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BIOCHIMICA I

SBOBINE
CdLM in
MEDICINA E
CHIRURGIA
a.a. 2017-2018
1° Anno
INDICE
LE PROTEINE ....................................................................................................................................................... 1
STRUTTURE DELLE PROTEINE ..........................................................................................................................15
LE PROTEINE E L’EVOLUZIONE .........................................................................................................................29
PROTEINE FIBROSE E LA LORO OMEOSTASI....................................................................................................42
FOLDING PROTEICO .........................................................................................................................................54
PROTEIN BREATHING .......................................................................................................................................71
OMEOSTASI DELLE PROTEINE ..........................................................................................................................87
MISFOLDING PROTEICO E STATO AMILOIDE ................................................................................................103

TRASPORTO E DEPOSITO DELL’OSSIGENO NEL SANGUE, MIOGLOBINA ED EMOGLOBINA ........................119

STRUTTURA E FUNZIONE DELL’EMOGLOBINA ..............................................................................................129

MODULATORI ALLOSTERICI, EFFETTI SUL TRASPORTO DELL’OSSIGENO E FORME ALTERNATIVE DI


EMOGLOBINA.................................................................................................................................................139

VARIANTI FISIOLOGICHE DELL’EMOGLOBINA ...............................................................................................150

ENZIMI: RUOLO, NOMENCLATURA, CINETICA ENZIMATICA ........................................................................159

CINETICA ENZIMATICA ...................................................................................................................................172

INIBITORI COMPETITIVI .................................................................................................................................183

ENZIMI DIGESTIVI...........................................................................................................................................192

PRINCIPI GENERALI ALLA BASE DEL FLUSSO DI ENERGIA NEGLI ORGANISMI VIVENTI ...............................202

COENZIMI E INTRODUZIONE A: CATENA RESPIRATORIA E FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA ........................211

COMPLESSI ENZIMATICI DELLA CATENA RESPIRATORIA ..............................................................................220

CATENA RESPIRATORIA: COMPLESSO IV.......................................................................................................234

REGOLAZIONE DELLA FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA ..................................................................................243

LE VITAMINE...................................................................................................................................................255

VITAMINA D ...................................................................................................................................................264

VITAMINE IDROSOLUBILI ...............................................................................................................................273

VITAMINE IDROSOLUBILI DEL COMPLESSO B ...............................................................................................281

DOMANDE DI BIOCHIMICA ............................................................................................................................295

COAGULAZIONE DEL SANGUE .......................................................................................................................299


Lezione n° 01 del 26.03.2018
Sbobinatori: Ivana Chietera, Michele Iacca
Controllore: Cristian Pio Coccia
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Struttura delle proteine

LE PROTEINE
Perché le proteine?
Perché ci si può trovare a dover lavorare con le proteine: per chi è abituato ad avere a che fare
con esse in laboratorio, quindi fuori dai contesti fisiologici, molto spesso rappresentano un
argomento ostico, in quanto non si comportano mai come ci si auspicherebbe. Un ricercatore che
vuole indagare le proprietà delle proteine spesso si accorge che queste hanno un comportamento
che si discosta dalle proprie attese e sono sufficienti piccole variazioni fisico-chimiche per
sconvolgere le proprietà delle proteine che sono così strettamente legate al loro ripiegamento
tridimensionale.
Struttura delle proteine: il legame peptidico
Per capire le proprietà delle proteine e la loro strutturazione è necessario partire dal legame
peptidico, ovvero dal legame covalente che nasce dalla condensazione di una molecola di acqua
tra due amminoacidi (in questo caso sono due amminoacidi generici).
È giusto rappresentare la reazione in modo
reversibile (freccia con doppia direzione),
sebbene la reazione di idrolisi del legame
peptidico sia un evento estremamente raro,
poiché la formazione del legame peptidico porta
alla formazione di un prodotto stabile, più
stabile rispetto ai suoi reagenti. La grafica
impone sempre che ossigeno e idrogeno si
trovino in configurazione TRANS (in posizione
opposta rispetto al neoformato legame Carbonio-
Azoto).
Ai fini della nomenclatura, il legame peptidico è
proprio quello tra Carbonio e Azoto, che ha delle
proprietà tutte sue. Il piano peptidico è, invece,
un concetto più ampio (include infatti Ossigeno,
Azoto, Carbonio e Idrogeno).
Il legame peptidico è planare, stabilizzato per Risonanza e ha delle caratteristiche di Polarità.
Polarità non vuol dire avere due cariche distinte, una positiva e una negativa, bensì avere delle
cariche parziali, che in chimica vengono indicate sempre con delta (δ), che non è sempre una
carica positiva o negativa, un elettrone in più o in meno, ma è una frazione di una carica, che sia
essa positiva o negativa.
La risonanza impone che il doppietto dell’azoto possa spostarsi tra carbonio e azoto, rimuovendo i
due elettroni condivisi nel legame con l’ossigeno e spostandoli interamente sull’ossigeno, così che
quest’ultimo si trova ad avere un elettrone in più, oltre al suo elettrone precedentemente condiviso.
L’ossigeno ha ora una carica negativa e l’azoto che rimane con un solo elettrone, e quindi
presenta la lacuna di un elettrone, ha carica positiva. La realtà (per il concetto di Risonanza) è un
ibrido, la via di mezzo tra le due situazioni.
Essa si rappresenta tracciando una seconda linea di legame tratteggiata, che va dall’azoto al
carbonio e dal carbonio all’ossigeno, ad indicare che questi legami non sono proprio dei legami
semplici o doppi, ma una situazione intermedia. Si scrive quindi - delta sull’ossigeno e + delta
sull’azoto (cariche parziali localizzate su questi due atomi che sono i più elettronegativi).

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Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Struttura delle proteine

N.B. per elettronegatività si intende la tendenza che ha un atomo ad attirare verso di sé elettroni, in un
legame chimico.
Sembra strano che sull’Azoto si concentri una carica parziale positiva, visto che è un elemento così
elettronegativo (intorno a 3 nella scala di Pauling), quindi in realtà succede qualcosa di diverso.
Questo parziale doppio legame tra C ed N ha una particolare distanza. La distanza di legame è di
1.32 Ȧ, un punto intermedio della distanza che si avrebbe tra legame semplice (1.49) e il legame
doppio C=N che è 1.27. Vediamo di analizzare il problema della polarità, in quanto non
è giusto attribuire una carica parzialmente positiva all’azoto coinvolto nella formazione del legame
peptidico. Considerando gli atomi coinvolti nel legame peptidico, lasciando stare gli atomi che
appartengono alle catene laterali (R), le cariche parziali più intense si sviluppano tra l’ossigeno e
carbonio. C’è una grande differenza di elettronegatività perché l’ossigeno presenta un valore di 3.5 e il
carbonio di 2.1, quindi c’è una discreta separazione di carica. L’ossigeno avrà una carica negativa di -
0.57 e il carbonio un +0,60 (non sono uguali, perché bisogna tener conto di tutti i legami che vengono
formati). A livello dell’azoto, dove la formazione del legame peptidico ci faceva ipotizzare una carica
parziale positiva, si sviluppa in realtà una carica parziale negativa, proprio perché esso è molto più
elettronegativo rispetto all’idrogeno (H=1 e N=3). Sull’azoto avremo – 0.42 di carica e sull’idrogeno un
+0.27. Di fatto le cariche parziali sono così distribuite, indipendentemente da tutto il resto della catena
polipeptidica.

Le cariche parziali sono molto importanti al livello del legame peptidico: la formazione di queste
cariche parziali sull’azoto, sull’idrogeno, sull’ossigeno e sul carbonio coinvolto nel legame peptidico
sono essenziali per la formazione di ponti a idrogeno. Infatti sono presenti tutti gli elementi del ponte a
Idrogeno, ovvero: un elemento molto elettronegativo (N), un altro elemento molto elettronegativo (O) e
un H covalentemente legato a N, che sviluppa questa carica parziale positiva, la quale consente
l’interazione con l’ossigeno di un altro gruppo peptidico, a sua volta caricato in maniera parzialmente
negativa. Questi atomi del gruppo peptidico sono coinvolti in ponti idrogeno, che saranno responsabili
sia dello strutturarsi 3D della proteina, sia della formazione di particolari strutture: le strutture
secondarie. Se non avessimo questa polarità, non avremmo i ponti idrogeno necessari per la
formazione della struttura secondaria e terziaria.

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Argomenti: Struttura delle proteine

Qui rappresentati: due amminoacidi


legati, con i due carboni alfa. Il gruppo
peptidico e tutti gli atomi (C, H, N, O) si
trovano schiacciati su questo piano,
bloccato dal parziale carattere di
doppio legame del legame peptidico C-
N. È importante notare come la
configurazione sia TRANS (H e O si
trovano da parti opposte rispetto al
legame peptidico, che ha
caratteristiche parziali di doppio
legame. In realtà conviene guardare i
carboni alfa, che danno maggiormente
l’idea del legame TRANS).
Questa è la configurazione in cui si avrà meno ingombro sterico, con i carboni alfa in posizioni
opposte, che stabilizza la formazione di questo legame.
N.B. si parla di configurazione TRANS, da non confondere con conformazione!
Quando si descrive la configurazione di una molecola si fa riferimento a delle posizioni spaziali
specifiche degli atomi, che sono legati tra di loro mediante legami covalenti. Non si può cambiare
configurazione, se non rompendo i legami e riarrangiandoli. La conformazione, invece, è un modo
alternativo di strutturarsi del polipeptide, che non comporta il taglio (l’idrolisi) di legami covalenti, ma la
semplice rotazione intorno ad alcuni legami, che sono permissivi nei confronti di questa rotazione.
Non tutti i legami lo sono! Ad es. il legame peptidico, avendo parziale carattere di doppio legame, non
consente nessuna rotazione. Altri legami della catena polipeptidica lo consentono e sono quelli
responsabili dell’assunzione di differenti conformazioni della proteina, ovvero differenti strutture, che si
ottengono da una semplice rotazione attorno all’angolo di legame.
Cosa c’è di diverso tra la configurazione TRANS e la configurazione CIS del legame peptidico?
Nelle proteine troveremo solamente la configurazione TRANS,
quella dove i carboni alfa sono situati lungo lati opposti rispetto
al legame peptidico C-N. Nella configurazione CIS, dove i due
C-alfa sono dallo stesso lato, si crea un ingombro sterico. Le
catene laterali si disturbano l’un l’altra e tendono a collidere,
generando una situazione che non porta a stabilità; pertanto,
nei legami peptidici nelle proteine troveremo solo la
configurazione TRANS. C’è un’eccezione però, rappresentata
dalla prolina, che ha un anello di atomi di carbonio, con un
legame carbonio-ossigeno in posizione laterale. Esistono nel
caso della prolina sia la configurazione CIS, che la
configurazione TRANS, le quali sono simili in termini di
stabilizzazione energetica. In ognuno dei due casi vi è impedimento sterico. La prolina rappresenta un
amminoacido diverso e questo avrà delle conseguenze nei vari utilizzi in differenti proteine.

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Argomenti: Struttura delle proteine

Qui possiamo vedere due amminoacidi legati e, in evidenza, i due piani peptidici a cui appartengono
tutti gli atomi del gruppo peptidico. Tra un piano peptidico di un amminoacido e il piano peptidico
dell’amminoacido seguente c’è il carbonio alfa, legato alla sua catena laterale e al suo idrogeno.
Questo carbonio forma legami con l’azoto del legame che lo precede e il carbonio del legame
peptidico successivo. È chiaro che questo carbonio alfa aveva originariamente il suo gruppo amminico
e il suo gruppo carbossilico, i quali hanno reagito per formare il legame peptidico. C’è però intorno a
questi legami C alfa - N e C alfa - C una certa libertà di rotazione. Proprio questa libertà consente alle
proteine di ripiegarsi, di girare dei tratti rispetto ad altri tratti e, quindi, di assumere un numero n di
conformazioni, delle strutture differenti, ottenute solo mediante rotazione attorno a questi due legami.
Vengono quindi definiti due angoli, angoli di torsione o angoli di rotazione o ancora angoli diedri.
Questi sono degli angoli tra due piani e dunque è come vedere un angolo da un punto di vista
tridimensionale. Le rotazioni che avvengono intorno a questi due legami sono descritte da questi due
valori: Φ per il legame con l’azoto e Ψ per il legame col carbonio. La rotazione sarà di +180 o -180 a
seconda che avvenga in senso orario (positivo) oppure antiorario (negativo). In linea teorica questo
numero può essere molto variabile ma, in realtà, esistono delle combinazioni “proibite”, dovute al fatto
che vi sono i soliti impedimenti sterici. Ogni carbonio alfa è un vero e proprio perno che unisce due
piani peptidici, grazie al quale questi potranno ruotare, salvo impedimenti sterici. In condizioni
fisiologiche, un polipeptide ruota intorno a questi angoli e assume dei ripiegamenti, creando delle
conformazioni. Ma a una proteina, nelle sue condizioni fisiologiche, corrispondono generalmente solo
un numero limitato di conformazioni, che sono però sufficienti affinchè, ad esempio, un enzima
riconosca il suo substrato e lo converta in un prodotto o perchè avvenga una qualunque reazione
mediata da una proteina.
A questa libertà conformazionale poniamo quindi due limiti, che sono:
- la rigidità del piano peptidico
- il numero limitato di valori di Φ e Ψ che possono realizzarsi

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Argomenti: Struttura delle proteine

Questi fattori limitano il numero delle conformazioni, ovvero delle strutture accessibili per la proteina,
ma le permettono di realizzare il folding proteico, cioè le consentono di assumere la sua struttura
nativa corrispondente, in un determinato intorno fisiologico alla sua funzione. L’obbiettivo di tutto è
raggiungere la struttura tridimensionale. I chimici hanno voluto tradurre la struttura 3D in qualcosa di
grafico, in maniera da avere le coordinate di ogni atomo della proteina.

I biochimici hanno generato queste strutture, oggi presenti nelle banche dati, mediante le quali è
possibile effettuare una raffigurazione. Sono stati messi a punto dei programmi che rappresentano le
proteine, come linee spezzate, il back-bond, oppure con dei modelli a palle e bastoncini (palle atomi e
bastoncini legami covalenti). Un’alternativa sono i modelli space-filling, dove ogni sfera piena
rappresenta un atomo, rispettando il volume atomico. La raffigurazione più frequente è, però, il ribbon-
diagram (ribbon=nastro), anche detto cartoon. Questo consente di vedere la struttura secondaria delle
proteine in cui il nastro avvolto su sé stesso è l’α-elica e la struttura β, raffigurata da delle frecce
orientate verso il C terminale.
Andiamo a definire queste strutture secondarie: α-eliche, foglietti β, β-turn ecc.
Prima, però, un accenno ai peptidi: ovviamente non esistono esclusivamente le proteine, ma anche i
peptidi (sintetici, artificiali o fisiologici).
Oligopeptide: sequenza amminoacidica breve (1-4 amminoacidi)
Polipeptidi: quando abbiamo più amminoacidi. Possiamo parlare anche di proteine.

Esempi di proteine
Il Glutatione è un oligopeptide, perché composto da un numero limitato di amminoacidi, più
precisamente: acido glutammico, cisteina e glicina. Cisteina e glicina sono legate da un normale
legame peptidico, realizzato tra il gruppo carbossilico della cisteina ed il gruppo amminico della
glicina. L’acido glutammico, invece, si lega al gruppo carbossilico della catena laterale del
glutammato. È un tripeptide molto importante, perché ha un forte potere antiossidante (è in forma
ridotta e può andare a ridurre un altro soggetto). In condizioni ossidanti due molecole di glutatione
reagiscono tra loro, formando il classico legame covalente ponte disolfuro, generando una molecola,
che, in realtà, è un dimero del glutatione con un ponte disolfuro. Tutto questo è avvenuto in condizioni
ossidanti (sui libri viene indicato come GSSG). Incontreremo le proteine in reazioni di ossido-
riduzione.
Aspartame: un altro peptide modificato, che tuttavia non appartiene alla nostra fisiologia, come il
glutatione, bensì è una molecola dolcificante. Aspartil-Fenilalanina (acido aspartico e fenilalanina
legati con il legame peptidico) modificato, perché è un dimetil-estere.
Quando si scrive una formula schematizzata di un peptide, la convenzione è porre sempre l’inizio
della molecola con il gruppo amminico terminale a sinistra, rispettando l’ordine della sintesi delle
proteine. Le varie catene laterali di questi amminoacidi sono alternate (una sopra e una sotto), a
causa della configurazione TRANS del legame peptidico.

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Argomenti: Struttura delle proteine
LA STRUTTURA SECONDARIA

La struttura secondaria è caratterizzata da dei vincoli strutturali molto caratteristici, definiti regolari e
ripetitivi dello scheletro peptidico. Con la formazione della struttura secondaria viene ad essere
modificata la disposizione dei piani degli atomi che definiscono il legame peptidico. È necessario,
quindi, trovare un modo per arrangiare i piani peptici in funzione delle formazioni di unità strutturali
regolari: α-elica e β-foglietto.
Nell’ambiente cellulare la catena polipeptidica assume strutture regolari
e ripetitive, ovvero Φ e Ψ rimangono costanti in determinate regioni
proteiche, assumendo dei valori fissi e determinando particolari
geometrie tridimensionali, in quanto, ovviamente, NON sono lineari. La
struttura secondaria, inoltre, assicura una maggiore stabilità, dovuta
all’espressione della massima possibilità di formazione di ponti ad
idrogeno e la minima repulsione sterica (o ingombro) tra le catene
laterali degli aminoacidi.

Per quanto concerne l’ α-elica, le raffigurazioni sono quella ribbon o


quella a cilindri. Ancora una volta sono coinvolti gli atomi che
concorrono alla formazione del piano peptidico; il carbonio,
l’idrogeno, l’ossigeno e l’azoto formano quei ponti ad idrogeno
che sono necessari per l’avvolgimento della catena polipeptidica
in α-elica. Dentro un’α-elica, tutti i gruppi C=O ed N-H dei vari
legami peptidici sono impegnati in ponti ad idrogeno, fatta
eccezione per il primo e l’ultimo. In particolare, si ha che un C=O
ed un N- H formano ponte ad idrogeno quando si trovano a
quattro residui di distanza, quindi il residuo “i” forma il ponte ad
idrogeno con il residuo “i + 4”.
Ovviamente tutto ciò vale anche per gli aminoacidi seguenti,
finché non si assembla tutta la regione in α-elica.
Graficamente vengono rappresentati come dei nastri in cui le catene laterali (R) sono disposte verso
l’esterno dell’elica, creando quindi le condizioni di minor ingombro sterico e minor possibilità di creare
degli scontri tra queste porzioni delle molecole. Nell’α-elica c’è un estremo con C=O libero ed un altro
estremo con N-H libero, quindi vi è una certa polarità
all’interno dell’elica stessa. I legami a ponte di idrogeno, invece, si formano in
maniera quasi parallela all’asse longitudinale dell’α-elica e sono raffigurati da
linee tratteggiate, in modo tale da connettere un N-H con un C=O di quattro
residui più avanti, in direzione dell’N-H che non ha reagito, all’estremo
dell’elica. Nella vista trasversale, l’α-elica può dare l’impressione di essere
vuota, ma in realtà non è così e ciò può essere apprezzato attraverso la
rappresentazione a spazi pieni, dove l’interno dell’elica è completamente
occupato dagli atomi che appartengono al backbone della proteina, visto che
gli R sono tutti spinti verso l’esterno.
L’α-elica, inoltre, ha un avvolgimento destrorso, facile da intuire posizionando
la mano e guardando la direzione delle dita: la mano piegata e la direzione delle
dita mi danno la direzione dell’avvolgimento dell’α-elica (regola del pugno
chiuso) . L’avvolgimento destrorso è quello che si trova più spesso nelle

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proteine ed è ovviamente quello associato ad un minor rischio di impedimenti sterici. Φ e Ψ hanno un


valore costante, più o meno conservato e in questo tipo di avvolgimento sono presenti 3,6 residui per
giro. Ciò sta ad indicare che, nel momento in cui l’elica ha compiuto un giro di 360°, sono presenti
circa 4 residui aminoacidici.

Ad esempio, il residuo n°9 si trova circa nella stessa situazione del residuo 6 e sono quindi passati
quasi 4 residui. Tutto ciò impone una crescita di 1,5 Å per 100° di
rotazione, ovvero un po’ meno di 1/3 di un angolo giro.
(è possibile osservare il C=O e l’N-H al termine della catena
che non partecipano alla formazione dei legami peptidici
oltre che il ponte ad idrogeno tra l’aminoacido 9 e il 5)
A livello dell’α-elica si esprime la polarità vista per il legame
peptidico, che prevedeva la presenza di una carica parziale
positiva sull’ idrogeno dell’N-H ed una parziale carica
negativa sull’ O del C=O. Tutto ciò espresso a livello di
un’elica intera attribuisce una carica parziale negativa
sull'estremo C=O e una
carica parziale positiva sull’altro estremo, N-H. Ciò
è l’espressione del dipolo del legame covalente
peptidico.
Non tutti gli aminoacidi, però, consentono la formazione
dell’α- elica. Ci sono delle sequenze particolari che lo
consentono (quindi si forma l’α-elica) e ci sono dei residui che assolutamente non lo
consentono.
Per esempio: Valina-Treonina-Isoleucina hanno dei carboni che ramificano al libello del Cβ che
destabilizzano la struttura dell’elica, in quanto queste ramificazioni creano troppo ingombro sterico e
quindi queste sequenze, in genere, non sono presenti nell’α-elica. Serina-Asparagna-Aspartato,
invece, sono noti come aminoacidi che interrompono l’elica, in quanto la loro catena laterale può
essere donatore o accettare di ponte ad idrogeno. La formazione di questo legame ad idrogeno
avviene però molto vicino ad N-H e C=O del backbone, quindi in un certo senso competono per la
formazione dei regolari ponti idrogeno dell’α-elica. Saranno in genere esclusi dalla formazione
dell’α-elica. Vi è anche la Prolina, che interrompe l’elica, in quanto non ha idrogeni da poter
utilizzare per la formazione dell’α-elica, proprio perché la struttura ad anello non permette il
raggiungimento di un particolare angolo di torsione Φ. In genere la Prolina è presente nell’elica
ed indica proprio lo stop di quest’ultima.
Ci sono delle proteine che sono formate solamente da α-eliche, intervallate da alcune regioni,
graficamente rappresentate da fili o tubi, che non hanno struttura α-elica.

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La mioglobina, per esempio, è costituita dal susseguirsi di otto


α-eliche, interrotte spesso da delle Proline e intervallate l’una
dall’altra attraverso i cosiddetti loop o β-turn. Inoltre le
α-eliche non sono presenti solo nelle proteine globulari come
la mioglobina: ci sono , infatti, molte proteine che trovano il loro
assetto e la loro funzione passando attraverso la membrana
citoplasmatica, per esempio proteine integrali. Queste usano
spesso le α-eliche proprio per passare attraverso la regione
lipidica idrofobica delle catene carboniose degli
acidi grassi, responsabili del doppio strato fosfolipidico. In
questi casi particolari è ovvio aspettarsi che le catene R
abbiano tutte carattere idrofobico. Talvolta passano anche più
volte e con più eliche attraverso la membrana. Quindi si intuisce che
esistono sia proteine fibrose sia proteine globulari, ovvero una sorta di eterogeneità
nell’assemblaggio della struttura tridimensionale delle proteine. Una proteina
globulare è assimilabile alla mioglobina precedentemente descritta, cioè
con catene ripiegate in formato compatto, raccolto; chiaramente non formano una sfera perfetta e
sono solubili in acqua. Considerando che la cellula è costituita in massima parte da acqua, è
possibile comprendere perché molte proteine disciolte nel citoplasma devono assumere una
struttura di tipo compatto e raccolto. Inoltre queste avranno più strutture secondarie ed in genere
esplicano funzioni dinamiche: enzimi, ormoni, anticorpi.

Oltre a queste ci sono, come già detto, le proteine che devono attraversare la membrana, che
costituiscono una categoria a parte. Si contrappongono nettamente alle proteine globulari quelle
fibrose, dove le catene sono disposte lungo un asse. Esse sono insolubili in acqua, dunque si
raccolgono e formano dei filamenti insolubili; in genere, inoltre, presentano un solo tipo di struttura
secondaria. Hanno, in aggiunta, una funzione strutturale, come quella di protezione e di sostegno e
possono essere abbinate a resistenza ed elasticità. (Si approfondiranno in particolare quelle presenti
in pelli, capelli e unghie e quelle legate più al sostegno, quindi collagene, per cartilagini, tendini e ossa
ed anche di elastina.)

Le proteine fibrose possono essere costituite esclusivamente da α-elica, ad esempio aggregate a


formare filamenti. Una proteina di grande rilevanza è l’α-cheratina, appartenente alla famiglia delle
proteine che hanno una struttura coiled coil, che è proprio un avvolgimento ripiegato su se stesso. Ci
sono circa 60 membri nell'uomo in questa superfamiglia delle coiled coil e sono tutte caratterizzate da
una sequenze ripetuta di 7 aminoacidi. L’α-cheratina ha una struttura allungata e fibrosa dovuta a
queste estensione di struttura secondaria regolare rappresentata da delle α-eliche non libere, cioè
avvolte l'una sull'altra generando un dominio strutturale caratterizzato da struttura secondaria α-elica
che si chiama coiled coil. L’α-cheratina, quindi, è formata da due polipeptidi caratterizzati da un α-elica
destrorsa, ciascuno dei quali ha circa 300 aminoacidi. Queste due α-eliche si avvolgono l'una sull'altra
in un'ulteriore avvolgimento coiled coil, di tipo sinistrorso. Nel modello spacefilling e nel modello a
ribbon (a nastro) si nota la presenza delle α-eliche già generate e poi delle due α-eliche che si
avvolgono l'una sull'altra. La cheratina è dunque un esempio canonico del coiled coil, presente non
solo nei capelli, ma anche nelle unghie e negli animali (zoccolo, penna, piena…).

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Argomenti: Struttura delle proteine
Questa proteina è prodotta dai cheratinociti e appartiene ovviamente allo strato epidermico corneo
esterno della pelle, del quale forma anche le appendici: i peli, i capelli, le unghie... L'uomo esprime
molte varianti di questa proteina, a seconda della sequenza che le caratterizza. L’α-cheratina è una
proteina particolarmente ricca di residui di cisteina, che sono coinvolti nella formazioni di ponti
disolfuro e che sono responsabili dell'ancoraggio delle due eliche che si avvolgono l'una sull'altra. A
questo proposito distinguiamo delle cheratine dure, caratterizzate da sequenze aminoacidiche in cui
sono frequenti le cisteine e quindi molto frequenti i ponti disolfuro. Le strutture che generano,
ovviamente, sono strutture più dure e meno flessibili come nell'uomo può essere un'unghia.
Mentre le cheratine morbide hanno un basso
contenuto di cisteine, quindi pochi ponti
disolfuro e sono tipici di quei contesti dove la
flessibilità e la morbidezza sono importanti,
come nella cute. Per comprendere bene la
struttura dei ponti disolfuro nei capelli
è interessante analizzare il processo della
permanente. Quando si fa la permanente
,infatti, si rompono i naturali ponti disolfuro che
appartengono alla struttura del capello e lo si fa
con un agente riducente, creando
dei terminali sulfidrilici SH. Successivamente si
vanno a creare delle condizioni nuovamente
ossidanti, che vanno a ricostruire i ponti
disolfuro. Ovviamente, dopo aver dato la forma
desiderata al capello. Quindi nell’α-cheratina la
cosa più rimarchevole è che ci sono queste due
α-eliche lievemente ripiegate l'una rispetta
all’altra, che generano questo avvolgimento
sinistrorso.
Naturalmente questa struttura coiled coil è consentita dalla struttura primaria delle proteine. Il
segmento centrale delle catene polipetidiche di α-cheratina è dato da circa 300 residui organizzati in
sequenze di 7, che vengono indicati come amminoacidi A B C D E F G.
Queste sequenze di 7 residui iniziano a ripetersi, ma, poiché l'elica ha circa 3,6 aminoacidi per giro, gli
aminoacidi in posizione 1 ed in posizione 4, a seguito di un giro quasi completo, si trovano vicini e
potranno ovviamente affacciarsi ed entrare in interazione con i residui 1 e 4 dell'altra α-elica. Spesso i
residui A e D sono residui fortemente idrofobici e ciò consente l’avvicinamento e l’interazione e genera
l'associazione del cuore più interno di questo coiled coil, che si estende per tutta la lunghezza della
cheratina. Questo coiled coil poi si organizza ulteriormente in sovrastrutture. Per fare ciò, due di
queste strutture si devono avvolgere con il coiled coil e generare il dimero. Il dimero poi si associa ad
altri dimeri, organizzati in due file testa contro coda antiparallele e prende il nome di protofilamento.
Due protofilamenti sono associati in una protofibrilla e quattro protofibrille danno origine ad una
struttura più grande, che prende il nome di microfibrilla. Già a livello delle protofibrille, tutte queste
associazioni di coiled coil devono essere stabilizzate non solo da ponti disolfuro, ma anche da ponti
idrogeno e ponti salini. Un capello, quindi, non è un insieme di proteine che escono dal cuoio
capelluto: in sezione un capello è formato da strati di cellule morte, che nella loro struttura hanno l’α-
cheratina condensata, sotto forma di microfibrille parallele, partendo dai dimeri di coiled coil fino alle
sovrastrutture sempre più lunghe e complesse.

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Lezione n° 01 del 26.03.2018
Sbobinatori: Ivana Chietera, Michele Iacca
Controllore: Cristian Pio Coccia
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Struttura delle proteine

La struttura secondaria a foglietto-β, o β-sheet è ben diversa da un’α-elica: infatti l’α-elica si


organizza in maniera sequenziale, quindi è un tratto di backbone che si avvolge su se stesso grazie ai
ponti disolfuro; nel β-sheet, invece, ci sono delle regioni estese che, essendo vicine le une alle altre,
sono in grado di formare il ponte ad idrogeno, coinvolgendo ovviamente N-H e C=O del legame
peptidico.

'

Ci sono due modalità per formare il foglietto-β:

- l’antiparallela, che procede dal l’N terminale verso il C terminale, poi fa un giro, (una piega o un
loop), per poi rigirarsi nella direzione opposta. Se gli aminoacidi lo consentono, qui si formano delle
regioni di ponti ad idrogeno e non tutte le sequenze che si trovano appaiate sono in grado di
formarli. Infatti, bisogna tener conto anche delle loro catene laterali. Graficamente un β-sheet viene
rappresentato sempre con una freccia piatta. prendendo come esempio una struttura formata da
tre filamenti, si può notare l'interruzione da parte di un loop, che consente l'inversione della
direzione e quindi la formazione di un foglietto, formato da tre β-strands tutti antiparalleli l'uno
all’altro.

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- la parallela, in cui un filamento parte dall'N terminale, fa un giro, ritorna verso il basso, si riorienta
come quello iniziale e poi procede in maniera parallela verso C terminale. Anche in questo caso, se
gli aminoacidi lo consentono si formano i ponti idrogeno, responsabili del mantenimento della
struttura β. La struttura β non nasce solo tra due filamenti: ci possono essere anche sequenze della
stessa catena che formano ponti idrogeno tra di loro, che vanno a costituire il cosiddetto β-sheet
formato da più strands (filamenti o tratti) lineari. Graficamente si può notare come dal C terminale di
un β-strand parta una lunga sequenza libera senza ponti che mi riporta nella situazione parallela a
quella iniziale, fino a formare 3 β-strands tutti paralleli.

I singoli segmenti, nel contesto di un polipeptide molto lungo, sono ovviamente vicini e distanziati da
pochi aminoacidi. Ci possono essere delle regioni molto lontane nella sequenza, che per motivi di
strutturazione si avvicinano e si organizzano a formare delle sequenze di foglietto-β, i due filamenti
che formano i legami idrogeno sempre con gli stessi atomi del legame peptidico, solo che uno dei
partner del legame appartiene ad un filamento e l'altro partner ad un altro filamento.
L'aspetto è pieghettato perché i piani peptidici, che contengono i legami peptidici, sono piegati l'uno
rispetto all'altro. Anche in questo caso Φ e Ψ hanno dei valori definiti e costanti nei tratti in cui si
formano i filamenti strutturati in foglietto-β. Un’α-elica che si avvolge su se stessa è ben diversa dal β-
sheet, quest’ultimo definito struttura estesa. Il backbone della catena polipeptidica si estende quindi
in una struttura a zig zag, con piani peptidici che creano letteralmente un'alternanza “sopra-sotto".
Tutto ciò è visibile soprattutto nella visione laterale, dove due β-strands interagiscono attraverso
numerosi ponti ad idrogeno, gli R sono tutti fuori da questo foglietto pieghettato e sono alternati una
volta sopra e successivamente sotto. Questo crea le condizioni di massima formazione di ponti
idrogeno e minimo ingombro tra le catene R. Nell’esempio sopra riportato si possono notare due β-
strands che procedono in modo antiparallello: s’ipotizza che ci sia un giro, che, ovviamente, non è
visibile e si forma la struttura β solo se gli aminoacidi consentono la formazione di legami. Non si ha
struttura β se non si hanno almeno due strands. Τecnicamente, le cose cambiano tra la formazione di
un foglietto parallelo ed uno antiparallelo. La situazione del foglietto antiparallelo vede contrapposti
due aminoacidi che formano con il loro N-H e C=O due ponti ad idrogeno, quindi in una sequenza di 5
aminoacidi che si susseguono, si avranno 6 ponti ad idrogeno. Nella struttura parallela, invece, nello
spazio degli stessi Cα, si formano solo 4 ponti idrogeno, quindi minore stabilizzazione.

Ciò però non esclude la loro esistenza, essendo in natura presenti anche gli andamenti paralleli. Di
fatto l’N-H ed il C=O di un aminoacido formano il loro ponte idrogeno con aminoacidi separati da due
posizioni, quindi non uno di fronte all'altro.

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Argomenti: Struttura delle proteine

Sono molto comuni le situazioni miste, ad esempio due strands con andamento parallelo ed uno
antiparallelo. Nella grafica a cartoon, questi foglietti-β vengono rappresentati come tante frecce,
non proprio piatte, lievemente curve, mosse o avvolte. Formano tra di loro i ponti ad idrogeno
necessari per stabilizzare questa struttura pieghettata. Ovviamente tutto ciò non può essere
apprezzato con una grafica a nastro, ma andando a vedere a livello degli atomi, i piani peptidici
cambiano la loro direzione in sequenza, creando questa pieghettatura nella struttura β. Inoltre i
valori di Φ e Ψ sono fissi anche per i β-sheets parallelo ed antiparallelo.
Le strutture β, così come le α-eliche,
vengono utilizzate dalle proteine integrali di
membrana per attraversare il doppio strato
fosfolipidico:
- I β-barrel che spesso sono dei
trasportatori o delle proteine canale. Si
chiamano barrel perchè il primo e l'ultimo
dei filamenti del β-strands formano ponte
idrogeno tra di loro, chiudendo la struttura
e generando un vero e proprio barile (o
canale), che può aiutare la cellula a
trasportare qualcosa sia dentro che fuori.
Come esempio si può prendere in
considerazione il β-barrel localizzato nella
membrana mitocondriale esterna, che
crea un vero e proprio canale. L'interno è
quasi completamente pieno, eccezion
fatta per una piccola parte vuota che
viene utilizzata come trasportatore
selettivo, in quanto i canali non sono
completamenti indipendenti da ciò che
trasportano e infatti presentano delle
affinità specifiche.
All'interno di questa struttura vi è anche una piccola α- elica che spesso esercita un controllo
selettivo sulle sostanze che devono essere spostate da un lato all'altro della membrana.

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Argomenti: Struttura delle proteine

- Un altro elemento di struttura secondaria è il β-turn, il quale può


prendere anche il nome di giro-β o curva-β ed è una sequenza molto
breve. Si tratta di quattro aminoacidi nelle proteine che hanno la
necessità di raccogliersi, di compattarsi o di diventare globulari. Alcuni
aminoacidi riescono a formare questa improvvisa inversione di tendenza
facendo girare il backbone della proteina di 180° ,formando un’ansa; la
catena polipeptidica quindi inverte la direzione e i β-turn si trovano
spesso sulla superficie delle proteine; in genere distanziano due β-
strand che fanno parte di una struttura-β, in quanto consentono il ritorno
in maniera antiparallela del backbone. Solitamente si formano ponti ad
idrogeno che si realizzano tra il 1 e il 4 aminoacido per stabilizzare la
curva. Si può notare come il piano del legame peptidico, man mano che
avviene la formazione del β-turn, cambi direzione e per fare ciò viene
sfruttata la rotazione lungo gli angoli di torsione, grazie ai legami che
contrae il Cα. uno degli aminoacidi più comuni per questa struttura

- La Glicina, un aminoacido molto piccolo, ha un R, costituito da un idrogeno, è flessibile e riesce ad


adattarsi a queste inversioni di tendenza. Anche la Prolina si presta a formare il β-turn, in quanto il
legame peptidico con l'azoto dell'anello della Prolina assume la configurazione -cis, che fa girare il
backbone di 180°. Nelle proteine, non esiste solo uno struttra α e una β, infatti esistono anche
zone, assolutamente prive di struttura regolare. Sono quelle regioni che vengono definite random
coil, non organizzate, sono libere e indipendenti. Possono adottare diverse conformazioni, infatti,
spesso partecipano alla costituzione di siti di legame e di siti attivi enzimatici grazie alla loro libertà
conformazionale. Per cui possono essere disordinati in assenza di una particolare molecola partner
ed assumere una struttura differente, specifica e più ferma in presenza di un proprio ligando.
Naturalmente Φ e Ψ, nel random coil nel caso dei loop sono variabili, tenendo conto che le
conformazioni che devo ottenere per questi loop non devono portare ingombro sterico tra catene
laterali.

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Argomenti: Struttura delle proteine
LA STRUTTURA TERZIARIA

Con la struttura terziaria si fa riferimento alla disposizione di tutti gli atomi di una proteina in uno
spazio tridimensionale e naturalmente il generarsi di questa struttura dipende dalla sequenza
aminoacidica. Se la struttra
secondaria si riferisce alla
disposizione dei residui
adiacenti il segmento
polipeptidico, la terziaria tiene
conto di interazioni a lungo
raggio. Nell’α-elica le interazioni
sono molto più concentrate e
localizzate,
mentre nella struttura
terziaria le interazioni possono
coinvolgere due porzione
polipeptidiche molto lontane,
ovviamente queste sequenze si
avvicinano
durante il processo di folding della proteina stessa. La struttura terziaria delle proteine è una struttura
normalmente compatta e i residui idrofobici si dice che "collassano" verso l'interno della molecola
proprio per effetto idrofobico, mentre quelli idrofilici rimangono esposti alla superficie, all'esterno,
quando la proteina è immersa in un contesto idrofilico (tipico esempio, l'ambiente acquoso del
citoplasma cellulare).

Esistono delle strutture simili ai β-barrel, le porine, che attraversano una membrana generando un
poro, un canale. Esternamente presentano residui idrofobici che creano interazioni con catene apolari
degli acidi grassi del doppio strato fosfolipidico della membrana. All’interno, invece, ci sono

aminoacidi polari e carichi che tappezzano la cavità del canale che in genere è contenitivo di acqua.
Quest'acqua è in interazione con gli aminoacidi polari e carichi della faccia interna del barile e viene
utilizzata per lo scambio e il trasporto di sostanze. Come esempio esplicativo si può notare il
trasportatore di saccarosio e si riesce a comprendere benissimo come uno zucchero necessiti di
acqua per essere trasportato.

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Sbobinatore: Assia Abouabid, Giulia Borgia
Controllore: Luca Rubrichi
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Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi

STRUTTURE DELLE PROTEINE


Paragrafo introduttivo:
Struttura terziaria delle proteine globulari, strutture quaternarie, caratteristiche struttura quaternaria
chinasi A PKA

STRUTTURA TERZIARIA

La disposizione nello spazio di tutti gli atomi di una proteina viene definita struttura terziaria:
naturalmente, dipende dalla sequenza amminoacidica; mentre l’espressione “struttura secondaria”
si riferisce alla disposizione spaziale di residui amminoacidici adiacenti in un segmento di un
polipeptide, la struttura terziaria tiene conto delle relazioni a lungo raggio nella sequenza
amminoacidica.
Gli amminoacidi che si trovano lontani in una sequenza polipeptidica, e quindi fanno parte di tipi
differenti di segmenti proteici, possono interagire fra loro nella forma completamente avvolta della
proteina.

La struttura terziaria di una proteina globulare (cioè a struttura raccolta e compatta), può essere
assimilata, ad esempio, ad una proteina che vive nell’ambiente acquoso del citosol; in simili
proteine la compattazione avviene grazie ai residui idrofobici che vengono internalizzati nelcore
idrofobico della proteina stessa, mentre quelli polari o carichi vengono esposti verso l’esterno più a
contatto con l’ambiente acquoso.
In generale, questo costituisce il folding (ripiegamento molecolare attraverso il quale le proteine
ottengono la loro struttura tridimensionale) della proteina.

Tuttavia, questo processo di costituzione della struttura terziaria non vale per tutte le proteine. Un
esempio può essere una porina immersa nel doppio strato fosfolipidico della membrana cellulare.
Dato che la porina è costituita soprattutto dai beta strands (sequenza peptidica di 5/10
amminoacidi disposti linearmente), ci sono residui idrofobici che sono esposti verso l’esterno e che
interagiscono con le catene alchiliche idrofobiche degli acidi grassi, che compongono i fosfolipidi e
che entrano nella costituzione della membrana. Gli amminoacidi polari e carichi invece saranno
rivolti all’interno del canale, e saranno solvatati dall’acqua che vi passa attraverso.

Inoltre, le strutture beta e alfa elica hanno le caratteristiche di poter essere anfipatiche, quindi
possono possedere caratteristiche idrofobiche e contemporaneamente idrofile.
Un esempio è l’alfa elica che espone da un lato tutte catene laterali di tipo idrofobico e dall’altro
catene idrofile, cioè carichi o polari a seconda della sua esposizione: la faccia dell’elica esposta
verso la membrana sarà di tipo apolare, mentre la faccia esposta verso l’ambiente acquoso
esporrà le catene laterali polari e cariche.

In generale per una proteina (un esempio è la mioglobina di capodoglio, che è all-alfa – ossia
costituita da otto sequenze in alfa elica), si osserva che in superfice vengono esposti residui
carichi e polari, ma non evita in toto di esporre anche residui idrofobici. Tuttavia, in sezione
trasversale la prevalenza è quella dei residui di tipo idrofobico, e ciò sottolinea come questi residui
non vengono esclusi i residui idrofobici completamente della superficie, ma sono comunque
spesso contornati da regione di amminoacidi carichi e polari.

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Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi

Affinché si realizzi una struttura terziaria, deve svilupparsi un impacchettamento dei residui. Tale
impacchettamento deve essere stabilizzato da:

• Interazioni di Van der Waals (forze di coesione)


Sono interazioni elettrostatiche che si generano tra molecole complessivamente neutre o
poco polari.
Possono esserci tra dipoli permanenti e dipoli permanenti, quindi fra due molecole che
presentano una piccola separazione di carica, la quale genera un dipolo permanente. Un
altro tipo di Van der Waals sono interazione tra dipoli permanenti e dipoli indotti poiché
l’esistenza di un dipolo in prossimità di una molecola neutra induce una parziale
separazione di carica e quindi genera un dipolo indotto. Ultimo tipo di Van der Waars è tra
dipolo indotto istantaneo e altro dipolo indotto, sono comunque delle interazioni di natura
elettrostatica che sono determinate da parziali separazione di carica dovuta alla
distribuzione degli elettroni più in una posizione meno in altra nella molecola. Sono
interazioni responsabili delle forze coesive.

• Legami Ionici (o Ponti Salini)


All’interno della struttura terziaria ci sono altri legami dovuto a degli accoppiamenti di
carica; se ci sono cariche positive e cariche negative in prossimità questi si accoppiano
nella formazione di legami ionici (detti anche ponti salini).
Alcuni residui a pH fisiologico presentano una catena laterale carica (ad esempio
glutammato e aspartato hanno catene laterali cariche negativamente mentre lisina e
arginina hanno una catena laterale positiva). [vedi Nel dettaglio...]

• Legami a Idrogeno
I legami H sono un tipo di interazione che si forma tra quei residui e catene laterali che
hanno gruppi favorevoli per la formazione di ponte a idrogeno, detti donatore di ponte
idrogeno. Questi gruppi possono essere gli -OH (ad esempio di serina e tirosina) che
hanno gruppo oh per la formazione di ponti idrogeni. Ci sono anche gruppi peptidici, ossia -
NH e -CO, che non sono coinvolti nella struttura secondaria, ma che sono comunque punti
di disponibilità alla formazione dei ponti idrogeno che verrà realizzato da un'altra catena
laterale di un AA. [vedi Nel dettaglio...]

• Ponti Disolfuro
I ponti disolfuro contribuiscono alla formazione della struttura terziaria dando anche un
effetto stabilizzante alla struttura; mentre gli altri legami sono interazione elettrostatiche tra
dipoli tra cariche intere (legami ionici) o tra cariche parziali (ponti a idrogeno), i punti di
solfuro sono legami covalenti che si realizzeranno tra i residui di cisteina. Quando si
realizza il ponte, questo viene appunto detto ponte di cisteina. [vedi Nel dettaglio...]

• Legami coordinativi (con Ioni Metallici)


Ci sono varie proteine ed enzimi che contengono ioni metallici (come gli ioni Zn, Cu e Fe) e
questi legami, detti coordinativi, si ancorano alla struttura della proteina (in particolare alle
catene laterali degli amminoacidi). Questi legami hanno un ruolo importante nel generare la
struttura terziaria tridimensionale della proteina.

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Nel dettaglio...

Nel legame ionico si devono considerare i residui che sono ionizzati a pH cellulare (come lisina,
arginina, istidina), ma si includono anche il gruppo amminoterminale, che è carico positivamente.
Questi residui possono interagire con le catene laterali che portano cariche negative.
La capacità di formare ponti a Idrogeno dipende dallo stato di ionizzazione dei gruppi e, quindi, dal
pH. I gruppi ammini hanno un pk intorno a 9, il gruppo carbossilico intorno a 2, poi ci sono quelle
catene laterali vedi glutammato e aspartato che hanno pk intorno a 3/4 e quelli dei gruppi delle
lisine argenina hanno pk uguale a 11/12.
È quindi il ph che decide la condizione e lo stato di ionizzazione di questi amminoacidi, quindi le
loro potenzialità di formare legame ionico e ponte idrogeno.

Invece, il ponte disolfuro si forma quando due residui di cisteina espongono il loro gruppo solfidrico
(-SH) e, naturalmente, per formare il ponte disolfuro questi residui devono trovarsi in prossimità.
Per esempio, se in una catena polipeptidica il residuo 5 forma un ponte disolfuro con il residuo 100
è evidente che viste le posizioni in condizioni di completa denaturazione sarà un evento raro la
formazione del ponte. Se vediamo la formazione del solforo contestualizzata nel meccanismo del
folding ecco che queste regioni distanti del polipeptide all’atto del ripiegamento della proteina
possono trovarsi in posizione contigua e quindi in posizioni tali per cui è consentita la formazione
del ponte disolfuro.

Quindi, quando la proteina inizia a strutturarsi e i residui di cisteine si trovano tra loro in prossimità,
formano il ponte disolfuro nelle condizioni ossidanti, perdendo due elettroni e due protoni. Nell’altra
direzione si ha la reazione di riduzione in cui gli zolfi acquistano protoni e elettroni ed il ponte viene
aperto.

Il ponte di solfuro può essere visto nella molecola del glutatione: in condizione ossidata due
molecola di glutatione hanno perso due protone e elettroni, e hanno realizzato un ponte di solfur o
generando la forma ossidata del glutatione (vedi biochimica metabolica e biochimica generale).
Anche la molecola di insulina ha vari ponti di solfuro (precisamente 3): è formata da due catene A
e B legati da due ponti di solfuro e infine un latro ponte dentro la catena A.

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La struttura terziaria può essere


rappresentata con il metodo a
cartoon, con il quale sono visibili le
sezioni di unità di strutture
secondaria: il nastro corrisponde alle
alfa eliche, mentre le frecce piatte
sono i foglietti beta; inoltre, la
versione space fill prevede che ogni
pallina rappresentata corrisponda ad
un atomo e la pallina rispetta
dimensionalmente il volume atomico
dell’atomo di riferimento.

Esistono anche colorazione


canoniche: il carbonio è grigio,
l’azoto azzurro, ossigeno rosso e lo
zolfo giallo.

Infine, esistono delle raffigurazioni che indicano la superfice della molecola. Ad esempio, la
molecola della mioglobina è riconoscibile dal fatto che all’interno ha un elemento “strano”, ossia un
gruppo organo metallico detto eme (il quale è responsabile del legame con l’ossigeno); in genere
queste molecole, diverse dagli amminoacidi, sono proprio disegnate e strutturate nella
raffigurazione della proteina, in modo da capire che non si tratta semplicemente di residui
amminoacidici. Nel caso in esempio, il gruppo eme approfitta di una piccola nicchia idrofobica,
dato che eme è idrofobico, per infilarsi all’interno e proteggere dall’ambiente acquoso il suo sito del
legame per l’ossigeno.

Esistono dei programmi per vedere i singoli residui delle catene laterali e per analizzare una
struttura terziaria depositata nei database strutturali. In sostanza, con misure spettroscopiche
molto raffinate e complesse, sono state analizzate completamente migliaia di proteine e risolte le
loro strutture terziarie e – in alcuni casi – anche quaternarie.
Molte proteine sono state depositate nel protein-database. È molto importante avere a
disposizione tutte queste strutture perché è proprio dalla conoscenza e dall’analisi della struttura
tridimensionale che è possibile interpretare la funzione e prevedere cosa succerebbe se quel
determinato residuo non ci fosse o fosse variato, o come si comporta in riferimento a un'altra
proteina omologa. Infatti esiste una stretta correlazione tra la struttura della proteina e la funzione
biologica, poiché la funzione viene esplicata proprio nel momento in cui la proteina ha assunto la
sua struttura terziaria nativa.
Naturalmente, ci sono delle strutture che si ripetono e ci sono delle vere e proprie famiglie di
proteine che condividono la loro struttura terziaria ecco quindi anche la conoscenza di queste
omologia aiuta a risolvere strutture di proteine ancora non identificate. Le dimensioni sono molte
molto varie.

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STRUTTURA QUATERNARIA

Moltissime proteine hanno struttura quaternaria. Le proteine che sono costituite da una sola
catena polipeptidica sono chiamate monomeriche, mentre quando sono costituite da un certo
numero di catene polipeptidiche, chiamate subunità, sono dette molecole multimeriche; le subunità
si associano in modo specifico e la caratteristica molecola multimerica che si ottiene è dotata di
struttura quaternaria.
Le subunità possono essere uguali o differenti e sono tenute insieme dalle stesse interazioni
responsabili della struttura terziaria (ponti Idrogeno, forze di Van der Waals, ponti salini e ponti
disolfuro) anche tra catene differenti.
Inoltre, possono funzionare in modo indipendente una dall’altra oppure in modo cooperativo,
cosicché la funzione di una subunità sia dipendente dallo stato funzionale delle altre subunità.

Tra le subunità che agiscono in modo cooperativo,


l’emoglobina è un esempio imprescindibile. In essa, il
legame per l’ossigeno è effettuato attraverso quattro
gruppi, in modo che si possa legare a quattro atomi di
ossigeno. Per legame cooperativo si intende che la prima
molecola di ossigeno che si lega alla prima subunità di
emoglobina aiuterà, sosterrà ed indurrà il legame della
seconda molecola di ossigeno alla seconda subunità; allo
stesso modo, la seconda stimolerà la terza, che avrà il
medesimo effetto sulla quarta. È un fenomeno
paragonabile ad una reazione a catena, che continua fino
al suo massimo; cioè, nel caso dell’emoglobina, finché
tutte le subunità non legano una molecola di ossigeno,
per un totale di quattro molecole di ossigeno.

Conoscere la struttura quaternaria di una proteina significa conoscere l’arrangiamento spaziale tra
le varie subunità che la compongono e la natura dell’interazione che determina questa
associazione tra le proteine stesse.

Quelli che nella raffigurazione tridimensionale sembrano spazi vuoti in realtà sono tutti spazi pieni,
con regioni di contatto tra gli atomi che lo compongono.
L’emoglobina è formata da quattro catene polipeptidiche uguali due a due (due catene uguali dette
catene di tipo alfa e due catene uguali dette catene di tipo beta) associate in modo caratteristico.
Viene per questo definita come un tetramero di due subunità alfa e due subunità beta. Le subunità
sono associati in modo che abbiano un dimero alfa-beta in associazione con un altro dimero alfa-
beta. Tutti i residui carichi e polari sono esposti verso l’esterno di queste superficie.
Molte delle interazioni tra le subunità sono di tipo idrofobico, infatti i dimeri alfa e beta sono
associati in maniera stabile. Invece l’interazione tra i due dimeri è caratterizzata non solo da
interazione di tipo idrofobico, ma anche di tipo elettrostatico ed è questa interfaccia che cambia
maggiormente quando la proteina lega ossigeno.
La caratteristica dell’emoglobina è di potersi muovere tra due conformazione: tra una
conformazione affine all’ossigeno ed una conformazione non affine con l’ossigeno. Le interazioni
disposte in modo strategico, per permettere la corretta funzione della proteina – ossia riuscire a
legare l’ossigeno e rilasciarlo nei tessuti periferici.

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In figura è rappresentato un aggregato


macroproteico; si tratta del rino-virus, il
virus del raffreddore.
Nel suo involucro proteico le varie zone
di colore indicano catene proteiche
diverse: si trovano una catena con
rosso, una con blu ed una con verde.
Con l’assemblaggio di tante catene,
molte delle quali uguali, il rino-virus
riesce a costruire questo enorme
involucro proteico all’interno del quale
contiene, ben nascosto, il genoma
virale.
La struttura quaternaria è un’ottima
strategia: permette di usare poche
catene proteiche, e quindi impegno
poco materiale ereditario, per costruire
una struttura enorme, composta da un
grande numero di subunità proteiche.
È l’assemblaggio, con poco costo, che
permette di formare una
macrostruttura.

Le caratteristiche della struttura quaternaria sono:


• Il numero e il tipo di catene sono programmati e definiti;
• La geometria intera della molecola è definita;
• Le subunità sono unite mediante legami a H, ionici, idrofobici, forze di Van der Waals, ponti
salini e ponti disolfuro;
• La costituzione a subunità fornisce le basi strutturali per la regolazione della attività
enzimatica;
• L’unione o la separazione delle subunità può mediare la regolazione di importanti processi
cellulari.
L’assemblaggio delle unità è ciò che determina le funzioni: l’unione o la separazione delle stesse
subunità può mediare la regolazione di importanti processi funzionari e cellullari.

Un’altra proteina è chinasi-A: si tratta proteina intracellulare super espressa (detta ubiquitaria),
molto importante e presente nelle cellule epatiche nel tessuto muscolare, nervoso ed endocrino.
Fa parte della famiglia delle chinasi, proteine enzimatiche la cui funzione è quella di attaccare
gruppi fosfato PO42-. Questo gruppo fosfato viene attribuito a substrati specifici, che – una volta –
fosforilato subisce importanti variazioni sia a livello strutturale sia a livello funzionale.
La proteina “pka” ha un ruolo regolatore importante in quanto decide la funzionalità di un substrato
rispetto ad un altro.

Ed è costituito da:
• Subunità Catalitica (in foto a pagina 7 rosa), realizza la reazione di aggiunta del fosfato;
• Subunità Regolatrice (in foto a pagina 7 blu), è sensibile ai livelli di AMP ciclico ed
accende/spegne la subunità catalitica di conseguenza
• Elemento Extra

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Lezione n°02 del 27.03.2018
Sbobinatore: Assia Abouabid, Giulia Borgia
Controllore: Luca Rubrichi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi

La presenza di subunità catalitiche diventa


critica per decidere il destino funzionale di
una proteina: esse riconoscono un substrato,
lo accomodano in una loro nicchia particolare
e attaccano il gruppo fosfato; quindi è un
enzima che grazie alle due subunità
catalitiche rende possibile questo.
Chinasi-A è dotato di subunità regolatrici che
decidono quando far funzionare la subunità
catalitica. Sono le subunità regolatrici che
decidono la specifica funzione in quanto sono
quelle che sentono la concentrazione di AMP
ciclico. La cAMP è una molecola importante
nella trasduzione del segnale.

Qual è il meccanismo? Quando la proteina è


strutturata in maniera quaternaria (quindi tutti
i quattro elementi sono uniti tra di loro) la
proteina non funziona, quando invece la
cAMP diventa particolarmente concentrata
nella cellula (ciò a causa di segnali che
arrivano alla cellula e talvolta si esprimono in
un innalzamento intracellulare della cAMP) la
proteina diviene funzionante.
Più nel dettaglio, quando i livelli di cAMP
sono bassi, un dimero della subunità
regolatori si lega a due copie della subunità
catalitica formando un complesso inattivo (in
alto). Quando invece i livelli di cAMP sono
alti, il cAMP si lega alla subunità regolatori che rilascia la subunità catalitica e questa diventa attiva
(in basso). La subunità catalitica che ora finalmente attiva la PKA che quindi fosforila proteine
coinvolte nella produzione di energia. Una volta libera la subunità catalitica espone i suoi siti di
riconoscimento per individuare i substrati sui quali legare il gruppo fosfato.
Questa chinasi non appartiene a una via metabolica, ma a una via di segnalazione.

Le proteine costituite da subunità multiple identiche rappresentano un risparmio di DNA, cioè un


impiego di poco DNA per costruire molte catene. Inoltre, presentano un assemblaggio specifico,
ossia con poco DNA è possibile realizzare molte subunità, risparmiando così DNA codificante.
La costituzione di subunità fornisce le basi strutturali per la regolazione dell'attività enzimatica, un
po' come avviene con la proteina Chinasi-A. Una particolare categoria di enzimi, detti enzimi
allosterici, hanno il compito di riconoscere un substrato ed eseguire su di esso delle modifiche
chimiche e lo trasformino in un prodotto.
Non è raro che gli enzimi siano costruiti in modo da avere molte subunità; alcune subunità
esercitano e svolgono la funzione catalitica (come visto precedentemente), altri invece sono
subunità regolatrici e quindi interverrà un piccolo metabolita che in quel momento è
particolarmente concentrato. Questi metaboliti agiranno su questi siti detti allosterici ed
influenzeranno l'enzima, a volte in maniera positiva altre volte negativamente (a seconda che
faciliteranno l'azione dell'enzima o la inibiranno).
La struttura quaternaria favorisce l'esistenza di questi siti allosterici deputati al legame di piccole
molecole modulatrici nell'attività degli enzimi.
La struttura quaternaria crea le basi di struttura, per esempio la regolazione allosterica della
funzione enzimatica.

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Materia: Biochimica
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Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi

La disponibilità del genoma di geni codificanti consente all'organismo di esprimere in vari tessuti e
organi differenti il tipo di subunità più adatto: crea quindi enzimi dalla medesima funzione, svolta
tuttavia in modo diverso. Si avranno assemblaggi di struttura quaternaria lievemente diversi che
modulano l'azione di quell’enzima in quel particolare distretto, tessuto o organo. Questi oligomeri
vengono chiamati isoenzimi.

Particolarmente interessante è l'isoenzima della lattato-deidrogenasi che è coinvolto nella


produzione dell'acido lattico. A livello muscolare in condizioni anaerobiche questo enzima fa
sempre la stessa cosa: catalizza la reazione di produzione dell'acido lattico. Tuttavia, la può
favorire in modo diverso in un distretto o in un altro, in quanto le subunità che lo compongono e
che danno la struttura quaternaria sono lievemente diverse da un distretto all'altro.
La lattato-deidrogenasi è un tetramero, formata da 4 subunità; possiede due tipi di subunità di
catene polipeptidiche chiamate subunità “H” e subunità “M”.
Combinando le subunità per formare il tetramero, si riescono a formare 5 isoenzimi, quindi cinque
lattato-deidrogenasi: – H4 (tutte di tipo H)
– H3M (tre subunità di tipo H e una di tipo M)
– H2M2 (due subunità di tipo H e due di tipo M)
– HM3 (una subunità di tipo H e tre di tipo M)
– 4M (tutte di tipo M)
La funzione è catalizzare la reazione che converte il piruvato (cioè il prodotto finale della glicolisi)
in lattato. La reazione è però reversibile, quindi l'enzima catalizza sia la reazione normale sia la
reazione inversa. Nel tessuto muscolare prevale l'isoenzima M4 (cioè 4 subunità di tipo M) che ha
maggiore affinità per il piruvato e catalizza di preferenza la reazione che converte il piruvato in
lattato.
La lattato-deidrogenasi negli altri formati è distribuita equamente ed eterogeneamente un po'
dappertutto; mentre nel cuore predomina H4, quindi esprime una diversa affinità: è infatti più affine
al lattato e la reazione viene catalizzata nel modo inverso. Il cuore lavora in modo aerobico e
quindi converte il lattato in piruvato e ossida completamente il piruvato per ricavare energia.
Questa strategia della struttura quaternaria permette di creare degli enzimi che alla fine hanno la
stessa funzione, ma sono lievemente diversi dagli altri.

MOTIVI E DOMINI STRUTTURALI

Motivi e domini strutturali sono sistemi che stanno al di sopra di strutture secondarie e terziarie e
sono coinvolti nella classificazione strutturale delle proteine.

- MOTIVO: Combinazione di alcuni di elementi di struttura secondaria, unità specifica di


struttura secondaria; per fare un dominio servono più unità di struttura
secondaria, quindi più motivi. Essi sono elementi strutturali, perché
descrivono la struttura e non hanno niente a che vedere con la predizione
della funzione della proteina.

- DOMINIO: Unità strutturale della proteina, parte di proteina che si folda


tridimensionalmente in una struttura stabile indipendentemente dal resto
della proteina; una proteina può contenere uno o più domini e tali domini
possono impartire varie funzioni alla proteina. L’evoluzione ha utilizzato i
domini come i “building blocks”, cioè come elementi costitutivi di base,
combinandoli in arrangiamenti diversi per ottenere proteine con funzioni
specifiche. I domini possono essere comuni tra le proteine anche se la
struttura terziaria nel complesso è differente.
Essi possono essere elementi strutturali e/o funzionali.

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Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi

Non sempre è possibile attribuire al motivo/dominio una funzione specifica.


Ad esempio, le proteina globulari sono costituite da domini strutturali globulari, cioè compattati, che
hanno una certa autonomia strutturale rispetto al resto della proteina; un dominio funzionale è,
invece, un dominio strutturale con specifica funzione rispetto alla funzione generica di una
proteina.

MOTIVI

Motivo Alfa
HTH HelixTurnHelix
Due α eliche, che si avvicinano tra loro per interazioni idrofobiche, congiunte
da un turn, ovvero una curva che separa le due eliche; tra le due eliche, se
ne distingue sempre una detta elica di riconoscimento, che si colloca in un
punto particolare dell’elica del DNA. I residui su un lato particolare dell’α
elica sono in grado di formare ponti a idrogeno con le basi del solco
maggiore del DNA. È stato il primo dei motivi leganti il DNA ad essere stato
scoperto e, in
genere, si tratta di
proteine
repressori.

EF-Hand
Due α eliche separate da un loop: tale loop crea un motivo di amminoacidi
specifici, leganti il Calcio (catene laterali di aspartato, arginina, glutammato).
Quindi si trova spesso in proteine che legano il Calcio.
Esempio: la troponina C è formata da quattro motivi EF-Hand, di cui solo
due sono separate da loop che legano il Calcio. Inoltre, l’allineamento degli
amminoacidi delle regioni leganti il calcio ha dimostrato che esistono
posizioni specifiche molto conservate (sia elica E, sia elica F, sia loop)

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Motivo Beta
β Hairpin
Formato da un elemento di struttura secondaria, la cosiddetta “forcina beta”,
ovvero un complesso separato con due filamenti β antiparalleli separati
da un loop (un segmento di due/cinque residui di amminoacidi, di cui di
solito una glicina e una prolina).

Motivo Alfa-Beta
β-α-β
Due foglietti in direzione N-C affiancati e separati in sequenza da un breve
loop e da un’elica. In ordine si ha: beta-loop-alfa-loop-beta; il loop che
collega il terminale carbossilico di un beta con il terminale amminico dell’α
elica che segue, spesso è impiegato nella formazione di un sito funzionale
(catalitico o di riconoscimento di un partner di legame). Di solito l’α elica si
posiziona al di sopra del piano che trova adiacenti i due beta strands.

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Controllore: Luca Rubrichi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi

DOMINI

Dominio Alfa
Coiled-coil
Si tratta di una struttura superavvolta, sinistrorsa e formata da due α eliche
destrorse; questo tipo di avvitamento riduce il numero di residui per giro in
ognuna delle due eliche (per un giro completo ci sono 3,5 residui rispetto ai
3,6 canonici) in modo che le interazioni tra le catene laterali delle due eliche
che svolgono l’avvolgimento vengano a ripetersi ogni 7 residui.
Esempio 1: se in due posizioni vicine ci sono sempre rispettivamente valina
e leucina, quando le due eliche si avvolgono, le leucine e le
valine interagiscono idrofobicamente e stabilizzano questo
avvitamento delle due α eliche;
Esempio 2: leucine zipper, omodimero parallelo con leucine che si trovano
sulla faccia delle due eliche che si avvolgono e che con un
meccanismo a cerniera possono interagire.

Fold-globinico
Così chiamato perché caratterizza la famiglia
delle globine; sono presenti 8 alfa eliche
nominate con lettere dalla A alla H e interrotte
con proline o loop, in genere i loop sono molto
piccoli e raccolti; tali alfa eliche si compattano e
generano la tasca idrofobica dove entra il
gruppo Eme. Questo dominio caratterizza la
molecola della mioglobina e della emoglobina.

Fascio a 4 eliche
Quattro α eliche disposte in modo tale che gli assi siano quasi paralleli
(quasi a cilindro); all’interno non vi è spazio vuoto, ma sono presenti catene
laterali di residui idrofobici, che si legano tra loro e stabilizzano la struttura.
Esempio 1: Citocromo B, le α eliche procedono antiparallele e questo
conferisce stabilità: il terminale δ+ e quello δ- delle due eliche si
annullano a vicenda;
Esempio 2: Ormone della crescita, composto da alfa elica – lungo loop –
alfa elica – lungo loop – alfa elica; le quattro eliche sono
parallele e i due dipoli non si annullano.

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Materia: Biochimica
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Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi

Dominio Beta
Up and Down
Topologia più semplice con organizzazione antiparallela,
i β si susseguono l’uno dopo l’altro intervallati da corti
loop; spesso l’ultimo β è collegato al primo, creando
strutture a barile “beta barrels” con otto filamenti β; i
filamenti β formano due piani che si appoggiano l’uno
contro l’altro e al centro si trova una cavità idrofobica.
Esempio: Retin binding protein umana, costituita da due
foglietti da quattro β strands ciascuno
appoggiati l’uno contro l’altro, al centro si crea
una cavità molto piccola in cui viene ospitato il
retinolo da trasportare; sono proteine
extracellulari di trasporto.

Dominio Alfa-Beta
Alfa-Beta barrel
Otto filamenti β paralleli (in quanto hanno tutte le punte rivolte verso l’alto);
l’ottavo β forma ponti idrogeno con il primo β, chiudendo la struttura a barile.
Tra un β e l’altro è interposta un’α elica, la cui posizione varia sempre da
proteina a proteina; l’ α elica è esterna al barile che si genera. È una
struttura di almeno 200 amminoacidi ed è tipico degli enzimi. È anche
chiamato TIM-barrel, perché il primo dominio risolto è stato quello della
triosofosfatoidrogenasi. Queste proteine, pur avendo medesimo dominio,
hanno tutte sequenze diverse.

Le funzioni enzimatiche di questo dominio sono


state particolarmente indagate e coincidono
con la isomerizzazione di piccole molecole di
zucchero (come la triosofosfatoidrogenasi, che
isomerizza la gliceraldeide 3-fosfato in
idrossiacetone fosfato).
Il sito attivo si trova in una piccola tasca che si
forma tra il c-terminale e l’inizio del loop che va
verso n-terminale delle alfa eliche (il sito attivo è
un punto catalitico dell’enzima).
Gli amminoacidi che partecipano al legame del
substrato degli enzimi e alla sua
trasformazione in prodotto, appartengono ai
piccoli loop, che sono regioni più flessibili con
meno limitazioni steriche, in grado di muoversi
più liberamente e creare una conformazione in
grado di accogliere un substrato. Quindi entra
un substrato, viene fissato da interazioni varie e
esplica la funzione catalitica, cioè lo converte in
prodotto.

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Lezione n°02 del 27.03.2018
Sbobinatore: Assia Abouabid, Giulia Borgia
Controllore: Luca Rubrichi
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Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
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Alfa-Beta aperto
Ci possono essere da 4 a 10 filamenti beta e le eliche sono separate con un
piccolo loop dall’estremità c-terminale dei beta; le alfa eliche si possono
trovare in posizione variabile. Anche in questo caso si genera un sito attivo,
grazie alla presenza dei loop.
Esempio: esochinasi (riconosce il glucosio e attacca il fosfato nella glicolisi)
e fosfoglicerato mutasi (beta strand paralleli e antiparalleli con alfa
eliche posizionate avanti o dietro rispetto ai beta)

DOMINI MULTIPLI

Ogni dominio ha il suo ruolo, indipendente o di concerto rispetto agli altri.


Esempio: Piruvato chinasi
Enzima citosolico che converte fosfoenolpiruvato in piruvato, è un
omotetramero, che presenta 3 domini:

1) All-beta : Lega nucleotidi, ovvero ADP


2) Alfa-beta barrel : Riconosce il substrato, ovvero il fosfoenolpiruvato
3) Alfa-beta aperto : Sito regolatorio, sensibile alla presenza di un
metabolita, cioè fruttosio 1,6-difosfato, intermedio della glicolisi che
quando è abbondante si lega ad un sito di riconoscimento e attiva
l’intero enzima, stimolandone la sua azione.

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Lezione n°00 del 27.03.2018
Sbobinatore: Assia Abouabid, Giulia Borgia
Controllore:
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Struttura terziaria delle proteine e struttura quaternaria, domini e motivi

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Lezione n°17 del 16.04.2018
Sbobinatore: Carlotta Pagani, Matteo Veneri
Controllore: Mazzetti Filippo
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

LE PROTEINE E L’EVOLUZIONE
Omologia delle proteine, evoluzione e metodi per l’allineamento delle sequenze
amminoacidiche col fine di confrontarle e determinarne la funzione.

Parlando di motivi e domini strutturali intuiamo che le proteine possono essere organizzate
all’interno di famiglie; ammettiamo quindi che nel corso dell’evoluzione si siano generate centinaia
di famiglie di proteine, le proteine raccolte all’interno di queste famiglie vengono definite omologhe.
Molte di queste famiglie sono state identificate grazie al fatto che molte proteine sono state
sequenziate, e la loro sequenza amminoacidica (struttura primaria) è stata acquisita all’interno di
database di struttura.
La familiarità, ovvero l’aspetto che accomuna queste proteine si rispecchia soprattutto a livello di
struttura terziaria, proprio perché questa è strettamente legata alla funzionalità. Spesso, infatti, la
famiglia proteica rispecchia una particolare funzione, ad esempio le strutture tridimensionali di
ribonucleasi bovina e umana, che hanno la medesima funzione di scindere i legami tra i nucleotidi
di RNA ottenendo frammenti di dimensioni inferiori, hanno la stessa struttura. Se a questa coppia
aggiungo un’altra proteina umana che prende il nome di angiogenina, dal punto di vista funzionale
la somiglianza diventa sorprendente, si tratta di una proteina che stimola lo sviluppo di nuovi vasi e
appartiene alla stessa famiglia della ribonucleasi bovina e umana. Parlando in termini evolutivi
possiamo dire che queste proteine condividono un antenato comune: una proteina progenitrice.
Le somiglianze non sono così rimarchevoli solo a livello di struttura 3D, ma anche a livello di
sequenza amminoacidica, in quanto ribonucleasi bovina e angiogenina presentano almeno il 35%
di residui identici in posizioni corrispondenti, si ha quindi una forte omologia e una forte identità
della sequenza amminoacidica.

Nella biochimica moderna possiamo fare uso di database che raccolgono sequenze
amminoacidiche e hanno inoltre algoritmi che consentono il confronto tra le sequenze proteiche.
Le informazioni che si possono desumere da un allineamento sequenziale hanno importanti
ricadute da un punto di vista funzionale: se non è nota la funzione di una proteina appena
sequenziata l’allineamento di sequenza può darci un’indicazione della sua funzione. Mentre le
sequenze amminoacidiche e le strutture primarie sono conosciute, non tutte le strutture 3D sono
note, sono infatti molto più difficili da risolvere. Delle proteine con strutture 3D note si possono fare
allineamenti non solo di sequenza, ma anche tridimensionali, e anche questo tipo di somiglianza
può dare indicazioni sulla funzione che una proteina ha, e sulla sua somiglianza con un’ altra
famiglia di proteine. Oggi quindi si procede non solo allineando le sequenza, ma anche la struttura
tridimesionale, poiché conoscere la struttura vuol dire conoscere le posizioni nello spazio x,y,z di
ogni atomo che costituisce la proteina, e anche le distanze fra i singoli atomi sono ricavate in uno
spazio tridimensionale.
Quando le proteine hanno un antenato comune si definiscono omologhe e si parla di omologia.

Le proteine, rimanendo nel campo dell’omologia, si possono dividere in:


– paraloghe sono proteine omologhe all’interno della stessa specie, spesso hanno funzioni
differenti.
– ortologhe sono proteine omologhe che appartengono a specie differenti, e spesso hanno
una funzione analoga.
Comprendere il grado di omologia fra 2 strutture proteiche consente di interpretare la storia
evoluzionistica che c’è dietro, fornisce inoltre informazioni funzionali e si esprimerà sia a livello di
omologia in termini di sequenza amminoacidica, che a livello di omologia in termini di struttura
terziaria.

ES: La ribonucleasi bovina e la ribonucleasi umana sono proteine omologhe di tipo ortologo,
l’angiogenina e la ribonuclasi umana sono definite proteine omologhe paraloghe.

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Lezione n°17 del 16.04.2018
Sbobinatore: Carlotta Pagani, Matteo Veneri
Controllore: Mazzetti Filippo
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

Come si procede nella costruzione di allineamenti di sequenza e come se ne valuta la positività?


Due sequenze AA sono allineate per valutare eventuali regioni di sovrapposizione.
Prendiamo per esempio 2 sequenze amminoacidiche che sono state estremamente studiate:
- catena alpha dell’emoglobina umana
- mioglobina umana: proteina che lega l’ossigeno localizzata a livello muscolare
Sono 2 proteine omologhe e paraloghe, emoglobina umana non ha una solo catena proteica, ha 4
catene e quindi una struttura anche quaternaria formata da 2 catene alpha e 2 catene beta con
sequenze differenti. La catena alpha è confrontata con la mioglobina.

L’allineamento di sequenza eseguito tra queste 2 sequenze primarie presenta un allineamento con
amminoacidi uguali, in un caso si hanno 22 sovrapposizioni all’inizio della proteina, nell’altro caso
23 identità verso la fine della proteina. Si spostano queste sequenze l’una contro l’altra per trovare

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Lezione n°17 del 16.04.2018
Sbobinatore: Carlotta Pagani, Matteo Veneri
Controllore: Mazzetti Filippo
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

gli esatti match. Sulle ascisse si trovano tutti gli allineamenti possibili, e in ordinata il numero di
sovrapposizioni. Le 2 situazioni migliori in questo caso sono indicate da 2 blocchi che
rappresentano 22 amminoacidi uguali e 23 amminoacidi uguali, e sono quindi 2 allineamenti molto
significativi.allineamenti:

Saranno avvenute sostituzioni di amminoacidi, inserzioni o delezioni che sono alla base di una
evoluzione divergente a partire da un antenato comune. Alla base si ha quindi l’intuizione che
mioglobina ed emoglobina alpha sono proteine omologhe e che in un antico passato si sono
allontanate per divergenza, con un evoluzione che le ha portate a divergere e ad avere 2 catene
simili, ma non uguali. Notiamo che nell’allineamento tra emoglobina e mioglobina possono
avvantaggiarmi dell’introduzione di un interruzione: introducendo un gap di 6 posizioni di alpha
emoglobina rispetto a mioglobina risultano rappresentate tutte le 22 o 23 identità che erano state
trovate con entrambi gli allineamenti. Si ottimizza quindi l’allineamento semplicemente
introducendo un gap di 6 amminoacidi e con questa ottengo un allineamento ottimale che
evidenzia tutti gli amminoacidi che sono effettivamente uguali. Gli strumenti informatici che
consentono allineamenti creano dei punteggi per stabilire chi allinea meglio o peggio e chi è
omologo, o ha identità. In questo caso la somma sono 38 identità, e se vengono attribuiti 10 punti
per ognuno di questi amminoacidi identici per le 2 proteine, viene un punteggio di 380, il gap viene
considerato come un aspetto negativo, un rischio, e perciò gli viene attribuito un numero negativo

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Sbobinatore: Carlotta Pagani, Matteo Veneri
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Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

che è per convenzione 25. Quindi 380-25= 355 ovvero il punteggio indicativo di questa situazione
di sovrapposizione e di identità.

Bisogna chiedersi se l’allineamento è forzato e l’introduzione del gap sia troppo arbitraria, e porti
ad una casualità di allineamento, quindi si ricorre alla statistica per verificarne la significatività. Si
utilizza il metodo dello shuffle: ovvero una modifica casuale e randomica. Si esegue un
riarrangiamento casuale di una delle sequenze, si rifà poi l’allineamento e si ricalcola il punteggio.
Si crea un grafico: sull’asse delle ascisse viene posto il punteggio ottenuto facendo lo shuffle e
riallineando, mentre sulle ordinate viene posto il numero degli allineamenti. Con queste sequenze
casuali e randomiche si riesce comunque ad allineare, in realtà il punteggio di 355 calcolato in
precedenza si posiziona molto al di là della campana di distribuzione dei punteggi ricavati col
metodo dello shuffle, ciò ad indicazione del fatto che la sequenza di emoglobina alpha e di
mioglobina sono effettivamente omologhe e discendono per divergenza da un antenato comune.

Le matrici di sostituzione: valutazione che tiene conto non solo dell’identità degli amminoacidi,
ma anche del grado di somiglianza. (ad esempio un glutammato sarà più simile ad un aspartato
che ad una glicina.)
Le sostituzioni di amminoacidi che possono essere intervenute durante un’ evoluzione divergente,
possono essere conservative, e in questo caso l’amminoacido che subentrerà avrà dimensioni
confrontabili e simili proprietà chimiche all’amminoacido di partenza. Spesso la sostituzione in
questo caso è tollerata, e a seguito della sostituzione la funzione è molto spesso mantenuta.
Esistono anche sostituzioni di tipo non conservativo, che possono introdurre variazioni più

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Materia: Biochimica
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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

significative che si apprezzano a livello di struttura e dunque della funzione. Le più comuni sono le
sostituzioni conservative, e quelle che coinvolgono un solo nucleotide.
Per analizzare la gravità della sostituzione che è intervenuta durante l’evoluzione sono state create
matrici di sostituzione: sono un sistema di calcolo numerico che attribuisce un punteggio ad ogni
tipo di sostituzione che è intervenuta. Il punteggio sarà positivo se le sostituzioni sono più comuni
e conservative, al contrario il punteggio sarà negativo se le sostituzioni sono state di tipo non
conservativo. Uno dei metodi utilizzati per la messa a punto della matrice di sostituzione è blosum
62. Questa matrice è basata sulla frequenza delle sostituzioni con gruppi di proteine omologhe.
Per fare un blosum servono tante sequenze amminoacidiche in un database di sequenze
proteiche e bisogna analizzare la frequenza con la quale un determinato amminoacido è stato
sostituito con un altro in modo più o meno conservativo. Per attribuire dei valori è necessario avere
tante sequenze perfettamente allineate e vedere con cosa è stato sostituito un dato amminoacido
nell’ambito di una famiglia di proteine omologhe.

La matrice mostra:
– In alto gli amminoacidi effettivi di una sequenza (divisi per catena laterale con proprietà
simile)
– Sulle ordinate ci sono i punteggi stabiliti arbitrariamente in blosum 62 e variano da
+11 a -4.
Le sostituzioni che apportano un valore negativo saranno quelle più distruttive, poiché avvengono
con amminoacidi troppo diversi da quello di partenza. Cisteina e triptofano sono rari e in genere
non cambiano. La loro conferma nell’evoluzione ha un valore molto positivo.
Sostituzioni conservative, come arginina con lisina, hanno un punteggio positivo. Le sostituzioni
meno conservative, come triptofano con lisina, che hanno diverse proprietà, hanno punteggio
negativo.

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Sbobinatore: Carlotta Pagani, Matteo Veneri
Controllore: Mazzetti Filippo
Materia: Biochimica
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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

Come si applicano le matrici? Quando due sequenze sono confrontate, il punteggio è attribuito
sulla base delle matrici ad ogni coppia, e si considera anche in questo caso la penalità del gap
(delezioni o inserzioni). La matrice di sostituzione consente di trovare omologia tra le sequenze
con una maggiore sensibilità rispetto al metodo precedente, anche applicando il metodo dello
shuffle. Se si applica la matrice all’allineamento di alfa emoglobina e mioglobina, compaiono nuovi
amminoacidi simili rispetto al metodo precedente. Applicando questo metodo, le proteine
acquisiscono nuovi punti di somiglianza, è perciò più facile cercare omologie di proteine
sconosciute.

Confronto tra shuffling e scoring di emoglobina e leghemoglobina (omologa dell’emogblobina nei


vegetali)
Applicando shuffling e scoring sia con il metodo delle identità che quello della matrice di blosum 62
vediamo i risultati:
I punteggi ottenuti sono:
- se si fa l’allineamento applicando la sola identità il punteggio è di 230
- se si utilizza il punteggio calcolato con le matrici ottengo un punteggio di blosum di 25 che
cade sensibilmente lontano alla distribuzione calcolata con l’allineamento autentico.
Il metodo blosum individua con più sicurezza un rapporto tra proteine che sono legate da
evoluzione differente, ciò perché da un punteggio che si distanzia maggiormente da quello che
otterrei con lo shuffle rispetto al sistema delle identità. Mioglobina e leghemoglobina: hanno
amminoacidi identici e amminoacidi sostituiti con sostituzione conservativa, questi sono stati
abbastanza tollerati e hanno portato ad un evoluzione divergente.

Ci sono inoltre regole fisse:


• Per sequenze di almeno 100 residui amminoacidiche se il grado di identità è maggiore del 25%. Il
discorso della casualità non esiste
• Se il grado di identità di un confronto è compreso tra il 15% e il 25%, non posso essere sicuro
dell’omologia, e si va ad indagare la significatività statistica dell’allineamento con un metodo
blosum.
In generale se c’è stata molta divergenza e quindi il punteggio blosum non è molto alto e non si
distanzia molto dal metodo dello shuffle si compie l’allineamento delle strutture 3D.

La ricerca di omologia si ricava partendo da un database di sequenze di proteine, il quering


rappresenta la sequenza di amminoacidi da me introdotta per cercare un’omologia, si fa un
ranking che tiene conto di tutti i fattori precedentemente descritti, e tiene conto inoltre di un fattore
E, che consente di vedere l’allineamento da considerare, e trova le identità fra le 2 sequenze e gli
amminoacidi simili. Il fattore E rappresenta il numero di sequenze con un determinato livello di
somiglianza che ci si aspetta di trovare nel database.

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Lezione n°17 del 16.04.2018
Sbobinatore: Carlotta Pagani, Matteo Veneri
Controllore: Mazzetti Filippo
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

ANALISI DI STRUTTURA 3D

Veniamo all’analisi di struttura 3D. Le mutazioni a livello della sequenza amminoacidica si


ripercuotono a livello della funzione, strettamente correlata alla struttura terziaria. Proprio per
questo la struttura terziaria è più conservata dal punto di vista evolutivo rispetto alla struttura
primaria. ll fatto che il grado di conservazione sta a più a vantaggio della struttura 3D rispetto alla
struttura amminoacidica è alla base dell’evoluzione divergente.

Qui c’è il confronto di queste tre molecole. Se vado a confrontare le sequenze amminoacidiche, ho
che emoglobina ha un grado di identità del 15% con legemoglobina e mioglobina con
legemoglobina è pressoché nullo. Se confronto però le strutture terziarie vedo che sono
esattemente la stessa cose. Sono quel tipo di fold che precedentemente abbiamo definito fold
globinico, sequenza di otto sequenze in alpha eliche, distanziate da corti β turn o loop. La cosa
che conta è che in queste molecole ho sempre uno stesso elemento, il gruppo eme, un gruppo
organometallico che ancora un Fe2+, che è quello in grado di legare l’ossigeno.

Queste sono due proteine di uomo.


Sono l’actina e l’Hsp-70. L’actina fa parte
del citoscheletro, l’Hsp-70 (hit shock
protein 70) è una proteina che sostiene e
aiuta il folding delle proteine. Anche se
sono due proteine completamente

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Controllore: Mazzetti Filippo
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

diverse la struttura secondaria è uguale→ hanno le stesse eliche circa nelle stesse posizioni e gli
stessi foglietti β in posizioni corrispondenti. Hanno una struttura simile e riuscirei a sovrapporre le
strutture con un certo margine di differenza, anche se il grado d’identità è basso (15% circa). Il
grado d’identità non è sufficiente per dire che le proteine sono omologhe ma se analizzo la
struttura tridimensionale posso dirlo senza incertezza. Nonostante il loro differente ruolo biologico
le due proteine hanno un antenato comune e sono omologhe e paraloghe (perché provengono
dalla stessa specie). In questo tipo di proteine (omologhe e paraloghe) viene conservata molto la
sequenza terziaria ma la funzione è differente; qui infatti hanno una funzione completamente
diversa.

EVOLUZIONE CONVERGENTE

Non esiste solo l’evoluzione divergente, dove si va a sommare delle modificazioni della sequenza
delle proteine e specifico proteine differenti. Esistono delle proteine simili che NON derivano da un
antenato comune e sostituito. Si evolvono indipendentemente e piuttosto convergono verso
una struttura simile per svolgere una funzione simile. In questo caso un punto in comune di
sequenza e di struttura diventa più l’obbiettivo, non un momento di allontanamento. Si raggiunge
una funzione simile da geni diversi. La ricerca di un’evoluzione convergente mi offre la possibilità
di risolvere un problema biochimico.
Esempio: ci sono due serina proteasi, che
sono degli enzimi che idrolizzano il legame
peptidico in determinate sequenze
consenso e hanno un sito attivo simile. Qui
viene riportato solo il sito attivo
responsabile del taglio proteolitico, non
tutta la struttura. Il sito è generato da una
triade di residui con una determinata
posizione nello spazio. Sono una serina,
un aspartato e un’istidina. Una è una
chimotripsina, enzima proteolitico del
nostro sistema digerente e l’altra è la
subtilisina, proteasi derivata da bacillus
subtilis, ben lontano da noi. Nonostante
tutto hanno un sito attivo con un arrangiamento simile. Se però guardo la struttura interamente mi
accorgo che le strutture sono completamente diverse. Non sono proteine omologhe, hanno solo
trovato un punto di convergenza.

ALBERO FILOGENETICO

Sulla base degli allineamenti di sequenza posso costruire degli alberi filogenetici. Assumo che
l’entità delle differenze delle sequenze dipenda dall’epoca della divergenza. Le ramificazioni sono
dedotte dal confronto delle sequenze degli aa, mentre il risultato degli studi molecolari del DNA dei
fossili mi da una datazione della divergenza. Il dato temporale, storico, me lo danno i dati
molecolari che faccio con DNA che recupero dai reperti, l’analisi della sequenza invece la faccio
esaminando le sequenze stesse.

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Materia: Biochimica
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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

In figura vi è l’albero filogenetico


delle proteine che abbiamo citato
fino adesso. Abbiamo due proteine
molto vicine: α emoglobina, β
emoglobina, che sono due catene
che si sono specializzate per
comporre la nostra emoglobina.
L’emoglobina dell’adulto è α2β2 che
è composta da due catene alpha e
due beta. La mioglobina lega
l’ossigeno nel sangue. La
legemoglobina è nelle radici dei
vegetali. Sull’asse delle ordinate c’è
il tempo in milioni di anni. La
lunghezza della ramificazione che
connette in un albero due proteine è proporzionale agli aa cambiati. Il problema della datazione è
importante. Come faccio a sapere che la alpha emoglobina e la beta emoglobina si sono
distanziate 150 milioni di anni fa? Ci sono delle analisi di computer su un pesce, la lampreda. È un
pesce senza le mascelle e ha iniziato a diversificarsi dai pesci ossei 400 milioni di anni fa. Se vado
a vedere il DNA vedo che ha un solo gene e non ha la catena alpha e la catena beta. So quando si
è evoluta la lampreda e so che ha una sola emoglobina.

VARIAZIONI STRUTTURA PRIMARIA

La struttura primaria di una proteina subisce già modifiche nella stessa specie. Nella specie umana
la sequenza di una specifica proteina funzionale può variare tra individui, tra tessuti dello stesso
individuo e nello stadio dello sviluppo. Le variazioni nelle proteine sono tollerate nelle regioni
varianti, se sono conservative e se danno un vantaggio funzionale. Se una regione tollera diversi
aa viene definita ipervariabile. Se una regione amminoacidica è legata alla formazione di un
punto critico come un punto particolarmente cruciale per il folding della proteina in genere questa
regione è invariante. La variazione è introdotta da una mutazione. Per molti alleli questa comporta
conseguenze di natura fenotipica, che fanno sì che le caratteristiche di un individuo siano diverse
da quelle di un altro individuo, oppure una disfunzione (una malattia congenita o ereditaria),
oppure aumenta la predisposizione a una determinata malattia. Se una sostituzione non
conservativa si realizza in una regione che non è soggetta comunemente a variazione (invariante)
allora in quel caso la sostituzione danneggia la funzione, può impedire la corretta localizzazione
della proteina o può addirittura destinare quella proteina alla degradazione.

POLIMORFISMI

Le variazioni di un allele che si presentano con una certa frequenza nella popolazione si chiamano
polimorfismi. Quando un polimorfismo aumenta in maniera particolarmente stabile con una
proporzione maggiore all’1% viene definito stabile. Un esempio è l’allele dell’anemia falciforme:
quando è presente su una sola forma allelica porta a una specie di vantaggio in determinate
popolazioni dove la malaria è endemica. La malaria è trasmessa dal plasmodio della malaria, che
vive nel globulo rosso per un grande numero di giorni per completare il ciclo biologico. Quando ho

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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

questa situazione il globulo rosso vive di meno e il plasmodio non fa in tempo a completare il ciclo
vitale. C’è una “pressione selettiva positiva” dunque nei confronti di questa mutazione.

ISOFORME

Veniamo al concetto di isoforma e vediamola nello stadio dello sviluppo. Può accadere infatti che
nello stesso individuo possano essere sintetizzate diverse proteine dello stesso tipo, che si
chiamano isoforme. Esempio canonico è quello dell’emoglobina. Essa non è sempre α2β2 perché
nella vita embrionale e fetale ho altre emoglobine. Quella che si trova per quasi tutta la gravidanza
è la F che ha 2 catene α e 2 γ. Nei primi stadi di vita embrionale ne ho una ancora diversa che si
chiama ζ2ε2. Le forme embrionale e fetale dell’emoglobina hanno maggiore affinità per l’ossigeno
rispetto a quella adulta (che si chiama A). Il feto infatti è esposto a una pressione parziale e
tensione di ossigeno inferiore rispetto a un individuo adulto.

Esistono isoforme di particolari proteine, che sono tessuto-specifiche. L’esempio canonico è


quello della creatina chinasi (CK), enzima che lega un gruppo fosfato a un substrato che in
questo caso è la creatina. Essa è un dimero di due subunità:

1. Subunità M

2. Subunità B

N.B. hanno un elevato grado di omologia (60-70%), hanno cioè aa uguali e simili.

Le isoforme M e B si possono anche chiamare isoenzimi.

Dall’unione delle due subunità posso avere:

1. MM: tipico del muscolo scheletrico

2. BB: tipico del cervello

3. MB: tipo del cuore (dove ho anche MM e BB). Questo eterodimero ha un’importanza
rilevante nella diagnosi di un infarto o comunque di un danno a carico delle cellule del
cuore. Dopo qualche ora dall’evento necrotico cellulare questo eterodimero compare in
quantità troppo elevate. Questa quantità aumenta e raggiunge un picco nelle 12-24 ore e
poi cala e riscendi a valori basali entro 2-3 giorni.

Un altro esempio: lattato deidrogenasi o lattico deidrogenasi. L’enzima è un tetramero composto


da delle subunità di tipo M4 (muscoli) e l’estremo opposto era H4 (cuore). In mezzo c’erano tutte le
possibili combinazioni. Struttura quaternaria può creare una proteina con affinità differenti perché
M4 e H4 avevano affinità diverse per piruvato e lattato (muscolo per piruvato, cuore per lattati).
Anche quelli sono isoenzimi.

Un altro esempio è l’adenilato ciclasi, che è immersa nella membrana citoplasmatica delle
cellule. Collabora col recettore di specifici ormoni tramite un intermedio, la proteina G. Quando
l’attacco dell’ormone sul recettore attiva le proteine G si attiva anche l’adenilato, responsabile della
creazione di un segnale dentro la cellula, anche se l’ormone è rimasto fuori. L’adenilato nei tessuti

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umani esiste in almeno 9 isoforme con una elevata omologia. Le differenze permettono una
risposta allo stesso ormone modulata al tipo di tessuto. C’è qualcosa di invariante anche
nell’adelinato ciclasi e sono le zone deputate all’azione enzimatica, che è quella di sintetizzare
cAMP utilizzando come substrato l’ATP. Queste regioni hanno un consenso altissimo (identità del
93% circa). L’adenalito presenta alpha eliche che passano attraverso la membrana ma ha il core
catalitico, rivolto verso il citosol, che non varia (come detto prima trasforma ATP in cAMP).

SPECIE-SPECIFITA’

Consideriamo per es. insulina. La sua sequenza è conservata anche tra specie differenti. Le
sostituzioni inoltre che sono avvenute con l’evoluzione non hanno modificato l’attività della
proteina. Essa è una proteina in cui il ripiegamento (assunzione fold tridimensionale funzionale)
dipende dalla presenza di 6 residui di cisteina che si organizzano nella formazione di 3 ponti
disolfuro. In questo contesto dunque le cisteine sono invarianti, essenziali per il fold
dell’insulina, insieme a quei residui che definiscono la superficie di impatto col recettore
cellulare dell’insulina. L’insulina ha 51 residui e solo 5 sono gli aa coinvolti nelle sostituizioni,
che NON modificano l’attività della proteina. Siamo molto vicini dunque in termini di insulina a un
bovino o a un suino tanto che le loro insuline, in particolare quella suina, sono state utilizzate in
passato per il trattamento del diabete mellito. Alcuni pazienti però sviluppavano una risposta
immunitaria a queste proteine→ sono sostituzioni importanti, bastano pochi residui per scatenare
una riposta allergica. Oggi si usano insuline ricombinanti, cioè create da un organismo diverso in
vitro. Le purifico e posso usarle senza problemi di risposta immunitaria.

PROTEINE FIBROSE IN GENERALE

Sono una categoria di proteine importanti. Consideriamo cheratina, collageno e elastina.

La cheratina è stata spiegata nelle lezioni precedenti perché era un esempio di proteina fibrosa in
cui 2 alpha elica si avvolgevano una sull’altra in maniera sinistrosa generando un dominio coiled
coil. La sequenza amminoacidica aveva dei punti appiccicosi che consentivano alle due aplha
eliche di rimanere unite. Si forma prima un dimero, che si uniscono in protofilamenti, protofibrille,
microfibrille dando origine a queste lunghe fibrille di alpha cheratina.

Ora parliamo di collageno ed elastina. Intanto confrontiamole con quelle globulari.

Le proteine globulari sono formate da una struttura compattata. Nelle fibrose invece le catene sono
disposte secondo un asse di lunghezza. Le globulari sono solubili in acqua mentre le fibrose non
sono solubili in acqua. Le globulari hanno più tipi di struttura secondaria e una terziaria, mentre le
fibrose presentano in genere un solo tipo di secondaria (tipo la cheratina, per collageno e elastina
non posso parlare di una vera e propria struttura secondaria). Le globulari inoltre hanno una
funzione dinamica→ sono importanti nella catalisi enzimatica, nelle reazioni immunitaria, possono
essere ormoni, proteine di trasporto (vedi emoglobina), proteine di deposito come la mioglobina.

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Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

Le fibrose invece hanno una funzione strutturale e conferiscono resistenza (soprattutto il


collageno) e elasticità (soprattutto elastina).

COLLAGENO

Quando si parla di collageno si dice fibre di collageno. La fibrilla di collageno ha uno spessore
elevato (50 nm) ma è essa stessa l’insieme di tante molecole di collageno, tutte affiancate in modo
parallelo una di fianco all’altra con uno spessore di 1.5 nm. In 1.5 nm di spessore sono contenute
3 unità. Si dice che il collageno ha una struttura a tripla elica. Non ho alpha eliche però (è una
situazione diversa dalla cheratina) → ho tre catene polipeptidiche che tendono ad avvolgersi una
sull’altra. È una situazione coiled coil ma non ha struttura di tipo secondaria. È una proteina
fondamentale per noi perché costituisce 1/3 di tutte le proteine corporee. Le sue fibre che sono
insolubili, resistenti alla trazione, costituiscono la parte fibrosa dei connettivi (lo trovo nella pelle,
nei denti, nei tendini, nei legamenti, nella cartilagine, nell’osso, nella cornea, nel cristallo, nella
parete dei vasi sanguigni). La molecola di collagene consiste di tre catene polipeptidiche avvolte
una sull’altra per formare la tripla elica del collagene. Le singole catene polipeptidiche tendono ad
avvolgersi in un’elica sinistrorsa e tre di queste si organizzano l’una sull’altra per formare una
struttura superelicoidale di tipo destrorso. Si chiama struttura superelicoidale destrosa.

Sono delle famiglie di glicoproteine extracellulare. Molto spesso le proteine glicosilate sono
extracellulari. Il collagene è caratterizzato da due amminoacidi molto importanti che sono
amminoacidi modificati: idrossiprolina, idrossilisina. Sono due amminoacidi molto importanti,
soprattutto l’idrossilisina, perché sono un sito di legame per una componente di carboidrato. I
carboidrati che si legano all’ossigeno dei due aa sono: glucosio, galattosio, glucosilgalattosio. Le
proprietà dei singoli tessuti connettivi sono differenti: per es. saranno caratterizzati da flessibilità a
livello della pelle, da rigidità se parlo di osso, da elasticità se parlo delle arterie e da forza se parlo
di tendini. Questa proteina è secreta da fibroblasti del tessuto connettivo ma anche da cellule
muscolari lisce, epiteliali, endoteliali.

Sono stati indentificati tanti tipi di collagene, ognuno con una particolare collocazione. Ho vari tipi
di miscele di collagene per generare proprietà tipiche di tessuti specifici. Alcuni collageni danno
fibre, altri strutture reticolari, altri saranno di supporto alle fibre. Il collagene di tipo I forma la fibrilla
ed è presente in quasi tutti i connettivi, altri sono più specializzati come il II che sta nella cartilagine
e umor vitreo e il III, che si trova nei tessuti caratterizzati da una maggiore estensibilità (quelli della
pelle e dei polmoni).

