, stupì Innokentij più di tutti gli altri
maltrattamenti di quella sera.
– Perché ha staccato i bottoni? – esclamò.
– Non sono ammessi – brontolò il sorvegliante.
– Com’è possibile? Come faccio ad andare in giro?
– Allacci i pantaloni con dei cordoncini – rispose quello già sulla porta,
scuro in viso.
– Ma che dice? Quali cordoncini? Dove li prendo?
Ma la porta si richiuse, sbattendo.
Innokentij non si mise a battere né a insistere: sul cappotto e da qualche
altra parte avevano lasciato dei bottoni, già di quello bisognava rallegrarsi.
Si abituava in fretta.
Con i vestiti che gli cadevano, non fece in tempo a camminare un po’ nel suo
nuovo locale e a godersi lo spazio sgranchendosi le gambe, che già la chiave
nella porta tornava a riecheggiare: comparve un nuovo sorvegliante con un
camice bianco non troppo pulito. L’uomo guardò Innokentij come fosse un
oggetto che si trovava da sempre in quella stanza e in tono brusco ordinò:
– Si spogli nudo!
Innokentij avrebbe voluto rispondere indignandosi, reagire minaccioso, ma
dalla gola strozzata e offesa, la voce da pulcino, gli uscì una protesta ben poco
convincente:
– Mi sono appena spogliato! Non potevate avvertirmi prima?
Evidentemente non potevano, perché il nuovo arrivato, con sguardo
inespressivo e annoiato, si assicurò che l’ordine fosse eseguito al più presto.
Di tutte le persone di quel luogo Innokentij trovava sconcertante
soprattutto la capacità di tacere quando le persone normali rispondevano.
Preso già il ritmo di una sottomissione incondizionata e apatica, si svestì e si
levò le scarpe.
– Si sieda! – disse il sorvegliante, indicando lo sgabello su cui Innokentij era
già stato a lungo.
Il detenuto, nudo, si sedette docilmente, senza pensare al perché.
(L’abitudine dell’uomo libero di ponderare le proprie azioni prima di
compierle in lui si stava atrofizzando in fretta, poiché altri già pensavano al
posto suo.) Il sorvegliante gli afferrò bruscamente la nuca. La fredda superficie
tagliente della macchinetta gli premette con forza sul cranio.
– Che sta facendo? – sussultò Innokentij, in un debole sforzo, cercando di
liberare la testa dalle dita che lo afferravano. – Chi le dà il diritto? Non sono
ancora un detenuto! – (Voleva dire che l’accusa non era ancora stata
dimostrata.)
Ma il barbiere, continuando a tenergli con forza la testa, proseguì a raderlo
in silenzio. Il barlume di resistenza sorto in Innokentij si spense. L’orgoglioso
giovane diplomatico che scendeva dalle scalette degli aerei transcontinentali
con quell’aspetto autorevole e distaccato, e strizzando gli occhi distrattamente
guardava lo splendore diurno delle capitali europee intorno a lui, adesso era un
uomo nudo, ossuto e apatico con la testa rasata per metà.
I soffici capelli castano chiaro di Innokentij cadevano come neve in tristi
fiocchi silenziosi. Ne afferrò uno e lo sfaldò teneramente fra le dita. Sentì
quanto amava sé stesso e quella vita sul punto di andarsene.
Ricordò l’intuizione cui era arrivato: la docilità sarà interpretata come
colpevolezza. Ricordò che aveva deciso di opporsi, obiettare, litigare, esigere di
vedere il procuratore, ma a dispetto della ragione la sua volontà era come
ghiacciata dallo stesso dolce torpore di un assiderato nella neve.
Dopo averlo rapato, il barbiere gli ordinò di alzarsi e di sollevare un braccio
alla volta e gli rase le ascelle. Infine si accucciò e con la stessa macchinetta
cominciò a radergli il pube. Era una cosa insolita, faceva molto solletico. Senza
volerlo Innokentij fece per coprirsi, ma il barbiere glielo impedì.
– Mi posso rivestire? – domandò Innokentij, quando la procedura si
concluse.
Ma il barbiere se ne andò senza dire una parola.
La furbizia diceva a Innokentij di non affrettarsi a rivestirsi. Nei punti
delicati appena rasati provava un pizzicore fastidioso. Passandosi una mano
sulla testa tanto insolita (non ricordava di essere mai stato così glabro
dall’infanzia), sentì sul cranio uno strano vellutino corto e irregolarità
sconosciute.
Indossò comunque la biancheria, ma quando stava per infilarsi i pantaloni, la
serratura rintronò e fece la sua comparsa un altro sorvegliante, con un naso
viola carnoso. Nelle mani stringeva una grossa scheda di cartoncino.
– Cognome?
– Volodin – rispose il detenuto, senza più opporsi, anche se quelle
ripetizioni insensate cominciavano a infastidirlo.
– Nome e patronimico?
– Innokentij Artem’ič.
– Anno di nascita?
– Millenovecentodiciannove.
– Luogo di nascita.
– Leningrado.
– Si spogli nudo.
Faticando a immaginare che cosa stesse per succedere, tornò a svestirsi.
Intanto la maglia intima, che aveva posato sul bordo del tavolo, cadde sul
pavimento, ma la cosa né suscitò in lui ripugnanza né lo spinse a chinarsi a
raccoglierla.
Il sorvegliante con il naso viola cominciò a esaminare scrupolosamente
Innokentij da varie angolazioni e appuntò per tutto il tempo le sue
osservazioni sul cartoncino. Il fatto che riservasse così grande attenzione a nei
e dettagli del viso suggerì a Innokentij che gli stavano registrando i connotati.
Anche quello se ne andò.
Innokentij rimase seduto sullo sgabello, impietrito, senza rivestirsi.
Poi di nuovo il frastuono della porta. Comparve una signora tonda con i
capelli neri e un camice bianco come la neve. Aveva un viso altero e rude e
modi da intellettuale.
Innokentij si riebbe e corse a raccogliere i mutandoni per coprirsi le nudità.
Ma la donna gli lanciò uno sguardo sprezzante, per nulla femminile e,
sporgendo il labbro inferiore già di per sé pronunciato, domandò:
– Ha i pidocchi?
– Sono un diplomatico, io – si offese Innokentij, fissandola duramente negli
occhi neri, con i mutandoni premuti davanti a sé.
– E allora? Lamenta qualcosa?
– Per quale motivo sono stato arrestato? Fatemi leggere il mandato!
Chiamate il procuratore! – ripeté Innokentij, agitandosi.
– Non è quello che le è stato chiesto – si accigliò la donna, con voce stanca.
– Malattie veneree?
– Eh?
– È malato di gonorrea, sifilide, ulcera venerea? Lebbra? Tubercolosi?
Lamenta altro?
E se ne andò, senza aspettare una risposta.
Ricomparve il primo sorvegliante, quello con la faccia oblunga. Fu accolto
da Innokentij quasi con simpatia: lui non lo maltrattava né gli faceva del male.
– Perché non si riveste? – domandò il sorvegliante, in tono severo. – Si vesta
in fretta.
Fosse così facile! Chiuso dentro lì, Innokentij cercava di capire come
costringere i pantaloni a restare su senza le bretelle e senza gran parte dei
bottoni. Non potendo sfruttare l’esperienza di decine di generazioni di detenuti
precedenti, Innokentij si mise d’impegno e risolse la questione da solo, come
avevano fatto milioni di suoi predecessori. Intuì da dove ricavare dei
“cordoncini”: doveva legare i pantaloni in vita e sulla patta con le stringhe delle
scarpe. (Se n’era accorto solo in quel momento: dalle stringhe erano state
strappate via le punte di ferro. Non capì la ragione nemmeno di quello. In base
alle istruzioni della Lubjanka, con una di quelle punte, un detenuto poteva
suicidarsi.)
Le falde dell’uniforme non tentò nemmeno di allacciarle.
Dopo essersi sincerato dallo spioncino che il detenuto fosse vestito, il
sergente aprì la porta, gli ordinò di mettere le mani dietro e lo accompagnò in
un’altra stanza. Là c’era il sorvegliante con il naso viola che Innokentij
conosceva già.
– Via le scarpe! – Accolse così Innokentij.
A quel punto non fu difficile, le scarpe erano senza stringhe, si levarono
quasi da sole (di concerto, private dei reggicalze, si spostavano verso i piedi
anche le calze).
Contro una parete c’era uno statimetro, con la sua bianca asta graduata.
Naso viola fece aderire Innokentij all’asta con la schiena, gli abbassò la
piastra mobile sopra il cucuzzolo e trascrisse l’altezza.
– Può rimettersi le scarpe – disse.
Ma sulla soglia, faccia oblunga intimò:
– Mani dietro! Mani dietro! – Anche se il box n. 8 era a due passi, di traverso
nel corridoio.
Innokentij fu chiuso di nuovo nel suo box.
Dietro la parete la macchina misteriosa attaccava a ronzare e ammutoliva di
continuo.
Innokentij si lasciò cadere esausto sullo sgabello, il cappotto fra le mani. Da
quando era finito alla Lubjanka non aveva visto altro che un’accecante luce
elettrica, strette pareti anguste e guardie carcerarie indifferenti e taciturne. Le
procedure, una più assurda dell’altra, gli sembravano una presa in giro. Non si
era accorto che formavano una catena logica e sensata: perquisizione
preliminare da parte degli agenti operativi che lo avevano arrestato;
accertamento delle generalità del detenuto; ammissione del detenuto (in sua
assenza, nella segreteria) con ricevuta da parte dell’amministrazione carceraria;
perquisizione carceraria di base all’ammissione; primo trattamento sanitario;
registrazione dei connotati; visita medica. Le procedure lo intontivano, lo
privavano della capacità di giudizio e della volontà di opporsi. Il suo unico
straziante desiderio era di dormire. Convinto che lo avrebbero lasciato in pace,
con nuove idee sulla vita acquisite nelle prime tre ore alla Lubjanka, non
vedendo altro modo per sistemarsi, Innokentij appoggiò lo sgabello sopra il
comodino, gettò il cappotto di panno leggero con il collo di astrakan sul
pavimento e vi si sdraiò sopra, in diagonale. Con la schiena distesa sul
pavimento e la testa sollevata da un angolo del box, le gambe, piegate all’altezza
delle ginocchia, si torcevano nell’altro senso. In un primo momento, non
avendo ancora le membra rattrappite, provò piacere.
Tuttavia, non fece in tempo a volar via in un sonno avvolgente che la porta
si spalancò con un baccano terribile.
– In piedi! – sibilò la donna. Innokentij mosse a malapena le palpebre.
– In piedi! Subito!! – riecheggiarono sopra di lui gli ordini.
– E se voglio dormire?
– In piedi!!! – strillò più forte, imperiosa, la donna chinata su di lui, come
Medusa in un sogno.
Innokentij si alzò in piedi a fatica da quella posizione spezzata.
– Allora accompagnatemi dove ci si può sdraiare a dormire – disse lui, con
indolenza.
– Non è ammesso! – tagliò corto la Medusa con le spalline celesti, e uscì
sbattendo la porta.
Innokentij si addossò alla parete e attese che lei tornasse a studiarlo a lungo
dallo spioncino, una volta, e poi un’altra ancora, e ancora.
E approfittando dell’assenza della Medusa, si lasciò cadere di nuovo sul
cappotto.
La sua coscienza si stava già spegnendo quando la porta tuonò di nuovo.
Sulla soglia era comparso un altro uomo, alto e forte, con un camice bianco,
che ricordava un valoroso fabbro o l’operaio di una cava.
– Cognome? – domandò.
– Volodin.
– Con la roba!
Innokentij afferrò il cappotto e il cappello e, barcollando, con gli occhi
spenti, seguì il sorvegliante. Martoriato fino all’estremo, sentiva a malapena i
piedi, era come se sotto avesse un pavimento liscio. Dentro non trovava la
forza di muoversi, avrebbe voluto stendersi all’istante in mezzo al corridoio.
Lo condussero attraverso un passaggio angusto nella parete spessa e finirono
in un altro corridoio, più sporco, dove aprirono la porta di uno spogliatoio, gli
consegnarono un pezzo di sapone bianco più piccolo di una scatoletta di
fiammiferi e gli ordinarono di lavarsi.
Per un bel po’ Innokentij non si decise. Abituato alla pulizia a specchio delle
stanze da bagno rivestite di mattonelle, in quello spogliatoio di legno che a una
persona semplice sarebbe parso pulito lui sentiva uno sporco terribile. Trovò a
fatica un punto abbastanza asciutto sulla panca, vi si spogliò, attraversò con
disgusto le grate umidicce su cui erano passati sia a piedi nudi sia con le scarpe.
Avrebbe fatto volentieri a meno di svestirsi e lavarsi, ma la porta dello
spogliatoio si spalancò e il fabbro con il camice bianco gli intimò di andare
sotto la doccia.
Dietro una semplice porta sottile, con due intagli senza il vetro, non da
prigione, c’era il locale docce. Sopra quattro grate, che Innokentij trovò
altrettanto sporche, pendevano quattro docce da cui scendeva una deliziosa
acqua calda e fredda, che lui non riusciva ad apprezzare. Quattro docce a
disposizione di una sola persona! Ma Innokentij non provava nessuna gioia (se
solo avesse saputo che nel mondo degli zek sovente si lavavano quattro persone
sotto una sola doccia, avrebbe apprezzato quel privilegio moltiplicato per
sedici). Il disgustoso sapone puzzolente che gli avevano dato (in trent’anni di
vita non ne aveva mai tenuto in mano uno simile e non sapeva nemmeno che
ne esistessero così) lo aveva già gettato con ribrezzo nello spogliatoio. Per un
paio di minuti si sciacquò alla meno peggio, lavando soprattutto via i peli che
dopo la rasatura gli pungevano in punti delicati, e con la sensazione di non
essersi lavato, ma di aver raccolto altro sporco, tornò a vestirsi.
Impossibile. Le panche dello spogliatoio erano vuote, tutti i suoi vestiti
magnifici, anche se malconci, erano stati portati via ed erano rimaste solo le
scarpe, con le punte infilate sotto le panche.
La porta esterna era chiusa, lo sportello dello spioncino pure. A Innokentij
non restava altro che sedersi su una panca nudo come la statua del Pensatore di
Rodin a riflettere mentre si asciugava.
Poi gli consegnarono la rozza biancheria lavata della prigione, con scritto in
nero “Carcere Interno” sulla schiena e sulla pancia, e uno straccetto quadrato a
nido d’ape piegato in quattro con lo stesso marchio, che Innokentij non intuì
subito essere un asciugamano. I bottoni della biancheria erano di stoffa
pressata e ne mancavano anche lì alcuni; c’erano dei cordoncini, ma anche
quelli sfilacciati qua e là. I mutandoni, striminziti, gli stavano corti e stretti e gli
premevano sul perineo. La camicia, al contrario, cadeva abbondante, le maniche
gli coprivano anche le dita. Si rifiutarono di cambiargliela, giacché
indossandola l’aveva guastata.
Innokentij rimase seduto ancora a lungo nello spogliatoio con indosso la
goffa biancheria ricevuta. Gli dissero che i suoi indumenti superiori erano alla
“cottura”. Una parola nuova per Innokentij. Nemmeno durante la guerra, con
il paese invaso da quelle stanze di disinfezione a caldo, gli era mai capitato di
trovarsele di fronte. Ma fra i maltrattamenti insensati di quella notte ci stava a
pennello anche la “cottura” dei vestiti (si immaginava un grosso pentolone
infernale).
Innokentij cercò di riflettere in modo realistico sulla propria situazione e su
cosa potesse fare, ma i pensieri si confondevano e si frammentavano: ora
pensava ai mutandoni stretti ora al pentolone dentro il quale si trovava la sua
giacca, ora all’occhio fisso che compariva ogni volta che lo sportello dello
spioncino si scostava.
Il bagno aveva scacciato il sonno, ma una debolezza annichilente si era
impossessata di Innokentij. Desiderava sdraiarsi su qualcosa di asciutto e caldo
e starsene lì senza muoversi, recuperando le forze che defluivano via. Eppure,
non si decideva a stendersi con il costato nudo sulle spigolose assicelle umide
della panca (non erano assi continue, ma distanziate).
La porta si aprì, ma i vestiti dalla “cottura” non comparvero. Accanto al
sorvegliante del bagno c’era una ragazza dal viso largo e rubizzo in abiti civili.
Coprendosi con pudore i punti lasciati scoperti dalla biancheria, Innokentij si
avvicinò alla soglia. La ragazza gli ordinò di firmare un foglio e gli consegnò
una ricevuta rosa con scritto che quel giorno, il 26 dicembre, il Carcere Interno
dell’Urss aveva ricevuto in custodia da Volodin I.A.: un orologio di metallo
giallo, numero dell’orologio, numero del meccanismo...; una penna stilografica
con una decorazione di metallo giallo e un pennino uguale; un fermacravatte
con una pietra rossa incastonata; un paio di gemelli di pietra azzurra.
Innokentij si rimise in attesa con la testa china. Alla fine i vestiti arrivarono.
Il cappotto era freddo ma integro, mentre la giacca, i pantaloni e la camicia
erano sgualciti e ancora bollenti.
– Possibile che non si poteva fare attenzione all’uniforme come con il
cappotto? – si arrabbiò Innokentij.
– Il cappotto ha la pelliccia. È logico, no! – rispose il fabbro in tono serio.
Dopo la “cottura” sentiva anche i suoi vestiti ripugnanti ed estranei.
Completamente estraneo e scomodo, Innokentij fu condotto di nuovo nel suo
box n. 8.
Chiese altre due tazze di acqua con la solita immagine della gattina e bevve
avidamente.
A quel punto giunse da lui un’altra ragazza, che dopo una firma gli
consegnò una ricevuta azzurra con scritto che quel giorno, il 27 dicembre, il
Carcere Interno dell’mgb dell’Urss aveva ricevuto da Volodin I.A.: maglia
intima, una; mutandoni di seta, un paio; bretelle per i pantaloni e cravatta.
La macchina misteriosa continuava a ronzare. Di nuovo rinchiuso,
Innokentij appoggiò le braccia sul comodino, vi adagiò la testa e provò a
addormentarsi da seduto.
– Non si può! – disse il sorvegliante del nuovo turno, spalancando la porta.
– Che cosa non si può?
– Appoggiare la testa!
Immerso in pensieri confusi Innokentij si aspettava tutt’altro.
Gli portarono un’altra ricevuta, ora su foglio bianco, con scritto che il
Carcere Interno dell’MGB dell’Urss aveva ricevuto da Volodin I.A.: 123
(centoventitré) rubli.
Tornarono ancora: un altro viso nuovo, un tizio con un camice blu sopra un
costoso completo marrone.
Ogni volta che gli portavano una ricevuta gli domandavano il cognome.
Così anche ora gli domandarono di nuovo: Cognome? Nome e patronimico?
Anno di nascita? Luogo di nascita? Dopodiché, l’ultimo arrivato ordinò:
– Leggero!
– Cosa leggero? – si smarrì Innokentij.
– Leggero, senza roba! Mani dietro! – Nel corridoio tutti gli ordini venivano
impartiti a mezza voce, in modo che gli altri box non sentissero.
Schioccando la lingua al solito cane invisibile, l’uomo con il completo
marrone condusse Innokentij attraverso l’uscita principale e poi lungo un
corridoio fino a una grande stanza non da prigione, con le tende accostate alle
finestre, mobili imbottiti, scrivanie. Innokentij fu fatto accomodare su una
sedia in mezzo al locale. Capì che lo stavano per interrogare.
Negare! Negare ogni cosa assolutamente! Negare con tutte le forze!
Ma invece che interrogarlo, tirarono fuori da dietro le tende la levigata
scatola marrone di una macchina fotografica, puntarono ai lati di Innokentij
una luce forte, lo fotografarono una volta di fronte e una di profilo.
Il responsabile che aveva condotto Innokentij gli prese la mano destra, gli
premette i polpastrelli uno dopo l’altro contro un vischioso rullino nero
coperto da un inchiostro per timbri, e tutte e cinque le dita si fecero nere sulle
punte. Poi, staccate in modo uniforme le dita di Innokentij, un uomo con un
camice blu gliele premette con forza su un modulo, per poi strapparle via con
decisione. Cinque impronte nere con bianchi ghirigori si depositarono sul
modulo.
Gli imbrattarono allo stesso modo anche le dita della mano sinistra. Sul
modulo sopra le impronte c’era scritto:

Volodin Innokentij Artem’evič, anno 1919, Leningrado,

e ancora più in alto, con segni tipografici in grassetto nero:

CUSTODIRE IN ETERNO!

