Principi fondamentali
Compassione è una parola che ci sembra di conoscere bene. Sappiamo cosa significa provare
empatia, sentire sulla propria pelle il dolore altrui. È un nodo alla gola, allo stomaco, soffro delle tue
sofferenze, sento su di me il peso che porti, come una corda che vibrando pizzica e fa vibrare le mie
corde. Viene dal latino cum patior - soffro con - che nella tradizione cristiana si è arricchito di un senso
simile al provare pietà, pena. Ancor prima nel greco antico troviamo sympatheia - provare emozioni
con - un termine usato per spiegare anche quel processo per cui ci si immedesima in un personaggio
del teatro, oggi diremmo anche del cinema, e ci si commuove, si soffre della sua sofferenza.
Mi trovo d'un tratto vicino alla fragilità del tuo essere umano, so cosa provi e mi risuona dentro. Riesco
quasi a sentire fisicamente il dolore della malattia di un altro, la disperazione del pianto di mio figlio,
l'impotenza di un padre e di una madre che non trovano cibo o rifugio per il proprio. Sono nata in un
paese cattolico e so, come molti, cosa significa dare ascolto a quel dolore e sforzarsi di alleviarlo, di
essere buoni. Curare con amore, offrire parole di conforto, e carità, sostegno. Mi hanno insegnato
l'importanza di dedicarsi agli altri, di sacrificare qualcosa di sé per la felicità di un altro essere umano. E
ne sono grata. Perché è importante. È importante non perdere questa capacità di ascolto, di
immedesimazione, che ci impedisce di rimanere intrappolati nell'io e nell'indifferenza come in una
roccaforte, una gabbia, un carcere di sicurezza. Il presidente Ikeda nell'introduzione alla Raccolta degli
scritti di Nichiren Daishonin scrive che «la felicità di tutti gli esseri umani e la pace sono aspirazioni
che troviamo alla radice di tutte le religioni, le quali, in tal senso, dovrebbero mirare sempre più a
diventare "religioni per l'essere umano"».
Un'altra visione
Poi incontrando il Buddismo questa parola familiare ha assunto nuovi aspetti, si è arricchita di una
visione dell'esistenza differente, che riconosce in ogni singolo individuo, in ogni singola vita, la
manifestazione di una Legge mistica e universale, Nam-myoho-renge-kyo. E la parola compassione è
diventata l'esercizio difficile e quotidiano di riconoscere nell'altra persona la sua Buddità, la sua
possibilità di manifestare la meraviglia di questa legge, la meraviglia della vita. Provare compassione
ha iniziato a significare concretamente imparare ogni giorno a percepire e credere che quella persona,
fragile, malata, cattiva o stupida, sfortunata, proprio lei che mi sta facendo del male o sta sbagliando,
proprio lei che in questo momento sembra non avere saggezza o fede, proprio lei ce la farà. Perché
come me, come tutti, può illuminarsi alla vita e goderne le gioie, può fare della propria esperienza di
fede e trasformazione qualcosa di immensamente prezioso per l'umanità, per la costruzione concreta
della pace.
È un approccio agli altri, anche ai loro limiti e difficoltà, che non prescinde dalla fede personale. Solo
grazie alla fede posso percepire dentro di me la visione corretta della realtà che mi circonda. Solo
grazie alla mia Illuminazione posso vedere e credere nella natura di Budda di un'altra persona,
relazionarmi con la sua Buddità, con la meraviglia della sua vita.
Il significato di jihi
Jihi è la parola giapponese che traduciamo compassione. Ji deriva dal pali e dal sanscrito e significa
"amicizia sincera" o "cuore di puro amore e affetto", hi è lo spirito di empatia per le sofferenze degli altri.
Spesso usiamo e spieghiamo questo termine dicendo che significa "togliere sofferenza e dare gioia",
nel senso di aiutare le persone a costruire la propria felicità. «Ji significa amore, significa guidare le
persone come se fossero propri figli - scrive Daisaku Ikeda - e hi significa dispiacersi delle loro
sofferenze e condividerne il dolore come se fosse nostro» (MDG, 519).
La compassione nel Buddismo in un certo senso è l'origine e nello stesso tempo lo scopo
dell'Illuminazione del Budda Shakyamuni e dello stesso Nichiren, l'origine e lo scopo dell'Illuminazione
di tutti i Budda. Ogni giorno lo leggiamo e rileggiamo in un passo del Sutra del Loto nella nostra pratica
quotidiana di Gongyo: «Questo è il mio pensiero costante: come posso far sì che tutti gli esseri viventi
accedano alla via suprema e acquisiscano il corpo di Budda?».
Sembra essere questa la molla che spinge realmente la vita a progredire, a svilupparsi, a perfezionarsi,
non semplicemente le capacità, le aspirazioni personali, i personali obiettivi, ma il desiderio che nasce
da un sentimento di compassione verso gli altri e diventa ricerca, dedizione, passione, vittoria per il
bene di tutti.
Shakyamuni iniziò il suo percorso di ricerca, che lo portò all'Illuminazione, dopo aver visto sul viso delle
persone l'effetto delle sofferenze di nascita, invecchiamento, malattia e morte, a cui nessuno può
sfuggire. Nichiren Daishonin intraprese il suo cammino di studio e di riflessione mosso dal desiderio di
ripagare il suo debito di gratitudine verso i genitori e di fare l'impossibile per aiutare le persone del suo
paese a uscire da un'epoca di confusione e conflitti. «Se arrivano dei banditi da un altro paese - si
legge in uno dei suoi scritti più importanti - e invadono il paese o se scoppia una ribellione interna e le
terre del popolo vengono saccheggiate, cosa potrà esserci se non terrore e confusione? Se il paese
viene distrutto e le famiglie sterminate, dove ci si potrà rifugiare? Se vi preoccupate anche solo un po'
della vostra sicurezza personale, dovreste prima di tutto pregare per l'ordine e la tranquillità in tutti e
quattro i quadranti del paese» (Adottare l'insegnamento corretto per la pace nel paese, RSND, 1,
25).
Non arrendersi
In realtà, soprattutto in paesi ricchi e fortunati come il nostro, anche se riusciamo ancora a sentire il
dolore degli altri tramite la televisione, le notizie di attentati, stragi, povertà, dispersi, viviamo ogni
giorno quasi facendo finta che quel dolore non esista, almeno fino a quando non bussa alla porta di
casa. Viviamo preoccupandoci delle nostre piccole crisi, malgrado le guerre, la fame, il freddo, la
violenza che altri sono costretti a subire. Un po' per sopravvivenza, un po' per superficialità, un po'
perché alla fine pensiamo di non poter fare niente. E quel desiderio, quella speranza che tutti possano
essere felici sonnecchia, un po' si affievolisce, un po' soffriamo ma non sappiamo cosa altro fare. Cosa
fare? Come cambiare le cose? Quelle così grandi. Quelle per cui comunque sembra che si debba
soffrire.
Ecco, la compassione buddista è questo, è non arrendersi. Non fermarsi all'impotenza, alla
dimenticanza, all'impossibile. È agire. Provare, riuscire. Oggi, nel luogo in cui sono. Con le persone che
tocco e non tocco, quelle che amo o non amo, conosco o non conosco. Diventare protagonisti attivi di
un processo di mutamento indirizzato verso la felicità, nostra e degli altri. Cominciando intanto a
pensare che sia possibile. Che è possibile cambiare le cose. Anche quelle grandi, quelle che sembrano
inevitabili condanne.