Guardiamo le catene che compongono il collagene di tipo I.

Nel collagene di tipo I sono presenti catene di collagene che vengono identificate come α1α2 ma è
una tripla elica. Potrò avere dunque o una composizione di tre catene peptidiche di tipo α1 oppure
due catene di tipo α1 e una di tipo α2. Anche qui ho combinazioni differenti di due catene.

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Lezione n°17 del 16.04.2018
Sbobinatore: Carlotta Pagani, Matteo Veneri
Controllore: Mazzetti Filippo
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Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: evoluzione e proteine, proteine fibrose

Associato al collagene di tipo I esistono anche delle patologie→ le collagenopatie. Tra quelle che
citiamo compaiono l’osteogenesi imperfetta e la sindrome Ehlers-Danlos. Ho anche collagenopatie
associate ad altri tipi di collagene.

Concentriamoci ora sulla sequenza amminoacidica di queste catene polipeptidiche. Se vado a


vedere un tratto di sequenza primaria ogni tre residui si trova un residuo amminoacidico di tipo
glicina. Inoltre, spesso è presente la prolina ed è frequente l’idrossiprolina. La triade glicina,
prolina, idrossiprolina è una triade molto importante per lo strutturarsi di questa tripla elica. Ogni
catena di collagene avrà una sequenza di tipo glicina e poi due aa diversi (glicina-X-Y). X è spesso
prolina, Y è 4-idrossiprolina. L’idrossiprolina è uno di quegli aa che impedisce la formazione
dell’alpha elica vista la sua configurazione nella sua catena laterale → è impossibile in questo
modo che queste catene di collagene generino alpha eliche. Si noti anche che prolina e
idrossiprolina sono giudicati due aa abbastanza rari, soprattutto l’idrossiprolina. L’effetto di prolina
e idrossiprolina è quello di piegare dolcemente la catena polipeptidica facendola avvolgere su sé
stessa generando un’elica, che non è un alpha elica. Al centro ho sempre la glicina, che ha un H
come catena laterale e che è l’unico residuo che riesce a localizzare la catena laterale nel cuore
dell’avvolgimento in tripla elica. Gli altri residui proiettano le catene laterali esternamente rispetto
all’avvolgimento.

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Lezione n°04 del 17.04.2018
Sbobinatore: Giulia Zheng, Gian Marco Marani
Controllore: Niccolò Di Scioscio
Materia: Biochimica
Docente: prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali

PROTEINE FIBROSE E LA LORO OMEOSTASI


Paragrafo introduttivo:
sequenza amminoacidica delle catene proteiche del collageno, avvolgimento secondario
superelicoidale di 3 catene polipeptidiche le une sulle altre.

COLLAGENO

Nella struttura primaria della proteina del collageno,


l’amminoacido più rappresentato (1 ogni 3 aa) è la
glicina.
La tripletta Gly-X-Y è estremamente comune, dove X
è la prolina e ha lo scopo di impedire la formazione di
α-elica e Y è spesso 4-idrossiprolina, un
amminoacido molto poco rappresentato nelle proteine
e che, pertanto, caratterizza il collagene.
La prolina e l’idrossiprolina, a causa della loro
conformazione e della loro configurazione del
legame, inducono un lieve avvolgimento della catena
polipetidica, che comporta questo avvolgimento di 3
catene polipeptidiche, dove, se viste in sezione, la
glicina occupa il cuore della tripla elica, mentre le
catene laterali degli altri residui sporgono verso
l’esterno della tripla elica.
1/3 degli amminoacidi della sequenza è sicuramente
costituita da glicine; il 15-30% è formato da prolina e
idrossiprolina.
Tra gli amminoacidi idrossilati il più comune è 4-
idrossiprolina, ma è presente anche idrossilisina, che
sul C5 presenta un gruppo -OH. La rilevanza di
questi amminoacidi idrossilati è di tipo strutturale,
perchè assicurano stabilità a questo assemblaggio in
tripla elica grazie alla formazione di ponti a H, resi
possibili dal gruppo -OH, tra catene attorcigliate le
une sulle altre. Questa idrossilazione è un’importante
modifica post-traduzionale che subisce la proteina
del collageno.
La struttura nel complesso è stabilizzata dalle
repulsioni steriche tra gli anelli delle proline e delle
idrossiproline: la notevole rappresentatività che
hanno le proline e/o le idrossiproline nella sequenza,
comporta un certo ingombro sterico. Questa
repulsione dovuta all’ingombro sterico stabilizza la
struttura, che è anche stabilizzata dalla formazione di ponti a H nei quali sono coinvolti i gruppi -
OH delle idrossiproline e delle idrossilisine e anche la formazione di ponti a H tra gli -NH del
legame peptidico, cui partecipa la glicina, e i C=O, ovvero l’ossigeno del gruppo C=O di un altro
amminoacido magari di un’altra catena peptidica. Quindi la stabilità deriva dalle repulsioni steriche
di questi anelli discretamente ingombranti delle proline e delle idrossiproline e dalla formazione di
ponti a H. Perciò la cosa cruciale per la cellula è riuscire a idrossilare i residui di prolina. La
formazione di 4-idrossiprolina è molto importante, perché è legata a una patologia: lo scorbuto. Per

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Lezione n°04 del 17.04.2018
Sbobinatore: Giulia Zheng, Gian Marco Marani
Controllore: Niccolò Di Scioscio
Materia: Biochimica
Docente: prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali

riuscire a realizzare questa idrossilazione servono ossigeno, perchè la cellula deve andare a
incorporare ossigeno nella prolina, α-chetoglutarato e prolinidrossilasi, l’enzima che catalizza la
reazione. L’ossigeno viene incorporato sotto forma di gruppo -OH e l’α-chetoglutarato è
trasformato in altri sottoprodotti. Da notare il fatto che la richiesta di questa catalisi enzimatica è
dovuta alla presenza di ascorbato, la vitamina C. Quindi solo in presenza di vitamina C è possibile
la catalisi della prolinidrossilasi e quindi la formazione di idrossiprolina con il corretto assemblaggio
della tripla elica del collagene.

EVOLUZIONE DELLA STRUTTURA DEL COLLAGENE

Le catene che vengono tradotte dai


ribosomi sono le catene del pre-
procollagene, precursori della catena
del collagene, e vengono estruse nel
reticolo endoplasmico (RE): le α-1 e le
α-2, che le due procatene più comuni
nel collagene di tipo I, sono estruse
nel RE. La prima modifica che subisce
la sequenza è l’idrossilazione a carico
delle proline e delle lisine per formare
prevalentemente 4-idrossiprolina e
idrossilisina. Nel frattempo la catena
subisce una scissione di un segnale
che la indirizza verso il RE e, quindi,
da preprocatene si evolvono in catene
sempre più vicine all’assemblaggio
della struttura del collageno. Segue
una seconda modifica post-
traduzionale: la glicosilazione, che
avviene soprattutto a carico di idrossilisina. Dunque le catene, isdrossilate sulle proline e sulle
lisine, sono glicosilate sulle lisine e, a questo punto, tre catene (ad esempio due catene α-1 e una
catena α-2) vengono assemblate insieme con un meccanismo a cerniera: l’assemblaggio parte
dalla formazione di ponti disolfuro intra e intercatena all’estremmo carbossilico della proteina e,
quindi, con questo meccanismo a cerniera, si avvolgono le tre catene le une sulle altre.
L’avvolgimento si completa con la formazione di ponti disolfuro anche a livello dell’N terminale di
queste catene. Queste sono modifiche che restano nel RE, ma, a questo punto, la proteina deve
svolgere la sua funzione fuori dalla cellula, quindi deve essere secreta.
Percorso della secrezione: il collagene è contenuto nelle vescicole del RE, che gemmano dal RE
ed entrano nell’apparato del Golgi, il quale, a sua volta, fa uscire vescicole di secrezione che
liberano all’esterno della cellula queste molecole, che devono essere ulteriormente processate.
Al di fuori delle cellule sono presenti delle peptidasi, enzimi proteolitici che tagliano in punti
specifici, cioè tagliano in testa e in coda alla proteina, eliminando le regioni congiunte con i ponti
disolfuro che hanno solo aiutato l’assemblaggio della tripla elica. Quindi si ha il taglio delle regioni
N terminale e C terminale. La molecola che si ottiene è il tropocollageno, che è secreto fuori dalla
cellula e ora inizia ad aggregarsi ad altre molecole di tropocollageno. Si creano, così, delle vere e
proprie fibrille dove i tropocollageni si assemblano lievemente sfalsati gli uni rispetto agli altri e la
loro interazione è stabilizzata dalla formazione di particolari legami covalenti, i legami crociati, di
cui sono responsabili ancora una volta le lisine. Perciò si è assemblata una fibra stabile e
resistente alla trazione.
Al microscopio elettronico, a causa di questa lieve irregolarità nell’affiancamento delle catene del
tropocollageno, si vede uno sfalsamento di circa un quarto di molecola di tropocollagene. L’aspetto

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Lezione n°04 del 17.04.2018
Sbobinatore: Giulia Zheng, Gian Marco Marani
Controllore: Niccolò Di Scioscio
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Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali

è quelo a bande: queste fibre di collageno alternano zone chiare a zone scure. Le zone scure sono
quelle in cui si ha la completa sovrapposizione di tutte le molecole in sezione della fibra. Le zone
chiare sono dovute a questo piccolo sfalsamento nell’allineamento, si creano perciò come dei
buchi, delle regioni dove manca la molecola del tropocollagene.
I legami crociati sono i responsabili della formazione delle fibrille di tropocollageno, insieme alla
partecipazione degli amminoacidi in posizione X e Y, e determinano la resistenza alla trazione che
offre la molecola del collageno, siccome sono coinvolte soprattutto le lisine e le idrossilisine, che
impediscono lo spostamento delle fibre le une sulle altre. Tuttavia, con il tempo questi legami
crociati si rinsaldano, la densità dei legami aumenta e le fibre del collageno tendono a diventare
più rigide, quindi più fragili.
L’orientamento delle fibre di collagene dipende dai tipi di tessuti in cui il collagene è localizzato: è
più casuale, distribuito in tutte le direzioni, nell’osso e nella pelle, più a foglietto nei vasi e in
maniera più regolare, parallela e ordinata nei tendini.

COLLAGENOPATIE

Sono patologie associate a problemi sull’assemblaggio della


catena del tropocollagene:
- Scorbuto: assenza/carenza di vitamina C a causa
dell’alimentazione sbagliata, di intolleranze alimentari e
quant’altro, non si riesce a idrossilare le proline con le
prolinidrossilasi. In questo caso la temperatura di fusione (di
disaggregazione della struttura sovrasecondaria di questa
tripla elica) del collagene quasi dimezza, quindi manca la
struttura responsabile dell’assemblaggio in fibre e non si
formano i ponti a H garantiti dalle idrossiproline. È associato
a lesioni cutanee, emorragie in bocca e/o superficiali,
fragilità dei vasi, dolore alle gengive, perdita di denti e
quant’altro;
- Sinrome di Ehlers-Danlos: carenza di enzimi coinvolti
nella maturazione, ovvero tutti quegli eventi intracellulari che
porteranno alla sintesi del tropocollagene. Perciò o carenza
di questi enzimi responsabili della maturazione del collagene
oppure mutazioni a carico dei geni che codificano per queste
pre-procatene di collagene. Per esempio, nel caso del collageno di tipo V, le mutazioni a
carico del gene che lo codifica comporta elevata capacità dell’estensione della pelle, fragilità
della cute e ipermobilità delle articolazioni;
- Osteogenesi imperfetta (malattia delle ossa fragili): nell’80% dei casi è dovuta a mutazioni
a carico dei geni implicati nella produzione di collegene di tipo I. Viene sintetizzato un prodotto
mutato che produce effetti più o meno gravi a
seconda del tipo di sostituzione amminoacidica: la
mutazione è grave se è stata sostituita la glicina,
che deve occupare il cuore della tripla elica: se lì
andasse un amminoacido più ingombrante con
caratteristiche molto diverse, la struttura non
reggerebbe e si otterrebbe un collagene instabile.
La gravità del fenotipo dipenderà dal tipo di
mutazione che viene introdotta: se la sostituzione
porta delle cisteine o delle serine, o comunque dei
residui che riescono a formare ponti H o anche
disolfuro, in qualche modo si riesce a tenere insieme queste catene polipeptidiche, e quindi è

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Controllore: Niccolò Di Scioscio
Materia: Biochimica
Docente: prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Collageno, Elastina, Omeostasi delle proteine, modificazioni post-traduzionali

una mutazione non così grave. È una malattia che porta una grave disabilità, nel senso che
comporta una notevole fragilità ossea, è anche associata a perdita dell’udito e colorazione blu
delle sclere. È una malattia genetica con trasmissione autosomica dominante con spiccata
tendenza alle fratture.

ELASTINA

L’elastina è una proteina fibrosa a struttura allungabile che appartiene al tessuto connettivo.
Viene spesso accompagnato dal collagene ed è responsabile dell’elasticità bidimensionale di
organi e tessuti.
Le fibre elastiche, presenti nel derma, nei polmoni, nelle pareti delle arterie, nei legamenti e in tutte
quelle strutture che possono estendersi e ritrarsi al cessare dello stimolo meccanico.
È insolubile e extracellulare, di dimensione notevole, circa 700 aa (l’insulina ha 50 aa), e gli
amminoacidi che la compongono spesso sono apolari e piccoli, perciò sono molto frequenti
alanina, valina e prolina, mentre sono praticamente assenti idrossiprolina e idrossilisina.
In ambiente extracellulare anche l’elastina è in grado di formare legami crociati: viene sintetizzata
all’interno della cellula, viene secreta e forma molti legami crociati che congiungono varie catene
polipeptidiche e sono proprio tutte queste catene congiunte tra di loro dai legami crociati che
formano un reticolo elastico che può estendersi e che poi ritornerà nelle condizioni di riposo al
cessare della forza di trazione, recupera la sua struttura originaria.
L’elastina ha un turnover molto lento: tutte le proteine sono soggette a un turnover, ovvero
vengono continuamente prodotte e degradate secondo una tempistica ben precisa. Non vi sono
proteine di deposito e non vi è un tessuto proteico in cui sono depositate sotto forma di riserva le
proteine; esse sono tutte attive e funzionali, quindi devono essere continuamente prodotte e
degradate a seconda di ciò che serve.
L’elastina è molto più presente in una pelle giovane e il suo nemico principale è l’invecchiamento,
oltre ai raggi UV, e nelle condizioni dell’invecchiamento, l’elastina viene sintetizzata molto meno,
cioè col tempo cala la capacità di produrre elastina e, anzi, vengono attivati, in seguito a stimoli
anche esterni, degli enzimi che accelerano la sua degradazione.
Inoltre, nel derma l’elastina è anche associata al collageno, ovvero ci sono delle fibre di elastina
connesse con fibre di collageno e il collageno, vista la sua resistenza alla trazione, limita un po’ le
capacità di estensione nel derma che ha l’elastina e, quindi, pone un limite nel tirare la pelle.
Perciò anche l’elastina che viene secreta all’esterno delle cellule del connettivo, si deve
organizzare. Ad aiutarla nella sua organizzazione in fibre elastiche partecipa una struttura di
microfibrille di tipo tubulare: queste microfibrille, anche loro proteiche, creano all’interno una cavità
dove andrà a sistemarsi la proteina elastina, già tutta organizzata e interconnessa con legami
crociati. Le microfibirille tubulari sono formate da una glicoproteina molto importante, chiamata
fibrillina, una proteina extracellulare che partecipa all’organizzazione delle fibre elastiche. La fibra
elastica è data da questa struttura esterna di microfibrille di fibrillina che trattiene un nucleo di
elastina. La fibrillina è una proteina importante, perché esistono delle mutazioni a carico del gene
che codifica per la fibrillina:
- Sindrome di Marfan: le fibrilline non si organizzano, perciò non si organizzano neanche le
fibre elastiche, quindi la matrice extracellulare non è ben corretta e organizzata. Il sintomo più
rilevante è l’eccessiva lunghezza delle estremità (braccia, dita). Ma, oltre ad aspetti muscolo-
scheletrici e oculari, c’è il rischio di una complessità anche a livello cardiovascolare.

OMEOSTASI DELLE PROTEINE

Per il nostro organismo è importante riuscire a controllare e mantenere in un range di stabilità, di


regolarità e di funzionalità tutto il pool delle nostre proteine, il proteoma.

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La cellula deve necessariamente mantenere il suo proteoma attraverso un sistema di complessa


regolazione e ogni proteina deve essere correttamente foldata nella sua struttura terziaria nativa o
addirittura assemblata con altre subunità se la proteina ha struttura quaternaria per riuscire a
svolgere la sua funzione.
Questa omeostasi delle proteine si chiama anche proteostasi ed è un insieme di processi biologici
volti a conservare la funzionalità dell’intero proteoma mediante controllo a livello di:
⚫ Sintesi proteica
⚫ Processi post-traduzionali: modificazioni e smistamento
⚫ Folding: controllo di qualità
⚫ Degradazione

PROCESSI POST-TRADUZIONALI

Ogni proteina, dopo la traduzione, deve necessariamente assumere la sua conformazione nativa,
quindi passare dall’informazione sequenziale della proteina alla struttura terziaria se non
quaternaria della proteina.
Per alcune proteine, però, non basta questo e, per raggiungere lo stato biologicamente attivo,
devono subire delle modifiche a carico di specifici amminoacidi. Quindi, solo a seguito di questo,
raggiungeranno il folding corretto, magari assumeranno una capacità regolatrice, enzimatica o
verranno dirette verso particolari distretti inta o extracellulari o incrementeranno la loro capacità di
binding, cioè di trovare un partner di legame che gli consente di esprimere una determinata
funzione, oppure, addirittura, esistono modifiche post-traduzionali che fanno sì che una proteina
sia destinata alla degradazione, cioè contiene un messaggio nella modifica che dice alla cellula di
eliminare la proteina stessa.

Modifiche post-traduzionali

L’acetilazione, così come la metilazione, è coinvolta nelle modifiche post-traduzionali delle


proteine istoniche.
Prendendo in considerazione un piccolo
tratto della sequenza n-terminale degli
istoni h3 ed h4 si può notare un’elevata
frequenza di siti di attacco e modifica
post-traduzionale, in particolare:
- il metile ricorre molto spesso
- l’acetile va sulle lisine (residui carichi
positivamente)
- il fosfato lega le serine

L’acetilazione sulle lisine(k)


dell’estremità n-terminale istonica o agli
n-terminali delle proteine istoniche
influisce sulla capacità degli istoni di interagire con le cariche negative portate dai gruppi fosfato
del DNA . Le cariche positive che vengono rimosse con questo processo erano infatti quelle che
consentivano l’aggancio degli istoni agli ossigeni carichi negativamente dei gruppi fosfato del DNA.
Gli istoni acetilati sono quindi associati alle regioni rilassate della cromatina; pertanto questa
modifica si può considerare decisiva anche in funzione dell’espressione genica.
La deacetilazione, contrariamente, consente un aggancio più stretto sul DNA e quindi la
formazione di eterocromatina, più addensata e meno disponibile per l’espressione genica.

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La metilazione va anch’essa su residui carichi positivamente (arginina e lisina nel segmento


preso in esame).
Se sulla sequenza n-terminale dell’istone h3 viene metilato il residuo di lisina in posizione 4 (k4), si
blocca il legame con la proteina eterocromatinaproteina 1, viene pertanto persa la capacità di
interagire con le cariche negative del DNA e quindi promossa la decondensazione della cromatina.
Se, al contrario, viene metilato k9, si crea un legame con una proteina responsabile della
condensazione e quindi della formazione di eterocromatina. È importante notare come k9 abbia
una doppia funzionalità: se metilato condensa la cromatina e inattiva i geni, se acetilato
decondensa e attiva.

Acetilazione e metilazione a livello istonico diventano quindi importantissime per definire il codice
istonico: esprimo/non esprimo i geni.

La glicosilazione è un’altra modifica post-traduzionale che consiste nell’attacco di carboidrati


alle proteine. Come l’acetilazione, la metilazione e la fosforilazione, è una modifica molto stabile in
quanto prevede la formazione di legami covalenti. Questi possono venire realizzati con residui di
asparagina tramite il legame di n-glicosilazione oppure con residui di serina o trionina tramite o-
glicosilazione.
Gli aminoacidi passibli di glicosilazione molto spesso si devono trovare in una sequenza consenso
specifica.
La glicosilazione è molto importante per le proteine secrete, per le proteine degradative che vanno
a comporre il corredo enzimatico dei lisosomi e per le proteine che vanno ad inserirsi sulla
membrana cellulare, che spesso sono glicoproteine, come ad esmpio le proteine integrali di
membrana, che espongono un braccio glucidico verso l’esterno della cellula ed hanno un
importante funzione di riconoscimento antigenico.
La n-glicosilazione consiste nell’aggiunta di uno zucchero all’azoto di un residuo laterale
dell’asparagina. Questo processo, che rappresenta la glicosilazione più frequente, tipico delle
proteine superficiali delle cellule, inizia nel reticolo endoplasmatico [ n.d.s. la prof.ssa lo chiama
endoplasmico, per chi volesse dare l’orale] , all’interno del quale degli enzimi specifici attaccano
alle proteine una prima sequenza oligomerica di carboidrati. Questa subirà una prima modifica a
livello del RER, seguita dal trasporto della proteina tramite vescicole al Golgi, dove la ramificazione
saccaridica subirà importanti cambiamenti. Questi, al contrario di quelli a livello del reticolo,
generici, variano al variare del substrato, modificando ogni specifica proteina in base alla funzione
futura, dando alla catena glucidica il suo aspetto definitivo.

La o-glicosilazione consiste nell’aggiunta di zuccheri a livello dell’ossigeno della catena laterale


di serina e trionina. Questo processo, tipico delle proteine destinate alla secrezione, avviene a
livello del Golgi.

Gli zuccheri principali sono: glucosio, galattosio, mannosio e n-acetilgalattosammina.

Nell’immagine a fianco si possono osservare due


proteine, una agganciata alla membrana e l’altra
secreta fuori dalla cellula. Posseggono entrambe o-
glicosilazioni ed n-glicosilazioni. Si può notare come
queste ultime abbiano una caratteristica comune:
presentano gli stessi zuccheri alla base, ossia due
molecole di n-acetilglucosammina e tre di mannosio.
Su questa struttura a Y che si viene a creare si
innestano poi altri carboidrati, come il fucosio, l’acido
sialico il galattosio e l’n-galatattosammina.

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Come si formano i legami?

La o-glicosilazione presa in considerazione utilizza una serina, il cui -oh della catena laterale lega
con l’n-acetilgalattosammina (riconsco che è un galattosio dell’-h rivolto verso l’alto), che è la
componente zuccherina

La n-glicosilazione presa in considerazione utilizza un’asparagina, il cui –nh della catena laterale
lega la n-acetilglucosammina

Tra le glicoproteine ci sono: anticorpi, la fibrillina che compone le fibre elastiche, il collagene, le
sue glicosilazioni soprattutto di glucosio e galattosio sulla idrossilisina, proteine di membrana con
funzione recettoriale

L’acilazione consiste nell’aggiunta di un gruppo acile: un gruppo acido-grasso della famiglia che
va verso i grassi e i lipidi. Il braccio idrocarburico apolare consente l’ancoraggio alla membrana
della proteina: la componente lipidica riesce a inserirsi nella membrana ed entrare in interazione
idrofobica con le catene apolari degli acidi grassi e dei fosfolipidi di membrana.
Esempi sono il gruppo palmitoile (a 16 atomi di carbonio) e il gruppo miristoile (a 14 atomi di
carbonio).

Altre modifiche post-traduzionali sono: l’idrossilazione, osservata su prolina e lisina del


collageno, e la carbossilazione del glutammato: avviene l’attacco di un gruppo carbossilico sul
carbonio gamma della catena laterale del glutammato. Il glutammato carbossilato (gamma
carbossilglutammato), indicato come gla, partecipa alla coagulazione del sangue: i gruppi
carbossilato coordinano degli ioni calcio che interagiscono con particolari fosfoproteine di
membrana stabilizzando il coagulo, facendolo aderire alle superfici.
Bisogna tener presente che i glutammati a ph fisiologico sono deprotonati a livello della catena
laterale.

Il taglio proteolitico è una modifica post-traduzionale diversa rispetto a quelle analizzate fin’ora,
che erano aggiunte di qualche elemento, anche rimuovibili in alcuni casi. Esso è invece una
modifica irreversibile, in quanto consiste nel taglio di una porzione di una sequenza

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amminoacidica da parte di una proteasi o endopeptidasi. Pertanto, deve essere regolato, così che
non ci sia il rischio di effettuare una modifica irreversibile laddove non debba essere apportata.
Il taglio proteolitico consiste nell’eliminazione di un segmento di un precursore di una proteina che
diventa attiva solo a seguito di questa modifica.

Il classico esempio è la maturazione


dell’insulina, una piccola proteina formata da
una sola catena polipeptidica, composta da
una prima regione n-terminale, detta peptide
segnale, seguita da tre sequenze, le catene
a,b e c, che costituiscono un’unica
catena[n.d.s. la prof.ssa dice che la
sequenza da n-terminale a c-terminale è
a,b,c, mentre nelle illustrazioni appare
sempre come b,c,a. Questo comporta che
per lei i ponti s-s sono tra a e c, mentre nelle
immagini sono tra a e b; inoltre per lei viene
rimossa la catena b, mentre nei disegni
viene tolta la c].
Il peptide segnale indirizza la sequenza
polipeptidica nel lume del RE, dove verrà
immediatamente tagliato ad opera di una
proteolisi specifica. Il taglio sancisce il
passaggio dalla preproinsulina, la catena
uscita dalla traduzione, alla proinsulina, la
catena modificata appena entrata nel reticolo endoplasmatico. Qui la proteina inizia a strutturarsi e
foldarsi e nel momento in cui inizia ad avere una struttura più compatta entrano in gioco gli enzimi
responsabili dei ponti disolfuro.
Questi sono tre: due tra la catena a e la catena c ed uno dentro la sequenza della catena a.
A questo punto avviene un altro taglio proteolitico che attiva la proteina: due endopeptidasi
tagliano e rimuovono la catena b, che viene chiamata peptide c in quanto viene sempre
rappresentata con la forma a C.
In seguito avviene un ulteriore processamento a carico degli estremi carbossi-terminali, seguito da
una migrazione dal RE al Golgi, da cui gemmeranno vescicole piene di insulina, che verranno
secrete all’esterno dalle cellule beta del pancreas, quelle deputate alla produzione e secrezione
dell’insulina.
Altri esempi sono: collageno o tropocollageno, attivati a partire dal procollageno, ed importanti
proteasi,che partecipano alla digestione delle proteine, che prevalentemente avviene a livello
intestinale.
Sono due le proteasi molto importanti: il tripsinogeno e il chimotripsinogeno. Sono prodotte a
livello del pancreas, dove la catena è però ancora inattiva. Vengono secrete nel duodeno, dove
avviene il processamento: il tripsinogeno viene attivato da un’enteropeptidasi (entero in quanto ci
troviamo nel duodeno), che lo taglia, dando origine alla tripsina, la quale a sua volta taglia il
chimotripsinogeno, producendo l’altro enzima proteolitico digestivo:la chimotripsina.
Da notare come anche le proteasi stesse debbano essere a loro volta attivate da altre proteasi.
L’attivazione di queste proteine avviene solamente dopo la loro secrezione, poiché se venisse fatto
nel citoplasma verrebbe attivata un’arma di degradazione che potrebbe comportare dei danni
ingenti alla cellula.

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Smistamento delle proteine

La traduzione avviene per tutte le proteine a livello dei ribosomi, siano essi liberi nel citoplasma o
adesi alle membrane del RE, determinandone la rugosità. I vari polipeptidi hanno però diverse
destinazioni, devono essere indirizzati ai vari organi cellulari; è pertanto necessario un loro
differenziamento, un loro smistamento.
Quando la proteina è diretta verso il
RE, il ribosoma è attaccato ad esso,
provocandone la rugosità. A livello del
reticolo avvengono poi le varie
modifiche post-traduzionali, seguite
dalla gemmazione di vescicole che
migrano verso il Golgi, da cui le proteine
possono prendere due vie:l’esocitosi,
che porta sia alla secrezione del
contenuto proteico delle vescicole del
Golgi all’esterno della cellula, sia
all’esposizione di particolari proteine sulla membrana cellulare o nucleare, oppure andare nei
lisosomi.
Sono i primi 15-30 aminoacidi n-terminali che indirizzano la proteina. Veranno poi tagliati
appena essa reggiunge la propria destinazione. Differente è invece la localizzazione nucleare:
essa è infatti composta di 6-20 aminoacidi, generalmente all’n-terminale, che non verranno
rimossi. Questi sono carichi positivamente, così da facilitare il riconoscimento della proteina da
parte del complesso del poro. C’è anche un segnale di esportazione dal nucleo, che è molto più
idrofobico.
Le proteine che sono espresse dentro al citosol invece non hanno nessun segnale di
indirizzamento.

Molto importante è lo smistamento delle proteine destinate al mitocondrio . Esso è


formato da due membrane, una esterna ed una interna. L’interno del mitocondrio presenta la
matrice mitocondriale e lo spazio tra le due membrane si chiama spazio intermembrana.
Ci sono percorsi differenti per le proteine che sono indirizzate alla membrana esterna, allo spazio
intermembrana,alla membrana interna o alla matrice. Tutti questi
prevedono il passaggio attraverso un particolare complesso di
traslocazione: ce n’è uno specifico per la membrana esterna, il
complesso Tom, e uno specifico per l’attraversamento della
membrana mitocondriale interna, il complesso Tim.
Per proteine destinate alla membrana esterna è quindi
sufficiente l’intervento di Tom: viene riconosciuto il polipeptide e
localizzato in membrana
Per le proteine dirette allo spazio intermembrana si può
solamente attraversare Tom oppure si può passare anche da
Tim, essere localizzato nella membrana interna e venire

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processato, liberando con un evento di proteolisi un particolare prodotto proteico nello spazio
intermembrana.
Per le proteine dirette alla membrana mitocondriale interna o alla matrice, devo essere utilizzati
entrambi i trasportatori, detti anche trasloconi. Queste proteine presentano delle sequenze di
localizzazione particolari, che spesso sono miscele di aminoacidi idrofobici (metionina, leucina,
isoleucina, fenilalanina…) alternati a dei residui carichi positivamente (arginina,lisina…), così da
permettere la formazione di un elemento di struttura secondario:un’alfa elica anfipatica, che
presenta una faccia polare e idrofila ed una faccia apolare i idrofobica. L’elica è posta
superficialmente, con la parte dei residui positivi esposta verso
l’ambiente acquoso, e viene utilizzata per il passaggio all’interno
del mitocondrio.
Il trasporto delle proteine avviene prima che queste siano
completamente foldate, poiché per attraversare i trasloconi Tom
e Tim devono essere in struttura un po’ svolta. Per mantenere
una struttura abbastanza lassa entra in gioco lo chaperon
molecolare hps70, che è in interazione con la proteina in
ingresso nel mitocondrio. Normalmente gli chaperoni sono
proteine che assistono il folding, quindi contribuiscono alla
formazione della struttura terziaria, ma in questo caso
intervengono per mantenere una struttura meno compatta, che
aiuta il passaggio attraverso i traslo coni.
Quando una proteina attraversa il complesso Tim, si associa ad altri chaperon, che però sono di
natura mitocondriale e non citosolica come quello precedente. Si innesca così una peptidasi che
taglia il segnale di indirizzo e la proteina si folda nella sua struttura nativa. Questo processo
richiede una spesa energetica: ATP idrolizzato ad ADP+P.

Secrezione

I ribosomi si attaccano alla faccia esterna, citosolica del RE, conferendo l’aspetto rugoso. Le
proteine vengono incanalate dentro al reticolo, ma poi si muoveranno grazie a delle vescicole che
gemmano da esso e si dirigono verso il Golgi, dove si creano altre vescicole di passaggio da una
cisterna all’altra, finchè il lato Trans emette quelle destinate poi a fondersi con la membrana
cellulare e liberare per esocitosi un particolare contenuto proteico destinato all’extracellulare.
Spesso sono proteine glicosilate: la glicosilazione, infatti, spesso coinvolge polipeptidi o di
membrana o destinati alla
secrezione.
Come avviene lo smistamento a
livello del RE?

Tutto parte dal citosol :il ribosoma si


lega al messaggero, dall’exit tunnel
esce la prima regione tradotta, che è
un segnale particolare di indirizzo
verso il RE. Nel citosol, in contiguità
con questo processo, la signal
recogniction particle, una piccola
particella, è in grado di riconoscere
e legare subito il segnale appena
tradoto all’n-terminale della proteina
nascente destinata al RE.
SRP(signal recogniction paticle)

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individua il proprio recettore sulle membrane del RE e si relaziona con esso, ancorando alla
superficie del reticolo il ribosoma. Anch’esso si associa ad una sua regione recettoriale, quindi si
apre un canale in cui può continuare la traduzione.
La SRP si stacca dal complesso ribosoma-RNA messaggero e il polipeptide nascente viene spinto
dentro al RE. Verrà poi completamente tradotto e inviato dentro al reticolo, dove una peptidasi
taglierà il segnale tradotto all’inizio, che serviva per l’attacco con SRP e per fare quindi attaccare il
ribosoma alle pareti del RE.
In seguito nel reticolo la protiena deve foldarsi e subire le modifiche conformazionali (le
glicosilazioni, le ossidrilazioni, i ponti disolfuro…), prima di passare al Golgi.

La SRP è costituita da 6 catene polipeptidiche che


interagiscono con un piccolo RNA, il che la rende
una particella ribonucleoproteica. Inoltre presenta
una tasca di legame per il segnale di localizzazione
nel RE e un sito di legame che riconosce il recettore
di SRP sulle membrane del reticolo, che ha anche
una funzione GTPasica, che parte dopo che SRP,
legato alla sequenza di indirizzamento all’n-
terminale, si lega al suo recettore sulla membrana
del RE: il GTP legato viene idrolizzato a GDP+P,
SRP si stacca dall’interazione con la sequenza
segnale e si libera, rimanendo disponibile per altre
proteine da indirizzare sul reticolo. Al tempo stesso,
la traduzione, prima bloccata, viene riattivata, si
apre il traslocone associato al canale di uscita della
catena polipeptidica, la quale ci entra dentro e
continua ad essere tradotta dentro al lume del RE. Mentre viene tradotta e indirizzata, la proteina,
nel RE, viene tagliata da una peptidasi che elimina il segnale, fortemente idrofobico, di import in
esso. A questo punto la proteina viene completamente estrusa nel reticolo, dove si folda, si
modifica ecc.

Non esiste soltanto il segnale di indirizzamento verso il RE, ma possiamo trovare anche un
segnale di ritorno verso il RE: ci sono proteine che sono nate nel reticolo endoplasmatico, passano
al Golgi, ma poi devono ritornare nel RE: anch’esso infatti ha proteine funzionali al suo interno.
Queste proteine sono caratterizzate da una sequenza al carbossi-terminale, detta sequenza
KDEL (poiché costituita da:lisinia-k-, aspartato-d-, glutammato-e- e leucina-l-).

Le proteine arrivate al RE, quindi, vengono trasportate in vescicole che si fondono con le cisterne
della parte Cis del Golgi, quella rivolta verso il reticolo. Da questa i prodotti proteici si muovono
attraverso le cisterne, subendo ulteriori modifiche (ad esempio la o-glicosilazione), tramite altre
vescicole, così da arrivare alla parte Trans del Golgi: quella rivolta verso la membrana cellulare.
Da qui le proteine prendono direzioni differenti, infatti possono: tornare al reticolo, andare nei
lisosomi, essere esposte sulla membrana cellulare oppure essere secrete.

La secrezione può essere di due tipi:non controllata o controllata.


Quella non controllata, definita costitutiva, consiste di vescicole che vengono continuamente
prodotte e secrete, come ad esempio l’albumina e il fibrinogeno da parte delle cellule epatiche.

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Quella controllata, definita regolata, consiste in vescicole che vengono secrete solo a seguito di
uno specifico stimolo: un recettore esposto sulla cellula capta il proprio ligando e, senza farlo
entrare all’interno, converte questa
interazione in un segnale dentro la
cellula. Questo processo è detto
trasduzione del segnale. L’insulina, ad
esempio, non viene prodotta
continuamente: le cellule beta del
pancreas la secernono solo dopo che si è
riscontrato un innalzamento della
glicemia.

Le proteine destinate alla


membrana si trovano già incastonate
nelle membrane delle vescicole gemmate
dal Golgi Trans, sarà dunque sufficiente
una fusione tra queste e la membrana
cellulare per impostare e definire la
posizione di questi polipeptidi. Seguono,
quindi, anche questi la via dell’esocitosi,
solo che invece di essere riversati
all’esterno della cellula, rimangono
integrati in membrana. È dunque molto
importante che queste proteine siano già
inserite sulle membrane delle vescicole
che gemmano dal RE ed in seguito dal Golgi. Oltre al peptide segnale che indirizza verso la via di
secrezione, servono pertanto delle sequenze di blocco di trasferimento, costituite da brevi
sequenze che formano alfa eliche, le quali bloccano la proteina in incastro con i fosfolipidi della
membrana del RE.

Le proteine destinate ai lisosomi, organi cellulari che presentano al loro interno un set di
enzimi idrolitici degradativi, necessitano di una sequenza segnale che li guidi al RE e,
successivamente, al Golgi, dove devono acquisire una marcatura che le distingua dagli altri
polipeptidi con diverso indirizzamento.Questa consiste nel legare il mannosio-6-fosfato
all’asparagina. Questo comporta il differenziamento del loro percorso attraverso il Golgi, in quanto
questa modifica fa sì che queste proteine vengano inglobate in vescicole che presentano dei
recettori che legano le proteine con mannosio-6-fosfato. Il recettore rimane inserito in queste
vescicole, che si fondono con altre a formare vescicole di dimensioni maggiori, dove l’ambiente
acido è diverso, cosa che causa la rottura del legame proteina-recettore. A questo punto la
marcatura di mannosio-6-fosfato viene rimossa e le vescicole vanno a fondersi con la membrana
del lisosoma, riversandoci all’interno gli enzimi idrolitici.

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Sbobinatore: Ana Popusoi, Mathilde Coupin
Controllore: Matteo Inghilterra
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

FOLDING PROTEICO

Paragrafo Introduttivo: come le proteine acquisiscono la loro struttura terziaria nativa. L’importanza della
struttura correlata alla funzione. Unfolding e denaturazione proteica. Esperimento di Anfinsen e ipotesi sulla
spontaneità del ripiegamento nativo, Paradosso di Levinthal, cooperatività del folding e selezione
cumulativa, elenco dei diversi modelli di folding e spiegazione del meccanismo del ripiegamento delle
proteine con il modello Energy Landscape.

La struttura di una proteina determina considerevolmente la sua funzione, dunque le sue proprietà
dipendono dalla conformazione, quindi dalla sua struttura terziaria. Il three-dimentional fold di una
proteina deriva da tanti tipi di interazioni non covalenti simultanee, sia tra le varie regioni della proteina, sia
tra la proteina e il solvente nel quale è immersa (l’ambiente).
Esempio: una proteina globulare immersa nella matrice del citosol espone verso l’esterno i residui polari,
mentre nasconde verso l’interno i suoi residui idrofobici. Una proteina di membrana invece deve invece
stabilizzare la sua posizione nel doppio strato fosfolipidico anche utilizzando delle porzioni idrofobiche.
Tuttavia, la struttura nativa, molto importante per quanto riguarda la funzione della proteina stessa, è
relativamente stabile nelle condizioni fisiologiche (le proteine non sono delle entità estremamente stabili): la
sua stabilità è il prodotto di un delicato bilancio di tantissime interazioni. Nonostante ciò l’equilibrio è labile.
Per il folding di una proteina idrosolubile globulare immersa in un ambiente acquoso servono due fattori
fondamentali:

• La minimizzazione della superficie accessibile al solvente, esponendo verso il solvente


acquoso le parti polari e cariche, ovvero la massimizzazione delle interazioni di compattazione e
coesione (Van der Waals – interzioni dipolo dipolo stabili, interazioni di dipolo indotto e instantaneo)
responsabili delle forze di coesione – vi è minimizzazione dell’esposizione all’acqua dei residui
idrofobici, quando vi è massimizzazione delle interazioni di coesione: EFFETTO IDROFOBICO. Per
l’effetto idrofobico si ha il collasso delle strutture apolari verso il core e l’esposizione verso il
solvente acquoso dei residui polari e carichi.

• La massimizzazione della formazione di ponti ad H, sia quelli rivolti verso l’interno della proteina
(buried) e responsabili della struttura secondaria e terziaria (backbone), sia quelli che la proteina
contrae con l’acqua che la circonda – i residui più superficiali formano questo tipo di ponti a H.

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Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

In condizioni native fisiologiche la conformazione nativa corrisponde alla conformazione


termodinamicamente più stabile della molecola proteica. Cerchiamo la stabilità della proteina nel folding.
Il processo di folding è associato alla funzione di stato dell’energia libera:
ΔG = ΔH –TΔS
Sono presenti dei Δ perché esaminiamo un processo che ha un inizio e una fine (prima del folding e dopo il
folding della proteina). Il ΔGFOLDING è la differenza tra l’energia libera della proteina ripiegata (folded) meno
l’energia libera della proteina completamente denaturata (unfolded). Tutto ciò deve essere uguale alla
variazione di entalpia ΔH meno TΔS, la variazione di entropia moltiplicata per la temperatura assoluta.
Siccome sono tutti processi spontanei, saranno processi esoergonici quindi il ΔGFOLDING è negativo.
ΔG<0
Come ricavare le entità dei contributi di ΔH, di ΔS e di ΔG?
Assumiamo che la proteina si foldi, cioè che parta da una condizione di unfolding, denaturata, per arrivare
ad una situazione di folding nativo.
Questo a lato è un grafico dell’energia
libera, che in ordinata ha la ΔG e in
ascissa la coordinata di reazione. Esso è
indicativo dello svolgimento della
reazione (non indica il tempo di reazione,
ma come essa si svolge). Si assume che
il processo di folding sia a uno stadio
unico, ma in realtà sono sempre presenti
più stadi intermedi, però per fare
un’approssimazione energetica,
dobbiamo assumere che il processo sia il
passaggio tra lo stato unfolded allo stato
folded.

Se questi sono i livelli energetici della proteina unfoldata e della proteina nativa, avremo che l’energia seguirà
un determinato percorso passando attraverso uno stato di transizione, ad energia più alta, anche se in realtà
esistono più stadi intermedi. Il ΔG della reazione è rappresentato dalla differenza tra la G-foldata e la G-
unfoldata, mentre questo valore, cioè la differenza tra l’energia massima dello stato di transizione e l’energia
della proteina non foldata, costituisce l’energia di attivazione della reazione che procede verso il folding.
L’ultima energia rappresentata è l’energia libera di attivazione della reazione che procede per l’unfolding.

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Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

Il ΔG che è in considerazione, come visibile dal grafico, è sempre negativo. L’energia libera dello stato
nativo ha una energia inferiore rispetto a quella della proteina unfoldata. Nel caso del folding proteico:

• ΔH = variazione di entalpia fra stato finale ed iniziale (NB entalpia diminuisce man mano che si
formano i ponti H, legami ionici, forze van der Waals) sarà sempre negativo, l’entalpia finale avrà
sempre un valore inferiore rispetto all’entalpia iniziale, perché man mano che si formano tutte quelle
interazioni non covalenti che sono responsabili dello strutturarsi di una proteina, l’entalpia
diminuisce. Il contenuto termico delle molecole considerate quindi diminuisce.

• T = temperatura assoluta

• ΔS = variazione di entropia (disordine del sistema) fra stato finale ed iniziale. La proteina foldata,
allo stato finale avrà uno stato di entropia molto inferiore rispetto allo stato iniziale della proteina
denaturata.
ΔGFOLDING= ΔH –TΔS <0
ΔGFOLDING DERIVA DA UN BILANCIO DI EFFETTI ENTALPICI ED ENTROPICI
Se ΔG deve essere negativo vediamo che valori devono avere ΔH e TΔS nello strutturarsi di una proteina.
ΔH < 0 in quanto quando si formano legami non-covalenti (ponti H, legami ionici, forze van der Waals) il
contributo entalpico cala. Gli effetti principali derivano dalle molteplici forze di van der Waals che si
instaurano, dalle interazioni tra i dipoli, responsabili del compattamento della proteina e quindi danno il loro
maggiore contributo al negativizzarsi della variazione di entalpia.
Per quanto riguarda il contributo del fattore TΔS bisogna considerare due aspetti, sia quello di tipo
conformazionale, che quello di tipo idrofobico, dovuto all’effetto idrofobico, cioè quell’effetto per il quale i
residui idrofobici vengono collassati verso l’interno della struttura e vengono esposti quelli di tipo idrofilico,
polari e carichi. Analizziamo ora questi due contributi opposti.
Nel grafico a lato si vede come il ΔGFOLDING viene sempre
raffigurato come un valore negativo, poiché la reazione deve
essere spontanea, esoergonica. Quali sono i contributi a
questo aspetto negativo? Sicuramente la ΔH e un tipo di TΔS,
che anch’esso dà un contributo negativo, entrambi però
fortemente controbilanciati da un altro fattore TΔS che dà
invece un contributo positivo, andando contro la spontaneità
della reazione del folding. Pensiamo a una proteina che
gradualmente si struttura, si folda: è evidente che l’entropia di
questa proteina è in calo; se l’entropia è in calo, ΔS diventa un
valore negativo, che con un meno davanti positivizza
l’espressione TΔS. Si oppone al ΔH, sempre negativo,
contrastando algebricamente il valore del ΔH.
Però vi è un altro TΔS che dà un contributo favorevole.
Questo è dovuto all’effetto idrofobico. Tuttavia, non è presa in
considerazione nella valutazione di questo fattore una

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variabile legata alla proteina, quanto piuttosto all’ambiente in cui si trova la proteina, ovvero al solvente
acqua.
Cosa accade? Se la proteina è destrutturata, espone le sue catene idrofobiche verso l’ambiente acquoso.
Tutto ciò comporta la formazione di “buchi” nell’acqua che circondano la proteina destrutturata, poiché
l’acqua tende a respinge il contatto con queste regioni che non sono polari e si viene a costituire una rete di
ponti a H, chiamata clatrato, una specie di “gabbia” di molecole d’acqua che vuole escludere ogni tipo di
rapporto con le catene laterali idrofobiche esposte verso l’acqua. L’effetto idrofobico invece fa sì che le
componenti idrofobiche tendano a rientrare verso il core idrofobico della proteina. Il processo di
spostamento di queste catene laterali idrofobiche verso il core, libera delle molecole di acqua che prima
erano bloccate nella loro libertà di formare ponti a H dalle porzioni non polari esposte verso l’acqua. A
seguito di questo evento l’acqua si libera attorno a questi punti che prima erano occupati dai
residui idrofobici, riuscendo così a creare molti più ponti a H rispetto a quanti ne poteva formare con la
proteina destrutturata, ottenendo così un guadagno in termini di disordine, di entropia. Anche se il ΔS
idrofobico in questione diventa positivo, è quello dell’acqua che solvata, che idrata e tiene in soluzione la
proteina.
Quindi il ΔG risulta essere negativo, perché la somma del ΔH e di questo fattore -TΔS idrofobico supera
leggermente il TΔS conformazionale. C’è una piccola prevalenza di questa frazione sopra alla variazione di
entropia conformazionale e la risultante rimane un numero negativo.
Riassumendo:
- TΔSconformazionale: L’evoluzione da disordine a una conformazione (o poche) comporta ΔSconformazionale
<0. L’Entropia della proteina diminuisce nel folding, poiché la libertà conformazionale viene ridotta
sensibilmente.
- TΔSidrofobico: L’effetto idrofobico comporta ΔSidrofobico >0. L’Entropia del solvente acqua aumenta
quando le catene laterali idrofobiche vengono sottratte al rapporto con il solvente e rivolte verso
l’interno delle proteine globulari.

Dunque, ΔG<0 deriva dal contributo di:


- ΔH → favorevole, negativo
- -TΔS conformazionale → non favorevole, positivo
- -TΔS effetto idrofobico → favorevole, negativo
Tuttavia, il processo di folding avviene grazie ad un minimo prevalere del termine ΔH e TΔS
idrofobico sul TΔS conformazionale. Alla fine, il ΔGFOLDING non supererà il valore -10/-20 kcal/mol
(valore piccolo) → vuol dire che le proteine in generale hanno una bassa stabilità conformazionale, che le
rende facilmente suscettibili alla denaturazione mediante l’alterazione dell’equilibrio tra le interazioni deboli
(sia in ambiente fisiologico, sia in vitro) che mantengono lo stato nativo e garantiscono il formarsi della
struttura terziaria della proteina.

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UFOLDING/DENATURAZIONE PROTEINE
Esiste un unfolding di tipo fisiologico, perché anche fisiologicamente si possono creare delle situazioni che
portano all’unfolding delle proteine, ma esistono anche delle tecniche sperimentali, che sono state utilizzate
per interpretare la stabilità di una proteina e poterla così confrontare con la stabilità di un’altra proteina. Ad
esempio, oggi molte proteine sono create per via ricombinante, inserite, in seguito a purificazione, in un
organismo completamente diverso da quello che normalmente le esprime (insulina). Quando si ha la
proteina nativa e la proteina ricombinante la prima cosa che bisogna fare è assicurarsi che queste
proteine abbiano una stabilità e una struttura tridimensionale confrontabile.
Queste strutture della proteina possono essere indagate per determinare la loro stabilità utilizzando vari tipi
di approcci. Il processo che viene ad essere seguito all’equilibrio è chiamato denaturazione. Non vengono
compromessi i legami peptidici, ma solo i legami non covalenti, relativi alla struttura terziaria. La struttura
primaria non viene modificata. I seguenti modi di denaturazione non intaccano i legami peptidici:

• Variazioni di pH sono molto importanti perché il pH dell’ambiente nella quale la proteina è immersa
incide sullo stato di ionizzazione delle catene laterali dei residui amminoacidici che, appunto,
possono essere ionizzati (es. GLU, ASP, LYS, ARG, HIS). Ecco perché le variazioni di pH, potendo
incidere sullo stato di ionizzazione, possono intervenire anche nella rottura di legami ionici o ponti
salini e la proteina perde la sua corretta configurazione. Anche nel caso degli enzimi, il pH di una
reazione enzimatica è importantissimo, perché alla base di tutto vi è la struttura terziaria di una
proteina, ovvero l’enzima in questo caso. Se questo non si trova nelle condizioni ideali di pH
perderà la sua struttura terziaria e di conseguenza la sua funzione.

• Sostanze chimiche riducenti che, talvolta, sono utilizzate per rompere i ponti disolfuro. Per
denaturare completamente una proteina bisogna rompere almeno un tipo di legame covante. Una di
queste particolari sostanze è il β-mercaptoetanolo che rompe i ponti disolfuro e li riconverte nei
residui di cisteina, con il gruppo -SH tiolico libero.

• Temperatura ha un effetto altamente denaturante per le proteine. Le nostre proteine tollerano un


certo margine sulla T, ma devono essere altamente stabili e funzionali alla nostra temperatura
fisiologica. Quando invece si denatura una proteina in vitro, si può applicare una variazione di
temperatura, sia nel senso dell’incremento della T, sia nel senso del decremento. Questo perché la
temperatura aumenta/rallenta i moti di agitazione termica molecolare e rompe le deboli interazioni
su cui si basa la struttura terziaria della proteina.

• Denaturanti chimici come urea e cloruro di guanidinio. Sono due molecole che si somigliano tra
loro e hanno la presenza di atomi molto elettronegativi e H che formano ponti a H. Quindi la
capacità denaturante, ad esempio dell’urea, è dovuta al fatto che riesca ad interagire, anche se in
modo transiente, con la proteina formando legami deboli, destabilizzandola. Queste sostanze si
chiamano caotropici (generano disordine), in opposizione ai cosmotropi (generano ordine), perché
vanno a sostituirsi alle molecole d’acqua e riescono a creare legami a H con i residui amminoacidici
che compongono la proteina. Quest’ultima, perde i contatti sia interni sia esterni con l’acqua, proprio
perché privilegia l’interazione con l’urea o il cloruro di guanidinio e gradualmente la struttura si
svolge.

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ESPERIMENTO DI ANFINSEN
Premio Nobel per la chimica nel 1972 per il suo lavoro sulla Ribonucleasi bovina, a riguardo della
connessione tra sequenza amminoacidica e conformazione biologicamente attiva.
Ai tempi, non si conosceva la struttura della proteina, bensì si sapeva solo che essa aveva 8 residui di
cisteina che presumibilmente formavano 4 ponti disolfuro, i quali stabilizzavano la struttura terziaria della
proteina conferendole la sua capacità ribonucleasica.
Anfinsen vuole capire perché e come le proteine si ripiegano. Egli prova quindi a denaturare la proteina
utilizzando il β-mercaptoetanolo che riduce i ponti disolfuro rigenerando le cisteine; mentre, il β-
mercaptoetanolo compie la reazione opposta: si ossida e forma un ponte disolfuro tra due β-
mercaptoetanolo.
Con l’urea, invece, distrugge le interazioni non covalenti che stabilizzano la struttura secondaria e terziaria,
eliminando le forze di Van der Waals responsabili della coesione delle singole parti della proteina.
Alla fine, le concentrazioni sono: 8 M di urea e β-mercaptoetanolo. Esse consentono di ottenere la
struttura completamente randomica. I ponti disolfuro sono rotti, le cisteine sono tutte ridotte e manca
completamente la struttura. Anfinsen non può vedere la struttura, dunque utilizza dell’RNA e nota che la
ribonucleasi non lo frammenta, quindi deduce che essa abbia perso la sua funzione e di conseguenza
anche la sua struttura.
Allora inizia a rimuovere gli elementi che aveva aggiunto, urea e β-mercaptoetanolo, attraverso la
dialisi. Mette la soluzione che contiene urea e β-mercaptoetanolo in un tubo soggetto a dialisi, ovvero
immerso in una soluzione uguale a quella in cui c’è la ribonucleasi, ma senza urea e senza β-
mercaptoetanolo. A causa del gradiente di concentrazione urea e β-mercaptoetanolo escono dal tubo
che contiene la proteina, che perciò dovrebbe tornare alle condizioni native.
In più la espone all’ossigeno perché si devono riformare i ponti disolfuro, ossidandoli di nuovo e
ovviamente a pH nativo. La proteina si ristruttura completamente; la proteina attiva è attiva al 100% e
fisicamente indistinguibile dalla sua forma nativa iniziale. Evidentemente, siccome ha recuperato tutta
la sua attività, è auspicabile che abbia riassunto anche la sua conformazione nativa.
La probabilità di riformare quattro punti disolfuro, quindi di unire otto cisteine facendo 4 match corretti è
veramente bassissima (< 1%). Quindi evidentemente in questa RNAsi che deve rifoldarsi i punti non si
formano in modo casuale, perché se così fosse solamente circa l’1% della proteina sarebbe cataliticamente
attiva, cioè degraderebbe l’RNA.
Invece Anfinsen trova che il recupero di attività è di 100%, vuole dire che non c’è stato un recupero casuale
della struttura.
Il lavoro di Anfinsen dimostra che le proteine si ripiegano spontaneamente in condizioni
fisiologiche e dunque la struttura primaria è in grado di dettare le condizioni chimiche e strutturali
per guidare il folding verso lo stato nativo. Quindi la sequenza specifica assolutamente la struttura
e da questa dipende la funzione della proteina.

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Selezione cumulativa, Modelli di folding

Successivamente, sempre Anfinsen, ha fatto un esperimento simile: ha realizzato la ri-ossidazione dei


punti disolfuro ma ancora in presenza di urea, cioè ha trovato il modo di neutralizzare l’effetto del beta-
mercaptoetanolo ma ha lasciato l’agente denaturante.
Facendo così, il recupero della funzione ovviamente è marginale. Finché lascio l’agente denaturante, i
punti disolfuro non riescono a recuperare i quattro match corretti → in urea, la formazione dei punti
disolfuro è impossibile e la struttura veniva scrambled (completamente sconvolta).
Se invece a questa struttura, a cui ha tolto il beta-mercaptoetanolo e ha lasciato l’urea, aggiunge delle
tracce di beta-mercaptoetanolo e toglie l’urea, ecco che la struttura inizia a ritornare alla conformazione
nativa. Il processo è guidato da un calo di energia libera e tutte le strutture scrambled tendono a ricomporsi
in una struttura nativa, e si realizza il match corretto di tutti i 4 punti S-S, e si arriva alla struttura che ha il
minimo di energia libera (la struttura termodinamicamente favorita).

Come conclusioni, Anfinsen afferma che:

• Si è ricostituita la struttura terziaria nativa


• I gruppi –SH delle coppie di CYS (cisteine ridotte) dei ponti corretti si sono trovati uno vicino all’altro
prima della loro ri-ossidazione, perché togliendo urea la struttura inizia a formarsi (mentre io inizio il
folding tridimensionale, quindi assemblo le corrette alfa-eliche o foglietti beta o quelle che sono, io
porto le cisteine in prossimità le une delle altre ed è questo che mi consente di creare i match
corretti) a seguito di un corretto processo di refolding
• Per le proteine piccole questo è anche vero, e il ripiegamento avviene spontaneamente, si arriva la
struttura nativa quindi la più stabile. In realtà però, per proteine di maggiori dimensioni non è così
banale. Trovare una struttura che fa la cosiddetta propria reversione completa da stato unfolded a
stato folded è piuttosto difficile, sia in natura sia in vitro (soprattutto).
• I residui idrofobici, in particolare, cercano di segregarsi all’interno della proteina per evitare
l’ambiente acquoso. E quindi favoriscono con l’effetto idrofobico il formarsi di un abbozzo della
struttura della proteina che porterà le cisteine vicine e alla loro ri-ossidazione.

Dogma di Anfinsen: “In condizioni fisiologiche, le proteine possono ripiegarsi spontaneamente nella
loro conformazione nativa che corrisponde ad un unico minimo di energia libera, stabile e
cineticamente accessibile. Ciò implica che la struttura primaria di una proteina, costituita da una
specifica sequenza di amminoacidi, determina univocamente la sua struttura tridimensionale”.
Quindi la primaria decide la terziaria, e la terziaria è responsabile della funzione proteica.

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Tuttavia:

• Non tutte le proteine possono riacquisire spontaneamente la loro struttura nativa, possono generare
aggregati, formando delle sostanze che possono avere citotossicità per i tessuti.
• All’interno della cellula il processo di folding è coadiuvato da chaperones molecolari in primo luogo,
che favoriscono l’instaurarsi d’interazioni native le quali sono responsabili della tridimensionalità
della proteina.
• Altre proteine raggiungono la loro struttura funzionale solo a seguito del legame con specifici
partner proteici. Altre, per raggiungere il folding nativo, hanno bisogno di modifiche post-traduzionali
(anche questo fa parte del folding, come aggiunta di un fosfato, acetilazione, … perché incide sul
raggiungimento del folding della proteina).

PARADOSSO DI LEVINTHAL

Anfinsen capì che la struttura primaria è sufficiente per costruire la terziaria.


Levinthal invece dice “ma come raggiungo il folding nativo? Come si fa?”. Si rende conto che siccome
qualunque polipeptide, qualunque catena amminoacidica, ha molti gradi di libertà, tutto questo porterebbe
a un numero astronomico di conformazioni possibili.
L’esplorazione casuale di tutti queste n possibili conformazionali non è una ipotesi accettabile in termini
temporali:

• Per ogni residuo amminoacidico avrò 2 angoli Φ e Ψ (2 gradi di libertà sui quali posso girare). Se
una proteina ha n residui, avremo 2n angoli di torsione → numero notevole.
• Se per ogni angolo di torsione ci fossero 3 possibili conformazioni (già un’ipotesi riduttiva), avremo
32n → circa 10n conformazioni possibili per la proteina.
• Se la proteina ha 100 residui, potremo ipotizzare 10100 conformazioni possibili. Come fa la proteina
a discriminare tra queste 10100 conformazioni possibili? Un dato temporale è questo: una proteina
può esplorare e raggiungere una conformazione ogni 10 -13 secondi (molto piccolo, mi da una idea di
come si riorienti il singolo legame).
• Il tempo per esplorarle tutte e trovare la giusta diventa 10n x 10-13 sec, che diventa 1087 secondi per
catena di 100 residui, quindi impossibile → le proteine non si ripiegano saggiando casualmente
tutte le possibili conformazioni che mi consentono una determinata catena polipeptidica.

Evidentemente le proteine devono trovare la loro conformazione nativa in tempi dell’ordine del secondo se
non del millisecondo. Quindi deve esistere un preciso percorso di ripiegamento che la proteina deve
trovare da sola. Quindi no al caso, sì al fatto che la proteina trovi gli elementi di strutturazione secondaria e
terziaria che caratterizzano la sua terziaria.
L’evoluzione è anche questo: le proteine hanno cercato vie di ripiegamento efficienti per raggiungere le loro
conformazioni native e funzionali in tempi brevi.
“Le proteine si sono evolute in modo da possedere vie di ripiegamento efficienti per raggiungere
conformazioni native stabili.” Di più devono fare questo processo in modo irreversibile. Nel momento in cui
formano una struttura terziaria non la perdi.

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Di fatto, molte proteine si ripiegano nella loro conformazione nativa in pochi secondi, dunque deve esistere
un percorso di ripiegamento, non una scelta casuale.
Durante l’avvolgimento, la stabilità della struttura aumenta e l’energia libera diminuisce rendendo il
processo irreversibile.

IL FOLDING È COOPERATIVO

Il folding ha anche un’altra importante caratteristica, che ci aiuta a distruggere l’ipotesi di Anfinsen: il folding
è cooperativo. Questo concetto di cooperatività è importante: vuole dire che nel tutto c’è una parte che
collabora con un’altra, aiutando un’altra parte e così via… Questo crea una sorte di “percorso facilitato”.
Quando le proteine sono messe a contatto con un agente denaturante, i grafici che si ottengono sono fatti
così: c’è una percentuale di proteina unfoldata espressa in funzione della concentrazione di un
denaturante. Per lo più, si individuano generalmente due stadi: uno (A) con lo 0% di proteina unfoldata e il
secondo (B) con il 100% di proteina unfoldata.
C’è una zona ripida, tra questi due stadi (C), che è la zona di transizione. Quindi in molti casi si passa da
tutto ok a tutto male (proteina foldata → completamente unfoldata). Si dice che è un processo del tipo
“tutto o niente”: se una regione della proteina è destabilizzata termodinamicamente, le interazioni con il
resto della proteina sono compromesse (se destabilizzo un punto della struttura, è facile che a cascata
andrò a destabilizzare altre porzioni della struttura).

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Tuttavia, dovremo pensare che la proteina esiste in stato foldato o in stato unfoldato, e il punto di mezzo
della transizione, quella che corrisponde al 50% di proteina distrutta dovrebbe corrispondere ad una
situazione di questo tipo: ho lo stesso numero di molecole foldate e lo stesso numero di molecole
randomiche/unfoldate. Questa approssimazione non ci sta al livello molecolare. Le proteine non sono degli
interruttori che si spostano da on a off. Si deve necessariamente ipotizzare l’esistenza di intermedi che
saranno ovviamente instabili con gradi di instabilità diversi (si formano e puoi si distruggono).

Oggi lo studio di questi intermedi è molto importante nel settore di ricerca perché ci aiuta a capire come le
strutture vengono stabilizzate in maniera nativa e quali sono i punti particolarmente critici per il folding e in
secondo luogo ma sempre valido per la funzione di ogni proteina.

Si deve ipotizzare l’esistenza di intermedi che saranno instabili a diversi stadi, tra stati foldato e unfoldato.
Ci aiuta a capire come le strutture vengono stabilizzate ed i momenti critici.

SELEZIONE CUMULATIVA

Ipotesi fatta da uno studioso che aveva affermato: vediamo che valore ha questa selezione cumulativa,
cioè parte da una frase di Shakespeare dell’Amleto e dice quanti click casuali sui tasti di una tastiera devo
fare per scrivere una frase non solo di senso compiuto, ma che siano anche delle parole di Shakespeare?

Ovviamente è un numero impossibile anche in questo caso. Ma questo numero così immenso si riduce se
conserviamo le battiture che sono corrette. Se io inizio a salvare di tentativo in tentativo le lettere che ho
indovinato, questo numero si riduce. Ho una vera e propria selezione cumulativa. Nel campo delle proteine,
per analogia, se queste che stanno eseguendo il loro ripiegamento riuscissero a conservare quello
che di giusto c’è nelle strutture intermedie, allora capiremo come possono raggiungere il folding
nativo corretto in una tempistica molto rapida, dell’ordine del secondo.
Quindi le proteine nella loro via di ripiegamento e di folding possono conservare le cose giuste che
riescono a fare da sole (per esempio i match giusti dei punti dei ponti disolfuro, per formare le alfa eliche,
per formare pezzetti di strutture beta, ecc…). L’essenza del folding è proprio questa: consiste nella
tendenza a conservare gli intermedi parzialmente strutturati che non sono la forma finale corretta, ma che
aiutano e generano quella struttura gerarchica che faciliterà un’altra struttura, che sarà ancora meglio di
quella prima, fino ad arrivare a quella finale.

Ovviamente la finale deve avere il minimo dell’energia libera, e non è facile. Il ΔG FOLDING tra stato
disordinato e foldato può essere approssimato a circa -10 kcal/mol.
Per 100 residui diventa 0,1 kcal/mol. È più basso rispetto all’energia termica che avremo a temperatura
ambiente. Per questo bisogna trovare il punto minimo di questa energia libera pur sapendo che non si
assiste ad un grande cambiamento tra lo stato unfoldato e lo stato foldato.

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Lezione n°05 del 20.04.2018
Sbobinatore: Ana Popusoi, Mathilde Coupin
Controllore: Matteo Inghilterra
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

Questo minimo grado di stabilizzazione suggerisce che gli intermedi corretti devono essere
gradualmente persi per dare spazio ad altri che sono più corretti. Le interazioni corrette del folding possono
stabilizzare gli intermedi che via via si formano nel ripiegamento delle proteine. Le regioni che hanno una
preferenza strutturale per esempio per un’alfa-elica le adotteranno gradualmente, riusciranno a formarle,
interagiranno tra di loro e determineranno dei particolari intermedi di folding, secondo il modello di
nucleazione/condensazione che andiamo a vedere.

MODELLI DI FOLDING

Esistono pathways preferiti, ma ad ognuno degli intermedi corrisponde un insieme di strutture simili –
generando un pathway generale e non specifico.

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Lezione n°05 del 20.04.2018
Sbobinatore: Ana Popusoi, Mathilde Coupin
Controllore: Matteo Inghilterra
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

Ci sono 3 teorie:

• Framework, che parte dalla formazione di elementi di struttura secondaria. Secondo questo
modello, negli stadi iniziali del folding si formano i primi elementi di struttura secondaria stabili che
poi si “impacchettano” in uno stadio più lento generando la struttura terziaria. Questo è un modello
però non maggiormente accreditato.
• Collasso idrofobico, che porta alla formazione di molten globule (globulo fuso) a causa di un
collasso della struttura su sè stessa, guidato dall’effetto idrofobico, quindi dalle interazioni
idrofobiche che attirano i residui idrofobici verso il core interno della proteina. Ci sono gli abbozzi
della struttura secondaria ma non è ancora la struttura secondaria definitiva. Questo molten globule
è soggetto a dei rapidi cambiamenti conformazionali, ma presenta ancora una conformazione
estremamente fluttuante. Non ha una conformazione 3D compatta e definitiva, ma è comunque una
struttura dalla quale alla fine emergerà la struttura terziaria finale. Nel caso delle grandi proteine
possono esistere dei sotto-domini, ovvero delle porzioni più piccole in vie di ripiegamento e
dall’unione di queste nasce la struttura terziaria finale. Sono, comunque, dei tempi dell’ordine del
millisecondo/secondo.
• Condensazione/nucleazione, basato su “unità ripieganti autonome” o nuclei di folding (unità che si
ripiegano autonomamente) che possono formarsi a prescindere dal collasso idrofobico (che
giustifica di più il molten globule) e portare alla formazione della struttura finale stabile. Il folding
presenta un’ iniziale fase lenta di nucleazione (formazione dei nuclei di folding) che indirizzerà la
proteina verso degli intermedi gerarchici di folding in numero limitato (uno indurrà l’evoluzione del
folding verso un altro intermedio di struttura e via di seguito fino a raggiungere il folding nativo
finale). È il meccanismo più frequente.

MODELLO ENERGY LANDSCAPE

Questo modello tiene in considerazione


tutti i tre modelli considerati. Studi teorici hanno
“creato, indentificato, ipotizzato” l’esistenza di
superfici di energia potenziale che devono
avere un punto minimo di energia (andare a
convergere, chiudersi in un punto di minima
energia) il quale descriva, appunto, il processo
di raggiungimento del folding nativo. Le strutture
che si compattano (nucleano) iniziano piano
piano a ripiegarsi e danno origine alla struttura
definitiva della proteina.

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Controllore: Matteo Inghilterra
Materia: Biochimica
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Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

Una proteina la immaginiamo come un’entità che si trova ad avere un’elevatissima energia ma che deve
scendere a un minimo di energia libera. Come sceglie il suo cammino fino a raggiungere l’energia libera più
bassa? Utilizza un possibile percorso cinetico di ripiegamento, ovvero usa vari intermedi di struttura fino a
raggiungere la struttura che è termodinamicamente la più stabile. Quindi aumenta in questo processo
di generazione di intermedi di struttura la possibilità di formare interazioni native tra i residui fino a che non
si arriva allo stato foldato, al minimo di energia libera, e il massimo delle interazioni native consentite tra i
residui che danno origine alla struttura della proteina.

Dal punto di vista termodinamico il percorso di folding è visualizzabile con un grafico di energia libera a
imbuto/superfice di energia potenziale.
Questo modello (primo grafico) descrive una superficie di energia. In questa superficie, all’imboccatura del
punto più alto di questa superficie di energia corrispondono le strutture completamente randomiche le quali
sono infinite. Inizia, dunque, un percorso spontaneo verso il folding che è facilitato dal raggiungimento di
intermedi strutturali. Si osservano piccoli avvallamenti, in cui si localizza la struttura intermedia, uno degli
stati intermedi di struttura della proteina. Poichè in questo spostamento sono aumentati, procedendo da
destra verso sinistra, i contatti tra gli amminoacidi, sono aumentate le interazioni native da dietro verso
avanti e poi è dimuita l’energia libera, quindi ci spostiamo verso la direzione del folding corretto. Poi,
naturalmente, questo stato intermedio evolverà verso altri stati intermedi in maniera gerarchica spostandosi
e raggiungendo il punto finale che è quello della struttura nativa.

In realtà l’idea dell’Energy Landscape fa più riferimento a una superficie complessa a imbuto. Il processo
termodinamico del folding è visualizzabile come una superficie a imbuto nella quale il punto alto dell’imbuto
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Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

ha energia massima (energia libera come entropia massima) e il più basso quello con energia libera
minima è quello del fold nativo.
Procedendo negli spostamenti sulla superficie, da sinistra verso il centro o da destra verso il centro,
diminuisce la libertà conformazionale. Quindi iniziano a formarsi le interazioni native che si bloccano in
alcuni punti. Il fatto che ci sia un’imboccatura molto grande a 360° dell’imbuto sta a indicare che c’è un
numero infinito di strutture randomiche che possono avere accesso alla possibilità del folding.
Alcuni intermedi, però, si formano e i punti in cui questi si generano sono le vere e proprie depressioni, le
tasche di questo imbuto di energia. Ad ognuna di queste depressioni di punti di minimi relativi di questa
superficie corrisponde un intermedio strutturale che ha un grado di struttura che non è ancora quello
corretto ma che può guidare la struttura stessa ad assumere un altro più vicino allo stato nativo finale.
Quando una proteina assume una di queste strutture intermedie, per poter procedere verso il mimino
dell’energia libera, è necessario destrutturare l’intermedio. Per farlo bisogna vincere una piccola
barriera energetica, e quindi il sistema deve poter acquisire un minimo di energia.
Questa energia è normalmente acquisita in termini di calore, variazioni normali della temperatura del
sistema danno la possibilità a questi intermedi di fare un piccolo salto di energia per potere riprecipitare
verso il fondo, verso un intermedio differente, ma più vicino al minimo di questo imbuto di energia. Quindi la
proteina dallo stato destrutturato procede in queste tasche che riducono a un numero limitato i possibili
intermedi di struttura. Non è che questi intermedi di struttura si formano in maniera assolutamente casuale,
è la struttura stessa, la sequenza stessa della proteina che è detta la probabilità di ricadere in uno di questi
intermedi strutturali.
Solamente sul fondo al minimo dell’energia libera la proteina raggiungerà il suo stato finale foldato.

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Sbobinatore: Ana Popusoi, Mathilde Coupin
Controllore: Matteo Inghilterra
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

Il modello evidenzia l’eterogeneità del panorama energetico e spiega come sia possibile il folding da un
punto di vista termodinamico e cinetico. Le fenditure e le gole rappresentano conformazioni acquisite
temporaneamente. La struttura nativa è quella termodinamicamente più stabile tra quelle cineticamente
accessibili.

Questo grafico è un’altra visione dello stesso principio: imbuto tagliato in mezzo per vedere la complessità,
l’eterogeneità di questo panorama energetico e ci fa vedere come quante siano le vie possibili per
raggiungere il punto di minima energia libera. Ci sono dei punti che sono accessibili da varie vie. Vari sono
gli intermedi strutturali che conducono a un intermedio particolarmente stabile, dove il passo successivo è
quello che mi porta a un folding definitivo.

A destra c’è ancora un’altra versione classica che si trova sui libri.
Anche qui le molecole a più alta entropia e più alta energia libera
affondano nelle tasche e, in genere, la metà rappresenta il punto
medio di questo processo di folding, e coincide con la formazione
del molten globule. Procedendo verso il centro e il minimo
dell’imbuto, aumenta la percentuale di struttura finale della
proteina. Intermedi escono da queste tasche sfruttando quel
minimo di energia termica (oppure con l’aiuto di altre
proteine) che offre alla proteina la possibilità di superare
quel buco di energia nel quale si trova. La proteina viene
lievemente energizzata, destruttura quel punto minimo di energia
che aveva e acquista l’energia sufficiente per scendere in un
minimo relativo più basso. Seguono le fasi finali della transizione,
quando si procede verso il basso, le possibilità sono poche e alla
fine una è l’opzione con l’energia libera minore.

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Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

MECCANISMO DI FOLDING

Le proteine si sono evolute in modo da possedere vie di ripiegamento efficienti per raggiungere
conformazioni native stabili.
Molte proteine, in assenza di aiuto da parte di altre proteine, potrebbero entrare in altri tipi di minimi.
Esistono dei minimi ancora più bassi di questo. Sono delle situazioni particolari in cui le proteine sono
assolutamente non native: “mis-folded proteins”, spesse volte sono aggregate e rappresentano per noi un
elemento di proteotossicità. Lo stato nativo può non essere la forma più stabile. Certe forme aggregate
tossiche di proteina hanno un valore di energia libera ancora inferiore. In altri casi la stabilizzazione
dipende anche dalla formazione dalla struttura quaternaria o dalla formazione di fibre (nel collageno o nella
cheratina per esempio).

Fasi del processo di “folding gerarchico” (singolo dominio) :

1. Millisecondi: formazione di segmenti di struttura secondaria, tipici del molten globule. La driving
force che guida il processo di folding è il collasso idrofobico.

2. 5-1000 millisecondi: stabilizzazione della struttura secondaria (finché sono nel molten globule, non
ho la struttura terziaria definitiva), in un tempo successivo inizia la formazione di alcuni elementi di
struttura terziaria nativa.

3. ≤ secondi: stabilizzazione della struttura terziaria finale. Si formano tutte le interazioni, sia nel core
sia fuori e vengono espulse le molecole d’acqua che erano rimaste intrappolate nelle regioni interne
della struttura intermedia della proteina. Nascono tutte le interazioni di tipo covalente e si stabilizza
il fold nativo.

Nel complesso possiamo dire che il tempo varia da proteina a proteina. Ci sono le proteine ultrarapide
sull’ordine di 10-6 secondi, le rapide (10-3 secondi) che sono la maggior parte, con tempi più lunghi (100,5
fino a centinaia di secondi, in casi rari 1000 secondi).
Per ottenere le forme misfoldate che portano alla stabilizzazione di strutture aggregate (oligomeri), ci
vogliono tempi superiori. Ci sono anche le unfolded dinamics: sono i tempi secondo i quali si muove e
fluttua una struttura disordinata.

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Sbobinatore: Ana Popusoi, Mathilde Coupin
Controllore: Matteo Inghilterra
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Folding proteico, Esperimento di Anfinsen,
Paradosso di Levinthal, Meccanismo di folding, Folding cooperativo,
Selezione cumulativa, Modelli di folding

FOLDING E DOMINI

Quando parliamo di proteine che sono caratterizzate da un solo dominio, si dice che c’è un folding
gerarchico. C’è come un sistema che guida.
Se invece sono presenti più domini, allora il folding iniziale del dominio deve essere seguito
dall’associazione dei domini: prima è importante che si foldi il dominio, i domini esporranno i residui poi
responsabili della interazione dei singoli domini. L’associazione tra domini è più rapida.
Se ho più subunità polipeptidiche, invece queste devono prima strutturarsi e esporre i residui utili
all’associazione dunque alla formazione della struttura quaternaria. La conformazione foldata è richiesta
affinché siano esposti i siti di interazione.

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Lezione n°06 del 23.04.2018
Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine

PROTEIN BREATHING
Paragrafo introduttivo:
Protein breathing, controllo di qualità del folding (supporto alla formazione e correzione dei ponti
disolfuro e chaperoni molecolari)

Il termine protein breathing (respirazione delle proteine) sta ad indicare che le strutture non sono
statiche. Il minimo di energia libera per il folding delle proteine fa pensare che esista una sola ed
unica conformazione, in realtà per le proteine nel loro stato nativo e foldato esistono vari microstati
conformazionali, una popolazione di conformeri che a temperatura ambiente hanno l’energia
sufficiente per convertirsi l’uno nell’altro e che consentono la funzione della proteina. Queste
fluttuazioni sono a carico di catene laterali aminoacidiche, di loop (zone che non presentano
elementi di struttura secondaria), di intere subunità e domini proteici. Tutto questo costituisce un
insieme di strutture che rappresenta l’effettiva struttura nativa, quella che abbiamo definito come
caratterizzata dal minimo di energia libera. Queste fluttuazioni saranno diverse nell’interno affollato
di una cellula o in una soluzione in vitro(normalmente molto più diluita). Nonostante ciò, l’entità di
queste fluttuazioni è molto critica per lo svolgimento della funzione della proteina. Si pensi alla
mioglobina: la mioglobina è caratterizzata da un fold molto simile a quello di una catena di
emoglobina, conserva il legame con l’eme ed è quindi in grado di fissare l’ossigeno.
Differentemente dall’emoglobina si trova localizzata nelle cellule muscolari. È proprio grazie a
questi microstati conformazionali e a questi lievi movimenti e fluttuazioni che l’ossigeno riesce ad
entrare in una tasca specifica di mioglobina e a farsi strada approfittando dei tunnel e degli spazi
che si formano mentre la proteina si sposta da un microstato all’altro.

OMEOSTASI DELLE PROTEINE

Il controllo qualità del folding delle proteine è molto importante perché controllarne il folding vuol
dire controllarne la funzione. L’omeostasi delle proteine, e quindi la sua regolazione, si esprime a
diversi livelli:
• sintesi: trascrizione e traduzione;
• regolazione a livello dei processi post-traduzionali: modifiche post-traduzionali e smistamento
delle proteine nei diversi distretti cellulari;
• folding: controllo qualità;
• degradazione: si esprime in funzione della garanzia dell’omeostasi delle proteine.

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Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
CONTROLLO DI QUALITÀ DEL FOLDING:

Le proteine presentano una determinata conformazione nel loro ambiente nativo, risultante da un
insieme di tantissime interazioni di tipo non covalente tra varie porzioni della catena polipeptidica o
fra i residui esterni della proteina globulare e l’ambiente che le circonda costituito da acqua. Nelle
loro condizioni native, in assenza di qualunque tipo di stress, le proteine sono relativamente stabili
ed hanno un ∆G di folding fra i 10 e i -20kcal/mol. Controllare, regolare e gestire questo tipo di
interazioni di tipo non covalente significa fare un supporto e una correzione al folding delle
proteine. Le proteine più piccole, da 50-100residui aminoacidici, nel loro ambiente fisiologico si
foldano in maniera autonoma. Molecole più grandi hanno bisogno invece di un aiuto nel folding.
Riconosciamo due elementi molto importanti:
1)l’enzima disolfuro isomerasi delle proteine: enzima che isomerizza e modifica senza alterare
pesantemente i ponti disolfuro(li corregge e/o sostiene la formazione di nuovi ponti);
2)gli chaperoni molecolari.

Supporto alla formazione e correzione dei ponti disolfuro:


Molto spesso, soprattuto nel caso di proteine costituite da molti aminoacidi, accade che nel
processo di folding le proteine realizzino dei ponti disolfuro diversi da quelli nativi. Nel caso della
ribonucleasi, vista nella precedente lezione, questo non avviene in quanto si tratta di una proteina
piccola dal folding facile che sottrae l’agente riducente e l’agente ossidante e riesce a costituire 4
ponti disolfuro esatti. Nell’ambiente cellulare, all’interno del reticolo endoplasmico, è presente
l’enzima proteina disolfuro isomerasi. Questo enzima ha la capacità di legarsi alle proteine non
ancora completamente foldate e sfrutta le interazioni idrofobiche con particolari residui esposti
sulla superficie delle proteine, aiuta la corretta formazione dei ponti ed è in grado di eliminare quelli
sbagliati sostenendo la formazione dei ponti corretti.

Sono presenti due strategie di intervento:


1. L’enzima PDI catalizza (accelera una reazione specifica senza alterarne le variazioni
energetiche associate) l’interscambio dei ponti disolfuro non nativi per generare i ponti nativi.
La PDI agisce in maniera ridotta in quanto presenta delle cisteine che in formato ridotto sono
dei ponti reattivi nei confronti dei ponti disolfuro errati. Interagisce con un ponte sbagliato e
forma un ponte disolfuro con una delle cisteine. Contemporaneamente il residuo di cisteina
rimasto spaiato, perché precedentemente accoppiato in maniera sbagliata, diventa reattivo e
interagisce con un altro ponte sbagliato, si sostituisce nel match e rimane libero un altro
residuo di cisteina il quale interagisce col ponte formato con la PDI e quindi garantisce la
formazione dei due ponti corretti. L’enzima PDI sfrutta quindi la reattività dei gruppi tiolici
sostituendosi a una cisteina sbagliata. In questa reazione l’enzima PDI interviene in forma
ridotta ed esce sotto forma ridotta.

2. L’enzima PDI catalizza la formazione di ponti nativi ed entra in formato ossidato.I suoi residui
di cisteina reagiscono formando un ponte disolfuro.A questo punto la catena polipeptidica è
ancora meno foldata perché non ha formato ancora ponti disolfuro.Saranno quindi le sue
cisteine ridotte ad interagire con il ponte disolfuro della proteina disolfuro isomerasi.L’enzima
PDI si lega,nasce il ponte disolfuro fra la catena polipetidica e l’enzima e quindi l’altro o gli altri
sh che rappresentano il match corretto intervengono e sono reattivi nei confronti di questo
ponte disolfuro.Garantisce quindi la formazione del ponte disolfuro corretto nella catena
polipeptidica. La PDI entra in formato ossidato ed esce in formato ridotto. L’elemento che le c
Lleconsente di intervenire è il gruppo tiolico reattivo presente nell’enzima o presente nella
proteina non foldata come nel secondo caso.

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Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine

Chaperoni molecolari
Sono elementi che intervengono nella correzione e aiuto al folding. Gli chaperoni molecolari sono
un ampio set di famiglie che assiste il folding e l’unfolding.
- Contribuiscono a mantenere l’omeostasi delle proteine con lo scopo di mantenere un proteoma
completamente bilanciato
- promuovono il folding nelle proteine mentre si stanno traducendo
- promuovono il mantenimento della conformazione nell’ambiente dove la proteina opera
- attuano la prevenzione nei confronti di un problema che contrasta l’omeostasi della
proteine,l’aggregazione.Ci sono particolari proteine che sono definite prone all’aggregazione
perché presentano una notevole tendenza a formare aggregati proteici e che rappresentano in
genere la perdita di funzione se non l’acquisizione di una funzione tossica.

Gli chaperoni possono:


1. Riconoscere una proteina danneggiata che presenta un folding che non le compete, interagire
con essa e portarla ad un folding corretto;
2. Riconoscere una proteina danneggiata con un danno grave(come ad esempio una piccola
aggregazione di proteine non foldate)e aiutare il suo traghettamento verso la degradazione. È
presente un sistema di degradazione articolato e complesso detto sistema ubiquitina-
proteasoma che necessita di un tag affinché la proteina possa essere degradata.

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Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine
Come agiscono gli chaperoni molecolari?
Dal ribosoma viene liberata la proteina che viene tradotta.La proteina tradotta può prendere due
strade:

• Proteina foldata correttamente: generalmente sono proteine piccole, facili da foldare che non
hanno difficoltà a raggiungere quel minimo dell’energia libera che caratterizza la struttura
tridimensionale della proteina
• Stato di misfolding metastabile: rappresenta uno stato critico che fa presto ad evolvere
positivamente o a degenerare. La degenerazione è la potenzialità di aggregare. Può aggregare
in maniera:
1. Amorfa: n molecole misfolded che aggregano tra di loro in maniera assolutamente
aspecifica
2. Oligomerica: aggregazione più ordinata in quanto costituita da poche proteine unfoldate
3. Fibrillare: aggregazione ultra ordinata

La deviazione dal folding nativo è quindi rappresentata dalla evoluzione verso lo stato amorfo,
misfolding, oligomerico e fibrillare. Gli chaperon non solo aiutano la proteina appena tradotta ad
assumere il suo folding finale, ma aiutano anche gli stati metastabili a convertirsi nel folding finale
nativo. Agiscono sugli aggregati oligomerici e amorfi tentando di ricondurli allo stato misfolded ,
disaggregando e spingendo verso la forma foldata.
La forma fibrillare, invece, non può essere convertita nello stato misfolding in quanto una volta che
si sono formati gli aggregati fibrillari non esiste più la possibilità di revertire questo processo. Lo
chaperon, allora, agisce nei confronti degli aggregati fibrillari, oligomerici e amorfi particolarmente
intricati e intrecciati destinandoli alla degradazione. Collabora con i due importanti sistemi di
degradazione proteica cellulare rappresentati dal proteasoma (o UPS) e dall’ autofagia (legata a
dei particolari organuli detti lisosomi).

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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine

Lo chaperon è quindi una proteina che interagisce, stabilizza e guida una proteina, che non si
trova nel suo stato funzionale nativo, ad acquisire la sua conformazione nativa, ma che non
risulterà presente nella struttura funzionale finale della proteina. Questa definizione ricorda molto
la definizione di enzima. In realtà gli chaperon non sono enzimi perché si limitano ad ottimizzare
l’efficienza del folding (spingono quante più molecole possibili ad assumere un folding corretto)
con un contributo che non è di accelerazione del folding. Gli enzimi accelerano le reazioni mentre
gli chaperon non accelerano il meccanismo del folding, ma contrastano e tendono a distruggere le
interazioni non native che hanno portato alla formazione di stati unfolded, metastabili, aggregati
amorfi e oligomerici.
Agiscono sia in condizioni fisiologiche che in condizioni di stress cellulare e si trovano in ogni
compartimento cellulare (citosol, reticolo endoplasmico, matrice mitocondriale). L’esigenza di
contrastare il folding si sente a livello di qualunque distretto.

Gli chaperoni:
• Intervengono nel de novo folding: folding al ribosoma. Mentre la proteina è ancora in traduzione
devono aiutare la proteina a trovare la via giusta in quell’imbuto di energia che la porta al punto
di energia libera minore;
• Dirigono l’assemblaggio dei complessi multienzimatici: molti enzimi e proteine di trasporto o di
legame sono multimerici ed hanno quindi struttura quaternaria. Gli chaperon molecolari
collaborano nell’assemblaggio di complessi multisubunità;
• Collaborano nella traslocazione in comparti cellulari: nello smistamento delle proteine nei vari
distretti è presente il mitocondrio. Per entrare nei trasloconi del mitocondrio, che prendono il
nome di TOM e TIM, le proteine globulari devono essere lievemente destrutturate per renderle
più flessibili e adattabili al riconoscimento e al passaggio attraverso TOM e TIM. Sono proprio
gli chaperoni hsp70 i responsabili del mantenimento di questa struttura lassa. Le proteine
destrutturate entrano quindi nella matrice mitocondriale dove l’hsp70 citosolico è sostituto
dall’hsp70 mitocondriale. Ogni comparto ha quindi i suoi chaperon molecolari;
• Aiutano nel refolding di proteine misfolded;
• Danno assistenza al proteasoma e all’autofagia.
Le proteine iniziano il loro folding già a livello di ribosoma in un ambiente dove c’è un forte
affollamento molecolare (detto crowding molecolare) dato da molte altre proteine. L’ambiente
citosolico è molto concentrato per cui raggiungere il folding specifico e funzionale, mentre altre
proteine generano urti o possibili interazioni non corrette, è di estrema difficoltà.
Gli chaperon si legano ai polipeptidi destrutturati o in via di strutturazione per prevenire
l’associazione di regioni idrofobiche che sono esposte in modo sbagliato e potrebbero generare
aggregazioni. Le regioni idrofobiche sono come dei patch adesivi che cercano delle altre regioni
idrofobiche per creare degli aggregati di tipo aspecifico con proteine simili a se stesse o con
proteine differenti. Sono fondamentali se la proteina è lunga e complessa, ovvero se si tratta di
una proteina multidominio o se presenta più subunità. I domini prima si foldano, poi si associano e
successivamente interagiscono fra di loro. Hanno un comportamento molto dinamico, sono in uno
stato di rapida fluttuazione
La catena polipeptidica può essere subito catturata da uno chaperon che trova un patch idrofobico
al quale può aderire. In porzioni differenti della catena appena tradotta si attaccano vari chaperon
molecolari. Alla fine la proteina si libera dal ribosoma e viene rilasciata nel suo stato foldato. In
alcuni casi gli chaperon si legano alle regioni unfolded consentendo alle altre di trovare i contatti
giusti della struttura terziaria, in altri casi si legano e stabilizzano le strutture che già sono sulla via
del folding e consentono alle altre di partire da zero nel folding.

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Controllore: Francesca Corghi
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Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine

Hanno un comportamento estremamente dinamico. Queste proteine, infatti, sono in fluttuazione


dinamica continua e cercano le loro “proteine clienti”. Riconoscono le zone idrofobiche non
strutturate, che contrariamente a quanto dovrebbero essere si trovano esposte fuori.
Gli chaperon non hanno specificità verso una proteina, si legano ai patch idrofobici esposti al
solvente (i residui idrofobici non vanno bene esposti al solvente acquoso perché lo immobilizzano
in una rete di clatrato) e li rilasciano.
Hanno una azione ciclica: legano la proteina cliente parzialmente unfoldata aiutandola a trovare il
folding corretto e poi la rilasciano. Spesso il primo contatto non è risolutivo del folding e quindi lo
chaperon fa molti cicli legandosi a ponti diversi, dando ogni volta un aiuto al folding.
Gli chaperoni molecolari sono ATP dipendenti e devono quindi impiegare dell’atp per garantire il
folding. Queste molecole legano l’atp e quando l’atp è legato il legame con la proteina cliente è
debole e viene rilasciato, invece il legame è più stabilizzato quando l’atp è idrolizzato ad ADP e P.
L’ATP regola quindi con la sua idrolisi il ciclo di rilascio e recupero della proteina in via di folding.
Gli chaperon promuovono il folding attraverso una ripartizione cinetica ed è quindi indispensabile
valutare la situazione del folding in termini di cinetica di vari passaggi:

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Lezione n°06 del 23.04.2018
Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine

1. La proteina unfoldata subisce un collasso molto rapido e l’equilibrio è molto spostato verso la
forma parzialmente foldata. Gli stati metastabili sono buoni perché portano al folding, ma
anche rischiosi perché possono portare alla aggregazione.
2. segue una reazione di folding. La Kfold è la costante cinetica della conversione dello stato
metastabile parzialmente foldato in proteina nativa. Il problema è che sia lo stato unfolded (se
presente)che lo stato parzialmente foldato avranno una loro cinetica di formazione degli
aggregati oligomerici o aggregati più grossi e complessi che si oppongono a delle cinetiche
caratterizzate da una costante cinetica Kon (cinetica di una reazione secondo cui lo chaperon
cattura un patch idrofobico della struttura unfoldata o della struttura parzialmente foldata). A
seguito del legame di ATP al complesso chaperon-proteina da foldare, si libera la proteina già
meglio foldata e lo chaperone.

Avremo un folding particolarmente efficiente se:

• Kfold > Kon che regola il legame dello stato unfoldato o parzialmente foldato con lo chaperone.
• Kfold > Kagg(costante della cinetica di aggregazione)

Quando Kon (legame verso lo chaperon)è > di Kfold, lo chaperone tende prevalentemente a
legare la proteina trasferendola ad altri partner detti co-chaperon molecolari oppure portandola alla
degradazione.
In condizioni di stress le costanti cinetiche di aggregazione (Kagg) sono nettamente superiori
rispetto alle costanti cinetiche che garantiscono la interazione con lo chaperon (Kon) .Prevale
quindi l’aggregazione se la cellula non produce una risposta di upregulation. La cellula, infatti, può
fare un upregulation del sistema degli chaperon imponendo al suo nucleo di trascrivere e poi
produrre molti altri chaperon oppure aiutare il folding o la degradazione.

Gli chaperon molecolari si dividono in varie famiglie:


• Oldasi: atp indipendenti, stabilizzano gli stati metastabili delle proteine parzialmente ripiegate e
presentano le proteine clienti alle foldasi;
• Foldasi: atp dipendenti, sono direttamente coinvolte nel folding;
• Disaggregasi: atp dipendenti, disaggreganti, liberano dagli aggregati le proteine misfolded o
parzialmente folded e le trasferiscono alle oldasi e alle foldasi. Sono quindi un pre-trattamento
dell’aggregato prima di arrivare alla foldasi vera e propria.

Alcuni chaperoni sono noti con il termine di proteine da stress: HSP.


Le proteine da stress sono proteine storiche che sono state indagate fra gli anni ’60 e gli anni ’70. I
primi studi sono stati eseguiti sulle ghiandole salivari dei moscerini Drosophila. I moscerini sono
stati tenuti ad una temperatura più alta del solito e si è potuto così notare che a livello dei
cromosomi erano presenti del rigonfiamenti indice dell’intensificazione dell’espressione dei geni a
seguito di uno shock termico. Il calore rappresenta definitivamente uno shock per le proteine.
Possono però esistere altre fonti di stress per la proteina come la presenza di una tossina oppure
la presenza di radicali liberi dell’ossigeno (ROS, anione superossido) .I radicali liberi
rappresentano uno stress per la cellula perché queste specie hanno almeno un elettrone spaiato
nel loro orbitale più esterno e quindi sono ossidanti ed estremamente reattivi. Nello strappare
elettroni ad un altro soggetto generano un altro radicale e questo effetto negativo si ripercuote su
proteine, enzimi, dna, lipidi di membrana...

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I compartimenti cellulari come nucleo, citosol, reticolo endoplasmico, ecc. hanno il proprio set di
chaperones molecolari.

Hsp70

E’ la famiglia più importante, presenta un altissimo grado di conservazione, esiste omologia tra
specie diverse, si può parlare quindi di batteri come di cellule eucariotiche, esiste in fondamentali
forme paraloghe nei vari compartimenti cellulari della stessa specie. Esistono delle forme
costitutivamente espresse, ossia sempre espresse poiché ho sempre bisogno di aiuto per il
folding, oppure esistono quelle stress indotte, ad esempio indotte da uno stress di calore, da
radicali dell’ossigeno, ecc,.
Cosa fa?
• Trattiene la catena appena tradotta in uno stato competente per il folding, inoltre consente
anche il recupero del fold delle proteine che sono parzialmente o completamente unfoldate;
• Favorisce l’assemblaggio dei complessi multimerici, quindi delle proteine composte da più
subunità;
• Assiste la traslocazione attraverso le membrane;
• Ha un dominio ATPasico, oltre ad un dominio per il legame con una sua proteina cliente;
• Collabora con co-chaperones (Hsp40 e NEFs nucleotide exchange factors, che sono dei
fattori che partecipano all’attività di Hsp70 facilitando questo scambio di nucleotidi, ATP,
ADP: è infatti a seguito di questo scambio ATP-ADP che si ha l’attacco e il rilascio ciclico
delle proteine in via di folding).
Il dominio ATPasico è fondamentale perché ci sono delle Hsp come la Hsp70 che sono delle
ATPasi, cioè idrolizzano ATP mentre realizzano questo aiuto al folding.

Hsp40

• Sovra-espressa in condizioni di stress;


• Recluta i substrati per Hsp70 e aiuta Hsp70 nello svolgimento della sua funzione ATPasica.

Hsp90

• Interviene un po’ dopo rispetto a Hsp70 e Hsp40;


• ATP dipendente, quindi avrà siti di binding di ATP che poi verrà idrolizzato;
• Facilita le fasi tardive del ripiegamento delle proteine;
• Previene l’aggregazione ed è sovra-espressa in condizioni di stress;
• E’ un centro di segnalazione perché ha molti elementi interagenti (signalinghub),interagisce
con tanti elementi, con tanti co-chaperones;
• Le sue proteine clienti sono molto importanti perché sono in genere coinvolte nella
trasduzione del segnale e nella trascrizione: sono le Kinasi e i fattori di trascrizione.

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CHAPERONINE

Sono da considerare insieme agli chaperones molecolari, però sono una cosa diversa, ma anche
loro aiutano il folding delle proteine. Sono dei grandi complessi a forma di gabbia, molto più grande
di uno chaperon molecolare di 70 kilodalton come massa. Hanno la caratteristica di inglobare
proteine che hanno assunto un folding sbagliato e indurle a ripetere il folding all’interno della
propria cavità: hanno infatti una cavità che facilita il refold della proteina, che è stata foldata in
maniera non corretta. Come gli chaperones molecolari, funzionano a cicli: la proteina meglio
rifoldata che esce da una chaperonina viene di nuovo catturata dalla chaperonina per ripetere un
altro ciclo di folding, fino a che non si arriva al folding corretto della proteina.
Sono due complessi abbastanza simili in procarioti ed eucarioti; è molto studiato quello dei
procarioti, GroEL- GroES e TRIC negli eucarioti.

Cosa fa?
Opera un isolamento della catena in via di folding da tutto il resto dell’ambiente cellulare, contrasta
tutto quell’affollamento molecolare che può disturbare e creare delle interazioni sbagliate in una
catena in via di folding.
Hsp70 si attacca subito alla catena polipeptidica nascente (in realtà se ne attaccano diversi), ma
non basta per ottenere il folding della proteina: mediante idrolisi di ATP, quindi altri costi energetici,
Hsp70 la trasferisce nel blocco interno della chaperonina e di nuovo con consumo energetico, con
cicli di legame e rilascio, viene consentito alla proteina di foldare in maniera nativa.
Ci si aspetta una sequenza di interazioni di questo tipo: ribosomi agganciati a un messaggero che
lo stanno traducendo; la catena polipeptidica nascente (quando è ancora attaccata al ribosoma) è
subito attaccata da Hsp70 e dal suo co-chaperones Hsp40. Talvolta interviene anche un altro
membro che si chiama prefoldina: anch’essa interviene nel facilitare il folding o nel trasferimento
della catena che si è liberata dal ribosoma alla chaperonina TRIC nelle cellule eucariotiche. Sarà
poi la chaperonina che restituirà la proteina completamente foldata.