Leggendo quella formula, Innokentij rabbrividì. Aveva qualcosa di mistico,


qualcosa che poneva al di sopra dell’umanità e della Terra.
Gli fecero lavare le dita su un lavabo con un po’ di sapone, una spazzolina e
acqua fredda. L’inchiostro vischioso faticava a venire via, l’acqua fredda gli
scivolava sopra. Innokentij si sfregava accuratamente la punta delle dita con la
spazzola insaponata evitando di domandarsi che logica ci fosse nel prendere le
impronte dopo il bagno.
Il suo cervello, disorientato ed esausto, era in balia di quell’opprimente
formula cosmica:

CUSTODIRE IN ETERNO!
93
IL SECONDO RESPIRO

Una notte tanto lenta e interminabile nella vita di Innokentij non c’era mai
stata. L’aveva trascorsa completamente in bianco e nella testa, in un sol colpo,
gli si erano affollati così tanti pensieri diversi come neanche in un mese di vita
normale e tranquilla. Aveva avuto modo di riflettere sia durante la lunga
procedura in cui gli avevano strappato le cuciture dorate dalla sua uniforme da
diplomatico sia durante l’attesa nel bagno, seduto mezzo nudo, e nei molti box
cambiati quella notte.
Lo sbalordiva l’eternità dell’epitaffio: “Custodire in eterno.”
In effetti, dimostrassero o meno che al telefono era proprio lui, una volta
arrestato da lì non ti rilasciavano. Conosceva la mano di Stalin: quella non
faceva tornare alla vita nessuno. Davanti c’era la fucilazione o una solitaria
detenzione a vita. Una cosa da gelare il sangue tipo il monastero di
Suchanovo174, sul quale giravano molte voci. Non era un rifugio per anziani a
Šlissel’burg – ti vietavano di sederti di giorno, ti vietavano di parlare per anni –
e nessuno avrebbe saputo più nulla di lui, e lui non avrebbe saputo più nulla
del resto del mondo, nemmeno se interi continenti avessero cambiato bandiera
o l’uomo fosse sbarcato sulla luna. E l’ultimo giorno, con la cricca di Stalin
catturata in una seconda Norinberga, Innokentij e i suoi vicini senza voce
sarebbero stati fucilati nel corridoio del monastero, da soli, come già era
accaduto nel ’41 ai comunisti durante la ritirata e nel ’45 ai nazisti.
Ma era davvero la morte che temeva?
La sera prima Innokentij era stato felice di ogni minimo avvenimento, di
ogni volta che la porta si era aperta, interrompendo la sua solitudine, il suo
essere in trappola, una cosa cui non era abituato. Ora al contrario desiderava
farsi venire in mente una cosa importante, un pensiero che continuava a
sfuggirgli – ed era contento che lo avessero accompagnato nel box precedente e
da molto non lo disturbassero, anche se lo osservavano dallo spioncino
ininterrottamente.
D’un tratto, come se dal cervello gli fosse scivolato giù un velo sottile, gli
apparve distintamente ciò che aveva pensato e letto quel giorno:
“La fede nell’immortalità è nata dalla sete di persone insaziabili. Il saggio
troverà la durata della nostra vita sufficiente per percorrere tutto il giro di
piaceri raggiungibili...”
Ah, il discorso sui piaceri! Aveva avuto soldi, vestiti, rispetto, donne, vino,
viaggi, ma avrebbe mandato ogni cosa alla malora per un’unica giustizia! Vivere
per vedere la fine di quella cricca e sentire il loro penoso balbettio in tribunale!
Sì, aveva avuto tante cose buone! Ma mai il bene più inestimabile: la libertà
di dire ciò che pensava, la libertà di unirsi a quelli con le sue stesse idee. Visi e
nomi sconosciuti, quanti ce n’erano lì, oltre le pareti divisorie di mattoni di
quell’edificio! E che peccato morire senza poter condividere ragione e anima!
Bello scrivere di filosofia sotto rami frondosi in epoche immobili, stagnanti
e felici!
Ora senza né matita né taccuino, tutto ciò che riemergeva dal buio della
memoria lo sentiva più caro. In modo ben distinto ricordò:
“Non si devono temere le sofferenze del corpo. Una sofferenza prolungata è
di poco conto, quella acuta non è prolungata.”
Per esempio, stare seduto in quel box dove non si potevano stendere le
gambe, senza dormire, senza aria, per ventiquattr’ore, era una sofferenza
prolungata o non prolungata? Di poco conto o acuta? E dieci anni di solitudine
senza poter dire una parola ad alta voce?
Nella stanza della fotografia e della dattiloscopia, Innokentij aveva notato
che erano le due di notte. A quel punto forse erano già le tre. Gli venne in
mente un pensiero assurdo, che scacciò quelli più seri: il suo orologio, finito
nella stanza di custodia, avrebbe continuato a funzionare fino al termine della
carica, poi si sarebbe fermato, nessuno l’avrebbe più caricato e con le lancette
in quella posizione avrebbe atteso o la morte del suo proprietario o la confisca
con il resto dei beni. Chissà a quel punto che ora avrebbe segnato?
Dotty, invece, lo aveva aspettato per andare all’operetta? Sì... Aveva
telefonato al ministero? Probabilmente no: dovevano subito essere spuntati da
lei per una perquisizione. Era un appartamento enorme! Ci volevano cinque
uomini per rivoltarlo in una notte. E quegli idioti che cosa avrebbero trovato?
Dotty non sarebbe finita dentro, l’ultimo anno da separati avrebbe
rappresentato per lei la salvezza.
Una volta ottenuto il divorzio, si sarebbe risposata.
O forse sarebbe finita dentro. Da noi tutto è possibile.
La carriera del suocero avrebbe subìto un arresto: che onta! Lui l’avrebbe
rinnegato, si sarebbe dissociato!
Tutti quelli che conoscevano il consigliere Volodin, come sudditi fedeli,
l’avrebbero cancellato dalla memoria.
Una massa insensibile lo avrebbe schiacciato, e sulla Terra nessuno sarebbe
mai venuto a sapere come l’esile e bianchiccio Innokentij avesse cercato di
salvare la civiltà!
Voleva vivere abbastanza da scoprire come tutto questo sarebbe andato a
finire.
Nella storia c’è sempre una parte che vince, ma non vincono mai solo le idee
di una parte. Quelle confluiscono, vivono di vita propria.
Il vincitore prende sempre qualcosa dal vinto, poco, tanto, o addirittura
tutto.
Si fonderà ogni cosa... “Passerà l’inimicizia delle stirpi.”175 Scompariranno i
confini degli stati, gli eserciti. Convocheranno un parlamento mondiale.
Eleggeranno il presidente del pianeta. Questi inchinerà la testa davanti
all’umanità e dirà...
– Con la roba!
– Eh?
– Con la roba!
– Quale roba?
– La tua porcheria.
Innokentij si alzò, con in mano il cappotto e il cappello, ora particolarmente
cari non essendosi rovinati durante la “cottura”. Sulla soglia, deviando dal
corridoio, spuntò un baldanzoso sergente maggiore olivastro con le spalline
azzurre (dove li prendevano quei soldati di guardia? Per quali lavori pesanti?).
Controllando su un pezzo di carta, domandò:
– Cognome?
– Volodin.
– Nome e patronimico?
– Quante volte me lo chiederete ancora?
– Nome e patronimico?
– Innokentij Artem’evič.
– Anno di nascita?
– Millenovecentodiciannove.
– Luogo di nascita?
– Leningrado.
– Con la roba. Venga!
E si incamminò per primo, schioccando la lingua come previsto.
Questa volta uscirono in cortile e al buio di una parte coperta scesero ancora
di qualche gradino. Fu colto da un pensiero: che lo stessero portando alla
fucilazione? Si diceva che avvenissero sempre negli scantinati e sempre di notte.
In quel minuto difficile gli giunse un’obiezione salvifica: perché dargli allora tre
ricevute? No, per il momento non lo avrebbero fucilato!
(Innokentij credeva ancora nella saggia coordinazione fra tutti i tentacoli
dell’MGB.)
Continuando a schioccare la lingua, il sergente maggiore baldanzoso lo
condusse nell’edificio e per un andito buio verso un ascensore. Una donna con
una pila di biancheria grigio-giallastra appena stirata se ne stava da una parte;
guardò Innokentij salire sull’ascensore. E anche se quella giovane lavandaia
tutt’altro che carina era inferiore per posizione sociale e lo guardava con lo
stesso impenetrabile sguardo di pietra indifferente di tutte le persone-bambole
meccaniche della Lubjanka, Innokentij davanti a lei, come davanti alle ragazze
della stanza di custodia che gli avevano portato le ricevute rosa, azzurra e
bianca, si sentì in imbarazzo all’idea di essere visto in quelle condizioni
strazianti e penose, ricordato con compassione poco lusinghiera.
Del resto, anche quel pensiero scomparve così in fretta come si era
presentato. Che differenza faceva con quel “custodire in eterno”?
Il sergente maggiore chiuse l’ascensore e premette un pulsante; i numeri dei
piani non erano indicati.
I motori dell’ascensore si misero a ronzare piano: Innokentij riconobbe
subito il ronzio della misteriosa macchina macina-ossa dietro la parete del suo
box.
E si concesse un sorriso mesto.
Quel piacevole errore gli infuse un po’ di coraggio.
L’ascensore si fermò. Il sergente maggiore fece scendere Innokentij sul
pianerottolo e lo condusse subito in un ampio corridoio dove comparvero
diversi sorveglianti con le spalline celesti e le strisce bianche. Uno di loro
chiuse Innokentij in un box senza numero, questa volta spazioso, di una decina
di metri quadrati, la luce abbastanza soffusa e le pareti dipinte con una vernice
a olio verde oliva. Quel box, o cella, era completamente vuoto, non sembrava
granché pulito, e aveva un logoro pavimento di cemento; faceva anche
freddino, cosa che ne aumentava lo squallore generale. Anche lì c’era uno
spioncino.
Da fuori giungeva lo strisciare trattenuto di molti stivali. Evidentemente i
sorveglianti andavano e venivano senza sosta. Il Carcere Interno viveva
un’intensa vita notturna.
Prima Innokentij pensava che sarebbe rimasto per sempre nello stretto,
abbagliante e afoso box n. 8 e si tormentava all’idea che non ci fosse spazio per
stendere le gambe, la luce gli ferisse gli occhi e lui respirasse a fatica. Ora
capiva quanto si sbagliava: avrebbe vissuto in quello squallido box spazioso, e
soffriva al pensiero che le gambe si sarebbero congelate per via del pavimento
di cemento, lui si sarebbe innervosito dal continuo andirivieni e dallo strisciare
degli stivali dietro la porta, e depresso per la luce insufficiente. Ci voleva per
forza una finestra! Anche una piccolissima, tipo quelle delle prigioni
sotterranee nelle scenografie dell’opera. Lì però non c’era.
Dalle memorie dell’emigrazione era impossibile immaginarsi tutto questo: i
corridoi, le scale, la gran quantità di porte; ufficiali, sergenti, inservienti che
passavano; la Bol’šaja Lubjanka con il suo andirivieni in piena notte, in cui non
si mostrava mai un detenuto, non si potevano incontrare i propri simili, non si
potevano sentire parole che non fossero di servizio, e anche quelle di servizio
non venivano pronunciate quasi mai. Sembrava che quella notte l’enorme
ministero non dormisse solo per colpa sua, per occuparsi di lui e del suo
delitto.
L’idea distruttrice delle prime ore del carcere consiste nell’isolare il novellino
dagli altri detenuti, affinché nessuno gli faccia coraggio, affinché il peso
sostenuto da tutto un apparato ramificato di molte migliaia di persone schiacci
solo lui.
I pensieri di Innokentij presero la via del tormento. La sua telefonata non gli
sembrava più un grande atto che sarebbe rimasto scritto nella storia del XX
secolo, ma un suicidio sconsiderato e soprattutto inutile. Così gli tornava in
mente anche la voce altezzosa e sprezzante dell’addetto militare americano, la
sua pronuncia imprecisa: “E l-lei chi è?” Stupido, stupido! Probabilmente
l’americano non lo aveva nemmeno riferito all’ambasciatore. Tutto inutile. Che
razza di stupidi cresce la sazietà!
Ora nel box c’era spazio per camminare, ma Innokentij, estenuato, sfinito
dalle procedure, non ne aveva le forze. Fece un giretto un paio di volte, si
sedette sulla panca e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
Quante grandi intenzioni rimaste ignote ai posteri venivano seppellite dietro
quelle pareti, chiuse dentro quei box!
Maledetto, maledetto paese! Tutto l’amaro che ingoia si rivela una medicina,
ma per gli altri. Per lui niente!
Fortunata, per esempio, l’Australia! Sta a casa del diavolo e vive per conto
suo senza bombardamenti, senza piani quinquennali, senza disciplina.
Ma perché si era messo in caccia dei ladri della bomba atomica? Avrebbe
dovuto andarsene in Australia e restarci da privato cittadino!
Oggi o domani sarebbe volato a Parigi e da là a New York!
Ma quando non si immaginava più in quel viaggio all’estero, ma nelle
ventiquattr’ore successive, gli mancava il respiro per quanto la libertà era
inaccessibile. Pur di dare sfogo alla frustrazione avrebbe graffiato con le unghie
le pareti della cella!
A salvarlo da quella violazione delle norme carcerarie ci pensò la porta, che
si aprì. Verificarono di nuovo i suoi “dati identificativi”: Innokentij rispose
come nel sonno; gli ordinarono di uscire “con la roba”. Poiché nel box sentiva
freddo, aveva il cappello in testa e il cappotto gettato sulle spalle. Sarebbe
voluto uscire così, ma portare il cappotto a quel modo gli dava la possibilità di
nascondervi sotto due pistole cariche o due pugnali. Gli ordinarono di
indossarlo infilando le maniche e di mettere poi le mani dietro la schiena.
Schioccarono di nuovo la lingua, lo condussero fino alle scale vicino
all’ascensore e giù per quelle. Nella condizione di Innokentij la cosa più
interessante sarebbe stata memorizzare quante svolte, quanti passi aveva fatto,
per capire nei momenti di pausa la disposizione del carcere. Ma nella sua
percezione del mondo si era compiuto un tale slittamento che Innokentij
procedeva nel torpore senza notare se si fossero allontanati di molto, quando
all’improvviso da un altro corridoio venne loro incontro un sorvegliante
grande e grosso, che schioccava la lingua con la stessa attenzione di quello che
camminava davanti a Innokentij. Il sorvegliante che conduceva Innokentij
spalancò con irruenza la porta di una cabina verde di compensato che
occupava già da sola quasi tutto lo stretto pianerottolo, vi spinse dentro
Innokentij e chiuse la porta alle sue spalle. Dentro si stava in piedi a malapena e
dal soffitto giungeva una luce diffusa: la cabina, evidentemente, non aveva il
tetto e vi entrava la luce della tromba delle scale.
Il naturale istinto umano sarebbe stato di protestare con forza, ma abituato
già ai soprusi incomprensibili, ormai avvezzo al silenzio della Lubjanka,
Innokentij era docilmente remissivo, faceva dunque esattamente quello che la
prigione esigeva da lui.
Già, ecco perché alla Lubjanka tutti schioccavano la lingua: con quello
avvertivano gli altri che stavano conducendo un detenuto. Un detenuto non
doveva incontrarne un altro! Non doveva ricavare dai suoi occhi un sostegno!
L’altro detenuto passò oltre e Innokentij fu tirato fuori dalla cabina e fatto
proseguire.
E lì, sull’ultima rampa di scale, Innokentij notò una cosa: gli scalini,
quant’erano consumati! Non aveva mai visto nulla di simile da nessuna parte in
tutta la vita. Erano consumati dal bordo verso il centro fino a metà dello
spessore, dove si erano formate delle buche ovali.
Trasalì: quanti piedi in trent’anni! quante volte! dovevano aver strisciato lì
per consumare così la pietra! E ogni due che ci passavano, uno era un
sorvegliante e l’altro un detenuto.
Su un pianerottolo c’era una porta chiusa con una finestrella munita di una
grata ben sigillata. A Innokentij toccò lì una nuova sorte: fu piazzato con la
faccia contro il muro. Con la coda dell’occhio vide il sorvegliante suonare un
campanello elettronico, la finestrella prima aprirsi con diffidenza, poi
richiudersi. Alla fine, dopo un giro di chiavi rumoroso, la porta si aprì e un
tale, che Innokentij non vedeva, uscì e gli chiese:
– Cognome?
Innokentij si voltò per istinto, com’è d’uso fare tra due persone che si
guardano durante una conversazione, e fece in tempo a notare un volto né
maschile né femminile, paffuto, molle, con una grande macchia da ustione, e
sotto il viso, le spalline dorate di un tenente. Ma quello gli gridò subito:
– Non si giri! – e proseguì con le solite domande identiche; Innokentij
rispose rivolto al pezzo di intonaco bianco davanti a sé.
Persuaso che il detenuto continuava a identificarsi con il tizio indicato sulla
scheda e a ricordare il suo anno e luogo di nascita, il tenente con il viso molle
suonò alla porta, che per sicurezza si era richiuso alle spalle. Lo sportello della
finestrella si scostò di nuovo con diffidenza: qualcuno gettò un’occhiata fuori,
la finestrella si richiuse subito e dopo qualche rumoroso giro di chiave la porta
si riaprì.
– Entrate! – disse il tenente con il viso molle e la macchia rossa, in tono
brusco.
Obbedirono e la porta si richiuse alle loro spalle con un rumoroso giro di
chiavi.
Innokentij riuscì a malapena a notare un corridoio semibuio con molte porte
che si apriva in tre direzioni, dritto, destra e sinistra; a sinistra dell’ingresso
c’erano una scrivania, un casellario e altri nuovi sorveglianti, e nel silenzio un
tenente, piano ma in tono ben distinto, gli ordinò:
– Faccia al muro! Senza muoversi!
Una situazione davvero assurda: guardare da vicino il bordo fra il
rivestimento oliva e l’intonaco bianco, sentendo sulla nuca alcune paia di occhi
ostili.
Evidentemente, stavano cercando di capire qualcosa nella sua scheda; poi
quasi in un sussurro, chiaro nel silenzio profondo, il tenente ordinò:
– Nel terzo box!
Un sorvegliante si staccò dalla scrivania e, senza nemmeno far tintinnare le
chiavi, salì sulla passatoia di tela grezza del corridoio di destra.
– Mani dietro. Camminare! – gli uscì pianissimo.
Da un lato del loro percorso si estendeva la solita fredda parete oliva, che
svoltava tre volte; dall’altro lato oltrepassarono alcune porte sulle quali erano
appesi ovali a specchio con i numeri:
“47” “48” “49”,
e sotto di essi, gli spioncini, con i loro sportelli. All’idea di avere degli amici a
così breve distanza, Innokentij sentì il desiderio di aprirne uno, accostarsi per
un istante allo spioncino, guardare la vita isolata della cella, ma il sorvegliante
lo trascinava avanti in fretta e, soprattutto, Innokentij aveva già fatto in tempo
a lasciarsi compenetrare dalla sottomissione del carcere, anche se... che cosa
poteva temere ancora un uomo che si era lanciato nella lotta contro la bomba
atomica?
In modo sfortunato per le persone, e fortunato per i governi, l’uomo è fatto
per avere sempre qualcosa che gli si può togliere, finché vive. Persino un
recluso a vita, privato della libertà di muoversi, del cielo, della famiglia e delle
proprietà, può ancora, per esempio, essere trasferito in un’umida cella di rigore,
senza pasti caldi, pestato con i bastoni, e questi ulteriori piccoli castighi
vengono sentiti alla stessa maniera della precedente perdita della libertà e del
successo. Per sfuggire a queste ultime spiacevoli punizioni, il detenuto adempie
in modo regolare all’umiliante e odioso regime carcerario, che uccide
lentamente l’uomo che è in lui.
Svoltato l’angolo, le porte successive avevano gli ovali a specchio con i
numeri:

“1” “2” “3”


