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Buddismo e Società n.

174 - gennaio febbraio 2016

Principi fondamentali

Cosa è la compassione buddista


di Manuela Vigorita

Si basa sulla concezione dell'esistenza che vede in ogni singola vita la


manifestazione di un'unica Legge mistica e universale, Nam-myoho-renge-kyo. In
concreto si traduce nel quotidiano riconoscere nell'altra persona la Buddità, la sua
possibilità di manifestare in ogni azione questa Legge meravigliosa, nell'imparare
ogni giorno a percepire e credere che ogni persona, per quanto ci appaia fragile,
malata, cattiva, stupida o sfortunata, ce la farà. Perché anche lei può illuminarsi alla
vita e goderne, facendo della propria esperienza di fede e di trasformazione
qualcosa di immensamente prezioso per la costruzione concreta della pace

Compassione è una parola che ci sembra di conoscere bene. Sappiamo cosa significa provare
empatia, sentire sulla propria pelle il dolore altrui. È un nodo alla gola, allo stomaco, soffro delle tue
sofferenze, sento su di me il peso che porti, come una corda che vibrando pizzica e fa vibrare le mie
corde. Viene dal latino cum patior - soffro con - che nella tradizione cristiana si è arricchito di un senso
simile al provare pietà, pena. Ancor prima nel greco antico troviamo sympatheia - provare emozioni
con - un termine usato per spiegare anche quel processo per cui ci si immedesima in un personaggio
del teatro, oggi diremmo anche del cinema, e ci si commuove, si soffre della sua sofferenza.
Mi trovo d'un tratto vicino alla fragilità del tuo essere umano, so cosa provi e mi risuona dentro. Riesco
quasi a sentire fisicamente il dolore della malattia di un altro, la disperazione del pianto di mio figlio,
l'impotenza di un padre e di una madre che non trovano cibo o rifugio per il proprio. Sono nata in un
paese cattolico e so, come molti, cosa significa dare ascolto a quel dolore e sforzarsi di alleviarlo, di
essere buoni. Curare con amore, offrire parole di conforto, e carità, sostegno. Mi hanno insegnato
l'importanza di dedicarsi agli altri, di sacrificare qualcosa di sé per la felicità di un altro essere umano. E
ne sono grata. Perché è importante. È importante non perdere questa capacità di ascolto, di
immedesimazione, che ci impedisce di rimanere intrappolati nell'io e nell'indifferenza come in una
roccaforte, una gabbia, un carcere di sicurezza. Il presidente Ikeda nell'introduzione alla Raccolta degli
scritti di Nichiren Daishonin scrive che «la felicità di tutti gli esseri umani e la pace sono aspirazioni
che troviamo alla radice di tutte le religioni, le quali, in tal senso, dovrebbero mirare sempre più a
diventare "religioni per l'essere umano"».

Un'altra visione
Poi incontrando il Buddismo questa parola familiare ha assunto nuovi aspetti, si è arricchita di una
visione dell'esistenza differente, che riconosce in ogni singolo individuo, in ogni singola vita, la
manifestazione di una Legge mistica e universale, Nam-myoho-renge-kyo. E la parola compassione è
diventata l'esercizio difficile e quotidiano di riconoscere nell'altra persona la sua Buddità, la sua
possibilità di manifestare la meraviglia di questa legge, la meraviglia della vita. Provare compassione
ha iniziato a significare concretamente imparare ogni giorno a percepire e credere che quella persona,
fragile, malata, cattiva o stupida, sfortunata, proprio lei che mi sta facendo del male o sta sbagliando,
proprio lei che in questo momento sembra non avere saggezza o fede, proprio lei ce la farà. Perché
come me, come tutti, può illuminarsi alla vita e goderne le gioie, può fare della propria esperienza di
fede e trasformazione qualcosa di immensamente prezioso per l'umanità, per la costruzione concreta
della pace.
È un approccio agli altri, anche ai loro limiti e difficoltà, che non prescinde dalla fede personale. Solo
grazie alla fede posso percepire dentro di me la visione corretta della realtà che mi circonda. Solo
grazie alla mia Illuminazione posso vedere e credere nella natura di Budda di un'altra persona,
relazionarmi con la sua Buddità, con la meraviglia della sua vita.