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In una visione un po’ più complessa si può vedere come tutti questi elementi intervengano nei
batteri e negli eucarioti; i colori uguali nei due tipi di cellula rappresentano lo stesso tipo di
chaperon (perché sono estremamente conservati anche tra specie diverse). A livello del ribosoma
esiste il folding assistito al ribosoma, esiste un Ribosoma Associated Complex (RAC) e NAC,
elementi proteici i quali iniziano a legare le estese regioni idrofobiche mantenendo una struttura
rilassata fino a ché non ci sia sufficiente proteina tradotta per generare un folding nativo.
Per circa il 70% del proteoma questo basta: queste attività presenti a livello ribosomiale sono
sufficienti per indurre folding in una catena proteica.

Chaperonina eucariotica
Hsp70 interviene insieme a Hsp40 quando ancora la catena polipeptidica è legata al ribosoma, poi
questa unità può staccarsi e con il consumo di energia e i Nucleotide Exchange Factors anche il
20% del proteoma può raggiungere il folding definitivo. L’alternativa, a questo stadio, è il
trasferimento alla Hsp90, un’altra chaperon molecolare ATPasica che consente il raggiungimento
della struttura nativa. Poi la prefoldina insieme a Hsp70 e Hsp40 compiono un trasferimento post-
traduzionale o co-traduzionale eventualmente a TRIC (chaperonina tipica degli eucarioti). Questo
consente a un 10% del proteoma il raggiungimento del folding definitivo.
Notare che c’è molto impiego di ATP, quindi consumo energetico per sostenere il folding delle
proteine e che solamente un 10% del proteoma raggiunge il folding attraverso la chaperonina,
normalmente sono sufficienti gli elementi associati al ribosoma o l’aggiunta di Hsp70, Hsp40 e la
prefoldina.

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Chaperonina batterica
Si immagina come un contenitore con uno spazio interno formato da due blocchi: il blocco
superiore cis, il blocco inferiore trans: i due blocchi corrispondono all’elemento Gro-EL, mentre il
cappuccio si chiama Gro-ES.
Quando la proteina prende rapporti con la subunità di Gro-EL si legano ben 7 molecole di ATP in
una subunità che sta lavorando, si lega il cappuccio di Gro-ES mentre si stacca l’ATP legato
nell’altra metà simmetrica. L’ATP viene idrolizzato, si liberano le molecole di fosfato e i nucleotidi di
ADP e in questa condizione non c’è più l’associazione con il cappuccio Gro-ES e la proteina,
obbligata a svolgere il suo folding dentro l’unità di Gro-EL, viene liberata: magari non sarà nella
conformazione nativa, ma gli si avvicina. Contemporaneamente alla liberazione di ADP dalla
subunità superiore si fissa l’ATP nella subunità inferiore, iniziando un ciclo anche nella sezione
inferiore.

Le sezioni cis e trans di GroEL, quindi quella superiore e quella inferiore, subiscono delle
modifiche conformazionali che aiutano la proteina a raggiungere il suo folding, ma operano in
modo reciproco e gli eventi in una sezione influenzano quelli dell’altra sezione.
Gro-EL è composto da 14 subunità e ciascuna contiene un sito di legame per catene
polipeptidiche ed un sito per l’idrolisi e il legame di ATP. Il sito di legame con la catena
polipeptidica è una superficie idrofobica alla quale le catene ancora non ripiegate e correttamente
collassate possono ancora aderire.
Una catena parzialmente ripiegata quindi entra nell’apertura che si chiama poro di Gro-EL poi su
quel lato si lega il cappuccio, ossia Gro-ES e contemporaneamente 7 molecole di ATP, ognuna
per ogni subunità che forma l’anello di questa struttura contenitiva. Questo comporta una
transizione conformazionale in Gro-EL che fa allargare il poro e questo tipo di espansione
determina la completa destrutturazione della catena polipeptidica che è entrata nella chaperonina.
La catena polipeptidica viene poi rilasciata nella cavità interna ora che è completamente
destrutturata e qui le sarà consentito di ripiegarsi in un ambiente protetto da qualunque altra
molecola proteica e non presente esternamente alla chaperonina.
La transizione conformazionale ha anche l’effetto di innescare l’attività idrolasica, quindi l’idrolisi di
ATP a ADP che poi verrà rilasciato; questo comporta il rilascio del cappuccio, cioè di Gro-ES,
l’apertura del poro e il rilascio della proteina un po’ più foldata a seguito di questo ciclo all’interno
della chaperonina.
Il rilascio da un lato di Gro-EL di una proteina foldata è in rapporto con l’introduzione di un’altra
catena proteica dall’altro lato e il legame di ATP alle sue subunità: quindi il rilascio di una subunità
più foldata è legata all’introduzione di un’altra catena in via di folding nell’altro elemento della
chaperonina.

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UNFOLDED PROTEIN RESPONSE-UPR

Ci saranno dei momenti in cui l’effetto delle proteine unfolded si fa maggiormente sentire. Questa
reazione di allarme viene espressa attraverso dei meccanismi molto conservati dal lievito all’uomo
che sono indotti da stress ambientale e fisiologico.
Quando le proteine misfolded si accumulano e il fenomeno di unfolded si intensifica (per stress
termico, per stress dovuto a radicali dell’ossigeno, ecc.) bisogna ricorrere a delle operazioni
correttive: una di queste consiste nell’aumentare l’espressione degli chaperones molecolari.
Uno di questi pathways di attivazione a seguito di un’eccessiva presenza di unfolded risponde
all’accumulo di proteine unfolded nel citosol (ci sono i ribosomi liberi che sintetizzano le proteine
destinate al citosol e poi convogliate verso il nucleo e verso altri organelli citoplasmatici). Se c’è
troppo accumulo nel citosol di proteine unfolded viene attivato un Heat Shock Factor One: questo
viene attivato con una reazione di fosforilazione, ossia un attacco di gruppo fosfato, entra a livello
nucleare e lega gli Heat Shock Elements che stimolano la trascrizione dei geni che codificano per
le Heat Shock Proteins. Questi geni sono tradotti in proteine delle varie famiglie di HSP e
persisteranno il misfolded oppure condurranno alla degradazione.

STRESS E RETICOLO ENDOPLASMICO

Il problema diventa più articolato a livello del Reticolo Endoplasmico: non ci sono solo i ribosomi
liberi nel citosol, ma ci sono tutti quei ribosomi adesi al RE che lo rendono rugoso e che proiettano
catene polipeptidiche all’interno del RE, tanto che almeno un terzo del proteoma umano è
sintetizzato nel RE, passa attraverso i suoi comparti ed è destinato alla membrana o alla
secrezione mediante esocitosi o al lisosoma (via secretiva).
Il RE partecipa intervenendo nel folding: contiene infatti non solo la proteina disolfuro isomerasi,
ma anche molti chaperones molecolari; le proteine quindi entrano nel RE come polipeptidi nascenti
ad una velocità che dipende ovviamente dalle richieste metaboliche della cellula. Quando il
sistema è in sovraccarico e quindi ci sono molte proteine che richiedono assistenza per il loro
folding, si crea una condizione di stress, con conseguenza di questo accumulo di proteine non
completamente foldate, se non addirittura foldate in maniera sbagliata. Quindi l’effetto primo è
quello di stimolare l’espressione di nuovi chaperones del RE e altri enzimi catalizzatori del folding.
Viene inoltre attivato un altro processo chiamato ERAD cioè Degradazione Associata al Reticolo
Endoplasmico: tutto questo eccesso di proteine misfolded viene restituito al citosol, quindi retro
traslocato al citosol e sottoposto a una importante degradazione che è mediata dal proteasoma.
Il proteasoma è una struttura formata da un tronco contenitivo e due cappucci (come forma può
ricordare la chaperonina ma svolge un compito completamente diverso): non aiuta il processo del
folding, bensì solo la degradazione che viene attuata solo se i suoi substrati, cioè le proteine da
degradare, hanno subito l’attacco e quindi la marcatura di piccole proteine dette ubiquitina; anche
in questo caso c’è la degradazione e la liberazione di piccole proteine.
Quindi in ERAD l’eccesso di proteine misfolded viene retro traslocato verso il citosol e destinato
alla degradazione nel proteasoma.

UPR è in grado di influire sul recupero della omeostasi quindi dell’assistenza al folding regolando
la trascrizione e la traduzione di proteine per ridurre il carico di queste proteine che cercano il loro
folding e incrementando al tempo stesso delle capacità di folding all’interno del reticolo
endoplasmico. Questo si esprime mediante tre importanti sensori del RE:
• PERK ovvero una kinasi del RE;
• IRE1 ovvero enzima richiedente inositolo;
• ATF6 che è un fattore di attivazione di trascrizione.
Con questi tre modulatori si deve entrare nel nucleo per facilitare l’espressione di quei geni che
possono sostenermi nel folding (proprio perché sono in una emergenza di unfolded protein).

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ATF6

Come PERK e IRE1 è una proteina integrale della membrana del RE e contiene un piccolo
dominio che è un fattore di trascrizione (TF= fattore di trascrizione).
A seguito dell’accumulo di proteine unfolded nel RE, ATF6 esce dal RE perché è inglobato nelle
vescicole di Golgi, quando è immerso nelle vescicole del Golgi è attaccato da due proteasi che
rimuovono due porzioni di questa proteina e rimane solamente il frammento che ha esposto verso
il citosol. Poi entra nel nucleo e attiva i geni target, i cui prodotti serviranno per far esprimere più
chaperones molecolari del RE o altri catalizzatori di folding come la proteina disolfuro isomerasi e
proteine legate al processo di ERAD cioè di questa retro traslocazione verso il citosol e
degradazione.

In figura si vede ATF6 che esce dalla membrana del RE, viene inglobato da una vescicola del
Golgi dove subisce l’attacco di due proteasi, una che taglia all’interno della vescicola del Golgi e
una che taglia al confine con la membrana. Viene poi liberato il segmento esposto verso il citosol
che entra a livello nucleare e attiva i geni target, ossia quelli di sostegno per il folding, che aiutano
a intensificare la produzione degli chaperones molecolari e altri catalizzatori di folding o a
condurne di nuovi.

IRE1
E’ una proteina che è una kinasi ma è anche una endoribonucleasi: una kinasi attacca gruppi
fosfato su particolari substrati specifici mentre un’endoribonucleasi taglia RNA
(endo=internamente). Anch’essa è immersa nella membrana del Reticolo Endoplasmico e la
presenza di molte proteine unfolded genera il legame, induce un cambio conformazionale degli
elementi di IRE1, la quale si associa lateralmente anche con le proteine unfoldate: questo fa
convertire la sua funzione da kinasi a endoribonucleasi, quindi diventa endoribonucleasi, media lo
splicing di un messaggero di un fattore specifico che si chiama XB+1, che è un fattore di
trascrizione di geni legati all’espressione di chaperones, catalizzatori di folding e proteine legate al
processo di ERAD.

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IRE1 è immerso nella membrana: il rapporto con il RE e con le proteine unfoldate provoca
l’associazione laterale degli elementi di IRE1, attiva la funzione endoribonucleasica e media lo
splicing di questo messaggero: viene eliminata una regione intronica, si genera il prodotto XB+1
che entrerà nel nucleo e aiuterà l’espressione di quei geni target che codificano per chaperoni o
per proteine appartenenti al sistema ERAD.
IRE1 è fosforilato e quando è attivato media questo splicing, produce XB+1 che entra nel nucleo e
sostiene il folding e altri sistemi di controllo qualità delle proteine.

PERK
E’ immersa nella membrana del RE e oltre a fosforilare se stessa, fosforila un altro elemento,
EIF2𝛼, che è una subunità del complesso di inizio traduzione ubiquitario. Quando lo fosforila,
inattiva il fattore di inizio traduzione, quindi non si inizia la traduzione. L’effetto complessivo è
quindi quello della riduzione della traduzione in senso globale, quindi della sintesi proteica,
andando a diminuire il carico delle proteine potenzialmente unfoldate.
Rimane tuttavia un’espressione possibile: si esprime ATF4, ossia un fattore di trascrizione che
regola l’espressione di un cluster di geni che sono legati non solo al sostegno del folding, ma
anche alle reazioni di autofagia, che è una strategia di eliminazione e di degradazione, apoptosi
(morte cellulare programmata) e alla creazione di un prodotto che frena l’effetto PERK, che andrà
quindi a defosforilare EIF2𝛼 e lo farà a seguito di un prolungato stress del RE, garantendo un
regolazione a feedback.

PERK fosforila se stesso e anche EIF2𝛼: questa subunità fosforilata blocca il fattore di inizio
traduzione, quindi non si può tradurre. Una sola cosa viene tradotta ossia un fattore di
trascrizione ATF4 che entra nel nucleo e induce alla autofagia, all’apoptosi, al sostegno del folding
ed è in grado anche di stimolare la produzione di un fattore, GAP34, che va a inibire l’effetto di
PERK, quindi consentirà la defosforilazione di EIF2𝛼 che tornato non fosforilato risulterà attivo e

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quindi farà ripartire la traduzione in senso globale, producendo un sistema di regolazione a


feedback a retroazione.

Le condizioni di stress attenuano non solo ciò che abbiamo visto, ma anche la traslocazione di
proteine secretorie e di membrana, quindi allo scopo di ridurre il sovraccarico di proteine unfoldate
a livello del RE mediando la loro degradazione a livello traduzionale nel citosol.

Nel complesso UPR induce una risposta positiva, protettiva, adattiva; comporta quindi una up-
regulation nell’espressione degli chaperones molecolari, un’attenuazione della traduzione (vedi
PERK) e una degradazione di proteine misfolded mediante proteasoma, con il processo di
retrotraslocazione nel citosol. Lo stress prolungato però conduce a una inibizione di questa
risposta positiva ed adattiva e porta la cellula ad apoptosi, quindi a una morte cellulare. Quindi si
può resistere fino ad un certo stress di RE, oltre no.
Pensiamo alla degradazione delle proteine difettose e alla loro compartimentalizzazione. Gli
chaperones molecolari e le chaperonine possono agire fino a un certo punto, ma poi bisogna
indirizzare ciò che non si riesce più a rifoldare verso la degradazione o la compartimentalizzazione
(compartimentalizzare= ridurre … completamente isolato e con una posizione ben specifica).

PROTEIN TURNOVER

Si riferisce a un processo di continuo rinnovamento delle proteine: le proteine esistenti e


funzionanti in un qualunque ambiente cellulare sono definite da un bilancio tra la degradazione e la
sintesi. Il turnover avviene continuamente nella cellula e serve per riciclare gli aa e per degradare
le proteine difettose (si dice riciclare perché i prodotti della degradazione proteica non sono CO2 e
acqua, ma sono gli aa, che quindi vengono riconvertiti in altri tipi di prodotti e altre proteine).
Nel complesso consente la regolazione di tante funzioni cellulari perché decido in quale momento
per esempio un enzima sarà presente a una determinata concentrazione oppure più bassa e
conferisce una flessibilità necessaria per rispondere a tutte le richieste della cellula.

Perché degradare poteine?


Per l’effetto del turnover: degrado e ricostruisco le proteine, perché le proteine hanno la possibilità
di essere difettose nel loro folding, o addirittura a livello di sintesi, oppure in altri casi degrado le
proteine per un meccanismo di regolazione temporale del tempo in cui la proteina è funzionante,
nel tempo di vita, di attività di quella proteina per esempio una proteina che è fattore di trascrizione
o un elemento che partecipa alla regolazione del metabolismo.

La tabella riporta il rapporto tra il tempo di emivita di determinate proteine e l’aa posizionato all’N
terminale. E’ stata trovata una relazione tra il tempo di vita e l’aa N-terminale. Si vede che ci sono
degli aa ammino-terminali molto stabilizzanti come la metionina, glicina, serina, alanina, treonina e
valina a cui sono associate dei tempi di emivita maggiori di 20 ore. Altri invece sono fortemente
destabilizzanti e fanno scendere il tempo di emivita da 30 minuti a 2 minuti nel caso di arginina;
quindi un’arginina all’N terminale è predittiva di un tempo di emivita molto limitato.

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Lezione n°06 del 23.04.2018
Sbobinatori: Valeria Smaldore, Anna Canini
Controllore: Francesca Corghi
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: protein breathing, omeostasi delle proteine

In più altri ricercatori hanno fatto un’altra osservazione: esistono le PEST proteins: PEST sono le
sigle degli aa Prolina, Glutammato, Serina e Treonina, quindi le proteine che sono ricche di questi
particolari aa sono degradate più rapidamente di altre proteine attraverso il sistema del
proteasoma.
Quindi l’emivita delle proteine è estremamente soggettiva, dipende dal tipo della proteina e può
variare da minuti a molti giorni. Quindi proteine strutturali ad esempio che entrano nella
composizione della membrana o emoglobina per il trasporto di ossigeno saranno delle proteine
con un tempo di emivita molto lungo, maggiore di 200 ore, si parla di giorni (globulo rosso che
contiene l’emoglobina ha un tempo di vita di 120 giorni, la proteina deve essere funzionante).
Invece enzimi, ormoni e anticorpi sono proteine con tempi di vita mediamente più bassi, sull’ordine
delle 2 ore perché hanno un ruolo regolativo ossia che necessita un’interazione, quindi è logico
che posseggano un tempo di vita più breve.

Dove avviene la degradazione?


La degradazione può avvenire in due ambienti specifici:
nei lisosomi (per azione delle proteasi lisosomali) per le
proteine extracellulari, per le proteine di membrana e le
proteine cellulari che hanno tempo di emivita maggiore;
nel citosol invece la degradazione avverrà per particolari
sistemi di proteasi che sono ATP dipendenti per proteine
cellulari con tempo di emivita breve, per esempio una
proteina degradativa o un fattore di trascrizione, per
proteine regolatorie e per le proteine difettose in termini di
sintesi, di produzione o in termini di folding non corretto.

I due pathways coinvolti nell’omeostasi proteica a livello


della via degradativa sono lisosoma e proteasoma. Il
lisosoma ha le sue proteasi, invece il proteasoma
risponde a un sistema di marcatura basato sulla proteina
ubiquitina (infatti si chiama sistema ubiquitina-
proteasoma, UPS) che consiste nella degradazione selettiva di proteine che sono state marcate
con delle proteine ubiquitina; dopo questa marcatura le proteine sono dirette al proteasoma; anche
questa proteina è una delle più conservate nelle diverse specie.

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Lezione n°07 del 24.04.2018
Sbobinatore: Chiara Elzi, Giulia Carbonini
Controllore: Rachele De Domenico, Mozart Alain
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide

OMEOSTASI DELLE PROTEINE


Paragrafo introduttivo:
Omeostasi delle proteine; processi di degradazione delle proteine (lisosomi-autofagia, sistema
ubiquitina-proteasoma); compartimentalizzazione (JUNQ, IPODS, AGGRESOMA)
Protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato amiloide

PATHWAYS DEGRADATIVI

I principali pathways coinvolti nell’omeostasi proteica/proteostasi sono:


1)proteasoma
2)lisosoma
Entrambe queste vie degradative sono sostenute da enzimi che sono proteasi, ovvero enzimi
idrolitici che tagliano il legame peptidico. Queste proteasi sono presenti nel lisosoma e nel
proteasoma.

1) Il proteasoma è legato a un processo di degradazione che coinvolge anche un’altra proteina


detta ubiquitina (il sistema viene chiamato nell’insieme ups - ubiquitina proteasoma sistem). La
degradazione è infatti consentita solo nei confronti di proteine che sono state marcate con una
coda di poli-ubiquitina. Queste catene di ubiquitina legate alla proteina la indirizzano al
proteasoma e ne inducono la degradazione.

L’ubiquitina è una proteina estremamente conservata.

Il proteasoma è una via degradativa atp-dipendente (non solo gli chaperones per garantire il
folding consumano energia, al pari delle chaperonine, ma anche il sistema ubiquitina-proteasoma
consuma molecole di ATP).

Ups è un sistema citosolico e nucleare, selettivo per proteine che risiedono dentro la cellula come:

-proteine a vita breve con ruolo regolativo (proteine con rapido turnover)

-proteine difettose

-proteine regolatrici vere e proprie

Il proteasoma è una via regolativa particolarmente rilevante nella degradazione di tutte quelle
proteine legate alla regolazione del ciclo cellulare, la trasduzione del segnale, il controllo e la
regolazione della traduzione.

Di cosa si compone il sistema ups? Si compone di molecole di ubiquitina che formano code di
poliubiquitazione sulle proteine da degradare. Quest’operazione è consentita grazie a una catalisi
combinata di tre enzimi (E1, E2, E3). La coda di poliubiquitina viene indirizzata al proteasoma
(struttura che può assomigliare a GroEL, GroES o a tric) in cui ci sono delle proteasi, ossia
elementi catalitici e degradativi. La proteina è degradata in peptidi che, grazie a delle altre proteasi
citosoliche, verranno trasformati in amminoacidi. Questi amminoacidi sono riciclati per costruire
altre proteine o per la produzione di altri composti derivati da amminoacidi. Nel complesso è un
processo evolutivamente conservato. Così come ubiquitina è conservata, tutto il processo della
degradazione mediata da proteasoma è un evento estremamente conservato.

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Lezione n°07 del 24.04.2018
Sbobinatore: Chiara Elzi, Giulia Carbonini
Controllore: Rachele De Domenico, Mozart Alain
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide

Processo di ubiquitazione:

Cosa serve? Proteina ubiquitina e sistema di enzimi E1, E2, E3.

• E1→ enzima che attiva l’ubiquitina catalizzando il legame dell’ubiquitina stessa su di sé→ è
un evento che idrolizza ATP. L’ubiquitina è trasferita a un residuo di cisteina dell’enzima
attivatore dell’ubiquitina. Il legame viene realizzato con il gruppo carbossile, ossia con il
carbonio terminale della glicina terminale dell’ubiquitina.
Riassumendo: il prodotto della reazione consiste nel legame del carbossile dell’ubiquitina
con un residuo di cisteina dell’enzima E1, impiegando energia.
• E2→ enzima coniugante→ catalizza il trasferimento di ubiquitina da E1 a E2. E2 molto
semplicemente sposta su di sé l’ubiquitina. Il prodotto di questa reazione consiste nello
spostamento della coda dell’ubiquitina su una cisteina specifica dell’enzima coniugante.
• E3→ ubiquitina-ligasi→enzima responsabile dell’ubiquitazione di una proteina da
destinare alla degradazione→ tale enzima deve avere una proteina target che subisce la
catalisi di E3. L’effetto catalitico di E3 è quello di spostare l’ubiquitina legata a E2 su una
lisina specifica della proteina target.
Riassumendo sono intervenute il carbossi terminale dell’ubiquitina e i residui di cisteina di E1 e E2,
e alla fine, per legare ubiquitina alla proteina target, una lisina specifica della stessa. Questo
rappresenta solo il primo ciclo del legame dell’ubiquitina. Seguono infatti cicli ulteriori che
producono una coda di poliubiquitina (il carbonio terminale di un’altra molecola di ubiquitina viene
congiunto alla lisina48 di un’ubiquitina già legata). In sostanza alla lisina 48 dell’ubiquitina, che è
già legata alla proteina target, viene legato il carbossi terminale di un’altra ubiquitina ed è proprio
questo legame sulla lisina 48 che identifica quelle proteine destinate alla degradazione del
proteasoma.

Ricorda!! → l’ubiquitina ha altre lisine e quando sono impegnate altre lisine nelle reazioni
dell’ubiquitinazione, la via che le proteine coinvolte poi prendono non è quella degradativa
(ubiquitina interviene in tanti sistemi).

Sono necessarie almeno 4 ubiquitine legate alla proteina target per indirizzarla alla degradazione.

Il proteasoma ricorda GroEL e GroES perché ha un blocco centrale (unità degradativa) e una
parte più esterna costituita da due cappucci/coperchi posizionati alle estremità.

Quali sono le operazioni che deve compiere necessariamente proteasoma26?

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Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
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Proteasoma è dotato di un coperchio, attraverso il quale la proteina da degradare entra per essere
riconosciuta dal sistema proteasoma attraverso la coda di poliubiquitine. Dopodiché la proteina
deve essere deubiquitinata, cioè deve essere rimossa la coda di poliubiquitina (le ubiquitine
verranno poi riciclate). Successivamente la proteina deve essere unfoldata, cioè completamente
svolta e denaturata e indirizzata all’interno della struttura catalitica del proteasoma dove si
realizzerà il clivage, cioè il taglio proteolitico.

La parte catalitica del proteasoma è la subunità 20S (subunità di sedimentazione), dove viene
effettuato il taglio catalitico. Sulla subunità catalitica si appoggiano due subunità che vengono
definite regolative o coperchio e base. Il proteasoma26 si compone quindi, nel complesso, dei
seguenti elementi: subunità catalitica, due subunità regolative e ATP, necessario per la sua
funzionalità.

A cosa servono le subunità regolative e la subunità catalitica?


Le subunità regolative, ovvero le 19S, sono coinvolte nel riconoscimento delle code di
poliubiquitina, che successivamente tagliano. Tali subunità partecipano all’unfolding della proteina,
smontano la struttura della stessa e per questo sono sede di attività ATPasica (idrolizzano l’ATP al
fine di unfoldare queste strutture deubiquitinate).

La struttura centrale, la 20S, è fatta da molte subunità: vi sono 4 complessi formati ciascuno da 7
subunità disposte ad anello che creano una camera contenitiva all’interno della quale viene
realizzata la funzione proteolitica. È molto conservata negli eucarioti. Dà origine a frammenti
peptidici che verranno trasformati in amminoacidi da altre proteasi citosoliche.

Quindi fondamentale in questo processo è il riconoscimento del substrato da degradare. La


degradazione inizia poi in corrispondenza di una una piccola regione preventivamente
destrutturata.

Ha inizio a questo punto l’ingresso nel canale di entrata del proteasoma da parte della piccola
regione unfoldata. Ne segue l’unfolding, la completa traslocazione del polipeptide
destrutturalizzato dentro il proteasoma e infine la proteolisi.

Le ubiquitine in tale processo sono ovviamente riciclate.

Il sistema ubiquitina-proteasoma, vista la sua portata rilevante nella vita della cellula, deve essere
finemente regolato attraverso numerosi meccanismi in crosstalk, cioè meccanismi si interfacciano
con altri sistemi degradativi. Tutte queste vie degradative devono poter comunicare tra di loro,
interfacciarsi e regolarsi a vicenda.

Tanti sono i settori in cui il proteasoma26 esprime la sua capacità degradativa, da aspetti legati al
sistema immunitario, alla risposta da stress, allo sviluppo e all’apoptosi, alla regolazione del ciclo
cellulare, la trascrizione, il metabolismo e la trasduzione del segnale.

Vi è poi tutta una sezione in cui intervengono aspetti patologici; possono esistere infatti delle
proteine non correttamente unfoldate o comunque danneggiate, che sono nate con delle mutazioni
o danneggiate da specie radicaliche dell’ossigeno particolarmente reattive, se non addirittura
coinvolte in una denaturazione termica per un rialzo della temperatura. Tutte queste proteine
prendono la via del proteasoma.

Proteine legate all’ubiquitazione sono implicate in molte malattie neurodegenerative (Alzheimer,


Parkinson, Huntington, Sclerosi Laterale Amiotrofica=SLA→qui il protein misfolding genera delle
forme patologiche e anche in questi casi può intervenire proteasoma) che coinvolgono
l’aggregazione delle proteine. Aggregazione delle proteine non vuol dire formare proteine fibrose,

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ma vuol dire formare aggregati insolubili che non hanno funzione e che rappresentano solo un
punto finale della denaturazione della proteina; sono strutture particolarmente ordinate che non
hanno nulla a che vedere con le proteine fibrose tipo il collagene, la cheratina, l’elastina, ecc…

La via di degradazione proteasoma, oltre alle patologie sopra citate, è implicata anche in certe
forme di cancro.

Il sistema ubiquitina-proteasoma è negativamente correlato all’invecchiamento. Ci sono molti


report che descrivono un declino nella funzione degradativa del proteasoma in cellule di tessuti ed
organismi che gradualmente invecchiano. Sono stati eseguiti molti studi con cellule di persone
centenarie e animali longevi che hanno dimostrato in questi una particolare attività del
proteasoma incrementata rispetto alla norma (nel senso che l’espressione e l’attività del
proteasoma di fibroblasti, ricavati da centenari in salute, sono stati confrontati con quelli di giovani
e di altri soggetti anziani e si è potuto notare che la funzionalità del proteasoma nei fibroblasti dei
centenari era del tipo paragonabile a quella dei giovani donatori). Lo stesso confronto è stato fatto
anche con animali, ad esempio bivalvi (molluschi/invertebrati che vivono moltissimo) e anche in
questo caso la capacità del proteasoma era risultata particolarmente sviluppata.

2) Un’altra via degradativa molto importante è quella che coinvolge il lisosoma.


Tale via è ATP-indipendente.

Il lisosoma è in grado di fondersi. Possiede infatti un contenuto degradativo e si fonde con gli
elementi che deve degradare (per esempio proteine che sono state ricavate dall’ambiente
extracellulare generano una vescicola di endocitosi che si fonde con il lisosoma, il quale attua
l’idrolisi della proteina contenuta nella vescicola).

Il lisosoma interviene nella degradazione di diverse proteine, fra cui proteine extracellulari
internalizzate per endocitosi proteine di membrana o ancora proteine con un tempo di vita
particolarmente prolungato.

L’alternativa è l’autofagia che si verifica quando il lisosoma riesce a degradare componenti


cellulari che appartengono alla cellula (es. mitocondri, perossisomi, ecc..), cioè dei corpi cellulari
che invecchiati e/od ossidati devono essere degradati.
Che cos’è quindi il lisosoma? Il lisosoma è un piccolo corpuscolo (in una cellula ce ne possono
essere molti) deputato alla degradazione di molecole esterne alla cellula internalizzate per
fagocitosi, macromolecole e organelli endogeni della cellula.

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Il lisosoma contiene molti enzimi capaci di degradare proteine e corpuscoli interi, come per
esempio le idrolasi acide, che idrolizzano vari tipi di legame. Le idrolasi acide lavorano a pH 5,
generato e garantito da una pompa ATPasica che spinge protoni all’interno del lisosoma
(trasferisce HCl all’interno del lisosoma e garantisce un’ambiente ad un pH taleda consentire
l’idrolisi ad opera delle idrolasi acide). Quello lisosomiale è un ambiente a pH diverso da quello
citosolico, che è più neutrale, proprio al fine di contraddistinguere e marcare un ambiente
potenzialmente pericoloso per la cellula poiché ricco di idrolasi (se le idrolasi fossero libere
nell’ambiente cellulare e lavorassero a pH 7, non funzionerebbe niente). Quindi in ambiente
lisosomiale il distretto è diverso, il pH è più basso e sono presenti delle idrolasi che possono
lavorare in maniera compartimeralizzata. Tra le idrolasi vi sono delle proteasi, come le catepsine,
attive a pH 5 e non selettive (cioè in grado di degradare in maniera non specifica qualunque
proteina che si trova all’interno del lisosoma).

Relativamente al lisosoma è da ricordare una malattia da accumulo molto importante, la malattia di


Tay Sachs, una patologia da accumulo lisosomiale caratterizzata dall’assenza di un particolare
enzima (esosoaminidasi-A) nei lisosomi, con conseguente accumulo di una molecola glicolipidica
(gangliosideGM2). Si tratta di una malattia mortale. Quindi, in definitiva, le idrolasi sono
fondamentali e se non funzionano correttamente possono causare malattie da accumulo.
L’accumulo di proteine non foldate, danneggiate a livello traduzionale o post-traduzionale, influisce
negativamente sulla funzione degli organelli cellulari, nonché delle cellule nel loro complesso.
Esso diviene un fattore cruciale nell’invecchiamento e in molte patologie neurodegenerative,
cardiovascolari, diabete di tipo 2 e cancro. Le proteine misfoldate e tendenti a formare aggregati
costituiscono un fattore di rischio citotossico per le cellule. Un approccio che ci aiuta ad eliminare
queste proteine è l’autofagia mediata da lisosoma.
L’autofagia include il pathway di degradazione lisosomiale delle proteine. È essenziale per la
degradazione di materiale eterogeneo citoplasmatico (mitocondri, perossisomi, vescicole del RE),
ma anche di aggregati proteici. Attraverso la degradazione lisosomiale, è dunque possibile
degradare grossi aggregati proteici (essi sono riconosciuti da particolari recettori esposti su delle
membrane parziali, derivate da altre membrane della cellula, che iniziano ad avvolgere e a
catturare tali aggregati proteici poliubiquitinati).
Come funziona nello specifico? Una membrana in grado di raccogliere il cargo di proteine
destrutturalizzate od organelli, si estende intorno alla vescicola che ha riconosciuto l’aggregato fino
a raccoglierla completamente dentro ad un corpo detto autofagosoma. L’autofagosoma si fonde

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poi con la membrana lisosomiale e si realizza quindi la vescicola di fusione detta autolisosoma.
L’autofagosoma è lo step che precede la fusione con il lisosoma e forma l’autolisosoma. La
fusione con il contenuto idrolitico dei lisosomi consente la degradazione di tutto il materiale
internalizzato nell’autofagosoma, destinato poi al riciclo.
Esiste una funzione compensatoria dell’autofagia nei confronti del sistema ups, cioè del sistema
ubiquitina-proteasoma, nel senso che, quando il proteasoma subisce una qualche restrizione nella
sua espressione e attività, dovuta ad un’inibizione, ad un sovraccarico del lavoro proteolitico, il
sistema autofagia si attiva per sopperire alle mancanze del proteosoma. In ogni caso questi due
sistemi comunicano tra di loro a vari livelli e quindi coordinano l’azione degradativa, mirata al
mantenimento della proteostasi cellulare degli organelli, ma anche delle proteine.

Le proteine che tendono ad un misfold o che sono parzialmente unfoldate subiscono l’interazione
con gli chaperones molecolari, che può essere fortunata e risolutiva nel senso che permette di
rifoldare la proteina oppure no. Se il refolding non risulta funzionale grazie allo chaperon,
interviene l’ubiquitazione mediata dalla lisina48 nella forma della coda delle poliubiquitine, che
viene riconosciuta e degradata a livello del proteasoma 26.Non sempre tuttavia si assiste a questo
percorso. Se il proteasoma non funziona correttamente per motivi di invecchiamento, sovraccarico
di lavoro degradativo, per stress ossidativo o per l’introduzione di sostanze tossiche come farmaci
ecc… può accadere che queste proteine, impossibilitate ad essere degradate dal proteasoma,
possano essere degradate dalla via autofagica mediata da lisosoma. In tal caso si formeranno
grossi aggregati e si avrà l’ubiquitazione legata ad un’altra lisina dell’ubiquitina; anche una piccola
modifica a carico di questi legami influisce sul destino degli aggregati.
Al macroaggregato proteico partecipa anche il proteasoma, riconosciuto da membrane parziali
dette fagofori. Il riconoscimento avviene tramite l’esposizione di particolari proteine recettoriali,
dopodiché il macroaggregato viene completamente raccolto, guidato al lisosoma, fuso con esso a
formare il corpo dell’autolisosoma in grado di degradare tutto il contenuto. Questo è quanto
accade alle proteine misfolding in una visione un po’ più integrata di ups e lisosoma mediante
autofagia.
Se non è possibile difendersi dagli aggregati proteici seguendo le vie degradative, si può optare
per un altro meccanismo di difesa : la compartimentalizzazione. Nel momento in cui non ci si
può difendere dall’aggregato proteico con i sistemi proteolitici degradativi, l’aggregato verrà inviato
ai una determinata regione della cellula. Le proteine misfolded tendono ad essere confinate in
specifiche compartimentalizzazioni. Tutto questo processo limita la loro citotossicità ed evita la
nucleazione di altri aggregati, impedendo anche che essi espongano dei punti reattivi che vadano
a danneggiare altre proteine e altri tipi di macromolecole cellulari.
Se il controllo qualità è in sofferenza, cioè se il proteasoma è in sovraccarico, se c’è
invecchiamento e se ci sono tanti fattori potenzialmente danneggianti la cellula (com e sostanze
chimiche o farmaci), le proteine ubiquitinate possono essere sequestrate in compartimenti prossimi
al nucleo detti JUNQ (JUxta Nuclear Quality control compartment); qui sono depositate proteine
ancora solubili, in interscambio con il citosol, che possono essere recuperate riacquistando il
folding o degradate. Infatti diversi chaperones e proteasomi sono localizzati vicino al comparto
JUNQ e possono aumentare la capacità di refolding delle proteine che sono accumulate. Se
questo non dovesse avvenire, c’è sempre e comunque il proteasoma.
Supponiamo che sia stata prodotta una proteina ancora solubile, misfoldata (cioè che ha preso
una via del folding sbagliata), e già ubiquitinata, ma che il proteasoma per un qualche motivo non
riesca a degradarla completamente. Essa viene quindi guidata verso il comparto JUNQ, comparto
in cui le proteine sono misfoldate ma non ancora completamente aggregate, e in cui è pertanto
ancora possibile il recupero del folding grazie a chaperones molecolari, ma in cui al contempo è
possibile indirizzare una proteina verso la degradazione.(questo spiega la presenza del
proteasoma nelle vicinanze del comparto JUNQ).

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Il proteasoma è posto anche nelle vicinanze delle vescicole del reticolo endoplasmico (quando ho
uno stress da accumulo di proteine unfoldate o misfoldate all’interno del RE, queste vengono
retrotraslocate nel citosol ed eliminate dal proteasoma).

Vi sono poi aggregati insolubili che nella loro forma più stabile, da un punto di vista strutturale, si
definiscono fibre amiloidi e che sono sequestrati in compartimento finali detti IPODs (depositi di
proteine insolubili che non possono essere riconvertite in un folding nativo). Si segue lo stesso
processo della compartimentalizzazione: un controllo di tipo protettivo che impedisce interazioni
che possono essere patologiche con tutto il proteoma cellulare.

Sequestrare significa proteggersi dalla proteotossicità insita in questi aggregati. Gli IPODs
possono essere più di uno, mentre JUNQ è uno soltanto. Negli IPODs le proteine non sono
ubiquitinate e non sono in interscambio con il citosol, perché non possono più riacquisire il loro
folding nativo. Quando i misfolded riescono ad aggregare e a formare degli intrecci insolubili,
vengono compartimeralizzati in IPODs (qui non possiedono alcuna coda di ubiquitina).

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Vi è poi un altro comparto detto aggresoma, che, come suggerisce il nome, consta di un
accumulo di aggregati, posto vicino al nucleo e al centro di organizzazione dei microtubuli. Si
ritiene che il continuo accumulo di proteine aggregate e misfoldate porti nel tempo all’evoluzione di
JUNQ in aggresoma.

L’aggresoma si forma quando il proteasoma non riesce ad eliminare funzionalmente le proteine


misfolded ed è quindi un centro di accumulo di aggregati citotossici. L’aggresoma è uno di quei
corpuscoli, che possono essere eliminati mediante l’attacco per autofagia mediata da lisosoma.

La proteina unfoldata, ma ubiquitinata è condotta, mediante i microtubuli, all’aggresoma che


diventa quindi un punto finale. A questo punto si può eliminare la proteina non corretts solamente
tramite autofagia mediata da lisosoma.
L’accumulo degli aggregati riduce la fitness della cellula. Il problema può essere parzialmente
risolto a seguito di una divisione cellulare assimetrica, perché JUNQ continua ad essere ereditato
ma in maniera asimmetrica (solo una delle 2 cellule figlie lo erediterà ed è quindi esposta a stress
proteotossico dovuto all’accumulo di aggregati).
L’autofagia include la degradazione lisosomiale delle proteine anche se, l’autofagia, viene invocata
per degradare corpuscoli della cellula non funzionanti, invecchiati, ecc…
Anche la compartimerizzazione in definitiva risponde all’esigenza di proteggerci da uno stress
proteotossico.

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PROTEIN MISFOLDING
Abbiamo già parlato del misfolding proteico nelle lezioni precedenti, ora però entriamo nei dettagli
strutturali del fenomeno: misfonding proteico e la sua forma di aggregazione più stabile
rappresentata dallo stato amiloide o fibra amiloide. Dunque ci sposteremo verso quelle malattie
che sono caratterizzate dalla fibra amiloide, cioè Parkinson, Alzheimer, SLA e Huntington e molte
altre.

DAL PROTEIN QUALITY CONTROL AL MISFOLDING PROTEICO

Per riassumere un po’ tutto il sistema di protezione del nostro proteasoma, diciamo che la cellula
mette in atto un network di proteostasi.

La proteina viene sintetizzata, nel migliore dei casi, da sola o grazie agli chaperoni che sono già
presenti a livello ribosomiale, ed acquista la sua struttura nativa. Oppure non lo fa (e alcune
proteine sono particolarmente prone a ciò), e si formerà uno stato metastabile (stato di proteina
parzialmente foldata), che può dare origine a dei danni a livello proteico. Quindi si possono
originare degli aggregati che vengono eliminati per autofagia.
Se tali aggregati sono insolubili vengono anche compartimentalizzati in IPOD.
Se non risponde il proteasoma le proteine ubiquitinate vengono accumulate in JUNQ e in
aggresoma.
Inoltre troviamo anche un altro percorso: il sistema ERAD.
Tutto ciò rappresenta il quadro del nostro protein quality control.
E poi non dimentichiamoci che un effetto regolativo sul proteasoma lo esprime anche il sistema
che si occupa di applicare le modifiche post-traduzionali e le vie di smistamento e di localizzazione
delle proteine all’interno della cellula.

Quindi, evidentemente, il problema è che ci sono delle proteine particolarmente prone al


misfolding, e dal momento che, durante tale processo, vengono esposte delle regioni idrofobiche
che normalmente sono internalizzate all’interno della cellula, il misfolding non solo genera
aggregazione, ma tramite questi aggregati, o gli oligomeri della aggregazione, aggredisce anche
altri componenti cellulari e proteine, determinando proteotossicità. Però se ho un network di
proteostasi ben costruito e bilanciato, riesco o a degradare le proteine misfoldate e gli aggregati, o
a disaggregare gli aggregati e a far loro riacquisire il folding nativo. In realtà questo non è sempre
possibile perché questi aggregati che si formano sono capaci di interazioni aberranti con proteine,
acidi nucleici, lipidi e quant’altro, quindi generano delle interazioni sbagliate e diventano
proteotossiche, determinando così un danno a carico della proteostasi.
Quindi, il protein misfolding e l’aggregazione che ne consegue, destabilizzano il proteostasis
network proprio perché generano delle interazioni aberranti. Tutto ciò avviene soprattutto con
invecchiamento e/o eccessiva produzione di proteine aberranti, che sono per qualche motivo più
prone al misfolding e aggregazione (e non è sempre detto che siano proteine mutanti: in alcuni
casi è la mutazione che destabilizza la struttura, ma non è sempre così).

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MISFOLDING E AGGREGAZIONE

Gli studi di biofisica teorico-sperimentali hanno dimostrato che ogni proteina, quindi ogni specifica
sequenza di amminoacidi di una catena polipeptidica, risponde ad un determinato comportamento
di folding dettato da una superficie di energia libera che conduce ad un minimo di energia.

Quello che osserviamo a lato è il punto di minimo di


energia libera a cui corrisponde lo stato foldato nativo
della proteina.

L’autoassociazione tuttavia è possibile, perché anche


l’aggregazione in aggregati amorfi o in piccoli
aggregati oligomerici o in fibre, corrisponde a dei
minimi di energia libera, la cosa risulta quindi essere
un po’ più complicata, e il mantenimento della
solubilità proteica diventa a questo punto critico per
poter mantenere l’omeostati proteica.
Per omeostasi proteica non si intende solo la
conformazione giusta (funzionale), ma anche che una
proteina all’interno di una cellula, abbia la concentrazione giusta, la localizzazione giusta (ciò
conferisce importanza allo smistamento delle proteine), e che la proteina possa realizzare le
interazioni giuste, perché tutte le proteine hanno dei partner di interazione. Quindi mantenere la
solubilità di una proteina significa garantirne la sua funzione (quindi struttura terziaria), la
conservazione della solubilità e l’espressione della funzione fisiologica.

Da ciò ne consegue che quel grafico


dell’energia potenziale fatto ad imbuto
(che possiamo osservare a lato) deve
essere modificato tenendo presente
che esiste l’ipotesi del misfolding e
dell’aggregazione. Ovviamente non
tutte le proteine sono soggette a questo
rischio: ci sono delle proteine per le
quali, per il loro folding, devo ipotizzare
sempre l’eventualità di aggregare,
quindi devo letteralmente riconoscere
che per alcune proteine l’aggregazione
compete con il folding corretto. E allora
all’imbuto classico, corrispondente alla
regione verde dell’energia libera, dove
gli intermedi scendo a livelli di energia
sempre più bassi, finché, conservando
quel grado di strutturazione corretta che
trovano, riescono a raggiungere lo stato
nativo, devo anche ammettere
l’esistenza di un’altra parte dell’imbuto di energia, quella colorata in rosso, dove ci sono degli altri
minimi, confrontabili con il minimo dell’energia nativa, e addirittura un minimo assoluto, che sono le
fibre amiloidi, cioè l’aggregazione in forma di fibrille altamente ordinate.

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La differenza è che nella parte dell’imbuto verde prevalgono i contatti intramolecolari (il numero
dei contatti e il numero dei contatti nativi, cioè i contatti giusti che genereranno il folding nativo
tridimensionale della proteina), ma per alcune proteine devo anche prendere in considerazione
l’espressione di contatti intermolecolari, nella parte dell’imbuto rosso. Nell’ultimo caso, quindi
prevalgono le forze attrattive intermolecolari che portano alla stabilizzazione di vari tipi di
aggregati.

Le regioni irregolari della superficie energetica della parte verde, consentono l’accumulo di
particolari conformazioni in intermedi del folding che sono temporaneamente intrappolate in quello
stato energetico. Ad esempio un intermedio che appartiene a quel minimo relativo, deve essere
aiutato a superare la barriera energetica e procedere verso un ulteriore minimo relativo. E chi lo
aiuta? Per superare questa barriera energetica ci sono o gli chaperoni o la stessa energia termica
dell’ambiente in cui si trova la proteina, la quale è molto spesso sufficiente per mettere in moto la
dinamica di questo intermedio del folding e consentirgli di fatto di procedere verso altri minimi che
si avvicinano allo stato nativo. Quindi in questo caso tutti questi step o avvengono da soli o sono
favoriti dagli chaperoni.
Oltretutto la superficie verde si deve anche sovrapporre a quella rossa che caratterizza
l’aggregazione; la formazione di queste fibrille avviene per nucleazione, quindi anche qui ci
saranno dei punti di nucleazione, esattamente come nel folding, il quale può nascere da nuclei di
folding e da quelli espandersi in modo gerarchico; allo stesso modo anche nel caso
dell’aggregazione può avvenire una nucleazione che porta all’aggregazione, la quale parte da
degli intermedi (intermedi metastabili), o comunque da uno stato parzialmente foldato, e procede
verso dei minimi relativi.

Lo stato unfoldato si sposta facilmente verso l’aggregazione se la barriera energetica, cioè il


piccolo salto di energia libera che deve fare questa proteina per passare verso l’aggregazione, è
bassa. Quindi se questo salto energetico è basso gli intermedi saranno più proni ad assumere
delle strutture aggregate.
Anche in questo caso gli chaperoni giocano il loro ruolo perché contrastano questa evoluzione
verso degli aggregati. Infatti il compito degli chaperoni è proprio quello di riconoscere questi stati
parzialmente foldati, legarsi a quei patch idrofobici che vengono esposti in maniera innaturale, ma
che potrebbero attaccarsi anche ad altre proteine, e dopo essersi legati a questi, aiutano la loro
strutturazione, li guidano nella direzione del folding corretto, contrastando il passaggio verso la
direzione opposta. Quindi il ruolo degli chaperoni è duplice: in una direzione facilitano l’evoluzione
verso l’assunzione della forma nativa, e dall’altra, inibiscono il passaggio ai minimi indicativi delle
aggregazioni.

Nel complesso quindi le proteine native assumono vari stati conformazionali, cioè tanti di questi
minimi relativi, e lo fanno anche in conseguenza delle fluttuazioni dinamiche della struttura che si
sta formando. È chiaro che parto da una situazione molto dinamica in alto, all’imboccatura
dell’imbuto energetico, e poi questo grado di dinamicità deve calare. Come conseguenza abbiamo
che questi stati di folding intermedio particolarmente dinamici sono vulnerabili al misfolding,
tuttavia, in certi casi sono legati al funzionamento di una proteina, o meglio sono richiesti per
ragioni funzionali. Avevamo fatto l’esempio delle membrane in cui l’assunzione di una struttura più
collassata, vibrante e fluttuante, facilita il passaggio attraverso i trasloconi, e quindi facilita le
traslocazioni attraverso membrane.

Quindi, per concludere, il misfolding non è altro che un aspetto particolare del panorama
energetico totale di una proteina che si folda e che è particolarmente prona all’aggregazione.
Per alcune proteine sarà quasi impossibile tendere verso queste situazioni di intermedi metastabili,
mentre per altre è possibile.

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Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide

Ricordiamo ora che per una proteina esiste la possibilità di avere diversi stati: c’è lo stato
unfoldato, l’intermedio del folding, gli oligomeri e gli stati più stabili dell’aggregazione, ossia le
fibrille amiloidi. E naturalmente la possibilità di evolvere verso lo stato nativo.

L’entità dell’incidenza di ciascuno di questi stati (la popolazione dei possibili differenti stati e del
loro ritmo di interconversione), dipende da vari fattori:
- Dalle loro relative stabilità termodinamiche, quindi dalle piccole barriere di energia che sono
associate alle transizioni, come abbiamo visto nel panorama energetico;
- Dal loro tasso di turnover, cioè dal tasso che impone la loro sintesi e degradazione;
- Dalla loro propensione ad associarsi e subire l’effetto foldante degli chaperones.

TOSSICITÀ DEGLI AGGREGATI

Abbiamo capito che questi aggregati possono essere tossici. Lo sono perché perlopiù
rappresentano la perdita di una funzione, e perdere una proteina con una funzione specifica è
grave; oppure perché si acquisisce una funzione tossica, in quanto l’aggregato è comunque
ancora un elemento che interagisce, quindi la cellula può accumulare oltre a queste fibre insolubili,
anche degli oligomeri, non stabili, e che espongono delle superfici adesive, ovvero caratterizzate
da residui idrofobici, e questi aspetti di esposizione di carattere idrofobico, possono generare delle
interazioni aberranti con altre proteine o comunque con altre macromolecole cellulari.
Inoltre la formazione degli aggregati può anche essere lesiva nei confronti del sistema di
degradazione, cioè della sua espressione e della sua attività, sia del proteasoma che
dell’autofagia. Può quindi anche sequestrare dei componenti molto importanti del network di
proteostasi rappresentati dagli chaperones o co-chaperones (es.Hsp40). Perciò se anche questi
componenti vengono aggrediti dagli intermedi oligomerici, sono neutralizzati e non sono più
disponibili per la loro azione foldante. Quindi il fatto di formare oligomeri è un punto estremamente
critico, perché generano interazioni e danneggiano il sistema di degradazione e possono
addirittura mettere fuori gioco gli chaperoni. L’aggregazione quindi interferisce con il network di
proteostasi, ed è sia sintomo che causa del declino, e si genera così un circolo vizioso che
esprime in sé tutta la sua citotossicità. Però durante la loro evoluzione, le proteine si sono
ottimizzate/evolute per mantenere al massimo la loro solubilità relativa alle concentrazioni
fisiologiche. Infatti, un incremento quantitativo causato per esempio da uno sbilanciamento del
proteoma, determinato dall’invecchiamento, è associato ad una perdita di solubilità. Il nostro
organismo può però proteggersi dagli aggregati formati o con il sistema JUNQ o con IPOD: in
JUNQ gli aggregati sono ancora solubili, mentre in IPOD no.

PATOLOGIE CORRELATE AL MISFOLDING PROTEICO

Una disfunzione dovuta a misfolding generato da una mutazione, per esempio, rende la proteina
particolarmente metastabile, quindi passibile di aggregazione, ed è causa di molte patologie. Un
network di proteostasi con tutti gli elementi funzionanti può tamponare questo errore, questa
destabilizzazione, ma quando la sua capacità di rispondere al problema è superata (cioè non è più
in grado di farlo), ci sono delle proteine mutanti metastabili che tendono ad aggregare. Ciò è
caratteristico dell’invecchiamento.
Infatti, con l’invecchiamento è difficile mantenere un proteoma bilanciato. Gli aggregati sono quindi
di per sé citotossici e possono dare origine ad interazioni aberranti, generando una condizione
generalizzata di proteotossicità, la quale gioca un ruolo chiave nelle malattie conformazionali:
Parkinson, Alzheimer, Huntington.

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Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide

Il declino del network di proteostasi correlato con l’età facilita l’aggregazione di particolari proteine
che sono legate alle malattie neurodegenerative. (Da ricordare che in alcuni casi sono proteine
mutate mentre in altri no)

Sono tantissime queste patologie associate a misfolding e ad aggregazione di proteine e hanno


tutte un archetipo strutturale, quindi una struttura di riferimento che si chiama fibra amiloide.
Se si forma la fibra amiloide c’è perdita di funzione, acquisizione di tossicità e formazione di
intermedi tossici che fanno progredire questo stato neurodegenerativo. Essa è la forma aggregata
più stabile, e che quindi sarà caratterizzata dal massimo ordine.
Dà orgine ad una struttura fibrillare (che non ha niente a che vedere con le proteine fibrose); inoltre
la fibra amiloide è capace di autoreplicarsi, nel senso che può generare dei processi che
aumentano questo effetto di formazione della fibrilla; infine, è da notare che la fibra amiloide è
quasi esclusivamente formata da foglietti β (infatti moltissime proteine prone all’aggregazione, ad
un certo punto decidono di formare una struttura costituita da foglietti β), e sono proprio tutte
queste strutture beta ad essere responsabili della formazione della fibra amiloide.
La formazione di foglietti beta non è uno stato specifico, ma uno stato generico, nel senso che lo
possono assumere tantissime proteine.

A lato possiamo osservare un modello di fibre amiloidi,


dove tutte queste sequenze si appoggiano una sull’altra
e danno origine ad una struttura altamente ordinata
basata sul foglietto β.

Lo stato amiloide fu individuato nell’amiloidosi


sistemica più di 150 anni fa, quando hanno aperto i
cadaveri ed hanno trovato dei depositi macroscopici di
aggregati in organi di pazienti deceduti per queste
malattie definite poi amiloidosi.
La caratteristica di questi depositi è che erano colorabili
con lo iodio, che era il colorante tipico usato per la
colorazione dell’amido. Notarono quindi sono proteine
che si strutturano in forma β.

Sono tante le proteine che sono correlate a questi


disturbi neurodegenerativi. Ma spesso non è una proteina sola, il che complica ancora di più le
cose.
Ad esempio, la malattia di Alzheimer è correlata alla formazione di depositi di aggregati di
amiloide β e di proteina tau. Per quanto riguarda il Parkinson, la proteina distintiva è l’ α-
sinucleina, insieme alla proteina tau e l’amiloide β. (È da notare che nella sequenza peptidica sono
state evidenziate delle frecce piatte che sono indicative di strutture beta).
La malattia della mucca pazza (o BSE o encefalopatia spongiforme bovina), che si è trasmessa
anche all’uomo, ha come proteina implicata il prione, insieme alla proteina tau.
Infine ci sono le amiloidosi sistemiche, tra cui l’amiloidosi da transtiretina, che si manifesta per
formazione di aggregati di transtiretina. In quest’ultima, a differenza delle altre malattie citate, non
è implicato il sistema nervoso, ma altri organi, come il cuore e il fegato nel caso della proteina
transtiretina.

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Argomenti: Omeostasi delle proteine, protein misfolding, aggregati, patologie relative al misfolding, stato
amiloide

Chiaramente non esistono solo malattie neurodegenerative, come per esempio l’Alzheimer,
l’encefalopatia spongiforme, la Parkinson, la SLA, l’Huntington, che hanno le loro proteine
(l’amiloide β, il pione, l’α-sinucleina, la superossido dismutasi nella SLA, l’huntingtonina, ecc) che
tendono ad assumere determinate strutture.
Esistono anche malattie che coinvolgono il nostro organismo da un punto di vista sistemico:
l’amiloidosi dovuta a delle catene leggere di immunoglobulina o suoi frammenti, la transtiletina
nell’amiloidosi sistemica, ecc, persino il lisozima può esser coinvolto in questa struttura.

Inoltre, come è stato già precedentemente accennato, tutte queste proteine tendono ad una
struttura generica, ovvero, per successiva apposizione di una proteina sopra l’altra, per un effetto
di nucleazione, una si appoggia all’altra e si generano dei foglietti β. Quindi queste proteine sono
accomunate dal formare degli aggregati che condividono questo archetipo strutturale che si
chiama fold amiloide, caratterizzato proprio da questa prevalenza di struttura β.

ORGANIZZAZIONE DELLA FIBRA AMILOIDE

Ora vediamo com’è l’organizzazione precisa di questa struttura β, perché è piuttosto particolare.

Per potersi formare, questi complessi foglietti β devono dominare le interazioni intermolecolari, e
naturalmente, l’energia libera associata allo stato amiloide deve essere inferiore rispetto all’energia
libera dello stato nativo, e la stabilità di questo stato amiloide dipende comunque dalla
concentrazione al quale si trova la cellula e ci sarà una concentrazione critica nella quale la
proteina diventa stabile nello stato amiloide. Inoltre in questa situazione potrà ancora sopravvivere
lo stato nativo se esiste una sufficiente barriera energetica che separa l’intermedio prono
all’aggregazione dalle forme aggregate e anche dall’amiloide.
Quindi tutto dipende da queste barriere energetiche e dall’effetto degli chaperones.

La caratteristica della fibra amiloide è che è molto resistente in vitro a denaturanti e proteasi, così
anche nella cellula è molto refrattaria all’attacco delle proteasi, ma è un’alternativa estremamente
strutturata che risulta cineticamente inaccessibile, cioè improbabile, solo nelle condizioni
biologiche normali.
L’analisi delle fibrille in vitro dimostra che la struttura diventa uno stato instabile solo per polipeptidi
molto grandi. Cioè, se un polipeptide ha più di 150 aa, è improbabile che riesca a stabilizzarsi in
una fibra amiloide, quindi si potrebbe indirettamente dire che l’evoluzione ha portato a delle
sequenze amminoacidiche molto lunghe (di 300-500 aa) anche per minimizzare il rischio della fibra
amiloide. Infatti non è un caso che in molte di queste malattie conformazionali le proteine implicate
sono molto piccole, se non addirittura sono un frammento di una proteina, come nel caso della
proteina β dell’amiloide: il peptide β-amiloide è un frammento di una proteina.

E allora che cosa ci può proteggere dall’amiloide a livello di struttura primaria di un


polipeptide?
Intanto il fatto di possedere un fold globulare, che seppellisce all’interno del suo core idrofobico
queste regioni potenzialmente aggreganti.
La cooperatività del folding, cioè il fatto che esistano delle barriere energetiche che fanno sì che gli
intermedi di strutturazione non evolvano verso strutture prone all’aggregazione. (Infatti
cooperatività vuol dire: acquisire la struttura di un intermedio, e procedere verso stati di energia
inferiore, perché salvo di questo intermedio le interazioni positive).
Poi pattern specifici di amminoacidi che sono dei pattern che favoriscono la formazione della fibra
amiloide, si ritiene che siano elementi svantaggiosi nell’evoluzione, ovviamente, e si ritiene che
siano stati contro-selezionati con l’inserzione di sequenze resistenti all’aggregazione, perché se
non avessimo avuto queste protezioni da un punto di vista evolutivo, tutto potrebbe tendere
virtualmente all’aggregazione.

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amiloide

Infine, ci difendono dall’amiloide anche gli chaperoni, soprattutto a livello di folding, e i famosi
processi di degradazione visti in precedenza (ossia il proteasoma e l’autofagia mediata da
lisosoma).

Le proteine prone al misfolding non presentano somiglianze in termini di sequenza, struttura o


funzione, ossia non esiste una famiglia di proteine omologhe che è destinata a formare la fibra
amiloide da un certo punto dell’età in poi. Le fibre amiloidi hanno tutte un pattern strutturale
comune, che è questa struttura a foglietto β che si chiama cross-beta, e che è stata risolta con il
metodo a raggi X. Nel cross-beta si genera una componente di β-strands che sono tutti orientati
perpendicolarmente rispetto all’asse longitudinale della fibrilla.

Dall’immagine nella pagina successiva, infatti possiamo vedere una catena polipeptidica che si è
organizzata formando una protofibrilla. Quindi immaginiamo una struttura di polipeptide fatta ad U,
in cui due sequenze formano legami ad H con altre due sequenze per apposizione di altre
proteine, quindi si forma un altro foglietto β appiattito, perché altri peptidi si avvicinano ed
alimentano la lunghezza della protofibrilla.

Le interazioni responsabili di questa struttura di


cross-beta sono i ponti ad H tra i due foglietti beta,
ed è, tuttavia, uno stato completamente generico,
accessibile per moltissime catene polipeptidiche,
non è dettato dalla sequenza, dalla struttura o da
altri elementi simili.
Inoltre questi due foglietti interagiranno tra di loro
per le catene laterali che nella struttura β sporgono
dal foglietto pieghettato. Queste catene laterali
generano quindi delle interazioni che
stabilizzeranno in qualche
modo questi due foglietti.
Ne consegue che
l’architettura non è
codificata e non dipende da
una sequenza di aa ad eccezione di queste deboli interazioni che
determinano la spaziatura tra due i foglietti e la stabilità in generale, perché
questi protofilamenti si associano ad altri protofilamenti.

Quindi ogni protofilamento ha struttura cross-beta, generata da coppie


appiattite di foglietti beta, e queste proteine procedono ad impilarsi fino a
generare una fibrilla lunghissima, una protofibrilla molto lunga. Poi multipli
protofilamenti si associano e si avvitano letteralmente su di loro, formando
delle fibrille o fibre amiloidi.
Ne risulta che se la fibrilla ha un diametro piccolissimo (dell’ordine dei
nanometri), le lunghezze sono dell’ordine dei micrometri.

Qui nell’immagine a fianco, si possono vedere tanti polipeptidi, e ogni


polipeptide ha un colore; questi si appoggiano l’uno all’altro formando un
doppio foglietto beta, e questo genera in crescita un protofilamento, il cui
asse longitudinale è in direzione verticale. Quindi i protofilamenti si
associano generando una fibrilla.

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Questo è un modello (quindi non esiste), e quelli che vediamo sono 4 protofilamenti associati, e
ognuno di essi, associati ed intrecciati tra loro, è fatto da un doppio foglietto β.

I tipi di aggregati possono essere diversi, e ci sono patologie in cui si osservano anche aggregati
amorfi, ma la caratteristica che accomuna il Parkinson, l’Huntington ecc, è l’esistenza di una
proteina prona alla formazione della fibra amiloide. Inoltre vengono prodotti sia aggregati
intracellulari che placche extracellulare (es placche amiloidi dell’Alzheimer). Soprattutto a livello
delle placche abbiamo un’organizzazione in struttura cross-beta, nonostante le differenze in
sequenze amminoacidiche e in funzioni delle proteine associate a queste malattie
neurodegenerative.
Quindi le malattie sono diverse, la struttura della fibrilla è la stessa, sia che parlo di malattie
prioniche, sia che parlo di Alzheimer che di sinucleina ecc

Però lo stato amiloide è uno stato generico, quindi in vitro posso trovare delle condizioni che
facilitano la formazione dello stato amiloide e queste condizioni sono in genere:
- Un abbassamento del pH, quindi un ambiente fortemente acido;
- L’innalzamento della temperatura;
- L’innalzamento della pressione.
Quindi evidentemente le proteine native esistono in equilibrio con le loro strutture parzialmente
foldate, e se sono particolarmente destabilizzate da delle condizioni anomali, o da delle mutazioni,
si può spostare l’equilibrio verso quegli aggregati che genereranno la struttura amiloide.
Esistono dei programmi che sono in grado di analizzare le sequenze amminoacidiche e predire la
presenza di regioni prone alla formazione o dell’amiloide o dell’aggregato amorfo, sempre
stabilizzato con β-sheets.

Alcune proteine, pur in condizioni fisiologiche di non aggregazione, sono però vicine al limite della
solubilità, sono il cosiddetto stato metastabile, e a questo punto è sufficiente una minima
perturbazione dell’omeostasi per produrre l’aggregazioni. I fattori che intervengono nel processo
sono i seguenti:
- le mutazioni
- le modifiche post-traduzionali
- alterazioni del sistema controllo qualità delle proteine (cioè alterazioni del proteostasis network
dovute ad età, malattia e stress)

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Argomenti: Proteine intrinsecamente disordinate, Vitamine

MISFOLDING PROTEICO E STATO AMILOIDE


Le fibre amiloidi contengono tutte un pattern strutturale comune cross-beta: componente
β-strand orientata perpendicolarmente rispetto all'asse della fibrilla.
Lo stato amiloide è generico, accessibile per molte catene polipeptidiche. La sua
architettura non è codificata da una specifica sequenza amminoacidica.
Anche in condizione fisiologiche di non aggregazione, alcune proteine sono prossime al
limite di solubilità, ovvero a quello stato metastabile che in seguito ad alterazioni può
rendere possibile l'aggregazione e quindi la patogenicità.

Cos'è che scatena l'evoluzione verso l'aggregazione e la fibra amiloide?


1. Mutazioni: un gene può subire un'alterazione tale per cui la sua nuova
sequenza è prona alla formazione degli aggregati;
2. Modifiche post-traduzionali: la proteina può assumere proprietà nuove di
interazione generando la fibra amiloide;
3. Alterazioni del controllo qualità: (ubiquitina, proteasoma, chaperoni) dovute
ad età, malattia o stress. Viene accresciuta l'espressione di un gene, il
sistema di degradazione risulta insufficiente e pertanto rimane un eccesso di
prodotto che tende a formare l'aggregato fibrillare.

Meccanismo di formazione delle fibre amiloidi:


stadi misfolded della proteina tendono ad aggregare formando dei piccoli oligomeri, che
sono ancora in formato solubile. Questi oligomeri possono esporre delle porzioni
interagenti con altri elementi cellulari e in tal caso si organizzano nella formazione delle
protofibrille. Più protofibrille danno origine alla fibra amiloide (fibrilla).
Si potrebbe pensare che l'aggregazione in fibre sia una risposta neuroprotettiva per
sequestrare questi intermedi solubili e prevenire interazioni tossiche con altre proteine o
con il sistema di degradazione.

Crescita e propagazione degli aggregati:


● nucleazione primaria: si realizza per spontaneo assemblaggio di specie
monomeriche;
● nucleazione secondaria: la formazione di nuovi nuclei di aggregazione è favorita dai
punti di aggregazione già esistenti;
● frammentazione: ogni evento di frammentazione aumenta il numero dei terminali di
fibrilla che generano un processo di crescita grazie all’attacco di molecole proteiche
solubili;
● seeding: i nuclei di fase aggregata promuovono la formazione di aggregati di
maggiore dimensione per deposizione di unità monomeriche misfolded sugli
estremi di ciascun frammento;
● spreading: propagazione degli assemblaggi amiloidi da cellula a cellula mediante
diffusione o trasporto.

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Argomenti: Proteine intrinsecamente disordinate, Vitamine

Origini della patogenicità:


● specie pre-fibrillari sono gli agenti patogenici primari per le malattie
neurodegenerative;
● Il danno cellulare è significativamente indotto dagli assemblaggi oligomerici o
intermedi della aggregazione;
● Tali oligomeri misfolded espongono gruppi chimici che in condizioni fisiologiche non
sono accessibili nell’ambiente cellulare (R idrofobici): essi interagiscono
inappropriatamente con componenti funzionali come proteine, acidi nucleici, lipidi di
membrana generando disfunzione e tossicità cellulare (gli aggregati producono set
differenti di oligomeri tossici).

L'omeostasi vuole ridurre la popolazione di oligomeri tossici interrompendo il loro processo


di formazione o mirando alla loro degradazione. Nella sperimentazione si vuole controllare
la formazione degli oligomeri a diversi livelli: a livello di sintesi, a livello di degradazione
(sistema UPS) oppure mirando a modulare la stabilità dello stato nativo della proteina che
tende ad aggregare.

MISFOLDING DISEASES
Cause di misfolding:
● Molte proteine coinvolte in patologie dovute a misfold contengono una o più
mutazioni che destabilizzano il fold corretto e stabilizzano lo stato misfolded;
● In aggiunta, in vivo il processo di folding è complicato dall’ambiente cellulare
«sovraffollato» di molecole: le proteine in ripiegamento sono bombardate da
collisioni altamente energetiche con altre proteine vicine (alterazioni del folding).

Difesa da misfolding:
● Chaperones: sono espressi costitutivamente e ulteriormente indotti in risposta
all’accumulo di proteine unfolded;
● Ubiquitina-Proteasoma;
● Autofagia;
● Degradazione associata a ER;
● Compartimentalizzazione.

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Argomenti: Proteine intrinsecamente disordinate, Vitamine

Una disfunzione a carico di questi meccanismi di controllo può comportare lo sviluppo di


una malattia da misfolding.

Per le malattie da misfolding hanno particolare rilievo gli chaperoni e l'autofagia. Si parla in
particolare di autofagia mediata da chaperoni: le proteine espongono una sequenza
specifica KFERQ normalmente presente all'interno che viene riconosciuta da uno specifico
chaperone molecolare che destina le proteine al lisosoma dove vengono degradate ad
opera di enzimi idrolitici. Inoltre esiste anche la macroautofagia: forme misfolded e grossi
aggregati che sfuggono al sistema di proteasoma o autofagia vengono segregati in
autofagosomi delimitati da membrana, la quale andrà a fondersi con quella dei lisosomi
generando degradazione di questi macroaggregati.

Esistono diverse situazioni a carico di varie proteine implicate in patologie


neurodegerative:
● polipeptidi modificati o mutati come la proteina TAU o il peptide β-amiloide coinvolti
nel morbo di Alzheimer, che spontaneamente tendono ad aggregare e a formare
struttura β-sheet;
● specifiche mutazioni come nel caso dell'huntingtina, dell'α-sinucleina nel morbo di
Parkinson o dei prioni, i quali modificano il loro fold nativo e si arricchiscono in beta-
sheet.

Questi oligomeri mostrano una resistenza al sistema di degradazione: possono crescere


nei corpi di inclusione o negli aggresomi o generare placche extracellulari di struttura
amiloide causando citotossicità e morte cellulare. Il controllo qualità a livello neuronale è
messo alla prova, poiché questi aggregati che si sviluppano in dendriti e assoni devono
essere raccolti e raggruppati in vescicole di autofagia, le quali compiono un viaggio a
ritroso verso il corpo cellulare dove sono presenti lisosomi per la degradazione. Questo
compito è difficile, particolarmente nell'invecchiamento, poiché il sistema UPS e autofagia
presentano una più ridotta attività ed espressione. Gli aggregati, a loro volta, possono
ridurre l'attività dei sistemi degradativi del sistema controllo qualità delle proteine.

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Il processo di aggregazione parte dagli stati nativi e passa agli stati misfolded, che danno
origine ai semi di amiloide (amyloid seeds), che sono ancora dei piccoli aggregati
oligomerici. Quest'ultimi, per ulteriore apposizione di altre molecole solubili misfolded,
allungano la struttura generando le protofibrille e infine le fibre sempre più complesse. La
velocità di questo processo è molto critica: può dipendere dalla propensione della proteina
a formare struttura β, dalla propensione ad avere un certo grado di idrofobicità e dalla
lunghezza della catena polipeptidica.
Le patologie hanno un'ultrastruttura degli aggregati simile, ovvero un network centrale di
fibrille amiloidi.

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Nell'Alzheimer si osservano le placche di struttura β-amiloide in bianco tra le cellule


(extracellulare) e i grovigli di materiale neurofibrillare all'interno delle cellule. Nel Parkinson
si vedono aggregati di sinucleina intracellulari (corpi di Lewy). Nel caso delle malattie
prioniche le placche sono all'esterno della cellula, mentre nella malattia di Huntington le
inclusioni sono intranucleari.

MORBO DI ALZHEIMER
Malattia neurologica progressiva caratterizzata clinicamente dalla perdita della memoria,
deterioramento cognitivo fino alla demenza e, morfologicamente, dalla presenza nel
tessuto cerebrale di depositi amiloidi (placche) circondati da neuroni morti.
Il peptide β-amiloide è il maggior costituente delle placche amiloidi. Esiste in due versioni
Aβ1-42, Aβ1-40 ed ha origine dalla proteina APP (Amyloid Precursor Protein).

fibrille β-amiloidi (aggregazione del


peptide in struttura cross-beta, con doppio
peptide beta-amiloide foglietto parallelo e schiacciato)

Ipotesi della malattia: mutazioni seguite da incremento di questa proteina precursore


determinano un aumento della produzione del peptide β-amiloide; in seguito il peptide
inizia ad aggregare in oligomeri, poi in aggregati intracellulari e in seguito in fibrille
extracellulari che provocano un forte stress a livello delle cellule neuronali (infiammazione,
stress ossidativo, mancanza del trasporto assonale e formazione di grovigli neurofibrillari)
con conseguente loro morte cellulare.

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Nell'Alzheimer si osservano due caratteristiche: la deposizione di placche amiloidi (in


arancione) fuori dalla cellula e il danno a carico di un'altra proteina TAU intracellulare, che
determina la formazione di grovigli intracellulari (neurofibrillary tangles) responsabili della
mancata organizzazione della struttura microtubulare della cellula nervosa. A livello
macroscopico si osserva una riduzione della regione corticale, un allargamento dei
ventricoli e una riduzione dell'ippocampo.
Le placche derivano dalla proteina transmembrana APP, che possiede un dominio
intracellulare e extracellulare. Dalla membrana viene liberato il peptide β-amiloide, il quale
poi produce gli oligomeri, che a loro volta si accrescono per nucleazione e seeding e
danno origine alle placche amiloidi extracellulari.
Cosa attiva la formazione delle placche amiloidi?
La proteina APP si trova posizionata in parte all'interno della membrana e in parte fuori
verso l'ambiente extracellulare. Intervengono delle proteasi:
● beta-secretasi che taglia esternamente alla membrana;
● gamma-secretasi che taglia internamente alla membrana.

A seguito dell'azione di queste proteasi viene liberato il peptide che segue il suo percorso
di aggregazione nell'ambiente extracellulare.

Esistono due vie per seguire la maturazione di APP:

● via amiloidogenica (mutazioni, aumento del taglio della beta-secretasi), viene


liberato soltanto il peptide amiloidogenico;
● via non amiloidogenica, che rappresenta lo stato della non malattia. Interviene una
proteina di membrana α-secretasi che riconosce la regione del peptide amiloide,
produce il suo taglio proteolitico liberando una porzione fuori dalla cellula e una
ancorata alla cellula. Il taglio dell'α-secretasi rompe la regione del peptide amiloide.

Il taglio produce sia il peptide A1-40 sia A1-42 in un rapporto circa di 10 a 1 ed è molto più
amiloidogenico quello costituito da 42 residui amminoacidici.

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Lezione n°8 del 27.04.2018
Sbobinatore: Michele Berdini, Hajar Belaidi
Controllore: Alex Leso
Materia: Biochimica
Docente: Prof. / Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Proteine intrinsecamente disordinate, Vitamine

I grovigli dipendono dalla proteina TAU. In una cellula nervosa sana questa proteina
interviene associandosi alle strutture che determinano i microtubuli partecipando alla
costituzione di questi sistemi di trasporto di elementi da un punto all'altro della cellula. In
situazioni di patologia di Alzheimer la proteina TAU è alterata per mutazione, per cambio di
espressione o per eccesso di fosforilazione e i microtubuli si disintegrano. Anche la
proteina TAU aggrega e tende a formare strutture fibrillari intercellulari.

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Argomenti: Proteine intrinsecamente disordinate, Vitamine

MALATTIE DA PRIONI
Le malattie prioniche sono trasmissibili, progressive, fatali e sono associate a misfolding
della proteina prionica PrP e alla sua aggregazione.
PRION: proteinaceus Infective ONly particle.
L'aspetto infettivo è rappresentato dalla proteina stessa, ovvero dalla situazione di folding
in cui si trova. Il contagio è mediato dalla conformazione, ovvero non entra il dna nell'
individuo ma la proteina che poi causa la patologia. Nel complesso l'agente infettivo è
responsabile di encefalopatie spongiformi:
● SCRAPIE (ovini);
● ENCEFALOPATIA SPONGIFORME BOVINA (BSE);
● KURU (cannibalismo funerario in Papua Nuova Guinea);
● MALATTIA DI KREUTZFELDT-JAKOB (uomo).

INFEZIONE GENERATA DA PROTEINE

PrPc-proteina normale- costituita da tre α-eliche e da una piccola porzione di struttura


beta. Localizzata normalmente nella membrana e sensibile al calore, proteasi e solventi
organici.
PrPsc-proteina patologica-sviluppa più contenuto in struttura beta. Prima localizzata nel
citoplasma e poi secreta all'esterno della cellula dove forma placche amiloidi. In Vitro è
risultata resistente al calore, proteasi e solventi organici.
La proteina prionica PrPSc rappresenta l’agente infettivo proteico: induce PrPc ad adottare
la propria conformazione, più ricca di b-filamenti, generando un processo autocatalitico
che porta alla aggregazione e formazione di fibrille.

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Materia: Biochimica
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Argomenti: Proteine intrinsecamente disordinate, Vitamine

La normale funzione della proteina non è nota; topi privati (‘Knock out‘) del gene che la
codifica risultano resistenti alla malattia da prioni, il che indica che è necessaria la
presenza della proteina normale per il determinarsi della malattia.
La trasmissione della malattia è orizzontale: viene trasmessa da un organismo all’altro
mediante il trasferimento di un nucleo di aggregazione che a contatto con la proteina
nativa induce la trasformazione nella direzione dell'aggregazione e della deposizione delle
fibrille, come accadde nel 1993 nel Regno Unito con la malattia della mucca pazza.

● Le malattie prioniche possono essere trasmesse consumando tessuto nervoso di


animali infetti, come dimostrato nel caso di BSE;
● L’epidemia bovina inglese si sviluppò a causa dell’utilizzo di mangimi addizionato di
carne ed ossa di altri animali infetti;
● La malattia si trasmise all’uomo tramite il cibarsi di carne bovina infetta;
● In generale, la trasmissione delle malattie prioniche da una specie all’altra non è
efficiente. Questa barriera di specie è collegata al grado di omologia tra la proteina
PrPc dell’ospite e quella potenzialmente infettiva.

Nelle malattie prioniche si possono distinguere:


● forme infettive, dove è presente questo contagio conformazionale determinato
dall'incontro della proteina nativa con quella anomala. Questo accade con una
probabilità dell'1% e la trasmissione è dovuta a casi di procedura medica o di cibo
contaminato;
● Forme sporadiche, dovute a mutazioni spontanee in cellule somatiche, non
eriditabili o a un raro avvolgimento sbagliato. Le forme sporadiche succedono con
una probabilità del 90%;
● forme familiari, dovute a mutazioni ereditabili che abbassano l'energia di
attivazione, che conduce uno stato misfolded a uno stato folded in maniera
patologica.

La maggioranza dei casi della malattia di Kreutzfeldt-Jakob è dovuta a forme sporadiche,


mentre una piccola parte è dovuta a mutazioni ereditabili e in questo caso la malattia si
esprime nella quarta decade di vita.

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PROTEINE INTRINSECAMENTE DISORDINATE

In un certo senso stiamo andando a smentire ciò che abbiamo detto finora, perché ci siamo
sempre basati sull'idea che un gene codifichi per una proteina (ossia per la sua sequenza
amminoacidica e indirettamente anche per la sua struttura tridimensionale, e dunque per la sua
funzione). In realtà non è sempre così: esistono proteine disordinate o, come vedremo, delle
regioni disordinate all'interno di sequenze proteiche più ordinate. Diviene qui critico il termine
“intrinsecamente”. Esso ci suggerisce che è proprio una determinata sequenza amminoacidica a
comportare il disordine, il quale è indice di flessibilità e di mobilità e di conseguenza di elevata
energia libera ed entropia.

La proteina foldata rappresentata in figura


presenta una piccola collezione di strutture
terziarie proprio perché, come avevamo
detto, la realtà della proteina è
essenzialmente dinamica: ci saranno
proteine che hanno una dinamica
maggiore ed altre una dinamica minore.
Perciò lo stato di energia libera minima
corrisponde ad un insieme limitato di
conformazioni, ma tutte estremamente
sovrapponibili. Nel caso delle proteine
intrinsecamente disordinate non è così, nel
senso che non esiste alcun tipo di
approccio ad una struttura. Può esistere
un piccolo elemento strutturale, ma in tutto si crea un insieme di conformeri altamente
disordinati di numero n, infinito. Quindi, sia a livello di proteine intrinsecamente disordinate che
di regioni intrinsecamente disordinate manca una struttura stabile. Piuttosto, esistono insiemi di
conformeri senza posizioni di equilibrio specifiche.

Presentando questa famiglia di proteine introduciamo il concetto che una sequenza specifica
codifica per il disordine, a cui corrisponde una funzione specifica che di solito è una funzione di
legame, di interazione. Quindi stiamo introducendo un nuovo paradigma che associa anche al
disordine una possibile funzione.

Dal punto di vista dell'imbuto di energia libera nell'ipotesi dell'energy landscape, dobbiamo
allargare la nostra visione. Per una proteina normalmente foldata esiste una superficie di energia
potenziale caratterizzata da delle tasche di energia, corrispondenti agli intermedi del folding.
Questi riescono a superare delle piccole barriere energetiche e ad evolvere verso un piccolo
insieme di minimi di energia libera, corrispondente alla proteina strutturata. Nelle proteine poco
disordinate, dove il disordine non è competo, questa superficie ad imbuto perde la sua porzione
finale, quindi non esiste uno stato strutturato nativo con un minimo di energia libera. Esiste una
superficie molto più ampia di conformeri possibili con energia che cade all'interno di questi valori.
Quando la proteina è fortemente disordinata, essa rimane nella porzione più alta dell'imbuto,
corrispondente ai valori più alti di entropia ed energia libera. Tenterà di addentrarsi in qualche
minimo, ma in realtà tutto questo non la porterà mai ad un folding completo.

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Nonostante il fatto che non assumano una forma specifica, queste proteine hanno una loro attività
biologica e sono caratterizzate da flessibilità massima dinamica e da instabilità strutturale,
codificate nella sequenza amminoacidica. Si parla, quindi, di strutture completamente
randomiche, ovvero di un numero n di conformeri completamente casuali, di molten globules o di
strutture di dominio dove il linker tra un dominio e l'altro è costituito da una regione destrutturata.
Ricordiamo che i molten globules sono delle strutture proteiche dove inizia ad agire l'effetto
idrofobico. Le regioni idrofobiche sono proiettate verso l'interno, la proteina acquista una
dimensione più compatta, anche se non compatta come quella di una globulare nativa, ed inizia ad
accennare elementi di una struttura secondaria.

Possiamo pensare al concetto di struttura delle proteine come un continuum di strutture. Esistono,
quindi:

- Proteine completamente non strutturate: che esistono solamente come ensemble di


conformeri
- Molten globules: con struttura altamente dinamica e non definita. Rimane comunque una
conformazione piuttosto destrutturata
- Regioni tra domain completamente foldati: abbiamo detto che alcune catene esistono in
distinti domini, strutturati in maniera assolutamente autonoma. Le regioni di congiungimento tra i
singoli domini possono essere delle regioni completamente destrutturate. Queste regioni
intrinsecamente destrutturate contribuiscono estremamente alla solubilità di una proteina. Infatti,
queste proteine sono caratterizzate da molti residui di tipo polare e carico che aiutano la
solubilizzazione del polipeptide in un ambiente acquoso, ma nonostante il grado di disordine e
dinamicità non danno origine a nessuna struttura tridimensionale. Per quanto riguarda le attività
biologiche, esse complementano quelle delle proteine completamente strutturate. Sono spesso
coinvolte nel riconoscimento e binding di particolari partner proteici o acidi nucleici. Quindi, ligandi
o binding più grandi o modifiche post-traduzionali possono indurre le regioni destrutturate verso
una struttura tridimensionale. Il processo, naturalmente, può interessare una sola parte della
proteina oppure anche domini di dimensioni molto maggiori e, soprattutto, deve essere
reversibile.

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In particolare, le modifiche post-traduzionali possono favorire la formazione di particolari


conformazioni in soluzione. Ad esempio, se abbiamo una proteina completamente destrutturata
avremo un pool infinito di conformazioni in soluzione, ma se venisse applicata una modifica post-
traduzionale questa determinerebbe uno shift di un numero consistente di conformazioni verso un
picco di una sola conformazione. Su questo, poi, interverrebbe un'azione guidata dalla
conformazione per trovare un partner di binding specifico.
- Assemblaggi completamente strutturati: generati dall’interazione di molecole di tipo non
strutturato o anche molten globule. Anche le proteine più destrutturate assumono una struttura
definita solo quando trovano il loro partner di legame.

FUNZIONI DELLE REGIONI INTRINSECAMENTE DESTRUTTURATE

 Tra le regioni composte da differenti domini, le regioni disordinate possono svolgere la


funzione di linker, quindi di struttura altamente flessibile che unisce due domini proteici,
conferendo libertà conformazionale ai domini che congiunge e favorendo la dinamica di
dominio, la quale, per esempio, può favorire la ricerca un determinato partner di binding
 Costituiscono brevi motivi lineari nel contesto di una sequenza, che sono siti di interazione.
Quindi, partecipando alla formazione di complesse interazioni con molti partner,
adottano strutture diverse a seconda del partner a cui vengono legate
 Possono contenere siti di modifica post-traduzionale, andando quindi ad alterare le
capacità di interazione di una particolare proteina
 Possono essere coinvolte anche in funzioni di chaperon e in RNA e protein folding
 Studi previsionali sui grandi numeri hanno attribuito alle proteine anche ruoli di signaling
cellulare e di regolazione dell'espressione genica e del metabolismo

[PROF: “naturalmente non avrò molte pretese su questa parte delle proteine destrutturate. Non
sono entrata nel dettaglio, ho solamente accennato ad alcune funzioni che possono essere
mediate da esse”.]

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LE VITAMINE
Sono dei micronutrienti organici, quindi piccole molecole organiche che entrano della
composizione della nostra nutrizione. Naturalmente, la quantità che ci serve di questi composti
varia dal milligrammo ai microgrammi. Per la maggior parte sono introdotte con la dieta e ce ne
sono alcune che possono essere sintetizzate in parte dall'organismo e da microrganismi ospiti del
nostro intestino. Non vengono utilizzate per produrre energia o per ruoli strutturali, ma fanno parte
di co-enzimi.

Vi è innanzitutto una differenza


sostanziale tra quelle liposolubili e
quelle idrosolubili. Le idrosolubili le
introduciamo con la dieta ed un loro
eventuale eccesso riusciremmo a
smaltirlo facilmente, cosa che non
accade con le vitamine liposolubili, le
quali possono accumularsi e dare luogo
ad eventi tossici.

Studiamo le vitamine in dettaglio in


quanto alcune di loro sono collegate a
patologie. Ad esempio, lo scorbuto è
associato alla carenza di vitamina C.
Altre carenze sono degne di nota, come
il Beri-Beri (carenza della vitamina B1),
la pellagra (carenza della vitamina B3),
o l'anemia perniciosa (carenza di B12).

VITAMINA C
La storia della vitamina C è molto antica. Tra il 1600 e il 1800 ci sono stati i viaggi dei grandi
esploratori e nelle navi da trasporto che venivano usate 1 milione di navigatori circa moriva di
scorbuto. Questo perché evidentemente non era disponibile l'accesso a quei nutrienti che
contenevano la vitamina in trattazione. Nel 1536 ci sono state molte perdite tra gli equipaggi, ma ci
si accorse che i nativi americani curavano lo scorbuto con il tè al cedro (prime osservazioni
sperimentali). E' solo intorno al 1930 che si trova la soluzione allo scorbuto: la vitamina C (o acido
ascorbico, nome chimico formale della molecola), che iniziò ad essere isolata come acido
esuronico dal surrene di bue, dalla paprika e dal succo di arancia. In molti alimenti confezionati si
trova spesso l'addizione di acido ascorbico, perché esso è un potente agente conservante
antiossidante.

Dov'è contenuta è oggi ben risaputo: negli agrumi, nei pomodori, nei vegetali a foglia verde, ecc...
E' da notare che in soluzione acquosa si altera molto rapidamente, sopratutto in presenza di
ossigeno, il che già ci fa presagire il suo potere antiossidante.

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Noi introduciamo la vitamina C con


l'alimentazione e a livello dell'intestino la
trasportiamo nelle cellule intestinali attraverso
un trasporto attivo. Essa viaggia nel sangue
come acido ascorbico e l'eccesso o i suoi
metaboliti sono escreti tramite le urine.
C'è anche un piccolo processo di riassorbimento
e ricircolo nel sangue, ma l'eccesso viene
comunque escreto dai reni. Il suo principale
metabolita è l'acido ossalico.
L'acido ascorbico viaggia nel plasma e viene
accumulato dai vari tessuti grazie ai trasportatori
e i livelli più alti si riscontrano nell'ipofisi, nel
surrene e nel cristallino. Ha un tempo di vita di 10-20 giorni.

Il fabbisogno medio giornaliero si aggira intorno ai 75 mg per il maschio e ai 60 mg per la femmina.


Sono quantità relativamente elevate, tantoché il livello di assunzione raccomandato per tale
vitamina è addirittura 105 mg nei maschi, indipendentemente dal range di età, e 85 mg per le
femmine.

SCORBUTO
La vitamina C è indispensabile nella reazione di ossidrilazione della prolina e della lisina nel
collagene. Quindi è evidente che la malattia colpirà il tessuto connettivo. I sintomi principali sono:

• Stomatite emorragica
• Emorragie muscolari e cutanee
• Perdita dei denti
• Insufficiente cicatrizzazione delle ferite e apertura delle ferite più vecchie
• Dolore
• Degenerazione delle ossa

Anche il consumo di alcolici ed il fumo sono fattori compromettenti della quota di vitamina C che
introduciamo e i primi sintomi si manifestano quando la dose che assumiamo si riduce ad un
decimo di quella raccomandata (a partire da circa 10 mg al giorno). Essi rimangono latenti per due
o tre mesi e compaiono quando il valore plasmatico della vitamina C scende al di sotto delle 11
micromoli.

Vediamo le proprietà redox della vitamina C: essa è un agente antiossidante in quanto è un


composto riducente. La forma ridotta la chiamiamo acido ascorbico fosforilato e la forma privata di
elettroni (ossidata) si chiama acido deidroascorbico. E' facile riconoscere quando una specie si
riduce o si ossida. Quando si riduce vi troveremo più idrogeno legato, mentre quando si ossida ne
troveremo di meno.

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Le principali molecole che coinvolgono lo stress ossidativo sono l'anione superossido, che non è
altro che una molecola di ossigeno con un elettrone extra disaccoppiato, l'idroperossido e lo ione
idrossilico. Questi radicali interagiscono con i componenti della cellula strappando loro elettroni. In
questo modo diventano in forma ridotta, si stabilizzano, ma generano un moto radicale nella
molecola alla quale hanno sottratto elettroni. Questa tendenza a strappare elettroni da parte del
radicale ossidante, quindi, è il meccanismo alla base dello stress ossidativo.

Come si oppone la vitamina C a ciò? Quando cede un protone ed un elettrone (quindi perde un
idrogeno e si ossida) da origine ad un intermedio detto acido semideidroascorbico. In realtà ha
anche la capacità di perdere un altro elettrone e un altro protone, dando origine al'acidol
deidroascorbico, che è la formula con i gruppi alcolici trasformati in gruppi chetonici.
Quindi, nella trasformazione da specie ridotta a specie completamente ossidata essa può perdere
due elettroni e due protoni, operazione atta a favorire la neutralizzazione delle specie responsabili
del danno radicalico.

FUNZIONI DELLA VITAMINA C


Questa vitamina facilita l'assorbimento del ferro
nell'intestino (il cosiddetto ferro non eminico) e
di conseguenza cura l'anemia.
Essa, inoltre, è un importante cofattore
enzimatico. Ci sono enzimi che lavorano e
compiono una determinata azione di catalisi in
presenza di altre molecole organiche. La
vitamina C diventa appunto cofattore di
particolari enzimi, per la precisione delle
monossigenasi e diossigenasi.
Monossigenasi è un enzima che incorpora un
atomo di ossigeno in un determinato substrato,
mentre le diossigenasi incorporano due atomi
di ossigeno. Questa categoria di enzimi può
essere ferro o rame dipendente, quindi sono
essi sono legati ad un metallo.
Il ruolo dell'acido ascorbico in forma
completamente ridotta è quello di mantenere in forma ridotta e funzionale proprio i cofattori ferro e
rame. Proprio qui interviene nella biosintesi del collagene, cioè nella reazione di idrossilazione
della prolina e della lisina, nella biosintesi della carnitina e nella biosintesi delle catecolammine
(dopamina, noradrenalina e adrenalina).

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Sbobinatore: Michele Berdini, Hajar Belaidi
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Materia: Biochimica
Docente: Prof. / Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: Proteine intrinsecamente disordinate, Vitamine

Gli intermedi che si formano grazie all'interazione della vitamina C con gli enzimi coinvolti in queste
biosintesi possono essere schematizzati nel caso della prolina idrossilasi. La prolina idrossilasi
ha come substrato la prolina e in presenza di alfa-chetoglutarato, di ossigeno e di Fe2+ consente
l'introduzione di un atomo di ossigeno sulla prolina, generando la idrossiprolina. Il problema è che
in questa conversione il Fe2+ viene ossidato e si trasforma in Fe3+. Il compito di vitamina C,
dunque, è quello di contrastare o revertire l'ossidazione del ferro e di fornirgli gli elettroni sufficienti
per poter ritornare al suo stato ridotto. Infatti, se il ferro viene mantenuto nel suo stato ridotto può
continuare a partecipare alla catalisi dell'idrossilazione della prolina.

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Lezione n°09 del 04.05.2018
Sbobinatore: Paola Meroni, Riccardo Ghiretti
Controllore: Chiara Ciampi
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina

TRASPORTO E DEPOSITO DELL’OSSIGENO NEL


SANGUE,
MIOGLOBINA ED EMOGLOBINA
Paragrafo introduttivo:
Modalità di trasporto dell’ossigeno negli organismi viventi e in particolare nell’uomo. Analisi del
contenuto gassoso del sangue. Variazione della componente gassosa del sangue durante lo stato
di apnea. Importanza della pressione in relazione alla componente gassosa del sangue. Struttura e
funzione di mioglobina ed emoglobina.

TRASPORTO DELL’OSSIGENO

Il continuo rifornimento di ossigeno è fondamentale per la vita degli esseri viventi aerobi. Questo
processo è differente nei vari organismi, in particolare dipende dalle dimensioni, infatti una cellula
singola non ha bisogno di sistemi di cattura e di trasporto di ossigeno poiché può riceverlo
semplicemente attraverso la sua superficie. Questo è dovuto a una legge della fisica la quale dice
che “più un oggetto è di dimensioni ridotte maggiore è il rapporto tra la sua superficie e volume
interno”. Questo significa che vi è minore distanza tra la superficie e l’interno della cellula, di
conseguenza l’ossigeno può penetrare per diffusione in funzione del gradiente di concentrazione
riuscendo a raggiungere qualunque punto dell’oggetto. Tutto ciò non può avvenire negli organismi
pluricellulari che superano determinate dimensioni, come ad esempio l’uomo, considerato un
organismo pluricellulare grande. Esso ha bisogno di dotarsi di meccanismi di cattura e trasporto di
O2 poiché altrimenti le parti più interne non verranno mai raggiunte da una quantità adeguata di
ossigeno.

Il trasporto dell’ossigeno avviene attraverso meccanismi differenti negli organismi pluricellulari, ad


esempio negli insetti avviene mediante sistemi di microtubi i quali contengono ossigeno disciolto
nell’aria, nei pesci invece esso è disciolto nell’acqua dalla quale quest’ultimi lo estrapolano grazie
alla presenza di organi di respirazione chiamati branchie. La solubilità dell’ossigeno nell’acqua
dipende dalla pressione, ovvero nel caso dell’uomo 1 atm, e dalla temperatura. L’acqua fredda
contiene una quantità di ossigeno disciolto maggiore rispetto all’acqua calda, infatti ne sono più ricchi
i ruscelli di montagna piuttosto che le acque stagnanti.

TRASPORTO DELL’OSSIGENO NELL’UOMO

L’uomo ha una temperatura corporea di circa 37° che è considerata abbastanza elevata e di fatto la
concentrazione di ossigeno disciolto nell’acqua del nostro impianto vascolare è 2,3 ml di O2 per litro
di plasma.
All’interno del sangue invece l’ossigeno è trasportato grazie a una proteina chiamata emoglobina
la quale non è libera nel flusso vascolare ma è contenuta all’interno degli eritrociti, cellule a termine
prive di qualsiasi ulteriore organo come nucleo e mitocondri ma ricchi di essa.

Dati:
Considerando complessivamente l’ematocrito (quota di elementi corpuscolati nel sangue) è
possibile riscontrare che in 1L di sangue vi sono 150 g di emoglobina corrispondenti a circa il 15%
del totale. 1 g di Hb è in grado di legare 1,34 mL di ossigeno. Di conseguenza la presenza
dell’emoglobina nel sangue fa sì che il livello trasportato diventi 200 mL/L poiché:

1,34 x 150 ≃ 200 mL/L

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Lezione n°09 del 04.05.2018
Sbobinatore: Paola Meroni, Riccardo Ghiretti
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Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina

Di conseguenza l’emoglobina aumenta di circa 100 volte la capacità di trasportare ossigeno nel
sangue e inoltre, considerando che 200 mL/L corrispondono al 20% e che la percentuale di ossigeno
nell’aria è circa 21%, possiamo riscontrare che l’emoglobina ha un’enorme capacità di cattura tanto
da trasformare il sangue in aria.
Il 98% dell’ossigeno nel sangue circola in forma legata attraverso un’interazione reversibile poiché
l’emoglobina grazie alla sua intelligenza biochimica è in grado di catturare l’ossigeno nei polmoni
ma anche di cederlo nelle zone periferiche.

Output cardiaco
Il cuore di un uomo adulto a riposo di dimensioni corporee normali pompa circa 5 litri di sangue al
minuto. Considerando che l’uomo ne possiede circa 5 litri ciò significa che in 1 minuto tutto il sangue
dell’individuo preso in considerazione passa attraverso il cuore verso la periferia e viceversa. Quindi
quanto ossigeno ho trasportato?

5 litri al minuto x 200 ml = 1L di ossigeno puro al minuto.

L’intelligenza biochimica quindi si adatta anche all’attività, in base allo stato fisico della persona, che
sia a riposo o in movimento. Infatti, durante l’attività fisica è necessario un maggiore ricambio di
ossigeno perché i muscoli ne consumano una quantità maggiore rispetto a quando sono a riposo.