Il sorvegliante aprì la porta del terzo box e, con un gesto un po’ beffardo per
quel luogo, un gesto ampio e cordiale, gliela tenne spalancata. Innokentij colse
la comicità del gesto e osservò il sorvegliante con attenzione. Era un ragazzo
tarchiato, con i capelli neri lisci e gli occhi difformi, come tagliati da un colpo
di sciabola obliquo. Aveva un’aria ostile, non gli sorridevano né le labbra né gli
occhi, ma rispetto alle decine di facce impassibili della Lubjanka viste quella
notte, il volto cattivo di quell’ultimo sorvegliante in qualche modo gli piaceva.
Chiuso nel box, Innokentij si guardò intorno. Dopo una notte poteva dirsi
un esperto di box, avendone già confrontati alcuni. Quell’ultimo era decente:
tre piedi e mezzo di larghezza, sette e mezzo di lunghezza, con il pavimento di
parquet, quasi tutto occupato da una panca di legno lunga e abbastanza larga
incastrata nella parete, mentre vicino alla porta c’era un tavolino esagonale di
legno, non incastrato. Ovviamente, si trattava di un box cieco, senza finestre,
che aveva solo, molto in alto, la grata nera di uno sfiatatoio. Il box, infatti, era
davvero alto, tre metri e mezzo di pareti imbiancate, che riflettevano la luce di
una lampadina da duecento watt in una gabbietta di fil di ferro sopra la porta.
La lampadina del box riscaldava ma feriva gli occhi.
Quella del detenuto è una scienza che si apprende in fretta e saldamente.
Questa volta Innokentij non ingannò sé stesso, sperando di rimanere parecchio
in quel box comodo, e a maggior ragione, con quella lunga panca nuda davanti,
essendo lui un fiorellino che di ora in ora smetteva di esserlo, capì che il suo
primo e principale obiettivo doveva essere dormire. Come il cucciolo di una
belva che, non guidato dalla madre, al primo sussurro della natura impara tutte
le abitudini che gli sono utili, così anche Innokentij si ingegnò in fretta e stese
sulla panca il cappotto, unì il colletto di astrakan e le maniche rovesciate e
formò un cuscino. Si sdraiò all’istante. Lo trovò molto comodo. Chiuse gli
occhi e si preparò a dormire.
Ma non riusciva a prendere sonno! Quando non c’era alcuna possibilità,
aveva tanto desiderato dormire! Era passato attraverso tutte le fasi della
stanchezza e per due volte di colpo aveva perso coscienza; ora si presentava la
possibilità di dormire e lui non aveva sonno! L’agitazione che gli montava
dentro ininterrottamente non si quietava in nessun modo. Mentre respingeva
congetture, rimpianti e considerazioni, Innokentij cercava di respirare in modo
regolare e di contare. Era davvero un peccato non addormentarsi con il corpo
al caldo, le costole sul liscio, le gambe ben distese e il sorvegliante che chissà
per quale ragione non lo svegliava!
Era sdraiato così da mezz’ora. Finalmente, i pensieri cominciarono a perdere
coerenza e un vischioso tepore incatenante prese a salirgli dalle gambe per
tutto il corpo.
Ma a quel punto Innokentij si rese conto che con quella folle luce accecante
non ci si poteva addormentare. Non solo penetrava attraverso le palpebre
chiuse con uno sfavillio arancione, ma premeva con insostenibile forza sul
bulbo oculare. Quella pressione della luce, che Innokentij non aveva mai notato
prima, ora lo stava esasperando. Dopo essersi voltato invano da una parte e
dall’altra in cerca di una posizione in cui la luce non premesse, Innokentij perse
la speranza, si alzò e tirò giù le gambe.
Lo sportello dello spioncino si scostava spesso, lo sentiva frusciare; la volta
successiva, alzò il dito.
La porta si aprì senza fare rumore. Il sorvegliante con gli occhi dal taglio
obliquo guardò Innokentij.
– La prego, spenga la lampadina! – disse Innokentij, in tono supplichevole.
– Non si può– rispose taglio obliquo, impassibile.
– Be’, allora la cambi! Ne metta una più bassa! A che serve una lampadina
così grossa in un... box così piccolo?
– Parli più piano! – replicò taglio obliquo, pianissimo. In effetti, il grande
corridoio alle sue spalle e tutta la prigione erano immersi in un silenzio di
tomba. – Funziona come stabilito dal regolamento.
Eppure su quella faccia da morto c’era qualcosa di vivo! Terminata la
conversazione, intuendo che la porta si stava per chiudere, Innokentij chiese:
– Mi dia da bere un po’ d’acqua!
Taglio obliquo annuì e richiuse la porta in silenzio. Si allontanò dal box
lungo la passatoia e vi ritornò senza fare rumore; il tintinnio della chiave nella
toppa si fece a malapena sentire, taglio obliquo era di nuovo sulla soglia con
una tazza d’acqua. Come al piano terra della prigione, la tazza aveva
l’immagine di una gattina, che però non portava gli occhiali e non aveva
accanto né un libro né un uccellino.
Innokentij bevve con piacere e, mentre riprendeva fiato, osservò il
sorvegliante che si attardava. Quello fece un passo oltre la soglia, socchiuse la
porta quanto le spalle gli permettevano e, strizzando gli occhi, in totale
violazione del regolamento, domandò piano:
– Tu chi eri?
Come suonava insolito! Un trattamento umano, il primo quella notte!
Scosso dal tono vivo di quella domanda nascosta nel silenzio ai capi e attirato
da quella spietata parolina non intenzionale, “eri”, come accordandosi col
sorvegliante, in un sussurro Innokentij rispose:
– Un diplomatico. Un consigliere di Stato.
Taglio obliquo annuì con compassione e disse:
– Io invece ero un marinaio della flotta sul Baltico! – indugiò. – Perché sei
qui?
– Non lo so– si insospettì Innokentij. – Non me lo aspettavo.
Taglio obliquo annuì con compassione.
– All’inizio dicono tutti così – confermò. E, in modo sconveniente,
aggiunse: – Non devi andare... non ti scappa?
– Per ora no – declinò l’offerta Innokentij, per cecità da novellino. Non
sapeva ancora che quella era la più grande concessione che un sorvegliante
poteva elargire, e uno dei più grandi beni sulla terra non accessibili al detenuto
fuori orario.
Dopo quella conversazione interessante, la porta si richiuse e Innokentij
tornò a distendersi sulla panca, lottando invano con la pressione della luce sulle
palpebre indifese. Cercò di coprirle con un braccio ma quello si rattrappiva.
Intuì che sarebbe stato molto più comodo arrotolare un fazzoletto da naso e
coprirsi gli occhi, ma che fine aveva fatto il suo fazzoletto? Era rimasto sul
pavimento, non l’aveva raccolto. Che stupido moccioso era stato la sera prima!
Le piccole cose, un fazzoletto da naso, una scatola di fiammiferi vuota, un
filo grezzo o un bottone di plastica, sono gli amici più stretti di un detenuto!
Arriverà sempre il momento in cui uno di essi si rivelerà indispensabile e vi
verrà in aiuto!
D’un tratto si aprì la porta. Taglio obliquo passò a Innokentij, di bracciata in
bracciata, un materasso a righe rosse. Oh, miracolo! La Lubjanka non solo non
impediva di dormire, ma si preoccupava anche del sonno del detenuto! Nel
materasso arrotolato era stato infilato un piccolo cuscino di piume, una federa,
un lenzuolo, entrambi con il marchio “Carcere Interno”, e persino una
copertina grigia.
Che beatitudine! Ora avrebbe dormito! Le sue prime impressioni della
prigione erano state fin troppo meste! Pregustando il piacere (era la prima volta
nella vita che lo faceva con le sue stesse mani) infilò il cuscino nella federa,
stese il lenzuolo (il materasso pendeva un po’ dalla panca stretta) e si svestì; poi
si coricò, si coprì gli occhi con una manica della giacca – non c’era più niente a
dargli fastidio! – e cominciò a scivolare nel sonno, quel genere di sonno dolce
per cui si dice che uno finisce “tra le braccia di Morfeo”.
Ma la porta si aprì con gran fracasso e taglio obliquo intimò:
– Fuori le braccia da sotto le coperte!
– Come fuori?! – esclamò Innokentij, quasi piangendo. – Perché mi ha
svegliato? Ho fatto così fatica a addormentarmi!
– Fuori le braccia! – ripeté il sorvegliante, con freddezza. – Le braccia
devono stare in vista.
Innokentij obbedì. Ma con le braccia sopra la coperta non ci si
addormentava tanto facilmente. Era un castigo del diavolo! Coprirsi le braccia
nel sonno, tenendole vicino al corpo, è un’abitudine naturale radicata
nell’uomo, di cui lui non è cosciente.
Innokentij si rigirò a lungo, cercando di adattarsi all’ennesima vessazione.
Ma alla fine il sonno cominciò a prendere il sopravvento. Un torpore
dolcemente venefico gli invadeva la coscienza.
D’un tratto, dal corridoio giunse un rumore. Prima in lontananza, poi
sempre più vicino, un rumore di porte che sbattevano. Ogni volta veniva
pronunciata una parola. Eccola lì accanto. Poi fu spalancata anche la porta di
Innokentij:
– Sveglia! – annunciò inflessibile il marinaio della flotta del Baltico.
– Come? Perché? – ruggì Innokentij. – Non ho dormito per tutta la notte!
– Sono le sei. Sveglia, è la legge! – ripeté il marinaio e proseguì ad
annunciarlo oltre.
A quel punto a Innokentij venne un terribile desiderio di dormire. Cadde
lungo disteso sul letto e si immobilizzò subito.
Dopo un attimo però – Innokentij aveva fatto in tempo a dormire due
minuti circa – taglio obliquo spalancò la porta con un gran fracasso e ripeté:
– Sveglia! Sveglia! Arrotolare il materasso!
Innokentij si sollevò su un gomito e fissò con sguardo spento
quell’aguzzino, che un’ora prima gli era sembrato tanto simpatico.
– Ma io non ho dormito, lo capite?
– Io non ne so niente.
– E va bene, arrotolo il materasso e mi alzo... ma poi che faccio?
– Niente. Sta seduto.
– E perché?
– Perché sono le sei del mattino, gliel’ho detto.
– Allora mi addormenterò da seduto!
– Non è permesso. La sveglierò.
Innokentij si afferrò la testa e cominciò a dondolarsi. Sul viso del
sorvegliante con gli occhi dal taglio obliquo calò un velo di dispiacere.
– Vuole lavarsi?
– Sì, va bene – ci rifletté Innokentij e si allungò a prendere i vestiti.
– Mani dietro! Esca!
Il gabinetto era dietro l’angolo. Disperando ormai di dormire ancora,
Innokentij si tolse la camicia e si lavò con l’acqua fredda fino alla cintola.
Schizzava liberamente sul pavimento ampio e freddo di cemento, la porta era
chiusa e taglio obliquo non lo disturbava.
Forse, era un uomo anche lui, ma che senso aveva essere così perfidi da non
avvertirlo in anticipo che la sveglia sarebbe stata alle sei?
L’acqua fredda lavò via la debolezza tossica del sonno interrotto. Nel
corridoio Innokentij provò a chiedere notizie sulla colazione ma il sorvegliante
lo zittì.
Rispose nel box:
– Niente colazione.
– Come niente? E allora cosa c’è?
– Alle otto del mattino ci sono la razione, lo zucchero e il tè.
– Cos’è la razione?
– Il pane.
– Mentre la colazione, quand’è?
– Non è prevista. C’è subito il pranzo.
– E io devo stare seduto tutto il tempo?
– Su, basta chiacchiere!
Aveva già quasi chiuso la porta, mancava solo uno spiraglio, quando
Innokentij alzò la mano.
Il marinaio della flotta del Baltico rispuntò. – Che altro c’è?
– Mi hanno tagliato via i bottoni e squarciato la fodera. Chi me li può
ricucire?
– Quanti bottoni?
Li contarono.
La porta si chiuse e di lì a breve si riaprì. Era taglio obliquo, con una decina
di pezzi di filo e qualche bottone di dimensioni e materiali diversi: osso,
plastica, legno.
– Come fanno ad andare bene? Non sono quelli che mi hanno tolto!
– Prenda! Altri non ce ne sono! – alzò la voce taglio obliquo.
E per la prima volta nella vita Innokentij si mise a cucire. Non intuì subito
come rinforzare in fondo il filo, come eseguire le impunture, come bloccare un
bottone appena cucito. Non potendo sfruttare l’esperienza millenaria
dell’umanità, Innokentij si immaginò da sé come bisognasse fare. Si punse varie
volte, tanto che le tenere estremità delle dita cominciarono a fargli male. Ricucì
a lungo la fodera dell’uniforme, rimise a posto l’ovatta del cappotto sventrata.
Riattaccò diversi bottoni nei punti sbagliati, così le falde dell’uniforme si
riempirono di grinze.
Quel compito lento, che richiedeva attenzione, non solo gli fece passare un
po’ il tempo, ma lo quietò completamente. I moti interiori si riassestarono, si
fermarono, non c’erano più né terrore né oppressione. Aveva la netta
impressione che anche quel covo di orrori leggendari, la prigione della Bol’šaja
Lubjanka, non fosse poi così terribile, che le persone vivessero anche lì (come
gli sarebbe piaciuto incontrarle!). Un uomo che di notte non dorme, che non
mangia, con la vita spezzata nel giro di una decina di ore, matura in sé una
convinzione superiore, sente manifestarsi quel secondo respiro che restituisce
perseveranza e freschezza al corpo pietrificato di un atleta.
Il sorvegliante, ne era già arrivato un altro, si riprese l’ago.
Poi gli portarono un pezzo di pane nero poco cotto da mezzo chilo con un
triangolino aggiuntivo e due zollette di zucchero.
Poco dopo gli versarono dalla teiera nella tazza con la gattina un liquido
bollente colorato e gli promisero un’aggiunta.
Significava che erano le otto della mattina del 27 dicembre.
Innokentij versò tutto lo zucchero della giornata nella tazza, voleva, alla
maniera semplice, mescolare con il dito, ma quello non tollerava l’acqua
bollente. Allora, fece roteare il liquido nella tazza, lo bevve con piacere (di
mangiare non aveva alcuna voglia) e ne chiese dell’altro alzando la mano.
Con un fremito di felicità Innokentij ne consumò una seconda tazza, senza
zucchero, assaporando con intensità il misero aroma di tè.
I suoi pensieri avevano raggiunto un livello di nitidezza che non gli capitava
da tempo.
Nello stretto passaggio fra la panca e la parete opposta, attaccandosi al
materasso arrotolato, si mise a camminare in attesa della battaglia: tre minuscoli
passi avanti, tre minuscoli passi indietro.
Si immaginò una collisione, uno scontro fra la statua della Libertà americana
e la nostra statua di Vera Muchina, comparsa tante volte nei film176. E là, nel
punto di schiacciamento, nella posizione più tremenda, si era infilato lui due
giorni prima.
E non poteva fare altrimenti. Non poteva restare indifferente.
Era toccato a lui...
Come diceva zio Avenir? Come diceva Herzen: “Dove sono i limiti del
patriottismo? Perché l’amore verso la patria...?”
Zio Avenir in quel momento rappresentava per lui la cosa più importante e
più intima da ricordare. Quanti uomini e donne aveva incontrato negli anni,
erano stati suoi amici, avevano condiviso piaceri con lui, eppure ora lì, alla
Lubjanka, quello di cui sentiva più il bisogno era uno zio di Tver’, visto solo
due giorni, che abitava in una casa buffa. In tutta la vita, la persona più
importante.
Mentre camminava in quel vicolo cieco di sette piedi, Innokentij si sforzava
di ricordare cosa lo zio gli avesse detto. Lo sentiva quasi affiorare. Ma, chissà
perché, al suo posto si insinuava:
“Le sensazioni interiori del piacere e del dispiacere sono i criteri supremi del
bene e del male.”
Non lo aveva detto lo zio. Era una cosa stupida. Ah, già, era Epicuro, la sera
prima non riusciva a capirlo. Adesso, invece, era chiaro: dunque, quello che
piace a me è il bene, mentre quello che non piace a me è il male. Per esempio, a
Stalin piace uccidere, dunque per lui quello è il bene? Mentre noi siamo dentro
per qualcosa di giusto senza ottenere soddisfazione, quindi per noi quello è il
male?
Come ti sembra tutto così saggio quando leggi quei filosofi in libertà! Ma
adesso per Innokentij il bene e il male erano materialmente separati, nettamente
divisi da quella porta grigio chiaro, quelle pareti verde oliva, quella prima notte
di prigione.
Dall’alto della lotta e della sofferenza, dove Innokentij si era innalzato, la
saggezza del grande materialista pareva il balbettio di un bambino, se non una
bussola per un selvaggio.
La porta tuonò.
– Cognome? – buttò lì bruscamente l’ennesimo sorvegliante, un tipo
orientale.
– Volodin.
– All’interrogatorio! Mani dietro!
Innokentij obbedì e con la testa riversa indietro, come un uccellino che beve
l’acqua, uscì dal box.
Perché l’amore verso la patria si deve estendere a...?

174 La Suchanovka era la prigione più terribile dell’MGB: ne uscivi pazzo o non ne uscivi proprio.
Specializzata in torture, era ubicata nei locali di un ex monastero.
175 Sergej Esenin, Rus’ (1924).
176 Il riferimento è alla statua di Vera Muchina, L’operaio e la kolchoziana, che nel 1947 fu scelta come logo
della casa di produzione cinematografia Mosfil’m; si vede girare nei titoli di testa di molti film sovietici.
94
SEMPRE ALLA SPROVVISTA

Anche alla šaraška era l’ora della colazione e del tè mattutino.