Il significato di jihi
Jihi è la parola giapponese che traduciamo compassione. Ji deriva dal pali e dal sanscrito e significa
"amicizia sincera" o "cuore di puro amore e affetto", hi è lo spirito di empatia per le sofferenze degli altri.
Spesso usiamo e spieghiamo questo termine dicendo che significa "togliere sofferenza e dare gioia",
nel senso di aiutare le persone a costruire la propria felicità. «Ji significa amore, significa guidare le
persone come se fossero propri figli - scrive Daisaku Ikeda - e hi significa dispiacersi delle loro
sofferenze e condividerne il dolore come se fosse nostro» (MDG, 519).
La compassione nel Buddismo in un certo senso è l'origine e nello stesso tempo lo scopo
dell'Illuminazione del Budda Shakyamuni e dello stesso Nichiren, l'origine e lo scopo dell'Illuminazione
di tutti i Budda. Ogni giorno lo leggiamo e rileggiamo in un passo del Sutra del Loto nella nostra pratica
quotidiana di Gongyo: «Questo è il mio pensiero costante: come posso far sì che tutti gli esseri viventi
accedano alla via suprema e acquisiscano il corpo di Budda?».
Sembra essere questa la molla che spinge realmente la vita a progredire, a svilupparsi, a perfezionarsi,
non semplicemente le capacità, le aspirazioni personali, i personali obiettivi, ma il desiderio che nasce
da un sentimento di compassione verso gli altri e diventa ricerca, dedizione, passione, vittoria per il
bene di tutti.
Shakyamuni iniziò il suo percorso di ricerca, che lo portò all'Illuminazione, dopo aver visto sul viso delle
persone l'effetto delle sofferenze di nascita, invecchiamento, malattia e morte, a cui nessuno può
sfuggire. Nichiren Daishonin intraprese il suo cammino di studio e di riflessione mosso dal desiderio di
ripagare il suo debito di gratitudine verso i genitori e di fare l'impossibile per aiutare le persone del suo
paese a uscire da un'epoca di confusione e conflitti. «Se arrivano dei banditi da un altro paese - si
legge in uno dei suoi scritti più importanti - e invadono il paese o se scoppia una ribellione interna e le
terre del popolo vengono saccheggiate, cosa potrà esserci se non terrore e confusione? Se il paese
viene distrutto e le famiglie sterminate, dove ci si potrà rifugiare? Se vi preoccupate anche solo un po'
della vostra sicurezza personale, dovreste prima di tutto pregare per l'ordine e la tranquillità in tutti e
quattro i quadranti del paese» (Adottare l'insegnamento corretto per la pace nel paese, RSND, 1,
25).

Non basta occuparmi di me


Quando ci preoccupiamo per gli altri, quando siamo spinti veramente dal desiderio di fare il massimo
per la felicità di due, cento, mille persone, è come se le nostre energie, la nostra saggezza, la nostra
forza, la nostra buona fortuna si moltiplicassero per due, cento, mille volte. Più grande è il nostro
desiderio, più persone abbraccia, più il nostro potenziale umano si amplifica, più il potere delle nostre
azioni si espande e la nostra felicità cresce. Non basta occuparmi di me. Non basta avere come
orizzonte il mio ego, la mia tranquillità, il mio successo personale. Per attivare l'infinito potere della
nostra singola vita, molto più vasto di quanto immaginiamo, bisogna allargare l'orizzonte, sintonizzarsi
sul bene di tutti, dei miei cari, del mio quartiere, del paese, del mondo che abito. Mirare a una felicità
che superi i confini dell'io, seguire un desiderio di pace e benessere universale che non è astratto,
perché ognuno di noi lo possiede. E coltivarlo. Agirlo, porlo ogni giorno, di nuovo, al centro dei pensieri,
delle azioni, degli sforzi.
Tutte le grandi imprese, scoperte, trasformazioni sociali, nascono da un'aspirazione simile alla felicità di
tutti. La storia umana non è costellata solo di guerre, crimini, genocidi. Ma anche delle storie di uomini e
donne straordinariamente comuni che con l'intento di aiutare gli altri hanno fatto grandi scoperte nella
medicina, nelle scienze, hanno inventato mezzi per rendere la vita più agevole, creato opere d'arte che
sembrano accarezzare ed elevare l'animo, scritto poesie in grado di farci d'un tratto superare ogni
meschinità, solo a leggerle.