CONTENUTO DEI GAS NEL SANGUE

mL/dL OF BLOOD CONTAINING 15 g OF HEMOGLOBIN

Arterial Blood Venous Blood


(P O2 95 mm Hg; (P O2 40 mm Hg;
Gas P CO2 40 mm Hg; P CO2 mm Hg;
Hb 97% Saturated) Hb 75% Saturated)

Dissolved Combined Dissolved Combined

O2 0,29 19,5 0,12 15,1


CO2 2,62 46,4 2,98 49,7
N2 0,98 0 0,98 0

La tabella distingue la divisione tra sangue arterioso e venoso calcolando la pressione parziale dei
gas al loro interno secondo l’unità di misura dei millimetri di mercurio (mm Hg) e distingue la quantità
di gas libero e disciolto. I gas a cui fa riferimento sono:

• Ossigeno O2
• Anidride carbonica CO2
• Azoto N2

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1. Analisi ossigeno

Come detto in precedenza, l’ossigeno nel sangue è circa 20 mL/dL, di cui una minima parte libera e
una parte maggiore legata all’emoglobina. Quando il sangue arriva in periferia avviene lo scambio
dei gas, però quello che è possibile notare è che la quantità di ossigeno all’interno del sangue venoso
non è nulla come ci aspetteremmo, ma è solo diminuita. La quota di sangue disciolto si riduce da
0,29 a 0,12 e la quota legata si abbassa da 19,5 a 15,1, ovvero solo un quarto dell’ossigeno viene
ceduto in periferia, non tutto. Per comprendere bene il concetto immaginiamo il flusso sanguineo
come un nastro trasportatore che parte dai polmoni con un carico di ossigeno di 19,5 e che una volta
arrivato in periferia perde un quarto del suo totale arrivando a 15,1. Una volta completato questo
primo tragitto il sangue ritorna agli alveoli polmonari dove viene nuovamente saturato al fine di
riottenere un valore di 19,5. Quello che conta è la quota che viene continuamente ceduta e
successivamente ricaricata, non è necessario che si scarichi tutto ma l’importante è che vi sia una
cessione costante e continua.

Quesito: Rifacendoti ai valori dell’output cardiaco quanto tempo si riesce a stare in apnea
considerando che ogni minuto si perde un quarto dell’ossigeno? (In condizioni fisiche normali di
apnea a riposo).

Dato che ¼ corrisponde al 25% significa che ogni minuto perdo il 25% del mio ossigeno disponibile
in partenza. Considerando l’assenza di ricarica dell’ossigeno dovuta all’apnea, al termine del
secondo ricircolo vascolare avrò perso la metà del mio ossigeno disponibile, al terzo ¾ e al quarto
l’ossigeno totale, quindi in 4 min.

N. CIRCOLO QUOTA DI QUOTA DI PERDITA DI


VASCOLARE OSSIGENO A OSSIGENO A OSSIGENO
LIVELLO DEI LIVELLO DELLA RISPETTO AL
POLMONI PERIFERIA TOTALE DI 20
-5
1° 19,5 ≃ 20 15,1 ≃ 15 PERDITA DI
¼
-10
2° 15 10 PERDITA DI
1/2
-15
3° 10 5 PERDITA DI
3/4
-20
4° 5 0 PERDITA DI
4/4

• Per circolo vascolare si intende il percorso polmoni → periferia + periferia → polmoni


• Ogni circolo vascolare dura 1 minuto

2. Analisi anidride carbonica

L’anidride carbonica è un gas che può essere trasportato sia liberamente nella componente acquosa
del sangue sia legato. La differenza tra sangue venoso e arterioso della componente libera è minima,
2,98 e 2,62, invece quella della componente legata è più rilevante, 49,7 e 46,4. Il legame tra CO 2 ed
emoglobina è reversibile e permette di cederla a livello polmonare e acquistarla a livello periferico,

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Sbobinatore: Paola Meroni, Riccardo Ghiretti
Controllore: Chiara Ciampi
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina

esattamente il contrario di quello che avviene per quanto riguarda il nastro trasportatore
dell’ossigeno.

3. Analisi azoto

È il gas più presente nell’atmosfera (oltre il 70%), ed è classificato come gas nobile. Nel sangue
viene trasportato unicamente sotto forma di componente libera e i suoi valori non differiscono tra
circolazione venosa e arteriosa poiché non viene coinvolto in meccanismi di metabolismo, non viene
modificato o estratto. Essendo un gas nobile, di conseguenza poco reattivo, non viene coinvolto nel
legame con l’emoglobina.

Embolia gassosa o malattia del subacqueo

La presenza di questi gas all’interno della circolazione sanguinea può dare delle patologie, anche
mortali, in alcune situazioni quali le attività subacquee.
Come riportato in precedenza, uno dei parametri che condizionano la capacità di sciogliere gas
nell’acqua è la pressione, la quale è direttamente proporzionale alla solubilità dei gas.
Al fine di comprendere meglio questi concetti analizziamo l’esempio della bottiglietta d’acqua.

Osservando una bottiglietta di acqua gasata, a temperatura ambiente, appena comprata e chiusa,
noto che non vi sono movimenti di bollicine e la plastica al tatto risulta particolarmente rigida e
difficilmente deformabile. Quindi, in questa situazione vedo unicamente acqua trasparente e non
gas (anidride carbonica) poiché quest’ultimo è interamente disciolto nel liquido. Nel momento in cui
apro la bottiglietta noto delle bollicine salire verso l’alto e l’acqua schizzare. Questo avviene perché
quando il tappo è chiuso la CO2 è interamente disciolta dentro l’acqua poiché all’interno vi è una
pressione superiore rispetto a quella atmosferica, ma tolto il tappo la pressione cala
precipitosamente rendendo la CO2 insolubile e liberandola sotto forma di bollicine.

Questo fenomeno avviene anche nel nostro sangue quando la pressione aumenta, come ad
esempio sott’acqua, infatti ogni 10 m di profondità la pressione aumenta di 1 atm. Durante il periodo
di permanenza a una pressione maggiore rispetto a quella atmosferica tutti i gas si sciolgono nel
sangue, anche quelli che in condizioni normali sarebbero liberi come l’azoto. Al fine di non creare
danni, la risalita in superficie deve avvenire ad una velocità molto bassa facendo delle tappe di
ricompressione per eliminare bollicine. La troppa velocità in questa operazione causa la
trasformazione di tutti i gas in bollicine che scorrendo all’interno del flusso sanguineo possono
ostruire arteriole, soprattutto del sistema nervoso centrale, causando un blocco del trasporto del
sangue al cervello.
Se il danno è molto grave si ha la morte immediata. Quando invece si hanno i sintomi dell’embolia,
ma non ancora avvenuta, è possibile riassestare la propria pressione corporea all’interno delle
camere iperbariche, nelle quali l’individuo viene riportato alla pressione in cui era sott’acqua, in modo
tale da far risciogliere i gas nel sangue e successivamente tornare alla pressione atmosferica
lentamente. Il processo può durare anche 24-48 ore.

MIOGLOBINA ED EMOGLOBINA

All’arrivo dell’ossigeno in periferia c’è bisogno di una molecola che sia in grado di strapparlo
all’emoglobina e di conservarlo localmente e temporaneamente in modo da costruire il deposito
periferico, fondamentale per le attività metaboliche delle cellule. Quindi, riassumendo, vi è bisogno
di una molecola motile (emoglobina), di una residente (mioglobina), che l’ossigeno passi dalla prima
alla seconda e che da quest’ultima possa essere tolto per partecipare ai processi cellulari.

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Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina

Strutturalmente la mioglobina è una proteina globulare costituita da un unico monomero. Essa è


molto presente in tutte le cellule periferiche, in particolare in quelle che hanno un metabolismo
altamente dipendente dall’ossigeno, come ad esempio le cellule del muscolo scheletrico o di quello
cardiaco (entrambe presentano un colore rosso dovuto alla presenza del gruppo Eme all’interno
della mioglobina).

Struttura terziaria della mioglobina di capodoglio.


L’orientamento della proteina è lo stesso da (a) a (d); il gruppo eme è mostrato in rosso. Oltre a
illustrare la struttura della mioglobina, la figura mostra anche esempi di modi diversi di rappresentare
le strutture proteiche. (a) lo scheletro del polipeptide è rappresentato sotto forma di nastro, secondo
una convenzione introdotta da Jane Richardson, per mettere in evidenza le regioni a struttura
secondaria. Qui sono evidenti le regioni ad α elica. (b) Immagine della superficie della proteina; in
questa rappresentazione della struttura proteica vengono messe in evidenza le infossature o tasche
superficiali a cui si possono legare altre molecole. (c) Rappresentazione a nastro che comprende le
catene laterali (in giallo) dei residui idrofobici Leu, Ile, Val e Phe. (d) Modello a spazi pieni comprende
tutte le catene laterali amminoacidiche. Ciascun atomo è rappresentato da una sfera proporzionale
al suo raggio di van der Waals. I residui idrofobici sono ancora rappresentati in giallo. La maggior
parte di essi, però, non è visibile perché nascosta all’interno della molecola.

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Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina

L’eme, gruppo eme o ematina, è un complesso chimico membro di una famiglia di composti
chiamati porfirine contenente un atomo di ferro. L’eme costituisce il gruppo prostetico, cioè la parte
non proteica della molecola. Esso non è esposto sulla superficie della mioglobina ma è inserito in
una fessura molto stretta. Dato che questo gruppo è in grado di catturare e legarsi all’ossigeno ci
aspetteremmo che sia esposto, invece è nascosto all’interno e le due pareti dell’incavo sono
tappezzate da amminoacidi idrofobici, in modo tale da non farlo venire a contatto con l’acqua.

Paragonandola alla struttura dell’emoglobina notiamo che quest’ultima è più complessa. Infatti la
mioglobina è costituita da un unico monomero e possiede una struttura terziaria globulare
compatta, l’emoglobina invece è costituita da quattro catene proteiche legate a vicenda,
apparentemente uguali, che formano la struttura quaternaria. 2 catene sono tra loro identiche, alfa
1 e alfa 2, le altre due sono uguali tra loro ma non alle prime due, beta 1 e beta 2.

La catena globinica, quella alfa emoglobinica e quella beta emoglobinica sono tutte differenti tra loro,
ovvero ci vogliono geni diversi per codificarle. Hanno una struttura terziaria che è quasi identica ma
non la struttura amminoacidica.

Mioglobina (balena): una catena polipeptidica di 153 residui amminoacidici (massa = 17,2 kD)
possiede un eme (massa = 652 D) e può legare un O2.
Emoglobina (umana): quattro catene polipeptidiche, due di 141 residui (α) e due di 146 residui (β);
massa molecolare = 64,45 kD. Ciascun polipeptide possiede un eme; il tetramero Hb può legare
quattro O2.

Come detto in precedenza l’emoglobina è costituita da 4 catene ognuna delle quali contiene un
gruppo prostetico, ognuno dei quali può catturare una molecola di ossigeno, quindi, quando la
proteina ne è completamente satura (a livello polmonare), ha legato 4 molecole di O2. Andando in
periferia e cedendo circa il 25% dell’ossigeno si può determinare che si sia persa una sola molecola
di O2. Di conseguenza, riprendendo l’esempio dell’apnea, possiamo capire perché al quarto minuto
vi sia una desaturazione completa di ossigeno.

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STRUTTURA DELLA MIOGLOBINA

Si può notare che dentro questa struttura sono presenti 8 segmenti ad alpha elica, rappresentati da
“tubi” uniti tra loro e nominati con le lettere dell’alfabeto (A B C D E F G H). Tra un’alpha elica e l’altra
vi sono dei punti di giunzione, detti “gomiti”, che prendono il nome dalle lettere di giunzione (come,
per esempio, il gomito A-B). Si avvolgono a formare una struttura compatta.
All’interno delle catene di alpha elica vi è il gruppo Eme, al quale si avvicinano due amminoacidi
importanti (di cui si vede il gruppo R).
Gli esseri umani sono in grado di sintetizzare il gruppo Eme (non si tratta di una vitamina) a partire
dalla porfirina IX, che diventa protoporfirina IX quando lega il gruppo Eme. La porfirina IX è
chiamata anche “anello tetrapirrolico”: questo perché si tratta di un anello a 5 atomi di cui un azoto.
queste 4 strutture cicliche, che andranno a formare la protoporfirina IX, sono collegate tra loro da
dei ponti in modo da presentare il gruppo N verso l’interno di uno stesso piano rivolto verso il centro.
La protoporfirina IX ha la capacità di alloggiare al centro un atomo di ferro (che non sarebbe
sintetizzabile: infatti va mangiato!). All’interno del corpo umano, il ferro viene contenuto
principalmente nella emoglobina, nella mioglobina e nei citocromi.
Il ferro è in valenza 2+; in questa valenza è in grado di fare 6 legami covalenti di coordinazione: di
cui quattro perpendicolari su un piano e due (uno verso l’alto e uno verso il basso) perpendicolari a
tale piano. I primi quattro consistono nel legame tra ciascuno degli atomi di azoto dell’anello
tetapirrolico della porfirina ed il ferro, stabilizzando così quest’ ultimo al centro. Il quinto legame lega
l’atomo di azoto di un anello a 5 atomi, che è gruppo R di un residuo di istidina detto “istidina
prossimale” (“prossimale” perché è vicino) che permette di saldare covalentemente il gruppo Eme
alla catena proteica. Il sesto legame, infine, è quello che il ferro può fare con la molecola di ossigeno.

Tuttavia al sesto legame accade una cosa strana: il ferro, che presenta una valenza di 2+, legandosi
con un'altra molecola, dovrebbe donare un elettrone e passare ad una valenza di 3+; tuttavia, questo
non si verifica. Infatti, se il ferro passasse dalla valenza 2+ a quella 3+ (come quando viene a contatto
con l’acqua) si formerebbe un legame irreversibile e l’ossigeno non si staccherebbe più.
In questo caso, però, l’ossigeno non strappa un elettrone al ferro e il legame resta in questo modo
reversibile; la mioglobina è quindi in grado di slegare l’ossigeno quando necessario. Tale legame
deve sempre mantenere valenza 2+ ed è per questo che il gruppo eme va sempre “tenuto lontano”
dall’acqua nella “tasca”: perché altrimenti “arrugginirebbe” e non sarebbe più in grado di legare
l’ossigeno reversibilmente ma solo irreversibilmente.

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Questo è il motivo per il quale non si possono mettere gruppi Eme artificiali, ossia non protetti dalla
catena polipeptidica, nel sangue: perché non funzionerebbero.
L’ossigeno si riesce a bloccare in quell’area perché all’operazione non è concorre solo dal ferro, ma
vi sono anche altri amminoacidi che contribuiscono.

RUOLO DEL RESTO DELLA CATENA PROTEICA

Il residuo di Istidina prossimale è detto anche Istidina F8, poiché l’ottavo amminoacido si presenta
sull’alpha elica F. L’Istidina F8 viene avvicinata e forma il quinto legame che ancora il sistema. Il
legame tra Fe e O2 non è un legame covalente perfetto (perché altrimenti il ferro diventerebbe 3+),
è una sorta di “mezzo legame”, ossia un’interazione molto debole.

La catena F8, arrotolandosi, avvicina altri tre amminoacidi al ferro che sono:
• una seconda Istidina E7, molto importante, che avvicina un gruppo H e forma un ponte
idrogeno con l’ossigeno. Quest’ultimo viene ulteriormente saldato da altre due interazioni
deboli con gli altri due amminoacidi, ossia:
• la Valina E11
• la Fenilalanina C-D1

Il ferro ed i tre amminoacidi bloccano in questo modo l’ossigeno, nonostante il ferro sia rimasto con
valenza 2+. Se si allontanano i tre amminoacidi, l’ossigeno rompe rapidamente il legame con il ferro
e viene rilasciato.
A legare e rilasciare l’ossigeno è il cambiamento conformazionale della catena proteica: “è
l’emoglobina a respirare, non siamo noi”; perché si chiude o si apre lasciando andare via l’ossigeno.
Senza la catena proteica non si riuscirebbe a respirare poiché il ferro si ossiderebbe.

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Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina

IMPORTANZA DELLA CONFORMAZIONE DELLA CATENA PROTEICA

Guardando queste due catene globiniche ci


accorgiamo che sono simili, ma non identiche (hanno
alcuni punti sovrapponibili ed altri no).
Infatti, sono la catena proteica della mioglobina e la
subunità beta dell’emoglobina. Entrambe, però,
hanno assunto una conformazione terziaria che è
quasi sovrapponibile.

Ma fino a che punto sono uguali e fino a che punto


sono diverse?

Le strisce rosa indicano gli amminoacidi


identici, i grigi sono quelli simili. Ma se queste
catene hanno una struttura terziaria quasi
sovrapponibile, avranno una sequenza molto
simile, con un alto trasso di omologia? NO.
I residui conservati sono solo 26 su 146
(neanche il 20%); dunque sono identiche solo
per il 20% degli amminoacidi. Ciò dimostra
che si tratta di proteine diverse codificate da
geni diversi, che hanno tuttavia in comune la
stessa struttura terziaria; si tratta quindi di
proteine diverse con struttura molto simile (se
non praticamente identica). Dunque, sono
permesse alcune sostituzioni di un
aminoacido con un altro, che non danno alcun
cambiamento conformazionale
ES: se sostituisco Glicina con Prolina, la
quale crea un angolo di 90°, la struttura
terziaria cambierà.

Alcuni amminoacidi devono assolutamente essere gli stessi, come le Istidine (altrimenti non si
legherebbe il ferro) o quelli che determinano le curvature in modo da compattare la catena proteica
o quelle che legano l’ossigeno, mentre possono cambiare anche tutti gli amminoacidi di una alpha
elica, basta che non si cambi la struttura terziaria. Tutto ciò dimostra quanto sia importante la
struttura di una proteina.

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Argomenti: Trasporto dell’ossigeno nel sangue, mioglobina ed emoglobina

Si possono usare algoritmi che permettono di allineare le sequenze e contare quanti amminoacidi
sono diversi. Lo score è un valore di similitudine: il valore massimo è 1 (due molecole identiche).
Si può quindi calcolare la similitudine o l’omologia e classificare le molecole in grado di parentela o
similitudine. Sono moto più simile le catene alpha di un umano e di un cavallo che due catene alpha
globuliniche umane.
Si possono ricostruire in questo modo gli alberi filogenetici. Se io prendo una proteina e studio le
differenze tra tutti questi tipi di proteine di diverse specie, posso ottenere una retta che mostra i
cambiamenti della struttura amminoacidica nelle diverse ere. Possiamo capire anche la velocità di
mutazione intermedia: il citocromo C muta più lentamente. Dipende anche dalla funzione e
dall’l'importanza (il citocromo è molto più importante del fibrinogeno). Facendo questi studi si sono
riusciti a prevedere dei fossili, identificando i periodi di speciazione. Inoltre, sem pre grazie a questi
studi, si è riuscita a giustificare l’inesistenza delle razze umane: infatti “possono essere più vicini tra
loro un individuo caucasico e un negroide che due caucasici”.

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Lezione n°10 del 07.05.2018
Sbobinatore: Elena Roccon, Francesco Cannito
Controllore: Edoardo Farnè
Materia: Biochimica
Docente: Prof. / Prof.ssa Saverio Bettuzzi
Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

STRUTTURA E FUNZIONE DELL’EMOGLOBINA


Lo studio dell’omologie di sequenza ha portato tantissime informazioni:

• La scoperta dell’albero filogenetico del Citocromo C, una proteina utilizzata per gli studi
evolutivi comparati in quanto presente nella catena di trasporto degli elettroni nei mitocondri
in tutti gli organismi viventi;
• La possibilità di prevedere in quale periodo si è verificata la biforcazione evolutiva ed
eventualmente ipotizzare l’esistenza di fossili risalenti a quel determinato periodo.
• Importanti aspetti strutturali e funzionali delle proteine: comparando le catene polipeptidiche
della mioglobina e dell’emoglobina si scopre che soltanto alcuni amminoacidi sono identici
e che la sostituzione degli altri non è casuale ma un residuo amminoacidico viene sempre
sostituito da un residuo amminoacidico con caratteristiche chimiche equivalenti in modo da
mantenere conservata la struttura terziaria.
• Il fatto che determinate sequenze rimangano conservate più di altre dipende dal fatto che
certe mutazioni (che avvengono sempre in maniera casuale interessando qualunque
nucleotide) non sono compatibili con la sopravvivenza. Le mutazioni avvengono ma
rimangono radicate nel genoma solo se l’individuo mutato sopravvive e si riproduce.
Il ruolo giocato dall’emoglobina e dalla mioglobina è diverso: l’Hb è una molecola di periferia che
deve saper prelevare ossigeno dai polmoni e portarlo ad un'altra proteina residente nelle cellule
che è la mioglobina (Mb); Hb e Mb pur essendo simili in termini presentano una differenza
radicale: Hb è un tetramero (quindi ha una struttura quaternaria) con quattro gruppi prostetici in
grado di legare ossigeno , Mb è un monomero (quindi ha una struttura terziaria) con un solo
gruppo prostetico in grado di legare ossigeno.
L’emoglobina in realtà nasce come dimero per poi divenire tetramero determinando uno ‘shifting’
da struttura terziaria a quaternaria che comporta un aumento delle capacita funzionali adatte allo
svolgimento del suo compito.

Per affrontare il nuovo argomento è opportuno riprendere alcune nozioni di matematica sulle
funzioni:
1) Una funzione è una legge che associa ad ogni valore di x un valore a y. Quindi ad un
valore di x deve corrispondere uno e uno solo valore di y (nel caso di una curva sigmoide).
2) La curva associata alla funzione viene rappresentata su un sistema di assi cartesiani.

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Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

(figura 1)

In questo caso sull’asse delle ascisse pongo la quantità di ossigeno che somministro (in mmHg
essendo un gas) mentre sull’asse delle ordinate la percentuale di saturazione dell’emoglobina
(in %).
SPIEGAZIONE CURVA SIGMOIDE EMOGLOBINA
Come è stata determinata la curva? Prendo una serie di provette (possibilmente un numero
elevato essendo ciascuna di queste un punto di determinazione) e inserisco all’interno la stessa
quantità di emoglobina (affinché siano identiche è necessario che il campione di sangue sia del
medesimo individuo e che ogni provetta contenga la stessa quantità del fluido); tutte le provette
devono essere sotto azoto in modo che l’atmosfera interna sia priva di ossigeno.
Considero la prima provetta e le do un valore di mmHg di ossigeno pari a zero perché l’atmosfera
interna contiene solo azoto: PaO2= 0 di conseguenza anche SaO2%=0 perché nessun sito di
legame dell’emoglobina è saturato dall’ossigeno (essendo assente nella provetta). Quindi la curva
parte dall’origine perché l’Hb è tutta deossi, tutti e 4 i siti di legame sono liberi e non impegnati
dall’ossigeno.
Considero le altre provette e immetto quantità progressivamente crescenti di O2: ad un valore di
PaO2 pari a 120mmHg ho immesso la quantità massima di ossigeno possibile ovvero la provetta
ha una quantità di ossigeno interno pari a quello atmosferico a quota 0 di altitudine. Quindi il valore
massimo di PaO2= 120mmHg mentre SaO2 tende ad infinito perché l’emoglobina teoricamente
dovrebbe avere un grado si saturazione pari al 100% (tutti e 4 i siti di legame dell’ossigeno sono
saturi) ma sperimentalmente l’Hb non sarà mai satura al 100% perché sono legami reversibili.
PaO2= 120mmHg è un valore limite.
Infine calcolando il valore di SaO2% associato alle altre provette ottengo una curva del genere
(figura 1).

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Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

Che forma ha la curva e quali sono le sue caratteristiche? È una curva Sigmoide derivante dalla
fusione di due rami di iperbole con differente concavità: il primo ha concavità verso l’alto, il
secondo verso il basso; i due rami si fondono in un punto di flesso (punto a tangente verticale)
cambiando concavità. Il punto di flesso si trova nella regione più ripida dell’innalzamento della
curva (con valore di PaO2 leggermente superiore a 40mmHg).
Quali sono i valori fisiologici? Dato il comportamento sperimentale dell’emoglobina nel nostro
sistema cerchiamo di rapportare questo alla condizione reale del soggetto. Noi inspiriamo, entra
l’aria nei polmoni, qui incontra una quantità di aria già presente perché i polmoni non si svuotano
mai del tutto; è inoltre molto umida e questa umidita incide sul valore di PaO2 perché mangia una
quota di pressione. L’aria inspirata quindi non ha un valore di 120mmHg ma all’incirca tra 100 e
90mmHg ed è il valore del sangue arterioso.
Quando il sangue viene pompato dal cuore fino al polmone e va a permeare l’alveolo la SaO2% è
sostanzialmente vicino al 100%; tempestivamente il sangue abbandona l’alveolo polmonare e
viene spinto verso la periferia dove qui viene prelevato e utilizzato ossigeno dal metabolismo
cellulare. Per questo motivo la quantità del gas presente nella periferia non è la stessa di quella
che io trovo nel cuore.
Nel sangue venoso il valore è circa 40mmHg a cui corrisponde un valore di SaO2%=75% ovvero
significa che in periferia l’emoglobina ha perso 25% del suo carico di ossigeno. Il ciclo poi si ripete:
il sangue torna all’alveolo polmonare, si ricarica di ossigeno e decorre nuovamente verso la
periferia cedendo un 25%. Attraverso questo gioco Hb convoglia pacchetti di ossigeno di circa il
25% della sua quantità massima ogni volta che fa questo giro.
Tutto questo vale quando il soggetto è a riposo.
In attività fisica intensa i muscoli scheletrici e il cuore aumentano il loro metabolismo e catturano
più ossigeno; catturando piu ossigeno il valore di PaO2 in periferia diminuisce. Nel sangue venoso
di un soggetto a riposo io ho un valore di PaO2 in periferia di circa 40mmHg mentre nel sangue
venoso di un soggetto sottoposto ad un esercizio fisico intenso il valore può scendere a 15-
20mmHg (ovviamente il tutto dipende dal tipo e dalla quantità di sforzo fisico a cui si è sottoposti).
A 40mmHg SaO2%= 75% mentre con PaO2= 12-20mmHg SaO2%= 25%, cosa sta succedendo?
L’emoglobina quando va al polmone si carica uguale ma quando va in periferia invece di scaricare
un pacchetto di 25% scarica un pacchetto di 75% che è la differenza tra la saturazione polmonare
e la saturazione del tessuto di un soggetto che fa attività fisica. Questo è dovuto alla saturazione
della curva perché nella zona tra sangue periferico a riposo e sangue periferico sottoposto a sforzo
fisico c’è la massima impennata della curva, le massime differenze. In questo range piccole
differenze di ossigeno fanno rilasciare grandi quantità di ossigeno dall’emoglobina. Dunque esiste
un meccanismo molecolare che consente all’emoglobina di percepire quanto ossigeno c’è
nell’ambiente e se ce n’è tanto si satura, se ce n’è meno ne cede e se ce n’è ancora meno ne cede
ancora di più.
La capacita che ha Hb di legare O2 si chiama affinità (affinità verso il ligando naturale che è O2)
ed è variabile:-
- È molto affine nel polmone cioè quando di ossigeno ce n’è molto.
- È meno affine nel sangue periferico a riposo cioè quando di ossigeno ce n’è poco e lo
cede.

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Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

- È ancora meno affine nel sangue periferico di un soggetto sotto sforzo fisico e ne cede
ancora di più.
L’affinità dell’Hb dipende quindi dalla quantità di ossigeno presente nel sistema.
In questo modo può espletare al meglio la sua funzione e soddisfare le richieste dell’organismo.
Durante un esercizio fisico intenso aumentano altri valori fisiologici (attività respiratorio, gittata
cardiaca, volume di scambio respiratorio) ma se l’Hb non avesse questa proprietà non riusciremmo
a compiere uno sforzo fisico perché da sola triplica la quantità di ossigeno da cedere alla periferia.
La forma della curva che è Sigmoide e che ha questa particolare inclinazione molto accentuata
nella fascia 40-15 mmHg (fascia tra ossigeno di un soggetto a riposo e ossigeno di un soggetto
sottoposto a sforzo fisico) mi dimostra che l’affinità è variabile ed è inversamente proporzionale
alla quantità di ossigeno (+ ossigeno c’è e – è affine, - ossigeno c’è e + è affine).
Per valori più bassi ovvero per valori non più fisiologici ma patologici il soggetto sta andando
incontro a cianosi, ischemia, anossia.
Per questo motivo escludiamo valori sotto al 15mmHg e sopra al 100mmHg quando studiamo Hb
per ragioni fisiologiche.
CONFRONTO EMOGLOBINA E MIOGLOBINA

(Figura 2)

Prediamo in considerazione delle provette contenenti Mioglobina e con la stesso procedimento


precedente ottengo una curva simile a quella della figura 2.
Dal grafico osserviamo che Emoglobina e Mioglobina a 80mmHg di O2 (nell’alveolo polmonare) si
comportano allo stesso modo e questo valore è di scarso interesse biologico perché la Mb non va
nei polmoni ma è presente esclusivamente alla periferia; quindi vale la pena confrontare il

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Lezione n°10 del 07.05.2018
Sbobinatore: Elena Roccon, Francesco Cannito
Controllore: Edoardo Farnè
Materia: Biochimica
Docente: Prof. / Prof.ssa Saverio Bettuzzi
Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

comportamento delle due molecole nel range del sangue periferico quando il soggetto è a riposo
oppure è sotto sforzo (in figura2 è rappresentato rispettivamente dalla colonna rossa e dalla
colonna blu)
L’Hb abbiamo già visto che nel primo caso cede il 25% di O2 (SaO2%=75%) , nel secondo il 75%
(SaO2%= 25%) mentre Mb nel primo caso ha un valore di SaO2% all’incirca vicino al 100%, nel
secondo SaO2% è ancora uguale al 100%.
La Mioglobina ha una curva Iperbolica, un ramo di iperbole molto schiacciato verso l’asse delle
ordinate.
La curva di Mb è sempre sopra quella di Hb e ciò significa che per qualunque valore di PaO2 la
mioglobina è sempre più satura dell’emoglobina.
Quindi nel range di valori fisiologici l’affinità della Mb per l’O2 è costante e sempre maggiore
dell’Hb.
Chi ha preso l’ossigeno ceduto dall’emoglobina? Abbiamo detto che l’Hb nei polmoni si ricarica al
100% mentre in periferia cede un 25% in condizioni di riposo o un 75% in condizioni di stress
fisico. L’accettore di quel 25 o 75% è la Mioglobina per questo questo motivo Mb deve avere un’
affinità sempre maggiore perché deve catturare l’O2 rilasciato da Hb.
Questo permette un passaggio di O2 dall’alveolo ad Hb, da Hb a Mb che si satura al 100% anche
quando siamo sotto sforzo fisico. Il passaggio dunque è unidirezionale: Hb→Mb e mai viceversa
perché l’affinità di quest’ultima è costante e sempre superiore a quella di Hb nel range fisiologico.
Anche il legame dell’Mb è reversibile che si sposta verso destra o verso sinistra a seconda
dell’azione di massa: se c’è molto ossigeno viene portato via, se rubo ossigeno l’equilibrio si
sposta verso destra.
Chi ruba l’ossigeno all’Mb? I mitocondri. Dentro alle cellule c’è un PaO2= 5-3mmHg e osservando
il grafico notiamo un notevole ripidità della curva in questo range; a questi valori l’Mb si scarica
parecchio e scendendo si scarica totalmente (ischemia). Quindi per valori più bassi di 5mmHg il
crollo della curva dimostra che l’Mb a questi valori cede O2 al mitocondrio che lo utilizzerà per la
fosforilazione ossidativa.

STRUTTURA E FUNZIONE DELL’EMOGLOBINA


Cosa succede se un essere umano smette di respirare per un certo periodo di tempo? Una risposta
semplicistica potrebbe essere: non c’è più ossigeno, quindi il metabolismo si ferma. Consideriamo
tuttavia vari organismi viventi, fra cui alcune specie di batteri, che vanno in “stasi” per centinaia di
anni se congelati: essi sono in grado di riprendere le loro attività metaboliche come se niente fosse.
L’uomo invece, in assenza di ossigeno per un tempo adeguato, subisce delle lesioni nel migliore dei
casi reversibili, altrimenti muore. E’ fondamentale avere un’ottima conoscenza dei principi di
biochimica per rispondere a questa domanda: la quantità di eventi da considerare per poter avere
un quadro completo del metabolismo delle cellule umane è ingente, e i processi da analizzare sono
molto complessi.

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Lezione n°10 del 07.05.2018
Sbobinatore: Elena Roccon, Francesco Cannito
Controllore: Edoardo Farnè
Materia: Biochimica
Docente: Prof. / Prof.ssa Saverio Bettuzzi
Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

Potremmo infatti paragonare la figura del medico a quella di un meccanico: un’auto danneggiata
necessita di una o più specifiche riparazioni al pezzo non più funzionante, sia esso un ingranaggio,
l’impianto elettrico, il motore o qualsiasi altro dispositivo. E’ fondamentale una perfetta conoscenza
della meccanica per poter aggiustare l’automobile, altriementi si rischia solo di danneggiarla. In tutto
ciò, esattamente come avviene per il mestiere del medico, non esiste alcuna componente di
creatività o di estro artistico: il paziente che presenta un disturbo dovrebbe ricevere da qualsiasi
specialista egli consulti la stessa diagnosi e la stessa terapia.
Dunque è importante dedicare del tempo a capire come funziona la macchina umana, di
conseguenza il meccanismo che si è inceppato e gli strumenti necessari a coglierne il
malfunzionamento (le analisi sono fondamentali per formulare ipotesi diagnostiche e in seguito una
corretta diagnosi). Naturalmente a ciò deve seguire la prescrizione della terapia più adatta, sia essa
individualizzata o anche molto complessa, e un adeguato controllo del suo corretto funzionamento.

CONFRONTO FRA MIOGLOBINA ED EMOGLOBINA


Ritornando all’analisi dei grafici che
rappresentano le curve di saturazione di
emoglobina e mioglobina: il confronto fra le
due nel polmone (zona rappresentata dalla
colonna in rosso) è poco significativo in
quanto di poco interesse biologico, mentre è
importante il comportamento
dell’emoglobina, che si satura a questo
punto del processo.
Possiamo invece confrontare i valori
massimo e minimo della saturazione della
mioglobina rilevati nei tessuti periferici (nel
grafico indicati dalla colonna in azzurro), a
riposo e sotto intenso sforzo fisico, e quelli
di emoglobina e mioglobina fra di loro (ciò ci
permette di comprendere il meccanismo che
regola il passaggio di ossigeno da una
molecola all’altra).

Si ricorda che l’emoglobina ha un’affinità variabile per l’ossigeno, la quale dipende dalla sua
presenza e che ha come conseguenza una curva di saturazione sigmoide: maggiore è il quantitativo
di ossigeno disponibile, maggiore è l’affinità dell’emoglobina per esso.
Osservando la curva di saturazione iperbolica della mioglobina, che corrisponde ad un’affinità
costante per l’ossigeno, notiamo che essa si mantiene sempre a valori più alti rispetti a quella
dell’emoglobina (infatti le molecole di ossigeno rilasciate dall’emoglobina sono catturate della
mioglobina nel tessuto periferico, dove la pressione parziale di questo gas è circa 40mmHg).
Elemento fondamentale che contraddistingue queste due proteine è il loro essere rispettivamente
un monomero ed un tetramero, ossia l’avere l’una struttura terziaria e l’altra quaternaria. Proprio da
ciò deriva il loro differente comportamento molecolare. La plasticità e la duttilità dell’emoglobina alle
richieste dell’organismo non dipendono da altro se non da questo, e così il comportamento più
“rigido” della mioglobina che mantiene la stessa elevata affinità per l’ossigeno durante tutto il
processo.

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Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

STRUTTURA DELL’EMOGLOBINA
Osservando una rappresentazione simbolica delle quattro subunità dell’emoglobina, che le
conferiscono una struttura quaternaria (essa è correlata non al numero di subunità, quanto al fatto
che ce ne siano più di due legate fra di loro), ci si accorge che sono uguali due a due: ci sono due
subunità α e due subunità β.
Soffermandosi ora sul modo in cui sono legate bisogna ricordare che sono possibili varie diverse
disposizioni, tuttavia quella comunemente presente (e funzionante) è pressappoco glomerulare, ed
ogni subunità contiene il gruppo eme che porta il ferro centralmente, con il sito di legame per
l’ossigeno. In mezzo a questa struttura è presente uno spazio, più o meno ampio in base al fatto che
l’ossigeno sia o meno legato, che riveste un ruolo fondamentale (verrà analizzato in seguito).

Ogni singola subunità presenta una struttura terziaria con le caratteristiche descritte
precedentemente, ad esempio la presenza dell'istidina prossimale e di quella distale.
Si immagini di aprire le quattro catene proteiche dall'estremità amminoterminale a quella
carbossiterminale, allo scopo di comprendere ciò che tiene unite queste quattro subunità convolute.
Ordinati secondo la forza di legame (escludendo i legami covalenti, che “fonderebbero” più subunità
in una unica), si trovano legami ionici, ponti idrogeno e interazioni idrofobiche o forze di Van del
Waals. Tutti questi concorrono a tenere unite le quattro subunità, ma il ruolo più rilevante è costituiti
dai ponti salini o legami ionici fra molecole con cariche elettriche opposte che si attraggono.
In particolare si osservano:
• un legame ionico fra il carbossiterminale (COO -) della catena β2 e la carica positiva di un
residuo di lisina nella regione amminoterminale della catena α1;
• due ponti salini interni fra vari residui fra la α1 e la α2, oltre a quelli che si possono stabilire
fra un terminale amminico ed uno carbossilico di catene diverse.
Le subunità α1 e α2 sono legate più strettamente da quattro ponti salini, con le altre solo da due.
E’ facile comprendere che se si interviene su una subunità cambiando la sua conformazione tutte le
altre sono influenzate da ciò, essendo legate.

Intorno agli anni ‘70 venne fatto un esperimento semplice, tuttavia illuminante. Metodi di purificazione
e cristallizzazione delle proteine (studiati nelle lezioni precedenti, in particolare la purificazione si
svolge in condizioni difficili da ottenere, ad esempio per precipitazione delle proteine in cristalli in
provette in presenza di azoto) sono stati applicati all’emoglobina.
Si è visto che se i cristalli sono sottoposti all’ossigeno si spezzano e ciò ha messo in luce il fatto che,
durante questo processo, una modificazione conformazionale doveva necessariamente essere
avvenuta, in quanto l’emoglobina in cristalli non è compatibile con la presenza di ossigeno legato ad
essa.

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Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

Osservando dei modelli rappresentanti la molecola di emoglobina con e senza ossigeno legato si
nota che le due proteine sono simili, ma non uguali. Lo spazio interno si apre creando un varco più
ampio (stato T teso, con deossiemoglobina) o si restringe (stato R rilassato, in presenza di
ossiemoglobina) in base alla presenza del legame.
Il gruppo eme ha una struttura planare, al centro del quale è contenuto il ferro. In assenza di ossigeno
esso risulta leggermente concavo e il ferro non è perfettamente equatoriale, ma è leggermente
spostato verso sinistra, determinando due emisferi di dimensioni diverse. Ciò è dovuto al fatto che
la catena α che contiene l’istidina prossimale aggancia il quinto legame del ferro e lo tira creando
tensione nella struttura terziaria della catena globinica. Il gruppo eme viene di conseguenza piegato
ed attratto, mentre il sito per il sesto legame del ferro viene allontanato, rendendosi meno disponibile.
L’ossiemoglobina, grazie al legame con l’ossigeno, equilibra la struttura: l’istidina dell’α-elica 7 in
posizione 8 e l’ossigeno “tirano” da posizioni opposte e portano il gruppo eme diritto con il ferro
perfettamente centrale, che si sposta esternamente rispetto a quello della deossiemoglobina. Quindi
viene indotto un cambiamento conformazionale a partire dall’α-elica 7 che si estende all’intera
molecola.

LEGAME CON L’OSSIGENO


Si immagini ora l’intero processo al rallentatore: inizialmente l’ossigeno non è ancora legato,
l’emoglobina è in stato teso, i quattro atomi di ferro sono retratti dall’istidina prossimale. Di
conseguenza il sesto legame che il ferro potrebbe creare è meno disponibile. Ciò comporta una
maggiore difficoltà per prima molecola di ossigneno a legarsi
con l’atomo di ferro, infatti tale processo è definito “lento”.
Dopo che il legame si è venuto a formare, la catena viene
spostata e si ha la modificazione conformazionale della prima
subunità (qualunque essa sia, non è possibile stabilire con
certezza quale reagisca per prima), che passa dallo stato T
allo stato R (rilassata). I ponti salini che la legano alle altre tre
fanno sì che il cambiamento nella conformazione della prima
catena faciliti quello della seconda, il cui atomo di ferro risulta
più disponibile al legame con l’ossigeno. Queste due subunità
agiscono sulle altre due modificando ulteriormente la loro
struttura: i legami della terza e quarta molecola di ossigeno
sono quasi istantanei, grazie alla presenza dello stato R
nell’emoglobina, con il ferro prono al legame.
Si potrebbe definire questo meccanismo autocatalitico,
sebbene il termine sia improprio dal momento che
l’emoglobina non è un enzima. Il processo di rilascio
dell’ossigeno segue lo stesso meccanismo: al calare dello
stesso l’emoglobina si sposta sempre di più verso lo stato T,
diminuendo la sua affinità per questa molecola e di
conseguenza facilitando la liberazione di ossigeno.
Tale meccanismo è definito cooperativo positivo, detto anche omotropo. La cooperatività ha
luogo fra le subunità, che si influenzano a vicenda per il miglioramento della funzione di questa
molecola (in senso positivo), a riprova di ciò che si vede nella curva di saturazione dell’emoglobina.
Il termine omotropo indica che il cambio di affinità per l’ossigeno è dovuto all’ossigeno stesso, cioè
al ligando.

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Lezione n°10 del 07.05.2018
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Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

Ciò accade anche nella mioglobina? Quando la molecola di ossigeno si lega al ferro, esso si sposta
centralmente e determina una variazione conformazionale nella molecola della mioglobina. Quindi
la risposta è sì, dato che la struttura terziaria è la stessa.
La differenza è che questo cambiamento non si trasmette ad altre subunità, dato che si tratta di
monomeri, né alle altre molecole. Il tempo impiegato da ogni molecola di ossigeno per legarsi a
qualsiasi molecola di miogobina è dunque lo stesso.

CURVA DI SATURAZIONE: CONSIDERAZIONI


La differenza nella curva di saturazione, sigmoide dell’emoglobina e iperbolica nella mioglobina, è
dovuta al fatto che una abbia struttura terziaria e l’altra quaternaria. Prendendo in considerazione le
curve dell’attività cinetica enzimatica noteremo che solo gli enzimi con più subunità e quindi struttura
quaternaria presentano curve cinetiche sigmoidi. Tutti gli enzimi che sono monomeri presentano
invece una cinetica enzimatica iperbolica.

Una curva sigmoide può essere vista come una


curva ibrida che riflette una transizione tra uno
stato ad alta ed uno a bassa affinità,
rappresentate dalle due iperboli in figura.
• La prima, più in basso, cresce lentamente e
mostra l’inizio del processo di saturazione;
• La seconda, più in alto, caratterizza il suo
termine, che avviene velocemente.
Fondendo le due curve si ottiene la sigmoide.
Si comprende da questo grafico che inizialmente
l’emoglobina ha meno affinità per l’ossigeno, ma
progressivamente l’affinità aumenta a seguito di
una veloce transizione allo stato ad alta affinità, il
tutto grazie al meccanismo cooperativo positivo
(la collaborazione strutturale fra le quattro
subunità).

Esiste anche un effetto cooperativo negativo?


Ad esempio in questo caso l’aumento dell’ossigeno e l’affinità dell’emoglobina per esso dovrebbero
essere inversamente proporzionali (questo processo è inverso rispetto a quello reale). Tali casi
esistono, e si parla di cooperatività negativa, ma questo non avviene per l’emoglobina.

Un’ulteriore elaborazione permette di trasformare queste curve


in rette (grazie a varie leggi matematiche che non verranno
analizzate).

La curva a bassa affinità può essere trasformata in una retta


(rappresentata in rosso e prolungata da un tratteggio), lo stesso
avviene per quella ad alta affinità.
La curva reale dell'emoglobina non può essere trasformata in
nessuna delle due rette perchè inizia sovrapponendosi ad una
retta, ma poi "scarta" sull'altra. Nel punto di passaggio tra una
retta e l'altra la retta reale ha variato coefficiente angolare da 1
a 3.4 (nel grafico approssimato a 3.5).

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Lezione n°10 del 07.05.2018
Sbobinatore: Elena Roccon, Francesco Cannito
Controllore: Edoardo Farnè
Materia: Biochimica
Docente: Prof. / Prof.ssa Saverio Bettuzzi
Argomenti: Confronto fra mioglobina ed emoglobina, struttura dell’emoglobina, legame con l’ossigeno, curve
di saturazione, modificazioni allosteriche (introduzione)

Tale numero è denominato coefficiente di Hill. Esso corrisponde al numero di siti di legame
dell'emoglobina per l'ossigeno.
Perché 3,4? Ciò è dovuto al fatto che mediamente l'emoglobina non satura il 100% dell'ossigeno
che è a sua disposizione: alcune molecole di emoglobina trasportano 4 molecole di ossigeno, mentre
altre solo tre, pertanto si fa una media.
Tale numero corrisponde perciò alla capacità reale di legame e al numero di siti di legame realmente
impegnati dai ligandi. Il grafico di Hill dimostra di nuovo la cooperatività positiva, data dalla fusione
di due rette a diverso coefficiente angolare. L'effetto cooperativo positivo si dice anche omotropo od
omotropico ad indicare che il cambiamento conformazionale determinato dallo stesso ligando.
Allo stesso modo esistono anche effetti eterotropi fondamentali per l'adattamento alle varie funzioni
dell'organismo: ci sono molecole diverse dal ligando che cambiano la conformazione
dell'emoglobina.

Considerando dei campioni di sangue contenenti tutti la stessa quantità di emoglobina: sappiamo
che quando arriva l'ossigeno varia la conformazione delle subunità. Ogni molecola è un cerchietto
diviso in quattro subunità, con un vuoto centrale: quando la subunità lega O2 viene rappresentata
con un colore diverso e da una struttura meno definita, che ci ricorda la conformazione nativa
glomerulare dell’emoglobina. È possibile sovrapporre tali rappresentazioni alla curva di saturazione
dell'emoglobina: il processo progressivamente aumenta la velocità, passando dallo Stato T teso allo
stato R rilassato fino a saturazione, come abbiamo detto non sempre completa (il tempo impegato
dipende dalla quantità di ossigeno nella miscela). Questa immagine è significativa dal momento che
mette in luce un elemento fondamentale nel processo di legame dell’ossigeno: lo spazio vuoto
compreso all'interno della molecola di emoglobina. Questo varco è maggiore allo stato teso, con la
deossiemoglobina, minore allo stato rilassato, con la ossiemoglobina. Analizzeremo questo aspetto
successivamente.

MODULAZIONE ALLOSTERICA (ANTICIPAZIONE DELLA LEZIONE SUCCESSIVA)

L’emoglobina non è un enzima, dal momento che lega la molecola di ossigeno e la restituisce nella
forma originaria, non provocando alcuna variazione chimica ma semplicemente legandola
reversibilmente e poi rilasciandola. Si dice quindi che l'ossigeno per l'emoglobina è un ligando,
mentre gli enzimi modificano dei substrati (costituiti da una o più molecole) catalizzando delle
reazioni chimiche nel sito attivo.
Il modello dell'emoglobina, che non è un enzima, si applica tuttavia agli enzimi per quanto riguarda
le modificazioni allosteriche. Esse sono tipiche di enzimi che hanno, oltre al sito attivo di legame per
il substrato, altri siti di legame diversi per altre molecole che danno interazioni allosteriche specifiche,
modulando l'attività (rendendola quindi più o meno efficiente nello svolgimento della sua funzione).
Ciò avviene grazie ad un ad un legame reversibile. Esse sono dette effettori o modulatori allosterici,
e agiscono sempre allo stesso modo, variando la conformazione della proteina per indurre o inibire
l’attività. Per l’emoglobina abbiamo il 2,3-bisfosfoglicerato (BGP), la CO2 e i protoni; queste molecole
hanno siti di legame specifici, diversi da quello contenente ferro per il legame con l’ossigeno. Ciò
caratterizza tutti gli enzimi con più subunità, che sono regolati in maniera allosterica.

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Lezione n°11 del 08.05.2018
Sbobinatore: Greco Simone, Ionita Angela
Controllore: Ghiozzi Federica
Materia: Biochimica
Docente: Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi allosterici, effetto Bohr, BPG, specie molecolari fisiologiche e patologiche
dell’emoglobina

MODULATORI ALLOSTERICI, EFFETTI SUL


TRASPORTO DELL’OSSIGENO E FORME
ALTERNATIVE DI EMOGLOBINA
Paragrafo introduttivo:
Enzimi allosterici: cosa sono e come agiscono; effetto Bohr, 2,3-bisfosfoglicerato, sintesi del BPG,
specie molecolari fisiologiche e patologiche dell’emoglobina
MODULATORI ALLOSTERICI
Una proteina con struttura quaternaria può avere oltre al sito specifico per il ligando, o nel caso
degli enzimi il sito attivo per il substrato, altri siti (da cui la parola allosterico) che permettono di
legare altre molecole. Il legame con queste molecole altera la conformazione della proteina,
influenzando dunque le sue proprietà biologiche, in Hb ad esempio il passaggio da conformazione
tesa a rilassata e viceversa modifica l’affinità per O 2.
Si parla di interazione allosterica quando
molecole specifiche, che non sono né il
substrato né il ligando, legano la proteina,
alterano la sua conformazione e in questo modo
ne modulano l’attività. Un esempio è la
modificazione dell’affinità dell’enzima nei
confronti del suo substrato.
Le molecole che modificano l’attività si chiamano
modulatori allosterici, o anche effettori
allosterici, questi si legano in modo reversibile a
dei siti che sono diversi da quelli funzionali (sito
specifico per il ligando o sito attivo per il
substrato) e provocano cambiamenti
conformazionali della proteina che vanno a
influenzare la sua attività. I modulatori possono
essere attivatori se influenzano positivamente
l’attività biologica o inibitori se la influenzano negativamente.
Queste proteine, come emoglobina, posseggono una struttura quaternaria ovvero sono formate da
più subunità e hanno curva di affinità della col ligando che ha sempre forma sigmoide al contrario
di proteine monomeriche, come la mioglobina, che hanno una curva di affinità di forma iperbolica e
non possono essere soggette a modulazione allosterica. La forma della curva ci dice molto sulla
struttura dell’enzima e sulla sua propensione o meno a fenomeni di modulazione allosterica. I
modulatori allosterici quando aggiunti al sistema possono spostare la curva verso destra o verso
sinistra. Questo spostamento è detto shift. Più la curva si sposta verso sinistra, più assomiglia a
una curva iperbolica (anche se non lo diventa mai). Lo spostamento verso destra è tipico di un
inibitore, lo spostamento verso sinistra di un attivatore.
Nel caso dell’emoglobina se la curva si sposta verso destra, a parità di concentrazione di ossigeno
nell’aria, la saturazione di O2 risulta minore poiché minore è l’affinità per il ligando, mentre si ha un

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Lezione n°11 del 08.05.2018
Sbobinatore: Greco Simone, Ionita Angela
Controllore: Ghiozzi Federica
Materia: Biochimica
Docente: Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi allosterici, effetto Bohr, BPG, specie molecolari fisiologiche e patologiche
dell’emoglobina

maggiore rilascio di ossigeno. Dal punto di vista conformazionale lo spostamento verso destra
implica una maggiore stabilità della forma tesa(T) rispetto a quella rilassata(R). Se lo shift è invece
verso sinistra la stessa quantità di ossigeno provoca una maggiore saturazione, in questo caso il
modulatore ha provocato un aumento di affinità per O 2. Lo spostamento verso sinistra causa la
transizione di conformazione dell’emoglobina verso la forma rilassata in cui tende a legare e
trattenere meglio l’ossigeno. Questi spostamenti sono importanti perché adattano l’affinità
dell’emoglobina alla quantità di ossigeno.
L’aumento di temperatura, che non è un modulatore ma un fenomeno fisico, sposta la curva verso
destra, ha quindi un effetto inibitore, anche se non si tratta di inibizione allosterica. 2,3-
bisfosfoglicerato (BPG) e anidride carbonica sono invece modulatori e hanno lo stesso effetto
inibitore.
Un altro effetto importante è la variazione di pH. Se il pH diminuisce aumenta la concentrazione
dello ione H+, anche questo possiede proprietà di inibitore allosterico e dunque sposta la curva
verso destra. Tenendo presente che il pH fisiologico di una cellula è 7.4 e che vengono tollerate
variazioni dell’ordine di decimi di pH, considerando un intervallo 7.38<pH< 7.43 si avranno notevoli
variazioni della curva.
Complessivamente un aumento di ioni H + (diminuzione pH), CO₂ e BPG, spostano la curva
sigmoide di emoglobina verso destra, ovvero sono inibitori allosterici.
Come da grafico osserviamo che a livello polmonare l’emoglobina satura completamente anche se
shiftata a destra senza troppa differenza. A livello tissutale periferico invece lo shift a destra
permette una migliore cessione dell’ossigeno. L’obiettivo è rendere l’emoglobina nei tessuti
periferici efficiente a cedere l’ossigeno e ad adattare la cessione alle condizioni dell’organismo.
Questi modulatori negativi hanno questo tipo di effetto perché spostando la curva verso destra
inducono una maggiore cessione di ossigeno da parte dell’emoglobina e quindi una migliore
ossigenazione periferica.
EFFETTO BOHR
Come mai quando il pH diminuisce e aumenta la concentrazione di CO₂, l’emoglobina cede più
ossigeno?
CO₂ è un gas poco solubile a temperatura fisiologica (37°C). Bohr scopre che all’interno degli
eritrociti c’è un enzima, l’anidrasi carbonica, che è fondamentale, perché catalizza una reazione,
di per sé è spontanea, ma che non avviene con un’efficienza sufficiente. La reazione è CO₂ + H₂O
→ H2CO3.

H2CO3 è un acido che dissocia in H+ e HCO3-, in questa forma l’organismo risolve il problema della
bassa solubilità dell’anidride carbonica. La dissociazione dell’acido carbonico libera un protone H+,
per questo motivo l’acqua contenente più CO₂ è più acida. La reazione catalizzata dall’anidrasi
carbonica è una reazione reversibile il cui equilibrio viene spostato verso sinistra o destra a

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Sbobinatore: Greco Simone, Ionita Angela
Controllore: Ghiozzi Federica
Materia: Biochimica
Docente: Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi allosterici, effetto Bohr, BPG, specie molecolari fisiologiche e patologiche
dell’emoglobina

seconda delle variazioni di concentrazione di reagenti e prodotti secondo la legge di equilibrio di


massa. Questo è molto importante perché la CO₂ nel tessuto periferico si deve sciogliere e
diventare ione carbonato, mentre nel polmone lo ione carbonato deve essere riconvertito in CO₂
per essere espulso sotto forma di gas. In assenza dell’anidrasi carbonica noi diventeremmo
“frizzanti”, infatti non saremmo in grado di convertire la CO2 in acido carbonico in maniera
efficiente ed essendo questa poco solubile saremmo pieni di bollicine, questo sarebbe causa di
continue embolie.

Le proteine sono composte da molti amminoacidi che si distinguono tra di loro per il gruppo R e ci
sono dei gruppi R capaci di agire come acido o base e capaci quindi di accettare o donare protoni.
Quello che si è visto è che quando la CO₂ viene trasformata in acido carbonico questo si dissocia
e libera protoni che vanno a interagire con i gruppi R dell’emoglobina. Ad esempio un gruppo R
con un gruppo carbossilico, a pH fisiologico in forma ionizzata, COO-, legherà un protone libero,
annullando così la sua carica negativa. Analogamente un NH2 reagisce con un protone, diventa un
NH3+ generando una carica positiva. Legare protoni significa quindi modificare le cariche elettriche
dei gruppi R degli amminoacidi chiave. Il legame dei protoni alterando le cariche elettriche proprie
dell’emoglobina, altera la sua conformazione, che assume la conformazione T (tesa), quella
meno affine per l’ossigeno. Il legame dei protoni provoca un aumento del rilascio di O2.
C’è dunque una stretta correlazione tra il pH e la CO₂. L’aumento CO₂ comporta l’abbassamento
del pH, quindi la transizione nella forma T dell’emoglobina e quindi il rilascio di più ossigeno. La
CO₂ viene prodotta in periferia nell’attività metabolica. Proprio in periferia dove generiamo CO₂ il
sangue ha un pH leggermente più basso e questo comporta una maggiore cessione di ossigeno.
In questo modo emoglobina diventa più efficiente nel cedere ossigeno in periferia e questo è molto
vantaggioso. Viceversa quando si arriva al polmone l’equilibrio si sposta dall’altra parte, quindi i
protoni vengono sottratti all’emoglobina per generare H2CO3 che poi l’anidrasi carbonica scinde in

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Lezione n°11 del 08.05.2018
Sbobinatore: Greco Simone, Ionita Angela
Controllore: Ghiozzi Federica
Materia: Biochimica
Docente: Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi allosterici, effetto Bohr, BPG, specie molecolari fisiologiche e patologiche
dell’emoglobina

CO2 ed H₂O. La CO2 (gas) viene rilasciata nel polmone. La sottrazione dei protoni fa aumentare il
quindi il sangue nel polmone è un pochino più alcalino, in queste condizioni l’emoglobina cambia
conformazione e non è più T ma R e quindi più affine verso l’ossigeno satura più velocemente.
L’effetto Bohr rende l’emoglobina meno affine per l’ossigeno in periferia e più affine nel polmone,
dove ne cattura di più.
Si aggiunge poi un altro fenomeno: la CO₂ non viaggia libera, o almeno la maggior parte. Una
parte, dopo essere stata trasformata in acido carbonico dissociato viaggia legata all’emoglobina. Il
gruppo amino terminale delle catene globiniche NH3+ reagisce con l’HCO3- formando un legame
tra l’azoto ed il carbonio, il legame carbaminico. Queste specie chimiche vengono chiamate
“carbaminati”. Da notare che la formazione dei carbaminati altera le cariche elettriche nelle
catene globiniche con il risultato che quando si formano i carbaminati l’emoglobina si trova nella
forma T, cioè rilascia ossigeno. L’emoglobina o lega l’ossigeno o lega CO₂, ma mai entrambi.
Quando in periferia lega la CO₂, libera ossigeno, quando nel polmone lega l’ossigeno libera la
CO₂. I due fenomeni si influenzano a vicenda perché passano attraverso cambiamenti
conformazionali dell’emoglobina. Tutto questo sistema comporta una maggiore efficienza del
trasporto dell’ossigeno dal polmone alla periferia e della CO₂ dalla periferia al polmone. La CO₂
sciolta come gas è circa il 9%. La maggior parte della CO₂ prodotta dalle cellule, che si trova in
forma di HCO3- disciolto, il 13% sotto forma di carbaminati.
EFFETTO TAMPONE DELL’EMOGLOBINA
L’emoglobina lega e rilascia protoni e quindi fa parte del sistema tampone del sangue, in
particolare è la più importante proteina con effetto tampone. Il sangue ha una capacità di
tampone molto forte, è molto difficile alterare il pH del sangue. Si è visto che la capacità tampone
del sangue dipende direttamente dall’emoglobina, che è presente in grande quantità nel sangue
(circa 150g/L). Grazie alla capacità di cedere e legare protoni il 50% del potere tamponante del
sangue deriva direttamente dall’emoglobina. A questo si aggiunge il meccanismo isoidrico in cui
l’emoglobina è coinvolta in maniera indiretta che copre un altro 40%. Il restante 10% del sistema
tampone è ad opera degli altri meccanismi (tra cui quello operato dai fosfati).
Il sangue ha potere tamponante che è di tipo biologico, legato in particolare all’opera di
emoglobina e di anidrasi carbonica. L’emoglobina è composta da due catene 𝛼 e da due catene 𝛽,
la formazione dei carbaminati riguarda il gruppo amino terminale sia delle catene 𝛼 che delle
catene 𝛽. Quindi una molecola di emoglobina può legare fino a quattro ioni bicarbonato, formando
i carbaminati in tutte e quattro le estremità aminoterminali. Il legame dell'H +, coinvolge solo i gruppi
amino terminali delle catene beta, non tutti i gruppi amino terminali sono coinvolti nel legame di
questi protoni, mentre possono essere coinvolti gruppi R presenti sulla catena globinica. anche il
2,3-bisfosfoglicerato, come vedremo, viene legato dalle estremità aminoterminali delle catene beta
e non delle catene alfa.
RELAZIONE TRASPORTO DI O2 E CO2
Si vede che esiste una relazione inversa tra il legame con emoglobina di ossigeno e di CO₂.
A seguito dell’inspirazione, nell’alveolo polmonare si forma un gradiente di ossigeno in cui c’è più
ossigeno nell’aria alveolare ed ovviamente ce n’è meno nel sangue giunto lì dalla periferia. Per
gradiente, l’ossigeno è capace di attraversare le membrane biologiche sottili, come la parete

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Sbobinatore: Greco Simone, Ionita Angela
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dell’emoglobina

dell’alveolo ed il vaso capillare, e quindi passare nel sangue. Possiamo assumere che la quantità
di ossigeno presente nell’alveolo polmonare e quella presente nel sangue come gas sia la stessa.
Nell’alveolo, l'ossigeno appena inspirato incontra l’emoglobina insatura Hb. Quest’emoglobina lega
l’ossigeno formando l’ossiemoglobina HbO2. L’alta concentrazione di ossigeno influenza
positivamente l’affinità per O2 di emoglobina che satura più velocemente.
L’emoglobina satura viene trasportata dal sangue verso i tessuti in periferia. In quest'ambiente ci
si trova di fronte ad una concentrazione di ossigeno più bassa, cosa che ne favorisce il rilascio. Nel
tessuto periferico inoltre l'emoglobina entra in contatto con la mioglobina, abbondante nelle
cellule periferiche. L’ossigeno viene ceduto alla mioglobina, più affine rispetto ad Hb, che diventa
ossimioglobina, dalla ossimioglobina poi a sua volta l’ossigeno verrà strappato dai mitocondri per
compiere la respirazione cellulare. La cessione di ossigeno porta ossiemoglobina alla forma
deossiemoglobina. Contemporaneamente avviene l’attività di respirazione che consuma l’ossigeno
strappato alla mioglobina e produce CO₂ ed H₂O. Questa CO₂, per gradiente di concentrazione
(più concentrata all’interno della cellula che all’esterno), riesce a passare attraverso le membrane
biologiche e entra negli eritrociti, qui trova l’emoglobina deossi e anche l’anidrasi carbonica.
L’anidrasi carbonica catalizza la reazione CO₂ + H₂O → H2CO3, spostata in verso la formazione
dello ione carbonato per la legge dell’equilibrio di massa (tanta CO₂ e tanta acqua dato che
l’ambiente della cellula è acquoso). La reazione porta alla formazione H2CO3 che dissocia in H+ e
HCO3-. Questa reazione libera un protone che viene legato dall’emoglobina che diventa HHb+,
emoglobina protonata. Contemporaneamente avvengono due fenomeni: rilascio dell’ossigeno e
cattura dei protoni. L’emoglobina protonata adesso torna al cuore e viene pompata ai polmoni.
Della CO₂ in forma di ione carbonato, una percentuale attorno al 14-15% si lega all’emoglobina
mentre il resto rimane come ione disciolto nel sangue.
Quando arriva al polmone queste reazioni si rovesciano perché i gradienti di concentrazione si
invertono, al polmone ho meno CO₂ nell’aria esterna che nel sangue. La stessa anidrasi carbonica
catalizza quindi la reazione nel verso opposto HCO3- +H+→ CO2+H2O. I protoni vengono presi
dall’emoglobina. Perdendo i protoni l’emoglobina passa dalla forma T alla forma R e quindi cattura
più ossigeno. La CO₂ di nuovo in forma gassosa esce poi mediante l’espirazione poiché più
concentrata nel sangue che nell’aria alveolare. Il gradiente in entrata dell’ossigeno ed il gradiente
in uscita della CO₂ si influenzano a vicenda. L’entrata dell’ossigeno favorisce la fuoriuscita della
CO₂ o che l’uscita della CO₂ favorisce l’ingresso dell’ossigeno. I due fenomeni avvengono
contemporaneamente.
Si sottolinea ancora una volta il ruolo dell’anidrasi carbonica all’interno dell’eritrocita. Questa è
un'altra ragione per cui gli eritrociti devono essere intatti per poter funzionare perché è proprio
questa integrità che consente l’attività dell’anidrasi carbonica e permette la solubilizzazione della
CO₂ che diventa ione carbonato. Il legame degli H+ e la formazione dei carbaminati avvengono
contemporaneamente ed entrambi favoriscono la forma tesa dell’emoglobina e quindi il rilascio di
ossigeno, i due fenomeni si potenziano a vicenda.
Questo spostamento di cariche fa parte del trasporto isoidrico. Noi abbiamo spostato delle
cariche elettriche e generato ioni H+. Se io cambio le cariche elettriche all’interno dell’eritrocita,
dovrebbe cambia il suo potere osmotico. Un aumento delle cariche elettriche richiama acqua e la
cellula si gonfia, se io tolgo cariche elettriche invece l’acqua esce e quindi le cellule rischiano di
raggrinzire. In realtà questo trasporto è isoidrico, ed anche isoprotico. Ciò vuol dire che avviene

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dell’emoglobina

con variazione di potere osmotico minime. È stato misurato che c’è una minima differenza nelle
dimensioni degli eritrociti quando sono in periferia e quando sono nei polmoni, ma sono differenze
minime, per cui le cellule sono capaci di tollerare.
Adesso rivediamo ciò che accade all’interno dell’eritrocita e come influenza ciò che accade
all’esterno dell’eritrocita. Nel tessuto periferico si forma la CO₂ per effetto della respirazione
mitocondriale. La CO₂ per gradiente di diffusione entra, attraverso la membrana plasmatica
dell’eritrocita. Qui l’anidrasi carbonica catalizza la reazione CO₂ + H₂O, si forma H2CO3 il quale
dissocia in H+ e HCO3-. A questo punto l’H+ deve essere catturato dall’emoglobina che però è
satura di ossigeno in questo momento perché è giunta la periferia dal polmone. L’HbO2
contemporaneamente deve legare il protone e liberare l’ossigeno. Si ottiene HHb+. Poiché ho più
ossigeno dentro il sangue che nel tessuto, perché sono in periferia, questo esce e viene catturato
dalla mioglobina. Lo ione carbonato in parte viene legato per formare il carbaminato, il restante
78% esce dagli eritrociti, per bilanciare la cessione dello ione HCO3- viene acquisito dell’eritrocita
uno ione Cl-. In questo modo viene mantenuto l’equilibrio delle cariche. Adesso questo stesso
eritrocita arriva al polmone. Nel polmone, essendoci molto ossigeno nell’aria alveolare, per
gradiente di diffusione l’ossigeno entra nell’eritrocita ed incontra l’emoglobina protonata in forma T.
l’emoglobina protonata cede il protone all’anidrasi carbonica. La cessione del protone da parte di
Hb permette di far reagire HCO3- + H + → H2CO3 → CO₂ + H₂O, CO₂(gas) esce. Nel fare questo ho
strappato protoni all’emoglobina e quindi l’emoglobina passa dallo stato T (teso) allo stato R
(rilassato) e quindi cattura l’ossigeno. Lo ione carbonato che prima era stato pompato fuori
dall’eritrocita, ora viene richiamato all’interno e viene espulso lo ione cloruro. Questo equilibrio di
carica impedisce le variazioni osmotiche all’interno dell’eritrocita, che quindi ne esplode né
raggrinzisce.

2,3-BISFOSFOGLICERATO

Il BPG è una molecola molto ionizzata, molto solubile, ricca di cariche


negative (5 cariche negative su 3 carboni), che viene prodotta come
derivato collaterale della via metabolica della glicolisi. Una molecola con
la stessa funzione in altri animali è l’inositolo esafosfato.
È un modulatore allosterico che provoca un cambiamento
conformazionale dell’emoglobina. Al centro dell’emoglobina c’è un “buco”
in cui sono esposte cariche elettriche positive e in particolare i due gruppi
amino terminali delle catene β, qui si lega il BPG perché ha cariche e
dimensioni adatte. Quando l’emoglobina passa dalla forma T alla forma R il buco diventa più
piccolo. Se il BPG è inserito impedisce il restringimento del “buco” e dunque ostacola la transizione
nella forma R dell’emoglobina, ovvero stabilizza la forma T che rilascia più ossigeno. Sposta
l’equilibrio verso la forma tesa dell’emoglobina.

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dell’emoglobina

Svolge un’importante funzione nell’adattamento fisiologico alla bassa pressione di ossigeno che si
ha ad esempio a quote elevate, quindi viene prodotto quando si va in alta quota. Più si va in alto
più vi sono problemi di adattamento dal momento che l’aria contiene meno ossigeno e gli scambi
diventano più difficili. Chi abita oltre ai 6000m è stato soggetto a mutazioni genetiche che gli hanno
permesso di adattarsi.
A livello del mare il BPG è circa 5mM, mentre a 2000m circa diventa 8mM.
In quota gli eritrociti aumentano la produzione di BPG causando lo spostamento della curva
sigmoide verso destra. Nel polmone fa poca differenza l’aumento di BPG, anche se in quota c’è
meno ossigeno l’emoglobina si satura comunque. Lo spostamento della curva tuttavia è rilevante
nei tessuti periferici dove implica che, con un aumento della concentrazione del BPG, l’emoglobina
cede più ossigeno. Per questo motivo in quota inizialmente ci si sente affaticati, ma una volta
aumentato il BPG (tempo circa 2/3 giorni) l’emoglobina ricomincia a cedere O 2 in periferia come a
livello del mare.
Il BPG adatta l’organismo all’altitudine, ma è
coinvolto anche in altri fenomeni. Aumenta
nei fumatori come adattamento perché il
fumo di sigaretta contrasta la capacità di
scambio polmonare.
Se il BPG è 0 la curva somiglia a quella della
mioglobina, bisogna avere almeno un 5mM
per una curva sigmoide.
Nel feto l’emoglobina fetale non lega il BPG
e per questo è molto più affine a O2 rispetto
all’emoglobina adulta materna a cui riesce a
sottrarre l’ossigeno.

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dell’emoglobina

Sintesi del 2,3-BPG


Nella via glicolitica, caratterizzata da 10 trasformazioni catalizzate da 10 enzimi, ad un certo punto
il 3-fosfoglicerato diventa fosfoglicerato, questo poi viene fosforilato ancora diventando 1,3-
fosfoglicerato. Successivamente un gruppo fosfato passa in posizione 2. Il fosfato in C1 non viene
spostato, un secondo fosfato viene aggiunto e il primo viene tolto. Si forma così transitoriamente il
2,3-bisfosfoglicerato, che viene generato in piccole quantità in tutte le cellule durante la glicolisi.
Negli eritrociti alcuni stimoli come l’abbassamento del pH in periferia (acidosi) provocano
l’induzione di un enzima, la BPG mutasi, che sottrae atomi di carbonio alla via glicolitica e
consente l’accumulo del 2,3-bifosfoglicerato.
Dal 15% al 25% degli atomi di carbonio del glucosio negli eritrociti viene consumato per produrre
BPG.
Gli eritrociti funzionano solo a glucosio e lo consumano per 3 ragioni, di cui questa è la prima.
I modulatori di Hb agiscono contemporaneamente

Tutti i fenomeni descritti sopra avvengono contemporaneamente. Il sangue contiene quantità


variabili di protoni (H+), BPG, ione carbonato, CO2, etc. Presa l’emoglobina da sola si ha una data
curva di saturazione, se viene aggiunto CO2, BPG o entrambi le curve cambiano. La vera curva di
saturazione è la risultante dell’effetto simultaneo e coordinato di tutti questi fenomeni. Tutti quelli
descritti spostano la curva verso destra. Lo spostamento non ha quasi nessuna influenza quando

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dell’emoglobina

la quantità di ossigeno è quella polmonare (pO 2>70 mmHg), quindi non influiscono sulla capacità
dell’emoglobina di saturarsi, mentre influiscono sulla sua capacità di cedere l’ossigeno nei tessuti
periferici. Dato un valore di O2 periferico, la curva dimostra che una maggiore concentrazione di
BPG favorisce la cessione dell’ossigeno da parte di emoglobina. Il BPG infatti favorisce
cambiamenti conformazionali che rendono Hb meno affine a O 2. Questi fenomeni concorrono a
definire l’emoglobina nel suo stato fisiologico.
SPECIE MOLECOLARI FISIOLOGICHE DELL’EMOGLOBINA
Le specie fisiologiche sono:
- Ossiemoglobina o deossiemoglobina, in relazione al suo legame o meno con l’ossigeno.
DeossiHb O2 HbO2
- Carbaminemoglobina, emoglobina lega fisiologicamente lo ione carbonato. La
carbaminemoglobina è quella che ha formato i carbaminati.
Hb CO2 carbaminoHb
- emoglobina protonata, emoglobina fisiologicamente può legare e rilasciare i protoni.
Hb H+ HHb+
Queste forme coesistono nell’organismo: l’emoglobina protonata è anche carbaminata e deossi,
mentre l’emoglobina ossi non ha i carbaminati e non ha legato protoni.
FORME ALTERNATIVE DI Hb
Ci sono forme fisiologiche alternative dell’emoglobina adulta, HbA formata da due catene α e due
β (α1α2β1β2), ad esempio la forma embrionale α1α2ε1ε2 corrispondente alle fasi iniziali dello
sviluppo e successivamente la forma fetale α1α2γ1γ2. L’emoglobina fetale è più affine all’ossigeno
rispetto a quella dell’adulto, essa infatti ha due catene γ al posto delle β e quindi non lega il BPG.
La bassissima affinità per il BPG rende la sua curva di saturazione spostata verso sinistra
permettendo di strappare O2 all’emoglobina materna.

Ci sono anche altre emoglobine, con una struttura quaternaria e catene globiniche differenti.

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dell’emoglobina

SPECIE MOLECOLARI PATOLOGICHE DELL’EMOGLOBINA


Queste possono essere presenti in tracce come:
Hb−𝐶𝑂 carbossiemoglobina (HbCO)
Il monossido di carbonio (CO) è un gas prodotto da combustioni incomplete in cui il carbonio non
viene ossidato completamente. In tracce viene sempre prodotto (gas di scarico, caldaie, caminetti),
ma ha due caratteristiche micidiali:
1- È più pesante dell’aria, incolore e inodore quindi satura l’ambiente dal basso verso
l’alto.
2- Lega il ferro del gruppo eme di emoglobina irreversibilmente.
L’emoglobina ha un’affinità per CO 400 volte superiore a quella dell’ossigeno, quindi lo lega con un
legame irreversibile formando la carbossiemoglobina (HbCO) che perde la sua capacità di
trasportare e cedere O2.

Hb−𝐶𝑂 cianometaemoglobina(HbCN-)
Lo ione cianuro si può trovare nelle acque inquinate in concentrazioni molto basse. Ha il sapore
delle mandorle amare da cui viene estratto. Il cianuro uccide perché blocca i mitocondri impedendo
loro l’uso dell’ossigeno. Anch’esso si lega al ferro del gruppo eme con un legame irreversibile
formando la cianometaemoglobina che non è più in grado di trasportare ossigeno.

Hb−𝐶𝑂 metaemoglobina(Fe3+)
Il gruppo eme è inserito in una tasca della catena globinica tappezzata da amminoacidi idrofobici
perché non vi deve entrare l’acqua. Il ferro deve rimanere con numero di ossidazione +2. Se
invece viene aggredito da un radicale dell’ossigeno cede un elettrone e si ossida a +3, si forma la
metaemoglobina che non è più funzionale perché lega ossigeno, ma non lo rilascia. A differenza
delle prime due, questa reazione è reversibile e il ferro +3 può essere ridotto a +2.
Una piccola quota di metaemoglobina c’è sempre nell’organismo, ma in percentuali molto basse
(0.5%). L’eritrocita ha un sistema di difesa che permette di rovesciare l’ossidazione, quindi ridurre il
ferro +3 a +2 consumando potere riducente. Questa è la seconda ragione di consumo del glucosio
nell’eritrocita. Il globulo rosso deve consumare ossigeno in una via metabolica, lo shunt del
glucosiofosfato in cui viene prodotto il potere riducente che permette di riportare la
metaemoglobina a emoglobina. Questo mette il fenomeno sotto controllo, tranne nei fumatori i
quali ne hanno di più perché ossidano l’emoglobina facendo saltare questo meccanismo.
Altre specie di interesse clinico sono le EMOGLOBINOPATIE.
Lo studio dell’emoglobina ha permesso di esprime il concetto di patologia molecolare: c’era una
malattia nota e ben caratterizzata per sintomi, progressione e prognosi della quale non si sapeva
esattamente la causa fino a quando non si è capito che si trattava del cambiamento di un singolo
amminoacido in una catena globinica. Quindi questa è stata la spiegazione chiave che ha
permesso di capire chiarificare le cause di queste patologie.
Esempio di patologia molecolare applicato all’emoglobina è l’anemia falciforme causata da una
forma alterata dell’emoglobina detta HbS.

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Sbobinatore: Greco Simone, Ionita Angela
Controllore: Ghiozzi Federica
Materia: Biochimica
Docente: Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi allosterici, effetto Bohr, BPG, specie molecolari fisiologiche e patologiche
dell’emoglobina

Anemia falciforme HbS (S sta per Sickle cells =


cellule a falce)
L’anemia è una patologia caratterizzata dalla
presenza di meno eritrociti nel sangue. Nel caso
dell’anemia falciforme c’è un elemento
caratteristico che è la forma a falce dell’eritrocito.
La causa è una mutazione puntiforme che altera
un codone nella sequenza genetica che codifica
per la catena β che di conseguenza ne altera un
amminoacido.

Vi sono varie forme di anemia, ad oggi sono state individuate oltre 300 varianti genetiche delle
catene globiniche. Centinaia di mutazioni individuate che possono essere asintomatiche oppure
alterare la forma degli eritrociti.

Talassemia
Si distinguono α-talassemie e β-talassemie. Sono malattie nelle quali o la catena alfa o quella beta
non sono prodotte in maniera sufficiente. Nell’α-talassemia vi è poca catena alfa, mentre nella β-
talassemia vi è poca catena beta
Le α-talassemie sono letali perché la catena alfa è indispensabile. Senza questa il soggetto
sopravvive pochissimo.
Le β-talassemie sono più frequenti (perché il soggetto sopravvive). Può essere presente in forma
omozigote o eterozigote, è più frequente in eterozigosi in quanto meno debilitante.

Hb glicosilata (diabete cronico)


Non si tratta di una forma patologica di per sé. Alle catene globiniche dell’emoglobina si possono
aggiungere residui di glucosio o altri monosaccaridi. Si forma una glicoproteina che è l’emoglobina
glicosilata. Viene glicosilata quando si trova in una soluzione calda (temperatura fisiologica 37°C)
e ricca di glucosio (iperglicemia). Se un soggetto ha una malattia che comporta iperglicemia per
lungo tempo (diabetico cronico), l’emoglobina viene glicosilata. Questa non modifica le sue
caratteristiche di legame dell’ossigeno e rimane funzionale, però è un marcatore: viene misurata
nel sangue dei pazienti per capire se quel paziente ha avuto la glicemia alta per lungo tempo.
Serve per valutare lo stato di salute di diabetici andando indietro nel tempo.

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Lezione n°12 del 11.05.2018
Sbobinatore: De Marchi Chiara, Dell’Anna Francesco
Controllore: De Vincenti Maddalena, Paulo Cesar Viero
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Varianti fisiologiche emoglobina, talassemia, malaria, anemie ed enzimi

VARIANTI FISIOLOGICHE DELL’EMOGLOBINA


Come già visto nelle lezioni precedenti ci sono più catene globiniche: quella della mioglobina, le due catene
dell’emoglobina adulta α e β e quelle dell’emoglobina fetale ed embrionale. Questo argomento si ricollega al
controllo dell’espressione dei geni. Le catene globiniche difatti sono parecchie, ed ognuna è codificata da un
gene: sono quindi differenti per struttura primaria (non secondaria o terziaria) e sono tutte evidentemente
necessarie, soprattutto nelle varie fasi dello sviluppo partendo dalla fecondazione e andando avanti.
Analizziamo quindi come si accendono e si spengono i vari geni in funzione del differenziamento, a seconda
delle dimensioni dell’embrione o del feto e a seconda delle sue esigenze di trasporto dell’ossigeno, ma anche in
funzione del differenziamento delle sue cellule. I geni sono controllati sia a livello trascrizionale che post-
trascrizionale e quindi i livelli di controllo dell’espressione dei geni sono molti.

Nel grafico possiamo vedere come queste catene variano dalla fecondazione alla fase adulta, dopo la nascita.
All’inizio quando si hanno poche cellule, nei primi stadi embrionali, ci sono 2 catene globiniche, epsilon (ε) e zeta
(ζ) che iniziano a comparire. Simultaneamente c’è anche la catena alfa: è presente fin dall’ inizio, da quando è
necessaria una molecola che ricordi la funzione dell’emoglobina, occorre quindi che ci sia sempre presente la
subunità alfa. Questa si origina subito e continua ad essere espressa ad alti livelli e mantiene la sua espressione
durante tutta la nostra vita.
La parte variante è la seconda
catena, che all’ inizio è la
catena zeta che crolla in un
tempo molto rapido perché
poi la sua espressione viene
quasi direttamente sostituita
dalla epsilon. Dopo un po’ di
tempo, in corrispondenza
della caduta della zeta e della
epsilon, inizia a salire la curva
corrispondente a gamma (γ)
(riga blu).
Ad esempio a meno sei mesi
dalla nascita la maggior parte
delle emoglobine è di tipo α1,
α2 e γ1, γ2 che sono quelle che prevalgono. Le prime catene zeta ed epsilon sono chiamate catene
emoglobiniche embrionali, della fase più precoce. La gamma poi è quella fetale perchè è quella che caratterizza
il feto. La subunità beta che è tipica dell’emoglobina dell’adulto comincia la sua espressione molto bassa circa
nove mesi prima della nascita, quindi in tempi precoci, però si mantiene a livelli di espressione molto bassi. La
grande differenza si ha alla nascita dove per l’alfa non cambia niente ma c’è una notevole inversione tra la
gamma e la beta. Ciò in termini di espressione genica significa che lo stress della nascita comporta lo
spegnimento dell’espressione della catena gamma che viene espressa sempre meno (dopo un anno ce n’è
ancora qualcosa), aumenta invece l’ espressione della beta. Se io ho un eritrocita che contiene al suo interno
catene alfa e gamma, questo non può più cambiare le sue catene perché è un elemento differenziato ma ha una
1

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Lezione n°12 del 11.05.2018
Sbobinatore: De Marchi Chiara, Dell’Anna Francesco
Controllore: De Vincenti Maddalena, Paulo Cesar Viero
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Varianti fisiologiche emoglobina, talassemia, malaria, anemie ed enzimi

vita determinata (dura all’ incirca 120gg) in quanto poi viene eliminato per eritrocateresi, soprattutto nella
milza, e poi sostituito.
Lo stimolo della nascita porta ad un’intensa distruzione di eritrociti di tipo fetale con l’ emoglobina alfa e gamma
e alla loro sostituzione con nuovi eritrociti (prodotti dal midollo) che invece hanno una diversa configurazione
con catene alfa e beta.
Il feto, prima di nascere, preleva l’ossigeno dal sangue materno attraverso la placenta. L’emoglobina fetale (α e
γ) ha scarsa affinità per il BPG cioè lo lega poco e ciò vuol dire che questa emoglobina ha maggior affinità nei
confronti dell’ossigeno rispetto all’ emoglobina materna (α e β) che invece lega il BPG risentendo così
dell’effetto di rilascio di ossigeno. In questo modo durante la vita del feto è possibile il passaggio dell’ossigeno
dall’emoglobina della madre a quella del feto. Quando il bambino nasce (prima le sue vie aeree non avevano
alcuna funzionalità) inizia a ricavare ossigeno dall’aria e ha quindi bisogno che la sua emoglobina sia adatta ad
attuare il ciclo polmonare, e la sostituzione delle catene globiniche degli eritrociti deve avvenire quindi molto
velocemente.
Questa intensa eritrocateresi provoca l’ittero del neonato: nei primi giorni dalla nascita la sua pelle assume una
colorazione giallastra perché il metabolismo del gruppo eme e delle proteine comporta la produzione di
birilubina che rilasciata in tempi molto rapidi va in circolo ad alta concentrazione e quindi provoca questa
particolare condizione tipica dell’ittero. I neonati proprio per questo sono particolarmente resistenti alla
tossicità della birilubina. Questi pigmenti biliari sono neurotossici e se si verificasse nell’adulto la stessa
concentrazione in circolo delle stesse molecole l’adulto avrebbe gravi conseguenze (coma). Questo nel bambino
non succede, questo viene chiamato infatti anche ittero fisiologico.
Nei mesi seguenti avverrà la completa sostituzione degli eritrociti fetali con quelli adulti (sei mesi circa), e in
questo periodo poi inizierà a comparire un’altra catena globinica, la delta (δ), che compare dopo la nascita ed ha
un livello di espressione molto bassa.

Si hanno quindi numerosissime catene differenti:


- α e β tipiche dell’adulto;
- γ fetale che si può trovare in piccole tracce anche dopo la nascita
- δ che compare solo dopo la nascita, presente sempre in piccolissime quantità
- ε e ζ che sono embrionali
- (catena globinica della mioglobina)
Si hanno sette diversi geni che codificando sette catene diverse e che devono essere coordinati, si devono
accendere e spegnere in modo coordinato durante il periodo che va dalla fecondazione fino alla nascita e poi.
Queste catene proteiche sono quindi evidentemente tutte necessarie, ma la alfa c’è sempre e non manca mai.

La talassemia è una malattia genetica in cui avviene una mutazione che impedisce l’espressione di determinati
geni con casi sia di eterozigosi che omozigosi (più gravi) che porta ad una carenza nella produzione di una catena
globinica.
Le alfa talassemie sono letali perché la subunità alfa non può essere sostituita ed è sempre necessaria, in special
modo lo è nell’omozigote che permette una sopravvivenza limitatissima del soggetto ma al tempo stesso è
anche molto rara. Anche la forma eterozigote è piuttosto grave.
Sono più frequenti invece nella popolazione le beta talassemie che implicano la difficoltà a produrre la subunità
beta, dove sempre l’omozigote è più grave mentre l’ eterozigote lo è meno. La beta talassemia è comunque
meno grave dell’alfa perché esiste una risposta adattativa da parte dei soggetti affetti. Anche se producono

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Lezione n°12 del 11.05.2018
Sbobinatore: De Marchi Chiara, Dell’Anna Francesco
Controllore: De Vincenti Maddalena, Paulo Cesar Viero
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Varianti fisiologiche emoglobina, talassemia, malaria, anemie ed enzimi

meno subunità beta compensano o mantenendo la produzione della gamma o incrementando la produzione
della delta, cioè altre subunità vanno a sostituire in gran parte quella beta, ma sempre parzialmente perché
comunque questi soggetti hanno sintomi e sono portatori di malattia genetica in grado di trasmetterla alla
prole. Quindi la subunità beta può essere sostituita almeno parzialmente da altre subunità, e quindi si ha una
risposta adattativa e nel sangue degli adulti permane una certa quantità di emoglobina fetale.

L’anemia falciforme (HbS) è stato il primo caso di patologia molecolare descritto. Qui la mutazione è una
mutazione puntiforme che si trasmette geneticamente e che colpisce una sequenza emoglobinica dove nel caso
dell’RNA messaggero il codone
GAA viene sostituito da GUA
oppure GAG viene sostituito da
GUG (in entrambi i casi
un’adenina viene sostituita con
un uracile); ciò avviene in
particolare nel gene che codifica
per la subunità beta, quindi
nella subunità beta nella
posizione 6 (6° amminoacido)
un acido glutammico viene
sostituito da una valina. Questa
mutazione comporta una modifica di significato del codice, ma questo cambiamento di amminoacido non è
conservativo, in quanto l’acido glutammico è un amminoacido con carica elettrica negativa, la valina invece ha
un gruppo residuo idrofobico; quindi io vado ad abolire una carica elettrica e la vado a sostituire invece con un
gruppo R che può dare interazioni idrofobiche. Se io ho due molecole di emoglobina ognuna delle quali espone
verso l’esterno una carica elettrica negativa le cariche elettriche uguali si respingono e se io abolisco una di
queste cariche negative e ci metto invece un amminoacido di tipo idrofobico vado a stabilire una superficie di
interazione perché fra di loro questi interagiscono. Il risultato è che quando l’emoglobina trasporta l’ossigeno,
cioè è ossiemoglobina, la cosa non ha grande influenza, assume la conformazione rilassata e questa differenza
non si nota granchè, quando però l’emoglobina perde l’ossigeno, cioè è deossiemoglobina, e quindi assume la
conformazione tesa, espone questo
residuo verso l’esterno. Questo provoca
un cambiamento conformazionale e ciò
permette che un tetramero di emoglobina
e un altro tetramero di emoglobina se si
incontrano, si leghino assieme,
polimerizzino e precipitino e non siano più
solubili all’ interno del citoplasma degli
eritrociti. Quindi si formano delle catene
ingranate dove questa emoglobina deossi
che è diventata insolubile è precipitata
sotto forma di fibrille, è infatti diventata
sostanzialmente un’amiloide (la catena
proteica ha cambiato conformazione ed è
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Materia: Biochimica
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Argomenti: Varianti fisiologiche emoglobina, talassemia, malaria, anemie ed enzimi

denaturata e polimerizzando ha generato delle formazioni a forma di fibrilla e quando queste fibrille si
depositano all’ interno delle cellule o all’esterno di esse vengono chiamate amiloidi: fenomeno che è associato
anche a malattie neurodegenerative).
In questo caso è un’amiloide che colpisce gli eritrociti, il cambiamento conformazionale porta ad un’emoglobina
S; se si parla di omozigoti tutte le subunità beta avranno questa modifica, nel caso di eterozigoti sarà una sì e
una no. In questo caso la sostituzione di un singolo amminoacido ha un significato molto importante.
L’eritrocita ha forma falciforme perché ci
sono degli aghetti che hanno bucato la
membrana dell’eritrocita rompendola
(emolisi), questi aghetti dentro all’eritrocita
ne provocano la morte (si ha un’anemia) e
la forma falciforme è proprio data dalla
precipitazione di questi aghetti. Quindi o gli
aghetti rompono l’eritrocita e esso muore
oppure la milza quando vede passare
l’eritrocita deformato lo uccide perché lo
interpreta come difettoso. Quindi anche la
semplice modificazione morfologica di un
eritrocita è già sufficiente perché questo sia
esposto ad un’intensa eritrocateresi (invece di durare 120 gg viene ucciso nell’arco di poche ore) e quindi la
sintomatologia è di tipo anemico. Questa malattia genetica ha anche una diffusione geografica legata a come si
diffonde un gene all’interno di una popolazione in diverse aeree. La diffusione della HbS è notevole in
compresenza di un’altra malattia che è la malaria, diffusa da una particolare specie di zanzare che è l’anofele in
cui al suo interno può albergare un protozoo, il parassita plasmode della malaria; questo parassita fa un ciclo
riproduttivo in parte dentro al mammifero che è stato punto e in parte dentro al vettore (zanzara) in particolare
nelle sue ghiandole salivari. Quando la femmina di zanzara punge per risucchiare il sangue, necessario per far
maturare le uova, inietta la saliva che contiene un anticoagulante (ciò che irrita la pelle) che impedisce al sangue
una volta uscito dai vasi di coagulare. Iniettando la saliva contaminata dal plasmode lo trasferisce all’interno del
mammifero.
Ci sono vari tipi di parassiti. Sono note malattie malariche terzane e quaternane. Questo parassita una volta che
è stato iniettato nel sangue del soggetto la prima cosa che fa è entrare nell’eritrocita. Entra nella sua membrana
(è un parassita interno degli eritrociti) e ci sta dentro esattamente tre o quattro giorni che sono rispettivamente
la terzana e la quaternana. La terzana maligna è la più grave in assoluto, in quanto il plasmode sta dentro
l’eritrocita e si riproduce, terminati i tre giorni, esce dall’eritrocita facendolo esplodere, provocando l’emolisi di
quella cellula eritrocitaria, e poi infetta altri eritrociti, passano tre giorni e succede la stessa cosa, gli eritrociti
infettati esplodono e ne vengono infettati altri; è quindi una malattia che cresce in maniera esponenziale: ad
ogni ciclo aumenta sempre di più il numero dei parassiti. Dopo un po’ di tempo che è quello di incubazione il
soggetto inizia ad accusare un sintomo caratteristico perché quando gli eritrociti si rompono e il parassita esce
c’è una risposta febbrile, un’intensa crisi febbrile che si associa alla crisi emolitica. Questa crisi va in crescendo
esponenzialmente fino a che la crisi febbrile e emolitica sono talmente intense che uccidono il soggetto.
Potenzialmente in assenza di una cura o in assenza di strategie di controllo del vettore ha la potenzialità di
sterminare un’intera popolazione; per questo viene chiamata terzana maligna.

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Argomenti: Varianti fisiologiche emoglobina, talassemia, malaria, anemie ed enzimi

Esiste in questo caso una difesa umana che consiste nella HbS eterozigote, perché un soggetto portatore di
anemia falciforme in forma eterozigote ha una buona parte di eritrociti inadatta ad ospitare il parassita e quindi
si protegge. Di fatto quindi un soggetto sano colpito da terzana maligna muore per malaria, un soggetto Hbs
omozigote sopravvive alla malaria ma muore per anemia, il soggetto Hbs eterozigote con sintomatologia blanda
diventa adulto, può avere figli e trasmettere la malattia ed è sostanzialmente protetto dalla malaria; per questo
c’è sovrapposizione geografica tra le zone dove c’è l’HbS e dove c’è la malaria e viceversa.
Questo è un evento di evoluzione umana in atto dove la pressione selettiva dell’ambiente seleziona il genoma
adatto. Il genoma adatto dipende dall’ambiente perché nelle zone di malaria l’ HbS è considerato un vantaggio
evolutivo, cosa che non è invece in altre zone del mondo.

{Eugenetica: l’idea che esista un patrimonio genetico migliore non esiste scientificamente, non è una teoria
scientifica.}

{Conferenza di Asilomar: sono state messe in appunto le prime tecniche di clonazione ma si decide di
sospendere la sperimentazione e darsi delle regole e introducono il concetto di sicurezza intrinseca, cioè
l’applicazione di metodi e tecnologie che sono intrinsecamente sicuri.}

Alcune delle malattie geniche associate all’emoglobina non danno sintomi perché magari sono mutazioni che
non hanno alterato il meccanismo di funzionamento della catena emoglobinica e non hanno conseguenze gravi
e di solito prendono il nome delle località in cui è stato identificato e studiato per la prima volta il paziente.
Le anemie posso essere classificate in diverso modo. Per avere l’ emoglobina infatti devo combinare quella che
è una parte biologica, cioè la catena proteica globinica, con la parte che è in parte biologica e in parte no cioè il
gruppo eme, che è il prodotto di più sintesi, ed il ferro, che deve essere ottenuto dall’alimentazione.
Quindi si hanno le talassemie e la falcizzazione che agendo al livello dell’alterazione di produrre la catena
proteica colpiscono l’ emoglobina.
Ce ne sono invece altre che colpiscono il gruppo eme. Da una parte c’è l’anemia sinderoblastica, dove siccome il
gruppo eme viene prodotto per biosintesi ci possono essere delle carenze enzimatiche che colpiscono questa via
biosintetica e che danno difficoltà nella produzione del gruppo eme.
Dall’altra parte troviamo tutte quelle carenze chiamate ferri prive che sono legate al fatto che non c’è
abbastanza ferro. Noi assorbiamo il ferro (Fe2+) tramite l’apparato digerente e se noi abbiamo problemi a questo
apparato come infiammazioni croniche o neoplasie abbiamo problemi nell’assumerlo. Oppure a causa di
carenza di ferro nell’alimentazione perché il ferro che noi assorbiamo meglio è presente nel gruppo eme degli
alimenti cioè nella carne.

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Argomenti: Varianti fisiologiche emoglobina, talassemia, malaria, anemie ed enzimi

INTRODUZIONE AGLI ENZIMI

Tutte le funzioni della materia vivente (pensiero, digestione, attività motoria…) sono dovute agli enzimi e quindi
lo studio di tali molecole significa studiare le funzioni dei viventi.

All’interno di un essere vivente avvengono delle trasformazioni molecolari, esso è infatti composto da
biomolecole complesse ed ha bisogno di modificarle (ovvero costruirle e smontarle) tramite trasformazioni
molecolari. Queste trasformazioni possono avvenire anche spontaneamente, anzi alcune avvengono senza
bisogno di alcun intervento, il problema è però la velocità: non è infatti possibile impiegare mesi per la
digestione di una singola proteina o per l’attuazione di una determinata reazione chimica come avverrebbe in
assenza di enzimi. Quindi la prima funzione degli enzimi è quella di consentire all’essere vivente di poter
effettuare una trasformazione in tempi che siano compatibili con le sue esigenze, ovvero rimanere vivo.

Essi inoltre sono utili all’organismo per via della loro funzione di regolazione delle attività vitali per il
mantenimento dell’omeostasi (STRUTTURALE, ENERGETICA, METABOLICA…).

Il repertorio di enzimi posseduto da un vivente in un momento della sua vita corrisponde alla struttura che ha
ed alle funzioni che necessita di esplicare, noi siamo un sacchetto pieno di enzimi!

Tale repertorio è dinamico, non è fisso ed è strettamente dipendente da omeostasi e genoma.

Dentro una cellula c’è il genoma che contiene le informazioni riguardo alle modalità con cui fabbricare le
proteine: struttura primaria→ struttura secondaria →struttura terziaria → ecc..

Esso può essere attivato o rimanere inattivo, secondo le modalità di espressione genica che variano a seconda
del tipo di cellula. Quindi ci immaginiamo il genoma come un fattore fisso all’interno delle cellule perché
(generalizzando e sintetizzando) ogni cellula di un individuo ha lo stesso dna. Tuttavia le cellule di uno stesso
individuo non presentano le stesse proteine e gli stessi enzimi a causa del controllo dell’espressione genica (che
fa sì che in uno stesso individuo vi siano neuroni, epatociti ecc..) che si basa sulla scelta dei geni da esprimere.

Quindi se il genoma (ovvero i geni di un individuo) sarà fisso nelle cellule, il proteoma sarà molto variabile.

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Sbobinatore: De Marchi Chiara, Dell’Anna Francesco
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Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Varianti fisiologiche emoglobina, talassemia, malaria, anemie ed enzimi

Il proteoma può inoltre cambiare in una stessa cellula in funzione degli stimoli esterni (es. farmaci) che questa
cellula può subire durante la sua vita e a seconda del programma di differenziamento che porterà la cellula a
specializzarsi in una determinata funzione.

CENNI STORICI SULLO STUDIO DEGLI ENZIMI

‘700: Spallanzani affermò che la carne è digerita da “secreti” dello stomaco: egli prelevava questo liquido
dallo stomaco, lo metteva sulla carne e vedeva che aveva degli effetti;

1850: Pasteur scopre che la “fermentazione” dello zucchero in alcol è catalizzata da fermenti;

1897: Buchner isola i fermenti funzionanti in vitro; Kuhne usa per primo il termine ENZIMA;

1926: Sumner purifica il primo enzima fino a farlo diventare cristallo. Questo enzima è stato l’ureasi (prodotto
nei batteri e utilizzato in medicina per capire se un paziente ha l’ H. Pilori). Egli così facendo capisce che gli
enzimi sono proteine;

1930: Haldane scrive il primo trattato sugli enzimi;

1966: Dixon e Webb danno questa affermazione che oggi è ancora valida: “Gli enzimi sono proteine con attività
catalitica specifica”

• Essi quindi sono dei catalizzatori, cioè aumentano la velocità di una reazione e sono specifici cioè vi è un
enzima per ogni reazione. In una cellula quindi esistono tanti enzimi quante le reazioni che quella cellula
deve effettuare.
• Sono materiale biologico prodotto dalla cellula stessa in cui operano.