Quel giorno, che dal mattino non preannunciava nulla di particolare, in un
primo momento fu caratterizzato solo dalla puntigliosità del tenente anziano
Šusterman: si preparava al passaggio di consegne e cercava di impedire ai
detenuti di dormire dopo la sveglia. Anche la passeggiata non era andata bene:
con la neve scioltasi il giorno prima, quella notte era arrivato il gelo e i sentieri
battuti della passeggiata si erano ghiacciati. Molti zek uscivano, facevano un
giro, scivolavano e rientravano in prigione. Nelle celle gli zek seduti sui letti,
chi in basso, chi in alto, con le gambe a penzoloni o incrociate, non si
affrettavano ad alzarsi, ma si grattavano il petto, sbadigliavano, cominciavano
“sin dal mattino presto” a prendersi in giro l’uno l’altro senza allegria, a
deridere il loro destino disgraziato, e si raccontavano i sogni, l’attività preferita
dei detenuti.
Sebbene fra quei sogni ci fossero l’attraversamento di un ponticello su un
torrente torbido e il tentativo di infilarsi un paio di lunghi stivali, non ce n’era
stato uno che preannunciasse in modo chiaro una traduzione di detenuti.
Come al solito, Sologdin era andato a spaccare la legna fin dal mattino.
Teneva la finestra socchiusa persino di notte e prima di uscire l’aveva aperta
ancora di più.
Rubin, che se ne stava sdraiato con la testa rivolta verso quella finestra, non
aveva detto a Sologdin nemmeno una parola. Anche quella notte aveva sofferto
di insonnia e si era coricato tardi; ora sentiva arrivare uno spiffero freddo, ma
aveva deciso di non interferire nelle azioni di quel prepotente, così si era messo
il cappello di pelliccia con i paraorecchi calati e la giubba. Conciato a quel
modo aveva sollevato la coperta fin sopra la testa e nel tentativo di prolungare
le ore di sonno era rimasto sdraiato come un sacco, senza alzarsi nemmeno per
la colazione, beffandosi delle ammonizioni di Šusterman e del fracasso generale
nella stanza.
Potapov era stato tra i primi ad alzarsi, andare alla passeggiata e fare
colazione; aveva anche già bevuto il tè e rassettato la branda cui aveva ridato la
forma di un rigido parallelepipedo, si era seduto a leggere il giornale, ma nel
profondo bramava di dirigersi al lavoro (quel giorno era in procinto di
calibrare un congegno interessante, di sua invenzione).
A colazione c’era kaša di miglio, ragion per cui molti la saltavano.
Gerasimovič, al contrario, sedeva in mensa da un bel pezzo, e si infilava in
bocca, con cura e senza fretta, piccoli quanti di kaša. A guardarlo così era
impossibile vedere in lui il teorico di una congiura di palazzo.
All’angolo opposto della mensa semivuota Neržin lo osservava, ripensando
se il giorno prima gli avesse risposto in modo corretto. Il dubbio è scrupolosità
della conoscenza, ma fino a quale limite si può ripiegare nel dubbio? In effetti,
se non ci fosse più la libertà di parola in nessuna parte del mondo, il “Times”
ricopiasse docilmente la “Pravda”, i neri dello Zambesi sottoscrivessero un
prestito di Stato, i kolchoziani della Loira si piegassero alla giornata lavorativa,
i porci del Partito trascorressero le vacanze dietro a dieci recinzioni nei giardini
californiani, per cosa varrebbe ancora la pena vivere?
Fino a quando ci si poteva tirare indietro con un “non lo so”?
Dopo aver fatto colazione svogliatamente, gli ultimi quindici minuti liberi
Neržin ritornò in stanza, si arrampicò in alto sulla sua branda, si sdraiò e prese
a fissare la cupola del soffitto.
Lì la discussione su quanto accaduto a Rus’ka proseguiva. Non essendo
rientrato per la notte, lo davano già per arrestato. Al comando del carcere c’era
una piccola cella buia, dovevano averlo rinchiuso lì.
Non ne parlavano apertamente, non lo chiamavano ad alta voce
“doppiogiochista”, ma lasciavano intendere la cosa. A tal proposito dicevano
che di affibbiargli un’altra condanna non c’era modo ma quei vermi potevano
convertire i venticinque anni di lavori forzati in venticinque di isolamento
(quell’anno avevano già costruito alcune nuove prigioni solo con celle di
isolamento e la detenzione cellulare andava sempre più di moda).
Naturalmente, Šikin non poteva formalizzare il caso sul doppio gioco. Non era
necessario accusare una persona proprio di quello di cui era colpevole: se uno è
biondo lo si può accusare di essere moro e dargli la stessa condanna che si dà ai
biondi.
Gleb non sapeva quanto in là fossero andate le cose fra Rus’ka e Klara, se
fosse il caso di tranquillizzarla e come.
Rubin scansò la coperta e si offrì alla risata generale con il cappello di
pelliccia e la giubba. Del resto, che ridessero di lui non lo considerava mai
un’offesa; non tollerava, invece, che si ridesse del socialismo. Toltosi il cappello,
tenne la giubba e, senza posare i piedi sul pavimento per cambiarsi, ora non
aveva molto senso (i tempi per la passeggiata, per lavarsi e per la colazione
erano comunque andati), si fece versare un bicchiere di tè; seduto impassibile
sul letto, con la barba arruffata, si cacciava in bocca pezzi di pane bianco
imburrato, che innaffiava di liquido bollente, e intanto, svegliandosi a fatica,
sprofondava nella lettura di un romanzo di Upton Sinclair, che teneva nella
stessa mano del bicchiere. Era dell’umore più nero.
Alla šaraška il giro del mattino era già cominciato. Aveva preso servizio il
tenente minore. Contava lui le teste, ma gli annunci li faceva Šusterman.
Entrando nella stanza semicircolare, come nelle precedenti, Šusterman
annunciò:
– Attenzione! Si informano i detenuti che a nessuno, dopo cena, sarà
permesso scendere in cucina a prendere acqua bollente, e a tale scopo non si
potrà né battere né chiamare l’addetto di turno!
– Di chi è questa disposizione? – gridò Prjančikov, con fare rabbioso,
sbucando dalla spelonca delle brande a due piani accostate.
– Del capo della prigione – rispose Šusterman, con fare autorevole.
– Quando l’ha deciso??
– Ieri.
Prjančikov agitò le braccia sottili e i pugni sopra la testa, quasi chiamasse
testimoni il cielo e la terra.
– Impossibile!! – protestò. – Sabato sera il ministro Abakumov in persona
mi ha promesso che avremmo avuto acqua bollente anche tardi! È logico!
Lavoriamo fino a mezzanotte!
Gli rispose uno scroscio di risate.
– E tu non lavorare fino a mezzanotte, cogl...e – commentò il vocione di
Dvoetësov.
– Non possiamo avere un cuoco notturno – provò a spiegare Šusterman, in
tono ragionevole.
Poi, preso dalle mani del tenente minore un elenco, con voce opprimente
fece zittire tutti e annunciò:
– Attenzione! Non devono dirigersi al lavoro ma radunarsi subito per la
traduzione... dalla vostra cella: Chorobrov! Michajlov! Neržin! Sëmuškin!...
Raccogliete la roba statale e riconsegnatela!
E i controllori uscirono.
I quattro cognomi evocati presero a girare come un vortice per la stanza.
Tutti abbandonarono il tè, lasciarono i panini a metà e si precipitarono l’uno
verso l’altro e verso quelli in partenza. Quattro su venticinque: una messe di
vittime insolitamente abbondante. Si misero a parlare tutti insieme: voci
animate si mescolavano a voci abbattute e sprezzantemente vigorose. Alcuni si
alzarono in piedi sulle brande superiori, agitando le braccia, altri si afferrarono
la testa, altri ancora dimostravano qualcosa con ardore, battendosi il petto, gli
ultimi tiravano già fuori i cuscini dalle federe. La stanza in generale esprimeva
un tale miscuglio contraddittorio di dolore, rassegnazione, rabbia,
determinazione, lamentele e intenti, tutto ammucchiato in poco spazio e su vari
livelli, che Rubin si alzò dal letto così com’era, con la giubba e i mutandoni, e
con voce stentorea gridò:
– Un giorno storico per la šaraška! Il mattino dell’esecuzione degli Strel’cy!
E davanti a quella situazione allargò le braccia.
Il suo aspetto agitato non significava affatto che era felice della traduzione
degli altri. Avrebbe riso comunque anche di fronte alla propria partenza. Per
amor di battuta non risparmiava nulla di sacro.
Nella vita di un detenuto una traduzione rappresenta una linea di confine netta,
come un ferimento nella vita di un soldato. Un ferimento può essere leggero o
grave, curabile o mortale; così una traduzione può essere vicina o lontana, uno
svago o la morte.
Quando in Dostoevskij leggi la descrizione dei finti orrori della vita
carceraria, ti stupisci che scontassero la pena con tale calma! In dieci anni
neanche una traduzione di detenuti!
Uno zek vive sempre nello stesso posto, si abitua ai compagni, al lavoro, ai
capi. Per quanto l’accumulo non gli sia congeniale, deve per forza tenere da
parte delle cose: si ritrova subito davanti una valigia di cartone arrivata da fuori
o una di compensato fatta nel campo di lavoro. Poi una cornicetta dove infila
una fotografia della moglie o di una figlia; pantofole di pezza per girare nella
baracca dopo il lavoro, ma che di giorno deve nascondere alle perquisizioni; è
possibile persino che abbia rimediato un paio di pantaloni di cotone in più o
non abbia restituito le vecchie scarpe, e cela tutto quello un inventario dopo
l’altro. Ha persino un ago personale, i suoi bottoni sono attaccati bene e ne
possiede anche un paio di scorta. Conserva un po’ di tabacco nel borsellino.
Ma se è un fesso, ha pure della polvere dentifricia e ogni tanto si lava i denti.
Accumula una pila di lettere dai parenti, ha un libro suo da scambiare con gli
altri libri del campo di lavoro.
Sopra la sua misera vita, però, rimbomba come un tuono la traduzione,
sempre senza preavviso, sempre programmata per cogliere lo zek alla sprovvista
e all’ultimo minuto possibile. Così gli tocca strappare le lettere dei parenti in
fretta e furia sopra il buco della latrina. Se la traduzione avviene coi carri
bestiame rossi, il soldato di scorta taglia via allo zek tutti i bottoni, mentre il
tabacco e la polvere dentifricia glieli sparge al vento, perché con quelli il
detenuto potrebbe accecarlo durante il tragitto. E ancora, se la traduzione
avviene su vagoni per il trasporto detenuti, il soldato di scorta calpesta con
accanimento le valigie che non entrano nella stretta cella del vagone e nel farlo
spacca anche la cornicetta con la fotografia. In entrambi i casi, vengono
sequestrati i libri, che in viaggio non si possono portare, e l’ago con il quale si
potrebbe segare la grata e scannare il soldato di scorta; vengono buttate via le
pantofole di pezza e sottratti i pantaloni in più in favore del campo di lavoro.
Una volta purificato dal peccato della proprietà, dalla predisposizione a una
vita stanziale, dall’inclinazione verso la comodità borghese (già giustamente
condannata da Čechov), dagli amici e dal passato, lo zek mette le mani dietro la
schiena e, in fila per quattro (“un passo a destra o a sinistra: la scorta spara
senza preavviso!”), circondato da cani e da soldati di scorta, si incammina verso
il vagone.
L’avete visto tutti a quei tempi nelle nostre stazioni ferroviarie, ma vi siete
affrettati ad abbassare lo sguardo da codardi, a voltarvi dall’altra parte come
sudditi fedeli, affinché il tenente della scorta non sospettasse in voi qualcosa di
male e non vi trattenesse.
Lo zek entra nel vagone, che viene agganciato accanto a quello postale. Ben
sbarrato da entrambe le parti, non visibile dalle banchine, il vagone parte
secondo gli orari normali e trasporta nella sua chiusa angustia soffocante
centinaia di ricordi, speranze e timori.
Dove li portano? Questo non lo dicono. Che cosa attende lo zek nel posto
nuovo? Miniere di rame? Il taglio del bosco? Oppure una sottoassegnazione
agricola segreta, dove talvolta si riesce a cuocere qualche patata e si possono
mangiare rape da foraggio a volontà? Finirà lo zek in balia dello scorbuto e
della malnutrizione già il primo mese di lavori comuni? O avrà l’occasione di
oliare qualcuno, incontrare un conoscente, e gli si aggancerà come aiutante di
turno, infermiere o persino assistente del furiere? E nel nuovo posto gli sarà
permessa la corrispondenza? Oppure per molti anni non manderà più lettere e
i parenti lo crederanno morto?
Forse, non giungerà nemmeno al luogo di assegnazione? Morirà di
dissenteria nel carro bestiame? O perché il convoglio viaggerà per sei giorni
senza cibo? O quelli della scorta lo prenderanno a martellate per la fuga di
qualcun altro? O alla fine del tragitto, a causa dei vagoni non riscaldati,
getteranno fuori come pezzi di legno i cadaveri ghiacciati degli zek?
Per raggiungere SovGavan i convogli rossi viaggiano per un mese...
Ricordati, Signore, di quelli che non sono mai arrivati!

E sebbene dalla šaraška li lasciassero andare con dolcezza, permettessero agli


zek di tenere i rasoi fino alla prima prigione, tutte quelle domande, con la loro
eterna forza, stringevano il cuore dei venti detenuti che, al giro mattutino delle
stanze, quel martedì, erano stati chiamati a gran voce per essere tradotti.
Per loro la spensierata vita semilibera degli zek della šaraška era finita.
95
ADDIO, ŠARAŠKA

Sebbene Neržin fosse in preda alle inquietudini per l’imminente traduzione, in


lui si era insinuato e inasprito il desiderio di strigliare il maggiore Šikin prima
della partenza. Così, al suono del campanello della chiamata al lavoro,
nonostante l’ordine dato ai venti di restare nel dormitorio ad aspettare il
sorvegliante, lui, come tutti gli altri diciannove, si precipitò fuori dalle porte
interne. Salito al secondo piano, bussò all’ufficio di Šikin. Gli fu ordinato di
entrare.
Šikin, accigliato, tetro, sedeva alla scrivania. Qualcosa gli si agitava dentro fin
dal giorno prima. Era rimasto sospeso con un piede sopra il baratro e ora
sapeva cosa si provava a non avere nulla sotto di sé.
Ma il suo odio per Doronin non poteva sfogarsi in modo diretto e rapido!
La cosa maggiore (e più sicura per sé) che Šikin potesse fare era sballottare quel
ragazzo da una cella di rigore all’altra, insozzargli la scheda personale e
rimandarlo a Vorkuta, dove con quella l’avrebbero cacciato in una brigata di
regime duro e presto sarebbe crepato. Con il medesimo risultato di processarlo
e fucilarlo.
Adesso era dal mattino che non chiamava Doronin all’interrogatorio, sicuro
com’era di ricevere diverse proteste e interruzioni da parte di coloro in
procinto di partire.
Non si sbagliava. Entrò Neržin.
Il maggiore Šikin mal sopportava quello zek magrolino e ostile, con il suo
modo sempre rigido di comportarsi e la sua pignola conoscenza delle leggi.
Insisteva già da tempo con Jakonov per trasferirlo e accolse con piacere
maligno l’espressione ostile del nuovo arrivato.
Neržin era capace di presentare una lamentela in poche parole taglienti,
senza doverci riflettere, il suo era un vero talento naturale. La trasmetteva tutta
d’un fiato nel breve istante in cui si apriva la mangiatoia sulla porta della cella,
oppure la trascriveva sul pezzo di carta igienica-assorbente che fornivano nelle
prigioni per le istanze scritte. In cinque anni di detenzione aveva elaborato
anche un suo modo particolare e deciso di conversare con i capi, che nella
lingua degli zek veniva chiamato strigliare con cortesia. Usava solo parole garbate,
ma con un tono superbo e ironico, sul quale però non si poteva cavillare,
essendo quello con cui di solito una persona più vecchia si rivolge a una più
giovane.
– Cittadino maggiore! – esordì sulla soglia. – Sono qui per riavere indietro
un libro che mi avete sequestrato in modo illegale. Ho ragione di ritenere, in
base alle condizioni del trasporto della città di Mosca, che sei settimane siano
un tempo sufficiente per accertarsi che la censura lo permette.
– Un libro? – si stupì Šikin (così di colpo non era riuscito a trovare nulla di
più intelligente da dire). – Quale libro?
– In egual misura, – sparò Neržin – ritengo che lei sappia di quale libro sto
parlando. Sono i versi scelti di Sergej Esenin.
– E-se-nin?! – disse il maggiore Šikin, appoggiandosi allo schienale della
poltrona, quasi se lo ricordasse in quel preciso istante e fosse turbato da quel
nome sovversivo. La testa a spazzola sempre più grigia esprimeva sdegno e
ribrezzo. – Come osa chiedere di E-se-nin?
– Perché no? L’hanno pubblicato da noi in Unione Sovietica.
– Non è sufficiente!
– Inoltre, l’anno di pubblicazione è il millenovecentoquaranta, dunque non
rientra nel periodo vietato che va dal millenovecentodiciassette al
millenovecentotrentotto.
Šikin si accigliò.
– Come sa di quel periodo?
Neržin ribatteva in modo così energico che sembrava aver imparato a
memoria tutte le risposte.
– Fu così gentile da spiegarmelo il censore di un campo di lavoro. Durante
una perquisizione alla vigilia delle feste, mi sequestrarono un Dizionario della
lingua Dal’ in quanto pubblicato nel 1935 e dunque necessitava di essere
sottoposto ai controlli più rigorosi. Quando gli dimostrai che il dizionario era
una copia fotomeccanica dell’edizione del 1881, quello me lo restituì volentieri
e mi spiegò che sulle edizioni uscite prima della rivoluzione non c’erano
obiezioni, perché “i nemici del popolo allora non imperversavano ancora”. Una
bella scocciatura: Esenin è stato pubblicato nel 1940.
Šikin, serio, era ammutolito.
– Mettiamo pure sia così. Ma lei – domandò poi con aria imponente –
questo libro l’ha letto? L’ha letto tutto? Può confermarlo per iscritto?
– Mancano le basi giuridiche per pretendere da me in tal senso un impegno
scritto in relazione all’articolo 95 del codice penale della RSFSP. Glielo
confermo verbalmente: ho la cattiva abitudine di leggere i libri che sono di mia
proprietà e, viceversa, di tenere solo i libri che leggo.
Šikin allargò le braccia.
– Peggio per lei!
Avrebbe voluto far seguire a quelle parole una pausa significativa, ma Neržin
non glielo permise.
– Dunque, ripeto in breve la mia richiesta: in base al comma sette della
sezione B del regolamento carcerario, mi restituisca il libro che mi ha
sequestrato illegalmente.
Scosso da quel fiume di parole, Šikin si alzò. Quando era seduto dietro la
scrivania, la sua testa grossa non sembrava attaccata al corpo di un uomo
minuto, ma se si alzava, Šikin appariva più piccolo: sia le gambe sia le braccia
risultavano molto più corte. Scuro in viso, si avvicinò all’armadio, lo aprì e tirò
fuori un volumetto di Esenin in un piccolo formato, con la sovraccoperta
cosparsa di foglie d’acero.
Aveva alcune pagine segnate. Šikin si sedette come sempre sulla poltrona,
senza invitare Neržin ad accomodarsi, e si mise a sfogliare il volumetto nei
punti in cui erano sistemati i segnalibri. Anche Neržin si sedette con calma,
appoggiò le braccia sulle ginocchia e con sguardo duro e insistente fissò Šikin.
– Qui, per esempio – sospirò il maggiore, e imperturbabile, lavorando
l’intreccio dei versi come fosse un impasto, lesse:

Come palme di mani aliene e pigre


più non vivran con voi queste canzoni...
Ma piangeranno le cavalle-spighe
nei pascoli chi fu loro padrone.177

– Di quale padrone si tratta? Di quali palme?


Il detenuto guardava i palmi bianchi e grassocci dell’oper.
– Esenin era socialmente limitato e molte cose non le capiva a fondo – disse
serrando le labbra, con aria di compatimento. – Come Puškin e Gogol’...
Šikin colse una sfumatura nella voce di Neržin che lo indusse a guardarlo
con apprensione. Ora che quel detenuto non aveva niente da perdere, avrebbe
anche potuto scagliarsi contro il maggiore. Per ogni evenienza, Šikin si alzò e
socchiuse la porta.
– E questo come va compreso? – Mentre tornava alla poltrona, lesse:

la rosa bianca con il rospo nero


volevo sulla terra far sposare...

– E così via... A cosa allude?