Non arrendersi
In realtà, soprattutto in paesi ricchi e fortunati come il nostro, anche se riusciamo ancora a sentire il
dolore degli altri tramite la televisione, le notizie di attentati, stragi, povertà, dispersi, viviamo ogni
giorno quasi facendo finta che quel dolore non esista, almeno fino a quando non bussa alla porta di
casa. Viviamo preoccupandoci delle nostre piccole crisi, malgrado le guerre, la fame, il freddo, la
violenza che altri sono costretti a subire. Un po' per sopravvivenza, un po' per superficialità, un po'
perché alla fine pensiamo di non poter fare niente. E quel desiderio, quella speranza che tutti possano
essere felici sonnecchia, un po' si affievolisce, un po' soffriamo ma non sappiamo cosa altro fare. Cosa
fare? Come cambiare le cose? Quelle così grandi. Quelle per cui comunque sembra che si debba
soffrire.
Ecco, la compassione buddista è questo, è non arrendersi. Non fermarsi all'impotenza, alla
dimenticanza, all'impossibile. È agire. Provare, riuscire. Oggi, nel luogo in cui sono. Con le persone che
tocco e non tocco, quelle che amo o non amo, conosco o non conosco. Diventare protagonisti attivi di
un processo di mutamento indirizzato verso la felicità, nostra e degli altri. Cominciando intanto a
pensare che sia possibile. Che è possibile cambiare le cose. Anche quelle grandi, quelle che sembrano
inevitabili condanne.

La bontà non c'entra nulla


La sofferenza per il Buddismo deriva sostanzialmente dall'ignoranza, dalla non consapevolezza del
potenziale e della bellezza infinita di ogni singola vita. Parlando della nostra epoca attuale, l'Ultimo
giorno della Legge, e analizzandone le criticità, scrive il presidente Ikeda: «Come mossi da una forza
inarrestabile, intere nazioni e singoli individui sono sospinti da un conflitto all'altro. La forza di rimanere
saldi in mezzo a questa furiosa corrente dei tempi risiede in una fede incrollabile nella natura di Budda,
nostra e degli altri, unita ad azioni per mettere concretamente in pratica questa convinzione e
dimostrare rispetto per la vita di tutte le persone. Questo perché l'impulso irresistibile che conduce al
conflitto sorge dall'"ignoranza". Nel Buddismo ignoranza significa mancanza di consapevolezza o di
fede nel fatto che le persone posseggono la natura di Budda» (MDG, 508).
Sembra teoria, sembrano parole, ma possiamofarne e forse ne abbiamo già fatto esperienza. Di quanto
la compassione possa cambiare le cose, lo stato d'animo di chi ci sta di fronte, un conflitto che
sembrava insormontabile. Come si fa? Come funziona? Siamo tentati forse, per le origini della nostra
cultura, a pensare che si tratti di essere buoni. Ma la bontà non c'entra nulla. E a volte fa anche dei
danni, quando magari ci mettiamo a risolvere, con tutti i buoni propositi, i problemi di un'altra persona,
mettendoci al suo posto, facendo al posto suo. Quando la guardiamo pensando "poverina", quando
vediamo e concentriamo i pensieri sui suoi limiti, la sua debolezza, la sua incapacità. La compassione
buddista è un'altra cosa. È sì sentire, aprirsi al dolore dell'altro, parteciparne come se fosse il mio, ma
poi avere il coraggio, la saggezza, la forza di riuscire a insegnargli a vivere la sua Buddità. La sua
forza, la meraviglia della sua vita.
Non c'è sentimento di superiorità, non devo aiutarti perché sei inferiore o non capace, al contrario ti
aiuto perché sono certa che ce la farai. Perché credo in te e nella tua Buddità, credo che sei un Budda.
Ci credo incondizionatamente. Che tu sia mio figlio, mio padre, mia sorella, il mio vicino, il mio datore di
lavoro, che tu sia pure un mio nemico che vuole farmi del male. Il mio potere, il potere della
compassione, che posso sperimentare in ogni momento, è credere nella tua Buddità.
Questo hanno fatto Shakyamuni e Nichiren, questo continua a fare il presidente Ikeda, questo facciamo
o dovremmo fare ogni giorno quando parliamo del Buddismo, quando lo insegniamo, quando vogliamo
aiutare qualcuno, quando nutriamo il desiderio di cambiare il mondo. Se non vedo che l'altro è un
Budda, se non percepisco la natura della sua e della mia vita non riuscirò ad aiutarlo, non riuscirò a
trasformare nessuna sofferenza, né la sua, né la mia.