Questi due sono stati concetti rivoluzionari.

DEFINIZIONI

Gli enzimi sono catalizzatori biologici e sono proteine ad eccezione dei ribozimi (che sono composti da RNA). Essi
possono essere:

1. SEMPLICI, cioè composti da una sola catena proteica (ad esempio il lisozima)
2. COMPLESSI costituiti da più catene proteiche (la maggior parte degli enzimi)

Essi sono costituiti da una parte proteica e da una parte non proteica che generalmente sono legate
covalentemente. Tale parte non proteica corrisponde spesso alle vitamine che noi mangiamo e poi viene
assemblata alla parte proteica per formare gli enzimi. Gli enzimi inoltre possono necessitare della presenza di
cofattori, ovvero ioni inorganici e coenzimi.

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Sbobinatore: De Marchi Chiara, Dell’Anna Francesco
Controllore: De Vincenti Maddalena, Paulo Cesar Viero
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Varianti fisiologiche emoglobina, talassemia, malaria, anemie ed enzimi

Un oloenzima è una proteina nella sua forma attiva, prodotta dall'unione dell'apoenzima (proteina senza
cofattori) con tutti i suoi cofattori, ovvero il cosiddetto gruppo prostetico.

Gli enzimi sono classificati sulla base del tipo di reazione catalizzata:

es. POLIMERIZZAZIONE → POLIMERASI

Nello svolgere la sua attività l’enzima interagisce con il SUBSTRATO in una zona dell’enzima chiamata SITO
CATALITICO (O ATTIVO).

Dire substrato e prodotto in una reazione enzimatica è l’equivalente di dire reagente e prodotto in una reazione
non enzimatica!

Gli enzimi posso essere soggetti a fenomeni di INIBIZIONE ENZIMATICA cioè la loro attività può essere bloccata
(ad esempio legando CO, monossido di carbonio all’emoglobina, essa cesserà di legare ossigeno) o di
REGOLAZIONE ENZIMATICA.

In questo caso l’attività dell’enzima può essere ridotta o aumentata per necessità fisiologica o patologica.

Non tutti gli enzimi sono soggetti a regolazione, la maggior parte di essi dipende dalla legge di azione di massa:

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Sbobinatore: De Marchi Chiara, Dell’Anna Francesco
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Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Varianti fisiologiche emoglobina, talassemia, malaria, anemie ed enzimi

Altri invece scelti accuratamente dall’evoluzione possono essere soggetti a regolazione specifica ad esempio il
2,3-BPG o 2,3-DPG che in alta quota “convince” l’emoglobina a cedere di più l’ossigeno.

Vedremo il fenomeno dell’allosterismo ovvero enzimi che oltre al sito catalitico hanno un sito allosterico che
lega altre molecole che ne alterano la funzione. Altri metodi di regolazione specifica sono:

• Modificazioni covalenti
• Attivazione per protelisi
• Isoenzimi

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Lezione n°13 del 14.05.2018
Sbobinatori: Nicolò Pasini, Antonella Potenza
Controllore: Irene Miglioli
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
enzimatica

Enzimi: ruolo, nomenclatura, cinetica enzimatica


Cosa sono gli enzimi, vari tipi di enzimi presenti nel corpo umano, ruolo degli enzimi e accenni sui
coenzimi, nomenclatura degli enzimi, cinetica enzimatica, chimica e biochimica degli enzimi.

Gli enzimi nella maggior parte dei casi sono delle proteine e alcune di queste sono in grado di
svolgere la propria azione come proteine semplici cioè come delle semplici catene proteiche.
Ma la maggior parte degli enzimi che svolge la propria funzione ha bisogno di altri componenti ad
esempio i minerali o ioni inorganici. Nella costituzione del corpo umano rientrano più o meno i 2\3
degli elementi della tavola periodica ma si ha anche la presenza di quelli che vengono definiti
minerali e ioni in tralce.

In tralce cioè in piccola quantità


questi ioni inorganici, tossici ad
alte concentrazioni, sono ad
esempio lo zinco (Zn2+),
necessario per l’anidrasi
carbonica, un enzima che è in
grado di solubilizzare l’anidride
carbonica in ione carbonato, il
selenio (Se) necessario per il
glutatione perossidasi, un
enzima importante perché è in
grado di ripristinare la forma
attiva del glutatione, il potassio
(K+) necessario per molti enzimi
della via glicolitica e il magnesio
(Mn2+) necessario per tutti gli
enzimi della via glicolitica.
Questi sono necessari ed è possibile proccurarli tramite gli alimenti ma essendo degli ioni inorganici
non sono fabbricabili e quindi occorre che la nostra alimentazione sia sufficientemente varia e possa
contenere in quantità adeguate anche queste sostanze.
L’altra parte sono molecole organiche che derivano da fattori nutrizionali che sono le VITAMINE,
solitamente le vitamine idrosolubili che sono quelle che forniscono la maggior parte di questi
precursori. Negli alimenti è possibile trovare queste molecole, che sono i precursori, e vengono
assorbite con delle loro cinetiche, con delle loro regole particolari e una volta che vengono assorbite
ed entrano nell’organismo vengono modificate nei corrispondenti coenzimi.

I coenzimi sono delle molecole organiche complesse che vengono associate agli enzimi, delle volte,
tramite dei legami covalenti in altri casi no, in quanto dipende dal meccanismo d’azione, dal tipo di
1

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Lezione n°13 del 14.05.2018
Sbobinatori: Nicolò Pasini, Antonella Potenza
Controllore: Irene Miglioli
Materia: Biochimica
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Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
enzimatica

enzima e sono proprio questi a determinare il funzionamento degli enzimi in quanto il loro compito è
quello di fare da trasportatori transitori di radicali, di forme attive di molecole.
Solitamente i coenzimi si trovano nel sito attivo degli enzimi. Il sito attivo è quella parte dell’enzima
dentro cui entra il substrato o i substrati, dove avviene la reazione chimica e dove viene catalizzata,
accelerata e questo aumento di velocità e di efficienza è solitamente dovuto alla presenza del
coenzima.

Nomenclatura degli enzimi

- Pepsina, tripsina ecc: sono nomi che riguardano enzimi digestivi dell’apparato digerente ma
non hanno nessuna relazione con il substrato, con il prodotto, con la reazione catalizzata

- Suffisso -ASI
Ad esempio, UREASI è l’enzima che agisce sull’urea quindi il substrato di questo enzima
sarà l’urea, la DNA POLIMERASI un enzima che è capace partendo da un filamento di DNA
di fabbricare un substrato quindi è in grado di polimerizzare, di allungare la catena del DNA.
Quindi il termine DNA POLIMERASI è un termine moderno ma fa ancora un uso arcaico della
nomenclatura che consiste nella semplice aggiunta del suffisso –asi.

- Oppure in relazione alla reazione:

ATP + glucosio → ADP + glucosio 6-fosfato

È la prima reazione della via glicolitica e riguarda la fosforilazione del glucosio in posizione
6 ed è una reazione con due substrati e due prodotti.
I substrati inziali sono l’ATP e il glucosio e il risultato di questa trasformazione molecolare è
che l’ATP perde un fosfato e diventa ADP mentre il glucosio ne acquisisce uno e diventa
glucosio 6-fosfato in quanto il fosfato è stato agganciato al carbonio in posizione 6. Questa
reazione è stata catalizzata da un enzima:
ATP glucosio 6-fosfotransferasi

la funzione dell’enzima è quella di trasferire un fosfato dall’ATP al glucosio e fra tutti gli atomi di
carbonio del glucosio viene fosforilato il carbonio in posizione 6.
Inoltre il seguente enzima viene anche chiamato ESOCINASI (le cinasi sono enzimi che fosforilano
ed eso significa che fosforilano degli esosi).

Classificazione internazionale degli enzimi

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Lezione n°13 del 14.05.2018
Sbobinatori: Nicolò Pasini, Antonella Potenza
Controllore: Irene Miglioli
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
enzimatica

La commissione internazionale degli enzimi, alcuni anni fa, ha stabilito un criterio di classificazione
che si basa sulle sei azioni catalitiche che gli enzimi sono in grado svolgere ed è il seguente:

Le ligasi poiché generano dei legami hanno bisogno di energia per poter procedere.
E come ben sappiamo avvengono sia reazioni di tipo catabolico cioè che rompono un legame e sia
di tipo anabolico cioè che generano un legame. Quando avviene la rottura di un legame si ha il
rilascio di energia, quando viene generato un legame è necessario immettere energia.

Esempio: la CREATINA CINASI è un enzima importante per il metabolismo muscolare, per la


contrattilità e permette il trasferimento di un fosfato dall’ATP alla creatina creando la fosfocreatina e
l’ADP.

ATP + CREATINA → ADP + FOSFOCREATINA

È una reazione reversibile.


Nel momento in cui siamo a riposo la maggior parte della creatina è presente nelle cellule muscolari,
c’è disponibilità di energia e la reazione procede da sinistra verso destra e si ha l’accumulo di
creatina fosforilata che rappresenta una sorta di deposito di energia di immediato utilizzo.
Ma nel momento in cui effettuiamo uno sforzo fisico, la richiesta di energia che avviene all’interno
del muscolo sposta l’equilibrio della reazione verso sinistra perché la fosfocreatina accumulata a
riposo immediatamente viene utilizzata come substrato per fosforilare l’ADP e generare ATP.
Questo alimenta la contrazione muscolare.
L’enzima responsabile di questo è la CREATINA CINASI e la nomenclatura internazionale lo
definisce EC 2.7.3.2.

EC 2.7.3.2
-Il primo numero indica che si tratta di una transferasi
-il secondo numero indica che è un sottoinsieme delle transferasi e quindi fosfotransferasi (ovvero
trasferiscono gruppi fosfati)
-il terzo numero indica che il gruppo fosfato viene legato ad un atomo di azoto
-il quarto numero è individuale cioè è il numero di quello specifico enzima cioè questo numero indica
che si tratta di una creatina cinasi

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Sbobinatori: Nicolò Pasini, Antonella Potenza
Controllore: Irene Miglioli
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Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
enzimatica

EC 1.1.1.1 è l’ALCOL DEIDROGENASI, enzima responsabile della trasformazione dell’alcol con


produzione di NAD ridotto nella corrispondente aldeide.
È un enzima inducibile, è un tipico enzima epatico poiché quando si fa uso di alcolici, l’alcol passa
in circolo e il fegato deve detossificare questa sostanza estranea. Il processo di detossificazione
comporta che l’alcol viene trasformato in forma aldeide. Quest’ultima risulta essere epatotossica e
carcinogena ed è in grado di uccidere le cellule epatiche e provocare il carcinoma epatico.
L’alcol deidrogenasi appartiene alle ossidoreduttasi, utilizza come substrato il NAD in forma
ossidata e lo trasforma in NAD in forma ridotta. (Questo spiega un fenomeno ovvero che l’etanolo
fornisce calorie che vengono definite calorie vuote perché non sono nutrienti e queste calorie sono
dovute al fatto che si forma il NADH.)

ALCOL + NAD → ALDEIDE o CHETONE + NADH2

TRIGLICERIDE LIPASI (lipasi che aggrediscono i lipidi) è un enzima in grado di idrolizzare i legami
esteri che tengono uniti al glicerolo i tre acidi grassi. Quindi attacca un legame estere, libera un acido
grasso che diventerà acido grasso libero che avrà un suo destino metabolico.
La TRIGLICERIDE LIPASI è anche definita nel seguente modo EC 3.1.1.3 dove:
-il primo numero indica che si tratta di un idrolasi perché rompe il legame sfruttando una molecola
di acqua
-il secondo numero indica che agisce su legami esteri che legano il gruppo –OH del glicerolo al
gruppo –COOH dell’acido grasso
-il terzo numero indica che sono degli esteri carbossilici
-il quarto numero indica che si tratta proprio della trigliceride lipasi

TRIGLICERIDE + H2O → DIGLICERIDE + ACIDI GRASSI

CINETICA ENZIMATICA

La cinetica enzimatica è lo studio dei parametri che esprimono o misurano la funzionalità di un


enzima.

Un parametro molto importante in biochimica è il ΔG0’ che indica in quale direzione si muove una
reazione biologica catalizzata da un enzima.
Per arrivare a definire il seguente parametro immaginiamo un substrato che diventa un prodotto in
una reazione all’equilibrio e come ben sappiamo per ogni reazione esiste una costante di equilibrio
K che è definita come [P] / [S].
Se questa reazione indica che al raggiungimento dell’equilibrio la [P] e la [S] sono uguali allora [P]/[S]
è uguale ad 1 e quando la costante di equilibrio è uguale ad 1 significa che la reazione è
perfettamente in equilibrio.
Nel caso in cui aumenta P, S diminuisce e la costante di equilibrio è maggiore di 1 quindi la reazione
è spostata verso destra, mentre se S aumenta e P diminuisce, la costante di equilibrio è minore di 1
quindi la reazione è spostata verso sinistra.
In presenza di un reazione, anche in assenza di un enzima, è possibile evidenziare delle modifiche
energetiche quindi cambia l’energia associata.
Quindi partiamo da quello che viene definito lo stato basale che è il contributo di energia libera data
da una molecola (S o P) in determinate condizioni.
L’energia posseduta da queste molecole dipende dalla:
- TEMPERATURA che in condizioni standard deve essere 298K o 25°C

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Lezione n°13 del 14.05.2018
Sbobinatori: Nicolò Pasini, Antonella Potenza
Controllore: Irene Miglioli
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
enzimatica

- PRESSIONE PARZIALE DEI GAS che in condizioni standard deve essere 1atm o 101,3 KPa
- CONCENTRAZIONE SOLUTI 1M

Nel momento in cui mi trovo in queste tre condizioni standard la variazione di energia che si verifica
quando S diventa P viene definita VARIAZIONE DI ENERGIA LIBERA STANDARD, ΔG0.
Ma in termini biologici la concentrazione dei soluti 1M non è possibile quindi la [H+] è molto diversa
da 1M e anche la temperatura è di 37°C.
Quindi in condizioni biologiche, cioè a concentrazione reale dei soluti e in condizioni di temperatura
reale di quel vivente, la variazione di energia libera viene definita VARIAZIONE DI ENERGIA
LIBERA STANDARD BIOCHIMICA, ΔG0’.
Un altro parametro espresso da ΔG# che indica sempre una variazione di energia che in questo caso
viene definita ENERGIA DI ATTIVAZIONE.

Tornando alla reazione che S diventa P, la costante di equilibrio è data da [P]/[S], se la [P] e la [S]
sono uguali allora [P]/[S] è uguale ad 1 e quando la costante di equilibrio è uguale ad 1 significa che
la reazione è perfettamente in equilibrio.
Nel caso in cui aumenta P, S diminuisce e la costante di equilibrio è maggiore di 1 quindi la reazione
è spostata verso destra, mentre se
S aumenta e P diminuisce, la
costante di equilibrio è minore di 1
quindi la reazione è spostata
verso sinistra.
ΔG0’ è definibile dall’equazione
–R T ln Keq, dove R e T sono due
parametri non variabili ma sono
delle costanti, R è la costante dei
gas e T è la temperatura assoluta.
In questa equazione l’unico
parametro che varia è la costante
di equilibrio e quindi ΔG0’ dipende
dalla costante di equilibrio che
risulta essere direttamente
proporzionale al ΔG0’.
Quest’ultimo viene calcolato per
determinare da che parte si sposta
l’equilibrio della reazione, perché
in una reazione nella quale
prevale ampiamente l’equilibrio
verso destra (verso P), si ha una
costante di equilibrio che risulta
essere molto maggiore di 1 e
quindi sostituendo questi valori
nell’equazione precedente, il ΔG0’
risulta essere negativo. Quindi
l’energia posseduta da P è minore
di quella posseduta da S e
pertanto facendo l’energia di P
meno l’energia di S otteniamo un
numero negativo.

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Materia: Biochimica
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Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
enzimatica

Quando ci si trova in queste condizioni l’equilibrio è spostato verso destra.


Queste sono le cosiddette reazioni esoergoniche sono reazioni che procedono spontaneamente
verso destra con rilascio di energia. La tipica reazione è la combustione.
Nel caso opposto prevale la formazione di S, quindi la costante di equilibrio sarà minore di 1 e di
conseguenza il ΔG0’ sarà positivo.
La reazione procede spontaneamente verso sinistra (verso S) con rilascio di energia ma è possibile
formare P con l’aggiunta di energia e quindi si tratta di una reazione endoergonica.
Mentre nel caso in cui ci troviamo di fronte ad un perfetto equilibrio e quindi S e P hanno la stessa
identica concentrazione, la costante di equilibrio vale 1, il ln di 1 vale 0 e quindi ΔG0’ vale 0.
Quindi quando il ΔG0’ vale 0 la reazione è in perfetto equilibrio e quindi ho la stessa probabilità che
P diventi S e che S diventi P.
Queste sono le reazioni che risentono maggiormente dell’azione di massa in quanto se sottraggo S
si spostano verso sinistra e se sottraggo P si spostano verso destra.
Quindi il valore di ΔG0’ indica la direzione di spostamento dell’equilibrio di reazione.
In particolare il segno di ΔG0’ indica la direzione (il segno meno indica uno spostamento verso destra,
il segno positivo indica uno spostamento verso sinistra) e dopo il segno si ha la presenza di un
numero, il modulo che è molto importante in quanto mi indica l’entità della variazione energetica.
Queste variazioni di energia hanno come unità di misura il KJ o il Kcal.

Esistono anche reazioni di 2° ordine in cui ho substrato uno più substrato due che mi forniscono
prodotto uno, prodotto due. Quindi anche in presenza di due o più substrati è possibile fare le
seguenti considerazioni in maniera analoga facendo delle correzioni.

Entropia e probabilità

Immaginiamo di avere due vasi comunicanti, due contenitori con un rubinetto in mezzo.
Il contenitore di sinistra risulta essere pieno di un gas mentre il contenitore di destra è vuoto.

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Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
enzimatica

In questo sistema che risulta


essere un sistema chiuso è
presente un vincolo, il rubinetto
che separa i due compartimenti.
Nel momento in cui rimuovo il
vincolo cioè apro il rubinetto e
aspetto un tempo sufficiente per il
raggiungimento dell’equilibrio,
osservo che il gas, inizialmente,
presente soltanto nel contenitore
di sinistra ora risulta essere
presente in entrambi i contenitori.
Questo è dovuto al fatto che nel
momento in cui il rubinetto viene
aperto, poiché le molecole del gas
sono in continuo movimento,
esiste una certa probabilità che
una di queste molecole nelle sue
traiettorie riesca a passare nel
contenitore di destra.
Questo è un equilibrio dinamico
perché nel momento in cui viene raggiunto il seguente equilibrio è possibile continuamente
osservare delle molecole che passano da una parte all’altra attraverso il rubinetto però il numero di
molecole che passa da sinistra a destra è uguale al numero di molecole che passa da destra a
sinistra per cui si raggiunge l’equilibrio.
È possibile parlare anche in termini di probabilità statistica che le molecole stiano a destra o a
sinistra.
In questo sistema chiuso, rimuovendo il vincolo, il calcolo statistico indica che è presente la massima
probabilità quando si raggiunge l’equilibrio.
Sarebbe possibile sfruttare il raggiungimento di questo equilibrio per ricavare energia e produrre
lavoro ma in termini probabilistici quando si raggiunge l’equilibrio non è più possibile produrre lavoro.
In sostanza, quando si raggiunge l’equilibrio, l’evento a massima probabilità non accade più nulla.
A questo punto, la probabilità che spontaneamente le molecole possano ritornare nella loro
posizione iniziale non è zero ma è uno su infinito.
Quindi questo fenomeno non avviene spontaneamente ma si verifica nel momento in cui viene
fornita energia.

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enzimatica

Energia libera e stato di transizione


Il grafico mostra le variazioni di energia libera
del sistema nel tempo (la coordinata di
reazione rappresenta il tempo). Si parte da S
e dopo un po', quando raggiungo l’equilibrio
di reazione, ho una certa quantità di P. In
condizioni standard, S ha una certa energia
(nel grafico parte ad una certa altezza), che
rappresenta il suo stato basale. La reazione
procede verso l’equilibrio, si forma una certa
quantità di P, il quale ha meno energia di S,
quindi dato che P ha meno energia di S si
tratta di una reazione esoergonica. L’energia
di S meno quella di P rappresenta il ΔG0’ , che
in questo caso è negativo, e ciò dimostra che
la reazione è di tipo esoergonico che ha
liberato una quantità di energia pari alla
differenza tra S e P. Una tipica reazione di
questo tipo è la reazione di combustione.

Es. —> Quando una sostanza
organica come un pezzo di legno
brucia, diventa CO2 e H2O e rilascia
calore (fiamma, luce ecc).
La reazione di combustione, anche se va spontaneamente verso destra, ha bisogno di essere
innescata (l’autocombustione non esiste).
Una volta che io ho fornito una piccola
quantità di energia necessaria per far partire
le prime reazione esoergoniche, le reazioni
stesse rilasciano a loro volta energia
necessaria per l’autopropagazione della
reazione. È necessaria quindi una energia
iniziale di innesco, che nel grafico è
rappresentato dal picco corrispondente allo
stato di transizione. Lo stato di transizione
è una specie molecolare “strana”. S infatti
non diventa di colpo P, ma passa attraverso
una specie molecole di transizione che è un
ibrido o via di mezzo tra S e P. La formazione
di questa specie di transizione richiede
energia rappresentata nel grafico dalla linea
ascendente che porta al picco. Una volta che
si è formata la specie di transizione essa in
modo spontaneo crolla verso P liberando energia. L’ energia di attivazione è quindi l’energia richiesta
perché S diventi specie di transizione. L‘ energia effettiva che viene rilasciata durante questo tipo di
reazioni è data dalla differenza tra l’energia immessa per far raggiungere ad S lo stato di transizione
e quella successivamente rilasciata per raggiungere P.
• Es. —> il glucosio, che sia bruciato su di un fornello oppure ingerito, rilascia anidride
carbonica e acqua e calore derivato dalla sua combustione. La differenza tra il glucosio

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Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
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bruciato sul fornello o dentro le cellule sta nel fatto che dentro al corpo umano non brucia
niente, la reazione che coinvolge il glucosio avviene a 37 °C.

Come fa l’uomo ad innescare reazioni che rilasciano energia, rimanendo a 37 °C?

Con la presenza di un enzima, all’inizio di un a reazione, si forma il complesso ES (enzima +


substrato); dentro all’enzima, in corrispondenza del suo sito attivo, si forma la specie di transizione
che però presenta un livello energetico molto inferiore alla specie di transizione del grafico
precedente. Non appena la specie di transizione si forma, dentro al sito attivo dell’enzima è presente
P, il quale viene rilasciato dall’enzima stesso. L’enzima non fa cose termodinamicamente
irreversibili, se una reazione non può avvenire essa non avviene. L’enzima (rispettando tutte le varie
leggi chimico-fisiche) è un catalizzatore perchè abbassa l’energia di attivazione ovvero rende molto
più probabile la formazione della specie di transizione. In assenza di un enzima è richiesta molta
energia per raggiungere lo stato di transizione, in presenza di esso ne serve molto poca. Quindi
presente l’enzima, si raggiunge l’e equilibrio di reazione, che non varia (è caratteristico di una
determinata reazione e rimane cosi, in presenza o assenza di enzimi) ma in maniera molto più veloce
perché si può fare in presenza di una quantità di è già molto più bassa.
Ricapitolando, enzima = catalizzatore biologico che catalizza in maniera specifica una determinata
reazione e solo quella, e rende molto più probabile la transizione da S a P, perché è in grado di
generare molto più rapidamente la specie di transizione e lo fa grazie a valori di energia di attivazione
bassissimi, facilmente reperibili nell’ambiente te biologico. La conclusione è quindi che il
raggiungimento dell’equilibrio di reazione diventa molto più veloce.

Nelle reazioni esoergoniche S ha più energia di P, mentre in una reazione endoergonica S ha meno
energia di P. Gli enzimi funzionano con lo stesso metodo anche nelle reazioni endoergoniche, la
differenza sta nel fatto che nelle reazioni esoergoniche all’equilibrio si ha un rilascio netto di energia,
mentre in quelle endoergoniche avviene un assorbimento di energia e quindi ΔG0’ è positivo.

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enzimatica

Meccanismi della catalisi enzimatica: come fa l’enzima ad aumentare la velocità di


reazione?

In assenza dell’enzima, la reazione può avvenire e richiede la sua velocità di reazione è 1, in


presenza dell’enzima la velocità
dell’enzima aumenta di 1017 volte. In
chimica la reazione S che diventa P
può sempre avvenire, anche se poco
probabile infatti è possibile che
alcune molecole di S diventino P. In
biochimica, la velocità della stessa
reazione in assenza dell’enzima
viene ridotta di 1017 volte e quindi per
i viventi quella reazione non esiste
più, non perché essa sia impossibile
ma per il fatto che è stata rallentata in
maniera tale che non è più
compatibile con la sopravvivenza e
quindi viene detto che l’assenza di
quel determinato enzima blocca la reazione.
L’aumento di velocità determinato da un enzima varia a seconda di esso, sono presenti infatti enzimi
più o meno efficienti (un aumento di velocità di 105 è considerato abbastanza inefficiente).

Un enzima
semplice, cioè
costituito da una
sola catena
proteica, ha di solito
forma globulare,
quindi assume
conformazione
secondaria e
terziaria. La catena
proteica si arrotola
formando un
alloggiamento,
detto sito attivo. Questo alloggiamento deve avere dimensioni fisiche adatte ad ospitare il/i
substrato/i. Il substrato si colloca con un certo orientamento per cui prende diversi rapporti con vari
amminoacidi della catena proteica. L’enzima quindi “tappezza” la parete del sito attivo con vari gruppi
-R che on sono casuali, ma interagiscono con la molecola substrato e sono necessari per lo
svolgimento della reazione.
• Es. —> nella emoglobina, l’istidina distale forma un ponte ad idrogeno che trattiene la
molecola di ossigeno. Quindi nel sito attivo della catena globinica non è presente solo il ferro
ma la catena si ripiega e pone 3 amminoacidi, tra i quali l’istidina distale è il più importante,
che interagiscono con O2 e hanno un ruolo funzionale molto importante, nel momento infatti
in cui si allontanano l’ossigeno viene rilasciato
[EXTRA: per valutare il ruolo funzionale del sito attivo si possono effettuare studi di mutagenesi, che
consistono nel prendere la sequenza codificante per l’enzima, causare una mutazione che determini

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Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
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un cambiamento nella sequenza di vari amminoacidi esposti nel sito attivo, generare la proteina con
la tecnica del DNA ricombinante e valutare se l’enzima funziona ancora o diviene incapace di
catalizzare la reazione.]

Il sito attivo NON HA la forma complementare al substrato (ipotesi chiave-serratura).


• Es. —> un oggetto (enzima) con
un alloggiamento per contenere
una barretta metallica
(substrato), per attirare la
barretta sono presenti dei
magneti, una volta che la
barretta è entrata si incastra nel
sito ma non succede più niente.
Per far si che la reazione
avvenga, è necessario, oltre a
magneti e un sito abbastanza
simile al substrato, che i magneti
pieghino la barra (substrato sta
diventando specie di
transizione). Nel momento in cui
l’enzima si carica come una
molla esso scatta ritornando
nella posizione di riposo ed
“espelle” la barretta metallica
spezzata a metà.

Quindi l’entrata del substrato, produce un


effetto per cui carica di energia l’enzima il
quale si scarica ad esempio rompendo o
unendo molecole. Quindi il legame con il
substrato provoca una modifica
conformazionale che poi innesca ulteriori
cambiamenti conformazionali che formano
il prodotto. Questo processo viene detto
adattamento indotto dell’enzima: la
struttura dell’enzima si adatta, ma questo
adattamento è indotto dall’entrata del
substrato. A differenza della teoria chiave-
serratura; che prevedeva una serratura che
rimane stabile immutata all’entrata della
chiavetta, secondo l’adattamento indotto la
serratura cambia la sua forma e restituisce
una prodotto diverso dalla chiave che era
entrata.

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Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
enzimatica

Equazione di Michaelis-Menten

Il grafico dimostra come cambia la


quantità di prodotto nel sistema data una
certa quantità di substrato. La velocità
indica la formazione del prodotto (la
velocità dell’azione catalizzata viene
presa misurando la quantità di prodotto
formato o la scomparsa del substrato). In
termini chimici può esistere la probabilità
che una certa quantità di S diventi P in
modo spontaneo, più substrato è presente
più prodotto si formerà. Se la reazione è
spontanea il grafico è una retta, in cui la
quantità di prodotto che si genera è
direttamente proporzionale alla quantità di
substrato presente, ma la retta presenta
un angolo poco accentuato, quindi
all’equilibrio è presente tanto substrato e
poco prodotto. Se si aggiunge l’enzima in
grado di catalizzare tale reazione, il grafico viene rappresentato da una iperbole, questo i vuol dire
che l’equilibrio di reazione è spostato verso destra, la formazione del prodotto è molto più veloce e
quindi si ha poco substrato e molto prodotto. All’equilibrio si raggiunge un fenomeno detto
saturazione, condizione che si raggiunge in tempi molto più rapidi tramite la reazione enzimatica
rispetto a quella spontanea.

Dal grafico tipico della reazione enzimatica, il ramo di


iperbole , si deducono 2 parametri importanti che sono la
Vmax e la Km. Questi 2 numeri esprimono la capacità
enzimatica dell’enzima, il suo potere catalitico. Dal grafico
si nota che la Vmax è il valore all’equilibrio a cui tende la
curva all’infinito. Per calcolarlo in modo preciso
bisognerebbe aumentare la quantità S all’infinito, il che è
impossibile. Determinata la Vmax, a metà di essa si
intercetta la curva del grafico, si scende sull’asse X e si
trova Km, che rappresenta una concentrazione di substrato.
Quindi per il fatto che VMAX sia indeterminato anche KM a
sua volta non è precisa (serve una curva differente per
calcolare entrambi). Questo schema “funziona” a patto di
mantenere costante la quantità di enzima e quindi posso
determinare il valore della curva del grafico solo assegnando lo stesso valore di E (enzima) in ogni
provetta analizzata.

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Sbobinatori: Nicolò Pasini, Antonella Potenza
Controllore: Irene Miglioli
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: cosa sono gli enzimi, stato di transizione e ruolo dell’enzima, catalizzatori biologici, cinetica
enzimatica

La curva è stata studiata da 2 ricercatori


indipendenti, Michaelis e Menten, che hanno
elaborato una equazione, l’equazione di
Michaelis-Menten, che descrive la iperbole ed è
rappresentata da una formula la quale espone che
V0, cioè la velocità di formazione del prodotto, è
data da VMAX moltiplicata per la concentrazione del
substrato, tutto diviso per la KM a cui è sommata la
concentrazione del substrato. La concentrazione
del substrato rappresenta la x del grafico mentre V0
rappresenta la y. VMAX e KM sono 2 costanti e quindi
per determinare il grafico stesso devo determinarle.
V0 è la velocità iniziale fissata data una
concentrazione di substrato; VMAX è “visibile”
quando S ha valori saturati, cioè quando la concentrazione di S è sovrabbondante rispetto alla
quantità di enzima nel sangue (condizioni saturanti). Quando sono presenti queste condizioni è
possibile misurare la velocità massima. Nel momento in cui sono presenti le condizioni di saturazione
dell’enzima viene misurata la KM, chiamata costante di Michaelis-Menten, che corrisponde alla
concentrazione di substrato che consente all’enzima di catalizzare la reazione a metà della velocità
massima VMAX. La costante è un numero molto importante e caratteristico della reazione, che
fornisce una misura dell’efficienza catalitica dell’enzima [n.d.s. più la costante è bassa più è bassa
la concentrazione di S che permette di ottenere una velocità pari alla metà di Vmax il che indica una
alta affinità dell’enzima per il substrato, viceversa un alto valore della costante dica che è necessario
più substrato per raggiungere Vmax e quindi l’enzima ha minore affinità per il substrato].

Sono presenti oltre a curve paraboliche anche curve


sigmoidi (es. emoglobina) nel caso degli enzimi che
presentano una struttura quaternaria. Per la curva
sigmoide si applicano gli stessi ragionamenti ma K
viene chiamato K0.5, e serve solo per far notare che il
grafico e i calcoli si riferiscono ad un enzima che
presenta curva sigmoide e che quindi da luogo a
fenomeni allosterici, a differenza degli enzimi decritti
tramite Km, che non danno luogo a fenomeni allosterici.

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Lezione n°14 del 15.05.2018
Sbobinatore: Filippo Mazzetti, Maria Alberti
Controllore: Gloria Mafouge, Martina Dondio
Materia: Biochimica e Biologia Molecolare
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

CINETICA ENZIMATICA
Studio della cinetica enzimatica, specificità dell’enzima. Equazione dei doppi reciproci. Descrizione
dei fattori che influenzano l’attività dell’enzima. Unità di misura e numero di turnover.Differenze tra
attivatori, inibitori e modulatori.

Nello studiare l’attività di un enzima in vitro si parte da più campioni in provetta con uguale
dose di enzima, si aggiunge in ogni campione una quantità sempre crescente si substrato,
partendo dal primo a concentrazione zero e si misura la velocità di reazione. Si costruisce
poi un grafico in cui sull’asse delle ascisse si posiziona la concentrazione di substrato e
sulle ordinate la velocità. La velocità viene misurata in quantità di prodotto rilasciato o
quantità di substrato reagito nell’unità di tempo. Il risultato è un’iperbole che risponde alla
legge di Michaelis-Menten. Dall’analisi matematica del grafico si risale alla funzione che lo
determina:

dove V0 è la velocità iniziale, Vmax la velocita massima, che corrisponde al valore


asintotico a cui tende l’iperbole misurata in condizioni di enzima saturo di substrato e km
è la costante di Michaelis-Menten e corrisponde alla [S] quando V=0,5 Vmax.

Km si misura sull’asse delle ascisse, è perciò una concentrazione di substrato, pertanto


può essere anche definita come quella particolare concentrazione di substrato che, fornita
in un ambiente di reazione in cui è presente una determinata quantità di enzima (la stessa
quantità utilizzata per lo studio) fa in modo che quest’ultimo lavori a 0,5 Vmax. Lo studio
della cinetica e il seguente grafico a ramo d’iperbole valgono quando si studia la cinetica
di un enzima che non ha struttura quaternaria. Quando invece si hanno enzimi a struttura
quaternaria, la curva è un sigmoide e km=0,5. Il ragionamento in questo caso è analogo
alla casistica precedente. Il fatto che km=0,5 indica in più solo che il tipo di curva è
appunto un sigmoide. Studiando la velocità di una reazione per esempio di secondo

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Lezione n°14 del 15.05.2018
Sbobinatore: Filippo Mazzetti, Maria Alberti
Controllore: Gloria Mafouge, Martina Dondio
Materia: Biochimica e Biologia Molecolare
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

ordine del tipo A+B → C+D si vede come le velocità siano indicative per la coppia
enzima/substrato. Inoltre si nota come al diminuire della km la curva si impenni.

La pendenza della curva è indice di affinità, più è pendente, più l’enzima in esame è affine
al suo substrato. Perciò km è indice dell’affinità dell’enzima per un substrato, minore è km,
più pendente è la curva e più affine è l’enzima. Un esempio è l’esocinasi dell’ATP-
glucosio-6-fosfotransferasi, che fosforila un glucosio in posizione 6. L’enzima, in presenza
di ATP può fosforilare anche altri monosaccaridi, ma studiando la velocità in entrambi i
casi si vede come l’enzima abbia più affinità per il glucosio rispetto agli altri monosaccaridi.
Si può inoltre prevedere il tipo di substrato che verrà più probabilmente trasformato
dall’enzima in base alla sua affinità, particolarità rilevante all’interno delle cellule.

SPECIFICITÀ

L’effetto catalitico di un enzima è specifico. Catalizzano solo le reazioni a cui sono stati
destinati. Esistono enzimi più o meno specifici. La specificità e organizzata secondo
diversi livelli:

1) specificità di legame, quando un enzima riconosce un tipo di legame e agisce solo


in presenza di un particolare tipo di legame. Un esempio sono le proteine fosfatasi,

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Lezione n°14 del 15.05.2018
Sbobinatore: Filippo Mazzetti, Maria Alberti
Controllore: Gloria Mafouge, Martina Dondio
Materia: Biochimica e Biologia Molecolare
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

che possono rimuovere o aggiungere un fosfato qualsiasi di un amminoacido in una


proteina;
2) specificità di gruppo, quando l’enzima si attiva grazie al riconoscimento di un
particolare gruppo sostituente. Un esempio è la pepsina, che agisce idrolizzando il
legame peptidico successivo ad un amminoacido che ha un gruppo sostituente
aromatico. Solo in questo caso la pepsina si attiva;

3) specificità assoluta, quando l’enzima si attiva e agisce solo dopo averi


riconosciuto una specifica molecola. Un esempio e la succinato deidrogenasi, che
produce acido fumarico riducendo l’acido succinico. L’acido malonico è un
substrato che può entrare nel sito attivo, ma non reagisce, lo occupa e basta (è un
suo inibitore);

4) specificità stereochimica, quando l’enzima si attiva al riconoscimento della


disposizione dei sostituenti della molecola. Il sito attivo è formato in modo da
prevedere il corretto posizionamento dei sostituenti nel sito attivo dell’enzima. Un
esempio è l’arginasi, enzima che decompone l’arginina e funziona solo con il suo
enantiomero della serie L-. Se questo enzima (arginasi) si dovesse trovare in
presenza di D-Arginina, l’enzima non reagirebbe.

EQUAZIONE DI LINEWEAVER E BURK O DEI DOPPI RECIPROCI

Il valore asintotico della Vmax è scomodo per lavorare, è difficile da calcolare con
precisione ed è difficile da interpretare. Lineweaver e Burk trasformano l’equazione di
Michaelis-Menten nell’equazione dei doppi reciproci, semplicemente calcolando l’inverso
di ogni termine:

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Sbobinatore: Filippo Mazzetti, Maria Alberti
Controllore: Gloria Mafouge, Martina Dondio
Materia: Biochimica e Biologia Molecolare
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

L’equazione è una retta dove 1/[S] è la x e 1/Vmax il termine noto, e che incrocia sia l’asse
delle ascisse che quello delle ordinate senza passare per l’origine.

Le varie intercette e la pendenza danno informazioni riguardo alla Vmax e km. L’incrocio
con l’asse y corrisponde a 1/Vmax. L’incrocio con l’asse x corrisponde a -1/km. Il
coefficiente angolare corrisponde a km/Vmax.
Lo studio della cinetica per i vari enzimi si studia utilizzando questo tipo di grafico. Si
tracciano inoltre grafici che riportano contemporaneamente la comparsa del prodotto e la
scomparsa del substrato relazionati alla formazione del complesso enzima-substrato in
intervalli di tempo ridottissimi.

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Lezione n°14 del 15.05.2018
Sbobinatore: Filippo Mazzetti, Maria Alberti
Controllore: Gloria Mafouge, Martina Dondio
Materia: Biochimica e Biologia Molecolare
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

A T0 si ha l’enzima tutto libero e nessun prodotto. Nel momento in cui si aggiunge il


substrato la quantità di enzima libero diminuisce fino alla saturazione.
Contemporaneamente avviene il rilascio del prodotto. Complessivamente il substrato va
consumandosi, il complesso enzima-substrato si stabilizza nel tempo e il prodotto
aumenta in modo irregolare, nel tempo la velocità di produzione del prodotto aumenta fino
a quando viene raggiunta la saturazione dell’enzima da parte del substrato, dopodiché la
concentrazione di prodotto aumenta ma in modo regolare. Si è raggiunta la velocità
massima.

EFFETTO DEL PH E DELLA TEMPERATURA SULL’ATTIVITÀ DELL’ENZIMA

Il pH influisce sull’attività dell’enzima. Nelle cellule il pH è pressoché costante circa a


7,3/7,4. Ci sono però compartimenti separati, ad esempio i lisosomi, che stanno a diversi
valori di pH. Si può studiare l’attività dell’enzima in base al pH. Gli enzimi hanno differenti
attività a seconda del pH, che influisce alterando la forma dell’enzima. È il caso dell’effetto
Bohr per l’emoglobina. Se il pH varia, varia anche la struttura dell’emoglobina che non può
più assorbire l’ossigeno. La curva che si forma dallo studio è una gaussiana.

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Materia: Biochimica e Biologia Molecolare
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

L’alterazione degli enzimi a seconda del pH è un meccanismo di difesa della cellula


stessa. Un esempio è la pepsina che nelle cellule a pH fisiologico è inattivato e non può
funzionare. Se a pH fisiologico la pepsina funzionasse, digerirebbe tutte le proteine della
cellula e la ucciderebbe.
Altro parametro è la temperatura, che altera la conformazione dell’enzima. In genere gli
enzimi hanno un range di temperatura entro cui lavorano a livello ottimale che si aggira
intorno ai 37°C, piccole variazioni di temperature provocano deboli denaturazioni, alte
variazioni di temperatura provocano una forte denaturazione e l’inattività dell’enzima. Un
esempio è la febbre, che innalza la temperatura per denaturare le proteine prodotte per
traduzione del DNA virale. L’abbassamento di temperatura non provoca denaturazione ma
rallenta anche notevolmente la velocità della reazione.

Altre specie hanno gli stessi enzimi che lavorano anche a temperature diverse. Ci sono
anche enzimi che hanno valori ottimale di pH in un range, da un valore in avanti, come
l’acetilcolinaesterasi che funziona da pH≅9 fino a 14.

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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

UNITÀ DI MISURA

Nel 1972 l’unità enzimatica(U) viene definita come la quantità di misura di enzima che
trasforma una micromole di substrato al minuto a 25° C. Questa definizione non è più
attuale, perché non conforme al sistema di misura MKS(metro, kilogrammo
,secondo),tuttavia in alcune analisi la troviamo ancora, i dosaggi enzimatici nelle analisi
del sangue per esempio sono forniti in unità enzimatiche.
Oggi si utilizza il catal (CAT) che è la quantità di misura di enzima che trasforma una mole
di substrato al secondo a 25° C.
Le due grandezze sono convertibili in quanto si tratta sempre dell’unità di enzima nell’unità
di tempo a temperatura standard :

1 CAT=6*107 U
1 U= 16,67 nCAT

Un altro valore importante che si applica agli enzimi è il numero di turnover che
corrisponde al numero di molecole di substrato trasformate in un secondo da una singola
molecola enzimatica. Si tratta quindi di un valore che riguarda anche la saturazione
perché un enzima che lavora molto velocemente al secondo per essere saturato ha
bisogno di quantità di substrati al secondo maggiori, mentre un enzima più lento viene
saturato prima.
Di solito i valori di turnover sono compresi tra 10 3 e 10 9 s -1, ovvero l’enzima catalizza in
un secondo una reazione da mille volte a un miliardo di volte.
In questa tabella si confronta la Km e il numero di turnover di alcuni enzimi

ENZIMA SUBSTRATO Km

catalasi H2O2 100

esocinasi ATP 0.4

o-glucosio 0.05
o-fruttosio 1.5

Anidrasi carbonica CO2 400000

Chaperone ATP 0.4

È possibile osservare che:

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• per la catalasi il substrato è l’acqua ossigenata e la Km in millimolarità è 100(un


valore abbastanza alto)

• l’esocinasi per fosforilare ha bisogno di ATP che è uno dei substrati e può anche
fosforilare il glucosio e il fruttosio.

ATP + glucosio ADP + glucosio -6- fosfato


ATP + fruttosio ADP + fruttosio -6-fosfato.
Per il glucosio la Km è 0,05, mentre per il fruttosio la Km è 1,5. La Km per il glucosio è
quindi 30 volte più bassa di quella per il fruttosio, questo vuol dire che se fornisco
concentrazioni di fruttosio 30 volte più alte rispetto a quelle del glucosio allora ho la stessa
probabilità che fosforili l’uno o l’altro. A parità di concentrazione l’esocinasi fosforila 30
molecole di glucosio ogni una di fruttosio.
Attraverso i valori di questa tabella è quindi possibile prevedere qual’è l’azione catalitica
per cui l’enzima si è selezionato, è per esempio evidente che l’esocinasi predilige il
glucosio e può fosforilare il fruttosio solo in presenza di concentrazioni sufficientemente
elevate tali da contrastare l’affinità per il glucosio.
Altri enzimi sono:

• l’Anidrasi carbonica (un enzima che permette la formazione dello ione bicarbonato)
ha un turnover di 400000 ovvero in un secondo l’anidrasi carbonica è capace di
convertire 400000 molecole di CO2 in 400000 molecole di HCO-3. In assenza
dell’attività di questo enzima avremmo uno sviluppo si gas talmente elevato che
comporterebbe la formazione di bolle e quindi di un’embolia.

• Un enzima con numero di turnover di 0.4(catalizza 0,4 reazioni in un secondo) cioè


per completare una reazione ha bisogno di 2,5 secondi (0,4+0,4+0,2). Questo
enzima è uno chaperone ATPasi dipendente che fa sì che la proteina appena
sintetizzata raggiunga la conformazione definitiva, si tratta di un’operazione
complessa che ha tempi lunghi.
VICINANZA ED ORIENTAMENTO DEL SUBSTRATO
Secondo la teoria chimica in una reazione chimica i due reagenti A e B per generare un
prodotto ovvero per reagire devono collidere e più collisioni avvengono con la forza e la
velocità giusta maggiore è la probabilità che si formi un prodotto. Altri parametri che
comportano un aumento della probabilità di formazione del prodotto sono la temperatura e
l’orientamento. Quindi i due aspetti fondamentali affinché ci sia la reazione sono la
vicinanza e l’orientamento dei reagenti.
Cosa fa l’enzima?
Senza enzima le collisioni sono casuali e l’orientamento è casuale. L’azione dell’enzima è
infatti quella di orientare i substrati in modo tale che ogni singola collisione sia produttiva.
L’enzima deve orientare il substrato perché il sito attivo ha una forma ed è caratterizzato

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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

dalla presenza di gruppi R che attirano il substrato per esempio per interazione di cariche
elettriche ad entrare con un certo orientamento. Per cui dati due substrati A e B questi si
orientano e mettono vicini i gruppi reattivi l’enzima si carica per il fenomeno
dell’adattamento indotto e in seguito si scarica facendo collidere A e B con forza e quindi
si forma il prodotto. L’azione catalitica dell’enzima cioè la capacità di formare un sito attivo
adatto agisce quindi sul concetto di vicinanza e di orientamento: l’enzima avvicina i due
substrati, li orienta correttamente e l’adattamento indotto ne determina la collisione. Per
esempio l’esocinasi che consente la collisione tra ATP e glucosio, fa sì che la collisione
avvenga nella posizione giusta in modo tale che il fosfato si traferisca sul gruppo OH del
carbonio 6 del glucosio. Quando la reazione è avvenuta i prodotti, cioè l’ADP e il glucosio
fosforilato, non sono più affini al substrato ed escono liberando il sito attivo. L’adattamento
indotto è quindi fondamentale per l’azione catalitica.
Dentro il sito attivo ci sono amminoacidi con gruppi R che possono donare o accettare
protoni, gli enzimi quindi sfruttano anche questo meccanismo catalitico che è la catalisi
acido-basica per svolgere la loro attività. Un’altra modalità di catalisi è la catalisi covalente,
per la quale si formano temporaneamente dei legami covalenti anche con l’enzima stesso.
Si tratta tuttavia di legami instabili che si rompono rapidamente rilasciando il prodotto. Si
posso per esempio formare temporaneamente dei fosfo-enzimi o degli acil -enzimi cioè
enzimi che catturano un pezzo di substrato rilasciando il prodotto poi questo pezzo di
substrato viene rilasciato ad un altro substrato per fare un altro prodotto, questo
meccanismo si basa sulla formazione di legami covalenti instabili per cui reversibili che
consentono il riutilizzo dell’enzima.
Riassumendo i fattori che influenzano l’attività enzimatica sono:

• La concentrazione dell’enzima presente nella cellula. Il controllo di tale


concentrazione dipende a sua volta dal controllo dall’espressione genica. Un
enzima inoltre può avere bisogno di modificazioni post-traduzionali

• La concentrazione e la disponibilità di substrato. Se l’enzima è nel mitocondrio e il


substrato è nel citoplasma la reazione non avviene perché enzima e substrato si
devono incontrare.

• La temperatura (negli organismi omeotermi è a 37° C)

• La concentrazione idrogenionica (il ph di solito è a 7.4, ma ci sono compartimenti


con altri valori di ph)

• Alcuni enzimi risentono dell’azione di effettori o modulatori allosterici


Ci sono delle molecole che possono inibire l’attività dell’enzima e sono detti inibitori. Per
esempio il malonato che assomiglia al succinato e può entrare nella succinato
deidrogenasi e ne inibisce l’attività. Il malonato è un veleno per la cellula e quindi una
molecola anche di origine naturale che ha solo capacità inibitorie molto spesso è un
veleno. Queste sostanze vengono usate anche come farmaci progettati appositamente.
Per esempio il Taxolo contenuto nella bacche del Tasso (una pianta) è una sostanza
tossica della famiglia dei taxani che vengono usati in chemioterapia in quantità piccole e
adeguate per uccidere le cellule tumorali.

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Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

Ci possono essere anche attivatori che possono indurre l’attività dell’enzima, possono
essere artificiali o naturali e anche questi possono avere effetti negativi.
Esistono anche i modulatori positivi o negativi e in questi casi si tratta sempre di un
fenomeno fisiologico in quanto sono molecole prodotte dalla cellula in seguito a stimoli
esterni (per esempio il 2-3 bpg dell’emoglobina, quando vado in alta quota e poi scendi ne
produci di meno) .
INIBIZIONE DELL’ATTIVITÀ ENZIMATICA
Gli inibitori possono agire in maniera reversibile e irreversibile. In genere quelli che
agiscono in modo reversibile sono dei modulatori e quindi esercitano delle azioni di tipo
fisiologico. Quando agiscono in maniera reversibile possono avere sostanzialmente due
meccanismi(in realtà la classificazione è un po’ più complessa) :

• ci possono essere molecole competitive che competono con il substrato in quanto


hanno una forma simile a quella del substrato e quindi se presenti nell’ambiente
dell’enzima vanno a sostituirsi al substrato (il malonato è un competitore perché
compete con il substrato per similitudine strutturale)

• ci possono essere molecole non competitive che non si inseriscono nel sito attivo
quindi non competono con il substrato, tuttavia modificano la struttura dell’enzima in
maniera da ridurne l’efficienza catalitica.

Abbiamo anche inibitori di tipo irreversibile cioè che sono in grado di interagire con
l’enzima provocando una modificazione strutturale irreversibile. Gli inibitori reversibili
possono avere un’azione tossica o fisiologica, mentre quelli irreversibili sono quasi sempre
dei veleni perché per la cellula non è economicamente vantaggioso distruggere un
enzima.

Nell’ inibizione non competitiva la molecola o si lega da un’altra parte e quindi non
impedisce a substrato di entrare o si lega anche nel sito attivo, ma di nuovo non impedisce
al substrato di entrare, però quando questo accade c’è inibizione dell’attività enzimatica.
(Per esempio il 2-3 bpg si lega in una posizione diversa però ostacola la formazione del
prodotto, ostacola ossigenazione di emoglobina).
Nell’inibizione competitiva l’inibitore non modifica la struttura dell’enzima però entra al
posto del substrato riducendo così l’efficienza catalitica. Questo tipo di inibizione può
essere rimossa aumentando la concentrazione di un altro substrato a cui è affine. A volte
questi sono antidoti, ad un soggetto avvelenato si somministrano alte concentrazioni del
substrato naturale e in questo modo eliminando la molecola che blocca l’enzima si
ripristina l’attività enzimatica.

Altre forme di inibizione sono:

• L’inibizione incompetitiva che prevede che l’inibitore non competa con il legame del
substrato però c’è stato un cambiamento conformazionale per cui l’enzima non
produce il prodotto.

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Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Cinetica enzimatica, tipi di inibizione, fattori che alterani l’attività enzimatica

• Inibizione mista in cui sia l’inibitore che il substrato si legano al sito attivo per cui c’è
una parziale inibizione e in funzione di ciò non si forma il prodotto.

GRAFICO DEI DOPPI RECIPROCI

Queste inibizioni vengono studiate con grafici dei doppi reciproci. Facendo l’analisi
dell’attività enzimatica otteniamo una retta che determina la Vmax e la Km; in questo
saggio aggiungiamo un inibitore. Osserviamo che aumentando la concentrazione
dell’inibitore ottengo un fascio di rette che passa per lo stesso punto quindi la Vmax
rimane uguale, mentre la km aumenta, ciò implica che l’aggiunta dell’inibitore riduce
l’attività enzimatica. Si parla in questo caso di inibitore competitivo in quanto l’enzima
manifesta un’affinità verso il substrato che va diminuendo in funzione dell’aggiunta
dell’inibitore. In conclusione: quando la Vmax rimane costante e la Km aumenta mi trovo di
fronte ad una inibizione competitiva e che puoi rimuovere aumentando la concentrazione
del substrato.

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Lezione n°14 del 18.05.2018
Sbobinatore: Capretti Elena, Italo Mendoza
Controllore: Mattia Madeo
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Inibitori competitivi

INIBITORI COMPETITIVI
Riferendoci al grafico possiamo notare che l’aggiunta dell’inibitore sposta la retta nel grafico. La retta
si sposta perché l’inibizione è competitiva, ovvero l’inibitore ha una similitudine strutturale con il
substrato, quindi è in grado di entrare nel sito attivo e occupandolo impedisce l’ingresso dell’ormone.
Così facendo agisce sul parametro dell’attività, è come se l’enzima fosse meno attivo per il substrato.
Questo tipo di inibizione di solito non prevende la formazione di legami covalenti, ma abbiamo la
formazione di legami deboli come pompe a idrogeno, e quindi l’inibizione competitiva può essere
annullata rompendo i legami tra enzima e substrato. Per annullare la situazione dell’inibizione
competitiva si può variare la concentrazione del substrato e dell’inibitore, variando la concentrazione di
uno o dell’altro, sia aumentandola che diminuendola, possiamo andare a rompere il legame e di
conseguenza l’inibizione svanisce.

[riferendoci al grafico] Notiamo che le rette cambiamo davanti a inibizioni non competitive o miste. Le
rette cambiamo a sinistra e si forma un fascio di rette parallele man mano che aggiungo inibitore e
cambia anche la Vmax. Per quanto riguarda inibizioni miste invece aumenteranno sia la Vmax che la
Km e cambieranno così anche le rette.

Quando c’è un’inibizione non competitiva un fascio di rette non parallelo passa per il punto che non
intercetta nessuno dei due assi e quindi di nuovo si modifica sia la km che la Vmax. Si instaura così
una relazione inversa tra le due grandezze. Queste tecnica di misura viene usata perché ci informa sul
tipo di inibizione e di conseguenza anche sul meccanismo di azione.

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Lezione n°14 del 18.05.2018
Sbobinatore: Capretti Elena, Italo Mendoza
Controllore: Mattia Madeo
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Inibitori competitivi

APPLICAZIONE IN TERAPIA FARMACOLOGICA

In alto forma attiva di una vitamina, acido folico, molecola complessa fatta da una parte iniziale che è
sostanzialmente una base azotata, 6-metilpterina, acido p-aminobenzoico (PABA) ed acido
glutammico. Noi lo introduciamo grazie all’alimentazione. Dopo che è stato introdotto nelle cellule, le
cellule usano il potere di un enzima, il folato riduttasi, per modificare l’acido folico e trasformarlo in un
coenzima. Il folato riduttasi infatti rompe i due doppi legami e aggiunge un atomo di H. L’acido che si
forma si chiama poi acido tetraidrofolico che è la forma attiva della vitamina ed è un coenzima.

Questo coenzima è indispensabili per alcuni enzimi, come ad esempio quelli che sono collocati sulla
via di biosintesi delle purine.Le purine e pirimidine non sono vitamine ma le possiamo biosintetizzare e
possono essere degradate, dal nostro corpo . La richiesta di basi azotate aumenta in una cellula quando
questa subisce una stimolazione particolare, che risulta essere la stimolazione per l’attività proliferativa.
Quando una cellula deve duplicare, una delle prime cose che fa soprattutto in fase G1, senza cambiare
morfologicamente, è l’attivazione delle vie metaboliche per la biosintesi delle basi azotate e le vie
metaboliche. Grazie a queste vie metaboliche la cellula si prepara a quella che sarà la fase successiva
che è la fase S, ovvero quella in cui avviene la duplicazione del DNA, ma se io non ho raddoppiato la
quantità di nucleotidi all’interno della cellula precedentemente, la fase S non può avvenire con
successo. In G1 nelle cellule che proliferano in seguito a stimolo proliferativo c’è un’induzione di queste
vie metaboliche ma contemporaneamente c’è una maggior richiesta di tetraidrofolato perché è
necessario come coenzima affinché funzionino poi gli enzimi.
I folati sono molecole molto facili da introdurre con l’alimentazione perché presente in tutte le verdure
a foglia verde ed è quindi molto difficile incorrere ad una carenza da folati. Quando però si sviluppa una
di folati esse è associata ad una patologia che colpisce i neonati che è la spina bifida.

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Argomenti: Inibitori competitivi

Quindi oggi è pratica standard somministrare folati alle donne in gravidanza. Dato che i folati in eccesso
non sono tossici, vengono allora somministrati alle donne in gravidanza per ridurre la probabilità di
questa patologia, molto grave, che può colpire il feto.

Questo molecola rappresenta il methotrexate che è un inibitore competitivo della folato riduttasi, questa
molecola compete con la folato riduttasi perché assomiglia al substrato. Questa è una molecola che è
stata prodotta artificialmente in laboratorio, serve per ostacolare il passaggio da folato a tetraidrofolato.
Serve quindi a inibire la proliferazione cellulare, questo farmaco fu infatti uno dei primi farmaci anti
proliferativi utilizzato contro i tumori. Molti tumori sono infatti malattie proliferative, queste malattie
hanno un tasso di proliferazione molto più elevato dei tessuti normali, quindi ci sono protocolli
terapeutici che prevedono l’utilizzo di questa molecola anti proliferativa. Somministrando questa
molecola in un momento particolare della vita del paziente si blocca la proliferazione della malattia
tumorale.

Questa somministrazione non è però specifica per le cellule tumorali, questo spiega molti dei tipici effetti
collaterali associati alla chemioterapia. Infatti bloccando la folatoriduttasi si riduce la biodisponibilità di
tetraidrofolato e quindi blocco la biosintesi delle basi azotate anche in altri tessuti altamente proliferativi.
Tessuti come ad esempio la cute, gli epiteli, i bulbi piliferi e le mucose sono tessuti che hanno un tasso
proliferativo molto alto, quindi la somministrazione di questa sostanza anti proliferativa provocava la
caduta dei capelli, anemia, vomito e diarrea causate dal mal assorbimento a livelle delle mucose,
poiché sia quella gastrica che quella intestinale erano state compromesse. Attualmente questi sintomi
esistono ancora ma possono essere controllati e sono reversibili.

Oggi infatti gli effetti collaterali sono notevolmente ridotti e aumentano invece gli effetti positivi portati
da questo farmaco anti proliferativo. Effetti positivi che derivano anche dalla combinazione con altri
farmaci, al modo di somministrazione e al dosaggio. Più dell’80% bambini malati di leucemia guarisce
perché sopporta la chemioterapia, i bambini la sopportano meglio degli adulti, perché gli adulti rendono
meno nei confronti dei dosaggio chemioterapici.

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ANTIBIOTICI
L’acido amminobenzoico è una molecola necessaria anche per i batteri ,come
ad esempio quelli delle vie respiratorie. I batteri si riproducono e per replicarsi
usano la folato riduttasi, ma loro usano solo l’acido paramminobenzocio.

Questa molecola è il sulfaminammide e assomiglia alla parte centrale dell’acido amminobenzoico ma


con delle modifiche e si chiama sulfaminammid. È stata la prima molecola concepite per interferire con
le vie metaboliche dei batteri e ha infatti dato vita al sulfamidici, antibiotici che agiscono in maniera
specifica contro i batteri.

La resistenza alle terapie antibiotiche si sta sviluppando ultimamente perché le molecole che uccidono
i batteri sono antibiotici, non sono antivirali, le molecole che uccidono microorganismi procariotici come
i batteri vanno usate con molta competenza, una delle ragioni della resistenza è agli antibiotici è l’uso
sbagliato da parte dei medici di antibiotici. Se la patologia è virale non serve l’antibiotico perché non
serve con il metabolismo virale, se uso gli antibiotici in maniera smodata induco resistenza, perché i
microrganismi sviluppano resistenza agli antibiotici.

INIBITORI IRREVERSIBILI
Inibitori irreversibili sono molecole che sono in grado dio legarsi in maniera covalente all’enzima
inibendone l’attività in modo permanente. Un esempio è il monossido di carbonio. Questo infatti si lega
covalente mente al ferro dell’emoglobina, ferro che rappresenta il sito attivo dell’emoglobina, e la
molecola di emoglobina cerche possa tornare a funzionare va distrutta e ricostruita, non può più essere
utilizzata ormai.
Il diisopropilfluorurofosfato può essere prodotto per sintesi e quando si trova all’interno di una cellula
può ionizzare, e cioè sganciare il fluoro che se ne va prende un protone diventa acido fluoridrico e il
sito che rimane che è il diisopropile . il diisopropile reagisce con gruppi OH di amminoacidi che hanno
un gruppo R. Un caso particolare c’è quando un enzima nel sito attivo presenta serina, la serina è
indispensabile infatti per l’attività catalitica dell’enzima. Per inibire la serina c’è bisogno di un DIPF che
si leghi alla serina, inibendola e non permettendo quindi l’attività catalitica dell’enzima.
Viene definito inibitore suicida una volta che si lega al sito attivo dell’enzima non può più agire su nulla,
ha terminato le sue azioni. Questo tipo di inibitore è quello presente nelle molecole che costituiscono
gli insetticidi, che servono per sterminare gli insetti. Questo tipo di insetticidi che uccide all’istante gli
insetti è basato su queste molecole, inibitori suicidi, che sono state studiate affinché appena entrano
nelle cellule degli insetti vengono on contatto con cellule che contengono enzimi che attivano gli inibitori
suicidi così si suicidano. Per gli esseri umani non risultano essere così nocivi perché le nostre cellule
non contengono gli enzimi per attivarli. Nel nostro organismo quindi a piccoli dosaggi non hanno
conseguenze possono però avere conseguenze, ad alti dosaggi perché causano il blocco delle fibre
muscolari.

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ALLOSTERISMO ED ENZIMI ALLOSTERICI


Interessano i gruppi prostetici. Gli enzimi allosterici sono enzimi particolari perché appartengono
all’insieme degli enzimi di regolazione. La loro caratteristica principale è quella di avere una cinetica di
tipo sigmoide. Non sono monomeri ma sono fatti di più di una subunità. Sono monovalenti se
rispondono ad un solo effettore. Di solito sono polivalenti perché rispondono a più effettori. Se il
substrato è anche effettore sono omotropi (emoglobina, con effetto omotropo positivo all’ossigeno.
L’ossigeno induce un cambiamento conformazionale sull’emoglobina che la rende più affine verso
l’ossigeno stesso). Se il substrato non coincide con l’effettore di una proteina si parla di allosteria
eterotropica. Tutti gli enzimi presenti nel nostro corpo sono enzimi misti in cui esistono sia effetti
omotropi che eterotropi. Questi effetti sono molto importanti perché conferiscono sensibilità all’enzima,
cioè l’enzima risponde adattando la sua capacità catalitica all’ambiente perché percepisce queste
molecole. Quando queste molecole si legano cambia sempre la conformazione dell’enzima. Questo
cambiamento conformazionale è selezionato dall’evoluzione ed è sempre positivo. Tutti questi effettori
sono fisiologicamente presenti all’interno della cellula: sono dei regolatori che regolano la velocità
dell’enzima. Questi enzimi allosterici hanno una struttura quaternaria, sono fatti da più catene e quindi
sono molecole più complesse e più “costose” dal punto di vista metabolico: per questo motivo
rappresentano una piccola percentuale all’interno della cellula. Gli enzimi allosterici hanno il compito di
regolare l’attività metabolica della cellula.

Nella figura si vede la differenza tra la cinetica di un enzima che è monomerico, non allosterico (es.
mioglobina), e un enzima allosterico che ha una struttura quaternaria (es. emoglobina). vi è una curva
che è spiegata da Michaelis-Menten da cui deriva l’equazione di Michaelis-Menten. La curva sigmoide
richiede un’ulteriore elaborazione matematica. La n corrisponde ai siti di legame. Gli effettori spostano
questa curva: un effettore negativo provoca lo spostamento verso destra, un effettore positivo verso
sinistra. Di solito non c’è un impatto importante sulla v massima. L’effetto immediato è sulla Km. Se mi
sposto verso destra, aumento la Km e quindi riduco l’affinità nei confronti del substrato. Se invece mi
sposto verso sinistra, allora aumento l’affinità perché diminuisce la Km.

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Argomenti: Inibitori competitivi

Perché l’enzima deve avere una struttura di tipo quaternaria?

Prendiamo come esempio un enzima formato da 2 subunità. Una unità viene chiamata catalitica, una
regolatoria. La subunità catalitica è quella che possiede il sito attivo. La subunità regolatoria, invece,
possiede il sito allosterico, che lega il modulatore. Questo enzima, in assenza del modulatore, ha una
sua struttura. Quando arriva un modulatore positivo, il modulatore si lega nel sito allosterico. Questo
sito allosterico, che corrisponde alla subunità regolatoria, interagisce con la catalitica. Quindi il
cambiamento conformazionale della subunità regolatoria si tramette alla subunità catalitica. In questo
caso il sito attivo è più adatto al substrato e avviene l’azione catalitica. Se il modulatore fosse stato
negativo, avrebbe reso il sito attivo meno adatto al substrato. L’aspetto interessante di questa
regolazione è che l’enzima sente questa molecola nell’ambiente e quindi reagisce adattandosi. In
secondo luogo, questa interazione non è mai equivalente. Quindi questa molecola può essere rimossa.
È una modifica reversibile.

In questa figura vediamo l’effetto dovuto ai modulatori: la curva iniziale è quella in mezzo. Se aggiungo
un modulatore negativo, la curva si schiaccia verso destra, se ne aggiungo uno positivo si schiaccia
verso sinistra e cambiano le K05, mentre la velocità massima non cambia. Di fianco vediamo 3 curve
in cui la Km non cambia mai.

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Lezione n°14 del 18.05.2018
Sbobinatore: Capretti Elena, Italo Mendoza
Controllore: Mattia Madeo
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Inibitori competitivi

REGOLAZIONE MEDIANTE MODIFICAZIONI COVALENTI


a)fosforilazione/defosforilazione
Esistono enzimi che oltre ad avere attività catalitica, essi stessi agiscono da substrati per altri
enzimi. L’enzima fosforilasi-cinasi ha come substrato un altro enzima (nell’esempio la glicogeno-
fosforilasi-b). La cinasi preleva 2 gruppi fosfati da due ATP per legarli covalentemente(tramite
legame fosfoestere) a due residui della glicogeno-fosfatasi-b trasformandola nella sua forma
più attiva. Agganciandogli due gruppi fosfati gli fornisce due cariche elettriche negative che ne
variano la struttura. La defosforilazione attuata dalla fosfatasi è il meccanismo che si
contrappone alla fosforilazione attuata dalle cinasi. Le fosfatasi staccano i due gruppi fosfato e
li rendono inorganici, senza però riformare i due ATP consumati dalla cinasi.

Il meccanismo di modificazione covalente fosforilazione/defosforilazione che si attua sull’enzima


glicogeno-fosfatasi è immediato, reversibile poiché interconverte il substrato tra la forma
“b”(meno attiva) e la forma “a”(più attiva),ma consuma ATP. È da evidenziare che non per tutti
gli enzimi la fosforilazione equivale ad una forma più attiva e viceversa. Bisogna valutare gli
enzimi caso per caso.

ATTIVAZIONE PER MODIFICAZIONE POST/TRADUZIONALE


b)digestione proteolitica
Questo tipologia di attivazione enzimatica riguarda in particolare gli enzimi digestivi. Si fa
l’esempio del chimotripsina. Il chimotripsinogeno è il preproenzima con catena proteica integrale
in forma non attiva della chimotripsina prodotto dalla cellula;questo preproenzima verrà
successivamente rovesciato nell’ambiente extracellulare dove subirà dei tagli proteolitici,a
opera della tripsina, convertendolo nella sua forma attiva. Questo sistema permette di attivare
un enzima proteolitico all’esterno della cellula, che causerebbe autodigestione cellulare se
fosse prodotto già attivo nello spazio citosolico.

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Lezione n°14 del 18.05.2018
Sbobinatore: Capretti Elena, Italo Mendoza
Controllore: Mattia Madeo
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Inibitori competitivi

FORME ALTERNATIVE: GLI ISOENZIMI


Gli enzimi sono catalizzatori biologici specifici.
La cellula per certe reazioni possiede più di un enzima. Questi enzimi si chiamano isoenzimi: sono
enzimi diversi, con caratteristiche cinetiche diverse, codificati da geni diversi(strutturalmente
identificabili) che però catalizzano la stessa reazione.
Gli isoenzimi sono spesso tessuto-specifici, questo significa che un determinato distretto cellulare
possiede un certo isoenzima per una determinata reazione biologica e allo stesso tempo un diverso
distretto cellulare potrà possedere un diverso isoenzima che però catalizza la stessa reazione.
Si fa l’esempio della lattato-deidrogenasi.
La lattato-deidrogenisasi è un enzima con struttura tetramerica(4 subunita) con solo due tipi diversi di
subunita(A e B). Sono quindi disponibili cinque forme diverse della lattato-deidrogenasi
(A4,A3B,A2B2,AB3,B4).
Usando tecniche elettroforetiche queste forme si possono evidenziare .
Il fegato ha in prevalenza la forma A4, nei globuli bianchi la è presente la forma A2B2 ,ecc(guardare
l’immagine).
Se si evidenziano con elettroforesi le diverse forme di lattato-deidrogenasi da un campione di sangue
di un soggetto sano, le forme presenti da aspettarsi saranno A2B2 e AB3. Se sono presenti altri
isoenzimi, come può essere la B4 del cuore,è presumibile un danneggiamento del tessuto cardiaco con
conseguente immissione di frammenti dello stesso nel torrente ematico(e quindi circolazione nel
sangue della lattato-deidrogenasi B4). Grazie alla tessuto-specificità degli isoenzimi avrò valide
tecniche di diagnosi di danno tissutale (es fegato che rilascia propri isoenzimi a seguito di uso di droghe,
alcool e altre sostanze lesive).
Nel fegato isoenzimi della transaminasi possono essere liberati nel torrente ematico dopo una lesione
epatica, inalzando così il dosaggio plasmatico degli isoenzimi GTP e GOT.
Si mostra un grafico con concentrazione di GTP e GOT nel siero in ordinate e il tempo in ascisse. Valori
superiori a quelli standart mi indicano un danno epatico; il calo della curva mi indica che il danno è stato
sanato (in clinica è utile per monitorare la prognosi del danno tissutale).
Gli isoenzimi sono quindi dei biomarcatori di danno tissutale.

Questi diversi meccanismi di regolazione degli enzimi non si escludono a vicenda,tra di loro sono tutti
compatibili. È possibile che un enzima sia un isoenzima,venga prodotto per maturazione proteolitico,sia
allosterico e venga anche regolato covalentemente.

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Lezione n°14 del 18.05.2018
Sbobinatore: Capretti Elena, Italo Mendoza
Controllore: Mattia Madeo
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Inibitori competitivi

ENZIMI DELLA DIGESTIONE


I micronutrienti che introduciamo con la dieta sono quattro: glucidi, lipidi, protidi e acidi nucleici.
In tutta la materia organica che introduciamo con la dieta è presente una parte di acidi nucleici.
Per i glucidi la digestione inzia nella cavita orale dove l’amilasi salivare aggredisce polisaccaridi e li
scinde in più piccoli polisaccaridi e maltosio.
Nello stomaco non accade molto.
Quando si passa nell’intestino il pancreas inietta i suoi succhi digestivi tra cui le amilasi pancreatiche
che scindono i polisaccaridi in disaccaridi e proseguendo lungo l’intestino in monosaccaridi. I gluicidi
sono i macronutrients che più rapidamente si digeriscono e assorbono.
La digestione dei protidi inizia nello stomaco ad opera della pepsina che li riduce a piccoli polisaccaridi;
la digestione prosegue nell’intestino dove tripsina, chimotripsina, aminopreptidasi, carbossipeptidasi e
di peptidesi scindono i protidi in aminoacidi che cominciano ad essere assorbiti.
Per poter digerire i grassi occorrono sali e acidi biliari(la bile contiene degli emulsionanti). Queste
molecole fanno si che la massa lipidica si scomponga in piccole goccioline(aumentando la superficie di
interazione), e le lipasi pancreatiche agiranno su queste. L’azione digestiva dei lipidi è più lenta rispetto
alla digestione degli altri macronutrienti(diverse ore).
Gli acidi nucleici sono digeriti nell’intestino da nucleasi prodotte dal pancreas. Questa digestione ha
notabile rilevanza non tanto nutrizionale, quanto più di protezione nei confronti di materiale genetico
esogeno. L’azione delle nucleasi sterilizza il cibo
Enzimi come ribonucleasi e Dnasi sono presenti in abbondanza nelle diverse secrezioni perché hanno
un compito protettivo nel confronto di tutti gli acidi nucleici che non siano propri dell’organismo (virus a
DNA o RNA).
L’assorbimento dei macronutrienti avviene laddove la funzione degli enzimi digestivi inizia e si protrae
fino ai tratti più caudali del sistema digerente .
Nello stomaco c’è produzione di acido cloridrico e quindi si caratterizza da un pH molto basso che sarà
neutralizzato a pH alcalino dalla bile nell’intestino.
Queste diverse variazioni del pH iniziano nella parete dello stomaco dove c’è un meccanismo che
permette il recupero del cloro e della CO2 dal torrente ematico.
Successivamente agirà l’anidrasi carbonica che formerà ioni carbonato nelle cellule della parte gastrica
e successivamente saranno riversati nel lume gastrico ioni H+ e Cl- che si combineranno in acido
cloridrico. Con trasporto inverso dal lume gastrico verranno internalizzati ioni K+ per controbilanciare
le cariche elettriche.
Le cellule della parete gastrica sono protette da mucine, sostanze ricche in polisaccaridi prodotte
attivamente dalla parete gastrica e che rivestono e proteggono le cellule della mucosa gastrica.
Stress, invecchiamento e alcuni farmaci (come l’aspirina) riducono la produzione di queste mucine,
esponendo la parete gastrica all’insulto del HCl provocando eventualmente gastrite che nei casi più
estremi può produrre ulcere sulla parete gastriche con conseguenze catrastofiche dove il succo
gastrico entra nella parete addominale.
Per quel che riguarda il gusto...
I glucidi possono avere un solo sapore,quando sono semplici è il dolce.
Le proteine non hanno generalmente sapore, alcuni amminoacidi sono dolciastri(glicina) e altri
sapidi(glutammato).
Gli aromi sono tutte sostanze che si sciolgono nei grassi, e quindi i lipidi oltre ad essere importanti per
la dieta ma anche per il sapore che fornisce agli alimenti. Gli aromi non si percepiscono con la lingua
ma con il naso(quando si ha un forte raffreddore i cibi sono al quanto insipidi),la lingua percepisce solo
4 sapori(dolce, salato, amaro e acido)in maniera molto rozza. La cavità olfattiva percepisce gli aromi
che si sprigionano e che sono quasi sempre idrofobici e i gran numero...privarsi quindi di lipidi nella
dieta porta a una monotonia gastronomica.
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Lezione n°16 del 21.05.2018
Sbobinatore: Francesca Rossi, Giovanni Incerti Medici
Controllore: Anna Ameruoso
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi digestivi e Bioenergetica

ENZIMI DIGESTIVI
Enzimi digestivi. Cascata di attivazione di enzimi proteolitici. Assorbimento del glucosio, Trasportatori del
glucosio. Via metabolica.

La digestione che comincia per prima è quella che riguarda i glucidi.


L'enzima amilasi salivare, che fa parte del secreto delle ghiandole salivari, ha la particolarità di
scindere i legami di tipo α 1→4.

Nell’immagine soprastante è rappresentata la struttura di una molecola di amido, in cui sono


presenti residui di glucosio, legati tra loro da legami di tipo α 1→4, ma anche α 1→6.
I legami α 1→6 sono quelli che introducono le ramificazioni e che rendono quindi questa molecola
una specie di alberello, tutto molto ramificato; danno compattezza alla molecola che si sviluppa in
maniera tridimensionale, diventando di fatto un granulo con 3 dimensioni.
La α amilasi attacca i legami di tipo α 1→4, poi si ferma perché non è in grado di agire su α 1→6.
Provoca perciò, una degradazione parziale dell'amido, fermandosi circa un residuo prima del
legame α 1→6; ciò che rimane è chiamato destrina limite.
Ricapitolando, quando l'amido viene aggredito dalla α amilasi, tutto ciò che l'α amilasi può
rimuovere viene rimosso, il resto diventa destrina limite.
La rimozione dei frammenti di legame α 1→4 può generare molecole di glucosio libero oppure
residui di due molecole di glucosio e maltosio o di tre molecole di glucosio come i trisaccaridi.

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Lezione n°16 del 21.05.2018
Sbobinatore: Francesca Rossi, Giovanni Incerti Medici
Controllore: Anna Ameruoso
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi digestivi e Bioenergetica

Poi, naturalmente la digestione


prosegue perché
successivamente ci sono le
amilasi pancreatiche, una
miscela di enzimi (chiamati
deramificanti) in grado di
rompere di nuovo l'α 1→4, ma
anche l'α 1→6.
La destrina limite viene
aggredita, si rompe il legame,
liberando una parte della
molecola.
A questo punto l’α 1→4 amilasi
agisce di nuovo, perché
avendo rimosso il legame α
1→6, vengono esposti altri
legami di tipo α 1→4.
Il gioco riprende fino a quando
non arriviamo alla destrina
limite: lì di nuovo agirà l'amilasi
α 1→6, rimuovendo il legame
ramificato e di nuovo agirà l'amilasi α 1→4 fino alla nuova destrina limite e via di seguito.
Questo processo porta alla degradazione completa del granulo di glucosio che può essere
completamento digerito e assimilato.
La nostra digestione è molto efficiente per quanto riguarda il taglio e l'assimilazione.
Naturalmente, in questo processo poi vengono frammentati anche i residui di maltosio e i
trisaccaridi. Il risultato sarà glucosio libero.

Nel tratto terminale dell'intestino si arriva alla completa degradazione e poi assorbimento.
Possiamo alimentarci anche di disaccaridi come il saccarosio (zucchero da cucina), che richiede
l'enzima saccarasi, in grado di rompere il legame tra una molecola di glucosio e una di fruttosio.
La rottura da parte della saccarasi permette di liberare due monosaccaridi che vengono assorbiti.
Tutti noi siamo in grado di produrre questo enzima.
Se noi ci alimentiamo con il latte, nel latte e nei derivati (soprattutto nei formaggi freschi) c'è il
disaccaride glucide tipico del latte, il lattosio; questo per essere digerito e assorbito richiede
l'enzima lattasi, in grado di rompere il legame liberando una molecola di glucosio e una di
galattosio.
Esiste una patologia rara che è l’incapacità di produrre la lattasi: l'enzima viene prodotto in quantità
insufficienti nel tratto terminale dell'intestino. Perciò:

• Se ho la lattasi, degrado il lattosio e assorbo il glucosio e il galattosio che avranno destino


metabolico di cui si parlerà il prossimo anno.

• Se non ho la lattasi o non ne ho abbastanza, il disaccaride rimane nell'intestino. Ma i


monosaccaridi e i disaccaridi hanno tutti la stessa proprietà: potere osmotico, poiché
trattengono acqua. Quindi, se il lattosio non viene aggredito e rotto e non vengono assorbiti
i monosaccaridi, esso rimane nell'intestino e provoca una sintomatologia che può andare
da situazioni molto gravi come il vomito a situazioni un po' meno gravi che riguardano la
parte più caudale dell'intestino come la diarrea. Questi sono i sintomi che conoscono e
sperimentano quelli che sono affetti dalla intolleranza al lattosio.

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Sbobinatore: Francesca Rossi, Giovanni Incerti Medici
Controllore: Anna Ameruoso
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi digestivi e Bioenergetica

Attenzione a non confondere l'intolleranza (deficit enzimatico) con l'allergia (che contempla che si
attivi il sistema immunitario).
L'intolleranza al lattosio è una malattia che non ha nessuno alla nascita. Infatti, un neonato
intollerante al lattosio non potrebbe alimentarsi con il latte materno.
Poi, succede che per ragioni genetiche, ossia per predisposizione a questo fatto, in alcune
popolazioni viene persa la capacità di produrre l'enzima a una certa età, quando il soggetto diventa
adulto. Questo soprattutto avviene in Africa e in Medio Oriente, dove spesso il latte è trasformato
in yoghurt, venendo quindi fermentato. Durante la fermentazione del latte, il lattosio viene
degradato, operazione ad attività dei microrganismi come i lattobacilli. Chi ha l'intolleranza al
lattosio può consumare derivati del latte come lo yoghurt e anche i formaggi stagionati. Invece, il
latte e i formaggi freschi contengono chiaramente ancora lattosio e possono creare problemi.
In altre popolazioni, come in quelle del nord Europa, la capacità di produrre l’enzima non si perde
mai.
Poi ci sono popolazioni intermedie come la nostra, in cui la genetica è un po' più complessa: l’80%
della popolazione italiana mantiene la tolleranza al lattosio e circa il 20% la può perdere.
Gli enzimi sono soggetti a un fenomeno che è il controllo dell’espressione genica. Se viene
somministrato il substrato, continua l’espressione dell’enzima; se si smette di dare substrato,
questa viene bloccata.
Molte di queste intolleranze al lattosio sono state causate dai genitori che hanno smesso di fare
bere latte ai bambini. Se avessero continuato anche solo in piccola quantità avrebbero mantenuto
la tolleranza al lattosio. Una buona metà degli intolleranti se ricomincia bevendo un cucchiaio di
latte alla mattina per una settimana di fila, poi 2 cucchiai per la settimana successiva, 3 quella
dopo, alla fine arriva a berne un bicchiere senza avere problemi seri perché riattiva il sistema di
espressione genica.
Quindi l’intolleranza al lattosio non è un’allergia e può essere recuperata sapendo come
funzionano i geni.

C'è un’altra malattia genetica diversa per l’intolleranza al galattosio che si può manifestare solo
se ha già agito la lattasi.
Un’altra ancora è l’intolleranza alla caseina (proteina), forma di allergia alimentare. La caseina è
la proteina del latte presente sotto forma di fosfocaseinato di calcio; apporta acidi grassi essenziali
e anche calcio e fosforo per la mineralizzazione dell’osso.
Tutte queste intolleranze non vanno confuse tra di loro perché hanno una eziopatogenesi
completamente diversa, richiedono approcci terapeutici diversi e devono essere diagnosticati da
medici competenti.

Tornando alla digestione fisiologica, una volta che hanno agito le disaccaridasi, nell’intestino sono
presenti solo dei monosaccaridi; prevale il glucosio, ma posso trovare anche il fruttosio e il
galattosio. Questi vengono assorbiti con alcuni meccanismi, passano in circolo e vengono utilizzati
dall’organismo.

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Controllore: Anna Ameruoso
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi digestivi e Bioenergetica

CASCATA DI ATTIVAZIONE DEGLI ENZIMI PROTEOLITICI

Ci sono tutta una serie di segnali che si verificano


all’interno dell’apparato gastroenterico. Gli organi
che fanno parte del sistema digerente sono anche
endocrini: alcuni producono ormoni come la
colecistochinina e la secretina che inducono in
determinati tessuti la produzione delle peptidasi
o proteasi. La colecistochinina e la secretina
agiscono su cellule che sono sia sulla mucosa
dell’epitelio intestinale, sia pancreatiche e portano
poi la secrezione di eteropeptidasi, di
pepsinogeno; il pepsinogeno è attivato in pepsina
e via di seguito.
C’è quindi, un’attivazione a cascata secondo il
principio che queste cellule producono sempre
dei pre enzimi non attivi, che poi vengono buttati
fuori dalla cellula e attivati a cascata nell’ambiente
giusto senza che ci sia pericolo per la cellula
stessa che li ha prodotti.
Alla fine otteniamo tra le altre cose vari enzimi
proteolitici, tra cui anche l’elastasi, in grado di aggredire proteine particolari del tessuto
connettivale (ad esempio il collagene), che sono le più difficili da digerire e poco nutrienti perché
sono fatte degli stessi aminoacidi che si ripetono. L’attivazione a cascata di alcuni enzimi
proteolitici portano all’attivazione anche di lipasi o fosfolipasi, in grado di attaccare la
componente lipidica del pasto.
Tutti questi enzimi proteolitici hanno una particolare specificità, per cui hanno bisogno di gruppi di
posizionamento per identificare il tipo di legame che si verifica. Non rompono tutti i legami
peptidici, ad esempio rompono quelli che sono lungo un aminoacido di tipo aromatico, oppure dove
non c’è un aminoacido di tipo aromatico.
Certi siti attivi presentano un alloggiamento in grado di riconoscere il gruppo di posizionamento,
anche detto di riconoscimento, che permette all’enzima di riconoscere il suo substrato e po’ più
lontano ci sarà il sito attivo che taglia il legame peptidico.

L’ASSORBIMENTO DEL GLUCOSIO

Tutti gli enzimi digestivi hanno agito e dentro il tubo


intestinale c'è molto glucosio libero. Per l’assorbimento
del glucosio agisce un trasportatore per il glucosio tipico
della mucosa intestinale che si chiama SGLT. Questo lo
assorbe cotrasportandolo con il sodio, sfruttando il suo
gradiente. Il sodio a sua volta viene utilizzato da una
sodio ATPasi, che poi lo trasporta con consumo di ATP
nel sangue. Quindi viene trasportato con consumo di
ATP attivamente dalla combinazione SGLT 1 e sodio
ATPasi.

Perciò, anche il trasporto di glucosio dentro la cellula


comporta in modo indiretto il consumo di un po’ di ATP.
Lo SGLT 1 è l’unico trasportatore che essendo abbinato
a un trasportatore del sodio, in modo indiretto prevede il
consumo di ATP per portare il glucosio da fuori a dentro

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Argomenti: Enzimi digestivi e Bioenergetica

la cellula e da dentro la cellula nel sangue dove agisce invece un GLUT 2.


Tutta una serie di molecole semplici (come esosi, peptidi e aminoacidi) passano attraverso la
cellula e vengono trasportati dal lume intestinale nelle cellule della mucosa da specifici
trasportatori. Gli esosi assorbiti passano nel sangue per diffusione. I di- e tripeptidi assorbiti sono
per gran parte degradati ad aminoacidi, che, allo stesso modo, diffondono passivamente nel
sangue secondo un gradiente di concentrazione.

I TRASPORTATORI DEL GLUCOSIO

I trasportatori del glucosio sono diversi. Il glucosio non può attraversare liberamente la membrana
biologica perché è una molecola idrofilica, polare. Per entrare e uscire da una cellula necessita di
un trasportatore che ne regoli il passaggio.
I trasportatori per il glucosio sono proteine posizionate sulla membrana plasmatica e che
funzionano come delle porte girevoli, sono specifici e si chiamano GLUT. Hanno tutti la stessa
caratteristica tranne il primo descritto: non consumano mai ATP e funzionano per diffusione
passiva, secondo gradiente.
Riconoscono solo il glucosio come tale: se la molecola viene modificata, ad esempio fosforilata
(esocinasi fosforila il glucosio in posizione 6), non è riconosciuta dai GLUT e non può più passare
attraverso di essi.
Parliamo sempre quindi, di glucosio libero, libero di passare attraverso i trasportatori perché non
ha subito modifiche chimiche.
I trasportatori del glucosio sono isoenzimi e sono espressi in maniera tessuto specifica.

Nome Tessuto Funzione


GLUT 1 Cervello, rene, colon, placenta Captazione del glucosio dal
sangue
GLUT 2 Fegato, intestino tenue, rene, 1) Captazione e rilascio
celulle β del pancreas glucosio nel fegato e
rene;
2) Sensore glucosio nel
pancreas
3) Rilascio glucosio da
cellule intestinali
GLUT 3 Molti tessuti Captazione del glucosio
GLUT 4 Muscolo scheletrico e Captazione del glucosio
cardiaco; tessuto adiposo stimolata da insulina
GLUT 5 Intestino tenue Trasporto fruttosio
SGLUT 1 Intestino tenue; rene 1) Assorbimento del
glucosio alimentare
2) Riassorbimento
glucosio filtrato nel
rene. Il glucosio passa
attraverso la capsula
del Bowman perché è
una molecola molto
piccola e finisce nel
filtrato glomerulare; se
non si riprende scappa
fuori con le urine e si
perdono nutrienti.

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Controllore: Anna Ameruoso
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Argomenti: Enzimi digestivi e Bioenergetica

Classifichiamo i trasportatori del glucosio in dipendenti da insulina oppure indipendenti da


insulina.

Un trasportatore insulino dipendente come il GLUT 4, si trova sulla membrana biologica della
cellula solo quando è stata liberata insulina in circolo. Quando invece non c’è insulina, non c’è quel
trasportatore perché viene rimosso dalle membrane.
Questo è un fenomeno importante ed è tipico di quelle cellule, quei tessuti e quegli organi che
durante il digiuno non possono usare il glucosio. Alcune cellule, alcuni tessuti, alcuni organi
possono usare quel poco glucosio in circolo, altri no.
Le cellule con GLUT 4 durante il digiuno prolungato non possono usare glucosio per il loro
metabolismo. E’ un meccanismo di risparmio metabolico che ci permette di utilizzare meglio il
glucosio in condizioni di carenza. Al posto del glucosio, le cellule usano fonti alternative e
consumano altri substrati energetici, come gli acidi grassi che producono tanto ATP.

Viceversa, ad esempio il GLUT 1 è insulino indipendente, è sempre sulla membrana dei neuroni
sia in presenza sia in assenza di insulina. Il cervello quindi, non risente della presenza dell'insulina
per la capacità di captare glucosio, perché i neuroni dipendono dal glucosio e non possono
utilizzare fonti alternative. La presenza di trasportatori come il GLUT 1, insulino indipendente nella
superficie sulla membrana di cellule neuronali fa sì che il sistema nevoso centrale e il sistema
nervoso periferico possano continuare a usare glucosio anche durante il digiuno prolungato.

Gli enzimi non agiscono mai da soli, all’interno della cellula costituiscono le vie metaboliche.

VIA METABOLICA

Un substrato diventa un prodotto che si chiama A, che può essere substrato e diventare B. B può
essere trasformato in C, C in D, D in un prodotto finale che chiamiamo P.
Sono avvenute 5 trasformazioni molecolari e ognuna di esse può essere catalizzata da un enzima.
L’enzima 1 catalizza la prima trasformazione, l’enzima 2 la seconda e via di seguito.
Questi cinque enzimi costituiscono una via metabolica perché il prodotto dell’attività di un enzima è
substrato dell’attività dell’enzima successivo. A è il prodotto di E1, ma anche substrato di E2. B è il
prodotto di E2, ma è anche il
substrato di E3 e via di seguito.
Significa che i cinque enzimi
lavorano in successione: il primo
enzima prepara il substrato per il
secondo, il secondo per il terzo, il
terzo per il quarto e il quarto per il
quinto; e poi c'è P che è il prodotto
finale (potrebbe essere un ormone,
un neurotrasmettitore, una
biomolecola importante).

Molto spesso hanno la stessa


localizzazione o sono fisicamente
associati.
Infatti, li posso trovare dentro lo
stesso compartimento (citoplasma,
mitocondrio, lisosoma, …) e
associati a formare complessi multi
enzimatici, in cui ognuno rimane un
enzima distinto, però tra di loro
interagiscono con legami deboli non

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Sbobinatore: Francesca Rossi, Giovanni Incerti Medici
Controllore: Anna Ameruoso
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Argomenti: Enzimi digestivi e Bioenergetica

covalenti, si legano insieme e formano una super associazione di enzimi che rende molto più
efficiente la via.
Immaginiamo che dobbiamo regolare questa via metabolica fatta di 5 enzimi e dobbiamo scegliere
uno di questi per farlo diventare enzima di regolazione, quale scegliamo?
Di solito, la regola di default della biochimica è che il rubinetto sta in cima e il primo enzima è di
regolazione. Questo perché se chiudo il rubinetto E1 e non ci serve P (vogliamo spegnere la via),
P non si produce.
Se invece, il rubinetto lo metto più in fondo, gli enzimi precedenti funzionano e producono ad
esempio B che non serve a niente perché non diventerà P. Quindi, se permetto alla via di andare
avanti fino a metà o addirittura fino quasi alla fine, allora consumo energia metabolica e posso
produrre degli intermedi che non sono necessari.
La logica molecolare dice che è meglio mettere il rubinetto sopra.

Un tipico meccanismo di regolazione permette di regolare la velocità della via in maniera


automatica.
P con feedback negativo retroattivo è un modulatore allosterico che inibisce l’attività di E1.
La cellula produce P perché le serve e lo usa, ma se ne ha prodotto abbastanza questo accumula,
aumenta di concentrazione e inibisce E1. Automaticamente la via si spegne e questo scende di
concentrazione.
Se scende abbastanza, E1 riparte. C’è un’oscillazione per cui questa via si autoregola su un
intervallo di valori che assomiglia tantissimo a un termostato.
In casa possiamo regolare la temperatura e il termostato ci dice ad esempio che la temperatura
minima è di 17°C, massima 21°C. La caldaia parte, quando la temperatura supera i 21°C arriva un
segnale di spegnimento (feedback retroattivo); se la caldaia si spegne la temperatura scende.
Quando scende sotto i 17°C arriva un feedback positivo di riaccensione perché non c’è più
l’inibizione. In questo modo, durante la giornata c’è una temperatura che oscilla tra i 17 e i 21°C.

Il feedback retroattivo è un tipico meccanismo di regolazione e il prodotto terminale della via


quasi sempre è inibitore allosterico dell’enzima di regolazione che di solito sta all’inizio.
Spesso S è anche un attivatore fisiologico, potrebbe dare un effetto enotropo positivo e quindi
indurre l’attività di E1 e anche degli enzimi successivi.

Ci sono molti enzimi che si associano fisicamente tra di loro per generare i complessi
multienzimatici.
Un tipico esempio è il complesso multienzimatico che serve per la biosintesi degli acidi grassi.
L’acido grasso sintasi richiede per funzionare 6 attività enzimatiche ed è una specie di macchina
fatta di tanti ingranaggi, ognuno dei quali ha un compito preciso.
I sistemi multienzimatici aumentano di molto l’efficienza di una via metabolica perché l’enzima
prende il precursore, lo fa diventare prodotto e substrato per l’enzima successivo, e così via.
Questo meccanismo impedisce la diffusione degli intermedi, catturati dagli enzimi e
immediatamente trasformati da S a P.
Non si vedono gli intermedi, ci sono ma non sono isolabili; sembra che ci sia un'unica reazione che
trasforma S in P perché è talmente efficiente il passaggio degli intermedi che questi spariscono e
diventano il prodotto finale. Gli enzimi potrebbero essere associati sulla membrana.
La catena di trasporto degli elettroni all’interno dei mitocondri è dovuta a 4 complessi enzimatici
che sono fisicamente associati sulla membrana interna mitocondriale; si toccano fra di loro e si
passano substrati.
O ancora, il metabolismo degli aminoacidi è interconnesso perché lo scopo della cellula è avere
venti aminoacidi differenti in quantità simili che servono per fabbricare le proteine. Quindi, la via di
biosintesi di un aminoacido influenza la via di biosintesi degli altri aminoacidi. Tra di loro si
muovono in modo equilibrato per dare tutti gli intermedi che servono.

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Lezione n°16 del 21.05.2018
Sbobinatore: Francesca Rossi, Giovanni Incerti Medici
Controllore: Anna Ameruoso
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Enzimi digestivi e Bioenergetica

Gli enzimi possono anche non essere proteine, come ad esempio l’RNA. L’RNA è un acido
nucleico che può avere attività enzimatica. Questa scoperta è stata osservata durante il processo
di splicing, dove si è visto che alcuni passaggi di maturazione dei trascritti primari possono essere
catalizzati dallo stesso RNA. Poi si è visto che gli RNA con capacità catalitiche sono molto più
diffusi di quello che si pensa. Anche all’interno dei ribosomi, è presente attività enzimatica, in parte
dovuta a proteine (enzimi classici), in parte all’RNA ribosomiale.
Questo è molto importante perché ha dato luogo a sviluppi notevoli. Gli RNA possono essere
prodotti per sintesi ed utilizzati come regolatori dell’attività dell’espressione genica, come farmaci.

Il DNA contiene le informazioni che servono per codificare le proteine e gli enzimi. Gli enzimi a loro
volta, possono modificare il DNA, alterando l’espressione genica.
Recentemente, si è aperto un altro sviluppo importante di ricerca che è la regolazione epigenetica
dell’espressione epigenica. La successione di basi azotate detta la successione degli aminoacidi,
normale modo con cui funziona il DNA. Il DNA funziona o non funziona in dipendenza dalla sua
struttura; se è strettamente avvolto attorno agli istoni, non può essere letto, se è parzialmente
srotolato può essere letto.
Ci sono una serie di modifiche covalenti, che possono riguardare sia le proteine istoniche, ma
anche il DNA stesso e sono soprattutto la metilazione e l’acetilazione.
Queste modifiche covalenti operate da enzimi poi hanno un impatto sull’espressione genica e
questa parte di regolazione dell’espressioni genica è chiamata epigenetica.