La gola protesa del detenuto sussultò.
– Molto semplice – rispose. – Non bisogna cercare di far riconciliare la rosa
bianca della verità con il rospo nero della malvagità!
Il compare con le braccia corte, la testa grossa e il viso scuro sedeva davanti a
lui, come un rospo nero.
– Però, cittadino maggiore, – aggiunse Neržin in fretta, le parole rapide che
si accavallavano – non ho tempo di addentrarmi con lei in disamine letterarie.
La scorta mi aspetta. Un mese e mezzo fa ha dichiarato che avrebbe spedito
una richiesta al GLAVLIT. L’ha fatto?
Šikin si strinse nelle spalle e chiuse sbattendo il libriccino giallo.
– Non sono obbligato a renderne conto a lei. Non le restituirò nessun libro.
Tanto non le permetteranno comunque di portarlo.
Neržin si alzò arrabbiato, gli occhi sempre fissi sull’Esenin. Si immaginò le
mani caritatevoli della moglie che un tempo tenevano quel libriccino e vi
avevano scritto:
“Così tutto ciò che è andato perduto tornerà a te.”
Le parole gli uscirono dalle labbra come proiettili senza alcuno sforzo.
– Cittadino maggiore! Presumo non avrà dimenticato come due anni fa
pretesi di riavere, senza speranza, dal Ministero della Sicurezza di Stato gli
złote polacchi che mi erano stati sottratti, e li ricevetti dal Soviet Supremo,
sebbene tradotti in copechi e contati venti volte! Presumo non avrà dimenticato
nemmeno come pretesi i cinque grammi di farina supplementare da mescolare
al pasto. Ridevano di me, invece li ottenni! E ci sono molti altri esempi! La
avverto, non le lascerò mai questo libro! Glielo strapperò dalle mani in punto
di morte alla Kolyma! Riempirò di reclami su di lei tutti i cassetti del Comitato
Centrale e del Consiglio dei Ministri. Me lo ridia con le buone!
E davanti a quello zek perduto, senza diritti, mandato a morire di morte
lenta, il maggiore della Sicurezza di Stato cedette. Aveva davvero spedito una
richiesta al GLAVLIT e da lì, con suo stupore, gli avevano risposto che quel libro
formalmente non era vietato. Formalmente!! Il suo affidabile fiuto gli suggeriva
che si trattava di un errore, che quel libro andava senz’altro vietato. Ma doveva
pur preservare il proprio nome dal biasimo di quell’instancabile attaccabrighe.
– Va bene – si arrese il maggiore. – Glielo restituisco. Ma non le
permetteranno comunque di portarlo.
Neržin uscì trionfante e si diresse alle scale, stringendo l’amata lucentezza
gialla di quella sovraccoperta. Nel momento in cui tutto stava crollando,
rappresentava un successo.
Sul pianerottolo passò accanto a un gruppo di detenuti impegnati a
commentare gli ultimi fatti. In mezzo a loro (ma in modo da non farsi sentire
dai capi) pontificava Siromacha.
– Ma che combinano?! Fanno tradurre ragazzi del genere! Per cosa? E
Rus’ka Doronin? Chi è il verme che lo ha denunciato, eh?
Neržin si diresse in fretta verso l’Acustico, ragionando su come distruggere
al volo i suoi appunti prima che gli mettessero alle costole un sorvegliante. Ai
detenuti in procinto di essere trasferiti non era già più permesso di girare
liberamente per la šaraška. Neržin doveva il suo ultimo scampolo di libertà alla
traduzione troppo numerosa e, forse, all’indulgenza del tenente minore, con le
sue eterne lacune in servizio.
Aprì la porta dell’Acustico e si vide davanti le ante spalancate dell’armadio
di ferro e in mezzo Simočka, di nuovo in un brutto abitino a righe, con lo
scialle grigio di lanugine di capra sulle spalle.
Lei non vide Neržin, ma lo percepì e rimase turbata, si bloccò come se stesse
riflettendo su cosa prendere di preciso dall’armadio.
Gleb, senza pensarci, senza soppesare la cosa, si infilò in un angolino tra le
ante di ferro e in un sussurro disse:
– Serafima Vital’evna! Dopo ieri, è crudele disturbarla. Ma rischio che il
lavoro di molti anni vada perduto. Devo bruciarlo? Non lo prenderebbe lei?
Simočka era già venuta a sapere della sua partenza. Sollevò gli occhi tristi,
insonni, e disse:
– Li dia a me.
Entrò qualcuno: Neržin si fiondò oltre, verso la sua scrivania, e incrociò il
maggiore Rojtman.
Rojtman aveva il volto smarrito. Con un sorriso impacciato, disse:
– Gleb Vikent’ič! Come mi dispiace! Non mi hanno nemmeno avvertito...
Non ne avevo idea... E oggi non si può fare niente per rimediare.
Neržin sollevò uno sguardo freddo, addolorato, sull’uomo che fino a quel
giorno aveva ritenuto sincero.
– Adam Veniaminovič, non sono arrivato ieri. Certe cose senza i capi dei
laboratori non si fanno. – E si mise a svuotare i cassetti della scrivania.
Rojtman aveva un’espressione sofferente.
– Mi deve credere, Gleb Vikent’ič, io non lo sapevo, non me l’hanno chiesto,
non mi hanno avvertito...
Lo disse ad alta voce, davanti a tutto il laboratorio. Aveva la fronte imperlata
di sudore. Seguiva i preparativi di Neržin con sguardo inebetito.
Non lo avevano consultato sul serio.
– I materiali sull’articolazione, li devo dare a Serafima Vital’evna? –
domandò Neržin, con noncuranza.
Rojtman uscì piano dalla stanza senza rispondere.
– Prenda, Serafima Vital’evna – annunciò Neržin, e cominciò a trasferire
cartelle, intere annate di giornali, tabelle sulla scrivania della ragazza.
In una aveva già infilato il suo tesoro: i tre taccuini. Ma lo spirito-consigliere
che aveva dentro gli suggerì di non farlo.
Se le mani che lei gli porgeva erano già tiepide, la sua fedeltà quanto a lungo
si sarebbe conservata?
Si passò i taccuini in una tasca e consegnò le cartelle a Simočka.
Era bruciata la biblioteca di Alessandria. Erano bruciati, per non finire nelle
mani dei conquistatori, gli annali nei monasteri. E la fuliggine dei camini della
Lubjanka, la fuliggine delle carte bruciate, di carte e carte, cadeva sugli zek
condotti fuori a passeggiare, che tracciavano un quadrato sul tetto del carcere.
Forse erano bruciate molte più grandi idee di quante ne fossero state
pubblicate... Se non ci avesse rimesso la testa, avrebbe potuto riscriverle?
Neržin prese una scatola di fiammiferi e corse fuori.
Una decina di minuti dopo tornò pallido, indifferente.
Nel frattempo nel laboratorio era arrivato Prjančikov.
– Ma com’è possibile? – imprecava. – Siamo diventati dei pezzi di legno!
Non ci indigniamo più! Spedirli in traduzione! Si spedisce un bagaglio, chi ha il
diritto di spedire le persone?!
La predica accalorata di Valentulja trovò eco nei cuori degli zek. Quelli al
laboratorio, turbati dall’imminente traduzione, avevano smesso di lavorare.
Una traduzione è sempre un istante d’avvertimento, un istante di “ci passeremo
tutti”. Costringe ogni zek, persino chi non ne viene toccato, a pensare alla
fragilità del destino, al sacrificio di vivere sotto la scure del gulag. Venivano
mandati via immancabilmente dalla šaraška un annetto o due prima della fine
della pena persino gli zek non colpevoli di nulla, affinché dimenticassero tutto e
si lasciassero ogni cosa alle spalle. Non aveva fine solo la pena dei condannati a
venticinque anni, ragion per cui la sezione operativa amava tenerli alla šaraška.
Gli zek avevano circondato Neržin in pose da liberi; alcuni, per sottolineare
la solennità del momento, invece che sulle sedie, si erano accomodati sui tavoli.
Erano d’umore malinconico e filosofico.
Come ai funerali si ricorda tutto il meglio compiuto dal defunto, così adesso
ricordavano quale accampa-diritti fosse Neržin e quante volte avesse difeso gli
interessi comuni dei detenuti. Rievocarono anche la famosa storia della farina
supplementare, quando Neržin aveva sommerso la direzione carceraria e il
Ministero degli Affari interni di reclami per il mancato ottenimento quotidiano
personale di quei cinque grammi. (Secondo le regole carcerarie non si potevano
presentare reclami collettivi né reclami per il mancato ottenimento di qualcosa
da parte di altri, di tutti. Sebbene il detenuto normalmente debba riformarsi
verso il socialismo, gli è vietato avere a cuore una causa comune.) All’epoca gli
zek della šaraška non mangiavano ancora a sazietà e la battaglia per quei cinque
grammi di farina veniva sentita più cruciale di fatti internazionali.
Quell’avvincente epopea era finita con la vittoria di Neržin: il “capitano dei
mutandoni”, cioè l’assistente all’economato del capo della prigione speciale, era
stato rimosso dall’incarico, e con la farina supplementare avevano cominciato a
cucinare due volte alla settimana tagliolini in più per tutti gli abitanti della
šaraška. Ricordarono anche la battaglia di Neržin per incrementare le
passeggiate domenicali, che si era conclusa però con una disfatta.
Neržin, al contrario, sentiva a malapena quegli epitaffi. Per lui era venuto il
tempo di agire. Ora il peggio si era già realizzato, mentre il meglio dipendeva
solo da lui. Dopo aver consegnato a Simočka i materiali sull’articolazione,
passato all’assistente di Rojtman ogni documento segreto, distrutto nel fuoco e
fatto in mille pezzi quanto c’era di personale, radunato in qualche pila tutto ciò
che apparteneva alla biblioteca, stava finendo di rastrellare le ultime cose dai
cassetti e le distribuiva ai ragazzi. Era già stato deciso a chi sarebbe toccata la
sua sedia girevole gialla, a chi la scrivania tedesca con i pannelli scorrevoli, a chi
il calamaio, a chi il rotolo di carta colorata e marmorizzata della ditta Lorenz.
Il morto distribuiva personalmente la propria eredità, con un sorriso allegro,
mentre gli eredi gli portavano chi due, chi tre pacchetti di papirosy (la parola
d’ordine alla šaraška era: in questo mondo ci sono papirosy in abbondanza, nell’altro
sono più care del pane).
Dal gruppo di massima segretezza arrivò Rubin. Aveva gli occhi tristi, le
palpebre inferiori cadenti.
Riflettendo sui libri, Neržin gli disse:
– Se solo Esenin ti piacesse, te lo regalerei.
– Come hai fatto a riaverlo?
– ...ma per te non è abbastanza vicino al proletariato.
– Ti manca il pennello da barba – disse Rubin, e dalla tasca ne estrasse uno
con l’impugnatura di plastica lucida, lussuoso per gli standard dei detenuti. – Io
ho fatto voto di non radermi fino al giorno del mio proscioglimento, perciò
prendilo!
Rubin non diceva mai “giorno della liberazione”, perché quello poteva
significare la naturale fine della pena: diceva sempre “giorno del
proscioglimento”, ciò che lui doveva ottenere!
– Grazie, amico, però ti sei talmente šaraškizzato che ti dimentichi le regole
del campo di lavoro. Laggiù, credi che mi permetteranno di radermi da solo?
Aiutami a riportare indietro questi libri.
Cominciarono ad afferrare e ad ammucchiare libri e riviste. Rimasero soli.
– Allora, come va con il tuo pupillo? – domandò piano Gleb.
– A quanto si dice li hanno arrestati stanotte. I due principali sospettati.
– Perché due?
– Li sospettano entrambi. La Storia pretende delle vittime.
– E se quello giusto non l’avessero preso?
– L’hanno beccato. Ci hanno promesso i nastri magnetici degli interrogatori
per pranzo. Così li confrontiamo.
Neržin si raddrizzò dalle pile sistemate.
– Senti, secondo te cos’ha intenzione di farsene l’Unione Sovietica della
bomba atomica? Quel tizio non l’ha pensata poi così sbagliata.
– È un moscovita vanesio, un meschino, dammi retta.
Carichi di volumi, uscirono dal laboratorio e salirono per le scale principali.
Si fermarono nella nicchia del corridoio superiore a riassettare le pile che si
disfacevano e a riprendere fiato.
Gli occhi di Neržin, che durante i preparativi erano accesi di un’insana
agitazione, adesso si erano come offuscati, fatti impenetrabili.
– Ebbene, amico mio, – buttò lì – siamo stati insieme quasi tre anni, non
abbiamo fatto altro che discutere, deridendo le convinzioni l’uno dell’altro, e
adesso che ti sto per perdere forse per sempre, sento chiaramente che tu sei per
me uno dei più...
Aveva la voce incrinata.
I grandi occhi castani di Rubin, che molti ricordavano sprizzare scintille di
rabbia, ardevano appena di bonarietà e pudore.
– È andata così – annuì. – Diamoci un bacio, bestia.
E accolse Neržin nella sua barba nera da pirata. Dopodiché, non appena
entrarono in biblioteca, furono raggiunti da Sologdin. Aveva una faccia
davvero preoccupata. Sbatté la porta a vetri senza troppa cura, facendola
vibrare; la bibliotecaria gli lanciò un’occhiataccia.
– Eh già, Glebčik! È andata così – disse Sologdin. – È successo. Te ne vai.
Guardava solo Neržin, senza badare al “fanatico biblico” che aveva lì
accanto.
Nemmeno Rubin riuscì a scovare dentro di sé un sentimento di
riconciliazione verso quell’“hidalgo fastidioso” e distolse lo sguardo.
– Già, te ne vai. Che peccato. Un gran peccato.
Quanto avevano chiacchierato al taglio della legna, quanto discusso durante
le passeggiate! E ora non era né il tempo né il luogo per Sologdin di
trasmettere a Gleb regole di pensiero e di vita che non era riuscito a passargli.
La bibliotecaria scomparve dietro gli scaffali. Sologdin a bassa voce disse:
– Comunque, cerca di abbandonare il tuo scetticismo. È solo un modo
comodo per non lottare.
Neržin, anche lui a bassa voce, rispose:
– Il tuo discorso di ieri, invece... sul paese perduto e bifolco... pure quello è
comodo. Non ne capisco il senso.
L’azzurro degli occhi di Sologdin brillò assieme al bianco dei suoi denti.
Disse:
– Io e te abbiamo parlato troppo poco, hai ancora molto da imparare.
Ascolta, però, il tempo è denaro. Non è ancora tardi. Se acconsentissi a
rimanere come esperto di calcoli, io, forse, potrei riuscire a farti restare. Qui, in
un gruppo. – (Rubin scoccò uno sguardo stupito a Sologdin.) – Ma, te lo dico
subito, c’è da sgobbare.
Neržin sospirò.
– Grazie, Mitjaj. Avevo già questa possibilità. Ma se stai lì a sgobbare,
quando hai tempo di migliorare? Io, in un certo senso, sono pronto a un
esperimento. Il proverbio dice: ‘Meglio affogare nel mare che in una
pozzanghera.’ Voglio provare a prendere il largo in mare.
– Sì? Be’, guarda, senti... è un gran peccato, proprio un gran peccato,
Glebčik.
Sologdin aveva sul viso un’espressione agitata: era di corsa, però si
costringeva a non avere fretta.
Così rimasero in tre ad aspettare che la bibliotecaria con i capelli tinti e le
labbra truccate pesante, tutta incipriata, anche lei tenente dell’MGB, controllasse
pigramente il modulo della biblioteca di Neržin.
Gleb, che mal sopportava il dissapore fra i suoi due amici, nel silenzio della
biblioteca disse piano:
– Amici! Fate pace!
Né Sologdin né Rubin mossero la testa.
– Mitja! – ci riprovò Gleb.
Sologdin sollevò la fredda fiamma azzurra del suo sguardo.
– Perché lo dici a me? – si stupì.
– Lëva! – ripeté Gleb.
Rubin lo guardò infastidito.
– Sai perché i cavalli campano a lungo? – E dopo una pausa: – Perché non
chiariscono mai i loro rapporti.

Dopo aver risistemato le proprietà dell’ufficio ed essersi occupato di questioni


di servizio, esortato dal sorvegliante a tornare in prigione a prepararsi, Neržin,
carico di pacchetti di papirosy, incontrò nel corridoio Potapov, di fretta, con una
cassetta sotto il braccio. Quando andava al lavoro Potapov non aveva mai lo
stesso piglio di quando andava alla passeggiata: nonostante la zoppia,
camminava velocemente, con il collo rigido sporto in avanti, ma curvato
leggermente indietro, strizzava gli occhi e non si guardava i piedi; fissava un
punto lontano, come se la testa e lo sguardo avessero fretta di sorpassare le
gambe non più giovani. Doveva assolutamente dire addio sia a Neržin sia agli
altri in partenza, ma gli era bastato mettere piede nel laboratorio quella mattina
perché la logica interna del lavoro si impadronisse di lui, soffocando tutti gli
altri sentimenti e pensieri. Quella capacità che aveva di farsi prendere
completamente dal lavoro, dimenticandosi della vita, era alla base, in libertà, dei
suoi successi da ingegnere, lo aveva reso un robot insostituibile dei piani
quinquennali, e in prigione lo aiutava a sopportare le avversità.
– Eccoci qua, Andreič – lo fermò Neržin. – Il defunto era allegro e
sorrideva.
Potapov fece uno sforzo. Negli occhi gli si accese la ragione umana. Con la
mano libera, quella che non reggeva la cassetta, si toccò la nuca, come per
grattarsela.
– Ehilà...
– Le regalerei il mio Esenin, Andreič, ma lei a parte Puškin...
– Ci passeremo tutti – disse Potapov, desolato.
Neržin sospirò.
– Dove ci incontreremo adesso? Alla prigione di transito di Kotlas? Alle
miniere dell’Indigirka? Sarebbe incredibile se potessimo ritrovarci sul
marciapiede di una città, camminando da liberi sulle nostre gambe. Eh?
Potapov strizzò gli occhi e scandì:

Ho chiuso per sempre le pal-pe-bre


ai fantasmi, ma remote speranze
turbano il cuore, ta-lo-ra.178

Dalla porta del Sette spuntò la testa di quell’esaltato di Markušev.


– Allora, Andreič! Dove sono i filtri? Il lavoro è fermo! – gridò con voce
adirata.
I coautori del Sorriso di Buddha si abbracciarono imbarazzati. I pacchetti di
Belomor scivolarono sul pavimento.
– Lei capisce, – disse Potapov – dobbiamo deporre le uova come i pesci, ci
manca il tempo.
Con “deporre le uova” Potapov indicava quel modo di lavorare irrequieto,
chiassoso, frettoloso e confusionario su cui si reggeva sia l’istituto di Marfino
sia tutta l’economia dello Stato, un modo che anche i giornali
involontariamente riconoscevano e definivano “d’assalto” e “quotidiano”.
– Mi scriva! – aggiunse Potapov, ed entrambi scoppiarono a ridere. Non
c’era nulla di più naturale da dirsi in un addio, ma quell’auspicio suonava in
carcere come una presa in giro. Fra le isole del gulag la corrispondenza non
viaggiava.
Tenendo sempre la cassetta dei filtri sotto il braccio, e la testa in alto e
indietro, Potapov sfrecciò via per il corridoio, quasi senza zoppicare.
Anche Neržin raggiunse in fretta la cella semicircolare, dove si mise a
raccogliere la sua roba, prevedendo con dovizia di particolari le sorprese
negative che lo attendevano alle perquisizioni prima di Marfino, poi della
Butyrka.
Il sorvegliante era già passato due volte a fargli premura. Gli altri nominati
erano già usciti ed erano stati condotti al comando del carcere. Quando i
preparativi di Neržin erano quasi alla fine, entrò nella stanza Spiridon, la
giubba nera e la cintura in vita, portando dentro il fresco del cortile. Tolto il
cappello fulvo con i paraorecchi grandi e aggirato con cura il bordo di un letto
non troppo lontano da Neržin, su cui era posato un lenzuolo a sacco bianco, si
sedette con i pantaloni imbottiti luridi sulla rete d’acciaio.
– Spiridon Danilyč! Guarda! – disse Neržin, e si protese verso di lui con il
libro. – Ho riavuto l’Esenin!
– Te l’ha ridato, quel serpente? – Sul volto scuro, quel giorno assai
corrugato di Spiridon comparve un piccolo raggio di luce.
– Non mi importa tanto del libro, Danilyč, – ragionava Neržin – quanto che
non ci calpestino così.
– Esatto – annuì Spiridon.
– Prendilo, dài, su! Te lo lascio per ricordo.
– Non lo porti via? – domandò Spiridon, con noncuranza.
– Aspetta... – Neržin prese il libro, lo aprì e si mise a cercare una pagina. –
Adesso lo trovo e te lo leggi...
– Su, Gleb, vai – lo salutò Spiridon, in tono triste. – Come vivere nel campo
di lavoro lo sai: l’anima ha a cuore la produzione, ma le gambe ti trascinano al
reparto sanitario.
– Ora non sono più un novellino, non ho paura, Danilyč. Voglio provare a
lavorare un po’. Sai come si dice: meglio affogare nel mare che in una
pozzanghera.
E solo in quel momento, guardandolo, Neržin si rese conto che Spiridon era
completamente smarrito, più di quanto avrebbe dovuto essere per il distacco da
un amico. Solo allora si ricordò che il giorno prima, fra le nuove restrizioni del
capo della prigione, gli informatori smascherati, l’arresto di Rus’ka, la
spiegazione con Simočka e quella con Gerasimovič, si era del tutto dimenticato
che Spiridon doveva ricevere una lettera da casa.
– E la tua lettera?! L’hai ricevuta, Danilyč?
Spiridon teneva la mano in tasca, posata proprio su quella lettera.
La tirò fuori: la busta, rivoltata in due, era già consumata sulla piega.
– È questa... Ma non hai più tempo... – Le labbra di Spiridon tremarono.
Il giorno prima aveva piegato e riaperto svariate volte quella busta!
L’indirizzo era stato scritto con la calligrafia grossa e tondeggiante rimasta a
Vera, la figlia di Spiridon, dalla quinta elementare, fin dove aveva potuto
studiare.
Come d’abitudine fra loro, Neržin si mise a leggere la lettera ad alta voce:
Mio caro papà!
altroché scriverti, io non non so più nemmeno come si fa a vivere.
C’è gente malvagia al mondo, che parla e inganna...

La voce di Neržin si spense. Guardò subito Spiridon, incrociò i suoi occhi


spalancati, quasi ciechi, immobili sotto le folte sopracciglia fulve. Tuttavia, non
fece in tempo a riflettere neanche un secondo, a scegliere una parola di
consolazione che non suonasse falsa, che si spalancò la porta e fece irruzione
Nadelašin. Era su tutte le furie.
– Neržin! – si mise a gridare. – Uno la tratta con i guanti e lei ci mette i
piedi in testa?! Sono arrivati tutti, manca solo lei!
I sorveglianti avevano fretta di condurre al comando i detenuti in partenza
prima che iniziasse l’intervallo per il pranzo, in modo che non incontrassero
più nessuno.
Neržin cinse Spiridon soltanto con un braccio, intorno al collo non rasato,
dove i capelli gli erano ricresciuti folti.
– Su! Forza! Non perda tempo! – lo incitava il tenente minore.
– Danilyč-Danilyč – disse Neržin, abbracciando lo spazzino biondo.
Spiridon rantolò nel petto e lo salutò con la mano.
– Addio, Gleb.
– Addio per sempre, Spiridon Danilyč!
Si baciarono. Neržin prese la roba e se ne andò in fretta, accompagnato dal
sorvegliante di turno.
Spiridon con le mani non lavate, smangiate dallo sporco di molti anni,
afferrò dal letto il libro aperto, l’Esenin con la copertina cosparsa di foglie
d’acero, vi infilò la lettera della figlia e se ne andò nella sua stanza.
Non si era accorto di aver fatto cadere a terra, con il ginocchio, il suo
cappello di pelo, che ora giaceva sul pavimento.

177 Sergej Esenin, L’ultima messa, in Il fiore del verso russo. Da Puškin a Pasternak, un secolo di poesia, a cura di
Renato Poggioli, Milano, Oscar Mondadori, 1970, p. 558.
178 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, a cura di Eridano Bazzarelli, Milano, Bur, 1993, p. 165.
96
CARNE