Come una madre


In molti scritti ho letto che la compassione buddista viene spesso paragonata all'amore di un genitore,
di una madre. E mi sono molto interrogata sul perché, su cosa ha di straordinario questo amore. Me lo
sono chiesta da figlia e da madre. E provando a pulire questo concetto da tanti luoghi comuni ho notato
che davvero una madre spesso si comporta come un Budda compassionevole. Non tanto per la sua
bontà, per il suo sacrificio, per i suoi sentimenti, ma perché riesce a insegnare con fiducia infinita a quel
figlio o a quella figlia a vivere, a camminare, a parlare, senza avere alcun dubbio sulle sue capacità, sul
fatto che riuscirà. Almeno nei primi anni di vita, almeno fino a quando non entrano in gioco pensieri,
storie, emozioni che inquinano quella fiducia meravigliosa e potente.
Faccio un esempio. Quando un bambino sta imparando a camminare e cade, perché non è ancora
capace, la madre non smette di credere che ce la farà. Di più, non gli sfiora neppure lontanamente il
dubbio che quella bimba, quel bimbo possa non imparare a camminare. Magari lo consola se piange, si
spaventa con lui, lo prende in braccio, può anche sgridarlo per la sua imprudenza, ma ogni sua azione
è guidata e basata sulla fiducia che camminerà. Una fiducia incondizionata. Così come non si
preoccupa se a un anno o due ancora non parla o non parla bene. Parlerà. Farà discorsi meravigliosi,
dirà tutto quello che vuole. Il comportamento di una madre rimanda di continuo ai figli questa sicurezza,
questa certezza, questa fiducia. Alla quale loro si aggrappano, dalla quale trovano sostegno e forza per
cadere e ricadere, magari farsi male ma rialzarsi, riprovare. Riuscirci. Non è qualcosa fuori dalla nostra
portata. Lo sappiamo cosa significa, com'è, lo sappiamo quantomeno da figli che potere ha
quell'amore.
Allo stesso modo, credo, funziona la jihi, la compassione buddista. Nichiren insegna Nam-myoho-
renge-kyo al genere umano perché crede fermamente che tutti posseggono la Buddità, che tutti
possono risvegliare la propria natura illuminata. Così come Josei Toda ha creduto nei suoi discepoli, e
Daisaku Ikeda in noi e nel genere umano. Come possiamo noi sottrarci dal credere che gli altri, tutti gli
altri possono risvegliare la loro Buddità e trasformare il destino proprio e del mondo? È anche dalla
nostra "ignoranza" che nascono i conflitti, piccoli e grandi. Dal nostro inconsapevole sottrarci a questa
chiamata.
Bisogna provare. Provare e riprovare. Se ho di fronte una persona che sta soffrendo, se qualcuno mi
offende, mi infastidisce, mi ostacola, se mio marito mi tradisce, se mia figlia mi rifiuta, se mia madre si
ammala, se il mio vicino di casa mi minaccia, o un compagno di fede mi calunnia. Ci credo nella sua
Buddità? Riesco a vederla? A basare le mie azioni, le mie parole, le mie preghiere sulla fiducia che è
un Budda? Riesco ad insegnargli e fargli sentire quanto la sua vita è splendore e preziosa, quanto è
importante? Riesco a mettere in pratica quelle parole del Sutra del Loto che so a memoria e recito ogni
giorno?

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