BIOENERGETICA
Come si presenta e come si trasforma l’energia dei viventi?
Argomenti: bioenergetica, tre principi della dinamica, forme di energia, sistemi e flusso di energia,
ordine e disordine in un sistema e reazioni endoergoniche ed esoergoniche.
[Il prof consiglia di riguardare ciò che abbiamo già studiato relativamente alla termodinamica e allo
scambio di energia attraverso le reazioni]. La bioenergetica è una branca della biochimica che studia il
trasferimento e l’utilizzo dell’energia durante le trasformazioni metaboliche. I viventi per funzionare
hanno bisogno di energia e sottostanno a tutte le leggi della fisica e della chimica a riguardo, pertanto
valgono le prime tre leggi della termodinamica. Gli organismi viventi per soddisfare il loro bisogno di
energia la prelevano dall’ambiente, sotto forma di luce solare o di nutrienti (biomolecole). Questa
energia prelevata viene trasformata da energia chimica ad un altro tipo di energia (per esempio
meccanica) per essere così sfruttata dall’organismo. Nel compiere questa trasformazione parte
dell’energia viene restituita all’ambiente, perché l’energia non si blocca, si trasforma. Viene, perciò,
restituita all'ambiente come calore e aumento di entropia. Il primo principio della termodinamica
riassume tutto ciò.
L’enunciato del primo principio della termodinamica dice che “La variazione dell'energia interna di un
sistema termodinamico chiuso è uguale alla differenza tra il calore fornito al sistema e il lavoro
compiuto dal sistema sull'ambiente.” In altre parole è il principio di conservazione dell’energia. In pratica
esso sancisce che non esiste il moto perpetuo: non si può immaginare un sistema in cui un oggetto
messo in moto, continui all’infinito a compiere la propria azione. Il secondo principio è quello più
importante: l’enunciato di Clausius dice che “è impossibile realizzare una macchina ciclica che abbia
come unico risultato il trasferimento di calore da un corpo freddo a uno caldo”. Inserisce il concetto
dell’entropia che parte da un’osservazione banale: il calore passa da un corpo più caldo a uno più
freddo. L’entropia è la grandezza che misura il grado di disordine di un sistema. Il calore rappresenta il
movimento delle molecole che si urtano ed è la forma di energia più degradata e disordinata. Pertanto il
secondo principio della termodinamica afferma che l’entropia in un sistema isolato tende ad aumentare
nel tempo finché non raggiunge l’equilibrio. Perciò tende sempre ad aumentare, e l’universo, quindi,
sarà sempre più disordinato in termini di energia. Il terzo principio della termodinamica dice che è
impossibile raggiungere lo zero assoluto con un numero finito di trasformazioni. Si basa sulla
conservazione dell’energia e della massa. Nulla viene creato, né tantomeno distrutto. [il prof dice che in
sede d’esame non vuole sentire né leggere le parole “creare” nel contesto delle reazioni, per esempio
“qui si crea la molecola…”]. La quantità totale di energia rimane invariata all’inizio e alla fine di una

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reazione, essa può essere convertita da una forma all’altra. Gli atomi si riorganizzano, non
scompaiono, la massa, difatti, rimane la stessa all’inizio e alla fine della reazione. Si può avere al
massimo energia di un tipo diverso e molecole di un tipo diverso alla fine di una reazione.
L’energia esiste sotto diverse forme: viene classificata in cinetica (quella di un corpo in movimento) e
potenziale (forma di energia conservata, non legata al moto). Il cibo, essendo costituito da biomolecole,
fornisce energia quando viene metabolizzato: infatti l'energia chimica è una forma di energia potenziale.
Quindi la bioenergetica è l’insieme dei principi fondamentali che sono alla base delle trasformazioni e
degli scambi di energia che avvengono negli organismi. Le cellule sono trasduttori di energia, si
occupano di trasformare l’energia chimica del cibo in energia meccanica o elettrica o osmotica. Tutte
queste trasformazioni seguono le leggi della termodinamica.
I sistemi possono essere isolati, chiusi o aperti. Vengono definiti isolati quando non scambiano né
materia, né energia con l’ambiente esterno, per esempio l’universo, poiché al di fuori dell’universo non
c’è niente. Il sistema è chiuso quando scambia energia, ma non materia, è il caso di un frigorifero
chiuso, il quale funziona buttando fuori il calore. Un sistema è definito aperto quando scambia materia
ed energia, un esempio è un frigorifero in cui posso prendere del cibo e riporlo all’interno. Ogni essere
vivente è un sistema aperto che scambia energia e materia con l’ambiente. A tal proposito lo scienziato
Prigogine (premio Nobel ’77) scrisse un libro “La nuova alleanza” in cui spiega come queste scoperte
cambiano il modo di vedere il mondo e gli esseri viventi. Nel libro definisce il vivente come macchina
da entropia e spiega il suo esperimento che è basato su un’osservazione fondamentalmente banale.
Infatti, Prigogine pose in una capsula un liquido più denso dell’acqua mischiato a colorante, notando
come il colorante si distribuisse maggiormente nelle zone in cui il liquido era più dilatato, poi scaldò la
miscela e riosservò il tutto. Di solito le molecole di acqua se scaldate si muovono, formando celle
convettive. In pratica le molecole più in basso si scaldano, si urtano, diventano meno dense e si
portano verso l’alto, dove si raffreddano, ritornano ad essere più dense e cedono il calore all’ambiente.
Prigogine, riscaldando il composto, scoprì che guardando dall’alto il colorante, quando esso giungeva
vicino alla temperatura di ebollizione, si disponeva in celle esagonali perfette. Ognuno di questi esagoni
è una cella convettiva che risale dai lati e ricade al centro. Si forma così un reticolo cristallino ben
ordinato nel quale il liquido sale e cade in continuazione. Fece così questo ragionamento: il sistema è
aperto e fa da tramite con l’ambiente esterno, il calore viene spostato dal basso verso l’alto per mezzo
dei moti convettivi. Quando l’energia all’inizio è bassa, perché la temperatura è bassa, le particelle si
muovono liberamente; quando la temperatura è alta, il movimento di trasporto di energia è più efficiente
se le molecole si dispongono in maniera ordinata. È un movimento regolare che genera una struttura
ordinata. La struttura viene definita macchina da energia. Quando la quantità di energia da veicolare è
molta, c’è bisogno che si formi una struttura organizzata che è pertanto più efficiente. Dato un certo
livello di flusso di energia tutte le molecole tendono a costituire una struttura ordinata per veicolare il
calore all'ambiente esterno obbedendo alle leggi della termodinamica. Più aumenta il flusso di energia,
più un vivente evolve in maniera più complessa ed ordinata. Così viene dimostrato che l’ordine degli
esseri viventi è una conseguenza dell’evoluzione. Apparentemente va contro le leggi della
termodinamica, che sanciscono come tutto l’universo tende a una condizione di disordine, ma in realtà
l’ordine in un sistema è obbligatorio quando il flusso di energia è presente a un livello alto perché
servono adeguate strutture dissipative necessarie a veicolare il calore e a creare più caos nell'
ambiente esterno.
Per questo Prigogine definisce il vivente come macchina di entropia.
L’ ordine esiste fino a quando è presente il flusso energetico: difatti
spegnendo il fuoco sotto la capsula Petri dell’esperimento di
Prigogine gli esagoni scompaiono. Scompare anche la macchina da
entropia, e quindi l'essere vivente, senza flusso energetico. Il vivente
conserva il proprio ordine interno per non essere in equilibrio con
l'ambiente esterno e per garantire il flusso di energia. L’ordine,
quindi, rientra nelle leggi della termodinamica. Le macchine da
entropia generano più ordine dentro e più disordine fuori. È un
concetto molto importante.
L’entropia misura il disordine. Un esempio per spiegare il rapporto
ordine e disordine si ottiene mettendo un gas in una stanza collegata
con un'altra ma chiusa da un vincolo. Il sistema così fatto è in ordine

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Lezione n°16 del 21.05.2018
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perché le molecole sono solo da una parte, il livello di entropia è basso. Se tolgo il vincolo, le molecole
tendono a spostarsi liberamente e una parte passa nell’altra stanza. Viene raggiunto uno stato di
equilibrio dinamico a energia massima, non se ne può ottenere di più.
Perciò per un vivente il raggiungimento dell’equilibrio con l’ambiente esterno significa la morte ed è per
questo che la nostra temperatura corporea è maggiore di quella esterna. L’omeostasi lavora proprio per
tenere un certo grado di disequilibrio con l’esterno e lo fa prelevando energia dall’ambiente perchè il
sistema spontaneamente tende a essere in disordine e quindi in equilibrio con l’ambiente. D'altronde, si
potrebbe riportare il gas alle condizioni iniziali? Sì, se prendo un pistone e spingo, in tal maniera
aggiungo però energia e l'azione non avviene spontaneamente. Si tratta di una reazione endoergonica.
Una reazione endoergonica ha un ΔG>0, diversamente
da una reazione spontanea esoergonica con ΔG<0. Ogni
reazione comporta una variazione di energia e tutte le
reazioni sono rigorosamente coordinate. La cellula ordina
e regola le reazioni. Le vie metaboliche stesse sono
regolate. Perdendo il coordinamento si ha uno stato
patologico. Ogni reazione ha un proprio ΔG°’ [sarebbe
“delta G zero primo] e due reazioni concatenate hanno
come ΔG°’ la somma dei ΔG°’ di ciascuna reazione. Le
energie libere di reazioni di successione sono additive.
Le reazioni chimiche sono accoppiate e catalizzate come
già detto. L’energia prodotta da processi esoergonici
viene utilizzata per processi endoergonici.
Un esempio di reazioni di successione è la fosforilazione
del glucosio:

Pi + glucosio glucosio-6-fosfato + acqua ΔG°’ = +14 Kj/mol


ATP + acqua ADP + Pi ΔG°’ = -31 Kj/mol

ATP + glucosio ADP + glucosio-6-fosfato ΔG°’ = -17 Kj/mol

L’ATP sposta la reazione verso destra, rilascia energia e permette reazioni endoergoniche,
generalmente di tipo biosintetico. I viventi richiedono un continuo apporto di energia per produrre lavoro
meccanico, trasporto attivo e sintesi di macromolecole partendo da molecole più semplici. Gli organismi
sono, infatti, classificati in base a come ricevono l’energia dall’esterno: esistono i fototrofi e chemiotrofi.
I fototrofi sfruttano l’energia intrappolando la luce solare, è il caso delle piante. I chemiotrofi ottengono
energia ossidando combustibili carboniosi, come per esempio gli animali.

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Lezione n°17 del 22.05.2018
Sbobinatore: Kristian Pirani, Francesco Grande
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Argomenti: Principi generali alla base del flusso di energia negli organismi viventi, ATP, ciclo dell’ATP,
metabolismo cellulare, produzione di ATP, carica energetica, fosforilazione a livello del substrato, ciclo
fosfocreatina-creatina, energia da rilascio di gruppo fosfato e da reazioni redox, NAD e NADP
PRINCIPI GENERALI ALLA BASE DEL FLUSSO DI
ENERGIA NEGLI ORGANISMI VIVENTI
IL METABOLISMO: VIE METABOLICHE DEGRADATIVE E BIOSINTETICHE
Gli esseri umani hanno bisogno di alimenti attraverso i quali introducono le biomolecole complesse
da cui ricavare energia. Queste sostanze nutrienti, chiamate comunemente cibo, devono contenere
al loro interno sostanze che possano essere sfruttate dal punto di vista metabolico e, al contempo,
non devono contenere sostanze tossiche. I nutrienti devono essere inghiottiti, predigeriti in una fase
di masticazione, e poi digeriti completamente attraverso gli enzimi digestivi che sono in grado di
degradare le biomolecole complesse nei costituenti più semplici. La conversione da macromolecole
organiche a monomeri avviene attraverso la rottura dei legami, passaggio fondamentale nella
digestione poiché i monomeri così ottenuti possono essere assorbiti e utilizzati nelle varie vie
metaboliche.

Il metabolismo è l’insieme delle reazioni cataboliche (vie metaboliche degradative) e di quelle


anaboliche (vie metaboliche biosintetiche).

Per catabolismo si intende la trasformazione di una biomolecola complessa e ad alto contenuto


energetico, in una più semplice, avente un livello energetico minore. Questo avviene grazie alla
rottura dei suoi legami (reazioni esoergoniche, ossia reazioni che rilasciano energia). L’energia
chimica liberata viene catturata e immagazzinata in una molecola, l’ATP. Tale molecola, nonostante
non sia l’unica in grado di assolvere questa funzione, è definita “moneta energetica della cellula” in
quanto è in grado di rendere spendibile per la cellula l’energia liberatasi dalla rottura dei legami delle
biomolecole.

L’anabolismo comprende invece tutte le reazioni di sintesi. Si tratta di processi in cui i monomeri
(precursori) si uniscono tra loro con reazioni di condensazione, per formare polimeri o
macromolecole. Si tratta di reazioni endoergoniche, che per avvenire necessitano energia in quanto
i prodotti hanno un livello energetico più alto di quello dei reagenti.
Le vie degradative e le vie biosintetiche, perché il processo avvenga in modo continuo e corretto,
devono essere accoppiate. Per accoppiamento si intende il passaggio di energia da reazioni di
degradazione che, essendo esoergoniche liberano energia nell’ambiente, a quelle di biosintesi, che
essendo, invece, endoergoniche, richiedono energia per avvenire. Il ruolo di tramite tra i due
processi è svolto dall’ATP. Le due vie metaboliche devono essere regolate e dotate di dinamismo.
ATP
L’ATP è un nucleotide costituito da:
• un’unità monosaccaridica centrale (ribosio);
• una base azotata (adenina);
• tre gruppi fosfato.

I gruppi fosfato, a pH fisiologico (7.4) ed in


ambiente acquoso, sono ionizzati e perciò, in
queste condizioni, la molecola presenta quattro
cariche negative che sono sempre complessate da
uno ione Mg2+.
La cellula utilizza, in realtà, solo il complesso
magnesio-ATP, tanto che gli enzimi che

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idrolizzano l’ATP legano solo la forma complessata con il magnesio e non riconoscono l’ATP isolata.
Questo è uno dei motivi per cui la cellula necessita di magnesio.
Anche l’ADP può essere complessata con il magnesio. Il complesso magnesio-ATP mantiene due
cariche negative mentre il complesso magnesio-ADP ne mantiene una sola.
L’ATP è una molecola polare, molto idrosolubile di cui ogni cellula ha una dotazione.
Viene definita “carica” quando presenta tutti e tre i gruppi fosfato legati. È così definita perché questa
è la forma in cui è immagazzinata la massima quantità di energia.
Una spiegazione che ci permetta di comprendere perché questa molecola è così energetica è da
ricercare nella forma della molecola e nel tipo di legami da cui essa è costituita. La sua energia
risiede nella forza del legame fosfodiesterico che unisce i due gruppi fosfati tra loro: la presenza
di cariche negative vicine che hanno molta tendenza a respingersi genera una sorta di energia
potenziale che, quando il legame viene rotto viene rilasciata tutta in una volta come energia liberata.
La rimozione del primo e del secondo gruppo fosfato libera, per questo, una notevole quantità di
energia, mentre l’energia rilasciata del terzo gruppo fosfato è nettamente inferiore in quanto non si
tratta di un legame fosfodiesterico (ad alta energia), ma un semplice legame estereo e in quanto
non è presente la forza repulsiva tra cariche negative sopracitata.
L’ATP è quindi la forma più carica, l’ADP,
con due fosfati, è mezza carica e infine
l’AMP, con un solo fosfato, è scarico. La
liberazione del primo e del secondo gruppo
fosfato libera quasi -31 kJ/mole (il numero
negativo significa che è una reazione
esoergonica), un valore molto grande
(numeri minori di dieci indicano una bassa
energia).
La seconda ragione per cui questa molecola
rilascia energia è da ricercare invece nella
stabilità dei prodotti: la molecola di ADP
possiede un’energia inferiore di una di ATP
ed il gruppo fosfato rimosso viene
stabilizzato per risonanza, un meccanismo di
ridistribuzione interna degli elettroni. Oltre a
questo, il gruppo fosfato rimosso (Pi) viene
riccamente idratato, generando così un alone di solvatazione dovuto ai legami a ponte a idrogeno
che si instaurano con l’acqua. L’elevata stabilità del Pi dovuto alla risonanza ed alla parziale
attenuazione delle cariche negative operata dall’acqua, sposta l’equilibrio di reazione verso destra.
Tutti i processi vitali che, per procedere, hanno bisogno di energia, sono alimentati da ATP.
L’ATP, inoltre, può essere anche usato per fosforilare altre molecole e può trovare quindi impiego
sia nei processi regolatori che nei processi biosintetici. È una molecola che essere immagazzinata
a concentrazioni relativamente elevate, ma non all’infinito.

L’ATP viene generato con due processi, entrambi di fosforilazione:


• fosforilazione ossidativa;
• fosforilazione al livello del substrato.

La fosforilazione ossidativa è la modalità più frequente con cui avviene la produzione di ATP: il 90%
dell’ATP è prodotta così. Il termine “ossidativa” indica che il processo necessita di ossigeno. Avviene
nei mitocondri, che possono essere considerati come la centralina energetica della cellula.
La fosforilazione a livello del substrato, responsabile della produzione del 10% dell’ATP totale,
prevede la fosforilazione diretta dell’ADP utilizzando l’energia liberata dalla rottura di legami di
alcune particolari molecole fosforilate, molto più energetiche dell’ATP (molecole ad altissima
energia). Questo tipo di fosforilazione non necessita di ossigeno ed avviene nel citoplasma delle
cellule.

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Argomenti: Principi generali alla base del flusso di energia negli organismi viventi, ATP, ciclo dell’ATP,
metabolismo cellulare, produzione di ATP, carica energetica, fosforilazione a livello del substrato, ciclo
fosfocreatina-creatina, energia da rilascio di gruppo fosfato e da reazioni redox, NAD e NADP
PRODUZIONE DI ATP
Il metabolismo delle cellule prevede l’utilizzo di lipidi, glucidi e proteine per ricavare energia.
Nelle vie metaboliche degradative, le macromolecole vengono scisse nei loro monomeri attraverso
reazioni di idrolisi (fase I) e poi convertite, grazie ad una convergenza biochimica (fase II), in un
intermedio comune, l’Acetil Co-A. Questa molecola viene prodotta all’interno dei mitocondri e ne
diviene il principale combustibile, sfruttato per generare ATP e calore.
La completa ossidazione del carbonio permette alla cellula di strappare potere riducente, cioè
protoni ed elettroni, che fungono da combustibile per la fosforilazione ossidativa.
Questa è un processo che può
avvenire perché al termine di essa,
elettroni e protoni vengono trasferiti
sull’ossigeno, grazie alla sua elevata
elettronegatività, per formare acqua,
detta acqua metabolica (O2 + 4e- +
4H+→2H2O). L’uomo è quindi in grado
di effettuare la biosintesi di acqua.
I prodotti catabolici finali (fase III) sono
l’anidride carbonica e l’acqua. La
prima è rilasciata nello spazio
interstiziale, recuperata attraverso il
circolo sanguineo ed eliminata grazie
all’azione dei polmoni, mentre la
seconda implementa il patrimonio
idrico delle cellule (mediamente il
corpo umano è in grado di produrre ½
litro di acqua al giorno).
La fosforilazione ossidativa è un processo fondamentale perché libera l’energia necessaria alla
produzione di ATP.
I mitocondri generano anche calore: non tutta l’energia che viene rilasciata da questi processi può
essere immagazzinata sotto forma di ATP. Il calore corporeo (37°C) è proprio dovuto a questo
processo.
Uno dei maggiori utilizzatori dell’ATP è la pompa sodio-potassio ATPasi oppure la Ca2+ ATPasi.
REGOLAZIONE DELLA PRODUZIONE DI ATP: LA CARICA ENERGETICA
CELLULARE
L’omeostasi dell’ATP è accuratamente regolata dalla cellula, la quale percepisce quando essa è
meno presente e viceversa. È inoltre possibile calcolarne la quantità in termini energetici all’interno
della cellula tramite la seguente formula:

Tale formula ci permette di ricavare la


cosiddetta carica energetica cellulare. I valori
0 (nella cellula è presente solo AMP) e 1 (nella
una cellula è presente solo ATP) non sono mai
realmente raggiungibili, sono solo dei valori
teorici di oscillazione limite. Se la carica
energetica presenta uno sbilanciamento verso
uno dei due valori limite, avvengono fenomeni

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di bilanciamento attraverso vie cataboliche o anaboliche, rispettivamente per aumentarne il valore
oppure sfruttando ATP per la crescita o la biosintesi: l’obbiettivo della cellula è mantenere una carica
energetica dinamicamente stabile attorno al valore di circa 0.8. Le cellule delle diverse parti del corpo
hanno carica energetica differente, ad esempio, le cellule del cuore presentano la carica energetica
più alta in assoluto (circa 0.9), in quanto l’organo non deve smettere mai di contrarsi e pertanto fa
un utilizzo efficientissimo dei nutrienti che ha a disposizione. L’enzima in grado di percepire il valore
della carica, e quindi la quantità di ATP disponibile, è l’AMPK o AMP chinasi. Presenta questo
nome data la sua capacità di riconoscere la combinazione ATP/ADP/AMP grazie alla presenza di
siti di legame specifici; quest’enzima è regolato in maniera allosterica da ATP/ADP/AMP e termina
la sua attività quando la concentrazione di ATP è elevata mentre si riattiva quando questo valore si
abbassa attraverso la fosforilazione di enzimi che promuovono le vie metaboliche ed enzimi che
bloccano le vie biosintetiche. L’AMPK regola inoltre anche l’assunzione del cibo (la fame) agendo
al livello del sistema nervoso centrale quando la concentrazione di ATP scende.
FOSFOENOLPIRUVATO, 1,3-BIFOSFOGLICERATO E FOSFORILAZIONE A LIVELLO
DEL SUBSTRATO
Nell’immagine affianco troviamo i tre
substrati ad altissima energia che si
trovano nel citoplasma delle cellule e
che permettono la diretta
fosforilazione dell’ADP ad ATP.
Il fosfoenolpiruvato ed il 1,3-
bisfosfoglicerato sono due intermedi
della glicolisi, dunque queste due
reazioni avvengono nella via
glicolitica, via che degrada il glucosio
(una molecola a 6 atomi di carbonio)
in due composti a 3 atomi di carbonio
(il piruvato). Si tratta di una via
metabolica che avviene nel
citoplasma ed è composta da 10 fasi.
Il valore dell'energia della reazione
complessiva (ΔG’°) tiene conto dell'energia impiegata per la fosforilazione dell'ATP (-30.5 kJ/mol).
La reazione in cui il gruppo fosfato del fosfoenolpiruvato si stacca dalla molecola per legarsi ad una
molecola di ADP (producendo piruvato ed ATP) rilascia una quantità di energia pari a -14.8 kJ/mol
(ΔG’°), energia che risiede nel tipo di legami della molecola, altamente energetici (l'energia totale
liberata dall'intera reazione sarebbe pari a: -14.8 kJ/mol – 30.5 kJ/mol = -45.3 kJ/mol). Questa
reazione inoltre presenta l’equilibrio spostato verso destra ed è esoergonica.
L'1,3-bisfosfoglicerato, che ha due gruppi fosfato, ne cede uno solo all'ADP per produrre 3-
fosfoglicerato e ATP. Anche in questo caso, l'energia totale della reazione sarebbe pari a: -30.5
kJ/mol - 13 kJ/mol = -43.5 kJ/mol. Il risultato netto della reazione è dunque -43 kJ/mol e la reazione
ha un equilibrio anche qui spostato verso destra.
Queste reazioni permettono di capire perché la via glicolitica permetta la produzione di una piccola
percentuale di ATP (circa il 10%) e l'importanza della via glicolitica, in cui viene consumato glucosio
per produrre una parte di ATP che è direttamente disponibile nel citoplasma, in assenza di
ossigeno e senza dover necessariamente ricorrere ai mitocondri. Questo tipo di produzione di ATP
è detto “a livello del substrato”.
IL CICLO FOSFOCREATINA-CREATINA NELLA CELLULA MUSCOLARE
Il terzo composto ad altissima energia è la fosfocreatina.
La cellula muscolare, che per la sua attività contrattile ha bisogno di un'immediata disponibilità di
energia, è in grado di immagazzinare energia utilizzando anche un'altra molecola: la fosfocreatina.
Si tratta di una molecola normalmente prodotta dal nostro metabolismo (biosintesi a partire da 2
aminoacidi ed un lipide) e che, perciò, non è necessario assumere dall’esterno (al contrario,

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metabolismo cellulare, produzione di ATP, carica energetica, fosforilazione a livello del substrato, ciclo
fosfocreatina-creatina, energia da rilascio di gruppo fosfato e da reazioni redox, NAD e NADP
assumerla ne inibisce la biosintesi, instaurando una vera e propria dipendenza poiché il corpo perde
gradualmente la capacità di fabbricare tale molecola).
La creatina è una molecola che può essere fosforilata. Quando la cellula muscolare è a riposo e la
carica energetica è alta (>0.8), l'ATP viene usata per fosforilare la creatina e convertirla, quindi, in
fosfocreatina. In questo caso la carica energetica della cellula rimane costante (=0.8) poiché essa è
a riposo.
La fibra muscolare ha, quindi, due depositi energetici: l’ATP e la fosfocreatina.
Nel momento in cui interpello il muscolo per effettuare un esercizio di potenza, richiedendo dunque
la massima forza possibile, questo consuma subito l'ATP, quindi la carica energetica rapidamente
scende. A questo punto però la fosfocreatina restituisce il fosfato all'ATP, dunque la reazione è:
𝐹𝑜𝑠𝑓𝑜𝑐𝑟𝑒𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎 + 𝐴𝐷𝑃 ↔ 𝐶𝑟𝑒𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎 + 𝐴𝑇𝑃 (con ΔG’0 = -10,3 kJ/mol)

Il legame della fosfocreatina vale, quindi, -30.5 + 10.3 = -40.8 kJ/mol. Dunque, quando io chiedo
un’attività di potenza al muscolo, questo presenta un ulteriore serbatoio di legami ad alta energia
che sono stati contenuti nella fosfocreatina.
Fosoenolpiruvato, 1,3 bisfosfoglicerato e fosfocreatina sono gli unici tre composti in grado di
effettuare la fosforilazione diretta dell’ATP poiché sono gli unici a contenere un legame fosfato più
energetico di quello dell’ATP. Esiste, in realtà, un quarto ed ultimo esempio di fosforilazione a livello
del substrato e avviene nel mitocondrio.

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ENERGIA DATA DAL RILASCIO DI UN GRUPPO FOSFATO
Nella tabella affianco è mostrata la quantità di
energia che viene liberata quando si ha il rilascio
di un gruppo fosfato. Tutti quelli che sono
presenti nella parte alta della tabella sono legami ad
altissima energia, mentre tutti quelli che sono
presenti nella parte bassa sono legami a bassa
energia. Ad esempio, nel glucosio 6-fosfato si è
instaurato un legame tra il fosfato ed un atomo di
carbonio del glucosio. Ma questo legame quanta
energia contiene? Se lo si idrolizza, avrò che ΔG’0=
-13.8, un valore molto più basso di quello, ad
esempio, dell'ATP.

ENERGIA DELLE REAZIONI REDOX E POTENZIALE DI OSSIDO-RIDUZIONE


STANDARD
Un'altra forma di energia che la cellula
può utilizzare risiede nelle reazioni
ossido-riduttive, poiché anche il
trasferimento di elettroni può essere
sfruttato da un punto di vista energetico.
Nei viventi avvengono molte reazioni
ossido-riduttive che prevedono un
trasferimento di elettroni, chiamato
flusso elettronico. Questo è possibile
solo se è presente un attrattore finale di
elettroni: nelle cellule questo è
l'ossigeno.
Gli elettroni passano quindi da intermedi
metabolici a trasportatori specializzati (ci
sono delle molecole che sono
specializzate proprio ad immagazzinare
potere riducente, cioè elettroni e
protoni), attraverso i quali, poi, arrivano all'ossigeno; il risultato è, dunque, che si genera questo
flusso elettronico, che può essere sfruttato per un lavoro utile per vettori di ATP.
Le reazioni ossido-riduttive hanno questo nome proprio perché una molecola si riduce (acquisto di
elettroni o acquisto di atomi di idrogeno o perdita di ossigeno) mentre una si ossida (perdita di
elettroni o perdita di atomi di idrogeno o acquisto di ossigeno) in contemporanea. Queste due
molecole formano dunque la coppia redox.
Nelle coppie redox, date A e B come due molecole, è possibile misurare un caratteristico potenziale
di ossido-riduzione standard attraverso un elettrodo ad idrogeno (idrogeno poiché è l'atomo che
meglio cede gli elettroni visto che ne possiede soltanto uno). Se si prende una qualunque molecola
e la si confronta con l'elettrodo ad idrogeno, si sta osservando la propensione che ha questo
atomo nello strappare l'elettrone dell’idrogeno ossia il suo potenziale di ossidoriduzione
standard.

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Lezione n°17 del 22.05.2018
Sbobinatore: Kristian Pirani, Francesco Grande
Controllore: Irina Marconi, Marianne Kaldjob
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Principi generali alla base del flusso di energia negli organismi viventi, ATP, ciclo dell’ATP,
metabolismo cellulare, produzione di ATP, carica energetica, fosforilazione a livello del substrato, ciclo
fosfocreatina-creatina, energia da rilascio di gruppo fosfato e da reazioni redox, NAD e NADP
Gli elettroni passano spontaneamente a coppie
redox con potenziale di ossido-riduzione maggiore
e nel farlo viene liberata energia poiché questo
passaggio di elettroni è esoergonico ed inoltre
presenta un equilibro spostato verso destra.
Qui affianco sono presenti i potenziali ossido-
riduttivi standard di una serie di composti:
l'ossigeno è in alto (E’0 = 0.816 V), essendo questo
il valore più alto in assoluto, poiché l'ossigeno è
l'atomo che cattura elettroni con maggiore potenza.
Se lo si fa interagire con l'idrogeno abbiamo che:
(ovvero acqua). Questa

reazione è esplosiva: se idrogeno e ossigeno,


vengono mescolati in forma gassosa in un
contenitore e successivamente viene innescata
una scintilla, avviene un’esplosione. Questo perché
avviene una reazione di tipo esoergonico con
rilascio di una grandissima quantità di energia.
Scendendo poi nella tabella, verso valori positivi più
piccoli o addirittura a valori negativi, si arriva, ad
esempio, all'idrogeno (E’0 = -0.4 V). Si nota quindi
che quando un elettrone passa dall'idrogeno
all'ossigeno ha effettuato un salto energetico molto elevato (da -0.4 V a +0.8 V). Ecco perché
l'elettrone dell'idrogeno cade verso l'ossigeno con una tale propensione da rilasciare tutto questo
enorme quantitativo di energia.
Nel mezzo notiamo poi biomolecole che fanno parte del metabolismo della cellula, ad esempio il
glucosio: bruciandolo otteniamo energia. Se, nell’organismo, l’ossidazione del glucosio avvenisse
tutta in una sola reazione sicuramente bruceremmo. Il meccanismo che impedisce che questo
accada consiste nello spezzare questi trasferimenti elettronici in tante piccole reazioni, rilasciando
dunque energia in maniera graduale, in piccoli pacchetti che la cellula può maneggiare e sfruttare.
Infatti vediamo nella tabella, leggermente in alto a partire dal centro, una serie di coppie redox
contenenti i citocromi, proteine che hanno sostanzialmente una catena globinica a cui si lega un
gruppo prostetico (simile a quello dell'emoglobina); alcuni di questi citocromi presentano il ferro
all’interno del gruppo prostetico ma, al contrario dell'emoglobina, questo ferro cambia di valenza da
3+ a 2+: nei citocromi dunque il ferro può cambiare valenza, e dunque servire nel trasporto di
elettroni. Viene sfruttata una catena proteica che in un certo modo è simile, poiché ha una struttura
terziaria globulare compatta ed inoltre è presente un gruppo prostetico simile che però è legato
diversamente come il gruppo eme dei citocromi, dove qui è previsto che il ferro cambi valenza da
3+ a 2+, in maniera reversibile, permettendo dunque ai citocromi di trasportare dentro un elettrone
alla volta.
Vediamo dunque, sempre nella tabella, una scala di citocromi che hanno potenziali redox di vari
valori: 0.29 V, 0.25 V, 0.22 V, 0.07 V; ciò significa che un citocromo passa l’elettrone all'altro, poiché
hanno potenziali redox a scalare ed ognuno di questi salti energetici da un citocromo a quello
successivo è di bassissima entità (ad esempio da 0.29 V a 0.25 V è presente una differenza di soli
0.04 V), non permettendo dunque una qualsiasi reazione di tipo esplosivo. Si genera dunque una
catena di trasporto degli elettroni, che li trasportano da molecole ridotte, attraverso una catena di
biomolecole, arrivando fino all'accettore finale, l’ossigeno, attraverso salti successivi, senza che
avvengano reazioni di carattere esplosivo e facendo sì che in alcuni di questi salti venga rilasciato
un pacchetto di energia, sfruttato dalla cellula.

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NAD E NADP, I TRASPORTATORI DEL POTERE RIDUCENTE
Tra i composti che sono dedicati al trasporto del potere riducente troviamo il NAD, che è una
molecola che oscilla tra la forma ossidata NAD+ (ricordarsi di segnare la carica all’interno della
struttura all’esame - cit. prof. Bettuzzi) e la forma ridotta NADH + H+.

Il NAD presenta la struttura sovrastante. In particolare, in senso orario, troviamo: l’adenina, un


monosaccaride (ribosio), due gruppi fosfato, un monosaccaride (sempre ribosio) e una base
azotata, la niacina. Il NAD in forma ossidata è NAD+ poiché l'azoto della niacina presenta una carica
positiva (in base alla distribuzione degli elettroni nell'anello aromatico).
La parte in fucsia (ovvero la struttura della niacina) è il vero centro di reazione mentre il resto della
struttura può essere tranquillamente indicato con R poiché non subisce cambiamenti. Il passaggio
dalla forma ossidata a quella ridotta avviene in questo modo:
• un elettrone va a saturare la carica positiva sull’ azoto;
• un elettrone e un protone contribuiscono a generare il legame
con il nuovo H agganciato nella parte superiore dell’anello
aromatico (indicato in azzurro),
• il protone rimanente rimane libero (indicato sempre in azzurro
nella parte all’estrema destra della struttura). Ecco perché la
forma ridotta si scrive NADH + H+.

Il NAD è, dunque, un trasportatore di due elettroni e un protone,


rilasciando un protone.
Questa reazione è reversibile per cui la forma ossidata del NAD+
può catturare potere riducente passando alla forma ridotta, e può
cedere questo potere riducente tornando in forma ossidata. Per la
sua capacità di trasportare in maniera reversibile potere riducente
questo enzima è annoverato tra le ossidoreduttasi.

Esiste una forma alternativa di questo coenzima in cui l'H del


carbonio 2’ del monosaccaride inferiore è fosforilato: questo
coenzima è chiamato NADP (la P sta, appunto, ad indicare la
fosforilazione).

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Lezione n°17 del 22.05.2018
Sbobinatore: Kristian Pirani, Francesco Grande
Controllore: Irina Marconi, Marianne Kaldjob
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Principi generali alla base del flusso di energia negli organismi viventi, ATP, ciclo dell’ATP,
metabolismo cellulare, produzione di ATP, carica energetica, fosforilazione a livello del substrato, ciclo
fosfocreatina-creatina, energia da rilascio di gruppo fosfato e da reazioni redox, NAD e NADP
Il NAD+ e il NADP+ sono due molecole diverse, che vengono riconosciute da enzimi diversi. Gli
enzimi che utilizzano il NAD+ di solito non funzionano con il NADP+ e viceversa; e non solo: la
maggior parte delle molecole di NAD, ridotto o ossidato, si trovano dentro al mitocondrio, mentre
la maggior parte delle molecole di NADP si trovano nel citoplasma e non possono attraversare le
membrane mitocondriali.
Il potere riducente che si accumula sul NAD ha come destino alimentare la fosforilazione
ossidativa, cioè generare ATP (ecco spiegata la sua locazione all’interno del mitocondrio).
Il NADP, invece, è presente all’interno del citoplasma, non viene impiegato nella produzione di ATP,
ma può accumulare potere riducente che poi può cedere. La domanda è: a chi cede questo potere
riducente?
Quelle che noi abbiamo chiamato vie degradative o vie cataboliche, possono anche essere dette
vie ossidative, poiché le molecole coinvolte, appunto, si ossidano. Le vie che abbiamo chiamato
vie biosintetiche o vie anaboliche, invece, sono vie riduttive. Per permettere le vie di biosintesi,
dunque, non viene impiegata solo l’ATP ma serve anche una molecola che sia dotata di potere
riducente. Questo potere riducente è fornito dal NADPH + H+, quindi questo composto è la seconda
moneta energetica della cellula che, insieme all’ATP, promuove le reazioni di biosintesi.
Riassumendo, il NAD è un accumulatore di potere riducente in maniera reversibile, utilizzato
soprattutto nella produzione di ATP, all’interno del mitocondrio, mentre il NADP viene conservato
come tale nel citoplasma e utilizzato per le vie di biosintesi. I due composti , dunque, hanno un
significato biologico diverso.

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Lezione n°18 del 25.05.2018
Sbobinatori: Francesca Marverti, Leonid Giovanni Astori
Controllore: Ivana Chietera
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: coenzimi, trasporto dell'ossigeno, respirazione cellulare, mitocondri
COENZIMI E INTRODUZIONE A: CATENA
RESPIRATORIA E FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA
Riassunto lezione precedente: i viventi sono macchine molecolari e per sopravvivere hanno,
quindi, bisogno di energia. La forma di energia prevalente è l’energia chimica, la quale è una forma
di energia potenziale che può essere spesa per alimentare le funzioni principali del vivente. Questa
energia chimica di manifesta sotto forma di ATP, la quale fornisce energia attraverso la rottura dei
suoi legami. Però l’energia chimica può assumere altre forme, infatti ci sono altre molecole
portatrici di energia potenziale che possono essere usate per “spingere in avanti” reazioni di tipo
endoergonico, cioè reazioni che spontaneamente non andrebbero verso destra a meno che non ci
siano determinate molecole o composti che permettono di “spingere in avanti” questo tipo di
reazioni.

Queste molecole sono:

1) NAD (nicotinammide adenina


dinucleotide): un coenzima
complesso che di solito è libero, cioè
non è legato covalentemente
all’enzima che lo utilizza, ed è il
principale trasportatore di elettroni
nell’ossidazione di molecole
organiche combustibili. Infatti se
l’enzima lega il NAD lo utilizza come
un substrato e questo porta
all’ossidazione dell’enzima stesso
con rilascio del NAD. Esso è in
grado di trasportare due elettroni e
un solo portone poichè il secondo
viene rilasciato. Nella sua forma
ridotta diventa NADH che è prodotto
nelle reazioni cataboliche ed è
capace di trasferire due elettroni e
due protoni, e nella sua forma
ossidata NAD+. Per quanto riguarda
la sua struttura, esso è costituito da
due nucleotidi uniti mediante un
legame fosfoanidridico tra i rispettivi
gruppi fosfato.
2) NADP: altro coenzima importante, diverso dal NAD, utilizzato solitamente da enzimi come
fonte di energia chimica e quindi utilizzato per reazioni di tipo riduttivo, tipiche delle reazioni
di tipo anabolico (biosintesi). E’ collocato in un ambiente diverso rispetto al NAD, infatti
mentre quest’ultimo si trova prevalentemente nel mitocondrio, il NADP si trova
maggiormente nel citoplasma. Questa diversa localizzazione indica anche la diversa
funzione da loro svolta. Qui è importante ricordare che la membrana interna del
mitocondrio è estremamente selettiva e non lascia passare molecole cariche a meno che
non esistano trasportatori, e dato che il NADP non ha un trasportatore specifico rimane nel
citoplasma. Anch’esso strutturalmente è formato da due nucleotidi uniti mediante un
legame fosfoanidridico tra i rispettivi gruppi fosfato. La forma ridotta del NADP è il NADPH:
usato, quindi, nelle reazioni anaboliche e anch’esso trasferisce 2 protoni e 2 elettroni.
(forma ossidata NADP+)

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Lezione n°18 del 25.05.2018
Sbobinatori: Francesca Marverti, Leonid Giovanni Astori
Controllore: Ivana Chietera
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: coenzimi, trasporto dell'ossigeno, respirazione cellulare, mitocondri

3) FAD (flavin adenin dinucleotide):


è un altro importante trasportatore di
elettroni nel processo di ossidazione
di molecole organiche. Ha una
struttura complessa: costituita da due
nucleotidi e due basi azotate, e in
particolare vi è una parte chiamata
FMN (flavin mono nucleotide) che è
appunto uno dei nucleotidi che
formano questa complessa molecola,
che, staccato dal FAD, è comunque
una molecola esistente che ha una
sua funzione. Il FAD, inoltre, non ha
un segno “+” perchè non è una
molecola elettricamente carica. La
base azotata flavinica può legare un
primo elettrone o protone all’azoto, lo
stesso protone o elettrone può
ridistribuirsi nell’azoto sottostante e il
primo azoto può reagire e legare un
altro protone o elettrone, quindi a
questo punto diventa FADH2 che
anch’esso non ha carica netta. Infatti solitamente questa molecola oscilla dalla forma FAD
alla forma FADH2 (forma ridotta). Anche il FAD, come il NAD, non è legato covalentemente
all’enzima, ma attraverso interazioni deboli, mentre l’FMN viene legato covalentemente
all’enzima. Le funzioni del FAD assomigliano molto a quelle del NAD: infatti ha un potere
riducente che è utilizzato all’interno del
mitocondrio. Esso si trova, quindi, nel
mitocondrio e occasionalmente anche
fuori. NAD e FAD hanno, però, diverso
potenziale ossidoriduttivo che fa la
differenza nelle reazioni di
ossidoriduzione, quindi una molecola si
ossida o si riduce diversamente a
seconda che ci sia il NAD o il FAD.

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Lezione n°18 del 25.05.2018
Sbobinatori: Francesca Marverti, Leonid Giovanni Astori
Controllore: Ivana Chietera
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: coenzimi, trasporto dell'ossigeno, respirazione cellulare, mitocondri

4) COENZIMA Q: è un chinone
solubile nei lipidi che trasporta
elettroni e protoni nelle membrane.
Ha una struttura di tipo idrofobico, è
capace di ossidarsi e ridursi, anche in
maniera parziale, ma dato che è
idrofobica è una molecola che
funziona benissimo dentro le
membrane. Nella sua struttura
notiamo: una parte ad anello che sarà
il centro di reazione e un’unità a 5
atomi di carbonio che si ripete,
chiamata isoprenoide, la quale è
reattiva e permette tramite l’attacco di
altre molecole la formazione di
strutture sempre più complesse
importanti poi per svolgere
determinate funzioni. Comunque la
coda idrofobica costituita dalle
ripetitive unità di isoprenoidi permette
al coenzima Q di rimanere all’interno
della membrana, mentre la testa, che
è il centro di reazione, può, in un primo passaggio, legare un H e un elettrone diventando
COENZIMA QH● (il punto nero indica che è un radicale e si chiama semichinoide), poi, in
un momento successivo, può entrare un secondo elettrone o un secondo protone e verrà
chiamato COENZIMA QH2, esso è completamente ridotto e viene denominato ubichinolo.
Anche il coenzima Q non è legato in maniera covalente dagli enzimi che lo utilizzano, quindi
possiamo considerarla anch’essa una molecola libera, però con il vincolo di essere libera
all’interno della membrana, non può essere libero nel citoplasma in quanto è una molecola
idrofobica. Il coenzima Q è talmente importante nel nostro organismo che lo produciamo per
biosintesi tramite una via metabolica molto efficiente, non dobbiamo assumerlo tramite
l’alimentazione.

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Lezione n°18 del 25.05.2018
Sbobinatori: Francesca Marverti, Leonid Giovanni Astori
Controllore: Ivana Chietera
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: coenzimi, trasporto dell'ossigeno, respirazione cellulare, mitocondri

IMPORTANZA DEL POTENZIALE


REDOX

I due estremi sono l’idrogeno che ha


un potenziale di -0,4 e l’ossigeno, il
cui potenziale è uguale a 0,8, quindi
se faccio avvenire e innesco questa
reazione sarà altamente esplosiva.
Invece, nel nostro organismo
possiamo realizzare il trasporto degli
elettroni per varie tappe intermedie
secondo gradiente (dall’alto al basso
della tabella in cui notiamo anche i
coenzimi appena descritti e i
citocromi, essenziali perché
permettono di trasferire gli elettroni
con piccoli salti energetici). Le varie
tappe, quindi, spezzano questa
differenza enorme di gradiente tra
idrogeno e ossigeno e permettono il
passaggio degli elettroni, questo
viene cosi chiamato flusso di
elettroni che è continuo e costate e
rilascia energia.

MISURA DELL’ENERGIA

La forma più comune di energia è il calore,


infatti tutte le altre forme di energia possono
essere convertite in calore, e l’unità di misura
dell’energia termica è la caloria. L’energia che
un determinato alimento ci dà viene misurata in
Kcal e calibrare la quantità di Kcal necessarie
per un soggetto è importante per conservare il
peso corporeo ideale.

Posso calcolare l’entrata di energia a seconda


di quanto cibo ho consumato, oppure si può
anche calcolare quanto ossigeno utilizzo per
consumare una determinata molecola: nel caso
dei carboidrati il rapporto tra quantità di
ossigeno consumati e anidride carbonica
liberata è pari a 1, nel caso di acidi grassi
prevale l’ossigeno consumato rispetto
all’anidride carbonica liberata, in compenso
però c’è molta più energia rilasciata (infatti 1 grammo di carboidrati fornisce 4 Kcal, mentre 1
grammo di lipidi ne fornisce 9).

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Lezione n°18 del 25.05.2018
Sbobinatori: Francesca Marverti, Leonid Giovanni Astori
Controllore: Ivana Chietera
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: coenzimi, trasporto dell'ossigeno, respirazione cellulare, mitocondri

Tutto ciò può essere misurato attraverso una


macchina chiamata spirometro a circuito
chiuso, la quale determina sia il quoziente
respiratorio, cioè il rapporto tra anidride
carbonica prodotta e ossigeno consumato, sia le
Kcal che quel soggetto ha consumato in un
determinato numero di ore (misura spirometrica).
In particolare il quoziente respiratorio ha una sia
rilevanza poichè indica che: nel caso un soggetto
consumasse solo glucidi (glucosio) allora il
rapporto stechiometrico tra CO2 e O2 sarebbe 1,
se invece consumasse solo lipidi avrebbe un
rapporto diverso poichè si consuma più
ossigeno, mentre le proteine hanno un rapporto
uguale a 0,8. Sulla base di questo il QR ci indica
anche che a seconda dell’attività che svogliamo
possiamo bruciare prevalentemente un determinato tipo di molecola: in attività fisiche di breve
durata si ha un QR=1 quindi si consumano prevalentemente carboidrati, quando invece si
praticano esercizi di lunga durata, di resistenza il QR si abbassa perchè si consumano
prevalentemente lipidi. [n.d.s. qui il prof ha detto che questo argomento verrà sviluppato l’anno
prossimo, questa era solo un’introduzione]

Quello che in biologia è l’atto respiratorio, in biochimica diventa la catena respiratoria. La


respirazione è un evento molecolare, è l’utilizzo dell’ossigeno all’interno del mitocondrio, che è
l’accettore finale degli elettroni. Infatti l’ossigeno respirato a livello polmonare (respirazione
polmonare), trasportato ai tessuti mediante l’emoglobina, è utilizzato a livello cellulare per ossidare
i nutrienti capaci di produrre energia (respirazione cellulare). Le molecole ricche di energia
(carboidrati, acidi grassi, amminoacidi), sono metabolizzate a livello cellulare in una serie di
reazioni di ossidazione che portano alla formazione di anidride carbonica e acqua. Il trasporto degli
elettroni (quindi la catena respiratoria) permette il secondo fenomeno importante che è la
fosforilazione ossidativa, cioè un metodo chimico attraverso il quale siamo in grado di fosforilare
l’ADP a ATP. I due fenomeni non sono la stessa cosa ma sono strettamente connessi tra di loro, si
parla di accoppiamento: un fenomeno non può avvenire senza l’altro. Inoltre nei mitocondri
avvengono diverse reazioni ossidoriduttive (decarbossilazione ossidativa del piruvato, ciclo di
krebs, beta-ossidazione..) nelle quali i substrati si ossidano cedendo elettroni a specifici coenzimi,
come il NAD+ e il FAD che si riducono.

LA RESPIRAZIONE CELLULARE E I MITOCONDRI


Una visione d'insieme: dai nutrienti all'ATP

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Sbobinatori: Francesca Marverti, Leonid Giovanni Astori
Controllore: Ivana Chietera
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: coenzimi, trasporto dell'ossigeno, respirazione cellulare, mitocondri

Questo è lo schema generale dei flussi metabolici che avvengono in una cellula, ed è
estremamente semplificato, al di sopra ci sono i nutrienti, essi vengono degradati attraverso vie
metaboliche, lo scopo della loro degradazione è strappare potere riducente. Il potere riducente
viene caricato sulle navette di trasporto di elettroni NAD+ e FAD che lo portano alla catena di
trasporto degli elettroni. Attraverso questa catena, gli elettroni vengono portati all'ossigeno che
diventa acqua. Questo flusso produce l'ATP che viene consumato dalle funzioni biologiche e
riformato con queste reazioni, in modo che la carica energetica cellulare si mantenga uguale. Se la
carica scende tutti i meccanismi vengono accelerati in modo che l'ATP venga ricaricato più
velocemente. L'obiettivo è l'omeostasi energetica, quando la cellula la mantiene ha abbastanza
energia per svolgere tutte le funzioni di tipo anabolico: la sintesi proteica, la sintesi delle
membrane, il movimento, la contrazione e la duplicazione, per fare qualche esempio. Tutte queste
attività vengono mantenute se la cellula mantiene costante la carica energetica cellulare. Se la
carica energetica scende questi processi accelerano, se la carica energetica sale, questi processi
rallentano [n.d.s. dovrebbe trattarsi di un feedback negativo, se così stanno le cose].
Questo è solo un richiamo per collegarci al trasporto dell'ossigeno.

Il trasporto dell'ossigeno

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Sbobinatori: Francesca Marverti, Leonid Giovanni Astori
Controllore: Ivana Chietera
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: coenzimi, trasporto dell'ossigeno, respirazione cellulare, mitocondri

Il trasporto dell'ossigeno
dipende, tra i tanti fattori,
specialmente dall'ematocrito.
L'ematocrito è la quantità degli
elementi corpuscolati presenti nel
sangue. La componente più
importante dell'ematocrito sono gli
eritrociti, che ne costituiscono la
più grande parte. Di conseguenza
quando l'ematocrito subisce
variazioni, queste riguardando
soprattutto gli eritrociti. Se
l'ematocrito scende al di sotto ad
un determinato valore si parla di
anemia. Ma può anche superare
questo valore, in questo caso diminuisce la fluidità del sangue e si rischiano fenomeni di
coagulazione intravascolare. Se la produzione di eritrociti viene stimolata in maniera anomala,
l'organismo rischia la morte per infarto. Questo succede quando alcuni sportivi come i ciclisti,
utilizzano ormoni, come l'eritropoietina, che stimolano la produzione di eritrociti nel midollo.
Analizzare l'ematocrito è utile quindi sia per diagnosticare l'anemia sia per fare controlli anti-doping
nelle gare sportive.
Dall'ematocrito dipende anche il gradiente di concentrazione dell'ossigeno. Questo permette la
diffusione dell'ossigeno dall'aria alveolare fino all'interno dei capillari. Una volta che l'ossigeno è
entrato viene portato attraverso dei meccanismi molecolari ai tessuti periferici. Il consumo di
ossigeno produce CO2; grazie all'enzima anidrasi carbonica si forma lo ione bicarbonato; il PH
cambia; l'emoglobina diventa più propensa al rilascio di ossigeno. Se non arriva abbastanza
ossigeno ai tessuti periferici, noi possiamo sopravvivere grazie ad un meccanismo anaerobio che
permette la formazione del lattato.
Una volta che l'ossigeno è arrivato nella cellula, arriva per diffusione nel mitocondrio ed avviene la
respirazione cellulare.

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Sbobinatori: Francesca Marverti, Leonid Giovanni Astori
Controllore: Ivana Chietera
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: coenzimi, trasporto dell'ossigeno, respirazione cellulare, mitocondri
La respirazione cellulare

La respirazione cellulare è un processo catabolico perchè avviene secondo un gradiente


termodinamico di tipo esoergonico che richiede ossigeno come accettore finale e nel complesso
libera energia. Questa energia è generata a partire da macromolecole di partenza: gli alimenti.
L'energia liberata con la respirazione cellulare viene immagazinata in parte, non può essere
immagazinata tutta poiché vale il 2° principio della termodinamica: una parte di energia diviene
calore, prodotto sempre dai mitocondri. La parte di energia che non diventa calore viene
immagazinata sotto forma di ATP. Il processo si conclude con la formazione di una molecola
d'acqua che è il prodotto finale.
E' una reazione redox: il glucosio in presenza di ossigeno diventa CO2 e il carbonio si ossida da -
4, nel glucosio, a +4, nella CO2; nel frattempo l'ossigeno si riduce da 0 a -2 e catturando protoni ed
elettroni diviene acqua. Questo processo libera energia, di cui una quota importante diventa ATP.
La respirazione cellulare è divisa in 4 tappe: la glicolisi, la decarbossilazione ossidativa, il ciclo di
Krebs e la fosforilazione ossidativa.

Glicolisi: il glucosio, a 6 atomi di carbonio, viene scisso, in due molecole di piruvato, a 3 atomi di
carbonio. Il processo richiede 10 tappe e produce 2 ATP in maniera diretta, grazie alla
fosforilazione a livello del substrato.
Ogni piruvato, molecola a 3 atomi di carbonio, nella decarbossilazione ossidativa, una tappa
intermedia in cui si libera una molecola di CO2, diventa un acetile, a 2 atomi di carbonio, a cui si
aggiunge il CoA formando l'acetil-CoA. Per ogni piruvato si forma anche un NADH + H+ a partire
dal NAD+.
Ciclo di Krebs: avviene nei mitocondri, si liberano due CO2 per acetil-CoA. Il mitocondrio, quindi,
è il principale produttore di anidride carbonica, questa sarà in seguito catturata dall'anidrasi
carbonica. Viene inoltre prodotto ATP ancora tramite la fosforilazione a livello del substrato. Grazie
a questo ciclo si ha la maggiore formazione di NADH + H+, se ne formano 6, e si formano anche 2
FADH2.
Fosforilazione ossidativa: il NADH e il FADH2 hanno il compito di portare gli elettroni alla catena
di trasporto degli elettroni. Questa catena è formata da una serie di complessi proteici ordinati
secondo un potenziale redox che va dal – al +, gli elettroni saltano su ciascuno di questi elementi
fino a raggiungere l'accettore finale, l'ossigeno. Questo flusso è esoergonico e l'energia che
rilascia è usata per formare dalle 32 alle 34 molecole di ATP. Il trasporto degli elettroni è l'unico
meccanismo aerobio, i precedenti non richiedevano ossigeno e producevano, nel complesso, solo
4 ATP. La possibilità di sfruttare un meccanismo aerobio da parte delle cellule le ha portate ad
evolversi verso un livello di complessità maggiore: grazie a più energia le cellule possono fare più
operazioni.
Il movimento degli elettroni secondo un gradiente elettrochimico è esoergonico e rilascia -52,6 kcal
molto di più di quanta serve per fare una molecola di ATP ovvero -31kcal circa

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Lezione n°18 del 25.05.2018
Sbobinatori: Francesca Marverti, Leonid Giovanni Astori
Controllore: Ivana Chietera
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: coenzimi, trasporto dell'ossigeno, respirazione cellulare, mitocondri
Ci sono anche processi che possono formare ATP fuori dal mitocondrio, non richiedono ossigeno
ma formano il lattato il cui accumulo non è sostenibile per l'organismo: il lattato una volta prodotto
deve essere trasformato.
L'attività fisica aerobica ha un effetto di stimolazione in termini di numero di mitocondri che hanno
una capacità di duplicazione autonoma.

I mitocondri

Il mitocondrio è un organello citoplasmatico che possiede una membrana esterna e una


interna, quella interna presenta delle invaginazioni chiamate creste, la loro funzione è quella di
aumentare la superficie della membrana stessa. Più il mitocondrio è attivo più creste possiede. Il
mitocondrio è il principale consumatore di ossigeno e il principale produttore di ATP e di CO2. Le
membrane hanno funzioni di permeabilità selettiva, numerose molecole attraversano le
membrane, ADP, ATP, fosfato inorganico e anche le navette di trasporto degli elettroni. La
membrana più selettiva è quella interna che possiede proteine trasportatrici di membrana
altamente specifiche, su questa membrana sono disposte anche le proteine di trasporto degli
elettroni. Questi trasportatori di membrana richiedono spazio, questo spiega la presenza di
numerose invaginazioni della membrana interna.
La matrice mitocondriale è gelatinosa per le moltissime proteine che costituiscono ben il 50% del
suo insieme e per questo motivo è chiamata anche matri-gel, l'altro 50% è composto da acqua, il
citoplasma è invece composto da una soluzione prevalentemente acquosa. Per paragone si pensi
che il nostro corpo è composto dall' 80% di acqua, il mitocondrio molto meno! La matrice contiene,
per esempio, nucleotidi, DNA e RNA. Il mitocondrio infatti ha un suo patrimonio genetico, fa la sua
sintesi proteica e produce i suoi mRNA. Questo è molto importante perchè alcune malattie
genetiche sono trasmesse attraverso il DNA mitocondriale che è chiamato mtDNA, mentre l'RNA
mitocondriale è chiamato mtRNA. Queste malattie non si trasmettono per via mendeliana ma per
via materna. Gli spermatozoi infatti all'atto del concepimento, contrariamente agli ovociti, non
contribuiscono con i loro mitocondri.
Lo spazio intermembrana può essere più stretto e più largo dipendentemente dall'attività
mitocondriale.

La cellula dà al mitocondrio il piruvato e l'ossigeno, il mitocondrio restituisce l' ATP che la cellula
sfrutta per le sue attività metaboliche. Il mitocondrio produce molta più energia di quanta ne
consuma.

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Lezione n°19 del 28/05/2018
Sbobinatori: Sara Kucuku, Dario Bondi
Controllori: Alice Avalli, Mohamed Ali
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

COMPLESSI ENZIMATICI DELLA CATENA


RESPIRATORIA.

Nei mitocondri avvengono molte reazioni ossidoreduttive come la decarbossilazio-


ne del piruvato, il ciclo di Krebs e la beta ossidazione. In queste vie metaboliche i
substrati si ossidano cedendo il loro potere riducente ai coenzimi (NAD e FAD). Il
potere riducente si trasferisce quindi temporaneamente ai coenzimi che sono liberi
di muoversi per raggiungere la loro destinazione finale.

Nella membrana mitocondriale interna si trova la catena di trasporto degli elettroni.


Si noti che si parla di trasferimento di potere riducente (trasferimento di elettroni e
protoni) quando ci si riferisce al NAD e al FAD, mentre si parla di trasferimento di
elettroni quando ci si riferisce alle reazioni della catena respiratoria nella membrana
mitocondriale interna.
La catena respiratoria è costituita da un sistema di reazioni ossidoreduttive che per-
mettono di trasferire gli elettroni all’accettore finale che è l’ossigeno.
La definiamo “catena” perché il trasferimento degli elettroni dal primo complesso al-
l’ossigeno non è diretto: se lo fosse provocherebbe un rilascio troppo grande di
energia, che danneggerebbe la cellula; il trasferimento degli elettroni avviene attra-
verso dei passaggi intermedi, ovvero dei salti ossidoreduttivi piccoli da un comples-
so a un altro in maniera graduale e fluida.
Alla catena viene dato l’aggettivo respiratorio perché si consuma ossigeno.

Nella membrana interna mitocondriale sono collocati dei complessi multienzimatici.


Quando si parla di complessi multienzimatici si parla di proteine ed enzimi diversi
che si associano attraverso interazioni deboli come le interazioni idrofobiche. Le in-
terazioni idrofobiche sono importanti perché queste strutture attraversano una
membrana biologica: per attraversarla segregano dentro gli aminoacidi idrofilici ed
espongono fuori quelli idrofobici. Sono proprio le interazioni con la membrana che
permettono ai complessi di funzionare correttamente: se essi fossero isolati dalla
membrana e messi in una soluzione idrofila la loro struttura si rivolterebbe comple-
tamente e smetterebbero di funzione.

Vengono definiti “complessi” perché fatti da diverse proteine e altri elementi organi-
ci.

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Lezione n°19 del 28/05/2018
Sbobinatori: Sara Kucuku, Dario Bondi
Controllori: Alice Avalli, Mohamed Ali
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

Complessi I, II, III, IV.


Ciò che si vede è lo schema di trasferimento degli elettroni. In alto c’è un nucleotide
ridotto che in questo caso è il NADH.

Il complesso I è anche chiamato NADH-Q ossidoreduttasi: è una ossidoreduttasi


che trasferisce potere riducente dal NAD al coenzima Q. Q è l’ubichinone che ha
una lunga coda idrofobica che lo ancora dentro alla membrana, Q è un elemento
mobile.
Il NADH è libero di muoversi nella matrice mitocondriale perché è una molecola
idrofilia: esso si muove fino ad arrivare a contatto con la membrana.
Il complesso I è incastonato nella membrana e non si muove, grazie a queste sue
caratteristiche esso può svolgere le sue funzioni.
Il Q è mobile dentro alla membrana: si può muovere dentro alla membrana, dal mo-
mento che è idrofobo, per trasportare elettroni dal complesso 1 e 2 al 3.

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Lezione n°19 del 28/05/2018
Sbobinatori: Sara Kucuku, Dario Bondi
Controllori: Alice Avalli, Mohamed Ali
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

Il coenzima Q è fondamentale: se fosse tolto si bloccherebbe tutto il meccanismo.


Per mantenere l’omeostasi energetica la cellula adopera i coenzimi Q qualora ci
fosse la necessità di ossidare più NAD e FAD, modifica il numero di mitocondri e le
creste mitocondriali.
Avere più creste della membrana interna del mitocondrio significa avere più com-
plessi multienzimatici attivi e quindi una maggiore produzione di ATP.

Sul coenzima Q può quindi essere scaricato il potere riducente proveniente dai
complessi I e II. Il coenzima Q può accogliere due elettroni e due protoni per diven-
tare completamente ridotto in QH2. Quando è ridotto, muovendosi dentro alla mem-
brana interna, può trasferire il potere riducente al complesso III. Il quale complesso
III è detto anche Q-citocromoC ossidoreduttasi: è un complesso enzimatico fermo e
incastonato nella membrana interna che trasferisce il potere riducente dal coenzi-
ma Q al citocromo C.

Il citocromo è una proteina avente catena sostanzialmente globinica con struttura


terziaria che assomiglia all’emoglobina, anche se le due proteine sono codificate da
geni diversi. Oltre alla struttura terziaria, citocromo ed emoglobina si assomigliano
per la presenza di un gruppo prostetico che è il gruppo eme. Questo gruppo eme è
diverso nei due tipi di molecola perché nel citocromo viene bloccato da due istidine
e può oscillare nella sua valenza da 2+ a 3+, e viceversa.
Tutti i citocromi hanno tra loro differenze: sono indicati con lettere diverse perché
hanno gruppi sostituenti intorno all’anello della protoporfirina diversi (con R diversi).

Il citocromo C non è idrofobico: non è dentro alla membrana, ma vi sta appoggiato,


infatti naviga in un ambiente idrofilico in prossimità della membrana stessa. Avendo
esso infatti struttura simile all’emoglobina non poteva essere idrofobico.
Quando il ferro del citocromo C passa da 3+ a 2+ vuol dire che ha catturato un elet-
trone.
Il citocromo C è un trasportatore solo di elettroni e ne trasporta uno alla volta.
Una volta che il citocromo C si è ridotto e il suo ferro è diventato da 3+ a 2+, agen-
do in prossimità della membrana, trasporta l’elettrone al complesso IV.

Il complesso IV è anch’esso incastrato nella membrana e contiene molti componen-


ti, tra i quali diversi citocromi.
Il complesso IV si chiama anche “citocromo C ossidasi” perché strappa elettroni al
citocromo C e li cede all’ossigeno: il suo compito è quindi di ossidare il citocromo C.
Il complessso 4 è il complesso che effetua l’operazione più delicata, perché cede
direttamente il potere riducente all’ossigeno generando una molecola d’acqua: è
importante che il citocromo C ossidasi, cioè il complesso IV, abbia un potenziale re-

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Lezione n°19 del 28/05/2018
Sbobinatori: Sara Kucuku, Dario Bondi
Controllori: Alice Avalli, Mohamed Ali
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

dox tale che nel cedere gli elettroni all’ossigeno non venga rilasciata una energia
sufficiente a danneggiare la cellula.
Se infatti avessi fatto reagire gli idrogeni del NAD e del FAD e gli elettroni con l’os-
sigeno avrei avuto una reazione esplosiva, per questo gli elettroni non passano di-
rettamente dal complesso I o II all’ossigeno ma vengono trasferiti attraverso diverse
tappe. Tappe in cui l’energia rilasciata è piccola e quindi maneggiabile dalla cellula.

L’ossigeno è l’attrattore degli elettroni: è la molecola che ne permette il flusso. È ov-


viamente anche la molecola che riceve gli idrogeni.
Se non ci fosse l’ossigeno si bloccherebbe il flusso di elettroni e le componenti en-
zimatiche della membrana rimarrebbero ridotte.

La successione da un complesso ad un altro non è in sequenza dal complesso I al


IV. Le strade sono due: o si va dal complesso 1, al 3, e poi al 4, oppure c’è un altro
punto di ingresso del potere riducente.
Il potere riducente può entrare anche dal complesso II. Il complesso I permette l’os-
sidazione del NAD perché ha un potenziale ossidoreduttivo che è più vicino a quel-
lo del NAD, quindi il NAD riesce a scaricare sul complesso I.
Il FAD ha un potenziale ossidoreduttivo piu basso del NAD e non può scaricare sul
complesso 1 perché il complesso 1 ha potenziale di ossidoriduzione non appropria-
to per il FAD: se mettessi vicini il FAD e il complesso 1 il potere riducente invece di
passare dal FAD al complesso 1, passerebbe dal complesso 1 al FAD.
Si ha la necessità quindi di un secondo punto di ingresso per il potere riducente del
FAD: a questo scopo esiste il complesso 2.

Il complesso 2 è anch’esso incastonato nella membrana e si chiama anche “succi-


nato-Q reduttasi” perché il succinato è il principale substrato che genera il FAD ri-
dotto: si ossida il succinato per ridurre il FAD.

Gli elettroni del FAD ridotto entrano dal complesso 2. Dal complesso II vanno nel Q
riducendolo a QH2. Avendo ridotto il Q gli elettroni proseguono nel complesso 3 e
poi 4.
La strada ora è diventata complesso 2,3,4, poi ossigeno.

Il coenzima Q deve essere presente in grandi quantità perché fa da collettore di tut-


to il potere riducente che entra nella membrana mitocondriale interna.

Il complesso V viene detto anche detto anche “ATPasi mitocondriale”. Questo com-
plesso è quello che produce l’ATP. Per fosforilare l’ATP servono almeno 31 kJ/mole,
per questo è necessario che il complesso V debba essere sempre rifornito di ener-

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Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

gia, essendo la fosforilazione dell’ATP endoergonica; il complesso deve avere inol-


tre a disposizione ADP e fosfato inorganico (substrati).

È necessario che ci sia anche l’ossigeno. Il flusso di elettroni infatti rilascia l’energia
necessaria per per la fosforilazione di ATP: se si ferma il flusso di elettroni non c’è
più energia per fosforilare l’ATP, per questo si parla di accoppiamento.
Pur essendo processi diversi, senza l’uno l’altro non può avvenire.

si adotta il termine “fosforilazione” per la reazione di fosforilazione dell’ATP e il ter-


mine “ossidativa” perché si utilizza l’ossigeno.

I Complessi da 1 a 4 fanno parte della catena di trasporto degli elettroni.

Il complesso 5 veniva detto precedentemente “ATPasi mitocondriale” dove -asi indi-


ca una scissione dell’ATP. Il complesso 5 viene anche chiamato “ATP sintasi” dove
-sintasi indica una formazione di ATP da ADP e fosfato.
La domanda è: perché questo complesso ha due nomi?
Il complesso V effettua entrambe le reazioni: produzione e scissione di ATP.
Nelle condizioni opportune il complesso V fabbrica ATP, in caso contrario lo smon-
ta. Se gli viene data l’energia necessaria a spostare l’equilibrio di reazione nella
reazione endoergonica produce ATP, mentre se si smette di dargli energia esso
scinde l’ATP in ADP. L’ADP per essere fosforilato ha bisogno di energia perché la
reazione di fosforilazione è endoergonica. Nel momento in cui non riceve più ener-
gia prevale la reazione di scissione dell’ATP, tra le due, per una questione termodi-
namica.

IMPORTANZA DELL’INTEGRITA DEL MITOCONDRIO.


Tutto ciò che diciamo ora funziona solo se il mitocondrio è intatto. Intatto significa
che ha entrambe le membrane perfettamente integre. È possibile fare preparazioni
subcellulari estraendo dalle cellule mitocondri: questi mitocondri per qualche ora
riescono a vivere, dopo un po’ no. Gli studi che comprendono la fosforilazione ossi-
dativa sono stati fatti accertandosi dell’integrità dei mitocondri.
Disgregando i mitocondri ed estraendone i complessi per purificazione i complessi
non si riescono a studiare perché fuori dal loro ambiente biologico non svolgono le
loro funzioni.
I mitocondri devono essere studiati in vivo quindi in una cellula vivente, altrimenti ci
si deve accontentare di poche ore in cui rimangono funzionanti per fare le misura-
zioni ponendoli fuori dal loro ambiente.

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Controllori: Alice Avalli, Mohamed Ali
Materia: Biochimica
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Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

Purificando i complessi enzimatici della membrana interna non solo non si vedono
le attività che questi svolgono dal vivo, ma addirittura si vedono attività contrarie:
questa è una manifestazione concreta dell’importanza dell’integrità biologica del mi-
tocondrio.

DAI NUTRIENTI AL RILASCIO DI POTERE RIDUCENTE.


I nutrienti attraverso le vite metaboliche vengono ossidati e in questo processo di
ossidazione il carbonio diventa CO2, il potere riducente strappato viene appoggiato
sul NAD o sul FAD, a seconda del tipo di substrato. Si hanno due raccoglitori di po-
tere riducente: uno con potenziale redox più alto e uno più basso. Quello con po-
tenziale redox piu alto è il complesso 1 e prende il potere riducente del NAD. Il
complesso con potenziale redox più basso è il 2 e prende il potere riducente del
FAD.

Il complesso 1 e 2 scaricano sul coenzima Q.

Il Q scarica sul complesso 3. Il complesso 3 ha citocromi di tipo B. Nel complesso 3


c’è anche il ferro: questo fa capire quanto sia importante questo ione del nostro or-
ganismo, presente nell’emoglobina, nella mioglobina e anche nei citocromi.
I citocromi possono trovarsi incastonati nella membrana mitocondriale interna, op-
pure liberi di muoversi dentro a essa. Ci sono anche citocromi che intervengono
nelle reazioni ossidoriduttive del metabolismo della cellula, tra questi alcuni hanno
un ruolo importante nella detossificazione dei farmaci.

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Controllori: Alice Avalli, Mohamed Ali
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

Il complesso 3 usa un citocromo B sfruttando il passaggio del ferro da 3+ a 2+. Dal


complesso 3 l’elettrone va al citocromo C. Nel citocromo c con lo stesso meccani-
smo di oscillazione della valenza del ferro l’elettrone viene trasportato al complesso
4.

Il complesso 4 ha anch’esso citocromi di tipo A e di tipo A3. Un citocromo cederà un


elettrone all’altro, sempre grazie ai diversi potenziali ossidoreduttivi. Dal complesso
4 l’elettrone verrà ceduto all’ossigeno e non provocherà incendi perché il salto ter-
modinamico tra i potenziali redox è piccolo, quindi gestibile.

I complessi sono intrinseci nella membrana, molti hanno porzioni sporgenti dalla
membrana verso l’interno o verso l’esterno.

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Materia: Biochimica
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Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

Il NAD, proveniente dalla matrixgel, scarica il suo potere riducente al complesso 1.


Elettroni e protoni passano al Q. Elettroni e protoni passano al 3. Solo elettroni pas-
sano al c, solo elettroni passano al 4, solo elettroni passano all’ossigeno.
Mentre ciò accade secondo gradiente e con reazioni esoergoniche con sviluppo di
energia, i complessi 1-3-4 pompano protoni nello spazio intermembrana. Le pompe
protoniche sfruttano il gradiente energetico di queste reazioni esoergoniche per
pompare protoni contro gradiente: i protoni sono prelevati dal NAD e FAD e anche
dalla matrice mitocondriale. Si genera un gradiente elettrochimico nello spazio in-
termembrana dovuto alla presenza e alla carica dei protoni. Si possono accumulare
protoni perché la membrana mitocondriale esterna riesce a contenere i protoni.

In conclusione l’energia derivante dal flusso elettronico serve a spostare idrogeni e


a generare un serbatoio di protoni.

Flusso che inizia dal complesso 1.


Il complesso 1, essendo una pompa protonica, sposta 4 protoni nello spazio inter-
membrana e 2 protoni in direzione del coenzima Q per ogni coppia di elettroni.
Il numero totale di protoni spostati nel flusso che inizia dal complesso 1 è di 4 (com-
plesso 1) + 4 (dal complesso 3) + 2 (dal complesso 4) = 10 protoni.
Si può dire che il potere del NAD sposta 10 protoni.

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ferro-zolfo.

Flusso che inizia dal complesso 2.


Il complesso 2 non è una pompa protonica. Il potere energetico del FAD è minore di
quello del NAD quindi il FAD scarica sul complesso 2: la reazione di cessione degli
elettroni, pur rilasciando energia in quanto esoergonica, non è sufficiente a sposta-
re protoni contro gradiente.
Il potere riducente del FAD quindi sposta quattro protoni grazie al complesso 3 e
due grazie al complesso 4, arrivando al numero di 6 protoni.

Il diverso numero di protoni spostati contro gradiente nei due flussi spiega perché
avremmo più ATP dal NAD che dal FAD.

Complesso 1.
Il complesso 1 contiene un FMN (flavina mononucleotide) a cui si lega covalente-
mente. FMN può accettare due elettroni e due protoni diventando FMNH2.
Oltre a contenere l’FMN contiene anche vari atomi di ferro, alcuni dei quali non
sono legati ai citocromi, ma ai centri ferro-zolfo. I centri ferro-zolfo sfruttano la capa-
cità del ferro di cambiare valenza per trasferire elettroni al coenzima Q.

Complesso Q.
Il Q può accettare atomi di idrogeno ed elettroni sia dall’FMNH2 del complesso 1,
sia dal FADH2 del complesso 2.
Altri substrati possono trasferire elettroni e protoni al Q tramite flavoproteine.

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Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

Il Q può accettare sia un elettrone e un protone diventando QH radicale, sia due


elettroni e due protoni per diventare QH2. Ha la capacità quindi di passare attraver-
so forme intermedie.

I citocromi.
Sono dei componenti importanti di questa catena di trasporto di potere riducente.
Sono proteine coniugate appartenenti alle emoproteine (mioglobina, emoglobine e
citocromi). Si classificano nelle classi A, B, C che differiscono per i sostituenti late-
rali dell’anello porfirinico e per le sequenze delle catene proteiche dato che sono
trascritte da geni diversi.
In loro il ferro può ridursi e ossidarsi in continuazione permettendo cosi il trasporto
di elettroni.
Le forme ridotte non vengono ossidate dall’ossigeno, ma soltanto da un altro cito-
cromo secondo il potenziale crescente di ossidoriduzione: i citocromi funzionano in
scala.

Il complesso 4.

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ferro-zolfo.

Il citocromo a3 appartiene al complesso 4 ed ha il potenziale di ossidoriduzione po-


sitivo e molto vicino all’ossigeno. Il citocromo a3 è autossidabile perché scarica gli
elettroni sull’ossigeno.
Contiene anche il citocromo a3 e il rame (Cu).

Molte ossidoreduttasi che invece di utilizzare il ferro usano il rame perché anche
esso può accettare e cedere elettroni.

Veleni.
I complessi della membrana mitocondriale interna possono essere bloccati da mo-
lecole. Lo ione cianuro può legarsi all’emoglobina trasformandola in una forma pa-
tologica, ma il cianuro blocca anche il complesso 4 (il motivo per cui le persone av-
velenate da cianuro muoiono). Se si blocca il 4 si blocca tutto il flusso di elettroni e
quindi anche la fosforilazione ossidativa. Lo ione CN- blocca l’attività mitocondriale
quando si trova in concentrazioni sufficienti.
Tutte le molecole che bloccano i complessi sono veleni e sono utilizzate in ricerca
per bloccare selettivamente un complesso e studiare cosa avviene nel flusso degli
elettroni e nella produzione di ATP, ma anche per studiare le interazioni tra i com-
plessi.

ROS
Il passaggio da un metabolismo anaerobio ad uno aerobio ha permesso una maggiore efficienza
energetica e il passaggio a forme di vita pluricellulari. L'utilizzo di ossigeno, però, comporta anche
dei rischi per la cellula rappresentati dai ROS.
Il complesso IV è costruito in modo tale da non lasciar sfuggire i ROS (reactive oxygen species).
Quando la stechiometria della reazione è perfetta, cioè 4H + + 4e- + O2 → 2H2O, si forma solamente
acqua, ma quando la stechiometria non è perfetta si possono formare dei ROS (H 2O2, ●O2, ●OH,
etc...) [n.d.s. Il pallino indica un elettrone spaiato, cioè un radicale]. Queste specie chimiche sono
altamente reattive nei confronti di tutte le biomolecole, quindi possono danneggiare punti critici
della cellula come DNA, proteine e membrane. La cellula cerca di ridurre al minimo la produzione
di ROS, ma è chiaramente impossibile portare a zero la possibilità che vengano prodotti, perciò i
mitocondri per definizione producono anche ROS, e ne producono sempre di più quanto più
sono attivi. Di conseguenza le cellule si sono attrezzate per limitare i danni creati da questi
ROS in vari modi, uno di questi è legato alla struttura del complesso IV, un altro all'enzima
superossido dismutasi, presente sia nel mitocondrio che nel citosol, che usa il potere riducente
della cellula (principalmente il glutatione, che è un tripeptide) per per bloccare lo ione superossido.
Altre sostanze che possono essere usate per bloccare i ROS sono gli antiossidanti (ad es. la
vitamina c e i tocoferoli). Allo stesso tempo, però, i ROS sono anche utilizzati dal nostro
organismo per alcune funzioni, ad esempio i linfociti NK usano la citotossicità dei ROS per
eliminare le cellule estranee e/o patogene.

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ferro-zolfo.

Centri ferro-zolfo e trasporto degli elettroni


All'interno delle subunità proteiche che costituiscono i complessi della membrana interna del
mitocondrio, sono presenti dei complessi Fe-S in cui atomi di ferro reagiscono coi gruppi tiolici
(SH) di alcune cisteine. Questi centri sono trasportatori di elettroni, grazie alla capacità del ferro di
passare da ione ferroso (Fe++) a ione ferrico (Fe+++) e viceversa. Ci sono tre tipi di centro ferro-
zolfo: Fe-S, semplice, in cui 4 cisteine legano un atomo di Fe; 2Fe-2S, doppio, in cui ci sono 2
cisteine leganti un atomo di Fe e altre due che ne legano un altro, questi due atomi di ferro sono
poi uniti, a loro volta, da due atomi di zolfo; 4Fe-4S, in cui ci sono 4 atomi di ferro, ciascuno
bloccato da una cisteina, che formano gli angoli di un cubo insieme a 4 atomi di zolfo.

Il complesso I (NADH deidrogenasi) è


formato da oltre 30 subunità proteiche, tra cui
le pompe protoniche. È una proteina
transmembrana, in quanto deve poter
trasferire H+ da un lato all'altro. Ossida NADH
e trasferisce i suoi elettroni a FMN (flavina
mononucleotide), questi elettroni vengono poi
trasportati attraverso una serie di centri ferro-
zolfo e infine ceduti al coenzima Q. Il
complesso I, per ogni due elettroni trasportati,
quindi per ogni molecola di NADH, pompa 4
H+ nello spazio intermembrana e ne lega
altri due al coenzima Q, che si riduce a QH2.

Il complesso II (succinato deidrogenasi) è


anche uno degli enzimi del ciclo di krebs.
Questo ciclo è formato da otto enzimi, uno dei
quali è il complesso II. A differenza degli altri

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Lezione n°19 del 28/05/2018
Sbobinatori: Sara Kucuku, Dario Bondi
Controllori: Alice Avalli, Mohamed Ali
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

enzimi, che sono disciolti nella matrice mitocondriale, questo è ancorato alla membrana
mitocondriale interna. Questo enzima produce e usa il FADH2. A differenza degli altri complessi
non è una pompa protonica, quindi non crea gradiente elettrochimico, per questo motivo si
ricava meno energia dal FADH2 che dal NADH. Come il complesso I scarica gli elettroni sul
coenzima Q.

Ciclo del Q
Il complesso III permette al coenzima Q di ridurre due molecole di citocromo c tramite il ciclo del
Q. Il passaggio da Q a citocromo c presenta un problema: il coenzima Q trasporta due elettroni,
mentre il citocromo c può accettarne uno solo. Questo viene risolto tramite il ciclo del Q: una
molecola di QH2, proveniente o dal complesso I o dal complesso II, entra nel complesso III, qui
cede un elettrone a un citocromo c, l'altro a un'altra molecola di coenzima Q, che passa in forma
semichinonica, e i protoni del QH2 vengono pompati nello spazio intermembrana.

QH2 + citocromo coss + Q → Q + citocromo crid + 2H+ (nello spazio intermembrana) + Q●


(ubichinone in forma semichinonica)

Entra poi un altra molecola di QH2, che cede un elettrone a un citrocomo c, i suoi protoni vengono
pompati nello spazio intermembrana, e l'altro elettrone passa alla molecola semichinonica Q che si
è formata nel passaggio precedente, questa prende poi 2H+ dalla matrice e si riduce a QH2.

QH2 + citocromo coss + Q● + 2H+ (dalla matrice) → Q + citocromo crid + 2H+ (nello spazio
intermembrana) + QH2

al netto delle due reazioni abbiamo:


QH2 + 2citocromo coss + 2H+ (presi dalla matrice) + → Q + 2citocromo crid + 4H+ (nello spazio
intermembrana)

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Lezione n°19 del 28/05/2018
Sbobinatori: Sara Kucuku, Dario Bondi
Controllori: Alice Avalli, Mohamed Ali
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Fosforilazione ossidativa, catena di trasporto degli elettroni, specie reattive dell'ossigeno, centri
ferro-zolfo.

quindi i due elettroni vengono ceduti ai due citocromi in due diverse reazioni.

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Lezione n°20 del 29.05.2018
Sbobinatore: Francesca Federici, Elisa Cardinale
Controllore: Nunzio Grano
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V

CATENA RESPIRATORIA: COMPLESSO IV


Schema riassuntivo del flusso elettronico:
NAD ridotto scarica il suo potere riducente sul complesso I, gli elettroni si muovono fino al Q e
intanto la pompa protonica del complesso I sposta protoni fuori dalla membrana nello spazio
intermemebrana. Il complesso II utilizza succinato e fumarato che sono substrati d’eccellenza,
infatti il complesso II è un enzima del ciclo di Krebs ed è quello che catalizza la formazione di
succinato in fumarato producendo FADH 2. Q colleziona il potere riducente che proviene dal
complesso I e dal complesso II, il complesso I è anche pompa protonica mentre il complesso II
non è una pompa protonica. Q scarica il potere riducente sul complesso III dentro cui avviene il
ciclo di Q. interviene a questo punto il citocromo c che è il complesso mobile che trasporta gli
elettroni dal complesso III al complesso IV. Sia il complesso III che il IV sono pompe protoniche.
Alla fine il flusso di elettroni termina con il centro Cu B poiché a questo punto avviene la reazione
con l’ossigeno e la formazione della molecola d’acqua.

COMPLESSO IV
Il complesso IV è la citocromo ossidasi che si occupa di ossidare il citocromo c, trasferisce quindi
elettroni dal citocromo c all’ossigeno e permette la formazione dell’acqua. Quei protoni che erano
stati spostati durante i passaggi precedenti tornano utili per la formazione della molecola d’acqua.
L’ossigeno è l’accettore terminale degli elettroni nella catena protonica.
Il complesso IV contiene due gruppi eme (eme A ed eme A 3) e due centri rame chiamati A e B. il
centro A presenta due ioni Cu legati mediante due residui di cisteina a ponte, il centro b ha un solo
residuo di rame coordinato da tre residui di istidina. La struttura è quella di un complesso proteico
che buca la membrana infatti è presente sia sulla faccia esterna che sulla faccia interna della
membrana.

L’ossigeno si muove liberamente secondo


gradiente. I quadratini rossi sono i gruppi eme.
Il citocromo c (Cyt c) qui vediamo che si è
spostato, prima era dal complesso III, ora è
nell’alloggiamento apposito del complesso IV e
scarica il suo elettrone sul complesso Cu A poi
sui gruppi eme dei citocromi A e A3 e poi sul
centro Cu B. A questo punto l’elettrone incontra
l’ossigeno.

Il complesso IV è una pompa di protoni ma la reazione contemporaneamente sottrae anche


elettroni all’ambiente interno, quindi l’ossigeno biatomico deve ricevere 4 protoni e così una
molecola di O2 diventa 2 H2O. Il flusso di elettroni deve essere continuo per garantire la
formazione della molecola d’acqua.

I complessi della catena respiratoria si possono associare a formare dei “super” complessi
enzimatici e questo avviene grazie alla formazione di interazioni deboli tra i complessi. Un esempio
di questo fenomeno è il respirasoma che è come un vero e proprio organo cellulare formato dal

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Materia: Biochimica
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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V

complesso III e dal IV che si incastrano l’uno con l’altro e facilitano il passaggio dell’intermedio cioè
del citocromo c.
Schema degli eventi con i principali trasportatori

Il NAD scarica sull’ FMN


(flavoproteine) che si trova sul
complesso I che scarica sul
coenzima Q che scarica sul Cyt B e
c1 che sono presenti nel complesso
III, poi il citocromo agisce da
intermedio tra complesso III e
complesso IV dove troviamo
citocromo a e a3 e alla fine scarica
su ossigeno.

Qui sono mostrati i potenziali redox, si passa dal valore dell’ idrogeno -0,4 al valore dell’ossigeno
che è +0,8. Il complesso IV pur essendo quello con il valore che più si avvicina all’ossigeno compie
il salto di potenziale più elevato. Di solito in corrispondenza dei salti più alti si trovano le pompe
protoniche perché il trasferimento di energia consente lo spostamento dei protoni. Durante la
catena respiratoria gli elettroni seguono un flusso e perdono gran parte della loro energia libera,
sono infatti tutte reazioni esoergoniche. Una grande parte di questa energia (per la II legge della
termodinamica una parte deve essere dissipata sotto forma di calore, infatti i mitocondri sono
produttori di calore) viene convertita in energia chimica cioè nell’ATP.
Questo processo di formazione dell’ATP avviene durante la fosforilazione ossidativa.

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Materia: Biochimica
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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V

LA FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA

È questo che genererà ATP, cioè è questa energia potenziale che verrà sfruttata per
fosforilare la molecola dell’ATP. È paragonabile ad una centrale idroelettrica: faccio una diga
(potrebbe essere la membrana mitocondriale), aspetto che si colmi il bacino (quindi che si
formi il gradiente retrochimico intermembrana) e adesso posso sfruttare questa energia
potenziale che è dovuta all’accumulo di acqua, per far passare un flusso di acqua che arriva
ad una turbina la quale produce energia elettrica. Il principio è esattamente questo. Il sistema
genera un gradiente di protoni che viene accoppiato per un contro-flusso all’ossidazione
ovvero la fosforilazione dell’ATP.

- ATP sintasi: Compare il V complesso: complesso enzimatico costituito da molte subunità


proteiche collocate all’interno della membrana e una parte che invece protrude verso l’interno
del mitocondrio. Questo complesso V viene chiamato ATP sintasi (come tendono a chiamarla i
testi più antichi) o ATPasi (testi più moderni). Questi due nomi però sono in contraddizione tra
di loro: ATP sintasi significa che assembla ATP, mentre ATPasi vuol dire esattamente
l’opposto, ovvero che lo degrada. Più avanti si vedrà che i due concetti sono perfettamente
compatibili in quanto tale complesso può compiere entrambe le cose (assemblaggio e
degradazione).

Grazie all’azione dei complessi I, II, III


e IV, i protoni vengono accumulati
nello spazio compreso tra le due
membrane mitocondriali che sono
impermeabili al passaggio degli ioni
H+ Questi ultimi possono passare solo
attraverso il complesso V che
possiede, appunto, un canale per i
protoni. Il complesso V è la turbina
della centrale idroelettrica e gli ioni H+
attraversano questo canale secondo
gradiente (reazione esoergonica). La
produzione di ATP avviene grazie ad
un processo chiamato “catalisi
rotazionale”, il quale nome deriva dal
fatto che la parte del complesso che si
affaccia nel matrigel (F1) ruota
assimilando proprio una turbina:
utilizza due substrati che sono l’ADP e
il fosfato inorganico, li lega insieme e

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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V

genera l’ATP, sfruttando il flusso di protoni. Attenzione però: finché sussiste il flusso di elettroni, i
protoni passano per il complesso V, fanno ruotare questa “turbina molecolare” producendo
l’energia necessaria alla formazione di ATP; non appena il flusso di protoni si blocca, questi non
passano più attraverso l’enzima, non c’è produzione di energia e la rotazione avviene in senso
opposto: l’ATP viene degradato ad ADP e fosfato inorganico. Ecco perché questo complesso può
essere chiamato sia ATP sintasi che ATPasi.

Affinché l’organismo possa produrre energia e funzionare in modo appropriato dev’esserci sempre
un continuo passaggio di protoni, derivato da un flusso di elettroni, che a sua volta deriva dalla
presenza di ossigeno. Quindi il gradiente protonico è il concetto di accoppiamento che accoppia
la catena di trasporto degli elettroni (che tende a produrre continuamente il gradiente protonico) e
la fosforilazione ossidativa (che tende continuamente a dissipare energia per produrre molecole di
ATP). L’ATP formato poi deve uscire con un trasportatore: esso si forma all’interno della
membrana mitocondriale (nel matrigel), questa è estremamente selettiva, non lascia passare nulla
praticamente a meno che non ci sia un trasportatore e dunque devono esistere dei trasportatori
che permettono l’entrata di ADP e fosfato inorganico e l’uscita di ATP al di fuori del mitocondrio. In
questo modo i mitocondri ricaricano costantemente l’ATP consentendo i processi endoergonici
della cellula, mantenendo inoltre costante il livello di ATP a 0,8 che è il valore ottimale di carica
energetica cellulare. Fino a quando questo sistema estremamente dinamico è attraversato da
questo flusso di energia, la cellula funziona e la carica energetica rimane alta, la cellula è attiva.
Ma se si interrompono questi flussi la cellula va incontro a morte perché perde la sua attività.

ATP sintasi o ATPasi:

All’inizio, quando hanno iniziato a fare studi su questo argomento si commetteva un errore che poi
si è capito dopo: quello di purificare gli enzimi. Una proteina incastonata nella membrana dispone
di aminoacidi idrofobici all’interno della membrana e idrofilici rivolti verso l’esterno, cioè il fatto che
sia immersa in una membrana influenza la sua struttura (terziaria e quaternaria). Se estraggo
questa proteina dall’ambiente (membrana plasmica) dove è situata naturalmente, la denaturo,
perde la sua struttura. In più tutto questo sistema sta in piedi se la membrana interna mitocondriale
e la membrana esterna mitocondriale sono intatte. Questo presuppone l’integrità del mitocondrio.
Se dunque prelevo un enzima, come il complesso V, e lo studio al di fuori della membrana, lo
purifico e lo metto in una provetta e do dell’ATP lo idrolizza perché questa è la reazione spontanea
(esoergonica): ATP → ADP + Pi

L’assemblaggio dell’ATP è invece una reazione endoergonica, che avviene solo se do energia
(flusso di protoni). Quindi il V complesso quando è presente in un mitocondrio funzionante,
possiamo chiamarlo ATP sintasi perché effettivamente compone ATP; quando, invece, è isolato o
in un mitocondrio inattivo allora prende il nome di ATPasi perché spontaneamente fosforila l’ATP
in ADP più fosfato. E questo avviene quando il flusso protonico si interrompe.

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Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V

Il movimento di elettroni generato dal NAD ridotto prevede l’azione di tre pompe protoniche e
quindi alla formazione di più ATP, in quanto vengono portati più protoni all’interno del gradiente
protonico. Il flusso elettronico generato dal FAD ridotto prevede invece l’azione di due sole pompe
protoniche, generando così un gradiente protonico più basso. Di conseguenza il NAD ridotto
(NADH-H+) permetterà la formazione di più ATP,rispetto al FAD ridotto (FADH₂), in quanto i
protoni spostati dal suo potere riducente sono di meno.
La resa energetica del NAD ridotto è di 2,5 ATP, il valore ad oggi più attendibile, mentre il potere
riducente del FAD permette di generare 1,5 ATP. In precedenza i valori utilizzati per la resa
energetica erano diversi: la resa del NAD ridotto era di 3 ATP, mentre quella del FAD ridotto era di
2 ATP. Le due rese energetiche sono differenti in quanto il potenziale elettrochimico del NAD e del
FAD sono diversi.

Il flusso degli elettroni genererà a sua volta un flusso di protoni. I protoni verranno trasferiti
all’interno del complesso V, grazie a un canale presente nella porzione incastonata all’interno della
parete della membrana interna del mitocondrio. Il passaggio dei protoni permetterà lo svolgimento
della catalisi rotazionale, che si svolgerà nella porzione del complesso V, che protrude verso la
matrice mitocondriale. Questa porzione viene considerata la vera ATP-sintasi, in cui viene
catalizzata la reazione delle molecole di ADP e Pi, ovvero fosfato inorganico, per la produzione di
ATP.

ACCOPPIAMENTO E DISACCOPPIANTE

L’energia potenziale chimica presente negli alimenti, viene strappata sottoforma di potere
riducente. Il potere riducente viene utilizzato per spostare protoni, generando il gradiente
elettrochimico (ipotesi chemiosmotica). Il gradiente elettrochimico è un’energia potenziale che
viene sfruttata per far procedere in avanti una reazione fortemente endoergonica, per la
produzione di ATP. Se il flusso si interrompe il processo funziona al contrario, quindi non vi è più la
produzione di ATP, ma il suo consumo.

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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V

Secondo la teoria chemiosmotica la catena respiratoria e la fosforilazione ossidativa, ovvero la


produzione di ATP, sono due fenomeni accoppiati. Quindi l’accoppiamento è costituito dal flusso
elettronico, che genera un gradiente protonico, che a sua volta porta alla produzione di ATP.
La dimostrazione della teoria chemiosmotica è stata un’impresa ardua, che ha richiesto molti anni
di studio in quanto bisognava lavorare in vivo, con mitocondri completamente integri, senza
purificare gli enzimi ed isolarli, altrimenti essi si sarebbero denaturati. Nonostante le difficoltà
questa teoria ha resistito ad ogni prova.
Il concetto di accoppiamento è un concetto legato all’integrità della membrana mitocondriale. Tutto
ciò che attenta all’integrità della membrana, ovvero dissipa il gradiente protonico, creando
passaggi alternativi dei protoni, viene chiamato DISACCOPIANTE. Tutto ciò che dissipa il
gradiente protonico, impedendo che esso venga usato dal complesso V, viene chiamato
DISACCOPPIANTE.
I disaccoppianti sono solitamente pericolosi e nocivi per la cellula, ma esiste anche un caso di
disaccoppiante fisiologico.
Essi riducono l’efficienza di trasferimento di energia dal gradiente protonico all’ATP, poiché
dissipano una parte del gradiente protonico.
I disaccoppianti non bloccano la respirazione e ciò significa che il flusso elettronico, le pompe
protoniche e la produzione di acqua metabolica con consumo di ossigeno non si interrompono.

Ad esempio il monossido di carbonio associato all’emoglobina, impedisce che essa trasporti


ossigeno, bloccando così la respirazione . La respirazione si blocca in quanto non è più presenta
l’ossigeno, l’accettore finale della catena respiratoria. Al contrario se agisce un disaccoppiante,
che si può immaginare come una molecola che crea dei piccoli buchi all’interno della membrana,
da cui vengono dissipati protoni, questo non blocca la respirazione, in quanto permane un flusso di
elettroni e l’ossigeno come accettore finale. Si verifica solamente un disaccoppiamento del
fenomeno della respirazione mitocondriale , da quelle della fosforilazione dell’ATP.

ATP- sintasi: STRUTTURA E FUNZIONE

L’ATP-sintasi è costituita da una porzione situata nella membrana interna mitocondriale (F₀) e una
porzione che protrude nella matrice mitocondriale (F₁). Le
subunità legate alla membrana presentano lettere dell’alfabeto
latino, mentre quelle che non sono direttamente legate alla
membrana presentano delle lettere dell’alfabeto greco.
La porzione legata alla membrana presenta almeno 12
subunità di tipo c, una subunità di tipo a e due subunità di tipo
b.
La porzione non legata alla membrana presenta, invece, una
subunità ε, γ, che rappresenta una sorta di perno, tre subunità
β, tre subunità α e una subunità δ.

I protoni entrano all’interno dell’ATP-sintasi, in corrispondenza


delle subunità c e vengono trasferiti da degli amminoacidi, che
hanno gruppi R in grado di catturare i protoni. I protoni entrano
all’interno del complesso semplicemente grazie a delle catene
di amminoacidi che trasferiscono protoni. Il passaggio dei protoni causerà la rotazione della
porzione F₀, costituita dalle subunità c, del complesso. Questa rotazione, attraverso il perno
costituito dalla subunità γ, verrà trasmessa alle altre subunità della porzione F₁.
La due subunità b e la subunità δ , nel frattempo si comportano come la punta di un gira dischi. La
subunità δ, sostenuta dalle altre due subunità, colpisce ed interagisce con le subunità α e β
alternativamente, in quanto esse ruotano.

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Argomenti: complesso IV della catena respiratoria; il bilancio energetico; fosforilazione ossidativa: il
gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V

Analizzando il complesso V o complesso dell’ATP-asi dall’alto, osserviamo sei subunità α e β


alternate, con al centro una sub unità γ, che funge da perno, in quanto permette la loro rotazione.
Affianco è presente la subunità δ, sostenuta dal bastone costituito dalle subunità b.
La subunità γ ruotando causa la rotazione di tutte le altre sei subunità. Nel frattempo la subunità δ
interagisce con le sei sub unità in modo alternato; questo significa che in un primo momento
interagisce con una subunità e in un secondo momento con una subunità differente.
Ogni volta che una subunità interagisce con δ, si verifica un fenomeno, che consiste in un
cambiamento conformazionale. Le subunità a seconda di quello che legano, per effetto indotto dal
legame con i substrati, si caricano di energia conformazionale. Questa energia potenziale, del tipo
conformazionale, viene scaricata nella catalisi generando prodotti di reazione.

Le subunità α hanno un compito prevalentemente regolatorio e conformazionale, mentre le


subunità β possono essere vuote, con ADP e Pi legato o con ATP, che poi rilasciano.
Si verificano cambiamenti conformazionali che derivano tutti dalla rotazione e dal contatto con la
subunità δ.

Analizzando l’immagine in senso antiorario a


partire dall’alto osserviamo una subunità β con
ADP + Pi, una con ATP e una vuota;alla
rotazione successiva la subunità che presentava
ADP+Pi presenta ATP, la seconda è vuota,
mentre la terza presenta ADP+ Pi; alla
rotazione successiva la subunità che presentava
l’ATP si svuota, quella con ADP + Pi si trasforma
in ATP e quella vuota si riempie con il substrato.

Le tre subunità β, che possono essere considerate le vere e proprie ATP-sintasi, lavorano
contemporaneamente permettendo un lavoro su tre ATP. Ogni subunità lavora in maniera
indipendente, ma in relazione alla rotazione cattura i suoi substrati, genera ATP e poi lo libera. Si
tratta, quindi, di un lavoro, simultaneo, a catena di montaggio su tre ATP.
Come già in precedenza descritto ad ogni rotazione cambia la conformazione delle subunità β, che
attraversano così tre fasi: entrata del substrato, formazione del prodotto e liberazione di esso.

La rotazione del complesso V è stata compresa e dimostrata grazie ad un esperimento condotto


nei laboratori di Masasuke Yoshida e Kazuhiko Kinosita Jr. Venne attaccato alla subunità c un
sistema di avidina biotina. Il sistema venne associato ad un lungo filamento di actina fluorescente.
Questo meccanismo, essendo innocuo venne introdotto all’interno della cellula e con dei
microscopi a fluorescenza ad altissima definizione, venne osservato che filamento di actina
ruotava.
Più precisamente esistono due movimenti che caratterizzano il complesso: il movimento della
struttura centrale F₀ e un movimento che permette la continua interazione della subunità δ con le
altre subunità. La rotazione del complesso porta alla continua produzione di ATP, mentre se il
complesso si ferma o ruota dalla parte opposta porta al consumo di ATP.