Man mano che i detenuti da tradurre venivano radunati al comando del carcere,
li perquisivano, e man mano che li perquisivano, venivano fatti entrare in una
stanza vuota, di riserva, del comando, dove c’erano due tavoli spogli e una
panca grezza. Alla perquisizione presenziava immancabilmente il maggiore
Myšin e di tanto in tanto vi faceva un salto anche il tenente colonnello
Kliment’ev. Per il maggiore, negli abiti stretti, violaceo, era scomodo chinarsi
sui sacchi e le valigie (e non si confaceva al suo grado), ma la sua presenza
serviva a infervorare i secondini. Slacciavano con zelo tutti gli stracci dei
detenuti, i loro fagotti, i cenci, e soprattutto se la prendevano con qualsiasi cosa
scritta. In base a una direttiva, tutti coloro che uscivano dalla prigione speciale
non avevano il diritto di portare con sé neanche un foglietto scritto, disegnato
o stampato. Per questo la maggior parte degli zek aveva bruciato in anticipo
tutte le lettere, distrutto i quaderni degli appunti delle proprie specializzazioni
e dato via i libri.
Un detenuto, l’ingegner Romašov, al quale mancavano sei mesi al termine
della pena (aveva già scontato diciannove anni e mezzo) si era portato dietro in
bella vista una grossa cartella di ritagli, annotazioni e calcoli di molti anni sul
montaggio di una centrale idroelettrica (si aspettava di finire nella regione di
Krasnojarsk e là contava di poter lavorare alla sua specializzazione).
Nonostante l’ingegner colonnello Jakonov l’avesse già controllata
personalmente e vi avesse apposto il proprio lasciapassare, e il maggiore Šikin
l’avesse già spedita alla Sezione, e anche lì avessero messo un altro timbro, tutta
la frenetica accortezza di molti mesi e la perseveranza di Romašov si dimostrò
inutile: il maggiore Myšin dichiarò che lui di quella cartella non ne sapeva
niente e ordinò di sequestrarla. Fu presa e portata via, e l’ingegner Romašov la
guardò allontanarsi con occhi vitrei, ormai abituati a tutto. Tempo addietro era
sopravvissuto sia a una condanna a morte sia alla traduzione nei carri bestiame
da Mosca a SovGavan, e alla Kolyma, in un pozzo, aveva infilato di proposito
una gamba sotto una secchia per farsi spaccare la tibia, e giacendo a letto in
ospedale era scampato all’implacabile morte dei lavori comuni artici. Ora non
valeva proprio la pena mettersi a singhiozzare per aver perso il lavoro di dieci
anni.
Un altro detenuto, il piccolo progettista calvo Sëmuškin, che la domenica
rammendava le calze con tanto zelo, al contrario, era un novellino, stava dentro
da circa due anni, trascorsi per intero nelle prigioni e alla šaraška, e adesso
aveva un gran terrore del campo di lavoro. Ma nonostante la strizza e la
disperazione perché li stavano per tradurre, cercava di non farsi sottrarre un
volumetto di Lermontov, che per lui e la moglie rappresentava una reliquia di
famiglia. Implorava il maggiore Myšin di ridarglielo, si torceva le mani con fare
puerile, turbando i sentimenti degli zek più navigati, e tentava di entrare
nell’ufficio del tenente colonnello (non lo lasciarono passare); d’un tratto tolse
di mano il Lermontov al compare (questi dal terrore balzò indietro verso la
porta), con una forza in lui impensabile strappò le copertine verdi stampate, le
scagliò da una parte, per poi sventrare le pagine del libro a gruppetti,
piangendo e gridando convulsamente:
– Ecco! Mangiatevele! Ingozzatevi!
E le lanciava per la stanza.
La perquisizione proseguì.
I detenuti, una volta usciti da lì, si riconoscevano a fatica: dopo aver gettato
a comando in un mucchio le tute blu, in un altro la biancheria statale
marchiata, nel terzo i cappotti, sempre che il proprio non fosse ancora logoro,
indossavano di nuovo la roba di un tempo, o qualcosa di cambio. Dopo anni di
servizio alla šaraška, non si meritavano i suoi vestiti. E non si trattava di
cattiveria o spilorceria dei superiori. I capi dovevano rendere conto all’occhio
statale della contabilità.
Per questo alcuni, sebbene in pieno inverno, si erano ritrovati senza
biancheria e lisciavano mutande e maglie rimaste per molti anni ad ammuffire
nei sacchi al deposito, non lavate, com’erano il giorno del loro arrivo dal
campo di lavoro; altri si erano infilati ai piedi le scarpe goffe del campo (chi
aveva ritrovato nei sacchi quelle calzature subiva ora il sequestro delle scarpe
basse da liberi, unite alle soprascarpe); altri ancora indossavano stivali ferrati in
similpelle; i più fortunati portavano valenki.
I valenki! Lo zek, l’essere con meno diritti sulla terra e meno consapevole del
proprio futuro di una rana, di una talpa o di un topo di campagna, è indifeso
davanti alle vicissitudini del destino. Neanche in una tana calda e profonda lo
zek può essere sicuro che quella notte sarà protetto dagli orrori dell’inverno,
che un braccio con il risvolto della manica bordato di celeste non lo tirerà fuori
e non lo trascinerà al Polo Nord. Che guaio sarebbe a quel punto per le
estremità che non calzano valenki! Giunti alla Kolyma, tirerebbe giù dal cassone
del camion due ghiaccioli assiderati. Uno zek senza valenki propri vive tutto
l’inverno rintanato, mente, si comporta da ipocrita, si lascia insultare da chi è
meschino, oppure opprime anche lui gli altri pur di non essere tradotto via
d’inverno. Lo zek che indossa valenki propri, invece, è intrepido! Guarda negli
occhi i capi con aria di sfida e accetta la tabella di marcia con un sorriso alla
Marco Aurelio.
Nonostante il disgelo all’esterno, tutti quelli che possedevano dei valenki, fra
cui Chorobrov e Neržin, in parte per trasportare una cosa in meno, ma
soprattutto per sentire il loro tepore rasserenante e rinvigorente, vi avevano
infilato i piedi e camminavano con orgoglio per la stanza vuota. L’avevano
fatto anche se quel giorno erano diretti solo al carcere della Butyrka e là non
faceva affatto più freddo che alla šaraška. Solo l’impavido Gerasimovič non
aveva più niente di proprio, così il furiere gli consegnò una giubba “per il
cambio” troppo larga “già usata”, le maniche esageratamente lunghe arrotolate,
e un paio di scarpe in similpelle con la punta quadrata, anch’esse già usate.
Un abbigliamento simile dava a lui con il pince-nez un’aria assai buffa.
Neržin era contento di aver passato la perquisizione. Già il giorno prima,
aspettandosi una traduzione imminente, si era preparato due foglietti scritti
fitto a matita, che agli altri risultassero incomprensibili: aveva omesso un po’ le
vocali, usato qualche lettera greca, mescolato parole in russo, inglese, tedesco,
latino, e per giunta abbreviate. Perché passassero alla perquisizione, Neržin
aveva strappato, sgualcito, spiegazzato quei foglietti come si fa con la carta
quando ha uno scopo diverso, e li aveva infilati nella tasca dei pantaloni del
campo di lavoro. Durante la perquisizione il sorvegliante li aveva visti ma, non
capendoci nulla, glieli aveva lasciati. Se ora, alla Butyrka, non avesse ricevuto il
permesso di portarli in cella, ma gli fossero rimasti nella roba, sarebbero durati
anche di più.
Su quei foglietti erano riassunti in breve alcuni fatti e pensieri fra quelli
bruciati quel giorno.
A perquisizione conclusa, tutti e venti gli zek erano stati spinti in una sala
d’aspetto vuota assieme alla roba autorizzata al trasporto, l’uscio si era richiuso
alle loro spalle e, in attesa che arrivasse il corvo, davanti alla porta era stata
piazzata una sentinella. Un altro sorvegliante era stato incaricato di fare avanti
e indietro sotto le finestre, dove il ghiaccio appena formatosi era scivoloso, e di
cacciare, nel caso fosse comparso qualcuno durante l’intervallo del pranzo, chi
veniva a far loro visita.
Dunque, tutti i legami fra i venti detenuti in partenza e i duecentosessantuno
rimasti erano stati spezzati.
Chi era in procinto di partire si trovava ancora lì, ma non c’era già più.
Sulle prime, occupati i posti come capitava, un po’ sulla propria roba un po’
sulle panche, erano sprofondati tutti nel silenzio.
Pensavano ognuno alla propria perquisizione: che cosa gli era stato tolto e
che cosa erano riusciti a tenere con sé.
E pensavano alla šaraška: quanti beni andavano persi, quanta parte della
condanna vi avevano trascorso, e quanta ne rimaneva.
I detenuti amavano calcolare il tempo: quello già perso e quello destinato a
perdersi di lì in avanti.
Pensavano anche ai parenti, con i quali non si poteva stabilire subito un
contatto. Toccava chiedere loro di nuovo aiuto, perché il Gulag è un paese
strano in cui un uomo adulto che lavora dodici ore al giorno non è in grado di
procurarsi da mangiare.
Pensavano alle occasioni mancate o alle decisioni consapevoli, che li avevano
portati a essere tradotti via.
Dove li avrebbero mandati? Che cosa li aspettava in quel posto nuovo? E
come si sarebbero sistemati?
Avevano ognuno i propri pensieri, ma erano tutti pensieri non troppo
allegri.
Bramavano un po’ di conforto e di speranza.
Per questo, quando qualcuno insinuò che forse non sarebbero stati mandati
in un campo di lavoro ma in un’altra šaraška, persino quelli che non ci
credevano prestarono ascolto.
Perché anche Cristo nell’Orto degli Ulivi, seppur conscio della propria scelta
amara, non smise di pregare e di sperare.
Mentre aggiustava la maniglia della valigia, che continuava a staccarsi dal
supporto, Chorobrov prese a sbraitare forte:
– Che cani! Che vermi! Da noi non sanno fare neanche una semplice valigia!
Hai un turno di sei mesi in onore del Primo Maggio e un altro di sei per la
Rivoluzione d’Ottobre. Come fai, a quel punto, a non lavorare in fretta e furia?
Guarda quelle canaglie che cosa si sono inventati: curvano una stanghetta alle
due estremità e la infilano al posto della maniglia. Finché la valigia è vuota,
regge, ma se la carichi... Hanno sviluppato l’industria pesante, ’sti stronzi, ma
fanno vergognare l’ultimo artigiano di Nicola.
E con alcuni pezzi di mattone staccatosi da una stufa messa insieme con lo
stesso metodo sbrigativo, Chorobrov batteva incattivito le estremità della
stanghetta nell’occhiello.
Neržin lo capiva bene. Ogni volta che si scontrava con la mortificazione, il
disprezzo, lo scherno, il menefreghismo, Chorobrov si infuriava, ma era
possibile ragionare tranquillamente di quella cosa? L’urlo di un umiliato si
poteva davvero rendere con parole gentili? E ora che aveva di nuovo indosso
gli abiti del campo di lavoro, e nel campo di lavoro era diretto, Neržin sentiva
riaffiorare in sé un elemento essenziale della libertà maschile: il bisogno di
infilare un’imprecazione ogni cinque parole.
Romašov raccontava a bassa voce ai novellini su quali strade di solito si
trasportavano i detenuti in Siberia e, paragonando la prigione di transito di
Kujbyšev con quelle di Gor’kij e di Kirov, lodava di gran lunga la prima.
Chorobrov smise di battere e in preda all’ira scagliò a terra il mattone, che si
frantumò in una graniglia rossa.
– Ma che dici! – gridò contro Romašov, e sul suo viso scarno e duro affiorò
il dolore. – Gor’kij non è finito in una prigione di transito, e nemmeno
Kujbyšev, altrimenti li avrebbero seppelliti vent’anni prima. Di’ le cose come
stanno: sono le prigioni di transito di Samara, Nižnij Novgorod, Vjatka! Sei
dentro già da vent’anni, che te li lisci a fare!
La foga di Chorobrov si trasmise a Neržin che si alzò, fece chiamare
Nadelašin tramite la sentinella e con voce stentorea denunciò:
– Sottotenente! Dalla finestra abbiamo visto che il pranzo è già cominciato
da mezz’ora. Perché a noi non lo portate?
Il tenente minore si smarrì, imbarazzato, e con compassione rispose:
– Voi oggi... siete esonerati dal rifornimento...
– Cioè, in che senso esonerati? – E, sentendo alle spalle un brusio di
malcontento a suo sostegno, cominciò a dire apertamente:
– Riferisca al capo della prigione che senza pranzo non andremo da nessuna
parte! E non gli permetteremo di portarci via con la forza!
– Va bene, glielo riferisco! – si arrese il tenente minore. E con aria colpevole
se ne andò di corsa dal capo.
Nella stanza nessuno ebbe il dubbio se valesse la pena o meno spalleggiare la
protesta. Agli zek la schizzinosa magnanimità da elemosina dei liberi benestanti
dava sui nervi.
– Giusto!
– Stagli addosso!
– Quei vermi ci schiacciano!
– Taccagni! Dopo tre anni di servizio, che gli costava un pranzo?!
– Non partiamo! Molto semplice! Tanto che ci possono fare?
Persino quelli che si erano sempre dimostrati miti e tranquilli con i capi,
adesso si erano fatti coraggio. Sferzava loro il viso il vento libero delle prigioni
di transito. Quell’ultimo pranzo a base di carne non era soltanto l’ultima
occasione per saziarsi in vista di mesi e anni di brodaglia, rappresentava la loro
dignità umana. Persino quelli cui si era seccata la gola per la preoccupazione,
che non sarebbero nemmeno riusciti a mangiare, persino loro, dimenticata
l’ansia, aspettavano e pretendevano il pranzo.
Dalla finestra era visibile il viottolo che univa il comando alla cucina. Si
accorsero che al punto del taglio della legna si stava avvicinando in retro un
camion, con un grosso abete adagiato comodamente sul cassone: sporgeva dalla
sponda con i rami e la cima. Dalla cabina scese l’economo della prigione e dal
cassone saltò giù il sorvegliante.
Sì, il tenente colonnello aveva mantenuto la parola. L’indomani e il giorno
seguente avrebbero sistemato l’abete nella stanza semicircolare, i detenuti-
padri, che rimasti senza figli si erano trasformati loro stessi in bambini, ci
avrebbero appeso degli addobbi (senza lesinare tempo statale per prepararli) –
il cestino fatto da Klara, la luna chiara nella gabbietta di vetro – dopo essersi
presi per mano in cerchio, baffuti, barbuti, con una risata amara si sarebbero
messi a girare, continuando a ripetere l’urlo lupesco del proprio destino:
Nel bosco spuntò un abete,
nel bosco l’abete cresceva...

Videro il sorvegliante fermo sotto le finestre cacciare via Prjančikov, che aveva
cercato di fare breccia fino a loro e gridava qualcosa, alzando le braccia al cielo.
Videro il tenente minore, preoccupato, dirigersi a passo veloce verso la
cucina, poi al comando, di nuovo alla cucina e ancora al comando.
Videro anche che avevano mandato Spiridon a scaricare l’abete dal camion,
senza lasciarlo finire di mangiare. Mentre si incamminava, si asciugava i baffi e
si aggiustava la cintura.
Il tenente minore, alla fine, non si diresse più a passo normale verso la
cucina, si mise quasi a correre, e da lì a breve vi uscì in compagnia di due
cuoche impegnate a trasportare insieme un bidone e un mestolo. Una terza
aveva una pila di piatti fondi. Temendo di scivolare e spaccarli, la donna si
fermò. Il tenente minore tornò indietro e gliene prese una parte.
Nella stanza si sollevò un boato di vittoria.
Alle porte comparve il pranzo. Le cuoche posarono la zuppa su un tavolo e
si misero a versarla; gli zek prendevano i piatti e se li portavano con sé negli
angoli, sui davanzali e sui bagagli. Alcuni si adattarono a mangiare in piedi, con
il petto appoggiato al tavolo rimasto senza panche.
Il tenente minore se ne andò assieme alle cuoche. Nella stanza calò il
silenzio, di un genere che dovrebbe sempre accompagnare un pasto. Stavano
pensando: ecco la zuppa con il grasso, un po’ liquida, ma con un evidente
sapore di carne; ecco un cucchiaio, un altro, e un altro ancora, con le stelline di
grasso e le fibre bianche lessate, lo mando giù; passa umido, caldo per l’esofago,
scende nello stomaco, e il sangue e i muscoli esultano in anticipo supponendo
nuova forza e un nuovo ricostituente.
Neržin ricordò il proverbio: “Per la carne ci si ammoglia, per la minestra ci
si marita.” Per lui, quel proverbio significava che il marito procurava la carne,
mentre la moglie la metteva a cuocere nella minestra. Il popolo nei proverbi
non faceva il furbo, non tirava fuori per forza grandi aneliti. In tutta la marea
dei suoi proverbi, il popolo era più sincero riguardo a sé stesso persino di
Tolstoj e Dostoevskij nelle loro confessioni.
Con la zuppa arrivata quasi alla fine, i cucchiai d’alluminio cominciarono a
sbattere contro i piatti e in tono evasivo qualcuno si concesse un: – Sì-ì-ì...
Da un angolo giunse poi:
– Approfittatene, fratelli!
Si intromise un guastafeste:
– Ci hanno dato il fondo, non è densa. E la carne se la sono pescata loro.
Qualcun altro, malinconico, esclamò:
– Chissà quando potremo rimangiare un’altra cosa così!
A quel punto Chorobrov batté con il cucchiaio sul piatto vuoto e, in modo
chiaro, con crescente rimostranza nella gola, disse:
– No, amici! Vale più un buon giorno con un uovo che un mal anno con un
bue!
Nessuno gli rispose.
Neržin cominciò a battere e a reclamare il secondo.
Riapparve subito il tenente minore.
– Avete mangiato? – chiese, osservando con un sorriso affabile i detenuti in
partenza. E, convinto che la sazietà avesse portato sui loro visi un po’ di
bonomia, annunciò un fatto che l’esperienza della prigione gli aveva suggerito
di non dire prima: – Di secondo non ne è rimasto. Stanno già lavando le
pentole. Mi spiace.
Neržin guardò gli zek, valutando se reagire con forza. Ma, con la capacità
che hanno i russi di sbollire presto, tutti si erano già ammansiti.
– Che cosa c’era di secondo? – domandò qualcuno, con voce di basso.
– Spezzatino – rispose il tenente minore, con un sorriso timido.
Sospirarono.
Della terza portata, chissà perché, non si ricordarono.
Oltre la parete si udì lo scoppiettio del motore di un’automobile. Il tenente
minore venne chiamato a rapporto e si salvò. Nel corridoio giunse la voce forte
del tenente colonnello Kliment’ev.
Cominciarono a portarli fuori uno per volta.
Di appelli con i fascicoli personali non ce ne furono, giacché la scorta della
šaraška doveva accompagnare gli zek alla Butyrka e consegnarli solo lì. Ma li
contarono. La scorta contava non appena il detenuto compiva il passo tanto
familiare e sempre fatale dalla terra all’alto predellino del corvo, piegando a
fondo la testa per non sbattere contro l’architrave di ferro, curvo sotto il peso
della propria roba che cozzava goffamente contro le pareti laterali dell’ingresso.
Non c’era nessuno a salutarli: l’intervallo per il pranzo era già finito, gli zek
erano stati condotti dal cortile della passeggiata ai locali interni.
Il retro del corvo era accostato alla soglia del comando. Durante la salita sul
veicolo, sebbene non ci fosse nemmeno lo straziante abbaiare dei cani lupo,
regnavano quell’angustia, quella pressa e tesa irruenza tipica della scorta, da cui
solo quest’ultima trae vantaggio, ma che involontariamente contagiano anche
gli zek, impedendo loro di guardarsi intorno e di comprendere la propria
posizione.
Così, su diciotto che salirono, nemmeno uno sollevò la testa per
accomiatarsi dai tigli alti e slanciati che avevano riversato la loro ombra per
lunghi anni, in momenti di difficoltà e di gioia.
Gli unici due che riuscirono a vedere qualcosa, Chorobrov e Neržin,
sbirciarono non i tigli ma il fianco del veicolo, con lo scopo specifico di capire
di quale colore fosse verniciato.
Le loro aspettative non furono deluse.
I corvi grigio piombo e neri, che scorrazzavano per le strade delle città
causando terrore nei cittadini, appartenevano al passato. C’era un’epoca in cui
erano stati anche necessari. Ma, essendo giunti da un bel pezzo gli anni della
prosperità, anche i corvi dovevano manifestare quella piacevole caratteristica dei
tempi. Nella mente geniale di qualcuno, dunque, era sorta un’intuizione:
fabbricare corvi che avessero il medesimo aspetto dei furgoncini dei prodotti
alimentari. Verniciati esteriormente con le stesse righe arancioni e azzurre,
avevano scritte in quattro lingue:

Pane
Pain
Brot
Bread

oppure
Carne
Viande
Fleisch
Meat
Mentre saliva su quel corvo, Neržin trovò il modo di spostarsi di lato e leggere:

Meat

Si infilò anche lui a fatica nel vano della prima stretta portiera, poi passò
attraverso il secondo vano, ancora più stretto, calpestò i piedi di qualcuno e,
dopo aver trascinato la valigia e il sacco contro le ginocchia di qualcun altro,
prese posto.
L’interno di quel corvo di tre tonnellate non era diviso in box, non era formato
da dieci scomparti di ferro in ciascuno dei quali veniva ficcato a forza un solo
detenuto. No, quel corvo era del tipo “comune”, cioè destinato non al trasporto
degli inquisiti ma dei condannati, cosa che aumentava di colpo la sua capacità
di portata viva. Nella parte posteriore, fra le due porte di ferro con le piccole
inferriate-sfiatatoio, il corvo era dotato di uno stretto vestibolo per il personale
di scorta, dove, chiusa la portiera interna dall’esterno, e l’esterna dall’interno, e
tenendosi in contatto con l’autista e con il capo della scorta attraverso uno
speciale tubo acustico impiantato nel telaio del cassone, ci stavano a malapena
due guardie, e solo tenendo le gambe ripiegate sotto di sé. A spese del vestibolo
posteriore era stato ricavato un piccolo box di scorta nel caso qualcuno si
ribellasse. Il resto del cassone rinchiuso in una bassa scatola di metallo era una
comune trappola per topi, dove in base al regolamento andavano spinte dentro
anche venti persone. (Se si riusciva a far scattare la serratura dello sportello di
ferro puntandoci contro quattro scarponi, c’era modo di schiacciarne dentro
anche di più.)
Lungo tre pareti di quella comune trappola per topi c’erano piazzate delle
panche, che riducevano lo spazio al centro. Chi riusciva si sedeva, ma non era
tra i più fortunati: una volta stipato il corvo, sulle ginocchia incastrate, sulle
gambe piegate e rattrappite, finivano cose altrui e persone, e in quel pastone
non aveva senso offendersi, scusarsi, mentre non ci si poteva muovere né si
poteva cambiare posizione per un’altra ora. I sorveglianti premevano contro lo
sportello e, spinto dentro l’ultimo detenuto, fecero scattare la serratura.
Con la portiera esterna del vestibolo ancora aperta, qualcuno salì sul
predellino posteriore. Dal vestibolo un’ombra nuova oscurò l’inferriata-
sfiatatoio.
– Amici! – risuonò la voce di Rus’ka. – Vado alla Butyrka per un’istruttoria!
Chi siete? Chi stanno portando via?
Si levò subito uno scroscio di voci: per rispondergli si erano messi a gridare
tutti insieme venti zek, ai quali per zittire Rus’ka si erano aggiunti entrambi i
sorveglianti, e dalla soglia del comando anche Kliment’ev, perché le guardie
non dormissero e non permettessero ai detenuti di parlare fra loro.
– State zitti! – imprecò qualcuno nel corvo. Calò il silenzio e si udì lo
scalpiccio dei piedi dei sorveglianti nel vestibolo: stavano spingendo Rus’ka nel
box in fretta e furia.
– Chi ti ha venduto, Rus’ka? – gridò Neržin.
– Siromacha!
– Che ve-e-erme! – si sollevò un brusio di voci.
– E voi quanti siete? – gridò Rus’ka.
– Venti.
– Chi c’è lì?
Ma lo avevano già infilato nel box e chiuso dentro.
– Non temere, Rus’ka! – gli gridarono. – Ci rivediamo al campo di lavoro!
Finché rimase aperta la portiera esterna dentro il corvo filtrò ancora un po’ di
luce, ma anche quello sportello venne presto sbattuto e a sbarrare il passaggio
all’ultimo incerto spiraglio luminoso che proveniva dalle inferriate delle due
porte ci pensarono le teste delle guardie di scorta; il motore cominciò a
strepitare, il corvo si mise in marcia e, fra sussulti e dondolii, sul viso degli zek
prese a correre di tanto in tanto solo qualche riflesso tremolante.
È il gridare breve da una cella all’altra, una calda scintilla che talvolta balza
fra le pietre e il ferro, ad agitare sempre immensamente i detenuti.
– E cosa dovrebbe fare l’élite nel campo di lavoro? – barrì Neržin
direttamente nell’orecchio di Gerasimovič, in modo che solo lui potesse sentire.
– Lo stesso degli altri, ma con il doppio dello sforzo! – gli barrì Gerasimovič
in risposta.
Viaggiarono per un po’, dopodiché il corvo si fermò. Erano giunti a un posto
di guardia.
– Rus’ka! – gridò uno zek. – Ti stanno pestando?
La risposta giunse attutita e non immediata:
– Sì...
– Maledetti tutti i Šiškin-Myškin! – gridò Neržin. – Non mollare, Rus’ka!
E di nuovo numerose voci si misero a gridare e tutto si confuse.
Ripartirono, superando il posto di guardia, poi tutti vennero sballottati a
destra, il che voleva dire che avevano girato a sinistra sullo stradone.
Durante la svolta, le spalle di Gerasimovič e di Neržin si ritrovarono
appiccicate. I due si guardarono, cercando di scorgersi nella penombra. Li
univa già qualcosa di più grande dello spazio angusto del corvo.
Nel buio sovraffollato, annuendo leggermente, Il’ja Chorobrov cominciò a
dire:
– A me, ragazzi, non dispiace di andarmene. Che vita è quella della šaraška?
Cammini per il corridoio e ti becchi Siromacha. Ogni cinque detenuti c’è una
spia, non fai in tempo a scoreggiare in bagno, che il compare già lo sa. Sono due
anni che quei bastardi ci levano la domenica. Una giornata di lavoro di dodici
ore! Ti consumi il cervello per venti grammi di burro. Ti vietano la
corrispondenza con la famiglia, vadano a farsi fottere. Lavoro e basta! È un
inferno, altroché!
Chorobrov tacque, colmo di risentimento. Nel silenzio che ne seguì, con il
motore in sottofondo che procedeva regolare sull’asfalto, giunse la risposta di
Neržin:
– No, Il’ja Terent’ič, questo non è l’inferno. Non lo è affatto! All’inferno ci
stiamo andando ora. Ci stiamo tornando. La šaraška, al contrario, è il primo
cerchio dell’inferno, il più alto, il migliore. È quasi il paradiso.
Non aggiunse altro, non serviva. Sapevano tutti fin troppo bene che li
attendeva qualcosa di infinitamente peggiore della šaraška. Sapevano tutti che
nel campo di lavoro avrebbero ricordato la šaraška come un sogno dorato. Ma
ora, per conservare le forze e un senso di giustizia, bisognava imprecarle
contro, perché nessuno avesse rimpianti, nessuno si rimproverasse un passo
avventato.
Gerasimovič trovò l’argomento che a Chorobrov era mancato:
– Quando saremo in guerra, siccome gli zek della šaraška sapranno troppo, li
spediranno all’altro mondo con un po’ di pane avvelenato, come facevano gli
hitleriani.
– È quello che dico anch’io, – ribatté Chorobrov – vale più un buon giorno
con un uovo che un mal anno con un bue!
Gli zek ammutolirono, concentrati ad ascoltare l’andatura del veicolo. Sì, li
attendevano la taiga e la tundra, il freddo polo di Oj-Mja-kon e le miniere di
rame di Džezkazgan. Li attendevano di nuovo il piccone e la carriola, le razioni
da fame di pane crudo, l’ospedale, la morte.
Li attendeva solo il peggio.
Nell’anima, però, erano in pace con sé stessi.
Si era impossessata di loro l’audacia di chi ha perso davvero tutto,
un’audacia che si raggiunge con difficoltà, ma saldamente.

L’allegro veicolo arancione e azzurro, che percorreva già le strade della città
scuotendo i corpi stipati al suo interno, oltrepassò una delle stazioni e si fermò
a un incrocio. Lì si era fermata anche l’automobile bordeaux scuro del
corrispondente del giornale “Liberation”, diretto allo stadio Dinamo per una
partita di hockey. Su quel furgoncino il corrispondente lesse:
Carne
Viande
Fleisch
Meat
Si ricordò di aver visto quel giorno più di un veicolo come quello in varie parti
di Mosca. Estrasse il taccuino e con la penna bordeaux scuro annotò:
“Nelle strade di Mosca si incontrano di continuo autofurgoni di prodotti
alimentari molto puliti, impeccabili dal punto di vista sanitario. Impossibile
non notare che l’approvvigionamento della capitale è eccellente.”
Solženicyn iniziò a scrivere questo romanzo in esilio, a Kok-Terek (Kazachstan
meridionale), nel 1955. La prima redazione, formata da 96 capitoli, fu
completata nel villaggio di Mil’cevo (regione di Vladimir) nel 1957; la seconda e
la terza, a Rjazan’ nel 1958 (tutte distrutte in seguito per ragioni di
cospirazione). Nel 1962 prese forma una quarta redazione, che l’autore
considerò definitiva. Tuttavia, nel 1963, dopo l’uscita di Una giornata di Ivan
Denisovič su “Novyj Mir”, a Solženicyn venne l’idea di una possibile
pubblicazione parziale e furono scelti alcuni capitoli da proporre ad A.T.
Tvardovskij. Quell’idea portò poi a una riprogettazione totale del romanzo con
una suddivisione in capitoli, all’eliminazione di parti completamente
improponibili, all’attenuazione politica della parte restante e alla stesura di una
nuova versione del romanzo (la quinta edizione, di 87 capitoli), in cui era stata
modificata la linea narrativa principale: al posto di quella “atomica”, com’era in
origine, fu inserito un argomento sovietico ben noto in quegli anni, il
“tradimento” da parte di un medico reo di passare una medicina all’Occidente.
Il romanzo fu esaminato e accettato in quella forma da “Novyj Mir” nel giugno
del 1964, ma il tentativo di pubblicazione non riuscì. Nell’estate del 1964 fu
portato avanti il tentativo opposto (sesta redazione): approfondire e affinare
nei dettagli la versione di 87 capitoli. Nell’autunno dello stesso anno una
pellicola fotografica con quella versione fu inviata in Occidente. Nel settembre
del 1965 alcune copie di una versione “pubblica” (quinta redazione) finirono
nelle mani del KGB, ragion per cui la pubblicazione definitiva del romanzo in
Urss venne bloccata. Nel 1967 questa versione si diffuse ampiamente in
samizdat. Nel 1968 il romanzo (sesta redazione) fu pubblicato in russo dalla
casa editrice americana Harper and Row. (Su quella redazione si basarono
anche tutte le traduzioni straniere.)
Nell’estate del 1968 prese forma una nuova redazione (la settima): il testo
completo e definitivo del romanzo (96 capitoli). Questa versione non è mai
stata né diffusa in samizdat né pubblicata in libro singolo. Ha trovato spazio per
la prima volta in una raccolta delle Opere complete.
La “šaraška di Marfino” e quasi tutti i suoi abitanti sono ritratti dal vero.
GLOSSARIO

ARŠIN antica unità di misura russa equivalente a 0,71 metri.

ANTIZONA (predzonnik) area di ampiezza variabile vietata ai detenuti e


delimitata da filo spinato, che precede quella della zona.

BALORDO (pridurok) nel gergo del gulag i balordi erano zek che riuscivano a
evitare i lavori manuali.
BOBINA (katuška) massimo della pena detentiva prevista per un determinato
articolo.
CARCERE INTERNO (vnutrjanka) carcere giudiziario situato all’interno della sede
della Sicurezza di Stato.

ČEKA (Črezvyčajnaja komissija) “Commissione straordinaria”, la polizia politica


fino al 1922.
ČEKISTA funzionario della polizia politica. Termine rimasto in uso anche dopo
il 1922, anno dell’abolizione della Čeka.

CINQUANTOTTO (pjat’desjat vos’maja) articolo del codice penale della RSFSR che
elencava i “reati controrivoluzionari”. È anche il detenuto politico condannato
in base a uno o più commi di quell’articolo.

COMPARE (kum) modo in cui gli oper vengono chiamati dagli zek.

CORVO (voron) cellulare adibito al trasporto dei prigionieri.

DECINA (desjatka) condanna a dieci anni.


FESSO (fraer) termine della malavita per indicare un “non ladro”. I fessi sono il
resto dell’umanità, quella che non vive di furti.

GLAVLIT (Glavnoe Upravlenie po Delam Literatury i Izdatel’stv) Direzione generale


per gli Affari letterari e artistici. Si occupa della censura.
GPU (Gosudarstvennoe političeskoe upravlenie) Direzione politica di Stato.
LAVORI COMUNI (obščie raboty) i lavori pesanti (taglio del bosco, estrazione di
metalli, ecc.) nei quali era impegnata la maggioranza degli zek comuni.

MACHORKA tabacco trinciato di pessima qualità.

MAGARÀ cereale povero di origine asiatica simile al miglio, che cresceva


spontaneamente intorno ai campi di lavoro. I suoi semi venivano usati nella
preparazione del pasto per gli zek. Decisamente meno sostanzioso e gustoso
rispetto ad altri cereali.

MANGIATOIA (kormuška) sportello sulla porta della cella che ribaltandosi mette
a disposizione una mensola su cui posare il pasto o altre cose da passare al
detenuto. Il meccanismo si aziona solo dall’esterno.
MGB (Ministerstvo Gosudarstvennoj Bezopasnosti) Ministero della Sicurezza di Stato.
Assunse il controllo degli Organi di polizia politica dal 1946 al 1953.

MUSERUOLA (namordnik) pannello di legno, ferro o vetro smerigliato esterno


alla finestra di una cella che permette al detenuto di vedere solo una striscia di
cielo. Ha anche una seconda eccezione più simbolica: la decadenza dai diritti.

MVD (Ministerstvo Vnutrennich Del) Ministero degli Affari interni. Dal 1953
assorbì i compiti dell’MGB.

NKVD (Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del) Commissariato del popolo agli


Affari interi, fu creato nel 1917 e soppresso nel 1930. Nel 1934 fu ricreato e
ribattezzato MVD nel 1946.

OPER abbreviazione di operativnik (operativnyj upolnomočennyj, delegato operativo),


agente della Sicurezza di Stato in servizio presso campi di lavoro e prigioni.

PAPIROSA sigaretta con il bocchino di cartone.


PUD vecchia misura russa pari a kg 16,38.

QUARTINO (četvertnaja) condanna a venticinque anni di reclusione.

ŠARAŠKA istituto correzionale di ricerca scientifica nel quale, sotto il controllo


della polizia politica ma in condizioni meno dure rispetto ai campi di lavoro,
vengono impiegati zek scienziati e tecnici.
SESTA DIREZIONE (Sestoe Upravlenie) divisione dell’mgb incaricata del
controspionaggio per mezzo delle comunicazioni dal maggio 1946 all’ottobre
1949.

SGOBBONE (rabotjaga) detenuto addetto ai lavori comuni.

SMERŠ dipartimento di controspionaggio dell’Armata Rossa, istituito nel 1943.


Acronimo di Smert’ Špionam, “Morte alle spie”.

VERBALIZZAZIONE (aktirovka) atto che certifica l’impossibilità̀ di impiegare un


detenuto come forza lavoro, a causa delle sue condizioni di salute.

ZEK termine che deriva dall’espressione zaključënnyj kanaloarmeec, tipo di


detenuto impiegato nella costruzione del Belomorkanal, il canale sul Mar
Bianco. Poi si è esteso a tutti i detenuti dei campi di lavoro sovietici.

ZONA area del campo di lavoro delimitata da recinzione, di solito di filo


spinato.
POSTFAZIONE
di Anna Zafesova

Anni fa, durante una lunga discussione notturna, di quelle che l’intelligencija, non
solo russa, conduce ancora per cercare di capire la tragedia del comunismo
sovietico, dissi a mio marito che per comprendere i meccanismi della dittatura
doveva leggere i capitoli dedicati a Stalin di Nel primo cerchio di Aleksandr
Solženicyn. Il mattino dopo – Amazon non era ancora sbarcato in Italia –
eravamo in una grande libreria del centro di Milano, convinti di trovare uno
dei più grandi romanzi del Novecento in cinque minuti, un po’ come si entra al
supermercato sicuri di trovare il latte o il pane. Ma il romanzo non c’era negli
scaffali della narrativa straniera e nemmeno in altri reparti. Il gentile giovane
commesso, dopo aver consultato i cataloghi, ci disse che era ormai fuori
stampa, guardandoci con educato stupore: a me era sembrato di chiedere il
pane, qualcosa di ovvio, un classico che non poteva non esserci, a lui eravamo
apparsi come due personaggi bizzarri, in cerca di una rarità stravagante.
Non sapevo in quella mattina che, se avessimo scovato il libro, la delusione
sarebbe stata ancora maggiore: dalla prima traduzione, uscita con la Mondadori
nel 1968, in poi in Italia veniva pubblicata la versione “light” del romanzo,
quella “spennata”, come la definisce lo stesso Solženicyn nella prefazione, che
lo scrittore cercò di rendere adatta a superare la censura sovietica, “perché
godesse almeno di una flebile vita”. Non ci riuscì, ma fu proprio questa stesura
a finire nel tamizdat e nel samizdat, a venire pubblicata in Occidente, a circolare
clandestinamente in Unione Sovietica, e a meritare allo scrittore il Nobel. A
venire sacrificati per primi furono, ovviamente, proprio i capitoli su Stalin, e
altri passaggi cruciali ma troppo taglienti, per un totale di nove capitoli. Inoltre,
la molla stessa del plot, la motivazione della telefonata di Volodin
all’ambasciata americana, venne resa più innocente: invece di cercare di
impedire ai sovietici di ottenere la bomba atomica, voleva soltanto mettere in
guardia un medico che ebbe in cura sua madre dai contatti con i colleghi
stranieri, quindi invece di salvare il mondo – e tradire il suo paese – desiderava
solo proteggere un innocente verso il quale aveva un debito di gratitudine. Una
trama più “privata”, che rendeva Volodin più vittima – è evidente che la sua
azione sarebbe stata considerata un tradimento sotto qualunque regime – ma
toglieva drammaticità al dilemma morale dei principali protagonisti del
romanzo, rendendone sfasati e sfocati i tormenti. È stata però questa versione a
entrare nella memoria di una generazione di lettori russi e occidentali: la
stesura integrale, “ricostruita” dall’autore nel 1968 e tornata ad avere 96
capitoli invece di 87, venne pubblicata in russo solo nel 1990, nella prima
edizione legale in patria, e in inglese nel 2009. Quando nel 2006 la televisione
russa trasmise una fiction tratta dalla versione integrale del romanzo, milioni di
russi provarono delusione e rabbia: “Da un brav’uomo il protagonista diventa
traditore!”, era il leit-motiv di numerose proteste di critici e spettatori, che pure
avevano rischiato se non la vita, la libertà e la carriera, per leggere illegalmente
il romanzo mutilato trent’anni prima.

Ma questo è il destino dell’opera di Solženicyn, di emergere “da sotto i


macigni”, per citare il titolo di una sua raccolta di saggi. Un romanzo concepito
nel 1945-1953, durante la sua prigionia nel gulag, scritto nel 1955-’58,
modificato nel 1964, ricostruito nel 1968, e che arriva al lettore italiano mezzo
secolo dopo la prima traduzione. E si presenta in tutta la sua grandezza da
cattedrale, alla quale lo paragonò Heinrich Böll, una cattedrale di romanzo, con
arcate, volte, travi a sorreggersi in un insieme imponente e leggiadro allo stesso
tempo, tenuto insieme in una tensione perfetta da migliaia di mattonelle,
ciascuna incisa con un dettaglio diverso, microscopico e preciso. Come una
cattedrale gotica, la sua pianta è subordinata a un rigido precetto teologico, e
ogni piccola parte è funzionale a comporne il maestoso insieme, e nello stesso
tempo è un prezioso piccolo capolavoro. Della cattedrale possiede il respiro
della navata – il panorama multidimensionale della Russia staliniana, dalle
campagne desolate ai salotti della borghesia rossa, e dalle segrete del gulag ai
teatri moscoviti – e la vertiginosa guglia dei capitoli su Stalin, ma anche la
moltitudine di angoli reconditi, cappelle, affreschi, statue che emergono
dall’oscurità, composti da singole storie, scene, personaggi, in un quadro corale
che, proseguendo la metafora architettonica, ricorda nella ricchezza e terribile
nitidezza un gigantesco Giudizio universale a tutta parete.

Tutti i raffigurati in questo affresco finiscono dannati, in una Russia


ovviamente paragonata all’inferno fin dalla copertina: il titolo del romanzo Nel
primo cerchio contiene un’allusione a Dante e alla Commedia più che trasparente
anche nel testo, quando uno dei protagonisti spiega il cerchio “di lusso” dove il
poeta aveva collocato i filosofi dell’antichità classica, e di nuovo nel finale, e
paralleli e citazioni dal Faust e dalla Divina Commedia non sono mai casuali.
Buona parte dell’azione si svolge nella šaraška, il primo cerchio del gulag (ma
nella narrazione balenano anche quelli inferiori, che verranno poi studiati nel
dettaglio in Arcipelago Gulag), la prigione privilegiata alle porte di Mosca dove
detenuti ingegneri e matematici lavorano alla costruzione di apparecchiature
che aiuteranno i loro carcerieri a fare altri prigionieri. Le vittime producono
nuove vittime, i prigionieri e i carcerieri possono scambiarsi di posto in
qualunque momento, e sono accomunati dalla stessa paura e mancanza di
libertà, in un paese dove tutti vivono in prigione, dal capo supremo ai carnefici:
nessuno può uscirne, nessuno può parlare liberamente, nessuno può
permettersi il lusso di non avere paura, e Gleb Neržin, quello fra i protagonisti
di un romanzo senza eroi che più rappresenta l’alter ego dell’autore, finisce per
esclamare: “Sia benedetta la prigione!!! Mi ha dato il tempo di riflettere.”
Ed è proprio nella prigione che coloro che non hanno più nulla da perdere
svolgono appassionati e dotti dibattiti sulla politica, l’arte, la storia, il senso
della vita, ormai impossibili dall’altra parte del filo spinato, come quei dialoghi
tra Neržin, Rubin e Sologdin dove più traspare la presa di posizione
dell’autore, e dove troviamo le tracce di tutti quei temi che negli anni successivi
saranno i più cari a Solženicyn, e i più discutibili per i suoi critici: la
rivoluzione, la religione, la donna, il popolo contadino, la monarchia, la lingua
russa, l’Europa, il marxismo, il valore purificatore della prigionia, ma
soprattutto la cultura (più è pericoloso un personaggio, più di solito è rozzo,
squallido e insignificante). Ma non è un romanzo didattico e ideologico, è una
narrazione corale, mirabilmente resa nella traduzione di Denise Silvestri nella
moltitudine di voci, parlate, tonalità, con decine di storie che si diramano dalla
trama principale e la narrazione dell’autore che si adatta di volta in volta alle
vicende di illustri astri della matematica come alla straziata biografia dello
spazzino Spiridon, una sorta di Ivan Denisovič ante litteram. I personaggi –
tutti ispirati da persone realmente esistite, e di molti i biografi dello scrittore
hanno ricostruito identità e sorti – sono decine e decine, alcuni appaiono in
scena solo per un capitolo, altri si muovono e si intrecciano, ma di tutti viene
fornito un vivido ritratto di avvincente precisione e introspezione.