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gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V

Riassumendo la catena di trasporto degli elettroni è accoppiata alla fosforilazione ossidativa


secondo la teoria chemiosmotica, che prevede la formazione di un gradiente protonico, generato
dalla catena di trasporto degli elettroni e sfruttato dalla fosforilazione ossidativa. I protoni
diffondono all’interno della matrice attraverso l’enzima ATP-sintasi e ciò fornisce l’energia
necessaria per la sintesi di ATP. Se questo processo si interrompe, si interrompe anche la sintesi
di ATP.
Il potere riducente strappato dagli alimenti sottoforma di NAD ridotto e FAD ridotto,viene convertito
ad ATP. Come scritto nel paragrafo precedente ogni NAD ridotto porta alla produzione di 2,5 ATP
e ogni FAD ridotto porta alla produzione di 1,5 ATP, in quanto possiedono potenziali elettrochimici
diversi e mettono in funzione un numero diverso di pompe protoniche; il NAD mette in funzione tre
pompe protoniche, mentre il FAD ne mette in azione solo due.

IMPORTANZA FISIOLOGICA OSSIGENO

Nelle cellule che presentano mitocondri la mancanza di ossigeno causa l’arresto (il blocco) dei
mitocondri. La mancanza di ossigeno, attrattore di elettroni della catena respiratori, blocca la
respirazione cellulare, il flusso elettronico, la formazione di un gradiente protonico, inoltre il
gradiente protonico presente viene dissipato per formare le ultime molecole di ATP e infine la
carica energetica all’interno della cellula crolla; la domanda che sorge spontanea è: “Perché la
cellula muore?”

Un esempio immediato della necessità dell’ATP e dell’ossigeno per la cellula, è la cellula


muscolare. La cellula muscolare utilizza ATP per contrarsi e quindi in assenza di ATP cessa di
compiere il suo lavoro. La cellula muscolare può appartenere al miocardio e quindi la mancanza di
ATP causa l’arresto del cuore. Questo esempio non è sufficiente e non è completo per spiegare il
motivo per cui un uomo senza ossigeno muore.
Il tessuto più vulnerabile alla carenza di ossigeno è quello del sistema nervoso centrale. In una
cellula nervosa il potenziale di membrana è fondamentale per la trasmissione dell’impulso. Un
potenziale di membrana si genera e si mantiene attraverso le pompe Na/K ATP-asi (sodio/
potassio), in quanto lavorano contro gradiente consumando ATP. Se la produzione di ATP si
interrompe e all’interno della cellula non vi è più rifornimento di ATP, le pompe Na/K ATP-asi si
bloccano e causano uno shock osmotico della cellula, in quanto non vi è più un equilibrio delle
cariche elettriche. Uno shock osmotico causa un afflusso di acqua alla cellula, che si gonfia ed
esplode. La cellula in shock osmotico impiega un minuto per esplodere.
L’interruzione del flusso ossigeno causa il mancato afflusso di ossigeno al cervello (di
conseguenza anche al cuore) e quindi le cellule cerebrali iniziano a morire. Il processo ovviamente
non è istantaneo, in quanto le cellule prima di esplodere sfruttano tutto l’ossigeno presenta nel
corpo, ma dopo circa 4/5 minuti questo termina. Se le cellule cerebrali muoiono l’individuo può
morire o può sopravvivere con danni cerebrali permanenti anche gravi.
[Un esempio molto comune per spiegare l’importanza dell’ossigeno nell’individuo è il caso di
annegamento; durante un annegamento l’acqua entra nei polmoni e l’apporto di ossigeno si
interrompe, arrestando la respirazione cellulare. Il bagnino ha circa tra i 4 e i 5 minuti per salvare la
vittima, in quanto un lasso superiore di tempo porterebbe allo shock osmotico delle cellule
cerebrali, causato dall’assenza di ossigeno.]

Lo shock osmotico e il blocco delle pompe Na/K ATP-asi si verifica ovviamente in tutte le cellule
(eritrociti, cellula muscolare striata ecc.) ma ovviamente le cellule presentano una diversa
resistenza. La cellula con resistenza più critica è la cellula nervosa. Infatti il battito cardiaco, la
respirazione possono essere ripristinati mentre la morte cerebrale no. (Un soggetto può presentare
un battito cardiaco, ma può essere cerebralmente morto).

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gradiente protonico, la sintesi di ATP e il complesso V

BILANCIO ENERGETICO

Le vie metaboliche presentano dei bilanci energetici. Nel bilancio energetico vengono considerati o
i nucleotidi ridotti e i coenzimi ridotti o le molecole di ATP che possono essere prodotte da una
determinata via metabolica.
Una via metabolica può ad esempio produrre un FAD ridotto e un NAD ridotto e di conseguenza
può produrre un determinato numero di molecole di ATP. Il bilancio energetico espresso attraverso
il numero di coenzimi ridotti è molto chiaro, mentre quando si parla di molecole di ATP bisogna
dichiarare sempre il criterio di conversione.
Nel primo criterio di conversione, considerato sperimentalmente il più realistico, un NAD ridotto
corrisponde a 2,5 ATP, mentre un FAD ridotto corrisponde a 1,5 ATP.
Nel secondo criterio di conversione, un NAD ridotto corrisponde a 3 ATP, mentre un FAD ridotto
corrisponde a 2 ATP.
Questa differenza è dovuta al fatto che il potere riducente del NAD scaricato sull’ossigeno
permette di trasferire 10 protoni, mentre il potere riducente del FAD permette di trasferirne
solamente 6.
È stata calcolata anche la stechiometria del gradiente protonico ed è stato studiato che per la
fosforilazione di un ATP è sufficiente il gradiente protonico di quattro protoni,di questi, tre protoni
sono necessari per la rotazione del complesso F₀, mentre un protone viene utilizzato per l’ingresso
del fosfato, che si verifica contro gradiente. Il fosfato entra all’interno della matrice mitocondriale
grazie al suo trasportatore, spendendo un protone in uscita.

NADH-H+ → 2,5 ATP (3 ATP) → 10 H+

FADH₂ →1,5 ATP (2 ATP) →6 H+

1ATP = 4 H+

REGOLAZIONE DELLA FOSFORILAZIONE

La fosforilazione ossidativa è come tutte le vie metaboliche soggetta a regolazione. A riposo


l’ossigeno è sempre disponibile, in quanto l’organismo è ben rifornito. A riposo è infatti presente
una quota sufficiente di potere riducente, che deriva dal metabolismo dei nutrienti, una formazione
di fosfato inorganico, poiché una piccola parte di ADP viene sempre utilizzata e infine una carica
cellulare abbastanza alta. La ricarica si verifica in maniera abbastanza semplice.

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Lezione n°21 del 30.05.2018
Sbobinatore: Cecilia Baraldi, Giulia Perina
Controllore: Carolina Tessitore
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Regolazione della fosforilazione ossidativa, accoppiamento, disaccoppiamento, inibitori del flusso
di elettroni nei mitocondri, controllo respiratorio, metabolismo aerobio e anaerobio del glucosio, anfibolismo,
difesa mitocondri dai ros, ipossia, DNA mitocondriale

REGOLAZIONE DELLA FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA


In condizioni di riposo

In condizioni di riposo e conseguente carica energetica cellulare relativamente alta, intorno a 0,75- 0,8,
viene trasportata una quantità sufficiente di ossigeno ai tessuti periferici in modo da garantirne il
metabolismo ossidativo, si produce potere riducente e nucleotidi ridotti, NADH e FADH2, in stato di
equilibrio sufficiente per garantire questi processi. Inoltre, sono presenti fosfato inorganico e ADP (non
sempre l’ATP è disponibile al 100%, questo poiché interviene in processi quali le pompe sodio-potassio
ATPasi. A tal proposito, una piccola quantità di ADP e fosfato inorganico viene costantemente ricaricata dal
processo, come condizione di partenza)

Durante l’attività motoria


(Occorre precisare che bisogna fare riferimento alla carica energetica cellulare e non ad ADP e ATP.)

Tramite una serie di processi, il glucosio viene degradato fino ad arrivare a piruvato tramite la glicolisi,
successivamente il piruvato subisce una decarbossilazione ossidativa all’interno del mitocondrio
diventando acetilcoenzima A, molecola che alimenta il ciclo di Krebs. Attraverso questo processo si
generano gli equivalenti riducenti, poi sfruttati nella catena respiratoria con consumo di ossigeno, per
produrre infine ATP.
(Le frecce rosse indicano un fenomeno di tipo inibitorio, mentre le frecce verdi significano segnale
d’induzione.)
(Non tutti i passaggi sono riportati, solo i fenomeni di regolazione più importanti riguardanti più vie
metaboliche e più meccanismi.)
Il fatto che i passaggi siano regolati è determinato da una logica molecolare, tramite regolazioni
automatiche che però obbediscono alle leggi dell’omeostasi energetica e molecolare. La cellula esegue le
azioni minime al proprio sostentamento e non spreca, altrimenti se consumasse ATP inutilmente non
sarebbe avvantaggiata dal punto di vista evolutivo, verrebbe soppiantata da una cellula più efficiente e in
grado di sfruttare meglio l’energia. Questi processi rispondono dunque ad una logica molecolare che risulta
un prodotto dell’evoluzione.

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Argomenti: Regolazione della fosforilazione ossidativa, accoppiamento, disaccoppiamento, inibitori del flusso
di elettroni nei mitocondri, controllo respiratorio, metabolismo aerobio e anaerobio del glucosio, anfibolismo,
difesa mitocondri dai ros, ipossia, DNA mitocondriale

È necessario che questi siano rispettati, e ciò è sottolineato dal fatto che anche organismi molto diversi tra
loro dal punto di vista filogenetico possono avere gli stessi meccanismi di regolazione, ogni passaggio
pertanto deve essere eseguito in un solo modo.

Una tra le più tipiche condizioni tendenti ad abbassare la carica energetica cellulare è ovviamente l’attività
fisica. Ad esempio, una fibra muscolare contiene cellule adibite alla contrazione le quali si accorciano
consumando ATP, e ciò comporta l’attivazione di meccanismi di omeostasi energetica per mantenere la
carica energetica cellulare a livelli adeguati.
Nelle condizioni di sforzo fisico intenso, l’ATP diminuisce, mentre cresce la quantità di ADP e fosfato
inorganico, e in casi estremi anche quella di AMP. La carica energetica cellulare è un regolatore molto
importante, affiancato dal sensore MPcinasi in grado di misurare in tempo reale il contenuto energetico
della cellula e rispondere immediatamente; l’abbassamento induce subito la glicolisi, il ciclo di Krebs e la
fosforilazione ossidativa, processi che puntano alla degradazione di nutrienti per avere potere riducente e
per produrre infine ATP. Durante l’esercizio fisico, al fine di soddisfare la richiesta di più ossigeno poiché ne
aumenta anche il consumo, si alza la gittata cardiaca, la pressione e la frequenza respiratoria.

Vi sono differenze rilevanti tra soggetti allenati e soggetti sedentari; in questo ultimo caso si riscontrano
maggiori difficoltà nell’affrontare la prestazione fisica a causa di una soglia aerobica bassa, quindi si
produce lattato molto rapidamente, ed altrettanto rapidamente la sua glicolisi passa da essere aerobica ad
anaerobica e la fosforilazione a livello substrato viene utilizzata, questo poiché l’ATP viene prodotta anche
senza l’attività mitocondriale. Una caratteristica dei soggetti allenati è al contrario la produzione di lattato
posticipata. Generalmente, dalla potenza dell’attività dipende la formazione di lattato. Nel soggetto
allenato, la soglia aerobica si alza ed egli riesce a sostenere lo sforzo fisico di potenza in condizioni
aerobiche per un tempo maggiore, e ciò ha delle ricadute perché il soggetto si stanca meno e performa
meglio, per tempo più lungo e produce infine meno lattato, recuperandolo in tempi brevi. In conclusione,
sente meno la fatica durante la prestazione e una volta terminata, necessita di meno recupero.
L’allenamento impone dunque una serie di modifiche dell’organismo a favore dell’aerobiosi; aumenta il
numero di mitocondri e la vascolarizzazione dei tessuti muscolari periferici, il cuore diventa più potente ed
il ventricolo sinistro si irrobustisce (“cuore d’atleta”) per essere più capace di pompare sangue a volumi
maggiori con un ritmo maggiore, e anche se non è in montagna il soggetto ha un 2,3-BPG (2,3-
bifosfoglicerato) leggermente aumentato (È un modulatore allosterico che provoca un cambiamento
conformazionale dell’emoglobina. Se il BPG è inserito ostacola la transizione nella forma R dell’emoglobina,
ovvero stabilizza la forma T che rilascia più ossigeno. Nei tessuti periferici con un aumento della
concentrazione del BPG, l’emoglobina di conseguenza cede più ossigeno). Pertanto, l’allenamento risulta in
una serie di modifiche a favore della capacità di trasporto dell’ossigeno ed al fine di mantenere una soglia
aerobica più alta. Inoltre, anche il gesto tecnico deve essere eseguito in maniera corretta.

ACCOPPIAMENTO

Il trasporto di elettroni fornisce energia per spostare i protoni e questo permette la fosforilazione ossidativa
ed avviene in tutti i tessuti che contengono mitocondri. Ci sono tuttavia eccezioni; gli eritrociti ad esempio
non li possiedono. I globuli rossi, essendo cellule terminali, prodotte originalmente dal midollo osseo, poi
maturate in una serie di fasi e conservanti nucleo e mitocondri fino ad un certo stadio ma una volta maturi
li espellono, perdendo anche la capacità di replicare. Essi hanno una vita determinata, di circa 120 giorni,
poi vengono distrutti da un meccanismo attivo nella milza e nel fegato. Gli eritrociti non compiono la
fosforilazione ossidativa anche perché hanno scarse esigenze energetiche, e richiedono meno ATP a seguito

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delle poche funzioni attive, quali le pompe sodio potassio ATPasi per l’omeostasi. Questi sono esempi
importanti di cellule con metabolismo anaerobio ed un’interessante applicazione della “legge del conflitto
di interessi”, poiché l’eritrocita è molto efficiente nel trasporto di ossigeno ma non lo può usare perché non
ha mitocondri. Vi sono inoltre altre cellule che non presentano un metabolismo ossidativo.
Il flusso di elettroni consente la fosforilazione ossidativa ma anche quest’ultima consente il flusso di
elettroni; sono infatti sono accoppiati, hanno pari rilevanza e devono avvenire contemporaneamente. Se il
gradiente protonico non è sufficiente, la catena respiratoria cessa. Se in una cellula il quinto complesso non
trova il substrato, ADP e fosfato inorganico, si blocca e così facendo non lascia passare protoni, e se il
gradiente protonico è alla quota massima, la catena respiratoria cessa perché non è possibile muovere altri
protoni, poiché il gradiente è talmente alto che non può crescere, e l’energia rilasciata dal flusso elettronico
non è sufficiente. Fino ad un certo livello è permessa una di differenza tra le cariche elettriche, il gradiente,
ma se arrivati al limite, l’aumento termodinamico del gradiente di protoni deve essere dissipato,
consumato, al fine di riprendere il flusso elettronico. Se la catena respiratoria cessa, la fosforilazione
consuma il gradiente protonico fino a che questo non è più sufficiente a produrre ATP. Se non vengono
spostati altri protoni, quelli presenti ad un certo punto passano al complesso quinto e una volta giunti ad
una uguale concentrazione da entrambe le parti, non si può formare ATP (“ad esempio in una diga, se il
bacino è pieno fino a livello, non può più entrare acqua”).

DISACCOPPIAMENTO

Quando l’accoppiamento viene messo in crisi si parla di disaccoppiamento ed è causato da composti che
aumentano la permeabilità della membrana mitocondriale interna ai protoni. Se questi riescono a
transitare per il complesso quinto, vengono utilizzati per produrre ATP, ma se trovano un passaggio
alternativo, come una proteina o un canale per protoni, il loro transito si conclude senza produzione finale
di ATP e dunque senza formare energia chimica. Il disaccoppiante non riduce il consumo di ossigeno, bensì
lo aumenta perché il sistema risulta meno efficiente. Gli agenti disaccoppianti, permettendo un transito
alternativo ai protoni, dissipano il gradiente elettrochimico accumulato con il flusso di elettroni, e nel
rispetto del secondo principio termodinamica, questo diventa calore. Di conseguenza aumenta il consumo
di substrato, la respirazione e con effetto termogenetico.
Esiste una patologia genetica gravissima, spesso latente fino ad un eventuale intervento richiedente
anestesia, poiché alcuni farmaci anestetizzanti provocano in soggetti affetti un effetto disaccoppiante
letale; in pochi minuti dissipa tutti i gradienti protonici e questa termogenesi maligna può uccidere il
paziente. A tal proposito, prima di un intervento viene iniettata una piccola quantità di anestetizzante nel
soggetto e si verifica se provoca effetti nel soggetto.
Un altro esempio di disaccoppiante è l’aspirina, se assunta in dosi molto elevate, provoca termogenesi
maligna. Si sono verificati casi molto rari in cui bambini hanno assunto dosi eccessive e questo ha provocato
conseguenze gravi. Di norma l’aspirina è un antinfiammatorio e antifebbrile ma pirogenica a dosi elevate a
causa del calore disperso per effetto termogenetico.
Inoltre, anche il 2,4-dinitrofenolo, di sintesi chimica, ha un effetto disaccoppiante.
In ambito fisiologico, l’effetto termogenetico è presente a livello molecolare per decidere quanta energia
utilizzare per produzione ATP e quanta per il calore, ed il regolatore di questo fenomeno è l’ormone
tiroideo T4 tiroxina, entrambi (t3 e t4) sono infatti regolatori del metabolismo basale (ovvero l’efficienza
metabolica, quanta energia di questo gradiente protonico finisce in ATP e quanta in calore). Il soggetto
ipertiroideo è in genere iperattivo, magro, con una temperatura corporea elevata e mangia molto, mentre
l’ipotiroideo ingrassa facilmente, è più sedentario ed ha una temperatura corporea minore.

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di elettroni nei mitocondri, controllo respiratorio, metabolismo aerobio e anaerobio del glucosio, anfibolismo,
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Si tratta di due casi estremi, ma anche in un soggetto qualunque il metabolismo basale e le modifiche a
livello degli ormoni tiroidei dipendono dal sesso, dall’età e anche dal clima; se fuori c’è freddo, per
mantenere la temperatura corporea di 37° è necessaria una liberazione maggiore di calore, se fuori invece
c’è caldo, il calore non deve essere prodotto. Si tratta in questo caso di un effetto fisiologico, nel caso
dell’aspirina di un effetto collaterale, mentre il 2,3-dinitrofenolo è un veleno.

In questo schema è rappresentato il complesso quinto ed il gradiente protonico formato da tre pompe che
andranno a rifornire il serbatoio protonico, i protoni transitano nel complesso quinto e poi saranno
utilizzati per produrre ATP.
Nel caso in cui ci sia una proteina canale per i protoni, non viene accoppiato il flusso protonico per formare
ATP poiché permette il passaggio di protoni al suo interno e nel fare questo viene dissipato calore. Il nome
della proteina è termogenina, poiché disaccoppia e consuma parte del gradiente protonico per produrre
calore nelle membrane mitocondriali e la sua espressione dipende da ormoni tiroidei, questi ne inducono
quindi un’espressione minore o maggiore. Se sono presenti più termogenine nella membrana interna
mitocondriale vi sarà un maggior disaccoppiamento che risulterà in una minore efficienza del mitocondrio,
il quale per mantenere un’uguale carica energetica cellulare deve consumare più alimenti e ossigeno e
viceversa. Se le persone ingrassano facilmente, significa che il metabolismo basale è basso ed hanno
mitocondri più efficienti. Ha bisogno di minor energia e minor quantità di alimenti e consuma poco. Le
differenze individuali tra metabolismi e consumo energetico tra persone sono dovute a questo fatto, e
possono essere molto grandi, anche il doppio.
Vi sono mitocondri specializzati in un particolare tessuto lipidico, il tessuto adiposo bruno (colorazione
quasi ocra, perché presenta adipociti ricchi di mitocondri che rendono la cellula più scura), tipico di tutti i
mammiferi che vanno in letargo e nei neonati. Viene prodotto prima del letargo; tali animali mangiano
molto, aumentano il loro peso e grazie alle calorie accumulate nel tessuto bruno, in letargo vengono
consumate per produrre calore. In tali condizioni infatti non è richiesta tanta ATP perché non vi è
contrazione muscolare, calano la gittata e la frequenza cardiaca, ma vi è l’esigenza di produrre calore per
far fronte alle gelide temperature esterne. Il tessuto adiposo è in grado di produrre calore grazie ai
mitocondri ricchi di termogenina.
Nei neonati, questo è presente tra le scapole e la nuca ed è di vitale importanza per fare superare al
bambino lo shock termico della nascita. Egli era infatti abituato ad una temperatura di 37° all’interno della
placenta materna, mentre quella ambientale è molto minore di tale valore. Oltre allo shock respiratorio per

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di elettroni nei mitocondri, controllo respiratorio, metabolismo aerobio e anaerobio del glucosio, anfibolismo,
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liberare le vie aeree ed iniziare a respirare con i polmoni, subisce dunque anche uno shock termico. Si tratta
di un passaggio critico; sono state messe a punto culle termiche in grado di emettere radiazioni infrarossa
per rendere lo shock minore, soprattutto nei bambini pretermine nati al sesto/settimo mese e non aventi
ancora il tessuto adiposo bruno. In conclusione, il tessuto adiposo bruno causa la dissipazione del gradiente
protonico tramite molta termogenina e altre proteine disaccoppianti, liberando calore. Rispetto all’altro
tessuto adiposo, ovvero il bianco, il tessuto adiposo bruno disperde il 90% di energia in più per
termogenesi.

Esempi di disaccoppianti sono il 2,4-nitrofenolo, una molecola relativamente semplice, ed il FCCP, molecola
più complessa. Sono entrambe molecole di sintesi con effetti tossici.

INIBITORI DEL FLUSSO DI ELETTRONI NEI MITOCONDRI

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Oltre a questo fenomeno di disaccoppiamento all’interno della membrana mitocondriale vi sono inibitori.
Si tratta di complessi che inibiscono in maniera specifica uno dei passaggi. Ad esempio, il NAD ridotto
attraverso il complesso 1 diventa Q, poi citocromo ecc. Il composto rotenone inibisce il complesso 1 e ne
impedisce l’uso del NAD e del suo potere riducente, che non può essere scaricato rimanendo così bloccato
per azione tossica. Si può usare in alternativa il FAD perché non è bloccato il complesso 2, così non viene
completamente interrotto il flusso elettroni, ma parzialmente.
L’antimicina A blocca il complesso 2, impedisce dunque l’uso del FAD ridotto ma è possibile utilizzare il
NAD. Tramite l’uso di queste molecole si è capita l’esistenza di due porte d’ingresso.
Il cianuro o il monossido carbonio bloccano invece il quarto complesso ed in tal caso non si può usare
ossigeno, tutte le molecole rimangono ridotte, nessuna si ossida, non viene fatto uso né di FAD né di NAD
ridotto. Viene bloccata completamente la respirazione mitocondriale.
Il rotenone è una sostanza naturale, una molecola presente nelle piante e nota in antichità come veleno ed
è simile al colesterolo come conformazione. L’antimicina A è un antibiotico e inibisce l’ATPsintasi, mentre il
cianuro e il monossido di carbonio inibiscono il complesso quarto legandosi al ferro.
Il complesso quinto è costituito due parti, una aderente alla membrana ed una testa che ruota, dette
regione FO e F1 rispettivamente. F1 è la testa che ruota e genera ATP, mentre la parte incastrata nella
membrana viene detta FO perché lì agisce l’oligomicina. Blocca così questa parte del complesso ed il flusso
protonico ma non blocca quello di elettroni, non ha azione disaccoppiante ma agisce direttamente
sull’attività del complesso enzimatico e quindi sulla fosforilazione ossidativa.

CONTROLLO
RESPIRATORIO
Il processo della fosforilazione ossidativa da
cosa è controllato? Cosa induce questo
processo e come posso misurare un’induzione
di questo processo?
La misura del processo è il consumo di
ossigeno: più intensa è la fosforilazione
ossidativa, più ossigeno si consuma. La
fosforilazione ossidativa, però, può avvenire
solo ed esclusivamente se c’è substrato
respiratorio e ADP. Il substrato respiratorio è la

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molecola da cui posso ricavare il


potere riducente, può essere
qualunque molecola ossidabile da cui
si può ricavare NADH e FADH2, ad
esempio il succinato. Ma non è
sufficiente, è necessario avere anche
ADP, che assieme al fosfato
inorganico (Pi), diventerà ATP.

È stata presa una sospensione


mitocondriale in un tampone
fisiologico, un tampone fosfato: la
cellula è stata disgregata ma si è
riusciti ad ottenere mitocondri intatti,
perché per diverse ore rimangono
ancora vivi. In questa sospensione di
mitocondri ci sono degli elettrodi che
sono stati inseriti e dicono che a
tempo zero si ha una tale quantità di
ossigeno presente nella sospensione. Aggiungendo un substrato ossidabile molto gradito ai
mitocondri, il glutammato, c’è un certo livello di consumo di ossigeno; ma l’effetto più potente
avviene quando somministro l’ADP: l’ossigeno viene consumato rapidamente a causa della
ricarica dell’ADP in ATP. Questo consumo di ossigeno poi rallenta perché tutto l’ADP è diventato
ATP; aggiungendo di nuovo ADP il consumo di ossigeno riprende rapidamente, per poi rallentare
nuovamente quando l’ADP aggiunto diventerà ATP. Dunque il consumo di ossigeno, ovvero la
fosforilazione ossidativa, è indotto dall’ADP, ovvero dalla bassa carica energetica cellulare; il
controllo respiratorio è l’effetto dell’ADP e la velocità della respirazione mitocondriale dipende
direttamente dalla sua disponibilità, ovvero la carica energetica cellulare. Tutti i mitocondri
dipendono dall’omeostasi energetica, tendono a mantenersi a 0,8, e ciò significa che quando si
consuma poco ATP si fa poca fosforilazione ossidativa, si fanno poche vie cataboliche e si
demoliscono pochi substrati; se invece c’è bisogno di più ATP, per mantenere la stessa carica
energetica cellulare è necessario demolire più substrati e fare più fosforilazione ossidativa. L’ATP
viene formato solo alla velocità necessaria per ristabilire la concentrazione iniziale. Per
concludere, il controllo respiratorio è operato dalla carica energetica cellulare, quindi dalla
concentrazione di ADP e Pi presenti all’interno della cellula.

RESA ENERGETICA DEL METABOLISMO AEROBIO E


ANAEROBIO DEL GLUCOSIO
Prendendo in considerazione la glicolisi, se si trasforma una molecola di glucosio in due molecole
di piruvato si ottengono due NADH e due ATP (prodotti con fosforilazione a livello del substrato nel
citoplasma). Usando la conversione 1 NADH à 3 ATP, si ottengono in totale 2 ATP + 2x3 ATP = 8
ATP.
Il piruvato ottenuto dalla glicolisi entra nel mitocondrio, viene utilizzato da una decarbossilazione
ossidativa, catalizzata dalla piruvato-deidrogenasi e viene convertito in due molecole di Acetil CoA
e vengono rilasciate due molecole di CO2. Questo processo genera due NADH, uno per piruvato e
utilizzando la conversione precedente si ottengono 6 ATP.

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Ogni molecola di Acetil CoA viene utilizzata


dal ciclo di Krebs, che produce 4 CO2, dati
dalla trasformazione del glucosio, e
contemporaneamente genera anche 2 ATP
e 6 NADH. Sommando il tutto dopo averlo
convertito in ATP si ottengono 24 ATP.
Il totale di ATP prodotto con la glicolisi, la
piruvato-deidrogenasi e il ciclo di Krebs è 38
ATP. È un numero eccessivo a causa della
conversione utilizzata, ma è comunque
efficace nel mostrare la differenza di resa tra
metabolismo aerobio o anaerobio.
Utilizzando la stessa molecola di glucosio in
condizioni anaerobiche, quindi in assenza di
mitocondri, ci si ferma alla glicolisi e si
ottengono soltanto le due molecole di ATP
da essa prodotte, perché il potere riducente
del NADH genera ATP solo se funziona il
mitocondrio.
Il metabolismo aerobio, dunque, è molto conveniente per le cellule, perché la stessa molecola di
glucosio può arrivare a rendere fino a 19 volte l’energia prodotta dal metabolismo anaerobio.
Quindi le cellule che si sono attrezzate a usare l’ossigeno e a fare il metabolismo aerobio hanno
avuto a disposizione una quantità di energia talmente più grande che ha permesso loro di
sviluppare strutture più complesse.

Nella tabella qui a fianco è stata utilizzata la conversione 1 NADH à 2,5 ATP e 1 FADH2 à 1,5
ATP, che è più realistica, e la resa totale ammonta a 30-32 ATP.
Osservando questa tabella si può vedere che NADH può valere 3 o 5 ATP; per spiegare il motivo è
necessario riprendere il concetto di impermeabilità della membrana interna mitocondriale. Tutte le
molecole polari o con una carica netta a pH fisiologico non possono attraversare la membrana,
che conseguentemente ha moltissime proteine di trasporto che permettono il passaggio di
molecole specifiche. C’è un trasportatore specifico dei nucleotidi adeninici che trasferisce una
molecola di ADP dal citosol all’interno dei mitocondri esportando al contempo una molecola di
ATP; il Pi, invece, ha un suo trasportatore specifico che richiede una piccola quantità di energia,
ovvero un protone. La maggior parte dei NADH vengono prodotti nel mitocondrio ma alcuni sono
anche prodotti nel citoplasma e
l’origine di produzione fa la
differenza perché non esistono
trasportatori per NADH e FADH2
nella membrana interna
mitocondriale. Il potere riducente
ottenuto dal NADH nel citoplasma,
però, viene comunque sfruttato dal
mitocondrio in maniera indiretta: il
potere riducente viene trasferito a
una molecola, per il quale c’è il
trasportatore, che entra nel
mitocondrio, cede il potere
riducente ossidandosi e poi torna
fuori sfruttando lo stesso

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trasportatore. Questo viene denominato sistema di Shuttle (=navetta). Ci sono almeno due sistemi
a navetta, shuttle, che rendono possibile il trasferimento degli equivalenti potenziali riducenti che
hanno efficienza variabile, cioè che possono trasferire tutto il potere riducente o solo una parte: ad
esempio, lo shuttle del glicerofosfato è meno efficiente dello shuttle del malato-aspartato.
Prendiamo come esempio il glicerofosfato: nel citoplasma si è generato del NADH dalla glicolisi,
che non può oltrepassare la membrana mitocondriale. Il NADH allora si ossida e trasferisce il suo
potere riducente a una molecola, il diidrossiacetone fosfato, che diventa glicerolo-3-fosfato (il
doppio legame O è diventato CHOH, quindi il doppio legame si è caricato di potere riducente).
Nella membrana mitocondriale interna c’è un complesso enzimatico, la glicerolo-3-fosfato
deidrogenasi che riossida il glicerolo-3-fosfato, strappandogli potere riducente, e generando un
FADH2. Quindi il potere riducente di un NADH fuori dal mitocondrio è diventato il potere riducente
di un FADH2 dentro al mitocondrio, che verrà ceduto al Q e poi al complesso III. Questo potere
riducente non ha reso 2,5 ATP, ma 1,5 ATP, quindi questo meccanismo di trasferimento è meno
efficiente.
Il meccanismo di trasporto del malato-aspartato, invece, funziona diversamente: il potere riducente
di NADH viene scaricato su una molecola di ossalacetato che si riduce a malato. Per questa
molecola è previsto un trasportatore, e una volta oltrepassata la membrana mitocondriale interna
avviene una reazione diversa; il malato viene ossidato di nuovo in ossalacetato che consente di
scaricare il potere riducente di un NADH. C’è stata, dunque, una perfetta conservazione del potere
riducente, che rende appunto 2,5 ATP.
Per concludere, i NADH prodotti
dalla glicolisi nel citoplasma valgono
o 2,5 o 1,5 ATP in base al sistema
navetta utilizzato. Questi sistemi
shuttle, però, sono entrambi presenti
e attivi nelle stesse quantità ed è per
questo motivo che la tabella sopra
riportata indica che si generano da 3
a 5 molecole di ATP dalla glicolisi.

ANFIBOLISMO
Fino ad ora si è parlato di vie
metaboliche di tipo catabolico, ma il
metabolismo comprende sempre
due componenti: quella catabolica,
che demolisce e ossida; e quella
anabolica, che costruisce e riduce.
L’insieme di queste due componenti si chiama anfibolismo, infatti il nostro metabolismo dovrebbe
essere più propriamente chiamato anfibolismo, perché prevede sia la parte degradativa che la
parte biosintetica. La biosintesi, per definizione, è la costruzione di molecole più complesse a
partire da precursori più semplici utilizzando enzimi, quindi in modo biologico: ecco perché si parla
di biosintesi. Le biosintesi sono reazioni di tipo endoergonico e riduttivo perché prevedono la
formazione di legami. L’anabolismo è tanto importante quanto il catabolismo, perché permette la
sintesi proteica, la formazione dei fosfolipidi di membrana, la formazione del glicogeno, la
produzione dei neurotrasmettitori, e necessita substrati ossidabili da cui estrarre il potere riducente
che mette a disposizione l’energia chimica necessaria per spostare l’equilibrio di reazioni
endoergoniche verso destra. Alcune di queste reazioni possono essere di tipo riduttivo e dunque
hanno bisogno potere riducente direttamente spendibile, che può essere ottenuto da NADPH.
Questa molecola è presente in gran parte nel citoplasma, dove è presente la maggior parte delle
vie biosintetiche, a differenza del mitocondrio dove si trovano gran parte delle vie degradative, e

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Lezione n°21 del 30.05.2018
Sbobinatore: Cecilia Baraldi, Giulia Perina
Controllore: Carolina Tessitore
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Saverio Bettuzzi
Argomenti: Regolazione della fosforilazione ossidativa, accoppiamento, disaccoppiamento, inibitori del flusso
di elettroni nei mitocondri, controllo respiratorio, metabolismo aerobio e anaerobio del glucosio, anfibolismo,
difesa mitocondri dai ros, ipossia, DNA mitocondriale

dona direttamente il suo potere riducente ad una molecola “A” che si riduce per diventare una
molecola “B”.
LA DIFESA DEI MITOCONDRI DAI ROS
La membrana interna mitocondriale deve avere una superficie molto ampia, e maggiore è il
numero di creste, più il mitocondrio è metabolicamente attivo.
Il mitocondrio produce anche ROS, ovvero radicali dell’ossigeno e conseguentemente è attrezzato
a difendersi da questo processo fisiologico. Nella membrana mitocondriale interna, per effetto
anche di un’ossidoriduzione parziale del Coenzima Q si possono produrre radicali come ad
esempio O2•, OH•, H2O2. Ad esempio, l’acqua ossigenata con l’enzima ossido riduttasi, che è
molto abbondante nel mitocondrio, e poi viene catturata dall’enzima gluatatione perossidasi che è
in grado di riconvertirla in acqua, bloccando gli effetti deleteri, ma per funzionare questo enzima ha
bisogno di potere riducente. Il potere riducente viene conferito da un nucleotide che si chiama
glutatione (GSH) che è formato da tre amminoacidi, e quello centrale presenta il gruppo SH (in
forma ridotta). Quando la glutatione perossidasi smonta l’acqua ossigenata, consuma il potere
riducente del glutatione, il quale si ossida: due glutationi con il gruppo tiolico ridotto quando si
ossidano si legano assieme dando origine a un ponte disolfuro (GSSG). Il GSH è dunque ciò che
serve per tamponare i ROS, ma quando il glutatione è tutto ossidato non c’è più potere riducente
disponibile per bloccare l’attività ossidante dei ROS. Nella cellula allora è presente la glutatione
ossidasi che può prendere la forma ossidata e rigenerarla in forma ridotta, ma per fare questa
operazione serve potere riducente che deriva da NADPH. Questa molecola viene prodotta dentro
e fuori dal mitocondrio e il suo potere riducente può essere direttamente ceduto alla glutatione
perossidasi per mantenere ridotto il glutatione che così è in grado di tamponare i ROS in qualsiasi
momento. Il NADPH viene
prodotto da una via
metabolica che è
alimentata dal glucosio; il
glucosio è infatti una delle
sostanze più antiossidanti
che noi possediamo. I
carboidrati, infatti,
permettono di alimentare
una via metabolica, la
Shunt del pentoso fosfato,
che funziona a glucosio e
che produce NADPH: i
carboidrati sono, dunque,
fondamentali per difendersi
dallo stress ossidativo che
provoca danni molto gravi.
Infatti se un enzima con
gruppi SH viene colpito dallo stress ossidativo, si formano ponti disolfuro in posizioni errate,
alterando completamente la struttura dell’enzima e rendendolo inattivo, come si può vedere
nell’immagine qui a fianco. Lo stress ossidativo può colpire proteine nella formazione dei ponti
disolfuro; può colpire i fosfolipidi di membrana staccando l’acido grasso del fosfolipide; può
attaccare il DNA alterando la sua struttura.

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Materia: Biochimica
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Argomenti: Regolazione della fosforilazione ossidativa, accoppiamento, disaccoppiamento, inibitori del flusso
di elettroni nei mitocondri, controllo respiratorio, metabolismo aerobio e anaerobio del glucosio, anfibolismo,
difesa mitocondri dai ros, ipossia, DNA mitocondriale

IPOSSIA
L’ipossia è un altro grave danno che si verifica nei tessuti quando scarseggia l’ossigeno. I danni
non sono soltanto causati dalla scarsa produzione di ATP, però. I tessuti sono in grado di rilevare
la quantità di ossigeno periferica, che quando si riduce, e aumenta l’ipossia, viene indotto HIF-1,
come si vede nell’immagine sottostante.

Quest’ultimo è un fattore di trascrizione che aumenta l’espressione di altri geni tra cui i trasportatori
del glucosio, gli enzimi della via glicolitica, la lattato deidrogenasi ecc… grazie alla presenza di un
promotore in grado di sentire l’aumento di ipossia. Tutti questi enzimi vengono indotti e il risultato
finale è il potenziamento del ciclo di Krebs. Inoltre HIF-1 provoca uno scambio, una modifica
all’interno del complesso IV. In questo complesso c’è una sub unità proteica chiamata COX4-1 che
per effetto dell’HIf-1 viene degradata da una proteasi e sostituita a COX4-2, cambiando la struttura
del processo. L’ipossia provoca questo cambiamento del complesso IV che si adatta al suo
funzionamento a basse concentrazioni di ossigeno.
È anche importante notare che la velocità della catena respiratoria si adatta alla quantità di
ossigeno; se calasse la quantità di ossigeno e la catena continuasse a lavorare alla stessa
velocità, inesorabilmente non tornerebbe la stechiometria e si produrrebbero più ROS. Bisogna
dunque ridurre la velocità della catena respiratoria, adattandola alla quantità di ossigeno
effettivamente presente, per ridurre la produzione dei ROS.

Da non confondere con HIF-1, è presente anche IF-1, ovvero l’inibitore di F1, la testa del
complesso V. Se non arriva più ossigeno il complesso V diventa un’ATP-asi che degrada l’ATP; in
queste condizioni viene prodotta IF-1, una proteina che impedisce alle de teste F1 di ruotare, che
impedisce la degradazione l’ATP presente per evitare che ci sia un azzeramento immediato della
quantità di ATP a causa dell’ipossia.

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di elettroni nei mitocondri, controllo respiratorio, metabolismo aerobio e anaerobio del glucosio, anfibolismo,
difesa mitocondri dai ros, ipossia, DNA mitocondriale

DNA MITOCONDRIALE
Il mitocondrio possiede un proprio DNA, mtDNA, che ha una forma simile al DNA batterico, è un
plasmide perché è circolare. Nella figura sottostante si osserva la rappresentazione del mtDNA,
dove oltre alla struttura sono presenti colori diversi che si riferiscono alla mappatura di geni diversi.
Il mitocondrio ha dunque i suoi geni, i suoi ribosomi procariotici, la sua sintesi proteica, e alcune
proteine possono essere dei
trasportatori di membrana o possono far
parte dei complessi della catena
respiratoria. Anche questo DNA sono
soggetti a mutazioni, come la neuropatia
ottica ereditaria di Leber (LOHN) e
l’epilessia miotonica (MERRF) che
vengono provocate da mutazioni sul
mtDNA, e che però non si trasmettono
per regole mendeliane, ma per via
materna perché i mitocondri vengono
donati dall’oocita. I mitocondri di soggetti
affetti da queste mutazioni sono
anomali, completamente alterati e non
funzionano, generando grossi problemi
all’interno dell’organismo.
Per dimostrare la dipendenza del mitocondrio dalla cellula, e viceversa, osserviamo da quale DNA
sono codificate le proteine che compongono i vari complessi.
Il complesso I è costituito da circa 30 proteine, di cui 7 sono codificate dall’mtDNA e le altre dal
DNA nucleare. Quindi per fare il complesso I mi servono entrambi i DNA, e questo vale anche per
tutti gli altri complessi ad eccezione del secondo.
Il complesso II, infatti, ha soltanto 4 sub unità che sono codificate dal nucleo; ma il complesso III
ne ha una fatta dal mitocondrio e 9 dal nucleo, il complesso IV ne ha 3 dal mitocondrio e 13 dal
nucleo e il complesso V ne ha 2 dal mitocondrio e 12 dal nucleo. In conclusione, nessuno di questi
complessi può essere prodotto
esclusivamente dal mitocondrio, e
neanche dal nucleo: il mitocondrio
dipende dal nucleo cellulare e diverse
anche per ragioni genetiche. Il
mitocondrio e il nucleo della cellula non
possono vivere l’uno
indipendentemente dall’altro perché
non sarebbe possibile la ricostruzione
delle strutture per formare i vari
complessi. Questo vale anche per i
trasportatori di membrana: alcuni
trasportatori sono prodotti dal
mitocondrio, o alcune catene proteiche; altre invece dal nucleo cellulare. C’è dunque una stretta
dipendenza tra il DNA nucleare e l’mtDNA (DNA mitocondriale), perché i due patrimoni genetici si
integrano.

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Controllori: Zangue Maxwell
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Federica Maria Angela Rizzi
Argomenti: le vitamine liposolubili, la vitaminaA

LE VITAMINE

Le vitamine sono sostanze azotate necessarie alla vita. Sono fattori nutrizionali, composti che
introduciamo nell’organismo tramite la dieta.
Si dividono in due grossi blocchi:

• Vitamine liposolubili: si trovano prevalentemente nella frazione lipidica degli alimenti (


da cui si possono estrarre tramite l’utilizzo di solventi organici).

• Vitamine idrosolubili: associate alla frazione idrofilica degli alimenti (da cui si possono
estrarre tramite l’utilizzo di solventi polari). Sono caratterizzate da una formula di struttura
che presenta molti atomi polari che ne consentono l’iterazione con le molecole d’acqua.

Esiste un’enorme differenza tra queste due classi di vitamine: le vitamine idrosolubili presentano
caratteristiche molto simili tra loro, svolgono prevalentemente attività di cofattori e coenzimi e
devono essere introdotte nell’organismo necessariamente con la dieta.
Le vitamine liposolubili per le loro funzioni a livello del metabolismo umano possono essere
paragonate agli ormoni, la loro introduzione nell’organismo può avvenire con la dieta ma anche
tramite innumerevoli vie biosintetiche, infatti rappresentano un sottogruppo molto particolare delle
vitamine. Fondamentalmente sono sostanze grasse accomunate dalle stesse modalità di
assorbimento e di veicolazione ai vari organi. Hanno la caratteristica di poter essere accumulate
nel nostro organismo e talvolta il loro iperconsumo risulta correlato a diversi eventi di tossicità.
Essendo sostanze di natura lipidica, per il loro utilizzo è necessaria l’attività dei sali biliari che le
emulsionano rendendole assorbibili da parte dell’intestino. Da qua raggiungono il sangue, dove
vengono legate a proteine di trasporto generiche, come ad esempio l’albumina (la principale
proteina presente nel siero) che veicola in modo specifico molte sostanze tra cui i lipidi, oppure
possono essere legate dai carrier, trasportatori solubili altamente specifici per ogni singola

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Argomenti: le vitamine liposolubili, la vitaminaA

vitamina. Ad esempio la vitamina D in parte si lega all’albumina, ma si lega con una più elevata
specificità alla vitamin D binding protein, il trasportatore naturale della vitamina D.
È a livello del fegato che le vitamine liposolubili vengono smistate e indirizzate verso i vari distretti
cellulari:
alcune resteranno a livello della frazione grassa del fegato, altre costituiranno una miniriserva del
tessuto adiposo o delle membrane cellulari. Gli eccessi che non potranno essere assorbiti
verranno espulsi con le feci in seguito al transito intestinale.
Questa capacità di essere immagazzinate le distingue molto dalle vitamine idrosolubili, i quali
eccessi invece vengono espulsi a livello renale tramite la secrezione di urine.

LE VITAMINE LIPOSOLUBILI:

Le vitamine liposolubili sono tutte caratterizzate da una struttura lipidica. Si generano a partire da
precursori molto semplici. Uno di questi precursori è rappresentato dall’ Acetil-coenzima A, un
intermedio del metabolismo energetico che viene trasformato attraverso reazioni metaboliche in
molecole più complesse come ad esempio l’isoprene, formato dalla condensazione di più molecole
di Acetil-CoA, a sua volta precursore del ∆-3-isopentenil pirofosfato, intermedio della sintesi
endogena del colesterolo da cui possono derivare: gli ormoni steroidei, la vitamina D e gli acidi
biliari.
Quindi molte di queste vitamine liposolubili sono molecole che si trovano sulla stessa via delle
sintesi che portano alla produzione di steroidi e isoprenoidi.
Dal ∆-3-isopentenil pirofosfato possiamo ottenere anche la vitamina E e la vitamina K.

Appartengono a questa categoria 4 vitamine: Vitamina A, Vitamina D,Vitamina E ,Vitamina K.

• Vitamina A: utilizzata in tutte le sintesi che portano alla produzione di mucopolisaccaridi e


liposaccardi che vanno a comporre le sostanze mucose, mucillaginose e i film protettivi
della nostra epidermide. Inoltre, è implicata nel meccanismo di percezione dello stimolo
luminoso che si compie nelle cellule fotosensibili della retina.

• Vitamina D: implicata nei processi di mineralizzazione ossea e in tutti quei meccanismi che
portano all’omeostasi del Calcio e del Fosfato.

• Vitamina K: implicata nei processi di generazione e di mantenimento della corretta sintesi


e attività dei fattori di coagulazione.

• Vitamina E: è un potentissimo antiossidante posto a difesa delle membrane cellulari


(soprattutto degli eritrociti che, occupandosi del trasporto dell’ossigeno, sono le cellule più
esposte allo stress ossidativo) proteggendo le cellule dalle specie reattive dell’ossigeno.

LA VITAMINA A:

Parlando di vitamina A si intendono due molecole: vitamina A1 (retinolo) e vitamina A2


(deidroretinolo), strettamente correlate sia strutturalmente che funzionalmente.

Un derivato della vitamina A è Il retinale, derivato aldeidico ottenuto dall’ossidazione del retinolo
(un’ alcolvitamina).
Il retinale partecipa all’insieme di reazioni che portano alla trasduzione del segnale fotonico in
segnale elettrico che è in grado di viaggiare lungo il nervo ottico che arriva ai centri di
organizzazione superiori per la rielaborazione delle immagini.

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Un’ulteriore ossidazione del retinale porta alla formazione dell’acido retinoico, che non è una
vitamina ma è dotato di attività biologica.

L’acido retinoico si comporta come un ormone, è in grado di raggiungere le cellule bersaglio


tramite il torrente circolatorio e legarsi a uno specifico recettore scatenando una risposta di
trasduzione del segnale che accende/spegne alcune funzioni cellulari. In particolare, va a
condizionare la regolazione dell’espressione di geni coinvolti nel differenziamento cellulare.

Fonti alimentari e fabbisogno:

Retinolo e deidroretinolo si trovano, tra gli alimenti che consumiamo più frequentemente, nel
tuorlo, nel latte intero, nel burro e in altri derivati del latte molto grassi.
Però, la fonte più ricca di questa vitamina è rappresentata dal fegato di animali marini che vivono
in mari freddi, che non fa parte dell’alimentazione tradizionale italiana.
Per quanto riguarda il fabbisogno giornaliero è possibile trovarlo nelle tabelle LARN, stilate
dall’associazione italiana di nutrizione umana, che periodicamente vengono aggiornate. I livelli di
assunzione si basano sul fabbisogno della popolazione, tenendo conto delle abitudini alimentari
caratteristiche di questa.
Il fabbisogno per un adulto italiano è di 600/700 µg/die. Per la popolazione italiana diventa
particolarmente importante l’apporto di questa vitamina nella dieta attraverso dei precursori
chiamati carotenoidi (di cui il precursore più nobile è rappresentato dal β-carotene), pigmenti
vegetali contenuti nelle verdure e nella frutta, alimenti tradizionali dell’alimentazione mediterranea.
Il β-carotene essendo un pigmento giallo/rosso si trova in alimenti come:
carote,pomodori,albicocche,melone giallo ecc…

Essendo un precursore signfica che dev’essere metabolizzato nel nostro organismo in retinolo.

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Argomenti: le vitamine liposolubili, la vitaminaA

Il β-carotene è una molecola simmetrica da cui deriviamo il retinolo (alcol) per ossidazione, un
ulteriore ossidazione porta alla formazione del retinale (aldeide) e un’ultima ossidazione porta alla
formazione dell’acido retinoico, importante per il differenziamento delle cellule epiteliali. Invece il
retinale è importante per la trasduzione del segnale portato dal fotone.

Per stabilire la quantità di retinale,retinolo e β-carotene (strettamente correlati) che bisogna


assumere, i nutrizionisti hanno provveduto alla creazione di un’unità di misura unificante chiamata
retinolo equivalenza. Quindi i livelli di assunzione di vitamina A vengono espressi in RAE (Retinol
Activity Equivalent):

1 retinolo equivalente (1 RAE) = 1 µg di retinolo = 6 µg di β-carotene = 12 µg di altri caroteni

Questo significa che se assumiamo qualche grammo del fegato di pesce di mare troveremo molto
retinolo quindi basteranno pochi grammi di quell’alimento. Se mangiamo una carota, non troviamo
il retinolo ma i β-carotenoidi quindi ne dovremmo mangiare almeno 6 volte di più (data
l’equivalenza) rispetto al fegato di pesce.
Se l’alimento contiene carotenoidi meno noti (quali α e γ-carotenoidi) ne dovremmo mangiare
ancora di più per avere l’equivalenza del livello di assunzione.

Una volta introdotto e digerito l’alimento, le diverse forme vitaminiche o provitaminiche vengono
assorbite, trasformate tutte in retinolo e esterificate a livello della mucosa intestinale, soprattutto
come esteri del palmitato. Questi poi passano dall’intestino al torrente circolatorio che le trasporta
al fegato dove possono essere immagazzinate (nel caso in cui non ci sia la necessità di utilizzarle)
o reimmesse in circolo (mettendole a disposizione delle cellule).
Nel sangue il retinolo viene trasportato legato alla sua proteina di trasporto chiamata Retinol
Binding Protein, un carrier che porta la vitamina alle cellule. In prossimità delle cellule il retinolo si
dissocia dal carrier e aggancia la cellula nella quale deve svolgere la sua attività e viene a questo
punto rilasciata. Nel citoplasma i livelli di retinolo sono regolati e mantenuti a livelli costanti
maggiori di 20 µg/dl di sangue. Quando si raggiungono livelli inferiori ai di 20 µg/dl significa che
abbiamo esaurito le scorte e che la nostra alimentazione non ci consente di arrivare al corretto
livello di assunzione giornaliero di questa vitamina e di conseguenza siamo a rischio di carenza.

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Facendo le proporzioni con i RAE, un adulto necessita al giorno di 600/700 RAE, i bambini invece
necessitano di 350 RAE. Il primo anno di vita molti organismi della sanità raccomandano
l’alimentazione al seno, per cui questi 350 RAE passano dalla madre al bambino attraverso il latte
materno, vuol dire che è altrettanto raccomandato che la mamma che allatta aumenti il fabbisogno
giornaliero dei 350 RAE, questo non dev’essere fatto con un’integrazione farmacologica ma
semplicemente curando l’alimentazione e aumentando il consumo di frutta e verdura.
Può essere raccomandato un aumento di 100 RAE nella gestante in quanto questa li passa
attraverso la placenta, sempre tramite un aumento della quota di frutta e verdura.

Meccanismi funzionali:

Parliamo adesso del retinale, il derivato ossidato del retinolo, implicato nella percezione della luce
intesa come fotone che colpisce la retina.
Ci dobbiamo riferire a una struttura altamente specializzata dell’occhio in cui si ritrovano ad essere
interconnessi tipi di cellule molto diversi. Tra questi ci sono le cellule fotosensibili, cellule in grado
di percepire il fotone e reagire a questo attraverso una variazione del potenziale di membrana.
Queste cellule sono i bastoncelli e i coni, che prendono contatto sinaptico con i neuroni
interconnessi che a loro volta sono interconnessi con i neuroni gangliari e del nervo ottico.
Quindi il segnale luminoso, attraverso l’interposizione di cellule fotosensibili, viene trasformato in
una variazione di potenziale di membrana (segnale elettrico) che viaggia attraverso i neuroni
interconnessi fino ai neuroni gangliari e del nervo ottico che raggiungono i centri di organizzazione
superiori
Coni e Bastoncelli da un punto di vista morfologico sono cellule molto diverse tra loro, il cui nome è
legato alla loro morfologia. I bastoncelli sono allungati, i coni hanno invece una forma coniforme.
In entrambe le cellule possiamo distinguere un segmento esterno costituito da sezioni nelle quali
troviamo formazioni particolari della membrana cellulare. Nel caso del cono sono plurinvaginazioni
della membrana plasmatica, nel caso del bastoncello hanno dato origine a dischi flottanti, frazioni
di membrana all’interno del citoplasma che si impilano uno sull’altro nel segmento esterno; per cui
tra i dischi (con una composizione analoga a quella della membrana e quindi formati da un doppio
strato fosfolipidico) si interpone il citosol. Oltre al segmento esterno, presentano un segmento
interno in gran parte occupato dal nucleo e dai mitocondri, necessari per la produzione di ATP
necessario per tenere in perfetto funzionamento delle pompe di scambio ionico presenti sulla
membrana, che servono per mantenere la polarità della membrana e per farla eventualmente
tornare al suo stato di polarizzazione dopo le reazioni di depolarizzazione. Un’altra struttura
comune a coni e bastoncelli è rappresentata dal terminale sinaptico, che le accomuna molto alle
cellule nervose e le consente di comunicare con esse.

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I coni sono coinvolti nel meccanismo di percezione della luce ad alta intensità, che è quella che ci
permette di vedere a colori.
I bastoncelli sono coinvolti nel meccanismo di percezione della luce a basse intensità (proprie della
luce corpuscolare) e nella formazione di immagini in bianco e nero. Contengono un solo pigmento
chiamato rodopsina che ci permette di vedere in bianco e nero, presente in elevata quantità,
permette di catturare molti fotoni e di amplificare il segnale luminoso di bassa intensità. Poiché li
amplificano, vengono definiti un sistema convergente, specializzato a percepire piccole intensità
luminose ma con una bassa capacità di risoluzione delle immagini e di risoluzione temporale, ciò
significa che per amplificare il segnale fotonico si comportano come un fotomoltiplicatore,
accumulando il segnale proveniente da vari fotoni e di conseguenza rallentando la risposta.
Pertanto sommano l’effetto di fotoni che arrivano alla retina nell’ambito di circa 100 millisecondi.
Ci sono diversi milioni di bastoncelli nella retina. I coni invece non sono distribuiti in tutta la retina
come i bastoncelli, ma si trovano localizzati all’interno della fovea che è un punto localizzato nella
retina nella quale si forma l’immagine ad alta risoluzione, qui c’è la minima distorsione spaziale
dell’immagine. Sono in grado di percepire 3 diversi colori fondamentali quali il blu, rosso e verde
perché possiedono 3 diversi pigmenti. Anche se il verde in realtà non è un colore fondamentale
(ottenuto da giallo + blu) l’ottica di classificazione dei colori per la formazione dell’immagine dell a
nostra retina è di tipo RGB (red, green, blue) come quello dei monitor. Questa percezione di tre
diversi colori è dovuta al fatto che i coni possiedono 3 diversi pigmenti visivi (opsine), al contrario
dei bastoncelli che invece possiedono solo la rodopsina.
Il sistema dei coni ci permette di percepire immagini quando abbiamo intensità luminose elevate,
abbiamo un’ottima risoluzione spaziale e una migliore risoluzione temporale dell’immagine, questo
vuol dire che la risposta elettrica somma meno fotoni per generarsi, quindi meno dei 100
millisecondi dei bastoncelli. Abbiamo circa 3 milioni di coni nella retina.

Si ricordano inoltre il retinale e le opsine.

Il retinale, che ci può essere in forma cis e lo chiamiamo cis-retinale o in forma trans e lo
chiamiamo trans-retinale, sarà la nostra leva molecolare che ci permetterà di trasferire il segnale
del fotone facendolo diventare un segnale di depolarizzazione della membrana.

Il cis-retinale è legato alla rodopsina nei bastoncelli costituendo il sistema dei fotorecettori per la
percezione delle immagini in bianco e nero. Il cis-retinale sarà legato a 3 opsine: la porfiropsina, la
iodospina la cianopsina per la percezione dell’immagine a colori attraverso il sistema dei coni.

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Argomenti: le vitamine liposolubili, la vitaminaA

Il retinale in forma cis si lega alle opsine, che sono contenute nelle cellule fotosensibili; le opsine
sono in tutto 4: 1 per la percezione in bianco e nero tre per la percezione a colori. Perché le opsine
ci permettono di discriminare la luce, e luci di particolari lunghezze d’onda?
La luce che noi percepiamo e uno spettro elettromagnetico continuo, nel quale, al variare della
lunghezza d’onda che noi prendiamo in considerazione, abbiamo uno specifico colore. Nel suo
insieme tutto lo spettro luminoso ci dà una luce bianca. Quando questa luce viene ad interfacciarsi
con sostanze in grado di assorbire una parte dello spettro, percepiamo un colore in particolare
(quello che non è stato assorbito dalla sostanza che ha interagito con la luce).
Vediamo il rosso perché quella sostanza ha assorbito il suo complementare, che è il blu.

Le opsine sono filtri molecolari, sono proteine che grazie alla loro struttura, ovvero alla loro
composizione amminoacidica, ci permettono di assorbire componenti specifiche dello spettro della
radiazione elettromagnetica.
Ci sono patologie del rosso e del verde, ossia daltonismi, legate a mutazioni delle opsine. Ci sono
soggetti che nascono senza l’opsina che percepisce il verde, altri senza quella che percepisce il
rosso. Non c’è un unico daltonismo, quindi, ma ce ne sono di diversi tipi, a seconda delle opsine
che subiscono la mutazione.

L’enzima che converte il retinolo in retinale è la retinolo deidrogenasi, che troviamo nel fegato e
nella retina. Questo enzima catalizza una reazione di ossidoriduzione: abbiamo il retinolo che
viene ossidato a retinale grazie a un trasportatore di elettroni, il NAD (derivato dalla vitamina
niacina), che estrae elettroni e protoni dal retinolo per ossidarlo a retinale, mentre lo stesso NAD
passa dalla forma NAD ossidata alla forma ridotta: NADH + H+, che ha caricato su di sé gli
elettroni che prima erano sul retinolo.

Un altro enzima importante di cui dobbiamo parlare è quello che si occupa della isomerizzazione
del retinale.

L’enzima che piò convertire il tutto trans retinale in 11 cis è la retinale isomerasi.
Quando un fotone colpisce la retina, viene percepita da questa molecola che risponde all'incontro
del fotone, che è una particella carica di energia, isomerizzandosi in retinale tutto trans; quel
legame viene rotto e si forma un’isomeria diversa. È un processo che richiede tanta energia,
presente nei fotoni della luce. Dal punto di vista sterico è una reazione estremamente impattante,
perché cambia molto l’ingombro della molecola da quando è 11 cis, ripiegata su sé stessa, rispetto
a quando è tutta stesa. Questa variazione di conformazione può essere percepita dalle molecole
che prendono contatto col retinale, e che quindi a loro volta cambieranno conformazione, andando
a portare il messaggio del fotone via via alle altre strutture, implicate in questo complesso
processo di trasduzione del segnale.
L’isomerizzazione δ 11 cis/tutto trans retinale è un processo molecolare che permette di
amplificare l’effetto del fotone, e per questo lo chiamiamo leva (le leve permettono di amplificare la
forza pe effetto del braccio); in questo caso la nostra leva è questa piccola molecola δ 11 cis
retinale, che è un derivato del tutto trans retinale, che deriva a sua volta dalla vitamina A una volta
raggiunto trasformazione retinale tutto trans la percezione luminosa viene innescata e potremo
ritornare da retinale tutto trans a δ 11 cis, di nuovo, attraverso una reazione caratterizzata dalla
retinale isomerasi. Quindi possiamo costituire un ciclo tra tutto trans e δ 11 cis, permettendo di
ritornare a una situazione eccitabile dal fotone.

In forma δ 11cis il retinale è legato ad un’opsina; l’opsina è una proteina che contiene lisine nella
sua struttura. Le lisine terminano con un NH2, il quale reagisce col CHO, terminale aldeidico del
retinale, per formare un legame aldo-imminico, legame covalente molto forte, con l 11 cis retinale.
In una situazione di riposo nel cono o nel bastoncello troviamo le opsine legate al retinale δ11 cis.

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Lezione n°22 del 31.05.2018
Sbobinatori: Madau Michela, Razzoli Nadine
Controllori: Zangue Maxwell
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Federica Maria Angela Rizzi
Argomenti: le vitamine liposolubili, la vitaminaA

Quando arriva il fotone, esso scatena delle reazioni velocissime, altamente energetiche (reazioni
foto-innescate di rapida interconversione); questa energia è tale da rompe il legame tra opsina e
retinale e rompere e riformare in forma tutto trans il legame delta 11. L’elettrone, quando arriva
trasforma l’opsina, da, legata all’1 cis, a opsina libera, che chiamiamo opsina sbiancata e il retinale
in tutto trans retinale. Tutto ciò avviene nei dischi intermembranosi.
Nel bilayer fosfolipidico troviamo la rodopsina (proteina integrale di membrana) saldamente legata
all’ δ 11 cis retinale (disposto circa parallelamente alle teste dei fosfolipidi). Nel lato citosolico è
presente un’altra proteina voluminosa, trimerica, costituita da tre subunità, α, β, γ: la trasducina.
Essa prende contato sia con la membrana che con la rodopsina.
La trasducina e una proteina g trimerica che serve per trasdurrre il segnale all’ interno della cellula.
È una proteina g (in grado di legare i nucleotidi della guaina); la subunità alfa è catalitica e può
legare GDP o GTP. Quando lega GDP si trova in uno stato non energizzato di riposo; quando
arriva il fotone il cambio di conformazione della rodopsina genera un cambio di conformazione
della subunità α, la quale rilascia GDP e lega il GTP energizzandosi. Questo è reso possibile
anche dal cambio di conformazione del retinale, che fa cambiare conformazione alla rodopsina e
di conseguenza anche alla trasducina.
La subunità alfa energizzata scorre lungo membrana del disco e va agganciare un a proteina
inibitrice della fosfodiesterasi. Essa va a catalizzare la reazione di scissione della guanisina
monofosfato ciclico, in guanosina monofosfotato.
Questa attività enzimatica andrà a ridurre la quantità di GMP ciclico nella cellula fotosensibile.
Esso e il secondo messaggero nonché molecola che mantiene aperti canali di membrana sodio
calci attraverso i quali nel cono o nel bastoncello entra sodio e calcio secondo gradiente. Il sodio
viene poi buttato fuori attraverso una pompa. Quando la concentrazione di GMP ciclico viene ad
essere ridotta, il canale dipendente da GMP ciclico si chiude e genera quindi una riduzione della
concentrazione di calcio cellulare, poiché il calcio, continuerà ad essere buttato fuori, mentre il
sodio entra. Tutto ciò genera una variazione del potenziale di membrana il quale diventerà un
segnale elettrico, un potenziale d’azione che sarà trasmesso alle cellule nervose. Tutta questa
fase prende il nome di fase di eccitazione della fotocellula cono o bastoncello. Essa inizia con la
percezione di un fotone, e termina con una variazione di potenziale di membrana.

Oltre alla fase di eccitazione esiste anche la fase di recupero o adattamento, necessaria per far sì
che la cellula fotosensibile ritorni capace di percepire un secondo segnale luminoso. Se non si
compie questa fase, la cellula rimarrà in uno stato refrattario. Nel recupero possiamo instaurare dei
percorsi molecolari che ci portano a riottenere l’associazione dell’opsina al δ 11-cis retinale.
Cosa innesca la fase di recupero? Lo stesso segnale che ha innescato la depolarizzazione della
membrana, ovvero il calcio, innesca fase di recupero. Ci siamo lasciati con una fosfodiesterasi
attiva che scindendo l’GMP ciclico chiude il canale del calcio causando una riduzione di calcio
intracellulare, la quale attiva la depolarizzazione della membrana. Questa concentrazione di calcio
continuerà a scendere fino a raggiungere un livello soglia minimo che porterà ad attivare la fase di
recupero. La fase di recupero parte con l’attivazione di un enzima, la guanilato ciclasi, la quale
prende GTP e lo trasforma in GMP ciclico, riportando i valori intracellulari di GMP ciclico alla
normalità; i canali del calcio verranno aperti, le concentrazioni di ioni e i potenziali di membrana
torneranno ai loro valori normali.

Un’altra parte della fase di recupero riguarda la rodopsina.


La rodopsina sbiancata viene ad essere modificata da una proteina, la rodopsina chinasi che la
fosforila su alcuni amminoacidi della coda. Alla rodopsina così fosforilata si aggancia una seconda
proteina, la recoverina, la quale a sua volta attiverà l’arrestina. Recoverina e arrestina, iniseme,
porteranno al recupero della forma iniziale dell’opsina. Inoltre, la retinale isomerasi andrà a
modificare il tutto trans retinale in δ11cis retinale. La rodopsina recuperata dalla recoverina e
dall’arrestina e il δ 11 cis retinale si potranno così di nuovo unire, ritornando alla forma della opsina
legata all’11 cis retinale in stato di riposo. La fase di recupero è così terminata, e potrà partire poi

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nuovamente una nuova fase di eccitazione. Questa fase chiude il ciclo delle funzioni di eccitazione
e recupero all’interno di una cellula fotosensibile.

Un dubbio che potrebbe sorgere è che, se l’adenilato ciclasi e la fosfodiesterasi lavorano


contemporaneamente, e una si oppone al lavoro dell’altra, come si arriva al dunque? In realtà la
fofodiesterasi ha un’attività sua GTPasica intrinseca. Essa nella fase di eccitazione viene attivata
dal fatto che la trasducina legava il suo inibitore. Ma questa attivazione non è per sempre, ma solo
per alcuni secondi, perché questa molecola ha un suo timer interno di auto inattivazione, che
passa attraverso la scissione di GTP. Una volta auto inattivata viene ad essere di nuovo legata
dall’inibitore. Quindi nella fase di recupero avremo l’adenilato ciclasi che funziona, e la
fosfodiesterasi che è in riposo funzionale.

RUOLO BIOLOGICO DELLA VITAMINA A

La Vitamina A è necessaria per la sintesi di glicoproteine, glicolipidi e mucopolisaccaridi che sono


componenti del muco protettivo delle nostre mucose, interne ed esterne. Inoltre glicolipidi e
glicoproteine partecipano alla formazione del film protettivo della nostra epidermide.
Se abbiamo carenza di vitamina A andiamo a compromettere il funzionamento delle nostre
mucose, la produzione di muco e l’impianto idrolipidico dell’epidermide. ha anche funzioni
antiossidanti perché sulla catena isoprinoide riesce a stabilizzare, legandoli ai doppi legami, i
radicali perossidici ROO con un elettrone spaiato (specie reattive). La vitamina A quindi inattiva i
radicali perossidici legandoli alla sua catena. La vitamina A è inoltre uno dei contatori richiesti per
la sintesi di transferrina, coinvolta nel trasporto del ferro. Se manca vitamina A quindi, possiamo
sviluppare difetti alla visione, alle mucose, all’ epidermide, essere più esposti all’ attività ossidante
ed infine presentare anemia.
Un segno di carenza della vitamina A particolarmente percepibile è un’alterazione della visione a
bassa intensità luminose. È una cecità notturna che prende il nome di emeralopia, che si esaspera
al crepuscolo.
Ci possono essere problemi legati all’ elasticità e lucidità della cornea, poiché in carenza di
vitamina A l’occhio diventa secco, in quanto viene ad essere alterato il liquido prodotto per
mantenere sempre umidificato l’occhio. In caso di carenze molto gravi ci possono essere vere e
proprie ulcerazioni della congiuntiva e della cornea che causano danni permanenti fino alla cecità.
Popolazioni denutrite dell’Africa possono andare incontro a cecità.
Possiamo avere inoltre segni di secchezza e cheratinizzazione della cute con una manifestazione
che chiamiamo pelle d’ anatra con follicoli in rilievo, pelle secca e disidratata, più soggetta a
formazione di ulcere.
La scarsa produzione di mucopolisaccaridi che proteggono le mucose espone a fenomeni infettivi
e infiammatori delle mucose fino a giungere a epatomegalia (ingrossamento del fegato).
Carenza di vitamina A può causare anemia, non associata a carenza di ferro (quindi non
sideropenica), ma a ridotta produzione di transferrina, la quale però può dare sintomi molto simili a
quelli dell’anemia sideropenica.
La vitamina A e spesso uno dei componenti di integratori alimentari venduti senza prescrizione
medica. Le proteine liposolubili si accumulano, e quindi possono presentarsi profili di tossicità
acuta o cronica. Attraverso una mala assunzione di vitamina A, o assunzione prolungata di essa,
si può arrivare a sintomi di tossicità. Rapporti superiori di 300 mg di vitamina provocano
intossicazione acuta con nausea, giramenti di testa e iperpigmentazione della pelle.

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Argomenti: vitamine D, E, K
VITAMINA D
La vitamina D è un’altra delle vitamine liposolubili.
In realtà, con il nome di “vitamina D” si identificano due forme: la vitamina D3 che è il colecalciferolo, e
la vitamina D2 che è l’ergocalciferolo. Le due vitamine differiscono per una piccola variazione nella
struttura, la quale però è irrilevante per la loro attività; la grande differenza è riposta nella distribuzione
negli alimenti: il colecalciferolo è, infatti, un derivato del colesterolo, in particolare del 7-deidrocolesterolo,
e come tale la si ritrova solo negli alimenti di origine animale. L’ergocalciferolo è l’analogo che si ritrova
negli alimenti di origine vegetale, essendo un derivato dei fitosteroli.

Le forme vitaminiche che si ritrovano negli alimenti sono di per sé prive di attività biologica e vengono
attivate attraverso una doppia reazione di idrossilazione nelle posizioni 1 e 25 dello scheletro
carbonioso.
La struttura delle vitamine è rigida, caratterizzata da degli anelli che la rendono planare; questa struttura
di anelli (vedi figura) è quanto rimane della struttura del colesterolo, la quale fa capo alla struttura generale
dei ciclopentanoperidrofenantrene. Nella struttura delle vitamine manca il fenantrene: la struttura
triciclica degli anelli A, B e C è in realtà rotta in un punto, ma originariamente – nel colesterolo – questi
anelli sono chiusi e derivano dal fenantrene. Quindi, avviene un processo biologico che parte da un
derivato del fitosterolo e del colesterolo, attua le modifiche sulla catena laterale, rompe l’anello B e, per
ottenere le forme attive di queste vitamine, mette in atto una doppia idrossilazione sul carbonio 1 e sul
carbonio 25.

La vitamina D, essendo una molecola liposolubile, viene assorbita nel tratto dell’intestino tenue e
l’assorbimento necessita di un corretto funzionamento biliare (difetti nella produzione di bile possono
portare ad un ridotto assorbimento di tale vitamina). Una volta assorbita, la vitamina D lega un suo
trasportatore specifico, la DBP (vitamin D-binding-protein).

La forma attiva di questa vitamina (1,25-diidrossivitamina D) è, come detto, la forma doppiamente


idrossilata, che svolge le seguenti funzioni:
• stimola l’assorbimento del calcio e del fosfato a livello intestinale;
• partecipa alla regolazione dei livelli plasmatici di calcio, operazione che la vitamina D attiva svolge
in sinergia con l’ormone paratiroideo;
• partecipa ai meccanismi che stanno alla base del mantenimento di un’adeguata mineralizzazione
delle ossa.

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Inoltre, la vitamina D svolge innumerevoli altre funzioni non legate all’omeostasi del calcio o del fosfato, e
tali funzioni accomunano il suo meccanismo d’azione a quello di un ormone steroideo: per esempio,
interviene nel differenziamento cellulare indispensabile per l’attribuzione di una funzione neuromuscolare,
o ancora modula le funzioni del sistema immunitario, partecipando all’attivazione e al differenziamento
delle cellule coinvolte nei processi cellulo-mediati dell’immunità (i linfociti T, i macrofagi e le cellule
dendritiche, infatti, presentano tutte il recettore per la vitamina D espresso nel loro citosol).

Il recettore della vitamina D è chiamato VDR (vitamin D-receptor) ed è un recettore perlopiù intracellulare,
il quale media molti, ma non tutti, degli effetti biologici attribuibili alla vitamina D.

La 1,25-diidrossivitamina D assomiglia molto ad un ormone steroideo, nella struttura e nel modo di attivare
particolari funzioni; infatti, come un ormone steroideo, attraversa la membrana plasmatica delle cellule
bersaglio, incontrando il recettore VDR in ambiente intracellulare. Una volta avvenuto il riconoscimento tra
la vitamina D attiva e il suo recettore, viene promossa una eterodimerizzazione del VDR con RXR,
recettore dell’acido retinoico (quindi recettore della forma ossidante della vitamina A).
Pertanto, si forma un complesso ternario costituito dalla vitamina D attiva, da VDR e da RXR, che è
trascrizionalmente attivo e che migra nel nucleo delle cellule per agganciare dei target specifici di VDR,
quindi elementi responsivi alla vitamina D. Tale complesso funziona come un attivatore trascrizionale,
promuovendo la trascrizione di tutti quei geni che posseggono un elemento di risposta alla vitamina D. La
maggior parte dei meccanismi con cui si attuano le funzioni della vitamina D passa attraverso il
riconoscimento di un recettore, la sua attivazione, la sua traslocazione al nucleo e l’attivazione
trascrizionale di particolari geni; questo complesso attua, sostanzialmente, un controllo dell’espressione
genica.
Nonostante ciò, però, ci sono delle evidenze sperimentali e cliniche che suggeriscono che non tutte le
azioni ascrivibili alla vitamina D siano ottenute per mezzo di questo meccanismo, il quale necessita
dell’attivazione della trascrizione, per portare alla produzione di nuove proteine; ci sono anche meccanismi
rapidi di risposta alla vitamina D, che fanno a meno del passaggio attraverso questa via di controllo
dell’espressione genica (questi altri meccanismi potrebbero essere, per esempio, la diretta comunicazione
tra la vitamina D e target cellulari specifici, siano essi enzimi o strutture cellulari).
Quindi, la maggior parte dei processi sono risposte lente e mediate dalla trascrizione, ma avvengono
anche risposte rapide, indipendenti dalla trascrizione.

COME VENGONO PRODOTTE LE VITAMINE D?

Se si considera il regno animale, si parte dal precursore 7-deidrocolesterolo e, per azione della
radiazione ultravioletta, si avvia una reazione fotochimica che porta alla rottura dell’anello B e, quindi, al
riarrangiamento della struttura in colecalciferolo (o vitamina D3), composto ancora non biologicamente
attivo. Analoga via è osservabile nel regno vegetale partendo dall’ergosterolo, un fitosterolo analogo al
7-deidrocolesterolo. Quindi, gli animali e le piante producono endogenamente la vitamina D, partendo da
precursori, attraverso una sintesi la quale richiede l’esposizione alla luce solare.

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Prendendo in considerazione solo l’uomo: l’uomo non dipende esclusivamente dall’apporto di vitamina D
ottenibile con la dieta, ma dipende anche dalla vitamina D che riesce a sintetizzare endogenamente;
questa sintesi dipende da:
• qualità ed intensità della radiazione alla quale l’uomo si espone;
• da quanto è scoperto il corpo;
• dalla pigmentazione e dallo spessore della pelle;
• dalla durata dell’esposizione.
Un corpo scoperto, esposto alle radiazioni solari nel periodo estivo, per un tempo sufficiente, sicuramente
attiverà una sintesi efficace di vitamina D. La vitamina D che è prodotta nei mesi estivi, attraverso
l’esposizione al sole, può costituire delle riserve che l’organismo mantiene per i periodi scarsamente
assolati. È quindi possibile accumulare vitamina D, contribuendo in questo modo, ed insieme alla quota
introdotta con la dieta, al mantenimento dei livelli plasmatici circolanti adeguati di 1,25-diidrossivitamina D
anche nei mesi invernali.
Di norma, nelle popolazioni mediterranee, non è necessario attuare un apporto di vitamina D attraverso
dei supplementi, purché non vi siano patologie che condizionano l’assorbimento di vitamina D e purché ci
sia un’alimentazione variata e bilanciata ed una corretta esposizione alla luce del sole. In alcuni casi, però,
può essere necessario rivedere questo concetto per categorie a rischio, come quella degli anziani, i quali
riducono l’esposizione ai raggi solari nei mesi estivi; in questi casi può essere indicata una
supplementazione. Un’altra categoria che potrebbe essere indicata per una supplementazion è quella dei
bambini, i quali in età di sviluppo crescono rapidamente e necessitano di un maggiore apporto di vitamina
D per beneficiare del contributo che essa dà al mantenimento della mineralizzazione ossea.

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ATTIVAZIONE DELLA VITAMINA D

Una volta sintetizzate con i meccanismi osservati, le vitamine D necessitano di essere attivate. Fanno
questo attraverso due reazioni di idrossilazione, che portano alla formazione dell’1,25-diidrossivitamina D,
anche detta calcitriolo.
1) La vitamina D – prodotta endogenamente o assorbita con la dieta – è immessa nella
circolazione.
2) Una volta nel circolo sanguigno, raggiunge il fegato: l’organo nel quale si realizza la
prima idrossilazione, quella in posizione 25 (quindi sulla catena laterale della struttura steroidea).
Come prodotto della prima idrossilazione si ottiene la 25-idrossivitamina D, che è ancora
biologicamente inattiva e la cui produzione non è sottoposta ad un rigoroso controllo: l’enzima
25-idrossilasi continua a idrossilare la vitamina D disponibile, senza particolari meccanismi di
controllo, tanto che i livelli plasmatici di questo metabolita possono variare anche di un paio di
ordini di grandezza.
3) La 25-idrossivitamina D prodotta giunge ai tubuli renali, dove si attua la seconda reazione di
idrossilazione, diretta a colpire l’atomo di carbonio 1 della struttura.
Si genera così la 1,25-diidrossivitamina D, composto biologicamente attivo.

La seconda reazione di idrossilazione è, a differenza della prima, sottoposta a controllo: anche se si


assumono alimenti con grande quantità di vitamina D o ci si espone per mesi e mesi al sole, c’è sempre
un controllo sulla frazione di 25-idrossivitamina D che sarà trasformata nel composto attivo. Questo è per
limitare le funzioni della stessa vitamina, le quali sono particolarmente potenti e vanno, perciò, limitate al
momento del bisogno.
Il controllo di questa seconda reazione dipende da vari fattori, ma soprattutto è sensibile ai livelli circolanti
di paratormone. Il paratormoneè il principale ormone che regola la calcemia e viene prodotto dalle
paratiroidi in risposta ad una calcemia che scende sotto i livelli normali.
Il paratormone aumenta la produzione di vitamina D attiva, la quale sarà coinvolta in una serie di processi
che tendono a riportare nel range di normalità i livelli plasmatici di calcemia. Al contrario, quando i livelli di
calcemia sono nella norma, non viene prodotto il paratormone, pertanto si riduce la produzione di vitamina
D. Dopo un pranzo, se si sono ingeriti alimenti molto ricchi di calcio, come latte e latticini, scatta la
produzione di ormoni ipocalcemici che modulano al contrario la produzione del paratormone, cioè
influenzano negativamente la produzione di vitamina D attiva. Quando i livelli di paratormone sono bassi,
viene promossa da parte del rene l’idrossilazione in posizione 24.
Quindi, se si hanno livelli alti di paratormone, l’idrossilazione avviene in posizione 25 con ottenimento del
composto attivo; al contrario, se i livelli sono bassi, avviene una promozione della idrossilazione nella
posizione 24 con ottenimento di un calcitriolo biologicamnete inattivo, destinato all’escrezione.
Nel rene, ci sono dunque due possibilità per tenere controllato il livello di vitamina D: promuovere
l’idrossilazione in 1,25 (che è attivante) o promuovere l’idrossilazione in 1,24 (che è disattivante), il tutto a
seconda della concentrazione del paratormone.

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La forma attiva della vitamina D si esplica su tre bersagli specifici: cellule dell’intestino, cellule dell’osso e
cellule del rene, le quali possiedono tutte e tre i recettori.
Le funzioni sono:
• promuovere il riassorbimento intestinale di calcio,
• promuovere il riassorbimento renale del calcio (dal tubulo prossimale),
• promuovere il riassorbimento osseo in caso di ipocalcemia.

Contemporaneamente, anche per mantenere il bilancio elettrolitico, viene promosso l’assorbimento


intestinale del contro-ione negativo fosfato, il quale – però – viene secreto dal rene.
Il paratormone, che promuove la conversione della 25-idrossivitamina D nel rene, agisce sul rene stesso
e sulle ossa, mentre a livello intestinale non sono presenti dei recettori specifici per il paratormone;
l’intestino è un target specifico per la vitamina D.

Ricapitolando: in caso di riduzione dei livelli ematici di calcio, il paratormone converte il 25-idrossivitamina
D in 1,25-diidrossivitamina D e con questa molecola attivata agisce sull’osso, dove promuove il
riassorbimento del calcio e di fosfato.
Solo la vitamina D attivata è coinvolta anche nei processi di mineralizzazione della matrice ossea; quindi,
se non è strettamente necessario togliere calcio dalle ossa per immetterlo nel circolo, l’azione prevalente
della vitamina D sull’osso sarà di promuoverne la mineralizzazione.
Al riassorbimento di calcio, promosso dal paratormone, si oppongono due ormoni: la calcitonina, ormone
antagonista del paratormone che viene secreto nel post-pranzo per evitare il picco ipercalcemico, e gli
estrogeni. Processi di aumentata fragilità nelle donne in menopausa sono correlati ad una riduzione dei
livelli di estrogeni circolanti, protettori dei processi di mineralizzazione ossea. Terapie sostitutive con
ormoni estrogeni possono essere indicate nella fase di menopausa, o di pre-menopausa, per trattare
donne a rischio di osteoporosi.
Nell’intestino, andrà ad agire solo la 1,25-diidrossivitamina D, promuovendo il riassorbimento di calcio e
di fosfato (come abbiamo detto, l’intestino è un target specifico della vitamina D attiva).
Sul rene, le azioni del paratormone e della vitamina D sono concordi nel promuovere il riassorbimento di
calcio, mentre presentano funzioni opposte per quanto riguarda l’assorbimento del fosfato: il solo
paratormone promuoverà l’escrezione del fosfato, invece l’1,25-diidrossivitamina D ne promuoverà
l’assorbimento.

MECCANISMI MOLECOLARI DELLA VITAMINA D SU UNA CELLULA INTESTINALE

Il meccanismo per cui la vitamina D attiva promuove l’assorbimento a livello intestinale del calcio introdotto
con la dieta implica il controllo della produzione di alcune proteine, attraverso la regolazione
dell’espressione genica.
La vitamina D, essendo liposolubile, attraversa la membrana baso-laterale degli enterociti, ossia quella
parte della membrana che separa le cellule stesse dal sangue. Una volta penetrata nell’enterocita,
riconosce il proprio recettore, si lega al recettore dell’acido retinoico e si porta nel nucleo per svolgere la
propria funzione di fattore trascrizionalmente attivo.
Qui si lega a geni responsivi alla vitamina D ed induce la produzione di mRNA, che poi verrà tradotto in
proteine funzionali. In questo caso, si tratta di tre differenti proteine, le quali intervengono in tre processi
diversi (ma tra loro coordinati), il cui scopo è assorbire il calcio dal lume intestinale, trattenerlo nella cellula
dell’epitelio intestinale e promuovere il pompaggio del calcio verso il sangue.

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1. Il primo trasporto che si attua è quello dal lume intestinale verso l’enterocita, attraverso la
membrana apicale caratterizzata dall’orletto a spazzola. In questo punto, viene collocato un canale
del calcio che promuove il trasferimento del calcio dal lume alla cellula, secondo il principio del
gradiente di concentrazione. Se si ha mangiato un pasto ricco di alimenti che contengono calcio,
le concentrazioni di calcio all’interno del lume intestinale aumentano e, esponendo questo canale,
si promuove il trasferimento dello ione verso la cellula.
2. La seconda proteina, la cui produzione è indotta dalla vitamina D, è una calcium-binding protein,
anche detta calbindina. Tale proteina lega parte del calcio che transita dal canale verso il citosol
per continuare a mantenere favorevole il gradiente. Il gradiente di concentrazione di uno ione è
influenzato dalla frazione libera degli ioni, non da quella legata alle proteine; quindi, se si permette
l’ingresso di calcio, mano a mano questo gradiente tenderà ad equilibrarsi, ma se parte del calcio
introdotto viene legato da una proteina che lo sequestra, il grandiente viene mantenuto sbilanciato,
favorendo ulteriore ingresso di calcio dal canale. Di conseguenza, la calcium-binding protein serve
a mantenere bassa la frazione di calcio libera.
3. La frazione di calcio libera viene successivamente trasportata nel torrente ematico contro
gradiente, tramite un meccanismo che richiede energia, ossia una pompa ATP-dipendente.

Con queste tre proteine che lavorano in maniera coordinata, viene stimolato l’assorbimento e il rilascio del
calcio, dal lume intestinale fino al sangue. Il meccanismo è coordinato e controllato dal complesso
trascrizionalmente attivo della vitamina D.

MECCANISMI MOLECOLARI DELLA VITAMINA D SU UNA CELLULA OSSEA

L’osso è un tessuto estremamente complesso e dinamico, che viene continuamente distrutto e ricostruito
nel corso della sua esistenza da parte di due popolazioni fondamentali di cellule: gli osteoclasti, i distruttori
dell’osso, e gli osteoblasti, i fabbricatori dell’osso e della matrice.
L’osso svolge molteplici funzioni: contribuisce a dare solidità, a mantenere la posizione eretta, dà sostegno
ai muscoli ai tendini, e molto altro. Tra le varie funzioni, è anche un enorme deposito di calcio (il più grande
del corpo umano) e, proprio per via di questo dinamismo metabolico, il calcio che viene depositato nelle
ossa può essere recuperato.
Quando si manifesta una calcemia al di sotto del livello soglia (circa 5 meq/L) partono i meccanismi di
difesa: il calcio è uno ione fondamentale (basti pensare solo al ruolo che svolge nella regolazione
dell’eccitamento delle cellule cardiache o nella contrazione muscolare) quindi non ci si può permettere di
modificare eccessivamente i livelli di calcemia (i quali sono infatti sottoposti ad uno stretto controllo
omeostatico, tanto quanto i livelli della glicemia). Il calcio è uno ione salvavita e, come tale, la sua
concentrazione deve rimanere all’interno di un intervallo che va dai 5 ai 10 meq/L.
Esistono meccanismi di controllo sia contro l’ipercalcemia (si veda la calcitonina), sia contro l’ipocalcemia:
quando si scende al di sotto dei livelli di guardia, il paratormone è il primo a percepirlo ed in risposta attiva
la produzione di vitamina D, la quale agisce poi sull’osso.

Come fa la vitamina D ad agire sull’osso?


Innanzitutto, è necessario specificare che i recettori della vitamina D si trovano sugli osteoblasti (i
costruttori di matrice ossea), eppure la vitamina D va ad attivare la distruzione di tale matrice.
La vitamina D penetra all’interno degli osteoblasti, dove raggiunge il proprio recettore e dove si lega anche
al recettore dell’acido retinoico. All’interno del nucleo, viene prodotto l’mRNA di citochine pro-
infiammatorie e di altri fattori di crescita che agiscono con attività paracrina sulla popolazione degli
osteoclasti. Tra le citochine promosse dalla vitamina D, c’è l’interleuchina 6 che, rilasciata dagli
osteoblasti, va ad agire sugli osteoclasti, innescando la loro attività di distruttori dell’osso (attività osteolitica
e di degradazione della matrice). A questo processo si oppone la calcitonina.

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Oltre all’interleuchina 6, la vitamina D promuove la produzione dei fattori di differenziamento dei
precursori degli osteoclasti: questi fattori agiscono sulle cellule di natura mesenchimale,
promuovendone la proliferazione, la maturazione ed il differenziamento in osteoclasti maturi.
Entrambi questi processi favoriscono la demolizione della matrice ossea ed il rilascio di calcio all’interno
del sangue. Questo fenomeno viene chiamato fenomeno del riassorbimento della matrice ossea.

Si ricorda che viene prodotta anche l’osteocalcina, proteina con attività chemiotattica che limita l’azione
degli osteoclasti, generando un bilancio sostenibile tra distruzione e deposito di nuova matrice ossea.
Quando i livelli di paratormone sono bassi, prevale l’attività della vitamina D come agente in grado di
promuovere la mineralizzazione dell’osso attraverso la produzione di osteocalcina, osteoprotegerina e altri
proteoglicani e glicoproteine implicati nella generazione della matrice ossea.

DOV’È CONTENUTA LA VITAMINA D

Negli alimenti la vitamina D è contenuta in grandi quantità nel fegato di pesci come merluzzo, salmone e
aringa. Piccole quantità sono contenute anche in latte, formaggi, burro e tuorlo d’uovo.
Un consumo di 2 microgrammi di vitamina D al giorno è considerato adeguato.
Il livello ottimale di calcidiolo (25-OH-D) è di 10-40 nanogrammi al millilitro.

I segni di carenza di vitamina D (ipocalcemia) sono:


- ridotta concentrazione sierica di calcio e di fosforo per il ridotto riassorbimento intestinale
- iperparatiroidismo secondario per l’aumento dell’attività della produzione di paratormone
- convulsioni con calcemia molto bassa (se l’ipocalcemia è molto importante)
Segni più tardivi di carenza di vitamina D sono:
- rachitismo (in età pediatrica) o osteomalacia o osteoporosi (entrambe in età adulta) per inadeguata
mineralizzazione delle ossa dello scheletro
- debolezza muscolare
- dolori e deformazioni ossee

La vitamina D data come supplemento può essere tossica e quindi si consiglia di evitare singole dosi
massicce di vitamina D; sono preferibili basse dosi quotidiane per non superare il dosaggio massimo di
50 microgrammi al giorno.
Segni di intossicazioni si manifestano quando i livelli circolanti di 25-OH-D sono superiori ai 40
nanogrammi al millilitro e arrivano ad essere 100 ng/ml. Segni di intossicazione sono: i classici sintomi
gastrointestinali (nausea, diarrea, perdita di peso), ipercalcemia, ipercalciuria, ridotta funzione renale.

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Lezione n°23 del 01.06.2018
Sbobinatore: Elena Giuffredi, Laura Lippi
Controllore: Riccardo Mazzoli
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Federica Maria Angela Rizzi
Argomenti: vitamine D, E, K
VITAMINA E
La vitamina E è lipofila ed è un
tocoferolo.
Come tutte le proteine liposolubili, essa
è assorbita a livello dell’intestino tenue
e, per questo, è necessaria la bile.
È possibile assorbire solo il 40% di
tocoferolo assunto dalla dieta,
perchè il sistema di trasporto è
saturabile. Una volta assorbita, viene
esportata e veicolata ad altri tessuti
attraverso le lipoproteine plasmatiche.
Essendo lipofila, la vitamina E è affine
al tessuto adiposo, al muscolo, al fegato e alle membrane plasmatiche.

La vitamina E è un potentissimo antiossidante e, quindi, ha un ruolo di difese delle cellule dall’attacco di


specie reattive del’ossigeno (ROS). In particolare, riesce a delocalizzare e inattivare i perossidi,
prevenendo così la perossidazione degli acidi grassi polinsaturi di membrana, importanti componenti della
membrana cellulare.
[IN PIÙ = La vitamina E evita che gli acidi grassi saturi e la vitamina A si scompongano e si combinino con
altre sostanze diventando così nocivi all’organismo; l’ossidazione del grasso dà origine a radicali liberi
(molecole altamente aggressive che possono causare estesi danni all’organismo)]

Anche la vitamina C (acido ascorbico) è un antiossidante, ma, a differenza della vitamina E, è idrosolubile.
Nonostante la differenza chimica, comunque, collabora con la vitamina E nel contenimento dei danni dai
radicali liberi. Nello specifico, la vitamina E necessita di essere rigenerata per poter essere nuovamente
efficace e la vitamina C fa esattamente questo: rigenera la capacità antiossidante della vitamina E.

È difficile essere certi di quali siano i livelli carenziali di vitamina E, poiché generalmente tutte le diete
apportano livelli adeguati di lipidi e, di conseguenza, di vitamina E.
Il valore plasmatico di vitamina E, comunque, non deve essere inferiore a 0,5 milligrammi al decilitro.
Le carenze di tale vitamina sono normalmente associate a difetti metabolici di malassorbimento della
porzione grassa degli alimenti. Particolari terapie anti-colesterolemiche possono causare un
malassorbimento della vitamina E.
I sintomi della carenza di vitamina E sono:
- una maggiore fragilità dei globuli rossi;
- un aumento dei disordini neurologici a carico del SNP e SNC, della retina e dei muscoli.

È una vitamina non tossica, tuttavia non è possibile l’assorbimento superiore ai 2000 milligrammi
giornalieri e come conseguenza si producono feci grasse.
Si trova nei semi oleosi e negli oli derivati da frutti oleosi. Gli oli è meglio consumarli a freddo per non
alterare l’assunzione della vitamina E.

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Lezione n°23 del 01.06.2018
Sbobinatore: Elena Giuffredi, Laura Lippi
Controllore: Riccardo Mazzoli
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Federica Maria Angela Rizzi
Argomenti: vitamine D, E, K
VITAMINA K
La vitamina K è stata identificata negli anni
‘30 da un biochimico danese (Carl Dam,
premio Nobel per questa scoperta).
Si chiama K perchè in tedesco
coagulazione si dice “koagulation”,
suggerendo un ruolo di questa vitamina
nella regolazione della coagulazione del
sangue. Si trattò di una scoperta
accidentale: Carl Dam stava capendo a
cosa servisse il colesterolo, ma se sottratta
dal mangime, causava il sanguinamento
nelle cavie dell’esperimento.

La vitamina K è implicata nella coagulazione del sangue.


Esistono tre tipi di vitamina K, tutte derivate dal 2 metil 1,4 naftochinone:
- K1 (fillochinone) = presente in natura; si trova nei vegetali e in particolare nella famiglia delle
crucifere (cavoli, cavolfiori, broccoli, spinaci, …)
- K2 (menachinone) = presente in natura = prodotta dai batteri che colonizzano il nostro colon
- K3 (menadione) = ottenuto per sintesi organica; ha più potente attività rispetto alle vitamine K
naturali; infatti è usato come farmaco per la prevenzione degli stadi emorragici. L’uso incorretto di
questo farmaco provoca l’alterazione dei tempi di coagulazione ematica.

Per essere assorbita dall’intestino tenue ci deve essere la bile. Dopo essere stata assorbita è poi
trasportata dalle lipoproteine plasmatiche come la vitamina E. I sistemi di trasporto però sono saturabili e
quindi riusciamo ad assorbire una quota variabile di vitamina K presente negli alimenti dal 40-80%.

È cofattore di un enzima necessario per la maturazione post traduzionale dei fattori di coagulazione, ossia
proteine secrete dal fegato (come la protrombina) e implicate nel processo di coagulazione ematica.
Nella forma ossidata è inattiva e l’unica forma attiva della vitamina K è quella ridotta. Permette di
trasformare alcuni ammminoacidi in gamma-carbossi-glutammato (Gla), per introdurre una seconda
funzione carbossilica e quindi una seconda carica negativa sul resido dell’acido glutammico. Ciò è
fondamentale per modificare la conformazione del fattore di coagulazione quando questo deve esplicare
la sua attività. Riassumento, la vitamina K serve per avere le proforme mature di alcuni fattori di
coagulazione. Il calcio è fondamentale nel processo di coagulazione ematica perchè permette di avere i
fattori di coagulazione attivi.

La carenza da vitamina K è inusuale in quanto i batteri intestinali ne producono quantità elevate; in ogni
caso, i livelli di assunzione normali sono 1 microgrammo per chilo corporeo al giorno.
I soggetti a rischio di carenza di vitamina K sono perlopiù i neonati, nei quali si può instaurare la sindrome
emorragica del neonato poco dopo la nascita. Tale sindrome è causata dall’ intestino inefficiente tipico dei
neonati e che ha come conseguenza, una flora batterica non completamente attiva ed incapace di
sintetizzare vitamina K2 (ed anche il latte materno è molto povero di vitamina K). La profilassi
antiemoraggica è data ai neonati (in modo sublinguale) per circa un mese e riduce la mortalità infantile
dovuta a emorragie causate da carenza di vitamina K.

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Lezione n°24 del 04.06.2018
Sbobinatori: Sofia Tridella, Damiano Marchesini.
Controllore: Anna Montanari.
Materia: Biochimica.
Docente: Elena Ferrari.
Argomenti: vitamine idrosolubili, in particolare la vitamina C e il complesso B.

VITAMINE IDROSOLUBILI
Le vitamine idrosolubili sono micronutrienti organici e le quantità di cui l’essere umano necessita
variano dal milligrammo al microgrammo (range abbastanza limitato). Esse devono essere introdotte
con la dieta e alcune vengono sintetizzate anche dal nostro microbiota intestinale.
Hanno numerose funzioni, partecipano come cosubstrati a reazioni specifiche e fanno sempre parte
di coenzimi, cioè di strutture che collaborano con un enzima. Se l’enzima è privo del suo cofattore o
coenzima è un apoenzima, se invece è dotato del suo coenzima è un oloenzima.
Alcune sono importanti antiossidanti e alcune sono precursori di ormoni.
Bisogna accennare inoltre agli stati patologici associati alle carenze di queste vitamine: per la
vitamina C lo scorbuto, per la vitamina B1 il beri-beri, per la B3 la pellagra e l’anemia perniciosa per
la vitamina B12.