Romanzo corale nei personaggi e nei luoghi, la cui azione è invece pressata in
meno di tre giorni, con però decine di flashback che vanno indietro di decenni,
e lontano migliaia di chilometri dalla Mosca del Natale 1949, descritta in
maniera quasi palpabile, negli odori, colori e rumori di una grande metropoli
indifferente, spaziando dai corridoi delle prigioni alle stanzette dei convitti
studenteschi, dalla metropolitana alla dacia di Stalin, con continui e improvvisi
cambiamenti di ritmo, in un mosaico dove voragini filosofiche si alternano a
intermezzi quasi comici, serrati dialoghi carichi di messaggi a tenui descrizioni
introspettive, momenti di alta tensione a improvvise deviazioni dal plot, in un
incastro che sa di perfezione matematica, ma anche di musica, con le voci dei
vari protagonisti perfettamente udibili e distinguibili, in un coro polifonico.
Tutti i dettagli sono al loro posto, il fucile appeso nel primo atto spara nel
terzo, come raccomandava Čechov, l’infinito puzzle di dettagli, sfumature,
oggetti, suoni, odori e frasi si compone senza lasciare fessure, è tutto visibile,
quasi come fosse una sceneggiatura pronta, uno dei panorami più ampi e
realistici della Russia del Novecento.
Un giorno, forse, questo capolavoro si leggerà “soltanto” come un grande
romanzo. Ma oggi, un secolo dopo la nascita dello scrittore e cinquant’anni
dopo la prima pubblicazione “spennata”, è ancora impossibile distinguere
questo imponente affresco dal suo soggetto: lo stalinismo. L’enigma di un
paese enorme totalmente soggiogato dal suo sovrano, un’intera nazione che
resta sveglia perché “un uomo soltanto di notte non dormiva [...] Per non
cedere al sonno, convocavano i loro vice, e i vice importunavano i capiufficio,
gli archivisti sulle scalette spulciavano negli schedari, i segretari volavano per i
corridoi, le stenografe spezzavano la punta delle matite”. Un paese stretto dalla
paura, “la paura sorta in lunghi anni di subordinazione era così enorme che
nessuno di loro, né prima né dopo, aveva avuto abbastanza coraggio da farsi
valere davanti ai superiori”, i delatori sono ovunque e il minimo gesto o frase
possono costare la vita e la libertà. Un paese preso da una “folle, insopportabile
corsa che stava stritolando tutta la nazione”, la corsa impossibile verso l’utopia,
mentre “le case non stavano in piedi, i ponti non si reggevano, le costruzioni si
riempivano di crepe, il raccolto marciva o non germogliava proprio”, in
un’autodistruzione che nessuno aveva il coraggio di fermare, e che veniva
spacciata per l’approssimarsi della nuova era. Un paese avvolto nella bugia, che
della menzogna aveva fatto strumento di lavoro e sopravvivenza, dove la verità
e lo sguardo disincantato sulla realtà erano punibili con la prigione, e solo nella
prigione diventavano possibili. Tutti mentono a tutti – i mariti alle mogli, i
genitori ai figli, i superiori ai sottoposti, i giornali ai lettori, i ministri a Stalin e
Stalin a sé stesso – in un meccanismo psicologico quanto politico, dove le fake
news diventano strumento di governo e necessità quotidiana, di cui Solženicyn
descrive il funzionamento in intuizioni che sembrano tratte da studi di
comportamentalistica moderna.

Un sistema dove tutti sono vittime e carnefici, e tutti prigionieri, a cominciare


dal Capo Supremo, che ha appena festeggiato i settant’anni e si appresta quasi
con disperazione a governare per altri venti, paragonandosi anch’egli a un
detenuto che deve scontare la condanna. Alla distruzione del mito di Stalin
Solženicyn si dedica con parole di violenza quasi fisiologica – “era soltanto un
piccolo vecchio dagli occhi gialli, con i capelli biondicci (nei ritratti li
raffiguravano corvini) che si stavano già diradando (li raffiguravano folti), il
viso grigio butterato qua e là dai segni del vaiolo, una sacca di pelle flaccida
sotto il mento (quella non la disegnavano affatto), i denti scuri e irregolari, una
parte dei quali ripiegata all’interno della bocca che puzzava di tabacco in foglie,
le umide dita unte che lasciavano tracce sulle carte e sui libri” che vive una vita
da recluso nella sua dacia, abitando (proseguendo la metafora infernale) nel
buio, nella notte, in solitudine, a percorrere corridoi sotterranei, stanze piccole
e senza finestre, sbirciando da spioncini e porte nascoste, dove perfino l’aria
arriva filtrata e artificiale. È un uomo di soluzioni semplici, considera la morte
(degli avversari come degli alleati) come lo strumento più semplice per
eliminare un problema. Non conosce il paese che governa – nelle sue poche
uscite all’esterno strade e stazioni vengono sgomberate, fino quasi a
convincerlo di esserne l’unico abitante – e governa un paese che non esiste, in
un mondo che respira morte, già sepolto da vivo (anche se sogna l’immortalità
regalata dalla scienza), in un labirinto blindato, senza luci, senza finestre, senza
incontrare nessuno, avvolto dalla paura e dalla paranoia, in una Russia svuotata
per non arrecargli disturbo.
È l’autunno di un patriarca che non ha conosciuto una primavera gloriosa, un
vecchio rancoroso, paranoico, vanitoso e permaloso, afflitto dalla paura della
morte e dalla solitudine nella quale non gli resta che confrontarsi con quel dio
che ha rinnegato (per poi cercare di sostituirlo) lasciando la carriera del
seminario per quella del rivoluzionario. Ma è l’antirivoluzionario per
definizione, è il potere pragmatico incarnato, desideroso solo di stabilità e
ordine: odia le rivoluzioni, disprezza gli uccisori dei tiranni, il potere viene
dall’alto e non dal basso, è un conservatore anche nell’amorosa meticolosità
con la quale ripristina i dettagli della monarchia, dalle mantelle delle ginnasiali
alle uniformi dei ferrovieri. Più che ispirato dall’utopia marxista è il suo
becchino, un Grande Inquisitore dostoevskiano che ambisce a una gerarchia
patriarcale, convinto che “il popolo non poteva restare senza risposte giuste e
continue. Il popolo non poteva reggere senza certezze. La rivoluzione aveva
trasformato il popolo in un orfano, in un senzadio, cosa davvero pericolosa”.

Quando scrisse – e poi tolse – quei capitoli nella prima stesura di Nel primo
cerchio, Solženicyn si sentì obiettare da Aleksandr Tvardovskij – il poeta
direttore della rivista “Novij Mir”, che ebbe il coraggio di pubblicare Una
giornata di Ivan Denisovič – di non poter inventarsi “dettagli così precisi e certi
della vita del monarca” senza conoscerli. Lo scrittore rispose che “Stalin
doveva mietere la semina della sua segretezza. Visse in segreto, e dunque oggi
chiunque ha diritto a scriverne qualunque cosa secondo la propria
immaginazione. Questo è il diritto e il compito dell’artista, dipingere un
quadro e contagiarne il lettore”. Il prodigio, come si è scoperto decenni dopo
da numerose e svariate testimonianze, è che l’artista colse quello che ignorava,
ricostruendo lo scheletro del dinosauro dalla mandibola. Anche perché il
meccanismo inesorabile della mente del dittatore, che plasma la realtà fino a
crederci lui stesso, non poteva essere dissimile da quello dei suoi “lemuri”. Ma
può essere letta anche come la psicoanalisi perfetta del narcisista, che distrugge
tutto quello che lo può oscurare, per poi annoiarsi con i mediocri che egli
stesso ha selezionato: “Come re Mida, che trasformava in oro tutto ciò che
toccava, Stalin rendeva mediocre tutto ciò che sfiorava.”
Solženicyn aveva dedicato la sua opera, il suo scontro del vitello che voleva
incornare la quercia, come recita il titolo della sua prima autobiografia, ad
abbattere quello che gli sembrava un mito che avvelenava la Russia e il mondo:
la bontà del comunismo, nonostante i suoi crimini. Voleva dimostrare che
Stalin non fosse una tragica “deviazione”, ma il prodotto inevitabile e logico
dell’ideologia comunista (i pochi marxisti convinti nel suo romanzo, anche loro
ovviamente detenuti, vengono trattati con benevola compassione), non
un’eccezione, ma la sua massima espressione. Molti russi della sua generazione
sono convinti di essere stati colpiti da un male eccezionale, senza confronti, che
in un certo senso rende grandi anche le vittime (a differenza degli ebrei però,
oltre che vittime ne furono pure perpetratori). Ma lo Stalin di Solženicyn
appare all’improvviso banale, già visto, replicato altre volte in tutte le sue
manifestazioni – dai monumenti del “culto della personalità” all’eliminazione
metodica di tutti i nemici più brillanti, i Trockij di turno. I paragoni con molti
tratti della Russia contemporanea – emblematico il passaggio della limousine di
Vladimir Putin diretto alla cerimonia della sua terza investitura al Cremlino,
attraverso una Mosca svuotata di abitanti – sono involontari quanto
sintomatici di un sistema ancora radicato. Riletto cinquant’anni dopo, il
romanzo colpisce però un bersaglio molto più ampio, non circoscritto né nello
spazio, né nel tempo. Come l’unicità del male degli anni Trenta viene ora messa
in discussione dalla risorgenza di discorsi e odi che sembravano banditi per
sempre, così quella che doveva essere una denuncia di fuoco contro il mostro
della dittatura comunista oggi si può rileggere come un manuale di psicologia
del dittatore, e del funzionamento della macchina totalitaria – paura, paranoia,
bugia, manipolazione, violenza, corruzione, risentimento, autarchia e
mediocrità – in nome di un potere da concentrare in poche, pochissime mani.
Da Mao alla dinastia dei Kim, dai peronisti latinoamericani a quelli birmani,
dai satrapi africani ai rais mediorientali, fino ai sovranisti e populisti europei e
americani, in quella triste farsa che, secondo Marx, è sempre la ripetizione della
storia, inneggiano al popolo per trasformarlo in plebe. Il dittatore ideale, come
lo Stalin di Solženicyn, proclama la mediocrità come modello, disprezza la
scienza e deride gli intellettuali, con la loro attitudine a dubitare, esitare e
sottilizzare. Per lui l’unico metodo per superare un ostacolo è eliminarlo: il
confronto, il dialogo, la persuasione, la competizione gli sono sconosciuti,
anche perché sa che in questi campi non può che essere un perdente. Lo stesso
Stalin di Solženicyn sa, intuisce, di non essere l’unico: il solo essere umano
verso il quale avesse mai nutrito una fiducia e una complicità tra pari è Adolf
Hitler, e risponde a chi voleva eliminarlo esclamando: “Un socialismo senza di
lui era fascismo bell’e buono!”

Nel primo cerchio racconta anche come va a finire l’inevitabile stratificazione che
nasce da ogni sogno rivoluzionario, descrivendo senza elusioni una società
sovietica violenta, cinica, corrotta e classista, cogliendo, dalle segrete gelate del
gulag più remoto alla camera da letto di Stalin, quella sensazione di squallore
che disgusta in misura eguale comunisti e anticomunisti, con la nuova
borghesia rossa che ha dimenticato qualunque ideale, perfino sanguinario, per
darsi alla sfrenata caccia a tappeti, cristalli e mobili, iniziata con il saccheggio
della Germania sconfitta: “Il paese si era inferocito, si era fatto totalmente
disonesto, e voragini separavano una gracile miseria da una ricchezza che
ingrassava spudorata.” Qualunque giustificazione, ideale, economica, sociale,
estetica, della rivoluzione, sparisce in una certificazione senza appello del
fallimento, che oggi non riguarda più solo l’illusione del comunismo, ma tante
altre che sono venute, e che verranno, secondo la regola, dimostrata da
Solženicyn con la precisione del matematico, che un potere sorto con la
violenza e l’inganno non può non essere cinico e inefficiente. La distinzione
elitista, e l’assenza di dialogo, tra chi è istruito e il “popolo”, così tradizionale
dei dilemmi della letteratura russa, oggi si rilegge in un’ottica tornata di
attualità, e Stalin – il leader che disprezza l’élite e capisce il popolo,
manipolando entrambi – potrebbe sembrare l’unica, per quanto ripugnante,
soluzione per tenerli insieme. Con l’inevitabile conclusione che gli unici a
volere e potere comportarsi come cittadini e farsi guidare dalla ragione e dalla
morale, in una sorta di società ideale di filosofi che contrasta la dittatura
dell’imbecillità, siano i detenuti.
INDICE

1 Il siluro
2 Colpo fallito
3 La šaraška
4 Il Natale protestante
5 Boogie-Woogie
6 Un’esistenza pacifica
7 Un cuore di donna
8 Fermati, attimo!
9 Il quinto anno di reclusione
10 I rosacrociani
11 Il castello incantato
12 Il Sette
13 E bisognava mentire…
14 La luce blu
15 Una ragazza! Una ragazza!
16 Una trojka di mentitori
17 A proposito dell’acqua calda
18 La fiaba del cavallino magico
19 Il festeggiato
20 Schizzo di una vita grandiosa
21 Ci ridia la pena di morte!
22 L’imperatore della terra
23 La lingua è un mezzo di produzione
24 L’abisso ti richiama indietro
25 La chiesa di Nikita Martire
26 A segare la legna
27 Un po’ di metodologia
28 Il lavoro del tenente minore
29 Il lavoro del tenente colonnello
30 Un robot perplesso
31 Come rammendare i calzini
32 Sulla strada verso il milione
33 Aste di reprimenda
34 I fonoaspetti
35 Vietati i baci
36 La fonoscopia
37 Una muta campana a martello
38 Tradiscimi!
39 Facile dire “andiamo nella taiga”
40 Il colloquio
41 Ancora uno
42 Anche fra i giovani
43 La donna che lavava le scale
44 In libertà
45 I cani dell’imperialismo
46 Il castello del Santo Graal
47 Conversazione 000
48 Il doppiogiochista
49 La vita non è un romanzo
50 La vecchia zitella
51 Fuoco e fieno
52 Alla resurrezione dei morti!
53 L’arca
54 Divertimenti oziosi
55 Il principe Igor’
56 Finendo il ventesimo
57 Bazzecole da detenuti
58 Una tavola di liceali
59 Il sorriso di Buddha
60 Anche la coscienza ci viene data una volta sola
61 Lo zio di Tver’
62 Due generi
63 Il conservatore
64 Per primi nelle città
65 Un duello fuori dalle regole
66 L’andata al popolo
67 Spiridon
68 Il criterio di Spiridon
69 A carte coperte
70 Dotty
71 Facciamo che non sia mai successo
72 I Templi civili
73 Un circolo di offese
74 L’alba del lunedì
75 Quattro chiodi
76 L’adorata professione
77 Decisione presa
78 Il segretario esentato
79 Spiegata la decisione
80 Centoquarantasette rubli
81 La tecno-élite
82 Educazione all’ottimismo
83 Il principe dei delatori
84 Quanto a fucilare…
85 Il principe Kurbskij
86 Non sono un pescatore di uomini
87 Alle origini della scienza
88 Il materialismo dialettico: una concezione del mondo avanzata
89 Una piccola quaglia
90 Sulle scale posteriori
91 Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate
92 Custodire in eterno
93 Il secondo respiro
94 Sempre alla sprovvista
95 Addio, šaraška!
96 Carne

Glossario

Postfazione di Anna Zafesova

Voland e-book
e.klassika
in redazione
Daniela Di Sora

Progetto grafico
Alberto Lecaldano
Versione e-book
Filippo Petrocelli

Edizioni Voland
00186 Roma. Via di San Benedetto in Arenula, 14
Tel. 06 45496060
www.voland.it
e-mail: redazione@voland.it
Voland e-book

Valerio Aiolli, Lo stesso vento


Javier Argüello, A proposito di Majorana
AA. VV., Guida alla Roma ribelle
Babel’/Osimo, Racconti di Odessa
Beatrice Barzaghi e Maria Fiano, Guida alla Venezia ribelle
Vicente Battista, Semplicemente Gutiérrez
Guglielmo Brayda, Effetti collaterali dei sogni
Grisha Bruskin, Imperfetto passato
Bulgakov/Tarabbia, Diavoleide
Dulce Maria Cardoso, Sono tutte storie d’amore
Mircea Cărtărescu, Abbacinante. Il corpo
Mircea Cărtărescu, Abbacinante. L’ala destra
Mircea Cărtărescu, Abbacinante. L’ala sinistra
Mircea Cărtărescu, Travesti
Roberto Carvelli, Letti
Čechov/Pera, Tre racconti
Daniele Cini, io, la rivoluzione e il babbo
Emil Cioran, Sulla Francia
Teresa Ciuffoletti e Roberto Sassi, Guida alla Venezia ribelle
Colette, Mi piace essere golosa
Julio Cortázar, Diario di Andrés Fava
Julio Cortázar, Divertimento
Julio Cortázar, L’esame
Nicola H. Cosentino, Vita e morte delle aragoste
Mia Couto, Veleni di Dio, medicine del diavolo
Marina Cvetaeva, Taccuini 1919-1921
Cvetaeva/Vitale, Le notti fiorentine
Léonie d’Aunet, Oltre Capo Nord. Viaggio di una donna allo Spitzberg
Alexandra David-Néel, Nel paese dei briganti gentiluomini
Alexandra David-Néel, Il potere del nulla
Guy de Maupassant, Le donne di Maupassant
Ida De Michelis, La Grande Guerra di Dante
Philippe Djian, Vendette
Philippe Djian, “Oh...”
Dostoevskij/Nori, Memorie del sottosuolo
Jacek Dukaj, La cattedrale
Ralph Dutli, L’ultimo viaggio di Soutine
Marija Elifërova, Morte di un autore
Luigi Farrauto, Senza passare per Baghdad
Paul Fournel, La novità
Leonardo Fredduzzi, La venere di Taškent
Esther Freud, Innamoramenti
Matthias Frings, L’ultimo comunista
Flavio Fusi, Cronache infedeli
Ilaria Gaspari, Etica dell’acquario
Gajto Gazdanov, Il fantasma di Alexander Wolf
Gajto Gazdanov, Il ritorno del Budda
Gogol’/De Michelis, Due storie pietroburghesi
Gor’kij/Morante, Varen’ka Olesova
Georgi Gospodinov, E tutto divenne luna
Georgi Gospodinov, Fisica della malinconia
Georgi Gospodinov, ...e altre storie
Renée Hamon, Verso le isole luminose. Tahiti, Tuamotu, Marchesi
Stéphanie Hochet, Elogio del gatto
Stéphanie Hochet, Sangue nero
Stéphanie Hochet, Un romanzo inglese
Nora Ikstena, Il latte della madre
Vladimir Jabotinsky, I Cinque
Daniel Kehlmann, Sotto il sole
Charles Lambert, Occasioni di morte
Mercedes Lauenstein, di notte
Massimo Loche, Per via di terra. In treno da Hanoi a Mosca
Vladimir Majakovskij, America
Giorgio Manacorda, Delitto a Villa Ada
Giorgio Manacorda, Il corridoio di legno
Giorgio Manacorda, Il cargo giapponese
Giorgio Manacorda, PASOLINI a Villa Ada
Giorgio Manacorda, Terrarium
Matteo Marchesini, Atti mancati
Dennis McShade, La mano destra del Diavolo
Giacomo Melloni, Il musicista oscuro
Riccardo Michelucci, Guida alla Firenze ribelle
Lia Migale, La donna del diavolo
Melinda Nadj Abonji, Come l’aria
Justo Navarro, La spia
Ndumiso Ngcobo, Alcuni dei miei migliori amici sono bianchi
Amélie Nothomb, Acido solforico
Amélie Nothomb, Attentato
Amélie Nothomb, Colpisci il tuo cuore
Amélie Nothomb, Cosmetica del nemico
Amélie Nothomb, L’entrata di Cristo a Bruxelles
Amélie Nothomb, Igiene dell’assassino
Amélie Nothomb, Il delitto del conte Neville
Amélie Nothomb, Mercurio
Amélie Nothomb, Né di Eva né di Adamo
Amélie Nothomb, Pétronille
Amélie Nothomb, Riccardin dal ciuffo
Amélie Nothomb, Ritorno a Pompei
Amélie Nothomb, Stupore e tremori
José Ovejero, Come sono strani gli uomini
José Ovejero, Donne che viaggiano da sole
José Ovejero, L’invenzione dell'amore
Marina Palej, Klemens
Demetrio Paolin, Conforme alla gloria
Valentina Parisi, Guida alla Mosca ribelle
Fernando Pessoa, Lisboa. Quello che il turista deve vedere
Rocco Pinto, Fuori catalogo: storie di libri e librerie
José Luís Pio Abreu, Come diventare un malato di mente
Dmitrij A. Prigov, Eccovi Mosca
Zachar Prilepin, Il monastero
Zachar Prilepin, Patologie
Zachar Prilepin, Il peccato
Zachar Prilepin, San’kja
Zachar Prilepin, Scimmia nera
Aleksadr Radiščev, Viaggio da Pietroburgo a Mosca
Ugo Riccarelli, Diletto
Elena Rževskaja, Memorie di una interprete di guerra
Emilio Salgari, Un’avventura in Siberia
Vanni Santoni, Personaggi precari
Lucilla Schiaffino, Trame d’infanzia
Ernesto Schoo, Mi Buenos Aires querido
George S. Schuyler, Mai più nero
Aleksandr Solženicyn, Nel primo cerchio
Marina Stepnova, Le donne di Lazar’
Lev Tolstoj/Angelo Maria Ripellino, Per Anna Karenina
Tolstoj/Nori, Chadži-Murat
Soti Triantafillou, Scatole cinesi. Quattro stagioni per il detective Malone
Turgenev/Niero, Diario di un uomo superfluo
Michaël Uras, Io e Proust
Miklós Vajda, Ritratto di madre, in cornice americana
Serhij Žadan, La strada del Donbas
Zamjatin/Niero, Noi
e.klassika

1. Konstantin Vaginov, Arpagoniana


a cura di Donatella Possamai
2. Michail Kuzmin, Viaggi immaginari
traduzione di Daniela Di Sora, postfazione di Sergio Trombetta

3. Evgenij Zamjatin, L’inondazione


a cura di Daniela di Sora

4. Lidija Zinov’eva-Annibal, Trentatré mostri e due racconti


traduzione di Daniela di Sora, postfazione di Sergio Trombetta
5. Teffi, Invece della politica e altri racconti
traduzione di Luciana Montagnani e Monica Gilardetti, postfazione di Luciana
Montagnani

6. Anonimo, Lukà Mudìščev. Versi non per signore


a cura di Cesare G. De Michelis
7. Nikolaj Michajlovič Karamzin, Lettere di un viaggiatore russo
a cura di Stefania Pavan, traduzione di Marija Olsuf’eva

Potrebbero piacerti anche