VITAMINA C
I grandi studi sulla vitamina C arrivano nel 1900: nel 1930 Szent Gyorgyi isolò la vitamina C dalla
ghiandola surrenale (posta appunto al di sopra del rene), dalla paprika e dalla buccia d’arancia.
Questo gli vale il premio Nobel nel 1937. Nel 1933 si arriva alla struttura della vitamina C e Szent
Gyorgyi e i suoi collaboratori proposero il nome di acido ascorbico, cioè che ti protegge dallo
scorbuto. Il suo nome chimico corretto è acido L- ascorbico, cioè la forma levogira dell’acido
ascorbico. La vitamina C è contenuta nella frutta e nella verdura fresca soprattutto nei peperoni, kiwi
e agrumi. Molto contenuta nei vegetali, in alcuni
di essi si trova quasi con una concentrazione
simile a quella della clorofilla. Noi non la
sintetizziamo, al contrario di rettili, anfibi e uccelli.
Una sua caratteristica è che in soluzione acquosa
si altera rapidamente a contatto con l’ossigeno
dell’aria (meccanismo legato alla sua
ossidazione), evidentemente vive un equilibrio di
ossidazione e riduzione. A livello dell’intestino
tenue viene assorbita nelle cellule intestinali
grazie a trasportatori attivi che portano la
vitamina nell’enterocita. Non esistono dei
depositi di questa vitamina, viaggia nel sangue
(più precisamente nel plasma) sotto forma di acido ascorbico. Il suo eccesso viene eliminato
attraverso i reni, sotto forma di urina. Il metabolita principale col quale viene eliminata è l’acido
ossalico che è un acido bicarbossilico fatto da solo 2 atomi di carbonio. Inoltre è presente una piccola
quota di riassorbimento a livello renale e quindi ritorna nel sangue, dal quale dove viene trasportata
in qualunque tipo di cellula, perché tutte le cellule ne hanno bisogno anche se sono differentemente
arricchite. Viene accumulata in quantità diverse nelle cellule, che però non sono luogo di deposito
(come ad esempio alcune proteine come la mioglobina). È molto presente nell’ipofisi, nell’occhio e
nella ghiandola del surrene. È anche presente in grandi quantità nel tessuto muscolare e nel fegato.

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Lezione n°24 del 04.06.2018
Sbobinatori: Sofia Tridella, Damiano Marchesini.
Controllore: Anna Montanari.
Materia: Biochimica.
Docente: Elena Ferrari.
Argomenti: vitamine idrosolubili, in particolare la vitamina C e il complesso B.

L’emivita, parametro cinetico che misura il


tempo in cui quella vitamina ha ridotto la sua
biodisponibilità del 50%, è circa 10/20 giorni. Il
fabbisogno medio giornaliero è 75 milligrammi
per gli uomini e 60 milligrammi per le donne
secondo la tabella del fabbisogno del SINU. È
un quantitativo notevole compensato però dal
fatto che la vitamina C è molto presente nella
nostra dieta. Invece l’assunzione
raccomandata per la popolazione su base
giornaliera è 105 mg per gli uomini e 85 mg per
le donne.
Ho carenza di vitamina C se non ne introduco
sufficientemente, se ho una dieta sbilanciata o
problemi alimentari. Oppure posso avere una
carenza di vitamina C per una diminuzione
dell’assorbimento che è dovuto appunto a una molecola che la cattura e trasporta attivamente
all’interno degli enterociti. Può anche accadere che le mie richieste di vitamina C aumentino
(aumento del fabbisogno) e quindi devo introdurne in maggiore quantità. Un aumento del fabbisogno
di vitamina C avviene anche a seguito del fumo o dall’abuso di alcolici. L’abuso di alcolici fa in modo
che una persona dipenda esclusivamente dal consumo di alcol come fonte di energia al posto di
altre sostanze presenti solitamente nella dieta e va a danneggiare l’intestino e con lui di
conseguenza anche le cellule che assorbono la vitamina C. In questo modo si va a compromettere
l’assorbimento di questa vitamina. Il fumo invece è un fattore che genera richiesta di molti agenti
antiossidanti, che è una delle funzioni della vitamina C. Posso avere una carenza di vitamina C
anche se ho l’aumento della sua eliminazione per esempio se i reni non riescono a trattenerne
abbastanza.
La vitamina C è un cofattore essenziale nella maturazione del collagene (già citata in precedenza).
Nel collagene ci sono dei residui nelle preprocatene (le prime che vengono estruse nel reticolo
endoplasmico) che devono subire un’idrossilazione, la lisina e la prolina. Per fare questa
idrossilazione è necessaria la presenza della vitamina C. Da questo punto di vista se si ha una
carenza di vitamina C e si in uno stato di profonda avitaminosi, si manifesta lo scorbuto che è una
malattia da deficit che si esprimerà nel tessuto connettivo poiché è li che è presente maggiormente
la proteina del collagene. Il collagene è presente però ovunque quindi i danni sono molto ampi come
la stomatite emorragica nella bocca, emorragia a livello muscolare e cutaneo, perdita dei denti,
insufficiente cicatrizzazione nelle vecchie ferite, dolore e degenerazione nelle ossa, insufficienza
cardiaca. In Italia, fatte alcune eccezioni, non si manifesta lo scorbuto ed è diventato raro anche nei
paesi in via di sviluppo. Colpisce soprattutto i bambini alimentati con latte artificiale non
opportunamente integrato di questa e altre vitamine. I gruppi a rischio sono alcolisti, anziani, pazienti
colpiti da malassorbimento cronico e bambini.
In conclusione è la carenza grave di questa vitamina che causa lo scorbuto, cioè se io assumo
vitamina C nella decima parte cioè meno di 10 mg al giorno inizio ad avere i primi sintomi che non
sono però gravi. Con il passare del tempo, in cui continuo ad assumere vitamina C a questi
quantitaivi bassi, compaiono gli ematomi negli arti inferiori, insufficiente cicatrizzazione, perdita di
denti ed ecchimosi. Quindi i sintomi dello scorbuto sono latenti per un certo tempo e compaiono

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quando la concentrazione plasmatica della vitamina C scende al di sotto di 11 micro molare (valore
sano: 50/60 micro molare).
Funzioni della vitamina C:

• Previene e cura lo scorbuto.


• Coopera nella formazione collagene.
• Aumenta assorbimento del ferro nell’intestino.
• Cura l’anemia dovuta alla carenza di ferro.
• Facilita la guarigione delle ferite e delle ossa fratturate.
• Mantiene sani capillari, gengive e denti.
• Blocca la produzione delle nitroasammine.
Aspetto chimico e formula di struttura:
Ha proprietà red-ox, cioè è un buon
antiossidante, quindi è un agente
riducente. La sua forma ridotta è l’acido
L-ascorbico o ascobato e quella ossidata
è l’acido L- deidroascorbico o
deidroascorbato (“deidro-” deriva dal fatto
che sottraggo idrogeni). La forma levogira
è quella attiva che è usata anche negli
alimenti per le sue proprietà antiossidanti.
Osservando l’immagine notiamo che ci
sono due ossidazioni in 2 step. La formula
di struttura presenta l’anello furanosico, vagamente ci ricorda uno zucchero con una chiusura a
forma di pentagono, 4 carboni nell’anello, un ossigeno e 2 carboni esociclici legati a un gruppo -OH.
Sul primo carbonio invece c’è un gruppo chetonico. Il gruppo funzionale che esprime il potere

antiossidante è il gruppo enediolo, ene- perché abbiamo un doppio legame tra questi due atomi, -
diolo perché ho due gruppo -OH alcolici.

Se ha un potere riducente quindi può scaricare elettroni sotto forma di atomi di idrogeno, ovvero se
elimino un elettrone e un protone formo l’acido semideidroascorbico, che è un radicale, poiché ha
un elettrone spaiato sull’ossigeno. L’ulteriore perdita di un elettrone e un protone invece porta allo
sviluppo chetonico su tutti e due gli atomi di carbonio e ho quindi l’acido deidroascorbico.
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Argomenti: vitamine idrosolubili, in particolare la vitamina C e il complesso B.

Quest’ultima è la forma completamente ossidata della vitamina C. Quindi nelle reazioni di red-ox
l’acido ascorbico partecipa riducendo, potendo dare uno o due elettroni fino al raggiungimento della
sua forma completamente ossidata. Nel nostro corpo la vitamina C ha quindi forte potere riducente
e va a contrastare i ROS, specie reattive dell’ossigeno. Tra i nostri sistemi antiossidanti e la presenza
dei ROS vive un equilibrio specifico, e infatti quando prevale la presenza dei ROS siamo in uno stato
si stress ossidativo. A livello cellulare i ROS sono l’anione superossido (domanda possibile in esame:
il rischio a livello mitocondriale è di sviluppare dei radicali dell’ossigeno, come il radicale superossido
e in questo caso avviene un flusso di trasporto elettronico e vi sono sistemi per contrastare il fatto
che l’ossigeno catturi un elettrone a livello mitocondriale), il radicale idroperossido, il radicale
idrossilico e anche nelle specie contenenti azoto sono presenti. Il loro pericolo sta nel fatto che
necessitano di un elettrone per stabilizzarsi e quindi lo strappano da altre specie, generando di
nuovo un radicale nella molecola che ho impoverito di un elettrone. Quindi lo strappare elettroni a
una molecola è alla base chimica dello stress ossidativo. Naturalmente questo problema si presenta
nel nostro corpo quando strappo elettroni a una proteina, agli acidi nucleici o ad altre strutture che
sono fondamentali per noi. La vitamina C quindi dà la possibilità all’interno delle nostre cellule di
contrastare queste specie che tendono a strappare elettroni perché è donatrice di questi ultimi,
quindi soddisfa la richiesta elettronica e neutralizza la presenza dei ROS.
Categorie delle funzioni della vitamina C:
⚫ Cofattore enzimatico:
Collabora con enzimi specifici che servono per la biosintesi del collagene, delle catecolamine
e della carnitina. Sono coinvolti degli enzimi responsabili di una idrossilazione, quindi
dell’incorporazione dell’ossigeno nel substrato sotto forma di gruppo -OH. Si tratta di reazioni
enzimatiche, gli enzimi saranno nel monoossigenasi o diossigenasi, di fatto sono delle
idrossilasi, dipendenti da dei metalli come ferro o rame che esistono in vari stati di
ossidazione. Questi enzimi incorporano almeno 1 o 2 atomi di ossigeno nel substrato. La
vitamina C ha il compito di mantenere in forma ridotta funzionale questi cofattori metallici.
Quindi ha la solita funzione di dare elettroni per mantenere delle sostanze al loro stato ridotto.
Come ad esempio avviene con la prolina (o lisina) idrossilasi nel processo della maturazione
del collagene. I reagenti della reazione sono il 2 ossiglutarato, la prolina, l’ossigeno e il
cofattore della prolina idrossilasi che è il ferro 2+. Quando la reazione avviene, l’ossigeno è
incorporato nella prolina, generando l’idrossi prolina, il ferro ha perso un elettrone e da ferro
2+ è passato a ferro 3+ e da alfachetoglutarato ho generato il succinato (intermedio del ciclo
di Krebs) e si perde un atomo di carbonio sotto forma di anidride carbonica. L’intervento della
vitamina C come agente antiossidante deve partire dalla forma ridotta, quindi da acido
ascorbico.
Altri enzimi che richiedono la vitamina C servono per la biosintesi delle catecolamine,poichè
alla sua base vi è la fenilalanina che grazie a 3 enzimi (fenilalanina idrossilasi, tirosina
idrossilasi e dopamina idrossilasi) che necessitano la vitamina C genera
adrenalina,noradrenalina e dopamina.La sintesi della carnitina (traghettatore di gruppi acili
di acidi grassi dentro la matrice mitocondriale) avviene a livello del fegato e ha bisogno di
idrossilazioni compite da enzimi che necessitano della vitamina C. La sintesi avviene a livello
del fegato, ed è detta β-ossidazione. Viene utilizzato ossigeno per estrarre equivalenti
riducenti, che a livello della catena respiratoria della fosforilazione ossidativa, vengono
trasformati in ATP.

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Argomenti: vitamine idrosolubili, in particolare la vitamina C e il complesso B.

⚫ Reagente chimico non enzimatico:


Proprietà antiossidanti, favorisce l’assorbimento intestinale del ferro non eme. Quest’ultimo
viene mantenuto in forma solubile biodisponibile nel suo stato Fe +2, che è una forma
facilmente assimilabile, grazie alla vitamina C. A livello ematico l’acido ascorbico esprime le
sue proprietà antiossidative per esempio protegge dall’ossidazione delle lipoproteine e
neutralizza le specie reattive dell’ossigeno, inoltre protegge la vitamina E dall’ossidazione e
si oppone alla conversione di nitriti in nitroasammine. Noi assumiamo i nitriti con la dieta e
principalmente grazie agli insaccati che ne contengono molti. I nitrati sono sali che servono
per combattere l’ossidazione e difendono dalla maturazione delle spore del Clostridium
Botulinum.

La vitamina C deve mantenere lo stato ridotto per un efficacie funzionamento, per questa funzione
è necessaria la rigenerazione dell’acido ascorbico (tramite Glutatione o enzimi che utilizzano
NAD/NADH)

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COMPLESSO B
La sua scoperta sta tra la fine degli anni ‘20 e gli anni ‘50 e ne fanno parte tiamina, riboflavina,
niacina, pantotenato, piridossina, folati, biotina e cobalamina.

Nello schema soprastante ne troviamo la forma coenzimatica e la principale funzione.

B1 (“Tiamina”)
Da essa deriva un importante coenzima, detto tiamina-pirofosfato: implicato nelle reazioni di
decarbossilazione (eliminazione di un gruppo carbossilato, sotto forma di una molecola di CO 2).
L’urgenza di scoprire questa vitamina derivava dal fatto che una carenza di qualcosa si traduceva
all’interno dell’organismo come la malattia Beri-Beri. Venne isolata per la prima volta nel 1910 dalla
pula del riso (porzione più esterna del chicco di riso, che è quella che si elimina quando se ne fa la
brillatura). Questa sostanza isolata era in grado di prevenire e guarire il Beri-Beri causato
sperimentalmente, per questo motivo le venne affidato il nome di vitamina (“amina della vita”) che
fu poi esteso anche a tutte le altre vitamine,sostanze indispensabili di cui l’organismo non riesce a
realizzare la biosintesi ma deve introdurre con l’alimentazione.
Questa vitamina è presente sia nei vegetali che nella carne (anche se realmente se ne trova molto
poca, la totalità degli alimenti consente di raggiungere il fabbisogno giornaliero), assimilata per
trasporto attivo a livello intestinale. Nel sangue si trova in due forme: legata ad albumina e dentro i
globuli rossi; non vi sono organi di deposito di questa vitamina, il suo eccesso viene eliminato con
le urine.
Dopo essere stata assimilata a livello delle cellule intestinali, la tiamina giunge al
fegato tramite la vena porta, dove subisce l’attacco del gruppo pirofosfato,
generando la forma coenzimatica Tiamina-Pirofosfato (detta co-carbossilasi). In
seguito, viene defosforilata, ritornando in circolo sotto forma di Tiamina e come
tale giunge a tutti i tessuti. A questo punto viene assorbita e trasformata nel suo
coenzima, la tiamina pirofosfato o co-carbossilasi poichè collabora con enzimi detti carbossilasi.
Ha un ruolo coenzimatico fondamentale nel metabolismo energetico (estrazione di energia dalle

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molecole), soprattutto quello dei carboidrati. E’ cofattore necessario per gli enzimi che compiono la
decarbossilazione ossidativa di α-chetoacidi (molecola organica che presenta un gruppo chetonico
in posizione α, rispetto al carbossilico) per trasformarli in acil-coenzimaA. Esempi di questi enzimi
sono la piruvato deidrogenasi che utilizza come substrato il piruvato che viene
decarbossilato e convertito in acetil coenzima A. La reazione si compone di una Gruppo acetile
decarbossilazione e di un’ossidoriduzione; ciò trasforma α-chetoacido in acil-
coenzimaA.

Tra questi enzimi troviamo: la piruvatodeidrogenasi (da


piruvato a acetil-CoA, generando NADH), α-cheto-
glutaratodeidrogenasi (da α-chetoacido a acetil-CoA).
Acetil-CoA Implicata anche nella via dei pentosi (detta “Shunt
dell’esoso monofosfato”) basata su eventi degradativi,
che partono dal glucosio-6-fosfato. Tutti questi processi agiscono eliminando un atomo di Carbonio
(sotto forma di CO2) e deidrogenando il substarto interessato.
Implicata anche in reazioni trans-chetolasiche.
La struttura della tiamina è formata da un anello tiazzolico, a 5 termini, dove è presente un azoto
quaternario (con carica positiva) e un atomo di zolfo. Il braccio sostituente legherà il pirofosfato
(composto da 2 fosfati legati con legame anidridico), generando la forma coenzimatica attiva. Il
punto reattivo è l’atomo di carbonio, che con proprietà acida può liberare un protone (intervenendo
nella decarbossilazione). Presenta un ponte a CH 2 che permette la connessione con un anello
pirimidinico, sostituito con un gruppo amminico e un CH 3, che dà così origine alla forma
coenzimatica.
La tiamina-pirofosfato è molto presente nei tessuti che fanno tutti i metabolismi precedentemente
descritti come fegato, cuore, muscoli e tessuto nervoso.
Il meccanismo di reazione di B1 è composto di due fasi. La reazione deve avvenire tra la tiamina-
pirofosfato (legata al suo enzima, catalizzatore di questa decarbossilazione ossidativa) e α-
chetoacido, tramite la perdita del protone della tiamina-pirofosfato, nel quale si attacca il gruppo
chetonico.
La seconda fase è quella decarbossilativa, dove il composto deve perdere un CO 2 (gruppo
carbossilato COO-). Interviene la decarbossilasi, dopo che l’enzima è già legato, che stacca
l’anidride carbonica. Il composto risultante si dovrà convertire in Acil-CoA (nelle reazioni
specifiche).

Nel caso della presenza di un gruppo metile come sostituente, il piruvato viene convertito in acetil-
CoA. L’assunzione raccomandata di questa vitamina è 1,2mg nei maschi e 1,1mg nelle femmine.

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Malattia del Beri-Beri: Sindrome polineuritica, dovuta alla scarsa assunzione di Tiamina poichè i
navigatori assumevano solo riso brillato e quindi non venivano in contatto con questa vitamina.
Questa patologia si esprime in due modi, se ne distingue una forma dry e una wet.
Il Dry Beri-Beri è a carico del sistema nervoso. Esso dipende in grande parte dalla presenza e,
dall’ossidazione del glucosio. La piruvato deidrogenasi, in casi patologici, risulta inattiva e ciò limita
la produzione di Acetil-CoA e quindi di ATP (in seguito al mancato completamento del ciclio di
Krebs).
La forma Wet del Beri-Beri è a carico del sistema cardiovascolare. I cui effetti sono: polineurite,
edemi, dilatazione cardiaca e collasso cardiocircolatorio.

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Lezione n°25 del 05.06.2018
Sbobinatore: Ludovica Landi, Cristian Coccia
Controllore: Martina Cancellara
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: vitamine idrosolubili del complesso B

VITAMINE IDROSOLUBILI DEL COMPLESSO B


RIBOFLAVINA (B2)

La riboflavina da origine a due coenzimi, ovvero la flavina


mononucleotide (FMN) e la flavina adenina dinucleotide (FAD).
Essi partecipano a reazioni di deidrogenazione, in particolare nella
catena di trasporto degli elettroni.
Per quanto riguarda la formula di struttura, la riboflavina è data da
una serie di anelli condensati e uno zucchero. I due coenzimi flavinici
partecipano a reazioni di ossidoriduzione e sono collaborativi con
enzimi che hanno una funzione di deidrogenazione. Questi enzimi
che utilizzano i coenzimi flavinici vengono chiamati flavoproteine.
Alcuni esempi ne sono la NADH deidrogenasi, abbinata a FMN, e la
succitato deidrogenasi, abbinata a FAD.
Si trova in ambito sia vegetale in cereali e verdura a foglia verde; sia
animale in carne, uova e latte.

I coenzimi FAD e FMN sono dei nucleotidi doppi o semplici, formati da base azotata, zucchero ribosio
e fosfato. FMN è dato da una serie di anelli condensati che prendono il nome di struttura
isoallosazina; lo zucchero, in forma lineare, è composta dal ribitolo e infine abbiamo il fosfato. Il
FAD, invece, raddoppia, perché è un dinucleotide. Quindi al fosfato di FMN si lega un altro nucleotide
più semplice, formato da adenina, ribosio e fosfato. I due nucleotidi del FAD sono legati attraverso i
due gruppi fosfato. Perciò fino al primo fosfato abbiamo FMN, poi il FAD. Le strutture di questi due
coenzimi sono basate sempre sulla riboflavina, la quale struttura è data soltanto dall’anello
isoallosazinico e dal ribitolo, composto da cinque atomi di carbonio legati con un gruppo ossidrile
(tranne il primo). L’anello isoallosazinico partecipa a reazioni redox. Nella figura è rappresentato il
FAD nella sua forma ossidata (sulla sinistra) e ridotta (a destra). La forma ossidata presenta
sull’anello isoallosazinico due atomi di azoto privi di idrogeni legati. Quando il coenzima subisce la
reazione di riduzione riceve due elettroni, e i corrispondenti due protoni, i quali si localizzano su questi
due atomi di azoto, modificando i doppi legami che contraevano gli atomi di azoto nella forma
ossidata. Nella forma ridotta, infatti il doppio legame si sposta tra i carboni comuni dei primi due
anelli.
L’equazione della reazione
riduzione del FAD è la
seguente:

FAD + 2e- + 2H+ = FADH2

Il flavo del FAD ha la


caratteristica di esistere anche in
una versione radicalica, ovvero
che può ricevere solamente un
protone e un elettrone, dando
origine a questa forma. Quindi un
solo atomo di azoto verrà ridotto

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e un elettrone resterà spaiato su un atomo di ossigeno, perché avvengono degli spostamenti del
doppio legame. Successivamente con il ricevimento dell’altro elettrone e protone si arriva alla forma
completamente ridotta. Perciò il FAD può ricevere anche uno alla volta gli elettroni.
La riboflavina è assimilata mediante trasporto attivo dall’intestino e nella cellula intestinale la maggior
parte viene elaborata in coenzima FMN. La riboflavina libera e FMN sono trasportati verso il fegato,
dove poi raggiungeranno tutto il circolo sistemico e tutte le cellule. Gli organi che ne sono più ricchi
sono il fegato, il cuore e i reni.
A livello di una cellula comune, la riboflavina viene
introdotta e convertita in FMN e in FAD, i quali si
coniugheranno, attraverso legami covalenti, con
le rispettive flavoproteine. Al contrario, i coenzimi
NADH e NAD+, che transitano come cosubstrati,
vengono poi allontanati, vista la loro funzione.
Le quantità raccomandate di riboflavina sono
nell’ordine di 1 mg/die (1,6 mg/die per l’uomo e 1,3
mg/die per la donna).
I sintomi della carenza da riboflavina possono derivare
da un apporto ridotto o da un mancato assorbimento e
si manifestano con segni cutanei, mucosi o oculari,
spesso tipici della carenza di vitamine del complesso
B. È sorprendente il fatto che questa carenza non si
esprima con dei sintomi particolarmente rilevanti da un
punto di vista clinico, vista l’essenzialità che ha questo
coenzima per le funzioni metaboliche cellulari.

NIACINA (B3)

Un altro coenzima che partecipa alle reazioni di


deidrogenazione, abbinato sempre alle deidrogenasi,
origina dalla vitamina niacina (B3). Questo coenzima
derivato si chiama nicotinammide dinucleotide e può
presentare o no un gruppo fosfato. La niacina e la
nicotinammide si chiamano vitameri, forme della stessa vitamina. La niacina non è altro che l’acido
nicotinico, infatti presenta il gruppo funzionale carbossilico, mentre la
nicotinammide possiede il gruppo amidico. La loro struttura deriva da quella della
piridina, dalla quale avranno origine i coenzimi piridinici NAD, NAD + e NADP+.
Il NAD è un dinucleotide con due basi azotate, due zuccheri e due fosfati, legati fra
loro come nella struttura del FAD. Il primo nucleotide è composto dalla
nicotinammide, ribosio e fosfato, legato al secondo nucleotide formato da fpsfato,
ribosio e adenina. Il NADP ha solo un gruppo fosfato in più, il quale è fosfoesterificato
sul gruppo -OH del carbonio 2 del ribosio.
Il segno + nelle molecole di NAD+ e NADP+ non rappresenta la carica risultante della molecola. Ad
esempio nel NAD+ la carica totale sarebbe -1, ma il segno + indica che l’atomo di azoto dell’anello
piridinico deve essere positivo nella forma ossidata. Quindi il segno + va ad identificare l’aspetto
ossidato, individuato nella carica positiva sull’azoto della componente vitaminica. Nella forma ridotta
al NAD+ (o NADP+) vengono attribuiti due elettroni e due protoni, ma la molecola non è in grado di
legarli entrambi. Infatti solo un protone e due elettroni vengono legati, i quali formano lo ione idruro
(H-). Il protone che non viene legato resta libero in soluzione.

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Quindi la reazione di riduzione del NAD+ è:


NAD+ + 2H+ + 2e- = NADH + H+

dove la forma ridotta di NAD+ è NADH. I


due elettroni e il protone vengono
sottratti dal substrato nel contesto
dell’attività catalitica delle deidrogenasi
associate a NAD, e si legano alla
componente della nicotinammide. La
nicotinammide, riducendosi, acquista gli
elettroni e il protone. La risultante è che
l’atomo di azoto precedentemente
positivo ora non lo è più, infatti non
viene più indicata nella forma ridotta la
carica positiva sull’azoto dell’anello
piridinico.
Gli organismi derivano proprio da questi
enzimi piridinici la maggior parte della
loro energia, tramite reazioni di
ossidoriduzione, che consentono di
eseguire gli enzimi associati a questi
NAD e NADP. Esistono più di 400
enzimi che richiedono questi coenzimi, quindi saranno tantissime le deidrogenasi abbinate sia a
NAD+ sia a FAD. Il NAD+ interviene
principalmente in vie cataboliche
ossidative come la glicolisi, ciclo di
Krebs, β-ossidazione degli acidi
grassi. In queste reazioni il NAD +
riceve lo ione idruro, si riduce quindi
a NADH, conservando l’energia di
ossidazione. Questa energia verrà
rilasciata quando il NADH si
ossiderà a NAD+ a livello della
catena respiratoria mitocondriale.
NADP+ è utilizzato anche nella via
dello shunt dell’esoso
monofosfato, che è una via sempre
ossidativa del glucosio 6-fosfato.
Nelle reazioni dello shunt, il NADP+
si riduce a NADPH. Questo sarà
coinvolto in vie anaboliche
riduttive come la biosintesi degli
acidi grassi, del colesterolo, dei
nucleotidi e dei neurotrasmettitori,
nella riduzione del glutatione a
glutatione ridotto.
In generale si trovano il NAD e il FAD nelle vie cataboliche ossidative, il NADPH lo trovo nelle vie
anaboliche riduttive. Nelle vie ossidative tolgo elettroni e substrati e li appoggio temporaneamente su
FAD e NAD per generare le loro forme ridotte, le quali poi cederanno elettoni alla catena di trasporto.
Nelle vie anaboliche riduttive utilizzo gli equivalenti riducenti, rappresentati da NADH e NADPH, per

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andare a costruire, quindi cedere gli elettroni ai precursori dei substrati che daranno origine a molecole
più complesse.
Con la dieta introduciamo sia niacina sia nicotinammide e vengono entrambe trasformate nel loro
mononucleotide e dinucleotide. Successivamente mono e dinucleotidi con l’acido nicotinico vengono
convertiti nella forma funzionale biologica che è la nicotinammide mono e dinucleotide. Poi queste si
associno alle varie reazioni di deidrogenazione.
In realtà esiste un altro precursore, rappresentato dal triptofano. Il triptofano può essere convertito in
niacina e in acido nicotinico mononucleotide, dando così un apporto alla via biosintetica di questi
dinucleotidi basati sulla nicotinammide.
Niacina e nicotinammide derivano prevalentemente dal mondo animale, infatti si trova in carne,
uova, latte; ma anche in frutta in guscio e legumi.
Il quantitativo giornaliero raccomandato è sempre nell’ordine dei mg, in particolare 18 mg per il
maschio e femmina.
La pellagra è la malattia da carenza di niacina e nicotinammide, ma non è molto diffusa. È
conosciuta come la malattia delle tre D: demenza, diarrea, dermatite. Infatti i sintomi con cui si
manifesta sono di topo psichico, digestivo e cutaneo. La carenza dei due vitameri si rifletterà su alla
funzionalità di tutte le deidrogenasi che utilizzano i coenzimi NAD e NADP. La parola pellagra
significa proprio “pelle rugosa”, a descrizione dei sintomi cutanei della malattia.
Le cause sono un’inadeguato apporto di niacina,
nicotinammide e/o di triptofano, in casi di malnutrizione e
anoressia. È diffusa in quelle popolazioni che fanno uso
esclusivo di cereali nella loro alimentazione, come sorgo e
mais in Africa e miglio in India, e che assumono poche
proteine animali. Il mais di per sé contiene delle proteine, ma
a basso contenuto di triptofano, quindi non utilizzabili per la
biosintesi di questi nucleotidi. Altre cause sono l’alterato
assorbimento del triptofano e l’alcolismo cronico. Infatti
l’introduzione della niacina sconfigge completamente la
pellagra, fatta eccezione per chi abusa dell’alcol.
La nicotina ha un nome simile, ma è una molecola
completamente diversa e non ha alcuna funzione alimentare
o curativa della pellagra.

PANTOTENATO O ACIDO PANTOTENICO (B5)

Non verrà richiesto all’esame di disegnare la molecola di pantotenato o di coenzima A

Il coenzima A è il coenzima corrispondente del pantotenato e si indica con CoA-SH o soltanto CoA.
Se si scrive CoA-SH si mette in evidenza il gruppo tiolico, tramite il quale lega, reagisce e trasporta i
gruppi acilici. Il coenzima è infatti coinvolto nel trasferimento, trasporto, attivazione di gruppi acile.

La struttura del pantotenato è composta da una


molecola simile all’alanina e una parte chiamata
acido pantoico. Si chiama acido pantotenico perché
si trova in qualunque tipo di alimento, tanto che la
carenza non è nemmeno registrata. Le due forme
coenzimatiche che contengono il pantotenato sono il
CoA e la fosfopanteteina.

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Per quanto riguarda il CoA verrà trattato l’acetil-CoA, ovvero il gruppo acile legato al CoA come
trasporto del gruppo acile; e un esempio di acil carrier protein, che è un
trasportatore di gruppi acile che serve per una funzione diversa da quella esplicata dal CoA.
Trasportare gruppi acile significa trasportare gruppi di questo tipo: RC=O. Nel caso del gruppo acetile
al posto di R abbiamo un gruppo metile.

Questo trasporto viene attivato quando:


- avviene il metabolismo ossidativo del piruvato, dove l’enzima piruvato deidrogenasi converte il
piruvato in acetil-CoA
- nella sintesi degli acidi grassi, svolta nel citoplasma dall’enzima acido grasso sintasi che possiede
il gruppo di fosfopanteteina, la quale gli permetterà di far crescere la catena acilica fino ad ottenere
l’acido grasso desiderato
- viene attivato nell’ossidazione degli acidi grassi, dove anche un acido grasso come il palmitato
subisce la β-ossidazione, cioè una degradazione ossidativa, sottoforma di palmitoil-CoA. Non si
degrada l’acido palmitico, ma si ossida il palmitoil-CoA
- nel ciclo dell’acido citrico, perché acetil-Coa è la molecola che entra nel ciclo e viene

completamente degradata, ossidata e i suoi elettroni serviranno per produrre NADH e FADH 2

Il CoA ha nel suo cuore l’acido pantotenico, legato ad un nucleotide modificato. Questo è un
nucleotide difosfato formato da adenina, zucchero ribosio, un gruppo fosfato e un fosfato extra
fosfoesterificato sul carbonio 3’ del ribosio. La porzione terminale del coenzima
contiene il gruppo tiolico reattivo che si legherà al gruppo acile. L’acetil-Coa
si ottiene dalla condensazione del gruppo tiolico attivo e l’acido acetico. La
molecola rappresenta uno stato di attivazione dell’acido acetico, grazie
all’instabilità e reattività proprio del legame tioestereo (come un estere, ma con
un atomo di zolfo che media al posto dell’ossigeno), un legame ad alta
energia, ovvero con un elevato potenziale di trasferimento del gruppo acetile.
La ΔG libera dell’idrolisi di questo composto è molto grossa e negativa,
stabilizzando il prodotto derivante dall’idrolisi, grazie alla risonanza sul gruppo
acetato.
Quella nell’immagine a destra è un’altra versione del pantotenato. La proteina
raffigurata è nominata acil carrier protein e comprende un braccio extra,
non composto da aminoacidi. Fa parte dell’acido grasso sintasi e il braccio
non aminoacidico contiene un fosfato, l’acido pantotenico e un altro terminale

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con un gruppo sulfidrico reattivo, esattamente come coenzima A. Le reazioni di idrogenazione, di


riduzione dei substrati di acido grasso utilizzeranno come equivalenti riducenti il NADPH.
I mg da assumere giornalmente di questa vitamina sono 5, ma il problema non sussiste, dato che è
facilmente reperibile in tutti gli alimenti.

PIRIDOSSINA (B6)

Di questa vitamina esistano tre vitameri: la forma piridossale, piridossina (o piridossolo) e la


piridossamina. Derivano tutte dalla piridina (anello aromatico eteroatomo con un azoto al posto di un
carbonio), al quale anello sono attaccati vari gruppi funzionali. Sono sempre presenti un -CH2OH, un
-OH e un -CH3. Ciò che cambia nei vitameri è il gruppo che sostituisce il carbonio in posizione 3’ ed è
un gruppo aldeidico nel piridossale, un gruppo alcolico nelle
piridossina, mentre un gruppo amminico nella pirossamina.
Le forme coenzimatiche sono due e sono formate da una
fosfoesterificazione del gruppo fosfato e avviene sempre sul gruppo
-OH comune a tutti i vitameri. Quindi si formano il piridossal
fosfato (PLP), senza toccare il gruppo funzionale aldeidico, e la
piridossamina fosfato. Il piridossal fosfato usa il gruppo aldeidico
per fissarsi all’enzima col quale esercita la funzione coenzimatica,
legandosi covalentemente a questo, formando una base di Shiff.
Quindi il gruppo amino-terminale di una particolare lisina
dell’enzima reagisce con il gruppo aldeidico del piridossal fosfato. Il
piridossal fosfato è anch’esso una di quei coenzimi che si legano
covalentemente con l’enzima, come i coenzimi riboflavinici.

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I vegetali contengono principalmente piridossina, mentre i prodotti animali contengono gli altri
due vitameri. Naturalmente anche nei nostri cibi i coenzimi sono fissati alle loro proteine. Una volta
introdotti vengono assimilati e trasportati nel sangue, dove prevale il piridossal fosfato, che viene
distribuito a tutte le cellule. Il piridossal fosfato necessita di essere legato a delle proteine, quindi nel
sangue sarà legato all’albumina e nel globulo rosso all’emoglobina. Anche per la vitamina B6
l’eccesso o i suoi prodotti del metabolismo vengono eliminati con le urine.
Prima di entrare nell’enterocita, i vitameri vengono privati del gruppo fosfato, liberate e vengono
assimilate da sole. All’interno dell’enterocita subiscono una fosforilazione, ma nel sangue verranno
liberate soltanto come piridossale, piridossina e piridossamina. Successivamente piridossale,
piridossina e piridossamina entrano nella cellula epatica, nella quale ci sono degli enzimi responsabili
della fosforilazione dei tre vitameri, dando origine alle forme fosforilate. Tra queste la più importante è
il piridossal fosfato che, oltre a legarsi agli enzimi che lo utilizzano nel fegato, viene restituito al
sangue dove rigenererà piridossale e verrà trasportato a tutte le altre cellule. Una volta introdotto in
una cellula verrà fosforilato e poi legato agli enzimi che lo utilizzano.

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Non esiste una forma di riserva ufficiale del piridossal fosfato, però è legato alle glicogeno fosforilasi
del muscolo e, dato che la massa muscolare è notevole, può essere considerata come un sistema di
accumulo del piridossal fosfato.
Il catabolismo del piridossal fosfato avviene nel rene e il suo metabolita principale, che è l’acido
peridossico, viene escreto con le urine.
B6 interviene nel metabolismo di aminoacidi, di emoglobina e del glicogeno.
Per quanto riguarda il metabolismo del glicogeno, B6 è associata alla glicogeno fosforilasi, quindi ce
n’è una forte quota localizzata a livello muscolare e epatico. è implicata nel metabolismo
dell’emoglobina, in particolare nella biosintesi dell’eme. Nel metabolismo degli aminoacidi svolge degli
interventi molto importanti:
- reazioni legate all’enzima responsabile della transaminazione (transaminasi)
- la conversine del triptofano a NAD,
- la conversione di triptofano a serotonina
- la conversione di tirosina a dopamina
- la conversine da metionina a cisteina
- la conversione da serina a glicina

Una transaminasi deve trasferire un gruppo aminico. Per fare ciò le serve un aminoacido e un α-
chetoacido. Grazie al piridossal fosfato la transaminasi sposta il gruppo amminico sull’α-chetoacido,
in sostituzione del gruppo chetonico, generando l’α-chetoacido corrispondente al primo amminoacido
e l’aminoacido corrispondente all’α-chetoacido corrispondente al substrato. Quindi avviene uno
spostamento del gruppo amminico. Il ruolo del piridossal fosfato è quello ci trasportatore intermedio. Il
gruppo amminico che tolgo all’aminoacido lo lego temporaneamente al piridossalfosfato, formando
l’altra forma coenzimatica, la piridossamina fosfato. Sarà lei a cedere il gruppo amminico all’altro
substrato, convertendo l’α-chetoacido in un altro aminoacido.

Un’altra reazione molto importante è la sintesi della cisteina a partire dalla metionina. Per
sintetizzare cisterna dobbiamo partire da metionina, la quale interagisce con ATP. Questa libera il
gruppo adenosina, la quale si va a legare alle metionina. Successivamente si lega anche il fosfato
inorganico, generando da metionina il SAM (s-adenosin metionina). Il SAM è un composto
importantissimo perché è portatore di gruppi metile da trasferire. Quindi ci saranno delle metil
transferasi, con i loro substrati, che prenderanno il gruppo metile dal SAM e lo trasferiranno ai loro
substrati, generando delle forme che hanno il gruppo metile. Una volta tolto il gruppo metile dal SAM,
quello che avanza è s-adenosin legata all’omocisteina. Si stacca l’adenosina, generando
l’omocisteina, la quale, grazie a due enzimi transulfurasi, viene trasformata in cisteina. I due step di
transulfurazione, dove viene apportato il gruppo -SH, richiedono il piridossal fosfato. Questo processo
è visto come un incrocio di vitamine, i quanto agiscono non solo la vitamina B&, ma anche la B12
assieme al metiltetraidrofolato (derivato da acidi folici).

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La glicogeno fosforilasi decompone il glicogeno non in unità di glucosio, ma in glucosio-1-fosfato,


che poi subirà le modifiche necessarie sia a livello epatico, sia a livello muscolare. Questa reazione
richiede molto PLP, perché i muscoli e il fegato hanno masse considerevoli, quindi c’è molta
glicogeno fosforilasi e serve molto PLP.
I sintomi della carenza da vitamina B6 sono sempre gli stessi che caratterizzano le altre vitamine del
complesso B, ovvero cutanei, mucosi, neuropsichiatria e ematologici. La riduzione della quantità di B6
avviene per una riduzione dell’apporto, diminuzione dell’assorbimento, magari per una patologia
gastrointestinale, oppure per alterazione del metabolismo della vitamina B6 e della sua conversione
nella forma coenzimatica a causa dell’abuso di alcol. Il fegato produce molto PLP e se è
compromesso nella sua funzionalità dall’utilizzo dell’alcol, naturalmente cala anche la quantità di PLP
prodotto.
La quantità di B6 è sempre nell’ordine del mg: 1,3 mg nella prima fascia d’età in entrambi i sessi, poi
1,7 mg per gli uomini e 1,5 mg per le donne.

BIOTINA (VITAMINA B7)

La forma coenzimatica della biotina è la biocitina, la quale non è altro che il risultato dell’aggancio
della vitamina all’enzima col quale collabora. E’ legata al trasferimento di gruppi carbossilici, in questo
caso carbossilazione, ovvero attacco di gruppo carbossilico, mentre nel caso della tiamina si trattava
di decarbossilazione. Essa è legata ad una strana sperimentazione, quella di una dieta, già ai primi
del 900, composta unicamente da albume d’uovo crudo, contenente numerose proteine e, pertanto,
apparentemente sufficiente per una corretta alimentazione.

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In realtà si andava incontro ad una patologia nei ratti, chiamata malattia dovuta all’albume di uovo
crudo. Alla fine, tra gli anni 40-50, ci si accorse che la malattia non è di tipo carenziale:il problema è
dovuto al fatto che l’albume d’uovo contiene una glicoproteina, di nome avidina, che a crudo tiene
legata a sé la biotina. Quindi la biotina è presente nell’albume d’uovo con la differenza che, se questo
è crudo, è strettamente legata all’avidina, per cui non viene resa disponibile.
La biotina è costituita da due anelli, due strutture cicliche a 5 atomi: il primo anello (quello superiore) è
un anello imidazolico, mentre il secondo è un anello a 5 termini con uno zolfo, il quale porta un acido
grasso a 5 atomi di carbonio, che si chiama acido valerico. La biotina è legata, proprio grazie alla
reattività del gruppo carbossilico, ad un amminoacido (più precisamente la lisina) degli enzimi coi
quali collabora. Il gruppo lisina+biotina prende il nome di biocitina.

E’ pressochè impossibile che si verifichi carenza di biotina, poiché si trova un po’ dappertutto. E’ un
caso un po’ diverso rispetto alle altre vitamine del complesso B e C, in quanto la vitamina B7 viene
assunta con le proteine delle quali ci nutriamo, sebbene sia in parte sintetizzata anche dai batteri
intestinali. Viene assimilata nell’intestino e nel sangue viaggia assieme a una proteina, la biotimidasi,
la quale ha rilevanza anche dentro la cellula. L’eccesso e i suoi metaboliti sono eliminati con le urine.
La biotina presenta due provenienze:l’alimentazione e, in parte, la flora batterica intestinale. Noi
esseri umani la assumiamo cibandoci di carne e di cereali, che contengono proteine ricche di biotina,
legata ad un residuo di lisina all’interno della biocitina. Tuttavia, all’interno del tubo digerente, un
enzima, la biotimidasi, scinde la biotina, liberandola nel tratto intestinale. Qui viene assimilata in forma
libera e, successivamente, circolerà nel plasma sia in forma libera, sia in forma ancora legata alla
biotimidasi. Il fegato è l’organo che ne è più ricco.

Dentro le cellule la biotina subisce un particolare ciclo, che comporta l’attivazione con adenosina
monofosfato e la biotina, una volta attivata, si lega alle lisine degli enzimi coi quali collabora, che
devono essere delle lisine particolari, che si trovano, più specificamente, nella seguente sequenza
consenso:alanina, metionina, lisina, metionina. In questo modo si genera biocitina.

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Riciclaggio della biotina nella cellula


La biotina entra nelle cellule e viene attivata da una ligasi, che la lega all’AMP ed il biotinil-AMP che
ne deriva costituisce il substrato di una oloenzima sintetasi, che trasferirà la biotina all’apoenzima; a
questo punto si libera l’AMP e si genera l’oloenzima, che contiene la particolare lisina legata alla
biotina. Quando questo enzima viene degradato da parte di alcune peptidasi, si liberano gli
amminoacidi, fra i quali sarà presente anche la biocitina. Anche dentro la cellula interviene la
biotimidasi, che scinde lisina e biotina e, così facendo, quest’ultima può essere riutilizzata dentro la
cellula.
La biotina è l’enzima delle carbossilasi, che operano la carbossilazione, ovvero l’incorporazione di
due molecole di anidride carbonica in diversi substrati. La reazione avviene in due tempi:l’enzima
1,2,3 (domini, quindi blocchi funzionali della proteina), che ha come substrato l’acetilcoenzima A, gli
lega un gruppo carbossilato e genera il malonil-coenzima A, una reazione molto importante in
funzione della sintesi degli acidi grassi. I tre blocchi sono:un sito di carbossilazione, un sito c he porta
la biocitina e un sito che andrà a modificare il substrato, dal nome carbossilasi-transferasico.

Gli stadi della reazione sono i seguenti:il dominio che porta la biocitina trasferirà su di sé il gruppo
carbossilato e lo potrà fare utilizzando l’attività enzimatica del primo complesso, il dominio carbossilasi.
L’effetto catalitico di questo dominio sarà quello di andare ad attaccare il gruppo carbossilato sulla
biotina;la biocitina ha un braccio mobile, che le consente di spostare la biotina carbossilata in un altro
sito attivo, quello della carbossil-transferasi:in questo sito attivo il gruppo carbossilato sarà trasferito al
substrato acetilcoenzima A, per determinare il prodotto finale della reazione. Il gruppo carbossilato
viene ricavato dal bicarbonato presente nella cellula ed, in seguito, viene legato al substrato, che
subisce carbossilazione. Questo è l’effetto di un enzima che usa la biotina per carbossilare. Il piruvato
carbossilasi va a carbossilare il piruvato, formando l’ossalacetato:è la prima reazione della via della
gluconeogenesi a partire dal piruvato per generare glucosio. Nell’enzima sono evidenti i tre blocchi:il
biotin carrier domain, il dominio che lega il gruppo carbossilico alla biotina (quando il braccio si sposta
sul sito attivo del primo dominio di carbossilazione) e l’oscillazione verso l’altro dominio, quello nel
quale il gruppo carbossilato si staccherà dalla biotina e verrà assegnato al piruvato. NB:l’enzima è
un’unica sequenza amminoacidica, che si compatta e organizza tridimensionalmente in tre
domini.Sono sufficienti 30μg di biotina al giorno.

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Lezione n°25 del 05.06.2018
Sbobinatore: Ludovica Landi, Cristian Coccia
Controllore: Martina Cancellara
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: vitamine idrosolubili del complesso B

FOLATI (VITAMINA B9)

Il coenzima di questo gruppo di vitamine è l’acido tetraidrofolico (THF), che trasferisce gruppi
monocarboniosi. Durante gli anni 40 vennero scoperte la struttura dell’acido folico e la sua sintesi. Nel
corso degli anni 60 un ricercatore seguì una dieta senza folati, annotò i sintomi per analizzarne la
carenza e stabilì i criteri per la diagnosi della carenza, definendo i quantitativi del fabbisogno giornaliero
nell’adulto. Nel 1976 si evidenziò che in Gran Bretagna, in regioni particolarmente depresse, le donne
che avevano dato alla luce un bambino con malformazioni del tubo neurale, avevano, ad inizio
gravidanza, livelli particolarmente bassi di folati nel sangue:da ciò capiamo che in gravidanza
l’integrazione dei folati è alla base di tutto. I difetti del tubo neurale possono andare dall’anencefalia
alla spina bifida (mancata occlusione delle vertebre, accompagnata da danni al midollo spinale).
L’acido folico è chiamato in questo modo, perchè è contenuto nelle foglie e, soprattutto, negli spinaci,
negli asparagi e nei broccoli (mondo vegetale). La formula di struttura è particolare:è caratterizzata da
un primo blocco formato dalla pteridina, due anelli aromatici eteroatomici che contengono numerosi
atomi d’azoto;il CH3 della pteridina reagisce con la componente amminica dell’acido
paraminobenzoico (PABA), la cui componente carbossilica, invece, reagisce con un glutammato.

L’acido glutammico reagisce grazie al suo gruppo amminico, mentre il suo gruppo carbossilico della
catena laterale resta non reagito nella prima formula di struttura.
L’azoto 5 della pteridina e quello 10 del PABA portano i gruppi monocarboniosi destinati al
trasferimento legato a particolari attività enzimatiche . Le unità monocarboniose possono essere di
varia natura:gruppo metile, metilenico (più importanti), ma anche metenile e formilico. La forma
coenzimatica corrisponde all’acido folico idrogenato in acido diidrofolico e tetraidrofolico ed, inoltre,
non lega un solo glutammato, bensì più glutammati. Essa va a idrogenarsi proprio sul gruppo della
pteridina (sia per il diidrofolato, sia per il tetraidrofolato). Per quanto riguarda la formazione dei
poliglutammati, essi derivano dal primo glutammato, che forma un legame ammidico con il gruppo
amminico di un altro glutammato e via di seguito (si possono avere dalle 5 alle 8 code di
poliglutammato).

Dall’intestino i folati passano nel sangue, all’interno del quale la forma prevalente è quella che
presenta il gruppo metile ed è legata all’albumina. Dall’intestino vengono assunte le forme
monoglutammato dell’acido folico, ma esse sono convertite subito nella forma metilata: pertanto nel
sangue troveremo sia l’acido folico, sia la forma metilata del tetraidrofolato.

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Lezione n°25 del 05.06.2018
Sbobinatore: Ludovica Landi, Cristian Coccia
Controllore: Martina Cancellara
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: vitamine idrosolubili del complesso B

Se all’interno della cellula entra l’acido folico semplice esso deve essere idrogenato, quindi
trasformarsi in idrofolato e tetraidrofolato, poi verrà poliglutammato e gli verranno legate le varie unità
monocarboniose che serviranno. Il fegato produce anche il metil-tetraidrofolato, che viaggia nel
plasma, entra in tutte le cellule ed è già tetraidrofolato, per cui gli mancano solamente i poliglutammati
per funzionare.

La reazione più importante è quella che si verifica nel fegato:qui l’acido folico viene idrogenato dal
NADPH in diidrogenofolato e tetraidrofolato, grazie a un enzima folato reduttasi. Il poliglutammato,
una volta generato all’interno della cellula (forma coenzimatica attiva) si deve fissare ai rispettivi
enzimi, per generare degli oloenzimi funzionanti, i quali trasferiranno il gruppo carbonioso. La
produzione del DHF e THF dipende dall’enzima diidrofolato reduttasi, il cui inibitore competitivo è il
metotrexato. Questo enzima non presenta esclusivamente questo inibitore chemioterapico, ma
anche il trimetoprim, un agente antibiotico, ed un sulfamidico a monte. Da ricordare che la forma
coenzimatica, che è legata al THF, è associata alla biosintesi di alcuni amminoacidi e alla sintesi di
purine e TMP (timidina monofosfato). Il ciclo dei folati coinvolge anche la vitamina B6, per la
produzione di metionina, cisteina e omocisteina; il folato è dapprima idrogenato, fino a THF
(soprattutto al livello delle cellule epatiche) , il THF con la vitamina B6 si converte in metilene-THF, il
quale partecipa alle reazioni di produzione di purina e TMP (biosintesi acidi nucleici); questo viene
convertito in metil-THF, il quale viene successivamente coinvolto nella reazione di sintesi della
metionina e collabora con la vitamina B12. L’importanza di tale reazione è dovuta non solo alla
produzione di metionina e alla collaborazione con la vitamina B12, ma anche alla rigenerazione del
THF, che sarà pronto per essere utilizzato nelle reazioni che coinvolgono la sintesi degli acidi nucleici.

La carenza di folati è associata a diverse fattori: un aumentato fabbisogno, nel corso della gravidanza
e dell’allattamento (l’aumento dei tessuti della madre e del feto comportano un incremento del
numero di replicazioni e, conseguentemente, un elevato fabbisogno di folati), un insufficiente apporto
nella dieta, fumo, malassorbimento dei folati, celiachia, morbo di Crohn, malattie genetiche ed alterato
metabolismo, causato da effetti farmacologici, come quelli del metotrexato. La carenza si esprime con
dei segni generali e con il caratteristico segno ematologico:l’anemia megaloblastica, che compare in
un tempo prolungato e che causa la formazione di pochi globuli rossi, grossi e immaturi (non
funzionali);per cui possiamo concludere che la ridotta capacità di sintetizzare gli acidi nucleici intacca
l’eritropoiesi da parte dei reticolociti del midollo osseo. 400 sono i microgrammi per l’assunzione
giornaliera.

COBALAMINA (VITAMINA B12)


Nel corso degli anni 50 vennero determinate la strutta chimica e la
funzione della cobalamina, una vitamina che collabora con l’acido
folico. Essa è una vitamina molto importante:innanzitutto è presente in
tutti i prodotti carnei, nonché nelle uova e nel latte (regno animale), ma
è sintetizzata esclusivamente dai microrganismi. Attenzione a non
confondere la B12 con un gruppo eme, perché, essa contiene un
gruppo tetrapirrolico, che lega al centro non un ferro 2+, bensì un
atomo di cobalto;il cobalto è legato sia ai quattro azoti dell’anello
tetrapirrolico, sia a una struttura pseudonucleotidica e,
perpendicolarmente rispetto all’anello, al gruppo trasportato, che è

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Lezione n°25 del 05.06.2018
Sbobinatore: Ludovica Landi, Cristian Coccia
Controllore: Martina Cancellara
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Elena Ferrari
Argomenti: vitamine idrosolubili del complesso B

frequentemente il gruppo metile o la 5’-deossiadenosina e con il quale forma le uniche forme


coenzimatiche attive. La cianocobalamina viene isolata e sintetizzata negli integratori di vitamina B12.
Nel plasma la cobalamina è trasportata dalla transcobalamina, mentre la metilcobalamina e
l’adenosilcobalamina partecipano a due reazioni particolarmente importanti:la prima è quella di
metionina sintasi (a cui partecipa la metilcobalamina, che lega il gruppo metile), l’altra è una mutasi
del metilmalonil-coenzima A. Per quanto riguarda la metionina sintasi, il gruppo metile legato al
folato viene trasferito prima alla vitamina B12 e poi all’omocisteina, generando la metionina. Pertanto,
la B12 è un trasportatore intermedio del gruppo metile, destinato all’omocisteina. Invece, il
metilmalonil-coenzima A deriva dagli acidi grassi a catena dispari e da alcuni amminoacidi.

La carenza può derivare da un apporto insufficiente o da un alterato assorbimento;nei paesi


industrializzati per un regime vegetariano/vegano, nei casi di patologie gastriche o malassorbimento
cronico si può incorrere in una carenza di vitamina B12. Gli effetti sono ancora a carico di quelle
cellule che si replicano intensamente, come i precursori eritropoietici del midollo osseo. A causa della
stretta relazione fra folati e cobalamina, nei casi di carenza di vitamina B12, non è possibile produrre
metionina né effettuare reazioni di metilazione. Il risultato secondario è che il metil-THF rimane
intrappolato nella sua forma metilata, per cui la cellula non riesce a rigenerare il THF;in caso di
mancata rigenerazione è impossibile ricostruite anche il metilen-THF, per cui viene compromessa la
sintesi degli acidi nucleici. Ne conseguono, pertanto, un deficit nella sintesi di purina, TMP e, infine, i
sintomi dell’anemia megaloblastica.

Quando l’anemia è dovuta ad un grave malassorbimento viene espressa un’anemia perniciosa,


dovuta all’assenza del fattore intrinseco gastrico, prodotto a livello dello stomaco, che, tuttavia,
funziona solo nell’ileo, dove capta la vitamina B12 e interagisce con le cellule della mucosa dell’ileo,
partecipando all’internalizzazione della B12. Anche l’anemia perniciosa rientra nella famiglia delle
anemie megaloblastiche, essendo caratterizzata da eritrociti di grandi dimensioni, in numero ridotto e
non funzionali. Le indagini cliniche devono saper distinguere qual è l’origine della carenza
responsabile di anemia megaloblastica:ad esempio, se s’ipotizzasse che essa derivi da insufficiente
apporto di folati, si potrebbe assumere la B12, attraverso via parenterale o integrandola, ma essa non
sarebbe sufficiente a garantire le reazioni. Sono necessari pochi microgrammi al giorno per
soddisfare il fabbisogno giornaliero.

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Lezione n°24 del 06.06.2018
Sbobinatore: Federico Galleano e La Greca Lucrezia
Controllore: Michele Iacca
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Domande di biochimica

DOMANDE DI BIOCHIMICA
Paragrafo introduttivo:
[domande inerenti a: termodinamica (entropia),2,3-BPG, complesso V, gruppo EME, gestione dei
ROS nel mitocondrio, Vmax e classificazione enzimatica, Km e K0,5, complessi I e II della catena
respiratoria]

Come si collega il fatto che una struttura diventi ordinata con lo scambio efficiente di energia
con l’ambiente?

Gli scienziati, seguendo l’andamento dell’evoluzione, si sono accorti che i primi organismi fossero
più semplici (protocellule) mentre col passare del tempo si sono sviluppati organismi pluricellulari
caratterizzati da un aumento della complessità associato ad un aumento dell’ordine. Un esempio di
questo è dato dagli organismi dotati di un apparato cardiocircolatorio in cui il sangue circola in modo
ordinato all’interno dei vasi. Questa idea dell’ordine, apparentemente contrastava con il secondo
principio della termodinamica il quale invece sostiene che i sistemi tendono tutti ad evolvere verso
uno stato di maggiore disordine fino ad arrivare all’omogeneità. Nelle celle convettive quando, dal
basso, una debole fonte di calore scalda le molecole d’acqua esse si muovono caoticamente in
modo disordinato andando verso l’alto. Una volta arrivate in alto le molecole d’acqua cedono calore
all’atmosfera raffreddandosi. Nel momento in cui si alza il fuoco, cioè si fornisce più calore, il modello
di trasferimento dell’energia sotto forma di calore dalla fiamma all’aria, precedentemente descritto,
non è più efficiente. Il trasferimento di calore diventa molto più efficiente se tutte le molecole si
muovono assieme poi si raffreddano assieme. Questo tipo di modello di trasferimento dell’energia
genera una struttura ordinata che trasporta energia dal fuoco all’atmosfera più velocemente
obbedendo meglio al secondo principio della termodinamica. La cella convettiva è un sistema aperto
che scambia energia e materia con l’ambiente infatti l’acqua trae l’energia dalla fiamma sottostante
e la cede all’atmosfera. Il vivente è un sistema aperto e ordinato attraversato da un flusso di energia
necessario per mantenere la sua organizzazione e il suo ordine interno. La morte di un organismo
vivente è l’equivalente del massimo dell’entropia perché nel momento in cui un vivente muore perde
completamente la sua organizzazione e il suo ordine interno. Per questo motivo il vivente possiamo
definirlo come una macchina da entropia. Un altro esempio è dato dal frigorifero cioè un sistema
aperto che, per abbassare la temperatura all’interno, cede calore all’esterno aumentando così
complessivamente l’entropia.

Regolazione del 2,3-BPG sull’emoglobina all’interno del globulo rosso?

Il BPG è un prodotto intermedio della via glicolitica pertanto esso è presente, in tracce, in tutte le
cellule ma, nei globuli rossi, la sua concentrazione arriva fino a 5 millimolare perché essi si adattano,
per ragioni fisiologiche, a produrne di più. I globuli rossi deviano una parte degli atomi di carbonio
destinati alla glicolisi verso la produzione di 2,3-BPG. Il 2,3-BPG è una molecola ricca di cariche
elettriche negative che, inserendosi all’interno della struttura quaternaria della emoglobina, genera
un impedimento sterico. L’impedimento sterico blocca il cambiamento conformazionale della
emoglobina e, osservando la reazione, questo si traduce in un’aumentata stabilizzazione della
deossiemoglobina ovvero lo stato teso dell’emoglobina. L’aumentata stabilizzazione della
deossiemoglobina permette un maggiore rilascio di ossigeno. I globuli rossi sono in grado di regolare
la concentrazione di 2,3-BPG, infatti, a livello del mare essa è circa pari a 5 millimolare mentre in
alta quota si arriva fino a 8 millimolare. L’ischemia periferica, cioè la mancanza di ossigeno ai tessuti
periferici, viene percepita dai globuli rossi grazie a dei sensori biologici che si comportano come
fattori di trascrizione inducendo l’attività della mutasi. La mutasi è l’enzima che permette di
accumulare quantità maggiori di 2,3-BPG. È necessaria una concentrazione minima di 2,3-BPG nel
sangue altrimenti l’emoglobina non cederebbe abbastanza ossigeno ai tessuti periferici.

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Lezione n°24 del 06.06.2018
Sbobinatore: Federico Galleano e La Greca Lucrezia
Controllore: Michele Iacca
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Domande di biochimica

L’emoglobina fetale, non interagendo con il 2,3-BPG, è più affine per l’ossigeno rispetto
all’emoglobina materna e pertanto le strappa l’ossigeno. Al momento della nascita l’emoglobina
cambia la sua composizione e grazie alle subunità beta essa diventa in grado di legare il 2,3-BPG
abbassando così la sua affinità per l’ossigeno.

Come mai il complesso V in assenza di flusso protonico consuma ATP?

La reazione che utilizzando ADP e Pi porta alla produzione di ATP è una reazione endoergonica
perché per poter procedere necessita di energia. L’energia utilizzata è ottenuta dal flusso protonico,
infatti il flusso dei protoni genera il movimento del complesso V e i cambiamenti conformazionali
delle subunità del complesso V. Le subunità proteiche del complesso V, in seguito al movimento, si
caricano di un’energia conformazionale che si scarica catalizzando la reazione di formazione
dell’ATP. Quindi, riassumendo, il movimento dei protoni muove le subunità del complesso V
caricandole di un’energia potenziale di tipo conformazionale la quale si scarica generando ATP a
partire da ADP e fosfato inorganico. Il complesso V, in assenza del flusso protonico, catalizza la
reazione in senso opposto cioè consuma ATP per produrre ADP e fosfato inorganico rilasciando
energia. Quando la concentrazione di ossigeno nella cellula è bassa, il mitocondrio, non è in grado
di generare il flusso protonico. La mancanza del flusso protonico fa scattare un meccanismo
molecolare che porta la molecola IF1 (fattore di inibizione della parte F1 del complesso V) a bloccare
due complessi V, generando un dimero, impedendogli di consumare ATP. Il complesso V era
chiamato ATPasi perché i primi scienziati che lo studiarono utilizzarono “brandelli di mitocondri” e
quindi osservarono che il complesso V consumava ATP per produrre ADP e fosfato inorganico.

È fisicamente la rotazione al contrario della parte F1 del complesso V che degrada ATP ad
ADP e Pi?

In assenza di rotazione non avviene più il cambiamento conformazionale e pertanto non si verifica
più la carica di energia. L’ATP in soluzione, in assenza dell’enzima, impiega un tempo molto lungo
a idrolizzarsi (pari a circa 2 ore) mentre, in presenza dell’enzima, impiega circa 2 minuti perché
l’enzima velocizza il raggiungimento dell’equilibrio di reazione che in quelle condizioni è
termodinamicamente favorita cioè l’idrolisi dell’ATP.

Differenza tra il funzionamento del gruppo EME nel complesso III e nell’emoglobina?

Nell’emoglobina il gruppo EME è legato alla parte proteica da una sola istidina prossimale lasciando
così libero il ferro di effettuare il sesto legame. Nel citocromo sono presenti due istidine “prossimali”
che legano entrambe il ferro il quale rimane privo di legami liberi. Nell’emoglobina il gruppo eme è
inserito in una tasca idrofobica che impedisce l’entrata dell’acqua mantenendo il ferro in valenza 2+.
Anche nei citocromi avviene ciò, infatti, il gruppo EME non deve ossidarsi per effetto di una molecola
d’acqua però nei citocromi è permesso un trasferimento di elettroni. Nei citocromi si sfrutta il fatto
che il ferro del gruppo EME possa passare da 2+ a 3+ liberando elettroni. Quindi è diversa la
modalità con cui il gruppo EME si attacca alla parte proteica. La diversità dei potenziali elettrochimici
tra i vari tipi di citocromi è dovuta ai sostituenti attorno al gruppo EME e la alla diversa catena
proteica.

Utilizzo del NADPH da parte dei mitocondri nel sistema di gestione dei ROS dei mitocondri

Nella membrana mitocondriale è presente un complesso proteico che consente l’entrata del potere
riducente necessario per ridurre il NADP a NADPH. La maggior parte del NADP ridotto viene
prodotto nel citoplasma ad opera shunt dei pentosi. È presente un sistema di shuttle specifico che
permette di trasferire il potere riducente, attraverso una proteina della membrana mitocondriale, dal
NADP esterno (quello presente nel citoplasma) al NADP interno (mitocondriale).

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Lezione n°24 del 06.06.2018
Sbobinatore: Federico Galleano e La Greca Lucrezia
Controllore: Michele Iacca
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Domande di biochimica

Questo potere riducente viene trasferito al sistema della glutatione reduttasi e glutatione perossidasi.
Il potere riducente serve a ridurre il glutatione ossidato cioè a rompere i ponti di solfuro rigenerando
i gruppi tiolici SH che servono per bloccare i radicali.

Definizione della Vmax?

La Vmax è la velocità massima con cui si genera prodotto in condizioni di substrato saturante cioè
quando la quantità di substrato non è un fattore limitante. Non essendo il substrato ciò che limita la
velocità di formazione del prodotto ma bensì il numero di molecole di enzima durante gli studi
sull’equazione di Michaelis-Menten dobbiamo usare quantità di enzima costante. Quindi la Vmax è
un parametro che presuppone una determinata e costante quantità di molecole di enzima e ogni
enzima deve essere legato al substrato. In queste condizioni viene misurata la vera velocità di
reazione. La cellula, attraverso la regolazione dell’espressione genica, può regolare la quantità di
molecole di enzima a seconda delle sue necessità metaboliche.

Classificazione degli enzimi

La classificazione degli enzimi è basata su un codice a quattro cifre tipico di ciascun enzima in cui
ogni cifra ha un significato ben specifico. Gli enzimi catalizzano sei tipi di reazioni chimiche
fondamentali. Ad ogni classe di reazione viene assegnato un numero corrispondente. Nell’insieme
dato da ogni classe di reazione chimica fondamentale sono presenti dei sottoinsiemi. Esempio le
ossidoreduttasi che usano il NAD hanno un numero specifico mentre quelle che usano il FAD hanno
un altro numero specifico. Ad ogni sottoclasse corrisponde un altro insieme “sotto sottoclasse” che
comprende enzimi aventi tutti un numero specifico. In fine l’ultimo numero, che è sempre correlato
al substrato che utilizzano o al prodotto che formano, è individuale. Per riassumere il codice di
quattro cifre è dato: dal numero della classe, numero della sottoclasse, numero della sotto
sottoclasse e numero individuale dell’enzima.

Per quanto riguarda l’inibizione dell’attività enzimatica, perché nell’inibizione non


competitiva, le linee sono parallele, mentre in quella competitiva si incrociano?

Alcune cose non sono ancora chiare, si tratta di grafici sperimentali con cui si classificano i vari
modelli di inibizione, a questi sono collegati modelli di meccanismi di inibizione. Alcuni di questi si
sono dimostrati veri, altri solo ipotizzati. Ad esempio, l’inibizione di tipo competitivo è abbastanza
chiara, ovvero entra un substrato con la stessa struttura nel sito attivo, lo impegna, quindi quella
molecola di enzima non può legare il substrato.

Quando l’eritrocita arriva al polmone, l’emoglobina si trova nella sua forma tesa. Il passaggio alla
forma tesa è dovuto al fatto che ha legato il protone rilasciato dall’acido carbonico o perché ha perso
ossigeno?

Sono eventi simultanei, sono 2 facce della stessa medaglia. Dire che l’emoglobina è passata alla
forma tesa perché ha perso ossigeno o dire che è passata alla forma tesa perché ha legato il protone
è la stessa cosa.

Perché la Km è un indice di affinità dell’enzima per il substrato?

La Km indica quanto la curva sale rapidamente. Esprime l’affinità, ovvero la velocità con cui l’enzima
lega il substrato. Più rapidamente la curva enzimatica raggiunge la V max, più rapidamente ogni
molecola di enzima ha catturato il suo substrato. Minore è la K m, maggiore è l’affinità.

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Lezione n°24 del 06.06.2018
Sbobinatore: Federico Galleano e La Greca Lucrezia
Controllore: Michele Iacca
Materia: Biochimica
Docente: Prof. Bettuzzi
Argomenti: Domande di biochimica

Perché nella catena respiratoria ci sono 2 complessi, uno per il FAD e uno per il NAD?

La necessità di avere 2 complessi nasce dal fatto che vi sono 2 coenzimi ridotti con potenziali redox
diversi. Il FAD ridotto ha potenziale redox troppo basso, non può essere ossidato dal complesso I.
Se mettessimo complesso I e FAD a contatto, invece di essere il complesso I ad ossidare il FAD,
sarebbe il FAD ad ossidare il complesso I. Nelle ossidoriduzioni catturo elettroni dalla molecola A,
perché ho il potenziale redox giusto per strappare elettroni, ma poi cedo elettroni alla molecola B,
perché questa ha il potenziale redox giusto per strapparli a me. Il complesso I ha potenziale redox
giusto per strappare potere riducente al NAD, mentre il complesso II ha potenziale redox giusto per
strappare potere riducente al FAD. Se si toglie il complesso II dalla membrana e si dà FAD ridotto
non succede nulla, perché non entra potere riducente per la catena di trasporto, non vengono ceduti
elettroni dal FAD, che non vanno nel complesso I perché in salita da un punto di vista
elettrodinamico. Inoltre i complessi sono enzimi che presentano un sito attivo specifico per il
substrato, in questo caso o per il FAD o per il NAD.

Qual è la differenza tra Km e K0,5?

La Km riguarda un enzima che è un monomero e quindi ha curva di saturazione iperbolica. La K 0,5


riguarda un enzima che è un oligomero, la curva di saturazione è sigmoide e quindi soggetto a
regolazione allosterica. La differenza è solo concettuale.

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Lezione n°25 del 07.06.2018
Sbobinatore: Sara Bartoletti, Adam Cosentino
Controllore: Gian Marco Marani
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Rizzi
Argomenti: Coagulazione del sangue

COAGULAZIONE DEL SANGUE


Il processo di coagulazione prevede la partecipazione della vitamina K, la quale permette la
corretta maturazione post-traduzionale dei fattori di coagulazione. In particolar modo, la vitamina K
è il cofattore delle reazioni di 𝛾-carbossilazione, i quali sono indispensabili per far sì che i fattori
assumano una corretta conformazione quando sono coinvolti nel processo di coagulazione
chelando il calcio (che è un alimento che è richiesto per la formazione del coagulo ematico). Per
emostasi si intende un processo estraneamente complesso, che è senz’altro un processo
salvavita; è un processo che serve per ridurre la perdita di sangue nel momento in cui si verifica un
danneggiamento dell’endotelio vascolare. Quello che accade è che, a seguito del danno ad un
vaso, si attivano in maniera ordinata e regolare alcuni processi. Infatti, né l’ordine né la regolazione
possono venire meno in questo processo, perché altrimenti si assisterebbe ad una coagulazione
imperfetta, ad un’iper-coagulazione o ad una coagulazione che si attiva quando non ce n’è
bisogno. Quindi la coagulazione è un processo molto complesso, che deve avvenire nel giro di
pochi istanti dalla formazione del danno nel vaso, in modo ordinato, con tempistiche veloci e
coordinate e che deve cessare nel momento in cui non se ne ha più bisogno.

In seguito alla lesione di un vaso macroscopicamente si osservano una successione di eventi:


inizialmente, avviene la vasocostrizione. Essa è necessaria sia per ridurre l’afflusso di sangue
verso la regione danneggiata che per innescare una variazione delle caratteristiche idrauliche nel
flusso ematico, che faciliteranno una serie di processi che sono necessari per l’attivazione delle
piastrine. Successivamente, le piastrine formeranno una trama, che aderirà all’endotelio
danneggiato formando un coagulo inizialmente lasso. Infatti, affinché il coagulo diventi duro, è
necessario che si verifichi il processo di coagulazione vero e proprio. Tuttavia, in seguito alla
formazione di questo coagulo stabile, sempre in maniera controllata, dovranno avvenire dei
processi che, nel momento in cui la lesione vasale è stata ricostruita, vanno a rimuove il tappo di
piastrine. Questi processi sono rappresentati fondamentalmente dal processo di cicatrizzazione e
di dissoluzione del coagulo.

Le piastrine sono una componente cellulare del sangue estremamente particolare. Possono
essere definite cellule esocrine, perché producono una quantità enorme di molecole che fungono
da mediatori e da segnali per tanti processi, tra i quali quello della coagulazione. Le piastrine
vanno ad aderire a delle fibre di collagene e l’adesione ad esse è mediata da un fattore di
coagulazione, ovvero il fattore von Willebrand. Esso rappresenta uno solo dei fattori coinvolti
nella coagulazione; esso non è altro che una proteina che crea un ponte fra le glicoproteine della
superficie delle piastrine e il collageno che troviamo negli strati esposti in seguito alla lesione
dell’endotelio.

Tuttavia, uno dei fattori più utili per l’attivazione delle piastrine è la trombina. La trombina è uno
dei fattori della coagulazione che per maturare correttamente ha bisogno della vitamina K. La
trombina ha un suo recettore sulle piastrine che è un recettore associato a proteine G (es.
trasducina). Le proteine G sono proteine trimeriche che servono per la trasduzione intracellulare di
segnali che arrivano da fuori. Pertanto, attraverso l’attivazione di questo recettore associato a
proteine G, viene innescata una cascata, che passa attraverso l’attivazione di chinasi (enzimi che
fosforilano). In questo caso, i bersagli fosforilati dalle chinasi attivate dall’ingombro della trombina
sul proprio recettore permettono d’innescare l’attività secretoria delle piastrine e di andarne a
modificare la forma agendo sulle proteine del citoscheletro. Riassumendo: la trombina, che è un
fattore della coagulazione, trova il proprio recettore sulle piastrine e si forma il legame fra la
trombina e il recettore. Questo comporta una cascata di eventi mediati da una proteina G che
portano all’attivazione di una chinasi. La chinasi, a sua volta, va a fosforilare la catena leggera
della miosina nelle proteine che formano il citoscheletro. Questa fosforilazione provoca una

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Lezione n°25 del 07.06.2018
Sbobinatore: Sara Bartoletti, Adam Cosentino
Controllore: Gian Marco Marani
Materia: Biochimica
Docente: Prof.ssa Rizzi
Argomenti: Coagulazione del sangue

variazione nella forma delle piastrine, le quali, da elementi circolari, diventano cellule spinose
(presentano protrusioni della membrana che hanno la funzione di aderire meglio alla lesione).

Un altro meccanismo innescato dalla trombina è l’attività secretoria di molecole che favoriscono la
formazione del coagulo, fra queste il trombossano (TXA2). Riassumendo:
trombina → recettore → proteina G → chinasi →modificazione del citoscheletro → alterazione della
forma della piastrina → fosforilazione di altri substrati → attivazione della secrezione di sostanze
pro-coagulanti (fra queste il trombossano)

Quando le piastrine sono attivate assumono la forma spinosa e tendono a formare un tappo, che è
dato dalla giustapposizione delle piastrine stesse, le quali espongono proteine dedicate
all’adesione. Tuttavia, il tutto necessita anche di un collante; si deve formare un coagulo duro.
Questo si forma nel momento in cui parte la fase ematica dell’emostasi, la quale non è altro che
un processo a cascata. Processo a cascata significa che è un processo che procede attraverso
steps positivi nei quali, come in una in una cascata, l’energia del processo viene enormemente
aumentata. In questo caso, ciò che aumenta è il numero di molecole coinvolte, ovvero si verifica
un’espansione del processo molecolare. Questo processo a cascata inizia con un iniziatore che
poi andrà ad attivare un elemento posto a valle che, una volta attivato, attiverà altri elementi posti
a valle dell’elemento attivato e così via. Questo permette di creare tanti steps, ordinati secondo
una scala gerarchica, nei quali si può attuare una regolazione, ma soprattutto permette di
amplificare il processo rendendolo estremamente efficiente e veloce. Ciò avviene tramite uno
stimolo singolo iniziale, ovvero l’attivazione della prima molecola.

Il processo di coagulazione, visto complessivamente, presenta due cascate: una cascata


riconducibile a quella che viene definita via estrinseca e una seconda cascata riconducibile a
quella che viene definita via intrinseca. Le due vie, anche se sono rappresentate separate, nella
realtà non sono separate. Infatti, molecole della via intrinseca dialogano con quella della via
estrinseca e viceversa. Il processo di coagulazione ematica efficiente ed efficace richiede il
perfetto funzionamento dei due rami della coagulazione. Le due funzioni non sono ridondanti, ma
sono sinergiche e convergono in quella che viene definita via comune. La via comune converge
su un fattore, fattore X della coagulazione, che è quello che poi andrà ad attivare l’ultima fase
della coagulazione, che consiste nell’attivazione della protrombina in trombina. Questa, a sua
volta, andrà ad attivare il fibrinogeno trasformandolo in fibrina. Infine, la fibrina, polimerizzando,
genererà una rete proteica molto solida nella quale verrà imbrigliato il tappo di piastrine. Quindi la
differenza fra il tappo lasso e il tappo duro di piastrine è dato proprio dalla formazione della rete di
fibrina. Riassumendo: la fibrina è una proteina che viene attivata a partire dal fibrinogeno, il quale
viene attivato dalla trombina, la quale deriva a sua volta dalla protrombina. La protrombina è
convertita in trombina dal fattore X. Il fattore X è l’imbuto collettore dell’attività del ramo intrinseco e
del ramo estrinseco della coagulazione.

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Il ramo estrinseco e il ramo intrinseco, in termini biochimici, sono costituiti da fattori per lo più
proteici, molti dei quali sono zimogeni, ovvero enzimi pronti ad essere attivati. Per zimogeno si
intende infatti la proforma dell’enzima attivo.
Una visione d’insieme del processo porta a comprendere che per avere una formazione efficace
della rete di fibrina, è necessaria la vitamina K. Infatti, la vitamina K è necessaria per la produzione
di fattori immaturi correttamente funzionanti; è richiesta per il fattore II (trombina), fattore XI, fattore
IX ecc…

VIA ESTRINSECA

La via che si attiva per prima fisiologicamente quando abbiamo la lesione di un vaso è la via
estrinseca. Successivamente, viene attivata anche la via intrinseca. La via estrinseca, così come
la via intrinseca, è caratterizzata da una serie di molecole che si attivano a cascata. Esse non
sono altro che i fattori di coagulazione. I fattori di coagulazione vengono rappresentati con
numeri romani.

La numerazione I-XIII è di poco aiuto per mettere in relazione un fattore con l’altro. Infatti, questa
numerazione mostra semplicemente la sequenza con cui questi fattori sono stati scoperti. Questo
significa che non necessariamente un fattore con un numero successivo si trova a valle di un
fattore con un numero precedente.
Alcuni di questi fattori (presentano l’asterisco nell’immagine a seguire) sono delle serine proteasi.
Le serine proteasi sono una classe di enzimi molto importante per il funzionamento del nostro
organismo. Si possono individuare inoltre quelli che sono vitamina K dipendenti (presentano
vicino al nome l’apice 1). Essi sono per lo più dei fattori che chelano ioni di calcio e che hanno
nella loro sequenza residui di acido glutammico che possono essere 𝛾-carbossilati. È possibile
osservare l’assegnazione di ogni fattore alla via estrinseca, alla via intrinseca oppure alla via
comune. Tuttavia, alcuni fattori non sono nè enzimi nè necessitano della vitamina K (ad esempio il
fattore di fattore von Willebrand serve nei processi di attivazione delle piastrine). Non sono enzimi
neanche il fattore V e il fattore VIII. Infatti, essi sono dei catalizzatori del processo o meglio fattori
proaccelleranti della coagulazione; fattori necessari per avere quella esplosività e quella rapidità
che consentono di formare il coagulo in frazioni di secondi o secondi dopo la lesione (in frazioni di
secondi si attiva il processo, in pochi secondi, se la lesione non è enorme, si è formato il tappo).

Factor Common Name Pathway Function


I Fibrinogen Common Fibrin clot
1
II Prothrombin* Common Generates fibrin
III Tissue factor (Thromboplastin) Extrinsic Receptor for VIIa
IV Calcium All Co-factor
V Proaccelerin Common Receptor for Xa
1
VII Proconvertin* Extrinsic Activates IX and X
VIII Antihemophilic factor Intrinsic Receptor for IXa
1
IX Christmas factor* Intrinsic Activates X
1
X Stuart factor* Common Activates prothrombin and VII
XI Plasma thrombin antecedent* Intrinsic Activates IX
XII Hageman factor* Intrinsic Activates XI
XIII Transglutamidase Common Cross-links fibrin
Von Willebrand factor Platelets Platelet activation and binding
Prekallikrein* Intrinsic Activates XII
Kininogen Intrinsic Receptor for kallikrein and XII

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SERINE-PROTEASI

Alcuni fattori sono, oltre che a proteine, anche enzimi della


famiglia serina-proteasi. Queste serine-proteasi, a differenza
di tutti gli altri enzimi, hanno un sito catalitico che presenta
una serina attivabile, ovvero una serina acida (che cede
facilmente il protone dell’ossidrile della sua catena laterale).
L’ossidrile della serina è particolarmente acido, ovvero
tende a diventare 𝑂− cedendo il protone. Infatti, questa
serina non è sola, ma si trova in prossimità di una triade
catalitica, la quale non è altro che un motivo di 3
amminoacidi, ovvero istidina, aspartato e serina. Questi 3
amminoacidi, collocati nel sito catalico, favoriscono lo
spostamento delle cariche dell’ossidrile della serina con
conseguente formazione di un ossigeno più elettronegativo
e la liberazione del protone. Quando l’ossigeno presenta un
doppietto elettronico libero, perchè ha ceduto un protone, si
ha un gruppo che può attacare il carbonile di una sequenza
peptidica (il carbonile di un legame peptidico) catalizzandone l’idrolisi. Quindi la serina acida, che è
presente nella triade del sito catalico delle serine proteasi, ha la capacità di attaccare il gruppo
carbonilico di un legame peptidico, promuovendo la scissione della proteina.

Il sito catalico è comune a tutte le serine-proteasi. Tuttavia, le serine-proteasi hanno delle


sequenze diverse nella loro catena proteica, grazie alle quali riescono a distinguere il substrato sul
quale devono andare ad agire. Per substrato si intende un fattore della coagulazione. Inoltre,
anche se non bisogna attivare la coagulazione del sangue, le serine devono essere pronte nel
sangue, ma non in forma attiva. Quindi esse vengono secrete e mantenute nel plasma sottoforma
di zimogeni. Lo zimogeno sono i precursori dell’ezima attivo.

Questa immagina mostra un diagramama


schematico di raggruppamento dei vari
fattori coinvolti nella coagulazione, ma
anche fattori anticoagulanti e fattori Sequenza segnale
fibrinolitici, ovvero coinvolti nella
dissoluzione del coagulo della fibrina. dominio catalitico
Osservando questa immagine si nota una
certa omologia, data dal fatto che, a livello di
queste molecole, sono presenti dei domini
frequenti. Ad esempio, i fattori
procaogulanti, nella sezione c-terminale propeptide
della proteina, presentano un dominio
catalitico (linea rossa). Inoltre, alcuni fattori,
nella sezione più n-terminale della proteina,
hanno un dominio verde, ricco di acido
glutammico: una parte della proteina nella
quale sono presenti molte glutammine
ripetute che saranno 𝛾-carbossilate nella
reazione della 𝛾-carbossilasi coadiuvata
dalla vitamina K, pertanto è presente sono
nei fattori vitamina K dipendenti.

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Inoltre, precede il dominio ricco di acido glutammico (GLA), una sequenza (pallini rossi); esso non
è altro che un propeptide, che serve a segnalare l’immediata presenza della sequenza ricca di
acido glutammico. Infine, all’estremo n-terminale di tutte queste proteine è presente un dominio
(celeste) che indica la sequenza segnale; essa non è altro che quella sequanza che hanno tutte
le proteine che sono destinate a maturare a livello del reticololo. Queste proteine, quindi, non
vengono prodotte nel citosol, ma sono indirizzate direttamente nel RE, a livello del quale vanno
incontro ad un processo di maturazione e poi di secrezione. Tuttavia, tale sequenza viene rimossa
durante il processo di maturazione; non è visibile nella proteina matura che viene secreta dalla
cellula. In generale, quando abbiamo tutto il peptide davanti parliamo di pre-propeptide; il
propetide una volta secreto può subire a sua volta un’attivazione.

Esempio concreto: la preprotrombina è il peptide completo del suo peptide segnale e prima di
essere secreta il peptide segnale viene rimosso e la protrombina viene immessa in circolo. Ma, la
protombina è lo zimogeno; diventerà trombina solo nel momento in cui verrà attivata. Tale
attivazione avverrà tramite un taglio proteolitico a livello di amminoacidi predefiniti che si trovano a
livello del dominio catalico (sono quelli identificati dalle frecce nere). Tuttavia, sopra tali frecce c’è
scritto anche, ad esempio, Xa; questo significa che la Xa è in grado di catalizzare la scissione della
protrombina in trombina attiva attraverso due tagli.

Nell’immagine a lato possiamo osservare una protrombina. Infatti, non possiamo parlare di
preprotrombina, perché è già stata rimossa la sequenza segnale. Quindi, questa è la protrombina
matura che viene riversata nel circolo sanguigno. È possibile osservare che, durante la
maturazione a livello del reticolo endoplasmatico, la vitamina K va a 𝛾-carbossilare i residui di
Protrombina
acido glutammico presenti nel dominio GLA. Quindi la biforcazione presente aolivello
Fattore II
dell’immagine
rappresenta la formazione del residuo GLA- 𝛾-
carbossilico.

La vitamina K può funzionare solo se è in forma


ridotta (partecipa come coenzima) e, una volta
che la reazione è avvenuta, la vitamina K viene
ossidata.
In chimica un anticoagulante molto utilizzato è il
Warfarin. Esso è un inibitore della
retroconversione della vitamina K ossidata in
vitamina K ridotta. Quindi, è un farmaco che serve
per ridurre la percentuale di attivazione dei fattori
coagulanti limitando la possibilità di recupero di
vitamina K.

VIA COMUNE

La via comune non è altro che quella via che deve essere attivata per ottenere la formazione di
un polimero di fibrina crosslinkato (stabilizzato), al fine di ottenere una maglia molto resistente
per intrappolare le piastrine. Tuttavia, all’interno di tale coagulo possono rimanerci anche
intrappolati degli eritrociti; in quel caso si parla di coagulo rosso. Invece, se abbiamo solo
piastrine senza nessun eritrocita si parla di coagulo bianco.

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La via comune inizia con una serina-proteasi attiva, ovvero il fattore X attivo. Tale fattore, in
presenza di calcio, piastrine e un fattore pro-accelerante (fattore V nella sua forma attiva), va a
catalizzare la scissione della protrombina in trombina. La trombina attiva catalizza poi la
conversione del fibrinogeno in
fibrina monomero. Dopodiché, la
fibrina monomero si orienta in
modo da favorire la
autopolimerizzazione, ovvero la
formazione di lunghe catene
parallele. Quest’ultime vengono
stabilizzate da un fattore
coagulante, fattore XIII, che è a
sua volta attivato dalla trombina. Il
fattore XIII attivato in fattore XIIIa
favorisce la formazione di ponti tra
i polimeri di fibrina, i quali non
Protrombina Ca++ + PL
Va Trombina
Fattore II
sono altro che legami covalenti fra
le catene laterali di alcuni
amminoacidi che costituiscono la
catena polipeptidica della fibrina.
Pertanto, grazie all’attività del
fattore XIIIa si ottiene la
crosslinked fibrina, la quale non
è altro che una rete molto stabile.

La protrombina è presente solubile nel sangue ed è uno zimogeno che corrisponde al fattore II.
Invece, la trombina è una serina-proteasi corrispondente al fattore IIa. La “a” scritta in piccolo, in
corsivo e in pedice indica che siamo di fronte ad un fattore attivo. La trasformazione da
protrombina a trombina richiede un’organizzazione di tipo spaziale e temporale. Inoltre, tale
trasformazione avviene se si verificano più condizioni. Infatti, se la trombina si attiva anche quando
non è necessaria, può causare dei problemi di tipo trombotico. Inoltre, affinché tale processo
avvenga, è necessaria la presenza di una superficie cellulare. Nell’immagine sopra la fila di pallini
gialli corrisponde alla superficie della piastrina attiva che fa parte del coagulo molle. Sulla
superficie della piastrina è presente il fattore Va; esso non è una serina-proteasi, ma è un
catalizzatore, perché riesce ad organizzare la protrombina e la serina-proteasi che deve attivarla
sulla superficie delle piastrine. Quindi, in presenza di una piastrina, ioni calcio e fattore Va viene
favorito il richiamo sulla piastrina della protrombina e anche la sua corretta disposizione spaziale.
Infatti, il calcio serve proprio a favorire il legame della protrombina alla piastrina.
Così come la protrombina si appoggia sul fattore Va, anche il fattore Xa si appoggia al fattore Va. Il
fattore Xa è una serina-proteasi attivata, pertanto ha un sito catalico serinproteasico attivo
(indicato con l’asterisco). Tale superficie viene a trovarsi in una condizione ideale per poter
riconoscere il suo substrato, ovvero la protrombina.
Nel riconoscerla la va a tagliare in due punti: uno fra n-terminale e il c-terminale della proteina e
l’altro all’interno della frazione carbossiterminale, la quale però continua ad essere unita al resto
della proteina grazie alla presenza di un legame S-S intra-catena.
A questo punto, grazie all’azione del fattore Xa viene liberata la trombina attiva. Essa si allontana
da questa superfice attivata e va ad esplicare la propria azione sul fibrinogeno.

L’attivazione della trombina è un evento centrale nel processo di coagulazione del sangue ed è un
processo autocatalitico, ovvero è un processo esplosivo. Questo significa che all’inizio vengono
prodotte poche molecole di trombina. Tuttavia, man mano che vengono prodotte delle molecole di
trombina, queste vanno ad attivare altro fattore V a fattore Va, andando in questo modo ad

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aumentare esponenzialmente la possibilità di attivare altre molecole di trombina. Quindi si forma


un loop positivo. Tuttavia, quando la concentrazione di trombina, a livello del sito della lesione,
raggiunge concentrazioni elevate essa agisce da inibitore. Questo è un meccanismo di difesa,
perché evita che la coagulazione possa estendersi oltre al sito di danneggiamento vasale. In altre
parole, tale inibizione limita l’estensione del coagulo oltre la sede propria del trauma. Quindi, in
presenza di troppa trombina, la trombina stessa determinerà l’inattivazione del fattore V (e di altri
fattori), ma anche all’attivazione di fattori anticoagulanti.

FIBRINOGENO

È una proteina strutturalmente molto


organizzata. Si presenta come un
trimero composto da una catena alfa,
una catena beta e una catena gamma.
Ogni catena è in forma di dimero e
quindi il fibrinogeno è una molecola ad
alto peso molecola. La formula è: 2alfa
2 beta 2 gamma.
Queste tre catene polipeptidiche sono
unite tra loro attraverso ponti disolfuro
intercatena ed intracatena che sono
localizzati tra due catene alfa, tra
catena beta e catena alfa, e tra catena
gamma e catena beta.
Ciò serve per generare una molecola
voluminosa che si organizza nello
spazio in modo peculiare, infatti le tre
catene si rapportano tra loro a formare
una struttura a “tripla elica” o più
semplicemente una struttura
intrecciata.
Questa tipologia di organizzazione
serve per dare grande forza
strutturale alla proteina, che possiamo
definire una proteina fibrillare in
quanto la lunghezza prevale sulle
altre dimensioni.

I tratti a catena alfa che sono


intrecciati tra loro smettono di avere
questa organizzazione così ordinata
all’estremità dove troviamo delle
regioni random coil, che
corrispondono alle estremità carbossi-
terminali dei peptidi. La separazione
tra le due sezioni, ordinata e random
coil, è data dalla presenza degli anelli
di solfuro;ossia dalle regioni delle
molecole nelle quali si concentrano i
ponti di solfuro tra le varie catene.

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Nella regione N-terminale dei peptidi alfa e beta ci sono dei domini fibrino peptide A per le
catene alfa e domini fibrino peptine B per le catene beta: regioni voluminose che impediscono
l’organizzazione dei monomeri di fibrina e che devono essere rimosse grazie all’ azione protesica
della trombina attiva. Questo evento causa l’attivazione del fibrinogeno in fibrina e va a stimolare
l’organizzazione per strati paralleli delle molecole di fibrina, che si agganciano anche
trasversalmente costituendo una trama lassa (un polimero) che verrà rafforzata dall’attività trans-
glutamminasica del fattore XIII attivo,trasformando il coagulo morbido in coagulo duro.
Per attivtà trans-glutamminasica intendiamo la formazione di ponti tra varie catene polimeriche di
fibrina, dovuti alla formazione del legame ammidico fra un residuo laterale carbossilico di una
glutammina e l’ammino-terminale di una lisina. Si viene a formare un legame covalente che va a
collegare stabilmente due catene parallele di fibrina.

VIA ESTRINSECA

Via che parte immeditate nel momento in cui abbiamo la rottura di una vaso, che provoca
interruzione dell’endotelio, portando all’ esposizione del sangue alle molecole del sottoepitelio:
fibroblasti e macrofagi.
Questi hanno sulla loro superficie un fattore extravascolare che è il fattore tissutale (fattore III
della coagulazione), una lipoproteina non enzimatica con funzione catalitica, che catalizza la
reazione di conversione del fattore X in fattore X attivo, che andrà ad attivare il fattore VII in fattore
VII attivo.
Il fattore VII attivo formerà quel complesso attivo sulla superficie delle piastrine grazie al fattore V
attivo che porterà all’attivazione della protrombina in trombina e successivamente del fibrinogeno
in fibrina.

L’esposizione del fattore tissutale al sangue permette di innescare la scintilla del processo a
cascata che si concluderà con l’attivazione del fattore X, passando per l’attivazione del fattore VII

Rottura del vaso → sangue attiva fattore tissutale → attivazione del fattore VII (VII attivo) →
attivazione del fattore X (X attivo)

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VIA INTRINSECA

Via più lunga che parte dalla formazione di una superficie di contatto del sangue, la quale richiede
l’avvenimento contemporaneo e la presenza di più molecole.
Fisiologicamente la sua attivazione avviene attraverso l’azione del fattore VII attivo sul fattore IX
che diviene fattore IX attivo.

Una volta partita la via estrinseca, che parte per prima, andiamo a formare il fattore VII attivo, che
da una parte attiva il fattore X e da una parte attiva il fattore IX: un fattore della via estrinseca che
contribuisce ad attivare più fattore X.

Abbiamo una compartecipazione della via intrinseca che serve a sostenere per tutto il tempo
richiesto il processo di coagulazione.
Anche se la scintilla per l’attivazione è data dal fattore tissutale (via estrinseca), risulta molto
importante la presenza del fattore IX per avere una robusta e massiccia attivazione della
coagulazione.

La parte alta di questa via partecipa ad una attivazione non fisiologica che parte quando il sangue
viene posto a contatto con una superficie carica negativamente(esempio:vetro di una
provetta),tendendo a coagulare. Il sangue coagula per la via intrinseca perché abbiamo attivato la
superficie di contatto del sangue. Ciò va ad attivare il fattore XII in XII attivo, che a sua volta va ad
attivare il fattore XI in XI attivo, che attiva il IX in IX attivo, il quale attiva il fattore X in X attivo.
Si può avere un’attivazione intravasale, indesiderata,che richiede il coinvolgimento del fattore XII
e si ha quando nel sangue si ha la formazione anomala di una superficie carica negativamente,
dovuta a un contatto con la superficie batterica.
In caso di particolare forma di setticemia, può partire una coagulazione intravasale disseminata
scatenata dalla infezione batterica e dovuta alla membrana carica negativamente, che va a
generare questa superficie di contatto del sangue in cui partecipa il fattore XII.
Un altro fattore scatenante che rientra in questo tipo di formazioni patologiche è la formazione di
placche ateromatose o di accumuli di lipidi, che possono costituire una superficie che tende ad
attivare il fattore XII.

Ipercolestorolemia e ipertrigliceridemia sono fattori di rischio per gli esiti trombotici. Non sono
fisiologici, bensì patologici.

La via intrinseca serve per avere un processo coagulativo efficace. Nella sua fisiologia è attivata
dal fattore VII, che deriva dalla pre-attivazione della via estrinseca. Tutte le altre attivazioni sono
patologiche.

Questo sistema di contato del sangue richiede il contatto di 4 pro-glicoproteine:


• fattore XII
• precallicreina (proteasi)
• fattore XI
• chininogeno ad alto peso molecolare

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Di fatti la precallicreina (necessaria per attivare tutto il processo) va tagliare sia chininogeno ad
alto peso molecolare sia fattore XII, producendo fattore XII attivo, che a sua volta produce fattore
XI attivo.

Le due vie (intrinseca ed estrinseca) devono compartecipare nel soggetto sano per un processo di
emostasi efficace ed efficiente.

Alterazioni dell’emostasi fisiologica derivano da manifestazione patologiche a carico di deficienze:

• Emofilia A: forma abbastanza grave determinata dall’ assenza del fattore VIII (esclusivo
della via intrinseca).
Se bastasse la via estrinseca a sostenere la coagulazione non si avrebbe manifestazione
patologica di questo tipo.. La via estrinseca è necessaria per far partire il processo di
coagulazione, ma non è sufficiente a sostenere la coagulazione, la quale richiede
l’attivazione da parte del fattore VII del fattore IX, che può attivare il fattore X in fattore X
attivo. Questa è una prova della compartecipazione delle due vie

• Emofilia B: meno grave, dovuta a carenza di fattore IX. Si ha comunque un soggetto con
coagulazione alterata e ridotta in quanto il ramo fisiologico della via intrinseca parte del
fattore IX.

INIBIZIONE DELLA COAGULAZIONE

Antitrombina III: fattore prodotto nel fegato che inibisce i fattori IXa, Xa, XIa, XIIa e anche la
trombina. Viene attivata dall’eparina

Eparina: E’ un polisaccaride solfato prodotto dalle mastcellule che attiva l’antitrombina III

Trombomodulina: glicoproteina presente sulla superficie delle cellule dell’endotelio che,


interagendo con la trombina, attiva proteoliticamente la proteina C

Proteina C: serina proteasi contenente residui di GLA. Necessita quindi della vitamina K per
maturare correttamente ed è implicata nell’inattivazione dei fattori Va e VIIIa, fattori pro acceleranti
del processo di cascata. A sua volta viene stabilizzata dalla proteina S (proteina C e proteina S
lavorano insieme).

Fattore inibitore della via del fattore tissutale: proteina che inibisce la formazione di complessi
terziari fra il fattore tissutale, il fattore VIIa e il fattore Xa. Fattori che servono per attivare il fattore
X.

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DISSOLUZIONE DEL COAGULO

Nel momento in cui la lesione basale si è rimarginata, il coagulo di fibrina deve essere scisso in
piccoli frammenti innocui di fibrina. Infatti, se questo coagulo si distaccasse incontrollatamente e
potesse girare nel circolo sanguigno, creerebbe delle occlusioni nei punti di restrizione dei vasi
(capillari polmonari o cerebrali), causando ictus ed embolie polmonari.
Perciò in caso di coagulazione va controllato altrettanto efficacemente il processo di dissoluzione
del coagulo; soprattutto su un paziente
che ha subito un intervento e quindi è
particolarmente soggetto a formazione
di coaguli e che dovrà essere tenuto
scoagulato.

Può procedere per via fisiologica o con


interventi esterni.

Via fisiologica : passa attraverso


l’endotelio. Le cellule endoteliali, una
volta riparato il danno, vanno a
secernere l’attivatore tissutale del
plasminogeno (TPA). Il plasminogeno
è quindi una proteina secreta in forma
inattiva che viene attivata grazie
all’attività proteasica dall’attivatore
tissutale del plasminogeno e porta tramite scissione alla plasmina, una proteasi che è in grado di
spezzettare il coagulo in piccoli frammenti innocui.

Altre vie o molecole:


- 1-chinasi, secreta dal rene
- streptochinasi di origine esogena, prodotta da alcuni batteri

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